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Italian Pages 348 [166] Year 2010
Anna Banti NOI CREDEVAMO
Indice. Capitolo 1: pagina 3. Capitolo 2: pagina 116. Capitolo 3: pagina 189. Capitolo 4: pagina 227. Capitolo 5: pagina 400. Alla memoria di mio padre. Capitolo 1. Credono che io dorma, che passi dal sonno a un dormiveglia incosciente: che, insomma, non abbia più la testa a a posto. L'hanno sussurrato anche al medico, l'altro ieri, sicuri che io non sentissi. Come al solito, mi era entrato in camera senza chieder permesso, per una delle sue inutili visite, e la sua voce stentorea, militaresca, dal forte accento piemontese («come sta il nostro amico?») mi forzò ad aprire gli occhi. Sto sempre con gli occhi chiusi quando non sono solo, e non so perché, forse per rifiutare una vita che non m'interessa più. Sono davvero malato? Non direi, nessuna parte del corpo mi duole e se volessi potrei vivere normalmente, magari uscire,parlare. Ecco: parlare. Non me la sento, non voglio e le palpebre chiuse difendono la mia volontà. Ho sempre parlato poco, i miei dovrebbero saperlo, ma forse non se ne accorgevano quando i miei obblighi di ufficio mi tenevano per lunghe ore fuori casa. Mia moglie ci era avvezza, sebbene si ostinasse nelle sue lunghe tirate di protesta e di preoccupazione per le cose domestiche. Io mi limitavo a passeggiare in su e in giù per la mia stanza di studio: abitudine di galeotto, diceva lei, con una sorta di esasperato rispetto, e io lasciavo correre, in fondo aveva ragione. «Marietta, lasciami pensare» rispondevo alla fine, quando proprio non ne potevo più di quei femminili ma sensati discorsi. Lei allora, prorompeva in una di quelle sue risate sarcastiche, un po' teatrali: «Il fait beau dire à celui qui vient de loin...». Eh sì, di lontano venivo, e come avrei potuto confessarle che la rovina di casa nostra e l'avvenire dei nostri figlioli mi lasciavano indifferente? Meglio dunque tacere e aspettare che, in un modo o nell'altro, si calmasse. Eppure, in questo silenzio che mi abita, ho la testa piena di parole. Troppe parole che rifluiscono da mondi perduti, da ragionamenti interrotti: inutili ormai come la visita del medico che tentenna il capo e tutto spiega col fatto - bella scoperta che sono vecchio. Sciocco "bugianen". Non capisce che la vecchiezza mi spingerebbe anzi a parlare e che tutta la mia connaturata caparbietà basta appena a frenarmi, a mantenermi in quella dignità silenziosa che è sempre stata il mio rifugio. E non è che i miei figlioli, quando li penso così, astrattamente, non mi facciano pena. A cinquantacinque anni tanti ne avevo quando presi moglie - un uomo non ha il diritto di ricuperare la gioventù, di forzare il corso di una esistenza che ha scavalcato la norma del viver comune, distaccandosene superbamente. Direi che non ha neppure il diritto di
amarli come in effetti li amo, in un brulichio sofferente della coscienza. Dietro la porta chiusa li sento circolare per casa, i miei ragazzi, ribattere di spinta gli usci, alzare la voce («piano» dice Marietta «disturbate vostro padre»). Teresa, poverina, canta come un uccello felice: ha sedici anni. Da chi tiene? Fisicamente somiglia - se la memoria di anni lontanissimi mi vale - a un ritratto di mia madre giovinetta. D'animo, non so. Io ho riso raramente, e Marietta è sempre stata una romantica che di tutto ha fatto dramma. Gli occhi di Teresa sprizzano scintille di riso.
lei che accudisce alla mia persona, da qualche tempo ha imparato persino a farmi la barba e si direbbe che questo ufficio la ecciti come un divertimento. Per ringraziarla, mi sforzo a sorriderle, ma lo faccio timidamente, ho sempre paura che mi salti al collo in un impeto di affetto che mi soverchia e minaccia di farmi sciogliere in lacrime. Mi vergogno dei miei figli, ecco cos'è. Specialmente di Luigi. In Calabria, almeno ai miei tempi, i padri - intendo i padri altrui, ché il mio non l'ho conosciuto - esigevano obbedienza e rispetto incondizionati, ma sapevano che la loro severità era capita e giustificata, e che i figli l'avrebbero praticata a loro volta. Con Luigi, finché è stato bambino, mi son comportato tradizionalmente, da uomo a uomo, con più rigore che manifestazioni di tenerezza. A un certo punto mi convinsi di avere sbagliato, Luigi è cresciuto impetuoso e generoso, ma più sensibile di una ragazza. Era tardi per rimediare, senza dire che davanti a un caso simile mi trovavo in grave imbarazzo. Oggi, a diciott'anni, mio figlio segue una sua via che non oso esplorare. Durante le mie lunghe insonnie notturne, mi propongo a volte di trattarlo affettuosamente, d'interrogarlo, di dargli dei consigli. Ma quando mi compare davanti, la sua giovane presenza così scattante, così - mi pare - impaziente, mi blocca. Cosa gli direi, in sostanza? Ho veduto, da vivo, il definitivo tramonto dei miei tempi; quel che, bene o male, ha sostenuto la mia tenacia avventurosa, non serve a lui e ai giovani della sua età. Ho cospirato con ebbrezza, mi hanno preso, ho veduto la forca e qualcosa peggiore della forca. Questo lui lo sa, ma ho l'impressione che piuttosto che ammirarmi mi compatisca per non aver giocato con maggior coraggio e fino in fondo tutte le mie carte. Leggo nei suoi occhi vagabondi, troppo dolci per un uomo, la sua e la mia condanna: sa di essere un sognatore e lotta per liberarsi da un fanatismo astratto che lo condurrebbe, come me, a subire delusioni e tradimenti. Se gli parlassi, dovrei per prima cosa difendermi, atteggiarmi a eroe: proprio quello che mi ripugna. Allora, egoisticamente, ripiego sui miei più che settant'anni: non ci si cambia a questa età e io son nato per divorar solo i miei crucci. Non mi approvo: mi quieto, e a poco a poco una bizzarra lontananza si stabilisce fra me e i miei, io sono su una torre solitaria e li vedo come dall'alto, piccoli piccoli, portati via da un grande fiume calmo verso l'orizzonte; eppure mai scompaiono del tutto. Non saprei dire come mi sia accaduto di mettermi a scrivere su uno di questi fogli - una pila - che giacciono chissà da quanto sulla mia scrivania. Non fu per una decisione, ma per un moto ozioso della mano: come succede a chi, pensando, disegna facce e ghirigori sulla carta. A un certo punto mi accorsi di scrivere quel che mi passava in mente. Scrivere non è mai stato il fatto mio, anche se da ragazzo, come tutti, ho commesso peccati poetici. Della penna, un agitatore politico impara presto a diffidare, anche il biglietto più banale può dar luogo a sospetti. E adesso, eccomi a scribacchiare furtivamente, quasi fossi in galera, esposto alle spiate degli aguzzini. Ogni sera mi propongo di distruggere i miei scarabocchi e non lo faccio, li nascondo invece nel più profondo cassetto del secrétaire, quasi si trattasse di un
tesoro. Tuttavia Teresa deve essersi accorta di questi miei maneggi, me ne avvedo dalla cura con cui mi spolvera il calamaio e controlla inchiostro e pennino. Ma mi rispetta troppo per chiacchierarne con la mamma e il fratello, son sicuro di lei. Sino a un anno fa, quando vivevo pressappoco normalmente, Marietta mi ripeteva di continuo che adesso, almeno adesso, nei miei ozi di pensionato, avrei dovuto mettermi alle mie memorie, sull'esempio del tale e del tal'altro miei antichi compagni di carcere, meno intransigenti di me e più fortunati. Senza discutere, rispondevo seccamente di no e lei aveva ormai imparato a non insistere pur scuotendo amaramente la testa. Se ora avesse cognizione di questi miei scartafacci, chissà come sarebbe contenta e magari pretenderebbe di metterci le mani. Oltre tutto ci rimarrebbe male perché queste non sono le memorie che si aspettava da me. Leggendo si dispererebbe e forse ci vedrebbe una prova di svanimento senile e ne parlerebbe al dottore piemontese. Spesso mi domando perché dunque scrivo, perché tendo l'orecchio ai rumori di casa per timore di essere sorpreso in una occupazione senza scopo ma che mi sta diventando necessaria. La verità è che, come ho detto, ho la testa piena di parole e bisogna pure che le lasci correre da qualche parte, non foss'altro per sentirmi padrone dei miei pensieri e per dar dell'asino a quel facilone del medico. Dicono che i vecchi ricordano soltanto avvenimenti lontanissimi mentre il passato più recente e persino i fatti del giorno innanzi non lascian traccia nella loro memoria. Per quel che mi riguarda, sciocchezze. Dio volesse che i triti meschini fatterelli degli ultimi anni non alimentassero la mia tristezza. E' oggi il 17 giugno 1883, fra una settimana, il 24, ricorre il mio compleanno che i miei, come al solito, si affretteranno a festeggiare. Sono, se non mi sbaglio, otto mesi giusti che non sono uscito di casa, l'ultima volta fu a metà ottobre, una bella mattinata, ma già le foglie dei platani volteggiavano per il viale, nel nord l'autunno è puntuale. Mi dava il braccio Teresa, Luigi ci precedeva di un passo, annoiato, mi parve. All'angolo, senza consultarmi, mi fecero salire su una vettura pubblica: il portiere gallonato ci seguiva malignamente cogli occhi. Facemmo un lungo giro costeggiando il Valentino dove preparavano l'esposizione che adesso è aperta e ne parlano tutti i giornali come di un trionfo della nuova Italia. I ragazzi chiacchieravano, Teresa interrogando il fratello, lui rispondendo breve e controvoglia. Io me ne stavo zitto: e socchiudendo gli occhi a cagione della gran luce, guardavo il profilo delle Alpi, la vista delle alte vette mi ha sempre sollevato dall'infelicità presente. D'un tratto i miei figli si allarmano: «Sei stanco, papà, non ti senti bene?». Non capivano, dunque; il mio momentaneo abbandono a consolanti pensieri di eternità era per loro una minaccia di deliquio. Me ne venne un tale disgusto che, senza indugio, li pregai di rincasare: Luigi sollecitò il cocchiere e Teresa che ama tanto scarrozzare, stava visibilmente sulle spine. Una bella passeggiata davvero: per nulla al mondo ripeterei l'esperimento. Sono a Torino da due anni, ci son venuto di mia volontà, per morirci. Quando lo decisi, Marietta non credeva alle proprie orecchie, tanta era la gioia di ritornare nella sua città natale: ma, bisogna riconoscerlo, aveva degli scrupoli, temeva che il clima rigido, i lunghi inverni pregiudicassero la mia salute di uomo del sud, avvezzo al sole e al mare. Aveva tanto rimpianto piazza Castello, via Dora Grossa, i Lungopò: non mi sacrificavo, per caso, per soddisfarla? La rassicurai, la ringraziai. Neppure a me era del tutto chiara la ragione della mia scelta, me ne resi conto soltanto quando era già fatta e irrimediabile. Era una scelta polemica, con essa punivo me e il mio paese di origine troppo amato e troppo detestato. Le nevi,
l'astratto nitore del cielo gelido, l'avara riserva del costume mi avrebbero restituito il gusto, il sapore della mia terra, dei suoi orizzonti sfasciati, la tenerezza per i suoi boscaioli, marinai, zappatori, il gagliardo disprezzo per i suoi feudatari: tutte le sensazioni e i sentimenti che mi hanno fatto vivere anche quando mi auguravo la morte. Il patto ha funzionato, ne ho ottenuto il piacere amaro e inebriante della nostalgia che, da giovane, mi faceva paura e che nell'arida vecchiaia è una conquista. Ma l'ho pagato caro. La verità è che nulla amo di Torino: non il suo ordine, non la sua mediocre civiltà piena di sussiego. Odio i suoi impiegatucci, i suoi militari, i suoi uomini politici. Mi opprime il palazzone lussuoso dove abito e, chiuso in questa camera di luce fredda, mi contristano le sue mura massicce, la facciata dove so che si apre la mia finestra. E' questa la prigione dove mi sono serrato volontariamente con una sentenza che nessuna grazia sovrana potrà mai cancellare. Questo greve edificio pretenzioso è così brutto che, al confronto, la più umile dimora s'illumina di grazia e di nobiltà. Nevicava, ricordo, quando la carrozza mi ci depose per la prima volta: a Castellammare i mandorli erano in fiore. Era una neve senza gloria, i fiocchi grigi contro il cielo grigio si disfacevano sugli alberi del viale scheletriti e neri: l'enorme portone era, alle quattro di un pomeriggio di febbraio, già rischiarato da una grande lanterna. Mura spesse e arcigne, interrotte da grossi pilastri in finta pietra che stringono e legano le finestre, ciascuna schiacciata da un frontone pedante. L'architetto deve aver mirato a una severità classica che non serve che a sottolineare, nell'ordine dei quattro piani, una netta distinzione di censo. Un mezzanino compresso come la groppa di un burocrate servile, un imperioso piano nobile, tronfio di architettoniche ostentazioni, il terzo piano per il rentier borghese che ama il decoro e il risparmio; in cima le mansarde, concesse con sopportazione ai decaduti, agli studenti, agli artisti, gente tenuta d'occhio e congedata alla prima scadenza d'affitto non corrisposta. Io abito al terzo piano, ma nel concetto del guardaportone in giamberga non debbo ispirare maggior fiducia degli inquilini delle soffitte. Siamo "napoletani", noi, soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante e l'imbroglione. I nostri mobili, piuttosto sconquassati dai troppi traslochi, oscillavano sulle spalle dei facchini, su per le scale: zampe spezzate o ciondolanti, sportelli malfermi sui gangheri. Il portiere li guardava ironico e costernato. Erano i trumeaux sconnessi, le consunte poltrone dixhuitième portate in dote da Marietta; gli armadi e i letti provinciali di casa mia, roba vecchia e strapazzata. Il mio stipendio non è mai bastato a riparare i danni di ogni trasferimento, a sostituire gli specchi rotti e i cristalli frantumati. Nel sud a queste cose non si bada, le disgrazie son rispettate. Qui non si ammettono mezze misure, il signore "genato" - così dicono! - non dia scandalo, si rimpiatti, scompaia. Chissà quante chiacchiere mordaci per la scala di servizio. Le due vecchie sorelle di Marietta, nubili poverissime, vivono, in periferia, di esigui risparmi e di qualche lavoro segreto: son loro che hanno scelto per noi questo alloggio sproporzionato ai nostri mezzi. Ci credevano ricchi e mia moglie diceva che sarebbe stato crudele privarle di una soddisfazione che compensava le loro tristezze di nobili decadute. Capii che anche la sua vanità era in gioco, che una casa modesta l'avrebbe contristata. Non protestai, non feci conti: in fondo non ho mai saputo farne e ho così poco da vivere. Alla mia morte, le cose andranno male per i miei, ma Marietta è anziana, non avrà molto da penare e quanto a Luigi - è strano - lo vedo, dopo qualche burrasca, tranquillo e quasi vecchio come me. Insomma, non ho paura per lui. Teresa... Non si sposano le ragazze di buona famiglia, belle e senza dote, in questo paese quattrinaio: se sono oneste
soffrono e muoiono presto. Marietta, con la sua esperienza di damigella caduta in bassa fortuna (tale l'ho trovata e presa in moglie) non le risparmierà privazioni segrete purché le apparenze e le buone maniere siano salve. La terrà gelosamente in casa, a faccendare, come del resto già fa, malnutrita, senza fuoco, con una sola veste per uscire. Ha il petto delicato, quella figliola, non reggerà. E' mostruoso offrirle come eredità questi pensieri di morte, ma un padre come me non ha altra alternativa. Nel tempo che m'incalza anche lei troverà il soffice letto della sua pace. "Coerenza": mi son svegliato, stamane, con questa parola in bocca. Uscivo da un labirinto angoscioso e mi trovavo in mano un groppo da sbrogliare, pensiero ed azione, a un tempo. Sono lucido, intendo il senso dell'incubo che in sonno mi ha agitato. Non si tratta di provarmi, puntigliosamente e senza scopo, che ho la testa chiara e la memoria tenace. Ho da rendermi dei conti, seguire ora o mai più l'orbita che ho percorso allontanandomi da quella che era per me una certezza solare, l'intramontabile ragione dei miei atti. Se voglio sfuggire a uno stato vegetativo, senza rimpianti o rimorsi, ho l'obbligo di guardarmi da estraneo, di esaminarmi con la stessa freddezza con cui ieri, io, nemico della crudeltà, auguravo a mia figlia nel suo fiore una morte precoce. Oggi sono un rudere, un sasso che precipiterà nell'abisso e sarà ridotto in cenere e fango: da due anni sono uscito di scena. Ma due anni fa bollivo di sdegno, ero ancora uno scoglio percosso: mi ribellavo a un mondo in cui ravvisavo un solo giusto, me stesso. Avevo ragione, avevo torto? Dalla soluzione di questo dilemma dipende la mia intima tranquillità, il riconoscermi coerente in tutte le fasi della mia vita. Non vorrei scoprire di essermi amato troppo. Ero a Castellammare: settembre 1880. Sito ameno, cielo demente, il mare, i boschi del Faito, verdi come la mia Sila; e Napoli, la vecchia sirena, a due passi. Davanti alla finestra aperta del mio studio, apro e leggo la lettera del Ministero. Per raggiunti limiti d'età, dice, con la fine dell'anno son collocato a riposo. Dovevo aspettarmelo, dovevo saperlo. Ero, invece, furente e se provavo a ripetermi che la cosa era logica, che chi serve lo Stato deve subire le sue leggi, l'ira cresceva in un pauroso scroscio di risentimenti. Rischiare la morte e soffrire un lungo carcere per l'Italia era stata la mia scelta, la mia personale avventura: aspettarne privilegi e compensi mi sarebbe parso degradante. Ma se non mi pentivo, di avere, per amore del mio paese, presa una strada dolorosa e sfidato la morte, non sapevo ora dimenticare le amarezze che m'erano toccate in seguito, quando, liberato dal carcere e ridotto in povertà, m'ero visto costretto ad accettare un impiego statale. Le ingiustizie, le mortificazioni, i disgusti che ci avevo raccolto a ogni passo facevano massa, mi soffocavano, rifiutavano di sciogliersi nel gran mare delle miserie umane, compatibili, perdonabili. M'ero illuso di averle digerite e non era così: illogicamente, per un impetuoso insorgere dell'animo, sentivo che il solito congedo ministeriale al termine di una carriera quale carriera, mio Dio! - le sanzionava ipocritamente. Non il patriota era offeso in me, ma il funzionario che aveva lealmente lavorato e che adesso era giudicato inservibile. Sogghignavo: m'ero piegato a mangiare il pane dei servi, e ben mi stava, come un servo ero trattato. Il cielo si era rannuvolato, sul Faito tuonava: credevo di ascoltare la mia voce. Pensai di scomparire come avessi vent'anni e nessun carico di famiglia. Mi ero chiuso in camera e non risposi ai colpetti della cameriera che mi chiamava a cena. Mi buttai sul letto vestito e mi addormentai: nel sonno ritrovai il volto che incarnava meglio di ogni altro tutte le mie delusioni. Chi mi crederebbe se confessassi che la mia pena maggiore è stata
quella dell'amicizia tradita? In gioventù non ho avuto amici, un cospiratore deve guardarsene e credere più nella propria causa che negli uomini che la sostengono. Ma a sessant'anni, restituito alla condizione di cittadino libero, in un paese libero, un amico credetti di essermelo meritato. Anche se è stato un "politico" e lo hanno poi assordato di applausi per le sue benemerenze, un galeotto fatica a rinserirsi nella società, la stessa sua fama lo isola. Improvvisamente, a Bari, dove ero stato trasferito, tutto si mise a sorridermi. La cittadina, con la sua antica cattedrale, le sue viuzze fragranti di salso marino, le sue casucce bianchissime, mi pareva un modello di laboriosità coraggiosa; la popolazione mi piaceva, il clima mi conveniva. Le autorità, i notabili mi accolsero così cordialmente da rendermi finanche perplesso. E lui, Riccardo Cassieri, ricco possidente "liberale", intraprendente rinnovatore agricolo, generoso coi dipendenti, mi sembrò incarnare lo spirito dei tempi che avevo utopicamente auspicato e che il caos postunitario aveva seppellito. Contro le mie abitudini, gli aprii un animo fiducioso, senza riserve. La sua vasta casa ospitale, le sue donne colte e bene educate mi attraevano come la prova lampante che anche nel nostro paese una famiglia semplice e costumata può essere esempio di una civiltà signorile aliena dal fasto burbanzoso dei baroni. Marietta ci si trovava tanto bene da non rimpiangere più la sua Torino. Mi ero sempre astenuto dal raccontare distesamente i casi miei, ma per Riccardo non ebbi segreti, non gli nascosi le mie idee e persino gli errori che, commessi in buona fede, avevo pagato con le più amare esperienze. Riccardo mi ascoltava con una attenzione che mi commuoveva: a volte, quando gli narravo delle nefandezze del carcere di Montefusco, si passava una mano sugli occhi quasi a nascondere l'eccesso del suo turbamento. Se mi lasciavo andare a critiche sulla politica piemontese, così dura per il nostro mezzogiorno, non solo mi approvava, ma insisteva a chiedermi quali riforme credessi necessarie a risolvere i problemi della miseria del popolo, a purgare la corruttela delle classi dominanti. Che cosa non gli dissi! La mia fede repubblicana, il dolore sempre vivo per i fatti di Aspromonte, la mia sete di una giustizia veramente rivoluzionaria. Dopo che mi ero così sfogato, rimaneva qualche momento sospeso, poi mi abbracciava: «Non fatevi cattivo sangue» diceva «troppo avete fatto per l'Italia, riposatevi ché ne avete diritto, cercate di distrarvi». M'invitava a partite di caccia e di pesca nelle sue proprietà. Qualche volta accettavo per fargli piacere. A Bari, non so adesso, esisteva un circolo di conversazione bene organizzato, sul tipo del club inglese: lo frequentavano i cittadini più autorevoli, nobili e borghesi, che ci passavano le serate leggendo i giornali italiani ed esteri, chiacchierando, soprattutto giocando. Il Cassieri non ebbe pace, finché non mi ebbe presentato e iscritto fra i soci d'onore. Renitente, sulle prime, a poco a poco presi l'abitudine di quel ritrovo che risvegliava in me ricordi lontani della prima giovinezza quando i circoli letterari e d'intrattenimento di Catanzaro, di Cosenza mi suscitavano un misto di invidia e di disgusto, popolati com'erano di codini borbonici e spie. Ogni mio istinto di civile socievolezza ne era stato represso, i tetri e clandestini discorsi fra carcerati eran tutto quello che, in seguito, la vita mi aveva offerto in fatto di rapporti umani. Adesso, il franco contatto con uomini nuovi, mi si presentò come un tardo ma efficace compenso. Dopo una giornata d'ingrato lavoro fra scartoffie burocratiche, mi era dolce, lo confesso, cambiar d'abito e passar la serata come un gentleman della libera Inghilterra. Per compiacenza mi sedetti a un tavolo da gioco. Non sono mai stato giocatore d'ingegno, persino nella monotonia del carcere rifiutavo le carte bisunte forniteci sottomano dai secondini. Non ero cambiato, ma,
per non annoiarmi, presi a seguire i corsi e ricorsi della fortuna, essi mi affascinavano per il loro misterioso ritmo. Naturalmente, perdevo e più perdevo, più mi sentivo impegnato a scandagliare la sorte. Non si trattava di grosse somme, ma sufficienti per consumare i miei pochi risparmi, sicché mi trovai angosciosamente sprovvisto e costretto a chiedere un prestito all'amico quando la mia primogenita Giuseppina si ammalò e morì di croup: essa giace nella tomba dei Cassieri offertami da Riccardo con uno slancio che mi rese sacra la sua amicizia. Aveva cinque anni e per grazia e intelligenza era la delizia di chi la conosceva, Marietta ne fu distrutta ed ebbe bisogno di lunghe cure che, con la restituzione del prestito, mi ridussero a penose strettezze. Cassieri piangente, Cassieri disperato con me: non poteva essere, il suo, il viso di un traditore. Ed ecco, dopo otto anni, mentre leggevo il foglio di congedo, sentivo ancora la sua mano poggiarmi fraternamente sulla spalla: la stessa mano che, poco dopo, aveva scritto a Torino denunziandomi al ministro come repubblicano pericoloso e fomentatore di disordini sociali. Vidi la lettera, il ministro me la mostrò in confidenza, ammonendomi bonariamente, non senza malizia, a metter giudizio. Era un vecchio compagno di galera, moderato e monarchico: mi stimava, ma non mi nascose che quelle accuse non gli sembravano del tutto prive di fondamento. Senza ribattere, chiesi di essere trasferito dovunque, purché immediatamente. Mi contentarono. Cercai di cancellare dalla memoria quel miserabile episodio, per lunghi periodi mi parve di esserci riuscito: mi era nato Luigi, mi era nata Teresa, mia moglie si era rasserenata. Di tanto in tanto, è vero, l'immagine del Cassieri, falso galantuomo e falso amico, veniva a offuscarmi nel più sordido dei modi: mai tuttavia fino al punto da ottenebrarmi come mi avvenne poi a Castellammare. Ero ancora coerente, allora. Tutti i porti si somigliano, da Bari, venni trasferito in un piccolo porto della Sicilia, che, come gli altri era insidiato dal contrabbando. Conducevo una vita severa, senza frequentar nessuno, la mia famiglia evitava ogni contatto coi locali. Così credetti di esser riuscito a ritrovare quel distacco e quella equanimità che nelle più gravi sventure mi avevano sostenuto. In certe ore di serenità raccolta m'ingegnavo a giustificare il Cassieri, forse la sua denunzia non era volontà di male ma un errato concetto del dovere civico. Tentavo di rappresentarmi le sue ragioni e di perdonarlo come avevo perdonato chi mi aveva fatto arrestare, processare, condannare: sono cristiano e ho sempre cercato di praticare l'oblio delle offese. Ma ecco che quando mi illudevo di aver superato ogni rancore verso Riccardo, esso risorgeva nelle più strane forme. Dopo una mattinata trascorsa in ufficio a compilare rapporti e relazioni tanto inutili quanto coscienziosamente redatti, usavo recarmi da solo a ispezionare il molo, i magazzini, a rendermi conto dei velieri e dei vapori in partenza e in arrivo. Erano quelle le mie passeggiate e le compivo nelle ore della siesta che nessun meridionale si nega, dall'ultimo mendicante al più ricco dei "galantuomini": sotto il sole feroce, bruciante anche d'inverno, camminavo a lungo su quelle pietre aride, di rado volgendo un'occhiata al mare balenante fra l'azzurro, l'oro e l'acciaio. La mia attenzione era tutta rivolta alle cataste di mercanzia sbarcate o da imbarcare, alla vigilanza dei doganieri, riparati nelle loro baracche, ai facchini, per lo più addormentati all'ombra radente di qualche muro. Ero temuto, quella povera gente nutrita di cocomeri e fichi d'India, raramente di pane bianco, sobbalzava al mio passo, apriva gli occhi. Ebbene, in quegli occhi sonnolenti, a fatica dischiusi, coglievo spesso - o mi pareva un lampo di malizia sorniona che mi richiamava la guardata del Cassieri quando, fissandomi, aspettava che finissi un mio discorso.
Era lui che mi spiava sotto gli stracci di un qualunque manovale o vagabondo in attesa di guadagnarsi la giornata. Notabili maneggioni e trafficanti, preti nostalgici del Borbone, contrabbandieri in figura di pescatori: in tutti ritrovavo quei suoi occhi di carbone, facilmente umidi, più spesso ridotti a una fessura sottile quando, per dissipare le mie melanconie, prendeva a scherzare. Nel suo volto, per un attimo risuscitato, ravvisavo le antiche magagne dei miei conterranei, la loro ingenuità corrotta: li disprezzavo, li detestavo. Il sospetto incessante, la eccessiva severità minacciavano d'inaridirmi, di privarmi di ogni senso misericordioso. Inquisivo, infierivo. Senza amici, mi creavo nuovi nemici e provavo un gusto acerbo nello sfidare la loro coperta ostilità. Qualche volta, se il colpevole era un poveruomo, costretto all'inganno per campare, un'onda di pena mi rinfrescava il respiro: lo condannavo, ma soccorrevo nascostamente la sua famiglia. Era un rischio e lo sapevo, i delatori di questi miei atti pietosi non mancavano. Facevo fronte con successo a questi pericoli e ogni volta mi pareva di trionfare sull'amico traditore. Lentamente, d'altronde, il tempo medicava quella mia velenosa e un po' vergognosa ferita. Volontariamente isolato, e quindi insensibile alle vicende e alle reazioni di un piccolo centro, di nuovo mi si apriva il vasto orizzonte delle fortune e sfortune nazionali, egoisticamente dimenticate durante il soggiorno pugliese. Tornava a confortarmi l'unità del Paese finalmente raggiunta: sia pur tristemente, Venezia era restituita, Roma conquistata. Questi avvenimenti mi riportavano al ricordo di quanto, da giovane e maturo, avevo sperato e disperato. Rinsavivo: l'idea democratica e repubblicana, il mio antico vangelo, era stata sconfitta, ma era sempre un miracolo che l'Italia esistesse. Via, non dovevo amareggiarmi, anzi era colpa mia se troppo confidando in un banale signorotto di provincia avevo trascurato gli antichi compagni di catena: quelli sì, amici a tutta prova. A tutta prova? Ecco ciò che, purtroppo, arrivai a domandarmi, non senza una punta di scetticismo, a Castellammare, dopo aver letta la carta ministeriale. Il fatto è che se ho sempre resistito al desiderio di Marietta circa le mie memorie carcerarie, non è stato per capriccio ma, direi quasi, per osservare un patto di fedeltà non espresso, ma sottinteso fra me e i miei compagni di pena. Il carcere politico, quello, almeno, che noi conoscemmo, è una specie di sacra milizia, a chi l'ha sofferto ripugna parlarne, divulgarne il segreto orribile fascino. Il sentimento che ci univa dopo anni di prigionia era qualcosa di più alto della comune amicizia: a forza di sofferenze eravamo indifferenti alla nostra privata individualità, ridotti a un'unica persona. Restituiti alla libertà, ognuno di noi aveva incontrato una diversa sorte e ritrovato la propria identità, il proprio carattere: come avrebbe dunque ardito farsi memoria e voce per tutti? Questo io pensavo, sia pur confusamente, quando mi si esortava a scrivere i miei ricordi di galera: tanto più che in quelli che taluno dei miei compagni veniva intanto pubblicando, non riconoscevo il clima della nostra infelice collettività, della nostra ineffabile parentela. Ne deducevo - e quel giorno di Castellammare ne fui certo - che anche l'amicizia che era fra noi poteva essersi alterata e corrotta. Meglio non metterla alla prova, non saggiarne i limiti. A Napoli negli ultimi anni, mi era accaduto d'imbattermi in qualcuno di questi sopravvissuti: vecchi signori in correttissimo abito civile che avevo lasciati in casacca di pelo d'asino. Dopo un abbraccio formale, rimanevamo imbarazzati parlando di cose insignificanti, il tempo, la salute: su questa, soprattutto, la conversazione ritrovava una certa spontaneità. Enumerati i propri acciacchi, deplorata la inefficacia dei rimedi, si rammentavano i mali patiti in prigionia, senza cure e
la fisionomia dell'amico si animava: pativo ancora nella vista che ero stato per perdere, la mia scoliosi dorsale si era arrestata? Ringraziavo commosso, era, questo, il solo richiamo ai tempi andati, non ce ne concedevamo altri. Sapevamo ben poco, adesso, l'uno dell'altro ed esitavamo a chieder notizie delle famiglie, forse menomate: di politica, poi, neppure un cenno. Mi invitavano a casa loro, io facevo altrettanto, ma sapevamo bene che quelle visite non avrebbero mai avuto luogo. Una sorta di malinconica intesa si stabiliva così, in silenzio, e ciascuno riprendeva la sua strada ravvolgendo nella mente dubbi, ipotesi. Il tale, deputato, senatore, uomo di governo aveva davvero tradito le sue idee venendo a compromessi con gli avversari? Le cariche che aveva ricoperto se le era meritate o, come si bucinava, erano frutto di maneggi non proprio onorevoli? Questo io pensavo rientrando a Castellammare e non dubitavo che il compagno di cui avevo stretto con tanta nostalgia la mano ruminasse, nel frattempo, sulla mia testardaggine repubblicana di cui gli era certo giunta più di una voce. Mai e poi mai, mi dicevo, per quanti guai mi capitassero, sarei ricorso al suo aiuto. Lo stimavo, gli volevo bene, ma al passato, quasi fossimo ambedue nella tomba. Il presente non ci riguardava più, ci vivevamo da estranei. Il cammino su cui mi son messo è sdrucciolevole, più mi ci inoltro e più m'impantano: per fortuna affido i miei sfoghi a questi fogli destinati al fuoco: se parlassi perderei la voce. "Coerenza" dicevo. L'esame è stato negativo; no, non sono coerente, forse non lo sono mai stato sebbene la linea che mi ero prefisso di seguire mi appaia, almeno fino a un certo punto, perfettamente retta. Ammesso che sia così, quando ho principiato a deflettere? Comincio a credere che tutte le mie contraddizioni siano dipese dal non aver ritrovato, uscendo di carcere, un paese natale, una casa familiare. Della Calabria, cosa è rimasto nel mio cuore? Appena qualche nome, qualche lampo di verde e di sole. Da circa mezzo secolo me ne sono divezzato e non ho mai coltivato la religione dei ricordi infantili e di adolescente. E' falso, almeno per me, che quella sia un'età felice, la mia fu piena di sussulti e d'incertezze e, fatto uomo, la amputai da me come un arto paralizzato. Avrei veduto più chiaro nel mondo e in me stesso, se qualcosa e qualcuno, laggiù, mi fossero davvero appartenuti? Non so deciderlo, ho ancora nel sangue il ribrezzo di quel che potevo diventare adagiandomi nel mio stato nativo. La mia patria, insomma, è una nozione astratta il cui riflesso si proiettò su quel che trovai di concreto, nella Livorno del '60, quando ci sbarcai ancor vestito da galeotto. In quelle prime settimane di libertà agitata e confusa, io veramente rinacqui. Non furono tanto le acclamazioni e le feste con cui i patrioti toscani mi accolsero a restituirmi il senso della vita, quanto l'alloggio civile che mi procurarono, la finestra senza inferriate da cui godevo il mare e la campagna, il letto soffice, la biancheria candida, la tazzina fiorita del caffè, ogni mattina: gioie infantili. Non avevo altro desiderio che rimanere lì, in quella cameretta graziosa, libero di uscirne, di leggere di conversare con i vicini; malgrado la declinante maturità, mi sentivo giovane come non mai, cioè padrone della mia gioventù ricuperata. Non fu possibile. Nessuno avrebbe capita questa mia aspirazione mediocre, indegna di quella specie di paladino alla cui figura mi vedevo inchiodato: io stesso me ne vergognavo e tentavo di attribuire il mio bisogno di quiete alla cattiva salute. Avevo anche un'altra ragione di scuotermi: vivevo, quei primi giorni, della ospitalità dei patrioti livornesi, quelli stessi che mi esortavano ad andare a Torino, o almeno a Firenze, dove affluivano esuli, ex carcerati come me, politici: per farmi valere e partecipare alle prossime iniziative,
ai nuovi ordinamenti. Eppure quanto volentieri ci sarei rimasto, a Livorno, se avessi avuto di che campare: ma non possedevo niente, l'ultimo peculio fornitomi a Napoli da un mio cugino era da tempo esaurito: ecco l'autentica verità. Sicché mi mossi per Firenze, ospite anche lì, e confuso tra una folla di personaggi di primo piano, dal nome famoso e tutti, come mi parve, più meritevoli di me. Cos'erano dodici anni di ergastolo di fronte al loro prestigio ? Niente. Quella città illustre, divisa fra un'agitazione fittizia e un costume gretto, non mi piaceva. Avrei voluto visitare in pace quei monumenti insigni, fantasticare sui segni di tanta grandezza, favoleggiati quand'ero ragazzo nel fondo della mia Calabria: e mi pareva che- Dio mi perdoni il peso dell'Italia unita stesse schiacciandoli. Anche lì feste, ricevimenti in case patrizie, fra dame fregiate della coccarda tricolore e, sopra tutti, la faccia dura del barone Ricasoli. Avevo una cameretta in via dell'Ariento e leggevo Dante. Come a Livorno me ne sarei contentato, ma mi offrirono una sistemazione provvisoria a Torino e mi accingevo a partire. Partii, infatti, ma non per il settentrione: Garibaldi trionfava in Sicilia avvicinandosi allo stretto e si era sicuri che sarebbe passato in continente. C'era bisogno di meridionali esperti, pratici dei luoghi, che accompagnassero e guidassero i garibaldini per quelle terre selvatiche, sino alla meta di Napoli. Garibaldi, triste a dirsi, non era, anche in quel tempo, universalmente amato: molti lo giudicavano una testa matta, un avventuriero, un guastafeste. Constatarlo e ardere di sdegno fu tutt'uno. Ritrovai il vigore antico e partii con l'animo del cospiratore che ero stato. A Napoli avrei potuto circolare liberamente, avevo le carte in regola, ma più in giù avrei agito da combattente, il mio sogno giovanile. Non voglio, non posso e forse non potrò mai ripercorrere con la memoria le vicende di quel viaggio infelice che mi costrinse a confrontarmi col paese dove son nato e che avevo giurato di non più rivedere. Le dimensioni del mio piccolo tempo di recluso mi apparvero smisurate nel volto di mia madre e dei miei fratelli, il muro che ci divideva era cresciuto e aveva le sue fondamenta nella mia stessa natura. Respingo, respingo queste immagini. Tutto ciò era cenere quando, dopo Aspromonte, arrivai finalmente nella Torino di vent'anni fa a cercarvi non so se un riparo alla tentazione di buttarmi all'avventura o una quiete onorata. Ebbi, malgrado i miei errori - ma questa è un'altra storia - un incarico provvisorio e mentre vivevo spaesato e guardingo - in fondo non diversamente da come oggi vivo - mi rendevo pienamente conto di cosa significhi amare il luogo dove si è nati, esserne orgogliosi. L'aspetto, i modi, i discorsi dei torinesi non facevano che testimoniare la loro soddisfatta certezza di appartenere a un mondo ordinato e civilissimo che tutti avrebbero dovuto prendere ad esempio, sempre che ci riuscissero. Forse non per malizia, ma per quel loro costume di motteggiare sottopelle, ci chiamavano, noi meridionali, "fratelli d'Italia": e giù, risatine. Me ne irritavo, si capisce: ma un po' li invidiavo Erano gretti, limitati, non si ponevano i grandi problemi della fraternità umana, ma la loro sicurezza li rendeva felici. Solo com'ero, presi alloggio presso un nobiluomo liberale che aveva partecipato, e se ne vantava, ai moti del '21: frivolo, un po' sciocco, ma cordiale e padre di una grossa famiglia di zitelle. Abitavano in via Dora Grossa, quella bella strada diritta che parte da piazza Castello: la ricordo, di estate, quando ogni balcone godeva l'ombra di un ampio tendone bianco e turchino: una festa per gli occhi. Da quei balconi la famiglia del mio ospite si affacciava per assistere come da un palco alle processioni o ai cortei patriottici, così frequenti in quei giorni: il padre con la sua parrucchina - era calvo - alla moda del secolo passato, le ragazze vestite pulitamente,
ognuna col suo fisciú di blonda e il grembiale di seta nera. Vivevano con molta parsimonia ma con estrema proprietà, secondo il costume dei piemontesi ben nati, sebbene con quelle loro manine facessero di tutto in casa, dalle pulizie alla cucina: in segreto, s'intende, e guai a mostrare di accorgersene. La loro allegra rassegnazione, il loro ottimismo valoroso mi conquistarono: ecco una vera famiglia civile, mi dicevo, contenta e unita malgrado le disgrazie. Melanconicamente la confrontavo con la mia, crucciata e avida, ostinata nel rimpianto dei beni perduti. Non avevo passato un mese in quella casa, e già me ne sentivo in qualche modo adottato e protetto. Avevo l'impressione che la mia origine meridionale fosse piuttosto uno stimolo che un ostacolo alla stima e al rispetto con cui ero trattato. Per sommi capi conoscevano la mia storia e ne facevano gran caso: ma mentre io non desideravo ormai che dire addio al mio passato tumultuoso, la secondogenita delle zitelle, Marietta, trentacinquenne, non si saziava di chiedermene. Non proprio bella, ma gradevole, capelli biondi, occhi grigi un po' grifagni e quel portamento che i francesi chiamano "grand air" mi sorprese per un fuoco quasi virile, lampeggiante sotto il controllo dell'educazione rigorosa. Non avevo mai incontrato una donna così diversa dalle pavide femminelle calabresi e che mi richiamava alla memoria le sorelle e le mogli dei miei compagni, intraviste come ombre dietro le doppie inferriate di Montefusco quando si avventuravano a visitarli. A una di esse bionda e di occhi chiari, mi sembrò che somigliasse Marietta e il pensiero di terminare la vita accanto a una creatura di nobili sentimenti cominciò a sollecitarmi. Desideravo un focolare, non una famiglia, il progetto mi parve ragionevole e un pallido sole riscaldò la mia esistenza massacrata. Così, una sera, su uno di quei balconi di via Dora Grossa chiesi bruscamente a madamigella l'onore della sua mano. Subito aggiunsi che non valevo gran cosa, che le offrivo una vita appena comoda, non si facesse illusioni, io non avevo beni di fortuna. Spalancò quei suoi occhi distanti, povera Marietta, ma non arrossì, e la sua risposta fu graziosa e altera: «Mais nous aussi nous sommes pauvres, monsieur»: poi mi tese la mano, forse si aspettava che la baciassi, io la strinsi soltanto. Fummo maritati in un mese, alla Madonna degli Angeli, senza pompa ma con decoro, Marietta, in grigio perla, era fiera come avesse sposato un principe. Uscendo di chiesa, smise il "monsieur" e mi chiamò col cognome. Così, da allora, ha sempre usato. Questo palazzo arcigno ha mura sorde come una fortezza: dai tempi del carcere ho conservato una attenzione particolare ai rumori e ai suoni esterni, essi sostituivano per me il paesaggio invisibile e la gente negata ai miei occhi. Ho ancora l'orecchio fino, ma dal viale qui sotto, che è pur frequentato, non mi arriva il brusio dei passanti e il rotolio delle carrozze e degli omnibus: solo, di tanto in tanto, il fischio dei treni dalla stazione vicina e il carillon squallido del tempio evangelico. Ma c'è un suono che ogni mezz'ora mi raggiunge fedelmente, attraverso la parete, ed è il rintocco di una pendola inglese, di quelle che imitano l'orologio della Torre di Londra, quattro note in salita, quattro in discesa. Le aspetto e le ascolto come la voce di un amico, esse mi danno la serenità necessaria a chi non deve sperar più nulla dal futuro: segnando il tempo lo sciolgono nel ritmo dell'eternità. Da quando ho ceduto a questo bisogno di parlare sulla carta, m'illudo che mi rispondano, magari con bonaria ironia. Tu scrivi e scrivi, dicono, e non sai perché. Ma non te ne vergognare, la logica del mondo non ti riguarda più, non ti comanda, essa ha meno valore del batter d'ali sonoro che ti persuade e ti riposa. Di notte, la pendola tace, forse il suo proprietario ne ferma il
congegno per non esserne disturbato. Nelle mie lunghe insonnie la rimpiango come un rimedio negato al mio cervello stanco e aggrovigliato che, all'alba, si affolla di sogni. Sogno di continuo, infatti, e nelle più diverse immagini vive il medesimo ingrato stupore. Stupisco della mia età tarda, me ne mortifico. Come mi son lasciato invecchiare, così, senza reagire? E mi sembra di aver nascosto i miei anni a chi mi credeva ancora giovane e capace di una impresa segreta e difficile. E ora come faccio? mi chiedo in quel dormiveglia angoscioso. Ma stanotte, contro il mio solito, mi sono addormentato di prima sera e ridestandomi fresco e riposato mi sono proposto di accendere il lume. Invece, non so come, il sonno mi ha ripreso e ho sognato così lucidamente come non m'era mai successo, nessun oggetto o persona reale mi son mai rimasti negli occhi altrettanto precisi e circostanziati. Mi trovavo in un giardino fiorito, fra alti cipressi: non lo riconoscevo ma ero sicuro che con un poco di sforzo ci sarei riuscito. E' il cimitero dove mi hanno sepolto, mi dicevo con un certo raccapriccio: e, voltandomi verso una siepe di mortella, per cercare una lapide, il segno della mia tomba, mi accorsi di non essere solo, una donna seguiva i miei passi e mi guardava intensamente. In quell'attimo udii la sua voce: «Ma no» esclamò con un leggero sorriso, rispondendo ai miei pensieri «questo è soltanto il mio giardino». Ebbi il sospetto che mi compatisse e provai una vaga irritazione. «Chi siete, signora?» stavo per domandarle, giacché mi sembrava di non essere affatto un intruso e di trovarmi in qualche modo a casa mia. Come avviene che un volto pensato si precisi se all'improvviso la persona cui appartiene si presenta in realtà ai nostri occhi così i tratti di quella figura si rafforzarono, presero consistenza e una specie di tenera autorità. Una fronte spaziosa, un poco accigliata, occhi scuri e acuti, zigomi alti, il labbro superiore rialzato in una espressione vagamente infantile. La riconoscevo, la riconobbi: se la mia primogenita fosse vissuta a lungo quello sarebbe stato il suo viso, quella era la sua bocca semiaperta nel rantolo del croup. Ci guardavamo in silenzio: portava una veste succinta che le copriva appena le ginocchia, i suoi capelli erano tagliati corti come quelli di un uomo. Fui certo di aver ritrovata la mia bambina, misteriosamente risorta e bizzarramente tralignata in una sconveniente maturità: e m'indignai. Perché si acconciava in quel modo strambo, pensai o dissi. Non mi rispose, non mi badava come non mi vedesse più, camminava distratta, colse una rosa, si punse un dito e se lo succhiava. D'improvviso ricominciò a fissarmi: i suoi occhi, troppo seri per una donna, avevano l'aria di interrogarmi duramente, poi si addolcivano di melanconia. Pazzo che sono, come potrebbe costei essere Giuseppina? Così rinsavito, cresceva in me il disagio di esser colto a quel modo, in casa d'altri, come un ladro qualunque. Imbarazzato, abbassai gli occhi per controllare la correttezza dei miei panni e con orrore mi vidi nel costume carcerario, casacca e calzoni rossi: non pensai che a scappare. Ma ecco lei di nuovo sorrideva e mi faceva un cenno non so se di congedo o d'invito. Conscio di sognare volevo destarmi, ma il sogno m'inchiodava: non eravamo più all'aperto, la donna e io, ci trovavamo in una stanza dal soffitto basso, fra pareti coperte di libri, in tutto simile allo studio del canonico Zimadore, il mio maestro di grammatica. Seduta, la donna scriveva, il suo tavolo era colmo di scartafacci e io le stavo dinanzi in piedi, come uno scolaretto. Alzò il capo e stavolta rideva col riso di Giuseppina quando voleva farmi una burla: la stessa bocca larghetta, gli stessi occhi stirati all'insù, da cinesina. Mi canzonava? Solo allora mi avvidi che le carte su cui poggiava la mano erano i fogliacci che vado scarabocchiando, riconobbi la mia
scrittura. Mi lanciai per strappargliele e mi destai. Ero più sconvolto di quando il mio letto mi si trasforma in una bara. Se credessi agli spiriti penserei di aver ricevuto un messaggio, l'avviso della mia morte imminente il consiglio di distruggere subito le tracce di queste mie sconnesse divagazioni. Ma i morti stanno con Dio, almeno così spero, e per me il messaggio non vale, i miei figlioli non esiteranno a bruciare queste scartoffie intestate al Ministero delle Finanze. Il mio esercizio di scribacchino non fa male a nessuno, peggio sarebbe se infastidissi il prossimo col borbottio dei vecchi. Tuttavia, da stamane m'inquieto: sono convinto che i sogni non sono profetici ma rivelano qualche cosa del nostro oscuro cervello. Più che rivedere i tratti della ignota, ho ancora nell'orecchio le parole, le mie parole che me li descrivono. Tutto questo significa che l'ho creata io, nel mio soffocato desiderio di comunicare con qualcuno, di farmi ascoltare: una scoperta mortificante. Ma se ripenso a quel giardino, rimango sospeso. Non posso credere di essermelo inventato e cerco invano fra i miei tanti ricordi un luogo che gli somigli. Eppure ero sul punto di riconoscerlo, per poco che il sogno fosse durato ci sarei riuscito. Teresa è venuta a portarmi la colazione, preparata con la solita cura elegante, vassoio d'argento - non l'hanno ancora venduto? porcellana fine, calice di baccarat. Non mangio coi miei, mi servono in camera e chissà, poveretti, con quale fretta negligente la loro tavola è apparecchiata. Mastico lentamente, a volte mi dimentico che ho il cibo in bocca, quasi il deglutire mi fosse incomprensibile. L'iniziativa di questi pasti solitari è appunto di Teresa, essa ha indovinato la mia ripugnanza ad aver testimoni mentre mi nutro: posa il vassoio su un tavolino accostato, mi spiega la salvietta sulle ginocchia, e con un chiaro sorriso mi augura buon appetito. Poi scivola alla porta e scompare. E' davvero una figliola d'oro, forse migliore di quel che oggi sarebbe Giuseppina se fosse vissuta: aveva un carattere risentito, quella bambina, e già da piccola una volontà testarda. E' senz'altro la sua immagine che mi ha suggerito l'ignota del sogno, l'indiscreta che aveva in mano le mie carte. Era così precoce, quella creatura, a quattro anni leggeva correntemente e io per scherzo dicevo di voler farne una letterata come Giannina Milli. A ben riflettere, lo scherzo non era di buona lega, non ho mai ammirato sinceramente gli uomini e ancora meno le donne di penna. Ma ci fu un tempo in cui vagheggiavo per le mie figliole una educazione compiuta, dal ricamo alla musica alla letteratura. Quanto a me, dopo la scuola di grammatica e il collegio di Monteleone, ho letto pochissimo, limitandomi a Dante e Leopardi che, in carcere, erano la mia consolazione. Dai romanzi mi son sempre tenuto lontano, non mi piacciono le favole e diffido dei romanzieri. Per chi scrivono costoro? Come possono giocare la loro vita componendo storie inventate? Le donne le leggono avidamente: ma come possono gli autori, contentarsene? Va bene, anche le donne sono un pubblico. E tuttavia scrivere per un pubblico cosiffatto non mi piacerebbe. Sono intelligenti, le donne? Se le considero una per una non mi sentirei di negarlo, e ho sempre notato che nell'infanzia sono molto più acute e pronte dei ragazzi. Poi superata l'adolescenza, fanno massa e si distaccano da noi, assumendo un carattere comune che guardiamo con diffidenza. Forse siamo ingiusti e anche crudeli: io come gli altri. Nelle donne apprezziamo la castità, la fedeltà, i sentimenti delicati, il buonsenso, come se in queste virtù non intervenisse il cervello: non c'è da stupirsi se piegandosi alla nostra legge esse ne fanno uno strumento di fuga dalla realtà che sono costrette a vivere. Fino a un certo segno penso che la loro condizione coincida con quella del
romanziere, il quale più che viverla, costruisce la vita. Lui, raccontando, comunica, sia pure alla cieca, con loro, insomma parla e forse confessa le proprie esperienze: esse ascoltano e s'immaginano di interloquire, di ragionare e di farsi intendere. Dove mai mi ha condotto il sogno di questa notte: mentre cerco di distrarmene, mi accorgo di esser caduto nel fatto personale, la mia segreta mortificata urgenza di parole. Come un ragazzetto accusato di malestri, immagino connivenze, addito complici. Eppure, chi mi ha chiesto di giustificarmi, di tormentare la mia vecchiezza con scrupoli e rimorsi per il semplice fatto di aver presa in mano la penna senza apparente necessità? Purtroppo non mi è difficile rispondere: le vicende della mia gioventù, gli anni di carcere mi hanno abituato ad esigere da me stesso quella limpidezza e quella coerenza morale che da qualche tempo temo di aver perdute. Cova, nel mio bisogno di esprimermi e di raccontarmi, qualcosa di piagnucoloso, di meschino che mi ripugna come una malattia vergognosa. Non scrivevo a Montefusco, non mi lagnavo. Guai all'uomo di azione che si fa burocrate. Ma ecco che un pensiero mi rianima: i romanzieri scrivono storie perché qualcuno le legga: ci contano, ci si affannano. Io, invece, non scrivo per nessuno: tanto vero che l'incubo della scorsa notte culminava nel raccapriccio di vedere i miei sgorbi in mano altrui. Respiro, mi sento libero di abbandonarmi in tranquillità a questo tardo innocente vizio di chiacchierone muto. Comunque, anche garantito da questa figura di solitario, segreto scrivente, non vorrei cadere nella trappola della dichiarata autobiografia, insomma delle "memorie". Più volte ho detto quanto disapprovi di richiamare in tal modo l'attenzione del prossimo e il fatto di non aver lettori non modifica la mia opinione. Ritengo, infatti, che il memorialista non possa esser sincero. Esser stato testimone e vittima di soprusi e tirannie non libera da una magari inconscia autocompiacenza e dalla tentazione di tacere le debolezze, le meschinità che ogni uomo, in ogni condizione, inevitabilmente commette. Chi racconta la propria vita non dovrebbe, secondo me, mirare che al proprio meticoloso e spietato ritratto, per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu nascendo: deve dunque esser capace di rintracciare minuto per minuto le sue azioni e le reazioni degli altri. E' un compito difficile, forse impossibile. Finché uno agisce, il pensiero gli corre per sentieri sotterranei: e talvolta ne scaturiscono effetti non calcolati, mostruosi alla luce del giorno. E per venire all'esempio del mio caso: quando ho detto di essere stato all'ergastolo dodici anni, non ho detto niente. In genere si crede che i detenuti politici passino il loro tempo meditando sulla giustezza della loro causa, fermi e fissi nelle loro idee. Nella realtà le cose vanno in tutt'altro modo e solo nei primi giorni della cattura, quando si spera di poterne in qualche modo uscire, i nostri pensieri seguono il corso consueto. Poi, la misura del tempo si dissolve in un presente buio che è lo spazio in cui si è rinchiusi. Non c'è posto per le idee, là dentro, ma solo per preoccupazioni e incubi, lo stesso miraggio della libertà diventa un oggetto sordido perché non lo si concepisce che in forma di evasione. Per noi fu anche qualcosa di peggio: la tentazione di sperare la possibilità della grazia sovrana. Procurarsi un giaciglio un po' meno ripugnante, un pane meno fetido, dell'acqua meno verminosa erano imprese che ci tenevano occupati a lungo, impigliati in una rete di accorgimenti e di astuzie: ottenendoli, non ne rimpiangevamo il prezzo. Quanto a me, provvisto del pochissimo denaro che mia madre riusciva a mandarmi neppur tentavo di corrompere i custodi e mi abbandonavo alla sorte dei più poveri fra i nostri compagni. Se mi sforzo oggi a ricollocarmi in un minuto
qualunque del mio stato di galeotto, ritrovo nel mio cervello un unico lavorio incessante. Non desiderio di libertà per me, di riscatto per la patria, non fede in un utopico futuro: ma un ritornare all'istante in cui avevo capito di non avere scampo e che mi avrebbero preso. La trappola tante volte evitata si era chiusa, il cielo gli alberi e le case che ancora potevo guardare dalla finestra dell'alberguccio, non avevano più senso, erano come impietriti nella luce, già ricordo. Provavo a scuotermi, a cercare una via di salvezza, ma non potevo muovermi, l'incanto della mia rovina era più forte di me. Puntuale, questo incanto si riproduceva nel mio cervello al punto da rendermi per un attimo immobile: e immediatamente ritornava la domanda: perché, come è potuto avvenire. Instancabilmente ricostruivo le mie ultime ore di libertà, le rivivevo minuto per minuto, talvolta inceppandomi e poi superando l'ostacolo con un lampo di gioia fuggitiva. Di sicuro avevo commesso uno sbaglio, anzi più sbagli e la conclusione era sempre la stessa, qualcuno di cui mi fidavo mi aveva tradito. Ma chi, in che modo? Disteso come morto sullo immondo stramazzo carcerario, spalancavo gli occhi quasi potessi inchiodare visi e gesti che non avevo saputo raccogliere. Mi affannavo a ricuperare sorrisi, lampi di sguardo, parole smozzicate, forse ambigue: muovendo silenziosamente le labbra me le ripetevo in toni diversi e dandogli diversi significati. Come uccellacci torpidi i miei sospetti non risparmiavano nessuno ma finivano per fissarsi, non so perché, su coloro che, al processo della Gran Corte Criminale, eran seduti accanto a me, sulla panca degli imputati. Li conoscevo per cospiratori, li avevo ritenuti patrioti fermi e fedeli: ora mi domandavo se non avessero tradito, se non fossero stati messi lì per un trucco e avessero ceduto alla promessa della grazia, vendendosi ai giudici. Una desolata stanchezza mi vinceva, occhi e facce oscillavano avanzando, indietreggiando nella memoria affievolita e restia. Meglio accusare la mia imprudenza, la mia sventatezza giovanile. Fino a un certo punto la fortuna mi aveva assistito, poi mi aveva abbandonato. Tutta colpa mia, avevo troppo presunto della mia audacia, mi piaceva il rischio, disprezzavo i consigli dei capi. Pure seguitavo a frugarmi in cerca dell'errore capitale, quello che mi aveva perduto. Non riuscivo a trovarlo, per quanto mi tormentassi. I compagni russano o si lamentano, un grave fetore ammorba l'aria, ma non m'importa di dormire, anzi non voglio: non ritornerò mai abbastanza sui miei ultimi istanti di libertà. Ecco che arrivo a Cittaducale, con le mie brave carte in regola d'ispettore delle gabelle. Una giornata di sole, ma da poco ha piovuto, i tetti brillano, tutto è nuovo e fresco come i miei propositi. Malgrado le straducce sporche, la cittadina mi piace, peccato non avere il tempo di visitare le due antiche chiese, le anticaglie mi attraggono. Insomma sono allegro e guardando in giro verso i monti selvosi mi dico che dev'esser facile nascondercisi. Le foresi ondeggiando sotto il peso degli orci, mi osservano di soppiatto: nessun gendarme in vista. Chiedo della locanda della Campana, poi della casa di don Filippo Falcone: un bottegaio mi risponde subito che non c'è, è andato all'Aquila. So che non è vero e mi avvio alla locanda: lì, a notte, capiteranno i congiurati con cui arrischieremo un'azione verso lo Stato Pontificio a Roma, Rieti è a due passi. Provo una tal sicurezza che mi danno noia le mosche, i bambini luridi. Alla Campana l'ostessa è pulita: sì, eccellenza, una bella camera, tutte le comodità, buona cucina. E difatti. Salgo, muri sbiancati, un arredo civile, un letto candido. Temo gli insetti, la donna mi rassicura, nemmeno uno, eccellenza. Mi cade sulle spalle la stanchezza del lungo viaggio, ho tutto il tempo di farmi un bel sonno. Chiudo la porta. Fin qui, nulla da rimproverarmi, sono un impiegato statale, nessuno sbaglio. Ma prima, a Napoli, nei bollori del 15 maggio, e poi a
Cosenza e a Catanzaro, chi aveva pensato a controllarsi? Ero stato uno dei tanti che in quei tumulti improvvisavano discorsi e proponevano azioni disperate: non un capo come Musolino, ben noto alla polizia e che pure era riuscito a scomparire, ma un privato qualunque, senza precedenti politici. I notabili non mi conoscevano, dei popolani mi fidavo d'istinto, la nostra lotta era la loro lotta. Ci era andata male, ma avevo avuto il tempo di scampare velocemente fino all'Aquila per riannodarvi le fila del nuovo complotto. Qualcuno mi avverte: stai attento, non ti trattenere in Abruzzo, scappa subito a Rieti. Non me ne curo e i fatti mi danno ragione, chi parla è anziano e ricco, ha famiglia, vuol farsi dimenticare. Coperti dall'intendente D'Ajala, ricominciamo a cospirare, raccogliamo fondi per vestire e armare qualche centinaio di cafoni e passare con loro in aiuto dei patrioti di Roma. Siamo pronti, mancano solo gli ultimi accordi: e me ne parto per Civita dove i congiurati mi aspettano. A Torresparta, un massaro mi avvisa che si vedono in giro brutti musi, gli attendibili di qui hanno preso la montagna: non gli bado, se si dovesse dar retta ai paurosi nessuno si muoverebbe. All'alba monto a cavallo, non incontro che i soliti villani selvatici: hanno altro da fare, i borbonici, che girare per le campagne. Mi ero addormentato sul letto fresco e morbido, sicuro come nel grembo di mia madre: al primo risveglio, so già che sono perduto. Lo so dal sordo bisbiglio che buca le pareti, da un confuso tintinnio metallico che vien di fuori. Balzo alla finestra, laggiù oltre l'angolo, la piazza è gremita di soldati, settecento cacciatori bavaresi, seppi poi, le loro armi luccicano al sole del tramonto. Tento di illudermi che non mi riguardano, che siano lì di passaggio per una manovra militare: troppi soldati, mi dico, per un uomo solo, oscuro come me, se i compagni fossero giunti mi avrebbero svegliato. Ma un ufficiale guarda in su, indica la mia finestra, forse mi ha veduto, già passi pesanti rintronano per la locanda dabbasso, dietro la truppa villani assiepati paiono aspettare un fatto sensazionale. Irrigidito, assisto ai miei scomposti pensieri: c'è un balcone, nel corridoio, l'ho notato salendo. Forse di lì, con un salto potrei attraversare orti e campi, raggiungere i monti, tanti si sono salvati così riuscendo a nascondersi per qualche tempo in casa di umili paesani e poi a fuggire. Questi miracoli succedono. Perché non mi muovo? Ecco lo sbaglio, il muro su cui batto la testa vaneggiando finché il mio compagno di catena che vuol muoversi per andare al bugliolo mi interrompe irosamente scuotendomi e devo levarmi mentre nel buio vedo ancora la campagna dove avrei trovata la morte o la libertà, adesso sarei in Grecia, in Inghilterra, respirerei l'aria aperta del mondo, non il fetore di questa fossa. Marietta si affaccia peritosamente all'uscio: dopo tanti anni di convivenza ha sempre paura di disturbarmi, di capitare in mal punto. Ci sono di là le sue sorelle, dice: vorrebbero farmi gli auguri per il mio compleanno. Borbotto che entrino, bisogna aver pazienza, sono buone creature. Teresa, che stava rifacendomi il letto, si ferma e mi guarda: sa che non amo le visite, indovina cosa sia per me un compleanno, il suo augurio, stamane, è stato un sussurro. Una muta complicità si è stabilita fra me e lei, io scrivo adesso anche alla sua presenza. Faccio il gesto di raccogliere le mie carte ed essa mi previene e le spinge di lato, nascondendole sotto due grossi volumi: in qualche modo ha capito che sono un mio segreto. Eccole, le mie povere cognate: tutte e due composte nel loro antico abito di seta rigida che portano con estrema dignità, addirittura con eleganza. Giacinta alta e diritta, ancora e sempre la damigella di buona famiglia, malgrado le bende candide che erano di un nero corvino; Luigia, piccola, claudicante, con quelle inverosimili pupille
celesti, ostinate a riflettere un mondo di rose. Non sanno quanto io le rispetti, hanno paura di me, una deliziosa paura. La loro timidezza raggiunge la disinvoltura per una sorta di eroismo che, in famiglia, credo di essere il solo a capire. Guai se immaginassero che so delle loro strettezze, dei loro, lavori segreti di fioriste e di ricamatrici. Son magre, asciugate, campano d'aria, ma ostentano l'allegria di chi si reca a visitare parenti ricchi da cui, per altro, non accetterebbe soccorsi. In altri tempi, tramite Marietta, m'ingegnavo ad aiutarle segretamente e non era difficile, esse amano gli innocenti sotterfugi che abbian l'aria di doni della Provvidenza. Oggi non più, purtroppo. Da fanciulle ben educate fanno la loro piccola riverenza senza stringermi la mano, e un lievissimo rossore illumina la loro pelle di vecchio avorio. In quell'atto, Luigia mi porge un mazzolino, Giacinta un pacchetto: contiene, quest'anno, una papalina ricamata. Mugolo ringraziamenti, mi informo della loro salute, rispondono che, grazie a Dio, stanno benissimo. Ci guardiamo, imbarazzati, io penso che Luigia, malata di petto, non ne avrà per molto, esse poi mi considerano una specie di moribondo tenace. Ma, che diamine, siamo gente corretta, sappiamo fingere. Dopo cinque minuti le damigelle si congedano e Marietta le accompagna: di là, si tratterranno ancora un poco sussurrando discreti compianti, esortazioni alla pazienza, alla speranza. Ma son sicuro che non si accorgeranno della nostra decadenza, io rimango per loro il protagonista di un romanzo avventuroso, un trionfatore. Teresa, lei, non le ha seguite: non so se ami queste zie nubili e rassegnate a un destino che le minaccia. Con la coda dell'occhio la vedo armeggiare col piumino in mano, spolverando, rimuovendo oggetti e seggiole: i suoi gesti sono bruschi, nervosi, è chiaro che la visita l'ha turbata. Ha turbato anche me, del resto, che sono uomo e vecchio; quelle figure di altri tempi, fedeli a principi rigorosi, mi somigliano, il nostro dovere è di affondare nell'oblio, senza proteste. Amo il silenzio, le visite mi annoiano, pure qualche volta mi capita di aspettarne. Possibile, mi dico, che nessuno fra i più giovani e attivi dei miei compagni di fede, si ricordi di me magari per la curiosità di vedere come io sia finito, oppure, in un momento di amarezza, per rievocare i vecchi tempi? Nomi e nomi mi vengono in mente di uomini che a Napoli, subito dopo il '60, incontravo di continuo e mi ricercavano per spassionarsi con me. Eppure son vivi, qualcuno potente. Uno di loro, il ministro a cui mi rivolsi due anni fa, per sollecitare la pratica della mia pensione, seppe dirmi: «A te che con tanta costanza hai servito la patria, sarà facile aver pazienza». Mi sentii un mendico e non mi parve vero di congedarmi. Non mi son mai creduto un tipo fuor del comune, ma sospetto di essere sempre stato una persona imbarazzante e persino irritante. Temo di esserlo stato anche in carcere e rammento l'impaccio del buon Castromediano quando gli dissi che, per parlare di Montefusco e Montesarchio, bisognava raccontar tutto, e non tacere le cose meno onorevoli per noi. Anche lui intendeva scrivere le sue memorie e forse l'ha fatto, sebbene non ne abbia più notizia. Mi chiedeva di aiutarlo a ricordare certe circostanze della comune e disumana cattività: e io gli dichiarai come la pensavo. Chi di noi, aggiunsi, può vantarsi di non aver commesso piccole viltà? Io come gli altri... M'interruppe scuotendo la testa e cambiò discorso. Per la verità non mi pare di averne commesse, anche perché ne ebbi scarse occasioni. Durante il lungo processo dell'Aquila, credo, in coscienza, di essermi portato bene: ed era il momento più pericoloso per chi non avesse l'animo fermo. Mi aspettavo la forca e difatti la prima sentenza me la confermò. La gente rabbrividisce quando pensa allo stato d'animo di un condannato a morte. Ebbene, posso dire di
cosa è fatto il suo coraggio; esso è fatto d'incredulità. Si vive in ansia finché il verdetto non è pronunziato, poi, passato il primo raccapriccio, ci si convince che magari all'ultimo momento, qualcosa avverrà a salvarci e non per fede nella giustizia e nella nostra innocenza, ma, così, perché ci si sente vivi e come intoccabili. Meno facile è l'attesa dell'esecuzione quando, come toccò a me, essa si prolunga per mesi e mesi: ci sono, allora, periodi di ottusità stregata che somigliano alla malattia. Soccorre, a volte, la riflessione che morire si deve, prima o dopo è tutt'uno: e ci si sente sollevati come davanti a una gioiosa scoperta. Così si spiega come un condannato a morte mangi e dorma quasi normalmente. Devo precisare che quel poveruomo del mio difensore si era affrettato, come era la prassi, a compilare una supplica per la commutazione della pena. Me la mostrò e non volevo firmarla. Non me ne vanto, il mio era piuttosto un atteggiamento di ragazzo spavaldo - malgrado i miei trentasette anni - che riflesso di una matura decisione e del desiderio di offrire ai destini della patria l'olocausto della mia vita. Un'altra leggenda da sfatare è che un uomo nelle mie condizioni di allora si nutra e si sostenga dei pensieri e delle speranze a cui si era votato quando era libero. A quanto mi ricordo, io me ne ero del tutto distolto, il gioco era fatto, il futuro non era più mio e dunque neanche del mio paese. Se rimpiangevo qualcosa erano le occupazioni di privato cittadino, le cose che non avrei mai potuto vedere, gli studi che ormai mi erano preclusi. Agnostico in fatto di religione, pure mi accadeva di pregare in un modo curioso, alternando vaghe ipotesi d'immortalità a superstizioni infantili. Ecco le mie viltà. Non so se coloro che come e più di me soffrirono ci siano passati, certo nei loro discorsi e nei loro scritti non ne trovo traccia: ma io parlo al vento, unico privilegio di chi non ha pubblico. Finché la pena di morte pendeva sul mio capo le durezze del carcere non mi furono gravi, forse perché il mio stato di morituro induceva i custodi a qualche pietà. Disponevo ancora di un po' di denaro, mi procuravo cibo normale e, inoltre, la disorganizzazione del luogo dove affluivano, insieme ai politici, delinquenti di ogni specie, m'incuriosiva. Fu solo durante la revisione del processo che tutto prese per me un colore di ferro. Le accuse eran ridotte a poca cosa: non più la appartenenza a una setta rivoluzionaria, la partecipazione ai moti del 15 maggio, l'incetta d'armi e il complotto repubblicano abruzzese, ma atti stravaganti, vere smargiassate senza conseguenza. I testi a mio carico eran poveri analfabeti venduti che balbettavano in dialetto frasi incomprensibili e non afferravano il senso delle domande: quelli a discarico mi descrivevano come un innocuo visionario, una specie di pazzarello di paese che non sa quel che fa e dice. Sospettavo che qualcuno avesse organizzato quella messa in scena, ma non sapevo chi e perché, dato che sul posto non avevo amici. Capii in seguito che di tutto era responsabile uno dei congiurati di Cittaducale che pur mancando al convegno era stato individuato e preso. Titolato, potente per ricchezza e clientele, aveva scelto di aiutarmi in quel modo indegno per scaricare se stesso: in un primo esame egli aveva inventato, a mia insaputa, che il complotto abruzzese non era esistito che nella mia fantasia. I fatti accertati, tuttavia, non erano uno scherzo, ma tendevano a definirmi uno scriteriato per cui la pena di morte era un onore eccessivo. Non ho bisogno di documenti per rammentare i termini della sentenza: «Constare» diceva «che abbia con discorsi in luoghi pubblici e col mezzo di cartelli affissi e stampati provocato direttamente gli abitanti del Regno ad armarsi contro l'Autorità Reale per distruggere il Governo, provocazioni che, peraltro, non ebbero effetto». Come dire: roba da ridere, nessuno ha preso sul serio i suoi schiamazzi,
siamo davanti a un semplicione squilibrato, non a un serio cospiratore. La sentenza - trent'anni di ferri - dimostrò che la Corte si era basata su ben altre considerazioni per giudicarmi, tanto vero che nella mia libretta carceraria figurava l'avvertimento: notabilità pericolosa. Ma la commedia era finita come doveva finire e cioè con la condanna del titolato a un paio d'anni di esilio. Al mio danno si aggiunse poi la beffa: nell'aula si motteggiava sulle circostanze del mio arresto giacché, a Civita, la truppa aveva creduto di aver messo la mano, nientemeno, su Giuseppe Mazzini camuffato da "galantuomo". Subito letta la sentenza, il mio flebile difensore mi salutò con l'aureo proverbio: finché c'è vita c'è speranza: e parve una lucertola che si rimbuca. Da infermo disperato ero dunque promosso a cronico da miracolarsi. L'aula si vuotava e io rimanevo intronato sulla mia panca: due sgherri mi richiamarono alla realtà spingendomi alle spalle. "Muoviti, che aspetti?" Non avevo più diritto nemmeno al voi, finiti i riguardi per il candidato alla forca. Il giorno dopo, 20 giugno 1851, fui spedito a Napoli, in transito per il Bagno di Procida. Un condannato a morte non crede di morire: un condannato a trent'anni, invece, non crede al recupero della libertà. Parlo per me, ma potrei giurare che nessuno fra i miei compagni di pena abbia sperato di uscire vivo dal carcere. Ogni passo di quell'orrendo viaggio fra i gendarmi che alle fermate controllavano le mie manette, mi confermava questa certezza. Taluni hanno raccontato che quando il convoglio attraversava i paesi, la gente manifestava simpatia e pietà ai detenuti, offrendo ristoro di acqua e cibo. Non potrei dire altrettanto. Aspettando all'Aquila la mia esecuzione, non avevo mai pensato al mondo esterno: ora guardavo attonito i campi di grano appena mietuto, i gruppi di contadini al lavoro, le greggi e i pastori che trasmigravano ai monti: e tutto mi sembrava così armonioso da non concepire come mai avessi sognato di distruggerlo per rimutarlo in meglio. Furono poi le facce singole a scuotermi da quella contemplazione e a darmi il senso di vite ottuse, soffocate nell'inerzia e nell'egoismo. Visi, insomma di ebeti sepolti nella carne, occhi opachi, senza espressione. Guardavano il carrozzone, i soldati: muti, passivi, neanche superficialmente curiosi. Quando il carrozzone si arrestava, si fermavano lì intorno, per qualche minuto, poi voltavano le spalle e se ne andavano. Per quanto ricerchi nella memoria, nessuno mi guardò, nessuno, direi, mi vide. Avevo fame, avevo, soprattutto, sete, il sole bruciava sulla vettura, il sudore dei custodi fra cui sedevo, puzzava forte. Scorgendo le insegne di un'osteria mi provai a chiedere un sorso d'acqua e non ottenni risposta: non esistevo, ero un oggetto. Mentre aspettavo la forca, mi ero preoccupato assai del contegno da tenere sulla via del patibolo per non commuovermi alla compassione della folla. Ero orgoglioso, allora, e m'immaginavo che tutti gli occhi mi avrebbero fissato e pianto per me. Ora tutto il mio orgoglio si limitava a sopportare i morsi dello stomaco e l'arsura della gola. Mai mi sono vergognato tanto come quando fui costretto a chiedere di soddisfare un bisogno corporale: mi vedo ancora, con ribrezzo, accoccolato turpemente sul ciglio della strada, esposto agli sguardi dei gendarmi e di certi villani che passavano. In quel tempo soffrivo di gastrite e mi rammento che risalendo sul carrozzone mi sentii morire: svenni soltanto, purtroppo. Ecco dunque, a distanza di tanti anni, ciò che la mia memoria ha conservato di quei primi tempi di cattività: nient'altro che miserie fisiche, patite con una intensità che aboliva la funzione del cervello. Non pensavo a niente, ero solo un altero animale che badava a raccogliere le forze per non gemere come un cane bastonato. Le idee
di cui mi ero lungamente esaltato, progresso del popolo, indipendenza, libertà si erano sciolte in un silenzio totale della mente e anche del cuore: persino l'odio del tiranno che mi aveva privato di ogni bene non scattava più, era una molla rotta. Durante il viaggio avevo desiderato la morte: ebbene, arrivando a Napoli essa mi faceva paura, la mia abiezione era completa. Pure, come si entrò nella capitale, qualcosa si risvegliò in me, il ricordo del 15 maggio mi riuscì per un momento, tonificante, lì vivevano i capi del nostro movimento e quasi pregando, mentalmente, ne invocavo i nomi. Mi sporsi un poco verso il finestrino che il corpo degli sgherri mi nascondeva, riconobbi le strade, le piazze, i caffè. La gente prendeva il fresco, scorrevano equipaggi, i fruttaioli vendevano la loro merce, la plebe brulicava lacera e oziosa: tutti spensierati e contenti. Il carrozzone procedeva rapido, ma nessuno pareva notarlo, anzi gli occhi se ne distoglievano ostentatamente. Mi stancai presto di allungare il collo, i cittadini non eran diversi dai paesani e la rivoluzione del '48 era ben morta, solo un pazzo poteva sperare la scintilla che l'avrebbe riaccesa. Quanto a me, ero così ben guarito da ogni illusione che, nella ressa dei detenuti pigiati nella grotta dove mi buttarono, neppure mi curai di ricercare e distinguere i politici che conoscevo di persona o di nome, destinati alla stessa mia sorte. Qualcuno ne riconobbi poi, per puro caso, quando in un orrendo rimescolio, ci sbatterono l'uno contro l'altro per legarci a due a due, e assicurarci alla catena comune. Sulle manopole di ferro ribattute alle nostre caviglie, i manigoldi martellavano sprizzando scintille: quei colpi ci facevano sobbalzare ed era necessario sostenersi vicendevolmente per non cadere. Mi avevano appaiato a un salernitano chiacchierone che, fra un colpo e l'altro, mi confidava i fatti suoi e voleva sapere i miei: quel suo incessante sussurro mi rintronava in capo più delle martellate degli aguzzini. Poi, sulla nave, la vista del mare aperto mi pugnalò all'improvviso coi ricordi non voluti, non chiamati, della Calabria, delle mie nuotate di ragazzo; col sale sulle labbra, le membra felicemente sciolte. A mio dispetto mi trovai le gote rigate di lacrime e la destra, ammanettata, non riusciva ad asciugarle. Sbarcato a Procida... L'incubo, questa notte, è stato trasparente: mi affannavo a stringere fra le dita una penna più pesante di una zappa e la carta rimaneva bianca. La mia coscienza, dunque, ancora mi rimprovera per essermi lasciato attrarre, dopo tanti rifiuti, nel gorgo del passato. La conosco, è una spietata compagna, e le rispondo che, per una volta, mi lasci in pace. Tuttavia rimango inerte, accanto a questo mucchietto di fogli, già troppo spesso. E' una giornata afosa, respiro male. Il sole m'incendia le mani senza scaldarle e io m'incanto a notare, uno per uno, tutti i segni di appassimento della mia vecchia pelle: macchie rugginose, vene turgide, una fitta rete di rughe incollate alle ossa. Anche in carcere avevo conservato il vizio di guardarmi le mani che erano lisce e ben formate. Il sole non le toccava mai ma, così pallide e scheletrite, erano ancor vive. Ora le nascondo quando Teresa fa l'atto di baciarmele. Di quante vergogne è fatta la vecchiaia! "Sbarcato a Procida", scrivevo iersera, e l'ombra del crepuscolo mi impedì di continuare. Mi fermo a raccogliere le idee, esito. Cosa volevo dire? Solo questo, mi pare: che toccata l'isola e varcata la soglia del Bagno mi scontrai con una verità ben più severa della sentenza dell'Aquila: nessuno era innocente. Ci lagnamo, noi vecchi gufi risorgimentali, che i giovani d'oggi trascurino le nostre glorie e i nostri nomi, più impazienti dell'avvenire che rispettosi del passato. In certo modo, sono con loro. Appena introdotti nel carcere dove si dovevan passare chi dieci, chi venti, chi trent'anni, la maggior parte di noi si diede a noverare
meticolosamente le sofferenze materiali e morali che subiva: e pareva che ognuno si preparasse a presentare i suoi conti alla posterità, senza mettere in dubbio l'efficacia e i meriti del proprio sacrificio. Scaricati di ogni responsabilità verso il paese, si affrettavano a rientrare nei privilegi di classe, di cultura, di censo che, cospirando, avevano dimenticato. Pochi erano, fra noi, i sinceri democratici, quelli per cui la rivoluzione non aveva senso quando non riuscisse a liberare il popolo dalla miseria e dalla ignoranza. Più numerosi i moderati che, pur fraternizzando nell'azione con la minuta gente, a Procida non tardarono ad appartarsi in conventicole esclusive, e, per esempio, a brigare per dividere i ceppi con un compagno scelto nel loro stesso ceto sociale. Se non ci riuscivano, se rimanevano appaiati con un poveraccio, poco nascondevano il loro fastidio e lo dissimulavano sotto una benignità padronale. Toccò anche a me patire quella promiscuità, tanto più spiacevole dacché ero legato con quel tediosissimo chiacchierone salernitano, peraltro uomo civile ma a cui avrei preferito il più umile, purché silenzioso villano. Feci quanto potei per sopportarlo di buon animo e certo non fu molto, ma con minor pazienza sopportavo il contegno dei "galantuomini" pari miei: ci vollero gli anni e le strette di Montefusco perché si verificasse fra noi, fino a un certo segno, una fraterna eguaglianza. Dal mio cantuccio dove mi tenevo a occhi chiusi, fingendo il sonno, osservavo fra le ciglia tutti i maneggi di quei signori per ottenere una cella più spaziosa e luminosa, cibi ben cucinati da un bettoliere di fuori, libri e carta passati di soppiatto dai carcerieri venali. Ai diseredati compagni costretti a seguirne i passi e i movimenti, offrivano parte delle loro vivande, ma non la partecipazione ai loro discorsi, sicché quelli restavano per lunghe ore, spettatori e uditori avviliti e silenziosi. Una sorta di cerimoniale vigeva fra loro, si chiamavano coi loro titoli nobiliari e accademici, parlavano di parenti e conoscenti altolocati, di dame e gentiluomini: a me pareva di assistere ai riti degli aristocratici nella Conciergerie. Presto qualcuno di loro godette di favori speciali come il permesso di ricevere moglie e figlioli e, perfino, di pranzare, libero dai ferri, col comandante del Bagno. Tornando da quegli incontri eccezionali, apparivano più addolorati del più misero e abbandonato fra noi, quasi dal conforto di quelle visite, di quelle conversazioni, ricavassero un più crudo senso della prigionia e dell'ingiustizia patita. A poco a poco, la servitù di trascinarsi dietro un compagno indesiderabile diventò servitù vera e propria per costui che spontaneamente si profferiva come uomo di fatica e di faccende pulendo la cella, rifacendo il letto, prestando ogni sorta di servizi. Respinsi cortesemente, ma con fermezza gli approcci, per la verità assai guardinghi, di qualcuno di quei privilegiati: non mi conoscevano e solo il mio aspetto civile li aveva indotti ad avvicinarmi. Dopo un breve colloquio ricordo che ci salutammo con una correttezza mondana di cui poco dopo, scucchiaiando nella broda del rancio, mi misi a ridere fra me. «Siete di buon umore, don Domenico» sospirò il mio salernitano che non aveva perduto una parola di quell'incontro e non sapeva capacitarsi della mia freddezza: forse aveva sperato, per mezzo mio, d'essere accolto fra gli ottimati e non sapeva celare la sua delusione. A ripensarci, in effetti, la mia riserva non meritava lode né rispetto: essa era frutto di orgoglio e di quello spirito polemico che è sempre stato uno dei miei più grossi peccati. Anche di rancore, se la memoria non mi falla. E mi spiego. Sono orgoglioso di natura e per di più, impestato della superba mortificazione di chi, ultimogenito e orfano di padre dalla nascita,
vorrebbe (e non può) conoscere e vantare la qualità dei propri antenati. Sapere di esser nato gentiluomo, non mi bastava da ragazzo; poi di queste miserie feci penitenza annegandole nelle certezze dell'ideale democratico, e trattando alla pari, fuori di ogni società, il duca e il suo massaro. Purtroppo Procida risuscitò, sia pure per schierarmi dalla parte degli umili, la mia orgogliosa suscettibilità puerile. Per contraddire il privilegio di pochi ostentai di sfuggirli (ed erano fra loro valentuomini che divennero in seguito amici miei) mescolandomi ai più vili detenuti e, quasi per sfida, ai delinquenti comuni, innumerevoli, in quel Bagno. Ma il rancore: ecco, il rancore sorgeva da una più profonda e forse pietosa ragione. Pronunciata la sentenza dell'Aquila, per lunghi mesi non ebbi più notizia da casa mia. Non ero un figliolo tenero né un fratello affettuoso, vedevo i miei, sì e no, un paio di volte l'anno: ma amavo mia madre e mia sorella Concetta, inoltre il sapermi causa della rovina della mia famiglia mi faceva certo di essere abbandonato dai miei, maledetto e lasciato al mio destino: il solo pensiero dei miei fratelli mi turbava, non c'era cosa che più mi dolesse. Allora non me lo sarei confessato, ma il fatto che quei miei compagni avessero mogli, madri, figli amorosissimi e di continuo ne ricevessero lettere, doni, ambasciate segrete; che quelle animose creature non risparmiassero disagi e fatiche pur di vedere per pochi minuti e magari da lontano i loro cari: mi scavava nel cuore un vuoto così buio che tutta la mia forza minacciava di crollare. Per reggere, ricorrevo all'ironia, al disprezzo. L'eterno rimpianto dei mariti e dei padri per i pochi momenti passati insieme alla famiglia, la loro commozione nel rammentare i motti vezzosi dei loro bambini, me li faceva comparire dei pusillanimi, delle femminette. Non ne parlavo, ma dentro di me disperavo che con simil gente un qualunque moto progressivo potesse arrivare a buon fine: giunsi persino ad attribuirgli la colpa della sconfitta. Li sentivo almanaccare e incoraggiarsi a vicenda se qualche vaga notizia di nuove agitazioni giungeva fino a noi: subito se ne esaltavano, quasi fossero sicuri di uscire fra pochi giorni. Sciocchi, pensavo, leggeroni; dagli tempo e quelle loro donne leggiadre troveranno modo di fargli avere, in tutta segretezza, la grazia di un buon esilio. Quanto a me, mi bastava aver perduta ogni speranza sulla organizzazione militare delle sette e sull'appoggio del nostro popolo avvilito. Certo di morire in carcere, lo desideravo aspramente. Ero ingiusto, lo riconobbi più tardi e me ne dolsi: il mio carattere mi porta a trascendere da una ragione iniziale a un torto sostanziale. Ma più ingiusto sarei se, a mia discolpa, non rammentassi una pena tutta mia. Avevo riposta la mia intera fiducia nella comprensione dei poveri, per anni avevo lavorato per il loro riscatto, sicuro che capissero il senso delle mie azioni. Ora mi andavo convincendo che mi ero ingannato, che i pregiudizi dell'ignoranza secolare erano il vero nemico da vincere e che le nostre povere armi di settari fanatici li lasciavano freddi e indifferenti. Non per questo li accusavo, ma bevevo fino in fondo il calice dell'amarezza e dello scoraggiamento. Il passo del progresso che mi auguravo era troppo lento per i limiti della vita umana: meglio dunque lasciarsi andare, accettare le conseguenze del proprio errore. Non m'importava che il mio sacrifizio fruttasse o non fruttasse in un futuro che non avrei veduto. Io lo consideravo come la liquidazione di un debito pagato con dignità. In apparenza estraneo a queste conclusioni fu, nei mesi di Procida, lo scoprirmi non so se più curioso o pietoso del verminaio umano che brulicava nel Bagno: ladri, assassini, camorristi accoltellatori, pervertiti di ogni genere. I miei compagni politici si studiavano di scansarli, di ignorarli, insieme nauseati e prudenti. Il superficiale riflesso che erano uomini come noi non bastava a spiegare il mio
proposito di non evitarli, anzi di scambiare con loro, quando potessi, qualche parola. Credo che la mia intenzione, così facendo, fosse di privato consumo, e cioè volta a indagare a che stato di decadimento morale fosse giunta quella plebe che mi ero immaginato sensibile alle più generose aspirazioni. Mi fu difficilissimo superare la mia naturale ripugnanza, pure ci riuscii, per una tenacia degna forse di miglior causa. Non tardai del resto, a cavarne qualche soddisfazione, rilevando che in quei teppisti esisteva una logica, una fedeltà ai loro detestabili principi che, altrimenti impiegate, sarebbero riuscite preziose. Sulle prime non ne ottenni che parolacce e sberleffi, poi con qualche regaluccio me li resi, sebbene sempre sospettosi, meno nemici. Sopportavo pazientemente che mi ritenessero, come dicevano, metà signore e metà brigante: avevano in odio la costituzione e chi l'aveva estorta al re Ferdinando che consideravano loro protettore: ci credevano, insomma, degli ambiziosi, soltanto avidi di un potere che, se ci fosse andata bene, avremmo esercitato peggio del tiranno, opprimendo la povera gente. Li lasciavo dire e m'illudevo di arrivare, alla lunga, a persuaderli. Mi accorgevo bene che i miei compagni mi guardavano storto, giudicandomi uno stravagante pericoloso e, forse, qualcosa di peggio. Il mio povero salernitano, forzato ad assistere a quei colloqui, non sapeva raccapezzarsi e me lo faceva capire. Conservo di quegli strani tentativi un ricordo vivo, ma come di cose avvenute in un tempo e in un luogo diversi da quelli di allora, e per ragioni che non coincidono con le mie ostinate convinzioni umanitarie. Credo di non sbagliarmi se scopro in quel mio atteggiamento il distacco di un osservatore forestiero, incaricato di verificare quanto ci fosse di autentico nella solita leggenda della camorra meridionale. M'interessavano e, in certo modo, giustificavo le leggi di una società noncurante delle leggi scritte e che anzi le rifiutava in blocco: altro è controllare i segni di una realtà oggettiva coi propri occhi e colle proprie orecchie, altro averne notizia per sentito dire o per averne letto. Collocandomi al livello di quei feroci infelici, capivo come l'organizzazione degli onesti ripugnasse alla loro mentalità. Ognuno aveva una sua miserabile storia che lo esaltava e che nessuno pensava di discutere. Assistetti all'esecuzione di un delatore, ucciso da un colpo di pugnale alla schiena: la sentenza fu da tutti rispettata. Di tanto in tanto il mio contegno di spettatore - ecco la parola giusta - li irritava e ancor più la mia costosa bonarietà. Poi, convinti del mio carattere inoffensivo, non mi badarono più che tanto e mi lasciarono perdere. Riflettendoci in seguito, ebbi l'impressione che nei miei discorsi li disgustasse soprattutto il mio dichiarare - e sa Dio se mi pareva una bella trovata - che la carità del ricco a vantaggio del povero era per costui una specie d'ingiuria, un privarlo dei suoi diritti. Questa affermazione li imbestialiva, l'idea della clemenza del potente, della mano tesa dall'alto era l'unica che accettassero, l'unico segno in cui riconoscessero un legame con la società civile. Mi tenni la lezione e smisi di combatterla. Non tutti fra costoro avevano un aspetto ignobile e vizi luridi, anzi qualcuno si distingueva per una dignità risentita di tratti e di modi, da guerriero più che da delinquente. Mi era simpatico, per esempio, un vecchio brigante, l'unico calabrese, posso dire, che a Procida abbia trattato volentieri. Il suo dialetto cupo, la sola lingua che parlasse, era quello di Nicastro: ascoltandolo respiravo l'aria della Sila e assaporavo un silenzio silvestre che allontanava e quasi annullava lo strepito del penitenziario. Era un uomo robusto e parco, ingollava la broda del carcere senza mai protestare e trovava sempre il modo di lavarsi mani e viso: privo di curiosità, mi considerava un conterraneo sfortunato come lui, d'altro non si curava. Da dieci anni era carcerato ma gli era giunta voce dei moti di Cosenza e vi
accennava stimandoli simili a una delle tante azioni cui aveva partecipato come gregario e poi come capobanda. Suo padre aveva combattuto nelle turbe del Ruffo, i suoi nipoti vivevano alla macchia nelle alture dell'Aspromonte e agivano in difesa della "giustizia": cosa fosse questa giustizia non ammetteva di spiegare, la riteneva un concetto naturale, intuitivo. Sebbene avesse sulla coscienza una dozzina di omicidi non approvava la crudeltà, le viltà dei camorristi gli facevano schifo. Si riteneva un veterano, un prigioniero di guerra. Tentai di chiarirgli i motivi per cui noialtri patrioti ci eravamo mossi: mi ascoltò con attenzione e, via via, con un'aria di ironico compatimento. Ci eravamo comportati da bambini, disse: perché non avevamo chiamato quelli delle bande, ben più esperti nella tattica della guerriglia? Alla peggio avremmo potuto ritirarci con loro sui monti invece di farci acchiappare da allocchi. «E tu» gli replicai un giorno «come mai ti sei fatto prendere?» «Colpa della fattura» mi rispose gravemente «alla fattura non si può resistere, l'archibugio non serve.» Il mio brigante morì di morte naturale, nel sonno: una mattina lo trovarono freddo sul suo giaciglio. Avevo da tempo smesso il mio esercizio di osservatore e raramente lo incontravo: vivevo, al solito, da caparbio isolato. Fu in quei giorni, ricordo, che cominciò a circolare la voce d'una visita clandestina del Gladstone nel Bagno di Procida: quando e come fosse avvenuta non era chiaro, sebbene qualcuno dei politici affermasse d'esserne al corrente per segreti messaggi. La loro eccitazione giunse al colmo quando poi si diffuse la notizia della sua celebre accusa al governo borbonico "negazione di Dio". A sentirli, quella scomunica rappresentava il crollo definitivo del Borbone, un rivolgimento totale della nostra situazione, e a breve scadenza. Non finivo di stupirmi della loro ingenuità, rimanevo pessimista ma non mi pronunziavo: nessuno, del resto, mi chiedeva la mia opinione anche se, nel generale entusiasmo, fui abbracciato e ricambiai gli abbracci. Ero commosso, d'altronde, ed era la prima volta, da un senso di confusa tenerezza per i miei compagni, pronti ad accendersi e a sperare come fanciulli. Quanto a me, riflettevo che delle due l'una: o il Gladstone era un impulsivo stravagante, e allora poco contavano le sue parole, almeno per noi; o egli agiva per una calcolata mossa politica, intesa a rafforzare la sua posizione e magari le sue ambizioni in patria. Gladstone non è il governo di Sua Maestà Britannica, mi dicevo, e quand'anche lo fosse uno Stato non si muove per motivi d'indignazione morale. Tra Francia, Inghilterra e Austria di una sola cosa ero certo, che l'Austria ci era nemica dichiarata e amica, fino a un certo segno, di Ferdinando: quanto alle altre due avevano sempre giocato con noi come il gatto col sorcio e non era un mistero che la Sicilia faceva gola a tutte e due. Fra i miei compagni, molti erano legati per amicizia e parentele con membri dell'ambasciata inglese, per essi l'Inghilterra era sinonimo di libertà, di umanità, di giustizia, il campione del progresso: ma io ricordavo certi discorsi dei vecchi sulla prepotenza inglese in Sicilia: sapevo che i patrioti siciliani non avevano sperato che nella Francia, la Francia giacobina del novantatre. Non mi fidavo, insomma, e se volevo esser sincero, provavo dispetto e quasi umiliazione per esser protetto e difeso da un ignoto forestiero che a casa sua di questo ero informato - tollerava carceri immonde per i falliti, per i debitori morosi. Per intanto, l'unico risultato della predica di Gladstone fu un feroce irrigidimento della disciplina carceraria e la licenza, per gli aguzzini, di tormentarci con mille angherie supplementari. «Ferdinando ha paura» dicevano gli ottimisti «sente che i suoi giorni sono contati.» I maneggi politici non m'hanno mai attratto e meno che meno quelli internazionali: aderendo alla setta dei "Figlioli della Giovane
Italia" e operando per essa non ho mai pensato all'aiuto straniero. In quei giorni di inasprimento crudele che furono il primo assaggio di quanto di lì a poco avremmo patito, non so come, mi perdetti a immaginare cosa passasse nella mente del tiranno, come ragionasse, dove ravvisasse il suo interesse e quello della dinastia. Lo detestavo, era l'artefice della mia rovina: ma se mi mettevo nei suoi sporchi panni, finivo per riconoscere quanto l'indignazione a buon mercato di Gladstone dovesse offenderlo: era pur sempre il sovrano di uno Stato indipendente e toccava ai suoi sudditi, a tutti i suoi sudditi, combatterlo e cacciarlo dal trono. Se non ne erano capaci, se avevano perduto la buona occasione, divisi, disorganizzati, privi dell'appoggio del popolo, tanto peggio per loro e per me. Così riflettendo, l'atteggiamento dei miei compagni mi sembrò, più che ingenuo, balordo e anche indecoroso: la commozione che mi aveva per un istante guadagnato si andò spengendo in uno scetticismo collaudato, via via che il tempo passava, da fatti che erano per noi sempre più gravi e cupi. Non so se qualcuno fra i miei compagni sia stato colto, sia pure saltuariamente, dai miei stessi dubbi: certo non lo manifestò, né alcuno più tardi ne scrisse: tanto è difficile, per chi redige memorie, esser sincero. Tradivo io, la mia causa, rimanendo insensibile alla speranza? Forse sì, e confessarlo pubblicamente non oserei. In apparenza il mio contegno non si discostava da quello degli altri politici, ma nella sostanza una fastidita ironia mi faceva considerare il nostro stato di martiri in attesa dei leoni o di un miracolo, come una posa. Di questo, non di fede, si nutriva il mio coraggio. Talvolta, rammento, mi perdevo a immaginare cosa andassero lambiccando i patrioti che erano riusciti a riparare all'estero, in Piemonte, in Grecia, in Svizzera. Mi figuravo i loro discorsi, le loro eterne discussioni fra mazziniani, giobertiani, estremisti di vario colore: mi pareva di ascoltarli. Come al solito non avrebbero combinato nulla, ma almeno respiravano aria libera, camminavano per il mondo. La mia invidia era infinito struggimento, e sempre mi bloccava il ricordo del momento che mi avevano preso, di quell'incanto funesto che aveva reso immobili il mio cervello e le mie gambe. L'unica nostalgia, infatti, che ancora mi pungeva era il rimpianto della mia vita vagabonda di corriere settario. Dalla prima virilità, l'esistenza non aveva avuto per me altro sapore: tanto che tuttora mi chiedo se cospirassi per amor di avventura o per raggiungere gli scopi da cui ero partito. Non avevo mai pensato a cosa avrei fatto quando essi fossero stati raggiunti: forse non credevo di sopravvivere a quel giorno. Mi bastava la continua scommessa col rischio, il piacere di sfidarlo e superarlo. Così, mentre i miei compagni sospiravano gli affetti familiari e le pareti domestiche, io subivo visioni lancinanti di carrarecce sassose battute dal solleone o dalla pioggia, di dirupi fioriti di ginestre, di torrenti fangosi passati a guado, di larghe fiumare bianche, a un tratto scroscianti di acque precipitose. Erano la mia casa, mai mi avevano tradito, all'ombra di faggi e quercie dormivo sonni di sasso, mi svegliavano le campanelle degli armenti, i pastori mi riconoscevano alla muta e mungevano per me la capra fresca di parto. Mai un convegno mancato, mai il sospetto di un'insidia, l'uomo, il ragazzo, la donna puntuali al luogo designato. Appena un lampo negli occhi, e il messaggio nascosto fra le pezze, nei capelli, sotto lo scapolare. Forse non vedevano in me che un brigante di nuova specie colle mani bianche e senza calli che un bel giorno avrebbe preso il fucile per condurli alle terre grasse che desideravano da secoli. Ero stato tradito da una camera di albergo non dalle forre dove, neve o tempesta, trovavo il fuoco e un giaciglio di foglie secche. D'inverno, quando i capi allentavano le fila della cospirazione, mi rintanavo nella mia stanzuccia di impiegato doganale
e dormivo intere giornate, nascondendo la mia impazienza sotto il costume pigro del tipico cadetto di buona famiglia imbucato in un qualunque ufficio statale. Talvolta, insofferente, prendevo il fucile e via per i monti nevosi colla scusa del contrabbando. Sprovvisto di ordini e messaggi, me ne inventavo sorprendendo, nelle loro capanne qualche boscaiolo o carbonaio di cui usavo servirmi come portatore. Senza scoprirmi, cercavo di penetrare i loro sentimenti o meglio quanto e come se ne rendessero conto. Non era faccenda da poco, ma dopo lunghe ore di silenzi e di frasi brevi mi convincevo che in quelle semplici teste covava un fermento prezioso per le nostre mete, chi avesse impiegato il suo tempo a coltivarle. Ed ecco, nei raddoppiati tormenti del carcere, mi ritornavano in mente le parole del vecchio brigante: perché non ci eravamo appoggiati ai duri uomini delle bande educandoli alla lotta per una civile libertà? Svegliandomi da questi sogni stentavo a riconoscere i miei compagni. Dalle feritoie di Procida non vedevo che l'azzurro cupo o il grigio piombo del mare, di verde neppur l'ombra. Il barbaglio del sole mi scendeva dagli occhi alla gola, bruciandola di un'arsura feroce. Piuttosto che dissetarmi coll'acqua verminosa del boccale, avevo inventato di distrarmi riandando col pensiero alla frescura dei prati, al vento delle cime. Così, di ricordo in ricordo, mi accadeva di dimenticare il mio stato presente quasi fosse effimero e provvisorio. Era un gioco crudele perché rendeva inverosimile e inaccettabile la cattività, tuttavia ne ricavavo, per qualche istante, una pace assoluta. Nessuno mi può togliere quel che ho avuto, mi dicevo. A ricuperare il senso di sconfinata libertà che avevo gustato e sentirmene ancora padrone, bastavano, a volte, una sola immagine, un solo momento della vita passata. Di preferenza, per esempio, mi fermavo sul giorno che, tornando da Napoli dove il fermento era più vivo e più promettente, mi ero concessa una licenza e come un premio. Fu, se non m'inganno, nel '45, in primavera. Portati a termine gli accordi col comitato napoletano, me ne venivo passo passo con lente corriere, verso il sud. Non avevo voluto imbarcarmi come al solito, su uno scassato postale, e mi ero buttato verso l'Adriatico, paese che poco praticavo, nulla m'impediva questo capriccio. Il Tavoliere era di un verde tenero, le piogge eran state frequenti, le messi venivano su bene, i contadini mi sembravano contenti e animosi: alla domenica, nei villaggi, gli uomini portavano con una cert'aria marziale il vestito nero festivo e si riunivano in crocchi folti, parlottando a bassa voce come se si accordassero per un'azione straordinaria. Naturalmente io interpretavo questi segni di vitalità secondo il mio umore, volto in quei giorni, all'ottimismo: e ne ero tutto rallegrato. Mi ero appena lasciato alle spalle la Foresta Umbra e il Gargano, quando una mattina il gabellotto presso cui avevo passata la notte si meravigliò che non desiderassi compiere un pellegrinaggio a San Michele, santuario di gran fama. Dapprima sorrisi e stavo per rifiutare, ma un'occhiata alla vetta, lassù, mi ispirò una gran voglia di aria di monte: tanto tempo che respiravo l'alito sciroccale delle pianure e oggi avrei dovuto viaggiare attraverso le saline. L'uomo mi offrì compagnia e cavalcatura, doveva sciogliere un voto e mi avrebbe menato lui. Ci trovavamo nei pressi di Santa Maria di Siponto. M'incantai un momento dinanzi alla facciata della diruta chiesa che mi richiamava certe giovanili fantasticherie, quando coltivavo, fra l'altro, il mito di Federico Secondo. «Quello fu il nostro tempo migliore» asseriva il canonico Zimadore; e io, rovistando fra i suoi vecchi libri di storia, avevo messo insieme un componimento latino che lo fece salire ai sette cieli. «Scrittore è» diceva a mia madre «ne vogliamo fare un poeta.» Riguadagnato a questo clima, mi issai sul basto del mulo e voltate le spalle al sud, presi col gabellotto la strada, presto stretta e tortuosa, che portava al monte. Lunghe ore durò la nostra ascesa e via
via che salivo scomparivano "I Figlioli della Giovane Italia", gli accordi presi per la prossima lotta, i messaggi che portavo nascosti nella doppia suola delle scarpe. Insieme all'aria sempre più fina, respiravo la mia infanzia lontana, l'estate che sotto la guida del canonico, mi ero cibato di medioevo, di cavalieri corruschi, di trovadori, di dotti eremiti: chissà, mi dicevo fra gli sballottamenti del mulo, che la mia vocazione vera non fosse quella dell'erudito, dello studioso unicamente sensibile alle voci di età remote. Oggi non riesco a capire come queste memorie di una falsa vacanza mi facessero dimenticare i ferri, la catena e tutte le angustie di Procida: eppure ecco che anche vecchio come sono, esse finiscono di attrarmi al punto da farmi perdere il filo di quel poco che più mi importa (o dovrebbe importarmi?) di rammentare. Il sole, già forte, rendeva più dura la salita, le bestie sudavano. Ogni tanto incontravamo piccole costruzioni di pietra grezza, a guisa di casematte, con l'immagine del santo incastrata nel muro. Cappelle, spiegava la guida, ma anche ricovero per i pellegrini. Di pellegrini, a dire il vero, non se ne vedeva, forse non era stagione propria, ma io immaginavo cortei di cenciosi salmodianti, di malati portati a braccia, di moribondi fidenti nel miracolo. Gente antica, affamata ma ricca di speranza. Noi, postremi redentori, cosa offrivamo ai tardi nipoti di costoro, quali promesse saremmo capaci di mantenere? Sfocati, afoni, quasi pietosi mi tornavano in mente progetti tante volte perorati e discussi nelle nostre conventicole. Parole, parole astratte, più soffocanti che liberatrici. A un tratto, levando gli occhi, non vidi più la strada né le prode che la limitavano: sebbene il mulo, pur incespicando, seguitasse la sua andatura. Dalla vetta del monte, infatti, le nuvole scendevano avvolgendoci in una nebbia fitta che aboliva la terra e ci lasciava sospesi in una dimensione irreale, fuori del tempo. Il gabellotto bestemmiava, per me, invece, tutto quel bianco impalpabile era come un latte innocente che affrancava dai duri lacci della logica, la vera liberazione: mi sentivo leggerissimo e autonomo, sottratto alle leggi della gravità. In me si raccoglievano sentimenti arcani: sospiri esauditi, paure fugate, peccati assolti. Ero il pellegrino miracolato, l'eremita pazzo, il pastore visionario che giurarono di aver visto il celeste Guerriero - forse nient'altro che un soldato bizantino o longobardo - spaccare colla spada fiammeggiante di un fulmine la roccia tempestosa. Ero padrone, insomma, delle favole dei millenni e me le raccontavo. Giungemmo alla cima verso mezzogiorno in un gran vento che soffiando dalla Foresta Umbra disperdeva la nebbia ma non le nuvole. Il cielo era grigio, cadeva una pioggetta ghiaccia come neve sciolta, un inverno montano aveva ingoiata la primavera, l'aria sapeva di fumo. Bevemmo una ciotola di latte caldo e scendemmo nello speco dove l'umidore filtrava in uno stillicidio che formava larghe pozze sul pavimento. Lì, alla luce rossa dei ceri votivi scorsi una diecina di pellegrini: così assorti che non fecero caso ai nostri passi. Un religioso ci porse in un gotto di stagno l'acqua miracolosa: la sorbii e mi sentii pervaso dalla serena certezza di star perdendo la mia vita come tanti l'avevano perduta prima di me. Poi il sole ricomparve e mi restituì, dolorosamente, nome e cognome, luogo e data di nascita. Il tempo ricominciava a precipitare. Un'altra notte, un altro giorno, la solita linguata di luce che già si dissecca: se avessi voglia di scherzare direi che il tempo bara, le sue carte - questo inutile calendario - sono truccate, un oggi che è ancora ieri, oppure, chissà, è già domani. Il gioco non mi riguarda, i pensieri vanno e vengono e mi affatica metterli in carta, bisognerebbe smettere. Brutta storia accorgersi di avere un cuore, da giovane non mi accorgevo neppure di avere un corpo anche quando soffrivo. Quanti
anni è durata la mia giovinezza? Ne ho perso il conto, quando uscii di prigione ero malconcio, ma aspettavo che la morte mi colpisse dal di fuori, fucilata, naufragio. Mi è insopportabile, adesso, questo stantuffo scardinato che mi comanda, corre, si ferma, mi esce di bocca. Per sopraffarlo e ridurlo all'ordine avrei bisogno di tutta la mia voce, la penna non serve: qualcuno mi provi che sono vivo, che posso ancora parlare, se voglio. Che vergogna se il nodo che mi stringe fosse già la morte e mi trovassero così, con la mano rigida sul foglio, inetto e ostinato scribacchino. Stavo per lasciarmi andare alla deriva, e Teresa è già davanti a me. «Hai chiamato, papà?» Non avevo tirato il cordone del campanello e la mia riconoscenza per il suo intuito è tale che, per non allarmarla, dico di sì e che mi portino un bicchier d'acqua ben fresca. Subito la stretta al petto si allenta, respiro meglio, la presenza di mia figlia è un balsamo, in un attimo essa è di ritorno con la caraffa. Bevo un sorso, le sorrido. «Siediti, Teresinella» le dico «fammi un dito di compagnia.» Spalanca quei suoi occhi di zingara domata e mi fissa. «Sto bene» la rassicuro «sono soltanto un po' melanconico, il caldo mi butta giù. Vedrai, quest'autunno...» Annuisce precipitosamente, togliendomi di mano il bicchiere, poi siede su uno sgabello basso, ai miei piedi. Tira il fiato, ma non parla. Non penso più al mio cuore, ma al suo che le vedo pulsare alla fontanella della gola. «Dovresti uscire di più» le dico «svagarti, alla tua età. Sai, io ho daffare, devo stendere un mio progetto di riforma doganale, lo aspettano al ministero...» E cincischio le carte che ancora mi pesano sulle ginocchia. Povera figliola, da mesi non mi aveva sentito parlare così a lungo, non è avvezza alle confidenze. Siede sull'angolo dello sgabello e si tormenta le piccole mani brune, un po' sciupate. Guardo il suo collo sottile scoperto dalla vesticciola di cotone, sbiadita, più volte allungata. «Racconta, Teresa» la incoraggio. Ha un guizzo, ingolla la saliva: «Che dovrei raccontare, papà? Sto sempre in casa, qui non è come a Castellammare...». La sua voce carezzevole, quelle semplici parole, il nome del paese dove è trascorsa la sua infanzia serena, mi commuovono, vorrei ignorarne il senso di sommesso rimprovero. «Non ti piace Torino» insisto «non è una bella città? Sei una bella tota, come dicono qui, avrai delle amiche, magari degli spasimanti...» Stupisco io stesso di ricorrere a simili frascherie, Teresa deve scandalizzarsene. Lei, invece, piange. Chino il mento sulla gola, reprime un lieve singhiozzo e grosse lacrime le scorrono sulle guance, bagnano le sue mani intrecciate in grembo. Le batto un colpetto sulle ginocchia e recito la parte del padre gioviale: «Su, cosa c'è, abbiamo un segretuccio di cuore?». Affannosamente seguitava a lacrimare. «Oh papà, cosa vai a pensare?» fece, riprendendo fiato «io non ho nessun segreto, me ne sto ritirata e non m'importa. Se soltanto mi lasciassero in pace. Ma c'è quel vecchio cavaliere qui sopra che mi perseguita, mi scrive lettere scostumate e me le infila sotto la porta. Qui non è come da noi, qui non tengono rispetto, se la fanno fra loro e badano solo ai soldi.» Riuscii malamente a calmarla, le dissi, povero me, che avrei messo a posto il vecchiaccio e che anche suo fratello gli avrebbe data una buona lezione. Allarmatissima, m'interruppe: per carità, non glielo dicessi, Luigi è esasperato abbastanza, odia questa gente, al liceo lo canzonano, lo chiamano il napoletano, ogni giorno si azzuffa con i compagni, farà qualche sciocchezza... Non l'ho mai sentita parlare con tanta veemenza. Poi si ferma e mormora quasi fra sé: «Noi non siamo ben visti qui a Torino, ci disprezzano perché siamo meridionali e perché» esita un istante «non siamo ricchi». Feci di tutto per consolarla. Mi ingegnai a prometterle cose inattuabili, senza illudermi che mi credesse: un pianoforte, una
maestra di canto, libri per continuare gli studi interrotti. Mi guardava senza dire né sì né no, per compiacermi non osava contraddirmi. Ogni poco, accennava ad alzarsi, aveva bisogno di correre di là a sfogare la sua pena, ma obbediva alla mano che le posavo sulla spalla per farla restar seduta. Tutto finì in un gran silenzio che mi torturava. Avrei voluto risentire la sua vocetta, per la prima volta mi aveva colpito il suo accento. "Lettere scostumate" aveva detto e "non tengono rispetto": parole dei miei paesi che qui fanno ridere. Avrei voluto ringraziarla per quella fedeltà alla terra e alla famiglia da cui è nata, ma avevo paura d'intenerirmi troppo. Ripresi la penna e lei si alzò, mi accomodò i cuscini dietro la schiena e per un momento stette in piedi davanti a me. «Grazie, papà.» E via, se n'era andata. I miei pensieri sono sconvolti, tutto quel che non riguarda Teresa mi sembra frivolo, vacuo. Cosa vado rimescolando nei miei ricordi mentre questa gentile bambina vive rassegnata in umiliazione? Da piccola era così vivace, di continuo cantava: e anche ora canta e mi illudevo che godesse l'allegria della gioventù. Volevo illudermi, ecco la verità. Marietta si è sempre vantata: mia figlia non piange mai. E neppur questo è vero, un'altra volta, pochi anni or sono, l'ho vista piangere dirottamente. E per mia colpa. La rivedo, nel suo vestitino bianco, avvampata di rossore: dietro di lei le compagne del collegio di Santa Caterina sussurrano scandalizzate, le Suore si coprono la faccia e si segnano, come vedessero il maligno. Mi avevan riferito di troppo lunghe e ambigue confessioni imposte alle collegiali. «Non voglio che mia figlia bazzichi coi preti» scandisco «venero il prete all'altare, fuori di lì è un porco qualunque.» Prendo Teresa per mano e mi avvio, soddisfatto, sicuro di aver agito bene. Il volto di lei è un mare di pianto, incespica, sta per cadere, io non me ne curo e vado avanti. Non volle più tornare a scuola, in nessuna scuola. Stette a letto tre giorni con la febbre alta, senza parlare. Moriva di vergogna. La mia vita familiare è un tessuto di crudeltà, l'intransigenza dei miei principi ha schiacciato gli affetti. La mortificazione di Teresa è cominciata laggiù, nell'aula scolastica di Santa Caterina dove ha sentito il peso del mio arbitrio. Adesso che un vizioso la assedia, io sono impotente a difenderla. Ben mi sta. Mi sono incantato sull'oro rossastro che il sole deposita sul mogano del mio tavolo, gli occhi mi si appannano, fatico a distinguere i caratteri della "Gazzetta del Popolo" che ogni giorno mi portano con la colazione e che raramente leggo. Non so che ore siano, neppure il suono della pendola amica ha disciolto l'intrico di pensieri che mi tormenta dacché Teresa è uscita. Stringo ancora la penna, ma non so cosa farne e mi aggrappo al giornale, le lettere mi ballano davanti agli occhi, ma a poco a poco si ricompongono. In carcere rischiai la cecità e la temo più assai della morte. Le solite notizie insipide da Roma e dalle capitali estere, il "Sacco nero" delle beghe comunali, le immancabili deplorazioni per le frodi e gli ammazzamenti di Napoli (come se l'attività del mezzogiorno fosse soltanto criminosa); che altro? Ah, le nuove pretese dei sindacati operai appoggiate in parlamento dall'estrema, vale a dire dai socialisti. Questa nuova setta - o partito, come oggi la chiamano - era poco conosciuta ai miei tempi, roba di fuori via, ispirata alla dottrina di un utopista straniero e implicata, nel '70, nei fatti della Comune. Adesso pare che attecchisca anche da noi e l'accusano di sovvertire il buon ordine civile e la morale stessa. A esser sincero, almeno dalle proposizioni che anche oggi, ecco qui, vedo messe all'indice, le intenzioni dei socialisti non mi paiono diverse da quelle che noi democratici speravamo di applicare nel '48 e poi nel '60. Che si
voleva, in sostanza? Lavoro e pane per tutti, istruzione al popolo basso, distribuzione delle terre ai contadini: e non ci parevano cose ingiuste, anzi accettabili da qualunque autentico patriota, per moderato che fosse. I postulati di Musolino, del resto, erano anche più audaci: e Musolino entrò alla Camera, lo fecero persino senatore. Donde viene dunque questa esecrazione di principi che ogni uomo onesto, soprattutto ogni cristiano dovrebbe sottoscrivere? Non vorrei chiudermi nella diffidenza dei nuovi tempi, ma neppure ammetto che un democratico del '48 equivalga a un socialista di oggi, e che, sotto tale specie, io sia stato perseguitato e denunziato a Bari. Ero e sono repubblicano e insisto a credere che non per altra ragione il governo monarchico mi abbia visto di malocchio. Ma, tant'è, le parole cambiano colore e tradiscono le intenzioni di chi le usa senza controllarne il contenuto. Socialismo è un vocabolo dal significato oscuro e minaccioso per il mio istinto più che per la mia ragione. Lo evito, lo scavalco come un ostacolo alla mia povera pace. Poco fa mi accoravo per Teresa, ora il pensiero di Luigi mi rattrista. Lo vedo di rado, non domando mai di lui, eppure è un buon figliolo, non mi ha mai deluso. Finisce il liceo e mi ricordo la veemenza con cui, anni fa, rifiutò la carriera militare che sua madre gli desiderava. Studierà, dice, giurisprudenza. Tempo addietro mi capitò sott'occhio un opuscoletto sulle associazioni contadine del sud e sui problemi operai che, certo gli apparteneva. Vide che lo sfogliavo e me lo richiese arrossendo. Mi aveva tutta l'aria di una pubblicazione rivoluzionaria, stampata alla macchia e gliela restituii senza commenti. Come e da chi l'aveva avuta? E' un socialista convinto o semplicemente un ragazzo curioso di novità? Teresa teme la sua violenza, ma credo che si sbagli, Luigi non è violento. Io mi astengo, d'altronde, d'interferire sulle idee della sua generazione, troppo ne sono distante. I capostipiti di famiglie illustri sono ambiziosi per i loro figli, gli uomini di popolo sono fieri dei loro maschi: li capisco ma non so imitarli, nel matrimonio son rimasto, per così dire, scapolo; non mi preoccupo della mia discendenza. Direi che sono troppo stanco di me stesso, delle leggi che mi sono imposte, per augurarmi che un figliolo o un nipote mi somigli nel carattere e nel modo di affrontare le responsabilità virili. Amo mio figlio dolorosamente e per scansare l'angoscia di padre impotente e proteggerlo mi abbandono alla freddezza del mio vecchio e lento sangue. Alla mia tenerezza paterna per Teresa si mescola invece l'interesse per una creatura di cui non ho alcuna esperienza. Non ho mai frequentato una ragazza come lei, bene educata, pura, gentile. Da giovane non ho avuto occasione di praticare fanciulle di buona famiglia, anzi le ho evitate: non avevo nulla da offrirgli e dovevo mantenermi libero. Prima del '48 qualche breve avventura con donne facili, poi l'astinenza del carcere che fu anche disciplina del cuore e dei sensi. Ma, chissà, forse in fondo all'animo ho conservato la nostalgia di quel che non ho avuto, una figura femminile a cui pensare, in cui credere. Rammento, infatti, di essermi spesso fermato a immaginare il volto della fidanzata di Castromediano, quella ignota m'interessava più della bionda sposa di Nisco che intravedevo al di là delle inferriate quando veniva a visitare il consorte. La mia rinuncia si confortava di un patetico rimpianto senza oggetto, più dolce di un ricordo. Strabiliai il giorno che la mia Marietta mi fece l'onore di essere gelosa del mio passato, ironizzando, al suo modo discreto, sui miei trascorsi di scapolo che, secondo lei, dovevano contare amori tempestosi. I suoi sospetti divennero certezza quando mi trovò nella tasca dello stiffelius una certa lettera di Caterina Balestrieri... «Un figlio» esclamava «tu hai avuto un figlio da lei e me l'hai nascosto.» Era gravida di Luigi in quel tempo, all'ultimo mese, e non
si calmò che dopo il parto, come la levatrice le ebbe annunciato che le era nato un maschio. D'un tratto le sue querele cessarono, essa mostrò di accettare placidamente quanto, in perfetta sincerità, già le avevo raccontato spiegandole che questa Balestieri era sempre stata un po' tocca e a schermo di un suo oscuro fallo, mi aveva coinvolto in una favola da lei creata, a cui, coll'andar del tempo e il perseverare della pazzia, aveva creduto lei stessa. In coscienza, difatti, non ho mai amato o desiderato questa strana donna conosciuta per caso, sebbene il suo nome si leghi a un altro nome che mi è diversamente caro e quasi sacro. Nella sua malaugurata lettera Caterina mi annunziava appunto la morte del figlio che velatamente mi attribuiva e ne accludeva il ritratto: non potevo negare che mi somigliava in modo sorprendente. In seguito, rimessa dal parto e fiera del suo bel maschietto, Marietta amava stuzzicarmi giovialmente su tale somiglianza che per me era inspiegabile e per lei un poco meno. «Briccone» scherzava minacciandomi col dito «mauvais garçon.» Presi il partito di alzare le spalle sorridendo: avrei voluto farle notare che simili facezie non convenivano alla nostra età, e che se mi aveva creduto una volta doveva continuare. Ma c'era, in quel suo garbato motteggiare, una tenera compiacenza muliebre, l'orgoglio della donna che ha saputo conquistare un coureur de femmes. Non mi dava l'animo di rimproverarla. L'immagine di Caterina Balestieri, riemersa oggi per caso nella mia memoria, mi ha raramente visitato, ma ogni volta restituendomi il colore di una specie di fiaba che con la realtà della sua persona non ha nulla a che fare. Vissi questa fiaba con lo stesso animo che mi abitava durante il viaggio a San Michele del Gargano, del tutto staccato dalle mie personali vicende e preoccupazioni e con un abbandono alla fantasia che tuttora mi sembra un dono, un anticipato compenso per la libertà e la giovinezza che stavo per perdere. Sfuggito, nell'estate del '47, a un agguato dei birri napoletani, m'era riuscito di trovare imbarco fino a Paola: di lì, con cavalli da nolo, avrei raggiunto Cosenza dove la persecuzione era meno assidua e più facilmente avrei fatto perdere le mie tracce. Così feci. Le strade pessime e i ronzini arrembati non rallentarono la mia fretta: finché, non troppo distante dalla meta, il mio cavalluccio mostrò tali segni di stanchezza che discesi di sella facendolo avanzare per la briglia. Calava la sera e, camminando, chiacchieravo con un mulattiere che faceva la mia stessa strada. Andavo pensando di stendermi sotto un leccio e passarvi in riposo qualche ora, quando, alzando gli occhi, scorsi una costruzione turrita che dominava, sul lato destro della via, un'altura rocciosa. Il mulattiere notò il mio sguardo e, pratico dei luoghi e loquace, mi prevenne informandomi che quelle terre e il castello appartenevano ai Balestrieri, signori dissestati, e ci abitava, sola, la baronessa vedova, donna Caterina. Fui piacevolmente sorpreso: mi rammentai che questa signora era figlioccia a mia madre e spesso le scriveva, specie nelle festività. Ogni volta, prima ancora di aprire la lettera, la mamma scrollava la testa: «E quella pazzerella della Balestrieri, peccato che sia così stramba perché è buona e generosa». Una vera fortuna, mi dissi, avrò un buon letto e una cena decente. A quei tempi, non c'era proprietario di campagna che non ospitasse volentieri un viandante e tanto più se era persona conosciuta. Mi decisi in un lampo e, salutato l'uomo, presi un viottolo dirupato che aveva tutta l'aria di menare al castello. La fiaba cominciò così: un bosco intricato e tutto fosse, le mura diroccate di un parco, l'abbaiare dei mastini, la diffidenza dei rustici servi: non mancava che il ponte levatoio. Infine, consegnato il cavallo allo stalliere, una fila di cortili, passaggi cupi a lume di torcia, una gradinata a cordoni di quelle che i cavalieri antichi
salivano senza smontare di sella. Poi, di sala in sala, incespicando nelle lastre sconnesse dei pavimenti, fui sulla soglia dell'unica abitata. Mi ero aspettato, come succede nelle dimore dei castellani decaduti dei nostri paesi, uno stanzone accogliente, metà cucina e metà tinello, con vecchie domestiche alla conocchia e bambini miagolanti. Mi affacciai invece su un salone vastissimo, mal rischiarato da una lampada a petrolio. Nella penombra, tele annerite, seggioloni, un immenso camino e, nel cerchio di luce della lampada, un minuscolo tavolino accanto al quale due donne sedevano. Mi ero fermato in attesa che il lento servo mi annunciasse e mi pareva di essere sul palcoscenico di un drammone romantico, pieno di tradimenti e trabocchetti. Quale di quelle due sarà la padrona? E già mi pentivo della mia precipitazione a salire quassù, già presagivo un'accoglienza fredda, i sospetti di una donna paurosa e, chissà, fedele suddita borbonica. Non mi sarò per caso, cacciato in una trappola? Ma ecco che, come allo scoccare di un segnale, tutto cambiò: la signora che vedevo di spalle si alzò e mi venne incontro chiamandomi a nome quasi l'avessi lasciata il giorno prima. Era una donna magra, dagli occhi spiritati e mi abbracciò, mi prese per le mani, mi fece sedere, mentre si accendevano come per magia candelabri d'argento e compariva una piccola tavola imbandita. In un flusso di parole esaltate si succedevano le domande sulla salute di mia madre e della mia famiglia e, subito, sui casi miei che la donna pareva conoscere a menadito. «Non vi siete sbagliato» diceva «a rifugiarvi presso di me, il mio cuore non trema, non vi troveranno e, se occorre, saprò morire con voi.» Ero imbarazzato all'estremo e per quanto lo tentassi, quell'assurda effusione non riusciva a divertirmi: quella voce soffocata, quei discorsi incoerenti mi toglievano l'appetito e persino la voglia di riposare. Gustai appena il cibo e quando speravo, ritirandomi in una qualunque stanza, di liberarmi, mi toccò di esser condotto per mano dalla baronessa e invitato a occupare addirittura la sua propria camera, che essa intendeva di cedermi. Sebbene mi rincrescesse usare modi bruschi, rifiutai seccamente e ottenni di esser sistemato altrove: ma prima di congedarmi dovetti subire a mo' di saluto, un molle bacio che mi cercava la bocca. A buon conto mi chiusi a chiave come una fanciulla pudibonda e non sapevo persuadermi come mai una pupilla di mia madre, donna tanto schiva e severa, si comportasse in modo, a dir poco, sconveniente. Per tutto il tempo della mia cena, l'altra donna era rimasta quieta, sollevando di rado gli occhi dal suo ricamo. Assai più giovane della Balestrieri, anzi giovanissima, aveva accennato con la testa un lieve inchino quando le ero stato presentato, portava un nome inglese. Dal viso roseo, di saggia bambina, e da tutta la persona spirava un'eleganza delicata ma disinvolta che accresceva la mia repugnanza per le smancerie dell'ospite. Un paio di volte l'avevo sorpresa a fissarla, nel suo sguardo limpidissimo e pensoso vigilava uno stupore preoccupato e, mi era parso, un tantino ironico. Prima che finissi di cenare si era ritirata, di nuovo accennando con il capo, e via se n'era andata, scomparendo nell'ombra. Mi levai all'alba, deciso a partire immediatamente e furioso di aver sprecato così malamente la notte che avevo passata in bianco. Ma la Balestrieri, in piedi anche lei, mi dichiarò che non s'era neppur coricata, l'avevano avvertita che gendarmi e spie vagavano nei boschi circostanti, alla ricerca di cospiratori fuggiti da Napoli. «Vi danno la caccia, è chiaro, dovete nascondervi, se partite verrò con voi, non potrete impedirmelo.» Inutile dirle che probabilmente si trattava di chiacchiere e che io non ero quel gran soggetto pericoloso che lei immaginava. Seccato all'eccesso, indugiavo aspettando il momento opportuno per svignarmela inosservato. Per la verità, qualche altra
cosa mi tratteneva: l'amenità, la pace riposante del luogo. Col sole, il castello aveva perduto la sua tetraggine notturna, il parco era stupendo, fresco, umoroso, una vera Arcadia. E anche la povera Caterina, malgrado la sua esaltazione, appariva diversa: una signora bennata che forse le disgrazie - non sapevo quali - avevano levato di cervello. Non ero un frate, ma non c'era rimedio, quella donna mi dispiaceva troppo perché potessi cedere al suo evidente capriccio: mi faceva pena, di questo sì. Per un'ora buona mi toccò ascoltarla mentre divagava appassionatamente sull'imminente rivoluzione e soprattutto sulle sette: le nominava una per una, antiche e nuove. Filadelfi, Edenisti, Delle Otto Lettere, Dei Quattro Colori, Ererniti, Pellegrini Bianchi, e, s'intende, Carbonari. Dava ad intendere di avervi partecipato, descriveva i riti più tenebrosi, giuramenti firmati col sangue, fiaccole e mille altre diavolerie. Come si fu sfogata, nessuno più la tenne, volle scendere al vicino villaggio per indagare sulla situazione e informarsi della piega degli avvenimenti. Non mi parve vero e sebbene mi facesse giurare che sino al suo ritorno non mi sarei mosso, decisi di profittare della sua assenza per riprendere il viaggio. Saltò in sella e la vedemmo sparire per la discesa. Dico "la vedemmo" perché miss Florence assisteva, accanto a me, a quella partenza, la baronessa l'aveva pregata di tenermi compagnia. Eravamo fermi al limite del parco, e nel contegno della ragazza, silenziosa, ma che indovinavo tesa e come in guardia, mi pareva di leggere diffidenza e quasi ostilità verso di me. Senza voltarmi a quel viso incantevole mi chiedevo chi fosse costei, e se fosse giusto fidarsene come faceva la baronessa. Nei suoi volubili discorsi me ne aveva parlato brevemente: un'amica inglese le aveva affidato questa nipote di salute delicata, orfana di una dama di corte parente degli Acton. La considerava una figlia, la sua compagnia le era preziosa. Riflettevo: una inglese, ma in qualche modo legata alla cerchia borbonica! Né c'era da stupirsi che l'avventata Caterina non temesse di renderla testimone delle proprie esuberanze patriottiche. Ma chi poteva assicurarmi della sua discrezione? Una lettera a un parente retrivo era presto scritta e una fanciulla solitaria ama raccontare le minuzie della sua giornata: senza malizia essa poteva rivelare la mia presenza in Calabria. Lentamente ci eravamo rincamminati, io precedevo miss Florence di qualche passo: d'un tratto, mentre mi raggiungeva, mi volsi e la fissai deliberatamente con aspra intensità indagatrice. I suoi occhi erano seri e assorti, ma ricambiarono il mio sguardo con tale schiettezza che i miei sospetti mi parvero grotteschi. Sentii il suo respiro un po' corto insieme alle sue prime parole: doveva averle pensate a lungo, prima di pronunciarle: «Non credete» disse «che tutte queste sette, sapete, tutti questi conciliaboli segreti, queste macchinazioni, non giovino affatto alla vostra causa?» E sospirò. Poi, più sommessamente e quasi fra sé: «Siete in pochi, forse v'illudete, il popolo è troppo ignorante e non vi segue. Non arriverete mai alla vera libertà con questi mezzi». Non considerai di avere al fianco una inesperta ventenne e non le perdonai di toccare un tasto troppo doloroso: una vampa di collera inconsulta mi fece perdere le staffe sicché le risposi, per così dire, da uomo a uomo, anzi da povero italiano a superbo inglese. «Voi parlate da suddita di una nazione ordinata e potente, ma gli oppressi come noi non hanno la scelta delle armi e non c'importa che la lotta sia impari e finisca col sangue, noi sapremo spargerlo, il popolo ci capirà.» Non so se tali furono le parole, ma il senso era questo. Non replicò e la vidi arrossire lievemente, come una scolaretta colta in fallo. Per altero dispetto? Non mi pareva, e infatti: «Non dovete offendervi, signore» si scusò stendendo il braccio verso di me mentre un'ombra carezzevole le addolciva lo sguardo «io non sono che una povera ragazza. Ma, capite, temo per Caterina, i suoi nervi sono
scossi, può commettere gravi imprudenze». Avrei detto che stesse per piangere e mi seguiva docilmente. Rientrammo in silenzio e il salone della sera innanzi era una gloria di sole, i vecchi ritratti sulle pareti avevano una bonaria dignità, gli argenti scintillavano, tutto mi era stranamente familiare. Un minuscolo scaffaletto era fitto di libri e nello strombo di una finestra era sistemato un gingillo di scrivania, sul gusto delle dame di allora. Lì miss Florence sedette, aprì una cartella, prese la penna e in quell'atto parve ricordarsi di me con la naturalezza di una sorella discreta. «Suoniamo per il tè?» mi chiese come se da anni fossimo avvezzi a far colazione insieme. Risposi che partivo all'istante e la ringraziavo. Si guardò bene dal rammentare le raccomandazioni di Caterina e mi avvolse in un'occhiata più triste che sorpresa, mentre mi stendeva la mano. Sulla soglia mi volsi: ero già partito per lei, stava raccolta, il gomito poggiato sulla scrivania, la sinistra alla fronte e la destra reggeva la penna, sospesa sul foglio. L'idea di una lettera diretta alla corte di Napoli fece di nuovo capolino e svanì. Fuori, il parco non mi sembrò più così ameno e fresco, l'aria era già calda, sul terreno troppo secco gli zoccoli del cavallo sdrucciolavano, ogni cosa aveva riassunto i suoi contorni precisi, il suo aspetto usuale, anzi piuttosto malevolo: passato il muro fatiscente, una macchia bassa intralciava il sentiero. Badavo a spiare ogni cespuglio, ogni ombra sospetta. Come la nebbia di San Michele, la favola del castello si era dissolta. Ritrovai più tardi miss Florence e in circostanze ben più pericolose: ma non era più la rosea fanciulla dagli occhi limpidi che nella mia memoria tiene ancora la penna sospesa sul foglio, bensì una pallida signora tormentata dalla saggezza. Non siamo noi stessi che una volta sola nella vita, e per lo spazio di un attimo. La giovane inglese che detestava le sette, quella sola, è la donna di cui Marietta avrebbe potuto essere a ragione gelosa. Le "sette". Senza dare negli eccessi della Balestrieri che le idoleggiava romanticamente e per sentito dire, ognuno di noi dico, di noi predestinati alla forca e alla galera - ci aveva trovato, almeno dai vent'anni in su, la ragione di vivere e una giustificazione morale che altrimenti ci sarebbe mancata. Nati nel fondo delle provincie più arretrate, se ci guardavamo intorno non vedevamo che miserie paurose e sordidi privilegiati. Fra questi ultimi riconoscevamo, purtroppo, i nostri simili, talvolta i nostri parenti: se vagheggiavo, come è giusto in un ragazzo, una situazione onorata, qualche prestigio, mi scontravo nell'esempio di uomini oziosi e prepotenti, e nella necessità di servire un governo torpido e crudele. Scegliere di mutare in qualche modo il corso delle cose voleva dire: la setta. Quanto a me, sento ancora il peso di una puerizia fasciata costantemente da un clima sonnolento che, come una coltre di nuvole sciroccali, copriva e a momenti scopriva un terreno irto di pericoli tentatori. La mia famiglia e il mio paese vivevano fra queste nuvole accidiose, percorse ogni tanto da baleni allusivi a quell'altra realtà sottostante, non si capiva se approvata o disapprovata. Allo stesso modo che un bambino si accorge a un tratto di aver sempre saputo di essere uscito dal ventre di sua madre e non portato a volo dalla cicogna, io ero un bamboccio e già sapevo che certi uomini, i più coraggiosi, quelli a cui avrei voluto somigliare, si riunivano di notte in luoghi inaccessibili, per confidarsi segreti di una importanza capitale: e guai a chi li svelasse. Due vocaboli li designavano: giacobini e carbonari; né saprei rintracciare chi per primo pronunziasse dinanzi a me questi nomi. Quando la vecchia serva Ignazia, siciliana e sorella di latte di mio padre, ne ricordava la "sant'anima", poteva succedere che la parola "giacobino" le uscisse
dalle labbra, esorcizzata da gran segni di croce: se mia madre era presente, subito le ordinava di tacere. Ne ricavai che "giacobino" fosse sinonimo di diavolo e di disgrazia, mentre quel diminutivo così simile a Giacomino, mi ripugnava come melenso e sciocco. Era invece sui carbonari che la mia mente si perdeva in congetture paurose e attraentissime: più tardi, credo verso gli otto anni, mi dispiacque imparare che essi non erano quei montanari barbuti e fuligginosi che, coperti di pelli, scendevano dalla Sila a vendere i loro sacchi. «Di altro carbone si tratta» mi avvertì sentenziosamente con un sogghigno di compatimento, un ragazzetto della mia età con cui d'inverno giocavo nel cortile della nostra casa di Pizzo. Non ricordo il suo nome, era più alto di me di tratti duri, quasi di uomo, chissà non fosse uno dei Musolino, magari lo stesso Benedetto che poi persi di vista per qualche anno: lui già studiava a Monteleone e io passavo di gran mesi in campagna, andando ogni giorno a Pizzo per le lezioni del canonico. Già: fu il canonico Zimadore che mi spiegò, esitando chi fossero e cosa volessero i carbonari. Teste matte, si affrettava a dichiarare, gente da starne alla lontana: ed è un peccato, soggiungeva quasi fra sé, perché in fondo hanno ragione. Non ho mai, all'infuori del mio maestro di latino, praticato dei preti, ma lui era un bravuomo, benché chi l'avesse sospettato di liberalismo l'avrebbe veduto basire. Le sue aspirazioni umanitarie, le sfogava inculcandomi i principi della carità cristiana verso i poveri braccianti cenciosi e affamati che in annate di carestia scendevano a Pizzo per mendicare. «Non c'è rimedio» sospirava «se il ricco non sente il ribrezzo della propria ricchezza.» Ma ci voleva altro, per me. Se nel '21 avevo otto anni, nel '31 ne avevo diciotto e nel '33, a venti, ero già a Napoli, avevo convinto mia madre a passarmi una piccola mesata con cui dovevo perfezionare gli studi, ma non certo potevo vivere da gentiluomo. Fu lì che cominciò la mia amicizia con Benedetto e mi iscrissi ai suoi "Figlioli della Giovane Italia", la nuova setta dei ragazzi della mia età. Mi sarei fatto ammazzare prima di distogliermene, ma non per questo tutti i suoi fini e i modi di realizzarli mi persuadevano. Per i miei gusti, essa era troppo intrisa della filosofia del suo fondatore, infatuato di Campanella e, mi pareva, più uomo di lettere che uomo di legge: quando lo sentivo discorrere del suo bizzarro viaggio in Turchia e delle riforme che aveva preteso di instaurarvi, lo trovavo verboso e inconcludente. Inoltre non mi ero ancora liberato della infantile predilezione per i tenebrosi riti dei carbonari che, sollecitando la mia fantasia, si riallacciavano all'esigenza, sempre più fortemente sentita, di un sommovimento miracoloso del putrido regime del Reame. Adesso ero bene informato sugli ideali giacobini, sapevo che mio padre era stato un assertore e una vittima di quei principi a cui aveva sacrificato beni di fortuna e sicurezza personale nella nativa Girgenti. Quei principi da cui era scaturita la gloria della Francia, mi sembravano ben più concreti delle nebulose utopie del Musolino che, secondo me, non tenevano abbastanza conto della inerzia popolare nel caso di un'azione armata. Più che discutere fra noi, durante innocue passeggiate, in figura di pacifici cittadini, occorreva muoversi per le province, creando dovunque centri segreti di agitazione e istillando nella plebe di paese e di campagna il senso dei suoi diritti: questo ripetevo all'amico che mi ascoltava con l'impazienza di un maestro che mal sopporta le obbiezioni di uno scolaro. Dolente come me per le miserie del popolo, lui non aveva fiducia che nella mente dei capi ed era convinto che al segnale della rivolta non v'era popolano ignorante che non li avrebbe seguiti. Per la verità, egli si comportò in tutt'altro modo nelle sommosse calabresi del '48, lottando aspramente, da uomo pratico, e non ignaro della tattica militare contro i vaniloqui dei compagni: ma era troppo tardi e subimmo le
sconfitte che ognun sa. La mia gioventù e il rispetto per chi assai più di me aveva meditato sui libri, mi trattennero in una perfetta obbedienza alle tesi e alle decisioni della setta: io non ero che un semplice affiliato. Alternavo periodi di febbrile attesa a lunghe pause di inattività: fu con ebbrezza, ricordo, che condussi a termine un'operazione d'incetta di armi, travestito da nobile ungherese, con famiglia e serventi, che mi permise di penetrare nello Stato Pontificio e prendere contatto fuggevole con alcuni di quei patrioti che poi parteciparono alla Repubblica Romana. Ma, in genere, poco, allora, mi si comandava di fare e il pretesto degli studi che non mi conducevano a nulla, irritava mia madre, essa minacciava di tagliarmi i viveri e talvolta lo faceva per indurmi a rimpatriare e ad occuparmi delle proprietà di famiglia. Per lunghe estati - da maggio a novembre - fui costretto, così a vegetare fra Pizzo e Chiaravalle, ostentando un completo disinteresse per l'azienda agricola che mio fratello Stefano, imbolsito e bizzoso, conduceva e soprattutto sfruttava per sé solo, senza criterio. Per sottrarmi all'inattività e allo scoraggiamento, mi buttavo spesso sulla via delle montagne verso i nostri pascoli e boschi cedui intorno a San Nicola da Crissa, talvolta a dorso d'asino, e persino a piedi, da viandante; fra i venti delle cime e le ginestre giganti trovavo la pace della preistoria. Erano terre vergini, memori di antichissimi feudatari che ancora vivevano nella mente dei pastori. Per giorni vagavo dall'uno all'altro ovile, da una capanna a una qualche torre diruta e non sempre riuscivo a scambiar parola coi ragazzotti o i vecchi che custodivano le greggi. Se pensavo che a quella gente avrei dovuto insegnare ad essere uomini integri, provvisti di una coscienza civile, mi cascavano le braccia; non erano stupidi, ma se appena li interrogavo sulla loro vita e chiedevo come desiderassero di migliorarla, o tacevano incantati o il loro volto si incupiva di sospetto. Sempre mi accorgevo che per isolati che fossero quei prati e quelle forre, il prete mi ci aveva preceduto con pregiudizi che sapevano di sortilegio, magari ribadendo arcaiche credenze che col cristianesimo avevano poco a vedere. Bevevo latte, mangiavo formaggio senza pane, dormivo cullato dallo stormire delle quercie e avevo l'impressione che altro non ci fosse da fare per me. Quando mi riusciva di mettere insieme qualche ducato, correvo alla marina di Pizzo e m'imbarcavo per Napoli sul primo trabaccolo: come ebbi notizia, nel '39, dell'arresto di Benedetto e Pasquale Musolino, me ne scappai senza un carlino in tasca e così discesi sul molo napoletano. La setta era sgomenta, quasi tutti i capi presi, altri fuggiti o nascosti. Ebbi un bel daffare a ristabilire i contatti e a ordire stratagemmi per comunicare coi prigionieri; ma non rimpiansi le mie fatiche e non mi curavo dei rischi che correvo, mi sentivo utile e intangibile. Furono mesi e mesi durissimi, soffrii anche la fame, alloggiavo in cima a casamenti rovinosi, sempre in soffitta. Ci ero avvezzo, del resto, oltre ad essere poveri, gli studenti calabresi non trovavano facilmente chi li ospitasse, essi non erano graditi nella capitale per sospetto di mene rivoluzionarie. Il più piccolo debito, in mancanza d'altro, era buon pretesto per sfrattarli, sicché preferivano abitare nelle più squallide tane, portandosi da casa loro il letto e poche seggiole. Eppure anche di lì erano spesso scacciati: li vedo ancora, nei loro panni neri, pazienti sui moli, coi poveri arredi e fagotti ai piedi, in attesa di pescherecci caritatevoli che se non facevano naufragio, li avrebbero deposti sulle aride coste native. Infine, dopo un lungo processo e l'indegno strascico di una detenzione prolungata ad arbitrio, Benedetto fu libero e la setta rinvigorita. Fu allora che "i Padri" mi consigliarono, anzi mi ordinarono di entrare nell'amministrazione delle Dogane: un impieguccio, ma che mi
consentirebbe il pretesto per i frequenti spostamenti di corriere settario. I miei, in Calabria, se ne adontarono: a questo dunque avevano approdato i miei famosi studi! Ma io ne fui contento. Inventando di scompartire il tempo in mesi e settimane, l'uomo ha agito come il naufrago che si misura avaramente il poco biscotto e l'acqua della borraccia. Così, sbocconcellando la vita a porzioni di ventiquattr'ore, noi ci lusinghiamo di durare eterni. Questo sistema spiega l'inerzia in cui ho trascorso questi ultimi due mesi: per me una lunga giornata fitta di pensieri che m'illudevo di fermare e trascrivere dall'oggi al domani. Mi risveglio oggi, 20 settembre, con l'aria più fresca e la luce più mite. Ho sempre prediletta questa stagione, i suoi alberi d'oro, le siepi arrugginite, la terra umida e odorosa: li vedo, li respiro. Un corteo è passato stamane qui sotto, con musiche sfocate: da tredici anni si usa celebrare questa data con un entusiasmo più volonteroso che sincero. Cosa m'importa che al Quirinale mangi e dorma, in luogo di un papa, uno stucchevole Savoia? Buon pro faccia a lui e al Depretis che intruglia nelle pozzanghere di una politica di compromessi e di menzogne. Perdemmo Roma alla caduta della Repubblica Romana: e fu per sempre. Altre date mi premerebbe di commemorare, altre conquiste assai più sudate della scaramuccia di Porta Pia. Uscendo di carcere, avremmo dovuto, noialtri patrioti, restringerci insieme vivendo dei nostri ricordi incomunicabili e delle oscure vittorie che ognuno e tutti conseguimmo in un esercizio di austera pazienza, giorno dopo giorno. Solo un pugno di sopravvissuti può, per esempio, sapere quel che fu il 2 febbraio 1852, a Procida, di prima mattina, il sentire echeggiare per le corsie, più lontano, più vicino, insistente, l'inverosimile grido «Sveglia, sveglia, libertà, libertà!». E sbatter di porte, e scrosciare di chiavi. Le voci erano rauche e sgangherate, ma il senso delle parole ripetute non permetteva dubbi. «Cosa succede?» ansimò il salernitano mio compagno di catena, rizzandosi sul farto: soffriva di asma bronchiale e a ogni emozione il suo affanno raddoppiava. Sorsi in piedi, tesi l'orecchio: la mia prima ipotesi fu che fosse scoppiata una rivolta e il Bagno fosse in potere di camorristi ribelli, un nuovo pericolo per noi. Non c'era che da star quieti ad aspettare gli eventi per evitare disgrazie peggiori. L'inverno era stato crudo, in quel luogo sinistro il gelo penetrava dalle aperture senza imposte, moltiplicando i nostri malanni. Io ero dei pochi che si erano mantenuti in una relativa sanità e usavo dire, scherzando, che il pessimismo mi aveva preservato dalle malattie. Stemmo così in ascolto qualche minuto e intanto sentivamo che le porte delle celle venivano via via schiavardate rumorosamente: dal frastuono ormai familiare delle catene rimosse e strascicate capimmo che i nostri compagni erano fatti uscire nella corsia, riconoscevamo le loro voci stupite ed esitanti. Non passò molto che anche la nostra porta si dischiuse e nella luce che improvvisamente ci colpiva distinguemmo i corpacci massicci di due dei più feroci carcerieri: dietro di loro si ammucchiava uno sparuto gruppo di politici nostri compagni. «Allegri, allegri» sbraitavano quei due dandoci delle gran manate sulle spalle che fingevano di esser cordiali ma erano veri e propri pugni. «Il re, Dio guardi, vi ha fatto la grazia, ordine d'imbarcarvi per Napoli e domani tutti a casa propria.» La loro faccia d'impuniti era spaccata da un largo riso gratulatorio che mi fece rabbrividire. Uscimmo, raccattammo alla meglio le nostre poche robe e subito ci consultammo con gli occhi con quelli che aspettavano di fuori. Rispondevano a cenni di non capire, ma qualche sguardo scintillava, febbrile. Cosa pensavano? Prestavano davvero fede all'inaudita novità della grazia? E se di grazia si trattava sul serio, chi l'aveva sollecitata, chi ne era stato lo strumento? Sono un pessimista, I'ho detto. Ma per natura rifuggo dai sospetti, il pensiero del tradimento mi sconvolge, finché
non ci batto il naso non ci credo. Trincerato nel mio nero avevo giudicati sciocchi coloro che speravano nell'efficacia delle chiacchiere del Gladstone. Adesso, fra le tante supposizioni che mi affollavano la mente, mi dicevo che, chissà forse essi avevano ragione e io torto. Tuttavia non me ne rallegravo, la mia ostinazione mi suggeriva una diffidenza a cui si univa il disgusto di ricevere un favore dal tiranno: ricordo che mentre la nostra catena si trascinava per i corridoi, la nausea mi soffocava. Usciti all'aperto sulla terrazza del castello ci fu comandato di sostare e fu allora che lo sguardo mi cadde su Sigismondo Castromediano. Durante i grigi mesi di Procida lo avevo appena avvicinato, ma non per i motivi che mi distaccavano dagli altri politici. L'antichissimo prestigio della sua casata, l'autenticità del suo titolo, peraltro portato con modesta dignità, mi facevano temere di notare in lui qualche pregiudizio nobiliare che, in un uomo così integro, troppo mi sarebbe spiaciuto. Non gli rimproveravo le sue idee di moderato e monarchico: le rispettavo ed ero convinto che, comunque la pensasse, il suo animo era aperto alla più larga giustizia. Ma non osavo di assicurarmene. Mi è di gran conforto rievocare il suo volto chiaro e deciso, leggermente aquilino, gli occhi pensosi, la bocca come sigillata in un interiore discorso. Era la faccia più leale e onesta che mai avessi incontrata, spesso sorridente: adesso era soffusa di una desolata malinconia. Scambiammo un battito di ciglia, e mi bastò per esser certo che nessuno di noi aveva tradito, che tutto quel vociare di libertà e di perdono era un trucco, una beffa. Respirai. Seppi più tardi che il mio amico - tale egli divenne in seguito - era stato avvertito di quel che ci aspettava: gli antri di Montefusco. Di quel segreto avviso aveva fatto cenno a chi gli stava più vicino, ma nessuno gli aveva creduto, quel carcere medioevale era stato chiuso nel '45 come troppo disumano anche per un Borbone. Una buona ora ci lasciarono ammassati e sotto buona guardia sul piazzale del Castello: alla fine vedemmo un legno di guerra era la "Rondine" - proveniente da Ischia, che si avvicinava all'isola. Lì, ci dissero; ci saremmo imbarcati. E così avvenne, difatti, ma a nessuno fu tolto il ferro al piede e alleggerita la catena come taluno sperava. Di nuovo scambiammo con Castromediano un'occhiata eloquente, più pietosi dei compagni delusi che dolenti per noi stessi. Sebbene il sole splendesse, l'aria, sul ponte, pungeva, ma io non ne soffrivo: avevo l'animo quieto e quasi sereno, mi sentivo in pace con me stesso e cominciavo a provare per i miei compagni quel moto di solidarietà amorevole che soltanto chi è passato per le nostre esperienze sa quanto sia prezioso e consolante nelle strette del carcere. Credo che tutti, del resto, si sentissero animati da sentimenti fraterni: quasi tutti eravamo giovani e la libera vista del mare, il cielo terso, lo scorrere della nave che ci trasportava ci restituivano la coscienza e il vigore della gioventù. Ben presto si era diffusa la voce che nel gruppo dei carcerati prelevati a Ischia si trovava Carlo Poerio: un nome universalmente amato e spesso venerato. A lui si legavano i ricordi e le speranze del tempo che, ministro costituzionale, era deciso ad avviare il Reame sulla via di sostanziali riforme. Una verità che oggi universalmente si dimentica è che tutti i liberali, moderati e democratici, monarchici o repubblicani, tenevano per certo che da Napoli partirebbero le iniziative per fondare, in Italia, uno Stato moderno. Che ai Savoia, altrettanto e più bigotti dei Borbone, fossero affidate le nostre sorti, non contentava nessuno. Che cos'era il piccolo Piemonte, di fronte al grande Regno del mezzogiorno? Appena uno Stato cuscinetto tra la Francia e l'Austria. C'illudevamo, e tardi lo capimmo, ma era un'illusione generosa, avevamo fede nel nostro Paese e lo amavamo come poi nessuno ha saputo.
Avevo conosciuto Poerio a Napoli, quando già era nei guai, ma non immaginavo che una medesima sorte ci avrebbe riunito. Sulla "Rondine" tutti gli si affollavano intorno ma io non osavo mescolarmi al gruppo: fu Castromediano, rimasto anche lui in disparte, che passando il braccio sotto il mio, mi ci condusse. Più che dall'accoglienza di Poerio fui commosso da quel gesto di amicizia che annullava la costrizione dei ferri e stabiliva un contatto spontaneo, una libera scelta. La nave procedeva lentamente, il freddo del pomeriggio invernale ci intirizziva. Toccammo Nisida, salirono a bordo altri tre condannati: eravamo ormai in vista della costa napoletana, barchette ci venivano incontro e potevamo scorgere sulla riva una piccola folla che ci salutava sventolando fazzoletti. C'era, fra noi, chi credeva di riconoscere amici, parenti e ne pronunciava il nome sforzandosi di rispondere a cenni. Per un lungo momento potemmo pensare che dunque la notizia della grazia fosse vera, anch'io sentii vacillare le mie tetre previsioni. Non fu una sensazione del tutto piacevole, lo confesso: colpa, immagino, della cocciutaggine che mi ha sempre reso duro l'impegno, d'altronde per me tassativo, di riconoscere i miei errori. Ma purtroppo, un altro motivo covava sotto quella specie di dispetto: nessuno, nella folla in attesa, era venuto per me, io non avevo né congiunti né amici capaci di tanto, nella capitale, anche libero, sarei rimasto un calabrese scontroso, povero e male accetto. Forse mi calunnio, ma non sopporto di impietosirmi alle mie debolezze. Se quella punta d'invidia non è una mia supposizione, ne fui ben punito; improvvisamente la "Rondine" virò verso il porto militare: addio folla di amici, per chi ne aveva. Sbarcammo, difatti, fra gendarmi e poliziotti tutt'altro che benevoli anzi tanto brutali che l'ipotesi della famigerata grazia abbandonò ognuno: credo non fossero pochi quelli che come me rimpiangevano il Bagno di Procida abbastanza tumultuoso da consentirci qualche respiro. Lo scenario intorno a noi era, a disegno, terrificante: al bel tramonto rosato sul golfo si opponevano torce e, nel mezzo dello spiazzo, una specie di rogo sanguigno dove qualcuno paventò di essere addirittura gettato vivo. Spingendoci come bestie, i carcerieri ululavano accusandoci di concertati propositi di evasione di cui il prefetto di polizia avrebbe avuto notizia. Ci trattavano, insomma, come recidivi nella colpa di cospirazione e ci cacciarono in cinquanta in un lurido magazzino pieno di paglia marcita dove, nonché stenderci, non potevamo sederci e dovevamo reggere ritti, l'uno accanto all'altro, senza neppure piegare le ginocchia. Digiuni e disperati scoppiammo in strepiti degni di ergastolani comuni: tanto è vero che l'orgoglio dell'uomo civile si annulla nell'estrema sofferenza. Ringhiando vennero ad aprire quella stalla, qualcuno di noi fu fatto uscire, un gruppetto fra cui erano Poerio e Castromediano. Ecco i veri graziati, ecco i traditori, sentii mormorare: e nell'ardore di difenderli ritrovai la forza e il senso della giustizia. Parlai come parlavo sulle barricate, nel '48, non sentendo né fame né stanchezza e quasi a darmi ragione la porta di nuovo si schiuse, fummo fatti uscire all'aperto e ritrovammo i compagni, come noi digiuni e affranti. Aperti i cancelli, vedemmo una fila di carrozzoni carcerari fermi ad aspettarci: senza concederci riposo e cibo, a notte fatta, ci spinsero dentro. Il nostro ultimo viaggio incominciava. A trotto serrato e nel buio attraversammo la capitale che era per molti la patria, la città della infanzia e della spensierata adolescenza. In quegli anni le strade erano oscure, appena rischiarate da qualche lumicino a olio davanti alle sacre immagini e ora dalle vacillanti lanterne dei carrozzoni. Tuttavia fummo in grado di avvertire che sul nostro percorso stazionavano picchetti di soldati napoletani e svizzeri. La città dormiva, neppure un vagabondo in giro,
sugli scalini delle chiese i mendicanti assopiti parevano morti senza sepoltura. Dove siamo? sussurrava qualcuno: e nessuno rispondeva. A un tratto una voce desolata: prendiamo la strada di Avellino, ci portano a Montefusco. Non ci fu protesta né risposta. Soffrire insieme ha almeno questo di buono, che uno non ardisce lagnarsi dei propri patimenti, giacché, come all'ospedale, riflette che il suo vicino di letto è più malato di lui. Da tempo non pioveva e, nelle tenebre, la polvere delle strade pareva più densa e soffocante. In coro tossivamo, ma non confessavamo di aver sete, i crampi del nostro stomaco erano gli stessi per tutti, una comune torbida sonnolenza era il segno di una infelicità senza limiti. Mi riscossi, a un certo punto, il presentimento dell'alba baluginava e a quel chiarore nebbioso l'occhio mi cadde, al di là della schiena del vetturino, sulle groppe dei cavalli. Distinsi, sotto la pelle bruna e schiumosa di sudore, le loro povere ossa: l'uomo di continuo le frustava e me ne venne una pietà struggente, simbolo, mi parve, della mia impotenza. Da allora non resisto all'indignazione quando vedo percuotere un cavallo. Quell'alba lattiginosa non si risolveva in giorno pieno: allora mi accorsi che non la pioggia ma la neve cadeva: fiocchi minuti e secchi infittivano l'aria grigia sotto un cielo basso. Eravamo nella terza carrozza, due ci precedevano e una mano di cavalleggeri ci scortava, fiancheggiandoci: ne fummo attorniati e chiusi in una specie di quadrato quando ci fermammo ad Avellino. Ci fu concesso scendere e ne avremmo fatto a meno, tanto eravamo intontiti e intorpiditi. Di ristoro neppur l'ombra: qualcuno, sporgendo la lingua inseguiva, come fanno i ragazzi, quei magri fiocchi di neve, per dissetarsene. Tutti tentavamo di riscaldarci battendo i piedi incatenati e le mani strette dalle manette: fui colpito di come erano sporche, dal giorno innanzi nessuno aveva trovato modo di lavarsele. Dietro la schiera dei soldati percepivamo una piccola folla di paesani: «Ci compiangono, c'incoraggiano» esclamò Castromediano. Repressi un sorriso ironico, sapevo bene che quella gente era soltanto curiosa e indifferente, l'avevo sperimentato nel mio viaggio dall'Abruzzo a Napoli. Ma non volli togliere al buon duca le sue illusioni. Di nuovo c'infilarono nei carrozzoni. L'aria fredda mi aveva stordito a tal segno che appena seduto caddi in una specie di sonno lucido: sentivo quanto mi circondava ma ero lontano, sotto un sole rutilante che vedevo con spavento precipitare dallo zenit all'orizzonte. Riaprii gli occhi, ed era di nuovo crepuscolo, un crepuscolo di piombo. Salivamo a balzi, fra le grida dei vetturali imbestialiti, per una carrareccia a stretti tornanti, senza riparo dalla parte dell'abisso: qua e là, siepi nere e rami scheletriti. Per qualche minuto provai l'ebbrezza di un'imminente catastrofe: carrozze e cavalli in un mucchio giù per il precipizio a sfracellarsi sulle rocce aguzze del fondo valle: era pur sempre la libertà. Ma non successe nulla, purtroppo, e l'istinto di conservazione strappò a tutti un grido di terrore quando la vettura oscillò paurosamente pendendo verso il ciglio del dirupo. Da quel momento la corsa rallentò, si andò avanti al passo, mentre la massiccia e tetra rocca di Montefusco appariva e spariva, sempre più vicina. La strada si restrinse, incassata e ormai in piano, sfiorammo le prime casucce del paese e con un ultimo scossone e un rauco comando i cavalli stremati si fermarono. Ferdinando di Borbone era servito. Tante volte eravamo stati frugati, perquisiti fino alle più intime nudità, che ormai lo subivamo passivamente, senza reagire; ma mai lo fummo in modo così vituperoso come in quella gelida sera, nel piazzaletto davanti al carcere, sotto il nevischio. Fu questo il marchio definitivo che ci segnò nelle carni e nell'animo. Tutto, intorno a noi, era abbrutimento, la stessa solitudine del luogo ne era
macchiata. Livido il cielo, livide le nostre membra seminude di bestie tremanti fra truci scimmioni vestiti da soldati, mentre il comandante del Bagno pretendeva atterrirci con un discorso furibondo: il suo benvenuto. Pare che ci minacciasse delle più orrende torture, ma credo che nessuno di noi fosse in grado di ascoltarlo: la sua voce pesante e insieme stridula mi arrivava col fragore di una valanga misto a squittii di uccelli rapaci. Non mi accorsi di essermi buttato il cappotto sulle spalle, mi sentivo ancora nudo mentre scendevo con gli altri la buia viscida scala fino all'antro che ci aspettava. Ci urtavamo l'un l'altro, le catene che ci legavano s'impigliavano, sbattevano con un sordo rumore di macchina primitiva: ebbi la sensazione di esser precipitato per stregoneccio nell'età delle caverne, com'era illustrata nella incisione di un mio libro infantile. Aggrovigliati, cascavamo in ginocchio e nello sforzo di rialzarci ci calpestavamo brancicando sui pietroni aguzzi del suolo: alla fine un gendarme sopraggiunse con una torcia che infisse al muro e un sacco di pani che ci gettò. A quella luce ci ricomponemmo, risalimmo alla superficie della nostra povera dignità, riassestandoci alla meglio i panni addosso. Avevo perduto la nozione di chi era con me, cercavo invano i volti di Costromediano e di Poerio, per un istante temetti che li avessero separati da noi; poi li vidi, appoggiati a un pilastro, l'uno si passava le dita fra i capelli a modo di pettine, l'altro guardava in giro facendosi schermo con la mano sugli occhi, quasi la luce della torcia gli impedisse di raccapezzarsi. E non era facile, difatti, capire dove mai ci avessero gettati: era una caverna naturale o un sotterraneo costruito dall'uomo? In effetti il carcere era ricavato da uno scoscendimento del monte e dunque nella roccia viva, mentre a destra, verso la valle, era stato chiuso da una massiccia muratura. Ma in quella prima notte l'impressione comune era che ci avessero calati nelle viscere della terra, non notammo neppure le finestrelle ferrate che si aprivano in alto, radendo il soffitto: di lì venivano gli spifferi gelati che ci intirizzivano come fossimo all'aria aperta. Non esistevano panche o brande e neppure giacigli di paglia, già qualcuno, inebetito dagli strapazzi s'era stravaccato sulle pietre e tutti andavamo cercando un cantuccio dove accovacciarci: in quel brulicare stento e sferragliante di piedi incatenati il nostro numero pareva moltiplicato, da una cinquantina che eravamo figuravamo una moltitudine. Cominciarono a levarsi gemiti, scoppi d'ira, ricordo il masticare bestiale di uno accanto a me che aveva conquistato un pane e lo mordeva stringendolo in pugno. Febbricitante per la bronchite che sempre lo afflisse, Poerio trovò il coraggio di scherzare: «La cura di ferro di Sua Maestà, Dio guardi» disse «sta diventando eccessiva». Un urlo coprì le sue parole: «Il muro crolla!». Precipitava semplicemente l'intonaco sotto la spinta di uno sgorgo fetido, lo sbocco di una cloaca che allagò gran parte della caverna riducendo lo spazio in cui sdraiarci. Dopo... Mi accorgo, a questo punto, che non c'è né un dopo né un prima nei miei ricordi di Montefusco, la mia memoria è come un pozzo vuoto, tenebroso e sonoro di eco che non so donde siano partite. Non è la mia età a indebolirla, ma il tempo senza dimensioni in cui poi vissi, un tempo sabbioso che nascondeva sofferenze, pensieri, immagini per farli ricomparire a un tratto ingigantiti. Pure, di questo son sicuro, fu durante la prima notte di Montefusco che fui preda di una tentazione criminale. Ci eravamo tutti distesi o raggomitolati alla meno peggio nei nostri mantelli e nel silenzio sepolcrale il respiro greve degli addormentati mi riusciva insopportabile, sentivo vicino il momento in cui qualcosa sarebbe scoppiato dentro di me, urlo, violenza ferina: mi accorsi di ansimare e mi prese il terrore di diventare pazzo. Allora, per calmarmi, calcolando, dal consumarsi della torcia, quanto tempo
fosse passato, presi a fissarla: sfrigolava, la fiamma oscillava da destra a sinistra ma non si spegneva. Ed ecco un'idea mi fulmina: afferrare la torcia, avvicinarla a certe assicelle marcite laggiù, accanto alla porta, alimentarne pian piano il fuoco; forse, a saper fare, la fiamma sarebbe divampata fino alle travi del soffitto. Febbrilmente l'immaginazione si scatenava, vedevo le rosse lingue lambire la porta, scardinarla: "Purché le guardie non se ne accorgano" mi dicevo quasi tutto fosse già avvenuto; e già sentivo le urla di quelli di sopra, abbrustoliti, già vedevo, come dall'esterno, la rocca intera bruciare. "O la libertà o la morte!" esclamavo arringando i miei compagni "meglio perire coi nostri carnefici che marcire vivi in questa tomba." Bruciavo anch'io infatti, e avevo nelle orecchie imprecazioni, scampanii di allarme, tuoni di crolli. Deliravo. Mi svegliarono i brividi, tremavo come una foglia, Castromediano mi sollevava per le spalle chiamandomi a nome. La torcia era consumata e dalle alte feritoie entrava una luce beffarda. L'eterno giorno di Montefusco era incominciato. Capitolo 2. Questa grafomania che mi ha preso non sarà per caso un segno di demenza? Aspetto l'alba trepidante e al primo lucore mi butto giù dal letto, quasi qualcuno mi soffiasse all'orecchio di far presto perché ho i giorni, le ore contati. Quando, sdegnoso e corrucciato, cominciai a mettere in carta le voci del mio silenzio, lo feci credendo di dar fiato a un umore transitorio, irrilevante. Adesso questo compito bastardo mi s'impone come un dovere e mi isola; non dico dal mondo, che è già fatto, ma dai minimi segni di vita che mi raggiungono: se Teresa mi parla, percepisco quel suono come, attraverso vetri spessi, il cinguettio di un passero che non vuole risposta. A volte, nell'atto di prendere la penna, mentre apro e chiudo il pugno intormentito, mi chiedo con sbigottimento se davvero io creda, come ho sempre dichiarato, nel riscatto ultraterreno dell'uomo, se insomma io mi affidi a un Dio. E' un atto eroico, la fede, o una viltà? Comunque essa esclude l'affezione a tutto ciò che l'uomo ambisce, dal benessere alla fama. Tale la mia convinzione quando, quasi beffeggiandomi, principiai a frugare tra i miei ricordi, ansioso, direi, di disapprovarmi. Ebbene, sono cambiato, inutile dissimularlo, oggi tengo al mio cervello e dunque alla mia memoria come all'unica speranza di sopravvivere, non so dove, non so per chi, dato che per nessuno scrivo. Sopravvivere? Mi correggo: vivere. Sarà grottesco, ma non son mai stato vivo come adesso, così concentrato nel fatto di essere esistito. Come il tempo passa! dice la gente che dispone di taccuini e di orologi. A Montefusco non avevamo orologi, e neppure un brandello di carta, una matita: quando ci permisero di scrivere ai più stretti parenti (a quattro per volta, sul piano di un assito sconnesso) ci davano un foglio bollato, una penna e dovevamo restituirli sotto rigido controllo. Il tempo era dunque per noi una entità indefinibile e mi viene il dubbio se sia un premio o una punizione questo affannarmi a ricostruirlo in termini correnti. Non sempre ci arrivava, dalla parrocchiale, la campana del mezzodì e del vespro: chi l'aveva sentita e chi no: e ne scaturivano discussioni talvolta acerbe. L'umore di tanti individui di diversa classe ed educazione, riuniti a forza, era spesso tempestoso e si accendeva per futili motivi. Il pubblico, dal '60 in qua, ci ha inchiodato alla condizione di superuomini, guai a contraddirlo dimostrando che la nostra costanza era tessuta di caparbie minuzie. Non è la prima volta che tocco questo tasto e non è da parte mia crudeltà, ma desiderio di giustizia da rendere alla nostra natura di poveri uomini. Temo però di aver calcato un po' troppo la mano su certe nostre debolezze e di aver taciuto, invece, i nostri affanni più
nobili. Sapevamo perché e in quali circostanze ci avevano presi: il resto, quel che poi era avvenuto, formava il nerbo delle nostre incessanti congetture. Ci sforzavamo di credere che i fermenti del '48, le nostre idee non fossero stati soffocati con noi; che circolassero, anzi, vigorosamente nel mondo clandestino che avevamo abbandonato. Ma come, con quali accorgimenti, effetti, speranze? Rade e scarse notizie ci erano pervenute a Procida, quel mare magnum dove ogni aguzzino era in vendita: a Montefusco l'atterrito e feroce silenzio intorno a noi era tale che, nei commenti più cupi, potevamo considerarci relitti di illusioni chissà come sorpassate da eventi inimmaginabili. Parlo di me, si capisce, giacché ognuno di noi, specie i più colti e responsabili, coltivava il suo orticello di esperienze da cui trarre segrete conclusioni che si guardava dal palesare. Ricordo che, mentre le stagioni si succedevano, bloccate in un unico inverno, in una sola estate, mi accadeva a un tratto e senza ragioni, di sentirmi scosso e come trascinato in una mobilità fantastica che mi teneva luogo di libro, gazzetta, e persino di carta geografica. Volavo, per così dire, sull'Italia, sull'Europa, calavo sulle città e sui villaggi, su luoghi sconosciuti e conosciuti, dove mi sembrava di vedere e udire i miei compagni rimasti liberi, in esilio o nascosti. Si consultavano, discutevano progetti di azioni rivoluzionarie o diplomatiche, si scalmanavano a sostenere le loro tesi. Erano per me, così vivi e parlanti che smaniavo di non poter approvare gli uni, combattere gli altri e soprattutto farli profittare delle mie disgrazie: ché, se avessi agito con maggior buonsenso, avrei potuto evitarle. Mi sentivo, in quegli immaginari colloqui, disinvolto e sicuro come non ero mai stato nella realtà, giacché m'intimidiva, allora, la coscienza della mia scarsa preparazione dottrinale. Le mie letture erano state casuali e farraginose: mi convincevano le teorie estreme, gli scritti di Ferrari, di Cernuschi e anche del mio amico Musolino quando non eran troppo astratti; mi impazientivano Mazzini e i mazziniani, col loro fanatismo spiritato. Nessuno sapeva di preciso a chi fossero affidate, adesso, le sorti della cospirazione: a me sembrava che non fossero rimasti fuori che vecchi disillusi e giovani inesperti: per esempio quel Nicotera, nipote dei Musolino, che sapevo impulsivo nel rischio e facile allo scoraggiamento. Da queste ipotesi, fondate sulla mia conoscenza di persone e situazioni italiane, ero condotto a raffigurarmi la vita e le consuetudini degli esuli in terra straniera: a Parigi, a Londra, in Svizzera. Ero stato una volta a Lugano, al solito sotto falso nome; avevo parlato qualche minuto con Cattaneo. Ma più che dalla missione e dai pericoli che comportava, ero stato attratto dalla bellezza per me nuova dei luoghi, quel bel lago, quelle cime nevose; da quella pace idilliaca che era un sogno - ma che sogno struggente! - instaurare fra le mie montagne. Era stato, per me, un incontro indimenticabile e m'ispirava, adesso, invidia, disperazione e, insieme, il senso preciso che quei luoghi, quelle persone non esistessero. Col carcere non avevo perduto soltanto il miglior tempo della mia vita, ma anche lo spazio, tutta la terra. Davanti a quei vasti orizzonti, cosa contavano la nostra piccola patria, gli staterelli che sognavamo di veder riuniti in un sol paese, quel lontano Piemonte in cui la maggioranza dei liberali si ostinava a riporre le sue speranze? Rincantucciato sul mio farto grondante di umidità mi chiedevo se valesse la pena di soffrire quel che soffrivamo solo perché a Ferdinando succedesse il figlio del traditore Carlo Alberto, capo di uno Stato appena un po' più vasto, schiacciato dalle Alpi, stretto fra due mari. Ammettendo - e non lo ammettevo che un giorno le mie catene fossero sciolte, non avrei trovato che una prigione più grande, ma sempre una prigione, non certo le distese sconfinate, la libertà di
cittadino del mondo che appena bastavano alla mia sete di spazio. Quelle maledette sette avevano soffocato le mie naturali esigenze, mi avevano tradito. Non amavo più il mio Paese, provavo un immenso disgusto per tutta l'Italia. Uscivo da questi deliri trasognato e pentito: essi potevano durare pochi minuti o qualche ora e, a distanza di giorni, mi assalivano come attacchi di perniciosa. Mi accusavo allora di egoismo, non mi capacitavo di aver dimenticato quel che mi stava più a cuore, le miserie del mio povero popolo. In quei momenti di resipiscenza i miei pentimenti mi parevano poca cosa e un giusto castigo di quel che covava in fondo al mio animo perverso: ricordo che un nonnulla mi era motivo di commozione e che faticavo a trattenere le lacrime quando un nostro compagno che aveva una bella voce prendeva a cantare certe sue nenie agresti piene di nostalgia. Le ascoltavamo tutti con piacere, del resto, e forse con eguale rapimento, ma pare che il comandante del Bagno vi ravvisasse non so quali corrispondenze con l'esterno, sicché proibì questa innocente distrazione. Fummo più indignati di questo divieto che dalla mancanza di cibo e l'umile cantore fu pregato di accennare sommessamente i suoi motivi: se chiudevi gli occhi pareva venissero di lontano e creavano paesaggi che ognuno riconosceva. A sollievo di segreti furori e debolezze, mi riusciva talvolta di distaccarmi dall'eterno, implacabile presente per rifugiarmi nel passato: non il mio personale - che anzi mi ripugnava - ma quello delle innumerevoli generazioni che mi avevano preceduto, col loro carico e quasi ininterrotto flusso di dolore. Nelle spelonche di Montefusco, come nelle tante tane sparse nel Reame e, verosimilmente, in tutta Europa, avevano sofferto, secolo dopo secolo, uomini colpevoli di aver combattuto l'ingiustizia o vagheggiato una qualunque libertà. Le mura della nostra caverna erano in più punti graffiate da nomi e date più o meno antiche, opera di mani simili alle mie, che si erano accanite con chiodi e pietre aguzze, in disperati appelli alla memoria di chi si fermasse a decifrarli. Mani forse, di omicidi, ladroni, briganti, ma sempre vittime di una tirannia crudele: e tutti avevano sentito il bisogno di tramandare faticosamente un segno della loro esistenza, con quel nome, quel cognome in quel tal giorno d'estate o d'inverno che il dolore, fisico o morale, era troppo forte per essere taciuto. Quasi rispondendo al loro desiderio, mi perdevo a immaginare le loro facce, selvatiche o angeliche, le loro spalle ugualmente curve i loro gesti bestiali o rassegnati. Di notte, essi balenavano sotto le mie palpebre chiuse e mi pareva che se le avessi aperte avrei veduto, invece dei miei compagni, quelle ombre erranti da un capo all'altro del carcere. Ne ricavavo un conforto che era richiamo alla saggezza virile: avevano patito, erano morti ormai in pace: così sarebbe stato di me. Questa riflessione, così comune, così semplice, mi rasserenava straordinariamente. A volte mi prendeva una strana voglia di scrivere il mio nome accanto al loro: sotto questa forma primitiva, il monumento dei poveri dimenticati, mi sarebbe piaciuto di rimanere. Simili vaneggiamenti che tanto si distaccavano dai miei casi e dalle disgrazie d'Italia, mi tenevano una compagnia intermittente che aboliva le già dissolte dimensioni del tempo reale: essi somigliavano a quelle immagini, sempre le stesse eppure affascinanti, che volontariamente richiamavo da bambino per conciliare il sonno. Mi spiego così l'incertezza in cui mi impiglio quando tento di rammentare certi avvenimenti preponderanti degli anni di Montefusco. Non riesco a decidere, per esempio, se delle aspirazioni dei Murattiani a sostituire il Borbone con un napoleonide, fossimo già informati al tempo di Procida. Ma fu certo a Montefusco che da un avviso clandestino l'unico che penetrasse quelle mura - sapemmo che si faceva il nome di Luciano Murat. Ci era richiesto dagli amici napoletani cosa
ne pensassimo, e Poerio e Castromediano, indignati, risposero per tutti negativamente, giudicando insensata la proposta e riaffermando la loro fede nel governo piemontese. Interrogato da loro e pregato di pronunziarmi, rimasi tristemente perplesso: potevano aver ragione e, per quel che contava il mio parere, non valeva la pena di dissentire. Ma la mia melanconia si accrebbe né valsero a distrarmene le mie risorse di sognatore puerile. Non c'eran dubbi: comunque si concludesse la mia sorte personale, dovevo dire addio all'idea repubblicana. Se quei nobili amici ritenevano deplorevole e funesta l'azione delle varie correnti mazziniane (e non gli davo torto) come avrebbero giudicato le mie simpatie per tendenze ben più rivoluzionarie? Meglio tacere e sospirare, come facevo. Malattie di diversa natura, ma tutte aggravate dalla mancanza di cure, cominciavano a manifestarsi fra i cinquanta di Montefusco: l'infermeria era lurida e malsana, il medico carcerario era un buon uomo pauroso che si limitava a visitarci scuotendo la testa. A me toccò la disgrazia di soffrire nella vista: un male che, anche in altre condizioni, un clinico ordinario non avrebbe saputo curare. Atterrito dalla minaccia della cecità, usavo tutte le forze a dissimulare la mia angoscia. Ci avevano intanto trasferito, non so se per pietà o per sorvegliarci meglio, nel carcere superiore, provvisto di diverse celle, con più aria e più luce, ma dove il calore estivo raggiungeva temperature da forno. L'unico beneficio, quello di affacciarci, come si poteva, alle finestrelle inferriate, era un supplizio per i miei occhi dolenti. A quelle feritoie ci accostavamo a turno, ma io rifiutavo il mio e, colle spalle alla parete, udivo i miei compagni indicarsi le cose che vedevano sul piazzale, nella pianura, e i rari viandanti, contadini sull'asino, fruttivendole coi loro cesti sul capo. Erano, per noi sequestrati, i segni di una vita che continuava con i cari aspetti di ogni giorno. Un episodio da nulla, due ragazzini che giocassero a piastrelle, un paniere che ruzzolasse in terra, ci distraevano come spettacoli del San Carlo. Mi chiamavano: «Venite a vedere, don Domenico». Io mi fingevo assorto nella lettura di un mio Dante che entrando a Montefusco mi era stato confiscato e soltanto adesso, dopo lunghe richieste, mi era stato concesso, tartassatissimo, tagliuzzato, frugato. Purtroppo esso mi era ormai inutile, appena distinguevo, in una nebbia come fumo bruciante, quei caratteri religiosamente diletti. Così agendo acquistai, fra i compagni di umile stato, fama di altezzoso e stravagante: gli orecchi mi servivano bene e udivo i loro sommessi mormorii. Pure non mutai la decisione di non rivelare la mia infermità. Era superbia? Non credo, mi sapeva male aggiungere la mia miseria alle tante che ci affliggevano. Solo a Castromediano me ne aprii, col patto di conservarmi il segreto. Non mancò: ma era così ansioso e sconsolato che stentava a trattenersi e le mille premure di cui mi circondava talvolta mi irritavano. «Ho un cattivo carattere» gli dicevo poi, scusandomi di qualche scatto: una sua stretta di mano era la generosa risposta. Le sofferenze, gli spaventi delle continue insensate perquisizioni (si teneva per certo che ancora cospirassimo), gli irragionevoli castighi del puntale e delle legnate, nequizie che affliggevano anche chi non era punito, avevano creato fra noi una fraternità, un affetto inconcepibili fuori del carcere. Una cattiva notizia giunta dai parenti lontani a uno di noi sbigottiva tutti: di una buona ci rallegravamo quasi ci riguardasse personalmente. E se taluno, riandando ai casi suoi, ne rimaneva turbato per un'ombra d'invidia, sapevamo compatirlo. Soltanto gli ipocriti pretendono dal prossimo la perfezione assoluta. E tuttavia, mai avvenne che per l'assidua convivenza cadessero le barriere della diseguaglianza sociale fra i cinquanta condannati: che
appartenevano a classi diverse, dalla più modesta alla più cospicua. Sembrava, al contrario, che esse si rafforzassero in virtù di una familiarità da un lato rispettosa, dall'altro benevolmente protettiva. Non eravamo più incatenati a coppia come a Procida, ma via via che la nostra vita infelice si andava organizzando, quella comunità forzosa si divideva, come già s'era visto a Procida, in padroni e servi. Spontaneamente e quasi allegramente i popolani si assumevano le incombenze manuali: spaccare la legna per i nostri fornelletti, sorvegliare la cottura dei cibi, spazzare, lavare la nostra stremata biancheria. L'incongruo regime carcerario ammetteva che chi aveva denaro poteva comprare a mezzo degli sgherri gli alimenti crudi che poi avremmo cucinato nelle nostre tane, impestandole di fumo e di vampe. Per occupare il tempo vuoto e combattere la noia, qualcuno dei civili prendeva le funzioni di cuoco: Nisco, per esempio, teneva a cuocere i maccheroni di cui era goloso, Palermo tagliuzzava le verdure, Castromediano arrostiva e confezionava il caffè offrendolo poi in giro, con perfetta buona grazia. In quei casi, era curioso osservare le facce dei volontari inservienti, essi assistevano a quelle operazioni col tipico sorriso, un tantino ironico, del domestico che indulge al capriccio del signore senza esserne convinto. Devo aggiungere che quei poveretti s'ingegnavano a rendersi utili contando sulla generosità - che non mancava - dei più abbienti: non dico gli avanzi, ma i cibi di peggior qualità, la pasta frantumata, il lardo stantio, la frutta ammaccata o acerba toccavano a loro. Si continuava così nel carcere il costume delle case signorili del meridione, dove il servo è nutrito con abbondanza ma di cibi grossolani: e non pensa ad offendersene. Fin dal tempo di Procida la mia indole schiva mi aveva garantito un relativo isolamento. Gli orrori di Montefusco avevano un poco addolcito i miei modi, ma oltre al mal d'occhi, un'altra ragione mi consigliava a non troppo mescolarmi al gruppo privilegiato. Non appartenevo al popolo e neppure alla borghesia dei medici e degli avvocati. Era sottinteso ch'io fossi un "galantuomo", come si dice da noi, ma della mia famiglia non mi piaceva parlare e raramente ne ricevevo lettere: avevo studiato privatamente, non avevo lauree o attestati. Al titolo che si dava generalmente a mia madre mi guardavo bene dal pretendere, sebbene i miei fratelli lo facessero senza alcuno scrupolo. Su mio padre avevo fin troppo fantasticato da fanciullo e senza costrutto, finché avevo deciso che non ne valeva la pena: era venuto di Sicilia, era stato ricco: questo doveva bastarmi. Della mia oscurità familiare non ero più, adesso, puntigliosamente mortificato, tuttavia uno stretto sodalizio col duca di Caballino, coll'altezzoso barone Nisco, con Poerio, barone ed ex ministro, non mi sembrava opportuno. Mi sentivo figlio delle mie azioni e nulla più. Erano gentili e riguardosi, mi trattavano alla pari, gli ero grato e affezionato ma rimanevo al mio posto, né borghese, né aristocratico. Altro non mi serviva. Nel carcere superiore eravamo suddivisi in una diecina di camerotti Castromediano li chiamava topaie, e tali erano - che si aprivano su una corsia comune. Quello che Sigismondo e i suoi amici avevano scelto e ripulito alla meglio si distingueva dagli altri per una lindura e un ordine particolari: che erano già un lusso. Io mi ero allogato avendo a compagni artigiani consumati ma poverissimi, giacché povero anch'io, pochi conforti potevo procurarmi. Come loro mi contentavo dunque del rancio carcerario, ed era una dura lotta quella che sostenevo per ricusare cortesemente gli inviti a mensa di Costromediano, sprovvisto com'ero dei mezzi per contribuire alle spese. Dopo aver molto insistito, a malincuore cedeva e si ritirava coi suoi a consumare semplici ma costosi pasti. Mentre, con la scodella sulle ginocchia, alla maniera dei contadini, ingollavo la mia broda, udivo le loro
voci, i loro motti scherzosi: perché, malconci com'erano, pure riuscivano a conversare piacevolmente, qualche volta a ridere. I miei compagni mi sogguardavano stupiti, forse almanaccando sulle ragioni della mia cocciutaggine, ma io fingevo di non accorgermene e seguitavo a mangiare con uno sforzo degno di miglior causa. In effetti, non il cattivo cibo, bensì la mancanza di un tavolo, di una posata decente e soprattutto il privarmi di quel coraggioso chiacchiericcio, mi erano di pena amarissima. Una sola volta accettai il loro invito e lo ricordo perché fu origine di un episodio grottescamente odioso. Si festeggiava la Pasqua e a tutti i condannati era stata distribuita un po' di carne, non c'era dunque gran differenza fra il pranzo comune e quello di chi poteva pagarselo. Il cielo teneramente limpido, una brezza primaverile succeduta ai rigori della tramontana, ci facevano scordare i nostri guai e c'inducevano a una confusa speranza: qualcuno disse: chissà, ho idea che quest'altro anno faremo Pasqua a casa. Insieme a Castromediano entrai nella sua cella dove tutti erano occupati in faccende, chi a manipolare una crema, chi a sorvegliare l'arrosto, e così via. Su certe assi era stesa una tovaglia candida con nitidi piatti e perfino- recente concessione al duca - posate d'argento. Era uno spettacolo tanto eccezionale che non pensai più che a goderne partecipandovi, e poiché mancava chi grattasse il formaggio, mi offrii di farlo. Ero giunto a metà della faccenda quando, con strepito di cancelli aperti e richiusi violentemente, si precipitarono nella corsia gendarmi, aguzzini e lo stesso comandante del Bagno, bardati e armati di tutto punto. «Qui si segano inferriate, qui si prepara un'evasione, fuori la lima» urlavano inviperiti, buttando all'aria la nostra povera mensa. Addio festino; le pignatte furono rovesciate sul fuoco, le pagnotte sbriciolate e fummo costretti a spogliarci, mentre i materassi che si erano arrotolati contro il muro per far posto alla tavola, erano scuciti e frugati, fiocco per fiocco. Da ultimo ci spinsero in mucchio in cortile e lì trovammo allineati un manipolo di "cacciatori" col fucile spianato contro di noi. «Gridate viva il re» intimò il comandante «o do ordine di sparare.» Noi, zitti e composti in silenzioso furore. Non che prestassimo fede a una minaccia così assurda, il nostro impavido contegno non comportava eroismo, ma assai più difficile fu controllare il nostro sdegno e la collera per mezzi d'intimidazione tanto bestiali. Ci tennero così sotto le canne dei fucili un buon paio di minuti, alla fine ci ricondussero dentro profetandoci supplizi mai visti: quanto a me, fui obbligato a ripetere, per quietarli, l'esercizio del formaggio e della grattugia che li aveva tanto allarmati. Nessuno mangiò, quel giorno, neppure gli innocenti delle altre celle che, sbigottiti, avevano creduto davvero a una esecuzione sommaria: fra loro, qualcuno mi guardava con sospetto. Sebbene meridionale, non credo alla iettatura, ma rientrando nella mia tana mi sentivo in qualche modo colpevole. Quel che mi è mancato, dacché ho scelto di ridurmi in Torino, non è il clima mediterraneo: d'inverno un caminetto mi basta e il caldo dell'estate cittadina non m'infastidisce. M'è mancato, invece, il contatto con una natura aspra e grezza. Le colline torinesi, delizia decantata da questi indigeni, sono troppo vezzose per i miei gusti e le grandi Alpi, che del resto non vedo mai, mi respingono per la loro orgogliosa imponenza. I monti che ho amato, dirupati, scorticati, ispidi, non rifiutano la disperazione del bandito che vi cerca una grotta. La neve che li corona è labile, uno scherzo natalizio. Non vedrò più le vette selvagge intorno a Montefusco e il negro Taburno vigilante su Montesarchio. Li ho a lungo contemplati, questi immobili richiami a una libertà perduta e quando i miei occhi non erano troppo torbidi e dolenti li fissavo quasi aspettassi da loro un aiuto, un cenno d'intesa. Da un cantuccio di feritoia ne spiavo le
pieghe che, di primavera, verzicavano. Solo chi è astretto a un'unica visuale rupestre può capirmi. Di solito, m'incantavo sul fianco di una ripidissima altura, lacerata, nella roccia viva, da un rovinio di sassi e detriti rossastri, grigi, bianchi come la calce: sopra, superstite, frondeggiava cupo un ciuffo di quercie che, d'inverno, scuoteva da sé la neve col fremito di una creatura viva. Assurdamente fantasticavo di arrampicarmi fra quel tritume, colle mani e le ginocchia in sangue, allo scoperto, sfidando gli occhi e i fucili delle sentinelle: il pensiero di quel rischio temerario e persino della caduta mortale, ciottolo fra i ciottoli, mi inebriava: sarei stato libero, almeno, di morire a mio modo, non avrebbero più potuto acciuffarmi. Ma se riuscivo a raggiungere quella cima, a toccare il tronco delle quercie, ero salvo per sempre, nascosto nella densità dei rami e delle nuvole che li sfioravano. Nelle nuvole ravvisavo esseri animati, anzi angelici nella loro corposità abbagliante, vi scorgevo ali, vesti gonfie di vento, rapidi volti luminosi. Quando spuntavano dietro la cresta del monte, dapprima per lembi teneri, poi sempre più compatte e inarcate, colme di fulmini, poco mi ci voleva a trasferirmi sulle loro groppe, padrone di uno spazio smisurato. L'esaltazione di quegli attimi mi circolava dal capo alle piante in brividi elettrici: e se dal plumbeo turgore dei miei celesti amici si sprigionava infine la folgore, salutavo il lampo e il tuono come messaggi, segni che tutto poteva mutare, che nulla era immobile. Piegando allora il collo e stendendo le mani verso l'inferriata, procuravo di ricevere sul viso e sulle palme aperte la pioggia dirotta. Quei subitanei temporali spaventavano i più grezzi fra i miei compagni, mai avrei potuto spiegargli il sollievo che essi rappresentavano per me. Una volta, ricordo, il fulmine penetrò nel carcere uccidendo una sentinella e sfiorando qualche prigioniero sonnecchiante sul suo giaciglio: era ora di siesta, un sole ferino lottava fra neri nembi. Un clamore di voci atterrite, di passi precipitosi e disordinati, si levò dietro le mura dei camerotti, i carcerieri si rincorrevano ululando nomi di Madonne e Santi. Dopo un istante di spaventato silenzio anche fra noi si alzarono strida quasi di topi ingabbiati, seguiti da proteste per le feritoie senza imposte e per la ignoranza in cui ci lasciavano di un pericolo oscuro, fuoco e crolli sopra le nostre teste. Debbo confessare che quell'accidente fu per me una specie di festa, qualcosa come uno squillo guerriero che annunciasse un esercito liberatore. Altrettale fu il mio sentimento quando fummo visitati dal terremoto che aprì larghe fessure - subito controllate e riparate - nelle nostre muraglie. Ancora mi domando come mai io, così scettico nei confronti degli uomini, così radicato nel costume del cospiratore che di nessuno deve fidarsi, provassi per quelle minacce della natura piuttosto un moto di riconoscenza che di allarme. Quell'istintivo diffidare dei miei simili, del resto, non mi amareggiava e così l'avessi conservato quando fui libero: esso mi rese anzi più giusto e comprensivo verso coloro che a un certo punto della nostra cattività, "tradirono". C'eravamo accorti che in veste di gendarmi e custodi apparentemente più sensibili alle nostre disgrazie, s'erano introdotti nel carcere agenti provocatori, il cui compito era insidiare la nostra fermezza, suggerendoci di chiedere la grazia sovrana. Respingere simili manovre era facile per un uomo civilmente educato: pure rammento che uno di noi, di nobile famiglia - scriverne il nome mi è penoso - insisteva a discriminare se una istanza redatta in comune non fosse compatibile con la nostra dignità. Alle sollecitazioni delle spie io avevo risposto schernendole, ma le parole di costui mi accesero di tale collera che persi il lume degli occhi e gli menai un ceffone che ridusse in pezzi i suoi occhiali di miope: e gli ci vollero due mesi per ottenerne di nuovi. Castromediano riprovò
aspramente la mia violenza: aveva ragione e io stesso, vedendo il compagno brancolare come un cieco, la deploravo sinceramente. Eppure, fu proprio il Castromediano, così saggio e temperato, a bollare inesorabilmente col marchio dei traditori i pochi popolani che in seguito cedettero alle lusinghe delle spie. Fui anch'io avvilito e schifato per quella defezione, e tuttavia mettendomi nei panni dei disgraziati mi persuadevo che, in fondo, non era umano coprirli di un disprezzo così assoluto. La mia pena maggiore fu, in quella occasione, scoprire la differenza che mi divideva dal più degno, dal più leale fra noi; e insomma cosa significasse per me la fede democratica e per don Sigismondo il pensiero moderato e monarchico. Mai ci saremmo intesi, la nostra simpatia reciproca non avrebbe resistito di fronte al nostro diverso modo di concepire l'ordine sociale. Erano, i "traditori", poverissimi uomini ignoranti, incapaci di soffrire più a lungo nel loro corpo e nel pensiero assillante delle famiglie in miseria. Avevano creduto nella nostra rivoluzione fidando in un riscatto del proprio stato. Adesso, dopo anni di fame e di busse, non capivano più nulla e risorgeva in loro l'antico prestigio del monarca benigno, protettore del povero e nemico del barone prepotente. L'artigiano, il bracciante, il contadino lavorano più all'aperto che al chiuso, la privazione di aria sole e moto contano il doppio per loro, il loro ozio è mortale. Frugando nella memoria noi potevamo ritrovare il conforto di remote letture, la compagnia di grandi poeti e pensatori: per loro, invece, i ricordi della vita libera si restringevano a un campo, alla famiglia perduta, al lavoro irrecuperabile. La tentazione di riottenerli era stata troppo forte per la loro disperazione. Li avevamo veduti occupati per ore e ore a filare la canapa dei carcerati per qualche fagiolo in più nella minestra e non avevamo pensato a spartire con loro un po' dei nostri beni più gelosi, quelli del pensiero. Come potevamo, adesso, condannarli? Non per farmene merito, ma ricordo che negli ultimi tempi mi ero ingegnato a intrattenere quei poveracci con certe lezioncine sulla storia della nostra terra. Ma, ahimè, era troppo tardi, già in quelle teste non vivevano che impulsi di vita animale. Così, quando si conobbero i nomi dei sei che, in cambio di delazioni a nostro carico, sarebbero partiti per Napoli, la mia tristezza non mi permise di partecipare all'indignazione comune. Ma ecco che mentre "i sei" (non li chiamavamo altrimenti, anzi lo stesso numero aveva assunto un significato obbrobrioso) si preparavano cupamente alla partenza, fulminò la notizia che un altro prigioniero li avrebbe accompagnati: questa volta un signore, un gran signore, mormoravano i custodi sogghignando. Il nome non tardò a circolare, si trattava, nientemeno, del duca di Caballino. Il più sbigottito fu lui, povero amico. Protestò, chiese imperiosamente di vedere il comandante: per la prima volta lo vidi sul punto di perdere il controllo di sé. E il fatto stesso che il capo carceriere gli comunicasse, con insolita cortesia, che il comandante lo aspettava, aumentò la sua angoscia: a fatica respirava mentre girava intorno quei suoi limpidi occhi celesti a interrogare ansiosamente ciascuno di noi. Così lo vedemmo avviarsi in fondo alla corsia, scortato dall'ossequio odioso di un gendarme. Avevamo appena ingollato la nostra zuppa mattutina ed eravamo tutti accorsi fuori delle celle affollando il poco spazio dinanzi alle inferriate: per quanto me lo permettevano i miei occhi indeboliti, scrutavo i volti intorno a me, uno per uno. Mai mi erano apparsi così egualmente devastati - giallicci e gonfi o magri e ingrigiti - come sotto quella cruda luce meridiana che li affratellava desolatamente. In ogni sguardo la medesima luce febbrile, non sapevi se di sospetto o di speranza, su ogni bocca lo stesso fremito di esitazione dolorosa. A
stento i "galantuomini" frenavano i loro commenti, ma era facile indovinare che certi loro sussurri, da bocca a orecchio, non eran tutti benevoli per Castromediano: gli altri compagni, specie i popolani rimasti fedeli, mostravano uno stupore pieno d'interrogativi urgenti, essi chiedevano anche tacendo di esser chiariti e rassicurati sul conto di un uomo come don Sigismondo, moralista severo, ma popolare per la cordiale affabilità dei modi e per i doni largiti generosamente, appena lo potesse. Cos'era successo? Aveva davvero firmata una supplica in segreto e per sé solo? Si era valso dell'appoggio dei suoi congiunti, potenti a Corte e in Curia? Impossibile, pensavano molti, se non tutti: eppure il dubbio persisteva nella immobile fissità di quelle facce. Dio mi perdoni, io provai per un istante qualcosa come il gusto di una rivincita. Ero sicuro dell'amico come di me stesso, convinto che sotto la sua chiamata a Napoli si celava una trappola in cui si voleva farlo cadere. Ma nella penosa ambiguità della sua situazione ravvisavo una specie di condanna della sua intransigenza nei confronti dei sei disgraziati. Vedi, avrei voluto dirgli, com'e difficile leggere nell'animo altrui. La tua fama di patriota inflessibile e di uomo superiore non ti ha salvato dai sospetti di chi pur ti ammirava. Ma tu, per primo, hai rifiutato di penetrare nel cuore solitario e affamato dei nostri compagni più deboli. E chi può asserire che essi non abbiano, nella loro miseria, qualche giustificazione? Quando ricomparve fra noi, Castromediano era stravolto: il comandante l'aveva trattato con un riguardo, con una dolcezza che lui considerava altrettanti insulti. Non aveva voluto comunicargli le ragioni della convocazione alla capitale ma insisteva esaltando la clemenza del sovrano, pronto a perdonare chi se lo meritava. «Ma io rifiuto la sua clemenza, non l'ho chiesta e non la voglio: non partirò.» «Voi partirete, signor duca» aveva risposto il comandante, «io non sono un magistrato, sono un militare, questi sono gli ordini e li farò eseguire.» «Quell'infame sorrideva come se non mi credesse» si affannava il povero don Sigismondo. Purtroppo anche sul volto di qualcuno degli ascoltatori affollati intorno a lui, balenò l'ombra di un sorriso. Calava la sera, i carcerieri distribuivano il rancio e ognuno si avviò lentamente verso il proprio buco dove era facile supporre che i commenti sarebbero continuati. Senza toccar cibo, anche Castromediano si stese sul suo farto: era affranto, ci guardava uno per uno con una sorta di dolorosa interrogazione. Non ebbi l'animo di abbandonarlo: prima di seguirlo, avevo avuto modo di cogliere qua e là mormorii non proprio discreti sulla stranezza del suo caso. Nessuno lo sospettava apertamente, ma si osservava che senza una possibilità di successo, Ferdinando non era tipo da muoversi. Forse glielo aveva garantito il vescovo di Lecce, consanguineo del duca e venerato dal re; forse si sperava che il prigioniero avrebbe ceduto alle preghiere di sua sorella, dama di grande prestigio. Fin qui, nulla di disonorevole. Ma quelli che erano stati amici dei sei - e magari sul punto di imitarli erano assai più espliciti. La solita storia, dicevano, del signore che salva la faccia e se ne esce pulito pulito. A queste insinuazioni avevo reagito, però a bassa voce, temendo che l'amico mi udisse, ma sentivo che l'angoscia rendeva inefficace la mia protesta. Era l'angoscia di chi difende un innocente ma si rende conto del punto di vista dell'accusa: del testimone a scarico sospettato di connivenza. Ero povero, vivevo con i più poveri, ma ero pur sempre "un cappello": lupo non mangia lupo, come si dice. Un grande scoraggiamento mi vinse e quella notte preferii esser vicino al prigioniero più travagliato di Montefusco. Fu una notte di passione: Castromediano smaniava quasi avesse il delirio; Poerio, come al solito febbricitante, si sollevava di tanto in tanto sul suo giaciglio e gli stringeva la mano in silenzio. Gli
altri tre, quasi ritenessero superfluo riconfermargli la loro fiducia, affettavano di comportarsi come se nulla fosse successo, ma commettevano l'errore, non so se malizioso, di raccomandargli le loro famiglie. Era evidente che non credevano di rivederlo a Montefusco, e i loro discorsi erano stilettate per il povero gentiluomo. Un po' prima dell'alba si addormentò: doveva partire a levata di sole e con Poerio convenimmo a cenni di lasciargli godere un po' di riposo. Nelle ultime ore della notte avevamo cercato di distrarlo con una conversazione svagata e persino frivola, parlando di cacce, di cavalli, di belle donne. Ancora non mi raccapezzo dove trovassi la voglia e la materia per trattare simili argomenti, così estranei alla mia personale esperienza. A volte Poerio mi guardava, perplesso, credo che stupisse delle mie improvvise citazioni mondane, egli stimava il mio carattere, ma mi riteneva uno dei tanti calabresi di buona famiglia che vivono sulle loro terre senza pratica della società elegante. In effetti le mie chiacchiere erano tessute sul ricordo di quel che raccontava mia zia Maddalena, sorella di mia madre, vedova di un colonnello murattiano e vissuta a lungo a Corte. Da bambino l'avevo ascoltata avidamente e, adesso, la premura per l'amico mi restituiva alla memoria ciò che credevo di aver dimenticato. Suonò la campanella della parrocchiale e mentre ci affliggevamo di dover togliere l'amico al suo sonno benefico, vedemmo i suoi chiari occhi fissi su di noi. «E' tardi, devo prepararmi» disse, e buttò giù le gambe, ma non riuscì subito a tenersi in piedi, quasi si alzasse per la prima volta da una malattia mortale. Era pallidissimo, spenta la cerulea luce dello sguardo che vagava intorno inquieto e smarrito. Non volle che destassimo i compagni né permise che Poerio lasciasse il letto: «Mi accompagna Domenico» fece indicandomi: e appoggiandosi al mio braccio uscì nella corsia. Sono stato condannato in prima istanza al capestro ma non ho mai visto un condannato a morte che si avvii al patibolo: ebbene, tale mi pareva don Sigismondo mentre sostava dinanzi alla feritoia fissando il cielo ancora grigio. Avevo un bel ripetermi che era sempre una fortuna esser trasportato fra i campi, all'aria aperta, sotto il sole: avevo il presentimento di un inganno feroce, presagivo un plotone coi fucili spianati, un'esecuzione sommaria contro un muro. Quasi cogliesse il mio sbigottimento, egli mi rincorò con un lieve sorriso: «Non fate quella faccia, amico mio, ci rivedremo presto». Già i sei stavano uscendo dalla loro grotta e si allineavano verso i cancelli, curvi e tetri: non erano uomini, ma animali domati, paurosi della sferza, e la pietà che mi ispirarono contribuì a rianimarmi. Ci scostammo per lasciarli passare e Castromediano aggrottò la fronte con quella sua smorfia signorile (il sopracciglio destro rialzato, gli occhi socchiusi dal dispregio) che di solito dedicava agli sgherri più corrotti. «Quello che non posso sopportare» mi sussurrò «è il fare il viaggio insieme a costoro: non me lo meritavo.» Sospirai, e mentre gli stavo alle spalle, non so come mi trovai a mormorare: «Sono degli sventurati». Di scatto si voltò, il suo profilo aquilino pareva inciso in una medaglia. «Sventurati?» ripeté con una sorpresa che non era protesta ma rifletteva l'esitazione dubbiosa dell'uomo giusto, sensibile agli scrupoli. Non gli risposi e lo abbracciai. Entriamo nell'inverno e mi son lagnato del freddo col malumore di chi si sente defraudato della buona stagione. I ricordi del carcere agiscono come il carcere stesso, aboliscono il tempo: una truffa per uno come me, che dovrebbe gustarlo a gocce, avaramente. «Fra poco è Natale, papà» dice Teresa che, inginocchiata davanti al caminetto, s'ingegna di accendere una catastella di legna «lo faremo anche quest'anno il Presepe?» Mugolo un assenso impaziente, quasi irritato, la mia dolce figliolina non immagina che le sue parole mi ricordano che sono di un anno più vecchio. Una intera estate è trascorsa e io
l'ho sostituita coi pochi minuti che seguivo, passo passo, Sigismondo Castromediano fino ai cancelli di Montefusco. Eppure so che, ripercorrendo quella breve distanza, la mia memoria ha lavorato incessantemente, quasi a ricuperare qualcosa di prezioso che ci avessi lasciato cadere, pensieri nuovi, riflessioni, infine il significato, il succo ultimo, la responsabilità di quanto avevamo creduto e fatto, i miei compagni ed io. Infinite volte sono uscito dalla cella e la mano dell'amico si è appoggiata sul mio braccio, infinite volte abbiamo fissato insieme il cielo incolore: di nuovo i sei derelitti escono nel corridoio, di nuovo Sigismondo inarca il ciglio. Il nostro silenzio era teso, gravido di avvenire. Sarei pronto a giurare che sapessimo bene, lui ed io, quel che ci attendeva, fra mesi o anni non importa: la sua reclusione volontaria a Caballino, la mia vita rinunciataria di impiegato statale, mal sopportato, macchiato dai fatti dell'Aspromonte. Potrei vantarmi dell'incrollabile fiducia con cui gli dissi, attraverso i cancelli, "arrivederci". Sciocchezze. Non ci eravamo mai parlati a cuore aperto, da uomini liberi di pensare diversamente: era quello il momento di farlo. La voce mi pulsava alla gola in un grumulo di frasi rotte: "Riflettete, l'unità è un tranello, non è solo il Borbone che ci è nemico...". Affannato, stavo per aprir bocca: "Quello che non posso sopportare...". Così mi rispondeva don Sigismondo, moderato e duca. Dovevo contentarmi di volergli bene. Quando c'incontrammo a Torino (lui usciva dal Parlamento) il suo volto, sotto la capigliatura candidissima, era segnato, più che dalla vecchiezza, da un fiero disgusto. «Torno a casa» mi disse «nulla più mi trattiene quassù.» E fu allora che, annunciandomi il proposito di scrivere le sue memorie carcerarie, mi pregò di aiutarlo: al che risposi come di sopra ho notato, scoraggiandolo con acri osservazioni. Ero, in quel tempo, angustiato all'eccesso, senza futuro e il passato mi ripugnava. Non so se egli conoscesse o intuisse le mie ragioni: ma della mia asprezza non ho mai finito di pentirmi. Così ci lasciammo. Vive ancora, il nobile amico, e lo immagino costante nel suo progetto, in fondo assai simile al vano sfogo che mi sto permettendo. Questa circostanza mi commuove, ma temo che, purtroppo, solo la nostra tristezza si assomigli. La partenza di don Sigismondo segnò un traguardo pericoloso per la convivenza dei condannati rimasti a Montefusco. Già diminuiti di numero per la morte di alcuni compagni e per le malattie che ne trattenevano altri nella lurida infermeria del carcere, eravamo ormai poco più di una trentina. Ma mentre, nelle fosse inferiori, una calda solidarietà ci aveva stretti e resi cari l'uno all'altro, pareva adesso che le diversità d'indole, di abitudini e persino di aspetto fisico ci dividessero ogni giorno di più. Non dico delle differenze di classe, da tempo risolte e accettate da tutti, temperate poi dalla benevolenza dei privilegiati verso i compagni più umili: ma appunto fra questi ultimi si verificavano episodi di insofferenza reciproca, di gelosia e rancore a proposito di una parola scortese, di un piccolo favore ottenuto dai carcerieri, di una presunta disparità di trattamento. Fedele al mio costume di partecipare alla pari alla loro vita, io ne ero testimone quotidiano e non mi riusciva più, come per l'addietro, mantenerli concordi e pazienti. Insulti, alterchi, risse, scoppiavano di continuo, e poco valeva l'argomento che così facendo si conducevano come veri e propri criminali e davano ragione agli sgherri che tali li consideravano. Anziché darmi ascolto mi prendevano in uggia e spesso mi trattavano come un pedante inetto e sentenzioso. Il fatto è che la defezione dei loro miserabili compagni li turbava profondamente: invece di condannarli arrivavano a persuadersi che avessero agito saggiamente e che la propria fermezza non fosse che mancanza di coraggio. Né si astenevano - e questo mi feriva crudelmente - da frecciate contro "il signor duca" che se ne era
partito alla chetichella e con tutti gli onori. Ho ancora negli orecchi quelle voci: soffre più un povero in un anno di carcere che in dieci anni un signore. Guardate le nostre spelonche, i nostri farti, le nostre scodelle: anche i pidocchi rispettano i "galantuomini" per accanirsi sulle nostre carni. Il loro eroismo è un lusso, i veri eroi sono i semplici contadini e operai come Amitrano, Barino, Carnevale. Il giorno che fossimo liberati, non troveremmo né un pezzo di pane né un tetto, nessuno si curerà di noi, saremo dimenticati come vecchie ciabatte. E così via, notte e giorno, in una litania di rimbrotti e maledizioni. Alla lunga la mia pazienza cominciò a vacillare: non sopportavo più il loro contatto, la cella che mi ero ostinato a dividere con essi mi faceva orrore: ci soffocavo, ci impazzivo di schifo. Come non mi ero accorto di come russavano sgangheratamente e, nel sonno, i loro ventri gonfi producevano sconci rumori? Insonne, mi stendevo a terra, applicando la bocca alla fessura della porta ferrata che, appena buio i custodi chiudevano. Ma anche lì mi raggiungeva il fetore di quei poveri corpi sudati, mai lavati; dei buglioli colmi di orina e di feci. Era come se soltanto adesso incontrassi e patissi le miserie di Montefusco e ci fossi entrato senza transizione dallo stato di ragazzo schifiltoso, che mai avrebbe toccato i cenci di uno zappatore dai piedi incrostati di terra. Non era una constatazione confortante, ma non riuscivo a vincermi, sebbene resistessi alla tentazione di allogarmi altrove. Mi aiutò, in quella stretta, la cattiva salute che, oltre al pessimo stato degli occhi, mi regalò un principio di tabe dorsale - o che altro fosse - con febbri ardenti che richiesero il mio passaggio all'infermeria. Anche quel locale era obbrobrioso, letti indecenti infestati d'insetti, pareti lerce, aria viziata: ma nella vista dei compagni infermi, nella pena per i loro dolori, dimenticai i miei mali e ritrovai il senso di solidarietà umana che temevo di aver perduto. Sul momento ne fui sollevato, sebbene non tardassi a giudicare che quei miei sentimenti caritatevoli erano tutt'altro che meritori. L'indifferenza dell'uomo comune per il suo simile cessa al cospetto della sofferenza altrui, ma sotto quella pietà si cela spesso una punta di egoismo superstizioso. Costui sta peggio di me, si dice l'anima bella, non ho diritto di lagnarmi, domani il suo male potrebbe toccare a me. In fondo la pietà diventa una sorta di scongiuro. Ho peccato forse - e pecco ancora - di autocritica distruttiva: ma ho troppo puntato sul riscatto dell'uomo per rassegnarmi alle debolezze che scopro in me stesso. Non perdonandomele, non le perdono a nessuno, è questo il mio tormento e il mio castigo. Come la febbre mi lasciò fui ricondotto alla mia cella: ero così estenuato che da allora ci vissi senza ripugnanza. Il dottor Petti, medico del carcere, mi aveva raccomandato di prendere aria quanto più potessi, ma io non avevo forze bastanti per scendere nel "vaglio", il cortiletto dove ci era concesso di camminare su e giù come tristi belve in gabbia. Preferivo dunque accoccolarmi accanto a una inferriata della corsia e, la testa riversa, alitare. Il settembre volgeva alla fine, già qualche foglia secca vagava, talvolta impigliandosi fra le sbarre con un crepitar leggero come la beccata di un uccello: quando mi riusciva di catturarne una la sbriciolavo fra le dita e raccoglievo nel cavo della mano quella polvere vegetale. Ci sentivo il profumo acre delle selve squassate dal vento, della terra arsa, delle stoppie, e per saziare la mia fame di libera natura, chiudevo gli occhi illudendomi di avere sotto i piedi il suolo di un bosco: forse mi preparavo così alla cecità che mi minacciava. Rinfrancato da quei pochi fili di brezza e da quell'odore, mi ricomponevo in mente gli aspetti dell'autunno, le siepi rugginose, il cielo cristallino e teso dove il sole, non più infocato, posa come una
medaglia sul velluto. Ero dovunque e in nessun luogo. Attraverso le palpebre avvertii che la luce si abbassava: era il momento che potevo aprir gli occhi con minor dolore. Mentre li tergevo col fazzoletto, udii il frastuono via via crescente con cui si annunziavano infauste novità. Era il solito sbatter di cancelli, il cigolare di cardini, il digrignare delle serrature: e passi pesanti e voci sgangherate. Ci eravamo avvezzi: e più eccedevano in ostentazione sonora quando l'intenzione del comandante era di spaventarci per strapparci confessioni di immaginari complotti e altre diavolerie. Conoscevamo per esperienza quelle ignobili commedie e mi preparai a subirne una ennesima edizione: alla soglia delle celle facevano capolino a gruppi i carcerati, incerti se affrontare le nuove prepotenze nella penombra della corsia o nel buio delle tane. Ero dunque quasi solo quando vidi avanzarsi verso di me, seguita da un paio di gendarmi, un'alta figura che quasi mi negavo di riconoscere, tanto il cuore mi saltava in gola. Sbarrando gli occhi, mi rizzai in piedi, e già un clamore si levò: «è tornato, è tornato!»: già Castromediano mi abbracciava. Tumultuando, inciampando nelle catene e nei panchetti, tutti i prigionieri erano usciti nella corsia e gli si stringevano intorno con grida e parole mozze, cercando di afferrargli la mano, di toccarlo: lo strepito fu tale che i carcerieri dovettero temere una insurrezione e cominciarono a menar le mani indietreggiando verso i cancelli. Qualcuno fu stroppiato dalla cassetta di don Sigismondo, caduta a terra, ad altri toccarono cinghiate: ci volle una buona mezz'ora perché, ricondotta la calma, gli sgherri si persuadessero che non occorrevano rinforzi e, dopo aver controllato la saldezza delle catene, si rinchiudessero le inferriate alle spalle. Poco durò l'aria festiva di quella sera. Col pretesto di un tentativo di ribellione, il giorno seguente fummo privati della zuppa e del pane e i compagni più indigenti ricominciarono a mormorare. Ognuno insisteva, com'era naturale, a chiedere notizie su quel che il duca avesse veduto e saputo a Napoli e i popolani formulavano le loro domande in modo elementare, soprattutto ansiosi di conoscere se quelli che avevan chiesto la grazia l'avessero davvero ottenuta. Alle sdegnose risposte di lui, al suo dichiarare che della loro sorte si era ben guardato d'informarsi, non osarono replicare, tanto più che i suoi amici erano furiosi che lo si importunasse interrogandolo sul conto di individui che era doveroso ignorare. Don Sigismondo doveva riposare, protestavano, il suo soggiorno a Napoli era stato una battaglia contro perfide insidie di ogni genere. Era vero, ma di questo argomento essi si valsero per trattenerlo a lungo in conciliaboli di carattere politico da cui i popolani erano esclusi. Vi partecipai anch'io, con pochi altri di civile condizione, ma non mi sfuggiva il senso che essi potevano assumere agli occhi dei contadini e artigiani che avevano sofferto come e più di noi. Lo feci osservare e mi diedero sulla voce: solo Poerio parve approvarmi. Cosa potevano capire quei poveri ignoranti dei maneggi di Cavour, delle intenzioni della Francia e dei segreti contatti con gli esuli? Li avrebbero interpretati scorrettamente, si sarebbero montati la testa, con danno di tutti: toccava a noi, responsabili, discuterne e stabilire su quali appoggi si potesse contare. Lo avremmo poi spiegato alla buona ai compagni più sprovveduti, regolando la loro condotta, a evitare interpretazioni false e iniziative sconsiderate. Nella sua cassetta, il Castromediano era riuscito a contrabbandare qualche numero di giornali stranieri da cui si poteva dedurre l'andamento dell'opinione internazionale nei confronti del Reame: che il Cavour stesse armeggiando per partecipare alla guerra di Crimea era l'ultima esaltante notizia. Furon procurate due bottiglie di Falerno e si brindò al Piemonte e a Vittorio Emanuele: purché Mazzini non venga
fuori con le solite pazzie, si diceva; purché i repubblicani non intralcino con le loro assurde pretese. Non sono bevitore e ho il vino triste: quel bicchierino mi diede una cupa lucidezza sarcastica che stentai a dissimulare. Pensavo alle barricate milanesi e napoletane, alla Repubblica Romana, a Garibaldi: ecco i fatti e i nomi che il popolo capiva d'istinto, quello per cui i nostri uomini migliori avevano sacrificato la vita e la libertà. Non pochi anni, ma secoli parevano dividerci da quegli avvenimenti gloriosi, e nessuno ne faceva menzione come non si usano l'arco e le frecce quando si dispone del fucile e del cannone. Da noi, la piccola gente considerava il Piemonte uno Stato straniero e il suo sovrano un parente stretto di Ferdinando che, scalzandolo dal trono, avrebbe commesso un tradimento. Non tener conto di questi sentimenti mi pareva stolto e sempre più chiaramente vedevo i pericoli di un tale equivoco, favorito dalla ignoranza di una situazione che solo noi democratici avevamo capito. Ma la voce dei democratici era stata soffocata ai primi vagiti e le loro sofferenze in carcere potevano apparire illogiche e vane. «In fondo, Ferdinando si difende, la cosa non ci riguarda» avevo sentito dire un giorno da uno dei sei traditori, che non era uno stupido. Una bestemmia o un'osservazione sensata? Forse la nostra costanza in carcere gli era apparsa come un atto di guerra compiuto senza piani, una bravata. Dure riflessioni che mi tenevo per me. Rientrato da quelle chiacchierate - ché altro non erano, purtroppo nella cella dei pezzenti, mi sentivo tutti gli occhi addosso: nessuno però chiedeva cosa si fosse detto, pareva che una tetra tranquillità fosse calata su di loro spogliandoli di qualunque interesse. La interpretavo come una conferma delle mie ipotesi, aggravata dal fatto che nessun risentimento trapelava dal loro contegno. Non si sentivano offesi, insomma, per esser così trascurati, eran persuasi di non contare più nulla. Certo la loro secolare saggezza li avvertiva che niente sarebbe cambiato in un mondo diviso fra ricchi e poveri e che ognuno doveva pensare ai fatti suoi: non mi sembrava, infatti, che un'intesa li accomunasse; le poche frasi che scambiavano, almeno in mia presenza, riguardavano il cibo, e le altre necessità della vita di ogni giorno. Notai che s'erano familiarizzati con qualcuno dei custodi e prevedevo che più di una supplica sarebbe partita fra poco da Montefusco alla volta di Napoli. Non era dunque servito a nulla l'esempio di Castromediano che colla più severa fermezza aveva resistito alle lacrime dei parenti, alle esortazioni degli amici di famiglia, tutte intese a fargli accettare i termini onorevoli di una particolare grazia sovrana. A Napoli gli avevano assegnato una cella che di prigione non aveva che il nome, comodissima e quasi elegante, i pasti gli erano serviti con estrema cura: quando raccontava come, rivedendo una poltrona morbida e un soffice divano gli fossero venute le lacrime agli occhi, non c'era chi potesse nascondere la propria commozione. Ma eran discorsi fra privilegiati, quelli, giacché tappeti, tendaggi, piacevoli arredi, i compagni poveri non li avevano mai toccati e a malapena sbirciati per caso. Mai sazi di ascoltare quanto don Sigismondo andava via via narrando, i suoi amici dimenticarono il proposito di comunicare agli umili manovali le notizie di Napoli e le speranze che ne avevano ricavato. Forse, nel loro giubilo, credettero di averlo fatto: oppure considerandoli creature devote, ciecamente fiduciose nella saggezza dei capi, non lo ritennero necessario. Io, che vedevo le cose in tutt'altro modo e dell'animo popolare avevo maggiore esperienza, fui più colpevole di loro. Ma se tento oggi - e più volte mi ci sono provato - di spiegarmi perché non cercassi di parlare ai miei compagni di cella facendoli partecipi dei nostri discorsi e confortandoli a resistere, trovo qualcosa di simile al
rispetto: rispetto della loro mentalità e della loro libertà di azione. Difatti quando si diffuse la voce che due contadini e due operai avevano anch'essi chiesto la grazia - e non la ottennero, disgraziati - finsi di ignorarlo e procurai di non evitarli come gli altri, quando li scontravo nel corridoio. I due poveri contadini, due fratelli, sbiancati sotto la pelle coriacea, con quelle inutili manone pendule lungo i fianchi, erano caduti in una cupaggine che quasi rattrappiva i loro corpi, ero sicuro che desideravano la morte e mi destavano un'immensa pietà. Ma neppure questa pietà mi induceva a soccorrerli di qualche parola. E, del resto, altri pensieri non comunicabili a nessuno, mi occupavano. Lo sapevo da gran tempo che l'ideale repubblicano era perduto, ma adesso mi accorgevo che in tutti quegli anni di martirio ci avevo ancora confusamente sperato, fantasticando che un qualche avvenimento imprevisto potesse risuscitarlo. Quel brindisi a Vittorio Emanuele mi tornava a gola, mi giudicavo ipocrita e traditore per non essermici rifiutato. Tutto perdeva valore, il mio sacrificio, la fede nei compagni che più stimavo. Mi restava la libertà del pensiero: tanto valeva, allora, rimanere a Montefusco e morirvi. Il colera infieriva nel Reame, ma noi non ne sapemmo nulla: solo più tardi quando non eravamo più a Montefusco ci giunse la notizia che sei dei nostri, rimasti laggiù, avevano preso il contagio ed erano morti, privi di assistenza e abbandonati da tutti. Nella nostra tristezza per una fine così atroce e immeditata, stupivamo di esser rimasti indenni, pur così infermicci come tutti eravamo. Dico tutti, alludendo ai trenta che per un ordine improvviso furono trasferiti a Montesarchio: ed io ero fra loro, quel 28 maggio 1856, la prima data certa da quando avevo lasciato Procida. La cognizione del calendario ce la aveva riportata Castromediano, un anno e mezzo prima, e tutti quei mesi - un inverno, una estate, un altro inverno - io li avevo passati in una volontaria ottusità che mi salvava solo in parte dalla più nera disperazione. Quando ci chiamarono, uno per uno, intimandoci il viaggio, gli sgherri ci schernivano: «Ecco le trenta notabilità pericolose» dicevano ghignando: così ero stato definito all'Aquila e sembra che la formula, inventata da Ferdinando, si applicasse ai politici più temibili. I compagni esclusi dall'appello erano tutti povera gente abbrutita, appena capace di filare la canapa per il compenso di due grana al giorno «Salta chi può» fu il saluto rivoltoci da uno di loro, un poveraccio che soffriva di fegato e ogni cibo gli era veleno: ma io vidi bene che quella frase beffarda esprimeva la convinzione di tutti i suoi compagni; fra i chiamati, infatti, c'era soltanto un paio di popolani, tutti gli altri erano più o meno "galantuomini". Mentre ci congedavamo frettolosamente da loro, pare che qualcuno piangesse: torbide sono le ragioni per cui un carcerato piange, le sue lacrime non sono mai pure, ci si mescola sempre un moto di rabbia. Don Sigismondo, cuore candido, ci scorgeva un segno di dolore per la nostra partenza; io non ne ero altrettanto sicuro. Non conoscemmo mai i motivi che avevano consigliato il nostro passaggio a Montesarchio: la voce corrente li attribuiva al perfetto isolamento di questa rocca militare, convertita alla lesta in un carcere. Sebbene orrido e fetido, quello di Montefusco sorgeva nel centro del paesetto omonimo, fittamente popolato: quest'altro, invece, aveva l'aspetto di una fortezza solitaria, e si ergeva su una roccia scoscesa al cui piede solo poche casupole e una cappellina si contavano. Il luogo era cupamente maestoso, la valle da cui emergeva la rocca era circondata da monti dirupati, come il Taburno, scuri sulla cima: quell'aspetto selvaggio strinse il cuore a più d'uno fra noi: a me non dispiacque. M'ero aspettato, attraversando le campagne dell'Avellinese e del
Beneventano, di distrarmi almeno per qualche ora, dalla ormai solita inerzia dell'animo. Non fu così, anzi provai una specie di sbigottimento, un'oppressione di respiro, quasi il vento primaverile, rafforzato dallo scorrere della vettura, non fosse più aria per i miei polmoni: in una parola non aspiravo che al momento che nuove mura mi rinchiudessero. Tacqui questa penosissima sensazione, ma non doveva esser poi così bizzarra se, conversando, altri compagni vi accennarono. E di un'altra cosa soffrì Castromediano: l'apatia della gente fra cui si passava. Col mio pessimismo consueto gli chiesi se fosse davvero sicuro di aver visto, nel viaggio da Napoli a Montefusco, quattro anni innanzi, donne col fazzoletto agli occhi per pietà di noi: io, in effetti, non le avevo notate. Rimase pensieroso, poi protestò debolmente contro il mio scetticismo. Salimmo alla fortezza a piedi, per sentieri da capra, impraticabili alle carrozze: il peso delle catene e la nostra estenuazione resero il cammino assai penoso. Grondanti di sudore e affannati, ci fermammo un istante sul piccolo spiazzo, dinanzi alla porta, su cui soffiava un vento gagliardo. Mentre c'infilavamo come pecore tosate nel primo andito, rammentai il nostro arrivo tra la neve di Montefusco e la sosta crudele cui, bene o male, avevamo resistito senza gran danno. Eravamo giovani e ancora in forze, allora, adesso eravamo pavidi come vecchietti, gli anni del carcerato contano per lustri. All'interno, la rocca era disposta a corsie circolari a più piani su cui si affacciavano le celle e ciascuna aveva la sua finestra ferrata, non però esigua, luce e aria non ci mancavano: di spazio, poi, specie al confronto con Montefusco, ne avevamo in abbondanza. E' in parte per questo che se rievoco Montesarchio, ho l'impressione di averci sempre abitato da solo, non ricordo infatti con chi dividessi la cella. Affermare che rimpiangevo la compagnia dei miserabili di Montefusco non azzarderei: ma il pensiero che essi seguitavano a patire abbandonati alla loro ignoranza, preda di qualunque inganno, e che non ne avrei saputo - come infatti avvenne - più nulla, mi riempiva di angoscia e quasi di rimorso. Spesso mi dicevo che avrei dovuto, per essere fedele alle mie idee, rifiutare il trasferimento e a volte mi auguravo che esso implicasse nuovi rigori che a loro eran risparmiati. Anche i miei compagni del resto se li aspettavano, ma non ne fu nulla. Più leggeri di cuore, non certo per cattiva coscienza, essi presero a vivere con qualche conforto: Castromediano, Nisco, Palermo occupavano con Poerio una stanza passabile ed eran serviti da uno dei popolani che ci avevano accompagnati. Fra le concessioni di cui si godeva, c'era il permesso di coltivare qualche pianticella fiorita nel cortile interno del carcere e questo svago innocente, unito all'altro di allevare e addomesticare un paio di passerotti li rallegrò per tutta l'estate. Quanto a me, ero troppo malandato per profittarne, la mia vista peggiorava, la tabe dorsale di nuovo mi minacciava, passavo le giornate senza far moto, disteso sul mio farto, appena rispondendo alle premure dei compagni. Il medico carcerario mi esortava a scuotermi; a fare un po' di moto: ma la mia volontà era spezzata e l'esserne, come ne ero, cosciente, mi era piuttosto uno scherno che una mortificazione. Per lunghe ore, mentre i compagni accudivano al loro giardinetto o salivano alla squallida infermeria dove giaceva Pironti, afflitto dall'artrite, ottenevo l'unico sollievo ai miei mali, il silenzio. Tuttavia, credendomi vicino alla tomba e continuamente pensandoci, non riuscivo a reprimere il raccapriccio: una debolezza che oggi non so perdonarmi. Il mio stomaco era inerte ma ci buttavo per forza gli alimenti che gli amici mi portavano: avevo perduta l'antica alterezza e non mi curavo di appurare se il mio poco denaro bastasse a procurarlo. Ero ridotto, insomma, uno straccio d'uomo: di peggio non potevo immaginare salendo a Montesarchio.
Come non mi giovava l'aria migliore e il cibo più sano, non riuscivo ad assimilare le voci del mondo esteriore che in qualche modo mi giungessero. Se ripenso, per esempio, a come accolsi la notizia dell'attentato al re di Agesilao Milano, non ritrovo che il ricordo di una totale indifferenza. L'appresi una mattina di gran freddo, e i compagni, anche Poerio che a stento respirava per il catarro, s'erano messi a passeggiare in su e in giù per il comune corridoio, scambiandosi ipotesi che mi parevano inette, sulle conseguenze dell'avvenimento: più di quelle chiacchiere, del resto, m'infastidiva il rumore delle catene strascinate sul pavimento. L'opinione generale era che se un soldato aveva potuto concepire un simile gesto, era segno che il paese e l'esercito erano stanchi di Ferdinando e pronti a insorgere. Mi accusarono di spirito di contraddizione quando insinuai che, come al tempo di Gladstone, il Borbone si sarebbe certo vendicato su di noi, come ispiratori di ogni violenza e avrebbe magari infierito sulle nostre famiglie. Nisco fu il primo a risentirsi: era costernato, le mie parole inasprivano la sua angoscia per non ricevere più, da mesi, visite della moglie e dei fratelli che da Avellino, loro residenza, facilmente raggiungevano Montefusco. Si adirò, imprecò contro di me quasi fossi responsabile delle sue ansie: parlando camminava a gran passi concitati che mi battevano le tempie. «Barone» gli dissi freddamente «vi prego di controllarvi». Nel cerchio degli amici, Nisco era molto stimato, Castromediano lo prediligeva per i modi cerimoniosi che aveva saputo conservare nelle peggiori strette. D'altronde non era un segreto che non corresse fra noi nessuna simpatia, prova che la solidarietà carceraria non muta sempre gli animi. I passi si fermarono ed ebbi la sensazione che quel breve scontro scavalcasse le nostre persone. Purtroppo fui buon profeta, non passò un giorno che il solito corteo degli sgherri irruppe nel carcere. Eravamo accusati di complicità col regicida - non si sapeva ancora che il re era illeso - e ci cacciarono in cortile sotto una gelida pioggia ad aspettare l'esito di una rovinosa perquisizione (la prima a Montesarchio) dei nostri cenci. Scesi l'ultimo di tutti e mi rincantucciai in un angolo del cortile, allo scoperto, sdegnando con un'alzata di spalle l'invito di quelli che s'eran riparati sotto una tettoia: mi bagnai fino alle ossa. Ma bollivo di collera, nella mente alterata accomunavo l'odio per i carcerieri all'insofferenza per la leggerezza dei compagni. Più tardi, durante la bronchite che mi buscai per la mia bravata, spiavo l'occasione di spiegare l'animo mio a Castromediano che rimaneva per me il paragone della dirittura morale. Almeno lui mi avrebbe capito. Venne infatti al mio letto, nell'infermeria dove mi avevano trasportato di autorità: lo accompagnava Poerio e ambedue dividevano le loro premure fra me e il paziente Pironti. Cordiale, fraterno, ma soprattutto indulgente, mi trattava come un bambino irrequieto e capriccioso. Parlargli delle mie convinzioni, delle cose in cui credevo, discutere la sua fede in un progresso che lasciasse intatti i privilegi di sangue, mi parve inutile e persino crudele. A confortarmi egli si diffondeva nelle solite lodi sull'abilità di Cavour, riuscito ad allearsi con Napoleone, in vista di una prossima guerra con l'Austria. Perché turbarlo rivelandogli quanto dissentissi dalle sue speranze? Scoraggiato, riflettevo che di me non conosceva che la mia costanza di liberale e patriota e la mia partecipazione ai fatti del '48: non me la sentivo di rinunziare alla sua amicizia. I francesi, dopotutto, erano ancora quelli dell''89, chissà che dalla loro alleanza non scaturisse per tutti un nuovo impeto rivoluzionario. Cullandomi in tali illusioni, mi limitavo a stringere quella sua mano asciutta di aristocratico e nelle insonnie della febbre, farneticavo di convertirlo, un giorno, alla mia causa. Mal guarito, estenuato all'eccesso e mezzo cieco, fui ricondotto alla
mia cella: era deserta, e anche le altre affacciate alla stessa corsia apparivano disabitate. Mi dissero che la maggior parte dei miei compagni eran passati al piano superiore e non chiesi di più. A questo punto c'è un gran vuoto nella mia memoria, un vuoto che non mi è mai riuscito di colmare. L'ultima volta che vidi don Sigismondo a Montesarchio fu quando egli mi portò la notizia della sventurata impresa di Pisacane e della sua morte. Al nome di Sapri, si spalancarono dopo tanto tempo, le coste della mia Calabria, fatalmente ostili a chi ci sbarcava in nome della libertà: sentivo l'odore del mare. «Nicotera era con lui» aggiunse l'amico «fu ferito, l'hanno preso.» Sobbalzai, pensai a Musolino, al suo dolore: «Lo fucileranno?». Ansioso, spiavo fra ciglio e ciglio il volto del duca e mi parve di cogliervi un'ombra d'imbarazzo: «Non sembra» fu l'evasiva risposta e subito il discorso volse alla proposta recentissima di Ferdinando che ci offriva la deportazione in Argentina, rifiutata da tutti e a me neppure comunicata dato il mio stato di salute. Pisacane: il suo nome mi era noto. Ex ufficiale borbonico e di idee estreme, lo credevo in esilio. Lasciando l'esercito era rimasto militare nell'animo ed univa al suo fanatismo rivoluzionario il culto della tattica di guerra, unico strumento, affermava, per una concreta redenzione del Paese. Vecchio come sono e superstite di tanti naufragi, non ho mai saputo districare i fili molteplici in cui si divideva l'opinione liberale in Italia, né ho mai capito in che consistesse, per meridionali e settentrionali, il "Paese". Temo che gli uni e gli altri ne avessero un concetto molto limitato e parziale. Per quel che riguarda Pisacane confesso che i suoi principi mi seducevano, sebbene non ne avessi profonda conoscenza. La sua estrema determinazione mi ispirava più fiducia che le utopie dell'amico Musolino che era andato a proporre riforme al Gran Turco. E anche diminuito com'ero, nel corpo e nella mente, intendevo benissimo il senso della sua impresa disperata. Castromediano, lui, se la prendeva con l'eterno Mazzini, fautore e complice di ogni inutile sacrificio; io credevo di sapere per certo che, stanco di prudenti riserve, di contrasti dottrinali, di alterne indecisioni, convinto di esser rimasto solo, Pisacane aveva organizzato un suicidio che scuotesse gli animi torpidi. Esser riuscito a scomparire era sempre un successo, per lui. Ma Nicotera? Musolino aveva un debole per questo suo nipote, ragazzo focoso, di pronto ingegno e, secondo lui, di alte speranze. Quando, nei primi mesi di Montefusco, mi rodevo immaginando quel che avrebbero tentato e fatto i cospiratori più giovani di me, liberi o in esilio, era sempre l'immagine di Nicotera (un po' troppo signorino, per i miei gusti) che mi ricorreva alla mente. Ma non era un'immagine corroborante, solida: mi pareva che all'urto del mio pensiero essa cedesse, si sottraesse. Non me ne fidavo, insomma. Perché? Per quanto frugassi nella memoria, non riuscivo ad afferrarne la causa, eppure da un seme doveva esser germogliata. Al Pizzo, quando si diceva Musolino, si sottintendeva carattere fermissimo e Nicotera non faceva un gesto che lo zio non approvasse. Ma Musolino era esule, prima a Corfù, poi, dicevano, in Francia. Lo aveva consigliato lui a unirsi a un disperato come Pisacane? E come mai Nicotera non era stato abbattuto insieme al suo comandante? Non so quanto durasse quel mio smemoramento di Montesarchio: da quel che in seguito argomentai, suppongo che una qualche malattia mortale mi avesse tenuto a lungo fuor di sentimento. Di quel periodo conservo tuttavia due sensazioni, che mi furono medicina e conforto: quella di un silenzio dilatato e di un buio di velluto. Il buio, ricordo, mi era stato prescritto dal medico che non sapendo più come curare i miei occhi, aveva forse pensato di avvezzarmi pietosamente alla cecità. Ma il silenzio, quel silenzio, non trovo
parole per descriverlo. Compatto, eppur leggero, non ottuso ma vibrante. Respiro di montagna senza vento, senza fruscii né scricchiolii di rami: dove l'orecchio, teso all'estremo, finisce per percepire un sibilo remoto, voce di una non-voce. Quando mi tornò la coscienza mi sentivo sospeso in quel fluire, lontano dallo spazio e dal tempo come un immortale, padrone di una libertà sconfinata che ignorava i limiti del mio corpo. Masticavo pane, qualche boccone di carne: forse sono morto, mi dicevo. Per caso, mi accorsi di non essere cieco: ricordo il momento che distinsi un barlume e capii che filtrava da uno spiraglio dell'inferriata. Facendo leva sui gomiti e sulle ginocchia, ansimando, mi ci accostai: credevo che la piena luce diurna non mi arrivasse più che con questo flebile messaggio. Ma era notte: riconobbi il cielo stellato, quel lucore era lume di luna. Col cuore in gola, poggiai la fronte alle sbarre e bevevo l'aria freschissima. Non ho mai provato gioia più grande. Ero vivo, dunque. Lentamente ritrovai la cognizione del luogo e del mio stato: ero solo, in una cella, avevo un carceriere che ogni tanto mi portava il cibo, m'imboccava e mi soffregava con uno straccio bagnato d'acqua e aceto la faccia e le mani. In sua presenza rimanevo disteso a occhi chiusi, non so perché mi pareva prudente non rivelargli che gli occhi mi servivano ancora e potevo muovermi. Lui assente, osai uscir nella corsia e farci qualche passo: solo allora mi accorsi di non avere la catena al piede. La toglievano, di regola, ai moribondi. A poco a poco, cominciai a orizzontarmi, a riflettere: le altre celle erano disabitate, ma mi ricordai che i compagni erano passati al piano superiore. Trovavo strano, però, che nessun passo echeggiasse per quelle volte, nessuna voce di detenuto o di sentinella. Come mai i miei compagni non scendevano a visitarmi? Possibile che Castromediano, Poerio, Palermo, mi avessero dimenticato? Rimuginavo così, una mattina, ed ero tanto assorto che scordai la mia inutile finzione e il custode mi trovò a occhi aperti, seduto sul letto. Era uno zoppetto segaligno e mi fissava spaurito quasi vedesse un fantasma. «Allora non siete morto» mi fece «avete la pelle dura. Ma non la scamperete se non vi decidete a chiedere anche voi la grazia e uscire di qui.» Ero ancora così debole che l'indignazione mi mozzò il fiato. «Di che grazia parli» boccheggiai appena mi fu possibile «risparmia le tue menzogne per i poveri ignoranti che si lasciano ingannare. Nessuno di noi chiederà mai la grazia, a un tiranno come Ferdinando.» Per lo sforzo sudavo e tremavo mentre l'ometto mi guardava fisso: aveva la pelle gialla del malarico e occhi piccoli e neri come chicchi di pepe. Rideva e quel riso mi sbigottiva: sentivo che c'era qualcosa di vero in quel che diceva. «Grazia o non grazia» riprese «i vostri amici sono tutti usciti di carcere. Voi venite dal mondo della luna e non sapete che a quest'ora sono tutti sul mare e se ne vanno all'America di loro volontà. Non sapete neanche che Ferdinando, pace all'anima, è morto e adesso il re è Francesco con tanto di sposa venuta da fuori via. Per quanto è vera Santa Filomena, i vostri baroni e il vostro duca se la sono battuta. Volevano salutarvi, ma voi stavate più di là che di qua e nessuno vi si avvicinava, se non era per me vi avrebbero sepolto vivo. Sissignore, anche i vostri galantuomini temevano il contagio, la pelle preme a tutti. Va a sapere se l'hanno chiesta o no, la grazia.» Cosa potevo replicare? Niente, e così feci. Il mio povero cervello del resto aveva di che tormentarsi senza spendersi in futili contese. Tutto era chiaro, il silenzio del carcere, la negligenza dei carcerieri, senza dubbio ridotti di numero: in poche parole Montesarchio era vuoto, non serviva più, io ne ero il solo prigioniero
che ci si era aspettati di seppellire. Partita chiusa. Rimaneva per me inesplicabile come i compagni avessero infine accettata la deportazione. Argentina o America per un ignorante non fa differenza: se avevano deciso di farsi coloni in una terra selvaggia, era segno che non c'erano più speranze per noi. Che Italia, che Piemonte, che Vittorio Emanuele! Il nuovo re aveva forse concesso la costituzione e aveva esordito con atti clementi imitando il padre nei primi anni di regno. Lo deducevo anche dal miglior trattamento di cui, per così dire, godevo, e che non poteva venirmi dai soccorsi della mia famiglia: era un secolo che non ne avevo notizia. Da Gennaro, il mio strano custode, avevo saputo che i gendarmi di Montesarchio si contavano ora sulle dita di una mano e passavano la giornata a zonzo per le campagne: il comandante del Bagno viveva ancora nella fortezza, ma quasi da privato, senza curarsi di me. Non mi restava dunque che vegetare fra quelle mura, aspettando la morte o, peggio, la vecchiaia: a meno che non preferissi darmi da fare e tentare la fuga. Sinceramente non ne avevo voglia. Smobilitato a quel modo, era naturale che il carcere non fosse più provvisto né di medico né di cappellano, talché, se fossi morto, nessuno se ne sarebbe avveduto: storie tenebrose di ergastolani dimenticati di cui, dopo decenni s'eran riscoperte le ossa, mi ritornavano talvolta alla mente, senza però far presa sulla mia fantasia. Che m'importava, dopo tutto? Forse la morte solitaria è meno tetra di una fine drammatica, fra pianti e lugubri cerimonie. Riprendevo le forze, la vista era meno ingombra. Nessuno m'impediva di circolare per la corsia o di scendere nel vaglio dove, tristemente, le aiole che i miei compagni avevano coltivate, infittivano di erbacce. Le poche rose, gli stenti gerani piantati da loro erano talmente inselvatichiti da farmi pensare che più di una stagione fosse trascorsa dal giorno della loro partenza. Di nuovo le dimensioni del tempo mi erano sfuggite, ma non mi premeva di riconquistarle: ero un naufrago e tale sarei rimasto, né c'era nave che potesse raccogliermi. Di chi mi sarei fidato per riempire i vuoti dove mi trovavo sospeso? Gli occhietti animaleschi di Gennaro mi ripugnavano: chiedendo attraverso di lui un colloquio col comandante avrei lasciato supporre di esser pronto a firmare una domanda di grazia. Privo di consigli, all'oscuro di tutto, sospettoso di tutto, la responsabilità di quanto facessi o dicessi era il mio incubo, ma anche il mio unico sostegno. Conscio della mia debolezza, notte e giorno mi sorvegliavo, non occorre il serpente per conoscere la tentazione. Se anche cedessi, mi dicevo, chi lo saprebbe? Mi sarebbe facile sparire, far dimenticare il mio nome, nasconderlo sotto una tomba supposta. Morto per tutti; a questo patto mi sarei arreso. Poi qualcuno mi avrebbe aiutato a emigrare, a coltivare un cantuccio di terra, a esercitare un qualsiasi mestiere. Il pensiero di abolire così la mia storia, le mie illusioni, la mia stessa nascita mi inebriava. L'esperienza del carcere mi aveva insegnato come si perdano i gusti e le abitudini signorili, come rapidamente ci si uniformi a un costume miserabile. Bastava che mi lasciassi andare per trovare una pace definitiva. Resistetti: se ben ricordo ne ebbi la certezza il giorno che un rustico maniscalco, sostituendo lo sgherro a ciò adibito, mi rinsaldò alla caviglia la "quattro maglie" toltami quando m'avevano spacciato. Ripresi così la mia personalità di galeotto e uscendo da un'ambiguità tanto pericolosa, rientrai in me stesso. Da quel momento, anche la figura di Gennaro mi apparve meno ambigua, più umana. Fino allora avevo interpretato il suo incessante girellare per la corsia e l'assiduità con cui mi seguiva nel vaglio, come il segno di una sorveglianza comandata, intesa a spiare ogni mio gesto per perdermi. A poco a poco mi persuasi che quel povero diavolo era prigioniero come me e senz'altro scopo che dar prova di zelo per
vivacchiare: se gli fossi mancato, probabilmente l'avrebbero buttato sul lastrico. L'ozio a cui il suo ufficio lo costringeva era il motivo di quel suo zampettare dietro i miei passi: era solo anche lui e io ero l'unico vivente con cui potesse scambiare qualche parola. Era escluso, del resto, che accudendo alla pulizia della mia cella e ad altre poche faccenduole, lo muovesse la solita cupidigia dei carcerieri incalliti: io non avevo un quattrino; di mance non poteva sperarne. Gli ultimi tempi di Montesarchio li consumai dunque in una specie di serenità che non era pazienza conquistata a fatica, ma dono, piovuto chissà di dove. Nessuno mi aveva impedito di allogarmi nella cella migliore del carcere, una stanza spaziosa, provvista di un'ampia finestra a specchio dei monti. Ci avevo radunato qualche modestissimo arredo, un tavolino, un paio di seggiole, un letto a trespoli. Privo di detenuti, Montesarchio si andava purgando dalla sporcizia e dagli insetti, Gennaro curava il bucato delle mie poche biancherie e mi procurò, nei mesi freddi, persino un braciere che non mancava mai di carbonella. Avevo ripescato il mio Dante e disponevo ora di qualche altro libro dimenticato dai compagni all'atto della partenza: una Bibbia, le Confessioni di Sant'Agostino, un Virgilio. Di notte mi rischiarava un lume a olio, ma lo spengevo presto, le tenebre non mi turbavano anzi rendevano straordinariamente attivo il mio cervello. Non pensavo al mio stato, riflettevo sul senso della vita umana che, al di fuori del singolo, continua. Mi consideravo fuori gioco e mi sembrava futile affannarmi sulla mia sorte, essa mi era estranea come quella di un ignoto trapassato. Anche delle idee a cui m'ero votato vedevo il lato contingente, effimero, sebbene, strano a dirsi, fossi sicuro che qualcosa di buono ne sarebbe scaturito un giorno o l'altro, magari fra secoli. A volte mi mettevo a computare quanti anni avessi trascorso in prigione: le cifre mi si confondevano, anche quelle della mia età; mi sentivo, a un tempo, vecchissimo e giovane. Non avevo specchio ma dovevo essere canuto se i peli del mio petto erano bianchi. Quando, all'Aquila, ero stato condannato all'ergastolo avevo pensato: se non muoio prima, uscirò decrepito. Che porzione avevo scontato della mia pena? Dubitavo dei miei computi e ciò che mi atterriva era immaginarmi, chissà fra quanti anni, in libertà, cadente e squallida reliquia, senza mezzi, senza tetto e ragione di vivere. Non avendone più notizia, ero certo che la mia famiglia fosse estinta o ridotta - per colpa mia - all'estrema indigenza. Meglio dunque aggrapparmi alle mura di Montesarchio, come un eremita alla sua grotta. E' diritto di ognuno scegliere la libertà che gli conviene, e la mia era il carcere. Per fuggire la tentazione di chiedere la grazia, mi rendevo forse colpevole di una viltà peggiore e più sottile. Dormivo tranquillamente e a lungo: ora lo strepito metallico delle sbarre e dei chiavistelli non mi allarmava più, anzi lo registravo con un certo piacere, esso precedeva l'apparire di Gennaro sulla soglia della cella, con quello che lui chiamava caffè, ed era una brodaglia scura e calda, non del tutto sgradevole: era lui, adesso, il mio cuoco. Si era stabilita fra noi, non dico la familiarità, ma la consuetudine che lega un padrone povero a un servo miserabile: me ne rendevo conto con disagio, ma non stavo, come un tempo, a sottilizzare. Talvolta mi divertivo a spaventarlo: era superstiziosissimo, credeva agli spettri e gli dava una gran noia un piccolo gufo che aveva preso a visitarmi e, a buio, si appollaiava sul mio tavolino, vegliandomi per tutta la notte coi suoi occhi tondi e fosforescenti: prima dell'alba se ne volava via. Più volte, sorprendendolo a frullare per i corridoi, Gennaro aveva tentato di scacciarlo e non capiva come lo sopportassi, il gufo porta male, è un messaggero del diavolo e delle anime dannate, quelle stesse che
vagavano per il carcere trascinando le loro catene. Ridevo e a dimostrargli che erano tutte storie da donnette, gli proponevo di passare una notte accanto a me, vedrebbe che i fantasmi non esistono. «E del resto, perché non hai paura di me? Forse son morto, anch'io trascino la catena.» Fece un balzo e per segnarsi lasciò cadere la ciotola che aveva in mano: «Non scherzate, eccellenza, non si scherza con queste cose, e io sono un poveruomo». Mi fece un certo effetto sentirmi, dopo tanto tempo, chiamare a quel modo, secondo il costume del volgo meridionale quando parla a un signore. Quel segno di rispetto interpretava un ordine del comandante o Gennaro s'era espresso istintivamente dimenticando le sue funzioni? Ma soprattutto fu quel "poveruomo" a colpirmi. A Procida, per dispetto o per polemica, mi ero accostato a delinquenti comuni, deducendo dai loro discorsi sino a che punto il regime borbonico avesse corrotto la plebe: già ho rammentato la mia familiarità con un capo brigante. Ma a un carceriere no, non avevo mai potuto indurmi a parlare da uomo a uomo, la sua vita, le sue miserie e come si fosse ridotto a esercitare un mestiere così vile, non m'interessavano, mi bastava disprezzarlo e giudicarlo peggiore di una qualunque schifosa bestia. Adesso mi sorpresi a riflettere che un carceriere - Gennaro, per esempio poteva essere non del tutto ignobile e conservare qualche buon sentimento. Lo fissai mentre raccoglieva i cocci della tazza: aveva le guance e il collo tutti bucherellati, e non me n'ero mai accorto. «Hai avuto il vaiolo in gioventù?» gli chiesi, e subito distolsi gli occhi da lui che così inginocchiato e sollevando la fronte, a sua volta mi guardava. «Sissignore» rispose precipitosamente, senza mutar posizione, «un vaiolo terribile, dovevo morire. Lo presi sulle galere del re» (non aggiunse "Dio guardi") «e ci ho anche i segni delle frustate, non dico bugia» (e si denudò il petto tatuato da strisce rossastre) «Da guaglione ero pastore, mio padre faceva il contadino e fu ucciso, crepavo di fame e così tralignai. Giudizio di Dio.» Per più giorni non scambiammo altra parola, salvo che per le necessità quotidiane, ma io sentivo che Gennaro avrebbe volentieri continuato il discorso se appena gliene dessi occasione. Sebbene incuriosito, io me ne guardavo mi era tornato il sospetto che la sua manierosa sollecitudine celasse qualche trappola ai miei danni. Soprattutto mi aveva impensierito portandomi, con un'aria di allegro mistero, qualche foglio di carta bianca e liscia e una matita nuova. A Montefusco, una simile offerta a un nostro compagno che si era fidato di un gendarme spione, era costata infiniti guai per tutti. Respinsi fogli e matita a muso duro. «Lasciami in pace» dissi gelidamente «non mi serve di scrivere, se ne avessi bisogno ne chiederei il permesso al comandante secondo le regole.» Non insistette e neppure protestò contro il mio evidente sospetto, anzi sulla sua faccia bruciata si diffuse una ilarità devo dire, di buona lega. «Voi credete che voglia ingannarvi per poi portare quel che avrete scritto al comandante, come hanno fatto certuni che so io. Ma i tempi sono cambiati e il mestiere di spia non conviene a nessuno.» Qui si fermò come per aspettare che lo invitassi a proseguire. «Portami piuttosto un po' d'acqua da lavarmi» gli feci, per tagliar corto. Ricominciò l'indomani e con una scusa bizzarra. «Ieri eravate di cattivo umore e io volevo ringraziarvi che mi trattate col tu, il voi a noi poveretti ci dà soggezione.» Mi era alle spalle mentre stavo passeggiando nel vaglio e m'ero fermato a osservare una lucertola, immobile sulle pietre, salvo che nella testina, vivacissima. Non mi girai, quel preambolo mi parve insidioso e non volevo incoraggiarlo, ma lui non ci fece caso e continuò: «Ve lo dico perché fra poco partirete per Napoli, il corriere ha portato l'ordine da Benevento, lo
sanno anche i paesani delle case qui sotto» Quella notizia, vera o falsa che fosse, mi colse così impreparato che per frenare lo scompiglio dei pensieri e per un istinto di difesa, mi finsi indifferente ricominciando a passeggiare. Ma mi sentivo soffocare, quel quadratino di cielo sopra la mia testa mi opprimeva peggio di un voltone basso. Alla fine: «Riconducimi in cella» dissi; e mi avviai. Come fui dentro, mi sedetti al tavolino e per calmarmi presi a sfogliare uno dei miei libri: Gennaro era rimasto sulla soglia della cella e mi guardava come se aspettasse i miei ordini. Per liberarmi da quell'ombra fastidiosa, alzai il viso e lo fissai: «Allora, cos'è questa storia della partenza per Napoli? Te la sei inventata?». Fece un passo avanti e si mise la mano al petto: «E' la pura verità, eccellenza, anzi credevo che stamattina il comandante vi avrebbe fatto chiamare». Sospirò. «Capirete, a me mi dispiace, con buona pace vostra. Partito voi, chi c'è da guardare qui? Mi cacceranno, non sono un custode regolare, chiuso Montesarchio addio pagnotta. Dicono anche che il re sta a mal partito, che i piemontesi hanno vinto la guerra e verranno a comandare, maledetti. Sarò all'elemosina.» Non potevo dubitarne, l'uomo diceva il vero o almeno quello che nella rocca si dava per verità: i suoi occhi arrossati lacrimavano come quelli di un cane rognoso. Ora la sua presenza non mi dava più noia, in fondo il suo affanno somigliava in qualche modo al mio: anch'io dopo tutto, diffidavo delle novità. Non capivo come stesse questa faccenda della guerra, ero rimasto fermo alle speranze che Castromediano e i suoi amici riponevano nell'azione di Cavour e nell'intervento in Crimea, nell'alleanza con Napoleone contro l'Austria. Se guerra c'era stata e conclusa con la vittoria, era verosimile che i piemontesi fossero già penetrati nel Reame? Non ci credevo e prevedevo che i borbonici dinanzi a un così grave pericolo avrebbero infierito contro i liberali che avevano ancora nelle unghie trattenendoli come ostaggi. A che scopo chiamare in Napoli un uomo come me, noto per opinioni estreme e non protetto dalla fama di un Poerio o di un Settembrini, se non per chiuderlo in un carcere più rigoroso e assai meglio custodito della rocca di Montesarchio? Tuttavia questi dubbi dovevo tenerli per me, e rassicurare il disgraziato Gennaro, avvezzo a vedere in ogni vincitore un conquistatore crudele. Gli feci cenno di avvicinarsi: «Di cosa hai paura?» dissi. «I piemontesi sono gente civile, sono italiani come noi e vengono a liberarci dagli stranieri amici del Borbone. Se non conserverai il tuo posto, avrai la tua terra da lavorare senza subire le prepotenze dei baroni.» Parlavo lentamente, scegliendo i termini più semplici, e sapendo che ogni mia parola conteneva una menzogna. Non credevo alla magnanimità dei piemontesi, ero certo che non si sarebbero affatto curati della miseria delle plebi del sud, che la distribuzione delle terre ai contadini era una pura utopia. A un tratto il contrasto doloroso fra quel che affermavo e quel che pensavo mi portò a uno scoppio di irritazione irragionevole: «I miei compagni ed io abbiamo sofferto perché questo avvenisse, perché il popolo avesse una vita migliore. Non te lo ha mai detto nessuno?». Mi aveva ascoltato a bocca aperta, ma, a questo punto la contrasse in un ghigno beffardo: «E come, me lo hanno detto! Lo diceva anche il cardinale ai tempi di mio nonno, lo dissero a mio padre e a me quelli della setta, e gli credemmo. E che ci avrebbero date le terre comunali, quelle dei frati e dei baroni; e i soldi per le semine e per comprare le bestie. Tutto, ci promettevano. Invece niente, era uno scherzo, scappa scappa, si salvi chi può, chi tiene ducati sempre si salva. Mio fratello si fece brigante e lo ammazzarono sui monti, io giravo con le mie pecore mangiando l'erba come loro e mi misi a rubare, poca cosa, e mi presero, miniere e galere. Ma il re buonanima
mi graziò e mi dette questo posto, mai me lo scorderò. Che voi me lo potete giurare che non mi cacceranno?». Glielo giurai in perfetta malafede e mi chiedevo come mi avrebbero giudicato Castromediano e gli altri se mi avessero sentito, ridotto a conversare amichevolmente con un ex galeotto fattosi sgherro, e a ingannarlo per giunta. Ma loro erano lontani, in America o altrove e chissà con quale entusiasmo festeggiavano la vittoria del Savoia. Gli anni di carcere passati insieme non contavano più nulla, non c'era più parità fra me e loro. Dopo il suo sfogo, Gennaro aveva tirato fuori il moccichino e stronfiava soffregandosi occhi e naso: quel po' di cipiglio poliziesco che fino allora era riuscito a mantenere stentava a ricollocarsi sul suo ceffo. Ormai avevo saltato il fosso, non avevo più niente da perdere, potevo dunque indulgere alla mia antica fissazione misericordiosa a pro di chi vive nelle tenebre dell'ignoranza. «Be'» gli dissi «se ci tieni a rimanere aguzzino, fatti animo, i cocci rotti si possono sempre aggiustare e il diavolo non è mai brutto come si dipinge. Anche questi piemontesi avranno bisogno; di carceri e di carcerieri, e dove vuoi che li vadano a prendere? Statti quieto, e quando poi volessi rifarti pastore, ti prometto che dieci pecore e anche venti te le regalo io, se esco in libertà, sempre che il tuo re magnanimo non mi abbia mangiato le poche terre che mi rimanevano quando fui preso.» Parve consolato: «Grazie, eccellenza» balbettava un po' convinto e un po' no. Stava per andarsene, ma prima di scomparire si girò, di nuovo preoccupato. «Scusate, come volete che ritorni pastore a questa età? Ho quarantasette anni, sapete, sono del '13. E soffro dolori, non ce la farei a dormire all'addiaccio. Da ragazzo era un'altra cosa Sotto le stelle...» Sotto le stelle. Era l'inizio di una canzone amorosa udita in gioventù e mi tornava all'orecchio, insieme a quella data del '13 che era la medesima della mia nascita. Sicché avevo anch'io quarantasette anni, si era dunque nel '59. Ricuperai così la nozione del tempo, perduta durante l'inerte svanimento della malattia: io ero rimasto al '57, memorabile per l'impresa di Pisacane. I conti tornavano: se nulla cambiava dovevo ancora scontare diciott'anni di carcere, una eternità che mi convinceva più della guerra vinta e della chiamata a Napoli: fandonie. La conversazione era durata pochi minuti, tuttavia mi aveva terribilmente stancato. Esausto, ripiombai con sollievo nel vuoto e nell'assenza. Ho detto che a Montesarchio dormivo lungamente. Anche di giorno, bastava che mi stendessi sulla branda e subito gli occhi mi si chiudevano, dormire, insomma, era la mia grande risorsa e divenne il mezzo più sicuro per dissipare l'evidenza e l'urgenza con cui certe innegabili novità mi si presentavano, turbandomi. Non c'eran dubbi, qualcosa nel carcere era mutato e sempre più andava mutando: allo stato di unico prigioniero si aggiungeva la rilassatezza della custodia. I cancelli restavano spesso aperti o mal chiusi, avrei potuto, quando lo volessi, percorrere ogni meandro della fortezza, salire sulle terrazze, scendere a pianterreno e, perché no, fuggire. Non ne profittavo e poiché il comandante non si faceva vivo, mi studiavo di evitare qualunque congettura. A volte, nel dormiveglia, farneticavo che qualche fenomeno mostruoso avesse diviso l'altura dove mi trovavo dal mondo circostante. Il monte si era spaccato fino alle radici, tutti erano periti eccetto noi due, io e l'immancabile Gennaro. Il quale, ora silenziosissimo e come imbronciato, continuava a comparire puntualmente ogni mattina e sedendo nella corsia presso la mia porta, aspettava che mi movessi: poi mi veniva dietro, con la sua faccia di cane sperso in cerca di nuovo padrone. E zitto. Quel pedinamento mi urtava a tal punto che, voltandomi, lo fulminavo con
un'occhiata furiosa: allora se ne andava, per ritornare, dopo un po', colla scusa del pasto. Un giorno gli parlai chiaro: «Sorvegliarmi non serve, sai bene che non scappo. Non hai proprio altro da fare che venirmi appresso? Te l'hanno ordinato o ti sei messo in mente che sia il tuo dovere?». «Nossignore» rispose «nessuno comanda più niente, il comandante è in città e anche i gendarmi se la stanno battendo, così a star solo mi prende la malinconia. Voi non fateci caso, leggete, scrivete, io mi sto quieto, noia non ve ne posso dare.» Mi strinsi nelle spalle e m'ingegnai a comportarmi come se lo ignorassi. Ma non ci riuscivo, quell'ostinata umile presenza sottolineava la singolarità della mia condizione: lo sentivo respirare pesantemente, scatarrare, mugolare certe oscure invocazioni. Tanto vale farlo chiacchierare, pensai. Far parlare un contadino, almeno dalle nostre parti, è un'impresa, non se ne ottengono che bugie e allusioni misteriose, senza costrutto: discorsi in cifra, insomma. Nondimeno mi ci provai. «Non mi hai mai detto di dove sei, sei continentale o isolano?» M'era parso di notare nel suo accento e anche in certi suoi gesti qualcosa di siciliano. «Continentale sono» replicò subito con una curiosa fierezza «di Bosco Cilentano, un bel paese, la terra è buona, ci viene di tutto, chi la sa lavorare. E mio padre aveva cervello fino, ci avrebbe potuto campare in pace, invece si lasciò imbrogliare da quelli della setta. Noi eravamo ragazzi di buona gamba, lui ci mandava lontano per i paesi e le masserie a portare cartuccelle. Poi tutto andò a rovescio, galantuomini impiccati, case bruciate, soldati a pattuglioni. Mio padre lo fucilarono, io per salvarmi mangiai la mia cartuccella e feci il tonto vestito da pastore.» La setta. I pastori. Anche noi dei "Figlioli" ce ne servivamo. Erano fidati, precisi, abilissimi nel dissimulare fra i loro cenci i messaggi. Si fingevano ebeti e pigri, ma in una notte valicavano montagne e giungevano puntuali al convegno fissato. Come corriere settario ne avevo conosciuti parecchi, avevo dormito con loro, appunto "sotto le stelle". Chissà, pensavo, che una volta non abbia incontrato anche costui, erano tutti eguali, ravvolti fino agli occhi nei loro mantelli «Ma non era meglio per te, non ti sarebbe piaciuto, piuttosto che rubare, rimanere pastore?» Stette un lungo momento senza rispondere, alla fine si tirò su le brache, nel movimento le chiavi che gli pendevano dalla cintura tintinnarono: non era imbarazzato, era sorpreso. «Se mi sarebbe piaciuto?» fece lento lento come per darsi il tempo di pensare. «E che ne so? A me nessuno me lo ha mai chiesto se una cosa mi piaceva o non mi piaceva. Allora, quando scappai sulla montagna, che ero ancora un ragazzotto, un massaro mi disse: "Se mi custodisci questo branco, avrai il pane e il sale ogni sabato, la ricotta te la fai da te". Che, potevo scegliere? Così mi misi dietro il branco: era d'inverno, non avevo neanche un pannolano ma il freddo mi faceva meno paura dei soldati, quelle povere bestie brucavano a stento un po' d'erba perché non mi azzardavo a scendere. Non sapevo più parlare, le capre mi guardavano, mi venivano certe idee strane. A primavera il massaro mi prese a cinghiate perché non volevo sgozzargli gli agnelli, il sangue mi fa senso. Mi venne la rabbia e gli rubai un maialetto appena scannato, me lo volevo mangiare tutto, tanto tempo che non vedevo carne. Allora lui mi legò all'asino e mi portò giù dai gendarmi.» Non m'ero aspettato un così lungo discorso, ma ciò che mi colpì fu l'indifferenza con cui Gennaro rievocava l'origine dei suoi mali: non c'era risentimento in lui, non desiderio di vendetta, ma la semplice accettazione dei fatti naturali come la pioggia e la neve, a cui è inutile contrastare. Avevo cominciato a interrogarlo sbadatamente, poi via via la sua storia mi aveva preso, a tutti i costi volevo scuotere
la sua passività, strappargli una protesta contro il mondo ingiusto di cui era stato vittima. Il vecchio brigante di Procida, una volta convinto del disordine della società, era rimasto fedele alle sue idee: pensai che mostrandosi rassegnato alle sopraffazioni, Gennaro fingesse. Non mi arresi dunque e insistetti: «E quando il massaro ti consegnò ai gendarmi non ti rivoltasti per una punizione così crudele? Non hai mai sperato che il mondo possa cambiare e che tutti gli uomini abbiano il diritto di sfamarsi decentemente?». Con una spallucciata si schermì e una smorfia cattiva gli ricompose in faccia l'insolenza dello sgherro. «Voi parlate così perché siete un signore e avete il cervello pieno di fumi che è la disgrazia di chi vi dà retta. Che diritti e diritti? Mio padre ci ha creduto, gli avevano montata la testa e si è visto quel che ci ha guadagnato. Chi ha fame s'ingegna, si capisce, ma il maialetto era del massaro e lui ha fatto bene a legarmi all'asino, così avrei fatto anch'io al suo posto, se lasciava correre mi sarei mangiato tutto il gregge. Peggio per chi sta sotto e chi dà ascolto ai chiacchieroni.» Mi stava bene. Quasi ad avvalorare quel nuovo modo burbanzoso, l'uomo batté il martello sulla inferriata e la rinchiuse col catenaccio. Sulle prime provai un'indignazione mista di un curioso sollievo, poi il sollievo prevalse: lo sgherro ritornava sgherro, potevo trattarlo come avevo sempre trattato i pari suoi, senza scrupoli umanitari. Se la memoria non m'inganna non lo rividi più, da allora mi portò il rancio un soldatuccio affogato nella divisa di cacciatore borbonico, troppo larga per lui che era uno scricciolo. Non lo rimpiansi ma ogni volta mi capitava di riflettere sul significato della sua improvvisa insolenza. Forse le notizie che l'avevano allarmato erano risultate false e lui si era affrettato a riprendere la grinta del carceriere; o la voce delle premure usatemi gli aveva procurato una punizione: donde la sua collera. Ma erano ipotesi senza costrutto, sentivo che il motivo della sua rispostaccia era più semplice e non nasceva da fatti esterni, di qualunque natura essi fossero. Finché gli avevo domandato di dove fosse, mi aveva risposto con umiltà e schiettezza, non ravvisando nelle sue disgrazie nulla di eccezionale, ma una specie di malattia inerente alla sua condizione e la prova che uno come lui non doveva impicciarsi di cose che non capiva. Alle mie esortazioni si era inasprito: "Voi siete un signore e avete il cervello pieno di fumi". Io avevo alterato il rapporto fra signore e contadino, questo scambio di orgogliosa benevolenza e di supplice reticenza, l'unico da cui un poveraccio potesse sperare schermo e magari pietà. Parlargli astrattamente di diritti era una sopraffazione, un volersi introdurre nella sua vita senza conoscerla: insomma una beffa. Se almeno gli avessi detto: Povero Gennaro! Nossignore, lo avevo quasi rimproverato perché si era fatto legare senza ribellarsi. "Tutti gli uomini hanno il diritto di sfamarsi". Bella scoperta: ma non toccava a me suggerirlo, io che anche in prigione, alla peggio, mangiavo. Gennaro aveva accettato la promessa delle venti pecore e mi aveva ringraziato. Pari e patta, ognuno al suo posto. Queste riflessioni, mosse da un episodio così insignificante, mi rovesciarono addosso tutto il fardello degli articoli di fede democratica, tante volte espressi dalla voce martellante di Musolino, suggellati col sangue da Pisacane. Progresso, riscatto universale dei popoli, eguaglianza sociale franavano per la semplice constatazione che l'uomo civile non può affrancare un selvaggio se non imponendogli le sue idee: e anche questa è prepotenza, forse la peggiore. Quando poi fossi riuscito a convincerlo, cioè a educarlo, cosa farebbe costui se non passare dall'altra parte, sopraffacendo a sua volta? "Così avrei fatto anch'io al suo posto" aveva detto Gennaro, ladro del maialetto. Ed ecco ricostituita la solidarietà dei privilegiati, dei colti, dei potenti contro il brulicare di esseri pensanti, ognuno con
una sua diversa concezione della giustizia e del progresso. Sta bene, la perfezione non è di questo mondo: ma allora, se non la si potrà mai raggiungere, perché opporsi, come io avevo fatto, ai moderati che auspicavano piccole graduate riforme e rifiutavano come follie quelle sostanziali, radicali? A questo punto un'onda di amarezza mi gonfiava il petto, amici, nemici, progressisti, conservatori e persino borbonici retrivi mi si confondevano in una spregevole massa di ambiziosi, pronti ad applicare al gregge umano i rimedi teorici partoriti dal loro cervello. Mi sentivo minimo e, nella mia ingenuità, colpevole di leggerezza. Non me la perdonavo, anche se l'avevo pagata cara. Il meglio era dunque seguitare a soffrire rimanendo in disparte. Senonché una mattina, sul far del giorno, venni risvegliato dall'eco di voci e di passi militareschi che si avvicinavano: e il mio primo pensiero fu che nuovi condannati fossero condotti in carcere. Si trattava invece proprio di quel mio trasferimento a cui non credevo più e me lo annunciò non il comandante del Bagno ma un omaccione seguito da un paio di armati, polverosi come dopo una lunga marcia. Affacciatosi alla cella, costui m'intimò di raccogliere i miei stracci e di seguirlo all'istante, aveva l'ordine di condurmi a Napoli e se volevo viaggiare in vettura dovevo pagarmela, altrimenti mi ci avrebbe scortato a piedi. Quella minaccia mi atterrì, non ero più avvezzo a camminare e non resistevo al pensiero di espormi in catene, come un criminale, alla curiosità del popolino. M'era stato concesso di serbare un medaglione d'oro con la miniatura di mia madre e lo offrii insieme al pastrano in cambio del denaro necessario alla carrozza. Sorgeva il sole, un neghittoso sole invernale quando i cavalli diedero la prima scossa. Prima di salire salutai il Taburno incappucciato di nuvole nere, e la rocca dove avevo talvolta goduto una smorta pace: la certezza che non l'avrei più riveduta mi punse di una intensa nostalgia. Essa mi appariva già tocca della malinconica grazia delle rovine. Oltrepassate le case, una frotta di ragazzetti giocava sulla via in discesa. Come videro la vettura la inseguirono saltellando e gridando: distinsi una voce infantile: «Veh il galeotto lo portano al supplizio gli taglieranno la testa». Non ero lontano dal prestargli fede. Capitolo 3. E' notte. Ho acceso la candela e son riuscito ad alzarmi: sono in piedi, coperto alla meglio e col lume in mano mi avvio alla scrivania. Nel sonno mi son veduto nell'atto di bruciare il grosso cumulo di fogli che da tanti mesi, giorno dopo giorno, mi ostino a imbrattare. Quanti non so: il mio tempo ripete quello del carcere, che sta e fugge. Ma non c'è fuoco nel caminetto, poche braci nere. Svegliandomi ero deciso, il sogno era un avvertimento, dovevo affrettarmi. Ora non so più se mi ritenga la mia impossibilità di riaccenderlo o una peritanza, qualcosa come uno struggimento. E così mi accorgo che non sarò mai capace di dar fuoco a queste cartacce dove in qualche modo ho ritrovato le ore più care e tenebrose della mia vita. Altri lo farà per me. Ma almeno vorrei esser sicuro di potere ancora staccarmi dal passato. Penso con un certo stupore al lungo periodo che, immobile, mi contentavo di vegetare allontanandomi dal pericolo dei ricordi compiaciuti. E, del resto, cosa potrei scrivere ancora senza disgusto? Quel che è seguito alla mia partenza da Montesarchio è un succedersi di acquiescenze contraddette da una volontà mal domata, un viaggio senza bussola. La mia storia, per quel che vale, finisce nel Bagno, distaccandomene non ero che un relitto senza valore. Ho preso la penna per queste ultime note, ci vedo male, la candela vacilla: potrei, alla sua fiamma, fare un bel falò. Fuggo verso il letto e mi sbigottisce il pensiero di una tormentosa insonnia: raddoppierò la dose delle gocce di cloralio.
Ho dormito così a lungo che Teresa si è spaventata, me la son trovata accanto sconvolta, il viso rigato di lacrime. Appena si è accorta che ero desto, si è voltata per asciugarsele, poi mi ha sorriso come al solito. Perché mai questa figliola sacrificata tiene tanto al suo inutile padre? Non le è sfuggito che il flacone del sonnifero era quasi dimezzato, l'ha guardato controluce: «Ah papà» ha esclamato nascondendolo nella tasca del grembiale. Non ha avuto pace sinché non mi ha condotto alla poltrona, ben coperto e col caminetto scoppiettante. Colla scusa di spolverare il piano della scrivania, ha raccolto il mucchietto dei fogli bianchi accanto a quelli già usati, ha infisso un pennino nuovo sull'asta della cannuccia e versato nel calamaio un po' d'inchiostro fresco «Non fa più tanto freddo» ha detto sollevando la tendina «c'è un bel sole fuori, oggi lavorerai bene.» Fingendo di credere alla mia relazione ministeriale, non si rende conto di tendermi una trappola. Eccomi qui, di nuovo indotto in tentazione. Prendo la penna, la intingo, la provo sul foglio scrivendo ripetutamente il mio nome e cognome: così fanno gli scolaretti svogliati. Il mio caso è all'opposto, io lotto colla voglia di un compito che disapprovo. Pensare che un tempo nulla mi avrebbe fatto recedere da una decisione presa, ero fiero della mia testa dura. Tento di distrarmi fissando il raggio di sole che m'intiepidisce la mano: rapido, mi fulmina il ricordo di un identico tepore, di una simile macchia dorata sui miei polsi stretti dalle manette mentre la vettura mi portava a Benevento. Eccomi lì, su quella banchetta puzzolente, dove la memoria mi inchioda come un lepidottero sulla bambagia: invano cerco di liberarmene. E dopo tutto, che male farei se continuassi ancora un poco a chiacchierare? E' un trucco infantile, lo so, ma sono stanco di competere con me stesso. I ronzini correvano e io non congetturavo né speravo nulla: guardavo soltanto. La carrozza era tutta chiusa salvo uno stretto finestrino, ma a me bastavano l'erba secca dei fossi, i sassi, la polvere bianca, i solchi delle ruote che ci erano affondate passando, le orme dei viandanti e dei greggi. Più in su non vedevo nulla, nel finestrino non avevano lasciato aperto che un basso pertugio. Ma non me ne importava, per me non c'era nulla di più nuovo e gioioso che il fondo di una pubblica strada, che chi vuole ci può camminare. Cercavo di non pensare e forse per questo motivo non conservo del viaggio che immagini confuse: la tappa a Benevento - un giorno e due notti - in un carcere gelato e fetido, con cibo immangiabile e acqua fangosa. Nemmeno aprivo bocca, i due sgherri fra cui sedevo fumavano pipe immonde che mi davano nausea. Poi, via via che si procedeva, paesi, più popolati e rumorosi, traffico di carri e carretti, scalpitio di quadrupedi: li sentivo, non li vedevo. Sull'imbrunire, per il cambio della scorta, la vettura si fermò e lo sportello venne spalancato: mi fu concesso di sgranchirmi le gambe e al riparo della carrozza feci qualche passo all'aperto. Eravamo nel centro di un grosso borgo, all'ora della passeggiata dei notabili, li distinguevo mentre andavano in su e in giù evitando di volgersi verso il nostro miserabile equipaggio. Si salutavano, si fermavano a parlottare accostando le teste come marionette. Ma quel che più mi colpì fu il cambiamento delle fogge dei loro vestiti e di quelli delle loro donne: non trasandati e goffi come li ricordavo nelle nostre province, ma di una certa accuratezza e attillatura. Senza riflettere che dodici anni eran trascorsi da quando anch'io ero stato un civile, vidi in questo mutamento il segno di qualcosa di eccezionale, l'adeguarsi a un costume venuto di fuori; e, in un baleno, la mente mi corse ai famosi "piemontesi". Senonché, alzando il capo scorsi al balcone del palazzo che mi sovrastava la detestata bandiera che, durante la rivoluzione del '48, avevo divelto e fatto a brani con gioioso furore. Come avevo
potuto, sia pure per un istante, illudermi? Avevo i ferri al piede e i gendarmi intorno a me portavano la divisa borbonica, nulla era cambiato, se non i calzoni dei borghesi e i cappellini delle loro mogli. Dalle chiacchiere dei soldati che si davano il cambio, appresi che la bandiera festeggiava il compleanno della sposa del nuovo re, chiamato, non capivo se per vezzo o per dileggio, Franceschiello. Quel diminutivo mi fece riflettere che doveva essere giovanissimo, per l'età poteva essermi figlio. Avevo odiato cordialmente il padre, ma non mi riusciva di trasportare su costui la stessa esecrazione. Quando ero stato condannato lui era un bambino e fu soltanto ricordandomi che era nato da Cristina di Savoia che provai nei suoi confronti un certo ribrezzo. Era stata una santa donna, diceva la plebe: per noi liberali era una baciapile, nemica di ogni progresso, schiava dei preti. Tutto il mio disprezzo rifluì dunque sui re piemontesi, anch'essi bigotti e infidi. Purtroppo, non mi sbagliavo. Entrammo a Napoli sul mezzodì il giorno seguente: più che arrivarci la sentii arrivare a me con quel suo odore inconfondibile che è un misto di sterco equino, spezie, immondizie, caffè. Esso mi veniva incontro con una tale intensità di ricordi che il cuore mi batteva in gola. La chiudenda del finestrino era adesso rialzata, potevo dunque guardare liberamente le strade, i palazzi, la gente che era sempre la stessa folla miserabile, coi suoi stracci come cavati dalla sepoltura e i suoi commerci poveretti. Sebbene per il freddo patito gli occhi mi bruciassero dolorosamente, gonfi e annebbiati, li spalancavo a tutto potere per non perdere un solo aspetto di tanti luoghi che riconoscevo e non riconoscevo, quasi fossero alterati nelle dimensioni e nelle proporzioni, non nella sostanza. Il rapido moto dei cavalli via via li cancellava, essi già si ammassavano in un nuovo ricordo che mal sostituiva l'antico e io me ne affannavo. Chissà dove mi trasportavano, chissà che quella veloce visione non fosse l'ultima che della mia capitale mi era concessa. Eravamo entrati da Porta Capuana, un quartiere popolare, anch'io ci avevo abitato. Scrutavo i carrettieri, i rivenduglioli, i ragazzetti seminudi e scheletriti che si buttavano verso le vetture, impavidi, con una smorfia di riso: erano sempre i medesimi, indifferenti alla propria vita, insensibili a qualunque avvenimento che non fosse il dono di un carlino. Passò un drappello di cavalleggeri svizzeri, qualcuno gridò: «Viva, viva!». Al galoppo ci superò una carrozza signorile, il cocchiere menava la frusta a destra e a sinistra, dove casca casca: notai allo sportello lo stemma della corona britannica. E passò infine - credetti a un miraggio - un carretto di fruttivendolo che scorreva su una ruota sola, dall'altro lato girava il solo mozzo e il guidatore in serpa sedeva imperterrito come non se ne accorgesse. Un simile veicolo e un simile carrettiere avevo visto una mattina, poco prima della rivoluzione, uscendo di casa. Il tempo si era fermato anche qui? Era questo il popolo da cui speravamo insurrezioni e che, sulle barricate, avevamo creduto sollecito di una nuova libertà? Il fatto è, mi dissi, che eravamo pochi pazzi furiosi che vedevano doppio: se ne sarebbe accorto re Vittorio, sperai malignamente. Avevo guardato abbastanza e feci per ributtarmi indietro sul duro schienale: fu in quell'atto che scorsi, fra due altissimi spericolati casamenti un lembo di mare. Era un mare grigio sotto un cielo grigio: fermo, piatto come un lago, senza riflessi, senza brividi: ma era il mare e solo un marinaio sa cosa vuol dire, per uno che ci è nato, rivederlo dopo anni di privazione. Mi parve di respirarne l'odore che vinceva tutti gli altri e mi protesi verso il finestrino con un moto che allarmò uno degli sgherri. Una manaccia mi pesò sul petto, battei la testa contro il soffitto della vettura. Il mare era sparito, fui disperatamente certo
di non rivederlo più. La carrozza saliva verso le carceri di San Francesco. Non scriverò più una linea, mi dicevo l'altra notte, convinto di aver seppellito a Montesarchio il significato e il valore della mia vita: ero in pace, la mia memoria era buia e vuota. Invece essa ha ripreso a brulicare. Fisso la penna e faccio con la mano il gesto di chi scaccia uno sciame d'insetti molesti. Sono i ricordi dell'inizio del '60, miserie che al confronto, quelle di Montefusco hanno una austera religiosa maestà. Mi assediano come debiti vergognosi che devo pagare. L'umiliazione in cui caddi fra le mura di San Francesco fu un'esperienza atroce: vi si mescolava l'abbietta speranza di sopravvivere, in qualunque stato. Malconcio, con le ossa rotte, sedevo, mi rialzavo, tornavo a sedermi: tale la mia giornata, in una ridda di urla, di zuffe, di urtoni che subivo a testa china. Non ero più un "politico" e neppure un prigioniero comune giacché un cieco non è altro che un cieco. All'improvviso, infatti, una tenebra totale era calata sui miei occhi e vivevo alla mercé altrui, brancolando, sballottato fra lo stanzone carcerario dove presumevo di trovarmi e l'ospedale dove si tentava di curarmi. Non c'era gesto di cui fossi padrone, mi mettevano fra mano la scodella e mi nutrivo sbrodolandomi, poi qualcuno mi spingeva per le spalle e mi faceva percorrere un cammino irto di ostacoli, gradini, spigoli in cui sbattevo, e intorno si rideva del "cecato" che ero. Alla fine, una relativa quiete, un diverso fetore, gemiti, il lettuccio delle medicazioni. Non avevo altra sensibilità che negli occhi, nel bruciore e nelle fitte che mi penetravano fino al cervello. «Coraggio, fra poco sarete libero» mi sussurrava una voce, non sempre la stessa: e io ci credevo, io sospiravo la libertà quasi sapessi cosa farne. Intorno a me si parlava del mio stato come se fossi sordo, le suore, brutalmente impietosite, dicevano che ero incurabile, inutile tormentarmi. Non avevo una cella particolare, ero fra ladri, assassini, burbanzosi camorristi. La mia cecità li divertiva: «Tieni qua» io stendevo il braccio e trovavo il muro. E mi schernivano: hai voluto fare il gradasso, sfidare il re, ben ti sta, la Madonna del Carmine ti ha punito. Un tale mi propose, quando uscissi, di mendicare per lui, avremmo fatto a metà. Non ero più capace di offendermi, pensavo all'isolamento di Montesarchio come a un paradiso. Eppure speravo. Un giorno seppi che un oculista famoso mi avrebbe preso in cura. Non mi fece piacere, sospettai che fosse un ciarlatano ed ebbi paura - a tanto ero ridotto - che volesse sperimentare su di me, in corpore vili, un suo pericoloso specifico. Mi ero rassegnato a tutto, ma, stranamente, non sopportavo l'idea di far da cavia a un ignorante. Dissi, infatti, che non ne volevo sapere, che preferivo curarmi come al solito, se no mi sarei lasciato morire di fame. Le suore si scandalizzavano. «Un uomo così sapiente, una persona civile si comporta come un selvaggio!» Alla fine mi persuasi. Da allora non mi stupisco ai pregiudizi del popolino contro le misure d'igiene, so come sia facile inselvatichirsi, obbedire agli istinti di una animalità irragionevole. L'oculista fece miracoli, il miglioramento non si fece aspettare. Via via che la cura procedeva, si attenuavano i dolori, gli occhi riprendevano a funzionare. Il primo uso che ne feci mi rivelò il volto del medico: conservo di lui un'immagine dolcemente nebbiosa, pelle chiara, tratti delicati, capelli biondi. Poco ci parlammo, lui tutto preso dal suo lavoro, io vergognoso di avergli negato fiducia. Scomparve quando la guarigione era ormai assicurata e non lo incontrai più. In seguito mi dissero che era morto e che apparteneva alla corte di Maria Sofia, la nuova regina: così la mia riconoscenza fu avvelenata dal pensiero di dovere la vista a una specie di nemico. Nello stesso tempo imparai che la speranza è per sua natura illogica,
spesso frutto della disperazione. Scongiurata la cecità, di nuovo perdetti la voglia di vivere, la misteriosa resistenza al male che mi aveva sorretto al punto da rendermi quasi vile. Ritornai pessimista e indifferente tanto alla mia sorte come a quella del mio Paese. Non dormivo più nel carcere, ma, per la necessità delle cure, nella corsia dell'ospedale. Ecco che un mattino mi provo a farmi la barba, suor Veronica mi ha fornito uno specchiuccio e l'operazione va avanti soddisfacentemente. Alle mie spalle, in una luce blanda, letti d'infermi, ombre di monache che vanno e vengono dall'uno all'altro. Qualcuno si avvicina pronunziando a voce alta il mio nome, mi volto, scorgo una mano che mi porge una carta: vedevo come dal fondo di un acquario, a causa degli occhiali verdi, ma non c'è dubbio, si tratta di una lettera di cui riesco a distinguere la soprascritta, viene proprio a me, nome e cognome, Hospitale di San Francesco, Napoli. La tenni in mano un lungo momento, palpando l'asperità del foglio e, avvicinatala agli occhi mi parve di riconoscere i caratteri di mia madre. Mi tirai accanto a un finestrone e con dita tremanti ruppi il sigillo: lo scritto cominciò a oscillare paurosamente. "Mio caro e benedetto Figlio": altro non mi riusciva di leggere e solo in un secondo tempo compitai la data: "Chiaravalle, li 21 febbraio 1860". Chiaravalle, la campagna delle mie vacanze, la gran casa dall'intonaco scrostato, l'orto il pozzo il granaio i pini del viale: li avevo fra palpebra e palpebra, li toccavo. Dunque non tutti i nostri beni erano stati confiscati se mia madre ci abitava ancora. Il cuore mi batteva in gola: qui si erano posate le sue piccole mani brune, chissà come avvizzite, che scivolavano via, svelte svelte, quando mi chinavo a baciarle. Aguzzando lo sguardo, proseguii: "Mi consolo nel sentire che hai ricuperato la vista degli occhi". Chi l'aveva informata, come poteva sapere del mio trasferimento, della mia malattia? Quante lettere gli sgherri mi avevano sottratto? Le ultime notizie dei miei le avevo avute a Montefusco e, come sempre, attraverso il notaio di famiglia, fedele suddito borbonico. Li avevo rovinati, ripeteva, e solo dal mio ravvedimento potevano sperare un atto della clemenza sovrana. Profondamente amareggiato, non avevo più risposto. Ero sicuro, adesso, che l'avvilente suggerimento non partiva da mia madre, lei non aveva cessato di volermi bene, mi aveva capito, si era data daffare per avere mie notizie, chissà con quanta pena. Scalpitavo, volevo risponderle senza indugio, darle animo, assicurarla della mia tenerezza, chiederle perdono. Chiesi carta e penna col piglio di chi si sente libero e padrone di sé. «Occorre il permesso carcerario» disse suor Veronica che intanto era accorsa «e ricordatevi che il medico vi ha proibito qualunque applicazione.» Si era chinata a raccattare qualcosa che mi porse. Era la lettera che nel mio sconcerto avevo lasciato cadere a terra. Non avevo previsto quel piccolo ostacolo e con impazienza mi accinsi ad aspettare il permesso: fu solo allora che, ripercorrendo la lettera mi accorsi di averne trascurate le ultime righe. Dicevano: "Supplica a Sua Maestà, digli che hai una madre vecchia che non so se Dio mi lascia di poterti vedere". E, a conclusione "i tuoi fratelli e sorella ti abbracciano~'. "Supplica a Sua Maestà"! respinsi carta e penna quando, di lì a poco, mi furon portati e anche l'offerta della suora di scrivere per me, acciò i miei occhi non ne soffrissero. Mi ritrovavo al punto medesimo di Montefusco, sdegnato come alle esortazioni del notaio. Nulla era cambiato, la mia famiglia era sempre la stessa, pavida e piagnucolosa, piena di ossequio per l'autorità del sovrano che detestavo. Adesso ero certo che per lunghi anni nessuno mi aveva più scritto, mia madre aveva obbedito ai suoi paurosi figlioli e soltanto ora, d'accordo con essi, si era azzardata a mandarmi quel povero foglio. Mi pareva di
vederli, di sentirli: il medesimo notaio che si era incaricato di mandarmi ogni tanto quel poco denaro li aveva consigliati a tenermi buono: non si sa mai, se il Borbone aveva la peggio, se il padrone mutava, era prudente accarezzare i liberali per ricavarne, attraverso il loro appoggio, il più che si potesse. Forse mia madre aveva scritto sotto dettatura, le avevano appena consentito qualche espressione tenera: parole contate. Dopo tutto, finché il gioco non era fatto, non si poteva mai sapere, il re rimaneva il re legittimo, l'arbitro della vita e della sorte dei sudditi. "Supplica a Sua Maestà": quale tiranno non si sarebbe commosso a una simile preghiera che ne riconosceva le intramontabili prerogative? Il mio ragionamento non faceva una grinza e io ritornavo orfano. Non rammento quanto tempo durai in questa velenosa agitazione. Ma non ero più giovane, non ero più sano e sebbene la giudicassi ancora senza indulgenza, mia madre era pur sempre mia madre. Felice non era mai stata e neppure serena: cosa ne sapevo delle strette per cui era passata, delle umiliazioni subite mentre io ero ragazzo e poi uomo, tutto preso dall'esaltazione di una vita avventurosa? Mi era sempre sembrata fiera e autoritaria, ma non era improbabile che l'età e la povertà l'avessero fiaccata. Mi venivano in mente piccoli episodi dell'infanzia e della prima giovinezza, prove in certo senso pudiche e ritrose della sua predilezione per me, suo ultimo nato. La sua vita di sposa, di giovane vedova, doveva essere stata drammatica e tetra. Come tutte le donne del sud non aveva idee politiche ma sapeva per esperienza che la politica è nemica della pace e distrugge quella, mediocre e soggetta, di cui le creature come lei debbono contentarsi. L'avevo veduta opporsi alla scioperataggine del suo primogenito, ma altro era l'autorità di una madre di famiglia, altro il combattere l'unanime decisione dei figlioli che temevano di compromettersi mostrandosi solidali con un galeotto. «Finiremo tutti sulla forca» le avranno detto. E lei, ecco, si era piegata. Avevo cacciata nella tasca della casacca quella povera lettera, la rileggevo: non tanto per scoprirvi un senso diverso, ma fermandomi a lungo sui segni che la sua mano aveva formati, un poco vacillanti, eppure graziosamente arrotondati come i caratteri di una educanda diligente. Viveva per i suoi figli, li avrebbe voluti sempre con sé, fra le mura di casa, e io, appena uscito di tutela, le ero scappato di mano. No, non ero stato un buon figliolo: se esco di qui, mi dicevo, voglio stare giornate intere con lei, farmi raccontare tutta la sua vita, fin da quando era bambina. A buon conto, cessato lo scompiglio dei sentimenti, conclusi che una notizia favorevole quella benedetta lettera me l'aveva portata. Anche laggiù, in Calabria, nella stessa Pizzo fedelissima a Ferdinando e ostile ai liberali, si cominciava a dubitare della saldezza del trono borbonico. I miei fratelli si degnavano di abbracciarmi: resipiscenza sintomatica. Dei loro volti, l'unico che mi fosse ancora presente era quello pigro e duro del capofamiglia Stefano. Cercai di non fermarmici e decisi che ormai non era il caso di scrivere, mi importava soltanto di rivedere mia madre ed ero sicuro che sarebbe presto. A voce, il rimprovero per l'esortazione di ossequio al re, sarebbe stato più dolce, e, forse, non necessario. Della vista sempre più consolidata approfittai per mettermi ansiosamente al corrente di quel che succedeva in città: nell'infermeria dove ero trattenuto lunghe ore, mi era relativamente facile procurarmi giornali di ogni tinta e provenienza, clandestini o no. Li leggevo con la massima attenzione, li meditavo, li confrontavo: era chiaro, Franceschiello aveva le ore contate. Mi rimisi timidamente a sperare, un uomo fortunato non si abbandona ai primi indizi del successo come chi è avvezzo alla sventura. Il miraggio della immancabile libertà mi faceva superare l'amaro della soluzione
monarchica di cui, a misura che si avvicinava, apparivano le deficienze: mi auguravo che i moderati se ne sarebbero convinti e la causa democratica ne sarebbe avvantaggiata. Apprendevo in ritardo l'ambiguità dell'alleanza francese, i patteggiamenti del Buonaparte col Savoia, il ricatto di Nizza, la brutta pace di Villafranca e di Zurigo. Non ero mazziniano, ma via, che a Londra Poerio e Castromediano avessero rifiutato di incontrare Mazzini, mi scandalizzava. Il partito preso li aveva accecati, i fatti avrebbero dimostrato il loro errore. Da cosa nasce cosa, sui prossimi rivolgimenti i democratici avrebbero potuto manovrare. Non ero dunque un uomo finito, ci sarebbe stato ancora qualcosa da fare per me, una volta uscito per le strade di Napoli e ripresi i contatti coi vecchi compagni di fede. Da quanto mi veniva all'orecchio (giacché l'ospedale brulicava di chiacchiere) la città ribolliva di maneggi, le ambasciate straniere intrigavano, il Piemonte ci aveva spedito agenti semiclandestini. Dalla piazza ai ritrovi civili correvano facezie e beffe sull'ultimo Borbone, il reuccio inetto che impiegava la giornata a recitar rosari mentre la moglie si esercitava nel nuoto. Si davano per imminenti larghe amnistie, una nuova moderna costituzione, il sovrano avrebbe affidato ai patrioti del '48 la direzione della cosa pubblica. Non erano tutte bugie: difatti un monsignore mi avvicinò per tastarmi sull'offerta, da parte del governo, di un alto incarico. Non parlava più di grazia o di amnistia, ma di un riconoscimento dovuto ai miei meriti che in quella bocca e per l'iniziativa di quei mandanti, mi parve una sinistra buffonata. Rifiutai energicamente e il monsignore scivolò via. Eravamo ormai sui primi di maggio, dalle finestre, insieme al fulgore di un cielo immacolato, entrava un vocio crescente, potevo credermi in piazza e sobbalzavo a quei clamori, eccessivi anche per una città rumorosa come Napoli. Il 12, l'ospedale era sottosopra, volava per l'aria la strepitosa notizia che Garibaldi era sbarcato in Sicilia. Era tale la confusione, i racconti più diversi si succedevano con tanta frenesia da farmi supporre che tutto il Reame fosse insorto. I malati, sbalorditi, le suore sgomente mi consultavano come l'unico che sapesse chiarire quel che sarebbe accaduto. Come avrebbe, il Generale, trattato la popolazione, i religiosi, le chiese? Era davvero scomunicato come si diceva? Avevo imparato a mie spese che un galeotto, in qualunque circostanza, deve mantenersi guardingo: me ne dimenticai, l'esaltazione comune mi aveva guadagnato e fui sul punto di credere che Garibaldi, l'uomo dei miracoli, fosse addirittura sbarcato a Napoli. Sulle prime mi limitai a rassicurare i pavidi e a incoraggiare quelli che mi parevano contenti: poi, senza che me ne rendessi conto, le mie parole divennero discorso inneggiante alla libertà, alla giustizia. Ero commosso, lacrime mi correvano per le gote, stringevo e scuotevo mani stese e con la massima naturalezza mi preparavo a scendere in strada: neppure un istante pensai che qualcuno me lo potesse impedire. Fui applaudito e mentre arringavo il mio bizzarro uditorio, vidi avanzare dal fondo della corsia, un plotoncino di gendarmi che si dirigevano alla mia volta. Nel sopravvenuto silenzio, senza complimenti mi presero in mezzo e un di loro mi riapplicò le manette e la catena al piede. Fui condotto così, per una lunga e ignota serie di scale e scalette, sempre più giù, sino a una cella isolata e buia, coi soliti accessori del tavolaccio e della brocca dell'acqua. Nessuno di loro parlò né mi redarguì, avevano un fare militaresco, una rigidezza astratta che m'impressionarono più di qualunque minaccia o sevizia: io stesso, sbalordito, dopo un accenno di protesta, ammutolii. Da un rauco ordine del caporale rilevai che erano tedeschi, bavaresi non so di che corpo. La porta fu chiusa e inchiavardata, il passo ritmico dei soldati si allontanava: ero solo. Dopo tanto frastuono il silenzio che mi
circondava era totale e mostruoso, percepivo il battito del mio cuore, sempre più lento e pesante quasi il sangue, raffreddandosi, faticasse a muoverlo. Mi trovavo, non c'erano dubbi, in uno di quei leggendari sotterranei dove il prigioniero ha tutta la probabilità di essere dimenticato e lasciato morire di fame. Invano tentavo di ragionare, il contrasto fra il clima incandescente dell'ospedale e questa tomba non mi consentiva che il raccapriccio di una bestia in gabbia. Il mondo era scomparso e qualcosa di oscuramente logico mi persuadeva di esser giunto alla fine della mia avventura terrestre: infatti non rammento in che forma di ebetudine fossi piombato e quanto essa durasse. Mi riscosse - e mi parve una presenza angelica - uno dei soliti sgherri con la gamella della zuppa: non avrei mai creduto che l'aspetto di un carceriere mi sarebbe stato così gradito, fu lui a ridarmi, non dico la speranza, ma la facoltà di indignarmi. Gli chiesi perché mai mi avessero segregato e a quale scopo, dato che Garibaldi non avrebbe tardato a liberarmi. Non so che tipo fosse quest'uomo, non somigliava a uno dei consueti aguzzini: rimase sospeso un istante, con la gamella in mano. «Garibaldi?» borbottò interrogativamente quasi quel nome gli fosse del tutto ignoto. Poi, posato in terra il recipiente, senza dir altro fu alla porta e la richiuse a doppio giro di chiave. Mi trascinai fino alla gamella e tastandola mi accorsi che, come nei primi giorni di Montefusco, era priva di cucchiaio. Non so perché questo fatto mi accese di furore: coi due pugni legati colpii forsennatamente la porta, urlando. L'uomo era già lontano ma il silenzio e la tenebra della segreta non mi atterrivano più, ero risuscitato, quello scoppio di collera aveva ridestato la mia coscienza. Ricapitolai: o l'arrivo di Garibaldi era davvero imminente e la polizia aveva giudicato conveniente ai suoi interessi di levar di mezzo un ennesimo testimone della sua ferocia; o la notizia era falsa e tanto più era naturale che infierisse contro di me, colpevole di un tentativo d'insurrezione nell'ospedale. In ambedue i casi la mia sorte era chiara, mi avrebbero liquidato al più presto. Ero così stanco che stendendo la schiena sul tavolaccio, mi sentii sciolto nella persona e nell'animo. L'ottimismo non mi è congeniale, il pessimismo, invece, corroborante: ero di nuovo calmo, il mio destino non mi riguardava più. Pensavo piuttosto all'impresa di Garibaldi e il cuore - o meglio l'umor tetro - mi suggeriva che probabilmente era fallita come quella di Pisacane. Lui fucilato, io sepolto vivo: in questa concomitanza trovavo un certo conforto. I piemontesi? Bene, devo dire che non mi dispiaceva affatto immaginarli nei guai. Se di qualcosa posso vantarmi è la ripugnanza per il mito dell'eroe a buon mercato, per il bel gesto demagogico: anche oggi, in questo ultimo barlume di vita mentale, la ritrovo intatta, essa resiste vittoriosamente al ricordo del giorno che io pure figurai, se non da eroe, da protagonista. Ci fui costretto per non avere altra alternativa, come si sceglie un espediente qualunque: ed ecco che mentre ho procurato di pensarci il meno che potessi, la gente, anche quella per cui le mie sofferenze non sarebbero contate uno zero, mi ha scoperto e gratificato per un gesto a grande effetto. Mi sto o non mi sto confessando? Fuori dunque anche questo fatterello che, se mi fosse possibile, cancellerei volentieri dalla memoria. A Torino, nel '63, quando presi a frequentare la casa di Marietta e, fra una tombola e un whist, si chiacchierava, la mia futura moglie non si stancava di sentirmi raccontare l'episodio finale della mia liberazione: ne avevano parlato i giornali e avevo avuto la debolezza di conservarli, ma lei esigeva di conoscerne i più minuti particolari, da buona romantica come è rimasta. Farmi pregare non mi pareva gentile, ma acconsentivo a malincuore, già un tantino invaghito di quella damigella tutta fuoco, dai capelli fulvi e dagli occhi grigi. E
poi, a quel tempo, con tanti guai addosso, non mi pareva vero di distrarmi raccontando quisquilie alla mia innamorata. Lei, invece, prendeva la cosa terribilmente sul serio, tanto è vero che quando i nostri figlioli furono grandicelli: «Fatevi raccontare da papà» suggeriva «come scampò al Borbone». Per loro era una favola qualunque, e in fondo, anche per me, essa faceva parte di un repertorio domestico dove la stessa Marietta inseriva le storie della sua nonna austriaca, una dama bellissima e avventurosa che aveva preso in prestito un infante e accompagnato al confine Kosciusko, travestito da balia. Mi ci divertivo anch'io, fantasticando di questa signora un po' cattivella che tirava le trecce alle nipotine perché non le era piaciuto il matrimonio del figlio con una borghese di Bra. «Come dono di nozze le regalò un rotolo di lino irlandese: se hai voluto per marito un gentiluomo saprai cucirgli le camicie. La mamma» trionfava Marietta «non aveva che sedici anni e si serrò in camera finché non ne uscì con una camicia perfetta.» Ridevano i ragazzi e ridevo io: essi si avvezzarono a considerare questi fatti bizzarri del tutto naturali per gente come noi, e non credo che ci ammirassero gran che. Roba di vecchi, insomma. Cresciuti i figlioli, mi guardai bene dal riesumare per loro le mie prodezze: del resto se hanno saputo della mia prigionia e di quel che ci ho patito, è stato di straforo e accettandoli come cose ovvie. Sono convinto che certe esperienze degli anziani non si comunicano ai giovani, specie del nostro tempo che nasconde l'inquietudine col moralismo di precetto. Anche senza quegli uggiosi patrioti, essi pensano, l'Italia sarebbe quel che è, un paese meschino. Ho dunque tenuto per me i miei ricordi, punto d'altronde dallo scrupolo di sopravalutarli e di compiacermene. Nel dubbio astienti, dice il proverbio, e io tenevo a conservare una pulizia interiore che non ho mai scambiato con l'umiltà bacchettona. Ma adesso, al punto in cui mi trovo, senza spettatori o uditori neppure immaginari e dopo essermi consegnato mani e piedi al mio capriccio, non vedo cosa dovrebbe trattenermi. Tanto peggio per me se trasferendomi nel passato, ne avrò nuovo disgusto. Della segreta di San Francesco rammento soprattutto la gran rabbia che, fra intervalli di sonnolenza sempre più brevi, mi aggrediva, si può dire, dai capelli alle piante. Non mi perseguitava più il Borbone, ma la mala sorte, insomma il Padre Eterno esagerava nel suo accanimento. A questa rabbia mi aggrappavo per sostenermi, ma quando, non so più dopo quanti giorni, il solito drappelletto di bravacci ricomparve, ero meno di uno straccio. Per salire le scale di quel sotterraneo mi dovettero sorreggere, il respiro mi mancava a ogni gradino. Come uscii all'aperto, nel cortiletto dove stazionava la vettura carceraria, fui colto dal capogiro: la luce mi entrava negli occhi a colpi di spillo. Mi cacciarono dentro come un fagotto e il rotolio delle ruote aveva un fragore di tuono. Ai soldati dovetti parere mezzo morto tanto scarsa era la loro vigilanza: parlavano fra loro in tedesco e confusamente riuscii ad afferrare che mi conducevano al porto, difatti da un pertugio del finestrino distinsi a un tratto il balenio del mare. Non me ne rallegrai, i quartieri che traversavamo erano deserti e silenziosi, la sommossa, se c'era stata, era stata sopraffatta: non mi venne in mente che la luce era quella dell'alba di maggio. Pensavo, invece, a nuovi orrori: Nisida, Santo Stefano, le fosse di Favignana? Tutto mi era uguale, e l'enormità dell'ingiustizia con cui ero trattato - io solo - aveva di nuovo cessato d'indignarmi, direi che la contemplavo come una manifestazione di malvagità astrattamente geniale. Sul molo, qualche facchino, pochi vagabondi appena mi guardarono, le navi alla fonda oscillavano addormentate. Capii che il sole si era appena levato ma la viva brezza marina non mi rianimò, mi fece anzi
rabbrividire. Mi buttano in una barca che a colpi di remi si stacca dalla riva, mi aspetto che si accosti all'uno o all'altro dei quattro vascelli di guerra fermi all'imboccatura del porto. Sfioriamo il primo e il secondo, passiamo oltre e addirittura ci allontaniamo dagli altri due, ormeggiati più a sinistra, si direbbe che puntiamo al largo. Credo di capire: mi buttano in mare, tutto è possibile agli assassini, stremato come sono e appesantito dalla catena al piede, contano di annegarmi dove l'acqua è più profonda e non c'è pericolo che un corpo ritorni a galla. Disperatamente percorro con lo sguardo la distesa del golfo: che almeno qualcuno sia testimone del crimine. Fu allora che scorsi a un duecento metri di distanza un veliero che aveva tutto l'aspetto di un trasporto per passeggeri. In gioventù ero buon marinaio, sapevo distinguere dalle alberature le qualità di un vascello: questo, a cui sempre più ci avvicinavamo era di media grandezza ma ben costruito e moderno, aveva anche un fumaiolo, poteva navigare a vapore. Stavo per gridare invocando soccorso ma mi fermai, non c'erano dubbi, la nostra barca era diretta a quella volta. Già, nel sospetto della violenza, mi ero faticosamente levato in piedi, e nonostante le oscillazioni della maretta riuscii, via via che si procedeva, a leggerne sulla fiancata il nome: "Durance". Una nave francese, dunque: non mi raccapezzavo, come poteva, un postale e per giunta straniero, accogliere un detenuto? Volsi l'occhio ai due uomini che mi avevano accompagnato: malgrado la divisa impeccabile, avevano perduto il contegno e giacevano stravaccati sui sedili, era evidente che soffrivano il mare. Io, al contrario, mi sentivo più in forze e di questo privilegio approfittai per superare la mia riluttanza a interpellarli. A voce alta contro il vento e in quello scarso tedesco che possedevo chiesi che ordini avessero e cosa fosse questa storia, d'imbarcarmi su un legno forestiero chissà dove diretto. A tutta prima non parvero intendere, sulle onde il nostro piccolo guscio sobbalzava raddoppiando il loro malessere e minacciando di urtare pericolosamente contro la fiancata della "Durance". Il più anziano si era buttato a vomitare, il più giovane, un biondo imberbe, fissò su di me i vuoti occhi celesti: «Livorno, Genova, Marsiglia» articolò avendo infine raccolto il senso della mia ultima domanda. Non ho mai dimenticato quella sua voce incerta di bambino malato che ripete una sciocca lezione. Sulla scaletta gettata dalla "Durance" ero, nonostante i ferri, il più agile, i due soldati ebbero bisogno della gente di bordo che per issarli li legarono come salami. L'intrigo dei miei pensieri era tale che il più semplice ragionamento mi si spezzava nel cervello, ramificando mostruosamente in ipotesi che trascendevano i miei poveri casi per spiegarli con oscuri maneggi di politica internazionale, alleanze, voltafaccia, tradimenti. Per fortuna, due nomi rimanevano fermi in tanto rimescolio: Livorno, Genova, due città libere dall'influsso del Borbone. A Genova i mazziniani erano forti, ma i piemontesi comandavano: Livorno invece, nella Toscana sciolta dai Lorena, era un centro democratico, lo avevo imparato dai giornali penetrati a San Francesco. D'un colpo le mie apprensioni svanirono, la "Durance" era terra francese, la mia condanna era stata commutata in esilio e dunque ero libero di scegliermi il porto dove sbarcare. Giunto a queste conclusioni, cominciai a guardarmi intorno. Il gendarme più anziano aveva estratto dalla giubba un plico e lo consegnava al capitano in seconda, sbucato da sottocoperta: il quale lo teneva in mano senza aprirlo e un po' guardava me, un po' quel poveraccio dalla faccia verde che, ogni poco, sbirciava in giù verso il battelletto sobbalzante dove avrebbe pur dovuto scendere a missione compiuta. In fondo mi faceva pena, non lo consideravo più uno sgherro, ma un disgraziato schiavo, talché finché rimase a bordo e durante la manovra che di nuovo lo calò nella barchetta, m'incantai a guardarlo.
D'un tratto, quasi risvegliandomi, mi vidi solo, nudo sotto la mia casacca da galeotto e coi ferri al piede, strana condizione per un esule. Il mio poco bagaglio era rimasto a San Francesco, non avevo biancheria né denaro per procurarmene e per provvedermi di un abito civile. All'apparire sul ponte dei primi passeggeri mi vergognai profondamente: da lontano mi lanciavano qualche occhiata furtiva, ero forse per loro un delinquente comune chissà come capitato sulla "Durance". Credo che il mio sguardo, fisso sull'ufficiale che aveva ricevuto il plico fosse così doloroso che, dopo un attimo di esitazione, egli mi si avvicinò, si chinò: con una specie di grimaldello aprì il lucchetto che fermava le quattro maglie. Anche a Montesarchio giravo senza catene, ma il senso di leggerezza che provai in quell'istante fu quasi pauroso. Faccio qualche passo incerto, tenendomi alla murata: la nave si muove, i marinai intenti alla manovra delle vele non mi guardano, anche il secondo, senza una parola si è allontanato: mi accorgo però che il numero dei passeggeri sul ponte è cresciuto. C'è accanto a me un mucchio di cordame e su quello mi siedo, la faccia volta al mare, sfuggendo lo sguardo dei curiosi: una immensa stanchezza m'inchioda, la luce mi abbaglia, l'aria frizzante mi stordisce. Lotto con la sonnolenza come se un pericolo mi minacciasse. Mi risvegliai sotto il sole cocente, le gote mi bruciavano come quando, da ragazzo, dopo il primo bagno di primavera, mi lasciavo abbrustolire sulla sabbia. Riprendo coscienza del mio stato, ho la barba ispida, durante i giorni della segreta non mi ero neppure lavato il viso: mentre mi stropiccio le guance mi giro un tantino e mi basta per scorgere a dieci passi di distanza un gruppo di signore che, confabulando, mi sbirciano come si tien d'occhio un animale pericoloso: dovevo apparirgli un sinistro figuro nella mia giubba rossa e così sporco e irsuto. Ebbene, se di nuovo mi avesse circondato un drappello di gendarmi non avrei provato altrettanta agitazione. Erano secoli che le donne non esistevano per me e queste erano giovani aggraziate eleganti, esse appartenevano a un mondo di cui avevo perduto ogni cognizione, se mai l'avevo avuta. M'avevano visto abbandonato sconciamente al sonno come un lurido mendicante e a questo pensiero una nuova infelicità, acuta, mortificante, mi rendeva più miserabile che non fossi mai stato. Era un sentimento meschino e tanto più me ne rendevo conto quanto più mi padroneggiava: da cinquantenne austero retrocedevo a un'adolescenza mal consumata. A distogliermi da queste frasche - ma erano tristi frasche purtroppo concorse, più che la mia volontà, il fatto che la nave all'opposto di quel che avrebbe dovuto non si era spinta in alto, ma, alla distanza di un paio di nodi, bordeggiava. Mal desto non ci avevo badato e ora mi chiedevo se durante il mio sonno non avesse navigato altrimenti. Seguivo cogli occhi il profilo della costa; eravamo all'altezza del Circeo, ne riconoscevo i contorni, il vento era gagliardo, il veliero filava bene e io mi dicevo che per dirigersi ai porti della Toscana la rotta più breve avrebbe dovuto tagliare per il mare aperto. Una viva inquietudine mi colse dissipando gli sciocchi risentimenti di pocanzi, guardavo verso prua al timone, se mai accennasse a puntare verso l'alto: niente, la "Durance" continuava a ripetere il disegno della terra. Ecco Terracina, più in là le distese delle Pontine e lontanissimi i monti Irpini; a sinistra velate di nebbia, indovinavo le ondulazioni dei colli laziali. Che storia è questa, a quale scopo ci si avvicina così alle coste romane? Cerco di calmarmi: la cosa non mi riguarda, ma sento che è vero il contrario, che la rotta sarebbe tutt'altra se io non fossi a bordo. Un mozzo mi porta dondolando una gamella di minestra e la galletta: non mi riesce d'ingollare un boccone e lui mi sta a guardare con l'interesse sonnolento di chi assiste al pasto di un animale. Il sole
ha oltrepassato lo zenit, devo dunque aver dormito più a lungo di quel che non credessi: il ponte è deserto, i passeggeri, uomini e donne, sono a pranzo o riposano per la siesta. Rendo al mozzo la gamella piena. «Non tenete fame?» dice, incredulo, nell'atto di riceverla: poi, tutto di un fiato: «Il capitano ordina che scendiate nella stiva, venite con me». Lo fermo per un braccio: «Giovinotto, non mi muovo di qui se il capitano non viene a parlarmi di persona». Con una occhiata spaurita si scrolla e corre via spandendo un po' della minestra, senza rispondere ai miei richiami. Rimango solo e immerso in riflessioni una più sgradevole dell'altra. Aspetto. Posso bene aspettare, nessuno, per quanto è lunga la nave, si muove verso di me: il fruscio della scia, lo scricchiolio dei legni accrescono la mia solitudine. Sempre più chiaramente distinguo i Colli Albani, i paesetti sparsi sui pendii, laggiù è Roma, fra poco saremo davanti a Fiumicino. Rabbrividisco, siamo nelle acque del Papa, i francesi proteggono lo Stato Pontificio, lo presidiano e forse mi considerano una specie di prigioniero di guerra, un ostaggio. E' un'ipotesi assurda, io non sono un soggetto importante, la mia persona è priva di valore, e neppure regge il sospetto che qualcuno - chi mai? - abbia voluto vendicarsi di me: e tuttavia sono ancora un forzato, per questo mi si vuole chiudere nella stiva. A un tratto mi accorgo che tutto è più semplice: io non figuro da protagonista, la mia accanita sfortuna risale a un maligno provvedimento di polizia che ha escogitato di levarsi dai piedi un elemento di disturbo, l'uomo che ha concionato a San Francesco: tanto più facile da liquidare quanto meno è coperto da alte protezioni particolari. Un ignoto poliziotto zelante a quest'ora si fa un merito di avermi giocato consegnandomi, col pretesto dell'esilio, a un tiranno più solido e potente. Si sa che nelle disgrazie, chi prevede il peggio lo fa anche per scaramanzia e insomma sperando di sbagliarsi. Ero tanto occupato a soppesare opposte alternative che sobbalzai trovandomi a un tratto alle spalle un marinaio di cui non avevo avvertito il passo scalzo: reggeva in mano la mia quattro maglie e nel suo viso fosco mi parve di scorgere una certa peritanza. «Ordine del capitano» mi fa «potete rimanere sul ponte, ma devo applicarvi la catena.» Non protesto e gli porgo l'una dopo l'altra, le caviglie: in quel momento decido che non mi avranno, che, volpe o lupo, mi difenderò. Guardo la sua nuda schiena deformata dalla fatica: «Tu sei del Regno» gli dico «ma non napoletano». «Nossignore» risponde «Calabria Ultra, sono di Sicilia.» Si volge, di sottinsù mi squadra: «Anche voi siete calabrese?». Rispondo di sì, di proposito avevo caricato l'accento nativo. «Da quanto tempo fai servizio su questa nave?» Disse: «Da un anno» aggiungendo che i francesi preferivano i marinai del Regno perché erano bravi e si contentavano di poco salario. Non mi chiese chi fossi, ma era chiaro che conosceva la mia situazione e cercava di trattarmi con riguardo, non la finiva di cincischiare la mia catena quasi a mostrarmi che agiva a malincuore. «Che porti toccate prima di Livorno?» Palpitavo, dalla sua bocca sarebbe uscita la mia sentenza. «Nessuno di solito, ma oggi dicono che sosteremo a Civitavecchia per uno sbarco.» Ne sapevo abbastanza. Ed eccomi al gesto che ho invano cercato, per anni e anni, di ridurre alle sue reali proporzioni di necessità, e di giustificare: un gesto che non mi somiglia e che se lo inchiodo al lume della coscienza, ho l'impressione di averlo inteso raccontare da un chiacchierone che, magari, se lo inventava. Costui parla in prima persona e, purtroppo, io non posso contraddirlo. Il vento era caduto, le vele vibravano appena e il sole era a tre quarti del cielo: sotto i miei piedi il legno del ponte prese a pulsare, avevano acceso la caldaia e la "Durance" navigava a vapore, raddoppiando la velocità. Capii che il capitano voleva arrivare a
Civitavecchia prima di notte, poco tempo mi restava per riflettere. Alzai istintivamente il capo: sul pennone di maestra brandiva leggermente il vessillo francese, e quei colori che già il tramonto cominciava ad affocare mi affascinarono, di lì mi piovve una gelida esaltazione e un potere visionario dove l'immediato futuro era già avvenuto e descritto. Con estrema freddezza ripetevo la lezione di parole che qualcuno avrebbe pronunziato al mio posto, non io: io rimanevo il forzato impassibile alle minacce, pronto a subire qualunque sevizia, fedele e quasi affezionato alla sconfitta. E tuttavia il flusso delle parole pensate continuava, con modulazioni precise, accompagnato da un'azione minuziosamente costruita, per un effetto di palcoscenico: passi, movimenti del capo e delle mani, uno slancio repentino verso la spalletta. Così un attore studia e stabilisce gli accenti che userà nel dramma da recitare davanti a un pubblico di cui non conosce gli umori: e il dramma non gli piace, né gli garba il suo ruolo dolciastro, falso, retorico; e pensa con nostalgia al covo dove si rifugerà se lo fischieranno. Allo stesso modo mi appariva, a tratti, il buio della cella che mi avrebbe accolto se il piano che m'era sbocciato in mente fosse fallito: il luogo dove avrei infine ritrovato la mia personalità. Il ponte adesso si veniva popolando, i passeggeri prendevano il fresco chiacchierando, sedendo sulle leggere poltrone che gli uomini di bordo disponevano. C'erano più donne che uomini e fra loro riconobbi le tre giovani che mi avevano tanto amareggiato. L'attore, dentro di me, calcolò: si commoveranno più facilmente. In quel punto, manieroso e galante, nella sua montura di ufficiale, distinsi l'uomo che dovevo affrontare, il capitano della "Durance". A me fischiavano le orecchie, mentre all'attore che con me si muoveva trascinando con ostentata fatica la catena, quel sibilo comunicava una sorta di ebbrezza. Incredulo, lo sento parlare a voce calma, fermo a dieci passi dall'ufficiale che, sorpreso, porta la destra al fianco, deve averci uno spadino di ordinanza o una pistola. E' un bassotto magro, ha la barbetta a punta e la tiene sollevata con un'alterigia d'accatto, ma gli occhi gli sfuggono, non sostiene il mio sguardo. «Signore, posso sapere, da gentiluomo a gentiluomo, se su questo legno di Francia sono uno straniero protetto dalle leggi internazionali o la vittima di un tradimento?» Mi guardo in giro, i passeggeri si sono raggruppati facendo cerchio intorno al capitano, chiaramente partecipi di quel che sta succedendo, e, insomma, attori anch'essi, sebbene, in maggioranza, ignari della mia lingua. E di nuovo la voce non mia insiste: «Debbo considerarmi un esule avviato alla libertà o lo zimbello di osceni maneggi?». Ho persino alzato la mano in un gesto oratorio da guitto, recito bene, tutti gli occhi passano dal mio viso a quello dell'ufficiale che seguita a tormentare - ora lo distinguo il pomo del suo spadino, ma non risponde; e intanto dalla piccola fila si leva un mormorio di eccitato commento. «Non comprendo» pronunziò alla fine, e stava per voltarmi le spalle. Avanzando di due passi lo fermai: «Devo dunque pensare» dissi spiccando ogni sillaba con lentezza «che vi accingete a consegnare un suddito borbonico, un prigioniero politico graziato dal suo sovrano, un patriota, ai gendarmi pontifici di Civitavecchia?». Questa volta non poté fingere di non capire e col piglio militaresco della sua nazione rispose seccamente: «Oui, monsieur, j'ai mes ordres». In profondo silenzio adesso la folla raffittita pareva attendersi qualcosa di sensazionale, qualcuno mi si era decisamente avvicinato. Tutto si svolgeva come l'avevo previsto, avanti dunque. Non mi restava che prestarmi all'ultima scena del mio ruolo, il finale drammatico che mi ero freddamente raccontato e che poteva divenire grottesco: la mia ripugnanza nativa per il gesto istrionico m'impediva di riflettere che, in sostanza, giocavo la vita. Le caldaie vibravano ancora, ma la
nave si era fermata: eravamo dinanzi al porto di Civitavecchia, distinguevo le case e, più a sinistra, la fortezza massiccia che sarebbe stata il mio primo carcere romano. Non risolsi: obbedii. «Ebbene» esclamai a voce alta e ferma, ascoltandomi «nessuno si avvicini o si attenti a toccarmi: se non invertite la rotta mi getterò in mare avvolto nella vostra bandiera che vi preparate a disonorare.» In quell'istante soltanto mi resi conto della distanza insuperabile che mi divideva dal tricolore, mollemente ondeggiante, lassù. Mai avrei saputo arrampicarmici, la mia minaccia era ridicola. Eppure ebbe successo. Il battito delle caldaie è cessato, ho nell'orecchio lo sciacquio delle onde, per un attimo mi lascio cullare da quell'unica voce: sono spossato ma devo muovermi. Bandiera o non bandiera, mi butto verso la spalletta, riesco a issarmici mentre un frastuono di voci - vicine, lontane? - mi coglie alle spalle. Mi accorgo con difficoltà che, dai marinai all'ultimo passeggero, tutti gridano: «E' giusto, ha ragione, è un politico, è un patriota, vergogna, tradimento». Ritto sulla murata e finalmente sincero, guardo in giù verso il mare grigio come quando da ragazzo calcolavo lo slancio. Ecco la vera liberazione, finita la commedia, il trucco dell'attore, finito l'eterno trastullarmi colla sfortuna. La smettano di urlare, sono solo e patteggio colla morte: andrò a fondo trattenendo il fiato finché il cuore mi scoppi. Purché me ne lascino il tempo, non ho altro problema. Non me lo lasciarono, in un baleno mi trovai afferrato stretto, trascinato, seduto, con bocche e facce sopra di me. Cordiali? Per me, lo confesso, erano figure di incubo, quelle barbe, fedine, riccioli mi si confondevano in un impasto mostruoso in cui non discernevo la benevolenza dall'ostilità. Con estrema vergogna riemergevo a una realtà che mi presentava i suoi conti aspettando da me azioni, parole, decisioni: ed ero stanco, inadatto, ancora preso da un gesto non più teatrale ma autentico, la mia vera scoperta dopo tante incertezze. Da quanto tempo covava in me? Il suicidio non è né viltà né coraggio, è un avvertimento che scatta persuade e dilegua. Respingerlo può essere crudele. Mi fecero bere un liquore forte, mi sciolsero - non so come e chi - la catena, mi buttarono sulle spalle un soprabito: come se davvero fossi stato per annegare. La prima cosa di cui ebbi coscienza fu che il capitano, laggiù, nella penombra crepuscolare, stava finendo un discorso: parlava gesticolando. Colsi le ultime frasi «un caso di ammutinamento... ogni responsabilità... lascio il comando della nave». Seguì uno stracco applauso, poi dal gruppo che lo attorniava, un paio di uomini si staccò venendo verso di me, riconobbi il marinaio calabrese che aveva ribadito la mia catena. «Eccellenza» mi fa «sono ai vostri ordini, posso tenere il timone, il secondo non vuole.» Capii che mi chiedeva aiuto: di essere protetto o di essere assistito nella navigazione. Aggiunse infatti, timidamente: «Io non so leggere le carte». Quella preghiera mi rianimò come la prova d'una totale solidarietà. Dopo tutto, quell'uomo rischiava una punizione grave e mi dimostrava una fiducia che fortunatamente meritavo. Ero esperto nelle cose di mare, sapevo "leggere le carte". Mi levai in piedi, la testa mi girava, forse ero un po' brillo: «Non temere» gli dissi «condurrò io la "Durance", se questi signori si fidano di me». Non so se tutti si fidassero, ma ormai quel dramma a lieto fine li aveva - specie le signore - così eccitati che consentirono calorosamente. Mi avviai a prua, ben contento di sottrarmi a eventuali effusioni, domande, commenti: pare strano anche a me, ma all'ipotesi di dover raccontare il mio calvario, recalcitravo quasi fossi il carnefice, non la vittima. Ci trovai un gruppetto di marinai, sospesi e alquanto sgomenti: non senza impaccio mi adoprai a rassicurarli affettando una competenza, un'autorevolezza necessarie ma altrettanto
costose. Del capitano e del secondo non vidi traccia, probabilmente si erano ritirati a redigere una protesta che li scaricasse dalla responsabilità verso la Compagnia degli armatori. Sul tavolo della cabina di comando erano sparsi oggetti nautici, bussola, barometro, il giornale di bordo, una grossa scatola di sigari che distribuii agli uomini. Chiusa la porta respirai con delizia l'odore inconfondibile di un tranquillo ufficio marinaresco, carta, inchiostro, tabacco, muffa salmastra. Come tutti i ragazzi del mio paese avevo sognato un tempo il comando di una nave. Bussò il timoniere a prendere ordini e gli diedi quello di allontanarsi subito da terra, disponendo la manovra delle vele. Non conoscevo la navigazione a vapore e non avevo fretta di arrivare, la "Durance" era per me lo scoglio del naufrago. Rimasi sveglio e digiuno per tutta la notte. Capitolo 4. Queste cose, punto per punto, avrei voluto spiegare a Marietta quando, prevenuta in mio favore, insisteva per farmi ripetere le circostanze di quella che lei considerava una impresa leggendaria. Se le avessi parlato come adesso ho scritto, l'avrei, più che delusa, scandalizzata, non avrebbe capito niente e mi avrebbe creduto pazzo. Sotto le candele del gran lampadario di cristallo, tutte accese in mio onore, il suo viso di nordica civilissima m'intimidiva, lo confondevo con quello di una delle tre passeggere francesi che sulla tolda della "Durance" avevano pietosamente sogguardato la mia faccia irsuta e la mia casacca di galeotto. Una volta sola mi provai a farle intendere che differenza passasse fra un atto azzardato, concepito per produrre un determinato effetto, e il vero paziente coraggio: mi ascoltò attentamente, ma quando dichiarai che la storia della "Durance" non era che una bravata, scoppiò a ridere come se avessi scherzato e con lei risero tutti i suoi, riuniti intorno al tavolo della tombola. Liquidai l'argomento in poche battute, non c'era altro da fare e tutti lodarono a gran voce la mia modestia e la mia straordinaria semplicità. Sorrisi a mia volta: la semplicità era dalla parte dei miei ascoltatori. Il fatto è che nel clima esaltato dell'unità appena raggiunta, non era permesso discutere e discriminare su quanto ciascun patriota aveva sofferto e fatto, di esuli ed ex galeotti si trascuravano i casi singoli, celebrandoli tutti allo stesso livello. Il mio confiteor rimase dunque affar mio privatissimo, da consumare in segreto come un esame di coscienza. Per mia moglie, invece, i giornali che riferirono gli accidenti della mia liberazione sono preziosi gioielli, credo che li metterebbe volentieri in cornice. Già ho detto come, sollecitato da lei, sia stato costretto a raccontare quella benedetta storia ai nostri bambini che ne erano entusiasti. Quando arrivavo all'episodio del tricolore, mi fermavo, avrei voluto precisare, almeno una volta che, per la verità, non l'avevo neppure toccato e magari aggiungere qualche riflessione morale sulla necessità in cui m'ero trovato. Ma essi già battevano le mani. «E poi?» chiedevano. «E poi arrivammo a Livorno ed eccomi qui» concludevo per tagliar corto. Non si contentavano, la mamma gli aveva raccontato - ed era vero - che, come mi ero spogliato dei panni di galeotto, i patrioti livornesi se li erano divisi quasi reliquie. Di non averli mai veduti e toccati, Marietta si rammaricava insieme ai figlioli, quella famosa casacca di pelo d'asino era oggetto del loro cocente desiderio. «Non hai pensato» mi rimproverava la piccola Teresa «di tenerli in serbo per noi?» A una così tenera e innocente protesta non potevo oppormi spiegando quanto eccessiva e irragionevole mi fosse parsa l'infatuazione dei liberali toscani, in fondo dei leggeroni che alla stessa maniera avrebbero acclamato un qualunque profittatore (e Dio sa se ce n'era) delle circostanze. Mi forzavo a sorridere e rispondevo che non potevo prevedere i sentimenti
di chi non era ancora nato. «Ma non lo sapevi che ti saresti sposato e quando ci si sposa nascono i bambini?» insisteva la candida piccina, tutta presa dal mito dei genitori e della prole. A questo punto interveniva mia moglie: «Mes enfants, papa est fatigué». Benedivo il suo tatto pudico che mi risparmiava qualche menzogna e, alla fine, qualche scatto d'impazienza. Livorno, l'incanto di una vita mediocre: Firenze, dove vissi brevi giornate balorde con la sensazione di essere un oggetto fuori uso, un ospite indesiderabile e imbarazzante. Ma le notizie dell'avanzata di Garibaldi in Sicilia, del suo imminente sbarco in continente, spazzarono via la mia ignavia scoraggiata. L'azione vittoriosa dei Mille, quella specie di miracolo, rimetteva in gioco le carte che erano parse ormai senza valore, i democratici meridionali non avevan detto l'ultima parola e con un po' di fortuna e di abilità avrebbero potuto rovesciare la situazione politica. Ne eran prova la diffidenza aperta dei moderati e il contegno sibillino del governo piemontese, Cavour e re Vittorio maneggiavano con astuzia per sfruttare a loro vantaggio l'impresa del Generale, ma tradivano la preoccupazione di non arrivare in tempo a fermarla e volgerla a loro profitto. Mi sentii imperiosamente chiamato, restituito alle mie funzioni di agitatore: fra poco si combatterebbe in casa mia, nelle terre disgraziate dove le popolazioni non avevano segreti per me. Sollecitato, inoltre, dai pochi sinceri democratici con cui avevo preso contatto, volai di nuovo a Livorno e cercai affannosamente un imbarco. Alla fine un bastimento genovese accettò di prendermi a bordo: era diretto a Napoli. Di lì, per via di terra, calcolavo di raggiungere speditamente le province andando incontro ai garibaldini e lavorando all'insurrezione delle campagne e dei villaggi. Tutto potevo prevedere, combattimenti, agguati, violenze, un nuovo arresto: non quello che mi toccò, un mutamento del mio animo. Fu una scoperta dolorosa a cui mi opposi con tutte forze, ma senza successo. Già durante il viaggio per mare, il ricordo dell'inerzia facinorosa della plebe napoletana mi teneva sospeso. Come avrebbero reagito i lazzari venduti alla tirannia, i camorristi? Ed ero proprio sicuro che i foresi, il popolino delle campagne che avrei attraversato fossero scossi dagli avvenimenti, pronti all'insurrezione? A dir breve: appena messo piede sul suolo di Napoli fui travolto dalla sensazione precisa e irrimediabile che quello non era il mio paese, che la mia lunga segregazione aveva agito su di me come una lontananza di migliaia di miglia: alle vere condizioni del Regno io avevo sostituito una serie di immagini brillanti e inesistenti. Non c'era oggetto che non le smentisse: ai miei occhi disincantati persino la vivacità dei volti, dei gesti, del linguaggio era sintomo di una generale indifferenza che rasentava lo scetticismo. I poveri si crogiolavano nella sporcizia con una strafottenza che sfidava la pietà; i ricchi, nei caffè, sogghignavano sentenziosi e faceti, da ironici spettatori. Luridi tuguri e palazzi in rovina denunciavano alla pari un costume avvilito, incapace di mutare. Nessuno credeva più a nulla, salvo al potere taumaturgico delle sacre reliquie. A norma di legge, ero un esule in rottura di bando, ma non mi degnai di usare nessuna cautela, in fondo se mi avessero fermato e ricacciato in prigione, avrei pensato: meglio così. Quella città brulicante di oziosi chiacchiericci mi disgustò al punto che, vedendo passare per Toledo l'equipaggio del re, proruppi ad alta voce in un insulto che cadde sulla folla come un sasso in acqua stagnante. L'antica civiltà napoletana si era sciolta in una torpida anarchia di cui un qualunque padrone avrebbe facilmente approfittato. Cercai vecchi amici, compagni di fede: o si davano assenti o si mostravano evasivi e sornioni, al più si rallegravano di rivedermi come fossi tornato da una villeggiatura. Garibaldi? Nicchiavano; be', staremo a vedere. E quanto
contavo di trattenermi in città? Debbo alla mia nativa cocciutaggine se non mi arresi. Col denaro raccolto dai democratici di Livorno mi diedi a racimolare uomini e armi per la progettata spedizione nel sud: si era alla fine di giugno, sotto un sole feroce lasciai la capitale, diretto a Salerno. Gli uomini li avevo reclutati, per la maggior parte, fra gli studenti calabresi che vivevano a Napoli pressappoco come io ci ero vissuto: all'aspetto truci e pronti alla ribellione, ma di idee confuse e personali; le armi erano vecchi aggeggi di scarto. Tuttavia quella partenza mi restituì energia e determinazione. Si camminava il più veloce possibile e alla spicciolata, talvolta mi valevo di una cavalcatura d'incontro per precedere la compagnia e aspettarla nei luoghi convenuti. Quelle attese erano funestate da sospetti di tradimenti e di diserzione. Dormivo poco e male, sempre tormentato dal medesimo sogno: Gennaro, il carceriere di Montesarchio, mi rimproverava per non aver seguito il suo consiglio di ridurmi con lui, da eremita, sulla vetta del Taburno. Riprendendo il cammino sotto le stelle - si viaggiava di notte - rimuginavo fra me quando mai Gennaro mi avesse fatto quel discorso: perché, nel sogno, ero certo di averlo ascoltato. Ne deducevo che, in fondo all'animo, quel che andavo tentando non mi persuadeva, in effetti non mi riusciva di sapere come procedesse l'avanzata garibaldina, la Sicilia è lunga da traversare e sulle coste della Calabria le fortezze borboniche avevano tutto il tempo di prepararsi alla difesa. Comunque, i rischi di quella corsa disperata fecero a poco a poco tacere i cattivi presagi in cui avevo cominciato a muovermi: ritrovavo, insomma, interesse all'azione, un interesse però tutto personale, giacché delle idee e degli scopi dei miei compagni raccogliticci non avevo che una nozione generica. Salvarmi così dagli attacchi del mio pessimismo era forse comportarmi da egoista, ma dovevo contentarmene. C'erano cento cose da provvedere, da escogitare, e queste preoccupazioni mi distolsero da incomodi dubbi e presentimenti. Nei borghi più grossi non era facile trovare subito gli esponenti del partito mazziniano, l'unico che a Napoli mi avesse aiutato con informazioni e consigli, oltre che con lettere di presentazione ai capi. C'eran paesi dove i volontari erano accolti come gente che volesse mettersi avanti senza bisogno: ormai è tutto fatto, dicevano; in altri il tempo pareva esser fermo a un secolo innanzi, ma erano, per la verità, i più mansueti e generosi. A volte un lampo di spensieratezza giovanile brillava anche per me: come quando, essendomi imbattuto in una specie di magazzino militare abbandonato, mi saltò in mente di rivestire i miei compagni di divise borboniche con cui, immaginavo, sarebbero passati più facilmente per le province. Indossandole quei giovani si divertivano come a una mascherata: avevano ammassato gli abiti dietro a un pagliaio e così riparati essi si cambiavano a turno, comparendo poi con buffe grinte militari e gran risate. Non sempre i travestimenti ci giovarono, anzi a un certo punto fu necessario disfarcene e disperdere il plotoncino mescolandolo fra i comuni viandanti. A Salerno, gran confusione di notizie, voci accreditate davano per certo che Garibaldi fosse già in continente e che per suo ordine i volontari che intendessero combattere dovevano raccogliersi in Potenza. Si trattava di mutar direzione e raddoppiare le distanze, ma sebbene incredulo, mi tenni per me i miei dubbi e ci precipitammo a marce forzate per lande torride e per alture selvatiche, senza strade, senza vettovaglie. Contro ogni previsione, tutto si svolse felicemente, pareva che la fortuna mi avesse preso a benvolere: nessun incidente ci rallentò, trovammo cibo, fienili per dormire. Durante quelle fatiche a cui non presumevo che la mia salute reggesse, pensavo a come la sorte mi era sempre stata avversa quando ero pieno di
entusiasmo e di fede. Avevo l'impressione di esser caduto in una trappola e che tutto si risolverebbe in una beffa. A Potenza non trovammo Garibaldi ma dovunque i segni di una festa bene organizzata, le chiese scampanavano a distesa e i notabili cittadini, in figura di accesi liberali, eran tutti in piazza, mentre il popolo si comportava supinamente, sgranocchiando torroni come il giorno del santo patrono. Sentivo circolare il nome di Nicola Mignogna, vecchio amico mio e fervente democratico, quale promotore di un governo provvisorio garibaldino: lo cercai invano e non sapevo che mi pensare. In altri tempi avevo conosciuto alcuni di quei signori per borbonici ossequientissimi, pronti a presiedere i tribunali del '48: adesso giravano con la coccarda tricolore, mentre sulle mura dei palazzi si moltiplicavano scritte inneggianti a Vittorio Emanuele: non per ordine di Mignogna, evidentemente. Lasciai che i miei uomini si riposassero qualche ora, poi li riunii per dichiarare che intendevo rimettermi subito in cammino per il sud. Non mi trattenni dall'aggiungere, a mezza voce che, secondo me, questa di Potenza non era gente da fidarcisi. Quel che non era avvenuto fino allora si manifestò: i miei guerrieri mi fecero intendere di non essere d'accordo e che una buona metà di loro aveva deciso di non avventurarsi oltre, aspettando a Potenza l'arrivo di Garibaldi per unirsi ai suoi volontari e marciare su Napoli. Risposi freddamente che ciascuno era libero di comportarsi come credeva meglio, senza insinuare altri dubbi sull'imminenza di quell'arrivo. Quanto a me, chi voleva mi seguisse alla volta della Calabria Ultra dove ero certo che c'era altro da fare che applaudire al monarca piemontese. Vidi che mi guardavano male e tagliai corto fissando il luogo e l'ora della partenza, il giorno dopo. Durante la notte e avviandomi al convegno riflettevo che i dissenzienti erano più giudiziosi di me: nel nostro viaggio poche garanzie gli avevo dato delle mie qualità di capo rivoluzionario. I discorsi che avevo tenuti nei raduni dei mazziniani per i villaggi e nelle campagne, erano fiacchi: invano avevo tentato di ritrovare l'accento focoso e persuasivo di un tempo, quando così facilmente interpretavo gli umori di chi mi ascoltava. Inoltre, raggiungere, dalla Basilicata, Cosenza, per vie traverse e disastrose presentava infiniti rischi. Non disponevo di carte topografiche né di indicazioni orali sulle strade e scorciatoie della regione che ci accingevamo a traversare: se fossimo andati a sbattere in un qualche presidio borbonico, un'esecuzione spiccia non poteva mancarci. Far la fine di Pisacane non mi spaventava, sarebbe stata la risoluzione dei miei problemi, ma era naturale che i miei compagni non la pensassero alla stessa maniera. Sinceramente speravo che nessuno fosse così pazzo da seguirmi. Invece ne trovai puntuali una quindicina. Cominciò così la disordinata marcia che puntava su Abriola e di lì a Calvello. Si camminava per carrarecce e sentieri appena segnati, smarrendo spesso l'orientamento e andando senza accorgercene verso est o ovest quanto più ci premeva dirigerci a sud. Il paesaggio era irto di vette, spaccato da gole profonde e così strette che dovevamo percorrerle in fila indiana: un buon fucile, su una qualunque altura, ci avrebbe stesi tutti. La mole del Volturino pareva vigilare i nostri passi, non riuscivamo a lasciarcelo alle spalle e talvolta dopo lunghi rigiri ci ritrovavamo a poche miglia dal punto donde s'era partiti. La mia antica esperienza di corriere settario su cui avevo contato, poco o nulla mi serviva, allora le mie missioni erano studiate e preparate accuratamente, sapevo che di tappa in tappa mi aspettavano uomini sicuri e pratici dei luoghi, pronti o fornirmi il cavallo o il mulo: inoltre non ero obbligato a viaggiare dal crepuscolo all'alba come la più elementare cautela adesso ci prescriveva. Da me, provato dall'immobilità della
galera, all'ultimo dei soci, eravamo esausti, le scarpe consumate, i prolungati digiuni ci facevano barcollare: le distanze si dilatavano orribilmente, perdevamo il computo delle giornate. «E a Cosenza, ammesso che ci si arrivi, cosa troveremo? Probabilmente l'avanzata garibaldina, sempre che non finisca in un macello, ci avrà superato e per ricompensa faremo la figura di allocchi.» Questo mi osservava il più anziano dei compagni, un trentenne nativo di Morano, di nome Annibale, che studiava filosofia e avevo promosso mio aiutante. Era un tipo faceto e mi distraeva prendendomi bonariamente in giro. Da Calvello a Viggiano fu un vero inferno: ripe scoscese, da capre, precipizi, letti aridi di fiumare, bianche come ossa, che passavamo allo scoperto, miseri puntolini come nere mosche, esposti alle schioppettate. A turno, qualcuno esclamava, calmo calmo: ci siamo perduti. E tuttavia quando si camminava in pianura i compagni respiravano, mentre io mi riavevo soltanto sui monti, per aspri che fossero. Non mi turbava il dialetto incomprensibile con cui i rari abitanti rispondevano alle nostre domande: i boscaioli, i pastori, i contadini si assomigliavano dovunque, se non il loro linguaggio capivo i loro gesti. Fra i boschi e le forre gialle di ginestra, col vento in faccia era dolce smarrire la misura del tempo, dolce lo scampanio delle greggi, grato il sapore della ricotta e del cacio ingollati senza pane. Quegli uomini avevano paura di noi, una paura schietta, pronta alla difesa, ma senza ostilità. Nell'inquieto sonno diurno li sentivo muoversi, confabulare, spaccare legna: chissà, da un momento all'altro l'accetta poteva colpirci, ma al risveglio il cibo non era negato: quella tacita solidarietà mi nutriva. Dimenticavo Garibaldi, il Borbone, il Savoia, ero l'evaso in cerca del nascondiglio sicuro: galeotto si rimane a vita, rimedio non c'è. Come in carcere, sognavo un terremoto che scuotesse le montagne sbarrandoci per sempre il cammino, un qualunque disastro che mi riducesse allo stato selvaggio, staccato dal mondo. Ma mi svegliavo e i compagni s'impazientivano, erano loro adesso a voler proseguire senza indugio. Si sa, i giovani preferiscono l'abitato, anche nemico, alla solitudine. Avanti dunque, col mio branco spedato e con qualche nome in bocca, di casale, di masseria. Quando fummo alle viste di Mormanno eravamo otto straccioni, gli altri sette si erano via via sparpagliati, decisi a raggiungere i più vicini paesi o il mare per trovarvi un imbarco. Ma eravamo ormai alle porte della mia Calabria, Morano era la patria del nostro filosofo, fu lui a guidarci offrendoci ricovero in casa sua. Non mi opposi e così fu; due giorni e una notte ci passammo, non facemmo che dormire, masticavamo dormendo, la madre e la sorella di Annibale piangevano per quanto eravamo magri e sparuti. Piangi e prega, lui non resistette alle scene delle sue donne, promise che ci avrebbe raggiunti appena Garibaldi avesse impegnato battaglia. Lì, si sapeva di certo che lo sbarco non era ancora avvenuto e chissà se e quando avverrebbe: perché intanto, non rimetterci in forze? Direi che quelle defezioni mi erano più gradite che sgradite, ormai ciò che m'importava non era la riuscita della mia povera spedizione, ma il trovarmi sollevato dalle responsabilità di capo. Ricordo che assistendo alle suppliche delle mie ospiti e al cedimento crescente del loro figlio e fratello, mi pareva di ascoltare le querele dei miei paurosi parenti che allo stesso modo si sarebbero comportati. Non nascosi al filosofo che non credevo avrebbe mantenuto la sua promessa: mi guardò fisso, senza protestare, forse era più avvilito di me. Mi accomiatai da lui con un penoso imbarazzo e con un curioso rispetto. Eravamo, adesso, cinque disperati, i quattro che mi accompagnavano erano quelli su cui meno contavo, cafoni del suburbio napoletano, due zappaterra, un facchino, un fabbro ferraio: tutti, durante la marcia, si erano distinti come ladri di polli e di frutta. Ci dirigemmo verso Castrovillari.
Rivestiti di nuovo, scarpe solide, biancheria pulita: potevamo passare per innocui cacciatori anche agli occhi dei borbonici e camminare di giorno. Da Morano a Castrovillari fu una passeggiata; un po' più dura la strada per Cosenza, ma ero ormai in terra familiare, e bastava andare disinvolti per non destar sospetti. A Cosenza non volli entrare, mi fermai a una masseria che conoscevo, ma il massaro non mi ravvisò, troppi anni erano passati e io stesso stentavo a ritrovare in quel vecchio l'uomo adusto che ricordavo. Era stato dei nostri, più ardito del bisogno, pure non osai scoprirmi e facendo il balordo gli chiesi che si dicesse in Cosenza della guerra. O era cambiato o aveva scelto la prudenza: mutò discorso e mi parlava degli uccelli di passo. Ma i miei quattro faticanti non avevano inteso ragioni e alla spicciolata erano entrati in città. Avevo creduto di non più rivederli, invece tornarono con notizie fresche: lo sbarco non era ancora avvenuto ma si dava per imminente, bisognava affrettarsi, c'era ancora la Sila da traversare. Eppure, indugiavo. Da una collinetta miravo la città adagiata fra il Busento e il Crati, col suo bel ponte, i campanili, i palazzi: la mia piccola capitale, un centro di vita civile. Lì era morta quella che per me era stata la vera rivoluzione democratica del '48, dalle sue mura mi giungeva l'eco della voce di tanti amici, di Mauro, di Musolino, di Ricciardi: di lì ero partito sconfitto ma non disperato, per incontrare il mio ultimo destino. Chissà, qualcuno di loro era ritornato dall'esilio o dal carcere e stava organizzando soccorsi ai Mille. Ma come raggiungerli senza comprometterli, quali forze borboniche presidiavano Cosenza? Malinconicamente decisi di rinunziare al conforto di abbracciarli e consultarmi con loro, e convenni che non c'era tempo da perdere, bisognava superare la Sila. Aggirammo la città e per vie traverse cominciammo a salire tagliando per scorciatoie e dirupi. Pi+ che la fatica del cammino una vaga ansia mi mozzava il fiato, avrei voluto già essere sull'altopiano che sentivo venirmi incontro con gli odori di pino e di legna bruciata. Albeggiava, a ogni tornante il bosco ispessiva, l'ombra degli alti faggi era azzurra come il cielo notturno, uccelli fischiavano, pigolavano, trillavano. Dal manto verde dei monti si sdipanavano qua e là i fumi biancastri delle carbonaie e nel silenzio che ingigantiva il suono dei nostri passi, una bava di vento ci portava di tanto in tanto il lamento di una di quelle zampogne che consolano la solitudine del montanaro. Fedele alla memoria che ne conservavo, la Sila era rimasta intatta, imbalsamata nella solenne immobilità di una vita radicata nella terra, ancorata al flusso delle stagioni e a cose assolute, impermeabili alle mezze verità, alle piccole misure. Gli uomini che avevano continuato ad abitarci non conoscevano che la sua legge primitiva, la loro diffidenza verso le novità era ragionevole, essa discendeva da una esperienza secolare. Mi confrontavo col ragazzo che ero stato quando mi arrabattavo a scuoterli da quella che mi pareva inerzia e gli suggerivo di reclamare giustizia, un mondo eguale per tutti, una vita decente. Mi ascoltavano senza replicare e mi lusingavo di averli convinti, ma forse avevano pietà di me. Adesso, se li avessi di nuovo incontrati, a quali speranze avrei potuto indirizzarli? Cosa avrei potuto promettergli se non la distruzione del loro unico bene, la perdita di uno stato selvaggio ma libero? Per fortuna, riflettevo, i montanari che un tempo mi avevano fraternamente ospitato nelle loro capanne o erano morti o divenuti troppo vecchi per ricordarsi delle mie chiacchiere; e i loro figli, quei bambini ignudi che avevo accarezzato, non avrebbero avuto la pazienza di ascoltare un anziano vagabondo. Ebbene, l'incontro che giudicavo impossibile parve realizzarsi: veniva giù dallo scoscendimento del monte una fila di asinai e come giunse sulla nostra strada se ne staccò un vecchiotto barbuto che ci sbarrò
il passo. Dopo un saluto metà burlesco e metà militare: «Viva Garibaldi!» gridò ammiccando, «Morte ai baroni e ai preti.» A quella voce sgangherata i miei quattro poveracci che mi precedevano, si fermarono e guardarono lui e me, interrogativamente. Anche gli asinai della fila si erano fermati, ma non si occupavano di noi, avevano piuttosto l'aria di chi assiste con pazienza alle solite stramberie di un vecchio nonno uscito di cervello. Ero un po' imbarazzato e anche infastidito giacché a me pure il vecchio sembrava uno di quei pazzerelli innocui e vociferanti che ogni paese conta fra le sue curiosità: non mi era però mai successo d'incontrarne uno fra le montagne, lì la gente ha la testa a posto. Scelsi di sorridere bonariamente e ricambiai il saluto ripetendo: «Viva Garibaldi». Il barbuto ne parve contento e di nuovo strizzando l'occhio, svelto svelto rimontò sul suo asino: silenziosi, dietro di lui i suoi compagni si avviarono traversando la strada e dirupando giù dal ciglio opposto per una discesa rovinosa. Qualunque fosse lo stato mentale dell'asinaio, quell'incontro mi mise di buonumore. La foresta non mi sembrò più così solenne e distante, così insensibile alle ragioni che mi ci avevano ricondotto. Era come se avessi fino allora usato un cannocchiale alla rovescia: adesso l'apparizione del vecchiotto aveva rimesso a fuoco la lente e ristabilito i miei contatti colla natura e cogli uomini che ci vivevano in mezzo. Chissà, mi dicevo, mentre io dispero del popolo tutta la Calabria sta per insorgere. In questo spirito mi rivolsi ai miei spedati con una gaiezza che sorprese anche me. «Domani?» dissi «ci riposeremo a Taverna, è un luogo sicuro e amico, ci accoglieranno bene, di lì a Catanzaro è un passo, ho idea che Garibaldi ci stia arrivando». In effetti, conoscevo quel piccolo borgo come le mie tasche e il pensiero di sostarci prima di affrontare una battaglia mi parve una trovata. Ci abitavano, un tempo, il mio padrino di battesimo e la mia balia, mia madre mi ci mandava qualche volta per brevi vacanze. La gente era laboriosa e ingegnosa, contadini ma, soprattutto, falegnami, l'aria sapeva di trucioli e di segatura, il sibilo della sega e della pialla circolava per tutto il paese. I figli di quegli artigiani erano stati i miei primi compagni, mi avevano insegnato la via dei boschi e l'uso della fionda. L'ultima volta ci ero capitato da giovinetto e non mi ero curato di cercarli, ma ora ricordavo le loro facce una per una: ero sicuro che non mi avevano dimenticato e che, se appena gli parlassi, mi avrebbero seguito a Catanzaro e oltre. Così la mia infelice spedizione si sarebbe arricchita di uomini vigorosi e fidati e non sarebbe finita troppo miseramente. Insomma, ero allegro e non pensavo più in là: ecco i tetti di Taverna, cotti dal sole di un tardo mattino, laggiù nella valletta che la strada di poco sovrasta. Affrettiamo il passo, mi affaccio fra i rovi della siepe: sembra un villaggio abbandonato tanto è silenzioso e privo di vita, nell'aria stagna un vago odor di letame. Scendiamo la ripa, siamo subito nel cuore del paese, davanti alla chiesa di San Domenico: la piazzetta è deserta e il palazzotto del padrino, che la fiancheggia, casca a pezzi. I compagni mi guardano, io mi fingo tranquillo e gli ordino di addentrarsi per le stradette e provvedere pane e companatico. Esitano, non hanno altre armi che il coltello, i fucili se li sono venduti strada facendo, in cambio di cibo. Per togliermi al disagio entro in chiesa, alla ricerca del parroco o del sacrestano. Ci andavo a messa, la domenica, per mano alla balia che puntava impettita al primo banco con su scritto il nome del padrino. Il banco è ancora allo stesso posto con le lettere incise a fuoco sull'inginocchiatoio. Mi siedo, mi guardo in giro, tendo l'orecchio: non c'è anima viva. Mi affaccio alla sacrestia, è deserta, chiusa la
porta che dà accesso alla canonica, silenzio profondo. Ritorno sui miei passi, percorro la navata: stucchi, marmi, quadri - i quadri che il padrino ammirava, opera, diceva, di un grande artista locale intatti ma opachi e polverosi. Senza accorgermene m'incanto a quella luce dorata, un sottile scoramento m'intorpidisce forse mi assopisco, qualcuno mi tocca la spalla. E' il fabbro, mi mostra due gran ruote di pane. Dice che non han trovato altro, i paesani si sono nascosti dietro gli usci chiusi, per avere questo pane han dovuto gridare, minacciare, ringhiavano ingiurie, e, sporte le pagnotte, si sono puntellati dentro. Pieno di collera mi alzai, deciso a gridare il mio nome in piazza e a svergognare l'ignavia paesana. Così feci, infatti, e la mia voce alterata e solitaria percosse mura sorde, nessuna finestra si aprì, nessuno comparve. Intanto i miei uomini masticavano il pane e ci bevevano sopra gran sorsi di una fontanella che ricordavo assiepata da donne con la brocca e il cercine in capo. Ero stralunato, avevo l'impressione che la luce meridiana fosse un miraggio e io gridassi nel buio di un sogno. Entrare a forza nelle case, sfondarne gli usci, contendere, a che sarebbe servito? Quella gente aveva paura: e di cos'altro se non dell'arrivo di soldati violenti e saccheggiatori? Ragionavo: o c'erano borbonici nelle vicinanze, o si aspettavano i garibaldini, dipinti come diavoli incarnati. Quanto più laboriosi e quieti, tanto più i tavernesi temevano l'una e l'altra eventualità, egualmente perniciose. Immaginare che degli onesti operai abbandonino il loro lavoro per affidarsi a vaghe promesse di miglior vita era da parte mia una illusione sciocca e, in fondo, padronale: se non altro un errore di dottrinario astratto. Non era tuttavia il caso di spiegarlo ai compagni che avevano il diritto di giudicarmi un leggerone, un millantatore. Li lasciai mangiare e un po' per sottrarmi alle loro domande, un po' per un improvviso struggimento che mi spingeva a rovistare la casa dove avevo passato tante ore dell'infanzia, dissi che mi aspettassero, volevo eseguire personalmente una ricognizione. Il portoncino sembrava chiuso ma cedette alla mia mano, e fui dentro. Evidentemente la casa era da tempo disabitata e più che di una incuria totale portava le tracce di un violento saccheggio. Usci pencolanti dai cardini o scardinati, pareti lorde, qualche credenza sfondata, a terra tritume di paglia e tizzoni spenti. Era stata una dimora rustica ma signorile, disponeva anche di una buona biblioteca, delizia dei miei pomeriggi piovosi, ancora riconoscibile per gli scaffali divelti e mucchi di cartacce. Il padrino doveva esser morto da un pezzo, ma ero convinto che quella devastazione era l'effetto di una perquisizione borbonica. Sebbene amasse la quiete e, per quanto ne sapevo, non avesse mai fatto parte di una setta, pensava e parlava liberamente e, da buon volterriano, detestava i preti: chissà come era finito. Così almanaccavo, seduto su una panca zoppicante, e, nella rovina che mi circondava, leggevo la sconfitta di un costume civile, di una cultura, di tanti ingegni che la nostra terra aveva prodotto, soffocati nel momento in cui potevano ispirare le riforme che più convenivano ai loro concittadini. Il presente era ambiguo, affidato a uomini dalle idee piccine, tanto prevenuti nei confronti del mezzogiorno da distruggere le nostre qualità e profittare dei nostri difetti. Garibaldi faceva miracoli sul campo di battaglia, ma non avrebbe resistito ai politici che già eran riusciti a imbrigliarlo nella soluzione monarchica, le sue promesse al popolo siciliano sarebbero rimaste lettera morta. Tale l'uomo, il migliore, verso cui correvo disperatamente da settimane. Riflessioni monotone, mille volte allontanate dal dubbio di cedere alla faziosità settaria, ma implacabili nell'impormi la loro ostinata, ferrea logica. E se abbandonassi la partita, se, una buona volta, mi decidessi a
scomparire? Mi accostai a una finestra e, riparato dall'imposta, guardai in giù nella piazza augurandomi che gli uomini che mi ero trascinato appresso si fossero stancati di aspettarmi e se ne fossero andati per conto loro lasciandomi libero di concludere da solo un inutile sacrificio. Non pensai, lo confesso, alle mie responsabilità di capo dappoco, ma pur sempre capo, di cui avevo avuto chiara coscienza finché era rimasto con me qualcuno capace di comunicarmi il suo pensiero e di discutere il mio. E non pensai nemmeno che quei quattro volontari superstiti, sempre silenziosi e foschi, rappresentavano gli oppressi che mi ero giurato di riscattare dall'ignoranza e di rendere uguali a me. Non mi accorsi che così disperando ero ricaduto nella mentalità privilegiata della mia classe, generosa a parola ma guardinga, anzi scettica quando tratta con lo zappatore e il manovale. Il carcere non basta a purgare certi peccati originali. Comunque, i miei uomini erano ancora lì e non soli, essi discorrevano gesticolando con un villano sbucato non so di dove insieme a un suo carro tirato da un robusto mulo. Scesi rapidamente e come mi videro mi corsero incontro togliendosi l'un l'altro la parola di bocca. C'erano novità, novità grosse. Garibaldi era sul continente, i borbonici in fuga, i volontari, un nembo, avanzavano occupando i paesi, le avanguardie erano già in vista di Tiriolo. Tutte queste notizie le aveva portate, dicevano, il carrettiere, che, interrogato da me, non me le confermò che con allusioni oscure e impaurite sicché immaginai che fossero per gran parte frutto di interpretazioni fantasiose. Lui stava a gambe larghe, davanti alla sua bestia che già coloro avevano afferrato per la cavezza, sul suo volto cupo solo gli occhi si muovevano esprimendo la ferma volontà di opporsi alla manomissione della sua proprietà. Era comprensibile che i quattro, allo stremo delle forze, intendessero valersi di quel mezzo, ma capii che l'uomo si sarebbe fatto ammazzare piuttosto di cedere alla requisizione di carro e mulo. Non mi restavano in tasca che pochi spiccioli necessari al vitto di un paio di giorni, cavai dunque dal panciotto l'orologio e glielo offersi in pegno del giusto compenso per il nolo sino a Catanzaro. Dopo aver traccheggiato un bel pezzo accettò e ci muovemmo, gli uomini a turno stravaccati sul carro, io a cavalcioni sull'animale, il contadino in coda a passo di marcia. Non avevamo certo un aspetto marziale e, malgrado la mia tristezza, mi venivano in mente le avventure di Don Chisciotte. Ma chi era fra noi Sancio Pancha? Quell'ultimo tratto di cammino, compiuto con una comodità, sia pur relativa, di cui avevo perduto l'abitudine, mi par di averlo sognato: rammento appena la contesa, a un crocevia, fra il carrettiere e i trasportati che rifiutavano di proseguire per Catanzaro, volendo raggiungere subito Tiriolo. L'uomo protestava che nella carrareccia per Tiriolo la sua bestia si sarebbe azzoppata, gli altri rispondevano chiamandolo traditore della rivoluzione. Avrei dovuto impormi con un ordine spiccio, ma non riuscivo a sottrarmi ai richiami della memoria sempre più fitti da quando avevamo infilata la discesa. Ciò che avevo creduto sepolto era ancora lì e fedelmente mi aspettava: non dico gli alberi e i casolari, ma persino i sassolini mi pareva di riconoscere. Il tempo, disperso e vanificato, aveva ricuperato le sue misure e scansioni di mesi, di giorni, di ore, tutti disegnati e coloriti da una vicenda precisa. A ogni tornante mi sembrava di voltar pagina in un libro familiare e persino le novità della strada, un pino giovane, le ferite delle frane, gli abituri e gli ovili sorti durante la mia lunga assenza, raccontavano i loro motivi e quasi la loro data di nascita. Ero nel mio regno di ragazzo e le felci fruscianti al venticello che veniva dal mare erano le stesse che la mia mano aveva scostato alla ricerca di funghi.
Richiamato al presente da quel vocio, intervenni per dar ragione al carrettiere: i patti erano patti e chi voleva andare a Tiriolo era giusto che usasse le proprie gambe. Per primo diedi l'esempio smontando dal mulo e lentamente i quattro discesero dal carro. In silenzio l'uomo si affrettò a voltare per Catanzaro senz'altro saluto che un cenno della mano alla scoppoletta. «Ci vedremo al Pizzo» gli gridai dietro «ti darò il denaro del nolo e tu mi renderai l'orologio.» Neppure si girò, tanto gli premeva di perderci. In marcia dunque. Non dividevo la smania di giungere a Tiriolo se non per la speranza di sparare una buona volta contro i borbonici, non mi pareva verosimile che neppure qui, nella presunta vicinanza dei garibaldini, si facessero vivi. Che diamine, pensavo, in tutto l'esercito sguinzagliato in Calabria non si troverà un ufficiale che almeno per l'onore della divisa abbozzi un velo di resistenza? E quasi me ne dispiacevo, i capi garibaldini, in gran parte del nord, che concetto dovevano farsi del soldato napoletano? Pure, per quanto speculassi su per i colli, fra campi e boschi, nessuna ombra mi diede sospetto. Mi fermavo, ogni tanto e aguzzavo occhi e orecchi: niente, solo rimescolarsi di capre inerpicate a brucare cespugli, qualche pastore immobile e i soliti colpi di accetta dei boscaioli. Era chiaro che la gente non era allarmata come a Taverna, badava alle proprie faccende e non si curava di nascondersi. Cominciai a dubitare dell'arrivo delle avanguardie a Tiriolo e immaginare che invece fossero nei pressi di Catanzaro: ecco qua, invece di ragionare con calma e agire secondo una decisione ponderata, mi ero lasciato sedurre da chiacchiere senza fondamento. Ero così adirato per la mia acquiescenza che non potei trattenermi dallo sfogare il mio cattivo umore, e con dure parole. «A Tiriolo Garibaldi ve lo potete sognare. Del resto meglio così, non avete che il coltello e le battaglie non si vincono a coltellate, siete in un arnese che i volontari vi prenderebbero a calci.» La rabbia mi faceva raddoppiare il passo e intanto mi faceva pena sentire dietro di me quegli otto piedi che arrancavano. Parve, invece, che avessero ragione loro: quando fummo a metà della salita per Tiriolo e il paese non distava più che un tiro di schioppo, ci venne incontro un drappelletto vestito fantasiosamente che ci sottopose a un incalzante interrogatorio, chi eravamo e perché io ero armato; si dissero in avanscoperta e incaricati di fermare chiunque. Con una certa fatica ci qualificammo: in realtà quelle "avanguardie" non avevano mai visto i Mille, non erano che gente del luogo, riunita alla lesta dagli scalmanati del Comune per accogliere i garibaldini che ancora non si sapeva dove fossero. Di buono c'era che se i paesani si eran lasciati persuadere era segno che i soldati di Franceschiello s'erano davvero liquefatti: dopotutto, tanto valevano i miei quattro uomini quanto quelle false avanguardie. Li presentai, dunque, come volontari napoletani e li consegnai a una specie di comandante, non senza un corretto piglio militaresco: e subito si levarono evviva, canti, grida baldanzose di guerra. Strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci, e il vino cominciò a circolare. Fummo invitati a un banchetto che quei di Tiriolo avevano imbandito in onore del Generale e che in sua assenza doveva pur essere consumato. Colla scusa della stanchezza, io declinai l'offerta, parlando mi ero convinto che una vera azione militare - ammesso che i borbonici si facessero vivi - non era da prevedersi per adesso, e che avrei avuto tutto il tempo di starmene un po' per conto mio prima di venire a contatto coi veri garibaldini. Di altro non m'importava e ripetere l'esperimento di Potenza, coi galantuomini opportunisti in piazza, non mi sorrideva per niente. Respirai. Per la prima volta, dopo settimane di tensione, non rispondevo che di me stesso, come patriota e come uomo libero di
scegliere i compagni di lotta: di veder chiaro, insomma, in quel che facevo. Il combattimento a viso aperto, a naturale conclusione di tutta la mia vita, era ormai vicino, questo pensiero mi dava una gran pace. Sul primo fienile che trovai mi distesi senz'altra cautela che di nascondere nella paglia il fucile, accanto a me. Lo strepito del drappelletto si allontanava, sulla campagna si adagiava il silenzio delle solitudini cullato dal canto dei grilli: il sonno fu immediato e perfetto. M'ero addormentato di prima notte e mi svegliai ad alba chiara: levatomi a sedere contemplavo il cielo di latte, così tenero che pareva già autunno, e la terra intorno, a cui iersera poco avevo badato. Salvo gli ulivi, una terra negletta, il grano segato a giugno vi giaceva ancora in fasci riarsi che un nuvolo di uccelli si avventava a beccare. Chi aveva seminato quei campi non provvedeva a raccoglierne i frutti: o non si arrischiava, o non poteva. Mi vennero in mente le terre dei miei, confiscate per colpa mia, chissà da chi possedute adesso, e magari incolte, laggiù, intorno a Chiaravalle. Sbadigliai, dissimulando un sospiro, be' adesso dovevo rimettermi in cammino per Catanzaro, distendendomi la sera innanzi mi ero proposto di trovarmi in qualche modo una cavalcatura, dovevo dunque, per prima faccenda, presentarmi a Tiriolo, e chiederla anzi esigerla per servizio militare. Quegli sciocchi, mormorai mentre mi ravviavo alla meglio i panni impolverati e sparsi di pagliucole, scommetto che dormono i sette sonni aspettando che Garibaldi gli serva il caffè. Sotto i vapori del primo mattino, il paese, infatti, era quieto come a mezzanotte, distinguevo le stradette deserte, non un'ombra di sentinella, non un tocco di campana, non uno squillo di tromba: bei volontari, perdio. Avevo anche fame e tirai un moccolo al pensiero di essere costretto, per prima cosa, a chieder da mangiare. Di malumore, girai intorno al pagliaio e stupii di non essere solo come credevo, una donna, nell'abito rosso e nero del contado, stava chinata poco distante e col falcetto tagliava la magra erba del prato. Veniva, evidentemente da un abitacolo, quasi un pollaio, al di là del campo di grano abbandonato. Fu questa giovane, prima fortuna, a offrirmi da un orciolo latte di capra e un pezzo di cacio. Me li offerse spontaneamente, forse era già là che ancora dormivo e mi aveva visto: la ringrazio e già che ci sono le domando, senza troppa speranza, se non sappia di qualcuno che disponga di un mulo da noleggiare. Non mi risponde e si allontana: stavo finendo il mio cacio quando la vedo ricomparire tenendo per il morso - e non credevo ai miei occhi - un bel cavallo robusto e nervoso, più da parata che da stalla rustica. «Questo ti va bene?» mi fa. Esitando, le spiego che non ho tanto denaro da noleggiare un cavallo, per di più così bello. «E poi» aggiungo «non voglio ingannarti, chissà se potrei riportartelo, magari stasera sarò morto.» Ero preso dallo scrupolo ed esageravo per allontanare la tentazione di accettare quella magnifica bestia. Alzò le spalle: «E che fa? L'animale non è mio, me lo lasciò un sergente che è una settimana e non l'ho più visto. Sono sola e non ho tempo di governarlo, scalcia e mi dà impiccio. Io niente voglio purché te lo porti». Rimasi contento e interdetto, lei di nuovo s'allontanava, la vidi imboccare la porta dell'abituro e non mi parve il caso di seguirla: la sua sbadata generosità m'intimidiva. Le donne, contadine o signore, mi han sempre fatto l'effetto di agire per ragioni oscure, bene o male che si conducano. Poco le capisco, insomma, e meno ho capito quelle che talvolta, senza motivo, mi han dimostrato amicizia e premura. Che merito ho avuto ai loro occhi? Non le ho mai corteggiate né adulate, ho spesso schivato la loro conversazione. Le ho rispettate, questo sì, ma come si rispetta una potenza straniera. Sta di fatto che debbo alla
giovane di Tiriolo di aver riveduto mia madre prima che morisse: nel ricordo la congiungo alla memoria di lei. Da ragazzo avevo la passione dei cavalli, ma per quanto lo pregassi, mio fratello Stefano mai mi permise di possederne uno da sella, mi arrangiavo prendendo in prestito qualche brenna dai fittavoli. Ora il bel baio mi stava accanto calpestando il suolo e alzando e abbassando il capo, come impaziente di muoversi: non aveva sella, ma ero avvezzo a montare a pelo. La decisione di dirigermi invece che a Catanzaro, a Chiaravalle, fu improvvisa e perentoria, in due giorni, con quel mezzo, sarei andato e venuto agevolmente. L'immagine di mia madre emergeva dalle brume del passato, mi pareva che mi chiamasse: ora o mai più. Già stringevo fra le gambe i fianchi del cavallo, la strada prese a srotolarsi sotto di me con magica arrendevolezza: come fui al bivio per Catanzaro, la bestia fece uno scarto a sinistra: essa decise per me. Non so se obbedirle fu soggiacere o vincere. Tuttavia rimanevo turbato: a momenti trasalivo quasi per strapparmi da un sogno. Di continuo mi ripetevo che avrei sempre fatto in tempo a unirmi al grosso dei garibaldini per le azioni decisive dell'avanzata: poi, rimestando le mie solite amare considerazioni sulle sorti del mezzogiorno, giù a ripetermi che, in fondo, l'impresa del Generale, contaminata dall'ossequio al re sardo, non aveva senso per un repubblicano. Eppure mi sentivo colpevole, il rimorso avvelenava la dolcezza dei ricordi che, procedendo il cammino si levavano dalla terra, avviluppandomi. Le mie antiche escursioni per la Sila erano state i vagabondaggi di un giovane inquieto, ansioso di avventure: solo qui i prati erano veri prati e le selve avevano dimensioni, confini, caratteri ben precisi. Roba di casa, insomma. Lì avevo meriggiato, disteso, col sole sugli occhi, lassù avevo assistito all'abbattimento di un bosco stupendo (sui ceppi morti vidi cresciuta una rovaia) che Stefano sacrificò per far soldi: sorvegliava i boscaioli, col frustino in mano, gli stivali affondati nel terriccio, lui, il padrone esoso che pretendeva dagli uomini più del lavoro pattuito e non mi ascoltava se lo pregavo di risparmiare le quercie più maestose. La mia rabbia di cadetto adolescente mi pungeva ancora: con un giunco strappato a una siepe incitavo il cavallo, avevo fretta di arrivare, ma più di sottrarmi a quelle melanconie. Sostai, sul mezzogiorno, in una radura sparsa di cespugli, all'ombra di un immenso pino, non tanto per riposarmi quanto per far raffrescare la bestia: non si muoveva una foglia, persino le mosche del sottobosco si erano quietate. Stando così immobile, vidi a un tratto il cavallo drizzare le orecchie e dopo un istante percepii uno sfrascare non di animali ma di passi umani, e non di un uomo soltanto, ma di almeno una ventina di piedi frettolosi e incerti. Rifletto: escludo che boscaioli o pastori camminino a quel modo e in tanta compagnia. Banditi o soldati: il dubbio fu presto risolto poiché, riparato da un'alta macchia di corbezzoli, scorsi uno sparpagliato gruppo di militari nella verde divisa dei Cacciatori che venivano avanti senza parlare, in affannato disordine, ingegnandosi di correre per quanto glielo permetteva la boscaglia. Il pensiero di un agguato, di una sorpresa a quelli di Tiriolo mi fulminò di dolore e di vergogna: ero dunque scappato, mi ero sottratto al pericolo di uno scontro, ero un disertore. Stavo per buttarmi allo sbaraglio di un'assurda sparatoria, ma la difficoltà stessa di prender la mira mi fece riflettere che quelli erano sbandati, senza un capo, tutti soldati semplici: fuggiaschi, insomma: e infatti non si dirigevano in giù, verso Tiriolo, ma risalivano il colle puntando a settentrione. Riabbassai la canna del fucile, ma ero deciso a tornare sui miei passi e raggiungere al galoppo il bivio di Catanzaro. Il cavallo non si era quietato, si agitava e arretrava come davanti a qualcosa che lo impaurisse: un nuvolo di mosche e calabroni vorticava
infatti lì presso, alzandosi ed abbassandosi intorno a un intrico di rovi. Avanzai di qualche passo e credetti d'inciampare in un ciottolo: ai miei piedi giaceva una tibia umana bianca e pulita, più in là intravidi altre ossa, un teschio. Non fu il ribrezzo che mi fermò, ma un comando interiore, una sospensione dell'anima che m'impediva di staccarmi da quei resti e muovermi verso gli avvenimenti dell'oggi. La vera voce della Calabria partiva da lui, da questo vecchio morto di venti, di cinquanta, di cento anni fa. Ucciso, nascosto in fretta sotto poca terra che le piogge via via avevano dilavata. Un brigante, un forsennato del cardinale Ruffo, un carbonaro? Il mio paese era disseminato di queste tombe clandestine: un cimitero di assassini e di assassinati, l'avevo sempre saputo, la storia calabrese brulicava di delitti, compiuti da fanatici in nome di un diritto presunto o tenebroso. Sotto questa luce, anche l'impresa di Garibaldi mi apparve all'improvviso arbitraria e cieca, un colpo di mano che trascurava l'interesse dei singoli e si appellava a una collettività che non poteva parlare: essa si confondeva colle violenze della Santa Fede e dei reggimenti francesi, colle vendette dei settari. Tutti avevano ucciso e uccidevano con fredda rabbia, come io avrei ammazzato pocanzi qualche Cacciatore irresponsabile, prima di essere abbattuto a mia volta: la storia continuava e io la contemplavo senza passione, come da una enorme distanza di secoli. Per un lungo momento fui anch'io dissanguato spolpato, ridotto un osso su cui il viandante inciampa: senza nome, non giustificato, sputato da una vicenda ormai indecifrabile. Una mostruosa apatia mi schiacciò, fui il selvaggio, ignaro di chi l'ha preceduto sulla terra o il superstite di un cataclisma, assetato di oblio. Ma la mia sete era un'altra, sete di una verità che mi sfuggiva dopo avermi bruciato e distrutto. In tali strette, il pensiero di mia madre prevalse: devo rivederla, mi dicevo, è il mio dovere. E neppur questo era vero. Raggiunsi Chiaravalle a notte fonda e non saprei dire come ci arrivai, di scorciatoia in scorciatoia mi buttavo avanti, appena distinguendo il bianco dei sassi e della polvere: poi la luna sorse a soccorrermi. Di notte, nel mio paese, un viaggiatore solitario rischia una schioppettata anche in tempo di pace e l'ipotesi di cader vittima di un ladrone da strapazzo che non trovandomi denaro addosso, mi avrebbe tolto gli abiti e le scarpe, mi fece tetramente sorridere: sarei morto come un qualunque mercantuccio di campagna, in cerca di poveri clienti. Mi starebbe bene, così pagherei le mie smanie di figlio di mamma. Fu cosa strana e ancora me ne stupisco, che in tutto quel rimuginare di morte, di defezione, di responsabilità contraddette, in quel giudicarmi senza pietà, non mi concedessi l'attenuante dell'età, della cattiva salute, degli strapazzi. Neppure un minuto ci pensai e se, rotto nella schiena e nelle giunture, mi reggevo appena, lo attribuivo alla lunga marcia e ai digiuni; il mio cervello apparteneva a un giovane di vent'anni, era lui che mi comandava. Ma il cavallo dava segni di stanchezza e di nervosismo, la sua pelle vibrava sul collo e sui fianchi: abbandonai dunque il difficile sentiero fra i boschi e calai sulla carrozzabile che sebbene sconnessa era allo scoperto e permetteva un più ampio sguardo sulla vallata. Infatti, dopo un buon tratto, distinsi laggiù profili di tetti e, in fondo, la massa biancastra di un paese. Chiaravalle, senza dubbio. Il suono degli zoccoli sulla via selciata mi riscosse, a destra e a sinistra mura di povere e basse case si alternavano a campi che al lume della luna riconobbi per vigneti e oliveti. Come avvertisse la vicinanza della stalla, la bestia si era rimessa a un rapido trotto che m'impediva, fosse ansia o svanimento, l'esatta cognizione del punto dove un tempo si apriva l'ingresso della nostra antica proprietà. Dalle casette bianchicce non trapelava lume, i villani,
rientrati dal lavoro, usano rintanarsi e andare a letto al buio: e tuttavia cominciai a temere che per i rumori di guerra si fossero dati alla campagna seguendo l'esempio dei pavidi padroni delle terre. Ed ecco, un furioso abbaiar di cani mi fa trasalire, veniva dalla mia sinistra, vicinissimo, distinguevo il raspar delle zampe, l'ansito delle gole. E fu in quel punto che mi trovai, quasi per miracolo, al cancello di casa mia. Fermai il cavallo, smontai e andavo tastando i muretti che cingevano il giardino e l'agrumeto, mentre dalle sbarre i musi dei mastini si erano affacciati ringhiando. Non avevo dubbi ed essi scomparvero del tutto quando, alla cieca, le mie dita incontrarono la catena che reggeva il campanello e ne palpai le maglie oblunghe, il cerchio dell'impugnatura, ancora spezzato e riparato alla meglio da un filo di ferro che, se non si faceva attenzione, graffiava la mano. L'idea di tirarla, risvegliando quel suono stridulo tanto familiare al mio orecchio, mi dette un brivido superstizioso, quasi dall'ombra potessero scaturire fantasmi. I cani seguitavano a latrare e mi tirai indietro: nella mia famiglia nessuno amava i cani, non ne avevamo neanche da guardia; ci piacevano i gatti e mi venne in mente un sorianino che avevo raccolto durante il mio ultimo soggiorno a Chiaravalle. Dalla presenza di quei cani ringhiosi fui certo che mia madre non abitava più la villa. La notte era assai più dolce che sulla montagna, nell'aria respiravo l'alito salino del mare di Soverato: assicurai il cavallo al tronco di un pino e crollai a terra distendendomi come sul più soffice dei letti, mentre i cani, stanchi di abbaiare, si allontanavano sulle loro unghie. Non era quella la mia casa, non lo era più, né mi sorprese apprenderlo da un ragazzotto che all'alba passò guidando il suo gregge di capre. Lui non fece caso al viandante assonnato che si tirava su a sedere, dovetti chiamarlo perché si fermasse. Il suo mestiere era di mungere il latte alla porta dei paesani e non fece opposizione alla mia domanda di sorbirne una misura. «Il casino è di don Tiburzio» m'informò spontaneamente «bevono latte di mucca, di capra non ne vogliono.» Mi guardai bene dal chiedergli chi fosse questo don Tiburzio: forse un gabellotto arricchito, magari una spia che aveva approfittato delle nostre disgrazie. «Prima» aggiunse «ci stava una signora di Pizzo vecchia vecchia e adesso sta col parrocchiano che è suo nipote.» Gli porsi qualche grano mentre si avviava, fischiando al cane: dagli usci delle casupole già spuntavano teste fasciate di donne. Prima di muovermi attesi che le servisse, non volevo svegliare la loro curiosità per uno straccione e per il suo bel cavallo a cui il pastorello pareva non aver badato. Al di là della strada si stendeva un gran prato comunale, ai miei tempi oggetti di contesa fra il Comune e diversi proprietari del luogo, non ultimo mio fratello. Poiché la mia bestia aveva bisogno di rifocillarsi, ce la menai stando bene attento che nessuno mi osservasse. La giornata si annunziava stupenda, il cielo era una carezza per gli occhi, guerra, rivoluzione, amarezze non arrivarono a rubarmi quell'istante di pace. Mia madre era viva, l'avrei veduta fra poco: di altro non mi curavo. Chi era il "parrocchiano?" Probabilmente il figlio di Stefano e della francese, l'avevo lasciato garzoncello sui dodici anni, forse aveva preso gli ordini: non mi risultava che i gemelli si fossero accasati e se sul tardi avevan preso moglie i loro figli non potevano avere l'età di messa. L'erba era rada, perché il cavallo riuscisse a satollarsi avrei dovuto lasciarlo pascolare a lungo. Dopo tutto che bisogno ne avevo, adesso? Come lo avevo avuto, così l'avrei abbandonato, se lo prendesse chi voleva. Zitto, zitto, traversai il prato e a piedi presi per la salita che portava al paese: rammentavo che la chiesa parrocchiale non era distante, un miglio o poco più, dopo le prime case, in una piazzetta. Non era la cattedrale, ma la mamma la frequentava per la vicinanza
alla villa e perché era più raccolta. Era povera, ma antica, di gran pregio, dicevano: rammentavo gli stucchi grossolani appiccicati alle nobili pareti di pietra grigia, i fiori di carta, i merletti finissimi delle tovaglie, lavoro e dono di mia madre. Allungavo il passo, per tutto il percorso non incontrai che un paio di contadini sul loro asino. Ma sulla piazzetta cercai invano la vecchia chiesa: al suo posto mura sgretolate e cieche, mucchi di pietre frantumate. Anche qui, dunque, era battuto il terremoto che aveva fenduto le mura di Montefusco. Mi guardai in giro e al limite della piazzetta, verso il grosso del paese, scorsi un fabbricato rozzo, quasi una stalla, sormontato da una croce di ferro. Non c'era campanile e la porta di legno grezzo aveva i battenti accostati. A una leggera spinta cedettero. Per esser chiesa era una chiesa, la più semplice che avessi mai veduto. Le pareti erano scialbate grossolanamente, sull'unico altare un paio di candelieri ben lustri, due carteglorie e, a destra, un messale non ancora aperto. Più che d'incenso, l'aria sapeva di legno fresco di pialla: non c'erano fiori, ma la tovaglia era linda, ancora in pieghe e ornata di trine. Il pavimento era di terra battuta come nelle più misere capanne, i banchi parevano ricavati da tronchi appena sgrossati: a fianco dell'altare una sola seggiola impagliata col suo inginocchiatoio. Avevo il cuore pesante e me lo sentii in gola quando mi cadde l'occhio su una Madonna dalle sette spade, accomodata a destra della porta, col lumicino a olio davanti. Non c'eran dubbi, vestita di seta nera ricamata di argento, era l'Addolorata che mia madre teneva sul cassettone nella sua camera di Chiaravalle. Mi sedetti sull'ultimo banco e rimasi assorto in un gran vuoto di pensieri: non avrei saputo fare un passo di più. Infine un'esile campanella prese a suonare qualche rintocco, avvertii uno strascicare di piedi e vidi sorgere da dietro l'altare una figura femminile, piccola piccola, il volto seminascosto da un fazzoletto nero. Recava in mano una pertica col lucignolo in cima che andò avvicinando con tremula esitazione all'uno e all'altro candeliere, e ogni volta s'inginocchiava al Ciborio. Accese le candele, strisciò la palma sul piano della Mensa, come a lisciarla. Era il gesto lento e compiaciuto della mamma quando si accertava che la tovaglia spiegata sulla tavola non facesse una grinza; era sua quella mano bruna e piccolina. Me la sentii sui capelli. Riconoscere quella cara mano: nessun abbraccio fu più tenero del rimpianto struggente di non averla, per tanti anni, stretta e baciata. Se penso a mia madre, ancora oggi, è sempre quella mano che rivedo, magrolina, inquieta e che sfuggiva alla stretta, anche dei figli, certe effusioni le parevano leziose, dava l'impressione che i nervi le formicolassero sotto la pelle un po' avvizzita. Dell'incontro che seguì conservo un ricordo penoso, avvilito. Terminata la messa, all'"Ite missa est" il prete si volta e io mi faccio avanti. E' un tipo alto e bruno, dai tratti marcati e duri, sui trent'anni, la sua pianeta verde è stinta ma non sdrucita come spesso ne portano i nostri preti di campagna. Mi prende per un vagabondo, un bandito forse, e indietreggia in atto di difesa, stringe il messale come uno scudo. Faccio il mio nome e lui mi fissa con una ostilità che si mescola alla meraviglia e rimane un buon momento immobile, il piede sospeso sul gradino che stava scendendo. Anche la mia vecchina, che dal suo inginocchiatoio gli ha servito da chierichetto rispondendo alle antifone, si è voltata, vorrebbe muoversi e parlare ma le forze le mancano, colle mani annaspa, il fazzoletto le è caduto dal capo tutto d'argento: sul suo visuccio rattrappito come una castagna secca ricerco invano la compostezza della fiera donna Giuseppa che ne ha vedute tante e mai perdeva il contegno. La bocca le si storce nel pianto come quella di un bambino punito.
Pochi secondi: e stringo al petto quel mucchio d'ossicini che mi arrivano alla spalla, lei ripete: «Micuccio!». Le sue lacrime sono così abbondanti che mi bagnano mani e guance, ogni volta che tento di staccarla da me per guardarla e calmarla mi si abbarbica. Il prete ha posato il messale e aspetta, nei suoi occhi nerissimi, un po' sanguigni non si è spenta una scintilla di diffidenza. Di quando in quando sorride: per pietà, per ironica condiscendenza? Ed ecco la mamma si svincola, si agita: «Gioacchino, vedi come è sparuto, deve dormire, deve mangiare, il pranzo...». Corre, la poverina, a passetti, infila l'usciolo della sacrestia. Il prete scuote la testa: «E' svanita, poco capisce, la vecchiaia...». Riprende il messale, mi precede, dalla minuscola sacrestia passiamo in cucina. Sono a casa sua. Don Gioacchino: il nome me lo conferma figlio di Stefano e della bella Cleo, la francese, la mia prima cognata, così battezzato in omaggio al re Murat. L'avevo tenuto in braccio bambinello prepotente e così buffo sotto un gran ciuffo di capelli neri. Si siede, inzuppa pane nel latte: «Ne vuoi?». Senza la pianeta non sembra un prete, sotto la tonaca porta calzoni di fustagno, si è slacciato il colletto. «Poveri siamo» dice «e in mano di scomunicati che vuoi sperare?» Trangugia il suo latte, spazza le briciole dal tavolo. «Questo Garibaldi» riprende «dicono che non guarda in faccia a nessuno, non ha timor di Dio, ci tirerà addosso i villani affamati, quelli ci faranno la pelle come è già successo, un massacro.» E' chiaro che delle mie idee e dei miei patimenti poco sa e meno gliene importa, scommetto che sta per il Borbone e si augura un altro cardinal Ruffo. Ma è già tanto che non mi rinfacci la mia pazzia, causa della confisca dei nostri beni e anche il suo stato sacerdotale che forse ha accettato per bisogno. Mi tengo sulle generali e gli domando come stanno suo padre, gli zii, la zia Concetta. Fa una smorfia: «E come devono stare? Le terre andate, denaro niente. E non hanno criterio. Campano». E' uomo di poche parole, questo mio nipote, ma adesso sospetto che ne sappia sul conto mio più di quanto non apparisse: lo capisco da come mi sogguarda mentre io giro gli occhi per la cucina. Non una immagine sacra, solo il ritratto di Pio Nono, e, sotto, sta appeso uno schioppo. Respinge la ciotola e si alza in piedi: «Nonna» urla «ce lo tirate voi il collo a una gallina?». Se vuole festeggiarmi deve essersi persuaso che sono inoffensivo. La mamma è ricomparsa e seguita a singhiozzare a secco pur andando attorno qua e là, a un tratto mi prende per mano e mi mormora all'orecchio: «Li sottocalzoni sono pronti, e anche due camicie di lino, te le ho conservate». Temo di non avere inteso, poi mi ricordo: quando mi arrestarono aspettavo appunto certa biancheria, mia madre teneva a cucirla con le sue mani, le avevo scritto chiedendole quei capi. Il tempo era rimasto fermo anche per lei, mi considerava ancora il ragazzaccio scapestrato che un giorno o l'altro avrebbe messo giudizio e sarebbe tornato a casa. Dodici anni di disgrazie giacevano sotto quella biancheria intatta. Mangiando la gallina il prete non mi risparmiò nuovi miserabili ragguagli familiari. Morta la sua seconda moglie, il padre era stato raccolto da una nipote di lei, maritata a un maestro di scuola. Gli altri due miei fratelli vivacchiavano alle spalle delle loro mogli ben provviste; mia sorella Concetta divideva il suo tempo aiutando le cognate e cucendo corredi per le spose del contado: l'aspettavano in settimana a Chiaravalle, ma speravano che non si muovesse, coi torbidi che c'erano in giro e le strade mal sicure. «La parrocchia è povera, io do lezioni di latino ai figli di don Tiburzio, quello che s'è preso la roba nostra: a questo mi è servito il seminario, nessuno paga più le decime.» Il pranzo fu interrotto, un ragazzo venne a chiamare il prete per i sacramenti al nonno moribondo. Don Gioacchino si levò di
malavoglia. «Se vuoi dormire qui, uno stramazzo lo abbiamo.» Lo ringraziai, dovevo partire subito. Dalla finestra della cucina dove avevamo mangiato lo vidi montare sull'asinello del contadino che lo seguiva a piedi: s'era portato lo schioppo e lo teneva a tracolla. Restammo soli, mia madre e io. Inutilmente, purtroppo. Aveva cavato il rosario e borbottava le sue avemarie, quasi immemore della mia presenza. Vederla ridotta come una donnuccia del volgo, lei così poco bigotta, così ardente nel difendere la libertà di coscienza da rischiare, presso i compaesani di Pizzo, la fama di eretica, quanto meno di testa stramba, mi fu insopportabile. Approfittando del momento che una contadina entrata per rigovernare andava acciottolando piatti e stoviglie, mi levai dalla sedia. «Ci vediamo, mamma» feci come se mi accingessi a fare una passeggiatina digestiva. Lei alzò il capo e mi sorrise così teneramente da esserne ringiovanita. Le staccai la mano dalla corona e mi chinai a baciargliela: le sue labbra si posarono lievi lievi sulla mia fronte. «Dio ti benedica, figlio mio.» Altre parole dalla sua bocca non sono più uscite per me. Mi ritrovai sulla piazza come spinto da una molla: tanto ero impaziente di allontanarmi dalla casa dove mia madre non era più che una vecchia ricoverata per pietà. Mi guardo in giro e solo adesso mi ricordo di non avere un mezzo per il viaggio di ritorno, a quest'ora il cavallo chissà chi se l'è preso. Perché sono stato così stolto da abbandonarlo, quasi non sapessi che ne avrei avuto urgente bisogno? Il fatto è che in fondo al mio animo covava l'illusione di esser ricevuto come il figliol prodigo di una famiglia impoverita sì, ma ancora agiata, che mi avrebbe soccorso di denaro e di cavalcatura. Peggio per me, dunque, non mi rimane che avviarmi a piedi, affidandomi alla fortuna dei derelitti. La gente ora mi guardava come sapesse chi ero e perché ero venuto. Non mi davano fastidio, così succede nei paesetti, che le notizie meno propalate si diffondono in un baleno, non si sa come. Nel sole alto del primo pomeriggio camminavo di buon passo scendendo verso la valletta da cui ero partito all'alba: c'era animazione sulla strada, che si accrebbe quando mi trovai a costeggiare la nostra antica proprietà. Immemore del problema da risolvere, non avevo occhi che per quel recinto che mi era apparso come un sogno, nel latteo biancore della luna. Adesso che il cancello era spalancato, rallento il passo, scorgo il viale delle mie corse infantili, laggiù distinguo il rosso fabbricato della villa. Per tutto il viale e per una buona lunghezza della carrozzabile si affollavano carri colmi di sacchi, ciascuno col suo bifolco. Si ripeteva il rito del raccolto portato al granaio padronale, un uomo atticciato, mezzo signore e mezzo villano, sorvegliava l'ingresso dei carri e spronava uomini e bestie con urla e parolacce. Don Tiburzio? Un tempo era Stefano al suo posto, vestito da campagna, ma con l'eleganza militaresca che piaceva a sua moglie. Già: voleva che mi facessi prete, era la sua idea fissa, e l'ha avuta vinta con suo figlio, povero don Gioacchino. Insinuandomi fra carro e carro, volgo la testa verso il prato dove avevo lasciato il baio alla pastura. Trasecolo, eccolo là, a pochi metri dal ciglio della via, quasi mi abbia aspettato e sia pronto al mio comando. Tutto il mio disturbo si limitò a chiedere a un villano un secchio d'acqua per abbeverarlo. Ebbi il secchio, il cavallo si dissetò e nessuno stupì di vedermi montare in groppa: addio Chiaravalle, i mille ricordi del passato fuggivano insieme agli uliveti e alle casupole. Non provo alcuna nostalgia, sono libero dagli affetti familiari, padrone di me stesso e non mi curo, come il giorno innanzi, di evitare le vie scoperte. Fu una corsa sfrenata, il cavallo mi secondava mirabilmente e nessun timore mi turbava, ero sicuro di raggiungere in tempo i garibaldini. Viaggiai tutta la notte, solo all'alba mi meravigliai di non aver fatto cattivi incontri. Difatti il
primo che feci mi esaltò: fra la polvere vidi trascorrere gruppi di uomini armati, chi a dorso di mulo, chi a piedi, e cantavano con una freschezza, con un impeto che i soldati regolari non hanno mai avuto. La mia bestia era stremata ma obbedì alla mia voce quando la lanciai al galoppo verso di loro. Non mi ero sbagliato, erano le vere avanguardie dei Mille. Avevano passato il mare l'8 agosto agli ordini di Musolino e, costrette a risalire sparpagliate per l'Aspromonte, vi si erano nascoste per qualche tempo. Seppi finalmente come e quando era sbarcato con successo il grosso dei volontari, Garibaldi era prossimo a Monteleone. Fui attorniato, mi feci conoscere. Non erano soddisfatti, ma, fermi al loro compito di gente pratica dei luoghi erano tutti calabresi - camminavano in avanscoperta precedendo la massa dei garibaldini. Il loro umore era allegro e un po' scanzonato. «Siamo stati sacrificati» dicevano «troppi politici intriganti intorno al Generale: ma non importa, pur che si arrivi a Napoli prima di Cavour.» «Musolino è fra voi?» mi affrettai a chiedere. Si strinsero nelle spalle, nell'ultima giornata di marcia lo avevano perduto di vista. «Politico anche lui» sorrisero. Non me ne stupii, conoscevo l'uomo, coperto e personalissimo nelle sue temerarie imprese. La mia stagione militare fu breve ma intensa. La sorte mi aveva favorito, mi ero unito a compaesani democratici e repubblicani, tutti giovani: dunque le mie idee avevano conquistato le ultime generazioni. Gustai il conforto della concordia degli animi e di una vita collettiva che avrei voluto durasse eterna. Ogni giornata era un'avventurosa scommessa, si mangiava quando ce n'era, si dormiva come si poteva, in una partecipazione di strapazzi che li rendeva inebrianti e con cui ricuperavo la giovinezza perduta. Avevamo armi scadenti, ma bastarono sempre a scompaginare le poche pattuglie in cui ci imbattemmo. Qualcuno di noi fu ferito, morti non ne soffrimmo. Sparavo con impegno e precisione, ma non potevo risolvermi, come i miei nuovi compagni, ad avventarmi all'arma bianca. Nei paesi, trofei di alloro, tripudi, bevute: persino sui contadini che avevo sperimentato così indifferenti se non ostili, il nome di Garibaldi operava miracoli. Di sera, al bivacco, si discorreva a lungo: non ero solo a diffidare di quelle accoglienze, a sospettarle ispirate dalla paura e dall'interesse dei soliti notabili padroni delle terre. Questi maledetti moderati, dicevamo, ci faranno perdere il frutto delle nostre fatiche. Come un fulmine il Generale ci raggiunse e ci sorpassò, ma entrammo in Cosenza prima che egli ne ripartisse. Mi ero giurato di vederlo faccia a faccia, e non mi fu facile superare gli ostacoli che impedivano a uno sconosciuto di avvicinarlo. Annottava, il Busento aveva iridescenze di madreperla, la città brulicava di gioventù: in questo clima fervido, quasi favoloso, non mi parve grave attendere di essere ricevuto. Fu Missori a introdurmi nella stanzetta terragna dove il Generale stava cenando a pane e fichi, avendo evitato il banchetto che il barone C. offriva ai suoi ufficiali. Ero tutto sottosopra, negli ultimi momenti di attesa mi aveva angustiato una specie di rimorso per i miei tristi sospetti di una sua eccessiva cedevolezza ai maneggi monarchici: adesso il mio desiderio di stringergli la mano mi pareva un'ipocrisia. Ma la sua presenza mi sollevò, avevo dinanzi un uomo di popolo semplice e cordiale, fu lui a stendermi la destra, disse che Musolino gli aveva fatto il mio nome e detto della mia prigionia. Congedò Missori e fummo soli, al lume di una candela di sego. In umiltà contrita gli raccontai la mia discesa da Napoli, mi accusai di insufficienza al compito che mi ero prefisso, e all'improvviso, quasi mio malgrado, la mia amarezza traboccò: «La repubblica è morta» dissi «e io non ho saputo parlare in suo nome.» Posò la sua piccola mano - com'era piccolo Garibaldi! - sul tavolo e allontanò il piatto dei fichi rimanendo qualche attimo pensieroso.
«Amico» mi fa «ricordatevi: gli uomini della consorteria non possono perdonare alla rivoluzione di essere la rivoluzione...» Di nuovo tacque, la candela bruciava storta, distrattamente la smoccolò. «Tocca a noi democratici» riprese «evitare il peggio, questa terra scotta e più scotterà in futuro quando mi si accuserà di non aver mantenuto ciò che ho promesso al popolo. Se potessi darvi un ordine» e sorrideva «vi comanderei di non seguirmi al nord: siete del paese e avete il prestigio del martirio, uomini come voi debbono tener viva la fede in un avvenire di vera giustizia per tutti. Il tempo non conta e non sempre avremo le mani legate. Io ho troppi nemici e i borbonici non sono i peggiori...» Parlava a intervalli e nel silenzio delle pause, l'arco del suo pensiero era chiaro come una traccia luminosa. Bussavano alla porta, un ufficiale con una carta topografica in mano la socchiuse e fece capolino. Mi congedai, mi feci da parte e uscii nella notte già fonda. Obbedii. Ero stato provvisto di un mandato di coordinatore delle nuove amministrazioni comunali e di qualche denaro per vivere. Circolavo per le Calabrie, prendevo contatto cogli esponenti democratici di Reggio, Catanzaro, Cosenza, visitando villaggi e le più sperdute masserie. L'aria era dolce, la campagna spruzzata dal primo oro dell'autunno: tanta bellezza esercitava su di me inquietudine e languore. Procuravo di non far caso alle vigne devastate, ai campi manomessi, le tracce insomma che ogni soldato, per qualunque causa combatta, lascia sul suo cammino. Scrutando i volti di manovali e artigiani, cercavo di scoprire la molla che occorreva toccare per renderli sensibili a un loro interesse non immediato. Il nome di Garibaldi agiva ancora, ma fiocamente, come se anni fossero trascorsi dal suo passaggio. Erano di nuovo torpidi e chiusi in una diffidenza secolare, più timorosi delle novità annunciate che delle prepotenze che erano avvezzi a scansare cogli stratagemmi della miseria. Ostinatamente faticavano a riparare i danni subiti, simili all'asino che non si accorge di girare per ore intorno allo stesso pozzo. Sbaglia chi crede che l'ignoranza sia sinonimo di semplicità; il loro animo mi sembrava spesso misterioso, quasi tortuoso: a volte non sapevo spiegarmi come fossero informati di fatti avvenuti a centinaia di miglia di distanza: mi facevano pensare ai selvaggi, avvertiti da un capo all'altro dell'Africa per mezzo del tam tam. Sapevano, per esempio, che Bixio aveva crudelmente punito i contadini di Bronte. Per quante parole spendessi, l'avvenire si confondeva nelle loro teste colle nebbie di una storia immobile; indipendenza, leggi popolari eran giudicate stranezze che non li riguardavano, un nuovo inganno dei "cappelli". Ancor più scabrosi gli approcci, nelle città, coi liberali della penultima ora. Discussioni a non finire sulle intenzioni di Garibaldi, sulle conseguenze della unità. Ogni possidente si sentiva minacciato nelle sue terre e nei suoi privilegi: anche presso di loro i fatti di Sicilia, la strage dei "galantuomini" per mano dei villani erano fonte di paure che la feroce repressione poi avvenuta non dissipava: mai i contadini erano stati tanto odiati e ritenuti nemici del consorzio civile. I mercanti si preoccupavano dei loro traffici, gli imprenditori delle loro modeste industrie che prevedevano minacciate e non senza ragione, purtroppo - dalla concorrenza del nord. Fra tante chiacchiere, si venivano insinuando nelle amministrazioni comunali, elementi infidi e voltagabbana che tiravano l'acqua al loro mulino per trovarsi, al momento buono, in posizione favorevole e ineccepibile. Due notizie dominavano: l'entrata di Garibaldi a Napoli e il problema dell'annessione che Torino esigeva immediata e il Dittatore intendeva far precedere dalla convocazione di una Assemblea Costituente. La questione era tanto più spinosa in quanto egli mirava a prender tempo per entrare nello Stato Pontificio e conquistare Roma, difesa dai francesi: una faccenda di ordine internazionale. Già, del resto, si
preannunciava uno scontro fra gli interessi del Piemonte e il significato dell'impresa garibaldina, Cialdini e Fanti avanzavano nelle Marche, Cavour urgeva per entrare nel napoletano al più presto, dando scacco matto al Dittatore. Di tutti questi avvenimenti mi giungevano voci contraddittorie, ma erano abbastanza conturbanti da distrarmi dal mio compito di osservatore e animatore. Per molti segni ebbi la prova che i nostri veri nemici andavano per le spicce. Cominciarono a ritornare in Calabria gruppi di volontari, fra cui qualcuno dei compagni di Musolino a me noti. Indignati, raccontavano che a Napoli la loro presenza non era gradita, anzi disturbava: non per caso eran tutti accesi democratici e repubblicani. Mazzini stesso, dicevano, giunto alla capitale, viveva seminascosto. Le loro esplicite proteste favorirono il crescente sussurro dei liberali di fresca data: vedete, insinuavano, anche Garibaldi ha dovuto disfarsene, sono avventurieri turbolenti, nemici dell'ordine e della proprietà privata. I borbonici, d'altronde, non stavano con le mani in mano e avevano ripreso ardire: correva denaro, baroni e preti ordinavano le fila della controrivoluzione, valendosi dell'ignoranza e della superstizioni delle plebi. Fui così testimone della prima riviviscenza di quella milizia brigantesca che ora si giustificava con la lealtà verso un sovrano giovane, tradito dai suoi generali e scacciato illegalmente dal trono. Poco ci voleva a fare di un bracciante senza lavoro e senza pane un fuorilegge, tanto più che per convincerlo i caporioni si appellavano al mito del re generoso, amante e benefattore del suo popolo: insomma alla forma dei sentimenti ancestrali. Avvertii subito l'entità del pericolo e non esitai a presentarmi alla Guardia Nazionale di Cosenza, offrendo i miei servigi. Partecipai a diverse battute per la campagna e per i monti dove i tumulti reazionari scoppiettavano minacciosamente. Da agitatore rivoluzionario mi feci dunque fautore dell'ordine civile: più volte mi scontrai con bande di contadini armati di piccone e falcetto, comandate da sinistri criminali del Regno e di fuorivia che brandivano il vessillo bianco. Mi sapeva male infierire contro quei disgraziati gregari, facevo prigionieri ma mi limitavo a impaurirli e cercavo poi di dimostrargli il loro errore: al più distribuivo qualche calcio nel sedere ai protervi. Non capite, dicevo, di fare il gioco dei feudatari e dei preti che da secoli vi hanno succhiato il sangue? Qualcuno mi rispondeva: ci hanno promessa la terra. Per quanto insistessi mai facevano il nome dei loro capi, capaci di rimanere per ore legati senza parlare. Dagli interrogatori intuivo che mescolavano Garibaldi al curato del loro villaggio, la fame della terra li ipnotizzava. Alla fine veniva fuori la nuda e più immediata verità, per quella sciagurata milizia pigliavano due carlini al giorno, per due carlini di paga si sarebbero venduti l'anima. Scoraggiato, li rilasciavo ammonendoli severamente, ma ero sicuro di ritrovarli tal quali alla prossima occasione; innocenti e feroci. Tale la situazione del mezzogiorno insidiato e raggirato, come appariva nel passar dell'ottobre non solo a me ma a quanti, nel carcere o in esilio, avevano perso i contatti col Paese e con le sue magagne e ritornandoci si erano lusingati di raccoglierci i frutti dei loro sacrifici. Alcuni, per esempio il povero Mignogna, disperarono affatto: ricordo il nostro disgusto quando si pretese di commemorare i Bandiera con la traslazione delle loro ossa. Il funerale delle nostre speranze, diceva l'amico. E tuttavia, finché potevo muovermi e agire secondo coscienza riuscivo a non perdermi d'animo, non è stato mai di mio gusto compiacermi delle pubbliche disgrazie ripetendo: l'avevo detto. Ma ecco che una mattina, mentre mi avvio a una delle solite ricognizioni nell'agro, mi ferma una trafelata staffetta che viene dal
nord, con un messaggio urgente da parte del Bertani. Mi si invita, per non dire mi si ordina, di rientrare a Napoli con la massima celerità insieme a una dozzina di compagni "di fede provata". Ne leggo i nomi, son quelli di tiepidi moderati e abilissimi maneggioni. Interrogo la staffetta: risponde che l'annessione è decisa, occorre organizzare il plebiscito che nella capitale presenta gravi difficoltà, guai se non riuscisse unanime. Aggiunge che avremo cavalli veloci per San Lucido dove ci aspetta il più rapido legno della marina da guerra. Mi cascano le braccia, niente Costituente, dunque: Garibaldi ha perduta la partita, Cavour ha vinto. Il mio primo impulso fu di rifiutare. Ero furioso, proprio a me, repubblicano, si chiede di darmi da fare per guadagnar voti al Savoia, e per di più insieme a gente che non stimo. Giunsi ad augurarmi che dai confini pontifici i francesi dessero una buona lezione a Vittorio Emanuele, che le bande brigantesche non gli lasciassero respiro, che Gaeta gli resistesse per anni. Poi il pensiero dello smacco di Garibaldi, così indegnamente osteggiato, mi fece riflettere. Dopo tutto il Bertani era dei nostri, non sapevo quali intenzioni si nascondessero nel suo messaggio. Cedendo sul plebiscito chissà non si fossero ottenuti patti vantaggiosi per le popolazioni, noi democratici contavamo pure qualcosa, il futuro ci riservava forse qualche buona sorpresa. Così andavo riconfortandomi, ed ero già in sella correndo verso la costa. Ciò che seguitava a preoccuparmi era lo stato in cui lasciavo regioni che conoscevo bene, divise fra umori contrastanti. Anche lì si sarebbe votato, perché, dunque, allontanarmene nel momento che la mia opera ci sarebbe stata più utile? A meno che non mi si chiami a Napoli per evitare che in Calabria gli elettori mi seguano negando fiducia alla monarchia. Una manovra sleale. Per tutta la strada cercai di respingere questa ipotesi amara senza riuscirci e non so cosa mi trattenne dal tornare indietro. Inoltre, più ci pensavo, più questa storia del voto a tambur battente mi pareva assurda e disonesta. Quale voto? Non erano soltanto casa Savoia e il Borbone a confrontarsi, ma la monarchia e la repubblica, il vecchio e il nuovo ordine con cui l'annessione doveva essere condizionata. Un sì o un no generico cosa poteva risolvere? Il viaggio per mare fu rapido, ma ebbi tempo di rimasticare la mia tristezza di sconfitto. Avevo obbedito come un soldato, ma soldato non ero, la coscienza era la mia sola legge. Ma appunto la coscienza mi suggeriva che se la nostra azione non era stata all'altezza delle nostre idee, se ci eravamo illusi immaginando che patire il carcere bastasse a operare miracoli, non potevamo adesso esser causa di smarrimento alle plebi fin troppo sconcertate. Alla fine, non so come, l'aria vivida che mi batteva in faccia allontanò le nuvole grige dei miei pensieri. La vittoria sarà per più tardi, mi promettevo con una buona fede a cui collaboravano la stanchezza e un infinito desiderio di pace. Caotica più di sempre la Napoli di quei giorni. Qui apatica, beffarda, bonacciona, là eccitatissima, tempestosa, da credere che stesse per scoppiare una sommossa. Ma non scoppiava niente, alle grida dei lazzari succedevano risate, al gesticolare frenetico la pausa goduta del pasto a base di pizza e fichi d'India. I civili indigeni scantonavano ratti quasi fuggissero la presenza di jettatori, che erano poi i borghesi piovuti dal nord, uomini pettoruti e indaffarati, in giamberga: e anche veduti di spalle li riconoscevi per il modo di camminare e di parlarsi sottovoce. Molti palazzi signorili coi portoni chiusi e le imposte serrate; i caffè stracolmi di un pubblico indefinibile. Dovunque garibaldini in camicia rossa, malconci e urlacchianti, spavaldi per disperazione: parecchi, reduci dal Volturno, zoppicanti, bendati, colla febbre addosso. Gran novità i bersaglieri piemontesi, di fresco sbarcati con quelle loro penne
svolazzanti: gli scugnizzi dietro, a frotte. La confusione era tale che quelli stessi che, come me, erano stati chiamati dalle province non sapevano a chi rivolgersi per ottenere istruzioni sul modo e i mezzi da usare perché il popolo votasse compatto e nel senso che si desiderava: d'altronde, mai la leggerezza dei napoletani mi era parsa più scandalosa e i loro umori meno prevedibili. Le notizie si accavallavano di ora in ora, mettendo in forse il successo e persino la realizzazione del plebiscito. Si annunziavano e si smentivano gli arrivi di patrioti di ogni colore e tendenza: l'unica verità assodata era, come già avevo inteso, che Mazzini correva pericolo di essere arrestato e peggio. A Palazzo, dove mi recavo a prendere ordini, si litigava gagliardamente fra sbattere di porte dorate, tintinnio di sciabole e finanziere abbottonate; ministri e prodittatori si avvicendavano presentando e ritirando le dimissioni. Una selva di giornali e giornaletti stormiva, quelli del nord insinuando sospetti sugli intimi di Garibaldi. Lo vidi appena: non era più il capo fiducioso nei suoi e nella fortuna, ma un anziano affaticato, un pesce fuor d'acqua, il sorriso con cui mi salutò mi parve lugubre. «Don Domenico, qua nessuno è fesso» mi disse a fine tavola l'amico Giunti che mi ospitava a Monte Calvario. Quel motto di ironica saggezza popolare in bocca a un aristocratico raffinato e di mente aperta, che non parteggiava per nessuno, mi fece rabbrividire. Era pur vero, ai napoletani di qualunque classe non restava che l'antico patrimonio di scetticismo e di sarcasmo. Quando fui certo che il plebiscito era inevitabile, che il Savoia lo esigeva aspettando a capo delle sue truppe, di usarle, secondo le circostanze, da specioso liberatore o da conquistatore vittorioso, feci del mio meglio per abbreviare quell'agonia. Era davvero una sinistra pagliacciata la pretesa di una consultazione popolare che avrebbe richiesto anni di illuminata preparazione. Ci voleva poco a capire che di quei bollettini stampati con il "sì" (gli unici disponibili) si faceva un traffico scandaloso, praticato con dispregio da quelli stessi che ostentavano di volerci insegnare il catechismo dell'onesto cittadino. Mi si incaricò di tenere discorsi esortativi e li tenni: erano l'esatto contrario di quel che pensavo; mi ci buttavo con l'aspro piacere di beffeggiarmi e di punirmi. Chi mi ascoltava o aveva l'aria di divertirsi alle ciancie di un ciarlatano o si scalmanava da compare: rozzi analfabeti o truffaldini pagati. Non era previsto nessun controllo, chiunque poteva votare quante volte volesse, impedire brogli era come vuotare il mare col cucchiaio. Fingevo di non accorgermene e lasciavo correre: questo volevano i piemontesi, ingannare un popolo per poi punirlo sdegnosamente quando, a sua volta, li ingannasse. La monarchia savoiarda, del resto, come la borbonica, aveva scelto a ragion veduta di appoggiarsi ai camorristi, organizzati come forza di manovra. Il novembre del '60 cominciò con tempo inclemente e rigido, al nuovo re Napoli non concesse il suo sole leggendario e il suo cielo limpido; in nessun paese le nuvole sono pesanti e cupe come nel sud, nel tardo autunno. Re Vittorio fece la sua entrata sotto una pioggia battente che se inzuppava i suoi nuovi sudditi, flagellava crudelmente le uniformi dei suoi brillanti ufficiali. Alla luce vivida dei lampi il suo volto massiccio, più di zappatore che di principe, pareva impastato di terra. Sul Volturno aveva stretto la mano al Generale e aveva lodato, bontà sua, i volontari, ma aveva soggiunto che era opportuno si riposassero lasciando ai suoi soldati il compito di prendere Gaeta. Infoltivano gli episodi di contrasti e di alterchi fra garibaldini e regi ufficiali, l'orizzonte politico era più nero del cielo. I democratici tacevano, gli stessi moderati non nascondevano l'avvilimento I borbonici sghignazzavano, colla mano alla bocca: vedete che tipo è questo Savoia che prima tradisce un nipote
usurpandogli il trono e poi tratta a sassate chi gli ha conquistato un regno. Ero tra la folla, quel 7 novembre: c'era aria da giorno dei morti e il corteo passò di carriera, schizzando fango. E tuttavia il popolino, avido di parate spettacolari si assiepava lungo le strade, più curioso che festante e disposto a convincersi superstiziosamente che il cielo corrucciato fosse dalla parte di Franceschiello e predicasse nuova miseria e fame. Radi e sordi, gli applausi dei camorristi si smorzavano sui rivoletti del selciato: nessun segno cordiale di ringraziamento e benevolenza mostrava il sovrano, e la povera gente coi suoi stracci bagnati addosso, non tardò a sfogare il malumore con frizzi, risate agre e certi urlacci che poco quadravano col risultato del plebiscito. «Fossi in Garibaldi me ne andrei a Gaeta» disse un omaccino strizzando il berretto zuppo e allontanandosi di corsa. «Tutto qui, e noi sceme che ci siamo venute» piagnucolavano le donnette stringendosi nello scialle. La pioggia rinforzava con accompagnamento di tuoni, ormai le strade erano deserte. Il mio compito balordo era finito, mi ritrovavo a tu per tu coi miei guai ed una dolorosa faccenda. Una unica soddisfazione mi presi e fu quando, nei bilanci del nuovo governo, si propose una elargizione di sei milioni di ducati a favore di noi, "danneggiati politici", come ci chiamavano. Alla prima notizia Poerio e Castromediano avevano steso una secca protesta, dichiarando che certi sacrifizi non c'è denaro che li compensi. Mi passarono il foglio da firmare e firmai con entusiasmo, fiero e felice di suggellare così la nostra vecchia solidarietà carceraria. Era un bel gesto e non me ne pentii, ma prescindendo da quel che, personalmente, mi costava, non teneva conto delle condizioni miserevoli di tanti che, ritornati dall'esilio e dal carcere, non avevano come campare. Ne sentii parecchi rinfacciare a Poerio la sua relativa agiatezza e l'intatto prestigio politico. Gli tappavo la bocca citando l'esempio di Castromediano che povero era e povero era rimasto, laggiù nel suo castelluccio di Caballino. I giovani meridionali usano corteggiare l'innamorata passeggiando la notte sotto le sue finestre. Altrettanto feci io, per un'ora buona, davanti all'Hotel d'Inghilterra dove Garibaldi s'era trasferito dopo aver consegnato al re la nostra povera capitale esautorata: doveva partire all'alba del 9, e questa veglia mi fu dolce come una veglia d'amore. Commemorai così la mia gioventù perduta, la ragazza che avrei potuto avere e non ebbi: ricordo ancora l'esaltazione romantica con cui guardavo in su, ogni tanto e mi pareva davvero che una donna si sarebbe affacciata, quella Italia che poi gli scultori di inutili monumenti esibirono in figura di popputa matrona incoronata. La mia Italia era invece una smunta schiava che aveva cambiato padrone. Sino a tardi la luce rimase accesa nelle camere del Generale, gruppi di ufficiali e di civili entravano e uscivano dal portone, qualcuno mi riconobbe e m'invitò a salire. Non so con quale pretesto, ricusai, volevo che il mio saluto fosse silenzioso e anonimo. Congedandosi dai suoi volontari lui aveva promesso: ci rivedremo a primavera, a primavera a Roma. Era sicuro di mantenere? Nel mio accoramento, non ci credevo, pensavo che non l'avrei più riveduto. Dalla Calabria gli mandai a Caprera, un mese dopo, un cestino di fichi secchi. Avevo rifiutato il risarcimento del nuovo governo, ma non potei ricusare l'impiego che mi si offerse quando, rientrato definitivamente nella vita civile non ebbi altre alternative per sostentarmi. Il mio servizio alla dogana borbonica era stato un pretesto, una burletta, ma sulle carte amministrative il mio nome era rimasto e da semplice subalterno mi si promuoveva a capo delle dogane delle tre Calabrie. Non avevo più l'età e la salute per la milizia: del resto, come avevo previsto, tutti erano d'accordo per sbarrarci la via di Roma e delle Venezie. Esitavo: polizia e dogana avevano per me una certa affinità,
ma l'idea di una lotta spietata contro il contrabbando dilagante nel sud, non mi dispiaceva, era pur sempre un modo di servire il mio Paese. Alla fine accettai. Dai superstiti della mia famiglia non potevo aspettarmi che domande di aiuto e don Gioacchino, che mi cercò a Cosenza, mi portò la notizia che mia madre era morta: quel povero prete aveva le lacrime agli occhi e non stetti a sofisticare sulla sincerità del suo dolore e sul significato della sua veste, mentre lo abbracciavo come avevo, un secolo fa, abbracciato il nipotino che avevo lasciato ragazzetto. Dato che non avevo moglie, mi disse, mia sorella Concetta sperava che l'avrei chiamata a dirigere la mia casa, levandola dalla soggezione delle cognate. Mi trattava, quell'uomo, come se fossi stato un potente della terra e mi affrettai a disilluderlo, ma promisi di accogliere Concetta e di provvedere, nei limiti delle mie possibilità, alla sistemazione dei parenti che non conoscevo. Mi auguravo, gli dichiarai, che fossero dei giovanotti onesti e capaci, soprattutto di idee moderne e liberali. Arrossì: quella canzone non doveva piacergli ma ingollò il boccone e mi assicurò che non mi sarei pentito. Aprii casa e Concetta venne a raggiungermi. Povera ragazza. Era stata una bella bruna, alta e snella, dal portamento altero più del bisogno: stentai a riconoscerla nella donnina curva dal viso di cuoio che tuttavia scattava quasi sull'attenti quando le parlavo. Domata da una oscura consuetudine di lavoro casalingo, quasi servile, aveva conservato un orgoglio spagnolesco appena metteva il piede fuori di casa. Era religiosissima, non usciva che di primo mattino per andare a messa, ma, secondo il costume di nostra madre, esigeva che a due passi di distanza la seguisse un servitore col libro delle preghiere, il cuscino di velluto per l'inginocchiatoio e altre devote cianfrusaglie: l'avrebbe gradito in livrea e in polpe, ma non osò mai reclamarlo. Non ebbe pace sinché non la provvidi di un banco particolare. Le sue devozioni erano lunghe e complicate, il domestico doveva presentarsi tre, quattro volte a rilevarla prima che si decidesse a tornare a casa. Alle volte, incontrandola la mattina nel recarmi all'ufficio, mi pareva tutt'altra persona, tanto era solenne nel suo abito di seta nera e largamente velata di pizzo finissimo. Come aveva conservato, nel corso di tante traversie, quelle reliquie di un lusso svanito? Passata la soglia di casa, riprendeva le sue vesti dimesse di lanetta o cotonina e l'ampio grembiule di massaia: non c'era lavoro grosso che non volesse eseguire di persona, le serve non la contentavano, spesso le licenziava a mia insaputa. Come le antiche signore calabresi rifiutò sempre ostinatamente di pranzare con me, specie se avevo degli ospiti. La tavola era apparecchiata con cura pedante e anche con una certa eleganza memore degli usi di Pizzo: guai se le posate e i piatti non fossero disposti secondo l'etichetta tradizionale. In occasione di feste, come Natale e Pasqua, si dava daffare per invitare parenti e, soprattutto, mio fratello Stefano con tutta la famiglia della sua seconda moglie: allora presiedeva alla mensa col sussiego di una regina, abbigliata dei suoi panni migliori e calzando i mezzi guanti di merletto. Quei pranzi erano interminabili, imbanditi colle vivande più ricche della cucina calabrese nonché con certe manipolazioni siciliane di cui mia madre le aveva insegnato la ricetta e che ricordavo serviti in omaggio alla memoria di mio padre: talché quei pasti prendevano figura di banchetti funebri. Di modesto appetito, come son sempre stato, gli odori, più che i sapori di quei piatti esercitavano su di me una specie di incantesimo triste che m'impediva di mangiare: i miei ospiti si turbavano, quasi si offendevano. Alle frutta, le donne - cioè Concetta e le giovani del parentado - si ritiravano e io restavo solo in conversazione con gli uomini. Colloqui spinosissimi, non c'era argomento su cui non gravassero equivoci e malintesi, tutti avevan
l'aria di aspettarsi da me chissà quali rivelazioni. Era sempre presente don Gioacchino, lui mi considerava un politico consumato che aveva rischiato il tutto per tutto, prevedendo quel che sarebbe successo e i vantaggi che ne avrei tratto. Credo che immaginasse Procida, Montefusco e Montesarchio rifugi appena un po' scomodi dove si poteva complottare meglio che in libertà, preparandosi meriti in vista di un immancabile futuro. Non tentavo neppure di spiegargli che cosa fossero, sentivo che non mi avrebbe creduto, pur mostrando di compassionarmi. L'importante era che avevo vinto e che il nuovo re non avrebbe potuto negarmi nulla. Alla fine, qualcuno si faceva coraggio e mi domandava quando pensavo di ricuperare i beni confiscati di Chiaravalle e di Pizzo. Avevo un bel rispondere che si sbagliavano, quel che era stato era stato: sorridevano, ero un furbo, giocavo coperto. «E bravo il nostro Micuccio.» Solo Stefano non sorrideva, la vecchiaia gli aveva indebolito il cervello dove rimaneva intatta la pretesa del primogenito e quindi di amministratore del patrimonio familiare, quando ne fossimo tornati in possesso. «E non credi» mi fa un giorno, tirandomi in disparte «di poter riavere i beni di Sicilia, malvenduti da nostro padre quando fu costretto a fuggirne? Dopo tutto hai seguito le sue idee e la sua strada, sarebbe giustizia.» Simili vaneggiamenti senili mi facevano tanto pena che cancellavano in parte i miei antichi rancori verso mio fratello. In fondo non vedevo in lui che l'unico testimone di una vita che non avevo conosciuto, l'unico che potesse ricordare l'uomo avventuroso da cui eravam nati. Lo interrogavo sperando che un gesto, una parola di lui gli fossero rimasti in mente. Chinava la testa e non rispondeva, ma le mie domande rifluivano su di me, alimentando assai dolcemente certe mie vecchie nostalgie di fanciullo. Gli altri commensali, intanto, ci guardavano con un rispetto non alieno da un'ansiosa curiosità e non tralasciavano, ogni tanto, di ricordarmi che io solo potevo provvedere alla sistemazione dei giovani a loro cari, "sangue mio", ripetevano. Avevano una gran paura che mi ammogliassi e mi assicuravano che quei ragazzi mi tenevano in conto di padre e ci avrebbero pensato loro a custodire la mia vecchiaia meglio di veri figlioli. Sorbito il caffè, rientravano Concetta con le congiunte. Potevo sbagliarmi, ma leggevo nei loro occhi la sospensione di chi aspetta di essere esaudito nelle proprie speranze, forse mia sorella le aveva lusingate, ognuna aveva un marito o un fidanzato da contentare. Mi circondavano, mi coccolavano con un'arietta tra filiale e materna, fastidiosissima. Le belle ragazze non immaginano quanto un anziano possa avere a noia le loro moine: proteste di affetto, scherzetti, baciamano. Non vedevo l'ora che se ne andassero e di godere di nuovo un po' di pace e di solitudine. Chiusa la porta, infine, dietro di loro Concetta sospirava e si rintanava in camera a recitare i suoi rosari: ancora una volta l'avevo delusa. Peggio fu quando, per il mio ufficio, fui trasferito a Reggio dove vivevano i gemelli, Giovanni e Giorgio, frattanto rimasti vedovi, senza figli, ma carichi di parentela d'acquisto. Campavano tutti dello scarso reddito di fondi mal coltivati e peggio amministrati, la loro principale occupazione era litigare e intrigare fra uomini vecchi e nuovi, fra connivenze col passato regime ed effimere accensioni liberali. Se Stefano, a Cosenza, mi ricordava mio padre e le nostre case di Pizzo e Chiaravalle, i gemelli, cresciuti in collegio, erano per me degli estranei, due anzianotti lagnosi e baciapile a cui nulla mi legava. Me li aveva condotti in casa don Gioacchino che, sempre in movimento, non pareva occuparsi molto dei suoi parrocchiani: quegli abbracci, quei discorsi melati furono quanto di più falso mi fosse toccato di subire. Nel frattempo avevo avuto cognizione che il nostro prete, oltre a un contegno privato tutt'altro che edificante, manteneva stretti rapporti con elementi borbonici e capibanda calati
dallo Stato Pontificio. Comunicai a Concetta queste belle notizie e la pregai di avvertirlo che le sue visite non mi facevano piacere: lei naturalmente, non mi credette e le definì calunnie, sparse dai nemici della religione. Il reverendo, difatti, seguitò a presentarsi a casa mia colla massima tranquillità sicché non mi rimase che parlargli chiaro. Non negò le accuse di connivenza borbonica, anzi seppe dirmi che andando le cose di questo passo, Francesco Secondo sarebbe tornato a Napoli e i piemontesi si sarebbero accorti di che forze disponeva: e allora, concluse con un ammicco, che vantaggio per me, un nipote benemerito del legittimo sovrano e della Santa Chiesa! Gli tagliai la parola e lo cacciai malamente. Concetta pianse tutte le sue lacrime e si compensò con convegni segreti in sacrestia che finsi di ignorare. Contrabbandieri e briganti furono in quei mesi la mia dannazione. Mi sfogavo a riorganizzare, coi pochi mezzi concessimi, l'amministrazione delle dogane che avevo trovate in sfacelo, ma il contrabbando prosperava, tutto era da rifare e sanare, la burocrazia era marcia, il costume corrotto. Ed era vero che le bande brigantesche crescevano di numero e di consistenza. I reggini stupivano che mi tenessi assiduamente informato sulle loro mosse: che cosa me ne importava, provvisto com'ero di una carica che con i briganti non aveva nulla a che fare? Loro ci erano avvezzi e trovavano naturale che il re spodestato si difendesse come poteva. Bastava non girare di notte: ma chi ha mai girato di notte, in Calabria? Quel che avevo previsto fin dai primi sintomi della ripresa brigantesca si verificava: il governo lontano, senza esperienza dei luoghi e della gente del sud, mandava allo sbaraglio militari mal comandati, sprovvisti dei mezzi necessari alla guerriglia. Le repressioni erano cruente ma i capi scappavano e i poveri bifolchi assoldati pagavano con la vita e con la libertà. Ignoranti, selvaggi, delinquenti: nessuno diceva le sole parole che li giustificavano: miseria, fame. I settentrionali, inferociti da quelle cacce sanguinose, esausti per gli strapazzi, si vendicavano detestando il paese, i suoi abitanti: l'utopica fratellanza dell'unità era derisa e vilipesa, i contadini del nord, nostalgici dei loro campi, si rifiutavano di confrontarsi con i contadini di quaggiù, sempre in sospetto di tener mano ai banditi e ritenuti per natura infingardi. Era inaudita la discordanza fra la situazione reale e l'interpretazione che ne davano le gazzette ministeriali: dovunque equivoci, malafede, interessi non confessati, difesa dei privilegi. E si risaliva alle cause: i repubblicani, i democratici, le chiacchiere di Mazzini, questo predicatore fanatico, la spavalderia di Garibaldi, un avventuriero buono per il Sudamerica. Fra le righe si intravedevano nostalgie per il buon tempo che il Piemonte badava ai fatti suoi. Non bastavano la Lombardia e il centro Italia, per doversi impacciare con le terre matte? A volte mi chiedevo se non soffrissi, per caso, di mania di persecuzione, il carcere, la solitudine, la routine di un lavoro inefficiente, infine le beghe familiari avevano forse alterato la serenità del mio giudizio. Riprendevo in mano i giornali gettati via con ira, decidevo di non badare ai pettegolezzi velenosi delle cronache, alla meschinità dei commenti. Restringendomi ai resoconti delle sedute parlamentari, cercavo di riscontrarci i segni di una concorde volontà di bene e di progresso per tutto il Paese. Ma era una maledizione, non c'era intervento o proposta di un deputato meridionale che non cadesse nel vuoto: o ascoltata con distrazione o accolta sfavorevolmente. Parlavano uomini - amici miei, la più parte - di chiaro ingegno e di solida competenza, reduci dalle galere o dall'esilio: ebbene pareva che i loro suggerimenti fossero considerati vanilogui e i loro meriti fossero ormai largamente compensati dall'onore di sedere in parlamento. Poerio, Castromediano eran rispettati più come patrizi che
come patrioti, di Bixio si gradivano certe battute furbastre: e, per esempio, quando Musolino prese a esporre con esatta documentazione, i soprusi dei proprietari delle tonnare a danno dei pescatori, gli si tagliò la parola. Il disagio raggiunse il culmine con lo scontro fra Garibaldi e Cavour, scandalo nazionale che tutta l'assemblea deplorò. Poco dopo il Primo Ministro moriva e al tutto si mescolavano rampogne contro chi, si disse, lo aveva colpito al cuore. In pubblico mi astenevo da qualunque atteggiamento politico: troppo povero per accettare la candidatura alla Camera, ero conscio del significato di questa rinunzia e vivevo il più possibile ritirato. Non bastò, i miei sentimenti democratici erano noti e mi accorsi di esser tenuto d'occhio alla stregua di un "attendibile" del passato regime. Non avevo di chi fidarmi e la mia nostalgia dei vecchi tempi era tale che, sedendomi a tavola, rimpiangevo le brode di Montefusco. In mancanza di amici vicini il pensiero mi correva a quelli lontani e, sempre più frequentemente, a Musolino che, dal '48, non mi era mai riuscito d'incontrare. Iniziato da lui alla cospirazione, non avevo diviso le sue idee estreme, ma ora non le trovavo più così arrischiate come in gioventù, anzi mi sembrava che quella strada di riforme radicali sarebbe stata l'unica da seguire. «Sono utopie da Città del Sole» gli opponevo e lui alzava le spalle ribattendo che ero troppo immaturo per capirle. Adesso, se il pensiero non era cambiato, come si piegava a un regime che di moderno non aveva che la forma? Perché, dopo i suoi insuccessi parlamentari, non si dimetteva? Che cosa sperava? Credevo di conoscere il suo carattere, non mi pareva possibile che, per ambizione, si rassegnasse alla sconfitta definitiva. Sapevo che, tornato dall'esilio, dopo l'impresa garibaldina si era stabilito al Pizzo e non se ne allontanava che per le sedute alla Camera. Correva l'estate del '61: ero sicuro di trovarcelo. E poiché un'ispezione doganale richiedeva la mia presenza alla Mongiana, poco distante, decisi di rompere il ghiaccio e salire a visitarlo. Dopo tanta solitudine dovevo pur parlare a cuore aperto con qualcuno, sfogarmi, discutere, magari sentirmi dar torto. La riluttanza che l'anno innanzi mi aveva distolto dal rivedere quella piazza, quelle straducce, motivo per me di ricordi, per la verità, più spiacevoli che grati, era caduta, insieme alle ragioni che me l'avevano ispirata. Non m'importava più che Pizzo fosse stata - e forse fosse ancora - un covo di borbonici pavidi, responsabili di tante infamie. Probabilmente quei vecchi gufi erano morti, ma anche se li avessi incontrati non sarei, come prima temevo, esploso in uno sdegno retrospettivo. Altri fatti, altre persone, adesso, mi turbinavano in mente. Una mattina all'alba, senza avvisar nessuno, come usavo perché le mie ispezioni avvenissero di sorpresa, mi misi in carrozza. Viaggiavo comodamente, il vetturino conosceva le strade più brevi e agevoli: ogni tanto gli comandavo di rallentare cedendo al richiamo della memoria. Non erano mai state floride, queste coste, ma non così irsute e selvatiche come ora mi apparivano. Nei villaggi, non erano mendicanti di mestiere gli uomini che si avventavano alla vettura quasi minacciosamente, ma contadini e manovali disoccupati. Chi aveva ridotto all'ozio quei faticatori tanto pronti al comando del padrone come sensibili all'idea di una primordiale giustizia? Guardavo il mare delle mie nuotate di ragazzo e mi sembrava deserto come mai era stato, non un peschereccio in vista: da noi l'esercizio della pesca è praticato più di qualunque altro, ogni giovane che per la prima volta s'imbarca crede alla fortuna. Infine le case di Pizzo si rizzarono in cima al colle, ma non quali le vedevo un tempo risalendo dalla spiaggia: mi parvero una fila di denti smozzicati, quasi il sole ne avesse succhiato la polpa vitale e dentro
le mura non ci fossero che vuoto e detriti. In breve fummo in piazza, il caldo mi stordiva. A destra il torrione di Murat, a sinistra, più in alto, il palazzotto di Musolino. Che il mio corpo facesse ombra mi faceva meraviglia, tanto mi sentivo eguale ai fantasmi che da ogni parte mi assalivano. Era l'ora della siesta, piazza e strade vuote, vidi soltanto un prete sgattaiolare ratto all'angolo della via di casa nostra e della chiesa dove fui battezzato: il fantasma, per me, di don Zimadore. Salendo al palazzo Musolino, affannavo, ogni passo dovevo fermarmi. Il portone era spalancato, direi, sgangheratamente. Indietreggiai e guardai in su alle finestre: erano chiuse e negli spazi fra l'una e l'altra il muro aveva perduto l'intonaco, le connessure dei mattoni erano nericce, fuligginose. Da ragazzo, casa Musolino mi sembrava fastosa: adesso era un rudere, ma allora non avevo mai notato la grazia architettonica dell'androne, l'armonia dell'arco decorato a stucchi che introduceva alla scala. Rammentavo che dal primo ripiano si scendeva per pochi gradini in giardino: adesso un muro pieno lo chiudeva, del giardino non era traccia. Rimanevano, a destra e a sinistra, due scalette divaricate che davano accesso agli appartamenti. Non m'era mai successo di salirle senza imbattermi in qualcuno della famiglia, servi e serve che vi si affaccendavano di continuo. Come fui giunto in cima, stentai a raccapezzarmi, la gran porta vetrata che ricordavo era sostituita da due porticine dalla vernice scura e screpolata. A caso tirai il cordone dell'unico campanello e mi rispose un suono fioco di convento: per lunghi minuti aspettai che dentro qualcuno desse segno di muoversi. Stavo per ridiscendere proponendomi di chieder notizie in giro quando sentii un passo strascicato avvicinarsi, e, poco dopo, un cruccioso "chi è?". Con un lento armeggio di catena e chiavistelli la porta si dischiuse per uno stretto spiraglio lasciando intravedere una faccia di vecchia. Mi scusai per l'ora indebita e feci il mio nome: «E' in casa don Benedetto?». Non rispose né sì né no, ma forse il mio casato non le era ignoto e, facendosi da parte, aprì del tutto il battente. Non avevo ricordo di quel corridoio buio dove la vecchia mi scortò fino a un usciolo che, prima di allontanarsi verso il fondo, mi accennò col mento. Insieme al gaio giardino erano dunque sparite le vaste stanze luminose che rammentavo e solo allora mi fulminò la memoria di quel che era successo là dentro nel '48, mentre io negli Abruzzi correvo alla mia rovina. Domenico e Saverio assassinati dalla teppa borbonica, la casa saccheggiata e incendiata. Non era più un casa signorile, quella, ma il rifugio di un superstite ormai distaccato da tutto ciò che rende amabile la vita. Cosa ero venuto a chiedergli, perché aggiungere amarezza ad amarezza? Tuttavia battei con le nocche tre colpetti, l'antico segnale dei nostri convegni clandestini: e a un burbero "avanti" girai la maniglia. L'uomo che sedeva alla scrivania, barbetta grigia, capelli radi e brizzolati, era la vivente immagine di Domenico Musolino; da giovane Benedetto non era assomigliato tanto a suo padre, persino la gran barba del vecchio gentiluomo riviveva assottigliata nel breve pizzo del figlio. Così anziano! pensai quasi mi fossi aspettato di ritrovare l'amico in tutta la sua verdezza giovanile. I mobili, intorno, erano rustici, di legno opaco a cui la polvere aveva tolto il colore. Seggiole impagliate e scaffali sbilenchi erano carichi di libri, ma libri e carte erano sparsi dovunque, su un paio di tavolini, su uno sgabello e persino sul pavimento: a pile, a fasci crollanti. In mezzo a quel frascame disordinato, che mi rammentava certi studi legali di provincia, più che il rifugio dello studioso, vidi, sotto la finestra, due grossi sacchi rigonfi, e in terra, all'ingiro, chicchi di grano sparsi. Per poco non sorrisi, anche a casa mia, nei luoghi più
impensati, ma soprattutto nella stanza che era chiamata "studio", dove si ricevevano i massari, si custodiva il grano occorrente al consumo della famiglia: mai un proprietario vigilante si sarebbe fidato del controllo di un domestico. Tanto quell'alimento era considerato prezioso e quasi simbolo di prosperità padronale. Dopo disgrazie senza fine e un lungo esilio in terra straniera, l'onorevole Musolino aveva rinnovato e mantenuto quel costume, caro a suo padre. «Con chi ho l'onore...» L'amico stava scrivendo e non aveva ancora alzato gli occhi: come li levò, rimpiccioliti da due borsettine livide, riconobbi lo sguardo un po' grifagno di don Domenico che, incontrando in piazza noi ragazzetti, usava ammonirci col bastone. Ma la voce di Benedetto, pur arrochita e stanca, non era cambiata ed era tutta sua, cattedratica e, insieme, impaziente. Adesso potevo studiare il suo viso, le rughe della fronte, il labbro duro piegato all'ingiù come per sdegno. Era stato un bel giovane bruno, pelle di bronzo, occhi grandi e neri: e ora tutto quel pelo grigio buttato qua e là, a ciuffi, sul cranio e sul mento, mi pareva un grottesco scherzo di carnevale. Come sempre succede in questi casi, non riflettei a come doveva apparire la mia faccia devastata di ex galeotto. Precipitosamente mi nominai, all'improvviso temendo che non mi ravvisasse. Quegli occhi che sapevano anche, all'occasione, velarsi di dolcezza, mi investigarono un istante da due strette fessure, fra le sopracciglia cespugliose e il malsano gonfiore delle palpebre. Non potevo tollerare quel cipiglio e subito aggiunsi piccato: «Non mi riconoscete, don Benedetto?». Un tempo ci trattavamo col tu, ma il voi dei nostri vecchi riaffiorò con naturalezza: eravamo anche noi due vecchi, ormai, il tu è una piacevolezza giovanile. Si rischiarò, ma più di melanconia che di amichevole effusione. «Oh, scusate, don Domenico, non sapete quanto abbia desiderato incontrarvi» fece e parve rilasciarsi in tutta la persona mentre si appoggiava allo schienale del seggiolone. «Tanti anni, tante vicende» proseguì passandosi una mano sul viso. «Vi cercai a Napoli, sulle barricate, vi cercai a Cosenza, facevo conto che c'imbarcassimo insieme dopo la sconfitta. Ma voi ascoltaste Ricciardi e vi presero laggiù in Abruzzi. Sempre le solite imprudenze, ma già i giovani sono temerari. Povero Micuccio, dodici anni... Lo seppi a Parigi.» Parlava piano, a lunghe pause: lui un tempo così irruento nella foga oratoria. Come riscotendosi: «Ma sedete» s'interruppe, e si alzò con un balzo giovanile. Davanti alla scrivania un seggiolone eguale al suo era carico di scartafacci, giornali, opuscoli: lo liberò gettando a terra di peso quel cumulo di fogli accartocciati e ingialliti, il pavimento ne tremò: «Ma sedete, dunque» ripeteva: eravamo in piedi, l'uno davanti all'altro e lui mi prese a due mani per le spalle e mi abbracciò; mi sembrò di riconoscere il gesto rituale della setta, quello stesso che in funzione di padrino egli aveva compiuto con me il giorno che ero stato accettato fra i Figlioli della Giovane Italia. Per un lungo momento ci guardammo: poi, mancando altre sedie sgombre nella stanza, lui ripassò dietro la scrivania e si accomodò sul suo seggiolone, e io sul mio peraltro così sconocchiato che sotto il mio peso scricchiolava in tutte le giunture. Mi sentivo tanto sprovvisto di argomenti conversativi da chiedermi perché mai avessi intrapreso una lunga scarrozzata per abboccarmi con un uomo che ormai era per me più un personaggio che un amico. Avremmo avuto ambedue un monte di cose da raccontarci: lui la fuga per mare, i pericoli e le miserie dell'esilio all'estero, la partecipazione ai Mille; io l'arresto, la condanna a morte, l'abbietto carcere. Ma sapevo per esperienza con che orecchio disattento siano ascoltati, in genere, simili racconti, specie da chi è tutto preso dalle proprie vicissitudini. Evidentemente, lui aspettava che io parlassi, me ne accorgevo dai minuti gesti che andava facendo, toccando l'uno dopo l'altro la penna,
i fogli, lo spolverino. Alla fine aprì l'astuccio dei sigari e me lo offrì: al mio rifiuto sorrise, forse s'era ricordato che non fumavo. Il piccolo traffico di accendere e di tirare la prima boccata gli servì a decidere di rompere il ghiaccio. «Quel benedetto Ricciardi» esclamò riprendendo il filo delle ultime parole e senza il minimo imbarazzo «ne ha combinati dei guai! Avremmo conquistate le Calabrie in quindici giorni e il Regno in un mese, se mi avesse dato retta. E ne ha sacrificata, di gente. L'insurrezione delle plebi è una favola, ci vogliono armi e denari: pigliarli dove sono, tassare i ricchi. In Calabria era possibile, i latifondisti basivano dalla paura. Ma non mi ha ascoltato, si perdeva in chiacchiere insulse. Se voi foste rimasto con noi... Uomini come voi ci volevano, attivi, azzardosi: farne dei martiri a che serve? Esercizi spirituali buoni per tipi come Castromediano, brave persone, coi piedi sulle nuvole. Dodici anni eh? Io ci sarei morto, in galera, mi sarebbe scoppiato il fegato. Tu come stai di salute?» Non mi sorprese l'improvviso passaggio al "tu" della nostra giovinezza, ma rispondendogli non mi riuscì d'imitarlo. «Caro don Benedetto, si può sapere come si esca dalle mude borboniche, quando se ne esce. Trascino un po' la gamba, quella della catena, e son stato sul punto, fra l'altro, di perdere la vista. Ma questo è niente, quel che mi angoscia e che mi ha portato da voi è la situazione presente, questo caos. Voi, in parlamento...» D'un colpo il suo viso si rabbuiò, chiudendosi nell'espressione dura di quando aveva chiesto: con chi ho l'onore...? Era di nuovo la mutria di suo padre, per cui, a Pizzo, non c'erano che nemici, spie, ricattatori. Quella diffidenza m'irritò e mi diede forza. «Voi in parlamento» continuai «avete il dovere d'illuminare il Paese sul modo come si tradiscono le sue speranze: il nostro Paese, intendo. Noi siamo invasi e non a viso aperto, la reazione ha buon gioco, fra poco saremo tornati al tempo della Santa Fede. Se la mia povertà non mi avesse impedito di accettare la candidatura alla Camera, non ci starei, oggi, un solo minuto. Come potete rimanerci voi, vecchio repubblicano, senza urlare di sdegno?» I Musolino non sono mai stati umili e tanto meno Benedetto, sicché temendo di aver trasceso, mi aspettavo una rispostaccia. Non fu così, via via che parlavo gli leggevo in viso, più che avvilimento, una sofferenza di malato «Avete ragione» sospirò «e mi crederete se vi assicuro che la mia lettera di dimissione è sempre pronta. Ma sono testardo e so che andandomene farei troppo piacere a certe mummie. Li disturbo: anche questo è un successo. E poi non sto colle mani in mano. Ogni tanto arrischio un tentativo, l'ultimo fu con il loro Cavour che non era uno sciocco, gli comunicai un progetto di colonizzazione agricola interna. Nulla di rivoluzionario, mi parve, eppure non ottenni risposta. Ne avrebbe estirpati di mali, quel progettino, sarebbe servito anche a liquidare il brigantaggio. Devo averlo qua, vorrei che lo leggeste.» Si diede a rimescolare fra i mucchi di carte che coprivano il tavolo e ogni poco sbuffava: «Dev'essere qui, dove diavolo è finito». Mi fece una gran pena, aveva l'aria di un vecchio colto in fallo e che cerca di scusarsi. Per non accrescere il suo imbarazzo mi avvicinai alla finestra: dava su quello che era stato il giardino, adesso uno sterrato pieno di erbacce, cocci, calcinacci anneriti. Erano le tracce del saccheggio e del bruciamento del '48 e mi vennero le lacrime agli occhi: mi ero comportato come un egoista stolto e rancoroso. Benedetto, intanto seguitava a frugare («non lo trovo, ci avrà messo le mani la serva, ma non importa, in due parole vi spiego»): mi ero dimenticato come fosse difficile turbarlo, mentre si intestava in una sua idea. Ed ecco mi parve di esser tornato ai vecchi tempi, quando m'inchiodava in una straduccia di Pizzo, esponendomi, a dito alzato,
un suo piano di riforme universali. Dico la verità, fra il pentimento e la tristezza di tante memorie dolorose, non me la sentivo di prestare attenzione alle ingegnose proposte di una colonia sperimentale. Alle prime parole lo interruppi: «Ma caro amico, come otterrete le terre dei demani e dei preti necessarie a cominciare i vostri esperimenti? Voi mettete il carro avanti ai buoi. Non era meglio sostenere a tutti i costi la dittatura di Garibaldi, l'unico capace di spazzare ogni privilegio? Perché i democratici, mentre noi martiri, come ci chiamano, stavamo in galera, non si sono meglio organizzati? Facevamo gli esercizi spirituali, secondo voi: ma vi assicuro che anche quelli a qualcosa son serviti. Resistere per anni in una spelonca alle legnate, alla fame, alle ingiurie ti dà la prova di quanto valga un uomo, se non diventa pazzo: alla fine t'irrobustisce il cervello. L'odio ragionato contro l'ingiustizia è il sole del galeotto e non l'acceca, impossibile a questa luce ingannarsi fra il bene e il male. Non si ha bisogno della libertà per scoprire di che cosa il mondo ha bisogno e quali strade conducano a una vera liberazione. Non per caso il tiranno ha paura della sua vittima. Ignari degli avvenimenti, noi sapevamo meglio di voi esuli che cosa valesse la pena di fare. Forse ce lo suggeriva Dio con cui discutevamo aspramente, questo era il nostro modo di pregare». Qui mi fermai: m'ero ricordato due cose: che Benedetto aveva patito anche lui la prigione, che c'era stato da giovane. E che era materialista e ateo. Un sorrisetto ironico, difatti, gli spuntò sulle labbra. «A quanto vedo» mi fa «vi siete fatto mazziniano, Dio e popolo e così via. Del resto lo prevedevo, voi detestavate i preti, ma per schierarvi dalla parte del Gran Vecchio. La religione è un sentimento e coi sentimenti non si discute. Ma chi dice Dio, dice preti: non avrete dimenticato, spero che io avevo pensato a renderli innocui proponendo che i credenti potessero coi loro mezzi, provvedersi di parrochi, templi e anche vescovi e papa. Fatti loro, insomma, purché lo Stato non ci spenda un quattrino. Mi auguro che almeno su questo punto voi siate sempre d'accordo.» Riconoscevo la dialettica di Benedetto, essa mi risucchiava indietro negli anni che, educato da un precettore gesuita, seguitavo ad accompagnare mia madre alla messa, mentre lui, ferratissimo studente di filosofia a Napoli, mi prendeva in giro e mi leggeva i suoi trattatelli sociali. La mia timidezza giovanile rinasceva alla sua provocazione su un argomento così complesso e tormentoso come l'istintiva fede che in maniera oscillante mi aveva pur confortato nelle mie disgrazie. Inoltre ero stanco, quel discorso non m'interessava, non ero venuto a Pizzo per riprenderlo, esso mi sembrava ozioso e inconcludente. Volevo rispondergli scherzando ma non so come mi scappò detto: «Non sei generoso, amico!». Ero io, adesso, a dargli del tu, segno che in qualche modo mi sentivo ferito. «E non mi pare il caso» aggiunsi accennando un sorriso «di rifarsi alle teorie della setta. Non sono mazziniano, credo alla libertà della coscienza da poveruomo senza illusioni, che per tirare avanti coltiva un ideale di giustizia che non esiste su questa terra. Che cosa te ne importa se c'è chi crede nell'anima immortale? La vita è una malattia che ciascuno cura a suo talento. Giurammo insieme di rinunziare alle nostre proprietà. A quanto so, accetti adesso una giustizia distributiva e approvi la proprietà legittimamente acquistata...» Arrossì violentemente: avevo pronunciato le ultime parole scandendole, me le aveva citate puntigliosamente un mese innanzi, don Gioacchino, a dimostrarmi che anche un famoso esponente dell'estrema, quel Musolino sovvertitore della società e nemico della religione, dava di frego alla rivoluzione integrale per compiacere il nuovo re. «Come sapete?...» m'interruppe focosamente l'amico e la collera gli impediva di proseguire. Avrei potuto farlo per lui: come sapete, voleva dire,
di una proposizione che ho scritta ma non comunicata a nessuno? Difatti mio nipote non aveva esitato a confidarmi che nulla era ignoto alla Curia di quanto pensavano e scrivevano i suoi nemici; aveva persino cavato di tasca certi foglietti e si accingeva a leggermeli quando l'avevo messo fuori della mia porta. Un po' pentito di aver trasceso, gli spiegai la faccenda: i preti hanno le braccia lunghe e supponevo che un qualche sguattero dei Musolino avesse frugato fra le sue carte per incarico della reazione e del vescovo. «Vedete a che siamo» aggiunsi «non possiamo fidarci nemmeno della balia che ci allattò. E invece di preoccuparcene, abbiamo accettato quel bel plebiscito prima che le masse ne intendessero il senso. Chi rappresenti tu, in parlamento? Mi domando se non sei più mazziniano di me. Bisognava opporsi, cospirare di nuovo. Finire in gattabuia per conto dei Savoia sarebbe un onore, essi valgono il Borbone. Ma già, l'ipocrisia fa legge.» Parlavo a scatti e stralunato, e Benedetto sembrava non badarmi: egli mi guardava, ma con la fissità assente di chi medita incantandosi su un oggetto inanimato. Il sigaro gli si era spento. Poi, alzando le spalle: «Lasciamo andare i preti» fece levandoselo di bocca «parliamo piuttosto di te. Non ti ho mai capito. Coraggio, intelligenza, energia, nulla ti manca, ma non hai mai saputo farne qualcosa di costruttivo. Si direbbe che l'esperienza non ti abbia insegnato nulla. Come da giovane, emetti sentenze astratte con la foga di un vulcano che sputa lapilli, ma un piano concreto, articolato, coi suoi pro e i suoi contro, un piano tattico, insomma, magari a lunga scadenza, non hai mai saputo concepirlo. Io parto dai dati che ho, non da quelli che vorrei avere e coll'aiuto della logica ci costruisco sopra il mio edificio, una specie di teorema che, presto o tardi, si verificherà esatto. La nostra setta era un gioco da ragazzi, occorre dimenticarsela: altri tempi, altri mezzi. I miei disegni per una società futura, libera da fanatismi e da ossequio tradizionale vivranno come testi classici, ne sono sicuro. D'accordo, tutto va male perché il popolo è ignorante e deve ancora nascere chi rinunzi ad approfittarsene. Ma poiché ormai non ho tempo per istruirlo, imparerà a sue spese e quando sarà in grado di leggermi troverà in me la sua guida: ecco perché del mio insuccesso alla Camera poco mi curo. Li vedi quei quaderni, lassù? Sono la mia fatica di vent'anni, meditata pagina per pagina. Saranno la mia gloria». Trionfava, beato lui, aveva scelto bene la trincea dietro cui difendersi. Che cosa replicare? Parlavamo come due sordi, accusandoci reciprocamente d'incapacità pratica e di astratto idealismo. Ormai il nostro colloquio era finito: ma non ero venuto al Pizzo, dopo tanti anni, per lasciare così l'uomo che in più di un senso era stato il mio maestro. Rintuzzai l'orgoglio e a rischio di sembrargli ottuso e di corta veduta, tentai di ricondurlo ai problemi imminenti che dovevano pure stargli a cuore. «Puoi aver ragione» dissi «ma cosa prevedi, intanto, per l'immediato futuro? La situazione stagna. Vogliam credere che Garibaldi se ne starà quieto senza pensar più a Roma e a Venezia? Come reagiranno i suoi fedeli trattati come vecchie ciabatte? Cosa ne dice, per esempio, tuo nipote Nicotera?» Avevo pronunziato quel nome senza malizia, ma qualcosa nella inflessione della mia voce aveva tradito quel nonnulla di diffidenza che, dopo l'impresa di Pisacane, esso suscitava in me. M'era successo quel che capita a chi per troppo studio di evitare un argomento scottante, fatalmente ci casca. Era legittimo chiedere di Nicotera partecipe della spedizione dei Mille e uomo politico, ma altrettanto naturale che Musolino, zio amantissimo e quasi padre, sospettasse in ognuno un critico e magari un accusatore del nipote, sopravvissuto all'ambiguo processo di Salerno. Ci capivamo, un tempo, per sfumature ed egli mi lesse in cuore per quel sesto senso su cui si regge, meglio
che su parole, un'antica amicizia. Il peso dell'età gli calò sul volto irrigidito mentre la mano accennava un vago gesto evasivo. «Non so» rispose, e bruscamente si levò in piedi. «Filomena non è una gran cuoca ma quattro maccheroni li mette in tavola. Se vuoi favorire...» Era un congedo, Benedetto non poteva aver dimenticato che nel nostro paese un invito a pranzo, anche fra amici stretti, comportava un cerimoniale preventivo che, se omesso, faceva perdere la testa alle donne di casa. Mi fu facile scusarmi, dovevo ripartire senza indugio, il mio ufficio non mi consentiva di trattenermi e il viaggio era lungo. Non protestò che per la forma e, ritto sulla soglia dello studio, mi tese la mano. «Una carica davvero gravosa, la vostra e se ho buona memoria, non di vostro gusto. Tutte le coste da guardare e non solo dai contrabbandieri. Mah! E perché l'avete accettata?» Feci a mia volta un gesto vago e, senza rispondere, uscii nel corridoio. Certo l'amico non ignorava la rovina della mia famiglia e come a Torino non mi avessero offerto altro ufficio: prendere o lasciare. Era un rimprovero alla mia dappocaggine, a rimbalzo del tasto falso che senza volerlo avevo toccato? Volle accompagnarmi giù per le scale e nell'androne ci salutammo in fretta, come usavamo in gioventù per non farci scorgere dalle spie. In piazza la mia vettura, nera nel sole, pareva un carro mortuario. Cominciava il passeggio degli oziosi, feci appena in tempo, salendovi, ad evitare la loro curiosità. "Addio, Benedetto" dicevo fra me mentre la carrozza usciva dal Pizzo e prendeva la strada di Monteleone. A poco a poco la mia pena si quietava per dar luogo a una nostalgica indulgenza: avevamo troppo sofferto, lui ed io, e in modo incomunicabile, ognuno si salvava come poteva. Ero certo di averlo perduto: in seguito, difatti, scambiammo soltanto qualche lettera, qualche biglietto d'augurio anodino. Lui ignorò la nascita dei miei figli e quando, pochi mesi fa, ebbi notizia della sua morte, nascosi così bene il mio turbamento da parere insensibile. Nessuno poteva immaginare quel che provavo, una struggente gelosia (invidia non è la parola giusta) per chi, ancora una volta, aveva saputo precedermi. Solo i vecchi conoscono questo strano miscuglio di rimpianto, di allarme, di ammirazione per il coetaneo che sparisce di scena e lo lascia solo, in un mondo sempre più rarefatto. Ebbene, io sentivo qualcosa di simile allontanandomi, quel lontano giorno, da Pizzo. L'indomani, durante la strada per Reggio, era come se da anni avessi lasciato Musolino: il ricordo del nostro recente colloquio indietreggiava, sostituito dai tanti episodi dello nostra antica consuetudine che, al contrario, mi sembravano di ieri. Il fischio convenuto con cui mi chiamava dalla strada se aveva necessità di parlarmi; il calore della sua voce, quando, al ritorno da una missione pericolosa, mi accoglieva: «Evviva, tutto va bene, sei un campione». Addio, ripetevo a quella giovane figura remota: se il mio viaggio era valso a richiamarla, così viva e presente, non era stato vano. Ma non dovevo tormentarmi oltre, decisi. Chi ero, infine? Un cospiratore in pensione, un patriota che aveva lasciato il cuore a Montefusco. Esser tagliato fuori dal corso degli avvenimenti era lo stato ideale per rassegnarmi a una smorta esistenza di funzionario onesto. Onesto, ecco il punto, qualcuno dovrà riconoscere chè un "napoletano" è un leale servitore del governo che lo paga. Altro non dovevo pretendere. Indifferente al paesaggio, alla povera gente che incontravo, insistevo: «Tocca, cocchiere»: avevo fretta di arrivare alla mia casa che mi aspettava, mia per modo di dire, e richiamavo alla mente le pratiche in sospeso, le trappole preparate contro gli eterni frodatori, tutte faccende che, due giorni innanzi, mi disgustavano. Un lavoro vale l'altro, mi dicevo. Ero così assorbito da questi propositi
che non feci caso alla paura del vetturino quando traversammo una valle boscosa dove, ci dissero, i briganti si erano ieri scontrati coi regi e li avevano costretti a ritirarsi. Il pomeriggio era avanzato, l'uomo mise i cavalli al galoppo: prendendone nebbiosamente coscienza mi accorsi a un tratto che la notizia mi aveva rallegrato. Ero armato: un breve combattimento, quattro schioppettate e don Domenico avrebbe raggiunto, con la pace definitiva, le certezze che gli erano venute a mancare. «Che ti piglia?» dissi all'uomo «perché sfianchi le tue povere bestie?» Non mi rispose e andava avanti alI'impazzata, eccitandole con la voce e con la frusta. Solo quando fummo usciti dal bosco rallentò e, volgendosi appena: «Non avevate fretta, eccellenza?» borbottò, e ogni tanto mi sogguardava al di sopra della spalla, forse tentando di decifrare il motivo della mia incoerenza. Con la stessa occhiata indagatrice mi scrutò, da allora, ogni volta che gli ordinavo di attaccare per una corsa fuori città. Smontai di carrozza che era già notte, e mi ci volle un notevole sforzo per superare, senza impazienza, il tedio delle trepide domande di Concetta. Non so per quali vie, essa aveva avuto sentore della meta del mio viaggio e spasimava dal desiderio di sapere chi avessi veduto a Pizzo, con chi avessi parlato, in che condizioni era "casa nostra" dopo la confisca, e chi ci abitava adesso. Nessuno dei nostri fratelli aveva messo piede in paese da quando ero stato condannato, ma Concetta aveva seguito appassionatamente le vicende di ogni famiglia del nostro ceto e nomi e nomi le uscivano dalle labbra con ansiosa sollecitudine. Davvero non me ne ricordavo? Le pareva impossibile, non ci credeva: alla fine, scoraggiata e indispettita da tanto disinteresse, mi diede tristemente la felice notte e si ritirò, lasciandomi solo. Nel mio studio stagnava l'aria greve delle stanze chiuse, vetri e imposte erano serrati. Li spalancai e uscii sul balcone che dava sul mare. Respirai. Il cielo, di un cupo azzurro su cui le stelle alitavano un latteo vapore, si curvava dolcemente sino alla linea dell'orizzonte marino; la distesa dell'acqua, appena mossa da un argenteo brulichio, conservava una leggera tinta bluastra e vi danzavano sospesi, quasi giocando, i lumicini dei pescherecci. La presenza, laggiù, di quegli arcaici natanti, guidati da uomini fedeli, qualunque cosa accadesse, al loro lavoro, mi confortò, sciogliendo il duro nodo che da tante ore mi stringeva la gola. Erano bravi, amavano il loro mestiere, lo scarso guadagno non era la sola molla del loro faticare. Musolino poteva disprezzarli, io no. Con questa gente che su un guscio di nave affrontava i capricci del mare, ero sicuro di potermi intendere. Sapevo che erano pronti all'avventura, qualche volta, in mancanza di legni più attrezzati alla caccia del contrabbando, mi ero valso delle loro barche, i pescatori raramente si prestavano a connivenze illegali, non sopportavano le prepotenze, tenevano alla propria libertà. Organizzarli, persuaderli che contribuire a reprimere la frode era giusto e vantaggioso per tutti, mi parve un'impresa facile, una trovata geniale. Se il governo non mi dava fondi per sostenerla, ci avrei rimesso del mio, raffazzonare vecchi battelli arenati sulle spiagge, non comportava spese di rilievo: un po' di legname e di chiodi, qualche secchio di bitume, e la carcassa prendeva il mare; mentre perlustravano le coste, gli uomini a bordo avrebbero continuato la loro industria. Mi convinsi che era un piano eccellente, nessuno poteva trovarci a ridire. Non mi curavo del merito che me ne verrebbe, ma lo consideravo una evasione dalla noia delle meschine pratiche che la mia carica m'imponeva. A lungo rimasi sul balcone, perfezionando con la massima diligenza quanto avevo immaginato: non mi coricai, quella notte, all'alba ero pronto e impaziente di agire. Nei mesi che seguirono, tutto mi andò a seconda, anche gli obblighi familiari a cui mi ero assoggettato mi divennero leggeri, i miei
impegni, la mia alacrità erano così evidenti che fratelli e parentado cessarono di frastornarmi, e sembravano paghi dei miei modesti aiuti; anche la consuetudine dei pesanti conviti propiziatori si rallentò. La sempliciotta Concetta si contentò della sua parrocchia, non vidi più don Gioacchino e i sospetti sulla sua attività borbonica mi uscirono di mente. Ormai mia sorella si era ristretta al ruolo di governante il cui primo compito era di non dispiacere al fratello da cui dipendeva e che, nella sua testa, veniva prendendo la figura di un personaggio indecifrabile. Non era, per me, una compagna, ma una mite bestiola domestica a cui, poco a poco mi sentivo legato: le offrii, ricordo, un abito di seta violetta, tanto per levarla dal nero luttuoso in cui era vissuta. Ne fu sbalordita, quasi spaventata: credo che lo riponesse e non lo indossasse mai. Come avevo sognato, il mio piano non aveva presentato grosse difficoltà, e, fin dall'inizio, si dimostrò efficace. Avevo avuto occasione di accennarvi con un funzionario ministeriale in visita nelle Calabrie e ne avevo ottenuto approvazioni e, al di là di ogni speranza, promesse di aiuti, che, per altro, non vennero. Ma le lodi e i consensi non erano il mio premio, ciò che avevo raggiunto era un senso di autonomia che mi liberava dall'impressione di non essere che una specie di intendente borbonico in una parola un poliziotto. Chi ha portato la casacca dell'ergastolano mi intende. Mi sentivo, adesso, una sorta di capitano di ventura che punisce il traditore e protegge il debole. Una illusione fanciullesca, insomma, che mi rallegrava a dispetto dell'età. Senza giocare d'astuzia, mi lusingavo di conoscere gli uomini e del resto i fatti non mi diedero torto quando concessi fiducia a chi pareva non meritarlo, mentre diffidai di soggetti apparentemente zelanti. Erano soddisfazioni pagate care perché il redento era, in genere, un poveraccio universalmente disprezzato, la cui riconoscenza non mi giovava, mentre l'ipocrita smascherato mi giurava un odio eterno e non pensava che a vendicarsi. Ma il mio orgoglio era tutto riposto nella piccola flotta di cui disponevo, legnetti scassati, ciurme a brandelli che, pescando pescando, si spingevano fra gli scogli, nelle rade più deserte e, sebbene disarmate, riuscivano a impedire lo sbarco di merce clandestina, fuori dei porti. In quei mesi il regio governo si affannava a riorganizzare l'ordinamento delle gabelle che, negli ultimi tempi borbonici, nessuno si curava di pagare. Più volte ero stato consultato e avevo espresso il mio parere, ma intanto ridevo sotto i baffi, i miei pescatori, scorrendo notte e giorno, da Scilla a Melito allo Spartivento, funzionavano a meraviglia e finivano per esercitare un efficace controllo sugli stessi impiegati doganali del vecchio regime, tutt'altro che sicuri ma riassunti alla cieca, per i buoni uffici di notabili altrettanto malfidi. Non mi ero ingannato, per poco che ci si impegnasse a illuminarli i miei pescatori avevano della giustizia e dei diritti dello Stato un concetto preciso e rigoroso che erano fieri di far rispettare. Capitava talvolta che le loro uscite in mare fruttassero più all'erario che al mercato del pesce di cui vivevano: m'ingegnavo allora a provvederli di mia tasca di una minima giornata. Vivevo nella più stretta economia e feci anche qualche debito ma ero più ricco di quanto non sia mai stato, i miei uomini mi volevano bene con una spontaneità intelligente che m'incantava. Mese dopo mese, il reddito delle gabelle su cui a Torino si studiava difficoltosamente, aumentava, i resoconti che mandavo al ministero registravano incassi notevoli. Ero soddisfatto e pieno di speranze, sentivo di riscattare, di fronte ai piemontesi la cattiva fama dei meridionali. Il parlamento poteva rifiutare o accantonare le interpellanze di Musolino e degli altri democratici: ma qui, su questa terra avvilita, i fatti avrebbero parlato. Ebbene, mai avrei immaginato che dalla mia iniziativa, dalla
disponibilità di quella squadriglia di arrembati natanti, mi sarebbe derivato l'ultimo colpo della mala fortuna. Nell'attività quotidiana e nel contatto vivificante con gente semplice e coraggiosa dimenticavo perplessità, tristezze, rancori e persino certe nostalgie per la condizione in cui ero nato, di tranquillo signore di campagna, con moglie e figlioli amorosi. Duro con me stesso in gioventù, col declinare dell'età avevo sentito la mancanza degli affetti familiari e di una vita comoda. La convinzione di aver sofferto invano, la malafede dei patrioti dell'ultima ora, le bande in crescente sviluppo m'avevano ispirato i più neri presentimenti. Ma adesso, non inutile, non rassegnato alla indifferenza di un governo lontano, il veleno dell'amarezza mi era uscito dal cuore. Tardo autunno del '61, pioggia, scirocco, sole. Non stavo bene, negli ultimi tempi avevo abusato delle mie forze, già troppo provate, mi ero nutrito poco e male, malgrado le proteste di Concetta. Ma non mi risparmiavo, la caccia ai contrabbandieri e ai loro favoreggiatori e l'ostilità che me ne veniva, m'impegnavano a una specie di guerriglia che mi impediva di soffermarmi sulle notizie e i commenti maligni diffusi dai giornali del nord. Finita la mia giornata, sul crepuscolo, mi concedevo una lenta passeggiata alla marina o nei sobborghi prossimi alla campagna: luoghi, questi ultimi, semideserti a quell'ora e che il passante occasionale percorreva in sospettosa fretta; e dove le capre, immobili, sembravano antichi spiriti vigilanti. Anastasio Acciariello, ex guardia nazionale passato al mio servizio (era lui che scortava mia sorella alla messa) mi seguiva a distanza, allarmato e tenace. «Eccellenza, voi volete fare il cattivo incontro» mi sussurrava di tratto in tratto. Mi piaceva, prima di uscirne, traversare il centro di Reggio, rasentare le mura del Castello e sostare presso i ragazzetti che giocavano a piastrelle come io avevo giocato davanti alla fortezza di Murat. Poi, alzando gli occhi alle massicce torri rotonde dove, da bambino, avevo visto una volta i soldati borbonici in vedetta, ora sguarnite e nulla più che reliquie di una remota potenza, mi rallegravo pensando che adesso appartenevano a noi meridionali più che a re Vittorio: non lui, ma i Mille le avevano conquistate. Il Castello, il mare, le coste siciliane che in certe sere limpidissime pareva di toccare allungando il braccio, mi riconducevano alle labbra il nome di Garibaldi. Sebbene fisso nel proposito di non occuparmi più di politica, non mi sapevo negare la speranza che qualcosa si agitasse, anche a Torino: sebbene vivessi ritiratissimo, poche parole scambiate per doveri d'ufficio con le autorità militari e qualche frase sfuggita a parlamentari in transito per la Sicilia, me lo confermavano. E se ci si era decisi ad agire per Roma, chi altro avrebbe potuto farlo se non Garibaldi, dotato di un prestigio che lo scindeva come già era avvenuto - dalle responsabilità del governo verso gli alleati francesi? Non ero solo a pensarlo, m'ero accorto che il deputato Cornero, prefetto di Reggio dal gennaio del '61, era del mio stesso parere. Pur non intervenendo alle manifestazioni ufficiali, conversavo volentieri con lui quando lo incontravo casualmente, soprattutto alla marina, dove anche lui amava fare un po' di moto. Era un settentrionale freddo all'apparenza, ma facile ad accendersi contro l'ottusità di funzionari e militari piemontesi, mandati nel mezzogiorno. Era lui a farmi rilevare il trattamento che la plebe napoletana era costretta a subire; i mendicanti malmenati e incarcerati senza ragione, la renitenza alla leva considerata segno di viltà, gli operai malpagati e arrestati se osavano chiedere una più giusta mercede. Ma più di tutto lo irritava la insipienza con cui si pretendeva di combattere il brigantaggio: da una parte negandone l'importanza, dall'altra infierendo senza discriminazione su supposti manutengoli. La sua
bestia nera era il Lamarmora, succeduto nella Luogotenenza al Cialdini di cui era amico. Chiamato in causa, io preferivo tacere, ma il mio silenzio era fin troppo eloquente. In pochi mesi il prefetto aveva saputo guadagnarsi, fra i popolani reggini, simpatia e ossequio: lo sapevo dai miei pescatori che forse gli avevano detto come li impiegavo. Un vero galantuomo, dicevano, ma anche consigliato bene dalla moglie che, sebbene straniera, conosceva e amava molto il nostro paese. Non avevo mai veduta questa signora che non godeva buona salute e usciva raramente di casa. Diverso dai "galantuomini" che non nominano mai la moglie, il Cornero parlava di lei con profondo rispetto: una donna di intelligenza e di cultura eccezionali che prima di sposarsi aveva vissuto lungamente in Calabria e ammirava il carattere dei calabresi. «E' per lei che sono venuto quaggiù» spiegava «il clima del Piemonte non le si confaceva. Qui è rifiorita e sebbene io patisca la nostalgia delle mie Alpi, sono ormai troppo innamorato di quest'aria per desiderare di distaccarmene.» «Mia moglie crede di avervi conosciuto, quand'era ragazza» mi disse sbadatamente un giorno. Mi guardai bene dal chiedergli come e quando, mi limitai a inchinarmi come se in quel momento le fossi stato presentato, la curiosità sulle donne - a parte la mia educazione meridionale - mi è sempre sembrata di pessimo gusto. E davvero non diedi importanza a quella frase che forse si riferiva a un casuale incontro a Napoli, magari in casa Giunti a me familiare fin dalla giovinezza. La signora Cornero doveva essere allora una ragazzina, giacché la sapevo ancor giovane: e come avrei fatto caso a una fanciulletta, in quel tempo di lancinanti problemi settari? Ebbi l'impressione che il Cornero, sebbene avvezzo a tutt'altro costume, intendesse il mio riserbo e in fondo me ne fosse grato. Mai m'invitò a casa sua, mai ebbe l'aria di stupirsi o rammaricarsi perché non mi facevo vedere ai ricevimenti in prefettura. Si stabilì così fra noi una consuetudine che amicizia non era, ma qualcosa di più, quasi ci stringesse un patto segreto, la sottaciuta convenzione per cui ambedue ci stimavamo abbastanza da parlarci come non ci era dato parlare a nessuno, in quella città e in quei tempi che in ogni borghese o nobilastro poteva nascondersi un agente borbonico o, peggio, un informatore della Luogotenenza. In terreno neutro, davanti al mare, eravamo due cittadini di uno Stato ideale, che non somigliava affatto a quello che entrambi servivamo: le nostre riflessioni, ipotesi, aspirazioni, acquisite tanto diversamente (da me, in carcere, da lui sui libri di una biblioteca gentilizia) concordavano a meraviglia. A poco a poco gli incontri alla marina fecero parte della nostra vita quotidiana. Ingenuo per natura e per la lealtà con cui esercitava le sue mansioni, Cornero non ebbe mai il sospetto che le nostre passeggiate serotine potessero dar nell'occhio. Ci pensavo io, per la verità, e più avveduto temevo per lui più che per me: il fatto che non apparivo mai in veste ufficiale accanto al prefetto, mentre mi intrattenevo con lui a lungo da solo a solo, era quel che ci voleva per far lavorare i cervelli sulle possibilità di complotti antigovernativi. Da buon liberale piemontese, il Cornero era moderato e fedelissimo alla monarchia dei Savoia, ma nutriva un vero culto per Garibaldi, e non lo nascondeva. Queste contraddizioni e la sua popolarità fra la povera gente non passavano inosservate e io mi chiedevo se davvero ignorasse la mia fama di repubblicano acceso, legato d'amicizia agli esponenti dell'estrema. Spesso ero stato sul punto di metterlo in guardia, poi avevo riflettuto che il mio modo di pensare doveva essergli chiaro e che, dopo tutto, un prefetto sa quel che fa e non toccava a me consigliargli la prudenza. Tuttavia avrei finito per farlo se quel gentiluomo non mi fosse stato così simpatico e proprio per la sua schiettezza e semplicità, di fronte a cui i miei avvertimenti potevano apparire meschini. Era un uomo curioso: non gli
piaceva il Ricasoli per la sua intransigenza, ma quando parlava della morte precoce di Cavour gli venivano le lacrime agli occhi. Se fosse vissuto, diceva, le incomprensioni fra nord e sud sarebbero sparite e l'unità d'Italia avrebbe un significato autentico e profondo. Ancora si affliggeva per l'insulto del Generale all'adorato Primo Ministro, ma era sicuro che si trattava di un malinteso che quei due grandi avrebbero dimenticato e suggellato colla più leale amicizia, a beneficio di tutti. Avevo, insomma, l'impressione che il soggiorno in Calabria avesse tagliato il Cornero fuori dal suo partito e lo avesse reso estraneo ai propri interessi. Era nordico abbastanza da dissentire dal toscano Ricasoli, ma non da dividere la proverbiale diffidenza dei suoi conterranei per "i poveri napoletani" (così li chiamava citando una frase di Cavour). «Dargli lavoro, case, scuole; e saranno migliori di noi» concludeva con un lampo di letizia negli occhi. Come non commuovermi? In quei momenti la sua voce si addolciva in una cadenza che superava la durezza del suo accento e aveva qualcosa di femmineo. Fin dalla primavera del '62, caduto Ricasoli e seguiti i fatti di Sarnico e di Brescia, il Cornero aveva ceduto a un'esaltazione che mi turbava e mi distoglieva dalle mie spedizioncelle doganali. Deplorava quei fatti, ma riponeva le sue speranze nel Rattazzi che molti giudicavano ambiguo e leggerone. «Ha il suo piano» diceva «non si scomoda Garibaldi colla scusa dei Tirassegni per poi rimandarlo a casa se Napoleone s'arrabbia. Per una volta che abbiamo al governo un uomo risoluto che disprezza il "piede di casa" e i conti di fattoria, si cerca di eliminarlo facendolo comparire un pagliaccio.» La sua eccitazione aggrediva la placidezza dell'aria vespertina, la calma distesa del mare violetto, nella sua voce vibrava una nota stridula che, improvvisamente, me lo rendeva sgradevole. Lo guardavo: i suoi occhi, d'un chiaro azzurro infantile, mi sembravano quelli di un ragazzo infatuato e pericoloso: sentivo gravarmi sulle spalle una esperienza di sventure che raddoppiava i miei anni e dimezzava i suoi. Non consentendo né dissentendo, ascoltavo in silenzio, ogni tanto guardandomi alle spalle, caso mai qualcuno fosse a tiro d'orecchio per raccogliere le sue parole. A dir tutto, non riuscivo a nascondere un certo disagio. Non conoscevo questo Rattazzi, l'unica nozione che ne avessi riguardava la sua fama di ostilità a Cavour: ma di una ostilità interessata e faziosa. Abile, mondano, con quali mezzi aveva conquistato il potere? Non mi pareva verosimile che senza intrighi ci fosse arrivato, costringendo la destra ad abbandonare il severo barone che, con tutti i suoi difetti, era almeno un galantuomo. Infine, l'accordo Rattazzi-Garibaldi che Cornero dava per certo, e che estendeva anche alla segreta connivenza del re, mi sapeva di trucco. Attesi che l'amico sfogasse la sua esuberanza e alla fine, con la massima schiettezza, a voce sommessa e tranquilla gli esposi il mio punto di vista: temevo, insomma che egli s'illudesse, non stava a me ricordargli che il doppio gioco di un alto ingegno politico come il Cavour non si addiceva a un uomo di minor peso, dalle opinioni oscillanti fra una sinistra ipotetica e un centro compiacente alle destre retrive. «Quanto al re» ripresi «ammesso che sia in buona fede...» Non mi lasciò finire: «Il re non si discute» esclamò e quasi urlò; ma già il suo tono aggressivo cedeva, si scioglieva in un ammicco contento, gli occhi gli ridevano, nel celeste dell'iride verdi fibrille di malizia scintillavano. «Tattica» aggiunse «tattica sovrana. A cose fatte, se Garibaldi esagera, c'è sempre il modo di tenerlo buono.» Ero troppo disgustato per ribattere. Ah, è così, pensavo, il solito sistema del limone spremuto e gettato via. Continuammo a camminare in silenzio ritornando sui nostri passi: era già scuro quando ci
stringemmo la mano. L'estate si annunciò variabile e tempestosa, sole feroce, afa, nubifragi. Il porto era deserto e perfino il contrabbando sonnecchiava, i pochi legni doganali e i clandestini di mia invenzione navigavano senza frutto. Il forzato riposo nell'ufficio pieno di mosche non giovava alla mia salute. Il caldo e la spossatezza m'impedivano le mie camminate fuori porta tanto paventate dall'Acciariello: a sentir lui i briganti erano ormai padroni di tutta la campagna intorno a Reggio, forse aveva ragione. Di primo mattino, prendevo una barchetta e, giunto in alto, mi buttavo in mare. Ma non ero più il nuotatore di una volta e constatarlo non mi faceva piacere. Costretto a questa vita dimezzata e accidiosa, la mia attenzione tornava fatalmente a rivolgersi alla politica: di nuovo perlustravo i giornali, sempre vecchi di tre o quattro giorni, cercando, attraverso notizie e commenti, di scoprire cosa si andasse preparando. Secondo loro, tutto andava per il meglio, il brigantaggio perdeva quota, il lealismo dei nuovi sudditi era perfetto, Garibaldi pensava alla sua salute riposandosi a Belgirate presso l'amico Cairoli. A giudicare dalla faccenda delle bande, realmente in pieno sviluppo e sempre più temerarie, non c'era da credere una parola di quelle cartacce ministeriali. Da tempo avevo tralasciato il passeggio alla marina, frequentatissimo, nelle sere d'estate, dalla "buona società" locale. Ma non era solo questo il motivo che me ne distoglieva, ciò che temevo era incontrare il Cornero, con la sua irresponsabile infatuazione per il re, Rattazzi e un suo Garibaldi di comodo. Non l'avevo più visto; ma, passando i giorni, cominciai a sentire la sua mancanza o meglio la mancanza delle notizie riservate che la prefettura riceveva dal ministero e che lui mi comunicava spesso, in stretta segretezza. Decisi dunque di riprendere la vecchia consuetudine, ma senza frutto: venni a sapere che il prefetto era assente, partito improvvisamente per Torino, e non era prevista la data del suo ritorno. Almanaccai parecchio su questo viaggio che forse era un richiamo e poteva preludere a una misura disciplinare. L'ipotesi mi pareva ragionevole, qualcuno aveva spiato il nostro confabulare e ne aveva riferito. Me ne dolsi per il Cornero e riflettei ai casi miei, la mia schedina politica era nota e già compromettente per un funzionario che aveva giurato fedeltà al governo: a quei tempi ogni democratico era in odore di rivoluzionario. A questo punto ebbi la netta percezione che la mia squadriglia di doganieri volontari poteva apparire sospetta, concepita per fini illegali: ecco, mi dissi, il risultato di uno zelo che nessuno mi domandava. Tutto considerato, la prudenza mi consigliava se pure ero in tempo - di liquidare la mia impresa, rompere i contatti coi poveri pescatori, abbandonarli al loro destino di affamati. E tanto peggio se il contrabbando prosperava. Ma il Cornero ritornò, più prefetto di prima: però non si fece vedere, né io ero il tipo da andarlo a cercare, tanto più che le preoccupazioni di quei giorni mi avevano del tutto divezzato dal desiderio d'interrogarlo su quanto si fucinava in Piemonte. Più duro mi fu dichiarare ai pescatori che non avevo più bisogno di loro: avviliti, essi mi chiedevano in cosa avessero mancato ed era una pena fingermi burbero e impaziente alle loro proteste. Mi compensai di quello scacco infierendo con la più aspra severità sui miei impiegati, il minimo fallo, il più lieve indizio di scorrettezza o negligenza mi trovava inesorabile. Mi bastava pensare che di quella gente pigra, corriva agli abusi borbonici, il nuovo governo si fidava, per difendermi dall'indulgenza e persino dalla pietà. Il loro lamentoso ossequio, le loro adulazioni mi disgustavano, erano servi per vocazione, da chiunque dipendessero e pronti a tradire il padrone: il fatto stesso di comandarli mi contaminava. Rinacque in me il disagio dei primi tempi, quando mi consideravo un poliziotto pagato; e di
nuovo mi tormentavo, almanaccando il modo di liberarmi. Avevo visto chiaro, il vero motivo del mio accordo coi marinai era il distacco dai doveri impostimi, l'illusione di essere un autonomo difensore dei diritti dello Stato. Rinunciarvi significava piegarsi alla condizione di inutile burocrate che registra i mali ma lascia ad altri, scetticamente, il compito di sanarli. Caldo e malinconie: una febbretta intermittente mi teneva in casa da una settimana quando mi giunse l'invito - che era piuttosto un ordine - a prender posto fra le autorità civili che offrivano, in prefettura, un trattenimento a un gruppo di ufficiali dei bersaglieri, arrivati col loro corpo a presidiare la città: un eufemismo che mascherava la necessità di una più intensa caccia alle bande. Preoccupata per la mia salute, ma eccitata per la solennità della circostanza, Concetta attaccava alla mia marsina il ciondolo delle decorazioni, mentre il barbiere, brandendo le sue forbici, scherzava, lusingatissimo di acconciare il signor Intendente. «Perché non la smettete, eccellenza, con questa barba da cospiratore? Non si usa più, i piemontesi sono tutti sbarbati. Vedete, chi v'incontrasse per la campagna potrebbe scambiarvi con un brigante.» Non so perché ricordi queste sciocchezze, forse perché la febbre mi rendeva inerte e ricettivo. In piedi, compunta e un po' seccata per quella confidenza, mia sorella aspettava d'infilarmi la marsina. Mai vidi gale più goffe e grottesche di quelle con cui, dopo il plebiscito, si pretendeva celebrare, nel sud, l'unità italiana. Nere giamberghe stazzonate, dorature militari, broccati dei tempi di Maria Carolina, dimostravano a esuberanza la difformità dei costumi, dei caratteri, della storia che ogni invitato recava con sé, irrimediabilmente dipinta nei volti, nei gesti, nei tentativi di approccio; per non dire della lingua con cui le conversazioni si avviavano e rimanevan sospese alla impossibilità d'intendersi e soprattutto di rispettarsi. Nuovo a simili spettacoli, li confrontavo ai miei sporadici ricordi di salotti napoletani, dove il fasto era speso con una disinvoltura e un estro un po' eccessivi, ma da gran capitale. Qui, l'imbarazzo dei notabili e delle loro donne era pari all'impettita alterigia degli ufficiali, sbalorditi e diffidenti, ristretti in gruppi, quasi a difesa. Nel frastuono delle voci meridionali, essi comunicavano fra loro così sommessamente da parer sordomuti che s'intendessero a cenni. Nell'aria torrida, sudori asprigni, tanfo di panni rinchiusi, profumi violenti e dolciastri: persino la freschezza delle ragazze affocate perdeva ogni attrattiva. Dall'anticamera mi ero affacciato al salone gremito, deciso a fare atto di presenza e ritirarmi appena possibile. Timido di natura e avvezzo alla solitudine, m'ero aspettato di patire un imbarazzo disdicevole a un uomo della mia età. Ebbene, ciò che provavo era tutt'altra cosa, un disagio, un rossore per conto d'altri: quei nuovi italiani che in carcere avevamo favoleggiato fratelli, uniti in una comune esultanza; ed eravamo degli sciocchi, dei faciloni imperdonabili. Di averli sognati così mi vergognavo e la timidezza che da giovane mi aveva tanto afflitto si era sciolta in un'arida sicurezza di contegno, indice che della mia persona e di quel che la gente ne pensasse non m'importava più niente. Appartato accanto a una finestra dai pesanti tendaggi, era solo come a casa mia e riflettevo che la timidezza è presunzione, paura di non essere stimato abbastanza; e la modestia non è una virtù ma sfiducia di sé e rovello presuntuoso. Così, per passare il tempo e difendermi dal tedio, andavo filosofando, quando mi sentii premere il braccio e mi voltai: avevo alle spalle la faccia olivastra di Musolino. Incravattato o, piuttosto, incartocciato nel bianco crudo dello sparato, sogghignava dalle labbra taglienti e dagli occhi a fessura che l'età gli aveva regalato. «Che ne dite, eh, don Domenico, per i nostri galantuomini
Franceschiello e Vittorio sono tutt'uno, pur che si serva!» La sorpresa e un improvviso dispetto m'impedirono di rispondere e di dargli la mano, la mia saggezza si sentiva vulnerata da quell'inutile sarcasmo. La pensavo come lui, ma non mi piaceva constatarlo, inoltre il ricordo del nostro freddo incontro a Pizzo mi tornava a gola. A che recriminare, ormai? Eravamo due vecchi relitti che i tempi avevano superato, meglio tacere che borbottare rancorosamente senza scopo. Pochi istanti: e già Benedetto indietreggiava, sospinto da un gruppo di tumultuosi invitati. Non so come, scomparve, quasi la sua antica abilità di cospiratore, insuperabile nel far perdere le proprie tracce, vivesse ancora in lui; servisse ancora a qualcosa. Spesi qualche minuto a cercarlo, fendendo la calca e tenendo d'occhio l'uscita, ma fui bloccato da una siepe di militari che a un tratto si aprì, e ne emerse la figura elegante del Cornero. Non c'erano dubbi, deliberatamente mi veniva incontro tendendomi la destra, per un lungo momento fui la persona su cui tutti gli occhi puntavano. Non potevo sottrarmi, con un gesto grazioso egli mi guidava verso un ufficiale superiore dai larghi galloni dorati, un generale: che era il generale Cialdini. Con le solite fastidiose lodi - insigne patriota, martire del tiranno borbonico - gli venni presentato: la mano che stringevo inchinandomi aveva vergato una lettera d'insulti a Garibaldi, a difesa di Cavour. Il sangue mi si rimescolava e qualcosa, nel mio aspetto, dovette tradirlo se, rialzandomi, mi vidi fissato intensamente, per non dire ansiosamente, da due occhi castani, un po' cerchiati e tuttavia di un'estrema limpidezza. Li conoscevo, anzi li riconoscevo, ma dove mai e quando mi avevano guardato con altrettanta sorprendente familiarità? Nella sospensione che seguì, non mi accorsi che il Cialdini era già lontano, riassorbito nel gruppo degli ufficiali, e che Cornero mi presentava a sua moglie, pallido viso, labbra esangui ma argutamente sorridenti quasi a inizio di un discorso scherzoso. Non ebbe il tempo di parlare, qualcuno le sussurrò all'orecchio, e via se n'era andata, con un cenno leggero del capo, verso il fondo della sala. Ero libero, potevo tornarmene a casa, ma adesso non ne avevo più voglia, avrei gradito sedermi e aspettare non sapevo che cosa. Malgrado l'afa rabbrividivo, capii che la febbretta rinforzava. Una febbre maligna, infatti si dichiarò, curata con salassi da ignoranti praticoni e, meglio, dai decotti della allibita Concetta. Negli intervalli mi riusciva di canzonarmi quasi lietamente: eccomi fuori corso, una vera benedizione per i contrabbandieri, questa malattia, scommettevo che ne avevano accese candele alla Madonna e ai Santi. Cominciavo a sperare di cavarmi d'impaccio abbandonando alla terra natale la mia disgraziata pellaccia, ma essa era tanto dura che la febbre cadde, improvvisamente, com'era venuta, lasciandomi debole ma come rinnovato, purgato e persino soddisfatto di vegetare. Fu il tempo migliore della mia convivenza con Concetta, felice di prepararmi vivande leggere e sostanziose e di potermi chiedere ogni mattina, senza che me ne impazientissi, se volevo carne o pesce a pranzo. La lasciavo chiacchierare di Pizzo e di Chiaravalle, di piccoli episodi della nostra infanzia, ogni tanto facendole qualche domanda svagata a cui lei rispondeva con minuziosi ragguagli che mi divertivano. Non era stupida, povera figliola e io mi rimproveravo di averla trattata più da governante che da sorella, ripromettendomi d'intrattenermi più spesso con lei, e in certo modo di coltivarne, sebbene così anziana, l'intelligenza. E un altro capriccio m'era venuto: nell'impossibilità di applicarmi troppo alla lettura che mi affaticava la vista, prendevo appunti sui ricordi che via via mi venivano in mente: non già quelli del carcere, ma della fanciullezza e dell'adolescenza. Fra questi cercavo di collocare gli occhi di madama Cornero. Ma la memoria frugata restava inerte e silenziosa. Per la prima volta mi cullavo in una levità irresponsabile di
convalescente: ancora mi scuote l'urto con cui essa si scontrò ed ebbe fine. Avevo sulle ginocchia il vassoio del caffellatte, e svogliatamente la mano mi corse, invece che alla tazza, alla pila di giornali che durante la malattia si erano ammucchiati sul tavolino. Forse il gesto mi fu suggerito dalla voce dello strillone che gridava: «Il Calabrese», una voce stranamente lamentosa. Raccattai dal mucchio l'ultimo foglio e lo spiegai: era "La Nazione" di Firenze a cui un impiegato statale poteva abbonarsi senza dar luogo a critiche. I titoli della prima pagina non mi interessano, passo alla seconda: il corrispondente da Torino parla come di cosa già avvenuta della reazione della Camera allo sbarco di Garibaldi in Sicilia e al suo discorso di Palermo, presente il prefetto Pallavicino, colmo d'insulti per l'imperatore francese. In altro luogo il giornale riportava l'indignata interpellanza al governo del deputato Boggio. A Firenze, aggiungeva, si arruolano apertamente volontari garibaldini. Fui colto da un'agitazione estrema, le sillabe mi ballavano davanti agli occhi, volevo vestirmi, uscire e Concetta accorsa mi sospingeva verso il letto temendo un nuovo attacco febbrile. Ma le gambe poco mi reggevano, dovetti contentarmi di scorrere l'uno dopo l'altro i vecchi giornali e così ricostruire quanto era avvenuto durante la mia malattia: l'improvvisa partenza di Garibaldi da Caprera per ignota destinazione, l'arrivo in Sicilia; nonché le varie interpretazioni dei fatti. Quando mi riuscì di calmarmi avevo in bocca un sapore dolciastro di fior d'arancio, la pozione che Concetta mi aveva fatto trangugiare senza che me ne accorgessi. La rassicurai e ottenni di essere lasciato solo. Una cosa avevo capito: Rattazzi oscillava in una incertezza sconcertante, un giorno sconfessando il Generale, il successivo lasciando sospettare che, sotto sotto, gli tenesse mano e aspettasse, per decidersi, il corso delle operazioni. Il solito gioco di Cavour e che corrispondeva appuntino con quanto il Cornero mi aveva manifestato nel nostro ultimo incontro sul mare. Poterlo vedere, il Cornero, potergli parlare. Stavo per mandargli un biglietto, certo non ignorava che ero stato malato e una sua visita si giustificava. Poi mi ravvisai, ormai il dado era tratto, quel che mi premeva era ristabilirmi del tutto per essere pronto. A che cosa non sapevo, ma le intenzioni di Garibaldi erano chiare: «O Roma o morte». Questa volta ci siamo, addio scartoffie: pensavo all'ottimo fucile di cui ora disponevo e mi sentivo eccitato come un ragazzo. Dal giorno dopo ritornai al mio ufficio in dogana e dalla finestra spiavo a lungo il porto, le poche navi all'attracco, il braccio di mare che ci divideva dalla Sicilia: nella placidezza delle acque, nell'immobilità dei legni, nel torpore della costa soleggiata sentivo covare la tensione di una vigilia. Col mio cannocchiale di marina seguivo il cammino dei battelli lontani, palpitando se si avvicinavano a noi, deluso quando sparivano a destra o a sinistra. Sarà per domani, per dopodomani, mi dicevo: voci accreditate davano per certo che Garibaldi si avvicinava a Catania, che in un alternarsi di mosse contraddittorie i soldati regi stanziati nell'isola avanzavano verso di lui per impedirgli il passo, poi finivano per presentargli le armi. Mi convinsi che Cornero aveva ragione nel prevedere la manovra del governo, re e Primo Ministro. Con una lentezza esasperante trascorrevano le giornate d'agosto e il cader rapido della sera, i frequenti temporali che sconvolgevano lo stretto facevano presagire un autunno inclemente: quel poco spazio di mare divenne una muraglia da cui le notizie filtravano a stento, distorte e deludenti. Tutta la città si era fermata in un'attesa che di ora in ora si faceva più torpida, più scettica. I fedeli del Borbone sorridevano malignamente insinuando che si sarebbe finiti con una guerra civile, favorevole alla pressione dei capibanda: «Guardate
a che ci hanno ridotti». La povera gente disordinata e troppo spesso delusa, cedeva all'inerzia, nessuno lavorava più che il puro necessario a procurarsi il boccone quotidiano; il prefetto non dava segno di esistere e i soldati, sconcertatissimi, si gingillavano lugubremente in caserma. Alla mia finestra mi arrovellavo, quei cavalloni verdastri non promettevano nulla di buono per chi tentasse di approdare di sorpresa. Perché Garibaldi non si era mosso prima che la stagione volgesse al maltempo? Cosa gli avevano combinato, laggiù a Catania? Mi tornavano in mente le sentenze di mia madre che giudicava i siciliani "mala gente", pronta a profittare delle disgrazie del vicino e a mutar bandiera. Costretto all'inazione, non pensavo più al contrabbando e se mi capitava d'incontrare qualcuno dei pescatori che mi avevano servito, appena gli rendevo il saluto, evitando i suoi sguardi interrogativi. Cosa contavano ormai le mie personali iniziative contro le piccole frodi? O Garibaldi sbarcava e riusciva a sfulminare fino a Roma, e allora - così mi lusingavo - tutto sarebbe rimesso in discussione, dal trionfo di una vera democrazia alla riorganizzazione dei servizi pubblici; o falliva... e a quel che sarebbe successo non valeva la pena di pensare. A un tratto, il tempo si rimette, cielo terso, mare placidissimo, il profilo della Sicilia disegnato in ogni particolare. Vedo all'entrata del porto una mezza dozzina di barconi che stavano rientrando dalla pesca notturna, li riconosco uno per uno, a bordo ci sono i miei marinai. Non so resistere, in un lampo discendo, sono alla riva dove un canotto si molleggiava, quasi aspettandomi. Ci salgo e rapidamente li raggiungo. Tutti mi fanno festa e io passo la mattinata a ispezionare ogni legno, assicurandomi che sia in condizione di navigare sotto carico. Perché lo faccio? Ho la sensazione di obbedire a un ordine, ma non mi do spiegazioni e lascio che gli uomini pensino quel che vogliono, del resto nessuno m'interroga. Era il 20 di agosto. «Una corsa vertiginosa.» «Quale corsa papà?» Si china su di me la mia piccola Teresa che ha raccolto parole non destinate al suo orecchio. Stento a raccapezzarmi, ho dormito, ho sognato e il sogno ha rotto il mio silenzio di scribacchino egoista. Sorrido debolmente. Come spiegarti, Teresa, che sebbene sveglio, sto ancora volando trascinato da un vento che appena mi permette di scorgere, lontana, la tua faccina pallida. Tu sei ferma nel presente, io volo su un passato che non mi concede ritorno. Non è la prima volta che mi astraggo e quasi mi distacco dal suolo con l'intenzione di afferrare nei suoi esatti contorni il paesaggio della mia vita: mai però così intensamente come oggi che, in sogno, stavo per coglierne un punto preciso, quello che più mi preme e mi brucia. Ero sul mare, vi distinguevo barche con piccoli fantocci, io ero uno di loro, libero, in apparenza, ma invece misteriosamente guidato e come spinto alle spalle. Chi crede al destino m'intende: mi stavano accanto creature elementari e io solo avevo in mano la bilancia del giusto e dell'ingiusto, quanto dire la responsabilità della loro vita. Coloro che, in seguito, ebbero cognizione dell'atto che stavo per compiere o sono morti o hanno dimenticato, i superstiti mi direbbero: datti pace, non ti angustiare per cose sepolte. Forse riderebbero. Ma io non so riderne, un uomo non ha che una coscienza e con quella deve fare i conti, anche se non tratta affari di Stato. Da giocatore impenitente ho gettato ancora una volta i dadi e ho perduto. Se, fin da principio, me ne fossi stato a guardare chi vinceva, sarei oggi un gentiluomo campagnolo, sicuro di lasciare ai miei figli di che vivere. Ma non di questo m'importa, il mio problema non è l'infortunio che mi toccò, bensì se abbia agito da saggio o da stolto. Quella notte di tardo agosto. Dopo la visita ai battelli, ero rientrato direttamente in casa, senza passare dalla dogana: ne avevo abbastanza di speculare l'orizzonte anche sulle barche non avevo
gettato uno sguardo verso la costa siciliana. In silenzio, gli uomini mi avevano lasciato fare, mentre accudivano al trasbordo delle ceste col pesce; ma non m'era sfuggito che i più giovani si davano di gomito osservandomi di sottecchi: essi tenevano per certo, come molti in città, che io fossi direttamente informato sulla vicenda garibaldina. Mangiai un boccone e andai a letto per la siesta pomeridiana di cui avevo ripresa l'abitudine. Dormii a lungo e così profondamente che, svegliandomi, non mi rendevo conto se fosse sera o mattina. Apro la finestra: il bel tempo si manteneva. Uggito, la testa pesante, mi vesto e le gambe mi portano al mare. Prima di arrivarci, un ragazzotto mi si fa incontro correndo, spiccica appena le parole, è tutto affannato. «Ci siamo» mi dice «Garibaldi si è imbarcato su due vapori francesi, all'alba sarà qui.» «Storie» gli rispondo malgrado un maledetto batticuore «comunque sta zitto, non sono fatti nostri.» Gli volto le spalle e lui mi grida dietro: «Che facciamo, eccellenza?». La città era deserta, niente passeggio, botteghe chiuse, sebbene la giornata fosse stata calda. Non c'eran dubbi, la voce dell'imminente sbarco si era diffusa e la gente si era tappata in casa. Questo sbarco tanto atteso, me l'ero figurato fra l'applauso della popolazione accorsa nelle strade e l'esultanza dei volontari calabresi: a ogni passo la città mi pareva più cupa, quasi sinistra. Da occidente vedevo intanto avanzare una densa cortina di nubi, nel cielo blu le stelle scintillavano con un fulgore minaccioso: temevo che il tempo stesse di nuovo per mettersi a burrasca. Salii lentamente le mie scale, girai la chiave nella toppa: Concetta non mi aspettava così presto e sobbalzò scrutandomi impaurita, anche lei doveva sapere qualcosa di quel che si preparava. Rifiutai di cenare e mi chiusi in camera dove passai la sera passeggiando in su e in giù. Tentavo di ragionare freddamente, sbarcasse o no Garibaldi quella notte o nei giorni successivi, la cosa non mi riguardava: il proclama del re che servivo, la sua severa ammonizione, la presenza di Cialdini a Reggio mi consigliavano la prudenza, né a me spettava arbitrare se sotto le dichiarazioni ufficiali non si nascondesse una segreta connivenza fra il governo e il Generale. Guardavo l'orologio: le nove, le nove e mezzo, le dieci. Saranno davvero partiti? Mi toglievo la giacca, mi sbottonavo il panciotto, deciso a coricarmi. Ma invece di spogliarmi del tutto, tornavo alla finestra da cui, sporgendomi, potevo scorgere uno spicchio di mare fra i tetti. Il paese era nero, nessun lume trapelava dalle case, i reggini, malgrado l'afa, avevano serrate anche le imposte. Mi volgevo in su: meno male, il cielo era sereno; tendevo l'orecchio al ritmo della risacca, la respiravo, il mare era calmo, quel che ci voleva per una navigazione tranquilla e un approdo silenzioso. Ma poco arrivavo a distinguere, dal mio esiguo osservatorio, fra l'altro m'impensieriva un lumicino che appariva e spariva a pause regolari: non era una lanterna peschereccia, pareva piuttosto un segnale. Una vedetta della regia marina? Un legno garibaldino che trasmetteva un ordine a qualcuno sulla costa? D'un colpo non sopportai più quell'ansioso vigilare, nel buio le parole del mozzo: «Cosa facciamo?» mi ossessionavano. Saranno sciocchezze, mi scusai, ma come funzionario ho il dovere di sorvegliare il porto. Affidato a quel pretesto puerile, in un lampo mi rivestii, scesi in punta di piedi le scale, uscii all'aperto. La brezza notturna mi rinfrancò. Presi a camminare meccanicamente verso la marina, gli unici viventi erano mendicanti addormentati stesi sul selciato e sui gradini: badavo a scansarli e proseguivo. Ma non sapevo persuadermi che, per pavidi che fossero i cittadini, non incontrassi qualche sincero patriota che certo non sarebbe rimasto in casa se Garibaldi fosse davvero sul mare. Li conoscevo, ma non li frequentavo per risparmiar fastidi a loro e a me. No, se lo sbarco fosse imminente non starebbero con le mani in mano, li avrei già
trovati. Affretto il passo, mi è nato il sospetto che non qui, ma su qualche punto poco distante della costa sia concordato lo sbarco. Istintivamente mi dirigo verso l'insenatura dove i pescatori usavano approdare e tirare in secco le barche: sul greto solo i miei passi risuonavano, ma presto avvertii un alterno scalpiccio di piedi scalzi, ombre mi precedevano e mi seguivano. Capii di che si trattava, i pescatori si eran dati convegno e difatti, come sboccai sulla spiaggetta, distinsi, malgrado il buio, vari gruppi che parlottavano discutendo. Fui riconosciuto, attorniato, un'ispida barba mi si avvicinò all'orecchio: «Bisogna partire subito, eccellenza, sbarcheranno a Melito come l'altra volta, se ci spicciamo arriveremo in tempo». Chi parlava era un anziano nostromo, tipo calmo ed esperto a cui ero solito affidare le spedizioni più difficili. Nessuno pareva stupirsi della mia presenza in quell'ora e in quel luogo; aspettavano semplicemente che prendessi una decisione, che dessi ordini, ma in quell'attesa - così percepivo - era implicito un giudizio pendente. Gli avevo tanto parlato di Garibaldi, amico del popolo, e della guerra imminente; perché tacevo, perché esitavo? Erano nel giusto, la stagione della prudenza era scaduta e l'opinione di quei marinai contò per me assai più del mio avvenire. Mi concessi soltanto un ripiego da nulla, ne avrebbe sorriso un bambino: certi ladroni greci, dissi, stavano trafficando tabacco nel porticciolo di San Gregorio, bisognava sorprenderli. Un amico non mi avrebbe perdonato quel sotterfugio poco dignitoso ma quei poveri uomini erano avvezzi a compatire chi ha necessità di nascondere le proprie debolezze: zitti zitti si affrettarono alle manovre, San Gregorio è sulla via di Melito. Naturalmente m'imbarcai e proprio sul legno del vecchio nostromo che guidava la flottiglia. Tacite procedevano le barche a lumi spenti, alternando i remi alle vele quando il vento mancava. Nessuno fiatava neppure per bisbigli, le chiglie scivolavano sull'acqua con un lieve sciabordio che si univa al respiro del mare. Una navigazione fin troppo perfetta, pensavo, mentre dalla cupezza del cielo senza luna cominciava a svampare quel lucore che è come un ricordo del sole perduto e che ci permetteva di distinguere gli accidenti della riva che costeggiavamo, a mezzo miglio di distanza. Per quanto i nostri occhi spaziassero né sagoma di nave né lumi apparivano, macchie biancastre e qualche pallidissimo fuoco sulla costa segnalavano i paesetti addormentati. Il vento rinforzava, volavamo: passò San Gregorio, né io né gli uomini rammentammo la storia dei ladroni greci, il timoniere continuò tranquillamente la sua rotta e via scorrevamo verso la punta del Pellaro, dietro cui ci si aspettava di scorgere i vapori francesi. Una volontà comune ci spingeva più delle vele, sparivano la stanchezza, la preoccupazione, si ricominciava a parlare a bassa voce scambiando domande osservazioni consigli. Seduto accanto al timoniere ero tanto assorto nella manovra da non chiedermi se ero un funzionario dello Stato o il capo di una ciurma piratesca. In un certo senso ero freddo, non provavo l'esaltazione di un ragazzo avventato, ma la soddisfazione di chi, dopo un cammino tortuoso, sbocca sulla strada maestra e la segue senza esitazioni. Mi ero mosso a tentoni, ora sapevo quel che avrei fatto: da semplice volontario mi sarei unito a Garibaldi fino a Roma, contro piemontesi e francesi. Questa volta nulla avrebbe potuto trattenermi, non avrei perduto un'occasione di combattere, di obbedire: il mio vecchio sogno frustrato da troppe tristizie. Solo l'impazienza mi tormentava e lo intuì il nostromo. «Ancora non si possono vedere» disse quasi rispondendomi «bisogna doppiare il Capo dell'Armi.» Gli avevo posato la mano sulla spalla mal coperta da uno straccio di camicia; me ne veniva una forza di cui avevo bisogno. Ne avevo bisogno davvero se, di lì a poco, un nuovo assalto di pessimismo mi piombò addosso col peso di tutti gli scrupoli che mi ero
illuso di aver superato. La notte mi parve di una lunghezza inverosimile, un baratro senza tempo che ci avesse inghiottiti. Il vento era caduto, l'aria aveva la densità greve di un ambiente chiuso, l'acqua nera e senza riflessi pareva una sostanza vischiosa che resistesse allo sforzo dei vogatori: a momenti mi giungeva l'afrore dei loro corpi sudati e mi dicevo che non si arriverebbe mai, la barca mi sembrava ferma. Nella fretta di rivestirmi, avevo scordato a casa l'orologio, sicché, ogni poco, chiedevo l'ora al timoniere, lui alzava gli occhi al cielo e da buon marinaio la leggeva nei moti delle costellazioni. Adesso i dubbi mi schiacciavano: la sola notizia sicura giunta a Reggio consisteva nella presenza di Garibaldi a Catania dove, si diceva, il popolo era tutto per lui. Va bene, due vapori sono presto trovati, se le navi da guerra piemontesi non si oppongono. Si saranno opposte, all'ultimo momento? Ma quel che non mi persuadeva era il luogo dello sbarco, Melito, dove era avvenuto quello del '60, e dove, verosimilmente, le truppe regie erano all'erta. I miracoli non si ripetono che nella fantasia popolare, con tutta la sua ingenuità temeraria Garibaldi non poteva sfidare sino a quel punto il buon senso e la segreta connivenza - sempre opinabile - del governo. Ed ecco che malgrado la mia esperienza di anziano io mi mettevo a barcheggiare nottetempo, trascinato dai discorsi di una mano di poveretti che non sapevano nulla del proclama del re, del doppio gioco di Rattazzi. Avrei dovuto, invece, fermarli, metterli in guardia contro le illusioni che proprio io avevo alimentato. «Mollate i remi, eccoli»: la voce del nostromo era così tranquilla che sul primo momento non ci feci caso, tanto ero oppresso dai miei tardivi rimorsi. Un istante: e già tutti si affannavano «dove, dove?» seguendo con lo sguardo la direzione del suo braccio steso. Allora scorsi, a forse mezza lega da noi, due scure masse coi loro alberi e una appariva un poco inclinata sul fianco. «Sono nei guai, hanno dato fondo» osservò il nostromo con lo stesso accento calmo e discorsivo «troppo carico.» In quel momento un canotto emerse dalla foschia sfiorandoci. «O Roma o morte» suonò una voce che mi parve di riconoscere. «Voi chi siete?» Se il carcere raggruma il tempo sottraendo al prigioniero il computo degli anni che la natura gli aveva destinati, l'azione spezzetta le ore tramutandole in anni: qualcosa come la moltiplicazione dei sette pani nel deserto. Questa verità sperimentai in quella notte memorabile che mi parve una intera vita a compenso di tante stagioni indistinte. Parlavo, davo ordini, i miei barconi arrancavano scorrendo dai vapori a terra, da terra ai vapori, i volontari, scarsi di scialuppe, si raccomandavano, eravamo carichi sino all'inverosimile, l'orlo delle fiancate a pelo dell'acqua. Il cielo, ora fosco di nubi, allontanava il primo chiarore dell'alba, e noi vedevamo nel persistere del buio un magico segno di complicità, un nuovo prodigio operato dal Generale. Neppure i marinai, così sensibili alle avvisaglie del cattivo tempo, si preoccupavano di quella spessa coltre di piombo che il presentimento del giorno illividiva. Come ragazzi in vacanza scherzavano con i volontari, si divertivano a vederli saltare goffamente nelle barche e magari cadere in mare dove subito li acciuffavano, malgrado l'acqua scura e la inefficienza delle lanterne schermate. E anch'io ridevo. Ero fra i miei unito a quelli che la pensavano come me, finalmente. Non m'ero sbagliato riconoscendo nel grido "Roma o morte" la parlata di Nicotera e la gioia che ne ebbi dissipò ogni sospetto sul suo conto. La confusione era tale che non si distingueva il vecchio compagno di fede dallo scamiciato picciotto, tutti si abbracciavano e più volte mi capitò di stringere al petto uno sconosciuto scambiandolo con un amico che chissà dove si trovava. Immaginavo che tutti i volontari del '60 partecipassero alla nuova
spedizione, li cercavo ostinatamente, sicuro che li avrei trovati fra un minuto o fra un'ora. Soltanto più tardi seppi che molti di loro avevano disapprovato quella che chiamarono la follia di Garibaldi. Le liete notizie, intanto, si succedevano. Che proclama, che stato d'assedio! A Paternò un battaglione schierato contro i volontari aveva acclamato i garibaldini dopo che un maggiore si era ristretto a colloquio col Generale; l'ammiraglio Albini, sulla sua nave da guerra, era rimasto impassibile quando era avvenuta la cattura dei due vapori. Dunque non ero un ribelle, avevo interpretato giustamente le intenzioni del governo che servivo. «Ma dov'è Garibaldi?» ripetevo, ansioso di stringergli la mano e mettermi ai suoi ordini. Si era fatto giorno, un giorno quasi invernale, una pioggia fitta e maligna inzuppava gli uomini e i bagagli ammassati sulla riva: non esistevano ripari, non mezzi per preparare bevande calde, su certi monticelli di detriti e immondizie, a un trecento passi dalla riva, pochi pastori avvolti di pelli, sogguardavano immoti e arcigni, nessun soccorso poteva sperarsi da loro. A gruppi, i volontari si stringevano l'uno all'altro come tentando di proteggersi così dalla pioggia e scaldarsi: quelli che nell'oscurità mi erano parsi baldanzosi e allegri, avevano adesso un'aria avvilita e sofferente, visi pallidi, miseri panni fradici. Ne scendevano ancora dalle barche, affondavano nell'acqua sino alla cintura e grondanti correvano verso i compagni. In quella folla non c'era nulla di eroico, erano piuttosto naufraghi che soldati, i loro moschetti erano pesanti, di vecchio modello, evidentemente raccapezzati, non scelti: agli ordini che s'incrociavano con un disordinato vocio, si rimescolavano come un gregge testardo. Infine un grido: «Arma in spalla, in colonna, si marcia su Reggio!». Fu allora che vidi Garibaldi: e di nuovo fui colpito dalla sua piccola statura, ma non da quella soltanto. Aveva una faccia accigliata, più cupa che a Napoli, troppo diversa dal volto chiaro e sereno di Cosenza: la sua voce si perdeva, a tratti, nel frastuono delle onde che avevan cominciato a muoversi. Mi ero seduto in disparte su una duna sabbiosa: mi sembrava di non conoscere più nessuno fra quella gente, né Nicotera né gli altri che pur vedevo affaccendarsi, correre, consultarsi. Mi sentivo un intruso un po' ridicolo, un arnese inutile anche ai miei marinai che, dopo tante fatiche, eran risaliti sui loro battelli e non sapevano se aspettarmi o rientrare. Non pensavo più a presentarmi al Generale, avevo fatto quel che potevo e la ragione mi suggeriva che un volontario come me era più un impedimento che un aiuto. Ora le colonne si erano formate e accennavano a incamminarsi. Che accoglienza troveranno a Reggio? mi chiedevo, come procurargli viveri? Ed ecco una scarica di fucileria crepitò, ci fu uno sbandamento e chi gridava «i piemontesi», chi con gran gesti si affannava a rassicurare, a riordinare le file. Garibaldi aveva puntato un lungo cannocchiale dalla parte di terra, poi diede un ordine che non sentii, ma che mi raggiunse, ripetuto da quelli che lo circondavano: «All'interno, dirigersi all'interno!». Ebbene, tante volte mi era successo di designare, fra me, l'esercito regio, "i piemontesi": ma sentirli chiamare così, da italiani che li temevano come nemici, mi sconvolse. D'istinto i volontari sentivano che la commedia era finita, che le connivenze, i segreti accordi erano favole. Sotto le fucilate si accalcavano per stretti sentieri, raggiungevano la strada: chi li avrebbe condotti verso i monti e per quali vie? Accorrevano ora paesani, contadini, donne nere dalla sottana al fazzoletto, di quelle che, da noi, non perdono mai un funerale. E un funerale mi parve il nero serpente che arrancava su per l'erta. I nativi facevano ala non per rispetto, ma per una curiosità che superava fino il timore di un colpo di fucile. Non un gesto di simpatia, d'interessamento: si limitavano a guardare, semplici
spettatori di un fatto a cui si sentivano estranei. Cosa formicolava nei loro cervelli? Così ci guardavano i villani dell'Avellinese e del Beneventano quando il nostro carrozzone carcerario passava per le loro campagne. Allora, come adesso, il gioco si svolgeva al di sopra delle loro teste. E peggio per chi perdeva. Mi ritrovai imbarcato e non sapevo come fossi salito a bordo: era al timone il mio fedele nostromo, il cielo era ancora grigio ma la pioggia era cessata. Avevano alzato le vele e malgrado un po' di beccheggio, si filava bene. Dovevo essermi assopito e mentre respingevo un panno di cui ero coperto, mi guardavo in giro, balordo e battendo i denti per il freddo. I marinai, colle mani fra le ginocchia, avevano la faccia scura dei disoccupati e degli scontenti. Le altre barche del nostro piccolo convoglio non ci seguivano, erano scomparse. Mi volsi al nostromo tentando di alzarmi. «State quieto» fece lui «girano brutti musi, siamo stati fermati come ai tempi di Ferdinando. Cercavano voi e io ho fatto il tonto, per fortuna vi avevo nascosto sotto questa tela di sacco. Li vedete là, venivano da quella nave.» Voltai il capo e scorsi a meno di un nodo di distanza un grosso legno da guerra (doveva essere la Maria Adelaide) verso cui si dirigeva una lancia: distinguevo i berretti della regia marina. Mi cercavano: ero dunque già sotto accusa, suddito e funzionario ribelle. La mia situazione era chiara, anche se Garibaldi fosse riuscito nella sua impresa, io, a buon conto, avrei pagato per indisciplina e azioni arbitrarie. Qualcuno mi aveva tradito e non occorreva che mi affaticassi a identificarlo, tutti i miei sottoposti mi odiavano per la mia intransigenza nel servizio, chiunque si sarebbe fatto un merito di avermi denunziato. Tanto peggio, tanto meglio: per bene che mi andasse avevo perduto l'impiego, a meno che re Vittorio non mi cacciasse, anche lui, in gattabuia La cosa mi lasciava indifferente e, forse, un tantino soddisfatto, ero stufo di obbedire a gente che non stimavo e non m'impensieriva essere di nuovo allo sbaraglio, clandestino a bordo di un peschereccio. Altre erano le mie tristezze: non mi rassegnavo al ricordo di aver contemplato, inerte, le incerte mosse dei volontari, laggiù sulla spiaggia sassosa di Melito: lacrime di vergogna e di collera mi venivano agli occhi. Dov'erano, a quest'ora? Le truppe di Cialdini si sarebbero contentate di quella innocua sparatoria o avrebbero fatto sul serio? Il retroterra era squallido, inospitale, sentieri dirupati, rare capanne, selvaggia miseria, assoluta mancanza di viveri. In queste inquietudini mi perdevo mentre i miei occhi vagavano, quasi in cerca di risposta, sul mare d'acciaio. Il nostromo mi guardava e credette di capirmi, ammiccando furbescamente. «Niente paura» mi fa «i compagni si sono squagliati in tempo e sono in salvo, ci salveremo anche noi se la Madonna del Porto ci assiste.» Intesi che alludeva ai pescherecci della scorta e mi pentii di essermene così facilmente dimenticato. Senza offesa per la Madonna, decisi di fare del mio meglio perché quella gente non soffrisse oltre per causa mia. Come fummo davanti a San Gregorio, comandai di avvicinarsi il più possibile alla riva e, vestito com'ero, toltimi solo gli stivali, mi gettai in acqua. I marinai non se l'aspettavano, forse credettero che fossi impazzito, ma il nostromo aveva certo afferrato la mia intenzione se mi gridò un «grazie, eccellenza» con altre parole non so se di augurio o di consiglio che il gorgoglio dell'acqua negli orecchi m'impedì di raccogliere. Il mio esempio, del resto, non fu inutile, poco più avanti tutta la ciurma prese terra allo stesso modo, abbandonando il legno alla deriva: il soccorso clandestino ai volontari fu accertato ma gli uomini che l'avevano condotto a termine non furono individuati e non patirono alcun danno. A larghe bracciate, vincendo la maretta, puntavo verso il lido, non
troppo fiducioso nelle mie forze, ma, comunque, calmo. Non avevo, a bordo della "Durance", minacciato di gettarmi in mare, a disdoro della bandiera francese? Ebbene, quel che c'era di iattanza in quel mio atteggiamento teatrale, lo riscattavo adesso coi fatti e la bandiera che chiamavo silenziosamente in causa era il tricolore di un'Italia ingrata. La solitudine di un nuotatore lontano dalla riva può avere qualcosa di esaltante solo se si accompagna alla baldanza di un corpo giovane e forte. Né giovane, né in buone condizioni fisiche, più volte mi sentii sul punto di cedere: la corrente mi era contraria e i colpi delle onde che mi passavano sul capo avevano la violenza vittoriosa di una zampa ferina che abbatte prima di uccidere. Mi salvò la riflessione, niente affatto eroica, che se anche non ce l'avessi fatta, poco danno, anche in mare si muore una volta sola. Così pensando, mi fu naturale domare l'affanno e regolare il respiro con un impegno che non era istinto di conservazione, ma, lo giurerei, rispetto della vita, una vita che per caso era la mia. Quando alla fine una dolorosa rigidità delle membra mi persuase dell'inutilità della lotta, ecco che i miei piedi incontrarono un ostacolo e non potevo credere di toccare il fondo. Fu una sensazione inebriante che non mi permise di pensare a quel che mi aspettava in terra. Mi ridussi a Reggio a dorso di mulo, coperto di stracci scambiati con i miei panni fradici. Il contadino padrone della bestia, che mi seguiva a piedi, si era contentato del solito patto dei disperati, qualche carlino e l'obbligo del silenzio. Come lui non sapeva - o fingeva di non sapere - chi io fossi, io stesso ne avevo perduta la nozione, basito e vagellante di freddo e di febbre. Gli abiti civili, la carrozza a mia disposizione, erano stati un sogno e questa era la realtà, l'eterno mulo di tanti miei viaggi antichi, testardo al pari di me. Incontrammo un paio di pattuglie e ci lasciarono andare senza fermarci, il mio aspetto miserando non dava luogo a sospetti. Negli intervalli di lucidità, Garibaldi, i volontari, le schioppettate di Melito mi apparivano lontani, cose d'altri tempi, e persino il desiderio di un letto mi sembrava un miraggio irrealizzabile. Mi concentravo nella necessità di non parlare, ma qualcosa dovetti dire al contadino se, a un tratto, riconobbi l'uscio di casa mia e l'uomo mi sorreggeva per le spalle, su per le scale. Ricordo il viso atterrito di Concetta, ma ormai ero immerso in qualcosa che mi pareva un mare ondeggiante e mi portava via. Mi riscossero - e credetti che non fosse trascorso un minuto certi colpi rimbombanti che presi per cannonate. Ci siamo, dissi fra me; ed ero coi volontari, nel pieno di una battaglia. Aprii gli occhi, ero in camera mia, le mie mani toccavano soffici coperte e lenzuolo, e mia sorella mi scuoteva il braccio chiamandomi soffocatamente per nome. «Son già venuti» diceva «sono ritornati, vogliono parlarti, cosa dobbiamo dirgli?» Guardavo il suo viso magro pendente su di me fra le cascate dei riccioli grigi e stetti un lungo momento così, attonito, poi mi tirai su a sedere. Mi girava un po' la testa, ma mi sentivo bene e stavo per dirle che mi lasciassero in pace, quando la memoria mi ricominciò a funzionare e d'un colpo buttai giù le gambe. Mi accorsi allora di essere completamente nudo; chi mi aveva spogliato? La povera Concetta, pur distogliendo gli occhi, mi porgeva una camicia di bucato, i calzoni e il panciotto, ma io non mi muovevo, mi ero tirato il lenzuolo fino al collo e aspettavo che lei uscisse; dopo tanti anni, questa scena mi sta ancora davanti agli occhi. Dovetti vestirmi alla presenza di un tenentino biondo dei bersaglieri che senza bussare entrò e si sedette senza complimenti in fondo al mio letto. Non ebbe bisogno di parlare perché io capissi cosa era venuto a fare: uno scalpiccio nelle stanze accanto mi avvertiva che non doveva essere solo. Sbirciava i mobili, e specialmente la scrivania sparsa di
carte e di giornali, con una gran voglia, mi parve, di metterci le mani. «Devo condurla al Forte» sillabò, infine, con un certo imbarazzo e gli fui riconoscente che non aggiungesse altro. Del tutto conscio della situazione, mi vestivo con cura e con lentezza e mi presi anche il gusto di radermi, pelo e contropelo, di profumarmi, contando che colui me lo proibisse. Non lo fece, anzi mi stava a guardare con ironica curiosità, sicché la risposta insolente che mi ero preparata mi rimase in gola. Mi tornava alla mente il giorno del mio arresto a Cittaducale, anche allora mi ero appena risvegliato e le manette mi avevan subito attanagliato i polsi. Almeno nelle forme c'era progresso nell'esercito sardo, il tenentino si era limitato ad accendere il sigaro senza chiedermene il permesso: quanto alle manette, si vedrebbe. Nel corridoio trovai soldati in fazione, domandai di salutare mia sorella ma non fu possibile, si era serrata a chiave nella sua camera. Così accompagnato, scesi le scale e trovai alla porta una vettura chiusa. Ci salii e il tenente prese posto accanto a me. E al Forte fui condotto, ebbi appena il tempo di notare i soliti ragazzini seminudi che giocavano ai piedi di quelle mura vetuste e già la carrozza entrava sotto l'androne e si fermava. Avvezzo all'apparato carcerario borbonico, mi aspettavo di esser preso in consegna da militari armati: non fu così, salvo le sentinelle all'esterno, il Forte pareva deserto, non drappelli di sgherri, non le formalità con cui viene accolto un nuovo prigioniero. Ma la sostanza era la medesima, anzi più impressionante, quasi il mio caso richiedesse un trattamento eccezionale, schifato e silenzioso. Con una cortesia distratta, l'ufficiale mi fece attraversare un cortile e diversi ambienti che dovevano esser stati corpi di guardia, tutti disabitati, poi apparve un lurido omaccione assonnato che m'introdusse in una cella, il consueto abitacolo dal pavimento sconnesso e le pareti luride. Mi volsi, il tenente si era eclissato e la porta si richiuse alle mie spalle. Non avevo manette né catena, ma chi mi avrebbe detto che un giorno avrei rimpianto il frastuono e le vociacce sgangherate di Procida, di Montefusco, di Montesarchio? Nella segreta di Napoli, l'ultimo mio carcere, avevo conosciuto lo stesso silenzio disumano: ma lì mi sorreggeva l'indignazione della vittima innocente, qui avevo contro di me il diritto di uno Stato che si riteneva tradito. La cella era esigua ma non priva d'aria e di un po' di luce; in alto, presso il soffitto basso, si apriva una feritoia che però non lasciava passare il minimo rumore. Non potevo sedermi, fra le pareti lebbrose non c'era panca né branda né brocca né bugliolo: tutto contribuiva a dare al luogo il carattere di una prigione astratta, di un nuovo modo di punire e per una colpa che la legge non aveva previsto. Camminavo, che altro potevo fare? Ma il maggior tormento era il ricordo di quando passeggiavo per la corsia di Montesarchio avendo al fianco qualcuno dei miei compagni, uomini giusti e retti. Dov'erano, cosa pensavano, come mi avrebbero giudicato? Immaginai gli occhi chiari di Castromediano che si torcevano da me, disgustati. L'avrei giurato, per lui ero colpevole e non avrei mai potuto giustificarmi, la mia coscienza non era chiara. Riconoscere di aver torto, di avere agito male è, a mio avviso, il massimo fra gli atti di coraggio. Ma per riconoscerlo bisogna esser convinti di aver errato: io non lo ero affatto, ma mi ripugnava egualmente ostinarmi ad aver ragione, fermarmi sulle idee che più mi erano state care, su cui avevo giocato superbamente la vita. Mai ho disperato di me come laggiù, nel Forte di Reggio, dove le vie della giustizia e dell'ingiustizia, i diritti del singolo e della collettività mi si confondevano, rendendomi odioso a me stesso. A che mi eran serviti meditazioni e costanza se ora si sottraevano al mio richiamo e non mi permettevano di distinguere il vero dal falso?
Suppongo di essere rimasto in questo stato non più di un paio d'ore, ma il senso del tempo aveva già cominciato a sfuggirmi: ricordo che, stanco, mi ero accasciato al suolo incantandomi sui crepacci del muro, che è il sistema per cui un prigioniero ottiene il vuoto del cervello. All'improvviso la porta si apre e l'uomo di prima è sulla soglia. Mi fa segno di alzarmi, lo seguo, sono adesso in una stanza chiara, con finestra, letticciolo, tavolino imbandito per il pranzo. Mi siedo, guardo le vivande come oggetti curiosi, prendo il cucchiaio, lo rimetto giù, mi è impossibile ingollare, masticare, il vuoto che mi ha succhiato mi isola in una specie di sordità di tutti i sensi che m'impedisce di ascoltare quel che l'uomo dice. A poco a poco le sue parole mi raggiungono, così non l'avessi inteso. Parla in dialetto, anzi in un curioso gergo dialettale e capisco che mi crede un inviato di re Francesco, accusato di cospirare contro così dice - gli usurpatori. «Ma ormai» ridacchia «quel loro fanfarone scomunicato l'hanno steso e tutti i suoi diavoli con lui. Si sono accoppati fra loro, da bestie che sono e non dubitate, il resto lo farà Crocco che sta scendendo e succederà una strage di tutti i traditori.» Così appresi, dolorosa beffa di quanto avevo sperato, il misfatto dell'Aspromonte. Non ero abbastanza in sensi per dubitare dell'autenticità della notizia, credetti senz'altro che Garibaldi fosse morto e i volontari trucidati e dispersi: persino l'arrivo delle bande di Crocco non mi parve inverosimile. Dunque era finita, l'impresa garibaldina era annegata nel sangue fraterno e chiunque, anche un volgare bandito, poteva dare il colpo di grazia al mio povero Paese. Immobile, fissavo la mia scodella mentre il manigoldo seguitava a chiacchierare. «Il nostro re vi ricompenserà, avrete denaro e onori, non vi dimenticate di me.» Per quanto odiosa mi fosse la sua presenza, confesso che la preferivo alla correttezza del tenentino che mi aveva arrestato. La collera mi liberò dall'ebetudine e ricominciai a pensare. Amarissimi pensieri. Ho sempre sostenuto, e lo ripeto ancora una volta, che la stella polare del prigioniero politico è la faccia del tiranno che lo ha privato della libertà. Nei miei dodici anni di galera quella di Ferdinando non mi usciva dagli occhi, su di essa accumulavo ira e disprezzo: era lui il mio nemico personale e, morto lui, l'umanità ritornava innocente. Non era un sentimento cristiano, ma non ne conosco di più autentici. Ebbene, il mio nemico era adesso indefinito e sfuggente, non un sovrano, non un ministro, bensì un ibrido dalle cento teste fra cui alcune mi erano familiari e care. In fondo, non m'importava di aver torto o ragione, ma del fatto di aver io accettato un compromesso impuro, tradendo me stesso e il governo. Né mi giustificava l'esempio di Garibaldi: lui non serviva, nessuno lo aveva pagato. Comunque la girassi ero colpevole e non vedevo l'ora di subirne le conseguenze. Quattro giorni passai in quella stanza decente che non avendo nulla di una vera prigione non mi consentiva di usarmi la minima pietà. Le mura che mi chiudevano erano meno massicce del mio volontario silenzio, rifiutai persino di aprire un biglietto di mia sorella che mi mandava un involto di biancheria pulita. M'interrogassero: non mi sarei difeso e il mio conto sarebbe saldato. E finalmente anche quell'incubo ebbe termine: si apre l'uscio, compaiono sulla soglia due militari in divisa. Ci siamo, mi dico con sollievo, tribunale di guerra, processo sommario. Ma m'inquietò il contegno di quei due, d'un garbo subalterno che non riuscivo a spiegarmi. Si fecero da parte mentre uscivo e non mi presero in mezzo ma mi scortarono per anditi e scale diversi da quelli per cui ero salito giorni innanzi: i nostri passi echeggiavano solitari, non incontrammo anima viva. Così fino al cortile, non quello che conoscevo, ma un altro più grandioso e come di rappresentanza, e vi
stazionava una carrozza sorvegliata dal maledetto tenentino biondo. Non era un legno carcerario e neppure una vettura da nolo, ma un coupé signorile assai elegante e il cocchiere portava abiti civili con una lieve traccia di bassa livrea. Un soldato apre lo sportello, l'ufficiale alza la destra al berretto, invitandomi a salire: ho il tempo di scorgere sotto i suoi baffetti, un accenno di divertito sorriso. Mentre mi accomodo sul sedile, mi volto aspettandomi di vederlo montare a sedere accanto a me. Non si muove e senza pronunciar parola, ripete il saluto: questa volta il sorriso si definisce in una espressione d'ironica complicità. Un ordine che non intendo, a voce sommessa, e il cocchiere tira le redini. Sobbalzando si esce dall'androne e via, di carriera. Il rapido moto dei cavalli mi provava che la meta non era vicina, Reggio è piccola, le strade sono strette e si percorrono adagio, mi accorgevo dunque che si era subito usciti di città. Ma come mai e perché né il tenente né un altro militare mi avevano accompagnato, cosa significava quel lasciarmi solo, alla custodia di un vetturino che non mi aveva neppure guardato? L'ipotesi più avvilente era che con quella parvenza di rispetto, si volesse dare a un funzionario infedele del torbido sud una lezione di civiltà settentrionale; la più persuasiva che, data la mia età, non mi si ritenesse capace di un colpo di testa, tanto più che l'uomo a cassetta avrebbe potuto benissimo spararmi al primo tentativo di fuga. Quanto al coupé, pensai che doveva appartenere a un magistrato o a un alto ufficiale che non avendo altri mezzi per farmi arrivare al suo cospetto - in una sua proprietà, o al campo - aveva preferito offrirmelo piuttosto di scomodarsi sino al Forte. Erano supposizioni di fantasia, eppure mi ci abbandonavo pigramente, allo stesso modo che mi lasciavo cullare dal molleggio della vettura. Ricordo che sebbene fossi certo che mi attendeva una pena severissima, mi sentivo svagato e a momenti, curioso del luogo dove, alla fine, il legno si fermerebbe: giacché quella corsa bizzarra mi aveva qualcosa di romanzesco che, a dir la verità, eccitava la mia immaginazione. Fu appunto durante quel viaggio che i casi della mia povera vita mi apparvero nelle forme di uno di quei romanzi d'avventure che in gioventù avevo sdegnato. A ben riflettere, che altro motivo aveva avuto la mia carriera di agente settario se non una scelta romanzesca, il gusto dell'ignoto? Molti giovani delle mie stesse idee avevano cospirato come me, ma stando a casa propria, accudendo alle proprie faccende, e coi medesimi rischi. Io avevo invece preferito le missioni clandestine, il recapito di messaggi cifrati, gli incontri furtivi, lo scorrere per monti e pianure, l'eterno scommettere. E anche il mio amore per la natura selvaggia, per gli esseri primitivi, erano romanzo, non letto, ma vissuto. Così i miei contatti coi pescatori, così la folle corsa notturna verso Melito. Romanzo, romanzo. Ed ecco, l'eroe finiva miseramente, da burocrate pasticcione. Né si poteva voltar pagina. Alle scosse della pessima strada suburbana ne eran succedute altre, più rovinose, che il cocchiere procurava invano di evitare. Sempre più ci si addentrava nella campagna, seguendo un sentiero sassoso e serpeggiante: nulla di nuovo per me, avvezzo a ben altri disagi, sapevo bene che la Calabria non ha strade civili. Campi bruciati o fangosi, brulli dirupi, macchie e neppur l'ombra di un edificio o di un accampamento. Peccato per quel bel legno raffinato, il meno che potesse succedergli era che una ruota si spaccasse. Però, come si trattano bene questi soggettoni del regio governo, cuscini soffici, rifiniture dorate e persino - me ne accorgevo adesso - una sottile fragranza di sandalo che si sprigionava dalla tappezzeria. Avevo chiuso gli occhi da qualche minuto quando la carrozza voltò a sinistra: le ruote scorrevano ora lisce lisce, con un leggero fruscio.
Stupito, mi guardo intorno, siamo nel fondo di una vallecola ombrosa; una di quelle oasi verdi, che, da noi, si aprono inaspettatamente, succedendo a terreni aspri e nudi. Il viale che percorriamo ha il suolo coperto di fine ghiaia, lo fiancheggiano siepi di bosso ben tagliato, da credersi in Toscana. Laggiù, nel sole, biancheggia una bassa costruzione che senza dubbio è un casino di villeggiatura. Qui, dunque, sarò interrogato e il mio inquisitore dev'essere ben sicuro di sé, ben custodito se ha scelto una dimora così isolata fuor di città. Un asilo di pace: eppure da questo colloquio dipende la mia sorte. E' inverosimile che un militare abbia posto qui le sue tende, mi fermo sull'ipotesi che ci abiti, ospite di un feudatario locale, un grosso esponente del governo, incaricato d'indagare sulle malefatte di un suo dipendente. Nulla mi sarà risparmiato, prima l'indignazione di un burocrate, poi, a Reggio, il processo, la condanna. L'edificio dinanzi a cui ci arrestammo era di un gusto classico, illeggiadrito dalla vezzosa piccolezza delle proporzioni: non mancava il peristilio a colonne, col suo frontoncino, e due brevi ali se ne distaccavano, a destra e a sinistra, decorate di sobrii fregi a stucco. Le mura erano di un caldo avorio e così levigate da sembrare di marmo. Nulla, insomma, richiamava il costume del nostro paese dove i casini di campagna, rarissimi, nascono fastosi e decadono rapidamente per l'incuria dei proprietari. Al centro del portichetto una larga vetrata lasciava scorgere un pavimento di legno chiaro, specchiante. Sceso di cassetta il cocchiere mi aprì lo sportello, mentre un domestico lentamente mi veniva incontro aspettando che scendessi. Tutto, dai gesti dei due uomini all'aspetto delle cose, era calmo, riposato, familiare. La sensazione di trovarmi lontano dalla Calabria e addirittura dall'Italia, crebbe a misura che avanzavo nell'interno della casa. Mobili leggeri e semplici, nessuno degli arredi pesanti che piacciono ai nostri ricchi notabili. Stupito, m'ingegnavo a mantenere il contegno freddo e dignitoso che m'ero prefisso. E per chi, poi? Nella sala dove venni introdotto non vidi nessuno e nulla vi annunciava che un personaggio ufficiale, nell'esercizio delle sue funzioni, stesse per entrarci. Le persiane accostate garantivano una penombra donde emergevano mobili esigui, poltroncine, tavolinetti, tappeti di tinte smorzate: e tutto era di misura ridotta, lì dentro, chi aveva scelto di viverci pareva avere evitato qualunque segno di autorità padronale. Se ricordo così lucidamente ogni particolare non è per quello che seguì, ma perché ero così sorpreso da dimenticare i miei guai: non tanto però che, riscotendomi, non mi dicessi: venga fuori, questo signore, e facciamola finita. Mi ero fermato al centro del salotto, battendo gli occhi: ancora la vista mi s'annebbiava quando passavo dalla luce all'ombra. Fu solo in un secondo momento che una macchia chiara a metà nascosta da un paravento, prese la figura di una donna che mi dava le spalle. Seduta a un piccolo scrittoio e china su di esso, doveva aver scambiato i miei passi per quelli del servo, disse infatti: «Non ancora, prego» senza voltarsi. Balbetto una parola di scusa e faccio per ritirarmi, quando lei, con un mezzo giro sullo sgabello, si alza e mi viene incontro con la mano tesa. «Ah» esclamava «siete qui finalmente, non ci speravo più, stavo appunto scrivendo al Cialdini, questi militari sono così sciocchi che non si può fidarsene. Voi come state?» Una figura giovanile, un fruscio di sete, una signora. Imbarazzato all'estremo e senza lumi per intendere il senso delle sue parole, sfiorai appena la mano di questa ignota che, via via, sciogliendosi i veli della memoria, ignota del tutto non mi era. Dagli occhi limpidi, di un'arguta dolcezza nelle orbite lividette, scattò l'immagine di madama Cornero, come l'avevo vista per un attimo in prefettura, ma il resto del viso e della persona apparteneva a un ricordo lontanissimo
che lentamente risaliva come dal fondo di un pozzo. Verde di bosco, aria viva, scricchiolio di foglie sotto i passi, e quella voce d'argento, quel sillabare duretto: poi la frase sbadatamente raccolta: "Mia moglie crede di avervi conosciuto quand'era ragazza". Feci un passo avanti e: «Miss Florence!», esclamai: non "Signora!" Il nome perduto mi era sbocciato sulle labbra con naturalezza gioiosa, mentre stringevo e scuotevo vigorosamente la mano che un minuto innanzi avevo esitato a toccare. «Così, mi avete riconosciuta!» trionfò con un impeto d'infantile gaiezza colei che, fanciulla, mi aveva tanto colpito. Eravamo ambedue straordinariamente contenti, quasi ciò che soprattutto contava non fossero i motivi per me tuttora oscuri che mi avevano portato lì, e la mia triste situazione, ma esserci incontrati e ravvisati, fuori del tempo. La spiegazione, del resto, fu semplice e lei me la fornì con una spontaneità appena tinta di una leggera jattanza. «Cornero» disse «è assente, chiamato a Napoli, e solo per caso ho saputo del vostro grottesco arresto. Cialdini è mio ospite a Reggio. Gli ho parlato di voi, si è persuaso. Non è una cima, ma si picca di cavalleria e quando una donna lo prega...» Scoppiò a ridere giovanilmente; poi con un lieve imbarazzo: «Ho esagerato, non dovete credere che Cialdini non tenga in gran conto il vostro carattere e il vostro passato: ma la politica piemontese... Vi prego, accomodatevi». Un'ombra velava adesso la sua disinvoltura, mentre mi accennava una delle sue piccole poltrone. Di colpo, miss Florence era sparita ed era sparito anche il giovinotto che un giorno aveva camminato con lei nel parco di donna Caterina: eravamo di nuovo la moglie di un prefetto regio e un funzionario sotto accusa di tradimento. Cercavo le parole per ringraziarla e non ne trovavo di adeguate, tanto più che non riuscivo a capire la ragione del suo interesse per me e di che natura e consistenza fosse il favore che Cialdini le aveva concesso. Sottratto alla prigione del Forte, in questo momento ero protetto da una dama di origine inglese, sposa di un gentiluomo nordico. Ma fino a quando e a quali condizioni? La mia riconoscenza era viva e tenera, ma non aboliva le mie impellenti preoccupazioni. Ero ancora un funzionario degno di fiducia o un individuo a cui si concedeva la grazia della libertà, sottintendendo che era decaduto dalla sua carica? Ma soprattutto mi bruciava l'avvilimento di avere, senza volerlo, compromesso agli occhi di Cialdini una signora che non aveva calcolato le conseguenze del suo atto. Ecco perché il tenentino aveva sorriso ironicamente, egli doveva sospettare fra noi un intrigo galante. Benedetta donna, mi venne di pensare, si è messa nei pasticci e in qualche modo dovrà pagare la sua imprudenza, fosse soltanto nei confronti del marito. La mia mentalità di meridionale, intransigente nelle questioni d'onore, mi faceva prevedere una sequela di guai, un duello, il nome della dama macchiato in modo irreparabile. Metterla in guardia ormai non serviva, ma avevo il dovere di andarmene subito, liberandola dalla mia scomoda presenza. Riconsegnarmi al Forte, buttarmi alla campagna? Pazzie che non avrebbero cancellato il gesto della donna e spento le chiacchiere. L'aria si era fatta pesante, mi ero seduto e non sapevo come rompere il silenzio comunicandole il mio disagio. Cosa aspetto, mi chiedevo, come finirà questa assurda storia? Qualcosa madama avrà pur da propormi: a meno che nella sua inesperienza femminile non immagini che il suo intervento abbia sanato la mia situazione. In tutta calma, infatti, lei aveva preso un lavoretto e tirava l'ago come io fossi un suo abituale visitatore, che parla solo se ne ha voglia. Me ne andrò in ogni modo, conclusi: e in quel punto il pensiero mi corse alla fine di Garibaldi e dei suoi, certo la Cornero doveva saperne di più dell'omaccione di Reggio. Le chiesi dunque dove lo avessero sepolto e che sorte avessero subito gli scampati.
Sollevò il capo repentinamente: «Chi vi ha raccontato.» e quasi le mancava il fiato. «Ma no» riprese «il Generale è soltanto ferito e lievemente, l'hanno portato alla Spezia dove sarà curato diligentemente.» «E gli altri?» Esitò: «Qualche ferito, pochi morti, il resto dispersi, pare si sian dati alla montagna. Ma vedrete, passato il primo allarme si spera che non soffriranno persecuzioni. Qualcuno dei capi fermato, questo sì. Provvisoriamente, si capisce...» si affrettò a soggiungere piegandosi in avanti col busto, con una premura... ecco, rivedo quel gesto soccorrevole in cui gustai - non c'è altra parola la dolcezza di una solidarietà fraterna. Ero commosso e felice: per un istante poco m'importarono i casi miei e l'imprudenza della signora. Vivo Garibaldi, nulla era perduto, il futuro era ancora aperto. Purtroppo m'illudevo, come infatti si vide, ma cosa rappresentasse allora, per un democratico, la vita di quell'uomo, pochi, oggi, possono intenderlo. Per qualche minuto fui preda di una vera ebbrezza che parve sconcertare un tantino la mia protettrice. Un lieve rossore le accese il volto su cui il sorriso si manteneva, ma laboriosamente e, avrei detto, per pura compiacenza di ospite. Lo notai e mi ricomposi. Ritrovai così, intatto, l'imperativo or ora dimenticato: dovevo andarmene al più presto. Ma prima di congedarmi non mi sembrò indiscreto esprimere alla pietosa donna la mia fiducia, raccomandandole l'unica creatura che lasciavo dietro di me, la mia povera sorella. «Anch'io ormai sono un disperso, dovrò darmi alla macchia, sparire. Vi prego dunque...» Un gesto secco, per non dire autoritario, mi troncò la parola: quel viso delicato s'irrigidì alteramente, come per collera repressa. «Voi» sillabò, e la sua voce era di ghiaccio «siete in viaggio per Torino, anzi state per arrivarci perché, ricordatevelo, siete partito da Reggio il 28 dello scorso mese.» Il ricamo le era caduto in terra e neppure si avvide che l'avevo raccolto «Ragionate» riprese, mentre la fissavo sbalordito «nessuno vi ha visto sul mare tranne quei poveri marinai che non parlano, le voci della vostra presenza a Melito non hanno più consistenza di un pettegolezzo paesano, e Cialdini sarà costretto a tacere. Il vostro dovere è adesso non smentire gli amici che impegneranno per voi la loro parola.» Qui si fermò, respirando profondamente ma con la mano fece cenno che non la interrompessi. «Stasera» riprese, però con una certa titubanza, quasi presentisse un ostacolo «stasera salirete su uno steamer inglese in partenza per Genova. Vi aspettano. Da Genova a Torino è una passeggiata, lì troverete compagni vostri che vi aiuteranno e ne sarete fuori.» Il gelo di poc'anzi si era sciolto, i suoi occhi supplicavano: «Non mi dite di no!». Cosa rispondere? Per grande che fosse la mia riconoscenza, faticavo a dominarmi, le intenzioni di madama erano ottime ma il suo piano era di una stravaganza che rasentava la follia. Il fatto poi che essa disponesse di me a suo piacimento, approfittando delle sue prerogative femminili e signorili, superava la mia sopportazione. Di bene in meglio, mi dicevo: prima comprometto una donna, poi mi si propone di aggravare i sospetti che mi pesano addosso accettando la protezione di una potenza straniera. Non mi rimaneva che sperare che quel bel progetto di fuga fosse frutto della immaginazione di Florence. D'un tratto mi ricordai di donna Caterina e della sua patriottica esaltazione; il piano era degno di lei. Sebbene a malincuore supposi che la giovane inglese fosse divenuta cogli anni altrettanto fanatica e visionaria. Per fortuna, riflettei, simili temperamenti cambiano facilmente d'umore e con un po' di pazienza, senza contrariarli e divagandoli si possono ricondurre alla ragione. Sospirando, mi decisi a temporeggiare aspettando l'opportunità di - non c'era altra parola ricuperare una triste libertà.
Interpretando il mio silenzio evasivo come un assenso, la signora aveva ripreso il suo ricamo: simile in tutto alla savia miss Florence di un tempo, nemica di ogni eccesso, fin troppo cauta. Qual motivo l'aveva spinta ad occuparsi di me con tanta audacia? Potevo chiederglielo, dopo tutto, la mia età e il suo costume escludevano una ipotesi men che rispettosa. «Scusate la mia curiosità» cominciai «e siate così buona da spiegarmi chi vi abbia informato delle mie disgrazie. Mi sembraste, tanti anni fa, così poco partecipe delle nostre aspirazioni, così scettica sull'efficacia delle sette. Era naturale, eravate quasi una bambina e straniera per giunta: parente degli Acton, non è vero? Vedete, in gattabuia la memoria si conserva, ci fa fresco. E adesso, eccovi trasformata in protettrice di un rivoluzionario impenitente; un ex galeotto ribelle persino a re Vittorio.» Tentavo di far della bonaria ironia, e, stranamente, mi commovevo. La quiete squisita della stanza, quella penombra d'acquario, il profumo di zagara che entrava dalle finestre contribuivano a dettarmi parole non pensate: come succede in sogno, che te le trovi in bocca, sbocciate da chissà quali profondità. Ora non guardavo la mia ospite che di sfuggita, era un mucchietto di sete chiare, di capelli scuri, immobile. Non ero neppur sicuro che mi ascoltasse. Infatti, non rispondeva. Aveva rovesciato il capo all'indietro e socchiuso gli occhi come per stanchezza, inerti le mani in grembo e gli angoli della bocca eran piegati all'ingiù in una espressione di tedio. Annoiata? Offesa? Me ne dispiacqui, ma modernamente, ricordando che quando le dame della sua classe non gradiscono il tono di un discorso si chiudono in un mutismo che è segno di distacco e di altera riprovazione. Così mi riuscisse di disgustarla e farla rinsavire del tutto, mi dicevo, impaziente di poter sbrogliare da solo la mia dannata matassa. Mi sbagliavo. «Avete ragione, capisco la vostra meraviglia. Ma permettetemi una domanda: avete nuove di donna Caterina?» La voce era proprio di miss Florence, calma e gentile: fui certo che non era indispettita ma aveva a lungo riflettuto e non senza esitazione pronunziava quel nome che, in qualche modo, doveva essere al centro dei suoi pensieri e scagionarla. Ma sentirlo rammentare così bruscamente mi colpì, parendomi quasi di averglielo suggerito io quando, poco prima, mi era venuto in mente, e per una ragione che non poteva lusingarla. Replicai subito con la pura verità: che non ne sapevo nulla, da secoli. Né altro aggiunsi, aspettando che mi chiarisse quella strana domanda. Di nuovo taceva, colla destra si sfilava e rinfilava la fede dall'anulare sinistro. D'un tratto si levò: «Permettete?» e girellava per la stanza dandosi a piccole faccende, tirare i cordoni della tenda, spostare un vaso di fiori, affacciarsi all'anticamera per un ordine al servo. Mi vidi porre innanzi, su un tavolinetto dalle alte ruote, un vassoio con tutti gli accessori di una colazione inglese, e madama, tornata a sedersi, versava il tè, imburrava pan tostato, mi offriva la tazza: «Quanto Zucchero». Poi riprendendo il filo del discorso interrotto: «E' più quieta da qualche tempo, il suo figliolo si è ristabilito in salute e lei lo adora». Intesi che parlava di donna Caterina e per compiacerla chiesi urbanamente: «Si è dunque rimaritata?». «No, non si è rimaritata» e i suoi occhi, fermi su di me, incupivano di un'attenzione indagatrice che era insieme interiore ed esterna. Con nessuno mi è mai successo di comunicare, come con questa donna, per sottintesi e quasi per lettura del reciproco pensiero: sentivo che essa mi interrogava alla muta e voleva essere intesa senza parlare. «Voi la vedete spesso?» domandai con una freddezza che doveva
illuminarla. «Oh no, non spesso, ma mi scrive, da lei ho saputo anno dopo anno, anche quando ero tornata in Inghilterra, le vostre penose vicende: non se ne dava pace, quel suo povero ragazzo...» Sugli occhi parlanti calarono le palpebre, come si vergognasse, poi la sua voce si alleggerì mondanamente: «Un'altra tazza? Prendete qualcosa, la carrozza non può molto tardare e la corsa sarà lunga.» Ero furioso: che Florence non avesse rinunziato al suo progetto e seguitasse ad impormelo era quello di cui meno mi curavo. Ma che Caterina avesse inventato un padre a un suo bastardello e la sua giovane amica mi credesse un volgare seminatore di figlioli, sotto lo stesso tetto che l'aveva ospitata, mi fu intollerabile. Lottavo per non scoppiare in parole grosse contro una disgraziata irresponsabile: una donna è sempre una donna, anche quando mentisce e figurare da casto Giuseppe mi ripugnava egualmente. Mi levai di scatto e mi diressi alla portafinestra che dava sul giardino «Posso almeno uscire a fare due passi?» dissi a denti stretti. «Qui si soffoca.» «Non v'inquietate» e la mano della signora era sul mio braccio. «Siate misericordioso. Caterina inventa senza rendersene conto e crede a quel che inventa, le sue favole le sono necessarie e questa, che non mi ha mai persuaso, le è più necessaria delle altre. C'è un ragazzo di più a questo mondo e ha una madre che lo ama e ne vive. Il resto cosa importa?» Rimasi di stucco, ecco che di nuovo ero un libro aperto per costei, essa penetrava i miei moti e sapeva temperarne l'asprezza. «Ma in giardino no» riprese «qualcuno potrebbe vedervi, non si sa mai. Prenderemo aria in un piccolo patio, anche nelle ore calde c'è fresco. Del resto, partiremo fra poco.» Il "patio" era un cortile dalle pareti istoriate di rampicanti, umidiccio, e mi richiamò alla memoria l'angusto vaglio dove noi carcerati uscivamo per la passeggiata all'aria. Anche qui, nessuna apertura sulla campagna, un solo quadrato di cielo veduto come dal fondo di un pozzo. C'erano panche e sedie di vimini, agli angoli ciuffi di malinconici sempreverdi a modo di ornamento. Ma Florence non pareva avvertirne la tristezza e sorridendo m'invitò a sedere, mentre si calava in una poltrona a dondolo. «Un capriccio di mio zio, queste poltrone-altalena, la villa gli apparteneva e c'è il vantaggio che i briganti la rispettano quasi lui fosse ancora vivo. Era un uomo curioso, sir Robert, ne avete sentito parlare?» Feci un cenno di cortese diniego, lei si era portata un volumetto e lo posò in grembo, io spiegai il giornale che mi aveva offerto. Era "La Gazzetta del Popolo" di Torino e portava la prima notizia dello scontro dell'Aspromonte, con le più feroci accuse a Garibaldi. E figuriamoci, mi dissi, come sarà giudicato un semplice funzionario sospettato di favoreggiamento. Lasciai cadere il foglio e fissavo il muro su cui l'edera tracciava neri ghirigori: talmente svuotato di energia che il progetto di madama Cornero non m'ispirava che una fredda curiosità e un abbandono totale. Un buon quarto d'ora passò così, lei assorta nel suo libro, io svagato a immaginare questa trappola dell'imbarco clandestino. "Partiremo fra poco" aveva detto la mia ospite. Non si sognerà di accompagnarmi, speravo; ma non avevo voglia di assicurarmene, tanto più che lei aveva interrotto la lettura e lentamente ondeggiando sul suo dondolo aveva chiuso gli occhi. Alla luce che il riflesso delle bianche mura rendeva inclemente, il suo viso non era giovanilmente fresco e levigato come fra le ombre del salotto, vi apparivano i segni di una maturità tutt'altro che trionfante, anzi fisicamente alterata e come rosa dall'interno. Sulla fronte, alla radice del naso, un leggero cipiglio, sulle gote incavate e agli angoli della bocca, certi graffietti sottili facevano prevedere le rughe della vecchiaia. Ma queste avvisaglie di decadenza non mi spiacevano, esse mi liberavano dall'immagine della fanciulla che un giorno mi aveva incantato.
Sentendo il peso del mio sguardo, sollevò le palpebre, le batté. «Pensavo alla mia Irlanda, un paese povero e oppresso come la Calabria, ma senza sole. Voi credete che l'Inghilterra sia la patria della giustizia, e non è vero. Se la salute me l'avesse permesso non l'avrei lasciata. Mi ostinai a viverci qualche anno, prima di maritarmi, e andavo in giro per i tuguri e per quegli orribili orfanotrofi. Avrei voluto svegliare quella gente rassegnata, parlare, combattere per loro. Ma cosa può fare una donna, e una donna come me? Così ho preferito partirne, dicevano che se ci fossi rimasta sarei morta. Sapeste cosa vuol dire aver bisogno del sole e amare la nebbia, gli altipiani ventosi dove non nasce che l'erica. Quando di nuovo scesi al sud e vedevo succedersi ai pioppi e alle praterie le vigne e l'olivo, poi gli aranci e i fichi d'India, mi si stringeva il cuore. Adesso vegeto, non so vivere come le vostre signore, isolata nell'ozio e nel rispetto altrui. Al mio amore per questa terra si mescola l'odio. Odio la povertà, la ricchezza, la beneficienza: chi la fa e chi l'accetta, il prossimo insomma, che si dovrebbe amare. Mi arrovello pensando al modo di aiutare la gente senza fargli l'elemosina. Qui, quando un miserabile mi ringrazia baciandomi la mano, temo e spero che voglia mordermela. Farebbe bene, non credete? Sarebbe un buon segno.» Parlava a scatti, irosamente, le narici affilate, ogni frase le assottigliava le labbra, era persino imbruttita. Il paragone con l'enfatica Caterina non reggeva, c'era ben altro nel cuore di questa fragile dama, così sensibile agli errori e alla pazzia di una vecchia amica. Dove voleva arrivare? Lo seppi subito. «E voi» riprese sarcastica e quasi cattiva «voi che avete perduta la vita in carcere, senza che nulla sia cambiato o dia segno di cambiare all'infuori della faccia di un re: che scopi avete, cosa riuscite a sperare? Credete che ne valesse la pena?» Non esitai: «Sì, ne valeva la pena» dissi, ed era da parte mia l'atto di carità di chi, nella tempesta di mare, dice "ce la faremo" pur sapendo che la nave sta per affondare. Né altro aggiunsi, troppo a fondo quella veemenza aveva toccato il nocciolo dei problemi che in carcere e in libertà - quale libertà! - eran stati il mio tormento. Non era una fanatica irresponsabile, madama Cornero, le mancava soltanto la facoltà di tapparsi gli occhi e le orecchie, di paralizzare il cervello: l'unico modo, per una come lei, di difendersi. Lei non si era difesa e si era lasciata inacidire, ragionando da sola, nell'isolamento di luoghi simili a quella prigione mascherata di edera dove mi pareva di soffocare. Mi chiedevo come, animata da così cupo fuoco, avendo perduto la fede nella giustizia degli uomini, si accorasse per Garibaldi e si ostinasse a salvarmi. Si era venuta quietando e pareva un po' vergognosa del suo sfogo. Disse, infatti: «Scusate» e mostrò di riprendere la lettura. Avrei voluto spiegarle che il mondo delle idee si era mosso e non si sarebbe fermato; che la rivoluzione francese sarebbe stata la salvezza per tutti se non l'avessimo tradita. Ma non ebbi fiducia in lei: ebbi paura di certi nomi: inglese e donna, i giacobini, le stragi del '93, dovevano farle orrore, non avrebbe mai accettato quel prezzo. Meglio non turbarla e lasciarla sotto l'impressione della mia ferma risposta. Sentivo nascere in me, per lei, un'amicizia protettiva, quasi paterna, un sentimento molto dolce che non avevo mai provato e comportava un
mio giornale, lo lessi dalla prima all'ultima linea, compreso il fattaccio dell'accoltellatore napoletano e l'appendice del signor Brofferio. Il sole aveva raggiunto la sommità del muro disegnandovi un triangolo giallo del più tristo effetto carcerario: il pomeriggio avanzava e a dispetto della mia sottintesa acquiescenza cominciavo a sperare che un ostacolo si fosse frapposto ai progetti di madama: questa storia della fuga non regge, pensavo. M'ingannavo, quasi allo scattare di un orologio si levò bruscamente: «Dobbiamo muoverci, sento le ruote della carrozza. Vogliamo andare?». In effetti una vettura attendeva davanti al portico: non era il coupé, ma un robusto legno chiuso a quattro posti, di quelli che i turisti nordici usano per assicurarsi un viaggio comodo e l'uomo a cassetta era un gagliardo villano vestito pulitamente. Rapida ed agile, prima che potessi prevederlo, madama ci saltò dentro: «Salite» disse, anzi ordinò perentoria, mentre fermo davanti allo sportello la supplicavo a bassa voce di rinunziare a quella pazzia e di fornirmi piuttosto una cavalcatura, bastava che m'indicasse il punto dove lo steamer era ancorato e me la sarei cavata da solo. Non ci fu verso, dovetti sederle accanto e tutto quello che seppe replicare fu: «Sciocchezze, non arrivereste alla costa, i briganti vi fermerebbero, soltanto l'equipaggio di Sir Robert e una dama inglese hanno libero passo». L'accento padronale, il volto arcigno mi liberarono dal rispetto dovuto a una signora. «Preferisco mille volte il Forte a questa vergogna» esclamai. Superato il viale, fummo avvolti da un polverone che la fece tossire e portarsi il fazzoletto alla bocca. Ben le sta, pensai e compiansi persino il povero Cornero afflitto da una moglie così caparbia e imperiosa. Fu lei a rompere il silenzio: s'ingegnava a sorridere e alzò la mano verso di me in una timida offerta di pace. «E poi lasciatemi il piacere di un po' d'avventura a buon mercato» fece con una smorfietta infantile «non siate egoista, voi l'avete gustato tante volte. Dopo tutto mi seccherebbe troppo che vi ricacciassero al Forte, sarebbe uno smacco per me. Non sono tipo da fare le cose a metà, io, voglio vedervi a bordo, in mani fidate.» Smise di sorridere, si raccolse il cascemire sulle spalle e non disse più una parola; del che le fui grato, difatti quel che pensavo non era adatto alle sue orecchie. La strada per cui adesso si correva abbastanza velocemente non era una delle solite mulattiere a filo di un burrone ma si addentrava in gole fitte di faggeti e alte macchie, proprio i posti dove le bande, se ne esistevano da quelle parti, avrebbero scelto per farci il nido e scaturirne coi tromboni spianati. Con una specie di maligna soddisfazione, mi figuravo i ceffi, il "faccia a terra": infine quel che sarebbe successo se una mano di quei feroci ci fosse piombata addosso: giacché non ero affatto sicuro del prestigio dell'ignoto Sir Robert. In quel caso, avrei dovuto difendere la moglie di un prefetto piemontese, la bestia nera per quella gente, col bel sugo d'insegnarle, mentre ci accoppavano, che il privilegio di essere nata inglese non contava uno zero. Ma ero in ballo e poiché i miei consigli e il mio parere non erano né richiesti né ammessi tanto valeva lasciarsi andare. Erano pur belli quei monti lontani, quelle vallate vaporanti di violetto tenero, quella natura senza storia: per una volta mi era dato di contemplarli come il viaggiatore che se ne va a diporto per nuove terre e ha dimenticato la patria. L'illusione era quasi perfetta; sebbene ogni tanto, ritrovandomi nei miei panni, mi pungesse la coscienza che quel paese incantevole era il mio paese e mi toccava passarci così, da inerte ospite di una straniera a cui mi sarebbe piaciuto farne gli onori. Pure anche oggi, se mi avviene di rievocare la mia Calabria, m'incanto a ricordarla come la vidi in quel pomeriggio di assenza da me stesso e dalle preoccupazioni che, in certo modo, me la avevano
nascosta le tante volte che l'avevo attraversata da solo. Spesso i sobbalzi della vettura mi facevano sfiorare con la spalla o il braccio l'omero di Florence: allora la sogguardavo. Sembrava assorta e sonnolenta, ma non mi sfuggirono certi suoi trasalimenti, certo suo subitaneo sporgersi verso il finestrino e scrutare il sentiero. Fra le stramberie che mi vennero in mente, ricordo l'ipotesi che il capriccio di madama celasse un congegnato tradimento, la connivenza di una fedele borbonica con un capobanda a cui intendesse consegnarmi. Non valevo gran cosa, ma ero un suddito ribelle del Savoia che, deluso e offeso, poteva anche gradire di vendicarsi mettendo al servizio di re Francesco la propria esperienza di cospiratore. Imbarcato in un romanzo mi divertivo ad aggiungerci un capitolo e a immaginare le reazioni di Florence se le avessi comunicato i miei sospetti. Con simili baggianate ingannavo l'impazienza e la mortificazione per quel viaggio forzato, e anche, di tratto in tratto, certe vampe di tenera ammirazione per la mia compagna, di cui tutto potevo mettere in dubbio, salvo la forza d'animo. Ero così distratto che soltanto per lo scorrere più agevole delle ruote, mi avvidi che avevamo lasciato la stretta valle e ci trovavamo allo scoperto, in pianura. La strada che ci stava dinanzi era di una squallida uniformità e di una notevole larghezza: dal finestrino posteriore distinsi in lontananza i contorni nebbiosi di un grosso paese e non poteva essere che Reggio, all'alito silvestre era subentrata un'aria pesante, mossa da qualche bava di scirocco. Filavamo di carriera mentre la luce del tardo crepuscolo diminuiva rapidamente: Florence tirò il cordone e con una scossa violenta la vettura si arrestò, il cocchiere scese e si affacciò allo sportello chiedendo se dovesse accendere i fanali. «Non occorre» fu la risposta «ci fermeremo qui e fra poco avremo la luna, ci basterà per rincamminarci.» Un rimescolio di gonne, un profondo respiro e finalmente rivolta a me: «Ne siamo fuori, abbiamo avuto fortuna, poche miglia e saremo in porto». «Ma» aggiunse, con un trillo festoso «vi sarete accorto che non sono un'eroina, ho avuto una gran paura fra quei baschi. Ci è andata bene, sono contenta.» Il cielo incupiva di minuto in minuto, brillavano le prime stelle. In silenzio, l'uomo si dava daffare intorno ai cavalli che sbuffavano lievemente, da un fruscio di sete avvertivo che madama si muoveva sgomitolandosi dal suo cantuccio. «Perché non scenderemmo un momento?» essa riprese. «Questa scatola mi è venuta a noia. Due passi, tanto per sgranchirci le gambe...» Non mi feci pregare e, saltato a terra, l'aiutai a smontare. Il fondo della strada era polveroso ma abbastanza solido da non affondarci camminando. Malgrado la mia pratica del paese non avevo cognizione di quel rettilineo che ci si stendeva davanti, tagliato come col coltello fra molli dune e terre incolte, senza traccia di uomo o d'animale. Mi fece pensare a una strada militare, di quelle che i romani aprivano per i loro eserciti, rimasta così, inservibile e negletta. Non so se per la solitudine desertica o per l'enorme silenzio, mi sentivo immerso in un sogno cimiteriale, dove io stesso, la signora, l'equipaggio eravamo fantasmi di chissà quale tempo remoto. Non desideravo affatto di risvegliarmene. Ben lontana da tali fantasie, madama Cornero, invece, pareva trovarsi a suo agio e godere di quella strana sosta. Preso familiarmente il mio braccio, cominciò a passeggiare al riparo della carrozza, dalla testa dei cavalli al limite delle ruote posteriori, altrettanto disinvolta che se percorresse un viale del suo giardino. Ed ecco, si ferma di botto, e sfilando la mano, graziosamente mi affronta. «Meglio che ve lo dica subito» mi fa «dovete perdonarmi, vi ho detto un monte di bugie. E per primo, non è vero - ma questo l'avete già capito - che se avessimo incontrato qualcuno delle bande non ci avrebbero fermato e l'avremmo passata liscia.» Fece una lunga pausa, era chiaro che
esitava a proseguire, sorrisi: «Me ne ero accorto perfettamente, e tanto più ammirevole..». Non mi lasciò finire e tutto d'un fiato riprese: «E per secondo, non è vero che Cialdini sia persuaso della vostra innocenza e disposto a Scagionarvi: ha solo consentito che vi ospitassi per ventiquattr'ore, io gli ho promesso, sulla parola, di ricondurvi al Forte. Per commuoverlo ho persino inventato una nostra antica storia sentimentale...». Sull'ultima frase la sua voce era appena percettibile e la interruppe una risatella nervosa che dava la misura del suo estremo imbarazzo. Cercavo invano una battuta scherzosa che alleggerisse la sua confessione, ma non mi era facile vincere lo stupore e la pena che mi avevano colpito. Pena soprattutto, e pena struggente. Non fantasmi di secoli remoti, ma relitti di un passato non lontanissimo eravamo ambedue coinvolti nel clima ambiguo di cose desiderate e non accadute. E che vergogna esserne coscienti oggi, che la fresca ragazza di un tempo era una quarantenne senza illusioni ed io un anziano consumato dalle disgrazie. Ero sicuro che un medesimo pudore turbava anche la mia compagna, forse solo adesso essa scopriva le radici da cui era scaturita la sua pietosa invenzione. Le presi la mano e la baciai: potevo far di meno? Amo credere che soltanto il rispetto e la gratitudine mi suggerissero quel gesto per me inconsueto. E tuttavia, nel ricordo che ne conservo, alita ancora il profumo di un amore giovanile taciuto, tardo e quasi ironico messaggio di una stagione sciupata. La saggezza, d'altronde, mi soccorse a snebbiare quei vapori intempestivi. Ero dimentico di tutto, ma non di quel che più premeva, disperdere l'ipotesi che si era creata, di subdola intesa, di consapevole rimpianto. «Una ragione di più per ringraziarvi e scusarmi» dissi stringendo virilmente la piccola mano che era rimasta nella mia «per avervi involontariamente imposta una menzogna così costosa e magnanima. Sareste stata, ai bei tempi del '48, una preziosa patriota, collaboratrice dei nostri sforzi. Ma avete ecceduto in generosità: non avete pensato che, quando lo saprà l'amico Cornero vi terrà un poco il broncio? Scherzo, si capisce» mi affrettai a soggiungere «e se scampo spero di poter dimostrare a lui e a voi la mia devozione.» Sentii di aver indovinato il tono giusto, difatti Florence si appoggiò di nuovo al mio braccio e fummo, a dispetto delle circostanze e della notte ormai buia, due amici che passeggiano chiacchierando volubilmente. Alla fine spuntò la luna, uno spicchio fragile, ma bastò a schiarire il cielo e a illuminare la strada, bianca come un osso spolpato. Rimontammo in carrozza e i cavalli si misero a un piccolo trotto che, dopo tanto silenzio mi rimbombava all'orecchio come una scarica di fucileria. L'amica non era più chiusa e tesa come nel primo tratto del viaggio, anzi, familiarmente loquace, non nascondeva di essere ancora preoccupata. Fra poco, diceva, si passerebbe fra gruppi di capanne, e lì stava il pericolo, i pescatori che le abitavano erano a torto o a ragione, sospetti manutengoli delle bande e non era escluso che pattuglie di regi li sorvegliassero. Via via, la sua agitazione cresceva, di continuo si affacciava allo sportello. Toccava a me ridarle coraggio e lo feci ostentando calma e ottimismo. «E se anche ci fermassero, che sarebbe mai? Siete la moglie inglese del prefetto di Reggio e vi recate a salutare un vostro connazionale: chi potrebbe trovarci a ridire? Una signora non viaggia sola, passerò per un vostro amministratore o maggiordomo, nessuno farà obiezioni. E poi voi temete troppo questi soldati di Cialdini, che non sono dei poliziotti. Mettiamo pure che la mia presenza li insospettisca: alla peggio mi riporteranno al Forte, avrò il processo e non è detto che mi condannino. Non gioco mica la pelle.» Doveva essere davvero impaurita se scattò quasi fisicamente: «La giocate, invece, voi non sapete che
fucilano senza processo come disertori i regolari che sono passati a Garibaldi, l'hanno già fatto e voi siete considerato un disertore. Dirvelo non sarebbe servito a nulla». Aveva perduto il controllo, la povera Florence, e le uscì di bocca una frase inglese assai trasparente, alquanto irriguardosa per la casta militare. Ed ecco le capanne, gusci chiusi, finestrelle cieche, non un lume, non una voce: una solitudine spettrale fra terre senza vita che rifluiva sul nostro equipaggio, lugubre anch'esso, con quel tamburellare ossessivo degli zoccoli. Madama si era irrigidita e mentre speravo che si fosse calmata vedo sorgere, dopo l'ultimo tugurio, un gruppetto di uomini: ci siamo, la pattuglia. Vennero avanti stracchi, pallidi visi sotto la luna e i panni militari non si distinguevano, tanto le tuniche erano strapazzate, neri cenci. Poco distante un focherello di naufraghi semispento e il mare non era lontano sebbene invisibile, lo si sentiva bruire stancamente. L'alt fu sordo, emesso di malavoglia dal soldato che, con una sua lanterna, precedeva il gruppo: uno strappo alle redini, e la vettura si fermò. Ebbi appena il tempo di notare quei quattro che ci giravano intorno quasi fiutando: e già lo scialle di madama mi calava addosso, ampio abbastanza da nascondermi interamente. Non me l'aspettavo e tuttavia mi appiattii, attraverso il tessuto udii aprirsi uno sportello e una voce più sonnolenta che marziale chiedere chi viaggiasse e perché. Ero convinto che mi avrebbero scoperto, ci vuol così poco a sollevare il lembo di uno scialle e mi torcevo per l'umiliazione: è lecito nascondersi ma non sotto un indumento femminile e già vedevo lo scherno dei soldati, la disperazione di Florence, definitivamente compromessa. Perché non mi aveva ascoltato, perché era ricorsa a quell'espediente puerile? Avvenne allora ciò che non credevo possibile per una donna spaventata: ferma e calma, nella durezza accentuata della pronuncia straniera mi giunse la sua voce: «Casa Ashley, Servizio di Sua Maestà Britannica, abbiamo fretta». Con minor alterigia, credo, avrebbe dichiarato l'esser suo un ambasciatore con tanto di credenziali. Seguì un silenzio, un borbottio come di scusa e lo sportello fu ribattuto. Il grido del conducente ai cavalli, il sibilo della frusta e d'un balzo la carrozza si rimise in moto. Non scambiammo una parola né ci muovemmo, per un buon tratto io rimasi fermo sotto lo scialle che ancor seguitava ad abolire la mia presenza. Non provavo il sollievo dello scampato, ma l'odioso torpore di un infermo che le cure dei medici costringono a vivacchiare. Chi aveva salvato, madama Cornero? Un uomo che, se l'avesse potuto, avrebbe scelto di non esistere, di dissolversi in un mucchietto di cenere. Quello era il giorno delle mortificazioni e ne avevo toccato il fondo abdicando al mio diritto di decidere e alla facoltà di pensare, ogni moto del cervello mi coglieva in contraddizione. Al posto della riconoscenza non trovavo adesso che il rancore degli schiavi mal soggiogati, oltre all'avvilente riflesso che, per Florence, il fatto di esser moglie di un prefetto italiano non aveva valore né prestigio. Nel pericolo, l'istinto le aveva suggerito di appellarsi alla fierezza di essere inglese. Né si era sbagliata, purtroppo, sapeva che tanto i piemontesi come i napoletani si piegavano servilmente al nome di una potenza straniera. Non glielo avevo ricordato io stesso, poco innanzi? Zitto ritto, respinsi lo scialle, sulla mano che lo allontanava ne sentii il contatto come una lieve carezza. Nel buio appena baluginante di chiarore lunare ebbi l'impressione di esser solo, quasi la mia compagna fosse rimpicciolita, vanificata. Fu un'impressione dolorosa, più forte dei miei miserabili risentimenti. Avevo desiderato di scomparire, adesso era lei che mi abbandonava, come fra poco sarebbe avvenuto. Per ignoti che fossimo l'uno all'altra avevamo scambiato idee che ci ravvicinavano e ci davano l'illusione che una lunga consuetudine ci legasse: lei non era nulla per me ed io nulla per lei,
eppure non c'era al mondo altra persona che si fosse curata di me al punto da impormi la sua pietosa volontà. Non ero sciocco abbastanza da fantasticare che fossimo, Florence ed io, due anime affini, né mi passò per il capo di concludere quell'incontro con spiegazioni e domande indiscrete: ma al pensiero di separarmi per sempre da lei l'animo si rifiutava come a una stolta ingiustizia. Ne nasceva un sentimento di solenne rassegnazione che addolciva l'asprezza delle mie disgrazie e le rendeva accettabili. Non mi stupivo che Florence continuasse a tacere, leggevo nel suo silenzio come nel mio, sapevo che ogni commento sarebbe stato inopportuno. Difatti, quando disse: «Ecco lo steamer» mi parve di essere al termine di una passeggiata di diporto, durante la quale si è piacevolmente conversato e poi, mancando gli argomenti, ognuno ha ripreso il corso dei propri pensieri sino all'arrivo a casa. Avvertito, il cocchiere voltò per un viottolo fiancheggiato di agavi e di pinastri e le loro ombre leggere frastagliavano il suolo di vaghi disegni, mutevoli allo spirare della brezza. Ogni aspetto, ogni circostanza era semplice e come preordinato in una placidezza superiore: nell'arco della piccola insenatura il mare di un'argentea lattescenza, l'immobile steamer con la sua sagoma elegante e le sue perfette alberature, il rumore delle ruote e degli zoccoli equini, soffice, nel terreno sabbioso. Una miracolosa puntualità regolava il realizzarsi di quel convegno notturno di cui non mi curavo più d'indagare per quali vie e mezzi fosse stato possibile. E tutto si svolse con la fluidità di azioni e di gesti solari, ripetuti alla luce mite di un ricordo. Scendevamo adesso a piedi, per un sentieruolo roccioso, raggiungevamo la battuta: lì sciaguattava un canotto, col suo marinaio che saltò a terra appena ci vide. Scambiate con lui brevi parole nella lingua nativa, Florence si rivolse a me, gentile e composta, anzi un poco formale. «Salutatemi mio cugino: è un gentiluomo amabile sebbene un nonnulla stravagante: siamo tutti così, in famiglia.» Rise e si strinse freddolosamente nello scialle. «Siete ormai sotto la protezione della bandiera britannica» aggiunse: e mi stese la mano. Non so cosa avrebbe fatto, trovandosi nei miei panni, un uomo più giovane e meno provato di me. So soltanto che quel congedo così sbrigativo mi gelò. "Sotto la protezione della bandiera britannica!" Florence non era più la donna che due ore prima si era appoggiata al mio braccio e neppure la tormentata signora della poltrona a dondolo. Dolorosamente pensavo: non tornerò più in Calabria e la mia terra e l'amica erano la stessa cosa. Ritta, un tantino impaziente, lei aspettava che m'imbarcassi magari temendo che eccedessi nei modi di ringraziarla. Ma forse, no, aveva soltanto fretta, ora che la sua volontà era esaudita. «Non perdete tempo» insisté «qui tutto è tranquillo, ma non sarete sicuro che a bordo.» La mia risposta fu: «E voi?». Di nuovo rise e più a lungo. No, non era commossa, soltanto per il freddo le sue labbra tremavano. «Oh io!» esclamò. «Non vorrete mica che m'imbarchi con voi! Non ce n'è bisogno perché Cialdini creda alla mia storiella romantica. Me ne ritorno a casa, voglio dire a Reggio, in prefettura, e mi metto a letto. Fra poche ore la soperchieria della vostra fuga sarà scoperta e avrò da divertirmi, magari mi chiuderanno nel Forte.» Scherzo o sfida spavalda? «Addio amico. E ricordatevi di Caterina.» Alzai la mano a salutarla come se già fossi lontano e saltai nella barca. Lei aveva voltato le spalle al mare e la sua ombra sul bianco gessoso del sentiero appariva e spariva fra i ricami degli arbusti. Capitolo 5. Se penso al tempo - un anno fa o poco più - che la proposta mattutina di una nuova giornata m'infastidiva come un utile chiacchiericcio, non
mi riconosco. E difatti, fermo tra un lungo passato pieno d'ombre e un istantaneo presente, spingo lo sguardo avanti quasi calcolassi di raggiungere, prima di morire, una meta precisa. Questo ho guadagnato, dal momento che ho ceduto al desiderio di un soliloquio che sostituisce un impossibile dialogo fra me giudice e me imputato. La lotta si è conclusa in un fallimento: voglio dire che mi ritrovo al punto di partenza, cioè di non sapere se ho camminato per vie diritte o storte. E il male non è tutto qui, perché l'età e la stanchezza non mi hanno guarito dalla smania di andare in fondo, di rovesciarmi come un guanto e scoprire in me il seme di ciò che chiamiamo destino, e dipende invece dallo scatto delle nostre decisioni. Devo pur trovare il bandolo della matassa, capire se una errata interpretazione delle idee che ho sostenuto sia responsabile o no di quel che è successo: l'Italia di oggi, gretta, povera, superba. Ho paura. Paura di non riuscirci e morire così è come non esser nato. Me ne importa molto di questa penisola popolata di gente a cui non ho più nulla da dire? Temo di no, sebbene il suo nome mi abbia empito la bocca per anni e anni, come una giaculatoria di beghine. Troppo grande e complesso è il mondo perché un uomo di senno si contenti di quel che ha sotto il naso fra le pareti di casa sua e chiuda le finestre quando una luce spietata lo disturba. Uno nasce uomo prima che italiano o peruviano e devo confessare che anche nel carcere talvolta il concetto di patria mi è parso una condanna. D'altronde, pochi viaggi ho fatto e non me ne rammarico, il viaggiatore per inclinazione è spesso futile e parziale. Quando mi son trovato in paese straniero il mio primo istinto è stato chiudermi in una stanzetta e uscirne come un nativo del luogo, senza prevenzioni. Insomma fingermi e a poco a poco conquistarmi una seconda vita affatto immemore della prima. Così ho cercato di fare anche in questa Italia del nord che è per me paese estraneo al pari della Svizzera e della Francia le sole nazioni di cui ho varcato la frontiera. Se mi riconosco una patria, essa è piccola fra due mari, una terra squallida, consolata da monti selvosi, dove la lingua è scura e dolente, e non la intende che chi ci è nato. Quando l'ho lasciata, nel '62, sapevo che non ci sarei più vissuto, ma non ne ho sofferto. Essa è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna e intatta nel passare dei secoli che la sfiorano, indifferenti al suo bene e al suo male: tanti ne ha visti, tanti ne vedrà senza batter ciglio, il privilegio dei disperati. Me ne sono bandito e non mi curo di morire in Piemonte dove mi sarebbe piaciuto vivere da buon cittadino, e non è stato possibile, un calabrese, qui, è uno straniero malvisto. In questa stanza sono con me esiliati e rinchiusi gli oggetti che ho familiari, superstiti della mia casa di Reggio o portatimi in dote da Marietta: essi convivono, ma, come i nuovi italiani, non fraternizzano. L'alto specchio di gusto francese raddoppia con una certa malignità le pesanti colonne del mio letto napoletano; accanto al capezzale ho il massiccio comodino che Concetta strappò al saccheggio della nostra casa di Pizzo e volle regalarmelo, poveretta, quando la presi con me. Laggiù, presso la finestra, è la scrivania del tempo di Murat, lasciatami per testamento da uno zio materno che non ho mai visto. Conto quattro seggiole Luigi Quindicesimo, coperte di broccatello sfilacciato, carissime a mia moglie. Questa accozzaglia di relitti forma l'inventario della mia vita civile, ormai lontanissima. Lontananza per lontananza, preferisco, come al solito, chiudere gli occhi. Da qualche giorno rifiuto di alzarmi, forse non ne sono capace. E mi pare che questo giacere passivo, con un corpo di cui perdo cognizione debba durare quanto il giacere in culla di un infante. Poi l'infante si leva sulle gambe e io prenderò una strada per cui le gambe non servono. Strano, ho avuto un'infanzia e l'ho cancellata dalla memoria
come se me ne vergognassi: ecco dove dovrei frugare per riscoprirmi del tutto; ma non so come raggiungerla. Abbandonarsi, mi dico, lasciarsi accostare da immagini remote, bestiole paurose che lambiscono e scompaiono. Affondare per riemergere galleggiando. Se sbaglio ci fu, nel formarsi della mia coscienza, dovrei, con questo mezzo, coglierlo a volo. E' stato facile, più che non credessi. Mi vedo sul mare, nel mare, nuoto come tante volte mi è accaduto in sogno, e mi accorgo di essere felice perché il cielo è glorioso e l'aria fresca: ma soprattutto ecco la prima scoperta - perché sulla battima c'è Pasquale. Nome e figura son tutt'uno, non c'è altro Pasquale nel mondo. Non è un parente, né un servo, né un aio. E' l'uomo che mi appartiene, quello che scongiura con la sua presenza i miei peggiori nemici, la scontentezza, l'inquietudine. Scivolo verso di lui che un giorno mi disse: tu sai nuotare, e io gli credetti e nuotai. E' piccolo, vecchio, magro, dietro le sue spalle - ossa e pelle di bronzo - anche Pizzo è tutto mio, questo è il miracolo di Pasquale che traccheggia con le sue reti e nasse, ma è lì per sorvegliarmi. Affannando gioiosamente, punto i piedi sui sassi della riva e mi arrabbio: «Vattene» gli dico «non ho bisogno di te, sono grande». Ho sei o sette anni, stendo le braccia, lo spingo. Senza badarmi, quasi senza muoversi, m'imprigiona, trattenendomi fra le sue mani pelose. Sul vello canuto del suo petto che sa di sale e d'alghe, le mie membra gustano una dolcezza segreta, un benessere puro. L'abbraccio da cui mi sciolgo è paterno e io non ho padre. Di tutto posso dubitare ma non del fatto che Pasquale mi ama al modo che fa per me, con forza e scontroso ritegno. Fu appunto lui che per primo mi parlò di mio padre, scomparso poco dopo la mia nascita. Di regola, silenzioso per ore e tutto occupato dei suoi lavori, qualche volta si metteva a borbottare, un po' volgendosi a me, un po' taroccando per conto suo. Steso, fra un bagno e l'altro, sulla sabbia della riva, cotto e insonnolito, ascoltavo e non ascoltavo: se aprivo un occhio vedevo proiettata accanto a me un'ombra tozza e grottesca che mi ricordava il mostro di pietra, mezzo uomo e mezzo cavallo, dissepolto da poco nei pressi della Mongiana. Pasquale parlava per sentenze e a volte sembrava che si lamentasse: il senso che ne ricavavo era di favola, ma senza streghe e incantesimi. Burrasche di mare, caverne, tesori nascosti e guerrieri invincibili di ogni specie, mori turchi normanni. Chi rubava e chi donava ai poveri, chi combatteva a viso aperto e chi pugnalava alle spalle. Di tanto in tanto la favola si avvicinava alla mia piccola esperienza di orecchiante fatti di cronaca: spie, supplizi, traditori vestiti da prete, briganti: e nomi di città, di persone, Palermo, Marsiglia, Jerocades, Di Blasi. «Se fosse vivo don Giuseppe.» Sapevo che questo don Giuseppe era mio padre e che Pasquale lo aveva conosciuto. Fu su quella spiaggetta dove i pescatori si dividevano la pescata che la figura di mio padre prese i contorni di un uomo non comune: gran fegato, umore bizzarro e signore generoso. «Quando nasceste voi volle dare una festa straordinaria, alla faccia dei suoi nemici.» Di feste, in casa mia non se n'erano mai viste, il clima era di un lutto dimesso, un poco vergognoso. Dai discorsi di Pasquale, in seguito, imparai che don Giuseppe aveva patito ingiustizie e persecuzioni, e lui se ne infischiava. «Aveva quasi sessant'anni quando s'incapricciò della ragazza.» Parlava di mia madre. «E si capisce che gliela diedero, era ancora ricco, sebbene spatriato. Ma non sapevano che era un "maestro", dopo fu troppo tardi. Lei, poveretta...» Quegli accenni alle nozze dei miei genitori si legavano a certe chiacchiere delle vecchie serve: «A diciassette anni la sposarono a quel "maestro" di fuorivia, che lei non lo voleva...» La parola "maestro" aveva per me un significato sinistro, chi la pronunciava
abbassava la voce, mai avrei osato pronunciarla, e tanto meno al cospetto della mamma; in essa fiutavo un legame colla tristezza che pesava su casa mia. Tutti avevano dei nonni, degli zii paterni, io no, una coltre di silenzio era stesa sulla famiglia di mio padre: i parenti che sentivo nominare avevano il cognome di mia madre, i loro ritratti non mi erano simpatici. Lei portava al collo un medaglione di onice nera, m'immaginavo che contenesse la miniatura di mio padre ma non ne ero sicuro e non le chiesi mai di aprirlo e mostrarmelo. Poggiava, quel medaglione, sul suo seno dorato e a ogni movimento del lungo collo oscillava e si sollevava lievemente al ritmo del suo respiro. Caddi dal fico, un volo di tre buoni metri che finì sulla terra dura di un campo sodo. Ebbi il tempo di vedere, china su di me, la faccia selvatica di Rosario il vignaiolo e quando ripresi conoscenza ero a letto e il cerusico Zosimo mi tastava e diceva: «Niente di rotto, donna Giuseppa, potete vantarvi che il vostro ragazzo ha le ossa di ferro». Allora dormivo in solaio, un soffittone pieno di roba vecchia, arredi scassati, attrezzi in disuso, tutti oggetti che m'incantavano e servivano ai miei giochi solitari, non avrei scambiato quel luogo con nessun altro. Mia madre, invece non si consolava di vedermi così mal sistemato: la sua casa era ampia, ma la nuora francese aveva reclamato per sé tutto l'appartamento del piano nobile. Ora mi trovavo in camera della mamma, a pianterreno, disteso sul suo letto, e sebbene mi girasse la testa e vomitassi, cominciai a battagliare che volevo esser portato lassù nel mio regno. «Meglio non muoverlo» aveva detto il cerusico, dopo avermi cavato sangue dal piede, ma feci tante bizze che la serva Ignazia mi prese in collo e mi scaricò lassù, sulla mia brandina. Così mia madre dovette rassegnarsi, fece portare in soffitta la sua poltrona e ci passò a vegliarmi intere nottate. Quella cara presenza, di cui in tempi normali poco godevo, diede l'ultimo tocco di perfezione al mio solaio. Non avevo ancora compito i nove anni, per lei ero un bambino piccolo amante delle fiabe: per tenermi tranquillo prese a raccontarmele, ma il suo repertorio era modesto. Una parola tirando l'altra, i suoi pensieri prevalevano e poiché la fantasia non l'assisteva, al posto di maghi e folletti compariva una famiglia disgraziata («straziata», ripeteva increspando la fronte in un groppo di rughe che non le conoscevo) bersaglio della sventura, affidata alle cure di una donna giovane e inesperta. Vistala così agitata, l'istinto mi suggeriva di fingermi assopito, intuivo che quelle vicende disastrose erano le nostre e ascoltavo avidamente. Erano storie cupe di aggressioni notturne, fughe, saccheggi, i vecchi, morti di crepacuore, i giovani dispersi. Parlava come a colpi di tosse: «Intanto lui si era nascosto chissà dove, sui monti, in ogni spelonca trovava compagni e amici. Per mesi lo credevi morto, poi te lo trovavi in casa, in camera da letto, come scaturito dal pavimento. Cenava tranquillamente e si coricava accanto alla moglie. Sette figli!». Trattenevo il fiato, ma anche se avessi aperto del tutto gli occhi ormai non si sarebbe fermata. Talvolta si alzava dalla poltrona e bisbigliando fra sé camminava in lungo e in largo a passi lentissimi: la paura per la mia caduta aveva aperto il rubinetto delle sue pene, quello sfogo le era necessario. Infine sentivo la sua mano sulla fronte e fingevo di svegliarmi. Allora ritornava in sé, mi sorrideva. «Benedetto figlio, e non c'erano fichi abbastanza in tavola che dovevi arrampicarti sugli alberi per mangiarne?» Sotto quella carezza dimenticavo il suo racconto tetro, l'ombra dell'uomo che spariva e ricompariva. Ero felice come sul mare, nei giorni di sole. Per trattenere la mamma, feci a lungo il convalescente e ci guadagnai che quando lei ridiscese alle sue occupazioni, la sostituì Pasquale, venuto dal suo porticciolo a custodirmi. La poltrona era ritornata al
pianterreno, Pasquale sedeva su certe cassette vuote con cui m'ero spesso divertito a costruire fortilizi e macchine di guerra. Non ero mai stato malato prima d'allora e l'immobilità aveva maturato e sveltito il mio cervello. C'era molto di comune fra le storie di mia madre e le allusioni di Pasquale: adesso lo avevo a portata di mano e decisi di approfittarne. Ma c'era una difficoltà, fin da piccolo mai avevo seguito il costume dei ragazzini che tempestano gli adulti di una gragnola di domande: mai avevo chiesto: "Perché?". Anche questa volta non interrogai il mio custode, preferii portarlo sull'argomento che mi interessava e dargli corda: confrontando i suoi racconti con quelli della mamma avrei forse ottenuto almeno una parte delle verità che mi erano nascoste. Il sistema funzionò male: strappato alla sua catapecchia e introdotto in una casa che lo suggestionava ed eccitava, il vecchio aveva una gran voglia di parlare. Senonché ciò che raccontava non integrava affatto quanto mia madre si era lasciata sfuggire, anzi coincideva con il frutto del mio fantasticare, e inventare. Sapevo già che per lui mio padre era stato quel tipo di protagonista leggendario che piace alle plebi, un fuorilegge che giocava col pericolo e sempre vinceva sostenendo i deboli e beffando l'autorità costituita: insomma una specie di paladino del tempo di Carlo Magno. Non era questo che m'importava, bensì le ragioni per cui s'era messo per quella strada. La speranza di arrivare ai miei fini si allontanava, mentre un precoce scetticismo mi avvertiva che il mio informatore era incapace di soddisfarmi. E poi Pasquale le sparava troppo grosse anche per un ragazzo della mia età: se dalla fiaba mia madre era scivolata nella storia reale, a lui succedeva il contrario, la storia diventava favola nella sua bocca. Uno dei suoi temi favoriti era la Sicilia dove era nato e donde aveva iniziato i suoi avventurosi viaggi per mare: ne aveva ancora una tale nostalgia che nominandola, gli venivano le lacrime agli occhi. Non c'era terra più bella, e lo sapeva mio padre che non s'era mai consolato di aver dovuto lasciarla. Un imperioso "perché" mi bruciava la lingua; ma riuscivo a trattenerlo, mentre il poveruomo, credendo di compiacermi, si buttava a descrivermi le magnificenze dei miei misteriosi parenti siciliani. Una casa splendida, sale e saloni, cucine e dispense colme di ogni ben di Dio, un esercito di servi "pasciuti e allegri"; e giardini e scuderie e campagne a perdita d'occhio. Non gli credevo e la mia delusione diventava ben presto noia e impazienza. Lo interrompevo: «Non è vero, sono tutte bugie, smettila!». E rimanevo solo, a macerarmi di un confuso dispetto. A finire la convalescenza mi avevano spedito dal massaro Tognazzo, sulla via di Monteleone e passavo le giornate all'aria aperta, la masseria era un palazzotto in rovina che un tempo era stato casa di signori. Ricordo un grande orto glauco di cavoli e certe caprette stizzose che brucavano le siepi, tintinnando dai loro campanelli: e mosche, mosche a nuvoli. Pasquale era con me, era stato assunto da mia madre per aiutare le serve di casa, ma soprattutto per vegliare su di me e accompagnarmi. Lui aveva capito che i suoi fantasiosi racconti non erano di mio gusto, ma ormai il male era fatto, tutto quello che riguardava mio padre, il suo paese d'origine, i suoi parenti, m'infastidiva. Al mio solito, avevo tirato le somme per conto mio concludendo che se Pasquale non mi aveva spiegato il motivo della sua fuga e della perdita dei beni, doveva esserci sotto qualcosa di non confessabile, di disonorevole. Ecco perché la mamma non me ne aveva mai parlato e solo nelle notti angosciose della mia malattia i ricordi l'avevano tormentata come incubi. Io m'ero messo, in quei giorni, ad amarla disordinatamente, struggendomi di non saperglielo dire. La vedevo bella come nessun'altra donna, il colmo di ogni perfezione, condannata a una vita di sacrifici. E da chi, se non dall'uomo che
l'aveva sposata e se n'era andato a vivere e a morire chissà dove, senza curarsi di lei e dei figlioli? Più ci pensavo, più il mio rancore cresceva, m'indignava persino il fatto che questo don Giuseppe, padre di sette ragazzi, non avesse lasciato dietro di sé neppure una di quelle tombe fastose che i notabili del nostro paese preparano per sé e per i familiari. Un giorno, era d'inverno, e Pasquale mi accompagnava a lezione da don Zimadore, scoppiai all'improvviso. Eravamo alla porta della chiesa, io dovevo attraversarla per entrare in sacrestia e di lì nell'alloggio del canonico. «Don Micuccio» mi fa lui «io mi fermo ad ascoltare una messa per la sant'anima ché oggi è l'anniversario.» Con la mano sul coltrone, mi volto, lo fisso: «Che sant'anima e anniversario se non sai nemmeno quando e come è morto, e forse è dannato». Fu la volta che Pasquale si arrabbiò. Con una strappata sollevò il coltrone, poi si chinò al mio orecchio: «morto da martire per la setta, vergognatevi» scandì a voce bassa e vibrata. E già era entrato in chiesa lasciandosi ricadere il coltrone alle spalle, senza curarsi di me. Rimasi per un buon tratto balordo, a rimasticare quel vocabolo: "la setta", che sentivo pronunziare per la prima volta: don Zimadore, quel giorno, dovette battermi col righello sulle dita per ricondurmi alle coniugazioni latine. In capo a un'ora, trovai Pasquale alla porta della sacrestia, rigido e immusonito, durante il ritorno a casa non disse una parola, non mi prese per mano, anzi mi precedeva di mezzo passo quasi non mi conoscesse. Poi, sempre taciturno, se ne andò in cucina a girare l'arrosto e non ci fu verso che si voltasse dalla mia parte sebbene mi sentisse alle sue spalle. Poco dormii quella notte e la mattina per tempo mi affaccio al mio finestrino: ecco Pasquale, con ramazza e becchime, avviarsi al pollaio, che era una delle sue incombenze. Volo per le scale, gli vado dietro, gli tocco un braccio: «Ne', Pasquà, e cos'è questa setta?» articolo umilmente vincendo la mia caparbia ritrosia a domandare. Dapprima non rispose, credo per puro contegno. C'era freddo e puzzo nel pollaio, ma dovette sembrarci il luogo ideale per una conversazione segreta e io, quasi ci fossimo accordati, mi misi in moto, procurando di aiutarlo: mai le galline di mia madre furono così diligentemente accudite e nutrite. Non so se per punirmi o perché la giudicasse oziosa nella bocca di un ragazzo calabrese, ignorò i termini della mia domanda o meglio la scavalcò, abbandonandosi alla sua natura sentenziosa, amante del mistero. Si dava il caso che il cortiletto dove ci trovavamo e le mura che lo chiudevano non erano estranei ai fatti che prese a raccontare, anzi ne erano stati, a sentirlo, teatro e strumento. Io avevo dimenticato la mia incredulità e pendevo dalle sue labbra mentre m'indicava, volta a volta, quella finestra interrata, quel pertugio coperto dall'edera, gli anelli di ferro a cui un tempo si assicuravano i cavalli. «Nulla è cambiato» diceva «solo lui manca. Qui si riuniva la setta, tutti galantuomini che volevano il bene della povera gente: ma mica nelle stanze di sopra. Sgusciavano per di lì, a uno a uno, nei sotterranei, posti sicuri che nessuno sbirro li scoprì per quanto frugassero. Una pietra girava, liscia come un foglio di carta e poi si richiudeva che non ci sembrava altro che muro. Chi voleva poteva uscirne per un altro foro, alla campagna e andarsene per i fatti suoi, sotto l'occhio dei feroci. Ci venivano da Napoli e anche dalla Francia, tutti "maestri" furbi come volpi. Michele Pezza e il cardinale non facevano una mossa che loro non lo sapessero. Don Giuseppe riceveva tutti da gran signore, laggiù non mancava nulla, armi, vivande, cordiali. Vostra madre, nel suo salotto, tremava, ma sempre lo aspettava e non voleva crederci quando lo presero a tradimento...» Da quel mattino, la pietra girevole fu per me "la setta" e divenne,
per qualche mese, la mia fissazione: la cercavo, mai la trovai, ma non dubitavo che esistesse e che mio padre avesse ragione, se era nemico del Pezza, un nome noto anche ai bambini come una specie di lupo mannaro capace di ogni nequizia. Perlustravo le nostre cantine, ci si scivolava nel colaticcio ed erano buie e vuote di tutto, neppure il vino e l'olio ci si conservava, tanto l'aria era corrotta. Ma avventurarmici era una prova temeraria di cui ero fiero, a dispetto delle beffe dei fratelli, quando mi ci coglievano. Col tempo, smesse queste bambinate, esse rimasero alla base della mia inclinazione a cospirare: col pericolo di non saper sempre distinguere il fine dai mezzi. "I fratelli": una parola dolcissima che fra gli affiliati alle sette si spendeva largamente e con fervore. Ma se dico "i miei fratelli" la dolcezza scompare e provo invece un tristo disagio. Sei maschi partorì mia madre e una ragazza, uno le morì in fasce e io rinnovai il nome. A parte Concetta, niente ci legò mai, non avemmo in comune un'idea, un sentimento: fratelli per caso e non sodali. Nato per ultimo non mi accorsi che mi amassero: quanto a me, ne avevo una spiacevole soggezione mista di un istinto di difesa. Credo che risalga a questo istinto il mio diffidare dell'assioma per cui la famiglia sarebbe un istituto insostituibile, a fondamento della civile società. Forse è una bestemmia e mi son sempre guardato da accennarvi, specie con Marietta, affezionatissima ai suoi. Lo scrivo qui perché non è con un piede nella tomba che si temono le parole grosse. Sta di fatto che l'esperienza mi ha confermato come nella cerchia casalinga si annidino spesso ipocrisie ed egoismo, talché per l'uomo giusto non c'è pericolo maggiore di quei vincoli cosiddetti naturali. Uno dei miei più gravi rimorsi è di avere, per paura della solitudine, preso moglie e generato figlioli: essi mi sono carissimi, ma se fossi rimasto fermo ai miei principi avrei concluso ben più degnamente la mia vita. Fin dall'infanzia vissi così isolato dai miei fratelli che, mentre ho ancora davanti agli occhi le rughe di Pasquale e la grinta di certi paesani, non so ricordare, per esempio, le fattezze di Stefano. Lo rividi già vecchio, un vecchio qualunque, e se forzo la memoria dei miei primi anni, distinguo appena il color livido delle sue guance mal rasate e il modo come alzava il mento se gli si chiedeva qualcosa: una domanda era per lui un'offesa alla sua autorità di primogenito. Dicevano che somigliasse a nostro padre e in casa tutti lo temevano. Giorgio, il secondo, era malaticcio e di rado usciva di camera, avvolto in una sua palandrana arabescata: mi pare che fosse biondastro, sputava nel fazzoletto e mangiava separato. Morì che ero a Montefusco. I gemelli vivevano a Catanzaro, in collegio, raccomandati ai parenti della mamma, erano molto devoti e quando venivano d'estate a Chiaravalle, fra novene e litanie pareva di essere in convento. Tutta la mia famiglia si restringeva a mia madre e a mia sorella: Cleo, la moglie francese di Stefano, faceva vita a parte. Quando non ero a lezione o sulla spiaggia era perseguitato da Concetta che pretendeva insegnarmi le buone maniere imparate dalle Suore. Spesso la mamma partiva per Catanzaro, per accudire ai nostri imbrogliati interessi o per qualche necessità dei gemelli, diceva di preferirli agli altri suoi figli perché si portavano bene a scuola: infatti me li citava sempre ad esempio aggiungendo che da loro soltanto sperava sollievo alle sue preoccupazioni economiche. Tutti qui, i ricordi della mia casa natale che evitai di rinfrescare a Cosenza e a Reggio, malgrado le nostalgie di Concetta. Un momento: dimenticavo Cleo. Di prima sera la sentivo cantare a mezza voce accompagnata dall'arpa: presi l'abitudine di ascoltarla a Chiaravalle dove si stava per lunghi mesi, per economia. Ero sui quattordici anni e da tempo sapevo tutto sulla setta e su tante altre cose, sicché mi credevo uomo fatto, adesso a mio padre pensavo di rado, pur avendo restituito alla sua
memoria stima e rispetto. Ma il suo modo di cospirare, quel poco che mi era venuto all'orecchio dei Carbonari e delle "vendite" mi pareva un giocare al gatto e al topo, insomma roba vecchia. Io almanaccavo ben altro, sognavo la lotta dichiarata, la guerra aperta, anche se non mi rendevo ben conto contro chi si dovesse combattere. Studiavo disordinatamente, senza dare esami e leggevo quel che mi capitava, in specie libri di storia che mi prestava don Zimadore. Per il momento non facevo progetti, aspettavo con impazienza non so che occasione, languendo per il desiderio di possedere un fucile tutto mio. Quel tempo fu per me una lunga estate, giacché passavo la santa giornata vagabondando dove mi piacesse, oppure oziando in giardino dove, appunto, mi raggiungeva il canto melanconico di Cleo. Ero bambinetto quando Stefano l'aveva sposata e non era un segreto per nessuno che la mamma non l'amava, pur cedendo a tutti i suoi capricci: più che una persona di famiglia Cleo era una signora di riguardo che alloggiava in casa nostra. Per poco che la vedessi, mi colpiva in lei qualcosa che era, insieme, impeto e debolezza, una specie di smunta violenza che a volte m'impauriva. A Napoli le donne eccedono in grassezza, in Calabria sono piuttosto asciutte. Ma Cleo era di una complessione particolare: agile come un ragazzo e di movimenti rapidi e bruschi, ora sembrava rotondetta, un minuto appresso fragile come vetro. Tanto al Pizzo che in campagna poco usciva dalle sue stanze, servita da una cameriera di fuori che le altre domestiche vedevano di malocchio. Non la chiamavano col suo nome straniero, ma "la nuora francese", e quel nome valeva anche per me. Non avevo provato mai nessuna curiosità per lei, immaginando che in ogni famiglia esistesse una donna che le somigliava e considerandola una di quelle monache di casa, così frequenti da noi. Fui molto seccato, dunque, un giorno che, a fin di tavola, mentre aspettavo il permesso di alzarmi, la mamma mi fermò per avvertirmi che da oggi mia "cognata" mi avrebbe dato lezioni di francese. Mi rannuvolai, non avevo mai applicato quel vocabolo alla nuora francese né pensato di impararne la lingua da lei. Concetta mi obbligò a lavarmi la faccia e le ginocchia, mi fece cambiar di camicia e mi condusse di sopra. «Bussa» mi disse e lì mi piantò senza curarsi delle mie proteste. Ero sconcertato, non intimidito e se esitai a bussare fu perché cercavo un espediente che mi liberasse da una lezione supplementare che prevedevo fonte d'infiniti sbadigli. Avvenne invece che, fin da principio, quella prima intervista mi divertì, l'ambiente in cui entrai e soprattutto l'accoglienza di quella personcina bizzarra furono uno spettacolo per me. Di lezione non si parlò, ebbi l'impressione che non le paresse vero di aver qualcuno con cui chiacchierare. Non avevo mai notato il suo curioso accento che precipitava comicamente sull'ultima sillaba di ogni parola, ma quello che più mi meravigliava era la sua instabilità: non stava mai ferma, girava di continuo per la stanza, apriva cassetti, ci frugava, scompariva nella camera attigua, sostava davanti allo specchio per aggiustarsi i capelli: e parlava, parlava. Infine prese un'aria compunta e sedette sfogliando un libro. Ci siamo, mi dissi: e lei alzò gli occhi e mi guardò, capii che le veniva da ridere. «Di' la verità» sussurrò ammiccando «te l'hanno detto che sono un po' matta?» E la risata che aveva in pelle scoppiò, fragorosa. Feci presto a entrarle in confidenza, più che una maestra era una compagna, sicché non mi capacitavo come mai un tipo così socievole vivesse appartato dal resto della famiglia. Il suo insegnamento consisteva nel conversare intercalando francese e italiano, senza preoccuparsi se intendevo o no la sua lingua; oppure nel leggermi qualche brano francese, esigendo che lo ripetessi parola per parola a pappagallo, il che ci portava a una comune ilarità. Ma non mi divertivo affatto, anzi mi annoiavo, quando Cleo si metteva a
recitarmi certe lunghe tirate poetiche che, a quanto ne capivo, esalavano i sospiri di un amante infelice. Senza badarle, mi distraevo andando alla finestra o giocherellando coi suoi innumerevoli gingilli: quando non decidevo che la lezione era finita e pigliavo la porta lasciandola astratta a tal punto che neppure mostrava di accorgersene. Un giorno essa interruppe una di quelle letture scoppiando in un pianto dirotto, talché non ebbi cuore di andarmene e rimasi lì fin che non si fu calmata: né ci feci caso, conoscendo ormai il suo carattere. Ma il più delle volte gettava il libro e giocavamo a nasconderella. Aveva una gran provvista di confetti e li sgranocchiava con me, mentre guardavamo insieme certe buffe figurine di un suo album. Io sedevo su un basso sgabello e lei su una pila di cuscini accatastati, se ci avesse sorpresi mia madre, certo se ne sarebbe scandalizzata. Del resto in quel salotto, fitto di mobili e sopramobili, così diverso dal resto della casa, trovavo sempre qualcosa da scoprire. Particolarmente mi attraeva la grande arpa che vi troneggiava: una volta ne avevo pizzicato le corde e mi aveva risposto un suono chioccio e sgradevole che contraddiceva la bellezza dello strumento. In mia presenza, Cleo non lo suonò mai, né cantò. Solo più tardi, quando le lezioni furono sospese, conobbi da lontano il singhiozzo dell'arpa e la voce di lei. Fu, suppongo, nell'estate del '27 che li ascoltai per la prima volta. Da allora, sebbene non volessi confessarmelo, non mancavo mai all'appuntamento di quel canto che del resto si staccava dalla persona della musicista, quasi mi venisse incontro dalla campagna, insieme al sommesso frinire dei grilli. Sedevo in giardino e non pensavo a nulla, ma il canto mi penetrava così intensamente che quando era cessato lo trattenevo in me seguitando, per così dire, a respirarlo. Per il gran caldo estivo che rendeva soffocante l'aria della mia camera, mi fermavo all'aperto sino a notte alta e, supino, fissavo il cielo. Era il vecchio gioco di ogni estate, l'azzurro, via via incupito, si approfondiva sino a scavarsi in un abisso concavo che, turbinando insensibilmente a spirale, pareva risucchiarmi, mentre la terra mi respingeva lievitando. Più mi abbandonavo, e più cresceva la sensazione di precipitare nel vuoto il gioco stava tutto qui, nella paura da sfidare e superare all'ultimo momento, sollevandomi a sedere e ricuperando con delizia la certezza di essere ben piantato sulla terra. Il mio, in fondo, era una viaggio di andata e ritorno fra le stelle. Ebbene, il gioco non funzionò più, il cielo rimaneva piatto e lontano come se qualcosa gli avesse impedito di abbassarsi o io fossi divenuto troppo pesante per volargli incontro. Era una privazione: senonché, risuonandomi ancora all'orecchio la voce da poco spenta, scoprii all'improvviso che di null'altro mi importava, che avrei voluto riascoltarla e che in essa si condensava l'incanto della notte e della campagna. Meccanicamente mi volsi alla facciata della casa che mi stava alle spalle: tutte le finestre erano buie, eccetto quella a pianterreno della mamma, da cui trapelava il baluginare del lumicino sempre acceso davanti alla Addolorata. Dormiva, Cleo? Sollevati gli occhi al secondo piano mi perdetti a immaginare cosa facesse dopo aver suonato e cantato, sola com'era e sofferente d'insonnia. Così pensando, mi parve di distinguere nel vano oscuro di una di quelle finestre una figura chiara che si muoveva lievemente. Non era una tenda agitata dal vento, era proprio lei, Cleo. Da mesi, essa era ritornata per me l'inquilina invisibile di casa nostra. Non ero più salito da lei per le lezioni, né lo desideravo, ma l'averla frequentata mi aveva chiarito a poco a poco il segreto della sua vita singolare. Abbandonata da Stefano che, a sentir la mamma, sprecava tempo e denari in spassi di ogni genere, non amata dalla suocera, malveduta in paese, esentata dai doveri materni per timore che il piccolo Gioacchino subisse l'influenza di una straniera, capivo
benissimo come avesse scelto un dispettoso isolamento. C'era stato un tempo, dicevano le serve, che i due sposi vivevano nel più gioioso accordo, carrozza ogni giorno per la passeggiata, feste e pranzi di gala a Nicastro, a Reggio, a Catanzaro: tutte esigenze della nuora francese. Poi, colla nascita di Gioacchino, le cose erano cambiate e le poche volte che mio fratello tornava a casa, dormiva abbasso, in una stanza che per mesi e mesi rimaneva chiusa. Di tali fatti non mi ero mai curato, né prima né durante le lezioni di Cleo, ma ora, dalla sera in cui l'avevo sorpresa alla finestra, mi ci fermavo a lungo anche perché le sue notturne apparizioni erano regolarmente continuate. Per esempio non riuscivo a spiegarmi come una ragazza così delicata e capricciosa fosse piaciuta a Stefano e come lei lo avesse accettato, arcigno e rustico qual era. Non per convenienza reciproca, noi non eravamo ricchi e lei non aveva dote. Spesso l'avevo sentita vantarsi della sua nascita, di esser figlia di un famoso generale francese; e rimpiangere i parenti parigini presso cui era vissuta nella prima infanzia. «Rivedrò mai Parigi?» sospirava. Ero in un'età che un ragazzo più diffida del sentimento e più la sua fantasia galoppa e la donna gli sembra un essere strano, un enigma. Sposa senza marito, madre distratta, perché Cleo si tratteneva così a lungo a guardare le stelle? Per noi meridionali di provincia, la finestra è il luogo dove la fanciulla aspetta l'uomo che la corteggia, essa non ha altra ragione per affacciarvisi. Questa ragione non valeva per Cleo: anche a pensar male, nel nostro giardino non c'erano innamorati. Doveva dunque essercene un'altra, più difficile e misteriosa. Allora mi rammentai con quale passione malinconica essa declamava le tirate sentimentali che mi avevano tanto annoiato: non ebbi dubbi, dovevano richiamarle alla memoria qualcosa o qualcuno che il canto, il buio, la dolcezza dell'aria collaboravano a restituirle: la patria lontana o, chissà, un giovane da cui l'avevano divisa. Ecco perché vegliava, notte dopo notte, dedicandogli le canzoni di un tempo perduto, illudendosi che per qualche miracolo lui potesse apparirle, parlarle. Ero così convinto di non sbagliarmi, così infervorato nelle mie ipotesi che finivo per commuovermi profondamente. Cleo, pensavo, non immaginava che a poca distanza da lei un uomo - tale mi credevo - la capiva e la proteggeva: e tanto più mi investivo della mia parte di amico sconosciuto e generoso. La mia, s'intende, era una commozione notturna e durava tutte le ore che in giardino aspettavo la voce e l'apparizione di Cleo. Di giorno non ci pensavo affatto e ritornavo il ragazzotto in cerca di nidi e d'insetti di cui facevo collezione. Mi occupavano anche certe letture di straforo, alimentate da voci di fermenti rivoluzionari nella provincia. Ma furon proprio quelle voci a confermare la mia segreta alleanza con Cleo, oppressa da un fedele suddito borbonico e cioè da mio fratello: egli divenne per me la crudeltà incarnata, talché scaricai su di lui i miei neonati istinti di ribellione. Mi auguravo che la sospettasse, che la sorprendesse alla finestra, l'avrei difesa con tutte le mie forze poi l'avrei aiutata a fuggire e a raggiungere l'uomo che amava. A questo punto il mio ruolo di cavaliere magnanimo mi portava al limite delle lacrime, un vago sentimento di gelosia mi struggeva: non l'avrei incontrato, l'ignoto oggetto dei suoi sospiri, ma sapevo che brillava di tutte le qualità che ammiravo e che avrei voluto possedere. Allo stesso modo, i tratti a me ben noti di mia cognata finivano per perdere ogni rapporto con la luminescente figura femminile, compagna delle mie veglie. Essa non aveva volto, era la debolezza inerme, e io il vendicatore vittorioso, in solitudine e tristezza. Fu così che fra i quattordici e i quindici anni vagheggiai l'idea di essere innamorato. Mi rammarico di aver conservata così viva e intatta la memoria di
queste remote fanciullaggini. Io la ritenevo spenta, e così dovrebbe essere in un vecchio che non sia del tutto rimbambito. Forse al peso di tante tristizie rievocate, ho reagito inconsapevolmente rifugiandomi nei ricordi di una età in cui, di solito, si è felici. A giusta punizione del mio bamboleggiare, non ritrovo invece che inquietudine e incertezza. Ripeto, la mia intenzione era di rintracciare il seme degli errori che posso aver commesso per leggerezza naturale o per mancanza di una educazione approfondita e responsabile. Ma forse questo viaggio a ritroso non è stato inutile ai miei fini: ci fu, infatti, nella mia adolescenza, un momento capitale in cui ravviso le pericolose deficienze del mio carattere. Esso coincise con un episodio che non mi lusinga: e mia cognata ne fu cagione e protagonista. Dopo l'estate torrida, un autunno piovoso aveva interrotto le mie notti all'aperto e, di conseguenza, il mio fantasticare cavalleresco. Dall'oggi al domani, come succede ai ragazzi, avevo tutto dimenticato perché Pasquale era riuscito a procurarmi di nascosto un vecchio arnese che somigliava a un fucile, e la caccia, comunque praticata, era divenuta la mia unica passione. Lui connivente e compagno, si partiva di soppiatto all'alba e rientravamo a sole levato, sicché io potevo fingere di esser sceso dal letto in quel punto, mentre Pasquale s'incaricava di far sparire l'arnese sotto certe frasche. La poca selvaggina conquistata era il suo profitto. Intenti dunque, una mattina di fine ottobre, a quel baratto, ci eravamo appena fermati nel piazzale sotto casa, ancora deserto, e io mi guardavo attorno se mai una serva indiscreta ci spiasse. Alzo gli occhi: la finestra di Cleo è spalancata e la vedo accennare con la mano, indicando me e Pasquale. A quanto sembra, dobbiamo salire da lei, ma piano (e si mette un dito sulla bocca), che nessuno se ne accorga. E presto, subito. Ancor preso dal sospetto di una spiata, non sapevo che mi pensare, e il mio povero scudiero si sarebbe nascosto sotto terra giacché Cleo era per lui un essere favoloso: i suoi rapporti con la mia famiglia si limitavano a mia madre e a me. Vedo ancora la sua faccia costernata mentre diceva no e no, che non si sarebbe mai presentato a madama con quelle brache fangose e quel giubbotto a toppe. Notai con stupore che, ignorante com'era, la chiamava così: "madama", e intanto badavo a spingerlo alle spalle, non facesse storie. In punta di piedi traversammo il pianterreno tuttora silenzioso, salimmo la scala: Cleo era dietro la porta e ce la aprì senza rumore. Non l'avevo mai vista così pallida, gli occhi le mangiavano il viso e respirava con affanno come se avesse corso. Mi avvidi subito che non di me aveva bisogno, io funzionavo da interprete fra lei e Pasquale poiché l'italiano di cui si serviva e pronunciava a modo suo era quasi incomprensibile per lui: mal rassegnato e incuriosito io m'ingegnavo a tradurre chiedendomi cosa mai volesse quella invasata. Ma i gesti supplivano alla lingua, Cleo gli aveva preso e stretto a lungo le mani, gli aveva offerto un bicchierino e non si accorgeva che il poveruomo, seduto in punta di seggiola, stava sulle spine mentre lei ciarlava volubilmente quasi dimenticando perché ci avesse chiamati. Gli chiedeva come se la passasse, se aveva famiglia, se era vero che aveva tanto viaggiato per mare. La prossima estate voleva che la portasse nella sua barca a fare il bagno in alto, dove l'acqua è limpida, e le insegnasse a nuotare. Mi venne in mente che si divertisse a canzonare il mio povero vecchio e la interruppi chiedendole che la smettesse con quei discorsi inconcludenti e ci lasciasse andare. Mi lanciò un'occhiata implorante e fece una pausa tirando un gran sospiro. «E' vero» proruppe poi tutto d'un fiato «che avete conosciuto il re?» Era diventata rossa e con dita febbrili giocava tra le frange del suo scialle. Pasquale batteva
gli occhi come una gallina. Per me, il re era Ferdinando e la domanda mi parve grottesca. Lui cincischiava la sua scoppoletta e trangugiava saliva, ma mi accorsi che senza bisogno d'interprete aveva capito. «Sicuro, che l'ho conosciuto» lo sentii balbettare: e Cleo di rimando, tutta protesa in avanti e quasi reverente come dinanzi a una santa reliquia: «Voi l'avete visto anche qui, quando lo presero? Gli persero di rispetto, lo maltrattarono?». Grosse lacrime le rigavano le gote e non se le asciugava. Capivo, finalmente, anch'io, il re di Cleo era Gioacchino Murat, fucilato nel nostro Forte come traditore e ribelle quando io avevo due anni. Non riuscivo però a spiegarmi come mai una tragedia così lontana la facesse piangere e perché ne domandasse a Pasquale. Ne concludevo, non senza dispetto, che lei, claustrata e straniera, conosceva del passato del mio amico, più cose di me. Il ricordo di Murat era inviso alla gente di Pizzo a cui il Borbone aveva riconosciuto il merito di aver favorito la sua cattura. Ma la leggenda della sua prestanza, del suo valore, non era spenta, spesso anch'io mi ci ero incantato senza riflettere sul significato della sua impresa temeraria. Per amor di contraddizione, del resto, non credevo a quanto si andava dicendo sul suo carattere di tiranno ambizioso e senza scrupoli: come non credevo - forse per influenza di Cleo - che i francesi fossero quei criminali che si raccontava. Al mio solito, non mi ero aperto con nessuno su questi argomenti, e tanto meno con Pasquale che, dal canto suo, di tutto discorreva fuorché di Murat, del suo sbarco, della sua fine. E ora quella figura di guerriero spavaldo si addolciva nel rimpianto tardivo di una donna, nel culto di un uomo semplice che odiava i tiranni e riponeva le sue speranze (di questo non dubitavo) in quei famosi giacobini verso cui andava, da qualche tempo, la mia più avida curiosità. E qui devo aggiungere come mi sembri tuttora inverosimile che in quegli anni, mentre conoscevo a menadito le vicende del Regno, dai bizantini agli spagnoli, fossi così digiuno della storia recente, dei fatti che avevano sconvolto la Francia e l'Europa. Ma, tant'è, i mezzi d'informazione mi mancavano totalmente e il mio mentore, don Zimadore, si spaventava addirittura quando gliene chiedevo. Da erudito e alquanto spregiudicato cultore delle buone lettere egli ridiventava prete e prete bigotto. Cose orrende, diceva, falsità ed errori che avevano avvelenato il mondo. E per distrarmi mi metteva sotto il naso Tito Livio e Tacito. Passi e sbattimenti di porte al pianterreno interruppero quella mattina il nostro colloquio con Cleo: in fretta sgattaiolammo di sotto, fingendo di esserci appena svegliati. Ma da allora una nuova intesa, peraltro un po' a rimorchio, mi strinse a lei: una intesa a cui Pasquale partecipava come animatore e oracolo, non più il compiacente succubo dei miei capricci, ma il testimone irrefutabile di avvenimenti che mi sembravano svolti dietro le mie spalle, complice mia cognata. Lo stesso fanatismo religioso che Pasquale aveva usato nel narrare di mori e di normanni, lo impiegava adesso per parlare di Murat come gli fosse sempre stato al fianco: il che mi riempiva di melanconica invidia. Per rifarmi, mi buttai a frugare nel retrobottega di un libraiuccio di Monteleone, dove riuscii a pescare certi stampati di provenienza clandestina, proclami della Repubblica partenopea, panegirici di re Giuseppe e di re Gioacchino: che era l'unico modo, pensavo, di controllare la verità di quanto Pasquale asseriva. Il libraio, vedendomi così infatuato, mi passò anche, con grandi raccomandazioni di prudenza, altri opuscoletti che mi eccitarono straordinariamente, tutti ispirati agli ideali repubblicani e giacobini: a quella luce vedevo in Murat un traditore del popolo. Eppure, bastava che Pasquale aggiungesse un nuovo tocco, un nuovo episodio alla leggenda del suo eroe, perché, insieme a Cleo,
palpitassi di una postuma devozione per lui. Quei due, adesso, si capivano a meraviglia senza bisogno del mio aiuto e il vecchio intuiva d'istinto quali particolari sottolineare e colorire per commuovere la sua ascoltatrice. Non indugiava, per esempio, sull'entrata di Gioacchino a Napoli a cui diceva di avere assistito, ma aveva sempre qualcosa da aggiungere o da variare sul dramma di Pizzo. «Era bello come San Michele Arcangelo, vestito da parata, non gli mancava che il cavallo in tanti non riuscivano ad affrontarlo. Disse: non fuggirò, sono in mezzo ai miei sudditi, mi dovete amore e obbedienza. Vado in castello di mia volontà, la fortezza mi appartiene.» E giù a descrivere i ceffi degli sgherri, la grinta del caporione Trentacapilli, il giuda che per primo aveva osato toccarlo. Sospirava: «Il re avrebbe potuto salvarsi ma perse tempo per far scappare la sua innamorata». Cleo si coprì la faccia con le mani e quel giorno non volle sentire altro. L'indomani riattaccò: «Quella donna l'avete vista, era bella?». Come non volesse tradire il segreto di un amico, Pasquale esitava. «Non lo so, era tutta velata, si vedevano solo i capelli, biondi come l'oro. Una duchessa, dicevano, che era stata con lui dappertutto, in guerra, in Corsica, per morire con lui. Poi, all'ultimo...» Mi venne una gran pena per Cleo: un ragazzo trova naturalissimo che si ami disperatamente un eroe o un'eroina defunti e mai conosciuti. In un lampo seppi a chi lei pensava declamando, cantando, interrogando il silenzio della notte. Qualcuno le aveva detto che Pasquale era stato presente alla cattura di Murat, e non aveva resistito al desiderio di parlargli: chissà da quanto ci pensava, poveretta, e adesso era gelosa di un'ombra di donna come io lo ero stato di un'ombra di uomo. Avrei voluto consolarla, dirle che il suo re non l'avrebbe trovata meno bella della duchessa, che anzi l'avrebbe preferita a ogni altra per l'altezza del suo sentimento: lei, ne ero sicuro, non sarebbe fuggita. Un gran rispetto per il suo dolore mi cuciva la bocca mentre la guardavo piangere: non la stimavo né ridicola né pazza e mi trasferivo in lei approvandola per esser rimasta fedele a chi, certo fin da bambina, le era parso il migliore fra gli uomini. Se ho mai penetrato l'animo femminile fu in quella stravagante occasione: le lacrime di Cleo riscattavano il traditore della Repubblica partenopea. Ogni notte, quando la mamma aveva finito i suoi eterni conteggi e poi, con Concetta, il rosario insieme alle serve, salivamo, Pasquale ed io, in punta di piedi, alle stanze di Cleo. Nella nostra ormai comune esaltazione, ci credevamo tre congiurati il cui compito fosse onorare la memoria di Murat e, in qualche modo, seguirne l'esempio. Questi conciliaboli erano per me l'ultima spinta sulla via della ribellione a quanto mi circondava, il quieto vivacchiare di casa mia, l'ingiustizia dei potenti, l'albagia dei signorotti ignoranti. Disprezzavo il mio tempo, rimpiangevo di essere nato troppo tardi, avrei difeso e salvato Murat poi l'avrei convinto a mettersi a capo di un nuovo moto giacobino che avrebbe proclamato la repubblica. «Quando si avvide di esser stato ingannato» seguitava intanto Pasquale «e che la gente gli voltava le spalle, il re non si perse d'animo ma la scialuppa che l'aveva portato era ormai lontana: e cosa potevo fare io solo e senza armi? Fissò il mare e disse, potessi morire se non è vero: addio Matilde.» Guardai Cleo: dondolava il capo come fanno le ploranti calabresi cantando il compianto: ma a quel nome lo rialzò impetuosamente: «Matilde? So chi era, una sciagurata. E non era bella». La sera appresso fermai mia madre che stava avviandosi in camera e le chiesi a bruciapelo: «A chi è figlia la moglie di Stefano?». Mi guardò sospettosa: «Che vai cercando?» e seguitava a camminare. Poi, prima di entrare, si voltò e aveva la solita smorfia che il nome della nuora le metteva sulla bocca: «Bastarda è, sua madre non era maritata, viveva
con Manhès, quell'assassino. La educarono in Francia, questo so, arie a non finire e quel baggiano di tuo fratello non volle sentir ragioni, ci ha rovinato la famiglia e adesso si pente. Impara, quando verrà il tuo tempo». Ora avevo un altro personaggio da digerire, quel generale Manhès, per comune opinione lo spietato carnefice delle Calabrie: ecco da chi Cleo aveva ereditato la sua inquietudine e quell'impeto che fin da principio avevo definito "una smunta violenza". Che una del suo sangue fosse entrata in casa nostra non mi turbava, né mi feriva il titolo di bastarda, per la mamma sinonimo di degradazione. Ma questo Manhès, per chi parteggiava? Era repubblicano o bonapartista? Qui stava il punto, e non avevo un'anima a cui domandarlo con fiducia per ricavarne la verità, quel che in casa e in paese si dava per vangelo mi lasciava incredulo e ostile: volevo far piazza pulita di tutto, tradizioni, norme, pregiudizi. Non contavo che su me stesso o meglio su di una sorta di folgorazione interiore che m'illuminasse. Il clima irreale che si era venuto creando a contatto con le frenesie di Cleo, mi manteneva nell'ostinata attesa di questo miracolo. Venne l'inverno e fu assai crudo. Intorpidito dal gran fuoco che ardeva nel caminetto di Cleo - l'unico che in casa si accendesse- la voce di Pasquale mi cullava. Non avendo altro da raccontare, egli insisteva sulle proprie disavventure fra il '15 e il '18; quando, per sfuggire alle accuse di connivenza col Murat aveva cercato scampo nell'Aspromonte. Quelle vicende non m'interessavano: chi, nella Calabria Ultra non era ricorso a simili espedienti? Ogni famiglia conservava memoria di queste fughe in montagna, sotto l'incalzare dei sanfedisti o dei francesi, a seconda delle circostanze e delle opinioni. Cleo sonnecchiava, dopo Natale si era ammalata e per paura del contagio nessuno entrava nella sua camera; contro il suo solito lei si lagnava di non aver compagnia. Sebbene a malincuore, mia madre ci aveva permesso, a Pasquale e a me, di passare qualche ora al suo capezzale. Io, ricordo, avevo preso un libro: calava la notte. A un tratto, dal monotono soliloquio del vecchio, si staccò una frase che mi colpì: «Un segreto» diceva «che non posso tenere per me solo, se muoio senza confidarvelo sono spergiuro e mi perdo l'anima». La malata aveva aperto gli occhi e lo fissava mentre gli zigomi le si accendevano di un cupo rossore. Feci cenno a Pasquale che tacesse, quel rossore m'impressionava: lui non se ne accorse e continuò. Sulle prime pensai a un suo innocente trucco per ridestare la nostra attenzione: aveva infatti ripreso il racconto dal punto in cui, prima di allontanarsi del tutto dal Pizzo, s'era rifugiato nei dintorni, nascosto nella capanna di una sua comare vedova: «Mi pareva impossibile» spiegava «che nessuno venisse a liberare il re e mi tenevo pronto e armato». La solita storia, dunque: di qui Pasquale avrebbe proseguito descrivendo le peripezie del vagabondaggio fra i monti. Questa volta, invece, dalla capanna non si muoveva. «Era piovuto tutto il giorno, ero intirizzito e non mi attentavo a accendere quattro sterpi per paura che il fumo mi tradisse. Mi strofinavo colla paglia per riscaldarmi quando sento dei passi e poi due colpetti alle assi dell'uscio. Afferro lo schioppo e mi butto indietro tirando il chiavistello: non mi aspettavo di vedere un prete.» Fece una pausa e si soffiò il naso, gli occhi di Cleo erano due lanterne. «Lo mandava, mi disse, il canonico Mesdea, confessore del re, con un messaggio a bocca, ché io non so leggere. Stai bene attento, mi fa, queste son le parole di un moribondo: quando tutto sarà finito entra nella rocca, sotto il pavimento della cella è nascosto un astuccio con dentro il piano per liberare il Regno e il nome di coloro a cui va consegnato. Avrai un ricco compenso, ma
ricordati che chi non obbedisce a un morto è dannato.» S'era levato il vento, un'imposta sbatteva a colpi regolari come se qualcuno bussasse di fuori: malgrado il fuoco mi penetrava un brividino di raccapriccio. «Andare nella rocca!» proseguiva Pasquale. «Come dirlo. Il re, sant'anima, fu fucilato il giorno dopo e la comare mi fece avvertire che mi cercavano per ammazzarmi. Due anni per le selve, come una bestia: quando tornai al Pizzo non mi riconobbero tanto ero invecchiato. Non avevo amici e la rocca era custodita giorno e notte. Mi feci pescatore e mi lasciarono in pace, ma il segreto di re Gioacchino non mi ha mai dato requie. Adesso sono contento, qualcuno farà quel che io non ho potuto.» Cleo si era sollevata sui cuscini, agitatissima, parlava fitto e veloce. «Bisogna far presto» affannava «trovare l'astuccio, il piano, i nomi.» A fatica la trattenemmo nel letto, gesticolava, voleva alzarsi. Alla fine, spossata, cedette, sempre ripetendo che non c'era un minuto da perdere. E fu allora che, rivolta a me, la sua voce divenne tenera come non era mai stata: «Io sono donna e straniera, non mi lascerebbero entrare, ma a te che sei ragazzo non baderanno. Poi fuggiremo insieme». Parve riflettere e sorrise: «Se incontrerai il fantasma non aver paura, non ti farà male». In paese si diceva che lo spettro di Murat infestasse la rocca. Il delirio di Cleo durò fino a notte alta, quando la cameriera ci sostituì nella veglia. Costernati, uscimmo dalla sua stanza, ma non avemmo il coraggio di allontanarci e aspettammo l'alba seduti su un gradino della scala, mentre le serve risvegliate salivano e scendevano con decotti unguenti e scapolari. A giorno, mia madre mandò via tutti e sedette al capezzale della nuora in attesa dei medici chiamati da Monteleone e Nicastro. Ma prima comandò a Pasquale di sellare le mule e di accompagnarmi a Taverna, in casa del padrino. Per la prima volta, a mia memoria, obbedii a un ordine senza recriminare, anzi addirittura volentieri. Non che ne fossi contento: non mi sfuggiva che sotto la mia acquiescenza si nascondeva un fremito di ribrezzo insieme al bisogno di dimenticare quanto era accaduto e stava accadendo. Mi ossessionavano le immagini della notte tempestosa, il lugubre racconto di Pasquale, il viso di Cleo stravolto e supplicante: arrivai a maledire il poveruomo, Murat, la rocca e la mula che camminava troppo lentamente per il mio desiderio. Ero stanco, la testa vuota, provavo a un tempo una confusa infelicità e un abominevole sollievo. Avevo acconsentito ad essere allontanato come un bambino che è un impiccio nelle disgrazie: ma ero un uomo e dunque ero vile. Lo riconoscevo con lucidezza disperata, pur affondando in un tetro benessere. La mia ultima vacanza a Taverna risaliva a un paio d'anni innanzi, ma mi parve un episodio della prima infanzia. Ci arrivai scontroso e stranamente impettito, fin dal primo giorno rifiutai gli svaghi che mi erano tanto piaciuti, i giochi e le gare con gli umili artigianelli del borgo che erano cresciuti al par di me e ancora se ne divertivano. Stavo sulle mie, insomma, mi atteggiavo come un signorotto che deve mantenere le distanze con i vassalli. Disprezzai persino la casa del padrino, la sua accoglienza gioviale, pur compiacendomene come di un omaggio che mi fosse dovuto. L'adolescenza è un'età torbida e in quella settimana io ne fui la vittima e lo strumento. Il mio corpo si dilatava, ero tutto muscoli riposati, nervi sonnolenti, olfatto, palato. Mai avevo respirato con tanta ebbrezza l'aria di monte, assaporato con tanto gusto e avidità i cibi, dormito così a lungo e senza sogni. Qualcuno gemeva fiocamente dentro di me e io soffocavo quei gemiti con perversa soddisfazione. Fu in quei giorni che conobbi per la prima volta la donna: fra le serve del padrino ce n'era una assai giovane che mi colmava di premure insidiosamente materne. Senza saper come, mi trovai allacciato con lei, sul suo corpo duro e
selvatico, ne ebbi l'impressione di essermi saziato in un modo nuovo e potente. Mi rialzai e uscii solo, per la campagna, con un formicolio nel sangue che mi stordiva. Sedetti a terra e, all'improvviso mi colse un abbattimento di cui non conoscevo l'uguale. Da quando ero arrivato nessuno aveva fatto il nome di Cleo, quasi non si sapesse che stava male e il mio cervello, docilmente, lo aveva cancellato. Ebbene, in quell'istante la mia ignavia si sciolse, scoprii che non l'avrei più vista viva e di averlo saputo fin dal primo momento che ero uscito dalla sua camera. Non ne ebbi dolore come il cervello il mio cuore era ferocemente vuoto - ma una sensazione fisica, simile a una vibrazione sonora che mi avesse percosso e non riuscisse a spegnersi. Mi aveva toccato la morte, fino allora chi moriva mi pareva vittima di uno sbaglio che nessuno dei miei avrebbe commesso. Ed ecco la morte succhiava un nome di casa mia, che non sarebbe servito più, che avrei visto inciso su una lapide. Lo palpavo, quel nome, con antenne che non sapevo di possedere e un oscuro senso di privazione mi pungeva. Non andavo più in là. Rincasando, trovai Pasquale pronto, con le mule bardate e la notizia, or ora giunta, che dovevamo partire all'istante. Ritornai al Pizzo come ne fossi rimasto lontano da anni e avessi tutta una esistenza dietro le spalle, vissuta passivamente, da smemorato. Non ero, insomma, quello che una settimana innanzi era partito, ma nemmeno la persona che a Taverna aveva abitato il mio corpo. Prevedevo uno scontro violento fra costui e il ragazzo sensibile e inquieto di cui avevo ricordo. Mi erano estranei tutti e due e mi allarmavo nel riconoscermi così inadatto e disarmato. Stentavo persino a orizzontarmi: m'incantavo sui mandorli selvatici precocemente fioriti, sulle creste dei monti incredibilmente azzurre, sulle rapide della fiumara ingrossata con occhi che non appartenevano né al quattordicenne di prima né al giovincello che riconducevo al paese. Tanto ero stato impaziente, all'andata, di giungere a Taverna quanto, adesso, desideroso che il viaggio durasse a lungo. Passammo la notte a Catanzaro e ci avrei trascorso volentieri il giorno di poi se Pasquale non mi avesse sollecitato. Quando fummo sull'altura da cui si distingueva, fra gli altri, il tetto di casa nostra, ebbi nel petto il sobbalzo sordo dell'animale che s'impenna e non vuole andare avanti. Di nuovo l'ombra della morte si allungava sotto i miei passi, partendo dalle mura e dalle tegole dove la sua presenza si era installata mutandole e contaminandole. Non sentivo pietà, ma orrore per la funebre ospite che Cleo aveva accolta quasi per sfuggire definitivamente alla sua sorte. Non me la figuravo immobile e senza respiro ma furbamente scomparsa per non vivere con noi. Nel mio confuso rancore rinasceva il mito della "nuora francese". Ma la casa era quella di sempre, non più melanconica dell'usato, uguali le stanze, uguale la stalla dove le mule entrarono, immutato il chiacchiericcio che veniva dalla cucina. Nessun segno di lutto. Mia madre mi accolse come se ritornassi da una passeggiata, al solito vestita di nero, ma senza traccia di corruccio supplementare: mi chiese del padrino e se avevo preso freddo. Era freddo, infatti, e lo avvertii insieme a un odore dolciastro di fiori che a poco a poco svanì. La tavola aveva due soli coperti, per la mamma e per me: Concetta, mi disse, era dalle sue monache per gli esercizi e Stefano a Reggio. «Povero figlio» aggiunse, e fu tutto. «Non hai fame?» mi chiese vedendomi rimescolare senza voglia la minestra. Risposi che ero stanco e avevo bisogno di coricarmi. Non fece obbiezioni e mi avvisò che l'indomani sarebbe andata a Monteleone dove avrebbe combinato coi Padri la mia entrata in collegio a mezza retta; e poi a Catanzaro dove si sarebbe trattenuta per qualche tempo: «Tu, statti quieto e studia». Salii per la scala di servizio con la stessa naturalezza abitudinaria di quando i colloqui notturni con Cleo non erano ancora incominciati.
Era appena calata la notte, ma si sarebbe detto che tutti già dormissero, ogni tanto mi giungeva una flebile lagna che era la voce di mio nipote Gioacchino. Seguirono giorni senza colore, sotto un cielo grigio e poroso, stillante a tratti minute goccioline. Salvo mio fratello Giorgio, come al solito sofferente, ero solo in casa e questo contribuiva a farmi sentire che un taglio era avvenuto nella mia vita, che dovevo cominciarla da capo: tuttavia gli smarrimenti e i soprassalti che avevo temuto non si verificarono. Il giudicarmi senza indulgenza mi assicurava una rassegnata tranquillità. Non avevo voglia di uscire, di camminare, la mia libertà era monotona ma non mi dispiaceva, la consideravo una preparazione per il collegio. Sedevo nello studio che era stato di mio padre, scaffali polverosi, pochi libri e scartafacci, il calamaio ingrommato di vecchio inchiostro e un remoto sentore di sigaro spento. In mancanza di meglio, traducevo il canto di Didone abbandonata che il mio canonico mi aveva fatto accuratamente saltare, e a cui m'ero messo con la convinzione che d'ora innanzi ero in età di libere letture. I nobili lamenti della regina mi affascinarono al punto che li sapevo a memoria e me li recitavo ad alta voce. L'antichità del testo mi garantiva, tuttavia, un distacco corroborante che coincideva colla volontà di difendermi dagli assalti di una sensibilità eccessiva: avendo scoperto che il miglior mezzo di essere integralmente me stesso era astrarmi dalle circostanze che il volgo giudica commoventi. Convinto che la sensibilità era il nemico da tenere a bada, sempre pronto a indebolire il carattere, avevo concluso che solo alla ragione l'uomo dovesse obbedire anche nei moti del cuore: il che non significava che di questi moti intendessi fare a meno. Marzo incominciava, il tempo era mutato e non ci avevo fatto caso: avevo abbordato la filosofia e Giambattista Vico. Una mattina alzo gli occhi dal libro, li fisso alla finestra, il cielo è limpidissimo, di un tenero celeste che mi par di respirare attraverso i vetri e quasi di bere. Istintivamente mi levo dal tavolo ed esco all'aperto. Era vicino mezzogiorno, sole e vento giocavano fra i rami brulicanti di gemme, il prato era bianco di margherite. Lentamente camminai per i vialetti, il verso del cuculo misurava i miei passi: la mia pace raziocinante non era più fredda e distesa ma debordante in una aspettazione di consenso da parte di tutte le cose. Non era il benessere ottuso di Taverna, ma un nuovo vigore di ogni mia facoltà, una nuova lucidezza scattante. Stavo per rientrare alla voce di Ignazia che mi chiamava a tavola quando, alzando il capo, rividi, per la prima volta, le finestre di Cleo. Erano sprangate, le persiane sembravano chiuse da anni, sconnesse e polverose come quelle di una casa abbandonata. A contrasto con la luce palpitante e col cielo glorioso, tutto l'edificio mi parve una rovina. Lo era, in effetti, ma soltanto adesso me ne accorgevo e quella decadenza grondava, quasi un velo di cenere, dalle finestre sigillate del primo piano. Il sole si offuscò, le mie difese crollarono. Mi ritrovai immobile, nella notte d'estate, in attesa del preludio dell'arpa e del canto, ma quel tempo era vertiginosamente irraggiungibile, smentito dal gorgheggio dei merli e dalla crudele felicità dell'aria. E anch'io avevo negato l'immagine di Cleo, privandola della sola vita che le restasse, quella della mia memoria. Esitando, provai a rievocare il suo viso, e non mi riusciva, lo avevo perduto come un oggetto fragile andato in mille pezzi, insieme a una parte di me, irrecuperabile e che metteva in forse il mio stesso presente. Non c'era rimedio, non potevo tornare indietro, mi ero disseccato volontariamente, quel che credevo saggezza virile non era che egoistica voglia di vivere, rifiuto del dolore e della morte. Pensai e forse mormorai: cosa ho fatto! e dal mio sbigottimento
scaturì, imprevedibile e consolante, un'onda di pietà, non so se di me o di Cleo, in cui, finalmente, riviveva la sua voce. Nel mio orecchio fecero nido le canzoni malinconiche assorbite con delizia, esse si sdipanavano con tanta esattezza che ci portai la mano per liberarmene. Fu il mio ultimo gesto infantile, l'ultimo abbandono al raccapriccio della bestiola minacciata nella tana. Allora mi comandai di resistere e da quel momento sopportai la realtà della tomba di Cleo. Fui abbastanza ragionevole da non perdermi a indagare i sentimenti confusi che mi avevano legato a lei e mi rassegnai a considerare la sua morte come una ingiustizia sì, ma non eccezionale, non diversa da innumerevoli altre consegnate alla storia da millenni, nella scadenza di ogni giorno. La forza che ne trassi, anche nei confronti di quella che sarebbe toccata a me (e mi fu, in seguito, tanto preziosa) non era effimera esaltazione e mi permise un accorato rimpianto per la giovane morta che in mancanza di chi l'amasse si era aggrappata alla complicità di uno sciocco ragazzetto e a un'ombra favoleggiata. Tutto quel giorno e la notte successiva, mi applicai a ripercorrere, quasi per provarmi e punirmi, i più minuti particolari delle ultime ore di Cleo e a immaginare come fosse spirata. Mi ritenevo, in fondo, l'unico suo erede, per così dire, spirituale. Nessuno, in famiglia, l'aveva conosciuta come me, e Pasquale non contava che come definitivo strumento della sua follia. Lui, del resto, aveva, appena tornato da Taverna, rifiutato di più servirci e, senza spiegazioni, si era ridotto nel suo tugurio sul mare. Ora non dubitavo che lo strambo segreto di Murat non fosse che un vaneggiamento senile fomentato dal culto del re e dalla infatuazione di mia cognata. E tuttavia mi pareva che l'estremo desiderio di lei, quella sua raccomandazione fraterna dovessero pur essere in qualche modo rispettati ed esauditi. C'è chi porta fiori su una tomba, chi fa elemosine in onore di un defunto: io sarei penetrato nella rocca come si compie un rito espiatorio. Conoscevo fin dall'infanzia il luogo che la fine di Murat aveva reso sinistramente celebre. Il giorno che mi ci recai per una prima ricognizione, la fortezza, con quel piazzale davanti, affacciato sul mare, era tutt'altro che minacciosa, solo un vecchio rudere pittoresco che non faceva paura neanche ai bambini ruzzanti e squittenti lì intorno. Due vecchi col mantelletto del pastore, si scaldavano al sole, più lontano, lungo il muricciolo a picco sul mare, un giovanottello passeggiava con un libro aperto in mano, come fanno i preti che leggono il breviario: al suono dei miei passi alzò il capo e mi fissò. Io m'ero distanziato dalla rocca quel tanto che mi permetteva di esaminarne le mura e le feritoie, sicché gli passai abbastanza vicino da notare un suo sorrisetto fra ironico e amichevole: e mi parve che mi leggesse in fronte quel che mulinavo. Sebbene non lo avessi visto da gran tempo lo riconobbi: fu quello, posso dire, il mio primo incontro di adulto con Benedetto Musolino. Lo salutai e andai oltre. Sapevo che la sua famiglia era sulla lista nera borbonica, mia madre si guardava dal praticarla. Ci avevo giocato da piccolo, sapevo che studiava a Monteleone. Mi sarebbe piaciuto attaccar discorso, ma questo mi avrebbe portato lontano dal mio proposito che già fin troppo cominciava a vacillare. Scambiato il saluto, lui riprese a camminare leggendo e io mi diressi verso la rocca. Il portone era spalancato e incustodito, pian piano mi ci accostai e ci affacciai la testa: nel cortiletto un uomo dalla divisa slabbrata sonnecchiava seduto su uno sgabello, la schiena al muro. Di armi, neppure l'ombra. Presi coraggio e facendo il tonto entrai guardando in giro e all'insù, al modo dei forestieri curiosi di antichità. Ma il sonno dell'uomo era leggero, egli aprì un occhio e mi apostrofò: «Che vi serve, guagliò? Sciò, qui non ci è comodo di passeggiare». Dal suo accento lo giudicai napoletano. Non risposi e con ostentata lentezza ripassai la porta.
Quel primo approccio mi servì a perfezionare il piano che avevo abbozzato e a cui, per non distogliermene, cercavo di pensare come a un gioco di nuovo genere. Occorreva, per ora, familiarizzarsi con il custode barbogio, entrargli in simpatia, trattenerlo a chiacchiera: scommettevo di riuscirci e la scommessa mi divertiva. Gli avrei poi chiesto di visitare il vecchio carcere senza domandarne il permesso e con quale scusa? - a una qualunque autorità superiore. La presenza di Benedetto sul piazzale mi suggerì di munirmi anch'io di libro e quaderni e fingermi uno studentello svogliato che non gli pare vero di perder tempo a discorrere del più e del meno. Così feci, e devo dire che a questa finzione non fu estranea la speranza di imbattermi di nuovo nel Musolino che, di un paio d'anni più anziano di me, godeva fama d'intelligenza e cultura straordinarie: pubblicamente non avrei potuto frequentarlo, i miei me l'avrebbero proibito, mentre un incontro casuale fra due futuri compagni di scuola non era censurabile. Ma non lo incontrai più, sicché non mi restò altro scopo che dedicarmi a sviluppare il mio piano, che, d'altronde, risultò più facile che non credessi. Il custode sonnacchioso si andò abituando alla mia presenza e non ebbi bisogno di qualificarmi perché la accettasse. Spesso portava il suo sgabello al sole, accanto al portone e di lì mi lanciava frizzi grossolani sul mio leggicchiare e scrivere: insomma non domandava di meglio che ciarlare col primo venuto, fosse pure un ragazzo. Avevo indovinato, era napoletano, militare in ritiro, e aveva ottenuto quel posto per aver perduto un braccio in guerra: non si trovava bene in Calabria e di continuo sospirava la sua Casoria descrivendomene le delizie. Mi rassegnai ad ascoltarlo e gli davo corda, mentre, dal canto mio, gli raccontai che studiavo i monumenti storici, le antiche fortezze del genere della rocca. Con gran risate mi beffava: quattro sassi rotti, neppur buoni a custodire i malviventi, infatti il carcere era vuoto. «E se è vuoto, perché non me lo fai visitare?» Si rabbuiò e non disse verbo. In compenso, mi lasciò entrare a mia voglia nel cortile e, via via, curiosare nel corpo di guardia dove, a volte, stazionavano due soldatacci che giocavano alle carte e ai dadi. Cominciava a far caldo, l'umidità di quelle mura era assai piacevole: mi fermavo ad osservare i loro gesti, le loro facce, più di poveri diavoli che di sgherri e invano cercavo di eccitarmi immaginandoli simili a coloro che avevano fucilato Murat. Ci voleva ben poco per addomesticarli: qualche fetta di lardo, quattro filze di fichi secchi prelevate in dispensa. Al custode donavo, ogni paio di giorni, una bottiglia della stessa origine: il vino, mi confidò, gli era necessario alla sera, per non sentire poi quel maledetto strascicar di ferraglie, lassù nella cella più alta. Colsi l'occasione e il mio interesse illanguidito si ridestò: gli replicai che mi contava favole, quei rumori non esistevano, non ci credevo. «Dovreste provare» protestò lui, arcigno. Non me lo feci ripetere: «La facciamo questa scommessa? Passerò la notte nella cella e rimarrai svergognato. Dieci ducati per te se vinci, niente per me se perdi». Neppure allora temevo i fantasmi che tanti anni più tardi non sarei riuscito a scacciare dalla mente del mio carceriere di Montesarchio: ma ebbi la sensazione che la volontà di Cleo, non spenta dalla morte, congiurasse col terrore dell'uomo per costringermi a realizzare il suo desiderio. E va bene, mi dissi, quasi rispondendole. Ormai consideravo Murat uno sciocco generalastro ambizioso, ma il mio amor proprio era impegnato, quel che mi impensieriva erano i dieci ducati, non avevo idea di dove li avrei presi. Su quel che sarebbe successo dopo, non mi fermai né punto né poco. Accettò, ma disse che voleva i soldi prima perché se, alla mattina, mi trovava morto dallo spavento nessuno lo avrebbe pagato e per di più lui si sarebbe trovato nei pasticci. «Dormirò da papa» mi vantai «e ti
darò del poltrone». Scuoteva la testa, ma intanto ci guadagnai che mi accompagnò per le celle, tutte vuote, come aveva detto. Quella di Murat, assai ampia e luminosa, si distingueva per la sua pianta circolare: a Montefusco ci sarebbe parsa un salottino. Per scrupolo, esaminai il pavimento, era a lastroni massicci e quasi mi venne da ridere immaginandomi nell'atto di scalzarli. Tuttavia la singolarità del luogo m'incuriosiva e pensavo a quel prigioniero eccezionale i cui occhi si erano posati dove si posavano i miei: Cleo avrebbe baciato quelle pietre che a me non dicevano gran cosa. «E qui lo hanno ammazzato» fece l'uomo introducendomi su un terrazzino coperto che si apriva nel corridoio. Mi ci affacciai e non sapevo figurarmi, in uno spazio così ristretto, una fucilazione. Tutto quel che mi uscì di bocca fu se il condannato desse le spalle alla ringhiera o al muro del corridoio; e dove fossero schierati i militari. Rispose di non saperlo, lui a quel tempo stava a Napoli. «E che diavolo avete in mente, con tutte queste domande strane?» Non avevo nessun diavolo, purtroppo, più si avvicinava il momento di sciogliere, per così dire, il mio voto, più mi pareva di recitare una inutile commedia. Per ritrovare qualche scintilla di eccitazione, visitai la tomba di Cleo: la lapide non portava ancora il suo nome, era liscia e bianca, così lei era passata sulla terra, senza lasciar traccia. E altrettanto opaca e vana era la fanciullesca rodomontata che mi accingevo a compiere. In quello stato d'animo, non mi sosteneva che l'ostinazione e il punto d'onore, la vera promessa non l'avevo fatta a Cleo, ma a me stesso e per nulla al mondo mi sarei mancato. Una sfida, una picca sostituirono ciò che adesso rimpiangevo perché ne avrei avuto bisogno: l'infatuazione facile, soprattutto il duplice struggimento che un tempo mi identificava a una donna innamorata e al morto eroe dei suoi sogni. Non c'era scampo, dovevo celebrare il rito come un prete incredulo. Impiegai una settimana a trafugare un piccone, uno scalpello, un mozzicone di candela e a nasconderli, insieme al mio vecchio fucile da caccia, sotto un mucchio di sassi che avevo adocchiati nel cortile della rocca. Non sarebbero serviti, ne ero convinto, ma armato di questi simboli dovevo fornire la mia veglia. Una veglia di cavaliere errante, in fondo: i miti dell'infanzia non mi avevano ancora abbandonato. Solo da ultimo mi vennero in mente i dieci ducati promessi al custode: avevo un salvadanaio dove infilavo la poca moneta che gli zii materni mi regalavano per le solennità, non lo avevo mai rotto, non avevo motivo di spendere, con la vita che conducevo. Lo spezzai e trafficando fra i cocci contai il mio peculio: non arrivava che a cinque ducati scarsi. Non me ne preoccupai, pensai che, almeno come anticipo l'uomo se ne sarebbe contentato. Di giorno in giorno rimandavo la prova: si era ormai alla fine di maggio, il sole spaccava le pietre, mia madre era già a Chiaravalle e dovevo raggiungerla. Decido di farla finita: non pioveva da un mese e nella terra arsa ridotta in polvere affondavo i piedi mentre mi avviavo alla rocca per prendere gli ultimi accordi. Strada facendo ricapitolavo le fasi dell'operazione: vincere l'avarizia del custode, consegnare i miei soldarelli, fissare l'ora del convegno, non certo prima di buio. E qui cominciava il difficile: ricuperare di nascosto i miei attrezzi, provare a usarli sul duro piancito della cella. Dovevo farlo, l'avrei tentato a qualunque costo, o mi sarei stimato un verme per tutta la vita. Giunto al piazzale, rallentai il passo cercando con l'occhio il custode che, adesso, usava sedere in un cantuccio d'ombra nella rientranza del muro. Non lo vedo, in sua vece due militari bardati di tutto punto vigilavano a destra e a sinistra del portone. Appresi solo in seguito che il fucile e le altre mie cosucce eran
stati per caso scoperti e avevan persino provocato un allarme che si era tradotto in qualche perquisizione nelle case degli attendibili. Lì per lì, la mia ignoranza di ragazzaccio avventato e presuntuoso mi spinse ad avvicinare quei due, chiedendo con arroganza dove si fosse imbucato il custode. Per fortuna il mio aspetto dovette sembrargli così bambinesco che si limitarono a far la faccia feroce, imbracciando l'arma e ingiungendomi di allontanarmi all'istante. Il che feci, divorando la rabbia per il fucile perduto e anche per l'impresa mancata. Poco innanzi mi ero rallegrato pensando che domattina, alla stessa ora, sarei stato sulla strada di Chiaravalle, libero dall'assurda impresa e restituito alla vita normale. Adesso non m'importava d'altro che dello scacco subito e mulinavo idee di aspra vendetta. Tornai a casa sudato e furente e mi rinchiusi in camera. Feci tutto un sonno fino al mattino dopo. Mi sono svegliato poco fa, convinto di essere il ragazzo che, aperti gli occhi e rammentando quel che il giorno innanzi gli era parso un insuccesso avvilente, si sentì tranquillo e come lavato da un'acqua di cristallo. Fra un mese, il 24 giugno, avrei compiuto quindici anni e la mia coscienza, ormai matura, mi suggerì che esaudire la povera Cleo significava mirare a ben altri fini da un'avventura senza capo né coda: alla sconfitta cioè, dell'ingiustizia prepotente, al trionfo di una libera civiltà. Divenni, in quell'istante, autonomo e pronto alla vita. Mi sono svegliato, dico, provando il benessere di un giovane che dopo una grossa fatica, ha dormito lunghe ore e si sente le membra sciolte. Percepivo, attraverso le palpebre semichiuse il riverbero di una candela. Era ancora notte, dunque, e la candela era di poco consumata: il mio sonno o assopimento doveva esser stato breve ed era strano che mi avesse tanto riposato. Ma non ero solo, mi colpiva un mormorio come di gente che parlotta in sordina. Ed eccomi restituito e respinto allo squallido presente, un presente addirittura lugubre se ai piedi del letto riconoscevo Teresa, Marietta, Luigi, il medico. Non si erano accorti del mio risveglio e quel gaglioffo dottore non si curava neppure di abbassare la voce. «Non si preoccupi, madama, se chiede di scrivere lo contenti, non gli può far male, sono impulsi meccanici, non parole, il cervello non funziona, capisce? A questo punto meglio non contrariarlo.» Teresa mi premeva la bocca col fazzoletto, le mie povere creature mi piangevano morto. Le rassicurerò, gli farò coraggio, magari a cenni. Non adesso. Quando colui se ne sarà andato. Pare dunque che non scriva più che scarabocchi illeggibili. Tanto meglio, io non contavo fin da principio che altri leggesse, per qualche tempo Teresa vorrà congegnare i miei brogliacci, poi si deciderà a bruciarli senza rimorsi. Mi rendo conto di essere agli estremi, non sento che la mia mano aggranchiata sulla matita, tutto il resto del corpo non esiste, sono leggero come una nuvola, ed è una piacevole sensazione. Fra poco il cuore cesserà di battere ed è curioso che adesso non m'importi più di lasciare i miei eterni problemi insoluti: il mondo è eguale a come l'ho trovato nascendo, sordo e falso. Non saprò mai se agendo diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, non avrei meglio giovato alla realizzazione delle idee che ancora credo giuste: e questa è la mia sola salvezza. In vecchiaia ho scoperto che scrivere aiuta a pensare, finché scrivo penso, non ci rinuncerò, checché dica il medico. Non è stato troppo tardi se ne ho ottenuto di avere tutta la mia vita davanti agli occhi, un campo di battaglia in azione, e gli onori della giornata sono ancora incerti. Non ho taciuto né risparmiato nulla, infanzia, gioventù, famiglia, amicizie, le mie responsabilità e quelle degli altri. Le ho passate al setaccio e non ho rintracciato l'errore
in cui siamo caduti, l'inganno che abbiamo tessuto senza volerlo. Pisacane seppe far meglio e se sbagliò trovò misericordia nella morte. Io l'aspettavo a Montefusco e lei passò via, dandomi appuntamento su questo letto di vecchio. Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo...