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EMILIO CARLO CORRIERO
Nietzsche Oltre l’abisso Declinazioni italiane della ‘morte di Dio’
Prefazione di Gianni Vattimo
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Teologia dell’educazione
Emilio Carlo Corriero Nietzsche. Oltre l’abisso Declinazioni italiane della ‘morte di Dio’ ©Marco Valerio Editore Via Sant’Ottavio, 53 10124 Torino TO La riproduzione, anche solo parziale, di questo testo, a mezzo di copie fotostatiche o con altri strumenti, senza l’esplicita autorizzazione dell’Editore, costituisce reato e come tale sarà perseguito. Volume pubblicato con il contributo del Centro Studi Filosofico-religiosi Luigi Pareyson.
ISBN 9788875470777 (edizione in formato elettronico - ebook) I edizione - settembre 2007 Ristampa 0 1 2 4
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Emilio Carlo Corriero
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Quadro generale della pedagogia cristiana
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a Chiara
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Prefazione
Oltre ad aver promosso e portato, ormai, a termine l’edizione critica dell’opera di Nietzsche, la cultura filosofica italiana della seconda metà del secolo XX ha certamente offerto contributi significativi, e meno esclusivamente filologici, allo studio del grande pensatore tedesco. Contributi che sono cauterizzabili proprio in relazione alla fisionomia specifica della filosofia italiana, e che per questo meritano l’attenzione puntuale che vi dedica Emilio Corriero in questo libro. Se, come sembra si debba fare, si riconosce un (o il) carattere specifico della filosofia italiana in una linea ideale che va da Cicerone e Machiavelli a Vico a Croce e Gramsci, non sarà difficile situare in relazione ad essa anche l’interesse con cui gli studiosi del nostro paese hanno guardato a Nietzsche almeno a partire dai primi anni Sessanta del Novecento, proprio nello stesso periodo in cui (1964) Giorgio Ciolli e Mazzino Montinari cominciavano a pubblicare la loro edizione. Rispetto alle letture francesi – Bataille, dapprima; e poi Deleuze e Klossovski – gli italiani si sono mossi fin dall’inizio della loro NietzscheRenaissance con un occhio attento al significato politico-sociale dell’opera nietzscheana. Non certo per riportarla nel quadro della tradizionale identificazione di Nietzsche con fascismo e nazismo, ma con il proposito, che era poi lo stesso di Heidegger, di leggerlo alla luce di una più ampia filosofia dell’attualità, la quale certo inglobava anche molti dei motivi che i francesi elaboravano a un livello più generalmente “letterario” o comunque, a partire dall’attenzione per il Nietzsche Nietzsche. Oltre l’abisso
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antidialettico e “affermativo” di Deleuze, in un quadro più tecnicamente filosofico. Non diremo, un po’ rozzamente, che in questo campo, come in quello filosofico più generale, gli italiani hanno “urbanizzato” la filosofia francese, che ha sempre preferito, anche nello stile espositivo, una retorica più auratica e per l’appunto fortemente letteraria (uno dei modelli è stato Blanchot). Ma certo se si pensa per esempio ai saggi raccolti in Crisi della ragione da Aldo G. Gargani (1979) e al lavoro sviluppato in quegli anni da molti degli autori di quei saggi, oltre che all’interesse per il rapporto tra ripresa di Nietzsche e crisi del marxismo che caratterizzò il dibattito italiano a metà degli anni Settanta, la specificità delle letture italiane di Nietzsche si lascia abbastanza agevolmente riportare a questo concetto di urbanizzazione. La cultura italiana del dopo-seconda guerra mondiale rimaneva ancora largamente legata all’eredità dello storicismo crociano e gentiliano; e questo, lungi dal rappresentare per essa quel peso ritardante, vero e proprio handicap, che talvolta vi si è voluto vedere, costituiva un humus ricco di implicazioni positive, a cominciare dal legame che nel nuovo clima nato dalla vittoriosa resistenza antifascista si ristabiliva tra politica e cultura. Ripresa della tradizione gramsciana e gobettiana e Nietzsche-Renaissance, che certo all’inizio non si riconobbero esplicitamente come posizioni alleate (basti pensare all’ antinietzscheanismo di un Norberto Bobbio) erano tuttavia più vicine di quanto ciascuna, all’epoca, pensasse. Persino l’ideale liberale di Gobetti, che del resto apprezzava di Gramsci proprio il lato “leninista”, volontarista, alieno da ogni determinismo materialistico, non è estraneo a echi nietzscheani. Qui naturalmente si sfiora la questione dei complessi rapporti tra destra e sinistra nella cultura europea nei primi decenni del secolo, del “leninismo” di D’Annunzio o del nietzscheanismo del giovane Mussolini, e si rischia di finire alla polemica sul filonazismo di Heidegger, tutti temi che varrebbe la pena di studiare ma che non possono avere qui 8
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una trattazione adeguata. Li ricordo solo per ampliare lo sfondo della Nietzsche-Renaissance italiana e evocare alcune delle sue radici anche remote. Radici che naturalmente si estendono anche in un altro terreno squisitamente italiano, il peso della filosofia e delle sue implicazioni ideologiche in una ambiente in cui, a partire dalla presa di Roma nel 1870, la politica si è sempre intrecciata con la religione e con l’influenza della Chiesa cattolica. Anche questo intreccio, che ancora una volta è sembrato funzionare come una remora alla realizzazione di una democrazia libera, appunto, dai “fumi della ideologia”, finisce invece per rivelarsi una “felix culpa”, che ha difeso – certo solo fino a un certo punto – il dibattito politicoculturale italiano dalla riduzione al puro pragmatismo economicistico a cui ancora oggi molti lo vorrebbero ridurre. Anche questa costante presenza delle componenti ideologiche, e dunque anche filosofiche, della politica e della analisi della società contemporanea ha contribuito a caratterizzare (pensiamo a filosofi come Massimo Cacciari ed Emanuele Severino) il modo in cui si è accostata a Nietzsche la nostra cultura filosofica anche più recente. Lungi dunque dall’essere una pura e semplice bibliografia ragionata – che del resto sarebbe un merito non indifferente – delle Nietzsche-Studien italiane degli ultimi decenni, l’opera di Corriero ha il respiro di un vero e proprio panorama di una grande parte della filosofia recente del nostro paese, e può contribuire in modo significativo al dibattito teorico su questioni e possibilità ancora largamente aperte. Gianni Vattimo
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Introduzione
In Italia il rinnovato interesse per l’opera di Nietzsche coincise in buona misura con la pubblicazione dell’edizione critica di Colli e Montinari; si è, infatti, generalmente portati a ritenere che il contributo italiano alla rinascita nietzscheana sia stato soprattutto di carattere editoriale e filologico. È certamente discutibile se l’edizione critica non s’inserisca in un movimento già presente nella cultura italiana teso alla rivalutazione dell’opera nietzscheana, piuttosto che esserne la promotrice, ma è indubbio che l’edizione Adelphi fu determinante al fine di inserire saldamente il pensiero di Nietzsche nella coscienza filosofica italiana. L’idea di una traduzione il più possibile completa degli scritti di Nietzsche venne a Colli nel 1958. In quegli anni accostarsi all’opera del filosofo richiedeva una sostanziale ‘ripulitura’ dai nefasti travisamenti nazisti che avevano adombrato Nietzsche di un’immagine demoniaca, difficile da tollerare in un’Italia che ricostruiva la propria coscienza sui principi della Resistenza al regime fascista. Fu proprio con l’intento di operare una ‘denazificazione’ che restituisse un Nietzsche estraneo alle responsabilità politiche attribuitegli anche da larghi ambienti culturali italiani, che si procedette alla revisione sistematica dei suoi scritti. Il progetto di pubblicare un’edizione completa delle opere di Nietzsche, del resto, era stato presentato in origine alla Casa editrice Einaudi, allora roccaforte delNietzsche. Oltre l’abisso
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la cultura italiana di Sinistra, che però, dinanzi alla mole di lavoro che si prospettò allorquando Colli si rese conto della necessità di un’edizione critica, si tirò indietro lasciando che fosse la giovane Casa Adelphi (nata proprio da un manipolo di consulenti e redattori usciti da Einaudi) a curarne la pubblicazione. L’attenzione filologica non esaurì la Nietzsche-Renaissance italiana, anzi per certi versi apparve in contrasto con le maggiori letture che dagli anni Sessanta investirono il dibattito filosofico italiano. Innanzitutto, la rivendicazione di inattualità non venne accolta dagli interpreti che in quegli anni si accostavano all’opera di Nietzsche per il tramite della lettura ontologica proposta da Heidegger e che rinvenivano, partendo da posizioni marxiste, nel carattere destrutturante dell’opera di Nietzsche una critica devastante allo status quo capitalistico-democratico. Se la cura ermeneutica di Colli era tesa ad evidenziare i punti di contatto del pensiero di Nietzsche con la filosofia presocratica (Dopo Nietzsche del 1974), Montinari, iscritto al Partito Comunista Italiano, contribuì senz’altro a indirizzare la lettura di Nietzsche su posizioni materialiste. Del resto, l’attualizzazione del pensatore della Volontà di Potenza non poteva trovare seguaci nell’estrema destra, diretta erede del Partito Fascista, né in ambienti moderati che, dato il loro storico legame con la Chiesa cattolica, certo non avrebbero potuto portare in gloria Nietzsche e la sua radicale condanna del Cristianesimo. La carica destrutturante della ‘morte di Dio’ proruppe dunque nel dibattito politico di Sinistra e ben s’integrò con il ‘destino’ di opposizione cui per tanti anni la Sinistra apparve legata sia dall’ostracismo cattolico interno, sia da contingenze internazionali, decisive nella politica italiana del lungo e controverso secondo Dopoguerra. La filosofia italiana di ispirazione marxista si offrì alla ricezione nietzscheana come il campo di integrazione 12
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delle dinamiche storiche descritte da Nietzsche, manifestandosi come una forma di filosofia aperta, disponibile a innesti e revisioni, assimilando la tecnica eclettica così frequente nella filosofia italiana. Pur sottolineando l’inconciliabilità delle due prospettive, è certo, però, il fatto che Nietzsche venne accolto in Italia da posizioni marxiste che intendevano recuperarne l’attualità politica. Altra caratteristica della filosofia italiana è, infatti, una preoccupazione esplicita per le valenze pratiche presunte della filosofia, in virtù di un impegno civile che ha sempre prevalso sull’accumulazione concettuale. In questo contesto, decisiva risultava la liberazione dagli schemi proposti dalla Distruzione della ragione di Luckacs, secondo cui il pensiero di Nietzsche rappresentava una sorta di ‘vitalismo esasperato’ dell’ideologia borghese che, non potendo impossessarsi della realtà, portava all’ipotesi dell’irrazionalità del reale. La ‘morte di Dio’ e la posizione di nuovi valori risultavano così come l’esito di una fuga nell’irrazionale propria di una società che aveva perso la capacità di gestire il reale. È certo che, nel contesto internazionale, le ‘grandi letture’ di Löwith, Jaspers e Bataille ebbero il merito di restituire un Nietzsche alieno da travisamenti nazisti, tuttavia determinante allo scopo di inserire saldamente Nietzsche nella storia della filosofia risultò l’interpretazione ontologica di Martin Heidegger. Per Heidegger, Nietzsche è l’ultimo pensatore della storia della metafisica, una storia che non riguarda solo il pensiero, bensì costituisce lo stesso destino dell’essere: la metafisica viene a compimento in Nietzsche, in quanto questi si presenta da se stesso come il primo vero nichilista. E, infatti, l’essenza più profonda della metafisica è appunto il nichilismo: come emerge dal Nietzsche di Heidegger, l’essenza del nichilismo è la storia in cui dell’essere non ne è più nulla, e tale storia coincide con la storia della metafiNietzsche. Oltre l’abisso
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sica quale oblio dell’essere. L’Occidente a cui è annunciata la ‘morte di Dio’ è proprio il luogo dell’occaso, del tramonto dell’essere. La pubblicazione delle opere dell’ultimo Heidegger e le traduzioni Colli-Montinari delle opere di Nietzsche sono due fenomeni che a mio avviso vanno considerati parallelamente, poiché la ricezione di Nietzsche in Italia passa per buona parte attraverso l’interpretazione proposta da Heidegger. Il Nietzsche, pubblicato nel 1961 e che raccoglie fra l’altro lezioni e saggi dedicati al filosofo, oltre a costituire la più autorevole lettura ontologica di Nietzsche, rappresenta un momento fondamentale della speculazione heideggeriana. Tali scritti hanno poi avuto notevoli ripercussioni sulla lettura del ‘primo’ Heidegger di cui si erano largamente nutriti esistenzialismo e fenomenologia in Italia. Infine, la loro fortuna venne a cadere in un momento in cui, per varie ragioni (fra cui le contestazioni del ’68 e la fortuna della Scuola di Francoforte), l’intero schema ‘razionalismo-irrazionalismo’ di stampo lukacsiano, rimasto per molti anni dominante, era andato gravemente in crisi. Secondo Heidegger ma, come vedremo, ciò diverrà una costante nelle interpretazioni italiane, il Dio di Nietzsche designa il mondo soprasensibile in generale, il mondo delle idee e degli ideali. La ‘morte di Dio’ riassume, dunque, il destino nichilistico della storia dell’essere, giacchè se Dio, come causa ultrasensibile e come fine di ogni realtà, è morto, non resta più nulla cui l’uomo possa aggrapparsi e secondo cui possa regolarsi. Poiché il nichilismo è un movimento storico che giunge a compimento con l’affermazione del Tot Gottes, bisognerà vedere se gli esiti cui conduce possano anch’essi venir definiti ‘storici’, ossia possano trovare una loro attualità. La ‘morte di Dio’ segna la fine della filosofia del Fondamento e, quindi, la fine di una razionalità che pensava 14
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l’essere in virtù di un punto saldo e incontrovertibile, fosse esso Dio, il mondo, il soggetto. Il dibattito filosofico italiano che accoglie l’opera di Nietzsche tra gli anni Sessanta e Settanta è già percorso da tematiche che ripropongono per altre vie il problema della ‘crisi della ragione’ e la ‘morte di Dio’, colta nelle sue terminazioni ontologiche, contribuisce a indirizzare il procedere filosofico nella direzione di un nuovo ‘pensiero’, che prende consapevolezza della fine della metafisica e della struttura differenziale su cui essa ha imbastito le proprie strutture di potere. Ogni tentativo di attualizzare il pensiero di Nietzsche fallisce, finché non si prende atto dell’impossibilità di ragionare delle ‘categorie’ nietzscheane senza prima accettare la messa in crisi della stessa struttura dialettica che garantisce la pensabilità dell’essere. La ‘morte di Dio’ si presenta come il culmine del pensiero occidentale, il baratro della Ragione a cui era pervenuto Kant, ossia l’estremo di pensare l’Incondizionato con i concetti della Logica: un abisso del pensiero che attrae e respinge allo stesso tempo e che restituisce, a chi sa accettarla, un’infinita Libertà a fondamento della nuova apertura ontologica dell’uomo. E.C.C.
NOTA Le opere di Nietzsche vengono citate, ove è possibile, con il titolo e il numero dell’aforisma. Salvo diversa indicazione si fa riferimento alla traduzione italiana dell’edizione critica curata da Colli e Montinari, Adelphi, Milano, 1964 e ss. Nietzsche. Oltre l’abisso
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PRIMA PARTE
La morte di Dio e la Nietzsche-Renaissance italiana
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Capitolo I
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Questioni generali
“Dio è morto!” “L’uomo folle. Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!»? – E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «Si è forse perduto?» disse uno. «Si è smarrito come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» gridavano e ridevano in una gran confusione. L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio?» gridò «Ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!»”1 L’annuncio della ‘morte di Dio’ ha la voce dell’inaudito, non perché neghi l’esistenza di Dio, bensì perché afferma la non-più-esistenza di Dio: esso esorbita dal pensiero dialettico per il quale la negazione, costituendo un’opposizione, rimane in relazione con ciò che nega. È l’annuncio che l’Essere supremo è trapassato nel Nulla. La consapevolezza della ‘morte di Dio’ è il pensiero che sta oltre l’opposi1
F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, 125.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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zione fra ciò che è e ciò che non è: tale consapevolezza ha il carattere della follia, poiché la razionalità che l’uomo ha costruito con la sua Logica non consente che l’Essere Imperituro muoia, giacchè ciò rientra nell’ambito della contraddizione. L’annuncio non può che essere affidato, dunque, ad un folle; quel folle che poi è Zarathustra. Nella ‘chiara luce del mattino’ il folle accende una lanterna; la sua verità è ancora troppo debole per rischiarare il mondo che, inconsapevole, viaggia verso l’ottenebramento: quel sole che era l’orizzonte è morto; ma l’evento è in cammino, non è ancora giunto alle orecchie degli uomini, che anzi deridono e scherniscono il folle-Zarathustra2 . Perché l’annuncio viene fatto al mercato? Qui perlopiù si trova chi non crede in Dio, eppure che Dio sia morto è qualcosa che non può raggiungere neppure le orecchie degli infedeli. Questi rimangono legati alla medesima concezione che afferma l’esistenza di Dio: negandone l’esistenza essi permangono nell’opposizione dialettica tra essere e non-essere, non andando incontro a nessun tipo di contraddizione. La follia che conosce la ‘morte di Dio’ necessita della solitudine: “Fuggi, amico mio, nella tua solitudine! […] Dove finisce la solitudine, là comincia il mercato; e dove comincia il mercato, là comincia anche il chiasso dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche velenose.”3 Il mercato è il luogo dove l’uomo è popolo, e il popolo ha bisogno di commedianti e buffoni; qui ‘sconvolgere’ significa dimostrare, ‘far impazzire’ significa convincere: una verità che s’insinua in orecchie fini, qui la si chiama menzogna e nulla. La verità di Zarathustra si annuncia nel silenzio della solitudine; è una verità lenta, che s’inabissa in ‘pozzi profondi’ per riemergere nella coscienza di chi ‘profondo’ sa essere. 2 3
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Proemio. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Delle mosche del mercato.
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Nel proemio dello Zarathustra, l’annuncio della ‘morte di Dio’ prepara l’avvento del superuomo; morendo Dio, il ‘fondamento’ saldo su cui l’uomo muoveva i propri passi è venuto meno: “L’uomo è una corda, annodata tra l’animale e il superuomo – una corda tesa sopra un abisso (corsivo mio). Un pericoloso andare al di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardarsi in dietro, un pericoloso rabbrividire e fermarsi.”4 Con la ‘morte di Dio’, l’uomo ha perso il suo valore, si è fatto tensione in equilibrio sopra un abisso; ha ritrovato la precarietà da cui Dio lo preservava con la sua menzogna. Parlando al mercato Zarathustra commette la stoltezza degli eremiti, i quali dopo tanto silenzio hanno bisogno di ascoltatori e pur di averne alcuni sono disposti a rinnegare sé stessi: si sentono mossi dalla compassione – sentimento che uccide␣ – per i ‘dormienti’ e per loro sono pronti a perdersi. Tuttavia Zarathustra si accorge del suo errore: “E voi, uomini superiori, questo imparate da me: sul mercato nessuno crede agli uomini superiori. E se proprio volete parlare lì, sia pure! Ma la plebe ammiccherà: «Noi siamo tutti uguali». «O uomini superiori» – così dice ammiccando la plebe – «non ci sono uomini superiori, noi siamo tutti uguali, l’uomo è l’uomo, davanti a Dio siamo tutti uguali!”» «Davanti a Dio! Solo che questo Dio è morto. Davanti alla plebe invece non vogliamo essere uguali. O uomini superiori, andate via dal mercato!»”5 Gli infedeli del mercato, pur non credendo in Dio, conservano il messaggio di deleteria uguaglianza che il cristianesimo ha diffuso: la volontà di potenza degli individui che si sentono ‘forti’ solo in quanto massa. In questo covo di ‘ammorbati’ l’annuncio non può che rimanere inascoltato.
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F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Proemio. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Dell’uomo superiore.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Dunque, Zarathustra ha bisogno di solitudine e di tempo perché il suo messaggio raggiunga le orecchie dell’uomo superiore. Si è detto della necessità che la ‘morte di Dio’ venga annunciata dall’uomo folle, ora è d’uopo chiarire il significato della scelta del ‘moralista’ Zarathustra quale ‘profeta’ del superuomo. E, infatti, così scrive Nietzsche nell’Ecce homo: “Nessuno mi ha mai domandato, e avrebbe dovuto domandarmelo, che cosa significhi, proprio sulla mia bocca, sulla bocca del primo immoralista, il nome Zarathustra: perché ciò che costituisce l’enorme unicità di quel persiano nella storia è proprio l’opposto.”6 Per Nietzsche, Zarathustra ha creato l’errore fatale della morale, e quindi deve essere anche il primo a riconoscere quell’errore. Il vero Zarathustra nacque secondo alcuni nel 588 a.C., secondo altri nel 630 a.C.; la sua dottrina è un dualismo tra Bene e Male, rappresentato dall’opposizione tra il dio Ohrmazd, signore della luce, e il dio Ahriman, signore delle tenebre. Questo dualismo non s’identifica con il manicheismo che equipara il male con la materia, esso anzi conferisce, – come del resto fa Nietzsche –, grande valore e dignità al corpo. Zoroastrismo e pensiero nietzscheano convergono anche nella constatazione della complementarità tra bene e male, nella critica al concetto e alla pratica della vendetta, e nella contestazione della tirannia del passato e del futuro sul presente. La scelta di un orientale come indicatore del destino dell’Europa sottolinea la peculiarità a-dialettica del messaggio. L’immoralista Nietzsche-Zarathustra si astrae dalle categorie morali in opposizione e le supera ponendosi con un balzo al di là di esse. Ma chi è il Dio che muore? Si tratta certamente del Dio dei cristiani, ma non solo. Per Nietzsche, Dio rappresenta l’intera struttura dell’essere inteso come opposizione al6
F. NIETZSCHE, Ecce homo, op. cit., p. 129.
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l’apparire, e come fondamento sul quale detta opposizione è possibile: Dio non è solo l’essere che si contrappone all’apparenza, è lo stesso Presupposto che rende possibile la ‘differenza’ e l’inevitabile contrapposizione tra essere e apparire. Prima di verificare quanto detto è bene evidenziare su quale bisogno si erga la ‘posizione’ di Dio; è chiaro, infatti, che se Dio muore, egli è da ascrivere all’ambito del ‘mortale’, e tutto ciò che è mortale ha avuto nascimento: ossia è passato dal nulla all’essere, e, ora che è morto, ritorna al nulla da cui proviene. La fede in un Dio nasce da un bisogno di ‘stabilità’ che l’uomo avverte come irrinunciabile: egli necessita di un puntello, di un sostegno per poter vivere, e la “quantità di fede di cui una persona ha bisogno per prosperare, la proporzione di ‘stabilità’, a cui non vuole che siano recate scosse, poiché è a essa che si sostiene – costituisce una misura del livello della sua forza (o detto più chiaramente, della sua debolezza)”7 . Dio nasce dunque da una malattia che indebolisce la volontà dell’uomo e fa in modo che egli si senta al sicuro solo su di un terreno (Grund) saldo che, nell’ipotesi religiosa, prende le sembianze di un Dio, ma può anche essere rappresentato dalle ‘reti’ della metafisica, come dalle lusinghe dell’arte. Il bisogno della ‘stabilità’ è accompagnato da una tendenza alla totalità: il Caos ‘multiverso’ delle forze viene afferrato nell’ipotesi di un Cosmo ‘universo’ che lo abbraccia in una totalità. Ora, quest’ipotesi che era Dio, è divenuta troppo ingombrante e non più utile al suo scopo originario: “Dio è una supposizione; ma io voglio che il vostro supporre non vada al di là della vostra volontà creatrice […] Dio è una supposizione: ma chi potrebbe bere tutti i tormenti di questa supposizione senza morirne? Deve essere tolta a chi crea la sua fede e all’aquila il suo librarsi ad altezze d’aquila?”.8 Nato per garantire la vita 7 8
F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, 347. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Sulle isole beate.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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dell’uomo, Dio ora la impedisce e diviene d’inciampo alla sua volontà creatrice. Tale volontà creatrice rimane imbrigliata dalla ‘struttura’ che separa l’essere dall’apparire, e che genera, attraverso la concezione progressiva del tempo, la ‘differenza’ invalicabile tra ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà. Chiariremo più avanti quel che qui s’intende, per ora limitiamoci a considerare come l’ipotesi di Dio abbia potuto innestarsi su di un errore: ossia sulla posizione di un ‘mondo vero’ opposto ad un ‘mondo apparente’. L’odio dei ‘risentiti’ per il mondo gettò discredito su di esso e lo ridusse a ‘simulacro’ di una perfezione che risiede nel ‘mondo di là dal mondo’. A partire da Platone si pone in essere questa distinzione che rimanda l’esistente ad una autenticità che ontologicamente lo supera; ma se in principio il ‘mondo vero’ appare attingibile al saggio, al pio, al virtuoso, successivamente esso si fa ‘promessa’; l’idea “diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza”.9 È allorquando la separazione giunge alla sua acme che il ‘mondo vero’ può prendere le sembianze del Dio cristiano: in questa vita non si può sperare di␣ raggiungere la ‘verità’, bisogna quindi prepararsi all’aldilà rinunciando a vivere, rimandando la propria anima (la propria parte nobile) ad un destino più alto di quello transeunte cui è legato il corpo. Ma l’irraggiungibilità del ‘mondo vero’ finisce per renderlo inservibile, e pertanto destinato alla ‘morte’: è il momento in cui Zarathustra annuncia: “Dio è morto!”. Ma come muore Dio? Egli viene ucciso dalla mano dell’uomo più brutto. C’è un sentimento che uccide: esso è la compassione. Zarathustra mette in guardia gli uomini e se stesso da questa indiscreta pietà che infetta il puro amore; sa che a causa di essa Iddio perì: “Così una volta mi parlò il diavolo: «Anche Dio ha il suo inferno; è il suo amore degli uomini». 9
F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, op. cit., p. 46.
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E ultimamente gli ho sentito dire queste parole: «Dio è morto; lo ha ucciso la sua compassione per gli uomini»”.10 . Mentre Zarathustra va per monti e foreste in cerca del grande angosciato e invocatore di soccorso, s’imbatte nel regno della morte e vede qualcosa che sta seduto sul margine del sentiero, “fatto come un essere umano, ma quasi non un essere umano”; un’orribile visione che si presenta come un enigma da risolvere: l’uomo più brutto, colui che uccise Dio perché non sopportava il suo amore compassionevole. Zarathustra risolve l’enigma e si pone all’ascolto della confessione: “…egli doveva morire: egli vedeva con occhi che vedevano tutto – vedeva le profondità e gli abissi dell’uomo, tutta la sua nascosta ignominia e bruttezza. La sua compassione non conosceva il pudore: egli penetrava nei miei angoli più sporchi. Quest’uomo curiosissimo, super-indiscreto e super-compassionevole doveva morire. Guardava sempre me: di un tale testimonio mi volli vendicare – o io stesso non vivere più. Il dio che vedeva tutto, anche l’uomo: questo dio doveva morire! L’uomo non sopporta che un tale testimonio viva.”11 Subito prima di entrare nel regno della morte, nel colloquio che Zarathustra ha con l’ultimo papa, così questi parla della ‘morte di Dio’: “Quando era giovane, questo dio dell’Oriente era duro e vendicativo e si edificò un inferno per la delizia dei suoi prediletti. Alla fine però divenne vecchio e molle e frollo e pietoso, più simile a un nonno che a un padre, ma simillimo a una vecchia nonna vacillante. Se ne stava seduto, tutto avvizzito, al suo posticino accanto alla stufa, accorandosi per la debolezza delle gam10 11
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Dei compassionevoli. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, L’uomo più brutto.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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be, stanco del mondo, stanco di volere, e rimase un giorno soffocato dalla sua troppa pietà.”12 Zarathustra mette in guardia però il vecchio prete dal credere che Dio sia morto in questa maniera: “Quando gli dei muoiono, muoiono sempre di molte specie di morte”. Dai passi che si è scelto di citare può sembrare che Dio sia morto per un eccesso di bontà (nella tesi del papa), o per aver peccato di troppa curiosità: entrambi aspetti della compassione, che però non ne esauriscono la definizione. A me pare che essa sia da mettere in relazione con la volontà di creare che impedisce. L’amore dei compassionevoli impedisce all’oggetto amato la libertà di creare, poiché esso lo immobilizza, ne scopre le debolezze ed esse si fanno colpe insormontabili: “Giacché, per il fatto di aver visto soffrire il sofferente, mi sono vergognato a causa della sua vergogna; e quando l’ho aiutato, ho gravemente offeso il suo orgoglio”.13 L’amore di Zarathustra supera il perdono e la pietà, il suo amore libera alla creazione. Non si può intendere il senso della ‘morte di Dio’ se non si ha ben chiaro che ad uccidere Dio è il suo amore che inchioda, che immobilizza, e non lascia l’oggetto amato libero di crearsi: “ogni grande amore è al di sopra anche della sua compassione: perché esso vuole ancora creare (il corsivo è mio) l’oggetto amato! «Al mio amore sacrifico me stesso e il prossimo mio␣ come me stesso» – così dicono tutti i creatori. E tutti i creatori sono duri.”14 In definitiva la compassione è la negazione della vita, è la conservazione della sofferenza che blocca la volontà creatrice e mantiene saldo ciò che è destinato al tramonto; è, pertanto, ciò che si oppone allo sviluppo: “Schopenhauer era nel suo diritto quando diceva che con 12
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, A riposo. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Dei compassionevoli. 14 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Dei compassionevoli. 13
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Emilio Carlo Corriero
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la compassione viene negata la vita, viene resa più degna di negazione – la compassione è la praxis del nichilismo.”15 La compassione è un sentimento che ‘paralizza’ la volontà creatrice solidificando il divenire nella forma nichilistica dell’essere. Infatti, la volontà creatrice rappresenta l’estrema manifestazione del divenire. Esso non è da intendersi secondo le formule classiche che tendono a fare del divenire uno ‘stato’ particolare dell’essere, attraverso il potere catturante del ‘concetto’ che, nel tentativo di rendere enunciabile l’inesprimibile – ossia il divenire –, lo solidifica falsificandolo. Il divenire coincide con la libertà di creare, con la perfezione del Tutto e, in definitiva, con l’Eternità. Sembra di essere dinanzi ad un’insormontabile contraddizione: come è possibile che il movimento di Nietzsche, tutto teso all’abolizione di ogni ‘eterno’ – compreso Dio –, giunga infine ad affermare la necessità dell’Eternità? È il caso di intendersi circa il significato da attribuire alle parole. Gli ‘immutabili’ che la pars destruens della filosofia di Nietzsche condanna al declino, sono stati generati sulla concezione progressiva e annichilante del tempo, anzi proprio in virtù di questa si è potuto parlare di un essere. I concetti dell’essere sono possibili solo su di un materiale inerte quale è quello del ‘passato’; essi poi giungono ad ingabbiare il ‘presente’ nel tentativo di prevedere e gestire il ‘futuro’. Gli dèi che il ‘presente’ venera non possono che essere retaggio di un passato aureo. Bisognerebbe, a mio avviso, prestare maggiore ascolto alle Considerazioni inattuali, qui risiede il fulcro del pensiero di Nietzsche; è a partire dalla considerazione del ‘passato’ che è possibile comprendere la ‘morte di Dio’ e l’inscindibile legame con la dottrina dell’eterno ritorno. Perché l’uomo sia libero di creare, ossia perché possa abbracciare il Tutto, non deve avvertire il ‘passato’ come qualcosa 15
F. NIETZSCHE, L’Anticristo, op. cit., p. 8.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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di separato da lui e, quindi, non più modificabile; il ‘passato’ deve poter rientrare nell’ambito del ‘modificabile’, – meglio ancora, del ‘creabile’. È necessario che muoiano gli dèi, che vengano meno i concetti del ‘bene’ e del ‘male’, che, in buona sostanza, si liberi il divenire dalla gabbia dell’essere: “Quando l’acqua offre appigli, quando passerelle e parapetti scavalcano il fiume: in verità, non trova credito chi dice: «Tutto scorre». […] Sopra il fiume tutto è saldo, tutti i valori delle cose, i ponti, i concetti, tutto il ‘bene’ e il ‘male’: tutte queste cose stanno salde! Se poi viene il duro inverno, domatore dei fiumi: allora anche i più spiritosi imparano la diffidenza; e, in verità, non solo i babbei dicono allora: «non sta tutto fermo?». «In fondo sta tutto fermo»: ma contro di ciò predica il vento del disgelo! Il vento del disgelo, un toro, un toro che non ara, un toro furioso, devastatore, che rompe il ghiaccio con cornate di collera! Il ghiaccio però: rompe le passerelle! O fratelli, non scorre adesso tutto? Non sono tutti i parapetti e le passerelle caduti nell’acqua? Chi potrebbe tenersi ancora al ‘bene’ e al ‘male’?”16 Il duro inverno domatore di fiumi è Dio, il che morendo trascina (il ghiaccio rompe le passerelle) con sé i concetti dell’essere (ponti e passerelle). Ma ciò non basta: perché il fiume – che è il divenire – sia liberato dall’‘alveo’, Nietzsche ‘deve ipotizzare’ la dottrina dell’eterno ritorno. È certo che si tratta di una ‘possibilità’, ma non per questo si può prendere alla leggera. Essa è la Possibilità che s’impone come una Necessità, donde il suo carattere terrorizzante. La dottrina dell’eterno ritorno è il pensiero abissale per eccellenza, giacchè sottrae al divenire lo stes16
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Delle tavole vecchie e nuove.
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so fondo (Grund) attraverso cui è possibile definirlo, e, così, lo libera al suo destino. Con la dottrina dell’eterno ritorno il ‘passato’ si lega al ‘futuro’ nell’anello del ritorno; qui non c’è ‘cominciamento’, tutto eternamente diviene e ritorna: lo stesso cancello dell’attimo non rappresenta un’interruzione, ché questa sarebbe un inizio (od una fine), e ciò riporterebbe in auge il problema di ciò che precede quell’inizio (o segue quella fine). Con la ‘morte di Dio’ muore la concezione progressiva del tempo; poiché su di essa si è resa possibile ogni forma di separazione: ‘mondo vero’ e ‘modo apparente’; ‘passato’, ‘presente’ e ‘futuro’; ‘mondo’ e ‘uomo’; ‘corpo’ e ‘anima’. Segnando il discrimine temporale tutto appare scisso e soggetto a forze superiori. La dottrina dell’eterno ritorno completa il movimento iniziato con la ‘morte di Dio’, in quanto restituisce la pienezza della vera Eternità e consente la libertà di creare: “Mai ancora trovai la donna dalla quale desiderassi avere figli, se non fosse questa donna che amo: giacché io t’amo, o Eternità! Giacché io t’amo, o Eternità!”17
Le interpretazioni tedesche e francesi Oltre alla pubblicazione dell’edizione critica dell’opera di Nietzsche, nel dibattito filosofico italiano che ci apprestiamo a considerare svolgono un ruolo centrale le grandi esegesi degli anni ’30. Ad esse infatti si deve la liberazione del pensiero di Nietzsche dall’indebita appropriazione nazista; le letture di Löwith, Jaspers e Bataille hanno appunto in comune la rivendicazione dell’‘inattualità politica’ del pensiero del filosofo, in favore dell’apprezzamento 17
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, I sette sigilli.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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del suo carattere ‘metastorico’. La considerazione del valore da attribuire all’eterno ritorno, il carattere esistenziale dell’opera di Nietzsche, l’esperienza del tragico, costituiscono il debito delle letture italiane alle interpretazioni di questi anni. D’importanza capitale risulta poi l’interpretazione ontologica di Heidegger che ebbe il merito di portare definitivamente Nietzsche nella storia della filosofia. Inoltre, l’attenta valutazione della filosofia di Heidegger oltrechè della sua interpretazione dell’opera nietzscheana, come si vedrà, istituisce letteralmente il piano del dibattito filosofico italiano intorno al nichilismo. In un continuo scambio di suggestioni, la NietzscheRenaissance francese contribuisce, infine, ad arricchire la discussione filosofica italiana dell’analisi dell’aspetto ‘affermativo’ dell’opera di Nietzsche. Karl Löwith Scolaro di Heidegger, Löwith interpreta la filosofia di Nietzsche con lo stesso metodo ermeneutico tipico dell’interpretazione ontologica del maestro; tuttavia, diversamente da Heidegger, Löwith non accetta quale testo fondamentale per conoscere il pensiero di Nietzsche l’opera postuma conosciuta sotto il titolo di Volontà di potenza, poiché questa non apporterebbe qualcosa di fondamentalmente nuovo sotto il punto di vista filosofico. Piuttosto per Löwith risulta decisiva nell’interpretazione di Nietzsche la considerazione del Così parlò Zarathustra; egli sottolinea il momento religioso del Gott ist tot, cercando di vedere in Zarathustra il predicatore di un nuovo evangelo: il quinto. Il verbo di Zarathustra si rivela come un verbo estremamente religioso che predica una nuova ‘redenzione’, per la qual cosa Nietzsche andrebbe posto in relazione più con Kierkegaard che non con Aristotele (come fa Heidegger). 30
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Secondo Löwith, Nietzsche muove lungo la via, già percorsa da Feuerbach e da Marx, del recupero dell’uomo, dopo la frattura operata dal Cristianesimo fra mondo ed uomo. La ‘morte di Dio’, il nichilismo, il concetto del ‘superuomo, vanno intesi come il tentativo di ‘ri-fidanzamento’ dell’uomo col mondo. L’abolizione della contrapposizione fra ‘mondo vero’ e ‘mondo apparente’ consente di recuperare il legame che era andato perduto, a causa del cristianesimo: dopo la ‘morte di Dio’, uomo e mondo giungono a coincidere e si dimensionano come volontà di potenza e come eterno ritorno. Il problema della riconquista del mondo da parte dell’uomo s’identifica secondo Löwith con il primo discorso di Zarathustra: ‘Delle tre metamorfosi’. Le tre metamorfosi dello spirito che Zarathustra annuncia sono rappresentate dal cammello, dal leone, dal fanciullo, che sono rispettivamente figurazioni del ‘tu devi’, dell’‘io voglio’ e dell’‘io sono’. Il ‘tu devi’ è legato al carro del cristianesimo e rappresenta un peso che l’uomo trascina con sé da millenni. Oppresso da questo fardello, il cammello si affretta verso il deserto, dove lo spirito si trasforma nel leone. Esso è l’espressione dell’arroganza, della distruzione di ogni valore, di quell’essere che mantiene a tutti i costi nel deserto la propria libertà. Il leone trasforma il tu devi, imposto dall’esterno, nell’io voglio, esprimendo con ciò l’assoluta padronanza di sé in quanto comanda a se stesso ciò che vuole. Infine, poiché il leone non è capace di creare nuovi valori, si ha un’ultima trasformazione: il leone diventa un bimbo. L’io voglio si trasforma così nell’io sono del fanciullo cosmico. Questi non vuole qualcosa di determinato, ma vive nella libertà di un gioco che implica un’ininterrotta creazione e distruzione in momenti ciclici che continuamente si succedono. Il fanciullo che gioca nella sua innocenza cosmica, immerso nella dimensione dell’eterno presente, si rivela come lo stesso Dioniso. In Nietzsche. Oltre l’abisso
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contrasto con il regno celeste di Dio, il mondo dionisiaco nietzscheano è un mondo fisicamente celeste e un regno terreno, il cui padrone è il ’superuomo’. La triplice metamorfosi che rappresenterebbe il sistema del pensiero nietzscheano, viene messa in particolare rilievo da Löwith nel suo classico studio del 1935: Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen. Qui si legge che la morte del dio cristiano, l’uomo davanti al nulla e la volontà dell’eterno ritorno caratterizzano il nucleo sistematico del pensiero nietzscheano come un movimento che parte dapprima dal tu devi verso la nascita dell’io voglio, per approdare all’affermazione dell’io sono come primo movimento di un “Dasein che eternamente ritorna in mezzo al mondo naturale di ogni ente”. Secondo Lowith, l’unità del pensiero di Nietzsche trova il suo apice nella dottrina dell’eterno ritorno, nella suprema affermazione dell’io sono, dove la volontà umana ritrova se stessa come necessità cosmica. La ‘morte di Dio’ e il nichilismo sono momenti anteriori che preparano l’ultima metamorfosi di Zarathustra. Si è visto che, seguendo l’interpretazione di Löwith, il momento unitario di tutto il pensiero di Nietzsche può cogliersi nella dimensione di una triplice metamorfosi che rappresenta tre momenti intimamente connessi fra loro: la ‘morte di Dio’, il nichilismo, la dottrina dell’eterno ritorno. In forza di questa triplice articolazione, per Löwith, si può parlare a proposito del pensiero di Nietzsche di un ‘sistema in aforismi’ il cui punto centrale è segnato dal Così parlò Zarathustra. Tale sistema fatto di aforismi parte dalla constatazione della ‘morte di Dio’ alla quale si trovano intrinsecamente legate la dimensione del nichilismo e la dimensione del ‘superuomo’. Affinché Zarathustra possa insegnare il senso della terra, c’è bisogno di una preliminare critica a tutto il mondo metafisico, e questo viene fatto coincidere da Nietzsche con il Dio dei cristiani. 32
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Con la ‘morte di Dio’ l’uomo si trova nelle spire del nichilismo, e, grazie alla fede nella dottrina dell’eterno ritorno, acquista la ‘nuova forza di gravità’, dato che la vecchia, cioè la fede cristiana, è stata svuotata di ogni sua forza interna: il ‘nuovo’ uomo che sorge da questa dottrina non è evidentemente solo il vincitore di Dio, ma pure il vincitore del nulla, e lo scopo cui tende è il dominio della terra che alla fine si rivela come la ‘mancanza di fini in sé’. Löwith considera la dottrina dell’eterno ritorno piuttosto problematica: da una parte essa insegna che il nuovo scopo del Dasein è quello di procedere e di tendere oltre se stesso come volontà di autoeternarsi; d’altra parte essa insegna pure il contrario, cioè un continuo procedere a cerchio del mondo naturale, senza scopo e senza senso, che abbraccia pure la natura umana. Da una parte essa costituisce un’istanza etica, una volontà che si propone una rinascita, una vita nuova, avvertendoci che “questa vita deve essere la propria vita eterna”; dall’altra rappresenta un’ipotesi scientifico-cosmologica secondo la quale vi è una determinata quantità di forza che si sostiene da sé, procedendo in movimento continuo circolare, senza che vi sia un progresso pensato in modo finalistico. Il mondo si trova così ad essere senza origine e senza fine, poiché non rappresenta la creazione di un Dio che una volta ha creato dal niente l’essere, ma è in ogni momento contemporaneamente inizio e fine; esso è un continuo mutamento dell’identico. Di qui la difficoltà interna alla dottrina dell’eterno ritorno: il senso cosmico viene a opporsi a quello antropologico, tanto che l’uno si rivela il controsenso dell’altro. Löwith fa rilevare che Nietzsche si sforza di ‘credere’ alla dottrina dell’eterno ritorno, pur con la contraddizione ad essa inerente, poiché gli sembra assurdo poter far derivare l’essere eterno dal niente temporale, e così pure Nietzsche. Oltre l’abisso
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poter far derivare la più alta affermazione dalla negazione più profonda. Il significato più puro dell’eterno ritorno si deve ricercare nel fatto che Nietzsche vuole essere insieme superamento dell’uomo e del tempo. Karl Jaspers Löwith riconobbe nel recupero del rapporto dell’uomo con il mondo, con la physis, il carattere metastorico del pensiero di Nietzsche. L’interpretazione di Jaspers in Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo pensiero del 1936, muovendo da analoghi interessi risolve la filosofia di Nietzsche in un processo di costante trascendimento dei propri presupposti, che si protende verso un ambito ulteriore alla distruzione di tutti i valori e alla riconduzione dell’uomo alla sfera della pura immanenza. Per Jaspers, uno dei massimi esponenti dell’esistenzialismo moderno, la comprensione del pensiero di Nietzsche richiede di attenersi a chiare regole ermeneutiche. Come Löwith, Jaspers ravvisò il carattere fortemente riduttivo ed unilaterale che aveva contrassegnato fino ad allora la ‘fortuna’ nietzscheana. Ciò che non si deve fare è anzitutto sussumere come un tutto il pensiero – frammentario e sperimentale – di Nietzsche, o isolandone tesi particolari senza tener conto della messe di tesi opposte, oppure cogliendo esteticamente la sua personalità spirituale come una totalità conchiusa, o – ancora – spiegando psicologisticamente i pensieri e gli atteggiamenti di Nietzsche. Bisogna invece allestire un’esegesi che tenga conto della dialettica reale immanente al pensiero nietzscheano, seguendone le interne nervature senza pronunciare nulla di definitivo; e, solo da ultimo, proporre una visione globale che risulti dalla somma delle contraddizioni e delle ripetizioni di cui è intessuto il corpus testuale. La comprensione delle posizioni di Nietzsche passa per l’intrattenersi prolungato nella tensione che esse, 34
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per la loro contraddittorietà, naturalmente generano. In questo atteggiamento, secondo Jaspers appare un tutto, che non è un concetto od un’immagine del mondo, bensì la passione della ricerca dell’essere nello slancio – senza approdo – verso ciò che è autenticamente vero. Di qui il rifiuto di ridurre ad un senso unico le affermazioni di Nietzsche (soprattutto, come è ovvio e in base alla contingenza storica, quelle relative all’ideale di una Grande Politica). Jaspers sottolinea il valore della volontà di potenza come principio ermeneutico. Non bisogna ravvisare nella Volontà di Potenza la base metafisica di una costituzione del mondo, giacché ciò significherebbe riportare Nietzsche tra i pensatori della metafisica che egli combatte. Il Wille zur Macht va inteso nel senso che qualsiasi verità è l’esito di un’interpretazione, in cui si esplicita semplicemente l’energetica di una volontà più forte che si afferma su altre volontà. Per Jaspers, Nietzsche fu il primo trascendentalista che comprese che l’idea secondo cui ogni conoscenza non è che un’interpretazione è a sua volta interpretazione: si affermerebbe qui un’ermeneutica dell’ermeneutico. L’idea di un’interpretazione infinita, come susseguirsi di immagini che si trascendono, costituisce al tempo stesso la regola per un’interpretazione corretta del pensiero di Nietzsche e il cuore della sua filosofia. Jaspers legge nell’annuncio della ‘morte di Dio’ la richiesta univoca di un nuovo Dio, a metà strada tra l’empietà e la fede nella rivelazione cristiana. Nella conferenza del 1938 Nietzsche e il cristianesimo (pubblicata in volume nel 1946), Jaspers ravvisa nella riflessione nietzscheana un bisogno di trascendenza che si esplicita nella polarità fra un’ostilità contro il cristianesimo come effettività, e un effettivo legame con il cristianesimo come esigenza. Bisogna separare, per comprendere Nietzsche, la dottrina della fede, inventata da Paolo come fede in un Nietzsche. Oltre l’abisso
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aldilà dove solo i ‘buoni’ troveranno posto, dalla dottrina della vita praticata da Gesù stesso come esperienza del cuore. Ora, la tesi di Jaspers è che Nietzsche, partendo da questa circostanza, non abbia fatto altro che coltivare quei germi di autodissolvimento che il cristianesimo ha racchiuso in sé sin dall’inizio. Secondo Jaspers, l’origine stessa del nichilismo di Nietzsche va ricercata nel suo atteggiamento cristiano. Quella sofferenza che Nietzsche ha provato nei confronti dell’uomo sarebbe un’eredità del racconto biblico sul peccato originale. L’autodissolvimento del cristianesimo non è tuttavia il solo tratto cristiano di Nietzsche. Jaspers si è sforzato di mostrare come tra le figure di Dioniso e di Gesù Nietzsche instauri una dialettica che riproduce un dibattito rimasto aperto lungo tutto il corso della coscienza occidentale, quello fra trascendenza e immanenza. La contrapposizione nietzscheana di Gesù e Dioniso è per Jaspers anche la contrapposizione di due diverse spiegazioni della sofferenza, quella cristiana e quella tragica. Nella prima, la sofferenza diverrebbe simbolo della caducità e insanabilità del mondo ed è un’obiezione contro la vita, mentre nella seconda la sofferenza viene riassorbita nella totalità dell’essere, la cui sacralità è sufficiente per giustificare un’immensità di␣ dolore. Questa medesima dialettica irrisolta venne puntualizzata anche da Löwith in Da Hegel a Nietzsche del 1944, dove il rapporto di Nietzsche con il cristianesimo viene concepito in termini di contraddizione insoluta tra un rigoroso pensiero dell’eterno ritorno che revoca qualsiasi teleologia, e la sopravvivenza di un’istanza escatologica che non riesce ad uscire dalle dimensioni della storia della salvezza. Georges Bataille Saggista e romanziere, Bataille venne elaborando – sulla base di una vasta costellazione di riferimenti culturali che vanno da Sade a Hegel, a Nietzsche, sino alle ricerche etnologiche – una teoria del negativo tale che per 36
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essa la civiltà non è che una forma limitata di coscienza, sottoposta ad un’economia ristretta, essenzialmente utilitaristica, – cui si deve contrapporre un’economia generale, non limitata da vincoli di utilità, ma anzi orientata dal principio dello sperpero (dépense), che corrisponderebbe alle esperienze letterarie e politiche della trasgressione, ai dati etnologici circa l’economia del dono presso i popoli extraeuropei, alla dialettica hegeliana vista come processo orientato verso la morte, e alla filosofia di Nietzsche nel suo insieme, concepita come esperienza di oltrepassamento dei limiti della coscienza europea moderna. Attraverso la critica del cartesianesimo, Bataille si avvicina all’esistenzialismo tedesco. Di questa prospettiva è espressione eloquente il terzo volume della Summa ateologica (1943-1945), Su Nietzsche. Volontà di chance, composto tra il febbraio e l’ottobre del 1944, e pubblicato nella primavera dell’anno successivo. La ‘morte di Dio’ in Nietzsche rappresenta, per Bataille, la forma paradigmatica dell’oltrepassamento dell’economia ristretta, e compirebbe un passo significativo nel senso della trasgressione e dell’affermarsi di un’economia della dépense. Che Dio sia morto vuole anzitutto dire che all’uomo viene revocata qualsiasi promessa di risarcimento, non solo in questo mondo, ma soprattutto in una dimensione ultraterrena: chi ha fallito in questa vita non potrà attendere alcun premio per i propri atti virtuosi; la volontà, emancipata da qualsiasi attesa (economica) di un premio per la propria autolimitazione, si affranca allora da qualsiasi principio utilitario; i valori si trasvalutano, in quanto lo svelamento delle arrière-pensées soggiacenti al comportamento morale porta in primo piano l’energia non limitata di una ‘grande morale’ di contro al risentimento e all’autolimitazione. Lo stato eroico e antieconomico richiesto da una simile Übermoral, annunciato dal libertinismo settecentesco e dalla trasgressione sadiana, trova la propria espressione nella filosofia di Nietzsche. Nietzsche. Oltre l’abisso
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Può sembrare che si possa accostare la critica batailliana del cartesianesimo al conservatorismo irrazionalistico dei nazisti; ma nulla di tutto ciò che Bataille ha scritto a proposito di Nietzsche autorizza una simile lettura. Infatti la ricerca di una dépense assoluta rende l’interpretazione batailliana del tutto antitetica rispetto a ogni programma politico che voglia richiamarsi al nome di Nietzsche. Come Sade, Nietzsche risulta inattuale e incomprensibile tanto alla rivoluzione quanto alla conservazione. Secondo Bataille, le vie che profeticamente Nietzsche prospetta, superuomo ed eterno ritorno, come motivi di esaltazione o di azione, sono vuoti e privi di effetto, poiché rivolti all’esperienza del singolo, non alla società. Martin Heidegger A differenza di Jaspers e di Löwith, Heidegger non tenta di disinnescare la portata politica del pensiero di Nietzsche, non lo relega cautelativamente in una certa inattualità metastorica, piuttosto vede in lui il momento culminante di una parabola storico-filosofica che assume un valore vincolante rispetto alle nostre decisioni attuali. L’intera produzione di Heidegger risente della lettura di Nietzsche, tuttavia Heidegger dedicò al filosofo un’opera, Nietzsche, pubblicata nel 1961, che raccoglie fra l’altro lezioni e saggi dedicati al filosofo. L’interpretazione di Heidegger pone Nietzsche nell’ambito della storia della metafisica, accanto a Platone e Aristotele: il problema di Nietzsche è infatti lo stesso problema della metafisica, il problema dell’essere. Questo problema emerge, secondo Heidegger, soprattutto nell’ultima opera progettata da Nietzsche: la Volontà di potenza. Nietzsche tematizza la radicale storicità di tutti i valori – in quanto espressione di una volontà che non ha nulla a che fare con la mera obiettività e con la natura; tutto è radicalmente storico proprio nella misura in cui è ‘obiet38
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tivamente vero’, cioè è divenuto e si è prodotto storicamente. Con questa estrema riconduzione del pensiero al nulla, Nietzsche si è però accostato con lucida chiaroveggenza al problema dell’essere. La volontà di potenza risolve tutto l’essere in volere, cioè lo riporta al nulla. In ciò si rivela pienamente l’errore originario su cui si costituisce la metafisica, l’oblio dell’essere a favore degli enti, il fatto che volga le spalle all’ontologia per esercitare il dominio strumentale della volontà sugli enti manipolabili. Il pensiero della radicale storicità è dunque la più illuminante introduzione alla metafisica come storia dell’oblio dell’essere. Con Heidegger, giunge a compimento il faticoso procedimento d’inserimento della riflessione nietzscheana nella storia della filosofia. Nietzsche non va inteso come l’oracolo inattuale che per figure ed enigmi ha indicato un incerto avvenire, destinato a non trovare mai un compimento effettuale nella storia: proprio nella misura in cui, per contro, la sua filosofia completa la metafisica moderna della potenza (e, insieme, l’oblio dell’essere che si avvia nel pensiero antico), egli va considerato come un pensatore massimamente attuale. Il pensiero del nulla è la manifestazione perfetta del nichilismo: l’annuncio della ‘morte di Dio’ significa che il Dio cristiano ha perso il suo potere sull’essente e sulla condotta degli uomini; Dio costituiva la rappresentazione eminente del ‘sovrasensibile’ e delle sue interpretazioni, la rappresentazione degli ideali, delle regole, dei principi, che sono stimati al di sopra dell’essente, per dare all’essente in generale uno scopo, un ordine e – in breve – un senso. Ora che ‘Dio è morto’ la metafisica è giunta al suo compimento. Secondo Heidegger il movimento di oscuramento dell’essere ha inizio a partire da Aristotele che, nel IX libro della Metafisica, concepisce l’essere come dynamis e come enèrgheia, e dall’umanesimo sofistico che vede nell’uomo Nietzsche. Oltre l’abisso
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la misura di tutte le cose. Tutta la riflessione ontologica viene ricondotta dalla metafisica alla riflessione sull’ontico, sull’essere disponibile per la volontà individuale. Nietzsche rappresenterebbe il culmine di questa metafisica, con la sua volontà di potenza intesa come riduzione della volontà al valore, cioè da ultimo al volere – un volere che, riconosciutosi infine come tale, supera i vincoli restrittivi entro cui l’aveva mantenuto la tradizione umanistica, quelli di un soggetto autocosciente e antropologicamente determinato. Ma la riduzione dell’essere a valore richiede un oltrepassamento: s’impone una trasvalutazione di tutti i valori poiché il nichilismo è ormai giunto a maturità avendo riconosciuto l’azione della volontà di potenza entro ogni agire, conoscere e valore dell’uomo. Per Heidegger Nietzsche, contrapponendo alla fede metafisica in un mondo vero l’esplicitazione della metafisica del valore, non fa che capovolgere il platonismo, ossia la fallacia originaria da cui trae origine l’oblio dell’essere. Ne “La sentenza di Nietzsche ‘Dio è morto’ ”, pubblicata in Sentieri interrotti nel 1950, Heidegger sottolinea come la ‘morte di Dio’ rappresenti il compimento del nichilismo, l’ultima parola della metafisica. Dopo l’apocalisse del pensiero della presenza, diviene pensabile di nuovo la differenza tra essere ed ente – dunque ridiviene praticabile un pensiero capace di portarsi di là dal nichilismo e dal trascendentalismo. Nietzsche, nell’opinione di Heidegger, rimane nella dialettica che richiede un oltrepassamento, giacché come ogni soggettivismo, come ogni trascendentalismo, il suo pensiero permane nella concezione dell’essere come presenza. È da sottolineare come Heidegger non veda, in accordo alle sue tesi di partenza, nulla di abissale nella teoria dell’eterno ritorno: se la volontà di potenza è il carattere fondamentale dell’essente nella sua totalità organizzata, essa 40
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richiede necessariamente che anche l’essentia di tale essente ritorni eternamente perché l’essente, in quanto volontà di potenza, può solo volere se stesso; l’eterno ritorno è ridotto così al semplice ‘come’ dell’essente, alla sua existentia. L’eterno ritorno diviene, nell’interpretazione di Heidegger, un principio funzionale alla metafisica volontà di potenza. Il pensiero dell’eterno ritorno sembra dunque contrastare la lettura di Heidegger. Oltre a Löwith, che come si è visto si oppone a questa esegesi, sarà un allievo di Husserl, Eugen Fink, a sottolineare, ne La filosofia di Nietzsche del 1960, l’irriducibilità del pensiero dell’eterno ritorno ad una dialettica della volontà di potenza: per Heidegger, volontà di potenza, eterno ritorno e oltreuomo divengono semplici espressioni di un movimento culminante della storia europea, mentre in tutta evidenza è possibile ravvisare, a partire dall’idea del ritorno, una dimensione cosmica che, gettando un ponte tra storico e metastorico, superi la determinazione della soggettività e del valore impostosi nelle metafisiche della modernità. Nietzsche non sarebbe solo il culmine della metafisica, ma il primo tentativo di uscirne. La Nietzsche-Renaissance L’attenzione per l’opera di Nietzsche in Francia rimase costante per tutto il secolo, tuttavia negli anni ’60 si assiste ad un rinnovato interesse per il filosofo che va sotto il nome di Nietzsche-Renaissance. La preoccupazione che accomuna le interpretazioni di questo periodo è da rintracciarsi nel tentativo di recuperare il carattere affermativo dell’opera di Nietzsche. Inizialmente, nel secondo dopoguerra, la fortuna di Nietzsche in Francia è affine alla ricezione tedesca: è anzitutto l’esistenzialismo, pur nelle sue diverse modulazioni, a orientare l’interpretazione dell’opera nietzscheana. Filosofo del paradosso, Nietzsche. Oltre l’abisso
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Nietzsche appare come il teorico del tragico, che oppone all’arte dialettica della mediazione l’irriducibilità delle scelte. All’origine di questa visione, oltre all’esegesi di Jaspers, stanno le riflessioni di Chestov (La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche del 1903), Camus, Wahl e Kojeve. La filosofia della tragedia, se spinta alle sue implicazioni più radicali, può risolversi in una prospettiva parodistica. Sfumature di questo tipo sono già registrabili nell’interpretazione di Bataille, di cui si è detto. Lo sviluppo tematico di questa prospettiva sta al centro degli studi del letterato e saggista francese Pierre Klossowski; nel suo Nietzsche et le cercle vicieux del 1968, la forza espressa nel pensiero del filosofo è orientata verso il ‘complotto’, la cui premessa è l’idea dell’eterno ritorno. Ma l’idea dell’eternità del ritorno mette in crisi il fatto stesso dell’identità personale, rivelandosi così come la meno adatta all’organizzazione di un ‘complotto’. Spetta però a Deleuze il merito di aver dato inizio alla nuova lettura di Nietzsche in Francia. Secondo le tesi esposte nell’opera del 1962 Nietzsche e la filosofia, Nietzsche rappresenterebbe un tentativo di uscire dalla metafisica. Il punto essenziale del tragico secondo Nietzsche è qui riconosciuto nella contrapposizione fra la dialettica come tentativo di mediare le contraddizioni e la tragedia come rifiuto della mediazione. Ma la tragedia non è semplice negazione della negazione (contraddizione dialettica), bensì affermazione, che non si basa sul superamento del negativo, ma sulla accettazione del divenire esistenziale assunto nella sua molteplicità: così che, se nel cuore della contraddizione si trovano il dramma, il negativo e il risentimento, la filosofia della tragedia appare piuttosto come un pensiero gioioso. Alla luce di questa maniera di porre la filosofia della tragedia, Deleuze interpreta le nozioni di volontà di potenza e di eterno ritorno. Nietzsche non intende per volontà di potenza il desiderio di domi42
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nio, non pensa ad essa come ad un insieme unitario, giacché la volontà vista come un flusso unico esige di essere negata dialetticamente; volontà di potenza è piuttosto volere il molteplice, dunque l’affermazione. Nella filosofia nietzscheana della volontà, il volere unico della metafisica si sfalda in una pluralità di forze in lotta fra loro, che si affermano come tali proprio misurandosi antagonisticamente, così da oltrepassare sia l’ontologia della sostanza, sia le filosofie nichilistiche della volontà unica, dell’uomo come misura di tutte le cose, della riduzione dell’essere al valore. In questo senso il Wille zur Macht non è il compimento del nichilismo europeo, ma piuttosto un nuovo inizio: non tanto la volontà vuole la potenza, bensì la potenza (la molteplicità, l’affermatività) si vuole attraverso il Wille zur Macht. L’atteggiamento di Nietzsche può essere visto come ‘irrazionale’ perché adialettico, tuttavia per Deleuze ciò che si oppone alla ragione è anch’esso pensiero. Principio della critica non saranno più le istanze reattive della coscienza e della ragione, ma l’affermatività della volontà di potenza, che non ratifica i valori trasmessi, ma ambisce piuttosto a crearne di nuovi attraverso un movimento di trasvalutazione.
Nietzsche e “les terribles simplificateurs” Non spetta certo a noi il compito di liberare il pensiero di Nietzsche dalle devianti interpretazioni politiche cui gli eventi della prima metà del XX secolo lo sottoposero, né mi pare che al giorno d’oggi sia necessario, ponendosi dinanzi all’opera del filosofo, procedere ad un’indagine storico-biografica mirante a giustificare talune posizioni di Nietzsche in relazione all’ideologia nazista. Tuttavia, il presente lavoro ha l’intenzione di ripercorrere le maggiori interpretazioni italiane del pensiero nietzscheano a Nietzsche. Oltre l’abisso
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partire dagli anni ’60, e in questi quarant’anni l’approccio a Nietzsche ha richiesto diversi presupposti che è bene evidenziare per non incorrere in semplificazioni avventate. Se negli anni ’60 il nome di Nietzsche era ancora accostato dall’intellettuale medio all’ideologia del dodicennio nero in Germania, e l’avvicinamento al filosofo richiedeva una sostanziale ripulitura da alcune volontarie manipolazioni dei frammenti postumi, oltreché da deprimenti luoghi comuni, negli anni che seguirono Nietzsche divenne nella coscienza filosofica europea una pietra miliare cui rapportare ogni importante pensatore del Novecento, spesso anche con quella leggerezza che può tradire l’originale del pensiero nietzscheano. Oggi mi pare di poter dire che l’aspetto vitalistico delle opere di Nietzsche non sia adombrato da travisamenti ‘superomistici’ di stampo politico; interpretazioni come quelle di Löwith, Jaspers e Heidegger hanno avuto il merito di lasciare cadere gran parte dei commenti che rischiavano di travisare le ‘malleabili’ espressioni nietzscheane. E’ opinione di Giorgio Penzo18 che gli equivoci che si produssero nel primo Novecento tedesco intorno al pensiero di Nietzsche derivassero da un approccio che considerava la dimensione della vita come il principio ultimo del filosofare. Tale modo di considerare la vita viene messo a fuoco innanzitutto in opposizione all’orizzonte dell’intelletto. Il principio della vita viene così chiarito in una dimensione che è a-razionale per cui la filosofia della vita può essere definita anche come metafisica dell’irrazionale. I filosofi del nazionalsocialismo sottolineano il concetto biologico della vita e vi intrecciano il carattere eroico dell’esistenza. Oltre a ciò essi, avendo – sempre secondo Penzo – un’impostazione tipicamente hegeliana, pretendono di portare all’eviden18 G. PENZO, Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, Armando, Roma, 1987.
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za una nuova concezione metafisica che si esprime nel modo più profondo nel mito del germanesimo. Scrive Penzo: “Se si tiene presente questa metafisica dell’irrazionale, che vuole essere la filosofia del nazionalsocialismo, risulta chiaro perché i teorici di questo movimento che si avvicinano a Nietzsche, diano un’interpretazione tutta particolare della sua problematicità. Di qui la formazione del mito di Nietzsche. Con la sua teoria del superuomo Nietzsche sarebbe il precursore del nazionalsocialismo e porterebbe alla sua massima espressione il fenomeno storico-esistenziale del germanesimo che in alcuni autori acquista una valenza metafisica”19 . Sicuramente l’intenzione con cui ci si avvicina al pensiero di un filosofo, già ne condiziona la lettura indirizzandola su binari che divengono spesso rigide costrizioni dalle quali non è possibile uscire senza incorrere in evidenti contraddizioni. Per di più, interpretare Nietzsche partendo dalla supposizione che il suo sia un ‘sistema’ significa già cercare un senso, una giustificazione, una ragione, a fondamento dei singoli aforismi, una progressione che dagli scritti giovanili giunga alla compilazione, poi abbandonata, dell’opera sistematica per eccellenza: La Volontà di potenza. Come si chiarirà nei capitoli che seguono, Nietzsche fugge la volontà di sistema, essa viene anzi identificata come ‘una malattia dell’indole’. Il carattere ‘polivoco’ delle espressioni di Nietzsche induce l’interprete ad abbandonare un’ermeneutica che presupponga un ‘sistema’; la comprensione delle opere di Nietzsche passa per l’abbandono del ‘sistematico’, del ‘conseguente’, per giungere all’espressione priva di rimandi. Un’interpretazione ‘troppo attuale’ delle opere di Nietzsche deve essere strettamente legata all’empirico, 19 G. PENZO, Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, op. cit. , p.16.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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deve necessariamente confrontarsi con la storia, con gli uomini, con il contemporaneo, o nel caso di Nietzsche deve trovare nel superamento della condizione presente al filosofo, il mondo del superuomo. Il superamento viene così inteso come salto storico-sociale, mentre nell’interpretazione ontologica esso rappresenta la differenza di grado che intercorre fra uomo e superuomo. Inevitabilmente, in un’interpretazione legata al contingente, ogni riferimento testuale deve avere un riscontro effettivo nella vita, così l’evento sovrasta la parola, come il noumeno il fenomeno. La parola diviene semplice mezzo perdendo il carattere ‘vitale’ che la anima; essa smarrisce il senso suo proprio giacché è ricondotta all’esistente, inteso come proprio, originario Fondamento. Il merito dell’interpretazione ontologica di Nietzsche consiste, a mio parere, nell’ampiezza di vedute che consente, prima ancora che nell’avvicinamento al vero che promette. Avremo modo di illustrare più avanti quanto qui si intende. Ma, a prescindere dall’interpretazione che si sceglie di seguire, è di fondamentale importanza l’onestà dell’interprete, e la considerazione dell’intera opera. Il carattere poetico della produzione nietzscheana contribuisce a rendere arduo il compito degli interpreti, spesso le espressioni di Nietzsche assumono un aspetto enigmatico, chiedono di essere svelate, di essere addirittura continuate, e questa peculiarità dà adito a letture le più libere, spesso con fini diversi dalla passione per la verità. Non ci interesseremo in queste pagine di rintracciare le improbabili responsabilità di Nietzsche nella maturazione dell’ideologia nazista, si cercherà d’altro canto di portare all’evidenza l’appropriazione che parte della cultura nazista operò nei confronti dell’opera del filosofo, rappresentando “la fatale conferma di una profezia dello stesso Nietzsche che paventava appunto di cader vittima di siffatti terribles simplificateurs. La virtù leonina, la durezza verso 46
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se stessi, il coraggio e l’onestà intellettuale risultarono così degradati a vuote parole d’ordine, a precetti di sopraffazione e di violenza espressi da quel ressentiment dei ‘malriusciti’ che proprio nei seguaci del nazismo trovava la sua testimonianza più sinistra”20. Secondo Hans Langreder21, un giovane studioso tedesco che nel 1970 presentò una dissertazione all’università di Kiel su La discussione su (e con) Nietzsche nel Terzo Reich, nella Germania del dodicennio nazista non esisteva affatto un giudizio unanime su Nietzsche. Egli parla di un Nietzsche-Bild positivo (nel senso dell’ideologia nazista) e di uno negativo. Dunque fra gli ideologi del Reich ve ne erano alcuni che cercavano di acquisirlo alla loro concezione del mondo, altri ai quali lo scomodo, individualista, impolitico Nietzsche riusciva del tutto inaccettabile. Ufficialmente fu data la preferenza al Nietzsche-Bild positivo. A parere di Langreder la figura chiave per questa annessione di Nietzsche allo hitlerismo fu Alfred Baeumler. Prima di diventare nazionalsocialista Baeumler fu nietzscheano. Dopo la presa del potere nazista questi, che aveva preso parte ai roghi dei libri ‘non tedeschi’, fu chiamato ad una cattedra appositamente fondata per lui, la cattedra di Pedagogia politica all’Università di Berlino; subito dopo egli divenne direttore della sezione scientifica nell’ufficio dell’Incaricato del Führer per il controllo di tutta quanta l’istruzione e l’educazione culturale e filosofica del partito nazionalsocialista, ovvero del cosiddetto Ufficio Rosenberg. Agli inizi degli anni ‘30 Baeumler cominciò a diventare noto come editore e interprete dell’opera di Nietzsche. Dapprima pubblicò due raccolte di 20
F. MASINI, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, il Mulino, Bologna, 1978, p. 15. 21 A tal proposito si veda M. Montinari, “Interpretazioni naziste”, in Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1981. Nietzsche. Oltre l’abisso
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testi, tratti da La volontà di potenza, sotto il titolo La filosofia di Nietzsche esposta in base a testi e testimonianze di Nietzsche stesso. Parte prima: Il sistema. Parte seconda: La crisi d’Europa. Subito dopo uscì, con il titolo Nietzsche filosofo e politico, la vera e propria interpretazione della filosofia di Nietzsche da parte di Baeumler. Oltre alle pubblicazioni delle opere di Nietzsche un altro fatto rinvigorì l’interesse per il filosofo: fu proprio in quel periodo, infatti, che Enrich F. Podach pubblicò per la prima volta il giornale critico del manicomio di Jena, dove Nietzsche era stato ricoverato nei primi due anni della sua malattia (1989-1990). Il documento fece sensazione nel pubblico scatenando accese discussioni nelle quali la sorella di Nietzsche, ultraottantenne, cercò di salvare l’onore del fratello, compromesso da quell’infezione sifilitica di cui si parlava chiaramente nel giornale clinico. La vita privata di Nietzsche divenne bersaglio di uno sforzo di demitizzazione, con cui si reagiva all’immagine del ‘santo’ laico, che era sempre stata propagandata dall’Archivio di Weimar. L’intento di Baeumler consisteva nell’interpretare Nietzsche come un filosofo e non solo, come era assai in voga nella Germania di quell’epoca, alla stregua di un “virtuoso di uno stile profondo e allo stesso tempo conciso”, non solo, in definitiva, come il poeta dello Zarathustra. Il vero Nietzsche per Baeumler emerge dalla considerazione delle sue opere mature, e l’attenzione che il pubblico prestava alle opere “medie e più personali” (Baeumler qui si riferisce alle opere pubblicate da Nietzsche fra il 1878 e il 1882), si collega ad una sottovalutazione dei lavori del Nietzsche tardo e dei suoi testi postumi. Baeumler era quindi convinto che la vera filosofia di Nietzsche risiedesse nelle sue carte postume, riteneva inoltre che per giudicare l’opera di Nietzsche fosse necessario ciò che – secondo Baeumler- egli non ebbe il tempo di fare, bisognasse cioè assumersi il lavoro della connessione logica 48
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nell’opera di Nietzsche. Ciò che importa a Baeumler è forzare la filosofia di Nietzsche per farne la premessa di una concezione politica ‘germanica’. Baeumler accetta senza la minima critica (a differenza dello stesso Heidegger, per non parlare di Jaspers) la compilazione che ha fatto storia sotto il nome di Volontà di potenza. Baeumler riconosceva che la Volontà di potenza, per quanto avesse in sé una certa coerenza, non fosse un libro finito, e che in base ad una futura edizione critica, operando qualche correzione, non si sarebbe potuto comunque raggiungere ciò che Nietzsche si proponeva e ciò che egli sarebbe stato in grado di fare. Ciò tuttavia non gli impediva di considerare la Volontà di potenza l’opera principale di Nietzsche. I frammenti postumi incompleti avevano per Baeumler una sorta di valore esoterico: nelle carte postume Nietzsche avrebbe detto veramente quello che pensava. Come si vedrà nel capitolo dedicato all’edizione critica Colli-Montinari, questa posizione, sostenuta nei modi più diversi da interpreti di spessore ben maggiore di Baeumler, sarà al centro di diverse discussioni. Ciò che qui interessa considerare è che l’attribuzione di valore, che Baeumler compie nei confronti della Volontà di potenza, ha intenzioni politiche estremamente volte ad attualizzare Nietzsche. Questi è per Baeumler l’ateo radicale, appassionato; a differenza dei filosofi come Platone, egli ha il coraggio della realtà; come Eraclito, Nietzsche sarebbe un filosofo del divenire e della lotta della volontà di potenza. Baeumler parla di una lotta contro la coscienza, contro lo spirito, che Nietzsche avrebbe condotto sia nella sfera teoretica che in quella pratica, a favore della vita. Per piegare Nietzsche alla sua interpretazione, Baeumler è costretto a sradicarlo dal suo contesto storicoculturale; in Baeumler non c’è traccia del Nietzsche antiteleologico, per Baeumler Nietzsche non vive nell’Europa del XIX secolo, egli ha assai poco a che spartire con Nietzsche. Oltre l’abisso
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intellettuali come Stendhal, Baudelaire, Dostoevskij, Tolstoij; per Baeumler è come se Nietzsche non avesse mai detto quella frase dell’Ecce Homo: “A parte il fatto che io stesso sono un decadente, sono anche il contrario di un decadente”. Infine Baeumler è addirittura costretto a far sparire dalla sua sistematizzazione del pensiero di Nietzsche la conoscenza fondamentale su cui si regge Così parlò Zarathustra, ovvero la teoria dell’eterno ritorno dell’identico, sebbene Nietzsche riservasse, nei piani per la Volontà di potenza, proprio a questa teoria la sede culminante dell’ultimo libro. Proprio sulla base degli arbìtri e delle mutilazioni cui si è accennato, Baeumler può preparare il Nietzsche decapitato, di cui ha bisogno per la seconda parte della sua operazione: una filosofia politica pseudorivoluzionaria; Nietzsche nell’interpretazione di Baeumler diventerà guerriero, diventerà germanico. Il germanesimo di Nietzsche viene semplicemente affermato in tono apodittico: “L’immanenza della filosofia di Nietzsche va vista unita alla meta eroica che essa si pone”. “Quale sentimento autenticamente germanico parla dalla difesa che Zarathustra fa del popolo di contro allo Stato … Nietzsche esprime inconsapevolmente tutto il segreto della storia tedesca”. Per avvalorare le sue tesi politiche Baeumler mette i Greci contro i Romani, e vorrebbe che anche Nietzsche stesse al suo gioco, giacché i Romani sono ai suoi occhi i fondatori di quella cosa non-tedesca che è lo Stato (e qui l’attualità politica consiste nell’attacco rivolto alla Repubblica di Weimar quale Stato non-tedesco). Ma l’operazione risulta improbabile; così scrive Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli (1888): “si riconoscerà in me, fin dentro il mio Zarathustra, l’ambizione molto seria, di raggiungere uno stile romano, l’aere perennius nello stile … Non devo ai Greci nessuna impressione di analoga intensità”; e ancora nell’Anticristo (1888): “Ciò che esisteva aere perennius, l’imperium romanum, la più grandiosa for50
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ma␣ di organizzazione – in mezzo a difficili condizioni – che sia mai stata raggiunta fino a oggi, a confronto della quale tutto quanto la precedette, tutto quanto le venne dopo è␣ frammento, abborracciatura, dilettantismo – quei santi anarchici [i cristiani] si sono fatti un pio dovere di distruggerla, di distruggere il mondo, cioè l’imperium romanum, finché non ne restò pietra su pietra – finché gli stessi Germani e altri villanzoni non poterono divenire padroni …”. Il criticabile progetto politico-filosofico di Baumler va considerato insieme al pensiero di Alfred Rosenberg; in particolare di questi va visto Il mito del XX secolo (1930), un’opera che Baeumler esaltò per il suo preteso significato epocale. L’idea di Gestalt, di forma, viene qui a inserirsi in una prospettiva decisamente razzistica. Ogni Gestalt riflette – secondo Rosenberg – lo spirito di una razza, ed una determinata prospettiva sui valori (secondo un’ottica derivata da Nietzsche). Le diverse razze entrano così in conflitto tra loro per imporre la propria visione del mondo. Le diverse Weltanschauungen entrano fra loro in conflitto, e s’innesca così una sorta di processo selettivo naturale che conduce al trionfo del più forte. E’ uno scontro razziale quello che così si viene a configurare, ed esso si colora di una violenta avversione nei confronti degli Ebrei. La forza attuale di questo mito – come rileva Baeumler – sta nel fatto che solo a questo tempo è assegnata la sua identificazione. Con Hitler ormai saldamente al potere, dal 1933 si moltiplicano gli studi su Nietzsche e il nazismo. Il problema principale è quello di far quadrare l’aristocratismo e gli atteggiamenti filosemiti in un orizzonte plebeo e razzista; impresa non semplice come ricorda Baumler in Nietzsche und der Nationalsozialismus (1934). Scheuffler (Friedrich Nietzsche im Dritten Reich, Erfurt-Molchendorf, 1933) ritiene che, nonostante l’amicizia per ebrei come Nietzsche. Oltre l’abisso
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Lou e Rée, Nietzsche fosse un convinto antisemita. Sul fronte del nazionalsocialismo, Wurzbach (Nietzsche und das deutsche Schicksal, Leipzig, 1933) ricorre invece al ragionamento che era già stato di Bertram, onde proprio nel rifiuto del germanesimo Nietzsche sarebbe stato autenticamente tedesco. Il libro di Ernst Bertram Nietzsche. Per una mitologia uscì in Germania nel 1918, e venne ristampato varie volte nel periodo fra le due guerre. Per Bertram, l’essenziale di un uomo e di un pensiero può essere restituito solo attraverso il mito, che scioglie le contraddizioni e pacifica ogni cosa nella leggenda e nell’idea di autosuperamento, cui Klages e Heidegger daranno una portata filosofica: “In questa ostilità che manifesta nei suoi ultimi anni nei confronti dei tedeschi, Nietzsche è certo soprattutto un segno ed una testimonianza della ‘sofferenza tedesca verso se stessi’ […]; come l’odio per i tedeschi di Nietzsche è ancora una volta segno e testimonianza dell’odio per se stesso, di quella nobile ricerca di autosuperamento, nella quale lo stesso Nietzsche vedeva in definitiva la sua forza maggiore”22. Gli anni ’30 segnano certamente un punto di svolta nella storia della critica nietzscheana, se Baeumler aveva sancito il massimo tentativo di inserire Nietzsche nell’ideologia nazista, emergono in questo periodo le interpretazioni che maggiormente influiranno nella critica nietzscheana del Novecento: stiamo parlando delle interpretazioni di Jaspers, Loewith e Heidegger. Oramai Nietzsche era considerato a tutti gli effetti un filosofo. E come un filosofo veniva trattato da quanti, all’interno dell’ottica nazionalsocialista, cominciarono ad appoggiare un Nietzsche-Bild negativo. Infatti l’opera di denazificazione cui fu sottoposto Nietzsche incomincia già all’epoca di Hitler e per opera dei nazisti stessi. Ernst 22 E. BERTRAM, Nietzsche. Per una mitologia, tr. it., il Mulino, Bologna, 1988, p. 126.
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Kriek (Leben als Prinzip der Weltanschauung und Problem der Wissenschaft, 1938) riteneva che il senso ultimo del valore risiedesse nella comunità, e che la vita avesse un valore intrinsecamente politico, di qui una condanna dell’individualismo nietzscheano; Christoph Steding (Das Reich und die Krankheit der europaischen Kultur, 1938) considerava Nietzsche un decadente come George, Overbeck, Mann, come il filosofo dell’età di Guglielmo II – imparziale, sopranazionale, espressione dello spirito giudaico. Se Giorgio Penzo23 sostiene che già le interpretazioni di Jaspers, Löwith e Heidegger contribuirono all’opera di denazificazione sebbene indirettamente, a partire dal dopoguerra si moltiplicano le letture tese a rivalutare la figura di Nietzsche. Nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) di Horkheimer e di Adorno si fa chiaro che non è andando contro la ragione che si può cercare la potenza, ma, per l’appunto, che esiste un nesso fra il terrore e l’illuminismo, e tra l’illuminismo e il mito. E’ anche il caso di Mann, che nella catastrofe di Adrian Leverkuhn è incline a vedere l’allegoria di una rovina della Germania che non sorge da un rifiuto della ragione, bensì da una ricerca faustiana dell’assoluto. Nietzsche. Philosopher, Psicologist, Antichrist (1950) di Kaufmann ha l’intenzione di scagionare Nietzsche dalle responsabilità attribuitegli in merito al formarsi dell’ideologia nazista, facendone il filosofo della democrazia e della classe media. In Kaufmann il depotenziamento della Volontà di potenza è spinto sino a farne “il più innocente dei giochi”. Essa viene letta principalmente come impulso sessuale, e ciò preconizza una sublimazione nell’arte. Come fa notare Ferraris24, ad un moto ‘denazificante’ fa eco una tendenza 23
G. PENZO, Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, op. cit. , p. 28. 24 M. FERRARIS, La storia della Volontà di potenza, in La Volontà di potenza, a cura di Ferraris e Kobau, Bompiani, Milano, 1992. Nietzsche. Oltre l’abisso
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opposta, e fra le letture che maggiormente rientrano in questo ambito si trova La distruzione della ragione di Lukacs (1954). Quest’opera ha per esplicita ammissione il fine di ricostruire l’intera parabola tedesca contemporanea, vista come il progressivo affermarsi di tendenze irrazionalistiche borghesi e antidemocratiche che sboccano ineluttabilmente nel nazismo. Secondo Lukacs, in Nietzsche ogni contenuto “deriva dal timore – che poi si rifugia nel mito – della decadenza della propria classe”25. La falsità del sistema sociale borghese troverebbe negli aforismi di Nietzsche la sua espressione più scintillante e nel contempo più lontana dalla ragione. Vattimo26 nota come l’importanza de La distruzione della ragione consista non tanto nel valore scientifico che quest’opera ha per la comprensione di Nietzsche, quanto piuttosto nell’effetto negativo che essa ha prodotto, soprattutto nel marxismo. Si vedrà infatti come la critica italiana dovrà fare i conti con questa interpretazione. Secondo Ferraris, il Nietzsche responsabile o irresponsabile per infermità mentale, ma anche il Nietzsche sincero democratico, e ancora il Nietzsche comunista degli anni ’70 si pongono, con gradi e forme diverse, sotto il segno della denazificazione: “il tempo, non più che lo spirito non lenisce ogni ferita; non si può escludere che la nazificazione, e la susseguente denazificazione, piuttosto che una circostanza storica, sia una categoria dello spirito in cui si raggruma, come nella follia o nella sorella, tutto ciò che in Nietzsche può ripugnare”27. Non si sono portate in questo paragrafo citazioni di Nietzsche che avvalorassero la tesi della sua estraneità 25
G. LUKACS, La distruzione della ragione, tr. it., Einaudi, Torino, 1959, p. 402. 26 G. VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Bari, 1999, p. 145. 27 M. FERRARIS, La storia della Volontà di potenza, in La Volontà di potenza, op. cit., p. 672. 54
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all’ideologia nazista, né si è pensato di proporre quei passi riguardanti la ‘bestia bionda’, la lode della barbarie, le espressioni contro gli ebrei, perché ciò non avrebbe fatto altro che contribuire al folto gruppo di simplificateurs che come avvoltoi dilaniano le carni troppo ‘sole’ di Nietzsche.
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Nietzsche e la cultura marxista La ripresa di Nietzsche in Italia ha coinciso in gran parte con la progressiva liberazione dagli schemi contenuti ne La distruzione della ragione (1954) di Lukacs. Sebbene essa non esaurisca del tutto la critica marxista, e anzi sia stata oggetto di critiche interne, di certo essa ha profondamente influenzato studiosi marxisti e non marxisti, inoltre le applicazioni lukacsiane del metodo marxista sul terreno della storia della cultura (si pensi all’interpretazione di Goethe o a quella di Mann, più in generale alla visione della storia della letteratura tedesca) sono state per diversi anni accettate e sfruttate. Come si è detto, La distruzione della ragione si propone di ricostruire la cultura tedesca contemporanea, vedendola come il graduale affermarsi di tendenze irrazionalistiche e antidemocratiche che culminano nel nazismo. Il moderno irrazionalismo, espressione ideologica della borghesia, costituirebbe la risposta mutila e inadeguata alla dialettica, metodo razionale per eccellenza trapassato nel materialismo storico e dialettico marxiano. La borghesia avrebbe cessato la propria fase progressiva e non saprebbe opporre al proletariato altro che una forma teorica negativa, negatrice del processo storico, e, quindi, della possibilità del cambiamento. Da ciò consegue, per Lukacs “la svalutazione dell’intelletto e della ragione, l’esaltazione acritica dell’intuizione, l’aristocratica gnoseologia, il ripudio del progresso storico-sociale, la creazione di Nietzsche. Oltre l’abisso
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miti”28. L’impossibilità di impossessarsi della realtà, in considerazione di precise condizioni economico-sociali, porterebbe all’ipotesi dell’irrazionalità del reale. Questa mancata comprensione del mondo condurrebbe tra l’altro al ‘vitalismo esasperato’ di Nietzsche. Egli, e prima di lui Schopenhauer, sarebbero gli artefici di una sorta di ‘apologia indiretta’ consistente “nella eternizzazione dei lati cattivi della società capitalistica in modo che venga completamente distrutta l’idea di andare oltre”29. Se per Schopenhauer questa impossibilità ha come sbocco l’ascesi, la distruzione nietzscheana della morale platonico-cristiana corrisponde, per Lukacs, all’esigenza di giustificare quanto di brutale, di violento e di sopraffattorio c’è nell’uomo. La falsità del sistema sociale borghese troverebbe negli aforismi di Nietzsche la sua espressione più scintillante e nel contempo più lontana dalla ragione. L’opera di Nietzsche non sarebbe altro che una lunga polemica col socialismo, anche se Nietzsche, come Lukacs ammette, non ha mai letto una riga di Marx e di Engels. Nietzsche conosceva assai male il movimento socialista del suo tempo, e, secondo Montinari30, ne condivideva più o meno tutti i pregiudizi del limitato ambiente, prima luterano-provinciale della Sassonia, poi accademico di Lipsia e di Basilea, infine vagamente cosmopolitico di Nizza, Sils-Maria, ecc… La fonte di Nietzsche nella conoscenza del socialismo fu Eugen Duhring, ma proprio in lui Nietzsche vedeva un esponente del comunismoanarchismo (per Nietzsche i due termini sono interscambiabili). Non il socialismo fu il bersaglio centrale della 28 G. LUKACS, La distruzione della ragione, tr. it. a cura di E. Arnaud, Einaudi, Torino, 1959, p. 10. 29 G. LUKACS, La distruzione della ragione, op. cit., p. 206. 30 M. MONTINARI, Equivoci marxisti, in Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 96.
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polemica antiegualitaria di Nietzsche, bensì il cristianesimo, che, predicando la teoria dell’uguaglianza delle anime davanti a Dio, aveva aggiunto un’altra calunnia a tutte le altre – filosofiche e religiose – contro il mondo apparente, che per Nietzsche è il solo mondo vero. Riducendo Nietzsche al problema politico, Lukacs si trova con un Nietzsche ‘irrazionale’, perchè non compreso: “l’appiattimento della teoria sulla prassi che ne è alla base, frutto di una versione sociologica del materialismo storico, annulla tutti i significati dell’elaborazione nietzscheana in uno sfrenato irrazionalismo”31. Mi pare di poter dire che Lukacs finisce per mantenere, nella definizione di Nietzsche come pensatore ‘irrazionale’, lo stesso travisamento di fondo presente nei suoi apologeti reazionari; l’immagine di Nietzsche che ne esce è quella, rovesciata di segno, propagata dal Terzo Reich. Nonostante la sua autorevolezza, l’interpretazione di Lukacs non sempre è stata accettata all’interno del marxismo; così è successo nella scuola di Francoforte, che ha sentito il suo debito nei confronti di Nietzsche a proposito del concetto di dialettica dell’Illuminismo e che ha riconosciuto di aver ereditato da lui l’eraclitismo in cui storicità e nichilismo sono strettamente congiunti. Nel dopoguerra l’interesse per Nietzsche si diffuse maggiormente negli Stati Uniti, in Francia (dove per la verità l’attenzione riservata a Nietzsche fu costante), e in Italia, e certo qui la considerazione delle opere di Nietzsche passò anche per il tramite della critica marxista. In Italia soprattutto negli anni ’60 si assistette alla rinascita degli studi su Nietzsche, cui contribuì la pubblicazione dell’edizione critica di Colli e Montinari. Quando, alla fine degli anni ’50, si cominciò a parlare dell’edizione italiana delle ope31
A. MAGGIORE, Alcune recenti riletture di Nietzsche in Italia, in ‘Rivista di storia della filosofia’, 39, 1984, p.305.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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re di Nietzsche, essa non fu avvertita come un fatto nuovo o positivo, vi si vide piuttosto il pericolo di un raffiorare di vecchi vizi della ‘subcultura italiana’. Qualcuno come per esempio Cesare Vasoli, temeva il ritorno al cosiddetto irrazionalismo. Già allora Delio Cantimori prese posizione contro tali timori, sottolineando anzi la necessità di una conoscenza filologicamente adeguata del pensiero di Nietzsche. Nel 1976 montò in Italia una polemica intorno ai presunti responsabili della politica culturale comunista degli anni ’50, i quali avrebbero impedito il diffondersi delle dottrine della scuola di Francoforte, cercando di fermare o almeno di mutilare la traduzione dei Minima moralia di Adorno. In questa querelle – che trovò spazio su giornali e riviste come la Repubblica, L’Espresso, e il Corriere della sera – Cantimori, presunto censore delle Edizioni Einaudi, venne accusato ingiustamente anche di essersi opposto alla pubblicazione delle opere di Nietzsche. Montinari ‘scagionò’ da ogni addebito Cantimori, ma l’episodio mi pare sia interessante per evidenziare due punti che possono aiutare a capire l’ambiente culturale nel quale matura il dibattito filosofico che ci apprestiamo a considerare. Innanzitutto si evidenzia – se ve ne fosse bisogno␣ – come nel dopoguerra Nietzsche fosse visto come un pericolo da neutralizzare, come un corresponsabile della nefasta ‘ideologia tedesca’. Inoltre l’episodio ha il merito di illustrare la considerazione della quale godeva negli anni ’70 il ‘nuovo mito’ di Nietzsche. Al momento della polemica, Nietzsche in Italia era entrato a pieno titolo fra le ‘letture obbligate’, in quel sincretismo culturale, fatto di ‘dotte citazioni’, capace di assorbire materiale di diversissima qualità, spesso travisando il contenuto delle opere considerate. Un Nietzsche massificato in aforismi che divengono ‘slogan’ non è meno tradito di quanto non sia il Nietzsche piegato all’ideologia nazionalsocialista, per quanto in quest’ultimo caso i ri58
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schi che si corrono siano decisamente più gravi. E’ bene tenere presente che le interpretazioni filosofiche di Nietzsche di questo periodo storico si confrontano, oltre che con l’irrazionalismo del Nietzsche letto da Lukacs, con le semplificazioni cui l’opera a-sistematica di Nietzsche è esposta, quando viene considerata a ‘brandelli’, secondo la necessità del lettore. Non si vuole con ciò negare la possibilità del lettore di fruire, nella maniera che ritiene opportuna, dell’opera, ma un’interpretazione filosofica non può non considerarla nella sua totalità. Ritornando al tema di questo paragrafo, gli anni ’70 segnano la comparsa di interessanti interpretazioni di Nietzsche anche in relazione all’ideologia marxista, è il caso delle letture di Masini, Vattimo, Cacciari; commenti che restituiscono, pur nella loro diversità, un Nietzsche libero dall’etichetta di ‘irrazionale’. Masini critica le tesi lukacsiane per la loro tendenza riduttiva e deformante che si sforza di circoscrivere sul piano economico-sociale quelle coscienti e tematizzate contraddizioni che hanno una valenza tutt’altro che definita. Tuttavia riconosce che l’ambiguità del pensiero di Nietzsche costituisce una componente di quella crisi dell’ideologia di classe alla quale la reazione antidemocratica, culminante negli anni della Repubblica di Weimar, cercherà di dare uno sbocco mediante un salto qualitativo nella pratica imperialistica dei miti politici militanti. Masini diffida della equazione lukacsiana di una ‘trasvalutazione di tutti i valori’, intesa come un’apologia indiretta del capitalismo monopolistico, ma ritiene che si debba approfondire lo spessore critico di quella mediazione mitica, con cui Nietzsche si rapporta alle necessità ideologiche della borghesia, non già per offrire ad esse la base di una ricomposizione organica, bensì “per trasferire nella latitudine visionaria e trasgressiva della dimensione tragica nella quale soltanto è ancora possibile evocare le Nietzsche. Oltre l’abisso
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contraddizioni e fare di essa la struttura portante di una filosofia concepita come esperimento della conoscenza”32. Vattimo sostiene che Nietzsche non si sia limitato a dire che bisogna fondare miti nuovi, che bisogna fondare una società nuova. Egli vuole giungere alla fondazione ontologica di questa capacità mitopoietica dell’uomo. Per questa ragione, secondo Vattimo, la storia non è per Nietzsche così importante come lo è per Marx. Nietzsche non è un rivoluzionario, egli mira piuttosto a teorizzare la possibilità di rivoluzione. Vattimo, commentando Nietzsche e la filosofia di Deleuze, scrive che il Nietzsche antidialettico è né più né meno che il Nietzsche materialista e che questo materialismo, consistente nell’affermazione antimetafisica del reale come ‘molteplicità irriducibile di forze’, esclude ogni riduzione all’uno, e quindi ogni ‘primato della coscienza’: “per questa ragione è più rigoroso di ogni materialismo storico”33. Le tesi di Cacciari hanno avuto il merito di liquidare le tesi irrazionalistiche che gravavano sul pensiero di Nietzsche. Cacciari riconduce Nietzsche nell’area del ‘pensiero negativo’ per il tramite epistemologico, vedendo nella ‘volontà di potenza’ la logica di razionalizzazione che stabilisce l’organizzazione di un mondo in funzione del dominio. Il destino del nichilismo europeo sarebbe, secondo Cacciari, l’integrarsi reciproco di ricerca logica e strumenti logici. Nel corso del presente lavoro si cercherà, fra le altre cose, di portare all’evidenza quanto della cultura marxista permanga nella ricezione dell’opera nietzscheana in Italia, e quanto essa abbia determinato le interpretazioni intorno al nichilismo. 32
F. MASINI, Lo scriba del caos, cit., p. 17. Introduzione a G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, tr. it., S. Tassinari, Firenze, 1978, p. 11.
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Capitolo II
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L’edizione Colli-Montinari
L’edizione critica e la Volontà di potenza Nel 1958 Giorgio Colli e Mazzino Montinari decidono di realizzare una traduzione italiana, il più possibile completa, degli scritti di Nietzsche (opere e postumi) per la casa editrice Einaudi imbattendosi così nella discussione, riaccesa da Richard Roos in Francia e da Karl Schlechta in Germania, circa l’attendibilità degli ultimi scritti di Nietzsche fino ad allora pubblicati, in particolare della Volontà di potenza. Elisabeth Forster-Nietzsche (sorella del filosofo) aveva fondato nel 1894 il Nietzsche-Archiv il cui risultato più importante fu la cosiddetta Grossoktavausgabe delle opere di Nietzsche che, pubblicata a Lipsia dal 1894 al 1926 – prima dall’editore Naumann, poi presso Kroner – divenne la base per tutte le successive edizioni. Tale edizione, però, era del tutto inattendibile (oltreché incompleta) in quanto, se i volumi che comprendevano le opere pubblicate in vita da Nietzsche non presentavano alcuna variazione rispetto al testo, ben diverso era il discorso relativo alle opere postume. Queste erano state sistematicamente manipolate dalla sorella di Nietzsche per la compilazione della Volontà di potenza, apparsa in forma definitiva nel 1911. Nietzsche. Oltre l’abisso
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Che la compilazione della Volontà di potenza, come principale opera ‘filosofica’ di Nietzsche, fosse scientificamente insostenibile era stato già dimostrato nel 1906 da Ernst e August Horneffer, come pure, in seguito, da Roos e Schlechta. In alternativa alla ingiustificata redazione della Volontà di potenza, in una nuova edizione delle opere di Nietzsche – la Historish-Kritische Gesamtausgabe (Monaco 1933) – quest’ultimo propose un volume di scritti ordinati cronologicamente. Tuttavia esso aveva ancora come riferimento lo stesso materiale utilizzato da Elisabeth Forster-Nietzsche. Quando Colli e Montinari decisero di tradurre l’intera opera di Nietzsche, disponevano di un testo attendibile solo per gli scritti giovanili e a carattere filologico che si trovavano nell’edizione storico-critica, quindi per gli scritti che vanno dal 1854 fino alla primavera-estate del 1869. Tutta la massa dei postumi filosofici, dai lavori preparatori per la Nascita della tragedia fino all’ultimo periodo torinese, non era stata ancora resa scientificamente accessibile. Si decise dunque di verificare sul posto lo stato dei manoscritti nietzscheani. Nell’aprile del 1961 Montinari si recava a Weimar, dove dal 1896 aveva sede l’ArchivioNietzsche, e da una prima indagine dedusse la necessità di una nuova edizione completa dei testi postumi. Giorgio Colli trasse da ciò l’unica logica conseguenza: bisognava ripensare il progetto iniziale optando per un’edizione critica delle opere di Nietzsche. Questa decisione fece però mancare l’appoggio dell’editore Einaudi, non più interessato ad un’impresa di così vaste dimensioni. Tuttavia, Colli e Montinari guadagnarono l’appoggio di Luciano Foà, direttore delle Edizioni Adelphi di Milano. Nel 1962 il lavoro era assicurato anche finanziariamente, si era infatti trovato l’editore francese in Gallimard (che pubblicherà l’edizione sotto la direzione di Foucault e Deleuze), e i primi volumi italiani sulla base di un nuovo originale tedesco poterono essere pubblicati già nel 1964. 62
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Da questa edizione è tagliata fuori la Volontà di potenza, come opera indipendente. Per stessa ammissione di Mazzino Montinari l’edizione Adelphi nasceva in un periodo nel quale accostarsi al pensiero di Nietzsche presupponeva una sua ‘bonifica’ da interpretazioni devianti. Di certo la Volontà di potenza si presta a letture naziste, e del resto le responsabilità attribuite alla sorella di Nietzsche non possono rimuovere ‘in toto’ le intenzioni del filosofo. In Su Nietzsche Montinari ammonisce: “Attenzione a non cercare a buon mercato di restituire a se stessi – questo è un processo che avviene – la tranquillità di leggere Nietzsche dicendo: ecco, tutto quello che in Nietzsche non è accettabile, sarebbe dovuto all’intervento malefico di questa donna. In realtà è sempre stato possibile leggere Nietzsche senza cadere nelle semplificazioni da quando le opere di Nietzsche erano conosciute. Non è che l’edizione critica di per se stessa rappresenti una svolta in questo senso”. A Weimar Montinari, filologo attento, si pose più volte l’interrogativo: che cosa voleva fare Nietzsche quando raccolse e numerò quattrocento frammenti nell’autunno del 1887? E poi che cosa aveva in mente l’estate successiva, prima del crollo e del definitivo abbandono del progetto dell’opera? Si tratta di interrogativi destinati a rimanere inevasi. Montinari aveva ravvisato una certa omogeneità e coerenza in quei 372 aforismi ma non ritenne, di concerto con Colli, di doverli pubblicare sotto il titolo di Volontà di potenza. Continuò però a domandarsi il senso di quella collazione al punto che, prima della morte avvenuta nel 1986, aveva progettato di affiancare all’edizione critica dei postumi una nuova traduzione della Volontà di potenza. Nel 1971, presentando la pubblicazione dei Frammenti postumi dell’Autunno-Inverno 1887-1888, Colli suggeriva un’interessante ipotesi: “C’è un momento in cui Nietzsche Nietzsche. Oltre l’abisso
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scrive per se stesso, e un altro in cui scrive per i lettori”1 . Ciò comporta due diversi tipi di scrittura: “non sono cose diverse quelle che scrive nei due momenti, ma sono dette in modo diverso, con un cambiamento di prospettiva e di intenzione tale da trasformare anche i contenuti”2 . Colli conosce il modo di ‘lavorare’ di Nietzsche: quando quest’ultimo vuol pubblicare un libro, comincia col tracciar schemi, rapidi pensieri, accumulando materiale ‘grezzo’ che avrà poi cura di raffinare in una forma adeguata ‘ai lettori’; è il momento che Colli – lo vedremo nei paragrafi successivi – definisce ‘artistico’. Ora i frammenti del 1887-1888, che vennero, come si è detto, pubblicati dalla sorella di Nietzsche sotto il titolo di Volontà di potenza, hanno il carattere del materiale preparatorio, hanno una loro coerenza interna, sono sì numerati e ordinati ‘architettonicamente’, ma mancano della forma ‘essoterica’: “Nietzsche giunse a delineare il contenuto dell’opera, sino al limite tuttavia in cui egli rimaneva ancora un pensatore ripiegato su se stesso. Perché la Volontà di potenza diventasse un’opera doveva intervenire il momento ‘artistico’, come si può constatare per ogni sua opera edita”. Se ci si chiede dove cercare il vero Nietzsche, se nelle opere edite o tra gli scritti postumi, si è già di fronte ad una semplificazione che allontana dalla comprensione; è opinione di Colli che Nietzsche vada letto nella sua totalità, perché solo in questa unità sarà possibile accogliere il suo pensiero, e ogni frammento troverà la sua giustificazione in se stesso. Colli e Montinari in definitiva si attennero ad un registro filologico che vietava loro di pubblicare un’opera solo possedendone il ‘materiale preparatorio’, giacchè questo avrebbe significato sostituirsi a Nietzsche proprio nel 1 2
G. COLLI, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano, 1980, p. 169. G. COLLI, Scritti su Nietzsche, op. cit., p. 169.
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momento ‘artistico’ della produzione: la stesura per il pubblico. Per il suo contenuto prevalentemente teoretico, la Volontà di potenza assunse un’importanza capitale nella interpretazione ontologica di Nietzsche. Come è noto, l’esclusione dal piano editoriale, come opera indipendente, aveva generato una certa avversione degli ‘interpreti heideggeriani’ di Nietzsche all’edizione Colli-Montinari: per Heidegger la Volontà di potenza è d’importanza capitale nell’opera nietzscheana, e l’escluderla da un’edizione critica significava mutilare il pensiero di Nietzsche oltreché falsificarlo. Nella sua Storia della Volontà di potenza, Maurizio Ferraris scrive: “Per Heidegger l’opera incompiuta è come un arto fantasma che reclama un’integrazione. E’ dunque un Nietzsche estremo, e portato anche al di là dai limiti della sua concreta esistenza, ad acquisire in questa prospettiva il valore maggiore”3 . Non si tratta della continuazione fallita dello Zarathustra, bensì suggella “una scansione in tre momenti, dove il pensiero dell’eterno ritorno si articola e completa in quello del ‘Wille zur Macht’ e di qui si protende, ormai come un puro lascito testamentario, verso la trasvalutazione”4 , presupponendo nei posteri la continuazione. La Volontà di potenza è senza dubbio il punto estremo, e forse anche il più elevato, cui giunse il pensiero teoretico di Nietzsche. Il perno di questa visione teoretica è fornito dalla critica del concetto di ‘soggetto’, che in questa fase viene condotta alle conseguenze più radicali. Essa tratta anche questioni storiche e culturali: vi sono contenute 3
M. FERRARIS, Storia della Volontà di potenza, in F. Nietzsche, La Volontà di potenza, op. cit., p. 663. 4 M. FERRARIS, Storia della Volontà di potenza, in F. Nietzsche, La Volontà di potenza, op. cit., p. 663. Nietzsche. Oltre l’abisso
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delucidazioni intorno alle tematiche del ‘nichilismo’, si parla dell’‘ideale cristiano’ che deve continuare ad esistere, perché sono necessari avversari forti, si traggono le conseguenze della ‘lotta alla morale’ in un’inversione profetica che consentirà la virtù come ‘vizio’, solo dopo aver riconosciuto in tutto la menzogna e l’illusione. In buona sostanza la Volontà di potenza è la base per ogni lettura ontologica di Nietzsche, e il presente lavoro che si propone di indagare, oltre alle varie interpretazioni italiane, gli esiti teoretici della ‘morte di Dio’, intesa in senso ontologico, non può fare a meno di considerarla alla stessa stregua degli interpreti ‘heideggeriani’, sempre tenendo conto del fatto che Nietzsche non la pubblicò. Oltre a curare l’edizione critica, Colli e Montinari contribuirono alla Nietzsche-Renaissance italiana con le loro interpretazioni del pensiero del filosofo. Colli, più che interpretare l’opera di Nietzsche, si propone di continuarne il cammino ponendosi dinanzi agli stessi enigmi cui giunse il filosofo. Interessato alla grecità di Nietzsche, Colli propone un’ermeneutica che consideri parallelamente il piano teoretico e il piano stilistico: dopo la ‘morte di Dio’, l’inesprimibile dell’Ab-Grund sembra annunciarsi nell’asistematicità degli aforismi, per recuperare la fase emozionale di una Parola che con la dialettica ha dimenticato la sua origine. Le indagini del ‘filologo’ Montinari riportano le opere di Nietzsche a veri e propri eventi biografici; esse costituiscono la vita di Nietzsche, ed è pertanto impossibile comprenderle trascurando quest’eccezionale ‘coincidenza’. Nell’interpretazione di Montinari è sicuramente rilevante il fatto che egli, accogliendo in parte le tesi di Löwith, ritiene inscindibile la ‘morte di Dio’ e il pensiero dell’eterno ritorno.
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Giorgio Colli. Dopo Nietzsche “Nietzsche non ha bisogno di interpreti. Di se stesso e delle sue idee ha già parlato lui quanto basta, e nel modo più limpido. Non c’è altro che prestare ascolto senza intermediari.” 5 In accordo con questa premessa, Colli risolleva in Dopo Nietzsche molte delle conquiste del pensiero del filosofo per discuterle, criticarle, attaccarle con quella severità che si riserva ai ‘grandi uomini’. Il presupposto da cui parte Colli è che Nietzsche sia stato l’ultima grande figura del pensiero occidentale, e che perciò la filosofia non abbia altra scelta che porsi le stesse problematiche che questi individuò. In questo libro, pubblicato nel 1974, Colli sviluppa molte delle questioni che Nietzsche aveva sollevato, e a cui spesso aveva risposto solo per enigmi, inclusa quella sul significato dell’enigma, decisiva per avvicinarsi al pensiero originale di Nietzsche. Ciò lo costringe a recuperare da una parte i temi greci di Nietzsche (dalla sapienza misterica al nesso fra dialettica e violenza, alle origini e alle peripezie del Logos), dall’altra ad analizzare le conquiste, come le sconfitte, del suo pensiero. Nietzsche ha, meglio di chiunque altro, schernito le illusioni e le presunzioni della filosofia sistematica, ma non ha saputo spingersi al di là di un recupero della sua fase emozionale. Colli ritiene che la rottura stilistica sia dovuta ad un’abnorme conquista conoscitiva: “ogni tradizione – compresa la scrittura sistematica – viene rinnegata, perché l’oggetto della comunicazione è inaudito”6 . La ragione nasce come discorso comune che traduce in parole vincolanti un’esperienza interiore, poi il pubblico si allarga e a manifestare l’ignoto è un uomo solo: è il caso del 5 6
G. COLLI, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974, p. 26. G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 27.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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discorso retorico. Un altro passo, e il discorso trova una forma scritta perdendo il pathos che l’animava: questa scrittura nasce sotto il nome di ‘filosofia’. Nietzsche evidenzia come il discorso abbia così perduto il contatto con l’esperienza nascosta, rimanendo puntellato per l’unico ‘simulacro’, per giunta menzognero, che gli rimane: lo spirito sistematico. Per Colli “Nietzsche ha condannato con troppa fretta ogni metafisica, e la dialettica in generale, senza presagire che la loro origine sta in una sfera che sovrasta ogni retorica, e che da un punto di vista retorico non può essere demolita”7 ; certo la scrittura aforistica di Nietzsche rompe con gli schemi dialettici per recuperare l’inesprimibile, ma egli nella sua critica alla dialettica ha tralasciato di analizzare l’origine della ‘ragione’. Nietzsche adopera la ragione come arma contro le fedi, le opinioni, contro i dogmi, ma il suo scetticismo non giunge agli estremi: non sottopone la ragione stessa ad un’indagine radicale, anzi respinge “un siffatto tentativo nichilistico come un peccato di ascetismo”8 . E’ convinzione di Colli che la ragione greca derivi dall’estasi misterica, come il tentativo di risolvere l’enigma. Il problema è in origine la formulazione di un’enigma che il dio pone all’uomo, sicuro della vittoria nella ‘contesa’. Successivamente l’enigma prende le forme della domanda dialettica conservandone tuttavia le prerogative: il problema è risolto con una tesi, un’interpretazione, accolta sempre come provvisoria, e l’interrogante, che rappresenta la parte del dio, guidando la discussione, non fa che ritardare la sua vittoria. La dialettica è un rito nel quale il rispondente è sempre destinato a soccombere. In quest’ottica la ragione assume una tendenza plastica che mira a inchiodare la realtà, a fissarne i concetti nelle rappresentazioni che di volta in volta
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assume come vere, e la filosofia (come l’arte) ha il compito di andare oltre l’individuazione fondata dalla ragione con un balzo oltre l’essere, in quell’abisso rappresentato dall’estasi. “Quando emerge in noi la grande sospensione, quando siamo assaliti dall’emozione che paralizza, senza causa apparente, cade allora il sipario tra noi e le cose, rimane inavvertita la corporeità, si fanno lievi gli oggetti e i contorni perdono la loro fermezza”9, in ciò consiste il vero rapportarsi con l’immediato che non conosce individuazione. Colli rimprovera a Nietzsche di aver assegnato alla ‘volontà di potenza’, pur avendola frantumata in atomi, la funzione di Grund: non c’è ‘volontà di potenza’ senza un soggetto che designi un oggetto da desiderare. La distruzione del soggetto teorizzata da Nietzsche trova proprio nella ‘volontà di potenza’ la sua negazione: “Sembra che Nietzsche abbia criticato la realtà del soggetto, dell’individuazione, della volontà stessa, ma nella fase matura del suo pensiero non abbia saputo evadere da questa sfera, e abbia in definitiva considerato l’individuo come qualcosa di essenziale”10. Nietzsche dunque s’incammina lungo la via che porta all’estasi senza percorrerla fin in fondo, fedele a quella diffidenza che pervade la natura del filosofo di contro al mistico. L’arte, come la filosofia, è ascetico distacco dalla vita, essa toglie dal mondo la catena della necessità contro la quale, secondo Colli, Nietzsche non ebbe la forza di andare. Merito di Nietzsche fu riportare la morale alla sua origine metafisica: ogni sentimento, istinto, impulso, non fa che tradurre una precedente operazione intellettuale, un giudizio di valore. La stessa individuazione è la premessa teoretica da cui sorge la morale, falsa e falsificante pro9
G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 70. G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 108.
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prio per i suoi presupposti. Ed è questa critica alla morale che ‘individua’ a condurre Nietzsche alla constatazione ‘Dio è morto!’. Per Colli il pensiero di fronte al quale tutto il resto della filosofia moderna viene abbassato a ipocrisia consiste nel riconoscere l’animalità nell’uomo: “Schopenhauer l’ha enunciato, e Nietzsche ne è stato l’unico esegeta autentico riconoscendo in Dioniso il simbolo di quella intuizione unitaria e totale della vita come cieca volontà di vivere”11. Nietzsche contrappone il pathos dionisiaco alla compassione cristiana: mentre in questa la partecipazione alla sofferenza lascia integra l’individualità di chi sente la pietà, quello si scatena attraverso la rottura dell’individuazione vivendo l’unità tra l’uomo e l’animale. “Nel cristianesimo Nietzsche combatte la falsa religione, la religione razionalistica, antropocentrica, che ha dato all’uomo una posizione isolata nel mondo, e per far questo ha rinnegato l’animalità nell’uomo”12; il Dio che muore, muore per la sua compassione, un sentimento non immediato bensì condizionato dalla ragione. Così come muore Dio, muore la ragione assoluta che lo regge. Ma il metodo dell’indagine di Nietzsche non è razionale, perché non vengono individuate le condizioni generali della menzogna e dell’errore, bensì mistico, in quanto egli muove dagli effetti della falsificazione per liberare e scoprire una verità non nominata e non raggiunta. Come l’arte, la filosofia di Nietzsche toglie la maschera alla ‘realtà’, lasciando trasparire la sua matrice, la sua violenza nascosta. Nell’opera Filosofia dell’espressione (1969), Colli sostiene che il mondo, nel suo aspetto duplice di gioco e violenza, si articola davanti noi, sullo schermo illusionistico della rappresentazione, in ‘serie espressive’ che si allontanano sempre più dall’immediato e sempre più cercano di 11 12
G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 103. G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 104.
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recuperarlo. A seguire l’intrico di questi rapporti in cui la ‘ragione’ costruisce il mondo, non verrà certo di pensare alla ragione strumentalizzata del pensiero moderno, ma piuttosto al senso greco del Logos, quale traspare nelle formule dei Presocratici. Come si è detto in precedenza, il recupero dell’origine della razionalità è da ricercarsi nella formulazione dell’enigma che tenta di risolvere il fondo nascosto che interroga: “decifrare ciò che è nascosto, questo è il senso della vita”13. L’enigma è un attacco che genera una gara: la penetrazione dell’intelletto sembra il valore supremo per uomini, quali sono i greci, che misurano tutto in termini agonistici. Ma l’enigma è un gioco in cui si annida la violenza: il contrasto tra la futilità del contenuto e la tragicità dell’esito allude all’aspetto ludico dell’enigma, la formula fatale è un gioco proposto da un dio che sa di vincere; la forza divina che propone l’enigma è malvagia, vuole impedire la decifrazione del profondo. La vita non è solo necessità, potenza, bisogno, essa è anche gioco, e una creazione primordiale del genio del gioco è il mondo degli dèi dell’Olimpo, che rappresenta la leggerezza che nasconde l’indecifrabile violenza. Si tratta di un gioco affascinante e pericoloso che tuttavia lascia equilibrare il peso della necessità. Colli ritiene che lo stile di Nietzsche sia da ricondurre all’origine dell’enigma. Spesso i suoi aforismi hanno il carattere della sfida lanciata al lettore, la stessa scelta di Zarathustra, un orientale che si scaglia contro il pessimismo, che enuncia la grande dottrina dell’occidente, l’affermazione della vita, è una provocazione all’interpretazione, alla soluzione dell’enigma. La riforma espressiva di Nietzsche è un accenno in direzione esoterica, ad una comunicazione che recuperi il 13
G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 168.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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rapporto con l’immediato; egli si serve della scrittura ma mira a farne a meno. E infatti “se si estende il discorso dal pensiero alla vita, se si assume in blocco tutto ciò che da Nietzsche parla a noi, e se ora, dopo Nietzsche, giudichiamo Nietzsche sotto il profilo dell’espressione scritta, si presenta a noi una domanda cruciale, di fronte al suo insegnamento sulla vita, alla sua lode alla vita: che senso ha additare l’affermazione dionisiaca, la follia, il gioco, contro ogni astrazione e mummificazione, ogni finalismo languente, spossato, e intanto consumare la vita nello scrivere, cioè nella commedia, nel travestimento, nella maschera, nella non vita?”14
Giorgio Colli. Lo stile e la ‘morte di Dio’ Colli morì nel 1979, l’anno successivo uscì Scritti su Nietzsche nel quale sono raccolte le sue introduzioni alle pubblicazioni delle opere di Nietzsche. Qui Colli chiarisce il suo modo di avvicinarsi al pensiero del filosofo. Per questi vivere significò scrivere, e scrivere fu solo il dire con sincerità, quasi il riflettere in uno specchio, gli slanci della sua fantasia e i travagli del suo pensiero. Colli legge e ascolta Nietzsche contemplando la sua individualità come un’entelechia, per la quale il tempo non è ciò che inchioda l’opera in una prospettiva assoluta, bensì è la semplice condizione del suo manifestarsi, e “l’apprendimento di una tale idea – per Platone le anime sono simili alle idee – la cui compattezza è primordiale, si sgrana attraverso la ricostruzione di una totalità presupposta, dove le espressioni delimitate hanno il valore di frammenti melodici e armonici di una musica ignota”15. 14 15
G. COLLI, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 141. G. COLLI, Scritti su Nietzsche, op. cit., p. 14.
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Così intesa, l’analisi che Colli conduce sull’opera di Nietzsche assume una prospettiva adeguata solo a partire dalla considerazione della sua opera completa. Nel quadro totale, Colli ravvisa ne La gaia scienza e in Così parlò Zarathustra un cambio di registro che sancisce il passaggio dalla pars destruens alla pars construens del pensiero nietzscheano. La gaia scienza segna la ‘guarigione’; per chi la legga dopo aver conosciuto le opere precedenti di Nietzsche, qualcosa di nuovo si impone sin dall’inizio: “è una conquista di stile ciò che dà subito questo senso di freschezza”16. Due anni prima (nel 1880) Nietzsche scriveva: “Poco tempo fa, ho tentato di fare la conoscenza con le mie vecchie opere, che avevo dimenticato; una loro comune caratteristica mi ha spaventato: esse parlano il linguaggio del fanatismo. Quasi ovunque, in esse, il discorso si rivolge a chi la pensa diversamente, e si può notare quel modo sanguinoso di ingiuriare e quell’entusiasmo nella cattiveria, che sono i contrassegni del fanatismo”. La continua condanna del contemporaneo stava conducendo Nietzsche nel nichilismo, nella décadance, in quanto rimaneva all’interno del gioco dialettico. Con La gaia scienza, il recupero della ‘Grande Salute’ si tradusse nella lievità del periodare, in un misurato dominio della sfera del comunicabile, in una facile e gioconda formulazione di pensieri che preparavano la strada ai nuovi valori. Sono qui accennati quei temi come l’‘eterno ritorno’, la ‘morte di Dio’, l’‘amor fati’, che avranno esplicazione nello Zarathustra; solo in quest’opera la coincidenza di pensiero e forma avrà la sua ‘àcme’. La forma è rivelatrice di un tentativo particolare di comunicazione, ciò che importa è soprattutto ciò che vuol essere comunicato. In genere filosofia e poesia consisto16
G. COLLI, Scritti su Nietzsche, op. cit., p. 97.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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no in questo: rievocare, collegare immagini, sentimenti e concetti preesistenti. Ma qualora questi manchino, ossia qualora ciò che è manifestato da un’espressione non sia esso stesso espressione, bensì una certa immediatezza di vita, fuori della rappresentazione e della coscienza, allora intervengono forme espressive analoghe a quelle del Così parlò Zarathustra. “Questo libro – scrive Colli – sembra sorgere dalla sfera delle espressioni primitive ed è arduo classificarlo come opera filosofica. Qui immagini e concetti non esprimono concetti né cose concrete: sono espressioni nascenti, sono simboli di qualcosa che non ha volto”17. Nietzsche stesso descrive questa esperienza e queste espressioni nella Nascita della tragedia, quando parla del coro come del simbolo della massa dei seguaci di Dioniso, la cui ebbrezza oblitera il principio di individuazione, in uno stato di immediatezza extrarappresentativa. Ritornando al Così parlò Zarathustra, Colli sottolinea come in tutti gli uomini siano presenti espressioni nascenti – donde la definizione dello Zarathustra come ‘un libro per tutti’ –, tuttavia di regola tali espressioni vengono dimenticate, obliterate, si perdono nel flusso di espressioni derivate ed astratte che su quelle s’innestano. Nello Zarathustra, ciò che sta sul fondo, nascosto, inaccessibile, intorpidisce la chiarezza della comunicazione. Il distacco sdegnoso da cui sorge quell’espressione si perpetua in un’ambiguità che solo esteriormente si può ricondurre ad un rapporto simbolico, ad un salto espressivo tra significante e significato; perciò si tratta anche di ‘un libro per nessuno’. Quel distacco è sì l’esperienza della solitudine, ma è anche l’abisso dionisiaco, inteso come dolore del mondo, che si scarica simbolicamente nel ‘superuomo’. Qui si annida, secondo Colli, qualcosa che Nietzsche ama na17
G. COLLI, Scritti su Nietzsche, op. cit., p. 111.
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scondere, un’avversione contro la vita, un tratto pessimistico recuperato, però, dal ‘superuomo’. Tutto ciò non consente un’interpretazione nichilistica: nello Zarathustra non c’è rappresentazione che esprima un’altra rappresentazione, poiché le sue radici affondano nell’immediatezza. Non è un caso che la ‘morte di Dio’ emerga con chiarezza nello Zarathustra, dopo essere stata annunciata dall’uomo folle nell’aforisma 125 della Gaia scienza; qui il tempo non era ancora maturo, i modi dell’annuncio non erano ancora adeguati al fatto: “A questo punto l’uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense”. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino – non è ancora arrivato alle orecchie degli uomini”. Già l’aver assegnato al folle il ruolo dell’araldo è segnale di un messaggio che esula dalla razionalità: la ‘morte di Dio’, come detto, determina la morte della razionalità su cui poggia; è l’’esorbitante’ che si esprime nelle formule extrarappresentative dello Zarathustra, nell’enigma da risolvere, proprio delle espressioni primitive. Dio, la morale, la verità, sono rappresentazioni che rimandano ad altre rappresentazioni. La ‘morte di Dio’ non è la semplice negazione di Dio perché ciò determinerebbe un approdo nichilistico, rimanendo ancora nell’ambito della rappresentazione per la quale ad un ‘ente’ si contrappone un ‘niente’, al ‘vero’ si contrappone il ‘falso’. La ‘morte di Dio’ segna la rottura di un ‘sostegno’ metafisico che assicurava l’individualità, obnubilando l’immediatezza. La malinconia che pervade alcune pagine dello Zarathustra indica questa ‘mancanza’ che si annuncia profetizzando nuovi valori, la legittimità dei quali è assicurata, secondo Colli, dall’unico Grund possibile: il rapporto Nietzsche. Oltre l’abisso
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con l’immediato, l’abisso dell’estasi. E’ ora l’Ab-Grund ad essere il Grund, ma non come sua negazione, bensì come totale alterità ontologicamente preesistente.
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Mazzino Montinari Per vent’anni Montinari convisse con le carte di Nietzsche nell’Archivio Goethe-Schiller di Weimar e per primo decifrò testi decisivi, sino ad allora inediti (circa tremila pagine); ormai sapeva troppo su Nietzsche per racchiudere le sue conoscenze in un’opera. Scelse così, provvisoriamente, di scrivere almeno un libro che consentisse ad ogni lettore un accesso al pensiero del filosofo sulla base della sua intera produzione. Nacque così nel 1975 Che cosa ha detto Nietzsche, un libro che, nelle intenzioni dell’autore, ripercorre le opere di Nietzsche in relazione alla sua biografia, fatta presente l’ipotesi metodologica di Montinari secondo la quale, non diversamente da quella di Colli, Nietzsche scriverebbe per se stesso e per lui scrivere avrebbe significato vivere. In accordo con questa tesi si potrà accogliere ogni scritto come un tentativo di superamento di se stesso, come un vero e proprio evento biografico. Del resto, come evidenzia Montinari nell’introduzione al suo libro, i taccuini di Nietzsche, i più intimi custodi dei suoi pensieri, sono dedicati alla registrazione continua ed espressiva di meditazioni filosofiche che egli poi pubblicherà adeguando la forma al contenuto. Per Montanari, l’impulso filosofico di Nietzsche va cercato nella sua volontà di ‘dire sì’ alla vita, comunque e in qualsiasi circostanza, sebbene il male e la sofferenza non cessassero mai di destare in lui – in forme perfino patologiche – il sentimento di Schopenhauer, della compassione. La figura dello spirito libero è per l’appunto una tappa verso l’accettazione della vita. 76
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Il 1878 è l’anno che segna la rottura di Nietzsche con Wagner e la pubblicazione della prima parte di Umano, troppo umano, ‘un libro per spiriti liberi’; qui il Freigeist è un nobile traditore della tradizione, della fede, degli ideali, i quali avevano fatto di Nietzsche, almeno ai suoi occhi, un uomo troppo ‘attuale’. In un frammento postumo del 1882 (nel pieno della composizione dello Zarathustra) Nietzsche scrive: “vi fu un tempo in cui mi assalì la nausea verso me stesso: l’estate del 1876”18 (quando Nietzsche compone Umano, troppo umano). Uno svuotamento interiore, la disgregazione di tutti gli ideali, la vanificazione delle illusioni metafisico-artistiche sono il presupposto per␣ la nascita dello ‘spirito libero Nietzsche’ e quindi del suo amaro distacco da Wagner. “Nietzsche – scrive Montanari – si sentiva in contrasto con la propria ‘coscienza scientifica’; nella sua predicazione wagneriana aveva toccato – con la quarta Inattuale: Richard Wagner a Bayreuth␣ – il culmine della ‘esagerazione’ (la parola è di Nietzsche) e ora si sentiva addirittura ridicolo per la smania utopica di giudicare tutto e tutti, quale si rivela soprattutto nelle Considerazioni inattuali”19. Lo ‘spirito libero Nietzsche’ si libra al di sopra dei popoli, dei costumi, delle religioni, di tutte le illusioni metafisiche e anche delle creazioni artistiche che hanno dato forma all’umanità moderna. Il suo privilegio è di trovarsi al limite e come in bilico tra il passato con la religione, l’arte, la metafisica, e il futuro, che è ormai della conoscenza scientifica. Nella nuova prospettiva, Nietzsche considera come tappe verso la ‘saggezza’ – l’ideale dello spirito libero – le illusioni del passato: “E’ la fortuna della nostra epoca che si possa ancora per un certo periodo venir su con una religione, e la musica ci procuri
18 19
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 4 [111], 1882-1883. M. MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche, Adelphi, Milano, 1999, p. 88.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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un autentico accesso all’arte. Epoche future non parteciperanno così facilmente di tutto ciò”20. Mentre all’epoca della Nascita della tragedia il mondo doveva avere una giustificazione estetica, in Umano, troppo umano proprio le potenze estetiche sono quelle che più allontanano dalla verità: Nietzsche esorta qui a guardarsi dall’attribuire all’arte un significato che vada al di là della pausa ristoratrice nella lotta dell’uomo contro la necessità. Tra il 1880 e il 1881 una nuova passione anima la produzione di Nietzsche: la conoscenza. Se Umano,troppo umano celebra l’avvenuta liberazione dello spirito, Aurora è un inno alla passione della conoscenza. La morale viene qui a perdere ogni fondamento razionale, essa diviene agli occhi di Nietzsche la ‘Circe dei filosofi’, i quali filosofi miravano apparentemente alla verità, mentre in realtà volevano solo fornire un fondamento alle maestose costruzioni etiche. In Nietzsche la conoscenza filosofica si emancipa dal servizio della morale, anche se la passione della conoscenza o, come egli la chiamerà in seguito, la volontà di verità ha le sue radici proprio nello sviluppo della morale stessa, sicché, nella Prefazione del 1886 ad Aurora, Nietzsche potrà riassumere il significato della sua opera nella formula ‘autosoppressione della morale’. Durante il soggiorno genovese, fra il 1881 e il 1882, Nietzsche credette in un primo momento di dover continuare l’opera pubblicata l’anno avanti, e – sotto il titolo Continuazioni di Aurora – trascrisse una gran parte di pensieri che si erano venuti accumulando nei suoi taccuini e quaderni, ad eccezione di quelli dedicati all’eterno ritorno, e che costituiranno la Gaia scienza che, come è noto, anticipa i temi che troveranno collocazione, non più nella forma dell’aforisma bensì del discorso, in Così parlò Zarathustra. Il cambio di stile coincide, secondo Montinari, 20
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 24 [76], 1877.
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con l’impossibilità, da parte di Nietzsche, di esprimersi come poeta; egli avvertiva in questo momento la poesia come qualcosa di opposto alla verità: “Poesia e verità: ciò che era possibile per Goethe non lo è più per Nietzsche. Nel quarto Zarathustra il ‘mago’ (nel quale si possono legittimamente scorgere certi tratti di Wagner) lamenta nel suo ‘canto della malinconia’, di essere «solo un giullare! Solo un poeta!»”.21 Per comprendere il pathos di Zarathustra, per Montinari non bisogna dimenticare che egli è destinato da Nietzsche alla predicazione dell’eterno ritorno, e che quindi tutti i suoi ‘tu devi’ sono illuminati e trasfigurati dalla nuova luce di questa ‘conoscenza’. Pur non condividendo il tentativo di stabilire una linea coerente di sviluppo dal saggio giovanile Fato e storia fino ai frammenti della cosiddetta Volontà di potenza, con cui Karl Löwith intende dimostrare la sistematicità del pensiero di Nietzsche, Montinari è d’accordo con lo studioso tedesco nel ritenere che l’idea dell’eterno ritorno sia l’evento culminante della vita di Nietzsche. Quando questi pensò l’eterno ritorno, nel settembre del 1881, le sue condizioni di salute erano pessime e questa ipotesi suprema segnava quel Sì alla vita che Nietzsche, con atteggiamento titanico e tragico assieme, si poneva come imperativo. La teoria dell’eterno ritorno, come chiarisce Montinari, nasce da un’ipotesi scientifica del tutto attuale all’epoca di Nietzsche. L’eterno ritorno non è posto come assioma, Nietzsche sentiva di avere a che fare con un’ipotesi: “Anche se la ripetizione ciclica fosse solo una verosimiglianza o probabilità, già il pensiero di una probabilità può sconvolgerci e riplasmarci … Quali effetti non ha sortito la possibilità dell’eterna dannazione!”22. Nietzsche si accon21 22
M. MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche, op. cit., p. 117. F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 11[203], 1881.
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tenta della ‘probabilità’ razionale della sua teoria: “la differenza tra coloro che credono nell’eterno ritorno e coloro che non ci credono è che i primi conferiscono alla loro vita l’impronta dell’eternità, i secondi vivono una vita fugace”23. Per Montinari è importante rilevare il nesso intimo che lega l’eterno ritorno, in quanto processo cosmico circolare, alla negazione del Dio creatore dei cristiani, di cui Nietzsche annuncia la morte nella Gaia scienza; d’altro canto l’eterno ritorno sanziona anche la fine di ogni teleologia: l’universo non ha scopo né morale né estetico, il divenire ciclico è innocente. Ciò permette quello che Nietzsche chiama la ‘disumanizzazione della natura’ e l’assimilazione di tutte le esperienze del passato, di tutto il bene e il male dell’umanità, di tutti gli errori che ne hanno condizionato e ne condizionano la vita. Nello Zarathustra trova spazio l’idea del ‘superuomo’; di essa non v’è traccia nella Gaia scienza, del resto quanto fin qui riferito sul capolavoro di Nietzsche risale alla primavera-autunno del 1881. Questa nuova idea va collocata nell’inverno 1882-1883: l’inverno nel quale Nietzsche è preda di gravi sofferenze psichiche. Nel dicembre del 1882 Nietzsche scrive: “Io non voglio la vita di nuovo. Come ho potuto sopportarla? Producendo. Che cosa fa che io non ne sopporti la vista? La visione del superuomo, il quale dice sì alla vita. Anch’io ho tentato – ahimè!”24. Se per Montinari Nietzsche coincise con il Freigeist di Umano, troppo umano, egli non fu mai il superuomo dello Zarathustra, intendendo per superuomo l’uomo che sia in grado di ‘dire di sì alla vita’ così come è, in eterna ripetizione. Scrive Montinari: “Per accettare l’immanenza totale, il mondo dopo la morte di Dio, l’uomo deve elevarsi al di 23 24
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 11[160], 1881. F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 4[81], 1882-1883.
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sopra di se stesso, deve tramontare affinché nasca il superuomo”25; ora, il concetto complementare di superuomo è l’‘ultimo uomo’: l’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso, che rimpicciolisce tutto. Ma anche l’ultimo uomo ritornerà eternamente. Questa è, per Nietzsche, l’obiezione più grande contro l’eterno ritorno, il problema che affligge il filosofo e, come si è visto sopra, gli farà rimpiangere il tentativo di accettare la vita nel suo eterno ritornare. In questa ‘situazione di necessità’ nasce l’idea del superuomo, strettamente legata, dunque, all’ipotesi suprema dell’eterno ritorno. “L’eterno ritorno – è opinione di Montinari – non è una specie di salto mortale nell’irrazionale alla ricerca di ‘un mondo dietro il mondo’, o peggio ancora un surrogato di religione; il superuomo, proprio per il suo nesso con l’eterno ritorno, non è un atleta estetizzante traboccante di salute o, peggio che mai, il prototipo di una razza di padroni. Ambedue sono invece concetti-limite all’orizzonte di una visione antimetafisica e antipessimistica del mondo, dopo la morte di Dio”26. Secondo Montinari, tra la Nascita della tragedia e Così parlò Zarathustra esiste un’identità di problemi – la giustificazione dell’esistenza –, ma le soluzioni sono opposte così come diverse sono le scelte stilistiche adottate. “Come la Nascita della tragedia tende alla giustificazione globale dell’esistenza e la raggiunge nella ‘metafisica dell’arte’, così nello Zarathustra l’eterno ritorno, voluto dal superuomo, vanifica il problema stesso della giustificazione dell’esistenza, chiudendo l’orizzonte non mediante il ‘mito tragico’, bensì con la ‘eternizzazione’ del carattere immanente della vita”27. Tuttavia il contenuto della nuova co25
M. MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche, op. cit., p. 125. M. MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche, op. cit., p. 126. 27 M. MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche, op. cit., p. 127. 26
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noscenza, l’eterno ritorno, non permetteva la via artistica; mentre all’epoca della Nascita della tragedia, Nietzsche era pronto nel caso dovesse diventare poeta, Zarathustra è un poeta con ‘cattiva coscienza’. La verità non può più avere il carattere della poesia: “…i poeti mentono troppo? Ma anche Zarathustra è un poeta …Ma posto che qualcuno abbia detto sul serio che i poeti mentono troppo: egli ha ragione – noi mentiamo troppo. Noi sappiamo anche troppo poco e siamo poco capaci di imparare: per questo non possiamo non mentire”28. La ricerca ossessiva dell’antitesi, l’espressione sovraccarica di simboli, le similitudini e la loro monotonia, l’assenza totale di gioia nonostante la danza e il riso di Zarathustra – tutto ciò fa di Così parlò Zarathustra il grandioso antipode di una creazione poetica. Dopo lo Zarathustra Nietzsche si dedica sempre più alla sola attività che gli permetta di vivere: scrivere. Siamo negli anni in cui medita la sua opera La Volontà di potenza. Quando si parla di volontà di potenza ci si riferisce in primo luogo ad un filosofema di Nietzsche, e in secondo luogo ad un suo progetto letterario. La definizione di ‘volontà di potenza’, preparata fin dal 1880 dalle riflessioni sul ‘senso di potenza’ in Aurora, si trova svolta nello Zarathustra nel capitolo ‘Della vittoria su se stessi’. La volontà di potenza è la vita stessa, non è un principio metafisico come la volontà di vivere di Schopenhauer. Essa è un altro modo di dire la vita che è – per Nietzsche – rapporto di forte e debole, ma soprattutto di superamento di se stesso; essa è anche volontà di conoscere in quanto volontà di rendere pensabile tutto l’essere che deve piegarsi all’uomo della conoscenza per diventare il suo specchio (si veda Aurora). Come opera, la Volontà di potenza trova il suo progetto già fra i manoscritti del 1885. Si è già detto dei motivi che 28
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Dei poeti.
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portarono Colli e Montinari ad escludere l’opera dal piano dell’edizione critica; ciò che in questo paragrafo ci interessa considerare è la lettura che Montinari conduce sui pensieri di Nietzsche in quegli anni, giacché in questo contesto prendono forma gli esiti della ‘morte di Dio’ e le considerazioni sul nichilismo. E’ intenzione di Nietzsche chiarire che la volontà di potenza non è il noumeno opposto all’apparenza. La realtà delle cose sta nella loro apparenza; la volontà di potenza non sta come Grund metafisico a sostenere l’apparenza, giacché l’apparenza si sostiene da sé. Nella Prefazione e nell’Introduzione alla Volontà di potenza è evidente che la preoccupazione di Nietzsche si è spostata sul problema che ora ritiene decisivo: egli avverte come grande pericolo non il pessimismo, bensì la mancanza di senso nel quale precipita un mondo senza Dio. Dio era un’ipotesi troppo estrema, ma ipotesi estreme possono venir soppiantate solo da altre ipotesi estreme: a Dio subentra la credenza nell’immoralità assoluta della natura, la diffidenza verso ogni ricerca di significato del male, anzi di un senso dell’esistenza in generale. Se Dio – cioè l’interpretazione morale del mondo – è confutato, il demonio – che è l’espressione popolare per una interpretazione immoralistica della realtà – non lo è affatto. L’interpretazione immorale di Nietzsche vuole lasciar trasparire il carattere di prospettiva che aveva la morale e il travisamento di cui è preda l’uomo ‘moderno’ che vede in essa o, il che è lo stesso, nella sua inversione, la verità. La giusta prensione del tutto sta nell’assumere le ‘verità’ come prospettive. La Volontà di potenza è il ’tentativo’ di una nuova interpretazione di tutto l’accadere alla luce dell’eterno ritorno, ma mantiene il carattere ‘della prospettiva probabile’. Montinari ritiene che Nietzsche non abbia portato a compimento la sua opera poiché la filosofia, come attività teoretica, non aveva più ragione di esistere: al suo posto – Nietzsche. Oltre l’abisso
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dice Nietzsche – subentra la storia; il successore del filosofo sarebbe dovuto essere un legislatore. La Trasvalutazione di tutti i valori che, nei progetti del 1888, si articolava in quattro libri, si limiterà all’Anticristo e alla sua caratteristica critica distruttiva. Essenzialmente, per Montinari, Nietzsche non è creatore, bensì distruttore di miti. Naufragium feci, bene navigavi: questo motto di Schopenhauer, che Nietzsche appone ad una sua Prefazione del 1888 alla Volontà di potenza, è in fondo emblematico per indicare l’esito della sua filosofia. Per Montinari il naufragio è parte integrante e necessaria della filosofia di Nietzsche, se si intende l’approdo come la scoperta di un Grund inconfutabile.
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Capitolo III
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Gli anni ’60: tra neo-razionalismo ed esistenzialismo
Negli anni Sessanta il rinnovato interesse per l’opera di Nietzsche non si riduce al lavoro filologico di Colli e Montinari; accanto alle traduzioni dell’edizione critica, la pubblicazione di saggi dedicati al filosofo inizia a interessare il panorama filosofico italiano. Si tratta di letture volte a reintegrare la filosofia di Nietzsche nell’ambito della ‘razionalità’, recuperando il suo carattere ‘sperimentale’; ossia s’inscrive, più o meno esplicitamente, il suo pensiero nella cerchia delle Experimental-Philosophie. Nel 1965 Analitica e dialettica in Nietzsche di N. M. De Feo – un saggio che risente dell’influenza di Jaspers e Husserl – riporta la riflessione di Nietzsche alla riscoperta della contraddittorietà interna al Dasein: l’alienazione ontologica si scopre falsificante rispetto al fondamento esistenziale dell’uomo. In Nietzsche si agita una dialettica del finito volta alla negazione di quei Valori che poggiano sulla ‘nientità’ del ‘mondo vero’. Nell’ottica di De Feo la trasvalutazione dei Valori si ridurrebbe all’analisi critica dei Valori della tradizione metafisica. Masini e Vattimo cominciano in questi anni ad elaborare le loro interpretazioni di Nietzsche, anche se sarà poi negli anni Settanta che esse prenderanno una forma più Nietzsche. Oltre l’abisso
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compiuta. Nella loro diversità, in entrambe le letture il problema della ‘morte di Dio’ viene posto in stretta relazione con la dottrina dell’eterno ritorno; ciò, come si vedrà, costituirà una costante delle interpretazioni italiane all’opera di Nietzsche. Per Masini la filosofia di Nietzsche può considerarsi una fenomenologia della coscienza nichilistica, e la ‘morte di Dio’ costituisce il cardine della radicalizzazione del No, della volontà di essere libero per il nulla, della negazione del mondo dell’essere. L’evento cruciale apre al nichilismo ‘attivo’, possibile solo nell’indifferenza tra essere e divenire. Secondo Masini, la differenza che la metafisica istituisce tra l’essere del ‘mondo vero’ e il divenire del mondo dell’uomo – differenza a partire dalla quale è possibile la posizione del Valore –, viene negata dall’eterno ritorno in quanto completamento della ‘morte di Dio’. La dottrina dell’eterno ritorno lega nell’indifferenza dell’eternità l’essere e il divenire: essa costituisce il Sì dell’anima dionisiaca a rendere immortale l’attimo, e restituisce l’unità EgoMundus sulla cui scissione era stato possibile opporre al mondo dell’uomo un ‘mondo vero’. Anche in Ipotesi su Nietzsche di Vattimo la riflessione di Nietzsche sul tempo assume un’importanza determinante al fine della comprensione del pensiero del filosofo. La metafisica è l’ambito nel quale ci si muove alla ricerca del responsabile, del fondamento, della verità; ciò è dovuto alla schiavitù della malattia mortale che lega l’individuo nella serie causale degli eventi, negandogli la libertà di creare. Nietzsche vuole restituire la possibilità della decisione alla vita, e per far ciò deve ‘redimere’ il tempo attraverso la dottrina dell’eterno ritorno, collocandosi così al di fuori della metafisica.
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Nicola M. De Feo. La dialettica del finito Nel 1965 esce il libro di N.M.De Feo Analitica e dialettica in Nietzsche, in cui è attribuita una particolare importanza al problema della finitezza che Nietzsche avrebbe affrontato attraverso una dialettica delle contraddizioni. L’approccio di De Feo è, come vedremo, esistenzialisticofenomenologico; egli conduce una lettura dell’opera di Nietzsche alla luce della sua biografia. Durante la sua giovinezza Nietzsche è angustiato dal problema del ‘male’ e, in opposizione alla sua educazione cristiano-luterana, sviluppa una visione ‘tragica’ del mondo che individua il responsabile degli orrori dell’esistenza proprio nel dio cristiano dell’amore e della carità: “questo dio – scrive De Feo – è solo la mistificazione del dio autore del male in cui l’uomo è costretto a vivere”1 . De Feo ritiene che nella negazione religiosa della vita Nietzsche rinvenga l’estrema rinuncia a ogni responsabilità morale. Con la ‘morte di Dio’ il filosofo sperimenta la tragicità della condizione umana, e la negazione tragica diviene l’affermazione, – per quanto illusoria –, della proprietà umana del male e della stessa negazione. Nietzsche incarna il ‘tragico’ come situazione limite in cui vive l’uomo moderno, giunto all’esaurirsi della potenza di quei valori su cui aveva fondato la propria essenza la ‘natura umana’; egli fa di sé il soggetto e l’oggetto della sua analisi esistenziale. De Feo vede nella Nascita della tragedia il tentativo di riduzione esistenziale dei valori dell’arte, della scienza, della filosofia, al fondamento originariamente contraddittorio dell’esistenza finita dell’uomo. Il recupero dell’integrità finita dell’esistenza è possibile solo riscoprendo la 1
N. DE FEO, Analitica e dialettica in Nietzsche, Adriatica Editrice, Bari, 1965, p. 15.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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natura problematica dell’uomo quale si era mostrata nei Greci dell’età di Eschilo e Sofocle. L’uomo ha perso la coscienza, troppo dolorosa, della sua contraddizione; la vittoria del socratismo ha portato alla mitizzazione dell’Apollineo i cui predicati etico-estetici sono la bellezza, la serenità, l’armonia, e ha fatto sì che l’altro polo dell’esistenza umana, il Dionisiaco, venisse relegato ai margini. Il processo di mitizzazione dell’Apollineo greco, avvenuto con l’evoluzione progressiva del pensiero filosofico e scientifico moderni – oltre che con il trionfo dell’ideale cristiano della vita –, si conclude nel pensiero di Hegel. Scrive De Feo: “la riscoperta del fondamento originario del mondo greco è, per Nietzsche, la riscoperta del fondamento originario del mondo moderno”2 . L’uomo moderno vive un’alienazione ontologica attraverso cui egli ha ‘dimenticato’ il fondamento esistenziale dei suoi valori, nascondendosi la reale contraddittorietà della sua natura finita e mistificando tale natura nella creazione delle fedi assolute. Dalla considerazione dell’opera di Schopenhauer, Nietzsche deduce la negazione delle verità assolute e il rifiuto della religione della comodità, nel tentativo di recuperare il Dionisiaco. Per Nietzsche il fondamento genetico del nichilismo moderno coincide con la costruzione estetica dell’Apollineo presso i greci: Apollo, come il principium individuationis di Schopenhauer, razionalizza il flusso disordinato e impulsivo di Dioniso, determinando la struttura etico-logico-estetica culminante nella dialettica hegeliana. La negazione di detta struttura conduce nell’ambito contraddittorio che caratterizza la natura finita dell’uomo: per questa via siamo ricondotti al ‘tragico’ luogo dell’angoscia kierkegaardiana e, quindi, all’infinita apertura alle possibilità esistenziali. Infatti, la rottura del fondamento apollineo non genera solo l’‘orrore’ della con2
N. DE FEO, Analitica e dialettica in Nietzsche, op. cit., p. 22.
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dizione tragica dell’esistenza, bensì apre anche ad un ‘incanto delizioso’ per l’apparire della possibilità di nuovi valori. Questo incanto si esprime nell’ebbrezza del Dionisiaco (infinita possibilità dell’angoscia kierkegaardiana) che è l’originario della vita – il terreno intenzionale della Lebenswelt – in cui l’uomo recupera tutte le indeterminate forme intenzionali rimaste escluse dalla chiusura dell’Apollineo. La formazione onirica dell’Apollineo costituì la salvaguardia dell’uomo greco, il quale, conoscendo e provando gli orrori e gli spaventi dell’esistenza, dovette porsi dinanzi la splendente e rassicurante creazione del mondo olimpico. “L’indeterminazione esistenziale che precede la costituzione dell’Apollineo – nota De Feo – è la indeterminazione dell’impossibilità d’essere dell’uomo nel mondo, impossibilità d’essere quella possibilità fondamentale che è il ‘non essere nato, non essere, non essere nulla’, l’impossibilità di realizzare quel movimento di reintegrazione dell’uomo con se stesso e con la sua condizione di insignificanza che Heidegger ha chiamato essere-per-lamorte”3 . L’uomo venuto al mondo, ritrovandosi in esso, sente il peso doloroso della sua fatticità, come dice Husserl, consapevole solo della sua totale impotenza di fronte ai bisogni dell’immediato suo essere al mondo. Se il bisogno di sicurezza spinse i Greci a fuggire il Dionisiaco addomesticandolo nelle forme artistiche dell’Apollineo visibile soprattutto nelle tragedie, con il tramonto di questo tipo di rappresentazione teatrale la concezione tragica del mondo viene sostituita dalla concezione teoretica. Da Socrate a Hegel tale concezione ha esplicitato la nascosta intenzionalità assoluta che serpeggiava sotto la metafisica del finito, propria del pensiero e della scienza greca. Solo at3
N. DE FEO, Analitica e dialettica in Nietzsche, op. cit., p. 46.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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traverso la rinascita della tragedia, l’uomo moderno può riscoprire il nascosto fondamento problematico e la natura finita dell’esistenza, mistificata dallo spirito teoretico. Distruggendo la concezione teoretica del mondo, la rinascita del tragico s’identifica con la coscienza epica dell’inesauribile problematicità contraddittoria della finitudine esistenziale. Nell’opera di Nietzsche, secondo De Feo, la concezione teoretica del mondo è strettamente legata alla considerazione del Dio cristiano. La critica nietzscheana della morale borghese-cristiana non consiste tanto nella denuncia dei motivi di decadenza e di crisi dell’uomo presenti in quella morale, quanto nel mostrare il carattere categoriale, sovrastrutturale di essa. La possibilità di parlare di esistenza, della sua originaria validità, al di là della logica del vero e del falso, la possibilità cioè di parlare della vita umana senza prendere in considerazione i valori etici della tradizione cristiana, si fonda sul superamento della metafisica teologica che sostiene la morale borghese-cristiana. In Nietzsche si agitano due contraddizioni: una ‘patita’, vissuta nella sua persona con la malattia, tragica; ed una contraddizione ‘voluta’ (liberazione dalle sovrastrutture metafisiche), epica. Il conflitto tra le due forme di contraddizione, lo sforzo incessante di Nietzsche di superare tale conflitto, la dissoluzione dell’unità della sua personalità, produssero la problematicità in cui opera e si costituisce la nietzscheana inversione dei valori. Operata l’epoché dei valori – nel senso husserliano del termine –, e acquisita l’umanità di ciascuno di questi, la riduzione trascendentale restituisce l’orizzonte problematico-esistenziale della Lebenswelt, nella quale si rende necessaria la posizione di nuovi valori. L’inversione dei valori non può, tuttavia, produrre nuovi ‘totem’ senza incorrere in un circolo vizioso. Negando i vecchi valori Nietzsche apre alla problematizzazione che ne scaturisce: 90
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l’inversione dei valori è, per Nietzsche, la scoperta effettiva del nuovo senso razionale della finitudine esistenziale, la cui contraddittorietà diviene la dialettica della finitudine. De Feo ritiene che “la problematizzazione dei valori e dell’essere muova alla riduzione esistenziale analizzando fenomenologicamente le condizioni di quei valori e di quell’essere che sono attualmente in questione; l’analisi fenomenologica dei valori conduce a mostrare le condizioni esistenziali, definite nell’orizzonte psicologico, sociale ed economico, in cui si costituiscono i valori”4 . L’inversione, in quanto analisi oggettiva delle condizioni di possibilità dei valori, conduce Nietzsche a riconoscere nel suo tempo non la presenza di condizioni per la posizione di nuovi valori, ma solo la condizione del sorgere del nichilismo: il nichilismo di Nietzsche è il suo stesso realismo. Nell’inversione dei valori, i nuovi valori non devono essere cercati al di là dello stesso processo d’inversione, poiché l’inversione perviene a modificare proprio il senso del valore: si può dire con De Feo che i nuovi valori sono la dialettica e l’analisi dell’inversione dei vecchi. La dialettica di Nietzsche è quella che in Ecce Homo egli chiama ‘arte di rovesciare le prospettive’, un continuo esercizio di problematizzazione di ogni possibile verità. Scoprendo il nichilismo delle metafisiche, Nietzsche trova nella struttura intenzionale della volontà di potenza il fondamento esistenziale da cui riesce a comprendere il senso delle metafisiche stesse e a liberare l’orizzonte infinito delle possibilità reali dell’uomo: “Noi abbiamo creato il mondo che ha valore”, scrive Nietzsche nella Volontà di potenza, e cioè induce a vedere tutto come ‘prospettiva’, svuotando di senso l’assoluto falsificante che ha ricoperto il finito. 4
N. DE FEO, Analitica e dialettica in Nietzsche, op. cit., p. 80.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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La sospensione e l’ambiguità in cui permane l’inversione dei valori ha, secondo De Feo, un reale fondamento oggettivo nella contraddittorietà dello sviluppo economico e sociale della Germania del tempo di Nietzsche. L’incompiutezza in cui permane l’analisi dialettica è la resistenza che la situazione storica oppone alla presa di coscienza ontologica di Nietzsche. Il nichilismo contemporaneo è la produzione attiva del nulla, il quale opera sotto il simbolo dei valori spirituali. Il nulla è diventato la struttura ontologica dell’essere del mondo, il senso teleologico dei progetti umani. I valori umani sono nell’uomo come una malattia (sono diventati portatori di morte), il loro senso si è svuotato e dirige ora verso la fede metafisica; ora, la guarigione s’identifica con la coscienza nichilistica del tempo che ha il compito di superare il cosiddetto nichilismo passivo (il tramonto della potenza dello spirito), per accedere al nichilismo attivo che si fa carico della distruzione del passato. Tuttavia, nella prospettiva di De Feo, Nietzsche giunge soltanto ad un nichilismo provvisorio nel quale non c’è ancora abbastanza energia produttiva e la malattia non è ancora stata debellata. Come abbiamo visto, per De Feo, “la Nascita della tragedia e la Volontà di potenza segnano i due momenti attraverso cui si compie il superamento nietzscheano della metafisica: nel primo la scoperta delle contraddizioni della nuova dimensione finita dell’esistenza avviene al livello estetico del tragico; nel secondo momento, la contraddittorietà del finito viene compresa temporalmente, epicamente, attraverso la dialettica dell’inversione”5 . Ma il superamento della metafisica non è, per Nietzsche, un salto speculativo, bensì l’impegno costante del pensare esistenziale; venuto meno il centro di gravità dell’uomo 5
N. DE FEO, Analitica e dialettica in Nietzsche, op. cit., p. 124.
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metafisico, il nuovo centro è il significato dialettico dell’impossibilità riconosciuta di determinare un nuovo centro. I movimenti dialettici del superamento dell’uomo metafisico costituiscono il nuovo centro esistenziale dell’uomo: quest’uomo senza centro è il super-uomo teso alla problematica apertura.
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Ferruccio Masini. L’evento cruciale Ferruccio Masini, nel 1967, pubblica il libro Alchimia degli estremi la cui seconda parte è occupata dal saggio La morte di Dio come ‘experimentum crucis’ del nichilismo, un’interessante interpretazione del pensiero di Nietzsche che confluirà, ripresa e sviluppata nel 1978, in un volume interamente dedicato al filosofo, Lo scriba del caos. “Posizioni estreme vengono risolte non da posizioni moderate, ma da posizioni di nuovo estreme, però rovesciate”. Per Masini quando Nietzsche (nei Frammenti postumi) parla di ‘posizioni’, si riferisce ad una determinazione esistenziale cui è estranea una dialettica del concetto hegelianamente intesa. Mentre per Hegel la scissione è la fonte del bisogno della filosofia, per Nietzsche sarebbe la filosofia che, identificandosi nel movimento estatico della vita, produce la scissione impedendo perennemente una dialettica e una conciliazione assoluta. In Nietzsche la dialettica è semmai soltanto la ‘coscienza della contraddizione’, sempre che questa venga trasferita nell’uomo ‘tragico’ che non può vivere fuori della contraddizione. La ‘scissione’ è una lacerazione ‘sopportata’ dall’‘uomo tragico’ che come distruttore del consueto, del tramandato, del consacrato ha conquistato la buona coscienza di questo suo ‘saper contraddire’. Si può dire con Masini che in Nietzsche ‘non v’è concetto ma estasi’, un’estasi che non è più quella romantica Nietzsche. Oltre l’abisso
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(quella che in Schelling scaturisce dalla indifferenza degli opposti), non è un’ estasi del sentimento, bensì un’estasi intellettuale. Essa si richiama ad un trascendimento di sé per il quale la posizione raggiunta precipita o si annienta nel suo opposto; ed è questo movimento trascendenterovesciante la nervatura di una filosofia intesa come espressione di uno stato d’animo eccezionalmente elevato. La tendenza alla ‘sintesi’, propria della filosofia romantica, è estranea alla visione di Nietzsche per il quale l’estasi dell’ottica dionisiaca presuppone non già una tensione interna all’assoluto, bensì l’assolutizzazione stessa della tensione tragica nel vuoto creato dalla distruzione della sostanza. La vicinanza di Nietzsche a Schopenhauer è giustificata dal comune presupposto della ‘non-razionalità’ del reale; ma, “diversamente da Schopenhauer, Nietzsche – scrive Masini – mira a redimere l’irrazionalità attraverso il gioco delle sue forze immanenti senza ipostasi mistiche (i quietivi schopenhaueriani della Volontà) e senza un ascetico abbandono del divenire alle sue lacerazioni insanabili”6 . Il mondo è restituito al caos, all’assenza di ogni teleologia in vista di una paradossale conciliazione estatica vissuta; ma vissuta sul piano di un’ottica dell’‘anima dionisiaca’, e che quindi sfugge alla linea di una progressiva acquisizione della verità per adeguarsi alle prospettive problematicamente mutevoli. La stessa scrittura di Nietzsche si presenta come una fondamentale conquista di nuove modalità significanti del discorso aforistico-filosofico, diventa l’articolazione enigmatica di una concezione teoreticamente ‘altra’. In ciò consiste la ‘magia dell’estremo’ del nichilismo nietzscheano la quale evoca una posizione estrema per superarla non già attraverso una mediazione, ma attra6
F. MASINI, Lo scriba del caos, il Mulino, Bologna, 1978, p. 120.
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verso un rovesciamento nell’estremo opposto: la tensione di un ‘confronto con il nulla’ concepito come oltrepassamento. A costituire il presupposto di questo oltrepassamento vi è una sovrabbondanza di forze, ed è tale modalità dionisiaca a caratterizzare il senso di questo stato ebbro di se stesso e perciò traboccante. La filosofia di Nietzsche è per Masini un’ExperimentalPhilosophie che può considerarsi come una fenomenologia della coscienza nichilista, la quale evidenzia nella ‘morte di Dio’ l’experimentum crucis di una fase della società capitalista nella direzione di una nuova razionalità. In questo senso “la stessa interpretazione teologica del nichilismo diventa il perno di un rovesciamento decisivo con cui si propone, in antitesi a quello cristiano, un nuovo Weltbild dionisiaco, quello del Superuomo e dell’Eterno Ritorno”7 . L’affermazione perentoria ‘Gott ist tot’ diventa il paradigma della dissoluzione di tutti i valori, segna il discrimine fra il nichilismo ‘passivo’ (buddista-schopenhaueriano e cristiano) e il nichilismo ‘attivo’. Alla base dell’annuncio ‘Dio è morto’ c’è il movimento eccentrico, fuori e oltre ogni appoggio, che si nasconde nell’estro, nella sensualità intellettuale del Freigeist, tentato dalle cose proibite come da quel volere un libero volere nel quale è già presente la crisi ed è evidente un movimento estatico verso il nulla. È una crisi che nasce dal suo essere libero per il nulla, e l’orizzonte vuoto di valori verso il quale dirige è l’orizzonte stesso del nulla, giacchè in nessuna determinazione il Freigeist può trovare il suo fondamento. Si affacciano i temi di cui parlerà Nietzsche nella Volontà di Potenza: la radicalizzazione del No provocherà la crisi decisiva e quindi il rovesciamento dei valori. L’autodistruzione è l’ultimo atto del nichilismo attivo che si 7
F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 143.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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autodistrugge in quanto la volontà di distruzione, enormemente potenziata, si abbatte su se stessa: qui Nietzsche si presenta come Zarathustra, ’colui che va oltre’, non più come Freigeist, ancora pervaso da scorie del nichilismo ‘passivo’. Identificata la ‘morte di Dio’ con l’experimentum crucis del nichilismo, Masini procede a chiarire in cosa consista l’ateismo di Nietzsche e quali conseguenze esso generi all’interno della sua disamina del nichilismo. Sicuramente l’ateismo nietzscheano trova la sua premessa fondamentale in Schopenhauer il quale fa dell’ateismo assoluto il presupposto della sua problematica; d’altra parte, sempre più chiara si farà in Nietzsche la certezza che alla radice del ‘nichilismo schopenhaueriano’, contro cui combatte, v’è lo stesso ideale di rinuncia e di denigrazione dell’esistenza da cui scaturisce il ‘teismo cristiano’. Masini è convinto che alla base dell’ateismo di Nietzsche vi sia anche l’influsso di Feuerbach; come quest’ultimo, Nietzsche riporta all’uomo, come sue proprietà, tutti quegli attributi e quelle prerogative del Dio cristiano, di cui l’uomo si era impoverito alienandoli fuori di sé. Ma l’ateismo nietzscheano non è il semplice recupero del regnum hominis, la ‘morte di Dio’ implica la morte di quell’uomo che ha ‘creato’ il suo Dio: “l’uomo moderno è, per Nietzsche, l’uomo mediocre, colui che deve perire assieme al suo Dio, per il quale ‘colui che va oltre’ (NietzscheZarathustra) prova solo disgusto”8 . Risulta chiaro che l’annuncio del Superuomo presuppone la condanna dell’uomo di oggi. Ma con l’uomo di oggi cadono i suoi valori e quel Dio che reggeva come Grund metafisico la sua esistenza. “È innegabile – scrive Masini – che nella morte del Dio cristiano Nietzsche intende liquidare quella metafisica pla8
F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 165.
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tonica, secondo la quale ad un mondo terreno, costituito da enti ontologicamente depotenziati, si contrappone il mondo soprasensibile come dimensione dell’essere pieno e assoluto”9 ; ma la ‘morte di Dio’ e il tema del nichilismo restano fondamentalmente in un orizzonte antropocosmico, articolato nei modi metalogici e nella struttura estatica dell’ottica dionisiaca. In questa prospettiva, l’Eterno Ritorno acquista un’importanza decisiva: esso rende possibile un’essenziale vicinanza a tutte le cose, “un confidente amore alla terra nell’ambito di un’apertura al mondo che è apertura al tempo”10 . Il tempo che si ripete, non ripete un modello, un processo originario, ma piuttosto questa ripetizione stessa è la struttura della temporalità. Facendo coincidere tempo ed eternità, si elimina la convenzione progressiva del tempo ed emerge il mondo come spazio-tempo-gioco in cui la vita stessa, in quanto totalità, trascende ogni valore e ogni determinazione di valore: “con la morte di Dio e col suo protendersi in un tempo onniabbracciante in cui l’intero divenire è redento l’uomo si emancipa dalla colpa e dalla vergogna dell’esistenza”11 . Nietzsche combatte la differenza teologico-morale, propria dell’ontologia tradizionale, tra l’essere e il divenire (con la svalutazione metafisica di quest’ultimo), in vista di un’indifferenza che è la base dell’unità dialettica Ego-Mundus originatasi in un movimento estatico, alla luce del quale la riconquista di un centro perduto avviene nella totale immanenza dell’Eterno Ritorno. La struttura estatica del rovesciamento della volontà del nulla nella volontà dell’Eterno Ritorno acquista una sua particolare evidenza nella metafora del mezzodì come eternità del tempo senza mèta. Nota Masini : “Zarathu9
F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 184. F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 188. 11 F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 189. 10
Nietzsche. Oltre l’abisso
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stra si pone nell’attimo di un’eternità che diviene se stessa perché il suo essere eterno è un farsi eterno, un divenire ciò che già da sempre è”12 ; l’attimo costituisce l’emergenza estatica del senso circolare del tempo come anulus aeternitatis (mezzodì). Il mezzodì è la trasparenza stessa di un’eternità prefigurata nella volontà del ritorno: è il Sì dell’anima dionisiaca a rendere immortale quest’attimo; non solo sopporta il Ritorno, ma lo ama. Non già nel futuro, ma nell’attimo viene riguadagnato all’uomo il suo mondo, e il movimento che realizza questa appropriazione di sé-col-mondo è quello stesso che imprime al tempo la circolarità dell’‘anello’. “La trascendenza estatica è appunto quel nesso che articola alla radice l’identità antropocosmica aperta alla decisione, ed è alla luce di questo presupposto metodologico-strutturale che la stessa aporia viene assunta in unità di visione”13 . Secondo Masini, la novità di Nietzsche consiste nel rovesciamento del ‘testo’ della metafisica, che passa attraverso lo stravolgimento della grammatica per iscrivere il testo della ‘trasvalutazione di tutti i valori’ nell’‘ottica degli estremi’, un’ottica agonale e multipla nella quale il gioco delle interpretazioni si smaschera continuamente. Il carattere destrutturante della filosofia di Nietzsche è, per Masini, caratteristico di un momento di passaggio da una fase del capitalismo all’altra. Masini ripercorre l’analisi lukacsiana rovesciandone però il senso: la centralità del nichilismo nietzscheano, che è giusto rivendicare, non deve essere intesa come stabilizzazione della classe borghese, ma come luogo di ricerca, di esperimento, come preludio alla costituzione di una nuova razionalità.
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F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 199. F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 219.
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Gianni Vattimo.Ipotesi su Nietzsche Vattimo nel 1967 raccoglie in un volume, Ipotesi su Nietzsche, gli esiti dei suoi studi sull’opera nietzscheana condotti a partire dal 1961. Come attesta il titolo dell’opera, i saggi proposti hanno il carattere delle ‘ipotesi’, si propongono cioè di delineare le vie lungo le quali Vattimo tenta di avvicinare il pensiero di Nietzsche. In accordo con le letture di Löwith, Vattimo considera di particolare importanza nella filosofia di Nietzsche il problema dell’eterno ritorno. Oltre alle considerazioni morali e cosmologiche che solitamente ineriscono a quell’ipotesi suprema che è l’eterno ripetersi dell’uguale, Vattimo suggerisce una lettura della ewige Wiederkunf in relazione ad una nuova, liberatrice, prensione del tempo. Non si tratta del tempo nel suo significato gnoseologico o metafisico, ma nel senso che si può chiamare esistenziale; infatti una delle conseguenze dell’idea dell’eterno ritorno è il rovesciamento della visione banale del tempo come catena irreversibile di attimi ordinati in serie. E’ convinzione di Nietzsche che la visione lineare del tempo abbia generato nell’uomo moderno una sorta di malattia storica che ne impedisce la libera azione. L’estrema consapevolezza storica uccide nell’uomo la volontà di creare, gli dà una specie di paralisi che nasce dalla perdita di fiducia in se stesso. Il passato assume il carattere del ‘paradiso perduto’, esso è l’ambito che sfugge alla nostra decisione, e apparendoci ineguagliabile ci impedisce l’agire nel presente. La malattia storica conduce a vedere l’individuo come perfettamente calato nel processo universale, espressione del suo tempo, determinato dalle condizioni in cui si trova a vivere, giustificato solo entro lo sviluppo generale, privo però della vita che è invece libera creatività, novità, irriducibilità di ciò che nasce a ciò che è stato. Nietzsche. Oltre l’abisso
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Sia visto in un’ottica provvidenzialistica di tipo cristiano, sia visto in una sorta di relativismo assoluto che pensa la realtà come un flusso in cui tutto è degno di perire, il tempo inteso linearmente conduce al nichilismo. Ora il nichilismo è sì un fenomeno storico, ma esso è connaturato alla condizione umana di ‘imperfetto non perfettibile’, al rapporto che l’uomo intrattiene con il così fu. L’uomo deve redimersi da questa condizione, deve liberare ogni così fu in così volli che fosse. Ma il ‘volere a ritroso’ è un’impresa che alla volontà appare impossibile, e ciò genera uno spirito di vendetta. In questa esperienza la volontà si trova di fronte ad effetti di cui non può dominare la causa, effetto essa stessa di un qualcosa che è già lì come ‘fondamento’. Nasce in questa esperienza la visione dell’essere come struttura di ‘causa-effetto’: dovunque si sono cercate responsabilità, è lo spirito di vendetta che le ha cercate, scrive Nietzsche nell’aforisma 765 della Volontà di potenza. In ogni rapporto tra l’uomo e il mondo si ripete l’esperienza fondamentale della volontà: il trovarsi davanti ad un ‘dato’ che fonda la situazione. L’esplicazione dello spirito di vendetta consiste nelle manifestazioni fondamentali del nichilismo: il cristianesimo, la metafisica, la morale. Prima che il cristianesimo, lo stesso spirito religioso in generale è espressione dell’istinto di ricerca del responsabile che Nietzsche chiama spirito di vendetta: non osando assumersi in proprio la responsabilità della sua condizione, l’uomo ricorre ad una volontà estranea cui attribuire tale responsabilità. Tutto ciò nasce dal modo sbagliato e falso di impostare il rapporto col passato: non potendo nulla su di esso, la volontà cerca di attribuirgli una qualche struttura comprensibile. La stessa debolezza rivela la ‘volontà di verità’ che caratterizza la metafisica: qui il presupposto è che il mondo caotico e mobile del divenire 100
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abbia ‘fondamento’ in una qualche struttura stabile, in un altro mondo che sarebbe quello ‘vero’. Anche la morale è un prodotto dello spirito di vendetta: essa è generata da uomini inferiori che, di fronte alla libera creatività degli uomini grandi, creano una tavola di imperativi in cui dominano le virtù del gregge, cercando di volgere in segni di superiorità morale quelli che sono caratteri di inferiorità e debolezza. Si prepara l’avvento del nichilismo – scrive Nietzsche nell’aforisma 12 del Wille zur Macht – quando si attribuisce alla storia un ordine provvidenziale, giacché si scoprirà che quest’ordine provvidenziale non c’è, e allora il divenire perde di senso. Quando l’idea di un tale ordine si scopre falsa, allora le cose e l’uomo perdono ogni valore, quel valore che l’uomo stesso vi aveva infuso attraverso la visione provvidenziale della storia. La dottrina dell’eterno ritorno deve rappresentare la soluzione del problema mettendo in luce una struttura della temporalità che rovesci il modo banale di vedere il tempo, e che renda possibile alla volontà il paradosso di ‘volere a ritroso’. “Se infatti il nichilismo ha radice nello spirito di vendetta e nel rapporto della volontà con il così fu, solo la soluzione del problema della temporalità potrà valere come definitivo superamento di esso e come premessa alla costruzione del superuomo”14 . Attraverso l’ipotesi dell’eterno ritorno il tempo diviene un cerchio; l’attimo, il momento presente della decisione, rappresenta il punto in cui il cerchio salda il passato con il futuro. Cade la struttura rettilinea del tempo e con essa la permanenza del così fu, tutto ritorna eternamente, si instaura un rapporto di reciproca influenza tra il passato e il futuro, e tale rapporto è possibile nell’attimo che, cessando di essere un punto su di una linea, porta con sé tutto il futuro 14
G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino, 1967, p. 51.
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e quindi anche tutto il passato in una sorta di totalità immanente, ciò che Nietzsche intende per eternità. Dunque è convinzione di Vattimo che le letture cosmologiche e morali dell’eterno ritorno non siano sufficienti a chiarirne la portata esistenziale: l’uomo liberato dal fardello del così fu può aprire la sua esistenza alla vita, può adire la via che porta oltre l’uomo. Se il divenire è uno sviluppo organizzato, ogni punto di esso equivale ad un altro e nessuna decisione appare determinante; d’altro canto se il divenire è l’eterno ripetersi dell’uguale la decisione diventa un assoluto. Nella visione dell’eterno ritorno la decisione fonda il proprio orizzonte in virtù del potere di decidere che viene all’uomo non per un atto arbitrario, bensì per una sorta di remoto radicamento che Nietzsche non chiarisce a pieno. L’ipotesi che formula Vattimo consiste nell’identificare questo radicamento nel rapporto dell’uomo con la totalità dell’essere: “demolita la struttura seriale del tempo, o almeno riconosciutala come non originaria, anche la decisione non si colloca più in rapporto con questo o con quel momento del tempo, ma con la totalità del divenire e dell’essere (non più distinti come stabilità-verità e apparenza ingannevole)”15 . E’ il rapporto con il tutto che dà al filosofo il diritto di filosofare, legiferare, e detto rapporto è strettamente legato alla visione che Nietzsche ha del mondo. Non si tratta di una relazione che escluda il mondo della menzogna per recuperare il mondo vero, originario, giacchè anch’esso è favola, e divenne favola proprio perché fin dall’inizio lo era. Il nichilista compiuto riconosce le finzioni in ciò che è vero come in ciò che è falso, e accetta il flusso inutile del divenire. “Anche la morte di Dio – scrive Vattimo – non è altro che la fine delle garanzie di cui si era circondato 15
G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 87.
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l’uomo della metafisica tradizionale per liberarsi dalla responsabilità piena delle sue azioni”16 ; l’uomo nuovo che Nietzsche progetta, è l’uomo capace di assumersi in pieno le proprie responsabilità, riconoscendo che “non esiste il mondo, ma esistono dei mondi come posizioni sempre in movimento”17 . Nietzsche vede il divenire come natura, nel senso della parola greca physis, che vuol dire forza originante, scaturigine permanente. Il modo di accostarsi alla verità non è quindi quello di arrivare a vedere le cose come stanno, giacché non stanno affatto, ma piuttosto mantenersi in rapporto con l’origine, la quale genera mondi come (o in quanto) genera le prospettive entro cui essi si rivelano, evitando di perdersi all’interno della propria prospettiva storica assolutizzandola, identificandola con la realtà. La critica al tradizionale concetto di ‘storia’ conduce Nietzsche a ritenere che la verità altro non sia che la conformità dei nostri discorsi a certe regole ‘universalmente’ accettate in un certo mondo: “ammettere la ‘storia’ dentro cui enunciazioni e azioni prendono un senso è ammettere un mondo, stabile e vero se non nei suoi caratteri esteriori almeno nelle sue leggi di sviluppo”18 . Ma un mondo vero non esiste né è mai esistito, esso è piuttosto un turbine di produzioni, di metafore prive di rimando, alcune delle quali sono prese come ‘realtà’ perché un certo gruppo sociale le ha prese come base della propria vita comune. “La creazione di metafore linguistiche, cioè di un certo vocabolario che porta in sé una struttura di concetti nella sintassi, è fondamentalmente un fatto poetico ed estetico: il linguaggio nella sua forma originaria è la sfera media liberamente poetante e creatrice che occorre 16
G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 83. G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 88. 18 G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 78. 17
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per operare il passaggio dal mondo come è in sé, e di cui non sappiamo nulla, al mondo ordinato negli schemi concettuali”19 . Dunque la conoscenza del fatto storico non può essere diretta dall’ideale e dal criterio dell’obiettività, della conformità al dato, perché in tal caso il fatto viene perso nella sua costitutiva apertura e infinità: la conoscenza del fatto storico è un atto di vita che afferra l’attimo nel suo compiersi. Questa struttura della conoscenza è quella che Nietzsche sempre più esplicitamente chiamerà interpretazione, ma essa non potrà mai essere intesa, a causa della particolare visione nietzscheana della verità, come l’atto di risalire da un ‘segno’ al ‘significato’, da un fenomeno alla cosa in sé. In prima istanza il filosofare di Nietzsche è diretto alla ‘demitizzazione’, come una spontanea reazione del pensiero all’accresciuta potenza del mito. Questo movimento diretto a mettere allo scoperto le radici ‘istintive’ della morale, della religione, della metafisica, deve poggiarsi sul criterio di evidenza soggettiva, ma come nota Vattimo anche questa ‘evidenza’ ha il carattere del mito: il fatto che consideriamo evidenti certe verità “dipende dal fatto che apparteniamo ad un certo mondo e ad una certa epoca, ad una umanità che si è data una struttura che è radicata in noi per eredità e agisce in noi come ‘natura’, ci fa pregiare o disprezzare certe cose piuttosto che altre”20 . La demitizzazione, per aver voluto essere radicale, si trova ora in una condizione paradossale, giacché apparentemente non ha un punto stabile cui appoggiarsi. L’unica possibilità che si presenta al filosofo è che egli si metta con un atto in certo modo violento fuori del mondo della finzione consolidata, in una solitudine generata dal disin19 20
G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., pp. 68-9. G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 143.
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canto, capace di creare nuovi valori. La potenza persuasiva dei nuovi valori non farà assegnamento sull’evidenza soggettiva, né sulla forza con cui il messaggio è enunciato, come vorrebbe un’interpretazione vitalistica e ‘titanica’ del pensiero di Nietzsche, poiché si rimarrebbe ancora all’interno del cerchio: i nuovi valori sarebbero creati solo per rispondere ad esigenze nate nell’ambito dei vecchi, e soprattutto rimarrebbero misurati da criteri prestabiliti. Il diritto di assegnare valore – afferma Vattimo – non è un atto arbitrario, “c’è qualcosa di misterioso, perché originario e radicale, nel fatto di essere filosofo nel senso inteso da Nietzsche”21 , è qualcosa che ha a che fare con la ‘libertà del volere’ propria degli artisti: una libertà non arbitraria, che fa tutto con la necessità del proprio fato. Il pensiero filosofico autentico è, come l’agire dell’artista, una sorta di ‘danza divina’. La possibilità di istituire nuove tavole di valori è garantita dal carattere ‘sovrastorico’ del filosofare, da quella solitudine che fugge il ‘contemporaneo’ per non esserne preda. Si è visto come la demitizzazione radicale abbia finito per distruggere il concetto di soggetto, sia come autocoscienza, sia come volere; questa distruzione mira alla creazione dell’uomo superiore come radicato in un sostrato originario, che possiamo chiamare essere (sia pure concepito come volontà di potenza). La lettura di Heidegger risulta a tal proposito illuminante: il desiderio di chiarezza e di esplicitazione del nascosto da parte di Nietzsche, non sarebbe altro che l’ultimo atto della metafisica occidentale che ha smarrito il senso dell’essere e lo cerca ancora nella struttura fondante-fondato, la quale fa perdere di vista il vero suolo su cui la realtà può crescere. In quanto il fondamento è enunciato, esso è in potere del soggetto che lo enuncia e lo accetta 21
G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 150.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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come valido: tutta la realtà è ridotta al soggetto, dell’essere come tale non ne è più nulla. Vattimo accoglie solo in parte le conclusioni di Heidegger, ritenendo che il filosofare di Nietzsche non si concluda con la ‘demitizzazione’, bensì essa rientri in un ambito più ampio. Per Vattimo il radicamento su cui poggiano i nuovi valori è un mistero che non si lascia mai dire completamente; la filosofia di Nietzsche non si riduce quindi all’esplicitazione del nascosto, come vorrebbe Heidegger, bensì è “un movimento in cui l’originario, nel filosofo, ma nel pensiero umano in generale nella sua funzione creativa, eventualizza sempre nuovi mondi, istituisce sempre nuove aperture”22 . Nietzsche in tal modo si colloca al di fuori della tradizione metafisica che, in senso heideggeriano, si muove alla ricerca del ‘responsabile’, del ‘fondamento’, della ‘verità’.
22
G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, op. cit., p. 156.
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Capitolo IV
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La volontà di potenza
Se in Ipotesi su Nietzsche il diritto di filosofare e legiferare è dato, secondo Vattimo, dal mantenersi in rapporto con l’origine che genera mondi come prospettive, ne II soggetto e la maschera (1974) tale diritto deriva al filosofo dalla trasformazione storica dell’uomo, maturata con l’assunzione della carica teoretica dell’eterno ritorno. Creando sensi, ordinando il mondo secondo la propria volontà, l’uomo s’impadronisce delle cose secondo la visione della ‘volontà di potenza come arte’. L’oltreuomo nietzscheano suggerito ne Il soggetto e la maschera, in quanto identificazione di essere e senso, ha ancora in sé i caratteri dello spirito assoluto hegeliano, ma in modo che comprende e risolve le obiezioni esistenzialistiche e marxiste dell’Assoluto di Hegel. In questi stessi anni, Massimo Cacciari propone la sua lettura di Nietzsche non prospettando alcuna liberazione od emancipazione dell’individuo, bensì sostenendo un disincantato ‘realismo’. Cacciari riconduce Nietzsche nell’area del ‘pensiero negativo’ per il tramite epistemologico (Krisis, 1975), vedendo nella ‘volontà di potenza’ la logica di una razionalizzazione che senza comportare una correlazione tra osservazione e significato, nonché la prefigurazione di un contesto conoscitivo articolato dal trascenNietzsche. Oltre l’abisso
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dente, stabilisce l’organizzazione di un mondo in funzione del dominio. Leggendo Nietzsche alla luce di un originale accostamento di Heidegger e Wittgenstein, Cacciari suggerisce un convenzionalismo assoluto della ‘volontà di potenza’ come organo dell’appropriazione del reale espressa attraverso il mondo fittizio della Logica. Accogliendo le terminazioni logico-epistemologiche espresse da Nietzsche negli aforismi della Volontà di potenza, Cacciari esaurisce le accuse di ‘irrazionalismo’ de La distruzione della ragione di Lukacs, accantonando il carattere creativo della ‘volontà di potenza’ in favore della carica tecnocratica, estranea alla funzione ‘mitopoietica’ che invece Vattimo predilige. Ed è proprio attraverso la considerazione della ‘volontà di potenza come arte’, che Vattimo può cogliere il carattere ‘destrutturante’ della ‘morte di Dio’ che coinvolge in pieno il soggetto, non più concepibile come il risultato di una ‘conciliazione dialettica’. Accettare il messaggio della ‘morte di Dio’ significa accogliere l’impossibilità di ogni ‘conciliazione dialettica’ e di ogni Fondamento definitivo, e ciò conduce Vattimo a vedere nel lavoro di preparazione per il Wille zur Macht l’abbozzo di un’ontologia ermeneutica come teoria delle condizioni di possibilità di un essere che si dia come il risultato di processi interpretativi. È infatti l’Ab-Grund (abisso), che la ‘morte di Dio’ lascia intravedere di là dalle ‘prospettive’ che si avvicendano, che non consente di ri-organizzare una filosofia del Fondamento e, pertanto, porta ad un’ermeneutica interminabile nella quale il processo interpretativo è articolato in deflagrazioni e complicazioni come linee lungo le quali si generano le diverse ‘prospettive’, e che hanno inevitabili ricadute sul linguaggio che le esprime.
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Massimo Cacciari. La Logica della Volontà di Potenza Cacciari esclude la possibilità di una lettura esistenzialistica di Nietzsche. La sottolineatura del valore epistemologico presente nell’elaborazione nietzscheana ha come esito finale, infatti, la proposizione di un Nietzsche alieno da ogni prospettiva di liberazione e affermatore, invece, di nuovi e imperativi modelli conoscitivi. Secondo Cacciari l’importanza del pensiero di Nietzsche consiste nella sua anticipazione della crisi del rapporto soggetto-oggetto che sarebbe poi intervenuta nei primi due decenni del nuovo secolo (la ‘crisi dei fondamenti’), e nella indicazione di un convenzionalismo radicale quale sbocco necessario di quella crisi. Questo superamento definitivo e irreversibile della razionalità classica ha, per Cacciari, il suo iniziatore in Schopenhauer. La risposta di Schopenhauer alla crisi del trascendentale è quella dell’estremo pessimismo, poiché la “miseria di schemi formali a priori in grado di conciliarci al fenomeno – di rendere fenomeno il dato – costringe alla negazione del dato. Poiché il reale non può essere che rappresentazione, se il reale si fa noumenon, in quanto la soggettività manca di schemi trascendentali o in quanto risultano indeducibili, la rappresentazione stessa finirà col nullificarsi”1 . Da ciò la volontà-alla-vita, che si fonda sul rapporto di rappresentazione, si rivela illusoria; la verità del rapporto soggettooggetto sta nella nullificazione del rapporto stesso e della volontà che pretende di agirlo, la verità alla fine sta nella noluntas che apre all’ascesi. Lo svolgimento de Il mondo come volontà e rappresentazione si fonda sulla ripresa dell’Analitica kantiana come ricerca filosofica a priori delle ‘intuizioni’ della scienza 1
M. CACCIARI, Krisis, Feltrinelli, Venezia, 1975, p. 56.
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della natura. Per Schopenhauer il concetto di noumenon sfalda questa possibilità perché rende inutilizzabili gli strumenti dello schematismo. Cacciari nota che per Schopenhauer “non c’è trascendentale – dunque: intuizione trascendentale – ma formalismo della ragione”2 . Crollando la struttura trascendentale crolla qualsiasi possibile deduzione dell’effettualità della ragione: essa, poiché formale, nullifica. La critica di Nietzsche al pessimismo di Schopenhauer parte dalla considerazione del fatto che esso deriva dal non poter ancora concepire altra effettualità che quella della forma trascendentale: “Se la verità consiste in tali strutture a priori, la verità non potrà mai essere positivamente dimostrata. Vera sarà soltanto la volontà di nullificazione della volontà di rappresentazione”3 . L’approdo pessimistico di Schopenhauer è inevitabilmente tracciato nel porsi del problema: la dottrina del trascendentale nasce dalla consapevolezza che la conciliazione tra la realtà e la rappresentazione è utopia. Il punto di partenza di Nietzsche è del tutto diverso; per lui dietro i fenomeni non c’è nulla, un mondo vero non esiste: “porre il rapporto soggetto-oggetto come rapporto tra una natura definita come materia, determinata da nessi causali, da leggi, e un soggetto come apparato di forme trascendentali significa conservare un concetto di verità come comprensione della costituzione assoluta delle cose”4 . Il concetto di soggettività, come centro di riferimento dell’attività osservazione-rappresentazione, ha un senso solo in rapporto alla concezione della natura come oggettività organizzata secondo causalità e necessità; ora, questa concezione della natura, che si basava sul concetto di sostanza, inteso come ‘costituzione assoluta delle cose’, 2
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 56. M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 57. 4 M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 58. 3
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viene a perdere in Nietzsche il suo fondamento (“la necessità non è un fatto, ma un’interpretazione”: Frammenti postumi 1887/1888) e la soggettività che su essa si reggeva perde il suo ruolo classico: “il Soggetto è la sostanza, per Nietzsche, della metafisica dell’interpretare come conoscenza dell’‘in sé’, del ‘mondo vero’. Liquidata la metafisica dell’oggetto vien meno anche ogni fondamento per quella del Soggetto dell’interpretazione. L’interpretare non è più un ‘essere’, ma un ‘processo’, un ‘divenire’ ”5 . L’analisi di Nietzsche conduce al ‘disincantamento’, con la ‘morte di Dio’ crolla la concezione della ‘costituzione assoluta delle cose’, così come crolla il Soggetto che la considera, ma il nichilismo radicale non può superare questo ‘disincantamento’; il problema si ripropone: se la verità non è l’adeguarsi del concetto all’oggetto, come sono possibili i giudizi scientifici cui accordiamo tanta fiducia? La risposta sta nell’intendere la verità come il processo che ci rende formulabile un mondo, un processo di falsificazione che ordina, semplifica, separa artificialmente. “La verità è qualcosa che è da creare e che dà nome ad un processo, anzi ad una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine” (Frammenti postumi, 1887/1888). La verità dunque è un ‘attivo determinare’, non un prendere coscienza di qualcosa che sia fisso. La conoscenza logicamente fondata sul presupposto dell’essere e il divenire in quanto tale sono evidentemente inconciliabili. La conoscenza è differenza ab origine, e proprio tale differenza ne determina il valore: rendere conoscibile per noi, ordinare in modo che noi possiamo vedere. “Il soggetto partecipa all’esserci come un Altro, il cui scopo consiste nel rendere il divenire formulabile attraverso un processo di organizzazione del materiale sensibile, che è insieme un processo di falsificazione”6 . Questo pro5 6
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 60. M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 64.
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cesso, volto alla costituzione di un’illusione dell’essere, è un’infinita tensione tra conoscenza e divenire. Se la verità è “una forma di organizzazione del materiale sensibile tale da permettercene l’uso”, essa è funzione del nostro bisogno. Il mondo non è logico, ma il processo di logicizzazione, di razionalizzazione, ci dà il mondo del nostro bisogno, della nostra vita. La logica non scopre la logicità del mondo, ma definisce i modi del nostro impossessarcene; mai definitivamente – come vorrebbe una razionalizzazione assoluta, quale quella kantiana –, bensì sempre relativamente a questi bisogni, a questa vita, a questa volontà di potenza. Il Wille zur Macht, per Cacciari, non ha nulla dello ‘irrazionalismo vitalistico’, esso anzi si pone come interpretazione e risoluzione della crisi dei fondamenti logico-scientifici; “Esso svela il valore del giudizio logico-scientifico. Ne è demistificazione e fondazione insieme. Demistificazione, nella misura in cui non lo deduce da alcuna necessità-verità oggettiva. Fondazione, perché ne stabilisce la necessità, pur all’interno di un contesto epistemologico radicalmente trasformato: come necessità vitale di com-prehendere, sistemare, logicizzare il mondo, per potere su di esso”7 . Tanto più la sistemazione sarà estesa ed economica, tanto più essa sarà ‘vera’. In questa visione della verità, il soggetto si trova in una situazione paradossale: da una parte assume una funzione ‘attiva’, ‘creativa’; dall’altra perde ogni privilegio gnoseologico. Per avere effettualmente potere sul mondo, il soggetto è divenuto parte di un processo, ha perduto ogni autonomia: “il soggetto non solo deve disincantarsi sulle proprie ‘forme a priori’, sulla ‘verità’ e ‘bontà’ del mondo, sullo schematismo tra forme e mondo, sulle proprie capacità di fare del mondo un significato pienamente determinato – ma deve altresì liquidare l’estremo Valore, quel7
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 64.
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lo che anche il nichilismo più radicale aveva conservato”8 . L’autonomia della soggettività era l’ultimo baluardo contro la crisi e rappresentava in Schopenhauer la via interiore, ascetica, per superarla; questo tuttavia dipendeva dalla cattiva posizione del problema che non vedeva altre effettualità al di fuori della forma trascendentale. E’ evidente come in questo non vi sia un messaggio di liberazione, bensì – scrive Cacciari – la fondazione di nuovi poteri di comprensione. La lezione nietzscheana consiste nella dimostrazione dell’impossibilità di un recupero della soggettività classica, poiché togliere la soggettività da questo processo, seguire l’appello alle origini del dover essere significa opporsi al Wille zur Macht e recuperare una soggettività vuota, vacante di potenza, formale; recuperare in definitiva la metafisica. Le forme soggettive dell’interpretazione in questo contesto epistemologico assumono il carattere della convenzionalità, ma ciò non esclude per nulla l’effettualità e l’oggettività; anzi queste convenzioni risultano necessarie per poter ‘formulare’ un mondo. La nuova forma della logica della volontà di potenza, convenzionale, utile, si risolve radicalmente nell’esperienza – ne pone il ‘dominio’: “la fiducia nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, cioè il giudizio di valore della logica, dimostrano solo la loro utilità, provata dall’esperienza, per la vita, non la loro verità”9 . A decidere il valore e il potere della logica non è l’avvicinamento ad una Sostanza, bensì il grado di integrazione con il quale essa opera nel processo. Ciò che a Cacciari preme evidenziare è che l’azione di Nietzsche mira a liberare la forma logica dal giudizio filosofico di valore: liberare la scienza dai filosofi; “Non si tratta solo di liberare la scienza dalla morale – come tutti 8 9
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 66. M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 67.
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gli interpreti di Nietzsche hanno già rilevato – ma, ben più fondamentalmente, di emancipare il discorso scientifico dal ‘giudizio a priori’ filosofico, dalla pretesa di fondazione filosofica che in Kant celebra la sua massima tensione e insieme l’inizio della sua crisi”10. In Nietzsche il ‘pensiero negativo’ ha attraversato tutto lo spazio del nichilismo e ne ha interpretato l’annuncio: “le pure forme si rovesciano in potere positivo, il crollo dell’a priori è razionalizzazione, l’ascesi è, alla fine, definizione della struttura logica del mondo”11; tutto questo senza nessuna conciliazione poiché accordare-sintetizzare sarebbe ricadere nell’impotenza assoluta del nichilismo. “Potere non è sintesi – se fosse sintesi, non vi sarebbe più bisogno di un potere. Né la forma sarebbe più convenzionale: essa esprimerebbe la realtà , la esaurirebbe in sé. C’è un conflitto in-finito – come c’è un divenire: un ‘eterno ritorno’”12, ed esso impedisce la sintesi. Cacciari accosta gli esiti del pensiero di Nietzsche al pensiero di Wittgenstein per evidenziare quanto di comune vi sia nelle loro interpretazioni dell’essere. Per Wittgenstein verità e non-verità sono semplicemente condizioni di relazione tra forma delle proposizioni e struttura del reale. Le proposizioni non dicono nulla sulla realtà poiché non c’è una struttura oggettiva del pensiero; esiste una pluralità di linguaggi, fondati funzionalmente, irriducibili ad unità. Si tratta di operazioni la cui convenzionalità esclude l’esistenza metafisica di un’essenza comune, e il rapporto che si intrattiene con esse è puramente semantico. Il problema epistemologico si trasforma da problema di ‘fondazione’ a problema di coerenza interna alla definizione del gioco, delle sue regole, della sua fun10
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 68. M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 69. 12 M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 69. 11
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zionalità e del suo uso. Il processo di logicizzazione è l’espressione del massimo interessamento per le cose, ovvero del Wille zur Macht. Ma la formalizzazione completa avviene solo allorché la pura Forma ‘si disincanta’, e, come si è già visto, per Cacciari questo rovesciamento del ‘negativo’ nel processo di razionalizzazione, nella positività delle convenzioni, inizia con Nietzsche. Progressivamente vengono “sottratti ai ‘segni’ ogni ‘significato’ intuitivo e la differenza tra dimostrazione della loro interna coerenza e descrizione dei loro contenuti”13. Senza questa radicale formalizzazione non c’è razionalizzazione, ma illusoria conciliazione, sintesi a priori, l’incanto del significato. Scrive Wittgenstein: “Bisogna emanciparsi dal bisogno della ricerca di significati ‘fuori’ dalle regole di relazione dei segni”14; queste regole determinano un gioco comune e all’interno delle sue relazioni vanno ricercati i significati dei segni. Per esempio il significato di una parola non è l’oggetto che essa designerebbe, bensì è il suo uso nel linguaggio. “Invece di sforzarci di raggiungere l’idea, dobbiamo determinare la molteplicità dei giochi e dei linguaggi, le loro rispettive regole, le loro affinità – e giocarli”15. Il concetto di gioco ci libera dall’abbaglio dell’ideale, la ‘profondità’ è un fraintendimento; ciò che è nascosto non ci interessa. A noi preme considerare il gioco, trasformarlo, ordinarlo, con quella serietà che si accorda all’inesorabile. Il gioco è l’unica realtà che conosciamo, e ciò lo rende tremendamente serio. Si è detto che il gioco viene organizzato, trasformato, ordinato; ora queste trasformazioni fanno parte dello stesso gioco, così come la soggettività che agisce 13
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 72. L. WITTGENSTEIN, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1971, p. 175. 15 M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 82. 14
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dette trasformazioni. “La soggettività – nota Cacciari – non ha più nulla della struttura trascendentale dell’Ego – non è più in nessun modo la traduzione ‘latina’ della sostanza”16. Due figure pratiche assolvono la duplice funzione di gestione del mondo (inteso come originario divenire) e di salvaguardia dell’essere (inteso come ‘gioco’): il tecnocrate e il mistico. Il primo è garante del gioco, e allestisce a tal fine una filosofia dell’als ob, una filosofia che opera, gestisce, ordina, ‘come se’ il nostro mondo di segni e parole avesse un fondamento. Ma non bisogna neppure farsi prendere la mano, poiché si rischia di cadere nel nichilismo sfrenato che potrebbe disporre del ‘mondo’ senza regole. A frenare la hybris che eventualmente potrebbe cogliere il tecnocrate è posto il mistico il quale, tenendosi fuori dal ‘gioco’, ricorda la presenza dell’essere proprio attestandone l’assenza nel mondo. Scrive Cacciari: “il mistico non è l’esperienza del trascendente – ma l’opposto. E neppure il mistico è la domanda su come è il mondo. Il mistico ha origine dal fatto che il mondo è”17; ma il mondo è, ed è esperibile, precisamente nella sua infondatezza e fondamentale limitatezza. Il mistico circoscrive e rende esperibile il mondo proprio enunciandone i limiti. Le tesi di Cacciari consumano fino in fondo il distacco da La distruzione della ragione. Il pensiero di Nietzsche in questa interpretazione non ha nulla di irrazionale, anzi la ragione prodotta dalla Volontà di Potenza è una ragione forte che ‘fonda’ il mondo conoscendolo, portando all’essere l’indefinibile e inafferrabile divenire, affinché se ne possa disporre. La ‘crisi’ che Nietzsche da un lato rappresenta e dall’altro supera, è un momento del processo di cui la Volontà di Potenza è sempre responsabile. Quando un ‘gioco’ appare non più credibile la ‘crisi’ subentra nel 16 17
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 86. M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 94.
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tentativo di riordinare, di trasformare quel sistema ormai non più adatto a ‘gestire’ il mondo. Si è visto come la verità coincida con il grado di estensione ed economicità del sistema-gioco adottato, e come non vi sia alcuna Sostanza originaria a garantirne l’esistenza. Ciò non impedisce l’azione; non si accede per questa via al nichilismo radicale, bensì si prende coscienza del mondo come prospettiva più o meno funzionale: l’azione risulta libera, creatrice, e allo stesso tempo consapevole del ‘limite’.
Massimo Cacciari. Tempo e ‘morte di Dio’ La critica nietzscheana alla metafisica e al cristianesimo ha le sue radici nella concezione del tempo che li sorregge. Come si è visto, il concetto è propriamente comprendere-catturare il divenire, per ‘fissarlo’, ‘formarlo’, nelle forme dell’essere. Che il divenire vada conosciuto-trasformato nelle forme dell’essere, ciò non esprime che la Volontà di Potenza del discorso metafisico. Lo stesso concetto di divenire nella metafisica assume la ‘fissità’ propria dell’essere; nel concetto il divenire è già stato. La volontà di potenza della metafisica si manifesta nel voler porre il divenire come ‘nulla’, nella abolizione del divenire, di un divenire che tuttavia ha perduto la sua peculiare indecifrabilità facendosi concetto: infatti, per la metafisica il divenire – definibile nel mondo – è solo nel concetto, come stato, come non-divenire. La liquidazione del divenire, così inteso, assume i contorni di un radicale allontanamento dall’effettivo divenire. Nella Fenomenologia dello Spirito la critica alla religione in quanto fede è condotta secondo la logica del discorso metafisico che deve togliere il Presupposto. La fede è la figura del presupporre e quindi dell’opposizione della Sostanza all’effettualità dell’Autocoscienza. Nella fede la SoNietzsche. Oltre l’abisso
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stanza è nell’immediatezza: non è ancora stata mediata e superata nella comprensione. Ma ciò che sta nell’immediatezza è un Presupposto che non è ancora stato afferrato-concepito nel discorso. Hegel concepisce la fede come figura dell’estraniazione, in quanto impotente ad abolire ogni immediatezza o Presupposto – in quanto figura del mero ‘correre’ del tempo. Vi è opposizione radicale tra fede e concetto: il concetto è il processo del ‘toglimento’ del Presupposto, la fede trae alimento proprio dalla rappresentazione del Presupposto; “il concetto supera continuamente l’immediatezza del divenire; la fede vi vede la presenza dell’Altro, che sta al centro della sua esperienza”18. La critica di Nietzsche all’abolizione dialettica del divenire in Hegel si accompagna al problema della ‘redenzione’ dal tempo. Nietzsche si rifiuta di limitare la sua critica della fede nel movimento sussumente nel concetto. Certo la critica nietzscheana dell’esperienza religiosa giudaico-cristiana fa certamente propria anche quella hegeliana, la quale verteva sulla sostanziale Alterità del Presupposto. Ciò che è sostanziale nell’esperienza della fede è l’Invisibile, non traducibile concettualmente, non portabile alla presenza: “il rapporto intrinseco della fede con l’Invisibile è lo scandalo, per Nietzsche, dell’esperienza religiosa giudaico-cristiana”19. Il Presupposto di cui si tratta nella fede è l’Invisibile. L’apparente, il visibile, è condannato ad una radicale infirmitas: “solo in rapporto all’Invisibile il visibile ha carattere e senso, solo negandosi in quanto tale esso si salva”20; la verità dell’apparente compare nel suo sparire. Ma questo movimento concettuale approda ad un nichilismo non dissimile da quello 18
M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, in ‘Crucialità del tempo’, Liguori, Napoli, 1980, p. 56. 19 M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 57. 20 M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 58. 118
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della fede, poiché superare dialetticamente il visibile nella produzione del suo sfondamento, comporta la medesima fede nella non-verità dell’apparente, e significa conservare il Presupposto nell’Invisibile. Ogni filosofia del Soggetto deve intendere l’apparente come velo del vero, come prima immediatezza da revocare in dubbio e ‘togliere’, e pertanto non può superare l’aporia rappresentata dal Presupposto. S’intende, così, l’attenzione che Nietzsche dedica alla distruzione della soggettività classica nelle sue ultime opere. Per Nietzsche la struttura del nichilismo domina la fede come domina il suo superamento dialettico. Nietzsche coglie l’impotenza del Presupposto a ‘saturare’ di essere il divenire. Il dubbio che ossessiona la fede rimanda indistricabilmente alla dimensione storico-temporale. La fede è decadente per la sua appartenenza alla dimensione della storia. La dialettica è una falsa ‘redenzione’ dal tempo poiché il divenire che abolisce nel concetto è già stato, è già fissato, concettualizzato: “ciò significa che il divenire resiste fuori del concetto, che la dimensione della temporalità permane irredenta dal lavoro del concetto, e che dunque quest’ultimo è impotente di fronte ad essa”21. La critica nietzscheana non si limita all’eroica assunzione del divenire nella figura del ‘tragico’, bensì mira alla redenzione dal tempo; “il vero obiettivo della critica nietzscheana – scrive Cacciari – è la storicità essenziale della religione giudaico-cristiana, per la quale la creazione stessa è opera compiuta nel tempo, appartenente al tempo e originariamente storicizzante, e del concetto, del lavoro discorsivo vòlto all’impotente definizione dell’Immutabile”22. Fede e dialettica esprimono entrambe modelli alienati di esistenza non solo perché esprimono forme nichilistiche 21 22
M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 61. M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 61.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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nei riguardi dell’apparenza, ma soprattutto perché ‘storiche’ nella loro essenza, indistricabilmente connesse alla storicità ‘caduta’. La reazione con cui tradizionalmente si è tentato di dare risposta all’angoscia per la storia condanna alla metafisica del Fondamento, all’annichilimento dell’apparenza nell’Invisibile del Fondamento. Nietzsche va oltre proponendo lo ‘stare dionisiaco’ di fronte all’ente: trovare la forma della ‘saturazione’ del divenire proprio attraverso la sistematica demolizione del Fondamento, dell’Immutabile invisibile come del Presupposto della fede. Per Cacciari la ‘morte di Dio’ è annunciata ad un’altra Europa, non a quella che aveva messo a morte Dio infinite volte con le armi del suo Illuminismo, bensì all’Europa dell’Est, alla Russia di Dostoevskij. Qui “la morte del Dio ‘romantico’ è la morte necessaria dei falsi Immutabili, segna il punto sommo di disperazione della nostra storia affinché sia possibile il salto ad un nuovo pensiero abissale, per il quale si concilino necessità ed evento”23; come vedremo oltre, la ‘morte di Dio’ non è semplice ‘eroico’ disincanto, ma annuncio di una nuova Necessità. Il Cristianesimo che muore con il suo Dio aveva scavato una distanza abissale tra il ‘cielo’ e il ‘mondo’, gettando quest’ultimo nelle categorie dell’indispensabile e dell’utilitario. L’estraneità al mondo divenne condizione per l’amore di Cristo, si doveva intrattenere con il mondo delle cose tutt’al più quel rapporto che bastasse a consentire la sopravvivenza. Per il cristianesimo le cose cessano di avere valore intrinseco, sono soltanto in quanto usabili, consegnate da Dio all’uomo, a sua perfetta disposizione. Mangiare, dormire, sopravvivere è necessario all’uomo, ma godere delle cose di cui si dispone significa peccare. Lo stesso riso non compare mai sulle labbra del Cristo, e 23
M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 62.
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l’Anticristo nietzscheano, Zarathustra, è colui che ha appreso la scienza del riso: ogni risata è un venir meno dell’essere cristiani, è un ridare valore al visibile, liberarlo dall’ombra dell’Invisibile nella quale il Cristianesimo lo aveva relegato. “La morte nietzscheana di Dio – scrive Cacciari – è la morte del Cristo evangelico, dell’esperienza di fede che è al cuore della religione che egli annuncia, della dimensione storica della teologia che su di essa si fonda – affinchè solare appaia il visibile, l’apparente, l’evento”24. Per Cacciari che Dio sia morto non è che trita banalità; la ‘morte di Dio’, in Nietzsche, non svolge che una funzione introduttiva. Essa vuol significare che un Ordine è giunto al suo ultimo giorno, ma vuole altresì significare che questo sacrificio non lascia il nulla, bensì crea. Il Dio che muore è il Dio ‘ozioso’(di cui già parlava Giordano Bruno), ‘logicizzato’, risolto nell’Essere Supremo della metafisica; facendosi Assoluto non ha più a che fare con noi. Questo Dio si è ritirato in celesti lontananze e da lì non sa più decidere. La sua distanza si è fatta impotenza: “Il Dio cristiano predica debolezza e impotenza perché allo sguardo dell’umile la sua oziosità non appaia”25. Ma il Dio che muore è il Dio cosmogonico per eccellenza; è Lui che ha creato il mondo e il tempo che al mondo creato appartiene. Inoltre la sua morte avviene per estenuazione, per debolezza, e i sintomi di questa inesorabile decadenza erano impliciti nel carattere stesso della sua creazione: “il Dio assoluto si risolve imponentemente nel divenire storico – impotentemente: poiché vorrebbe costituirne l’Ordine immanente, la condizione di razionalità-prevedibilità, ma tale pretesa, come sappiamo, si risolve nell’oziosità del Be-griff nei confronti del divenire in quanto tale. Il Dio assoluto appartiene ai falsi Immuta24 25
M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 67. M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 69.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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bili”26, ed essi sono prodotti dell’uomo, nati dalla disperazione di poter comprehendere l’evento. La ‘morte di Dio’ è parte della critica nietzscheana all’Assoluto, al Grund. La dimensione dell’Assoluto impedisce la decisione in quanto l’Immutabile marchia dell’oziosità del Dio ogni azione. La morte di questo Dio apre alla possibilità di decidere autenticamente, libera da ogni Presupposto, ma sulla base di una nuova Necessità, l’Amor fati. La nuova Necessità su cui poggia l’uomo dopo la ‘morte di Dio’ accetta il mondo come totalità di casi; la necessità del mondo è il risultato occasionale di divini lanci di dadi che si ripetono inesauribilmente ed eternamente rinnovano il mondo. Necessità è, per Nietzsche, l’eterno ripetersi del lancio di dadi, e amare questa necessità significa ‘stare dionisiacamente’ dinanzi al mondo. L’eterno ritorno emancipa il tempo dalla durata, da quella concezione che incatena l’uomo al così fu, inibendone l’azione. L’Amor fati, in quanto riconoscimento dell’eterno crearsi-distruggersi del mondo, si manifesta nell’attimo che trae a sé tutte le cose trascorse e tutte le cose a venire. La durata sprofonda nell’attimo, nell’attimo si spalanca l’occhio che può amare questa eternità. “In Nietzsche – scrive Cacciari – il tempo è eterno ritorno consustanziale alla physis increata, eterna, e la conciliazione avviene nell’attimo felice che spezza il continuum, nell’esperienza di un perenne rinnovarsi cosmico”27. Il significato del ‘dionysich zu stehen’ consiste nel vivere l’attimo, poichè è in esso che la vita, l’ente, sono finalmente intuiti come non rimandanti ad Altro da sé, come non effimeri momenti di contro al Fondamento, al Soggetto, ma come profonda apparenza, ‘verità’ del non-Fondamento. Ma in ciò, secondo Cacciari, non si 26 27
M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 69. M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 82.
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ravvisa alcuna fuga ‘ex-statica’: la ‘redenzione’ dal tempo si compie riconoscendolo nella sua falsa struttura grazie all’occhio ‘solare’ dell’attimo, che afferra l’eternità. ‘Dionysich zu stehen’ significa guardare abissalmente all’esistenza, concepirla nella dimensione del senza-Fondamento, ma insieme afferrarne l’eterno ritorno in quella dell’attimo. Cacciari nota come il tempo nel quale si compie la creazione sia un tempo che ha in sé la morte, un tempo relativo unicamente alla caducità e mortalità dell’ente. Con Dio muore il tempo di Dio, quel tempo che consuma ogni ente condannandolo al degrado e alla morte, e che non conosce un solo attimo, in-stante, epochè, ri-creazione, giacché procede inesorabilmente verso il proprio annullamento. La morte, cui il tempo va incontro già da sempre, non giunge in fine al nulla, poiché non si tratta dell’unico tempo possibile, bensì di uno degli infiniti possibili: “la sua morte ci libera dal suo incanto, dalla sinistra profezia che la sua fine fosse la Fine. Ciò non libera dal tempo, secondo quel movimento ek-statico che significa soltanto disperazione di poter mai concepire il tempo se non sotto l’aspetto del Kronos vorace, ma libera il tempo verso altre figure – in generale: lo libera al suo possibile aprirsi all’attimo che ri-crea”28. Come si vede non siamo nell’ab-Grund; se la ‘morte di Dio’ ha fatto cadere l’Ordine ormai logoro di un mondo, e se attraverso l’attimo siamo in presenza del senza-Fondamento, ciò non significa che il ‘dionysich zu stehen’ non abbia bisogno di un Grund cui appoggiarsi: Nietzsche, secondo Cacciari, non giunge ad una conclusione nichilistica. Certo la volontà di potenza che attraverso il pensiero metafisico aveva voluto cercare la regola per ‘saturare’ di essere il divenire, ha miseramente fallito, ma ora la vo28
M. CACCIARI, La morte del tempo, in ‘Dimensioni del tempo’, Franco Angeli, Milano, 1987, p. 87.
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lontà di potenza, consapevole dell’assenza di quella ‘regola’, vuole la ‘regola’, la decide, “perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso” (Nietzsche). In conclusione Cacciari evidenzia la complessità e stratificazione del Wille zur Macht: “alla volontà di potenza che opera nel discorso scientifico, come volontà di onni-prevedere e programmare il divenire, di ridurlo a mero stato, innescando così le aporie che abbiamo visto all’inizio, si oppone quella volontà di potenza che decide il corso del tempo, afferra il suo momento, gode il piacere dell’attimo. Questa volontà imprime al divenire il sigillo dell’essere, in quanto coglie aeternitatem in momento, ama l’eternità nell’attimo”29. Questa è la volontà di potenza che apre al grande meriggio, all’ora panica che dissipa il tempo in infinito presente. Cacciari accoglie le tesi di Bataille secondo le quali quest’attimo non può essere ritualizzato, sul suo ‘Fondamento’ non può costituirsi una nuova religione, un nuovo vincolo dell’ente ad Altro da sé. Volere l’attimo significa accettare il Caso nelle sue infinite possibilità, significa volere la ‘chance’ che irrompe repentinamente senza poter essere ritualizzata. La ‘chance’ dissolve l’inganno della trascendenza, ma non nel senso di appaesarsi nel mero accadere, nell’infondatezza radicale dell’evento. Essa vuole conciliare evento e attimo determinando lo stato di immanenza, in quanto completa esposizione di sé al gioco, alla infinita profondità del gioco. Il Fondamento è divenuto ineffabile; e con ciò sprofonda anche ogni Presupposto, poiché si configura come irriducibile dis-continuità dell’andare, costante rinnovarsi dell’emergere di attimi che rompono il continuum.
29
M. CACCIARI, Concetto e simboli dell’eterno ritorno, op. cit., p. 86.
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Gianni Vattimo. La Volontà di Potenza come arte Heidegger ritiene che la metafisica sia la storia alla fine della quale dell’essere come tale non ne è più nulla, cioè in cui l’essere viene obliato a favore dell’ente ordinato come sistema di cause ed effetti, di ragioni tutte dispiegate ed enunciate; quando l’oblio dell’essere è completo e totale la metafisica è finita, ma anche totalmente realizzata nella sua tendenza profonda. Ora, quest’oblio totale dell’essere è la totale organizzazione tecnica del mondo. Il sistema della totale concatenazione di cause ed effetti che la metafisica prefigura e che la tecnica realizza è espressione di una volontà di dominio. Secondo Vattimo, su questa interpretazione Cacciari può leggere Nietzsche come l’estremo ‘razionalista’ del convenzionalismo della scienza e del puro sviluppo della tecnica. Con ciò, come si è visto, Cacciari sgombera il campo dall’accusa di ‘irrazionalismo’ rivolta a Nietzsche da interpreti come Lukacs. Vattimo dubita però che la lettura di Heidegger sia da accettare senza riserve; ritiene anzi che la volontà di potenza di Nietzsche sia riconducibile alla sua concezione ‘più ampia’ di arte. Nelle opere che vanno da Umano, troppo umano alla Gaia scienza, Vattimo ravvisa un lavoro di ‘smascheramento’ che Nietzsche mette in campo nei confronti della morale e della metafisica, rendendosi conto che, nella storia della cultura occidentale, il ‘luogo’ dove ha continuato a sopravvivere un residuo dionisiaco, una forma di libertà dello spirito, è proprio l’arte. La metafisica e la morale nascono su di un bisogno di sicurezza contro una minaccia sempre immanente: “il bisogno di fondazione è solo il bisogno di sicurezza che l’uomo avverte in una situazione di minaccia e di violenza, e la metafisica risponde a questa situazione attraverso un altro atto di violenza”3 0. La meta30
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974, p. 120.
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fisica ‘cicatrizzando’ la violenza la perpetua, trasformandola e riproducendola in modi diversi, sotto forma di quelle che Vattimo definisce ‘maschere cattive’. Con la metafisica della fondazione concresce l’autonegazione della metafisica sotto forma di ‘volontà di verità’; la metafisica mantiene quindi quella lotta e quella insicurezza che era destinata a vincere. Religione e arte sono modi in cui la metafisica si manifesta prima di formularsi in proposizioni e in costruzioni filosofiche sistematiche; sono i primi modi di soddisfare al bisogno di sicurezza e all’esigenza di fondazione. In seconda istanza la religione costituisce un supplemento di ‘animazione’ della vita nel mondo della ratio socratica. L’arte fa parte del passato delle forme spirituali destinate al tramonto proprio per il suo legame con la religione; si è fatta portatrice di contenuti religiosi e finisce per sopravvivere alla religione in quanto con i suoi simboli ‘ricorda’ qualcosa che dura eternamente. In questo senso può soddisfare le esigenze emotive di un mondo in cui la religione è superata; diviene il sostituto, pur sempre metafisico – è bene chiarirlo – della religione. Tuttavia Nietzsche sembra riservare all’arte una posizione speciale; essa porta con sé quella ‘resurrezione’ che le altre maschere non portano. Certo l’arte per la sua vicinanza con la religione ha in sé quel passato del mondo della ratio socratica, ma essa rispetto alla metafisica, alla morale, alla religione, rappresenta un tranquillizzante rovesciamento del mondo di tensione e minaccia in cui si svolge la nostra vita: “l’arte rassicura facendo presente un mondo diverso da quello dell’insicurezza quotidiana; non teorizzandolo, né promettendolo semplicemente, come fanno metafisica e religione”31. In questa ri-creazione sta quel tanto di dionisiaco che l’arte conserva e che le con31
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 135.
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sente di continuare ad esistere, seppur senza quel fardello religioso con cui crebbe, e che ora tramonta come il Dio che muore. L’arte non è solo consolazione, è la ‘buona volontà di maschera’ che non rappresenta solo una difesa dalla verità insopportabile della nostra condizione, ma “un oltrepassamento ironico della nostra contrapposizione sussiegosa tra vero e falso”32. L’arte eccede il destino del tramonto che è proprio delle forme della ‘menzogna’ metafisica, e le supera in quanto, a differenza di quelle, è gioco, eccezione. Nota Vattimo che tutti i caratteri di eccedenza-eccezione dell’arte in Umano, troppo umano, come modi di staccare l’arte dalla serietà (unica valida) della conoscenza scientifica, cambiano significato quando, portando sino in fondo la sua opera di ‘smascheramento’ della morale-metafisica, Nietzsche smaschera anche la fede nella ‘verità’ come norma fatta per valere terroristicamente contro l’apparenza, la favola, e quindi anche contro l’esperienza estetica. L’arte, così, non è momentanea sospensione del reale, non è ‘eccezione’, è piuttosto l’azione destrutturate della volontà di potenza. Nei frammenti degli ultimi anni l’arte, che fa da modello alla volontà di potenza, non è tanto pensata in termini di ‘grande stile’, di forma conclusa, bensì nei termini descritti da Umano, troppo umano: irruenza di passioni che nei frammenti postumi diventa istinto sessuale, gusto della menzogna, tracotanza dell’artista. La stessa danza di Zarathustra non ha nulla dell’apollinea forma compiuta, è anzi caos e sfrenatezza dionisiaca mitigata solo dall’ironia. “Il riferimento a questi modelli del modo nietzscheano di considerare l’arte, sia nel periodo di Umano, troppo umano, sia nel periodo successivo allo Zarathustra, deve metterci in guardia dall’errore di pensare che volontà di potenza significhi anzitutto volontà di forma, di definitezza, 32
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 139.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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e quindi anche sempre dominio”33, come vuole l’interpretazione heideggeriana sulla quale s’innesta la lettura di Cacciari. Si è detto dell’aspetto ‘creativo’ che presiede alla forma artistica; essa non si serve di simboli ‘equilibranti’ delle passioni – alla stregua delle ‘cattive maschere’ –, bensì di meccanismi pulsionali che mettono in moto la vita emotiva piuttosto che placarla. In questo senso si deve parlare, secondo Vattimo, di volontà di potenza destrutturante, una volontà nichilistica in quanto scopre la menzogna dei pretesi valori e delle pretese strutture metafisiche, aprendo all’aspetto interpretativo che si impone quando “il mondo vero finisce per essere favola”. È questo gioco di farsi valere di interpretazioni senza fatti, cioè di configurazione simboliche che risultano da giochi di forze e che diventano esse stesse agenti dello stabilirsi di configurazioni di forze –“quello che Nietzsche chiama il mondo come volontà di potenza. Questo mondo è come «un’opera d’arte che si fa da sé»”.34 Nei frammenti per La Volontà di potenza, è interessante notare l’ambiguità sottesa al rapporto forza-forma nel maturarsi dell’opera d’arte. Da un’arte che diviene forma per l’azione di una forza che ordina e sottomette, semplifica, armonizza (e pertanto si inscrive nel passato della ratio socratica), si passa all’arte dell’ebbrezza, che comporta un’accresciuta propensione alla danza, un concatenarsi di mondi, di immagini che si stimolano a vicenda. Mentre da un lato sembra che la potenza che l’arte realizza sia legata al suo rappresentare il trionfo dell’organizzazione unitaria (il’grande stile’), dall’altro sembra che essa risieda nel potere dell’arte di tonificare le emozioni. Quest’ultima concezione dell’arte, come evidenzia Vattimo, 33 34
G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1980, p. 106. G. VATTIMO, Le avventure della differenza, op. cit., p. 105.
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funziona come destrutturante in quanto mette in moto gli impulsi del soggetto e quindi ne rompe anche le gerarchie consolidate, le stabilità, la ‘continuità’. La forma è fatta continuamente deflagare dal gioco delle forze, cioè dagli istinti del corpo, dalla sensualità, dalla vitalità animale. “In questo senso – scrive Vattimo – l’arte funziona come luogo del dispiegarsi della volontà di potenza, del dionisiaco; e anche come modello, in generale, di una volontà di potenza che non è in alcun modo identificabile con la ratio tecnocratica del mondo totalmente organizzato”35. La forza, così intesa, ha il compito di ‘smascherare’ la falsità e la violenza della forma dell’opera d’arte ancora troppo legata alle forme spirituali. Il ‘grande stile’ non è quindi l’unico destino possibile per l’arte vera. L’esempio di un’arte che resiste alla tentazione della forma compiuta, di un’arte che non può dominare il caos nella logica, è rappresentato dalla musica. Essa eccede la sua definizione formale, che non sa contenere il dionisiaco che vi agisce; la musica appartiene ad una cultura in cui è finito il feticismo del ‘grande stile’, perché è finito il regno dell’uomo della violenza. I frammenti sulla volontà di potenza come arte, secondo Vattimo, oppongono all’interpretazione neorazionalistica di Nietzsche una lettura che si può definire di ‘ermeneutica radicale’: “il mondo delle forme simboliche – la filosofia, l’arte, l’insieme della cultura – mantiene una sua autonomia nei confronti della razionalità tecnologica in quanto è il luogo in cui il soggetto, mentre la tecnica lo rende capace di disporre del mondo, dis-pone, disloca, destruttura se stesso come soggetto-assoggettato, come incarnazione ultima delle strutture di dominio”36. Per Vattimo è la volontà di potenza come arte che può 35 36
G. VATTIMO, Le avventure della differenza, op. cit., p. 119. G. VATTIMO, Le avventure della differenza, op. cit., p. 121.
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decostruire il soggetto, ultimo baluardo a difesa della metafisica, e così aprire a quella liberazione che Nietzsche sembra annunciare.
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Gianni Vattimo. La liberazione del soggetto e l’ontologia ermeneutica L’arte ha sempre avuto in sé l’ambizione alla libertà dal simbolo, ma l’arte per realizzarsi autenticamente come modello dell’esistenza umana (morendo pertanto come fenomeno momentaneo-ricreativo) ha bisogno della ‘decisione’ dell’eterno ritorno come idea della liberazione dal passato in quanto autorità. L’eterno ritorno è decisione più che accettazione: “Istituire l’eterno ritorno vuol dire […] produrre un’umanità capace di non vivere più il tempo in modo angoscioso, come tensione verso un compimento sempre di là da venire”37. Ne Il soggetto e la maschera Vattimo sottolinea più che l’aspetto ‘antistoricistico’ della dottrina dell’eterno ritorno (come aveva fatto nei saggi raccolti in Ipotesi su Nietzsche38), il suo carattere di negazione della trascendenza. Nell’ordinaria concezione del tempo, ogni momento è solo in funzione di quelli che lo precedono e lo seguono; ma ciò significa che non ha in sé un proprio significato, che non rappresenta quella coincidenza di essenza ed esistenza che è la condizione per poter ‘di nuovo volerlo’. L’annuncio dell’eterno ritorno è la risposta che Nietzsche dà a questa dottrina metafisica del tempo; secondo Vattimo esso “si pone in termini pratici di costruzione di un uomo ‘felice’ che, esperendo l’esistenza come unità di essere e significato, possa volerla 37 38
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 207. Si veda il capitolo III
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davvero eternamente ritornante”39. La teoria dell’eterno ritorno non è tollerata dalla coscienza, è avvertita come un’ipotesi abissale, poiché dinanzi ad essa la coscienza si scopre come pura e semplice interiorizzazione di rapporti di dominio, che la costituiscono come necessaria separazione di esistenza e senso. Il soggetto è legato alla metafisica della ratio socratica che si fonda sulla concezione del tempo come successione di attimi; non può essere un soggetto così inteso a decidere per l’eterno ritorno. La struttura lineare del tempo è la stessa struttura del dominio che Vattimo in maniera originale definisce struttura edipica del tempo: “ogni attimo tende a impadronirsi in qualche modo del senso annullando tutti gli altri, in un succedersi in cui si verifica una lotta analoga a quella che divide i figli dai padri”40. L’uomo del passato e l’uomo di oggi non sono uomini interi, ma solo frammenti, membra disperse, orride casualità. Questa casualità e deformità che caratterizza di fatto il passato, e che ci ostacola nell’impresa di costruire l’uomo intero proprio perché anche noi siamo uomini di quella specie, concerne il passato rispetto al suo contenuto. Il passato ha una duplice configurazione: è una presenza autoritaria, in quanto è fatto che, come già-stato, non può essere disfatto e annullato; ed è anche, sul piano del contenuto, una storia di autoritarismo che pesa sul divenire della coscienza dell’umanità che ci ha preceduto. Il passato è dominio come spirito di vendetta verso un passato che non si può cambiare. Su questa struttura si imbastiscono i rapporti di dominio del tipo servo-padrone, nel senso della riduzione dell’uomo all’utilità. Ed è infatti la struttura edipica del tempo la responsabile dei rapporti di dominio che separano il significato dall’esistenza del singolo ‘alienandolo’. Per 39 40
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 211. G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 250.
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Vattimo la condizione ‘impossibile’ della classe operaia è dovuta al sistema della ratio, “che mostra il suo vero volto nell’organizzazione capitalistica del lavoro, ma che si manifesta ad ugual titolo nell’imporsi, all’interno del singolo, delle strutture mentali e morali prodotte dal dominio, dalla metafisica alla morale platonico-cristiana”41. Nell’oltreuomo, che costituisce il superamento dell’uomo della ratio, la felicità è piena identificazione con il significato. La riappropriazione che l’oltreuomo opera del mondo del simbolico, grazie alla decisione per l’eterno ritorno, è in generale la liberazione di tutta l’attività dell’uomo da ogni assoggettamento. Vattimo lega la rilettura del significato ‘positivo’ del concetto nietzscheano di superuomo al recupero dello spirito dell’avanguardia. Nel saggio presentato al convegno su Nietzsche svoltosi a Cremona nel 197242, Vattimo evidenzia come le poetiche avanguardistiche negli anni intorno alla Prima Guerra siano riportabili, seguendo la lettura lukacsiana, alle posizioni ‘irrazionalistiche’ di Nietzsche. Già nel Geist der Utopie di Ernst Bloch l’avanguardia artistica e i temi che costituiranno poi la base dell’esistenzialismo, sono visti come sostanzialmente omogenei al progetto rivoluzionario di Marx. Vattimo nota come alle esigenze fatte valere dall’avanguardia si applichi il principio secondo cui “la fine del proletariato come classe si raggiunge solo con la realizzazione della filosofia, cioè appunto con l’attuazione di quell’etica nuova che sta all’etica tradizionale nello stesso rapporto di oltrepassamento del superuomo nietzscheano”43. Per Vattimo il punto di partenza e l’interesse decisamente politico dell’interpretazione di Lukacs rappresentano un punto di riferimento im41
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 289. G. VATTIMO, Nietzsche, il superuomo e lo spirito dell’avanguardia, in ‘Il caso Nietzsche’, Libreria del convegno, Cremona, 1973. 43 G. VATTIMO, Nietzsche, il superuomo e lo spirito dell’avanguardia, op. cit., p. 132. 42
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prescindibile; tuttavia gli esiti di questa lettura portano il superuomo nell’ambito dei ‘miti letterari’, lasciando da parte il suo effettivo messaggio ‘oltrepassante’. Il superuomo non è il frutto di una coscienza ‘reattiva’ piccolo-borghese, bensì è “un progetto umano alternativo che, in quanto è più attento alle dimensioni individuali, psicologiche e istintuali, dell’esistenza, può offrire al movimento rivoluzionario del proletariato indicazioni valide per la ricerca di quei contenuti morali alternativi che esso, per ragioni storiche e per le stesse condizioni di sfruttamento e dell’oppressione, non è stato in grado di elaborare”44. Ora, se il simbolo è un modo che ha l’uomo per impadronirsi del mondo, l’oltreuomo ha il diritto di creare simboli e dare nuovi tavole di valori, e questo diritto non gli deriva da un qualche radicamento remoto e mitico45, bensì dalla trasformazione storica dell’uomo maturata con l’eterno ritorno. Creando sensi, ordinando il mondo secondo la sua volontà e la sua immagine, l’uomo si impadronisce delle cose, e per questo tale attività è volontà di potenza come arte. Il simbolo è il ponte che supera la distanza tra il dentro e il fuori, e anzi realizza una condizione in cui di fatto il fuori non esiste più. La visione dell’oltreuomo come libero creatore di simboli ricorda la concezione del reale come un interno articolarsi, dividersi, alienarsi e ricomporsi dello spirito con se stesso, che si trova nella filosofia di Hegel. Tuttavia per Nietzsche il regno della libertà del simbolo non è un recupero od un ritorno presso di sé, ma il passaggio ad una condizione nuova. L’oltreuomo nietzscheano, in quanto identificazione di essere e senso, ha in sé i caratteri dello spirito assoluto hegeliano, ma in un modo che compren44
G. VATTIMO, Nietzsche, il superuomo e lo spirito dell’avanguardia, op. cit., p. 135. 45 Secondo le provvisorie tesi di Ipotesi su Nietzsche (si veda il capitolo␣ III) Nietzsche. Oltre l’abisso
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de e risolve le obiezioni esistenzialistiche e marxistiche all’Assoluto di Hegel. Innanzitutto lo ‘spirito assoluto’ di Nietzsche si realizza nel singolo, il quale non è semplice vittima di una storia che lo ‘travolge’, bensì si fa creatore della sua storia; d’altra parte, secondo Vattimo, “quest’oltreuomo-spirito assoluto è il risultato di una concreta opera di trasformazione storica, è il prodotto di una ‘rivoluzione’, di cui Nietzsche non ha certo visto i nessi con l’iniziativa rivoluzionaria della classe operaia”46. Con il saggio Al di là del soggetto del 1981, Vattimo viene chiarendo la sua interpretazione del superuomo nietzscheano. L’Übermensch non può essere inteso come soggetto conciliato perché non può essere pensato come soggetto. Come si è visto, la stessa nozione di soggetto è infatti uno degli obiettivi dell’opera di smascheramento che Nietzsche rivolge contro i contenuti della metafisica; in definitiva, anche il soggetto è qualcosa di prodotto, una cosa come tutte le altre, anzi “l’universo della metafisica, dominato dalla categoria del Grund, del fondamento, è modellato dalla credenza superstiziosa del soggetto”47, determinata dai rapporti sociali di dominio. In ciò risiedono le motivazioni che inducono ad escludere che l’Übermensch nietzscheano possa chiamarsi un soggetto conciliato. Lo smascheramento non conduce ad un recupero di strutture fondamentali-originarie, ma ad un esplicito generarsi della produzione stessa. Con la ‘morte di Dio’ non si accede alla pacificazione, alla conciliazione dialettica, alla vera struttura dell’essere, di contro a strutture false e alienate, bensì, per Vattimo, accade un intensificarsi e un generalizzarsi della produzione metaforica. La hybris dell’oltreuomo è questa liberazione del gioco delle forze, un’intensificazione violenta di tutta l’attività vitale, ma, 46 47
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, op. cit., p. 317. G. VATTIMO, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 33.
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come si vedrà, si tratta di una violenza anzitutto rivolta contro se stessi. La liberazione di queste forze e della loro violenza è intesa da Vattimo come un fatto fondamentalmente ermeneutico. Nietzsche avrebbe identificato con la ‘forza’, con la volontà di potenza, l’azione interpretante. Il superamento che compie l’Übermensch “non si riporta all’esercizio di una volontà di vita che si manifesti nella lotta per l’esistenza, o, nell’interpretazione heideggeriana, nella pianificazione tecnico-scientifica del mondo; è invece pensato sul modello della struttura caratteristica, secondo Nietzsche, dell’esperienza ermeneutica”48. Vattimo sottolinea l’aspetto ultrametafisico di questa ermeneutica che non apre all’essere attraverso lo smascheramento (ciò significherebbe cercare oltre la maschera l’essenza originaria secondo i canoni della visione metafisica), e anzi si presenta come un vero e proprio accadere dell’essere. La violenza di cui si parla non ha nulla a che fare con la struttura di dominio che è tipica della struttura della ratio, essa è l’hybris dell’interpretazione che il superuomo esercita consapevolmente, e che l’uomo della tradizione ha sempre respinto, rifugiandosi dietro i feticci delle forme spirituali. L’uomo che prende atto dell’evento della ‘morte di Dio’ è l’uomo dell’oltre, come Vattimo suggerisce di intendere l’oltreuomo nietzscheano per chiarire che il superamento compiuto travalica le fasi dialettiche. Quest’oltre sta ad indicare il disincanto dalla separazione tra essere e apparire, come dall’illusione che la conciliazione possa accadere; rimane la mera apparenza, ma il termine indica soltanto che ogni darsi di qualcosa come qualcosa è prospettiva, che si sovrappone violentemente ad altre, mantenute come necessarie per un bisogno interno di fondamento. A questo punto è interessante notare come l’affermazione di Nietzsche secondo cui volontà di potenza è attri48
G. VATTIMo, Al di là del soggetto, op. cit., p. 39.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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buire al divenire i caratteri dell’essere, sia da intendersi ponendo l’accento sul divenire piuttosto che sull’essere. È al divenire che devono essere dati gli attributi propri dell’essere, poiché si è chiarito che quanto si dà come essere è, in fin dei conti, divenire, e cioè produzione interpretativa. In quanto esplicitazione della hybris costitutiva di ogni esperienza, dell’impossibilità di conciliazione fra essere e apparire, della riduzione dell’essere a divenire, si comprende come la dottrina nietzscheana dell’Übermensch costituisca la liquidazione di ogni filosofia della ‘riflessione’, come ricomposizione del soggetto con sé, come Bildung nel senso che il termine ha nella cultura moderna. L’inconveniente che si può produrre consiste nel ritenere l’oltreuomo un’assolutizzazione dell’apparenza ovvero la ‘glorificazione del simulacro’. Ciò, secondo Vattimo, dipende dall’attribuzione al divenire dei caratteri ‘forti’ dell’essere, e dal rifiuto del divenire come unico essere (si vedrà di che tipo di essere Vattimo parla). Vattimo vede in questo un ‘estremo equivoco metafisico, poiché comporta l’identificazione della ‘forza’, intesa come creatività e libertà simbolica che si oppone alla limitazione sociale; inoltre in questa identificazione della ‘forza’ si impongono i caratteri propri dell’essere metafisico, per quanto rivolti al simulacro. Vattimo risolve l’equivoco spostando l’attenzione sulla concezione sperimentale dell’oltreuomo. “Infatti, ciò che non si spiega, in una prospettiva di ultraumanità come emancipazione di una attività creativa senza limiti, è il fatto che l’oltreuomo esercita la propria hybris anzitutto su se stesso”49, prendendo atto ‘eroicamente’ della natura ermeneutica dell’essere e dell’esperienza. Alla fine dello smascheramento, l’esperimento consiste nel porsi la domanda se e come “la scienza sia in grado di fornire obiettivi all’agire, una volta che 49
G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 43.
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ha dimostrato di poterli assumere e distruggere”50. Ma in che modo possiamo stabilire se l’esperimento ermeneutico è riuscito oppure fallito? Certo non possiamo affidarci alla misura della corrispondenza dell’interpretazione con l’essenza della cosa. Nello scritto Su verità e menzogna in senso extramorale, del 1873, pubblicato postumo, Nietzsche sostiene che il mondo della verità si costituisce quando, con il sorgere della società organizzata, un certo sistema metaforico viene scelto come canonico e imposto all’osservanza di tutti. La tesi ermeneutica del tardo Nietzsche introduce, d’altro canto, la nozione di ‘forza’ che “significa non solo l’accentuazione dell’essenza ‘nominalistica’, impositiva, dell’interpretazione, ma anche la messa in luce del suo carattere ‘differenziale’; una forza non è mai assoluta, si misura e dispiega solo in relazione alle altre”51. Si evince che un gioco di forze precede la costituzione dei soggetti, e che quindi non c’è una lotta tra questi per il dominio, quasi che fossero gli ultimi e stabili fondamenti. Quest’ermeneutica radicale sfugge alla definizione della volontà di potenza come dominio, perché essa richiede soggetti che siano punti metafisici ultimi. Vattimo crede di poter vedere nel lavoro di preparazione per il Wille zur Macht, l’abbozzo di un’ontologia ermeneutica: un sapere dell’essere che parte dallo smascheramento dei valori, per giungere alla chiarificazione di una teoria delle condizioni di possibilità di un essere che si dia come risultato di processi interpretativi. Un’ontologia ermeneutica ci consegna un’oltreuomo scisso; un Io di cui fanno esperienza l’arte e la cultura d’avanguardia, non solo nelle loro manifestazioni più emblematiche, come l’espressionismo, ma anche in figure più classiche come Musil. Altro aspetto dell’oltreuomo è il 50 51
F. NIETZSCHE, La Gaia scienza, 7. G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 47.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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suo ‘buon carattere’ (di cui si parla in una pagina di Umano, troppo umano) consistente nell’aver abbandonato le certezze metafisiche senza nostalgie reattive, e nella capacità di apprezzare la molteplicità delle apparenze come tale. Vattimo vede nella condizione ultraumana del soggetto scisso la condizione ‘normale’ dell’uomo post-moderno dell’intensificazione della comunicazione, liberata sia a livello ‘tecnico’, sia a livello ‘politico’. Si è detto che l’ontologia ermeneutica non è solo una dottrina antropologica, ma soprattutto una teoria dell’essere, che ha tra i suoi principi l’attribuire al divenire il carattere dell’essere. Per sperimentarsi la volontà di potenza – ovvero la hybris interpretativa – ha bisogno di un essere debole, poiché non più modellato sulla stabilità del soggetto. In definitiva sembra che il Wille zur Macht ponga le premesse per “un’ontologia che rinnega proprio tutti gli elementi di ‘potenza’ dominanti nel pensiero metafisico, nella direzione di una concezione ‘debole’ dell’essere; la quale, nel suo collegamento con l’Übermensch inteso come fatto ermeneutico-comunicativo, si presenta come l’ontologia adeguata a rendere conto, in modo insospettato, di molti aspetti problematici dell’esperienza dell’uomo nel mondo della tarda modernità.”52
52
G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 50.
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Capitolo V
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Ermeneutica e ‘morte di Dio’
L’ermeneutica interminabile “L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio?» gridò «ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?…»”1 . L’uccisione di Dio si estende ad uccisione di ogni ‘dio’, e il vuoto che questa procura è immenso, incommensurabile. Non esiste più alcun orizzonte, tutto è perduto in un mondo senza verso, anche il soggetto che in esso vive è perso, smarrito, frammentato. Si apre il baratro della possibilità piena, il velo si squarcia al nulla non più inteso come negazione, come assenza, bensì come 1
F. NIETZSCHE, Gaia Scienza, 125.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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totale alterità. Il nulla di cui si parla nell’aforisma 125 de La Gaia Scienza non è ciò che si oppone dialetticamente all’essere, giacchè esso ha la forma proprio dell’essere che lo nega; è altro, è l’abisso originario che l’essere ha inabissato. Ma come giunge Nietzsche a questa consapevolezza? Qual è il soggetto che sta dinanzi all’abisso? Cosa muore con Dio? Per Nietzsche la filosofia è in primo luogo “la tensione ad un dominio unitario”2 , essa “è un mezzo per giungere alla quiete nel flusso incessante, per divenire coscienti in dispregio all’infinita pluralità di sé in quanto tipi stabili”. La filosofia risulta quindi quiete e tensione al dominio unitario-unificante. Questa fondamentale tendenza ad uguagliare è costituita “dall’utilità e dal danno, dal risultato” al livello in cui questa tendenza possa “soddisfarsi, senza nel contempo negare la vita o metterla in pericolo”3 . Questa pratica di riduzione si basa sul desiderio di certezza. Il filosofo deve trasformare la tensione, la lotta, la divisione, nella pienezza della ‘metafora conoscitiva’ che obbedisce alla pulsione unificante della conoscenza. L’indecidibilità delle contraddizioni reali deve essere rimossa, perché dietro queste contraddizioni c’è la scissione dell’io, l’impotenza, la morte. E invero Dio, l’essere, Io, altro non sono che solidificazioni utili, costituiscono il velo che la filosofia stende sulla pluralità del reale per unificarlo nella cosa. Il soggetto, come qualsiasi altra cosa che sia oggetto di conoscenza, non è descrivibile come un punto fermo da cui partano o a cui arrivino o per cui passino infinite linee, ma può essere indicato soltanto come luogo mobile dove infinite linee si incontrano: “L’io non è la posizione di un essere rispetto a più esseri (istinti, pen2
F. NIETZSCHE, Das Philosophenbuch, 90, a cura di A.K. Marietti, Paris, Aubier-Flammarion, 1969. 3 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1885-87. 140
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sieri e così via); bensì l’ego è una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta come ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda ad un mondo esterno ricco di influssi e di determinazioni; il soggetto è ora in un punto ora in un altro”4 . Essere e soggetto sono state, in quanto risultato di lunghi processi di semplificazione, funzioni utili alla sopravvivenza, e la verità era da rintracciarsi all’interno di questa ‘costruzione’. L’opera di Nietzsche è alla ricerca di una pratica e del luogo della non-verità, vale a dire del luogo del senso e del reale. Negli anni che precedono la Nascita della tragedia, Nietzsche crederà di aver individuato questa pratica nell’arte. Se la filosofia ha il compito di negare la pluralità e risolverla nella ‘schiavitù della logica’, nello schematismo dei concetti determinanti, essa ha però in sé un elemento illogico, la metafora. Per Nietzsche la filosofia è un’arte che lavora non sul reale, ma sulle metafore, sull’aspetto imitativo, mimetico e quindi materiale delle metafore. La filosofia dei concetti pietrifica le impressioni e non lascia spazio ad alcuna traduzione, ad alcuna sfumatura. Ma per Nietzsche ogni conoscenza reale “è essenzialmente illogica”5 , nel senso che non c’è conoscenza peculiare senza metafora e ciò comporta il riconoscimento che “il pathos della pulsione di verità sta nell’osservazione che i differenti universi metaforici sono divisi e in conflitto fra loro”6 . L’arte ha la funzione di operare una breccia nel velo della verità presentando nuove metafore, al fine di ricostruire quella ‘polifonia’ che aveva giustificato la filosofia presso i Greci, prima di Socrate. L’attività artistica scopre dunque che gli universi metaforici sono in conflitto fra loro, e 4
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1879-81. F. NIETZSCHE, Das Philosophenbuch, op. cit., p. 150. 6 F. NIETZSCHE, Das Philosophenbuch, op. cit., p. 149. 5
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che questo conflitto si gioca, in fondo, al livello della physis originaria. La nascita della tragedia sarà proprio la costruzione e la scoperta di Dioniso in quanto complesso di forze irrimediabilmente antagonistiche. Come nota Franco Rella, “l’arte ci apre il luogo di questo conflitto, lo spazio estetico, lo spazio della traduzione, lo spazio di una lingua del tutto straniera, che si oppone alla certezza e all’intraducibilità del linguaggio filosofico”7 ; ma presto Nietzsche constaterà che l’arte ha la medesima funzione della filosofia, ovvero di ridurre l’originario abisso in un conflitto soltanto metaforico. Arte e filosofia sono entrambe arti dell’illusione, arti della pacificazione necessaria: “[…] c’è solo un mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso… Un mondo così fatto è il vero mondo… Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa ‘verità’, cioè per vivere…”. Il non-detto della metafora, sia essa concetto od espressione artistica, rimane insondato, rimane oltre, non come il significato rispetto al segno – ché questa è la forma della verità ‘mondana’ –, bensì come l’assolutamente altro che si fugge. Dopo la ‘morte di Dio’, disponiamo di un mondo senza senso, la verità ha perso il suo significato, la forma ha smarrito la sostanza che la reggeva, non possiamo più ambire al raggiungimento di una verità – giacché non ve n’è una sola –, tutto diviene prospettiva, interpretazione. Quando Nietzsche scrive: “io non contrappongo ‘illusione’ a ‘realtà’, ma prendo viceversa l’illusione come realtà”8 , bisogna tener presente la pagina del Crepuscolo degli idoli: “Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?… Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!”9 . Ovvero Nietzsche è co7
F. RELLA, Dallo spazio estetico allo spazio dell’interpretazione, in ‘Nuova corrente’, 1975, p.406. 8 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi,1884-1885. 9 F. NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli, op. cit., p.47. 142
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sciente che nulla esiste oltre l’apparenza, e proprio per tale motivo l’apparenza perde il suo carattere peculiare. Ma l’apparenza non trasferisce al suo interno il vero che si era estraniato in una sostanza ultraterrena, rimane anzi spoglia di quel significato cui rimandava, modifica il suo stato ontologico e richiede un approccio diverso. Se Nietzsche intende prendere l’illusione come realtà, non significa che stia compiendo una sorta di fuga romantica dal reale. Egli non si rifugia nell’irrazionale, semplicemente constata il cambiamento ontologico avvenuto: “Il mondo è divenuto per noi ancora una volta ‘infinito’: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite. Ancora una volta il grande brivido ci afferra…”10. Come si è visto, anche il soggetto da cui parte l’interpretazione è coinvolto in questo cambiamento; come qualsiasi altro elemento e fenomeno di questo mondo, risulta essere un complesso, mai determinabile, di segni senza rimando: il soggetto diventa costellazione di maschere e fantasma, nel senso che la condizione della maschera diventa l’unica condizione possibile; la maschera non nasconde nulla, se non altre maschere. Essa propriamente non è travestimento, “ma persona, ossia apparenza in cui tutto il volto, tutta l’essenza, la vera realtà, è stata risucchiata, risolta”11. In quanto mascherata continua, il soggetto diviene fantasma a se stesso, ossia anch’esso oggetto di interpretazione. Qualsiasi cosa che esiste, soggetto interpretante incluso, è un complesso in divenire, pertanto è evidente che l’interpretazione diventa un processo interminabile. Si fa chiaro come questa ermeneutica interminabile, proprio in quanto ermeneutica senza fondamen10
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, 374. G. PASQUALOTTO, Nietzsche o dell’ermeneutica interminabile, in ‘Saggi su Nietzsche’, Angeli, Milano, 1988, p.3.
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ti, comporti il massimo del coraggio, e conduca a quella condizione-limite di ebbrezza e di terrore che connota la vita come esperimento.12 Sorgono tuttavia problemi allorquando si considera la volontà di potenza come motivo risolutore di questa assenza di fondamenti, quasi che essa possa costituire il puntello su cui imbastire un’interpretazione definitiva. Una volontà di potenza così intesa non sarebbe altro che un residuo metafisico, un incondizionato che determina il condizionato. Ma Nietzsche è del tutto avverso ad una conclusione del genere: “Mi sembra che sia importante che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità, di una qualunque forza, di un incondizionato; non si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo Dio”13. Pasqualotto suggerisce di intendere la volontà di potenza come volontà di interpretazione; del resto così scrive Nietzsche: “la volontà di potenza interpreta: nella formazione di un organo si tratta di un’interpretazione; essa traccia confini, determina gradi diversi di potenza […]. In verità l’interpretazione stessa costituisce un mezzo per impadronirsi di qualcosa. Il processo organico presuppone costantemente l’interpretare”14. La volontà di potenza, come ‘soggetto’ dell’interpretazione, subisce, al pari di qualsiasi altro soggetto, un processo inarrestabile di deflagrazione e di complicazione, per cui può presentarsi solo nella figura aperta di ‘puntuazioni di volontà’, come linee lungo le quali si generano le diverse interpretazioni. Un’altra difficoltà che si può produrre su questo accidentato sentiero che è il pensiero di Nietzsche, riguarda l’eterno ritorno. Se esso viene inteso come l’assolutamente 12
Quello stare dionisiaco che fa della filosofia di Nietzsche una Experimental-Philosophie 13 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi,1885-1887. 14 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi,1885-1887. 144
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certo, finisce per costituire una sorta di imperativo categorico da cui non si può prescindere, costituendo quel Grund definitivo che Nietzsche, come si è visto, non accetta. L’eterno ritorno va visto come una ‘possibilità’: la più ‘necessaria delle possibilità’; quella possibilità che definitivamente fa precipitare nell’abisso, nell’ab-Grund.
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Lo stile e il fondamento La dialettica senza conciliazione di Nietzsche parla il linguaggio dell’aforisma inteso in modo puramente classico come definizione relativa. L’aforisma definisce nel senso che divide. La ‘dialettica’ dell’aforisma è senza conciliazione, è téchne del differenziare, del distinguere del separare. Secondo Cacciari, “questo movimento è infinito – questo definire-distinguersi, formare-bandire, unire-separare non è un processo dialettico verso la conciliazione – ma è sentito come destino, come tragedia. […] L’aforisma è il rapporto con l’esserci colto tragicamente: non semplice mutevolezza, non semplice scorrere – ma definizione degli opposti e della loro relatività”15. La definizione aforistica non pretende alcuna onni-rappresentatività – anzi, vuole valere come critica assoluta di tale pretesa. L’aforisma non solo mostra differenze, bensì le pone in essere. Quella che Mittner definisce struttura a ‘sorpresa’ dell’aforisma (“che finge di voler dire una cosa e d’improvviso dice una cosa diversissima, spesso proprio l’opposto”16), mostra un’ambivalenza dionisiaca della physis che in esso parla; detta struttura cerca di comprendersi e compren15
M. CACCIARI, Aforisma, tragedia, lirica, in ‘Nuova corrente’, 1975, p. 469. L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione, Tomo primo, Torino, p. 828 16
Nietzsche. Oltre l’abisso
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dere quest’ambivalenza con quanti più occhi è possibile. È la stessa volontà di potenza che agisce sul testo metafisico aprendolo alla differenza che questo ha sotterrato: la scrittura nietzscheana de-costruisce la ragione dialettica dal punto di vista della proposizione aforistica, “della definizione tragica del divenire”17. Tuttavia l’aforisma per poter dire deve definire, delimitare, giacchè solo nello spazio definito la parola aforismatica ha il potere di rivelare il fondo oscuro dove Apollo e Dioniso sono la medesima cosa. L’aforisma de-costruisce il lògos evocando il potere dell’immediatezza propria della Parola Viva, ma rimane comunque conficcata nello spazio della scrittura. Ciò riconduce alla natura dionisiaco-ambigua dell’aforisma: “La sua forma è inscindibile dalla Parola Viva e dal suo potere, eppure non è tale che nella ‘maschera’ della scrittura – è e non è Parola Viva – ‘riproduce’ la Parola Viva, la riporta, la ricorda. L’aforisma ribadisce così la sua organica contraddittorietà, il suo essere-differenza.”18 Ciò che dell’aforisma maggiormente avvicina alla Parola Viva, è l’emotività di cui esso si nutre e che esso esprime nella sua natura musicale. Proprio nella natura musicale dell’aforisma consiste l’espressione più colma della Memoria della Parola Viva, e questo per l’allontanamento dalla definizione definitiva che un aforisma isolato può costituire. Si è detto che l’aspetto dell’aforisma nietzscheano è sicuramente definitorio, ma va tenuto sempre nella considerazione della ‘serie degli aforismi’; nella serie e nella ‘ripetibilità’ degli aforismi 19 si fonda la musicalità dello stile di Nietzsche, e la musica è la Memo-
17
M. CACCIARI, Aforisma, tragedia, lirica, in ‘Nuova corrente’, 1975, p. 473. M. CACCIARI, Aforisma, tragedia, lirica, in ‘Nuova corrente’, 1975, p. 475. 19 Per Mittner correlativo estetico dell’eterno ritorno. L. MITTNER, op. cit., p. 840. 18
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ria per eccellenza della Parola Viva, quella dei poeti che precedettero la filosofia di Socrate. Ma come può Nietzsche superare il lògos dialettico, ‘fatto di parole’, utilizzando la parola stessa? L’aforisma soffre del suo carattere scritturale; è un fendente che apre alla differenza, che smembra il discorso filosofico-sistematico, in un processo che però non può esaurirsi in questa pratica ‘distruttiva’. L’aforisma va superato dalla vita. Per comprendere quest’ultima asserzione è necessario tornare alla nascita della parola. Essa, per Nietzsche, sorge sulla guerra degli opposti che è il fondamento della cosmodicea di Eraclito: la parola nasce come pensiero agonistico, come gara, come guerra continua che deve essere allontanata, trasferita nell’agone teatrale, affinché la hybris (violenza originaria che sempre minaccia di presentarsi) rimanga arginata nella finzione. Nietzsche scorge nella tragedia l’ambito nel quale il dionisiaco non è stato del tutto ridotto all’apollineo, nella tragedia la parola vive nel suo originario contesto musicale. Ma il teatro non è il solo luogo ove si trasferisce la violenza dell’opposizione. La pòlis – della democrazia, anzitutto – è lo spazio dello scontro, della gara tra la volontà di potenza dei diversi discorsi; qui la parola ha la forma dell’aforisma. Lentamente il maturarsi dell’agone politico spoglia di significato la tragedia. La minaccia è sempre presente ma, secondo Nietzsche, è posta in essere proprio dall’uomo. La paura del Fuoco, cui i contrari sono destinati, ha frainteso questo mondo ed ha attribuito ad esso il carattere morale: “il mondo è il gioco di Zeus, o anche, con un’espressione fisica, è il gioco del fuoco con se stesso: in questo senso l’unità è al tempo stesso la pluralità”20. Solo dal punto di vista dell’uomo limitato i conflitti del mondo possono 20 F. NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in Opere, volume III, tomo II, p. 297.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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sembrare effetti di colpe moralmente determinate o indistinguibile caos. L’aforisma si staglia sullo sfondo del mondo come gioco di Zeus, esso ne definisce la necessità, ma ride di chi lo prende teleologicamente o moralmente. La dimensione propria dell’aforisma nietzscheano, lungo la de-costruzione del Logos, è quella propria del riso e della liberazione: abbattere ciò che ci sottrae all’apparenza, liberarci alla danza. Ma come nota Cacciari, “in questa dimensione l’autentica serietà tragica del riso e del liberare non può essere detta. Le ragioni decisive di questo aforisma tacciono: nei suoi limiti l’intuizione che gli dà senso non può essere contenuta”21. Certo la forma poetica, per il suo carattere più strettamente musicale, costituisce un superamento dell’aforisma22, tuttavia porta con sé la propria scrittura. Anch’essa è destinata quindi al silenzio che si apre all’ascolto della Parola Viva23. Nel dibattito filosofico italiano, circa il tema dello stile in Nietzsche, molta attenzione è stata rivolta alle tesi originali di Jacques Derrida. “Con gesto più nietzscheano che heideggeriano, bisognerebbe aprirsi ad una différance che non fosse ancora determinata nella lingua dell’Occidente come differenza tra l’essere e l’essente”24. Con queste parole, già in Positions, Derrida indicava il problema che avrebbe sviluppato in Eperons. La differenza tra ente ed essere rimane nell’ambito della metafisica; lo stesso Heidegger ammette di dover ricorrere al linguaggio della metafisica anche nel momento in cui la decostruisce. In Eperons, la tensione verso il lavoro decostruttivo della metafisica giunge a mettere in scena la conflittualità 21
M. CACCIARI, Aforisma, tragedia, lirica, in ‘Nuova corrente’, 1975, p.␣ 483. Secondo quanto sostiene Cacciari. 23 In accordo con le tesi di Colli esposte nel Capitolo II. 24 J. DERRIDA, Posizioni, tr. it. acura di G. Sertoli, Verona 1975, p. 48. 22
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della différance: dilapidare il tesoro della contraddizionedifferenza metafisica, far ‘crepare’ l’orizzonte semantico della différance come produzione di una disseminazione interminabile, che renda impossibile ormeggiarsi al significato essenziale e alla scrittura come sua illustrazione. In Eperons, Nietzsche non è solo il luogo di una critica alla dialettica hegeliana, la quale riassume in sé la differenza in quanto contraddizione funzionale al sistema; è soprattutto la ragione della disseminazione della différance, come sfondamento dell’orizzonte metafisico. Per recuperare il vero Nietzsche è, per Derrida, necessario un ‘doppio gioco’ che, in prima istanza, utilizzi a pieno la lettura di Heidegger fino al suo esaurimento: “sottoscrivere questa interpretazione senza riserve; in un certo modo e fino al punto in cui, pressoché perduto il contenuto del discorso nietzscheano alla domanda sull’essere, la sua forma ritrovi la sua assoluta estraneità, in cui finalmente il suo testo richieda un altro tipo di lettura, più fedele al suo tipo di scrittura: Nietzsche ha scritto ciò che ha scritto. Ha scritto che la scrittura – la sua anzitutto – non è soggetta originariamente al Logos e alla Verità”25. Eperons costituisce la seconda mossa del ‘doppio gioco’, l’oltre Heidegger: qui il discorso sulla scrittura incontra quello dello stile e questo la figura della donna. La scrittura è sovrana, insegna la sua verità, non vi è assoggettata; non si limita a sospendere la trama del discorso significativo, bensì diviene la sua verità. Lo stile, in quanto dimensione in cui si illumina detta verità, agirebbe l’eccesso della metafisica. Lo stile si presenta, si mostra, e ad un tempo protegge e difende. In Nietzsche lo stile è l’aforisma nel suo significato autentico. Nel problema dello stile vi è, in Nietzsche, il greco. La dimensione greca del pensiero nietzscheano si apre 25 J. DERRIDA, Della Grammatologia, tr. it. di R. Balzarotti, Milano 1969, p. 23.
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nello stile con maggiore virulenza che in qualsiasi altra dimensione. L’aforisma non è solo il segno dell’antisistematicità del suo pensiero, è soprattutto la freccia scoccata che coglie al cuore l’arciere; la freccia che non trascende verso una verità ma curva la sua traiettoria per ripetersi incessantemente. L’aforisma è chiamato a definire la propria verità, la verità dello stile. Derrida ravvisa un certo scambio tra lo stile e la donna di Nietzsche26. All’ineffabile viandante che è l’uomo, sembra che presso le donne abitino quella beatitudine e quel ritiro in se stessi cui egli anela: in ciò consiste l’incanto che esse producono. La donna seduce per la distanza che annuncia e per il gioco che promette: l’allontanamento dal lontano, il radicale distacco da ogni Proprio e da ogni Fondamento. La donna è l’abisso della distanza, la distanza in sé; essa inghiotte ogni essenzialità, affonda la ricerca del Fondamento. Se la verità, come Nietzsche suggerisce nella prefazione ad Al di là del bene e del male, è una donna, essa seduce per la distanza e conduce nello scarto abissale, nella nonverità. La donna squarcia il velo delle verità metafisiche giocando l’uomo-filosofo. La donna è la bella verità della superficie che la Verità oscurava e velava, che l’uomofilosofo nascondeva. In questa inessenzialtà della donna, Derrida legge il prendere forma dello stile: la donna seduce verso l’inessenzialità della scrittura, verso l’incontro col discontinuo. La non-verità della verità, che è la verità della donna, ‘gioca’ la differenza metafisica e si apre alla différance disseminante, dove si volatilizza l’identità e la persistenza dell’Io. La rottura del velo della Verità ri-vela l’alchimia dei simulacri, la loro scrittura, o il loro gioco, che in Nietzsche è la verità della non-verità. 26
J. DERRIDA, Eperons, a cura di S. Agosti, Venezia, 1976.
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Il problema dello stile diventa il problema di un’azione ‘spronante’, più potente di ogni contenuto. Le molteplici verità che affondano la Verità appartengono alla forma della donna – come distanza di cui essa è simulacro␣ –, e pertanto non appartengono a nessun Fondamento: eccedono la metafisica. La sottrazione della dimensione della scrittura e degli stili al Proprio è il punto critico di Nietzsche che ‘eccede’ l’ermeneutica heideggeriana. Se col termine ‘ermeneutica’ intendiamo unicamente il gesto che prova un’appartenenza, che riconduce ad un soggetto, allora qui il disegno ermeneutico appare spezzato. Ma non è lecito affatto compiere una simile riduzione. Nel nome stesso di ermeneutica vive la possibilità del ‘doppio gioco’. Delineare la problematica dimensione che sfugge all’appartenenza è anche un interpretare – indicare nel problema degli stili la rottura del Velo della Verità; evidenziare nella scrittura nietzscheana la mossa che scopre la Verità come velo che occulta l’aperto della superficie, è anche ermeneutica. Quest’ultimo modo di intendere l’ermeneutica può spiegare il senso dell’aspirazione nietzscheana nei confronti della metafisica e lo spiega come sfondamento del fondo, del Grund metafisico. Per operare lo sfondamento Nietzsche intende recuperare la Parola viva27 che la rete dialettica ha fatto decadere a semplice momento, rendendo la Parola segno di un ‘Altro’, superiore e fondante. Detto ‘Altro’ è il Logos che taglia i ponti alle sue spalle, che nasconde ogni richiamo all’immediatezza della Parola. Il problema dello stile di Nietzsche è quello di una Parola capace di superare il Logos dialettico in cui è imprigionata. Ma l’aforisma è, letteralmente, l’utopia di questa Parola. Infatti, l’aforisma è scrittura e quindi già forma di 27
Si veda a tal proposito Dopo Nietzsche (capitolo II).
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espressione-acquietamento della Parola viva; inoltre l’aforisma, per la sua propria essenza, decide, delimita, isola, e, così facendo, esprime il principio stesso della Volontà di Potenza. L’aforisma rimane, quindi, un ‘tendere-verso’. Sebbene esso mostri l’intenzione di accedere alla Parola viva, rimane espressione della Volontà di Potenza. Tuttavia appare evidente l’impossibilità di ridurre la scrittura aforistica ad un ‘voler-dire’; ciò non significa la sua equivocità, la definisce, anzi, in quanto polifona: una molteplicità irriducibile di mire e intenzioni le quali vanno interpretate. E qui interpretare significa indicare negli stili di Nietzsche una chiave della critica del Soggetto, del lavoro decostruttivo della metafisica. In Nietzsche risuona l’ interminabilità della riduzione al Proprio. Esso è il Fondamento, o l’origine inesistente, la verità della non-verità: è dunque ab-Grund, la cui radice non può che essere il Grund. Il Grund che si è inabissato nell’ab-Grund non per questo è sparito. L’aforisma potrebbe definirsi come il gesto che sfonda il Fondamento incessantemente, ma come nota Cacciari, l’inabissarsi del Grund nell’ab-Grund porta nell’ab-Grund anche la freccia che ha sfondato il Fondamento: “questo estremo sfondamento può definirsi, da un lato, soltanto in rapporto al Grund inabissato, e perciò è costretto a parlare in negativo, dell’abGrund, e, dall’altro, non può in nessun modo ri-appaesare nell’ab-Grund l’intenzione, la volontà che l’ha mosso. Scritture, stili, donne, sfondano il Fondamento interminabilmente, ma, ripetendo lo sfondamento, ripetono il Grund stesso, esattamente come l’aforisma ripete la Volontà di Potenza”28. Nel termine ab-Grund risuona la negativité sans emploi di Bataille. L’ab-Grund è negazione del Grund – ma questa negazione è, per altro verso destinata dalla storia stes28
M. CACCIARI, Sul Fondamento, in “Centauro”, 1981, p. 132.
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sa della metafisica. La vicinanza inesorabile dell’ab-Grund ha questa ragione. La domanda sul Fondamento si compie nell’ab-Grund. La negatività che qui risuona si trova perciò di fronte ad uno sfondamento compiuto. Questa storia è finita. Inabissatosi il discorso della distanza, il negativo rimane sans emploi. Il problema abissale di Nietzsche è uscire dal negativo, poiché dopo Hegel il negativo è ‘senza impiego’, e secondo Cacciari, attorno a questo centro gravitazionale, attorno a questa negatività riconosciuta, ruotano gli aforismi sull’eterno ritorno e sul superamento del nichilismo: “Se la dif-ferenza è bloccata alla semplice negatività, se la sua azione è mera disseminazione, con questo termine si ripercorre a ritroso la storia della metafisica da Nietzsche a Hegel. Se la differenza è, invece, interrogata nella sua costitutiva polivocità, interpretata secondo i termini che la compongono, allora essa apre al riconoscimento di una negatività nel tutto diversa da quella posseduta dalla Aufhebung”29. Posto che il testo nietzscheano non si lascia leggere come un testo metafisico secondo il rapporto significante-significato, e nemmeno come un testo ‘semplicemente’ poetico, in che senso rappresenta un modo di rammemorare la differenza (come vuole la lettura di Derrida) che il discorso metafisico ha da sempre dimenticato? Il linguaggio poetico-filosofico di Nietzsche, rifiutando di descrivere l’essere in termini concettuali come qualcosa di stabilmente dato al di fuori del discorso, riconosce e pratica la differenza come interna al discorso stesso. Il significato è, per Derrida, un fatto del significante, un gioco di linguaggio, accade come prodotto di differenze interne al discorso. Ma perché questo modo di concepire e praticare il rapporto significante-significato sarebbe un pensiero memore della differenza? Secondo l’interpretazione 29
M. CACCIARI, Sul Fondamento, in “Centauro”, 1981, p. 133.
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di Derrida, Nietzsche sarebbe un filosofo della differenza giacché nel testo nietzscheano la differenza non è superata, essa è anzi rammemorata in quanto è ‘messa in atto’. Essa non è un puro e semplice contenuto del discorso; il discorso la ricorda mettendola in pratica. Nota Vattimo che ciò che consente a Derrida di ‘definire’ il discorso filosofico-poetico di Nietzsche un accadere della differenza, si riporta in ultima analisi ad un peculiare carattere ripetitivo di questo discorso: “…questa rimemorazione della differenza pensata sul modello della ripetizione si fa forte, in questi interpreti di Nietzsche (Derrida e quanti seguono la sua ipotesi di lavoro), della dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno, letta appunto come una pura e semplice teoria della ripetizione”30. Vattimo ritiene che la ripetizione porti con sé il carattere della ‘rappresentazione’ – “niente è più rappresentazione della messa in scena”31 –; l’ arci-struttura della differenza prende il posto del significato, dell’idea platonica, dell’ontos on di tutta la metafisica: “il discorso dell’uomo non può che muoversi nella differenza, o dimenticandola, […], o ripetendola sempre di nuovo nel discorso poetico”32. Ma se il pensiero che ricorda la differenza possiede una qualche superiorità, rispetto a quello che invece la dimentica, ciò si può capire solo in riferimento al valore della soggettività consapevole. In quest’ottica Derrida si può riportare alle meditazioni che presiedono all’Esistenzialismo di ‘prima maniera’, una concezione dell’essere non più inteso come pienezza, presenza, fondamento, ma pensato invece come frattura, assenza di fondamento, in definitiva travaglio e 30
G. VATTIMO, Niezsche e la differenza, in Le avventure della differenza, op. cit., p. 82. 31 G. VATTIMO, Niezsche e la differenza, in Le avventure della differenza, op. cit., p. 83. 32 G. VATTIMO, Niezsche e la differenza, in Le avventure della differenza, op. cit., p. 83. 154
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dolore (non è un caso, nota Vattimo, che gli interpreti che si ispirano a Derrida privilegino nelle loro opere gli scritti del Nietzsche giovane, nei quali appunto la presenza di Schopenhauer è ancora viva e dominante). Difficilmente si lascia inquadrare in questa ‘filosofia della finitezza’ il Nietzsche dell’oltrepassamento. Vattimo è critico rispetto alle posizioni di Derrida innanzitutto per la sua diversa interpretazione dell’eterno ritorno: “questa dottrina (l’eterno ritorno) sembra tutto l’opposto della ripetizione o messa in scena della differenza come rimemorazione di una frattura che non può mai essere superata perché è l’arci-struttura che fonda e apre la storia stessa; […] l’eterno ritorno, lungi dall’essere ripetizione e messa in scena della differenza, è la fine della storia come dominio della differenza”33. Ma se non si accolgono le tesi di Derrida bisogna allora tornare a Heidegger, e ritenere che Nietzsche ha a che fare con la differenza solo in senso negativo, in quanto testimonia con il suo pensiero l’ultimo limite a cui arriva la mentalità metafisica che identifica l’essere con l’ente? Secondo Vattimo non basta ricordare (nel senso di ‘farsi presente’) la differenza tra essere ed ente; bisogna anche problematizzarla nella sua eventualità. Questo però esige che si sia posti oltre l’orizzonte della metafisica, alla quale apparteniamo nella nostra stessa costituzione; solo l’Übermensch nietzscheano potrebbe realizzare questo oltrepassamento. La rimemorazione è intesa da Nietzsche come rapportarsi ad un passato remoto da cui abbiamo preso congedo, a strade che non dovremo più ripercorrere: “Chi si vuol separare da un partito o da una religione, crede che sia ora per lui necessario confutarli. Ma ciò è pensato assai superbamente. Necessario è soltanto che egli comprenda chiaramente 33
G. VATTIMO, Niezsche e la differenza, in Le avventure della differenza, op. cit., p. 85.
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quali ganci lo tenevano finora legato a questo partito o a quella religione, e che essi non lo fanno più, quali intenzioni lo avevano spinto verso quelli che lo spingono altrove. Noi non ci siamo schierati dalla parte di quel partito o di quella religione per stretti motivi di conoscenza: neanche dobbiamo, separandocene, affrettare ciò”34. Dio è morto, cioè la metafisica e la differenza sono finite, ma ci vorranno secoli perché l’umanità se ne renda conto. Attualmente viviamo l’intervallo che intercorre fra l’evento (la ‘morte di Dio’) e l’effettivo dispiegarsi della liberazione ultraumana. Zarathustra ha preso congedo dalla metafisica come dalla differenza; per Vattimo, “leggere il pensiero di Nietzsche-Zarathustra sotto il profilo della differenza, facendo centro sul carattere ‘differenziale’ che sembra implicito nella nozione di volontà di potenza, è quindi solo in parte legittimo; o nel senso che in Nietzsche accanto al pensiero che ha preso congedo c’è sempre, ancora, anche il pensiero che soggiorna nell’intervallo […]; o nel senso che ci si sforza di pensare che anche nel mondo dell’oltreuomo, quello in cui dell’essere, della differenza, della metafisica non è più nulla, anche là ci dovrà essere, ancora, storia”35. Questa storia, però, non potrà essere che storia di ‘differenze pure’, come – secondo Vattimo – sembra suggerire Nietzsche nei testi in cui dice che la volontà di potenza è essenzialmente volontà d’imposizione di prospettive interpretative, non lotta per valori, oggetti, posizioni di dominio, potere. Ma il mondo del significante liberato, dei simboli posti e tolti nella libertà della creazione artistica, sarà ancora vita, mutamento, e in questo senso storia. In ciò Vattimo ravvisa una certa antica paura della fine della storia come differenza. 34
F. NIETZSCHE, Il viandante e la sua ombra, 82. G. VATTIMO, Niezsche e la differenza, in Le avventure della differenza, op. cit., p. 93. 35
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Nietzsche è andato profeticamente oltre questa paura “lasciando tuttavia aperto il problema di come si possa vivere e praticare, insieme, il pensiero danzante di Zarathustra e la rimemorazione della differenza che in parte ne accetta ancora la logica e permane in essa: “continuare a sognare sapendo di sognare” come dice l’aforisma 54 della Gaia scienza”36.
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La nuova parola Se la ‘morte di Dio’ coincide con il momento cruciale che segna il passaggio tra la fine di un’epoca (o dell’epoca), e l’inizio di un nuovo mondo, lo stile è il sintomo di questo travaglio. Il testo della metafisica che va morendo si presenta come una serie di segni svuotati di senso. Il valore che animava la forma dandole significato si va esaurendo in quell’intervallo che si è aperto dopo l’annuncio della ‘morte di Dio’; il significante emerge nella sua costituzione, nella sua collocazione, nutrendosi di se stesso, non più rimandando ad altro da sé. La forma è ora il contenuto: “Si è artisti al prezzo di considerare e sentire come contenuto, come la ‘cosa stessa’, ciò che tutti i non-artisti chiamano ‘forma’. Certo: così si appartiene ad un mondo rovesciato, perché il contenuto diventa una mera formalità – compresa la nostra vita”37. L’artista è il creatore, il legislatore di questo mondo, utilizza immagini non come metafore che rimandino a significati densi di quell’essere morente, ma come nuove creature che si muovono in un campo di significato valido al suo interno38: le metafore, le 36
G. VATTIMO, Niezsche e la differenza, in Le avventure della differenza, op. cit., p. 94. 37 F. NIETZSCHE, La Volontà di potenza, 818. 38 F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 253. Nietzsche. Oltre l’abisso
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immagini, il rilievo lirico, si identificano senza residuo con i pensieri che suggeriscono. Quanto detto risulta ancor più chiaro se si considera il Così parlò Zarathustra, luogo ove peraltro si ‘respira’ la ‘morte di Dio’ annunciata nella Gaia scienza. Qui l’aforisma sembra superarsi nel ‘discorso’ che mira alla ‘lirica’ senza identificarvisi; l’alternanza degli stili in quest’opera è dovuto alla coralità di un pensiero ‘multiverso’, che vuole ricondurre il lettore nell’esperienza vissuta dal ‘poeta della solitudine’. Tutto lo stile dello Zarathustra si fonda sul presupposto che l’intraducibile nel modo della parola diventi ‘il più comprensibile’ e costituisca, come tale, l’articolazione polisemica del discorso affidata agli elementi ‘suono, forza, modulazione, tempo’, da cui si irradia una sorta di suggestione ipnotica. Il pensiero che ‘sostiene’ quest’opera, secondo Masini, “non è il prodotto di un’attività intellettuale, bensì scaturisce dalla profondità stessa dell’Erlebnis, si mescola al flusso sotterraneo della vita in un’identità precategoriale e dinamica di significati”39. Lo stile vale quindi come forma di un Erlebnis (esperienza vissuta), la cui decifrabilità non è data in termini di astratta comprensione logico-discorsiva, ma di appropriazione del vivente. Ad esprimere il modello di questa esperienza vissuta, trasfigurata e ‘ascoltata’ nella musica dello stile, è la danza. In essa si risolve la verità dello stile come metafora plastica e ritmica del pensiero; nell’artista che crea, è la danza a sciogliere lo spirito di gravità nei leggeri movimenti dell’ebbrezza creatrice, nella trasfigurante saggezza del riso. Come si è già detto, lo Zarathustra si presenta come ‘un libro per tutti e per nessuno’, per il suo richiamo ad un’origine comune da cui scaturiscono le molteplici interpretazioni che, solidificandosi nella presunzione che siano le 39
F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 260.
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sole, divengono stabili costruzioni da cui è doloroso distanziarsi. La malinconia che pervade le pagine dell’opera è proprio questa assunzione di prospettiva che allontana il vissuto (il passato) come l’unico possibile, e si proietta, con la gioia che si annuncia, nell’eternità del ritorno – il pensiero veramente abissale di Nietzsche. Ma mentre la malinconia trova ancora le parole nell’intervallo aperto dalla ‘morte di Dio’, la gioia non parla in alcun modo il linguaggio dell’essere, esso s’affonda nel silenzio del meriggio: “taci! L’antico meriggio dorme, muove la bocca: non sta forse bevendo una goccia di gioia – […]. Quando berrai questa goccia di rugiada che cade su tutte le cose della terra, – quando berrai questa anima prodigiosa – quando, pozzo dell’eternità! Splendido – orrido abisso del mezzodì! Quando ti riberrai in te l’anima mia?”40 Il pensiero danzante di cui si è detto non è sufficiente a racchiudere la perfezione dell’abisso, la metafora del meriggio accenna solo a quel silenzio che ricorda l’unio mystica: “L’abolizione del tempo è una fuga nella profondità del tempo (il passato) o, meglio, si ha qui la caduta interiore in un abisso che è quello stesso di un ‘tempo’ misticamente redento nell’anello del ritorno, piuttosto che dialetticamente trasceso. […] La pienezza di questo stato esige il silenzio, quello stesso dell’impronunciabile perfezione. Così la gioia impone il silenzio all’anima come alla luce…”41. L’opinione di Masini è che l’armamentario retorico dello Zarathustra costituisca un’operazione d’innesto di questa Experimental-Philosophie su di un linguaggio attraverso il quale sia dato rivivere quegli stessi Erlebnisse in cui nasce, si svolge, combatte, e forse muore. Ora, quando dette esperienze sono ancora riconducibili al modo della parola, esse assumono la forma della danza; quando 40 41
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Rizzoli, Milano, p. 308. F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 271.
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sono invece esperienze abissali, il silenzio s’impone. La forma del ‘discorso’ dello Zarathustra si può, per quanto è stato detto, accostare alla scrittura dei mistici come Meister Eckhart; si servono entrambi di ripetizioni, di artifici che sospendono l’attenzione, di slanci che vivono della loro tensione senza sosta. Come nella scrittura dei mistici il messaggio inaudito appare sempre ‘oltre’ l’ambito del discorso, così nello Zarathustra, l’inaudito è annunciato dal silenzio che supera il pronunciabile. Da quanto si è fin qui esposto, emerge l’inscindibilità di ermeneutica filosofica e indagine stilistica nella considerazione dell’opera nietzscheana. La ‘comprensione’ del pensiero del filosofo va di pari passo con un’indagine filologica che lo stesso Nietzsche si augurava: “un lettore come lo merito, che mi legga come i buoni filologi di una volta leggevano il loro Orazio” 42. Per il suo pensiero abissale-oltrepassante Nietzsche utilizza una ‘parola nuova’. Il filosofo che crea si serve pur sempre della parola, ma essa subisce una trasformazione per la quale “si giunge al costituirsi dei significanti in una sfera autonoma: nel loro assoluto ‘riferimento-a-sé’ si delinea la dinamica interna di una totalità espressiva, perfettamente conchiusa in se stessa. È su questa base che l’ermeneutica filosofica può afferrare, all’interno del linguaggio categoriale imposto dall’esterno, quelle strutture di pensiero, la cui sottile ambiguità […] sta nell’offrirsi ad una ‘presa’ interpretativa che avvicini, per quanto è possibile, i termini esistenziali dell’Erlebnis”43. Sicuramente lo stile è un mezzo per “comunicare uno stato, una tensione interna di pathos”44, ma per l’eccezionalità delle emozioni prodotte, sovente 42
F. NIETZSCHE, Ecce homo, op. cit., p. 62. F. MASINI, Lo scriba del caos, op. cit., p. 284. 44 F. NIETZSCHE, Ecce homo, op. cit., p. 61. 43
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le parole rimangono incomprese. Mi pare che l’opera di Nietzsche stia come una provocazione, una sfida, dinanzi all’interprete; essa ha il potere deflagrante di frammentare i concetti cui si rivolge, come l’unità dell’interprete che la considera. La parola dello Zarathustra assume dal suo lettore-interprete il ‘significato’ provvisorio, prospettico e mai concluso, sospeso anzi nella tensione ermeneutica che sempre apre a nuove domande, e nel contempo agisce all’interno dell’interprete dischiudendolo a molteplici aperture. Voler imbrigliare le ‘immagini’ dello Zarathustra in forme persistenti, è esattamente come vivere il reale all’ombra di un Dio; lo stile di Nietzsche ripete quelle tensioni inconciliate dell’abisso che il filosofo vuole comunicarci. Il messaggio è necessariamente in cammino, si potrebbe definire un ‘messaggio-ponte’ sospeso fra l’evento della ‘morte di Dio’ e il ‘superuomo’. È un messaggio rivolto all’uomo che vive in questo intervallo “sempre supponendo che ci siano orecchi – che ci sia qualcuno capace e degno di un tale pathos, che non manchino coloro ai quali si può comunicare – Per esempio il mio Zarathustra, per adesso, li cerca ancora – ah! Avrà da cercare ancora per molto!”45
45
F. NIETZSCHE, Ecce homo, op. cit., p. 62.
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Capitolo VI
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La ‘morte dello Stato’
Diritto e Stato Come si è visto, uno dei punti più controversi del pensiero di Nietzsche consiste nella sua concezione politica. Gli espliciti riferimenti alla politica del suo tempo e il carattere assertorio dei frammenti per la composizione della Volontà di Potenza, lasciano poco spazio ad una lettura ‘comodamente metaforica’; né può bastare attribuire la responsabilità di vere e proprie parole d’ordine alla ‘sorella parafulmine’, al fine di liberare il lettore da ogni dubbio circa la natura delle intenzioni di Nietzsche. Un’interpretazione che si proponga di risolvere le evidenti contraddizioni cui presta il fianco la riflessione nietzscheana, evidenzierà un duplice movimento: da un lato la critica allo Stato, quale ‘presunto detentore di una sorta di potere ultraterreno’, dall’altro l’esaltazione della ‘Grande Politica’ e di uno Stato militare. Mi pare sia fondamentale partire dalla critica che Nietzsche rivolge alla politica: essa deve rinascere emancipandosi dalla morale. La guerra su tutti i fronti che Nietzsche ha scatenato contro la morale giunge a individuare nella politica un ‘malato’ di moralità. Come nota Pasqualotto, Nietzsche intende per ‘vera’ politica – cioè Nietzsche. Oltre l’abisso
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Teologia dell’educazione
quella che si fa concretamente – “un’etica senza ideologia, senza giustificazioni, senza sublimazioni, senza ‘amore’, cioè un’etica come tattica dell’egoismo”1 . La morale costituisce la preistoria della politica, la fase ‘mitica’ degli ideali, ed è d’impaccio alla politica che intende farsi scientifica. “E’ forse necessario conservare le parole morali? Che cos’hanno da cercare nella chimica i termini dell’alchimia?”2 La Grande Politica sta, dunque, alla morale come la chimica sta all’alchimia; la politica per essere tale deve divenire scientifica, liberarsi da misteriose congetture o primitive credenze. Per fare politica la morale va contraddetta, del resto così scrive Nietzsche: “Bisogna essere molto immorali per far morale attraverso l’azione”3 . Sarà utile nel corso della trattazione evidenziare come questa Grande Politica, che si emancipa dalla morale, non coincida né con la politica della socialdemocrazia storica, né con quella del Secondo Reich, e nemmeno con quella dei moralisti reazionari; per ora limitiamoci a osservare con Pasqualotto che la politica per rinascere deve “rompere il cordone che la lega alla ‘miseria’ dell’escatologia cristiano-socialista, che la trattiene nei pantani etici del risentimento e nella retorica della carità e dell’uguaglianza”4 . La politica è la morale che si concretizza nelle istituzioni, nelle leggi, nella società in generale, ed essa si conserva ricordando il Valore su cui poggia, rimandando ad esso la sua legittimità. Ma come nota Escobar, per Nietzsche “il diritto non può più essere considerato come la dimensione che giustifica e sorregge un certo assetto 1
G. PASQUALOTTO, Nietzsche: considerazioni attuali, in ‘Nuova Corrente’, 1975, p. 454. 2 F. NIETZSCHE, Aurora e Frammenti postumi (1879- 1881),op. cit., p. 369. 3 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di Sossio Giametta, Adelphi, Milano, 1974, p. 241. 4 G. PASQUALOTTO, Nietzsche: considerazioni attuali, in ‘Nuova Corrente’, p. 455. 164
Emilio Carlo Corriero
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Quadro generale della pedagogia cristiana
sociale e politico, piuttosto vale il contrario: il diritto è un prodotto di tale assetto, che solo arbitrariamente viene invocato – ora dai dominatori, ora dai dominati – come fonte di giustizia” 5 . L’opera di smascheramento cui Nietzsche sottopone il mondo del Valore s’imbatte nell’oggetto che sostanzia in una totalità il potere politico: lo Stato. Però prima di vedere cosa Nietzsche intenda per morte dello Stato, è bene approfondire la sua concezione del diritto in relazione alla volontà di potenza, al fine di chiarire come siano possibili i frammenti per la compilazione del Wille zur Macht. Negli aforismi che riguardano il diritto si riscontra una certa a-sistematicità dovuta al fatto che l’indagine operata da Nietzsche non è condotta da un osservatore che si collochi al di sopra dell’intersoggettività per chiarire la genesi dei rapporti fra gli individui, bensì, in accordo con ‘l’esperienza del dolore’ e la sua importanza nell’ambito del tragico, essa è condotta dallo stesso io – che è Nietzsche␣ – in rapporto all’altro, sia esso un individuo od un’istituzione. Per Nietzsche il diritto è legato alla forza e alla potenza, e queste valgono non solo e non tanto per ciò che sono in loro stesse, ma per ciò che appaiono ai soggetti che vengono in rapporto fra di loro: “Il diritto si estende originariamente fin dove uno appare all’altro prezioso, essenziale, insostituibile, invincibile e simili. Sotto questo aspetto anche il più debole ha ancora dei diritti, seppur minimi. Di qui il famoso unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet (o più esattamente: quantum potentia valore creditur)”6 . Da questo passo il diritto risulta come la possibilità del soggetto di condizionare l’azione dell’altro, nella misura in cui il primo appare forte al secondo. 5
R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia del XIX secolo, il Formichiere, Milano, 1978, p. 43. 6 F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano I, 93. Nietzsche. Oltre l’abisso
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Teologia dell’educazione
Come nel momento genetico della conoscenza e della morale un ruolo centrale spetta alla paura e alla violenza dei rapporti interindividuali, così anche il diritto è riconducibile a detti rapporti. Come nota Escobar, “il diritto è funzione della forza non nel senso semplicistico che chi la detiene impone la propria volontà, ma in quello più sottile per cui tra le forze presenti all’interno di una certa realtà tende a crearsi uno stato di equilibrio, che rispecchia nel suo assetto i vari livelli di queste stesse forze”7 . Quando una delle parti possiede forza in quantità troppo elevata rispetto all’altra non si genera il ‘diritto’, giacchè la prima non ricaverebbe alcun vantaggio accettando delle norme per gestire il ‘conflitto’; quando invece si verifica una sorta di equilibrio è conveniente venire a patti: “La giustizia (equità) prende origine fra gli uomini di forza pressappoco uguale, come Tucidide (nel terribile colloquio degli ambasciatori ateniesi e melii) ha rettamente inteso: dove non esiste una superiorità chiaramente riconoscibile e una lotta si ridurrebbe ad un infruttuoso nuocersi a vicenda, ivi sorge il pensiero di mettersi d’accordo e di negoziare le reciproche pretese: il carattere dello scambio è l’originario carattere della giustizia”8 . Ma la giustizia non sempre sancisce un’uguaglianza. A volte stabilisce una situazione nella quale il più forte ha portato le sue pretese così in là da trovare un ostacolo insuperabile in quelle del più debole. Non esiste né un ‘diritto in sé’, né una giustizia assoluta cui si possa demandare la salvaguardia dei propri diritti. È a partire da questa convinzione che Nietzsche critica cristianesimo e socialismo che – a suo dire – pretendono di fissare una volta per tutte diritti e doveri inserendoli in un’ottica metafisica. Il rifiuto di una fissità del diritto si scontra con il contenuto degli aforismi di Al di là del bene e del male e de 7 8
R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia del XIX secolo, op. cit., p. 51. F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, 94.
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L’Anticristo. Qui Nietzsche ritiene che l’intero diritto dei ‘signori’ poggia sulla tradizione – che rimanda alla fede in un passato aureo e respinge ogni indagine sulla genesi del diritto –, e sostiene inoltre che una civiltà che sappia creare e mantenere una salda tradizione, come fondamento sicuro delle leggi che la regolano, giunge al massimo sviluppo. Ad un certo punto dell’evoluzione di un popolo è di vitale importanza che ‘la sua classe più perspicace’ fissi una volta per tutte i valori secondo i quali quello stesso popolo deve vivere, traendoli dalla tradizione che il tempo ha consolidato, impedendo “la persistenza di uno stato fluido dei valori, la verifica, la scelta, l’esercizio critico condotti sui valori in infinitum”9 . Dunque due tendenze si agitano lungo il pensiero politico di Nietzsche: alla critica di ogni stabilità, sia essa colta nella tradizione o in qualche ‘mondo di là dal mondo’, si oppone il bisogno di sicurezza e stabilità. Roberto Escobar, per giustificare la doppia valutazione circa il valore della tradizione, sostiene che “quando questa si pone al termine di una evoluzione sociale-culturale che ha prodotto valori nuovi, quando perciò fissa regole e leggi che mirano alla diffusione e al consolidamento nella società di questi valori, allora la valutazione di Nietzsche è positiva. Quando invece la tradizione è solo lo strumento cui si ricorre per conservare valori che ormai sono finiti – non sono più condivisi nella comunità, hanno smesso di essere oggetto di ‘fede’ –, allora la valutazione è negativa”10 . Tuttavia ciò non può bastare a chiarire il pensiero politico di Nietzsche, giacché lascia da parte il superamento del politico che si attua con il superuomo. Spesso infatti si identifica la Grande Politica dell’uomo ‘forte’, del ‘signore’, con la politica del superuomo; ma, come si vedrà da quanto segue, ciò non coincide con il pensiero di Nietzsche. 9
F. NIETZSCHE, L’Anticristo, 57. R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia del XIX secolo, op. cit., p. 63.
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Nietzsche. Oltre l’abisso
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All’inizio del III libro della Gaia Scienza, Nietzsche mostra come con la ‘morte di Dio’ si aprano nuovi fronti su cui si combatteranno nuove battaglie contro le ombre del Dio morente: “Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!”11 . Lo Stato moderno è agli occhi di Nietzsche una delle ombre del Dio decadente, sia perché conserva quella sacralità dovuta alle leggi su cui poggia, sia per la sua origine teologico-dialettica. Ma come si è visto sembra che Nietzsche voglia accogliere come forma legittima di potere politico uno Stato in cui il diritto sia riconosciuto nella sua mera costituzione basata sulla forza e sulla potenza, senza ‘fronzoli’ morali che rimandano ad un’origine metafisica, come se il superamento della politica decadente, contemporanea a Nietzsche, consistesse in una semplice inversione di valori. Ciò, come si è visto, non è il consueto movimento operante nel pensiero di Nietzsche. La trasvalutazione dei valori non è un semplice capovolgimento. Il superuomo che supera la morale non si limita a mostrare la falsità del fondamento su cui essa si basa, è anzi consapevole dell’assenza di un Grund definitivo, e accetta di vivere decidendo il proprio fondamento. L’inversione dei valori è solo il tramite necessario a disincantare dal Valore assoluto (nel senso latino del termine). Dunque perché, se ciò è valido per la morale, dovrebbe essere diverso per la politica? L’ostacolo maggiore che a mio avviso si frappone a questa estensione della trasvalutazione morale all’ambito politico, risiede nel fatto che mentre la morale può valere anche solo per un individuo e può essere sperimen11
F. NIETZSCHE, Gaia scienza, 108.
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tata dal soggetto tragico dello Ja (sì), la politica, ovvero la morale che si fa azione, ha inevitabilmente a che fare con l’altro: deve organizzarsi in una totalità, non può rimanere nella sua solitudine. I frammenti della Volontà di Potenza, quando si riferiscono allo Stato che deve nascere, si rifanno al conflitto fra forti e deboli – non alla società del superuomo –, al momento in cui la politica ha perso le sue vestigia morali, e agisce nella più completa immoralità, presentando l’aspetto apollineo e l’aspetto dionisiaco conciliati. Come si vedrà fra poco, l’apprezzamento di una forma statale rispetto ad un’altra da parte di Nietzsche, passa per la determinazione della compresenza dei suddetti aspetti in essa forma statale. Tuttavia, ove vi sia detta compresenza vi è comunque una fede da accordare, e ciò per il superuomo non è possibile. Del resto, se le parole hanno un senso, così scrive Nietzsche chiudendo il paragrafo Del nuovo idolo dello Zarathustra: “Là dove finisce lo Stato – guardate, guardate, fratelli! Non lo vedete, l’arcobaleno, e i ponti del superuomo?”12 A mio avviso uno dei motivi che congiurarono alla mancata pubblicazione della Volontà di Potenza risiede proprio nella inconciliabilità delle tesi politiche di Nietzsche con la teoria del superuomo così come è espressa nello Zarathustra, il suo capolavoro13 . Sembra, dunque, che non vi sia spazio per una qualsiasi forma statale nel mondo del superuomo; ciò nonostante potrà venire utile un’analisi dei giudizi espressi da Nietzsche a proposito delle varie forme storiche di stato. La critica all’apologia dello Stato moderno operata da Nietzsche è “parallela all’apologia del presente: entrambe 12
F. NIETZSCHE, Zarathustra, Del nuovo idolo. “- Fra i miei scritti, il mio Zarathustra sta a sé. Donandolo all’umanità, le ho fatto il più grande regalo che essa abbia mai avuto.” F. NIETZSCHE, Ecce homo, op. cit., p. 13. 13
Nietzsche. Oltre l’abisso
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sono rese necessarie dalla sgradevole e diffusa convinzione sotterranea che il presente e lo Stato non abbiano e perciò debbano ricevere giustificazione”14 . A compiere questo processo di legittimazione è stato il concetto di storia, hegelianamente inteso come “il cammino di Dio sulla terra”15 , che ha assicurato divinità al presente, come inevitabile determinarsi del progresso. L’idolatria del presente, l’apologia del successo e l’assolutizzazione della storia, si esprimono nella sfera giuridica e politica in un’analoga idolatria, apologia e assolutizzazione dello stato. Lo Stato è divenuto idolo perché per salvare sé stesso dall’insignificanza si è fatto, da mezzo che era, fine ultimo dell’uomo. Altro punto su cui si basa la critica nietzscheana allo Stato moderno riguarda la cultura. Lo Stato si impadronisce della cultura, apparentemente potenziandola e diffondendola, ma in realtà controllandola in quanto la trasforma in strumento finalizzato al proprio potere. Il modello politico cui Nietzsche si riferisce come a quello ideale, soprattutto nel periodo basileese, è la polis greca: “i Greci sono i pazzi per lo Stato della storia antica – in quella moderna lo sono altri popoli” 16 . Ma perché Nietzsche loda la ‘pazzia’ dei Greci e critica quella dei moderni? Nietzsche sostiene che lo Stato moderno si sovrappone e si oppone al popolo e alla sua cultura, mentre quello greco è estremamente coerente con la totalità degli aspetti della cultura e della realtà umana: le basi su cui poggia la polis sono quelle dell’agon, dell’inimicizia mortale, e senza questo disordine, non sarebbe stato possibile l’opposto (ma si tratta di un’opposizione in cui i due termini che si fronteggiano – dionisiaco e apollineo –, si postulano l’un l’altro) “senso sovrano per l’ordine e per la 14
R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia del XIX secolo, op. cit., p. 154. F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1888-1889, 18. 16 F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, 232. 15
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struttura articolata” che, ad esempio, “ha reso immortale lo Stato ateniese”17 . Nel corso del suo pensiero Nietzsche abbandonerà progressivamente la sua predilezione per i Greci in favore dell’imperium romanum, giacchè questo fu in grado di superare la fluidità greca in una solidità che garantì secoli di potenza. L’opinione che Nietzsche sviluppa intorno allo ‘Stato cristiano’ apre la via alla comprensione della ‘morte dello Stato’. Ne L’Anticristo e nei frammenti del 1887-1888, Nietzsche sostiene che il cristianesimo ha tradito l’insegnamento di Cristo in relazione al problema dello Stato. A Cristo e non al cristianesimo Nietzsche dimostra un’ammirazione incondizionata, motivata dal fatto che Cristo seppe raggiungere una totale estraniazione nichilistica dal mondo, estraniazione, oltretutto, completamente priva di ressentiment; d’altro canto Nietzsche ritiene che la chiesastruttura-di-dominio neghi Cristo, fraintendendone l’esempio e trasformandolo in una nuova fede. Cristo non negò il potere politico, bensì insegnò la prassi del superamento di ogni obbedienza, di ogni sottomissione e di ogni autorità, nel regno dei cieli che è in questa terra; al contrario Paolo con la giustificazione che ‘Dio ha comandato di onorare ogni autorità’, ha trasformato il cristiano nel cittadino, nel soldato, nell’operaio, nell’agricoltore, etc…, facendogli riprendere tutte le attività che aveva abiurate scegliendo di seguire Cristo: l’autodifesa, il giudicare, il punire, il disprezzare, etc… Questo cristiano è il cittadino ideale dello stato moderno, in quanto è disposto all’obbedienza credendo nello Stato come espressione di Dio. Circa le forme di governo contemporanee a Nietzsche, sembra si possa constatare una certa preferenza per la monarchia anche se, come è noto, la critica che egli rivolge ai re è dura e pare non ammettere appello. Le monar17
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1875-1876, 5.
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chie si sono svuotate di significato giacché sono cadute nelle mani dei ‘mercanti’18 ; secondo Nietzsche, i re si limitano a ricoprire un ruolo formale che nasconde e protegge interessi che sono sostanzialmente mercantili. Durissime sono le accuse rivolte alla democrazia, anche se bisogna tener conto del fatto che il modello di democrazia che Nietzsche ha davanti agli occhi è quella di Bismarck, che, come nota Escobar, “sarebbe meglio descrivere come legittimazione attraverso la ‘forma’ democratica di un assetto politico-economico sostanzialmente legato a interessi latifondistici e largamente reazionari”19 . La democrazia è la forma politica “degli zeri sommati – dove ogni zero ha ‘diritti uguali’, dove è virtuoso essere zero…”20; il sistema di governo che meglio si adatta all’interesse dei ‘mercanti’. Inoltre la democrazia moderna è la forma storica della decadenza dello stato. Si vedrà come la democrazia costituisca agli occhi di Nietzsche l’annuncio della ‘morte dello Stato’. Fin qui la critica di Nietzsche alle forme statali moderne. Come è noto, tuttavia, soprattutto nei frammenti postumi degli ultimi anni della produzione nietzscheana si evidenzia una sostanziale ‘apologia’ di un modello di Stato capace di garantire la nascita del genio, del superuomo: si tratta di uno Stato militare diviso sostanzialmente in due classi, i ‘forti’ovvero i signori, e i ‘deboli’ ovvero i servi. Ora, l’apologia dello Stato militare era già presente ne Lo Stato greco, tuttavia nei frammenti postumi non trova precisi riscontri in uno stato esistente, è piuttosto una prospettiva ipotetica che mantiene fermi i cardini del pensiero politico di Nietzsche: lo Stato deve essere strumento e non fine, la sua forma deve essere decisa dalla 18
Si veda a tal proposito F. NIETZSCHE, Zarathustra, Colloquio con i re. R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia del XIX secolo, op. cit., p. 174. 20 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1888-1889, 14 [40]. 19
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‘classe più perspicace’ che stabilisce ciò che è giusto e ciò che non lo è. “Il mantenimento dello Stato militare è l’ultimo mezzo sia per accogliere sia per mantenere la grande tradizione riguardo al tipo supremo d’uomo, al tipo forte”21. Ma questo stato non rappresenta in alcun modo il superamento, in quanto esso valica la dialettica politica per farsi impolitico (per usare un’espressione di Mann). Nietzsche si spinse forse troppo in là sulla via di questa ipotesi politica, ma non si può attribuirgli la responsabilità di ciò che avvenne ad opera di quanti ritennero l’ipotesi dello stato militare l’unica percorribile. È vero che quanto nella Volontà di Potenza sembra annunciare il Terzo Reich già compare in parte negli scritti pubblicati da Nietzsche, tuttavia considerare la Volontà di Potenza un’opera conclusa significa attribuire al IV ed ultimo libro – Disciplina e selezione – il valore che in genere si attribuisce alla conclusione di un’opera; mentre è noto che nei piani di Nietzsche c’era posto per un V libro dedicato all’eterno ritorno, nell’edizione curata da Gast ridotto, in uno striminzito paragrafo, ad un principio selettivo. Mi pare sia verosimile ritenere che il progetto di Nietzsche di organizzare sistematicamente il proprio pensiero, naufragò allorquando giunse a tematizzare l’eterno ritorno, l’intuizione ‘abissale per eccellenza’, che non può ridursi ad un semplice precetto morale. Se Nietzsche avesse concluso il Wille zur Macht, probabilmente il carattere ipotetico dello stato militare avrebbe avuto maggior risalto. Ma siamo nell’ambito delle ipotesi; il solo fatto è che Nietzsche non pubblicò la Volontà di Potenza così come la leggiamo, e di ciò non si può non tener conto.
21
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1887-1888, 11 [407].
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Democrazia, socialismo, e ‘morte dello Stato’ “Il disprezzo, la decadenza e la morte dello Stato, la liberazione della persona privata (mi guardo bene dal dire: dell’individuo) saranno la conseguenza dell’idea democratica dello Stato; in ciò consiste la sua missione”22 . La democrazia moderna è l’apice dell’indebolimento dello Stato quale centro totalizzante del potere politico, eppure è al tempo stesso l’estremo della ‘politicizzazione’. La forma democratica è il destino della politica morale e come tale viene superata dalla Grande Politica, che rimuove l’ostacolo prodotto dalla moralità, ma è in grado di farlo proprio grazie a detta moralità che ha progressivamente indebolito il potere politico, rendendolo da accentrato e totalizzante che era, disperso e frammentato. Nel suo iniziale costituirsi, la fase politica tende inizialmente a presentarsi come un concetto totale. Lo Stato accentra in se stesso ogni forma di organizzazione sociale, ogni forma di interesse, più che per farsi garante, per imporsi come condizione necessaria. In quanto totalità, questo Stato tende immediatamente a concepire la propria forma come forza naturale dell’organizzazione politica. Si tratta dello Stato dialettico (la cui idea Nietzsche rimprovera ad Hegel) che assolutizza il proprio concetto facendosi Legge, Norma, Valore. Le idee di democrazia e socialismo, per Nietzsche, dispiegano il ‘politico’ fino a metterne a nudo proprio la costitutiva determinatezza e problematicità. Come nota Cacciari, “la democrazia esplicita l’Origine che il discorso sul ‘politico’ presuppone (il ‘politico’ dà Norme e Leggi che riguardano l’Origine e che mirano al Fine dell’uomo come totalità), ma nello stesso tempo rende possibile a ogni soggetto in quanto tale di esprimere e organizzare la propria forza. Proprio in quan22
F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, cit., p. 259.
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to vuole esplicitare la ‘dignità’ della comune Origine, essa moltiplica l’organizzarsi di eterogenei centri di forza.”23 L’assolutizzazione del ‘politico’, dunque, coincide con una perdita di centralità e con un costante indebolimento del sistema. Anziché ricondurre ad unità, la politicizzazione assoluta accresce, per usare un termine scientifico, l’entropia del sistema: vengono scardinati dall’interno i rapporti gerarchici che subordinavano i diversi soggetti. La subordinazione può solo più essere scelta, ma una subordinazione libera è l’opposto di una vera subordinazione; essa diviene interesse, in qualsiasi momento revocabile in base al diritto che deriva dal rapporto di forza. Ciò distrugge l’antico rapporto di venerazione del cittadino nei confronti dello Stato. Da idolo diviene strumento del potere-valere del proprio diritto. Pertanto proprio il carattere totalizzante del ‘politico’ ha finito per concludersi nella forma democratica, ed essa rappresenta, assieme alla massima estensione possibile del ‘politico’, proprio la sua decadenza. “La credenza in un ordinamento divino delle cose politiche, in un mistero dell’esistenza dello Stato è di origine religiosa: se la religione sparirà, inevitabilmente lo Stato perderà il suo velo di Iside e non susciterà più alcuna venerazione”24 . Il processo che ha portato allo Stato democratico ha mostrato che non si può più credere nell’Origine divina del diritto su cui si regge lo Stato; esso appare come un’arbitraria costruzione nella quale il diritto sancisce il prevalere di una forza su di un’altra. Nello Stato che era partito con l’accentrare in sé il diritto assoluto, si assiste al moltiplicarsi di diversi diritti in concorrenza reciproca: si tratta di un’implosione che lo Stato dialettico non può tollerare senza morirne. 23
M. CACCIARI, L’impolitico nietzscheano, in F. Nietzsche, Il libro del filosofo, Savelli, Roma, 1978, p. 113. 24 F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, 472. Nietzsche. Oltre l’abisso
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La missione dell’idea democratica consiste dunque nella de-sacralizzazione del ‘politico’; analogo destino spetta all’idea di Socialismo. Secondo Cacciari “il Sozialismus deriva dalla dissoluzione della centralità sacra dell’idea di Politico e di Stato – dall’affermarsi di soggetti dialetticamente irriducibili al suo interno, portatori di diritti arbitrari”25 . Anche se questi soggetti ‘liberati’ propongono il loro ‘diritto’ come il Vero, ciò non muta la loro posizione di dissolutori dell’idea e della forma di Stato dialettico. L’attacco al Socialismo è essenzialmente rivolto all’idea di Lavoro come Valore, giacché essa costituisce il motore della costruzione dialettica. Il Valore del Lavoro si fonda sul presupposto teleologico della conciliabilità dei diversi operari – e della necessità di tale armonia per lo sviluppo del sistema. Questa teleologia costituisce anche l’oggetto della critica nietzscheana: l’idea del Valore del Lavoro non può essere il fondamento dell’idea progressivo-sintetica di Sviluppo. Il superamento dello Stato passa per l’analisi critica del Lavoro che ne costituisce il motore produttivo. Tale analisi coglie il realizzarsi del soggetto nel Lavoro come un processo di alienazione. Massimo Cacciari coglie a mio avviso un aspetto originale di questa alienazione; si tratta di un’alienazione che, oltre che coinvolgere i singoli lavoratori, riguarda la molteplicità dei diversi operari in quanto non più ascrivibili alla sintesi dialettica: “i diversi operari si alienano dalla possibilità della loro sintesi – emergono come ‘interessi’ irriducibili e contraddittori. Il processo della alienazione costituisce dall’interno il soggetto, non lo cattura, come un destino ‘esogeno’, nel corso del suo dialettico realizzarsi. Questo operari, proprio di questi soggetti storicamente determinati, e che è impossibile trasformare regressivamente, questo è alienazione irrevocabile.”26 Secondo Cacciari 25 26
M. CACCIARI, L’impolitico nietzscheano, op. cit., p. 115. M. CACCIARI, L’impolitico nietzscheano, op. cit., p. 117.
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il tentativo, operato dalla piccola politica, di imbrigliare i diversi operari in un unico disegno dialettico è divenuta irrealizzabile, perché non si può più ricondurre l’operari al suo fondamento meramente ‘tecnico’: i soggetti nei quali si è alienato il Valore del Lavoro “vedono il proprio operari come alienazione – non nel senso banale, e ‘servile’, che tale alienazione venga loro semplicemente imposta, che essi la subiscano in messianica attesa della Sintesi, ma nel senso che all’interno della dimensione irrevocabile dell’alienazione, essi possono costruire il proprio interesse politico, possono determinare la propria separatezza e divisione come Grande Politica.”27 Risulta così che il ‘fare’ si è incarnato nella potenza politica, nella forza, dei diversi interessi di classe. L’impossibilità della classe operaia sarebbe l’impossibilità della Sintesi dialettica che vede il Lavoro rivolto al Fine sommo di cui lo Stato è immagine. Il Valore del Lavoro si configura come un punto di vista opposto a quello della classe impossibile. Ma la ricaduta più importante di questo processo di alienazione riguarda il fatto che il lavoratore si pone ormai come impossibile di fronte alle pretese di sintesi, si pone come individuum: il processo di separazione del lavoratore dal suo Lavoro. È l’opposto di un’idea aristocratico-regressiva di ‘individualità’, è anzi il prodotto ultimo del divenire democratico del ‘politico’. Se lo Stato dialettico è concepibile solo alla luce del Valore del Lavoro, l’emergere dell’individuum lo rende inconcepibile. L’esaltazione del potere totalizzante dello Stato ha condotto all’individuum quale massima espressione dell’impolitico. La democrazia conduce a centri di potere non sintetizzabili e quindi ingovernabili. La Grande Politica deve saper resistere al destino dell’inversione del ‘politico’, deve essere in grado di governare individualità, e per 27
M. CACCIARI, L’impolitico nietzscheano, op. cit., p.117.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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far ciò ha necessità di riconoscere l’impossibilità della totalità nel ‘politico’, oltre che l’impossibilità di un ideale assoluto quale fondamento. La Grande Politica decide il proprio fondamento riconoscendone l’inesistenza, e il carattere provvisorio di questo fondamento ne determina il carattere ipotetico. Giangiorgio Pasqualotto nel già citato saggio Nietzsche: considerazioni attuali, apparso nel volume monografico di ‘Nuova Corrente’ dedicato a Nietzsche nel 1975, indaga i riferimenti fatti da Nietzsche alla cultura del proprio tempo al fine di rilevare quanto in essi vi sia di profetico rispetto alla società democratica destinata, come si è visto, ad annunciare la morte dello Stato. Sembra emergere un disprezzo per la cultura democratica che sarebbe la garante degli interessi mercantili e commerciali: “la moda, che detta il proprio statuto merceologico alla Cultura, la letteratura d’appendice, che prefigura il futuro della letteratura tutta, il giornalismo che generalizza socialmente la cultura come tecnica della persuasione e della distrazione, lavorano tutti all’edificazione di un avvenire di consumo culturale sempre più integrato e allargato, producono tutti per una cultura als industria”28 . Ciò che Nietzsche maggiormente critica nel sistema democratico è proprio il fondamento economico su cui si regge, non tanto perché immorale, quanto piuttosto per l’inevitabile sbocco cui conduce. La base che sostiene l’economia nello Stato moderno è garantita dalla tecnica di repressione-sublimazione della morale cristiana, in grado di volgere il ‘male’ dell’interesse economico in un’espressione trasfigurata della volontà divina; e l’opera di smascheramento di Nietzsche si avvede di questa mistificazione, evidenziando d’altro canto come questo sistema sia destinato a morire. 28
G. PASQUALOTTO, Nietzsche: considerazioni attuali, in ‘Nuova Corrente’, op. cit., p. 442.
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Ora, la pars destruens del pensiero politico contiene anche la pars construens, poiché lo Stato che muore produce fra le altre cose tipi d’uomini in grado di attuare la Grande Politica. La democrazia, con la sua moltiplicazione di informazioni, di impressioni, di suggestioni, ha generato il cinico, “colui che non è più in grado di filtrare tutti gli orrori con il distacco dell’ironia, con le stoccate incruente di una malevola superiorità”29 . Cinismo significa abitudine alla shock: questa è la condizione psicologica necessaria per farsi politici, ma nell’opinione di Pasqualotto “esso non rappresenta un ‘dover essere’ eroico di fronte alla mediocrità degli atteggiamenti etici, se non nella misura in cui è immanente a questa stessa mediocrità”30 . In quest’ottica il nichilismo del cinico non va accolto come fine, né tantomeno come mezzo di pace, come strumento di orgoglioso astensionismo, bensì come mezzo di guerra per vincere conflitti con lucidità e ‘ragione’ depurate dalla morale. La posizione di Pasqualotto evidenzia come la ‘solitudine’ nell’ambito politico sia da Nietzsche rifiutata. Se da un lato la politica, come esplicita espressione di decadenza, è nel mirino di Nietzsche, dall’altro egli si rende conto di non poter scegliere l’ascesi assoluta, il distacco, poiché ciò non consente il superamento. In ambito politico c’è continuamente bisogno di una dialettica, anche se transeunte: il solitario non può congedarsi una volta per tutte dalla folla metropolitana, “egli ha altrettanto bisogno dell’opposizione della folla, dei ‘livellati’, del senso della distanza in paragone a loro; sta su di loro, vive di loro”31 , “senza urlìo del mercato e raucedine non c’è più alcun 29
F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, op. cit., p. 219. G. PASQUALOTTO, Nietzsche: considerazioni attuali, in ‘Nuova Corrente’, op. cit., p. 461. 31 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1887-1888, op. cit., p. 114. 30
Nietzsche. Oltre l’abisso
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genio”32 . È vero che Nietzsche ritiene necessaria, affinché nasca il ‘genio’, una società del tutto opposta alle aspirazioni del ‘genio’, tale che per l’estrema opposizione si generi il meglio possibile; è vero altresì che la figura del ‘genio’ progressivamente nell’opera di Nietzsche si palesa come superuomo, tuttavia mi pare sia da sottolineare il fatto che l’opposizione estrema di cui si è detto deve essere solo propedeutica. Se si ritenesse che il superuomo per essere tale ha bisogno di qualcosa che gli si opponga, dove sarebbe questa pretesa superiorità? Quando Nietzsche sostiene di avere tutti gli interessi affinché il Cristianesimo, quale nemico dell’uomo, si mantenga in perfetta salute perché agisca da nemico-ponte allo spirito libero, non postula la necessità che il Cristianesimo coesista col superuomo, giacché questi per essere tale lo ha già superato. In ambito ontologico ciò appare indiscutibile, in ambito politico, invece, una certa vaghezza aleggia intorno all’effettivo superamento dello Stato, e ciò perché, qualora Nietzsche ipotizzasse la società del superuomo, si dovrebbe ritenere concluso un processo sempre aperto alle miriadi di possibilità che un mondo ‘universo’ aveva precluso.
Nietzsche: attuale o inattuale? Come si è avuto modo di mostrare, una lettura ‘troppo attuale’ dell’opera di Nietzsche finisce per fare del filosofo il profeta di uno Stato militare, o l’interprete di un messaggio di liberazione dallo sfruttamento economico della società del ‘denaro’. La polivocità delle espressioni nietzscheane ha concesso, soprattutto in ambito politico, i più grandi travisamenti. Se, come mi pare sia evidente, 32
F. NIETZSCHE, Idilli di Messina, La Gaia Scienza e Frammenti postumi (1881-1882), tr. it. a cura di Masini, Adelphi, Milano, p. 191.
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Nietzsche non può essere letto come un teorico reazionario, d’altro canto è del tutto estraneo alle sue intenzioni appoggiare una politica rivoluzionaria. Ciò non tanto per le prospettive di una guerra continua che getterebbe nell’instabilità, quanto per ciò che muove il desiderio rivoluzionario: la costituzione di uno Stato ideale quale approdo definitivo, ove le differenze che affliggono lo Stato moderno verranno meno per lasciare il campo ad un’uguaglianza di principio: quanto di più lontano possa esserci dal pensiero di Nietzsche! Lo Stato ideale è avversato in ogni modo da Nietzsche, sia nella sua forma reazionaria sia che abbia ispirazione socialista: “Quanto migliore è la struttura dello Stato, tanto più fiacca è l’umanità. Fare dell’individuo qualcosa di scomodo: ecco il mio compito! Stimolare la liberazione dell’individuo nella lotta! L’altezza spirituale trova il suo tempo nella storia: a tal fine occorre un’energia ereditaria. Nello Stato ideale tutto ciò è finito”33 . Questa posizione che Nietzsche esprime nel ’75 a favore dell’individuo contro una generica forma di Stato ideale, rimarrà pressoché costante lungo tutto l’arco del suo pensiero, anche se verrà declinata con modi e accenti diversi. Se si mantiene fermo il presupposto della critica allo Stato in favore della formazione dell’individuo, si comprende come la teoria di uno Stato militare non possa che essere un’ipotesi strumentale alla nascita del ‘genio’, del superuomo. Ora, è vero che Nietzsche scatena una guerra contro la società decadente del suo tempo, ma il superamento di questa decadenza non può avere un tempo determinato e in esso ridursi. A mio avviso non si può trattare di un’esperienza di popolo ma di singoli. La società di Nietzsche ha in sé i sintomi di una malattia diffusa e irreversibile, poiché la ‘prospettiva’ teologicometafisica, di cui è l’estrema manifestazione, ha esaurito 33
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1875-1876, op. cit., p. 154.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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la sua forza, ha smascherato se stessa proprio in virtù dei principi che le erano connessi, e ora con la ‘morte di Dio’ realizza la falsità d’ogni Presupposto, di ogni Fondamento, guarda in faccia l’abisso da cui era stata protetta, e non sa, in quanto società, fare a meno di una nuova ‘prospettiva’ su cui riprendere un cammino che riesca nuovamente a rimuovere lo scandalo dell’abisso. Il superuomo è il singolo che sopporta l’abisso e che decide il suo fondamento con la leggerezza di una danza; non può essere il capo di un popolo cui insegnare una nuova fede, né può essere uno fra tanti. L’esperienza del superuomo è l’esperienza del singolo, dell’eccezione, che nasce sì sulle rovine di una società decadente, ma che la supera nel suo significato ‘metastorico’. In quest’ottica si può comprendere l’esortazione di Nietzsche ad una filosofia che mantenga un senso storico: “la mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; […] Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è d’ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia”34 . La critica al proprio tempo non può fare a meno del senso storico, ma il pensiero di Nietzsche nella sua pars construens supera la dimensione storica. L’esperienza dell’esorbitante non può avere ricadute storiche, giacchè la stessa storia sulla quale si trascina la decadenza moderna muore a se stessa. Muore il tempo che annienta, ma, come suggerisce Cacciari35 , muore solo una delle possibilità che il tempo aveva di manifestarsi. Il pensiero del superamento non può che essere ‘inattuale’. Non è un ‘superamento’ che avvenga lungo la linea ideale del tempo, come il termine sembra suggeri34 F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano e Frammenti postumi, 1876-1878, op.cit, p. 16. 35 A tal proposito si veda il capitolo IV.
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re, ma che anzi si eleva nella Possibilità piena che vede in quella linea solo una delle sue manifestazioni. Se il superamento è inteso in senso ‘troppo attuale’ il pensiero di Nietzsche è maggiormente esposto a interpretazioni politiche. Abbiamo visto come la cultura nazista potè operare quelle semplificazioni che consentirono di includere Nietzsche nel numero dei pensatori del Reich, d’altro canto semplificazioni simili fecero in modo che Nietzsche risultasse quasi un ‘socialista inconsapevole’. Quanto si è detto a proposito dell’interpretazione di Luckacs vale per ogni lettura che voglia fare di Nietzsche un pensatore politico: si finisce per avere fra le mani un Nietzsche ‘irrazionale’ giacché le sue concezioni politiche sono in stridente contraddizione con le determinazioni ontologiche del suo filosofare36 . Thomas Mann con le sue Considerazioni di un impolitico37 risponde al tentativo di fare di Nietzsche il sostenitore della potenza virile del Deutschtum che si oppone alla decadenza europea, al ‘tramonto dell’occidente’. In quest’opera, Mann pone Nietzsche al centro della Kultur tedesca perché ‘impolitico’. Secondo Mann, la conversione spirituale della Germania alla politica costituisce il processo contro cui Nietzsche testimonia l’autentico ‘destino’ tedesco. Dunque Nietzsche è ‘impolitico’ – ma questo ‘impolitico’ è la potenza spirituale stessa della Germania. Il tentativo di Mann è evidentemente volto a recuperare Nietzsche allo spirito tedesco, e per far ciò, trovando nel pensiero del filosofo qualcosa che va oltre la politica, deve sostenere che la vera ‘anima’ tedesca sia ‘impolitica’: Nietzsche, educato all’etica pessimistica, tedesca e borghese, di Schopenhauer e Wagner, appartiene allo ‘spirito’ del 36
Si veda il par. Nietzsche e la cultura marxista al capitolo I. T. MANN, Considerazioni di un impolitico, tr. it. a cura di Marianelli, De Donato, Bari, 1967. 37
Nietzsche. Oltre l’abisso
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periodo classico-romantico della Bildung tedesca38 . Secondo Mann la figura di Nietzsche eroico per il suo essere ‘impolitico’, assoluto e paradossale si collega a Goethe: l’epoca di Goethe non esprime l’alleanza di ‘spirito’ e ‘potenza’, bensì l’assoluta sovra-policità e im-politicità di quello spirito. Lo spirito, in quanto borghese e tedesco, è essenzialmente Kultur, ma Kultur è cosmopolitismo; è espressione della sostanza universale opposta al concetto latino di ‘bourgeoisie’. Il significato essenziale di cosmopolitismo riposa dunque, per Mann, sul concetto di ‘impolitico’: la missione tedesca consiste nell’affermare la ‘potenza dell’impolitico’, e in ciò consiste la sua sovratedeschità, il suo cosmopolitismo. Certo si può discutere il fatto che Mann, operando le suddette semplificazioni, ponga in essere una posizione, quella dell’impolitico, carica di Valore, anzi addirittura capace di fungere da fondamento nascosto del ‘vero’ spirito tedesco precedente l’epoca della ‘politicizzazione’. Tuttavia questa interpretazione ha il pregio di ravvisare l’insostenibilità della lettura politica di Nietzsche. Il carattere aforistico della produzione di Nietzsche, la sua a-sistematicità, la polivocità delle sue espressioni, l’aspetto paradossale-profetico dei discorsi dello Zarathustra, inducono a propendere per una lettura ‘inattuale’ di Nietzsche. Del resto fra le interpretazioni che maggiormente influenzarono la Nietzsche-Renaissance italiana, quelle di Loewith, Jaspers e Bataille hanno in comune una certa ‘rivendicazione di inattualità’; così scrive Ferraris introducendo le letture degli anni ’30: “l’insegnamento nietzscheano non può risolversi senza residui in una dottrina storica; la cifra della sua filosofia è piuttosto consegnata al paradosso. […] Comprendere Nietzsche significa,
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T. MANN, Considerazioni di un impolitico, op. cit., p. 115, p. 121.
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in questo orizzonte, preservare la portata metastorica e profetica del suo pensiero”39 . Sicuramente non sfugge il fatto che si tratta di interpretazioni che si oppongono all’integrazione organica di Nietzsche nell’ideologia nazista, ciò nonostante esse ravvisano l’impossibilità di ridurre al ‘politico’ il filosofare di Nietzsche, aprendo la via alle interpretazioni ontologiche.
39 M. FERRARIS, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano, 1989, p. 86 e p. 87.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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SECONDA PARTE La ‘morte di Dio’ e la filosofia italiana
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Capitolo I
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Nietzsche e la filosofia italiana
Un panorama complesso Quasi unanimemente si è soliti ritenere che la NietzscheRenaissance italiana, rispetto a movimenti omologhi maturati in altri paesi, sia legata maggiormente all’attualità politica, e ciò è dovuto soprattutto alle letture degli anni Settanta che si formularono in un contatto intensissimo con i movimenti dell’estrema sinistra. Ora, le particolari vicende storico-economiche dell’Italia di quegli anni non bastano a chiarire le motivazioni di un tale approccio all’opera di Nietzsche. A mio avviso esse risiedono in consuetudini radicate nella filosofia italiana. Si tenterà in queste pagine di evidenziare alcuni tratti ricorrenti nel ‘pensiero filosofico’ italiano, al fine di mostrare come il pensiero di Nietzsche resista a ogni tentativo di ‘attualizzazione’, apparendo destinato ad una ‘comprensione sempre modificabile’. Si vedrà, altresì, come l’annuncio della ‘morte di Dio’ sia colto come la fine, oltrechè della differenza tra mondo-vero e mondo-apparente, della stessa ‘ragione’ costruita su detta struttura differenziale. Parlare di ‘filosofia italiana contemporanea’ implica certamente alcuni problemi: esiste una filosofia italiana con un suo specifico carattere? Inoltre, se esiste una presunta Nietzsche. Oltre l’abisso
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originalità (il che è discutibile), si può parlare di una filosofia, in virtù di un preciso carattere nazionale? Il quadro che ci si propone di investigare è continuamente percorso da tendenze sopra-nazionali, e ciò mostra come il carattere della filosofia italiana contemporanea consista non in un contenuto dottrinale uniforme, bensì in un’unità di circostanze in cui essa ha operato o alle quali ha fatto riferimento, oppure nella persistenza di tecniche con cui si è venuta costituendo. Dopo la Seconda Guerra, l’Italia dovette fare i conti con il proprio passato recente: la liberazione dal fascismo coincise, in ambito filosofico, con la liquidazione del pensiero di Gentile, per ovvi motivi legato al regime. L’influenza di Benedetto Croce (molto vasta anche sotto il dominio fascista) divenne imperante nell’Italia che si dava un ordinamento democratico ripensando al proprio passato liberale: Croce rappresentava, dunque, il simbolo dell’antifascismo e del post-fascismo, sia nell’ambiente più propriamente filosofico, sia tra i banchi della Costituente. Ma accanto alla liberazione dal fascismo, la cultura italiana si poneva ora il compito della liberazione dal crocianesimo che aveva sì garantito un’uniformità culturale all’Italia, ma l’aveva mantenuta estranea ai movimenti caratterizzanti la cultura negli altri grandi paesi europei e negli Stati Uniti. Dunque, il bisogno di una doppia liberazione caratterizza il secondo dopoguerra della filosofia italiana. L’aspirazione ad una cultura internazionale vide il tramite per la liberazione dal crocianesimo nel marxismo; esso poté assurgere ad un ruolo di primo piano nella cultura italiana sia per l’importanza che dalla Resistenza in avanti aveva assunto il partito comunista, sia perché era stato uno degli oggetti di aperta e intransigente censura fascista. Oltre al marxismo emerse anche il pensiero cattolico volto al recupero dell’immagine del Medio Evo da un lato, e all’appello all’interiorità dall’altro. Accanto a 190
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queste due vie si profilava una terza opzione ‘laica’ con il riferimento alle filosofie straniere, quale strumento di difesa contro l’idealismo prima, e contro il pensiero cattolico e il marxismo poi. La fenomenologia, l’esistenzialismo, il pragmatismo, il neo-positivismo, sono movimenti di cui il dibattito culturale italiano era quasi del tutto digiuno, e che furono prontamente acquisiti negli anni che seguirono la guerra con pratiche spesso rapsodiche ed eclettiche. Come nota Carlo Augusto Viano1 , anche se non c’era un riferimento esplicito, la strategia eclettica era uno strumento con una lunga tradizione nella nostra cultura; con un’operazione di questo genere si era costituito perfino l’idealismo crociano originario che accostava Hegel a Vico: tutto ciò poggiava sulla presunzione che “problemi nati altrove potessero trovare la loro soluzione in Italia”. Nell’ambiente culturale italiano, la filosofia ebbe sempre una posizione di rilievo che si manifestò nelle complesse vicissitudini degli anni della ricostruzione, nel tentativo di dare un’unità alla nazione; tuttavia, come si è detto, la filosofia italiana non trovò detta uniformità nella propria originalità, bensì nella sintesi di esperienze maturate in altri paesi. Ma quali furono i caratteri della filosofia di questi anni? La filosofia cattolica non si configurò mai come filosofia del cattolicesimo, ma sempre come apologia dei valori spirituali e religiosi e come rivendicazione dell’autonomia dei valori in generale rispetto alle ideologie fondate sul primato della società industriale o delle motivazioni di carattere materiale. Ciò si prestava molto bene alle polemiche contro il materialismo marxista per il quale il legame tra cultura e politica era diretto ed esplicito, e il 1 C.A. VIANO, Il carattere della filosofia italiana, in AA.VV., La cultura italiana dal ’45 a oggi, Guida, Napoli, 1982.
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partito assumeva il ruolo centrale di erede della nazione. La filosofia cattolica, d’altro canto, attraverso la teoria del primato dei valori e il personalismo, coltivò i temi solidalistici che avrebbero impegnato anche la pratica politica cattolica dopo l’alleanza con i socialisti e l’avvento del centro-sinistra. Una terza via, la cosiddetta filosofia ‘laica’ resisteva da un lato alla filosofia cattolica facendo valere i diritti della libera critica, dall’altro rifiutava l’idea dell’intellettuale ‘organico’ al partito proveniente dall’area marxista. Tuttavia, la filosofia laica trovò al pari delle altre due il proprio approdo nella teoria dell’impegno della filosofia: talvolta si trattò di vero e proprio impegno politico, talaltra di impegno pratico in generale. In Italia “la costruzione e valutazione della filosofia in base alle sua conseguenze pratiche presunte fu un carattere comune praticamente a tutte le forme di filosofia del dopoguerra”2 A metà degli anni Sessanta il mondo filosofico italiano fu scosso da una serie di movimenti provenienti, anche in questo caso, dall’esterno. In ambito laico si vide un ritorno alla metafisica sotto il segno dello strutturalismo; l’area marxista vide l’irruzione delle forme hegelo-marxiste utopistiche che si configuravano come critica del marxismo ufficiale comunista e del gramscismo; la filosofia cattolica passò dal soggettivismo spiritualistico a varie forme di oggettivismo per il tramite del recupero della metafisica classica. Le tre aree possono essere accomunate per il condiviso richiamo alla metafisica, richiamo che nasce anche dal bisogno di tentare di costruire una teoria filosofica totale e positiva dopo le dissociazioni prodotte dalla formazione di discipline filosofiche autonome e dall’affermarsi dello spirito analitico. Se in Inghilterra e negli Stati Uniti sembravano prevalere le suddette tendenze specialistiche e analitiche, in Francia e in Germa2
C.A. VIANO, Il carattere della filosofia italiana, op. cit., p. 42.
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nia (sebbene in maniera diversa) si cerca di fondare una nuova filosofia positiva e generale, alternativa e superiore rispetto alla conoscenza scientifica. In Italia, si ritrova la generalizzazione dell’importazione di motivi nati altrove, tuttavia, una certa persistenza delle tre aree sopra descritte garantiva un ambito definito nel quale procedere. Il marxismo si manifestò come una forma di filosofia aperta, disponibile a innesti e revisioni, quasi avesse assimilato la tecnica eclettica propria della filosofia laica. Anche l’area cattolica rappresentò un polo di organizzazione dei nuovi sviluppi: il rovesciamento del soggettivismo spiritualistico spostava l’attenzione alla teoria della storia, che era stata fino ad allora appannaggio della filosofia laica e marxista. Dunque, se dovessimo tracciare alcune linee guida che caratterizzano il dibattito filosofico italiano dal dopoguerra agli anni Settanta, diremmo che in un panorama così complesso e variegato si ritrovano consuetudini illuminanti: la mancanza di originalità e unità porta ad una pratica eclettica che accoglie i movimenti esterni operando una sintesi, quasi che in Italia i problemi rimasti in sospeso altrove debbano trovare una ‘luminosa’ soluzione; si ravvisa, inoltre, una preoccupazione esplicita per le valenze pratiche presunte della filosofia, in virtù di un impegno civile che ha sempre prevalso sull’accumulazione concettuale; comune all’intera filosofia italiana è, poi, la difesa nei confronti del sapere tecnico scientifico e della civiltà industriale. Queste linee guida ci devono servire a tracciare un breve itinerario della filosofia italiana del dopoguerra che ci conduca all’ambito che indaghiamo. Si è detto dell’influenza che l’idealismo nelle forme gentiliane prima, e crociane poi, esercitò nella filosofia italiana costituendo una costante con cui ogni corrente doveva di necessità fare i conti. Così fu per l’esistenzialismo Nietzsche. Oltre l’abisso
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che in Italia, come nota Valerio Verra3, trovò diffusione prima della corrente che la precede (si pensi al fatto che Heidegger fu allievo di Husserl), la fenomenologia. È nota, infatti, la dura posizione che già nel 1938 Croce assunse contro l’esistenzialismo, quale – nella definizione data da Antoni nel 1947 nella conferenza sull’Idea di esistenza in Hegel – ‘testimonianza della depressione e voce della catastrofe europea’. Ciò per evidenziare una certa ostilità, di cui fu oggetto la corrente dell’esistenzialismo, che derivava dall’assumere a tema dell’indagine filosofica la sola vita, come l’agonia di una filosofia interamente fondata sull’uomo. Dalla sponda dell’esistenzialismo si erano poi avuti, com’è noto, due importanti tentativi di riallacciare l’esistenzialismo, da un lato al pensiero crociano e, dall’altro, all’idealismo attualistico. Il primo all’inizio degli anni Quaranta è stato compiuto da Paci, secondo cui all’esistenza spetterebbe nella vita dello spirito la funzione attribuita da Croce alla forma economica, che in realtà è materia, e cioè quel momento senza del quale non è possibile né arte, né morale, né filosofia. D’altra parte Pareyson sempre in questi anni compiva una ricognizione degli aspetti dell’idealismo attualistico che potevano sembrare aver preparato un terreno favorevole alla problematica esistenzialistica. Risultarono così importanti le opere di Guzzo e di Carlini che evidenziavano gli esiti di temi gentiliani, come la concretezza e l’immanenza dell’atto, dotati di un carattere autenticamente ‘preesistenzialistico’. Nell’ulteriore sviluppo del suo itinerario speculativo, Pareyson venne poi accentuando la necessità di riferire l’esistenzialismo alla dissoluzione dell’hegelismo e al problema della ripresa o superamento del cristianesimo, e 3
V. VERRA, Esistenzialismo, fenomenologia, ermeneutica, nichilismo, in AA.VV., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma, 1985.
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sviluppò il nesso tra esistenza e persona nel quadro di un’ontologia della libertà e di una filosofia dell’interpretazione che ci ripromettiamo di approfondire più avanti. Dunque si è detto del rapporto idealismo-esistenzialismo; ora, è il caso di accennare alle due principali correnti dell’esistenzialismo fiorite in Italia dopo il ’45: la via ‘laica’, e la via ‘cristiana’. Per quanto riguarda la prima, occupa un ruolo centrale l’opera di Nicola Abbagnano con il quale l’esistenzialismo ‘positivo’ evolve verso una forma di umanismo neoilluministico attento al confronto con il neopositivismo e la sociologia. Diversa è l’interpretazione dell’esistenzialismo data da Enzo Paci, che pur si professa d’accordo con Abbagnano nell’intendere l’esistenzialismo in senso positivo come “necessità di superare il dolore e il male e le situazioni storiche negative in una concezione umanistica nella quale la filosofia e la scienza dovevano diventare un rapporto tra gli uomini sia sul piano personale che su quello sociale”4 . Venendo all’esistenzialismo cristiano è necessario fermarsi nuovamente sull’opera di Pareyson. Affermando lo stretto legame tra genesi dell’esistenzialismo e dissoluzione dell’hegelismo, nella duplice direzione kierkegaardiana e feuerbachiana, Pareyson (in Esistenza e persona del 1950) rivendica l’attualità dell’esistenzialismo, quale autentica consapevolezza non solo dei caratteri della crisi (e di crisi filosofica) della situazione attuale, ma anche dell’insostenibilità e improponibilità di ogni situazione di carattere ‘oggettivante’ dei problemi filosofici. Ciò non significa rinunciare all’esigenza speculativa di verità, ma al contrario affermare il carattere speculativo della filosofia proprio attraverso il nesso inscindibile tra verità e persona, cui lo stesso esistenzialismo non ha saputo dare ri4
Così dichiarava Paci in un’intervista del 1970, ora riportata in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, op. cit., p. 445-8
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sposta, perché ancora ‘inceppato’ da una concezione negativa della persona e, quindi, del suo rapporto religioso con Dio, e metafisico con l’essere. Infatti, se è merito di Feuerbach e dell’esistenzialismo ateistico e umanistico aver dissipato l’equivoco di un ‘cristianesimo laico’, costringendolo a trapassare più coerentemente in ‘fine del cristianesimo’, in tal modo però non si è fatto che aprire la strada a concezioni strumentalistiche e prassistiche della ragione, e quindi eliminare ciò che lega la persona alla sua libertà, ossia il rapporto con Dio. È proprio in Kierkegaard che Pareyson rinviene la possibilità dell’apertura veritativa: l’esistenzialismo di Pareyson è sì una filosofia del finito, ma non chiuso nella sua illusoria autosufficienza, bensì scorto nella sua relazione con l’alterità e con se stesso: a questo punto Pareyson può elaborare il suo personalismo ontologico che evidenzia come il concetto di persona, quale finito che esige la verità ma non può slegarsi dalla sua situazione storica, debba essere interpretato nella sua realtà e “perciò (essere) considerato come insufficiente ma non negativo, positivo ma non sufficiente, cioè come persona in quanto prospettiva sull’essere”5 . Già si affacciano i temi prettamente ermeneutici cui approderà da ultimo la speculazione di Pareyson; per ora limitiamoci ad accoglierne le terminazioni esistenzialistiche al fine di evidenziare il loro rapporto con l’altra corrente filosofica che attraversa il dopoguerra italiano: la fenomenologia. Come si è detto, la fenomenologia in Italia segue l’ondata esistenzialistica anziché precederla; ciò però non significa che i testi di Husserl fossero del tutto sconosciuti prima degli anni ’50. Infatti, già negli anni ’30 si assiste al sorgere di letture specialmente del ‘primo’ Husserl da parte di studiosi come Antonio Banfi, 5
M. RAVERA, Introduzione alla filosofia della religione, UTET Laterza, Torino, 1995, p. 183.
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il quale punta l’attenzione sull’affermazione di una vigorosa riscossa dell’esigenza di chiarificazione razionale e sistemazione teorica dell’esperienza. Anche nel periodo di massimo sviluppo dell’esistenzialismo, la fenomenologia continuava ad essere coltivata in alcuni campi specifici come l’estetica e la psicologia, ma è solo negli anni Sessanta che si assiste alla maggiore fioritura e incidenza teorica della fenomenologia, quando l’influenza dell’esistenzialismo andava ormai scemando. La rinascita di interesse per Husserl e la grande diffusione della fenomenologia in Italia, che fanno capo ad Enzo Paci e alla rivista “Aut Aut” da lui fondata nel 1951, prendono le mosse soprattutto dall’ultimo Husserl, lo Husserl della Krisis e degli inediti sui grandi temi del mondo della vita, della psicologia e della temporalità della coscienza, considerazione, questa, essenziale per comprendere il carattere effettivo della complessa vicenda tra fenomenologia ed esistenzialismo in Italia. Inoltre, va sottolineata la vicinanza tra fenomenologia e marxismo nel dibattito filosofico italiano – nella lettura proposta da Paci – consistente nell’accentuazione del rapporto tra riduzione alla Lebenswelt e riduzione trascendentale, come processi a loro volta intrinsecamente ‘rivoluzionari’, che si propongono il recupero di un’autenticità possibile solo come telos. Come si vede, il marxismo, nei confronti della fenomenologia, risponde alle esigenze di una filosofia eclettica capace di accogliere le diverse correnti nel proprio ambito pragmatico. Non diversamente accadrà per l’opera di Nietzsche, opera che però, a mio avviso, resiste a ogni attualizzazione per il suo carattere metastorico e adottrinale.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Ermeneutica, nichilismo e ‘crisi della ragione’ Sebbene Pareyson non si sia direttamente provato con l’opera di Nietzsche, il suo approdo ermeneutico sembra innestarsi a pieno titolo nell’abissalità prodotta dalla ‘morte di Dio’. Gli esiti dell’esistenzialismo di Pareyson conducono ad un concetto di verità che esula dal contesto della metafisica classica. Per Pareyson il rapporto con l’essere è un rapporto interpretativo: la relazione con la verità è rapporto ermeneutico in cui il nesso con la verità è totale e la formulazione che se ne dà è particolare (ossia personale), in modo che l’interpretazione ha necessariamente un carattere ontologico. Come lo stesso Pareyson scrive “se si chiede in che modo la filosofia possa attingere e possedere la verità, si vedrà che essa può farlo non nella forma della conoscenza, perché la verità non è oggetto concluso di una visione totale, ma nella forma della coscienza; e della coscienza non già in senso hegeliano, come coscienza della realtà già compiuta, ma, se mai, in senso schellinghiano: coscienza non di ciò che è ultimo, ma di ciò che è primo, non di una storia conclusa, ma di un’origine inesausta, non della presunta totalità dello spirito umano, ma della sua infinita virtualità originaria”6 . La verità non è, quindi, oggetto del discorso filosofico ma sua origine; l’originario rapporto ontologico è necessariamente ermeneutico: le molteplici formulazioni della verità sono un possesso autentico e reale, ma questo è tale solo come compito infinito e interminabile. Le conclusioni della speculazione pareysoniana contribuirono, assieme all’opera di Castelli ma soprattutto all’influenza esercitata dal pensiero di Heidegger e di Hans Georg Gadamer, ad aprire la strada italiana alla corrente filosofica nota con il nome di ermeneutica. In Italia il successo dell’erme6
L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1971, p. 208.
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neutica è dovuto probabilmente alla connessione tra ermeneutica e storicità, un tema quest’ultimo tradizionalmente caro alla nostra filosofia. Del resto, una filosofia incentrata sul primato del linguaggio rispetto al pensiero è comprensibile che potesse trovare particolare ascolto in un ambiente culturale nutrito di tradizione umanistica quale è quello italiano. A complicare il già variegato panorama filosofico italiano contribuirono negli anni ’60 la pubblicazione delle opere dell’ultimo Heidegger oltreché, come si è detto, le traduzioni Colli-Montinari delle opere di Nietzsche. Si tratta di due fenomeni che a mio avviso vanno considerati parallelamente, poiché la ricezione di Nietzsche in Italia passa per buona parte attraverso l’interpretazione di Heidegger. Il Nietzsche, pubblicato nel 1961 e che raccoglie fra l’altro lezioni e saggi dedicati al filosofo, oltre a costituire la più autorevole lettura ontologica di Nietzsche, rappresenta un momento fondamentale della speculazione heideggeriana. Tali scritti hanno poi avuto notevoli ripercussioni sulla lettura del ‘primo’ Heidegger di cui si erano largamente nutriti esistenzialismo e fenomenologia in Italia, e, infine, la loro fortuna venne a cadere in un momento in cui per varie ragioni (fra cui le contestazioni del ’68 e la fortuna della Scuola di Francoforte), l’intero schema ‘razionalismo-irrazionalismo’ di stampo lukacsiano, rimasto per molti anni dominante, era andato gravemente in crisi. Il problema dell’ermeneutica dagli anni Sessanta agli anni Settanta si è variamente intrecciato e complicato con quello del nichilismo, soprattutto nel senso dell’‘ultimo’ Heidegger e della sua concezione di un nesso profondo tra nichilismo, storia della metafisica, oblio della differenza ontologica e destino della nostra civiltà. Tra i pensatori che operano in quest’area, va segnalato il contributo portato da Alberto Caracciolo il quale indiviNietzsche. Oltre l’abisso
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dua proprio nel nesso tra nichilismo ed ermeneutica, quale si configura nell’ultimo Heidegger, la chiave per comprendere il significato religioso dell’esistenzialismo heideggeriano nel suo fondamento ontologico e viceversa. Se in Sein und Zeit era ancora possibile una lettura antropologica dell’analitica esistenziale, con la conseguente riduzione del rapporto con la morte ad una sorta di atto eroico gratuito, con la svolta, invece, risulta chiaramente l’inscindibilità tra esistenzialismo, ermeneutica e nichilismo, poiché la struttura dell’esistenza è identica a quella dei due contrapposti nihil (il niente oggettivo come annientamento del singolo nella sua morte, e il nulla religioso come condizione ontologica dell’angoscia) che in Essere e Tempo sembravano coinvolti in un’ambigua oscillazione. Ciò significa che l’essere a cui si rapporta l’esistenza non è neppure uno spazio trascendentale neutro, bensì donazione e annuncio di senso; lasciando dietro di sé ogni forma di antropocentrismo, il nulla si converte nell’essere: “Alla stupida mutezza del niente si sostituisce l’inesauribile Parola del Nulla che è l’Essere. L’angoscia qui può essere gioia […]; il senso profondo della Kehre (svolta) sta dunque nel rifiuto del Nicht come niente per il Nicht come Nulla che si converte nell’Essere”7 . Certo Heidegger distingue tra l’essere così inteso e il divino, ma Caracciolo è persuaso che questa distinzione non voglia suggellare affatto la scomparsa del religioso, bensì il suo ritrovamento in una dimensione ormai libera dalle ipoteche antropocentriche e metafisiche. Il sacro perde la sua forma metafisica in favore della sua portata ontologica che può essere colta soltanto in una dimensione ermeneutica che ascolta nel linguaggio la parola dell’essere. Il senso esistenziale e ontologico dell’interpretazione comporta da un lato 7
A. CARACCIOLO, Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli, 1976, p. 97.
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una dialettica di ascolto e di impegno, dall’altro si attua sempre e soltanto nella coesistenza, nel colloquio, nella cooperazione, essendo l’uomo ‘esistente situato’ e storicamente situato. In questo senso, l’interpretazione è sempre interpretazione dei segni dei tempi e la religione, l’arte, la filosofia, la politica non sono chiamate a ‘rispecchiare’ il tempo, bensì a interpretare, ciascuna a suo modo, i segni del tempo. Al tema vario e complesso del nichilismo giunge per altre vie Emanuele Severino. Allievo per molti anni di Gustavo Bontadini all’Università Cattolica, Severino ne continua la speculazione, in aperta polemica, rinvenendo un’originale lettura del nichilismo e della nostra civiltà. Nel primo decennio postbellico, Bontadini aveva intrapreso un’opera di essenzializzazione del discorso metafisico, per mostrare la ‘significanza dell’essere’ contro il ‘neopositivismo’, evidenziando come l’essere non possa essere risolto nei singoli (e, perciò, distrutto), perché esso emerge dalla fondamentale sua opposizione al non essere. Nel divenire che è la molla classica della dimostrazione di Dio, Bontadini rinviene una contraddizione tra piano logico e piano fenomenologico, giacché interpreta il divenire come l’annullarsi dell’essere che è (come il non esserci più di Socrate in piedi, quando Socrate è seduto), e quindi come l’identificarsi dell’essere con il non essere. La contraddizione del divenire è tolta, ove non si consideri il divenire di per sé solo, ma lo si riguardi alla luce dell’idea dell’Originario, dell’Assoluto: se il divenire fosse originario, il non essere, in esso, limiterebbe l’essere, avrebbe una potenza su di esso, cosa impossibile, visto che si tratta appunto di non essere. La limitazione dell’essere che è non può quindi, sotto pena di contraddizione, essere originaria, ma deve essere posta da un Essere che, a sua volta, non divenga: dall’Assoluto indiveniente. Questa fu la prima formulazione della ‘prova di Dio’ bontadiniana, proposta nel 1952. Nietzsche. Oltre l’abisso
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Non molti anni dopo, Severino obbiettò al maestro che la contraddizione del divenire non era con ciò veramente tolta, perché essa consisteva non già nell’essere originario, non prodotto da altro del divenire stesso, ma nel fatto semplicissimo dell’identità – originaria o meno – dell’essere con il non essere del divenire. Concludendo all’intrascendibile contraddittorietà del divenire, Severino propose nel 1964 un ritorno a Parmenide che non negasse la molteplicità degli enti, ma affermasse l’immutabilità dell’essere. La vita del divenire, così come la viviamo, è il frutto di un fraintendimento che consente all’essere di non essere e apre la strada alla volontà di potenza, alla sopraffazione e alla devastazione della natura: tutte cose rese possibili dalla convinzione che le cose e gli uomini siano distruggibili, modificabili, plasmabili, perché esposti essenzialmente alla nullificazione. La risposta di Bontadini a Severino sottolinea la diversità fra divenire creato e divenire non creato, ammettendo solo per quest’ultimo un’intrascendibile contraddittorietà: l’essere che emerge dal non essere, non può essere che un niente. Visto, invece, come creato, il divenire non comporta contraddizione, giacché non aggiunge nulla all’Immutabile da cui discende: nell’Archetipo c’è tutta la perfezione, la quantitas realitatis, del creato e se la “contraddittorietà del divenire è equivalente alla contraddittorietà dell’incremento-decremento, tolta questa è tolta – sanata – quella”8 . La proposta di Bontadini è stata al centro di vive discussioni che trovarono posto prevalentemente nella ‘Rivista di filosofia neoscolastica’ eppoi anche su ‘Verifiche’. La meditazione parmenidea di Severino si arricchisce delle voci di Marx, Nietzsche, Heidegger, pensatori che, 8
G. BONTADINI, Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano, 1975, pp. 20-1.
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come abbiamo detto, hanno un ruolo determinante nel dibattito da noi considerato. Il tema che invade il panorama filosofico di questi anni, pur con le sue più varie sfumature, è il nichilismo. Tema che Vattimo affronta nel suo legame con l’ermeneutica in una direzione ‘destinale’ che collega i risultati del pensiero heideggeriano (e specialmente della lettura heideggeriana di Nietzsche) alla problematica del ‘postmoderno’ e alle ‘avventure della differenza’ tipiche del pensiero degli anni Settanta. Comprendere il significato storico metafisico del nichilismo significa radicalizzare la nozione di metafisica come ‘storia dell’essere’ fino a riconoscere il ‘carattere eventuale’ dell’essere stesso. E riconoscere il carattere eventuale dell’essere significa accettare il fatto che ormai sono solo più possibili forme di pensiero ‘debole’. Di qui la posizione centrale dell’ermeneutica all’interno dell’‘ontologia del declino’, perché proprio l’ermeneutica corrisponde alla rinuncia di ogni pretesa di ‘fondazione’ che la ‘morte di Dio’, nella sua carica antiplatonica, impone ove venga accettata sino in fondo. Il tema dell’assenza di fondamento è affrontato da Cacciari attraverso l’accostamento dell’opera di Heidegger alle conclusioni di Wittgenstein: il mondo e la trasformazione sono pura illusione, o meglio puro aggregarsi di linguaggi privi di fondamento; invece di rassegnarsi, occorre assumere con una tragica serenità da esprit fort questa constatazione, allestendo una filosofia del come se le cose del nostro mondo avessero un fondamento, applicandosi ad una ragionevole, tecnocratica, gestione del mondo. Nel 1979 viene pubblicato da Einaudi un volume collattaneo di saggi dal titolo Crisi della ragione9 . Come facilmente si può arguire si tratta di una raccolta di saggi volti a mettere a fuoco alcuni momenti della ‘crisi della 9
AA.VV., Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino, 1979
Nietzsche. Oltre l’abisso
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razionalità’, delineando il quadro dei nuovi movimenti del pensiero attraverso i quali si compiono le più audaci connessioni tra le forme del sapere e le pratiche della vita. Non si possono, in questa sede, approfondire le tematiche che inducono a parlare di ‘crisi della ragione’, basti dire che il modello di razionalità costruitosi attraverso mutamenti e aggiustamenti (che pur fanno propendere per una visione della ‘ragione’ coinvolta in una ‘crisi perenne’) si avverte inadeguato ai repentini mutamenti cui il secolo lo espone. Se, come suggerisce Vattimo10 , le tendenze irrazionalistiche presenti nel pensiero italiano sono da intendere come espressioni di momenti di crisi dello storicismo variamente inteso, la ‘crisi della ragione’ che ci interessa considerare in relazione alla ‘morte di Dio’, appare come l’assenza di un fondamento certo su cui allestire un pensiero che abbia relazione con il reale. È, infatti, con la riscoperta di autori come Heidegger e Nietzsche che si pone il problema dell’assenza del fondamento: una volta che sia caduta la fede in un fondamento trascendente (l’Essere, lo spirito della storia o Dio) o del tutto immanente (la ragione come organo puro del giudizio), il sapere razionale si trova destituito della propria legittimità. Come si è visto, l’annuncio della ‘morte di Dio’ comporta la fine del ‘soggetto’ costituito a partire dalla differenza metafisica tra mondo ‘vero’ e mondo ‘apparente’. La ‘crisi della ragione’, in definitiva, evidenzia gli esiti di un messaggio che risulta esorbitante ove esso venga colto nella sua carica ontologica. Nel saggio di Gargani, la crisi della razionalità classica viene descritta come crisi di un sistema di potere, in quan10
G. VATTIMO, Irrazionalismo, storicismo, egemonia, in AA.VV., La cultura italiana dal 1945 al 1980, Guida, Napoli, 1982, atti del convegno di Anacapri del giugno 1981. 204
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to essa era espressione di una certa struttura di potere che, con la trasformazione dei rapporti sociali, si trova inadeguata al mutamento avvenuto. Il discorso sulla dissoluzione della forma egemonica della razionalità è sottolineato, dunque, dal nesso tra razionalità classica e tecnica moderna. Questo nesso, già presente nella riflessione epistemologica primo-novecentesca, entra in Italia in tutta la sua portata dissolutiva attraverso la riflessione su Nietzsche e sulla interpretazione heideggeriana di Nietzsche. Nelle pagine che seguono si vedranno gli esiti italiani della ‘morte di Dio’ che, intesa in senso ontologico, domanda la posizione di una ‘nuova ragione’, capace di far fronte alla volontà di potenza del mondo della tecnica, senza cadere nel fraintendimento metafisico.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Capitolo II
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Massimo Cacciari
Pensiero negativo e recupero della razionalità Nell’interpretazione di Cacciari, la volontà di potenza di Nietzsche riassume la necessità di porre in essere una sistemazione dell’indefinibile che ci permetta di disporne. Ora ci proponiamo di indagare i ‘margini’ che questo indefinibile lascia intravedere al di là dei giochi. Sembra, infatti, che la necessità di giocare i diversi giochi che si susseguono, lasci insondata una zona indeterminata sulla quale si stagliano le diverse interpretazioni. Secondo Cacciari, le crisi che coinvolgono i giochi nella loro fase di declino, sono funzionali alla necessità di adattare l’interpretazione al mutare degli eventi: con la ‘morte di Dio’ si scopre che il Fondamento non è definitivo, bensì è frutto di una ‘supposizione’ che ha saturato la sua origine costituendo un concetto unificante. La filosofia del Grund non è che il risultato del bisogno metafisico di stabilità; questo bisogno ha in sé il destino della crisi, che subentra allorquando la ‘supposizione’ esaurisce il suo compito e intravede la posizione di nuovi bisogni. Non va trascurato che la ‘morte di Dio’ squarcia il fondo metafisico all’AbGrund: tuttavia, l’uomo per camminare ‘ha bisogno della terra’, e, quindi, dell’abisso non si ha che una vuota conNietzsche. Oltre l’abisso
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sapevolezza, che richiede la determinazione di un nuovo Fondamento. L’imposizione dei giochi dipende dal bisogno metafisico. Il pensiero negativo nella sua critica del sistema dialettico (quale tentativo di soddisfazione del bisogno metafisico), è recuperato da Cacciari nella sua effettualità. Secondo Cacciari, “Nietzsche traccia una teoria della negazione del sistema dialettico, una teoria dell’opposto”1 , che esplicita le conclusioni del pensiero dialettico rivelandone l’impotenza; e per far ciò deve ‘continuare’ il pensiero di Schopenhauer senza arrestarsi all’ascesi cui quest’ultimo giunge, recuperando anzi quel ‘momento’ alla sua effettualità. Schopenhauer come educatore anticipa i ‘concetti’ nietzscheani di volontà e tragedia; da Schopenhauer Nietzsche apprende il dolore della verità, della contraddizione e della negazione, ma non la fuga estatica, giacché essa risulta inutile nel mondo in cui siamo, l’unico nel quale possiamo essere: se Schopenhauer giunge all’ascesi, Nietzsche ritorna alla vita, riconoscendo nell’ascesi il ‘presupposto’ dialettico che contempla la contraddizione e il conflitto distanziandosene, però, e rimanendo nella differenza. Infatti l’ascesi è negazione della vita, poiché se la vita è volontà, e se la soddisfazione dei bisogni fenomenici della vita non è mai completa, l’unica via di scampo alla catena delle volizioni è la noluntas: “L’ascesi rende perfetto tale consumo. Il Nirvana è il mondo tutto consumato: piena soddisfazione proprio in quanto realizzazione perfetta del presupposto stesso della ricerca etica: comprensione totalizzante del mondo. Tutti i bisogni sono stati soddisfatti. Ciò significa: il Nirvana finale è il compimento di un processo effettuale”2 . Ora, se è vero che l’ascesi è 1
M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, pubblicato come introduzione ad E. FINK, La filosofia di Nietzsche, Marsilio, Padova, 1973, p. 34. 2 M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 17. 208
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il naturale svolgersi di un processo effettuale (poiché chiude ‘il corso’ che ha avuto principio nel bisogno di stabilità), essa risulta impotente rispetto al mondo della vita, e inoltre conserva la separazione tra fenomeno e cosa in sé, e la sua direzione è il superamento del fenomeno nella ricerca della cosa in sé (sia pure colta nella sua negazione). L’utopia dell’ascesi non trova effettualità nel mondo, poiché la libertà dalla volontà cui anela la speculazione di Schopenhauer è una libertà per il Nulla: “questa liberazione è esattamente l’opposto del fare. Tra operari e libertà c’è contraddizione irrisolvibile. Se c’è Freiheit, non può esserci operari effettuale – ma ascesi soltanto – e l’ascesi non conduce al mondo, all’operari di nuovo”3 . Secondo Cacciari, la libertà ha avuto sempre un’affinità inscindibile con il concetto di Sostanza e in-sé, mentre esiste possibilità di fare solo lì dove si afferma la necessità, ossia nel mondo in cui siamo. Se il potere coincide con la comprensione della necessità, volere il potere significa liquidare il concetto di Freiheit: lo spirito libero di Nietzsche è colui che si è congedato dalle mistificazioni metafisiche della libertà, accogliendo la tragicità della propria esistenza: “la libertà del Freigeist è Daseinfreiheit: rovesciamento dell’idea metafisica di libertà […]. Freigeist è chi si ‘concilia’ al Fatum”4 , nella direzione effettuale della volontà, ovvero nello spazio della vita. Ma la volontà nello spazio della vita non può che essere Wille zur Macht (poiché il Macht si dà solo nel contesto della contraddizione e del conflitto), mentre il sistema dialettico è Wille zur OhnMacht proprio perché elabora forme per il superamento delle contraddizioni nella Sintesi (sia anche, nella sua manifestazione più disperata, ascetica). Ed è anzitutto l’essere il perno della logica sintetica: di fronte al divenire del mon3 4
M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 36. M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 37.
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do, non formulabile nelle categorie metafisiche, si configura un mondo fittizio, la credenza dell’in-sé; certo, anche questo mondo dell’essere è strumentale all’organizzazione che permette di potere nella vita, e perciò si definisce come Wille zur Macht, ma esso va ‘oltre’ l’effettualità del potere giacché non tocca il divenire: “Finché le forme della conoscenza e il divenire si escludono a vicenda – finché la conoscenza è conoscenza di ‘qualcos’altro’ dal divenire – conoscenza dell’essere, della sostanza, o dell’Ego come sostanza – l’intuizione del Wille zur Macht si rovescerà sempre nel Sollen”5 . La ‘morte di Dio’ è l’esaurirsi della volontà di potenza che cerca la Sintesi di là dal mondo, ed è contemporaneamente la scoperta di una volontà di potenza che accetta la contraddittorietà del mondo e la organizza per poterne disporre, pur in questa consapevolezza. In accordo con quanto detto, il Superuomo non è un saggio che sceglie l’ascesi vivendo di una Freiheit ‘assoluta’, ma esattamente l’opposto: ossia chi ritorna dall’ascesi per potere nel mondo, e si sa elemento del divenire, necessitato in esso, non libero. “Alla fine della metafisica sta l’embodiement radicale. Il Wille si è svolto nel Macht – il Macht è comprensione del divenire effettuale: suo dominio. La Ratio logico-metafisica si è realizzata nel Wille zur Macht. È divenuta Rationalisierung: il processo concreto in base al quale il Wille opera e domina nel divenire”6 . La filosofia della metafisica è giunta alla sua fine, e ora fa spazio alla ‘razionalizzazione’ tecnicistica: con Nietzsche non si assiste alla ‘distruzione della ragione’, bensì alla sua affermazione. È Heidegger a continuare la speculazione nietzscheana, opponendosi al tentativo di Husserl di restituire una filosofia perennis che recuperi, con la sua Icheit, un Fondamento da cui partire. La ‘tecnica’ realizza 5 6
M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 40. M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 42.
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la direzione implicita della ricerca metafisica moderna, ma nel realizzarla ne critica e liquida anche l’idea centrale, quella dello schema, della sintesi. Non si può più parlare in termini metafisici, giacché il Ge-Stell (mondo della tecnica come im-posizione) ha esaurito la volontà di potenza metafisica, illuminando un Wille zur Macht della Ratio che organizza il divenire senza passare per l’essere. I detrattori dell’opera di Heidegger relegano il suo pensiero al di fuori della Ratio, nella misura in cui ritengono che la sua idea centrale sia il ritorno all’Essere parmenideo. Cacciari sostiene, invece, che il simbolo parmenideo non rappresenti, per Heidegger, alcuna speranza; esso è anzi la metafora finale del destino della metafisica: “Se esistono ancora filosofi, ebbene: parlino di Parmenide. Tutto il resto è già-visto: tutti gli altri spazi sono occupati. Altri luoghi ‘liberi’ non si danno. Se filosofia deve ancora esserci, essa sarà tutta al passato, a prima della Ratio”7 . Questo ritorno alle origini è semplicemente ritorno al passato, nell’impossibilità di ogni ‘riattualizzazione’: l’unico spazio per la filosofia risulta essere un’origine inattualizzabile, un passato irreversibile. Parmenide non costituisce una via di scampo, una fiammella che illumini la via per superare la Ratio, infatti, non interviene minimamente nel discorso effettuale; egli sta a significare che la filosofia è ormai solo più storia ‘narrabile’. I veri progetti appartengono a chi ha ucciso gli Dei: “a chi c’è, sulla base della necessità, e vuole potere, e per potere organizza la sua tèchne – e con essa interviene nel conflitto, come conflitto – produce contraddizione e tale contraddizione usa”8 . Dunque la filosofia ha smesso di essere metafisica, ha smesso di considerare il divenire una ‘caduta’ dall’essere, e ora il suo destino appare legato intrinsecamente alla ‘tec7 8
M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 59. M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, op. cit., p. 60.
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nica’. Come si è detto, il filosofo che imbastisce una filosofia della ‘tecnica’ corre il rischio di ritenere il particolare gioco in cui è inserito l’unico possibile, dando così luogo ad un nichilismo sfrenato che prende per verità fondata una semplice convenzione utilitaristica. A frenare questa presunzione, Cacciari pone il ‘mistico’ -nell’accezione wittengeisteiniana-, il quale ricorda i limiti entro cui è possibile definire il gioco, e allo stesso tempo fa presente, senza poterlo dire, uno ‘spazio’ nel quale è possibile imbastire la filosofia del come se, ossia la filosofia del tecnocrate. Il ‘mistico’ non è l’esperienza del trascendente, bensì è l’esperienza del mondo come ‘tutto limitato’: se pensassimo che il ‘mondo’ che gestiamo è l’unico possibile, riterremmo di poter dedurre da ciò una verità sempiterna, un Fondamento definitivo; ma il ‘mistico’ ci ricorda il limite entro cui la nostra verità ha ‘senso’: “Così come esclude dall’espressione linguistica ogni rimando a un ‘ineffabile’ e fonda, perciò, la possibilità di proposizioni dotate di senso – così mostra anche l’ineffabile. Lo mostra – sa di non poterlo dire. […] Senza ‘mistico’, il formalismo tenderebbe sempre a divenire ‘tutto’, a presentarsi come verità, a eliminare da sé ogni limite”9 . Ora, riconoscere il limite non significa doverlo superare per aver accesso alla verità: lo ‘scontro’ tra il dire dei linguaggi di cui si dispone, e il silenzio dei ‘margini’, non può essere eliminato; è anzi questo ‘conflitto’ ad assicurare la ‘posizione’ dei giochi. Non si deve intendere lo ‘spazio ineffabile’ del mistico come qualcosa di non-ancora detto (e quindi destinato ad essere detto) come se fosse semplicemente qualcosa di negativo che si oppone al positivo dei giochi: il mistico, in effetti, si mostra. Esso non è dimostrabile, né comunicabile, ma l’ineffabile è presenza presupposta allo stesso dire: “il Mistico accompagna inesorabilmente il dicibile. Ma come 9
M. CACCIARI, Krisis, op. cit., p. 96.
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dimensione altra dal dicibile stesso, come differenza da esso: come il mostrarsi. Ciò che mostra sé, non è detto, non è pro-dotto dal dire. È presupposto al dire”1 0. Ma il dicibile non può raggiungere nessun Presupposto: la filosofia non può giungere a definire il Presupposto (Gesetz), giacché non sarebbe più un mostrarsi se derivasse dialetticamente dalla ‘scala’ della filosofia. Il Presupposto si manifesta nella ‘sorpresa’ e irrompe nel discorso come una memoria rimossa.
Oltre la ragione La filosofia non può affermare logicamente il Presupposto, giacché esso risiede nell’immediatezza. La struttura necessariamente falsificante su cui si costruisce la filosofia con le sue vicende, esula dal definire, al culmine del suo processo, il Presupposto, tuttavia questo l’accompagna costantemente garantendole la possibilità di imbastire il proprio processo. Mi pare di poter dire che la ‘morte di Dio’, oltre a rappresentare la fine di una volontà di potenza che separava il mondo–della-vita dal ‘mondo vero’, dando a quest’ultimo valore ontologico e fondativo, illumina il ‘limite’ della struttura entro cui è stato possibile affermare Dio e rivela, per un attimo almeno, l’abisso che sta oltre le possibili prospettive. Quest’abisso è il luogo del silenzio mistico che si affaccia senza poter essere detto: è, infatti, impossibile stare nell’Ab-Grund; una volta scoperta la ‘falsità’ della struttura metafisica, si deve decidere per un altro Grund, – e ciò necessariamente. Quanto detto sembrerebbe contraddire il fatto che la filosofia non può condurre al Presupposto. È vero che la ‘morte di Dio’ è responsabilità 10
M. CACCIARI, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano, 1980, p. 138.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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degli stessi fedeli che, continuando lo spirito di verità che li anima, determinano la fine della più grande menzogna, ma è altrettanto vero che ciò non conduce ad una verità fondante, ché questa, come ogni ‘pretesa verità’, muore con Dio. Inoltre l’Ab-Grund non può costituire un Fondamento, ricorda solo l’assenza di fondamenti; rimane nella sua differenza, non può essere detto. La filosofia nel suo procedere è costantemente accompagnata dal Presupposto che, per un’esigenza interna, è costretta a nascondere; ciò però non impedisce al Presupposto di mostrarsi. C’è un problema che rimane aperto: se la metafisica nasce da un bisogno di stabilità, e se, una volta venuta meno la necessità del ‘mondo vero’, si è ancora costretti a stabilire un Grund: donde nasce questo bisogno? È forse lo stesso bisogno di stabilità che ritorna a chiedere un Fondamento? Tentare di trovare una risposta a questi temi attraverso la filosofia è uno sforzo destinato allo scacco. Cercare un’origine da cui dedurre con necessità il procedere del pensiero e il suo naturale ritornarvi è assoluta follia: significa pensare che la particolare prospettiva nella quale è costruita la filosofia coincida con il Tutto al punto da rinvenire nella sua genesi il principio generale. Come si è visto, il ‘mistico’ si mostra come il limite di ogni gioco e assieme attesta una zona di silenzio ‘altra’ da ogni possibile configurazione che il gioco possa assumere. Cacciari svolge il problema già in Dallo Steinhof, ove i temi sviluppati rimandano ad un centro comune che non è una Verità da comunicare, bensì un’assenza, un’origine che non può essere ‘detta’. Il problema troverà un ulteriore sviluppo in Dell’Inizio; ciò qui che preme evidenziare è il fatto che bisogna liberarsi dalla presunzione di ritenere l’Inizio un’origine, giacché questa implica un legame con ciò-che-origina. Cacciari è vicino alle conclusioni dell’ultimo Schelling, secondo cui l’Inizio è un Incondizionato 214
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che non può essere coinvolto col processo: “Finché l’Inizio è pensato come potenza di essere, è pensato come volontà capace di volere e basta, dunque: l’Inizio non è propriamente tale, ma presuppone la Volontà a proprio fondamento. Se l’Inizio è, invece, perfettamente libero di non-essere, la sua volontà apparirà perfettamente priva di volere. […] L’Inizio è pura Indifferenza, che comprende in sé ‘senza lotta’ e ‘senza fare’ ogni possibile determinazione e opposizione, ogni mondo possibile.”1 1. Un essere può sorgere solo alla condizione che l’Inizio sia tale da distinguersi dall’esserci e assieme costituirne la possibilità. L’inizio non deve ‘necessariamente’ passare all’essere: è in atto, proprio in quanto Possibile. Così inteso, l’Inizio non funge da Grund, è anzi la pura possibilità di non-essere. Il pensiero dell’Inizio è il pensiero del puro Incondizionato (in un certo senso ‘prima’ di Dio): Schelling, per Cacciari, va ben oltre Hegel, il quale risolve tutto nel suo circolo dialettico, e quindi rimuove radicalmente proprio il problema dell’Inizio. Tuttavia è bene chiarire che il procedere della speculazione di Cacciari non conduce mai ad una deduzione logica dell’Inizio: “B.- ‘Liberare’ Inizio da origine, dalla necessità del dare inizio, e origine dalla necessità del procedere, e il processo dalla necessità della restitutio – è questo, per lei, hilaritas? A.- Sì, se questo pensiero significasse di per sé ‘vivere’. Hilaris è vita; ma nessuna vita è prodotta dal pensare. Non si pensa l’hilaritas, come non si pensa la Gelassenheit. B.- Ma prima, un istante fa, l’ha pensata. A.- Ed ecco, vede, non è più – noi non ‘la’ siamo. Anche Francesco, credo, continuamente ne sperimentava il puro, imprevedibile avvenire”1 2. 11 12
M. CACCIARI, Dell’Inizio, Adelphi, Milano, 1990, p. 140. M. CACCIARI, Dell’Inizio, op. cit., p. 683.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Il pensiero che esorbita dai giochi è un pensiero ‘religioso’ nel senso che non può essere dedotto, ma è anzi trovato proprio nel suo ‘essere nascosto’, ‘essere fuggito’; chiudendo il libro, all’esortazione dell’interlocutore di riprendere il cammino che si è imposto, Cacciari risponde: “… continuamente chiedendo «quem fugis?» (Eneide, VI, 466) alla voce che chiama dal suo deserto – e che fuggendo continuamente rinnova il nostro improbus amor.”1 3 Cacciari sviluppa una sorta di teologia negativa che, sempre consapevole dei propri limiti, sa accogliere l’accadere del Silenzio nella necessità della nostra vita, l’unica che possiamo vivere. Il recupero della razionalità del pensiero negativo possa per la ‘definizione’ di uno spazio indicibile che limita la ragione alla sua effettualità, rinunciando all’indagine di ambiti ‘preclusi’ al ragionamento. Dell’Inizio mostra una forma di ‘ragione’ che affronta i grandi problemi, instaurando un rapporto dialettico con la ‘fede’, intesa nel suo valore a suo modo ‘conoscitivo’; non si tratta di un abbandono ‘mistico’, ma di un procedere simile a quello svolto da Schelling nella Filosofia della mitologia, in cui il passato non viene solo ‘narrato’, bensì ‘saputo’ nelle sue condizioni strutturali di pensabilità. Ciò, però, non ha la pretesa di portare alla ‘visione’ ultima, ma semplicemente di percorrere quella via che la filosofia da sempre chiude dietro di sé, facendosi trovare pronta all’accadere dell’indicibile. La filosofia è giunta, secondo Cacciari, al punto di separare gli ambiti. La Ratio non può essere superata da un ‘ritorno alla filosofia di Parmenide’ che pensa l’essere fuori dalla Rationalisierung: la fine della metafisica ci consegna una volontà di potenza che ‘opera e domina nel divenire’, e questo processo è irreversibile, giacchè segue ad una coerenza necessaria insita nella volontà di potenza. La 13
M. CACCIARI, Dell’Inizio, op. cit., p. 684.
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filosofia si presenta dunque come gestione e organizzazione della ‘tecnica’, tuttavia non vi si riduce, individuando uno ‘spazio’ che sfugge alla Ratio e anzi la delimita come uno ‘sfondo’. A tale ‘spazio’ non pretende di avere accesso per le vie della dialettica, né attraverso un’ascesi mistica che ‘rinuncia a ragionare’; piuttosto tramite una filosofia che si ripropone le domande del Parmenide di Platone, accettando di confondere le proprie acque con quelle della teologia. Massimo Cacciari torna sul tema cruciale della ‘morte di Dio’ ne L’Arcipelago del 1997, chiarendo quello spazio ‘indicibile’ e accostandolo all’Übermensch definitivamente libero dall’embodiment tecnologico cui sembrava averlo relegato. L’assassinio di Dio a opera dell’uomo più brutto garantisce la vita sulla terra per l’ultimo uomo; egli in definitiva funge da pharmakon per l’ultimo uomo, il quale non può assumersi la responsabilità dell’uccisione di Dio poiché disprezzerebbe sé stesso e fuggirebbe da sé rendendo impossibile ogni ‘comunità’. L’uomo più brutto, in virtù dell’assassinio commesso, accetta per sé la colpa più grave e prolunga la vita per l’ultimo uomo (fungendo da katékon), assumendosi gratuitamente l’orrore per permettergli di sopravvivere. Come si vede, dunque, la disperazione dell’uomo più brutto è legata ‘dialetticamente’ alla vita dell’ultimo uomo, ne costituisce anzi l’essenza rimossa. Ma come è noto, la ‘morte di Dio’ apre la strada anche all’uomo superiore, e proprio in questi è riposta la speranza più grande nell’avvento dell’Oltre-uomo. Diversamente da quanto accade per l’uomo più brutto, nell’uomo superiore la disperazione non ‘dipende’ dalla vita dell’ultimo uomo; negli höheren Menschen la disperazione è finalmente perfetta, essi non appaiono rassegnati all’ultimo uomo, bensì lo contemplano con distacco, ne possono ridere giacché ‘dialetticamente’ ne sono svincolati. Ma è certo che il Nietzsche. Oltre l’abisso
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riso degli uomini superiori deve rivolgersi ad ogni cosa compresi loro stessi. Essi sono vissuti nella historia che viene meno con la ‘morte di Dio’ e ora vivono la ‘dialettica’ fra l’ultimo uomo e il più brutto, sono coinvolti irreparabilmente; rideranno di loro stessi ma non potranno vedere l’esito luminoso del loro disprezzo. Sono ‘Spiriti Liberi’ pronti a guardare in faccia l’abisso aperto dalla ‘morte di Dio’, pronti a quel viaggio mistico verso l’Inattingibile che richiede l’abbandono, lo sradicamento radicale (Entortung)1 4. Questo viaggio verso Non-dove (verso il ‘totalmente Altro’) che gli uomini superiori si apprestano a compiere è quel tramonto richiesto affinché possa nascere l’Übermensch. È l’annichilimento ultimo, libero da ogni riconciliazione dialettica, è inabissamento e naufragio, in fin dei conti “se il viaggio non è abbandono, radicale abbandono, fino a niente-vedere, come potrà alla fine apparire l’Inattingibile, l’Inaudito?”1 5. L’uomo superiore accetta il tramonto come ‘luogo’ a-storico ove può darsi l’irrappresentabile, l’indistinto, l’Oltreuomo, “luogo che accoglie che dona, luogo che non si appropria di ciò che riceve, ma lo alimenta, luogo che non trattiene, che non cattura, ma ri-lascia al suo tramonto”1 6. Lontano da ogni interpretazione che vorrebbe l’Übermensch un uomo superiore ulteriormente potenziato, Cacciari lo accosta ora all’‘uomo nobile’ di Eckart, con la particolarità che esso è attingibile per philosophica documenta e non lungo una ék-stasis solitaria. L’Oltreuomo, 14
“Chi dona sempre e non vuole conservare se stesso, chi prova orrore di fronte alla specie degenerata che dice tutto per me, chi resiste aperto alla più pura dépense, chi sa spegnere in sé ogni volontà di appropriarsi delle cose che ama, chi si svuota, costui soltanto fa cenno all’Oltreuomo” in MASSIMO CACCIARI, L’arcipelago, Adelphi, Milano, 1997, p. 145. 15 M. CACCIARI, L’arcipelago, op. cit., p. 143. 16 M. CACCIARI, L’arcipelago, op. cit., p. 146. 218
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nell’ultima interpretazione di Cacciari fugge ogni definizione-descrizione, eppure una sorta di philia, di amicizia stellare, lo lega all’uomo nobile di Eckart e all’uomo nobile per eccellenza, Gesù1 7. A conclusione de L’Arcipelago, si accenna in una nota alla possibile icona che sappia ‘raccontarci’ l’Oltreuomo. Si tratta della figura del risorto dipinta da Piero a Sansepolcro, lontano dalla gloria bensì estrema manifestazione nel distacco da ogni cosa, anche ‘dalla sua speranza contro ogni speranza’. In questo ritorno che non si aspetta nulla, al di là di ogni ‘logica’ del contraccambio, Cacciari rinviene la Parola che sa accennare all’Übermensch, una Parola libera dalla razionalità storica che muore con Dio e che non sa parlarci dell’Oltre che viene. Per l’appunto di figura che accenna al superuomo parla Cacciari riferendosi a Gesù, al ‘lieto messaggero dell’Anticristo’. Egli appare infinitamente oltre i ‘messaggeri’ dello Zarathustra, giacché oltre ogni risentimento, oltre ogni schema di scopo, oltre ogni cupidigia. Il suo verbo non insegna una dottrina, non è la sublimazione della volontà di conoscere, si dà im-mediatamente e non sa fondare un’etica, poiché il suo ‘messaggio’ è a-storico così come lo è l’avvento dell’Übermensch.
17 Il tema è ripreso e sviluppato in M. CACCIARI, Il Gesù di Nietzsche, in ‘Micromega’ 2000/II.
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Teologia dell’educazione
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Capitolo III
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Gianni Vattimo
Ermeneutica e nichilismo Se nella prima parte abbiamo considerato l’opera di Vattimo quale interprete di Nietzsche, ora ci proponiamo di evidenziare gli esiti della sua speculazione in relazione al problema della ‘morte di Dio’. È evidente che per Vattimo il lavoro di esegesi sull’opera di Nietzsche coincide in buona parte con la considerazione della lettura heideggeriana; del resto, l’accostamento di Nietzsche a Heidegger non si riduce al tentativo di comprendere meglio Nietzsche per il tramite dell’interprete Heidegger, quasi che il lavoro di questi sull’opera di Nietzsche possa essere racchiuso in una parentesi fra le tante del suo filosofare. Il Nietzsche di Heidegger apre alla comprensione della filosofia dello stesso Heidegger: in particolar modo risulta utile nella considerazione della cosiddetta svolta. In queste pagine si vedrà come Vattimo conduca un dialogo a tre voci lungo la strada aperta dalla ‘morte di Dio’, ove la scoperta dell’abisso non può ridurre la filosofia ad un’attività ‘semplicemente’ estetica, né tanto meno limitarla ad un realistico disincanto come vuole la lettura di Cacciari. Come si è visto, gli appunti della Volontà di potenza come arte rivelano un movimento volto a decostruire le struttuNietzsche. Oltre l’abisso
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re interne al soggetto, facendo così cadere la possibilità di pensare in esso il ‘centro’ della speculazione nietzscheana. Il movimento smascherante non rinviene dietro la maschera il ‘fondo’ originario e, con esso, la verità dietro la menzogna, bensì scopre che lo stesso ‘fondo’ è una costruzione originatasi sulla presunzione falsificante dell’esistenza di una verità. Questa infondatezza sulla quale si muove il pensiero di Nietzsche è ascrivibile, secondo le tesi di Vattimo, alle medesime problematiche che coinvolgono l’ontologia ermeneutica. Rispetto a letture come quella di Cacciari che esasperano le posizioni tecnicistiche espresse da Heidegger, Vattimo sostiene che esse implicano una nozione di volontà di potenza ancora fortemente soggettivistica, e pertanto ancora legata all’ambito dialettico-metafisico che Nietzsche esaurisce. Il tentativo operato da Vattimo di iscrivere il ‘pensatore’ Nietzsche nella categoria storiografica dell’ontologia ermeneutica trova resistenze nelle posizioni di Gadamer e di Heidegger. Ciò è dovuto al fatto che né Heidegger né Gadamer sembrano essere coscienti delle implicazioni nichilistiche dell’ermeneutica ontologica: “Quando per esempio Heidegger parla della necessità di «lasciar perdere l’Essere come Fondamento» –, egli chiaramente rasenta i confini del nichilismo: se non vogliamo correre il rischio di rimanere all’interno della metafisica che identifica l’Essere con gli enti, l’Essere deve essere pensato solo in termini di rammemorazione: l’Essere è qualcosa che è (già) sempre passato, e perciò, di fatto, non è (più con noi). Questo non è forse nichilismo?”1 . Torneremo più avanti sulle implicazioni nichilistiche presenti all’interno dell’ontologia ermeneutica; per ora evidenziamo le tematiche presenti nel pensiero di Nietzsche che farebbero propendere per la sua inclusio1
G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, Garzanti, Milano, 2000, p. 114.
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ne in essa. Vattimo parla di ‘tensioni polari’ riconducibili ai problemi che sono oggetto dell’ermeneutica ontologica: l’opposizione tra superuomo e tramonto della soggettività trova la sua attualità nel fatto che l’ermeneutica contemporanea corre il rischio (presente, ad esempio, nell’opera di Gadamer) di considerare ogni possibile esperienza di verità come la semplice articolazione e lo sviluppo della precomprensione che ciascun individuo riceve in eredità insieme al linguaggio che parla, poiché questo linguaggio è l’unica possibile realtà di ciò che la tradizione ha chiamato logos, dimenticando, tuttavia, che la verità e il logos hanno bisogno di riferirsi alla evidenza interiore della coscienza. L’opera di smascheramento è poi in ‘contraddizione’ con l’eliminazione della nozione di verità: ciò trova le sue analogie nell’ermeneutica contemporanea intesa come critica delle ideologie (come ad esempio avviene nell’opera di Karl Otto Apel). Inoltre l’universalità dell’interpretazione, che il pensiero di Nietzsche sembra proporre, collima con l’eterno ritorno e la volontà di potenza quando queste nozioni sono assunte in senso metafisico. Il problema della pars construens della filosofia di Nietzsche è accomunabile ai rischi che corre l’ontologia ermeneutica quando le sue asserzioni vengono intese in senso metafisico, ovvero quando sembra che l’interpretazione cessi di essere tale prendendo le forme dell’inconfutabile. Ciò che inscrive Nietzsche fra i pensatori dell’ontologia ermeneutica non è tanto il suo carattere distruttivo che potrebbe esaurirsi in una dialettica delle opposizioni, quanto il suo carattere sfondante. Infatti, se non cogliessimo il messaggio esorbitante che sta dietro l’annuncio della ‘morte di Dio’ e la dottrina dell’eterno ritorno, avremmo tra le mani semplicemente un Nietzsche scettico, per il quale il valore è una semplice questione di prospettiva. Ora, la coscienza dell’assenza di valore non esaurisce il Nietzsche. Oltre l’abisso
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pensiero nietscheano, ché ciò significherebbe ridurre la volontà di potenza alla volontà di dominio propria della metafisica: “Dal punto di vista di Nietzsche, lo scetticismo rimane una posizione metafisica che crede di aver trovato nella proposizione ‘tutto è falso’ quel fondamento stabile, quella verità ultima su cui poggiare in maniera sicura”2. Nell’introduzione all’edizione Einaudi de La gaia scienza del 1979, Vattimo evidenzia i due inscindibili caratteri di fondo dell’ermeneutica di Nietzsche: il suo aspetto di critica della cultura, e l’aspetto di sfondamento che tale critica, portata all’estremo, comporta, ossia “la messa in gioco del soggetto che impedisce di leggere il discorso nietzscheano come un appello alla ‘presa di coscienza’ della menzogna che costituisce la storia umana con lo scopo di produrre una nuova situazione di autenticità e di verità”3 . Morendo Dio, l’unità del soggetto, pensata e vissuta da sempre come continuità ermeneutica articolata nei momenti del tempo, viene meno: “il futuro non è il presente né il passato; il senso dell’io è tutto in questa distinzione che appunto gli permette di mantenersi uguale pur nel mutare dei suoi diversi stati. Tolta la trascendenza del futuro rispetto al passato – ed essa deve venir tolta, se Dio è morto, se non ci sono significati o valori che trascendano il processo-, è la vita stessa dell’io come continuità ermeneutica-temporale che viene a trovarsi in una condizione di sospensione”4. Lo stato di sospensione sopra un abisso è vissuto dall’uomo che ha coscienza piena della ‘morte di Dio’, ossia dal cosiddetto nichilista compiuto. Il movimento sfondante non conduce ad un’origine veritiera, giacché, come scrive Nietzsche in Aurora, “con la 2
G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, op. cit., p. 219. G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, op. cit., p. 222. 4 G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, op. cit., p. 224. 3
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piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine”5 ; piuttosto porta alla consapevolezza dell’assenza di fondamenti. L’aspetto nichilistico pervade l’ontologia ermeneutica proposta da Vattimo, e ciò è dovuto ad una lettura di Nietzsche che parte dall’esegesi di Heidegger non attenendovisi strettamente, bensì continuandola fino agli esiti che essa comporta. Se la pubblicazione del Nietzsche di Heidegger nel 1961 apriva assieme all’edizione critica di Colli e Montinari la Nietzsche-Reinassance, è importante sottolineare come già verso la fine degli anni Cinquanta l’opera filosofica del ‘secondo Heidegger’ fosse divenuta largamente nota. Si tratta di due eventi che coincidono non solo cronologicamente. Come si è visto, l’importanza dell’interpretazione di Heidegger sta nel voler leggere Nietzsche mettendolo in relazione con Aristotele – cioè come un pensatore il cui tema centrale è l’essere, un pensatore metafisico, e non solo come un moralista o un ‘critico della cultura’. In questa prospettiva Heidegger presta maggiore attenzione agli scritti degli ultimi anni, specie agli appunti per la composizione della Volontà di potenza, trascurando le opere come Umano, troppo umano, Aurora, o La gaia scienza. Secondo Vattimo, se avesse condotto uno studio approfondito di queste opere, probabilmente Heidegger avrebbe ravvisato un intrinseco legame con la filosofia di Nietzsche, quel legame che egli rifiuta trovando nella volontà di potenza una nozione prettamente metafisica. L’opera di smascheramento che Nietzsche conduce nelle opere suddette non è retaggio metafisico di una volontà di trovare un ‘fondo’ vero oltre la menzogna, giacché smaschera anche l’idea di una verità, di un Grund su cui si possa finalmente ‘stare’. Piuttosto “l’archeologia di Nietzsche celebra, nei confronti della 5
F. NIETZSCHE, Aurora, 44.
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metafisica, delle ‘feste della memoria’, ripercorre la storia di questi erramenti come ‘storia dell’essere’”6, e ciò non significa liquidare tutte le cose, bensì scoprire che sono l’unica sostanzialità di cui disponiamo. In questo senso si può parlare di una ‘necessità dell’errore’, definita nell’aforisma 54 della Gaia scienza come “continuare a sognare sapendo di sognare”. La concezione di Heidegger che vede il pensiero post-metafisico come An-denken, rimemorazione e risalimento attraverso la metafisica, è molto simile alle ‘feste della memoria’ celebrate da Nietzsche: entrambi cessano di pensare l’essere come struttura e Grund, per coglierlo nel suo essere come evento. Vattimo sostiene che Heidegger rifiuta la vicinanza a Nietzsche per le implicazioni nichilistiche che porta con sé: per Heidegger, “come per Nietzsche, il pensiero è Andenken, e non rappresentazione o fondazione, perché non c’è altro essere che le aperture storico-destinali in cui le varie umanità storiche fanno esperienza del mondo”7 . La rimemorazione a cui Heidegger ci rimanda non è il ‘recupero’ dell’essere come qualcosa che possiamo incontrare faccia a faccia; l’An-denken ricorda l’essere appunto come ciò che si può solo ricordare, e mai rap-presentare. In ciò sta il ‘nichilismo’ di Heidegger: se non vuole ritrovarsi a pensare l’essere come Grund, è costretto ad ammettere che l’oltrepassamento della metafisica non è il rovesciamento dell’oblio metafisico dell’essere, bensì questo stesso oblio portato alle estreme conseguenze nichilistiche: “Se Heidegger conferisce senso a Nietzsche mostrando che la volontà di potenza, per dir così, è ‘destino dell’essere’ (e non puro gioco di forze da smascherare con la critica dell’ideologia), Nietzsche dà senso a Heidegger
6 7
G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, op. cit., p. 268. G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, op. cit., p. 269.
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chiarendo che il destino dell’essere (se deve essere pensato fuori della metafisica) è il nichilismo”8 . Intervenendo al convegno di Trieste nel 1980, Vattimo accosta le prospettive di Nietzsche e Heidegger circa il nichilismo, evidenziando un movimento comune che conduce alla figura del nichilista compiuto, di colui che ha capito che il nichilismo è la sua (unica) chance. Se per Nietzsche nichilismo significa “la situazione nella quale l’uomo rotola verso la X”, per Heidegger esso indica il processo alla fine del quale dell’essere come tale “non ne è più nulla”. Vattimo sottolinea come, in fin dei conti, le due definizioni siano conciliabili assumendo che l’uomo rotola via dal centro proprio perché dell’essere come tale non ne è più nulla. Circa i contenuti – ovvero i modi di manifestarsi – del nichilismo, per Nietzsche il processo del nichilismo è riassumibile nella ‘morte di Dio’, mentre per Heidegger esso consta della trasformazione dell’essere a valore. Quest’ultima affermazione è formulata in modo da includere anche la posizione del nichilista compiuto Nietzsche, se s’intende il valore non come una formulazione in potere del soggetto, bensì come valore di scambio. Infatti, la ‘morte di Dio’ non esclude la posizione di nuovi valori, anzi libera la nozione di valore nella sua potenzialità: “solo là dove non c’è istanza terminale e ‘interruttiva’, bloccante, del valore supremo-Dio, i valori si possono dispiegare nella loro vera natura, che è la convertibilità, e trasformabilità/processualità indefinita”9 . Assumere il nichilismo come la dissoluzione dell’essere nel valore di scambio, conduce a considerare il nichilismo la nostra ultima chance. Vattimo accomuna gli esiti delle filosofie del Novecento, marxismo, fenomenologia, esisten8
G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, op. cit., p. 272. G. VATTIMO, Apologia del Nichilismo in Problemi del Nichilismo, a cura di W. Kämpfler e C. Magris, Brescia, 1981, p. 117.
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zialismo, nel loro essere tentativi di ‘riappropriazione’ di un orizzonte definitivamente perduto, d’altro canto vede nell’ontologia ermeneutica l’onesta consapevolezza del nichilista compiuto per il quale la ‘morte di Dio’ ha fatto in modo che il mondo vero finisse per divenir favola; e, anche se è chiaro che, in tal modo, la favola non è più tale perché non c’è una verità cui essa venga contrapposta, “la nozione di favola non perde del tutto il suo senso. Essa vieta infatti di attribuire alle apparenze che la compongono la forza cogente che apparteneva all’ontos on metafisico”10 . Il mondo dopo la ‘morte di Dio’ non è il luogo di un’esperienza più autentica di quella aperta dalla metafisica, giacché la stessa autenticità è tramontata con il Dio morto. Seguendo il filosofare di Heidegger, ci si rende conto di come la situazione aperta dalla ‘morte di Dio’, coincida in buona parte con l’universale imposizione e provocazione del mondo tecnico, con quello che Heidegger chiama GeStell: “un «primo lampeggiare dell’Ereignis», di quell’evento dell’essere in cui ogni propriazione – ogni darsi di qualcosa in quanto qualcosa – si attua solo come tras-propriazione, in una circolarità vertiginosa in cui uomo ed essere perdono ogni carattere metafisico”11. È proprio nel carattere eventuale dell’essere che si può cogliere la dissoluzione dell’essere nel valore di scambio: che va inteso, soprattutto nel linguaggio, come trasmissione e interpretazione di messaggi. Come si cercherà di chiarire più avanti, il nichilismo che intende l’essere in quanto valore di scambio, comporta un ‘indebolimento’ della forza della ‘realtà’, che assume il carattere peculiare della mobilità del simbolico proprio della società tardo-moderna. 10 G. VATTIMO, Apologia del Nichilismo in Problemi del Nichilismo, op. cit., p. 120. 11 G. VATTIMO, Apologia del Nichilismo in Problemi del Nichilismo, op. cit., p. 121.
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Il nichilista compiuto di Nietzsche ci richiama alla presa di congedo dal significato stabile, così come fa Heidegger quando parla della necessità di “lasciar perdere l’essere come fondamento”, per saltare nel suo abisso. Nella lettura di Vattimo, questo abisso non può essere letto come una profondità di tipo teologico-negativo, proprio in virtù della generalizzazione del valore di scambio presente nel Ge-Stell della tecnica moderna. Accostare, come fa Cacciari, il ‘silenzio’ del ‘mistico’ di Wittengenstein all’Ab-Grund di Heidegger significa ipotizzare un’origine (magari non fondante, ma certamente fondamentale) che sta come un autentico dinanzi ad un falso necessario. L’Ereignis dell’essere che lampeggia attraverso la struttura del Ge-Stell, annuncia un’epoca di debolezza dell’essere e una conseguente ‘derealizzazione’ del mondo quale nostra unica chance: “il nichilista compiuto, come l’Ab-Grund heideggeriano, ci chiama ad un’esperienza fabulizzata della realtà, che è anche la nostra unica possibilità di libertà”12. Come abbiamo visto, l’essere che si svela dopo Nietzsche perde il carattere della metafisica del Fondamento, non rivelando un’origine autentica, bensì accettando il ‘pericoloso andare’ sopra un abisso, prendendo atto del destino di indebolimento dell’essere. Per quanto Heidegger rifiuti il legame con Nietzsche, Vattimo, includendo quest’ultimo nella categoria storiografica dell’ermeneutica ontologica e ritrovando una comunanza di problematiche con lo stesso Heidegger, non può concludere che ad un’ermeneutica che accetti il suo aspetto nichilistico e, con esso, rinunci all’ambizione di una definitiva ‘propriazione’ (o ‘riappropriazione’) in favore di un più produttivo e realistico approccio alle cose di cui si dispone; le uniche, in definitiva, di cui si può disporre. 12
G. VATTIMO, Apologia del Nichilismo in Problemi del Nichilismo, op. cit., p. 123.
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Il pensiero debole La mobilità del simbolico che caratterizza l’essere dopo la ‘morte di Dio’, libera per la differenza, non riducendola ad un rovesciamento delle gerarchie platoniche, né rappresentando una conciliazione tra esistenza e significato che sarebbe ancora troppo soggetta al modello dialettico. Infatti, considerare l’oltreuomo come l’uomo che si è liberato per le differenze e la molteplicità dell’esperienza, impedisce di pensarlo sul modello del soggetto che è tornato presso di sé. Liberarsi per la differenza significa anche assumere come costitutiva la disgregazione dell’unità del soggetto. Ma un essere che non possa più modellarsi sulla stabilità del soggetto, perde il suo aspetto impositivo e violento – proprio del pensiero metafisico –, in favore di un indebolimento che si articola in una ontologia del declino. Attraverso un’originale lettura dell’opera di Heidegger, Vattimo giunge a definire un’ermeneutica dell’ontologia del declino che non può più pensare l’essere come Fondamento, bensì coglie l’essere nel suo accadere. Secondo Vattimo, Heidegger sfuggirebbe al tentativo di assegnare un Grund anche in Sein und Zeit, opera nella quale si interroga l’orizzonte entro il quale ogni ente si dà soltanto in quanto qualcosa: “Non cerchiamo né troviamo, in Sein und Zeit, quali siano le condizioni trascendentali della possibilità dell’esperienza dell’ente, ma constatiamo in modo meditante le condizioni in cui, di fatto, la nostra esperienza dell’ente solo si dà”13 . Già in Essere e Tempo, l’essere verrebbe “lasciato perdere come fondamento” nella centralità dell’Analitica Esistenziale e nel suo nesso con il tempo, evidenziando un ‘essere’ che non è più capace di fondare, debole e depotenziato. Il senso dell’esse13
G. VATTIMO, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 55.
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re che Sein und Zeit cerca, conduce in una direzione nella quale l’Esserci e l’ente si trovano in un movimento che li avvia ad una permanente dislocazione, privi di un ‘centro’ stabile. Il Dasein non è un nuovo centro, una rinnovata soggettività: “la situazione descritta da Nietzsche […] come caratteristica del nichilismo, quella in cui, a partire da Copernico, ‘l’uomo rotola via dal centro verso la X’, è anche quella del Dasein heideggeriano”14 . Il nesso fondazione-sfondamento che sarà chiarito nel pensiero della svolta, emerge già in Sein und Zeit nei modi costitutivi dell’apertura del Dasein, o in momenti quali la descrizione del circolo ermeneutico; ma soprattutto nella funzione costitutiva che l’essere-per-la-morte esercita nei confronti della storicità dell’Esserci. Infatti, l’Analitica Esistenziale ci ha consegnato un Dasein che si costituisce in una totalità, dunque si fonda, nella misura in cui si anticipa per la propria morte: “l’esserci esiste, e quindi funge da luogo di illuminazione della verità dell’essere (cioè, del venire degli enti all’essere) solo in quanto è costituito come possibilità di non-esserci-più”15 . La storicità dell’Esserci caratterizza il nesso fondazione-sfondamento, essa non è solo la costituzione dell’esistenza come ‘tessuto-testo’, ma è anche l’appartenenza ad un’epoca. Essere e Tempo avvia la ricerca del senso dell’essere come l’individuazione delle ‘condizioni di possibilità’ (in ciò si ritrova la FundamentalOntologie di Heidegger) della nostra esperienza; tuttavia, la ‘condizione di possibilità’ si è rivelata essere anche la ‘condizione’ storico-finita del Dasein, che è sì progetto (e in tal senso possibilità trascendentale), ma progetto gettato, ossia qualificato di volta in volta da una diversa precomprensione radicata nella sua situazione emotiva. La fondazione che così si raggiunge non può avere i ca14 15
G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 56. G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 59.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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ratteri del Grund della metafisica; si può al più definire, come fa Vattimo, una fondazione ermeneutica. Detta fondazione ha il carattere dell’annuncio della nietzscheana ‘morte di Dio’: “annuncio che è insieme la ‘verità’ che fonda il pensiero dello sfondamento (non c’è più una struttura metafisica forte dell’essere) e il riconoscimento che questa ‘verità’ non può essere, in senso peculiare, che una constatazione di fatto”16 . È bene chiarire che non si tratta di una semplice constatazione storicistica, giacché ciò significherebbe rimanere nell’ambito della metafisica che emargina tutto ciò che non è ‘fondato’ nell’apparenza, nel relativo, nel disvalore. Vattimo ritiene che il senso di un annuncio come la ‘morte di Dio’ trovi il proprio significato in una prospettiva di fondazione ermeneutica, così come è esposta nel pensiero della Kehre (della svolta) heideggeriana. Se pensare significa fondare e se la metafisica del Grund è giunta alla propria fine, il fondare non può che avere un senso ermeneutico, ovvero l’Esserci e gli enti si danno, nella propria gettatezza storico-finita, come progetti gettati con cui l’essere non s’identifica, rimanendo il ‘chi getta’ del progetto gettato: “l’essere ha la sua paradossale positività proprio nel non essere alcuno di questi pretesi orizzonti di fondazione, e nel metterli invece in una condizione di indefinita oscillazione”17 . Dunque, la ‘morte di Dio’ porta con sé la carica di un messaggio fondante-sfondante che consegna la consapevolezza di un’indefinita oscillazione fra prospettive che non coincidono con la totalità dell’essere. Vattimo ritiene di poter rinvenire nel pensiero di Heidegger un tema che ha il carattere dell’annuncio della ‘morte di Dio’: si tratta della tesi secondo cui il Ge-Stell appare come “un primo lampeggiare dell’Ereignis”18 . Infatti, se è vero che il Ge-Stell, 16
G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 63. G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 64. 18 M. HEIDEGGER, Identität und Differenz, Neske, Pfullingen, 1957, p. 27. 17
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con il suo ‘annunciarsi’, sviluppa in fondo le implicazioni proprie dell’irrigidimento metafisico del rapporto soggetto-oggetto (e in ciò si rinviene il suo carattere fondante), d’altro canto è il luogo del lampeggiare dell’Ereignis perché la manipolabilità universale e lo scuotimento che lo caratterizzano, costituiscono la possibilità di esperire l’essere, al di là delle categorie della metafisica, come un ambito di oscillazione in cui ogni propriazione è sospesa – come si è visto – ad un movimento di ‘traspropriazione’. Troviamo così un essere debole nella sua costituzione e oscillante in infinitum, cui è possibile accedere attraverso un salto nell’Ab-Grund della costituzione mortale dell’Esserci: “è in quanto siamo mortali che possiamo entrare nel, e uscire dal, gioco di trasmissioni di messaggi che le generazioni si lanciano, e che è la sola ‘immagine’ dell’essere di cui disponiamo”19 . L’idea di una fondazione ermeneutica è radicata su di un piano storico-destinale da cui non si può prescindere, che ci rimanda al pensiero dialettico e alla sua opposizione, fino al pensiero della differenza. Vattimo ritrova nello sviluppo della filosofia novecentesca una tendenza dissolutiva che lo schema dialettico non riesce più a controllare: pensatori come Sartre e Benjamin evidenziano che “l’approccio dialettico al problema dell’alienazione e della riappropriazione è ancora profondamente complice dell’alienazione che dovrebbe combattere”20 . Il tema della riappropriazione è ancorato alla metafisica del Grund, così come l’alienazione che lo provoca; la ‘morte di Dio’ sancisce la fine delle strutture forti della metafisica che erano solo forme di rassicurazione del pensiero, in epoche in cui la tecnica e l’organizzazione sociale non si era19
G. VATTIMO, Al di là del soggetto, op. cit., p. 73. G. VATTIMO, Dialettica, differenza, pensiero debole in Il pensiero debole, a cura di Vattimo e Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 17. 20
Nietzsche. Oltre l’abisso
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no ancora dispiegate con la loro carica fondante-sfondante (si tratta della situazione descritta dal Ge-Stell heideggeriano). Lo stesso Heidegger parte dal tentativo di riappropriarsi delle condizioni di possibilità sancendo la differenza ontologica tra essere ed ente, e tuttavia approdando ad una soluzione oscillante che ha smesso di pensare il Fondamento, in favore di un’analisi dell’Esserci che temporalizza radicalmente l’a priori: ciò porta ad un essere esperibile solo in quanto destino-invio (Ge-schick), o trasmissione (Überlieferung); l’essere non è più ousia, bensì accadere. Il pensiero debole si propone di articolare quest’intuizione preparando una nuova ontologia che svolga il pensiero della differenza anche rammemorando la dialettica. Ciò che caratterizza il pensiero ultrametafisico sta nella nozione heideggeriana di Verwindung, declinazione-distorcimento, già del resto evidenziata nell’annuncio nietzscheano della ‘morte di Dio’: “è lo sforzo più radicale di pensare l’essere in termini di una ‘presa d’atto’ che è anche sempre una ‘presa di congedo’, perché né lo incontra come struttura stabile, né lo registra e accetta come necessità logica di un processo”21 . Non si accede all’essere nella presenza, ma solo nell’An-denken (rammemorazione), poiché non si definisce mai come ciò che sta, ma sempre come ciò che si tramanda. L’An-denken inevitabilmente ripensa la metafisica, ma l’opera della Verwindung consiste nel togliere alle categorie metafisiche proprio ciò che le costituiva come metafisiche, ossia la pretesa di accedere ad un ontos on. Il pensiero debole accetta l’essere che ha perso il suo carattere fondativo, e lo accoglie come ‘monumento-eredità’ a cui si porta la pietas che è dovuta a ciò che ha vissuto. Pensare l’essere nella sua caducità significa sostanziare l’annuncio della ‘morte 21 G. VATTIMO, Dialettica, differenza, pensiero debole in Il pensiero debole, op. cit., p. 22.
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di Dio’, rinvenendo nell’accadere – Ereignis – ciò che lascia sussistere i tratti metafisici dell’essere pervertendoli. La nozione di pietas esula da un approccio che rinvenga una qualche fondatezza ontologica nell’essere che considera, sia essa un’utilità pragmatica o una pretesa normatività di base. Il concetto di verità perde, dunque, le prerogative attribuitegli dalla metafisica, per rinvenire un nuovo senso: il ‘vero’ diviene – secondo la definizione proposta da Heidegger ne L’essenza della verità – libertà come apertura degli orizzonti entro cui ogni conformità diventa possibile. In questo spazio aperto, non si muove mai dal niente, ma sempre da ‘appartenenze’ cui si è intrinsecamente legati; la verità perde la sua natura logica, per prendere una forma retorica: questo orizzonte retorico – che può anche definirsi ermeneutica – si costituisce senza Fondamento – al pari del senso comune di cui parla Kant nella Critica del Giudizio – su legami, rispetti, appartenenze che costituiscono la sostanza della pietas. È bene chiarire che non si tratta di un’unica pietas: “come il bello che individui, gruppi, società ed epoche riconoscono come tale riconoscendosi in esso (dunque, costituendosi come gruppi) è di volta in volta diverso, così le pietates sono storicamente differenti…”22 . La verità risulta essere frutto di un’interpretazione, non perché detta interpretazione sia in grado di portare al coglimento del vero, bensì perché è solo nel processo ermeneutico (inteso aristotelicamente come formulazione) che la verità si costituisce. Risulta allo stesso Vattimo che il pensiero debole, in virtù dei suoi presupposti, non può assurgere alla sovranità che rivendicava il pensiero metafisico nei confronti della prassi. Questa debolezza del pensiero rispetto al mondo sembra annunciarsi come un aspetto della difficoltà in cui il 22 G. VATTIMO, Dialettica, differenza, pensiero debole in Il pensiero debole, op. cit., p. 25.
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pensiero si è venuto a trovare alla fine della sua avventura metafisica, e pertanto non può costituire un approdo definitivo, ma solo rappresentarne un momento: “segna un percorso, indica un senso di percorrenza: è una via che si biforca rispetto alla ragione-dominio comunque ritradotta e camuffata, dalla quale, tuttavia, sappiamo che un congedo definitivo è altrettanto impossibile. […] è un equilibrio difficile tra la contemplazione inabissante del negativo e la cancellazione di ogni origine, la ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei giochi, nelle tecniche localmente valide”23 . Il pensiero debole appare, a mio avviso, fortemente esposto a critiche sia per l’infondatezza da cui prende le mosse (ma questo non è certo il luogo ove si possa criticare una tale mancanza!), sia per la problematica nozione di pietas da cui muove l’ermeneutica ontologica. Rispetto al pensiero di Nietzsche: per Vattimo, le interpretazioni che formulano una verità ‘provvisoria’ poggiano sulla prensione di un senso comune maturato all’interno di una certa società, in una data epoca storica, mentre per Nietzsche le prospettive (almeno per quanto è espresso nei frammenti per la compilazione della Volontà di potenza) si saldano ad una tensione unitaria che vuole neutralizzare le spinte caotiche organizzandole in un ordine di cui si può disporre senza troppi rischi, e la coscienza dell’assenza di Grund porta, comunque, alla necessità di “continuare a sognare sapendo di sognare”. La fondazione ermeneutica che dà il via ad un’ontologia quale è quella proposta dal pensiero debole, poggia stabilmente sulla sua condizione storico-destinale, inoltre l’approccio alle cose del passato parte dalla nozione di pietas 23 G. VATTIMO, Dialettica, differenza, pensiero debole in Il pensiero debole, op. cit., p. 11.
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di un particolare gruppo sociale, in un dato momento storico. Questi due presupposti inducono a ripensare il concetto di storia: infatti, se è vero che il pensiero ermeneutico non ha le pretese di dominio proprie del pensiero metafisico, non si può dire che la pietas, in quanto senso comune, esuli dalle strutture di dominio. Il senso comune non può che essere il frutto di una concezione fortemente metafisica, e non può bastare svuotare le categorie della loro pretesa di svelare il ‘vero’, per aver tra le mani un essere ‘innocente’. La pietas, come rispetto che si deve a ciò che non c’è più, non può non tener conto del fatto che ciò che ora ricorda, una volta ha vissuto, e ha vissuto non come vuoto concetto, bensì esattamente come pretesa di verità: spogliare la categoria di ciò che la lasciava esistere significa annientarla. A mio avviso, si finisce con un pensiero che rammemora il niente, non solo perché non ‘è’ hic et nunc, ma soprattutto perché viene ricordato come mai realmente è stato. O si accetta che il senso comune è frutto di una concezione ‘forte’ dell’essere, o si finisce per pensare ‘sotto il segno della caducità e della mortalità’ (come vuole Vattimo) qualcosa che, però, non è mai neppure nato.
Problemi dell’ontologia ermeneutica I problemi cui va incontro un’ontologia ermeneutica, quale è quella che il pensiero debole si propone di percorrere, risiedono nella considerazione del passato metafisico cui si sente irrimediabilmente legata, oltreché nella ricostruzione di una razionalità capace di organizzare un pensare che non si limiti a ‘intuizioni poetiche’, ma che sia, invece, in grado di rispondere ai problemi classici della filosofia. Secondo Vattimo, per definire l’ermeneutica non ci si può limitare ad asserire che ogni esperienza di verità è Nietzsche. Oltre l’abisso
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esperienza interpretativa, giacché ciò appare ormai, nella cultura odierna, un’ovvietà. È invece opportuno domandarsi su quali basi si giunga ad affermare come un’ovvietà l’inesistenza di un inconfutabile, e se non sia questa ancora solo un’interpretazione. L’approdo ermeneutico coincide con il susseguirsi di imposizioni persuasive che tramontano in favore di prospettive più convincenti: “L’ermeneutica non è solo una teoria della storicità (degli orizzonti) della verità; è essa stessa una verità radicalmente storica”24 . L’annuncio della ‘morte di Dio’ è la presa d’atto di un corso di eventi entro cui siamo coinvolti, che ‘interpretiamo’ come concludentesi con il riconoscimento che Dio non è più necessario. Giungiamo a questa conclusione in virtù di una coerenza interna allo stesso pensiero che ha richiesto l’esistenza di Dio; sono, infatti, gli stessi ‘fedeli’, per i quali Dio ha funzionato come principio di stabilizzazione e rassicurazione vietando ogni menzogna, a smentire la stessa menzogna che è Dio. Morendo Dio, la verità perde il proprio valore lasciando il posto al gioco delle interpretazioni, anch’esso in fin dei conti un’interpretazione. Vattimo rinviene in ciò un inscindibile legame fra ermeneutica e nichilismo: “non sembra possibile ‘provare’ la verità dell’ermeneutica se non presentandola come risposta a una storia dell’essere interpretata come accadere del nichilismo”25 . L’ermeneutica offre come prova della propria teoria la storia nichilistica della modernità su cui s’innesta come provvisoria conclusione; se ciò può sembrare quanto meno suscettibile di critica, giacché già la definizione di storia nichilistica della modernità appare problematica, Vattimo sostiene che il presupposto ‘storicistico’ dell’ermeneutica non è meno arbitrario del rimando fenomenologico alla Lebenswelt, o 24 25
G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 9. G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 11.
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del riferimento empiristico all’esperienza immediata. In precedenza si è visto come l’ermeneutica proposta da Vattimo non sia da intendere come storicismo, se questo assume le forme di un ‘determinismo’; tuttavia si deve di necessità intendere come storicismo se si pensa che la sola argomentazione a favore della verità dell’ermeneutica è una certa interpretazione della vicenda della modernità. Il mondo del Ge-Stell heideggeriano ci mostra un essere – è bene chiarirlo – che non è morto, bensì che è in via di consumazione e di indebolimento. In questo mondo che ascolta di lontano l’annuncio della ‘morte di Dio’, la volontà di potenza della metafisica non si è completamente esaurita. La Verwindung non può bastare a svuotare il carattere strettamente metafisico del passato che ora ci presenta l’evento epocale della ‘morte di Dio’. A mio avviso, l’ermeneutica non può ritenersi del tutto libera dalla volontà di potenza come dominio: semplicemente, un essere che s’indebolisce ha bisogno di forme di dominio più mobili, più capaci di adeguarsi al mutamento. Addirittura, portando agli estremi il ragionamento, una verità che si ponga come interpretazione riformulabile si pone come immortale giacché sempre adeguabile all’evento che muta. L’infondatezza che caratterizza l’ermeneutica ontologica ‘debole’ finisce per prendere la forma di un Grund mobile e alla fine più utile. Vattimo propone il pensiero “della storia dell’essere come storia di un ‘lungo addio’, di un indebolimento interminabile dell’essere; in questo caso l’oltrepassamento della metafisica è inteso solo come un ricordarsi dell’oblio, mai come un rifar presente l’essere, nemmeno come termine che sta sempre al di là di ogni formulazione”26 , al fine di salvare la differenza tra essere ed ente, riconoscendo il nesso tra essenza interpretativa della verità e nichilismo. 26
G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 18.
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Lo stesso nichilismo è inteso da Vattimo come interpretazione, e non può quindi venire inteso metafisicamente, “come sarebbe se si pensasse che esso è una storia in cui, alla fine, in un’ennesima versione della presenza come presenza del nulla, l’essere non c’è più”27 . Ma se la metafisica è il pensiero dell’essere come presenza, il suo oblio e il continuo congedo che gli si deve non possono essere superati completamente; rimangono, invece, strettamente legati al ricordo dell’oblio dell’essere come presenza, giacché è solo in virtù di una storia che giunge a quell’oblio che si può parlare di oltrepassamento. Nel saggio Ricostruzione della razionalità pubblicato in Filosofia ’91, Vattimo chiarisce il fondamento dell’ermeneutica nel tentativo di proporre una razionalità nuova, in grado di trovare ‘soluzione’ ai problemi che la filosofia da sempre si pone. Le accuse d’irrazionalismo rivolte all’ermeneutica in genere prendono le mosse da teorie come la distinzione di Rorty tra ermeneutica ed epistemologia, per la quale un discorso filosofico che proponga argomentazioni pubblicamente riconoscibili rientra nell’ambito dell’epistemologia, mentre ermeneutico è solo l’incontro (non argomentativo) con un nuovo sistema di metafore la cui comprensione non ha nulla di dimostrativo. Non solo: l’ermeneutica si trova ad essere accusata di irrazionalismo quando finisce per essere intesa come una pratica non ‘replicabile’, né ‘continuabile’, ma al più solo ‘imitabile’, al pari delle opere d’arte; è il caso che si manifesta nel procedere ermeneutico di pensatori come Derrida (che Vattimo ascrive all’ambito dell’ermeneutica) che, per sfuggire alla metafisica, rifiuta ogni giustificazione argomentativa presentandosi come un coup de dés. La soluzione proposta da Vattimo offre un’ermeneutica che 27
G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 18.
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“prova la propria validità solo riferendosi ad un processo storico, del quale propone una ricostruzione che mostra come la ‘scelta’ per l’ermeneutica – di contro, per esempio, al positivismo – sia preferibile, o più giustificata”28 . Quest’ermeneutica, ormai è chiaro, non si ripropone un accesso alle cose stesse, bensì si propone come l’articolazione interpretativa della propria appartenenza ad una tra-dizione, che non è da intendersi come un susseguirsi di ‘schemi concettuali’, giacché pensata così lascerebbe ancora fuori di sé un ontos on. Per sfuggire alla ricaduta nella metafisica, l’ermeneutica deve esplicitare il proprio sfondo ontologico, ossia l’idea heideggeriana di un destino dell’essere che si articola come il concatenamento delle aperture: “l’ermeneutica si concepisce come un momento entro questo destino; e argomenta la propria validità proponendo una ricostruzione della tradizione-destino da cui proviene”29. Ora, se il destino dell’essere si dà sempre solo in un’interpretazione, è chiaro che la razionalità cui abbiamo accesso per questa via non ha una cogenza oggettivo-deterministica, bensì è solo il fatto che, essendo coinvolti in un processo, già sempre sappiamo, almeno in parte, dove andiamo e come dobbiamo andarci. Anche se Vattimo rileva come, diversamente dallo storicismo metafisico del XIX secolo, l’ermeneutica non pensi che il senso della storia sia un ‘fatto’ che si tratta di riconoscere, ma un atto interpretativo che contribuisce a “modificare la situazione di fatto in un modo che rende l’interpretazione vera”30 , rimane che la possibilità dell’ermeneutica poggia sulla fine della metafisica, e detta fine fu responsabilità degli stessi ‘metafisici’ (‘fedeli’ del Dio che muore). Voglio dire: la storia è inequivocabilmente il pro28
G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 133. G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 134. 30 G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 137. 29
Nietzsche. Oltre l’abisso
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dotto della metafisica, che si esaurisce per le sue stesse premesse; se l’ermeneutica può costituirsi su questo declino non può, una volta raggiunto un ‘posto di privilegio’, raccontare di essere nata su di una particolare interpretazione della storia, giacché la possibilità di formulare quell’interpretazione è data esclusivamente dalla metafisica che muore. C’è un fondo di Necessità nella ‘morte di Dio’: la coerenza interna al pensiero metafisico finisce per annientarlo aprendo ad una soluzione debole dell’essere. Ora, se, come scrive Vattimo, “per orientarci abbiamo bisogno di ricostruire e interpretare il processo nel modo più completo e persuasivo possibile”31 , donde viene questo bisogno se non dallo stesso fondo da cui ha origine la metafisica? La metafisica è tensione ad un dominio unitario; con la ‘morte di Dio’, si scopre che la prospettiva nella quale si è vissuto non è la sola possibile: si apre, dunque, il caos delle prospettive, ma si è comunque costretti a scegliere per una, quella che meglio si adatta all’essere di cui disponiamo, ossia per una continua oscillazione fra diverse interpretazioni. In tal senso, a mio avviso, il pensiero debole s’innesta sulla Necessità di formulare un’ermeneutica in grado di gestire il mondo in continua evoluzione del Ge-Stell. La possibilità dell’ermeneutica appare radicata, in definitiva, nella Necessità interna alla storia dell’essere della metafisica: una necessità che infine conduce al tramonto. Tuttavia, non si deve trascurare che la linea metafisica prescelta da Nietzsche e da Heidegger è fortemente condizionata dal messaggio biblico e ciò consente a Vattimo di formulare a partire dal 1994, con Credere di credere – un saggio dal tono confidenziale nato dal dialogo con Sergio Quinzio –, un’originale ipotesi secondo la quale l’indebolimento, che la filosofia scopre come tratto caratteristico della storia dell’essere, coinciderebbe con la secolarizzazione intesa nel senso più ampio di Kénosis di Dio. 31
G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, op. cit., p. 135 (il corsivo è mio).
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Vattimo giunge a questa conclusione anche in considerazione delle opere di René Girard La violenza e il sacro, ma soprattutto Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. L’antropologia filosofica di Girard sostiene che a tenere unite le società umane ci sia un potente impulso imitativo che è però anche la causa delle crisi che ne minacciano il dissolvimento quando il desiderio mimetico diventa volontà di appropriarsi delle cose degli altri, dando luogo ad una guerra di tutti contro tutti. Al termine della crisi mimetica, subentra il capro espiatorio che, nella sua funzione di vittima sacrificale, viene investito di attributi sacri divenendo oggetto di culto. Questi tratti naturali del sacro, secondo Girard, si mantengono anche nella Bibbia e nella teologia cristiana la quale perpetua il meccanismo vittimario concependo Gesù Cristo come la ‘vittima perfetta’ e attribuendo a Dio i caratteri di onnipotenza, assolutezza, eternità e trascendenza, propri del dio della metafisica. Girard sostiene però che tale lettura è errata, e che anzi Gesù si incarna proprio per svelare il nesso tra violenza e sacro, venendo poi messo a morte perché collocato-gettato in una società ancora strettamente connessa al meccanismo vittimario. Vattimo accoglie la tesi di Girard di un’incarnazione come dissoluzione del sacro in quanto violento, assimilando la violenza del meccanismo mimetico-vittimario alla violenza della metafisica: “Il Dio violento di Girard, insomma, è in questa prospettiva il Dio della metafisica, quello che la metafisica ha chiamato anche ipsum esse subsistens, che riassume in sé in forma eminente tutti i caratteri dell’essere oggettivo come essa lo pensa. La dissoluzione della metafisica è anche la fine di questa immagine di Dio, la morte di Dio di cui ha parlato Nietzsche”32 . 32
G. VATTIMO, Credere di credere, Garzanti, Milano, 1998, p. 30.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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In quest’ottica la Kénosis di Dio viene interpretata da Vattimo come la vocazione di Dio ad abbandonare l’assolutezza che la metafisica gli assegnava nella prospettiva di un indebolimento delle strutture oggettive e permanenti. In Credere di credere, il cui sottotitolo assai esplicativo (è possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?) rimanda ad una fede individuale, si evidenzia come le rigidità della Chiesa cattolica starebbero ad incarnare gli ostacoli che ancora (r)esistono alla volontà kenotica di Dio. Di qui dunque le rigidità nei confronti della morale sessuale, del sacerdozio femminile, etc.. atte a preservare la purezza di un Dio assoluto e onnipotente, ma proprio in virtù di ciò sempre più lontano dalla condizione umana. Il tema viene approfondito da Vattimo fino a chiarire il senso della ‘morte di Dio’ con l’incarnazione di Cristo, concepita come “vuotarsi di se stesso” da parte del Verbo che si abbassa alla condizione umana. La secolarizzazione viene dunque interpretata come attuazione dell’intima volontà del divino ad abbandonare le categorie della metafisica33 in vista di un progressivo indebolimento che conduce infine ad una religiosità antiessenzialistica e quindi più esistenziale. La visione d’insieme proposta da Vattimo risulta convincente, anzi per usare una sua espressione “fin troppo”, tanto da mettere in guardia lo stesso autore davanti ad una filosofia in grado di risolvere l’esito nichilistico della metafisica e la secolarizzazione del Credo cristiano in un’unica prospettiva ontologico-ermeneutica, tuttavia agli occhi di Vattimo non si prospetta una diversa soluzione che da un lato eviti ricadute metafisiche e dall’altro non rinunci all’ambito razionale per preparare quel salto nella fede verso il ‘totalmente Altro’. A mio avviso il pensiero 33 Vattimo continua la sua speculazione intorno a questo tema in Dopo la Cristianità, Garzanti, Milano, 2002
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debole è la migliore interpretazione dell’età che segue la ‘morte di Dio’, ma rimangono perplessità sul fatto che il ‘superamento’ atteso con la fine della metafisica si possa limitare al distorcimento-indebolimento delle sue strutture forti, senza rimanerne coinvolto.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Teologia dell’educazione
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Emilio Carlo Corriero
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Capitolo IV
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Emanuele Severino
L’essenza del nichilismo Se la lettura ‘debolista’ di Vattimo s’innesta sull’interpretazione del Nichilismo proposta da Heidegger come oblio dell’essere, le opere di Emanuele Severino suggeriscono un’originale interpretazione del sorgere del Nichilismo e della sua peculiare ‘Essenza’, quale alienazione ontologica su cui poggia l’Occidente. Per Severino, con la metafisica sopraggiunge il mondo che non è una physis originaria e nemmeno il dono di un Dio, costituisce bensì l’ethos dell’Occidente. Ora, per Severino quest’ethos è nichilistico, giacchè nasce da un fraintendimento che nasconde il vero senso dell’essere, consegnando un essere che può ‘non essere’. Nel pensiero metafisico dei Greci, l’ente è ogni determinazione in quanto pensata nel suo essere: l’essere dell’ente è il ‘non essere un niente’. Tuttavia gli enti, raccogliendosi nel mondo, divengono, ossia nascono, muoiono, si trasformano; dal punto di vista della metafisica escono dal ‘niente’ e vi ritornano: “passano dalla loro nientità all’essere un non-niente e viceversa – e, in quanto sono, sono essenzialmente esposti al rischio dell’annientamento. […] La nientità dell’ente è divenuta l’evidenza di tutte le evidenNietzsche. Oltre l’abisso
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ze e da essa trae ogni sua forza, anche quando non ce ne rendiamo conto, l’ethos della civiltà occidentale”1 . La certezza indubitabile su cui giace l’Occidente è l’essere inteso come ‘essere-al-mondo’, ovvero l’evidenza del divenire degli enti, il loro passare dal niente all’ente e viceversa. Tuttavia, nota Severino, il ‘mondo’ così inteso non preesiste all’uomo come physis originaria, ma è anzi il ‘mondo’ come lo ha deciso la metafisica. Alla luce della metafisica, le parole che prima avevano l’ambiguità e il mistero che compete a quanto non è ancora commisurato alla testimonianza del senso dell’essere e del niente, acquistano un senso. Con l’avvento del pensiero metafisico anche Dio entra nel ‘mondo’: non come uno degli enti di cui si è detto, bensì in quanto è pensato come il fondamento del mondo, ossia come ciò che fa sì che il ‘mondo’ sia tale. Dal punto di vista della metafisica classica, l’ente può essere solo se è assicurato da un fondamento che lo fa passare dal non essere all’essere e dall’essere al non essere. Con ciò si evince che “la metafisica è l’essenziale persuasione che l’ente, in quanto ente, è niente. Ma insieme, e in modo altrettanto essenziale, è l’occultamento di questa persuasione, mediante la proclamazione dell’opposizione dell’ente e del niente”2 . Nella visione di Severino, come si vedrà, la storia della metafisica è lo sviluppo dialettico del tentativo di pensare, in virtù del principio di non contraddizione, il ‘mondo’, e quindi di realizzare l’occultamento e il mascheramento del nichilismo. A partire dalla metafisica greco-medievale, la pensabilità del divenire ha richiesto l’esistenza di un Ente immutabile. Ora, se gli enti passano dal non essere all’essere, e se gli enti per essere hanno necessità di un fondamento, Dio diviene l’espressione più radicale del nichilismo: in quanto 1 2
E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, Paideia, Brescia, 1972, p. 300. E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, op. cit., p. 304.
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è pensato come il fondamento supremo della nientità dell’ente. La stessa evidenza del divenire che nella metafisica classica richiedeva la presenza di un Immutabile, nella metafisica moderna esclude ogni realtà preesistente, infatti la creazione e distruzione degli enti è lo stesso immanente processo del loro divenire: “L’annuncio di Nietzsche che Dio è morto significa appunto che il mondo si è accorto non solo di non aver bisogno di un ente immutabile trascendente, ma che tale ente renderebbe impossibile la creatività dell’uomo”3 ; in quest’ottica il principio della nientificazione e della nientità dell’ente non è più un dio, ma il superuomo, figura che rimane nell’ottica di Severino all’interno dell’ethos nichilistico, subentrando al Dio morente nella sua funzione di fondamento che assicura la ‘transizione’ dell’ente. La civiltà occidentale si è sviluppata nella convinzione che l’ente, in quanto tale, sia niente. La produzione-distruzione dell’essere degli enti viene intesa prima come ‘Dio’ e, successivamente, come ‘tecnica’, che sono le due espressioni fondamentali del nichilismo: “la cultura tecnologica è la naturale e legittima filiazione della cultura umanistica, il cristianesimo e la teologia tradizionale generano naturalmente e legittimamente l’ateismo, l’immoralismo e l’anticristianesimo del nostro tempo, il mito della forza è l’inevitabile prodotto del mito della cultura, la tecnica è l’erede naturale e legittima di dio. I grandi contrasti della storia occidentale […] sono sottesi da un comune pensiero dominante […]”4. ‘Produzione’ e ‘distruzione’ sono le categorie della civiltà della ‘tecnica’, che presuppone che le cose di cui dispone siano ciò che si lascia distruggere, intendendo il ‘mondo’ creato dalla metafisica come 3 4
E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, op. cit., p. 306. E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, op. cit., p. 309.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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il luogo nel quale le cose prima di nascere sono ‘niente’, e tornano ad essere niente dopo la morte. In questo senso, Severino può argomentare che il senso della civiltà occidentale, stabilito dalla metafisica greca, non si costituisce, come sostiene Heidegger, sull’oblio dell’essere, bensì in virtù della nientità dell’essere. Il destino nichilistico che pervade l’occidente inizia nel momento in cui si assegna all’essere la possibilità di non essere, valicando così l’originaria contraddizione che conserva l’essere nel suo Sé. Il pensiero occidentale altro non è che il processo di rigorizzazione e coerentizzazione del pensiero metafisico: “Una volta che questo ha portato il mondo alla luce, è inevitabile e legittimo che dio muoia e trovi la sua verità nella tecnica, la religione nell’ateismo, la civiltà pretecnologica nella civiltà della tecnica”5 . A fondamento della civiltà, di Dio, della tecnica, sta il ‘mondo’ come divenire degli enti dal niente verso l’essere e dall’essere verso il niente. Nichilismo significa, per Severino, pensare, assumere e vivere come niente ciò che non è un niente; qualsiasi altra definizione di nichilismo deve fare i conti con questo significato elementare del termine. Intervenendo ad un convegno sul nichilismo svoltosi a Trieste nel 1980, Severino sottolinea come la realtà sia divenuta nella cultura occidentale qualcosa di ‘storico’: non ci sono più dei, non ci sono più immutabili; tutte le cose sono ciò che Platone diceva a proposito di quel settore della realtà che è il metaxy (l’intermedio) tra l’assolutamente essente e il nulla assoluto, ossia il ‘partecipante dell’essere e del non essere’. In questo senso la realtà è storica: “la realtà è un essere – necessariamente – compromessa con l’essere e con il non-essere; è una combutta tra questi due, dove le cose non si lasciano catturare definitivamente né dall’es5
E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, op. cit., p. 311.
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sere né dal non-essere, e appunto oscillano tra l’uno e l’altro.[…] Questa situazione implica, allora, inevitabilmente la possibilità di parlare di un tempo in cui le cose ancora non erano, e di un tempo in cui le cose non saranno più”6 . Basta affermare che fra l’Immutabile e il nulla vi sia l’intermedio che ha carattere storico – basta affermare che le cose divengono –, perché con necessità si debba affermare che le cose in definitiva sono niente. L’Essenza del Nichilismo consiste in questo travisamento che dimentica l’asserzione di Parmenide per la quale l’essere è e il non-essere non è, e legittima una volontà di potenza nichilistica che pone l’essere come un niente di cui disporre a proprio piacimento. La ‘morte di Dio’ non rappresenta l’irrompere del nichilismo, è anzi essa stessa decisa dalla Necessità interna al nichilismo: “la ‘nostra cultura’ si è liberata dal peso di ogni ‘necessità’ (strutture e nessi immutabili, verità definitive e incontrovertibili, assoluti e dei): e, certamente, è Necessità che l’Occidente distrugga ogni ‘necessità’ da esso evocata. Ma le ‘necessità’ dell’Occidente sono le necessità che crescono all’interno della convinzione che le cose sono niente. Sono le ‘necessità’ del nichilismo”7 . Tuttavia Severino ritiene – è bene sottolinearlo – che le ‘necessità’ del nichilismo (Dio, anima, libertà, immortalità personale,…) si esauriscano per la coerenza interna al nichilismo: “la libertà appartiene all’essenza del nichilismo”8 ; “in quanto indecisione (epamfoterizein) tra l’essere e il niente, l’ente in quanto ente è libertà”9 ; in quanto libero dall’essere e dal niente, 6 E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, in ‘Problemi del Nichilismo’, a cura di W. Kämpfler e C. Magris, Brescia, 1981, testi del convegno sul nichilismo tenutosi a Trieste nel 1980, p. 96. 7 E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, in ‘Problemi del Nichilismo’, op. cit., p. 98. 8 E. SEVERINO, Destino della necessità, Adelphi, Milano, 1980, p. 19. 9 E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 30.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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l’ente è libero da ogni legame, e questa libertà assoluta equivale all’annientamento delle cose. Contingenza e libertà costituiscono l’alienazione essenziale della verità dell’essere cioè la “negazione della verità dell’essere”10. Se al cedere di una ‘necessità’ del nichilismo se ne presenta una più ‘coerente’ con il processo in atto, Severino tuttavia ritiene che vi sia una Necessità altra dalle ‘necessità’ del nichilismo; essa si apre al di fuori della storia del nichilismo, perché è l’apparire dell’impossibilità di stabilire fondamenti sulla concezione nichilistica dell’essere; “è l’apparire della necessità che ogni cosa se ne stia presso il suo ‘è’, non disposta a divenire preda delle forze che si propongono di trascinarla fuori dal niente e di ricondurvela”11 . Dio muore in virtù di una ‘necessità’ interna al Nichilismo dell’Occidente che lo aveva generato. Secondo Severino, la ‘morte di Dio’ è il necessario procedere della volontà di potenza nichilistica, non è un’ipotesi: è l’inevitabile evento che riporta all’evidenza il divenire.
La ‘morte di Dio’ e l’eterno ritorno Secondo Emanuele Severino il pensiero di Nietzsche si muoverebbe all’interno dell’ethos nichilistico dell’Occidente, che assume il divenire come evidenza incontrovertibile. L’azione smascherante di Nietzsche rimarrebbe interna alle coerenze richieste dalla volontà di potenza nichilistica che demolisce gli immutabili, così come li aveva creati, in virtù di un’interna ‘necessità’. Tuttavia Nietzsche riesce a intravedere l’irrisolvibile contraddizione cui porta il 10
E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 94. E. SEVERINO, Essenza del Nichilismo, in ‘Problemi del Nichilismo’, op. cit., p. 98. 11
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fraintendimento iniziale sul quale si costruisce la metafisica come la sua catastrofe, allorquando per escludere ogni immutabile all’interno del divenire, giunge a ipotizzare la ‘dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale’. Secondo Severino ‘morte di Dio’ ed ‘eterno ritorno’ non sono semplici ipotesi, bensì vere e proprie dimostrazioni, vere e proprie ‘necessità’, che poggiano sul fondamento incontrovertibile del divenire: “Non ci si è mai resi conto (a parte qualche spunto, nemmeno nei miei scritti) che anche la dottrina dell’eterno ritorno di tutte le cose ha lo stesso intento della dottrina della morte di Dio: escludere, in nome dell’evidenza della creatività dell’uomo e del divenire, ogni Essere immutabile che, con la sua esistenza, smentirebbe e ridurrebbe a semplice apparenza tale evidenza”12 . Per Severino, oramai è chiaro, l’evidenza su cui poggia l’Occidente è il divenire, che nella forma più radicale coincide con la creatività dell’uomo: e Nietzsche, oltre che esserne consapevole, ne trae le estreme conseguenze. La ‘morte di Dio’ sarebbe, quindi, una rigorosa dimostrazione. Zarathustra dice: “Se vi fossero dei, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dei”13 . Il ‘dunque’ in corsivo mette in risalto il motivo per il quale egli non può sopportare l’esistenza di un dio; Zarathustra non vuole che vi sia qualcosa sopra di lui, e perciò nega che vi sia. Secondo Severino, Zarathustra “sta movendosi all’interno del principio che non esiste altro che il volere, e cioè che l’essere in quanto essere è volontà di potenza, ossia è divenire, in quanto il divenire non è altro che creatività del volere”14 . Zarathustra non può accettare Dio, in quanto impedirebbe la creatività dell’uomo: “Dio è una supposizione; ma io voglio che il vostro 12
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano, 1999, p. 22. F. NIETZSCHE, Zarathustra, Sulle isole beate. 14 E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 58. 13
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supporre non si spinga oltre i confini della vostra volontà creatrice”15 . Se Dio esistesse non vi sarebbe niente da creare, perché tutte le cose esisterebbero già in lui; l’uomo non avrebbe alcunché da trar fuori dal nulla. Dio, in quanto totalità dell’essere, è divenuto la negazione del carattere transeunte delle cose, su cui poggia la volontà creatrice dell’uomo: “Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose diritte e fa girare tutto quanto è fermo”16 . Le ‘cose dritte’ sono quelle che posseggono la dirittura della certezza inconfutabile, ovvero sono le evidenze del tempo, del divenire, del perituro. La volontà è divenuta consapevole, all’interno della dottrina della libertà, della propria forza creatrice; ora Dio è un’opposizione insostenibile dinanzi al carattere liberatore della volontà creatrice, e, come tale, si scopre ‘morto’. Dio nacque come garante dell’evidenza del divenire, ma ora quell’ipotesi è sovrastata dalla sua stessa premessa: le dimostrazioni dell’esistenza di Dio fanno leva sul medesimo fondamento su cui poggiano le opposte confutazioni, ossia l’evidenza del divenire. Zarathustra dimostra la ‘morte di Dio’ all’interno di quella fede nel divenire che ne aveva stabilito la ‘nascita’: “Zarathustra, infatti, non dimostra l’impossibilità di Dio e degli dei confutando certe prove addotte per dimostrare l’esistenza di Dio – […], ma mostra […] che, qualsiasi sia la dimostrazione in base alla quale si afferma l’esistenza di Dio, è il concetto stesso dell’esistenza di un Dio immutabile, imperituro ed eterno ad essere la negazione dell’esistenza di quel divenire che, come evidenza suprema e assolutamente innegabile, sta anche al fondamento di ogni possibile dimostrazione e affermazione di un Dio esistente al di là del divenire”17 . È proprio l’impossibilità di sfuggire 15
F. NIETZSCHE, Zarathustra, Sulle isole beate. F. NIETZSCHE, Zarathustra, Sulle isole beate. 17 E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 66. 16
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alla ‘morte di Dio’ a costituire la dimostrazione dell’inesistenza di Dio. Dio, come “l’Uno, il Pieno, l’Immoto, il Satollo, l’Imperituro”18 di cui parla Zarathustra, costituisce il ‘mondo vero’ che si contrappone al mondo dell’uomo. Ma il ‘mondo vero’, invece di opporsi ad un’apparenza falsa, è esso stesso una finzione costruita dall’uomo che non ha occhi per il divenire; ne è anzi terrorizzato e cerca nel ‘mondo di là dal mondo’ la fissità che lo tranquillizzi, rendendo il mutamento qualcosa di pensabile a partire da un fondamento. Ma il ‘mondo vero’ finisce con l’indebolire l’evidenza e l’inoppugnabilità del divenire, giacché lo trasforma in errore, inganno, contraddizione; diventa perciò di capitale importanza sopprimere il ‘mondo vero’ e prendere coscienza della mera apparenza di esso, al fine di restituire l’evidenza incontrovertibile del divenire. Ora, se la volontà di conoscenza e di rischiaramento di Zarathustra conduce all’evidenza del divenire, potrà essa costituire una verità stabile e definitiva? Nietzsche risponde a quest’interrogativo separando la volontà di conoscenza e di verità dell’uomo, da quella di Zarathustra (e del superuomo): la volontà di conoscenza che agisce nell’uomo ha bisogno di stabilità, essa agisce come volontà di verità che crea il ‘mondo vero’; la volontà di potenza di Zarathustra crea la verità in un processus in infinitum, non perché essa produca un ‘mondo vero’, ma perché innanzitutto impugna il martello contro di esso per liberare la volontà di creare cosciente del fondamento ultimo del divenire. La volontà di potenza che fonda il ‘mondo vero’ rende impossibile che nel divenire – su esso costruito – qualcosa sia novità, diversità da e rispetto a ciò che già esiste: “Affermare il ‘mondo vero’ – che è sia stabilità che trascende il divenire, sia la stabilità secondo cui il divenire 18
F. NIETZSCHE, Zarathustra, Sulle isole beate.
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si costituisce in se stesso – significa dunque rendere il nuovo uguale al vecchio…”19 . Il pensiero che si appropria del divenire per renderlo pensabile ha necessità di ‘considerare uguale’ ciò che uguale non è. Con l’affermazione del ‘mondo vero’, il divenire si presenta come qualcosa in cui il nuovo non proviene dal niente, ma è anzi assimilabile al vecchio; il divenire diviene ripetizione del giàstato, e quindi cancella il niente da cui il nuovo – proprio perché tale – proviene, e rende il niente identico all’esistente. “Dicendo che il pensiero, in quanto pensiero del ‘mondo vero’, si fonda su un ‘rendere uguali’ e su un ‘considerare uguali’ il nuovo e il vecchio, Nietzsche afferma con ciò stesso che quel pensiero rende uguali e considera uguali l’essere e il nulla”20 . Anche se questa affermazione non viene mai esplicitamente pronunciata da Nietzsche, Severino ritiene di poter asserire che essa appartiene essenzialmente al pensiero di Nietzsche, al punto che volerla scindere da esso significherebbe rinunciare a comprenderlo. La differenza tra l’essere e il nulla appartiene all’essenza del divenire; l’intero pensiero dell’Occidente lo riconosce: l’assoluta evidenza che il divenire presenta è l’assoluta differenza tra essere e nulla. Alle fondamenta del pensiero metafisico-morale-cristiano c’è il riconoscimento e l’affermazione del divenire, che, per il suo carattere temibile, richiede la costituzione di un ‘mondo vero’. Nietzsche constata che tale pensiero significa la cancellazione della differenza tra essere e niente, la negazione del proprio fondamento; s’impone, quindi, come ‘necessaria’ l’opera di smascheramento dell’intera tradizione occidentale. Severino vede agire nella filosofia di Nietzsche “la più radicale volontà di non contraddizione, cioè la volontà più radicale di tener ferma l’opposizione tra l’essere e il 19 20
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 76. E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 78.
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niente – dove l’essere non è l’essere che Nietzsche identifica all’essere immutabile, vero ed eterno, ma ciò che nella creatività e distruttività del divenire (corsivo mio) è tratto fuori dal niente e vi è risospinto”21 . La filosofia di Nietzsche è tutta rivolta al recupero del divenire, ed essa si muove nel rispetto del principio di non contraddizione che oppone l’essere al nulla; non si tratta, è bene chiarirlo, del principio di non contraddizione della Logica quale strumento della volontà di conoscenza dell’uomo: “La volontà di non contraddizione è la fede nella non contraddizione: la fede in cui l’Occidente si mantiene. Essa è innanzitutto la fede nel divenir altro, che precede la fede nella forma ontologica del divenir altro”22 . La volontà di conoscenza dell’uomo costituisce le ‘cose’ come unità: tutto è ‘giudizio’ che unifica stabilendo uguaglianze al fine di costringere il caos del divenire nel cosmo pensabile. Tuttavia per Nietzsche il divenire non è un nulla, non è il contenuto di una valutazione, non è prospettiva. Il divenire è un qualcosa a prescindere dal ‘giudizio’ della volontà di conoscenza dell’uomo, esso non è formulabile: conoscenza e divenire si escludono. In precedenza si è detto della conoscenza propria di Zarathustra (e del superuomo): il suo conoscere è volontà di rendere conoscibile l’esistenza evidente del divenire, sottraendola alla schematizzazione della volontà di conoscenza dell’uomo. La conoscenza di Zarathustra libera il divenire dal suo concetto ontologico e lo rende ‘innocente’: “Anche nel conoscere io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire: e se nella mia conoscenza è innocenza, ciò accade perché in essa è volontà di generare”23 . Il conoscere di Zarathustra è volontà creatrice: vuole la pro21
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 79. E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 80. 23 F. NIETZSCHE, Zarathustra, Sulle isole beate. 22
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pria creatività e la creatività del divenire; perciò ha il carattere dell’innocenza, che la volontà di conoscere dell’uomo, in quanto ‘paralizza’ nei propri ‘schemi’ il mondo del divenire, non può avere. Dunque, la volontà di potenza di Zararthustra, più che essere prospettiva, è apertura alle miriadi di prospettive. Secondo Severino, Nietzsche non giunge ad uno ‘scetticismo ingenuo’, che equipara le diverse ipotesi distinguendole solo in base alla ‘durata’; ciò però è possibile asserirlo solo distinguendo due ‘momenti’ della volontà di potenza, e facendo coincidere con la ‘morte di Dio’ un evento epocale, non un semplice decesso per estenuazione come ve ne possono essere tanti: “per Nietzsche, l’affermazione che la natura intima dell’essere sia il divenire, nella forma della volontà di potenza, e cioè della volontà di illusione e di finzione, è sì a sua volta una forma della volontà di potenza, che però non è volontà di illusione e di finzione, ma è volontà di verità – la volontà di verità del superuomo, cioè la ‘vera dottrina della volontà e della libertà’ insegnata da Zarathustra…”24 . Si è visto come per Severino la ‘morte di Dio’ costituisca un evento ‘necessario’ che restituisce l’evidenza del divenire e l’assoluta alterità di essere e niente da cui questa è garantita. La ‘morte di Dio’, fondandosi sull’evidenza del divenire, costituisce nell’opinione di Severino la ‘premessa vera’ dell’affermazione dell’eterno ritorno; la ‘morte di Dio’ si può dire compiuta solo se si afferma la potenza della volontà sul passato e dunque solo se si afferma l’eterno ritorno. Nel capitolo intitolato ‘Della redenzione’, così dice Zarathustra: “Volontà – è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così io vi ho insegnato, amici miei! Ma adesso imparate ancor questo: la volontà di per sé è ancora imprigionata”25 . Dio 24 25
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 96. F. NIETZSCHE, Zarathustra, Della redenzione.
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– l’Essere immutabile – è morto, ma la volontà che crea trova un altro ostacolo: l’immutabilità del passato. L’evidenza del divenire ha richiesto che Dio morisse, ma ciò non basta a liberare definitivamente la volontà creatrice; essa deve essere redenta dalla stabilità metafisico-morale del così fu. Il così fu non è che il potenziamento infinito del così è della volontà di conoscere che ‘schematizza’, ‘giudica’, ‘unifica’, e che infine giunge ad affermare l’esistenza di Dio. Il passato costituisce il ‘macigno’ che la volontà non può smuovere. Ma l’impotenza della volontà appare come l’impotenza del divenire in quanto tale: il passato lega a sé il divenire, lo assimila a sé, nega la sua innegabile evidenza. La volontà per essere libera deve poter volere ‘a ritroso’, ma il divenire non procede ‘a ritroso’ – questa è un’evidenza incontrovertibile sul piano fenomenologico. Ora, il pensiero di Nietzsche non è una semplice fenomenologia, giacché solo in base a questa non si potrebbe escludere che il divenire possa costituirsi come indiveniente. Per Severino la possibilità di affermare il divenire è data dall’unione dell’evidenza fenomenologica e dell’evidenza della non contraddizione: “Affermando […] che l’‘a ritroso’ della volontà e del tempo è una necessità, Zarathustra non nega che attualmente il divenire (corsivo mio) si manifesti come diretto ‘in avanti’, ma afferma che è necessario pensare che la direzione in avanti del divenire non esaurisce il senso del divenire, ma appartiene ad un senso totale e definitivo del divenire, dove la direzione in avanti del divenire è insieme una direzione a ritroso”26 . Ma questo pensiero non risulta a sua volta contraddittorio solo se la direzione del divenire è circolare. Inoltre, ritornando su se stesso il divenire non può arrestarsi, poiché se esso finisse avrebbe un fine, uno scopo, un eterno da cui, come si è visto, deve invece libe26
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 179.
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rarsi. È necessario, dunque, che il circolo del divenire sia un eterno ritorno dell’uguale, nel senso più pieno del termine: senza residui che starebbero come un passato immodificabile, vanificando l’anello del ritorno; non si tratta solo di un ritornare di circostanze, bensì di un ritornare del medesimo (Gleich). La volontà che era impotente sul passato vedeva il divenire come una miriade di frammenti enigmatici, ma Zarathustra, in quanto solutore di enigmi e poeta (creatore), scioglie l’enigma del così fu riconducendo ad unità l’orrida casualità nella quale il divenire si presentava: “E il senso di tutto il mio operare è che io immagini un poetare e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità”27 . La dottrina dell’eterno ritorno non è una ‘possibilità’, come vorrebbe l’interpretazione heideggeriana. Severino sostiene che anzi essa costituisce il ‘necessario’ approdo del filosofare di Nietzsche che, tutto volto al recupero del divenire, deve di rigore abolire ogni immutabile stabilendo un eterno ritornare. Severino è consapevole della drammaticità cui giunge il pensiero di Nietzsche allorquando teorizza la dottrina dell’eterno ritorno, ma ritiene che essa non dipenda dalla contraddizione interna al pensiero di Nietzsche (che anzi giudica ineccepibile), bensì consista nel destino dell’Occidente che poggia su di un fondamentale fraintendimento. Pensare l’eterno ritorno come una possibilità non può bastare a salvare dall’evidente contraddizione che esso produce: come è possibile e che senso ha che la negazione più radicale di ogni eterno implichi necessariamente l’eterno ritorno di tutte le cose? “Se l’eternità dell’eterno ritorno è in contraddizione con la negazione di ogni eterno, tale contraddizione non riguarda dunque soltanto il pensiero di Nietzsche, ma è qualcosa di abissalmente più profondo e di estremamente più 27
F. NIETSCHE, Zarathustra, Della redenzione.
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ampio, ossia è la contraddizione che lacera l’essenza stessa, il senso stesso, il concetto stesso del divenire. Non fa meraviglia che Nietzsche possa aver avvertito, sia pure da lontano, la catastrofe dell’essenza stessa dell’Occidente, e dunque l’inevitabile catastrofe del proprio pensiero, e che per evitare di riconoscerla abbia potuto sospettare che ‘forse’ il pensiero dell’eterno ritorno non è vero, e dunque è soltanto una possibilità …”28 . Tutto, secondo Severino, fa pensare ad una dottrina necessaria. Il pensiero dell’eterno ritorno compare per la prima volta nell’aforisma 341 della Gaia Scienza, sotto il titolo Il peso più grande. La forma ipotetica nella quale viene proposta (“che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte,…»”) stride sia con il titolo che viene anteposto, sia con la reazione disperata cui conduce (“Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?”). Severino vede in questo, come in altri passi, l’inevitabile procedere di un pensiero ‘necessario’. Per salvare il divenire, Nietzsche deve affermare l’eternità del ritorno. Non si tratta dell’eternità degli immutabili da cui il divenire deve essere liberato, bensì dell’eternità che consente al divenire di divenire: “L’eternità è l’unica donna dalla quale Zarathustra può desiderare di aver figli e può averli, perché i ‘figli’ sono il futuro, ciò senza cui il divenire sarebbe impossibile, e la creatività del divenire è possibile solo in quanto si realizza come eternità dell’anello del ritorno, come eterno ritorno di tutte le cose”29 . Il ‘peso più grande’ sta in questa ‘contraddizione’ che dalla volontà di libertà dall’immuta28 29
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 191. E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 238.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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bile, porta all’eternità che va amata e voluta, giacché solo per essa è possibile il divenire. In quest’ottica si può parlare di fatalis amor fati, poiché amare e volere il proprio destino, come eternamente ritornante, è ‘necessariamente’ implicato dall’affermazione del divenire. Come si è visto, nell’interpretazione di Severino il divenire, implicando l’eterno ritorno, finisce col negare se stesso: il divenire implica necessariamente il non divenire, e ciò perché il divenire è un concetto in se stesso contraddittorio. La fede nel divenire è la fede nella libertà e nella creatività del volere, ma “divenire, libertà, creazione, caso sono, in se stessi e in quanto tali, rispettivamente, nondivenire, non-libertà, non-creazione, non-caso: appunto perché sono, in se stessi e in quanto tali, eterno ritorno di tutte le cose…”30 . Questa contraddizione poggia sulla stessa Follia della quale è persuaso l’Occidente, la fede nel divenire. Per Severino la fede nel divenire è qualcosa di voluto, una pura sintesi fattuale; una fede, tuttavia, che non conosce se stessa come fede, che non vede la contraddittorietà del proprio contenuto, e anzi concepisce come connessione necessaria che il divenire sia un essere-stato-un-niente e un ridiventare niente da parte dell’ente. Ma c’è un ‘destino della verità’ che, vedendo l’originaria opposizione dell’essere e del niente, scorge l’impossibilità che l’ente esca dal niente e vi ritorni31. Secondo Severino, Nietzsche arrivò a scorgere l’abisso della Follia della fede nel divenire, ma non lo riconobbe rimanendo sempre, coerentemente al pensiero dell’Occidente, leale all’evidenza del divenire. Infatti, quando la Follia appare come Follia questo apparire è non-Follia, cioè il ‘destino della verità’ che già da sempre si apre di là dalla Follia; a se 30
E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 415. Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano, 1981; E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit.
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stessa la Follia appare come l’evidenza suprema del divenire. Nietzsche qui giunge all’anello del ritorno, oltre il quale non può procedere senza vedersi come Follia. Il superuomo gioisce stando sull’abisso di un’eternità implicata dal divenire; “la gioia del superuomo è la maschera inevitabilmente indossata dall’angoscia a cui l’Occidente è destinato. Al di là della follia del divenire e cioè dell’eternità dell’Occidente, la Gioia del destino della verità non maschera alcuna angoscia”32. Le esegesi del pensiero di Nietzsche, nell’opinione di Severino, non riescono a coniugare l’eterno ritorno col resto della filosofia nietzscheana, e ciò perché si fermano alla contraddizione fra divenire ed eternità del ritorno: pensano la contraddizione senza porsi al di là di essa, e sono così portati a ridurre il ‘pensiero abissale’ per eccellenza ad una possibilità. Severino ritiene che l’incomprensione della dottrina dell’eterno ritorno, e il tentativo del pensiero contemporaneo di emarginarla dal pensiero di Nietzsche possano essere considerati come il presentimento del pericolo estremo: la Follia, la fine del pensiero dell’Occidente. Si è detto come Nietzsche giunga, nell’interpretazione di Severino, a intravedere la Gioia, al di là della contraddizione, nella figura del superuomo. Eppure il superuomo non supera l’ambito del ‘mortale’; mantiene i caratteri attribuiti al Dio che ‘muore’, e ciò perché non può varcare la soglia del pensabile senza avvertirsi come Follia. Vediamo dunque, nella speculazione di Severino, a quale ‘grado’ vada collocata la ‘morte di Dio’, e dove giunga il ‘superamento’ dell’Übermensch.
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E. SEVERINO, L’anello del ritorno, op. cit., p. 433.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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La filosofia di Severino e Nietzsche: il mortale, la gioia, la gloria Per Severino, il pensiero dell’Occidente è fondato sulla Follia che l’essere possa non essere. Questo ‘scandalo’ rimane l’inconscio dell’Occidente persuaso che la terra, in quanto totalità di tutte le cose umane e divine, sia la regione sicura sulla quale costruire le proprie certezze. Tale persuasione isola la terra dalla Necessità che, in quanto struttura dell’essere che non può non-essere, precede ontologicamente l’alienazione dell’Occidente; così isolata dalla Necessità, la terra appare come un niente, e su questo niente il nichilismo può farsi avanti come pensiero dominante dell’Occidente. La volontà che una cosa, in quanto tale, sia ciò che esce e rientra nel niente è l’inconscio dell’Occidente; è la Follia che essere una cosa significhi essere-un-niente. La struttura originaria, l’opera che nel 1958 stabilisce il cardine della speculazione di Severino, tenta di esprimere l’Essere che sta alle spalle della stessa struttura inconscia dell’Occidente. La struttura originaria della Necessità è l’apertura di senso che non può essere negata; è l’immediato, ciò che non mediante altro, ma per sé e in sé, appare come Necessità: “La verità dell’essere, come Necessità del legame che unisce ogni ente al suo essere (cioè al suo non essere un niente), è insieme verità dell’apparire dell’essere, cioè Necessità che il divenire dell’ente appaia non come un uscire e un ritornare nel niente, ma come apparire e scomparire di ciò che, in quanto ente è necessariamente legato al suo essere e, così, è eterno”33 . L’evidenza fenomenologica del divenire, come fondamento del pensiero occidentale, può maturare solo se si separa quest’evidenza dall’impossibilità logica che l’ente non sia. Il nichi33
E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano, 1981, p. 18.
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lismo consiste nel ritenere che l’evidenza fenomenologica sia il dato incontrovertibile dell’ente che appare nel suo uscire e ritornare nel niente. La struttura originaria avverte che quel dato non è affatto tale, ma è il contenuto dell’interpretazione nichilistica di ciò che autenticamente è dato: la Necessità dell’essere. All’interno dell’isolamento della terra, la ‘necessità’ è quella forma della volontà di potenza che vuole dominare il divenire e che è destinata ad essere travolta dalla fede nella novità imprevedibile del divenire. La volontà di potenza ha progressivamente distrutto gli immutabili e l’epistéme in cui essi sono stati innalzati, e ha cominciato␣ a difendersi – e tuttora si difende – dalla minaccia del divenire non con la ‘necessità’, ma “con l’abbandono della volontà di costituirsi come forza esterna al divenire, identificandosi al divenire stesso, come forza che lo guida dall’interno e che quindi non ha il carattere di una ‘necessità’ cui il divenire debba sottostare, ma di una ‘ipotesi’ che attende dal divenire stesso la propria verifica”34 . Su questa presunzione si fondano la scienza moderna e l’organizzazione tecnologica. Ma la Necessità che viene annunciata ne La struttura originaria non è la volontà di dominare il divenire; essa è l’apparire dell’accordo inviolabile tra ogni cosa e il suo essere. Solo al di fuori della storia dell’Occidente è possibile la testimonianza della␣ Necessità. Nell’interpretazione di Severino, la filosofia di Nietzsche è saldamente ancorata al presupposto del divenire; esso ha però già preso le sembianze della volontà creatrice, è giunto alla volontà di libertà che divelle gli immutabili, giacché questi non garantiscono più la sopravvivenza del divenire, anzi la impediscono. La ‘morte di Dio’ è necessaria per liberare la creatività, ma essa non apre all’abisso; poggia, infatti, saldamente sulla fede nel divenire. Ri34
E. SEVERINO, La struttura originaria, op. cit., p. 98.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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manendo nella concezione di Severino, la ‘morte di Dio’ deve essere collocata ancora nella ‘superficie’ del pensiero occidentale: essa segue la naturale evoluzione nichilistica, poiché mantiene ben saldo il principio che l’ente, in quanto diveniente, non è. Che il suo provenire dal nulla dipenda da Dio o meno, poco importa ai fini della considerazione che si ha dell’ente. Tuttavia la ‘morte di Dio’ è un passaggio necessario che segnala, nel suo compiersi come eterno ritorno, la contraddizione in cui si muove il pensiero occidentale. Si è visto, infatti, come l’eterno ritorno risulti, nelle considerazioni di Severino, come l’apparire della catastrofe del pensiero: lungo la strada che salva il divenire da ogni eterno, si giunge infine alla ‘necessità’ di ricorrere alla dottrina dell’eterno ritorno. Se volessimo collocare questo momento all’interno della filosofia di Severino, dovremmo ricorrere alla definizione di Gioia che ricorre nel Destino della necessità del 1980: il Tutto è Gioia allorquando diviene oltrepassamento della contraddizione del finito. Tuttavia la gioia del superuomo, che accoglie l’eterno ritorno, è una maschera che copre l’angoscia cui è destinato l’Occidente. Il superuomo non è ancora Gioia; la intravede soltanto rimanendo al di qua della storia dell’Occidente. Se La struttura originaria indica, appunto, la struttura originaria della Necessità, il Destino della necessità ne illustra il venire in chiaro come ‘volontà di destino’. La ‘libera’ volontà di sottrarsi a ogni legame necessario col Tutto, ponendosi come assoluto, è prevaricazione; è la volontà che vuole l’impossibile, ossia che il voluto coincida con ciò che accade. In essa trova compimento l’originaria volontà di potenza che guida la storia dell’Occidente; l’hybris che si separa dal logos, come la parte dal Tutto. Ma separata dal Tutto, la parte è già spenta: la volontà di separare la parte dal Tutto è la volontà di essere mortali, ed essere mortali significa mantenersi all’interno della dimensione 266
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dove la nascita e la morte sono possibili, ovvero nella dimensione della terra. “Eppure il destino della verità dell’essere dice che se qualcosa appare – attorno ai mortali o attorno agli immortali – è necessario che appaia il destino della verità dell’essere; e poiché il cerchio dell’apparire è eterno, il destino della verità vi abita intramontabile. Dunque è necessità dire che anche i mortali, in quanto vedono qualcosa, vedono la verità dell’essere”35 . Il mortale è l’apparire della terra contesa dal destino della verità – che, come verità della terra, accoglie in sé la terra – e dalla persuasione che la terra sia la regione con cui abbiamo sicuramente a che fare: “Il mortale, cioè l’apertura stessa di ogni errare, vuole la ‘notte’, cioè l’abbandono del destino della verità dell’essere; nella ‘notte’ egli accende per sé il ‘lume’ del ‘sonno’. La sicurezza della terra è il ‘lume’ del ‘sonno’, che il mortale accende per sé. Egli si mette al riparo della terra – egli è questo ripararsi –; ma la sicurezza della terra […] è un niente, cioè è ‘sonno’”36 . Il mortale, come isolamento della terra, è sì volontà che la terra sia la regione sicura, ma in sé avverte la vanità di tale certezza. Questo ‘nascosto avvertire’ è testimoniato dal nichilismo dell’Occidente. Se il mortale nasce dalla ‘libera’ volontà di separazione dal Tutto, poiché la libertà implica la persuasione che l’ente è niente, questa persuasione implica a sua volta la libertà, e dunque solo il ‘mortale’ può vivere come un ‘libero’. Su questo presupposto anche Dio, l’ente libero per eccellenza, è un mortale. “Nel concetto di azione umana, di creazione divina del mondo, di autoproduzione del soggetto trascendentale, di dominio tecnologico della terra, la volontà originaria che la terra sia la regione sicura […] sta dinanzi a sé stessa, ma tenendo ogni volta sul volto una maschera. La maschera è sempre 35 36
E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 418. E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 438.
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più sottile”37 . La persuasione della sicurezza della terra è già da sempre in cammino verso la Necessità, e con la ‘morte di Dio’ non fa che rendere più trasparente la maschera dietro cui si nasconde il fraintendimento originario che l’essere è niente. Dianzi si è detto che il superuomo vive la sua gioia come una maschera, rimanendo ancora nell’ambito del ‘mortale’. Nella filosofia di Severino c’è una Gioia che valica ogni maschera, ed è la gioia del destino della verità. Il ‘mortale’ è figlio dell’isolamento della terra, dall’altra parte la volontà di destino vuole il tramonto dell’isolamento e la fine dell’alienazione. Questa volontà di destino non è che l’inconscio del mortale: “La necessità del tramonto dell’isolamento significa infatti che la negazione della contesa tra il destino e l’isolamento della terra appartiene alla necessità del destino,[…]”38 . Il tramonto dell’isolamento non è qualcosa che possa essere voluto, bensì è il ‘destino della Necessità’. Perciò la volontà creatrice del superuomo, in quanto volontà (mai realizzabile), non può coincidere con la Gioia, giacché essa è il superamento delle contraddizioni del finito, e in essa, – come inconscio dell’isolamento su cui nasce la volontà –, “è già da sempre tracciato il Sentiero del Giorno, cioè l’oltrepassamento compiuto della solitudine della terra e del testimone della solitudine, l’Occidente”39 . Le conclusioni provvisorie di Destino della necessità lasciano aperti interrogativi cui Severino tenta di dare risposta ne La Gloria: “Quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere?”40. Ovvero, essendo giunta al ‘bivio’ fra la ‘volontà di potenza’ e la ‘volontà di destino’, e avendo inevitabilmen37
E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 577. E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 585. 39 E. SEVERINO, Destino della necessità, op. cit., p. 597. 40 E. SEVERINO, La Gloria, Adelphi, Milano, 2001, p. 22. 38
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te intrapreso il cammino del destino, la terra è destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della stessa? Severino è persuaso che il destino conduca al culmine della Gloria, che supera la dimensione della Gioia per il suo carattere infinito. Si è detto che la Gioia è il superamento delle contraddizioni del finito, è il toglimento eterno delle contraddizioni, ma, proprio per il suo essere un eterno, è in contrasto con la solitudine della terra. Ora, la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata all’oltrepassamento della solitudine (ossia della volontà di potenza), e la Gloria è il disvelamento della Gioia nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra. La Gloria è la destinazione per l’eternità intesa nel senso originario del termine: è l’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente. Ora, se ne La Struttura originaria la Gloria è descritta (sebbene non si usi il termine preciso) nel suo essere fondamento, ne La Gloria essa è indagata nel suo essere il culmine del destino: “Quando al di là dell’angoscia provata dal mortale dinanzi al nulla, l’isolamento della terra incomincia a tramontare nella testimonianza del destino, e l’eternità di ogni vita e di ogni esperienza appare non contrastata dall’isolamento che separa la terra dal destino, allora questo apparire, che si dispiega all’infinito, è la Gloria della terra e dell’uomo”41. Per Severino l’essenza autentica dell’uomo è questa destinazione per la Gloria, come epifania del Tutto, ovvero quale apparire infinito dell’essente. Si ritorna inevitabilmente all’asserzione di Parmenide, l’essere è, il non-essere non è; ciò che è, è stato, sarà, costituisce il Tutto che non conosce oblio. Il mortale ha senso solo nell’isolamento della terra, nulla si perde definitivamente, tutto ritornerà nel suo essere eterno. Ne L’anello del ritorno Severino evidenzia come l’eterno ritorno sia l’inevitabile conseguenza della 41
E. SEVERINO, La Gloria, op. cit., p. 32.
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‘necessità’ di salvare il divenire. Il suo essere un cerchio chiuso, senza inizio né fine, impedisce l’oltrepassamento definitivo che La Gloria descrive: al di fuori della fede nel divenire, “è necessario che la terra incominci ad entrare nel cerchio dell’apparire, perché altrimenti, se già da sempre vi fosse entrata e non esistesse un suo primo passo all’interno di quel cerchio, ogni tratto del sentiero della terra avrebbe un passato infinito e il sentiero non avrebbe potuto condurre i propri tratti nel cerchio dell’apparire”42 . L’eterno ritorno impedisce, secondo Severino, il vero oltrepassamento; poiché non si può identificare un inizio, il tutto si ripete non consentendo il superamento. L’eterno ritorno deve essere inteso quale momento ‘necessario’ dell’isolamento della terra; deve pertanto poter entrare nel cerchio dell’apparire del destino, senza coincidere con esso. Infatti il destino ha bisogno di un cominciamento e l’eterno ritorno, nato come garanzia del divenire, è proprio la negazione di tale cominciamento. Il tempo non divora i suoi figli, ma li conserva in eterno nel loro essere e nel loro apparire. L’angoscia, il dolore, i patimenti, cui l’uomo finito è sottoposto sono reali; essi, però, costituiscono una parte della Necessità. Nella Gioia le angosce e i dolori appaiono conciliati, e il superamento dell’isolamento della terra, che li lasciava apparire come l’inconciliabile, svanisce disvelando la Gloria. L’aprirsi dell’isolato cerchio terreno, patito e vissuto fino alla morte, è già un procedere nella Gloria della vittoriosa Pasqua che supera, il ‘venerdì santo’ – pur sempre comprendendolo␣ –, già liberamente destinato alla Gioia ma non annullato in essa, bensì visto come eterno in una compresenza eterna di ogni ente, ogni terra, ogni io finito. Non c’è Gloria del finito senza l’abisso della morte secondo lo sguardo della verità, né Gioia infinita senza passione. La mor42
E. SEVERINO, La Gloria, op. cit., p. 134.
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te, intesa come caduta nel nulla, fa parte dell’isolamento della terra; esiste però incontrovertibilmente la morte come momento dell’essente in quanto essente, e di essa non si può non tener conto, giacché apre alla visione della Gloria del Tutto: “Nello sguardo del destino della verità appare cioè la necessità che il ‘venerdì santo’ della solitudine delle terre dei cerchi non proceda ma appaia insieme al proprio tramonto; e cioè che il tremendum non sia lasciato a sé stesso e al suo orrore, ma appaia nell’atto stesso in cui è oltrepassato dalla ‘pasqua’ della libertà del destino”43 , ovvero nell’atto in cui appaiono il Tutto e il volto della Gioia. “In quello sguardo appare dunque la necessità che l’abisso estremo del dolore e della morte, che è necessario che si spalanchi nel finito, si manifesti nell’evento stesso in cui è oltrepassato, ossia nel tempo stesso in cui si manifesta, nel nuovo bagliore della Gioia – nella Gloria della Gioia␣ –, il proprio compimento e il proprio esser passato”44 . La Gloria è quindi l’apparire dell’infinito. Ma l’apparire infinito è anche apparire dell’apparire dell’infinito, cioè di se stesso: coscienza dell’autocoscienza, ‘Io’. All’interno della terra isolata, l’‘esser uomo’ è l’io in quanto volontà di alterare la terra: “Il superuomo di Nietzsche – come l’io trascendentale kantiano e idealistico – sono forme estreme dell’‘essere uomo’ così inteso. Così inteso, l’‘essere uomo’ è il mortale, in quanto non sa di essere l’apparire del contrasto tra il destino e la terra isolata”45 . Si comprende da ciò come nella filosofia di Severino il superuomo rimanga al di qua dell’isolamento, senza pertanto realizzare l’oltrepassamento reale delle contraddizioni di cui è anzi l’estrema manifestazione. 43
E. SEVERINO, La Gloria, op. cit., p. 544. E. SEVERINO, La Gloria, op. cit., p. 544. 45 E. SEVERINO, La Gloria, op. cit., p. 556. 44
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Conclusioni
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Abisso e libertà L’annuncio dell’uomo folle, colto nella sua carica ontologica, evidenzia come la morte di Dio non poggi su di una dimostrazione logica che ne attesta l’inesistenza, bensì su di una constatazione storica. Che Dio sia morto è una tale banalità che non può sorprendere la gente del mercato cui è annunciata: il sacro ha perso il suo valore, si è arreso dinanzi al tempo, e la menzogna di Dio ha trovato la sua nemesi negli stessi principi che la crearono. Eppure, oltre questo banale annuncio sta un messaggio per il quale pochi hanno orecchi: la ‘morte di Dio’ ha svelato uno spazio insondato, un abisso su cui non si può stare, e che perciò richiede la posizione di un terreno su cui muovere i propri passi. La gente del mercato sa della ‘morte di Dio’ ma non se ne cura giacché ha trovato il proprio sostegno metafisico in altro (la soggettività, l’oggettività, per esempio). Ma il processo che ha condotto l’uomo del mercato all’abbandono di Dio non è passato per la consapevolezza dell’abisso. L’uomo folle, invece, sa di quello spazio oltre il fondamento, sa di quel Nulla oltre l’Essere, sa di avere a che fare con un momento tragico che scopre l’infondatezza del Tutto, e il suo annuncio ha la voce della Follia, una voce che non conosce uditori. La ‘morte di Dio’ giunge come necessario svolgimento della storia della metafisica, e il nichilismo è paradossalNietzsche. Oltre l’abisso
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mente un momento della storia dell’Essere, nel senso che è lo svolgimento di un processo che nasce come destinato a morire, poiché ha in sé la propria negazione. Dio è da intendersi come l’estrema manifestazione dell’Essere concepito come Fondamento: quest’Essere nacque sulla rimozione del Nulla, ossia da un bisogno metafisico di stabilità che non si può eludere e che passa per la riduzione dell’originario abisso del Caos ad un Cosmo vivibile. Eppure, proprio lungo la strada tracciata dalla metafisica un sotterraneo movimento volto alla liberazione dalla menzogna dell’Essere evidenzia le sue insanabili contraddizioni. Il pensiero dialettico, che è il tentativo di conciliare le contraddizioni interne al sistema, conduce alla negazione di se stesso evidenziando una frattura insanabile che ripropone in tutta la sua cogenza, e su un piano non più metafisico, il problema classico della filosofia: la scelta tra la libertà e la necessità. Se seguiamo le riflessioni di Cacciari, vediamo come Nietzsche rinuncia a percorrere la via battuta da Schopenhauer allorquando si rende conto che la soluzione alla condizione tragica dell’esistenza risiederebbe nell’ascesi, quale negazione della vita. Poiché se la vita è volontà mai appagabile, allora la noluntas dell’ascesi è l’unica via per la libertà dalla condizione necessitante nella quale l’uomo è gettato. L’uomo, infatti, non è mai libero in quanto, agendo, crea i vincoli del proprio agire, e non agendo comunque sceglie fra le opzioni che gli si presentano determinando così altri vincoli. La libertà prospettata dalla noluntas non trova effettualità nel mondo, giacché si tratta di una volontà per il Nulla, ossia per la negazione di ciò che è. Il Freigeist nietzscheano comprende come questa non sia altro che l’espressione metafisica della libertà, e perciò rinuncia ad essa nel tentativo di conciliarsi al Fatum della propria condizione. La libertà dello Spirito Libero consiste, infine, nella consapevolezza della necessità in cui vive. 274
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La ‘morte di Dio’ è l’esaurirsi della ‘volontà di potenza’ che cerca la Sintesi di là dal mondo giungendo così ad un concetto metafisico di libertà che risulta inefficace nel mondo della vita, e contemporaneamente consiste nella consapevolezza della necessità di ciò che è. Il superuomo che prende atto della ‘morte di Dio’, si sa elemento del divenire, necessitato in esso, non libero, e quindi capace di una ‘razionalizzazione’ completa, di un embodiement radicale. La filosofia ha smesso di considerare il divenire, la cui manifestazione più esemplare è rappresentata dal mondo della tecnica, come caduta dall’essere che richiede un recupero metafisico, e avverte il suo destino legato intrinsecamente alla tecnica. Eppure uno spazio rimane come sfondo alla coincidenza di libertà e necessità che la ‘morte di Dio’ sembra prospettare. Esso è il limite della struttura all’interno della quale è stato possibile affermare Dio, ed è l’abisso delle possibilità che si aprono. La ‘morte di Dio’ non presenta per l’essere, fra le infinite possibilità, quella di non-essere; essa scopre l’Ab-Grund, ma qui non si può stare: è necessario formulare un altro sostegno. Ora, si è coscienti della falsità del Fondamento, ma si è pur sempre costretti, se si vuole ‘potere effettualmente’ nel mondo, a porre un altro Grund, ancora più in grado di gestire la complessità e le contraddizioni del Tutto (organizzandolo nella forma più ‘economica’ e ‘funzionale’) rispetto a quello che è entrato in crisi con la ‘morte di Dio’. Anzi, la formulazione che segue la ‘morte di Dio’ deve saper includere anche la crisi nella quale è maturata, sprofondando nuovamente il ‘fondo abissale’ orrendamente scoperto. Lo spazio indefinibile si mostra come ciò che accompagna costantemente la filosofia; da esso infatti emerge il bisogno metafisico di stabilità, ma contemporaneamente emerge il bisogno di occultare quest’origine in abissali profondità, cui non si può giungere per il tramite della Nietzsche. Oltre l’abisso
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‘razionalità’. L’Ab-Grund può essere al più indicato attraverso la parola che smette di designare, di ‘significare’, per farsi tensione che allude al proprio annullamento, al Silenzio dell’assenza. Come recita l’aforisma 44 di Aurora, “con la piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine”, ossia il movimento sfondante operato in virtù delle necessità logiche intrinseche al pensiero metafisico non rinviene un Fondamento che attribuisce significato alle cose, quasi che queste partecipino di un essere supremo avente principio per l’appunto nel Fondamento. Piuttosto la ‘morte di Dio’ scopre la falsità di ogni Presupposto metafisico, attestando l’irraggiungibilità di un approdo definitivo attraverso il pensiero che ragiona in termini inevitabilmente metafisici e con parole che ripetono la struttura ontologica sulla quale hanno trovato ‘sostegno’. L’evento della ‘morte di Dio’ ci pone in contatto con l’abisso, ma esso non ha parole comprensibili per noi, si mostra come il Caos della Possibilità, ma non sa dire nulla, non ha significati da comunicarci, perché non è coinvolto con il processo metafisico che giunge alla fine, né con quello che incomincia, non ne è la causa efficiente, non ne è il Fondamento. È solo l’Inizio che precede il Tutto senza esserne la causa. “Mi sembra che sia importante – scrive Nietzsche nei Frammenti del 1885 – che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità, di una qualunque forma di incondizionato; non si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo Dio”. L’incondizionato di cui parla Nietzsche è qualcosa che, non avendo avuto inizio da null’altro che da sé, è la causa ultima del processo che origina. La preoccupazione di Nietzsche consiste nel liberare il pensiero dal fraintendimento del Fondamento quale termine a partire dal quale segue di necessità 1’intero essere, come se la conoscenza del Principio evidenziasse nell’intero processo un ferreo determinismo. Tuttavia, come si chiarirà fra poco, per Nietzsche 276
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c’è un inizio, solo non deve essere confuso con la struttura logica sulla quale è maturata la nostra razionalità. La ‘morte di Dio’ non prospetta alcuna liberazione definitiva, tuttavia nel momento in cui si annuncia produce un inevitabile senso di affrancamento dovuto al coinvolgimento metafisico ancora troppo forte: “Una lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, tramonti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi: chi già da oggi potrebbe aver sufficiente divinazione da diventare maestro e veggente di questa mostruosa logica dell’orrore, da essere il profeta di un ottenebramento e di un’eclisse di sole, di cui probabilmente non si è ancora mai visto sulla terra l’uguale? Perfino noi, per nascita divinatori di enigmi, noi che siamo in attesa per così dire sulle montagne, piantati fra l’oggi e il domani [...], noi che dovremmo scorgere le ombre che ben presto avvolgeranno l’Europa: com’è che perfino noi le guardiamo salire senza una vera partecipazione a questo ottenebramento, soprattutto senza preoccuparci e temere per noi stessi? Siamo forse ancora troppo soggetti alle più immediate conseguenze di questo avvenimento [...]. In realtà, noi filosofi e ‘spiriti liberi’, alla notizia che ‘il vecchio Dio è morto’, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; [...] il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così ‘aperto’.”1 La ‘morte di Dio’ è qui intesa nelle sue immediate conseguenze come un evento che libera, ma questa liberazione è solo un’illusione, ‘retaggio’ della metafisica che ancora oscura e nasconde l’orrendo Caos dell’abisso. La lunga agonia dell’essere è letta da Vattimo come un indebolimento ontologico che coinvolge la nostra stessa razionalità. Il ‘pensiero debole’ giunge come il ‘necessario’ svolgimento della storia dell’essere che prende atto dell’assenza di qualsiasi fondamento, e rinuncia a 1
F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, 343.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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fughe ascetiche percorrendo l’unica via che sia lecito seguire alla razionalità. Se la ‘morte di Dio è un evento storico, nel senso che costituisce un momento della storia dell’essere e ciò per una coerenza interna al pensiero che ha richiesto l’esistenza di Dio, la caduta di ogni fondamento conduce ad un’‘ermeneutica interminabile’ che rinuncia a ogni punto stabile. L’ermeneutica ontologica debole si costituisce e ‘fonda’ entro il destino dell’essere, in stretta comunanza con il nichilismo, anch’esso momento della storia dell’essere. Il pensiero debole si propone di accompagnare l’essere in questa sua agonia, rimanendo in equilibrio tra la contemplazione inabissante del negativo e la cancellazione di ogni origine. Proprio qui sta il punto che mi preme sottolineare. Secondo Nietzsche, la logica per mezzo della quale noi ragioniamo ha origine dal Caos delle possibilità che impone, come bisogno metafisico, la posizione di un punto fermo: l’Essere. Ora, la posizione dell’Essere risulta come la rimozione dell’origine, perché sull’origine, in quanto abisso, non si può stare: “Ammettere l’Essere è necessario per poter pensare e argomentare: la logica maneggia soltanto formule che valgono per ciò che resta costante”2 . Tanto più l’abisso è profondo, tanto più saldo risulta i1 terreno (l’Essere) su cui ci muoviamo. La ‘morte di Dio’ costituisce il mostrarsi a-temporale dell’origine, ma essa fa irruzione nel ‘mondo della storia’, e non può avere effettualità nel nostro mondo, che per l’appunto è ‘storico’. L’Essere è la rimozione di ciò che per il momento chiameremo ‘Caos delle possibilità’; esso è possibile solo entro il Tempo progressivo della storia: qui tutto è essere e ‘storia dell’essere’; addirittura ogni negazione è risolta nei concetti dell’Essere. Lo stesso nichilismo non è che un momento di questa storia. Finché si rimane all’interno del Tempo progressi2
F. NIETZSCHE, La Volontà di potenza, 517.
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vo non si può dire nulla dell’abisso, perché esso, in quanto altro dall’Essere, non conosce tempo. Il pensiero debole continua a rimuovere l’abisso, e lo fa attraverso la razionalità dell’Essere, l’unica della quale si dispone. Questa ragione, indebolita dalla consapevolezza della falsità di ogni fondamento, oscilla fra le diverse interpretazioni, includendo fra queste la stessa ‘morte di Dio’, e presentandosi in grado di gestire il divenire delle cose. L’ermeneutica ontologica proposta da Vattimo è il necessario svolgimento dell’essere in quanto destino, ossia di un essere temporale, che ha sì un inizio fuori dal Tempo, ma si conosce solo come Tempo. La necessità di rimuovere l’abisso è insita nella natura dell’Essere temporale che giunge alla propria fine. Tuttavia il tramonto dell’essere, mostrando l’Ab-Grund, scopre la sua ineffettualità nel mondo e così continua la sua agonia, frammentandosi in un’ermeneutica che sa includere anche le fratture generate dal logorio del tempo. Infatti, come si chiarirà, la creazione del Tempo e dell’Essere nasce dalla rimozione del Nulla, una rimozione incompleta che richiede continui aggiustamenti. L’Essere ha inabissato l’Inizio, ma per far ciò, per rimuovere il Nulla ha dovuto entizzarlo, ossia ascriverlo all’ambito dell’Essere, non lasciando niente al di fuori della propria definizione. Il Nulla dell’Inizio è così diventato l’Essere per eccellenza, Dio, il Fondamento; e la menzogna per un po’ ha retto, fino a quando la contraddizione non è maturata storicamente (ossia razionalmente) mostrando l’impossibilità di ogni fondamento. L’Incondizionato dal quale Nietzsche sente la necessità di doversi liberare a ogni costo è l’Incondizionato pensabile attraverso il Condizionato, un assurdo logico che Nietzsche avverte come insostenibile. Eppure, Nietzsche ammette un Inizio nei frammenti per la composizione della Volontà di Potenza, allorquando tratta del sorgere della ragione e della logica: “In origine Nietzsche. Oltre l’abisso
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era il caos delle rappresentazioni. Le rappresentazioni che si accordavano fra loro restavano; il maggior numero periva e perisce”3. Il problema di Nietzsche è la riproposizione, più o meno consapevole, del ‘baratro della ragione’ di Kant: “La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile, come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero baratro della ragione umana … Non si può evitare, ma non si può nemmeno sostenere, il pensiero di un Essere, che ci rappresentiamo come il sommo fra tutti i possibili, dica quasi a se stesso: Io sono ab eterno in eterno; oltre a me non c’è nulla, tranne quello che è per volontà mia; ma donde son io dunque? Qui tutto si sprofonda sotto di noi, e la massima come la minima perfezione pende nel vuoto senza sostegno innanzi alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far disparire l’una come l’altra senza il più piccolo impedimento”4. Ossia, il pensiero di un Incondizionato deducibile dal Condizionato porta alla domanda circa la derivazione dell’Incondizionato, e così via all’infinito. Se invece l’Incondizionato sta in remote distanze che la nostra ragione non può dimostrare, allora esso non sta come un fondamento ma come un Nulla che precede l’Essere e da quest’ultimo non può essere dedotto. Il passo di Kant sopra citato riecheggia nelle parole dell’uomo folle: “Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando in un infinito nulla”5. Questo infinito nulla è il Caos dell’origine, e la ‘morte di Dio’ costituisce un’irruzione di questo abisso nella ‘storia dell’essere’; ma l’essere, proprio in quanto storia, lo inabissa nuovamente, organizzando attraverso la ‘ragio3
F. NIETZSCHE, La Volontà di potenza, 508. I. KANT, La Critica della Ragion pura, tr. it., Laterza, Bari, 1963, pp. 490-1. 5 F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, 125. 4
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ne’ una rimozione più persuasiva e duratura. Dal Caos nasce la logica che pensa l’Essere in virtù della supposizione che si diano casi identici. Da questa volontà di uguaglianza (che è ‘volontà di potenza apollinea’) sorge la pensabilità del divenire: ma, come si è più volte detto, conoscenza e divenire si escludono. È proprio nel tentativo di salvaguardare la possibilità del divenire, che esula dal concetto ontologico, che Nietzsche deve abolire il tempo progressivo istituendo l’eterno ritorno dell’identico. L’evidenza fenomenologica del divenire non può essere rigettata, dunque s’impone la liberazione da ogni appiglio, giacché il pieno divenire non consente alcun sostegno. Non si può accettare il tempo progressivo sul quale è possibile affermare i1 Fondamento, sia esso Dio o l’immutabilità del così fu, perché qui il divenire è imbrigliato, e la sua estrema manifestazione, la volontà creatrice, non fa che ripetere grigi concetti, non portando alla luce alcunché di nuovo. Ma il divenire, in quanto pensabile, è un concetto dell’Essere, e fuori dall’Essere non c’è pensiero del divenire: “Noi crediamo alla ragione: ma questa è la filosofia dei grigi concetti. [...] II pensiero razionale è un’interpretazione conforme a uno schema che non possiamo rigettare.”6 Nietzsche è pervenuto all’estremo del pensiero, colà ove l’eternità irrompe nella temporalità, sa che per salvaguardare la volontà creatrice deve liberare il divenire dal tempo, ma sa anche che fuori del tempo la ‘ragione’ non può spingersi. Cerca dunque un’estrema soluzione nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale, che fa coincidere il tempo con l’eternità, rendendo possibile la creazione. La dottrina dell’eterno ritorno è il tentativo di raggiungere la Libertà rimanendo entro la ‘razionalità’; ed è proprio in conseguenza di questi presupposti che la Libertà viene a coincidere con la Necessità del processo, in quanto non 6
F. NIETZSCHE, La Volontà di potenza, 522.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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ammette la possibilità di non essere: non si può scegliere di non essere perché ciò spezzerebbe l’anello del ritorno, introducendo quindi un inizio deducibile, riportando così alla struttura temporale progressiva dell’Essere. Le contraddizioni sopra evidenziate, secondo Severino, risiederebbero nell’impossibilità logica del divenire, in quanto pensiero dell’essere che può non essere. A mio avviso, invece, l’eterno ritorno costituisce un’insanabile contraddizione perché è il tentativo di raggiungere l’Eternità dell’abisso (che consente la creazione) attraverso la ‘razionalità’ dell’Essere che, come detto, è temporale-progressivo. Siamo giunti al punto centrale del problema: la ‘morte di Dio’ scopre un Fondamento abissale che libera all’infinita Possibilità e che si dà, in quanto Originario assoluto, svincolato dalla Necessità del processo. Come se continuassimo la filosofia della Libertà di Schelling, andando oltre la remora razionalistica di dover conciliare necessità e libertà, ci troviamo dinanzi all’Originario inesauribile da cui scaturisce l’essere, ossia dinanzi al fondo abissale e dionisiaco dell’esistenza. Ciò è possibile oggi, dopo Nietzsche e dopo la ‘morte di Dio’, dopo l’esperimento esistenziale e nichilistico che la filosofia ha provato su se stessa. Nell’abisso svelato dalla ‘morte di Dio’ fa breccia la Libertà originaria e assoluta che non conosce necessità: “la libertà è inizio primo – scrive Pareyson – puro cominciamento. Essa si origina da sé: l’inizio della libertà è la libertà stessa: è posizione di sé. Ciò che la caratterizza è l’istantaneità del suo inizio: essa non prosegue niente che la preceda, e nulla di ciò che la precede ne spiega l’avvento. [...] Essa è irruzione pura, impreveduta e repentina come un’esplosione. È a questo carattere improvviso che si allude quando si parla, come spesso accade, del “nulla della libertà”. Dire che la libertà comincia da sé non è niente di diverso dal dire ch’essa comincia dal nul282
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la. L’istantaneità del cominciamento non si può pensare se non come uscita da un non essere…”7 . La libertà sorge dal Nulla ma decide per l’Essere, e questa decisione costituisce una vittoria sul Nulla, una vittoria che però non è definitiva, anzi prospetta continue battaglie per ricacciare il Nulla che vuole irrompere nell’Essere. Nelle lezioni di Napoli del 1988, Pareyson chiarisce come con la libertà che decide per l’Essere, cominci il tempo e con esso l’ambiguità della libertà: se nell’Eternità la vittoria sul Nulla è definitiva, nel Tempo essa va sempre ribadita. Dunque “rimangono in tal modo distinti due regni: l’eternità, vittoria sul male definitiva ed eterna; la storia temporale, lotta fra il bene e il male, continua, incerta.”8 Ma per Pareyson, l’Eternità è a sua volta una storia, ossia la storia della vittoria definitiva sul Nulla, ed essa s’interseca alla storia temporale per salvaguardarla dalla caduta nel Nulla. Eternità e temporalità s’incontrano nel Nulla, nell’abisso dell’Inizio, nello spazio aperto dalla ‘morte di Dio’, in genere nella tensione senza conciliazione: ed è proprio questa tensione a costituire la Libertà senza Necessità, che il pensiero razionale non può raggiungere (esempio ne è la dottrina dell’eterno ritorno), ma verso cui per l’appunto può tendere. Per chiarire meglio questo pensiero è bene ritornare sul già citato passo della Critica della Ragion Pura. Il bisogno di riportare ad un Fondamento è un pensiero inevitabile, perché connaturato con la ragione umana. Ma d’altra parte è un pensiero intollerabile, in quanto non possiamo esimerci dal pensare che il Fondamento s’interroghi sulla propria origine, e questa inevitabile domanda apre la via ad un’inarrestabile e quindi abissale ulteriorità dalla quale ci ritraiamo atterriti come sul ciglio di una voragine senza fondo. Davanti a questo abisso 7 8
L. PAREYSON, Ontologia della Libertà, Einaudi, Torino, 2000, p. 470. L. PAREYSON, Ontologia della Libertà, op. cit., p. 61.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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si avverte la vertigine dello stupore della ragione; essa è una specie di reazione mista, come del resto già risulta dall’inevitabilità e insopportabilità del pensiero che la provoca: esso è un misto di attrazione e repulsione, di tentazione e ripugnanza, come suole accadere sull’orlo di un abisso, che ispira per un verso un senso di orrore e raccapriccio, ed esercita per l’altro una vera e propria seduzione. L’abisso della ‘morte di Dio’ è la tensione che richiede la posizione di un Fondamento assieme all’inabissamento dell’origine, e ciò produce nell’uomo che ne ha la consapevolezza un’irresistibile attrazione per le molteplici possibilità che prospetta, unitamente al terrore che tutto sia vano. Orrore dell’abisso e fascinazione del precipizio si uniscono nell’impressione di vertigine a spiegare tutti gli aspetti dello stupore della ragione: uno stupore che accenna ad un ambito estraneo alla ‘razionalità’ della storia, alla sospensione. Nella sospensione dell’attesa c’è bisogno di Silenzio, qui Tutto è ancor prima di divenire, Tutto ristà senza compiersi, nell’incanto che irrompe nella ‘storia dell’essere’. L’eternità fa irruzione nel tempo, e sembra che ciò impedisca l’azione, e in fin dei conti è così, giacché ciò che ne deriva non è ascrivibile all’Essere, alla logica dell’uguale. Dalla sospensione fa breccia una Parola nuova che crea suoni non udibili lungo la linea del tempo, poiché qui nulla di nuovo si può creare. Nessun superamento è in vista lungo l’inesorabile via del tempo, essa continuerà a produrre interpretazioni, crisi e ancora nuove prospettive, ma rimarrà pur sempre all’interno di se stessa. Tuttavia, un’origine sempre presente e parallela al tempo farà irruzione di continuo aprendo alla tensione carica del suo tendere. E solo per questa tensione indistinta si ha accesso alla Libertà: essa si mostra nel tempo per il tramite di concetti come la Possibilità, l’Indecisione, la Sospensione, ma qui rimane imbrigliata nei vincoli della Necessità, 284
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mostrando le contraddizioni di cui si è detto. D’altro canto, nell’infinito vuoto di cui parla l’uomo folle, nell’attrazione che respinge, si avverte il senso della Libertà. Da questa tensione dell’attesa che non ha ancora la forza per farsi azione solidificante (nei concetti dell’Essere), trova possibilità la libera creazione, una creazione per il Nulla, certo ineffettuale nel mondo dell’Essere, tuttavia capace di modificare l’apertura ontologica (o forse sarebbe il caso di dire meontologica) dell’uomo. La consapevolezza dell’Inizio che accompagna l’Essere nella sua storia non rimanendovi coinvolto (poiché il Nulla resiste alla storicizzazione), modifica l’essere dell’uomo che ora si sa tensione sopra un abisso. L’uomo si sa ontologicamente costituito in quanto unità che è nel tempo, ma ha la consapevolezza di rapportarsi a se stesso come al mondo su di un abisso che lo attrae e assieme lo respinge. La ‘morte di Dio’ segna la fine dell’essere inteso come Fondamento, ciò che rimane è una tensione inconciliata che irrompe fra le unità temporali decostruendole e offrendo loro un’apertura a-storica sull’abisso che accompagna il destino dell’Essere. Proseguendo il pensiero di Nietzsche, il superamento cui egli allude è una nuova condizione dell’uomo che assume la propria storicità assieme alla consapevolezza della propria abissale Libertà. Il superuomo è colui che accoglie la propria abissalità come quella del mondo e agisce nel tempo rimanendo in ascolto del Silenzio, vivendo di quella tensione che il tempo di continuo rimuove. Il superuomo è un pericoloso equilibrio fra l’azione e l’attesa, fra il tempo e l’eternità, fra l’Essere e il Nulla, fra la Libertà originaria e la Necessità del processo, e vive la vertigine dello stupore e dell’orrore in bilico sull’orlo dell’abisso. Al di là del Nichilismo, fa breccia un pensiero nuovo che, continuando la filosofia della Libertà di Schelling, Nietzsche. Oltre l’abisso
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coglie il Nulla dell’Inizio e la sua abissale Libertà, costituendo l’apertura ontologica dell’uomo post-nichilistico.
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Ringraziamenti Un vivo ringraziamento va innanzitutto al professor Ravera, i cui preziosi suggerimenti e le cui osservazioni continuano ad essere di stimolo per i miei studi. Vorrei poi esprimere la mia gratitudine al professor Vattimo per la disponibilità dimostrata durante la redazione del testo e per la prefazione che apre autorevolmente queste pagine. Voglio anche ringraziare l’architetto C. Norzi per il contributo grafico prestato nella realizzazione della copertina; un pensiero poi a Grazia che si è sobbarcata l’ingrato compito di controllare il testo per stanarne gli errori materiali che, come ben si sa, l’autore è sempre l’ultimo a trovare. E.C.C.
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Indice
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Prefazione ...................................................................... 7 Introduzione ................................................................. 11
PRIMA PARTE La morte di Dio e la Nietzsche-Renaissance italiana CAPITOLO I Questioni generali ....................................................... 19 “Dio è morto!” .......................................................... 19 Le interpretazioni tedesche e francesi .................... 29 Karl Löwith ......................................................... 30 Karl Jaspers ........................................................ 34 Georges Bataille .................................................. 36 Martin Heidegger ............................................... 38 La Nietzsche-Renaissance ................................... 41 Nietzsche e “les terribles simplificateurs”............... 43 Nietzsche e la cultura marxista ............................... 55 CAPITOLO II L’edizione Colli-Montinari ............................................61 L’edizione critica e la Volontà di potenza .................. 61 Giorgio Colli. Dopo Nietzsche ................................. 67 Nietzsche. Oltre l’abisso
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Giorgio Colli. Lo stile e la ‘morte di Dio’ ................. 72 Mazzino Montinari .................................................. 76
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CAPITOLO III Gli anni ’60: tra neo-razionalismo ed esistenzialismo . Nicola M. De Feo. La dialettica del finito ............... Ferruccio Masini. L’evento cruciale ........................ Gianni Vattimo.Ipotesi su Nietzsche .......................
85 87 93 99
CAPITOLO IV La volontà di potenza.................................................. 107 Massimo Cacciari. La Logica della Volontà di Potenza ........................ 109 Massimo Cacciari. Tempo e ‘morte di Dio’ ............ 117 Gianni Vattimo. La Volontà di Potenza come arte 125 Gianni Vattimo. La liberazione del soggetto e l’ontologia ermeneutica ..................................... 130 CAPITOLO V Ermeneutica e ‘morte di Dio’ .................................... L’ermeneutica interminabile ................................. Lo stile e il fondamento ........................................ La nuova parola .....................................................
139 139 145 157
CAPITOLO VI La ‘morte dello Stato’ ................................................. Diritto e Stato ........................................................ Democrazia, socialismo, e ‘morte dello Stato’ ...... Nietzsche: attuale o inattuale? ..............................
163 163 174 180
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SECONDA PARTE La ‘morte di Dio’ e la filosofia italiana
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CAPITOLO I Nietzsche e la filosofia italiana .................................. 189 Un panorama complesso ...................................... 189 Ermeneutica, nichilismo e ‘crisi della ragione’ .... 198 CAPITOLO II Massimo Cacciari ........................................................207 Pensiero negativo e recupero della razionalità ......207 Oltre la ragione ...................................................... 213 CAPITOLO III Gianni Vattimo ............................................................ 221 Ermeneutica e nichilismo ...................................... 221 Il pensiero debole.................................................. 230 Problemi dell’ontologia ermeneutica .................... 237 CAPITOLO IV Emanuele Severino .................................................... L’essenza del nichilismo ........................................ La ‘morte di Dio’ e l’eterno ritorno ....................... La filosofia di Severino e Nietzsche: il mortale, la gioia, la gloria...................................
247 247 252 264
CONCLUSIONI Abisso e libertà .......................................................... 273
Nietzsche. Oltre l’abisso
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Nietzsche. Oltre l’abisso
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Edizioni Marco Valerio Stampato da Boxerlibri - Torino
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