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Italian Pages 666 [680] Year 1993
NEVROSI E FOLLIA NELLA LETTERATURA MODERNA a cura di ANNA DOLFI
BIBLIOTECA DI CULTURA / 478
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BIBLIOTECA DI CULTURA
478 =
LE FORME DELLA SOGGETTIVITÀ
AA. VV., “Journal intime” e letteratura moderna (Atti di seminario. Trento, marzo-maggio 1988), a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni,
1989, pp. 361. AA. VV., Malinconia malattia malinconica e letteratura moderna (Atti di seminario. Trento, maggio 1990), a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 543. AA. VV., “Frammenti di un discorso amoroso”
nella scrittura epistolare moderna (Atti di seminario. Trento, maggio 1991), a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 631.
AA. VV., Nevrosi e follia nella letteratura moderna (Atti di seminario. Trento, maggio
pp. 664.
1992), a cura di Anna
Dolfi, Roma, Bulzoni,
1993,
NEVROSI E FOLLIA NELLA LETTERATURA MODERNA a cura di ANNA
DOLFI
Atti di seminario. Trento, maggio 1992
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche dell’ Università di Trento.
TUTTI I DIRITTI RISERVATI I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale e parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.
ISBN 88-7119-584-1 © 1993 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14
INDICE
Premessa di Anna Dolfi
21
ENZA BIAGINI La motivazione letteraria come nevrosi
41
EUGENIO BORGNA La schizofrenia come forma poetica e come forma clinica
59
FILIPPO SECCHIERI Delirio e scrittura letteraria. La follia del testo
#1
MARCO CERRUTI Le convulsioni di Marfisa e altre convulsioni
87
MASSIMO RIVA A gorafobia e conversione. Per una storia di una sindrome post-rivoluzionaria
ELI
ALBERTO BENISCELLI Tra colpa e innocenza: la ‘follia’ dell’eroina nel teatro di Sette-Ottocento
131
CRISTINA BARBOLANI
=
Il «Saul» alfieriano tra inconsistenza del potere e ‘sogno della ragione”
149
GÉRARD PERI Il linguaggio della follia nel melodramma italiano del primo Ottocento
165
MARCO DIANI L’ossessione della forma: Balzac e l’iscrizione immateriale del denaro
187
BÉATRICE DIDIER Vienne et l’écriture de la folie dans «La Pandora» de Gérard de
Nerval
199
ENRICO GHIDETTI Il tema della follia nei ‘racconti fantastici’ di Tarchetti
213
CARLO A. MADRIGNANI Le mal de Maupassant
235
Giorgio LONGO De Amicis e l’isola della follia
247
MONICAFARNETTI «Pathologia amoris». Alcuni casi di follia femminile nel romanzo italiano tra Otto e Novecento
267
VITTORIO COLETTI La sintassi della follia nella narrativa italiana del
281
Novecento
LUCIANO CURRERI Le «precisioni della scienza» e le «seduzioni del sogno». Isterismo, sterilità e illusione nel «Trionfo della morte».
Appunti sul romanzo, la malattia e l’interpretazione 315
MARfA DE LAS NIEVES MUNIZ MUNIZ Sogno e delirio in Svevo
3577
CORRADO DONATI «Enrico IV»: la maschera della follia
351
PIERRE DUFOUR Ecriture de la folie et écriture de l’imaginaire dans notre modernité: Artaud et Borges
391
GIUDITTA ISOTTI ROSOWSKY Alberto Savinio o l’umorismo tra essere e fare
415
PATRIZIA GIROLAMI
La coscienza di Gonzalo: nevrosi e scrittura nella «Cognizione del dolore»
445
ISABELLE GRELLET-CAROLINE KRUSE Le long endormissement d’une jeune fille rangée
457
ADELIA NOFERI «Cripte, buche e nascondigli» in Montale
493
NIVES TRENTINI La celebrazione degli opposti: luce e tenebra nell’opera di Vitaliano Brancati
DIS
ANNA DOLFI Malinconia e nevrosi: in prosa e versi il ‘differire’ autobiografico di Landolfi
527
ORESTE MACRÎ Il «folle desio» di Sandro Penna
547
MAURA DEL SERRA Follia e salvezza: l’«allegro a lutto» di Caproni
561
CLAUDIO VARESE Italo Calvino: una interpretazione della follia
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GIULIO DI FONZO Follia, nevrosi, linguaggi in Manganelli e Samonà
595
RAFFAELE MANICA
Celati, la follia serena
619
HUGUETTE HATEM Manlio Santarelli: un théâtre de la névrose du couple
627
LUCIANA MIOTTO MURET L’architettura e i suoi rapporti con la follia
641
ENZA BIAGINI E la nevrosi del critico?
647
Indice dei nomi
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PREMESSA
...è una felice e naturale, una vera e continua pazzia, il seguitare sempre a sperare e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale mostra troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per noi. Giacomo Leopardi, Zibaldone 183 Tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto. Giacomo Leopardi, Zibaldone 3990 J'ai vécu comme un fou et j’ai perdu mon temps... Guillaume Apollinaire, Zone
Narra lo pseudo-Ippocrate delle lettere sul riso e la follia! che un grave timore prese un giorno i cittadini di Abdera. Democrito, il più sapiente e il più saggio tra tutti, dava segni evidenti di squilibrio mentale, affetto da un riso continuo rivolto ad ogni persona, situazione o status. I suoi concittadini, sgomenti e impauriti (non solo per la sua salute, ma per la ricaduta sociale della sua malattia), si erano precipitati dal medico illustre perché riportasse, con la guarigione di Democrito, l’ordine e l’equilibrio nella città. Ippocrate, convinto sostenitore della serietà delle ‘malattie dell’anima’ (tutte equiparate a «folies virulentes»), dopo qualche riflessione aveva accettato l’incarico, ma, già prima convinto della sanità di Democrito, aveva cominciato a discettare, all’interno di una teoria sul-
* Le nostre ricerche su nevrosi e follia (associate alla tematica, maggiore e portante, della malinconia e malattia malinconica) e la progettazione delle stesse giornate di studio trentine sul tema sono state svolte nell’ambito di un programma di ricerca C.N.R. | Hippocrate, Sur le rire et la folie, préface, traduction et notes d’Yves Hersant, Paris, Editions Rivages, 1989.
la gradualità dell’eccesso, sul legame esistente tra malinconia e follia, tra una grande saggezza e i segni di stranezza che a quella si accompagnano e che spesso generano negli altri paura. L'incontro con Democrito avrebbe dato ragione alle sue previsioni, e i due si sarebbero trovati a parlare insieme della vera follia: che è la ‘sragionevolezza’ stessa con la quale gli esseri umani conducono la vita, i desideri e le speranze, lontano da quelli che oggi (e già allora) si chiamerebbero i dettami di una stoica saggezza. Così, con un testo parallelo al famoso Problemata XXX di Aristotele, la tradizione classica (che tanto seguito avrà nella nostra riflessione
occidentale) unisce, all’insegna della saggezza, malinconia e follia”, genio e patologiche manifestazioni (che vanno dalla misantropia alla separatezza, dall’esaltazione all’abbattimento), contribuendo a porre il primo,
fondamentale quesito sul rapporto tra malattia e creatività, tra eccezionalità e sofferenza che tanto ha interessato la trattazione umanistico-rinascimentale, romantica e novecentesca?. A fare del segno patologico un segnale possibile del passaggio alla riflessione filosofica (nella preminenza soprattutto dell’intensità dell’emozione*; non malattie solo del corpo, insomma, ma anche dell’anima, o meglio della complessa e difficile loro relazione). Così come per la malinconia, abbiamo allora un’accezione della follia che non implica il silenzio o il grido, l’assenza o il vaneggiamento, e che può ben conciliarsi con un habitus singolare (quale quello dell’artista o dell’uomo di lettere) solo eccezionalmente folle o malinconico davvero (nella più piena, dura, medica valenza del termine °). Folli e
? Sul rapporto follia/malinconia e il trascorrere e alternarsi talvolta dell’una nell’altra cfr. adesso, per un’applicazione alla letteratura del XVIII secolo, Massimo Riva, Saturno e le Grazie. Malinconici e ipocondriaci nella letteratura italiana del Settecento, Palermo, Sellerio,
1992. ? Per un’analisi di questo problema, focalizzato soprattutto in dimensione malinconica, si vedano gli atti di un precedente seminario trentino: AA. VV., Malinconia malattia malinconica e letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1991. 4 Sul tema della passione che si fa malattia, della follia come ‘debordamento’ ai limiti (tutto puntato su una questione di quantità o di soglie individuali e sulla natura ‘mortale’ del troppo o poco dei sentimenti), cfr., tra le pubblicazioni più recenti, Jean Cournut, L’ordinaire de la passion. Névroses du trop, névroses du vide, Paris, PUF, 1991. Ma sul legame tra follia e passione si veda soprattutto il bel libro di André Green, La folie privée. Psychanalise des cas-limites, Paris, Gallimard, 1990, e sul tema dell’eccesso (e il suo legame con la malattia e la melanconia) il numero 1991, 43 (L’excés) della «Nouvelle revue de Psychanalise».
5 In questo senso la distinzione tra follia dura e «hallucinatoire, de ceux qui prennent véritablement pour existants des objects non-existants» e follia dolce «chez ceux qui tiennent seu-
10
malinconici, piuttosto, a volte, i suoi personaggi o temi o strutture (dall’Orlando ‘furioso’ di Ariosto alle opere ‘folli’ dell’architettura antica e moderna), mentre all’artista la sensibilità dei nostri tempi riconosce soprattutto (quasi malattia ‘professionale’, come implicita nella sublimazio-
ne che abbiamo appreso da Freud‘) le stimmate della nevrosi”, condivise (per tensione mimetica, per ulteriore sublimazione?) da chi l’arte contorna, facendone oggetto di parola e di riflessione*. Nei due casi (ove si resti al margine della vera, drammatica patologia) con i vantaggi forse «d’être appelée una nerveuse», secondo quanto suggeriva il dottor du Boulbon nella Recherche”,
mentre
escludeva
la volontà di guarire chi altrimenti
non avrebbe più amato le opere di Bergotte. L’arte dunque, allo stesso tempo, come causa e rimedio della malattia, mentre le figure malinconiche e maniacali si fondono e si ribaltano, tra chiusura e proiezione !°, nar-
cisismo e sue infinite realtà (che pure è tipico mente anche Proust nel affianca alla follia, può
declinazioni. Nel confine incerto tra sogno" e dell’arte moderna) di cui avrebbe parlato diversaContre Sainte-Beuve, la disposizione artistica si finire talvolta per risolversi in essa (il caso Ner-
lement ce qui n’existe pas pour plus intéressant et digne d’attention que ce qui existe» (cfr. Clément Rosset, Principes de sagesse et de folie, Paris, Minuit, 1991, p. 60). $ Ma non andrà dimenticato che per Freud invece l’artista «è meno folle degli altri» per un «suo germe di autocoscienza catartica» (cfr. a questo proposito Michel David, La psicanalisi nella cultura italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1990).
7 Si veda a questo proposito tra gli altri il recente (ma mi pare discutibile) saggio di Henri Rey-Flaud, La nevrosi cortese, Parma, Pratiche, 1991. 8 Il tema, insomma, della nevrosi del critico e dello statuto della critica che sarà oggetto di un prossimo seminario trentino (10-12 marzo 1993) dal titolo ‘polivalente’ di Les enjeux de la critique. Metodi a confronto. Quanto a una duratura «gloriosa follia», ormai, e pour cause, al tramonto (quella degli intellettuali, nati in Francia con l’affare Dreyfus e ‘morti’ alle soglie del 2000 schiacciati dalla presunzione e dal disimpegno) cfr. Ferdinando Adornato, / crimini di una casta. Introduzione a Jean Paul Sartre, Difesa dell’intellettuale, Roma-Napoli, Theoria, 1992. ? «Vous appartenez à cette famille magnifique et lamentable qui est le sel de la terre. Tout ce que nous connaissons de grand nous vient des nerveux. Ce sont eux et non pas d’autres qui ont fondé les religions et composé les chefs-d’œuvre. Jamais le monde ne saura tout ce qu’il leur doit et surtout ce qu’eux ont souffert pour le lui donner [...] sans maladie nerveuse il n’est pas de grand artiste, qui plus est [...] il n’y a pas de grand savant» (Marcel Proust, A la recherche du temps perdu. Le côte de Guermantes, Paris, Gallimard, «La Pléiade», 1981, pp. 305-
306). 10 Si veda, per la complementarietà tra malinconia e follia, Henri Maldiney, Penser l’homme et la folie, Paris, Millon, 1991. !! Masi veda, per il rapporto tra sogno, arte e follia, il classico Albert Béguin, L'âme romantique et le réve, Paris, Corti.
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val), ma ove poi si ricordi che al di là del parallelismo proposto si deve proprio all’arte, nella maggior parte dei casi, la costruzione di un meccanismo pacato e perfetto, o variamente permeato delle suggestioni ‘notturne’ ben lontane comunque dalla dissonanza inquietante di ciò che, per difetto od eccesso, nel campo del patologico, tocca direttamente il reale "?. L’arte può insomma apparirci contemporaneamente figlia della ragione (prodotto per eccellenza di un astatto che trova equilibrio e forma nella totale coscienza di dar vita a ‘favole’) e della follia (giacché, irra-
zionale nella sua stessa genesi, evento paradossale '5, persiste in un mondo che pare negarla a ogni passo), mentre possono tornare a riproporsi — potremmo dire, visto il contesto, in modo quasi ossessivo — una serie di
interrogativi che rimandano al suo rapporto con la liberazione e la col-
pa *, la leggerezza e l’ironia *. Quale relazione dunque stabilire tra l’arte e la realtà clinica della follia e della nevrosi !9? Quale tra l’arte e la soffe-
!? Per non fare del facile e deprecabile ‘estetismo’ sarà il caso di ricordare come fa Jean Gillibert (Folie et création, Champ Vallon, 1990), che «la folie ne garantie aucun génie; l’œuvre n’est pas une guérison de la folie; le génie ne perd pas son génie même quand il devient fou, mais le génie devenu fou peut perdre l’œuvre; la folie n’est pas le bon signe de partage de la qualification de l’œuvre, mais un œuvre digne d’avoir eté crée ne peut pas ne pas avoir été traversée par la folie» (ivi, pp. 23-24). 13 Su questo tema, tra i tanti interventi possibili, si veda Sergio Givone, Rilke e la poesia come evento paradossale, in Hybris e melanconia, Milano, Mursia, 1974, pp. 9-21. !4 Sul rapporto tra colpa e follia cfr. AA. VV., Le citoyen fou, sous la direction de Natha-
lie Robatel, Paris, PUF, 1991. !5 Per una vena di follia, in Calvino controllata dal reale, per uno studio della leggerezza e dell’ironia calviniane quale antidoto anti-malinconico cfr. la prefazione di Jean Starobinski a Italo Calvino, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1991, I, pp. XI-XXXIII. 16 Esiste un’ampia bibliografia in materia per la quale si rimanda, in questo stesso volume, alle indicazioni in calce ai vari interventi (un discorso a parte, sia pur a questo assai vicino quanto a problematica teorica, meriterebbero i testi che trattano della follia nell’epoca — e nei testi — dell’Umanesimo e Rinascimento). Qui, puntando per ragioni di funzionalità al solo periodo moderno e a indicazioni minime, basti ricordare (oltre ai testi già evocati in occasione del
seminario malinconico, e che di fatto fanno del precedente Malinconia malattia malinconica e letteratura moderna una sorta di referente d’obbligo, quasi presupposto necessario a questo volume, sia per le implicazioni della premessa che per la discussione delle fonti critiche), tra i contributi francesi alcune nuove voci che ci sembrano pertinenti al nostro tema, e precisamen-
te: AA. VV., Folle verité. Verité et vraissemblance du texte psychotique. Séminaire dirigé par Julia Kristeva et edité par Jean-Michel Ribetter, Paris, Seuil, 1979 (di grande interesse complessivo); Masud Khan, Passion, solitude et folie, Paris, Gallimard, 1983 (ma poco funzionali, ai fini della nostra analisi, anche i saggi più direttamente ‘letterari’ sullo Straniero di Camus e sull’/diota di Dostoewskij); AA. VV., La folie et le corps. Études réunies par Jean Céard, Paris,
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renza, tra l’affect e i processi di elaborazione del pensiero che trovano espressione nella creazione e nel linguaggio !7? Quale il problema della creatività psicotica o nevrotica, e quali le metafore per il cui tramite (ad opera di finzione, quindi di superiore razionalità) l’informe psichico può dirsi nelle categorie dell’estraneità, della scissione, dell’assurdo?
Come
valutare e in che limiti le affinità elettive, talvolta i processi mimetici con
Presses de l’École normale supérieure, 1985; Monique Plaza, Écriture et folie, Paris, PUF, 1986; Jean Gillibert, Folie et creation cit. (con analisi da Shakespeare, Nerval, Balzac, Nietzsche, Wagner, Artaud...); ma soprattutto Jackie Pigeaud, Art et folie, Nantes, Publications de l’Université de Nantes, 1985 e Shoshana Felman, La folie et la chose litteraire, Paris, Seuil, 1978. La Felman conduce eccellenti indagini su Foucault e Derrida, Nerval e Rimbaud, Balzac e Flaubert, Lacan e James a coprire i campi della filosofia, poesia, romanzo e psicanalisi, utiliz-
zando ogni volta gli strumenti di una ‘retbrica’ che riconduce i temi al linguaggio. Parimenti stabilisce un’equivalenza tra letteratura e follia nella comune resistenza all’atto dell’interpretazione, nell’analoga mescidazione di elementi diversi: «ne sarait-il possible de penser /a specificité même de la littérature comme ce qui ne permet pas de répondre, comme ce qui suspend la réponse à la question de savoir si la folie dont elle parle est ‘propre’ ou bien est une pure figure? Le propre de la chose littéraire est de faire en sorte qu’on ne puisse plus savoir quel est le statut rhétorique de sa propre folie» (ivi, p. 346); «La folie, en d’autre termes (comme la chose
littéraire), ne consiste ni en sens ni en non-sens, elle n’est pas un signifié dernier, aussi manquant ou disséminé qu’on puisse se l’imaginer, ni méme un signifiant ultime qui résiste au déchiffrement exaustif, mais une sorte de rytme imprévisible, inarticulable, mais fonciérement narrable, à travers le récit du glissement d’une lecture entre le trop-plein-de-sens et le trop-vide-de-sens. Toute lecture est un recit rytmé par la rhétorique de ce qu’elle manque à dire sur son rapport du texte à la folie du texte [...]. Plus un texte est ‘fou’ plus, en d’autres termes, il résiste à l’interpretation, plus ce sont les modes spécifiques de sa résistance même à la lecture qui constituent son ‘sujet’ et sa littéralité. Ce que la chose litteraire, dans chaque texte, raconte, c’est precisément la spécificité méme de sa résistence à notre lecture» (ivi, pp. 349-350). Tra i testi italiani sia consentito in particolare il rimando, per la genesi trentina e per l’ampia analisi diacronica nelle varie letterature, a AA. VV., Immaginario e follia, a cura di Fabio Rosa, Trento, Edizioni UCT, 1991. Di impianto soprattutto clinico invece Eugenio Borgna, I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Milano, Feltrinelli, 1988; AA. VV., Linguaggio, ragione e follia, a cura di Roberto Beneduce, Napoli, ESI, 1990. Quanto a testi ‘classici’, sul rapporto tra opera letteraria e follia si veda il famoso ma discutibile Karl Jaspers, Genio e follia, Milano, Rusconi, 1990.
17 Per questi temi e per una precisa bibliografia si rimanda ancora forzatamente a AA. VV. Malinconia malattia malinconica e letteratura moderna cit. Da aggiungere a quanto lf già indicato AA. VV., Souffrance, plaisir et pensée [Premieres rencontres psychanalytiques d’ Aix-en-Pro-
vence 1992], Paris, Les Belles Lettres, 1983 (con saggi di Michel Fain, Christian David, Jean Guillaumin, Maurice Olender, Jacques Caïn, Sophie Mellor-Picant). Sul tema dell’Affect et les processus de pensée si veda (con questo titolo) il numero 11 dei «Cahier de l’IPPC [Institut de Psycho-pathologie clinique]» dell’aprile 1990 (in particolare il saggio di Julia Kristeva, Le temps sensible. À propos d'une intuition de la mémoire affective, ivi, pp. 52-65).
18
l’esperienza psicotica sviluppati dalla letteratura moderna? Come stabilire ancora una volta il rapporto tra letteratura e terapia '* (quasi topico ad esempio nel genere diario !°), quasi che l’auto-catarsi potesse una caratteristica dell’arte tout-court? Come trattare i tempi che l’arte ci offre (dalla patologia dell’individuo a quella del venuti in certi periodi topoi letterari, si pensi a tanto romanzo cento o al nostro melodramma °°), come
darsi come patologici sociale, didell’Otto-
indagare, nella varie forme (lin-
18 Sull’arte come auto-psicoterapia, possibile modo di risoluzione di un conflitto nevrotico (laddove la psicosi reale non può trovare una risoluzione nell’arte), cfr. Jean Laplanche, Hôlderlin et la question du père, Paris, PUF, 1969 (libro che per altro arriva, per stessa ammissione dell’autore, nello studio del rapporto tra evoluzione della schizofrenia e evoluzione dell’opera, «à des conclusions qui ne peuvent absolument pas être généralisées: il s’agit du rapport dans un cas particulier, peut-être unique, de la poésie à la maladie mentale» (ivi, p. 132). 1? Si veda a questo proposito AA. VV., «Journal intime» e letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1989. 20 Ma non si dovrebbe scordare il cinema, che ha utilizzato la follia sia in accezione ‘surrealista’ che ‘realista’ (mimando da un lato sulla follia il proprio linguaggio, o facendo di casi di follia argomento di finzione narrativa o denuncia sociale). Ma a questo proposito, allargando il discorso, e nelle varie forme e generi, sarebbe interessante approfondire e stabilire le modalità del rapporto tra psicopatologia e soprannaturale così come si manifesta soprattutto nel campo della narrazione fantastica. Per un ampio sondaggio in questa direzione, sia a livello generale (rapporto tra le rappresentazioni scientifiche della follia e la loro risoluzione estetica nella letteratura di fine Ottocento, relazione tra le allucinazioni come manifestazione del patologico, i racconti fantastici di follia e l’epoca di cui rispecchiano l'immaginario e di cui rivelano, attraverso «images-archétypes», una sorta di incosciente collettivo; lo studio di spiritismo, isteria, ipnosi, sogni e relative trasposizioni nel letterario; analisi degli elementi costitutivi del mito del «savant fou») che su quello delle analisi specifiche (a partire dall’esperienza esistenziale della follia di Hoffmann, dal controllato delirio di Poe per arrivare all’esperienza della creazione come manifestazione dell’irrazionale in Dostoewskij e Henry James, passando attraverso la poetica della follia e della colpa in Nerval, Dostoewskij, Hawthorne, Stevenson, e la follia della scienza in Villiers de l’Isle Adam), cfr. Gwenhaél Ponnau, La folie dans la littérature fantastique, Paris, Editions du CNRS, 1987 (che offre per altro un’assai ricca bibliografia nei due distinti settori, della teoria e del regesto di testi letterari): «[...] de la littérature fantastique [...] on pourrait dire, qu’elle tend à conférer au surnaturel un aspect psychopathologique, dans la mesure où elle prend toujours plus profondément racine à l’intérieur d’une étrangeté d’origine psychique, parfois désignée comme la surce même des phénomènes insolites [...]. Il apparaît donc que la littérature fantastique s’est originellement fondée sur un principe de contamination: appréhendant en termes psychopathologiques des phénomènes en apparence irréductibles à la raison, elle semble, réciproquement, conférer aux fantasmes de la folie et aux hantises un caractère surnaturel» (ivi, p. 4); «Par poétique de la folie il convient donc d’entendre l’organisation et la représentation au cœur même d’une œuvre des images primordiales et signifiantes que l’écrivain, à son insu parfois, exhume du fonds de ses angoisses et de sa vie psychique: formulation esthétique du dé-
14
gua, musica, colore, segno...) il loro linguaggio specifico? Come spiegare l’elezione che ha circondato i folli, personaggi idealizzati, fino alle soglie del moderno (accanto a un’analisi storica, tragica della follia?! che ci obbliga ogni volta a discutere il nesso ‘politico’ che ha legato ed unisce società e cultura), la straordinaria
utilizzazione
dell’irrazionale
e della
follia (ma spesso nell’accezione astratta di /udus o nelle modalità della simulazione
o nell’accezione
di una totale purezza)
entro certe poetiche
d’inizio secolo (basti il rimando al solo surrealismo, al ‘metodo paranoico’ di Dalì e a tutta una linea che dal Dostoewskij dell’/diota arriva fino al Van Gogh di Artaud), l’implicazione psicanalitica che ormai è inscindi-
bile da termini quali isteria ??, nevrosi... o quella psichiatrica, ogni volta che si allude alla rottura tra l’io e la realtà che è segno distintivo della psicosi? Che fare della follia come punizione propostaci dal teatro antico o di quella intesa come dono divino cui i testi classici rimandano? Come leggere (entro cardini che ci riportano ogni volta alle origini °°) la follia di Tasso e del Quijote (personaggi che hanno affascinato i moderni), gli ‘eroici furori’ di Bruno o la follia d’amore di Tristano (fino e oltre Wagner) o l’Amour fou di Breton? Corneille, nell’///usion comique ricordava che sulla scena — sulla pagina — tutto è finzione e che «spectres pareils à des corps animés» nel-
lire et des fantasmes, le récit fantastique devient le lieu d’élection, l’espace où s’inscrit et se dé-
veloppe tout un réseau d’images personnelles» (ivi, p. 5). Sul fantastico, per le implicanze ovvie con la nostra direzione d’analisi, si vedano naturalmente gli ormai classici Roger Callois, Au cœur du fantastique, Paris, Gallimard, 1965; R. Callois, Anthologie du fantastique, Paris, Gallimard, 1966; Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970.
2! Si pensi al famoso Michel Focault, Histoire del la folie à l’âge classique (Paris, Gallimard, 1972), ma anche ad indagini più recenti e circoscritte a luoghi e tempi precisi, ad esempio a Graziella Magherini — Vittorio Biotti, L'isola delle Stinche e i percorsi della follia a Firenze nei secoli XIV-XVIII, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992 (studio sulla follia a Firenze, dall’imprigionamento per “emendazione” e “contenimento” nell’antico carcere delle Stinche in epoca medievale fino al momento del “grande internamento”, verso la metà del XVIII secolo). Sulle modalità di rappresentazione della malattia si veda adesso Sander L. Gilman, Immagini della malattia. Dalla follia all’ AIDS, Bologna, Il Mulino, 1993. 2 Per un possibile legame tra isteria e patologia del tempo (così importante per altro nella narrativa moderna) cfr. il numero 4 del 1990 della «Revue française de Psychanalyse» dedicato a La construction du souvenir. Il tema del volume è in realtà la presa di coscienza, la remémoration provocata dalla psicanalisi, ma c’è almeno un saggio ‘letterario’ che vale citare, queilo di André Green, La remémoration: effet de la mémoire ou temporalité à l'œuvre? (ivi, pp. 947-972) con un’analisi della presa di coscienza proustiana che non è altro che coscienza del tempo. 2 Per un veloce, divulgativo ma utile excursus sulle occorrenze della follia, cfr. Pierre Jacerme, La folie, Paris, Bordas, 1989.
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Ce)
la magia del teatro — della scrittura — avrebbero potuto permettere «sous une illusion de voir [...la] vie». Non sarebbero mancati a quei suggestivi doppi del reale «ni geste ni parole», purché segreta rimanesse l’origine dell’artificio, della storia affidata alla loro invenzione e all’ardire del fruitore coinvolto nel loro deformante e incantatorio gioco di specchi («toutefois, si votre àme était assez hardie / sous une illusion vouz pourrier voir sa vie»). È certo un invito da non dimenticare, nel momento in
cui ci si addentra nei labirinti segreti della creazione e della biografia, ove vero e falso, verisimile e reale ?* si individuano talvolta con nettezza,
intrecciandosi talaltra in un rimescolamento totale dei termini e della posta in gioco. Il seminario di cui qui si offrono gli Arti, svoltosi nel maggio 1992 nelle aule della trentina Facoltà di Lettere e Filosofia”, nasceva, almeno
nelle intenzioni di chi l’aveva promosso da queste riflessioni, da questi quesiti e premesse, per spingere, partendo da quelle, colleghi ed amici a dar vita a un dialogo serrato e a più voci. Oltre ai problemi teorici (la nevrosi come motivazione, la schizofrenia come forma poetica, le modalità del rapporto tra scrittura e delirio) ai quali la discussione riportava sovente, è stato soprattutto a un lavoro di analisi su periodi, generi e autori che le ricerche si sono rivolte, nel tentativo di rintracciare i segni della follia nella letteratura e nell’arte, nel teatro d’opera e nelle frammentate
testimonianze della biografia. Si è ricercata la follia femminile nelle pagine dei libri e sul palcoscenico (sulla ribalta anche musicale), la follia
2 La Kristeva parlava non a caso del vréel; del paradosso di una verità che sta nel reale (J. Kristeva, Le vréel, in AA. VV., Folle verité cit., pp. 11-35). Ma nell’allontanamento della nosografia classica, per uno studio della inhibition fantasmatique di cui soffre l’uomo contemporaneo, si veda adesso l’ultima Kristeva, Les nouvelles maladies de l’àme, Paris, Fayard, 1993. 2 Avviate nell’ambito di un corso di letteratua italiana moderna e contemporanea parzialmente dedicato, nell’a.a. 1991-1992, a nevrosi e follia nella letteratura moderna, le tre giornate di seminario/convegno (14-16 maggio 1992) hanno visto susseguirsi gli interventi di Enza Biagini, Alberto Beniscelli, Gérard Peri, Marco Diani, Enrico Ghidetti, Monica Farnetti, Giuditta Rosowsky, Eugenio Borgna, Adelia Noferi, Vittorio Coletti, Marfa de las Nieves Muñiz Muñiz, Giuseppe Beschin, Claudio Varese, Raffaele Manica. Tutti appaiono negli Atti, ad eccezione — e ce ne dispiace — di quello di Giuseppe Beschin, Rebora e la follia dell amore. A questi studi si sono aggiunti per il volume quelli di Cristina Barbolani, Marco Cerruti, Luciano Curreri, Maura Del Serra, Béatrice Didier, Giulio Di Fonzo, Corrado Donati, Pierre Dufour, Patrizia Girolami, Isabelle Grellet, Huguette Hatem, Caroline Kreuse, Giorgio Longo, Oreste Macri, Carlo A. Madrignani, Luciana Miotto Muret, Massivo Riva, Filippo Secchieri, Nives Trentini, che qui ringraziamo per avere collaborato ad ampliare lo spettro degli autori e dei temi indagati e per aver accettato di aggiungere il loro lavoro al nostro.
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dell’architettura in realizzazioni funzionalizzate alla malattia o guidate da un eccesso, originalità, dismisura che paiono evocarla, si è studiato il rapporto tra nevrosi e società, tra psicanalisi e testo letterario, chiamando ogni volta sulla scena della ‘malattia’ autori italiani e francesi dal Settecento al Novecento.
Alfieri, Manzoni, Balzac, Nerval, la scapigliatura e
alcuni suoi rappresentanti esemplari (primo fra tutti Tarchetti), Maupassant, De Amicis, Fogazzaro, D'Annunzio, Pirandello, Svevo, Artaud, Borges, Savinio, Gadda, Montale, Brancati, Landolfi, Penna, Caproni, Calvino, Berto, Manganelli, Ottieri, Samonà, Celati... hanno avuto i no-
mi in cartellone in formato gigante (per continuare con una metafora teatrale che certo ha qualcosa a che vedere con la ‘nevrosi’ narcisistica da cui sono spesso affetti scrittori e poeti), circondati poi da una grande quantità di comparse, di figure ancora di primo o di secondo piano. A voler tentare un regesto esaustivo sarebbe lunghissimo l’elenco delle presenze
(non resta che rinviare all’indice dei nomi), ma non meno
sarebbe probabilmente,
malgrado tutto, quello delle assenze:
lungo
bastino i
nomi, per limitarci agli italiani °° di fine e inizio secolo, di Pascoli, dei
# Un capitolo, tra i francesi, e a pieno diritto, spetterebbe, e per più motivi, a Marguerite Duras, autrice continuamente oscillante, al pari dei suoi personaggi, tra malinconia, nevrosi e follia. Uno studio specifico sul tema, già previsto per questo volume, lo rinviamo per ragioni di spazio e tempo ad una sede diversa. Basti qui intanto (in calce a questa nota) il rimando ad alcune voci della bibliografia durasiana pertinenti alla nostra direzione d’indagine e una riflessione generale che ci consenta di ricordare che la stessa modalità di scansione delle opere durasiane si iscrive entro le categorie della fissazione del tempo e della ripetizione ossessiva. È luogo comune delle dichiarazioni di poetica, delle analisi critiche, dire o credere che uno scrittore punti alla riscrittura di un soggetto o tema privilegiato, nella direzione al liber unico. Raramente come nel caso di Marguerite Duras questo topos pare clamorosamente confermarsi superando le più spinte modalità d’attuazione. Nell’opera durasiana assistiamo infatti a un fenomeno letterale di ripetizione, di duplicazione del testo, e non solo nel ritorno costante a un’unica storia che riporta a luoghi, fatti, traumi precisi dell’infanzia e adolescenza ogni volta moltiplicati in coincidenze (si pensi come a un caso estremo ed esemplare al rapporto speculare esistente tra L'amant e L'amant de la Chine du nord, libri che per altro già assorbivano suggestioni e frammenti di storia precedentemente narrati), non solo nel continuo duplicarsi del soggetto in vari mezzi espressivi (col passaggio dello stesso autore e di storie analoghe dal romanzo al teatro al film), ma anche nella ripetizione immediata, quasi indifferenziata, delle stesse unità narrative, riproposte in uno stato di immobilità ‘malinconica’, in una sorta di insistita, lucida ipnosi e follia (si pensi, per citare un solo esempio, e nel campo particolarmente significativo del teatro, al caso di Musica deuxieme).
Quanto alla bibliografia durasiana, a margine degli utili dati di mera ricostruzione biografia (quali in Alain Vircondelet, Duras, Paris, Bourdin, 1991), si pensi ai suggestivi interventi cri-
tici raccolti in quello che è senz'altro uno dei libri migliori di critica sull’autrice (AA. VV., Ecri-
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crepuscolari al completo, e poi quelli, determinanti, di Campana
e di
Tozzi”. Nel chiudere con questo volume un primo ciclo di seminari inscritti, in modalità ed accezioni ogni volta diverse, sotto la comune
denomi-
nazione di Forme della soggettività, vorrei che fosse più di sempre esplicito il mio ringraziamento per il Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università di Trento che ne ha permesso il finanziamento e la realizzazione, e per i colleghi e gli studenti che con appassionata presenza ne hanno seguito lo svolgersi nell’arco del mio quinquennio di insegnamento trentino. Un ricordo grato per tutti i partecipanti alle giornate di lavoro e per i collaboratori ai volumi, soprattutto per quanti tra loro, accogliendo con entusiasmo l’invito a un dibattito aperto nel tempo, da rinnovare ogni volta a cadenza annuale, hanno contribuito a fare dei nostri incontri divenuti ormai rituali non solo un’occasione preziosa di scambio culturale, ma un luogo ove verifi-
care la generosità e l’amicizia. Per questo a Philippe Renard, che a tanti di noi era legato, tra l’Italia e la Francia, nella passione per la cultura e la poesia, nella convinzione della ricchezza umana e scientifica del dialogo e dibattito intellettuale,
vorrei fossero dedicate con affetto e rimpianto, con questo libro, le giornate di Trento del ’92. Anna Dolfi
Firenze/Parigi/Trento, 1991-1992.
re dit-elle. Immaginaires de Marguerite Duras, textes réunis par Danielle Bajomée et Ralph Heyndels, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1985; in particolare i saggi di Marcelle Marini, L'autre corps; Madeleine Borgomano, Le corps et le texte, Béatrice Didier, Thémes et structures de l'absence dans le Ravissement de Lol V. Stein; Danielle Bajomée, La nuit, l’effacement, la nuit, Youssef Ishaghpour, La voix et le miroir; Frangois Duyckaerts, De la mise en scène du regard). Cfr. anche Aliette Armel, Marguerite Duras et l’autobiographie, Paris, Castor astral, 1990).
? Sarebbe interessante una ricerca su quanto hanno fatto in questo campo i narratori degli anni ’80. Basti citare, tra i giovani, Paola Capriolo, che in // doppio regno (Milano, Bompiani, 1991), con la storia di una perdita progressiva di memoria, identità, realtà, offre la metafora di un caso di follia.
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche Facoltà di Lettere e Filosofia
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NEVROSI E FOLLIA LETTERATURA MODERNA
Trento, maggio 1992
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*. Kathi qu’a rencontrée la narrateur parle un «patois mélangé de morave et de vénitien» °, et la femme déjà évoquée dans les Amours de Vienne avait une beauté qui ravissait le narrateur parce qu’elle était «Austro-vénitienne et qu’elle réalisait en elle seule le Saint-Empire romain» °. Les rues sont extrêmement
bigarrées remplies de «Lombards,
de Bohêmes
et de
Hongrois en costumes» ?. Le caractère cosmopolite de Vienne n’est pas sans charme, et le narrateur l’éprouve lorsqu'il se trouve rencontrer dans un salon trois dames: «l’une est de Vienne, les deux autres sont, l’une Italienne, l’autre Anglaise». À mesure que la nouvelle progresse et que son aspect délirant augmente, apparaît plus nettement le caractère ambigu du plurilinguisme. Il contribue au charme de Vienne, certes, mais aussi à la désorientation du
? Oeuvres, Paris, Gallimard, «Pléiade», 1956, I, p. 1213 et segg. Voyage en Orient («Pléiade», II, p. 230).
4 La Pandora («Pléiade», I, p. 351). PRMIVINpassA! Voyage en Orient cit., p. 203.
7 La Pandora cit., p. 355. 8 Ivi, p. 356.
188
narrateur. La Pandora se met à parler avec le rival du narrateur «dans une langue que j’ignorais»?. Ce n’est que dans le rêve que ce plurilinguisme peut devenir apaisant, lorsque le narrateur s’imagine qu’il est arrivé à Tahiti et que trois jeunes filles le raniment — reflet idéalisé des trois dames? souvenir de La Flûte enchantée? Je leur adressai la parole. Elles avaient oublié la langue des hommes. «Salut, mes soeurs du ciel», leur dis-je en souriant!°.
La bigarrure des langues est aussi celle des costumes, et le déguisement, autre signe du trouble de l’identité, est un des thèmes de Pandora. En cette fin d’année — on est à la Saint-Sylvestre — le déguisement donne du piquant aux nombreuses fêtes de la ville. Tout costume est par lui-même dejà un déguisement. Pour venir voir Pandora le narrateur mettra-t-il un «habit noir» qui lui donne un «air ecclésiastique», un «air timide», ou bien plutôt un «habit bleu à boutons dorés qui [lui] donne un air cavalier?» !!. La Pandora en l’obligeant à porter le costume noir, avec une perversité sacrilège («j'adore les prêtres, dit-elle. Laissez-moi mon illusion»), le condamne, par le fait, à la timidité et donc à l’échec amoureux. Vienne est la ville de l’illusion, du théâtre, de l’opéra. Toute cette nou-
velle s’inscrit dans cette atmosphère qui fut bien celle de la ville baroque, de la ville de Mozart. On joue des charades dans les salons et le narrateur est obligé de tenir, tant bien que mal, un rôle dans Deux mots dans la
forêt "?. Pour tenter de rattraper une gaffe qu’il a commise en faisant devant une femme brune l’éloge des blondes, il compare son interlocutrice à la
Grisi dans la premier acte de Don Juan '3. Enfin dans la pleine hallucination, l’annonce du déluge — thème obsèdant que l’on trouve aussi dans Aurélia — prend la forme d’une représentation théâtrale: «Puis un craquement se fit dans la salle. C’était l’annonce du Déluge, opéra en trois actes» !*. Là encore la réalité historique de Vienne, ville du spectacle et de l’opéra, est le point de départ du travail de l’imagination. Cependant cette réalité historique de Vienne prend encore un autre aspect. Vienne a été à mainte reprises le lieu de transactions internationales et
9 Ivi, p. 359. !'0
Ibidem.
INT AD 5 12 Ivi, p. 360. Voir, ivi, pp. 354-355.
13 Ivi, p. 357. ES
AD 59)
189
de traités, en particulier pendant le XVIIIème et le XIXème siècle. Nerval,
en 1839, semble avoir été chargé à Vienne d’une mission officieuse de la part de Louis-Philippe. Quoiqu'il en soit de cette «mission» assez mal définie, dans son délire le narrateur se prête un rôle politique important, démesuré, et rejeté dans un siècle des Lumières un peu mythique. La Pandora devient «l’altière Catherine, impératrice de toutes les Russies. J'étais moi le prince de Ligne, et elle ne fit pas de difficulté de m’accorder la Crimée, ainsi que l’emplacement de l’ancien temple de Thoas. — Je me trouvais tout à coup moelleusement assis sur le trône de Stamboul» !. Cependant cette euphorie ne dure pas. La Pandora, va lui adresser des reproches: «Vous avez fait de belles choses, me dit-elle, voilà 1’Allemagne en feu pour un siècle» '°. La rivalité du narrateur avec un prince, probablement allemand, prend une dimension politique, et le narrateur, dans ce délire d’auto-accusation qu’exprime aussi Aurélia, devient responsable de catastrophes internationales, que son rôle assez modeste dans la diplomatie viennoise aurait difficilement pu provoquer, mais que la situation historique de Vienne dans l’Europe a pu suggérer dans le monde imaginaire. Enfin Vienne a été pendant longtemps le dernier bastion de l’Europe contre l’avance des Turcs et de l’Islam; c’est probablement ce que Nerval entendait par «O Vienne la bien gardée» !” dans l’invocation initiale. Mais la situation historique de Vienne a changé: elle n’est plus bastion contre l’Orient, elle est devenue pour Nerval le moyen de fusionner deux voyages, la porte vers l’Orient mystérieux des révélations et peut-être du salut.
II Cependant, dans La Pandora, à la différence de ce qui se passe dans Le Voyage en Orient, et encore davantage dans Aurélia, ce n’est pas l’aspect salvateur et mystique de la folie qui est raconté, mais bien plutôt son aspect inquiétant, cette terrible désorganisation de l’être et de l’écriture que Nerval redoute. Ce vertige atteint toutes les coordonnées de l’individu. L’interrogation sur l’identité, si fondamentale, si angoissante est un thème essentiel de Pandora; les citations préliminaires inscrivent ce thème dès le départ: la citation de Faust: «Deux âmes hélas! se partagent mon sein» et
ENIvI D: 358:
16 Ivi, p. 360. MT yi pa3 5h
190
celle de l’énigme de la pierre de Bologne: «AELIA LAELIA. Nec vir, nec mulier, nec androgyna etc. Ni homme, ni femme, ni androgyne, ni fille, ni
jeune, ni vieille, ni chaste, ni folle, ni pudique, mais tout cela ensemble». L'identité est doublement mise en doute à la fois chez le narrateur et chez la femme qu’il recherche, dans un questionnement lié au secret: «Enfin la Pandora, c’est tout dire, car je ne veux pas dire tout» !8. Ce vertige de l’identité s’accompagne d’un vertige temporel. La nouvelle se situe, non sans référence à Hoffmann, à la nuit de la Saint-Sylves-
tre. C’est encore, de nouveau, la nuit de la Saint-Sylvestre lorsque, un an après, le narrateur retrouve la Pandora à Bruxelles. La Saint-Sylvestre, c’est le moment où le temps bascule: où l’on est à la limite, ni tout à fait encore dans l’année nouvelle, et déjà plus tout a fait dans l’année précédente. Mais, chez cet angoissé du dédoublement et du redoublement, les retrouvailles chargées d’incertitude se situent à nouveau dans cette heure incertaine !9. Cependant ces thèmes de l’identité et du temps sont constants chez Nerval et ont été fort pertinemment étudiés; s’il y a un élément plus caractéristique de La Pandora, ce serait davantage un vertige spatial que suscite la ville étrangère et complexe. Certes, Nerval, «Paysan de Paris» bien avant les surréalistes, avait déjà éprouvé un charme étrange à arpenter Paris; dans La Pandora cependant l’erance prend un caractère particuliérément dramatique. Déjà les Amours de Vienne avaient développé ce thème de la déambulation, le récit étant placé, dès le départ sous la protection de grands voyageurs: Sterne, Casanova, Cook, Byron °°. On y trouvait déjà le thème de la poursuite lié au plurilinguisme: la beauté «austro-vénitienne», en effet, avait été reconduite chez elle par le narrateur «à travers un éche-
veau de rues assez embrouillé. Comme je ne comprenais pas beaucoup l’adresse qui devait me servir à la retrouver, elle a bien voulu me l’écrire à la
lueur d’un réverbère, — et je te l’envoie ci-joint, pour te montrer qu’il n’est pas moins difficile de déchiffrer son écriture que sa parole. J’ai peur que ces caractères ne soient d’aucune langue: aussi tu verras que j’ai marqué
sur la marge un itinéraire pour reconnaître sa porte plus sûrement» °!. On peut dire que ce paragraphe contient en germe la thématique de la Pandora, mais encore émise sur un registre de relative rationalité. Car, si pour
18 Ivi, p. 351. 9
«C’etait aujourd’hui la Saint-Sylvestre, comme l’an passé» (ivi, p. 360).
20 Voyage en Orient cit., p. 201. 2 7Y1 pr 208:
194
lecteur nervalien la Lanterne évoque la «rue de la Vieille lanterne», si l’im-
possibilité de déchiffrer et le désir d’exhiber le document peuvent se rattacher au délire linguistique d’Aurelia, il n’y a cependant rien de si étonnant à ne pas retrouver son chemin dans une ville étrangère et à demander à une femme de vous donner son adresse. Les itinéraires du héros de La Pandora sont autrement troublants, et leur finalité n’apparaît pas évidente. Plus souvent ils semblent le fait d’une brusque impulsion de départ qui n’est guère justifiée: ce sentiment d’errance sans but s’accroît encore à mesure que progresse le récit, et en particulier dans la deuxième partie. L’angoisse dans cette nouvelle se traduit par cette impossibilité de rester en un lieu fixe, impossibilité évoquée à plusieurs reprises: «Je descendis rapidement les degrés usés de la taverne des Chasseurs». À peine arrivé, le narrateur désire repartir: «Je ne pouvais tenir en place» *.
Il venait de traverser les «glacis couverts de neige» * pour rentrer chez lui, en était vite reparti pour aller diner à la Porte-Rouge, avait erré à travers des rues illuminées jusqu’à cette taverne, s’en échappe, traverse la place Saint-Etienne, traverse à nouveau les rues bigarrées pour aller jusqu’au Burg «présenter ses hommages à la famille impériale». Un peu plus tard: «Je m’enfuis du salon à toutes jambes, bousculant, le long des esca-
liers, des foules d’huissiers à chaînes d’argent et d’heiduques galonnés» *. A Bruxelles, même phénomène de fuite: «je me pris à fuir à toutes jambes vers la place de la Monnaie» *, Ce narrateur agité d’un mouvement frénétique connaît divers types d’expériences spatiales qui sont assez nettement caractérisées. L’espace de l’errance est un espace horizontal, peu ou prou, et extérieur, lié en général à des éléments de l’architecture urbaine: rues, escaliers, place: ces configurations spatiales méritent d’être évoquées, elles se situent à l’extérieur; les évocations d'intérieur quoiqu’elles soient relativement minoritaires dans ce texte, ont aussi leur importance. Et d’abord l’espace clos qui pourrait être un refuge, mais se révèle vite une prison dont le narrateur désire s’échapper: sa chambre où il revient à plusieurs reprises pour de brèves haltes; une lettre, une visite, une brusque impulsion l’amènent à n’y pas séjourner
2 Ivi, p. 355. 2°
Ibidem.
2 Ivi, p. 358. 25 Ivi, p. 360. 192
longtemps. Il y a aussi la taverne, celle des Chasseurs. mais nous venons de citer plusieurs passages où ce pseudo-refuge ne devenait que le point de départ d’une nouvelle fuite. Le salon pourrait être aussi un lieu de stabilité, mais le sentiment de faire une gaffe, un brusque désir d'échapper font là aussi sortir précipitamment le narrateur. Quant au boudoir, lieu de l’intimité et de l’amour, il se révèle trompeur: le boudoir de la Pandora est inquiétant et ne peut être un refuge °°. Tout espace qui aurait pu être protecteur devient dangereux. La maison de Mozart à Salzbourg est l’image même du lieu déserté où l’esprit ne souffle plus, où le chocolat a remplacé la musique et où le narrateur ne peut que se livrer à d’amères réflexions ?’. La fuite éperdue du narrateur pourrait donc s’expliquer comme la recherche toujours décevante d’un lieu protecteur, clos, matriciel, et sa folie comme une malédic-
tion qui l’oblige sans cesse à reprendre la fuite, menacé d’étouffer s’il ne sort («on ne peut plus respirer ici» 2). La représentation de l’espace prend parfois cependant un aspect plus réconfortant lorsqu'il s’agit d’un espace non plus horizontal, mais vertical, ascensionnel. Mais cet espace ascensionnel n’appartient au monde réel qu’au début de la nouvelle, ensuite, il ne peut se situer que dans le rêve. Vienne à la première page est d’abord présentée comme un espace qui pourrait étre protecteur, «rocher d’amour», «montagne d’aimant» — ce sont
presque là des litanies ??. La gloriette de Marie-Thérèse apparaît comme un lieu de bonheur 5°. L’espace du jardin ou du parc, évoqué au début du texte, n’a pas le caractère angoissant de l’espace urbain. Le parc de Schoenbrun fait songer à celui de Saint-Germain et à ses ruines si poétiques, à l’époque des amours enfantines, ou presque, pour les belles cousines «quand j'avais gagné le plateau de la montagne, fût-ce à travers le vent et l’orage, quel bonheur encore d’apercevoir au delà des maisons la côte bleuâtre de Mareil, avec son église où reposent les cendres du vieux seigneur de Mon-
teynard» ‘!. L'espace aéré et ascensionnel reparaît dans la nouvelle: mais il ne peut plus, dans cette atmosphère accablante et urbaine, être que purement onirique: comme une aspiration, parfois vaine, à respirer. Après le cri dans le boudoir de la Pandora: «De l’air. De l’air! nous périssons», la Pan-
COMI viSpa3952:
2 Ivi, p. 360. STIVA paZ98!
® Ivi, p. 350. 30 Ivi, p. 351. NIV D 352:
193
dora s’élance dans le ciel, «Mon esprit flottant voulut en vain la suivre». Visions d’horreur, puis un brusque espoir est donné cependant au narrateur, quand un perroquet le transporte. Mais de nouveaux les images d’angoisse l’agressent. Une vision d’un espace de liberté ne réapparéaît qu’après une traversée de la terre — On trouve dans Aurélia aussi des visions de ce registre —: «Il me sembla alors que mon esprit perçait la terre, — et, traversant à la nage les bancs de corail de l’Océan et la mer pourprée des tropiques, je me trouvai jeté sur la rive ombragée de l’île de Amours. C’était la plage de Taiti» 3. Tandis que le Voyage en Orient révèle combien est décevante l’île de Cythère sur laquelle le voyageur aperçoit un gibet, en passant à travers la terre pour aboutir aux antipodes, il trouverait l’île mythique de Tahiti. mais il s’agit d’un rêve hallucinatoire, et de nouveau
le narrateur sort de
son lit précipitamment et reprend son errance: «Je me jetai hors du lit comme un fou».
II Cette nouvelle amène à s’interroger sur l’écriture de la folie. La folie comme
la mort, comme
le soleil, ne peuvent se contempler fixement: elle
ne peut être décrite, racontée par elle-même. Le rapport clinique est fait de l’extérieur par un médecin qui lui reste étranger; celui qui la vit ne peut vraiment la dire, sinon par la métaphore, par le mythe, ou comme nous venons de le voir par l’évocation d’un de ses effets: la course folle à travers l’espace urbain. Mais la folie en elle-même? On remarquera que dans La Pandora elle n’est jamais nommée directement, que le mot «fou» n’y figure pas dans son sens plénier, ni pour désigner l’état du narrateur; mais que le mot revient cependant à plusieurs reprises, sur un texte assez bref au total. Dans des expressions toutes faites, clichés, le mot a perdu son sens plein: qu’il s’agisse de «fou rire», ou de l’adverbe «follement» 3 ou encore d’un «fol espoir» *, d’un garçon «fort aimable, un peu fou comme tous les Allemands» 3. Mais dans ce contexte, ces expressions d’abord édulcorées, repprenent leur résonnance. Quand la qualification est directement at-
2MIVIANESSI: EN he SEX
3 Ivi, p. 353. Ivi, p. 353. 194
tribuée au narrateur, elle figure cependant avec la distanciation pudique d’un «comme»: «Je me jetai hors du lit comme un fou» *. Autre façon pudique et détournée de désigner sa propre folie; le recours à la citation. La première fois que le mot figure dans le texte, c’est au féminin sous une forme négative, et dans l’inscription de la pierre de Bologne: «ni chaste, ni folle»; citation peut-être à un double degré, la pierre de Bologne évoquant aussi la texte de l’Evangile, et la distinction entre les vierges sages et les vierges folles. Le mot de la fin fait peut-être allusion au fameux dicton antique Quos perdere vult, Jupiter dementat: «O Jupiter! quand finira mon supplice» *?. C’est par le biais de la mythologie qu’est évoquée la folie, ennoblie, en quelque sorte, par ces références classiques. Peut-être cet adage latin, sous-cité en quelque sorte, favorise-t-il le glissement vers la folie du personnage de Prométhée, victime certes de la vengeance de Zeus, mais que la mythologie ne représentait pas comme «fou». Ce glissement à vrai dire était préparé par toute une reprise romantique du personnage, de Schlegel à Shelley en passant par Byron. Nerval fait l’économie du personnage d’Epiméthée. Le narrateur, sur un registre symbolique, est à la fois les deux frères: celui qui a ouvert la boîte de Pandore et celui qui a donné aux hommes ce feu qu'est l’oeuvre poétique; Jupiter le punit par le vautour de la folie qui ronge son identité. La figure de Pandora se fusionne elle-même avec plusieurs autres figures mythologiques. L’ombre de Dalila apparaît par le choix d’un pré-
nom #. Pandora a les «pieds serpentins» de Mélusine *. Elle a un ajustement de «bayadère»; elle est à la fois «Impéria» et Jézabel ‘°. Ce travail de l’imagination nervalienne sur les mythes a été souvent étudié depuis les ouvrages de M-J. Durry et de Jean Richer, je ne m’y étendrai donc pas, sinon pour signaler l’importance de ce recours à la mythologie classique — qui n’exclut pas du tout dans le syncrétisme nervalien le recours à des mythologies biblique, celtique, orientales, pour tenter de résoudre l’impossible question de l’écriture de la folie. Recourir au mythe, c’est donner sa dignité à un état qui pour Nerval se présente surtout comme angoissant et même honteux, et culpabilisant (Et d’ailleurs sur ce point aussi
3 Ivi, p. 359. 37 38
Ivi, p. 360. Ivi, p. 354.
3 Ivi, p. 358. SSN: Di 250;
195
nous voyons un phénomène de glissement car la «honte» est évoquée par le choix de l’adverbe «honteusement»: «il fallut la ramener honteusement à son hôtel» #! comme si la honte ne consistait que dans l’échec amoureux). Donc la mythogie embellit, agrandit. Mais elle à aussi l’avantage d’être un langage tout constitué, d’être déjà un «mythe», c’est à dire un récit. Devant
la décomposition des structures du langage et du raisonnement, elle permet donc de rétablir cette logique du mythe — comme Brémond parle de «logique du récit» —, et de rendre dicible ce qui ne l’était pas. On pensera volontiers aussi que l’errance du héros — contrastant d’ailleurs avec l’immobilité du Prométhée rivé à son rocher qui demeure l’image dominante, dans la conscience collective, de ce personnage, est en fait une figure non seulement de l’état mental du narrateur, mais de la recherche par l’écrivain d’une écriture impossible. On aura remarqué que le mot «follement» figurait pour évoquer les «délicieuses pattes de mouche» d’une lettre que la Pandora «faisait semblant d’écrire»: «Les délicieuses pattes de mouche de son écriture s’entremêlaient follement avec je ne sais quels arpèges mystérieux qu’elle tirait par instant des cordes de sa harpe, dont la crosse disparaissait sous les enlacements d’une sirène dorée» “. Situé au début de la nouvelle, ce passage a encore un aspect gracieux, sinon précieux; mais déjà des éléments inquiétants devraient alerter le lecteur: l’as-
pect trompeur de la lettre, le mot «follement» et l’évocation de la sirène qui plus tard réapparaîtra sous la forme inquiétante de Mélusine, plus inquiétante encore si l’on se réfère à la variante“. Mais pour en rester aux missives, on remarquera que dans un texte si court, elles tiennent une grande place: on dirait que l’activité fondamentale consiste à en écrire et à courir les porter. Lettres délirantes, croira-t-on volontiers à lire ce passage: «je demandai un pot de vin nouveau, que je mélangeai au pot de vin vieux, et j’écrivis à la déesse une lettre de quatre pages, d’un style abracadabrant. Je lui rappelais les souffrances de Prométhée, quand il mit au jour une créature aussi dépravée qu’elle. Je critiquai la boite à malices et son ajustement de bayadère. J’osai même m’attaquer à ses pieds serpentins que je voyais insidieusement passer sous sa robe. Puis j’allai porter la lettre à l’hôtel où elle demeurait» “. Le thème de l’écriture et de la course sont étroitement liés,
4 Ivi, p. 360. (MI ypa392: #
Variante citée par J. Richer: «comme d’énormes serpentins gonflés du sang des hom-
mes» (ivi, p. 1217).
MOD IPIADN 308.
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car finalement le problème essentiel que pose la Pundora, est celui de l’écriture de la folie. On sait que Nerval ne parvint pas à terminer cette nouvelle, parce qu'il fut malade, mais surtout parce qu’elle était interminable, puisque, à la différence d’Aurélia, elle voulait tenter de décrire la folie, à l’état brut, si l’on peut dire, et sans le dépassement mystique qui permet à Aurélia d’aboutir au «Mémorables». La lettre prend alors une autre fonction: non plus au niveau du récit, mais à celui de l’énonciation. Au début de la deuxième partie, après une interruption due justement à la première crise de folie, il s’agit de tenter de reprendre l’impossible récit: la lettre à Théphile Gautier est alors placée comme moyen de renouer avec l’écriture: cette lettre qui n’est plus exactement du narrateur, mais plutôt de l’auteur, l’aide à «repar-
tir». Mais il ne peut s’agir que d’un «fragment» de lettre “, et le raccord n’est pas fait entre la fin de ce fragment et le paragraphe suivant: «De colère je renversai le paravant, qui figurait un salon de campagne — Quel scandale! — je m’enfuis du salon à toutes jambes» *. Dans sa lettre à Louis Ulbach, Nerval parlait de «fragments bizarres» ‘”. La Pandora est le lieu d’une exprérience d'écriture: celle du fragment, expérience romantique par excellence et que Novalis et l’Athenatim avaient prôné déjà avant Nerval. L’écriture fragmentaire se traduit à la fois par une incohérence dans l’enchaînement des paragraphes, incohérence que Nerval n’essaie pas de pallier par d’artificielles transitions, et aussi par l’inachèvement même du texte. L’esthétique du fragment ne peut qu’aboutir à celle de l’inachèvement. Il n’y a pas d’achèvement possibile, et le point d’interrogation provisoirement final fait figure de symbole: «O Jupiter! quand finira mon supplice?» * Ce qui se produit au niveau de la désorganisation du texte, se poursuit au niveau méme des mots. La logique de la folie consisterait à désarticuler le mot comme le paragraphe. Nerval, du fait du moment où il écrit et de la tradition littéraire à laquelle il se rattache, ne le tente pas de facon apparente et aggressive dans La Pandora. Cependant, là encore, l’activité des personnages est métaphore de la démarche de l’écrivain. On joue beaucoup aux charades en cette nuit de la Saint-Sylvestre. Ce thème est plus développé dans deux feuillets manuscrits d’abord supprimés, et que Nerval semble
45 Ivi, p. 356. SN Jv1, p.258. “]vr, p 1210
48 Ivi, p. 360.
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avoir voulu rétablir puisqu’on peut lire en marge «bon» — le propre de l’écriture fragmentaire, c’est justement de se prêter à ces montages, d’être l’é-
quivalent d’un «mobile» ‘. Le jeu de charade est complété par le jeu de proverbe dramatique où la malignité de La Pandora se manifeste: «Ma froide Etoile s’aperçut que je
ne savais pas un mot de mon rôle et prit plaisir à m’embrouiller» °°. C’est la folie elle-même qui rend impossibile la récitation d’un texte, la continuation de l’écriture. On ne manquera pas de trouver prophétique que Vienne ait été dans cette nouvelle le lieu de la folie, le lieu de l’expérimentation du fragment et d’une nouvelle modernité de l’écriture, comme si Nerval avait posé le premier jalon de ce mythe viennois qui va se développer au XXème siècle et que Claudio Magris ou J. Le Rider en particulier ont si bien analysé. Vienne ville de Freud, lieu de naissance de la postmodernité, comme
si Nerval
avait pressenti que la capitale des Habsbourg était prédestinée à devenir la capitale à la fois de la psychanalyse et de la déconstruction par une sorte de logique que peut-être seule la folie pouvait laisser pressentir.
MR
PAIE
50 Ivi, p. 1217.
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ENRICO GHIDETTI
IL TEMA DELLA FOLLIA NEI ‘RACCONTI FANTASTICI’ DI TARCHETTI
1. Scrive Novalis in uno degli ultimi Frammenti, ovverosia «schegge di un continuato dialogo con se stesso», messe su carta a Weissenfels, fra l’estate del 1799 e l’ottobre del 1800, ormai in limine mortis: Le malattie sono indubbiamente un oggetto estremamente importante per l’umanità, poiché ve ne sono infinite e ogni uomo ha tanto da combattere con esse. Solo conosciamo poco l’arte di utilizzarle. Verosimilmente esse sono lo stimolo e l’argomento più interessante per la nostra meditazione e per la nostra attività. In questo campo si possono certo mietere infiniti risultati, specialmente mi sembra, nel campo intellettuale, nel campo della morale, della religione e
Dio sa in quale altro campo mirabile ancora '.
Una raccomandazione sul buon uso della malattia che non ha niente di consolatorio, ma nasce dalla certezza di avere intravisto un varco alla co-
noscenza della dimensione interiore più oscura e segreta, una nuova via che l’«idealismo magico» potrà rischiarare con la sua luce. Questa riflessione, nata al crocevia tra esperienza autobiografica e ro-
mantica filosofia della natura (rinvigorita peraltro dallo studio assiduo delle scienze naturali), può essere legittimamente assunta come viatico per una indagine campione sulla rappresentazione letteraria della malattia e di quella psichica in particolare, lungo l’itinerario letterario dal protoromanticismo al decadentismo. Avvertendo preliminarmente che tale indagine si svolgerà in un tempo, quello della Scapigliatura, nel quale l’esigenza di un risarcimento romantico, al di fuori dello spazio realistico delimitato da Manzoni, si afferma quando ormai in Europa l’età romantica è tramontata, e l’egemonia positivistica ha contribuito a determinare un nuovo clima culturale dominato, anche nel comune sentire, dalla nuova fede scientista. Donde la
! Novalis (Friedrich von Hardenberg), scelta di Giovanni A. Alfero. Versioni di Gio-
vanni A. Alfero e di Vincenzo Errante, Milano, Garzanti, 1942, p. 274.
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relativa inattualità del recupero del repertorio ‘notturno’ del romanticismo, quando l’alba naturalistica ha già imbiancato il cielo europeo . Nel caso specifico di Tarchetti, che ha dedicato gran parte delle sue pagine a variazioni sul tema della nevrosi e della follia, la testimonianza
addotta all’inizio dell’empatia romantica nei confronti del lato in ombra della natura, la considerazione morale ma soprattutto psicologica della malattia non solo quale manifestazione del male, ma anche (sono sempre parole di Novalis) «noviziato nell’arte del vivere e nella formazione del nostro animo», riaffiora, per tramiti culturali e letterari difficilmente identifi-
cabili, in un momento in cui, analogamente a quanto accade negli altri territori della scienza medica, la psichiatria si muove entro una prospettiva organicistica che rifiuta il «trattamento morale» della follia *. Non è del resto un caso che tutta o quasi la produzione dello scrittore piemontese sia stata archiviata a lungo sotto un’etichetta di ‘fantastico’ che rischia di retrocederlo verso il romanticismo gotico, divenuto in Italia solo un ingrediente di sicura efficacia del romanzo popolare. È ben vero, infatti, che sotto il nome di Tarchetti è stata pubblicata, prima in Italia, una raccolta intitolata Racconti fantastici, ma occorre ricordare che quella suite apparve dopo la sua morte e non esistono prove che la responsabilità del titolo appartenga all’autore e non piuttosto all’editore. Questo non significa che Tarchetti,
nella sua brevissima carriera, non abbia esperito, con risultati ineguali, i temi del fantastico già ‘istituzionalizzato’ fuori d’Italia (dalla fiaba popolare allo spiritismo all’occultismo, non senza azzardate e rivelatrici puntate nell’umorismo nero), ma piuttosto che il /eit-motiv più significativo della sua opera narrativa — la malattia psichica nelle sue diverse gradazioni ed espressioni, dalla nevrosi all’isteria e alla psicopatia sessuale — è stato catalogato nel canone del fantastico, neutralizzandone, per così dire, il si-
gnificato trasgressivo‘.
? Come scrive Henri Ellenberger: «L’universale fiducia nella scienza prendeva spesso la forma di una fede religiosa e produceva quella mentalità che ha ricevuto il nome di scientismo. L’orientamento scientistico giunse al punto di negare l’esistenza di tutto ciò che non poteva venire affrontato con mezzi scientifici, e spesso si unì all’ateismo. Dopo il 1850 una corrente di libri popolari che diffondevano la fiducia esclusiva nella scienza unì tale dottrina con l’ateismo e, a volte, con un insegnamento ultrasemplificato del materialismo» (Henri F Ellenberger, La scoperta dell'inconscio. Storia della psichiatria dinamica, Torino, Boringhieri, 1980, I, p. 267).
3 Ivi, p. 283. *. Sulla personalità e l’opera di Tarchetti si rinvia, per brevità, alla nostra monografia, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1968.
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A partire da Una nobile follia, attraverso Storia di un ideale, Storia di una gamba, L’innamorato della montagna, Amore nell'arte, Racconti fantastici fino a Fosca, nel breve arco di tre anni fra il 1866 ed il 1869, Tar-
chetti allinea una impressionante collezione di figure di cera, di immagini della follia da far invidia nonché ai famosi musei di Marie Tussaud e di Alfred Grévin, a quello di antropologia criminale, fondato alla fine del secolo da Cesare Lombroso. In altra occasione ci è capitato di occuparci della «nobile» e mite follia umanitaria del protagonista del primo e unico dei Drammi della vita militare®, ora vale la pena di spostare la mira su due racconti della trilogia Amore nell'arte, verosimilmente ispirata, e non solo per la scelta del soggetto (la musica) alle «novelle musicali» inserite da Hoff-
mann nelle Fantasie secondo Callot del 1813. Due novelle della raccolta vertono infatti su casi conclamati di follia scelti a esemplificare l’occulto e tremendo rapporto che intercorre fra eros e creatività artistica, nella sua espressione sublime e immateriale, la musi-
ca appunto. Ma non si tratta, come vedremo, della diagnosi di faits divers, registrati secondo una tecnica naturalista, ma del travestimento fantastico di eventi le cui ragioni affondano, per dirla, un po’ semplicisticamente, con Todorov, nella «coscienza sporca» del positivista secolo XIX °, quando le pulsioni inconfessabili e gli incubi della ragione in contrasto con l’etica del tempo potevano apparire in pubblico soltanto in maschera: non a caso solo fingendosi orridamente mascherata la Morte rossa di Poe può accedere alla festa che si svolge nella munita dimora del principe Prospero. 2. Nel primo racconto, Lorenzo Alviati, l’io narrante rievoca — alle-
gando documenti epistolari che dovrebbero garantirne l’autenticità — 1’ «esistenza breve e affannosa» del musicista eponimo del racconto, amico di
adolescenza, a lui legato da un rapporto di facile senno dei posteri può agevolmente suale. Ed è proprio a partire da questo dato attraverso la follia acquista un senso: non
fervente amicizia, nella quale il ravvisare una latenza omosesche il lungo viaggio di Lorenzo storia clinica di un degenerato,
5 Cfr. Immagini della follia nella narrativa italiana del secondo Ottocento (relazione tenuta al convegno promosso a Roma, dal 10 al 12 ottobre 1986, dalla Facoltà di medicina e chirurgia A. Gemelli dell’Università cattolica del Sacro Cuore) in Enrico Ghidetti, // sogno della ragione, Roma, Editori Riuniti, 1987, pp. 57-66 e quindi in AA.VV. Passioni della men-
te e della storia. Protagonisti, teorie e vicende della psichiatria italiana tra ‘800 e ‘900, a cura di Filippo Maria Ferro, Milano, Vita e pensiero, 1989, pp. 435-442. 6
Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1983, pp. 10-28.
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come avrebbe potuto essere, se letta in chiave naturalistica, ma tentativo di dare e ordine e senso ad un destino progressivamente ottenebrato (o illuminato?) dalla follia: Io aveva allora quattordici anni, egli ne aveva diciasette compiuti, ma il suo corpo erasi già sviluppato come a venti; in quella scolaresca di fanciulli egli rappresentava colla sua statura elevata, colla sua testa di Apollo, un personaggio assai più importante del maestro [...]. Lorenzo ed io ci amavamo di un affetto ardentissimo; ma il suo amore sentiva quasi della paternità, ed egli si tratteneva meco come avrebbe fatto con un fanciullo”.
Né una separazione durata sei anni può mutare il sentimento che lega i due amici. Anzi, nel narratore ormai ventenne la consapevolezza della na-
tura eccezionale di questo rapporto si è fatta più lucida e insieme più appassionata: [...] vi era qualche cosa di affascinante nel suo viso, qualche cosa di magnetico nel suo sguardo; il suono della sua voce era dolce e severo ad un tempo; i suoi modi affettuosi, ma energici, la sua persona bella e aitante; e poi quella sua testa di Giove, que’ suoi occhi neri e inquieti, quelle linee maestose del suo viso, quelle ciocche massiccie di capelli, mi davano l’idea di una di quelle divinità greche scolpite da Fidia [...]. Se la natura mi avesse creato donna, avrei tra-
scorsa la mia vita a’ suoi piedi 8.
Ma se il rapporto fra i due amici non è cambiato, è cambiato Lorenzo, che nel frattempo ha maturato la propria vocazione artistica: Speranze, amori, piaceri, tutto si è trasformato per me, tutto si è concretizzato in
una sola idea, tutto ha assunto un solo carattere, una sola legge, una sola rivelazione, quella dell’arte?.
Ma il culto esclusivo dell’arte, di un Kosmos ideale, non ha fatto di
Lorenzo un dandy o un esteta di stampo decadente, ma lo ha isolato dal
? Igino Ugo Tarchetti, Lorenzo Alviati, in Tutte le opere, a cura di Enrico Ghidetti, Bologna, Cappelli, 1967, I, pp. 566, 561 e 564. $ Ivi, pp. 567-568. Poco più oltre: «Lorenzo ed io ci tenevamo per mano camminando; spesso le nostre dita si allentavano o si stringevano convulse; le nostre sensazioni erano divenute comuni, le nostre vite si effondevano l’una nell’altra, e noi lo sentivamo tacendo ...» (p.
569). ° Ivi, pp. 568-569.
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mondo circostante, lo ha segnato con le stigmate della nevrosi: Essa ha resa la mia fibra sì irritabile, la mia immaginazione sì feconda, la mia
sensitività sì sofferente e sì viva, il mio orgoglio sì esigente e severo, che io mi trovo collocato quaggiù come in un mondo strano ed inesplicabile, di cui non giungo a percepire né la natura né il fine !°.
È vero che Lorenzo denuncia, in questa prima fase della sua nevrosi, con il suo disagio esistenziale il primo e fondamentale sintomo della malattia di Jean Des Esseintes, figura archetipica dell’esteta decadente: la necessità dell’isolamento dalla realtà, ma c’è una differenza sostanziale ri-
spetto al protagonista di A rebours. Mentre l’isolamento di Lorenzo è una reazione al disordine della vita, con la mente fissa al platonico mondo delle idee, l’isolamento di Des Esseintes è un gesto aristocratico di rivolta contro la volgarità ed il conformismo della società circostante. Resta comunque all’attivo dello scapigliato Tarchetti la capacità di avvicinarsi, come nessun altro, con diciassette anni di anticipo rispetto alla bibbia del decadentismo di Huysmans (1884), al nucleo più profondo e segreto dell’estetismo, insieme privilegio di un’anima eletta e condanna irrevocabile alla sofferenza psicologica !!. L'amore eterosessuale è precluso a Lorenzo: l’artista non può né sa ritrovare nella passione per la donna, al di là del piacere effimero, la sublime e astratta armonia che solo la mistica estasi dell’arte consente. Il primo amore e la delusione che ne segue segnano quindi nella vita dell’artista quella incolmabile frattura con il mondo degli altri che le esperienze successive approfondiranno: [...] disgustato dell’amore altrui, rientrai nell’amore di me medesimo, non per-
ché il mio cuore fosse incapace di collocare in una creatura simile a me un affetto saldo e durevole, ma perché aveva compreso che nessuna di esse avrebbe potuto divider meco questo sentimento senza offenderne la purezza '°.
!0
Jui, p. 569.
!!
Cfr. la Notice che inaugura A rebours: «Son mépris de l’humanité s’accrut; il com-
prit enfin que le monde est, en majeure partie, composé de sacripants e d’imbéciles. Décidément, il n’avait aucun espoir de découvrir chez autrui les mêmes aspirations et les mêmes haines [...]. Déjà il rêvait à une thébaïde raffinée ...» (Joris-Karl Huysmans, A rébours / Le dra-
geoir aux épices, préface d’Hubert Juin, Paris, Christian Bourgois éditeur, 1975, pp. 54-55). Cfr. Max Nordau, Degenerazione, versione autorizzata sulla prima edizione tedesca per G. Oberosler, II, Milano, Dumolard, 1894 (Libro III, L’egotismo; par. III, Decadenti ed esteti, pp.
105-185). 12 Lorenzo Alviati cit., p. 578
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L’autogiustificazione di Lorenzo per la sua ambivalenza nei confronti della femmina («Amava la donna nella sua beltà, nelle sue attrattive — l’odiava nelle sue debolezze, nella sua facilità, nella sua avidità di piacere»)
lo sospinge a rifiutare la Venere terrena, a cercare un «tipo perfetto» di donna da amare, quale solo l’arte è riuscita a creare, un essere spiritualizzato fi-
no alla perfezione ideale '5, e al tempo stesso lo rende lucidamente consapevole della sua malattia, del castigo senza remissione che la vocazione artistica infligge alla sua umanità: Non vi ha dubbio che gli artisti sieno uomini infermi, creature malate, esseri incompleti i.quali perciò appunto dovranno sempre sottrarsi alle norme comuni della vita. Ciò che essi creano è effetto della loro imperfezione, della loro in-
fermità !4.
Tarchetti quindi sembra accogliere molto tempestivamente la teoria dell’interazione fra patologia dell’alienato e fisiologia dell’uomo di genio, esposta pochi anni prima da Cesare Lombroso in Genio e follia Ÿ e l’ammissione da parte di Lorenzo della propria ‘diversità’ getta nuova luce sulla natura del ‘fantastico’ nello scrittore piemontese. Ma il personaggio letterario è destinato ad andare oltre le provvisorie conclusioni dello scienziato. L’impossibilità di amare qualsiasi donna sembra venir meno, infatti,
di fronte alla malattia e alla morte e seguendo la lenta, inesorabile agonia della tisica Adalgisa, la quale per anni l’ha vanamente amato, Lorenzo sente sciogliersi il «gelo» del suo cuore; la giovane morente segna infatti la «vittoria dello spirito sulla materia»: «simile a quelle lampade funerarie che gli antichi collocavano presso le tombe, la cui fiammella acquistava sempre più maggior luce, quanto più s’assottigliava il vaso d’alabastro che la conteneva — l’anima della fanciulla traspariva, si rivelava attraverso le forme vaghissime del suo corpo che la consunzione svigoriva senza alterare. Es-
sa era anzi più bella» '°. E Lorenzo spia l’agonia di lei con ansia, pensando
3° Ibidem. 14 Ivi, p. 584. !° Genio efollia, Milano, Chiusi, 1864. Cfr. Luigi Bulferetti, Lombroso, Torino, Utet, 1975: «In Genio efollia (1864) il Lombroso enunciò la teoria psicopatica del genio, ma non già che il genio sia una degenerazione, una psicosi, una malattia; quest’ultima fase della teoria è successiva» (p. 126).
!© Lorenzo Alviati cit., pp. 585 e 588. Vedi anche alle pp. 568-587 il ritratto di Adalgisa morente: «La malattia aveva come modificate le sue sembianze, aveva dato al suo volto qual-
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che un improbabile ritorno alla salute potrebbe brutalmente cancellare la sua prima vera passione d’amore totale in articulo mortis. Ma la necrofilia del protagonista, limitata all’eccitazione provocata dalla vista del cadavere della donna, non ha vinto, come egli illusoriamente crede, la sua «avversione all’amore»; solo, facendo crescere la sua febbre d’amore fino ad
un grado prossimo al delirio, gli ha fatto fare un passo avanti verso quell’archetipo di bellezza «intatta ed eterna», purificata dalla ferina sessualità, che lo ha ossessionato per tutta la vita.
La malattia di Adalgisa, come nel caso della Berenice di Poe, è «metamorfosi», «spirit of change» che apre la porta all’amore «not as a being of the earth, earthy, but as the abstraction of such a being», non come una
creatura terrestre, ma come l’astrazione di tale essere !?. In questa circostanza non importa tanto stabilire la misura della dipendenza innegabile del racconto (e complessivamente della trilogia Amore nell’arte) dal modello dello scrittore americano, quanto rilevare come,
dopo la morte della donna, Lorenzo, sentendo «riformarsi nel cuore quel vuoto che egli aveva riempiuto un istante, ma che ora non poteva più sperare di riempire» '8, riprenda la sua traversata del mare tenebrarum della psicosi alla ricerca della bellezza incontaminata ed incorruttibile, della Venere celeste. È così che si innamora della Venere dei Medici:
che cosa di sì pallido, di sì mobile, di sì trasparente, che la sua natura appariva trasfigurata, spiritualizzata, mutata essenzialmente da quella di prima. La sua vitalità era affluita tutta allo sguardo; pareva intravedesse sempre qualche cosa al di là degli oggetti che la circondavano [...]. Le sue mani si erano come affilate, erano divenute sì piccole, sì leggiere, sì bianche, che nello stringerle vi sentivate la mancanza della vita ...». Cfr. Gabriele D’ Annunzio, // trionfo della morte, III, 9: «Era pallida ma di quella singolare pallidezza che Giorgio non aveva ritrovata in nessuna altra donna mai: d’una pallidezza quasi mortale, profonda, cupa, che un poco pendeva nel livido quando s’empiva di ombra. [...] - Come la sua bellezza si spiritualizza nella malattia e nel languore! — pensava Giorgio. — Così affranta, mi piace di più. Io riconosco
la donna che mi passò d’innanzi in quella sera di febbraio: la donna che non aveva una goccia di sangue. Io penso che morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua bellezza. Morta! — E s’ella morisse? Ella diventerebbe materia di pensiero, una pura idealità». E poco più oltre, contemplando la bellezza dai tratti androgini di lei: «la più preziosa singolarità di quel corpo sembrava a Giorgio il colorito. La pelle aveva un colorito indescrivibile, rarissimo, assai lontano da quello usuale delle donne brune. L’imagine dell’alabastro, che a un lume interno s’indori, bastava a rendere soltanto una minima parte della divina finezza» (Prose di romanzi, I, I romanzi della rosa, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1955‘, ri-
spettivamente pp. 825 e 829). !? Edgar Allan Poe, Berenice, in Tales, poems, essays, with an introduction by Laurence Meyell, London and Glasgow, Collins, 1961, pp. 171 e 173-174.
18 Lorenzo Alviati cit., p. 594.
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Lo stesso sentimento che lo aveva fatto invogliare di una fanciulla morta, gli destò nell’anima una passione ancora più inesplicabile per quel tipo perfettissimo della bellezza femminile [...]. E con questa nuova passione non fece che crearsi nuove origini di sofferenze. Era naturale che egli sì vigoroso, sì ardente, dotato di un’immaginazione così viva e così feconda, non potesse appagarsi di un amore così sterile e solitario !°.
Perché la Venere dei Medici? La risposta nelle parole di una guida eccezionale, Jacob Burckhardt, il quale nel suo celeberrimo breviario «al godimento delle opere d’arte in Italia», così aveva descritto, poco più di un
decennio prima, la statua greca: «Qui la leggiadria raggiunge il grado più elevato attraversoil carattere verginale, che si esprime nelle forme ancora acerbe e nella delicata testolina. Le dimensioni inferiori al normale costituiscono un mezzo essenziale per completare questo carattere. È vero che qui ci siamo allontanati di un altro gradino dalla dea; ed una mente severa
volentieri allontanerà il suo sguardo dalla giovinetta, per volgerlo indietro, verso quelle dee, che per lui rappresentano l’apogeo della femminilità: verso la Cnidia e verso la Venere Vincitrice. Però anche qui l’arte ha dato quanto di più sublime era possibile raggiungere»; per chiederci infine: «Rappresenta questa statua il più elevato ideale pensabile della bellezza femminile?» ©, A parere di Lorenzo Alviati evidentemente sì: secondo la moderna sessuologia, il suo è un raro quanto lampante caso di perversione feticistica tecnicamente definibile come «pigmalionismo» ?!. Ma la vicenda dell’infelice musicista non è ancora finita: quello che Tarchetti chiama «Il segreto di questo priapismo singolare del genio», dopo che egli è stato forzatamente costretto ad allontanarsi dalla Galleria degli Uffizi, si manifesta in tutta la sua distruttiva potenza in una forma di delirio narcisistico («egli finì coll’essere preso d’amore per se medesimo. Io rifuggo dal descrivere i dettagli deplorevoli di questa follia: ciascuno li potrà facilmente immaginare»)? che lo accompagnerà fino alla morte, avvenuta — come
12
Ivi pro9sì
2° Jakob Burckhardt, // Cicerone. Guida al godimento delle opere d'arte in Italia, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 492-493. La prima edizione del libro apparve a Basilea nel 1855. 2! Angelo Hesnard, Manuale di sessuologia normale e patologica, prefazione di Emilio Servadio, Milano, Longanesi, 1959 ?, p. 425. La ‘fonte’ letteraria di Tarchetti potrebbe essere — a prescindere dalle Metamorfosi di Ovidio (X, in particolare i vv. 243-269) — la scena lirica Pygmalion di Rousseau (autore fra i
suoi prediletti), il quale scrisse la trama e due brani musicali della pièce portata a termine da Horace Coignet ed eseguita per la prima volta a Lione nel 1770. 2° Lorenzo Alviati cit., p. 596.
206
puntualmente annota l’io narrante — nel manicomio di Alessandria 1°11 giugno 1863; guarda caso pochi mesi dopo che, all’università di Pavia, Cesare Lombroso aveva iniziato il suo corso libero e gratuito di clinica delle malattie mentali. La carne e la morte sono protagoniste di questo fantastico caso di un uomo che ama una statua. La coppia Eros-Thanatos si ricompone infatti nella vicenda di Lorenzo lungo l’itinerario dalla nevrosi attraverso la perversione sessuale alla psicosi. L'immagine di Adalgisa addormentata e purificata nella morte si sovrappone a quella fissata nel marmo dallo scultore ateniese secoli prima, entrambe al di sopra del mondo dei vivi, nella quiete perfetta e immutabile della non-vita, incontaminate dall’amore-passione di questa terra: a questo punto la vocazione all’arte di Lorenzo ha acquistato un senso accompagnandolo fino alla soglia oltre la quale l’eros diventa mistica e irripetibile esperienza della trascendenza e l’intelletto del protagonista, accecato da tanta luce, può definitivamente perdersi nello specchio di Narciso che la demenza gli ha collocato di fronte a irrisione, si direbbe, della sua umana imperfezione e castigo del suo ardimento.
3. Bouvard fu composto e pubblicato in rivista nello stesso periodo del Lorenzo Alviati, ma nelle pagine di questo racconto Tarchetti si spinge più oltre nelle ‘fantastiche’ congetture sull’onnipotenza del genio, prospettando l’ipotesi che questi possa sfidare anche l’‘ultimo nemico’, la morte. La narrazione inizia all’ombra di una epigrafe da The Deformed Transformed — il frammento di dramma nel quale Byron tentò nel 1822 una rielaborazione della leggenda di Faust, con il diavolo che si offre di trasformare un gobbo di miserando aspetto in un eroe dalle fattezze maestose — ed è preannunciata come «storia misteriosa» e, insieme, «racconto pietoso», ma non «immaginato», tale da aver sconvolto le «giovani fantasie» nell’ultimo scorcio del XVIII secolo. Il protagonista, infatti, fu a suo tempo personaggio famoso, un «genio sventurato» vittima di quella «forza negativa» che, da sempre, in natura si contrappone alla «forza positiva che crea» . Bouvard, nato in Savoia, da poverissima famiglia («suo padre suonava la gironda e faceva ballare una marmotta nera») è, fin dalla nascita,
segnato fisicamente:
3% I. U. Tarchetti, Bouvard, in Tutte le opere cit., I, pp. 630-631. L’epoca cui il racconto si riferisce si ricava dall’episodio del pellegrinaggio del protagonista a Ginevra, per vedere la terra che aveva dato i natali a Rousseau: «la vita del grande socialista si approssimava allora al suo tramonto, splendido e maestoso» (ivi, p. 642).
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egli era rachitico e infermiccio; la deformità lo aveva segnato colle sue tracce ributtanti, e non gli aveva lasciato nulla di regolare, nulla di attraente nel viso,
nulla di vago nell’occhio e nella voce: parea che la natura lo avesse per metà ripudiato non consentendogli che la pura fruizione della vita *.
Ma è proprio il complesso di inferiorità fisica del fanciullo, crudelmente marchiato dalla natura matrigna, a sviluppare precocemente le sue eccezionali doti intellettuali: Forse dovette a questa sventura precoce lo sviluppo straordinario della sua sensibilità, fors’anche il suo genio medesimo; [...] il dolore crea o modifica i grandi ingegni (e la sventura nei sommi è causa e non accidente od effetto).
E, quando il bambino decenne è abbandonato dal padre, è ancora la natura a rivelargli, sviluppando all’estremo la sua sensibilità musicale, la sua vocazione di artista: Una fiducia illimitata in se stesso, un’avidità irresistibile dell’avvenire agitaro-
no da quell’istante il suo cuore: — egli si sentiva superbo di sé, superbo della sua arte divina, egli comprendeva bene che non aveva ancor nulla conseguito, ma che avrebbe tutto conseguito col tempo.
Il complesso di inferiorità organica, avrebbe commentato esattamente mezzo secolo dopo Alfred Adler, negli Studi sulla inferiorità degli organi, ha trovato una compensazione psichica e ha innescato la volontà di potenza: l’adolescente deforme e malato si prepara a conquistare il mondo. Come in effetti accade: sette anni più tardi, Bouvard è il più celebre violinista del suo tempo, l’«uomo di mondo, il giovane elegante, l’artista straordinario». Ma la posizione sociale raggiunta dal musicista di successo (a Parigi «l’eletta società si contendeva Bouvard come il genio vivente dell’arte») non gli ha tuttavia consentito di spezzare l’isolamento dell’amore», per responsabilità primaria — dichiara a tutte lettere il misogino Tarchetti — della donna, «questa quintessenza di polvere la più perfetta tra le opere della creazione», che «nasconde spesso sotto la maschera irritabile del pudore
2. Ivi, p. 631. I tratti fisiognomici di Bouvard sono, più oltre, così descritti dal protagonista stesso in singolare chiave razziale: «Perché rinchiudere la mia anima in questa creazione abortita della natura? Perché darmi questo profilo di etiope, questo naso da ottentotto e questa bocca di lappone? Poteva la deformità rivestirmi di spoglie più ributtanti?» (p. 643).
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[...] le traccie più delicate della sensualità», ed è incapace di assolvere il compito di consolatrice della sventura, perché attratta soltanto dalla bellezza fisica: Bouvard si avvide troppo presto che egli non poteva sperare nell'amore, e conobbe ad un tempo che questo bisogno si era talmente inviscerato nella sua na-
tura, che non avrebbe potuto attutirlo che colla morte *.
Il destino del genio è ormai segnato: l’infrenabile pulsione di Eros (più cautamente sublimato qualche pagina dopo in «appello incessante
dell’anima») °° si potrà placare soltanto tra le braccia di Thanatos. Quindi la decisione dell’«artista divino» di ritirarsi dal mondo per vendicarsi di quel pubblico a cui «avrebbe chiesto indarno un solo di quegli affetti che egli aveva eccitato con tanta potenza nei loro cuori»; l’esilio volontario a Posillipo per dimenticare ed essere dimenticato, ma soprattutto per odiare, «giacché l’odio può ben contendere la sua voluttà a quella dell’amore» ?’. Poi il casuale e fatale incontro con una donna bellissima che sembra personificare «il genio fantastico della sua arte, la creazione severa della sua musica, l’ente concretizzato vivo, sensibile, palpitante, che egli si era com-
posto nell’estasi delle sue melodie e delle sue meditazioni» #. Si rinnova il dramma di Lorenzo Alviati, l’illusione di una ineffabile corrispondenza fra
amore e arte: e il genio è ormai chiuso nel suo delirio di onnipotenza. Quindi la delusione — la sognata immagine archetipica della bellezza è solo una donna bella e frivola come tante —, l’implicita ripulsa di lei e il risvegliarsi dell’odio: [...] un orribile desiderio balenò allora attraverso la sua mente — il desiderio di una deformità più mostruosa, di una bruttezza sì spaventevole, che, spingendo gli uomini a rifuggirne, avesse potuto saziare in lui l’avidità ineffabile del-
l’odio”.
Trascorrono gli anni; Bouvard misteriosamente scompare per riapparire, nelle vesti del «cattivo genio di cui favoleggiano gli uomini», il gior-
25.
Ivi, pp. 632, 634, 635, 640, 641 (poche righe sopra: «Nessuna di loro [donne] ha
confortato del suo affetto di amante la vita di qualche grande sventurato: una tomba recente — la tomba dell’infelice Leopardi — accusa in faccia all’umanità l’egoismo sensuale della donna»).
26 Ivi, p. 643. 27 Ivi, p. 644. vi
D: 647:
29. Ivi, p. 650.
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no del funerale di lei, morta alla vigilia delle nozze. Inizia così la metico-
losa e straziante preparazione di una cerimonia nefanda: le nozze del genio con la bellezza perfetta, libera, com’è, nell’immobilità della morte, dal pec-
cato congenito della femminilità, in una povera soffitta dove «centinaia di lumi erano apparecchiati a versare torrenti di luce su quei veli e quegli stra-
ti enormi di fiori» 39. A questo punto il narratore sente il dovere di intervenire a favore del suo sinistro personaggio nell’atto di macchiarsi di una colpa raccapricciante. Non colpevole è il verdetto: Bouvard è stato vittima di «uno sconvolgimento istantaneo della ragione» ! e, se delitto ci fu, l’espiazione, durata una Vita intera, lo precedette; del resto, anche secondo la tassonomia
lombrosiana, il violinista folle sarebbe un delinquente «per passione». Poi il rapimento del cadavere: La sua bellezza ha nulla smarrito delle sue seduzioni; un abito bianco, leggiero, quasi vaporoso, ricopre le modeste sue forme; i suoi capelli neri e disciolti sono trattenuti sulla fronte da una corona di tuberose ancora fresche, le sue mani bianchissime le cadono dai fianchi coll’abbandono soave del sonno, e solamente i suoi piedi diritti e riuniti fanno fede dell’orrida rigidità della morte» [...]. Nel
suo atto violento egli ha scoperto una parte del seno della donna: essa gli appare come una statua rovesciata di Fidia, come una di quelle immagini di vergine
greca che il turbine ha divelte dalla loro base ... 2.
L’amore feticistico di Lorenzo Alviati per la Venere dei Medici è sfociato nella necrofilia e Bouvard, profanando il cadavere della giovane, ha celebrato le sue empie nozze, sfidando l’angelo della morte e il suo Dio. Ed è verosimilmente una precauzione di ordine morale quella che suggerisce a Tarchetti di ricorrere in extremis alle risorse del fantastico, prima di descrivere il ritrovamento dei cadaveri ancora abbracciati l'indomani: «Non era Giulia morta? o le preghiere del giovane avevano avuto potere di ria-
nimarla un istante?» 33.
3% «- Ecco apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba ad un tempo ... la vita e la morte ... il gelo del sepolcro, e il fuoco dell’amore sì lungamente represso ... certo non fu mai stretto sulla terra un connubio più degno degli uomini, e la stessa divinità potrà forse invidiarmi le mie nozze» (ivi, pp. 652-653).
3! Ivi, p. 653. 2 Ivi, pp. 654-655, 658. 33. Ivi, p. 600.
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Secondo un rappresentante insigne della psichiatria romantica, J. Moreau de Tours, Bouvard potrebbe essere classificato come un dégéneré
supérieur sul discrimine fra genio e follia, figura che ebbe molta fortuna nel secolo XIX, anche se destinata a condurre «a uno di quei vicoli ciechi
non infrequenti nella storia del pensiero psichiatrico» 34. Vent'anni dopo la pubblicazione di Bouvard apparve la prima edizione della Psycopathia sexualis di Richard von Krafft-Ebing; vale la pena di ricordare che il paragrafo dedicato alla necrofilia si conclude, dopo l’illustrazione di una serie di casi terrificanti, con la citazione di una pagina, risalente al 1838, di un ormai dimenticato romantico berlinese, Glassbrenner (noto anche sotto
lo pseudonimo di Brennglass) nella quale si descrive più crudamente una situazione analoga a quella che conclude il racconto di Tarchetti: Una vampa selvaggia lo invase per tutto il corpo e gli infiammò le gote: era la vampa della passione. Premette le sue labbra su quelle fredde dell’amata, mentre il sangue pulsava sempre più caldo nelle sue arterie, e di nuovo la baciò, e più la baciava e più i baci gli sembravano caldi: gli pareva che l’esile salma respirasse, che le rose bianche delle guance le si arrossassero, che il cuore battesse sommessamente
nel petto. Allora egli, fuor di sé, si impadronì di lei, la ab-
bracciò selvaggiamente, i suoi baci bruciavano come la stretta delle sue braccia e quando tornò in sé, egli aveva compiuto un delitto davanti al quale la co-
scienza umana sente raccapriccio *.
Di fronte al testo letterario — a differenza di quanto aveva fatto in precedenza, esponendo casi reali, quelli «al cui pensiero gli individui sani e non degenerati rabbrividiscono» 5° — lo scienziato austriaco sembra perdere la sua impassibilità di clinico e commenta: Io non so se caso uguale o simile sia avvenuto in realtà. Se così fosse, si dovrebbe ammettere l’eventualità [...] di un ardore amoroso tanto grande da non
arrestarsi neppure davanti alla maestà della morte *?.
34 Franz G. Alexander-Sheldon T. Selesnick, Storia della psichiatria, introduzione di Jules H. Massermann, Roma, Newton Compton, 1975, p. 173. 35 Richard von Krafft-Ebing, Psycopathia sexualis, trad. it. sulla XVI e XVII ed. tedesca completamente rielaborata dal dott. Albert Moll, Milano, Carlo Manfredi, 1966, pp.
166-167. Sull’argomento cfr. Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Milano, Mondadori, 1975 (p. 111, cap. XII: L’aggressione maligna: la necrofilia ). soIvixp* 162° SARI IAP 1617:
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Sono verosimilmente pagine come queste che valsero alla nuova sessuologia l’accusa di Moritz Benedikt di aver contribuito alla «romantizzazione» delle perversioni sessuali, alla loro ‘letteraturizzazione” 38 ma, come
si è visto, già nella Milano degli Scapigliati in rivolta contro Manzoni la «scienza dell’anima» era entrata allo stato grezzo fra gli ingredienti che bollivano nel calderone delle streghe di Macbeth per preparare il «brodo infernale» della cultura decadentistica che consentirà le apparizioni preannunciatrici di una ancora torbida modernità. Quanto a Bouvard e al senso della sua malattia, converrà per ora tornare a Novalis dal quale questo di-
scorso ha preso l’avvio: «tutte le malattie assomigliano al peccato in questo, che sono trascendenze. Le nostre malattie sono tutti fenomeni di una elevata sensazione, che vuole tramutarsi in forze superiori. Quando l’uomo
volle diventare Dio, peccò» 5.
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38
HF. Ellenberger, La scoperta dell'inconscio cit., I, pp. 350-351.
9
Novalis, cit., p. 276.
CARLO A. MADRIGNANI
LE MAL DE MAUPASSANT
1. Malattia mentale e arte
Sulla «follia» come correlativo dell’ispirazione poetica esiste una antica tradizione, dai coribanti di Platone ai giorni nostri. Un segno di cambiamento arriva con l’opera di Freud o meglio con certa riflessione specialistica di alcuni suoi scolari, nella misura in cui era cambiata la nozione di
«follia». Scrivo questo termine per una seconda volta con le virgolette, sapendo quanto complessa e controversa è tale nozione sia a livello professionale che nella accezione comune ! — concetto che il Romanticismo ha rivestito di autorevolezza letteraria diffondendo il fortunato sinonimo di poeta-folle. Risulta difficile, ad un’analisi storico-letteraria, valutare lo spessore
di tale terminologia che, extrapolata dal terreno delle competenze cliniche, assume una gamma di significati troppo generica ed insieme troppo condizionata. L’artista come emblematica voce del «mal-essere» mette insieme heideggeriani e marxisti, esegeti spiritualeggianti e sperimentatori clinici. E tuttavia si può riscontrare come l’uso di tale binomio fornisca al lettore, più
che una generica empatia, un approccio non inutile al testo letterario (0 tout court artistico) e ai presupposti psichici che lo rendono possibile. Esiste una folta schiera di critici, idealisti magari senza volerlo, che considera i processi estetici del tutto estranei ad ogni miseria troppo umana di ordine psicologico, per i quali operare artisticamente non rientra nelle facoltà ideative e non riveste alcun interesse per loro cogliere un qualsiasi rapporto fra «mente» e arte. D'altra parte chi si occupi della situazione in cui poesia e follia (Comunque intesa) si mescolano, si trova di fronte
! In una recente recensione alla traduzione italiana della Storia sociale della follia di Roy Porter Eugenio Borgna mette in rilievo il frequente uso impreciso del termine «follia» e accenna al caso Nietzsche. Cfr. «L'indice», marzo 1992, p. 48. E si veda le facilità con cui si parla ora della «follia» di Althusser.
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ad una problematica che va al di là di ogni sistema retorico, anche se di retorica pur sempre si tratta. Se non si accetta la concezione classica, per cui l’opera vale solo come espressione di una ricomposizione e di una ritrovata armonia (quando si possono ammettere sole stesure per intervalla insaniae); se si rifiuta l’idealismo alla Benedetto Croce con la sua teoretica ne-
gazione del negativo, ci si trova di fronte a vari dilemmi, dati per lo più per «superati», che investono la complessa nozione di «sanità» e di conseguenza quel rapporto materiale fra mente e opera intellettuale che attraversa la nozione altrettanto problematica di corpo e dei condizionamenti o interazioni psicosomatiche. Il freudismo ha «scoperto» il significato attivo, l’autonomia della malattia mentale come centro di pulsioni deviate che aggregano forze emotive e intellettuali. Con tale ipotesi si annuncia la crisi : del manicheismo oggettivante dei clinici ed inizia un approccio alla «mente» e all’operare artistico che propone un metodo psichico e di analisi di scientifica soggettività — con quanto di aleatorio comporta tale formula contraddittoria. Per gli esponenti della «filosofia positiva» prevalente era la volontà di oggettivare e quantificare i dati psicologici: la meccanica della psichiatria quantitativa si poneva come somma ambizione di metodo quello di escludere ogni soggettività. Non diversamente avveniva in quel particolare campo di applicazioni che riguarda la psicologia estetica, quando si presumeva di arrivare ad enucleare con rigore quel particolare genere, o sottogenere, di follia (eccezionale o quotidiana) per poi trarne conclusioni utili a connotare quella forma d’arte connessa, anzi derivata, dalla «malattia». Si ricordi
che Zola permise di sottoporsi a una indagine psichiatrica che appurasse le strutture psichiche inerenti alla sua ispirazione di artista ?.
2. L'approccio positivista Il tardo Ottocento ha visto fiorire una stagione assai intensa di studi sul rapporto arte e malattia mentale, che rimanda a quello fra arte e attitu-
? Cfr. Dr. Adolfo Fernandez-Zoila, Les nevrophaties de Zola, in «Les Cahiers naturalistes», 1983, 57, p. 33 sgg. Viene qui riassunto e commentato il I volume, dedicato a Zola, delle inchieste «médico-psychologiques» del dr. Edouard Toulouse pubblicato nel 1896. Zola non solo si sottopose a tale inchiesta, ma ne accettò le conclusioni, mostrandosi molto spregiudicato nel parlare del proprio io privato (angosce, sesso, malattie, ecc.): un vero positivista coerente fino in fondo.
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dini psicologiche. Il Positivismo, con la sua ambizione a un sapere totale, ha inglobato nel suo programma scientifico anche l’attività psichica che sovrassiede alla produzione artistica. Sono gli anni in cui il sapere medico imperava, e concepiva la malattia come scarto o deviazione da un supposto diffuso stato di normalità *. E tuttavia, pur in questo clima di certezze, le cose non erano così semplici come si è soliti credere: vi erano differenze, discussioni e ostilità che drammatizzano il movimento di questa filosofia sperimentale. La medicina in Francia fra Ottocento e Novecento ebbe un ruolo molto significativo e in particolare gli studi psichiatrici hanno aperto importanti discussioni sul piano diagnostico e terapeutico, specie a Parigi dove Charcot ed altri suoi colleghi si trovavano ad aver ereditato la tradizione della psichiatria successiva a Pinel e a Moreau (a cui si deve l’equazione genio-malattia). In tale situazione molto complessa varie ipotesi di lavoro e impostazioni teoriche venivano a confronto negli ospedali della Salpétrière e di S.te Anne. L’organicismo si veniva complicando con altre istanze e nella cultura psicologica insieme allo studio criminologico e antropologico del genio avanzavano stimoli e curiosità meno scientifizzanti, anche se ancora lontani sono 1 tempi di un confronto con le suggestioni legate alla psicanalisi *. C’è da tener conto che la cultura dei medici lettori di Maupassant è di questo genere. La loro psichiatria vuole soprattutto diagnosticare, più che spiegare. Gli approfondimenti e le aperture che furono di innovatori come Janet e Ribot non intaccano i canoni di questa arte diagnostica. Questi medici tendono, in modi diversi, a catalogare i vari tipi di artisti secondo parametri di psicopatologia, pur con l’avvertenza che più di vere malattie, spesso si tratta di atteggiamenti oggi definiti border-line. E comunque il concetto di malattia, per quanto sfumato, rimane centrale e ta-
3. Sul concetto di normalità cfr. l’opera fondamentale di Georges Canguilhem, Le normal et le pathologique, Paris, Presses universitaires de France, 1975? e in particolare la parte II, paragrafo 2 p. 76 sgg. 4 Per un quadro informativo: cfr. André Hahn e Paule Dumaitre, Histoire de la médecine, Paris, Perrin, 1978; Jacques Léonard, La médecine entre les savoirs et les pouvoirs, Paris, Aubier Montaigne, 1981. Per le linee generali sulla psichiatria del secondo Ottocento cfr. le opere classiche di Gregory Zilboorg e Georges W. Henry, Storia della psichiatria, Milano, Feltrinelli,
1973? (l’edizione originaria è a New
York, Norton,
1941); e di Franz G.
Alexander and Sheldon T. Selesnick, The History of Psychiatry, New York, Harper and Row, 1966. Per la Francia sono da consultare i volumi di: Henri Baruk, La psychiatrie francaise de Pinel à nos jours, Paris, Presses universitaires de France, 1967; Jacques Postel et Claude Qué-
tel, Nouvelle histoire de la psychiatrie, Toulouse, Privat, 1983 e l’Histoire de la psycopathologie di Henri Beauchesne, Paris, Presses universitaires de France,
1986.
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le da ammettere solo una visione clinica. In questa civiltà patologica vigeva una spiegazione quasi mitica, che dalla scienza arriverà all’immaginario collettivo, ed è il tema dell’ereditarietà, un concetto scientifico diventato quasi una superstizione in cui si confondono male e malattia; i concetti “morbosi” hanno un alone di fatalità e di tragedia e accendono la fantasia di molti scrittori e studiosi alla Nordau. Visto da questo angolo visuale, l’artista malato assume un risalto particolare, con contorni ibridi, perfino grotteschi. La tipica iconografia romantica del genio e sregolatezza viene ripresa e negata nello stesso tempo; la novità consiste nell’ambizione di quantificarla e proiettarla all’esterno. La follia, per quanto complessa possa essere la sua fisionomia, rimane una piaga che si vorrebbe rendere visibile, da analizzare in laboratorio, e così si spiega perché l’artista malato si offra come un oggetto di studio ideale, la realizzazione di un’ipotesi spesso idoleggiata. Non mancano discussioni, polemiche, contrapposizioni, anche se cir-
cola una comune passione diagnostica e descrittiva. Alla fine del secolo e per il ventennio successivo la Francia elaborò un rifiuto netto e vivace per la teoria criminalocratica di Lombroso.
Nel 1909 un medico, nel suo at-
tacco virulento allo studioso italiano, ipotizzava sarcasticamente quale mai sarebbe la struttura dei Rougon-Macquart se li avesse scritti uno Zola lombrosiano di stretta osservanza?. Al di là del sarcasmo il discorso è significativo: da una parte dimostra il fatto che Zola rimane il romanziere moderno per antonomasia per chi avesse un ideale artistico d’impronta scientifica, dall’altra il modello-Zola è ammirato per la sua libertà scientifica, la sua capacità d’inventare, partendo da Claude Bernard e dagli studi sull’ereditarietà.
3. Contre Sainte-Beuve?
Per intendere in tutta la sua complessità, all’interno di una impostazione esclusivamente scientifica, come venisse affrontato il motivo della
follia in sede letteraria, sullo sfondo della psichiatria francese, risulta di
5
Cfr. Louis Thomas, La maladie et la mort de Maupassant (1906). Ho consultato la
seconda edizione «augmentée et revue» uscita a Parigi, Messein, nel 1912. Gli attacchi a Lombroso sono molti e violenti: discorsi «délirants», «stupidité des systèmes», «âneries colossales» e via dicendo. x
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grande utilità riprendere in esame il caso Maupassant. Si ha a che fare con un caso davvero eccezionale. Non si tratta solo della reazione di fronte alle novelle cosiddette «fantastiche», esempi fra i più espliciti di letteratura della o sulla pazzia, ma di considerare come importante, se non decisivo, il
fatto che lo scrittore era soggetto a fenomeni psicopatologici clinicamente accertabili. L'occasione può aiutare a riprendere la discussione circa i rapporti fra l’uomo e lo scrittore, al di là dell’affermata dicotomia o inconci-
liabilità, che ha avuto tanta fortuna soprattutto dopo il pamphlet proustiano Contre Sainte-Beuve. In tempi recenti ha trovato consensi quella teoria «formalistica» secondo la quale studiare un testo comporta l’esclusiva attenzione al testo stesso, alla descrizione esterna, scindendo l’artista da ogni contatto con l’uomo e con quella sua materialità fisiologica e biografica, che se non è il centro dei processi di formalizzazione artistica, ad essi si ri-
connette attraverso un complesso lavoro psichico di ideazione e ri-creazione. Nel caso di Maupassant c’è qualcosa di più, e cioè il fatto che il suo «male» ha avuto proiezioni, implicite o esplicite, nelle sue pagine. I critici hanno subito messo in contatto il narratore «fantastico» con l’uomo colpito da ricorrenti forme di allucinazioni. Di fronte al fatto che questo genere di opere compare in forma saltuaria si potrebbe pensare che il suo autore proceda per intervalla insaniae. Ma si può essere sicuri che questi «intervalli» siano momenti isolati? E che l’autore vivesse in una sorta di smemoratezza nei confronti delle molteplici forme di sofferenza fisica e psichica da cui era affetto? Di certo esiste un paradosso, che colpisce ogni lettore: da una parte l’arte di Maupassant era improntata per molti aspetti, almeno ad una prima lettura, ad una ricerca di sanità fisica, all’esaltazione di
una compiaciuta fisiologicità. Per un altro verso non solo esistono le pagine di ispirazione allucinata, ma non di rado (e fu subito notato da alcuni critici, fra cui Anatole France) trapelano elementi di segreta sofferenza e di cupo abbandono, da cui nacque la famosa definizione di «taureau triste». Sia detto per inciso non escluderei che la precoce attrazione del giovane D'Annunzio (gli studiatissimi «plagi») per i versi più scandalosi di Maupassant nasca da tale inquietante incrocio di sensualità e cupezza. La critica più recente ha indagato i romanzi e le novelle senza lasciarsi intrappolare da riferimenti troppo stretti al tessuto psichico e biografico. E tuttavia rimane il sospetto che qualcosa continui a sfuggire, che le reazioni dei primi critici, schoccati dalla tragica fine dello scrittore e dal
suo tragitto clinico, abbiano acquisito qualcosa su quel «male» che investe anche l’artista.
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4. Il caso di Maupassant
Subito dopo il tentato suicidio e poi la morte nella casa del dottor Blanche, ci fu una diffusa reazione di sgomento e di compassione. In maniera tanto esacerbata si concludeva la rapida e fortunata carriera di uno scrittore popolare e apprezzato. A tale atteggiamento si accompagna, nel giro di pochi anni, una volontà di conoscere che supera la spinta della curiosità per cercare di definire in termini esatti la malattia dello scrittore. In Europa la tendenza al sapere clinico andava al di là delle competenze mediche; il dottore era una figura sociale emblematica °. Nella cultura e nella
letteratura vigeva una visione dell’uomo sub specie insaniae che ebbe grande importanza nel decidere l’egemonia di certe istituzioni della salute pubblica, come la medicina legale e la criminologia. I medici, che si occuparono di Maupassant, fanno parte di questa società del sapere e si ritrovano, pur nella comunanza di alcuni presupposti, a «militare» in alcune scuole con specifiche ipotesi e metodologie. In genere i loro riferimenti si riallacciano alla teoria della dégénérescence che da Morel arriva a Magnan a S.te Anne”. Sono insomma medici che legano fisiologia e psicologia, ma evitano di fare della seconda una passiva derivazione della prima. Le discussioni nascono dall’interpretazione dei dati dell’oggetto morboso più che da uno scontro di filosofie; s’intravvedono semmai polemiche fra scuo-
le che fecero del caso Maupassant un esercizio di metodo. Ecco come si può spiegare che, in tale contesto, a Maupassant sia capitata la sorte di diventare il paziente postumo di un gran numero di medici (non si dimentichi che si trattava di un autore molto popolare e per di più di area naturalista, di per sé congeniale ai gusti di tali lettori). Era un’occasione quasi unica che
° Tutto il naturalismo è impensabile senza avere alle spalle una tale passione per la clinica. Su tutto questo ambiente incombe la figura di Claude Bernard, la cui lezione di metodo va bene al di là delle aule accademiche d’ospedale. Su Bernard ancora utile Donald Geoffrey Charlton, Positivist Thought in France during the Second Empire, Oxford, Clarendon press, 1959. Più in generale l’opera complessiva di Leszek Kolakowski, La filosofia del positivismo (1966), Bari, Laterza, 1974, p. 73.
? Cfr. per questo aspetto Rafael Huertas Garcia-Alejo, Locura y degeneracién. Psiquiatria y sociedad en el positivismo francés, Madrid, Centro de estudios historicos, 1987. Utili i riferimenti europei nel saggio di Stefano Poggi, Localizzazione cerebrale e sperimentazione psicologica nei rapporti della psichiatria italiana con il dibattito europeo. Alcuni punti di riferimento (1870-1900) in L’età del positivismo, a cura di Paolo Rossi, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 75 sgg.
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permetteva di studiare, su materiale ancora attuale, un caso patologico arrivato su tutte le bocche e commentato in mille maniere. Tanto esemplare apparve questo caso che esso fu argomento di alcune Tesi di Medicina, presentate con tutto l’apparato scientifico e accademico d'obbligo in tali occasioni. Nella loro ottica iniziale nessuna di queste tesi ha dato, né intendeva dare, un contributo specifico alla critica letteraria; e ciò potrebbe spiegare l’oblio in cui sono cadute presso i successivi critici e biografi *. E tuttavia queste opere, con il loro procedere scolastico ed i richiami obbligati ai sacri testi del sapere scientifico imposti dai maestri, hanno un valore metodologico e di testimonianza culturale che sarebbe difficile sottovalutare. Ci permettono di toccare con mano un episodio che supera la limitatezza dei risultati raggiunti e offre l’occasione per studiare un momento del positivismo francese ed europeo, partendo da un ambiente, quello medico ed in specifico della neuropsichiatria, che stava compiendo grandi passi avanti. Ecco dunque riemergere il caso Maupassant secondo l’ottica di un modo di pensare tipico di quel totalitarismo scientifico che è stato l’ambizione di un’epoca. Val la pena di rianalizzare un esempio dell’incontro fra scienza e letteratura nel vivo delle discussioni positiviste e al di fuori da quel pregiudizio antipositivista che i vari idealismi hanno teorizzato.
5. Le tesi di medicina
Come si diceva, Maupassant ha avuto lo strano privilegio di essere «studiato» da un grande numero di medici. Si sarebbe tentati di pensare ad un accanimento strano, a uno dei tanti inutili rituali accademici (basti ve-
dere le dediche e i ringraziamenti). E tuttavia la ragione di fondo è quella di cercare di appurare le cause e la natura della malattia mortale dello scrittore, sfuggito a ogni resoconto medico dopo la reclusione nella casa del dottor Blanche. Si arrivò, non senza contrasti, alla conclusione che doves-
8 Un riferimento piuttosto annoiato lo si trova in Paul Morand, Vie de Guy de Maupassant (Paris, Flammarion,
1942) che parla di «dottori che lo [Maupassant] tormentano in vi-
ta e dopo la morte» e dei «segreti eccitanti» utili per psichiatri, studiosi dell’inconscio e per i «docteurs du mal de thèses». Ma poiché della malattia bisogna parlare, il biografo sembra dare importanza all’unione di una sifilide ereditaria innestata su quella acquisita. — Molto di recente a questi studi sul «mal de Maupassant» ha fatto riferimento Jacques Bienvenu nelle pagine introduttive del suo Maupassant, Flaubert et le Horla, Marseille, Muntaner, 1991.
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se trattasi di paralysie générale®. Ma quali fossero le cause e quale il decorso a monte di tale terribile conclusione fu a lungo oggetto di discussione. Le prove mediche su cui basarsi non erano né solide né numerose, a causa anche del segreto professionale dei medici curanti. Leggendo queste dimenticate tesi si ha a volte l'impressione di pagine scolastiche dettate dalla curiosità dei maestri più che da un interesse originale dei dottorandi. Un medico già allora le condanna in blocco come opere inutili ©. Un giudizio così drastico lo si può capire se si considera il vistoso scolasticismo, la superficialità di molti di questi scritti. L'esempio più probante è una thèse di Montpellier del 1898 del dr. Antonin Burlat, Le roman médical, che esalta il più pedestre naturalismo e il metodo di Zola derivato dalle scienze. Il piglio contenutistico e normativo di queste pagine dà ragione del perché, ad esempio, si esaltino i romanzi il cui scopo è di rappresentare gli effetti terribili dell’onanismo. E così il bravo dr. Burlat applica la sua sagacia diagnostica per definire la Fedra un caso di isteria classico. Nel capitolo intitolato La folie artistique l’opera analizzata è Le Horla, la cui natura autobiografica è garanzia di interesse specie per i medici. L’unico dubbio riguarda la consapevolezza dell’autore sulla natura patologica del suo scritto: comunque sia, si tratta — a detta dell’autore — di «une oeuvre de la folie par un candidat à la folie». Più direttamente legato all’argomento è la tesi di Lione su Le mal de Maupassant del dottor M. Pillet del 1911, che riprende la discussione sulla natura e sull’ultima fase di malattia dello scrittore. Alla prevalente diagnosi circa una paralysie générale Pillet oppone non pochi dubbi. Per lui si è trattato delle estreme conseguenze di una nevrosi cronica, tipica di un
«dégénéré supérieur», secondo una definizione tipica della scuola di Magnon. Lo dimostrerebbe la presenza non episodica di allucinazioni e la sof-
° Sulla paralysie générale, sulla sua identificazione e sulla sua storia, si veda l’appendice di G.W. Henry in G. Zilboorg e G.W. Henry, Storia della psichiatria cit., p. 256 sgg. e in J. Postel e C. Quétel, Nouvelle histoire..., p. 322 sgg. — La Paralisie venne identificata come di origine sifilitica nel 1876; ma la vera conferma la dette Naguchi nel 1913. E poco dopo s’incominciò a curarla. Non sembra che Maupassant sia stato curato adeguatamente, sia pure coi mezzi del suo tempo.
!° Cfr. il giudizio di Thomas L. (in La maladie cit.) riguarda la thèse di Zacharie Lacassagne, La Folie de Maupassant, Toulouse, Gimet-Pisseau, 1907 che frettolosamente si pone alcuni problemi elementari, come ad esempio se lo scrittore sia un pazzo cronico o lo diventi con Le Horla. La conclusione riprende gli argomenti del maestro Rémond e di Voivenel. Discute anche letteratura extramedica e critica il troppo esteso concetto di eredità dell’ebreo Nordau, campione di «l’école lombrosienne exagérée».
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ferenza che il malato nascondeva sotto una maschera di ostentata sanità. Per Pillet questo si spiega con un temperamento epilettico di base di origine ereditaria, da cui prenderebbe origine una «mélancolie primitive et originelle». L'esempio di Maupassant confermerebbe quel legame fra la malattia e genio caro a tanto positivismo. E in effetti l’autore si domanda se «le génie est-il une névrose comme le vice et la folie». Ai fini della diagnosi le ultime opere dimostrerebbero la mancanza di quell’indebolimento mentale che è invece tipico della paralysie: Le Horla è presentato come un «conte logiquement construit», non frutto di demenza. Tutta l’opera di Maupassant nascerebbe da un insieme di «idées obsédantes» che diventano i temi generali dell’ispirazione dell’autore: la Paura, la Solitudine, l'Amore, la Follia, la Morte.
Questa lunga diagnosi, legata a motivi largamente diffusi nella scienza del tempo (come dimostra l’uso troppo esteso e sfumato dell’epilessia), riesce a enucleare alcune tematiche psicologiche a cui attinge il narratore. Inoltre Pillet sa far fruttare il concetto di nevrosi, al di là dell’eziologia epi-
lettica. Ci sono spunti che toccano la personalità dell’artista, le sue contraddizioni (ad esempio, il «sens de jouissances infinies et perverses») che suggeriscono qualcosa al di là dei soliti codici medici (ad esempio, la paura filosofica e non personale della morte). E si arriva a parlare della «sensibilità» dello scrittore come dello sfondo su cui nasce la sua arte. Si tratta di una «sensibilité maladivement aigué sous une forme saisissante, hachée,
brutale, exasperée, mais logique et voulue». È tale sensibilità che dà un particolare timbro ai racconti e ai romanzi, nei quali si rivelano la «belle âme
inquiète et triste» dell’autore e il «cri habituel de son coeur désespéré».
6. Corporeo e incorporeo
Nella facoltà di Medicina di Lione fu discussa nel 1912 la thèse di P. Hollier dal titolo La peur et les états qui s’y rattachent dans l'oeuvre de Maupassant. Parlando della paura l’autore rivendica non solo la congruità di uno studio medico su tale argomento, ma anche la particolare attitudine
da parte dei medici di capire per alcuni aspetti questa tematica così come la si trova espressa in un’opera letteraria. E poco dopo dichiara che nelle pagine di Maupassant c’è un gran numero di osservazioni medico-psicologiche del tutto affidabili, che si spiegano in quanto riflesso della sua vita patologica. E da qui sorge la domanda se si abbia a che fare con uno scrittore di talento o con un osservatore geniale (non è ben chiaro se si tratti di
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un'alternativa), visto che ci si pone l'interrogativo se certe pagine siano opera d’arte o frutto di scrupolosa esattezza. Insomma il problema che affiora non è solo il rapporto fra biografia e opera artistica, ma più in specifico fra modalità della dinamica psichica e quella estetica. La paura, assimilabile
in buona
parte
alla fobia,
è, per Hollier,
elemento
fondante
dell’espressione artistica, almeno se intesa nel senso lato di quelle angosce che sono alla base di molti capolavori, così come succede per autori come Musset, Poe e Dostoewsky !!. L'affermazione tuttavia rimane senza sviluppo. Il medico oscilla fra una concezione patogena o nevrotica dell’arte e un’altra soluzione, per cui le pagine migliori del Maupassant sarebbero quelle che riflettono direttamente le sue patologie, tanto da poter essere classificate come «aveu depouillé d’artifices». In questa direzione si muovono le analisi dei racconti ossessivi dell’ultimo periodo (all’interno di una biografia patologica molto articolata che mette nell’84 l’inizio della fase discendente). Nelle pagine di Fou?, Lui, Madame Hermet, Qui sait?, Le Horla la cifra dell’ossessione fobica è un dato costante che va progressivamente allargando il suo dominio, mentre diminuisce parallelamente la «rectification intellectuelle». Le Horla rappresenta il punto più alto in cui ha il sopravvento un «état panaphobique», che trionfa al di là di ogni difesa o correzione coscienti: è la vittoria della fobia patologica sulla paura normale, che fa cadere ogni senso critico. L’autore non dice chiaramente se si è di fronte ad un’espressione di patologia artistica o a un documento di verità morbosa. Il motivo della paura, o della fobia, rientra in quella biografia segreta, in quella vita interiore nascosta, a volte volutamente dissimulata, di cui i biografi e i critici tengono conto solo in piccola parte. La vita, così come la si concepisce secondo un’ottica razionale (di psicologia di superficie, di dati noti e irrefutabili, di annotazioni storiche, politiche o sociali), maneggia con difficoltà questo materiale sfuggente e inclassificabile. La «follia» vie-
!! Su questi e altri nomi di illustri malati esiste una grande bibliografia di medicina positiva. Gran successo ebbe, nel 1904, ia conferenza di N. Bajenow, G. de Maupassant et Dostoiewski (apparsa su «Archives d’Anthropologie criminelle» ad apertura del tomo XIX, 1904). Il sottotitolo recita: Étude de Psychopathologie comparée. Per Maupassant si parla di follia lucida e delle sue ossessioni; non mancano né la tara ereditaria né il degenerato superiore. Le Horla è visto come opera realistica nella tradizione di Poe e Hoffmann; nell’incompiuto Angelus — si legge — potrebbe esserci lo stile del Maupassant malato. L’autore insiste poi sul «désespoir», anzi sul nichilismo totale che promana dalle opere («Il n’y a ni bien, ni mal, rien»). E cità l’Ecclesiaste per avvalorare la tesi di una vita senza senso in cui agiscono uomini-bestie spinti verso la morte, su cui veglierebbe un Dio massacratore.
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ne intesa per lo più come qualcosa di inessenziale o almeno marginale, e non come una parte operativa dei rapporti vitali. Per contro un approccio medico di vasto raggio rivendica l’importanza della «malattia» come dato materiale di cui si nutre l’attività emotiva e intellettuale. Non si tratta di un’esaltazione ottimistica del male alla Weizsäcker, semmai l’opposto, una valutazione clinica esatta che misuri la forza dolorosa degli stati patologici. Il rischio è quello di cadere in quella sorta d’immobilismo e di separatezza che non ha permesso di capire la fecondità, nella sofferenza, di tali
patologie e la loro relazione con l’attività «normale». Molti critici non ne furono, o non ne sono, consapevoli, ma allorché
ci si è trovati dinanzi al problema di definire certi racconti cosiddetti ‘fantastici’, si sono rivelati utili alcuni interrogativi sollevati, alla loro maniera, da questi medici. È proprio a loro che si devono, più che a Maynial !’, i primi ritratti, o almeno le prime tracce della fisionomia psicologica di un uomo che aveva cercato di salvaguardare la propria immagine pubblica. Anche i primi conati interpretativi sulla tanto ammirata sanità e gagliardia risalgono a queste diagnosi, che si propongono di scovare gli elementi oscuri, contraddittori, a prima vista incomprensibili, di un uomo tanto amante della fisicità e della forza. Il ritratto drammatico della vita intima, o della
vita tout court, di questo Maupassant ha portato con sé una revisione, o un approfondimento, anche della sua arte — almeno per chi pensa che esista un rapporto fra il complesso viluppo di pulsioni vitali e di razionalizzazioni e le sue proiezioni espressive. Approfondire tale legame, che ovviamente non è mera dipendenza, non vuol dire negare la famosa autonomia estetica, purché la si veda nella sua relatività e parzialità, in netto contrasto con tutte le operazioni di tipo idealistico, che caratterizzano la cultura antimaterialistica postilluminista. Il che vale in particolare per le molte esegesi di stampo psicanalitico che staccano drasticamente il materiale biografico dalle elaborazioni artistiche, per cui viene vanificata ogni indagine psicologica in nome di un mondo artistico a/tro, indipendente, chi sa dove collocabile, pensato come espressività incorporea o extracorporea. A una qualche forma di immaterialità arrivano anche alcuni critici d'impostazione marxista (e freudo-marxistica), col loro hegeliano disprezzo di quanto provenga dal basso, per i quali sarebbe aneddotico e poco serio ogni interesse per la vita privata
2 La vie et l’oeuvre de Guy de Maupassant di Edouard Maynial, Paris, Société du “Mercure de France”, 1906 ebbe un certo successo: due edizioni nel ‘1906 e un’edizione tedesca l’anno successivo.
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(ma per un altro verso è al marxismo che si ricollegano ricerche innovatrici sul nesso arte-società e sulla materialità dei rapporti culturali: editoria, pubblico, e tutti quei bassi interessi che «immeschiniscono» l’alta soggettività dell’ Artista — e del Critico).
7. Diagnosi clinica e analisi letteraria A riflessioni di questo genere induce la lettura delle disusate e indigeste pagine di questi medici, che dal caso clinico dell’uomo Maupassant passano a interessarsi, obliquamente e tangenzialmente, dell’opera dello stesso, pur rimanendo estranei al richiamo e alle convenzioni della lettera-
rietà, comunque la si voglia intendere. E tuttavia al lettore qualche spunto di critica letteraria è dato rintracciare se riesce a forzare la logica clinica di queste ricerche e ricostruzioni. Partendo da questi medici positivisti quei critici d’oggi, che non rifiutano la corporeità del sapere, possono rintracciare e ridefinire la dinamica e il conflitto psichici che hanno orientato alcune scelte dello scrittore sia in maniera palese, offrendo il materiale delle narrazioni, sia in modo più complesso e tortuoso, caricando di valenze sim-
boliche, di significati occulti e deviati quelle narrazioni, anche quando sembrano esaltare un’innocente joie de vivre. Mentre si va corrodendo il cliché di un Maupassant solare caduto imprevedutamente nell’orrido tunnel della pazzia, se ci si mette in un’ottica clinica, si rivela non privo d’interesse seguire i vari tentativi di tracciare un parallelo fra percorso patologico e percorso letterario. Si sa che questi tracciati hanno spesso un qualcosa di facile e rigido e soffrono di quella semplificazione microstoricistica che si traduce in una fede teleologica, valida per i grandi fenomeni collettivi come per le biografie individuali. Il caso Maupassant è davvero uno degli esempi più evidenti della fragilità di tale formulario, non solo per l’intreccio di motivi così disparati e contradditto-
ri e difficili da omologare, ma anche per quel rapporto tortuoso con la malattia, a qualsiasi livello la si voglia rintracciare, che presentano le pagine e le singole invenzioni. | Fra le tante ipotesi del cosiddetto svolgimento della narrativa maupassantiana, quelle patologiche cercano almeno di mettere a confronto i dati del percorso verso la paralysie générale con la scrittura. Fra i molti limiti, c’è il fatto di privilegiare i racconti cosiddetti fantastici e di caricarli
di una sintomatologia fin troppo esplicita. E tuttavia chiedersi in che rapporto lo scrittore è vissuto con la fenomenologia del proprio «male» e con il suo progredire, non è un atteggiamento specialistico o settoriale. È un
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quesito che non si può eludere, purché l’angolazione, invece di essere esclusivamente clinica, si avvalga di un più elastico e complesso studio del «vissuto», e metta in un gioco complesso e problematico pause «normali» e assalti della malattia. In effetti sarebbe troppo facile pensare a un alternarsi di momenti buoni e momenti cattivi, da intendersi come periodi di produttività e momenti di totale oscurità. In tal caso verrebbe ribadito il canone metodologico (e filosofico), per cui si fa storia solo del positivo, che è poi tutt'uno con una visione della storia intesa come dominio della sanità, di un’umanità nel pieno possesso dei suoi mezzi (quanto tale ipotesi sia un’astrazione sembra non toccare le tante filosofie intrinsecamente irrealistiche). Si può dire che i medici, obbligati per dovere professionale a leggere l’opera di Maupassant, cadano nell’eccesso opposto di una sopravvalutazione della sintomatologia patologica? Questo è sicuro. Il vero problema è vedere, fra questi eccessi, quale offra migliore orientamento per intendere l’impostazione di fondo di un processo artistico. A monte di tanti studi c’è il lungo saggio, in quattro puntate, del dr. Lucien Lagriffe sulla «psychologie pathologique» di Maupassant apparso sulle vetuste «Annales médico-psychologiques» fra il settembre 1908 e l’aprile 1909 . L'autore dichiara (già allora!) che non c’è nessuna scoperta o grande novità negli «ingredienti» usati. Egli cita molti critici e testimoni (fra cui lo sterminato zibaldone di A. Lumbroso, Souvenirs sur Maupassant,
Roma, 1905) e li integra con ipotesi e considerazioni mediche (i suoi destinatari non sono i curiosi, ma i medici e gli alienisti). Non ha dubbi sulla natura sifilitica del male, che fa risalire al 1879 e mette a confronto i processi patologici con gli aspetti caratteriali («La folie n’est bien souvent que l’exagération et l’épanouissement des tendances naturelles antérieures surtout chez les individus assez fortement dégénérés»); e questo spiega come mai nella paralysie c’è la modificazione del carattere. Non accetta le conclusioni della tesi di Zacharie Lacassagne, che parlava, sulle tracce del comune maestro Rémond, di «délire systematisé progressif», non essendoci traccia di delirio di persecuzione. Alcune pagine vertono sul problema della misoginia, che dimostrerebbe la ristrettezza, l'incapacità a generalizzare della «mente» dello scrittore, simile in questo alla chiusura antifemminile di Schopenhauer.
!3 Cfr. Lucien Lagriffe, Guy de Maupassant - étude de psychologie pathologique in «Annales médico-psychologiques», I serie, tomo IX — settembre-ottobre 1908; novembre-dicembre 1908; gennaio-febbraio 1909; marzo-aprile 1909. L’indicazione esiste in Robert Willard Artinian-Artine Artinian, Maupassant Criticism, a Centennial Bibliography. 1880-1979, Jefferson-London, McFarland, 1982, ma, in questo caso, non è sufficientemente precisa.
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Questo saggio di psicopatologia ricorre ampiamente alle testimonianze letterarie. In Lui ci sarebbe un esempio di autoscopia esterna, legata forse all’alcool, di natura onirica, che si ritroverebbe anche in Qui sait?, coi suoi caratteri deliranti da sogno. Anche Lagriffe preferisce Le Horla, che presenta un «potente interesse scientifico» da meritare di entrare nei testi didattici. È l’esempio della lotta fra lucidità e follia, di come l’autore non riesca più a controllare le allucinazioni. In questa ricostruzione il discorso slitta di necessità dal patologico al letterario. Non a caso diventa centrale il confronto fra il percorso dell’opera letteraria e quello della malattia (è tracciato un quadro preciso al proposito). Lagriffe riprende giudizi di altri critici e vede in Maupassant solo un «observateur», privo d’immaginazione, un «conteur... né tel» fatto per il racconto più che per il romanzo. Riprendendo i giudizi di Jean de Gourmont su un Maupassant senza mistero, «bon ouvrier», il medico rivela, uno fra molti, la concezione sminuitrice che circo-
lava sul romanzo come opera di passiva registrazione. Su questo concetto s’innesta la possibilità di una lettura per sintomi, in cui si debba tener conto delle «veritables lézardes» che percorrono le opere sane e fanno affiorare «les preoccupations intérieures de l’écrivain». È quanto di più originale potesse essere scritto in un lavoro che si dichiara poco originale. Interessante si rivela lo sforzo di dare un quadro patologico partendo da elementi di psicologia normale per la quale si rivaluta l’importanza delle «nuances» interne agli stati psichici e patologici. Anche questo quadro soffre di una tensione unitaria e sistematica che rimanda ad una visione dell’uomo come un tutto compatto e razionalizzabile. Tutta la psicologia ottocentesca tende a questa razionalizzazione, a mostrare l’unitarietà di un sistema di reazioni. Freud
stesso cerca un’altra ragione, che tuttavia è speculare a quella normale. Tutto si spiega, tutto può essere «risolto»: basta azzeccare la chiave giusta. Eppure Maupassant, la sua opera, i suoi temi ossessivi, la sua biografia di sano e di malato dimostrano l’intreccio di contraddizioni, le coabitazioni di contrari, che non possiamo, per nostra rassicurazione, ridurre ad un tutto unitario, che permetta un’ottimistica risoluzione di tragiche frammentazio-
ni e antagonismi. In quanto poi ai due Maupassant, «ouvrier» e genio pazzo, tale formula rifluirà in giudizi anche autorevoli sulla scarsa genialità dello scrittore, confrontato negativamente con Flaubert !4.
!* Cfr. di Albert Thibaudet il giudizio su Maupassant del ’32 nella sua opera, Storia della letteratura francese dal 1789 ai giorni nostri, Milano, 1979 pp. 402-403 dove si contrappone «l’arte più virile, più tonica, più diretta» dei racconti alla debolezza dei romanzi precocemente invecchiati come quelli dei Goncourt.
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Nello stesso 1909 l’argomento verrà ripreso da Alexandre Lacassagne proprio sulle sue «Archives d’ Anthropologie criminelle». Lacassagne si attiene ad un profilo propriamente clinico, in cui sostiene l’importanza dell’ereditarietà e avanza l’ipotesi di una sifilide abbastanza precoce (in-
torno al 1879) partendo dallo studio dei disturbi oculari '5. Sarà proprio l’oftalmologo medico curante di Maupassant, dr. Landolt, a contrastare tale ipotesi, forte della parola del suo paziente '°: alcuni anni dopo la pubblicazione di una lettera di Maupassant dimostrerà la giustezza di tale ipotesi. Altra tesi sostenuta da Lacassagne è che niente lo scrittore ha composto in stato di aliené, delirant o inconscient. Ed infine la conclusione: «Maupassant n'etait
pas un idéaliste aigri par la maladie, mais un pessimiste dés le debut et par hérédité». L'articolo scritto da un medico di prestigio, autorevole nel mondo della medicina legale, dimostra come il caso Maupassant fosse diventato un incontro obbligato. L’unione di genialità, malattia e popolarità fece sì che la medicina si sentisse chiamata a far luce su questo caso in cui malattia e letteratura si mostravano strettamente unite. Raramente è dato cogliere negli studi medici una sinergia di interessi e metodi nello stesso giro di anni (grosso modo dal 1905 al 1930), che sono anni decisivi per lo sviluppo del- ‘ la scienza psichiatrica di matrice ottocentesca estranea e/o nemica della psicanalisi. Nel 1913 Lagriffe ritorna sempre sulle «Archives» sull’argomento della paura di Maupassant, e coglie l’occasione per testimoniare la propria appartenenza alla grande scuola di Lacassagne, la stessa di Hollier. Il percorso della paura nella vita dello scrittore sarebbe tutt'uno con quello del suo «senso critico» e cioè della sua capacità di padroneggiare e tener sotto controllo i fenomeni del suo male e della sua paura. Lagriffe è ammirato, quasi stupito, di fronte alla capacità del narratore di elaborare letteraria-
15 Su Alexandre Lacassagne e sulla sua figura di medico legale cfr. Pierre Darmon, Médecins et assassins à la Belle Epoque. La médicalisation du crime, Paris, Seuil, 1989, p. 89 sgg.; sui rapporti con Lombroso e il progressivo distacco, cfr. R. Huertas, Locura y degeneraciòn cit., p. 130 sgg. 16 Si veda la lettera (pubblicata sulle «Archives» cit., 1910, p. 389) in data 14 aprile 1904, del dr. Landolt, che aveva curato nel 1883 Maupassant per una malattia agli occhi. Il medico curante afferma che lo scrittore ha sempre negato di essere mai stato sifilitico, sapendo quanto fosse importante tale informazione. Qui è davvero un mistero. Come mai Maupassant negava tale fatto? Lo aveva «dimenticato»? Come non poteva non essergli venuto almeno il sospetto di fronte a tanti sintomi allarmanti? Cosa significava il suo ostinarsi a sottoporsi alle cure termali e alle famose docce, di cui parla una testimonianza raccolta da Lumbroso? E infine: quali sono state le cure a cui lo hanno sottoposto i vari medici consultati?
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mente nozioni ben precise, come quella di paura secondo la definizione di W. James (per cui alcuni fenomeni fisici precederebbero l’insorgere della paura). Sempre poco convinto della diagnosi della paralysie générale, Lagriffe si addentra in questioni che coinvolgono anche lo scrittore, oltre che il malato. Dichiara che i critici letterari hanno studiato il «réalisme puissant» dello scrittore, mentre gli psicologi s’interessano ai «morceaux étranges» in cui trapela «une sorte d’apparition momentanée»: ed è appunto «du fonds intime de l’écrivain» che affiorano «des lacunes fugitives du procédé». È la teorizzazione più esplicita di come e perché vengano privilegiati i racconti «fantastici», i quali sono sentiti come la parte malata di un corpo letterario sano (sia pure relativamente) e come tali particolarmente interessanti per i medici. Pur nel linguaggio incerto e inadeguato di tale prosa clinica viene affermato quel rapporto fra apparenza e segretezza che introduce alla lettura sintomatica, apre la via ad una logica che fa riferimento alla cosiddetta follia, clinicamente non ancora accertata. Non è la «follia» come metafora o suggestione letteraria tanto cara alla tradizione artistica, specie dopo la «rivoluzione» — o involuzione — romantica. Col positivismo e il naturalismo si tende a specificare ed allargare l’area semantica dei fenomeni psicopatologici inglobando, spesso senza le dovute mediazioni, anche l’attività estetica. Così si spiega perché il caso Maupassant, tanto clamoroso, sembra fatto apposta per confermare un tale tipo d’interesse. Mettendosi in tale ottica gli studiosi del male di Maupassant nutrivano l’ambizione di diagnosticare, partendo dai documenti letterari, quel male, e di dare, come effetto se-
condario, nuovi lumi per capire i testi stessi. In questa ricerca di verità clinica si fa strada, più o meno lucidamente, l’ipotesi che la psicopatologia possa valere come premessa ad eventuali indagini estetiche, legate ai processi psichici attraverso i quali si elaborano le «ideazioni» artistiche. Negli scritti d'impostazione clinico-psicologica, anche in quelli più duttili o meno rigidi, rimane il grande equivoco, mai definito o risolto, che tocca il motivo della consapevolezza o no dell’operare artistico, insomma del rapporto da parte dello scrittore con le proprie pulsioni e ossessioni, anche quando al lettore sembri che l’artista li padroneggi consapevolmente a fini «ricreativi». In tale ambito la tesi più diffusa è quella che tende a considerare le «opere della follia» come trascrizioni passive, quasi involontarie di stati di malattia mentale. Su questo punto l’osservazione psicologica e medica arriva ad un’impasse invalicabile. Partendo da una visione anatomica la psichiatria positivista si poneva alla ricerca di nuove verifiche tenendo fermi vecchi schemi epistemologici, che imprigionano il processo cognitivo in una situazione di staticità strutturale.
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8. Maupassant uno e due
Maupassant appare, ancora a tanti anni di distanza, come il campione, o la cavia, per tali discussioni, un modo per mettere alla prova alcuni canoni clinici e la loro contiguità con la psicologia estetica. Le Tesi di Medicina su Maupassant (che hanno proseguito per molto tempo), pur trattando ogni aspetto patologico convergono ad un certo momento sull’origine sifilitica. In un periodo più tardo, nel 1939, G. Del Pierre propone come tesi un Étude psycho-pathologique sur Guy de Maupassant, che accoglie con cautela la diagnosi di paralysie générale, o almeno l’estensione che se ne fece. Accetta l’origine sifilitica e parla di nevrosi di «tipo espansivo-depressivo» collegato a un genere particolare di «cyclothimie occasionale». Ritornano nel discorso sintomi ben noti, come le cefalee, ma nell’insieme
il ritratto del malato è più complesso del solito. Quello che cerca di appurare è il «carattere», la personalità psicopatologica con il suo «déséquilibre mental», l’«insociabilité» e l’«inadaptabilité» come tratti psichici di fondo (da cui deriverebbe il «mépris pour les femmes»). C’è poi un accenno al motivo ricorrente del «piège» collegato all’amore, che sarà al centro di un recente saggio !”. Passando ad analizzare il materiale letterario, il dottore nota il «dosage savant des effets» di Le Horla; afferma che gli scritti «fantastici» servono a liberare l’autore dalle allucinazioni, di cui sarebbe con-
sapevole. Per Del Pierre, inoltre, questo genere di scritti attraverserebbe «tutte le epoche della vita» dello scrittore. Dopo un accenno ad una forma sfumata di paranoia, si tenta di definire la «teinte un peu particulière» della scrittura: «Le fond est bon, le style est étudié, châtié, coulant, mais la
teinte est un peu morbide». Se questa Tesi mescola con una certa abilità e sensibilità culturale dati clinici con elementi non strettamente clinici, ambizioni più «altamente» culturali si trovano in un libro di dieci anni prima, sempre dell’ambito medico. Nel 1929 esce Sous le signe de la P. G. La folie de Guy de Maupassant e ne sono autori P. Voivenel e il già citato L. Lagriffe, entrambi cultori di Maupassant 8. È interessante notare come i due autori, pur muoven-
!? Cfr. Micheline Besnard-Coursodon, Étude thématique et structural de l'oeuvre de Maupassant. Le Piège, Paris, Nizet, 1973.
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Paul Voivenel si era occupato di Zola nei suoi studi intorno al problema della crea-
zione artistica in un’ottica medico-positivistica. Insieme a Antoine Rémond aveva pubblicato a Parigi da Alcan nel 1912 uno studio su Le génie littéraire, in cui si tratta anche di Mau-
passant. In un articolo, Du rôle de la maladie dans l'inspiration littéraire apparso in «Mercure
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dosi in un clima culturale molto cambiato, abbiano conservato una continuità con la loro formazione tardo-positivistica. In polemica con Lombroso, si rifiutano gli eccessi, le semplificazioni, gli esiti grotteschi di quella psicologia e psichiatria quantitativa e statistica. Rimane centrale il postulato che esista un rapporto fra malattia in senso lato e attività artistica. Certezza rafforzata dalla «scoperta» che fa risalire il male dello scrittore all’affezione sifilitica. Alla base c’è una nozione sfumata del rapporto fra malattia e sanità. «Notre santé est fille de la maladie» — si legge e questo serve a contrastare la teoria secondo cui «il genio è sempre sano», sottintendendo, senza dirlo esplicitamente, che la vecchia teoria di genio-e-follia ha un fondamento non del tutto invalidato. In effetti questo lavoro, articolato e ponderato, tende a modernizzare e sfumare le teorie cliniche sull’arte, rifiutando gli antichi toni di certezza scientifica (non mancano alcuni cenni autocritici). Significativo il fatto che i due medici siano costretti a confrontarsi con Freud.
Siamo in anni di resistenza e di ostilità, sia pure calante, al freudismo in Francia !°, mentre è ancora valida e autorevole la grande tradizione neuro-
logica e psichiatrica dei successori di Charcot. In questo studio di Freud si parla quasi contro voglia come di colui che ha dato un «impulse considerable à l’étude de l’inspiration» e si tende a definirlo in termini riduttivi, in-
dirizzati a chi ha sviluppato «de très anciennes verités contenues dans les plus vieux adages de l’humanité» — parole che vogliono suggerire una contrapposizione tra una diffusa saggezza tradizionale e quella d’impianto scientifico. Insomma dalla psicanalisi c’è poco da imparare; con lei la scienza non ha fatto passi in avanti, anzi «la plupart de dévots de la psychanalyse — si afferma trionfalmente — marchent au pas de l’oie devant nos
découverts» 20.
de France» il 16 luglio 1911, si legge: «L’écrivain de talent a besoin [...] de souffles divers qui lui viennent de sa névrose». !9 Sull’introduzione della psicanalisi in Francia, e sugli anni in cui va calando la precedente diffidenza (alla fine del ‘26 sarà fondata la Societè) cfr. Ilse e Robert Barande, Histoire
de la psychanalyse en France, Toulouse, Privat, 1975 e Jean-Pierre Mordier, Les débuts de la psychanalyse en France 1895-1926, Paris, Maspero, 1981. Importanti i documenti raccolti in Jacques Lamoulen, La médecine francaise et la psychanalyse de 1896 à 1926, una thèse di Parigi uscita nel 1966.
20 Nel giugno 1925, nel fascicolo dedicato al centenario di Charcot, della «Revue neurologique», si parla delle origini francesi della psicanalisi e della «dette personelle» di Freud nei confronti della Salpétriere. L'autore, Ministro per l’istruzione, Anatole De Monzie, parla di fitti rapporti fra arte e psichiatria e cita il caso di Maupassant. Singolare l’atteggiamento
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Voivenel e Lagriffe sono convinti di avere in mano i migliori strumenti per decifrare ogni situazione psicopatologica. Se nelle loro pagine il richiamo di fondo rimane di tipo clinico, si tratta tuttavia di un approccio articolato e privo della rigidità tipica di venti anni prima. Viene ricostruita, sulla base di confronti pazienti e multipli, una personalità patologica in cui gli elementi si contemperano e conferiscono alla diagnosi della paralysie générale (la P. G. del titolo) di origine luetica una fisionomia che sfuma in una gamma di manifestazioni psichiche molto variegata. Non si cerca più l’elemento scatenante come unificatore di tutti i fenomeni. Nè l’ereditarietà e tanto meno l’epilessia hanno un valore assoluto di marca veteropositivista; è un sommarsi di «malesseri», un alternarsi di depressioni e nevraste-
nie su uno sfondo ipocondriaco su cui agirà il lungo decorso della paralisi. Per cui diventa — si legge — «importante conoscere le modificazioni del carattere e la vita intellettuale e morale anteriore alla malattia». Il centro dello studio s’incentra sullo sviluppo di una personalità che subisce l’attacco di varie forme di «affezioni» psichiche, che si riflettono sulle opere. Ritorna il problema dei rapporti fra creatività artistica e malattia. E ritorna, sia pure sfumato, il vecchio giudizio di Lagriffe che contrappone il Maupassant precedente al ’90, osservatore senza immaginazione, a quello geniale in preda ormai al male. Con una formula meno drastica e diretta si dice che il primo Maupassant mancherebbe di mistero, non solo, ma sarebbe l’esempio di quanto sia importante una buona scuola letteraria: in questo caso quella di Flaubert, il cui insegnamento stilistico avrebbe avuto nientemeno la forza di contrastare e dilazionare l’opera della follia. Questo è il motivo per cui ancora una volta i due autori si esercitano sugli ultimi racconti. Sui quali ricadono i giudizi più impegnati, quelli tipici di medici-alienisti che ritengono di avere la migliore cultura e sensibilità per cogliere i meccanismi e i significati interni a queste novelle-documenti. Meno interessante in questa ottica appare Qui sait, dove è trascritto un «veritable délire simplement exposé», mentre Le Horla nasce dal
destino tragico dell’autore, «est un conte de paralytique général». Il presupposto è che Maupassant non può essersi inventato una situazione come questa; gli mancava l’immaginazione né aveva cultura medica. Per spiegare l’efficacia delle ultime pagine i due autori fanno ricorso al «subconscient»
dello psichiatra Baruk, antifreudiano integrale, che ancora nel 1967 nel suo La psychiatrie frangaise de Pinel à nos jours mette in rilievo quanto certe scoperte psichiatriche abbiano anticipato quelle di Freud e insieme interpreta la pansessualità del freudismo come un ritorno alla «naturalità» pagana (altro che ebraicità).
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(«les profondeurs du subconscient») nell’accezione di Ribot. In nome del-
la molteplicità dei metodi, o a causa di un eclettismo non so quanto consapevole, viene data anche la spiegazione fisiologica: nei malati di paralysie générale aumenta la forza della espressività artistica, perché — è detto — emerge un’emotività di norma dormiente, mentre il centro del linguaggio dimostra un’eccezionale capacità di espressione automatica.
9. Logica autoriale e opera «pazza» Più che per la conclusione questo saggio a quattro mani può interessare, anche per lettori fuori da ogni egemonia clinica, per il fatto che l’impegno medico si confonde e rafforza mescolandosi con gli stimoli derivati da una ricca letteratura critica e estetica (si citano e criticano, ad esempio, le interpretazioni di Bory e Normandy). Il profilo dello scrittore che ne esce è un utile riferimento per comprendere quell’approccio medico che la critica letteraria ha totalmente «dimenticato» o eliminato. Non è solo a causa della separazione delle due culture, tipica dell’umanesimo moderno e in specie di quello idealistico, che i letterati hanno praticato tale esclusione, ma anche perché questa somatizzazione della spiritualità artistica ha fortemente colpito una visione estetica e filosofica in cui l’elemento del «libero arbitrio» era molto ridimensionato. Che il «male» potesse condizionare la vita di un uomo e di un artista era quanto il volontarismo novecentesco non poteva accettare, da parte di chi si faceva un obbligo di affermare con sicurezza teorica che l’arte era legata al libero esplicarsi dello Spirito ed irridere ogni valutazione di impronta materialistica. E così fra sapere medico e sapere psicologico cadeva ogni possibilità di confronto e di collaborazione e si irrigidivano, con reciproco danno, due tipi di conoscenze e di impostazioni di metodo. Per tutti questi motivi si può davvero dire che è esistito un esemplare caso Maupassant a partire dai primi del Novecento. La sua malattia divenne per alcuni anni un emblema epocale, come quella di Nietzsche, e nessun storico della psichiatria poté esimersi dallo studiarla o almeno citarla. Pur nella piattezza e nella chiusura sistematica che caratterizzano molti di questi «studi», in un ambito spesso forzosamente classificatorio, il Maupassant dei lettori-medici ha sollecitato alcuni quesiti non insignificanti. Il nesso, ad esempio, fra malattia e pagina scritta ha suggerito una non arbitraria o corriva cronologia delle opere (in cui si rivendica l’eccezionale valore delle ultime novelle). Si è poi visto come vi siano concordanze significative sul piano delle indagini tematiche («peur», «piège») che uniscono i due ap232
procci e perfino la teoria di Lagriffe di un Maupassant senza immaginazione e senza misteri trova un pendant presso certa critica. Per non dire che il grande interesse dei medici per i racconti «fantastici» ha iniziato una tradizione esegetica tuttora molto frequentata. Ai medici in particolare si deve la precoce attenzione per l’aspetto drammatico, segretamente tragico, di un autore che veniva letto dai più come un realista gradevole e tonificante. Se il «male» vale come spia per penetrare nei recessi biografici, può valere anche come un inquietante modo d’interrogare i testi, di farli parlare al di là della lettera. Investigare sulla vita, considerare le opere come testimonianze non secondarie ai fini diagnostici ha comportato un’esigenza di scavo, una volontà di andare al di là delle apparenze e delle contraddizioni per trovare elementi di una espressività diversa con una sua articolazione. Arrivati a questo punto, i limiti dell’indagine clinica appaiono in tutt’evidenza. A chi s’impegni a penetrare nei testi al di sotto della retorica di superficie si pone il problema dei livelli di padroneggiamento dei piani narrativi da parte dell’autore. Lo studio della malattia mentale e dei suoi rapporti col testo suggerisce di mettere in dubbio la tradizionale egemonia della logica autoriale. Non solo di fronte a testi «pazzi» come Le Horla, ci si domanda fino a che punto si tratti della strategia di un autore consapevole. Questi medici sfiorano senza padroneggiarla quella concezione di analisi letteraria che, tenendo conto del rapporto fra espressione palese e tematiche nascoste, arriva a ipotizzare una forma di compromesso artistico di stampo non razionalistico. Con un uso anche contraddittorio dei loro presupposti strettamente clinici questi medici-critici hanno proposto, attraverso lo studio del «mal de Maupassant», qualche chiave di lettura per conoscere meglio la narrativa dell’autore. Questo è il compito non professionale che quei medici si sono dati, al di là della loro unilateralità d'impostazione. In tale complesso le-
game fra sicurezze cliniche e proposte psicologiche e critiche il metodo positivo ha dimostrato di saper fare buon uso, fuori da ogni fede scientistica, del suo programma di verifica concreta e di ostinata sperimentazione — contro ogni facile estetismo. Il caso del «povero Maupassant» divenne, in tale contesto, un simbolo di quella identificazione lanciata da Krafft-Ebing fra syphilisation e civilitation, sulla quale nascerà una storiografia metaforica di matrice decadente ben diversa da ogni interpretazione scientifica?!.Nel 20 un medico sviz-
2! In questa direzione si muovono le analisi di Patrick Wald Lasowski, Syphilis. Essai sur la littérature française du XIX siècle, Paris, Gallimard, 1982.
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zero, Charles Ladame, cercherà, fra mille difficoltà, di contrastare la dia-
gnosi della paralysie générale come origine del «mal» e si dedicherà ad elaborare un’analisi esclusivamente psicologica che investa unitariamente
la personalità e l’opera dello scrittore ??. Negli scritti di “critica medica” si dissolve il mito della sanità e si avanza, in anni di problematico ritorno all’io, una concezione dell’uomo e
dell’arte in cui il male clinico introduce a una più larga, misteriosa e minacciosa concezione della psiche e della sua terribile dinamica psicofisiologica. C’è da aggiungere, infine, che forse senza proporselo questi medici hanno perseguito il fine di mostrare la contiguità fra vita e arte ed hanno contribuito a modernizzare una concezione della critica letteraria, in cui i segni della malattia passano dal quadro clinico al piano di una lettura sintomatica, che «studi» nella scrittura le tracce del corpo.
22
Il saggio di Charles Ladame, Guy de Maupassant. (Étude de psychologie patholo-
gique), Edition de la «Revue Romande» s.d. (ma 1919 o ’20) ha un carattere decisamente me-
no clinico. Si atteggia a formule freudiane, ma è di fatto un esempio di psicologia applicata all’analisi letteraria.
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GIORGIO LONGO
DE AMICIS E L’ISOLA DELLA FOLLIA
È solo in questi ultimi anni che comincia a prender forma, al posto del «deamicisiano» e bonario autore di Cuore, l’imago più mossa e vibrante di
un’artista inquieto spesso attanagliato da dubbi, preso da una costante ricerca che lo porterà talvolta a sputar fuori «un senso di nausea e di rabbia per il suo lavoro». Per giungere in uno scritto di puro masochismo critico come Scoraggiamenti a una sistematica autodemolizione di tutti i principali stereotipi narrativo-linguistici a cui restava — e resta — attaccata la censura degli studiosi. Una ricerca intensa, dunque, travagliata, che si sovrappone al paradosso dello scrittore assillato dalla preoccupazione di uscire dal campo convenzionale della schematizzazione positivista e dell’allumacamento oratorio in voga, e nello stesso tempo tacciato altresì di convenzionalismo e faciloneria. In egual modo, a sollevare la pesante coltre di rapidi giudizi o la manualistica classificazione tematica — il benevolo patriottismo, il mi-
te socialismo stretto al vizio della compassione — schizzano fuori con energia stimoli e tensioni per nulla privi di ogni possibile contraddizione, ma capaci di andare al di là del pratico e tascabile impoverimento schematico. Così, ad esempio, la funzione ironica, che struttura tante delle migliori pagine deamicisiane, o una complessa ricerca stilistica, tutta giocata sull’autoconsapevolezza dell’equivoco di uno scrittore che, stando alle sue stesse parole, vuole «far sentire la cosa senza compromettersi colla parola». La cocciuta volontà di affermare un positivo primato dei sentimenti arriva in effetti a comporre nella sua visione umanitaria «una forma dello sguardo capace di cogliere le movenze emotive e i bisogni affettivi intesi come esigenze materiali altrettanto urgenti di altre (fame, sesso, denaro) esaltate dalla coeva antropologia positivista» '; in cui si innesta una prosa ostinatamente ‘facile’, che scaturisce dall’impegno di trovare un tono che si col-
! Carlo A. Madrignani, prefazione
a Edmondo De Amicis, Nel giardino della follia,
Pisa, ETS editrice, 1990, pp. 11-12.
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lochi tra la travagliata antilingua di un Verga e la fluenza oratoria di Carducci. È in questa posizione di silenziosa polemica — oltre che da una sensibilità maturata dolorosamente attraverso una serie di eventi familiari, quali il suicidio del figlio e la morbosa gelosia della moglie — che si legge il particolare interesse di De Amicis verso i casi clinici. Ne fanno fede due testi quali Ne/ giardino della follia e soprattutto Carmela, dove l’intento antilombrosiano ? e antinaturalista risulta evidente. Anche qui è un laico interesse umano, tra le cui maglie si intuisce a tratti un attonito stupore, che prevale sia sull’approccio empatico di tipo romantico che sulla cruda analisi determinista o razzista. Ciò che si fa largo è innanzitutto l’urgenza e l’evidenza del fenomeno e la necessità di descriverlo, di prendersene cura, ed anche la possibilità di cedere all’inquietudine, di calare talvolta lo sguardo. Siamo lontani insomma dalla consueta tec-
nica fotografica, dalla registrazione neutra, perfino indifferente o volutamente impietosa degli eventi; rimane semmai in questi testi, a livello strumentale, un impianto di tradizione positivista a strutturare formalmente la narrazione, senza però arrivare
a comprometterla con il comune vizio del-
la fisiologia, con la vocazione all’anamnesi frenologica. La visita del Giardino della follia, condotta attraverso e accanto lo sguardo ‘competente’ dello psichiatra, ricalca per esempio uno dei modelli più tipici di questo genere di letteratura. E l’intelaiatura semiologica di Carmela, per certi versi affine
alla costruzione di tanti «profili» resi familiari dall’uso verista del caso passionale/patologico, viene sviluppata secondo una logica determinista che viene però mano a mano diluita in esiti coloristici ed emozionali che curiosamente non diminuiscono la carica drammatica della novella tratta dalla raccolta Vita militare. La follia di Carmela, la bellissima fanciulla «impazzata» per amore deluso: illusa e abbandonata dall’ufficiale di guarnigione dell’isoletta «distante una settantina di miglia dalla Sicilia» 3, Carmela ‘fa’ l’innamorata dei vari tenenti che si avvicendano di tre mesi in tre mesi al comando del distaccamento e che se la ritrovano alle costole, appena sbarcati, come ordinanza, prerogativa del loro grado. Finché l’ultimo, contrariamente ai precedenti, invece di respingerla se ne innamora e decide di rinsavirla, mettendo in scena dopo una serie di altri tentativi, un vero e proprio psico-
? Sulla patologia femminile insiste per esempio il saggio La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, pubblicato da Cesare Lombroso a Torino nel 1893. * E. De Amicis, Carmela, Palermo, Sellerio, 1990, p. 9.
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dramma, grazie al quale la vicenda si risolve con una «fulminante» guarigione. Sin dalle prime battute il bozzetto dell’autore piemontese sembra essere fatalmente calamitato dalla potenza di un personaggio come la Lupa e dalla tentazione di un incontro con Verga, per così dire, sul suo stesso ter-
reno: Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano *. [...] una fanciulla co’ capelli rabbuffati e il vestito scomposto, alta, sottile e di forme bellissime; la quale gli teneva fisso in volto due grandi e vivi occhi neri,
e sorrideva *.
Cosi si presenta subito Carmela: bella soprattutto (perché la bellezza per fortuna può anche salvare), scomposta, ma in realtà di una scompostezza esteriore, degli abiti, dei capelli ecc.; infine spogliata e ripulita degli attributi barbaramente sensuali e ferini della ‘gnà Pina. Quest’erotomane siciliana, quest’invasata dalla «folie de l’amour chaste», per dirla con Esqui-
rol e gli alienisti, propone un caso ben raro, nel consueto e scabro panorama isolano, immerso in un sole accecante, in cui la malaria, la lava, lo sci-
rocco la fanno da padroni, dove i disperati personaggi di questa scena non fanno quasi che assecondare la brutalità dei gesti, la crudeltà e il furore di una terra che non lascia scampo, in cui la violenza e la sensualità degli uomini non sono che un effetto della bruciante sensualità e della violenza del paesaggio naturale. Ed
anche
in questo
Carmela
è fortunata;
la sua isola è davvero
un’‘isola’: L’aspetto del paesello è gentile e modesto, ma ridente; in ispecie per la larga piazza che ha nel centro, la quale, come in tutti i villaggi, è per quella popolazione ciò che è il cortile per gli inquilini d’una casa in città [...]. L’isola è tutta monti vulcanici, e grandi e folti boschi resinosi°.
4 G. Verga, Tutte le novelle, a cura di Carla Riccardi, Milano, Mondadori, 1982, p. 197. 5 Carmela cit., p. 13.
S Ivi, pp. 10-11.
257
La vita dei soldati in questo scoglio sperduto, poi è piacevolissima, specialmente per queste due ragioni che, tranne la guardia alla caserma e alle prigioni, qualche perlustrazione nell’interno dell’isola e un po’ d’esercizio di tanto in tanto non avevano nulla da fare, e il vino era a quattro soldi la bottiglia, e squisito ?.
I rapporti umani, per finire, sono improntati alla più schietta solidarietà e completano adeguatamente questo idilliaco quadro, in cui sempre l’uso generoso di vezzeggiativi stende tinte caramellate su quelle cupe della miseria, della diffidenza, proprie della narrativa coeva: La madre di Carmela abitava una casuccia posta ad un’estremità del paese, insieme a due o tre famigliuole di contadini, e campava stentatamente a cucire di bianco. Nei primi mesi della pazzia di sua figlia soleva ricevere di tratto in tratto qualche soccorso di danaro dalle famiglie più agiate del paese [...]*. Siamo piuttosto lontani, come si vede, dalla lacerante e inesausta lot-
ta per la sopravvivenza, dal clima di sospetto e di indifferenza che anima tante pagine dei veristi. Il lavoro deamicisiano non è dominato soltanto da preoccupazioni stilistiche e formali; anche in questo caso, più che a un modello fotografico della realtà, l’interesse dell’amore è rivolto a ricreare un corrispettivo letterario adeguato e formalmente armonioso. De Amicis non mira qui, come a prima vista potrebbe apparire, a una correzione sistematica del vero nei suoi aspetti sgradevoli, il suo intento è invece abbattere,
andar oltre il muro di un’uniformità senza vie di scampo, e mostrarne semmai una delle possibili varianti. Solo in questo l’isola di Carmela è un’isola folle; per il contrasto, la dissonanza che crea senza che la sua immagine
ne risulti meno concreta accanto all’orizzonte consueto. È un’‘isola’, come
pure ne esistono, dove esiste la possibilità di rapporti di non sopraffazione, in cui violenza e disperazione non sono dominati da norme fatali e incombenti; dove infine sono possibili vie di uscita. Un’isola diversa dunque, lon-
tana — e a questo forse è dovuta la sua peculiarità — dalla vera isola della follia, teatrum naturalis del delirio, da cui può essere esclusa ogni eventuale salvazione: Nell’ospedale, in Sicilia, c’è stata più di un anno e ce l’ha mantenuta il muni-
cipio a proprie spese; ma poi, visto che era tempo perso e denaro sprecato, l’han
4
Ivi, p. 9.
SMvisp20!
238
fatta ricondurre a casa. C'era poco 0 punto da sperare; son stati i primi a dirlo i medici di là. Qui almeno è libera come l’aria, poveretta; e si può ben concederglielo, perché, fuori che ai militari, non dà noia a nessuno?.
Oltre a questa sfiducia per l’istituzione manicomiale, intesa come luogo non connesso e chiuso dall’esterno, per una scienza inabile e priva di uno sguardo comprensivo («Basta; io credo che in questo caso i medici ci abbiano poco o punto da fare») '°, secondo lo scrittore la follia è pur sempre una parzialità, un tratto organico di divisione e come tale slegata o slegabile da fatali e lombrosiane leggi naturali. Distante dal solco epocale della razza, per l’autore ad esempio la caratterizzazione etnica non è affatto segno discriminatorio, incasellamento frenologico teoricamente determinato, ma semplicemente motivo di ricchezza, un sovrappiù di toni e di colori: Era bella davvero. Era uno stupendo modello di quella fiera e ardita bellezza delle donne siciliane, da cui l’amore, più che ispirato, è imposto, e il più delle
volte con un solo di quegli sguardi lunghi e intenti, che par che scrutino il più profondo dell’anima, e tolgono a chi è guardato altrettanto ardimento quanto n’esprimono. Aveva i capelli e gli occhi nerissimi, la fronte ampia e pensierosa, e i movimenti dei sopraccigli e dei labbri subitanei, tronchi pieni di forza e di vita".
Carmela può salvarsi dunque, oltre che per la presenza di un ambiente sociale non segregante e ostile, anche per i tratti specifici del suo ‘temperamento innato’, privo ad esempio di toni violenti e profondamente disgreganti, caratteristica questa che sottolinea l’aspetto di mera parzialità della malattia. Ad essa la protagonista del racconto — come del resto la maggior parte dei personaggi del Giardino della follia — non abdica mai completamente: sembra proprio questa una delle principali preoccupazioni dello scrittore, che in tutti i modi evita di focalizzare l’attenzione narra-
tiva sugli aspetti foschi e cupamente destabilizzanti del disturbo. Carmela, pur nella sua generale scompostezza, rimane disperatamente attaccata a se stessa, la sua vita continua; ha per compagni i fanciulli del paese, non smette le sue abitudini, canta, a volte va perfino in chiesa; anche se «aveva an-
ch’essa le sue ore di malinconia in cui non parlava e non rideva con nes-
9 Ivi, p. 16. O7
pA81E
1 Ivi, p. 15. 239
suno, nemmeno co” fanciulli; e soleva stare accovacciata come un cane di-
nanzi alla porta di casa colla testa ravvolta nel grembiale o il viso coperto col fazzoletto, non si scotendo, non si movendo per qualunque rumore le si facesse intorno e per quante volte la si chiamasse a nome, anche da sua madre. Ma ciò accadeva assai di rado; era quasi sempre allegra» "?. Disperatamente attaccata alla vita, Carmela, nella stessa maniera, ossessivamente e con caparbia ostinazione, a dispetto di tutto e di tutti, continua ad amare. In adesione a un postulato classico '5, l’erotomane come il
perverso nega che la causa del desiderio possa essere la mancanza dell’oggetto: laddove il perverso situa al suo posto l’oggetto-feticcio come causa visibile, colmante e suturante, l’erotomane proietta la certezza dell’amore oggettuale. ù Ma perché questo schema possa funzionare e possa completarsi organicamente, non è sufficiente che l’‘altro’ sia un altro qualunque. È solo al capo della guarnigione che la protagonista mira, ben capace com'è nella sua stramberia di riconoscerlo fra tutte le altre divise. Con gli altri soldati difatti non ha alcun rapporto, anzi sembra ignorarli, quasi non esistessero, nonostante le sfacciate galanterie e i tentativi di approccio: Passava dinanzi a loro o in mezzo a loro senza rispondere parola ai motti che le lanciavano, senza voltar la testa, senza guardar in faccia nessuno "‘.
Il suo bersaglio sono gli ufficiali,
o meglio l’ufficiale, è lui la meta
delle sue soffocanti lusinghe, del suo martellamento amoroso; è lui l’unico,
in effetti, a possedere in sé le caratteristiche capaci di accendere la folle passione della ragazza, il solo, alla fin dei conti, a porsi al di fuori da que-
sto circolo di sentimenti e di attrazioni. La sua sopraggiunta è legata essenzialmente al fatto che egli «venga a offrire non eroticamente ciò che per sé non chiede libidicamente» !, e in secondo luogo che possa essere immediatamente classificato come homme du bien en fonction, cioè che ‘funzioni’, per ritornare al postulato, per la salute del corpo, delle anime, o per l’ordine della città !, come nel nostro caso. È il significante assoluto, la cui
I
VTAD 29.
'*
Piera Aulagnier-Spairani, risposta a François Perrier, in Le désir et la perversion, Pa-
ris, Seuil, 1967, p. 157. 4 15
Carmela cit., p. 140. F. Perrier, L’erotomane, in Le désir et la perversion cit., p. 140.
16 Carmela cit., p. 135.
240
brillante purezza accende il delirio amoroso di Carmela. Proprio in quanto castrato da ogni desiderio erotico, in qualità di non desiderante, questo funzionario dell’altruismo può essere eletto al ruolo di amato. È dunque l’offerta di non desiderio che libera la donna da ciò che le impediva di accedere al suo mito della femminilità, al suo corpo di carne, assolutamente atto ad accendere negli uomini un bisogno nei confronti del quale la sua risposta non avrebbe potuto essere che l’impotenza: Qualcun altro, meno filantropo e più materiale, s'era domandato: — O che è
sempre necessario che una bella ragazza abbia la testa a segno? — e risposto di no, avea cercato di persuadere a Carmela che per fare l’amore la ragione è un sovrappiù; ma stranissimo a dirsi, aveva incontrato una resistenza inaspettata-
mente ostinata !?.
E questo pare essere il marchio, il segno distintivo di De Amicis. In questo affrancare, in quest’attirare verso una sfera ‘altra’, al di là di ogni dimensione strettamente patologica, manifestazioni e segnali palesi, ma con-
trassegnati e in qualche maniera salvati nei confronti di ogni abusata classificazione, da una specie di «extraterritoriale» profondamente e intensamente umano. Ma in questi momenti, animandosele il viso e lampeggiandole lo sguardo, essa non pareva pazza, ed era bellissima, e quel ritegno, quella ritrosia imprimendo ai movimenti della sua persona una certa compostezza e un certo garbo, dava uno straordinario risalto alla stupenda leggiadria delle sue forme. Insomma que’ pochi che la tentarono si persuasero che era un’impresa disperata. Mi fu detto che uno di questi, raccontando un giorno dei suoi vani tentativi al dottore esclamasse: — Donne colla virtù nel cervello, nella coscienza, nel cuore, in che diamine ella vuole, ne ho viste di molte; ma donne, come questa, che l’abbiano
nel sangue, nel sangue! le confesso che non ne ho viste mai "*.
È in questo tentativo di destrutturazione della passione amorosa nei suoi esiti patologici, in questo gioco a espurgarne tutti gli elementi materialmente sensuali — che paradossalmente invece la fanno combaciare con la sindrome erotomane —, in questo neutralizzare tutti gli aspetti grottescamente imbarazzanti della psicosi, tipici della letteratura naturalista, che la
!
Ivi, pp. 24-25.
18
Ivi\po25:
241
donna, simbolo ottocentesco della follia, riacquista qui, come nel caso delle alienate del Giardino, un tono di decenza, di decoro e mantiene intatta la
sua femminilità. Accanto alla folla di dannate di questo sciagurato girone, le pazze di De Amicis riescono comunque a rimanere fuori dal mare di buia disperazione in cui affogano fatalmente le loro fosche compagne, intravedendo pur sempre un barlume di speranza e una possibilità di salvazione. Ma è proprio in questo voler andare oltre, in questo voler gettare lo scandaglio più a fondo, al di là delle acquisizioni della morale — «Donne colla virtù nel cervello, nella coscienza, nel cuore ... ne ho viste» — oltre persino gli istinti, in
questa propensione a smussare modellando, che io scrittore crea e ci pone dinanzi a uno dei limiti estremi di questo tipo di casistica, che ha senz'altro pochissimi corrispettivi nel nostro Otto-Novecento e che solo nel maschile dongiovannismo di Brancati trova analiticamente una conferma". Ma non meno interessante risulta il nostro homme du bien, questo perfetto esempio di ‘cuore’; «[...] bianco, biondo e di gentile aspetto (dico cosi perché c’è il verso bell’e fatto)» 29, così bello e buono che le parentesi ironiche nulla riescono a togliere al suo altruismo e alla sua assoluta devozione. Questo pubblico ufficiale dell’abnegazione inoltre riesce a riunire in sé i ruoli di buon soldato, amico perfetto (nei confronti del medico-confesso-
re), naturalmente bel giovine, innamorato disinteressato, aggiungendo perfino una spiccata vocazione di terapeuta — che risulta la vera molla della vicenda: egli arriva per esempio a raccogliere, prima di fare alcun vero passo in questo senso, una documentazione specifica sull’argomento?!. Studia con la collaborazione dell’amico medico e dell’intero paese il caso di Carmela,
finendo col tracciarne un’anamnesi completa. Con zelo e pazienza prende poi a raccogliere tutta una serie di dati utili a ricostruire le abitudini, i modi, addirittura l’abbigliamento del primo amante, provando, assumendoli, di
far nascere una qualsiasi reazione nella giovane folle. Impara a suonare la chitarra e a cantare le canzoni che l’altro cantava, inizia a tirare di scherma col maresciallo dei carabinieri come quello usava fare; si fa confezionare dal sarto del paese degli abiti di tela di Russia e «con un gran cappello di paglia e una cravatta di colore azzurro» °° passeggia sulla riva del mare.
Si veda, a proposito dell’erotomania maschile e il dongiovannismo, la risposta di Guy Rosolato a Frangois Perrier, in Le désir et la perversion cit., p. 153.
2 Carmela cit., p. 11. 2MIVISPASIE MII pas2i
242
Spinge insomma questo processo di identificazione oltre ogni limite esigibile e attenendosi rigidamente, come nella semeiologia classica della sindrome, alla /angue d'amour, corrisponde quasi impassibilmente al terrorismo passionale — «e quale vera passione non è terrorista?» ?3 — di Carmela. Inevitabilmente infatti, nell’evoluzione del disturbo, presto o tardi, nono-
stante ogni possibile sforzo, si produce, dopo quella che Clérambault ?* chiama la fase della speranza, la fase del dispetto o della vendetta, che lo scrittore con particolare intuito febbrilmente sintetizza: — Oh caro, caro! — proruppe Carmela appena vide la faccia rischiarata del tenente, e allungando il braccio tentò di stringergli il mento tra l’indice e il pollice. Egli l’afferrò per un braccio che l’aveva afferrata, gli inchiodò la bocca sulla mano, gliela baciò e gliela morse. L'ufficiale si svincolò, si slanciò in casa e
chiuse la porta *.
Ma non passerà molto tempo che questa porta tornerà nuovamente ad aprirsi. Nel vasto repertorio degli amori morbosi è questo uno degli incontri più inquietanti e che sul piano letterario amplifica e dispiega tutto il suo interesse: quello che risulta dall’unione di un’isterica insoddisfatta e di un ossessivo compensato. Quest'ultimo, con la smania di porsi al servizio degli altri, riesce ad evitare soltanto la propria angoscia di castrazione, ovvero il proprio desiderio. Mentre la prima viceversa, capovolgendo la questione dell’offerta e della domanda, si arroga sull’altro svariati diritti, e in primo luogo quello di «non lasciarlo mai più in pace» °°, in quanto risvegliata da un simile atteggiamento alla sua insoddisfazione. Si chiude in questo modo il cerchio psicopatologico deamicisiano; evirati da ogni esigibile desiderio i suoi amanti in realtà lo inseguono freneticamente, coprendo i loro sforzi da una parte con una spessa coltre di giustificazioni e sacrificio, dall’altra con l’abbandono completo nella sindrome passionale. L’abdicazione del desiderio nei confronti di un sentimento quasi mistico di altruismo, lo scivolamento dell’uno nell’altro, il lo-
ro sovrapporsi, sembrano darci ragione di tanto filantropismo, dello sguardo compassionevole — troppe volte frettolosamente analizzato — che è tipico dello scrittore piemontese.
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F. Perrier, in Le désir et la perversion cit., pp. 140-141. Gaëtan Gatian de Clérambault, Oeuvre psychiatrique, Paris, P.U.F., I, 1942. Carmela cit., p. 28. EF. Perrier, in Le désir et la perversion cit., p. 135.
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È sempre la pietà, nel caso del nostro ufficiale, che legittima ogni suo atto; dandogli sempre modo, nonostante le tirate allusive del medico-alter
ego”, di trovare l’unica scappatoia proponibile di fronte all’incalzare della passione: — Zelo! Pietà! [...] Dimmi
la verità; tu sei innamorato di Carmela. / — Io?
esclamò vivamente l’ufficiale, e rimase immobile nell’atto di interrogare facendosi rosso fino alla radice dei capelli [...]. Innamorato!... mi fai ridere. Ne sento pietà di quella povera creatura, sì; una grande pietà; non so quel che darei
per vederla guarita; farei volentieri per la sua salute qualunque sacrifizio; godrei della nuova guarigione come se fosse una persona della mia famiglia... Questo è vero; ma da questo all’essere innamorato ci corre! °*
Ma a dispetto del tono obliquamente ironico proposto qui come altrove dall’autore — la stessa funzione è resa nel Giardino della follia in maniera ancor più evidente attraverso lo sguardo della dama dalle piume bianche —, e che in realtà sembra funzionare per lo più come valvola di sfogo dell’atmosfera generale, l’intero racconto non devia più di tanto dal registro abituale. Il discorso del protagonista è infatti quasi sempre improntato a un rigido e appassionato disinteresse, condito da punte di spirituale trasporto nei confronti del suo sentimento, nelle quali egli pare animato da intenti demiurgici e redentori. È insomma una «mistica dell’amor salvato» quella che viene proposta da questo irriducibile altruista, che neppure messo alle strette riesce ad ammettere e a confessare a se stesso l’evidenza dei suoi impulsi: Se potessi vederla piangere, sentirla ragionare, trovarla sempre pettinata e composta come tutte le ragazze; vederla tornare in chiesa e pregare, e arrossire come prima [...]. E se potessi dire che son io che l’ho mutata così, che l’ho fatta rivivere, che le ho ridato tutte le speranze della giovinezza [...] mi parrebbe di essere un dio, d’aver creato qualcosa anch’io, di possedere due anime e di vivere due vite, la mia e la sua sua; mi parrebbe mia quella creatura, crederei che il destino me l’avesse mandata, e la condurrei dinanzi a mia madre come se fos-
se un angelo... ?.
7 Non è superfluo, a proposito della questione degli alter-ego, ricordare che lo stesso De Amicis per alcuni anni fu ufficiale e come proprio da questa esperienza prese spunto per il suo Vita militare.
% Carmela cit., pp. 35-36. 29. Ivi p.40.
244
Una sorta di assenza di mobilità mentale marca insomma l’eroe deamicisiano: un uomo vergine di illusioni, incapace perfino di scorgerle, di subodorarle. Tra il ‘bene’ e il proprio interesse dimentica costantemente quest’ultimo; ne sconosce le contraddizioni e le menzogne; mentre per il bene — l’unico fine che è capace di riconoscere — è pronto a sacrificare se stesso. È in fondo questa fissità e monoliticità, ma anche questa freschezza che lo rende in qualche modo simpatico; in un panorama invaso da decine di disillusi, di uomini di lusso, senza qualità, falliti cronici o da personag-
gi dagli istinti ferini, la ricercata ingenuità e l’ultraromanticismo di De Amicis riescono quanto meno a dare una nota diversa, quel tono di candore a cui in gran parte fu dovuto il suo enorme successo tra il pubblico borghese ottocentesco. Il cieco e cocciuto idealismo dei suoi protagonisti rappresenta, nel rigido quadro di una visione umanitaria, l’unica risposta ‘positiva’” e svincolante in mezzo al cupo e nihilista realismo dell’epoca e all’imperversare di una scienza fredda e imperturbabile, ma in realtà im-
potente di fronte all’angoscia e al dolore.
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MONICA FARNETTI
«PATHOLOGIA AMORIS». ALCUNI CASI DI FOLLIA FEMMINILE NEL ROMANZO ITALIANO TRA OTTO E NOVECENTO
I.
Da che la ‘follia’ femminile (e il termine rimanga, di necessità, tra
apici stranianti |) si tematizza ed entra nella letteratura essa appare, a uno spoglio dei casi, principalmente come disturbo psichico legato ad una sofferenza d’amore. Un dato, questo, che non si intende discutere qui nella sua essenza:
sia per la complessità, insoluta ancora, della natura dei disturbi
della psiche e della nozione stessa di personalità, della serie delle psicosi e del rapporto tra ‘follia’ e nevrosi ?, come pure della personalità femminile in rapporto al problema clinico dell’isteria 0, se si vuole, a quello storico della stregoneria*; sia, anche, perché l’importanza del fattore sessuale nell’eziologia delle nevrosi è un elemento che, nell’esplorazione della psi-
! Si introduca la riflessione sulla base del fondamentale Michel Foucault, Storia della follia, Milano, Rizzoli, 1963, particolarmente p. 10. ? Problemi di cui, in rapporto alla letteratura, si hanno ampi riscontri nel presente volume, cui prelude il precedente, sempre curato da Anna Dolfi, AA.VV., Malinconia, malattia malinconica e letteratura moderna, Roma, Bulzoni, 1990. Per un ulteriore riscontro, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra la cosiddetta ‘follia’ e l’aristotelica melanchonia, il platonico furor, la medievale acaedia e la moderna «fisiologia delle passioni», si può vedere altresì AA.VV., La malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento, a cura di Attilio Brilli, Ur-
bino, Quattro Venti, 1982. Ma la discussione potrebbe muovere, più radicalmente, da quel «malessere dell’espressività» indicato da Antonella Fabbrini nell’/ntroduzione al volume di atti di convegno (Firenze, 5-26 novembre 1987), // viaggio del narrare, a cura di Massimo Saltafuso, Firenze, La Giuntina, 1989, [pp. 9-13], p. 13. Si coglie qui l’occasione per ringraziare l’autrice del suo prezioso contributo all’indagine che presiede al presente intervento. 3 Sul rapporto isteria-letteratura avvia la discussione Annamaria Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e Novecento, Bologna, Patron, 1982, particolarmente al cap. IV: La donna «fin-de-siècle» tra isteria e misticismo. Successivamente si può vedere quindi Thomas S. Szasz, Teologia, stregoneria e isterismo, in Il mito della malattia mentale, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 296-292. Sulle tesi di Szasz discute peraltro, movimentando all’estremo la discussione tra ideologia clinica tradizionale e competente punto di vista femminista, Phyllis Chesler, Le donne e la pazzia, Torino, Einaudi,
19772
247
cologia femminile, è venuto oramai inequivocabilmente precisandosi *, e l’assioma che «si è malati quando non si è amati»? appare al contempo terribilmente chiaro e scontato anche alla luce delle più impregiudicate ricerche sulle vicissitudini della cosiddetta «libido». Ciò che in questa sede preme piuttosto di rilevare e di porre in modo problematico è una questione relativa ai modi della rappresentazione, in particolare nel romanzo
italiano tra Otto e Novecento, di tale invalsa in-
terpretazione della ‘pazza’ in quanto ‘pazza per amore”: la supinità con cui, a giudicare dalle testimonianze a disposizione, si è accettato tale modello e lo si è iterato senza rilevanti elaborazioni, senza cioè che per lungo tempo si sia tentata anche al femminile una rappresentazione della ‘follia’ legata ad una più articolata idea dell’esperienza personale, a una dinamica meno fissa e spoglia del rapporto tra scompenso amoroso e patologia, a un percorso, infine, della libido femminile in grado di spostarsi, come accade al
maschile e come si suol dire, dall’«oggetto sessuato» ad altri tipi di oggetto, primo fra tutti quello del sapere °. Se la storia anche letteraria della ‘follia’ porta infatti a riflettere sulla pluralità delle sue varianti, declinazioni, «voci», ed a comprendere essenzialmente come essa si definisca in quanto risposta alla delusione subita dal soggetto nel contesto della sua più varia esperienza (ovvero si costituisca come il portato o la fonte di un’immaginazione, una virtù, un destino superiori)*, colpisce infatti come nella «mitografia» del personaggio femminile la ‘pazzia’ — ciò che vale con particolare evidenza nella storia del romanzo borghese — sia data perlopiù come la risoluzione di destini di donne infelici nel matrimonio o nella passione, e come quello «straordinario avvilimento del sentimento di sé» che connota gli stati di ‘follia’ sia indotto per la donna essenzialmente dalla perdita dell’oggetto d’amore?.
4. Valgano indicativamente almeno i freudiani Scritti sulla sessualità femminile, leggibili in traduzione italiana nell’autonoma edizione Torino, Boringhieri, 1976. °. Cfr. Julia Kristeva, Storie d'amore, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 44.
© Cfr.ivi, p. 80. 7 Cfr. Bridget Gellert Lyons, Voices of Melancholy, London, Routledge, 1985, p. 44. * Cfr. l’ormai classico Karl Jaspers, Genio efollia, Milano, Rusconi, 1990. 9 Sui temi dell’«eros malinconico» e dell’«oggetto perduto» si veda il riscontro che ne dà, nel contesto della poesia occidentale duecentesca e su base lacaniana, Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977. Sullo stesso contesto poetico esercita, ma con differente esito interpretativo, i suoi strumenti lacaniani, Eugénie Lemoine, Nodi nel labirinto, in AA.VV. I labirinti della vita amorosa. Atti del III
248
Con la didascalia «pathologia amoris» si vuole indicare pertanto la classe cui per la più parte afferiscono, fin dove la memoria soccorre, i casi letterari di degenerazione e tracollo di un equilibrio muliebre, dove l’oscillante limite normalità/alienazione appare infranto sulla traccia di una passione amorosa malata o ‘pazza’. Siano a confermarlo, per cominciare, nella letteratura cronachistica ad esempio le pagine strazianti che isolano, nel Rinascimento pullulante di rimatori all'improvviso, fools, giullari-cantastorie-cantimpanca-buffoni-giocolieri-jongleurs °, quella rara figura femminile conosciuta come «Caterina matta», «pietoso trastullo di corte» al servizio di Lucrezia Borgia e quindi di Isabella d’Este: «povera giullaressa mentecatta», testualmente «pazza» e «ladra mercuriale» straordinariamente
affezionata ad Isabella, di essa si rende noto che «[...] gran spasso è veramente et mai mai lassa Madonna un puncto, sempre o li vole stare accanto o vederla» "!; di essa peraltro si conoscono le scandalose e inquietanti stranezze, tutte ruotanti attorno al tema dell’eros e della solitudine amorosa, e
le pietose, teatrali sconcezze che aprono all’interpretazione della ‘follia’ come risposta a uno scompenso di tipo sessuale e affettivo. Siano, sulla traccia mitografica del Battaglia, le «isteriche» che fanno ingresso, fra schiere di «ipocondriaci, dementi, introversi, maniaci, disso-
ciati, irresponsabili» !?, nella novellistica del Cinquecento, per il tramite di quel «copioso dipintore di donne» così incline peraltro alla cronaca quale fu il Bandello: il cui «mito della muliebrità, o della donna terribile, o della
donna profondamente amorosa» !* già rende evidente come nella prospettiva del personaggio femminile la «frattura tra l’uomo e la vita», assunta a
chiave di lettera della sua prosa *, debba intendersi propriamente come «frattura» fra la donna e l’amore. O siano ancora tutte le rappresentazioni, sempre sul filo tra letteratu-
ra e cronaca, di monacazione forzata, dove la ‘follia’ femminile, predi-
convegno canalisi», 10 lati, Dai
del campo freudiano in Italia, Bologna, 5-6 maggio 1990, supplemento a «La PsiTrecase (Na), tipografia «La Moderna Stampa», 1991, pp. 10-25. Su cui si veda, ad introduzione del legame tra giullarismo e melanconia, Gianni Cegiganti buffoni alla coscienza infelice, in Finzioni occidentali, Torino, Einaudi,
1986, pp. 51-101. !!
Cfr. Giulio Bertoni, L’«Orlando furioso» e la rinascenza a Ferrara, Modena, Or-
landini, 1919, pp. 245 sgg. 12 Cfr. Salvatore Battaglia, L'ingresso dell’irrazionale nelle novelle di Matteo Ban-
dello, in Mitografia del personaggio, Napoli, Liguori, 1967 [pp. 121-128], p. 125. 13 Cfr. Luigi Russo, Matteo Bandello novellatore «cortegiano», introduzione a Matteo Bandello, Novelle, Milano, Rizzoli, 1990, [pp. 5-29], pp. 24-25. !4 Cfr. S. Battaglia, Mitografia del personaggio cit., p. 126.
249
sposta o meno da malinconie, fragilità e tetraggini congenite, esplode e si tematizza nello spazio claustrale, e trova nei secoli della storia letteraria, in
Italia come altrove, la forza di costituirsi quale intreccio-modello !: al quale non per caso si accompagna e sovrappone l’altro, tra drammatico e melodrammatico, delle cosiddette «nozze in garbuglio» , ad indicare l’alter-
nativa inconciliata e tragica tra amore per l’uomo e amore per Dio, e la tendenza a far cadere sulla seconda scelta, quando forzata, l’ipoteca della ‘folDane Non appaiono dunque a prima vista né frequenti né vistose aperture, nel sistema rivisitato oggi dalla psicanalisi: psicologia femminile-perdita dell’oggetto erotico-patologia ' (ma, nella nomenclatura romanzesca, personaggio femminile-dramma amoroso-‘follia’), in direzione di altre componenti che ne amplifichino ed articolino la chiusa corrispondenza, che forniscano una latitudine più complessa e sfumata al rigido rettilineo conducente da un amore infelice a un caso di ‘pazzia’. Non «puri folli» né «pazzi di Dio», non geni ‘sregolati’ né Arcani Maggiori nella tradizione femminile, a riscattare nella prospettiva del mito, dell’estasi religiosa, della creazione artistica o della cultura magica !° casi pietosi di infelicità sessuale. E se solo molto di recente il pensiero contemporaneo (un pensiero, si badi, anche femminile) ha preso a muoversi
attorno a una nozione com-
plessa del «dolore della mente» che omologa, in qualche prospettiva, dolore maschile e dolore femminile, e che neutralizza infine, in relazione almeno
!5
Cfr. su ciò Marina Zancan, La donna, in Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor
Rosa, vol. V: Le Questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 765-827, passim. !6 Il riferimento è alla conferenza di Carlo Ossola, Mozart e Manzoni, tenuta all’Università di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, il 17 marzo 1992 (in attesa di pubblicazione).
!" Linea tematica (amore proibito o deluso-monacazione-‘follia’) che verrà indagata nel seguito di queste pagine. !8
Cfr. J. Kristeva, Sole nero. Depressione e melanconia, Milano, Feltrinelli, 1988, pp.
74 sgg., dove il processo della creazione artistica in relazione all’affezione melanconica è seguito nell’opera Holbein, Nerval, Dostoevskij e, fatto che qui interessa, Marguerite Duras. Sulla Duras e le sue immagini di ‘malinconia’ femminile si consulti peraltro il recente AA. VV., Duras mon amour. Saggi italiani su Marguerite Duras, a cura di Edda Melon ed Ermanno Pea, Milano, Marcos y Marcos, 1992.
!° I riferimenti sono rispettivamente al mito di Parsifal, alla figura e all’opera di Jacopone da Todi, alla tradizione scientifica degli studi sull’endiadi genio-sregolatezza (per cui si rivada al citato K. Jaspers, Genio e follia ), e alla figura del «Matto» nei tarocchi o Arcani Maggiori, di cui varrà la pena rammentare l’utilizzo di Italo Calvino ne // castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973, soprattutto nella Storia dell’ Orlando pazzo per amore e nelle Tre storie di follia e distruzione (rispettivamente pp. 29-34 e 113-120).
250
alla comprensione del processo della creazione artistica, le componenti ‘pregiudiziali’ delle scoperte freudiane sulla sessualità ?°, di contro per molti secoli la letteratura, sia edonistica sia scientifica, ha tenuto reclusa la ‘paz-
za’ nel recinto esclusivo della ‘follia per amore”, ed ha tracciato per lei la linea, salda ancorché turbata e diversamente esplicita, della corrispondenza tra «dolore della mente» e «malinconia erotica» ovvero «mal d’amore» ?!. Lo stesso teatro elisabettiano, così frequentato da argutissimi f00/s, grandi melanconici, antonomastici «malcontenti» e abili simulatori («le fis-
se eppur cangianti [...] figure della pazzia»), ed in cui il tema rivela una funzionalità «senza precedenti» in quanto «metafora privilegiata» della rappresentazione di un’epoca e della sua specifica ‘crisi della ragione’ ??, lo stesso teatro elisabettiano dunque non esprime, in tanta copia di «figure», se non pochi ritratti femminili, dei quali l’«ebefrenica» Ofelia, impazzita «sotto il duplice trauma della ripulsa di Hamlet e della morte del padre», riassume e rappresenta ogni altro caso clinico femminile, «prevalentemente accordat[o] sulla chiave amorosa» *.
Si tratta peraltro di rammentare, quale dato in questo contesto non tendenzioso ma tecnicamente rilevante, come anche la letteratura della
20 Sia indicativa al riguardo l’opera di J. Kristeva, Sole nero cit., passim, con gli indicati casi di ficiniana «melanconia generosa», e di Luce Irigaray, della quale varrà la pena di rammentare almeno Speculum. L'altra donna, Milano, Feltrinelli, 1977*. Si veda quindi in merito il recente volume AA. VV., Psicoanalisi al femminile, a cura di Silvia Vegetti Finzi,
Bari, Laterza, 1992, con particolare riguardo al contributo della curatrice, Le isteriche o la parola corporea, pp. 3-50. 2! Cfr. il recentemente tradotto Jacques Ferrand, Malinconia erotica. Trattato sul mal d'amore, a cura di Massimo Ciavolella, Venezia, Marsilio, 1991, trattato seicentesco (1610,
poi 1623) sull’eponima «malinconia erotica» ovvero «mal d’amore», indicato anche come «erotomania» e «follia d'amore», dove sebbene un’unica complessione modellizzi i casi di «male» maschile e femminile, risalendo alla definizione del furor platonico e neoplatonico, un capitolo più specifico è dedicato all’isteria femminile, e sposta sensibilmente sul versante muliebre il problema del mal d’amore e della sua medicalizzazione. Si veda peraltro la discussione sulla sindrome erotomaniacale, prevalentemente femminile, condotta da Paola Francesconi, La forma erotomaniacale dell’amore, in AA.VV., I labirinti della vita nervosa cit., pp. 26-31. 2 Cfr. Vanna Gentili, Le figure della pazzia nel teatro elisabettiano, Lecce, Milella, 1969, pp. 20 sgg. La citazione tra parentesi è ivi, p. 218. 23 Ivi, pp. 96 e 126. Per un personaggio della grandezza di Lady Macbeth, che in questo senso fa — ma solo in parte — eccezione (data la discussa inversione di ruoli maschile/femminile che investe la coppia Macbeth-Lady Macbeth nello svolgersi della tragedia), cfr. ivi, pp. 139-140.
291
‘pazza’ (nonché degli studi sulla psiche che ad essa presiedono) sia una letteratura prodotta, tolte poche e perlopiù emule eccezioni, da un punto di vista maschile: punto di vista alla cui indiscussa esclusività facilmente converrà di attribuire parte almeno della responsabilità di tale scarsa ed invariata rappresentazione del tema, e del quale mette conto di valutare essenzialmente, fatta astrazione da ogni altra problematica, il funzionamento al livello della scrittura letteraria. Di tale punto di vista si rileva, in eloquente diacronia e con particolare attenzione alla forma romanzo tra Otto e Novecento, una fondamentale e comprensibile tendenza: quella di convogliare nel ritratto della ‘pazza’, assieme agli elementi del turbamento indotto dalla presenza della patologia, gli elementi del più generale processo di fascinazione esercitato dall’essere sconosciuto, diverso, altro da sé, ed a confondere quindi, entro un unico
assorbente schema di rapporto «dentro/fuori» °*, gli estremi di due differenti e sovrapposte reazioni al ‘diverso’. La «sempre enigmatica» malattia dell’isteria, come lo stesso Freud la postilla, ed il topos dell’insidioso mistero del fascino femminile tendono a fondersi pertanto in un unico canone descrittivo, dove le tare nevropatiche si dissimulano facilmente fra i carat-
teri di una comunque e sempre travolgente alterità. Nella considerazione dei romanzi italiani qui presi a campione, occorrerà dunque tenere presente, quale elemento pregresso e inamovibile, tale tendenza ad assimilare diversità ‘naturale’ e diversità ‘patologica’, mentre al contempo sarà dato di osservare le oscillazioni (ché di trasformazione a lungo non sarà dato, come si vedrà, di parlare) del modello indicato di
‘pazzia’ femminile, sufficientemente fisso sullo sfondo pur cangiante della trascorrente mentalità culturale. Se infatti in questo stesso arco di tempo (i decenni che conducono dalla stagione romantica fin oltre le soglie del nuovo secolo) continuano a riorganizzarsi le acquisizioni di secoli di storia, interpretazione e studio
dell’idea della donna °°, e parallelamente dell’idea di ‘pazzia’ ?’; se si av-
# Si veda la discussione condotta sul tema della pazzia (e del viaggio nell’aldilà) secondo i dettami della topologia lotmaniana da Cesare Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’ aldilà, Torino, Einaudi, 1990. # Il sintagma è ricorrente in tutta la letteratura freudiana e post-freudiana. Ne fa testo anche il citato AA.VV., / labirinti della vita amorosa. 2°. Per cui valga sommariamente il rinvio al citato intervento di M. Zancan, La donna. 27 Su cui cfr., da un punto di vista polemico quanto stimolante, il citato Th. S. Szasz, 11 mito della malattia mentale.
252
vicendano scuole, correnti e tendenze che su differenti basi hanno ragione di versarsi nella poetica del «documento umano», e ciascuna di esse appronta il proprio contributo ad una definizione di conturbante e conturbata femminilità; se, infine, lentamente fa il suo ingresso, nella letteratura sulla ‘pazza’, il punto di vista femminile, illuminando forse qualche aspetto tenuto precedentemente nell’ombra e aprendo al problema nuove prospettive: se tutto questo accade, dunque, occorre verificare d’altro canto che tutto questo non appare ancora sufficiente ad intaccare la forza del modello invalso, della ‘pazza’ come creatura eletta a portatrice di pathologia amoris, e che nella prospettiva letteraria tale dato appare saliente al punto da orientare fondamentalmente l’indagine. Il topos della ‘pazza’, in un’estensione cronologica che si è voluta compresa tra l’estremo tarchettiano di Fosca (1869) e quello tozziano di Adele (1909-1911), si impone infatti all’attenzione per i caratteri di una sua eccezionale fissità, per una sua complessiva tendenza a mantenersi coerente e identico pur trascorrendo da romanzo a romanzo, da decennio a decennio e da scuola a scuola: rivelando, anzi, un suo potere coagulante e di raccordo tra linee di poetica di per se stesse e del resto fortemente divaricate. Nel topos della ‘pazza’ ovvero ‘pazza per amore’, nel cui inquietante cono d’ombra debordano i chiaroscuri per sé misteriosi della femminilità, convergono infatti, e secondo stilemi non dissimili, gli impegni ritrattistici e di ‘umana documentazione” di veristi (Capuana, Verga), scapigliati (Tarchetti, Boito, Faldella), ‘spritualisti’ (Fogazzaro) e altri ‘post-manzoniani’
(De Marchi), colmando
fittamente la
scena di secondo Ottocento fino ad arrivare, alle soglie del nuovo secolo e oltre, ad indicare qualche linea di continuità nella direzione del romanzo
dannunziano o, all’opposto, di quello d’appendice (qui rappresentata da Carolina Invernizio), oltre i quali vi è solo ormai, accanto all’esito irrimediabilmente solitario di un Calandra, contigua e decisiva la prova d’altro segno di un esordiente Tozzi. II. Supporto indispensabile alla ricerca sul ‘vero’, ii «documento umano» di derobertiana ascendenza sembra evidenziarsi dunque come il tramite per il quale in primo luogo gli scrittori veristi, nella fattispecie Verga e Capuana, giungono ad accostare il tema in oggetto. Non senza oscillazioni per il Capuana #, cui un contrastato rapporto con tale poetica non
#
Cfr. E. Ghidetti, Introduzione a Luigi Capuana, Racconti, a cura di Enrico Ghidetti,
Roma, Salerno, 1973, I, pp. IX-LVI, passim.
255
vietò di coltivare il soggetto variegato della femminilità (in quanto, sulla traccia dell'amato Michelet, «soggetto vivente trascurato dalla storia» 22) ze con una fedeltà e una ‘dedizione’ (anch’essa, forse, micheletiana) tali da
farlo salire a direttrice tematica della sua pur vasta e lunga produzione. Appresa da Michelet, ma non meno da Stendhal o da Charcot 30. «la
componente fatale e inalterabile dell'amore» *! come chiave dell’«enigma femminile», ed acquisito di conseguenza in qualche misura l’assioma della propria appartenenza al secolo della «malattia della matrice» (in quanto secolo colpito, come lo vide Michelet, fondamentalmente in quel «pol[o] della vita nervosa» quale è l’amore), Capuana sembra non esente dalla ten-
tazione di assumere a sua volta la donna quale possibile figura di interpretazione di un’epoca: a giudicare almeno dalla frequenza con cui i personaggi femminili si presentano alla ribalta della sua narrativa, progressivamente complessi, drammatici ed esemplarmente patologici, e via via affrancati dalla dimensione innocua della «figurina» novellistica per avviarsi a un destino di protagoniste di romanzo. E si avranno pertanto, in poco più di un decennio, la tormentata (anche in quanto a stesura *?) Giacinta (1879-1889), che risolve in accessi di disordine mentale («vera follia», chiosa l’autore 3), pulsione di morte e suicidio il trauma infantile di una violenza sessuale; quindi Giustina Rosati,
protagonista della novella eponima della raccolta Ribrezzo (1885) (ma condensazione di «tutta la materia di un romanzo», impegnata a non sacrificare «nulla all’analisi, all’efficacia rappresentativa, all’effetto drammatico» 34),
neila cui vicenda di sposa ingiustamente ripudiata si risolvono, somatizzate in una meningite fulminante, le discordanti componenti della sua persona: frigidità innanzitutto (il «ribrezzo», avvertito «per natura», per ogni corpo d’uomo e «trasporto di passione» 5°) e, come suo corrispettivo, una patologica indolenza («[...] pigra, indolente, amava la quiete della famiglia, da
2
Cfr. ivi, p. XXV, e per un riscontro diretto sui testi di Michelet, del quale sono andate
traducendosi in italiano tutte le opere fondamentali, almeno Jules Michelet, L'amore, Rizzoli, 1987.
Milano,
30 Cfr. E. Ghidetti, Introduzione cit., pp. XXV e L. ?!
Cfr. J. Michelet, L'amore cit., p. 61 (e, per la citazione riportata più sotto, p. 55).
32
Si consulti su ciò Carlo Alberto Madrignani, Capuana e il naturalismo, Bari, La-
terza, 1970, pp. 288 sgg.
3
Cfr. Luigi Capuana, Giacinta, Milano, Mondadori, 1989?, p. 210.
3.
Cfr. Carlo Di Blasi, Luigi Capuana. Vita, amicizie, relazioni letterarie, Mineo, Bi-
blioteca Capuana, 1954, riportato in nota da Ghidetti (cfr. L. Capuana, Ribrezzo, in Racconti
cit., I [pp. 427-474], p. 427). 35 Ivi, p. 436.
254
modesta borghesina...» 39), quindi un ‘perduto’ talento musicale (e romantico, e wagneriano) e quindi, sostanziale sebbene appena accennato, il disamore di sé («la convinzione della propria bruttezza» #’); infine Eugenia, protagonista di Profumo (1890), il cui lieto fine ed i cui pedanti, capuaniani clichés d’intreccio e d’impianto * non diminuiscono l’interesse di un caso d’«isteria» che ha per sintomo l’emanazione di un intenso profumo di zagara (ovvero il nuziale fiore d’arancio...): caso su cui, non senza il sostegno di un’accurata documentazione scientifica *, la sensibilità dell’autore per i «disturbi femminili» e la «grande delicatezza dell’apparecchio nervoso» muliebre appare quantomai sollecitata ‘. A tali eroine solitarie ed esemplari fa riscontro tuttavia, lungo l’inte-
ro arco della narrativa di Capuana, il grande coro femminile in cui convergono, con tendenza centripeta*, figure appena schizzate o più approfondite, drammatiche,
tragiche, mediatrici
in pari misura del vero e
dell’occulto; «paesane», «appassionate», cuori, «coscienze» e «profili» di donne collaborano infine ad indicare per l’autore un’unità di percorso che meriterebbe altre indagini, allo scopo di illuminare per intero il suo fecondo e profondo turbamento del femminile. Comprensibilmente analogo, per quel che riguarda almeno le più ampie coordinate del programma naturalistico entro il quale è calato lo studio del soggetto e delle sue patologie, il percorso verghiano “: salvo osservare come la sensibilità del catanese per l’enigma femminile, testimoniata nel numero
36 Ivi, p. 438. Ma si legga anche a p. 435: «[...] le giornate serene, il dolce cullarsi di tutto il corpo nella lieta pace domestica, la bella indifferenza, la graziosa ironia per le false agitazioni del cuore, l’ingenuo egoismo d’indolente felice [...]».
37 Ivi, p. 435. | 38 Si veda ad esempio la figura del medico, tramite la quale entrano nella narrazione gli elementi del dibattito ‘positivo’ sulla malattia, e sulla quale discute A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo cit., pp. 43 sgg. Si vedano peraltro le pagine dedicate a qusti aspetti della narrazione capuaniana da chi scrive in // giuoco del maligno. Il racconto fantastico nelle letteratura italiana tra Otto e Novecento, Firenze, Vallecchi, 1988, pp. 29 sgg.
#9 Cfr. A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo cit., p. 255. 4° Le citazioni sono tratte da L. Capuana, Profumo, Milano, Curcio, 1977, alle pp. 68 e 63. Ma si legga anche, a p. 204, la diagnosi di uno dei medici, costruita con sintagmi quali «la fantasia eccitata», «il pensiero insistente», «qualcosa che lavora sotto sotto e mette i ner-
vi in rivoluzione»; o ancora, a p. 63, il luogo tipicamente capuaniano: «[...] con le malattie nervose, non si sa mai. La scienza è bambina intorno ad esse; va a tastoni».
4!
Il rimando è ancora all’ottima e già citata Introduzione di Ghidetti.
4 Per cui si veda il classico Giacomo Debenedetti, Verga e il naturalismo, Milano, Garzanti, 1976, soprattutto alle pp. 291-361, con il complemento delle osservazioni contenute in Gian Paolo Biasin, Malattie letterarie, Milano, Bompiani, 1976, p. 17.
255
e nella grandezza delle memorabili figure di donna disseminate nell’opera,
soltanto una volta si appunti ad un caso di vero e proprio squilibrio mentale, quello della «capinera» prigioniera della gabbia claustrale la cui inibita passione si converte gradatamente in delirio, allucinazioni, ‘follia’. Drammatizzato in eccesso, e condotto «al limite del satanismo» “*, di
ricezione difficile per la sua scrittura impura in cui il sacro e il profano entrano in increscioso contatto, il caso di Maria (Storia di una capinera, 1870) ha fatto lungamente riflettere la critica, non senza contrasti d’opinione, qua-
le peculiare stadio del percorso verghiano di «metamorfosi della lupa» ti, ovvero di comprensione e di resa del personaggio femminile: discussione al termine della quale il dato che si deposita più pregnante e persuasivo è quello della sostanziale riuscita della prova dell’autore, che fa esplodere dallo «scarno mannello di lettere» “ della protagonista, e ve la rinnova, la forza tragica e sperimentata del topos della monacazione forzata. La suggestione del tema, condotto da Verga alle altezze dibattute ma indiscutibilmente inquietanti del conclusivo delirio, e la sua trattazione nel-
la forma analitica, conseguente e stringente del romanzo epistolare ad unico mittente, meriterebbero rinnovate e qui impossibili riflessioni. Nell’alveo di una tradizione che continua, soprattutto in territorio italiano ovvero, secondo l’indicazione di quella grande ritrattista di monache quale è Anna Banti, territorio di «tutti noi narratori moderni [...] ‘creati’ dal grande Manzoni» ‘,
la «capinera» verghiana, mentre rievoca la specie burtoniana della «melanchonia religiosa» e ne riattiva la tradizione, post-data di un trentennio almeno l’attualità e la forza del tema di Geltrude, e rilancia il topos della «malmo-
nacata», già così ricco all’epoca di variazioni letterarie, francesi e italiane ‘”, in una prospettiva indefinitamente aperta sull’avvenire del romanzo. Il «documento umano» tuttavia, tramite di accesso a un vero assoluto,
comprensivo di ogni suo margine di deformazione, opacità e stranezza, come categoria di indagine della realtà rivela la propria natura contraddittoria
43.
Posizione quest’ultima sostenuta da Nino Borsellino, Storia di Verga, Bari, Laterza,
1982, pp. 24-28. 4 Cfr. (ma solo per la suggestione del titolo) Giancarlo Mazzacurati, Scrittura e ideologia in Verga ovvero le metamorfosi della lupa, in Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974, pp. 142-175. # Si veda l’Introduzione di Sergio Pautasso a Giovanni Verga, Storia di una capinera, Milano, Mondadori, 1991 [pp. V-XIII], p. X (edizione alla quale si affianca l’altrettanto recente, e ottimamente curata da Gino Tellini, Milano, Mursia, 1991). # Anna Banti, Manzoni e noi, in Opinioni, Milano, Il Saggiatore, 1961 [pp. 53-65], p. 65. #7 Cfr. Michel David, Manzoni e il fiore del male, in Letteratura e psicanalisi, Milano, Mursia, 1967-1976, pp. 317-360.
256
mostrandosi contemporaneamente quale pronta via d’accesso al perturbante e al fantastico: interpretazione, questa, sulla cui base si spiega anche l’insorgere della letteratura fantastica all’interno di una cultura tradizionalmente razionalista e recidiva agli «spettri» come la nostra, quale la vollero almeno un Manzoni, un Leopardi o un Croce “8.
Quando referto di un «documento» sia infatti un caso patologico, preferenzialmente femminile, ed il reale vi riveli la sua insidiosa contiguità rispetto ad altre dimensioni di esperienza, ecco allora il documento stesso farsi tramite, come è facile intuire e come confermò Freud con la definizione di «perturbante» “, del soprannaturale e dell’ignoto, di cui le pato-
logie psicologiche, come ben vide il Mariani a proposito della scapigliatura°, costituiscono un’adeguata e funzionale anticamera. In particolare quindi la patologia isterica come «canale con l’oltremondo» °! rafforza tale legame tra patologia e specie differenziate di inquietudine, che se irretirono gli scapigliati in proporzioni non calcolabili indicano, al contempo, anche le premesse delle loro eccellenti prove sul tema, della ‘pazzia’, e della ‘pazza’ in particolare. I nomi di donna che vanno qui evocati, la precoce Fosca di Tarchetti (1869), quindi la contessa Livia di Senso di Camillo Boito (1883), e a bre-
ve distanza infine il ‘doppio’ isterico delle «madonne» di Faldella: Madonna di fuoco e madonna di neve (1888), hanno dietro di sé tanta e così il-
lustre letteratura critica da consentire di mirare direttamente all’obiettivo. «Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau», intima Baudelaire alla gioventù scapigliata, incoraggiandola a percorsi verso l’abnorme e l’eccesso. E, «au fond de l’Inconnu», si configuri esso nell’«iperbole bio-fisiologica» °° e psichica di Fosca, o nella morbosa, isterica e omicida eccitazione erotica di Livia 53, o ancora nell’insostenibile conflitto isterico (ed
#8 Cfr. E. Ghidetti, Premesse ottocentesche a una storia del racconto fantastico in Italia, in Il sogno della ragione. Dal racconto fantastico al romanzo popolare, Roma, Editori
Riuniti, 1987, pp. 11-33. 4 Cfr. Sigmund Freud, // perturbante, leggibile anche nell’autonoma edizione RomaNapoli, Theoria, 1984. 50 Il rimando è al classico Gaetano Mariani, Storia della scapigliatura, Palermo, Sciascia, 1967. 5!
Cfr. A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo cit., p. 255.
52 Cfr. Folco Portinari, Nota introduttiva a Iginio Ugo Tarchetti, Fosca, Torino, Einaudi, 1971 [pp. V-IX], p. VII. 5.
Caso questo, conviene rammentarlo, di ‘lucida follia’, come testimonia da un lato la ste-
sura completa del racconto degli avvenimenti, siano pur essi tali da condurre a «impazzimento» e a smarrimento del «senso della realtà», da parte della protagonista nel suo «scartafaccio segre-
257
«eminentemente figurativo») fra specie infocata e «bonaria» e specie «ge-
lida e micidiale» della passione nell’una e bina Madonna faldelliana *: «au fond de l’Inconnu», dunque, il reperto che gli scapigliati estraggono, in materia, direbbe Contini, di «frenologia uterina», non è che il classico e vec-
chio tema della perdita dell’oggetto d’amore, esplicitato, anche in ambito scapigliato, nei termini correlati di trauma psichico, conflitto di affetti ed implicazioni della sfera sessuale. Esplicitazione che, nella sua evidente sostanza, allinea il risultato della ricerca scapigliata sul versante della patologia muliebre a quello procurato da altre e divergenti, precedenti quanto coeve, esperienze di scrittura, e conferma la forza omologante del topos
all’interno della tradizione narrativa ottocentesca. A sua volta Fogazzaro, nella sua fase di più acuta attrazione per l’oc-
culto e nell’ambito allargato della riflessione spiritualista °°, farà assumere all’ignoto la figura e il volto, il comportamento e l’aura della bella e ‘folle’ Marina di Malombra (1881): personaggio straordinario, di tale complessità da poter reggere su di sé, quasi alla stregua degli attori del jamesiano Giro di vite, una protratta querelle interpretativa tra le due schiere di sostenitori
della sua natura di ‘pazza’ o di anima reincarnata°°. ‘Patologisti’ contro ‘occultisti’, gli esponenti di tale todoroviana quaestio” si sono contesi a lungo la posta di questa inarrivabile creatura dell’ingegno fogazzariano, protagonista indiscussa del suo romanzo più «nero» °. Deporre a favore
to» (citazioni da Camillo Boito, Senso, Milano, Rizzoli, 1975, rispettivamente pp. 47, 44, 15);
dall’altro la conclusione stessa della vicenda, con il rientrare dell’*accesso’ in una fredda, routinaria (maniacale?) sfida seduttiva condotta dalla protagonista nei confronti del sesso maschile. 5. Cfr. Gianfranco Contini, Pretesto novecentesco sull’ottocentista Giovanni Faldella, Prefazione a Giovanni Faldella, Mandonna di fuoco e madonna di neve, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969 (ma ora in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 567-586), [pp.
IX-XXXVI], p. XXXII. 5. Cfr. Tommaso Gallarati Scotti, La vita di Antonio Fogazzaro, Milano, Mondadori, 19823, pp. 77-98 (al capitolo V, Malombra, e particolarmante p. 87), dove la ricerca fogazzariana sul tema dell’«anima»
umana,
«senso tutto di un ordine di creature e di dinate del suo nativo misticismo e della Tra i primi lo stesso Gallarati Vittore Branca, /ntroduzione a Antonio VII-XXXIV.
dello «spirito» divino che l’avvolge in natura, e del
leggi non conosciute» (p. 84) si precisa entro le coorcuriosità intellettuale e letteraria per l’occulto. Scotti, per cui cfr. ibidem. Tra i secondi l'esemplare Fogazzaro, Malombra, Milano, Rizzoli, 1982 ?, pp.
7 Si allude all’opposizione tra «fantastico» e «strano» notoriamente proposta da Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1981 ?. 9
Branca lo considera addirittura «[...] nella nostra letteratura il capolavoro — e in so-
stanza l’unico esempio valido — di romanzo nero e di narrazione metapsichica» (V. Branca, /ntroduzione cit., p. VII).
258
dell’ipotesi patologistica, e dunque riscattare almeno in parte Marina dalla sfera dell’occulto per annetterla al doloroso repertorio delle grandi ‘pazze’ della letteratura, non significa peraltro ridurre lo spessore spettacolare e drammatico della sua psicologia, che non a caso ha indotto la critica, da Croce in poi, a raccogliere attorno ad essa una messe di riferimenti melanconici e noir del più alto prestigio °°. Ma anche il talento di Fogazzaro, giudicato così sostanzialmente originale °°, non ha potuto se non ideare un caso, sia pure sublime, di esaltazione e ‘follia’ basato sulla corrispondenza con un trauma amoroso °': il fecondo disordine della natura di Marina, lo
stile generoso-melanconico della sua immaginazione ed il suo temperamento ribelle, acceso, romanticamente fuor di misura, non impediscono in-
fatti alla sua psiche di fissarsi attorno al vuoto lasciato da un oggetto che, visto il suo prodigioso orgoglio, solo il ricorso allo scenario dell’occulto le consentirà di riconoscere come oggetto d’amore. «Potenza
delle tenebre» ‘?, tentatrice,
anti-Beatrice,
«eterna
Eva»,
«belle dame sans merci» e «vergine funesta» della letteratura decadente, Marina appare d’altro canto ‘balenante’ di «luci» di troppo «dolce e profonda umanità» per essere accostata alle grandi amorose e ‘pazze’ del-
la letteratura italiana che pur in gran numero evoca %, e sembra votarsi al destino d’essere ricordata sempre sola, come un unicum o un hapax d’autore, e sola archiviata nella memoria letteraria. Si conferma peraltro attraverso di lei ed il caso della sua ‘follia’, os-
servato dal più attento e innamorato fra gli «scrutatori d’anime» *, il legame tra letteratura scientifica e letteratura romanzesca, visto l’interesse fogazzariano per le «novissime scienze dell’anima» ® e la persuasione che «[...] les droits de la science nous imposent des devoirs» °°: anche, e forse soprattutto, qualora si tratti di scrittori inclini all’occulto e al fantastico.
59 Cfr. Benedetto Croce, Letteratura dell’Italia unita, TV, Bari, Laterza, 1973, pp. 125126. Ma si veda altresì come, sulla viva traccia di indicazioni fogazzariane, discute la questione V. Branca, Introduzione cit., p. VII. 6 Basti quanto ne afferma T. Gallarati Scotti, La vita di Antonio Fogazzaro cit., pp. 8890, e la frequenza con la quale in generale l’autore ricorre nell’intertestualità dei romanzi di secondo Ottocento. 6! «E la vaga intuizione della sua vita anteriore divampa con la passione per Corrado Silla» (T. Gallarati Scotti, La vita di Antonio Fogazzaro cit., p. 78).
62 6 64
Ivi, p. 84. Cfr. V. Branca, Introduzione cit. (da cui la precedente citazione, p. XCII), passim. Cfr. T. Gallarati Scotti, La vita di Antonio Fogazzaro cit., pp. 82-83.
65. Cfr. V. Branca, Introduzione cit., p. X. 6
Piero Nardi, Fogazzaro (su documenti inediti), Vicenza, E. Jacchia, 1930 2 p.429;
259
Fra letteratura fantastica, o aperta ai suoi margini, e letteratura d’appendice, il passaggio è come noto tradizionalmente agevole, e tale rimane fino ai tempi recenti di una corretta revisione dei generi, nonché dell’impegno a riscattare la letteratura fantastica dalla tradizione della sua rinnegata dignità. Tuttavia la forza residua di quell’automatismo associativo rende forse ragione del fatto che, dopo aver seguito il topos della ‘pazza’ nella narrativa italiana più vicina al fantastico, lo si verifichi in quel serbatoio di temi vivi e scottanti, trattati peraltro con conturbante disinvoltura, qual è
a fine secolo la letteratura popolare. Si vuol rammentare innanzitutto, di un autore la cui definizione di ‘scrittore d’appendice’ pur non va esente da possibili e giustificate obiezioni quale Emilio De Marchi °”, la fortunatissima Arabella (1892), intreccio tutt’altro che circostanziato ed anzi, per la sua natura di romanzo a pun-
tate Ÿ, quantomai dispersivo, che intende tuttavia proporsi come il tipo ‘incubazione e decorso di follia muliebre’, inclusivo di generose e topiche cadute nel patetico.
Ribattezzata in «tifo» nel glossario di circostanza”, la ‘follia’ di Arabella si genera naturalmente e progredisce, entro un contesto pur gremito di accadimenti dolorosi, principalmente sulle tracce del disamore fedifrago e umiliante del marito di lei. Di per se stessa soggetta a momenti di «malinconia nervosa», facile preda quindi «di oscure smanie, di cieche furie, di
non so quali forze maligne» nel momento della difficoltà, Arabella si cala quindi in un suo stato di fissazione progressivamente silenzioso ed ebbro, nell’incombere della minaccia — tutt’attorno a lei sussurrata nei termini di una popolare sapienza clinica — che «[...] la disperazione [...] potrebbe montare dal cuore alla testa e allora c’è la pazzia [...], c'è qualche cosa di
peggio ...» 70. Dallo stesso côté della critica da cui giunge il giudizio del romanzo giovanile di De Marchi Due anime in corpo come «un'anticipazione di Malombra e del suo romanticismo procelloso», proviene di converso altresì la suggestione di pensare Arabella in certo modo emula della Marina fogazzariana (per i suoi «deliri {...] e quel suo sentire in sé l’anima del padre
9
Per cui si veda, ad vocem, la scheda di Folco Portinari per il Dizionario critico del-
la letteratura italiana, Torino, UTET, 19902.
9
Il romanzo è uscito infatti sul «Corriere della Sera» a partire dal 7 febbraio 1892.
°° Cfr. Emilio De Marchi, Arabella, Milano, Mondadori, 1960, p. 327: «Chiamato in fretta il dottore, giudicò un tifo, gravissimo, forse senza speranza».
7° Citazioni tratte ivi, rispettivamente da pp. 141, 210, 241.
260
suicida, o quella sua ‘indefinita voglia di essere’, quella sua allucinata corsa alla morte») ”!: suggestione che potrebbe in qualche misura essere accolta, ma che soprattutto ha il merito di stilizzare il personaggio di Arabella, sfrondato di ogni eccessivo elemento patetico, attorno alla linea es-
senziale della sua patologia. Non sarà arduo comprendere, fatta astrazione qui da ogni possibile indugio critico, tale cimento tematico fra quelli che numerosi dovevano nutrire l’onhivora penna del romanziere, legato, da incalzanti appuntamenti settimanali, a un pubblico in attesa di sviluppi a sensazione. Ciò che vale sostanzialmente anche per Carolina Invernizio, dalla cui «pazza» (abilmente ricalca sul modello tradizionale, già elisabettiano, del «simulatore» di ‘pazzia’, così prezioso all’intreccio drammatico ?°) sarebbe vano attendersi, nonostante il conio femminile, sfumature psicologiche e tratti rive-
latori di più complesse profondità. Interamente costruita sulla base di istanze interne alla dinamica del racconto e all’intreccio dei fatti, la «pazza»
vendicativa di Carolina Invernizio (La vendetta d'una pazza, 189473) appare infatti tutta ed esclusivamente calata nell’azione, tutta giocata come funzione impulsiva degli accadimenti, e motivata essenzialmente dall’esterno, senza indugi analitici, in funzione del plot e del suo coefficiente emozionale. Ma, per essa come per Arabella, vale di nuovo e più che mai la
conferma dell’endiadi tematica ‘pazza’-‘pazza d’amore’, che lungi dallo smentirsi mentre si climatizza in differenti tipi di romanzo, e si orienta ver-
so corrispondenti specie di pubblico, appare galvanizzata dal contesto del-
la letteratura di consumo ”*. E ci si avvia, su tale tracciato, alla fine del secolo delle passioni non-
ché verso gli inizi del secolo della psicanalisi: una svolta che è dato di co-
71 V. Branca, /ntroduzione cit., p. XI. 72 Cfr. V. Gentili, Le figure della pazzia cit., pp. 103 sgg. e 133 sgg. 73. Il romanzo si è assunto qui come campione esemplare della vastissima bibliografia dell’Invernizio, popolata di ‘maledette’, ‘peccatrici’ e “geni del male’, ‘anime fangose’, madri delittuose, donne fatali, ‘ammaliatrici’,
‘Veneri’ travolgenti e ‘fate nere’ (cfr. Aldo Ro-
stagno, Materiali per una bibliografia, in AA.VV., Carolina Invernizio. Il romanzo d' appendice, Torino, Gruppo Editoriale Forma, 1983, pp. 257-262), nelle quali si dispiega un’articolata e quantomai sensazionale casistica della patologia femminile (e più in generale, secondo le parole di Elio Gioanola, La superdonna dimessa, ivi, [pp. 57-67], p. 62, un «patologico nevrotico-psicotico in chiave di assunzione conoscitiva della sofferenza», ovvero un’«ipertrofica fenomenologia del patologico-avventuroso», p. 60).
74 I cui «straordinari effetti kitsch» analizza e commenta Massimo Romano, // caso Invernizio ovvero la macchina narrativa delle lacrime e degli orrori, ivi, pp. 86-93.
261
gliere, sulla direttrice del tema, pienamente e solamente nell’Adele di Tozzi (1909-1911 75), non senza che negli stessi anni reminiscenze di scuola ottocentesca si attardino ancora nella Juliette di Calandra (1909), o si dissi-
mulino con scarsa persuasività nell’Isabella Inghirami del dannunziano Forse che sì forse che no (1910). Con D'Annunzio infatti, se la risoluzione in delirio di almeno una fra
le tante esperienze e personalità muliebri replicanti ad libitum, nell’opera del pescarese, il modello psicologico dell’esasperazione, appare — ed era tempo — come un esito atteso e inevitabile; se almeno per una volta, e nei limiti imposti dal caso, tale esito soddisfa una tensione protratta per lunghi, inverosimili e impuniti «fuochi», «piaceri» e «trionfi della morte», d’altro canto ancora non può dirsi che l’eroina dannunziana innovi l’interpretazione della ‘pazza’ corrente nel romanzo della tradizione ottocentesca. Non poteva infatti essere se non l’amore, nel contesto di tale protratta e sia pure sui generis poetica del furor erotico, a condurre al delirio (e non senza indizi di «demenza») la vittima dell’eroe, il quale dal canto suo, come vuo-
le il canone della tradizione psicologica, si salva per la propria virile ed allargata accezione del desiderio, entro la quale il desiderio della donna e del suo «corpo d’amore» ”° si dissimula fra le possibile e cangianti figure. ‘Copia dal vero’ ””, e perdipiù sostenuto da precise conoscenze e nozioni di patologia medica da parte dell’autore , il personaggio di Isabella non per ciò riesce a scalzare e neppure a scalfire una mentalità secolare, che la vuole campione di una patologia isterica nella cui determinazione concettuale, sebbene oscillante, si confermano insieme l’enigma e la ridu-
zione della personalità femminile. Dolorissima Isabella, al servizio della cui atroce sofferenza si pone tutto l’armamentario descrittivo e drammatico
75
Si veda per ciò l’appendice di Notizie su «Adele», a firma di Glauco Tozzi, in Fe-
derico Tozzi, Adele, Firenze, Vallecchi, 1979, pp. 83-96.
76 Cfr. Norman O. Brown, Corpo d'amore, Milano, SE, 1990. 7 Come è noto il romanzo ricalca la traccia autobiografica della relazione con la contessa Giuseppina Mancini, la «piccola Giusini» che tra il settembre e l’ottobre del 1908 «finì con l’uscir di senno (Federico Roncoroni, Introduzione a Gabriele
D’ Annunzio, Forse che si
forse che no, Milano, Mondadori, 1981, I edizione «Oscar», [pp. 7-22], p. 10) e alla quale il poeta dedicò la registrazione diaristica della cronaca di quegli avvenimenti Solus ad solam
(1908).
7
Cfr. A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo cit., pp. 103-116, e in particolare 115-
116 (dove ad Isabella Inghirami si attribuiscono un’«avanzata psicosi», «connotazioni ma-
sochistiche e sadiche», «morte psichica» e «demenza totale»), con il riscontro di Eurialo De Michelis, Tutto
262
D’ Annunzio, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 30-32.
dello stile dannunziano, essa si impone senz’altro nel complesso della casistica muliebre dell’autore poiché nella sua «carne» si incontrano infine, dopo tanti vanificati appuntamenti, i significati non metaforici del «diavo-
lo» e della «morte» ?°. Quasi contemporanea dell’Isabella dannunziana, la cui parabola appare per ovvie ragioni seguita dal punto di vista coinvolto e condolente del narratore, la Juliette di Edoardo Calandra si propone invece come caso clinico osservato dall’esterno: dalla sua partenza în medias res (Juliette, vedova di guerra, tiene in casa il cadavere imbalsamato del marito, persuasa
che si tratti di «un sonno che tien del torpore», e spiandone la vagheggiata resurrezione), fino alla drammatica conclusione in delirio, mania di perse-
cuzione e supina resa ai «misteri dell’anima umana» 8°, L’ambientazione del romanzo in una Torino primo-ottocentesca, par-
te del dominio napoleonico e capitale di un dipartimento francese non è inconsueta all’autore di Vecchio Piemonte, così come non gli è inedito il tema della possibilità di comunicazione tra vivi e morti, più o meno fantastica, già tentato in Te/epatia*'. Ma nella curiosità per il personaggio dotato (o reputato tale) di facoltà e persuasioni paranormali si innesta, in Juliette,
l’attrazione per la patologia, in tal caso muliebre, che da esse può generarsi, come la «fissazione tranquilla» dell’eroina che gradatamente evolve e si
denuncia come «malattia mentale», dichiaratamente legata a una patologia della passione amorosa. I numerosi medici che sfilano al capezzale di Juliette allucinata e delirante forniscono la materia per altrettante interpretazioni della malattia o variazioni sul tema, che all’interno del romanzo costituiscono la linea documentaria della tesi e dell’interesse clinici dell’autore. Se ne desume un’empirica, ma non del tutto infondata, classificazione delle malattie mentali («Io le divido nettamente in frenesia, mania e imbecillità», asserirà il
medico di turno), accompagnata dall’indicazione della loro genesi («[...] se-
7 Il riferimento è naturalmente a Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1991 8, i cui paragrafi dannunziani sono alle pp. 221 sgg. Intorno al tema si veda anche Vittorio Roda, Note sui personaggi femminili del D' Annunzio, in AA.VV., Studi in onore di Raffaele Spongano, Bologna, Boni, 1980, quindi in // soggetto centrifugo, Bologna, Patron, 1984, pp. 275-300.
80 Citazioni da Edoardo Calandra, Juliette, Milano, Treves, 1934, rispettativamente pp. 47 e 210. 8! Racconto antologizzato e presentato criticamente da chi scrive in Racconti fantastici di scrittori veristi, Milano, Mursia, 1990.
263
condo la mia opinione, la pazzia non è che lo svolgimento eccessivo dei vizi, degli errori, delle ridicolezze, delle stravaganze, che si trovano nel mon-
do») e dei relativi sistemi di medicalizzazione *°. Romanzo di qualità forse opinabile, e tuttavia testimonianza non trascurabile della continuità e dell’evoluzione del tema nella narrativa italiana, la prova di Calandra introduce peraltro utilmente all’ultimo dei casi che qui si prendono in esame, acconsentendo con esso ad un confronto che ne evidenzia senz'altro la radicale novità. Calata nel contesto del programma tozziano di esplorazione della coscienza, e sostenuta da tutto un sistema di referenti culturali e di specifiche conoscenze di clinica psichiatrica che grazie a studi recenti progressivamente si illumina (mentre al contempo decade l’invalsa definizione, di va-
lidità oramai puramente geografica, dell’«isolamento» dell’autore) *, Adele introduce al secolo della scoperta dell’inconscio e dell’io, offrendosi come prova romanzesca assolutamente coerente rispetto alle maturanti stagioni delle psicanalisi. Con questo non che l’«isterica» Adele, legata peraltro, per necessità, allo «psicoastenico» suo innamorato (con il che Toz-
zi traduce in figura romanzesca la binaria tipologia delle nevrosi teorizzate da Janet 84), sovverta il canone tematico della ‘pazza’ (o «isterica») per amore: ché, al contrario, la sua costituzionale anomalia psico-fisiologica,
ovvero la sua caratteriale maladie de l’ ésprit, evolve nell’individuazione dell’impulso di morte e precipita in suicidio nel contesto catalizzante del rapporto amoroso. Tuttavia l’analisi del personaggio, precisa e ferrata nella complessità del compito, è condotta con strumenti del tutto inediti alla narrativa italiana, e mette in scena, pur nella frammentarietà del romanzo,
con dovizia di pertinentissimi elementi, quasi un «caso» freudiano ante litteram. Distrazione dal reale e perdita del contatto con esso, dissociazione e avvilimento del sentimento di sé sono infatti le esperienze di fondo (e caratteristiche della nevrosi) del frammento di biografia psicologica di Adele, cifrate nel tessuto pur lacunoso degli istanti di apatia, disagio e malessere costituenti il racconto. Contrappunto romanzesco della medicina ufficiale, che nell’ultimo ventennio dell’Ottocento riconosceva validità scientifica ai risultati ottenuti
#
Cfr. E. Calandra, Juliette cit., pp. 57-59.
*
Si veda soprattutto, tra i più fedeli cultori di Tozzi, Marco Marchi, Dalla parte del-
lo scrittore: Tozzi scientifico, in «Nuovi argomenti», luglio-settembre 1987, 23, pp. 51-58, ac-
canto a M. Marchi, La cultura psicologica di Tozzi, in «Paragone», 1985, 422/424, pp. 78-93. “Cf. Pierre Janet, Les névroses, Paris, Flammarion, 1909.
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nello studio e nel trattamento delle malattie nervose, studiava e classificava le nevrosi, approfondiva l’osservazione di casi di isteria e si avviava a spostarsi dal campo neurologico a quello dell’inconscio (preparando il terreno alle scoperte freudiane e all’enucleazione del rapporto tra vita sessuale e malattie nervose), Adele apre pertanto, con tutto quanto ciò comporta ed è stato rilevato *, la narrativa italiana al rapporto con la psicanalisi, mentre al contempo continua la serie, pregressa e non chiusa, delle ‘pazze’ defraudate del proprio oggetto d’amore.
85. Su Tozzi si vedano almeno (sul fondamento dell’illuminante apporto ermeneutico complessivo di lettori quali Debenedetti, Baldacci, Luti e Aldo Rossi), nella direzione documentaria e di obiezione alla tesi dell’istintività, oltre ai citati interventi di Marco Marchi anche Federico Tozzi. Mostra di documenti, a cura di Marco Marchi , con la collaborazione di Glauco Tozzi, Firenze, Tipografia C. Mori, 1984, operazione che prosegue l’istanza di Paolo Cesarini, Tutti gli anni di Tozzi, Montepulciano, Edizioni del Grifo, 1982, e che verrà seguita da quella di Loredana Anderson, Tozzi’s readings 1901-1918, in «Modern Language Notes», 1990, 1, pp. 119-137. Precise annotazioni su Adele si ricavano quindi dai saggi tozziani di Baldacci recentemente riuniti in volume; cfr. Luigi Baldacci, Tozzi moderno, Torino, Einaudi, 1993 (particolarmente alle pp. 50, 60, 66 sgg, 76).
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VITTORIO COLETTI
LA SINTASSI DELLA FOLLIA NELLA NARRATIVA ITALIANA DEL NOVECENTO
per Anna D.
La trascrizione della malattia dell’animo nella scrittura non è stata un’operazione inerte per la lingua letteraria. Il fatto è che la psicologia del profondo e, soprattutto, la psicoanalisi sono metodi diagnostici e terapeutici (se lo sono: io ho i miei dubbi) avvinghiati al linguaggio verbale; la psicoanalisi ha addirittura stabilito nell’ininterrotta catena dell’associazione linguistica, nel flusso del racconto senza limiti lo strumento primario del suo modo di conoscere e di curare: è l’analisi «terminabile/interminabile» di freudiana memoria. Come è noto le conseguenze di queste decisioni epistemologiche e mediche sono state enormi per la scrittura letteraria. Col successo di queste «scienze», le lingue hanno dovuto inventarsi una sintassi ad esse appropriata. Prima, non sarebbe stato neppure pensabile un discorso scritto fluente senza argini sintattici come quello poi tanto spesso praticato nelle varie letterature, né una formula tanto feconda quanto — poniamo — quella del monologo interiore. Anche il loro grande precedente sintattico — il celebre discorso indiretto libero — pur essendo ancora tutto incluso nella grammatica standard (di cui anzi esplora complicazioni intellettualmente non piccole) e nella tipologia tradizionale del racconto in terza persona, è, a sua volta, un segno — col rimescolamento dei modi e tempi verbali, con la crescita deittica abnorme —
di un’arte che vuole entrare più a fondo nell’intimità dei personaggi e si tratta, non a caso, di una tecnica messa a punto proprio negli anni della psicologia scientifica. In verità, si potrebbe anche arrivare a sostenere che sono state la psicologia del profondo e la psicoanalisi a liberare una valenza e una modalità espressive non mai in precedenza praticate nella narrativa, che travalicano gli argini della grammatica condivisa e avvicinano come non mai l’informalità dell’orale alla formalità dello scritto. Psicologia e psicoanalisi, nonostante i mille distinguo degli specialisti, partono dal presupposto che la malattia psichica (o mentale) sia un disturbo dell’ordine (anche linguistico) comune e che quindi il suo svelamento debba cominciare col liberare e mimare questo caos compositivo, 267
spezzando per quanto è possibile i blocchi psichici e ideologici della lingua: ciò che sarebbe appunto più immediatamente fattibile nella misura dell’oralità, del colloquio-confessione o in soluzioni di scrittura informale: diari, lettere e libertà sintattica. Basterà ricordare il diario che lo psicoana-
lista consiglia a Zeno. È bene insistere su questo dato, pur tanto ovvio: perché è proprio la dimensione della scrittura a rendere arduo il rapporto tra il discorso dell’inconscio e quello della letteratura. L’emersione del profondo pare meglio esprimibile nell’informalità dell’orale, più direttamente denunciata dalle lacune, i /apsus del parlato che nella sorveglianza della scrittura. Questa infatti induce una spazialità, un ordine, una linearità, da cui la
lingua della follia pare rifuggire, fermi restando i casi in cui essa si manifesta ipercorrettivamente nell’eccesso opposto di un ordine invasivo e maniacale. Non va dimenticato che l’incursione dello scritto nell’orale è profonda in letteratura tanto nella mimesi realistica del discorso diretto quanto in quella psicologica del monologo interiore e del flusso di coscienza. Queste strutture linguistiche puntano più verso l’orale che verso lo scritto; hanno bisogno dell’interlocuzione (sia pure fittizia, immaginaria: il parlare da «soli») e debbono ritenersi esentate dalle spaziature della sintassi regolata e dalle buone maniere linguistiche della formalità (specie, si capisce, di quella scritta). Da qui le forme principali assunte dall’impronta psicologica nella scrittura narrativa moderna: la simulazione dell’informalità orale e la rottura delle barriere sintattiche e ortografiche correnti e l’invasione dell’io. Se le infrazioni grammaticali sono un accorgimento nuovo, l’invadenza dell’io è di per sé, invece, una vecchia conoscenza del romanzo; ma il racconto in prima persona degli sbandamenti del profondo fa dell’io un condensato di attanti tradizionalmente distinti, somma ideale di autore, narratore e personaggio protagonista. È un io denso, oleoso, che, almeno in teoria, dovrebbe sancire l’abolizione, nella lingua, di ogni distanza tra i vari soggetti, quindi di ogni ordine o convenzione esogena, per una piena dichiarazione di sé. Ha scritto di questa presunzione George Steiner: «La psiche libidinale si sforza di raggiungere un egotismo anarchico e creatore dell’enunciazione. Vorrebbe forgiare, spesso nei sogni e attraverso i sogni, un vocabolario, una grammatica, un campo di associazioni che
le sia totalmente appropriato e che proclami l’irripetibilità del suo essere... Tuttavia, nel rimuovere la pelle morta, le accrezioni spurie che soffocano il
cuore vivo della necessità espressiva, la psicoanalisi logora radicalmente lo statuto della parola» '. Non so se le cose stanno davvero così, se cioè la psi-
George Steiner, Vere presenze, Milano, Garzanti, 1992, pp. 108-109.
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coanalisi nel momento in cui enfatizza il potere della parola anche ne riduce la socialità, la comunicabilità. È certo però che qui si incontra un nodo complicato della scienza psicologica, che deve far quadrare i conti del rapporto tra un discorso individuale e privato e un mezzo socializzato come la lingua che dovrebbe comunicarlo. Di conseguenza, sta qui anche la questione della trasferibilità al discorso letterario narrativo del linguaggio della psiche. Ma a tanto io non so arrivare e sarà quindi meglio procedere empiricamente con qualche concreto sondaggio. Che io sappia uno dei primi tentativi, in Italia, di restituire con la scrittura narrativa la confusione psichica di un soggetto si trova nel Giovanni Episcopo di Gabriele d’ Annunzio (1891). Opportunamente si è ricordato per questo romanzo il precedente delle Memorie del sottosuolo, perché il flusso ininterrotto di una confessione angosciata e intorbidata dal male ricorda proprio il discorso buio e gridato del personaggio dostevschiano. Leggiamone un brano: Io vi dicevo: non so più nulla, non mi ricordo più nulla... Oh, non è vero. Mi ricordo di tutto, di tutto. Capite? Mi ricordo delle sue parole, dei suoi gesti, dei suoi sguardi, delle sue lacrime, dei suoi sospiri, dei suoi gridi, d’ogni atto
della sua esistenza, dall’ora che è nato all’ora che è morto.
È morto. Sono già sedici giorni che è morto. E io vivo ancòra! Ma io debbo morire; quanto più presto è possibile, io debbo morire. Il mio figliuolo vuole che io vada. Tutte le notti viene, si siede, mi guarda. È scalzo, povero Ciro! Bisogna che io stia con gli orecchi tesi per accorgermi del suo passo. Continuamente, da che si fa buio, sto in ascolto; continuamente. Quando mette il piede su la soglia, è come se lo mettesse sul mio cuore; ma piano piano, senza farmi male, oh, tan-
to leggero... Povera anima! È scalzo, ora, tutte le notti. Ma, credetemi, mai mai nella sua vita, mai è anda-
to scalzo. Ve lo giuro: mai. Vi dirò una cosa. State bene attento. Se vi morisse una persona cara, fate che nella cassa non le manchi nulla. Vestitela voi, se potete, con le vostre mani. Vestitela tutta quanta, minutamente, come se dovesse rivivere, levarsi, uscire. Nul-
la deve mancare a chi se ne va dal mondo; nulla. Ricordatevene.
Ecco, guardate queste scarpette. — Avete figliuoli? — No. Ebbene, voi non potete sapere, voi non potete intendere che cosa sieno per me queste due scarpette logore che hanno contenuto i suoi piedi, che hanno conservata la forma dei suoi piedi. Io non saprò dirvelo mai, nessun padre ve lo saprà mai dire; nessuno. In quel momento, quando entrarono nella stanza, quando vennero per portarmi via, tutti i suoi abiti non erano là, su la sedia, accanto al letto? Perché io non cer-
cai altro che le scarpe, ansiosamente, sotto il letto, sentendomi scoppiare il cuore al pensiero di non trovarle; e le nascosi, come se dentro ci fosse rimasto un
poco della sua vita? Ah, voi non potete intendere.
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Certe mattine fredde, d'inverno, all’ora della scuola... Soffriva di geloni, povero bambino! D'inverno aveva i piedi tutti piagati, sanguinanti. Io gli mettevo le calze, io gli mettevo le scarpe. Sapevo fare tanto bene. Poi, nell’allacciare, chino a terra, sentivo che le sue mani appoggiate su le mie spalle tremavano già dal freddo. E io mi indugiavo... Voi non potete intendere. Allora, quando morì, era questo l’unico paio; questo che vedete. E io glielo tolsi. E, certo, egli fu seppellito così, come un poverello. Chi gli voleva bene, fuori che il padre? Ora, tutte le sere, io prendo queste due scarpette e le poso l’una accanto all’altra, su la soglia, per lui. S’egli le vedesse, passando? Le vede forse, ma non le tocca. Sa forse che io diventerei pazzo, se la mattina non le ritrovassi là, al loro posto, l’una accanto all’altra...
Mi credete pazzo? Ah, no? Mi pareva di leggere ne’ vostri occhi... No, signore; non sono ancòra pazzo. Questo che vi racconto, è vero. Tutto è vero. I morti ri-
tornano. Ritorna anche l’altro, qualche volta. Orribile! Oh, oh, oh, orribile!
Vedete: intere notti ho tremato così, ho battuto i denti, senza potermi frenare; ho
creduto che per il terrore mi si staccassero le ossa, alle giunture; ho sentito i capelli su la fronte come aghi, sino alla mattina, duri, diritti. Non ho tutti i capel-
li bianchi? Dite: non sono bianchi? Grazie, signore. Vedete: non tremo più. Sono malato, molto malato?.
L’infrazione qui non è ancora, propriamente, alla sintassi tradizionale, che tutto sommato resiste, ma, piuttosto, alla scrittura, con le molteplici domande di contatto («capite?»), le repliche («di tutto, di tutto»), le varie intrusioni dell’oralità («voi... voi; no, signore...»; le esclamazioni ecc.), anche
più vistose in un testo ad ancora alto tasso di lingua colta («egli», «intendeva», i corsivi imbarazzati come «sapevo fare») e alla logicità metonimica della catena sintagmatica, per cui il tema muta continuamente: le scarpette, 1 geloni, le mani, il bambino, l’altro, il terrore, i capelli bianchi ecc.: siamo di fronte a un incessante cambiamento dell’oggetto evidenziato, un mutamento rapido di punti prospettici (Episcopo che guarda il figlio morto; il cadavere del nemico ucciso; l’interlocutore che guarda Episcopo ecc.) e di piani narrativi (rievocazione, presente). Ma intanto si nota un’elefantiasi dell’io: non è solo la prima persona, l’io è e sarà un protagonista della narrazione come
della grammatica, elevato al quadrato dalla (ben simulata)
coincidenza tra soggetto dell’enunciazione e soggetto dell’enunciato.
? Gabriele D’ Annunzio, Giovanni Episcopo [1891], a cura di Clara Martignoni, Milano, Mondadori, 1979, pp. 10-11.
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Soluzioni non dissimili si ritrovano nei monologhi dei personaggi pirandelliani, perché la più diretta ricaduta della scissione psicotica sulla scrittura letteraria è il dialogo finto, il monologo interiore, a voce alta e quindi catturato, ascoltato, riferito dall’autore oppure solo sussurrato, pensato. Come fanno gli scrittori ad ascoltare i monologhi silenziosi e solitari dei loro folli? Lo fanno. E per non tradire la propria presenza si ritirano il più possibile dietro le parole, le sconclusioni, le manie linguistiche dei loro personaggi, fino al punto da nascondervisi completamente (o quasi): quello di cui si narra, quello che narra (e anche colui che scrive) paiono allora proprio la stessa persona, colta nella sua viva voce. Di nuovo quindi la scrittura finge l’oralità. Terracini notava come pochi autori usino tanti ora laggiù proprio ecco quanto Pirandello *: la deissi è infatti una delle più ovvie strategie dell’oralità scritta; non a caso è il primo stratagemma del discorso indiretto libero. Ma il flusso interiore può richiedere un’altra deviazione: quella nella dislocazione dei tempi verbali e schiacciare tutto sulla morfologia ideologica del presente, dove ogni cosa si allinea nella contemporaneità e nell’affinità; è il «presente di sogno» di cui ha parlato Terracini, che «isola il personaggio o lo oppone a tutte le menzogne del mondo circostante». Il presente tende a dilagare e accumula sensazioni, scompone l’insieme in particolari minuti; la successione non dà tanto un prima o un dopo ma un seguito di ora che ammucchia presenti disparati e col quale avanzano l’ansia e l’angoscia. Ma anche queste infrazioni restano, tutto sommato, ancora dentro le
regole della lingua, anche se ne frequentano volentieri le zone di confine, specie là dove la norma della scrittura cede il passo o si confonde con quella — meno rigida e preventivata — dell’oralità. Nella grande narrativa del Novecento, l’emersione del profondo simula un discorso aperto, informalmente scritto, dalle movenze oraleggianti (dialoghi finti, deissi, diffusione del presente) ma non esce dagli argini della grammatica. Tuttavia, si è pur cercato di andare oltre, di far decisamente saltare al romanzo le barriere convenzionali della lingua. La moda analitica induce a sconfinamenti discutibili; la registrazione dell’esplorazione interiore, l’autoascolto esasperato del narcisismo patologico dei depressi ha creduto di potersi giovare anche di una sintassi frammentata, esageratamente para-
3 Benvenuto Terracini, Le novelle per un anno di Luigi Pirandello, in Analisi stilistica, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 354.
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tattica; come in appunti di diario, cola senza limiti il flusso dell’autovisitazione. È il modo tipico di porsi dell’analisi che è un po’ sempre resoconto (racconto) e programma (progetto di guarigione, terapia). Ottiero Ottieri, negli anni in cui queste cose andavano di moda (ora mi pare che si stia tutti un po’ meglio, da questo punto di vista), ha scritto con Campo di concentrazione il romanzo-diario di una malattia e delle sue (vane) terapie. Vi
cogliamo paratassi esasperata; elementarità frasale; il piano annotativo e acronico degli appunti psicoterapeutici del diario si alterna a quello diacronico e blandamente ipotattico (periodi ipotetici) del progetto di guarigione nell’oscillazione presente/futuro. Ancora una volta i tempi verbali paiono assumere un ruolo nella strategia delle persone interiori; se l’io malato, svelato, si stende nel presente senza prospettive di passato o di futuro (o di un futuro debole, attenuato da tanti forse), il super-10 o il suo succedaneo, l’analista, introduce il dovere, esposto ellitticamente dall’infinito
iussivo-ottativo: «Parlare con la signora dei sogni quando sarà tornata... Telefonare a N. stasera». Nel disordine dell’attuale si insinua l’ordine del possibile; nella registrazione del presente si affaccia la prospettiva sintattica del futuro. Propongo una pagina: Analisi. L’analista sposta indefinitamente la mia gita a Milano. Depressione. Intero pomeriggio di accentuata depressione. La sera a cena da Caterina, dove sarebbe dovuto arrivare un terzo personaggio che invece non viene. Per me è meglio. Caterina è allegra ma dietro la sua perfezione traspare una sua estraneazione che io non capisco. Combiniamo per andare oggi nel pomeriggio nei boschi che stanno sopra la mia clinica, in collina. Rivivo il muro del pianto, il mu-
ro coniro cui batto la testa da tre anni ma la passeggiata è bellissima. Per una mezz'ora mi sento guarito. La sera seguente c’è un ricevimento in casa di amici di Caterina, dove ella mi porta. È noioso. Sono stanco, geloso, alienato. Va-
do via presto Ginevra. Bel Buona serata Depressione
con Caterina. Il venerdì mattina parto in aereo con Caterina per viaggio. Colazione al golf con mio cugino che abita a Ginevra. con il cugino. Caterina mi aveva telefonato. Indomani orribile. in casa del cugino, stando a letto, bevendo vino e solo, perché il
mio ospite è in ufficio 4.
Vi notiamo proliferazione del presente ammazzatempo e in palese contraddizione con la scalarità cronologica del racconto; paratassi insistita a microfrasi, ripetizioni ossessive (tra i pronomi però ci scappa un ella) e
* Ottiero Ottieri, Campo di concentrazione, Milano, Bompiani, 1972, pp. 200.
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poi un vecchio ingrediente della sintassi letteraria novecentesca: lo stile nominale, la frase ellittica del verbo, segno di una grammatica impressionistica, essenzializzata e singhiozzata. Quando tutti questi ingredienti sono mescolati insieme e robustamente sbattuti (come un uovo) sulla pagina si ha un esempio come questo delle pagine iniziali: Passate tre settimane di clinica (durante le quali è stato inconcepibile scrivere). Ricordarsi di dire che la sera stando «meglio» ho gli stessi problemi di scelta che a casa. Raccontarli all’analista. Le occasioni e l’amica. La vergogna di... La posta alla... Una via l’altra. La ridda delle donne vagheggiate. Ritorno come prima. Le «poesie» rivengono di moda dopo la paura enorme, il rivolgimento del cielo e della terra (nelle prime tre settimane) e la «disperazione nera». Non vi è altro aggettivo alla disperazione che: nera. Come usavo, non mi muovo piuttosto che scegliere. Il pericolo è che non ci siano novità (dall’esterno?). Che tutto torni come prima. Il rinnovamento. Gli occhi nuovi. Guarire. Che subentri l’agitazione ansiosa. Il non potere non volere perdere nulla. After all that desperation the danger is to be the same as before (questa clinica è molto internazionale). Ritrovare ovunque un leader. Il pericolo che la disperazione non rinnovi. È stata inutile? Mettersi al carro di S.T., un ragazzo che sta nella dépendance. Voler sapere dov’è. Andare continuamente in giardino a vedere che succede. Essere tali e quali a prima. Stare chiusi. Ma il pericolo della libertà. L’obbligo della clinica fa in un certo senso passare l’angoscia. «Trasformare le ossessioni in fantasie» (l’analista). L’ossessione della dépendance. Che ci faranno? Avere o no la chiave della porta d’ingresso (io non ce l’ho). Infilare tutte le supposte perle. Le azioni come i pensieri: caleidoscopio. L’analista commenta: tornerà come prima ma sano. La tentazione di agganciarsi a qualcuno, di fare la posta a qualcuna. Non stare mai tranquilli. Che cosa fai stasera? If they sleep it is better for me. Stare ore e ore fermo in attesa, alla posta. Scoprire tutto. Stare a letto o in giardino?
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Immaginarsi la guarigione. Ritornare alle poesie come dopo la clinica italiana. Lasciare o non lasciare la clinica?.
Qui siamo allo sconfinamento, o quasi (Boine parlava dei confini dell’ansia), dalla grammatica; enumero:
— paratassi senza eccezione e anzi evidenziata dall’abuso delle parentetiche che accentuano la contemporaneità del diverso; — frasi di modo infinito, perché il verbo dei modi finiti è troppo denotativo e troppo poco impressionistico; — infinito col valore imperativo; —
frasi incompiute, sospese;
— spezzate (es. «Che tutto torni come prima» è una frase isolata che in realtà dipende dalla precedente: «Il pericolo è che non ci siano novità»); — —
stile nominale («Il rinnovamento. Gli occhi nuovi. Guarire»); finzioni di interlocuzione con le domande («Che cosa fai stase-
ra?»);
— domande chiuse («Che ci fanno?»). E poi si spezza anche il monolinguismo; sia quello della lingua d’autore, interrotta dalle citazioni dell’analista, assimilate dal narrante ma di-
stanziate tra virgolette: «‘Trasformare le ossessioni in fantasie’ (l’analista)»; sia quello del codice, interrotto dalle incursioni dell’inglese «(la cli-
nica è internazionale)».
La lingua della follia dunque scardina sintassi e ortografia e evade le regole della scrittura, simpatizzando di più per quelle dell’oralità. Edoardo Sanguineti in Capriccio italiano è un maestro di onirismo, e sfrutta libera-
mente tutte le risorse della confessione psicoanalitica, dell’autoesplorazione interiore. Leggiamo: Poi ho guardato in alto, nel lungo vuoto delle scale, e là in alto c’era soltanto la
testa di C., che sembrava come appesa su, al soffitto di quelle scale, tutta appesa in quel lungo vuoto. Allora me ne andavo poi per la piazza, in quel giardino della piazza, nel freddo. Vedevo gli alberi, e me li guardavo di sotto in su, sempre di sotto in su, contro il cielo, che così sembravano come degli alberi giapponesi. «Sto male», dicevo forte, «sto male tanto». Ma che poi era come che me ne
dimenticavo. E mi sono fermato. Ed ecco il mio figlio più grande, che arriva tutto nell’alba, camminando tra i fiori gelati. Ci ha gli occhiali bianchi, che so-
5 Ivi, pp. 9-10.
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no come bianchi di brina, e cammina come se ci facesse a mosca cieca, tanto in-
certo. «Papà», mi dice, quando ce l’ho vicino, «voglio vedere i treni». È già grande, il mio figlio più grande, ma io me lo prendo in braccio lo stesso, e gli mando il mio fiato caldo sopra gli occhiali, perché così ci vede. E allora, quando mi vede, dice: «Ma sei bello, tu, papà». E io gli ho dato come un bacio. Intanto ci eravamo fatto tutto il nostro vialetto di ghiaia, e adesso eravamo fermi,
in piedi di fronte alla stazione, proprio sotto l’orologio. «Aspettami qui», dico a mio figlio. E vado dal giornalaio. «Voglio un biglietto di ingresso per la stazione», gli dico, al giornalaio. Adesso siamo dentro la stazione, e io sono dentro il bar della stazione. Soffio il mio fiato caldo contro i vetri del bar, e vedo
mio figlio che cammina lì, tra un binario e l’altro. Siamo in tanti, adesso, a guardarlo, e adesso facciamo come un mucchio, anzi, perché è solo un piccolo pezzo di vetro, quello che si può vederci attraverso. Lui è fermo, vicino a una locomotiva di un treno molto lungo, e ci tocca le ruote, e poi si infila lì, tra tutti
gli ingranaggi della locomotiva, lì in mezzo. «È già grande», dico a quelli che guardano lì con me, «è già grande, per la sua età». Poi quella locomotiva fa come una grande nuvola di fumo, e poi tutto quel lungo treno incomincia anche a muoversi, e la grande nuvola di fumo arriva lì, sopra i vetri del bar. Il vetro è
tutto tanto opaco, adesso.
Informalità del parlato; profluvio deittico (/à in quel ecco); ridondanze pronominali (me lo prendo in braccio); e, al tempo stesso, approssimazione all’improbabile e indicibile con un largo uso del come: «come appesa su, come degli alberi giapponesi; come bianchi di brina; come se» ecc. Naturalmente, paratassi dilagante, e presente maggioritario, pur se morfologicamente variato da passati prossimi e imperfetti, che, per altro, valgono esclusivamente da presenti («Allora me ne andavo... vedevo; ho guardato in alto; mi sono fermato ...»). Per la verità, non è da credere che il disorientamento sintattico sia prerogativa del racconto-confessione, dell’autoanalisi scritta. È ben noto che si
tratta di una formula stilistica che, qualche tempo fa, caratterizzava anche la narrativa iperrealistica, da Quinto stato, per dirla con un titolo di Camon poi provvisto, in seconda e recente edizione, di punti e virgole. La scrittura strapazzava la punteggiatura (più che la sintassi) e la faceva rimpiangere simulando l’informalità, l’irregolarità del discorso povero, quotidiano, refrattario all’ordine scritto. Ma si trattava appunto di un’informalità antiscritta, da disordine programmato, parente stretta, sul piano formale, del flusso parlante del nevrotico sul lettino o negli appunti dello psicoanalista.
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Edoardo Sanguineti, Capriccio italiano [1963], Milano, Feltrinelli, 1987, p. 108.
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Di più allora ci interessa seguire le esplosioni finali della materia linguistica, dove il flusso monologante sembra diventato inarrestabile, travolge punti e virgole e ogni logica; accosta i diversi pariteticamente omogeneizzandoli; direi, gaddianamente, che «peptonizza, mantrugia l’osso bu-
co» dell’inconscio rovesciandone i rimasugli sull’impaurito lettore. Vi ricordate del (allora fortunato) Male oscuro (1964) di Giuseppe Berto?, ce-
lebre perché il punto fermo si trova in media ogni tre pagine? Vediamo il brano che segue: E così questa figlia appena nata mi riempie la mente e l’anima di una dolcissima effusione d’amore e anche si capisce d’un notevole aggravio di responsabilità e pertanto mi metto a lavorare con grande lena nella casa fredda dove ha onnipresente dimora la domestica con le vene varicose e Dio mio quanto fa pensare alla decadenza del nostro corpo e dell’intera specie umana una domestica con le vene varicose, in realtà bisognerebbe porre un rimedio a queste e ad esempio mia figlia non avrà mai le vene varicose tanto per cominciare, comunque resistendo agli scoraggiamenti che provengono dal freddo e dalle gambe della domestica ci do sotto a lavorare per un paio di giorni onde poter andare dal produttore con un mucchietto di cartelle e prendere una rata, e in clinica ci vado quando posso sempre di corsa con la topolino che fa vegetazione da quanta acqua c'entra, un giorno lo dirò a mia figlia quanta acqua è caduta dal cielo nei primi giorni di sua vita con vento di tramontana che ha fatto cadere molte foglie e pertanto di colpo è venuto l’inverno, anzi penso che dovrei annotarli in un diario questi particolari come il brutto tempo o il gesto che lei ha fatto prendendomi il dito appena nata e anche riflessioni intime come tanto per dire se sono degno di ciò che mi accade e responsabile, e quando lei avrà vent’anni glielo regalerò questo diario e sarà un dono meraviglioso posso credere, già perché io non so niente di quando sono nato e adesso che ci penso me ne dispiace, mio padre con la sua spiccata grafomania avrebbe ben potuto tenere una diario invece di scrivere infinite suppliche e petizioni a Comandi di Corpo e Ministeri, infine tenere un diario non costa niente basta un po’ di pazienza e perseveranza, sicché decido di cominciare questa sera stessa partendo però dalla sera in cui è nata poiché può venirne fuori un pezzo molto bello con i sentimenti confusi che avevo e il nubifragio sulla città e la mia corsa nella notte come chiamato dalla mia creatura per quanto ancora non sapessi se era maschio o femmina, bisogna proprio scriverlo un diario altrimenti queste cose si finisce per dimenticarle, e così dunque siccome in clinica per via del molto lavoro ci vado quando posso mia moglie brontola che l'abbandono nella solitudine benché a dire il vero in questi primi giorni di dopoparto abbia sempre la camera piena di parenti che le dicono quanto sei bella e quanto sei brava, e anche per questo mi stanno sulle scatole questi parenti dato che io solo raramente dico a moglie che è bella e brava, e invero accade piuttosto di rado che sia brava, e comunque pensando mentre vado che forse la troverò col muso mi viene in men-
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te di portarle qualcosa in dono allo scopo di rabbonirla, fiori sarebbe ridicolo e poi ce ne sono perfino in corridoio fuori della porta da quanti gliene hanno mandati le amiche e i parenti che le vogliono bene”.
Il tratto dominante qui è l'accumulo, il disordine, il processo per contiguità analogica più che per successione logica; con conseguente traboccamento di ogni ordine e misura. In realtà si potrebbe benissimo riscrivere questo brano rimettendo al suo posto la punteggiatura e l’impressione di caos ne risulterebbe già assai ridotta. Tuttavia, resterebbe pur sempre lo spaesamento del lettore, al quale il narratore offre un «fuoco» continuamente differente e imprevedibile. La strategia disorientante qui non è però la forma della follia (il male oscuro) ma la sua simulazione ironica (un po’ come in Capriccio italiano, già citato). Prova ne è che la morfologia verbale è invece ordinata e regolare; i piani prospettici sono «normali»; la sintassi non rifugge da complicazioni controllate e grammaticali (periodi ipotetici ecc.). Il fatto è che siamo allo straniamento della confessione analitica; alla finzione del monologo folle, gestita da un narratore «saggio», che guarda al se stesso narrato (e confessante) con bonarietà, ironia e pietà. La grammatica, è riprovato, non può esplodere senza nuovamente implodere e ricostruire la sua norma: primo passo, appunto, lo spaesamento ironico del suo stesso disordine; un po’ come un analizzato arguto che racconti frottole allo psicologo della mutua.
Sarà chiaro, suppongo, a questo punto, che ho delle riserve sull’esito letterario della pura narrazione-sfogo; lo sfogo produce narrazione, racconto, pre o aletterario ma non racconto, romanzo letterariamente accettabile. Il narrare letterario è sempre infatti un’arte di governo del narrato e quindi una confessione autentica, non o solo minimamente pilotata, è di fat-
to incompatibile col romanzo. Non a caso la grande narrativa analitica, da Dostoevskij in poi, ha messo almeno un filtro, un ordinatore, istituendo una distanza tra l’autore e il narratore, che è così iscritto nel registro dei personaggi (con tanto di nome e cognome, cui l’io monologante poi si riferirà: penso al rapporto tra i Bloom e l’io nell’Ulisse). È questa distanza che seleziona e governa le incursioni nel profondo, nel sogno, le emersioni dei disturbi psichici e li restituisce al lettore riordinate e significative; anche il ro-
manzo-sfogo non può che essere una «forma dell’informe», come ha detto
7 _Giuseppe Berto, // male oscuro, Milano, Rizzoli, 1964, pp. 188-190.
274
Giuditta Rosowski citando Savinio; l’irragionevolezza deve essere cioè sempre ben disposta. È per questo che la nevrosi pare meglio restituita da una scrittura narrativa che come per contrappasso ne ingabbi le insorgenze destrutturanti in un ordine meticoloso e molto formale. Si prenda un eccellente romanzo della follia come Fratelli di Samonà, forse il più delicato su questo tema.
Ebbene: chi narra è il fratello «normale», o meglio quello in cui la malattia si manifesta come patologico eccesso di ordine, di simmetrie; il racconto è in terza persona; una grammatica perfettamente governata descrive minutamente e cerca persino di spiegare i movimenti della follia, enfatizzando la regolarità e l’eleganza della scrittura come un tentativo di estrema razionalizzazione dell’irragionevole: Tutto comincia dal modo di spostarsi e di collocarsi nei luoghi dove abitiamo. Quando mio fratello si muove, gli spazi ne risultano ulteriormente ampliati e sordi, le stanze scandite da ritmi incerti: qualsiasi vano può sembrargli un deserto in cui rischia di perdersi 0, viceversa, una prigione troppo stretta in cui annaspa come un volatile zoppo. Autore di impulsi a prima vista discordi, va soggetto a sbalzi di umore che lo colgono all’improvviso e altrettanto rapidamente lo abbandonano e si sciolgono in intervalli di strana quiete. Sono due tempi, e due comportamenti, distinti. Nel primo riesce a spiccare grandi salti dal basso in alto, gira a vortice su se stesso o percorre a lungo una stanza lambendone le pareti sempre in un senso, fino a descriverne il perimetro cento e più volte, mentre col dorso delle mani o con le punte dei polpastrelli compie attenti rituali su alcune parti del viso, specialmente sugli occhi. Nel secondo appare più concentrato ed astratto: ma, comunque, si muove, prediligendo per lo più un solo oggetto (quasi sempre insignificante per me) sul quale rinnova impercettibili prove di ispezione tattile, olfattiva e visiva. In apparenza non c’è regola in questo moto: mio fratello sembra la vittima occasionale di una presenza estranea di cui subisce pazientemente, e al tempo stesso interpreta col proprio corpo, i capricci. Guardandolo meglio, però, intravedo nei suoi gesti un misterioso anello produttivo; ho il sospetto che le infinite ripetizioni, i salti, gli avvitamenti
del corpo, le rare parole traccino
nell’aria un disegno animato di cui lui stesso, e non altri, è il regista: forse è lui che possiede il controllo della malattia, la piega ai suoi voleri e la costringe a rappresentare umilmente uno spettacolo ininterrotto. Sembra esservi, in questo, una ferma, febbrile volontà di risarcimento. Il rifiu-
to delle cose che hanno concretezza ai miei occhi corrisponde all’elaborazione, da parte sua, di verità alternative. Dal suo corpo affiorano, suscitati da un attimo di rapimento o da una breve concentrazione, piccoli universi aleatori, nei quali
si trasferisce anche per lunghi periodi, e dove a me è dato il privilegio di entrare, ogni tanto, e di abitare con lui. Li chiamiamo, i Grandi Viaggi (per distinguerli dagli spostamenti abituali fra un punto e un altro della casa, che sono
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i Piccoli Viaggi ed hanno a differenza dei Grandi, un utile immediato, un profitto). Anche se i percorsi — e le relative destinazioni — non cambiano molto, sono imprevedibili le varianti e infiniti imodi di realizzarle 8.
Come aveva ben visto Roger Caillois nel suo Vocabolario estetico, l’arte si istituisce attraverso un ordine, ed io credo che anche la follia si manifesti in letteratura dentro un certo tipo di ordine; altrimenti si esprime in forme linguistiche non letterarie, anche se forse più dirette e attendibili dal punto di vista medico. Naturalmente, l’ordine dell’arte non è necessariamente coincidente con quello socializzato, codificato della lingua standard, né può essere appiattito su di esso. Ad esempio, la poesia tollera e in parte persino esige un codice diverso e si può muovere da un massimo (la lirica tradizionale) a un minimo (la lirica moderna) di precodificata regolarità e
può quindi avvicinarsi molto (come ha mostrato la grande poesia decadente; da noi potranno bastare i casi di Boine e Campana) al linguaggio delle insorgenze psichiche profonde. Non a caso però lo fa con soluzioni spesso di rottura, tra poesia e prosa, e comunque spingendo molto il pedale del significante, articolando un discorso soggettivamente regolato dalla somiglianza dei significanti più che basato sul loro significato socializzato; simula così, nel calcolato progetto, quello che è l’incontrollato rivelarsi dell’inconscio nel linguaggio dei sogni (basterà qui ricordare Zanzotto, opportunamente citato ieri da Adelia Noferi nella discussione). La prosa narrativa invece, in cui la comunicabilità del linguaggio deve essere più diretta e aperta, meno chiusa su se stessa di quella della lirica, preferisce la consequenzialità dei significati e quindi l’ordine codificato della lingua comune e ammette solo come eccezione gli strappi alla logica della concatenazione sintagmatica e della testualità. Può allora registrare l'impulso nevrotico più esagerando la precisione e il dettaglio ben disposto che scompigliando gli oggetti linguistici. Con questo non voglio dire che manchi una importante narrativa che simula linguisticamente la parola nevrotizzata (penso ai Finnegans joiciani o a certe cose di Thomas Bernard); ma non mi pare che, specie in Italia, se ne trovino molti casi significativi. Insomma: un libro
grammaticalmente persin troppo ortodosso, in lingua vistosamente scritta e letterariamente codificata può essere il registro più attendibile di una follia. Come aveva capito Calvino (e mostrato specie in Palomar), la nevrosi entra nella scrittura, non spezzandone gli argini, ma rafforzandone i confini; perché la nevrosi è anche questo, poi, in fondo: una difesa dal disordine del
mondo; appunto come molte, grandi espressioni letterarie.
8
Carmelo Samonà, Fratelli, Torino, Einaudi, 1978, pp. 11-12.
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LUCIANO CURRERI LE «PRECISIONI DELLA SCIENZA» E LE «SEDUZIONI DEL SOGNO». ISTERISMO STERILITA’ E ILLUSIONE NEL «TRIONFO DELLA MORTE». APPUNTI SUL ROMANZO, LA MALATTIA E L’ INTERPRETAZIONE *
Substituer son style à celui d’une personne dont on prétend exposer le caractère, sous prétexte qu’elle s’est, à peu près, exprimée de la sorte, c’est placer l’auditeur dans la situation d’un voyageur qui, égaré, de nuit, sur une route, irrite un
loup en croyant carasser un chien !.
O viceversa. L’incerto promeneur potrebbe credere al lupo della favola che, nella propria ratio provocata e esaltata dalla precisione del racconto, dalla visione ‘reale’, nello stato di veglia, della réverie, si sovrappone alla docile immagine del cane che gli lecca la mano. Perché «la réalité ne peut être vraiment constituée aux yeux de l’homme que lorsque l’activité humaine est suffisamment offensive, est intelligemment offensive» ?. Bachelard, che, penso, non voleva aver l’aria di chi inventa una storia, ma sapeva bene che «la conscience d’être seul, c’est toujours, dans la pénombre, la nostalgie d’être deux» e che «commencer, c’est avoir la conscience
du droit de recommencer» 3. Sapeva bene insomma che non si può ascoltare una sola voce, né inseguire attraverso un solo sguardo un improbabile punto d’inizio, un dato veramente puro, originario e naturale. Credo si possa ri-
*. Un particolare ringraziamento sono in obbligo di rivolgere al professore Guido Baldi per i consigli e i suggerimenti che mi ha offerto nel corso di questi anni. E questo lavoro vorrei dedicato ai miei genitori e a Mea. ! Villiers de l’Isle-Adam, L’Eve future, in Oeuvres Complètes, a cura di Alan Raitt e Pierre-Georges Castex, Paris, Gallimard, 1986, I, p. 800. 2 Gaston Bachelard, L’Eau et les Rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Paris, Corti, 19425, p. 213. 3 G. Bachelard, Fragment d’un journal de l’homme, in Le droit de rêver, Paris, Pres-
ses Universitaires de France, 1970, pp. 233 e 235.
281
chiamare un pensiero di Jean Starobinski: «Plus l’on exerce son attention, plus l’on voit reculer le substrat naturel, tant il est vrai que, quand il s’agit de l’homme, l’on trouve toujours la nature «altérée» par la culture et le lan-
gage». Forse però, dal mio punto di vista, iniziare un discorso con una citazione, con le parole di un altro, avulse dal contesto originario e ri-create dal
meccanismo insano dell’interpretazione — eppure, sempre, libere — potrebbe anche essere l’estremo tentativo di delegare ogni responsabilità, di rinviare un autonomo invito alla lettura e riscrivere — e non rileggere — una prefazione già scritta. Certo, se non mi fossi illuso che le parole riportate qui sopra tra virgolette appartenessero, ora, tanto alla mia penna quanto a quella di un «acteur convaincu de sa propre pièce!» °. Se non mi fossi persuaso a ri-leggere in quelle righe un incipit naturale, una sintesi delle preoccupazioni sottese a questo scritto e delle prospettive che esso insegue. L’angoscia malinconica dell’individuo che non riesce a mettersi in contatto con il mondo, a chiarirne i confini con la parola, l’impotenza di dire il presente se non tramite «stupres imaginatifs» °, la tragedia di dare vita alla propria storia con le storie di altri, l’impossibilità di sospendere il proprio destino nella potenza della solitudine, nel lavoro e nel sogno, di scrivere una «histoire, sans intrigue, sans action»?, sono le tensioni che orientano le confidenze di Lord Ewald. Confidenze partorite, potremmo dire usando
una
formula
dannunziana,
dalla «coscienza
sempre
vigile» *
dell’uomo, patologicamente scissa fra le due persone che indovina agitarsi sotto la superficie delle sue parole: lo scienziato, che esercita scrupolosamente la sua indagine su «le texte même» ”, e il traduttore — l’interprete — che arroga a se stesso il privilegio dell’artista, del creatore, di colui che lavora sempre, «même en dormant, - même en révant!» !°.
4 Jean Starobinski, Le combat avec Légion, in Trois fureurs. Essais, Paris, Gallimard,
1974, p. 125. °
Stéphane Mallarmé, Villiers de l’Isle-Adam. Conference, in Oeuvres complètes, a cu-
ra di Henri Mondor et G. Jean-Aubry, Paris, Gallimard, 1961, p. 506. ° Rémy de Gourmont, Sixtine. Roman de la vie cérébrale, Paris, Mercure de France, 19154, p. 67 (cfr. la traduzione italiana di Marina Balatti, Milano, Serra e Riva, 1982). ?
Joris-Karl Huysmans, À rebours, a cura di Marc Fumaroli, Paris, Gallimard, 1991, p.
114.
Gabriele d’ Annunzio, Trionfo della morte, in Prose di romanzi, a cura di Annama-
ria Andreoli, Milano, Mondadori, 1988, I, p. 640. ° V. de l’Isle-Adam, L’Eve future cit., p. 800.
OT
282
p:702
2. Nella prefazione al Trionfo della morte (1894), D’ Annunzio, oltre
l’enigmatico e fecondo ‘sdoppiamento’ fra ratio e illusione dei due protagonisti d’eccezione di L’Eve future (1886), il lord e, soprattutto, l’ingegnere, concentra in «una sola unica dramatis persona» le «varietà del conoscimento» e le «varietà del mistero», le «precisioni della scienza» e le «seduzioni del sogno» ovvero «le forme costantie le forme avventizie fugaci illogiche». L’obiettivo è quello di seguire da vicino l’«universo» del protagonista così come si viene trasponendo nell’opera, continuazione naturale del «suo triplice modo» d’esistere: «sensuale sentimentale intellet-
tuale» !!. AI di là degli esiti, fortemente condizionati dalla lunga gestazione e dalla composizione «a strati» del testo, è però doveroso prendere atto che questi principi di poetica hanno una valenza conoscitiva non tanto o comunque non solo nei confronti dell’eroe, nella prospettiva dell’auspicato avvento del Superuomo, ma anche, e soprattutto, nei confronti della strut-
tura narrativa, dove non si misurerà «la continuità di una favola bene composta», ma «la continuità di una esistenza individua», non «una logica più o meno severa» ma una «coscienza sempre vigile» '?. La storia, cioè, non
dipenderà dai fatti raccontati ma dal filtro continuo e ossessivo che di questi fa il punto di vista di Giorgio Aurispa. E il punto di vista di Giorgio è, si potrebbe dire ricorrendo ancora una volta a Villiers de l’Isle-Adam, quello di un «Dormeur éveillé»'!3, di un
uomo schiavo della propria infaticabile e ingovernabile «lucidità», «perspicacia», del proprio «gusto disinteressato delle investigazioni reso più acuto e più letterario dalla cultura» *. Una cultura che si muove fra «la sicurezza e l’esattezza dimostrativa apprese nelle pagine degli analisti» © e la «luce», la «musica», il «profumo», che raccolgono «le tristezze e le in-
quietudini del morituro» '° in uno stato quasi di autoipnosi, di sonnambulismo indotto nel soggetto dal soggetto stesso per una sua particolare pre-
!! G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., pp. 639-640. Cfr., a riguardo, Maurice Barrès, Examen des trois romans idéologiques, testo premesso alla trilogia (1888-1891) de Le culte du moi, a cura di Hubert Juin, Paris, Union Générale d’Éditions, 10/18, 1986, p. 24. Su Barrès e la «cultura» dell’io nel romanzo francese fin de siècle è il saggio di Pierre Citti, Le sacrifice du moi, in Contre la décadence, Paris, Presses Universitaires de France, 1987, pp. 76-109.
12 Ivi, p. 640. 13. V. de l’Isle-Adam, L’Eve future cit., p. 792. 4
G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., pp. 647 e 648.
!5 Ivi, p. 648. 16 Ivi, p. 643.
283
disposizione. Forse in sintonia con le osservazioni di Charles Richet, mentre svela ai lettori della «Revue des deux Mondes» i procedimenti «irregolari ed empirici» con i quali si provoca il «cosiddetto sonno magnetico» e gli sviluppi spontanei del «misterioso» fenomeno nel «sonnambulismo naturale»: «Nei soggetti predisposti e già abituati da precedenti attacchi di sonnambulismo ad essere affetti da questa nevrosi, basta una certa scossa al sistema nervoso, per quanto insignificante possa sembrare» '?. E lo stato di lucida veglia di Giorgio è minacciato da «scosse» che egli produce su se stesso pressoché costantemente, con un’operazione duplice di straniamento rispetto al passato e al presente. 3. Peri limiti che mi sono imposto, non è qui il caso di verificare testualmente, nella loro totalità almeno, gli effetti destabilizzanti dell’abbandono al «gorgo ritroso delle memorie», all’ «immensa rete oscura, tutta piena di cose morte» !* e lo scarto irriducibile che si apre tra tempo obiettivo e tempo soggettivo, ovvero tra il movimento delle cose esteriori e le proprie acquisizioni interiori, tra il tempo del mondo e il tempo ‘vissuto’ dell’individuo. Scarto caratterizzante l’essere malinconico, la sua assolutizzazione del passato, unica dimensione in cui affogare e rilassare la «perdita di conoscibilità del mondo [...] e del proprio corpo vivente» inteso come corpo-soggetto e non come corpo-cosa, corpo-oggetto !. Giorgio, infatti, da un lato non riesce più a «ravvicinare l’io di quel tempo all’io presente» °°. Rianella gli eventi passati con ossessiva precisione, pur confusamente respingendoli, e sente di essere in ritardo rispetto alla scansione temporale della vita.
!” Charles Richet, Les démoniaques d'aujourd'hui, in «Revue des deux Mondes», 1880, 37, pp. 340-372. La traduzione del testo di Richet, da cui sono tratte le citazioni, si può leggere in Stefano Ferrari, Psicologia come romanzo. Dalle storie di isteria agli studi sull’ ipnotismo (con testi di Richet, Seppilli, Souriau), Firenze, Alinea, 1987, [pp. 133-161], p. 155. Ma al sonnambulismo è dedicata per intero l’ultima parte dell’articolo di Richet (pp. 153-161). 18 G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., pp. 669 e 673.
!° Eugenio Borgna, L'esperienza del tempo nella malinconia, in AA. VV., Malinconia malattia malinconica e letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1991, p.
49. Sul «corps comme objet», sul «réflexe» (che «ne résulte pas des stimuli objectifs, il se retourne vers eux, il les investit d’un sens») e sulla «perception» («en tant qu’elle ne pose pas d’abord un objet de conaissance et qu’elle est une intention de notre étre total») come «modalités d’une vue préobjective» che è «l’èétre au monde», cfr. Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1990, [87-105], pp. 94-95.
2
284
G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 690.
Io sono perpetuamente ansioso; e neanche la mia ansietà è bene definita. Io non so se sia l’ansietà del fuggiasco inseguito alle calcagna o quella di chi insegue senza mai raggiungere. Forse è l’una e l’altra insieme ”!.
Dall'altro, in questa percezione intuitiva della divaricazione tra il tempo interiore «che si inerzializza» e quello del mondo ”, frattura che spossessa il personaggio del proprio dominio cerebrale sul corpo e le cose, l’Aurispa mantiene però un sovraeccitato contatto fisico, epidermico, sensoriale con la sua realtà corporea, in cui a tratti alterni intravede scientifi-
camente i «nervi malati» °° e ne enfatizza, autosuggestionandosi, i sintomi fisiologici (formicolii, calore al cuoio capelluto, emicranie, torpori ...) 24 e quelli psicologici, specie a contatto o in prossimità (reale o immaginaria) delle figure femminili, assimilate e confinate in un’«aura» insana di delirio, tifo, malinconia, istero-epilessia e sterilità: la madre, la zia Gioconda, la sorella, Ippolita. Un esempio: La stanza della zia era aperta, illuminata. Egli fu assalito da uno strano terrore, da una specie di pànico, pensando che avrebbe potuto vedere a un tratto comparir su la soglia la vecchia dalla maschera cadaverica [...]. Rimase fermo, senza osare di muoversi, mentre un cerchio gli fasciava il capo dilatandosi e restringendosi con il palpito dell’arterie come fosse d’una materia elastica e fredda. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l’eccesso delle loro sensazioni. Udì tossire la vecchia, trasalendo *.
Per ora è comunque sufficiente rilevare, in sintesi, come ad una confusa percezione del presente — perché scissa in un binomio conoscitivo che non trova equilibrio — si associ una patologica sensibilità retrospettiva che sospinge concentricamente il protagonista verso la «morte volontaria come troncamento della angoscia e della sofferenza» in un orizzonte ormai privo «di ogni speranza e di ogni trascendenza» °°.
AMIVISD T6! 2 E. Borgna, L'esperienza del tempo nella malinconia cit., pp. 43-44. Ma cfr. J. Starobinski, La Mélancolie au miroir. Trois lectures sur Baudelaire, Paris, Juillard, 1989, a cui Borgna si rifà direttamente, riassumendone e amplificandone alcune considerazioni.
23. G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 714. 24 Questi stati patologici ci ricordano ancora i sintomi del sonno indotto elencati da Richet: stanchezza e appesantimento singolare, vaghe sensazioni di caldo, di freddo, di formicolio. Cfr. C. Richet, Les démoniaques d'’aujourd' hui, in S. Ferrari, Psicologia come romanzo. Dalle storie di isteria agli studi sull’ipnotismo cit., p. 155. 25. G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 735.
26 E. Borgna, L'esperienza del tempo nella malinconia cit., p. 45.
285
4. All’inizio degli anni Ottanta escono tre contributi che toccano, più o meno direttamente, l’argomento del mio intervento. Sono le Note sui per-
sonaggi femminili del D'Annunzio di Vittorio Roda, pubblicate negli Studi in onore di Raffaele Spongano (Bologna, Boni, 1980), riapparse, quattro anni dopo, come preziosa ‘postilla’ a // soggetto centrifugo. Studi sulla letteratura italiana fra 800 e 900 (Bologna, Pàtron, 1984). E, in quel mezzo, i volumi di Annamaria Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e
cultura scientifica tra Otto e Novecento (Bologna, Pàtron, 1982), e di Arturo Mazzarella, // piacere e la morte. Sul primo
D’ Annunzio (Napoli, Li-
guori, 1983). Si tratta di lavori diversi, anche di diversa impostazione: dall’acribia storicistica e dalla precisa ricostruzione di un fecondo momento
di scambio tra ricerca letteraria e scientifica della Cavalli Pasini ?” all’analisi simbolico-testuale di Mazzarella, per risalire fino alle intuizioni di Ro-
da fra psicologia, psichiatria dinamica e psicanalisi *. Ma per quel che riguarda il discorso specifico sul Trionfo della morte (1894) l’analisi dei tre critici trova una base comune nella coppia oppositiva protagonista-deuteragonista, un postulato su cui ragionare, quasi una conseguenza immediata di un testo forse troppo facilmente avvicinato alle profonde e didascaliche antinomie di Sesso e carattere (1903)? o alle osservazioni di Krafft-
2?
Cfr. della stessa Scienza e romanzo nel secondo Ottocento italiano, in «Otto/Nove-
cento», 1978, 5, pp. 37-65.
# Le incursioni dello studioso tra fin de siècle e primo Novecento sono note, da Decadentismo morale e decadentismo estetico (Bologna, Pàtron,1966) a La strategia della totalità. Saggio su Gabriele D° Annunzio (Bologna, Boni, 1978). Ma è con i lavori raccolti ne // soggetto centrifugo. Studi sulla letteratura italiana tra 800 e 900 cit., e nel recente Homo duplex. Scomposizioni dell’io nella letteratura moderna (Bologna, il Mulino, 1992), che egli focalizza ulteriormente la sua attenzione sulla crisi dell’unità del soggetto — dell’impianto tradizionale dell’uomo ottocentesco — sulla scoperta della natura ‘plurale’ dell’individuo e la consolatoria e normalizzante tensione verso la ricomposizione della facies umana, operata tramite una serie di procedimenti alterni di appropriazione e spossessione, mediazione e sovrapposizione; esperienze analizzate alla luce della vicina rivoluzione freudiana, con intelligenti aperture alla psichiatria e alla psicologia otto-novecentesca. In questo contesto interpretativo si è mosso anche S. Ferrari, Psicologia come romanzo. Dalle storie di isteria agli studi sull’ ipnotismo cit., che privilegia però in particolare la «psicologia del profondo». Perché, spiega Ferrari, «tenta di accogliere e conciliare» le «due anime» della psicologia: specificità scientifica, del resto «negata» dalle scienze naturali cui essa affida il grado della propria sperimentabilità, e sapienza antica, quella dei poeti ma anche di molti scienziati. Diviene così la disciplina che interpreta in maniera più naturale il disagio e l’ansia dell’orizzonte scientifico, letterario e sociale fin de siècle.
2°. È il caso soprattutto, mi sembra, di A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Otto e Novecento cit., pp. 242-248, e di A. Mazzarella, // pia-
286
Ebing e, poi, di Freud sulla struttura bipolare della pulsione d’impossessa-
mento °°. Con questo non si vuol dire che sia scorretto precisare brillanti anticipazioni e dichiarare via via singolari coincidenze di testi lontani nel tempo e nello spazio, anche se non di molto, giustamente evidenziando una sensibilità d’eccezione che capta nel proprio orizzonte culturale, con una fittissima rete di letture *!, una quantità impressionante di stimoli e linee di sviluppo. Solo avvertire i limiti di una premessa che tende a irrigidire la ricerca entro le coordinate di una dicotomia che organizza e fissa una volta per tutte la fisionomia e, con essa, la patologia dei due personaggi principali, non scorgendo, a mio avviso, quanto della malattia femminile, nella specifica caratterizzazione dell’isterismo e della sterilità, risponda a una proiezione illusionistica, pur con debiti scientifici, propria del punto di vista maschile all’interno del racconto (e non solo a livello autoriale, fuori del testo). In-
somma, non mi sembra che si possa rinviare immediatamente il discorso a delle categorie interpretative extraletterarie con le quali il romanzo dannunziano sembra giocare in anticipo. L'occasione è ghiotta — è vero — ed è facile compilare delle cartelle cliniche leggendo il Trionfo della morte *?. Tuttavia, se non si tiene conto precedentemente dello straniamento operato dalla focalizzazione interna sul protagonista, complice anche un narratore che oscilla fra un’ambigua adesione alle eroiche e misogine meditazioni di
cere e la morte. Sul primo D’ Annunzio cit., pp. 77-78 (ma cfr. tutto il cap. II, La discordia dei sessi, pp. 71-86). Un implicito e ‘ironico’ invito alla calma nel cercare determinati accostamenti è quello di Annamaria Andreoli, Gabriele
D’ Annunzio, Firenze, La Nuova Italia, 1986,
pp. 38-39. Una biografia critica, questa, che tiene ben presente, oltre al contesto in cui opera l’autore, la «teoria della percezione che lo fa attento persino ai minimi dettagli, a cominciare dalla veste tipografica del libro [...] fino all’oculatissimo dosaggio della réclame» (p. 45) e che attenua conseguentemente ogni scelta letteraria e ideologica di uno spirito mai sazio ma anche attento alle esigenze dell’editoria e dei lettori. Per 1’Andreoli alcune «sprezzature» della donna nel Trionfo della morte — ricordiamolo, è del 1894 e la gestazione, piuttosto lunga, risale al 1889 — appartengono a un «catechismo misogino, utile alla finzione romanzesca» di un testo partorito da «quasi un Weininger». 30 V. Roda, // soggetto centrifugo. Studi sulla letteratura italiana tra 800 e 900 cit., pp.
292-293. 1 3 «Je crois qu’il faut avoir tout lu»; «Oh! dit-il, j'ai une méthode à moi pour lire vite et tous les livres. Je suis un terrible travailleur [...]» (André Gide, Journal (1889-1939), Paris,
Gallimard, 1965, p. 62). Cfr. Guy Tosi, // personaggio di Giorgio Aurispa nei suoi rapporti con la cultura francese, in AA.VV., Trionfo della morte. Atti del III Convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara, Centro nazionale di studi dannunziani, 1983, pp. 129-130.
32
A. Mazzarella, // piacere e la morte cit., pp. 78-79.
287
Giorgio e uno smascheramento delle sue stigmate, si rischia di perdere di vista la vera identità e le relazioni dei due amanti, esaltandone o, al contrario, sminuendone la funzione sostenuta all’interno del meccanismo narra-
tivo. Intendendo semplicemente per ‘funzione’ la somma delle esperienze che li caratterizzano come entità autonome e nei loro reciproci rapporti. E nella prospettiva di questo lavoro, che non ha la pretesa di esaurire il problema della rappresentazione della sterilità e dell’isteria e le complesse dinamiche testuali ad esso innegabilmente connesse, si potrebbe pensare, per esempio, alla diversa disposizione di Giorgio e Ippolita in due emblematici momenti della loro storia d’amore. Scelta che — oltre a rintracciare, come vedremo, due diversi aspetti della narrazione, due ‘forme’
distinte del rapporto romanzo-malattia (rapporto che comunque non muta col mutare della rappresentazione) — ha l’intenzione di rendere palese il già evidente legame che nel Trionfo della morte collega strettamente il dato pa-
tologico alla seduzione del corpo femminile *. La separazione definitiva, ovvero gli episodi immediatamente precedenti alla «lotta breve e feroce come tra nemici implacabili» che in VI, II riassumono i processi morbosi sottesi alla fine della relazione. E penso si possa parlare di «separazione» nonostante il finale ‘epico-tragico’ ne enfatizzi il vincolo e non la frattura («E precipitarono nella morte avvinti» *). Insinuando forse, oltre i classici riferimenti, per l’epoca, dell’androginia e dell’«identité masculine en crise» 3, una più ambigua e implicita ‘conciliazione’ — e non comunque una suprema cristallizzazione — degli opposti nel «non-savoir», nell’«ignorance» del punto estremo, della «définitive sortie» 3°
dalla vita (malattia-salute, lassezza-energia, amore-morte, follia-ragione, natura-pensiero; dove i primi termini delle coppie oppositive non sono interamente ascrivibili o, meglio, isolabili nel personaggio femminile e viceversa). E la separazione temporanea dovuta alla malattia della donna. «Un terribile male, già da lei sofferto nell’infanzia, un male nervoso che aveva
le forme dell’epilessia» 3”, confuso forse volontariamente nell’iter del ro-
Mi sia consentito rinviare a Luciano Curreri, Seduzione e malattia nella narrativa
italiana postunitaria, in «Otto/Novecento», 1992, 3-4, pp. 53-78. 34. G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 1018. 35 Annelise Maugue, L’identité masculine en crise au tornant du siècle (1871-1914), Paris-Marseille, Rivages, 1987. Sui percorsi dell’androginia fra Ottocento e Novecento cfr. Franca Franchi, Le metamorfosi di Zambinella, Bergamo, Lubrina, 1991. 3 J. Starobisnki, L'épée d’ Ajax, in Trois fureurs cit., p. 55.
®.
288
G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 694.
manzo, assecondando le vecchie teorie uterine che continuavano a godere nella ginecologia dell’epoca di un credito indubbio, con un ritorno della «malattia della matrice», probabile causa della sterilità. Infatti, questo morbo, che colpisce Ippolita subito dopo le nozze e la preserva dal «contatto odioso con l’uomo che s’era impadronito di lei come d’una preda inerte», lascia alla donna «un residuo d’isteralgia» che si manifesta con forme simili a quelle di un attacco istero-epilettico: «contrazioni di spasimo», «sincopi gelide che la facevano sembrare morta», «convulsioni raccolte i cui soli sintomi esterni erano il pallore livido, lo stridore dei denti, la contrat-
tura delle dita, lo sparire dell’iride nel bianco sotto la palpebra» **. Ma bisogna andare oltre. Spingere lo sguardo al di là della terminologia e della sintomatologia dei disturbi isterici, con la diagnosi, già di Charcot e poi, verso nuove profondità, di Freud e Breuer *, della malattia del sistema nervoso come manifestazione di un morbo che affonda le sue radici nel «passato». Passato che qui e in altre parti del romanzo rovina nell’«artificio», invenzione della memoria che non ‘scava’ terapeuticamente nello stato patologico dell’amante ma serve solo a ricostruirne una biografia ‘reale’ e uno status sociale sul piano della vicenda romanzesca. Ci si potrebbe chiedere, inseguendo le riflessioni di Igor Alexander Caruso “, quale sia il punto di vista che nel testo indaga sulla prima forzata separazione e in che misura tenda ad «esorcizzare», esaltandola, la presenza della morte nella vita fino a rovesciarne i termini (la vita contaminata dalla morte, dalla visione della malattia) in un dolore narcisistico che finisce
per soffocare l’‘altro’ nell’omicidio premeditato e compiuto (e non solo pensato come rinuncia masochistica all’oggetto amato nella drammatica impraticabilità di un amore sterile) sul piano del ‘reale’ come attuazione di un meccanismo di difesa e di una «salvazione». Salvazione che, quasi come in una parabola, «pour donner une figure au résidu d’hostilité» si ado-
pera per «inventer l’ Anti-Christ» “! e per trovarlo nella donna malata. O forse, più semplicemente, Giorgio ha bisogno di una controfigura per morire,
38 Ivi, pp. 810-811, 814. % Joseph Breuer-Sigmund Freud, Studi sull’ isteria (1892-1895), in Sigmund Freud, Opere, a cura di Cesare Luigi Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, I, pp. 161-439. Ma si vedano anche, nello stesso volume, gli Abbozzi per la «Comunicazione preliminare» (1892),
pp. 135-146. 4 Igor Alexander Caruso, La separazione degli amanti. Una fenomenologia della morte, Torino, Einaudi, 1988.
4
J. Starobinski, Le combat avec légion, in Trois fureurs cit., p. 110.
289
per potere rappresentare attraverso la morte dell’amante, nel silenzio della sua coscienza ‘bloccata’, la sua stessa morte; perché, come tutti noi, non
può immaginare di essere personalmente colpito da quell’evento «toujours
étrangère à l’essence de la créature» 4; perché continua ad essere uno spettatore importuno, uno sguardo vivo su un morire fittizio *. In questa prospettiva «le saut dans la mer» — anticipato significativamente con esito negativo in una «experience d’énergie comme celle de la nage» nell’episodio del bagno (V, VII) —, «saut dans l’inconnu» a cui Bachelard fa reclamare «un don total, un don intime» e «l’action vigoureuse d’un génitif», delega alla donna la morte nella sua duplice e contraddittoria dimensione di evento naturale e fatto patologico*#e suggella la fine dell’alternativa fra illusione e malattia, fra desiderio e coraggio, infine fra amore e morte. Nell’«initiation dangereuse», nell’«initiation hostile» “ di un’ac-
qua sanguigna «féminine et néfaste par excellence» ‘° Giorgio finisce così per contemplare insieme l’attaccamento e la disidentificazione dall’‘oggetto’, la lotta e la conciliazione.
S. La prima separazione degli amanti ci viene raccontata per lettera o, meglio, attraverso quel ‘gioco’ epistolare in cui Ippolita offre a Giorgio l’opportunità di ricontemplare le proprie visioni. Un gioco della memoria dove il narratore è chiamato a colmare il vuoto d’informazione che crea lo stralcio del protagonista ma soprattutto dove il personaggio «se substitue à l’auteur et l’évince, puisqu’il est lui-même l’écrivain» e, in quel preciso momento, «personne ne parle ni ne pense à sa place, c’est lui qui tient la plume» “7. La lettera cede a Giorgio la voce narrativa e gli permette di scrivere il racconto dal suo punto di vista, dall’ottica di chi, attraverso la lettura di un trattato di malattie nervose e il meccanismo illusionistico della visione, opera un netto capovolgimento dei valori e dei desideri che solitamente ac-
Vladimir Jankélévitch, La mort, Paris, Flammarion, 1977, p. 53. Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Opere cit., 1992, VII, p. 137. Cfr. inoltre I. A. Caruso, La separazione degli amanti cit., pp. 29-35. 4. G. Bachelard, L'eau et le rêves cit., pp. 222, 224 e 221. 43
DEBIvinpa222) * Gilbert Durand, Les structures anthropologiques de l'imaginaire. Introduction à l’archétypologie générale, Paris, Dunod, 1984, p. 107 (ma cfr. pp. 103-110). #7 Jean Rousset, Forme et signification. Essai sur les structures littéraires de Corneille à Claudel, Paris, Corti, 1962, p. 68.
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compagnano una lettera indirizzata a un infermo. A tal punto che il ‘romanzo” epistolare di I, VI finisce per autocontestare la sua stessa funzione strutturale, di tranche de vie, e per trasformarsi in un quadro onirico, il cui
significato, oltre «le sadisme profond du traitement infligé à la figure féminine», oscilla «entre avoir peur et faire peur, entre la vision épouvantée et le voyeurisme» connesso allo spettacolo della donna tormentata dalla
malattia 4: Tu non immaginerai giammai lo sbigottimento ch’io ho nello spirito. La mia tortura maggiore è questa implacabile lucidezza della visione fantastica. Io ti vedo contorcerti, nell’accesso; io vedo i tuoi lineamenti scomporsi e illividirsi, i
tuoi occhi volgersi disperatamente sotto le palpebre rosse di pianto ... Io vedo tutta la terribilità del male, come s’io ti fossi vicino; e, per quanti sforzi io fac-
cia, non riesco a scacciare l’orrida visione. E poi, mi sento chiamare. Ho proprio negli orecchi il suono della tua voce, un suono roco e lamentevole, come di chi
chiede aiuto e non ha speranza di aiuto ‘.
E nella lettera di «tre giorni dopo» si legge ancora: Duro fatica a scriverti queste righe. Vorrei rimanere immobile, in silenzio, là
nell’angolo, nell’ombra, a pensare, ad evocare la tua imagine, ad evocare il tuo male, a vederti. Provo non so quale attrazione irresistibile verso questa tortura volontaria [...]. Mio Dio! Vedo le tue mani pallide e convulse; e vedo tra le di-
ta la ciocca dei capelli strappati...’ Quello che colpisce, con un’evidenza singolare, è che non si tratta di
un sogno 0, se si vuole, di un «rêve typique». Vale a dire di una visione nel sonno influenzata dallo stato di salute dell’amata. Il mittente reclama con forza l’«implacabile lucidezza della visione fantastica» e la mostra intenzionalmente «non comme un simple emblème» di un moto dell’anima «mais comme
une scène “vécue”» 5, A tal punto che la lettera, la scrittura,
non solo non possono diventare un compte-rendu sulla vita dei due amanti ma finiscono per essere percepite come degli ostacoli alla piena espansione (e fruizione) dell’attività onirica («Duro fatica a scrivere queste righe»).
48. J. Starobinski, La vision de la dormeuse, in Trois fureurs cit., p. 131.
4
G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., pp. 694-695.
5!
J. Starobinski, La vision de la dormeuse cit., p. 136.
50 Ivi, p. 695.
201
Giorgio vuole rivivere nella sua interezza il ‘terrore’ del male, il patimento della donna soffocata dalle convulsioni ma con «l’importante différence de l’extériorité transformant en spectacle ce qui fut vécu sans possi-
bilité de recul» °°. Ed è in questa prospettiva di simulazione che trova un uso legittimo il trattato di malattie nervose, la cui lettura è citata nella lettera immediatamente successiva col pretesto di rassicurare Ippolita riguardo la sua guarigione: Tu disperi senza ragione. Ieri passai gran parte della giornata intorno a un trattato su le malattie nervose, per conoscere il tuo male. Tu guarirai, certamente”.
La visione, per diventare tale, deve precisarsi, lasciarsi afferrare dal soggetto che la evoca. Logico allora il rinvio scientifico ad una autorevole fonte d’informazione quale un saggio sulle malattie del sistema nervoso. Tradizione medica (medico-letteraria) e voyeurismo diventano così le coordinate all’interno delle quali il protagonista rintraccia la possibilità di dire la donna e la malattia. Se ora pensiamo con Alessandro Fontana che «la natura dell’isteria, se di natura si può parlare, è stata proprio in questo esistere nell’apparire, come se esistenza e apparenza non fossero che un tutt'uno, come se l’essere non fosse che nel mostrarsi» °*, possiamo comprendere bene come il «terribile male» di Ippolita, quel «male nervoso che aveva le forme dell’epilessia» °°, provochi e autorizzi l’osservazione fantastica di Giorgio, il «rapporto di evocazione e di dipendenza reciproca di cui l’ipnotismo sarà la figura simbolica» °°. Nel nostro caso specifico però, Giorgio, ipnotizzatore e ipnotizzato, di fatto entrerà nella visione, si sentirà chiamare. Se è vero che «l’occhio suscita il morbo e il morbo non esiste senza l’occhio» °7, è anche vero che qui occhio e morbo si identificano pienamente. L’uomo che vede soffre e fa
SAMI VIa s: 9. G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., pp. 695-696. 54 Alessandro Fontana, L'ultima scena, in Désiré-Magloire Bourneville, Paul-MarieLéon Regnard, Tre storie d’isteria, Venezia, Marsilio, 1982, p. 15. Ma sul problema della natura dell’isterismo si veda l’intelligente e stimolante discorso di Thomas S. Szasz, // mito della malattia mentale.
Fondamenti per una teoria del comportamento individuale, Milano, Il
Saggiatore, 1980; in particolare pp. 25-64 e 97-124. 9° G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 694. 5A. Fontana, L'ultima scena cit., p. 16.
M
292
Je je 17
soffrire. Non c’è teatro, rappresentazione e distribuzione dramatis personae, ma solo autoconstatazione del proprio diviso». La conoscenza è perduta. Malattia e illusione, scienza e sogno si confondono catrice del protagonista. Ma la differenza fra i termini,
scientifica delle ruolo, «uno e innella parola evoconcepiti come
estremi, resta e il romanzo deve scegliere la sua via, la sua «bellezza». An-
che il suo modo di uscire dall’«analisi», di salvare nel «sogno» una ricerca «materiale» sulla donna e sull’isteria. L’idea è che la fiction di D’ Annunzio, contro la «scienza della psiche umana» verso la quale «i nuovi romanzieri d’Italia» inclinano, si rifiuti di
divenire «anatomia», analisi metodica e minuziosa del sistema nervoso, dissezione di un fenomeno psicofisiologico come l’istero-epilessia, misura e catalogo «con precisione grafica» delle alterazioni indotte negli organi e nei tessuti da questo processo morboso. Nel romanzo non deve funzionare tutto come nelle lezioni di Charcot, che cattura e riproduce «con indiscutibile esattezza» la malattia e i «fenomeni [...] così stravaganti e bizzarri» ad
essa connessi °°. L'analisi può servire come punto di partenza. Il trattato, lo studio scientifico sono fonti d’informazione necessarie ma non devono — e,
di fatto, non possono — ostruire l’accesso dell’uomo all’«incoercibile so-
gno» 99, È bellissima, oggi. È pallida. Mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata [...]. Il suo viso ha quasi sempre un’espressione profonda, significativa, appassionata. Qui sta il segreto del suo fascino. La sua bellezza non mi stanca mai; mi suggerisce sempre un sogno. Di che si compone la sua bellezza? Non saprei dire. Materialmente, non è bella [...] °°.
Lo sguardo del «Dormeur éveillé» non legge la malattia; non è un testimone silenzioso che sorveglia uno stato patologico per ascoltarne il linguaggio. In questa nuova visibilità non è più lo sguardo clinico di cui parla Foucault: puro, muto e senza gesto‘!. Nella visione di Giorgio «tramonta il vecchio tema della naturalità dell’oggetto e quello, più recente, dell’ob-
58 C. Richet, Les démoniaques d'aujourd'hui, in S. Ferrari, Psicologia come romanzo. Dalle storie di isteria agli studi sull’ipnotismo cit., p. 135.
5 6
G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 641. Ivi, pp. 652-653.
6! Michel Foucault, Nascita della clinica, naudi, 1982, pp. 126-143.
a cura di Alessandro Fontana, Torino, Ei-
295
biettività dello sguardo» e la malattia prende forma nel «teatro di posa» dell’isteria («Il suo viso ha quasi sempre un’espressione profonda, significativa, appassionata») che è all’origine di opere come l’/conographie photografique de la Salpétriere (1876-1880) di Bourneville e Regnard, o Les démoniaques dans l’art (1887) di Charcot e Richer®?. L’occhio crea il proprio mondo, ne tutela e ne difende l’esistenza, a costo di chiudersi in quell’isolamento, in quella perdita di tensione conoscitiva che con Bachtin potremmo indicare come «comprensione passi-
va». L’eroe perde di vista l’«oggetto» e ragiona solo sulla sua parola, che si rovescia su se stessa. La malattia ‘osservata’ non è quella di Ippolita ma quella conosciuta nel trattato e proiettata sull’imago della visione. La donna del Trionfo della morte non è quella ‘reale’ ma quella evocata nella lettera e poi duplicata continuamente nel corso del romanzo. Giorgio non illumina l’«oggetto» e aspira «alla piena riproduzione di ciò che è già dato nella parola compresa» ‘*. È per questo che, nonostante cerchi di mettere «nelle sue parole la sicurezza e l’esattezza dimostrativa apprese nelle pagine degli analisti», viene meno in lui la fiducia nella
«materiale angustia» della parola, «segno imperfetto» % che non rispetta e rompe il silenzio dell’ipnosi. Così come la vitalità che Ippolita naturalmente manifesta all’eremo tradisce il «cadavere» della visione. Le «dipendenze reciproche» tra evocatore e réverie, tra occhio e morbo (e tra uomo e donna), e ancora tra il vortice malinconico del passato e il presente trasfigurato dal voyeurismo visionario, trovano così una loro privilegiata dimensione nel «silenzio» del pensiero, spazio verginale in cui chiudere la storia e il destino dell’io al contatto di quel mondo sconosciuto, lontano, fuori del nostro campo visivo e delle modalità specifiche della nostra osservazione.
©. A. Fontana, L'ultima scena in D.-M. Bourneville, P. M. L. Regnard, Tre storie d'isteria cit., p. 17, volume che offre una traduzione parziale della monumentale /conographie; Jean
Martin Charcot-Paul Richer, Les Démoniaques dans l'art, Paris, Delahaye et Lecrosnier, 1887, ora tr. it. Milano, Spirali, 1980. Cfr. inoltre, sulla «scène toute visuelle de la consultation de Charcot» in rapporto alla nuova ricerca freudiana, Jean Bertrand Pontalis, Entre Freud et Charcot: d'une scène à l’autre, in Entre le rêve et la douleur, Paris, Gallimard, 1983, pp. 11-17. 8 Michail Bachtin, Estetica e romanzo, a cura di Clara Strada Janovië, Torino, Einaudi, 1979, p. 89.
4
Ibidem.
G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 648. Ivi, pp. 690 e 650.
294
Il silenzio dell’«autopsia» (œdtowi@), nel significato etimologico del termine di ‘osservare con i propri occhi, con la propria vista’, sostituisce il discorso dell’«anatomia», la parola che seziona. E l’infelice frase («[...] le
parve volgarissima, poco feminina, acerba») di Ippolita, «l’anatomia presuppone il cadavere», corre sul filo di queste considerazioni più di quanto non si possa pensare di primo acchito. La donna coglie con feroce immediatezza l’operazione che compie su di lei il «pensiero [...] sempre nuovo e sempre diverso» dell’amante che, sotto la superficie del «segno», del discorso, aliena e ‘svuota’ il corpo femminile, rinviando la realtà delle cose
oltre il linguaggio nella cristallizzazione e nell’assolutizzazione della visione, nuovo ‘referente’ dove le parole del corpo muoiono e nasce il si-
lenzio del «cadavere» ‘?. 6. Se si tiene conto di questa prospettiva straniata, di questo orizzonte limitato in cui entrano in gioco vicendevolmente la «bivocità poetica» % di Giorgio e il meccanismo illusionistico della visione, che sostituiscono nel
silenzio del pensiero l’assenza della parola e della comprensione, ovvero l’autonomia significante del corpo, della malattia e delle loro immagini verbali, l’essere e l’esistenza della donna saranno rilevabili secondo dei criteri di lettura che non escluderanno dall’interpretazione l’aspetto ‘simbolico intertestuale” ma nemmeno tenderanno a enfatizzarla unicamente in questa direzione. In questo modo si potranno sanare alcune apparenti e irriducibili contraddizioni di Ippolita (malattia-salute; morte-vita; finzione-spontaneità; silenzio-parola; paura del mare e contatto privilegiato con la natura) e la donna non sarà necessariamente costretta (‘immobilizzata’) sempre e soltanto attraverso i classici epiteti (bestialità, medianicità, assenza di volontà norma e dovere, frammentarietà, simulazione, differenza e caducità) di fa-
cili schemi antropologici e psicologici, nostrani o non, ereditati da un dibattito sulla sensibilità femminile le cui influenze, anche in Italia, si fanno
sentire ma vanno registrate come ipotesi lungo un percorso di lettura che può produrre fecondi e brillanti accostamenti, verificabili, poi, analitica-
mente, testo per testo. Se nel Trionfo della morte concentrare in Ippolita una sensibilità sessuale suprema, «superiore», e invalidarne le potenzialità di madre nel circuito sociale con la sterilità può significare una condanna totale del fem-
POV 68
D 692:
La formula è mia ma è derivata dalle riflessioni di M. Bachtin, Estetica e romanzo
cit., pp. 93-96.
295
minino ®; se l’isterismo può evocare con lo spettro del passato l’«autarchica aseità» 7° di una donna che, sulla scia forse di Fosca e, soprattutto, di
Marina di Malombra, chiusa nella prigione degli eventi remoti (siano essi personali o extrapersonali, episodi della memoria o avvenimenti che presuppongono freudianamente una dissociazione, una disgregazione del contenuto di coscienza”), trova la forza di agire nel presente, nella salute del suo corpo inviolabile, serrato ai vincoli della maternità e misteriosamente
aperto ai momentanei e indecifrabili abbandoni al piacere (peraltro vissuti da Giorgio con timore, con un’ansia di castrazione che ci potrebbe far supporre un ritorno della favola minacciosa della «vagina dentata» 7°); se è possibile ‘sognare’, seguendo le ‘censure’ di quel «grand bourgeois mi-
® Cfr. L. Curreri, Seduzione e malattia nella narrativa italiana postunitaria cit., pp. 59-61 e, in una prospettiva diversa, Giorgio Bàrberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, pp. 28-29. Si pensi, a proposito, ad un passo significativo della Germinie Lacerteux di Edmond e Jules de Goncourt (a cura di Nadine Satiat, Paris, Flammarion,
1990, p. 148): «Il lui semblait sentir d’avance son coeur de mère apaiser et purifier son coeur de femme. Dans sa fille, elle voyait je ne sais quoi de céleste qui la rachèterait et la guérirait, comme un petit ange de délivrance, sorti de ses fautes pour la disputer et la reprendre aux influences mauvaises qui la poursuivaient et dont elle se croyait parfois possédée».
7
V. Roda, Il soggetto centrifugo cit., p. 280.
7 Sarebbe forse possibile rileggere Fosca (1869), Malombra (1881) e il Trionfo della morte (1894) seguendo le evoluzioni di una malattia (tra follia, possessione e isterismo) che
rende schiava la donna del passato e, paradossalmente, la libera nel presente, di fatto emancipandola dal suo stesso stato patologico; oltre che dal dal suo limitato orizzonte di attese esistenziali. Un accenno in questa direzione si trova in G. Bàrberi Squarotti, Tarchetti, la malattia, la morte, in Dall’anima al sottosuolo. Problemi della letteratura dell’ Ottocento da Leopardi a Lucini, Ravenna, Longo, 1982, pp. 59-80. Credo però che, soprattutto in Fosca e nel romanzo dannunziano, il passato della donna sia, come ho già anticipato e come preciserò meglio in seguito, un artificio del racconto, un’invenzione che permette al narratore di ricostruire un background utile alla struttura della finzione romanzesca, ma che non marca l’intreccio, il plot, l’azione di personaggi destinati a rimanere avvolti in una biografia sostanzialmente fittizia, proiezione di uno sguardo ‘alterato’, che a piacere ritrova e ricrea i ‘frammenti’ del reale. Come reclama, anche se in un diverso contesto d’analisi, Mario Ricciardi: «Il ricupero dell’esperienza trascorsa diviene l’unico modo di concedere a Ippolita un retroterra di vita vissuta» (Coscienza e struttura nella prosa di D’ Annunzio, Torino, Giappichelli, 1970, p. 111).
7
Cfr. Wolfgang Lederer, Ginofobia: la paura delle donne, Milano, Feltrinelli, 1973,
pp. 49-57; Pietro Angelini, Le cattive madri. L'emarginazione della donna e il mito maschile del matriarcato, Roma, Savelli, 1974, pp. 35-50; Bradley A. Te Paske, // rito dello stupro.
Il sacrificio delle donne nella violenza sessuale, Como, Red, 1987, pp. 97-98, dove l’immagine della vagina dentata è significativamente ricondotta entro un’analisi tesa a ricostruire l’importanza della paura del femminile nei modelli archetipici dello stupro (cfr. pp. 91-99).
296
sogyne» 7 di Charcot, che l’isteria abbia indotto in Ippolita, separatamente dalla scuola erotica di Giorgio, l’eccelsa predisposizione alle «sapienze» e alle «seduzioni» del sesso («[...] ella portava occulto nella sua sostanza un morbo che pareva talvolta illuminare misteriosamente la sua sensibilità» 74)
e che, infine, abbia partorito, in questa esaltazione sessuale forse riconducibile agli atteggiamenti disinibiti e alle esalazioni liquide vaginali delle isteriche della Salpétrière ”, la sterilità («[...] ella era, infine, sterile» 79), con un’implicita rivendicazione del piacere femminile, autonomo e in sé apprezzabile, come quello maschile, e non più vincolabile, se non per scelta, al fondamentale compito della procreazione; o viceversa, se lasciamo cadere le insinuanti ma riciclate supposizioni della Bannour sull’esclusione charcotiana della «chose génitale» nella descrizione della «grande attaque hystérique» e nella sua eziologia come una esclusione volontaria dal campo di studio e di osservazione scientifica della vita di relazione delle donne e delle meccaniche affettive familiari nella società francese del secondo Ottocento, e misuriamo invece, con Fontana, l’impossibilità per i tempi di pensare a una ricerca di questo tipo ?”, potremmo riconoscere in Charcot colui che ha staccato «le point de départ» necessario dell’isteria dagli «organes génitaux», da «la lubricité» e da «l’ovaire», «toujours en jeu» nella
«doctrine ancienne» — dalla psicopatologia greca e romana «jusqu’au XVIII siècle» e oltre — che alle donne aveva sempre prescritto il matrimonio come psicofarmaco ’8, e individuare in Ippolita una «forma pura, senza correlato organico, di un’affezione nervosa in cui si ritrovano come
doppioni [...] tutti i sintomi delle malattie mentali e organiche» ?°; se possiamo davvero pensare e proporre queste (e altre) interpretazioni, mimando il caleidoscopio patologico dell’isteria, non è detto però che tutte queste ipotesi trovino in se stesse le proprie legittimazioni e un sicuro e libero cor-
73. 7% 75. 7%
Wanda Bannour, Jean-Martin Charcot et l’ hystérie, Paris, Métailié, 1992, p. 8. G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 1003. W. Bannour, Jean-Martin Charcot et l’ hystérie cit., pp. 202-213. G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 1004. Per la sterilità di Ippolita cfr. anche
il passo a p. 808. Rinvio inoltre all’ultimo paragrafo di questo lavoro, dove accenno brevemente alle opposte associazioni fra il riso isterico e la sterilità dell'amante e fra le «risa schiette» di Candia e il suo stato di donna incinta.
77
A. Fontana, L'ultima scena cit., pp. 28-30.
78
Étienne Trillat, Histoire de l’hystérie, Paris, Seghers, 1986, p. 133; ma cfr. pp. 13-36
e 132-138. 79 A, Fontana, L'ultima scena cit., p. 26.
297
so. Sono letture «possibili», ‘frammenti’ che appartengono al romanzo dannunziano nella misura in cui la letteratura, narrativa medica critica, di cui
probabilmente è nutrito, ne sottrae e ne rafforza delle parti assolutizzandole e vincolandole a un senso già dato, costruito fuori del testo. E se la polisemia del testo (e di questo testo in particolare) stimola idee audaci, l’analisi, anche nelle forme di una trattazione sintetica come
nel caso del presente intervento, deve sforzarsi di ricondurle entro la dinamica strutturale che le ha partorite, affrontando l’opera «non come se si trattasse di un vettore orientato compattamente in un solo senso, ma come
se fosse una fonte di luce che irraggia in più direzioni, o un campo di forze
in equilibrio relativamente instabile» *. In questa prospettiva i percorsi interpretativi sopra elencati devono necessariamente fare i conti con l’amplificazione, l’esaltazione spasmodica dello sguardo maschile, non un vettore, una freccia, ma un fascio luminoso che assorbe, falsandola, tutta la realtà circostante. E il risultato dello stra-
niamento che opera sul testo il punto di vista di Giorgio Aurispa — che incertamente ci segnala la sua difficoltà a prendere contatto col mondo e a chiarirlo fra incursioni scientifiche e fughe nel sogno e nell’abisso della malinconia — è l’«universo», il referente con il quale si confrontano e si de-
vono sempre confrontare le altre realtà linguistiche, le altre voci del testo
(dal narratore a Ippolita).
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Il primo interprete a cui bisogna risalire è l’uomo. La prefazione è, a riguardo, estremamente limpida e il testo è costruito attraverso la focalizzazione interna sul protagonista, «modello dello mondo» *'. Il personaggio femminile è un accessorio, la «bella donna voluttuaria» *? è, si potrebbe dire ri-
prendendo una stoccata di Lord Henry a Dorian Gray, «sesso decorativo» 83.
8°
Franco Moretti, L'anima e l’arpia. Riflessioni sugli scopi e i metodi della storio-
grafia letteraria, in Segni e stili del moderno, Torino, Einaudi, 1987, p. 27.
8! G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 640. #2 Ivi, p. 643. 8 Oscar Wilde, // ritratto di Dorian Gray, in Opere, a cura di Masolino d’ Amico, Milano, Mondadori, 1990, p. 44. Solo una precisazione. Il testo del romanzo pubblicato in questa edizione corrisponde alla versione originaria, apparsa sul «Lippincott’s Monthly Magazine» nel luglio del 1890. Le varie edizioni correnti dell’opera si rifanno invece alla pubblicazione in volume dell’anno dopo (aprile 1891), che presenta una ristrutturazione generale della materia in un nuovo ordine, sostanzialmente dovuto all’aggiunta di diversi capitoli. Il passo, da cui è estrapolata la nostra citazione, è presente comunque in entrambe; al capitolo III nella prima edizione, al capitolo IV in quella in volume. Cfr. per esempio Oscar Wilde, // ritratto di Dorian Gray, a cura di Franco Marenco, Milano, Garzanti, 1981, p. 66.
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E mi risulta difficile non pensare a quella figura di donna aureolata, alla maniera preraffaellita, di Sartorio per la prima puntata de L’invincibile. O a certi programmi editoriali in cui erano fondamentali le copertine (dalla «Collana moderna» di Angelo Sommaruga ad alcune pubblicazioni della Tipogra-
fia Editrice di Napoli) **. Il corpo femminile è «materia» Ÿ su cui far esercitare le aspirazioni di una «coscienza sempre vigile», nello stato di ragione come nel sonno; quel sonno indotto in cui «l’intelligenza» è «forse pervertita» ma «non è diminuita [...] anzi sovreccitata e assai viva» %. E forse Munch è uno dei pochi che ha tradotto questa cerebrale ossessione erotica in un'immagine diretta, fuori dei tradizionali percorsi visivi. Penso a un’opera del 1897, /n un cervello d'uomo, dove «le crâne ouvert donne directement la «réponse»: ce
qu’il y a dans le cerveau de l’homme, c’est un corps de femme» È”. Ma nel Trionfo della morte è possibile rintracciare anche un’autonoma identità femminile. Dietro l’immagine della «Nemica» c’è un corpo che fugge. Non un ‘doppio’ che elude l’azione appropriativa dell’uomo convertendola, secondo il bipolarismo della pulsione d’impossessamento, nell’annichilazione del visionario creatore, né una piccola borghese che non intende nulla della dimensione patologica in cui si esalta il raffinato ‘gioco’
spiritual-erotico dell’amante **. La malattia e la salute, il fascino e il carattere della donna, si potranno ritrovare nello scarto che si produce, nel testo, fra l’illusione che creano
la medicina e la psichiatria utilizzate nell’ottica deformante e falsante del protagonista e la realtà, la vera dimensione del corpo femminile, che fa capolino nelle stesse parole di Ippolita, nei silenzi, nei gesti e nei lineamenti
#4 Si veda Vito Salierno, Gli illustratori di d’ Annunzio, Chieti, Solfanelli, 1989. Cfr., oltre al grande lavoro di Giuseppe Squarciapino, Roma Bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga, Torino, Einaudi, 1950, l’Introduzione di Riccardo Scrivano a Gabriele d’ Annunzio, // libro delle vergini, Milano, Mondadori,
8 8
1980.
Oscar Wilde, // ritratto di Dorian Gray, in Opere cit., p. 44. C. Richet, Les démoniaques d'aujourd'hui, in S. Ferrari, Psicologia come romanzo.
Dalle storie di isteria agli studi sull’ipnotismo cit., p. 157. #7 Claude Quiguer, Femmes et machines de 1900. Lecture d'une obsession modern style, Paris, Klincksieck, 1979, p. 58.
88 V. Roda, // soggetto centrifugo cit., pp. 293 e 284-285. Jacques Goudet intuisce l’«importanza dialettica» di Ippolita ma cristallizza poi la figura femminile («quasi un’allegoria») come «incarnazione della lussuria», come «l’Altra, associata e opposta all’Io, complementare e antagonista» (D'Annunzio romanziere, Firenze, Olschki, 1976, [pp. 113-166], p. 149; ma cfr. in particolare pp. 146-150).
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muliebri, e, mi è parso, in alcuni interventi del narratore, ambiguamente
oscillante fra la volontà di aderire alla prospettiva della donna conferendole un potere di demistificazione e il desiderio di controllarla severamente fino all’inibizione di tale potere. Per esaminare la complessa dinamica dei rapporti fra voce narrativa e personaggi, concentriamoci ora, per una rapida analisi campione, sull’ultimo capitolo del romanzo (VI, II) ovvero sulla seconda e definitiva separazione dei due amanti, cercando di stabilire — là dove non entri in gioco uno strumento come la lettera, che, con una restrizione di campo mirata, in
cui ‘voce’ e ‘modo’ si la scrive — quali siano zandoli o, al contrario, voyeurismo visionario
identificano, conferisce autorità al personaggio che le modalità espressive che regolarizzano, enfatizriconducendoli alla ‘norma’, gli stati patologici del e della malinconia, dell’isterismo e della sterilità.
7. Il Trionfo della morte è un romanzo molto complesso. Nonostante corra ancora sui binari del naturalismo, sviluppandone anche tematiche centrali (dal dramma familiare alla tara dell’eredità, dall’ambivalenza ro-
mantico-positivista fra l’ideale semplicità del paesaggio e delle genti d’Abruzzo e le insane e selvagge masse pellegrinanti a Casalbordino all’ostinazione con cui è ricercato il dato patologico nella realtà), è un racconto spesso inafferrabile, in cui è difficile rintracciare una linéare condotta narrativa. La formazione avventurosa del testo, che ricordavo già in apertura, incide a fondo sulla sua ‘continuità’ stilistica linguistica e tematica *.
Penso che comunque si possano tentare delle considerazioni generali di ordine narratologico e, conservando il discorso su un livello elementare, estendere in prospettiva, oltre il caso specifico del capitolo preso in considerazione,
alcune acquisizioni che si preciseranno
nel corso
dell’analisi.
Analisi di cui anticipo qui sotto sinteticamente i risultati, confidando, per una verifica parziale, nei pochi passi su cui, per brevità, mi sono soffermato. La ‘voce’ è quella di un narratore estraneo alla vicenda che narra. Un narratore esterno e onnisciente che interviene per giudicare la condotta dei
#°. Sulla lunga gestazione e sui rapporti fra la prima stesura, a puntate sulla «Tribuna Illustrata» nel 1890, e quella definitiva, in volume presso Treves nel 1894, si veda Ivanos Cia-
ni, Da L’invincibile al Trionfo della morte, in AA.VV., Trionfo della morte cit., pp. 29-46, che offre anche un quadro sintetico ma esaustivo degli interventi più accreditati e noti sui legami che corrono fra i due testi, da De Michelis a Jacomuzzi, da Paratore al già citato Tosy. Sul
Trionfo come momento di sperimentazione di diverse tecniche narrative, cfr. Floriano Romboli, Un'ipotesi per D’ Annunzio. Note sui romanzi, Pisa, ETS, 1986, pp. 52-55.
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personaggi. Una voce ‘fuori campo’ che in maniera alterna tende a disapprovare o ad enfatizzare le azioni e i pensieri dei due amanti. Anche se bisogna ammettere che l’amplificazione retorica gode di un’estensione quantitativamente limitata e l’intrusione del narratore insegue con più continuità l’obiettivo di correggere gli errori e di colmare i limiti delle prospettive dei due protagonisti, spesso con un evidente intento polemico di riprovazione, talora anche con una certa ironia. Ma sarebbe da verificare, in altra sede, con dovizia di precisi riscontri testuali, quanto del disappunto narratoriale corrisponda a concreto biasimo e non invece a una patologica ricerca sull’amore nella quale non è azzardato forse rintracciare un narcisistico coinvolgimento della voce che racconta; o viceversa ma complementarmente, in che misura l’indulgenza esaurisca la sua funzione come strumento dell’ironia e non tradisca anche un processo di identificazione del narratore con il protagonista, sotteso al quale è probabile un conseguente meccanismo di reciproca autoesaltazione. Non dimenticando però di partire dal testo e di non incollarvi frettolosamente modelli ricostruiti sugli epistolari o presi in prestito dagli scritti misogini di filosofi, neurologi e an-
tropologi fin-de-siècle ”.
% O, ancora, ricavati da note biografiche tout court. Cfr. Ubaldo Serbo, // Trionfo della morte: autobiografia ossessiva di Gabriele d’ Annunzio, in AA.VV., Trionfo della morte cit., pp. 315-324, di cui sono comunque davvero interessanti le considerazioni iniziali sull’ambigua coincidenza fra il protagonista e lo scrittore: «[...] il personaggio e l’autore spesso coincidono, ma nel profondo, e quindi spesso all’insaputa dell’autore stesso, o in modo difforme dalla coscienza ch’egli crede di averne» (p. 316). Considerazioni poi ricondotte fuori del testo
in una non sempre convincente relazione fra fiction e dato biografico, fissata nella formula del «ricordo ossessivo, ricco di componenti simboliche» (p. 317). Ma su questi problemi si vedano le giovanili riflessioni di M. Bachtin, L'autore e l’eroe nell'attività estetica, in L'autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a cura di Clara Strada Janoviè, Torino, Einaudi, 1988, pp. 5-187; in particolare, per il nostro caso specifico, ci sembra possano valere, almeno in parte, le osservazioni generali che si leggono alle pp.17-19, dove Bachtin traccia un quadro sintetico dei percorsi autoriali in un’opera nella quale «l’eroe predomina sull’autore». Utilizzando queste indicazioni, potremmo forse insinuare che l’autore del Trionfo della morte avverte l’esigenza di allontanarsi dall’orizzonte di Giorgio e intuisce che ha bisogno di Ippolita come «punto d’appoggio» per dire il protagonista. Un punto di vista privilegiato, perché ‘altro’ rispetto all’eroe e all’autore, ma che non può sostenere in sé, per le ragioni che vedremo, «l’orientamento emotivo-volitivo materiale dell’eroe e la sua posizione etico-conoscitiva nel mondo [...] con quel che di giusto o di ingiusto, di bene e di male v’è in essa». L’enunciazione femminile è così integrata dal ritorno dell’autore, che però non riesce a raccogliere — ci pare — l’accordo e il disaccordo con l’eroe in un’unica visione che ne trascenda la «bella datità dell’esistenza». Di fatto resta «schiavo» del suo eroe, muore con lui. Di diverso parere è Marziano Guglielminetti. Il critico individua il «limite» della costruzione narrativa dannunziana
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Il ‘modo’ della narrazione è invece, dall’inizio alla fine della vicenda,
Giorgio Aurispa, peraltro in maniera abbastanza netta e rigorosa. Il narratore adotta, come si è già detto, una focalizzazione interna sul protagonista;
ovvero, pur essendo sempre lui a produrre gli enunciati, ci racconta che cosa vede, pensa o prova l’uomo, punto di vista privilegiato, ‘occhio’ del romanzo. ; Sulla complessità di questo sguardo mi sono soffermato più sopra. Ora è il momento di chiedersi se e in che misura ‘voce’ e ‘modo’ coincidano, se e come emergano altre prospettive sul narrato e quale grado di autonomia raggiungano. Solitamente le divaricazioni fra colui che narra e colui che vede e fra un punto di vista principale e uno, o più d’uno, secondarii introducono delle fratture che veicolano nel testo le forme dell’ironia e del riso, della morale, della censura e del controllo”!.
Si potrebbe cominciare col notare che la focalizzazione interna non resta ‘fissa’ sempre su Giorgio e talvolta, anche se raramente, si sposta sulla donna. Adottando questo accorgimento, la ‘voce’ si fa garante della sensibilità femminile. Ma fino a che punto? In un primo livello del récit, dove i points of view si distinguono con facilità e l’orizzonte del personaggio è libero da contaminazioni, questo cambio di prospettiva, questa ‘infrazione’ — in genere breve e presente in quei passi in cui l’alteramento della realtà ad opera dello sguardo maschile è, potremmo dire, «implicito», più subdolo e insinuante — interviene non solo a normalizzare l’istinto visionario dell’uomo quando il voyeurismo del dormeur éveillé pretende nascondersi
nell’atteggiamento soffocante dell’autore che predomina sull’eroe fino a rischiare di comprometterne «per sempre» l’«autonomia di linguaggio e di pensiero». Cfr. L’orazione di D’ Annunzio, in Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964 (ma si cita dalla recente ristampa dal titolo // romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986, [pp. 11-54], pp. 36-37). Per i rapporti fra romanzo e epistolari d'amore cfr. la premessa di Bianca Borletti a Gabriele d’ Annunzio, Lettere a Barbara Leoni, Firenze, Sansoni, 1954, e Paola Sorge, La corrispondenza amorosa di Giorgio e Ippolita nel Trionfo della morte e le lettere a Barbara Leoni, in AA.VV., Trionfo della morte cit., pp. 335-340, che affianca, alle lettere indirizzate a Barbarella e trasposte nel romanzo, un altro piccolo epistolario dedicato a Vinca Sorge Delfico, che «oltre ad illuminare interamente le vicende biografiche del poeta in questo interessante periodo della sua vita [...] permette di valutare nella giusta luce l’epistolario a Barbara Leoni e di precisare il valore che ad esso dà il suo autore» (p. 337), ovvero quello di un componimento esclusivamente letterario.
°
Cfr. su questi punti Gerard Genette, Figures II. Discours du récit, Paris, Seuil, 1972,
e Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma,
Pratiche, 1981.
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dietro una strategia di simulazione, un artificio da «spia», ma esorcizza col riso la facile suggestionabilità, l’‘alibi’ del pensiero, penetrando prepotentemente nel «silenzio» del compagno con la parola. Una parola dialogicamente attiva, rivolta all’oggetto (1’amante) e alla sua concreta conoscenza (un giovane uomo in equilibrio instabile, con abituali malesseri dovuti alla malinconia e all’eccesso dell’attività cerebrale). Una parola che disarmonizza il precario stato psichico di una coscienza oscillante fra la sterilità malinconica del passato e le visioni trasfiguranti del presente. Una parola che cattura le evoluzioni del pensiero e le interpreta correttamente come ‘deviazioni’ patologiche, rompendo l’ipnosi della visione, la dimensione artificiale del sogno. Del resto non ci si può certo attendere che a questa prospettiva sia delegato un compito simile a quello sostenuto da Angiolina in Senilità (1898), dove la donna — la cui «fisionomia si delinea solo attraverso i suoi comportamenti» dal momento che i «moventi psicologici delle sue azioni non sono oggetto di analisi da parte del narratore onnisciente» — è comunque e sempre, «come presenza fisica o virtuale», il «reagente» che fa venire alla luce gli schemi culturali, i miti, gli autoinganni e le maschere mistificanti di
Emilio”. D’ Annunzio non è Svevo; e, ad un secondo livello della narrazione,
dove il gioco dei punti di vista è volutamente confuso e le restrizioni di campo sono ‘spurie’, si avverte, fin dall’inizio del romanzo, un’ambigua adesione fra la ‘voce’ che racconta e il punto di vista privilegiato di Giorgio Aurispa. Una complicità sotterranea e implicita che si manifesta nel controllo che il narratore opera sulla parola di Ippolita, controllo in cui si eclissa totalmente quell’«ironia oggettiva» che nel montaggio narrativo sveviano scaturisce «dall’urto sapientemente provocato tra la prospettiva inattendibile del personaggio e la realtà oggettivata» *. Se al verbo della donna è infatti permesso di funzionare come prospettiva demistificatrice, di svelare i mali fittizii che confondono il compagno, ad esso non è però consentito di guadagnare interamente le illusioni di cui è schiavo l’uomo, di svestirne il corpo femminile e di ricuperarlo
2 Guido Baldi, Introduzione a Italo Svevo, Senilità, Milano, Principato, 1989, p. XXX. 93. Ivi, p. L. Ma si veda anche l’articolo di Franco Petroni, La responsabilità di Emilio, in L’inconscio e le strutture formali. Saggi su Italo Svevo, Padova, Liviana, 1979, pp. 35-61; lavoro che inaugura un modo nuovo di leggere Senilità, cercando, fuori della coscienza di Emilio, il tempo (oggettivo) della storia e la particolare strategia dei punti di vista che Svevo mette in opera in questo romanzo.
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nella sua integrità, nella superficie non lesa dall’uso che del suo stato patologico ha fatto la visione. Alla donna non le è consentito, insomma, di andare oltre la diagnosi per iniziare una terapia, un intervento attivo, per attaccare l’oggetto e non restare confinata nel campo della pura ricezione. La parola di Ippolita ha una forte valenza conoscitiva, che va ben al di là della naturale intuizione femminile esaltata da Weininger nelle forme visionarie del misticismo *. Il suo discorso non è un monologo, è rivolto all’oggetto e dialogizza con esso. La conoscenza non è perduta, come nel caso di Giorgio, ma non è sufficiente, perché la scoperta della «verità» non apre la via ad un vero processo di emancipazione in cui la donna possa ritrovare un corpo libero dalle stigmate dell’isterismo e della sterilità. Ippolita si muove ancora in un dominio di idee che non trascende la sua corporeità e la rinvia a delle coordinate ‘reali’ in cui si possono rintracciare i desideri delusi di una giovane piccolo-borghese: l’ansia, mal celata, di una maternità impossibile, il desiderio di dimenticare, in un uomo che ama, l’«atto di vendita [...] sancito mediante particolari formalità» in
virtù del quale era stata tolstojanamente preda di un «dissoluto» *. Non dimenticando però che qui il dato sociale non è, come per Teresa de L’illusione (1891) o per Silvia di Decadenza (1892), un fattore che disegna in anticipo, scavalcando di fatto la stessa volontà femminile, i movimenti del desiderio. L'indagine sullo status della donna è, come si è detto, un artificio
del racconto, che serve a ricostruire una biografia sul piano della vicenda romanzesca;
biografia che, come qualsiasi altro particolare ‘reale’, è so-
stanzialmente estranea alla visione di Giorgio, l’uomo che uccide non solo
il «fondo plebeo» dell’amante * ma anche tutto ciò che di plebeo alita in lui la volgare eredità paterna. (L’omicidio-suicidio è il destino di «celui qui ne vivre», di chi si affida a una visione e non al gioco dei cono la sfumata e complessa realtà, di chi «se jetant lectif, il en vient inéluctablement à se jeter hors de la
compte sur soi pour punti di vista che dihors de l’ordre colvie», di chi giunge a
intravedere, nell’ombra della morte, nella visione del silenzio supremo, che
«le bonheur est lié au non-savoir». Un «non-savoir» comunque che Giorgio insegue con un’ossessiva ricerca finalizzata in anticipo ad escludere qual-
%. Cfr. A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Otto e Novecento cit., p. 245.
%
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, a cura di Gianlorenzo Pacini, Milano, Feltrinelli,
JO91EpaSdh % G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 1004.
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siasi ‘epico’ tentativo di riconciliazione con la vita (la pietà familiare, la religione del popolo, l’amore della donna), allontanando il reale nella malattia e, di fatto, la malattia nel reale. Si capisce allora come l’utopia della salvezza (e del romanzo) viaggi fra questi estremi, fra proiezione illusionistica e quotidiano, fra sogno e scienza, fino all’occultamento definitivo
della realtà nella finzione. Perché la morte di Giorgio è finzione e il suo «non-savoir» è frutto di un’assenza ‘cercata’, se non proprio teatralmente costruita; e non dura e tragica acquisizione, rientro nel quotidiano e «nouvelle et définitive sortie», come nell’ Aiace di Starobinski. «Sortie en plein
Jour [...] sous le soleil» di un uomo che vede e accetta la propria morte come «son but imminent, et qui peut se retourner vers la vie révolue pour la
contempler à partir d’une fin déjà acceptée» ‘”. Un uomo insomma che vive il suo morire (e non lo immagina come Giorgio, che proietta la morte, come la malattia, nella donna) e morendo si riappropria della vita, perché non ha mai negato il suo «esistere fuori», il suo aver vissuto; e «la mort»,
che pure «détruit le tout de l’être vivant», «ne peut nihiliser le fait d’avoir vécu» 9). Ippolita dunque non può intervenire perché non può svincolarsi da se stessa, dalle influenze reali del suo stato patologico, dalle sue convulsioni
e dalla sua sterilità. L’incapacità di catturare e curare le visioni dell’uomo è complementare all’incapacità di pensare e aggredire la propria malattia. Dire il sintomo infatti non significa entrare nella sfera semiologica dell’attaccare. E conoscere la malattia e non attaccarla significa morire. La conoscenza, in questa prospettiva, non riduce l’oggetto; finisce anzi per ridursi a suo vantaggio e per isterilire e alienare il suo strumento conoscitivo fondamentale, la parola, nelle forme del «riso spensierato, di-
%_J. Starobinski, L’épée d’ Ajax cit., pp. 25-26 e 55. In questa prospettiva, il suicidio di Aiace è anche un sacrificio che mira a ristabilire l'equilibrio interrotto tra individuo e società. Edgar Morin, in un importante libro pubblicato nel 1951, contrappone con forza la «plénitude, civique ou religieuse» del «sacrifice» al «vide social» del «suicide», che «consacre la dislocation totale de l’individuel» e dello ‘spazio collettivo’. L’«individualité» del suicida «se dégage de tous ses liens» (L'homme et la mort, Paris, Seuil, 1991, pp. 59-60). % V. Jankélévitch, La mort cit., p. 458. Giorgio, forse, assomiglia un po’ al suicida per amore di Roland Barthes, che parla il suicidio allontanandolo così dalla propria esperienza esistenziale nell’iterazione infinita del discorso. Dove l’idea di darsi la morte può favorire la rinascita dell’individuo ma certo non la riappropriazione di un passato ‘bloccato’, di «une situation (un site) impossible» (Fragments d'un discours amoureux, Paris, Seuil, 1977, pp. 259-
260).
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vertente e anodino» ”, di un riso «schiavo» della propria leggerezza e fine a se stesso, puro significante. Il corpo malato (della donna) e l’istinto visionario (dell’uomo) giun-
gono allora a trovare un punto di contatto nell’«oblio» della musica, silenzio che trasporta la parola «indefinitamente lontano», «fuori del mondo» '%, e contempla la morte del discorso. E la donna, che vi aderisce entusiasta per ‘coprire’ la sua malattia (e quella del compagno), finisce per partecipare al gioco del «creatore», sterile compositore che ha già ‘scritto’ il passo successivo, ovvero ha ridotto anche il riso — ultimo ‘vuoto’ segno della vita,
ultimo ostacolo concesso dalla serietà della morte del XIX secolo borghese !! _ nel silenzio della «grande finzione» e dell’assassinio. 8. All’inizio di VI, II Giorgio, suggestionato ancora una volta dalla cultura, dalla storia di Tristano e Isotta, decide di persuadere la donna a un
sacrificio, a una morte tragica che li veda spirare insieme. Già il narratore sembra intervenire anticipatamente a smascherare l’influsso della suggestione (e delle sue componenti, musica e letteratura) e a decretarne l’alterità e l’inconciliabilità con il destino del giovane amante: Giorgio, come Tristano nell’udire l’antica melodia modulata dal pastore, tro-
vava in quella musica la rivelazione diretta di un’angoscia nella quale credeva di sorprendere alfine l’essenza vera della sua propria anima e il segreto tragico
del suo fato "2.
Anche se un fondo di ambiguità resta ed è difficile misurare l’entità del distacco del narratore, l’uso del sintagma «credeva di sorprendere alfine» — che chiude, focalizzandosi sul protagonista, una progressione di verba sentiendi («credettero [...] credettero») utilizzati per dire l’entusiasmo
con il quale i due amanti hanno aderito alla «grande finzione» e si sono saturati dell’«oblio letale» — parrebbe già costituire un indizio di un’operazione di smascheramento che rinvia i pensieri dell’uomo al loro giusto dominio, quello del sogno e delle sue seduzioni. Subito dopo la domanda retorica di Ippolita, nel discorso diretto, tende a isolare Giorgio nella «finzione».
%
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, p: 59:
10 G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 972. "M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare cit., p. 59. "2° G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 988.
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Perché morire se io ti amo, se tu mi ami, se nulla ormai c’impedisce di vivere in
noi soli? 10,
Di fronte alla parola che riduce il sogno, Giorgio si ritira nel silenzio e in questo spazio muto la dolce ‘protesta’ della donna è abbandonata a un disappunto nel quale riemergono le note riflessioni sulla «fittizia» vita interiore della «femmina» che vive fuori della «suggestione» dell’uomo: «Interrotta la mia suggestione, ella ritorna alla sua natura [...]» !'*. Ma, prima di chiudersi nell’isolamento artificiale del silenzio, la «finzione» dell’uomo è esasperata e contrastata dalla parola di Ippolita. Lo sguardo ansioso del visionario tradito è costretto a contemplare, dietro l’urto prepotente delle facili (ma non ingenue) repliche della donna («Si , mi piace la vita» ©), la forza, l’energia vitale diffusa in tutto il corpo
femminile. Giorgio deve riconoscere la salute della «bella creatura lussuriosa che respirava l’aria come una gioia». La parola sembra far vacillare l’associazione seduzione-malattia-morte e respingere la visione maschile oltre l’immagine muliebre, come in un’azione di esorcismo (spossessione liberazione guarigione), dove è «un rapport d’antécédence de la parole à
l’événement marquant» '°: «E se io morissi?» egli ripeté senza sorridere, sentendo ancéra una volta sorgere dal fondo l’ostilità istintiva contro la bella creatura lussuriosa che respirava l’aria come una gioia. «Tu non morrai» ella affermò, con lo stesso ardimento. «Sei giovine. Perché do-
vresti morire?» "7.
Ma un movimento autonomo del corpo, un’affermazione nello spazio non accompagnano il dire della donna. Ippolita non riesce a vedere il suo stato di salute. È naturalmente — è nella parola — attaccata alla vita ma sa di negarla nell’intimo del suo essere, mutilo della funzione generatrice. Lo vedremo bene più sotto. | Sana, dunque, e felice, la donna lo è nella percezione visiva del pro-
tagonista, il cui sogno è per un momento confuso da una parola, quella
1% 104 105 106 107
Ibidem. Ivi, p. 990. Ivi, p. 989. J. Starobinski, Le combat avec Légion cit., p. 89. G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 989.
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dell’amante appunto, che è infine gnoseologicamente simile alla sua. Una parola evocatrice di un’identità che non sostiene, un verbo che presto svanirà nel riso, nel luogo comune dei ricordi e nel falso entusiasmo del pas-
sato. Il dialogo, di cui sopra si sono riportate due battute, potrebbe non finire mai. Parola contro parola, evocazione contro evocazione, salute contro
malattia. Il gioco potrebbe davvero procedere all’infinito. Si è quasi tentati di dire che lo stesso autore non sappia come concluderlo — (e in questa prospettiva esasperare la cristallizzazione dei due personaggi nella logica serrata delle coppie oppositive, in due poli complementari e antitetici da manuale ‘lombrosiano’, è evidentemente fuorviante).
AI silenzio dell’uomo si affianca (e non corrisponde) l'incapacità della donna di riempire lo spazio aperto dalle sue parole con un’azione, con un corpo finalmente libero, che ricuperi in sé la sua sterilità e le sue convul-
sioni e non le viva come assenza. La ‘passività funzionale’ della femmina voluttuaria è, in questo romanzo, una chimera. Forse un effetto speciale da
copertina, al limite da premessa — dove è significativo comunque che la donna sia posta dall’autore «dinanzi» e non dentro l’uomo '!°. Oltre la teatralità dell’immagine, oltre la posa statuaria, Ippolita deve funzionare come reagente esterno, autonomo, e non come doppio del maschio o sua ‘sostanziale’ alternativa. |
Riprendendo l’analisi, si constaterà che il narratore interviene per rompere questa sequenza «bivoca» (non dialogica) con una ambigua e compiaciuta descrizione in cui è difficile scindere la ‘voce’ che racconta dalla prospettiva che, rifiutando e contaminando il «benessere» dell’amante, orienta il narrato verso il ricupero della visione; prospettiva che di fatto è riconducibile entro l’orizzonte delle attese del protagonista, entro le coordinate della malattia e della morte in cui egli rintraccia la sua compagna. Ella aveva nella voce, nell’attitudine, in tutta la persona diffuso un benessere in-
solito. Aveva l’aspetto che le creature viventi hanno soltanto nelle ore in cui la loro vita scorre armoniosa per un equilibrio temporaneo di tutte le forze in accordo con le condizioni esterne favorevoli. Come altre volte, ella sembrava dischiudersi nella bontà dell’aria marina, nel refrigerio della sera estiva, dando
108 Ivi, p. 643. 308
imagine d’uno di quei magnifici fiori crepuscolari che aprono le corone dei pe-
tali all’occaso del sole !°, In questo passo e in quelli immediatamente precedenti non è reperibile nessun indizio che introduca una classica percezione indiretta libera (quel «sentendo ancéra una volta sorgere» è troppo debole) e l’intervento è marcatamente narratoriale. Però si intuisce che la descrizione di Ippolita è filtrata attraverso la particolare angolatura soggettiva di Giorgio. Sono rintracciabili, dietro l’obliquità del passo (che è poi l’obliquità di tutto un romanzo costruito su una forte focalizzazione interna sul protagonista), degli elementi che inducono ad assimilare le parole del narratore alla prospettiva del giovane amante; elementi peraltro che sembra avvalorino le ipotesi di lettura fin ora proposte sulla linea interpretativa che lega malattia, sguardo e visione. Fra questi, il più evidente è l’uso dell’aggettivo «insolito», che sospende il sostantivo («benessere») a cui è associato, con la palese intenzione di allontanarlo dal circuito dell’esperienza femminile. Quasi impossibile non leggerci la radicale conferma dello straniamento operato dalla prospettiva di Giorgio; la sua inattendibile ricostruzione del reale, compiuta sulla base dell’esaltazione e della trasfigurazione del dato patologico presente nel corpo della compagna. E la proiezione illusionistica è qui ancora più gratuita se si pensa che interviene a caratterizzare negativamente anche quegli stati di salute di cui una giovane donna, pur triste vittima di un «residuo d’isteralgia», può ben godere nel clima disteso e rasserenante di un periodo di riposo, di una ‘vacanza’ al mare! Considerazioni simili si potrebbero fare anche per l’utilizzazione di «temporaneo», che interviene a limitare esistenzialmente l’«equilibrio» del corpo di Ippolita con le forze della vita e ad assolutizzarlo in pochi momenti irripetibili, infine debitori di «condizioni esterne favorevoli». Nel finale però l’indicazione temporale («come altre volte») apre, apparentemente in contraddizione con il resto del passo, il panorama degli altri stati di salute e di entusiasmo vissuti dalla donna. Certo, questa allusio-
ne potrebbe essere ricondotta a quei residui momenti di «lucidità», di cui sembra godere il protagonista nell’ultimo capitolo del romanzo e che la Ca-
valli Pasini associa alla folle freddezza del criminale lombrosiano "'°. Ma, a
109 Ivi, p. 989. 0
Cfr. A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo cit., pp. 103-122, che analizza in par-
ticolare l’esperienza di Tullio Hermil ne L'innocente.
309
ben vedere, si tratta di un artificio che tende ad assolutizzare l’immagine dell’espansione gioiosa della vita in una metafora poetica che proietta /ontano, in uno ‘spazio letterario’, l’esperienza femminile del «benessere». La
«lucidità crudele» !!! di Giorgio finisce sempre per stemperarsi nell’evocazione stimolata dalla cultura. Così, nella «lunga pausa» che segue e dove il giovane, come si è già anticipato, ripensa alla «natura» della compagna, la visione, lungi dallo scomparire, incomincia a proporre l’intentio omicida e a direzionare le strategie, i piani possibili della ‘battaglia’ finale. E poco dopo, significativamente, spie consuete dell’alterazione nervosa che accompagna l’autosuggestione, i primi sintomi fisiologici intervengono ad assillare l’uomo che vede nel sonno del silenzio, nel teatro del pensiero. Formicolii, tremori, pallori, emicranie. Con uno scarto improvviso, la voce narrante sembra rintracciare la causa di questi disturbi nell’influsso negativo dovuto al contatto fisico con la «femmina» («Trasalì quando Ippolita gli toccò il viso e poi gli cinse con le braccia il collo» !!?), ma la donna interviene, come punto di vista ‘altro’, a individuare chiaramente l’au-
tosuggestione e a ricondurla sul piano reale delle «sofferenze imaginarie» dell’amante. Solo, la prospettiva femminile abbandona il discorso diretto per chiudersi, nel dettato del narratore, in quella che potremmo forse indicare con Dorrit Cohn come psycho-narration !"3, Non era la prima volta ch’ella l’udiva lamentarsi di vaghe sofferenze fisiche, di
dolorazioni sorde ed erranti, di stirature e di formicolii fastidiosi, di vertigini e d’incubi. Ella considerava quelle sofferenze come imaginarie, come effetti del-
la malinconia abituale, dell’eccesso di pensiero. E non conosceva rimedio mi-
gliore delle carezze, delle risa, dei giochi !!4. L'incipit («Non era la prima volta ch’ella l’udiva [...]»), l’uso del verbum sentiendi («considerava»), la negazione finale («E non conosceva rimedio migliore [...]») sono ‘spie’ di un controllo narratoriale della co-
scienza di Ippolita. Qui il narratore descrive lo stato d’animo della donna dall’alto della sua prospettiva. Negli ultimi due enunciati, in particolare,
MG. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 989. 2 Jvi, p.991. "!5 Dorrit Cohn, Transparent Minds: Narrative Modes for Presenting Consciousness in Fiction, Princeton, Princeton University Press, 1978.
!!4
310
G. d'Annunzio, Trionfo della morte cit., pp. 991-992.
l’orizzonte si dilata, si fa più ampio, si apre progressivamente ad un’indagine che travalica i sentimenti e i pensieri del personaggio e ne registra i limiti e gli errori di valutazione. In questo modo la voce narrante da un lato attenua l’esasperazione dello sguardo maschile, la tensione della focalizzazione interna su Giorgio, evidenziando, con la descrizione dei contenuti della coscienza femminile, la fine sensibilità di una donna che sa ricondurre in maniera precisa all’artificio e al convulso e delirante immaginario dell’uomo i dolori psicofisici che egli accusa con continuità. Dall'altro però, inserendo questa sensibilità nella spirale di una conoscenza più vasta sui comportamenti e gli atteggiamenti che le aspettative e le esigenze di Giorgio reclamano, di fatto la penalizza e la chiude in un gioco che ne controlla e ne trascende ogni scelta esistenziale volta alla ricerca di una sintonia con il male dell’uomo. Ippolita conosce dunque la duplice origine dei dolori che avvolgono il compagno: la malinconia e l’eccesso dell’attività cerebrale. Solo, non ha gli strumenti per attivare questa conoscenza nel reale. Di fatto, la sua parola (esterna e interna) non beneficia di un movimento nello spazio, di un cor-
po libero da ansie e disagi, e si chiude concentricamente su se stessa. La donna non può rappresentare la malattia con un’azione (un discorso) che tenti di rimuoverne la causa e finisce per contemplare soltanto un allontanamento (illusorio) del sintomo, operato tramite il riso e l'entusiasmo con cui si abbandona ai ricordi del suo passato. Oltre alla gelosia retrospettiva che suscita nel partner, di cui parla Vit-
torio Roda !!5, la «loquacità» di Ippolita non innesca più quel processo conoscitivo e demistificatorio, che pure ne aveva delineato autonomia, identità e funzione all’interno del romanzo, e si perde nel riso del «rieur» che,
potremmo dire con Jankélévitch, «bien souvent ne se dépéche de rire que
pour n’avoir pas à pleurer» !!°. Il narratore inoltre sa bene, come
abbiamo
visto, che l’entusiasmo
verbale e le risa non rappresentano la giusta condotta da seguire. Perché guastano con singolare evidenza, agli occhi dell’uomo, l’immagine raccolta del corpo malato suscitatore di visioni. Avverbi ed aggettivi intervengono allora a segnalarne il forte disappunto. Un disappunto che sfocia nell’odio e in cui si confonde, ancora una volta, la percezione irosa dell’immagine viva e sana della donna da parte del protagonista. Abituata all’artificio inof-
"15.
V. Roda, // soggetto centrifugo cit., pp. 279-281.
116
V, Jankélévitch, L’ironie, Paris, Flammarion,
1987, p. 9.
311
fensivo della visione, all’eccesso di pensiero, Ippolita «incautamente» non scorge la frattura che scava la sua ‘terapia d’evasione”: Ma Ippolita parlava, diveniva loquace: si abbandonava, come altre volte, incautamente ai suoi ricordi domestici !!”.
L’allusione alle «altre volte», come nel passo precedentemente analizzato, è il ricupero di un dato fittizio che, in questo caso, serve ad asso-
lutizzare nel passato l’esperienza di una donna a cui si vuole negare qualsiasi altro uso della parola. Di fatto, qualsiasi potere conoscitivo. Ed è solo tenendo presente questa duplice azione straniante e annichilente, condotta, nei confronti del corpo e della parola della «femmina»,
da un narratore che ne controlla la voce e i gesti sulla base delle attese del protagonista, che si può capire l’insistenza con cui Ippolita è definita «incauta». A tal punto che «incauta» diviene un sostantivo per indicare fout court la stessa Ippolita: Giorgio fissava sull’incauta uno sguardo carico d’odio e di gelosia, soffrendo in quel minuto tutte le sue sofferenze di due anni. Con quei frammenti dall’incauta fornitigli, ne ricostruiva la vita anteriore attribuendole le più meschine volgarità,
abbassandola ai più disonoranti contatti "8.
9. «Incauta» è dunque la parola. Ovvero la volontà verbale di uscire dalla visione. «Incauto» è anche il riso. Ovvero la volontà di occultare lo sguardo, di allontanarlo da sé. Resta, a questo punto, il silenzio. Il riso, infatti, che, nel prosieguo del romanzo, viene sostituendo la
parola nell’affrontare gli stati patologici dell’amante, è affine al silenzio nel quale la donna si ritrae «per qualche attimo come smarrita» !!° ogni qual volta si accenni al grembo e alla sua virtuale ‘metamorfosi’ in madre e, specularmente, ogni qual volta un sintomo della malattia dei nervi si manifesti. Non è privo di significato il fatto che Candia, la popolana incinta, sia presente, nell’ultimo capitolo, in scena o a lato, per fare da feroce contraltare al ventre vuoto, sterile di Ippolita e al «dèmone isterico» che la agita. Le «risa schiette della pregnante» e l’«enorme ingombro» della sua gravi-
312
117
G. d’Annunzio, Trionfo della morte cit., p. 995.
18. !!°
Ivi, p. 998. Ivi, p. 1000.
danza, contro cui urta involontariamente la giovane '°°, dicono la crudeltà con cui il narratore mette un freno alle sue repliche, alle sue residue possi-
bilità di espressione e il controllo, la severa misura con cui chiude la donna entro i confini di un riso ‘epistemologicamente” inutile e del tutto ascrivibile alla malattia, all’alterazione del suo sistema nervoso. Un riso che si chiude nel silenzio del dolore, nella solitudine degli ultimi disturbi al bas-
so ventre sofferti prima della fine. E il riso di Ippolita si presta a questa associazione perché è un gioco spontaneo in cui non entra quasi mai un’ironia autentica, ‘tagliente’. Non è uno strumento di difesa e di attacco oltre che di smascheramento e allontanamento del dato patologico. L’aggressività o la sadica compiacenza che talvolta lo accompagnano — come nel caso della battuta «l’anatomia presuppone il cadavere», già ricordata più sopra — sono subito attenuate dalla scoperta-constatazione di trovarsi di fronte ad un malato nei confronti del quale ella studia di essere «una paziente e delicata medicatrice» !?. Una «medicatrice» che attenua il male con risa e carezze e non un ‘chirurgo-psicologo’ che opera sezionando la coscienza dell’amante. Giorgio invece «ricostruisce» la vita della donna su alcuni «frammenti». In fondo, egli non si è mai cautelato di sapere chi è Ippolita, perché quel che conta non è l’essere ma la trasfigurazione che l’essere subisce nella visione. La malinconia della sorella, il delirio materno, l’istero-epilessia della compagna sono staccati dal reale, dal contesto socio-economico in cui sono maturati. La ‘volgarità’ piccolo-borghese di Ippolita è trasfigurata non solo sui piani ‘altri’ della donna voluttuaria, della dea d’amore e di lussuria,
ma anche su quelli quotidiani dell’isterica concubina, della «Romana pallida e vorace, insuperabile nell’arte di fiaccar le reni ai maschi» l?.
120 Ivi, pp. 993 e 1000. 121 Ivi, p. 652. Potremmo forse dire, con Propp, che il riso di Ippolita è talvolta un «riso smodato», ovvero un ridere che va «oltre» e si abbandona alla «gioia animalesca della propria natura fisiologica», alla soddisfazione del «sonoro», ma, in ogni caso, non è mai un «riso cattivo», «cinico»; al contrario spesso è un «riso buono», che nasce da una «disposizione benevola», da un «sentimento di affetto e simpatia» nei confronti dei «difetti» patologici dell’amante. Cfr. Vladimir Ja. Propp, Comicità e riso. Letteratura e vita quotidiana, a cura di Giampaolo Gandolfo, Torino, Einaudi, 1988; in particolare pp.143-153 e 158-162.
12
Ivi, p. 1004. Sulla «denigrazione» finale di Ippolita e il confronto con Candia come
momenti preparatori del «sacrificio» della donna, ha richiamato l’attenzione, sebbene in un diverso contesto d’analisi, anche Rosamaria LaValva, / sacrifici umani.
D’ Annunzio antropo-
logo e rituale, Napoli, Liguori, 1991, p. 90; in particolare, sul Trionfo, cfr. pp.78-93.
313
Nel Trionfo della morte non esiste un dato (un personaggio, un episodio) che non sia filtrato ed esasperato dallo sguardo cieco e sterile di Giorgio Aurispa. Uno sguardo spietato che «tradisce», infine, la propria illusione (l’«autonomia») e che ri-volge inevitabilmente e definitivamente verso se stesso l’«odio», la «cattiveria» e l’«aggressività», con i quali aveva letto, interpretato e ucciso le proprie visioni ?.
123. Su questi termini e altri (autonomia, illusione-astrazione e cultura, odio, aggressività e morte, oppressione delle donne, assassinio e fuga dal sé) cfr. le stimolanti riflessioni di Arno Gruen, // tradimento del sé. La paura dell’ autonomia nell’uomo e nella donna, Milano, Feltrinelli, 1992; in particolare pp. 40-63. Inoltre — se mi è concesso tentare un ultimo confronto fra il Trionfo della morte e l’opera di Svevo (questa volta nella sua totalità) — vorrei suggerire che nel romanzo dannunziano l’impulso distruttivo è anche il termine della scrittura, mentre nell’«edificio» narrativo dello Schmitz il meccanismo della «perdita totale», la ten-
denza alla morte sono sempre mediati da «procedure riparatorie» e dall’«innocentizzazione» — che è anche nell’«oblio» dell’«autodistruzione che cancella l’intollerabile peso della colpa»; si pensi alla morte di Amalia, per esempio. Ed è questa alternanza fondamentale che ‘salva’, insieme al fecondo gioco dei punti di vista, la scrittura di Svevo e colloca l’autore fuori del personaggio e del suo destino, non assolutizzato entro i confini di una unidirezionale esperienza psicofisica, di un episodio reiterato (la morte) entro le coordinate esistenziali (orientamento emotivo-volitivo materiale e visione del mondo del soggetto) di una sola illusoria pratica conoscitiva. Cfr. comunque, per Svevo, il magistrale saggio di Elio Gioanola, Un killer
dolcissimo. Indagine psicanalitica sull'opera di Italo Svevo, Genova, Il melangolo, 1986, al quale le striminzite citazioni (da pp. 282-283 e p. 309) concentrate in questa nota fanno soltanto una debole eco. E poco importa, penso, che se ne proponga la lettura qui, al fondo di un'analisi che, fra prospettive fenomenologico-narratologiche, incursioni nell'immaginario e nella storia della medicina, è forse — ma, almeno in parte, volutamente — dimentica del metodo
(e della coerenza) del Gioanola, in particolare, e del discorso psicanalitico in genere.
314
MARIA DE LAS NIEVES MUNIZ MUNIZ
SOGNO E DELIRIO IN SVEVO
Nous veillons dormants, et veillants dormons.
Montaigne, Apologie de Raimond Sebond
I sogni si fanno di notte e si completano di giorno. Svevo, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla
Che l’opera sveviana abbia come perno la nevrosi (l’«inettitudine» è in fin dei conti la negazione per antonomasia della «salute»), è un luogo comune della critica avallato dallo stesso autore che finì per ridurre la sua visione del mondo al contrasto salute/malattia; meno ovvio pare invece il ruolo che Svevo intese assegnare al sogno nel descrivere le deviazioni patologiche dei suoi personaggi e in quale modo tale funzione sia andata trasformandosi nel corso della sua scrittura !. Certo Svevo stabilì un discrimine fra i primi due romanzi — ancora improntati (almeno Senilità) alle tesi di Charcot — e il terzo, ispirato, seppure polemicamente, all’incontro con la psicoanalisi ?. Ciò sembrerebbe
! Tra l’abbondante bibliografia esistente su Svevo e la psicanalisi, mi limiterò a ricordare alcuni fra i saggi critici maggiormente impegnati nello studio specifico dei sogni: Teresa De Lauretiis, // metalinguaggio dei sogni [1971], in La sintassi del desiderio, Ravenna, Longo, 1976, p. 87-113; Eduardo Saccone, / sogni nel testo, in Commento a Zeno, Bologna, Il Mulino, 1973 [edizione accresciuta 1991, pp. 191-204]; Giuseppe Savoca, // sognatore di Svevo, in Strutture e personaggi da Verga a Bonaviri, Roma, Bonacci, 1989, pp. 144-153. 2 «Lessi dei libri di Freud nel 1908 se non sbaglio. Ora si dice che Senilità e La coscienza di Zeno le abbia scritte sotto la sua influenza. Per Senilità m’è facile rispondere. Io pubblicai Senilità nel 1898 ed allora Freud non esisteva o in quanto esisteva si chiamava Charcot. In quanto alla Coscienza io per lungo tempo credetti di doverla al Freud ma pare mi sia ingannato. Adagio: Vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso da Freud. L’uomo che per non assistere al funerale di colui che diceva suo amico e ch’era in realtà suo nemico si sbaglia di funerale è Freudiana con un coraggio di cui mi vanto. L’altro che sogna avvenimenti lontani e nel sogno li altera come avrebbe voluto fossero stati, è Freudiano in modo come saprebbe fare chiunque conosca il Freud» (Soggiorno londinese, in Italo Svevo, Racconti, saggi, pagine sparse, Milano, Dall’Oglio, 1968, p. 686). Ma, a parte la significativa precisazione «in quanto esisteva [Freud] si chiamava Charcot», alludente alle an-
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spostare tutto l’interesse per il sogno dal lato della Coscienza di Zeno, ma le cose non stanno veramente così perché i protagonisti di quei primi romanzi, Alfonso Nitti ed Emilio Brentani (o la sorella di questo), nonché vi-
vere in una continua fantasticheria che li allontana sempre più dal principio di realtà, producono dei sogni e dei deliri la cui interpretabilità in chiave
freudiana è tutt’altro che esclusa.
ticipazioni «freudiane» degli studi di Charcot sul rapporto sesso-isteria, il passo appena citato contiene un giudizio estremamente ambiguo sui propri rapporti con Freud: un problema su cui tornerò più avanti. 3. Su questo punto i pareri della critica sono discordi, anche se prevale in genere la tendenza a sottovalutare l’interesse e la modernità di questi primi tentativi proprio perché anteriori all’incontro con la psicoanalisi. Così Michel David scrive: «... in Senilità il sogno ha solo il valore romantico e bovarista di illusioni, di ideali vaghi, e non è mai adoperato come rivelatore psichico, funzione riservata al naturalistico ‘delirio’ etilico» (cfr. Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana [1966], nuova edizione accresciuta, Torino, Bollati-Bo-
ringhieri, 1990, p. 393), mentre — sempre a proposito delle fantasie oniriche di Una vita e di Senilità — Mario Lavagetto afferma che «il loro indice di traducibilità è in ogni caso più alto» rispetto a quelle di Zeno (cfr. Mario Lavagetto, Introduzione a I. Svevo, Zeno, Torino, Einaudi, p. XXI); e Teresa De Lauretiis scrive: «... nella narrativa i sogni hanno sempre uno speciale potere epifanico, ossia funzionano da veicoli per la trasmissione di affetti e motivazioni non formulabili razionalmente e accessibili alla coscienza solo indirettamente. Questa funzione hanno appunto i sogni di Alfonso e di Emilio nei primi due romanzi — servono alla caratterizzazione del personaggio, a presentarcelo nei suoi moti interiori, secondo una solida e lun-
ga tradizione letteraria. In Coscienza invece, concepito e scritto dopo l’incontro spirituale di Svevo con Freud, i sogni che Zeno racconta diligentemente da analista [...] acquistano il valore di segni linguistici su un diverso piano espressivo, sono significanti e significati di ordine metalinguistico» (T. De Lauretiis, // metalinguaggio dei sogni cit., p. 87). Giuseppe Savoca invece assume una posizione assai più aperta: «Com'è noto, i due primi romanzi di Svevo [...] appartengono alla fase prepsicanalitica, e a questo proposito si potrebbe porre il problema se essi si articolino in termini freudiani ante litteram, o se, piuttosto, la conoscenza diretta dell’opera freudiana abbia offerto in seguito allo scrittore della Coscienza non solo un quadro generale dei fatti psichici, ma anche delle suggestioni più precise a proposito di temi particolari, come appunto quelli del sogno e del lapsus. La risposta, che necessiterebbe di lunghe argomentazioni, non può che essere positiva in entrambi i casi. Il che, ad esempio, comporta che i sogni di Una vita e Senilità siano perfettamente interpretabili in chiave freudiana e permettano la ricostruzione di reti di significati inconsci che sorreggono le strutture globali della narrazione» (G. Savoca, // sognatore di Svevo cit., p. 148), mentre Arcangelo Leone De Castris, a proposito dell’episodio del ritorno in paese di Alfonso Nitti, dice senza mezzi termini: «è certo che tutto questo episodio si rivela tutt'altro che refrattario a una lettura psicoanalitica anche meno frammentaria di quanto opportunamente qua e là si è tentato» (Arcangelo Leone De Castris, 7! decadentismo
italiano: Svevo, Pirandello,
d’ Annunzio,
Bari, De Donato,
1974, p. 112). D'altronde a smentire l’asserto della facile traducibilità di questi sogni stanno — come vedremo — le divergenti interpretazioni che la critica ne ha finora proposte.
316
In effetti, la frontiera tra sogno, fantasticheria e nevrosi appare, anche alla luce della psicoanalisi, assai sfumata 4, come sfumata è — nonostante le ovvie differenze — la linea divisoria esistente fra i tre romanzi sveviani, la cui continuità apparve all’autore tanto rilevante da arrivare a considerarli
un solo libro. Dunque, il passaggio dai romanzi della réverie patologica al romanzo della nevrosi, non comporta un salto di qualità bensì un’evoluzione organica che andrebbe più attentamente vagliata. Tale affinità permette anzi di spiegare meglio il posteriore interesse dello scrittore per Freud facendolo apparire come un fatto prevedibile a partire dalle iniziali premesse (darwiniane, schopenhaueriane e vagamente naturaliste) piuttosto che come un’acquisizione tardiva prevalentemente motivata da circostanze esterne °.
4 Così nell’/nterpretazione dei sogni, Freud non solo dedicherà un intero paragrafo a citare asserti significativi sull’intima parentela fra sogno e pazzia quali «Il pazzo è un sognatore da sveglio» (Kant), «nel sogno possiamo provare quasi tutti quei fenomeni che osserviamo nei manicomi» (Wundt), etc. (cfr. Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, tr. it.
di Elvio Fachinelli e Herma Trettl, Torino, Bollati-Boringhieri, 1990, p. 103), ma affermerà esplicitamente che le «fantasie o sogni a occhi aperti sono il primo gradino dei sintomi isterici, o almeno di tutta una serie di essi», chiarendo inoltre che «Esse hanno in comune con i sogni notturni una parte essenziale delle loro caratteristiche [...]. Come i sogni, esse sono appagamento di desiderio; come i sogni, si basano in buona parte su impressioni di vicende infantili; come i sogni, godono per le loro creazioni di una certa indulgenza da parte della censura» (ivi, p.448). E ancor più concretamente, riferendosi al trattamento letterario della fantasticheria: «Quando Monsieur Joyeuse di Daudet vaga disoccupato per le strade di Parigi, mentre le sue figliuole debbono credere ch’egli ha un impiego e siede al suo posto in ufficio, sogna — anch’egli al presente — gli eventi che dovrebbero assicurargli protezione e lavoro. Il sogno dunque usa del presente nello stesso modo e con lo stesso diritto del sogno a occhi aperti» (ivi, p. 485).
°. «Forse s’accorgerà ch’io non ho scritto che un romanzo solo in tutta la mia vita» (lettera a Enrico Rocca, in I. Svevo, Epistolario, Milano, Dall’Oglio, 1966, p. 846; «Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e di Alfonso» (I. Svevo, Profilo autobiografico, in Racconti, saggi... cit., p. 809). $ Né — com'è noto — mancano i punti di raccordo fra le tesi schopenhaueriane circa il predominio della volontà sulla coscienza, e quelle freudiane sull’incosciente. D'altronde, come ebbe a chiarire lo stesso Svevo in una lettera a Valerio Jahier: «Freud non può avere per la letteratura altra importanza di quella ch’ebbero a suo tempo Nietzsche e Darwin. E Lei può anche aver ragione di pensare che i benefici che si possono trarne [...] possano essere compensati da molti danni. Io ne so qualche cosa per quello che m’avvenne con Una vita fatto tutto nella luce della teoria di Schopenhauer. E talvolta mi pare di sentire che la chiusa di quel romanzo non abbia maggior calore della conclusione di un sillogismo» (Epistolario cit., p. 864). Stupisce, leggendo questo passo dove Freud, Darwin, Nietzsche e Schopenhauer vengono accomunati in un medesimo ragionamento teso a ridurre o a criticare, non mai a negare, la por-
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Certamente sarebbe sbagliato leggere le «trascrizioni» oniriche sveviane alla stregua di sogni autentici passibili di una psicoanalisi. Un sogno inserito in un testo letterario — a differenza di un sogno reale — deve e può essere spiegato iuxta propria principia e in rapporto al contesto dato. Non vale cioè per esso la regola della dissezione e delle associazioni libere secondo la tecnica freudiana dell’analisi «en détail» volta a collegare ogni tata del loro influsso letterario, che sia stato utilizzato come prova dell’inconsistenza — quando non della inesistenza — di un freudismo sveviano. Si veda ad esempio Aldo Camerino: «... nella stessa lettera [Svevo] indica chiaramente i veri padri putativi della sua concezione del mondo
(Schopenhauer e Nietzsche, dunque, non Freud)» (Aldo Camerino,
Svevo, Torino,
Utet, 1981, p. 400). Di fronte a questi fraintendimenti non sembra inopportuno ricordare certe dichiarazioni di fede freudiana rilasciate da Svevo e che curiosamente tendono a sottolineare il suo debito letterario, anziché quello «scientifico», nei confronti del «maestro»: «Il secondo avvenimento letterario e che allo Svevo parve allora scientifico fu l’incontro con le opere del Freud» (Profilo autobiografico cit., p. 807); «Ma quale scrittore potrebbe rinunziare di pensare almeno la psicanalisi?» (I. Svevo, Soggiorno londinese cit., p. 688); «Grande uomo quel nostro Freud ma più per i romanzieri che per gli ammalati [...] dopo aver conosciuta l’opera, io feci la cura nella solitudine senza medico. Se non altro da tale esperienza nacque il romanzo» (lettera a Valerio Jahier, 10 dicembre 1927, in Epistolario cit., pp. 854-855, corsivo mio); «Letterariamente Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io una cura con
lui. /l mio romanzo sarebbe risultato più intero» (allo stesso, 27 dicembre 1927 ivi, p. 859, corsivo mio); «Quando pubblicai Zeno con mio grande dolore ebbi da un dottore psicanalista la dichiarazione che dal mio romanzo traspariva la mia assoluta ignoranza di psicanalisi [...]. E se credo che Freud sia un grande maestro è perché credo conferisca la debita importanza alle nostre esperienze» (allo stesso, 1 febbraio 1928, ivi, p. 864, corsivo mio). Certamente le co-
se sono molto più complesse, tanto che nel giro di poche righe Svevo può passare, ad esempio, da una svalutazione («Come cura a me non interessava») a una rivalutazione («Ma la psi-
canalisi non m’abbandonò più», cfr I. Svevo, Soggiorno londinese cit., p. 688). Evidentemente Svevo attinse da Freud, come da tutti gli autori sopra citati, certi elementi funzionali a comporre una sua visione del mondo che li rendeva reciprocamente compatibili (la vita come lotta, il predominio dei desideri e la loro incontrollabile inconsistenza, etc.), visione che non
coincideva con il singolo sistema di nessuno di essi. È precisamente quanto intendeva Svevo allorché, riferendosi al rapporto fra il filosofo e l’artista parlava di un «matrimonio legale» sorretto dalla reciproca incomprensione che però fa nascere «bellissimi figliuoli» (ivi, p. 687). Quanto alla legittimità di interpretare i sogni (e i problemi) dei primi due romanzi sveviani alla luce di Freud, anche qui ci soccorre Svevo, che, sempre nel Soggiorno londinese, parla dello schopenhauerismo di Leopardi come un caso «nel quale un artista arrivò alla filosofia ignorando il filosofo» (ivi, p. 688), mentre — ancor più concretamente — racconta come l’episodio
più «freudiano» di Zeno, l’atto mancato dei funerali scambiati, fosse stato scritto prima di conoscere l’opera di Freud e inserito poi «a forza» nel romanzo: «Molto prima di aver conosciuto Freud, io raccontai in una novella intonata solo a un grande buonumore ia mia avventura di quello scambio di funerale. Si fece molto più seria nel romanzo e Ada potè intenderne tutto il significato» (a Valerio Jahier, 1 febbraio 1928, in Epistolario cit., p. 684); «[la novella] dello scambio del funerale non esiste più. La sento ancora tanto vivamente che nello Zeno mi pare inserita a forza»; allo stesso, 11 febbraio 1828, ivi, p. 865).
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singolo elemento, non già reciprocamente, ma con i dati extraonirici ricavabili dalle confessioni più disparate del malato, perché, nella loro funzionalità prevalentemente /etteraria, quanto vi si trova di lacunoso può e deve venir colmato dal resto’. Ciò vale anche per i sogni più modernamente audaci di Zeno anche se — non occorre dirlo — essi sono lontanissimi dalla traducibilità immediata e dalla struttura lineare del sogno letterario tradizionale (mettiamo per esempio, quello manzoniano di don Rodrigo). Solo insomma nella possibilità di ricondurre il loro «geroglifo» ° a un simbolo !, vale a dire, la frammentarietà di superficie a una organicità profonda rispetto al senso complessivo dell’opera, possiamo aspirare a interpretarli. Si pensi ad esempio al capitolo VII di Una vita, incentrato sulle lezioni di italiano che Alfonso Nitti imparte gratuitamente (per «imparare insegnando» in vista delle sue ambizioni letterarie) !! a Lucia Lanucci, la figlia dei padroni della pensione dove vive; un capitolo che culmina con una salutare corsa del giovane nel bosco dopo la quale si addormenta «come un bambino» dimenticando lo scacco subito nei giorni precedenti nelle sue velleità di maestro-letterato. In effetti, tale sequenza si chiude con un sogno
apparentemente slegato dal nucleo del capitolo e che, invece, si riallaccia all’episodio raccontato in apertura: l'appuntamento volutamente mancato con una giovane accostata giorni prima per strada («L’abboccamento era
7 Mi pare perciò un po’ eccessiva l’opinione di Mario Lavagetto quando, a proposito dei sogni di Zeno, afferma: «... anche alla fine degli esercizi più raffinati e costosi di ermeneutica, c’è sempre qualcosa che sfugge e che oppone una sorta di residuo enigmatico a chi cerca di rubare ad essi l’ultimo segreto. Insomma i sogni di Zeno, proprio come i sogni reali descritti da Freud, sono provvisti di un “ombelico”, di un punto che li ricongiunge all’ignoto e all’insondabile» (Zeno cit., p. XX).
8 Il discrimine fra i due tipi di sogno andrebbe forse cercato nella diversa dose di verità e di menzogna attribuita alle immagini oniriche e alla loro sintassi, talché, per quanto il sogno di don Rodrigo nasca dalla sua cattiva coscienza (che è poi falsa coscienza e volontà di autoinganno), il rapporto immagini / verità appare a prima (o almeno a seconda) vista, mentre il sogno sveviano freudiano costruisce precisamente il suo sistema sulla base di complessi meccanismi di censura e di deviazione. * «Il contenuto del sogno è dato per così dire da una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno. Si cadrebbe evidentemente in errore, se si volesse leggere questi segni secondo il loro valore di immagini, anziché secondo la loro relazione simbolica» (S. Freud, Interpretazione dei sogni cit., p. 261). !0 Secondo Freud i sogni inseriti nei testi letterari ne offrirebbero l’interpretazione simbolica complessiva quasi si trattasse di un testo en abyme (Sigmund Freud, Opere, III, Torino, Boringhieri, 1966, p. 100). !!
I. Svevo, Romanzi, a cura di P. Sarzana, Milano, Mondadori, 1987, p. 82. Per tutti ro-
manzi sveviani citerò sempre da questa edizione.
Salo
stato fissato per quelle ore e all’ultimo momento egli aveva deciso di non andarci. Ebbe poi un cocente rimorso della sua azione, ma non potè ripararvi perché non la rivide mai più») '?. Ecco il sogno in questione: Sognò fantasticamente di Maria. La riconobbe a certo vestito dai colori vivaci. Gli diceva ch’ella già sapeva ch'egli all’appuntamento non aveva potuto venire per forza maggiore. Lo scusava e l’amava "3.
La collocazione strategica — come explicit — di questa fantasia onirica, apparentemente banale, costringe infatti a una rilettura retrospettiva dell’intero capitolo, facendo emergere sotto il racconto manifesto un racconto latente tutto improntato al senso di colpa per la rinunzia inconfessata all’amore, ma più in profondità per il desiderio erotico stesso, di cui è segno la rinunzia. Tant'è vero che la sequenza incentrata sulle lezioni di italiano tende a sottolineare la sovrapposizione delle due figure femminili, Lucia e Maria, la prima apertamente utilizzata come sostituto «intellettuale» dell’altra («non aveva trovato nessuno che supplisse a Maria e Lucia gli serviva di surrogato») #, volto a sublimare e a esorcizzare sia la tentazione
erotica sia il rimorso provato per l’abbandono della donna sconosciuta. L’esperienza pedagogica di Alfonso rivela inoltre man mano la sua natura erotica allorché emergono contemporaneamente l’ottusità della «scolara» (peraltro brutta) e il suo innamoramento dal maestro che la converte in una «sposa» potenziale tanto poco desiderabile quanto bella era la giovane rifiutata («La madre aveva consegnato a lui che ingenuamente voleva insegnare, non una scolara ma una sposa») !, sicché il sogno d’amore, nel ri-
tornare a galla capovolto, proietta nell’indesiderabilità delle pretese di Lucia l’illiceità del proprio desiderio, nella oggettiva bruttezza del «surrogato», il divieto soggettivamente autoimposto nei confronti dell’originale: il rimosso ritorna, insomma, come un’immagine ributtante del proprio sognare mentre svela la profonda affinità fra i sogni letterari «da megalomane» e quelli proibiti da seduttore. Ecco perché il sogno riparatore dopo la corsa fa riemergere, al colmo dell’angoscia nevrotica '!°, il fantasma dimenticato di Maria che non solo re-
AA FN EL. EATVIApA95: 14° Ivi, p. 83. !5 Ivi, p. 90. Né manca a questo punto nel romanzo un’accurata descrizione dei sintomi nevrotici di Alfonso: «- Sono ammalato! Per giungere a questa conclusione aveva dovuto fare mol-
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stituisce bellezza all’illusione d'amore, ma la rende innocua assolvendolo nel contempo della sua rinunzia. Un complesso sistema di «appagamento del desiderio» che, così analizzato, risulta essere desiderio di innocenza an-
ziché di «piacere» o, piuttosto, tentativo di conciliare piacere e innocenza. Tale — come vedremo — l’istanza predominante dei personaggi sveviani. In ogni modo, questa sommaria analisi dimostra che in Svevo come in Freud, il sogno è nel contempo sintomo di malattia e liberazione del represso; appagamento di un desiderio e censura del piacere; infrazione della censura diurna e sentimento penoso di colpevolezza. Ogni sogno può così sfociare in un incubo e ogni fantasticheria in un delirio, il che, d’altra
parte, concorda pure con le tesi freudiane secondo cui gli incubi sono «il caso limite dell’attività del sogno» !”, allo stesso modo che i deliri si di-
stinguono da essi per il solo fatto che la «censura [...] non si dà più la briga di celare la propria attività [...] di modo che quel che rimane diventa sconnesso» !8. Senonché per Svevo il passaggio non è solo possibile, ma inevitabile. Di qui il fatto che la réverie cronica di Alfonso sfoci — al momento culminante del romanzo — in un sogno apparentemente riparatore, in realtà angoscioso, in coincidenza con la morte della madre. Alfonso ritorna in effetti al villaggio nel momento cruciale della sua vita, allorché — come annunziava la fantasia onirica su Maria — egli finge a se stesso di voler nobilitare il losco rapporto intavolato con lal figlia del suo principale, Annetta Maller — nato dall’ambizione e cresciuto sulla attrazione sessuale — rinunziando a lei (cioè abbandonandola). Perciò la morte
te osservazioni su se stesso. La sua profonda tristezza che tutto gli faceva apparire grigio, smorto, fino ad allora gli era sembrata naturale conseguenza del suo malcontento, l’insonnia derivava nell’agitazione in cui metteva il suo cervello con lo studio di sera e infine lo stato anormale, febbrile che qualche volta osservava nel suo organismo era, come egli aveva pensato sempre, il bisogno di fatica e di aria pura che i suoi muscoli e i suoi polmoni si ostinavano a chiedere [...]. Non sapeva che rievocare cose vecchie e ciò per completare qualche sogno da megalomane in cui si vedeva far mostra della sua scienza dinanzi a terzi. I suoi nervi erano indeboliti per modo che gli davano persino qualità da pazzo. Temeva ed evitava i propri simili quando non li conosceva e bastava che di sera un uomo gli passasse accanto per farlo sussultare dallo spavento. Si sentiva male all’oscuro e il minimo rumore lo faceva trasalire. Rannicchiato nel suo letto, con la testa sotto le coperte, rimaneva per delle ore senza saper conquistare il sonno» (pp. 91-92).
17 S,. Freud, /nterpretazione dei sogni cit., p. 444. 18 Ivi, p. 481. Ma tale idea era già stata espressa da Schopenhauer in // mondo come volontà e come rappresentazione (libro III, capitolo XXXII: Della follia ).
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della madre poco tempo dopo il suo arrivo non tanto renderà inattuabile il ritorno al passato, quanto rivelerà le ragioni ultime (e remote) di tale impossibilità (si pensi ad esempio al riemergere di un altro fatto rimosso: l’abbandono inconsapevole di Rosina, il suo «primo amore», quando era partito dal villaggio e che ora — in una crudele smentita del sogno consolatorio su Maria — ritrova convertita in un essere ostile e irricuperabile). Il sogno acquista così il suo vero volto di angoscia e di morte, dapprima sotto l’aspetto del sonno silenzioso della madre, che mentre dorme sembra sospesa in
un instabile equilibrio sull’orlo dell’abisso: Era rientrato nella stanza e la signora Carolina aveva ben presto espresso il desiderio di-dormire; gli occhi le si chiudevano dal sonno. Egli si gettò sul letto del padre a guardarla addormentarsi. Ma per la signora Carolina era compito più difficile di quanto ella stessa sembrasse supporre. Precisamente quando stava per pigliare sonno, con un sussulto violento ritornava in sé. Qualche volta il sussulto era tanto violento ch’ella agitava il braccio come persona che perda l’equilibrio [...]. Sorpreso e beato la vide addormentarsi di un sonno quieto, ristoratore, ma anche nel sonno, se egli soltanto rallentava la stretta delle sue mani, el-
la appariva subito meno sicura '°.
poi, nel pieno dell’agonia, come un sonno ambiguamente ristoratore presto trasformato in immagini che affiorano alle labbra della dormiente come brandelli di un segreto spaventoso: Quella lunga giornata di sofferenze nuove, il sentimento della propria immensa impotenza gli parve rivelassero cose sorprendenti ch’egli non aveva saputo esistessero. Il male a cui il povero organismo della madre soggiaceva finì col sembrargli un essere personale. Egli lo aveva visto colpire a intervalli, deridere tutti gli sforzi che contr’esso si erano fatti, poi baloccarsi con chi sapeva non poteva sfuggire ad accordare tregue illusorie, infine, ora, uccidere [...]. L'ammalata forse sentì l’avvicinarsi della morte perché, alzato il capo quasi avesse voluto salutare con cortesia, mormorò: — Questo non ho ancora mai provato! — Furono
le sue ultime parole °°.
Sicché, non appena il contenuto onirico perde il suo carattere di fantasticheria, si colloca sul terreno di un contenuto assoluto — l’assoluta verità della vita — tanto tremendo da diventare intraducibile. Non a caso in Svevo a
19
I. Svevo, Romanzi cit., p. 271.
20 Ivi, p. 298. 322
morire è quasi sempre il progenitore (0 un suo sostituto) ?!, dal quale il figlio attende inconsapevolmente la rivelazione del segreto del vivere (ecco perché, risvegliandosi da un terribile incubo il protagonista del racconto Vino generoso, esclamerà: «Come potremo ottenere dai nostri figliuoli il perdono di
aver dato loro questa vita?») ??. La parabola del romanzo coincide insomma con il filo sottile che, legando un sogno all’altro, avvicina progressivamente la fantasticheria alla resa dei conti con il suo senso occulto: l’equivalenza vita-morte che la «parentesi» dell’esistenza diurna, e la réverie stessa, na-
scondono. Vengono in acconcio a questo punto due significative riflessioni sveviane: «Grande mistero i due grandi dolori che chiudono a guisa di parentesi la nostra vita: Quello della nascita, quello della morte» *; «Noi in-
tanto procediamo nella vita di catastrofe in catastrofe. Nel mezzo del cammin... dormiano i nostri sonni su illusioni distrutte, desiderî dimenticati, rinunzie in seguito a costrizioni imperiose dell’ambiente delle persone del tempo. E tuttavia ricominciamo accatastando ancora vita sulla morte credendo di avere l’esperienza mentre non la si ha che quando è finita» *. Ecco perché Alfonso, dopo il decesso della madre, sogna di lei viva durante lo stato delirante prodottogli dalle febbri tifoidee, non già — come è stato detto — per consolarsi semplicemente della perdita reale con una fantasia regressiva 5, bensì per mischiare a tale desiderio regressivo (di felicità e di innocenza) il senso incancellabile del conflitto vita-piacere appena intravisto, col conseguente, implicito, affermarsi del nesso innocenza-morte:
2! E si avverta che — a escludere una ispirazione autobiografica dell’episodio nel primo romanzo — la morte dei genitori di Svevo (prima la madre, poi il padre) avvenne, non prima, ma dopo la stesura di Una vita.
2 I. Svevo, Racconti saggi... cit., p. 77. HI p:888; #4
I. Svevo, Ottimismo e pessimismo (ivi, p. 647, corsivi miei).
2. Così De Lauretiis («...subito dopo la morte della madre, la vede viva e giovane che lo assiste durante una malattia»: La sintassi del desiderio cit., p. 90) e, meno semplicisticamente, Savoca («La sera è colto dalla febbre e poi sogna di rivedere la madre ancora giovane, mentre canta e prepara da mangiare. Il sogno, che presenta anche un’altra donna in versione “cattiva”, si chiude sull’immagine della madre china a baciare il figlio. Il residuo diurno del
bacio alla morta si capovolge nel sogno e si ripresenta come bacio della morta restituita alla vita, come richiamo regressivo della madre che attira il figlio verso una situazione dualistica senza sbocco» (G. Savoca, // sognatore di Svevo cit., p. 148), mentre A. Leone De Castris — che pur ha capito il significato demistificatorio del ritorno al paese — parla poi vagamente di «sogni liberatori che fingono affetti e calore di rapporti» (// decadentismo italiano cit., p. 112).
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Giaceva nel suo letto, a casa, nello stanzone bene arieggiato e il sole d’estate entrava da una delle finestre aperte. Era convalescente di una lunga malattia e debole tanto che non gli riusciva di spostare le coperte che gli opprimevano il petto. Ma questo era l’unico disturbo, perché del resto si sentiva lieto, allegro. Fissava il fascio di luce che illuminava un’immensità di corpuscoli sospesi nell’aria, una nebbia leggiera, che il sole scopre nell’atmosfera più pura. Era lieto perché sapeva che di là a pochi giorni gli sarebbe stato permesso di uscire all’aria e al sole. Era lieto perché nella cucina vicina sentiva moversi la madre giovine ancora la quale canticchiava lavorando per lui. Di là gli giungeva il suono monotono che la madre produceva pestando della carne con un coltello, ma nelle orecchie aveva un altro rumore monotono, un ronzio dolce, una nota tenuta che lo addormentava. / Doveva essere entrato qualcuno nel piccolo corridoio perché sulle pietre sentiva il suono di un piccolo piede e il fruscio di una veste. Proprio dinanzi alla sua porta risonò una dolce voce di donna: — Come sta Alfonso? — Per quanto dolce divenne disaggradevole quella voce perché si ripeteva e risuonava in tutti i vuoti della grande casa. Di chi era che gli sembrava notissima? La mise in relazione con tutte le voci di donna che conosceva e con nessuna s’accordava. — Ah! si! Francesca! — e lo colse un profondo malessere e pensò: — Se s’è stabilita nel villaggio ruberà la quiete a tutti i suoi abitanti. /La porta s’era aperta e subito /a stanza era stata invasa da un tumulto di suoni dei carri che passavano sulla via e dei gridii prolungati dei carrettieri. Con movimento istintivo egli aveva chiuso gli occhi per isolarsi. Era sua madre. Prima ch’ella giungesse al suo letto egli la vide e vide il suo sorriso soddisfatto al trovarlo tanto quieto. Ella si chinò su lui e /o baciò, ma giusto sulla cavità dell'orecchio. Egli sentì un acuto dolore come se dentro qualche cosa fosse
scoppiato e si svegliò °°. Si tratta, come vediamo, di una sequenza ininterrotta di sensazioni acustiche, le quali, trasformandosi man mano, tessono il filo vero del discorso onirico: l’ambivalenza del desiderio. Così alla madre giovane, subentra la madre morta, alla dolcezza del bacio, il dolore acuto del risveglio, come, nella sequenza sonora, il sereno canticchiare della madre in faccen-
de si tramuta in un ronzìo monotono e inquietante e poi nella voce ambiguamente dolce e «disaggradevole» di Francesca, la donna che l’ha spinto inutilmente a sposare Annetta per realizzare le ambizioni di entrambi. E si badi che tale voce, insolitamente
amplificata, non ostacola, ma precede
l’arrivo della madre ponendosi nel contempo come sua negazione e come suo nunzio e alter ego (di qui la difficoltà a riconoscerla pur essendo «fa-
26
324
I. Svevo, Romanzi cit., pp. 303-304 (corsivi miei).
miliare»), sicché la madre emerge in mezzo a suoni sempre più minacciosi culminanti nello stridore di carri e carrettieri per poi produrre essa stessa uno scoppio doloroso sull’orecchio del figlio con un bacio che è innanzitutto bacio di risveglio, distruzione cioè, anziché appagamento, del desiderio. La morte della madre rappresenta dunque — alla luce di questo sogno — non solo una gravissima perdita affettiva ma il simbolo dell’inappagabilità del desiderio e perciò stesso la matrice di ogni perdita dietro cui sta il nesso inscindibile fra piacere e morte, fra sogno d’innocenza e rifiuto del piacere. Per questo, come il figlio non raggiunge sognando mai la madre (né Maria, né il passato innocente), così la madre gli sfugge morendo (ri-
svegliandolo). Che altro resta dunque ad Alfonso se non la rinunzia alla realtà e la sua definitiva sostituzione con la fantasticheria («Ora aveva dimenticato i
sogni di grandezza e di ricchezza e poteva sognare per ore senza che fra” suoi fantasmi apparisse una sola faccia di donna») ?”, preludio del «sonno eterno»: una forma di letargo simile alla «dolce febbre che lo aveva fatto vivere tra fantasmi cari» durante la malattia? ?8 Per questo, prima di approdare al suicidio, il romanzo emetterà una condanna senza appello del reale attraverso un ricordo d’infanzia potentemente visionario dal quale — come poi avverrà in Zeno — affiora un trauma infantile: il brusco infrangersi del principio di piacere ad opera del principio di realtà impersonato nel padre che, illudendosi sul carattere aprioristicamente giusto della vita, attribuisce al figlio una colpa non commessa: Uscendo all’aperto si rammentò che quando frequentava il liceo, alla chiusura dell’anno, i suoi genitori venivano in città e lo accompagnavano alla scuola a prendere il certificato. Lo attendevano poi nel giardino di faccia al liceo e quando egli sapeva di meritarlo, accorreva trionfante a ricevere le lodi del padre e l’abbraccio commosso della madre. Un anno il certificato venne guastato da una cattiva nota. Il fanciullo esitò lungo tempo ad entrare nel giardino e quando vi si risolse andò al padre e senza dire alcuna parola gli consegnò il certificato. Non rispondeva alle affettuose parole che la signora Carolina gli dirigeva per incoraggiarlo. Il padre serio serio mostrava col dito la nota nera e quando sua moglie per scusare il fanciullo dubitava che non fosse meritata e che si doveva attribuirla ad antipatia di qualche professore, rispondeva che non ci credeva e che
27 Ivi, p. 346. 28 Ivi, p. 309.
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quando si faceva il proprio dovere tutte le cattiverie di questo mondo scomparivano. Come s’ingannava il padre! Giovine com’era aveva già fatto l’esperienza che tutti gli sforzi non valevano a diminuire un odio ch’egli si era attirato
senza colpa”.
Scoperto così nelle sue radici biografiche il vero nonsenso della vita, Alfonso rinunzierà definitivamente alla coscienza per ritrovare fuori di essa — come nei sogni fatti da bambino — l’armonia fra il piacere e l’innocenza che la ragione gli nega: Egli si coricò tutto sorpreso che finalmente gli fosse riuscito di quietarsi da sé con un freddo ragionamento. Dormì profondamente e fece un sogno fantastico come non ne aveva più fatti dalla sua infanzia. Cavalcava per l’aria su travi di legno, camminava a piede asciutto sull’acqua ed era signore di un vasto paese *.
Ho seguito il filo di Una vita limitandomi alla sola sequenza costituita dai sogni e dai ricordi, che — nella sua seconda parte — segna un tragitto retrospettivo, non già per approdare — come nella psicoanalisi — al trionfo della coscienza, bensì, al contrario, alla negazione di ogni diurnità e di ogni
lotta con il principio di realtà: «I felici sono quelli che sanno rinunciare all'amore o quelli che si tolgono dalla lotta», scriverà Svevo nel Diario per là fidanzata il 3 gennaio 1896 *!, mentre altrove spiegherà il finale di Una vita in termini schopenhaueriani come una «affermazione» della negazione, cioè come il trionfo sull’asservimento della vita al desiderio (basterà ri-
cordare a tale proposito il noto asserto del Mondo come volontà e come rappresentazione: «Il suicidio, lungi dal negare la volontà di vivere, la afferma energicamente» °°).
Le cose non stanno diversamente in Senilità anche se — pur essendo ugualmente importante la tendenza del protagonista alla réverie nella mi-
He (VID: 288: PMI TESS I. Svevo, Racconti saggi... cit., p. 768. «[Alfonso] doveva essere proprio la personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla negazione» (Autobiografia, ivi, pp. 800-801). Per alcune riprese puntuali delle idee del filosofo tedesco nell’opera sveviana, cfr. Gennaro Savarese, Scoperta di Schopenhauer e crisi del naturalismo nel primo Svevo, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1971, 3, pp. 411-431, e più sistematicamente Luca Curti, Svevo e Schopenhauer, Pisa, ETS, 1991.
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sura in cui il dramma di Emilio Brentani porta alle estreme conseguenze il tentativo di conciliare realtà e fantasticheria — il contenuto onirico notturno non attraversa il racconto, ma si condensa nell’epilogo sotto forma di delirio. Emilio, finora vissuto con la sorella (insignificante e maternamente asessuata), quasi a formare una coppia androgina, sente all’improvviso il bisogno di staccarsene per «vivere» una parentesi (un’avventura d’amore) dopo la quale poter rientrare senza rimpianti nella precoce senilità. Egli vuole insomma conciliare divieto e desideri, invece la realtà — raffigurata
dall’infida Angiolina — in quanto si rivela incontrollabile, produce un circolo vizioso che rinnova ad infinitum la dialettica dell’illusione e del disinganno: «Erano i sogni che lo trascinavano lassù. Egli sperava sempre di trovare Angiolina mutata e veniva frettoloso a cancellare l'impressione —
sempre triste — dell’ultimo ritrovo» *. Angiolina, insomma, è l’espressione incarnata del conflitto psichico di Brentani che — deciso ad amarla senza possederla — la costringe a diventare immagine emblematica del tradimento: amante non posseduta, oggetto di desiderio insaziato, promessa menzognera di amore e di purezza, dunque cattiva infinità e vizio (cioè sogno). Questo impossibile sogno che aspira a conciliare desiderio e rimando del possesso, erotismo e moralità (la donna ideale di Brentani dovrebbe essere un misto di Angiolina e di Amalia) contiene dunque al proprio interno la sua negazione (poiché Amalia e Angiolina si escludono a vicenda, più Brentani insegue il fantasma della seconda più sacrifica il suo legame con la prima, aggiungendo così al senso di frustrazione quello di colpevolezza). Di qui il meccanismo pure vizioso dello sdoppiamento del protagonista nelle figure incarnate della sua colpa, quelle cioè incaricate di ostacolare il suo desiderio: dapprima Amalia, poi l’amico-rivale Balli, finalmente accoppiate dall’innamoramento non corrisposto di lei; talché, quando Amalia diventa emula del fratello fino a fare di Stefano Balli l’oggetto esclusivo dei suoi sogni notturni, essa adempierà in modo vieppiù indiretto e contorto il suo ruolo di divieto. Svevo non descrive però dall’interno il contenuto di queste fantasie, ma ne fa emergere la natura apertamente erotica attraverso spezzoni di frasi che sfuggono alla dormiente e che il fratello ascolta pieno di vergogna.
3 I. Svevo, Romanzi cit., p. 562. Ma anche: «Invece egli andava ai ritrovi sempre con la medesima violenza di desiderio e nella sua mente non s’acquietava la tendenza a ricostruire l’Ange che nella realtà non aveva trovato. Il malcontento lo spingeva a rifugiarsi nei sogni più dolci» (ivi, p. 560).
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La tragedia del romanzo nasce tutta infatti da questo rendersi progressivamente pubblico — e quindi «reale» — il segreto del sogno che è poi l’orrore provato dal protagonista nel veder trasformarsi l’immagine materna nel doppio di se stesso. Così, privata della presenza del Balli che consentiva l’altalenare di autocensura diurna e di sogno notturno, ad Amalia non resterà che l’etere (la sostituzione della vita con l’allucinazione) col suo corredo di delirio e di morte. Dunque ancora una volta sogno e morte appaio-
no abbinati, questa volta rendendo ancor più stretto il nesso fra eros e colpa, giacché non solo la figura materna viene sacrificata dall’amore, ma macchiata da esso. Di qui il fatto che la sua morte avvenga anche in pubblico, come oggettivazione simbolica del carattere vizioso del circolo innescato: inseguire il desiderio per negarlo, negarlo per inseguirlo. Tant'è vero che il contenuto del delirio della morente — sotto il cui linguaggio sconnesso parla una logica inconscia — esprime fondamentalmente l’inestricabile unione fra la repressione (o la repulsione) e lo scatenamento della libido. Prima di tutto Emilio ascolta parole che crede simili ai vagheggiamenti erotici già uditi in precedenza («Ella ora dormiva e sognava di giorno?») 3* mentre invece si tratta di allucinazioni raccapriccianti prodotte dal delirium tremens («Via di qua, brutta bestiaccia») *, col che il richiamo d’amore viene capovolto (e tradotto) nel suo opposto: una sozzura di cui non ci si può liberare. La fantasia si sposta subito dopo in una nuova casa dove fratello e sorella dovrebbero trasferirsi per desiderio di lui. Qui Amalia sembra ritrovarsi nella sua veste di casalinga e di economa, ma la casa è
sporca, la pescheria dove fa la spesa manca di pesce («l’aveva spedito via tutto e non c’era più pesce per loro!») , sicché l’autocensura riemerge sotto l’aspetto della rassegnazione all’inferiorità sociale (segno di rinuncia al «lusso» del piacere) compensata in passato con la dignità autorepressiva del risparmio che offre in cambio un sovrappiù di onorabilità («Ella ormai parlava di vestiti. Ne avevano per un anno e per loro perciò non c’era da far
spese per un anno intero. — Non siamo ricchi ma abbiamo tutto, tutto») ?7.
34 Ivi, p. 588. ® Ibidem. 36. Ivi, p. 591. Abbastanza significativa dell’intuizione «freudiana», di questa trovata è la sua coincidenza con un sogno descritto nell’/nterpretazione dei sogni, allorché una donna definita dall’autore come «un’acqua cheta» racconta: «Ho sognato di arrivare troppo tardi al mercato e di non trovare più nulla né dal macellaio né dall’erbivendolo», il che viene inter-
pretato come una chiara allusione sessuale (S. Freud, Interpretazione dei sogni cit., p. 182).
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I. Svevo, Romanzi cit., p. 591.
In questa mistione fra desiderio erotico e senso di rinuncia o di condanna («brucia e brucerà sempre») *, rientra perfettamente la fantasia delirante sul caffé «a buon mercato» che la morente attribuisce a «un trovato»
modernissimo, annuncio di nuovi tempi che sembrano eliminare ogni valore («Fanno di tutto oramai — essa esclama inquieta —. Presto si potrà vivere senza denaro») ”. Sicché, nel cedere al desiderio di avere gratis quel caffé («Mi dia un po’ di quel caffé per provare») ‘°, la donna di una volta riafferma nel contempo la sua dedizione alla «giusta» legge dello scambio («Io glielo restituirò. A me piace la giustizia») ‘! dichiarandosi estranea alla generale caduta dei valori (cioè alla propria «caduta»). Di qui anche l’insorgere della gelosia (una forma indiretta di divieto) ricreata sotto la specie di una fantomatica rivale vincente, chiamata, non a caso, «Vittoria».
L’avverarsi della réverie di Emilio è dunque questo delirio, tanto più rivelatore quanto più sconnesso. Senilità non racconta insomma — ancora meno di Una vita — una storia conoscitiva, bensì al contrario, una storia coincidente con l’allargamento progressivo della sfera onirica e il capovolgimento della realtà in visione allucinata man mano che la fantasticheria si trasforma in agonia, il conflitto nevrotico del desiderio in vera e propria follia (e la domanda stupefatta dell’ammalata: «Ma dunque non era un sogno?» che, imitando un falso risveglio, scambia il Balli presente nella stanza col Balli del delirio, segnerà il culmine del processo). Da questa catastrofe nascerà perciò — come nel caso di Nitti — il sogno prenatale di Amalia, preceduto dal trionfo della allucinazione sulla realtà: Oh! disse, quanti bei fanciulli... Ammirò lungamente. Il delirio era ritornato. Il
caso aveva voluto che ci fosse una sosta fra i sogni della notte e le immagini luminose ch’erano vestite del colore dell’aurora. Vedeva bimbi rosei ballare al sole. Un delirio di poche parole designava l’effetto che vedeva e null’altro. La propria vita era dimenticata. Non nominò più né il Balli, né Vittoria né Emilio. Quanta luce! disse affascinata. Anch’essa s’illuminò “?.
Pet Ivinpr593: Gin /vipa 598%
sO Ivi pio98: “| Ibidem. 42 Ivi, pp. 629-630. Che Balli e persino le immagini del Lauretiis offre di questa visione delirio che peraltro viene visto
la morente abbia dimenticato «la suo delirio, esclude l’opportunità interpretandola come un sogno di come una trasposizione simbolica
propria vita» e con essa il della lettura che Teresa De maternità ancora interno al delle «varie fasi della ses-
sualità femminile», ivi inclusa la «masturbazione» (T. De Lauretiis, La sintassi del desiderio
cit., p. 97).
329
Difatti anche l’ultimo sogno ad occhi aperti di Emilio, che dopo la morte della sorella e la perdita definitiva di Angiolina ricostruisce una immagine oleografica di quest’ultima, può rinascere solo — come la visione luminosa della morente — sulle ceneri del desiderio, vale a dire nella terra di nessuno della morte o della senilità, col che pure in questo caso Svevo finì per scrivere un finale «apoteosico» sotto specie di sconfitta: l’«afferma-
zione» della negazione *.
La coscienza di Zeno propone invece fin dal titolo un percorso conoscitivo dall’interno del protagonista, nel tentativo di costruire sogni simbolici in stretto rapporto con il contenuto esplicito dell’esperienza diurna (ma sono i meno) o dei ricordi infantili (e qui lo statuto di sogno, di rievocazione e di invenzione tende a confondersi), mischiando autoanalisi e au-
togiustificazione alla ricerca dell’origine del proprio malessere. La grande differenza rispetto ai racconti precedenti sta dunque nel tentativo deliberato — assurto a principio strutturale — di interpretare le fantasie oniriche a scopo conoscitivo e terapeutico, ma, lungi dal venir meno, il problema dello scontro fra realtà e fantasticheria rinasce sotto la specie del rapporto — altrettanto problematico — fra verità (o realtà) e ricostruzione letteraria (au-
tobiografia, ricordo). La frontiera fra i meccanismi del sogno e quelli della vita diurna tende infatti a scancellarsi in quanto sarà l’inconscio (ma anche l’ansia di autogiustificazione, il connubio fra eros e colpa) a guidare entrambi («A forza di desiderio, io proiettai le immagini che non c’erano che nel mio cervello, nello spazio») “. Il carattere necessariamente deformante del ricordo è, insomma, correlativo alle deformazioni del sogno che a loro volta ri-
4
Alla luce di questa interpretazione, pare già implicito nei primi romanzi quello che
da qualche critico è stato attribuito a una tardiva involuzione ideologica dello scrittore (Petroni per esempio afferma a proposito di Le confessioni del vegliardo: «da questo ultimo tentativo sveviano emerge un’ideologia che pone come proprio fondamento l’accettazione incondi-
zionata del principio del piacere; ideologia molto cinica, molto riduttiva, e molto “borghese”»: cfr. Franco Petroni, La letteratura come pratica «igienica». Analisi de «La coscienza di Ze-
no», in AA.VV., Il romanzo. Origine e sviluppo delle strutture narrative nella letteratura occidentale, Pontedera, ETS editrice,
1987, p. 232). Senonché
la complessità (e l'ambiguità)
ideologica di Svevo risiede precisamente nella sua inestricabile mistura di ottimismo e di pessimismo, di apologia dell’irrazionale e di acribia analitica, di «affermazione», insomma, e di «negazione». # I. Svevo, Romanzi cit., p. 1081.
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specchiano (capovolgendoli o esasperandoli) gli autoinganni della vita cosciente, in una proliferazione ad infinitum della menzogna, che è, paradossalmente, la sola «verità» della Coscienza #. Anzi, il sogno spesso si interrompe là dove il segreto della vita sembra stia per svelarsi o quando il dormiente vuole redimere la propria colpa giustificando il suo operato e chiarendo un malinteso. Tutto alla fine — come la vita stessa — rientra nel nulla lasciando intatti il dolore e la menzogna:
«Ricordo che, addormen-
tandomi, rividi per un istante la faccia marmorea del Copler sul letto di morte. Pareva domandare giustizia, cioè le lacrime che io gli avevo promesse. Ma non le ebbe neppure allora perché il sonno m’abbracciò an-
nientandomi» *. Né cambia le cose il fatto che il romanzo conceda alla psicanalisi mol-
to di più di quanto non voglia far sembrare ‘’, perché la storia clinica ricostruibile attraverso sogni, lapsus e ricordi infantili, mostra pur sempre il carattere inestricabile del nesso divieto-desiderio, sicché la colpa appare sempre quale prezzo da pagare per ogni più piccolo piacere: quello di mangiare un altro po’ di zucchero “, di restare a letto invece di andare a scuola («Io ero
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Il titolo scelto per il romanzo andrebbe perciò interpretato in termini ambivalenti, se-
condo una tradizione filosofica che risale a Schopenhauer, convinto che dall’essere umano possiamo conoscere soltanto — come dal globo terrestre — la «corteccia», e che la cosiddetta «coscienza» è solo una «lanterna magica». Si pensi ad esempio alla smentita implicita che nel Mondo come volontà e come rappresentazione egli fa dell’asserto di Locke secondo cui «L'identità della persona consiste non nell’identità della sostanza, ma in quella della coscienza» (Saggio sull’intelligenza umana, capitolo XXVII, 19) affermando: «Si crede che l’identità della persona risieda nella coscienza; ma capire questa come l’enchaînement dei ricordi della nostra vita, non basta per spiegarla; perché solo ricordiamo una parte minima dei fatti della nostra vita [...] il nostro vero io, il nucleo del nostro vero essere, è ciò che rimane occulto e che non sa che volere e non volere [...] che non dorme mentre il resto dorme» (//
mondo come volontà e come rappresentazione, Appendice al libro II, capitolo XIX: Del primato della volontà sull’autocoscienza ); ma si veda ancora il capitolo XV del libro II, parte II.
4
I. Svevo, Romanzi cit., p. 896.
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Si pensi, ad esempio, all’interpretazione del lapsus del funerale, che Zeno nel ro-
manzo proclama innocente, mentre nella lettera già citata a Valerio Jahier lo stesso Svevo darà
ragione ad Ada e con essa all’analista che vi vedono il segno dell’odio nei confronti del morto («Ada poté intenderne tutto il significato»: Epistolario cit., p. 864). 4. Particolarmente significativo è l’episodio del cucchiaino rifiutato al fratello in cambio del suo zucchero, che caccia il protagonista nel dilemma di sapersi contemporaneamente «innocente» e cattivo: «la voce di Catina risuonò nella stanza: — Vergogna! Strozzino!. Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente. Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparirono rientrando nell’abisso» (I. Svevo, Romanzi cit., p. 1084).
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condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permes-
so di restare a casa») ‘°, di fumare una sigaretta (col conseguente furto del tabacco paterno), di giocare sotto il tavolo con la madre (ed ecco sopravvenire l’incidente dell’inchiostro versato sulla tovaglia e del calcio del padre). Per questo, l’ultimo dei sogni-ricordo che Zeno racconta all’analista è poi un sogno en abîme («sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui...») °°, che rimonta alla sorgente di ogni fantasia onirica — diventata tutt'uno con la fantasticheria erotica — per legarla inestricabilmente — non meno del fumo che brucia la sigaretta per nascondere la sua origine illecita — alla ripetitività viziosa
della distruzione-ricostruzione ad infinitum dell’oggetto sognato". E a dimostrare il valore paradigmatico di questo sogno-invenzione dove il bimbo mangia a pezzettini la donna rinchiusa in una gabbia, soccorre lo stesso Zeno che lo interpreta come una variazione a posteriori di quello fatto ben più recentemente in cui egli — preparandosi pieno di rimorsi a tradire la moglie con la giovane Carla — aveva immaginato di mangiare a pezzettini il collo dell’amante («A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse che l’altro un po’ variato, reso più infantile») *. Non a caso la trascrizione onirica maggiormente elaborata dal punto di vista della psicoanalisi, il cosiddetto sogno di Basedow, è un compendio di tutte le ambivalenze cui dà luogo il conflitto di base: il timore e la speranza di venire amato, il nesso amore-malattia dietro il quale sta l’impossibilità a distinguere quest’ultima dalla salute. Anzi, sia il morbo stesso (una specie di eccesso di vitalità che si tramuta in deviazione patologica), sia il medico da cui esso prende nome — l’ambiguo dottor Basedow: metà scienziato e metà «untore» (né va sottovalutata in questo senso l’allusione all’episodio manzoniano del protofisico Settala) — sono contrassegnati
dall’ossimoro 3.
4 Ivi, p. 1082. 59 Ivi, pp. 1086-1087. °! Si veda, per l’interpretazione del sogno di Carla come rimando simultaneo del piacere e della colpa («Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te», dice Zeno nel sogno alla moglie) quanto scrive E. Saccone nel suo Commento a Zeno cit., pp. 142-143. °° I. Svevo, Romanzi cit., p. 1087. L’interpretazione qui offerta coincide in parte con quella di E. Saccone (Commento a Zeno cit., pp. 196-203) che però, a mio avviso, accentua
eccessivamente l’idea di un felice — anche se precario — compromesso fra piacere e l’interdizione del desiderio. 5A proposito della vecchia polemica sulle letture freudiane di Svevo precedenti la stesura di Zeno, pare evidente che «l’opera di Freud sul sogno» cui alludeva lo scrittore parlan-
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Sicché il nucleo del sogno è l’ambigua salute di Ada e il suo ruolo ambivalente di attrazione e di minaccia (come il medico essa ha le gambe deboli e guida Zeno verso la soffitta dove si affaccerà il viso minaccioso di Basedow), che confluisce nell’inversione della corsa di Zeno allorché — co-
me la folla inseguente il temuto «untore» — precede Ada per poi sfuggire non sa più bene se lei o Basedow. Così, quando Zeno corregge l’interpretazione semplicistica della moglie che attribuisce il sogno al suo amore inconfessato per Ada, proponendo la centralità asettica del suo interesse per la malattia («Non Ada era im-
portante per me, ma Basedow») **, ha in certo modo ragione. In fondo tutto questo travaglio autoanalitico sempre sfociante in immagini ambivalenti, deformate e inventate che raccontano una storia iden-
tica e senza fine, si aggira nel circolo vizioso della domanda ultima senza risposta: «Io ero buono o cattivo?» *, che è poi la domanda sull’autenticità o la menzogna degli atti, dei ricordi, dei sogni, della scrittura. Ecco perché, nella chiusa del romanzo vero e proprio (vale a dire quello anteriore all’epilogo autoriflessivo intitolato Psicanalisi), Ada si allontana per sempre dalla scena, portando con sé il convincimento della responsabilità sua e di Zeno nella morte del marito («mai più avrei potuto provarle la mia innocenza») *, col che la quéte rimane aperta ad infinitum. Di qui la funzionalità retrospettiva del Preambolo che, mentre nega il rapporto causale fra memoria e conoscenza («Ricordo tutto, ma non intendo niente») *’, offre due campioni paradigmatici di sogno-rievocazione:
do del testo tradotto insieme al nipote nel 1918 (I. Svevo, Profilo autobiografico cit., p. 807) fosse L’interpretazione dei sogni dove non solo Freud racconta un suo sogno in cui «presta» all’amico Otto (con cui ha un rapporto di ambigua rivalità) i sintomi del Morbus Basedowi, ma commenta: «Continuando l’analisi mi viene in mente che Basedow non è soltanto il nome di un medico, ma anche quello di un celebre pedagogo» (S. Freud, Interpretazione dei sogni cit., p. 255), un errore che Zeno attribuirà, nel romanzo, all’odiato Guido: «... credeva poi che
colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch’era stato l’amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un’enciclopedia m’accorsi subito che si trattava di un altro» (p. 986). Questo dato si assomma all’inequivocabile allusione al caso di Irma nella lettera a Valerio Jahier del 1 febbraio 1928: «Ricordo che sempre ammirai il Freud per la sua sincerità che gli permette di raccontare nella teoria del sogno di un’altra sua lunga e costosa diagnosi su quell’Irma affetta di cancro» (cfr. Epistolario cit., p..863). Per una diversa ipotesi cfr. Enrico Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 233-246.
54 I. Svevo, Racconti cit., p. 992. 55 Ivi, p. 1002. 36 Ivi, p. 1078. 57 Ivi, p. 679.
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da un lato il ricordo della morte del padre di cui è simbolo l’immagine di una locomotiva sbuffante in faticosa salita, paradigma a sua volta del carattere assurdamente doloroso dell’esistenza; dall’altro la visione di un «fantolino» appena nato cui il romanzo è implicitamente dedicato: Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre [...]. /Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivare a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io
quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata [...]. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando
arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno — fantolino! — si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non
tutti i tuoi minuti possono essere puri *.
Viste così le cose, il carattere incancellabile della colpa risiede nella sua origine inconsapevole; essa è pertanto soprattutto la colpa di aver dimenticato oppure — da un altro punto di vista — l’impossibilità a provar piacere se non al prezzo dell’oblio e dell’incoscienza. Giunge a proposito a questo punto l’asserto di Schopenhauer secondo cui «La vera salute dello spirito non è altro che la perfetta memoria del passato» °°. Di oblio parlerà non a caso Zeno nella sua ricostruzione della morte paterna, allorché il genitore malato (che è poi l’antitesi della sana paternità, cioè dell’autorità sociale) sembra rasentare — con grande spavento del figlio — il grande istante di una verità assoluta che poi rientra nel nulla del sonno e della morte («Quello che io cerco non è complicato affatto. Si tratta anzi di trovare una parola, una sola e la troverò! Ma non questa notte perché
98 Ivi, pp. 650-651. *
A. Schopenhauer, // mondo come volontà e come rappresentazione (capitolo XXXII:
Della follia).
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farò tutto un sonno, senza il più piccolo pensiero» °; «La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre» °'). La morte infatti — come in Una vita — ce la restituisce a brandelli, nel suo aspetto più silenzioso oppure — il che è lo stesso — sotto la forma di un delirio senile (non è un caso che la sensazione di straordinaria sapienza sia il primo sintomo — come Zeno non manca di sottolineare — di un «edema cerebrale»).
Alla fine della ricerca, un sogno egli ambisce: quello che lo riporti al piacere rendendo veramente presente il passato, le «rose del Maggio» nell’inverno («Io avevo già adorata la speranza di poter vivere un giorno d’innocenza e d’ingenuità») °°, col che — grazie all’annullamento del tempo che è poi il tempo della colpa — si annullerebbe il distacco fra sogno e realtà. Alla luce di queste considerazioni si capisce forse meglio non solo la struttura abissale del terzo romanzo sveviano (una riflessione metalettera-
ria sul rapporto autobiografia-verità che finge un dibattito fra il letterato e l’analista) ma anche le contraddizioni in cui Svevo incorse a proposito della sua idea di letteratura *, la quale a volte venne da lui contrapposta all’autenticità dell’«azione»: Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: in corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare *.
e altre volte innalzata a unica salvezza di fronte alle menzogne della vita: E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! l’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata [...] il
raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orri-
6
I. Svevo, Romanzi cit., p. 690.
6! 6
Ivi, pp. 706. Ivi, pp. 1081.
6 Arcangelo Leone De Castris, parla per esempio «dell’oscillazione costante tra impiego insistito dello strumento letterario e senso costante della inutilità-falsità della letteratura» (Il decadentismo italiano cit., p. 103); l’ultimo Svevo «teorizza la “letteraturizzazione”
della vita come coerente impiego di uno strumento del tutto definitivamente privo di qualsiasi funzione pubblica e prammatica» (ivi, p. 150).
64
I. Svevo, Racconti saggi... cit., p. 818.
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da vera [...] ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno no resterà quale è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno eguale all’altro a formare gli anni, i decenni, la vita tanto vuota,
capace soltanto di figurare quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora”.
9
336
I. Svevo, Le confessioni del vegliardo (ivi, p. 371).
CORRADO DONATI
«ENRICO IV»: LA MASCHERA DELLA FOLLIA
Il teatro, come scrive Savinio nella Giustificazione dell’ autore per il suo Capitano Ulisse è un’«Avventura Colorata» in cui «l’uomo attore sale a una biologia superiore. Acquista il senso totale, assume il comando supremo di se stesso. Si conosce, si sente come nessuno mai quaggiù è riuscito a conoscersi, a sentirsi» |. Sarà il fatto che Savinio scrisse quest’opera in un clima culturale legato al Teatro d’Arte di Pirandello che doveva rappresentarla ?; di certo in quest’affermazione vi è molto di pirandelliano (qui possiamo usare il termine in concreto e non come riferimento generico ad un ‘pirandellismo’ buono per ogni occasione). Così come pirandelliana mi pare quell’immagine del palcoscenico e del retroscena come «laboratori che forniscono la chimica del teatro, l’officina di riparazioni ove gl’imperfetti personaggi della vita sono corretti e messi nello stile della casa, il magazzino dei pezzi di ricambio con i quali alcuni ortopedici molto provetti rimettono a nuovo
l’umanità acciaccata» *. Come non pensare all’«arsenale delle apparizioni» nei Giganti della montagna, ai trucchi di Cotrone e alla «ebullizione di chimere» che aleggia nella villa della Scalogna? Ma come non pensare, anche, a quell’officina di chimismi
verbali e simbolici che è l’Enrico IV, massimo
esempio della
virtù terapeutica di smontaggio e rimontaggio dell’Io, bisognoso di riparazioni dopo gli ‘acciacchi’ provocati dal conflitto con il reale?
!
Alberto Savinio, Capitano Ulisse, a cura di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi,
1989, p. 18. 2 Si veda l’ottimo commento di Tinterri (nella Nota a Capitano Ulisse cit.) il quale ricostruisce dettagliatamente la genesi e la storia dell’opera di Savinio negli anni tra il 1924, che è anche l’anno di fondazione del Teatro d’Arte, ed il 1938, in cui data la prima rappresentazione di Capitano Ulisse per la regia di Nando Tamberlani.
3 A. Savinio, Capitano Ulisse cit., p. 15.
334.
Il teatro, come la follia, sottrae l'Io alla determinazione dei comportamenti obbligati, dettati dalle norme, e lo lascia libero di atteggiarsi in mille forme, provando a piacimento le infinite maschere che l’arsenale sterminato
della coscienza presta volentieri alla pietà con cui l’autore cerca di ricomporre la soggettività ferita del personaggio dentro una sua dignità accettabile. L’Enrico IV, nel teatro pirandelliano, rappresenta uno dei momenti di più alta consapevolezza di questo potere della teatralità, della sua stretta parentela con la ‘follia’ e, insieme, della condizione privilegiata dell’«uomo
attore» dentro i confini dell’arte, per la libertà che essa gli consente. L’«Avventura Colorata» di Enrico IV è appunto il tentativo di ‘riparare’ il danno irreversibile che la presenza ostile degli altri sulla scena sociale ha arrecato alla psiche e alla coscienza del perscnaggio. Un tentativo che si dipana tra diversi piani di follia — supposta, reale, simulata — sempre utilizzando il mezzo teatrale a più livelli: come strumento di verifica, di salvezza, di dialogo e, perché no, anche come atto d’accusa verso la teatralità inconsapevole e perniciosa della scena quotidiana, in cui ciascuno finge di essere ciò che desidera che l’altro creda che sia, spostandosi continuamente dal cen-
tro dell’essere autentico. Un teatro a tutto campo, dunque, nel quale il ‘gesto’ riparatore per eccellenza — l’assunzione consapevole della maschera — con cui il personaggio si sottrae alla relatività e alla frantumazione della sua soggettività ferita, comporta la disarticolazione delle categorie temporali e spaziali e il dislocamento del senso del linguaggio verbale. Ad apertura di sipario veniamo introdotti nel luogo di una scoperta finzione — la villa parata da residenza imperiale di Enrico IV — architettata per secondare la follia che ha colpito il personaggio dopo la tragica caduta da cavallo. La scena metateatrale pirandelliana, che fin dai Sei personaggi ha preso a rifiutare il ‘come se’ mimetico del teatro tradizionale, svela qui la sua natura di artificio che chiama in causa, al tempo stesso, teatro e vita. Lo spettatore, attraverso l’arredo e il dialogo dei valletti che lo illustra e commenta la situazione *, è reso consapevole di trovarsi davanti alla rap-
* Un giusto richiamo alla funzione dei valletti, sia sul piano testuale sia su quello dei meccanismi drammaturgici dell’Enrico IV, è contenuto nel saggio di Riccardo Scrivano, Pirandello. Codici e meccanismi dell’ «Enrico IV», in Finzioni teatrali, Messina-Firenze, D’Anna, 1982. Scrivano afferma che: «[...] ad un’analisi meno superficiale di quella loro comune-
mente concessa essi risultano non solo funzionali sul piano dei meccanismi di rappresentazione, ma anche su quello della definizione degli strati di rappresentazione e di stratificazione dei codici: lo spazio e il rilievo loro assegnati sono dunque perfettamente giustificati» (ivi, pp. 212-213).
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presentazione scenica di una illusione di realtà storica che ha socialmente la funzione di esorcizzare le identificazioni allucinate di un folle. La misura di quanto la follia costituisca uno scacco del quotidiano rassicurante ed una presenza problematica per il soggetto ‘normale’ è data in prima istanza dal comico di situazione generato dalla confusione del nuovo valletto tra l’Enrico IV di Francia e quello di Germania. Confusione che provoca la messa in evidenza di un gioco di parametri (un copione) che reggono la finzione, rigidamente condizionati dal tema centrale della follia. Anche i personaggi che rendono visita ad Enrico IV, accompagnati da un medico analista incaricato di studiarne lo stato psichico, sono costretti, per accedere alla rappresentazione della sua pazzia, ad entrare nel gioco delle parti che questa inevitabilmente propone. Ma attraverso la elucidazione dell’antefatto che, come spesso in Pirandello, viene chiarito gradualmente dalle battute del dialogo, il tema della maschera e della follia si raddoppia di un risvolto sociale che tocca la realtà dei rapporti interumani. Già prima della famosa cavalcata il personaggio che ora conosciamo come Enrico IV (significativamente del suo vero nome non resta traccia nel dramma) era considerato nella cerchia degli amici un ‘pazzo’ per il suo senso umoristico della vita. Una condizione, questa, che lo affratella al Mo-
scarda di Uno, nessuno e centomila e a tanti personaggi pirandelliani chiusi in una ‘forma’ con la quale il giudizio degli altri allontana da sé e rende inoffensive le conseguenze corrosive e sovversive del «sentimento del contrario» come coscienza umoristica del sistema di finzioni e ipocrisie su cui si regge il cosiddetto consorzio civile. Nel quadro dell’antefatto, dunque, la cavalcata assume un duplice significato. Da un lato essa è simbolo di una concezione carnevalesca del vivere, in un ambiente di alto-borghesi che si manifestano attraverso l’esibi-
zione della propria esistenza comunque mascherata. Dall’altro lato, per Enrico IV, la possibilità di indossare una maschera diversa da quella che i preconcetti altrui gli hanno imposto significa, paradossalmente, accedere alla libertà di espressione del suo Io attraverso la dimensione ludica del carnevale. È Matilde ad osservare che la scelta dei costumi trasponeva sul piano ludico un reale rapporto di attrazione-repulsione allora esistente tra lei e il protagonista: DOTTORE. E lui allora scelse il personaggio di Enrico IV? DONNA MATILDE. Perché io — indotta nella scelta dal mio nome — così, senza pensarci più che tanto — dissi che volevo essere la Marchesa Matilde di Toscana. DOTTORE. Non...non capisco bene la relazione... DONNA MATILDE. Eh, sa! Neanch’io da principio, quando mi sentii rispondere da lui,
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che sarebbe stato allora ai miei piedi, come a Canossa, Enrico IV. Sì, sapevo di Canossa;
ma dico la verità, non mi ricordavo bene la storia; e mi fece anzi una curiosa impressione, ripassandomela per prepararmi a sostenere la mia parte, ritrovarmi fedelissima e zelantissima amica di Papa Gregorio VII, in feroce lotta contro l’impero di Germania. Compresi bene allora, perché, avendo io scelto di rappresentare il personaggio della sua implacabile nemica, egli mi volle essere accanto, in quella cavalcata, da Enrico IV. DOTTORE. Ah! Perché forse...? BELCREDI. Dottore, Dio mio, perché lui le faceva allora una corte spietata, e lei (in-
dica la marchesa) naturalmente...?.
È noto il significato del gioco, fin dall’infanzia, come ricerca dell’identità ‘; ma anche nella realtà sociale dell’adulto il gioco serve spesso a mascherare di finzione le verità e i desideri che la coscienza non accetta o che le regole non ammettono. L’assunzione della maschera di Enrico IV come significante del sentimento affettivo per Matilde dimostra l’esistenza di un difficile rapporto tra l’Io e la realtà esterna. Il protagonista, al contrario dei suoi compagni, interpreta il carnevale nel suo significato più vero, come licenza di trasgredire le convenzioni per dire ciò che effettivamente si è e si pensa. In tal senso la maschera significa appunto che la
°. Luigi Pirandello, Enrico IV, in Maschere nude, I, Milano, Mondadori,
1967, p. 296.
6. Sul gioco e sulle sue relazioni con l’arte si veda il paragrafo su / molti piani del testo artistico in Jurij} M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, pp. 7790. Una concezione del ‘gioco’ come costruzione ludica, da parte del soggetto, della propria realtà, viene espressa più volte da personaggi pirandelliani in termini assai chiari. Ad esempio nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore il gioco è contrapposto al lavoro: «Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano sulle cose con cui giocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa. Qui tutto è il contrario. Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare» (L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi, II, Milano, Mondadori, 1990, p. 573). È da notare che il tipo di lavoro cui si allude è quello dell’operatore cinematografico, il quale riporta sulla pellicola una realtà immaginaria che non ha, per Pirandello, alcun valore artistico (si ricordi che l’autore era avverso al cinema in quanto espressione della civiltà tecnologica che uccide l’arte): «Si dovrebbe capire, che il fantastico non può acquistare realtà, se non per mezzo dell’arte, e che quella realtà, che può dargli una macchina, lo uccide [...]» (ibidem ). Può essere interessante, allora, raffrontare questa prima affermazione
sul gioco con un’altra, quasi identica nelle parole, messa in bocca a Cotrone nei Giganti della montagna: «[...] Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza» (L. Pirandello, / giganti della montagna, in Maschere nude cit., II, p. 1345). Come si vede il rapporto tra gioco, arte e follia è un tema ricorrente in modo consapevole nell’opera di Pirandello, con tutte le implicazioni che ne conseguono.
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verità parla da un altro luogo da dove si crede che essa sia e già configura la follia (il ‘folle’ carnevalesco) come luogo di questa verità. Nella fattispecie la maschera di Enrico IV è determinata da quella di Matilde di Toscana, la quale a sua volta è determinata dal nome
di Donna Matilde. In
questo intreccio simbolico Enrico IV, indossando la maschera dell’imperatore, fa suo quel nome e manifesta la sua verità come desiderio di avere Matilde e di essere Matilde ad un tempo. Quando veniamo a conoscenza della pazzia di Enrico IV già sappiamo, allora, che la caduta da cavallo lo ha fissato per sempre in quell’attimo supremo in cui il desiderio travalica le frontiere della censura o del pudore e si fa parola o gesto per attingere l’altro. Ci stupirà meno, pertanto, la portata del trauma e della ferita narcisistica che ne consegue. Riacquistata, dopo lunghi anni, la sua lucidità Enrico IV si accorge di non poter uscire dalla sua finzione perché lo scorrere del tempo ha inevitabilmente cancellato le ragioni profonde del suo legame con il quotidiano: ENRICO IV. [...] Riapro gli occhi a poco a poco, e non so in prima se sia sonno o veglia; ma sì, sono sveglio; tocco questa cosa e quella; torno a vedere chiaramente... Ah! — come lui dice — (accenna a Belcredi ) via, via allora, quest’abito da mascherato! quest’incubo! Apriamo le finestre: respiriamo la vita! Via, via! corriamo fuori! (arrestando d'un tratto la foga:) Dove, a far cosa? a farmi mostrare a dito da tutti, di nascosto, come Enri-
co IV, non più così, ma a braccetto con te, tra i cari amici della vita?”
E alla vita sarebbe comunque «arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell’e sparecchiato». L'immagine è efficace nella misura in cui rimanda al cibo come bisogno primordiale ma, metaforicamente, allude al mangiare come atto di appropriazione totale. ‘Ingoiare’ la vita è quel che servirebbe ad Enrico IV per saziare un desiderio (qui nel significato di ‘desiderio metafisico’ *) che si è fatto parossistico e incolmabile a causa della frattura temporale che gli ha tolto gli anni migliori, e con essi Matilde. Questo egli vuol significare quando, smascherato o smascheratosi, finge di pretendere Frida, la figlia di Matilde, che è per lui l’immagine esatta della madre da giovane: ENRICO IV. [...] E ti sei spaventata davvero tu, bambina, dello scherzo che ti avevano
persuaso a fare, senza intendere che per me non poteva essere: lo scherzo che loro crede-
7 L. Pirandello, Enrico IV cit., pp. 365-366. 8 Sul concetto di ‘desiderio metafisico’ si veda René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani,
1981.
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vano; ma questo terribile prodigio: il sogno che si fa vivo in te, più che mai! Eri lì un’immagine; ti hanno fatto persona viva — sei mia! sei mia! mia! di diritto mia! [...]”.
«Terribile prodigio» dar vita ai sogni! Ciò che nell’arte è consentito, ciò che anzi è l’essenza stessa dell’arte (e del teatro in particolare), perché l’arte gioca col tempo e con la fantasia, è illecito e impossibile nella realtà. Così la follia, quella simulata, diventa lo strumento di salvezza dal totale
naufragio esistenziale. Il teatro che il protagonista mette in scena nella villa, continuando a recitare instancabilmente la parte del folle che si crede Enrico IV, è l’unico strumento che egli possieda per non sprofondare nell’abisso del tempo !. Ignorare il tempo biologico, rifugiarsi nel passato e nella routine di una rappresentazione che ripresenta sempre gli stessi gesti e le stesse parole, significa sottrarsi alla corrosione del divenire quando ormai sono venute meno le condizioni che fanno accettare all’uomo comune il senso del gioco con la vita: le illusioni e la speranza !!. Il «tempo remoto» della Storia «così colorito e sepolcrale» marca allora la rivincita del personaggio sulla persona: ENRICO IV. [...] E pensare, da qui, da questo nostro tempo remoto, così colorito e sepolcrale, pensare che a una distanza di otto secoli in giù, in giù, gli uomini del mille e novecento si abbaruffano intanto, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si de-
°. L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 370. 10 Una analisi assai penetrante e puntuale delle struttute temporali nell’Enrico IV, viste in rapporto al tema delle maschere, è quella di Fulvia Airoldi Namer nel saggio Dialettica del tempo e delle parti dell’ «Enrico IV», in «Rivista di studi pirandelliani», 1988, 1, pp. 53-78. !! Giustamente R. Scrivano (Pirandello. Codici e meccanismi dell’ «Enrico IV» cit., p. 217) rifiuta «quella sorta di lettura romantica che ha fatto dell’Enrico IV la tragedia della vita mancata, della giovinezza perduta». Il discorso del protagonista va piuttosto inquadrato in una concezione del tempo legata al sistema delle ripetizioni che «dà luogo alla negatività drammatica della perdita irrimediabile del tempo che divora ogni intensità soggettiva di Enrico IV» ( Wladimir Krysinski, Struttura del tempo e funzione della soggettività nell’ “Enrico IV” di Pirandello, in Il paradigma inquieto. Pirandello e lo spazio comparativo della modernità, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989, p. 222). In altre parole la percezione del divenire temporale si fa coscienza critica di sé per il personaggio, che scopre il proprio sistema di ‘illusioni’ come vano gioco di maschere (si ricordi quanto afferma il Padre nei Sci personaggi, rivolto al Capocomico: «Ebbene, signore: ripensando a quelle illusioni che adesso lei non si fa più; a tutte quelle cose che ora non le ‘sembrano’ più come per lei ‘erano’ un tempo; non si sente mancare, non dico queste tavole di palcoscenico, ma il terreno, il terreno sotto i piedi, argomentando che ugualmente ‘questo’ come lei ora si sente, tutta la sua realtà d’oggi così com'è, è destinata a parerle illusione domani?»; L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’ autore, in Maschere nude cit., I, p. 104).
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termineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia! con me! Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? !?
Sconfitto dalla vita Enrico IV teorizza la vita come una sconfitta quotidiana nella lotta contro il tempo. Dalla dimensione eterna del suo essereper-la-storia egli pronuncia il vanitas vanitatum che fa del quotidiano la recita miserevole delle illusioni senza speranza, delle apparenze in cui l’uomo prende forma, per cambiarle di continuo in un gioco che ha per posta la morte: ENRICO IV. [...] Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita? — Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti — voi dite — lo faremo noi! — Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni! Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei
morti! !*
Ciò che è stato è stato per sempre, ciò che sarà non farà che ripercorrere le strade di ciò che è stato. L'effetto di teatro totale che ne deriva misura umoristicamente la precarietà della persona e delle sue molteplici maschere al vaglio della condizione ‘eterna’ e immutabile del personaggio, forte di una verità interiore che coincide con la sua stessa incorruttibile essenza. Veramente qui «l’uomo attore» assurge ad una dimensione di superiore chiarezza. Nella sua recita della follia Enrico IV si erge al di sopra dei suoi interlocutori e, rifiutando il compromesso di un improbabile ritorno al quotidiano, fa del suo teatro lo strumento di una chiaroveggenza assoluta: ENRICO IV. [...] Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto
sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! "4.
12 L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 355.
13 Ivi, p. 350. 4 Ivi, p. 352.
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Questa capacità di vedere oltre il velo delle apparenze lo riporta, con disincanto, al tema del desiderio: ENRICO IV . [...] Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi — come io guardavo un giorno certi occhi — potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo im-
penetrabile vi vede e vi tocca ...'. Si deve dire, allora, che la felice intuizione
poetica di Pirandello
nell’Enrico IV, quella che riscatta il messaggio apparentemente affidato ad una ferrea logica «del contrario» tutta negativa, consiste nella persistenza, problematica ma forte, del desiderio dell’altro. Perché il pharmacos che salva Enrico IV, la sua recita di folle imperatore, è al tempo stesso il veleno di questa chiarezza interiore che diviene impotenza di raggiungere l’al-
tro da sé !°. In realtà, nella solitudine della sua villa, contornato dai tanti segnali
contraddittori che alimentano e dichiarano la strategia della finzione, Enrico IV ha teso una trappola per l’alterità. Il concetto di mascheramento implica necessariamente il suo opposto: lo svelamento del vero volto; e la storia di Enrico IV non avrebbe senso se la sua identità mascherata non volesse rivelarsi agli altri. Tutto sta in questa dialettica tra desiderio e negazione, ed egli desidera e teme nello stesso tempo che venga il momento della verità. i La sua richiesta di smascheramento, però, può esprimersi solo a patto che gli altri siano attirati nella dimensione ludica della sua folle simulazione, e vi siano costretti a recitare la parte voluta da chi, sapendo e fin-
ENT D2853: 8 Sul tema carnevalesco in Pirandello, interpretato secondo le valenze antropologiche della ‘festa’, si veda il saggio di Roberto Tessari, // freddo carnevale del soggetto dimissionario, in «Il castello di Elsinore», 1990, 8, pp. 55-69. A proposito del rapporto tra Enrico IV e Matilde all’epoca della cavalcata in maschera, Tessari scrive: «Lo sguardo orroroso che Enrico IV paragona a quello d’una metafisica condizione di mendicità è lo stesso sguardo ‘intenso’ cui risponde il riso canzonatorio ed elusivo di Donna Matilde. Una risata isterica, nata dalla paura di occhi ‘pericolosissimi’ perché ad essi ‘si poteva credere’; perché resi vibranti dalla terribile promessa non di ‘sentimento duraturo’, bensì di invasione dell’individuo entro i confini esistenziali dell’altro: di un Eros oltranzisticamente assoluto (cioè, festivo ), votato al-
la con-fusione estatica dei ‘mondi impenetrabili’, all’abbattimento della porta chiusa che esclude il mendicante” (ivi, p. 56).
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gendo, conduce il gioco. Non è per caso che i ruoli storici che i visitatori sono tenuti a rappresentare riproducono situazioni interpersonali di affetti, sospetti e rancori, che ricalcano come un doppio quelle realmente esistenti al tempo della cavalcata. Su questa ambiguità il protagonista fa leva per dar vita ad un dialogo mobile, allusivo, sfuggente in cui passato e presente, realtà e finzione si confondono e si accavallano incessantemente lasciando trasparire, ad ogni parola, ad ogni gesto, la lucida consapevolezza di star giocando una partita rischiosa quanto affascinante, la cui posta è la verità. Il tempo storico di Enrico IV, il tempo della cavalcata e il tempo presente si intrecciano e si confondono nel discorso. Quando, ad esempio, par-
la della madre morta e afferma: ENRICO IV. [...] E non posso neanche piangerla, Madonna. — Mi rivolgo a voi, che dovreste aver viscere materne. Venne qua a trovarmi dal suo convento, or’è circa un me-
se. Mi hanno detto che è morta. (Pausa tenuta, densa di commozione. Poi sorridendo mestissimamente ). Non posso piangerla, perché se voi ora siete qua, e io così (mostra il sajo che ha indosso ) vuol dire che ho ventisei anni. ARIALDO. (quasi sottovoce dolcemente per confortarlo ). E che dunque ella è viva, Maestà. ORDULFO. (c.s. ). Ancora nel suo convento. ENRICO IV. (si volta a guardarli ). Già; e posso dunque rimandare ad altro tempo il dolore [...]!”.
È chiaro che finge di identificare la madre del personaggio storico con sua sorella, madre del Di Nolli, morta proprio da un mese. Ma contemporaneamente sottolinea l’assurdo cronologico generato dal fatto che la finzione cui costringe i suoi interlocutori è relativa ad un periodo della vita di Enrico IV antecedente la morte della madre. In tal modo egli manifesta la sua condanna all’esclusione dagli affetti reali (il dolore per la morte della sorella, di cui fa capire di essere informato) e l’illogicità di un tempo sen-
za divenire cui lo costringe la follia. Allo stesso modo, sempre parlando del tempo e dei rimorsi che il ricordo delle passate azioni può destare in noi, afferma rivolto a Matilde e
Belcredi: ENRICO IV. [...] A voi non è mai avvenuto, Madonna? Vi ricordate proprio di essere stata sempre la stessa, voi? Oh Dio, ma un giorno... — com’è? com’è che poteste com-
17
L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 324.
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mettere quella tale azione... (La fissa così acutamente negli occhi da farla quasi smorire) — sì, «quella», appunto! — ci siamo capiti. (Oh, state tranquilla che non la svelerò a nessuno!) E che voi, Pietro Damiani, poteste essere amico di quel tale... pe
L’allusività del discorso, giustificata esteriormente dalla supposta inconsistenza logica dei pazzi, è talmente vaga che può riferirsi sia alla realtà storica sia alla vita reale dei suoi interlocutori. Ogni frase, ogni battuta pronunciata da Enrico IV, può accreditare l’identificazione delirante con l’im-
peratore, ma può anche lasciar intuire un atteggiamento cosciente. Tra messaggio e referenti vi è una frattura voluta che lascia spazio all’ambiguità del discorso, la quale si riversa interamente su chi è chiamato a decodificarlo. Il destinatario, insomma, è come
‘attraversato’ dal segno che, diretto alla
superficie del suo essere (la finzione contingente) va invece a colpire la sua realtà più intima. In tal modo egli è trascinato nel gioco e come sballottato dalla parola dell’altro tra due diverse ipotesi. Una volta uscito dal tunnel della follia Enrico IV resta legato all’ordine simbolico fittizio del suo transfert storico-temporale. Solo questo, perduto ogni rapporto con la vita, gli consente di intavolare un discorso su di sé con i suoi ospiti. Ma è la non univocità del suo rapporto con il proprio universo simbolico a trascinare gli altri, da semplici spettatori, nel ruolo attivo di interlocutori. Si potrebbe dire, alla maniera di Lacan sulla Lettera
rubata di Poe! che il dramma pirandelliano segue una strategia dettata dall’ordine simbolico come «costituente» del soggetto, il quale viene «determinato» dal percorso del o dei significanti ad esso relativi. La riprova sta nella didascalia iniziale del dramma, nella quale l’autore avverte: Ma in mezzo agli antichi arredi due grandi ritratti a olio moderni, di grandezza naturale, avventano dalla parete di fondo [...] I due ritratti rappresentano un signore e una signora, giovani entrambi, camuffati in costume carnevalesco, l’uno da ‘Enrico IV” e l’altra
da ‘Marchesa Matilde di Toscana” °°.
A !°
VIRpIS2SI Si veda quanto afferma Jacques Lacan nel Seminario su «La lettera rubata»: «Per questo abbiamo pensato di illustrare per voi oggi la verità che si libera da quel momento del pensiero freudiano da noi studiato, cioè che è l’ordine simbolico ad essere, per il soggetto, costituente dimostrandovi in una storia la determinazione principale che il soggetto riceve dal percorso di un significante. E questa verità, notiamolo, a render possibile l’esistenza stessa della finzione» (Jacques Lacan, Scritti, Torino, Einaudi, 1974, I, p. 8).
20
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L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 296.
L’avversativa che introduce l’opposizione «antichi-moderni» rimanda ad un ordine simbolico-temporale equivoco tra passato e presente, mentre la precisazione «camuffati» vi aggiunge una connotazione relativa al rapporto realtà-finzione. I due ritratti costituiscono, dunque, un segnale visivo dell’ordine simbolico attorno a cui si organizza il dramma. La funzione strutturale di queste immagini è precisata da uno dei valletti, Landolfo, il quale afferma: LANDOLFO. Oh, interpreto, bada! Ma credo che in fondo sia giusto. Immagini, sono. Immagini, come... ecco, come le potrebbe ridare uno specchio, mi spiego? Là quella (indica il ritratto di Enrico IV ) rappresenta lui, vivo com'è, in questa sala del trono, che è anch’essa come dev'essere, secondo lo stile dell’epoca. Di che ti meravigli, scusa? Se ti mettono davanti uno specchio, non ti ci vedi forse vivo, d’oggi, vestito così di spoglie antiche? [...]?!.
I ritratti chiariscono il piano semantico su cui si srotola il discorso di Enrico IV — fondato com'è sulle opposizioni: passato-presente, realtà-finzione — e determinano di volta in volta, a seconda di chi li guarda, la percezione dello scorrere del tempo (Matilde) o la condanna all’eterno presente della follia (Enrico IV), così come il gioco delle maschere storiche,
sociali e individuali che si svolge sotto di loro. Sono questi ritratti che «avventano», cioè dominano volutamente la scena, a condizionare i vari per-
sonaggi del dramma che vi si trovano di fronte, come davanti ad uno specchio, a cogliere l’immagine di una verità ricercata e temuta, e talora forse solo intuita. Da queste superfici speculari le parole di Enrico IV, la sua ambiguità o polisemanticità discorsiva, rimbalzano sugli altri coinvolgendoli nella trappola verbale che il folle imperatore va tessendo. È lui l’unico, per la lucida coscienza del suo gioco teatrale a più piani, a conoscere l’esatto valore di questo simbolo che è il referente sottinteso del suo discorso. Di esso si serve per trascinare i destinatari del suo messaggio nel vortice dell’ambiguità e dell’incertezza ?. Lui stesso ne è a sua volta determinato, e lo dichiara:
2!
Ivi, pp. 301-302.
22 «Nel nostro esempio si coglie infatti come la comunicazione possa dare l’impressione, cui la teoria troppo spesso si arresta, di comportare nella sua trasmissione un solo senso, come se il commento pieno di significazione cui lo collega colui che intende, potesse, per il fatto di passare inosservato a colui che non intende, essere considerato come neutralizzato» (J. Lacan, Scritti cit, p. 15).
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ENRICO IV. [...] Ebbene, Monsignore, Madonna: la mia vera condanna è questa — 0 quella — guardate (indica il suo ritratto sulla parete, quasi con paura ) — Sono ora penitente, e così resto; vi giuro che ci resto finché Egli non m’abbia ricevuto. Ma poi voi due, dopo la revoca della scomunica, dovreste implorarmi questo dal Papa che lo può: di staccarmi da là (indica di nuovo il ritratto ), e farmela vivere tutta, questa mia povera vita da cui sono escluso... Non si può avere sempre ventisei anni, Madonna! *.
Enrico IV sa che ‘staccarsi’ di là è impossibile, non soltanto perché ve lo hanno fissato la follia, quella vera, e i dodici anni perduti, ma anche perché nella superiore visione di sé e della vita, conquistata sulla scena di solitudine in cui ha recitato e recita instancabilmente la sua parte, egli ha fatto di se stesso l’emblema della condizione umana in una società che misconosce la soggettività e il desiderio come luogo della libertà. In fondo alle sue parole si legge allora un discorso sull’ingiustizia del vivere, sulla sopraffazione che il sociale esercita sull’individuo e sulla falsità dei rapporti
interumani *: ENRICO IV. [...] Loro sì [allude ai suoi ospiti], tutti i giorni, ogni momento, preten-
dono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! — Che! Che! — È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il
suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandra! Misero, labile, incerto... E quelli se ne approfittano, vi fanno subito accettare il loro,
per modo che voi sentiate e vediate come loro! °°.
Non è solo il desiderio di scoprirsi, di svelare la finzione per liberarsi da una ‘forma’ che lui stesso si è data e di cui è, in qualche modo, custode e prigioniero. Questo voler coinvolgere gli altri nel gioco delle maschere è soprattutto la manifestazione indiretta di un desiderio dell’altro (il Papa è simbolo di un potere magico che opera attraverso il rito in cui rap-
2. L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 328. 24. Per una analisi molto interessante di questi temi in rapporto alla soggettività si veda W. Krysinski, Struttura del tempo e funzione della soggettività nell’ «Enrico IV» di Pirandello cit., pp. 219-228. Per Krysinski: «Nell’Enrico IV Pirandello compie un’impresa che non gli è riuscita, forse, in nessun’altra delle sue opere teatrali: a partire da una storia individuale egli scrive il suo teatro del mundo dimostrando che lo scacco individuale è inserito nella struttura stessa del mondo e che tale struttura sottende il mito dell’individuo inteso come libertà e come irrealizzazione del desiderio dell’altro; mostrando inoltre che la storia è ripetitiva e, in
quanto tale, proietta fatalmente l’individuo nella pulsione di morte, ed infine che la pulsione di vita è mediatizzata dalla violenza propria all’individuo sociale» (ivi, p. 219).
2
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L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 349.
presenta l’intera comunità) *. È il desiderio di uno specchio che non sia solo l’immagine fissa di un quadro ad olio, ma un’immagine in carne ed ossa che gli restituisca, al di là della finzione, il senso della propria unità e identità. Solo Matilde, in virtù dell’antico affetto, intuisce il suo vero dramma: DONNA MATILDE. Ecco forse! E allora il suo discorso m'è parso pieno, tutto, del rimpianto della mia e della sua gioventù — per questa cosa orribile che gli è avvenuta, e che l’ha fermato lì, in quella maschera da cui non s’è potuto più staccare, e da cui si vuole, si vuole distaccare! ?
Ma Enrico IV sa bene che tutto gli è consentito entro i limiti della teatralità, questo «laboratorio» del possibile che si erge sopra il reale determinato e determinante. È il suo universo simbolico, la sua finzione, che gli permettono di conservare nel rapporto con gli altri uno stato di ‘fluidità’ che impedisce loro di catturarlo di nuovo in una ‘forma’. L'incertezza se sia pazzo o meno riscatta quel giudizio inappellabile di pazzia che già lo aveva emarginato ed escluso dalla vita prima della cavalcata. Al di qua del simbolo, se interpretato e distrutto, c’è 1’ Altro non come lui lo desidera bensì come entità inconoscibile e ostile: c’è l’incomunicabilità ed il rifiuto senza appello. Di fatto il Dottore, che ha capito il significato dei ritratti ma non la loro valenza nel folle gioco di Enrico IV, pensa di restituire al «malato» la «sensazione del tempo» sostituendoli con due immagini reali e provocandogli uno choc. Il ritorno al principio di realtà riporta il soggetto all’istante del trauma, sbloccando la tensione affettiva che la follia, vera o simula-
ta, aveva lungamente represso. La scarica aggressiva che culmina nell’uccisione di Belcredi non rappresenta solo la vendetta contro colui che aveva provocato la caduta da cavallo. Nel suo complesso essa è anche una vittoria delle pulsioni di morte e di autodistruzione che sottendono la tragedia di Enrico IV. Uccidendo Belcredi egli distrugge anche un’immagine di se stesso, un alter ego che ha vissuto i vent’anni da lui passati segregato nella villa, che ha goduto dell’amore di Matilde, a lui negato. L'assassinio rappresenta la conclusione della lunga marcia di avvicinamento tra il teatro e la vita, che era insita nel discorso del protagonista. Pirandello ha voluto di-
2 L’accostamento tra arte e magia, riferito al quadro che lo ha fissato in una ‘forma’ immutabile, ricorda il tema trattato in modo esplicito da Pirandello in Diana e la Tuda. 27 L. Pirandello, Enrico IV cit., p. 336.
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mostrare l’inconciliabilità di questi due mondi: se il teatro e la follia sono il regno di una libertà assoluta dell’individuo, il loro rapporto con la logica del quotidiano non può essere che radicalmente conflittuale. Da questo scontro scaturisce la tragedia, che non ha alcun valore catartico perché non risolve le tensioni né appaga l’animo dei personaggi o degli spettatori. Semmai il delitto assolutizza la scacco di Enrico IV # al quale, frantumata l’immagine speculare che lo lega ancora all’alterità, non resta che ricomporre sulla propria unità disgregata la maschera del folle.
28. Una interpretazione del ‘teatro’ di Enrico IV come teatro del «rifiuto assoluto» di ogni ruolo è data da Lucio Lugnani nel saggio /ntorno a «Enrico IV», in AA.VV., Testo e messa in scena in Pirandello, Firenze, La Nuova Italia, 1986, pp. 85-103. Circa l’omicidio di Belcredi il Lugnani afferma: «Se si vuole ancora riconoscere una cifra tragica in quel gesto di morte provocato per antifrasi dalla agnizione terribile di Belcredi (‘Tu non sei pazzo!’), ebbene, deve essere chiaro che quell’omicidio è in primo luogo la paradossale sanzione d’un suicidio e non chiude, euristicamente, il percorso d’una tragedia con la malinconia e l’orrore dai quali deve scaturire la catarsi tragica; si tratta di un gesto concavo di estrema disperata difesa che proviene da una condizione immutabilmente tragica e senza possibile catarsi» (ivi, p. 94). Si veda anche il Borsellino, il quale afferma: «Il modello della tragedia di Enrico IV è il destino di Amleto: l’impossibilità di uscire da una finta e lucida follia se non uccidendo, cioè con un atto che impone la punizione oppure il riconoscimento e l’accettazione della maschera [...]. Lo spettatore potrebbe attendersi un supplemento di istruttoria dopo questa sconvolgente auto-denuncia di pazzia. Ma in realtà la parabola si è riempita ormai di tutti i significati e ha esibito la maschera nella sua forma più vistosa e violenta» (Nino Borsellino, La maschera
e la storia: «Enrico IV», in Ritratto e immagini di Pirandello, Bari, Laterza, 1991, p. 89).
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PIERRE DUFOUR
ÉCRITURE DE LA FOLIE ET ÉCRITURE DE L’IMAGINAIRE DANS NOTRE MODERNITE: ARTAUD ET BORGES
Les siècles de la raison souveraine ne se sont pas contentés d’enfermer le fou: il ont exclu la folie de la culture. Autant dire de l’humain. Par contre, les autres «modernités» — le Romantisme découvrant la «folie du génie», l’Expressionnisme en quête d’une intensité désespérée des formes, le Dadaïsme exaltant le non-sens, le Surréalisme pratiquant l’«automatisme psychique», et, à sa manière , le mouvement de Mai 68, ont à des titres divers tenté de «naturaliser» la folie dans la culture. Mais alors qu’Erasme avait fait l’«éloge de la Folie» en moraliste, ces modernités, dont nous re-
levons encore aujourd’hui, ont prétendu réhabiliter la folie comme trouble mental, ce qui est tout autre chose. On sait que les surréalistes sont allés jusqu’à revendiquer la valeur «logique» du délire: «Nous n’admettons pas, proclament-ils dans une Lettre aux médecins-chefs des asiles de fous, qu’on entrave le libre développement d’un délire, aussi légitime, aussi /ogique, que toute autre succession d’idées ou d’actes humains» (I (S), p. 186) '. L’extrêmisme sommaire d’un
tel nivellement de tous les discours n’est guère convaincant (il y a «contradiction pragmatique» à invoquer la logique au nom d’une indifférenciation
! Les Oeuvres Complètes d’Antonin Artaud (Paris, Gallimard,
1970), constituant l’u-
nique édition française, on s’y réfèrera, sans la mention «Oeuvres Complètes» ou «O.C.», seulement par le numéro du tome et de la page cités. I(S) renverra au Supplément du tome I et NER aux Nouveaux Ecrits de Rodez. Lettres au Dr. Ferdière (1943-1946), Paris, Gallimard,
1977. Pour Borges, on se réfèrera aux oeuvres parues chez Gallimard (Coll. «L’Imaginaire» et «Folio») ou à l’Union Générale d’Editions (Coll. «Le monde en 10/18») selon les conventions
suivantes: LA = L’Auteur et autres textes; F = Fictions; LS = Le Livre de Sable; EA = Essai d'Autobiographie; AL = L'Aleph; HI = Histoire de l’Infamie; HE = Histoire de l’Eternité. D'autre part, EPL = Entretiens sur la poésie et la littérature, Paris, Gallimard,
1990; UD =
Jorge Luis Borges et Osvaldo Ferrari, Ultimes Dialogues, Paris, Ed. Zoé/Ed. de 1’ Aube, 1988.
Partout les mots soulignés dans l’original seront indiqués par [s.0.]; dans l’absence d’indication, c’est toujours moi qui souligne.
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logique absolue), et il l’est d’autant moins que, fait nouveau, la modernité a cessé soudain de compter au nombre des valeurs tabous pour entrer dans la relativité de l’histoire. Les «désillusions du progrès», l’effondrement en catastrophe des grandes utopies du siècle dernier (enfin «réalisées» par le nôtre, mais au prix de dizaines millions de morts, de surcroît inutiles), et
jusqu’aux aspirations écologistes, même quand elles sont ridicules, sont autant d’indices d’une remise en question, post-moderne, de la modernité. A la lumière d’une histoire contemporaine sanglante, on commence, timidement, à réviser les images d’Epinal d’une Histoire Idéale, auxquelles l’histoire littéraire et l’histoire de l’art n’avaient pas peu contribué, et dont les médias ont fait une collection sans précédent de préts-à-porter idéologiques. Cet horizon, d’une modernité désenchantée trahie par l’Histoire, assez
utopique pour avoir tenté de reconnaître la folie comme enfant légitime, nous invite à aborder le problème de la relation de la littérature à la «folie» et à la névrose «par sa face Nord», je veux dire en envisageant folie et névrose moins en tant que thèmes, qu’en tant que facteurs de modification profonde, voire de production d’une oeuvre littéraire. Je prendrai pour cela l’exemple de deux écritures situées à des extrêmités opposées de l’espace littéraire comme du champ psychopathologique: celle d’Antonin Artaud, dont la psychose bien reconnue s’inscrit dans un contexte de subversion et de modernité radicales, et, à l’autre pôle, celle de Jorge Luis Borges, tenu pour un classique de la modernité, mais qui est peut-être déjà post-moderne dans la distance concertée qu’inaugure son fantastique intellectualisé.
Le lecture d’Artaud conduit à distinguer deux moments successifs: celui du discours du moi sur la folie, thématisée comme expérience psychique, et celui du discours tenu par la folie elle-même. Car, au retour du Mexique et surtout de son voyage en Irlande en 1937, avec les premières crises délirantes durables, c’est la folie elle-même qui prend la parole. Mais jusqu’à cette date, le drame d’Artaud est de ne pouvoir faire reconnaître une singularité psychique qu’il qualifie lui-même d’«anormale». Un double malentendu l’oppose sur ce point à la droite libérale littéraire de la «NRF», et peu après à l’extrême gauche non moins littéraire du Surréalisme. Son premier texte publié, Correspondance avec Jacques Rivière, a pour objet ce malentendu:
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Je me flattais de vous apporter un cas, un cas mental caractérisé et, curieux comme je vous pensais de toute déformation mentale, de tous les obstacles destructeurs de la pensée, je pensais du même coup attirer votre attention sur la valeur réelle (s.0.), la valeur initiale [...] des productions de ma pensée [...] Je m’é-
tais donné à vous comme un cas mental, une véritable anomalie psychique, et vous me répondiez par un jugement littéraire (I, pp. 34-37).
On voit qu'il ne recule pas devant le langage médical («cas mental, anomalie psychique, déformation mentale»): il a le courage de nommer son mal, au risque de devoir y lire la vérité de son moi. En méme temps, les limites sont définitivement fixées: d’un côte son expérience psychique, de l’autre la littérature «professionnelle». Le contraste est donc net avec certaines attitudes antipsychiatriques qui, de crainte de «psychiatriser le cas», passent à côte du problème tel quel l’a vécu le sujet”. En effet, tenir compte des faits, fussent-ils grossiers, a cessé aujourd’hui de passer pour du «positivisme», ou du «médicalisme». Artaud appartient à une famille où, sur huit enfants, seuls deux survivent; il a une méningite à l’âge de six ans; doit être interné dès l’âge de 19 ans, entre 1914 et 1920, puis de 1837 à 1946 à Rodez;
son abus du laudanum
? Le Colloque de Cérisy la Salle Vers une Révolution Culturelle: Artaud (Paris, Union Générale d’Ecrivains, «10/18», 1973), important par la notoriété des participants, apparaît aujourd’hui moins comme un document sur Artaud que comme un témoignage involontaire sur la pensée française de l’après-mai 68. Philippe Sollers ouvre le débat en opposant au «cri» d’Artaud le «gli» (sans doute de la société bourgeoise puisqu'on nous explique qu’il se retrouve dans «église»). Jacques Henric tient à préciser qu’il a quitté le PCF «sur une base de gauche» [s.0.] et propose un «Artaud travaillé par la Chine» (ivi, p. 213), que l’intéressé eût certainement désavoué en termes peu académiques. Quant à Pierre Guyotat, il accomplit le tour de force, sans faire un seul instant allusion à Artaud, de raconter, avec d’inénarrables détails
techniques, les masturbations du collégien Guyotat, sous le titre «Langage du Corps» (ivi, p.163 sgg.), en vertu du principe évident que toute écriture est une masturbation. Pour justifier le titre du colloque, l’animateur nous assure que «ce qui donne sa monumentalité concrète et réelle à l’histoire, a été de toute évidence la Révolution Culturelle Prolétarienne Chinoise, en tant que développement du marxisme-léninisme» (ivi, p. 126). Les communications évoquent dans l’enthousiasme «les bons en avant prodigieux qui s’accomplissent en Chine dans la conception d’une pratique politique et idéologique» (ivi, p. 240). Plus «prodigeux» encore, vingt ans après: le comique involontaire de ce parisianisme idéologique. Une utile lecture à signaler aux signataires de ce colloque «historique»: Thomas Pavel, Le Mirage linguistique, Essai sur la modernisation intellectuelle, Paris, Edition de Minuit, 1988, qui analyse «la soudaine
prolifération d’entreprises intellectuelles bruyantes et frivoles», le «schéma utopie-terreur» de leur régime idéologique et «l’ampleur prise par les comportements intellectuels discrétionnaires» (pp. 202-203).
353
comme analgésique nécessite périodiquement des cures de désintoxication, etc.. Il faut en outre rappeler une évidence hippocratique: Artaud se sait malade, parce qu’il souffre. En face de ceux qui, comme Jacques Rivière,
l’assurent qu’eux aussi connaissent la souffrance «morale», il ne cesse de revendiquer la spécificité de sa souffrance «psychique». C’est qu'elle s’impose à lui avec l’évidence immédiate de la souffrance physique, et c’est toujours en termes physiques qu’il la décrit: «véritable paralysie, effondrement central de l’àme, érosion essentielle à la fois et fugace de la pensée»
(I, p. 35) sont chez lui plus que des métaphores. Il s’agit non du manque de «ce que l’on est convenu d’appeler l’inspiration», mais d’«une véritable déperdition» de la pensée (I, p. 31): «Je souffre d’une effroyable maladie de l’esprit. Ma pensée m’abandonne à tous les degrés» (I, p. 30). Il reparlera dans Le Pèse-Nerfs d’«une espèce de déperdition constante du niveau normal de la réalité» (I, p. 109). Or, cette dernière expression désigne pour le psychiatre un des grands traits distinctifs de la psychose par opposition à la névrose: la fonction du réel y est atteinte, symptôme grave qui n’apparaît pas dans la névrose. La psychanalyse préfère considérer que «la folie est vécue toute dans le registre du sens»? et consiste en un trouble profond du «symbolique» en tant que fonction de production du sens. L’accès au symbolique et à «la Loi» étant supposé s’effectuer à travers l’Oedipe, la psychose serait caractérisée par la carence de l’imago paternelle et de ce que Lacan appelle la «méthaphore paternelle» (explication dans laquelle on a quelque peine à voir une condition suffisante). Quoi qu’il en soit, lorsqu’ Artaud décrit «une sorte de souffrance froide et sans images, sans sentiment, et qui est comme un heurt indescriptible d’avortements» (I, p. 69), cette «froideur affective» caractérise bien la psychose par opposition à la névrose: Je n’ai plus ni émotion, ni passion, [...] le dépôt des réactions émotives, cette espéce de sédiment de l'âme a cessé de se constituer [...] car la réalité a disparu (I, pp. 114-116).
Ce «sédiment de l’âme», c’est moins le «réel» (le réel des pulsions et du désir, indestructible selon Freud) que la possibilité de saisir ce réel à travers le symbolique pour l’intégrer à la construction défensive que constitue
* Cfr. Jacques Lacan, Ecrits, Paris, Ed. du Seuil, 1966, p. 166. Cfr. aussi: «C’est dans [...] la forclusion du Nom-du-Père à la place de l’Autre, et dans l’échec de la métaphore paternelle que nous désignons le défaut qui donne à la psychose sa condition essentielle, avec la structure qui la sépare de la névrose» (ivi, p. 575).
354
le moi («moi imaginaire» ou «imaginaire» tout court). C’est ce qu’on peut lire dans L'Ombilic des limbes: «Il faudrait parler maintenant de la décorporisation de la réalité, de cette espèce de rupture appliquée, on dirait, à se multiplier elle-méme entre les choses et le sentiment qu’elles produisent sur notre esprit ...» (I, p. 75).
A cette date (1923), s'agit-il déjà de psychose, ou seulement de prédisposition à la psychose? Ce qui nous importe surtout, c’est que ces traits soient perçus par le sujet comme des troubles graves et qu’il ressente le besoin d’en faire part à autrui à travers une oeuvre (ce qui est plus caractéristique de la mélancolie que de la schizophrénie, qui du reste ne s’excluent pas toujours). Ce qui frappe en tout cas dans les textes de cette première période, c’est qu'ils allient à une pertinence quasi clinique un bonheur d’expression de nature incontestablement littéraire. Mais celui-ci tient d’abord à leur caractère parfaitement normal sur le plan logique. On n’y décèle pas, contrairement à l’expérience subjective de l’auteur, la moindre «érosion de la pensée»: l’écriture, l’argumentation y sont d’une rigoureuse cohérence. Il n’est que de relire de ce point de vue Le Théâtre et son double pour se persuader que l’acuité critique se situe toujours chez Artaud au plus haut niveau. On peut, si l’on veut, juger utopique son projet théâtral (encore que le théâtre moderne, de Barrault à Grotovski, l’ait réalisé de très près), mais on ne sau-
rait en contester la cohérence, ni le caractère stimulant pour l’esprit, sans indices de «dépression» (de dominantes «thymiques» ou thématiques négatives) ni les signes de clôture de la pensée névrotique. C’est que, tandis que la névrose colore l’ensemble du vécu et témoigne d’une lutte épuisante du moi (contre le surmoi), par contre dans la psychose, le moi ou bien a déjà renoncé à lutter, ou bien, dans les instants de
rémission, paraît redevenir «normal». Plus normal en tout cas que ne l’est un névrosé dont la névrose s’est fixée en «névrose de caractère». Artaud écrit à Jean Paulhan que son état «subit des fluctuations infinies qui vont du pire à un mieux-être relatif [...], on ne se rend pas compte qu’au moment où je parle et décris mon mal c’est qu’il a en partie disparu». A ce point d’évolution de la maladie, la qualité des contenus de sens ne paraît donc pas atteinte par le trouble mental. Celui-ci constitue bien au contraire, aux yeux du sujet, une expérience personnelle essentielle, voire irremplaçable. - De l’expérience des états aigus demeure en effet le souvenir. Toujours exprimable dans une oeuvre, ne fût-ce qu’à titre de souvenir. Matériau d’écriture privilégié en raison même de son acuité, la maladie affecte dès lors 355
l’accent de cette oeuvre
(lequel, faute de meilleur critère, en détermine
communément l’appartenance à la littérature). Car il est évident que chez le sujet fragile, la sensibilité maladive à la souffrance psychique a pour contrepartie une extrême sensibilité aux impressions internes, et que c’est là une des conditions de l’intensité expressive, caractéristique majeure de la modernité littéraire. La maladie apparaît donc essentiellement comme le révélateur d’un état de fragilité qui lui est antérieur et qui chez Artaud paraît remonter à l’enfance. L’extrême intensité d'expression qui en résulte apparaît aussi bien dans des poèmes en prose que dans des descriptions cliniques destinées à des correspondants médecins ou guérisseurs (comme l’acupuncteur Georges Soulié de Morant). Même dans les «poèmes» la fidélité au «vécu» de l’état psychique est remarquable: Une grande ferveur pensante et surpeuplée portait mon moi comme un abîme plein [...] L'espace était mesurable et crissant, mais sans forme pénétrable [...] Et l’enveloppement cotonneux du bruit avait l’instance obtuse et la pénétration d’un regard vivant. Oui, l’espace rendait son plein coton mental où nulle pensée encore n’était nette. [...] Mais peu à peu la masse tourna comme [...] une espèce d’immense influx de sang végétal et tonnant [...] Et tout l’espace trembla comme un sexe que le globe du ciel ardent saccageait. Et quelque chose du bec d’une colombe réelle troua la masse confuse des états. (L'ombilic des limbes, I, p. 63)
Artaud peut donc légitimement écrire dans le texte liminaire de ce premier recueil: «Là où d’autres proposent des oeuvres je ne prétends pas autre chose que de montrer mon esprit. [...] Je n’aime pas la création détachée [...]. Ce livre, je le mets en suspension dans la vie» (n.s.) (I, p. 61). Formule empruntée à la chimie et qui refuse toute transcendance. Il faut en finir avec l'Esprit comme avec la littérature. [...] Je voudrais faire un livre qui dérange les hommes, qui soit comme une porte ouverte qui les mène où ils n’auraient jamais consenti à aller, une porte simplement abouchée avec la
réalité (1, p. 62).
Cet espoir d’un accès sans médiation à la «réalité» n’est pas ici de l’ordre de l’utopie (car dans cette pensée révoltée et anarchisante, l’expérience de la souffrance intérieure dissuade le moi de la croyance consolante et naïve en l'utopie, notamment politique). Il est de l’ordre d’une expérience d’anarchie pulsionnelle et d’excitation instable de style «maniaque» due à la psychose (même s’il ne sagit pas de «manie» proprement dite). D'où, chez cet écrivain supérieurement doué, le refus violent de l’écriture
littéraire socialement homologuée:
356
Toute l'écriture est de la cochonnerie [...]. Tous ceux qui ont des points de repère dans l’esprit [...] tous ceux qui sont maîtres de leur langue, tous ceux pour qui les mots ont un sens, tous ceux pour qui il existe des altitudes dans l’àme, et des courants dans la pensée, ceux qui sont l’esprit de leur époque [...] / sont des cochons. [...] Et je vous l’ai dit: pas d'oeuvres, pas de langue, pas de parole, pas d'esprit, rien. | Rien, sinon un beau Pèse-Nerfs (I, p. 121).
«Pas d’oeuvre»: aussi Artaud publie-t-il des recueils à dessein disparates, dans lesquels se mélent poèmes, correspondances, notes personnelles, fragments de tous genres. Là encore le trouble mental n’impose, ni n’explique, mais indique, suggère des formes minimales qui refusent la forme achevée, fermée sur elle-même, rhétorique, redondante. La maladie mentale favorise ici un certain type d’«oeuvre ouverte» qui est l’une des caractéristiques de la modernité. Aussi un «poème» d’Artaud est-il composé à la fois d’affirmations agressivement personnelles («Je suis témoin, je suis le seul témoin de moi-même. Cette écorce de mots, [...] je suis seul juge d’en mesurer la portée») et de notations quasi cliniques (observant, par exemple, dès la ligne suivante: «Une espèce de déperdition constante du niveau normal de la réalité»).
Ce sentiment de singularité et d’unicité («Je suis le seul témoin de moi-même») appellera également cette métaphore d’acteur: «J’assiste à Antonin Artaud». Mais ce qui s’y exprime aussi, c’est la passivité et la faiblesse profonde d’un moi spectateur. En effet, au delà du «manque à être» ou de la «béance» qui, selon Lacan, cliverait à son insu tout sujet humain,
Artaud avoue «une fatigue renversante et centrale [...] une fatigue de commencement du monde [...] un sentiment de fragilité incroyable, et qui devient une brisante douleur» (I, p. 74). A ce désarroi psychique, il tente d’opposer un sentiment autoentretenu de supériorité, qui intéresse l’oeuvre au premier chef: Toute le science hasardeuse des hommes n’est pas supérieure à la connaissance que je puis avoir de mon être. Je suis seul juge de ce qui est en moi (Lettre à M.le législateur de la loi sur les stupéfiants, I, p. 108).
Alors qu’il n’a encore rien publié, il écrit à J. Rivière,: «Je suis un homme qui a beaucoup souffert par l’esprit, et à ce titre j'ai le droit de parler» (s.0.). Il a le sentiment que sa maladie, son «infériorité», lui donne ce
droit: «Je sais, poursuit-il, comment ça se trafique là-dedans. J’ai accepté uné fois pour toutes de me soumettre à mon infériorité». Point central de ce premier versant de l’oeuvre: la maladie est revendiquée comme fondant par excellence la légitimité de l’écriture. OT
C'est cette singularité d’une expérience unique (la psychose) qui le sépare de ce qu'il appelle simplement la «littérature». D'où ses rapports difficiles avec le Surréalisme (qu’il a pourtant contribué à radicaliser, notamment dans le numéro 3 de «La Révolution Surréaliste» rédigé par lui et qui est le plus violent de tous). Avant d’adhérer au mouvement, il écrivait déjà à J. Rivière à propos de Breton, Tzara, Reverdy: «leur âme n’est pas physiologiquement atteinte». Quelle que soit la sincérité de leur révolte, «il n’en reste pas moins, souligne-t-il, qu’ils ne souffrent pas et que je souffre, non seulement dans l’esprit mais dans la chair et dans mon âme de tous les jours». A ce titre, il se prétend, en tant que psychotique, le seul vrai surréa-
liste: «Je puis dire moi vraiment que je ne suis pas pas une simple attitude d'esprit» (I, p. 50). Artaud bout cette attitude revendicatrice. Or c’est là l’un des tre modernité (car on aura compris qu’il ne s’agit pas
au monde, et ce n'est maintiendra jusqu’au traits constants de noici d’un problème ex-
clusivement littéraire).
Jean Paulhan écrit à Artaud: «Breton, pour justifier le désespoir littéraire qu'il a choisi de représenter a besoin autour de lui de véritables désespoirs» (I (S), p. 208). En effet, si les surréalistes optent officiellement pour les désordres de l’«inconscient» et les droits du délire, ils ne sont nullement disposés à les vivre, ni du même coup à «en finir avec la littérature». (A des expériences de psychodrames un peu risquées, Breton, que sa formation de psychiatre rendait prudent, a bientôt préféré des jeux poétiques sans danger tels que l’«écriture automatique» ou les «cadavres exquis»). Ainsi, le Surréalisme
qui, dans ses manifestes, prétend ne fixer aucune limite à la subversion sous toutes ses formes, exprime, dans ses attitudes, le recul de fait de la modernité au seuil de la folie. Seule exception: Artaud (et les suicidés du groupe). Dès lors la rupture était inévitable. Ce qui nous intéresse, c’est ce qu'elle révèle. Du côté d’Artaud: une authenticité difficilement contestable parce qu’elle est celle de la maladie et de la souffrance. Du côté des Surréalistes: l’invention, avec cinq ans d’avance sur les procès de Moscou, du stalinisme intellectuel: «cette canaille, aujourd’hui, nous l’avons vomie [...] cette charogne... etc.». Dans le «jugement» qui l’exclut, Artaud est accusé non seulement de «n’avoir jamais obéi qu’aux mobiles les plus bas», mais aussi de n’avoir voulu «voir dans la Révolution qu’une métamorphose des conditions intérieures de l’àme, ce qui est le propre des débiles mentaux, des impuissants et des lâches» (I, p. 446)*.Dans ses conférences de Mexi-
4
Cfr. A la grande nuit ou le bluff surréaliste (I, pp. 363-372) qu’Artaud publie à compte d’auteur en réponse au pamphlet surréaliste Au grand jour. Le «jugement» d’ Artaud
358
co (en 1936), il présentera le surréalisme comme le «cri organique de l’homme [...] contre toute coercition. Et d’abord la coercition du Père». (VII, p. 173). Pour lui, le Surréalisme a trahi ce projet de libération totale dès lors qu’il a «cru devoir se rallier au communisme et chercher dans le domaine des faits et de la matière immédiate l’aboutissement d’une action qui ne pouvait normalement se dérouler que dans les cadres intimes du cerveau» (I, p. 364). En parlant de «guerre au fascisme, front anti-impérialiste, lutte des classes», le Surréalisme, à ses yeux, a sacrifié à «des idoles
d’abétissement qui servent au jargon de propagande» (VIII, p. 182). Il affirme: «la jeunesse française d’aujourd’hui [...] considère l’explication matérialiste de l’histoire comme une idéologie [...] et en face de la fausse métaphysique issue du matérialisme de Marx, elle réclame une métaphysique totale qui réconcilie l’homme avec la vie d’aujourd’hui» (VIII, p. 186). Ainsi, à la veille même de sa période délirante, Artaud est assez lucide pour opposer à un «sectarisme imbécile» le «point de vue du pessimisme intégral (ibidem ), ajoutant, avec une remarquable objectivité vis à vis de lui-même: Il y a là une lucidité du désespoir, des sens exacerbés et comme à la lisière des
abîmes: avec en ma faveur tout de même des circonstances, psychologiques et physiologiques, désespérément anormales et dont eux [les surréalistes] ne sauraient se prévaloir (I, p. 372).
L’«authenticité», comme dira un peu plus tard la génération existentialiste (ici nécessité intérieure d’une écriture dont l’enjeu est de maîtriser un désordre mental), oppose Artaud à l’inflation verbale du discours surréaliste (qu’il partageait encore à l’époque du numéro 3 de «La Révolution Surréaliste»).
Mais je n’entends pas écrire un Pro Artaud. Sa prétention à une «métaphysique totale» s’avèrera n'être en définitive qu’une synthèse confuse d’ésotérismes de toutes origines (par exemple, la tradition de la Kabbale ou l’«astrologie des Mayas» et leur «algèbre transcendante»). C’est que les troubles mentaux ne sauraient en aucun cas être la «cause» unique de l’oeuvre (auquel cas les hôpitaux psychiatriques seraient peuplés de génies). Ils n’en sont même pas la condition nécessaire (car nombre d'écrivains sont
e
comporte encore cet attendu: «Il vaticinait parmi nous jusqu’à l’écoeurement, jusqu’à la nausée, usant de trucs littéraires qu’il n’avait pas inventés, créant dans un domaine neuf le plus répugnant des poncifs».
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psychologiquement normaux). Disons plutôt qu’aussi longtemps qu'elle ne dépasse pas certaines limites, la maladie mentale constitue pour l’oeuvre littéraire une chance d'authenticité, cependant que réciproquement l’écriture représente pour le sujet psychopathe un espoir de salut. Encore aujourd’hui, on est frappé de la qualité de présence des textes d’Artaud, qui contraste avec l’obsolescence rapide d’oeuvres cependant plus récentes, mais qui déjà, comme celle de Sartre, n’ont plus guère qu’un intérêt historique (à force de concessions à des illusions non moins historiques). Même si ce n’est pas toujours pour de bonnes raisons, Artaud aura fait preuve d’un jugement plus sûr. Malheureusement, dès son retour du Mexique, au discours d’Artaud
sur sa «folie» va succéder le discours de sa folie elle-même: le discours du délire. Au cours de son voyage en Irlande, on doit le rapatrier, puis l’interner d’office au Havre, puis dans divers asiles, dont celui de Rodez où il
passera près de dix ans. «Paraphrénie fantastique» diagnostique le Dr. Ferdière (délire partiel particulièrement luxuriant, mais dans lequel le malade reste par ailleurs relativement bien adapté à la réalité). Les inconditionnels de la Chose littéraire ont condamné ce psychiatre les yeux fermés. Lisons plutôt les textes. Lettre à Mme Ferdière: Mon internement était une affaire de magie [...] On prolongeait l’illuson perfide que j'étais fou parce qu'ayant moi-même à me défendre par magie contre des agressions magiques occultes et qui celles-là étaient noires, j’en étais amené à employer la Magie Cérémonielle Blanche, la plus effiace contre les démons». En post-scriptum: «Rappelez au Dr. Ferdière qu’il a vu de ses yeux toutes les armées célestes [...] autour de l’asile de Rodez qui est cerné, et que l’histoire de
persécution dont je souffre ici finira dans un brasier général (NER, pp. 39, 42).
Ailleurs, il affirme que son internement a été décidé dans une bataille qui
«a eu lieu à Paris en 1934 et où les forces du Bien et du Mal se sont heurtées avec la plus implacable rigueur». A la suite d’une inspection de l’asile, il accuse «la Haute Police» d’avoir donné ses ordres à l’inspecteur. Classique «délire de persécution» On observera que la cohérence linguistique y est irréprochable (aux spécialistes de juger s’il y a néanmoins «dissociation schizophrénique»). Autre aspect, le «faux souvenir», caractéristique de la paraphrénie: Artaud dédicace à Hitler un exemplaire des Nouvelles Révélations de l'être avec la mention «en souvenir du Romanisches Café à Berlin un après-midi de mai 1932». Ce choix d'Hitler, si inattendu de la part d’un intellectuel de tendance libertaire, montre bien qu’il s’agit là d’un choix délirant typique, qu’au-
360
rait pu faire un aliéné quelconque. De méme, trait non moins banal, Artaud enròle son médecin comme personnage de son délire qui «a vu de ses yeux les armées célestes». Ou encore: «A l’heure où je vous écris, vous vous étes
souvenu de Smyrne où en 1901 vous avez rencontré Joseph Jésus Marie et Nanaqui le Saint Esprit. Mais alors votre âme habitait un autre corps» («Nanaqui» était le diminutif dont usaient ses proches quand il était enfant) (ivi, p. 35). Il serait de mauvais goût d’insister sur un phénomène d’une telle évidence. Soulignons plutôt en quoi les contenus de ce «délire installé» sont typiques: ils échappent au libre choix du sujet, quoique celui-ci les fasse siens sans réserves. Mais on voit du même coup que l’intérêt de la psychose déclarée devient «problématique» en ce qui concerne la genèse de l’oeuvre, le problème étant désormais de distinguer entre ce qui ne vaut qu’à titre de document clinique et ce qui vaut comme oeuvre autonome. On sait que les éditeurs d’Artaud ont pris le seul parti possible pour eux: tout publier. Cela ne nous interdit pas de signaler quelques critères distinctifs relativement objectifs: l’obscénité du lexique, les glossolalies, écholalies et autres marques d’un relâchement du contrôle général du langage, comme de la cohérence du cours de la pensée. Ces aspects linguistiques typiques sont quasi constants dans les recueils tardifs Artaud le Mômo et Cigît°. Largement stéréotypés par la maladie, ils réduisent d’autant ce qu’on pourrait nommer la zone d'influence utile de la psychose sur l’oeuvref. Cependant (si l’on ne veut pas trop simplifier) 1l existe également, notamment dans la correspondance, des textes de contenu manifestement délirant mais
néanmoins parfaitement contrôlés, tant sur le plan de la correction raffinée
5 Artaud le Mômo (XII, p. 17): «... il y a un os, /où /dieu [s.0.] s’est mis sur le poète,
/pour lui saccager l’ingestion de ses vers, / tels que des pets de tête / qu’il lui soutire par le con, [...] et ce n’est pas un tour de con / qu’il lui joue de cette manière, / c’est le tour de toute la terre / contre qui a des couilles / au con». (On a là un exemple d’écholalie sur les mots «tour» et «con»). Un peu plus loin dans un langage encore plus ordurier il est question de «toute l’insolente racaille / de tous les empafrés d’étrons / qui n’eurent pas d’autre boustifaille / pour vivre / que de bouffer / Artaud / m6mo» (ivi, p. 18). 6 Lettre à Georges Braque (16-1-47, ivi, pp. 158-159): «L’internement a cessé mais les manoeuvres magiques ne cessent de croître d’astuce, de vilénie, d’efficacité, et à l’heure qu'il est toute la terre est [...] un immense cirque d’envoûtements fort bien camouflés [...] tout le
monde le sait: en magie on paye les gurus, les yogis [...] avec un peu de sperme, de lait ou de merde jetés dans les espaces et préparés. Or cette magie, sur 5 milliards d’hommes il y en a plus de 3 milliards qui la font sciemment et consciemment (s.0.) et envoûtent la flicaille et les
psychiatres pour fermer la bouche aux lucidités».
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du langage que sur celui de la cohérence interne du discours (considérée à l’intérieur du système du délire, qui est globalement absurde, mais cohérent dans le détail, parfois comiquement) /. Dès lors, le seul aspect qui se prête encore à une analyse objective (puisque tel est, avec ses risques, notre pari), c’est le caractère quasi hallucinatoire des contenus délirants («halluci-
nation psychique» non-perceptive). Car dans ces textes, en contraste dramatique avec leur «style» irréprochable, il y a absence totale d’esprit critique si et seulement si le contenu délirant est concerné. A la différence du sujet normal qui «modalise» son discours (en fonction de situations par définition toujours particulières), le discours délirant n’est pas seulement prolixe et ratiocinant, il est irrépressiblement assertif. Le doute n’y effleure pas un instant l’énonciateur, qui, ayant l’illusion d’assumer totalement sa parole, n’hésite pas à adopter le ton prophétique, ou celui de la certitude sereine de l’«illuminé». Ainsi, le délire a beau, aux yeux du sujet, s’intégrer sans hiatus à sa pensée, aux yeux de son lecteur il l’asservit: c’est un
«bruit» qui parasite l’«information», qui couvre totalement la voix d’un moi qui «n’est plus lui-même». Un corps étranger fait irruption dans le discours, à l’instant précis, aisément perceptible à la lecture, où le texte se met à «délirer», à «dérailler» (de-lirare, c’est «sortir du sillon»).
Le délire produit d’autant plus facilement cet effet de corps étranger que ses contenus sont en règle générale d’origine culturelle, et /a Culture c’est toujours l’Autre. De plus, le délire se réfère d'ordinaire à une culture
archaïque périmée: la sorcellerie, la magie, les envoñtements ne cessent de préoccuper Artaud*. Ces contenus relèvent donc essentiellement de la couche culturelle la plus irrationnelle (celle des cultures tribales et de quelques régions arriérées de la paysannerie européenne); d’autres appartiennent à la
7 Lettre à Mme Jean Dubuffet (29-11-45), Postscriptum: «Car c’est pour ne pas me rendre l’or de la banque de France qu’on me fait toute cette histoire-là [...]. La somme dont je vous
parle était de cent milliards. Et elle doit étre intacte avec les intéréts en plus» (XIV, p. 65). *. Lettre à Jean Dubuffet (29-11-45, XIV, pp. 55-56): «Cela ne se savait pas couramment jusqu’à ces derniers temps, mais c’est devenu maintenant un fait que plus personne n°ignore [...] les messes [s.0.] de toutes les églises catholiques de la terre servent de support à ces envoûtements qui [...] asphyxient toutes les consciences, la vôtre [...] celle de mes amis [...],
le but secret est de me faire perdre ma personne et ma conscience, de s’emparer de mon corps et de le remplacer par une âme autre que la mienne [...] c’est un fait que j’ai jour et nuit autour de moi une horde obscène [...] d’envoûteurs, succubes et incubes masturbateurs de l’âme [...] M. Durand, M. Dupont, M. Flic, M. Curé, M. Médecin, [...] M. Tout le Monde et caetera. De
cet état de choses nous souffrons tous et d’autant plus qu'il est protégé par la police toute aux ordres des envoûteurs ...».
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couche un peu plus récente du mysticisme judéo-chrétien (Artaud s’est intéressé vivement à la Kabbale et a eu également des crises de «folie religieuse» avec signes de croix pour se protéger des démons, etc.). C’est que, contrairement à ce qu’on pourrait imaginer, le contenu du délire est loin d’être «n’importe quoi». Souvent attestés dans la culture, les motifs en sont impersonnels (Dieu, la Police, 1’ Administration ...), mais en même temps leur réemploi dans le discours du sujet est entièrement réorienté: le moi s’y place toujours en plein centre de la construction imaginaire (par exemple, en tant que victime spécialement choisie par la multitude de ses persécuteurs). Et pourtant, envahi tout entier par ses objets de croyance, au point de se sentir à la lettre «possédé» (la «possession» médiévale traduisant assez bien l’expérience du sujet), selon l’expression d’ Artaud «le moi n’est plus là». Mais cela n’empêche nullement, jusque dans les derniers recueils, la souffrance psychique d’émerger au coeur du délire, lui rendant ainsi, par instants, un pathétique accent de vérité dans le non-dit. Ainsi en est-il des Nouvelles Révélations de l'être (1937), parues avant le départ d’Artaud pour l’Irlande, mais qui nous le montrent déjà obsédé de destruction par le feu: Si l’on a fait de moi un bûcher c’était pour me guérir d’être au monde / Et le monde m'a tout enlevé [...] Je suis vraiment tombé dans le Vide [...] Or n'étant
plus, je vois ce qui est [...] C’est un vrai Désespéré qui vous parle et qui ne connaît le bonheur d'être au monde que maintenant qu'il a quitté ce monde, et qu’il en est absolument séparé [...] Je ne suis pas mort, mais je suis séparé(VII, pp. 149-151).
Texte auquel on ne saurait refuser le statut littéraire, ni une certaine
qualité d'émotion. Mais, dans la même oeuvre, on trouve de multiples allusions à la «canne de Saint Patrick» (bâton «magique» qu’Artaud avait emporté en Irlande), ainsi que plusieurs interprétations de lames du Tarot qui n’offrent vraiment d’intérét que pour le clinicien ou l’historien de l’ésotérisme. Par exemple, le neuvième noeud du bâton («chiffre de la destruction par le feu») permet à Artaud de prophétiser «une destruction infernale». Est-on encore dans la métaphore ou déjà dans la «voyance»? Les limites se brouillent: «Je vois cette Canne au milieu du Feu et qui provoque la destraction par le Feu [...] Parce que je prévois je préche aussi la Destruction totale, mais Consciente et Révoltée [...] Le torturé est devenu pour tout le monde le Reconnu». Et il signe «Le révélé» (VIII, p. 131). S’agit-il enco-
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re d’une «oeuvre littéraire»? Et où est l’«aventure aux frontières de l’esprit», la conquête de la «surréalité»? Manifestement il ne s’agit plus ici d’un surréel, mais d’un irréel consolateur stéréotypé, dans lequel le sujet désemparé cherche un impossible refuge. Les moments
les plus douloureux, même
pour le lecteur, sont sans
doute ceux où Artaud dénie désespérément sa folie dans les instants mêmes où il délire, et où ce délire perd jusqu’à son caractère culturel relativement cohérent, pour revêtir une allure personnelle si aberrante qu'elle n’a plus
qu’un intérêt clinique °. Dans cette période délirante qui durera pratiquement jusqu’à la mort d’Artaud, deux traits retiennent particulièrement l’attention:
1. La métaphore est pratiquement absente du discours délirant, qui constitue une sorte d'écriture du corps. Un corps viscéral (qui n’est pas celui de l’athlète ou de l’ascète) et qui est fréquemment décrit sous des formes obscènes et coprolaliques !°. Mais c’est aussi, à la lettre, un corps qui s’écrit, dans la mesure où il prétend se substituer lui-même à toute écriture. Etrangère à tout érotisme hédonique, cette écriture du corps, dessine une physiologia fantastica qui n’est pas sans rappeler celle du Président Schreber. Dans les deux cas, sous les variations aberrantes du sens de surface, se
signale une seule et constante signification: le corps du sujet est représenté comme menacé d’agression, de viol, de transformation magique ou de destruction d’organes. Déjà à l’époque de la Correspondance avec Jacques
° «Le nommé Jésus Christ [...] était magicien comme ses père et mère et j’eus bien des fois à me battre avec lui. [...] Je ne peux m’étendre plus longtemps sur tout cela car [...] il im-
porte que ce recueil de lettres soit publié sans plus tarder [on remarquera, en plein propos délirant, l’absence de rupture avec la réalité quotidienne], mais j’ai retrouvé hier avec horreur un dernier souvenir de ma vie à Jérusalem il y a deux mille ans. — Je sais que je m’y appelais déJà Mr. Artaud, que tout le monde m’y prenait pour un innocent et un fada, m’accusant d’avoir des voix [...] de parler seul, et parce que j’écrivais et déclamais des poèmes, d’être un oisif et un bon à rien» (XIV(I), p. 71).
!° Cfr. La Recherche de la fécalité dans Pour en finir avec le jugement de dieu (XII, p. 83): «Là où ça sent la merde, / ça sent l’étre. / L’homme aurait très bien pu ne pas chier [...] mais il a choisi de chier [...] l’homme a eu peur de perdre la merde [...] 0 reche modo | to edi-
re di zaltan dari», etc. A l’opposé de ce genre de texte on rencontre l’obsession d’un corps asexué et l’idée d’un rachat de l’humanité par une chasteté universelle («qui fut en Irlande la doctrine de Saint Patrick»), traits qui ne sont pas rares chez les psychotiques. Dans l’introduction, par ailleurs très sensée, de Suppôts et suppliciations, Artaud déclare: «j’ai vécu cette aventure insensée d’être envoûté gratuitement par tout le monde parce que j’avais sur le plan cosmique un corps capable d'allumer les plus ignobles cupidités» (XIV(1), pp. 9-10).
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Rivière l’impression d’«atteinte physiologique», un «sentiment de fragilité incroyable» étaient présents, mais surtout métaphoriquement constatés. Maintenant vécus, ils se trouvent en outre assignés à une causalité fantasti. que. Autrement dit, ils tendent à devenir obsessionnels et hallucinatoires.
Pour le sujet psychotique la croyance est réalité. Il ne distingue pas les contenus «culturels» des contenus «réels»: «il y croit vraiment», et c’est à quoi l’on voit qu’il est «fou». Aussi ne saurait-on parler, à son propos, d’«imaginaire», au sens usuel où nous en parlerons à propos de Borges. Car il manque ici la distance mentale que tout sujet normal prend, veut prendre ou croit prendre à l’égard d’un imaginaire qu’il ne tient jamais tout à fait pour réel (en quoi, comme on dit, «il n’est pas fou»). Le psychotique, au contraire, vit intensément sa fragilité dans un état hallucinatoire qui est pour lui réel: beaucoup plus réel en tout cas que la réalité quotidienne (ance laquelle il n’est pourtant pas toujours en rupture). C’est cette rigidité obsessionnelle du délire qui en dépit de sa flamboyance, empéche celui-ci, comme chez Schreber, d’accéder au statut litté-
raire. Car, s’il est vrai qu’on a peine à définir la littérature par des traits positifs, le trait négatif de l’«aliénation» (comme perte de la liberté mentale du scripteur) la définit a contrario, car tout écrivain, fût-il névrosé, est sup-
posé jouir d’une certaine liberté de choix. (C’est dans la mesure où, par exemple chez un Lautréamont, cette liberté de choix, voire de simulation et
d’exagération systématiques, est toujours perceptible dans l’écriture que les Chants de Maldoror appartiennent de droit à la littérature. Si certains estiment qu’il s’agit là d’une littérature particulièrement mauvaise, ils prouvent néanmoins par là qu’elle relève bien d’un jugement littéraire, ce qu’on ne saurait affirmer que pour une part de l’oeuvre d’Artaud, par ailleurs de loin supérieure, me semble-t-il, à celle de Lautréamont).
Il arrive du reste qu’Artaud revendique explicitement la substitution de cette écriture du corps à toute autre forme d’expression, et cela précisément dans ses pages les plus violentes, tel ce texte d’/nterjections (Suppôts et Suppliciations ) dans lequel, après un début en glossolalies («maloussi toumi tapapouts hermafrot, etc.»), on peut lire: «un corps, / pas d’esprit, / pas d’àme, / pas de coeur, / pas de famille [...] / pas de communion des saints, / pas d’anges [...] /pas de logique, / pas de syllogistique [...] /pas de loi, / pas d’univers, / pas d’affects, / pas de sexualité, / pas de christ, / pas de croix [...] pas de sentiments, Du corps, / pas de peur, / pas d’impressions [s.0.], Du corps» (XIV, pp. 13-15). Significativement le corps est transformé, par le partitif, en substance quantifiable et indifférenciée. «Du corps»: une unique affirmation suffit à neutraliser cing pages de négations,
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qui, elles, donnent toute la mesure de la révolte artaudienne. Bien qu'il s’agisse d’une affirmation d’apparence totalement opaque, ce moment délirant révèle à sa manière l’obsession centrale de l’oeuvre. Car le «Théâtre de la cruauté» n’est pas seulement un théâtre «de la rigueur», mais un théâtre du corps. Corps de l’acteur (voix intonations, gestuelle, comme dans le théâtre dansé balinais), mais aussi corps du «lieu théâtral» (théâtre en rond.
etc.) et présence physique de la mise en scène. Soit autant de négations radicales du théâtre comme discours. Mais le délire d’Artaud va malheureusement très loin en ce sens, en proposant par exemple de faire repasser l’homme «sur une table d’autopsie pour lui refaire son anatomie [...] lui gratter cet animalcule qui le démange mortellement, dieu, et avec dieu /ses organes [...] Lorsque vous lui aurez fait un corps sans organes, /alors vous l’aurez délivré de tous ses automatismes» (XIII, pp. 103-104). Ce fantasme du «corps sans organes», du corps «substance désirante», on devait le retrouver, dans la foulée de Mai 68,
dans L’Anti-Oedipe de Gilles Deleuze et Félix Guattari, comme caractéristique du «schizo» (proposé, dans cet essai «historique», antifreudien et antipsychiatrique, en modèle général de conduite, ce qui, vingt-cinq ans après, se passe de commentaire). 2. En méme temps, cette écriture est une écriture de la violence, dont
les moments de paroxysme semblent coincider avec les glossolalies. Artaud affirme à Henri Parisot qu’on ne saurait apprécier celles-ci qu’en les écoutant dans leur exubérance initiale. Il prétend même avoir écrit tout un livre («Letura d’Epahi Falli Tetar», dont «des influences abominables de personnes de l’administration, de l’église, de la police» auraient fait disparaître les rares
exemplaires) «dans une langue qui n'était pas le français, mais que tout le monde pouvait comprendre, à quelque nationalité qu’il appartînt». Il donne quelques exemples de ce langage, mais, ajoute-t-il, «on ne peut les lire que scandés sur un rythme que le lecteur lui-même doit trouver pour comprendre et penser»: «ratara ratara ratara /atara tarara rana /otara otara katara /otara Kana [...] pestanti pestantum putra». Mais «cela n’est valable que jailli d’un coup; cherché syllabe à syllabe cela ne vaut plus rien, écrit cela ne dit rien et n'est plus que de la cendre» (IX, pp. 187-189). Loin d’être compréhensible par tous, cet esperanto de la folie démontre au contraire, sur un exemple à mon sens irrécusable, la clôture de la schizophrénie sur elle-même, et par sui-
te son altérité (son aliénation) radicale, par rapport à toute écriture dotée d’un minimum de cohérence. Si la violence du son et du rythme y est présente, tout sens en est absent (sauf en de rares fragments du genre «pestanti pestantum putra»). Mais pas aux yeux du sujet délirant, car pour lui, par la vertu de ce langage forgé, le lecteur peut «comprendre» et même «penser».
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Dans Suppòts et Suppliciations au titre déjà significatif, Cogne etfoutre évoque le même état de violence-au-delà-du-langage, en le liant toujours étroitement au corps: Je connais un état hors de l’esprit, de la conscience, de l’être, [...] Et ce ne sont
plus des sons ou des sens qui sortent, /plus de paroles /mais des Corps. /Cogne et foutre, /dans l’infernal brasier où plus jamais la question de la parole ne se pose ni de l’idée. /Cogner à mort et foutre la gueule, foutre sur la gueule, est la dernière langue, la dernière musique que je connais (XIV (2), pp. 30-31).
Aveu douloureux dans sa violence méme. Cependant, du point de vue proprement sémantique, si l’on observe les formes que revêt cette violence écrite, on a la surprise de constater que, dès qu’elle cesse d’être «viscérale», ou glossalique, elle n’appelle plus qu’une métaphorique banale («normale»). Celle de la souffrance en général: par exemple, les métaphores du «coup de couteau», du «coin dans la chair», du «crucifiement». Présentes partout, dans les textes délirants comme dans les autres, et leur valeur procédant de leur intensité et non de leur forme, elles conduisent à une lecture des contenus de sens qui paradoxalement se révèle banale. Cela n’est pas sans conséquence pour notre problème, car cela montre à quel point une approche thématique de l'oeuvre d’ Artaud serait peu pertinente. Autrement dit, du point de vue sémantique aussi bien que du point de vue esthétique (qui privilégie l’originalité formelle), le délire psychotique est trop «monotone» (au sens où l’on parlait au 19° siècle de «mono-manie») pour constituer à lui seul le point focal de l’interprétation. Par exemple, dans tel passage de Fragments d'un Journal d'Enfer, on voit que l’intensité l’emporte de loin sur l’originalité du contenu sémantique, quelle que soit la qualité de l'écriture: Cette douleur plantée en moi-même comme un coin, au centre de ma réalité la plus pure [...] où les deux mondes du corps et de l’esprit se rejoignent [...] Images pressées et rapides qui ne prononcent à mon esprit que des mots de colère et de haine aveugle, mais qui passent comme des coups de couteau ou des éclairs dans un ciel engorgé (I, pp. 136-138).
Même si Artaud, écrivain né, sait donner une forme poétique admirable à l’intensité pure, le sens reste banal dans sa splendeur violente: Je suis stigmatisé par une morte pressante où la mort véritable est pour moi sans terreur (ibidem ).
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Ainsi, à la différence de la névrose, la psychose se joue dans le «réel»
en tant que lieu d’intensités aveugles, plus que dans le moi «imaginaire», auquel s’est substitué un délire préformé dans la culture. Aussi sa violence peut-elle surgir, inopinément, et comme toute armée, au coeur de la réalité
la plus quotidienne: Chaque fois que vous, vous me parlez de me guérir, M. Ferdière, c’est comme
si je recevais un coup de couteau en plein centre de mon coeur ou de ma conscience: Parce que je sais que je ne suis pas malade (s.0.).
Mais, bien entendu, fausse au niveau du sens obvie, la négation psychotique retrouve sa vérité en tant que dénégation: l’«inverseur de sens» (la négation) y devient un inverseur de vérité, qui confirme la réalité de la maladie. De même, dans le dernier texte publié du vivant d’Artaud (Van Gogh, le suicidé de la société, 1947), à côté de pages d’une extrême lucidité sur l’art de celui qu’il appelle «le martyrisé», d’autres révèlent clairement leur vérité de symptômes. Elles réitèrent l’aveu inconscient d’une vulnérabilité extrême: Il y a des consciences qui, à de certains jours, se tueraient pour une simple contradiction [...] Moi, dans un pareil cas, je ne supporterai plus de m’entendre dire «Monsieur Artaud, vous délirez», comme
cela m’est si souvent arrivé. /Et
Van Gogh se l’est entendu dire. /Et c’est de quoi s’est tordu à sa gorge ce noeud de sang qui l’a tué (XIII, p. 62).
On reconnaîtra, à travers ce poétique «noeud de sang», par exemple le «coup de sang» de l’imaginaire populaire. Banalité sémantique certes, mais elle laisse intacte la violence propre à cette écriture de la «lettre» du corps (ce qu’Artaud appelait aussi «la matière de son esprit»). Ainsi, en dernière analyse, l’écriture proprement psychotique, c’est-àdire délirante, paraît se situer en dehors de l’espace littéraire (si, adoptant une définition minimale, on désigne par là un champ psycho-culturel où joue le «plaisir du texte»). Elle est toujours en deçà ou au delà: elle est plainte ou elle est symptôme. Car le délire dépersonnalise et «aliène» le moi à lui-même. Le moi délirant est le seul pour qui «je est un autre» sans métaphore. Où est le temps où Artaud pouvait encore prendre ses distances avec sa propre violence? Par exemple lorsqu'il écrivait, en 1926, dans Fragments d’un Journal d’ Enfer:
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Ni mon cri ni ma fièvre ne sont de moi [...]. Je suis définitivament à côté de la vie. [...] je me fabrique une pensée d’évasion [...] Mais de cette minute d’erreur il me reste le sentiment d'avoir ravi à l'inconnu quelque chose de réel. [...] Je vois dans le fait de jeter une clé et de me lancer dans l'affirmation d'une vérité pressentie, si aléatoire soit-elle, toute la raison de ma vie (I, p. 136).
Malheureusement ces pages sont très antérieures à la phase du délire installé. Qu voudrait croire à la valeur d’une aussi terrible expérience, mais le doute qui subsiste mesure le destin tragique de la psychose. Aussi, lorsqu’Artaud, dans la même page, se proposait une «métaphysique» du bon usage de la folie, la fondait-il, sans illusion, sur le «néant»: «Me mettre en
face de la métaphysique que je me suis faite en fonction de ce néant que je porte».
Dans sa relation à l’oeuvre écrite, la psychose apparaît donc foncièrement ambivalente. 1. Aussi longtemps que le moi reste en decà des états délirants et s’en tient au «dénombrement de toutes les rages du mal-étre», la maladie men-
tale constitue pour l’oeuvre une chance d’authenticité et un facteur général d'intensité expressive. Elle ne peut donc que servir la qualité littéraire, car,
autant qu’une «esthétique de la surprise» comme le voulait Apollinaire, la modernité 20° siècle a inauguré une esthétique et une éthique de l’intensité (qui ne se sont pas limitées au domaine de l’art). Mais, en même temps, la psychose, expérience épuisante qui mobilise la plus grande part des énergies du moi, tend à restreindre de champ de l'écriture à la seule expression d’une souffrance psychique strictement «indicible». «J’aime, écrit Artaud, les poèmes des affamés, des malades, des parias, des empoisonnés: Fr. Villon, Ch. Baudelaire, Ed. Poe, G. de Nerval, et les poèmes des suppliciés du
langage qui sont en perte dans leurs écrits, et non de ceux qui s’affectent perdus pour mieux étaler leur science et de la perte et de l’écrit. Les perdus ne le savent pas, ils bélent et brament de douleur et d'horreur»
(IX, p.
186). 2. Par contre, à partir du moment où «le délire s’installe», on a affaire à «une sorte de noyé du moi qui ne peut plus émerger à la surface de son être» (I(S), p. 187). Dès lors, ce qui parle à sa place, n’est plus qu’un «délire typique»: un «univers de croyances» construit au carrefour de tous les irrationnels de la culture. Et lorsque ce délire se tait, c’est pour laisser la parole à une impossible écriture du corps, dans laquelle les partisans (rétrospectivement un peu ridicules) de l’antipsychiatrie ont voulu voir contre toute évidence l’image d’une libération radicale, alors que la folie inscrit au
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contraire dans l’être même de l’homme «la limite de sa liberté» !!. Loin, en effet, d’ouvrir sur un «surréel», l’«aliénation» psychotique ne donne accès qu’à un anti-réel délirant, de structure plus opaque et plus rigide que tout imaginaire, et qui semble hésiter entre la fonction défensive, l’autopunition, et l’évasion hors de l’humain vers une viscéralité aveugle. Jadis, Artaud pouvait encore écrire: «J’assiste à Antonin Artaud». Maintenant, ce sont ses amis qui assistent impuissants à l’évidence de sa folie, d’autant plus navrante peut-être qu’elle n’est pas totale. Ce «spectacle d’un homme seul» a eu matériellement lieu sous forme d’une conférence au Vieux Colombier en 1947, moins d’un an avant sa mort. André Gide l’évoque en ces termes: [...] son visage consumé par la flamme intérieure, ses mains de qui se noie, [...] tout en lui racontait l’abominable détresse humaine, une sorte de damnation
sans recours, sans échappement possible que dans un lyrisme forcené dont ne parvenaient au public que des éclats orduriers, imprécatoires et blasphématoires [...] Un homme misérable atrocement secoué par un dieu.
Si l’expression «Théâtre de la cruauté» a jamais eu un sens, ce fut bien ce jour-là. Mais le spectacle relevait-il encore de la littérature? Ou bien, réalisant tragiquement le voeu d’Artaud qui voulait «en finir» avec elle, désignait-il entre écriture et folie l’abîme que notre modernité prétendait à tort ignorer? II La psychose dépossédait le moi de son discours. La névrose au contraire fige le moi, donnant naissance à une «névrose de caractère» ou à un
!! Contre Henri Ey pour qui «les maladies mentales sont des insultes et des entraves à la liberté» (cité par J. Lacan, Ecrits cit., p. 157), Lacan adopte une position subtile: refusant que la folie soit chez l’homme «le fait contingent des fragilités de son organisme» il y voit «la virtualité permanente d’une faille ouverte dans son essence». C’est lui conférer, sans le dire, un statut métaphysique: «l’être de l’homme, non seulement ne peut être compris sans la folie, mais il ne serait pas l’être de l’homme s’il ne portait en lui la folie comme la limite de sa liberté» (ivi, p. 176). Quel que soit l’éclat de la formule, j’avouerai ma préférence pour la position dite «jacksonienne» (Jackson, Ey, etc.). C’est la plus commune (et la moins inquiétante). Elle explique entre autres que, contrairement à ce qu’affirme Lacan, la folie puisse se rencontrer parfois chez l’animal. Quant à l’antipsychiatrie, le Grand Dictionnaire de Psychologie (Paris, Larousse, 1991), faisant le point actuel de la question, conclut par un bilan négatif.
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«caractère névrotique». Voire à un «caractère» tout court, car l’homme «de caractère» (comme le dit bien le langage) non plus que l’homme «de génie» ne sont faciles à vivre. Expression de leur caractère (ou de leur «tempérament»), leur imaginaire relève de la «psychopathologie de la vie quotidienne», à travers laquelle Freud repense la caractérologie préscientifique de la «théorie des humeurs», sorte de «psychiatrie populaire» où la «mélancolie» tient une place de choix. Ainsi verrons-nous l’originalité, pourtant extrême, d’un Borges s’inscrire dans les limites d’un imaginaire à motifs typiques aussi caractérisés que le miroir ou le labyrinthe et appartenant à la «configuration culturelle» mélancolique, bien décrite par les historiens de la culture. Cet imaginaire constitue dans l’imaginaire culturel occidental une gestalt complexe, pluridimensionnelle mais bien repérée, en fonction de laquelle certains objets culturels (mythes et rites, poèmes et récits, oeuvres d’art) s'organisent en motifs formels analogiquement structurés. Ceux-ci ont pour trait commun d’exprimer la pulsion de mort, notamment, on l’a peu remarqué, à travers ses expressions linguistiques (modalités diverses de la négation et négativité du lexique ). Notre démarche sera inductive: partant des formes et motifs prédominants dans l’oeuvre, nous constaterons
que chacun d’eux contribue à dessiner les contours d’un imaginaire typique (puisque décrit, indépendamment, comme mélancolique à travers deux millénaires de culture). La «mélancolie» est la forme grave de la dépression (ou phase dépressive de la «psychose maniaco-dépressive»), mais nous n’aurons affaire ici qu’à une forme à peine pathologique (constitution cyclothymique à dominante dépressive, ou versant dépressif des «déséquilibres de l’humeur» de Jean Delay). Cette «prédisposition» à la mélancolie, ou «caractère mélancolique», est néanmoins beaucoup plus spécifique que le simple «sentiment» ou «état d’àme» du même nom. Si bien que nous rencontrerons dans cette «mélancolie quotidienne» un certain nombre de symptômes de la mélancolie grave («asilaire») qui s’expriment dans l’oeuvre de Borges sous la forme d’une fantasmatique. Aisément repérable en raison de sa morphologie très particulière, celle-ci va nous contraindre à passer d’une problématique des intensités (d’affect) à une problématique des formes de la culture (elle-même système de motifs formels) "?.
12 La mélancolie d’une oeuvre présupposant généralement celle de l’écrivain, la cécité de Borges, évènement en soi mélancolique comme toute perte vitale, a été ressenti par lui
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Or la culture occupe une place centrale chez Borges, assurément comme thème, mais aussi comme schème intégrateur, qui trouve son expression «structurale» dans la fonction de la bibliothèque. Ce lieu protecteur par excellence est pour Borges lié à la maison d’enfance, Adrogué, la maison refuge, qui elle-méme possédait une bibliothèque: Si on me demandait ce qui a le plus compté dans ma vie, je répondrais: la bibliothèque de mon père. Il m’arrive de penser qu’en fait je ne suis jamais sorti de cette bibliothèque (EA, p. 276).
Or on sait que dans la tradition culturelle livre et mélancolie sont liés. Ajoutons, du côté de la mélancolie pittoresque, que Borges s’intéresse aux loups-garous et aux «hommes-tigres» ! et que, comme le mélancolique
comme tel. Il en confie l’aveu (à ce qu’il nomme ailleurs la «pudeur de poème», «el pudor del verso», EH, p. 168) dans le poème £/ Hacedor: «Quand il sut qu’il était en train de devenir aveugle, il cria» (EH, p. 19). Autre trait souligné par Robert Burton (dans son Anatomy of Melancholy ); la timidité, forme sociale de la peur (cette dernière constituant après la tristesse immotivée le deuxième grand symptôme hippocratique de la mélancolie): «Je suis très timide, avoue Borges, bien plus timide que n’importe lequel d’entre vous, que plusieurs d’entre vous pris ensemble [...]; en général, je ne lis pas ce qu’on écrit sur moi» (EPL, pp. 28, 74). Trait si peu secondaire qu’il avoue même être «lâche» (par faiblesse de constitution) et explique ainsi son culte compensateur pour la violence imaginaire: les tigres, les cuchilleros, le gaucho, les ancêtres héroïques. «Comme la plupart des gens de ma famille avaient été soldats [...] j'ai de très bonne heure eu honte d’être quelqu’un n’aimant que les livres au lieu d’être un homme d’action» (EA, p. 275). D’autre part, Borges aime l'incertitude mélancolique des faubourgs et l’immensité de la pampa, désert végétal, les scènes de violence avec risque de mort, soit autant de traits mélancoliques. A de rares exceptions près (comme Whitman), les écrivains qu’il admire appartiennent tous à la constellation de la mélancolie culturelle: Quevedo, Camôes, Swedenborg, O. Wilde, Chesterton, de Quincey, Poe, Melville, Kafka, La Divine Comédie, le
Don Quichotte. Et il a appris l’allemand spécialement pour lire Schopenhauer, chez qui il est parfois difficile de faire la distinction entre le pessimisme théorique et la mélancolie. Enfin il pratique le genre fantastique et la nouvelle policière, créations du mélancolique Poe, qui sont fréquemment liées à la bizarrerie mélancolique, au crime, à la mort. 13
«J'aime beaucoup les loups-garous. On les appelle /obizones dans mon pays [...]. Et
puis il y a les capiangos — ça ce sont des hommes qui se changent en tigres, pas en loups» (EPL, p. 25). Il est rare que les «légendes» soient entièrement sans fondement: la croyance aux loups-garous, dans les temps où les fous se déplacaient librement, peut avoir eu sa source dans les grandes crises de mélancolie vagabonde, suicidaire et parfois meurtrière. On songe au Roi Lear errant «comme une bête sauvage» dans la forêt, jadis lieu «hors la loi», où ne règne que la «loi de la forêt», et refuge de tous les grands déviants. Georges Devereux parle également d’Ajax et d’Oreste comme de «loups-garous à la grecque». Du reste, les crises de folie meutrière existent toujours, elles sont seulement infiment plus rares. Certains néanmoins se sou-
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Apollinaire, il fait une place aux ongles dans sa poésie (Les ongles, EH 27). Indices infimes certes, mais spécifiques: entièrement absents de la mélancolie romantique. Ils suggèrent une «petite mélancolie», mais typique, caractérisée par une convergence peu explicable dans d’autres hypothèses plus «faibles» (par exemple celle d’un sentiment d’incomplétude inhérent à la condition humaine).
De cette convergence découle la «monotonie fondamentale» que Borges souligne dans L’Auteur et autres textes (El Hacedor): Un homme fait le projet de dessiner le Monde. Les années passent: il peuple une surface d’images de provinces, de royaumes, de montagnes [...] de chevaux,
de gens. Peu avant sa mort il s’apergoit que ce patient labyrinthe de formes n'est rien d'autre que son portrait (AT, p. 215).
Formule qui justifie d’avance la lecture thématique (à la fois sémantique et anthropologique ) qui sera la nôtre. Déjà, l’on y rencontre le labyrinthe. La poésie de Borges ayant été peu commentée, je retiendrai, au coeur du recueil E£/ Hacedor, une série nucléaire homogène (et non un corpus constitué pour les besoins de la démonstration). Le Poème des dons se réfère, ironiquement, au fait que Borges a été nommé directeur d’une Bibliothèque Nationale de 800.000 volumes juste au moment où la lecture lui est devenue totalement impossible: Que nul ne rabaisse au niveau des larmes ou du reproche / Cette affirmation de la maîtrise /De Dieu, dont la merveilleuse ironie [Me fit don à la fois des livres et de la nuit (EH, p. 107).
«Moi qui m’imaginais le Paradis /Sous l’espèce d’une Bibliothèque [...] Je lasse de mes pas sans but l’espace /D’une haute et profonde bibliothèque aveugle». «Errant par les lentes galeries», il lui arrive parfois de rêver qu'il est «l’autre, le mort» (à savoir son prédécesseur et ami Paul
viendront peut-être de l’accès de mélancolie meurtrière d’un ambassadeur de France auprès du Vatican, autour de 1980. Cela dit afin de rappeler que la mélancolie, en dépit du sens aujourd’hui faible du terme, est une des formes les plus terribles de la folie. Même à l’état faible (dépressif ou (sub)maniaque), elle est de toute façon le facteur individuel le plus déterminant pour le malheur ou le bonheur du sujet.
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Groussac, lui aussi aveugle) et il «regarde cet univers /Aimé qui se dissout et s’éteint [En une pâle et vague cendre /Semblable au rêve et à l’oubli». La cécité et la nuit, la Bibliothèque Paradis-perdu, devenue «aveugle», l’errance, l’hésitation sur l'identité avec identification imaginaire à un mort, la cendre, le rêve, l’oubli, on a là, en quarante vers, une accumulation de thè-
mes qui tous expriment la perte ou la mort, dimensions essentielles de toute phénoménologie de la mélancolie. Le symptôme de la tristesse mélancolique (les «larmes» du ler vers) est donné en quelque sorte in absentia: dans la dénégation, et gommé par l'humour. Face à l’ironie de Dieu, apparaît ainsi, aux antipodes de la révolte tragique d'un Artaud, qui est captive d’une alternance entre angélisme et satanisme, la «formation de compromis» qu'est la mélancolie sereine "4. Cette sublimation qui maîtrise la révolte du moi lui épargne l’«égarement» du délire. Le Sablier (ivi, pp. 111-115). Ce signifiant du Temps, Saturne (le Chronos de Grecs) l’échange parfois avec la Mort contre la faux, posant ainsi l’équation mélancolique de base entre le temps et la mort. Ici, le «sable des déserts» (v. 9) («J’aime furieusement le désert et la mer» écrivait le
mélancolique Baudelaire) est aussi prédestiné à «mesurer le temps des morts» (. 12). Comme dans la gravure Melancholia I de Dürer, on trouve
des objets abandonnés, désaffectés: un «fou dépareillé» de jeu d’échecs, une «épée émoussée», un «télescope aveugle». A la fin du poème sont réservés les thèmes cosmiques: le néant, l'infini («Infinie est l’histoire du sable») et «l’invulnérable éternité». En face de cette invulnérabilité, le temps et le moi sont choses «fortuites» et «friables»: No he de salvar yo, fortuita cosa De tiempo, que es materia delezneable.
Tout au long du poème le moi ne cesse ainsi de s’approprier, d' intérioriser le motif culturel du sablier, de l’«horloge de sable» («el reloj de
!*
Cette expression est employée par Théophile Gautier à propos du poème La Vie an-
térieure de Baudelaire (Cfr. Pierre Dufour, Les Fleurs du Mal, «dictionnaire de mélancolie»,
in «Littérature», décembre 1988, 72). Elle me semble mériter d’être généralisée pour désigner la mélancolie sublimée (à des degrés du reste variables) par la littérature ou par l’art. Pour tout ce qui concerne la théorie de la mélancolie pathologique ou culturelle et sa bibliographie, je renvoie à P. Dufour, Vers une herméneutique cognitive des imaginaires mélancoliques. Esquisse d'une méthode in AA.VV., Malinconia, malattia malinconica e letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1991.
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arena»). Si bien qu’au terme de l’opération poétique, cet objet extérieur aura été intégré à un «imaginaire», à 1’ «univers de croyances» d’un moi. Car, pour un écrivain qui avoue: «il m’est arrivé peu de choses qui soient plus dignes de mémoire que les idées de Schopenhauer ou la musicalité de la langue anglaise», la culture est beaucoup plus qu’un espace intellectuel de référence. Elle est le «lieu où vivre» la vie imaginaire. De même, le poème Débuts dans l'étude de la grammaire anglosaxonne relate, beaucoup plus
qu’un évènement intellectuel: la découverte d’«un langage de l’aube» !°. Dans Ajedrez, il est significatif que le jeu d’échecs, qui n’est pas spécifiquement mélancolique, soit interprété aussi en termes de mélancolie. Un jeu «infini comme l’autre», le jeu de la vie et de la mort, «qui a pour théâtre toute la terre». Dieu meut le joueur, et le joueur la pièce. /Quel dieu, derrière Dieu, commence cette trame / De poussière et de temps, de rêves et d’agonie?
Cette regressio ad infinitum, ce «passage à la limite», n’est pas seulement un des schèmes de pensée (ou «modèles cognitifs») les plus familiers à Borges. Déjà mélancolique en tant que fuite vers l’infini, il est pris en outre dans un contexte de négation de la vie: «poussière et agonie». Avec Les Miroirs, ce motif central du mythe mélancolique de Narcisse va nous permettre d’approfondir notre analyse. C’est en effet le seul motif borgésien dont nous soyons sûr qu’il correspond à une obsession personnelle non suspecte d’être artificielle puisqu'elle remonte à l’enfance: Depuis mon enfance j’ai toujours ressenti la terreur des miroirs. Dans ma chambre il y avait une commode de Hambourg à trois glaces [...] me voir dans la glace et trois fois pour comble, c'était quelque chose d’atroce! Et depuis ce tempslà, j'ai coutume de ressentir la terreur des miroirs, et aussi une sorte de fascina-
tion pour les miroirs (EPL, p. 80).
15 Ce poème est si peu secondaire que ses derniers vers évoquent la mort personnelle de l’auteur et, à travers la métaphore du labyrinthe, le destin aveugle: «Loué soit l'infini /Labyrinthe des effets et des causes, / Qui, avant de me présenter le miroir / Dans lequel je ne verrai personne ou je verrai un autre, / M’accorde la pure contemplation / D’un langage de l’aube». On y constate l’étroite association de deux motifs-clés sur lesquels nous reviendrons: labyrinthe et miroir.
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J'ai connu dès mon enfance cette horreur d’une duplication ou multiplication spectrale de la réalité [...] Une de mes prières insistantes à Dieu et à mon ange gardien était de ne pas rêver de miroirs (EH, p. 29).
Cette peur des miroirs est «culturelle» en Occident (d’où la coutume de voiler les miroirs dans les chambres mortuaires), mais elle peut avoir favorisé la peur «naturelle» d’un enfant, comme on dit, «impressionnable» (si
fragile que toute «impression» tend chez lui à devenir blessure). Bon exemple d’un motif culturel à dimension émotive, d’où dérive directement le motif du double, si riche en retentissements psychoculturels (les fantômes, les «spectres», les «revenants»; Le Portrait de Dorian Gray; Dr. Jekyll et
Mr. Hyde ), bien qu’il ne fasse au départ que calquer le phénomène de l’1mage spéculaire (de même que le sablier ne faisait que matérialiser le temps en un micro-évènement de physique élémentaire). On voit le processus: en vertu d’un système analogique sousjacent dont chaque poème illustre un aspect, certains motifs se chargent d’affects culturellement partagés, qui, une fois fixés, engendrent un type déterminé d’imaginaire. On pourrait bien sûr être surpris qu’un miroir, qui n’a rien d’effrayant, ait un tel lien culturel avec la mélancolie. Mais qu’on lise seulement le poème-récit Les miroirs voilés (EH, p. 29) et l’on verra que ce lien relève aussi du psychisme profond. Borges y raconte l’histoire d’une amie («une fille sombre») à laquelle il avait confié son horreur d’enfant à l’égard des miroirs. Trois ans plus tard, il apprend qu’elle est devenue folle et que «dans sa chambre les miroirs sont voilés, parce qu’elle y voit mon reflet usurpant le sien, et elle tremble et se fait et dit que je la poursuis magiquement». Ce cas évident de mélancolie grave avec idées de persécution magique (on se rappelle Artaud) établit clairement le lien avec la psychose. Il illustre le fait que les mêmes motifs typiques peuvent «configurer» une psychose, aussi bien qu'un simple «caractère mélancolique». Et si Borges semble ne pas pouvoir ou vouloir renoncer à la fascination des miroirs, c’est précisément en cela qu’il est mélancolique. De ce fait, il reste marqué par un certain degré de dépendance, qui, pour si atténué qu’il soit, caractérise tout état pathologique.
Deux points décisifs concernent les modalités d’incidence de cet imaginaire subpathologique sur l’oeuvre littéraire: a) le monopole thématique de la mélancolie dans l’oeuvre mélancolique; d) le caractère restreint et rigide de son imagerie. a) Tous les motifs saillants de l’oeuvre composent, tels quels, une configuration proprement «mélancolique». Mais cela signifie en même
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temps qu'un certain lien, si lointain soit-il, les rattache à la pathologie. En effet, la convergence de motifs tels que le miroir, la bibliothèque, le sablier,
la lune, le labyrinthe, le mort vivant, le rêveur rêvé, qui sont parfaitement hétérogènes en surface, ne peut être déterminée que par une cohérence interne au moi. Un refus craintif de la vie, une sorte de négation défensive. Elle dénonce elle-même son caractère subpathologique en allant jusqu’à exclure de l’oeuvre tous motifs non-mélancoliques, ou du moins à ne les tolérer qu’à l’intérieur du registre mélancolique, comme on le voit avec la «mélancolie sereine» (encore celle-ci est-elle épisodique et fragile). b) D'autre part, ces motifs, dont théoriquement la liste n’est pas fer-
mée, se révèlent en fait très peu nombreux. Si bien que l’ensemble de l’imagerie mélancolique présente une grande rigidité en face de l'imaginaire commun, que le lexique stéréotypé nous montre partout beaucoup plus étendu et plus souple !°. Cet effet de clôture est encore un aspect subpathologique. Il est également responsable de la «monotonie fondamentale» de l’oeuvre (elle-même indice de l’hypercohérence générale de l’oeuvre mélancolique). Un passage que j’emprunte encore aux Miroirs illustre ce point. A la question «Je me demande quel hasard du sort /M’a donné la crainte des miroirs» le texte répond lui-même, non dans l’abstrait, mais dans une lumiè-
re mélancolique de «rouge crépuscule»: «Miroir masqué /De l’acajou, lorsqu’au fond de la brume / De son rouge crépuscule il estompe un visage /Qui y regarde et s’y voit regardé». Or je veux bien que l’acajou de la commode ait pu naturellement appeler le rouge, mais il ne saurait expliquer le crépuscule, ni la brume, ni le «miroir masqué». Ni l’angoisse (sartrienne) d’«être vu» («Ese rostro que mira y es mirado»). Puis, de facon imprévue dans ce contexte, mais d’autant plus significative en tant qu’«association
libre», le miroir devient le symbole de la
fonction paternelle: (les miroirs) «je les vois infinis, /Elémentaires exécutants d’un antique pacte, /Multiplier le monde comme l'acte ID’ engendrer, insomniaques et fatidiques». Si la «métaphore paternelle» chère à Lacan fonctionne ici, littéralement, comme métaphore du miroir, et s’inscrit ainsi, à l’encontre de toute la tradition occidentale, dans le registre négatif de
!6 J’ai abordé ce problème de sémantique cognitive dans les deux articles cités en note 14. Aujourd’hui jy aurais davantage insisté, pour lever toute équivoque terminologique, sur la différence radicale de méthode et d’esprit qui distingue la sémantique cognitive de type
«linguistique» à laquelle je m'intéresse, de la sémantique cognitive comme «science dure» liée à la biologie neuronique et à l’Intelligence Artificielle.
CINI
la mélancolie spéculaire, c’est que l’aversion du mélancolique pour la paternité s’accorde à son rejet inconscient de la vie. En découlent deux attitudes socio-culturelles souvent liées à la mélancolie: le célibat (chez Amiel,
Nietzsche, Kierkegaard, Kafka) et le donjuanisme (Remarquons que le mythe de Don Juan gomme significativement la paternité, et son corollaire historique, le problème des bâtards).
Comme dans le mythe de Narcisse, les miroirs du poème finissent par rejoindre la mort, après avoir traversé une métaphore «arachnéenne» (significative dans le mesure où l’araignée appartient au «bestiaire mélancolique»): les miroirs «prolongent la vertigineuse toile d’araignée /De ce monde incertain; /Parfois vers le soir les ternit /L’haleine d’un homme qui attend la mort». Outre leur habituelle et «coupable condition de simple métaphore» (HE, p. 153), les miroirs chez Borges peuvent être dotés d’une fonction «générative» qui n’est plus seulement métaphorique. Ainsi, la première ligne de Tlôn Uqbar nous apprend que cet univers fictif est né de «la conjonction d’un miroir et d’une encyclopédie» (F, p. 35) et la non moins fictive «Approche d’Almotasim», dans la nouvelle du même nom, porte «ce beau soustitre: A Game with shifting mirrors», un jeu de miroirs mobiles (F, p. 58). De tels motifs fonctionnent alors, avec une précision inattendue, en
tant que supports fantasmatiques de schèmes dynamiques. Le motif du miroir détermine ainsi, par induction analogique ou inférence, trois schèmes mi-abstraits mi-concrets: a) le double (dont on vient de parler); b) la répétition symétrique; c) la répétition à l'infini '?. Deux exemples. Dans L’Immortel, de la répétition symétrique dérive «la doctrine selon laquelle il n’existe aucune chose qui ne soit compensée par une autre» (AL, p. 31). D’où une véritable «systématique» du fantastique, une hyperlogique qui régit en toute rigueur un univers de métaphysique-fiction. La typographie y souligne ce raisonnement d’hyperlogique borgésienne: «// existe un fleuve dont les eaux donnent l’immortalité; il doit donc y avoir quelque part un autre fleuve dont les eaux l’effacent» (AL, p.
7 spécial me du tiques, tracto,
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Dans Les Thèmes fondamentaux de J.-L. Borges (in «Cahiers de l’Herne», numéro sur Borges), Roger Caillois dérive la répétition, les symétries en miroir et même le thèlabyrinthe, de la seule notion de «temps circulaire». Mais de telles déductions thémamême si elles sont intrinséquement justes, ont l’inconvénient d’être effectuées in abshors de tout contrôle exercé par les textes.
31). Borges n’étant évidemment pas dupe de la gratuité d’une telle logique, sa prédilection pour les répétitions symétriques n’en marque que mieux son appartenance à la constellation mélancolique. Quant à la répétition-à-l’infini, elle engendre la mauvaise immortalité mélancolique, version temporelle du «mauvais infini». Etrange symptôme observé dans des mélancolies aiguës par des cliniciens du XIX © siècle que cette hantise, hallucinatoire et douloureuse, de l’impossibilité de mouir '*. Nous retrouvons telle quelle cette obsession chez le héros-narrateur de L'Immortel, qui redoute d’avoir contracté, comme une maladie contagieuse, l’immortalité misérable de bien étranges «dieux immortels» se nourissant de serpents parmi des ruines absurdes. Mais, contrairement à une idée reçue, ce type d’inférence analogique n’est ni fortuit ni gratuit. On voit ici, dans le texte même, le fi/ analogique explicitement reconduit à son motif de départ (le miroir et la répétition): La mort [...] rend les hommes précieux et pathétiques. [...] Chez les Immortels,
en revanche, [...] rien qui n’apparaisse perdu entre d’infatigables miroirs. Rien ne peut arriver une seule fois, rien n’est précieusement précaire (AL, p. 32).
Si l’on doutait que ce fil analogique soit bien celui de la mélancolie, qu'on relise seulement les derniers mots de la nouvelle. Avec la concision exemplaire de l’understatement, ils expriment la négativité, le sentiment du vide mélancolique, et une sorte de redéfinition abstraite de la mort: «Jai été Homère: bientôt je serai Personne, comme
Ulysse; bientôt je serai tout
le monde: je serai mort». (AL, p. 36).
Bien qu’à la différence d’un Baudelaire ou d’un Nerval, Borges soit, on le verra, un mélancolique qui s’ignore, son imagerie mélancolique n’en est pas moins typique !°. «C’est moi que je peins» pourrait redire après
18 Voir le remarquable article de Jean Starobinski, L'immortalité mélancolique, in Le Temps de la Réflexion, Paris, Gallimard, 1972. Partant des impressionnantes observations cliniques d’un aliéniste de la fin du siècle dernier (Cotard), l’auteur montre comment, soit des oeu-
vres littéraires comme Le Chasseur Gracchus de Kafka (un «mort vivant» errant de village en village), soit des mythes ou légendes comme celle du Juif Errant dérivent directement de ces symptômes extrêmes de la pathologie mélancolique (laquelle aujourd’hui n’est guère plus observable, sinon peut-être dans les premiers jours d’un internement en phase aiguë). Notons que Cartaphilus (le Juif Errant) est présent dans la trame narrative très complexe de L’Immortel. 19 Inconsciemment mélancolique, l'oeuvre borgésienne n’en atteste que mieux le fait que les mêmes processus cognitifs sont à l’oeuvre dans les structures pathologiques, les fan-
tasmatiques oniriques, les imaginaires écrits, et, plus largement les «univers de croyances» ou
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Montaigne tout mélancolique. Borges le déclare dans une interview: «Mais je n’ai jamais créé de personnages. Je ne suis pas Dickens, je ne suis pas Balzac. C’est toujours moi, subtilement déguisé» (EPL, p. 80). D’où la présence de motifs mélancoliques jusque dans des poèmes intimistes. Dans Elvira de Alvear, on lit ce condensé de mélancolie en six ter-
mes typiques: «perderse en el errante /Rio del tiempo (rio y laberinto», — tandis que l’incipit exprime la mélancolie, plus secrète, du lent abandon des choses: «Todas las cosas tuvo y lentamente /Todas la abandonarom». «Elle avait eu toutes choses et lentement toutes l’abandonnèrent». Dans Susana Soca, le moi borgésien s’exprime «subtilement déguisé» sous un discret destin: «Ce ne fut pas le rouge élémentaire /Mais les gris qui filèrent son délicat /Destin, qu’elle avait entraîné à toujours /Distinguer, qu'elle avait exercé aux /Hésitations et aux nuances» (EH, p. 131). Est-ce
Susana, ou le poète lui-même, qui hésite ainsi au seuil du «perplexe labyrinthe» du monde? On pourrait multiplier les exemples avec Dreamtigers, Le Captif, Dialogue de Morts, Ragnaròk, La lune, La Pluie, Blind Pew, Los Borges, A Luis de Camoens, Adrogué, Le Regret d’ Héraclite, Limites, et pratiquement à chaque page. Je préfère retenir un unique contre-exemple à la mélancolie. Dans Art poétique — d’abord placé sous les signes du «fleuve héraclitéen» du temps, du songe, du sommeil et de la mort, et où, par surcroît, un visa-
ge émerge «dans les soirs» et «nous regarde depuis les profondeurs d’un miroir» —, l’«art», d’abord défini comme un miroir «/Qui nous dévoile notre propre visage», devient ensuite une «/thaque de verte éternité». Ici le vert bucolique (de l’«hortus conclusus» médiéval comme de l’idylle théocritéenne, virgilienne, ou rococo) constitue une évidente exception dans la
palette de mélancolie grise de Borges. mais c’est une exception nécessaire, car l’art figure, dans le noir ou le gris de la mélancolie, la tache «verte» de
l’espoir. Du reste la «sémantique négative» de l’imaginaire mélancolique reprend vite ses droits: dès le vers suivant l’art est dit «pareil au fleuve in-
cultures. C’est ce que Freud avait déjà montré dans la Traumdeutung, et, de façon moins rigoureuse, Jung, Bachelard et ses successeurs, dont Gilbert Durand. C’est aussi ce que, sur un tout autre plan, démontre à son tour aujourd’hui, jusque dans les procédures les plus «normales» de construction du sens, la sémantique cognitive de statut linguistique. Je ne sais ce qu’il en est des autres «tempéraments», mais en ce qui concerne le «tempérament mélancolique» ces processus cognitifs me paraissent f‘hématisés, avec une fréquence très élevée d’occurrences, dans les oeuvres mélancoliques tandis qu'ailleurs ils sont absents, non thématisés ou faiblement thématisés.
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terminable [...] miroir d'un même Héraclite changeant, qui est le même et qui est autre, comme le fleuve interminable». Toute mélancolie «d’artiste» reste donc loin de celle que soignent les psychiatres, car, Paul Ricoeur le souligne, l’écriture est «à la fois le symp-
tôme et la cure» °°. Aussi, celle de Borges est-elle exempte de la morne tristesse, comme de la culpabilité et de la «plainte litanique» qui caractérisaient les mélancolies asilaires avant l’apparition des thérapeutiques modernes. C’est que, même quand théoriquement il n’est que de degré, l’écart reste grand entre un imaginaire poétiquement reconstruit (toujours partiellement sublimé) et un imaginaire désarmé et terrorisé de malade. Cependant, les formes de cet imaginaire écrit ne perdent rien de leur étrangeté. Dans la symbolique borgésienne ce seront précisément les motifs excentrés qui sont sans lien manifeste avec la mort — comme le miroir et le double, le désert et la mer, la prison et la labyrinthe — qui témoigneront le mieux de l’invasion d’une écriture par la pulsion de mort sous ses déguisements et ses masques. Le texte littéraire et l’art possèdent ici un avantage appréciable sur le discours analytique: toute la culture y est présente pour témoigner du lien entre les motifs périphériques et le noyau mortifère de la mélancolie. Même quand ce lien apparaît lointain, ou distendu par la sublimation, /a structure formelle du motif mélancolique demeure remarquablement constante à travers ses figures culturelles. Il en résulte qu’en face de la polysémie quasi illimitée des «signifiants» analytiques (toujours, me semble-t-il, épistémologiquement un peu inquiétante) on a affaire, dans l’hypothèse mélancolique, à une rhématique restreinte que son hypercohérence rend fiable. Mais, cette cohérence extrême de la thématique (distincte de l’«unité
de ton» qui n’est qu’une donnée esthétique ), il ne faut pas se dissimuler qu’elle s’exerce dans l’oeuvre au détriment de la «vie». Et cela en vertu même de la logique mortifère de la mélancolie. Nul en effet n’aurait l’idée de prétendre que les oeuvres d’Edgard Poe, Chesterton, Stevenson, Kafka, qu’aime Borges, séduisent par leur aspect «vivant» ou leur «fraîcheur». Pas plus que celles de Camus, de Beckett ou de Julien Gracq. Il est frappant que les personnages du récit borgésien soient singulièrement privés de vie («je n’ai jamais créé de personnages»). Leur nom même, simple étiquette, les situe dans un espace exotique, dans un temps reculé, ou dans plusieurs
20. Paul Ricoeur, De /’Interprétation, Paris, Seuil, 1967.
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temps à la fois, c’est-à-dire hors de toute réalité «vécue» (cfr. L’Immortel,
Tlòn Ugbar, Le mort et la boussole, etc.). Ils pourraient s’appeler le Fugitif, l’Aventurier, le Détective, le Condamné, le Magicien, le Gaucho, le Macho
(et parfois en effet ils ne sont pas désignés autrement dans le récit: «Le Captif», «l'Empereur Jaune», «le Poète»). Ce sont des allégories, ou si l’on préfère des prototypes. Voire des archétypes. (Et pourtant Borges sait se montrer sévère avec «le musée immobile et redoutable des archétypes platoniciens», EH, p. 142). Si je signale ce trait général des oeuvres mélancoliques, c’est qu’en dépit de son caractère de figure de rhétorique artificielle, l’allégorie, comme l’a montré Walter Benjamin dans ses Origines du Drame baroque allemand, est intimement liée à la mélancolie et à la mort. Cette alliance relève, disons d’une pathologie limitée à l'imaginaire (comme la mélancolie elle-même est une pathologie limitée à l’humeur). Souvent méconnue, cette tendance à l’allégorisation des personnages, mais aussi du récit, n’en est pas moins évidente. C’est que dans toute oeuvre mélancolique, même chez un Villon ou un Charles d'Orléans, il n’y a de vivant qu’un seul «personnage»: le moi narcissique. Ainsi que le souligne Freud, la mélancolie, s’inscrit dans une régression radicale vers le narcissisme primaire, en deçà de l’Oedipe. Et l’allégorie, comme l'ironie, comme l’humour, affecte l’écriture dans sa rhétorique profonde, au niveau «préconscient» d’où la pathologie quotidienne du caractère est rarement absente. Le seul mérite que l’on puisse encore reconnaître à la «théorie des quatre humeurs», dont relevait jadis la mélancolie, est précisément de donner un image générale de l’homme qui intègre cette zone frontière de la pathologie (le caractère) et celle-là seulement. En quoi elle était moins irréa-
liste que la psychologie dite cartésienne, qui ignorait tout simplement la pathologie (en se bornant à l’assigner en termes vagues aux «passions»). Moins irréaliste aussi que les diverses modernités qui, à travers leurs idéologies généreuses mais utopiques, ont tenté de «naturaliser» la folie ellemême. Nous avons étudié la présence quasi manifeste dans la poésie borgésienne d’affects et d’objets «mélancoliques». Parfois d’une importance essentielle (le temps, la dimension cosmique), ils étaient toujours par contre sémantiquement simples. Les nouvelles (dont plusieurs sont plutôt des contes) nous réservent, mêlées à ces formes simples, d’autres motifs de structure sémantique complexe, et d’un mode de présence plus subtil du fait que rien dans leur apparence ne les signale comme mélancoliques. Je retiendrai deux motifs particulièrement excentrés par rapport au noyau mortifère de
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l’humeur mélancolique: une fonction-personnage: le réveur révé et un décor-situation: le /abyrinthe. Emprunté à une nouvelle de Giovanni Papini (La Dernière Visite du Chevalier malade ), le «rêveur rêvé» a par là une origine spécifiquement culturelle. Cependant, s’il a été retenu parmi tant d’autres motifs bizarres possibles, c’est que, psychologiquement, il constitue la forme «hyperbolique» que le motif général du rêve tend à revêtir dans la mélancolie: cellelà même que Nerval désigne comme l’«épanchement du rêve dans la vie réelle», et qui est, d’une façon qui devrait inquiéter, commune à la mélancolie pathologique et à la mélancolie poétique. (Nous ignorerons par contre, comme n'ayant rien de typiquement mélancolique, la fonction d’espace d’évasion ou de compensation que tout imaginaire assume face à la dure réalité, et que commente par exemple Parabole de Cervantes et du Quichote. En relèvent également des poèmes comme Dreamtigers et tous les «pâles récits de couteaux et de coins de rues», tels que La Fin ou Le Sud, qui clôturent le recueil Fictions et constituent une part de l’«humble mytho-
logie» de Borges). Voici donc dans Les Ruines circulaires (le motif des ruines est présent jusque dans la mélancolie romantique) un rêve qui, à la lettre, «s’incarne». C’est qu’un «homme taciturne» a formé un «projet magique»: «Il voulait rêver un homme [...] et l’imposer à la réalité». Sa première création onirique, — comment s’en étonner? — est un mélancolique: «un garçon taciturne, atrabilaire, parfois rebelle, aux traits anguleux qui répétaient ceux de son rêveur». Des années plus tard, «dans une aube sans oiseaux» un incendie
ravage le temple du Feu. Constatant qu’il peut, indemne, «marcher sur les lambeaux de feu», le magicien, «avec humiliation, avec terreur, comprit que lui aussi était une apparence, qu’un autre était en train de le rêver». On voit que ce motif de l’hyper-rêve est associé à celui de la répétition symétrique: le rêveur est à son tour rêvé. Nouvel indice de l’hypercohérence et de la clôture de l’imaginaire mélancolique. Notre choix, du reste, n’était pas arbitraire: le rêve et le labyrinthe, dé-
jà liés dans le poème sur l’étude de la grammaire anglosaxonne (EH, p. 183), se trouvent encore réunis dans La Parabole du Palais (83). Osmose
qui révèle un «tempérament» sous-jacent. L’«Empereur Jaune» et «le poète» (projection de l’auteur) parcourent le palais-labyrinthe avec ses jardins et ses fleuves, ses répétitions infinies. Après quelques jours de marche, le réel pour eux «est devenu l’une des configuration du songe». Antériorité du songe sur le réel, que l’Art Poétique affirmait déjà: «la veille est un autre sommeil», mais c’est un sommeil «Qui rêve qu'il ne rêve pas»: «la vigilia es otro sueño /Que sueña no sofiar». On songe à Géngora, mais à un gon-
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gorisme du fantasme. Comme d’autre part le fantastique exclut, par contrat de lecture, le critère de vraisemblance, on voit que l’on a affaire ici à un
mode d'insertion, parfaitement «silencieux», d’un caractère subpathologique dans une oeuvre. Quant au labyrinthe, il n’est pas de motif plus inactuel. Plongeant dans la culture archaïque, il se perd, comme piste de danse rituelle, dans les
brumes du néolithique. Borges l’utilise, il est vrai, avec un raffinement gongoriste, mais il n’en reste pas moins porteur d’une dimension pathologique. Non que le mélancolique asilaire parle de labyrinthes, mais il vit par contre dans un espace labyrinthique, où il a le plus grand mal à s'orienter (à retouver son lit, etc.). Si l’artiste mélancolique s’empare de ce schème archaïque en dépit de son apparence neutre, c’est en réalité en fonction d’une prégnance émotive où convergent des pertes essentielles: perte de la sécurité que procurent les repères spatiaux, perte des «chemins de la liberté», et en définitive perte d’identité du moi, avec risque de mort. Car, dans le labyrinthe crétois, le Minotaure, image du moi mélancolique, est un monstre chto-
nien voué a mourir sous l’épée du «héros culturel» solaire, ce qui est le thème de La demeure d’ Astérion®!. Rare dans la littérature moderne, ce motif assume chez Borges une fonction cognitive quasi explicite, tandis qu’il reste innommé, quoique aussi actif, par exemple dans Le Chateau et Le Terrier de Kafka. Un psychanalyste a voulu y voir l’image générale d’une «pensée obsessionnelle», mais cela n’exclut pas son caractère mélancoli-
que ?.
2!
J'ai déjà parlé de /a demeure d’ Astérion dans l’article cité en note 14. Cfr. Didier Anzieu, Le code et le corps dans les contes de J. L. Borges, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 1971, 3. Excellent exemple d’approche analytique d’une oeuvre 22
littéraire, cet article ne me paraît pas infirmer notre propre problématique, encore qu’il range
Borges parmi les «obsessionnels» et que la mélancolie ne soit jamais évoquée (omission que la fréquence du thème du temps destructeur suffirait, me semble-t-il, à rendre contestable). On apprend par contre que «le voyage mythique du narrateur à travers la Bibliothèque de Babel est une exploration symbolique du corps de la mère — qui est aussi une bouche parlante qui enseigne à l’enfant émerveillé le code phonologique» (ivi, p. 198). On lit également: «C’est une donnée première de l’appareil psychique que de se donner à lui-même une représentation de son propre fonctionnement». Cette fonction de représentation d’une «pensée obsessionnelle» serait dans le cas de Borges dévolue au labyrinthe. Séduisant mais invérifiable («infalsifiable»). L'appareil psychique serait-il porteur de son propre modèle «en abyme», afin d’être plus facilement déchiffré par les psychanalystes? Par contre, l’hypothèse selon laquelle Borges «construit ses contes sur des logiques dérivées des formes archaïques de l’image du corps» est, elle, partiellement vérifiée par les textes, notamment ceux qui dans L'Immortel concernent
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Qu'en est-il en effet de la présence insidieuse du labyrinthe dans le texte borgésien? Dans les 500 pages des trois grands recueils (L'auteur, Fictions et L’Aleph ), on ne compte pas moins de 34 occurrences du mot, fréquence énorme compte tenu de la rareté du terme. Borges en fait un métaphorisant quasi universel, qu’il applique à des villes, ce qui est banal, mais aussi au rêve, au temps, à la littérature («anxieux labyrinthes de Poe», «labyrinthe étincelant» de 1’ Arioste), à la connaissance, à des odeurs (le ti-
gre «humera dans le labyrinthe tressé des odeurs [...] l’odeur délectable des proies», EH, p. 147), et jusqu’à une musique de guitare («un raclement de guitare, une sorte de misérable labyrinthe qui s’enroulait et se déroulait indéfiniment» (F, p. 191).
Dans L'Immortel (AL), «l’aveugle empire des noirs labyrinthes» suscite l’horreur: «Avec horreur je m'accoutumai à ce monde suspect: il me paraissait impossible qu’il pùt exister autre chose que des cryptes à neuf portes et de longs souterrains qui se ramifiaient». Cependant, un labyrinthe, «fait à dessein pour confondre les hommes», comporte une logique cachée. Au contraire la «Cité des Immortels», «complet non-sens», est une architecture «privée d’intention», oeuvre de «dieux fous», avec des portes colossales donnant sur une cellule, ou d’«incroyables escaliers inversés, aux degrés et à la rampe tournés vers le bas». Autrement dit: un superlabyrinthe, qui inspire «plus d’horreur intellectuelle que de peur sensible». Le labyrinthe n’est donc pas seulement chez Borges un lieu exotique ou archaique: c’est un dispositif traité comme inducteur d’affects spécifiques. Il montre aussi comment, même chez le litotique Argentin, la mélancolie tend à revétir des formes «hyperboliques» (au sens baudelairien) qui dans le cas présent dessinent un motif particulièrement voyant.
l’image du corps. Je n’ai pu retrouver par contre le passage frappant cité à l’appui du rapprochement entre le corps et le code. D’autre part, il est, sauf erreur, unique dans l’oeuvre. En vertu de cette méthode de l’apax, on pourrait aussi bien choisir de privilégier tel autre texte, apparemment mineur, comme Le Regret d’ Héraclite, dans lequel il faut comprendre, je crois, que Borges fait son autoportrait «en Héraclite», c’est-à-dire «en mélancolique» (faute de quoi ce minipoème de 2 vers, avec sa référence fictive pour plus de discrétion, serait dépourvu non de sens, mais de signification): «Moi, qui fus tant d’hommes, je n’ai jourais été / Celui dans les bras de qui défaillait / Mathilde Urbach». Signé: «Gaspar Camerarius», (EH, p. 211). Il me paraît en outre difficile de négliger cet aveu: «Quand j'étais jeune, je pensais au suicide, maintenant je continue de vivre» (EPL, 50). Car c’est là un symptôme mélancolique à valeur distinctive (les «idées de suicide», même chez les jeunes, étant à juste titre jugées pathologiques par les psychiatres). Je serais donc enclin à inscrire la «pensée obsessionnelle» de Borges dans les limites de sa mélancolie, plutôt que l’inverse; mais il n’y a pas, répétons-le, exclusion de principe d’un de ces deux «types de caractères» par l’autre.
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Dans quatre nouvelles «labyrinthiques» ce schème spatial singulier «configure» tout le texte. Dans Abenhacan el Bokhari mort dans son labyrinthe (AL) non seulement un labyrinthe-piège se referme sur la mort, mais l’énigme policière n’est résolue qu’à travers une analyse «structurale» du labyrinthe et de la toile d’araignée. Le motif fonctionne donc comme modèle cognitif explicite. Décor de l’action, il commande aussi la «narration» et son sens. Le Jardin aux sentiers qui bifurquent (F): un livre-labyrinthe, «un invisible labyrinthe de temps» compose à travers une intrigue à temps multiples «une énorme devinette ou parabole dont le thème est le temps». A l’échelle cosmique c’est «un sinueux labyrinthe croissant qui embrasserait le passé et l’avenir et qui en quelque sorte impliquerait les astres». Cette «temporalisation» du motif spatial sur le mode de l’hyperbole en accroît sensiblement l’effet d’inquiétante étrangeté. Exigence propre au genre fantastique, me dira-t-on? Mais précisément il serait aisé de montrer que /e fantastique est par essence mélancolique — comme on peut déjà le soupçonner chez Poe, créateur du genre, où la mort se déploie en des situations résolument macabres. Dans Le Mort et la boussole on a un labyrinthe rectiligne. Dans Les deux rois et les deux labyrinthes un labyrinthe-désert. Soit deux limites mathématiques de la «fonction labyrinthique», la forme «vide» de la fonction, le désert, étant celle qui perd le plus sûrement ses victimes. Ce qui prouve que dans l’imaginaire borgésien le labyrinthe, loin de n’étre qu’un symbole ou une métaphore, est bien un schème narratif (et «cognitif»).
Mais il y a plus. Comme signifiant du désordre ou d’un ordre caché inaccessible, le labyrinthe va infléchir vers l’«horreur intellectuelle» le lieu sauveur entre tous: la bibliothèque. Elle va devenir, dans La Bibliothèque de Babel(F), «cauchemar méthodique», l’allégorie du non-sens de l’uni-
vers. Non seulement, en effet, cette bibliothèque est labyrinthique par la répétition à l’infini de ses «hexagones» ouvrant sur le vide, mais elle est composée de livres qui ne sont que «purs labyrinthes de lettres». On finit par juger «vaine l’habitude de chercher aux livres un sens quelconque». D'où un nombre
croissant de suicides parmi les bibliothécaires, dont le
corps «se dissout dans le vent engendré par la chute, qui est infinie». Ainsi, le refuge par excellence, le sanctuaire du sens et de la culture devient à son tour un lieu «labyrinthique»; un lieu de mélancolie et de désespoir. Si «le non-sens y est la règle», — d’où l’allusion à Babel — c’est que cette nouvelle, la plus célèbre de Borges, illustre très exactement la mélancolie en tant que pathologie du sens. Altéré de sens, le «bibliothécaire» hu-
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main voudrait absolument croire qu'il existe un livre qui est la clé de tous les autres: «Que le ciel existe, même si ma place est l’enfer [...] pourvu qu’en un être, en un instant, Ton énorme Bibliothèque se justifie». Mais mélancoliquement, le narrateur «soupgonne que l’espèce humaine [...] est près de s’éteindre, tandis que la Bibliothèque se perpétuera: éclairée, solitaire, infinie, [...] inutile, incorruptible, secrète» (pp. 104-105).
Gravitation éternelle d’un univers absurde. Dèjà le mélancolique Pascal était effrayé par le «silence éternel des espaces infinis». De méme certains malades de Cotard étaient atteints du délire d’immensité: «Les malades sont dans l'infini, dans les millions et les milliards, l’énorme et le surhumain» (p. 23). Sous cette forme intellectualisée pratiquement invisible, le labyrinthe figure la perte la plus atroce parce qu’elle a le pouvoir de déshumaniser: la perte du sens. Ce n’est pas par hasard que l’on retrouve ici l’«absurde» des existentialistes, car plusieurs d’entre eux comme Kierkegaard, Camus, Sartre lui-même, étaient des mélancoliques («L’Etranger» est un mélancolique et le premier titre de La Nausée était Mélancolie ). Bien au delà de son aspect spatial, le schème invisible et multimillénaire du labyrinthe se trouve donc exprimer aussi ce terrible symptôme des grandes
mélancolies: l’«asymbolie» dont parle Julia Kristeva 3. Or, n’est-ce pas cette même perte du langage qui achevait de plonger dans l’infra-humain, voire la bestialité, les grands mélancoliques de jadis? Bien au delà de l’errance, le labyrinthe exprime l’«égarement» de la folie (la perte du «sens commun»).
Moins sinistres, les motifs borgésiens n’en livrent pas moins un certain «mal-étre» fondamental. (Pour Ludwig Binswanger la mélancolie est un trouble du Dasein, et pas seulement du «moi psychologique»). Cependant naît un soupgon: tous ces motifs, symptomatiques mais si bien maîtrisés, ne sont-ils pas devenus purs thèmes littéraires, purs matériaux narratifs gràce auxquels le subtil Argentin mystifierait son lecteur? Croyance naïve en la création littéraire consciente et programmée. Borges, au contraire, bien que systématique en apparence, ne croit qu’à la littérature «spontanée»: il préfère la littérature anglaise à la française selon lui trop consciente, et s’il fait une exception en faveur de Verlaine, c’est qu’il voit en lui «un enfant qui joue». L’un des défauts majeurs de la littérature contemporaine est pour lui «la vanité de trop travailler l’écriture». Il est donc improbable qu’il ait reconstitué les motifs mélancoliques d’après un savoir abstrait.
2%
Julia Kristeva, Soleil Noir. Dépression et mélancolie, Paris, Gallimard, «Folio»,
1987, pp. 18-27.
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Dans ses entretiens, il s'interdit du reste tout souci de psychologie scientifique et sa méfiance à l’égard de Freud passe toute limite *. Il n’emploie jamais le mot mélancolie que dans son sens «romantique» le plus banal. Or, parlant aisément de tout ce qui touche à son travail d’écrivain, il eût d’autant moins manqué de mentionner son caractère mélancolique comme source de son oeuvre qu’il déclare à plusieurs reprises: «il faut être malheureux [...] Parce qu’autrement on ne peut pas écrire. Il faut commencer par le malheur [...] Emily Dickinson devait être triste comme beaucoup d’entre nous, parce que la tristesse est ressentie comme une nécessité» (EA, p. 19). L’occasion était bonne de mentionner la mélancolie autrement que comme un sentiment, si seulement il l’avait prise pour ce qu’elle est: un «déséquilibre de l’humeur» qui conduit assez souvent au suicide. Mais pour l’humaniste Borges, la mélancolie restait essentiellement un «état d'âme». Aussi s’étonne-t-il tout le premier de la «monotonie» de ses motifs imaginaires: Je m’étonne du nombre singulièrement réduit de mes symboles, alors que nous sommes censés appeler «monde» une série indéfinie de choses [...] Par exemple pourquoi, moi qui parle tellement de tigres, ne m’entend-on jamais parler de poissons [...] alors que les poissons, je m’en rends compte maintenant en toute sérénité, sont mille fois plus bizarres».
Voici sa curieuse réponse à un journaliste qui évoquait sa longue fidélité à ses thèmes: Oui, autrement je sens que je triche. Et puis [...] si ces symboles m'ont choisi, c’est qu’ils ont leur raison, et je n’ai pas le droit d’innover: J'ai été choisi par les tigres, par les miroirs, par les armes blanches, par les labyrinthes, par les masques, et je n'ai droit à rien d'autre (VD, p. 213).
Ce texte, à mon sens, lève les derniers doutes. On ne saurait en effet souligner en des termes plus simples: la dépendance du moi à l’égard de
# Aux yeux de Borges, Freud serait «un homme aux prises avec une obsession sexuelle», et, cet écrivan si mesuré faisant pour une fois bonne mesure, Freud serait aussi «à moitié cabotin, à moité fou». Quant à Jung, il ne l’a lu que comme «une espèce de mythologie de musée, ou d’encyclopédie d’étranges folklores». Cité par E. R. Monegal, Borges par luiméme, Paris, Seuil, «Ecrivains de toujours», 1969, p. 91.
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son imaginaire («j’ai été choisi par les tigres ...»); la fermeture de cet imaginaire («le nombre singulièrment réduit de mes symboles»); enfin, la stabilité de cette imagerie en apparence hétéroclite, mais dont pas un instant Borges — qui ne veut voir, même dans la psychanalyse jungienne, qu’un catalogue de curiosités — ne songe à sonder la cohérence cachée. Ces motifs, dont le trait commun me paraît étre une négativité multiforme (la révolte, l’évasion, le manque, la perte de la liberté et du sens),
tendent à se fixer sous la forme de schèmes émotifs-cognitifs. Ils font du caractère, puis de l’oeuvre, une «cuirasse du moi» (Freud) et un refuge. Par suite on ne saurait «guérir» d’un caractère mélancolique, qui n’est pas une maladie. Mais un malaise permanent du moi s’y fixe et en méme temps s’y sublime. Cependant que ces projections de motifs subpathologiques dessinent une «mythologie personnelle»: un «autoportrait». Ainsi, vivant paradoxe, cette oeuvre «litotique» se trouve d’autant mieux témoigner du caractère «hyperbolique» (paroxystique) des fantasmes mélancoliques que l’homme, comme l’écrivain, étaient enclins à la réserve.
En fait, cet érudit, amateur de récits et de psychismes rares, nous aura surtout proposé des prototypes correspondants aux situations anthropologiques fondamentales (la situation oedipienne, les rivaux, le rêve, la fuite, la captivité, etc.) et des poèmes qui répètent les métaphores éternelles. Car pour lui la poésie est «immortelle et pauvre» (EH, p. 196). On a vu que dans la psychose le moi s’absentait de son discours, qui du même coup ne charriait plus que des blocs erratiques de culture anonyme. Dans les caractères névrotiques, au contraire, des préconstruits culturels d’origine externe (la peur des miroirs, l’angoisse du labyrinthe) «cristallisent», dans la pénombre du subconscient, sous forme d’un imaginaire cohérent (qui «cuirasse» le sujet hyperfragile qu’est le mélancolique). C’est au prix d’un certain abandon de souveraineté, mais que compense la sublimation par l’écriture (qui à son tour donne accès à tous les refuges de la culture). Dans cette perspective, une approche qui tente d’intégrer la pathologie subliminale dans l’image générale de l’homme (quitte à rompre avec des utopies longtemps chères à la modernité, et à renouer avec une pensée moins ambitieuse et plus descriptive, avec les notions de caractère, de type, de prototype, de schème) suscitera peut-être quelques réserves. Il est clair cependant que cette approche relève d’une anthropologie culturelle qui se situe seulement au seuil de la pathologie, alors que la modernité prétendait introduire de plain-pied dans la culture la folie elle-même. En définitive, le difficile dialogue entre folie et littérature illustre une des contradictions de notre modernité. La distance que Borges, volontaire-
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ment ou non, prend avec celle-ci par le fantastique, l’humour, le scepticis-
me (De que nada se sabe ), rappelle opportunément notre fin de siècle au sens de la mesure. Au terme d’une ère de «rhétorique forte» qui s’ignorait, en lisant Borges et son Histoire de l’ éternité on se prend à rêver d’un temps
de «rhétorique faible» *. Une «peur indéfinissable mêlée de savoir», «une éternité pauvre, sans Dieu, sans personne pour le remplacer et sans archétypes» en guise de métaphysique: qui aurait imaginé qu’un tel discours, «faible» par choix, pùt jamais se faire écouter dans une civilisation du bavardage médiatique? Et que, face aux utopies arrogantes et meurtrieres d’hier il y eût encore place, provisoirement et faute de mieux, pour la «perplexité lucide» des caractères mélancoliques?
# Ces notions de rhétoriques «d'époque» (dont je dirais que chacune d’elles témoigne d’un «style cognitif d'époque», relativemente indépendant de l’épistémè, plus liée aux contenus) sont empruntées à Agnès Heller, Can modernity survive?, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1990. Essai suggestif d’une ex-disciple de Lukäcs, qui pose, dès son titre, le problème de l’opposition modernité / post-modernité. A l’encontre des prophéties de Malraux pour le XXI° siècle, elle annonce une post-modernité agnostique, ce qui est un trait constant chez Borges, pourtant passionné de théologie et d’hérésies («L’enfer est une simple violence physique, mais les trois Personnes inextricables [La Trinité] provoquent une horreur intellectuelle, un infini submergé, spécieux comme celui qui naît de miroirs opposés» (HE, p. 152), autre figure du mauvais infini).
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GIUDITTA ISOTTI ROSOWSKY
ALBERTO SAVINIO O L’UMORISMO TRA ESSERE E FARE
In un racconto di Maupassant apparso su «L’Écho de Paris» del 6 aprile 1890 col titolo Chissà, un uomo vive solitario e soddisfatto nella sua villa protetta da un bel giardino, arredata con amore, accogliente come
«le
braccia di una amabile donna, le cui carezze sono diventate una calma e
dolce consuetudine». Una notte, tornando a casa la testa colma di frasi so-
nore e la vista sollecitata da gradevoli visioni dopo la serata trascorsa all’opera, viene colto da un subitaneo disagio che lo trattiene dall’entrare. Siede un attimo sulla panchina sotto le finestre del salone ed ecco che un brusio, come un’agitazione proveniente dall’interno, gli ronza negli orecchi e diventa tumulto quando si decide ad aprire la porta. Nella confusione distingue chiaramente lo stropiccio di grucce di legno e di ferro che scendono dalle scale, camminano sull’impiantito poi sul tappeto e scappano di casa. Allibito, egli vede uscire uno dopo l’altro tutti i suoi mobili, i sopram-
mobili, le stoffe; ancheggiando attraverso il giardino se ne va anche la sua grande poltrona di lettura e il pianoforte, il suo «grande piano a coda, passò al galoppo come un cavallo sfrenato, soffiando sbuffi di musiche fuori dal fianco». Consapevole della stranezza della cosa, si guarda dal rivelare quanto gli è successo ma il giorno dopo, quando il servitore scopre l’abitazione svuotata, corre a fare la denuncia. L'avventura gli ha scosso i nervi
e su consiglio dei medici incomincia a viaggiare. Ritrova per caso i mobili da un rigattiere, i quali spariscono di nuovo come pure il rigattiere (tornando sul luogo col commissario la bottega è vuota), infine una lettera del
suo servitore gli comunica che i mobili sono rientrati, tutto è a posto come prima, salvo qualche danno tra il cancello e l’ingresso. Sfuggito il ladro alla polizia, l’uomo si sente minacciato, perseguitato, e «per prudenza, per paura» di propria volontà si rinchiude in una casa di cura. E il narratore conclude: «sono solo, solo, solo, da tre mesi. Sono tranquillo press’a poco. Ho un solo timore... Se il rigattiere diventasse pazzo... se lo portassero in questa clinica... Neanche le prigioni sono sicure...» !.
!
Citiamo da Maupassant, Racconti a cura di Alberto Savinio, traduzioni di Alberto
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Il tema della chiusura protettrice, ricorrente in Maupassant, è stato individuato come lo schema narrativo dei suoi racconti: la solitudine ambita e temuta è la trappola che si rinserra definitivamente dopo il tentativo del personaggio di muoversi in uno spazio che ha sperato aperto *. L’angoscia, che spinge a fuggire e a rinchiudersi in un modo o nell’altro, è tanto più intensa in quanto l’episodio delirante appare al soggetto come tale, non riesce cioè ad imporsi contro la spiegazione razionale del furto, che il racconto in prima persona continuamente esprime. Maupassant rappresenta un conflitto psichico che viene contenuto restringendo l’ampiezza dell’allucinazione e polarizzandola su una «creatura» persecutrice. Savinio, che nell’aprile 1944 inaugura in modo magistrale la psicocritica col saggio ora intitolato Maupassant e «l’altro»?, riprendendo in tutt'altro registro il tema dell’allucinazione ma proseguendolo sulla stessa linea, ne focalizza il carattere di costruzione delirante chiusa su se stessa
che si colloca oltre il dissidio interiore e, simile a una toppa, viene a rabberciare un buco della realtà. Nella pagina non traspare l’angoscia del narratore. Anche per la casta e illibata zitella di La pianessa è la rappresentazione di un’opera, il Don Giovanni, a far scattare il meccanismo dei suoni
dorati che la spinge irresistibilmente a comprarsi un piano femmina, un piano basso a coda gravido di futuro, cioè di tanti piccoli pianini che le riempiono la casa di vita. Tuttavia la maniera in cui si configura in Savinio il rapporto tra la letteratura e la follia ha del paradossale. La sovrana indifferenza per la plausibilità realistica sembra ribadire l’assoluta libertà dell’ar-
Savinio e Anna Maria Sacchetti, Milano, Bompiani, 1990, pp. 175, 178 e 186. Preceduti da una prefazione di Savinio, i racconti sono stati pubblicati nel 1944 a Roma (Documento Libraio editore) col titolo Venti racconti di Maupassant con lui e l’altro. Il saggio introduttivo intitolato Maupassant e «l’altro» è uscito in volume da Adelphi (Milano, 1975). Le traduzioni di Savinio e Anna Maria Sacchetti a volte si allontanano dall’originale, forse a causa della difficoltà di rendere nella lingua italiana la concisione sintattica di Maupassant. La scorrevolezza della frase va però a scapito della tensione eliminando parole a valore intensivo. Ci sembra perciò importante riportare il testo francese: «comme entre les bras d’une femme aimable dont la caresse accoutumée est devenue un calme e doux besoin». «Mon piano, mon grand piano à queue, passa avec un galop de cheval emporté et un murmure de musique dans le flanc». «Et je suis seul, seul, tout seul, depuis trois mois. Je suis tranquille à peu près. Je n’ai qu’une peur... Si l’antiquaire devenait fou... et si on l’amenait en cet asile. Les prisons elles-mêmes ne sont pas sûres...» (G. de Maupassant, Apparition et autres contes d’angoisse a cura di Antonia Fonyi, Paris, Flammarion, 1987, pp. 167, 170 e 179). ? Cfr. l’introduzione di A. Fonyi a Apparition cit. (in particolare pp. 16-17). 3 Inaugura nella critica letteraria, a prescindere beninteso dai primi discepoli psicanalisti di Freud, René Laforgue e Marie Bonaparte.
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te che non conosce altri limiti se non quelli imposti dal mezzo espressivo e dalla necessità formale. Continuamente sollecitata, plasmata, ricreata, la lingua anima la superficie della pagina infondendovi un tono scherzoso, ora comico ora umoristico, segno evidente della capacità e del diletto a creare incongruità, a sorprendere le aspettative del lettore con le distorsioni del reale. Di qui l’effetto di demistificazione e insieme l’illusione di serenità che ne scaturiscono, di qui la distanza critica che viene riconosciuta all’autore, non esente da certa leggerezza e facilità all’evasione. Ma come la tela dipinta è superficie che vive lasciando intravedere nel fondo una scena immobile, così la narrazione saviniana rivela una particolare discrepanza
tra l'enunciazione e l’enunciato. Rifuggendo dallo psicologismo e dalle introspezioni, essa rende mirabilmente il senso di spersonalizzazione del personaggio, il suo stato di indifferenza e la correlativa opacità delle cose. La singolare padronanza dei procedimenti retorici si attua segnatamente nel distanziare la rappresentazione, sicché le incongruità mentre rinviano all’istanza narrativa che le produce, esprimono il modo di essere e di individuare gli elementi del reale caratteristico di un determinato funzionamento psichico del personaggio. Da un lato ci sono personaggi che, per dirla con Freud, trattano le parole come cose “; dall’altro il narratore sfrutta al
massimo le potenzialità inerenti all’arbitrarietà del legame tra il significante e il significato. Questo ossimoro interno al narrare, questo strabismo narrativo si riscontra specificamente in una serie di racconti pubblicati tra il gennaio 1942 e il luglio 1944 su «La Stampa» e su «Documento» °. Sono per lo più racconti brevi, rapidi, compiuti, fortemente organati non per complessità d’intreccio, ché anzi corrono su un solo tracciato con arresti e
riprese ma senza deviazioni, sviluppando implacabilmente la logica di una chiusura ormai avvenuta, di una condizione di solipsismo. Sempre i personaggi presentano una perturbazione della relazione primaria con la realtà esterna cui peraltro si adeguano senza intrattenere uno scambio, un dialogo. Affetti dall’incomprensione e dal nonsenso di quanto accade intorno a loro, 0 dall’istintiva ripulsa verso qualsiasi fattore di prossimità fisica, da loro avvertito come intrusione e violenza, si muovono eseguendo automaticamente i gesti previsti. Apatia, passività, assenza agli altri e a se stessi è la loro sorte, fuor che a vivere assorbiti e come risucchiati dalla voce carez-
4 Cfr. specialmente l’ultima parte del saggio freudiano «L’inconscio» (1915) in Sigmund Freud, Opere, Torino, Boringheri, 1976, VIII. 5
Ora raccolti nel volume Tutta la vita, Milano, Bompiani,
1969 (da cui si cita).
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zevole di una statua che chiama a sé (Flora), dalla visione confortante di un
armadio paterno (Bago), dalla pianessa con la sua nidiata di bambini. E di fatto, il perno intorno a cui ruota la loro breve vicenda è il diniego, essen-
do ormai fuori campo il processo del giudizio di esistenza. Elemento di spicco, le allucinazioni non sono mai soltanto visive anche là dove parrebbero predominanti; i suoni svolgono una funzione di richiamo e di eccitamento all’avvio del delirio. Babbo, mamma, Bago, Bug, Billi non sono parole ma prime articolazioni significanti, nomi graziosi che lusingano l’orecchio di chi li sente e li pronuncia, e «sembrano formati apposta per la bocca di un bambino, di un balbuziente, di una creatura debole. Quanto
estraneo il nome Rutiliano!» Nella voce l'Altro è incarnato; nel sentirsi chiamare o nel chiamare si articola la relazione intersoggettiva, condizione affinché il soggetto possa compiere il passo dal bisogno alla domanda. Ma Bago, il racconto preso ad esemplificazione, presenta uno iato insormontabile e nell’impossibile elisione del bisogno da parte della domanda, nella mancanza di un oltre si esaurisce la vita del soggetto. A seguire il gioco dei significanti si delinea il percorso lungo il quale si spezza l’instabile equilibrio. I genitori si confondono amalgamati nella figura paterna di contenente. Dalla capacità di riconoscere un sogno la protagonista precipita nella convinzione che il sogno è la realtà, dall’aspetto accogliente e protettivo dell’armadio passa alla visione di una cassa vuota da riempire. Dal babbo al cane fedele Bug la lettera g conduce a Bago e mentre la b del giovane Billi rimanda al padre, la i unisce a Ismene o imene. «Ma Billi angelo non è» °, e in camera da letto, nell’intimità fiduciosa del risveglio, nella
nudità appena velata priva di pudori tra la donna e l'armadio, balena l’idea dell’accoppiamento provocando, galeotto un significante, l’incontro col padre «reale», che apre al delirio. E la porta si richiude. Eccettuato il caso di Attila, nei racconti di Savinio la parola follia o un
suo equivalente non è mai pronunciata. Eppure questi si presentano come deliri allucinatorii e non sarebbe eccessivo dire che fin l’assenza di conflitto psichico contribuisce ad aggiungere una nota veritiera ricordandoci che il soggetto perturbato non sa di vivere uno stato morboso”. È un personaggio-
©
Ivi, pp. 108-109.
7
Sulle allucinazioni si veda Georges Lanteri-Lara, Les hallucinations, Paris, Masson,
1991, da cui citiamo questa breve osservazione clinica: «Notiamo innanzitutto che molte persone possono restare allucinate per lustri o decenni, senza sorprendere nessuno e proseguendo un'esistenza banale; conviene rispettare una tale situazione e frenare ogni tentativo terapeutico che rischierebbe di rompere un equilibrio utile. Osserviamo poi che in altri casi è
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risposta ad esser rappresentato, «espressione di un mondo delirante ormai irrigidito» *, visto da un occhio che guarda come si guarda una camera da dentro?. Non diversamente da quanto è stato evidenziato per i racconti di Maupassant, l’aneddoto è governato dall’autodistruzione e il personaggio o soccombe alla voce di pietra impiccandosi alla statua che lo chiama (F/ora), o è letteralmente consumato dallo spirito del fratello morto che gli brucia il corpo e la vita (Anima), o finisce come la signorina Fufù, accompagnata «da due giovani donne [...] sobriamente vestite di grigio, dolci e risolute [...] a una villa fuori porta, circondata di amenissimo giardino» !°.
Svanisce il delirio ed ecco il tracollo del soggetto, sia che la toppa si stacchi lasciando intravedere il vuoto nel contesto del reale, sia che la logica delirante si sviluppi fino in fondo. Quando non consiste in un episodio allucinatorio, il racconto saviniano mira spesso a dar forma a una condizione d’irrealtà e di assenza che, se per il personaggio muta il registro del tempo in quello dell’eternità eliminando ogni tensione psichica, ogni conflitto interiore, comporta in pari tempo una paralisi della fantasia e dell’intelletto. Mentre allontana l’angoscia giocando con le parole, la narrazione dissemina nell’episodio elementi che hanno valore di antefatto e rafforzano la coerenza della rappresentazione. Il nome che portiamo ci schiaccia col peso dell’ascendenza. Il nome che ci è dato porta con sé il fantasma dei genitori e il protagonista di Scendere dalla collina è deputato ad esaudire l’aspirazione paterna dell’uomo forte, simboleggiato dal re degli animali. Ma dei genitori Leone ha un’idea confusa intrisa di violenza ferina: «Sua madre si chiama Orsa e nasceva Pantera. Passando dalla condizione di nubile a quella di sposata, la madre di Leone diventò Pantera in Leoni». Chi l’uomo forte, chi il più feroce a
sbranare tra queste belve? L’accoppiarsi è sinonimo di lotta e violenza. Non a caso la scena primitiva libera il suo significato con e dopo il bombardamento che avvolge la città in «un anello di fiamme». Come si può affer-
l’ambiente circostante a far pressione sul soggetto, tanto più che questi si isola e le conversazioni con le sue voci possono apparire come un rimuginare sospetto» (ivi, p. 105). 8 Si veda in merito Serge Leclaire, A la recherche des principes d’une psychothérapie des psychoses, in “Evolutions psychiatriques”, 1958, IT, pp. 404-405, ripreso da Jean Laplanche nell’/ntroduzione al suo Hôlderlin et la question du père, Paris, PUF, 1969, pp 3-4. 9 «C’est comme si on regardait une situation de l’intérieur» dice Savinio dello studio di Leonor Fini in La civilisation finienne (1945) ora in A. Savinio, Opere, Milano, Bompiani,
1989, p. 90. !0 Tutta la vita cit., pp. 63-64.
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mare nella coppia la superiorità paterna? Come superare il padre secondo quanto vogliono nome e cognome? Stretto il soggetto da questo paradosso programmatico, vero double bind, è l’esistenza della sua relazione con gli
altri a diventare paradossale e Leone vive in una cappa di vuoto che scansa il contatto con i suoi simili. Nella rappresentazione vigono il silenzio o gli urli delle sirene; solo una voce spaventosa si fa sentire, tirata su dal fondo delle viscere tenebrose di una casa «posata al margine della via come un enorme dado» che «l’aveva cacciata fuori dalla testa buttando all’aria il tetto» !!; la personificazione segnala l’identificazione proiettiva del personaggio. L’immobilità della fantasia cede con l’allarme aereo, la città sfolla lasciando il campo libero. La violenza degli altri si scatena sugli altri; la violenza esterna è anche la violenza esteriorizzata di Leone. Certo è che egli si trova fuori del quadro e lo guarda. Incendio «orribile e magnifico» direbbe il narratore di Le Horla (Il Gorla), che reca un momento di sollie-
vo. Ma qui non è il protagonista ad appiccare il fuoco per bruciare lo spirito invisibile che corpo non ha, come in Maupassant. Savinio conclude il racconto sull’effetto liberatorio. Lungi dal cancellare la dimensione patologica, l’assenza di passaggio all’atto la specifica, ché l’immagine della violenza perpetrata e proiettata dagli altri assorbe per un attimo quella del soggetto come uno schermo assorbe il rumore. Savinio si compiace di creare un mondo di finzione arbitrario che si offre spesso come un delirio allucinatorio, il più alto grado cioè di trasformazione sensoria dell’idea. L’acuta sensibilità per i processi psichici, di cui ci dà prova con il saggio su Maupassant, le cognizioni della psicanalisi (Freud, scrive, era il suo autore preferito), contribuiscono in pari tempo a mettere in luce un’aporia. Già si è notato, non vi circola angoscia e anche là dove lo sgomento paralizza le facoltà mentali del personaggio (Leone) o la disintegrazione conduce alla morte (Ismene), i segni di malevolenza e di ostilità persecutoria, che nella realtà accompagnano solitamente l’allucinazione, sono un’ombra diffusa che non sempre si addensa e scopre la sua origine. I racconti sembrano immuni da tensioni dolorose quasi che l’irrompere dell’irrealtà attuasse la frattura cancellando la violenza dell’effrazione. E in ciò mi pare che tradiscano una motivazione più fantastica che esistenziale. Quel che importa rilevare è che la follia non esaurisce il racconto saviniano ma si rivela il modo di indurre una nuova rappresentazione della realtà. La pazzia infatti è un concetto esterno alla letteratura. Fino alla fine dell’800 e in una larga corrente estetica che attraversa tutto il 900 italiano,
ll Ivi, pp. 67 e 69.
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essa appartiene alla rappresentazione del reale. Dal caso patologico di stampo verista alla figura dell’inetto, alla paranoia come metafora dell’alienazione economica e sociale della «letteratura dell’azienda», nonostante il variare dei tempi, dei progetti, delle modalità di scrittura, la manifestazione
patologica si inscrive in una linea di esposizione realistica. In Savinio la follia non è più un tema di per sé ma sparisce, evapora per così dire davanti alla sua produzione, trasformandosi in visione del mondo all’interno dell’opera. È il prisma attraverso il quale si effettua il cambiamento di rotta, la de-
viazione dall’estetica «tolemaica» che adegua il vero alla natura. Come dire ch’essa diventa una categoria della modernità. Attraverso Maupassant Savinio riprende rimotivandole la rappresentazione della follia allucinatoria del Gautier «Jeunes-France» (La caffettiera, 1831, per esempio) e quella della follia come infrazione della normalità borghese di alcuni Racconti crudeli (1883) di Villiers de l’Isle-Adam. Creando un’opera in cui il mondo viene guardato secondo l’ottica deviante del delirio, mentre conclude il
discorso estetico sull’imitazione, rivendica all’arte il carattere di antinaturale, di creazione «falsa», arte di concetto diceva nel 1913 Apollinaire a
proposito dei pittori cubisti, volta a «dipingere nuovi insiemi con elementi mutuati non dalla realtà visiva, ma interamente creati dall’artista e da lui do-
tati di una potente realtà» !2. Confutando sulla falsariga di Baudelaire e di Apollinaire l'ambizione naturalistica di gareggiare con la proiezione fotografica, Savinio individua la qualità lirica della fotografia nella «diminuzione della natura in bianco e nero» di contro alla riproduzione a colori. Proprio a questa «nudità nera» o «lirismo nero» attribuisce la forza di Flaubert !3. Contro la rappresentazione di cui pure rispetta la logica narrativa si afferma la visione; al personaggio prigioniero della percezione esterna subentra il prigioniero della visione interiore, anzi di una visione proiettata
fuori di sé e avvertita come facente parte della realtà '*. Il gusto del moderno non è forse una condizione psichica, scriverà in un articolo in data 28-29
2?
Guillaume Apollinaire, Méditations esthétiques, Paris, Berg International Editeurs,
1986, p. 27.
43 Maupassant e «l’altro» cit., p. 38. 14 Per antonomasia la follia è la figura della cecità esterna e rimanda alla poetica degli «occhi chiusi» rappresentata da Giorgio De Chirico in // cervello del bambino, un quadro del 1914 che pare abbia avuto un effetto d’incitamento per André Breton, Max Ernst, Yves Tanguy. Si veda in merito Uwe M. Schneede, «La vision aveugle» (tr. dal tedesco di Jeanne Etoré) in Max Ernst, catalogo della retrospettiva presentata a Parigi (28 novembre 1991-27 gennaio 1992), Paris, Editions du Centre Georges Pompidou, [1991], pp. 351-356.
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maggio 1947, dal titolo programmatico: L'arte come fenomeno di stoltezza
ragionata? !5 Non stupisce che in quest’ ottica Maupassant sia «l'ospite metafisico» che alberga in lui e mentre lo nutre, viene continuato, emendato,
addirittura perfezionato. Né d’altra parte si può dire che ci sia in Savinio un qualche compiacimento per la confusione tra arte e follia. Non a caso degli anni ancora fecondi nonostante i disturbi mentali, quelli precedenti il 1891 che generano i racconti fantastici, dice che «sono per Maupassant gli anni della rivelazione, della verità, gli anni delle scoperte, della scoperta di se stesso». Collegando ai fenomeni allucinatori la nuova ispirazione, Savinio
non esclude una generale disposizione psicotica dell’autore francese; tanto poco la esclude che acutamente la ravvisa nell’«infinita ripetizione di se stesso» !°, in una narrazione cioè che rispecchia fedelmente, quasi passivamente, il clima francese del periodo di pace tra il 1870 e la Grande Guerra
17, Se è vero che indica la flessione di una curva, è anche vero che con la parola rivelazione si suppone una capacità di riconoscimento. Fintanto che il soggetto è in grado di dominare e rappresentare le sue allucinazioni, una soluzione di continuità separa la creazione estetica dalla realtà vissuta !*. Quanto a noi, diremo in questo caso che l’opera svolge per il suo autore una funzione di supplenza nei confronti del delirio.
!5 A. Savinio, Opere cit., pp. 518-522. !6
A. Savinio, Maupassant e «l’altro» cit., p. 32.
!7
Sulla passività e sottomissione alla realtà circostante cfr. «la personalità come se» di
Helen Deutsch, il concetto di «compliance» di Donald W. Winnicott e le riflessioni in merito di Jean-Bertrand Pontalis in Entre le réve et la douleur, Paris, Gallimard, 1977, in particolare pp. 162 e sgg. 18 Basterebbero a riprova l’esplicito riferimento alla follia del titolo scelto da Maupassant, Pazzo? o la descrizione della perdita del rapporto intersoggettivo in Lui?. La consapevolezza risulta anche dalla costruzione narrativa fondata sull’impiego calibrato dei pronomi personali e sulla strategia persuasiva con funzione fatica. In forma di lettera un «io» annuncia all’amico l’intenzione di prendere moglie nonostante il suo pessimo concetto del matrimonio e la sua incapacità ad amare una sola donna. Unico scopo del matrimonio, poter interrompere il sonno della moglie, rivolgerle una domanda, sentire una voce. Lo scrivente sviluppa una serrata e vana argomentazione contro le obiezioni e i sarcasmi scontati dell’interlocutore, nel tentativo di non rompere il contatto. Col progressivo allargarsi dell’incomprensione da parte del destinatario assimilato all’io passato — e trapassato — di chi scrive viene sancita la separazione definitiva. Al posto vacante compare l’ombra di Lui, pronome della non persona, per cui altro non resta al soggetto se non il recupero di una figura ortopedica del tu, la moglie. Del resto, nota Savinio, Maupassant sembrava cosciente di questa sua «preziosa pazzia» e non voleva perderla ma ne è sopraffatto: muore allora lo scrittore e qualche tempo dopo l’uomo.
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Il discorso sulla follia come metodologia ci conduce al nucleo centrale dell’idea metafisica. Non si dà allucinazione senza la ferma credenza nella realtà dell’apparizione. Questa è percezione sensoria momentanea, intermittente, è presenza immediata e piena, priva di interstizi e di infiltrazioni. Dice Savinio dell’idea plastica che è «l’illustrazione di una compiutezza raggiunta, la glorificazione del presente»; infatti solo il sistema espressivo delle arti plastiche esclude il fattore temporale inerente alla linearità che governa la letteratura e la musica manifestandosi nello svolgimento dell’azione, nel ritmo discorsivo o nella melodia. D’altra parte, gli oggetti di per sé non hanno un valore preciso tant'è vero che la loro presunta assolutezza svanisce col movimento |”. Si pensi al variare della luce nei quadri di Morandi; gli stessi elementi ora si allargano e si aprono sorridendo verso la luce, ora si stringono addosso l’uno all’altro col calar della sera. Secondo Savinio gli oggetti assurgono a una dimensione di assolutezza e immobilità tramite le loro sembianze interiori, la loro «psiche»;
nella loro fisicità traspare allora un’altra presenza fisica. «La poesia nasce dal fondo di ciascuna cosa» °°. Già Apollinaire aveva affermato che uno dei tre valori plastici, la verità, «non la si può paragonare alla realtà poiché è la stessa, fuori da tutte le nature che si sforzano di trattenerci nell’ordine fatale
in cui non siamo altro che animali./ Innanzitutto, gli artisti sono uomini che vogliono diventar inumani./ Cercano penosamente le tracce dell’inumanità, che nella natura non si incontrano in nessun luogo./ Esse sono la verità e fuori di queste non conosciamo nessuna realtà» °'. Anche nell’opera letteraria la qualità lirica emana dalla forma di una presenza immutabile, di una staticità, in cui si risolve l’elemento drammatico che richiede un’articolazione temporale. Ed ecco che nei racconti di Savinio i mobili si animano,
parlano, ciascuno ha una sua voce appropriata come nel salotto buono, quello non usato, del Commendatore Candido Bove (Poltrondamore)”?. L’immobilità plastica si rivela di fatto un’inquietante autonomia delle cose familiari, estraneità all’interno dell’aspetto domestico degli oggetti, alterità che impone di ascoltare quel che il Commendator Bove non ha visto o meglio ha respinto, e nel salotto per le visite gli vengono svelati i tradimenti
!° Primi saggi difilosofia delle arti pubblicati in «Valori plastici», 1921, 2/3, ora in Torre di guardia, Palermo, Sellerio, 1977, pp. 222-246.
20 A, Savinio, Talete e Pitagora, in Opere cit., p. 649. 2! G. Apollinaire, Méditations esthétiques cit., pp. 13-14. Rileviamo che «Les vertus plastiques», in italiano «I valori plastici», sono le parole con le quali esordisce il testo di Apollinaire.
2
A. Savinio, Poltrondamore, in Tutta la vita cit., pp. 137-154.
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della sua Teresa, dal mobilio, come dire dai frammenti esterni del suo in-
terno familiare, viene colpita la dignità del maschio e del marito. Lo statuto dell’oggetto è parte integrante della dialettica della modernità che ricorre con insistenza negli articoli di Savinio. In lui si verifica une singolare confluenza delle esperienze europee dell’avanguardia. Dal 1905 al 1911 vive a Monaco che a quel tempo gode del prestigio di capitale artistica; nelle sue memorie il fratello Giorgio de Chirico ne parla come di un momento fondamentale per la loro formazione intellettuale ed artistica. AI 1905, un anno prima della Sintesi marinettiana, risale la commedia di
Dôblin, Lidia e Massimino, dove alla fine gli oggetti soppiantano gli attori e si mettono a recitare in vece loro. Tra i racconti di Savinio e quelli pubblicati da Dôblin tra il 1908 e il 1911 sulla rivista «Der Sturm», alla quale collaborerà anche Apollinaire nel 1913, le affinità formali sono palesi. E lo
sono anche col Programma berlinese, apparso sempre su «Der Sturm» nel 1913, che agisce in più direzioni e non si riduce, come di solito avviene nella storiografia letteraria, alla prefigurazione della Neue Sachlichkeit. Racconti e programma sono raccolti in volume nel 1913. Dôblin esercita la professione di psichiatra fino al 1933 ed è stato formato alla scuola friburghese del neuropsichiatra Alfred Hoche, per parte sua Savinio accetta i principi della psicanalisi. Benché su posizioni diverse, in ambedue è categorico il rifiuto dell’introspezione, da Dôblin qualificato di «farnetichio psicologico». «La forma più invadente, più coccolata di razionalismo si chiama ora psicologia», leggiamo nel Programma berlinese che invita a una nuova neutralità dello scrittore, a uno stile di pietra. «Impariamo dalla psichiatria, l’unica scienza che si occupi dell’uomo nella sua totalità spirituale; essa ha ormai riconosciuto il semplicismo della psicologia e si limita ad annotare lo svolgersi dei fatti, imovimenti, scrollando la testa e alzando le
spalle su tutto il resto, sul ‘come’ e sul ‘perché’ [...]. Strappare alla lingua il massimo di plasticità e vivacità. Non c’e posto nel romanzo per il narratore vecchio stampo; non si racconta, si costruisce [...] bisogna accostarsi ad ogni fenomeno per coglierne la singolarità, comprendere la fisionomia e il carattere specifico di un evento e descriverlo in modo preciso e oggetti-
vo» 3. A costituire il racconto del Dôblin espressionista è lo svilupparsi patologico di una situazione di apparente normalità; oggetti ed elementi naturali subiscono una progressiva personificazione, ogni cosa parla al personaggio e ne condiziona il comportamento: nel cielo è protesa «una nera,
2
Alfred Dôblin, L'assassinio di un ranuncolo e altri racconti, traduzione e prefazio-
ne di Eva Banchelli, Milano, SugarCo Edizioni, 1980, pp. 139-140.
400
sconfinata, gigantesca mano di nubi mossa da volontà irresistibile», sul colle occhieggia «una luce grigioazzurra che, sempre più chiara e frequente, guardava in giù dal nero del cielo»; in un altro testo, mentre la signorina dell’ospizio giace immobile, «nell’orologio piccolo ci fu un sussulto, e il volto di quello grande si contrasse in un sogghigno» *. Incisiva e lievemente ironica, la narrazione a forte prevalenza diegetica attua una nuova maniera d’impersonalità offrendo una duplice chiave interpretativa: sta al lettore giudicare e scegliere. Così una situazione topica della religione cristiana, l’immacolata concezione nell’omonima novella, mentre rimanda al codice culturale in cui si configura una scena isterica, si presta in pari tempo alla lettura corrosiva, dissacrante, demistificante del dogma.
In Dôblin la rappresentazione narrativa instaura limitatamente una cornice plausibile mettendo così in evidenza la lacerazione nella normalità. Tuttavia rimane irrisolta l’interpretazione nel senso del caso patologico e poiché spesso incombe la vicinanza della morte, perplessità e tensione sprigionano la sottile atmosfera del fantastico. È questa dissolvenza del delirio operata dalla scrittura a distinguere Dôblin dalla maggior parte degli autori espressionisti in cui la pazzia non sempre si affranca dalla tradizione proprio in quanto risulta manifestazione privilegiata della marginalità patologica contro l’ordine imperante. Valga ad esempio l’esplicita corrispondenza tra la rappresentazione della follia e i titoli che la designano in tante poe-
sie o nella novella di Georg Heym, pubblicata nel 1913 *. Puntando sull’effetto di finzione che smorza l’iscrizione del reale, Sa-
vinio resta al di qua del fantastico. Immediatamente la pazzia si colloca fuori del registro della realtà e nonostante la giustezza delle notazioni si afferma come produzione autonoma incorruttibile, priva di una storia propria. Perciò più che nella messa in scena narrativa si dissolve nel linguaggio. Del resto la visione cupa e apocalittica degli espressionisti è poco consona al nostro che troverà nell’«umore impassibile e ridente» °° e irrisorio di Dada un modo più congeniale di esprimere le sue scelte e inclinazioni estetiche.
2
]yi, pp. 38€ 43;
25.
Cfr. Ernst Stadler, /rrenhaus, Georg Heym, Die Irren, nell’antologia degli Expres-
sionnistes allemands, edizione bilingue tedesca-francese, a cura di Lionel Richard, Paris, Ma-
spero, 1983, pp. 146-147 e 138-143. Nell’introduzione (p. 19) Lionel Richard ricorda l’inte-
resse degli espressionisti per la figura del folle e cita l’articolo Die Ethik der Geisteskranken pubblicato nella rivista «Die Aktion»,
1914, pp. 298-302. Per la novella Der /rre cfr. G.
Heym, Lesenbuch, Miinchen, Verlag C.H. Beck, 1987, pp. 166-181.
26 Raoul Hausmann, Am Anfang war Dada, citato da Hanne Bergius, Le rire de Dada, in CMNAM,
Centre Georges Pompidou, giugno 1987, 19/20, p. 76.
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Il modello dôbliniano, se di modello è lecito parlare, s’incrocia con un
altro avvenimento dell’area culturale tedesca. Nel 1908 esce a Monaco per i tipi di Piper (l’editore che nel 1911 pubblicherà Dello spirituale nell’ arte di Kandinskij e l’anno successivo 1’Almanacco del Blauer Reiter) Astrazione e Empatia di W. Worringer, col sottotitolo «Contributo alla psicologia dello stile». Il libro, subito molto diffuso, opera una sintesi delle riflessio-
ni estetiche di Theodor Lipps (di cui Freud cita dei brani nelle prime pagine del Motto di spirito) e del viennese Alois Riegel da cui è derivato il concetto
di volontà
artistica
(Kunstwollen),
di chiara
provenienza
scho-
penhaueriana. All’ipotetico bisogno dell’uomo di copiare la natura, che aveva indotto la confusione tra naturalismo e arte, Worringer sostituisce un «bisogno psichico di forma». Spiega Worringer: «Con la parola volere artistico assoluto, bisogna intendere quell’esigenza latente ed intima, totalmente indipendente dall’oggetto e dal modo di creazione, che sussiste di per sé e si comporta come volontà di forma (sich als Wille zur Form gebärdet). Esso è il momento primo di ogni creazione artistica, ed ogni opera d’arte nella sua essenza più intima è soltanto oggettivazione di questo volere artistico dato a priori». Riegel si avvale anche della teoria della visibilità pura dello scultore Adolph Hildebrand, che sposta la forma verso le modalità in cui appare l’oggetto staccandola dalla natura e, sulle tracce di Conrad Fiedler, distingue la visione vicina detta «arte tattile»; toccata con gli occhi, dalla visione lontana o «arte ottica» propria al realismo. A Theodor Lipps Worringer deve il concetto di Einfühlung, empatia, che è alla base dell’indirizzo estetico del naturalismo. Scrive Worringer, citando Lipps: «È un dato fondamentale di ogni psicologia, e a maggior ragione di ogni estetica, che un determinato oggetto sensibile, preso alla lettera, è un’assurdità, qualcosa che non esiste e non può esistere. In quanto esso esiste per me — e non può trattarsi che di tali oggetti — esso è penetrato dalla mia attività, dalla mia vita interiore». L’empatia vi è definita come «fruizione oggettiva di sé» (Selbstgenuss); godere esteticamente significa godere di sé in un oggetto sensibile, distinto da sé, sentirsi in empatia con esso. Lungi dall’essere il presupposto universale della creazione artistica, il processo empatetico fonda soltanto la tendenza che traduce il rapporto armonioso dell’uomo col mondo organico. Tant’è vero che il movente profondo dell’arte classica, secondo l’autore, non sta nel cercar l’illusione
del vivo, nel presentare fedelmente un oggetto naturale, quanto nel soddisfare «il senso della bellezza della forma organica viva» ??. È la felicità del
??
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Le osservazioni su Worringer sono ricavate dal bel saggio introduttivo Lire Worrin-
vivo e dell’organico ad attuarsi nell'arte classica, non la verità della vita. Di fatto, in Savinio la verità della vita si palesa quando l’armadio si confonde con l’imago paterna, quando il nome è la cosa, o la voce di pietra si fa can-
to delle sirene, o il figlio vissuto per procura cade morto ai piedi dei genitori i quali aprendo un occhio constatano: «Sei tornato [...] Oh, eccoti qua!». Il polo opposto e simmetrico del bisogno di empatia è rappresentato dalla tendenza all’astrazione che sarebbe tipica dell’uomo nordico. Astrazione in Worringer non ha ancora il significato che acquisterà pochi anni dopo e designa l’ansia spirituale davanti allo spazio ed ai fenomeni dell’universo organico, che provoca una ricerca artistica più stilizzata. L’angoscia spaziale viene addirittura paragonata all’agorafobia e considerata un modo di tener a distanza la natura per chi non riesca a dominarla. La disarmonia interiore, «la coscienza tormentata trova il riposo nella legge geometrica» #; si tratta infatti di sottrarre la cosa alla sua contingenza ed arbi-
trarietà, di eternarla avvicinandola a forme astratte che offrono un punto fermo in seno al fluire delle apparenze. Due sono i procedimenti utilizzati per quest’esigenza psichica formale: l’abolizione dello spazio e la stilizzazione. Lo spazio, pieno di aria atmosferica, lega le cose tra di loro e annullandone la chiusura propria a ciascuna di esse evidenzia la relatività nell’immagine del mondo. Lo spazio non si lascia individuare, occorre quindi liberarsene abolendo la tridimensionalità, avvicinandosi alla superficie piana. Lo scopo ultimo per l’appunto è quello di «emanciparsi dall’arbitrario e dalla temporalità dell’immagine del mondo, staccare la cosa dalla sua connessione oscura e sconcertante col mondo esterno, purificarla da quanto vi è in essa di vita e di temporalità, renderla per quanto possibile indipendente sia dal mondo circostante sia dal soggetto che la contempla» °°. Basta trasporre in termini di moto le osservazioni di Worringer sullo spazio e ci si accorge che il già citato saggio saviniano del 1921 svolge un ragionamento analogo: il movimento non si lascia rappresentare nella sua essenza; è il movimento che regge gli oggetti e li fa essere e insieme, «per confondere le varie forme in una sola», le distrugge particolarmente» 5°. Nel
ger di Dora Vallier, in Wilhelm Worringer, Abstraction et Einfiihlung, tr. diEmmanuel Martineau, Paris, Klincksieck, 1986. Effettuati i riscontri col testo tedesco, riprendiamo in italiano la traduzione di Martineau. Le citazioni si trovano rispettivamente alle pp. 46-47, 44-45 e 62.
28. Ivi, pp. 52-53. 29 Ivi, p. 75. Anche l’osservazione sulla natura «centrifuga» della cultura meridionale, per esempio, richiama Worringer (ivi, p. 48).
30
A. Savinio, Torre di guardia cit., pp. 223-224.
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sentimento d’incertezza e precarietà della vita si ha la condizione psicologica dell’aspirazione alla stabilità che l’uomo cerca diversamente di effettuare. Esigenza precipua delle arti plastiche, l’immobilità si specchia nell’immagine del suo desiderio: «immobilità terrestre, ispiratrice delle arti plastiche» s’intitola la seconda parte dell’articolo saviniano. Quanto all’empatia, la stroncatura più spietata si trova nel racconto Paradiso terrestre. Il titolo è già un’allusione furbesca al tanto decantato rapporto armonioso con la natura, in cui si radica il bisogno di conservare la bellezza di ciò che è vivo, sottraendola al degrado. In una bottega dall’insegna «ai capricci di Belzebù» si vendono giochi a trucco. Una mamma compera al suo piccolo Didaco un alberello in miniatura a forma di cono rovesciato, che dapprima incute al bambino un certo timore, perché associato alle supposte che gli vengono somministrate contro la stitichezza; poi, quando un giorno il padre impugnando un coltellino con ampio gesto evoca l’albero e le foreste, il modellino diventa il balocco prediletto che sol-
lecita la fantasia ed esercita il suo fascino determinando la vocazione del futuro Signor Didaco, rinomato imbalsamatore, da tutti chiamato per fissare l’immagine transeunte ora del diletto pappagallo ora del gatto siamese e «conservare ai corpi tolti dalla mobilità colori e apparenze della vita» ?!. Nella sua bottega si è costruito il proprio paradiso terrestre, nulla manca a prescindere dalla prima coppia creata e la gente viene ad ammirare la bellissima rappresentazione. Un giorno, tornando a casa prima del previsto, scopre sotto l’albero fatidico, addormentati nudi dopo l’amplesso, la moglie Teresina e il garzone Girolamo: «Belli! bellissimi!» spiega il Signor Didaco soggiungendo: «Ma io pensai: tra poco costoro si sveglieranno, torneranno a vestire panni, e l’incanto sarà rotto». Perciò con una potente iniezione li immobilizza, li imbalsama. L’empatia è un godere di sé negli oggetti; scrive Worringer: «le forme sono belle solamente in quanto esiste quest’empatia. La loro bellezza è il mio sfogo vitale (Sichausleben). La forma è brutta quando non posso abbandonarmi ad essa, quando nella forma e nella sua contemplazione mi sento privato di libertà interiore, impedito, sottoposto ad una costrizione» *?. Il Signor Didaco è in sintonia con la natura a tal punto che l’empatia finisce coll’essere uno spazio senza profondità. Se
3! A. Savinio, Tutta la vita cit., pp. 39 e 45. Memoria associativa o coincidenza, certo è che Didaco riecheggia «l’atlante Dadaco» (1920) di Berlino. Sul movimento a Berlino cfr. Dada Berlin Texte, Manifeste, Aktionen, Stuttgard, Reclam, 1988.
8
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W. Worringer, Abstraction et einfühlung cit., p. 45.
non ci fosse l’anacronismo dei vestiti... Altro non fa se non fissare la bellezza della vita organica; c’e chi la fissa nel marmo, lui imbalsama. Per la sua competenza viene addirittura chiamato a conservare la mummia di Lenin che cominciava a sfaldarsi. Il Signor Didaco è il tipo ideale del conformista, è riuscito a sublimare le sue ossessioni, ne ha fatto una professione che gli frutta ricchezza e celebrità. Per il carattere di parabola, il racconto travalica l’impassibilità auspicata da Dôblin, ma va sottolineato che la scelta della situazione narrativa verte su uno squilibrio mentale, un precipitare nella pazzia. Attribuendo a due episodi infantili isolati il valore di antefatto, Savinio tratteggia una linea interpretativa e in pari tempo enfatizza, caricaturandolo, il principio del determinismo causale. Mentre il conformismo esibisce la propria inanità e follia, se considerata al livello individuale, l’adesione del personaggio, anzi la sua sottomissione alle forme naturali segnala la mancanza di un luogo interiore in cui possa costituirsi simbolicamente il conflitto psichico. Oggi con un concetto winnicottiano si parlerebbe di falso self e di un’incapacità a trasformare il «dato» in «creato». Ma quest’aspetto è così scevro della benché minima innervatura realistica che svanisce nell’intenzione parodica. Resta comunque che in Savinio godere di sé negli oggetti si risolve narrativamente in due modalità che sembrano simmetriche: il passaggio all’atto e la confusione tra l’identità di percezione e l’identità di pensiero. Ancor più interessanti risultano le osservazione di Worringer sull’astrazione e lo spazio, che hanno un riscontro narrativo là dove si rappresenta lo stato di spersonalizzazione del personaggio. Savinio cancella le relazioni di profondità: gli oggetti sono collocati sullo stesso piano, giustapposti. Nascono così le serie incongrue che scompigliano le aspettative del lettore mentre l’apparente arbitrarietà mette in ridicolo i valori stabiliti. La similitudine opera come un criterio astratto senza contenuto, svuo-
tando le classi di equivalenze prevedibili che costituiscono il sottosuolo della comunicazione linguistica; altro non rimane al lettore se non seguire il dipanarsi del discorso testuale. Quando nella mente di Leone si affaccia l’idea che «gli uomini si muovono molto e sono molto attivi», una filza di esempi viene ad attestare l’affermazione; ma l’elenco potrebbe continuare o fermarsi a piacimento, sicché la profusione sembra dover riempire un vuoto: «Alcuni vanno tutti i giorni in grandi uffici lucidi di silenzio, s’infilano sopra la manica una soprammanica di alpaca, mettono in bella calligrafia le lettere che il loro capufficio ha tracciato con scrittura napoleonica [...] alcuni sono soldati e si destano all’alba al suono della diana [...] altri
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ancora costruiscono delle case per tenerci dentro i loro fratelli» °°. Ogni designazione è specificata come se la parola da sola dovesse vacillare e non potesse reggersi se non fosse agganciata alla sua definizione. Glose e definizioni suonano come moduli fissi, stereotipi. Talvolta l’esattezza del vocabolo, appartenente però ad un registro diverso da quello utilizzato (filosofico, per esempio: «dall’affievolirsi della voce del capostazione Ludovi-
co inferì»), provoca un’impressione di manierismo che denota una specie di rigidità, quasi mancassero altre possibilità di esprimere distintamente l’idea. In quel racconto stupendo che è // suo nome, Lodovico, il protagonista, guarda dal finestrino del treno. Che cosa vede? «Sul marciapiedi c’era soltanto una cesta, e accanto alla cesta un piccolo uomo
in berretto
rosso»; più in là «solo un orologio osava mostrarsi, occhio bianco e roton-
do, perché l’orologio misura il tempo e il tempo è tristezza. Poi la parola ritirata spiccava perentoria in lettere nere su fondo bianco, perché anche la parola ritirata evoca nei suoi vari significati idee di tristezza e di morte». La narrazione prosegue sciorinando gli oggetti individuati isolatamente e collegati tra di loro da una relazione di vicinanza materiale; viene cancellato
non solo il fattore temporale che organizza la successione delle possibilità narrative, ma anche quello spaziale delle coesistenze. È il discorso, nel suo snodarsi lineare, a riunire retrospettivamente le cose creando lo scenario. Si capisce allora meglio il valore delle numerose precisazioni: esse mirano a produrre la trama contestuale che si rivela difettosa. Come in un vocabolario l’orologio è inseparabile dalla sua definizione, anzi dal suo valore d’uso e se si mostra, deve avere una funzione; in mancanza di altri contesti
impliciti, questa è presa alla lettera, associata alla corsa del tempo e al corrompersi della materia. Ancora: «E di sopra la piccola tettoia a frangetta di ferro battuto, aggomitata a una finestra accanto a un vaso di gerani, il mento nella mano a puntellare il capo perché questo non cadesse sulla tettoia, e dalla tettoia rotolasse sui binari e sui binari fosse sfracellato dai grandi convogli fulminei e fragorosi [...] che di notte e di giorno, esso pure notte, passano e non si fermano, una ragazza guarda» *. La visione delimita un elemento e la frase procede rimbalzando meccanicamente da un punto al suo contiguo nello spazio. L’altro fenomeno stilistico di spicco riguarda le antitesi. Quando non funzionano alla rovescia, sono tese al massimo, si direbbe ad evitare che i
3. A. Savinio, Tutta la vita cit., p. 65. 3 Ivi, pp. 9-11.
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termini si schiaccino l’uno sull’altro annullandosi. Lodovico fluttua nella perplessità dell’indistinto e dell’indefinito. Così gli aspetti umani sono reificati mentre le cose acquistano sentimenti, sempre ostili, va notato; il no-
me proprio, che pertiene al registro simbolico per eccellenza, è un bagaglio ingombrante che Lodovico si porta appresso come un oggetto staccato col timore di smarrirlo, viceversa il cuore «metallico e dispettoso della piccola stazione» «tinniva rabbioso»; le case, simbolo di vita, sono tombe men-
tre la luce meridiana è tenebra («era giorno d’estate, ma anche nel sole era notte») e così via. Si accumulano i paragoni non soltanto espliciti, ché il procedimento investe la sintassi narrativa. Svolgendosi nella visuale del protagonista, il racconto diegetico ad un tratto viene interrotto da un verbo al presente che rispecchia in forma diretta il pensiero del protagonista. Lodovico non riconosce il nome del luogo annunciato: «talvolta però i ferrovieri hanno strane inflessioni di voce. Credono pronunciare il nome della stazione nella maniera più chiara, e invece lo deformano in una specie di grido convenzionale, simile ai gridi che i rivenditori ambulanti lanciano la
mattina nelle città» *; nella sua mente ricorre ad altre situazioni simili per rassicurarsi. Nello stesso modo poco dopo convoca altri casi di accentazione sbagliata, che riuniti in base alla puntuale similitudine, provocano involontariamente un effetto umoristico: vengono così accostati la gallinesca commessa della ditta Upim, Ettore Romagnoli col suo Perséo e «il sergente Bàvero, del ventisettesimo fanteria in distaccamento a Cesenatico, (che)
pronunciava zànzare col sussiego di uno che parla forbito» *. L’abbondanza delle similitudini sembra svolgere una funzione analoga a quella delle precisazioni; è un tentativo di far esistere le classi di equivalenze a sostegno delle opposizioni. Un significante non esiste di per sé, fuori delle correlazioni in un reticolo; la parola è affibbiata dal suo doppio rovesciato quasi a voler utilizzare l’effetto speculare come una matrice simboleggiante. Perciò la luce non può esser enunciata senza l’aggiunta del suo contrario. L'opposizione vivo/morto, senso/nonsenso, resta sospesa nell’attesa
vana, al limite infinita, e le coppie di apparenti contrari vengono a testimoniare quel che una sola antitesi basterebbe a significare se fosse inserita in un ordine simbolico. Ma lo specchio è senza amalgama. L’indistinto ha per antidoto l’interpretazione e quel che non è simboleggiato incute paura, tornando dall’esterno col segno della malevolenza e dell’aggressione:
PMIVISpalo; 36 Ivi, p. 12. Vien fatto di pensare agli “zànzeri” (giovani di sollazzo) di boccacciana memoria.
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Lodovico si sente preso di mira, la realtà gli manifesta sentimenti ostili, la
voce del capostazione lo perseguita. Un sentimento di ostilità e di distruzione si diffonde su tutto: il capostazione si trova vicino al treno ma «non lo guardava, come se tra loro corresse una vecchia ruggine». Parole banali che spariscono nell’evidenza sintattica della frase racchiudono una forte intensità narrativa. Nell'esempio già citato dell’orologio il perché significa soltanto in riferimento a quella temerarietà e impudenza che stacca l’occhio dal buio. Ma si osservi il rovesciamento: non è lo sguardo a distinguere, è l’organo esterno, separato, a fissare e prefiggere. Per orientarsi il soggetto ha bisogno della testimonianza dell’altro e, di fatto, la funzione è attribui-
ta all’amico Enrico, «morto laggiù in riva al grande fiume». I due nomi si richiamano in un’eco prolungata, rafforzata dall’espressione che accom-
pagna come un ritornello il nome di Enrico. Del resto la storia di Lodovico si sviluppa su due binari, in partita doppia. Il viaggio ha una destinazione e un itinerario prestabilito; la sostituzione dell’amico consente la menzogna che funge da schermo e fa giocare la fantasia. Ma quando la parola e la cosa s’incontrano nel nome impronunciabile, il porto cui Lodovico approda è l’opacità dell’indifferenza e la prigione.
Spazio senza profondità, campo senza distanza, dicevo, che sbocca nell’allucinazione, nel passaggio all’atto o nell’apatia. Importà però sottolineare nell’esempio di Lodovico o di Leone che i pensieri del personaggio sono umoristici per il lettore; il personaggio è umorismo, come è stato detto dello schizofrenico che non produce metafore ma è metafora. Al suo essere umoristico, correlativo ad una scarsa attività fantasmatica, si contrap-
pone il fare umoristico del narratore che libera l'aggressività, alla passività fa riscontro l’iniziativa. La rappresentazione del nonsenso appartiene ad un soggetto attivo, estremamente sensibile potremmo dire all’arbitrarietà del
segno linguistico e alle virtualità di significato che ne risultano 5”.
Per la distinzione tra «essere e fare umorismo» cfr., nel numero monografico dedicato all’humour, l’articolo di Pierre Dubor, Représentants pulsionnels dans l’humour et la psychose, in «Revue frangaise de psychanalyse», 1973, 4, in particolare pp. 594-595. Si veda inoltre Harold Searles, Différentiation entre pensée concrète et pensée métaphorique chez le schizophrène en voie de guérison (1962), in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 1982, 25, pp. 331-353. A lumeggiare la distinzione giova la differenza stabilita da Paul Watzlawitck tra «paradossi circoscritti», segnalati da una metacomunicazione e «paradossi regnanti», che si presentano come tali. Cfr. Paul-Claude Racamier, La paradoxalité comme défense intra-psychique, in Interaction en médecine et psychiatrie, Paris, Génitif Atelier Alpha Bleu, 1982, pp. 1318. D'altra parte Hanne Bergius, nel già citato articolo, ricorda che Dada scatenò «la rivolta
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Sorge a questo punto una domanda. A spiegare l’attrazione esercitata dalla devianza e dalle turbe psichiche basta l’influsso culturale, quell’originale e fortunato intersecarsi di correnti artistiche e intellettuali che per ragioni biografiche l’autore ha respirato fisicamente? La follia è soltanto la figura della trasgressione, dell’eccesso, il mezzo di mettere in risalto l’autonomia dell’arte di contro alla trivialità del mondo borghese come in Villiers de l’Isle-Adam per esempio? In modo specifico: quale il punto di contatto con Maupassant, uno scrittore così diverso, nei cui confronti, a detta della
critica, Savinio dimostra una grande «intelligenza della sofferenza»? Un luogo d’inserzione e di rifrazione è senz’altro il motivo dell’indefinito, indeterminato, inconsistente, che in Maupassant ha la sua immagine emble-
matica nell’acqua il cui fondo può mancare ad ogni istante 88. Esso sottende i cosidetti racconti fantastici dello scrittore francese, si esprime nella
«paura vaga dell’Invisibile, la paura dell’ignoto che è dietro il muro, dietro
la porta, dietro la vita apparente» *”, si manifesta negli «esseri» informi, allucinati e spaventevoli, e nel venir meno del sentimento di evidenza e di familiarità degli oggetti. Per Savinio incertezza, instabilità definiscono la naturale condizione
umana. Non credo però che si tratti soltanto della solita seppur sofferta precarietà e caducità della vita. Lo sfasamento messo in scena tra il personaggio e le parole, l’incomprensione delle espressioni che pur sono registrate nella sua memoria o, al contrario, la seduzione e l’investimento af-
fettivo dei suoni e dei nomi, nei due casi a valenza esistenziale, suggeri-
scono un collegamento biografico. Ce lo autorizza più volte l’autore col patto autobiografico sancito dai nomi della genealogia paterna nella sua
opera, in particolare nel racconto Un maus in casa Dolcemare *°. L'infanzia di Savinio trascorre in un universo di plurilinguismo; all’italiano dello spazio familiare si mescola il francese d’uso nell’ambiente sociale cosmopolita frequentato, il greco dei familiari e domestici e tutt'intorno del paese di residenza, il tedesco infine utilizzato tra i fratelli per escludere i genitori. Risalta nel racconto citato la comunicabilità, anzi la comunicazione senza re-
del lavoro del riso», concetto forgiato per analogia con quello freudiano del lavoro del lutto da Klaus Heinrich nel saggio Theorie des Lachens (pp. 76 e sgg. e 92). Il freudiano «Motto di spirito era una specie di bibbia per l’universo pittorico dada» nota Werner Spies nel saggio introduttivo, Entre agressivité et élévation, dei catalogo Max Ernst cit., p. 53.
% A. Fonyi, introduzione a Apparition cit., p. 12. 39 G. de Maupassant, Paura, in Racconti cit., pp. 83-84. 4° In Casa «La Vita», Milano, Adelphi, pp. 139-152.
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sidui tra gli adulti che parlano la stessa lingua, intercalata, noblesse oblige tra persone «altolocate», da formule francesi. Due le linee di separazione che manifestano e confortano l’omogeneità del gruppo: quella delle differenze e incompatibilità sociali, che colloca dall’altra parte Messario, il segretario greco e amico del piccolo Nivasio, e quella dell’infanzia. In casa di Messario le parti si capovolgono, il rigetto concerne Nivasio e il suo ambiente; nei due casi il bambino è chiuso fuori. L'esclusione porta la cifra
dell’incomprensione del bambino che si trova di fronte all’enigma onnipresente del senso, in cui interferiscono l’autorità della parola paterna, il rapporto tra i genitori, il problema del sesso, la marginalità sociale. Nell’alternarsi delle lingue, nell’urto e nella mescolanza degli idiomi mai esenti
dalle tracce affettive della relazione intersoggettiva, nella situazione di disarmonia e cacofonia si stagliano parole e suoni erratici che colpiscono l’orecchio; chi sono gli «ompiscetti» di cui si parla come di cosa ovvia nel-
la famiglia di Messario? “!. Una parola carpita senza il suo contesto non dice un gran che, pur essendo tradotta non perde la sua stranezza, e se non è capita rischia d’indurre equivoci e interpretazioni bislacche. Anche il padre Commendatore Visanio si esprime in modo curioso. In bocca sua i soprannomi sostituiscono i nomi, le buone maniere trasformano il ringraziamento per un invito a pranzo in «visita di digestione alla contessa Corilopsis», così chiamata dal nome di uno scadente profumo muschiato in voga. Alla fissità di questo lessico familiare venato d’ironia fanno riscontro le formule e i preconcetti fossilizzati del microcosmo
sociale, che al nome
delle Vianelli appiccicano immancabilmente il qualificativo «quelle svergognate». Come ritrovarsi nel labirinto dei suoni e delle parole? Come orientarsi tra usi linguistici ugualmente rigidi eppur di diversa intenzione? Il sentimento infantile d’impotenza e di esclusione dal mondo degli adulti è ravvivato dal senso che sfugge e si rifiuta come il nome della stazione che volta le spalle, «tergiversato luminosamente» “. Un accento tonico viene anticipato (bàule) per scongiurare la trasformazione di baule in cassa per l’ultimo viaggio *; mentre dovrebbe esser rappresentato dal nome proprio legato all’atto di comunicazione, il soggetto è assimilato, per non dire imbalsamato nel significato del soprannome. È l’inquietante stranezza delle
4! In quest’ottica la cacofonia linguistica di Hermaphrodito, che aggredisce il lettore, è un forte elemento segnaletico, come lo è il frammento giovanile di Savinio, Psicologia dello stupore, citato e commentato da Gian Carlo Roscioni nella bella nota a Hermaphrodito (Torino, Einaudi, 1977, p. 241).
4A. Savinio, // suo nome, in Tutta la vita cit., p. 12. 4A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1985, p. 70.
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parole che ora si sottraggono all'oggetto ora vi aderiscono troppo, e «l’arrière-plan paralysant des choses» diceva Hugo Ball; i nomi impazziti fanno impazzire le cose*. Rincorrere il significato dietro — e sotto — la plasticità sonora dei significanti comporta disguidi, fraintendimenti, bisticci. Stravaganti linee semantiche si formano e si arrestano subitamente. Non a caso commentando il titolo di iniziatore del surrealismo attribuitogli da Breton, in un brano famoso Savinio sottolinea il diverso orientamento del processo creativo: «Il surrealismo per quanto io vedo e per quanto so, è la rappresentazione dell’informe ossia di quello che ancora non ha preso forma, è . l’espressione dell’incosciente ossia di quello che la coscienza ancora non ha organizzato. Quanto a un surrealismo mio, se di surrealismo è il caso di parlare, esso è esattamente il contrario di quello che abbiamo detto, perché il surrealismo, come molti miei scritti e molte mie pitture stanno a testimoniare, non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dar forma all’informe e coscienza all’incosciente./ Mi sono spiegato? Nel surrealismo mio si cela una volontà formativa e, perché non dirlo? una specie di apostolico fine» ‘. E di fatto soltanto i procedimenti e i risultati stilistici sono simili. Se il primo surrealismo mirava a produrre il disordine per creare la scrittura, ed a questo tendeva la pratica dell’automatismo psichico, potremo dire che per Savinio il disordine in certo modo preesiste invadente e perturbante, la sua ambizione e la sua arte punteranno ad organizzarlo e a plasmarlo. La volontà formativa qui non si discosta molto dal concetto della necessità psichica formale elaborato da Worringer, e la messa in forma è «messa in plastica», ricerca di una stabilità ‘°.
4. Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit, Luzern, ed. J. Stocker, 1946, p. 91, citato dall’articolo di Hanne Bergius. Hugo Ball di cinque anni più vecchio di Savinio, ha studiato a Monaco e a Heidelberg dal 1906 al 1910. Discepolo di Max Reinhardt, regista teatrale a Plauen e a Monaco dal 1911 al 1914, nel 1915 emigra in Svizzera per motivi politici. Transfuga dell’espressionismo, partecipa alla fondazione del Cabaret Voltaire e del dadaismo, nel 1917 dirige con Tristan Tzara la Galleria Dada a Zurigo. Autore tra l’altro di un Poema fonetico, collabora alla rivista «Die Aktion».
4° Ora nella prefazione al volume Tutta la vita cit., pp. 7-8. 4 Anche il testo saviniano Achille énamouré mété à l’ Evergète, pubblicato su «Le surréalisme au service de la révolution», 1933, 5, pp. 32-34, che è diverso dalla versione italiana più castigata, rimanda a Dada: il motivo del «marito meccanico e dell’Evergète silencieux» ha riscontro in un dipinto del periodo dadaista di Max Ernst, La grande roue orthochromatique qui fait l’amour sur mesure (1919). Né va dimenticata per le affinità di Savinio col movimento Dada, la parola d’ordine «Dilettante, alzate la testa», che nel 1919 lanciava
«Die Schammade», la rivista dada di Max Ernst e Johannes Baargeld a Colonia.
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Confusione, perplessità, incomprensione ma anche giubilo per la scoperta delle sembianze interiori delle parole, il gioco delle etimologie balzane, gli equivoci, le freddure imprevedibili. La duplicità si riscontra
nella scrittura. Due le modalità di distacco: distanza come assenza a sé e alla realtà e distanza critica come presenza a sé; chiusura, solipsismo ed esclusione nel narrato, complicità ed inclusione nella narrazione. L’umo-
rismo infatti, quando si dispiega in un’opera destinata alla pubblicazione, implica l’anticipazione delle aspettative, l’intelligenza interpersonale delle situazioni. Come Ermes suo nume tutelare, magari barando, è l’artefice
degli scambi e della comunicazione e, collocato agli incroci incerti, segna i limiti e la direzione, così Savinio si muove sulla frontiera che separa l’enunciazione dal suo enunciato e nonché cancellarla la ricalca, la ride-
finisce. Nella Vita di Enrico Ibsen pubblicata nel 1943, proprio nello stesso scorcio di tempo dei racconti, a proposito di un suo errore di dattilografia osserva: Giochiamo con le parole, ce ne serviamo, ma non ci passa nemmeno per la mente che le parole sieno da considerare, sieno da rispettare anche per altre ragioni: per qualche ragione loro personale: che le parole sieno anche diverse di come esse sono per noi. E per le parole noi siamo dei mariti borghesi, esigenti, ciechi e grassi di orientalismo. E le parole, assetate di libertà, assetate d’indipendenza, assetate di ‘personalità’ ci mostrano di tanto in tanto, con la complicità della macchina da scrivere [...] ci mostrano anche l’altro loro volto: il loro ‘vero’ volto: il volto della loro anima libera [...]. L’ibsenismo, questa esplorazione immobile, questa messa in luce e conoscenza delle parti buie e nascoste,
l’ibsenismo va propagato in altri campi di quello della psiche umana. Va portato tra noi e gli animali, tra noi e le cose naturali [...], tra noi e gli oggetti, tra noi e
le parole “?.
3
Il lapsus non genera il compiacimento introspettivo e narcisistico dell’autore di cui la critica registra puntualmente lo sfrenato autobiografismo; induce bensì una considerazione sulla fonte dell’azione. Esso gli palesa che il discorso instaura il soggetto come assente e quel che il soggetto credeva suo risulta un effetto della realtà psichica dell’altro, in questo caso tramite l’interpretazione di Ibsen e del suo rapporto con la donna. Gli palesa che la parola resiste, ha una sua autonomia rispetto al significato attribuitole. L’attenzione del lettore è richiamata sulla differenza tra il registro del piacere (o
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A. Savinio, Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, pp. 14-15.
del dispiacere) e il registro dell’esistenza delle cose, delle parole. Il passo chiarisce di riflesso la risposta a Breton. A quella che gli sembrava una rapida e forse abusiva assimilazione al surrealismo Savinio contrappone la consapevolezza non soltanto estetica circa alla funzione mediatrice della divisione tra enunciazione ed enunciato, che è il fondamento di un codice. A
ragion veduta soggiungeremo, ché essa è garante del trapasso dal gioco di parole meccanico al fare centrato sulla mobilità del significante. Secondo Freud il processo umoristico si svolge all’interno dell’individuo, la partecipazione altrui non aggiunge nulla, ma l’oggetto pur non avendo parte attiva rimane indispensabile per l'impatto pulsionale. È un oggetto passivo, intendendo ovviamente per oggetto anche un frammento del soggetto. Proprio questo rapporto tra essere e fare opera nei racconti saviniani in cui la scrittura, come il lavoro dell’umorismo, conserva la seman-
tica modificando la sintassi “. Se poi ricordiamo che l’umorismo consiste nello spostamento e nella trasformazione di una parte dell’energia psichica penosa, che viene legata ad una rappresentazione fortuita, ci sembra che anche il gusto conclamato del freddurismo abbia qui una sua motivazione. La freddura è lo spazio dell’entre-deux dove l’umorismo come modalità fenomenologica di espressione fa intravedere l’azione dell’umorista, disarticolante il determinismo del predicato autorevole. Forse da quella lontana esperienza della parola, intensamente contradditoria e paradossale, è nata l’attrazione per i fenomeni di alienazione del linguaggio e le allucinazioni non soltanto verbali, in cui il pensiero non appartiene più al soggetto e il linguaggio gli torna da fuori come una parola che non gli appare sua. Con le esperienze delle avanguardie europee — Dôblin, Worringer, Dada in particolare — il riaffiorare di uno spaesamento infantile legato al plurilinguismo approda a una nuova retorica di una cosalità stravolta. «Io non amo se non gli scrittori che scrivono per necessità di pensiero. Non amo se non gli scrittori la cui fantasia è un gioco di pensiero» “. Alla necessità di pensiero obbedisce per l’appunto il racconto di Maupassant proteso a frenare e a costringere in una articolata armatura narrativa l’angoscia del doppio e la perdita della relazione intersoggettiva. Non così imperiosa e minacciosa appare in Savinio la necessità, che si scioglie
48 Cfr. Jean Bergeret, Pour une métapsychologie de l’humour, in «Revue Frangcaise de Psychanalyse», 1973, 4, pp. 539-565 e Paul C.-Racamier, Entre humour et folie, in «Revue Frangaise de Psychanalyse», 1973, 4, pp. 656-668.
4A. Savinio, Nuova Enciclopedia cit., p. 133.
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nella tensione tra appagamento e ricerca e si risolve nel gioco del pensiero, trasformando la deriva in derivazione. Etimologia e freddurismo, scrive Savinio, sono entrambi modi di conoscenza.
%
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A. Savinio, Torre di guardia cit., p. 23.
PATRIZIA GIROLAMI
LA COSCIENZA DI GONZALO: NEVROSI E SCRITTURA NELLA «COGNIZIONE DEL DOLORE»
1. L'Ade della memoria: lo scrittore «psicopompo». Autobiografia e analisi
«Il cosiddetto ‘uomo normale’ è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi, talmente incavestrate (enchevetrées), talmente inscatolate (emboitées) le une dentro le altre, da
dar coàgulo finalmente d’un ciottolo, d’un cervello infrangibile: sasso-cervello o sasso-idolo: documento probante, il migliore si possa avere, dell’esistenza della normalità: da fornire a’ miei babbioni ottimisti, idolatri della norma, tutte le conferme e tutte le consolazioni di cui vanno in cerca, non una tralasciata [...]. In realtà, la differenza tra il normale e l’anormale è
questa qui: questa sola: che il normale non ha coscienza, non ha nemmeno il sospetto metafisico, de’ suoi stati nevrotici o paranevrotici, gli uni su gli altri così mirabilmente agguainati da essersi inturgiditi a bulbo, a cipolla: non ha dunque, né può avere, coscienza veruna del contenuto (fessissimo) delle sue nevrosi: le sue bambinesche certezze lo immunizzano dal mortifero pericolo d’ogni incertezza: da ogni conato d’evasione, da ogni tentazione d’apertura di rapporti con la tenebra, con l’ignoto infinito: mentreché lo anomalo raggiunge, qualche volta, una discretamente chiara intelligenza degli atti: e delle cause, origini, forma prima, sviluppo, sclerotizzazione postrema, e cessazione con la sua propria morte delle sue proprie nevrosi» !. Che Gadda-Gonzalo appartenga all’universa distratta schiera dei nevrotici, è fuori di dubbio. Lo conferma la fenomenologia alterata dei suoi atteggiamenti: solitario e introverso, con un «accoramento inspiegabile» che «gli teneva il volto e anzi quasi la persona», malinconico e roso da mille «ubbìe» (particolarmente da «certo rovello interno a voler risalire il deflusso delle significazioni e delle cause»), «germanico [...] in certe manie
! Carlo Emilio Gadda, Come lavoro, in I viaggi la morte, Milano, Garzanti, 1977, pp. 21-22.
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d’ordine» e insofferente d’ogni volgarità e oltraggio al buon gusto, sempre «sprangato in camera a leggere... a fantasticare», «così lontano da tutti» da sembrare «misantropo» 0 «misogeno» o peggio ancora «nemico del popolo» e «dispregiatore degli umili». E soprattutto «con tutti i sette peccati capitali chiusi dentro il ventre»: «avarissimo» oltre misura, geloso e goloso, «avido di cibo e di vino» fino a manifestazioni di voracità bulimica, «crudele» e «iracondo», con «eccessi bestiali di rabbia», in particolar modo
contro il padre e la madre ?. Né il carattere di Gonzalo è pura finzione, ma rispecchia la personale condizione patologica ampiamente registrata dal personaggio-Gadda nei suoi diari: Le prove sostenute nella mia infanzia sono state tali, per circostanze familiari,
da scuotere qualunque sistema nervoso: figuriamoci il mio, il mio di me, che avevo paura a salutar per la via un mio compagno di scuola o la mia maestra, che immelanconivo o impaurivo all'avvicinarsi della sera.
La nevrosi cardiaca è una cosa non troppo patito di male d’ogni qualità, rori infantili sono stati troppo forti, devastato il mio organismo morale
nuova per me e proviene dall’aver troppo, anche nell’infanzia; i miei dolori, i miei tertanto più per il mio temperamento, e hanno e minato il mio organismo fisico‘.
Non è cosa nuova per me, essere mal giudicato nella vita: riconosco in me difetti gravissimi, qualità negative: (ipersensibilità, timidezza, pigrizia, nevraste-
nia, distrazione fino al ridicolo) *. Nevrastenia: essa è sempre grave: le troppe scosse di quest’ultimi tempi mi hanno rovinato: ogni dolore mi abbatte fisicamente, lo sento. Sento nei nervi delle braccia e delle gambe andare come un veleno, una stanchezza, il cuore dolere
(fisicamente). Ogni giorno porta una sua nuova ferita oltre la piaga orrenda che c’è già°. Tutto ciò è per me motivo di rabbia, di dolori terribili, di crisi mute, ma spaventose, di maledizioni e bestemmie di cui poi mi vergogno. Tanti motivi di ri-
? Cfr. C. E. Gadda, La cognizione del dolore, edizione critica commentata con un’appendice di frammenti inediti a cura di Emilio Manzotti, Torino, Einaudi, 1987, pp. 72 sgg. °C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Torino, Einaudi, 1965, p. 234.
4 Ivi, p. 278. 5 Ivi, p. 282. NIV D 375:
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conoscenza, oltre l’innato amore, ho verso la mamma, tanti tanti! E questi fatti mi avvelenano questo amore, che è ciò che m’è rimasto sulla terra; mi spingono a maledire i miei genitori e il giorno in cui sono nato”.
Diversamente dalla gran massa dei «malati» inconsapevoli, GaddaGonzalo non teme le proprie «tenebre» e appare «cosciente» della propria nevrosi. Il lavoro di introspezione avviato nel Giornale di guerra e di prigionia si tramuta nella Cognizione in un itinerario di conoscenza in cui le annotazioni occasionali, currenti calamo, prendono forma di consuntivo
completo del proprio triste vissuto e di viaggio alle origini del proprio «oscuro» male del quale il diario costituisce la prima luttuosa cronaca. La finalità euristica della scrittura, implicita nella mania inquisitoria (il «rovello») di Gonzalo, non è taciuta da Gadda, per il quale «l’atto critico, l’atto espressivo, non è concepibile per sé, come un’emanazione funzionale del bamberottolo io», quanto piuttosto come «il risultato, o meglio il sintomo, di quella polarizzazione [...] che si determina fra l’io giudicante e la cosa giudicata: fra l’io rappresentatore e la cosa rappresentata» 8. Il processo di significazione contenuto nella rievocazione anamnetica della Cognizione si condensa perciò in un procedimento autoanalitico-sintetico che operando una tripartizione dell’impianto narrativo assegna al narratore, opportunamente distinto dai personaggi autobiografici (Gonzalo e gli altri) e dall’ Autore, rimasto a colloquio con l’Editore, la funzione critica della memoria e
del giudizio, trasformando la dolorosa biografia di Gadda, anticipata nel Giornale, in storia (in terza persona) ed analisi del proprio passato, ovvero in storia ed analisi, e dunque «coscienza», della propria nevrosi. Il tentativo di sdipanamento dell’intricata matassa esistenziale si compie con l’ausilio degli strumenti della psicoanalisi freudiana. Il debito di Gadda verso Freud, ammesso esplicitamente dall’autore e rilevato da molti interpreti ?, resta ancora da chiarire. E sebbene non perdano di valore le affermazioni di Michel David, secondo il quale le conoscenze risultavano,
? Ivi, p. 365. # C. E. Gadda, Come lavoro cit., p. 11. 9 Cfr. l’intervista di Alberto Arbasino, Gadda parla degli autori che l’arricchirono, pubblicata sul «Giorno» del 24 aprile 1963: «A proposito di psicoanalisi devo dire che mi sono avvicinato a essa dal ’26 al ‘40 quando l’insieme delle dottrine e delle ricerche di questa grande componente della cultura moderna era vista popolarmente come operazione diabolica e quasi infame per la crassa opaca ignoranza di molti tromboni della moraloneria e della cultura ufficiale dell’epoca».
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negli anni della composizione della Cognizione, ancora generiche e utilizzavano concetti psichiatrici prefreudiani !°, la componente psicoanalitica ha nella struttura cognitiva del romanzo ampia utilizzazione " e il ricorso di Gadda alla psicoanalisi come elemento di decifrazione della notte del proprio dolore supera le reticenze e i lapsus dell’intreccio che offrono ai cri-
tici-psicanalisti abbondante materiale d’indagine ". La conferma, più che dal racconto Una tigre nel parco, anamnesi analitica degli istinti dell’infanzia e preannuncio del «futuro romanzo, così degno d’analisi psichica, della più terrificante analisi» '5, viene dal saggio Psicanalisi e letteratura, pubblicato su «La Rassegna d’Italia» nell’aprile 1949, quando già la Cognizione era uscita a «tratti» su «Letteratura». Il testo, che riproduce una conferenza tenuta da Gadda l’anno precedente a Firenze, non costituisce soltanto una coraggiosa difesa della psicoanalisi ostracizzata dalla retorica del Regime *, ma offre una pista convincente di lettura del racconto della nevrosi di Gonzalo. Per smentire il pregiudizio se-
10 Cfr. Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Bollati-Boringhieri, 1990 (terza edizione riveduta e ampliata con prefazione di Carlo Musatti), pp. 458-466. !! Lo dimostrano le Note costruttive, pubblicate in Appendice alla Cognizione dal Manzotti, fra le quali, alla voce «Temi da studiare e da approfondire», figurano: «A) Temi di medicina e psicanalisi /1°) Nevrastenia: studiare e insistere, con misura, anche clinicamente. (Amleto descrizione nevrosi) / Per il personaggio principale: Puerilità psichica e bambocceria esteriore [...] /Ormoni / Freud / Padre Vecchio / Repulsa della femminilità. (Mito Adonico a rovescio) / Tensione del campo collettivo femminile: per lui mancata [...]» (ivi, p. 546).
!? Cfr. le principali letture della Cognizione del dolore in chiave freudiana (Elio Gioanola, L'uomo del topazi, Genova, Il Melangolo, 1977) e junghiana (Rinaldo Rinaldi, La paralisi e lo spostamento, Livorno, Bastogi, 1977). 3 C. E. Gadda, 1991, p. 77; cfr. anche, stampe, riconducono a biografia è ricchissima complesse sistemazioni
Una tigre nel parco, in Saggi Giornali Favole, I, Milano, Garzanti, ivi, p. 74: «Gli psichiatri contemporanei, come taluno deplora nelle una sorgente infantile i maggiori fatti del nostro spirito [...]. La mia
di deliziose preconferme alle ‘analisi’ degli specializzati e alle loro dottrinali». 4 Cfr. C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura, in 1 viaggi la morte cit., p. 37: «Consumandosi il ventennio della magnanima accademia, la psicanalisi fu duramente repudiata, e press’a poco come un ritrovato arbitrario, denigrante l’umana gentilezza, nonché beninteso il decoro latino e la stabilità del meridiano di Monte Mario. Di questo decoro il figlio del fabbro schiccherone, e padre di non m’importa chi, s’era autopromosso zelatore perpetuo: e indefesso, indefessissimo tutore. Certa minuta fattispecie del nostro vivere eterno recava ombra ai cavalieri della patria, della purezza, della famiglia, della sapienza latina e maltònica: la logorrea ufficiale dell’epoca recalcitrava a ogni accenno psicanalitico [...]. Non recalcitrava alle soavi tentazioni latine la privata e magari clandestina incongruenza dei sermoneggiatori, dei moralizzatori».
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condo il quale «l’insistere con torbida e riprovevole curiosità sui più reconditi movimenti dell’attività organica, del meccanismo psicologico (o addirittura biologico), il riconoscere supposti nessi tra la vita degli istinti (di più ‘bassi’ istinti) e la disciplina luminosa dei giardini accademici sarebbe motivo estrinseco ed esoterico alla coltura latina, fumo e ghirigoro ultra-
montano o addirittura extraeuropeo, pratica monstruosa, repugnante alla chiarezza, alla purezza, alla eleganza, al decoro dell’anima e della mente latina» !°, Gadda raccoglie una campionatura assortita di documenti letterari coi quali avvalorare la tesi che «gli stati d’animo, gli inconsci o consci appetiti, le crisi dell’infanzia, le manifestazioni della ‘sensiblerie’ o dello spirito o della chiaroveggenza infantile, hanno dato motivo a innumeri scritture, già in era prefreudiana» e «hanno recato ai nostri giorni [...] il dubbio che Freud non abbia scoperto nulla di interamente nuovo, ma soltanto ordinato, schematizzato, sistemato, ridotto in termini, un materiale probante
già noto da secoli» !°. Il sospetto, se convalida il giudizio del David, non intende sminuire il valore delle acquisizioni freudiane, quanto, al contrario, legittimarle, inserendole a pieno titolo nella nostra tradizione letteraria e filosofica. Ma gli esempi addotti, oltre a comprovare la presenza latente di contenuti psicoanalitici nelle opere della nostra «solare» letteratura «latina», riproducono in controluce la traccia della storia psichica del protagonista della Cognizione, ratificando, al contempo, la validità dell’operazione letteraria e insieme «freudiana» del suo narratore. Non è difficile accorgersi di come le tematiche scelte da Gadda per sostenere il discorso — l’educazione repressiva, il rapporto con i genitori, il
meccanismo istintuale della psiche infantile, le carenze di affetti, il complesso di Edipo — costituiscano i nuclei portanti d’indagine della Cognizione e i nodi della biografia del suo personaggio e di come le osservazioni in proposito fungano da puntuale autoesegesi del testo, ricostruendo la genesi della nevrosi di Gonzalo e confermandone la sua lucida «coscienza». Non casuale risulta, dunque, in Psicanalisi e letteratura, il riferimen-
to alla dimenticanza virgiliana di chi vorrebbe prendere a dimostrazione della «divina innocenza dei fanciulli», contro il «solforoso teorema» di Freud che «Il bambino è il perverso polimorfo», la IV Ecloga, senza ricordare, accanto ai versi: «Comincia o bambino a riconoscere la mamma al sorriso, col sorriso: alla mamma dieci mesi hanno recato lunghe sofferen-
IS Ivi, p. 35. levi, p. 41e
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ze» («soave incitamento pediatrico, anzi nipiologico»), il seguito inscindibile e volutamente tralasciato: «Comincia o bambino: quello a cui i genitori non han saputo sorridere. Né un dio lo degnò della sua mensa, né una dea lo degnò del suo talamo» !?. «Comunque debba interpretarsi l’allusione mitologica, che da taluni — non da tutti — è riferita a Vulcano e alla sua deformità e alle sue sfortune maritali, sta di fatto — commenta
Gadda — che il
poeta ammette: 1) che ci siano dei genitori i quali non sorridono ai figli; 2) che la grazia e la venustà della persona, la luce del sorriso, degli occhi, con-
quistano, a chi ne ha sortito da natura, la simpatia dei genitori e però del prossimo, il favore dei potenti e dischiudono al fortunato le dolci vie dell’amore» '*. La precisazione non vale solo a richiamare, per dovere di
obiettività, la complessità dei fattori che interagiscono nella psiche infantile, ma contiene una diretta allusione autobiografica. Il topos letterario del Cui non risere parentes, già utilizzato in chiusura della prosa memoriale Dalle specchiere dei laghi, dà, infatti, il titolo ad un frammento espunto della Cognizione del dolore nel quale si compendia l’intera vicenda di Gadda-Gonzalo, fedele alle confessioni dei diari: La sua vita non aveva conosciuto stagione: non primavera, sotto la ferula della miseria e del sadismo materno: non estate, né dolce autunno, né carità di figli,
né nulla. Sciocca e priva di significato, le buone azioni vi erano rade, come radi e solitari alberi nel bruciare della steppa andalusa. Dopo la timidità e la purezza del bimbo, che aveva continuamente dovuto tremare davanti alla libido
sadica degli educatori, (con senno reso nel dolore precocemente adulto, con nervi spezzati dai lunghi anni di terrore e di umiliatrice disciplina) — tutto il restante della sua vita era stata feroce demolizione dello sporco e presuntuoso credo altrui, e ancora patimento, miseria, sporcizia fisica, prigionia, demenza, sconcio riso, inanità, stanchezza e torpore di vendicativo peccato, bestemmia, sudiciume, avidità senza premio !?.
La regressione infantile domina la scena della Cognizione e consegna al lettore l’immagine del fanciullo oltraggiato e offeso. Riaffiora dai lacerti della memoria la figura fragile del bimbo condannato alla povertà, alla fame e al freddo dalle manie di sperpero di una famiglia disposta a sacrificare tutte le proprie sostanze al decoro esteriore, soffocato nelle sue pulsioni vi-
UND 89! 18 Jvi, pp. 39-40. © C.E. Gadda, La cognizione del dolore cit., pp. 527-528.
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tali da una pedagogia martirizzante e costretto a patire un irresarcibile debito d’affetto che lo fissa per sempre nella posizione dell’«escluso», che «si vede negare dal silenzio stesso di una tutela avara e inconsulta alimento bastevole, adeguata veste contro gelo e rovaio, soccorso pronto chirurgico e medico in caso di gravissimo trauma», quando «il deficiente o il delinquente nato [...] e d’altra parte il cretino, e magari financo il furbo-cretino e carrierista d’ogni maniera di fraudi, ottengono per sé cure e provvidenze alberganti e tutelanti che il ragazzo vivo e normale non ha conosciuto» °°. Le annotazioni del saggio Psicanalisi e letteratura relative al fatto che «i rapporti tra i genitori e i figli non sono sempre, non sono per tutti così idillici, come certa edificazione semplificante vorrebbe darci a bere: e che non sono tali perché il sentimento, il sentimento vero, non si fonda sulla re-
torica dei buoni sentimenti, ma su quell’aggrovigliato complesso di cause e concause biologiche che Freud ha tentato appunto di sgrovigliare, di portare sulla tavola e sotto il riflettore dell’analisi»?! acquistano anch'esse, perciò, un chiaro valore autobiografico riferibile al triste passato familiare dell’autore della Cognizione. L'ombra del padre compare tra le fantasie allucinate di Gonzalo alla vigilia dell’assassinio della madre: Il Marchese padre, amorosamente, ogni mattino, gli preparava lui stesso la refezione: nel cestello scemo, ch’era la delizia aereata, e purtuttavia parallelepi-
peda, degli igienisti e dei genitori dell’epoca. Una fetta di bue lesso, detto spagnolescamente manso, cioè creatura ammansita, stopposa come una cima di canape frusta che perda i trèfoli, con sopravi un pizzichetto di sale da cucina: sale serruchonese e pastrufaziano: un panino. Non mai un frutto né un dolce, dacché il Marchese padre era preoccupatissimo d’ogni possibile indigestione del figlio, e anche soltanto immaginata. E il bottiglino dell’acqua e del vino. Col turacciolo. Guai se il bimbo avesse smarrito il turacciolo. Ore di angoscia, in cer-
ti giorni tristi, per il recupero del turacciolo: sullo smarrito sughero severità sibilante della maestra, che entrava allora con sopraccigli sollevati, in uno stato di
tensione sadica, bavando internamente. La pedagogia di Pastrufazio non ammetteva repliche. Le implorazioni del bimbo riuscirono vane. Guai se il turacciolo fosse rotolato sotto l’ultimo banco dell’ultimo quartiere, dopo aver traversato leggero leggero tutta la classe, tra l’odore e lo scàlpito degli 82 piedi. «To sono il tuo turacciolo e tu non avrai altro turacciolo avanti a me...» *.
20 Ivi, p. 487. 21
C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 40.
2
C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., pp. 424-425.
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L’ipostasi padre-turacciolo, rafforzata dall’epiteto manzoniano del «Marchese padre», sintetizza in un’efficace immagine lo stesso rigorismo paterno, avaro di ogni premura, esemplificato in Psicanalisi e letteratura dal romanzo di Samuel Butler, The way of all flesh: Ernesto, il figlioletto di un pastore anglicano, Teobaldo, incontra sul suo cammino umano, per prima cosa, il temibile incidente del padre: e per riverbero della madre. Il padre è la tenace espressione della categoria (di tipo biblico, per giunta), e degli inesorabili atteggiamenti. Egli ‘ha sempre ragione’; quel che è peggio, è sicuro di averla: la sicurezza pestifera dei rompianima. Il libro, sotto specie narrativa, è un atto di accusa de’ più mordaci contro gli interventi in causa di chi abbia facoltà d’educare, in quanto non ha educato (prima) se stesso [...]. Crede, il Teobaldo, di liberare su Ernesto le provvidenziali sanzioni e uni-
camente libera, invece, i suoi istinti punitivi e repressivi che sono di fatto, e che l’autore interpreta, come istinti malvagi: rancore, gelosia, crudeltà [...]. Il padre è il Veto [...] in quanto reprime senza avvedersene le insorgenze affettive del figliolo. È la Proibizione divenuta persona. Egli ritoglie ad Ernesto, il figlio, la vita che gli ha dato: perché ne annichila, col terrore del castigo, il sentimento na-
turale ?3.
Come Ernesto, anche Gadda-Gonzalo è vittima di una pedagogia autoritaria, ricca di sogni-progetto per l’avvenire economico del figlio, ma troppo parca di affetti. Il «Veto» di Butler richiama il cerchio ineludibile di colpa-rimorso legato al formarsi di strutture condizionanti superegotiche come conseguenza delle istanze moralistiche repressive introiettate nell’identità Padre-Legge ed espresse con particolare lucidità d’analisi nel racconto autobiografico Dalle specchiere dei laghi: Ero dunque in colpa, se pure contro mia scienza. Nella luce comune, di certo avevo inosservato gli obblighi, gli infiniti obblighi; ignorato la legge: la legge che atterrisce, che punisce, che uccide. Nessun obbligo, nessuna legge angosciava il libero cuore degli altri. Se altri avesse lasciato dondolar la gamba, bimbo irrequieto, o avesse tentato di stropicciarsi le mani diacce da poter sostenere la penna, oh certo non sarebbe incorso nelle ‘ammonizioni’ illuminate, poi nelle punizioni feroci, distruggitrici, nascoste ai lumi e ai lampioni d’ogni umana cognitiva 4.
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C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., pp. 46-47. C. E. Gadda, Dalle specchiere dei laghi, in Saggi Giornali Favole cit., p. 301.
Cade così a proposito l’interrogativo di Seneca riportato nel saggio: «‘Quis custodiet ipsos custodes?” Nel caso nostro: chi educherà gli educatori? Chi conferirà ad essi l’autorità di educarci?» °° Dietro la maschera dispotica del severo moralismo borghese, il padre di Gonzalo conserva anche lui la fisionomia del bambino mai cresciuto, incapace di amministrare il patrimonio familiare, dilapidato in vane ambizioni da «bozzoliere fallito» non meno che nel progetto-utopia della «Villa», immagine-emblema di ascesa sociale, e nelle munifiche largizioni per le «campane», preoccupato di lasciare al figlio l’eredità delle «butirro» piuttosto che il ricordo di un sorriso e dunque poco adatto a mansioni educative: «Per i miei figli, la villa, le pere per i miei figli» °°. Ma a Gonzalo «parve impossibile che le cariche narcissiche de’ suoi generanti si fossero risolte nelle butirro, nei Giuseppi, nel campanile di Lukones, quando avevano due creature, nel Serruchòn, a denti di sega» ??. L’ossessione per i «gioielli», le manifestazioni d’ira e di gelosia verso il nipote del colonnello cui si impartiscono, gratuitamente, lezioni di francese, l’odio per la servitù zoccolante dei peones, oggetto di attenzioni sconosciute al figlio, denunciano un affetto mancato anche da parte della
madre, assorbita interamente pure lei dall’«Idea Matrice della Villa»: La madre [...] fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorpora-
to in sé, subito, — avvampante splendore di giovinezza — il trionfo serpentesco della ‘sua’ villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro). E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant'anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco
sogghigno della morte #.
2%
C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 46.
26 C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., p. 414. 27
Ivi, p. 429.
28. Ivi, pp. 302-303.
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In Psicanalisi e letteratura il «dolore» di Gonzalo ha due illustri precedenti: [...] il riferimento alla madre, negativo tuttavia [...] in diversa forma, e con di-
stinte o addirittura singolari tonalità, lo ritroviamo nella vita se non nell’opera di due grandi poeti, il Leopardi e Rimbaud. Si tratta nell’uno e nell’altro, di una reazione infantile, poi giovanile e virile, al contegno e, più, all’indole e, forse, all’intrinseca struttura mentale e ‘qualità’ della madre. Nell’uno e nell’altro la separazione, l’allontanamento. In Rimbaud ‘il viaggio’, ‘le voyage”: la perduta rotta della nave che non è più guidata lungo le alzaie dei canali di Francia e dei fiumi impassibili. La tenerezza materna, l’ultima e profonda, sembra aver disertato le due infanzie: nel caso di Leopardi, potremmo credere a un’impazienza, a ùna insofferenza fisiologica della contessa Adelaide nei confronti di Giacomo, ma anche (stando a quel che Giacomo annota) a una carenza affetti-
va più generale, verso tutti i suoi figli ?.
Il caso Leopardi appare tuttavia ancora più complesso in quanto, per Gadda, «il fenomeno (di certa ritenutezza verso i figli) è men raro di quanto ci diamo l’aria di credere nelle nostre considerazioni natalizie, tanto più nel caso di una delusione narcisistica dei genitori nel riscontrare la qualità impropria o la forma difettiva della prole: al riconoscere che i figli non li onorano, secondo la carne, quanto sono tenuti a onorarli in ispirito», co-
sicché i versi di Virgilio e «le verità dolorose ch’essi annunciano per tutti quelli ‘a cui i genitori non hanno saputo sorridere’ divengono per lui oroscopo tragico: ‘Nec deus nunc mensa, dea nec dignata cubiliest’» 59, La «separazione» o «allontanamento», segno della rottura irreparabile intervenuta nei rapporti di Leopardi e Rimbaud con le rispettive madri, presagisce il matricidio di Gonzalo, solo inconsciamente vagheggiato («sognato») e compensato dalla fuga dalle pareti-carcere domestiche al termine della «misera» cena, unica possibilità rimasta di sottrarsi al vincolo ma-
terno. La «ritenutezza» poi non sembra essere prerogativa esclusiva di Adelaide Antici, dal momento che un’analoga «delusione» ha ucciso anche le speranze della «Signora»: Il primo suo figlio. Quello nel di cui corpicino aveva voluto vedere oh! giorni!, la prova difettiva di natura, un fallito esperimento delle viscere dopo la frode accolta del seme, reluttanti ad aver partorito, ad aver generato il non suo: in una
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#
C.E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 48.
%
Ibidem.
lunga immedicabile oscurazione di tutto l'essere, nella fatica della mente e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei loro mercanti, sotto la strizione dei doveri ch’essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti ?'.
Il triste imperativo paterno: «Tu non farai mai niente di buono nella vita» *, accompagna come funesto anatema il destino di Gonzalo e sanziona la sua incapacità a vivere e a conquistarsi la «simpatia» dei genitori, cosicché, spartanamente, «la madre avrebbe dovuto strozzarlo dopo otto giorni, se avesse avuto la pietà e la rettitudine della pantera», mentre invece «lo aveva allattato, allevato, educato: educato, soprattutto educato!» 53.
Niente di strano, dunque, se nessuna «dea» si degna di condividere, come per Giacomo, il letto di Gonzalo. La condanna a non essere amati si
trasforma in inettitudine d’affetti e in solitudine sessuale, simboleggiata nel «vestito nero da sposo» conservato per quarant’anni dall’«hidalgo» e lasciato, ormai inutile e inutilizzabile, al giovane figlio della lavandaia Peppa. Tragica resa che conclude una lunga «storia di esclusione dall’amore» già segnata nel Giornale di guerra: Ma io non la presenterò mai [la fidanzata], perché le difficoltà finanziarie e la debolezza della mia volontà mi lasceranno sempre imbarazzato; per fare all’amore con una fidanzata occorrono oltre a pregi fisici ed esterni, come bellezza, eleganza, ecc., occorrono una voglia di vivere e di godere che io non ho,
perché le amarezze e gli sconforti patiti, la visione delle quotidiane difficoltà me l’hanno tolta. La lotta che io ho combattuto nella vita è stata terribile, spossan-
te; è stata atroce per la superiorità del nemico, che scherniva i miei sforzi *.
La sorte celibataria di Gonzalo resta così prefissata: «Non ho avuto amore né niente. L'intelligenza mi vale soltanto per considerare e soffrire [...]. Morirò come un cane, fra dieci, trent'anni; senza famiglia, senza nep-
pure aver goduto nel doloroso cammino di avere a lato mia madre, i miei
Cari>-0),
31 2 #3 3.
Ivi, pp. 270-271. C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., p. 338. C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., p. 532. C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., pp. 234-235.
35. Ivi, p. 317. Cfr.: «Cose che càpitano a che vive solo, opinò il dottore, senza le virili preoccupazioni che ci dà il carico d’una famiglia, in uno con le più alte, con le più pure gioie: ... il focolare: sicuro! Omise l’aggettivo domestico, ma capì lui stesso di alludere a quello...
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I ricordi di scuola, che fanno da sfondo alla severità «Lacedemone»
del «Marchese padre», illuminano anche il retroscena della formazione extradomestica di Gonzalo. Il giudizio di Gadda sui sistemi educativi, scola-
stici e non, appare nel saggio Psicanalisi e letteratura assai critico: Nello sviluppo della psiche verso le forme più adulte, o tali in apparenza, gli istinti crudeli manifesti nella puerizia, si ritraggono per dir così all’interno della personalità; si associano talvolta agli schemi formali del raziocinio, si nascondono, tal altra, dietro causali etiche o pseudoetiche. Il pretesto etico, tradotto subito in pretesto punitivo, non è che un tramite infame a raggiungere la pur bramata sevizie. Per tal modo certi educatori o cosiddetti tali si macchiano del delitto di crudeltà [...]. Educazione è, in questo caso, un turpe vocabolo, e
designa un più turpe atto, o una serie di atti, anzi la recidiva del delitto. Una tale misura di crudeltà e di schematismo fanatico, cioè di puerilità crudele e di demenza, è l’anima di certi tipi che si credono magari investiti d’una missione, non comprendo se celeste o terrena o decumana. Dell’uomo adulto o della donna adulta essi vestono, è pur vero, i pantaloni o la gonna, ma la loro psiche è la
psiche del cinquenne *.
I referenti autobiografici sono tali da rendere le considerazioni di Gadda, appoggiate all’Emile di Rousseau, una disperata autodifesa dalle torture pegagogiche denunciate nella Cognizione a proposito di Gonzalo: Gli educatori [...] avevano perseverato e insistito nell’educarlo adibendolo a
spinterometro ricevitore delle loro scariche sadiche: e il bimbo aveva dovuto chiedere scusa a tutti, arrossire nell’eccesso delle butirro, deportato a Lukones, donde il mezzogiorno si scampana glorioso e rustico nella speranza del banzavòis [...]. Gli educatori lo avevano seviziato, intristito, chiuso a chiave [...]. Era un bimbo un po’ lento nei movimenti, talora, a tre anni, gli scendeva la candela dal naso: lo schernivano perciò e lo detergevano con libidinosa violenza,
come per punirlo, quasi soffocandolo con una taciturna ferocia, inavvertita dal mondo gracidante, pasquale. Egli pativa l’oltraggio, terrorizzato fra i vivi, pensando che con quel gran fazzoletto avessero voluto soffocarlo ?”.
La responsabilità del «dolore» di Gonzalo è presto detta: «la demenza dei tutori aveva straziato il bimbo» *. Né le fantasie persecutorie di Gon-
Quella famiglia appunto che al Signor Gonzalo... non gli era mai venuto in mente di decidersi...» (Cognizione del dolore cit., p. 132).
% C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 43. 7 C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., pp. 532-533. 38. Ivi, p. 194.
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zalo risultano troppo distanti dalla realtà se dobbiamo credere alla dichiarazione Gadda nel saggio Come lavoro: Ho incredibilmente sofferto, indelebili ingiurie ho patito nella vita, da ‘criminali narcisisti” [...]. Ho dovuto costruire la mia personalità [...] nel duro carcere d’un
educatoio borromeiano-tridentino [...]. Caduto preda, ahi!, delle donne educatrici, poca voce di baritono d’attorno la mia puerile indigenza. La mia timidezza di viola mammola le eccitava a salive, dementi bassaride, e alle vivisezioni
crudeli [...]. Il tono crudo e asseverativo dell’epoca, nonché della gente, il naso del Santo, conferirono al pedagogismo delle educatrici la categoricità inespia-
bile d’un elenco tariffario *.
Tuttavia «se l’educazione può in qualche caso incrudelire sulle vittime, non è men vero... che un nuovo assetto della psiche permette a queste di sopportarne i vantaggi. Uno spostamento algolagnico, altre volte uno spostamento crudele, che è il contrario, accoglie i più severi correttivi [...]. Fatta la legge trovato l’inganno. La natura stessa, direi, porge ai miseri il salvagente di un sentimento spostato, quando si spostano in misura abnorme le condizioni alle quali essi devono accettare di vivere... o di morire» “. Le osservazioni contenute in Psicanalisi e letteratura, mentre forniscono una rapida quanto schematica spiegazione del meccanismo di insorgenza della nevrosi di Gonzalo, giustificano anche, come risarcimento e condanna, le manifestazioni di «crudeltà» abnorme del suo comportamento: «Im-
potente rabbia era in lui, nel figlio: dàtole un pretesto, subito si liberava in parole, tumultuando, vane e turpi: in efferate minacce. Come urlo di demente dal fondo di un carcere» “!. Il rancore, continuamente covato e pronto a esplodere nel furore disperato della collera e della «bestemmia» (come nell’episodio della rottura del ritratto del padre o negli eccessi d’ira verso la madre), si manifesta, come
per innata tenace legge di sopravvivenza, in
anarchica liberazione delle pulsioni istintuali e affettive duramente represse nel bambino e in denuncia-riscatto delle violenze subite e stratificate nel laccio mortale del Super-Io. Di quest’infanzia povera d’affetti resta nella psiche devastata di Gonzalo il segno di Edipo, nel quale si può riassumere, sia pure con approssimazione, l’intera vicenda della Cognizione. Del complesso edipico non
# C. E. Gadda, Come lavoro cit., pp. 19-20. 4°C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 44. 4. C.E. Gadda, La cognizione del dolore cit., p. 307.
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mancano in Psicanalisi e letteratura le testimonianze letterarie (Agostino di Moravia, Saba, Proust). Particolarmente significativi, per la valenza au-
tobiografica e autoanalitica di cui si rivestono, risultano i riferimenti a Baudelaire tratti da Gadda dal lavoro critico di uno «studioso italiano», tale
Alessandro Pellegrini: In quel piacere della eleganza femminile è implicita una confessione. Dopo la morte del padre, il bimbo sentì d’averne preso il posto nel cuore materno e di essere, per la madre, il vivente testimone del defunto marito “?.
Non è improbabile che quanto si è verificato per Baudelaire possa essere accaduto anche a Gadda-Gonzalo dopo la precoce scomparsa del padre, registrata nel Giornale di guerra e prigionia come dolorosa e traumatica perdita ‘5. La gabbia condizionante della famiglia «padreterna» soggioga gli affetti al vincolo della colpa-punizione e obbliga le cariche libidiche a una rigorosa circolazione parentale. In «ogni situazione affettiva bloccata su rapporti familiari onnipotenti — scrive Elio Gioanola — [...] chi non riesce a varcare la soglia del ‘nido’, per intrattenere rapporti adulti con il reale, ambiente e persone, inevitabilmente rimane nella necessità di es-
sere assistito, non uscendo dalla forma passivo-ricettiva dell’amore» “. Mancato il padre, Gadda-Gonzalo è indotto dal morso della colpa a sosti-
tuirlo presso la madre, non solo per colmare il vuoto lasciato, ma anche per appropriarsi degli affetti a lui riservati. Ma legata da mutua complicità, la madre non pone fine alla severità del congiunto e perpetua lo stesso frigido moralismo intransigente. Si spiega con questa duplice ambivalenza il rapporto di amore-odio che lega Gonzalo alla «Signora» lungo l’arco dell’intera Cognizione e che, emerso nel «sogno spaventoso» raccontato al medico, si rivela in tutta la sua drammatica conflittualità nell’ultimo violento
colloquio con la madre, funesto presagio del delitto incompiuto:
# C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 49. Il saggio di Alessandro Pellegrini è Baudelaire, Milano, Treves, 1938. 4. Cfr.: «Ricordo che inginocchiato al letto di mio padre morto esclamai nel pianto: ‘Ho appena quindici anni’, intendendo di dire: ‘Solo per questo breve tempo ti sono stato vicino, o babbo”. Questa frase fu invece interpretata, e forse ragionevolmente, nel senso egoistico: ‘O babbo, mi lasci in un’età nella quale il tuo aiuto m’era necessario” [...]» (C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., p. 282).
4
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E. Gioanola, L'uomo dei topazi cit., p. 9.
La parte superiore della testa, la fronte assai alta e le tempie sopra le arcate degli occhi chiusi, parve il volto di chi si raccolga nella ricchezza silente e profonda dell’essere, per non conoscere l’odio: di quelli che tanto si ama! [...] Un disperato dolore occupò l’animo del figliolo: la stanca dolcezza del settembre gli parve irrealtà, imagine fuggente delle cose perdute, impossibili. Avrebbe voluto inginnocchiarsi e dire: ‘perdonami, perdonami! Mamma, sono io!”. Disse: ‘Se ti trovo ancora una volta nel branco dei maiali, scannerò te e loro...’ #.
Il canto del gallo, annunciatore solerte di un’alba tragica, dirada, nel
dolore del rimorso, le tenebre della coscienza. «Di quel tempo primo, quando il bimbo era unicamente caro alla madre, rimase nell’uomo sempre, sino al termine della vita, un ricordo commosso, un rimpianto e una nostalgia
[...]}. E più d’una volta [...] si può riconoscere la traccia lasciata nell’animo
della carezza materna» ‘°. La memoria di Baudelaire è il sogno proibito di Gonzalo e la calda immagine della madre si fissa indelebile anche nel suo animo bambino.
2. Il «monstruoso groviglio della totalità». Nevrosi e «cognizione»
La discesa agli inferi del proprio passato non si risolve per GaddaGonzalo in catarsi. Il matricidio, presagito nel sogno, ma rimasto atto in-
coscio, evidenzia un complesso edipico non risolto e dunque il persistere della nevrosi. Le complesse vicende editoriali relative al finale della Cognizione e destinate ad assolvere il protagonista dalla colpa materiale
4
C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., pp. 436-437. Significative le testimo-
nianze del Giornale di guerra e prigionia: «Povera mamma: in questi dolci vedo il suo cuore, le sue mani che lavorano nelle cure della famiglia per avviarvi a una vita degna e buona; la sua persona mi riappare stanca del lavoro; angustiata dalle preoccupazioni del futuro, quale la vidi nei lunghi anni del nostro crescere [...]» (ivi, p. 95); «La mamma è famosa per spendere male i denari, per lasciarsi vincere nei contratti; è una delle mie rabbie. Tanti sacrifici fa; e tan-
ti assume volontariamente per essere troppo buona coi porci fottuti» (ivi p. 254); «Con la Mamma fui cattivo (e si noti il contrasto tra la maiuscola del nome e la confessione del sentimento ostile) e prevedo che sarò sempre, perché troppe divergenze abbiamo su tutto [...]» (ivi, p. 374); «irritazione contro la Mamma che non vuol saperne di vendere la casa di Longone e di liquidare l’appartamento qui, mentre noi versiamo in tali strettezze» (ivi, p. 373); «La Mamma [...] vuole più bene ai muri di Longone, alle seggiole di Milano, che a Me, che a Clara ammalata» (ivi, p. 375).
4
C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 49.
429
dell’omicidio, anche se non da quella assai più pungente della mente, de-
lineano il quadro di una psiche ancora dissestata e affezionata al proprio dolore al punto di non potersene liberare. Del resto la nevrosi di Gonzalo non costituisce soltanto una malattia autobiografica del tutto privata e personale, ma coincide anche con una più diffusa condizione patologica diagnosticata nella Cognizione come il «‘male oscuro” di cui la storia e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato sconscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato» ‘7; e chiosata da Gadda, con evidenti allusioni montaliane, nella recensione a // male oscuro di Giuseppe Berto, come «il dolore che fa strazio di noi allorché ci sentiamo oggetto di reiterate percosse o ferite, di insistite offese [...] il logorio a cui ci sommette di giorno in giorno, d’ora in ora, la nostra ‘Erlebnis’, l’esperienza del vivere, la pena o la fatica durata, la ‘dura necessità’» #8. Nonostante le analogie formali, rilevate dal Rinaldi, con la «dinamica
di un calvario purificatore», che nella pratica della psicologia analitica corrisponde al processo di assimilazione faticosa e graduale dei contenuti inconsci da parte della coscienza “, la Cognizione, come afferma invece Lu-
perini, «non introduce ad alcun viaggio terapeutico o liberatorio» e «il romanzo non intende registrare alcun progetto evolutivo», in quanto «la guarigione o la normalità è guardata con sospetto anche maggiore della nevrosi» 5°. Né, come vuole lo stesso Dombroski, la patologia basta a spiegare un romanzo i cui significati freudiani mostrano uno specifico impiego nar-
rativo *!. La matrice letteraria del racconto della nevrosi di Gonzalo risulta evidente proprio dal saggio Psicanalisi e letteratura; ma la finalità e i modi della narrazione dell’autore della Cognizione rendono la storia diversa da quella dei modelli. «Scrivere un romanzo — nota Gian Carlo Roscioni — equivale per Gadda ad aprire un’istruttoria, a indagare le ragioni di una co-
47
C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., p. 312.
4. C. E. Gadda, Giuseppe Berto, «Il male oscuro», in «Terzo programma», in Saggi Giornali Favole cit., I, p. 1200).
4 %
1965, 1 (poi
R. Rinaldi, La paralisi e lo spostamento cit., p. 9. Romano Luperini, Crisi del simbolismo e oltrepassamento dei generi nella «Co-
gnizione del dolore», in AA.VV., Gadda progettualità e scrittura, premessa di Giuliano Manacorda, a cura di Marcello Carlino, Aldo Mastropasqua, Fabrizio Muzzioli, Roma Editori Riuniti, 1987, p. 112.
° Roberto Serge Dombroski, La dialettica della follia: per un’interpretazione sociale del dolore gaddiano, in AA.VV., Gadda progettualità e scrittura cit., p. 153.
430
spirazione (di circostanze più che individui), a dipanare una matassa di in-
tricati e interrelati incidenti» °°. La pratica della scrittura non risulta infatti mai disgiunta da una tensione cognitiva che si traduce sulla pagine in in-
saziabile «voracità inquisitoria»5. I casi dolorosi di Gonzalo non ricostruiscono solo la «grama sostanza» di una «misera autobiografia», ma offrono gli indizi di un «giallo» alla rovescia di più vaste proporzioni e di cui il misterioso delitto finale (punto d’inizio per una possibile lettura a rovescio) indica tutta la complessità. L’«opera d’arte» constituisce per Gadda «l’indefettibile strumento per la scoperta e l'enunciazione della verità» °. L'obiettivo della narrazione è rappresentato dalla decifrazione del macchinismo interagente della realtà, in ordine al quale l’esercizio formale si configura non come mero calligrafismo, ma come lavoro irrelato con un sostrato «etico» e «metafisico»:
«Quando scriverò la Poetica — dichiara Gadda - dovrà ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più di un capitolo dell’Etica: e questa deriverà dalla Metafisica». Nell’intreccio narrativo si sviluppa una vera e propria indagine speculativa che «morde ‘in corpore veritatis’ — e cioè lavora sui fatti, sugli atti, sulle cose,
sulle relazioni, sulla esperienza insomma, che vengono vivamente, immediatamente proposti agli occhi e al cervello di tutti: e si aggruma in cognizioni ferme, sistemate in una intelligenza, in una abilità, in una maestria» °°. Arte ed euresi coincidono e il lavoro dello scrittore risulta inseparabile da quello del filosofo. Nella fattispecie «Gadda ‘filosofo’ — come scrive Mario Lunetta — funziona solo in quanto ‘letterato’: e viceversa» e «la sua letteratura è, alla fine, il suo modo di porsi filosofico, la forma inevitabile in
cui il suo pensiero si incarna» °”. Più che «parabola psicoterapeutica» volta al superamento della malattia, l’autobiografia della nevrosi di Gonzalo si presenta perciò come avventura cognitiva in cui il referto clinico, assunto a simbolo e struttura narrativa di una più generale stortura fenomenica, è insieme oggetto e strumento di conoscenza. Del resto, come rileva opportunamente il Manzotti,
52
Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, Torino, Einaudi, 1975, p. 29.
3 5
C. E. Gadda, Intervista al microfono, in I viaggi la morte cit., p. 94. C. E. Gadda, «Amleto» al teatro Valle, ivi, p. 131.
55
C. E. Gadda, Meditazione breve circa il dire il fare, ivi, p. 24.
56. C. E. Gadda, Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, ivi, p. 71. 57 Mario Lunetta, Gadda e il desiderio filosofico, in AA.VV., Gadda progettualità e scrittura cit., p. 82.
431
la «cognizione del dolore», che coincide in ultima analisi con la cognizione della nevrosi, può essere interpretata, secondo la duplice implicazione
grammaticale dell’uso del genitivo soggettivo e oggettivo, sia come «conoscenza gradualmente acquisita, o improvvisamente rivelata, del dolore consustanziale all’uomo» che come «conoscenza del mondo per il tramite del dolore, in una singolare alterità rispetto alla ‘moltitudine morta’» °5. La nevrosi, forma ad un tempo e sentimento del soffrire, funziona da indice di
percezione del reale che si offre all’intelligenza come elemento di chiarificazione e di giudizio. I metodi di interpretazione di tipo psicanalitico, secondo i quali si snoda la storia di una patologia nevrotica, sono assunti da Gadda non per la loro potenzialità catartica e liberatoria, ma nella loro validità letteraria e cognitiva, ovvero per la possibilità che consentono di rappresentare situazioni e comportamenti psichici all’interno di un sistema di riferimento di tipo conoscitivo. Il compito del narratore-analista della Cognizione non è dunque diverso da quello del filoso-metafisico della Meditazione milanese, chiamato a diradare, solo come Gonzalo, le nere ombre della notte; una naturale dimestichezza con le tenebre, anche mortali, ac-
comuna i due coraggiosi esploratori degli abissi della mente e della co-
scienza: Il filosofo, indagatore ed escogitatore, è e deve essere la ragione pacatamente e eroicamente integrantesi: non vanità, non grido cieco di dolore o di fame o di libidine, non piaggeria del pensiero comune e nemmeno preconcetta repulsa di esso, non ornatezza di atteggiamenti, ma quasi concatenazione e flusso di posizioni reali, che interpreta e lega, che vede e ricerca, che constata e costruisce, che accumula e perfeziona. Egli immerso nella buia notte, cava dall’ombra le cose con il getto della potente analisi: ivi sono le porte paurose delli anditi neri, e sono immobili e chiuse. Strane bestie vi dormono nello strame della pigrizia e della sensualità loro e sono li umani. Ma neri cubi d’ombra si sfaldano come blocchi da una rovinosa frana: e appaiono e si creano forme nuove e distinte e concatenazioni infinite nel flusso e nella deformazione infiniti. ‘Obdura’ è il suo motto. Solo nel mondo, ché nessuno degli umani può tollerarlo, la morte sola lo attende. Ma il lavoro suo non è vano; sicché egli darà cuore e senza terro-
re camminerà nei viali funebri dove camminano il silenzio e gli invisibili mali; al di là d’ogni strada, nella bionda sua luce riposa la dolce morte °°.
%
E. Manzotti, introduzione a C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., p. X; cfr. an-
che: «La sua anima-bestia di ibrido, non era che un vuoto crocicchio dove le strade del dolore e della conoscenza si intersecavano [...]» (C. E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 532). °C.
432
E. Gadda, Meditazione milanese, Torino, Einaudi, 1974, p. 296.
Il valore gnoseologico delle dottrine psicoanalitiche adoperate nella Cognizione come diagnosi della nevrosi risulta chiaro dall’intervista concessa da Gadda ad Arbasino. L'incontro con Freud aggiunge all’empirismo eclettico dell’ingegnere-filosofo-scrittore un nuovo strumento cognitivo: Alla psicanalisi mi sono avvicinato e ne ho largamente attinto idee e moventi conoscitivi con una intenzione e una consapevolezza nettamente scientifico-positivista, cioè per estrarre da precise conoscenze dottrinali e sperimentali un sovrappiù moderno della vecchia etica, della vecchia psicologia, e della cultura che potremmo chiamare parruccona e polverosa di certo tardo illuminismo lombardo. Col comprendere la fenomenologia dell’inconscio mi è sembrato di fare un passo avanti nella mia scrittura di apprenti sorcier®.
Per l’«apprendista stregone» («apprenti sorcier») Gadda «la psicanalisi, in verità, può concorrere allo smontaggio di un’idea-sintesi che noi ci formiamo di noi stessi, come un’officina di riparazioni può smontare un’automobile» °'. Nella Meditazione milanese, inoltre, gli «esempi psicologici o addirittura frenologici [...] avviano alla contemplazione del fenomenalismo psicologico (che già è di per sé un cosmo interessante e vastissimo) come
un continuo ed infinito oceano di relazioni in perenne moto
deformatore: e mostrano altresì la relazione oggettiva che questo oceano ha
con tutta la realtà» ©. Il mare magnum della nevrosi disvela dietro l’individuo, un sistema di cause interagenti e costituisce la rappresentazione di quella «deformazione» in atto nella quale consiste, per Gadda, ogni processo cognitivo. Poiché la realtà non è che il mutevole risultato di una variabile articolazione combinatoria, ovvero «un processo di auto-deformazione di infinite relazioni reali, in cui ad ogni attimo si differenzia un essere
o io 0 pausa da un tendere o conglomerarsi o deformarsi» e «permanere e divenire sono in ogni cosa e in ogni istante sebbene certe cose ci sembrino un assoluto permanere o materia [...] e altre un assoluto divenire o atto» °, sussumerla in «cognizione» corrisponde, infatti, a «inserire alcunché nel reale» e quindi a «deformare il reale», ovvero a dissezionarne i dati se-
condo la concatenazione inesauribile di cause che l’hanno prodotta e dunque a «crearla» e «ricrearla» in un sistema reciproco di relazioni *.
6 6!
A. Arbasino, Gadda parla degli autori che l’arricchirono cit. C. E. Gadda, Psicanalisi e letteratura cit., p. 37.
6 C. E. Gadda, Meditazione milanese cit., p. 193. ENTIyLp 231" 6 Ivi, pp. 129-130.
433
L’elemento patologico nevrotico, sovvertendo i parametri etici e gnoseologici della consueta «normalità», apre il «pacco postale chiuso e inceralaccato» della realtà, scoprendo nell’uno la presenza spesso contraddittoria e inafferrabile della molteplicità. La condizione nevrotica, come percezione di un rapporto alterato con l’«altro» da sé, traduce in situazione narrativa (e per ciò stesso cognitiva) la complessità fenomenica del reale, sostituendo alla sincronia finalistica dell’essere (il monolite del ‘così è’) la
diacronia imprevedibile del divenire (ontologia galattica di rifrazioni cosmiche) e scoprendo nella vita il continuo sdoppiarsi di motivi dentro i motivi e nella biografia dell’individuo una fitta trama di rapporti collettivi disgreganti che costringono l’«Idolo-io», l’«immagine-feticcio»-persona, ad
abbassare la «coglionissima capa» *. La storia dell’educazione repressiva di Gonzalo e dei rapporti condizionanti con la famiglia onnipotente, vittima a sua volta, ma inconsapevole, della ferrea Legge dello status borghese, è la riprova del gioco di azioni e reazioni che intercorrono fra il singolo e la realtà sociale e da cui dipende l’insorgere della nevrosi. La tirata furibonda contro i pronomi personali, i «pidocchi del pensiero», e in particolare contro «il più lurido di
tutti», quello di prima persona, corrisponde a un’acquisizione già consolidata nella Meditazione milanese e trasformata nella Cognizione in situazione narrativa: i [...] l’individuo umano p.e. Carlo, già limitatamente alla sua persona, non è un
effetto ma un insieme di effetti ed è stolto il pensarlo come unità: esso è un insieme di relazioni non perennemente unite [...]. Il suo apparire nel mondo ha dato luogo a rapporti sociali, economici, psicologici, ecc.: le galline della fattoria ‘si sono accorte di lui’ starnazzando spaventate ai suoi primi strilli, il testamento d’uno zio è stato mutato a suo favore, la levatrice, il prete, la balia, il medico, il sindaco hanno dovuto scomodarsi per lui, accorgersi della sua presenza. Poi volle mangiare, bere, giocare, lavorare. Sono intervenuti nel mondo, dal fatto Carlo, milioni di miliardi di nuovi rapporti. La realtà totale ha in lui un nucleo deformante e introducente in essa un’infinità di rapporti .
Prima che malattia, la disgregazione dell’io è condizione dell’essere che la patologia, deformandola, fa risaltare. Il dato personale, rilevabile anche nella Meditazione, non si esaurisce in referto clinico, ma come risul-
6 %
434
C. E. Gadda, Come lavoro cit., p. 10. C.E. Gadda, Meditazione milanese cit., pp. 78-79.
tante della poliedricità dinamica e plurisignificante del reale contribuisce alla elaborazione di una più vasta epistemologia implicita nella stessa scrittura narrativa. Proprio per la molteplicità di interrelazioni di cui l’individuo è punto dialettico di convergenza, la condizione psicologica del soggetto, scriptor o speculator, costituisce il riferimento conoscitivo iniziale da cui dipende la presa di coscienza del generale sistema delle cose. Il metodo cognitivo, delineato nella Meditazione milanese ed estensibile anche in ambito letterario, procede, infatti, attraverso due momenti: [...] primo: la nostra analisi ha inizio da un dato psicologico-storico (cioè personale-ambientale) che possiede un suo flusso, una sua velocità: che è labile,
mobile. In quanto labile noi lo intuiamo per prima approssimazione come sistema in sé, cioè come qualcosa di non semplice. In quanto mobile noi lo intuiamo per prima approssimazione come appartenente ancora a un sistema dinamico esterno [...].
Secondo: a mano a mano che il processo conoscitivo si attua, vengono deformandosi sia il dato psicologico-storico, sia il supposto sistema esterno (e intendo ciò non per una mutazione storica, cioè perché nel frattempo esso può acquistare da sé, esternamente a noi, come di fatto acquista nuove e diverse relazioni, ma perché anche se colto e misurato nella sua immobilità momentanea, nell’essere suo di un attimo, noi vi scorgiamo nuovi significati cioè nuove relazioni anche attuali)”.
Lungo questo itinerario di conoscenza corre anche il percorso narrativo autoanalitico della Cognizione, tracciato indirettamente da Gadda nel progetto di scrittura del saggio Come lavoro, nel quale è facile scorgere l’ombra della storia ingarbugliata di Gonzalo, taciuta, ma già presente alla coscienza dell’«individuo umano», e autobiografico, «Carlo» della Medi-
tazione: Ognun di noi mi appare essere un groppo, 0 nodo, o groviglio, di rapporti fisici e metafisici: (la distinzione ha valore d’espediente). Ogni rapporto è sospeso, è tenuto in equilibrio nel ‘campo’ che gli è proprio: da una tensione polare. La quale, è chiaro, può variare d’intensità nel tempo, e talora di segno [...]. Accade che tanto l’operazione conoscitiva, cioè lo stabilirsi del suddetto rapporto, quanto gli impulsi (espressivi) che ne vengano liberati alla pagina, siano perturbati dal sistema storico (e gnoseologico) ambiente, da accadimenti del tutto esterni al processo analitico-sintetico che costruisce il testo, che intesse il tes-
ATIVINPIOI:
435
suto del testo. In parole povere: i fatti registrabili da una biografia esterna e, in modo più lato, da una storiografia dell’‘ambiente’, sovvertono in misura or-
renda, fino qualche volta ad annientarle, nobili costellazioni d’agganciamenti interni, dovuti all’operosità nativa dello spirito. Fatti fisici, urti e strappi, lacerazioni del sentire, violenze e pressioni dal ‘di fuori’, ingiurie e sturbi dal caso, dagli ‘altri’, coartazioni del costume, inibizioni ragionevoli e irragionevoli, este-
tiche ed etiche, dal mondo non nostro, eppure divenute nostre come per contagio, voi vedete, pesano siffattamente sull’animo, sull’intelletto, che uscire in-
denni dal sabba non ci è dato 8.
A dispetto della sua superbia e presunzione, il «pupazzo»-io è al centro di una duplice corrente biunivoca («polare») che dall’interno conduce verso l’esterno e viceversa in un accrescimento genetico condizionante in cui intervengono fattori perturbanti non previsti dalla scatola chiusa di un finalismo predeterminante. Fra invenzione narrativa e autobiografia, lucidità razionale e deformazione
frenetica, la patologia nevrotica della Co-
gnizione è specchio del «caos» naturale dell’essere e «coscienza» sofferta delle sue alterazioni, secondo un doppio sguardo che unisce memoria personale e storia collettiva in un sintetico quadro critico e cognitivo. Il «delirio interpretativo» e la condizione di «dissociato noetico» di Gonzalo, ribaltando le comuni categorie di «normalità» e «anormalità», si
rivela così lingua del «vero» e il «dolore» patito suffraga la tenebrosa luce della mente come tragico sigillum veritatis. La consapevolezza acquisita della costitutiva poliedricità del reale, ma anche del dinamismo alterato delle convenzioni borghesi, generatore di ben più intricati labirinti, produce un continuo trapasso narrativo dal «groviglio» psichico a quello della realtà sociale e il disordine mentale si fa insieme mimesi e coscienza critica del mondo reale e fenomenico degli uomini. Dietro il segno autobiografico, che «riverbera per altro le tragiche, livide luci o le insorgenze tenebrose d’anni precedenti e lontani; di fatti, di mutazioni che sono e saranno forse di sempre, interni ed esterni ai cuori, alle menti mortali», 1’ Autore, come si
premunisce di informarci Gadda nella sua introduzione-commento, compie una «sceverazione degli accadimenti del mondo e della società in parvenze o simboli spettacolari, muffe della storia biologica e della relativa componente estetica» che «muovono per lo più il referto a una programmatica derisione, che in certe pagine raggiunge tonalità parossistica e aspetto deforme», dando origine «alla polemica, alla beffa, al grottesco, al baroc-
8
436
C.E. Gadda, Come lavoro cit., p. 11.
co» °°. Ma prima che nella scrittura, «il barocco e il grottesco», equivalente formale e linguaggio della nevrosi, «albergano già nelle cose, nelle sin-
gole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata ‘comunemente’ dai pochi o dai molti [...]
non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva [...] ma le-
gati alla natura e alla storia» ”. Il male di Gonzalo è solo un episodio di una ignota nevrosi universale, mostruoso coacervo di costumi sociali e di riti borghesi, della quale egli possiede il raro «doloroso» privilegio della «cognizione». «Non si tratta perciò — come avverte sempre l’«Autore» — di leggere negli strati, nei noccioli grotteschi dell’impasto [...] una deliberata elettività ghiandolare-umorale di chi scrive (des Verfasser) ma di leggervi una lettura consapevole (da parte sua) della scemenza del mondo o della bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» /!. Per questo nell’«ira» di Gonzalo, «esplosa e per così dire rampollata dalla stessa fonte del raziocinio», «vige ed
opera una continua critica della dissocialità altrui»? e la sua furiosa requisitoria supera i confini biografici e familiari per radunare, in un medesimo atto d’accusa, «il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Mara-
dagàl) e il Prado, e Lukones, ed Iglesia; e i rispettivi campanili, con le campane, i sindaci, i parroci, i cocchieri e via via tutto il Serruchòn maledetto e
testa di cavolo» *, simboli brianzoli e sudamericani delle istituzioni e dei valori della società borghese tutelata dal Regime. Per tale sindrome non ci sono che «due farmachi restauratori» che hanno un nome solo nella «farmacologia [...] della verità»: «silenzio» e «solitudine» *. Contro le bugiarde regole della «normalità», la patologia coincide con la «cognizione» ultima e la trasparenza del «vero». Per questo, come un altro grande nevrotico, Zeno Cosini, Gonzalo non può che andarsene, solo, con il fagotto dei
propri «dolori», verso un «mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra» 7°, «cosciente» e «geloso» della propria lucida «diversità».
6
C. E. Gadda, La cognizione del dolore cit., p. 480.
70 Ibidem. "hi, pp. 484-485.
? Ivi, p. 491. (NI vIApal 82: 74. Ivi, p. 491.
75 Ivi, p. 438.
437
3. Il romanzo «psicopatico»: un’ipotesi narrativa
La storia drammatica di Grifonetto Lampugnani, la «tragedia di una persona forte che si perverte per l’inefficienza dell’ambiente sociale», del Racconto italiano di un ignoto del Novecento 76, avrebbe dovuto riuscire,
nell’intenzione dell’autore, un «romanzo psicopatico e caraveggesco» 7. Il progetto rimasto allora incompiuto sembra invece portato a termine nel romanzo «nevrotico» di Gonzalo Pirobutirro d’Eltino. L’analogia non è solo vagamente tematica, né costituisce una variatio lessicale per alludere alla
tensione emotiva implicita nelle due vicende narrate. Al contrario la forma della nevrosi realizza nella Cognizione un paradigma narrativo tale da rendere il «romanzo psicopatico» (aliter «nevrotico») un modello di scrittura assoluto e riproducibile. Ad un’analisi comparativa i due romanzi risultano le tappe di un’unica operazione letteraria, le cui coordinate di riferimento emergono a posteriori dalle opinioni di Gadda sulla «poetica» — «granulare» — del «neorealismo», dalla quale «risulta al racconto quel tono asseverativo che non ammette replica, e che sbandice a priori le meravigliose ambiguità di ogni umana cognizione», quando un «lettore di Kant non può credere in una realtà obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto; ma della realtà, o piuttosto del fenomeno, ha il senso come di una parvenza caleidoscopica dietro cui si nasconde un ‘quid’ più vero, più sottilmente operante, come dietro il quadrante dell’orologio si nasconde il suo segreto macchinismo» #. Nella complessità architettonica del reale, ben più aggrovigliata di quanto non appaia dalla causalità semplificata degli scrittori neorealisti, «cose», «oggetti», «eventi», non valgono per l’allievo del «criticismo» Gadda in sé, «chiusi
nell’involucro della loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini», ma «valgono in una aspettazione, in una attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti» ??. Per essere dunque significativa della molteplicità fenomenica del reale, occorre che la scrittura «neorealistica», o più semplicemente ogni tipo di scrittura che voglia cogliere l’essenza profonda dei fatti, senza accontentarsi di infilarli uno dopo l’altro come grani di rosario, si integri di una «dimensione noumeni-
7% C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento, Torino, Einaudi, 1983, p. 15. 77 Ivi, p. 31. 78 C. E. Gadda, Un’opinione sul neorealismo, in I viaggi la morte cit., pp. 211-212. MIviSpaZiil
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Ca», e per ciò stesso metalinguistica, perseguibile attraverso la scelta di una forma narrativa che sia insieme rappresentazione e giudizio, mimesi e deformazione, distruzione e ricreazione. Le critiche di Gadda al neorealismo non riguardano infatti solamente un’esperimento etichettabile di prosa contemporanea, ma coinvolgono l’intera eredità del romanzo ottocentesco concepito come scatola chiusa, sistema univocamente significante in cui i punti di vista convergono nell’unità di una sinossi ordinatrice che dispone i dati (o le parole) come funzione logico-matematica della «verità». L'obiettivo polemico resta in primo luogo l’«ipotiposi bambolesca (dello scrittore-palo)» nella duplice veste dell’«immagine tradizionale e ab aeterno romantica dello scrittorecreatore, dell’ingegnoso demiurgo che cava da sé liberamente la libera splendidezza dell’opera», e dello scrittore-vate, che «chiuderebbe
in sé,
comparativamente al comune uomo, il cosidetto normale, un soprappiù
d’energia critica e di chiaroveggente ragione» *°. Il moderno scrittore non è più, invece, né genio né profeta, ma piuttosto si identifica con la condizione di «dissociato noetico», narratore e protagonista di una storia universale di nevrosi, destinata a sostituire, con una tragica autobiografia del dolo-
re, la «retorica dei buoni sentimenti»: Contrasta alla mia debilità di bimbo, l’adulta vostra legge: che lo scrittore, di sé medesimo, abbia a cavare l’eroe: nonché il confessore in graticola della propria verità [...]. L’io rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza e nella fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un tempo stolido e inerte a versar luce nella tenebra come riflettore nelle paure della notte, è idolo tarmato per me. Codesto bambottolo della credulità tolemaica, in ogni modo non ha nulla di comune con la mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di ‘dissociato noetico’. D’intorno a me, d’intorno a noi, il mareggiare degli eventi mortiferi, il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si abo-
lisce, un lento impossibile. L’oceano della stupidità 5'.
A tale «dissociazione», che colpisce in primis la persona dell’autore, non può che corrispondere una forma narrativa aperta e schizzoide, ricalcata sul modello patologico «nevrotico», in cui l’euresi prende il posto dell’enunciazione apodittica e l’impianto della narrazione diventa struttura cognitiva. Ne risulta una scrittura diacronica che tende dall’uno al mol-
8
C. E. Gadda, Come lavoro cit., p. 9.
8! Ivi, p. 13.
439
teplice nel tentativo di scomporre le immagini fisse del mondo e di decifrare, con soluzioni soltanto provvisorie o più spesso con agnizioni, la dialettica di continua alterità che le determina e il cui processo di significazione consiste nel disvelamento-investigazione delle cause piuttosto che nella rivelazione-sintesi. È questa l’ipotesi narrativa che la centralità tematica e strutturale della nevrosi nella dolorosa autobiografia di Gonzalo consente di attuare nella Cognizione, superando quelle difficoltà progettuali che avevano lasciato a metà il Racconto italiano. I Cahiers d’études registrano nel lavoro preparatorio dello scrittore due ordini di problemi relativi rispettivamente allo sviluppo dell’intreccio narrativo e alla scelta del punto di vista della narrazione. Il romanzo da fare richiede al suo autore: a ) che l’intreccio non sia di casi stiracchiati, ma risponda all’‘istituto delle combinazioni’, cioé al profondo e oscuro dissociarsi della realtà in elementi che ta-
lora (etica) perdono il nesso unitario [...].
b) bisogna ponderare altresì se il romanzo deve essere condotto ‘ab interiore’ o ‘ab exteriore’. Nel primo caso vi è un lirismo della rappresentazione attraverso i personaggi. Nel secondo caso vi può essere un lirismo attraverso l’‘autore’ 8°.
La disposizione dell’intreccio investe dunque la questione della struttura della narrazione e della sua funzione euristico-cognitiva. Ora proprio il filo autoanalitico della nevrosi funge da strumento di progressione e di scandaglio nella selva oscura ed intricata dei significanti e dei significati. La «coscienza» della nevrosi distingue sotto il mondo dell’apparenza e della normalità una costellazione insospettata di relazioni che fanno dell’individuo e dell’intera realtà una totalità in progress sottoposta al gioco della possibilità. Sub specie nevrosis i fenomeni appaiono nella catena di cause che li hanno determinati e la patologia segnala l’alterità, lo scacco etico e cognitivo intervenuto nella rete dei rapporti, che fa sorgere, di fronte alla certezza incrollabile dell’obiettività, il dubbio che le cose possano andare anche diversamente. La nevrosi viene perciò a costituire nell’architettura del romanzo l’equivalente strutturale dell’«uso spastico della lingua», teorizzato nel saggio Come lavoro quale strumento di una «dissoluzione-rinnovazione del
valore» 5. Come la lingua «spastica», deformando la norma, estende il potere significante della parola, così il racconto della nevrosi («nevrotico») di-
*. C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento cit., p. 18. # C. E. Gadda, Come lavoro cit., p. 18.
440
scopre negli abissi della quieta contingenza le trame insondate della causalità e ne assicura la riproducibilità narrativa secondo prospettive e significazioni nuove. Come la lingua, anche la «nevrosi» risulta dunque plurisignificante, ovvero partecipe della sua stessa funzione cognitiva e della sua forma privilegiata di fissazione noetica (euristica) che è la letteratura. «Il mondo — infatti — bisogna pur guardarlo per poterlo rappresentare» % e la nevrosi costituisce insieme il punto d’osservazione e lo sguardo ultimo che si offre alla pagina come strumento e materiale di significazione linguistico-cognitiva secondo un procedimento in cui la narrazione non vale più come sistema univoco di rappresentazione, ma come luogo critico di teoresi. L’intreccio, pensato nel Racconto italiano come rispondente alle «combinazioni» della vita, diventa, perciò, nella storia di nevrosi della Co-
gnizione, naturaliter specchio della dissociazione della realtà e le vicende di Gonzalo si dispongono in una sconnessa trama euristica in cui, nella continua alternanza fra passato e presente, fra tempo della memoria e tempo della narrazione, ogni particolare è al centro di un «groviglio» di infinite relazioni, per inseguire le quali il discorso si amplia fino ad assumere proporzioni anch’esse infinite. Come in un caleidoscopio di riflessi, il collage dei ricordi funge da inchiesta sui moventi di un misterioso delitto (l’uccisione della madre) e il matricidio supera insieme i confini biografici e patologici per farsi emblema universale di morte, mentre la «coscienza» lucida della nevrosi è al contempo caustico giudizio che trapassa dal piano personale a quello sociale e storico. Quanto al «punto di vista» della narrazione, la scelta era complicata, nel Racconto italiano di un ignoto del Novecento, dall’assunto-base del romanzo, il conflitto fra «normalità» e «anormalità» (formulazione dialettica
dell’eterno problema del «male» riproposto nella Cognizione), analizzato secondo una scansione triadica — «Abnorme»-«Norma»-«Comprensione» — conforme alla tesi inequivocabile che «Anche i fatti normali e terribili rientrano nella legge se pure apparentemente son ex lege» *. La disposizione della materia era così prospettata: Pensavo [...] di dividere il poema [il romanzo) in tre parti, di cui la prima La Norma, (o il normale ) — seconda l’ Abnorme [...] terza La Comprensione o Lo
sguardo sopra la vita (o lo sguardo sopra l’essere) [...]..Nella prima parte si po-
84
C. E. Gadda, Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche cit., p. 75.
8
C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento cit., p. 36.
441
trebbe radunare la germinazione, la primavera, il sentimento, l’apparenza buona della vita, con latente preparazione del male che già avvelena e guasta quel bene. Nella seconda parte il leit-motif dell’abnorme e delle mostruosa e grottesca combinazione della vita — nella terza parte la stanchezza catastrofe e la comprensione (azione e autocoscienza come in Amleto) soi
Il canovaccio del «romanzo psicopatico» contiene l’abbozzo strutturale anche di quello «nevrotico» della Cognizione. Sul filo della patologia, le vicende di Gonzalo ripropongono, in continuo scambio alternante, il rapporto fra «norma» e «anormalità» e nella sua lucida «coscienza» di malato, cui corrisponde una precisa ripartizione della narrazione, si riassume la stessa tensione dialettica del Racconto di Grifonetto Lampugnani. Seguendo il percorso tortuoso della mente del protagonista, anche il romanzo rischia la sua psicosi, spingendosi sul baratro della «follia» (dissoluzione) narrativa; ma nella sua consapevolezza acquisita, superamento-rovesciamento del confine fra «norma»
e «abnorme»,
la stessa struttura del rac-
conto diventa forma nitida dell’intelligenza. Fra «gioco ab interiore» e «ab exteriore», l’opzione autobiografica e auto-analitica conduce nella Cognizione ad una terza via, identificabile pur
sempre quale variante della rappresentazione esteriore e definita nel Cahier d’études come «gioco indiretto d’autore» consistente in questo procedimento narrativo: «prima di commentare il personaggio secondo un suo proprio lirismo, egli autore inserisce sé nell’ universale umano» *. La «tragica autobiografia» di Gonzalo risulta perciò vicenda sovrapersonale agita secondo tre diversi livelli narrativi: l’Autore, osservatore straniato e giudice
super partes; il Narratore, voce dialogante e ordinatore della vicenda in terza persona; i personaggi (Gonzalo, la madre, gli altri), referenti autobiografici e fantasmi di un dramma della memoria. Si determina un'ottica a rifrazione multipla secondo la quale la «malattia» di Gonzalo è scrutata contemporaneamente da diverse angolature prospettiche attraverso le quali si attua la stessa «tensione polare normale-abnorme» prevista nel Racconto. Così, mentre la «cognizione» del proprio «dolore» (o della propria «nevrosi») è per Gadda-Gonzalo «coscienza» irrinunciabile del «vero» e dunque privilegio di un’autentica, anche se tragica, «normalità», i cui atteggiamenti abnormi ricordano solo il caro prezzo della sua conquista, e rispetto alla quale sono i «normali» (borghesi arricchiti sacrificati all’appa-
86 Jbidem. 8 Ivi, p. 24. 442
renza, fantocci ovattati e protetti contro il morso lancinante della sofferenza, uomini e donne illusi di possedere la vita) a essere in difetto; per gli altri — il dottore, la madre, i servi — la patologia alterata dell’«hidalgo» è indice di una terribile anomalia variamente interpretabile: conseguenza di un mancato matrimonio per il medico, diabolica e bestiale perversione per la Battistina, indecifrabile e misteriosa condizione per la «Signora» incapace di scorgere nel passato «normale» del figlio i prodromi del suo malessere. E mentre le voci si confrontano in un discorde concerto, polifonia stridente e atonale che condanna alla solitudine e alla incomunicabilità, e 1’ Autore, nel suo dialogo introduttivo con l’Editore, estende il valore significan-
te della nevrosi, propria e di Gonzalo, alla realtà sociale e politica e, distanziandola da sé, le conferisce validità rappresentativa universale, al Nar-
ratore spetta il compito della «Comprensione» (funzione formale della «coscienza»), ovvero non l’enunciazione sintetica della verità, ma semplice-
mente la ricerca e il raffronto delle cause, chiamate a convergere in un’ultima epochè che può solo sancire, nel dissociarsi perenne della realtà, la compresenza degli opposti, la «norma» e l’«abnorme», la malattia e la salute, la vita e la morte, il male e il bene, senza alcuna finalistica giustificazione. La nevrosi di Gonzalo è compresa, ma non risolta; l’assassino della madre, figura lugubre e premonitrice del Cavaliere delle Tenebre, è sospettato, ma non scoperto; e persino il ladro di gioielli del Pasticciaccio rimarrà un mistero. Morti i vati e i demiurghi, allo scrittore non resta che farsi registratore di «coscienze» e indagatore di una realtà alterata — «nevrotica» — in cui l’«abnorme» contraddice la «norma» e di cui è dato solo conoscere la causalità secondo una trama di sdoppiamenti e deformazioni nella quale la «nevrosi» funge da strumento letterario e cognitivo di significazione, configurandosi come collaudata progettualità narrativa. La «psicosi», prefigurata nei Cahiers, è struttura di racconto e il romanzo «psicopatico» («nevrotico»), forma della sua «cognizione», riproduce nella scrittura la «coscienza» di una realtà «malata» di cui si può diagnosticare, ma non guarire, la sindrome.
443
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ISABELLE GRELLET - CAROLINE KRUSE
LE LONG ENDORMISSEMENT D’UNE JEUNE FILLE RANGÉE
Dans toutes les familles il y a du déchet: c’est moi le déchet. Zaza (citée par Simone de Beauvoir)
Un matin de 1918, une nouvelle élève fait son entrée au Cours Désir,
un institut catholique de la rive gauche à Paris. Vive, agile, désinvolte, Zaza fait la roue dans la cour de récréation, tutoie ses amies, singe ses professeurs et joue avec n’importe qui aux Tuileries. Son aisance, sa grâce garçonnière, ses «manières très libres et même un peu effrontées» ! séduisent immédiatement et définitivement une de ses camarades de classe plus guindée, Simone de Beauvoir. Qui est cette nouvelle élève dont Simone ne peut désormais plus se passer? Elisabeth Lacoin, née en 1907, est la troisième
d’une famille de dix enfants. Ses parents, grands bourgeois originaires du Sud-Ouest — ils sont d’ailleurs cousins germains — appartiennent à une dynastie de catholiques militants. Son père, ingénieur dans les chemins de fer, occupe une situation importante qui entraîne sa famille dans un certain nombre d'obligation mondaines. La vie de Zaza se partage entre le 7 È!"° arrondissement à Paris, le Cours Désir, la Sorbonne puis Sainte-Marie, insti-
tut d’enseignement supérieur fondé par Madame Danielou, et de longues vacances familiales dans le Sud-Quest. Nous connaissons Zaza par le portrait passionné que Simone de Beauvoir a fait d’elle dans les Mémoires d'une jeune fille rangée et par sa correspondance et ses carnets intimes de
1914 à sa mort en 1929°. Elle a beau passer allégrement d’une version grecque à une partie de tennis, au déchiffrage d’un morceau de piano ou à la confection minutieu-
se de fruits déguisés, Zaza, du moins aux yeux de Simone de Beauvoir que
! Simone de Beauvoir, Mémoires d'une jeune fille rangée, Paris, Gallimard, ? Zaza. Correspondance
et carnets
d' Elisabeth Lacoin
(1914-1929),
1958.
Paris, Seuil,
1991. On trouvera d’autres informations sur la vie de Zaza dans des biographies de Simone de Beauvoir. Cfr. Francoise Eaubonne, Une femme nommée Castor, Paris, Encre, 1986 et Claude Francis et Fernande Gonthier, Simone de Beauvoir Paris, Perrin, 1985.
445
la géne financière de sa famille et la timidité de sa mère rendent alors plus conformiste, ne semble pas une jeune fille très «rangée». Libre de ton et d’allure, elle circule très jeune dans les rues sans chaperon puis plus tard voyage seule à l’étranger, elle plaisante sur la religion, les congrégation de puce qui envahissent les chapelles du carmel ou les courses d’archevéques guettant les miracles à Lourdes, elle parle d’égale à égale avec ses professeurs du Cours Désir qu’elle provoque avec ses passions incongrues et son pessimisme subversif. Elle se permet même, à la fin d’une audition de piano, où, sans tenir compte de conseils prudents, elle a exécuté brillamment un morceau difficile, de tirer la langue à sa mère qui semble ravie de cette incartade. Simone de Beauvoir ne découvre pas tout de suite quelle fêlure masque cette grâce enjouée, «ce qu’il y avait de déchiré et de grinçant dans ce qu’on appelait au Cours Désir ses paradoxes» *. Cette tolérance apparente, cette éducation plus fantaisiste que celle que l’on donnait alors dans les familles bourgeoises, cache de redoutables contraintes et Zaza peu à peu va se laisser prendre au piège. Le piège c’est d’abord la figure ambivalente de sa mère qui, tout en tolérant chez Zaza de délicieuses insolences, n’hésitera pas avec son «aisance de souveraine» “ à lui imposer les plus graves renonciations: «Elle allait son chemin avec l’assurance de ces grandes dames qui s’autorisent de leur science de l’étiquette pour l’enfreindre à l’occasion»*. Zaza est enchaînée par l’amour qui la lie a sa mère. Elle l’aime avec emportement. Madame Lacoin, de son côté, comme
le note Simone de Beauvoir, ne fait
pas mystère de sa prédilection pour Zaza: «C’est tout mon portrait», [dit-elle] d’une voix heureuse».
Un amour fusionnel sur fond d’exclusion du
tiers — cet homme pour qui, toujours selon Simone de Beauvoir, sa femme n’éprouve que répulsion physique et sa fille répugnance —, mais un amour toujours jaloux, toujours en demande, presque toujours déçu: «Entre Maman et moi, écrit Zaza, il y avait toujours Zon [sa soeur] qui empêchait toute intimité et m’éloignait d’elle» ?. La force de cet amour et le poids qu’il a dû peser dans l’étouffement, l’étiolement progressif de la jeune fille, c’est à l’occasion de la première
? S. de Beauvoir, Mémoires d’une
jeune fille rangée cit., p. 163.
4 Ivi, p. 126. 5 Ivi, p. 159. 6 Ivi, p. 160. 7 Zaza. Correspondance et carnets cit., p. 84 (19 juillet 1927).
446
vraie séparation d’avec sa mère que Zaza les mesure, elle parle alors de «déchirement» et quand il est question que sa mère vienne lui rendre visite à Berlin, elle note sur son journal: «Je voudrais que Maman soit là déjà [...]. Tout à coup, je pourrais me débarrasser des cent kilos qui m’étouffent, qui m’écrasent le coeur, je pourrais ne rien dire du tout, mais seulement m’asseoir sur les genoux de Maman et pleurer en cachant ma figure pendant qu’elle dirait “mon joujou, mon joujou chéri”. Que c’est dur, les soirées quand on est seul [...]. On sent que tout le monde sur terre vous a abandonné, c’est déjà la mort» *. Puis, lorsque sa mère est repartie, c’est en termes quasiment incestueux qu’elle évoque le bonheur dont cette visite l’a emplie: «La chambre est encore pleine de l’odeur de Maman, des petites choses qu’elle a laissées: je ne touche à rien, il me semble qu’elle n’est pas tout à fait partie; je jouis encore d'elle» °. «Le séjour de Maman a passé comme un rêve tellement beau que je puis à peine y croire; nous étions dans la même chambre, nous ne nous quittions pas d’une minute, nous bavardions le soir dans nos lits [...], enfin nous avons vécu pendant six jours
comme un tout jeune ménage en voyage de noces, émerveillé de la nouveauté du tête-à-tête et du bonheur d’être l’un avec l’autre...» !° Cette mère imposante, avec qui il semble si difficile de prendre ses distances, ne semble d’abord dicter à sa fille que des contraintes légères, ce sont les multiples obligations de la jeune fille bourgeoise !!, ce devoir de dispersion auquel Roland Barthes eût tant voulu se plier !?. Zaza doit donc passer du scoutisme à la philologie, du catéchisme au piano, du violon au tennis, du pique-nique au cours de grec. Le rythme s’accélère tandis qu’elle avance dans sa licence. Les obligation mondaines suivent l’horaire d’une vie monacale, sans en avoir, pour elle, la saveur. Les courses effrénées
dans les grands magasins à la recherche d’échantillons, les essayages de tailleurs et les tartinages de canapés lui imposent «un rythme essoufflant» l? qui ne lui laisse le temps ni de respirer, ni de penser: «Il y a bientôt un mois que je ne pense pas et que je me garde de toute occupation intelligente
8 Ivi, p. 187 (14 décembre 1928).
° Ivi, p. 199 (3 janvier 1929). !0 Jvi, p. 202 (lettre à Geneviève de Neuville, 7 janvier 1929). 1 Sur l’éducation des jeunes filles bourgeoises, cfr. Anne Martin-Fugier, La bourgeoise, Paris, Grasset, 1983.
12 Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, Paris, Seuil, 1975. 13 Zaza. Correspondance et carnets cit., p. 100 (lettre à Geneviève de Neuville, 20 septembre 1927).
447
comme d’un mal dangereux» l*. Même si on ne porte pas sur ces activités amusantes ou charitables le regard sévère de Simone de Beauvoir, on ne peut être insensible au désarroi dans lequel elles plongent Zaza. Elles ne laissent en elle qu’une impression de désespérante vacuité: «Mais il y a les grands magasins, les courses interminables et les visites ennuyeuses; et certains jours je suis effrayée de la facilité avec laquelle des journées entières se perdent ici sans qu’on ait eu une minute l’impression de vivre» ou encore: «Réception ce soir. Cela suffit à occuper la journée de toute une maison. Il faut bien encombrer sa vie de quelque chose pour avoir l’impression
qu’elle est pleine» ‘. Mais c’est surtout un style que ces obligations sociales et mondaines lui imposent, une esthétique du décousu ou du «macaroni» qu’on retrouve dans l'écriture même de ses lettres. Elle le souligne elle-même sur un ton enjoué: «Je n’en suis pas, hélas! à savoir en deux lignes exprimer clairement une pensée et je t’envoie un assemblage de phrases un peu macaroniques» '°. Incapable de «tailler sur son temps» !” de quoi écrire une vrai lettre elle avoue souvent, surtout dans sa correspondance à Simone, sa difficulté à poursuivre
une idée ou à finir ses phrases. Mais cette impuissance ne trahit-elle pas sa répugnance pour les développements philosophiques, son goût pour une syntaxe souple et légère qui épouserait le rythme de la conversation? Condamnée à «s’amuser pour tout oublier» '*, Zaza traverse ses études
comme un coctail: un cours de grec «très intéressant» fait par «une jeune agrégée charmante» !9, «deux heures délicieuses à la bibliothèque Sainte Geneviève» 2°: relisant Ronsard et Marguerite de Navarre, elle se «promène à travers la Renaissance de France en Italie et d’Italie en Espagne»?!. Elle poursuit sa promenade à la Nationale où elle retrouve quelques amies. Bref, comme elle l’écrit à sa grand-mère, la «vie d’étudiante est charmante»?!. Cette dispersion obligée, cet étourdissement continuel, qu’ont-ils de
tragique? pourquoi laissent-ils à Zaza ce goût de mort dans la bouche? Que lui impose-t-on sinon des changements de rythme”?
!4
Ivi, p. 120 (lettre a Simone de Beauvoir, 30 juillet 1928).
Ivi, p. 295 (Journal, 4 juillet 1929).
!© Jvi, p. 295 (Journal, 4 juillet 1929). Ivi, p. 106 (lettre à Geneviève de Neuville, 16 octobre 1927).
!8
Ivi, Ivi, 20. Ivi, 2! Ivi,
448
p. p. p. p.
107 (lettre à Anmé, 21 octobre 1927). 97 (lettre a Simone de Beauvoir, 3 septembre 1927). 64 (lettre à Anmé, 11 octobre 1925). 65 (lettre à Anmé, 21 novembre 1925).
Mais, au fil des années, de déchirures discrètes en menus
arrache-
ments, Zaza, qui a connu, enfant, la liberté d’aller et venir et d’adresser la
parole à qui elle voulait, va se laisser prendre au piège et perdre toute autonomie. À vingt ans elle n’a même plus la permission d’organiser une partie de tennis avec des amis de son choix: Maman à été absolument révoltée par une proposition que je trouvais pourtant si naturelle, elle a déclaré qu’elle n’admettait pas ces moeurs de Sorbonne et que je n’irais pas à un tennis organisé par une petite étudiante de vingt ans retrouver des jeunes gens dont elle ne connaissait même pas les familles2.
Peu à peu les interdits se multiplient autour d’elle: elle se voit obligée de se décommander, d’écrire une lettre de rupture sous la dictée, de refuser
une sortie ou d’accepter une visite de «présentation». Coupes sombres dans
ses études, ses projets, ses amours. Elle qui avait «arraché» * la permission de faire une licence, la voilà contrainte brutalement, l’année du diplôme
d’études supérieures à «rompre avec la Sorbonne et le groupe intellectuel d’une manière définitive» *. On l’envoie en séjour à Berlin pour interrompre ses études: C’est ainsi que jadis les familles de ce pays-ci, quand elles voulaient marier dignement leurs fils, les envoyaient d’abord quelques mois, à l’étranger pour leur faire rompre les liaisons qu’ils pouvaient à avoir avec les aubergistes et les métayères du voisinage *. |
Elle se résigne à ces ruptures avec un mélange d’«obéissance chrétienne» * et d’indifférence désespérée qui font d’elle un être profondément divisé. Consciente de cette division, elle pratique sans cesse l’autodérision:
«Je sens la meilleure moitié de moi même regarder d’un oeil triste et sévère la sotte existence que mène mademoiselle Zaza Lacoin» °°. De cette blessure intérieure sa correspondance porte témoignage et parfois aussi ses silences, les lettres qu’elle laisse sans réponse.
2
Ivi, p. 137 (lettre à Simone de Beauvoir, 28 septembre 1928).
23
Elle écrit dans son journal: «Lu la lettre de Garic qui plaide si éloquemment pour la
licence que voilà le morceau emporté» (ivi, p. 63; Journal, 4 octobre 1925).
24 Ivi, p. 141 (lettre à Simone de Beauvoir, 6 octobre 1928).
25. Ivi, p. 137 (lettre à Simone de Beauvoir, 28 septembre 1928). 26 Ivi, p. 277 (Journal, vendredi 14 juin 1929).
449
Comme Prouhèze, l’heroïne du Soulier de Satin de Paul Claudel ””, Zaza ne peut s’élancer vers ce qu’elle aime que d’un pied boiteux. Ainsi de ses études de lettres: elle s’y plonge avec joie tout en craignant de s’y engloutir: Quelle joie! je suis dre cette année une plus complètement je ne saurai jamais
pourtant un peu troublée, car il me semble que je vais prenvoie que je ne làcherai pas ensuite. Je compte me plonger le possible dans ces études et, après m’y être donnée vraiment, me reprendre °8.
Elle se consacre donc à ses études avec délices mais avec retenue, craignant de s’y perdre tout à fait. Ne risque-t-elle pas, à la suite de «la misérable troupe des sous-maîtresses de madame Daniélou» °°, d'abandonner son naturel et sa gràce pour devenir une de ces intellectuelles dont son milieu lui renvoie une image négative? Tiraillée entre des impératifs contradictoires, ses désirs et sa soumission, elle se sent arrachée à elle-méme, dépossédée. On relève dans ses let-
tres les métaphores, inversées, de la cage, du chasseur et de la proie °°. Elle est une esclave 3!, une victime offerte à tous et à toutes, et, elle le crie
avec violence — à l’instar de certaines héroïnes de Barbey d’Aurevilly dont
pourtant elle dénonce l’inconsistance *? — une «fille livrée». Dans ce fragment de journal qu’elle écrit quelques mois avant sa mort on croit lire déjà son épitaphe: [...] Mademoiselle Zaza Lacoin, jeune fille livrée aux affections da famille, aux
réunions mondaines et à la lecture de romans sans valeur qui paraissent ces temps derniers. Je ferai quelque chose l’année prochaine quand ce ne serait que comme moyen de défense. Il est trop inadmissible d’être livrée ainsi à tous et à toutes. Les gens qui ont trop bon caractère, se laissent voler leur vie 33.
2? Zaza aimait beaucoup Claudel mais n’a pas dû lire cette pièce terminée en 1924 et publiée l’année de sa mort.
28. Zaza Journal cit., p. 63 (4 octobre 1925). 29
Ivi, p. 269 (27 mai 1929).
*
Par exemple «en proie à l’extérieur» (ivi, p. 79. Lettre à Simone de Beauvoir, 22
avril 1927).
3!
«Matinée de servage, magasins échantillons» (ivi, p. 295: Journal, 3 juillet 1929).
32 Ivi, p. 122 (lettre à Simone de Beauvoir, 30 juillet 1928). 3 Ivi, p. 277 (Journal, 14 juin 1929).
450
La soumission de Zaza n’altère jamais son esprit critique et le jugement qu’elle porte sur l’éducation bourgeoise est sans appel: «Est-ce là l’éducation, ce lent endormissement qui fait des femmes et des jeunes filles
bien des êtres inoffensifs?» *. Soumise à des injonctions paradoxales, à des impératifs insidieux, brisée dans ses élans, Zaza se sait prise dans ces pièges dorés. Dans une longue lettre à Simone elle se reproche avec une complaisance amère, sa «lâcheté» et ce «manque de conviction» * qu’il lui semble partager avec les jeunes bourgeoises de sa génération. Coupable si elle désobéissait mais coupable aussi d’obéir, elle avoue qu’elle goûte parfois une douceur honteuse à se laisser glisser dans la torpeur, à s’y abandonner jusqu’à perdre le désir de se réveiller. Les
doubles contraintes rendent fou, on le sait et Zaza déjà le pres-
sent. Mais elle ignore la règle principale de ce jeu mortel et dont elle finira vraisemblablement par mourir: une régle qui veut qu’à l’intérieur du systéme aucune échappatoire ne soit possible. Toute la correspondance de Zaza porte la trace de cette méconnaissance, de cette méprise. C’est à l’intérieur du piège où elle se débat, dans ses rouages mêmes, qu’elle cherche une issue. Elle n’en sortira pas. Dans les stratégies de survie que Zaza tente de mettre en place, l’écriture épistolaire occupe une place fondamentale: écrire c’est d’abord desserer un peu les mâchoires du piège c’est faire exister l’autre, et du même coup essayer d’exister soi-même; la lettre en établissant ipso facto une distance, rompt la symbiose, l’étouffement, permet l’individuation. Ce thème
revient en leit motiv douloureux tout au long de la correspondence de Zaza: Souvent au moment de dire certaines choses, on s’arrête et l’on dirait qu’on a dans la gorge le poids étouffant de tout ce qu’on n’a a jamais dit à personne. Et dans la présence réelle de celui à qui on parle, il y a aussi quelque chose de
presque étouffant *. Bien de fois et surtout le jour où vous m’avez ouvert tout à fait votre coeur, j'ai failli vous dire tout cela, je n’ai jamais pu: c’était un côté si profond et si douloureux de ma vie que les mots sont restés dans ma gorge quand j'ai voulu m'expliquer là dessus *.
#4 Ivi, p. 225 Journal 4 juillet 1919). 35. Ivi, p. 139 (6 octobre 1928). 36 Ivi, p. 78 (lettre à Simone de Beauvoir, 13 avril 1927). 37 Ivi, p. 87 (lettre à Simone de Beauvoir, 21 juillet 1927).
451
A contrario dans les périodes de grande confusion mentale, quand elle ne sait vraiment plus qui elle est, elle cesse d’écrire: Aprés avoir vécu des heures bien fatigantes, après avoir vainement essayé de voir en moi-même un peu plus clair, j’ai renoncé à toutes ces analyses car il y avait des moments où tout se brouillait, où tout semblait disparaitre, et ces sensations de néant qui m’assaillaient étaient une vraie mort morale. Et depuis lors, je me suis systématiquement fuie et, comme vous écrire c’était me retrouver et retrouver toutes les questions que je ne veux plus poser, je n’ai pas répondu à
votre lettre 38.
Sommée d’être double et jusque dans le surnom qu’on lui donne, Zaza tente aussi de jouer sur et de cette duplicité, de ruser, de brouiller les pistes, de se perdre un peu pour tenter de se trouver. Et de ce Moi qui lui échappe elle feint de donner à chacun le morceau — choisi — qui lui convient. Lorsqu'elle a enfin réussi à convaincre son père de la laisser poursuivre des études supérieures, elle note dans son journal, le 4 octobre 1925: «Après tout pourquoi serait-ce un mal? [...] il faudra pourtant que j'aille dans le monde, et, je le ferai joyeusement et sans grogner, conservant pour de plus belles choses mon ardeur et mon amour...» 5. Mais quelques jours plus tard, écrivant à sa grand mère maternelle elle se gardera bien de peindre «la vie d’études» aux couleurs austères de la religion. La palette, cette fois, sera mondaine, la «vie d’étudiante» sera décrite comme
«charmante»
et les «bouquins», «pas ennuyeux du tout». Un des enjeux de sa correspondance, semble bien avoir été, en effet, une tentative pour répondre à la division qu’elle subissait par une parade à la fois contraire et similaire. Distribuer à chacun de ses correspondants un morceau d’un puzzle identitaire qu’elle ne parvient pas à reconstituer lui donne, semble-t-il, l’illusion de n’étre pas définitivement morcellée. Quit-
te à demander un jour restitution à l’autre du Moi que par métonymie elle lui aurait confié. La lettre devient alors au sens presque littéral un garde fou, un garant auquel, au delà de l’oubli d’elle même, elle pourra se référer: «Je vous demande de me faire souvenir un jour, si cela est nécessaire, de ce
que je vous écris là» ‘°. Ainsi Zaza dépose-t-elle en chacune ses deux amies privilégiées — la sage Geneviève de Neuville et Simone de Beauvoir, la rai-
38.
Ivi, p. 93 (lettre à Simone de Beauvoir, 24 août 1927).
SAVIVISDIOSI 4
452
Ivi, p. 96 (lettre à Simone de Beauvoir, 3 septembret 1927).
sonneuse, une image d’elle-même qu’elle fixe comme on prend la pose, comme pour délimiter les contours enchevétrés de son identité. Avant de partir pour Berlin elle se plaint à Simone d’être contrainte par sa mère à faire ce voyage tandis que le même jour elle confie à Geneviève qu’elle a enfin obtenu de sa mère la permission de partir *!. Qui est la «vraie» Zaza? est-ce-celle qui sur le point de revenir de Berlin écrit à Simone qu’elle n’a «pas grand envie de rentrer» “ ou celle qui, à Ginette, et à ce même propos, confie sa «joie» et ajoute «il me semble que cela n’arrivera pas et je n’ai pas la force d’imaginer le bonheur que je ressentirai» * ou bien encore celle qui, le lendemain, note dans son journal: «Je suis engourdie, je ne sais pas ce que j'ai: je ne sens plus ni la joie de rentrer, ni l’ennui de partir, je rêve» 4?
Cette identité flottante et qui cherche à s’étayer sur le jeu épistolaire c’est peut-être un étranger qui y aura, sans s’en douter, le plus complètement accès. Hans Miller est un jeune homme que Zaza a connu à Berlin. Ce qu’elle dit de lui dans ses lettres laisse imaginer que s’est developpée entre eux une amitié amoureuse à la fois protégée et entravée par la différence langagière. Mais si de retour à Paris , Zaza hésite longtemps à lui envoyer la Photomaton agrandie qu’il réclame, elle lui livre bien davantage dans les lettres qu’elle lui écrit en allemand. Ces lettres en effet tranchent dans la correspondance. D'abord parce qu’elles sont écrites à un homme et qu’à l’exception — notable — de Merleau Ponty, Zaza n’a pas de correspondant masculin en dehors de sa famille. Mais elles étonnent avant tout par leur liberté de ton. Simone de Beauvoir a souligné dans Les Mémoires d’une jeune fille rangée le formalisme de la relation épistolaire qu’elle entretenait avec Zaza: «Rien de plus conventionnel que les lettres que nous échangions. Zaza utilisait les lieux communs un peu plus élégamment que moi; mais ni l’une ni l’autre n’exprimions rien de ce qui nous touchait vraiment. Nos mères lisaient notre correspondance: cette censure ne favorisait certes pas de libres effusions. Mais, même dans nos conversations, nous respectione d’indéfinissables convenances.
Nous étions en deça même de la pudeur...» “.
4!
Ivi, p. 141 et 145.
4
Ivi, p. 208 (lettre à Simone de Beauvoir, 17 janvier 1929).
43 Ivi, p. 213 (lettre à Geneviève de Neuville, 25 janvier 1929). 4 Ivi, p. 215 (26 janvier 1929). 45. S. de Beauvoir, Mémoires d’une jeune fille rangée cit., p. 164.
453
Or, c’est cette censure interne et externe qui saute dans les lettres à Hans. Non que Zaza lui fasse des confidences fracassantes. Mais le seul fait de pouvoir, sous couvert de la langue étrangère, se rapprocher assez du jeune homme pour le tutoyer (faveur réservée à sa famille et à Geneviève), le doter de surnoms amicaux comme Hänchen ou Spitzbube pourrait paraître amorcer une sorte d’échappatoire à son angoisse. Pourtant sa difficulté à se livrer — à savoir qui elle est quand elle se livre — est telle qu’alors même qu’elle le fait, elle dit le contraire. C’est ainsi que dans la longue lettre que le 23 mars 1929 elle écrit à Hans, elle se plaint de ne pouvoir traduire sa pensée: Tu ne comprends pas que je te dise qu’une lettre est quelque chose de mort. Les tiennes sont très vivantes et te ressemblent et je m’en réjouis beaucoup; lorsque je te lis je peux presque croire [...] que je suis encore à Berlin et que je bavarde avec toi. Il n’en va pas toujours ainsi, souvent on connait les gens dans leurs lettres tels qu’ils voudraient ètre mais non pas comme ils sont. En ce qui me concerne mes lettres sont un peu mortes car je peux difficilement nuancer ma pensée en allemand et parce que j’ai trop peu de patience pour expliquer dans des phrases ce qu’un regard un sourire une expression du visage peuvent exprimer beaucoup plus vite “.
Mais le méme jour elle note dans son journal: «beaucoup travaillé à cette lettre qui doit venir aus dem Herz plus que aus dem Kopf*? «[...] j'ai écrit [...] avec un certain abandon et peut-étre y ai-je mis [...] plus de moi qu’il n’en peut comprendre» ‘8. On l’a dit, ce qui frappe dans les défenses que Zaza élabore, c’est qu’elle les construit à l’image des pressions qu’elle subit: ainsi à toutes les ruptures affectives ou intellectuelles qu’on tente de lui imposer répond-elle dans le même registre, rupture contre rupture, «supplice» contre «supplice», allant même parfois jusqu’à actualiser consciemment la symbolisation là où une hystérique l’aurait agie à son insu: Je sais par expérience qu’il y a des moments où rien ne peut me distraire de moi-même et que m’amuser est alors un vrai supplice. Dernièrement, à Haubardin, on a organisé une grande excursion avec des amis dans le Pays basque; j’avais un tel besoin de solitude à ce moment là, une telle impossibilité de m’amu-
4° Zaza. Correspondance et carnets cit., p. 243. Les lettres à Hans Miller, toutes écrites par Zaza en allemand, ont été traduites pour l’édition française.
4 Du «coeur» plus que de la «tête». 48. Ivi, pp. 243-244.
454
ser, que je me suis donné un te expédition. J'en ai eu pour ainsi que d’exclamations sur moins un peu de solitude et
bon coup de hache sur le pied pour échapper à cethuit jours de chaise longue et de phrases apitoyées mon imprudence et ma maladresse, mais j’ai eu au le droit de ne pas parler et de ne pas m’amuser “.
Si l’avenir qu’on lui propose ressemble à un «lent endormissement», c’est bien souvent par une torpeur analogue que Zaza tente de s’en défendre. Cette torpeur, travaillée par la pulsion de mort, et dont la correspondance témoigne à sa manière tragiquement répétitive, prend plusieurs formes: elle apparait, nommée comme telle, par exemple, à son retour de Berlin où Zaza réagit par une sorte de neurasthénie — elle se dit «engourdie» «ahurie», a l’impression , dit-elle, qu’elle rêve — à la reprise des obligations mondaines: Est-ce avant que j’ai rêvé ou maintenant que je rêve? J'ai été avec Anmé faire une visite aux G. J’étouffais chez eux. Qu’est-ce-que c’est que cette existence?
Il y a de quoi mourir‘.
Attirance vers le rien, l’oubli de soi, le sommeil qui se manifeste aussi par le goût de Zaza pour les somnifères et notamment le chloroforme, qu’avec le ton atrocement enjoué qu’elle adopte parfois, elle décrit comme «délicieux à prendre et l’ayant «grisée comme du champagne» ‘!. Cette tentation de la torpeur, on la décèle encore dans le désir, toujours sous-jacent chez Zaza de mourir au monde pour ne pas mourir par le monde, de «trouver dans “les liens” la liberté veritable» ‘?, de se faire religieuse: [...] bien souvent d’ailleurs je me suis demandé si je n’avais pas la vocation religieuse. Seulement je ne sais pas si tu me comprendras bien, j’ai reconnu que c'était par lâcheté que je désirais la vie d’un couvent. C’était toujours à des moments de grande fatigue morale, lorsque j’en avais assez de tout et surtout de moi-même; j'aurais voulu renoncer à toutes les choses humaines parce qu’il me paraissait plus facile de tout refuser que de prendre sans se laisser asservir, renoncer enfin à la lutte comme si la vie religieuse était la fin du grand combat que nous menons pour notre salut. Mais le dégoût de soi-même n’est pas un
signe suffisant de vocation *.
4
Ivi, p. 97 (lettre à Simone de Beauvoir, 3 septemre 1927).
50
Ivi, p. 219 (Journal, 4 febrier 1929).
5!
Ivi, p. 118 (lettre à Geneviève de Neuville, 15 mai 1928).
52. Ivi, p. 125 (lettre à Simone de Beauvoir, 5 août 1928). 53. Ivi, p. 105 (lettre à Geneviève de Neuville, 16 octobre 1927).
455
Car cette attirance pour le néant, pour le «renoncement à soi même, à
l’existence, à tout» “* n’est bien sûr que l’envers de son désir de mort. Et Zaza le sait si bien que, quand elle prie Dieu de l’aider à s’abîmer en Lui, elle lui demande en même temps de lui donner «la force de vivre», de la délivrer «du desir coupable de la mort qui [la] martyrise» °°. Même en tenant compte de la majoration que l’écriture intime ou la correspondance apportent au désir de mort, il semble bien que celui-ci ait pesé sans discontinuer sur l’existence de la jeune fille. Mais c’est dans la correspondance avec Simone de Beauvoir qu’il prend sans doute tout son sens. Il semble en effet qu’à partir d’un moment qu’il n’est pas possible de dater avec précision, Zaza s’abandonne
insensiblement à la pente qui, d’une manière ou
d’une autre, la conduira vers la mort et délègue à Simone ce qu'il y a en elle de vivant: Quelle que soit la voie que je doive suivre, je ne puis comme vous aller à la vie de tout moi même: au moment où j’existe avec le plus d’intensité, j’ai encore le goût du néant à la bouche [...]. J’éprouve pour tout l’univers une telle indifférence qu’il me semble être déjà dans la mort. Je ne sais pas si j'ai osé vous dire combien souvent depuis quelque temps je suis hantée par cette pensée de la mort. Sans aucune tristesse, sans aucune crainte d’ailleurs, et la mort au contrai-
re me semble une chose si naturelle que je sors de ces méditations étonnée de
vivre et comme si je revenais de très loin .
Tout se passe dès lors comme si pulsion de vie et pulsion de mort s’écartaient l’une de l’autre, s’incarnaient l’une chez Simone l’autre chez Zaza en sorte que la question, recouverte par le secret des familles, de la mort «réelle» de Zaza (suicide ou encéphalite virale) perdrait tout son sens. La seule interprétation possible demeurant celle qu’intuitivement Simone de Beauvoir avait avancée en terminant par ces mots Les Mémoires d’une jeune fille rangée: «Ensemble nous avions lutté contre le destin fangeux qui nous guettait et j'ai pensé longtemps que j'avais payé ma liberté de sa mort» ‘?.
54. Ivi, p. 125 (lettre à Simone de Beauvoir, 5 août 1928). 55. Ivi, p. 69 (Journal, 1926). 56 *
456
Ivi, p. 125 (lettre à Simone de Beauvoir, 5 août 1928). S. de Beauvoir, Mémoires d'une jeune fille rangée cit., p. 503.
ADELIA NOFERI
«CRIPTE BUCHE E NASCONDIGLI» IN MONTALE
La sequenza che compare nel titolo è prelevata dal componimento La storia in Satura ‘: «La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive. / La storia è anche benevola: distrugge / quanto più può: se esagerasse certo / sarebbe meglio» ?. Una serie molto simile compare di nuovo in un testo del Diario del’71 e del’72 in relazione ad un ingranaggio che sembra perdere colpi, ma che comunque riprenderà a funzionare «meglio lubrificato / o peggio, ma quello che importa / è non lasciarci le dita. / Solo le cripte, le buche, i ricettacoli, solo / questo oggi vale, mia cara...» 3. Ambedue le oc-
correnze si riferiscono dunque alla possibilità di sottrarre qualcosa a una forza che stritola, distrugge, cancella (la storia, il tempo), ma non totalmente (e forse meglio sarebbe se la cancellazione o l’inceppo fosse totale e definitivo): qualcosa sopravvive. E, per questa sopravvivenza, è indicato un luogo fisico che ha la forma e la funzione di una cripta o simili. La configurazione di un identico luogo, ma appartenente ad una topica psichica, è stata rilevata, descritta e teorizzata da Nicolas Abraham *
! Le citazioni dei testi poetici montaliani si riferiscono a: Eugenio Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, indicata d’ora in avanti con la sigla E. Le singole raccolte contenute nel volume verranno indicate con le seguenti sigle: OS = Ossi di seppia; OC = Le occasioni; BU = La Bufera e altro; Sa = Satura; DI = Diario del ‘71 e del ‘72; Q = Quaderno di quattro anni; AV = Altri versi; PD = Poesie disperse edite e inedite.
SE p810: 3 E, p. 434. 4
Cfr. Nicolas Abraham, L’écorce et le noyau, collaboration et autres essais de Maria
Torok, Paris, Aubier-Flammarion, 1978, per il quale userò la sigla E.N.; e: N. Abraham et M. Torok, Cryptonymie. Le verbier de l’homme aux loups, précédé de Fors par Jacques Derrida, Paris, Aubier-Flammarion,
1976. Di quest’ultima opera è uscita recentemente la traduzione
italiana: // verbario dell’uomo dei lupi, preceduto da F(u)ori di Jacques Derrida, a cura di Mario Ajazzi Mancini, Napoli, Liguori, 1992.
457
nel quadro di una nevrosi che l’autore ha caratterizzato col termine di «criptoforica», per cui si profila l’ipotesi che il luogo montaliano e la sua funzione possano essere esplorati alla luce della descrizione della cripta psichica di Abraham e che la forza cieca del tempo e della storia e dei loro stritolanti ingranaggi possano assimilarsi agli ingranaggi psichici del SuperTo, della censura, della rimozione, che non distruggono e cancellano tutto (e
forse meglio sarebbe!): qualcosa sopravvive. L’ipotesi è già stata formulata da Stefano Agosti nella sua precisa e stimolante analisi del testo montaliano di Luce d'inverno, letto, appunto, come «ricognizione, dissimulata, di
una cripta», in riferimento tanto alla teoria di Abraham, quanto alla sua ripresa e rielaborazione da parte di Derrida in Fors. Cercherò a mia volta di riprenderla e di proseguirla, in direzioni magari anche diverse, mossa dalla curiosità di spiare che cosa «sopravviva» e si nasconda nelle cripte, buche o nascondigli. Abraham elabora il concetto di cripta psichica assegnandole un luogo che si distingue «sia da quello dell’Inconscio dinamico, sia da quello dell’Io dell’introiezione: si tratterebbe piuttosto di una ‘enclave’ tra i due, di una sorta di inconscio artificiale, collocato all’interno dell’Io» *. Questo
caveau è la conseguenza di una «rimozione conservatrice» ed è destinato ad ospitare qualcosa di reale, «assimilabile ad un delitto che deve restare segreto, inconfessabile» e che vi è stato seppellito, ma per conservarlo, come «morto-vivente», in quanto testimonianza di una colpa: quella di una effettivamente avvenuta realizzazione di un desiderio interdetto. Il processo di costituzione di questa cripta-tomba, non comporta una introiezione,
bensì una incorporazione (e quindi rifiuto sia del lutto che della melanconia): «il lutto indicibile installa all’interno del soggetto una cavità segreta. Nella cripta riposa, vivente [...] il correlativo oggettivo della perdita [le
corrélat objectal de la perte]»; «È all’Io che spetta la funzione di guardiano del cimitero [...]. Se consente a introdurvi dei curiosi o dei detectives, sarà
per indirizzarli verso false piste, tombe fittizie. Gli aventi diritto alla visita saranno oggetto di manovre e di manipolazioni varie» °.
5 N. Abraham, E.N. cit., p. 254. ° Ivi, pp. 266, 255. Per quanto riguarda il concetto di inclusione e di incorporazione, può essere interessante rilevare che nel 1960 Montale, per presentare l’edizione svedese delle proprie Poesie, si avvale, a proposito della Bufera, di una citazione di un proprio critico, che, a livello delle immagini, propone un concetto assai prossimo: «Invariato resta il gioco delle immagini, “profondément incorporées à la texture verbale: elles se présentent à l’intérieur du langage un peu comme des noeuds dans le bois, ou des noyaux dans la pierre; se sont
458
Queste scarne citazioni da Abraham possono essere per ora sufficienti a stabilire gli essenziali punti di riferimento per la sua teorizzazione della nevrosi criptoforica; ma anche per chiamare in causa direttamente tanto Montale (nessuno di noi, penso ha potuto evitare un trasalimento nell’incontrare quel «correlativo oggettivo» di Abraham (che probabilmente gli viene da Eliot); quanto noi stessi come lettori (da assegnare alla classe vuoi dei detectives, vuoi dei curiosi) e come critici, dovutamente depistati da Montale («I critici ripetono / da me depistati, / che il mio tu è un istituto» ?) e forse anche condotti verso tombe o cripte fittizie e comunque soggetti, da parte sua, ad ogni sorta di manovre e manipolazioni. Attenti dunque ad avvistare le trappole e, se non fossero evitabili perché troppo perfettamente occultate, cadervi almeno ad occhi aperti e stando al gioco di nascondino della scrittura montaliana. L’ultimo lemma della serie che abbiamo proposto all’inizio era «nascondigli» e / nascondigli è il titolo di due componimenti: il primo nel Diario 71 e 72, il secondo in Altri versi, appartenenti dunque ambedue all’ultimo Montale, quello che, a suo dire, mostra «il rovescio della medaglia,
l’apertura del retrobottega del poeta» *. Il primo presenta una sorta di mucchio confuso di oggetti deietti, resti di una totalità scomparsa e non ricomponibile, direttamente ascrivibili allo statuto di «correlativo oggettivo della perdita» indicato da Abraham, in quanto convocati come rappresentanti sineddotico-metonimici (per contiguità materiale) del corpo-persona, in questo caso, della moglie morta: «Quando non sono certo di essere vivo / la certezza è a due passi ma costa pena / ritrovarli gli oggetti, un pipa, il cagnuccio / di legno di mia moglie, un necrologio / del fratello di lei, tre o quattro occhiali / di lei ancora!, un tappo di bottiglia / che colpì la sua fronte [...]. Mutano alloggio, entrano / nei buchi più nascosti, ad ogni ora / hanno rischiato il secchio della spazzatura. /Complottando tra loro si sono organizzati per sostenermi ...»°. Analogamente in Ai tuoi piedi scriverà: «[...] ricorderò gli oggetti che ho lasciati / al loro posto, un posto tanto studiato, / agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio / di giornale, [...] rifarò il censi-
des centres affectifs, l’émotion se concentre autour d’elles” (A. Peyre de Mandiargues, in “Nouvelle Revue Française”, janvier 1960)», in E. Montale, Su/la poesia, Milano, Mondadori,
1976, p. 90. PSE 8
ANS-
Le reazioni di Montale, a cura di Annalisa Cima, in AA.VV., Eugenio Montale, a
cura di Annalisa Cima e Cesare Segre, Milano, Rizzoli, 1979, p. 192. NF D 420:
459
mento di quel nulla / che fu vivente perché fu tangibile / e mi dirò se non fossero / queste sole e non altro la mia consistenza» '°. Gli oggetti contenuti in questi nascondigli hanno dunque una doppia funzione: quella di correlativi oggettivi della perdita del Tu e quella di difesa dalla perdita dell’Io, soli garanti della sua problematica esistenza e identità !!, e perciò premurosamente e penosamente messi al riparo in quel luogo tanto studiato che ha tutto l’aspetto dell’«inconscio artificiale» della cripta. Che cosa, tradizionalmente, è conservato nella cripta delle chiese? Di solito, chiusa debitamente in un ulteriore involucro (ma trasparente), una
reliquia. E proprio sotto il segno del reliquiario, ed in quanto reliquiario esso stesso, si pone il Libro di Montale "2, con l’/n limine degli Ossi: «Qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquiario». Pierre Fédida, nel suo capitolo su La rélique et le travail du deuil,
scrive: «Come dunque definire la reliquia nel suo statuto di realtà? Frammento materiale estratto da un corpo scomparso, la reliquia dà diritto a una visibilità del nascosto [...]. L’inumazione definisce il senso del nascosto a
livello di una rappresentazione visiva del rovescio delle cose [...]. Con la reliquia ciò di cui il morto si è separato e che è trattenuto e conservato dai sopravviventi, manifesta il potere di mantenere visibile — e al riparo di ogni annientamento — ciò che del morto deve rimanere nascosto o al di fuori di
ogni rappresentazione» "3. Se la scrittura montaliana si pone come reliquiario contenuto a sua volta nelle cripte buche e nascondigli del testo, si pone anche, ed insieme, come processo di occultamento e di manifestazione, di nascondimento e di
esposizione di un segreto che riguarda la morte, dalla quale tanto il sog-
10 Dal Q (£), p. 579. !! Si pensi anche al testo di AV, articolato, sulla iniziale citazione petrarchesca: «Poiché la vita fugge / e chi tenta di ricacciarla indietro / rientra nel gomitolo primigenio, / dove potremo occultare, se tentiamo / con rudimenti o peggio di sopravvivere, / gli oggetti che ci parvero / non peritura parte di noi stessi?» (E, p. 701), dove l’occultazione-preservazione di tali oggetti risponde al tentativo di sopravvivenza di un Io che, nella stessa misura in cui tenta di sottrarsi alla fuga distruttiva del tempo, è minacciato dall’opposta, ma analoga, distruzione del riassorbimento nell’indistinto «gomitolo primigenio»: il «crogiolo» o l’ «eterno grembo» di /n limine: il caos originario.
«La mia poesia va letta insieme, come una poesia sola», «Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora dò il verso», scriveva Montale. Cfr. l’Introduzione di Giorgio Zampa a E. Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, pp. LIII. !3 Pierre Fédida, L'absence, Paris, Gallimard, 1978, capitolo IV, p. 56.
460
getto quanto l’oggetto traggono quel peu de réalité (direbbe Lacan) che è loro concesso. «Se la realtà segreta della morte (prosegue Fédida) [...] de-
ve essere rigettata fuori da qualsiasi rappresentazione, la credenza che si lega alle reliquie sostituisce [...] il sapere segreto che vi è un resto la cui conservazione sfida le apparenze ed il cui potere di realtà non diviene minore nell’attestare che tutto della morte non può essere conosciuto». Perciò «il sopravvivente costituisce la reliquia in una sorta di realtà maggiorata, o per meglio dire, di sopra-realtà» !*. Penso che l’effetto di realtà degli oggetti montaliani, troppo spesso confuso con qualche sorta di realismo, debba ricercarsi in questo tipo di «realtà maggiorata» che lo statuto della reliquia conferisce alle cose, prossime, in qualche modo, alla morte ed insieme alla sua denegazione nella sopravvivenza, nella misura stessa della loro deiezione, consunzione o de-
gradazione, sempre sull’orlo del «secchio della spazzatura». In un testo del Quaderno dei 4 anni, Ho sparso di becchime il davanzale, il gesto rituale
di preparare la sera il pasto che gli uccellini troveranno all’alba introduce all’attesa del sonno e subito «comincia / la sfilata dei morti grandi e piccoli che ho conosciuto in vita [...]. Là dove stanno / sembrano inalterabili per un di più di sublimata corruzione» !°. Ma nella prima redazione il luogo «dove stanno» conservava, forse anche troppo chiaramente, le sembianze di un reliquiario: «Là dove giacciono / sembrano incorruttibili in vitro per un di più / di sublimata corruzione» !9. La nuova lezione, oltre ad evitare la ri-
petizione di «incorruttibili-corruzione», espunge l’«in vitro», occultando così il reliquiario nella cripta del testo, e mettendo in atto quella «reticenza», che è, come ormai tutti sanno, costitutiva della poetica montaliana (il
dire non dicendo, la poesia che «deve contenere i suoi motivi senza rivelarli», il «tacere le occasioni», il dire e il disdire, il depistare), ma alla quale spetta anche la componente gaudiosa, di «tripudio» a parte subiecti (anche se misto ad orrore) della costruzione stessa della cripta. Poiché la denegazione, il nascondimento ed il loro piacere sono legati a quella «visibilità del nascosto» di cui parlava Fédida: occorre che il non-dire appaia in quanto tale, magari sotto forma di ritrattazione, perché il segreto si im-
ponga come un sapere negato agli altri, di cui il soggetto possa restare il solo detentore e che egli possa far apparire e sparire a suo grado, nel gioco del fort-da del testo.
MU PP
lvISp_95: Di
6 E, p. 1122. 461
Uno fra i tanti possibili esempi: in Proda di Versilia (nella Bufera) appare il ricordo dei topi nel giardino familiare dell’infanzia («il volo di trapezio / dei topi familiari / da una palma all’altra» 7), come emblema-reliquia di un passato infantile, e dei suoi morti, quando erano i luoghi stessi a «custodire vite ancora umane» e «tempo che fu misurabile [...] fino a che
non s’aperse questo mare infinito, di creta e di mondiglia» (e cioè la violazione della cripta faticosamente custodita, come poi in Satura, nello xenion sull’alluvione di Firenze) !8. Nel Quaderno il ricordo si ripresenta, più circostanziato, legato al desco familiare (che era già comparso, sempre insieme ai suoi morti, nel racconto La casa delle due palme): Sulla pergola povera di foglie / vanno e vengono i topi in perfetto equilibrio. / Non uno che cadesse nella nostra zuppiera [...]. /Mi resta qualche dubbio sulla zuppiera / che suggerisce immagini patriarcali / del tutto aliene dalla mia memoria. / Non ci fu mai zuppiera, mai dinastia / di roditori sul mio capo, mai nulla che ora sia vivo nella mia mente.
Una perfetta denegazione e sconfessione dunque: non ci sono mai stati né zuppiera né topi, mai nulla di conservato nel ricordo. Ma il testo continua, di seguito: «Fu tuttavia perfetta, con ore di tripudio / la reticenza, quel-
la che sta ai margini e non s’attuffa / perché il mare è ancora un vuoto, un supervuoto e già ne abbiamo / fin troppo, un vuoto duro come un sasso» !?. Ed ecco attestato il «tripudio» della reticenza, il piacere della denegazione stessa, che preserva la struttura della cripta, ai cui bordi essa si colloca senza in-
frangerla («non s’attuffa»), ma anche la materia di cui la cripta è fatta: un vuoto, «duro come un sasso». Vuoto lasciato dall’assente (nel lutto rifiutato), o vuoto amnesico paralizzante e nullificante, vuoto del soggetto o dell’oggetto o vuoto metafisico universale: la funzione della cripta è comunque di scavare quel «sasso» per apprestarvi un altro vuoto, un’altra cavità che deve essere riempita, perché nulla può essere così perturbante come una cripta vuota 2°. Ma anche quel vuoto, viene, nello stesso Quaderno, parodizzato: «È sparito anche il vuoto / dove un tempo si poteva rifugiarsi [...]. Non è pieno
UMESPAZA4O! 8 «L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili / delle carte, dei quadri che stipavano / un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto / [...]. Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura / di nafta e sterco [...]» (E, p. 310).
NET, SA 2°. Vale forse la pena di rilevare che nel Notturno dannunziano, nelle pagine dedicate al ricordo del ritorno alla casa natale presso la madre morente, si legge: «L’androne è umido e tacito come una cripta senza reliquie [...]. Ho spavento del silenzio [...]. Odo stridere la carru-
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abbastanza perché dobbiamo / popolarlo di fatti, di movimenti / per poter dire che gli apparteniamo / e mai gli sfuggiremo anche se morti. / Inzeppare di oggetti quello ch'è / il solo Oggetto per definizione / senza che a lui ne importi niente, o turpe / commedia. E con che zelo la recitiamo» ?!. Intanto gli oggetti-reliquie si moltiplicano in tutto Montale, in poesia
e in prosa («calendari astucci fiale e creme» °°, vecchie fotografie sbiadite, cataste di libri inutili, il cagnetto Galiffa, gli «unti dei soffritti», il cancello
arrugginito, la serra, la siepe dei pitosfori, il ritaglio del giornale con l’Ocapi, ogni sorta di oggetti appartenenti alla quotidianità più banale, consumati, degradati, ma isolati, sottratti al flusso del tempo e alla corruzione dell’uso, disarticolati dal continuum, staccati («franto e vivido, stampato /
sopra immobili tende» °°) o stagliati «sui fondali di calce» * e perciò resi incorruttibili e sacralizzati; veri «pezzi di eternità». «Quando la realtà si di-
sarticola / (seppure mai ne fu una) e qualche sua parte / si incrosta su di noi / allora un odore di etere non di clinica / ci avverte che la catena s’è interrotta / e che il ricordo è un pezzo di eternità che vagola per conto suo / forse in attesa di reintegrarsi in noi» ”°. Questi versi appartengono ad un testo dal titolo /nterno/esterno, e proprio il particolare rapporto tra interno ed esterno caratterizza, secondo Derrida, a partire da Abraham, la struttura della cripta e ciò che essa contiene: qualcosa si distacca dal soggetto, viene rifiutato, espulso, gettato fuori, ma per essere subito collocato ed incistato all’interno come «corpo estraneo»,
escluso-incluso dentro quell’inconscio artificiale che è la cripta psichica. Spazio chiuso appartenente all’Io ed insieme esterno ad esso, «il foro criptico protegge contro l’esterno il segreto della sua esclusione intestina e della sua inclusione clandestina» °°. La previa disarticolazione della realtà per effetto della recisione, del ritaglio (del pezzo di giornale, o del ricciolo di
cola del pozzo «(Gabriele
D’ Annunzio, Notturno, in Prose di ricerca, Milano, Mondadori,
1966, I, p. 266). Se il passo si è incastrato nella memoria montaliana come testimonia con evidenza l’Osso «Cigola la carrucola del pozzo» (E, p. 49), non vi sarà rimsto inciso anche il tacito spavento di quella cripta senza reliquie? 21 E, p. 533. Ma ricordiamo anche l’Ex voto di SA: «Insisto nel ricercarti nel fuscello [...] mai nel pieno, sempre / nel vuoto: in quello che anche al trapano / resiste» (E, p. 377).
2 .E, p.:344. CnE ND T4;
2% SA, p. 344. 25 AV, p. 698.
2% J. Derrida, Fors, in N. Abraham e M. Torok, Le verbier... cit., p. 13 e nella citata traduzione italiana, p. 51.
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Gerti, o del tuffatore...) dal flusso delle sensazioni, della memoria, del tem-
po o dell’uso, insomma «la vita fatta a pezzi, quella che rompe dal suo in-
sopportabile ordito» ?’, permette di isolare l’obiectum, di renderlo estraneo: «il ricordo c’è il caso che si stacchi e viva per conto suo» # (e teniamo ben presente, come aveva subito compreso Contini, che il ricordo in Montale
non è inteso in senso memoriale-elegiaco, bensì oggettuale, come oggettoricordo, presse-papier o keepsake che sia); ma anche di «reintegrarlo in noi», per conservarlo, come reliquia. Il più emblematico di questi oggetti montaliani è il ben noto infilascarpe, che compare sia in poesia («L'abbiamo rimpianto a lungo l’infila-
scarpe»), sia nella prosa L'uomo nel microsolco in Auto da fé ?°, dove la sua evocazione è collocata in un contesto di riflessione sul tempo e la sua irreversibilità, sulla vita come un «disco già inciso» e sulla possibilità che «un piccolo intoppo faccia saltare indietro la punta del giradischi e che una frazione del passato si ripresenti a noi nella sua perfetta oggettività». Leggiamo il passo che lo riguarda: L’uomo d’oggi è come un navigante che debba continuamente buttare a mare una zavorra ormai pericolosa: zavorra non solo di oggetti e di rimpianti. Può accadere che un oggetto insignificante diventi per noi un concentrato di passato, assumendo così una funzione di totem. Io portai con me, per lunghi anni, un corno di metallo arrugginito, un infilascarpe di cui mi vergognavo tanto che, giunto all’albergo, lo nascondevo perché non fosse veduto dalla cameriera. Era l’unico oggetto che mi seguisse fin dall’infanzia. Un giorno dimenticai il nascondiglio, anzi dimenticai il corno stesso a Venezia, né mai ebbi coraggio di fare ricerche. Con ogni probabilità il corno dorme nel cuore della laguna. A me resta solo il rimorso [...]. So perfettamente che se l’infilascarpe riapparisse sul mio comodino ne proverei più terrore che gioia. Consapevolmente o no io me ne sono disfatto... Debbo dunque accettare l’aiuto del caso e continuare a vivere senza il magico e muto olifante.
L’oggetto-reliquia dunque come «concentrato di passato», legato all’infanzia, marcato dalla vergogna*!, di cui il decoro impone di sbaraz-
7 SA, p. 308. NOÉ) NP 00! 2 SA, p. 299.
%
E. Montale, Auto da fé, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 264-268.
31
Jn // terrore di esistere (DI (E), p. 473) la vergogna avrà la stessa funzione di certi-
ficazione dell’identità dell’Io che hanno gli oggetti stivati nella cripta: sottoscala, o ipogeo che sia.
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zarsi, nascosto agli occhi altrui, dimenticato e gettato via come una zavorra pericolosa, letteralmente rimosso (ma capace, come ogni rimosso, di ritornare, e con terrore), è il frammento, il «pezzo» di tempo (ricordo), di cui
il soggetto si è consciamente o inconsciamente disfatto, che è stato staccato ed espulso dall’Io, con rimorso, ma che potrebbe, miracolosamente, riapparire dal «fondo» in cui riposa. E questo oggetto, «magico e muto Olifante», ha la funzione di Totem.
Nel racconto La donna barbuta?? si narra della perturbante, improvvisa «materializzazione» di Maria, la vecchia donna cenciosa e analfabeta
che andava a prendere a scuola il protagonista, signor M., quand’era bambino, «morta tanti anni prima», della quale egli «non si ricordava quasi mai, solo a lampi gliene tornava l’immagine nelle ore più buie della sua vita [...]. A volte aveva lottato contro quella memoria, aveva cercato di disfarsene
come si fa di un cencio smesso. In tutte le case che non hanno mutato padroni esiste ancora qualche barattolo vuoto, qualche cianfrusaglia che nessuno dei sopraggiunti oserebbe toccare. Nella vita del signor M., che non aveva più casa, nessun ciarpame d’antica data poteva più aspirare alla funzione di tabù. Gli restava quell’ombra tremula e affannosa ch’egli cercava di respingere da anni e che ora gli camminava accanto». Di nuovo qualcosa di infimo (ciarpame, cianfrusaglia), legato all’infanzia, viene respinto, si
cerca di disfarsene con vergogna, ma ritorna, come resto intoccabile, con funzione di Tabù. Il processo descritto è identico a quello rappresentato dall’infilascarpe; i due oggetti: il vecchio corno arrugginito e la vecchia Maria zoppa (equiparata a un barattolo vuoto, un cencio smesso), hanno la stessa doppia funzione di Totem e di Tabù. Evidente è il richiamo al testo di Freud, che la «reticenza» non cancella, anzi permette di affiorare alla superficie del testo per offrire al lettore, detective o curioso, una pista di lettura, vera o falsa che
sia. Proviamo a seguirla, con circospezione. I nodi essenziali del primitivo culto totemico, che Freud raccoglie dagli studi degli antropologi, interpretandoli poi in senso psicanalitico nel confronto con le fasi infantili della psiche individuale (secondo il noto modello dell’equiparazione dell’infanzia delle genti con l’infanzia dell’individuo, istituzionalizzata da Vico e poi da
Leopardi ecc.) possono essere schematizzati nei seguenti punti: 1) connessione del culto totemico con i culti delle divinità solari.
2) l’animale-totem dell’orda primitiva, secondo la dizione mutuata da Darwin, rappresenta, anzi incarna, l’ Antenato (il Padre) morto.
32
E. Montale, Farfalla di Dinard, Milano, Mondadori, 1960, pp. 57-63.
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3) la sua morte è dovuta a un’uccisione, e cioè al parricidio commesso dai fratelli dell’orda per entrare in possesso del potere del padre e delle sue donne. 4) questo assassinio collettivo produce un fortissimo senso di colpa (e quindi di vergogna e rimorso) che viene neutralizzato nella ripetizione rituale dell’atto, sacralizzato come sacrificio, che culmina nel banchetto to-
temico-cannibalico, nel quale i componenti del clan consumano il corpo del Totem, incorporando i suoi poteri e la sua stessa sacralità.
5) il Totem e tutto ciò che per contiguità o somiglianza lo rappresenta diviene tabi, dotato di poteri magici, e temibile in quanto potenzialmente vendicativo e distruttivo. 6) le donne del clan sono ugualmente tabù in quanto di appartenenza del Totem, ed il clan è sottoposto alla legge del divieto dell’incesto ed alla esogamia. È ben noto che Freud riconduce questo schema al modello dell’Edipo, articolandolo con le primitive-infantili credenze animistiche * (e fra gli animali «portatori di anime» egli enumera, citando Wundt, «serpenti, uccelli,
lucertole, topi, grazie alla loro grande mobilità, capacità di volare ed altre
caratteristiche che ispirano sorpresa e orrore» 34) e con i processi di introiezione-proiezione e di incorporazione-espulsione delle fasi orale ed anale della psiche infantile. Ma torniamo a Montale: abbiamo letto all’inizio il primo dei due testi intitolati / nascondigli; vediamo ora il secondo, in Altri Versi, dove compare un unico nascondiglio, che, diversamente dal primo, accoglie non sol-
tanto i consueti «resti» e cianfrusaglie varie, ma il soggetto stesso. Il canneto dove andavo a nascondermi / era lambito dal mare quando le onde erano lunghe / e solo la spuma entrava a spruzzi / in quella prova di prima e dopo il diluvio. / Larve girini insetti scatole scoperchiate / e persino la vista frequente (una stagione intera) / di una gallina con una sola zampa. / [...] oltre il muro dell’orto / si udiva qualche volta il canto flautato / del passero solitario come disse il poeta / [...] un tema che più tardi riascoltai / dalle labbra gentili di una Manon in fuga. / Non era il flauto di una gallina zoppa / o di altro uccello ferito da un cacciatore? / Neppure allora mi posi la domanda / anche se una ra-
33. All’animismo accenna Montale nel racconto L’angiolino: «Attribuire una personalità umana a un piccione o magari a una sveglia è un innocente animismo e l’animismo è la posizione spirituale più degna dell’uomo» (Farfalla, p. 184).
“Sigmund Freud, Totem e tabù, capitolo IV, 2, Roma, Newton Compton, 1970, p. 195.
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strelliera di casa mia / esibiva un fucile così detto a bacchetta, / un’arma ormai
disusata che apparteneva / in altri tempi a uno zio demente *.
Tralasciamo, almeno per ora, il tema di quel canto flautato che somiglia a un gruppo di note della Manon di Massenet, sul quale è stato scritto molto, da Montale e dai suoi critici, e che rappresenta il senhal di una precisa figura femminile, e sorvoliamo rapidamente sulla gallina zoppa, probabile controfigura della vecchia Maria zoppa che già abbiamo incontrato; fermiamoci al nascondiglio-canneto dove il soggetto andava a rifugiarsi, prossimo a un orto, frequentato da quella gallina o da qualche altro uccello ferito, il cui segnale fonico ritorna innescando una domanda, subito denegata («neppure allora mi posi la domanda»), riguardo all’indizio inquietante sull’identità del cacciatore, rappresentato da quel fucile nella rastrelliera di casa, ma che non apparteneva al soggetto, no certo, bensì a uno zio demente. Quel canneto compare frequentemente fin dagli Ossi: fa parte del contesto paesistico de / limoni («erbosi fossi», pozzanghere dove «i ragazzi agguantano qualche sparuta anguilla», e «le viuzze che seguono i ciglioni / discendono fra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni» 3°); appare già come rifugio (ma da abbandonare) nell’Osso «Non rifugiarti nell’ombra / di quel folto di verzura / [...]. È l’ora di lasciare il canneto / stento che pare s’addorma / e di guardare le forme / della vita che si sgretola» 57; o come luogo della mancanza dell’ Assente («Il canneto ri-
spunta i suoi cimelli [...] oltre i chiusi ripari l’afa stagna/ [...]. Assente, come manchi a questa plaga» 5); ma soprattutto assume una funzione essenziale in Fine dell’infanzia. Vi ritroviamo il paesaggio inquietante e, possiamo dirlo, criptico, della dimora infantile («So che strade correvano su fossi incassati, tra garbugli di spini; / mettevano a radure, poi tra i botri / e ancora dilungavano / verso recessi madidi di muffe, / d’ombre coperti e di
silenzi. /Uno ne penso ancora con meraviglia / dove ogni umano impulso / appare seppellito / in aura millenaria»), per divenire, nell’ultima strofe (dove compare appunto il canneto) l’immagine stessa della «plaga dell’infanzia», e il luogo dove si consuma la sua fine: «la fanciullezza era morta in un giro a tondo. // Ah il giuoco dei cannibali nel canneto, /i mustacchi di palma, la raccolta / deliziosa dei bossoli sparati! / [...] Certo guardammo
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muti nell’attesa / del minuto violento; / poi nella finta calma / sopra l’acque
scavate / dové mettersi un vento» 59. Questo canneto è dunque la scena di un «gioco di cannibali» (forse «l’antico gioco mai dimenticato» di Riviere 4, di una festa, cioè e di un
banchetto totemico, «delizioso», che presuppone l’uccisione dell’animale sacrificale. La «reticenza», qui, non aggiunge altro, ma in // bello viene dopo, nella Farfalla di Dinard, Montale ce ne offrirà il racconto completo. Un lui e una lei seduti in un ristorante; arriva il cameriere con la lista in mano;
lei ordina velocemente «consommé doppio, una paillard liscia, una mela al forno e un manzanillo». «[...] manzanillo? che cos’è», chiede lui, «l’albero del manzanillo fa morire chi ci dorme sotto. La sua ombra è micidiale»; lei
lo rassicura: è solo una bibita fresca e piacevole. Lui esita ancora di fronte al menu e alle offerte del cameriere: «Trota al bleu, sogliola alla meunière,
capitone alla livornese...». E, d'improvviso, scatta il ricordo: No, non mi tenta, ma mi fa ricordare il botro melmoso che passava accanto alla
mia casa [...]. Serpeggiava, forse si insinua ancora fra rocce e canneti [...] c’è qualche ristagno d’acqua, intorno al quale si affollano le lavandaie. Ma ci sono le anguille, le migliori del mondo. Rare, piccole anguille giallognole che è difficile vedere sotto la superficie grassa del sapone che intorbida l’acqua [...]. Se l’anguilla appariva e noi avevamo una forchetta la cosa era quasi sicura; un colpo, e l’anguilla trafitta e sanguinante era sollevata in alto e gettata poi sullo scrimolo, dove si torceva ancora per poco. Senza forchetta era un affare serio [...] ci voleva mezz'ora di fatica per prenderne una di venti centimetri, viscida, immonda, mezzo sbudellata, immangiabile. — Ma tu la mangiavi? — [...] La mangiavamo in tre o quattro dopo averla abbruciacchiata su un fuoco di paglia e di carta. Sapeva di fumo e di fango. Era deliziosa. Ma non era che la prima portata del nostro pranzo.
E, pp. 65-67. Il vento che è venuto a increspare la «finta calma» delle «acque scavate» (una cripta equorea?) può rimandare a quello che «entra nel pomario» e «vi rimena l’ondata della vita» di /n limine (di valeryana memoria: «Le vent se lève! Il faut tenter de vivre!» Le cimetière marin, in Charmes), ma può anche, ritengo, assumere o preparare funzioni e connotazioni diverse. Non quella di ondata di vita, ma piuttosto quella di vita-nella-morte: del formarsi, cioè, nel e dal reliquario, di un fantasma; come accadrà più tardi nel Quaderno, dove Montale rivisita i luoghi della scrittura degli Ossi: «Se ora qualche fantasma aleggia qui d’attorno / non posso catturarlo per chiedergli chi sei? / Può darsi che i fantasmi non abbiano più consistenza / di un breve soffio di vento». Dopo il «minuto violento» di Fine dell'infanzia,
quel vento che si forma, «si mette», sull’acqua è forse già lo stesso «breve soffio di vento» del fantasma della capinera, oppure, e anche, del soggetto stesso: («uno di questi réfoli / potrei essere anch’io senza saperlo»), minacciati ambedue dal dissolvimento: «Dove potranno allora rifugiarsi / questi errabondi veli? (E, p. 555).
SF
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Da30)
L’altra portata era un uccellino (un beccafico, per esempio) che i ra-
gazzi erano riusciti ad ammazzare con le fionde (ma lui disponeva di un Flobert) e il racconto indugia su tutti i particolari di questa caccia avventurosa, fino a che il beccafico («per noi era sempre lui, sempre lo stesso») non cadeva colpito: era ancora vivo; un gocciolone di sangue gli colava dal becco, l’occhio nero e lucido gli brillava ancora, poi un velo lo chiudeva. Il beccafico era morto. Lo spennavamo in fretta [...] tutta l’aria si riempiva di piume leggerissime [...]. Restava nudo, giallo [...] goffo come un manichino [...]. Sospeso su uno stecco,
crepitava stillando, s’imburrava da sé, mentre l’anguilla stava carbonizzandosi per conto suo sulla brace. E il nostro pranzo delizioso poteva cominciare. «Dovresti abituarti al manzanillo» gli dice la donna «Non fa morire, porta via il ricordo di tutto [...]. Ma tu vuoi restarci dentro, nel fosso; a pe-
scarci le anguille del tuo passato». Lui le promette: «La prossima volta comincio anch’io col manzanillo. Ma non smettere — disse lei — Una volta sola non basta. Il bello viene dopo» “!. Tutte le tessere del puzzle approntato dal testo degli Ossi e poi ripreso nelle Occasioni e nella Bufera ed infine rimescolate e magari ridistribuite nell’ultimo Montale, sembrano trovare qui il loro posto nel disegno completo della scena del pasto totemico e nelle sue connotazioni di godimento (segnalato sempre dall’aggettivo «delizioso»), di orrore e di vergogna, mentre il conclusivo rimprovero di lei lega l’ammonimento degli Ossi («Non rifugiarti nell’ombra...») a quelli della scrivente nella serie delle Botta e risposta di Satura, fino alla chiusa enigmatica: «Il bello viene dopo». Dopo che cosa? dopo l’amnesia? dopo che saranno sparite anche le buche le cripte e i nascondigli, risparmiate dalla devastante ruspa della rimozione? Oppure dopo che dalla cancellazione della memoria e dall’incistamento nell’inconscio artificiale della cripta, i ricordi — indistruttibili —
torneranno a ripresentarsi, a materializzarsi secondo i processi di condensazione e di spostamento propri del «lavoro» dell’inconscio? E gli spostamenti, nel libro montaliano, si moltiplicano. L'animale ucciso sarà di volta in volta un colombo
selvatico 4, un beccaccino 4, una
4!
Farfalla cit., pp. 64-69. #05 pi778. CNED 128
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starna, una tortora, una cesena 4, un gallo cedrone “, due tordi e un passero solitario 4, un’anitra nera ‘, gli uccelli presi nel paretaio “, una lucer-
tola o una formica 9, la capinera 5, qualche insetto 52, un uccello palustre 53, un uomo 5, e ancora, nella Farfalla, un passero e un verdone, un uccellino,
una cincia, la busacca, una farfalla, un pipistrello °°. E tutti rientrano precisamente nella serie degli animali totem, gli animali «portatori di anime» enumerata da Freud (ad eccezione del topo, presente ugualmente in Montale, ma come controfigura, quasi sempre, non dell’oggetto, ma del soggetto), e la loro uccisione da parte dell’Io sarà puntualmente, di volta in volta, affermata e denegata °°. Ma occorre soffermarsi ancora su altri due racconti della Farfalla dove quell’uccisione acquista altre connotazioni e dove l’animale viene esplicitamente identificato. In La busacca la fabula riguarda precisamente uno spostamento e una sostituzione: si spara ad un animale al posto di un altro. Il protagonista bambino non è ancora cacciatore, ma la sua immaginazione, immersa «nel favoloso bestiario dell’infanzia», è calamitata da un uccello straordinario, la mitica busacca, che
ogni cacciatore vorrebbe vanamente avere come preda. Falchi e gheppi morti, upupe e picchi neri potevano uscire talora raggrinziti e menci come fazzoletti sporchi dalle tasche dei tiratori di frodo; ma la busacca
no, era un sogno irrealizzabile. Fu questo il sogno che fece di Zebrino, per un giorno, un cacciatore.
AE PI23IE CNE D 252: sE pi 254: SRENpASITZO SEI p263. FE PD 275502: ME ND 373: 5! E, pp. 542, 555, 561, 643.
WE ND 559) FE Th St LR
SD 550)
5
Farfalla cit., pp. 43, 54, 38, 177. Qualche esempio: «Provo rimorso per aver schiacciato / la zanzara sul muro, la formica / sul pavimento» (SA (E), p. 352), «Si andava sulle formiche / e ho sempre evitato di pestarle» (ivi, p. 373); «Il pipistrello è l’unica bestia che io ho ucciso» (Farfalla cit., p. 179), «Ho ucciso solo due tordi / e un passero solitario». «Più tardi ne uccisi uno [...] il solo mio delitto /che non so perdonarmi» (D (E), p. 490); «tutte le capinere hanno breve suono e sorte / [...]. E aperta la caccia». (Q (£), p. 561), e «La capinera non fu uccisa / da un cacciatore, ch’io
sappia. / Morì forse nel mezzo del mattino». (ivi, p. 555).
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Il bambino «non disponeva di fucili», ma ugualmente «pensò orgogliosamente di partire giungendo là dove nessuno era mai arrivato: di uccidere la busacca il giorno del suo esordio e poi finirla per sempre con la caccia» (un sogno e una speranza, queste del fanciullo Zebrino, che ha la stessa forma, immaginativa e discorsiva — si noti — di quella delle parole, in
Satura: «le parole / dopo un’eterna attesa / rinunziano alla speranza / di essere pronunciate / una volta per tutte / e poi morire / con chi le ha possedute» °?). Il bambino, insieme ad un amico, si fabbrica una specie di fucile
con un tubo di piombo fissato ad un pezzo di legno e con un foro per la miccia, lo caricano di polvere nera e partono per la grande avventura. Il miracoloso incontro si fece attendere meno del previsto — un’ombra larga e avvolgente che passò a fior di terra, si abbatté in una forra [...]. Erano quasi sull’orlo del ciglio. Si udì uno sfrascare [...] gli arbusti si agitarono come al passaggio di un corpo pesante [...]. Fu un attimo solo, eterno. Il fumo si arricciolava nell’aria. Poi si vide un modesto uccellino — un passero o un verdone — levarsi dal suolo e posarsi sul nudo rametto di pinastro [...]. Zebrino [...] quasi senza volerlo, volse l’archibugio verso l’uccelletto e il colpo partì. Una vera esplosione gli fece saltar l’arma dalle mani, spezzata in due, e lo gettò quasi a terra, immerso in un nuvolone di fumo pestilenziale [...]. Il verdone non s’era mosso
dal suo ramo e pigolava guardandoli, incuriosito *.
. Uno sbaglio, un fallimento, e quel fucile che gli scoppia tra le mani, la punizione per il sogno troppo ardimentoso di uccidere «il grande démone imprendibile», la testimonianza della propria inettitudine, impotenza, incapacità; la scena comunque si chiude con un pasto (una scatoletta di carne che un minatore accorso offre ai due ragazzini spaventati), che è la vera e propria parodia di quello che conclude in «delizia» il gioco dei cannibali nel canneto. Il vero Totem, il grande uccello rapace resta fabü; e lo spostamento rovescia la connotazione gaudiosa della caccia e del delitto compiuto, in quella di una vergogna-delusione bruciante, di una umiliante rinuncia. E allora: quale delle due scene può assumere la funzione di scena primaria? Quella del delitto commesso, o quella del delitto fallito? Il banchetto cannibalico è veramente smentito dalla scatoletta di carne (che andrà
ad aggiungersi ai tanti altri relitti arrugginiti nel «rifugio» del canneto?),
5 E, p. 365. 58 Farfalla cit., pp. 42-43.
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sarà chiamato a «coprire» (nel senso del «ricordo di copertura» freudiano) la vergogna di una rinuncia umiliante? oppure, a contrario, il fallimento e l’umiliazione non costituiscono altro che la smentita, la denegazione e la copertura della «delizia» di un godimento inammissibile e inaccettabile? La costruzione teorica di Abraham riguardo alla funzione della cripta psichica condurrebbe verso quest’ultima ipotesi (l’evento delittuoso-gaudioso deve essere veramente
avvenuto);
ma non risolve niente, perché quel «vera-
mente» può riguardare (tanto Freud che Abraham lo sapevano bene) sia la realtà effettuale, sia la realtà del fantasma. L’Io «guardiano del cimitero»
continua il suo giuoco di depistaggi. Un altro racconto della Farfalla sembra volerci offrire la chiave risolutiva di quel problematico delitto: // pipistrello. Un uomo e una donna stanno per addormentarsi in una camera d’albergo quando entra dalla finestra un pipistrello; la donna è terrorizzata e vuole che lui lo scacci o lo
ammazzi; ne deriva una caccia movimentata ed inutile. Il pipistrello («ombra fluttuante e sinistra», «bestiaccia», «piccolo mostro» dal «volo cencioso e convulso») va a finire, con un tonfo, come c’era da aspettarselo, nel cestino della carta straccia: «Si udì un altro tonfo, più lieve, il cesto rotolò su
se stesso spargendo intorno [guarda caso] gusci d’uovo, cenere e fiammiferi spenti, e un’ombra sfrecciante si parti da quelle reliquie per raggiungere la conchiglia di alabastro nella quale luceva, come una perla nell’ostrica, la lampada del soffitto». La caccia continua e anche il dialogo tra i due. Il ristorante dove si erano conosciuti la prima volta non si chiamava «Il Pipistrello»? i | Strano — lui continuava tenendo d’occhio il conchiglione — Tu non sai che il pipistrello è l’unica bestia che io ho ucciso. Mi dicevano che era impossibile colpirlo, per via del suo volo irregolare. Basta un pallino per farlo scendere, basta un foro nelle sue ali vischiose [...]. Poi sparai io, quasi a caso; era la prima volta che tiravo un colpo [...]. E il pipistrello cadde, sbatté a terra come un fazzolettino mencio, si agitò ancora un poco e morì [...]. Ma fammi riflettere: questo non è neppure il secondo, è il terzo pipistrello importante della mia vita. Il primo lo sai, il secondo... sei tu o quasi, non ti offendere; il terzo è piovuto qui stasera [...]. Si era gettato sul letto — E se fosse — le sussurrò all’orecchio — se fosse mio padre ch’è venuto a farmi visita? [...] - Tuo padre? Perché? Un pipistrello? — Non so — diceva lui quasi piangendo — È l’unica bestia che ho ucciso, con qualche mosca e qualche formica, s’intende. L'unica, e mio padre ne fu
molto addolorato. Io credo ch’egli torni qualche volta a trovarmi, in un travestimento o nell’altro. — Ci ritroveremo in qualche luogo — mi disse il giorno prima di morire. — Sei troppo fesso per tirare avanti da solo. Non ti preoccupare [...] ci penserò io —. Ma io l’ho quasi dimenticato: solo qualche volta vedendo
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svolacchiare una di queste bestie, alzo il dito, prendo la mira e pàffete! lo vedo cadere come uno straccetto. E allora il ricordo di lui... Alzò il dito verso la conchiglia e subito il rapido volo pauroso si levò, sbatté contro il soffitto e ripassò la finestra, inghiottito dal buio fitto e sciroccoso 9.
L’improvvisa e inaspettata agnizione e identificazione del terzo pipistrello col padre morto (che ritorna, in un travestimento o nell’altro) sembra
venire a completare, fin troppo perfettamente il paradigma freudiano di Totem e tabù, ma senza cancellare l’umiliazione evocata nella Burrasca. Si,
un pipistrello è stato ucciso (anzi: è l’unico animale che egli ha ucciso), in quella «prima volta» (ma legata in qualche modo alla «prima volta» del loro incontro e quindi al secondo pipistrello), ma ora, questo, egli non l’ha né catturato né ammazzato: ha soltanto «finto» di uccidere quell’ombra che si è levata dalle «reliquie» sparse dal cestino rovesciato e che si è nascosta nella conchiglia di alabastro illuminata dall’interno (e qui è convocato tutto l'immaginario della cripta), prendendolo di mira con il dito, non con un’arma; e tuttavia il gesto agisce comunque (come in Buffalo: «il nome agì»), magicamente, e l’ombra, intatta, vola via inghiottita dal buio. Lo stesso gesto è descritto da Montale (o compiuto da Eugenio-Federigo) nel racconto La casa delle due palme, dove il protagonista ritorna a visitare dopo molto anni la casa familiare: «Federigo si volse, rivide il pioppo inclinato vicino alla serra, dove aveva colpito col Flobert il primo uccellino,
alzò gli occhi alle finestre del terzo piano, sede dei ritratti degli antenati poi entrò nella sala da pranzo»; il disagio e l’angoscia montano lentamente, pensa al sapore di quei cibi: una continuità che distrutta altrove, resiste negli unti dei soffitti, nel fortore de-
gli agli [...] nei ripieni pestati nel mortaio di marmo. Per essa anche i suoi mor-
59 Ivi, pp. 173-180. La frase pronunciata dal padre insieme umiliante e protettiva: «Sei troppo fesso per tirare avanti da solo», che confina il soggetto in uno stato d’inferiorità, ripropone la ferita narcisistica inferta dalla figura paterna, mai suturata e mai dimenticata, se persiste traversando tutto il Libro e se rappresenta, spesso, l’altra faccia delle figure femminili che nel recto assumono invece una funzione salvifica di riscatto. Si pensi ad esempio ai versi finali di Previsioni (AV (E), p. 697), dove è Clizia a pronunciare una frase altrettanto e for-
se ancor più bruciante («E poi non credo / che tu abbia armi da fuoco nel tuo bagaglio»), che si colloca chiaramente nell’immaginario della scena di caccia presentata nella Busacca, cancellandone la denegazione apprestata dàll’Io nei versi precedenti con lo scaricare sul «mezzo» (pallottola, fucile), vale a dire sulla neutralità del fato, la responsabilità di «ignorare» l’iden-
tità sia dell’uccisore che dell’ucciso.
473
+
ti [...] dovevano tornare talvolta in terra [...] e Federigo si alzò, mirò col dito la
cincia [...] e sparò mentalmente un colpo. — Sono ridicolo — balbettò poi — sarà un soggiorno delizioso %. Le piste, vere o false, si intrecciano e si confondono. Chi è stato uc-
ciso o non-ucciso, il pipistrello o la cincia? E quale dei tre pipistrelli? Il primo, della «prima volta», il secondo, identificato al «tu» femminile, o il ter-
zo, identificato al padre? Nella sequenza di Mediterraneo negli Ossi, il padre è il mare: un Padre come potenza insieme vitalistica e distruttiva («Dissipa, se lo vuoi / questa debole vita che si lagna» °'), un Padre-padrone delle cose e del linguaggio, un Padre-legge («Tu m’hai detto [...] che mi era in fondo la tua legge rischiosa» ‘2, «Così, padre dal tuo disfrenamento / si afferma, chi ti guardi, una legge severa» ), un Padre capace di abbracciare la terra (la madre-terra) che si protende desiderosa verso di lui («La pietra voleva strapparsi, protesa / a un invisibile abbraccio» %, come la fanciulla Esterina che si tuffa fra le braccia del suo «divino amico»), un Padre-vastità e un Padre-
tripudio che può riscattare il dolore o giustificare la morte («Tu vastità riscattavi / anche il patire dei sassi: / pel tuo tripudio era giusta l’immobilità dei finiti» °°); un Padre, infine, che si erge a modello impossibile da ade-
guare o raggiungere («Altri libri occorrevano / a me, non la tua pagina rom-
bante» %) e rispetto al quale il figlio non può che opporre la propria debolezza, l’inadeguatezza dell’«uomo che tarda/ all’atto [...] e forse m’occor-
reva il coltello che recide, / la mente che decide e si determina ”, il proprio scacco tramutato in una scelta: quella del «ritmo stento» e del «balbo par-
lare» di contro alla voce piena e risonante del mare ; quella dell’immobilità di Arsenio o della rinuncia alla pienezza della vita che l’infanzia aveva promesso, soffocandone i germogli ed i bocci («coi miei racchiusi bocci / che non sanno più esplodere oggi sento / la mia immobilità come un tormento» °°, la scelta del vivere, insomma, «al cinque per cento». Su questa
6 Farfalla cit., pp. 49-56. SMENASO; CRENDES 2)
6 E,p. 54. SE
DIS20;
65 E,p.53. 6 E,p. 57. Ibidem.
6 E, p.58. ® E,p. 680.
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dismisura tra l’Io e l’Ideale dell’Io si fonda l’ambivalenza verso la figura paterna: «Come allora oggi in tua presenza impietro, / mare, ma non più degno / mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro », ed ancora: «Giunge a volte, repente, / un’ora che il tuo cuore disumano / ci spaura e dal nostro si divide / Dalla mia la tua musica sconcorda / allora ed è nemico ogni tuo moto. / In me ripiego, vuoto / di forze [...] / E questa che in me cresce / è forse la rancura / che ogni figliolo, mare, ha per il padre». ”! Se il processo che abbiamo rintracciato, ben iscritto nel testo, ha una qualche credibilità, si tratterebbe di un processo di introiezione della figura paterna che si tramuta da Ideale dell’Io in un Super-Io non solo severo, ma feroce e distruttivo, che negli Ossi prende le sembianze del turbine marino («Oggi una volontà di ferro spazza l’aria, / divelle gli arbusti, strapazza i palmizi [...]. È un urlo solo, un mugolìo / di scerpate esistenze: tutto schianta l’ora che passa» ??), e più tardi quelle degli spietati ingranaggi del Tempo, della Storia, di Dio forse, che, come il mare, lasciano i resti delle
scerpate esistenze. Gli oggetti-reliquia nella cripta sarebbero allora i residui-testimonianza, sacralizzati e preservati, prodotti dalla furia-potenza del Padre introiettato, resti deietti tanto delle cose quanto dell’Io stesso: soggetto e oggetto ridotti ambedue in frammenti, in spazzatura. E non i restireliquia del banchetto totemico. Si tratterebbe insomma di introiezione e non di incorporazione del Totem-antenato-padre ucciso. E le reliquie sarebbero testimonianza preziosa e orrifica non di un delitto-godimento del figlio, ma di un delitto-godimento del padre, che si costituirebbe come nucleo della nevrosi criptoforica del testo montaliano. (In pieno accordo, del resto, con la teoria di Abraham e Torok che nell’analisi del caso dell’Uomo
dei lupi e nell’esplorazione della sua cripta, scoprono come scrive Derrida, «dietro il ricordo indicibile della propria seduzione per opera della sorella, il ricordo di un’altra seduzione, quella subita dalla sorella ad opera del padre» 7). Di nuovo una falsa pista o un trabocchetto del «guardiano del cimitero»? Forse. Ma, forse, non necessariamente.
Potrebbe trattarsi di una introiezione tentata, appunto negli Ossi (e più precisamente nella sezione Mediterraneo
e dintorni), ma di una introie-
zione mancata, che si trasforma in incorporazione, proprio come suggerisce
PF NpeS21 AP F \D:SS: CNE; pe 69)
3
J. Derrida, Fors cit., p. 50 n. e trad. it. citata p. 79 n.
475
Abraham: «Il fantasma di incorporazione tradisce una lacuna nello psichismo, una mancanza, nel posto preciso dove una introiezione avrebbe dovuto aver luogo» . E l’introiezione paterna potrebbe essere fallita o rifiutata proprio perché troppo rischiosa e distruttiva per il soggetto, mentre l’incorporazione assicura, come abbiamo già visto, la consistenza e la so-
pravvivenza del soggetto stesso. Dunque: una incorporazione del padre ucciso o del padre che uccide, sacralizzata in quelle anguille «sbudellate», in quegli uccellini arrostiti o nel pipistrello (ucciso, non-ucciso) che scompare nel buio. Ma ogni lettore di Montale sa bene che fin dagli Ossi e in tutto il Libro, gli animali-Totem, gli animali demonici e angelici, minacciati, feriti o
uccisi, incarnano non una figura maschile-paterna, bensì una figura femminile (o molte figure, dai diversi nomi, Clizia, Dora, Gerti, Liuba, Iride, Volpe, Mosca...) che i critici, detectives o curiosi, hanno cercato di indivi-
duare nelle diverse donne appartenenti alla biografia dell’Auctor. Ma se abbiamo verificato il lavoro dello spostamento nella serie dei diversi animali, dobbiamo accettare anche il lavoro della condensazione; per cui ha ben
ragione Montale a dichiarare che le diverse incarnazioni e le diverse figure femminili sono in realtà una sola, moltiplicazione o sfaccettatura dell’ Unica, del resto appena discernibile («Mi chiedono se ho scritto / un
canzoniere d’amore / e se il mio onlie begetter / è uno solo o è molteplice. / Ahimé, / la mia testa è confusa, molte figure / vi si addizionano, / ne for-
mano una sola che discerno / a malapena nel mio crepuscolo» *): un Tu, moltiplicato negli specchi, ma comunque sempre «l’uccello preso nel paretaio», l’animale-Totem pronto al sacrificio o sacrificato («hai le piume la-
cerate dai cicloni» %; «la tua infanzia dilaniata dagli spari» 7”; «anche una piuma che vola può disegnare / la tua figura [...] se rimbomba improvviso il copo che t’arrossa / la coda e schianta l’ali, o perigliosa / annunziatrice
dell’alba» *; «eri tu sul vertice: / scura, l’ali ingrommate, stronche dai geli dell’Antilibano» ”, per ricordare soltanto alcune occorrenze). Ed è appunto il valore di sacrificio che rende numinosa e demoniaca quella figura animale e femminile («Passione e sacrificio anche per un uccello? / Me lo
74
N. Abraham, EN. p. 261.
75 E, p. 563. 76 E, p. 144. © E, p. 166. FD
201
7 E, p. 228. 476
chiedevo allora e anche oggi nel ricordo» *°, scrive in Ottobre di sangue,
con la variante denegativa contenuta alla prima lezione: «Non assistei al sacrifizio, ma quando lo ricordo...» 8"): segno di «perdizione e salvezza» *? per se stessa, il soggetto, l’umanità intera. Un filo solo, insomma, si tende attraverso i tanti labirintici nodi e snodi del Libro montaliano dal lontano «gioco dei cannibali nel canneto» fino all’Anguilla: «Torcia, frusta, / frec-
cia d'Amore in terra [...] la scintilla che dice / tutto comincia quando tutto
pare / incarbonirsi, bronco seppellito» *5, o all’Angelo Nero davanti al quale l’Io si inginocchia «sui tizzi spenti se mai / vi resti qualche frangia / delle tue penne», nell’implorarne la protezione e la rivelazione: o angelo nero disvelati / ma non uccidermi col tuo fulgore [...] angelo di carbone [...] angelo fosco o bianco, stanco di errare / se ti prendessi un’ala e la sentissi / scricchiolare / non potrei riconoscerti come faccio / nel sonno, nella veglia, nel mattino [...] e il bruciaticcio, il grumo che resta sui polpastrelli / è me-
no dello spolvero dell’ultima tua piuma 8‘. Un’unica
e molteplice, metamorfica
figura femminile,
salvifica in
quanto soggetto-oggetto di passione, morte e consumazione eucaristica; ma non rimossa né incriptata, bensì dichiarata, svelata, tematizzata, direi proclamata a tutte lettere nel testo, senza reticenza alcuna. Questa figura abita,
sommuove ed esalta il testo, non si nasconde nella cripta: anzi la ripetizione moltiplicata e ostentata del delitto-sacrificio e della sua vittima sacralizzata, sembra occultare il processo stesso di occultazione, la costituzione del-
la cripta, il seppellimento segreto, la conservazione della reliquia, di qualsiasi cosa (delittuosa, vergognosa, eppure gaudiosa) essa sia la testimonianza. Sappiamo tuttavia che una figura femminile, quella di Annetta-Arletta, è stata realmente, letteralmente, deliberatamente rimossa e occultata
nel testo e dal testo, almeno dal momento del passaggio dalla prima alla seconda edizione degli Ossi («qualche brutto verso è stato rabberciato, il nome di Arletta sparisce, ecc.», scrive a Solmi il 22 agosto ’27, e di nuovo il
OF, puossì SESAMO: SEGEAPI2S8: ÉNERDAL254 84 E,p.369e si ricordi la splendida analisi di Oreste Macri in Due saggi, Lecce, Milella, 1977, pp. 3-75.
477
13 settembre ’27: «Sparisce anche il nome: Arletta, che così da solo non regge» 8), quando non soltanto quel nome sparisce dal titolo del componimento, sostituito da /ncontro, ma anche dai versi che già dicevano la sua
sparizione, e «Oh Arletta, tu dispari» diviene «Oh sommersa, tu dispari». Quel nome e quell’immagine vengono sospinte a sparire, ad affondare, invisibili, nel testo e a divenire, come scrive la Bettarini: «da un capo all’al-
tro del libro, una perpetua crittografia, una parola sotto la parola, un ipo-
gramma permanente» %, vale a dire a raggiungere, affondando, quel «rumore senza fondo della lingua» nel quale Saussurre cercava appunto il «nome nascosto» che «produce» ogni testo poetico, il «subjectum che contiene allo stato di germe, la possibilità del testo» (come dice Starobinski) ®. Per la puntualissima storia filologico-semantica di questo ipogramma
non posso che rimandare agli scritti di Rebay *, della Grignani *°, ma soprattutto a quanto splendidamente dimostrato dalla Bettarini ”. Certo è che l’incriptarsi del nome, fin dagli Ossi, corrisponde esattamente allo statuirsi dell’immaginario della cripta (e relativo reliquiario °!) con precise connotazioni: luogo da raggiungersi al termine di una discesa o sprofondamento o sommersione, spazio chiuso o semiaperto, spesso oscuro ma contenente qualcosa di luminoso, infuocato, ardente o incenerito. E soprattutto contenente, insieme, l’Io e il Tu, inclusi ambedue, immobili, nel luogo
criptico e magico. Si pensi alla lontana E/egia (del ’18): «Non muoverti. / Se ti muovi lo infrangi. / È come un gran bolla di cristallo sottile / stasera il mondo / [...] Meglio non muoversi. / È un azzurro subacqueo / che ci ravvolge [...]. Noi forse resteremo. / Noi forse. / Non muoverti / Se ti muovi lo
5%
G. Zampa, Introduzione all’edizione mondadoriana di Tutte le poesie montaliane
cit., p. XXXIII. #6
R. Bettarini, Un altro lapillo, in AA.VV., La poesia di Eugenio Montale, Atti del
Convegno Internazionale, Milano-Genova, Librex, 1982, p. 224.
#7
Jean Starobinski, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saus-
sure, Paris, Gallimard, 1971, p. 152.
8
Luciano Rebay, Sull’autobiografismo di Montale, in AA.VV., Innovazioni tematiche
espressive e linguistiche della letteratura italiana del Novecento, Atti dell’ VIII Congresso dell’ Associazione Internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, New York, 25-28 Aprile 1973, Firenze, Olshcki, 1976, pp. 73-83.
#
Maria Antonietta Grignani, Occasioni diacroniche nella poesia di Montale, in
AA.VV., La poesia di Montale cit., pp. 321-340. %
Oltre al contributo già citato alla n. 86, mi riferisco a R. Bettarini, Appunti sul «Tac-
cuino» del 1926 di Eugenio Montale, in «Studi di filologia italiana», 1978, pp. 457-515. %! Montale stesso ha dichiarato che il Tu di Zn limine è Annetta. Cfr. R. Bettarini, Un altro lapillo cit., p. 221.
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infrangi. // Piangi?» °°, ed a Marezzo: «Disciogli il cuore gonfio / nell’aprirsi dell’onda; / come una pietra di zavorra affonda / il tuo nome nell’acque con un tonfo! // [...] Ah qui restiamo, non siamo diversi. / Immobili così. Nessuno ascolta / la nostra voce più. Così sommersi / in un gorgo d’azzurro
che s’infolta» * e ancora a Nel Vuoto: «il fosso s’allargava, troppo fondo / per l’âncora e per noi / finché di scatto / qualcosa avvenne intorno, il vallo / chiuse / le valve, tutto e nulla era perduto. / Ed io fui desto al suono del tuo labbro / ritrovato — da allora prigionieri / della vena che attende nel cristallo / la sua giornata», come in Crisalide, dello stesso anno: «il silenzio ci
chiude nel suo lembo». Più tardi, nei componimenti della Bufera che segnano il ritorno segreto di Arletta, ritorna anche questo stesso immaginario criptico, ma di una cripta ormai chiusa e serrata, nella quale l’Io e il Tu insieme, e quella loro fusione nel noi, sono stati «espulsi» dal soggetto e chiusi nell’internoesterno del caveau dell’inconscio artificiale, e ivi custoditi come estranei.
Così in Due nel crepuscolo: «Fluisce fra te e me sul belvedere / un chiarore subacqueo che deforma / col profilo dei colli anche il tuo viso. / Sta in un fondo sfuggevole, reciso / da te ogni gesto tuo; entra senz’orma, / e sparisce nel mezzo che ricolma / ogni solco e si chiude sul tuo passo: / con me tu qui, dentro quest’aria scesa / a sigillare / il torpore dei massi. // [...] s’io levo / appena il braccio, mi si fa diverso / l’atto, si spezza su un cristallo [...]/ e il gesto già più non mi appartiene [...]. Non so / se ti riconosco; so che mai diviso / fui da te come accade in questo tardo / ritorno», e il «labbro ritrovato» nella protezione della cripta in // vuoto, divenuto reliquia, si fa più muto: «Ho visto il merlo acquaiolo / spiccarsi dal parafulmine: / al volo orgoglioso, a un gruppetto / di flauto l’ho riconosciuto. // [...] Ho visto nei vetri a colori / filtrare un paese di scheletri / da fiori di bifore — e un lab-
bro / di sangue farsi più muto» ”. Il merlo acquaiolo o passero solitario è, come poi la capinera, un senhal di Annetta (identificando il suo canto a una
sequenza di note della Manon di Massenet, come abbiamo già prima accennato), per cui, se ricordiamo il testo di Nascondigli II, la voce di An-
9 PD (E), p. 759. 9 E, pp. 88-90. % E, p. 779. CPE D 07:
CNED 218; PEN pi20$:
479
netta, al termine della sua trasformazione in reliquia e della sua deiezione in «resto», sarà quella del flauto della «gallina zoppa» che passeggia fra le macerie sparpagliate nel canneto). Ma dicevo prima che nello strutturarsi della cripta attorno al noi di Arsenio-Arletta (congiunti, come è stato notato, dall’omofonia della silla-
ba iniziale del loro nome), è sempre presente un elemento luminoso, ardente, solare. Il sole, l’oro del sole, del Dio-Sole, del Padre-Sole, anzi del
Padre-mare-sole (come ben suggerisce Bigongiari) *. Che arde e distrugge, ma anche purifica. Pensiamo a Riviere (del ’20)”: «Oh allora sballottati / come l’osso di
seppia dalle ondate / svanire a poco a poco; / [...] sparir carne / per spicciare sorgente ebbra di sole, / dal sole divorata», o all’Esterina di Falset-
to !%: «Noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo che la salsedine non intacca / e torna al lido più pura», ma anche ai testi arlettiani di Marezzo: «Fuori è il sole: s’arresta / nel suo giro e fiammeggia / [...] ora resta così, sotto il diluvio / del sole che finisce» e di Ne/ vuoto: «La criniera del sole s’invischiava / tra gli stecchi degli orti» !°!. E poi, naturalmente, i limoni, intravisti «da un malchiuso portone [...] e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità», (eco del mallarmeiano «l’or de la trom-
pette d’Eté» in Prose, quei limoni che puntualmente si ripresentano in Nella serra) !° a segnare il momento gaudioso della fusione del Tu e dell’Io sotto lo sguardo — pensiero di Dio: «Rapito e leggero ero intriso / di te, la tua forma era il mio / respiro nascosto, il tuo viso / nel mio si fondeva, e
l’oscuro / pensiero di Dio discendeva/ sui pochi viventi, tra suoni / celesti e infantili tamburi / e globi sospesi di fulmini // Su te, su me, sui limoni...». E pensiamo anche a quello che diverrà senhal di Clizia, il girasole, che si
incide sull’urna del sepolcro degli Ossi («dove trovare un asilo / per codesti che accolgono la brace / dell’originale fiammata/ [...] / un nulla, un girasole che si schiude / ed intorno una danza di conigli...») e torna nell’Os-
°*. Piero Bigongiari, Montale tra il continuo e il discontinuo, in AA.VV., La poesia di Eugenio Montale cit., pp. 76-77.
GESTO N VIT TT VE, rispettivamente pp. 88 e 779. E dobbiamo ricordare anche Crisalide: «Il sole s’immerge nelle nubi, / l’ora di febbre, trepida, / si chiude» (E, p. 85) e soprattutto il testo in-
compiuto di // sole d'agosto, analizzato con tanta intelligenza dalla Bettarini in Appunti sul «Taccuino» cit.
NF
480
D 241r
so «Portami il girasole ch'io lo trapianti nel mio terreno bruciato di salino
[...] Portami il girasole impazzito di luce» ', dove la metafora del trapianto indica l’atto di estirpazione da un luogo (la vita, il tempo, il reale) e l’inserimento in un altro luogo, interno all’Io («mio terreno»), già arso dal fuo-
co solare-paterno: l’atto, cioè, del ritaglio di un «blocco di realtà» da immettere nella cripta interiore. Sèmi di fuoco (oro, sole) e sèmi di morte connoteranno sempre più
drammaticamente l’incriptamento *, ma vorrei proporre qui due esempi particolari: «Come la scaglia d’oro che si spicca / dal fondo oscuro e liquefatta cola / nel corridoio dei carrubi ormai / ischeletriti, così pure noi / persone separate, per lo sguardo / di un altro?» '%); ed ancora: «[...] se non seppero crederti più che donnola o che donna, con chi dividerò la mia scoperta, / Dove seppellirò l’oro che porto [...}?» !°, dove l’ingorgarsi in perfetto parallelismo delle sillabe speculari (RO, RO/OR, OR) del sèma dell’oro,
segna l’ansia di quel seppellimento nella cripta dell’Io se il Tu venisse e mancare («dove la brace che in me stride se, / lasciandomi, ti volgi dalle
scale?» prosegue lo stesso testo), ma soprattutto se venisse a mancare quello «sguardo d’un altro», la condivisione della «scoperta», che è proprio la scoperta dello spettacolo stesso della fusione nel noi delle «persone separate».
«Il segreto del criptoforo deve essere condiviso, almeno da un terzo:
è la condizione di ogni segreto», scrive Derrida in Fors !, riprendendo Abraham-Torok che scrivevano: Essere un criptforo, che cosa significa? [...]. Come il desiderio nasce dall’interdetto, così il Reale [...] nasce dall’esigenza di rimanere nascosto, inconfes-
sabile. Che vale quanto dire che il Reale, quando nasce, è assimilabile a un delitto. Il nome del delitto non è sinonimo dell’interdetto, come quello del desiderio dell’isterico. Il suo nome è affermativo, dunque innominabile, come quel-
PE 10
ppi
2ie182:
Qualche esempio, fra i tanti: «Anche tu lo sapevi, luce-in-tenebra. // Nella plaga che
brucia, dove sei / scomparsa ...» (E, p. 171); «[...] ed ecco il sole / che chiude la sua corsa, che
s’offusca / ai margini del canto — ecco il tuo morso / oscuro di tarantola: son pronto» (E, p. 178); «[...] s'è impigliato nell’orto il vello d’oro / che nasconde i miei morti, / i miei cani fidati, le mie vecchie / serve — quanti da allora [...] son calati, / vivi, nel trabocchetto» (E, p.
200). UE p#199; 100 E pa259. 107
N. Abraham e M. Torok, Le verbier... cit., p. 20 e nella traduzione italiana p. 57.
481
lo di Dio, quello del godimento. Ora, non vi è segreto che non sia, all’origine, condiviso. Perciò il delitto in questione, oggetto del segreto, non potrebbe essere un crimine solitario. Necessariamente deve riferirsi a un terzo complice come luogo di un godimento indebito [...]. L'esistenza della cripta è la prova sufficente di un evento reale, implicante i rappresentanti delle istanze di interdizione come complici del compimento di un desiderio, indebitamente condotto al suo termine, il godimento l'#.
Il Padre-Sole-Oro nel primo Montale mi sembra abbia precisamente questa funzione ambivalente: di rappresentante della interdizione e di complice del delitto (secondo la nota formula del double bound, della doppia ingiunzione al figlio: «così come me tu devi essere» (forte, potente, deciso) — «Così come me non devi essere» (non devi prendere il mio posto, non devi appropriarti del mio potere). Ma Abraham-Torok proseguono: il segreto incriptato è sempre «il ricordo sepolto di una voluttà illegittima» !, «dietro i delitti, i cadaveri, gli assassinî, si ritroverà il ricordo di una voluttà che
si incista nel crimine immaginario [...] e la colpevolezza nasce dalla voluttà» !!°. Di quale natura sia questa voluttà è facile inferirlo (l’unione erotica, fosse anche immaginaria, dell'Io e del Tu), ma in Montale essa viene
ad articolarsi, ed esaltarsi (con i conseguenti sensi di colpa e di angoscia) con un altro godimento, con un altro crimine, quello di un furto: il furto
della potenza, dell’oro, del fuoco, del godimento stesso, appartenenti al So-
le, Padre, Dio !!!. Un furto perpetrato non certo nelle eroiche modalità pro-
108
N. Abraham, EN. pp. 252-56.
109 Ivi, p3 242; PT DD: 126: !!! Nell’VIII componimento della serie di Mediterraneo si era già configurato il desiderio di un furto: quello della parola paterna: «Potessi almeno costringere / in questo mio ritmo stento / qualche poco del tuo vaneggiamento; / [...] io che sognava rapirti / le salmastre parole / in cui natura e arte si confondono, / per gridar meglio la mia malinconia / di fanciullo invecchiato che non doveva pensare». (E, p. 58). Così come si era anche configurata, nel VI, l'assimilazione del padre-mare al sole: «serberemo un’eco / della tua voce, come si ricorda/ del sole l’erba grigia / nelle corti scurite tra le case» (p. 56). Ma, soprattutto, nell’intera serie ed in particolare nel citato testo dell’VIII componimento, si costruisce ed affiora l’identificazione della voce del padre-mare-sole alla voce della poesia dannunziana, offrendo così un ulteriore referente, più puntualmente letterario, per una figura paterna da amare e odiare, invidiare e rifiutare, da uccidere dunque (e divorare, e incorporare). Del resto
D’ Annunzio, co-
me princeps dei «poeti laureati» che prediligono le piante dai «nomi poco usati», si era disegnato con sufficiente evidenza già in apertura degli Ossi, ne / limoni, con la precisa funzione di strumento di identificazione, in negativo, del soggetto poetante che, in positivo, si qualifi-
482
meteiche, da parte di un soggetto che appartiene «alla razza di chi rimane a terra»; l'appropriazione delle virtù parterne non può avvenire che per incorporazione: il pasto «delizioso» del gioco dei cannibali, nel quale si inghiotte, si seppellisce nel corpo, si assimila, eventualmente, si defeca (con tutto l’immaginario scatologico montaliano) il Totem ucciso. La «rimozione conservatrice» della cripta conserva così la testimonianza di un duplice delitto e di un duplice godimento: quello dell’uccisione-divorazione del Sole-Padre e quello della fusione con il Tu di cui lo stesso Sole-Padre è stato, ed è, complice; per cui i «resti» deietti, le reliquie conservate in vitro («Lampi di afa sul punto del distacco, / livida ora an-
nebbiata, / [...] se non fosse / per quel tuo scarto in vitro, sulla gora, / entro una bolla di sapone e insetti» !!), sono insieme quelle del soggetto, dell’amata, del padre, del sole; tutti marcati dal segno del fuoco, dell’oro,
della violenza, del colpo di fucile, delle piume spezzate, dall’orrore e dal godimento, tutti uccisori ed uccisi, e tutti sacralizzati (angeli-demoni), par-
ca (attraverso i fossi, le anguille, i ciuffi delle canne, gli orti con i limoni) a partire dagli elementi della «scena» del «gioco dei cannibali». È noto, comunque, che il titolo stesso degli Ossi di seppia è di per sé una citazione dannunziana da due luoghi di A/cyone (Ditirambo HI, 27, e Il Novilunio, 79). Ma citazioni ancora più dirette e complete sono contenute proprio in Mediterraneo VIII, che rimanda al testo alcyonio di // fanciullo (con funzione proemiale e di di-
chiarazione di poetica) non solo nella ripresentazione del famoso binomio di «natura e arte» (D’Annunzio: «Natura e Arte sono un dio bifronte...», v. 168; e Montale: «io che sognava ra-
pirti / le salmastre stro» si colloca in conia di fanciullo dannunziano, «bel
parole / in cui natura e arte si confondono», dove già l’aggettivo «salmaarea dannunziana), ma anche nella rappresentazione della propria «malininvecchiato», che costituisce l’eco parodizzata del fanciullo «fuggevole» figlio della mia melancolia [...] quasi improvviso / ritorno dell’infanzia più
lontana» (vv. 251-260); mentre la chiusa del componimento («M°’abbadonano a prova i miei pensieri. / Sensi non ho; né senso. Non ho limite») condensa liberamente le due ultime strofe
di Meriggio e la sua chiusa («Ogni duolo / umano m’abbandona. / Non ho più nome. / E sento che il mio volto / s’indora dell’oro / meridiano / [...]}. Non ho più nome né sorte / tra gli uomini [...]. In tutto io vivo / tacito come la morte. // E la mia vita è divina»): toccando, insom-
ma, le motivazioni più segrete e profonde della propria emulazione denegata e rifiutata e quindi della propria «rancura», anche verso questa (diversamente determinata) figura paterna. Un'ultima eco del binomio «natura e arte» ritorna forse nel tardo Montale del Quaderno, con-
traffatto e parodizzato, spostato dai suoi semantismi originari (naturalezza/artificio; vitalismo/perfezione mortuaria; vita mortale/arte eterna), ma ancora, e più manifestamente, con-
nesso ad un delitto: «Non si può esagerare abbastanza / l’importanza del mondo / (del nostro, intendo) / probabilmente il solo / in cui si possa uccidere / con arte e anche creare / opere d’arte destinate a vivere / lo spazio di un mattino, sia pur fatto / di millenni e anche più» (£,
p. 545). NE
p.260;
483
tecipi, in qualche modo (anche denegato, rovesciato nel contrario) della di-
vinità del Dio-Padre-Sole-Giove !!3. Come nel sempre splendido testo del Gallo cedrone: Dove t’abbatti dopo il breve sparo / (la tua voce ribolle, rossonero / salmì di cielo e terra a lento fuoco) / anch’io riparo, brucio anch’io nel fosso. // Chiede aiu-
to il singulto. Era più dolce / vivere che affondare in questo magma, / più facile disfarsi al vento che / qui nel limo, incrostati sulla fiamma. // Sento nel petto la tua piaga, sotto / un grumo d’ala; il mio pesante volo / tenta un muro e di noi solo rimane / qualche piuma sull’ilice brinata. // Zuffe di rostri, amori, nidi d’uova / marmorate, divine! Ora la gemma / delle piante perenni, come il bruco,
/ luccica nel buio, Giove è sotterrato !!4.
con i sèmi dell’eros negli amori e «nidi d’uova, marmorate, divine», quelli dell’uccisione-sacrificio nella piaga sotto l’ala, quelli dell’incorporazione alimentare nel «rossonero salmì», e quelli della cripta nel fosso, nel sotterramento, ma anche nel limo e nel magma l*. Poiché, soprattutto nella Bufera, le pareti della cripta possono presentare qualche incrinatura, o spacco, la sua tenuta sembra cedere (forse per la forza stessa del lavoro di sovraimpressione, sulla «sommersa» figura di
13° Un esempio, tra i tanti possibilli: «A forza d’inzeppare / in una qualche valigia di finto cuoio / gonfia da scoppiare / tutti i lacerti della nostra vita / ci siamo detti che il politeismo / non era da buttar via. // Le abbiamo più volte incontrate, / viste di faccia o di sbieco / le nostre mezze divinità / [...] // e salutiamo con umiltà gli iddii /che ci hanno dato una mano nel
nostro viaggio, / [...] perché tutto che riempie un vuoto / non fu né sarà mai più pieno dei / custodi dell’Eterno, gli invisibili» (D (£), p. 475).
DE
FD 250:
15 Un analogo incastro dei molteplici sèmi interconnessi (cripte, grotte, la messaggera e il suo volo, le sue piume, eros e amore divino, fucili e spari) si presenta in un registro e una struttura diversa e più complessa in Elegia di Pico Farnese, per la quale mi limito a richiamare l’attenzione su un passo della lettera a Bazlen del 10 maggio ‘39 (E, p. 930) ri-
guardante il «teatro dell’infanzia»: «è certamente perto», dove Montale difende il senso di un vero to a Pico può essere certo che il teatro è un vero ugualmente il sospetto, il dubbio, il suggerimento
equivoco, ha tutt’e e due i sensi che hai scoteatro, di una scena teatrale: «solo chi è stateatro dove si recita; chi non c’è stato avrà del vero teatro; perché il teatro nel senso di
milieu (il teatro del delitto) sarebbe molto banale e difficilmente attribuibile a Eusebius», do-
ve l’ultima frase suona come una clamorosa denegazione che fa emergere a tutte lettere il «delitto» negato; così come nella successiva lettera del 9 giugno ‘39, dove, a proposito della strofetta «Grotte dove scalfito / luccica il pesce» e della sua spiegazione, aggiunge: «Se puoi, anche mutando tutto, fai una canzonetta sincretistica dove dio e phallus appaiono mescolati equivocamente [...]. Senso però che il Poeta [sic] non approva che con molte riserve» (E, p. 931).
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Annetta, delle sue varianti: Clizia, Iride, Volpe), la saldatura del reliquiario sembra non essere più perfetta, la conservazione della reliquia (frammentata e corrosa, ma intatta) si fa più precaria, ed essa rischia di marcire, di andare in putrefazione, come nelle parole dell’ombra vivente che accompagna quella del padre morto in Voce giunta con le folaghe: «memoria / non è peccato finché giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione // che fun-
ghisce su sé» !!°. Le effrazioni della cripta se permettono il depositarsi in essa dei nuovi senhals di altre (ma sempre la stesse) figure femminili, per-
mettono anche alla sommersa di ripresentarsi in dubitanti agnizioni !!” connotate sia dal gaudio ritrovato, sia dall’orrore di riconoscere in essa il volto stesso della morte, quello che la reliquia dovrebbe mascherare e coprire. Ghermito m’hai dall’intrico / dell’edera, mano straniera? / M’ero appoggiato alla vasca / viscida, l’aria era nera, / solo una vena d’onice tremava / nel fondo,
quale stelo alla burrasca. / Ma la mano non si distolse, / nel buio si fece più diaccia / e la pioggia che si disciolse [...] frugava tenace la traccia / in me seppellita da un cumulo, / da un monte di sabbia che avevo / in cuore ammassato
per giungere a soffocar la tua voce, / a spingerla in giù, dentro il breve cerchio / che tutto trasforma, / raspava, portava all’aperto / [...] il sorriso / di teschio che
a noi si frappose / quando la Ruota minacciosa apparve / tra riflessi d’aurora, e fatti sangue /i petali su me scesero / e con essi / il tuo artiglio, com’ora "8.
SCE \p 251: 117
Si pensi ad esempio a /ride: «Se appari, qui mi riporti, sotto la pergola / di viti spo-
glie [...].
/Ma se ritorni non sei tu, è mutata la tua storia terrena [...]» (E, p. 240), oppure a Ne/
parco (p. 242) dove il «riso che non mi appartiene» proviene da lei, Annetta-Arletta, sepolta e conservata nella cripta (figurata dall’ombra della magnolia) che, ricordiamolo, essendo interna al soggetto ma esterna all’Io, rende l’Io stesso estraneo a sé, ed insieme lo riconduce alla situazione fusiva del «noi», tipica dei testi arlettiani; oppure ancora a L'orto (E, p. 243),
scandito dalla quadruplice anafora di «Io non so...», dove i due tempi, passato e presente, «allora» e «ora», si toccano e si articolano l’uno sull’altro, e il «chiuso», l’«orto», «il muro» ap-
partengono allo spazio arlettiano degli Ossi, quello dell’«altra estate» all’infanzia, mentre «questo intrico» appartiene all’adesso della furia e della guerra (l’«ora della tortura e dei lamenti»); ma anche si sovrappongono, così come le membra di lei (la sommersa), indistinguibili dalle proprie, congiunte nel «solco solo» del disco già inciso, che non è soltanto la figura del destino, ma anche l’incavo che separa la cripta ed in essa si incide a isolare il reliquiario, e che divide-unisce l’interno e l’esterno, il passato e il presente, il Tu e l’Io. Come in Da un lago svizzero: «Sei tu che brilli nel buio? Entro quel solco / pulsante [...] / io, straniero, ancora piombo» (E, p. 263). 18
«Ezechiel saw the wheal» (E, p. 247). La mano straniera è la stessa di Ne/ parco
(«una mano / scorrente da lungi tra il verde») e dell’Orto («io non so se la mano che mi sfio-
485
Il lavoro di costruzione (e di restauro) della cripta minacciata dall’ir-
ruzione del tempo e della vita (nella visione della ruota fiammeggiante di Ezechiele), che rischia di vanificare la sua funzione «protettiva» di interruzione della catena del tempo, consiste appunto in quest’opera di «spingere in giù», seppellire, sommergere, soffocare, la voce di «lei», la voce di Annetta, «che sommessa rifluisce dai cieli dell’infanzia» !!° fino a perce-
pirne un’eco soltanto, incancellabile: «e di te sola / non mi resta che un’eco di parola / e il sapore ch’io serbo tuo: la cenere» !°0, Ancora una volta sarà un racconto della Farfalla ad offrircene la parodia, ma anche qualcosa di più, un elemento inaspettato, di rivelazione (0 di inganno): un racconto disposto immediatamente a seguito del Pipistrel-
lo, a sottolinearne l’analogia funzionale. Si intitola L’angiolino !?!, E quello che un lui e una lei chiamano col nome affettuoso di angiolino è una piccola sveglia, marca Angelo, che essi, nei loro viaggi, tengono nascosta in una valigia perché «lui non sopporta il lievissimo tic tac di quel cuoricino meccanico e lei non ama quel brulicante allumachio di fuoco a due passi da sé» («brillerebbe anche di notte»). «L’unica soluzione è di seppellire 1’ Angelo nel fondo della valigia». Lo portano sempre con sé, aspettando ogni mattina, già svegli, di essere destati da lei: [...] nel buio della camera si ode improvvisamente un suono quasi inverosimile, lo scuotere di un sistro leggerissimo che parte dalle profondità di una valigia di
ra la spalla / è la stessa che un tempo [...]»): la mano fantasmatica di Annetta che assume la
precisa funzione perturbante del ritorno del rimosso, legato al lacerante e disperato lavoro che la rimozione-incriptamento comporta: una sorta di uccisione per soffocamento, quello di seppellire un vivente e mantenerlo laggiù nella cripta come un morto, o come la morte, «la morte che vive» (Notizie dell’ Amiata, E, p. 182). La vasca è quella stessa degli Ossi (E, p. 71), dove la res contenuta nella cripta in fieri (la vasca), in quanto immagine inconsistente e non ancora «blocco di realtà», «di erompere non ha virtù / vuol vivere e non sa come; / se lo guardi si stacca, torna in giù». I capelli «tuoi / d’allora, troppo tenui, troppo lisci» sono quelli stessi
(«pallidi») di Annetta in /ncontro (E, p. 97); i petali del pesco «fatti sangue» rimandano al «labbro di sangue» di lei in Da una torre (E, p. 208, con l’autocommento «Ma è ben difficile ritrovare un paese distrutto o far risorgere un ‘labbro di sangue’», E, p. 949); ed il suo arüglio mortale potrà essere quello dell’uccello, predatore o predato, che (con la rinnovata citazione della arlettiana Punta del Mesco) ricomparirà, come di consueto parodizzato, in Ottobre di sangue (AV (E), p. 685) nel colombaccio ferito (quello di Lettera levantina?), raccolto e portato per salvarlo «nel nostro orto», ma poi divorato dal gatto: «e ne restò / solo un grumo di sangue, becco e artigli», i «resti», appunto, da conservare nel reliquiario.
1 In Accelerato, E, p. 130. Ep S2i !2! Farfalla di Dinard cit., pp. 181-186.
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cinghiale. Per udirlo bisogna essere svegli e stare molto attenti; basta un sospiro, uno sbadiglio [...] per soffocare quella voce, per far sì ch’essa muoia inascoltata.
Una mattina non odono la vocina, si accusano a vicenda di non aver
caricato la sveglietta (come sempre, da vent'anni) o di non averla sentita perché addormentati o forse perché è stata coperta dal «baccano d’inferno» che fanno nella stanza accanto. Lei tronca la discussione: «il bambino deve aver suonato verso le nove. Non c’è scusa che tenga». E lui: «— Il bambino? — dice — Che bambino? È un’idiozia chiamar così questa povera sveglia sfiatata: L’ Angelo non è un bambino, è un orologio. — L’hai detto te che è quasi come un nostro figlio [...]. (Prende l’angiolino, lo bacia, lo ripone con tenerezza in un sacchetto di tela scozzese e ripone il sacchetto in fondo alla valigia). — Basta — dice lui esasperato — Bisogna finirla con questi infantilismi. Niente figli spuri [...], niente sentimenti crepuscolari» !?2, Bisogna pensare a cose concrete, bisogna tirare al sodo [...]. Dal fondo della valigia si ode un suono impercettibile, quasi un pulviscolo di suono che dura pochi secondi e si estingue. «— Non c’è niente di guasto — dice lui vergognandosi di sentirsi una voce alterata. — Era fissata sulle nove e un quarto, non sulle nove [...]. Lei sta riponendo l’angiolino nella custodia».
Ma anche il lettore ha trasalito. Un bambino? che bambino? un bambino immaginario, sepolto là nella valigia-cripta, riposto teneramente nel sacchetto-reliquiario, o soffocato da cumuli, da mucchi di sabbia: un bambino di lui e di lei, mai nato (quei nidi con le uova marmorate, divine, e i
«paradisi di fecondazione» dell’ Anguilla!) oppure o lui o lei bambini, insieme, la loro «infanzia dilaniata dagli spari» e lei, detentrice, da allora, del-
la Chiave dell’enigma «che ci affatica», ed entrambi «bestiuole ferite» da un cacciatore? Ma quale? il padre di lui, il padre di lei, il soggetto stesso, lo zio demente, il «male universo»... ? !3 Riproporsi ancora la domanda: chi uccide chi? chi soffoca chi? è ormai improprio. L’indecidibilità, nel continuo spostarsi dei termini, nel rovesciamento da attivo in passivo e viceversa (colui che uccide in colui che è ucciso, colui che mangia
in colui che è mangiato, «farcitore o farcito», e
il richiamo può essere al saggio freudiano Un bambino viene picchiato), è in realtà inseparabile dallo statuto stesso dell’incorporazione e della cripta,
12
Ricordiamo che Montale parla della poesia crepuscolare come «mondo messo sot-
to vetro» (cfr. Fuori di casa, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, p. 173). 123 Il rimando è a Lettera Levantina (E, p. 773).
487
che contiene il reliquiario, che contiene la reliquia, che contiene la morte, che contiene la vita, che contiene il mondo... Montale lo sapeva: Il tarlo è nato, credo, dentro uno stipo / che ho salvato da sgombri e inondazioni. / Il suo traforo è lentissimo, il microsuono non cessa. / [...]. Io stesso / sto
trivellando a mia insaputa un ceppo / che non conosco e che qualcuno osserva / infastidito dal cri cri che n’esce, / un qualcuno che tarla inconsapevole / del suo tarlante e così via in un lungo / canocchiale di pezzi uno nell’altro '?4.
Derrida, sempre in Fors, riflette sullo statuto del «referente ultimo» nella struttura della cripta: esso «non si presenta mai di persona», costituisce sempre una sorta di traduzione, da un «originale» già marcato dalla finzione (l’evento istitutore della cripta, il non-luogo della «prima incorporazione») un «originale che non è che un luogo asintotico di convergenze per tutte le traduzioni e i tradimenti possibili, approssimazione interminabile
per l’idioma, interminabile per il testo originale stesso» !25. Non altro dice anche Montale: «Se l’uomo è fatto vivere dalla sua causa / e l’atto dal motivo / non si ritorna alle origini, si vive / una retro-
cessione senza arresti. / Di te, del tuo segreto ho cercato invano / l’archetipo vivente o estinto, quale che fosse» !29. Ma la prima redazione era più esplicita. [...] non si torna alle origini, si entra / in una retrocessione senza pause. Ero certo di amarti, ma ti ricalcavo / da un archetipo falso ricalcato su un altro. / L’im-
magine testuale, in fondo al pozzo, bravo / chi sapeva trovarla [...]. Tu non eri il cacciatore, tu eri / non l’ultimo o il penultimo di un fluido / filo / di errori veri o immaginari, senza / lampi né spari. tu eri appena l’eco / di un nulla, io molto
meno e questo è tutto !?7, Nessuna uccisione, allora, nessun delitto, nessuna «scena primaria»,
né lampi, né spari. O forse un delitto «primario» è stato davvero compiuto, e incriptato. L'uccisione del «bambino» (soffocato e sepolto nella valigia di cinghiale) o di Annetta (la sommersa): quello comunque di cui parla Serge Leclaire in Si uccide un bambino. Il bambino da uccidere e da glorificare,
onnipotente
124.
e terribile,
«parte
maledetta
e universalmente
condivisa
Retroscena, di DI, (E, p. 428).
12° N. Abraham e M. Torok, Le verbier... cit., pp. 34-35 (tr. it., p. 67).
16 E, p. 788. 7
488
E, pp. 1172-1173. Si avverta che «fluido» e «filo» costituiscono varianti alternative.
dell’eredità di ciascuno: oggetto di un assassinio necessario e impossibile»; esso «merita a buon diritto il nome di infans: non parla e non parlerà mai. Nella misura esatta in cui si comincia a ucciderlo, si continua a parlare veramente, e a desiderare » l#. Quello stesso di cui parla anche Lyotard: «nessuno sa scrivere. Ognuno, il più grande soprattutto, scrive per afferrare per mezzo e per entro il testo, qualcosa che non si lascia scrivere. Che non si lascerà mai scrivere [...]. Battezziamola infantia, ciò che non si parla. Un’infanzia che non è un’età della vita e che non passa. Essa hante [abita come un fantasma] il discorso. Il discorso non cessa di spingerla da parte, è la sua separazione. Ma si ostina, perciò stesso, a costituirla come perduta. Senza saperlo, la custodisce, è il suo resto» !°°. L’infanzia del non-detto e non dicibile, della negazione inaugurale («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»), del silenzio «prima che il desiderio trovi le parole» !5° nel quale «si svela prima di legarsi / a immagini, a parole, oscuro senso / reminiscente, il vuoto inabitato / che occupammo e che attende, finch’è tempo / di colmarsi di noi, di ritrovarci» !5!.
128. Serge Leclaire, On tue un enfant, Paris, Seuil, 1975 (trad. it., Si uccide un bambino, Milano, Garzanti, 1976, p. 19). 1% Jean-François Lyotard, Lectures d’ enfance, Paris, ed. Galilée, 1991 (pagina introduttiva).
ME, priss: 131 Voce giunta con le folaghe (E, pp. 250-251). Questo «vuoto del prima-della-parola e in attesa di accogliere di nuovo il soggetto dopo l’estinzione della parola, il silenzio, cioè, del pre-linguistico e del post-linguistico (e rimando alla teorizzazione di Bigongiari in L’evento immobile, Milano, Jaca Book, 1987, soprattutto alle pp. 26-27 e 38-42), questo vuoto, genetico e potenziale, che costituisce, letteralmente, l’infantia è anche un vuoto di senso in at-
tesa di riempirsi di senso o di molti sensi, anteriore al formarsi del significato. Nel primo Montale il tema è ben presente attraverso il rapporto di opposizione musica/parola. Si pensi a Suonatina di pianoforte (del ‘19), in PD, E p. 763, di gusto palazzeschiano: «Vieni qui, facciamo una poesia / che non sappia di nulla / e dica tutto lo stesso, / e sia come un rigagnolo di suoni / stentati / che si perde tra sabbbie / e vi muore [...] ché tanto credi proprio / a grattare nel fondo non c’è senso; / [...] e se le parole ci mancheranno / noi strapperemo il filo del discorso / per svagarci in un minuetto approssimativo / che si disciolga in arabeschi d’oro ...»; o alla serie di Accordi (che ha come
sottotitolo «Sensi e fantasmi di una adolescente»), ad
esempio Violoncelli, dove l’appello fonico degli strumenti si rivolge alla giovinetta come a/ter ego dell’Io: «séguici nel gurge dell’Iddio / che da sé ci disserra, / echi della sua voce [...] /E saprai i paradisi ambigui dove manca/ ogni esistenza: seguici nel Centro / delle parvenze: (ti rivuole il Niente!)» (E., p. 766); o all’Osso: Tentava la vostra mano la tastiera (E., p. 42), dove l’«ignoranza», da parte del Tu e dell’Io, si estende anche al linguaggio musicale, che perde la propria forma accostandosi alla voce non umana del mare («ne bruiva [...] la marina chiara»). La quale ricompare in Mediterraneo, come abbiamo già visto, in quanto tonante e
489
Il libro di Montale è forse la grande cripta costruita per custodire quel «resto», quell’«ombra», quell’infanzia: il loro rifugio e nascondiglio tra le parole, la loro sopravvivenza. Di quel mio primo rifugio / io non ricordo che le ombre / degli eucalipti; ma le altre, / le ombre che si nascondono / tra le parole: imprendibili, / mai palesate, mai scritte, /mai dette per intero, / le sole che non temono / contravvenzioni, / persecuzioni, manette, / non hanno né un prima né un dopo / perché sono l’essenza della memoria. / Hanno una forma di sopravvivenza / che non interessa la
storia, / una presenza scaltra, un’asfissia che non è / solo dolore e penitenza '*°.
imperiosa voce paterna, che include tuttavia nel proprio rombo, anche il sussurro («e il suo rombo non era che un sussurro», p. 54), o il mormorio che induce verso il rischioso estinguersi e del linguaggio e dell’Io stesso («forse il nostro cammino / a non tocche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza; / o sarà forse un discendere / fino al vallo estremo / nel buio, perso il ricordo del mattino» (p. 56), ma di cui l’Io parlante e poetante deve serbare l’echeggiante memoria, sia pure di «parole senza rumore», o di un «ansare / che quasi non dà suono» (p. 59): della Infantia, cioè, che «abita» il discorso.
132 Botta e risposta III, in SA (E., p. 360-363). Il testo, ricordiamolo, presenta anche vari elementi dell’immaginario alimentare, legato al remoto banchetto totemico, che è alla radice dell’incorporazione criptica (si veda, nella «proposta», la pentola che bolle, e, nella «risposta» il menu presentato dall’oste («indovinai ch’erano triglie e lo furono, / anche se marce, e mi parvero / un dono degli dei», molto vicine alle ben note anguille), articolato con il tema della divinizzazione, conseguente all’incorporazione del totem («Io ero un nume / in abito turi-
stico [...] Ma ero pur sempre nel divino ...»), compensazione sublimante del «dolore e penitenza» che l’uccisione sacrificale comporta. Per quanto riguarda l’asfissia, è quella stessa della sommersione di Arletta nel testo, o dell’angelo-bambino soffocato nella valigia, o quella di In vetrina (SA, E), p. 317, immediatamente seguente al testo di La storia, dal quale siamo partiti), delle «bacheche dei misantropi» che custodiscono, imbalsamati, gli uccelli di malaugurio, «ma potrebbe anche accadere che la rondine / nidifichi in un tubo e un imprudente / muoia per asfissia», dove questa asfissia (che si oppone a quella degli uccelli di malaugurio imbalsamati) è quella del soggetto incluso nella cripta, otturata dalla nidificazione (quei «nidi d’uova marmorate divine»!) di un volatile beneaugurante e imprendibile come la rondine, da un gaudio, cioè, ma «imprudente», indicibile e interdetto. Ma l’asfissia delle «ombre che si nascondono tra le parole» e che «non è solo dolore e penitenza», è forse più vicina a quella «asfissia caotica» di cui parla Bigongiari, che connota lo stato pre-verbale dal quale il soggetto deve compiere «la propria emersione significativa», a partire «dall’impulso che slabbra nel vuoto la possibilità di parola [...]. Là, in tale vuoto — l’antico vuoto dell’asfissia — si articola come un tentacolo il segmento di significato, che esplora il vuoto e lo qualifica, cioè lo riempie un po” per volta di quell’antivuoto che è il linguaggio» (P. Bigongiari, Jacques Dupin, «un agonisant debout», in L’Evento Immobile cit., pp. 265-266). Si ricordi, in questo senso, anche il testo di Satura II (E, p. 390), dove i vari elementi (asfissia, parola, non-parola, memoria, ammasso di fatti, un cadavere, una impalcatura che non regge), legati al Tu «propellente», sono ridistribuiti in altra forma, «purché non sia silenzio»: «Non posso respirare se sei lontana.
490
Ma l’ultimo Montale, prevenendo, come al solito, i suoi lettori, scrive anche:
Il fatto è che la vita non si spiega / né con la biologia, / né con la teologia. / [...] Non resta che il pescaggio nell’inconscio: / l’ultima farsa del nostro moribondo teatro. / Manderei ai lavori forzati o alla forca / chi la professa o la subisce. È
chiaro che l’ignaro / è più che sufficente per abbuiare il buio !*3. Poiché nessuno di noi, penso, vuole andare alla forca o ai lavori for-
zati, sarà meglio smetterla. «A questo punto smetti / dice l’ombra / [...]. T’ho ingannato / ma ora ti dico a questo punto smetti» '*, e forse non è solo l’ombra che lo dice a Montale ma anche lui a noi. Niente pescaggio nell’inconscio; smettiamola e salutiamoci. Tutto come non detto.
/ Così scriveva Keats a Fanny Brown / da lui tolta dall’ombra. / È strano che il mio caso, si parva licet, è diverso. Posso / respirare assai meglio se ti allontani. / La vicinanza ci porta eventi / da ricordare ma non quali accaddero / [...]. È l’ammasso di fatti su cui avviene l’impatto / e, presente cadavere, l’impalcatura non regge. / Non tento di parlartene. So che se mi
leggi / pensi che mi hai fornito il propellente / necessario e che il resto (purché non sia silenzio) / poco importa». 133 E, p. 820.
134 E, p. 446.
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LA CELEBRAZIONE DEGLI OPPOSTI: LUCE E TENEBRA NELL’OPERA DI VITALIANO BRANCATI
Nelle pagine finali di Paolo il caldo', ultimo ed incompiuto romanzo di Vitaliano Brancati, un personaggio secondario percepisce nella sospensione «tra follia di grandezza e delirio d’umiltà» ? la nevrosi che affligge Paolo: in questo insanabile bipolarismo siamo portati a scoprire, per attenerci al tema di ‘nevrosi e follia’, il fulcro di tutta la produzione in prosa dell’autore siciliano. Ritenuto già da Moravia il punto avanzato di «una crisi profonda che investiva non soltanto i valori letterari ma anche quelli vitali, una fase di superamento da cui sarebbe nata una narrativa diversa, un
ponte di passaggio obbligato tra le opere già scritte e classiche di Brancati e quelle, forse non meno classiche, che avrebbe scritto in seguito» 3, Paolo
il caldo è per noi un romanzo guida nella rilettura di alcune opere di Brancati, una summa del percorso interiore, della malattia dei personaggi smarriti in drammi di luce e tenebra. Su questa filigrana il ciclo narrativo dell’autore siciliano tende pertanto a strutturarsi in pluritesto, in un corpus unitario che muta i singoli romanzi in capitoli, tappe di una lettura interpretativa della storia, della società, dell’uomo. Ripercorrendo criticamente l’iter di Brancati, notiamo i segni di una continuità a volte evidente (am-
bienti, situazioni, personaggi) ma spesso più nascosta e, diremmo, cerebralmente studiata, simbolica; una continuità che trova il suo più imme-
diato radicamento nell’innegabile sottofondo autobiografico di questi lavori, nei frequenti rimandi alla Sicilia, nei precisi scorci di Catania-Natàca,
! Riportiamo di seguito i principali testi di Vitaliano Brancati da noi utilizzati:
Fedor
(Catania, Studio Editoriale Moderno, 1928); L'amico del vincitore (Milano, Ceschina, 1932); Gli anni perduti (in Vitaliano Brancati, Opere 1932-1946, a cura di Leonardo Sciascia, Milano, Bompiani, 1987); Don Giovanni in Sicilia (in V. Brancati, Opere 1932-1946 cit.); Il
bell’ Antonio
(in V. Brancati, Opere di Vitaliano Brancati, a cura di Angelo Guglielmi, Mila-
no, Bompiani,
1974); Paolo il caldo (Milano, Bompiani,
1955).
? V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. 363. 3. Alberto Moravia, prefazione a V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. VIII.
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nell’io narrante del primo capitolo di Paolo il caldo, nel flusso comunica-
tivo che circola tra alcune pagine del diario ed i racconti. Tuttavia, non solo nel vissuto personale, non esclusivamente nell’autobiografismo * di fondo, va ricercata la matrice comune della narrativa di Brancati, bensì piut-
tosto, nel forte impulso a indagare l’anima attraverso l’oscuro delle pulsioni, alla ricerca di una conciliazione delle forze razionali ed emozionali;
in una tensione permanente in cui l’iniziale spunto (auto)biografico si dissolve nello scavo dei dissidi umani, su un terreno nel quale esteriorità ed interiorità si concretizzano in «caricature di gobbi» *. Pur confermandoci la piena validità di una griglia interpretativa basata sull’autobiografismo, l’autore stesso ne indica il superamento: In questi ultimi anni, mi è capitato di avere improvvisamente, rimandatami dal fondo dell’adolescenza e della Sicilia, qualche vergognosa immaginazione. Ma subito, per quel processo che ho accennato, essa si andava a incarnare in Paolo Castorini. La mia impressione diventava la sua storia, e la sua storia il bisogno
di raccontarla*.
L’edificio narrativo ha dunque le sue basi nel legame/ritorno all’adolescenza e alla Sicilia, ma subito si struttura su piani autonomi dove l’im-
maginazione, la prima impressione, è già «storia di un altro». Il bisogno di raccontare guida la mano dello scrittore, l’impetuosità della creazione artistica si traduce con moto immediato in urgenza, in rivelazione «nel senso di qualcosa che, subitaneamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si
fa visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nel più profondo [...]. Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità [...] un abisso di felicità dove
4 Molti i critici che evidenziano la marca autobiografica di Paolo il caldo sottolineandone il «carattere strettamente autobiografico» (Giuseppe Amoroso, Vitaliano Brancati, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 137), il «resoconto autobiografico» (Daria Perrone, / sensi e le idee, Palermo, Sellerio, 1985. p. 59), l’«intenso autobiografismo» (Salvatore Zarcone,
La carne e la noia. La narrativa di Vitaliano Brancati, Palermo, Novecento, 1991, p. 115), il «carattere bruciantemente autobiografico» (Vanna Gazzola Stacchini, La narrativa di Vitaliano Brancati, Firenze, Olschki, 1970, p. 110).
«Ma i personaggi di Brancati non sono caricature più di quanto il ritratto di un gobbo sia caricatura di un gobbo. Non sono deformazione elegante ed accurata (e tanto meno divertita, come altri ha creduto) di un tipo umano [...]. Sono personaggi reali, ma di una realtà caotica, imprevedibile e folle che mai è riuscita a costituirsi in società» (Leonardo Sciascia, La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970, p. 161).
$ V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. 25.
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ciò che è più doloroso e cupo non ha più un effetto di contrasto, ma di colore necessario, voluto, provocato, in mezzo ad una tale sovrabbondanza di luce» 7. L'uomo e l’autore trovano il loro punto di contatto nella necessità nietzschiana, ma nella trascrizione il baricentro si sposta dal soggetto all’oggetto e il vincolo emotivo sostanzia il narrato di una problematica più profonda, di un’«estetica esistenziale più che artistica» * in cui la stessa dipendenza emozionale diventa motrice di una più ampia ricerca della tota-
lità-uomo?. Come si è già fatto presente, di Brancati, soprattutto per il già accennato primo capitolo di Paolo il caldo ", si è spesso preferita una lettura autobiografica; se lo scandaglio dell’io !! che così sommessamente sta alla base della sua narrativa e che porta allo scoperto l’inquietudine di chi si è confrontato idealmente e storicamente col fascismo !? appartiene in primis ed innegabilmente all’uomo Brancati, ciò nondimeno il disagio narrato ben presto sfocia in tensione conoscitiva diretta ad illuminare gli stati d’animo di un’intera generazione. I malesseri, le nevrosi che muovono le storie dei personaggi non sono riflessi meramente soggettivi, e quand’anche delle affinità si possano trovare, ciò avviene perché, come afferma Otto Rank, intercorre una somiglianza, una comunanza fra artista e nevrotico, tale da non
7
Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, Milano, Adelphi, 1989, p. 105.
8 Giovanni Morelli, Vitaliano Brancati tra fascismo e gallismo, Roma, Lacaita Editore, 1989, p. 11. ?. «Le sue passioni sono state: l’amore per l’uomo totale, santo e vendicatore, durante la prima giovinezza; l’amore per la libertà individuale e per i diritti della ragione, in quanto moderazione e buon senso, nella seconda maturità» (A. Guglielmi, Prefazione cit., p. 10).
!0 «Paolo cessa di essere il ritratto di Brancati solo e proprio in forza dell’esame di coscienza al quale il romanziere sottopone il suo personaggio; e frutto è la sua scelta sdoppiata ed opposta (tanto ragione e lussuria sono divenute forze aborrenti ed opposte) è la stupidità per Paolo e la razionalità, la libertà e la letizia per il Brancati» (Giancarlo Vigorelli, Brancati postumo: il fallimento illuministico, in «La Fiera letteraria», 17 aprile 1955). !! Cfr. Giuseppe Amoroso, Vitaliano Brancati, Firenze, La Nuova Italia, p. 12. 12 La formazione giovanile di Brancati, ricordiamolo, si affianca all’ideale fascista, ma per lui il fascismo non è un fenomeno politico; risponde piuttosto agli interrogativi dell’esistenza proponendo valori ideali che incidono beneficamente sia sull’esterno/società sia sull’interno/individuo (cfr. Francesco Spera, Vitaliano Brancati, Milano, Mursia, 1981, pp. 8-9). Inoltre «il fascismo si configurava allo scrittore con una rilevanza ideologica che appagava la sua innata ansia romantica di superare la caducità e pervenire alla totalità. Il credo fascista chiamava e predisponeva l’artista all’alta missione di raggiungere l’essenza della vita, di uni-
ficare l’oggettivo e il soggettivo di essa per pervenire alla totalità ultima» (G. Morelli, Vitaliano Brancati tra fascismo e gallismo cit., p. 20).
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annullare però le singole specificità poiché il primo, rispetto al secondo, «proietta il conflitto dal suo interno nell’opera, nella forma, che suscita piacere (deviazione), già dal punto di vista estetico, che acquista importanza attraverso l’interpretazione e, mediante il piacere preliminare della forma, produce, come piacere finale, l’abolizione di inibizioni interne» 13. L’arte
viene ad assumere una funzione catartica !* e autocatartica '° nella misura in cui, per tramite dell’artista, demiurgo e terapeuta, «istanza analitica della coscienza» '5, attua la rimozione del «primordiale conflitto dell’umanità» !. Riscattare la vita nell’arte !8; la narrativa di Brancati sembra spesso ruotare intorno a questo concetto: Fedor, Pietro Dellini, Leonardo Barini, Paolo Castorini (rispettivamente protagonisti di Fedor, L'amico del vincitore, Gli anni perduti e Paolo il caldo) cercano nella scrittura una liberazione dalla nevrosi, la possibilità di ridare un ordine e un senso all’esistenza sanando la
spaccatura fra sentimento e ragione che vanifica l’unità dell’individuo.
1 Otto Rank, L'artista, Milano, Sugarco, 1986, p. 84. 4° Oggi l’osservazione psicanalitica «riconosce anche nell’esercizio dell’arte un’attività che si propone di temperare i desideri irrisolti, e precisamente in primo luogo nello stesso artista creatore e in seguito nell’ascoltatore o nello spettatore» (Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 180), ma va ricordato che la prima vera teorizzazione ci viene offerta da Aristotele il quale, parlando della tragedia,
ne afferma il valore «depurante»: «Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di
pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni» (Aristotele, Poetica, 1449b 24sgg.). !5 «L'artista cerca innanzitutto un’autoliberazione e, comunicando la sua opera, la trasmette agli altri che soffrono degli stessi desideri trattenuti. È vero ch’egli rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio più personali, ma queste divengono opera d’arte soltanto attraverso una trasformazione che mitiga l’aspetto urtante di quei desideri, ne cela l’origine personale e offre agli altri, rispettando le regole estetiche, seducenti premi di piacere» (S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio cit., p. 180).
!° O. Rank, Lafigura del Don Giovanni, Milano, Sugarco, 1987, p. 112. !" Ivi, p. 111. Inoltre «In questo modo gli artisti offrono alla massa (la cui esigenza dell’opera d’arte è simile a quella dell’artista ma non è così intensa) l’opportunità di soffocare sul nascere senza dispendi il conflitto ancora immaturo, e di trarne così piacere; poiché i dispendi di investimento, necessari nell’individuo normale per il mantenimento delle inibizioni interne, diventano del tutto superflui nel godimento artistico e richiedono minori dispendi per conservarsi. L’opera d’arte del singolo risparmia, in coloro che ne godono, i relativi dispendi [...]; essa è doppiamente profilattica, ovvero previene sia il pericolo che la crescita del conflitto sfoci nell’«improduttivo», sia la nevrosi dell’artista stesso» (O. Rank, L'artista cit., P'w9):
8 Cfr. F. Spera, Vitaliano Brancati cit., pp. 176-177; S. Zarcone, La carne e la noia cit., pp. 115-119.
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L’autore, non senza una certa ironia, sottolinea l'impossibilità stessa
della creazione quand’essa sia affidata o alla sola ragione o alla sola im-
maginazione ": l’artista, per Brancati, è un uomo che avverte fortemente la scissione esistente tra materia e spirito, fantasia e realtà, natura e pensiero, ma che al contempo potrebbe con la propria arte ricomporla. Non diversamente Freud, dissertando sui principi di piacere e di realtà, teorizza per l’artista la possibilità di staccarsi dalla mera quotidianità per ideare un mondo di fantasia. La peculiarità dell’artista, rispetto al nevrotico, consisterebbe nella capacità di ripristinare, tramite le proprie opere, una giusta propor-
zione fra i due processi primari °°, ma i personaggi di Brancati, tutti intellettuali e tutti, almeno potenzialmente, artisti, subiscono a questo punto uno scacco, non riuscendo più ad equilibrare il dialogo tra pensiero e fantasia, sentimento e materia. Il senso tragico della realizzazione artistica acquista spessore già nella prima prova
letteraria di Brancati,
il dramma
teatrale Fedor,
in cui
l’omonimo protagonista, uno scultore che ha già assaporato un breve quanto intenso successo giovanile ?!, non riesce più a dar forma alla pietra, a ritrovare il sentimento ?? che solo può ricondurre al mistero dell’unità della vita in opposizione al pensiero che disperde in nulla il desiderio di totalità e di assoluto («Il pensiero è un peccato punito col tormento più orribile: l’aridità dell’anima» 75). L’ansia di «assoluto» di Fedor, il suo astrarsi dalla quotidianeità ed il
conclusivo sprofondare nelle tenebre della morte denunciano l’impraticabilità dell’arte, la mancata interazione del senso con l’intelletto, lo scorporante scacco della ragione sul sentimento, il trionfo dell’oscurità sulla luce. Mentre l’arte, in quanto «lotta tra illuminazione e nascondimento» 24 si rea-
1%
«Intatta è rimasta la certezza, faticosamente raggiunta e fermata, che la sola gran-
dezza umana sia il sentimento, o meglio, l’amore verso il mondo, e che in esso trovino pace e
conciliazione tutti i tormenti ed i contrasti del pensiero» (O. Rank, L'artista cit., p. 6). 20. Cfr. S. Freud, Precisazioni sui due principi dell accadere psichico, in Opere 19091912. Casi clinici ed altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. pp. 453-460. 2! «Ricordi i giorni della creazione? Il sogno pareva abbattersi sul marmo e scolpirsi da sé, con la sua veemenza, senza il colpo dello scalpello. I fantasmi fuggivano dal tuo cuore in forma di statue, e tra statue e fantasmi vivevi felice» (V. Brancati, Fedor cit., p. 23).
2 Sul sentimento come base della concezione estetica di Brancati si veda anche R. Verdirame, Posizioni critiche di Brancati giovane, in «Quaderni di filologia e di letteratura siciliana», 1976, n. 3.
2
V. Brancati, Fedor cit., p. 125.
24
Cfr. Martin Heidegger, L'origine dell’opera d'arte, in Sentieri interrotti, Firenze, La
Nuova Italia, 1991.
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lizza sul versante luminoso e solare di questo archetipo, attraverso l’in-
trinsecarsi della coppia luce/tenebra nei personaggi di Brancati si assiste al venir meno di questa dialettica cromatica e alla dispersione in una «lunghissima notte» delle potenzialità creative dei protagonisti: Io ho tentato di scrivere un romanzo. Il professor Luigini mi diceva giustamente: «E mettici dei personaggi, e mettici un po’ d’intreccio, e mettici della verità, e mettici anche un tantino di sentimento: farai un bel romanzo!» Ma quando io ci metto il sentimento, resta fuori la verità; quando ci metto il senti-
mento, resta fuori l’intreccio... Èmeglio dunque non scrivere un romanzo. Del resto, tutto è ancora nero intorno a me. Da quanto sono arrivato a Natàca, mi pare che sia stato sempre notte; che il tempo trascorso da allora ad oggi, non sia che una notte, un’unica lunghissima notte *.
«Smarrirsi» °° nelle tenebre potrebbe costituire l'occasione per esplorare la doppia natura della luce, che, originando direttamente gli oggetti e quindi la realtà (parte visibile), non può che generare al suo interno e progressivamente anche il buio (parte non visibile) ovvero la sconfessione di quella stessa realtà di cui è creatrice: E tuttavia, nonostante la sua intensità, o forse a causa di questa, la luce del sud rivela nella memoria una profonda natura di tenebra. Nella sua esorbitanza, varca continuamente i confini del regno opposto, e quando si dice ch’è accecante, si vuole forse alludere, senz’averne esatta coscienza, a certi guizzi di buio che vengono dal suo interno, a certi squarci sulla notte cupa come può farli un’eclissi nel cielo di mezzogiorno, salvo che questi sono lenti e progressivi e, una volta chiusi, non si riaprono più, e quelli invece rapidi e continui, sicché la sensazione della luce per chi, insospettito della propria malinconia o tetraggine, voglia esaminarla, risulta composta di due sensazioni contrarie, di chiaro e di scuro, alternate fulmineamente, in modo che l’impressione totale è di chiaro *’.
Ma in questi personaggi lo «smarrirsi» porta il segno della negazione: capitolazione cioè davanti al fascino dell’oscurità e rinuncia ad un’analisi della loro persona divisa. Dicotomia, frattura, dissociazione, bipolarismo: la narrativa di Bran-
cati si muove lungo il filo doppio di quella corografia fisica ed umana, pun-
25 V. Brancati, Gli anni perduti cit., p. 336. 2°. Per il termine «smarrirsi», con la sua doppia valenza, cfr. Pier Aldo Rovatti, // declino della luce, Genova, Marietti, 1988, p. 78.
2?
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V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. 12.
to di partenza e motivo ispiratore comune dei romanzi. Le coordinate geografiche dell’isola e del continente (Catania/Natàca e Roma/Milano), specchio dell’inquietudine, del turbamento interiore dei personaggi, riflettono una topografia psicologica e mentale: il continente, centro dell’io cosciente, della realtà, della razionalità, e la Sicilia, luogo dell’immobilità, del pericoloso rifugio nella fantasia. Un’indescrivibile e profonda crisi, la frustrazione delle promesse adolescenziali, l’appiattimento, la malinconia, la tetraggine, lo stato nevrotico, in definitiva, decidono la fuga da Roma, dalla sofferenza, dall’antagonismo sociale così difficile da sostenere, dai ruoli determinati da subire e accettare. La Sicilia, eco metaforica dell’evasione dalla realtà, acutizza, dilatando il mondo onirico interiore, la separazione
tra un presente quotidiano, banale, ed un esistere immaginato e sognato che genera una sospensione temporale dalla quale non può che emergere uno stato d’attesa carico di una forte quanto sterile progettualità. Il mimetismo dell’esistenza possibile non riesce a lacerare il velo dietro al quale si rifugiano i personaggi che continuano così ad illudersi nutrendosi della potenzialità dei loro sogni, del placido torpore delle loro vite addormentate. Il ritorno alla casa natale e l'immediato chiudersi nella propria camera per ricollegarsi idealmente alle sensazioni del passato e coricarsi in un lungo sonno imprigionante accomunano in un destino simile Leonardo Barini, Antonio Magnano (de // bell’ Antonio) e Giovanni Percolla (del Don Gio-
vanni in Sicilia)”, per i quali la perdita della luce si associa ad un affievolirsi immediato
della capacità e della volontà di vivere, comportando
di
conseguenza l’arresto dello sviluppo umano e mentale. Lo stadio finale è un annichilimento sociale e materiale dei personaggi che si possono per questo, entro certi limiti, affiancare a quelle figure di «inetti» che tanta circolazione hanno avuto nella narrativa novecentesca. Gli Anni perduti inizia emblematicamente con la perdita della luce/gioia, della luce/giovinezza, e tutto da quel momento in poi per Leo-
28. Le vite di Leopoldo, Giovanni ed Antonio sono affini e registrano la stessa volontà, in gradi diversamente drammatici, di rifugiarsi nel luogo da loro più conosciuto e sicuro (a titolo d’esempio cfr. // bell’ Antonio pp. 602-608 e Don Giovanni in Sicilia pp. 588-590). In Paolo il caldo, e siamo agli antipodi, l'impatto con la Sicilia dopo venticinque anni di lontananza, si traduce istintivamente in fuga dal sonno/morte dei parenti. Dove gli altri personaggi hanno lasciato una realtà che non si è modificata nel tempo ed è pronta ad accoglierli, Paolo, in cui si muove un diverso grado di coscienza, trova il deterioramento fisico e mentale della sua famiglia: il desiderio immediato è di riscattarsi allontanandosi fisicamente e intellettualmente dalla sua città.
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nardo, protagonista del romanzo e latore del diaframma oscurante, sarà giocato sui chiaroscuri del destino: La verità era un’altra; la verità era questa: che d’un tratto, senza gravi ragioni, la gioia era finita nel cuore di Leonardo. La bella luce, che illuminava tutte le cose, e dava un senso anche alle sedie e al calamaio, s’era spenta. Questa luce lo
aveva accompagnato fin dai primi giorni dell’infanzia, era stata nella sua culla, era stata sul banco di scuola, fu dovunque e sempre; e adesso era passata: «Perché?» Perché era passata? Egli non era capace di vivere senza di lei; senza di lei era uno sciocco, un buono a nulla, un vecchio paralitico ?.
Leonardo è il primo personaggio di Brancati, estesamente ritratto, che rifiuta, a causa dell’oscurarsi della gioia, di farsi adulto («Gli altri possono
vivere tranquillamente [...] in un buio simile» ma lui invece «si sentiva mo-
rire» 3°). Mentre sta per entrare nell’eta in cui la responsabilità sempre più accompagna il pensare e l’agire, la luce scompare: egli cerca di sottrarsi alla vita ritornando a Natàca e rifugiandosi nel sonno nella casa paterna, prima espressione, questa, della defezione (Leonardo, non a caso, dirigeva a Roma la rivista letteraria dall’allusivo nome «Campoformio») che lo caratterizza per i lunghi quattordici anni descritti. Leonardo,
fuggito da Roma,
dichiara
in una
faticosa confessione
all’interlocutrice Lisa Careni che è venuta a mancargli «quella luce interna che rischiara la via, che fa vedere davanti a noi, che dà uno scopo a quello che si fa», che è venuto meno «il permesso, un autorevole permesso, di vi-
vere» 5'. Egli intuisce confusamente l’ostacolo che si frappone alla realizzazione dei suoi progetti (ritornare a Roma, scrivere un romanzo, riprendere il lavoro...) in quella «notte» che potrebbe anche avere un’alba, ma come suggerisce egli stesso «ci vuole una situazione speciale, una disposizione che venga dall’interno, un consenso pieno della mente, perché un uomo, facendo determinate cose e riposandosi anche per molte ore, possa veramente dire di essere un uomo utile, un lavoratore, un uomo, insomma» *?. L’assenza del «consenso», dell’«autorevole permesso», produce un arresto nella crescita, un’incapacità di calarsi nella vita con la sua contradditorietà, nel «senso continuo e normale di gioia entro il quale soffrire,
29
V. Brancati, Gli anni perduti cit., p. 257.
MINI D 258: eV D 1298: 32 Ivi, p. 294.
500
sperare, disperare, senza che quel continuo e beato senso si interrompa seriamente». L’indefinita attesa della luce preserva da un immedesimarsi nel presente storico ed autorizza lo slittamento della scelta ad un inesistente domani; al contempo la finzione onirica, ammettendo solo il piacevole ricordo della luce già stata, cancella la reale successione cronologica e disimpegna il protagonista da un risolutivo confronto con il suo malessere. La perdita della luce si accompagna obbligatoriamente ad un ritorno al nido famigliare che fa anacronisticamente retrocedere i personaggi verso uno stadio preadolescenziale mediante un recupero degli anni felici e solari
dell’infanzia*. Leonardo, Giovanni e Antonio sono accomunati dalla sospensione della crescita: di qui inizia il vero racconto, la storia del loro non essere o non voler diventare, e la loro fuga/rifugio nel passato. Manca a tutti, eccezion fatta per Paolo, la cui storia è ben diversamente articolata, un effettivo sviluppo psicologico. Le cose accadono senza un loro reale intervento; la tentazione di non scegliere è troppo insistente e tutti ne rimangono intrappolati. Al loro opposto, quasi loro negazione, subentrano personaggi dinamici, che simboleggiano il vitalismo, l’accettazione, anche qui in eccesso, dell’operosità. L’incapacità di aprire un rapporto dialettico con il presente e il futuro da un lato e l’arenarsi in un protettivo passato dall’altro annullano il tempo; l’immobilità, dal momento della scomparsa della luce,
paralizza la vita dando luogo a molte pagine sulla fissità temporale: Il triste era che, una volta passate, quelle ore non lasciavano nel ricordo più nulla, nemmeno la stanchezza di averle dovute spingere innanzi con tanta fatica [...]. Il pensiero dell’avvenire era faticoso, ma quello del passato non lo era per
nulla *
Il sonno si fa strategia e simbolo del rapportarsi alla vita:
33. L’autore stesso afferma che «alla fanciullezza avessi voluto essere spontaneo e veritiero» (V. Brancati, un sì, Catania, Studio Editoriale Moderno, 1939, p. 29). te dovuta all’influenza che su Brancati ebbe il pensiero
io avrei dovuto sempre voltarmi se // nonno, in V. Brancati, /n cerca di Una tale concezione è plausibilmendi Leopardi (del quale curò un’anto-
logia dallo Zibaldone). La cancellazione del presente a favore del passato (infanzia) evoca in-
fatti le meditazioni di Leopardi sul piacere; ma se l’infanzia nel poeta recanatese si qualifica ed assume valore quale radice originaria dell’immaginazione (cfr., a puro titolo d'esempio, Zibaldone 668) per i personaggi di Brancati lo stallo temporale sembra piuttosto vanificare il confronto dell’essere con l’esistenza empirica.
34. V. Brancati, Gli anni perduti cit., p. 263.
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I quattro amici avevano perfezionato l’arte di dormire. Quale uomo non ha desiderato di potere, a proprio capriccio, cacciare la testa entro il sonno, come il fagiano sott'acqua, allorché le cose che si vedono da svegli non son punto graziose? Ebbene, i quattro amici conoscevano ora un modo particolare di chiudere gli occhi e di eseguire con la memoria taluni giochi stravaganti, per cui il sonno arrivava tutt’a un tratto, come il buio quando si è soffiato sulla lampada. Sapevano anche, sotto il sonno, avvertire che esso voleva lasciarli, e trattenerlo coi
denti come una coperta che qualcuno tiri per l’altro capo *. Il sonno, il sognare, con l’implicito rimando all’assenza di luce, è il
surrogato del legame con la vita e ammette il paradosso di invertire i ruoli tanto che giovinezza e vecchiaia si compenetrano: L’impressione di essersi svegliati vecchi, dopo una settimana o due di giovinezza, era una delle impressioni più consuete dei vecchi di Natàca. Da ciò derivava quella loro aria insoddisfatta, quel loro carattere arzillo e petulante, quella loro penosa smania di avventure 5°.
Lo schema appare capovolto: i giovani corporeizzano già sui volti la vecchiaia che solo un attimo dopo apparterrà loro irreparabilmente; i vecchi, a dispetto della senilità fisica, rivendicano un’irreale giovinezza mentale disancorando (ancora una volta) il corpo biologico dal pensiero: l’età ideale vive atemporalmente fuori dalla concreta storicità corporale. Cinquant’anni non sono nulla, vi assicuro, non mi separano affatto dalla giovinezza. Un vetro cinquant’anni, no un sottile velo trasparente... se mi volto, die-
tro le mie spalle c’è la giovinezza chiara, nitida, e dietro c’è la fanciullezza, ancor più chiara e più nitida, di quando avevo vent’anni. I pensieri sono con me, li devo ancora sviluppare... >” Non credo alle misure comuni del tempo. Sono convenzioni sciocche che finiscono coll’influire sulla nostra volontà come certe superstizioni. Non è vero che a settant'anni si sia vecchi... [...]. Un tuo discorso di venticinque anni fa, o un discorso di mio padre, mi risuona ancora nelle orecchie con tutte le sue inflessioni, lo capisco soltanto ora, non perché c’è voluto molto tempo per intendere certe cose, ma perché venticinque anni sono stati l’attimo occorrente per cambiare la parola di un altro in un pensiero mio. Presto, tardi... Sono termini ridi-
35 Ivi, p. 306. NIV D 206! 37 V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. 280.
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coli. Vecchiaia e giovinezza e fanciullezza si trovano mescolate nella vita, e a giorni di cinquantenne succedono giorni di ventenne, e poi di trentenne... **.
Nemmeno la figura dei padri, portatori per antonomasia dei valori della maturità e iniziatori alla vita si sottraggono all’indifferenziazione temporale essendo anch'essi bambini cresciuti senza la coscienza di esserlo: Tuo padre!... il ragazzino che ti ha dato la vita... Perché tuo padre è rimasto sempre un ragazzino, e quando si è sposato, e ha avuto te, sembrava un bam-
bino *.
L’infanzia e la vecchiaia, unici periodi di autentico sviluppo, sono denotate dalla genialità e dalla follia “, curiosa associazione che ritrova il suo diretto referente nel fare artistico, nel produrre riflessioni fuori dal comune
nei bambini e stravaganze letterarie nei vecchi. La luce ed il preannuncio della sua perdita o nella maturità o nella morte caratterizzano le due età e fanno surgere in primo piano l’uomo e la sua creatività: non a caso, infatti, i personaggi brancatiani segnano il discrimine tra la luce-ragione-arte e la vita, sublimando l’una ad unico e supremo valore irraggiungibile, e relegando l’altra in una quotidianità recusata. La «fatale» frattura nello sviluppo psichico ingenera un congelamento delle potenzialità umane per cui anche gli eroi, antagonisti dei giovani sognatori, sono perduti nella loro incapacità di istituire con l’esistenza un legame di autenticità: si assiste allora ad una diseroizzazione di tutti i per-
38 Ivi, pp. 314-315.
39 Ivi, p. 121. 4° «Con una voce, che d’un tratto divenne sottile, come se il cavaliere avesse dato la parola al minuscolo bambino che gli si nascondeva nel petto, vennero pronunciati lentamente nove sonetti e quindici strambotti. In essi, si cantava a voce spiegata quello che i contadini pensano della luna e delle stelle, del sistema copernicano contrapposto a quello tolemaico, delle idee platoniche, delle monadi di Leibniz, del concetto kantiano di spazio e di tempo, della relatività di Einstein, dell’intuizione di Bergson, della tecnocrazia, degli elettroni e degl’ioni, delle vitamine, del latifondo, della teoria dei quanta, della degradazione della materia, della teosofia, degli ormoni, della macchina che ha sostituito vuoi l’uomo vuoi l’animale... Un contadino racconta che il suo bove, guardando una piccola trattrice, aveva pensato, naturalmente in vernacolo: «Sì, omino, guida pure la macchina, ma cos’è la macchina? È l’irradiazione
col conseguente raffreddamento e, diremo, cristallizzazione, dello spirito. Quello che tu guidi non è una macchina, ma un pezzo del tuo spirito morto per sempre!» In sostanza, il bove assisteva all’orribile spettacolo di un uomo che andava a cavallo della propria anima morta!» (V. Brancati, Gli anni perduti cit., p. 346).
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sonaggi che rimangono «fissati» nel loro microcosmo. La definizione che Enzo De Mei dà della pazzia coinvolge indistintamente tutti: Quest'ultimo (sorriso) rimaneva dedicato al pensiero che i poveri pazzi sono dei burloni, i quali a un certo punto della vita, non han voluto andare avanti, son ri-
masti fissi, fissati |.
Sconfitti ne escono i personaggi che mai si sono calati nella realtà, ma sempre l’hanno vissuta filtrandola, mascherandola, schermandola mediante un’attività onirico-immaginativa, sia notturna sia diurna, che deforma (0,
meglio, conforma alla loro volontà) i tratti delle cose: Voi ragionate come l’ubriaco che, dopo una notte di sonno, si alzò dal letto e aprì l'armadio, scambiandolo per la finestra. Accortosi in tal modo ch’era ancora notte, tornò sul letto e dormì per sette giorni, confortato sempre dal pensiero che il sole non si fosse levato “.
Certuni talvolta intravedono confusamente la loro condizione di prigionieri ‘5, ma la decisione di «evadere» (normalmente spostandosi sul «continente») viene continuamente posticipata: è la rinuncia a penetrare le dinamiche e le contraddizioni del mondo a porre in scacco i nostri giovani; il loro continuo sottrarsi all’azione (ed è indicativo come nessuno di loro
abbia un lavoro degno di tale nome) ed alle scelte fa sì che, giunto il momento in cui intendono liberarsi delle pastoie invisibili che li invischiano nella loro stasi, sia il destino, l'antagonista, a decidere prendendosi grotte-
scamente gioco di loro. Ma se andiamo oltre e ci rifacciamo alla produzione del 1941 (Don Giovanni in Sicilia), scopriamo un personaggio, un unicum, all’interno delle tipologie brancatiane, il quale, trasferitosi a Milano, presenta una vita ap-
4! 4 4.
Ivi, pp. 402-403. Ivi, p. 443. «Una cosa sola mi riesce gradevole, in tutto quello ch’è accaduto, ed è la seguente,
e dopo averla detta me ne andrò: che anche tu, che credevi di essere un terremoto o che so io,
sei rimasto a Natàca come tutti noi. Preso nella trappola! Addio!» (Ivi, p. 434). «Giovanni Luisi venne preso da una smania, da un’impazienza, da una tristezza che non riusciva a contenere. «Non si parte!» cominciò a dire. «Non si riesce a partire da Natàca! Siamo in trappola. Ci ha presi, non ci lascia più!» / «Calmati!» fece Rodolfo. «E non dire sciocchezze! Del resto, anche
qui si può vivere.» / «Qui si può vivere quando si sa che si può vivere anche altrove. Se no si è in prigione, qui!» (ivi, p. 313).
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parentemente «normale», regolata socialmente dalla famiglia e dal lavoro.
Ma anche qui la comprensione concreta delle dinamiche della realtà è pura immagine. Giovanni, il cui destino, se fosse rimasto a Catania, non sarebbe forse stato molto diverso da quello degli altri personaggi, viene scelto dalla moglie Ninetta, ed è Ninetta che stabilisce in sua vece. Il percorso conoscitivo di Giovanni è obbligato, immaturo, ed egli non riesce a calar-
visi completamente: ne consegue uno sradicamento interiore che lo porta a disconoscere la genesi siciliana. Giovanni si sente spento nell’incolore del Nord; quella luce lunare così diversa dalla solarità della Sicilia capovolge il suo rapporto con la vita annullando la sua esperienza precedente, trasformandolo in un «perfetto settentrionale». L'evoluzione fittizia denuncia tutta la sua artificiosità quando Giovanni, nelle ultime pagine del romanzo, torna all’isola per un periodo di ferie e ritrova la sua casa, la sua stanza, il
suo letto “. In Leonardo, Giovanni ed Antonio non registriamo maturazione dell’io,
poiché non c’è passaggio dal principio di piacere al principio di realtà: è mancata la capacità di incanalare l’energia psichica e organica (dinamismo interiore) verso l’affermazione del soggetto nell’incontro con la realtà. Permane il predominio delle pulsioni sessuale ed aggressiva, dove l’una dà origine alla componente erotica delle attività mentali (Paolo), mentre l’altra rafforza la componente puramente distruttiva (Leonardo e Antonio).
Nel Bell’ Antonio la luce metaforizza ancora un itinerario bloccato verso l’autocoscienza: il protagonista porta nella sua bellezza la luce, ma è una luce puramente esteriore, senza calore, sterile, e le relazioni con l’altro sesso, drammatiche fin dall’inizio, sono la marca dell’incapacità di incar-
narsi nella vita e inserirsi nella collettività. L’impotenza, la peggior malattia che può colpire un individuo nella fallocratica società siciliana, viene
descritta come perdita di luce e allusa con il nascondersi del nostro nella propria camera. Antonio, umiliato pesantemente dal padre, da un'intera città, non si difende, si chiude in sé, nella sua sofferenza, trovandovi una.
giustificazione e autocommiserazione che lo spinge all’inazione. Antonio si
estranea , si costruisce un’esistenza pensata, fatta di possibilità, ma so-
4 Cfr. V. Brancati, Don Giovanni in Sicilia cit., pp. 588-590. 4. «Eppure questo fortunato connubio di stupenda bellezza e felice carattere, che dona conforto a chiunque l’avvicini, è incrinato da una sofferenza interiore, quasi impercettibile all’esterno, che crea una dissonanza tra il personaggio Antonio, oggetto d’amore universale, e il soggetto individuale, talmente oppresso da un contorto nodo psicologico da non aprirsi ad una costruttiva relazione con la realtà» (F. Spera, Vitaliano Brancati cit., p. 136).
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stanzialmente irreale e, con crudele ironia dell’autore, più si isola dal mondo, disinteressandosi della guerra, della morte del padre, del suicidio dello zio, più cresce in bellezza e luminosità, diventando quasi ciò che effetti-
vamente è: un etereo arcangelo che non vuole compromettersi vivendo la realtà. Antonio si affilò ancor di più; tutta la nobiltà, che non dimostrava nei discorsi
né, in verità, nel modo di comportarsi, gli splendette nel viso “.
Per queste sue caratteristiche // bell’ Antonio costituisce un naturale punto di passaggio verso Paolo il caldo. Personaggi antitetici e complementari, Antonio e Paolo cercano di sottrarsi alla disperazione derivante
per l’uno dalla negazione (assenza) e per l’altro, all’opposto, dall’insistente presenza dell’atto sessuale. Paolo il caldo, come si era già accennato, si presenta come un ricco
approfondimento della parola/concetto luce, sia ampliando il campo d’indagine dalla giovinezza, tema ricorrente negli altri scritti, a tutta la vita del personaggio, sia ponendo l’accento sulla prima maturità, ed indirettamente, poiché non esiste nella narrativa di Brancati una completa descrizione della vecchiaia, sulla seconda maturità rappresentata dal declino delle figure parentali di Paolo. Il quadro sulle età dell’uomo si chiude: quello che prima era auto-esclusione dalla vita diventa qui sforzo di resistere al disperdersi insignificante del tempo, di dare senso a quanto si era rifiutato rifugiandosi nel sonno e nel sogno narcotizzante. Paolo tenta il recupero del tempo sprecato dalle figure che lo hanno preceduto, attraverso la ricostruzione della felicità: [...] la felicità non circola in nessuno di voi, è bene che te lo ricordi per l’av-
venire. La felicità, in questa famiglia avrei potuto averla soltanto io, perché la felicità è la ragione. Solo che il mio mal di testa fosse stato meno forte, [...], vi
avrei insegnato a ridere sul serio, a voi tutti che ridete così spesso, ma talmente male... E vi avrei insegnato anche a pensare, a meditare su voi stessi, ad accorgervi di mille cose che vi sfilano sotto il naso come spettri che vedo soltan-
to io *?. La felicità è la ragione. Senza alcun dubbio. Nei sette giorni che aveva trascorso a Catania, nemmeno una volta il suo cervello aveva subito dal basso quella
4°. V. Brancati, // bell’ Antonio cit., p. 758. 4 V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. 93.
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brusca, irresistibile trazione che lo profondava giù giù, in un buio sempre più cupo e voluttuoso, ove esso, lo strumento luminoso del pensiero, si abbando-
nava come il più spento degli organi alle correnti capricciose e notturne dell’incoscienza **.
Posto a prefazione di tutta l’opera, il primo capitolo di Paolo il caldo avvicina chi legge alle vicende del protagonista ripercorrendo ad un tempo il tracciato storico ed umano di Brancati in un bilancio della propria vita che diventa l’incipit della storia di Paolo. Nel punto in cui l’autore, recu-
perando alla memoria i momenti e le date salienti della propria esistenza, trova il baricentro del proprio esistere, nasce Paolo. Il filo doppio che lega narrazione e biografia non deve però portarci ad una riduttiva conclusione: Paolo il caldo non è, se non in parte, un romanzo autobiografico. L’io narrante, così scoperto, così facilmente individuabile nel primo capitolo, non vuole evidenziare tanto un punto di contatto esistenziale tra l’autore ed il personaggio, quanto indirizzare il lettore verso un nodo focale della poetica dell’artista: il dissidio arte/vita.
Brancati, con un’operazione di descrizione autobiografica basata sul ricordo («le antiche giornate della vita tornano alla memoria») lega la propria storia individuale ad un collettivo che ne è l’origine profonda, ma nella ricerca della parte fulgente della luce determina la distanza, ripensamento e nostalgia, da cui nascono i suoi romanzi. Il mondo informe dello sconosciuto emerge universalizzato dal rigore delle forme dell’arte di cui lo stile «classico» è la maggiore espressione: non più, come in Fedor, «vertigine d’infinito», incapacità di «radicarsi nella vita», ma presa di coscienza tramite la scrittura. La realtà individuata è la coesistenza di forze razionali ed irrazionali che dominano la creatività, e quello che prima, nell’oscurarsi della gioia infantile, era blocco, ora diviene immagine di possibile
completezza lungo un percorso di trasfigurazione delle pulsioni, anche le più basse, nell’equilibrio e nella forma dell’atto artistico Le Ma come si fa a scegliere un vestito, quando due stili si contendono la mente, e ci tocca di pensare quasi simultaneamente: «bisogna descrivere la faccia, i gesti e gli oggetti. L’arte è questa», «E invece bisogna non far sentire il rilievo sgradevole della realtà. L'arte è questa» [...] «Un artista dev’essere sensuale, deve far sentire gli odori, i sapori, il contorno delle cose. Senza sensualità, non si
48 Ivi, p.291. 4
Cfr. Cesare Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’ al-
dilà, Torino, Einaudi, 1990, pp. 4 e 70.
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riesce a rappresentare nulla. E io consumo tutta la mia sensualità nella vita. Quando scrivo, divento astratto e mistico. Mi scorporo stupidamente, ed uscen-
do dai miei cinque sensi, esco fuori anche dall’arte» °°.
La vicenda di Paolo nasce dalla luce e si articola, come già in Brancati stesso, nella lotta sofferta per conservare «la parte ridente della luce» e nel trionfo, postulato nel congedo, della «parte luttuosa», della «ripresa buia della sua alternativa». La duplice e particolareggiata descrizione del giovane, inserita nel più generale ritratto della famiglia Castorini, indirizza il lettore a considerarlo un punto d’incontro delle due tendenze dominanti nel testo, e fa intuire la possibilità di risanamento
dell’antitesi che esse
comportano. La potenzialità di cui il protagonista è in possesso si oscura per la presenza deterministica che ha in lui la «vita dei sensi». Paolo è una figura doppia («Con questo ho schizzato un primo ritratto di Paolo. Ne posso schizzare subito un secondo, complemento opposto e altrettanto veritiero» °'), ma di una duplicità particolare che ne fa un personaggio perennemente combattuto fra una potenziale vita intellettiva ed una effettiva vita sensuale, senza che si possa per questo parlare di una reale dicotomia; anzi «le ondate furiose e continue di vitalità animale» trova-
no naturalmente origine dall’attività cerebrale di Paolo al quale spesso «accadeva che il piacere di pensare [...] gli si trasformasse in piacere fisico» *?. Dalle radici del corpo gli arrivò un conforto grave ed eccitante. AI diavolo la poesia, la letteratura, il pensiero [...]. Per la condizione di sconfitto, egli aveva bisogno di un piacere basso, e possibilmente di ben altro piacere che quello fino e poetico, vile, di un godimento a cui la torbidezza e la malignità dessero un calore particolare. E nel cercare con la mente l’attuazione di quel proposito, si sentiva talmente a suo agio che la sconfitta letteraria di mezz'ora avanti sembrava ormai un pretesto della natura per portarlo a quel punto, una tentazione che aveva fatto il giro largo per arrivare meglio al suo scopo3.
Paolo è l’unico vero dongiovanni nella narrativa di Brancati e come tale sciupa tutta la giovinezza e la prima maturità passando da un’avventura
all’altra. La tendenza alla contemplazione °*, dichiarata dall’autore nel pro-
%V. Brancati, Paolo il caldo cit., pp. 108-109. 2 pan pxdt,
5 Ivi, p. 42.
53 Jvi, pp. 109-110. TVA p Ar
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filo del giovane e notata dal padre, viene sempre respinta dal personaggio, ma questa continua a coesistere in lui assieme al senso del piacere fisico sino a diventare, poco prima del ritorno in Sicilia, l'elemento movente, il vero e reale piacere. Paolo, già quarantenne, non si accontenta più del rapporto sessuale, ma ha bisogno di creare con l’immaginazione, con il pensiero, la situazione in cui tutto deve svolgersi. Già prima della «conversione intellettuale» è urgente in lui un ripristino della funzione mentale da sempre relegata ai margini della sua esistenza. Cerebrali sono i suoi piani per l’incontro con le donne, basati, più che sull’immancabile piacere finale, sulla
capacità di elaborarli, d’immaginarli, fin quasi a percepirli prima che avvengano. L’inizio della palingenesi è anche l’inizio della caduta che nel ritorno a Roma travolgerà Paolo. La metamorfosi del protagonista è generata dalla paura, ma l’avvicinarsi alla ragione, allo studio, alla scrittura non agisce, se non in un primo tempo, da palliativo: la coscienza del sussistere in sé del «punto alto» della ragione apre lo spiraglio al vero dissidio, all’avversario che solo ora può prorompere con tutta la sua violenza: È come un deterioramento delle funzioni superiori. Sì, ho capito adesso. Non comincia dal basso, dai sensi per dirla più chiara. Così credevo, ma mi sbagliavo. È un principio di negazione che scende dall’alto; e il povero diavolo si affretta, per nascondere quest’eclissi delle cose alte della quale egli non può attribuirsi il merito, a suscitare la nube della corruzione inferiore... In verità è il genio che si nega a me, che mi dice d’un tratto «no», e questo no provoca un disordine fisico, un vuoto che subito si riempie di libidine e di un anno intero di sole. Diremo che è colpa della bassezza. Immagini che una nuvola nera copra per nuvola se il sole non ci scalda più, e invece si deve al raffreddamento del sole se la nuvola è rimasta per un anno immobile su di noi *.
La conoscenza comporta la consapevolezza dei due aspetti che integrano la totalità: solo ora può aprirsi la vera crisi del soggetto perché egli ha voluto, spostando l’attenzione all’altra parte di sé, sondare ciò che fino
ad allora era rimasto apparentemente passivo. Dedicandosi agli studi egli attiva progressivamente la controparte in quanto la sua scelta forzata, il terrore dell’idiozia e della morte, lo spingono ad ordinare in una gerarchia di alto e basso le sue funzioni e ad erigere un muro tra ciò che è bene e ciò che è male, approfondendo così la cesura in cui luce ed oscurità, logos ed
SAMIVIpPA360!
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eros non sono dialetticamente attivi ma si pongono in funzione reattiva l’uno contro l’altro: Il godimento della poesia diventava d’un tratto più vasto, soverchiante, si accompagnava a una sensazione di vera e propria luce, smuoveva nella memoria zone di antica felicità, aboliva la distanza fra idee e immagini le più disparate, tutto diventava alla portata di una rapida e inebriante comprensione. Ma questo aumento improvviso d’intelligenza pareva preludere a un attacco del solito genere, come se la spiritualità, sentendosi stretta dal pericolo, emettesse i suoi raggi più forti e accecanti; i quali avrebbero ottenuto piena vittoria se, con quel loro repentino intensificarsi, non avessero involontariamente dato l’allarme, e se, nella furia di suscitare una gioia più alta, non avessero sfiorato quei nervi che, in un sensuale, tirati per un capo della felicità, vanno a svegliare con l’altro la voluttà. [...] Egli chiudeva gli occhi e si stringeva le palpebre con le dita, quasi per schiacciare sulle pupille la torbida immagine. E ci riusciva. L'immagine era scomparsa. Riprendeva la lettura [...] Quale sentimento di benessere circolava nelle sue vene, ora che il vampiro era stato strappato via. E da questo sentimento di benessere, quanta salute e quanta forza!... Ma qui la sua natura svol-
tava improvvisamente per la nota strada .
La linearità dell’equilibrio umano è sconvolta. A Paolo, lungo l’arco dell’esistenza, sono offerti due momenti di ma-
turazione: il dialogo col padre e il matrimonio con Caterina. Se il primo non è ascoltato nella giovinezza, torna però incombente
nella maturità,
quando Paolo rilegge il diario paterno e rincontra i parenti. La presenza della morte sui volti dei famigliari: I suoi parenti non cantavano e non ridevano più; la vecchia chitarra del nonno aveva le corde rotte; non gl’infondevano più né forza né allegria, avevano finito da qualche anno di essere ubbriachi di vita, e adesso vomitavano, pallidi, smorti, impauriti, con un principio di lucida ragione nell’angolo degli occhi divaricati, tanto più terribile quanto meno adatta a quei temperamenti impulsivi ai quali non riusciva a portare né conforto né luce e che perciò si contorcevano in mille sforzi per tramutarla al più presto in follia e in idiozia”
e le parole di Michele portano Paolo ad una presa di coscienza forzata.
56 Ivi, pp. 358-359. 5 Ivi, p. 290. 510
Come poteva ridursi così? Era chiaro come poteva ridursi così. Niente mai meditazione, niente mai volontà, niente mai autocritica, niente dunque coraggio, niente dignità, niente luce intellettuale, niente superiorità sulla morte. Lo spirito, relegato nella stiva del corpo, costretto a servirlo per renderne infiniti e divini i godimenti, ora si limitava a sbattere funereamente le sue catene per annunziare che il padrone colava a picco.
Nell’illusione di salvarsi, seguendo l’esempio del padre, riprende gli studi, non rendendosi conto che Michele, pur suggerendo la via da seguire, confessa il suo fallimento: Leopardi [...] soffriva più di me. Ma ci sono sofferenze che scavano nella persona come i buchi di un flauto, e la voce dello spirito ne esce melodiosa, altre invece, come le mie, assorbono tutta l’attenzione e incantano l’intelligenza... Un
uomo rimane chiuso nel cerchio del suo corpo, e non produce che sbadigli o si-
lenzio...°° Ricordati che la salute ha una dolcezza senza pari quando diventa meditazione [...]: sentirai allora nel tuo corpo un battito d’ali, un angelo che spicca il volo: è la mente che comincia a pensare in tutta la sua pienezza*.
In realtà nemmeno il padre di Paolo, unico personaggio che stabilisce uno stretto legame con la sfera superiore dell’uomo, raggiunge la felicità della ragione, incapace com'è di travalicare il proprio limite corporale. Sentire il corpo come deterrente alla felicità, dove per gli altri è invece gioia e vitalità, gli impedisce l’espansione delle proprie «intuizioni» al livello della piena consapevolezza. Apparentemente diverso, è proprio questo suo legame con la materia ad unirlo a tutti gli altri componenti della famiglia Castorini. Se Paolo e lo zio Edmondo possono percepire la fisicità come slancio vitale, Michele la avverte per caratteri opposti, una zavorra che lo porterà al suicidio: Io sono riuscito a intuire poche volte cosa sia la vita nella sua forma normale... Ma non potevo vivere d’immaginazione [...] Che cosa diventa, lo spirito umano, in un cervello anemico e intossicato [...]. Amare la felicità e la chiarezza, come le amo io, e dovere ingoiare continuamente un’infelicità stupida, una polti-
SAMI p'281r MTV D OS 9 Jui, p. 96.
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glia disgustosa preparata da uno stomaco che non funziona... Quella tetraggine di bassa lega, contro la quale non potevo far nulla... mi arrivava al cervello co-
me un embolo e mi bloccava il pensiero®'.
La lotta interiore di Paolo trova una momentanea tregua nel matrimonio, rapidamente accennato, con Caterina. Nell’illusione di avere dato
una sistemazione alla propria inquietudine °°, Paolo può lasciare temporaneamente inascoltate le sue basse pulsioni per dedicarsi alla sfera spirituale, ma questo «stato di grazia» non è destinato a durare: ritornato a Roma e lasciato, per uno screzio con Caterina, fuori della camera da letto, «fuori di
una cinta nella quale si era sentito sicuro», il «terrore della mente e gioia maligna della carne lo coprirono di un sudore freddo»: Egli si alzò dal divano come cercando un aiuto. Era stato raggiunto dal nemico della sua vita mentre era fuori della cinta, lasciato al di là della porta chiusa [...]. AI di là del battente, tutto era illuminato nella sua memoria da una quieta luce di sicurezza e di beatitudine; rivide gli scendiletto, le sedie impagliate, gli specchi», gli oggetti che «spiravano una voluttà benefica, ristoratrice dell’intelli-
genza» 93.
Attraverso il matrimonio Paolo non cerca tanto di affrontare il proprio male, quanto di differirlo; ma così facendo salda quella scissione che lo porterà, quando solo, alla disperazione, ad assumere alla propria coscienza l’impossibilità di una salvezza: Era ormai solo, in balìa di se stesso. «E va bene», pensò, «vuol dire che è scrit-
to così» 4.
A Paolo viene offerta la possibilità, insita nella disperazione, respinta da Antonio, di comprendere il suo stato mediante un’analisi, un’elabo-
razione ed una conseguente integrazione che sani la nevrosi. Ma la dispe-
razione ® è una via che il protagonista non riesce ancora una volta a per-
6! Ivi, p. 129. Anche il matrimonio non corrisponde ad una scelta attuata dal personaggio ma soggiace ad una logica deterministica a lui indipendente. Paolo non fa altro che concretizzare un consiglio datogli vent'anni prima dallo zio Edmondo.
63 Ivi, p. 334. CUENIVIpa939ì 9 «Non vive un solo uomo il quale non sia alquanto disperato, non porti in sé un’inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia di qualche cosa che egli non conosce
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correre, e la mancata sintesi tra senso e intelletto, effetto di una supervalutazione della «natura animale» ed una svalutazione della sua «natura artistica», permane procrastinando ogni possibile salvezza al ritorno della moglie da Catania. Anche se «egli e la sua disperazione furono per un momento la stessa persona» %, Paolo non riesce ad accettare, e quindi a superare, la sua finitezza di uomo e vi rimane intrappolato. L’ineluttabile ritorno al corpo segna la fine ed il fallimento di Paolo come scrittore, in un totale annichilimento della tensione creativa ed artistica che in precedenza costituiva l’unico strumento per la ricerca di un equilibrio conoscitivo ormai irreparabilmente sconvolto. Paolo perde addirittura la propria sensualità, «anch’essa divina come la ragione» °’, che si trasforma in mera lussuria, non «peccato della carne, ma contro la carne, che perde piano piano la sua lievità e trasparenza, e si riempie di oscuri fermenti, di opacità e
ispessimenti di ogni genere fin nella sua parte più delicata e alta, fin nello
strumento dell’intelligenza e della felicità, il cervello» *. La sorte di Paolo è da questo momento segnata; Brancati a pochi giorni dalla morte, nelle ultime disposizioni relative alle sue opere, avverte che nei due capitoli ancora mancanti «si sarebbe raccontato che la moglie non tornava (più) da Paolo ed egli, in successivi attacchi di fantastica gelosia, si aggrovigliava sempre di più in se stesso fino a sentire l’ala della stupidità sfiorargli il cervello». Ma se Paolo il caldo altro non fosse che la storia di una crisi, di una
svolta che cerca la via migliore, non si potrebbe forse pensare che la lotta di Paolo (e di Fedor, Pietro, Leonardo, Giovanni, Antonio) per la luce celi il
tentativo di un’arte che vuole trovare la forma oltre la materia? Il fallimento dei personaggi non potrebbe cioè rispecchiare un giudizio sulla negatività di un’arte, anticlassica e decadente, che non riesce a trovare il proprio equilibrio tra sentimento e ragione? Un giudizio, questo, che Brancati aveva già
o che non osa conoscere, un’angoscia di una possibilità dell’esistenza» (Sgren Kierkegaard, La malattia mortale, Milano, Mondadori, 1991, p. 23).
6
V. Brancati, Paolo il caldo cit., p. 344.
CAIN, pag. Sp pl; 6° I riferimenti religiosi che si susseguono nell’ultima parte del libro potrebbero indicare un epilogo della disperazione nel segno della fede, magari in parallelo all’altro Paolo, al Saul biblico che, folgorato sulla via di Damasco da «una luce [...] più fulgente del sole» (Atti, 26, 13), da vessatore dei cristiani diventa apostolo portatore del messaggio che invita «ad aprire gli occhi», a passare «dalle tenebre alla luce» (Atti, 26, 18). Ma il nostro Paolo, ancora una volta, non crede ad un Dio simbolo di luce ma al diavolo, signore delle tenebre (cfr. V.
Brancati, Paolo il caldo cit., pp. 291-292 e pp. 300 sgg.).
s15
espresso per bocca di Domenico Pinsuto il quale, fraintendendo l’amico Paolo, aveva confessato: Le infernali sensazioni moderne [...] le comprendo e le apprezzo. Ma questi libri, questa musica, questi quadri, questa roba che mastico, gustandone i più reconditi sapori, non nutre minimamente la mia natura patriarcale e classica [...]. Noi siamo dei classici che viviamo clandestinamente in un’epoca di decadenza 7°
accorgendosi per altro subito del proprio errore: E di colpo si arrestò addolorato, avendo percepito, nell’uomo di provincia che gli sedeva accanto, quella scissione, secondo lui segno sicuro di nevrosi, tra follia di grandezza e delirio di umiltà, per cui una mente può vivere sinistramente reggendo da una parte uno smisurato orgoglio, nel quale si riflettono, come nel cielo pagano i minacciosi pensieri degli uomini che volevano assalirlo piegando gli dei, tutti isentimenti di poter essere superiori a se stessi, dall’altra una tenebrosa paura echeggiante di tutte le salmodie intonate nelle catacombe. [...] questo significava che la scissione mentale si era chiusa in quell’uomo di provincia, e che egli Pinsuto si era ingannato ”!.
70
una nuova
: S » Ivi,n p. 241. Paolo, ovviamente, non può capirlo e fugge verso una nuova avventura,
sensazione.
? Ivi, p. 363.
514
ANNA DOLFI
MALINCONIA E NEVROSI: IN PROSA E VERSI IL ‘DIFFERIRE’ AUTOBIOGRAFICO DI LANDOLFI*
Aggiungendo una Postfazione 1988 alla prima traduzione italiana della sua /talie magique, Gianfranco Contini, già disincantato e rapido antologizzatore del singolare surrealismo italiano (un «magico senza magia», del «surreale senza surrealismo»), ha avanzato un riduttivo giudizio, se non
sugli esordi, certo sull’iter complessivo di quella che gli era parsa, quarant’anni prima, una delle «figure più attraenti e eleganti, comunque delle meno provinciali, della giovane letteratura italiana» !. Quella «carriera futura [...] per definizione imprevedibile» che si era felicemente avviata tra
«ossessioni» e «bizzarrie», «immaginazioni stravaganti» e «simboli psicanalitici», gli appare non aver retto appieno al passare del tempo, e Landolfi, «continuatore fecondo di se stesso in modalità poco variate» ?, gli sembra mostrare, a una valutazione successiva, un’attenuazione inevitabile di
quell’originalità che l’aveva fatto rimarcare all’inizio: L’imprevedibilità della sua carriera futura, di cui si parlava nel 1946, si è mutata post factum in una prevedibilità onorevole ma leggermente delusiva: Cancroregina, La bière du pecheur, Ombre, Rien va, Racconti impossibili, Des mois, Un
* Queste pagine, presentate con il titolo Poesie, diari: il ‘differire’ autobiografico di Landolfi nelle Giornate di studio dedicate da Trento a Landolfi (il 17 e 18 aprile 1989) e rimaste poi inedite, ci sembra di poterle proporre non del tutto inopportunamente in questa sede, giacché, nate a latere del primo seminario su «Le forme della soggettività» («Journal intime» e letteratura moderna), sfioravano quasi inconsapevolmente il tema del secondo (Malinconia, malattia malinconica e letteratura moderna) precorrendo quest’ultimo, dedicato a Nevrosi e follia. È da segnalare, posteriore alla stesura di questo saggio, l’uscita di uno splendido libro su Landolfi (d’ora in poi imprescindibile per qualsivoglia studio sull’autore): penso a Oreste Macri, Tommaso Landolfi. Narratore poeta critico artefice della lingua, Firenze, Le Lettere, 1990. ! Cfr. Gianfranco Contini, /talia magica, Torino, Einaudi, 1988.
2 Ivi, p. 249.
515
paniere di chiocciole, Le labrene, A caso (più il postumo Gioco della torre, 1987) non costituiscono una serie evolutiva, ma una somma di addendi similari }.
Come dire, se vogliamo spingere il discorso di Contini più innanzi, che quell’«intelletto lucidissimo e mirabilmente ammobiliato», quella «delicatezza profonda e che si vergogna di se stessa», quell’«angoscia verissima sotto la scorza mitica di un personaggio notturno dai costumi misteriosi e fatali» “, non avevano trovato modo di svilupparsi, come bloccati, aggiungeremmo noi, a un nucleo originario di partenza che non doveva costituire la base per un processo evolutivo, ma solo la molla per una ripetizione centripeta, con i caratteri piuttosto dell’ossessività. D'altronde, in Des
mois, giocando al principio e alla fine del racconto?, Landolfi aveva costruito la «straziante immagine» ° di una circolarità intransitiva, una sorta di sfericità sorda e inglobante (sul modello non a caso della tavola rotonda del «salotto parentale» 7) dove la rifrazione aveva avuto solo nel centro un reale punto, paradossale, d’arrivo, dopo avervi trovato — potremmo forse inferire — un ancor più taciuto, misterioso e paradossale avvio. Vietata insomma la linearità che avrebbe permesso di attraversarlo, quel centro, ed esaltata piuttosto la rifrazione, che avrebbe finito per spostare tutti i punti equidistanti in quel centro unico destinato allo smistamento capriccioso e cervellotico dei messaggi. Col risultato, ben inteso, d’impedirè lo scambio tra ‘parlatori’, come dire di vietare una partita reale, instaurando però un meccanismo di gioco almeno fittizio: raddoppiata la partita, insomma, fatta «tripla e decupla» *, anche se sostanzialmente ingiocabile. Nel centro landolfiano sarebbe rimasta la perdita originaria (quell’ombra che aveva attraversato il corpo della madre, mescolando fin dall’infanzia la vita con la morte, la nascita con la fine) ° e la ferita primitiva del narcisismo, di lì nata e continuamente ritornante, espressa e figurata nei modi
di una continua esclusione, di una sostanziale impotenza, e concretata poi
3 Ibidem. * Così Contini, nella brevissima scheda di presentazione all’antologizazione landolfiana negli anni della prima stampa dell’/talie magique. Tommaso Landolfi, Des mois, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 15. 6 Ivi, p. 16.
Ivi, p. 15. 8 Ivi, p. 16. Ma per una lettura complessiva dell’opera di Landolfi sia consentito il rimando a Anna Dolfi, Tommaso Landolfi: «ars combinatoria», paradosso e poesia, in AA.VV., Una giornata per Landolfi, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1981, pp. 169-227.
516
nelle forme aggressive della dissacrazione, della profanazione, della misoginia. Il fiore bianco, «emblema superegoico o legato all’ideale dell'Io» !° del Narciso che riesce a bilanciare il gioco delle pulsioni, non avrebbe insomma potuto essere per Landolfi che viola di morte, bisogno continuo di scavare là dove la blessure non aveva e non avrebbe potuto cicatrizzarsi, aggravata ben inteso, nel suo tendere alle acque di Stige, dal passare del tempo. Come se l’iniziale meccanismo di copertura, esperito nell’estremizzazione grottesca del reale, nella creazione di una paradossalità iconica intellettualisticamente costruita !! nell’omissione o minimizzazione dell’occasione spinta, dovesse insomma mostrare, col tempo appunto, la propria non funzionalità a proteggere dall’angoscia ritornante, esigendo coll’andare degli anni un’autorivelazione palese (ergo meno letterariamente inventiva). Si potrebbe in gran parte spiegare così la minore funzionalità di alcuni testi landolfiani (basti citare l’emblematico A caso) e l’enorme fortuna di Lan-
dolfi soprattutto come autore da antologia '?. Così come si potrebbe spiegare dopo la fase surrealista o iper-realista '5, articolata essenzialmente in im-
magini, il necessario piegarsi ad un nuovo diverso irreale, ma nato da un’estremizzazione
!'°
contraria, tutta teorica, tutta astratta *. L’io che non
Così Michel David, in Narciso e il diario psicanalitico, in AA.VV., La cultura psi-
canalitica. Atti del Convegno. Trieste 5-8 dicembre 1985, a cura di Anna Maria Accerboni, Pordenone, Studio Tesi, 1987, p. 552.
!! Già Debenedetti aveva parlato di chiarezza «al servizio del massimo di procurata oscurità, o meglio occultamento» (Giacomo Debenedetti, // «rouge e le noir» di Landolfi, in Intermezzo, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 215). 12 Si veda per questo anche l’antologia curata da Italo Calvino, Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, Milano, Rizzoli, 1982. 13° Ma per una lettura di Landolfi alla luce anche di queste problematiche si rimanda alla bibliografia landolfiana; in particolare a AA.VV., Una giornata per Landolfi cit. e Luigi Fontanella, Surrealismo di Landolfi: umore (e malumore) nero dei suoi racconti, in Il sur-
realismo italiano. Ricerche e letture, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 189-218. 14° Ché una forma di trasfigurazione del reale la presentano ben inteso anche i diari e la poesia, ma in una direzione mentale, là dove altrove era stata precipuamente figurativa. Quan-
to poi alla componente diaristica, autobiografica di tutto il narrare landolfiano, basterebbe citare il ricorso alla forma diario come a un genere sovente addotto anche dai protagonisti degli scritti giovanili (La bière du pecheur...) o rilevare il parodismo che Landolfi attua all’interno di qualunque genere, diario compreso. Per un accenno in proposito si vedano adesso Leonardo Lattarulo, Ottavio di Saint Vincent, in AA.VV., Landolfi. Libro per libro, a cura di Tarciso Tarquini, Alatri, Hetea editrice, 1989, pp. 103-110, e Marcello Carlino, La bière du pecheur, ivi, pp. 89-95. Che poi l’impossibilità del racconto dovesse e potesse portare all’autobiografia è rilievo evidente e valevole lungo tutto l’iter landolfiano (cfr., per un rapido accenno, Silvana Castelli, «Sono un vuoto, una lacuna, una dimenticanza», ivi ).
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sfugge più al ruolo fatale e palese di soggetto e oggetto d’indagine si trova spinto, altrettanto fatalmente, al ritorno alla madre/donna/morte, nell’im-
prendibilità, nella perdita, della donna/vita. È in gioco insomma ancora il narcisismo, con le sue ferite, ma in una versione ormai tanatotropica, arti-
colata per fenomenologie depressive cautamente arginate e controllate dalla scrittura. Rien va avrebbe mostrato di questa crisi il punto più basso, e più letterariamente interessante !*, il momento dell’incontro e della confessione —
sia pur impedita e alterata dai segni scrittori !° — della propria imperfezione, e quindi della propria pulsione di morte (in direzione non più soltanto omicida ma soprattutto suicida !?); le opere immediatamente circonvicine (Des mois e i due volumi di poesie, che con Rien va sembrano inscriversi ormai sulla linea di un altro Landolfi) avrebbero continuato quella prima formulazione del dubbio (esistenzialmente vissuto come momento rivelatore nella nevrosi) ma con la scrittura che funziona non come strumento di dannazione ma di riscatto. La forma diario insomma, che, al di là dei lenocini del
letterario, aveva garantito e permesso la terapeusi del tempo, consente il differimento dell’epilogo fatale, permette la ricostruzione di un /udus sovrapposto (si pensi all’ironica, disperata, divertita creazione dei versicoli in Des mois), continua a dire (nei limiti della finzione dei testi, ma al massi-
mo del confessabile) un autobiografico fatto soprattutto di abbandono, sfiducia, morte e sua contestazione, dunque paradossale coraggio. Il fatto è che la poesia (quella balorda esperita in Des mois, che avvierà l’altra ben diversamente funzionale dei libri) coincide o concede la pronunzia netta del nome; e un trauma gridato, detto, lo si sa, cessa in gran parte la sua azione
mortale; e guida la depressione, all’apparenza senza movente o soggetto scatenante, lungo i binari di una controllabile sindrome reattiva. Le poesiole, i versi che avevano intervallato tanti racconti, tanti libri anche della
!° Almeno dal punto di vista delle indagini e studi sulla diaristica letteraria. Per l’impostazione del problema metodologico e per i necessari rimandi bibliografici si veda almeno AA.VV., «Journal intime» e letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1989. !©
Cfr. per questo A. Dolfi, La camicia di Nesso della letteratura (nota sul diarismo di
Landolfi), in AA.VV., Landolfiana [mumero speciale di «Gradiva»], nella e Achille Serrao, 1989, 7, pp. 27-35. !” Ci si riferisce naturalmente al personaggio che dice io nel ipotizzare un’identità completa con lo scrittore anche per quei generi, sia, ove la dimensione autobiografica è praticamente, implicitamente dallo stesso autore.
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a cura di Luigi Fontatesto, senza per questo quali il diario e la poedichiarata e autorizzata
giovinezza landolfiana, quasi a cercare la decifrazione di quell’alfabeto, di quella sintassi, di quella lingua sconosciuta di cui era emblema il falso persiano del Dialogo dei massimi sistemi (lingua imparata da uno sconosciuto, alterata per frode o dimenticanza, compresa appieno dal solo autore o forse più neppure da lui, come restituita all’intelligenza improbabile del solo inconscio), ritrovano in Des mois la capacità di dichiarare come propria la volontà di inventarsi, in scanzonata parodia di ritmicità popolari così come più tardi in abile ars combinatoria che mescola soprattutto classici antichi (Dante, Foscolo, Leopardi) e moderni (Montale, più tardi Caproni)
con arie e frammenti di librettistica d’opera. Con lo scopo di ingannare il tempo vuoto, senza fondo della noia, di irridere se stessi («Addio, tristo quaderno, / Precipita all’ Averno» !°), di dichiarare la contraddittorietà e la
necessità della scrittura («Non so che dir, però scrivo lo stesso [...]. / Mi-
rabile sentenza tuttavia! / Scommetto non si dia / Chi penna in mano tenga/ Che non la sottoscriverebbe [...]. /Che dire, in verità, me lo sai dire?» 2°), di vivere simulando interessi fittizi se non reali per dare un senso all’attesa di
morte ?!. Landolfi d’altronde, come il Leopardi che si sceglierà e dichiarerà, per citazioni anche palesemente esplicite, maestro, è costretto, nell’aporia fon-
damentale morte/vita, nell’irresoluzione logica delle loro reciproche necessità 22, nel dichiarato contrasto tra l’affettivo e il razionale (acuito dall’esperienza della paternità da cui nascono i diari), a uno stallo ove ai versi appunto può essere affidato il compito della denuncia, dell’accusa, e la testimonianza anche dell’acquietamento, della baldanza. Mescendo versi, «se tempo ce ne avanza», si mette in atto l’ultima estrema opera di au-
toillusione, quella richiesta del «nostro proprio volto», di «una nostra consistenza non ipotizzata dalla volontà e non figurata per compenso dalla disperazione, ma tanto o quanto reale» °5. Al di là insomma di ogni altera-
18 Si veda soprattutto per questo, per un’esplicita analisi delle fonti, A. Dolfi, Tommaso Landolfi: «ars combinatoria», paradosso e poesia cit.
1% Des mois cit., p. 96. ol vinpo9l: 2! Cfr. ivi, soprattutto pp. 97-98. 2 Per un’analisi soprattutto di questa problematica leopardiana sia consentito il rinvio a A. Dolfi, Leopardi tra negazione e utopia. Indagini e ricerche sui Canti, Padova, Liviana, 1973; Dall’ «intime» al «philosophique»: le strutture cognitive dello Zibaldone, in AA.VV., «Journal intime» e letteratura moderna cit.
23. Des mois cit., p. 103.
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zione inconsapevole o voluta, di ogni voyeurismo (Des mois, come già prima Rien va svelerà l’origine dei racconti, ne mostrerà la genesi, il mecca-
nismo ispiratore), il diario e la poesia tenteranno per due vie diverse e convergenti l’agognata coincidenza tra il vero e l’immagine, il materiale e l’astratto, operando sostanzialmente sempre su diadi oppositive (morte/vita, fiducia/sconforto) affidate all’ambigua conciliazione del sofisma. Un lungo poema di «care insipienze», capace di attenuare l’angoscia di «fogli bianchi e poi neri» riempiti per irragionevole mania («La mania dei versicoli mi tiene; / E così sia, non posso farci nulla [...]. /Tal sono, ed essa al-
levia le mie pene»), oltre «lo schifo» di se stesso e della propria scrittura, è quanto può offrire un’assurda esistenza, ossessionata dall’insensatezza del tema/problema dello stesso esistere («Così talvolta bieco vento frulla, / Travolge i nostri cuori, e con amaro / Sospetto ci chiediamo se nel nulla / Ra-
pirà tutto quello che ci è caro»; «Sai tu come si vive? / Io non conosco il modo, / Sì alla men peggio scrivo»). Certo, la poesia come il diario, divenuti fini a se stessi, «unica occu-
pazione», denunciano un «pauroso vuoto» *: Il punto di involuzione o, si potrebbe dire, di degenerazione d’una vita è quando il lavoro (intellettuale, si capisce) appare indispensabile, ossia unico mezzo per preservarla: di là l’esistenza, alle cui acque correnti non ci si può più mescolare, di qua una faticosa e malinconica ricostruzione di essa appunto [...]. Tuttavia è duro, proprio logicamente, il passaggio da un’esistenza a una non esistenza; poiché certo non esistenza è il lavoro. Ma sospetto che in questo rifiuto o in questa sopravvenuta inadeguatezza al vivere sia implicita una colpevole ac-
quiescienza *. Insomma andiamo male: il lavoro è diventato un vizio! E del vizio ha anche le caratteristiche distruttive, poiché comporta sigarette ed alcool a non finire [...] non mi aspettavo una tale conclusione della mia vita; conclusione grottesca addirittura [...]. Il lavoro, dico, non può né deve essere un vizio [...] ?°
ma quale l’alternativa, se non raccontini, elzeviri via via più fiacchi, fatal-
mente destituiti di senso in rapporto alla necessità del vero?: Tutta la vergognosa debolezza di questi ultimi tempi doveva necessariamente riuscire a un roseo raccontino quale il precedente; che abbandono alla sua igno-
2. In questo senso la definizione del diario in Des mois cit., p. 135. 2MIVISpa29! OT TTAp 59:
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miniosa sorte [...] perché invece non ho tentato di cavare da quella remota storia il suo senso doloroso [...] non sarebbe stato ora il momento per denunciarle apertamente, o che diario è questo? per denunciare tutta la mia angoscia di quel tempo, vera e non da balletto [...]? Ma forse in queste oscure pagine precedenti tiravo all’elzeviro, che è ormai la mia costante preoccupazione e il mio panico, simile appunto a quello di chi tema ogni volta di risultare impotente; e i reali motivi suddetti non possono trovar posto in un elzeviro. / Già: come si può guadagnarsi la vita inventando elzeviri? Si potrà andare avanti per un certo tempo, ma poi essi dovranno per forza diventare via via più fiacchi, e dovrà addi-
rittura inaridirsene la fonte... ??. Il raccontare, il narrare (e Rien va e Des mois ne sono chiara testi-
monianza) hanno cessato di procurare «gioia e appagamento» #: Parrebbe quasi che si desse un nostro simile, e che vi fosse alcunché di raccontabile, e che se mai il nostro simile bisognasse dei nostri racconti... «Gioia di narrare»! Ma infine perché no? un modo come un altro per salvarsi nella beata incoscienza [...] il narrare [...] ci si costituisce come un chiuso agone, come un esercizio autonomo [...] occorrerebbe possedere (e non è da tutti) una doppia dose di incoscienza: incoscienza rispetto al valore assoluto della propria materia, e incoscienza rispetto ai rapporti interni di essa, alla sua congruenza for-
male °°
la narrativa landolfiana passa ormai, dopo la cadenza giornaliera, la ricostruzione mensile, attraverso il quasi tre volte centenario scandire frammenti di una lingua poetica assieme umile ed alta 3°. Sono spesso iscrizioni per lapidi del passato incastonate nella naturalità di un linguaggio all’apparenza dimesso che permettono di decifrare la verità che si contrappone al vero («Se tu credi nel male sei perduto / E sei già preda della morte»), di costruire la «pompa dell’arte» che serve a «non essere morto» e a prospettare una sorta di paradossale coraggio («È quasi un eroismo / Il tradimento consumato appieno»; «il non credere è l’ultima credenza»). D'altronde il «gelo» orrendo, contrapposto all’«eterno riso» era già stato denunciato da un Sonetto giovanile, sia pur tardamente pubblicato in
? Ivi, pp. 123-124. 28 Ivi, p. 139. 29. Ibidem. 30 Cfr. Viola di morte, Firenze, Vallecchi, 1972. Tutti i brani di poesia citati in seguito dovranno essere considerati estratti da questa raccolta.
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apertura di Viola di morte; e quella stessa giovanile lirica aveva già prospettato, nelle more dell’attesa («e così trascorron l’ore»), la ricerca vana di
una mitica «stella». Il coraggio, leopardianamente («non t’ingannasti mai / Sulle tue sorti mortali»), era ed è nel rifiuto dell’autoillusione («Io torno nel
profondo vittorioso»), e questo atteggiamento, di lucida indagine e accusa, è divenuto ormai, negli anni 70, un elemento di quella che potremmo chiamare una landolfiana gnosi strutturante. Se il complesso egotismo *! dell’autore impedisce naturalmente l’uscita dall’impasse vitale, riportando sempre, fatalmente, alla ferita narcisistica mai sanata inferta dalla morte «buia ministra» del male, è vero che or-
mai l’appagamento narcisistico, malgrado la ferita, sembra essere possibile, e proprio sulla carta nuova della lucidità. Stabilita la costrizione di tut-
to («Neppure un fatuo gioco ci è concesso / Senza che ci divenga in breve tratto / Una camicia di Nesso»), e la duplicità di tutto (interessanti gli appellativi in ossimoro, alla morte come alla vita), il «pari e patta» (e nell’esistenza è il risultato ottimale, specie ove si sappia, come Landolfi, che la partita risolutiva è perduta in partenza) è garantito solo dal «vizio osceno» dei versi. Versi certo pericolosi perché la verità è in tutto ciò che è duplice e non è fisso, e «vana è la parola » che si fa carica di «definite significazioni» («La parola significa. E ben questa/ È la sua morte»); pure il «nulla significare, nulla dire» possono ritagliarsi quale «supremo atto d'amore» ai limiti dello spazio ove la «sordida» Celeno, Arpia simbolo della nera oscurità mortuaria e notturna, giunge a imbrattare «i nostri sudati abachi».
Là dove la terra «ci fu matrigna» per fatale distanza dal lontano grembo della madre protrettrice *2, la «rima, ancorché imperfetta, / Sostiene la nostra debolezza» accentuando l’innocenza originaria, l’inutilità dell’attesa, la vacuità di passato e futuro, il privilegio dell’attimo. Scrivere è confessare «amico l’attimo fuggente» rifiutando i patteggiamenti della mistificazione, è ridursi al presente perseguendo una sorta di vantata renitenza («Reniten-
3! «I rapporti di Landolfi con se stesso, a seguirli attraverso gli scritti, definiscono un egotismo tra i più complessi e contraddittori» (Italo Calvino, L’esattezza e il caos, in Le più belle pagine di Tommaso Landolfi cit., p. 420). Assai opportunamente Calvino destinava una sezione della sua antologia alla tematica Tra autobiografia e invenzione. Così come, molto propriamente, avrebbe parlato anche di un landolfiano gesto duplice verso la letteratura e la vita: «per questo il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto se stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via» (ivi, p. 418).
Cfr. Essere bagnati dalle felci, in Viola di morte cit.
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za alla vita è il mio gran vanto»); ed è anche, assieme, tentativo ultimo per riscattare l’oscurità del nome, per operare quel differire autobiografico che ritarda la morte, scelta, se non invocata, per antifrastica disperazione («Dif-
ferire è la magica parola / Che dà alla nostra vita luce e sole: / Perché odieremmo la morte / Se non perché ci vieta il differire? / Chi può ciò fare, vive»; «Credo che non il cuore, ma la penna, / Moderi i nostri sconforti: /
Dovunque la penna arriva, / Si ritira il suicidio»). Individuato il colpevole artefice del «crimine nefando», la ripetizione dell’invettiva è fatale, così come quella che riconduce sempre al ricordo della piaga originaria, ferita inferta al nascere («Orsù, chi ci ha feriti nella culla, / Anzi nel primo nulla?») e continuamente riproposta nel silenzio tenace opposto all’interrogare umano («Oh Dio, per quanti incogniti sentieri / Noi t’abbiamo cercato [...] Volevamo affidarti la parola /Che conquista e dirime [...] Volevamo traessi il senso eletto / Che ci desse da vivere e morire [...] In
vane forme la vita ci irride / E sempremai noi siamo parte lesa»). Leopardianamente offeso dall’indifferenza, dalla negazione implicita e totale di rilevanza («Tu mai non fosti e non sarai») che riapre la blessure beante, il
poeta non può che convogliare la furia «di cuore» in quella «di ragione», farne un’attitudine unica, in una ricerca di pace improbabile che sortisce forse in opposto effetto se è vero che i «sensi persi», la «nostra ala ferita» lacerano poi di nuovo sul «cuore» parodiato in «immane scheletro» la richiesta di immobilità (ergo di morte): «Io, son ferito [...] /E chiede il cuore (oh perdonate) amore [...] / Io son ferito [...] voglio / Giacere nel mio solco». Al
limite estremo anche le parole non servono più («La sinfonia del tempo scialacquato, / Dei lunghi giorni vuoti, / Dell’assidua noia [...] /Parola è dunque, immagine, figura? [...] Il nulla, è quello ch’io mi scaldo dentro»), mentre
l’«ora distorta» rende le «frasi sghembe», «piega le righe», intorbida il dettato («Melma e belletta solo vi ritrovo: Torbido sedimento / D’una giornata vissuta»), fa delle carte non solo il luogo della speranza impossibile, ma anche quello della scrittura negata, tentata e scommessa soltanto. La poesia, dopo averlo cercato, mentre continua forse a ripeterlo, occulta nei suoi ludi inutili l’oggetto e la causa prima; la dissimulazione la guida, acuita in parodie, in contraddizioni, capovolgimenti repentini, ripetizioni ossessive che forano la triangolazione frapposta tra il presente e la morte dalla memoria artificiale. All’angoscia del quotidiano (quello mascherato dai racconti fantastici nella contraddittoria genesi tra pietà e violenza crudele, quello dichiarato in Rien va soprattutto) non può che contrapporsi la retorica del labirinto. Percorsi che si ripetono, che tornano su se stessi, che si intrecciano, si contraddicono, utilizzando segnali culturali,
frammenti poetici, modalità filosofiche destinate ogni volta a confondere se
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non il poeta il lettore, a involgerlo nella verità/parodia di una confessione irridente, di un’inquietante divertissement. Nell’ultimo Landolfi l’iterazione (che di fatto significa anche abolizione del processo metaforico intenzionale di trasformazione sul quale era stata possibile la creazione del fantastico, del surreale) e l’ellissi coesistono paradossalmente; ché ciò che costantemente ritorna, anche nelle poesie, è la modalità di una scrittura
espressiva che si nutre d’insistenza, di coazione a ripetere e di taciuto (secondo le regole d’altronde di ogni buona scrittura diaristica *). Di qui forse (nell’alternarsi e coesistere di identità, silenzio e alterazione) l’impres-
sione contraddittoria di verità e menzogna, di autobiografia e di finzione che lasciano gli ultimi libri di Landolfi, per il trionfo probabilmente, a livello di fruizione del testo, di quel principio d’incertezza che doveva per Landolfi rappresentare il maggior pregio della letteratura *. Pregio ab origine, s'intende, ma che si sarebbe esaltato con il ricorso finale alla misci-
dazione dei contrari (si pensi al Tradimento come all’epilogo emblematico e assoluto, e per stessa dichiarazione d’autore *) e all’elevazione a regola del sistema platonico della negazione 5°. Se Leopardi, seguendo le regole della logica aristotelica, avrebbe mosso il suo argomentare sul rispetto del principio di non contraddizione, e da quello e su quello avrebbe articolato il suo rifiuto totale della dualità,
per altro esistente in natura ?”; Landolfi avvia un universo logico in cui alterazione e verità possono sempre dichiarare di coincidere e conciliarsi. Il suo problema non è più quello dell’inaccordabilità logica e sentimentale di un positivo cui è opposta, come contrario, la negatività; ma quello dell’an-
3 Sulla divisione husserliana tra scrittura indicativa ed espressiva funzionalizzata poi alla lettura dei diari, cfr. Eric Marty, L'écriture du jour. Le journal d'André Gide, Paris, Seuil,
1985. 3.
Cfr., per questo, A. Dolfi, La camicia di Nesso della letteratura cit.
35
Cfr. per questo la nota fuori testo premessa a // tradimento (Milano, Rizzoli, 1977):
«Questo libro è quello che, rispetto alla sua composizione (e qualunque altro possa aver veduto la luce nel frattempo), immediatamente segue la mia Viola di morte. Tale precisazione ben dovevo ai miei pochi estimatori, che rettamente giudicarono essere detta Viola un’ultima tule: la quale pertanto, posto avesse a tollerare, non tollerasse futile, ma semmai grave e terribile seguito». °°. Per una diversa logica della negazione in Platone, cfr. Raul Mortley, Désir et différence dans la tradition platonicienne, Paris, Vrin, 1988. 7 Sia consentito per questo ancora un rinvio a A. Dolfi, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, in Leopardi tra negazione e utopia cit.; e Dall’ «intime» al «philosophique»: le strutture cognitive dello Zibaldone cit.
524
titesi e lotta tra due realtà, parimenti vere ed equipollenti quanto a profonda istanza valutativa; vere e equipollenti soprattutto (e qui la differenza da Leopardi) nella loro complementarità essenziale. Il vivere e il morire insomma non si escludono più (alla maniera leopardiana), la loro compresenza non minaccia più la logica, favorisce anzi la creazione di un nuovo sistema di pensiero. Vita e morte assurgono a pari titolo a ruolo di protagonisti; giacché la totalità dell’essere è data dalla loro coesistenza. La morte che non arriva potrà divenire nell’estremizzazione astratta del problema scandalosa assenza, frattura irreparabile di quella totalità solo così platonicamente intesa. Tradimento restituito insomma all’orgoglio luciferino di Dio nel «baratro infernale» di fogli bianchi vergati «d’un impossibile messaggio» #. Landolfi ha insomma scelto, per l’ultima partita, una carta sulla quale si intreccino sempre più segni, più figure, conscio del bluff implicito (regola e sregolatezza di ogni gran giocatore), nel tentativo forse di poter solo così, con l’estremizzazione della verità, fingere, nel «corteggi[o]» del-
la «prosa» * l’ultimo ‘racconto’ irreale («Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute [...] La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova / Ma l’avventurosa prosa»; «Così trapassa in prosa / Il verso, l’illusione generosa / in disperata ostinazione»; «Dal nulla ho tratto il massimo partito, / E per tal fatto andrò lodato; / Pure per tal sarò vituperato, / Che solo il nulla m’era compartito»): Rien n’va serait peut-être Mieux dit, je veux l’admettre. Et néammoins... Eh quoi!
C'est RIEN qui va, pas moi“.
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Cfr. /l tradimento cit. v7)
40 Ivi, p. 54.
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IL «FOLLE DESIO» DI SANDRO PENNA
Il sintagma tra virgolette del titolo è petrarchesco, pari alla «cheta follia» citata infra. Lo adopero non solo, o non tanto, per tradurre quella che Penna designa col vocabolo «brama» (originale e da Saba), quanto per alludere a una determinata tradizione del conato fisiologico-istintuale e concettuale-ideale neoplatonico, converso in un unico oggetto erotico. I caratteri generali nevrotico-ossessivi variano secondo il rapporto demonico tra amante e oggetto amato in un cosmo serrato ed entropico dentro l’anima dello stesso amante.
La nevrosi, nel senso normale freudiano dell’Occi-
dente, si scioglie nella Parola poetica se 1’ Archetipo demonico, come il «Fanciullo Divino» di Penna, è sentito incarnato nei suoi fenomeni empirici, come i ragazzi di strada di Penna, nella sua tensione fra trascendente e immanente, terrestre e celeste, salvifico e infernale. In tale alternanza o sincronia si costituisce il diario, intenzionalmente infinito e insolubile, intorno alla figura divina-umana, dalla Mandetta di Cavalcanti all’Iride di Mon-
tale, dal Gitone degli elegiaci al Massimino di George, dato che la figura angelica è asessuata nella sua origine ed essenza. L’esplorazione e descrizione dell’oggetto amato da parte dell’amante è, sempre intenzionalmente,
totale, ma fissata in una determinata zona.
* Questo studio fa parte di una monografia generale su Sandro Penna, poeta costituita da altri tre saggi. Il primo, // “Divino fanciullo” di Sandro Penna (nevrosi e poesia) uscirà in un volume di omaggio a Marcello Pagnini; il secondo è affidato agli Atti del convegno di Perugia sul poeta, già usciti; il terzo, Sandro Penna nella sua generazione, è inedito. Le citazioni si riferiscono ai seguenti libri col numero secco delle pagine corrispondenti: senza sigla: Sandro Penna, Poesie, Prefazione di Cesare Garboli, Milano, Garzanti,
1989;
siglati: CS Sandro Penna, Confuso sogno, a cura di Elio Pecora, Milano, Garzanti, 1980; PB Elio Pecora, Sandro Penna. Una biografia, Milano, Frassinelli, 1990; PF Sandro Penna, Un po’ di febbre, Milano, Garzanti 1973; PP Cesare Garboli, Penna Papers, Milano, Garzanti, 1984; PG Sandro Penna, Peccato di gola / (poesie al fermo posta ), Milano, Libri Scheiwiller, 1989.
527
Quella di Penna è integralmente animico-corporea, dominando la corporea, senza pervenire all’antropofagia di Pasolini. Come il sesso, è anche apparente la unicità empirica dell’oggetto amato. La Laura del Petrarca si traduce in finite Laure per ogni componimento, ognuna delle quali si irradia e si concreta dall’ Archetipo trascendente, il Dio agostiniano, come
un uranio di eterna numinosità.
Penna
esclama: ogni nuovo ragazzo è un nuovo Dio (CS, 25);
vuol dire il Dio che si rinnova, astrale e unico: Oh fra le stelle non è padre né madre, mio fanciullo (CS) 32);
Primo e ultimo freno alla dissoluzione e frammentazione è la stessa
Parola poetica, nella quale il nume converge e si identifica: Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie [...] fanciullo divino
(PP, 150).
In uno studio su «L'angelo nero» e il demonismo nella poesia montaliana! ho tracciato la linea di tale tradizione da Dante a Eliot, da Blake a Hugo e al Carducci, Arturo Graf, ecc. Nel Novecento italiano rammentavo
di Pirandello l’anima originale e scissa dalla terra, il demonio del «tragico quotidiano» di Papini, il Perelà «uomo di fumo» di Palazzeschi, non senza il ricordo del Pierrot fumiste di Laforgue e dell’ Ubu Roi di Jarry. Citavo anche i «semplici», «angeli» e «miracolo quotidiano» di Nicola Lisi, dimenticando gli «angeli neri [...] volanti» di Betocchi; oltre all’angelo custode, «Ange guardien» di Baudelaire, F Coppée, F. Jammes, ecc. Altra dimenticanza (campo angelicale immenso!), ma ora opportuna per Penna, Verlaine: il suo grottesco autolesionismo, il «Crimen amoris» coi «beaux
démons [...] Satans adolescents» e la festa dei Sette Peccati Capitali. De Pisis ? esalta Verlaine al di sopra di Rimbaud e cita Penna tra i «valori ben alti» della nuova poesia italiana. De Pisis e Penna: qualche affinità è casuale,
come nel
Commiato:
! Oreste Macri, Due saggi / «L'angelo nero» e il demonismo nella poesia di Montale [...], Lecce, Milella, 1977, pp. 24-34.
? S, pp. 503-505. 3 S, 507, da Poesie, 1938?; S, pp. 503-505.
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La bella luce del sole invernale // La bella luce del sole invernale / rideva nei
tuoi occhi, / impregnava il tuo volto / di giovane dio [...]
e la rinunzia: Ti tenni sulla porta e richiusi.
Questo per dire che il «diverso» come il «normale» non accomuna per nulla i poeti; Penna è più affine a Bertolucci, Gatto, Caproni, che non a Saba, Palazzeschi, De Pisis, meno ancora a Pasolini. Ad esempio, l’angelo penniano della strada lo riprende alla lettera il Montale della Satura; De Pi-
sis lo rincorre negli angiporti della vita quotidiana, ma in poesia lo proietta e lo raggela in figurazioni artistiche, diverse dalla statuaria, vivente, dell’efebo di Penna. In cima a un pulpito barocco, / un angiolino suona una tromba (Barocco ). Sono entrato in San Bartolomeo / per riveder i/ bell’ Angelo dell’ Albani / di cui mi parlava da fanciullo mia madre (Mattino d' estate a Bologna )*.
Comunque, le Poesie di De Pisis sono del ‘38. Unica, concentrata, giammai dissipata, si presenta la demoniaca (non animalesca), anonima, nomade, maledetta ingenuità di Penna; non natura-
listica né roussoviana, ecc., ma temperata da esperienza immaginaria del «male» al suo estremo di deiezione: La poesia e la fogna due problemi mai disgiunti [...] (è il Montale di Satura; in «Quando si giunse»).
Quindi genuinità, imparagonabile con la coperta, svagata e diffusa omofilia di Saba, aggravata da dilattantesca autoanalisi freudiana, che fu una iat-
tura per molti poeti e narratori; pur se costituisce l’unico esemplare italiano di questo tipo per Penna, che riceve dal maestro vari connotati fisici e animici per il suo «fanciullo», come l’«angelico lavoro di Elio», pari all’«angelo del lavoro» di Penna (95) e all’«uomo del lavoro» (43). L’Edipo e il Narciso sono, per così dire, normalizzati, espliciti, glorificati; l’ana-
lista non saprebbe che cosa investigare e consigliare; vita e poesia si sono congiunti. Il Narciso di Saba è perpetrato e scoperto, riflessivamente proiettato in varie figure, raggelando il Lettore con dichiarazioni di questa fatta:
4 S, pp. 509-510. 5. Umberto Saba, // Canzoniere, Torino, Einaudi, 1945, p. 15.
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Guido ha qualcosa dell’anima mia [...].
Petrarca non dice mai che Laura è un fantasma di se stesso; questo l’hanno pensato alcuni critici con faciloneria e furbizia. Saba ha perduto il suo angelo oggettivo, reale; per ciò è intimo: Ma l’angelo custode volò via / e tacque in cuore quell’ultima voce [...]®.
Nella poesia seguente appare l’«amico»: Ebbi allora un amico; a lui scrivevo / lunghe lettere come ad una sposa [...]. Egli
era bello e lieto come un Dio”.
Dice: «come una sposa [...] come un Dio»; sono termini di paragone: per Penna il suo «fanciullo» è un vero Dio, non una metafora, vera «sposa», metaforico solo il genere grammaticale femminile 8.
Penna, in conclusione, deve molto a Saba per elementi esterni dell’angelismo autobiografico, ambientale popolare e artigiano e del vestiario; ad esempio, i «calzoncini» e le «piume» dell’angelo”; oltre ai caratteri fisici della selvatichezza e del corruccio, la fuga, il carattere animalesco, solare e lunare, la divinità esiliata dal consorzio umano, il tema sotterraneo, i sen-
timenti della malinconia e della gioia. Il tutto, dicevo, da Saba diffuso coperto e alienato, solo un paragrafo della «autobiografia»; vilmente proiettato l’eros specifico omofilo sulla moglie, la mamma, balia, cugina, varie fanciulle, amiche, maschi indeterminati come giocatori ciclisti soldati, mi-
stioni filiali con bambini, perfino città, come Trieste «ragazzaccio aspro e vorace» !°; sperperati l’oro superno e lo zolfo degli inferi in una prolissa e lamentosa carcel de amor. E lo confessa: il mio coraggio è debole; prigione; Amore m’ha legato inerme (// lussurioso ) !!
© Ivi, p. 289. ? Ivi, p. 390. # Si tenga conto che il poeta si decise tardi, dopo lunga fase ideale, nella dimora milanese; donde l’entusiasmo e la crisi del neofita al fuoco dell’esperienza e con la scoperta del «male»; si fece parodisticamente madre del «fanciullo» e a questa trasformazione della «carezza» è da attribuire lo spirito «materno» osservato da Saba e la simpatia di alcune amiche più o meno interessate maternamente. Le donne intuiscono che l’omofilia maschile è una fissazione irreversibile di fedeltà alla madre, confermata dalla misoginia per gelosia radicale.
°
U. Saba, // Canzoniere cit., p. 477.
10 yi. D: 0: !! Ivi, rispettivamente, pp. 313, 316 e 303.
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libresca imitazione, come suole, dai Trionfi del Petrarca: Quanti ivi erano amanti ignudi e presi (T. A. 4, 137); molti di quei che legar vi-
di Amore (T. F. 1,21).
Contro la purezza erotica, economica, essenziale, trionfale di Penna,
liberata, esilarata e angosciata nel circuito chiuso di gioia e malinconia. Comunque, dicevamo, molti caratteri del suo angelo, direttamente o
per poligenesi, sono sabiani o viceversa. Offriamo qualche altro connotato in poesie di Saba: fanciulleschi volti [...] piccoli snelli / corpi [dei commilitoni]; lungo e dorato ti distendi al sole; suoi occhi strani / di luna [...] anima selvaggia (Più soli); scioc-
chissimo fanciullo [...] fugge da; D’ingenuo amore / batteva il cuore / pel caro amico allora (Sopra un mio antico tema); Era una gioia improvvisa l’amore / per il compagno che gli era d’appresso; La sua gioia si fa una capriola (Goal); una malinconia quasi amorosa / mi distilla il cuore (La malinconia amorosa) "?.
Ancor più libreschi questi ultimi due versi, dal solito Petrarca: Conven che ‘I duol per gli occhi si distille /dal cor (55,8). Notevole, infine, è, nei riflessi su Penna, il campo semantico sabiano
del ragazzo ludico-pugnace e trionfante: fierezza [...] al compagno nella finta guerra / parli sommesso; Alcibiade monello [...]. Il bel fanciullo la sua gloria gusta; Sul prato dove quei maschi giocano alla guerra (// garzone e la carriola ); a gara con le palme il mar battendo;
il piccolo / bianco puntuto orecchio demoniaco (521), ragazzoni / della libera
uscita".
Tra i generi lirici di Penna la propria Variante !* è significativa dell’immane energia intenzionale dell’eros: è una grandezza costante, imperiosa, improgressiva, identica — appunto — in ogni sua «variante» poematica. Ciascuna è come una monade animico-verbale rappresentante, rispecchiante dentro di sé l’intero universo numinoso, angelico-fanciullesco,
!? Ivi, rispettivamente, pp. 53, 211, 133, 174, 280, 127, 393, 513 e 114. 13 Ivi, rispettivamente, pp. 114, 117-118, 164, 521 e 551. 14
La sezione II di CS contiene tredici «Varianti [...] (Da Tutte le poesie )».
35
di dono e abbandono; omologa d’un fisico-psichico orgasmo rapido o contratto, tradotto nella scrittura della quartina o distico, in generale o traccia
d’una esasperata infinita cupidigia e contemplazione del Dio irrequieto, pauroso e abbagliante. Il canzoniere di Penna — vero e solo canzoniere —, monotono (in senso etimologico, anche) e fascinoso in ogni punto per il lettore curioso e partecipe alla sua pura fonte archetipica-trascendente, si potrebbe leggere alla rovescia o dal mezzo o a caso. Non esiste una fase senescente o è tutta tale. Nell’ultima poesia, prima del congedo, leggiamo: Era con me / un dolce fanciullo selvaggio che pieno / di ardire pur mi si avvinghiava [...] tenevalo / io sotto il mio braccio voluttuosamente. / Ma, quest’angelo, non'era lui per corrompere me? [...] Ed io ho paura di toccarlo [...] avevo paura della sua bellezza (PF, 128)
così come nelle prime due poesie assistiamo alla desolazione: aver sentito / nel corpo rotto la malinconia. Mi avevano lasciato solo [...] pena [...] un dio cattivo.
La poésie ininterrompue di Penna deriva da due negativi in tensione, confluenti nello scacco esistenziale del possesso totale: il lascivo-onirico
dell’immaginario erotico, facilitas della magia pensiero-azione !°, che si consuma nell’anonimato della ricerca infinita, e dal rifiuto del Dio d’ Amore d’incarnarsi in una sola delle creature reali (poeticamente) della innu-
merevole commutazione iconico-verbale. È stata notata nel linguaggio penniano una sorta di koiné medio-classica con inserti pseudopopolari che ne esaltano l’elettezza. Tale linguaggio rappresenta, anzi è la stessa costante «brama» vissuta rispetto alla medesima del titolo d’una famosa poesia di Saba, che librescamente traduce la libido freudiana. Estraggo da tutto il testo il paradigma sinonimico del Dio Amore, angelo, idolo, essere infernale, micidiale, solo e moltiplicato in più Dei, presente e assente ovunque, favorevole e nemico, trascendente e immanente, simbolo e realtà, tramite di se stesso: Il mio Amore era nudo / in riva di un mare sonoro. / Gli stavano d’accanto io e il tempo (16); E più vivo / distacco Amore che la confusa Morte (23); Viaggiava per la terra /come un giovane Iddio (182).
5° Sull’osceno censurato dal poeta e sulle difficoltà cronologiche delle poesie si vedano gli studi di Garboli in PP.
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Accenti sublimi, che ci riportano ai romantici; hôlderliniani sembrano questi due versi, come tradotti da Traverso: Ribrillava / un cheto fanciullo. Una cheta follia / Iddio protegge.
Di Hôlderlin questi altri due: Libera alta freme / al vento una bandiera (CS, 62).
Proseguiamo: Il mio fanciullo ha le piume leggere (68); Trovato ho il mio angioletto [...] gli occhi lustri aveva; Sembra che un dio cattivo / avesse con un sol gesto / tutto
pietrificato (4); Livida alba, io sono senza dio (20); idolo popolano (140); Con-
tro di me si ostina il fortunato / amore. Egli non sa / quanto pericoloso il suo passaggio / sia tra la gente (111); l’angelo del lavoro (93); Non è la timidezza che tu celi forse un sogno / confuso degli dèi (192); al cancello / hanno posto gli dèi per la mia gioia / un fanciullo che gioca con la noia (37); il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri di quel fanciullo io pregherò il mio dio (64); demoni [...] angeli sonnacchiosi (114).
L’assenza dell’angelo e il desiderio si esprimono con l’immagine d’erezione fallica del suo destino al cielo, non metafora: I tuoi occhi infernali / non mi guardano più. / Sento nascere ali / in me. Già guardo in su [...] ritorna un vago amore / alle cose vaganti (22).
La «cosa», come vedremo, è il genitale puro del demone, detto «stru-
mento» nella seconda poesia che citeremo; «arnesi»; in PG 49 l’aggettivo «vagante» riguarda l’amore peripatetico. La Serenata sta nelle Altre del 65-70. Il vocabolo «serenata» è simbolo generale (totum pro parte) di sfregamento su qualche parafallico «strumento» cordofono. Il demone infernale qui è detto «cielo delicato» (aggettivo rimbaudiano), cui il poeta si rivolge, sentendo che è di lui lo «strumento / fierissimo e dannato», gettato sulla terra, nostalgico del cielo, giacché «sempre guarda in su», sintagma che ripete, dopo quasi 35 anni: «Già guardo in su» della prima poesia citata; poeta transumanato nel fallo divino! La figura d’erezione è resa dai ra-
pidi settenari: O cielo delicato / prima dell’alba ascoltami. / Forse io non sono nato / per vivere qua giù. // Ma cielo delicato / (mi ascolti?) io ben lo sento / che è tuo quello strumento / fierissimo e dannato. // Sei tu che l’hai buttato / a vivere qua giù. / Sei tu che l’hai legato / se sempre guarda in su (404).
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Abbiamo visto l’«io» e il «tempo» che assistono l’ «angelo del lavoro». In una delle /nedite (dal 1938) lo stesso «io» e il «treno» vegliano
sull’angelo del lavoro finché non si sveglia e «parla»: Ma se ognuno dormiva il treno e io, / demoni affettuosi alla deriva, / vegliava-
mo su lui. L’alba richiama / gli angeli sonnacchiosi [...]. Con un piglio leggero la sua guancia / ricerca ora una luce [...]. Ed egli parla... O numi, / egli viene quaggiù per lavorare (114).
Dunque il poeta si è demonizzato, e «quaggiù» («qua giù» disagglutinato nella Serenata ) si vengono a trovare tre esseri demonici: lo «strumento» fallico della Serenata (pars pro toto ), V'‘angelo’ venuto «per lavorare» (totum pro parte ) e il poeta «qua giù» insieme con lo «strumento» nella detta Serenata, la coppia che aspira al «paradiso» nuziale. E la demonizzazione si fa universale dell’umanità: Ognuno è nel suo cuore un immortale (299).
Nella poesia che segue alla Serenata l’immortalità è propria dell’amico casto: Dei giovinetti schivo / tu sei un immortale: / Oh il bel sogno sportivo / dolcissimo e reale (405).
Forse quell’aggettivo «sportivo», un esempio, viene dai giocatori di calcio di Saba. Eguale potenza sta in queste, pure o mitologizzate, «lotte di fanciulli [...] /antica notte / li piegherà più tardi con amore; il ragazzo che la notte, / immite, alleva [...]; La sera mi ha rapito / i rissosi fanciulli» (22). L’«immite» è segno di tono alto, mitico, come il «cielo immite» di D'Annunzio; anche «antica notte», come «antichissime ombre» del Foscolo, «antiquitate» del Manzoni, «etadi [...] antiche» del Leopardi, «antico incanto» della «luna» in D’ Annunzio.
La solarità '° è manifesta ad apertura di libro, la sua numinosità vivificante, insieme con la luna, segni astrali dell’eros sul destino umano d’una
!6
Penna dovette conoscere Terrestrità del sole di Onofri, dove impera una divina eb-
bra fanciullezza. Di certo Montale degli Ossi; «le trombe d’oro della solarità» sono parafrasate in «La fanfara col sole / leggero sui lucidi ottoni» (PP, n. 14 degli inediti).
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naturale e fatale omofilia, come democrazia dell’amore, in ogni strato so-
ciale, l’umile privilegiato dal sole che lo dora: (E la notte d’aprile chiari astri / e nuovi cuori sempre riconduce...) (23); Alla finestra ronza col silenzio, / tutto il sole, il cerchio di un fanciullo (36); un ra-
gazzo operaio [...] nel sole il giuoco (44); Vivon gli stracci una vita gentile / indorati dal sole (55); Il sole amava il vino e l’operaio (56); Negli occhi ancora
canta / il sole (63); — già nella stanza mi toccava il sole — (69); un giovane passò [...] come fiamma / che il sole riassorbiva nel silenzio (143); il sole [...] con leggero amore / vi scherza. Né si duole più la terra (15); Ecco il fanciullo gravido di luce [...]. Dolce stagione di silenzio e sole (162); lontano come il sole, e vicino [...] il mio amore (173); ma il mio silenzio era privo di sole (257); luce del cielo [...] così tu sei passata sul mio viso? (292); Si ascolta / vivere il cielo sopra voci ardenti (345); Oh voglia di baciare un bel ragazzo. / Sole con luna (350); amico dell’estate (111); mi voltava / il suo quarto di luna (CS, 13: Notturno), Animale lucente di sole (CS, 27); Oh fra le stelle / non è padre né madre, mio fanciullo (CS, 32). Anche «gentile» è nota alta, dal Petrarca al Pascoli, ma forse è leopardiano '’; lo usava Pasolini nelle lettere.
Seggono i morti [...] confusi insiem l’ignobile e il gentile.
Il «gravido di luce» rende il «fanciullo» inseminato da un sole virile e fecondatore. Così, lo spirito mitopoietico di Penna, molto dannunziano, ma con lieve semplicità e un linguaggio d’accatto, elementare, da puro conato del suo eros interiore, ricrea miti e favole naturalistici e anche pagani, come quello di Narciso, di Priapo !*; qui, nel campo astrale di Selene e Endimione: La luna ci guardava [...] egli attento [...] col suo profilo di bambino, caro / a
quella luna già, ma assai lontano / solo mezz'ora prima (216).
17 «Non [...] errato un richiamo alla Vita nuova», che Garboli accenna per «un incubo [...] bagnato di pianto» in aura fantasmatica. 18 Penna, di certo per poligenesi, ricrea il mito di Priapo, povero Dio, infimo dell’Olim-
po, proteggeva il frutto del fico e gli era caro l’asino; designava anche le emorroidi e l’ano. In CS, 76: «Amici miei, gli orinatoi [...]. L’adolescente odoroso di fichi», e (123): «Su questo letto quali dolci fichi / nel sole delle donne indi appassiti», sferzata misogina, di cui diremo
avanti.
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La riappropriazione del mito risulta infine singolare, «penniana», giammai neoclassica, come fatta in casa; il fanciullo sta seguendo sullo «schermo [...] le incredibili vicende». Così, Selene si fa gelosa, intrusa e per giunta paraninfa: La luna che nel cielo era assopita / entra nella mia stanza così viva / che il mio sesso sussulta e si nasconde. / Ride il fanciullo e candido si mostra / dicendomi «vergogna di una luna!»
Sembra uno squisito poeta alessandrino di celia e grazia! Per compenso, il poeta si mostra con essa luna generoso e le cede l’amato: i Era il maggio felice. E tu, mia luna, / forse ridevi degli antichi amori. / Ti ho lasciato il fanciullo, i cari odori / di cui forse ridevi, antica luna.
«antica notte», «antica luna», «bambino [...] luna [...] lontano», «vago»: ag-
gettivi pur essi scolastici, leopardiani, naturalmente: Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse (Zibaldone, 25 settembre
1921).
Questa vaghezza è frequente nella poesia di Penna («ritorna un vago amore / alle cose vaganti»), gli serve per incidervi escrezioni e crudezze puntuali nell’hic et nunc; così, in quella famosa quartina «angioletto» e «losca platea», «sigaretto» e «occhi lustri», con la L che collega «angioletto» a «losca» e «lustri».
Parimenti «gentile» e «virilità», che è priapea, romana, belliana, come se i secoli non fossero passati: Fierissima e gentile a Roma ride / ride e scintilla la virilità (351)
con l’archetipo fonico R collegante. La «losca platea» la ritroviamo in una «sala buia», «buie / sale (CS, 35), «in un locale greve e nero», dove lo stes-
so fanciullo si bea, e la «virilità» diventa «lussuria» in un qualunque cinema, come in una suburra pompeiana: La sala buia [...] è un paradiso / ai tuoi sensi, fanciullo. / Per quelle danze assurde, / fra quelle falsissime luci / la tua vergine lussuria adesso canta (325).
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Qui fischia la S da «sala» a «lussuria». Lo stesso fonema nella poesia citata «La luna che nel cielo era assopita», tra «sesso» e «candido»: assopita [...] stanza così [...] sesso sussulta e si nasconde [...] si mostra (301).
Ma è appena un cenno sull’impasto fonico penniano !, d’un’astuzia incredibile. Dove non ricorre la rima, specie negli endecasillabi, si sfrenano ovunque consonanze e assonanze del tutto libere o con mistioni rimiche e sempre in funzione semantica. Qualche esempio, che il Lettore vorrà con-
trollare sui contesti: ortaglia [...] rotaglia (300); «Brilla [...] ciglio (299); maestra [...] mesta (112); sogno [...] giorno (369); Erro / entro terre [...] mare [...] Solitario [...] assorto [...] oso (66); famiglia [...] ciglia [...] agnello (194); assorta [...] scoperta (428); sobborgo [...] gonfie (312); estate [...] lontano [...] [...] spalle [...] vano (314); tornasse [...] tornò (317); famigliare [...] fogliame (319); rumorosa [...] gara. Rimane [...] si prepara [...] ascoltare (53); Imbruna [...] lume [...] umido fiume (343); latta [...] matta [...] notte (425).
Non di rado convivono assonanze e parole-rima o solo queste: zampillo [...] brilla [...] zampillo (91); mezzo [...] mestiere [...] mestiere [...] me.stiere (393); vicoletto [...] letto [...] stretto [...] diletto (368).
Tornando al sole, l’astro si presenta petulcus e terribile: Io muovo incontro al sole / cauto coi miei calzoni (422).
A questo pudor vesicae o virginalis si oppone l’eliotropico Rimbaud, che orina verso i cieli lontani. Non manca, infine, il mito di Giove e Ganimede, il quale lo vince ed è vinto:
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«Il ciuco, fisarmonica del dolore / nell’ozio» (316). Cane, cavallo, lupo, gatto, mu-
lo. Il massimo di omofonia allitterativa in R è toccato in un sonetto a strofe monorime in PG (distribuito per strofe nelle pp. 33, 42, 53 e 65): ferraglia: maglia: sterpaglia: sbaraglia // guerra: serra: terra: serra Il chiamare: toccare: entrare [| fuori: odori: rumori. Maestro Mon-
tale degli Ossi, in questa maniera fonica aspra e arrotata, come in Meriggiare: assorto: orto; sterpi: serpi; palpitare: mare; abbaglia: meraviglia: travaglio: muraglia: bottiglia. Ritmo che gli entrò nel sangue in contrappunto con la maniera dolce ed elegiaca, come nello stesso Montale. Ad esempio, «nell’ombra che si slabbra nel grecale» (PG, 37), da «che s’agita alla frusta del grecale («Mia vita» negli stessi Ossi ).
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Il sole che ha brunito questo corpo / di giovinetto cede alla sua forza (14); Basta all'amore degli adolescenti / sentirsi possedere / dal sole (19); Sole senz'ombre su virili corpi / abbandonati (10).
Anche il «vento» è simbolo virile divinizzato: tu discendi tutto intriso di vento [...] Libero vento che modella i corpi (26); Ra-
gazzi corrono sull’erba, e pare / che li disperda il vento (29).
Si noti la sinestesia «intriso di vento». L’umido nella poesia di Penna è urinario e spermatico: umida amicizia mattinale (67).
Il «vento» e la «notte» si presentano rapitori e distruttori dell'amato: così sogno un paese dove un vento / gelido abbia distrutto ogni fanciullo (CS, 40), La mia notte / ascolta dileguare ogni fanciullo (CS, 41).
Sarebbe lungo, in sede critica, citare tutti i luoghi nei quali ricorre il «fanciullo». Comune è il senso dell’apparizione divina irradiante: Se appare il mio ragazzo all’osteria / uomini a lui sorridono sorpresi / da una luce [...] (96).
La carta d’identità è quella del dio d’amore petrarchesco di tutti i secoli, nobile e marinista per quanto concerne connotati quotidiani e volgari (in senso lato); oltre a quelli angelici, demonici, divini, che abbiamo notato. Trattasi dei segni dell’irrazionale erotico, del Cupido, della specie umana e tradizionale, motivo di entusiasmi orgiastici e orgasmici, lacrime e querele, raptus e rinunzie: Ruba per ogni via (267); zingaro (355); casto (248); arruffato fanciullo (339); losco [...] e innocente (387); stretti calzoncini [perfino col membro che batte a sinistra]» (388); Estrosa inettitudine infantile (189); acquatico e felice (162); furente [...] ragazzo (195); fanciullo selvaggio (432); il dolce e rozzo amico (111);
il mio fanciullo chiaro e leggero (83); i bei ragazzi dagli occhi legati (129); ragazzo [...] sua testa arruffata (185); fanciullo [...] nudo (285); uomini nudi e leggeri (8); giovani e nude belve (19); il grido umano della ragazzaglia (27); Ragazzi [...] loro / bianche camicie stampate sul verde (29); lieto amico (35); s’accigliò l’operaio (44); operai [...] belli (46); una cosa gentile [...] vivo rossore (52);
un giovanotto [...] un fanciulletto lacero (67); giovinetto (65); garzoncello (73); il fanciullo magretto (214); un ragazzino magro e vispo [...] angelo custode (P).
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Notevole è il campo semantico della guerra, motivo tradizionale nell’area erotica, Cupido con faretra e frecce, ecc., insieme con le note già viste del fiero, selvaggio, ecc.: I rissosi fanciulli. / Le loro voci d’angeli in guerra [...] un eroe s’un cavallo (22); le vivaci lotte dei fanciulli (31; li abbiamo visti vinti dall’«antica notte»), due voci in alta gara (33); gara [...] ragazzo (53); sue guerriere / voglie (46); un fan-
ciulletto lacero. / Questi saluta a pugni amorosissimi, / tira quegli alla mano e vuol giostrarlo (67); due ragazzi si aggrediscono e poi si abbracciano (FP, 38); fanciullo audace (PP, 72).
Linguaggio petrarchesco; nel maestro si trovano alla lettera arma e arme, furore, odore (del lauro), dardi, battaglia, strale e simili, in particolare mio nemico Amore e mia nemica Laura, come in Penna: Furente e rosso in volto si avvicina / il mio nemico e odora di mammina [...]. Il mio nemico / di due vinte battaglie ormai risplende (431).
I tratti fisici e di costume oscillano tra la remora angelicale con la tara libresca e la pittura popolare in ispecie della peregrinazione romana: Tra due malandri in fiore / deriso era il mio cuore. / Nel sonno al loro viso / perdonai con amore (214). Sono dei bulli, così definiti e citati nel GDLI, cui segue citazione da Pasolini: Ninetto va, facendo apposta la camminata strascicata del malandro.
Ma in Penna è l’unico dialettismo. Il suo Belli lo avrà letto, ma si è guardato bene dall’imitarlo. Cito ancora per il ragazzo della «losca platea»: Con un rapido vezzo hai liberato / la fronte dal ciuffetto. Fieramente / hai dato fuoco alla tua sigaretta. /Ma ricade il ciuffetto [...] (119).
Il gesto esterno forse da Montale: Ti libero la fronte dai ghiaccioli [...] (Le occasioni ).
Posteriore è «il ragazzo col ciuffo» nella prima poesia del Quaderno dello stesso Montale. Le attività del fanciullo sono mestieri urbani, campestri, militari, marini, scolastici, ecc.:
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marinaio giovane (3); bianchi marinai (26); il bianco marinaio (85); il fischio d’un pescatore, Nuotatore (13); venditore [d’erbe] (20); si spogliano i soldati (21); pescatore (8, 9, 16); collegiali (25); Baldo, contadino / amico [...] il giovinetto amico (33); piccolo operaio (38); operai (47, 109) °°; Un ragazzo con la tuta (48); giovane ciclista [...] amico (58); il mio ragazzo [...] la bicicletta (110); un ragazzo [...] con la sua bicicletta (144); giuochi di un atleta bello [...] (271); un giovane / acrobata (117); lattaio (112); [straccivendolo] (295); un rozzo / garzone di fornaio (61); un pastorello (86); il pastorello (357); poveri soldati (129); contadini; // fattorello (91); mio barbiere (118).
Quanto più simpateticamente si fa popolare, tanto più il poeta si sente un borghese per destino e con vergogna: Ritornava il borghese alla sua casa [...] al borghese piacque / nel sole il giuoco [dell’operaio che lancia sassi all’acqua] [...] s’acciglid l’operaio [...]. Insistere dovette [...] il borghese a fare chiaro [...]. Tornò il borghese / alla sua casa [...] (44); Fanciullo tutte queste tue bellezze / in questa cameretta mia borghese / fra la città severa che non sa / niente di tutte queste tue bellezze (238).
Popolarismo meramente sentimentale, ma profondo. Qui gli ambienti che consideriamo
sono naturali dell’angelo e dei detti suoi mestieri, sì
che il contrasto normale tra divino e popolare si attenuta, si armonizza («il mio dio se ne va in bicicletta», 64). Certo, il mediocre lettore condizionato si stupisce, specula sul contrasto,
ma il testo è perfettamente normale. Con ciò non si elimina certa pietas umana; il borghese e cittadino sono indegni delle bellezza angelica, per essi incompresa, ma essa resta sempre in funzione del desiderio attraverso una parificazione interessata delle classi sociali nell'amore universale, sempre dubbia e in tensione nell’animo
del poeta: Questa pioggia mi cambia. Ma non vedo / come rinascerò. La mia vecchia / innocenza è perduta. (Adesso ascolto / dei fanciulli le grida a un lieto sole). // Ma adesso sarà pioggia di dolore... (365).
Pietas, dicevamo, che non di rado affiora:
2° Prototipo della rivolta populista-operaia Le forgeron di Rimbaud: «Chapeau bas, mes bourgeois! Oh, ceux-là, sont les Hommes!
540
/ Nous somme
Ouvriers, Sire! Ouvriers!
[...]».
poveri soldati (129);
vecchio mendicante (19); operaio / con la sua tosse (99).
Del resto nulla di nuovo per sé in tali siti esplorati intus et in cute da postromantici, naturalisti, simbolisti maledetti e decadenti. treno all’alba (3); treno (11); treni neri (28); sale d’aspetto (367, 369); orinatoio alla stazione (63) pisciatoio (289); automobili (46); periferia (121); taverna fumosa (26); osteria (96); cimitero (30); cimitero di campagna (17); fattori (202); Città (20); città (24); città [...] viuzze [...] sobborgo (52); vecchio sobborgo (55); follia del sobborgo (19); sala da ballo domenicale (165); vili notturni (178); case popolari (67); contrada sconosciuta (48); fanali di un convento (153); losca platea (50); portineria (50); veneta piazzetta (58); nostalgia campestre (25); palestra (19); strada (7), strada (56); campo (35); campagna (4, 20); giardino (22); arido eremo (22); fiume (18); sacrestia (121); accento dialettale (289); quartiere popolare (265).
L’angelica presenza dell’amato livella ogni ambiente, sì che il simbolo qualifica ogni realtà; resta solo l’aura genericamente affettuosa della
«povertà» popolare e del suo «canto» che libera da ogni orpello la nudità del «fanciullo»: l’odore / casto e gentile della povertà (52); il popolo canta [...]; Ardo a quel canto (63). |
Il petrarchismo secolare porgeva alla poesia di Penna parti e ingredienti della donna angelicata in Petrarca: membra («belle, care [...] honeste»), voce («chiara, soave, angelica»), tatto (pur se trasferito alle «erbette»)
e ogni altro senso, suprema la vista. Il sensualismo secentesco non innova un bel nulla, ma amplia e approfondisce l’oggetto del desiderio in tutte le sue parti, usi e luoghi. In una famosa canzone del Campanella le «fresche e dolci acque», in cui s’immergono le membra di Laura, non sono sostan-
zialmente diverse dalle sporche della vasca in cui si bagna e si strofina l’amata donna del detto Campanella. Da cui l’arguzia barocca, che Maria-
ni ha notato in Penna”. Crudi esempi di spiritualizzazione della più sozza carnalità si trovano nella secentizzazione delle biografie di San Giovanni della Croce:
2! Vi è nel testo una certa confusione tra l’«attivo» e il «passivo» proporzionale alla medesima tra il «fanciullo» e il «poeta». Penna tiene la camera aperta al lettore, ma restano indistinti i due corpi in amore, ossia la «cosa» e il «culetto», questo meno frequente.
541
Un giorno il frate Basilio, che faceva da infermiere, lasciò su un tavolo una sco-
della colma del liquido delle piaghe di Giovanni. «Certo Religioso credendo per solluevare la inappetenza del Padre fosse saporetto fatto con squisitezza», incuriosito dal buon profumo che ne emanava, volle assaggiarlo a grandi sorsi. Non sentì alcuna nausea o ribrezzo, il frate, giudicando piacevole e singolare il
gusto di quella bevanda» ?.
Parimenti il fanciullo di Penna è divinizzato fino all’ultima goccia del suo sudore e ultimo pelo del suo «ciuffo» con un consimile effetto taumaturgico, mistico-parodistico. L'origine di tale investimento divino della corporeità possiamo immaginarlo con una qualunque delle scene primitive familiari. Ad esempio, Sandro neonato appena svezzato porge alla genitrice il dono dell’oro della sua cacca. La quale genitrice, subito trasformatasi da Mater biologico-cosmica in madre civile educatrice, gli molla un ceffone e
lo ripulisce accuratamente con severa ammonizione adeguata. Il puer, nella fattispecie, non evolve più dallo schianto della delusione-odio, che si fissa per sempre. Il passaggio dall’infermità alla Parola Poetica è un mistero; possiamo intuire soltanto la mediazione prelinguistica nella imago di autodivinizzato e quindi oggettivatosi al punto di sentirsi inferiore al se stesso diventato Divino Fanciullo trascendente. Penna va al sodo, ossia dritto al centro del «fanciullo»: il membro, detto insistentemente la «cosa», non per
eufemismo, ma come centro numinoso irradiante forza e bellezza? del Dio Amore incarnato; che è fonte della propria poesia, del detto «strumento» musicale della Serenata d'amore. Nell’interno e nell’intorno di tale centro si collocano tutte le percezioni sensoriali e spirituali, pur esse sensoriali, adeguate e dal centro provenienti. Circoscriviamo anche il raggio dell’ambiente popolare, urbano, ecc., a scanso di equivoci circa un popolarismo esterno penniano. Il poeta selezionai suoi «rari esemplari» del «nobile sesso» che citeremo; ovvero si attiene alla tradizione cortese per omologia del destinato alla più bella, onesta, pura, ecc., e nel farsi degno, con martirio corrispondente di indegnità, dell’oggetto amato nella fede amorosa e dedizione totale e vassallaggio fino alla morte. Sulla divinità del fallo abbiamo commentato le poesie che stanno alle pp. 28 e 404. Altri sinonimi:
2. Eleonora Albisani, La vigna del Carmelo. Fortuna di San Giovanni della Croce nella tradizione carmelitana dell’ Italia del 600, Genova, Marietti, 1990, p. 14. # In una «Variante» (CS, 99) di «Lungo il tragitto» (260) «una sua tenera / cosa», che un «garzone di fornaio [...] concede ad attimi e poi nega», diventa «una sua tenera / grazia».
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nella / canicola dormiva un’altra età. /Nella mano stringeva il suo più caro / oggetto. Non per pudore (160); L'amore era con me nella mia mano (158); È il nobile sesso. E poi, di questo, / sola un’età (nobile, sì, ma fresco!). / Di questa solo alcuni rari esemplari (187); lascia l’orinatoio il giovanetto / col membro an-
cora fuori (CS, 30) *.
Al membro si riferiscono variamente lo sperma o seme, l’orina, la saliva, il sudore, le lacrime, il sudicio (positivamente qualificato), pertinente
d’ogni fatica e guerra amorosa; quindi calzoni e calzonetti, camicie, baci, carezze,
grida, urla, «merda»,
«culetto»,
ecc.
La fenomenologia
della
«gioia» varia secondo il piacere in coppia o solitario, spontaneo o provocato o rientrato, mutando le dimensioni del protagonista dall’erezione, quale simbolo dell’ascesa al cielo, anche della «cosa povera, avvilita», in quanto «segno della vita» (186). Naturalmente, sono interessate altre membra come viso, occhi, ascel-
le, labbra, mani, voce, insomma l’intero corpo dell’animale umano; si aggiungano la nudità rituale e gli odori ambientali, dell’orinatoio, pisciatoio, stalla, caserma, officina, taverna, cinema rionale, menta dei campi, sagrestia, ecc; l’eros investe la totalità animica-corporea del dio quando orina (64); nulla di alieno, poesia in stato ovidiano orgasmico, attivo, passivo, in
potenza e anche in absentia. In un’orinata, ad es., è impegnato tutto l’essere umano, in un ciclo estatico: Nel fresco orinatoio della stazione [...]. Anima e corpo abbandono / fra la lucida bianca porcellana (63); virili corpi [...] l’anima affonda (10); Dorme sul len-
to carro un uomo [...]. E l’anima si leva in una vaga / certezza. O cieli fermi. E nudi corpi (31).
Il complesso umano del desiderio è totale e ubiquo: Ho puntato la brama in ogni luogo. / Sotto la pioggia ho perduto il mio seme. / Ora si gonfia il fiume e in me fiorisce / straripa il fiume — un desiderio nuovo (183); E certo vola / con il mio seme il tempo (189).
Abbiamo visto che l’«io» e il «tempo» vegliano il «fanciullo» divino. Fallico è quel «fiume», che «si gonfia», ben oltre la metafora.
24 Accenno a pratica di irrumazione sta in PG, 51: «Mi inginocchio e ti prendo, anima sola, / non è preghiera, è peccato di gola». Altra «Variante» (CS, 98) dice: «quel profilo uguale / sopra la gioia mia chinarsi intento»; nella prima redazione (216) non c’è traccia di tale «gioia»: «Come beve alla fonte il bel fanciullo / così abbiamo peccato e non peccato» (135).
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Questa esasperata virilità, che attivizza l’omofilia, non ha bisogno di
un’analisi specifica in sede critica, giacché al critico è sufficiente la partenza, il conato, l’intenzione. Basti commisurare la «brama» penniana allo spazio-tempo del «desio», petrarchesco: ovunque vuol, m’adduce; seguendo ’1 mio foco ovunque e’ fugge; Ovunque fur sue insegne; Così sempre io corro al fatal mio Sole; ‘I folle mio desio; desio folle; fero desio; mio ardente desio; gran desio; de l’un vago desio l’altro risorge; caldo desio; infiamma nostro desio; sommo desio; natural desio; ecc. Perfino «desio» e «fiume» col verbo ‘crescere’ si trovano nel Canzoniere del Petrarca. Citiamo ancora dallo stesso testo di Penna: uomini nudi e leggeri [...] sorge sull’ultimo sudore il sole (8); nel corpo rotto la malinconia / vergine e aspra (3); I bei capelli caduti tu hai / sugli occhi vivi [...] i corpi (26); afrore / caldo da una palestra (19); odore di caserma (21); I tuoi occhi infernali (28); odore di porto (26). O cieli fermi. E nudi corpi (31); al puro sole brilla [...] lo sputo del fanciullo (40); La mano / di quell’uomo al lavoro
(43); Il mio angioletto [...] gli occhi lustri avea (50); occhi neri di quel fanciullo (64); nudo corpo di fanciullo [...] il fanciullo / nudo non c’era (278); un ragazzo [...] piscia / verso il coro dei soldati (82); Un ragazzino piscia / contro un albero nudo (282); mano [...] odoravo la calda ombra [...] antico odore (81); tue dolci sporche nuove mani (94); scintilla di virilità (351); labbra rosse (90), // fattorello [...] contro una siepe fuma il suo zampillo (91); le sudicie divise dei poveri operai (106); amico [...] — odoroso di stalla, fra le stelle (111); lascivi [...] giovani animali (115); mio barbiere [...]. Le mute interminabili dolcezze / delle tue dita (118); un caldo / odore, alcune mosche (164); Il suo odore, la sera, come un cane / sporco e fedele (219); Amore, gioventù, liete parole [...] resta un
odore come merda secca / lungo le siepi cariche di sole (263); garzoni odorosi di menta (264); un operaio [...] mi rimane / (di lui anonimo [...]) [...] odore di animale, come il mio (265); contadino [...] quasi lento / respiro di animale [...]. Altro respira qui, dolce animale (87); Guardò il sesso che apparve umile e assente (359).
Le pratiche erotiche, a parte il citato «peccato di gola» (né sappiamo di poesie autecensurate), si limitano a qualche carezza esplicita, non per moralismo, ma per la stessa intensità dell’eros soffice in dolcezza ludica; privilegiato il bacio: Giovanissimo [...] bacia il padre la madre la sorella. Ma il fanciullo [...] non riceve quel bacio che si aspetta [...] il suo giovane amico [...] si accorge di questo. E tanta lieve / gioia e ironia, se proprio cede, mette / nell’inchinarsi a quei mille bacetti (47).
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Sembra un quadretto di genere ottocentesco, e non è proprio; il fanciullo se ne stropiccia dei baci paterni e sororali, mira al sodo, da cui l’in-
dulgenza ridente dell’amico che ha intuito... Il testo penniano è un campo minato d’affettuosa malizia. Altri baci: La mano, casta e odorosa di ferro / baciavo... (71); il mio amore [...] m’ha baciato / il cuore ancora con l’ultimo passo (80); Me ne andrei dove il vento mi
baci (49); Chiudimi in un bacio (134); Bacio nelle tue ascelle, umidi fieri, / gli
odori di un’estate che si guasta (102).
Di ascelle mi ricordo una di Ungaretti: improvvise vidi zanne viola / in un’ascella che fingeva pace (Primo amore).
Passiamo agli eufemismi del fallo e annessi; che non son tali, come
ho notato, ma enti pronominali, «segni della vita», «cose vere» e «belle»: «qualcosa» di oscuro e misterico del numero, «cosa», «tesoro», gesto, atti, umido, «peccato», ecc.: Poi una cosa povera, avvilita, / nascosta da una mano, il segno della vita (186);
Così l’amore insegna cose vere (68); un amor di cose belle (276); Un fanciullo [...] molto interessato / alle cose dell’autobus. Pensa [...] in quanti modi ado-
perar si possa / una cosa ch’è nuova e già non tiene / se inavvertito ogni tanto egli tocca (214); Nudo piegato sulle gambe, usciva / dal suo corpo la cosa giornaliera [...] altra cosa pendeva (359); nella portineria [...]. Ho trovato una cosa gentile (52); Fu una cosa del tutto naturale (398); il giovinetto [...] si ferma trepido ad osare / una semplice cosa (170), Vivere è per amare qualche cosa (281); baciavo [...] quel panno [...] che ricoperto aveva [...] una cosa nel mondo mai toccata (358); ne restava fuori [...] una semplice cosa (69); Solitario un fanciullo
scorgo assorto / in qualcosa di oscuro ch’io non oso / indovinare... Poi, scoperto, un guizzo / e un salto lo riportano gaiamente / a nascondere in mare il suo peccato (66); Il mio fanciullo ha le piume leggere (68); Il fanciullo [...]. Si china [...] sulla sua carne (272); uomo / nudo [...] il vivido gesto di lui io vidi (417); — e si appiatta il fanciullo; tenta il gesto: il male / solito contro la terra (401); contro una colonna [...] il tuo tesoro / ultimo diradava nel silenzio (333); Mentre lasciavo l’acre espansione [...]. Bagnavo il muro (395); i miei umidi atti erano soli (300); umida amicizia (67), beve alla fonte il bel fanciullo (135); strumento (404); Sento nascere ali / in me (28); Il mio dio [...] bagna il muro (64); Qualcuno [...] bagna (216); D’improvviso / balzano — giovani isolotti — i sensi (16); Ernesto, mia cosa di carne e pure divina (PB, 84).
Questa corporeità esattamente descritta nell’anatomia e funzionalità delle materie, umori, fenomeni e gesti del fanciullo, non contrasta con la ef-
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fusione sentimentale che abbiamo notato, ad es., nel genere della canzonetta, in quanto è imbibita di sentimento per un corpo graziato in ogni sua parte e movenza, che è atto d’amore, dell’amore che «insegna cose vere».
Teniamo sempre presente il «fanciullo acquatico e felice» pari all’intenzione di «una poesia gocciolante di viva passione». Acqua primordiale e
perenne, multipla a placare «un po’ di febbre» o lo «zampillo» *, che «contro una siepe fuma», del «fattorello», rustico e stilizzato di statuina di Vin-
cenzo Gemito o il bacchino d’un parco rinascimentale.
2° Negli inediti di PP (64-74) ricorrono varie orinate: «un maschietto» contempla il poeta che piscia e gli guarda «il viso / come un uccello vola / da un tetto a un altro tetto», dove l’«uccello» è reale e metaforico: questo è «un paradiso». In tre versi di p. 65 il poeta parte e si congeda dalla sua poesia, metaforizzata come un’orinata con la solita «gioia»: «ma c’è sotto una gioia perenne. / Partirò. Partirò. Addio stillate rime». Nella seguente: «a sera pisciano i soldati». Più avanti: «Fabio / pisciava contro il sole»; rimbaudianamente, da cui il
poeta si augura: «potessi un giorno io ribrillare al sole!»; ecc. Non mancano i «testicoli», cominciando dai propri del poeta, ancora «belli» e battaglieri, ma «senza amore» anche nascosti nei «calzoni»: «La primavera rende prominente / l’angolo dei calzoni ai giovinetti» (ivi, 67); anche «coglioni», scorciato in «c...»: «[...] Le bagnate viole / e una leggera pena ai c... [...] anch’io, colmo vagone, / poso la calda pena ai c...» (PP, 68). Metafora inerte è il sintagma «mi
perdevo / come nel caldo di un grembo di donna» (Adolescenza, CS, 9).
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MAURA DEL SERRA
FOLLIA E SALVEZZA: L’«ALLEGRO A LUTTO» DI CAPRONI
La «quarta corda» endotematica dello strumento poetico caproniano — che, quant’altri mai ricco di novecentesca armonia «difficile», di arrovellate impuntature e discanti affilati, è senz'altro definibile come un’arte del rovescio, del palindromo psicologico e spirituale — ha nel viaggio infero, nella catabasi che include e addita per balenii l’anabasi, il suo Leitmotiv dalle fitte e cicliche variazioni (i suoi auto-plagi) e nel rovente ossimoro follia-salvezza il suo nodo principiale, progressivamente sempre più teso nella «perpetua parallasse»! di una coincidentia oppositorum ludico-tragica, spesso periclitante ma mai sostanzialmente naufragante nella «maniera» ?. Fin dalle raccolte giovanili la fictio poematica, la trama esteticomusicale delle accensioni sensoriali (fra il neo-classicistico e il post-simbolista, con punte leopardiano-foscoliane e fluide tangenze ermetiche) ha già una marcata connotazione esorcistica del caos (la costellazione briofebbre-vampa cenere, la rima gioco-fuoco, e tutto il bruciato rosso campaniano di balconi, città e stagioni in Cronistoria e in Finzioni): e il tema del-
la follia dispiega la sua doppia accezione oggettiva e soggettiva, che rimarrà costante, trivellando progressivamente le implicazioni dei due versanti: follia a parte objecti, come proiezione della guerra (anzi «guerraccia», partecipata/subìta) nella storia e nei suoi lutti generazionali (la rima caproniana archetipica, portante e identificante, terra-guerra si affaccia appunto nell’autobiografia memoriale di Cronistoria, dove insieme all’altro grande tema della caccia, compare in nuce l’endiadi grazia-violenza — li-
! «È dunque /- il luogo d’ogni congiunzione — / perpetua parallasse...?» (Giorgio Caproni, // patto, vv. 14-16, nel volume postumo Res amissa, a cura di Giorgio Agamben, Mi-
lano, Garzanti, 1990, p. 60). ? Disappropriata maniera è il titolo del saggio introduttivo di Agamben a Res amissa cit.; il critico vi insiste, a sua volta manieristicamente, sulla «negligenza sublime», l’«im-
proprietà» e l’«inappartenenza» stilistica, a base paratattico-nominale, dell’estremo Caproni (ivi, pp. 19-22).
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bertà-colpa — riferita all'amore di oggetto umano e divino)? — e follia a parte subjecti, threnos degli «anni di bianca e quasi forsennata disperazione», della guerra prima «presentita con quasi allucinata chiaroveggenza», poi «penetrata nell’ossa», che infuria nello scenario di un’infanzia e giovinezza da sempre perdute (Livorno, Genova, la Valtrebbia), nonché nel teatro
del «petto», definendosi subito ne Gli anni tedeschi come perdita dei nomi ed epico-tragica divaricazione fra res e verba, con l'approdo ad un precoce, sconsolato nominalismo esistenzialista nel «tempo ormai diviso» del poemetto Le biciclette * (la bicicletta è strumento quotidiano-metafisico notoriamente privilegiato dallo straniante viaggio caproniano — dell’amletico Caproni-Enea più che dannunziano Ulisse — dentro il profundum vitale: uno strumento via via affiancato dalle metafore locomozionali-destinali di funicolari, tram e treni per lo più notturni, deserti o colmi di viaggiatori fan-
tasmatici). La violenza del nodo ansiogeno caproniano, l’invernale-infernale caccia
al senso
(dei nomi, dell’io-Dio,
della coscienza
civile) è
profondamente legata, come in nessun altro poeta del nostro Novecento
3 Cfr. E lo spazio era un fuoco (in Cronistoria 1938-1942, Firenze, Vallecchi, 1943, in G. Caproni, Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989, p. 93); Finita la stagione rossa, vv. 69 («Ritroverò allentata / la pietra nella balestra / e la mia mira accecata / da quanta polvere infesta!», ivi, p. 89); Ma memorando è il tuono, vv. 8-10 («al sasso / scagliato privo di sguardo
/ dal nostro amore a Dio», ivi, p. 90). Della «funzione portante» della rima, collegata al recupero ironico e manieristico delle forme chiuse, Caproni parla fra l’altro nell’intervista a Jolanda Insana («La Fiera Letteraria», 19 gennaio 1975). Su Cronistoria, cfr. in particolare il saggio di Bianca Maria Frabotta, // secondo libro di Giorgio Caproni: la cronistoria di una colpa tra predestinazione e libertà, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», maggio-dicembre 1985, pp. 310-325; e sui Lamenti, cfr. B. M. Frabotta, «Lutto» della ripetizione e «malinconia» della differenza: il terzo libro di Giorgio Caproni, ivi, settembre-dicembre 1986, pp.
414-424. 4
Cfr. «Ah i nomi per l’eterno abbandonati / sui sassi» (/ lamenti, I, vv. 1-2 — ma cfr.,
ivi, l’VIIT e il IX — ne Gli anni tedeschi, I sezione de // passaggio d’ Enea (1943-55), in Poesie cit., p. 121; ne Le biciclette, poemetto in ottave doppie a rime irregolari (ivi, pp. 133-137), il «tempo ormai diviso» (sempre in rima con viso) è il Leitmotiv di chiusa di tutte le strofe
tranne l’ultima, che si apre appunto con la sconsolata dichiarazione delle res come verba e dello sbriciolamento dei nomi ad opera della guerra («Non v’è soccorso nel mondo infinito / di nomi e nomi che al corno di guerra / non conservano un senso»: VIII, vv. 1-3) e che si chiu-
de col salvifico lascito generazionale del poeta ai nuovi giovani che ripetono il tempo mitico della corsa in bicicletta con la ragazza, rovesciando la condanna infera e restaurando l’eden «nel tempo ancora intatto ed indiviso» (ivi, v. 16). La struttura strofica è reduplicata, con identico uso del refrain, in Versi, seconda sezione delle Stanze della funicolare (ivi, pp. 142-148).
La «quasi allucinata chiaroveggenza» del presentimento della guerra «nel sangue» è evocata da Caproni nella Introduzione a Fidia Gambetti, Poesie ritrovate, Milano, Mursia, 1971.
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tranne Pasolini, alle radici della saturnina malinconia romantico-decadente e alla sua costellazione splenetica di perdita e di rivolta, al suo «mito dimidiato» *: e nel Passaggio d'Enea, attraverso il suo complesso sistema citazionistico, Caproni giunge ad affermare quasi ostensivamente i propri legami col sublime infero foscoliano, col «sole nero» del Desdichado di Ner-
val e coi degradati semiuomini, «nor brute nor human» di Poe: l’«armonia di disastri» nella guerra-follia intima e corale è fissata nella lunga deprecatio delle sezioni del Passaggio, segnatamente nelle celebri Stanze della funicolare, col loro viaggio martellato, in-finibile e in-definibile, mitico e psicanalitico, supero ed infero, sopra e dentro la Genua perennis, la Geno-
va «intestinale» e «celeste», mercantile e verticalmente onirica, città della coincidenza aoristica fra passato e presente, grembo simbolico del gouffre follemente redentivo nel suo «affascinante squallore»: una Genova-matrona dai molti, dichiarati debiti campaniani e sbarbariani, e incarnazione topica del mézigue di Caproni («Genova sono io») evocata già nella Lettera da Genova, la prosa lirica del 1945 ° che è centrata sulla metafora navecuore, gemella di quelle più note, basate sulla consustanzialità sillabica, arpa-barca (a fune)-carro-arca di colpe nelle Stanze. Proiezione alterna di questo mitologema di città-femme fatale, città-ventre buia e luminosa, è da
5 Cfr. ancora B. M. Frabotta, che nel saggio Lutto della ripetizione cit., distingue fra natura cosciente del lutto e natura inconscia della malinconia. Di «mito dimidiato» parla Antonio Girardi nel suo bel saggio tematico-formale Metri di Giorgio Caproni, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1979, pp. 194-232. 6 Cfr. Lettera da Genova, in «Aretusa», novembre 1945, pp. 57-62. L'affermazione dell’interiorità assoluta della città («Genova sono io. Sono io che sono ‘fatto’ di Genova») è in Genova di tutta la vita (precedentemente in «Weekend», ottobre 1979), Genova, San Mar-
co dei Giustiniani, 1983, p. 9. L’interpretazione psicanalitica del viaggio della funicolare nel-
le Stanze è esplicitamente, anche se tardivamente, sottolineata da Caproni in una lettera del 20 agosto 1979 a Betocchi (citata nel volume riccamente documentato di Adele Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia,
1992, p. 79). Dei «grandi visionari», fra cui Nietzsche e Campana,
Dickens, Valéry e Frénaud, attratti dal «sottile spirito di pazzia che circola sotto l'apparente corazza del buon senso ligure» e della «volontà di capitalizzare nello spazio» propria della Genova «lirica» e «onirica», dell’«affascinante squallore ch’è nel fondo della città: una gola irta di slogate architetture e di folli prospettive stradali», nonché «ampio seno» di «tutte le umane laidezze», parla in termini decadenti-espressionistici Caproni in Un paesaggio non dipingibile, ne «La Fiera Letteraria», 4 novembre 1956 (il primo dei quattro articoli dedicati a La corrente ligustica della nostra poesia ) e in Boine, Sbarbaro, Monale (ivi, 18 novembre
1956),
oltre che in Immagini di una città (ivi, 20 settembre 1959) e in Genova di tutta la vita cit., pp. 10-11 (ma anche, ad esempio, in /9/2: Luoghi della mita vita e notizie della mia poesia, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», settembre-dicembre 1981).
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un lato l’infera Proserpina in ciabatte delle Stanze, la donna-notte-cagna
«lunga e magra», immagine dell’anima come ombra e custode della topica stretta porta, (o portone) evangelica e «vulvare», varco e muro ad un tempo”, che si staglia nell’Epilogo di Al alone, scandito nel finale dalla rima oppositiva resurrezione-costernazione (sinonimo, quest’ultima, di sperdimento e follia); dall’altro è la costellazione, pure ambiguamente sacrale e salvifica, delle presenze femminili dai nomi sempre inizianti, quasi cabbalisticamente, per l’A dell’incipit e della renovatio, che è a sua volta abisso memoriale (Alcina, Annina, Ada nel racconto // gelo della mattina, la meretrice-senhal Alessandra Vangelo di Lamento (0 boria) del preticello deriso, 1’ Adele del Muro della terra). L,’anabasi e la catabasi colluttano sempre crucialmente in Caproni, e la waste land eliotiana, che il poeta amava tradurre, con eco dantesca, «terra guasta» (includendovi l’oscura e concentrazionaria selva-monstrum che e sempre, anch’essa, muro) addita per
antifrasi il perduto paradiso, il baudelairiano vert paradis des amours enfantines, il regno delle certezze primordiali. L’Enea-mézigue modernamente calcato sulla proiezione nervaliana dell’«ottenebrato principe d’ Aquitania», giunto «nel punto d’estrema solitudine» della sua distrutta Troia interiore, nel suo passaggio che è già viaggio nella Nowhere Land, la Nibergue del Muro, è accompagnato da una kafkiana, stridente partitura musicale di plettri, mandolini, timpani, corno, stritolii, e, più, dai «flebili docili suoni/ d’insetto» degli scatti della serratura, dalla musica infera dell’ocarina, proie-
zione sonora della luce «fantascente»; e l’eros ugualmente musicale-surreale e tellurico della ragazza marina con la collana fallica di coralli fa balenare la fede e la speranza, evocate a contrasto con la perdizione degli hollow men nel mediocre nulla*. Figura analoga alla «mediterranea femina de i porti» di Campana, reduplicata con attributi quasi felliniani nella «meretrice» del Lamento, questa proiezione femminile fantastica e ambivalente è maieuta dell’excessus erotico del poeta, che conduce alla perdizione di sé,
al tuffo inebriante nella Genova tentacolare che «capitalizza nello spazio» (la «città di fango e di lucri» dei Frammenti lirici reboriani); è una donna che, col suo occhio-specchio, consente la riduzione dell’io all’ascetica e di-
singannata preghiera «perché Dio esista» da parte del preticello, figura ad
«Verità inconcussa. / La rima vulvare: la porta / cui, chi ne è uscito una volta, / poi in perpetuo bussa» (All'ombra di Freud, 1, in Res amissa cit., p. 47). * Cfr. Versi, in Il passaggio d’Enea cit., pp. 151-153. Su tale partitura può aver agito il ricordo della poesia campaniana Specie di serenata agra e falsa e melodrammatica.
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un tempo autoironica, polemica e sublime della spoliazione, del rifiuto dell’avere per l’essere, prosopopea della condizione di vita solitaria, altra, estrema del poeta (la rima portante solo-usignolo rinvia al mitologema romantico dell’eccellenza notturna e solipsistica, della fragile perfezione dell’artista, tacitato dalla ferialità dell’alba, anche in Caproni sempre as-
sociata al lutto). Parimenti, nel crescendo musicale che ritma il Passaggio d’Enea, fino ai distici litaniali dell’«hapax metrico»? che lo chiude, ap-
punto Litania, Genova è evocata-invocata sacralmente per novanta volte come utero degli opposti, madre-infanzia totale (croce e delizia, cattedrale e bordello, angelo e puttana, ecc.) e raggiunge l’acme cantabile del simbolismo soterico attribuito alla sua follia e barbarie (riverberata sui suoi poeti, pittori e musicisti: «Campana Montale Sbarbaro» da un lato, «Paganini, Magnasco» dall’altro): città dove l’io adulto, in figura proiettiva del padre di Caproni, «si perde», come, appunto, in un labirinto. Rovescio, o meglio controcanto solo apparentemente apollineo e stilnovistico di tali «rosse» incarnazioni della città interiore (raggiungibile sempre e solo à rebours dalla storia) è l’icona verginale, «vezzeggiativa», restaurata dal rimorso del figlio fino al monotematismo assoluto, la «rondine» bianca e nera (già rondine-rima nel finale di Litania), |’ Annina-Ani-
ma del Seme del piangere, dove il viatico dantesco è straniato dal senso soggettivamente novecentesco del titolo: seme del piangere è la stessa Annina, insieme perduta e ritrovata nella «memoria ricorrente» !° notturna, o
meglio nella memoria edipico-mitico-romanzesca che re-inventa il proprio «doppio» femminile, la propria paredra-fidanzata nella madre ragazza (si ricordi la mari-fruta, altra icona della Vergine, che appare al figlio «dietro lo specchio» nelle poesie friulane di Pasolini, assai legato a Caproni negli anni ’50) e per farlo rovescia le parti, coerentemente alla visione speculare, attribuendo a se stesso il ruolo esterno del figlio che è «vecchio», quindi padre: nella Livorno sognata, risuonante di lavoro ludico, Annina-Anima è anche figura parallela all’ Albertine di Proust (l’inventiva traduzione caproniana del Temps retrouvé esce nel ’51) prigioniera della gelosia del Narratore e del tempo lineare, della cattiva infinità che la uccide, ma regina po-
° A. Girardi, Un häpax metrico: «Litania», in AA.VV., Genova a Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1982, pp. 105-119. 10 A. Dei, Giorgio Caproni cit., p. 119. Sugli «inganni iperrealistici» della memoria letteraria, cfr. Marco Marchi, Capoversi sul «Seme del piangere», in «Antologia Vieusseux», ottobre-dicembre
1985, p. 96; cfr. anche O. Lo Dico, Soluzioni e dissoluzioni stilnovistiche nel-
la poesia di Giorgio Caproni, in «Galleria», settembre-dicembre 1984.
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stuma della memoria di lui e del tempo interiore, quello agostiniano-pascaliano delle raisons du coeur): come Albertine, Annina è ardita e riden-
te ciclista, sempre raffigurata in atto di svoltare e scomparire, ed ha come attributo una inconsueta «bicicletta azzurra», interpretabile come emblema appunto «celeste» del viaggio salvifico, così come il suo «velo turchino» da Madonna, mosso dal vento il giorno del suo addio nuziale alla città. È un addio evocato dalla voce narrante e giudicante del figlio, che assume il congeniale doppio ruolo del romanzesco Narratore onnisciente, ammonitore dei lutti futuri, e del figlio edipico che li depreca e ad un tempo li attira, proiettando il suo Ur/o di protesta contro le nozze della madre e del padre sullo scenario punitivo della guerra!!: il «tradimento» di Annina rompe fantasticamente l’incantesimo della finzione idillica, e innesca altrettanto fantasticamente la follia, il disordine corale, l’entropia della guerra, che è anche guerra alla vita-giovinezza, quindi colpa e morte. Urlo apre la seconda parte del canzoniere livornese, — petrarchescamente definibile come le rime in morte di Annina — con la celebre Ad portam inferi, dove al fantasma smemorato di un’ Annina anelante al predestinato viaggio infero-ferroviario, sullo sfondo di un tempo onirico vuoto e fermo, si affianca specularmente il figlio-padre che ha anch’egli «tradito» il suo stato ideale di puer aeternus, perché, dice esplicitamente Caproni, «è cresciuto», è entrato nel mondo adulto abbandonando la madre e formandosi una famiglia propria !. In Caproni non c’è dunque mai risoluzione catartica al nodo la-
!!
Cfr. Scandalo, v. 1 (in Il seme del piangere (1950-58), in Poesie cit., p. 212); Ep-
pure... (ivi, p. 220), vv. 44 e 76-91: «Credeva che la primavera / fosse la prima stazione. / Credeva che all’estate / piena, senz’altre fermate, / seguisse poi l’autunno / più tenero, e che un dolce d’inverno / di pelliccia e d’amore / (di chitarra e di cuore) / di nuovo alla primavera /
portasse, in un giro eterno / cui fosse, quella stagione, / prima e ultima destinazione. / / E invece com’era ferita / l’epoca in cui era partita! / Com'’era già in lei, e in terra, / il seme della guerra!»; Urlo (ivi, p. 213), vv. 1-4 e 15-16: «Il giorno del fidanzamento / empiva Livorno il vento. / Che urlo, tutte insieme, / dal porto, le sirene! / [...] /. In cielo, il mare, in terra, / che ur-
lo, scoppiata la guerra ...»: forse storicamente quella libica del 1911, assume connotati assoluti, appunto metafisico-punitivi, di rimozione delle nozze che hanno infranto l’icona verginale della madre, e fa scattare le «rime in morte» di lei (// carro di vetro, Il seme del piangere, Ad portam inferi): significativa in proposito la dichiarazione di Caproni nell’intervista a Camon, dopo la dettagliata rievocazione della vita della madre, comprese le date di nascita e di morte (1894-1950): «Non ricordo l’anno del suo matrimonio con mio padre, Attilio Caproni, avvenuto nella chiesa di Sant’ Andrea» (G. Caproni, in Ferdinando Camon, // mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982, p. 103).
!? La distinzione definitoria di Caproni («È perciò inesatto dire che la madre è stata la donna più amata della mia vita. Non si può ‘amare’ la madre, e anzi io, come tutti i giovani,
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birintico di perdizione e salvezza: e l’esorcismo incessante costituito dalla scrittura poetica è anch’esso ambiguo, plurispeculare, «s’incanta» nella mimesi del dantesco viaggio dell’anima, rimbalzando dalla selva oscura al paradiso terrestre-memoriale materno senza mai «sperar pertugio od elitropia», senza cioè attingere un Paradiso, appunto perché le guide possibili (il Virgilio turbato, 1’ Annina umbratile, poi la moglie-natura e il figlio-padre) non si impongono con la metatemporalità imperativa della visione, ma restano, novecentescamente, parte di un sogno memoriale basato sul «sistema della variazione continua» e sugli armonici di un’«altra realtà» !3, rimanendo proiezioni del caleidoscopico mézigue che rifiuta di far da guida a se stesso: l’anabasi si condanna all’ombra, l’illuminazione al desettico,
barocco e romantico disinganno, la figura angelico-erotico-materna, l’Anima inseguita ancora in bicicletta (con straordinaria invenzione mitica) dal poeta «vecchio» dell’Ultima preghiera — anima che è a sua volta «figlia» a cui si fanno raccomandazioni di prudenza — è condannata a sparire all’alba,
nella bianco-nera e labirintica Livorno !*.
del resto, mi sono presto allontanato da lei, lasciandola sola e malata, essendomi fatta una famiglia mia. / Ho invece amato moltissimo (e amo ancora moltissimo) 1’ Annina che non s’era
ancora maritata e che io ho conosciuto, ripeto, soltanto nella leggenda») è ancora in Camon, ibidem; cfr. Ad portam inferi (in Il seme del piangere cit., pp. 214-218), dove gli elementi di spoliazione dello status adulto e cosciente di Annina, così come l’assunzione colpevole di tale status da parte del figlio, sono sottolineati con un crescendo simbolico: «di nuovo senza anello» (v. 27); «la matita, scordata ... con le chiavi di casa»; «la testa / le gira vuota» (vv. 40-
42 e 35-36); «Ma poi s’accorge che al dito / non ha più anello, e il cervello / di nuovo le si confonde / smarrito» (vv. 60-63); «Almeno le venisse in mente / che quel bambino è sparito! / È cresciuto, ha tradito, / fugge ora rincorso / pel mondo dall’errore / e dal peccato, e morso / dal cane del suo rimorso / inutile, solo / è rimasto a nutrire / smilzo come un usignolo, / a sua magra famiglia / [...] / con colpe da non finire» (vv. 74-86); «Guarda l’orologio: è fermo» (v. 120). Nella poesia complementare a questa, la citata // carro di vetro (ivi, p. 225) il titolo, riferito al carro funebre di Annina, rinvia per risonanza mitico-fiabesca alla bara di vetro di Biancaneve, morta per aver abbandonato la casa-scrigno dei nani e i tesori dell’innocenza,
avendo assaggiato il frutto proibito e avvelenato dell’esperienza. Altro viaggio infero fatto «di notte, in lutto e in follia» nel Becolino (ivi, p. 243) dove la perdita di sé nell’avventura — assai
campaniana — con la prostituta ladra d’anima coincide con la perdita dell’innocenza e della «patria». 13. L’espressione di Caproni è riferita proiettivamente alla tarda arte beethoveniana: cfì. l’intervista a Laura Lilli, Chi è la Bestia, in «La Repubblica», 3-4 agosto 1986. Per gli «armonici» degli «oggetti nominati», cfr. Le poesie sono oggetti?, in «Mondo operaio», 26 marzo 1949; e per l’«altra realtà» della poesia rispetto alla natura — ossia per il rapporto fra res e verba — cfr. Il quadrato della verità, in «La Fiera Letteraria», 27 febbraio 1947. 4 Cfr. L'ultima preghiera (in Il seme del piangere cit., pp. 228-230); il carattere labirintico di questa Livorno, dove il poeta ha oniricamente «scordato il portone» materno (vv. 49-
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Coerentemente con l’ambivalenza della ictio, le «forme scalene» ! dialogico-monologiche delle «prosopopee» del Congedo — non a caso dedicato all’attore-sodale Achille Millo — si articolano su figure di proiezione che, a partire da quella stessa del poeta-guardiacaccia in vesti operisticogiullaresche («piuma al cappello» «stivali e gabbana verde») sono figurelimite, guide sperdute e rovesciate, sbalzate nel distacco dal fa/setto al grave, recluse nella dimensione postuma della stoica e cantabile «disperazione/ calma, senza sgomento» (versione caproniana dell’allegria di naufragi), additanti il buio luminoso della teologia apofatica barocco-borgesiana attraverso la rete delle rime-equazioni, ossimoriche e identificanti, che nello
scontro psichico tendono a produrre la condizione della vertigine: ad esempio saggezza-stoltezza-altezza-debolezza in Prudenza della guida e nel Fischio; sessuale-intestinale-Male nel Lamento, dove parallelamente si acumina anche la polemica contro la civiltà di massa e l’irreligione dell’avere,
condotta in nome della paradossale «miseria senza teologia», massima espressione della religiosità anti-istituzionale e aconfessionale di Caproni, con la sua preghiera «perché Dio esista» !9, reiterata ed esasperata in tutte le
50) è evidente anche nella poesia precedente, l’eponima // seme del piangere: «Sperduto sul Voltone, / o nel buio d’un portone, / che lacrime nel bambino / che, debole come un cerino, /
tutto l’intero giorno / aveva girato Livorno! / / La-mamma-più-bella-del-mondo / non c’era più - era via» (ivi, p. 227, vv. 3-11). La valenza del labirinto,.ad un tempo infera e catartica (regno delle origini, con la Madre-Anima, specchio dell’iniziando, al centro) dall’antichità classica a Dante, è stata evidenziata dagli studi di Kerényi, di Kristensen, di Bachelard e di Santarcangeli: cfr. inoltre gli studi di Hauser e di Hocke sui «labirinti» del manierismo artistico, e quelli di Binswanger sul manierismo psicotico. È a partire da Nerval — uno degli alter-ego prediletti da Caproni — e dalla sua Aurélia che labirinto ed inferi vengono modernamente collegati (cfr. Martha L. Canfield, // labirinto e la ricerca dell’ altro, in «Klaros», giugno-dicembre
1991, 1/2, pp. 34-54). !5 L’espressione è di Antonio Barbuto, Giorgio Caproni - Il destino d’ Enea, Roma, Ateneo e Bizzarri, 1980, p. 189.
!6 JI fischio (parla il guardiacaccia) (in Congedo del viaggiatore cerimonioso (196064), Torino, Einaudi, 1965, ora in Poesie cit., pp. 263-265 (con l’epigrafe eschilea dal Pro-
meteo: «Epos dè ppevac Épnôioe diatopoc dépoc» [Vi afferd la mente pentrante paura]); nella poesia il tema topico caproniano del bicchiere-viatico della partenza prima della caccialotta al nemico invisibile (che peraltro «è già dentro», vv. 79-80) è «cantato» su un calco
dell’aria di congedo di Turiddu alla madre nella Cavalleria rusticana: «Lasciate ch’io mi versi ancora / — ultimo — quest’altro bicchiere» (vv. 19-20); Prudenza della guida (nel Congedo cit., pp. 260-261 — le rime citate ai vv. 5-10); Lamento (0 boria) del preticello deriso (ivi, pp. 267-272, le rime citate ai vv. 38-41, 47, 56-57, 73, 139-142); la preghiera finale, con la dop-
pia antitesi ancora di origine romantica, fra mondo e io e fra io e Dio («non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista»).
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successive raccolte, fino alla congetturale Res amissa !”. La dimensione è sempre quella del mondo in-fantile di presenza silenziose e/o assolute, affabulato e meditato testamento dove il muro allucinatorio si riproduce nell’occhio-specchio della prostituta, Beatrice d’en bas, e i barcaioli livornesi sono Caronti inadempienti alla loro funzione di traghettare il poeta nel tempo-spazio perduto (Scalo dei fiorentini, Toba); così, travalicando la fonte dantesca, il simbolismo del Muro della terra si pone come me-
tafora portante — «porta», appunto — della maturità e notorietà caproniana: il muro, «siepe» leopardiana del reale, virata alla luce dell’esistenzialismo scettico del libro di Monod // caso e la necessità (uscito in Italia nel ’70), è
anche il biblico muro del pianto e dell’esodo (exitus/morte nel deserto, al quale rinvia l’epigrafe tratta dal Caro: «Siamo in un deserto, e volete lettere da noi?»); pianto sulla perdita del linguaggio nella no man's land, e contraltare della prometeica pretesa di «accecare anche i fulmini» (L'esito ), accecando la presenza di sé nel mondo e nella lingua. Il proliferare di idiomi «altri», dalle citazioni dantesche all’inglese della Brònte e di Shakespeare, al francese di Dedizione, ai toponimi immaginari di aura sudamericano-portoghese (Malatrinha, Benhantinha, Guergue e naturalmente Nibergue) volge l’italiano del poeta in cifrato idioletto, in «capronese» !, il suo viaggio in in-differenza o immobilità circolare — ribadita dalla ciclicità musicale — e le sue tre guide, il padre, la moglie, il figlio (rispettivamente il passato impotente nel Verrone, il presente eterno della natura, sempre attiva nel dono di sé eppure sempre imprendibile, e l’angelo del futuro, connotato nordicamente, come la «longobarda» rosa/Rosa, dal «passo d’Irlanda») equilibrano solo a distanza la condizione coattiva del poeta, che è quella dantesco-pascoliana di «parlare ai morti» senza però ottenere da loro riscatto; pure, il muro-limite, la prigione dello scacco afasico già mallarmeano (Cabaletta dello stregone benevolo, Sassate) è anche paradossale salvezza, luogo di per-secuzione, sfrenata e ordinatrice insieme, dell’oggetto della caccia, il Deus absconditus, l'assoluto che si può cacciare solo
identificandovisi !8. La crescita esponenziale della «straziata allegria», di
!?
Cfr. Invocazione (ivi, p. 198): «Mio Dio, anche se non esisti, / Perché non ci assiti?». «follemente salvifica» è reiterazione, logicamente e musicalmente variata, di
La domanda
quella finale de / coltelli nel Muro della terra: «Ah, mio dio. Mio Dio. / Perché non esisti?» (cfr. Poesie cit., p. 331). 18 Per il simbolismo della caccia-inseguimento come mistica quest ed esorcismo del Caos in tutte le tradizioni (egizi, mistici cristiani e sufi, indiani nord-americani, la caccia sfre-
nata di Dionisio e quella ordinatrice di Artemide) cfr. Jean Chevalier-Alain Gheerbrant, Di-
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una parola nietzschianamente inattuale, endostorica e metastorica, nel Muro si concreta nell’ossessiva dominanza del tema dell’esodo-cacciata da una Valtrebbia
interiore,
aprioristicamente
distrutta
dai misteriosi
invasori,
proiezioni della devastante alienazione personale e sociale sofferta. Si vedano Tutto e Lasciando Loco, dove il toponimo, al di là della realtà geografica — Loco di Rovegno — addita quella psicologica dello stravolgimento e della pazzia (il significato «altro» di loco, in spagnolo «pazzo», acquista senso possibile alla luce delle ambivalenti connotazioni «spagnolesche» di aristocraticismo decaduto, di dignitas ammirevole, e insieme di
tradizione ormai lacera, attribuite al padre-hidalgo e quindi alla Vater-
land)!; mentre nella struttura pulviscolare dello pseudo-libretto che è // franco cacciatore — il titolo più «figurale» di Caproni, quello che attraverso il calco weberiano meglio dichiara l’allegro a lutto del suo Max deprivato di Diavolo-guida e di «pallottola magica» — il poeta dà vita ad una
«continua metonimia dell’inconscio» °°, in un’atmosfera iperrealistica, ipere finto-nordica quanto vertiginosamente regressiva, che dilata il tema, anch’esso di origine romantica, dell’inabitabilità della storia da parte dell’eletto/reietto, appunto il poeta spatriato, e parallelamente estende l’inabitabilità eroica o patetica della parola «fuori corso» (inagibile fino all’inesistenza anche se irrinunciabile) fino allo smantellamento del volto umano, luogo
zionario dei simboli, Milano, Rizzoli, 1986, I, ad vocem caccia, p. 165). Nel Muro della terra (1960-75; Milano, Garzanti, 1975) cfr. // vetrone, Quasi ad aulica dedica, Araldica, A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre, Condizione, Cabaletta dello stregone benevolo, Sassate (rispettivamente alle pp. 310, 293, 335, 303, 377, 384). !° Cfr. appunto L’/dalgo (nel Muro della terra cit., pp. 312-313), dove il «vecchio (alto, bell’uomo - un cappellaio» (vv. 5-6), «doppio» del padre morto e nuova variante del desdichado nervaliano, nel finale (vv. 28-34) è assimilato al padre stesso tramite il «gabbano» di lui indossato dal figlio, con nuovo rinvio allusivo, per metonimia magica, all’Enea sperduto che fuggendo dalla città distrutta porta sulle spalle il vecchio Anchise, l’amato-odiato passato che è, insieme, il mondo adulto con i suoi pesi («mai / io avevo avuto più freddo / nel mio gabbano — il solo / ricordo che di mio padre morto / (lo chiamavo l’Idalgo) / quel giorno, come ogni altro, ancora / mi coprisse le spalle»). Cfr. la disperata confessione finale all’ombra supplice del padre, autocensurata, murata, dall’aposiopesi del verbo nel Verrone (ivi, p. 311), vv. 25-31: «... ‘Non c’è più tempo? / diceva, non c’è / più un interstizio — un buco / magari — per dire / fuor di vergogna: ‘Babbo, / tutti non facciamo altro /— tutti — che » (come esempio analogo di questo pasoliniano «vero indicibile» che «è nefas», cfr. appunto Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità, in Poesia in forma di rosa (Le poesie, Milano, Garzanti, 1975, p. 468): «Io me ne starò là / come colui che / sulle rive del mare / in cui ricomincia la vita».
2° L’espressione è di Piero Bigongiari, Aria del tenore in Boemia, in AA.VV., Genova a Giorgio Caproni cit., p. 177.
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della significazione per eccellenza e incarnazione della casa-vita?!. La storia è ormai orrifica e nullificante nella sua sequela coatta di crimini, struggentemente gridati nell’elegia civile di Träumerei, dove immagini primigenie di vita e crude immagini di morte si sovrappongono in un tragico frottage ?: la storia viene da Caproni disperatamente esorcizzata, nel tentativo «folle» — vissuto a sua volta con dilettoso rimorso da parte del testimone impegnato e indignato — di sostituirla definitivamente con la naturainfanzia «al di là del male e del bene», «fuori barriera»: in Larghetto, la poesia centrale della raccolta, emerge anche la radice dell’ossessione caproniana dello sparare, collegata al tema-scenario del bianco, nell’episodio rievocato in chiave di vera e propria autoanamnesi, quello infantile del mutilato della mano destra — essere, quindi, implicitamente demoniaco — che ordina al bambino-poeta di reggere il foglio su cui egli spara con la sinistra
23; gli ordina, cioè, di farsi suo «sinistro» complice, e lo sparare sul foglio diventa un equivalente metaforico dello scrivere sul foglio, quindi del poetare: la distruzione e la creazione «coiscono» come i due fratelli omicidi,
proiezioni del «doppio» à la Poe (William Wilson) nonché ombre di Caino e Abele, unite dall’«orgasmo del suicidio» e dalla topica «allegria» nella finale Aria del tenore, agghiacciata ed elettrica *.
2! Cfr. Antefatto, Le parole, Lo spatriato, Gelicidio, Risposta del cambiavalute (in Il franco cacciatore (1973-1982 ), Milano, Garzanti, 1982, ora in Poesie cit., pp. 413, 478, 479, 480, 477); per la nietzschiana inattualità rivelatrice di quest’ultima poesia («Sono monete preziose, / certo. Ma non hanno più corso. / Provi in un Museo. Non vedo / — mi spiace — altro
soccorso») cfr. Rimbrotto (nei Vesicoli del Controcaproni in Res amissa cit., p. 177): «La storia — disse — in un secolo / ha fatto passi enormi. / Tu non te n’accorgi. Dormi. / Lo guardai di sbieco. /Io, povero australopiteco». La terra promessa all’Enea-eroe fondatore virgiliano diviene in Caproni terra incognita e terra guasta.
22. «Le trombe militari / nella neve... / Gli spari... /I sibili degli spari / a zero... /Sogna. / Sogna le bianche vocali / dei gridi dei ragazzi, e l’aria / che le dilata... / Sogna. / Sogna Dachau... / Le musiche / trasparenti tra i fiori... /Gli alberi del Sole e della / Luna... / Sogna AIcina... / Hiroshima... / Sognala, / mentre già t’avvicina / la mente all’erba... / sempre / più all’erba... / all’acqua / viva... / ai sassi / dove rimbalza. Sogna. / Sogna Piazza Fontana. / (On the Beach at Fontana ... ) / Sogna — finché t’è più lontana / (l’hai addosso) — la notte dura / (sognala!) dell’ossidiana» (Träumerei, in Larghetto, nel Franco cacciatore cit., pp. 505-506). 2. «Fuori barriera, forse. / Forse, oltre la dogana / d’acqua... / Dove il canale / già prende d’erba, e il vento / è già campestre... / Prova. / Là c’è l’infanzia. / Prova. / C’è l’infanzia che trema... / Là ancora il mutilato / d’un braccio, con la sinistra / (ricordalo. ti fu ordinato / -
bambino appena, allora, / che sorride alle tigri) / scarica la pistola / sul foglio che gli reggi...» (Larghetto, ivi, p. 452).
24 Ivi, pp. 539-541.
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Rovescio nonsensical e potenzialmente redentivo di questi fantasmi e di quelli dello spiritato epicedio di Poesia per l’Adele, nonché dello spettro tragico-grottesco di Dio-revenant — il dio degradato rinchiusosi nel cesso a piangere come «statua di gesso» arieggiante quella del Commenda-
tore nel Don Giovanni °° — è la figura del buffo caproniano, il puro folle mitico-fiabesco in versione di ligustico «scemo del paese», capace di esorcizzare la morte con le sue donchisciottesche intimazioni ‘9; una figura che torna insistente nell’ultimo Caproni interamente dedito all’arte del rovescio, e che spicca fra quelle degli alter-ego o interlocutori letterari e storici (Max, Tamino, Papageno, Medardo monaco, Sereni, Genet, S. A gosti-
no) del Conte di Kevenhiiller, «operetta a brani» resa adespota e aperta ad ogni mimetico rovesciamento dalla kafkiana Ur-Skene preliminare, l’omicidio gratuito-rituale del direttore d’orchestra-poeta-Demiurgo (e padre, simbolico quanto concreto, della messinscena dell’opera scritta dal musicista) ?”. Su uno sfondo di ormai totale agghiacciamento da basso Inferno dantesco (l'acciaio - il ghiacciaio: e quest’ultima è la montagna di pietra e d’acqua, simbolo primordiale, con la foresta e il deserto, del viag-
gio interiore) domina la «frana della ragione» — la «ragione eversa», la «mente accecata» — e si accampano le «asparizioni» della porta-Parola che è cieca, amorfa, intransitiva, evocata da un Caproni che si dichiara ormai stanco del «rumore delle parole» #; i meta-personaggi (pronomi, nomi, parti del Discorso) sono acuminati fantasmi semantici dell’avvenuta disparition élocutoire du poète di mallarmeana memoria: sparizione paradossale, sempre in atto eppure sempre virtuale, tanto da rendere inabitabile ma incombente l’Opera-Onoma ”. Su questo sfondo sostanziante si svolge la caccia all’onnipervadente e metamorfica Bestia, figura dell’eccesso, del sacro teriomorfico e dionisiaco, nuovo «grembo» che cumula, come un
tempo Genova, ogni possibile attributo di perdizione e salvezza (Male/Bene/Poesia/Lingua/Dio/Nome/Nume/maschio/femmina omicida/resuscitatrice...) e che include al suo seguito, tramite il gioco variantistico freccia-
25
Cfr. rispettivamente Lui (ivi, p. 419); Telemessa (ivi, p. 423).
2
Cfr. / pugni in viso e Il fuor di senno, (ivi, pp. 471-472); Indicazione sicura 0 bontà
della guida (ivi, p. 457), (con le rime identificanti esistente - niente - [non] mente ):
7
Avvertimento, in Il conte di Kevenhüller (1979-1986), in Poesie cit. p. 95%
°8 Credo in un dio serpente, intervista a Stefano Giovanardi, in «La Repubblica», 5 gennaio 1984.
°° Cfr. Fondale della storia, Oh cari, La porta, Personaggi (ivi, pp. 563, 623, 631, 565).
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treccia, l’avatar femminile del poeta, la «bella lombarda» che, «sola/ don-
na tra i maschi in testa/ alla canea sanguinaria», «canta esaltata e spara/ nella foresta./ (Ma in aria)» 3°, In questa nuova progressione parossistica di crudele sacrificalità, l'Opera musicale-letteraria (arieggiando, con personalizzato calor bianco, temi para-heideggeriani mediati da Agamben) ?! si propone come il Rovescio totale di se stessa, a partire dal suo modello illustre e ammirato, appunto // flauto magico, col suo «giurisdizionale», massonico Sarastro (qui l’autorità analoga, appunto il Conte di Kevenhüller, è flatus vocis titolatorio e non personaggio); ma la Bestia ha pure un’incarnazione ilare, salvifico-ecologica, nel «delfino» che «si diverte (ci esorta)/ a fondere la negazione/ [...]/ col fondo dell’affermazione», nella poesia omonima dagli ac-
centi montaliani *°: e il «mare pietrificante» del mistico inebetimento (// pesce drago, Versi controversi) è bilanciato da questo allegro «guizzo» vitalistico nonché, addirittura, dalla «maris stella» mariana della tradizionale
innologia cattolica . Caproni continua con astratta passione, sia pure per antifrasi e proclamandone l’impossibilità, l’opera adamitica di dare il nome alle cose e alle «bestie» del suo mondo, additando infine lucidamente a se stesso la mèta psicanalitico-metafisica di catturare nella Bestia-follia-illusione, «il desiderio di morte» che divora il linguaggio dell’anima, ripor-
30 Sulla Bestia, cfr. le numerose interviste fatte a Caproni riguardo al significato simbolico del personaggio, segnatamente quella a Laura Lilli, Chi è la Bestia cit., e l’interpretazione di Alberto Moravia, Uno strano elefante si finge monumento, in «Corriere della Sera», 25 giugno 1986; cfr. anche A. Dei, Giorgio Caproni cit., pp. 223-224 e 258-259, sull’ascendenza medievale e dantesca, oltre che barocca, di tale Bestia «gecheggiante» «dragheggiante» «amebeggiante» nonché «leoneggiante»; ma l’aura della Bestia è addirittura scritturale, risalendo al serpente edenico — la vipera-vita — e alla Mulier super Bestia di Apocalissi 17, 3 (bestia scarlatta che ivi ha «sette teste e dieci corna»). La «bella lombarda» compare in Strambotto (Il conte di Kevenhüller cit., p. 595).
3! Di «déséspoir stoïcien» parla Michel David ne Le désespoir stoicien de G. Caproni, in «La Quinzaine Littéraire», 16-31 janvier 1987; il testo-fonte di Agamben, citato con ammirazione empatica da Caproni, è La fine del pensiero, in AA.VV., Foné: la voce e la traccia del 1985 (cfr. Poesie cit., p. 728 n.).
32 Il delfino (in Testi marittimi o di circostanza del Conte diKevenhiiller cit., p. 719; la poesia è legata all’opera di Greenpeace, come precisa Caproni in nota). 33. Cfr. Alla Foce, la sera (ivi, p. 720). Il tema è collegato a quello di Rina-Rosa, donna ancora dotata della capacità stilnovistica di sostanziare la realtà del mondo (cfr. A Rina, Laudetta, in Altre cadenze del Conte cit., pp. 665 e 672; poi, in Res amissa, la stessa figura nella variante della figlia, la Silvana-Grazia di Aspettando Silvana ).
tando «il flagello/a Morgana... / nel suo castello/ senza via di ritorno» *. Così la «caccia al Bene perduto», alla teologica «Grazia amissibile» con cui Caproni consente infine, semplificando, ad identificare l’antitesi BestiaRes amissa , annovera fra le presenze tutrici dell’opera postuma quelle letterario-amicali di Luzi, Char e Serra, e quelle circolarmente biografiche di Rina-Rosa, della morta sorella Marcella e, a specchio, quella giovane del-
la figlia Silvana quale figura domestico-sublime di una Grazia attesa senza speranza, che si richiama al celebre vertice della quest di Rebora, Dall’imagine tesa : la parola-tagliola che uccide il reale, e la morte come specchio creato dall’io, hanno il loro rovescio estremo in un’«afilosofia» del silenzio, che assorbe tanto l’autoironia del «maestro di contorsioni» quanto l’autocompatimento del «figlio di nessuno» sopravvissuto al Padre terreno e celeste; un’afilosofia che, senza annullarle, travolge le antinomie in un pie-
rinesco «bravo zero», ultimo tragico sberleffo del maestro-Antimaestro Caproni, e, insieme, vertiginosa immagine olistica *’.
34
Il flagello, III, nel Conte cit., p. 642: la fonte della poesia è La tranchée di Apollinaire (cfr. A. Dei, Giorgio Caproni cit., p. 260 n.); ma tutto caproniano è il senso multiplo del flagello (peste-frusta-linguaggio-illusione). 35. Cfr. l’intervista a Domenico Astengo, Una straziata allegria, in «Corriere del Ticino», 11 febbraio 1989: «La Bestia è il Male. La res amissa [la cosa perduta] è il Bene».
°° Aspettando Silvana (in Res amissa cit., pp. 102-103): «Ogni sera aspetto. / La fronte appoggiata al vetro / della finestra, aspetto / il minibus. / Arriva / (non vedo la fermata) / affaticato. / Conto. / Conto fino a settanta. / Nessuno passa. / Ne aspetto /— con pazienza — un altro. / All’improvviso, dietro / di me, il frinito / del citofono. / È qui. / Un’altra volta viene / — verrà — senza / che io ne abbia scorto o udito / (quasi fossi di sasso) / la figura: il passo». Cfr. «Maestro di contorsioni», La tagliola, Senza titolo, La barriera, Mancato acquisto, Pierino disegna un volto (ivi, pp. 126, 76, 111, 84, 70, 181).
560
CLAUDIO VARESE
ITALO CALVINO: UNA INTERPRETAZIONE DELLA FOLLIA
Chi vuole affrontare il tema del rapporto tra la follia e la letteratura può trovare nella sollecitudine di letture ripetute e interpretate da Calvino e soprattutto nella stessa sua opera creativa una complessa varietà di panorami. I richiami più insistenti ed espliciti dello scrittore si proiettano verso un Settecento illuministico con la premessa seicentesca del Don Chisciotte. Forse si può discutere, se non rifiutare del tutto, quella contrapposizione che Foucault stabilisce «nella cultura occidentale moderna» sul «fronteggiarsi della poesia e della follia» !. Da Erasmo in poi la follia come un aspetto, una necessità o una condanna della vita quotidiana dell’uomo, si proietta e si ripercuote nei motivi dell’inquieta e avida realtà umana, dell’abbandono agli interessi, alle am-
bizioni, alle passioni. La follia del folle, del matto, è dunque un’altra follia che può assumere vari aspetti e, al limite, varie possibilità di confronto e persino di correzione. Il Don Chisciotte, anzi Don Chisciotte personaggio, è ricordato da Foucault per l’astratta e astraente volontà di perpetuare il mondo dei libri, il mondo cavalleresco come una possibile e pronta ovvietà. Due scrittori e filosofi, Diderot e Voltaire, offrono a Calvino motivi, spinte e sollecitazio-
ni per la sua creatività. Nella Storia della follia nell’età classica Foucault dedica una particolare attenzione e un intero capitolo al Neveu de Rameau, sostenendo che il personaggio preannuncia «il destino della follia nel mondo moderno» ?. Ma la linea interpretativa che Foucault ne dà si volge in una direzione che giunge sino ad Artaud, secondo una impostazione della follia lontana da quella che propone lo scrittore italiano. Calvino riconosce il valore del poco possibile secondo e oltre la conclusione e l’esplicito invito
! Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967, p. 64. 2 M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, Milano, Rizzoli, Bur, 1977, pp. 381-393.
561
del volterriano Candide ou l’optimisme: «Il faut coltiver notre jardin». Il personaggio che dice io, cioè Diderot, nel Neveu de Rameau non dimentica l’impegno di accettare «les choses comme elles sont». Per il nipote di Rameau filosofi e virtuosi possono essere bizzarri, ma le parole che li designano, da Voltaire a D’ Alembert, sono vertu e philosophie. «Vous décorez cette bizarrerie du nom de vertu, vous l’appellez philosophie; mais la vertu, la philosophie sont-elles faites pour tout le monde? En a qui peut, en conserve qui peut. Imaginez l’univers sage et philosophe; convenez qu'il serait diablement triste» *. Ma la cultura e il costume del tempo suggeriscono al personaggio la possibilità del superamento della sua stessa folle stranezza in quanto facile e dispersiva. La musica dell’opera, soprattutto italiana e i libretti italiani, offrono nella pantomima, nel canto, ma insieme
nell’analisi degli accenti verbali e musicali un mondo diverso che allontana questo nipote di un famoso musicista dalla facilità e dalla quotidianità di un’ordinaria pazzia. Nel Barone rampante Calvino giunge ad avvicinare due ipotesi di follia che si contrappongono e si intrecciano nella riflessione e nell’ermeneutica e insieme nella considerazione delle opere letterarie. Lo scatto del ragazzo Cosimo che lascia la famiglia parte da una situazione esterna che può chiamarsi, almeno, stranezza. Il fratello narratore, variamente ma sempre funzionalmente commentatore, vede la prima ragione della fuga di Cosimo in una situazione che segna la necessaria distanza morale ed esistenziale dalle follie e ipocrisie della famiglia: «Si capisce quindi come fosse la tavola il luogo dove venivano alla luce tutti gli antagonismi, le incompatibilità tra noi, e anche tutte le nostre follie e ipocrisie; e come proprio a tavola si determinasse la ribellione di Cosimo». Tra la sorella Battista, che pratica con macabra fantasia una sua orrenda cucina, e il padre, dominato da pensieri stonati
e immerso in una ir-
reale e smaniosa ambizione per il titolo di duca, la madre, figlia di un generale di Maria Teresa, vive sognando eserciti e battaglie come se fosse rimasta ai tempi delle guerre di Successione. Agli angoli di questa prospettiva, quasi in obbedienza a una necessità di stranezza e di richiami di irrealtà fuori del presente, si pongono il precettore, l’abate Fauchefleur, mezzo giansenista, e
Cfr. Voltaire, Candide ou l’optimisme, in Romans de Voltaire, Paris, Garnier, s.d., p.
206. 4
562
Denis Diderot, Le neveu de Rameau, Paris, Flammarion,
1983, pp. 54, 74.
lo zio, fratellastro del padre, che allontana il presente per immedesimarsi nel ricordo della sua giovinezza trascorsa in un paese maomettano 5. Il richiamo ai tempi e i riferimenti storici dalla seconda metà del Settecento al primo Ottocento, prima ancora di intrecciarsi e di motivare e di essere motivati nelle vicende, sono già in questo sfondo di famiglia. Le situazioni, gli ambienti sono, con continue riprese e improvviso mutare, elementi del tessuto narrativo come tale, ma insieme del proporsi e formarsi del personaggio dentro un giuoco di imprevedibili che si configurano come occasione di necessità narrativa. Un motivo che distingue questo particolarissimo e moderno Don Chisciotte, «una specie di Don Chisciotte della filosofia dei lumi», dai personaggi di follia e dallo stesso protagonista del romanzo di Cervantes è l’interesse verso gli altri uomini che diventa scoperta del valore della vita associata: «Capì questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e dànno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto». La stranezza e la solitudine dello zio Cavaliere e Avvocato fanno comprendere a Cosimo «come può diventare l’uomo che separa la sua sorte da quella degli altri, e riuscì a non somigliargli mai» °. La follia dell’uomo che vive sempre sugli alberi verrà definita un fenomeno della ragione da Voltaire in colloquio col fratello del barone: «— Jadis, c'était seulement la Nature qui créait des phénomènes vivants, — con-
cluse; — maintenant c’est la Raison —»”. Tutto il racconto è, in un certo sen-
so, una proiezione di queste parole. Lo svolgersi del rapporto tra la struttura del personaggio e quella delle sue azioni è impegno e sviluppo di razionalità e di una tensione verso quello che è il meglio per gli uomini, caso per caso, pur attraverso le speranze e i fallimenti della storia: «AI centro della narrazione per me non è la spiegazione d’un fatto straordinario, bensì l’or-
dine che questo fatto straordinario sviluppa in sé e attorno a sé, il disegno, la simmetria, la rete d'immagini che si depositano intorno ad esso come nel-
la formazione d’un cristallo» À.
5. Italo Calvino, // barone rampante, in Romanzi e racconti, edizione diretta da Clau-
dio Milanini, con prefazione di Jean Starobinski, Milano, Mondadori, 1991, I, pp. 551-552, 553, 556, 605, 602. Per un’interpretazione complessiva di tutto Calvino vedi Giorgio Baroni, Italo Calvino, Firenze, Le Monnier, 1988. 6 Il barone rampante cit., pp. 659, 636. In I. Calvino, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, p. 189, Calvino scrive: «Continuo a sentire vivo lo spirito con cui undici anni fa
ho scritto // barone rampante come una specie di Don Chisciotte della “filosofia dei lumi”».
? Il barone rampante cit., p. 698. 8 Una pietra sopra cit., p. 216.
563
L’iniziale follia del vivere sempre e tenacemente nella dimensione di chi guarda la vita e partecipa dall’alto trova una misura e un ordine che non è folle, anzi supera e corregge la continua e diversa pazzia di chi sta a terra. I rapporti con gli uomini, le occasioni raccolte e interpretate, talvolta suscitate come valori, si formano in una serie di incontri. Nello svolgersi delle vicende si andrà delineando una situazione di apparente affinità con gli esuli spagnoli, costretti a vivere sugli alberi non per una follia come scelta, ma per un giuoco di persecuzioni politiche e di cavilli giuridici. La differenza profonda e dimostrata tra le due situazioni si riconosce e s’impone nella differenza fra la volontà di chi vuol essere e può essere, in questo modo, se stesso in un tempo raccolto, continuo e voluto, e la provvisorietà di
quella diversa permanenza sugli alberi?. Nel racconto acquista valore e significato la prova di una scelta tra Diderot, Voltaire e l’Enciclopedia da una parte e dall’altra l’utopia naturalistica di Rousseau. Abbandonato dalla sua donna il barone rampante «era proprio diventato matto». In questo periodo di demenza si immerge in una vita vegetale e animale e intanto scrive e stampa libelli e gazzette di tesi follemente rousseauiane. Il ricupero della razionalità variamente e liberamente attiva si attua con un ingegnoso intervento di soccorso umano, che solo apparentemente poteva sembrare pazzesco, per salvare i contadini da una invasione di lupi. Contro l’errore rousseauiano di abbandonarsi alla natura, Cosimo risolleva dei soldati francesi, sprofondati in «un amalgama animale e vegetale», cospargendoli di pulci. A questo modo li costringe a grattarsi, lavarsi, radersi e pettinarsi e dunque a riscoprire il principio di identità e di civiltà: «riprendevano coscienza della loro umanità individuale, e li riguadagnava il senso della civiltà, dell’affrancamento dalla na-
tura bruta» !°. Con il mai dimenticato amore per il metodo e il tema razionale della distinzione, Calvino costruisce la vita di Cosimo sugli alberi e tra gli alberi secondo il motivo esplicito e attuato dell’incontro di amicizia e di distinzione: «Cosimo stava volentieri tra le ondulate foglie dei lecci [...] Amava anche i tronchi bugnati come ha l’olmo [...] preferiva faggi e querce [...]. Queste amicizie e distinzioni Cosimo le riconobbe poi col tempo a poco a poco, ossia riconobbe di conoscerle; ma già in quei primi giorni cominciavano a far parte di lui come istinto naturale. Era il mondo ormai a
° Il barone rampante cit., pp. 678-690.
!0 Ivi, pp. 734, 761-762.
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essergli diverso». Il racconto dei modi di questo vivere e sistemarsi nel paesaggio e soprattutto nella realtà folle di un abitare e muoversi nella vegetazione si esprime in un confluire di funzionali momenti stilistici. In questo senso il rapporto del barone con questa conquistata natura può situarsi in un convergere del lirico e del riflessivo, secondo una nuova maniera di rappresentazione: «C’è il momento in cui il silenzio della campagna si compone nel cavo dell’orecchio in un pulviscolo di rumori, un gracchio, uno squittio, un fruscio velocissimo tra l’erba, uno schiocco nell’acqua, uno zampettio
tra terra e sassi, e lo strido della cicala alto su tutto. I rumori si tirano un con l’altro, l’udito arriva a sceverarne sempre di nuovi come alle dita che disfano un bioccolo di lana ogni stame si rivela intrecciato di fili sempre
più sottili ed impalpabili» !!. Si potrebbe chiedere a questo testo e a questo personaggio se la /eggerezza che inizia e guida le Lezioni americane può valere come un aspetto e un momento della scelta di Cosimo di Rondò. La leggerezza soprattutto accompagna qui la varietà e la mobilità e i dissimulati eppure presenti estri stilistici. Gli interventi dialogici variamente insistenti, il giuoco delle ripetizioni, talvolta al limite del ritornello, l’echeggiare molteplice delle esclamazioni, riflettono non solo la verità dell’atteggiarsi del barone, ma insieme quella costanza di eco che questa follia suscita e provoca. La stessa invenzione dell’ultima mania del bandito Gian dei Brughi si esprime in un tessuto di ripetizioni esclamative: la follia di voler essere immerso ora per ora nella lettura, di avere un bisogno assoluto, unico, di Richardson e di
Fielding diventa, in confronto alla follia del barone, un esempio negativo di solitudine, di chiusura e, soprattutto, di mancanza di ogni direzione verso il
bene degli uomini e verso la loro risposta. Tutta l’attiva permanenza e tutto il movimento stesso di Cosimo sugli alberi hanno, secondo un narrativo
che assorbe liberamente l’ideologico, il bisogno di un’azione di compresenza verso l’umana utilità. Il percorso del barone rampante, il suo saggio operare dentro e al di là della sua follia sono guardati con lo stesso impegno di molteplicità e distinzione da un mobile scambio di punti di vista e,
in modo particolare, dai racconti affidati direttamente all’io narrante del barone o al discreto e partecipe commento del fratello. Forse tutte le opere di Calvino, ma certamente quelle che provocatoriamente si raccolgono sotto il titolo di Nostri antenati, propongono non so-
!!
Ivi, pp. 619, 620.
565
lo un modo di rappresentare la follia, ma insieme quello di conoscerla e di superarla. Il quadro del Cavaliere inesistente non ha i riferimenti storici che si precisano e agiscono dentro la vicenda di Cosimo di Rondò. La premessa del capitolo quarto all’intervento di metadiscorso di suor Teodora, che figura come diretta narratrice, vuole offrire un giudizio negativo su quel mondo, il mondo di Carlo Magno: «Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo [...]. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui non corrispondeva nulla d’esistente. E d’altra parte il mondo pullulava di oggetti e facoltà e persone che non avevano nome né distin-
zione dal resto» !?. La «volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con
tutto ciò che c’è», che non
venivano
usate
interamente,
in
quell’epoca, si proiettano e si condensano, in contrasto e quasi in compenso, nella figura di uno che non c’è, ma segue e applica le regole dell’esserci. Forse come altrove, ma qui in modo specifico, il tema e il problema dell’identità diventano temi ed elementi del racconto e insieme della situazione e dell’azione dei personaggi. Accanto al cavaliere inesistente, che sa di non esserci, ma agisce nelle strutture militari-burocratiche-giuridiche del mondo cavalleresco, Gurdulù, tra il buffone e il servitore folle, «non sa
d’esserci» ©. L’astratta razionalità, rigorosa e puntuale, del cavaliere Agilulfo viene fiancheggiata dalla follia del servo, come realtà puramente e disordinatamente fisica, secondo una tradizione del matto al di là e contro la
norma comune del quotidiano. Lo scrittore ha scelto un’epoca cavalleresca ricostruita tra ironia e immaginazione come uno spazio che permetta un libero formarsi e trasformarsi dei personaggi. Dal titolo s’irradia in tutto il racconto il valore dell’identità, principio necessario contro la follia, e della ricerca dell’identità: l'appassionato Rambaldo non riesce a identificare nei guerrieri mussulmani contro i quali combatte, l’argalif che ha ucciso suo padre. Cosimo
di Rondò esiste nella sua continuità, nel vivere e nell’adoperare e costringere la sua follia contro o dentro un mondo di ordinaria o diversamente accettata follia. I personaggi del Cavaliere inesistente vivono soprattutto in se stessi e per se stessi e cercano nelle vicende la prova del loro esserci. Rambaldo dopo la morte del suo avversario mussulmano «è sicuro che il mondo esiste»; dinanzi a un cadavere da lui trascinato alla sepoltura vuole af-
?
Il cavaliere inesistente, in Romanzi e racconti cit., p- 979.
13 Ivi, pp. 979, 974.
566
fermare la sua realtà di inquietudine: «E io amo, o morto, la mia ansia, non la tua pace» !*. Le molteplici e intrecciate occasioni offerte a suor Teodora nelle vicende e nel suo stesso impegno di diretta narratrice rappresentano un imporsi, a volta a volta, delle diverse, contrastanti e non ancora svelate identità di separata e mobile consapevolezza, della suora, della scrittrice,
della guerriera e dell’amante. A differenza del Barone rampante non hanno qui una funzione e in un certo senso neanche un luogo, i paesaggi e gli ambienti, tranne quello ironico e irreale del mondo cavalleresco. La stessa Bradamante quando ci appare come suora che scrive nel convento, non ha in sé la realtà del convento. Il suo scrivere e disegnare e lo stabilire esplicitamente un colloquio con le pagine sono un modo e una forma di ricerca di identificazione. La intenzionale corrispondenza tra il correre della penna della suora nel momento dello scrivere e il correre finale verso l’amore di Rambaldo risolve il tema dell’identità di Bradamante e insieme il significato umano, quasi esistenziale, del cavaliere inesistente, già amato dalla monaca guerriera, che
ora viene diversamente ad attuarsi nella realtà di umana e identificata completezza dello stesso Rambaldo. La tradizionale immagine mistica dei cavalieri del santo Gral è smascherata e ridotta a un giuoco di potere e di prepotenza. Contro questo sfruttamento dell’assurdo e della follia si oppone, come sempre in Calvino, la ragione come umana iniziativa. Torrismondo scopre la prepotenza feudale del Gral, la combatte e aiuta i sudditi Curvaldi a liberarsi dall’oppressione. Lo scrittore si concede, nella sua ricerca e nella controllata spe-
ranza politica e storica, un diretto intervento più ancora illuministico che non puramente razionalistico: «Giunsero in Curvaldia. Il paese non si riconosceva più. Al posto dei villaggi erano sorte città con palazzi di pietra, e mulini, e canali». Rapidamente in questa concentrata prospettiva a proposito del nuovo paese Calvino sottolinea, pur in uno sfondo utopico e forse dominatamente ironico, due temi della sua ideologia umana e politica, quello dell’impossibile che diventa possibile — al limite persino del ricupero della follia di Gurdulù — e quello del valore come categoria e insieme come realtà: «Diventeranno tutti cittadini di Curvaldia, — risposero gli abitanti, —
e avranno secondo quello che varranno. — Dovrò considerare pari a me questo scudiero, Gurdulù, che non sa neppure se c’è o se non c’è?
4 Ivi, pp. 987, 999. 567
— Imparerà anche lui... Neppure noi sapevamo d’essere al mondo... Anche ad essere si impara...» !. Nel Cavaliere inesistente predomina un giuoco di proiezioni di personaggi verso modi nuovi di essere se stessi in un’esplicita consapevolezza del narrare. Nel Visconte dimezzato la follia di una possibilità realistica e anatomica dello sdoppiamento del Dr. Jekill e Mr. Hayde e del ricongiungimento viene inquadrata in una situazione esterna. Il racconto è funzionalmente affidato, con un criterio di lontananza e di moderato strania-
mento, a un ragazzo nipote del visconte, che accompagna le vicende con un interesse di puntualizzazione segnata spesso da una successione di periodi brevi. L’azione del personaggio, in questo caso delle due metà del visconte, una malvagia e una buona, trova un particolare significato di risonanza e di commento nella stranezza, se non follia, del mondo circostante. Il padre di Medardo, Aiolfo, che ha tradotto in follia la sua stanchezza delle faccende del mondo e la sua passione per gli uccelli, vive asserragliato in una voliera e muore di dolore per lo strazio che il visconte ha fatto della sua
amata averla !°. Prendono un posto in quella che Calvino chiamerebbe la mappa di questo racconto la differenza e l’affinità di stranezza, se non di follia, di due
diverse e isolate comunità. Accanto ai lebbrosi, considerati dagli abitanti del
luogo strani in quanto diversi, gli ugonotti, esuli dalla loro patria, sono astrattamente ugonotti, non seguono «nessuna regola di culto», né si fermano con i loro pensieri «su questioni di fede», simili in questo all’abate Fauchelafleur, mezzo giansenista del Barone rampante. Immersi nella volontà del guadagno, imposta quasi come un dovere, non fanno corrispondere alla loro gravità assorta in un pensare, che è soltanto un come se pensassero, nessun interesse di umana partecipazione;
sono anch’essi dimidiati !?.
Dopo aver ascoltato la violenta proposta e difesa del dimezzare e del dimezzato fatta dal visconte cattivo, il ragazzo narratore vede tutto il mon-
do circostante, e quindi gli stessi ugonotti, secondo questo segno: «Da qualsiasi parte mi voltassi, Trelawney, Pietrochiodo, gli ugonotti, i lebbrosi, tut-
ti eravamo sotto il segno dell’uomo dimezzato, era lui il padrone che servivamo e da cui non riuscivamo a liberarci» !*. Tuttavia anche prima del ri-
un
ia o
568
Ivi, pp. 1061, 1062.
i
Il visconte dimezzato, in Romanzi e racconti cit., pp. 376. 379-380. Ivi, pp. 396. Ivi, pp. 403.
scatto e della soluzione finale, alcuni personaggi si muovono secondo una linea diversa. Due donne, la vecchia balia Sebastiana e la giovane attraen-
te pastorella Pamela, rappresentano una possibilità di quell’umano che ogni volta viene riproposto nei racconti di Calvino come difficile punto di partenza e soprattutto di arrivo. Anche nel personaggio della metà buona, che appare in un secondo momento, si configura un difetto di incompletezza, soprattutto in quegli interventi, intenzionalmente buoni, che non tengono conto del complesso della realtà sociale: qualcuno può giungere a trovare che «delle due metà è peggio la buona della grama». Aspetti irreali e surreali e la condizione del dimezzato vengono proposti nel racconto per essere, dover essere, risolti e per riaffermare la necessità e la possibilità di
una soluzione media che viene insieme accolta e sofferta. Il nuovo visconte completo può portare il meglio, ma non «un’epoca di felicità meraviglio-
sa» !°. Nella struttura narrativa, seguendo la possibilità del passaggio dal simile al dissimile, della lateralità e della funzione di un personaggio laterale, Calvino si è valso del dottor Trelawney, inglesemente eccentrico. Ancora una volta la stranezza al limite della follia può trasformarsi nel senso della saggezza e di una razionale soluzione. Sarà il medico inglese, pur assurdo collezionista di fuochi fatui, a risolvere con il suo risvegliato inte-
resse per la scienza il problema delle due metà, dei due momenti del bene e del male che si uniscono. Calvino ha sentito vivamente non solo l’Orlando Furioso, ma la sua
stessa continua interpretazione di tutto il poema e, in modo insistente, della pazzia di Orlando. Nel suo racconto del poema ha trasportato, ma non soltanto, il suo profondo senso della figura umana. La follia di Orlando, che può oscillare nella memoria di noi lettori tra la furia distruttiva, anche se diversamente calcolata, del visconte dimezzato e quella di Gurdulù, non at-
trae Calvino tanto quanto la figura di Astolfo. Il cavaliere inglese, che ha l’anima ariostesca e insieme quella di Calvino, in questa partecipe e convinta ricostruzione porta in sé qualcosa del barone rampante: «l’anima ariostesca (questa presenza che non si lascia mai acchiappare e definire) è riconoscibile soprattutto in lui, esploratore lunare che non si meraviglia mai di nulla, che vive circondato dal meraviglioso e si vale di oggetti fatati, libri magici, metamorfosi e cavalli alati con la leggerezza d’una farfalla ma sempre per raggiungere fini di pratica utilità e del tutto razionali».
1% Ivi, pp. 435, 443.
569
Ma qualche elemento di follia, forse con uno spunto d’intellettuale autobiografia, Calvino l’ha riconosciuto anche nella tenacia tecnica e ricrea-
tiva del poeta, giungendo ad adoperare la parola folle: «Ariosto così abile a costruire ottave su ottave con il puntuale contrappunto ironico degli ultimi due versi rimati, tanto abile da dare talora il senso d’una ostinazione 0s-
sessiva in un lavoro folle» °0. Mentre nel racconto del poema la pazzia di Orlando era prospettata come momento chiuso ed esaurito, la ripresa e la riscoperta del paladino pazzo per amore nel Castello dei destini incrociati si muove secondo spostamenti diversi e nuove proiezioni. Il messaggio lanciato dalla carta del Matto propone un diverso valore della pazzia: Orlando «era disceso giù nel cuore caotico delle cose [...] al punto d’intersezione di tutti gli ordini possibili». Con una domanda di metadiscorso sul tramutarsi dell’immagine della Ragione nella Ragione del racconto ci si avvia verso un Orlando opposto a quello dell’ Ariosto e della prima interpretazione disegnata da Calvino, secondo un senso-nonsenso dato ora a questo diverso personaggio: «Nell’ultima carta si contempla il paladino legato a testa in giù come L’Appeso. E finalmente ecco il suo viso diventato sereno e luminoso, l’occhio
limpido come neppure nell’esercizio delle sue ragioni passate. Cosa dice? Dice: — Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro» ?!. Nell’impresa di Astolfo, in una dimensione separata da quella del buon senso di Carlo Magno e degli sviluppi della guerra, si offrono l’occasione e quasi la necessità di due immagini e di due proposte, anzi di due soluzioni del significato della Luna, sulla quale il cavaliere incontra l’ Ariosto intento a tessere il suo poema. Da una parte si vorrebbero vedere nella Luna «le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva...», dall'altra per 1’ Ario-
sto il satellite non è un «mondo pieno di senso», ma «è un deserto [...] da
2°
Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Torino, Einaudi,
1970, p. XIX; Una pietra sopra cit., p. 57. Sul fantastico calviniano cfr. Enrico Ghidetti, // fantastico ben temperato in Italo Calvino e Giorgio Bàrberi Squarotti, Dal «Castello» a «Palomar»: il destino della letteratura, in AA.VV., Italo Calvino, «Atti del Convegno internazionale», Milano, Garzanti, 1988, pp. 171-185 e 329-348.
2! I. Calvino. // castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973, pp. 33, 34. Durante la revisione delle ultime bozze è uscito il secondo volume dei Romanzi e racconti di Calvino, nell’edizione diretta da Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 1993, dove si possono leggere // castello dei destini incrociati, Le città invisibili, La giornata di uno scrutatore.
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questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie tesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un
orizzonte vuoto» ??, Nella Taverna dei destini incrociati la follia entra direttamente nel racconto e nell’azione; la situazione di una città moderna, costruita da un re
ottimista con i Denari circolanti e le Coppe dell’abbondanza si rovescia in un orrore di corruzione e di morte. La realtà di questo mondo, che il re non conosce, viene svelata dal Matto che può sapere come dentro le teste dei sudditi «conseguenti e esecutivi» si estendano le ombre della foresta: «La metropoli che egli ha sempre creduto compatta e trasparente come una coppa intagliata nel cristallo di rocca, si rivela porosa e incancrenita come un vecchio sughero ficcato lì alla meglio per tappare la breccia nel confine
umido e infetto del regno dei morti» . Lo scrittore non si contenta di questo significativo e funzionale rovesciamento, ma fa apparire come matti, in una storia di vampiri, il re e la regina nell’urto di uno stravolgimento che porta nella realtà vera e folle del mondo *. Nel dialogo tra Faust e Parsifal, nell’oscillare tra «il tutto e il nulla» si apre e si chiude nelle soluzioni proposte «lo spazio del niente» con l’ipotesi, sempre riaffiorante nello scrittore, della difficile ma possibile salvezza di una realtà: «attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è» *. L’ultimo capitolo, Tre storie di follia e distruzione, accompagna tre folli personaggi shakespeariani, re Lear, Amleto, Lady Machbet: partendo da uno spunto del drammaturgo a proposito di Amleto, ma qui anche degli altri due «matti», lo scrittore avverte che «in ogni nevrosi c’è del metodo e in ogni metodo, nevrosi». Il razionale Calvino sente in vari momenti e situazioni l’impegno di difendere se stesso e gli uomini dalla follia, tanto da adoperare in questo senso la parola «indifesi»: «Dove 1/1 Matto di professione è morto, la follia di distruzione che trovava in lui sfogo e specchio secondo codici rituali, si mescola al linguaggio e agli atti dei principi e dei
sudditi, indifesi anche verso se stessi» °°. Nella diversa difficoltà di domi-
22 Ivi, 2 Ivi, 24 Ivi, SIA
pp. 37-39. pp. 81-83, 85. pp. 85-88. D OT:
26 Ivi, pp. 116, 119. A proposito dei Livelli della realtà in letteratura in riferimento all’Hamlet shakespeariano, Calvino considera il rapporto tra la follia simulata e la follia vera e ricorda la vorticosa acrobazia della mente di Cleopatra nell’ultimo atto di Antony and Cleopatra (in Una pietra sopra cit., p. 311).
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nare la struttura compositiva, di fronte al minaccioso labirinto dei tarocchi
da superare e risolvere nelle pagine, Calvino si chiede in una sua nota finale: «Stavo diventando matto?» e ripete per sé il termine dell’ossessione che aveva adoperato per l’ Ariosto, da «ostinazione ossessiva» a «mi chiu-
devo in un’ossessione maniaca» ??.
Fino a che punto l’utopia e la follia si confondono? Fino a che punto Calvino ha sentito questo rapporto? Con una sua introduzione del 1971 alla scelta di opere di Fourier concludeva «un periodo di letture di e su Fourier, iniziato nel 1968». Questa attenzione coinvolge una serie di richiami a
quella cultura europea che guarda all’utopia, da Walter Benjamin a Michel Butor e a Roland Barthes, ricordati come elementi di collaborante inter-
pretazione. In uno dei suoi saggi sul Fourier, L’ordinatore dei desideri, Calvino si domanda, quasi al limite e alla possibilità della follia, «Era dunque
un matto, Fourier?» 2. Nelle sue replicate letture di questo utopista tende, pur nel tessuto della sua analisi critica, a fermarsi su alcuni punti che possono sembrare, se non congeniali, degni di attenzione. Chi tanto spesso ha indugiato, soprattutto in molte città invisibili sulla dimensione cittadina dei rifiuti, della spazzatura, rimane colpito dall’immaginaria, folle e insieme
precisa e funzionale proposta fourieriana delle Piccole orde: Ai bambini «che hanno il gusto della sporcizia» è affidata l’incombenza della nettezza urbana «per loro piacevole come un gioco». Lo scrittore del Novecento, scrutando la gamma di diverse dominate e utilizzate follie, sottolinea la prospettiva fourieriana delle manie che «diventano un legame prezioso per l’armonia generale», sino al «censimento delle manie». Attraverso aspetti così ottocenteschi, così a loro modo romantici, Calvino trova che «questo
capovolgitore del Settecento razionalista si rivela figlio del Settecento». Qualche anno dopo, nel 1973, rispondendo alla domanda dell’ Almanacco
Bompiani sul tema Utopia rivisitata, conclude il suo intervento con un’esplicita dichiarazione di allontanamento da Fourier: «ogni passo che
facevo era per allontanarmi» 2. Il richiamo all’anamorfosi che trasforma una rappresentazione figurativa costruita secondo precise regole prospettiche in un’immagine del tutto diversa, può contribuire alla lettura delle Città invisibili? I due interlocutori,
? #
Il castello dei destini incrociati cit., p. 127. Una pietra sopra cit., pp. 225, 230.
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Marco Polo e Kublai Kan, concludono un loro giuoco dell’assurdo, nel rischio di un compiaciuto oscillare tra l’essere e il nulla, sulle città che ri-
spondono isolatamente in una loro scansione a delle domande sulla situazione umana. L’ipotesi di un confronto si può raccogliere tra le due prospettive di Eudossia, quasi in una anamorfosi tra le vere proporzioni e la confusione: «Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nero-
fumo, l’odore del pesce, è quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio» *?. Per Sartre «il non essere non è il contrario dell’essere, è la sua contraddizione»*!. Nelle Città invisibili si fronteggiano e s’intrecciano, secondo una geometria cara a Calvino, l’assolutezza dell’essenza e la relati-
vità del possibile che può salvarsi e salvare il valore dell’uomo. A questa ansiosa ricerca delle città, evocate dopo l’approdo, apparentemente o temporaneamente conclusivo, al nulla, all’inferno dei viventi, che viene da molti accettato, si contrappone la possibilità di «saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» *?. Attraverso se non contro questo dialogo sulla interpretazione e sulla rivelazione dell’assurdo e degli assurdi umani, che si staccano e si isolano in queste città, la conclusione sul valore di un possibile chiede che si ricono-
sca il non inferno nel durare, nello spazio e nel tempo. Non solo la parola città, ma il tema e il problema che la parola richiama e indica per Calvino ritornano in diversi sfondi e quadri *. La storia di Marcovaldo si propone nel sottotitolo come Le stagioni in città. Al posto del molteplice riflettersi delle città che venivano guardate nella loro stessa costruita invisibilità, ne subentra una sola, unica
e moderna, commerciale e
industriale. Senza raggiungere l’intenzione e la tensione verso l’esplicito negativo di quella, degradata e folle, scoperta dal Matto nella Taverna dei destini incrociati, Calvino ha qui configurato in altro modo l’odierna situazione della città. La follia sottintesa e mostrata come ovvia in una grande
30 I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 103. 3!
Jean Paul Sartre, L'essere e il nulla, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 50.
32. Le città invisibili cit., pp. 129, 170.
;
33. Sulla città in rapporto all’utopia cfr. Una pietra sopra cit., p. 252: «Insomma l'utopia come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità d’immaginarla, di pensarla fino in fondo, città che pretende d’abitare noi, non d’essere abitata, e così fare di noi i possibili abitanti d’una terza città, diversa dall’utopia e diversa da tutte le città bene o male abitabili oggi, nata dall’urto tra nuovi condizionamenti interiori ed esteriori». Cfr. anche Gli dei della città, ivi, pp. 282-285.
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metropoli industriale e commerciale è rappresentata secondo il metodo dello straniamento. In Marcovaldo le due stranezze, quella del protagonista e quella della città s'incontrano e si scontrano. Marcovaldo sin dall’inizio si configura e si programma in quanto ha «un occhio poco adatto alla vita di città», come d’altra parte la città è poco adatta alla vita e all’occhio di Marcovaldo #. Calvino, che conosce e ricorda il principio di straniamento da Sklowskij a Brecht, chiede e vuole, come Brecht, che l’estraneazione deb-
ba sollecitare «a pensare e a prendere partito» °°. Ma nell’alternarsi di queste stagioni in città s’incrociano le due stranezze della vita borghese moderna del profitto, del consumo e della tecnica, e quella di chi appare sempre più strano, quasi in un particolare e significante succedersi e determinarsi di estraneità. Nel racconto delle vicende e dei fatti risalta in modo esemplare il capitolo La città tutta per lui. A un momento di concentrazione e quasi di sosta lirica per Marcovaldo che, rimasto solo in agosto percorre «le vie con zig-zag da farfalla», subentra un elemento negativo: una troupe televisiva alla ricerca affannosa dell’unico abitante di Ferragosto lo riassorbe nella città di tutti, nella città degli altri: «Agli occhi di Marcovaldo, accecato e stordito, la città di tutti i giorni aveva ripreso il posto di quell’altra intravista solo per un momento, o forse solamente sognata». Nella creativa molteplicità di trovate o invenzioni significanti si può giungere al paradosso dei figli di Marcovaldo che colpiscono con la fionda, per divertimento, una réclame luminosa. Invece di essere puniti vengono arruolati da una ditta concorrente perché continuino il giuoco di distruzione che, in tal senso, questa volta diverso, viene ad essere estraniato 5°.
Le due stranezze che si riflettono e si complicano l’una nell’altra, quasi in una contrapposta e rappresentata situazione di follia, vengono dominate dal creativo straniamento del racconto nei capitoli guidati e indirizzati dallo scrittore verso l’immagine di una città modernamente assurda. La giornata d’uno scrutatore secondo l’esplicito avvertimento dello stesso Calvino è «un racconto [...] più di riflessioni che di fatti». Amerigo
Ormea, scrutatore presso un seggio elettorale dentro il Cottolengo in rap-
# I. Calvino, Marcovaldo ovvero le stagioni in città, in Romanzi e racconti cit., p. 1067. Cfr. Maria Corti, // viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, pp. 185-200.
# Una pietra sopra la prosa, Torino, Einaudi, Milano, Mursia, 1982, pp. sklovskiana, in «Strumenti
cit., p. 316. Sullo straniamento cfr. Victor Sklovskij, Teoria del1976, pp. IX, XI, 13, 16-17, 22; V. Sklovskij, Simile e dissimile, 103-104; Donatella Ferrari Bravo, Per un lessico della poetica critici», febbraio 1973, 20, pp. 87-91.
36. Marcovaldo cit., pp. 1160, 1162, 1136, 1138.
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presentanza del partito comunista, affronta la diversa e difficile realtà del mondo di minorati fisici e psichici accolti in quell’istituto. Lo scrutatore non è qui un erede sicuro dell’illuminismo, ma mette in un rapporto problematico e sofferto la sua ragione, la sua ragionevolezza, la sua ideologia con questo mondo che rifiuta la forma e che, a un certo punto, incombe come «il solo vero» #. Il motivo e il metodo del possibile, così sollecitante in tutto Calvino nella direzione di un umano e personale realizzarsi, si rovescia ora in questa dimensione altra. Nel confluire e nell’inquietarsi di riflessioni si prospetta la diversa possibilità di tutto un mondo come il Cottolengo, al limite di un assurdo, ipotetico eppure urgente. Il richiamo autobiografico dello scrutatore, illuminista e storicista, non basta a risolvere il senso di una differenza che grava costantemente. Nondimeno Calvino rinuncerebbe a se stesso, a quella che è la proposta, sia pure inquieta, del personaggio, se proprio in rapporto a questo mondo, così raccolto e diverso nella stessa possibilità di autonoma interpretazione, non
facesse apparire il problema dell’essenza di una identità individuale. Il racconto attraverso questa esperienza dell’alienazione, mira a salvare l’identità del personaggio Ormea, non soltanto come scrutatore al Cottolengo, ma anche attraverso il contrasto con la sua donna Lia, che richiama quello di Cosimo e Viola nel Barone rampante. Dinanzi a questo mondo che raccoglie e, a suo modo, ricupera l’alienazione e l’assurdo, lo scrittore prospetta un raccontato e sofferto intreccio
di interpretazioni: quella che il convento e le suore danno agli alienati e sugli alienati, quella che Ormea dà a questo mondo e alla scelta delle suore e quella che lo scrittore dà del personaggio di Ormea. Paradossalmente la ricerca di una città umana, /a città dell’ homo faber, \’ homo faber che «vale
proprio in quanto non considererà mai abbastanza raggiunta la sua interezza», si conclude in questa «città nella città» che è il Cottolengo. Questa esperienza e questo tempo lungo, molteplice e difficile si risolvono nella clausola e nel sigillo finale nel momento stretto dell’ora, dell’attimo: «Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città» 58.
37 I. Calvino, La giornata d'uno scrutatore, Torino, Einaudi, 1963, pp. 97, 91, 32. 38. Ivi, pp. 95, 12, 96. Mi sia permesso ricordare, come prova di una necessaria continuità di lettura, i miei saggi su Calvino in Claudio Varese, Occasioni e valori della letteratura contemporanea, Bologna, Cappelli, 1967, pp. 209-232 e in Sfide del Novecento. Letteratura come scelta, Firenze, Le Lettere, 1992, pp. 213-253.
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FOLLIA, NEVROSI, LINGUAGGI IN MANGANELLI E SAMONÀ
1. «Accettate di esser chiamata nervosa: voi appartenete ad una famiglia splendida e miserevole, che è il sale della terra», dice solenne e commosso il Dottor Du Boulbon alla nonna malata nella Recherche, «Tutto ciò che abbiamo di grande ci viene dai nervosi: sono loro non altri, che
hanno fondato le religioni e creato capolavori. Mai il mondo saprà quanto deve loro; e soprattutto quanto essi hanno sofferto per produrlo. Noi gustiamo musiche delicate, bei quadri e mille squisitezze; ma non sappiamo quanto esse sono costate, ai loro creatori, di insonnie, di pianti, di risa spasmodiche,
orticarie, asme, epilessie [...] senza malattia nervosa non c’è
grande artista [...] ma non ci può essere neppure un vero scienziato» !. In queste parole è racchiusa tutta la moderna consapevolezza del sostrato nervoso della creatività, la coscienza dei presupposti nervosi di quell’affinamento della sensibilità e di quel potenziamento delle capacità d’analisi che presiede ad ogni opera d’indagine conoscitiva e di creazione artistica: la diversità dell’uomo creativo, artista o scienziato, che gli antichi vedevano posseduto da un furor divino o da un interiore «umor malinconico»
si traduce,
dal
romanticismo
in poi,
in un’identità
dominata
dall’acuirsi dei poteri percettivi, la cui origine è riposta nella maggiore ricettività nervosa alle impressioni esterne, con conseguente introspezione, introversione o nevrosi; nascono, parallelamente a questa presa di coscienza, personaggi caratterizzati da malattie nervose, in infinite varianti, che vanno dall’uomo del sottosuolo di Dostoevskij all’ Usher di Poe, al Des Esseintes di Huysmans, al Tonio Krôger di Mann, al protagonista ipersensibile della Recherche. Progressivamente si lacerano i veli della reticenza e della dissimulazione, verso quel «denudamento dell’anima» di cui parlò efficacemente
!
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto.
I Guermantes, Milano, Mondadori,
1978;p:S11-
DIA
Mario Praz. Nell’arte moderna, «parallelamente alla crisi dell’eroe in letteratura e al nascere dell’interesse per gli umili, i misconosciuti, i degradati, si solleva il velo anche sulle parti meno nobili dell’anima. Il melanconico della scena romantica [...] fa luogo ad un personaggio incerto moralmente [...] intellettualmente un estraneo alla società in mezzo a cui vive, senza
però aver l’energia d’un’aperta ribellione, o fa luogo [...] a un genere d’individuo ricettivo, che offre non più di una successione, sovente sconnessa,
di stati d’animo, come nei personaggi di Virginia Woolf [...]. Il nevrotico è di scena. «Io sono un uomo malato» — comincia il protagonista delle Me-
morie dal sottosuolo...» ?. Questo processo già accennato in Sterne e Rousseau, giunge a Freud e Joyce, coi quali si ha «l’ultimo denudamento» dell’animo. Un processo che va di pari passo con le indagini degli scienziati fine secolo sulle «malattie della volontà», o sulle «alterazioni della personalità», da Ribot, a Ja-
net, a Charcot, per citare i nomi più importanti che nutrono le indagini psicologiche di scrittori come Proust o Pirandello o d’ Annunzio. Dalla fine dell’Ottocento entrano nei romanzi i termini tecnici della psicologia e della psichiatria: si pensi all’analisi del carattere di Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte, o all’analisi della disintegrazione della personalità in Uno, nessuno, centomila. Ancora nel 1953 Tommaso
Landolfi dedica un
intero capitolo ad una semiseria citazione di passi dello psichiatra tedesco Kraepelin nel tentativo di fissare le proprie manie e ossessioni, attraverso le parole del vecchio scienziato monacense, nel suo diario-romanzo La biere
du pecheur. Col nuovo secolo si diffonde la psicanalisi, informando di sé una miriade di opere, entrando nel corpo stesso di alcuni capolavori, dalla
Coscienza di Zeno alla Cognizione del dolore, ispirando diari e romanzi analitici che gli scrittori conducono su se stessi (Gadda, Berto, Ottieri), dal freudismo di Saba al lacanismo di Zanzotto. Ma è soprattutto nei movimenti d’avanguardia che si ha un’esaltazione provocatoria della follia; contro convenzioni e pregiudizi borghesi ci si avvale del richiamo eversivo, polemico e apologetico nei riguardi della pazzia, vista come condizione distruttiva dell’ordine imposto, rivendicando i poteri di spontaneità, immaginazione creativa, liberazione dai ceppi della logica e della morale comune, offerti dagli stati nevrotici e soprattutto psicotici. Se alle soglie del romanticismo, nel Werther per esempio, la
? Mario Praz, Ja celoviek bol’noi, ovvero il patto col serpente, in Il patto col serpente, Milano, Mondadori,
578
1973, p. 542.
follia appare come un felice stato d’oblio dalla ragione verso fantasie illusorie ma piacevoli, come nell’episodio del contadino folle per amore, alle soglie del Novecento,
tra Futurismo, Dada, e Surrealismo, nasce un’im-
magine positiva della follia come immagine contestativa per eccellenza, come provocatoria liberazione dalle convenzioni borghesi. In Uccidiamo il chiaro di luna (1909) Marinetti inscena una invenzione strepitosa e veemente, immaginando gli incendiari poeti futuristi nell’atto di liberare i pazzi dai manicomi (il «Palazzo ricolmo di fantasia») e scagliarli, sul dorso di leoni, pantere e altri animali feroci, contro le sonnolente città di Paralisi e di
Podagra; affiancati dal rutilare dei flutti dell’ Oceano, il gruppo entusiasta e distruttore invade l’Europa e giunge fino sulla catena dell’Imalaia, dove i pazzi costruiscono aeroplani azzurri per farli «cullare sull’amaca del vento del Sud!». Al «mondo fradicio di saggezza» si oppone «la parola d’oro massiccio» con cui poter «vivere ancora venti secoli», la parola pazzia: «Siamo pazzi? ...evviva! Ecco finalmente la parola che aspettavo!», la parola che fa «saltare in aria tutte le tradizioni», che scaccia «dal nostro cer-
vello le lugubri formiche della saggezza». Essi sono i «Puri», «lavati già da ogni sozzura di logica». «Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi eruppero a migliaia, torrenzialmente, così da ringiovanire e ri-
colorare il volto rugoso della Terra» *. La liberazione dei pazzi dal Manicomio pensato da Marinetti (ma anche Palazzeschi chiudeva il suo manifesto // Controdolore: «12. trasformare i manicomi in scuole di perfezionamento per le nuove generazioni») ci richiama al personaggio musiliano di Clarisse, che per l’intero romanzo sogna di poter liberare il folle omicida Moosbrugger; ella pensa a lui come al «santo folle», falegname come il padre del Salvatore, mescolando a queste fantasie mistiche altre fantasie nietzschiane sul «pessimismo della forza» («Un’inclinazione intellettuale per l’orrido, il malvagio, il crudele, il problematico della vita?... E potrebbe la pazzia non essere necessariamente un sintomo di degenerazione?»)°. Nella visita al manicomio, Clarisse avrà visioni beatifiche e positive insieme ad altre grottesche: da lontano i malati le sembreranno angeli bianchi, di essi dirà indignata contro i medici superficiali e sarcastici: «I malati bisogna prenderli sul serio!» °. Alcuni di essi dipingo-
3 a cura di 4 5 6
Filippo Tommaso Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna, in Marinetti e il Futurismo, Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 1981, pp. 9-20 Aldo Palazzeschi, // Controdolore, in Marinetti e il Futurismo cit., p. 138. Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1981, II, pp. 948-949. Ivi, p. 950.
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no quadri espressionisti, altri quadri accademici, ma inoltratasi nel reparto agitati tutto diviene più drammatico, grida e pose sconce, derelizione e idiozia. Ma invano ella potrà esaudire il suo desiderio di vedere Moosbrugger. Il rispetto portato fino all’ammirazione, e un medesimo anelito di li-
berazione, è anche al centro di un racconto celebre come La corsia n. 6 di Cechov, dove il presunto pazzo è più intelligente dei presunti sani e le sue conversazioni col medico stoico e rinunciatario avranno il potere di attirare costui nella sala degli alienati, dove verrà per sempre rinchiuso. Ma dalla dignità e dal rispetto per il folle le avanguardie passano ad un’esaltazione provocatoria: «pazzo» è motivo d’orgoglio, dichiara Marinetti; nel suo manifesto sul Teatro di varietà (1913), conierà l’interessante neologismo fisicofollia, opposta alla psicologia che imperversa nel teatro tradizionale, esaltando l’azione, l’eroismo, la vita all’aria aperta, l’istinto e l’intuizione”.
Il Dadaismo contrapporrà alla logica e alla morale «un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere»: «uno stato di follia, di follia aggressiva e completa [...] la follia indomabile, la decomposizione» come scrive Tristan
Tzara nel 1918. Il Surrealismo infine farà della pazzia la condizione esemplare della immaginazione e della libertà; il «Primo Manifesto» di Breton esalta la follia: «“Resta la follia, la follia che si rinchiude” come è stato detto felice-
mente. Si sa infatti che i pazzi devono la loro prigionia a un piccolo numero di atti legalmente reprensibili e che, senza questi atti, la loro libertà [...] non sarebbe in gioco». Breton crede che essi «trovino un grande conforto nella loro immaginazione, che gustino tanto il loro delirio da sopportarne il carattere limitato a se stessi [...]. Io passerei la mia vita a provocare le confidenze dei pazzi» °. La condizione di sofferenza e di emarginazione cui conduce lo stato psicotico è qui ignorato nella pura esaltazione estetica dell’immaginazione senza limiti, concesse dal delirio e dall’allucinazione, nella pura esaltazione della libertà mentale dai legami della logica e dalle convenzioni sociali. È la posizione, che con alcune varianti, ritroveremo nelle Neoavanguardie degli anni ‘60, nella poetica di Giuliani, di Balestrini, del primo Sanguineti, nella
«poetica della nevrosi», di cui discorreremo più avanti, di Giorgio Manganelli.
?
ET. Marinetti, // Teatro di Varietà, in Marinetti e il Futurismo cit., p. 116.
8 Tristan Tzara, Manifesto Dada 1918, in Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 306. ° André Breton, Primo Manifesto del Surrealismo, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento cit., pp. 318-319.
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Una diversa sensibilità umana verso la dignità calpestata e oltraggiata del malato, privato di libertà personale, rinchiuso in un luogo simile «alla caserma, alla prigione, al bagno penale» '°, risuona invece nelle indignate parole di Artaud, nella sua Lettera ai primari dei manicomi, apparsa nel 1925 su «Révolution surréaliste», e nel tragico racconto di Cechov, dove il dottore umanamente partecipe del dramma del protagonista, rinchiuso per mania di persecuzione, con cui inizia conversazioni intelligenti e disperate, viene anche lui pian piano creduto pazzo e spinto nella prigione della sala n. 6, dove soccomberà, e ormai invano prenderà coscienza dell’immane dolore che uomini simili a lui hanno provato vivendo per anni, senza che se ne accorgesse, nella nera reclusione della corsia destinata ai pazzi. Un altro grande, poetico inno alla libertà del folle è nella figura del Nonno, nello straordinario Moscardino di Pea: vitale e iracondo, innamorato fino al delirio, grande celebratore della fecondità perenne della natura,
e della sua infinita libertà; folle per amore e gelosia ma dotato anche della saggezza d’un santo amante dell’inesauribile creatività dell’uomo e della terra; anticonformista feroce e contemplatore pietoso dell’umanità conculcata dei folli «belli e terribili» !!, delle loro sgargianti fantasie e delle loro cupe malinconie e dissipazioni. In perenne contatto con la primavera, al cui sorgere egli ritorna giovane, amante e furente di possesso, egli canta soprattutto l’anelito alla libertà e alla festosità dell’uomo immerso in una natura primigenia. Un’immagine felice di follia-saggezza che è il contraltare delle prevalenti visioni malinconiche e depresse di Pirandello e di Tozzi, dove la nevrosi e la follia portano all’isolamento, all’atonia, al vivere «con gli occhi chiusi», o all’autoesclusione, alla mania, alla morte.
Ma è soprattutto nelle avanguardie l’esaltazione incondizionata della follia, come forma di liberazione e di fuoriuscita polemica da tutte le nor-
me borghesi. E non a caso questo motivo tornerà nelle neovanguardie: l’accostamento provocatorio di letteratura d'avanguardia e linguaggio della follia ritornerà significativamente nella poetica dei Novissimi e del Gruppo 63. 2. A proposito di Laborintus è noto come Zanzotto definisse il linguaggio caotico e plurilinguistico dell’opera di Sanguineti, il risultato della «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso», e come l’autore del
10 Antonin Artaud, Lettera ai primari dei manicomi, in Franco Fortini - Lanfranco Binni, // movimento surrealista, Milano, Garzanti, 1977, p. 96. !! Enrico Pea, Moscardino, Torino, Einaudi, 1979, p. 50.
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poundiano poema allargasse la nozione di «esaurimento», facendo di essa la cifra di un «oggettivo esaurimento storico», alienazione in senso clinico e in senso marxiano !. La neoavanguardia degli anni ‘60, antinaturalistica e antimimetica, opera linguisticamente a favore del «disordine», sabotando
la comunicazione normale attraverso il rivoluzionamento del lessico, della sintassi e del verso stesso. La poetica del caos e dell’anarchia linguistica, lo straniamento del linguaggio dalle sue proprietà semantiche, è motivata anche da Alfredo Giuliani, nell’introduzione al volume / Novissimi, come «mimesi critica della
schizofrenia universale». Nella «visione schizomorfa» dei «novissimi» il critico assimilava il linguaggio della nuova poesia a quello della follia: «Il fascino dell’analogia è nondimeno quasi irresistibile per chi sa che le assurde tecniche dell’alienato sono tentativi mal riusciti di congiungersi con la propria ombra», cioè col fondo oscuro dell’inconscio. L’analogia tra poesia e follia è poi così spiegata: «[...] l'intelligenza che registra la dissociazione degli eventi mediante la distorsione semantica, le conseguenti stesure intrecciate del discorso, i giochi linguistici (neologismi, schizofasie), la similarità tra il linguaggio del sogno e l’espressione della psicosi [...] il linguaggio — sfida, il non-finito», tutto questo accosta il linguaggio della follia a quella degradazione dei significati in cui risiede il nucleo della poesia della neoavanguardia secondo Giuliani '3. Sempre sul piano della poetica, questa fusione ritorna anche nell’opera iperletteraria di Manganelli, lo scrittore forse più originale della neoavanguardia. Sebbene il tema della follia e della nevrosi non sia in primo piano nell’opera creativa di Giorgio Manganelli, tuttavia essa ne penetra la compagine in diversi modi: non solo l’ossessione mortuaria, la fissazione necrofila che tra burla e tragedia ricorre nelle sue pagine, disegnando il neognostico diagramma di una teologia del Nulla e della Morte, sontuosamente elaborata in trattati barocchi, ricchi di insuperate complessità retoriche; ma un’intera e originale «poetica della nevrosi» sottende il suo lavoro creativo: la convinzione che la letteratura sia non solo «menzogna», atto asociale, ci-
nico, artificio e linguaggio fine a se stesso, come scrisse nel famoso saggio La letteratura come menzogna, ma la convinzione, espressa lucidamente in
un meno noto intervento tenuto ad un convegno su Jung e la cultura europea del 1973, che la letteratura sia nella sua natura asociale, la compensa-
!? Edoardo Sanguineti, Poesia informale?, in I Novissimi. Poesie per gli anni ‘60, a cura di Alfredo Giuliani, Torino, Einaudi, 1977 ?, p. 202.
©
Alfredo Giuliani, Prefazione 1965 a I Novissimi cit., p. 7.
zione di ciò che la società reprime: questo concetto che egli trae da Jung, lo conduce poi ad affermare la natura notturna, intimamente nevrotica, oniri-
ca, infernale e maledetta della letteratura, rispetto al mondo diurno della ragione. Dal romanticismo in poi, egli afferma, lo scrittore «litiga» sempre più con la società, diventa sempre più difficile, oscuro, criptico: «Ed è proprio perché è nevrosi, che la letteratura è così essenziale alla cultura moderna, proprio perché è il suo sogno, il suo sintomo, la sua malattia». E rivolgendosi al suo uditorio esclama: «solo nella misura in cui siete in qualche modo nevrotici noi possiamo riuscire a capirci [...]. Spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualcosa da dirci». Cattiva letteratura è quella «da cui il sogno viene espulso, da cui viene espunto l’incubo, l’inconscio, la nevrosi notturna».
Il rapporto col pubblico e col lettore si instaura perciò solo sul fondamento nevrotico della letteratura, sul suo fondamento «infernale», come
infernali sono per l’autore la città in Dickens e il denaro per Balzac, scrittori solo apparentemente realistici, in realtà visionari. Tutti i veri scrittori
sono perciò maudits, «persone da sconsigliare, da rieducare — prosegue umoristicamente Manganelli — persone dispeptiche, velenose, narcisiste, irritabili». Inoltre la letteratura sta dalla parte della morte; lo scrittore «scri-
ve in una lingua morta», rifiuta la lingua del presente, per aprirsi al recupero del passato come all’anticipazione del futuro. In quanto infernale la letteratura «comporta un modo di produzione teologico»; la discesa e caduta di Lucifero, egli afferma, «potrebbe essere un’allegoria della delega teologica alla letteratura» in quanto Lucifero è colui che luminoso «scende ed è cacciato nelle tenebre». Infine lo scrittore è il fool della società, «il buffone di Dio» e il ri-
danciano derisore del potere e della morte, «colui che delira ma delira sensatamente [...] colui che comicizza la tragedia del re e della vita perché il
fool è molto vicino al punto di vista della morte» !4. Un intervento, questo che abbiamo riassunto, davvero fondamentale
per intendere lo scrittore e la sua originale concezione della letteratura come coscientemente fondata sulla nevrosi; qui «il ritorno del represso» che anche Francesco Orlando individuava come centro del discorso letterario,
traendolo dalle pagine freudiane sul motto di spirito ”, si riveste di un tono
!4
Giorgio Manganelli, Jung e la letteratura, in Antologia privata, Milano, Rizzoli,
1989, pp. 209-216. 15 Francesco Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi,
1973.
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assertivo e propositivo inconsueti, e di una spavalda oltranza d'avanguardia maledetta, da romanticismo infernale e notturno. Non meno interessanti, perché tipiche della sua produzione, le osservazioni sul carattere tenebrosamente «teologico» della letteratura, sul suo parlare «dal punto di vista della morte», sul suo essere assimilabile al delirio derisorio del fool. Anche nella sua bellissima opera prima, Hilarotragoedia (1964), Manganelli aveva dispiegato tutto il suo furor linguistico e teologico, sensatamente delirando del Nulla, della Morte e dell’Inferno («l’universo co-
me Ade»), esprimendo in modi paradossali, comico-grotteschi e sarcastici, elaborati trattati saggistici sulla natura «discenditiva» !° dell’uomo, sul suo compimento e destino nella morte. Ma aveva anche tracciato una ramificata e ossessiva riflessione sul tema dell’angoscia e dell’automorire, che ci riportano al discorso, non più di poetica ma tematico, della nevrosi nella sua opera. Inglobando e insieme deridendo il tragico delle filosofie esistenzialistiche, dall’heideggeriano «essere per la morte», all’angoscia di Kierkegaard e di Jaspers, Manganelli parla della natura «discenditiva» dell’uomo: il Nulla costitutivo della vita e la discesa di essa verso la morte, offrono oc-
casione per cataloghi di verbi di discesa, per un intero trattato di «balistica discenditiva», per osservazioni stravaganti, paradossali, continuamente divaganti, mescolanti il teologico e l’osceno: dove «L’angoscia si libera in letizia di esplosione» !”. A proposito del suicidio, «dell’automorire», egli potrà così scrivere che esso rappresenta la forma intrinseca e più vera del destino umano; in questi caratteristici modi, dotti e parodistici insieme: ma brevemente si consideri il gesto di chi si dirupa, si esplode, si disentragna, si scavezza, si scinde per bisturi di treno, si incianura e incianotica, si ciancica e disfa, si appende a ricordevole cappio, si scalca di efficiente coltello; oh costui non è uomo solitario ed estrinseco alla gamma dell’umano, ma unico adeguato,
suasivo, pertinente argomento di grammatica, paradigma, Labienus Romam pervenit per ottusi scolari, fraterno a noi tutti di lui partecipi, dell’amico coerente, delle sue membra disperse "8.
Si notino le iterate allitterazioni, la forma elencatoria, il gusto per neologismi e parole rare, dotte o al contrario di estrazione bassa, ed il tono tra-
16
G. Manganelli, Hilarotragoedia, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 7.
UN vip 20; 18 Ivi, pp. 18-19.
584
gicomico, ora elegiaco, ora ironico. L'universo è formato dai frammenti di un Dio morto ab aeterno («Dio sarà in ogni luogo, e vi sarà come male»), ed eterna è «la condizione di ir-
radiamento dei granuli dogliosi»; il tangibile universo non è che il «metamorfosizzato diomorto»: Si disfa, l’immortale, in quella altissima stanza in cui morì solo, e lì va mutan-
dosi in pulviscolo di malizioso dolore, in granuli, pepe e spezie di ambascia !°.
L’uomo,
angosciastico
o catalievitante,
non
è che «gastronomo
dell’universale decesso; esperto a riconoscere vendemmie d’agonie, e an-
nate di disperazione»; «idraulico, orologiaio, meccanico della macchina rugginosa» dell’universo che alla fine della sua vita «scatta nell’iperniente della ilare morte». Nel libro si trova poi un intero «Trattato delle angosce», articolato in «tre gradi di no, di estasi negativa, di catalevitazione», tre gradi di tenebre, tre gradi di morte, tre gradi di niente: l’angoscia titillante: «sommessa, ovvia, povera, non clamorosa», abitante nelle forme usuali, borghesi del vivere, nei matrimoni, nelle famigliole «coabitanti attorno a focolare di co_mune latrina», nelle canzonette «idiotissime», nei films, nei rotocalchi, ecc. Ad essa segue /’angoscia disrompente: «essa disrompe; scinde; réseca e stacca; e di iato, scissione, dicotomia, resecamento è scienza e coscienza; è
angoscia non già generica, ma affatto specifica degli addii, devota all’irre-
petibile individuale, alla sua effimera eternità ...» 2°, di cui si analizzano le diverse forme. Dopo varie altre divagazioni ed esemplificazioni teologico-grottesche, il discorso si conclude col terzo grado di angoscia, quella «estatica, o conclusiva», la quale porta «all’autocoscienza dell’universo come Ade»: qui il discorso si amplia in cosmica rappresentazione dell’«implacata brama di morire» dell’universo, dove le stesse «comete patiscono con velocissima furia la propria brama di morire», dove l’uomo si riconosce come Ade, come incarnazione dell’angoscia estatica, come il «dannato», il «demonio»,
«l’inferno» stesso. Segue una Postilla sul cervo suicida e sul suo discendere, sulla sua «delizia orrenda della scesa», sugli «Adediretti», sul loro
viaggio, sulla geografia grottesca degli Inferi, sui sobborghi dell’ Ade.
!9 Ivi, pp. 24-29. 20. Ivi, pp. 39-45.
585
L’universo come Ade è una «grande macchina carnale», un «animale grande e potente», punto terminale dell’universo come intestino, escremento o
buco del mondo. Fantastico e mortuario, comico e tragico, il trattato di Manganelli fonde le ipotesi più profonde della teologia gnostica con una costruzione retorica del linguaggio estremamente complessa, prediligendo le forme del catalogo, dell’elenco, dell’ossimoro e della metafora più ardita, sulla base di un lessico colto e neologistico, a volte letterariamente arcaico e raro. La forma prevalente del trattato saggistico accoglie al suo interno brani narrativi fondati su ipotesi concrescenti su se stesse. Il trattato sulle angosce fa di esse un uso particolare, essenzialmente
conoscitivo, portando l’angoscia alla coscienza dell’universo come Ade, «intuizione
quasi
taoista»,
scriveva
Calvino?',
dell’ Ade
come
buco
dell’universo; e a quella gnostica dell’universo come prodotto di un dio inferiore, dell’universo come male e inferno.
Dalle angosce del primo libro, Manganelli ha poi disegnato tutto un universo di stati nevrotici, incarnandoli
nelle situazioni fantastico-para-
dossali e metafisiche delle sue opere: in Agli dèi ulteriori per esempio, traccia un superbo ritratto di re ?? (nel primo dei sei racconti, o antiracconti per meglio dire, della raccolta), articolato in fantasie araldiche di aquile, leoni
e serpenti, che scaturisce dal delirio di onnipotenza di un personaggio avvolto nel buio della propria notte solitaria, delirio di grandezza che suscita dalla propria fantasia un intero mondo regale, un territorio di dominio, finché esso è messo in scacco dal futile suono di uno «zufulo», estraneo frammento di realtà non assimilabile alla fantasia delirante del protagonista. In Sconclusione, l’autore retrocede nel descrivere una situazione di terrore an-
cestrale, come quello del diluvio universale, che si abbatte per l’intera durata del libro su improbabili esseri umani, in realtà larve beckettiane incerte tra vita e morte («prenati», «rivivi», «rimorti», «premorti», «polimorti» ecc., dallo stato interamente «subesistenziale», «deesistenzializzato), indirizzando il libro, come
è detto nelle parole della sovraccoperta, a lettori
«mentalmente perplessi, cui dan di gomito incarognite allucinazioni, solleticati da incubi [...] i sommessi fòbici, i cerimoniosi delicati, i nevrotici
alteramente depressi» ?3.
586
2!
Italo Calvino, nella quarta di copertina alla I° e Il? edizione del libro (1964-1972).
7
G. Manganelli, Un Re, in Agli dèi ulteriori, Milano, Adelphi, 1989.
2
G. Manganelli, Sconclusione, Milano, Rizzoli, 1976.
Il libro vuol «incrementare e diffondere i disturbi mentali»; come in
un dadaistico gioco insensato e provocatorio, polemico verso ogni forma di letteratura realistica e ispirata a valori umanistici. Ciò che si raggiunge è un’alleanza inconsueta tra Nevrosi e Retorica, sintomi e fobie manieristicamente elaborate in agguerrite invenzioni formali. Parlando delle invenzioni lessicali dell’autore, Sanguineti non a caso isolava alcune voci dell’area «nevroticamente sintomatica [...] del tipo autoaffetto, autoconcezione [...] autodiscorso, autoformante, autogravidanza, autoincesto, autolettura, automorire» , tutte voci centrate su azioni di un io solitario e au-
tistico. In Centuria, nei cento brevi «romanzi-fiume», ricorrono personaggi austeri e malinconici, solitari e maniaci, oppressi da paradossali problemi metafisici e incongrui: uno di essi è «lievemente incline ad allucinazioni,
fantasie paranoiche, stati crepuscolari: insomma aveva una idea del mondo estremamente realistica e articolata» ?°. In lui è possibile riconoscere l’emblematico carattere dei personaggi improbabili di Centuria. Un altro, affetto da «una sorta di amore per la demenza», raggiunge, nella situazione assurda in cui viene a trovarsi (lui uomo «mite fino alla neghittosità»), quella di essere accusato di omicidio, raggiunge «uno dei grandi temi della sua vita: il conseguimento di una demenza oggettiva non solo la propria demenza, ma una demenza strutturale [...] Poiché lui, l’innocente, era stato
giudicato colpevole di omicidio, lui e nesun altro era la pietra angolare della struttura demente» *. Anche qui il paradosso scopre una verità, la demenza intrinseca all’uomo e al mondo, un mondo costantemente visto attraverso archetipi negativi, notturni, mortuari: il mondo come Ade, Inferno, diluvio, cimitero,
«palude definitiva», come suona il titolo del suo ultimo libro, visionaria catena di metamorfosi operanti su una palude limacciosa, unico spazio vitale e visivo dell’io narrante. Quest’uso negativo, o il ribaltamento negativo degli archetipi, è operante anche in Centuria: si pensi al racconto Novantatré, dove un uomo malinconico inventa «il cigno nero»; all’animale «elegante, taciturno, equoreo» egli ha voluto aggiungere l’idea di una «vedovanza putativa»; demiurgo malefico egli vuole «l’infelicità del mondo», di cui il cigno nero
24 E. Sanguineti, Hyper-Manganelli, in Giornalino secondo, Torino, Einaudi, 1979, p. 7.
2 G. Manganelli, Centuria, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 15-16. 298 IVI) Le
587
non è che uno «struggente esempio». Gnostica metafora della infelicità delle creature, voluta da un dio malinconico e malvagio ?’. Il racconto Ottan-
tasei, capovolge il significato di perfezione di solito attribuito alla sfera, facendo di essa una presenza persecutoria nei riguardi del protagonista, che cerca pazientemente di persuaderla a non esistere, a ricondurla al nulla; sfe-
ra dalla cavità priva di luce che lo colpisce ripetutamente, arrecandogli un dolore «opaco, tetro, lacerante» #. Nel racconto Ottantacinque, il protagonista prova al risveglio un continuo senso di «disorientamento», mentre solo nella notte era stato in contatto «con qualcosa di centrale»: «nella notte allucinata» era a contatto col «significato», mentre ora pensa «che il mon-
do in cui rientra ogni mattina sia semplicemente l’assenza di senso» ”. L’ispirazione notturna di Manganelli qui è espressa esplicitamente, il mondo diurno essendo per lui privo di senso, essendo prioritario quello che in questo libro è definito «il cimitero inquieto dell’inconscio». In Centuria prevalgono tuttavia le situazioni assurde e paradossali; la malinconia e il tono non più tragicomico ma prevalentemente serio della raccolta si accompagnano ad una semplificazione dello stile; il fantastico «mentale» e metafisico raccoglie al suo interno un senso di costante disagio, descrivendo rapporti e situazioni conflittuali, spesso letali. I brevi racconti, dal finale sempre centrato sul nulla o sulla morte, diventano piccole apocalissi del
quotidiano e dell’assurdo.
I
Come ha scritto Pietro Citati 5°, in uno dei migliori ritratti dello scrittore, il formalismo di Manganelli è solo apparente o la superficie del suo scrivere; il centro della sua ispirazione è altrove, nel magma della mania e dell’ossessione: «Da molto, non abitava tra noi uno scrittore posseduto da così violente ossessioni, da così tremende disperazioni, da così disumani
furori [...]. Non badate ai suoi giochi: più è dialettico, virtuosistico, capzioso e euforico, più la mania lo possiede [...]. Invece delle Forme, Manganelli coltiva l’Informe — la popolazione di ombre, di cose non-nate, di spettri [...] che assedia la sua scrittura. Invece del Tutto egli ci parlerà del Nulla», più di Shakespeare o di Poe o del suo amato Seicento. Dotato di
una «vocazione metafisica» come nessun altro scrittore italiano contemporaneo, egli la coniuga con «la buffoneria del clown» o con gli artifici del-
22 Ivi, pp. 191-192.
28 Ivi, pp. 177-178. 2
Ivi, pp. 175-176.
°° Pietro Citati, Ritratto di Manganelli, in Il sogno della camera rossa, Milano, Rizzoli,
1986, pp. 223-226.
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la retorica, ma al centro della sua vocazione metafisica non vi è più un Essere luminoso ma la morte di Dio. Soprattutto in Dall’'inferno, Citati vede questo furibondo gioco di maschere ossessive: «un momento oltre la vita e la morte», abitato da un in-
finito crepuscolo dove gli opposti coincidono, al cui centro è un indefinibile Io che dapprima esplora le proprie membra, le proprie cavità, poi si proietta al di fuori e si trasforma in una miriade di apparenze stravaganti o repellenti: bambola, sterco, animale con ali di talpa, città, macerie, funerale,
ecc.; una sarabanda di metamorfosi prive di gioia, ancora angosciose, come sarà nella sua ultima opera, La palude definitiva ?!, dove la visionarietà delle metamorfosi si attua su un orizzonte di miasmi, di nebbie, di ribollimenti
fangosi, di apparizioni misteriose, cimiteriali e cimmerie. Come scrive Citati, nei libri di Manganelli la perfezione della forma «ci opprime», il riso «ci angoscia». La sua arte «ci porta in dono l’inquietudine, la desolazione, lo sconvolgimento, il terrore» *?. Come nella letteratura barocca, in Manganelli il furor visionario e l’ossessione del Nulla si coniugano con la ricercatezza dello stile, dall’inventività espressionistica dei primi libri alla classicità degli ultimi: un Nulla popolato di fantasmi e di terrori, un «no elaboratamente tracciato» 5, come si dice in Agli dei ulteriori, dove la letteratura stessa è demenziale, come suona il titolo di un’altra sua opera metaletteraria, Discorso dell'ombra
e dello stemma o del lettore e dello scrittore considerati come dementi (1982). 3. Il trattato sulle angosce, la letteratura come
nevrosi e demenza,
l’ossessione del Nulla, il rovesciamento malinconico degli archetipi di perferzione, e ancora il mondo come palude, cimitero, Ade o Inferno, sono i
principali elementi del mondo notturno di Manganelli, il suo territorio di metamorfosi negative e di labirinti manieristici. In Rumori o voci * egli disegna un altro universo metamorfico e ossessivo, questa volta legato al variare continuo e persecutorio di un caos acustico, nel buio di una campagna solitaria e notturna. Qui egli incontra anche il linguaggio della follia e della demenza, esalato da quel misterioso mondo ctonio e pauroso, un susse-
guirsi di allucinazioni foniche che si presentano senza tregua, dando origine
3! G. Manganelli, La palude definitiva, Milano, Adelphi, 1991. 32 P. Citati, Ritratto di Manganelli cit., p. 226. 3
G. Manganelli, Un amore impossibile, in Agli dèi ulteriori cit., p. 107.
3 G. Manganelli, Rumori o voci, Milano, Rizzoli, 1987.
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a ipotesi e interrogativi senza risposta. Qui la demenza sembra sorgere dalla natura stessa, o da quello specchio dell’io che sono le cose circostanti, paesaggio, notte, caverne, ecc. La demenza come coro di voci senza senso riempie l’orecchio atterrito del protagonista, passivo ricettacolo di quel variare di voci o rumori inquietanti. L’ossessione acquista qui una qualità astratta eppure angosciosa, una dimensione fantastica, non psicologicamente motivata, ma oppressiva e ossedente: una paura e una follia ne sorgono, senza riferimenti esplicativi e reali.
È questa la forma ultima raggiunta dalla follia senza materia del «fantastico» ossessivo di Manganelli. Apparentemente agli antipodi, un racconto come Fratelli di Carmelo Samonà, si apparenta al narrare «nevrotico» di Manganelli, nell’assenza di cause e motivazioni attribuite alla malattia mentale del fratello. La sua follia tranquilla, quotidianamente sorvegliata e studiata dal fratello sano, si concentra quasi esclusivamente su impedimenti della parola e dei movimenti, che seguono una logica tutta particolare, con cui l’uomo che scrive cerca di entrare in contatto, di comunicare. Ne nasce un racconto sul linguaggio della malattia, e sulle possibilità di comunicazione che essa offre al linguaggio logico-verbale del sano. Non i furori omicidi sorgenti dalla miseria contadina dei personaggi di Pavese e Fenoglio e neppure la depressione da alienazione industriale dei personaggi di Volponi, Parise o Pagliarani, e neppure l’indagine psicanalitica sono presenti in Samonà. Il linguaggio della malattia mentale e il suo confronto col linguaggio della normalità sono il tema di fondo di un racconto così originale come Fratelli; in esso non vengono indagate la natura e le cause della malattia; di
essa è detto esplicitamente che è «l’incognita permanente» * a cui non si vuol dare un nome: scompaiono perciò riferimenti a motivazioni cliniche, sociali o anche solo psicologiche; la malattia è indagata nei modi delle sue espressioni e soprattutto nei tentativi di comunicazione che essa instaura col linguaggio della salute: di qui il carattere insieme «sofferente e astratto» 3° del racconto, per usarne un’espressione che riesce a definirlo per intero; di qui il suo aspetto insieme esistenziale, metafisico e metalinguistico. La ricerca dell’identità sfuggente del malato avviene attraverso il minuzioso referto del suo atteggiarsi, del suo comunicare, che sceglie non le
590
®
Carmelo Samonà, Fratelli, Torino, Einaudi, 1978, p. 8:
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forme logiche, ordinate e verbali del fratello sano, ma quelle opposte, scaturenti dalla fantasia e dal corpo, e perciò prevalentemente gestuali, fisiche, sensoriali, articolantesi in riti, giochi, rituali ossessivi e atti teatrali o anche solo accenni di danza, spostamenti e piroette nel vuoto silenzioso e attonito della grande casa in cui i due fratelli vivono soli. Le forme espressive del malato disegnano, in quello spazio ampio e afono che ha risonanze da pittura metafisica, frammenti di un linguaggio misterioso e perduto. Nel rapporto tra i due contano più che le poche parole antifrastiche, balbettanti e plurisenso del malato, i suoi gesti; la comunicazione è affidata al gioco, al
teatro, alla simulazione: giochi di spostamento verso l’alto o verso il basso, chiamati Grandi viaggi; messinscene teatrali nelle quali il malato gode nel capovolgere l’usuale trama, dando ai ruoli dei protagonisti caratteri opposti a quelli convenzionali: Don Rodrigo diventa buono, Renzo cattivo; spostamenti nella casa, perlustrazioni e diteggiamenti di oggetti alla ricerca di un significato profondo e nascosto; i contatti che nascono tra i due fratelli nell’atto in cui il malato è accudito, vestito, lavato. Il sano è per lo più il regista di queste messinscene comunicative in cui si cerca di penetrare nell’universo dell’altro, ma a volte è il malato che si fa avanti alla ricerca
del fratello: particolarmente sintomatico il capitolo in cui egli bussa tre volte alla porta della stanza del fratello, lanciando un segnale che allude forse, nelle interpretazioni del sano, ad un messaggio più vasto ma inafferrabile. Innamorato del gioco e del teatro, di tutto ciò che può dirsi linguaggio del corpo, il malato rifiuta il linguaggio logico-verbale dell’altro; alla fine del racconto egli saboterà il diario che il fratello va redigendo nel tentativo di conoscere e di tracciare un resoconto dei rapporti con lui: dietro quell’atto c’è il rifiuto tou? court della scrittura, dei segni verbali, e dell’ordine lo-
gico che essi impongono. Linguaggio del corpo e linguaggio della parola qui si scontrano apertamente; il racconto diventa anche una grande riflessione sui poteri comunicativi della corporeità di fronte alla debolezza del linguaggio logico-verbale. Non a caso mentre il malato si restringerà sempre più nel silenzio e saboterà, con piccoli furti di fogli, lo scrivere dell’altro, questi si sentirà sempre più stanco, invecchiato, incerto dei tempi, logorato nella memoria: quella memoria che dovrebbe restituire il reale profilo dell’altro e del loro rapporto. Il racconto si chiude tuttavia ancora sull’ansiosa ricerca di una verità nascosta nel malato: «Vi sono momenti in cui mi sembra d’essere vicino a uno spiraglio di verità, di cogliere una trasparenza simile a un significato intero. Mi concentro, in questi casi, e arresto ogni movimento. Sono come
sul punto di abbattere una cortina alla cui base mi sto scavando, a forza di
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unghie, un passaggio» #”. La dignità della malattia, la sua diversità insieme affascinante, oscura e defatigante, risiede nel suo possedere un codice di cui
è stata smarrita la completa mappa, come di un universo esploso, si dice in un punto, di cui rimangono vivi pochi frammenti, il balbettìo sconnesso del
fratello, o le sue poche frasi dal significato plurimo, a volte antifrastico. Il rattenuto pathos del racconto si è trasferito in questa volontà di comprensione di un linguaggio diverso e continuamente contestativo di quello logico: «Giochiamo al volo di Icaro», dice il fratello sano per ricordare per contrasto al malato l’idea della terra; i Grandi Viaggi non conoscono il «mondo orizzontale, stabile e piatto» del sano, ma aprono «fantasie di dimore sotterranee o volanti» 83, verso l’alto o il basso; il malato rifiuta la «Tabella del tempo» con cui il sano cerca di dare una regola e un ordine alla loro vita quotidiana; deforma gli intrecci della storia; si muove nello spazio della casa e in quello del teatro, rifiutando «i segni scritti e la corposità della carta e del libro», il quale diventa per lui solo un oggetto, «uno scudo, una panca, una ciotola...» 5. Le sue parole sono passibili di sensi diversi e opposti. Lo stesso fratello sano s’illude per un momento che il malato possa raggiungere la sua lingua «ufficiale e legalizzata dall’uso», ma poi anch’egli scopre che forse ha più valore nel loro rapporto «il lungo corteo di carezze, strattoni, manate sulle spalle e occhiate furtive che accompagnano le parole» ‘°. Il gesto e il corpo superano così le possibilità espressive della parola. La lingua «straniera» e contestativa del malato si esprime ancora in occasione dei «Piccoli Viaggi» nel parco vicino la casa: egli non si dirige verso i luoghi noti in modo diretto, ma si sposta per vie parallele e secondarie seguendo itinerari tortuosi e inspiegabili che ricercano forse una sorta di conquista di ubiquità, di presenza simultanea in più luoghi: «un itinerario diverso che inventa contro di me [...] per arrivare allo stesso luogo attraverso casi alternativi e imprevisti» “!. In queste escursioni all’aperto un nuovo elemento comunicativo entra in gioco: quello del dono. Doni improvvisi e semplici (una mela, una cintura, un bracciale), cominciano a pervenire al sano da una misteriosa donna che il fratello incontra nelle sue fu-
® Ivi, p. 108.
® Ivi, pp. 12-13. 9 Ivi, p. 19. SOIVITp1 28!
SUI vi p 54.
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ghe. Il linguaggio del dono, come quello del gioco, sposta verso dimensioni infantili e primitive il linguaggio dei due e insieme apre il loro chiuso rapporto verso un terzo personaggio enigmatico e polivalente. Ma il tema rimane il medesimo: l’incontro con «un nuovo dilemma linguistico»: «la cintura, la mela, il bracciale erano parti emergenti di un discorso nato [...] fuori dal mio controllo» “ — dice il fratello sano. Nel serrato referto di una quotidiana convivenza con il fratello malato, il racconto apre qui la sua filigrana «colta» e simbolica: lo scambio dei doni è segnale del regresso del malato, ma allude anche a forme primitive di comunicazione, indagate da Marcel Mauss, così come il linguaggio del corpo nel teatro richiama le forme espressive, primitive e orientali, esaltate, proprio di contro al logocentrismo europeo, da Artaud, Grotovski e altri maestri del teatro moderno.
Nel privato rapporto che lega i due, nella affannosa «ricerca dell’altro» che ne è motivo ricorrente, si apre un significato ulteriore: la lingua «straniera» del malato è quella nobile e primigenia delle origini, è la cerimonia o il rito di cui popoli antichi fecero uso come di forme comunicative, per scopi sociali, devozionali e artistici. Anche la donna è la depositaria di una forma particolare di linguaggio, «mobile e onnivalente», quello dell’affettività, che si esprime infatti nell’atto dell’abbraccio, un linguaggio che il fratello sano interpreta come avente una «potenza pari a quella delle nostre due lingue sommate» “: la donna è quindi una figura materna, concilia i contrari linguaggi dei fratelli e ha anche il potere di porli in contatto con gli altri, con la folla. Ma la sua figura, la sua professione, la sua identità, rimangono sfocate nella memoria del fratello che scrive; l’episodio più importante a lei legato, quello della morte del cane zoppo, è avvolto in una fitta nebbia di incertezze. Le incertezze si accrescono nelle ultime pagine del racconto anche nella mente del fratello sano: il racconto si chiude a cerchio, si ritorna negli spazi silenziosi, assorti della casa vuota, ma il tempo è trascorso, egli si sente più debole, ha meno sicurezza e autorità sul fratello malato, il suo scrivere e ricordare è lacunoso e sabotato dall’altro, l’or-
goglio della sua mente lucida e del suo linguaggio logico cedono. Nasce tra loro un litigio e la fuga e il silenzio del malato. La vicenda narrata si conclude su una nota di più profonda malinconia, ma l’ansiosa ricerca di senso continua ininterrotta, indefessa. In questo libro di grande intensità espressiva, intonato su un lessico e una sintassi «alti», composti, intellettualmente
denso e stratificato, me-
4 Ivi, p. 69. 43 Ivi, pp. 74-75.
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taforico e colto, ragione e malattia s’incontrano per misurarsi e comprendersi: alla fine l’accanita volontà di comprensione e l’identità stessa della ragione s’indeboliscono, quasi parificandosi o addirittura soccombendo di fronte al potere espressivo della malattia e del corpo. Una reciproca «pietà» ne nasce, come ha osservato Pampaloni ‘*, il riconoscimento della dignità
della malattia e insieme la scoperta della debolezza della ragione. Se la logica del sano governa lo scrivere dell’autore, eguale valore e importanza sono assegnati alla fisionomia della malattia mentale. Tuttavia, come os-
serva Pedullà ‘, «è finita l’illusione cara agli anni Sessanta che la malattia mentale sia uno stato migliore della salute [...] o almeno uguale». Al tempo stesso «lo scrittore, che non deve essere mai stato tanto ottimista da stimare uguali malattia e salute, si rifiuta di considerarli incomunicabili...». A differenza dei romanzi di Volponi, Malerba, Sanguineti, che rac-
contavano la storia dalla parte del malato, del folle, scoprendo, attraverso il loro sguardo eccentrico e anormale, «le mistificazioni dell’ordine, della ragione, dell’ideologia della storia» (dice ancora il critico), Samonà raccon-
ta nell’ottica intelligente e partecipe, acuta e dolente dell’uomo sano che vuol accostarsi ad un mondo diverso, con la volontà di capirlo, ma non ne
fa un mezzo per indagini o allusioni ideologiche o sociali. La malattia, come la salute, sono semmai un linguaggio da decifrare nel corpo di una identità umana da conoscere e comprendere e amare. Il «primato» della ragione, che inizialmente aveva guidato la sicurezza interpretativa del fratello che scrive, alla fine vacilla, stancato dal
tempo e dalla opacità del linguaggio dell’altro. «La ricerca dell’altro», tema costante del libro e delle stesse scene teatrali che i due interpretano, si conclude con una incrinatura di certezze: «Qualcosa di tragicamente inetto sfibra tutte le lingue di cui siamo inesorabilmente malati e contagiati», ha scritto Alfredo Giuliani, traendo il senso ultimo di questo racconto «di
rara eleganza intellettuale» ‘°, limpido e complesso, musicale e concettualmente profondo, che descrive la malattia, senza apologie d’avanguardia, nella sua sofferenza e nella sua dignità.
4. Geno Pampaloni, Modelli ed esperienze della prosa contemporanea, in Emilio Cecchi-Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana, X, Milano, Garzanti, 1987, II, p. 683. # Walter Pedullà, L'altro c'è ma non risponde, in Miti, funzioni e buone maniere di fine millennio, Milano, Rusconi, 1983, p. 315. * A. Giuliani, Prosa musicale per un ragazzo malato, in Autunno del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 100.
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RAFFAELE MANICA
CELATI, LA FOLLIA SERENA
Alla prova inaugurale di Gianni Celati,
Comiche, ha fatto seguito una
terna di romanzi che, da dopo, si è mostrata essere una trilogia, accolta sot-
to il titolo di Parlamenti buffi, per la quale si è avviata presto la consuetudine definitoria di «primo Celati» in contrapposizione all’altra trilogia (per conseguenza di un «secondo Celati») dedicata ai dintorni e alla foce del Po. Un Celati comico contro un Celati che, meditando intorno a una nota di
Wittgenstein su Frazer («Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana»), andava dissodando il linguaggio filtrandolo delle mitologie che vi
si erano accumulate |. Per di più lo stesso scrittore aveva fatto correre sotto i suoi testi una specie di autocommento per interposti fatti: così che se Finzioni occidentali, in una serie di saggi, diventava autoesegesi per Parlamenti buffi, vari scritti, sparsi per adesso in più sedi, danno conto della messa a fuoco intorno alla trilogia padana. Ha senso una simile contrapposizione? Ha senso dentro la scrittura di Celati? Da una parte la virata sembra di certa evidenza; dall’altra si deve pur dire che i Parlamenti buffi sono invece leggibili, a partire da dopo, secondo una chiave che rende la contrapposizione più incerta. Diventa addirittura improbabile, questa contrapposizione, se vista dal punto in cui i Parlamenti buffi sono diventati tali. Nel raccogliere sotto un unico titolo Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri e Lunario del paradiso, Celati
ha cambiato quattro cose: ha aggiunto una dedica a Calvino (il mentore au-
! Ludwig Wittgenstein, Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, Milano, Adelphi, 1975, p. 19 e cfr. p. 27. Per le due citazioni che seguono, p. 20. Un ampio uso di queste note di Wittgenstein da parte di Celati in Lo stregone quotidiano e Sciamani d'amore, in «Il manifesto», 23 e 30 aprile 1989; il secondo di questi articoli dedicati alla Storia notturna di Carlo Ginz-
burg termina con una citazione dai Pensieri diversi di Wittgenstein (Milano, Adelphi, 1988, p. 22). Note e Pensieri sono per più versi da considerarsi cruciali in Celati, come si vedrà.
595
tore di una trilogia fantastica); ha parzialmente riscritto Lunario del paradiso; ha generalizzato con sottotitoli i sensi dei tre romanzi; ha premesso un
Congedo dell’ autore al suo libro”. La dedica a Calvino aveva avuto un precedente con Nuovi preamboli, premessa a una nuova edizione delle Finzioni occidentali 3, Calvino, da
quei saggi, scrive Celati, si aspettava «che lo aiutassi a interpretare nuovi segni che erano nell’aria, e che lo stavano portando a prendere qualche distanza dal suo passato». La curiosità di Calvino sarebbe restata inappagata; per Celati, infatti, l’ultimo saggio di Finzioni occidentali fu anch’esso un congedo «dal terreno delle spiegazioni e del delirio di consapevolezza, dove nessuna tradizione può trovare un buon ascolto». Però se Calvino si aspettava «qualcosa di diverso», per Celati quei saggi funzionarono proprio in quel modo: il «terreno delle spiegazioni» che si abbandonava («La spiegazione è troppo incerta rispetto all’impressione che ci fa l’evento descritto», annotava ancora Wittgenstein) era tuttavia un punto dal quale partire; e infatti, nel concludere Nuovi preamboli, così Celati scriveva:
Qualsiasi cosa facciamo comincia prima di noi, noi continuiamo uno svolgimento. In certi momenti c’è qualcosa nell’aria, che arriva come un suono, nel
sentito dire in cui viviamo immersi: e questi sono incontri avventurosi, o piccole forme di risveglio, o l’annuncio della nostra sorte.
Questo congedo dall’autocommento di Parlamenti buffi, appunto Finzioni occidentali, porta la data del maggio 1986. Nell’anno precedente, dopo un silenzio quasi totale durato sette anni, era uscito Narratori delle pianure, ovvero gli «incontri avventurosi» di cui dicono i Nuovi preamboli; del 1987 saranno le «piccole forme di risveglio» di Quattro novelle sulle apparenze («filosofiche e comiche, quattro ipotesi di risveglio» recitava la quarta di copertina, e si terrà per decisivo il sinolo di filosofico e comico, ponte fra le due trilogie); del 1989 è «l’annuncio della nostra sorte», i rac-
conti di «osservazione» di Verso la foce. Lo svolgimento continuato dagli incontri avventurosi, dalle piccole forme di risveglio, dall’annuncio della nostra sorte era cominciato prima di
? Diamo qui i recapiti dei volumi di Gianni Celati secondo l’ordine di stampa: Comiche (1971), Le avventure di Guizzardi (1973), Finzioni occidentali (1975, nuova edizione 1986), La banda dei sospiri (1976), Lunario del paradiso (1978) tutti Torino, Einaudi; Nar-
ratori delle pianure (1985), Quattro novelle sulle apparenze (1987), Verso la foce (1989), Parlamenti buffi (1989) tutti Milano, Feltrinelli.
3? G. Celati, Finzioni occidentali cit., pp. VII-VIII.
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Celati: poggiava soprattutto su due libri di Calvino, Le città invisibili (a Parigi, scrive Celati sempre in Nuovi preamboli, Calvino «mi ascoltava un po” come il Gran Khan nelle Città invisibili ascolta Marco Polo. La sua attenzione per ciò che pensavo e andavo scrivendo ha orientato la mia vita») e Palomar. In un saggio sull’ultimo libro narrativo pubblicato da Calvino in vita, Celati (Wittgenstein: «Ogni spiegazione è un’ipotesi») scriveva: Palomar è un insolito esempio di prosa italiana in cui il sapere non serve per smerciare giudizi sul mondo, ma a costruire un racconto sulla fragilità d’ogni spiegazione del mondo esterno di cui disponiamo.
Questo l’avvio, ma il saggio intero, Palomar, nella prosa del mondo,
è di quelli da mettere a fondamento per la conoscenza della trilogia padana, per andare oltre la sua soglia ingannevolmente agevole, per passeggiare dentro le sue pagine come il personaggio di Walser o come Walser stesso
secondo Seelig “. À questa passeggiata servirà anche uno scritto su La veduta frontale. Antonioni, l’ Avventura e l’attesa, del 1987. Senza L'avventura di Miche-
langelo Antonioni, osserva Celati, sarebbe stato impensabile per esempio il cinema di Wim Wenders e di Jim Jarmusch: [...] e sono impensabili molti altri film e racconti in cui i tempi descrittivi lenti, i tempi dell’indugio senza aspettative, hanno trovato ammissione. È qui che si fa avanti una forma di comprensione epocale, come un modo d’attesa non più in balia delle aspettative, non più ingannato dalle aspettative [...]. /L'avventura in altre epoche è stata appunto una corsa tra i pericoli per ingannare il tempo, per ingannare l’attesa attraverso le aspettative prodotte: ma cosa avviene quando il tempo si fa avanti come qualcosa che non può più essere ingannato? [...]. /La veduta frontale consente indugi senz’ansia, che spesso sono proprio tempi morti sul filo della narrazione. La veduta frontale sfrutta le simmetrie ortogonali, e perciò risulta un modo ordinato e semplice di guardare le cose [...]. / La veduta frontale è essenzialmente la scelta di una bassa soglia di intensità, d’un modo di narrare che evita le eccitazioni, e riporta tutto a un pacato uso della rap-
4 G. Celati, Palomar, nella prosa del mondo, in «Nuova Corrente», 1987, 100, pp. 227-242. L’itinerario che da Nietzsche a Rilke (Celati ha tradotto l’ottava delle E/egie duinesi: si veda l’intervento di Enrico Palandri in AA.VV., Sul racconto, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 1989, pp. 101-102) e da Walser a Handke si rintraccia in Celati è stato suggestivamente ri-
costruito da Generoso Picone, Da Walser a Celati. Materiali per un’ecologia dello sguardo,
in «Grafica», 1989, 8, pp. 9-16.
SON.
presentazione. E ciò a differenza della veduta obliqua o di scorcio, che ha sempre un’aria di instabilità, e perciò introduce aspettative che annientano la forma semplice del guardare, l’indugio e la sosta senz’ansia [...]. Ciò che l’attesa aspetta è lo svelarsi del tempo [...]. Sono appunto i tempi morti, gli sguardi o gesti d’indugio senza meta, la fissità delle vedute frontali, a riaprire per noi questa comprensione.
È in questo punto che Celati si contrappone a se stesso: le vedute di scorcio, il montaggio e il narrare eccitato di Parlamenti buffi contro la veduta frontale e la bassa soglia di intensità; le aspettative contro gli indugi senz’ansia. Senonché, passeggiando sulle rive del Po, Celati si continuava, continuava uno svolgimento cominciato prima di lui dal Calvino di Le città invisibili e Palomar, diventava quello che cammina rispetto a quello che sta fermo, secondo i termini di un apologo di Lino Gabellone,
a fianco
dell’amico fotografo Luigi Ghirri; ma la veduta frontale gli era chiara dall’aver avuto la veduta di scorcio, l’indugio senz’ansia dall’aver narrato con eccitazione, la bassa intensità dall’alta intensità. Il Congedo dell’ autore al suo libro è la descrizione di una saldatura,
non l’ipotesi di una frattura. C’è, fra i Parlamenti buffi e la trilogia padana, una zona nella quale il passato continua a parlare e il futuro comincia appena, quelli che sono sette anni di silenzio — dove si poteva credere che Celati fosse in preda a quella che Osvaldo Soriano ha chiamato «la sindrome di Hammet» (poco o nulla oltre The Maltese Falcon ) — e che invece anni proprio di silenzio non sono, se in essi «la sindrome di Hammet» è stata, per Celati, la meditazione intorno al caso Flitcraft: Un certo Flitcraft scompare senza lasciar traccia: era un benestante, tutto gli andava bene, non aveva debiti, e un giorno scompare mentre va a far colazione. Dopo anni il detective Sam Spade lo ritrova, e Flitcraft gli spiega cos’è successo. Mentre quel giorno andava al ristorante, per strada gli è cascata una tra-
ve davanti, sfiorandolo. In quel momento Flitcraft si è sentito esposto a ciò che c’è là fuori, indifferenziato e accidentale, senza più la garanzia delle categorie rassicuranti, ed ha deciso di andarsene e cambiar vita. Quando il detective lo ritrova, Flitcraft ha un lavoro, una moglie e delle abitudini quasi identiche a quelle che aveva abbandonato. E questa, dice Sam Spade, è la parte più interessan-
°
G. Celati, La veduta frontale. Antonioni, l’Avventura e l'attesa, in «Cinema & Ci-
nema», 1987, 49, pp. 5-6. ° Lino Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina, in «Nuova Corrente» 1986, 97, pp. 27-31.
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,
te della storia. La trave che cade è il piccolo evento che altera per un attimo le pareti lisce del reale già dato. Ma in effetti non altera niente, né il reale già dato né il fatto che io mi confondo in esso. Altera solo la curva parabolica
dell’esperienza”. Questo racconto di Dashiell Hammet, che sta in The Maltese Falcon,
così come è stato percepito e descritto da Celati dà conto di come l’alterazione della curva dell’esperienza riporta ad esperienze precedenti mutate di segno e di senso. La trave che cade sfiorando Flitcraft è un evento dentro la sua esperienza, la separa nelle forme in cui capita, ma la fa ritornare su se stessa, fa vedere quel che fu da un’altra angolazione (quel che permette la veduta frontale è pur sempre una ripresa obliqua, o di scorcio). Così come, di fronte a una foto di Ghirri, Celati può commentare: Quanto più lo spazio diventa caotico, pieno di pali e cartelli e costruzioni, tanto più rispunta l’ordine illusorio delle simmetrie ortogonali. Rispunta nel modo in cui si dispongono i cartelli stradali, le linee pedonali, le casette geometrili lungo le strade, i giardinetti prefabbricati, in epidermici giochi di geometrie come in nessun’altra parte del mondo*.
Perché lì si è, e quello è il punto che non assomiglierà mai a nessun altro. Lì la trave è caduta. Quel che si dice nel Congedo è «l’arte del fiato perso». Collegandosi alla tradizione della macaronea folenghiana e a quella dei buffi di Ruzzante, Celati chiama quest’arte con il nome di «parlamento»; ma il «parlamento» è anche una forma affabulatoria di congedo, come il «Parlamento de lo auto-
re al libro suo» di Masuccio Salernitano. Un gusto del «parlare per parlare»: [...] l’autore ha voluto chiamare parlamenti le scritture raccolte in questo libro. Parlamenti di tre personaggi che recitano le loro storie: il che non avviene sen-
7
G. Celati, L'avventura non deve finire (conversazione con Luca Torrealta
e Mario
Zanzani), in «Zeta», 1988, 10 [pp. 35-43], p. 39. Della «sindrome di Hammett» in Celati a proposito della pausa fra Lunario e Narratori avevo parlato in un precedente scritto: cfr. Raffaele Manica, La pianura e la frontiera di Ce-
lati, in «Altri termini», 1985-1986, 3-5, pp. 35-44 (poi in R. Manica, Discorsi interminabili, Napoli, Altri Termini, 1987, pp. 49-56). 8 G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in Luigi Ghirri, // profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano. Testi di Gianni Celati, Milano, Feltrinelli, 1989 [pp. 5-11], p. 3.
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za un grande spreco di fiato, e ben poco costrutto, a parte il benedetto ridere che fa bene?.
Il Congedo invitava, come in una canzone, il libro ad andarsene per il mondo, ma il senso del libro appariva anche come il congedo da un’idea dell’infanzia, se i sottotitoli delle tre parti rimandavano alla Storia d'un senza famiglia per il Guizzardi; al Romanzo d'infanzia per La banda dei sospiri; alle Esperienze di un ragazzo all’estero per il Lunario. Sicché, ora, il Congedo era da un Bildungsroman e per questo il libro era invitato ad andarsene per il mondo, senza più nessuna protezione. L’autore-padre lo aveva infine visto pronto per staccarsene e, congedandosene, evitava quel difetto di cecità che perlopiù domina i rapporti fra ragazzi e adulti nei romanzi di formazione e che, in Parlamenti buffi, è motore di tutta la narrazione. Anche in Parlamenti, infatti, il non capirsi fra ragazzi e adulti era la causa del conflitto, non il suo effetto !°. I protagonisti delle singole ali del trittico si erano fermati sull’abisso, in lotta con gli adulti; tentando di re-
golare i rapporti, li avevano visti come questioni muscolari, tutti legittimati dalla forza del costringere. Le singole attese erano cresciute di pagina in pagina, apparentemente deliranti, ma delirio vero stava dall’altra parte, in
quella che Celati ripetutamente chiama la «scena isterica» degli adulti !!, col loro roteare di occhi, col rifiuto di intendere «a nessun costo per la [...] ben nota prepotenza che non ammette repliche» !?, con la divaricazione fra pretese e necessità nel sesso, con le fissazioni da cibo e da sporco, con l’in-
vasione di spazi fisici e più mentali, ovvero «quella minima libertà di fare le sue cose da solo che uno
anela e soffre non
avendocela» !3. Invece,
all’uscita delle Avventure di Guizzardi, la prevista, prevedibile sconfitta non
° G. Celati, Congedo dell’autore al suo libro, in Parlamenti buffi cit., pp. 7-9. !° Sul mondo dei ragazzi contrapposto a quello degli adulti in letteratura si veda Franco Moretti, Kindergarten, in Segni e stili del moderno, Torino, Einaudi, 1987, pp. 164-194 (dei concetto di «cecità» a p. 182); dello stesso Moretti, // romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986.
!!
Per esempio, in Guizzardi (in Parlamenti buffi cit., pp. 14, 29, 31, 32, 36, 43). In Su
Beckett, l’interpolazione e il gag (in Finzioni occidentali cit., p. 56), Celati osservava: «Sappiamo che lo spettacolo isterico presuppone la presenza dell’altro, senza il quale la gesticolazione d’appello, di richiamo, di scongiuro, di rivolta e di esibizione perde significato. Ma nel nostro caso dobbiamo operare una riduzione analogica dal modello psicopatologico al testo». L’avvertenza finale vale anche qui.
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G. Celati, Parlamenti buffi cit., p. 29.
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c’è e quella che era stata pronosticabile follia si ricompone in un ordine di diversa sanità. Congedato il figlio, il padre-Celati si mette (può finalmente mettersi) a pensare ai fatti suoi; ma il congedo è al contempo la rescissione dei legami col corpo, l’avvisaglia di un percorso che finalmente dia conto di cos’è la presa di contatto con la cosiddetta realtà. AI sabba seguiva l’estasi: «i limiti dell’individuo» — si è chiesto Celati sulla scia di un’interrogativa di Simmel — non stanno «certo nella superficie del suo corpo» *. Il problema è come possa interpretarsi l’espressione «uscire dal corpo», per la quale si fa riferimento sia a esperienze d’amore che a casi di pazzia, eventi per i quali non soltanto la scienza moderna è inadatta a dar risposte, ma sui quali, anzi, si misura la «miseria della rappresentazione realistica moderna» . Per quel che riguarda, per esempio, l’area dello sciamanesimo tradizionale ma anche occidentale («Come ci ri-
cordano Dante e Giordano Bruno, tra gli altri, è poi l’amore ciò che produce le immagini della mente, l’immaginazione che parla in noi di eventi meravigliosi o favolosi») il problema supplementare è dove porre l’idea di «Spirito», se idea è. Ancora una nota di Wittgenstein mette sulla strada del-
le riflessioni: «La civiltà passata diventerà un mucchio di rovine e alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno gli spiriti». Se è vero che quest’affermazione di Wittgenstein assomiglia molto a quella di Walter Benjamin nella nona delle sue Tesi di filosofia della storia (dove è la perorazione a far marciare stretti materialismo e teologia), l’oscillazione resta quella fondamentale: come accordare le rovine del corpo, siano esse la cenere di Wittgenstein o le macerie di Benjamin, con l’angelo o lo spirito che sopra vi aleggiano. In un articolo benjaminianamente titolato L'angelo del racconto Celati si dà una soluzione nell’uso della «narrazione come ascolto del mondo,
ascolto del mondo attraverso le parole che ne parlano». Perché ciò sia possibile è necessario che quel che si dice sia riferibile da parola, che anche lo spirito e l’angelo, in buona sostanza, siano qualcosa di cui si possa parlare; altrimenti, conseguentemente all’ultima affermazione fondamentale del Tractatus wittgensteiniano, potrebbe esserci solo il silenzio: «l’immagina-
14 G. Celati, Lo stregone quotidiano cit. Da questo articolo per «Il manifesto» anche le citazioni immediatamente seguenti. 15 G. Celati, Sciamani d'amore cit. In questo articolo ia citazione seguente da Wittgenstein, qui ricordata alla nota 1. Le parole di Benjamin si leggono in Angelus novus, Torino, Einaudi, 1981, p. 80.
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zione — scrive Celati — è la nostra via di accesso a ciò che chiamiamo mondo, ossia tutto l’insieme degli eventi e dei fenomeni e stati di cose che per noi (umani) hanno senso, e dunque sono esprimibili con le parole» !°. Partito da Beckett, Celati era partito da un’idea di corpo colto nei suoi eccessi di gesticolazione che diventano verbigerazioni, sicché «la gesticolazione del gag è un modello analogo a quello dello spettacolo isterico» !”. Ovvero il corpo si presentava in un modo estremo, come emittente di segnali patologici. Questi segnali erano precisamente ciclotimici, una contaminazione improvvisa di «euforia e avvilimento», tra «la proiezione maniacale che genera il racconto e l’abulia depressiva che lo blocca» ‘À. Da Beckett, dalle sue Nouvelles, questo movimento dava l’impressione di una corsa senza scopo verso il nulla, o meglio verso l’annullamento di tutti i presupposti, della vita, del testo e della vita del testo. Così scriveva Beckett, in un punto citato da Celati: «Non so perché ho raccontato questa storia. Avrei potuto benissimo. Avrei potuto benissimo raccontarne un’altra. Forse un’altra volta ne racconterò un’altra. Anime vive, vedrete come si assomigliano tutte»; e ancora: «Tutto quel che dico si annulla, non avrò det-
to niente» !°. Queste negazioni di Beckett non solo sono riprese nell’idea di «fiato perso» che congeda i Parlamenti buffi, ma sono ribaltate in senso giocoso, come se il comico per Celati fosse una danza sull’orlo del tragico, un crepuscolo del disfacimento che prelude a un’alba nella quale ci si potrà redimere ridendo. E infatti Lunario del paradiso, concludendosi, e con-
cludendo la trilogia, aveva congedato in anticipo Beckett. Non era vero che le storie si assomigliavano tutte; il fatto è che era insondabile il senso delle storie, che le ipotesi accampatesi sulla vita erano improbabili; ma lì c’era una cosa diversa dal nulla: c’era una cosa che non poteva rimandare ad altro che a se stessa: La vita è una cosa che non si sa cosa sia. Molti parlano per dire che è questo o quello, però succede che tutto succede come succede. È una cosa che succede e non si capisce a cosa assomiglia. Sto già dormendo e lo dico in sincerità: la vita è una cosa che non assomiglia proprio a niente °°,
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G. Celati, L'angelo del racconto, in «Il manifesto», 30 ottobre 1988. G. Celati, Su Beckett, l’interpolazione e il gag cit., p. 75.
ANI p.62: !° Ivi, p. 61 (alla pagina precedente Celati parla del «virtuosismo lunatico della recitazione», con un aggettivo che, nel suo scrivere, non resterà inerte).
2° G. Celati, Parlamenti buffi cit., p. 438.
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Ma questo suo non assomigliare a niente è la radicale opposizione alla radicale negazione beckettiana, un ottimismo alla fine della formazione.
Come il Congedo, anche il finale dei Parlamenti appartiene alla riscrittura, al guardare la prima trilogia con gli occhi della seconda. Delle varianti di scrittura del Lunario il discorrere dovrebbe essere articolato; per l’immediato si potranno dare i riscontri di un sondaggio rapido, però già funzionale rispetto al ragionamento che si va facendo. Intanto il numero dei capitoli risulta aumentato di due unità: fra il secondo e terzo capitolo dell’edizione del 1978 si aggiunge un nuovo inserto-capitolo (ma una bella sforbiciata vien data al finale del vecchio secondo), dove tra l’altro ci vien det-
to cosa ha generato il mutamento, il movimento della riscrittura: Sto cercando di farmi tornare in mente le cose, che tornano a poco a poco, man mano che si va avanti. Poi vedrete voi come sono successi tanti fatti che hanno cambiato l’anda [sic: sta per onda, per andamento, forse] del racconto, e anche
del raccontatore ?!. Si tratta di un passaggio che sarebbe stato inimmaginabile, in Celati,
prima della trilogia padana, prima, per esempio, del pensiero che chiude Verso la foce (del pensiero, si dice, non della stesura di quel pensiero): Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose per-
ché restino con te fino all’ultimo ?. (Non soltanto per l’attenzione alle cose, ma per il tono, il finale appena citato lo si può assumere a paradigma della seconda fase di Celati, ma anche e soprattutto di come si flette sulla prima). Ora, nel Lunario, il gioco delle lampadine che costituisce argomento di gramo dialogo fra il protagonista (un ragazzo all’estero, completamento di Danci Guizzardi che aspi-
rava a fare il rappresentante «estero» 7) e il padre della ragazza di cui è innamorato, diventa un riflesso delle Condizioni di luce sulla via Emilia di cui dice una delle Quattro novelle sulle apparenze. Ora, nel Lunario, il fi-
nale del capitolo trentasei recita:
CMIVINDSSO]E 2 G. Celati, Verso la foce cit., p. 140. 23. G. Celati, Parlamenti buffi cit., p. 14.
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A volte succede che uno è contento, anche se non si capisce come succede. E un languore che viene, un senso della meta che dà sollievo. Come quando si sta
per cadere innamorati *.
È un passo aggiunto, col quale siamo oltre la soglia del vecchio finale (già per altro significativo di recisa chiusura: «Caro pensatore, dacci un taglio di fare il cretino, prova anche tu a farti delle storie e vedrai che questa è la sputtanata verità»): il trentasettesimo capitolo della versione di Lunario in Parlamenti buffi è il secondo ad essere aggiunto ex novo. C’è un sonno che prende tutti, mentre la storia si scioglie; ma quel sollievo che si ha «quando si sta per cadere innamorati» di fronte all’irrequietezza passata è dato dal fatto che della storia si stanno per trovare i fili (Wittgenstein: «Se qualcuno però è reso irrequieto dall’amore, troverà scarso aiuto in una spiegazione ipotetica — essa non lo calmerà» °°). Ma che fili sono? Già, poteva essere andata così. Ma poteva anche essere diverso, cioè tutto ca-
pitato per caso. Poteva essere una cosa e poteva essere anche l’altra. / E mi chiedevo: che differenza fa? c’è differenza in fondo? e chi può dirlo come sono andate le cose? È successo che è successo come è successo ”°.
Occorrerà forse sovrapporre a questo passaggio del Lunario la meditazione celatiana sul caso Flitcraft, sul senso-non-senso di quella trave che cadendo sfiora il corpo e cambia la vita, per rendersi conto di come, rife-
rendosi al passato che era, il Lunario diventa una accoglienza del dopo. Oltre una serie di interpolazioni, di variazioni lessicali (l’attenuazione dei termini «osceni» è la più evidente) e soprattutto un maggior indugio descrittivo, la seconda stesura del Lunario segna una sensibile variazione
nella punteggiatura. Perlopiù, frequentemente, il punto fermo viene sostituito dal punto e virgola, col risultato di allungare i periodi. Della punteggiatura in Beckett, Celati aveva osservato che il «movimento di lettura» di-
ventava «itinerante», discontinuo, deviato e rallentato dalla scansione for-
nita dalle virgole ?”. In Parlamenti buffi, la situazione della punteggiatura, stando all’ultima stesura del Lunario, è fortemente decisiva nella lettura complessiva, nella percezione generale della trilogia.
2 Ivi, p. 436. N
° L. Wittgenstein, Note sul «Ramo d'oro» di Frazer cit., p. 20.
% ?
604
G. Celati, Parlamenti buffi cit., p. 438. G. Celati, Su Beckett, l’interpolazione e il gag cit., p. 61.
Le avventure di Guizzardi appartiene alla sfera scrutata da Celati in Beckett: le virgole sono completamente assenti, e questo comporta una accelerazione della lettura che viene successivamente rallentata dalla ricostruzione a memoria del senso (si registrano, come in Beckett, particolari insignificanti, ma non tutto si memorizza poi dal lettore): la scansione è data dalla subordinazione, ma l’ipotassi è del tutto arbitraria, in una sorta di
parificazione dei fatti. Sicché il testo diventa un enorme grumo di significati che recalcitrano a una sistemazione, vero specchio del personaggio Guizzardi, che vi parla in prima persona. Le virgole fanno la loro apparizione nella Banda dei sospiri; ma l’andamento narrativo riduce l’apporto delle virgole alla percezione, tutto rimanendo più evidente dallo scioglimento del periodo, dall’ansia che vi è stata sottratta rispetto al Guizzardi. Il punto e virgola era già presente nella prima stesura del Lunario, ma statisticamente l’uso si accentua nella seconda versione, contribuendo a un rasserenamento della pagina, a una ge-
rarchia delle pause che permette anche una maggiore memorizzazione dei fatti. Se si poteva credere di trovarsi, col Guizzardi, di fronte ad un paesaggio verbale e reale colto da una veduta frontale, l’immagine invece vi era colta di scorcio, obliquamente: del resto, un affollamento della pagina fa sì che ciascuno ne possa scegliere i dettagli che vuole; invece l’allineamento dei fatti nel Lunario, soprattutto nella seconda stesura, prelude a una
vera e propria veduta frontale, benché assegnata a un personaggio fortemente soggettivizzato. Perciò l’ultimo Lunario è certamente un preludio alla trilogia padana, nella quale la veduta frontale sarà proposta dai Narratori delle pianure, messa a fuoco dai racconti delle Quattro novelle (che sono,
al tempo stesso, una meditazione intorno alla portata di pensiero della veduta frontale), realizzata in pieno in Verso la foce.
Comiche, probabilmente «un racconto deliberatamente illeggibile» *, aveva aperto il fuoco, nell’esperienza di scrittura di Celati. La sua radicalità
28
Guido Almansi, // letamaio di Babele, in La ragion comica, Milano, Feltrinelli,
1986 [pp. 45-61], p. 48. Questo di Almansi è il saggio che più ostilmente si oppone al «secondo Celati» a tutto favore del «primo» (all’epoca dello scritto, la situazione celatiana era a Narratori delle pianure, «scrittura funesta perché rappresenta la fine della narrativa carnale dell’autore», p. 61). Sulla querelle, che sembra essere di importanza fondamentale, risentendo in sé echi parecchi di attinenze neoavanguardistiche e altro, si vedano anche gli interventi, oltre che dello stesso Almansi, di Renato Barilli e Alfredo Giuliani raccolti sotto il titolo Gli
attraversamenti di Gianni Celati, in «Acquario», 1991, 4-5, pp. 37-41. La posizione di Giuliani, considerevolmente diversa, era già stata in Gianni il novellatore, in «La Repubblica», 23
ottobre 1987.
605
permette di congetturare su un fatto, o forse, più correttamente, si tratta della pura descrizione di un accadimento: la prima trilogia sembrava dover cominciare da lì, da Comiche, per concludersi con La banda dei sospiri dopo aver incluso il Guizzardi?. Operando in un altro modo, con l’espunzione, invece, di Comiche e con l’inclusione del Lunario, Celati è intervenuto proprio sul segno di illegibilità: ha addirittura riscritto (il riscrivere sarà segnale opposto polarmente all’illeggibile); ma questo spostamento del baricentro nella trilogia ha permesso la sua sistemazione dentro un quadro di eventi. Se il modello, come al solito, dichiaratamente, è quello della Com-
media dantesca, non solo non si poteva lasciar fuori il Lunario del paradiso, ma occorreva che l’inferno anche stesse al suo proprio posto, con Le avventure di Guizzardi. Elementi infernali fanno di Guizzardi un inferno alla lettera: perfino la filigrana delle citazioni che rappresentano il «mondo infame» contribuisce a tanto: abbiamo il «vituperio delle genti», un ponticello sotto il quale scorre un rio, una «barchetta rotta», un regesto delle vicissitudini della giornata 5°. Né si esclude, dall’apparizione in sogno al povero protagonista del marito defunto di Ida Coniglio, la terribile donna che ingabbia Guizzardi, il modello di quell’altro inferno misogino che è il boccacciano Corbaccio. Ed è infine onnipresente a Danci Guizzardi, mentalmente, il ricordo di un processo, di un giudizio che si avvinghia insieme il richiamo topico alla Commedia e quello alla modernità dell’inferno in terra, in Kafka.
Tuttavia, in Guizzardi, il grande problema è quello linguistico: non soltanto l’inferno si rappresenta per montaggio di onomatopee, in una riedizione a fumetti; ma il linguaggio di Guizzardi protagonista è incomprensibile agli altri, che pure, quando parlano come lui Guizzardi, si capiscono bene. La riduzione è al modello linguistico, anche della realtà che
Guizzardi fatica a percepire *!. L'itinerario del linguaggio verso una qualche sanità, passata attraverso tutte le peripezie possibili, era stato delineato in un altro saggio di Fin-
2°. Così era sembrato a chi scrive in La pianura e la frontiera di Celati cit.: con il Lunario, però, ben legato alla trilogia e annunciante con cospicuità il seguito (R. Manica, Discorsi interminabili cit., pp. 54-56). * A un «moderno viaggio dantesco» fa riferimento il risvolto di Parlamenti buffi; per il resto, si vedano le pp. 40 e 45 («mondo infame», che è passim ); 47 («vituperio delle genti»); 49 (il «ponticello» col rio); 50 («barchetta rotta»); 56 (riepilogo della giornata).
?! G. Celati, Parlamenti buffi cit., pp. 32, 34 (come parla Guizzardi); 43 e (soprattutto) 47 (come parlano gli altri).
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zioni, indispensabile nelle irrequiete ricognizioni celatiane intorno al comico, Dai giganti buffoni alla coscienza infelice. Qui il rapporto tra esperienza e linguaggio era anche visto da Celati come una delle ramificazioni possibili del rapporto fra linguaggio e potere, specificato, quest’ultimo, come l’acquisita tranquillità del mondo adulto. Partita da Rabelais, questa forma di comicità pareva a Celati riscontrabile in Céline. Si trattava di distinguere fra una frattura nevrotica e l’«estraneità pura del delirio, l’unica
forma di comicità visionaria e non critico-ironica» 5. Il percorso dell’argomentazione di Celati partiva dall’humour noir di Breton, o piuttosto dal-
la sua messa in discussione, e anzi dall’ampia contestazione di «una sindrome che si chiama essere moderni» *, consistente, alla fine, in una sin-
golare complicazione del modello di realtà, da dove scrutare il tragitto che individua un io più ideale che empirico e il conseguente conflitto tra «il comico giullaresco e il sapere occidentale» *4: un fatto storico, secondo quanto insegnato da Bachtin, piuttosto che un meccanismo di generale funzionamento. L’opzione di Breton per Swift contro Rabelais avviene su una differenza che forse non c’è, o almeno non sta nel punto creduto da Breton: un
ridere sapiente e pensoso contro un ridere grasso e grosso. Il punto da decidere è quello in cui il riso comincia ad opporsi alla gayeté in favore della malinconia; quando la «buona mescolanza degli umori detta eucrasia» finisce in prevalenza di un solo umore *, magari da espellere proprio trami-
te il riso «come metafora del flusso vitale che è soffio ed espurgazione» 59; ma è questo stesso procedimento a trovarsi espulso, come eccedente la volontà, dalla prevalenza dell’humour, che coincide, alla fin fine, con una sor-
ta di ritualismo del comico. Una segnalazione evidente dell’anestetizza-
32 G. Celati, Finzioni occidentali cit., p. 128. Di Céline Celati è stato traduttore (7! ponte di Londra e Colloqui con il professor Y, con Lino Gabellone, entrambi Torino, Einaudi, 1982), anche se non del testo al quale qui sembra farsi riferimento per la mistura di comico e infanzia, Morte a credito. Così Celati nella nota introduttiva a // ponte di Londra (p. 7): «In altre parole questa ricerca celiniana si svolge, come nessun’altra forse, sul terreno di una continua inaugurazione dialettale e resta lì confinata, in questo perpetuo sottosuolo di tutti i gerghi, di tutte le parlate che la società respinge, linguaggio non perfettamente codificabile finché non diventa lingua, ma inadatto a diventar lingua per la necessità di vivere come linguaggio privato, come linguaggio di ceti e luoghi specifici, pena la sua trasformazione in pittoresco ielitto». 3 G. Celati, Finzioni occidentali cit., p. 83.
34 Ivi, p. 84. D PipAOIE CONTI D 02.
607
zione del comico si ha dal mutato rapporto con la malattia. Sempre in Rabelais, secondo Celati, «la buffoneria non faceva che mimare una cura, mi-
mando l’eccesso di una discrasia che si scarica all’esterno» #; ma negli equivoci sorti nel seguito, se le passioni avevano qualcosa a che fare con la follia, tuttavia ne prendevano le distanze, diverso essendone il riferimento;
e il lieto fine arrivava proprio da questa possibilità di distinguere segno da designato da parte dei non folli e non malati: l’eliminazione dell’eccedenza e dello sperpero, poiché «il gioco consiste nella somiglianza di segni tra lo humour e il folle, e poi nello sgonfiamento dello humour che lo riduce
all’evidenza della sua normalità» 5. E va a finire che è «ridicolo chi prende per realtà il linguaggio dell’ossessione, e prende per cose vere le im-
magini illusorie proiettate all’esterno dalla passione» *. Separare per riconoscere e riconoscere per separare sono le due possibilità tramite le quali può aversi nuovo controllo da parte della volontà: un modello linguistico anche questo, ma in movimento contro il comico viscerale del rivoltamento
e del sommovimento del corpo. E la pazzia diverrà mero simulacro, esteriorità, maschera sulla maschera: «un linguaggio disgiunto dai suoi sintomi» dal quale «l’unico modo di tornare ai sintomi sarà quello di mimare una “vera” pazzia, nella forma speciale e più generica della melanconia». Sicché «il corpo diventa magro a indicare una sottrazione a queste passioni. E il comico senza passioni si offre nelle due varianti dell’attitudine catatonica o incantata [...] o dell’attitudine cinica» ‘9; il magro Arlecchino, a
conti fatti, contro il grasso carnevalesco; e il comico Arlecchino che può essere scambiato col melanconico Amleto, per magrezza; ma è qui anche che la malinconia ritrova quel che la commedia aveva cancellato, conflit-
tualmente, se è vero che gli umori non possono più purificarsi per il tramite del riso. Col ritorno dei sintomi passati dalla porta della malinconia non c’è più niente da ridere, anche il comico deve far pensare, e cade il carnevalesco. Codificato il comico, codificate la pancia, la voce in falsetto, la fame e la brama sessuale, la rabbia e la lingua, codificato l’armamentario che fu del comico, la mossa che costituisce infrazione dentro il codice è l’errore,
ciò che si oppone al pensiero giusto e savio di «tutti gli uomini»!, ovvero il paradosso che agisce sul corpo sociale (Rabelais non conosceva il sog-
37 Jvi, p. 96. 38 Ivi, p. 99.
Ivi, p. 100.
% Ivi, p. 102e 103. 4 Ivi, p. 124. 608
getto empirico) *; ma col paradosso il comico diventa metafisico, non è più estraneità: e i suoi contorni, ancora una volta, sono contorni storici. D'altra
parte «sembra che siano sempre i relitti di antiche metafisiche che informano il delirio della follia» ‘5. Qui si creano altri contatti: La coscienza infelice che Breton, attraverso Hegel, pone a fondamento della sua proposta è il repertorio d’una sintomatologia nevrotica, dove la frattura si mantiene e si nutre di se stessa con quel tipico ritualismo del narcisismo nevrotico, della malattia che si interiorizza con compiacimento. Il modello nevrotico rifugge dal discorso smisurato del delirio dove ritornano tutti i miti di scarto. Il modello nevrotico rifugge dai miti pacchiani e clamorosi perché è essenzialmente un modello critico: cioè di crisi e poi anche di analisi. Il nevrotico ritiene i fantasmi della mente, ma rifugge dalle gigantesche cosmologie della psicosi. / Se sono i fantasmi l’ossessione specifica dell’io nevrotico, sono i giganti l’ossessione specifica della frattura psicotica ‘.
Nei Parlamenti buffi entrambi i modelli vengono assunti narrativamente e, si direbbe, come due alterazioni del vedere: il fantasma essendo
quel che qualcuno vede ma che resta invisibile ad altri; i giganti sono quel che si ha troppo presente, qualcosa o qualcuno che incombe: ed è qui il terreno dello scontro fra le generazioni dei personaggi. Nevrotiche le generazioni alle quali appartengono i giovani eroi vagabondi; psicotiche le generazioni precedenti, così in adesione ai codici. Così continua il saggio in esame:
Il nevrotico preferisce il ritualismo della comprensione a quello dell’abreazione, preferisce l’isterismo dei segni a quello dei sintomi, preferisce l’attività di decodificazione a quella di codificazione. È solo con il modello psicotico o schizofrenico che si salta al di là di tutto questo, al di là della passione della ve-
rità-luce per arrivare alla cecità, al di là dei segni per arrivare ai sintomi, al di là della logica lineare per arrivare al paradosso, al di là del discorso ben controllato delle passioni sublimi e mediocri per arrivare allo smisurato delirio *.
Tranne che questo punto si manifesta ma non ha effetto nel mondo degli adulti, arenato allo stato della «cecità», ad un blocco di pre-delirio
PMIvitp #26: 43
Ivi, p. 127.
44
Ibidem. Ivi, pp. 127-128 (e si veda la nostra nota 10).
45
609
(forse un «delirio di consapevolezza» come quello che Celati, come s’è visto, finirà per rimproverare a se stesso a proposito delle pagine presenti): la cecità che impedisce allo psicotico (sia detto come connotazione generazionale) di incontrarsi col nevrotico (in stesso senso). E anziché delirio si avrà un’abreazione franta, come per l’insetto di Kafka; anziché delirio, un’ultima delirante volontà di controllo del codice. Il comico, così, si in-
contra con la paura, ne è l’imitazione, il tentativo di esorcizzarne la portata («Mimare la paura del corpo come paura del potere tirannico nel soggetto empirico è la regola propria di questa comicità») ‘°.
4 Ivi, p. 128. In un altro saggio di Finzioni occidentali, dedicato alle Mitologie romanzesche americane, intrattenendo un colloquio con le affermazioni di Freud intorno alla «seduzione traumatica originaria che genera tutte le devianze successive nell’individuo» (p. 148), e cioè sul «culto della donna vittima» che viene successivamente «delirato nell’adulto
paranoico» (ibidem ), Celati conclude: «La chiave di volta del problema per me sono i divieti sessuali introdotti tra Seicento e Settecento, che associano l'omosessualità e il libertinaggio alla follia» (p. 161). Riferendosi polemicamente all’ Antiedipo di Deleuze e Guattari, Celati ne accetta tuttavia la considerazione che «l’edipismo costituisce la grammatica profonda della famiglia e di conseguenza del romanzo» (ibidem ), mentre «Huck Finn propone un mito che non è più leggibile nella chiave della grammatica familiare, perché tende ad annullare ogni legame con la famiglia capovolgendo convenzionalmente tutte le sue assiomatiche» (p. 162). Ora, se è vero che «Le avventure di Tom Sawyer sono in realtà le avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn», come lo stesso Celati ha annotato (nell’introduzione a Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, introduzione e traduzione di Gianni Celati, Milano, Rizzoli, 1979, p.
5), benché poi il finale del Tom Sawyer sia un tradimento di Huck da parte del «signor Mark Twain» (ibidem ), occorre notare che anche qui il problema è linguistico: «pensate a quando Huck, nell’ultimo capitolo, spiega che non può parlare educatamente come vorrebbe la vedova Douglas, altrimenti non sente più nessun gusto in bocca, ed è meglio morire; così che ogni giorno deve correre in soffitta a dire un po’ di parolacce e bestemmie, per ritrovarsi il gusto in bocca e poter sòpravvivere» (ivi, p. 8). Anche per questo Tom e Huck sono bambini nuovi che, dentro i libri, rompono i ponti con quella censura, con la famiglia e l’edipismo instaurati, secondo Celati, tra Sei e Settecento, gli anni nei quali nasce e si fraintende il genio di Swift
richiamato in Dai giganti buffoni alla coscienza infelice. L'introduzione di Celati alla Favola della botte, a cura di Gianni Celati, Torino, Einaudi, 1990, si conclude citando (p. XXIV)
un autore forse presente a Swift, Tommaso Garzoni: «Hor chi non vede quanta pazzia regni ne li homini, se le persone dotte, che de gli altri deverebbono essere più sagge, talhora si dimostrano più stolte, dicendo cose che i merlotti manco le credono?». Infine due altri testi tradotti da Celati presentano tessere buone per il quadro: Jack London, // richiamo della foresta, Torino, Einaudi, 1986 (ancora sul mito del linguaggio liberatorio di grammatica non familiare: «una lingua che ha sempre la fluidità del racconto panoramico, il racconto che attraversa o ricapitola rapidamente gli eventi senza assumere un punto di vista fisso e costrittivo», ivi, p. 126) e William Gerhardie, Futilità, Torino, Einaudi, 1969, un quasi-nonsense sui destini a par-
tire da una famiglia; infine, quasi una rete che prende i due testi e tutto il ragionare che vi si
610
Ma laddove la comicità ha a che fare col corpo, questo corpo è anche
toccato dalla tragedia, soprattutto quando al posto della paura si abbia una presunta innocenza dell’«io empirico». Sempre in territori bretoniani, Celati aveva osservato che «l’innocenza di Nadja è in effetti la sua follia; e chi
è folle finisce in manicomio» “’. La soluzione, per Celati, nel passaggio dall’una all’altra trilogia, è stata una sorta di abolizione del pensiero per una densità del riflettere: una rimozione di pensiero come persuasione (come interpretazione delle cose) per un addensamento (come osservazione delle cose, invece). Una oscillazione tra il tipo-Walser e il tipo-Bartleby. Ha osservato Roberto Calasso: L’obbedienza di Walser, come la disobbedienza di Bartleby, presuppone una totale rescissione. Una mancanza originaria li sottrae all’ecumene dei comunicanti — e quella mancanza è la loro ricchezza. Sovrani, nulla fanno per porle un rimedio e neppure per commentarla. Copiano, trascrivono lettere che li traversano come una lastra trasparente. Non enunciano nulla di proprio, non vogliono modificazioni. «Non mi sviluppo» dice Jakob nell’Istituto; «Non voglio cambiamenti» dice Bartleby. Nella loro affinità si scopre l’equivalenza fra il silenzio e un certo uso ornamentale della parola. Nelle migliaia di pagine scritte da Walser [...] si ripercuotono continuamente, senza pronunciarsi mai, le parole di
Bartleby: «Preferisco di no» “.
Nel rapporto fra interpretazione dei fatti e addensamento per osservazione, il Bartleby di Celati ha, intanto, qualcosa a che fare col sodalizio con Calvino. Congedando le Lezioni americane, la vedova dello scrittore, Esther, ha avvertito che la sesta lezione, mai scritta da Calvino, avrebbe do-
vuto avere come titolo «Consistency» e avrebbe avuto come riferimento Bartleby di Herman Melville. Invitato nel 1984 ad Harvard, Calvino avrebbe dovuto tenervi lezione nel 1985-1986. All’Università di Bologna Celati avvia la traduzione di Bartleby lo scrivano nel 1984-1985 e nel 19861987 ne inizia il commento ‘. Le due strade si intrecciano e l’introduzione
può fare, Barthes di Roland Barthes, Torino, Einaudi, 1980 (se è vero, come è vero, che in
uno scrittore che traduce come è Celati, le scelte dei libri da volgere in altra lingua sono tali da corrispondere a un preciso itinerario intellettuale, filosofico ed emotivo). 47 Nella nota a L. Gabellone, L'oggetto surrealista, Torino, Einaudi, 1977, p. 148. 4 Roberto Calasso, / quarantanove gradini, Milano, Adelphi, 1991, pp. 95-96. 4° Le informazioni di Esther Calvino stanno in Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988 (la nota sta in testa, in pagine non numerate); le informazioni per Celati in Herman Melville, Bartleby lo scrivano, traduzione a cura di Gianni Celati, Milano, Feltrinelli, 1991, p. V.
611
di Celati a Bartleby è, a ben vedere, una lunga indagine sulla coerenza del silenzio (consistency, appunto, dalla quale si intravede l’alone della consistenza, della densità), una ricognizione dei fenomeni che, accompagnando i fatti nei romanzi, li trasformano in qualcosa d’altro, di non detto: Però io non credo che siano mai i fatti in sé ad essere determinanti — i cosiddetti
«fatti» d’un racconto sono solo una segnaletica per attirare la nostra attenzione verso un nodo di tonalità emotive”.
Ma questi stessi fatti, i fatti narrati, sono ben diversi dai fatti che si attuano nel vivere: entrambi attratti verso il silenzio, i primi vanno verso quel nodo da Celati rilevato; i secondi appartengono a quella zona che si può soltanto descrivere, mai interpretare: prendono significato dal loro farsi, non dal pensiero che su questo farsi può accumularsi: al più possono dirsi con un pensiero silenzioso, lo stesso, poi, che attira e si attira verso il nodo
di tonalità emotive: Tutto ciò che l’utilitarismo considera il male del mondo, l’ozio, l’inerzia, la vi-
ta senza scopo, il pensiero che riposa silenziosamente in sé, qui ricompare come potenza dello scrivano che attraversa con inespugnabile riserbo il farnetico della vita. E bisogna parlare di potenza, cioè qualcosa che riposa in sé senza attualizzarsi, la capacità di non pensare nulla — una maniera d’essere che si risolve in ciò che si fa, non in ciò che si pensa”.
«Avrei preferenza di no», dice Bartleby, quando gli si chiede, per esempio, perché smetta di scrivere. Questo stato, osserva Celati, assomiglia allo stato di riposo delle cose, quando e dove, per Melville, «non c’è urgenza di espansione verso l’esterno, né schiacciamento verso l’interno — nessuno di questi moti tendenziali dell’io — solo passiva sospensione, nell’inerzia e nell’ignoranza di ciò che si è» °?. Qui il Fato, secondo Melville, tiene qualcosa in serbo; un’inerzia nella presenza e una sospensione delle aspettative, secondo Celati: Lo stesso vale per la scrittura. La potenza della scrittura non sta in questa o quella cosa da dire, bensì nel poco o niente da dire, in una condizione in cui si
annulla il dovere di scrivere. Ogni dover scrivere e voler scrivere è la patetica
612
®
G. Celati, Introduzione a Bartleby lo scrivano cit., p. XIX.
5
Ivi, pp. XXV.
DIN
Ivi, pp. XXVI.
vittima delle proprie aspettative. La potenza della scrittura sta nell’essere senza aspettative, nell’essere rassegnazione e rinuncia al dovere di scrivere, possibilità
di rimanere sospesa soltanto come preferenza 53.
In questo punto Celati si incontra con se stesso, mentre sta apparentemente incontrando Melville, giacché questa preferenza ultima sulla scrittura, quest’ultimo «preferire di no», lasciando alla preferenza la sospensione, questo non dover e non voler scrivere sono i fenomeni che rivelano l’altra zona, quella dell’indugio senz’ansia e del narrare a bassa intensità. Ma questa bassa intensità si rivela, dalle pagine su Melville, come qualcos’altro, ancora: la bassa intensità è l’aver attirato l’attenzione verso quel
nodo di tonalità emotive che segnala il rapporto tra narrazione e fatti. E tutto questo, come Finzioni occidentali per Parlamenti buffi, funziona da au-
tocommento per la trilogia del Po. Tranne che anche qui c’è un preferire di no: il commento è in realtà rifiuto dell’autocommento, o un autocommento a bassa intensità, che molto assomiglia, per tono emotivo, alla narrazione del Celati ultimo. E un commento che assomiglia troppo a quel testo che commenta si riassorbe in esso: non diversa, anzi ulteriormente accentuata,
53 Ibidem. In questa stessa Introduzione i termini del vagabondaggio, del farsi estranei (a un territorio, stavolta, piuttosto che a una famiglia: ma si tratta di termini che finiscono prima o poi per scoprirsi sinonimi), dell’allontanarsi infine, si coagulano ancora intorno a una notazione linguistica, lì essendo il nodo: «La condizione d’esercizio della scrittura dipende senza dubbio da un andamento inerziale delle parole, che portano e portano dove vogliono loro, mai dove vogliamo noi. Portano là dove sono chiamate dalle voci che parlano all’anima, le
quali sorgono da chissà dove, comunque sempre da molto lontano. Allora per forza gli eroi della scrittura sono per lo più stranieri, anomali, estranei — estranei alle generalità che sempre dominano la vita nel guscio, il beato e spastico attaccamento a un territorio» (p. XXI). Tra le parole che «portano e portano dove vogliono loro» e il «guscio» che è poi il codice di dove si è nati si potrebbe trovare un altro non innocuo (per niente innocuo) contatto tra le storie padane e i Parlamenti buffi, in particolare, ancora, per quanto riguarda il Lunario, dove davvero i due momenti si incontrano, soprattutto nella versione riscritta e cronologicamente contigua alla trilogia padana. Uno dei passi aggiunti al Lunario parla proprio di una macchina che continua a scrivere per conto suo, portando le parole dove vogliono loro, non dove vuole il cervello di chi sta per addormentarsi, mentre il protagonista sta nella casa, di nuovo, dei suoi genitori (Parlamenti buffi cit., p. 438): a concludere una specie di metafisica dell’andare se-
condo tratti che ricordano Henry David Thoreau,
Camminare, Milano, Mondadori, 1991 (il te-
sto della famosa conferenza itinerante di Thoreau, inaugurata il 23 aprile 1851; Melville lavorerà a Bartleby tra la fine del 1852 e i primi mesi del 1853, contrapponendo il proprio silenzio visto dalla scrivania di Bartleby a quello dei passi lenti e pensosi di Thoreau. Di un secolo dopo, 1956, la morte del passeggiatore Walser, descritta da Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser, Adelphi, Milano, 1981, pp. 187-189).
613
la sorte dell’autocommento,
fino alla domanda
se siano le narrazioni
a
commentare o a essere commentate. Toccato il punto in cui la scrittura si autosospende dall’interpretare il mondo, per tentare di descriverlo (operazione tanto più ardua), l’autocommento diventa il punto in cui la narrazione si regge e non può autosospendersi perché essa stessa testo narrabile, mondo. Lo spazio che sta fra questi testi, e in cui i testi stanno, è uno spazio che si sforza di essere vuoto, simile alla «condizione in cui si annulla il do-
vere di scrivere» (come Celati annotava per Melville), simile alla «capacità di non pensare nulla». Forse anche un mondo semplificato, come s’è voluto vedere sulla scia di Bachelard °*: ma anche mondo dalla semplice complessità e, comunque, dalla complessa semplicità. E tuttavia il mondo nel quale cade la trave di Flitcraft, nel quale accade qualcosa, nel quale accadono i racconti che, sospendendo il giudizio, si autosospendono da questo stesso mondo. Il procedimento, con certa evidenza, si segue in Palomar, nella prosa del mondo, pubblicato nel 1987. S’è già ricordato l’inizio di questo saggio celatiano (una prosa, quella di Palomar, che non serve per giudizi sul mondo, ma che è racconto costruito sulla fragilità di ogni spiegare) e s’è detto che è saggio da porre a fondamento delle persuasioni di Celati negli anni di stesura e pubblicazione della trilogia padana. Il protagonista di Calvino, scrive Celati, tra il suo pensiero astratto e arbitrario e la comica inconclu-
denza di questo stesso pensiero produce «una commozione paragonabile all’effetto delle mosse, altrettanto intime e astratte, con cui il gran filosofo
Buster Keaton si aggirava nello spazio» *. Il richiamo a Keaton qui, all’altezza cronologica di Palomar, è in Celati punto di saldatura, se è vero che
% Da Rebecca West, Lo spazio nei «Narratori delle pianure», in «Nuova Corrente», 1986, 97 [pp. 65-74], p. 70. Il numero di questa rivista è per buona parte dedicato a Celati; oltre vari scritti critici e l’apologo di Lino Gabellone richiamato qui alla nota 6, vi compare una prima stesura di / lettori di libri sono sempre più falsi, poi diventata una delle Quattro novelle sulle apparenze: questa prima stesura s’inizia su come ci «si riempia la testa di idee e convincimenti» (p. 3) e si conclude, come poi la stesura definitiva, sullo svuotarsi la testa, sul presumere uno spazio vuoto di fronte al quale la scrittura possa essere silenziosa: «Scrivere è un modo di lasciar passare il tempo [...] lui dà e toglie, e quello che dà è solo quello che toglie, quindi la sua somma è sempre lo zero, l’insostanziale. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo», secondo le frasi di un vecchio scrittore non di successo che capitano sot-
to gli occhi al protagonista alla fine della novella (p. 25 in rivista; p. 95 in volume).
9
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G. Celati, Palomar, nella prosa del mondo cit., p. 227.
questo nome si era affacciato con frequenza durante la stagione di Parlamenti buffi e non solo (e Keaton era stato scelto da Beckett per Film, realizzazione in celluloide delle ossessioni intorno alla questione del punto di
vista in rapporto alla definizione di identità) °°. L’ultima pagina di Palomar è per Celati una «mossa di congedo», ma tutto il libro calviniano ha questa stessa forma, tra «ritmi rallentati» e «in-
concludenza del pensiero» del protagonista: Palomar ci permette di lasciare dietro di noi le cose di cui si parla, senza più sentirle come oggetti di sapere, temi di vita o furbizie d’autore, ma finalmente come punti di silenzio su cui non abbiamo l’obbligo di pronunciarci. / A distanza il congedo di Palomar mi appare come uno sguardo con il sentimento dei propri limiti. L’opposto dello sguardo ansioso della modernità, che esaurisce sempre in fretta i propri oggetti per mancanza d’un sentimento dei propri limiti. C’è tutto un mondo che si allontana non appena Palomar si mette a guardarlo, e soprattutto si allontana un’idea dell’esterno come immediatezza facilmente
catturabile, giudicabile, manipolabile?”.
Dunque Celati, nel rimarcare l’opposto dello sguardo ansioso della modernità in rapporto stretto con i punti di silenzio sui quali non c’è obbligo di pronunciarsi, riunisce in uno stesso luogo il ritmo messo in evidenza dallo scritto su Antonioni e il filo conduttore dell’introduzione a Bartleby. Un accantonamento dell’ansia (ansia storica ancor prima che individuale e, dunque, di quel che Celati chiamava l’io empirico) e una assunzione del silenzio: sono questi i centri tonali che portano al «preferirei di no» rispetto alla scrittura che, se continua ad esserci, se c’è, è d’ora in poi scrittura delle forme del silenzio. Così come è per Palomar, nel suo tentativo di pensarsi morto per rinviare la morte, descrivendo ogni istante della vita, in un rallentamento assoluto e disperato che davvero lo fa morire. Ov-
vero: l’uscita dal tempo consentirebbe una vera uscita dallo spazio: Palomar ha tirato in ballo la questione occidentale per eccellenza. L'abbandono di un’ansia di controllo, il lutto della nostra soggettività, la disponibilità ad un’esperienza non padroneggiabile, sono i tre lati della questione. Solo a partire di qui c’è un volgersi verso il tempo che deve finire, il tempo che tornerà ad
56 Samuel Beckett, Film, Torino, Einaudi, 1985 (Film fu girato nel 1964, regista Alan Schneider, protagonista, appunto, Buster Keaton).
57 G. Celati, Palomar, nella prosa del mondo cit., pp. 227-228 (a p. 227 le tre brevi citazioni che precedono).
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essere vuoto, né finito né infinito, né omogeneo né eterogeneo, né pienezza d’esistenza né suo contrario *.
Nella calma attesa di questo tempo vuoto, l’osservazione diventa per Palomar, tramite scrittura, il punto dove fissare qualcosa che possa essere
riconosciuto °°. Dobbiamo farne conseguire che la scrittura intorno a un tempo che si presume vuoto è qualcosa che ha a che fare, ancora una volta, col silenzio: una scrittura che coglie il dato di vanità delle «cogitazioni» ® e che va a finire «fortunatamente verso nessuna meta» ‘!. E, infine, «lo stru-
mento d’osservazione è il protagonista della vicenda» °°: ma questo strumento mostra «l’opacità senza rimedio e un po’ comica dei mezzi usati per
catturare l’esterno, occhi, immagini, parole, categorie» %. A dire come questi ragionamenti si intrecciano in più punti celatiani (forse punti sovrapposti temporalmente, ma le date che conosciamo riguardano i momenti di stampa e non invece, purtroppo, quelli di stesura che, probabilmente, ci darebbero maggior chiarezza, pur considerando la maturazione lenta delle persuasioni dell’autore), si veda la seguente conclusione di un articolo sull’/nsostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera: Vorrei poter pensare che sia un sapere muto e senza pretese la cosa più necessaria, per trovare un racconto capace di organizzare la nostra esperienza .
Non diverso resoconto ci viene fornito in Fata Morgana, un singolare racconto antropologico attorno alla popolazione fantastica dei Gamuna, popolazione che espande e contrae la pupilla a seconda del diverso stimolo visivo, non interessata ai grandi cambiamenti, vivente in immense pia-
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CLI bp 240; Cv PAD: Ibidem. Il termine di «opacità» Calvino pubblicato per la prima volta nel Milano, Mondadori, 1990, pp. 119-134). del mondo» intrecciata alla questione del
richiama immediatamente il titolo di uno scritto di 1971 (poi in I. Calvino, La strada di San Giovanni, Lo scritto, Dall'opaco, è un rapporto sulla «forma punto di vista: e si risolve in improbabili geometrie alla maniera di Georges Perec (Espèces d'espaces è richiamato da Celati nel suo saggio, p. 234: libro posteriore a Dall’opaco e precedente Palomar nella sua forma in volume, sarà stato presente a Calvino prestissimo, magari anche in edizione privata, nei consessi dell’Oulipo). “4
1985.
616
G. Celati, La telepatia sentimentale di Milan Kundera, in «Il manifesto», 9 maggio
nure, in una valle dall’«incanto greve» che «attrae tutto verso il basso, verso il fondo o superficie della terra» ©. I Gamuna, di conseguenza, «non cre-
dono esistano veri pensieri nella testa, ma solo pensieri nei piedi che seguono l’attrazione della terra e ci portano da un punto all’altro grazie all’incanto greve» °°. Dalla terra arriva anche l’anima. Ciò che altrove è considerato col nome di pensiero, per i Gamuna è un ronzio che dice malattia ventura. Così i Gamuna lasciano i pensieri ai piedi, si vergognano per i pensatori che col pensiero vorrebbero interpretare i loro gesti. Questa vergogna deriva «dal fatto che si sentono come sottratti dall’incanto greve del-
la terra» (?: Così, se debbono raccontare una storia, essi non parleranno mai di eventi che scorrono nel tempo, ma solo dei vari posti in cui qualcuno s’è trovato avvolto di immagini. Posti che descrivono mirabilmente con la loro parlata serale, e che permettono forse di ricostruire un certo percorso immaginario, ma non di definire uno sviluppo temporale. In sostanza sarebbe come se a qualcuno non accadesse mai nulla, tranne il fatto di trovarsi in un posto, e poi in un altro posto,
e poi in un altro posto, e così via. Ma in questo modo non è possibile né immaginare una trama di eventi, né una geografia fissa: perché ogni luogo esiste solo in relazione agli spostamenti di chi s’è trovato in quel luogo, senza che ci sia da aspettarsi altro che questo, luoghi e spostamenti, come effetti dell’incanto greve che agisce sui piedi del personaggio ®.
Per i Gamuna il brillio di immagini che consegue a uno spostamento è il fenomeno che chiamano «fata morgana», fenomeno che è anche il farsi
vedere delle immagini nei luoghi in cui ci si sposta come fossero punti di uscita dal mondo e del mondo. Estranei sono coloro che non sanno che nulla di essenziale può accadere, «quelli che credono sia successo qualcosa» o che vogliono disegnar mappe con uno sguardo dall’alto: «il che produce sempre in loro imbarazzo o scoraggiamento, facendo sentire loro l’altezza del cielo come una cosa malinconica, e non più come un’immagine del
tempo immobile» °°. Chi sono i Gamuna, dentro l’apologo di Celati? «Il termine gamuna significa soltanto “noi che siamo”, ovvero “noi che abbiamo
65 G. Celati, Fata Morgana, in «Arsenale», 1987, 9-10 [pp. 25-34], p. 28. 6 Ibidem.
9 Ivi, p. 29.
6 Ivi, p. 30. CIV Apa8do
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esistenza”» ©, Cos’è l’incanto greve che li fa? È ciò «che riporta ogni cosa a terra, e che ti fa essere ciò che sei secondo il punto in cui sei» DA Non si saprebbe cosa indicare, come modo di vedere i libri della trilogia padana, più di Fata Morgana: anziché spiegare, che non si deve, Celati ci fa guardare un racconto con un altro racconto, una indicazione segnaletica che è anche forma di commento-non-commento. Stare a terra, correre verso il silenzio, tentare di annullare il tempo, essere lo spazio che circonda. Di cosa siano sintomo questi fenomeni è fatto che qui non vogliamo ci riguardi ??: con l’autore ci sembra che ogni fenomeno possa dirsi sereno. L'unico rammarico, semmai, è che la presente veduta su Celati
resti di scorcio; altro occorrerà perché possa diventare frontale: ma la storia del caso Flitcraft ci dice anche che nulla accade in noi. Siamo il nostro spazio, talvolta lo spazio dei libri che leggiamo, il loro tempo, il tempo del nostro scorrere con gli occhi. Su Celati, per adesso, la veduta sa solo essere di scorcio, dunque, un piccolo, anzi minimo delirio di consapevolezza
nel quale si è ricaduti; ma se ogni fenomeno è in sé sereno non vorremo neanche star qui a pentircene.
COMI vinpa33: 71 Ivi, p. 34. In un racconto di Celati pubblicato col titolo // paralitico del deserio, (in «Dolce vita», 1987, 2, pp. 19-23), illustrato da Daniele Brolli, ritroviamo varie convergenze con Fata Morgana: «Seguendo una strada di sabbia tra le dune, hanno visto all’orizzonte sempre più miraggi d’acque e di oasi, e ogni volta continuavano a vedere quelle oasi fino quasi al momento di raggiungerle, per poi accorgersi all’ultimo momento che non erano niente» (p. 20). Infine, in Studenti in mezzo alle acque (in «Dolce vita», 1988, 7, pp. 41-45), illustrato da
Giorgio Carpinteri, chiacchierando dei libri un po’ vuoti e un po” noiosi di un maestro, girando per la città, l’orizzonte si chiude allo scadere del giorno sui due studenti dallo stesso nome, Enrico, l’uno bruno l’altro biondo. Il biondo così annota sul suo diario: «Tutto ciò che ti attraversa non sei tu, eppure tu sei solo questo» (p. 45). Si dovrà, prima o poi, tornare a parlare dello zen in Celati, o di qualcosa che allo zen somiglia molto. 7 Si rinvia, ultimo delirio, a Elvio Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Milano, Adelphi, 1992. Un altro libro di Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, è stato caro a Celati, che gli ha dedicato parte dei due articoli su «Il ma-
nifesto» qui citati alla nota 1. E questo rinvio alla nota iniziale valga a chiusura, come si dice, del cerchio. Se il cerchio ha da chiudersi, per una qualche forma di claustrofilia.
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HUGUETTE HATEM
MANLIO SANTANELLI: UN THÉATRE DE LA NÉVROSE DU COUPLE
Dans son théâtre, ce sont les couples que Manlio Santanelli aime à observer, mais s’il ne s’agit pas toujours du couple familial qui mérite le mieux cette appellation, le couple mari-femme, nous sommes toujours en présence d’une pathologie à deux personnages qui associe parfois mère et fils, ou frère et soeur. Ces couples inhabituels, on les retrouve dans Reine Mère ! où se font face une mère et son fils, dans /ssue de secours?, où deux
hommes sont réunis à Naples dans le méme appartement par le hasard des secousses d’un tremblement de terre, dans L’aberration des étoiles fixes avec cette soeur et ce frère incestueux ou bien encore dans un Un excès de zèle*, où mari et femme se cherchent et se fuient à la fois. C’est à travers
ces quatre pièces que nous suivrons le développement des névroses des personnages. Eugène Ionesco dans l’article très élogieux qu’il fit de la pièce, lors de sa présentation à Paris”, définit ainsi le thème de Reine mère: «Contrairement à la lutte oedipienne entre le père et le fils, le fils finissant par tuer le père, il s’agit ici d’une lutte à mort entre la mère et le fils. Le fils va succomber». En effet, dans cette pièce à deux personnages s’affrontent une vieille femme et son fils. Alfredo, un journaliste quinquagénaire rend sa mère, Reine, responsable de ses propres échecs professionnels et de ses désillusions amoureuses. Le résultat des examens médicaux a condamné Reine, et son fils veut être le témoin privilégié et le chroniqueur de cette mort imminente. Ainsi soigne-t-il sa mère en lui faisant des piqûres, en même
! Manlio Santanelli, Regina madre, Firenze, Passigli, 1985. ? 3
M. Santanelli, Uscita di emergenza, Firenze, Casa Usher, 1983. M. Santanelli, L’aberrazione delle stesse fisse (1987), Milano, Ricordi, 1987.
4
M. Santanelli, Un eccesso di zelo (1992, inedito).
° Eugène Ionesco, in «Le Figaro», 16 novembre 1987: «La pièce Reine mère que l’on donne actuellement au Théâtre de Poche est une des plus belles pièces que j’ai pu voir ces derniers temps [...]. Allez voir Reine mère qui est une pièce envoûtante, drôle et subtile à la fois. Elle a, cette pièce, toute la drôlerie tragique du théâtre nouveau».
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temps qu’il prend des notes pour ses futurs articles. Mais Reine devine son projet et le fait échouer. De son côté, Alfredo se drogue avec des médicaments qui l’aident à supporter sa vie. À la fin de la pièce c’est lui qui meurt, probablement d’une overdose, tandis qu’avec son incroyable énergie, Reine continue à vivre. Dans Reine mère on ne peut parler de repliement du couple sur lui-même, mais d’un retour fatal du fils auprès de la mère. Il n’y pas vraiment ici formation et dissolution d’un couple sous le signe de l’Oedipe (avec une réserve à cette affirmation à propos des derniers moments d’Alfredo), mais volonté de détruire l’autre, presque consciente chez le fils, et dont l’échec aboutira à sa propre destruction. On relie mal la névrose d’Alfredo à des fautes éducatives ou relationnelles d’origine parentale. On soupçonne une persistance de ces anomalies pré-oedipiennes décrites par Mélanie Klein, quand le bébé fantasme de terribles vengeances à l’égard du «mauvais objet» maternel (les pulsions agressives de la position paranoide). La piqûre qu’ Alfredo fait à sa mère peut davantage être envisagée dans cette perspective que sous l’angle de l’interprétation oedipienne. D'ailleurs, c’est la découverte, par sa mère, du journal où Alfredo décrivait la progression de la maladie, qui précipite l’action: le fils ne peut rien cacher à une mère omnisciente et persécutrice. Il mourra de ne pas avoir vécu comme il fallait sa période narcissique préoedipienne sur laquelle n’est pas venue se greffer la résolution oedipienne. Toute la dernière partie de la pièce représente une dernière tentative pour échapper à ce mode de relation fils-mère, qui reproduisait l’indistinction, la confusion, la
trop grande intimité des premiers temps. Ce magma confus plein de cris et de fureurs de la vie n’a en effet jamais, semble-t-il, cessé de présider aux relations entre la mère et le fils. L’Oedipe commencerait, on le sait, après que le petit garçon ait assisté à la «scène primitive» — même si elle n’a jamais eu lieu devant lui, on admet qu’elle sera reconstituée «après-coup», et exercerait alors le même effet. Or Alfredo évoque une série d’épisodes qui paraissent en étre proches, mais plutôt comme en marge, comme s’il cherchait à l’éviter. Ainsi lorsqu'il venait — apprend-on — se faufiler dans la chambre interdite et se coucher en cachette dans le lit de ses parents, ce comportement chez lui ne semble pas typiquement oedipien, il le précède, il tourne autour, car n’apparaît pas nettement la recherche d’une insertion dans le couple parental avec, pour corollaire, cette jalousie à l’égard du père dont Afredo voudrait occuper la place. Et l’on voit alors dans la pièce se succéder les comportements du personnage qui pourraient sembler aberrants, ou tout au moins surprenants au spectateur, mais qui vont dans la logique de ce qui précède. Ainsi Alfredo se déguise en prêtre. Ce travestissement semblerait bien la
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manifestation de la recherche d’un sur-moi qui devrait faire suite à la structuration oedipienne (le prêtre, le père, l’éducateur appartiennent à la même figure, le Nom du Père, selon Lacan), mais qui ne saurait le précéder: ici, le
sur-moi est joué, dans tous les sens du mot, mais non vécu. Ainsi Alfredo fait semblant en se déguisant d’avoir résolu son Oedipe. Mais pour que l’Oedipe apparaisse malgré tout, Alfredo s’oblige à des manoeuvres auxquelles il ne paraît pas croire vraiment, comme de maquiller sa mère en putain, ou de danser avec elle.
Cependant toute la construction désespérée d’ Alfredo vole en éclats. Il aurait fallu que son père ait une autorité remarquable pour contrebalancer celle de sa mère, qu’il ait été en quelque sorte un roi, le roi de sa reine (qui est aussi, rappelons-le, le prénom de sa mère), pour que le complexe oedipien puisse apparaître, car l’enfant oedipien est non seulement jaloux de la séduction de son père, mais aussi de son autorité. Or Alfredo ne croit pas,
n’a sans doute jamais cru à cette idéalisation de son père à laquelle se livre Reine pendant une bonne partie de la pièce (et qu’il imite en s’idéalisant lui-même au cours d’un long monologue). De plus, Reine révèle dans la pièce ce qu’elle aurait dû taire: que la petite comédie de l’enfant, conquérant un début d’autonomie en pénétrant dans la chambre des parents, était truquée, puisqu'elle se faisait avec leur accord tacite. Et, symboliquement, la mort d’Alfredo à la fin de la pièce est provoquée par cette révélation. La vie en effet n’est plus possible si l’on reste coincé à la charnière entre les deux plus importantes étapes du développement de la mentalisation de l’enfant, refusant à la fois le retour à la confusion des sentiments narcissiques et l’avancée dans un monde redoutable régi par la loi (le complexe oedipien), ou si l’on préfère, la vie n’est plus possible si l’on demeure en suspens entre l’imaginaire et le symbolique. Comment vivre quand la vie vous rejette et ne vous accorde pas les faveurs qu’elle dispense à d’autres? Vivre au milieu de ses fantasmes? Sans doute! Les comportements du couple formé par Antonino et sa soeur Priscilla dans L’aberration des étoiles fixes dépassent les bornes de la normalité. «Ma soeur, mon épouse, ma mère!» pourrait dire Antonino à Priscilla «mon frère, mon enfant, mon mari!» pourrait lui répondre cette dernière. Ce couple digne des Pharaons, au moins dans imagination déliranteson, va s’autodétruire sous nos yeux. Ils pressentent tous deux le destin tragique qui les menace, après avoir compris l’origine de leur lien incestueux, (même s’ils ne passent pas à l’acte). Très tôt orphelins, vivant ensemble pendant plus de cinquante ans, aucun des deux n’a réussi à s’arracher à ce qui restait de la cellule familiale, après la perte de leurs parents. Et nous assistons à leurs ultimes efforts pour échapper à leur sort. Lui projette un
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voyage insensé à travers le monde vers une Chine mythique, en construisant, d’abord à domicile, une motocyclette achetée en pièces détachées (trois cents petites boîtes), qu’il monte peu à peu: elle s’acharne à faire échouer son projet. Antonino y renoncera de lui-même, car il est saisi par la peur d’être à nouveau repris par ce trouble psycho-somatique dont il est atteint et qui l’assaille dès le début de la pièce: il avale sa langue risquant de mourir par étouffement; ce trouble, qui traduit un repli sur soi-même, s’op-
pose au processus d’expansion ou de dilatation annoncé par le titre, à savoir l’éloignement progressif du frère et de la soeur, comparable à l’écart croissant qui se creuse entre les galaxies (Antonino se trompe du reste en dénommant ce phénomène «aberration des étoiles fixes». Ce dernier phénomène correspond astronomiquement à autre chose). Un autre moyen pour échapper à l’enfermement est d’aller chercher une femme dans un «clan» étranger qui permet l’exogamie, mais là encore, il la trouvera sur le trottoir situé immédiatement sous ses fenêtres et qu’arpente la «luciole» Passiflora, une belle de nuit. Il n’arrivera pas à se faire
épouser de sa luciole puisque Passiflora — personnage simple et empreint d’une grande poésie —, elle arrive du reste chargée de fleurs — s’en ira finalement vivre avec celui-là méme qui devait étre le libérateur de Priscilla et son futur époux. On remarquera que ce dernier, dompteur de lions à la retraite, n’apportait pas vraiment une bouffée d’oxygène puisque, avant de participer à la vie du couple, il vivait enfermé chez lui, couché la plupart du temps avec son transistor pour toute compagnie. Ramon, le dompteur pusillanime et Passiflora la belle de nuit sont là pour révéler la complexité de l’autre couple, mais ne suscitent eux aucune interrogation anxieuse. Dans cette petite cellule familiale de Priscilla et d’ Antonino un événement va servir de détonateur. C’est la révélation
d’ Antonino, qui avoue
avoir fait semblant de partir au bureau tous les matins mais qui en fait a été liciencié par son chef. Après cette mise à pied, il avait du reste disparu pendant un mois, fuyant la réalité et se réfugiant dans une clinique psychiatrique où il a subi des électrochocs. Cette retraite forcée a entraîné à son tour la psychose de Priscilla partie à la recherche d’ Antonino, et qui se berce dans des fantasmes sexuels où son frère joue un ròle de procréateur. Elle invente un récit délirant: elle révèle qu’elle a gardé cinquante ans dans son ventre par une aberration de la nature «une petite soeur monozygote« qui serait née pendant la disparition du frère en clinique psychiatrique et n’aurait pas survécue. Ce bébé monstrueux, fruit de la copulation fraternelle, elle va même jusqu’à servir son effigie supposée à table, en confectionnant un enfant en pâte qu’elle met dans la soupière et qu’elle présente à ses convives; ces derniers, horrifiés, refuseront bien sûr de le manger.
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En inventant cette fable, Priscilla ne sait pas que ce bébé, qui est son double, annonce ainsi par son destin tragique, sa disparition prochaine. Remarquons que cet épisode, situé vers la fin de la deuxième partie, constitue un sommet paroxystique dans la progression dramatique, et redouble encore, en lui donnant une charge sémantique nouvelle, le thème de cette pièce: n’avoir de vis-à-vis que son frère, c’est se retrouver en face de soi-même.
Cette invention fait en même temps évoluer le couple frère-soeur vers un couple gémellaire soeur-soeur dont les relations ici évoquent d’ailleurs autant ce type de lien familial que le rapport mère-fille. Là nous entrons dans le cadre des névroses narcissiques, mal mentalisées dans la mesure où la
structuration oedipienne n’est pas survenue, et qui se traduit justement, comme l’a montré, entre autres, Pierre Marty, par une pathologie de la relation entre ces deux éléments du nucléus familial, qui les accompagne tout au long de leur vie (en absence de traitement). Dans cette pièce, où les deux possibilités d’union exogame de Priscilla et d’ Antonino ont échoué, où les tabous ont volé en éclats, même si cette explosion n’est restée que fantasmatique, l’issue sera fatale, Antonino tuera Priscilla qui tricote tranquillement en robe de mariée, en l’écrasant dans leur appartement avec sa motocyclette, geste et attitudes combien symboliques! Tout s’est donc passé comme si l’incursion d’autres personnages, donc étrangers à ce monde de l’imaginaire, où sont restés Antonino et Priscilla, avait contribué à mettre
un terme à leur drame. Dans /ssue de secours, ils sont deux, face à face, n’osant même pas montrer leur profil de peur de perdre «la face», cernés dans leur appartement par une nature de fin du monde, avec les rochers, les maisons, les clo-
chers qui montent ou baissent au rythme d’un tremblement de terre très ralenti, ou bradyséisme et ils n’osent plus affronter l’extérieur — pas plus que ces chats affamés, seuls habitants de ce quartier d’une Naples imaginaire abandonnée par les hommes et par Dieu. La pièce présente-t-elle une parabole tragique et grotesque à la fois sur la déréliction qui marquerait notre époque? Ce genre de couples accusateurs, on les a déjà rencontrés dans les pièces de Beckett ou celles de Pinter, auteurs auxquels on se réfère immédiatement lorsqu’on aborde le théâtre de Santanelli. Ils s’inscrivent dans cette tradition en y apportant toutefois la spécificité de leur caractère napolitain. Pitoyables lorsqu'ils sont seuls, comme les pauvres hères rencontrés dans le théâtre d’Eduardo De Fi-
6 Pierre Marty, L'ordre psychosomatique, Paris, Payot, 1980.
623
lippo, les deux personnages forment ensemble une cellule qui nous révèle au contraire la richesse de la condition humaine. C’est en effet le thème de la spécularité, du miroir, qui est le véritable sujet de la pièce. Qu’y a-t-il de commun entre ce sacristain en rupture d’Eglise, sinon de foi (quoique celle-ci ne paraisse plus chez lui qu’un vernis prét à s’écailler), et cet ancien souffleur de théâtre qui vivent ensemble? L’attirance mêlée de répulsion entre les deux protagonistes nous est remarquablement transmise, elle paraît presque justifiée dans la mesure où ils arrivent à une meilleure connaissance de soi-méme et de l’autre, gràce aux provocations réciproques qui ne cessent de développer leurs capacités de réaction. Nous assistons en effet à un festival d’injures, à l’invention de ruses pour pouvoir fouiller dans le coin réservé à l’autre, de récits de rêves (vrais ou inventés) pleins de mena-
ces pour l’interlocuteur, de remarques blessantes qui atteignent les points les plus sensibles. Dans ce crescendo continuel de disputes, les personnages se frayent un passage à travers le séisme et les griffes de chat, qui devrait les conduire — selon le pessimisme de l’auteur — à leur anéantissement, mais leur difficile parcours peut aussi être considéré comme une ultime étape avant d’entrapercevoir l’issue de secours, vers on ne sait quelle terre devenue accueillante et vers un ciel clément. La dernière pièce Un excès de zèle présente un couple très ordinaire, l’épouse Aurore a trente-cinq ans, elle n’est ni belle ni laide, l’époux Ivio,
est un musicien de quarante-cinq ans, oboiste dans un orchestre. Ils ont un fils. Il y a aussi Demetrio, le père d’Aurore, un veuf. Pour arrondir les fins de mois, Aurore dactylographie les oeuvres d’un vieux romancier; dès le début de la pièce son comportement semble étrange et deviendra de plus en plus névrotique; tout d’abord elle tient d’étonnants discours aux fourmis de la maison avec qui elle stipule des contrats; elle laisse l’appartement en désordre, se montre volontiers nue devant son jeune fils (malgré les reproches d’Ivio), comme
Icare elle rêve de voler et finit par se battre avec son mari
pour une bêtise. Mais ce qui la fait souffrir au plus haut point est que son mari ne ne lui dise jamais «Aurore, tu as des mains d’or». Un matin, Ivio
quitte la maison en oubliant ses clés; par l’interphone il demande à Aurore de les lui jeter par la fenêtre, Celle-ci s'exécute, mais obéissant à une im-
pulsion, elle s’élance comme un oiseau par la fenêtre, avec les clés. si ce n’est que paradoxalement, au second acte, c’est Ivio que nous retrouvons sur une chaise roulante (sa femme lui est tombée sur la tête!) tandis qu’Aurore, délivrée de son mari, plus belle que jamais, à l’instar du vieux romancier du second étage, écrit de mauvais romans à succès. Elle vole (cette fois
en avion), autour du monde pour présenter ses oeuvres. Ainsi cette femme matriarcale et castratrice a phagocyté quatre hommes: le père devenu gar624
de-malade de son gendre, son mari désormais paralytique par sa faute, son fils dont on dit «che sta diventando un frocio» et le vieux romancier dépossédé de sa gloire. Dans ses pièces, Manlio Santanelli est passé maître dans le maniement de la stratégie théâtrale qui s’appuie sur le thème du miroir, de la gémellarité, puisque toutes ses pièces ont ce dénominateur commun; à travers ces couples en déséquilibre qui se reflètent l’un l’autre, — alors que dans d’autres circonstances ils pourraient guérir — nous assistons à l’aggravation en spirale de leur névrose, qui aboutit soit à la catastrophe provoquée par la destruction d’un des éléments du couple, soit à une solution qui fait apparaître un nouveau type de déséquilibre * (comme dans la dernière pièce examinée). Manlio Santanelli, dont nous n’avons pas analysé la verve comique qui aide à s’évader des situation pénibles qu’il nous expose, aime à nous lancer sur de fausses pistes, à entremêler les jeux d’illusion, à faire mentir
ses créatures sans que le spectateur soit dans la confidence. Mais les questions pressantes, les réponses des personnages, rendent bien compte de leurs transgressions, et de leurs névroses qui sont les signaux si souvent rencontrés de ce mal de vivre de notre époque.
7 C'est ce que dit Demetrio de son petit-fils. 8 Elie Bernard-Weil, Précis de Systémique Ago-Antagoniste, Paris, L’Interdisciplinaire,
1988.
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LUCIANA MIOTTO MURET
L'ARCHITETTURA EI SUOI RAPPORTI CON LA FOLLIA*
Col termine folies si denotavano, nel XVII e XVIII secolo, delle pic-
cole lussuosissime case! generalmente situate nei parchi all’esterno della città; erano così chiamate sia in riferimento alla follia del loro costo, sia per
indicarne il tipo di architettura «stravagante» con cui erano realizzate. Folies si chiamano anche le piccole costruzioni rosse che punteggiano, in una trama regolare, il parco parigino della Villette, realizzate da Bernard Tschumi negli anni ‘80 [1] ©. Ma l’architettura ha dei rapporti con la follia molto più diretti della semplice denominazione di una tipologia, specialmente se diamo di essa una definizione molto ampia, se intendiamo cioè, come W. Morris, che «l’architettura abbraccia l’intero ambiente della vita umana [...]
e che rappresenta l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie, in vista delle necessità umane» ?. La follia, invece, «c’est d’avoir des pensées inchoérentes et la con-
duite de méme» scriveva Voltaire nel Dictionnaire philosophique. Più correntemente si caratterizza per un comportamento irrazionale: «la folie des passions», come la considerava Anatole France, o la «déraison»; le passioni
non essendo per natura ragionevoli. Ma la follia non è poi così pazza, né certamente senza brio: «qui vit sans folie n’est pas si sage qu’il croit», confermava La Rochefoucauld. I rapporti tra architettura e follia si imperniano almeno intorno a tre temi, sui quali, ad ogni modo, esporremo le nostre considerazioni. Il primo riguarda l’architettura per i pazzi. Dal XIX secolo, col riconoscimento sociale della demenza come malattia mentale, si creano delle
“ La numerazione tra parentesi quadra rinvia all’ordine di successione delle riproduzioni fotografiche allegate al presente saggio. ! Cfr. una delle più note descrizioni in Jean François de Bastide, La petite maison (1758), Palermo, Sellerio, 1989. ? William Morris, Architettura e socialismo, Bari, Laterza, 1963, pp. 3-4.
627
strutture apposite per isolare coloro che sono considerati pazzi, mirabilmente descritte e studiate da Michel Foucault?. Queste particolari architetture pongono degli interrogativi di fondo all’insieme della società sulla definizione stessa di follia e sulle ragioni oggettive e spesso soggettive che motivano l’isolamento dei pazienti e le caratteristiche degli spazi di internamento. Il secondo tema — le architetture che presentano dei segni estetici che rinviano alla follia — è di gran lunga il più complesso. Riunisce in effetti ciò che potrebbe rientrare nella sfera delle passioni, cioè l’architettura «ribelle», che si manifesta,
a un momento
dato, in opposizione alle regole ar-
chitettoniche dominanti di un’epoca. Rientrano inoltre in questa tematica anche le architetture «fantastiche», generate dalla volontà di differenziazione (spesso sono gli stessi committenti ad inventarle) e quelle che derivano da una ricerca onirica; nonché le architetture «visionarie» che si di-
stinguono dalle fantastiche per il carattere di razionalità che è la base delle loro concezioni. Il terzo tema, infine, riguarda l’architettura che genera nevrosi e sintomi di follia a causa della sua composizione degli spazi, per l'aspetto a volte carcerale del suo insieme [2]. In tale quadro, anche la megalomania di
certi architetti e di certi committenti può contribuire a realizzazioni smisurate o eccessivamente ripetitive in cui l’uomo «abitante» perde i punti di riferimento e diventa letteralmente «alienato».
1. L'architettura della follia
Esaminiamo qui l’architettura costruita specificatamente in funzione della follia. Come
ha scritto Foucault,
il concetto
di follia subisce
un
profondo mutamento verso la metà del XVII secolo: mentre prima i pazzi non rientravano in una particolare considerazione, da allora il mondo del-
la follia comincia a diventare sempre più il mondo degli esclusi. Per loro si costruiscono, fino alla metà del Settecento, dei grandi edifici, con funzione di asilo e ospizio, che accolgono indifferentemente, senza una precisa vocazione medica, oltre ai pazzi, tutta una serie di individui molto diversi tra loro, come poveri, invalidi, libertini, vecchi in miseria, dissipatori di beni, ecclesiastici messi al bando, disoccupati da sempre, «bref, tous ceux qui, par rapport à l’ordre de la raison, de la morale et de la société, donnent des
* Michel Foucault, Histoire de la folie à l'age classique, Paris, Gallimard, 1972.
628
signes de dérangement» *. Tuttavia i malati mentali sono anche accolti negli ospedali generali e nelle prigioni. Con la cultura illuminista comincia a farsi strada l’idea che la pazzia possa assimilarsi ad una vera malattia; notevole fu in Italia l’influenza del-
le leggi sui pazzi, promosse nel 1774 dal Granduca Leopoldo di Toscana, che stabilivano la precisa ubicazione dei manicomi e tendevano «ad elevare le istituzioni per alienati da luoghi di costrizione e di tortura a benefici centri di accoglimento e di cura per gli ammalati di mente, improntati al carattere ospedaliero» °. In Francia, l’avvento della Rivoluzione libera gli internati (1795), ma, per mancanza di attrezzature adeguate a riceverli altrove, vengono in parte trasferiti in ospedali generali o nelle prigioni; nel 1797 si riaprono gli ospizi. Tuttavia, a cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, emerge una nuova teoria della reclusione, in particolare con gli studi di Philippe Pinel (Le traité de la manie, 1800), che considerano la fol-
lia come una malattia curabile e, all’opposto dei trattamenti fisici brutali che accompagnavano l’internamento, pronano «un trattamento morale». Gli ospizi diventano ora «maisons de traitement des aliénés»: è l’inizio degli ospedali psichiatrici. Ma sarà soprattutto /a teoria dell’isolamento di Esquirol f a definire con precisione il nuovo funzionamento dell’architettura psichiatrica per tutto il XIX e metà del XX secolo. Come sottolinea Pinon, «l’isolement c’est déjà tout un programme architectural. C’est par définition, la justification de l’existence même de lieux résevés aux aliènés, c’est-
à-dire d’asiles» ?. La teoria di Esquirol è quindi all’origine della nuova architettura degli asili per alienati, che trova il suo apice nella risistemazione (1838) dell’ospizio di Charenton, nei pressi di Parigi, diventato da allora la «Maison Nationale de Charenton» 8, la prima in Francia ad essere unicamente
4
Roland Jaccard, La folie, Paris, PUF, 1979, p. 18.
* Pasquale Carbonara, /stituti di cura per le malattie nervose e mentali, in Architettura pratica, Torino, UTET, 1954, II, p. 621. 6 In Mémoire sur l'isolement des aliénés (1832) — pubblicata in Etienne Esquirol, Examen du projet de loi sur les aliénés (Paris, 1838) — l’autore afferma che «L’isolement des aliénés consiste à soustraire l’aliéné à toutes ses habitudes, en l’éloignant des lieux qu’il habite, en le séparant de sa famille, de ses amis, de ses serviteurs; en l’entourant d’étrangers; en
changeant toute sa manière de vivre». ? Pierre Pinon, L'ospice de Charenton - temple de la raison ou folie de l’archéologie, Paris, Mardaga, 1981, p. 22. 8
«Charenton» e «Sainte Anne denotano in Francia, come «Bedlam» (da Bethlehem
Royal Hospital) in Inghilterra, nel linguaggio comune, i manicomi.
629
destinata alla cura della follia [3]. La data della sua costruzione coincide
con quella della legge francese sull’«internamento degli alienati» (ancora in vigore), che stabilisce l’obbligo di attrezzare ogni Dipartimento di un organismo pubblico destinato ad accogliere e curare questo tipo di ammalati. L'esempio di Charenton è importante non solo perché è rappresentativo del nuovo funzionamento, ma anche perché rapidamente acquisisce una reputazione mondiale e il suo impianto architettonico diventa il modello di tutti imanicomi dell’epoca. L'architetto Gilbert, che lo realizza tra il 183845, riprende, ingigantendolo, lo schema d’asilo di Esquirol e Lebas, che ricalcava il modello degli ospizi settecenteschi, tutti organizzati intorno ad una corte, con un corpo centrale adibito all’amministrazione e le ali laterali alle cellule dei degenti, divisi per sesso. Per Charenton, Gilbert si ispira anche all’ospedale Maggiore di Milano (fine del XV e XVII secolo, su progetto di Filarete). L’evoluzione funzionale dei manicomi ottocenteschi riguarda principalmente la classificazione dei malati (curabili-incurabili, per sesso, per età, per statuto sociale); mentre la composizione architettonica mantiene l’impianto assiale con i quartieri ai lati e le forme neoclassiche assumono un aspetto più monumentale e sempre più eclettico. Gli spazi interni, sempre più freddi ed angoscianti, traducono perfettamente il programma di segregazione, concentrazione,
esclusione e isolamento.
La loro distribuzione
funzionale era in parte anche derivata dalla necessità di sorveglianza col minimo di personale. In seguito, l’evoluzione dell’architettura manicomiale segue quella del concetto di psichiatria: nella prima metà del XX secolo diventa infatti «ospedale psichiatrico» e il suo funzionamento si orienta verso le soluzioni di tipo «ospedale-villaggio», cioè a padiglioni disseminati nel verde. Ricreare lo spazio e la vita del villaggio — soprattutto introducendo il lavoro — doveva favorire la guarigione degli alienati. Tra gli esempi di questo tipo possiamo citare l’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma, o il progetto proposto dal dottor Bonnafé in Francia. Negli anni ‘50 si ritorna a forme più raccolte e più concentrate: l’organizzazione «a padiglioni» [4] si evolve nella disposizione «per zone» di servizi e degenze, a seconda della loro specializzazione, fino a raggiungere una disposizione «a monoblocco». Il «gigantismo ospedaliero» degli anni ‘60 e °70 non risparmia i settori psichiatrici, tutti puntati sulla superconcentrazione dei nuovi servizi e delle tecnologie moderne. Prolifera, allora, un'architettura prefabbricata, costruita in serie, sempre più banalizzata
e normalizzata. Negli anni ’80 i servizi di psichiatria rimangono inglobati nei grandi ospedali generali, spesso, architettonicamente, costituiscono dei
630
settori specifici anche a causa della loro distribuzione funzionale. In Francia, forse più che altrove, la loro architettura si rinnova secondo i modelli
compositivi correnti e un più attento uso dei materiali. Il rapporto tra la cura della follia e l’architettura è un rapporto di tipo lineare, nel senso che non implica alcun coinvolgimento da parte dell’architetto al problema della follia: egli è il semplice esecutore del programma dei psichiatri.
2. Un’architettura difollia
Di altro tipo sono invece i rapporti tra architettura e follia se al posto della funzione consideriamo il suo risultato estetico, compositivo e formale.
2.1. L'architettura ribelle. Così se al termine «ambigu et fourre-tout» (Thévoz), «générale et trés vague» (Lalonde) di follia diamo più particolarmente il significato di «déréglement», di aberrazione, di stravaganza — non tanto nel senso di un qualcosa che evade dal controllo della ragione, quanto in quello di un modo di agire o di fare (progettare) «irrazionale» rispetto a norme prestabilite —, se diamo cioè il senso di «diverso» e «sregolato» appunto rispetto alla normalità, possiamo allora affermare che anche nel campo dell’architettura incontriamo dei fenomeni di «sregolamento». Essi compaiono in certi momenti di cambiamento culturale e sociale, manifestandosi con l’apparire di nuove tendenze o movimenti architettonici, che vengono poi identificati, attraverso le loro forme, in certi determinati «stili». Pensiamo, ad esempio, al Manierismo, o almeno alle sue pri-
me manifestazioni architettoniche, in cui appare un nuovo modo di progettare, che va appunto contro le regole di composizione classica del primo Rinascimento, producendo una sorta di forme «deviate». Il palazzo Te a Mantova (1524-1535 circa) di Giulio Romano è forse l’esempio più clamoroso, non a caso definito «il palazzo dei lucidi inganni» ?. L'elemento più aberrante — non solo rispetto al comporre secondo gli ordini, ma anche rispetto alla statica — è il noto scivolamento dei triglifi nella trabeazione di una delle facciate interne del cortile [5]. L'architetto, abbassando il concio
col motivo del triglifo, spezza visualmente la trave portante della facciata.
° Amedeo Belluzzi-Walter Capezzoli, /! palazzo dei lucidi inganni - palazzo Te a Mantova, Firenze, Galleria d’arte Moderna,
1976.
631
Tra le altre «sgregolatezze» del Te, ricordiamo anche le composizioni a simmetrie «false» — ma che sembrano «vere» — in altre facciate. All’interno del palazzo si trova il contrappunto di tali follie nel famoso affresco della Caduta dei giganti, in particolare nell’immagine della «caduta» (crollo) dell’architettura. Entrambe sono state lette come simboli della caduta dei valori religiosi e della rottura degli equilibri politici dell’epoca. Giulio Romano, ad ogni modo, con quel gioco di irrazionalità formali
e compositive, ha contribuito a dare il via a quella che diventerà una nuova «maniera» di fare architettura, nella quale ogni segno «fuori regola» verrà rapidamente considerato normale e darà luogo a una serie di «manie» architettoniche, proprie del Manierismo. Altri movimenti più recenti, come l'Art nouveau, il Futurismo o l’at-
tuale Post-moderno sono ugualmente sorti da posizioni di rottura con la cultura dominante. In tutti si ritrovano i medesimi atteggiamenti di critica e ribellione alle pratiche architettoniche precedenti, che si manifestano con forme nuove, considerate spesso folli e assolutamente
«sregolate». Esse
vengono in seguito usate senza più scandalizzare, e — come fenomeni di moda — finiscono con lo scomparire. Simili atteggiamenti suggeriscono un parallelo col mondo della follia mentale o patologica, come il «rituale di ribellione» (Jaccard); oppure, come certe malattie mentali (tipo l’isterismo)
che, considerate tali al loro apparire, in seguito non lo sono più, o addirittura scompaiono a seconda dell’evoluzione della società e della cultura. Il movimento dell’ Art nouveau (Modern Style, Secessione, Jugenstil, Modernismo o Liberty) nasce come rivolta all’architettura delle Accademie della fine del XIX secolo e, ispirandosi alle teorie romantico-sociali da J.
Ruskin e di W. Morris, aspira a portare «l’arte in tutto e per tutti». Gli architetti, usando i materiali in modo «vero» — non in modo falso per seguire le forme dei vari stili — e ispirandosi alla natura, creano delle opere più libere; in certi casi perfino fantastiche e deliranti: ma, proprio per queste caratteristiche, ne citeremo alcune nel paragrafo seguente. I progetti futuristi !°, invece, ostentano — come tutto il movimento —
delle posizioni più radicali di rottura col passato. Benché i disegni di Sant'Elia ! siano i soli manifesti architettonici del primo futurismo (19101915), traducono perfettamente il mito della modernità, tanto difesa e de-
"In Italia, nel linguaggio comune, il termine «futurista» denotava, almeno fino agli anni ‘60, un aspetto «stravagante» della modernità. "Antonio Sant'Elia, L’opera completa, Milano, Mondadori,
632
1987.
cantata da tutti i futuristi [6]. Ma i progetti santeliani resteranno sulla carta o, al più, diventeranno scenografie teatrali, come quelle del contemporaneo Virgilio Marchi !?; tuttavia, influenzeranno la città moderna. La New
York degli anni ‘20-30 rinvia perfettamente all'immagine della «Città nuova» di Sant'Elia, come pure le scenografie architettoniche di Metropolis, ugualmente ispirate ai suoi progetti. Ma l'atmosfera urbana di quel famoso film presenta ben altri sintomi di follia [7].
Fra i progetti urbani futuristi, merita ricordare quello lanciato da Marinetti per Venezia, si proponeva — vera follia provocatrice — di asfaltare il Canal Grande per percorrerlo in macchina. I progetti di Sant'Elia sono invece più sobri, nel senso che presentano alcune ossessioni nell’uso sistematicamente ricorrente di certe forme e materiali, come le facciate oblique e il vetro. L'attuale movimento
Post-moderno,
specialmente nella sua versione
europea, si è sviluppato come reazione al Movimento Moderno, reazione cioè a quelle forme «razionali, lineari e geometriche, dalle quali l'elemento fantastico-estetico-decorativo era stato bandito affinché la forma seguisse rigorosamente la funzione. Gli architetti post-moderni reagiscono a quelle forme e soprattutto ai modelli urbani da esse generati, che hanno contribuito a
rendere la città sempre più invivibile. Per rendere eloquente la loro posizione di ribellione ai canoni «moderni», i post-modernisti ricorrono a una serie di motivi simbolici (rovine, frammenti, ...), di elementi architettonici più disparati (il pezzo «incompiuto», la fessura, ...) e di citazioni storicistiche (dagli ordini classici a quelli eclettici; dai temi haussmanniani a quelli moderni): tutti usati in modi «devianti» e, al limite, con effetti «dis-integranti» !3.
Uno degli edifici post-modern più interessanti è il centro commerciale «Notch Project» della catena Best, realizzato dal gruppo SITE !' a Sacramento, in California [8]. È un perfetto parallelepipedo costruito con mattoni a vista e volutamente sbrecciato in un angolo; lo spigolo rotto sottostante resta però mobile e, spostandosi su rotaie, chiude ed apre il centro. L’effetto simbolico della «caduta», «frammentazione»,
«sgretolamento» dei valori
sicuri dell’architettura moderna appare qui dei più immediati; l’edificio, uno dei primi del movimento, resta ancora oggi una sorta di manifesto.
2 Virgilio Marchi, Architetto scenografo futurista, Milano, Electa, 1977. 13 Charles Jencks, The Language of Post-Modern architecture, London, Accademy edi-
tions, 1977. 14 SITE, De-architetturizzazione. Progetti e teorie
1969-1978, Bari, Dedalo libri, 1979.
633
Alla de-costruzione di una rovina moderna segue, in miriadi di altri progetti, la mania delle «citazioni», usate come simboli o metafore; o l’os-
sessione delle «tipologie». Il risultato è una moltiplicazione di codici e di segni che fanno perdere ogni senso di lettura all’architettura contemporanea. AI pari di alcuni casi di follia mentale o patologica, questi stili possono essere considerati come un prodotto, un’espressione del modo di vivere e di pensare di un determinato periodo. L’origine delle ossessioni del Post-modern — cioè l’origine dell’attuale modo di vivere nelle nostre moderne metropoli — sembra ritrovarsi nel simile impiego ossessivo dei più svariati elementi stilistici dell’architettura ottocentesca. «Quando nell’osservare un ‘pezzo’ di architettura di epoca vittoriana — scrive M. Tafuri — si è colpiti dall’espasperazione dell’’oggetto’ che viene lì compiuta, troppo raramente si tiene presente che eclettismo e pluralismo linguistico rappresentano, per gli architetti dell’800, la giusta risposta ai molteplici stimoli disgregatori indotti dal nuovo ambiente configurato dall’universo della precisione della realtà tecnologica» !. 2.2 Le architetture fantastiche. Abbiamo precedentemente accennato all’esistenza, nell’ambito dell’ Art nouveau,
di un tipo di architetiure
maggiormente legate alla fantasia e di carattere decisamente onirico. Architetture che, al loro apparire, hanno sollevato le critiche più denigratorie,
specialmente per il disturbo che provocava il loro aspetto ‘insolito’, o ‘esotico’ o addirittura comportante folli stranezze. A Parigi, le entrate della metropolitana di Hector Guimard [9] avevano provocato al loro apparire (1900) violente critiche, specialmente i padiglioni a edicola (quasi tutti scomparsi), che erano visti come delle «édicules tortueux, de lignes et de
tonalités malsaines, issus des profondeurs de 1’ Apocalypse» !°. Ancora più fantastiche sono le opere del catalano Antén Gaudî, sicuramente l’architetto art nouveau che ha saputo con maggiore genialità far coesistere scienza e fantasia. Anche in Gaudî, l’ispirazione alla natura, portata al parossismo, genera forme fantasmagoriche, oniriche. Si pensi alla facciata della casa Batllo [10] (1905-1907) e al suo tetto «a dorso di drago» (motivo usato anche nel parco Guell), o alla famosa chiesa della «Sagrada Familia» (1884-1926), la cui struttura, dimensione e caterva di dettagli de-
!°
Manfredo Tafuri, Progetto e utopia, Bari, Laterza, 1973, p. 42.
!6 Citato in Roger-Henri Guerrand, Mémoires du Metro, Paris, La table ronde, 1960, p. 82.
634
corativi non finiscono di stupire anche i visitatori di oggi. Non a caso, fu proprio il surrealista Salvator Dalf a riscoprire Guimard e Gaudî e l’Art nouveau in generale. Egli trovava nella «bellezza terrificante e commestibile dell’Arr nouveau» !” materia per affermare la validità del suo «metodo paranoico-critico», combinazione di pittura metafisica e di psicanalisi freudiana. Altre interessanti architetture fantastiche sono quelle ideate dagli stessi committenti, come nel caso del parco di Bomarzo (XVI secolo) nelle vicinanze di Viterbo. Tra gli strani oggetti che lo arredano, vi è una casa tutta costruita su piani obliqui: se il riferimento alla «linea d’orizzonte» è in un certo senso il «la» dell’architettura, la casa di Bomarzo è allora pura fol-
lia, negazione del senso di gravità, perdita dell’orientamento (implicita del resto nel programma di tutto il parco). Ma il tema dell’«architettura obliqua» lo troviamo ripreso anche in epoca più recente, precisamente nella teoria di CI. Parent e P. Virilio À, manifestatasi in realtà soltanto in disegni
architettoni fantastici. Altro giardino, forse ancora più inquietante, quello della villa siciliana di Bagheria, detta appunto «la villa dei mostri» (XVIII secolo). L’architetto, l’ideatore del fantastico complesso è lo stesso proprietario: il Principe di Palagonia, che — come scrive Giovanni Macchia — «attraverso la sua opera denunciava il bisogno di meravigliare, di scandalizzare, d’impaurire, addirittura d’atterrire. Era forse il Principe un rivoluzionario del gusto che si lanciava contro il proprio secolo, non adoperando né la penna né la spada? O si nascondeva in lui un’ambizione beffarda... una deserta violenza,... una malattia?... I medici, con l’ausilio della loro scienza, ne decretavano formalmente la follia. Ma su quali basi? Sempre su ciò che aveva lasciato,
non su ciò che egli era» !?. Altro esempio di costruzione incredibile è il Palazzo di Ferdinand Cheval [11], il postino di campagna che, con pietre e ciottoli «à la forme bizarre, à la fois si pittoresque» °°, raccolte per più di una quarantina d’anni, costruì uno strano monumento. In origine doveva essere la sua tomba, poi, nei trent’anni della sua costruzione (1879-1912), diventò una sorta di pa-
17
Salvador Dali, De la beauté terrifiante et comestible de l’architecture Moderne Sty-
le, in «Le Minautaure»,
1933.
18 Claude Parent, Vivre à l’oblique, Paris, L’avventure urbaine, 1966. 19 Giovanni Macchia, // Principe di Palagonia, Milano, Mondadori, 1978. 20. Peter Prangnell, // palazzo ideale di Ferdinand Cheval, in «Spazio & soietà», 1984,
27, pp. 8-29. 635
lazzo fantastico, con terrazze, gallerie, grotte, torrette, osservatori e strettissime scale a chiocciola; il tutto difficilissimo da descrivere, ma con degli
spazi interpenetrabili di straordinaria invenzione. L’opera è considerata come un esempio di art but; in tali opere, secondo Jean Dubuffet «risplende la creazione allo stato puro, libera dai compromessi che deformano il processo creativo delle opere dei professionisti... Artisti matti? Certo. Potete immaginare un’arte che non sia folle?». Infine, come ultimo esempio della categoria delle architetture fantastiche, per follia e bizzarria anche degli stessi artisti o committenti, citiamo il caso di quei proprietari che, pazzi del loro mestiere, ne espongono i segni, molto visibilmente, sulle proprie abitazioni. Un aereo, o più comunemente una nave sul tetto non sono elementi rari in certe case: anomalie non solo della diversità, ma dell’incredibile.
2.3 Le architetture visionarie. Mentre nel campo della pittura già i primi psichiatri si erano interessati alle produzioni artistiche dei loro pazienti, in quello dell’architettura, tali tipi di esperienze, anche terapeutiche,
non sono realizzabili, data la complessità della «costruzione» architettonica. Tuttavia anche in questo settore si hanno esempi di produzione di progetti e di disegni, da parte di architetti, se non proprio malati mentali, perlomeno nevrotici, ma senz’altro inquieti e tormentati. Come afferma M. Thévoz: «plus l’art est fiévreux et imaginatif (autrement dit, mieux il répond à la vocation qu’on lui assigne dépuis la Renaissance), plus il fait intervenir des processus mentaux similaires à ceux qui se jouent dans ce qu’il est convenu d’appeler folie» ?!. «Furori architettonici» si incontrano in alcuni architetti francesi del secolo dei Lumi, non per caso artisti che avevano vissuto l’inquietudine del periodo rivoluzionario. Essi rappresentano appunto il «movimento degli architetti della Rivoluzione» e realizzano dei progetti «visionari», molto audaci e nuovissimi, rispondenti ai nuovi principi. Il principale protagonista, e il più importante per le realizzazioni portate a termine, è senz’altro Claude Nicolas Ledoux, l’architetto della Saline di Chaux ad Arc-et-Senans; il realizzatore dei posti di blocco daziari di Parigi (di cui oggi ne restano solo quattro); l’autore di un incredibile produzione di progetti, che testimoniano il suo appassionato impegno per la ricerca di forme nuove, rispondenti alle nuove condizioni di vita. Nella lettera al corrispondente Lacoré
2!
636
Micheli Thévoz, Art etfolie, in R. Jaccard, La folie cit., p. 119.
(del 24 agosto 1775), al quale presenta i suoi progetti, Ledoux scrive: «A la première exposition, je passeray pour un fou; mais si l’on veux m’entendre jusqu’à la fin, j'espère que je gagnerai des voix» ?°. È suo il famoso disegno del «coup d’oeil» con l’interno del progetto del teatro di Besançon, visto dentro l’iride dell’occhio [12]. Altro «espèce fou en architecture» (come
era stato definito da un anonimo partecipante ad uno dei concorsi dell’epoca) è Etienne-Louis Boullée, autore di una serie di progetti fantastici, destinati ad illustrare il suo saggio rimasto manoscritto *. Si tratta per lo più di smisurati edifici pubblici a temi rivoluzionari in cui viene proposto un tipo di architettura carica di significati morali e simbolici, tutta basata sulla
sperimentazione di forme geometriche elementari, drammatizzate da un disegno ad ombre molto contrastate. Il suo allievo Fontaine lo descrive nel suo Journal come «un homme d’un génie étendu, d’un savoir déreglé [...] qui passait sa vie à chercher le beau dans l’extraordinaire, et qui souvent ne trouvait que ces travers de l’exagération». Anche l’esperienza di certi stati d'animo, vissuti in maniera particolarmente forte, ispiravano la sua architettura: «Me trovant à la campagne j'y côtoyois un bois, au clair de la lune; mon effigie, produite par la lumière, excita mon attention (assurement ce n’étoit pas un nouveauté por moi). Par une disposition d’esprit particulière, l’effet de ce simulacre me parut d’une tristesse extrème [...] . Qu’y voyois-je? La masse des objets se détachait en noir sur une lumière d’une pâleur extrème [...]. Frappé des sentiments que j’éprouvois, je m’occupais, dès ce moment, d’en faire une application particilière à l’architecture [...]». Insieme ai simboli, da lui usati come «materiali», l'architettura delle
ombre — ispirata dalla natura — diventa il principio fondamentale dei suoi progetti. Essi provocano delle forti sensazioni. Davanti al progetto del Palazzo nazionale (1792), la signora Brogniart (moglie di un noto architetto), all’occasione di una visita à Boullée, descrive così la sua reazione: «C’est si pur et cela a un certain je ne sais quoi de si grand, que je me suis sentie la chair de poule en le regardant». La stessa reazione si prova oggi davanti alla magica follia delle architetture metafisiche e degli spazi smisuratamente grandi dei progetti di Boullée, come
nel Cenotafio di Newton
(1784) [13], e più ancora nella
2
Les architectes de la liberté 1789-1799, catalogo Expo, Paris, ENSBA, 1989.
2
Etienne-Louis Boullée, Architecture. Essasi sur l’art [1775-90 circa], tr. it. a cura di
Aldo Rossi, Padova, Marsilio, 1967.
637
nuova Sala della Biblioteca Nazionale di Parigi [14] dalle pareti smisurate, interamente rivestite di libri.
3. Architettura e genesi della follia
Quest'ultimo tema riguarda il caso in cui è l’architettura — e per estensione il suo quadro urbano — a provocare sintomi di malattie mentali, come stati di alienazione, nevrosi, angoscia, smarrimento, panico o altro. Le ar-
chitetture del movimento «espressionista» degli anni ‘20 ce ne forniscono un primo esempio. Opere come la Hoechster Farbwerke (1920-’25) di Peter Behrens a Francoforte sul Meno — in particolare lo spazio opprimente dell’enorme sala d’entrata [15] —; oppure il teatro di massa di Berlino (Grosses Schauspielhaus, 1919 [16]) e il progetto del Festspielhaus di Salisburgo (1921), immensa cavità racchiusa in una gigantesca cupola da cui pendono migliaia di stalattiti — entrambi di Hans Poelzig; o ancora il Chilehaus di Amburgo (1923) di Fritz Hôger [17], tutte trasmettono attraverso le loro forme e i loro spazi opprimenti un senso di angoscia e di esasperazione in cui si è voluto ritrovare l’eco dell’atmosfera della Germania del primo dopoguerra. Ma illuogo dell’alienazione assoluta resta la metropoli moderna, mirabilmente messa in scena in due film dell’epoca: il già citato Metropolis di Fritz Lang, con le sue scenografie ispirate alla città futurista e alle allucinanti architetture espressioniste, e Der Golem di Paul Wegener con le scenografie kafkiane, realizzate proprio da Poelzig, uno dei maestri dell’Espressionismo tedesco. La crisi della città e la distruzione del concetto di spazio erano già stati prefigurati da Giovan Battista Piranesi. Negli inquietanti disegni delle «carceri», le concezioni del tempo e dello spazio di tali luoghi di tortura sono assolutamente cambiate, essi sono diventati nuovi universi «meccanici»,
in cui «le figure umane sono presenti più per indicare il funzionamento delle macchine che per comunicare l’esperienza del tormento: le macchine di tortura divengono quindi il tramite dell’alienazione del soggetto alla ‘società civile’» *. Mentre, secondo Tafuri, nel Campo Marzio — «un informe coacervo di frammenti che cozzano l’uno contro l’altro — Piranesi rappre-
24
p.44.
638
José Lopez-Rey, citato in M. Tafuri, La sfera e il labirinto, Torino, Einaudi, 1980,
senta il dissolversi della forma, la disgregazione assoluta dell’ordine for-
male della struttura urbana» *. Fin dalla metà del 700 la città inizia la sua corsa sfrenata al gigantismo e alla sua inesorabile disgregazione. La follia industriale e tecnologica non ne è però la sola causa, altri programmi, legati a politiche autoritarie e speculative, investono la città con composizioni urbane che spingono sempre più alla follia. Così, la megalomania di alcuni progetti di storia recente, come certe architetture fasciste, ideate per rappresentare il potere. Fra tutte, citiamo le sistemazioni dello Zeppelin-Feld (1935), realizzate da Albert Speer per le grandi riunioni del partito nazista. Celebre fu quella notturna dell’11 novembre ’37, quando «i fasci luminosi dei giganteschi proiettori spuntarno nel cielo grigio della notte, come delle meteore» [18]. «Anche oggi — ci conferma L. Krier — molte persone sono turbate più dalla grandezza dei progetti di Speer che dalle immagini di Auschwitz» *#. In epoca più recente, per fra fronte alla grande richiesta di alloggi, nelle più grandi città di tutto il mondo si sono costruiti enormi quartieri residenziali; l’uso della prefabbricazione industriale consentiva di costruire
«insiemi» sempre più grandi e più densi in brevissimo tempo. Ma proprio i metodi della costruzione industriale richiedevano una composizione rigida e sistematicamente ripetitiva. In Francia l’esperimento raggiunge casi limite, come quartieri da 10.000 alloggi, corrispondenti a 50.000 abitanti. Citiamo il grand ensemble di Sarcelles, perché negli anni ’60 era stato dato il nome di «sarcellite» a certi sintomi patologici derivanti dal vivere in tali complessi. In Italia, l'esempio più noto e più contestato è il quartiere Corviale (1972-1982) costruito nella periferia di Roma e composto da un unico enorme edificio lungo 1 Km., sorta di «diga» di contenimento dell’espansione urbana incontrollata, «grattacielo orizzontale», o ancora «megastruttura tecnologica» per 8.500 abitanti [19]. Nella seconda metà degli anni ’60, si è iniziata tutta una serie di studi — sociali e psicologici — sui problemi urbani. Uno dei gruppi di riflessione tra i più interessanti è quello della Scuola di Francoforte, formatosi intorno a Alexander Mitscherlich, autore del noto libro, // feticcio urbano. «L’uomo diviene quel che la città lo rende» afferma l’autore, e le nostre
città lo rendono depresso e aumentano pericolosamente la distruzione del
25. Ivi, p. 46. 26 Léon Krier, Albert Speer, architecture 1932-42, Bruxelles, AAM, 1985, p. 15.
639
suo potenziale psichico. L’urbanistica moderna ignora i bisogni umani e l’edilizia dei quartieri sovvenzionati promuove «la disarticolazione, lo sradicamento del cittadino dalle tradizioni urbane, tale edilizia lo rende aso-
ciale» ??. In seguito al fallimento di quelle tipologie edilizie, in America, come in Europa, sono stati distrutti, con la dinamite, alcuni di quei quartieri [20],
senza per altro aver contribuito a rendere la città più «abitabile», meno «istigatrice di discordia».
27
°
.
È GRECA È . ° È Alexander Mitscherlich, // feticcio urbano. La città inabitabile, istigatrice di di-
scordia [1965], Torino, Einaudi, 1968, p. 38.
640
1. Bernard Tschumi, Studio
per una Folie del parco della Villette a Parigi (1986).
2. Aldo Rossi, Scuola De Amicis a Broni
(1969-1970).
3.
Emile Gilbert, La maison nationale de Charenton (1838-1845).
4.
Planimetria dell’ospedale psichiatrico «a padiglioni» (Ravenel [Vosgi], anni ’40).
II
5.
Giulio Romano, Palazzo
Te (Mantova, dettaglio del cortile interno,
1524-1535).
6.
Antonio Sant'Elia, La città nuova
(1914).
7. Virgilio Marchi, Palazzo postelegrafico (1919).
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9.
Hector Guimard, Pavillon Style Guimard (1903).
10. Antén Gaudî, Casa
Batllo (Barcellona, 1905-1907).
11. Palazzo di Ferdinand Cheval a Hautesrves (St. Vallier sul Rodano, 1879-1912).
12. Claude Nicolas Ledoux, Colpo d’occhio sul teatro di Besançon (1784).
VI
13. Etienne-Louis Boullée, progetto del Cenotafio dedicato a Newton (1784).
14. Etienne-Louis Boullée, nuova sala della Biblioteca Nazionale (1785).
VII
15. Peter Behrens, sala
d’entrata degli uffici della Hoechster Farbwerke a Francoforte sul Meno (1920-1925).
16. Hans Poelzig, Teatro di massa a Berlino (1919).
VII
17. Fritz Hòger, Chilehaus a Amburgo (1923).
18. Albert Speer, ZeppelinFeld (1935) [riunione notturna dell’11 novembre 1937].
19. Marzio Fiorentino e coll., Quartiere di Corviale
a Roma (1972-1982).
20. Demolizione di un quartiere popolare a Mantes-la-Jolie, periferia di Parigi (1992).
ENZA BIAGINI
E LA NEVROSI DEL CRITICO?
Di sicuro, la domanda, fatta scivolare da Anna Dolfi tra le riflessioni, più volte e a modo di biglietto falso (in confronto ai documenti autentici che attestano così ampiamente l’esistenza di esemplari forme tematiche della «follia nella letteratura moderna») ritorna ora, con il tono travisato del differimento, ingigantita, solitaria (superflua?). Eppure la tentazione di raccoglierla in differita, a tavolino, come si conviene ai discorsi intorno alla
critica, sempre ‘a freddo’ (quelli appassionati di solito sono riservati alla creazione vera, quella che il dio non abbandona), persiste ancora. Innanzi tutto, perché nevrosi e non follia a proposito dei critici? (Mi sembra questa la parte implicita della domanda). Penso perché l’alternativa pare non porsi: in apparenza non v’è traccia, neppure metaforica, nella critica, delle quattro forme della follia come
esperienza esistenziale, te-
matizzate nella relazione di Eugenio Borgna. Non che quelle modalità — l’esperienza dell’estraneità, della scissione-raddoppiamento, dell’assurdo,
della decostruzione del reale — siano forme soggettivamente aliene alla coscienza e all’attività del critico, solo che egli ne rende conto, le interpreta,
le commenta, non le rappresenta (qualora le rappresentasse non farebbe che passare il limite tra teoria e letteratura, limite che, per altro, è agevolmen-
te oltrepassato, anche se non in maniera così radicale, in tutti quei modi creativi di fare critica: il saggio, l'aforisma). Insomma, apparentemente, la critica si dissocia dalla follia (nell’arte) perché, principalmente, si dà il compito di riconoscerla, definirla, razionalizzarla, anche affermando, come nel caso di Borgna nelle giornate trentine, che la «schizofrenia non [è] solo [...] realtà clinica, una malattia, ma si te-
matizza come una esperienza costitutiva della condizione umana». Allo stesso modo anche il contatto, direi materiale — attraverso i testi che, uti-
lizzando ancora l’ipotesi di Borgna, «riflettono» l’esperienza schizofrenica — con tutte quelle «forme poetiche» della follia, tende ad una ricomposizione che non è di natura fantasmatica (anche quando, come si è sentito in diversi contributi del Convegno — ne cito solo alcuni per esemplificare: quello della Noferi, della Rosowsky, di Manica — il travaso contaminante è stato evitato quasi sul liminare). 641
È vero, però, che i casi di Einfühlung profonda consentono situazioni di mimesi. Tutti possono avere in mente le idee di collaborazione, continua-
zione del testo letterario, da parte della critica, che sono circolate sia nell’idea dell’approximation della critica francese, e, all’incirca negli stessi anni, nelle teorie dell’Ermetismo; ma, appunto, in entrambi i casi la soggettività del critico è esposta e non censurata dal formulario della retorica non soggettiva, ricorrente nella critica (mi viene in mente che il «noi», così frequente in cer-
te pagine di Bo, Macri o Bigongiari in quegli anni, può smentirmi: ognuno conosce però la funzione di plurale soggettivo di quella formula). Tuttavia, né la critica soggettiva — la «letteratura critica», per inten-
dersi — né quella sovversiva (di certe boutades non infrequenti negli anni della Nouvelle
critique) comportano
(hanno comportato)
un coinvolgi-
mento tale da oltrepassare la debita messa a distanza utile a salvaguardare il critico dalla tentazione mimetica di esperienze schizofreniche; non altrettanto neutralizzato, invece, mi sembra il rischio della nevrosi. Innanzi tutto il critico è responsabile e correo dichiarato (insieme al teorico) della nevrosi dell’artista: si è visto che risale fino a lui l’inizio di ogni concezione di assoggettamento dell’ispirazione, del furor, al fare e alle regole. Per la gran parte, la motivazione aristotelica, circa la natura e la funzione dell’arte finalizzata ad un recupero razionale, insieme a tutte le premesse di liceità
concesse sotto condizione, contiene proprio gli elementi di nevrosi più noti perché sono di carattere massivamente censorio (e ben presto applicati nella critica). Storicamente, la cosiddetta «critica degli errori», largamente
seguita nel formulare ‘giudizi’ sull’arte (e cito, tra tutti gli esempi possibili, l’incredibile «trattato di errori dell’arte» messo a punto dal Neifile) è una ineccepibile prova dell’esercizio di censura da parte della critica. Si dirà che tale pratica è da tempo obsoleta, ed è vero; ciò non toglie che proprio dalle pagine di Tolstoi, ad esempio, fosse mosso l’appunto nei confronti dei critici che, «senza capire un gran che», si mostrano troppo corrivi verso forme di arte ‘inaccettabili’, sbagliate, immorali, «imitazioni d’imitazioni»
(lodate dai critici, osservava Tolstoi, perché scritte a regola d’arte). Comunque sia, il compito della critica, anche quando non è limitato alla pratica della censura (tematica, formale, ecc.), applicata e perciò osservata, configura delle propensioni nevrotiche più o meno consapevoli. Se non sono i canoni ad agire da discrimine razionale, infatti, lo è il carattere delle finalità interpretative (seguendo ancora il pensiero di Tolstoi, capire, spiegare quanto non può essere spiegato, costituisce proprio uno dei demeriti imperdonabili della critica, tanto più che, sempre per Tolstoi, «i critici sono stati sempre degli uomini meno accessibili al contagio dell’arte che il resto degli uomini»).
642
Tuttavia, occorre tener conto che, generalmente parlando, l’atteggiamento critico in sé, da svariati decenni, non coincide più con l’atto di sentire (gustare), interpretare, giudicare e valutare, bensì corrisponde a tutte le forme di consapevolezza razionale dell’arte (nel nostro secolo sono quelle che implicitamente si riferiscono alla tradizione dell’artista faber — si pensi solo a Valéry — e, comunque alle forme metapoetiche, non più dissociabili della stessa pratica inventiva: romanzo e metaromanzo, poetica e poesia, ecc.). Ma può essere deviante, oltre che riduttivo, riprendere sia il tema dell’arte libera (o liberatoria di voci interiori incontrollate e situazioni di mimesi psichica) sia quello del controllo razionale, collocandosi dalla parte dell’artista, anche perché, specie per la nostra epoca, l’esercizio di consapevolezza razionale (rivolto alla complicità critica), è pressoché generale; inoltre esso non procede nello stesso senso: il critico come inventoreesecutore di canoni è anche totale censore di se stesso (nell’artista, invece,
tale censura è imperfetta). Infatti, la stessa consapevolezza razionale che induce il teorico a non mostrare le proprie emozioni e la propria sensibilità (sbagliando, diceva Tolstoi), lo porta a censurare, più o meno esplicitamente, la propria soggettività creativa. Da qui il bisogno di riscatto, fuori dalla critica, da parte di certi teorici, riscatto che è reso talvolta possibile nel passaggio ad una scrittura inventiva (in una recente intervista Julia Kristeva motiva la sua
opera di narrativa, Les Samourais, proprio come necessità di «sperimentare, nella pratica», in un linguaggio non teorico, la «connivenza tra le paro-
le e lo stupore dei sensi») !. Del resto, quella stessa tendenza a diffidare delle proprie sensazioni empatiche e delle proprie «impressioni» ha avuto un ruolo non secondario nel successo dei metodi: tutta la vicenda contemporanea della critica offre il modo di verificare la possibilità di autocensura derivante dai «ferri vecchi e nuovi» a disposizione dei critici. La garanzia del metodo di questi decenni recenti può essere vista come una compiuta realizzazione di autocensura, che, del resto, ha finito per coinvolgere la critica in quanto tale. Nel migliore dei casi si è trattato di sopravvivere con molti complessi (nei confronti dei ‘puri’ semiologi, ‘puri’ filologi, ecc., mimetizzandosi nella ‘lettura’, nell’‘interpretazione’...). In simili frangenti il censore-censurato si è dovuto muovere non senza qualche complesso di irregolarità (per eccesso o difetto, poco importa).
! Lettre ouverte à Harlem Désir, Paris, Rivages, 1990, p. 64.
643
Del resto, in questi anni il critico ha rischiato (per altro, non immotivatamente, vista l’imponente eccedenza scrittoria dei teorici) la pura e semplice messa in disuso. Non avevano, i formalisti russi, decretato l’ineffica-
cia della critica in quanto tale? Per altro, i primi segni del diffondersi delle teorie letterarie della Neo-avanguardia ha coinciso con la conferma, pressoché indiscussa, di uscire dai confini della critica. Ad esempio, sulle pagine di «Quartiere» (nel 1959) scriveva Pignotti: «la metodologia degli studi letterari sta gradatamente uscendo dalla fase di critica per entrare nella fase di verifica. Ormai il termine ‘critica’ suona ai nostri orecchi come un qualcosa di troppo soggettivistico, pressappoco di arbitrario, il termine ‘verifica’ portandosi dietro, dal campo scientifico, il peso del suo più elevato grado di oggettività, sembra prestarsi maggiormente al soddisfacimento delle attuali esigenze valutative» ?. Non è qui il luogo per ripercorrere i motivi di sommersione e di riemersione di tali idee nella teoria critica contemporanea, ma è forse possibile notare che, in entrambe le fasi (che coincidono, semplificando al massimo le complessità culturali coesistenti, col diverso andamento
dell’af-
fermarsi e del ridimensionarsi dell’esigenza e della prassi ‘metodologica’) è mutata solo la natura della nevrosi del critico. Anzi, per l’opinione corrente, la «cura dei metodi» ha funzionato per un certo periodo, fino a quando egli si è accorto (o gli è stato rimproverato, come accade al critico, nei confronti del quale, non pochi ripeterebbero volentieri l’auspicio di Goethe, all’incirca così formulato: «Uccidete quel cane, è un critico») di non essere vero filologo, vero semiologo, ecc. ma di essere semplicemente il ‘cri-
tico’ (adattato a qualche verifica senza troppi poteri). Non mi sembrano, perciò, esauriti i motivi per alimentare la nevrosi da «morbo critico». Tanto più che, per il censore-censurato, insaziabile, fagocitante, il lettore-dipendente, insoddisfatto, invadente quale è il critico,
talvolta è la stessa idea della critica a entrare in crisi. Tutto questo forse perché accanto al fondamento razionale, che si manifesta in fenomeni di
nevrosi da censure e divieti, da manie interpretative (che rendono evidente come la posta in gioco della critica resti sostanzialmente quella di dare una motivazione all’arte: mentre l’artista è disutile ma insostituibile, il critico si sente disutile e sostituibile; perciò, spesso, il suo ruolo consiste nel
giocare sempre un gioco pericoloso perché transeunte e in sé immotivato)
? Lamberto Pignotti, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia, Roma, 1968,
644
coesiste anche un lato schizofrenico, rappresentato dal compito delirante che si dà la critica: quello di spiegare e motivare l’inspiegabile (l’arte!). In tal caso, il lato irrazionale (schizofrenico?) della critica, accanto-
nato all’inizio, non è forse da escludere così totalmente, specie quando, come sta accadendo da qualche anno, interrogandosi sulla sua funzione, la critica si ritrova ad essere essa stessa in gioco (esemplare in questo senso mi pare il rovesciamento delle idee in un testo come Critica della critica di Tzvetan Todorov e, anche se su un piano diverso, nella professione di fede di una mistica dell’arte ritrovata, nelle ‘presenze vere’ di Steiner). C’è da credere, dunque, che la cura della nevrosi del critico potrebbe
venire da certi tentativi di riattraversare (per altro inconsapevoli dei ricorsi culturali, come negli esempi appena citati sopra) il limite razionale (della teoria, del metodo, ecc.)? Forse; tuttavia, come si potrà evitare la necessità di escogitare nuove forme di criteri (e nevrosi) per discriminare l’«artista dal suo doppio», il giocatore da chi imita il gioco? Ma, allora, non sarebbe salutare per il critico — e per l’artista — limitarsi a coltivare ciascuno le proprie nevrosi, anche per non essere indotti a giocare tutti allo stesso gioco?
645
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LE
INDICE DEI NOMI a cura di Anna Dolfi e Nives Trentini
647
Abraham, Nicolas 457 e n., 458 e n., 459,
Andreolli, Annamaria 282n., 287n.
463 e n., 472, 475 e n., 476 e n., 481
Angelini, Pietro 396n.
e n., 482 e n., 488n.
Angenot, Marc 68n.
Accerboni, Anna Maria 517n. Accorsi, Maria Grazia 113n. Adler, Alfred 208 Adornato, Ferdinando 11n. Adorno, Theodor Wiesengrund 32n. Agamben, Giorgio 248n., 547n., 559 e n. Agosti, Stefano 39 e n., 59n., 458
Anzieu, Didier 65n., 384n. Apollinaire, Guillaume
9, 371, 397 e n.,
399 e n., 400, 560n. Arbasino, Alberto 417n., 433 e n. Ariosto, Ludovico
10, 385, 570 e n., 572
Aristotele 10, 26, 27, 112, 496n., 524 Armel, Aliette 17n.
Agostino, santo 30, 528, 558 Airoldi Namer, Fulvia 342n. Ajazzi Mancini, Mario 457n. Albergati Capacelli, Francesco
Antici, Adelaide 424 Antonioni, Michelangelo 597, 598n., 615
Artaud, Antonin 12n., 15, 16, 25, 61, 352-
71n., 73,
TERIOS
370, 561, 581 e n., 593 Artinian, Artine 225n.
Albisani, Eleonora 542n.
Artinian, Robert Willard 225n.
Alembert, Jean-Baptiste Le Rond d’ 562
Asor Rosa, Alberto 250n.
Alexander, Franz G. 211n., 215n.
Astengo, Domenico 560n.
Alfero, Giovanni A. 199n
Aulagnier-Spairani, Piera 240n.
Alfieri, Vittorio 16, 97, 99, 101, 112, 116, Iaia 0re ns 20251265 131-148 Alighieri, Dante 106n., 118, 147, 158, 181, 519, 528, 554n., 601, 606 e n.
Bachelard, Gaston 38, 281 e n., 290 e n.,
Allemand, André 185
Almansi, Guido 605n. Althusser, Louis 213n. Ambrière, Madeleine 185 Amiel, Henri Frédéric 378 Amoroso, Giuseppe 494n., 495n. Ancelot, Jacques Arsène François Polycarpe 149 Anderson, Loredana 265n.
Baargeld, Johannes 411n. 380n., 554n., 614 Bachtin,
Michail
64n., 294 e n., 29Sn.,
301n., 306n., 607 Bain, Alexander 97 Bajenow, N. 222n.
Bajonée, Danielle 17n. Balatti, Marina 282n.
Baldacci, Luigi 265n. Baldi, Guido 281n., 303n. Balestrini, Nanni 580
Ball, Hugo 411 e n.
649
Balzac, Honorè de 12n., 16, 165-185, 380, 583 Banchelli, Eva 400n. Bandello, Matteo 249 e n. Bannour, Wanda 297 e n.
Banti, Anna 256 e n. Barande, Ilse 230n.
Beniscelli, ALberto 16n.
Benjamin, Walter 60 e n., 382, 572, 601 e n. Bergeret, Jean 413n. Bergius, Hanne 401n., 408n., 411n. Bernard, Claude 216, 218n. Bernhard, Thomas 43 e n., 44, 46, 279 Bernard-Weil, Elie 625n.
Barande, Robert 230n.
Berto, Giuseppe 16, 276-277, 430 e n., 578
Baratto, Mario 115n.
Bertolucci, Attilio 529 Bertoni, Giulio 249n.
Bàrberi Squarotti, Giorgio 71n., 119n., 296n., 570n. Barbéris, Pierre 168n., 170n., 172n., 185 Barbey D’Aurevilly, Jules Amédée 450 Barbolani, Cristina 16n., 147n. Barbuto, Antonio 554n. Barilli, Renato 605n. Baroni, Giorgio 563n.
Barrault, Jean-Louis 355 Barrès, Maurice 283n.
Barthes, Roland 26, 39, 66 en., 305n., 447 e n., 572, 611n.
Baruk, Henri 215n., 231n.
Beschin, Giuseppe 16n. Besnard-Coursodon, Micheline 229n. Betocchi, Carlo 528, 549n. Bettarini, Rosanna 457n., 478, 480n. Bettinelli, Saverio 32n.
Biagini, Enza 16n. Bianchetti, Egidio 205n. Biasin, Gian Paolo 255n.
Bienvenu, Jacques 219n. Bigongiari, Piero 144n., 480 e n., 489n., 490n., 556n., 641 Bijaoui-Baron, Anne-Marie 185
Basaglia, Franco 143n. Bastide, Jean Francois de 627n. Battaglia, Salvatore 249 e n.
Binni, Walter 120n., 132n., 137n., 139n., 141n.
Baudelaire, Charles 33, 257, 369, 379, 397, 428, 429, 528 Bazlen, Roberto 484n. Beauchesne, Henri 215n. Beavoir, Simone de 445 e n., 446 e n., 453 en., 456 en. Beccaria, Cesare 150 Beccaria, Giulia 94 Beckett, Samuel 381, 600n., 602 e n., 603,
S54n. Biotti, Vittorio 15n. Blake, William 33, 528 Blanche, dottore 218, 219 Blanchot, Maurice 62n.
604 e n., 605, 615 e n., 623 Béguin, Albert 11n., 185
Behrens, Peter 638, [15] Bell, Donald F. 185
Belli, Giuseppe Gioacchino 539 Bellini, Vincenzo 126, 149 e n., 151, 154,
156, 158, 163 e n. Belluzzi, Amedeo 631n. Benedikt, Moritz 212 Beneduce, Roberto 13n.
650
Binswanger, Ludwig 44 e n., 62, 63n., 387,
Bleuler, Eugen 43 e n. Blondel, Henriette 93 Bo, Carlo 641 Boccaccio, Giovanni 606 Boileau, Nicolas 29n. Boine, Giovanni 274, 279, 549n. Boito, Camillo 253, 257, 258n. Bonafé, Lucienne 630 Bonaparte, Marie 392n.
Bonaparte, Napoleone 93, 94, 168, 184 Bonaviri, Giuseppe 315n. Boniface, Xavier 149
Borges, Jorge Luis 16, 371-390 Borgia, Lucrezia 249
Borgna, Eugenio 13n., 16n., 57n., 213n., 284n., 285n., 641 Borgomana, Madeleine 17n. Borletti, Bianca 302n. Borsellino, Nino 256n., 350n. Bory, Luis 232 Bottoni, Luciano 92n., 101n. Boullée, Etienne-Louis 637 e n., [13], [14] Bourneville, Désiré-Magloire 292n., 294 e n.
Calasso, Roberto 611 e n
Calcaterra, Carlo 137n. Caldéron de la Barca, Pedro 28
Callois, Roger 14n. Calvino, Esther 611 e n.
Calvino, Italo 12n., 16, 250n., 279, 517n., 522n., 561-575, 586 e n., 595, 596, 597, 598, 611 e n., 614, 615, 616n. Cambi, Luisa 149n. Camerino, Aldo 318n.
Bracioli 150 Branca, Vittore 113n., 258n., 259n., 261n. Brancati, Vitaliano 16, 242, 493-514
Camôes, Luis Vaz de 372n.
Braque, Georges 361n.
Camon, Ferdinando 275, 552n., 553n.
Brecht, Bertold 574 Bremond, Claude 196
Campana, Dino 17, 31, 61, 279, 549n., 550n., SS1n.
Breton, André 15, 33, 37, 358, 397n., 411, 413., 580 e n., 607, 609, 611
Campanella, Tommaso 541
Breuer, Joseph 289 e n.
Brilli, Attilio 247n.
381, 387 Candreva, Sandro 63n.
Brogniart, madame 637 Brolli, Daniele 618n.
Canetti, Elias 104 e n., 105 Canfield, Martha 554n.
Cammarano, Salvatore 128n., 151, 155, 156
Camus, Albert 12n., 49, 50 e n., 54 e n.,
Brénte, Emily 555
Canguilhem, Georges 215n.
Brown, Gillian 89n. Brown, Norman O. 262n. Brunelli, Bruno 112n. Bruno, Giordano 15, 601 Bruzzese, Rita 64n. Biichner, Georg 43, 45, 46n., 47
Cantimori, Delio 136n. Capezzoli, Walter 631n. Capriolo, Paola 17n.
Buffon, Georges-Louis Leclerc, conte di 174 Bulferetti, Luigi 204n. Buonarroti, Michelangelo 136n. Buonavoglia, Luigi 150 Burckhardt, Jakob 206 e n.
Caproni, Giorgio 16, 519, 529, 547-560 Capuana, Luigi 253 e n., 254 e n., 255 e n.
Carbonara, Pasquale 629n. Carducci, Giosué 236 ,528 Carlino, Marcello 517n.
Carlo Magno 566, 570 Caro, Annibal 555
Butor, Michel 572
Carpani, Giuseppe 150 Carpinteri, Giorgio 618n. Caruso, Igor Alexander 289 e n., 290n. Casanova, Giacomo 191 Casari, Filippo 151
Byron, George Gordon 191, 195, 207
Castelli, Silvana 517n.
Cabanyes, Manuel de 147n., 148n. Caillois, Roger 279, 378n.
Catalano, Ettore 59n.
Burlat, Antonin 220
Burton, Robert 99 e n., 372n. Butler, Samuel 422
Castex, Pierre-Georges 281n.
Caïn, Jacques 13n.
Calandra, Edoardo 253, 262, 263 e n., 264
en.
Cavalcanti, Guido 527 Cavalli Pasini, Annamaria 247n., 255n., 257n., 262n., 286 e n., 304n., 309 e n. Céard, Jean 12n.
651
Ceccaroni, Armando 66n. Cederna, Camilla Maria 61n. Celati, Gianni 16, 249n., 595-618 Céline, Louis-Ferdinand 607 e n.
Coppée, Frangois 528 Coppola, Pietro Antonio 151
Cellier, Léon 187n.
Costa, Simona 144n.
Cerruti, Marco 16n., 71n.
Cotard, Jules 379n., 387
Cervantes Saavedra, Miguel de 563
Cournut, Jean 10n.
Cesaretti, Luigi M. 59n. Cesarini, Paolo 265n. Chambers, Ross 187n. Char, René 560 Charcot, Jean-Martin 90n., 215, 230 e n.,
Crabbe, Vincent 185
Corneille, Pierre 15, 112 Corti, Maria 574n.
254, 289, 293, 294 e n., 297 e n., 315 e n., 316n., 578
Crier, Léon 639 e n. Croce, Benedetto 25, 32n., 214, 257, 259 e n. Curreri, Luciano 16n., 288n., 296n. Curti, Luca 326n.
Cuvier, Georges Léopold Chrétien Frédéric Dagobert 174
Charlton, Donald Geoffrey 218n.
Chasseguet-Smirgel, Janine 66n.
D'Amico, Masolino 298n.
Chatman, Seymour 302n.
D'Annunzio, Gabriele 16, 32, 205n., 217,
Checov, Anton Pavlovié 580 e n., 581 Chénier, Marie-Joseph 155 Chesler, Phyllis 247n.
262 e n., 263n., 269-270, 282n., 283 e n., 284n., 285n., 286 e n., 287n.,
288n., 291n., 292n., 293 e n., 294n., 297n., 299n., 302n., 303, 304n., 306n., 307n., 310n., 312n., 316n., 462 e n., 463n., 483n., 534, 578 Dalayrac, Nicolas-Marie 150
Chesterton, Gilbert Keith 372n., 381 Cheval, Ferdinand 635 e n., [11] Chevalier, Jean 555n.
Chiarugi, Vincenzo 150 Chiodi, Pietro 60n.
Dalì, Salvator 15, 635 e n.
Ciani, Ivanos 300n. Ciavolella, Massimo 251n.
Darmon, Pierre 227n. Darwin, Charles Robert 317n., 465 David, Christian 13n.
Cima, Annalisa 459n. Cinato, Arturo 67n.
David, Michel 11n., 94 e n., 95n., 256n., 316n., 417, 418n., 517n. De Amicis, Edmondo 16, 235-245
Cioran, Dima 165n. Citati, Pietro 588 e n., 589 en. Citti, Pierre 283n.
Claudel, Paul 450 e n. Clément, Catherine 162 e n. Clérambault, Gaétan Gatian de 243 e n. Cohn, Dorrit 310 e n. Coignet, Horace 206n. Coletti, Vittorio 16n. Collot, Michel 187n. Colon, Jenny 187 Colorni, Renata 63n. Contini, Gianfranco
258 e n., 457
464, 515 e n., 516en. Cook, James 191
652
e n.,
De Castris, Arcangelo Leone 316n., 323n., 335n. De Chirico, Giorgio 397n., 400 De Filippo, Eduardo 623 De Lauretiis, Teresa 315n., 316n., 323n.,
329n. De Marchi, Emilio 253, 260 e n. De Michelis, Eurialo 262n., 300n. De Monzie, Anatole 230n. De Pisis, Filippo 528, 529 De Quincey, Thomas 372n.
Debenedetti, Giacomo 255n., 265n., 517n. Descartes, René 113
Dei, Adele 549n., 551n., 559n., 560n.
Delay, Jean 371 Deleuze, Gilles 366, 610n.
Delille, Jacques 29 Delpierre, Guy 229
Dürer, Albert 98 Durry, Marie-Jeanne 187n., 195 Duvignaud, Jean 179n., 185 Duyckaerts, François 17n. Dymschitz, Henry 185
Del Serra, Maura 16n. Demetz, Peter 185
Eaubonne, François d’ 445n.
Democrito 9
Eccher dall’Eco, Silvana 60n.
Derrida, Jacques 12n., 38, 457n., 458, 463
Egger, Victor 23n.
e n., 475 e n., 481, 488 Deutsch, Helen 398n.
Egidi, Valeria 65n. Eliot, Thomas Stearns 459, 528
Devereux, Georges 372n. Devoto, Giorgio 551n.
Ellenberger, Henri F. 200n., 212n.
Engels, Friedrich 166, 167 e n.
Di Benedetto, Arnaldo 132n., 133, 137n., 138 e n., 139n. Di Blasi, Carlo 254n. Di Fonzo, Giulio 16n. Diacono, Mario 37n. Diani, Marco 16n., 166n., 167n., 185 Dickens, Charles 380, 549n., 583
Erasmo da Rotterdam 561 Ernst, Max 397n., 409n., 411n. Errante, Vincenzo 199n.
Esquirol, Jean-Etienne
Dominique
Este Gonzaga, Isabella di 249 Etoré, Jeanne 397n.
Dickinson, Emily 89n., 388 Diderot, Denis 561, 562 e n., 564
Ey, Henri 370n.
Didier, Béatrice 16n., 17n.
Fabbrini, Antonella 247n. Faccani, Remo 29n. Facchinelli, Elvio 68n., 618n.
Dôblin, Alfred 400 e n., 401, 405, 413 Dolfi, Anna
10n.,
14n., 44 e n., 132n,,
247n., 267, 284n., 519n., 524n., 641
516n.,
518n.,
Dombroski, Roberto Serge 430 e n. Donati, Alessandro 135n.
Donati, Corrado 16n. Donizetti, Gaetano 126, 128n., 151, 155, 156, 157, 158, 162 Donnard, Jean-Hervé 171n., 185
Dostoevskij, Fédor Michailovié l12n. 14n., 15, 222 e n.; 250n., 269, 277, STINSTS Dreyfuss, Alfred 11n. Dubor, Pierre 408n. Dubuffet, Jean 362n., 636 Dufour, Pierre 16n. Dumaitre, Paule 215n. Dupin, Jacques 490n. Durand, Gilbert 59n., 148n., 290n., 380n. Duras, Marguerite 17n., 250n.
237,
629 e n.
Fain, Michel 13n.
Faldella, Giovanni 253, 257, 258n. Farnetti, Monica 16n., 255n., 263n.
Fauriel, Claude 92 Feder, Lillian 24, 31 Federn, Ernst 67n.
Federn, Paul 88n. Fédida, Pierre 460 e n., 461 Felman, Shoshana 12n., 67n. Fenocchio, Gabriella 68n.
Fenoglio, Beppe 590 Ferdière, dottore 351n., 360 Ferdière, Madame 360, 368 Fernzandez-Zoila, Adolfo 214n.
Ferrand, Jacques 251n. Ferrari Bravo, Donatella 574n. Ferrari, Osvaldo 351n. Ferrari, Stefano 284n., 285n., 286n., 299n.
Ferretti, Jacopo 151
653
Ferro, Filippo Maria 201n.
Fromm, Erich 211n.
Ferrucci, Franco 28n., 69n. Fiedler, Conrad 402
Fry, Roger 36
Frye, Northrop 38 Fubini, Mario 132n., 140
Fielding, Henry 565 Filarete (Antonio Averlino) 630 Fini, Leonor 395n. Finzi, Gilberto 32n. Fiorentino, Mario [19] Flaubert, Gustave 12n., 128n., 219, 226, 231, 397 Flora, Francesco 24n., 32n. Florimo, Francesco 163 e n.
Fumaroli, Marc 282n.
Fiissli, Heinrich 148n. Gabellone,
Lino 598 e n., 607n., 611n.,
614n.
Gadamer, Hans Georg 65n. Gadda, Carlo Emilio 16, 21, 24 e n., 30 e
n., 33, 276, 415-443, 578
Fogazzaro, Antonio 16 Fogazzaro, Luigi 253n., 258 e n., 259 e n. Folengo, Teofilo 599 Fontaine, Pierre-François-Léonard 637
Gallo, Bruno 117n. Gambetti, Fidia 548n.
Fontana, Alessandro 294n., 297 e n.
Gandolfo, Giampaolo 313n. Garboli, Cesare 527n., 532n., 535
292
e
n.,
293n,,
Gall, Lothar 176 Gallarati Scotti, Tommaso
258n., 259n.
Fontanella, Luigi 517n., 518n.
Garbowsky, Maryanne 89n.
Fonyi, Antonia 392n., 409n.
Gargani, Aldo Giorgio 69 e n. Garzoni, Tommaso, 610n. Gatto, Alfonso 529 Gaudì, Antén 634, [10]
Fortini, Franco 123n. Foscolo, Ugo 31, 519, 534
Fossi, Piero 94n. 12n., 14n., 28, 30, 69n., 7in., 247n., 293 e n., S61en., 628en. Fourier, Charles 572 Frabotta, Bianca Maria 548n., 549n. France, Anatole 217, 627 Francesconi, Paola 251n. Franchi, Franca 288n. Francis, Claude 445n.
Gautier, Théophile 197, 374n., 397 Gazzola Stacchini, Vanna 494n. Geerbrant, Alain 555n.
Frazer,
George, Stefan 527
Foucault, Michel
James George 595 e n., 604n.
Frenaud, André 549n. Freud, Sigmund 10 e n., 26n., 33, 34, 35 e n., 37,63 e n.,67en., 68en., 69e n., 88 e n., 99 e n., 198, 213, 214,
226, 230 e n., 231n., 252, 257 e n., 267, 287: 289e!n;290n315n., 316n., 317 e n., 318n., 319, 321n., 328n., 332n., 333n., 354, 371, 382, 388 e n., 389, 392n., 393 e n., 396, 413, 417, 433, 465, 466 e n., 470, 472, 473, 487, 496n., 497 e n., 527, 529, 532, 550n., 578, 610n.
654
Gellert Lyons, Bridgeta 248n. Gemito, Vincenzo 546 Genette, Gérard 61n., 62n., 302n. Genette, Jean 558 Gentili, Vanna 127n., 251n., 261n.
Gerhardie, William 610n. Ghidetti, Enrico 16n., 120n., 201n., 202n., 253n., ‘254n, 255n., 257n,, 333n., 570n. Ghirri, Luigi 598, 599 e n.
Giacometti, Giorgio 63n. Gide, André 287n., 370, 524n. Gilardoni, Domenico 151 Gilbert, Emile 630, [3] Gillibert, Jean 11n., 12n.
Gillman, Sander L. 15n. Ginsberg, Allen 25
Ginzburg, Carlo 595n.
Gioanola, Elio 261n., 314n., 418n., 428 en. Giovanardi, Stefano 558n.
Guyon, Bernard 186 Guyotat, Pierre 353n.
Girard, René 341n.
Hahn, André 215n.
Girardi, Antonio 549n., 551n. Girolami, Patrizia 16n.
Halandain, George 187n.
Giuliani, Alfredo 580, 582 e n., 594 e n.,
Hammett, Dashiell 598, 599 e n.
605n.
Hamman, Johann Georg 23n. Handke, Peter 597n.
Givone, Sergio 12n.
Hartman, Nicolai 23n.
Glassbrenner 211
Hatem, Huguette 16n.
Gobetti, Piero 133 e n.
Hausmann, Raoul 401n. Hawthorne, Nathaniel 14n.
Goethe, Johann Wolfgang von 123 e n., 333n., 578, 644 Goldmann, Lucien 185 Goldoni, Carlo 71n, 73, 74, 76,77, 114en., 115 e n., 116 e n., 119, 122
Hecker, Jeffrey 88n., 89n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 25, 609
Heidegger, Martin 42 e n., 60n., 61n., 213, 497n., 584
Goncourt, Edmond e Jules de 226n., 296n.
Heinrich, Klaus 409n.
Géngora y Argote, Luis de 383
Heller, Agriès 390n.
Gonthier, Fernande 445n. Goudet, Jacques 299n.
Gourmont, Jean de 226
Helvétius, Claude-Adrien 82
Henric, Jacques 353n. Henry, Georges W. 215n., 220n.
Gourmont, Remy de 282n.
Hersant, Yves 9n.
Goux, Jean-Joseph 185 Goya y Lucientes, Francisco 148n. Gozzi, Carlo 75, 76, 78, 82, 84
Hesnard, Angelo 206n. Heym, Georg 401 e n. Heyndels, Ralph 17n.
Gracq, Julien 381 Graf, Arturo 528 Graf, Max 67n. Graumann, C. F. SSn. Gravina, Gian Vincenzo 29
Hildebrand, Adolph 402
Hitler, Adolf 360 Hoche, Alfred 400 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus
14n.,
191, 222n.
Green, André 10n., 15n.
Hoffmann, Paul 71 e n., 201
Grellet, Isabelle 16n.
Hofmannsthal, Hugo von 51 e n., 52 e n.
Grignani, Maria Antonietta 478 e n.
Hôger, Fritz 638, [17]
Grotovski, Jerzy 355, 593 Groussac, Paul 374 Gruen, Arno 314n. Guardini, Romano 56 e n. Guattari, Félix 366, 610n.
Holbach, Paul-Henry Dietrich, barone di 77 Holbein, Hans 250n.
Guerrand, Roger-Henri 634n. Guglielmi, Angelo 495n. Guglielmi, Giuseppe 60n. Guglielminetti, Marziano 301n. Guillaumin, Jean 13n. Guimard, Hector 634, 635, [9]
Holderlin, Friedrich 13n., 33, 41, 61, 533 Holland, Norman N. 68n. Hollier, P. 221, 222, 227 Holub, Robert C. 62n. Hubert, Juin 203n. Huertas Garcia-Alejo, Rafael 218n. Hugo, Victor 528 Hunaud 71 Husserl, Edmund 42 e n., 55, 524n.
655
Huysmans, Joris-Carl 282n., 203 e n., 577
Kandinskij, Wassilij 402 Kant, Immanuel 131, 142, 317n., 438
Ibsen, Enrico 412 e n.
Keaton, Buster 614, 615 e n.
Insana, Jolanda 548n. Invernizio, Carolina 253, 261 e n.
Kerényi, Käroly 554n.
Tonesco, Eugène 619 e n. Ippocrate 9 e n. Irigaray, Luce 251n.
Khan, Masud 12n. Kierkegaard, Sgren 99, 378, 387, 513n., 584 King Owen, John 96n., 97, 100n. Klein, Melania 620
Isella, Dante 71n.
Knapp, Terry J. 87n.
Iser, Wolfgang 62n. Ishaghpour, Youssef 17n.
Kraepelin, Emil 578
Jaccard, Roland 629n., 632 Jacerme, Pierre 15n.
Kreuse, Caroline 16n. Kristeva, Julia 12n., 13n., 16n., 38, 60n.,
Jackson, John Hughlings 370n.
248n., 250n., 251n., 387 e n., 643 Krysinski, Vladimir 68n., 342n., 348n. Kundera, Milan 616 e n.
Jacomuzzi, Stefano 300n.
Jacopone da Todi 250n.
Krafft-Ebing, Richard von 211 e n., 233, 286
Jahier, Valerio 317n., 318n., 331n., 333n.
James, Henry 12n., 14n., 96 James, William 95, 96, 97, 98 e n., 100n.,
103, 228 Jameson, Fredrich 170n., 186
Jamin, Jules 187 Jammes, Francis 528 Janet, Pierre 215, 264 e n., 578
Jankélévitch, Vladimir 290n., 305n., 311 e n. Jannaco, Carmine 136n., 137n. Jarmush, Jim 597 Jarry, Alfred 528 Jaspers, Karl 13n., 41 e n., 248n., 250n.,
584
La Rochefoucauld, Frangois duc de 627 Lacan, Jacques 12n., 38, 346 e n., 347n.,
354 e n., 357, 370n., 377, 461, 621 Lacassagne, Alexandre 227 e n. Lacassagne, Zacharie 220n. Lacoin, Elizabeth Zaza 445-456 Ladame, Charles 234 Lafargue, Paul 166n., 167n. Laforgue, Jules 528
Laforgue, René 392n. Lagriffe, Lucien 225 e n., 226, 227, 228,
22092318233 Lalonde, Pierre 631
Jauss, Hans Robert 32n., 35n., 62n.
Lamoulen, Jacques 230n.
Jean-Aubry, G. 282n.
Landolfi, Tommaso 16, 515-525, 578 Landolt, dottore 227 e n., 229n.
Jeanneret, Michel 187n. Jencks, Charles 633n.
Jung, Carl Gustav 37, 380n., 388n., 583
Lang, Fritz 638 Lanteri-Lara, Georges 394n. Laplanche, Jean 13n., 26n., 395n. Lasowski, Patrick Wald 233n. Lattarulo, Leonardo 517n. Lautréamont, conte di (Isidore Ducasse) 33
Kafka, Franz 41, 53 e n., 54, 372n., 378,
Lavagetto, Mario 59n., 316n., 319n. LaValva, Rosamaria 314n.
Joly, Jacques 159 e n. Joyce, James 279, 578 Juan de la Cruz 541, 542n. Juin, Hubert 283n.
379n., 381, 384, 606, 610 Kalokowski, Leszek 218n.
656
Lavater, Johann Kaspar 174, 176 Le Bon, Gustav 90n.
Le Rider, J. 198
Madrignani,
Lebas, Hyppolite 630 Leclaire, Serge 395n., 488, 489 e n. Lederer, Wolfgang 296n. Ledoux, Claude Nicolas 636, [12] Lefebvre, George 90n. Lemoine, Eugénie 248n. Léonard, Jacques 215n. Leoni, Barbara 302n. 21,
n
Alberto
16n., 235n.,
Maggini, Francesco 134n. Magherini, Graziella 15n. Magnan, Valentin 218, 220
Magnasco, Alessandro 551 Magris, Claudio 198
Leopardi, Giacomo 9, 22, 24 e n., 25, 26,
3133212078 rn
Carlo
254n.
128.
257, 318n., 424, 425, 465, 501n., STES 19Nen., 5229523524 en, 525, 534, 535, 536 Leopoldo di Toscana, granduca 629 Lilli, Laura 553n., 559n. Linguitti 150 Lipps, Theodor 402 Lisi, Nicola 528 Locke, John 331n. Lombroso, Cesare 33, 100, 201, 204 e n.,
Maldiney, Henri 11n. Malerba, Luigi 33, 594 Mallarmé, Stéphane 31, 282n., 480, 489n., 490n. Malraux, André 390n.
Mancini, Giuseppina 262n. Manganelli, Giorgio 16, 33, 580, 582-590
Manica, Raffaele 16n., 599n., 606n., 641 Manieri, Aldo 26n. Mann, Thomas 24, 577 Mannoni, Alessandro 16 Mannoni, Octave 59n. Manzoni, Alessandro 33, 88-110, 123, 124 emi 25912627 19992128250îe n., 257, 319, 534 Manzoni, Vittoria 94
207210,3216Tem:.,5220n.,8227n., 230, 236n. Lonardi, Gilberto 124n.
Manzotti, Emilio 416n., 418n., 431, 432n.
London, Jack 610n. Longo, Giorgio 16n.
Marchi, Marco 264n., 265n., 551n. Marchi, Virgilio 632 e n., [7]
Lopez-Rey, José 638n. Lotman, Jurij Michajlovié 29 e n., 33n., 340n.
[attenz. alla c]
Lugnani, Lucio 350n. Luigi Filippo 190
Marcialis, Nicoletta 64n. Marenco, Franco 298n. Maria Luisa d’ Austria 93 Mariani, Gaetano 257 e n., 541
Marinetti, Filippo Tommaso 579 e n., 580
Lukäcs, Giôrgy 186, 390n. Lumbroso, Alberto 225, 227n.
e n., 633 Marini, Alfredo 23n.
Lunetta, Mario 431 e n.
Marini, Marcel 17n. Marks, Isaac 88n. Martello, Pier Jacopo 111 e n., 118 e n.
Luperini, Romano 430 e n.
Lutero, Martin 98 Luti, Giorgio 265n. Luzi, Mario 560n.
Lyotard, Jean-Frangois 489 e n.
Martignoni, Clara 270n. Martin-Fugier, Anne 447n. Martineau, Emmanuel 403n.
Marty, Eric 524n. Macchia, Giovanni 635 e n.
Marty, Pierre 623 e n.
Machiavelli, Nicolò 133, 134, 135 Macri, Oreste 16n., 477n., 515n., 528n., 642
Marx, Karl 165n., 166 e n., 167 e n., 168, 169, 180, 359, 582 Marzaduri, Marzio 29n.
657
Mazzali, Ettore 24n.
Monteverdi, Claudio 149 Monti, Claudia 64n. Morand, Paul 219n. Morandi, Giorgio 399 Moravia, Alberto 428, 493 e n., 559n. Mordier, Jean-Pierre 230n. Moreau, J. J. 215 Moreau de Tours, James 211 Morel, Charles 218 Morelli, Giovanni 495n. Moretti, Franco 298n., 600n. Moretto, Giovanni 65n.
Mazzarella, Arturo 286 e n., 287n. Mead, Gerard 165n.
Morin, Edgar 305n. Morpurgo, Enzo 65 e n.
Mehlman, Jeffrey 186
Melon, Edda 250n. Melville, Herman 89n., 372n., 611n., 612, 613 e n., 614, 615
Morris, William 627 e n., 632 Mortley, Raul 524n. Moscovici, Serge 90n. Mozart, Wolfgang Amadeus 126 e n., 189, 193 Miiller-Suur, Hemmo 47 e n., 55 e n.
Merleau-Ponty, Maurice 284n.
Munch, Edvard 299
Mesmer, Franz Anton 91, 182 Metastasio, Pietro 111, 112 e n., 113en., 114, 115, 116, 118 e n., 126
Mufiz Mufiz, Maria de las Nieves
Massenet, Jules-Emile-Frédéric 467
Massermann, Jules Hymen 211n. Masuccio, Salernitano 599 Maudsley, Henry 97 Maugue, Annelise 288n. Maupassant, Guy de 16, 213-234, 391 e n., 392 e n., 395, 396, 397 e n., 398 e n., 409 e n., 413 Mauss, Marcel 593
Maynial, Eduard 223 e n. Mazzacurati, Giancarlo 256n.
Mehring, Franz 186 Mellor-Picant, Sophie 13n.
16n.
Muraro, Maria Teresa 112n.
Musarra, Paola 59n.
Métraux, Alexandre 55n.
Musatti,
Meyell, Laurence 205n.
Muscetta, Carlo 31n.
Cesare
Luigi 67n., 68n., 289n.
Michelet, Jules 254 e n.
Musil, Robert 64n., 579 e n.
Milanini, Claudio 563n., 570n. Mill, John Stuart 31
Musset, Alfred de 222
Millo, Achille 554
Naguchi 220n.
Minkowski, Eugène 65n.
Nardi, Piero 259n.
Miotto Muret, Luciana 16n. Misvàri, Amos 165n.
Nerval, Gérard de 11, 12n., 14n., 16, 33,
Mitscherlich, Alexander 639, 640n.
Molière (Jean-Baptiste Poquelin) 73 Moll, Albert 211n. Mondor, Henri 282n. Monegal, Emir Rodriguez 388n.
Monod, Jacques 555 Montaigne, Michel Eyquem de 30, 315, 380 Montale, Eugenio
16, 33, 457-491, 519,
2952 8NA05298534893/n..1539! 549n., 551n.
658
187-198, 250n., 369, 379, 383, 549n., 554n. Nietzsche, Friedrich Wilhelm 12n., 24, 25, 213n., 232, 317n., 318n., 378, 495n., 549n., 579, 597n. Noce, Hannibal S. 111n. Noferi, Adelia 16n., 279, 641 Nordau, Max 203n., 216, 220n. Normandy, Georges 232 Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg) 199 e n., 200, 212 e n. Nunberg, Hermann 67n.
Nykrog, Per 170n., 171n., 172n., 173n., 174n., 177n., 183n., 186 Oberosler, G. 203n. Olender, Maurice 13n. Omero 379
Ongaro Basaglia, Franca 143n. Onofri, Arturo 534 Orlando, Francesco 38, 583 e n. Orléans, Charles F. duca di 382 Ortiz, Cornelia 71n.
Ortolani, Giuseppe 71n., 114n. Ossola, Carlo 250n. Ottieri, Ottiero 16, 272-274, 578 Ovidio Nasone, Publio 118 e n., 120n., 206n. Pacini, Gianlorenzo 304n. Paér, Ferdinando 150
Paganini, Nicolò 551 Pagliarani, Elio 590 Pagnini, Marcello 527n. Paisiello, Giovanni 149, 150, 151 Palagonia, principe di 635 e n. Palandri, Enrico 597n. Palazzeschi, Aldo 528, 529, 579 e n. Pampaloni, Geno 594 e n. Panaitescu, Emilio A. 63n. Panzacchi, Enrico 32 e n.,33 e n. Paolo, santo 98 Papini, Giovanni 383, 528 Paratore, Ettore 300n. Parent, Claude 635 e n. Parini, Giuseppe 71n., 75, 84 Parise, Goffredo 590 Parisot, Henri 360 Pascal, Blaise 95, 102 Pascoli, Giovanni 17, 535 Pasolini, Pier Paolo 528, 529, 535, 539, S49n., 551n., 556n. Patrizi, Francesco 27 Paulhan, Jean 355, 358 Paulson, William Richard 171n., 175n., 180n., 186
Pautasso, Sergio 256n. Pavel, Thomas 353n.
Pavese, Cesare 590 Pea, Enrico 581 e n. Pea, Ermanno 250n. Pecora, Elio 527n. Pedullà, Walter 594 e n.
Pellegrini, Alessandro 428 Pellico, Silvio 124, 125 e n., 126 Penna, Sandro 16, 527-546
Pepoli, Alessandro 155 Pepoli, Carlo 126, 149 e n., 151 Perec, Georges 616n. Peri, Gérard 16n. Perrone, Daria 494n. Petrarca, Francesco 30, 148, 158, 460n., 527, 528530 531535; 539 541; 544 Petroni, Franco 303n., 330n. Picasso, Pablo 55 Pichois, Claude 187n. Picone, Generoso 597n. Pierrer, François 240n., 242n., 243n.
Pigeaud, Jackie 12n. Pignotti, Lamberto 644 Pillet, M., dottore 220, 221 Pinel, Casimir 215 e n., 231n.
Pinel, Philippe 150, 160, 629 Pinon, Pierre 629 e n. Pinter, Harold 623
Pirandello, Luigi 16, 271 e n., 316n., 337350, 528, 578-581 Piranesi, Giovan Battista 638 Pirani, Giovanni 71n., 72, 74, 75, 76, 77 Plath, Sylvia 25 Platone 25, 203, 213, 524 e n., 525 Plaza, Monique 12n. Pleyel, Marie 187. Poe, Edgar Allan 14n., 31, 33, 91, 92, 96, 201, 205 e n., 222 e n., 346, 369, 372n., 381, 385, 386, 557, 577, 588 Poelzig, Hans 638, [16]
Poggi, Stefano 218n. Pollak, Martha D. 165n.
659
Polo, Marco 573, 593 Ponnau, Gwenhaël 14n. Pontalis, Jean-Bertrand 26n., 294n., 398n. Porta, Antonio 33
Porter, Roy 213n. Portinari, Folco
128n.,
132n.,
159 e n.,
257n., 260n.
Riccardi, Carla 237n.
Ricci, Piero 60n. Ricciardi, Mario 296n. Richard, Lionel 401n. Richardson, Samuel 565 Richer, Jean 187 e n., 188, 195, 196n. Richer, Paul 294 e n.
Postel, Jacques 215n., 220n.
Richet,
Prangnell, Peter 635n. Prawer, Siegbert 166n., 186
299n. Ricoeur, Paul 381 e n. Ricordi, Giovanni 157 e n. Riegel, Alois 402
Praz, Mario 263n., 578 e n.
Propp, Vladimir 313n. Proust, Marcel 11 e n., 15n., 35n., 217, 428, 551n., 428, 577 e n., 578 Pseudo-Aristotele 111n.
Charles
284
e n., 285n., 293n.,
Riffaterre, Michael 64n.
Rilke, Rainer Maria 12n., 33, 49n., 55e n., 56 e n., 597n. Rimbaud, Arthur 12n., 33, 67n., 424, 528,
537, 540n., 546n.
Quétel, Claude 215n.
Quevedo y Vilegas, Francisco Gémez de 372n.
Rinaldi, Rinaldo 418n., 430 e n.
Quiguer, Claude 299n.
Riva, Massimo
Ripa, Yannick 160n. 10n.,
16n., 71n.,
132n.,
140n.
Rabelais, François 607, 608 Racamier, Paul-Claude 408n., 413 Racine, Jean
111, 112, 117, 118n.,
Rivière, Jacques 352, 354, 357, 358 123,
124, 125 Raimond 154 Raimondi, Ezio 92n., 113n., 147 e n., 148n. Raitt, Alan 281n. Rank, Otto 495, 496n. Raymond, Marcel 31 Rebay, Luciano 37n., 478 e n.
Robatel, Nathalie 12n. Rocca, Enrico 317n. Roda, Vittorio 263n., 286 e n., 287n., 296n., 299n., 3lle n.
Romagnoli, Sergio 119
Rebora, Clemente 16n., 560
Romani, Felice 126, 151, 154, 155 Romano, Giulio 631, [5] Romano, Massimo 261n. Romboli, Floriano 300n. Roncoroni, Federico 262n.
Rebuffa, Giorgio 165n.
Rosa, Fabio 13n.
Regnard, Paul-Marie-Léon 292n., 294 e n.
Rosalato, Guy 242n.
Reinhardt, Max 411n. Rémond, Antoine 220n., 225
Roscioni, Gian Carlo 410n., 430 e n. Rosowsky, Giuditta 16n., 278, 641 Rosset, Clément 10n.
Renard, Philippe 18 Renouvier 97 Resnik, Salomon 63n.
Reverdy, Pierre 358 Rey-Flaud, Henri 11n.
Rossi, Aldo 265n., 637n., [2] Rossi, Gaetano 151, 156 e n. Rossi, Paolo 218n.
Riazanov, David B 166n., 186
Rosso, Luigi 249n. Rostagno, Aldo 261n.
Ribetter, Jean-Michel 12n. Ribot, Théodule 215, 232, 578
Rousseau, Jean-Jacques 29, 30, 77, 174, 180, 206n., 207n., 426, 564, 578
660
Rousset, Jean 290 Rovati, Aldo 498n. Rudé, George 90n. Ruskin, John 632 Ruzzante (Angelo Beolco) 599
Schopenhauer, Arthur 225, 317n., 318n.,
321n., 326n., 331n., 334 e n., 372n., 875 Schumacher, M. T., 87 Sciascia, Leonardo 494n. Scott, Walter 124, 155
Saba, Umberto 33, 88, 113n., 428, 527, 529 e n., 530 e n., 531, 534 Sacchetti, Anna Maria 392n. Saccone, Eduardo 315n., 332n. Sacrati, Francesco 150
Scrivano, Riccardo 299n., 338n., 342n. Scudéry, Madame de 27n. Searles, Harold 408n.
Secchieri, Filippo 16n. Seelig, Carl 597, 613n.
Sacy, Samuel de 175n., 186 Sagittario, Ermanno 34n. Saint-Hilaire, Geoffroy de 175
Segre, Cesare 252n., 459n., 507n.
Sainte-Beuve, Charles Augustin de 11, 98,
Seppilli, Giuseppe 284n. Serbo, Ubaldo 301n.
216 217 Sala Di Felice, Elena 112n. Salierno, Vito 299n.
Salsano, Roberto 131n. Saltafuso, Massimo 247n. Samonà, Carmelo
16, 43, 44 e n., 45 e n.,
47, 278-279, 590-594 Sanguineti, Edoardo 33, 274 e n., 580, 581, 582 e n., 587 e n., 594 Sant'Elia, Antonio 632, 633, [6] Santanelli, Manlio 619-625 Santarcangeli, Paolo 554n.
Selesnick, Sheldon T. 211n., 215n. Seneca, Lucio Anneo 133, 423
Sereni, Vittorio 558
Serpieri, Alessandro 60n. Serra, Renato 560 Serrao, Achille 518n. Servadio, Emilio 206n. Shakespeare, William 12n., 28, 101n., 127
e n., 128, 155, 163, 555, 588 Shelley, Percy Byssne 195 Sighele, Scipio 90n., 98, 100
Silentio, Johannes 99
Simmel, Georg 601
Saracino, Egidio 158 e n., 162n., 163 e n.
Sklowskij, Victor 574 e n.
Sartorio, Aristide 299 Sartre, Jean-Paul 11n., 360, 387, 573 e n. Sarzana, Pietro 319n. Satiat, Nadine 296n. Saussure, Ferdinand de 21, 478n. Savarese, Gennaro 326n.
Sollers, Philippe 353n.
Savinio, Alberto 16, 278, 337 e n., 391-414 Savoca, Giuseppe 315n., 316n., 323n., Savy, Nicole 165n. Sbarbaro, Camillo 549n., 551n. Sceede, Uwe 397n. Schiller, Friedrich 124 Schlegel, Auguste Wilhelm von 195 Schneider, Alan 615n. Schnitzler, Arthur 33, 43 e n., 46 Scholes, Robert 39n.
Solmi, Renato 60n.
Solmi, Sergio 477 Sommaruga, Angelo 299 e n. Sorge Delfico, Vinca 302n. Sorge, Paola 302n. Soriano, Osvaldo 598
Soulié de Morant, Georges 356 Souriau, Paul 284n. Speer, Albert 639 e n., [18] Spera, Francesco 125n., 495n., 496n.
Spies, Werner 409n. Spitzer, Leo 59 Spongano, Raffaele 263n., 286 Squarciapino, Giuseppe 299n. Stadler, Ernst 401n.
661
Stampa, Stefano 96
Tonin Dogana, Marilisa 34n.
Starobinski, Jean 12n., 60n., 68n., 282 e n., 285n., 288n., 289n., 291n., 305 e n., 307n., 478 e n., 563n.
Torok, Maria 457n., 463n., 475 e n., 481 e n.,482 e n., 488 en.
Steiner, George 268 e n., 645 Stendhal (Henri Beyle) 129, 254 Sterne, Laurence 191, 578 Stevenson, Robert Luis 14n., 381 Strada Janovic, Clara 294n., 301n. Strindberg, August 41, 61 Strozzi, Giulio 149, 150 e n. Surina, Giovanni Battista 150n. Svevo, Italo 16, 34, 88, 303 e n., 314n.,
315-336, 578 Swedenborg, Emanuel 41, 176, 372n. Swift, Jonathan 607, 610n. Szasz, Thomas S. 247n., 252n., 292n.
Tadolini, Eugenia 157 Tafuri, Manfredo 634 e n., 638 e n. Tamberlani, Nando 337n. Tanguy, Yves 397n. Tarchetti, Iginio Ugo 16, 199-212, 253, SET Tarde, Gabriel 90n.
Tarquini, Tarciso 517n. Tasso, Torquato 15, 149 Te Paske, Bradley A. 296n. Tellenbach, Hubertus 57n. Tellini, Gino 256n. Terracini, Benvenuto 271 e n.
Tosi, Guy 287n., 300n. Toulouse, Edouard 214n. Tozzi, Federigo 17, 253, 262 e n., 264 e n., 265n., 581 Tozzi, Glauco 262n., 265n. Traverso, Leone 533 Trentini, Nives 16n. Trettl Facchinelli, Herma 68n. Trovato, Mario 137n., 138n., 146n. Tschumi, Bernard 627, [1] Turchi, Roberta 71n. Twain, Mark 610n. Tzara, Tristan 358, 411n., 580 e n. Ulbach, Louis 197 Ulivi, Ferruccio 93 e n.
Ungaretti, Giuseppe 33, 34, 36, 37n., 545 Uspenskij, Boris A. 29n. Vaihinger, Hans 68n. Valéry, Paul 33, 34, 36 e n., 37n., 468n., 549n., 643 Vallier, Dora 403n. Valli, Valeria 39n. Van Gogh, Vincent 15, 41 e n., 368 Varesco, Gianbattista 126n. Varese, Claudio 16n., 675n. Vasselli, Antonio 162n. Vazzoler, Franco 116n.
Terzian, Giuliana 65n.
Tessari, Roberto 344n. Thévoz, Michel 631, 636 e n.
Thibaudet, Albert 226n. Thibon-Cornillot, Michel 171n., 186 Thomas, Louis 216n., 220n. Thoreau, Henry David 613n.
Torpe, Goeffrey L. 88n., 89n. Torrealta, Luca 599n. Toschi, Luca 103 e n., 119n.
180n.,
Vegetti Finzi, Silvia 251n. Veltri, Pietro 63n.
Verdi, Giuseppe 149, 163
Tinterri, Alessandro 337n.
Verdino, Stefano 551n. Verdirame, Rita 497n.
Tissot, Simon-André 72 Todorov, Tzvetan 14n., 201 e n., 258n. Tolstoj, Lev Nikolaeviè 32, 33, 642, 643, 304n.
Verga, Giovanni 236, 237 e n., 253, 256 e DISSdoni Verlaine, Paul 387, 528 Verri, Alessandro 120 e n., 122
662
Vico, Giambattista 465 Vidal, Daniel 165n.
Vigny, Alfred de 31
West, Rebecca 614n. Westphal, Karl Friedrich 87 e n., 88 e n.,
89
Vigorelli, Giancarlo 495n. Villa, Fernando 68n.
Wilde, Oscar 298n., 299n., 372n.
Villiers de L’Isle-Adam, Jean-Marie Mathias
Winnicott, Donald W. 398n.
Philippe Auguste, comte de 14n., 281n., 282n., 283 e n., 397, 409
Whitman, Walt 372n.
Winslow, Forbes 97
Villon, Frangois 369, 382
Wittgenstein, Ludwig 595 e n., 596, 597, 601 e n., 604 e n.
Vircondelet, Alain 17n. Virgilio Marone, Publio 419
Wolf, Virginia 578 Wolpe, Joseph 88n.
Virilio, Paul 635
Worringer, Wilhelm 402 e n., 403 e n., 404
Vivaldi, Antonio 150
Vivetières, Marsollier des 150 Voivenel, Paul 220n., 229 e n., 231 Volosinov, Valentin Nicolaeviè 64n.
e n., 405, 406, 413 Wunberg, Gotthart 52 e n.
Wundt, Wilhelm Max 317n., 466 Wurmser, André 170n., 186
Volponi, Paolo 590, 594 Voltaggio, Franco 68n.
Young, Edward 77
Voltaire (François-Marie Arouet) 561, 562 e n., 563, 564, 627 Vovelle, Michel 90n.
Zancan, Marina 250n., 252n.
Wagner, Richard 12n., 15, 32
Walser, Robert 597 e n., 611, 613n. Warning, Rudiger 175n., 186
Zampa, Giorgio 460n., 478n. Zanetti, Giorgio 64n. Zanobetti, Gabriella 62n. Zanzani, Mario 599n. Zanzotto, Andrea 33, 279, 578, 581
Watzlawitck, Paul 408n.
Zapparoli, Giovanni Carlo 61n.
Webber, S. G. 89 Weber, Max 100n.
Zarcone, Salvatore 494n., 496n.
Wegener, Paul 638 Weininger, Otto 287n., 304 Weiss, Edoardo 88 e n., 94 e n., 95, 103 Weizsäcker, Viktor von 223 Wenders, Wim 597
Zavadini, Guido 156n. Zecchi, Lina 62n.
Zilboorg, Gregory 215n., 220n. Zola, Emile 214 e n., 216, 220, 229n.
Zweig, Stefan 165 e n., 166n., 170, 176n., 184n., 186
663
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Stampa GRAFICA UNIVERSAL Coordinamento lavoro CENTRO STAMPA di Meucci Roberto Città di Castello (PG)
«Con un,testo parallelo al famoso Problemata XXX di Aristotele, la tradizione classica unisce all'insegna della saggezza malinconia e follia, genio e patologiche manifestazioni... contribuendo a porre il primo, fondamentale quesito sul rapporto tra malattia e creatività, tra eccezionalità e sofferenza che tanto ha interessato la trattazione umanistico-rinascimentale, romantica
e novecentesca... Come per la malinconia abbiamo allora un’accezione della follia che non implica il silenzio o il grido, l'assenza o il vaneggiamento, e che può ben conciliarsi con un habitus singolare (quale quello dell'artista o dell’uomo di lettere) solo eccezionalmente folle o malinconico davvero (nella più piena, dura, medica valenza del termine). Folli e malinconici, piutto-
sto, a volte, i suoi personaggi o temi o strutture (dall’Orlando ‘furioso’ di Ariosto alle opere ‘folli’ dell’architettura antica
e moderna), mentre all’arti-
sta la sensibilità dei nostri tempi riconosce soprattutto (quasi malattia ‘professionale’, come implicita nella sublimazione che abbiamo appreso da Freud) le stimmate della
nevrosi, condivise (per tensione mimetica, per ul-
teriore sublimazione) da chi l’arte contorna, facendone oggetto di parola e di riflessione». Il rapporto tra l’arte e la realtà clinica della follia e della nevrosi, il problema della creatività psicotica o nevrotica e delle metafore con le quali l’infor- me psichico si esprime nelle categorie dell’estraneità, della scissione, dell’assurdo, il rapporto tra letteratura e terapia, la straordinaria utilizzazione dell’irrazionale e della follia nell'arte moderna, sono tra i temi affrontati e
discussi nei saggi che Anna Dolfi ha provocato e raccolto in questo volume che suggestivamente si interroga sulla nevrosi, la schizofrenia, le modalità
del rapporto tra scrittura e delirio, nel tentativo di rintracciare i segni della follia nella letteratura e nell'arte, nel teatro d'opera e nelle frammentate te-
stimonianze della biografia. La follia femminile è ricercata nelle pagine dei libri e sul palcoscenico, la follia dell’architettura in realizzazioni funzionalizzate alla malattia o guidate da una dismisura che pare evocarla. A essere coinvolto è ogni volta il rapporto tra nevrosi e società, tra psicanalisi e testo
letterario, mentre lo studio specifico si rivolge soprattutto a autori italiani e francesi dal Settecento al Novecento:
Alfieri, Manzoni, Balzac, Nerval, la
scapigliatura e alcuni suoi rappresentanti esemplari, Maupassant, De Ami-
cis, Fogazzaro, D'Annunzio, Pirandello, Svevo, Artaud, Borges, Savinio, Gadda, Montale, Bracanti, Landolfi, Penna, Caproni, Calvino, Berto, Manganelli, Ottieri, Samonà, Celati...
ISBN 88-7119-584-1
L. 88.000