Neorealismo e realismo. Cinema e teatro [Vol. 2]
 883590966X, 9788835909668

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Umberto Barbaro

NEOREALISMO E REALISMO II Editori Riuniti

I edizione: giugno 1976 © Copyright by Editori Riuniti Via Serchio, 9/11 - 00198 Roma In copertina: Majakowskij. bozzetto per Mistero buffo, scena IV CL 63-0966-6

Indice

Cinema e teatro Moralità e immoralità del cinematografo

425

Undici punti sul cinema Letteratura cinematografica

429 433

Qui lavora Totò

438 442

Abbasso il cinematografo Problemi del cinematografo. Dedicato agli uomini politici e agli industriali Lezioni del cinematografo: a proposito di « Se­ conda B »

447

452

Il montaggio I quarant’anni della cinematografìa

456 460

Polemica cinematografica Organi del film

462 467

Piccola storia del film documentario in Italia

471

Il film stereoscopico

477

Nel mondo della noia

481

Natura del cinema

487

Tolstoj parla del cinema

491

Documentario e didattico

495

Neo-realismo

500 505 510 515

Realismo e moralità Chi sceglie il soggetto Luchino Visconti regista dei « Parenti terribili » L’uccisione rituale del re del cinema

La musica guarisce e redime

518 521

Risanare la cinematografìa L’Azione cattolica lavora per Hollywood

524 527

Contenuto e forma

530

Il convegno cinematografico di Perugia

554

Trent’anni della cinematografia sovietica

559

Critica e arbitrio nel documentario sulle arti figu­ rative

567

Servitù e grandezza del cinema Che succede al Centro sperimentale di cinemato­ grafìa?

575 584

L’arte del film

589

Importanza del realismo Due mostre dell’arte cinematografica

597 606

Vsevolod I. Pudovkin

616

Arte e vita sovietiche nell’ultimo film di Pudovkin Giuoco d’azzardo

627 631

Non luogo a procedere Riforma della censura?

635 639

La camera oscura Da Caligari a Hitler

643 655

Le teste di legno

659

La bella o la bestia

664

Per lo studio del film sovietico

670

Il pubblico di Chariot La XVI Mostra d’arte cinematografica di Venezia

679 685

La tecnica del successo nei film commerciali

693

Redenzioni e celluloide

699

In Cina, il vecchio e il nuovo

704

Dialogo sulla censura Ricordo di Vergano

711 716

Come interpretare Chariot. « Un re a New York » Zero in profitto e zero in condotta Ribellismo e conformismo

721

Arte e Leon d’oro Introduzione all’uomo ombra Dostoevskij e il cinema

738 745 755

Lukécs, il film e la tecnica Il cinema e l’estetica del realismo

760 764

Indice dei nomi

773

730 736

Cinema e teatro

Moralità e immoralità del cinematografo *

A parlare dell’immoralità del cinematografo c’è da sen­ tirsi citare — vediamo se è possibile rinsaporire di novità un’espressione tanto invilita — il filosofo Malebranche: che barba! Ed infatti la nuovissima arte, ancor pargoletta, ha avuto da parte dei suoi avversari e nemici gli attentati piu seri a causa della sua immoralità. Tutti ne ricordano gli argomenti. Uno dei piu buffi, e, pare impossibile, uno dei piu frequenti è stato questo: il cinematografo uccide il teatro! Ed un altro forse ancora più spassoso ha dato luogo, benché da Roma, da cui partiva, si sappia per vecchia tradizione pa­ palina che le porcherie fatte al buio non contano, a strane diatribe (oh, quel « Cinema Mefisto! ») sull’immoralità degli spettacoli al buio. Mi pare che quelle due accuse oggi si possano convertire facilmente in due titoli di merito notevolissimi. Vediamo infatti: ha ucciso il teatro. Ma quale teatro se è lecito? Il teatro borghese che era morto già per conto suo? Che era già un sopravvissuto? Ma il teatro borghese non risponde più alla nostra sensibilità; è un passato e pochis­ sime cose ne rimarranno per valore artistico, mentre le altre, se pure si leggeranno mai, ancora staranno a documento poco edificante del gusto di ieri, e dei costumi niente affatto edi­ * Cinemalia, a. Il, nn. 13-14, luglio 1928.

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ficanti di ieri e forse anche un pochino — si vorrà concedere un pochino — di oggi. Il teatro borghese è morto. E se il cinematografo, inca­ nalando il pubblico verso altri spettacoli, ne ha compromesso la sopravvivenza, tanto di guadagnato vivaddio! E se ha co­ stretto i rappresentanti di quel teatro ad un esame di co­ scienza, tanto di guadagnato perché da quell’esame non può esser nato altro che il dilemma: o rinnovarsi o morire (anche noi’). Ma dopo quella frase, la cui rettorica platealità si attaglia assai bene al caso nostro, D’Annunzio ha tratto dallo scempio della piu bella novella di Dostoevskij il suo roman­ zo più brutto. Che ci darà il teatro borghese?... Pace all’anima sua. Noi ci auguriamo che i capocomici si decidano finalmente a lasciar in pace i morti. Ecco una prima utilissima funzione del cinematografo. Quella di levarci di dosso questo cadavere che ci costringono a tenerci ancora in casa a puzzare, e della cui puzza certi critici ignari della loro funzione ancora ci consigliano di inebbriarci come di essenze delicate e squisite: ma non fa presa. E ve­ diamo con piacere che il teatro di prosa è costretto ad attrarre il pubblico nei suoi locali di vecchia e fastidiosissima archi­ tettura con gli allettamenti delle premieres: ed il pubblico che sa che se i prezzi sono alti vi saranno in compenso in sala bassissimi decolletés di tante belle signore che spectatum eunt — ecco un presente di quasi duemila anni fa — spectentur ut ipsae, accorre. E il teatro ci ha vissuto sopra, magnifica­ mente un tempo (quando ai tempi di Voltaire le belle signore del pubblico per dar l’attraente spettacolo di sé salivano addi­ rittura sul palcoscenico non curanti di inceppare i poveri attori e si sedevano tranquillamente all’ombra dei boschetti « odoriferants » che costituivano la nobile ed inutile fatica degli scenografi) ed ora ci « ciancica pane a pezzetti ». Eccoci dunque a far l’elogio del buio; sicuri del resto che oggi c’è da stare in buona compagnia. L’immoralità dello spettacolo al buio diventa suo primissimo motivo di lode: non si può mica, al cinematografo, sguerciarsi la vista a fissar la

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faccia della vicina, e neanche (ahimè!) le gambe delle signore della galleria. Siano dunque lodati gli spettacoli al buio che obbligano all’attenzione, alla concentrazione. Il buio che im­ pone Page quod agis, anzi il vide quod vides. Tuttavia il problema del cinematografo è un problema di moralità. Analogamente a quello che noi immaginisti, pensiamo, delle diverse arti, ogni produzione cinematografica che sia opera d’arte è sintesi di fantasia e di immaginazione. Ed analoga­ mente a quello che avviene nelle altre arti un film viene meno alla sua stessa natura (che è natura squisitamente artistica, come finalmente tutti concordi riconosciamo oggi) cioè è brutto quando è opera di pura fantasia sbrigliata, senza scopo e senza direzione. Per fortuna il cinematografo è stato più di ogni altra arte al riparo di quell’isolamento di elementi costitutivi e quindi un film che sia puro valore tecnico cinematografico non s’è ancor visto. (Perché se il film non è interessante ed il buio mi impedisce di distrarmi altrimenti, lo spettatore prende l’uscio e se ne va.) E cosi le ricerche tecniche rimangono nel campo degli specialisti e non si tenta nemmeno di presentarle al pubblico, com’è invece appunto successo per le altre arti: in poesia, che alcuni sostengono debba essere od anche sol­ tanto possa essere pura forma priva di contenuto e di signi­ ficato, in pittura in cui il bel pezzo tecnico fa esclamare all’« esteta fesso », come dice De Chirico, « c’est un peintre! », cosi come una musica può essere uno studio virtuosissimo ed insignificante di Liszt ed una costruzione archi tettonica l’inu­ tile affastellamento di elementi decorativi di un palazzo di Coppedè. Auguriamoci che la scoperta che il cinematografo è un’arte, da cui data l’assalto fattogli da una quantità di snobs e capi scarichi dell’« intelligenza », lo preservi dal pericolo per ora non ancora grave — nonostante certi filmetti di pseudo-eccezione — dell’artistocraticismo tecnicista. Il vero errore in cui si è caduti fino ad ora facendo del cinematografo è stato l’abbandono al puramente fantastico!

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L’abbandono al suo primo momento artistico, ed a quello che gli fruttava l’interessamento ed il successo in tutte le classi. È bello per il borghese uscire dalla quotidianità della sua vita per correre a galoppo le pampas, lui che è incallito dalla sedia dell’ufficio, bello vedere, lui che non conosce altro ventre di donna che quello di sua moglie, sporgente un palmo oltre la linea dei seni, i corpi perfetti delle stellissime, bello per il timido vedere come si diano e come si prendano schiop­ pettate e coltellate e come ci si comporti quando la pas­ sione t’investe... Utilità indiscutibile e slargamento della visione del mondo offerto a tutti, alla portata di tutti. È il momento della fantasia: l’uscire da sé. Ma se in sé non si torna? Pappus, a quello che si dice, fece un giorno quest’esperi­ mento: fare uscire qualche cosa da sé (anima? corpo astrale? qualche cosa — chi ci crede) e cadde in catalessi. Benissimo: ma un giorno l’esperimento non riuscì e quel qualche cosa se ne andò (dove? In paradiso? All’inferno? A spasso? — Co­ me vi pare) e Pappus fu trovato morto nella stanza ove pra­ ticava il rito avvolto in un lenzuolo mentre per l’aria si esa­ lavano ancora i profumi propiziatori. Del « pericolo mortale della non arte » parleremo un’al­ tra volta.

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Undici punti sul cinema *

1. Amare il cinema. Sono le possibilità del cinematografo quelle che mi ren­ dono entusiasta di questa forma d’arte, non le sue realiz­ zazioni a tutt’oggi. 2. Produzione e pubblico. Il cinematografo non è fatto per gli aristocratici o per l’alta borghesia per un motivo assai facile a capirsi: al cine­ matografo si va per vedere, non per farsi vedere. Lasciamo dunque che costoro vadano al Teatro dell’opera e convincia­ moci che fare del cinematografo significa rivolgersi al popolo. Questo non è il piu piccolo motivo di fascino di quest’arte. Il cinematografo è l’Università del popolo: esige quindi nei produttori un’altissima moralità artistica e umana. I letterati e critici moralizzanti non possono fare cinema­ tografo perché essi disprezzano la vita e fanno l’uomo imper­ fetto e segnato dalle stigmate maledette del peccato. Non può fare cinematografo dunque chi parte da un universale astratto per arrivare a un vuoto assoluto di forma. In genere si può dire poi che i letterati moralizzanti non possono pro­ durre arte in nessun senso; non possono e non dovrebbero fare assolutamente niente. * Risposta ad un referendum indetto da Cinematografo, a. V, n. 1, 30 gennaio 1931.

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I letterati estetizzanti e i neo-classici (come suol dirsi) non possono fare cinematografo perché essi amano solo la forma; e naturalmente non la forma buona (che da sola non potrebbe esistere), ma la forma avulsa dal contenuto decoro­ samente « antica » e « classica ». Il cinematografo non ha ancora una forma perfetta da parodiare, e forse grande privilegio, la sua natura meccanica e la probabile continuità dei suoi progressi tecnici rende­ ranno ogni « antica » forma semplicemente « vecchia » e insopportabile. 3. Miseria e nobiltà. La ricchezza della lingua italiana, la sua vecchiaia, la sua duttilità, la sua capacità di esprimere sentimenti nuovi senza imbarbarirsi porta alcuni letterati ad aggiungere pezzettini abbastanza gloriosi alla interminabile collezione che già ne possediamo; ma costituisce un certo ostacolo alla produzione di un romanzo. Abbiamo un Soffici ma non un Dostoevskij. Peccato! Eppure la lingua russa distingue poco; non solo non di­ stingue delitto da crimine come ha notato André Gide, ma non distingue nemmeno piede da gamba e mano da braccio. È come dire che Ejzenstejn aveva a sua disposizione mezzi limitati e nessuna esperienza e tradizione tecnica; eppure ha fatto crepare d’invidia tutta Hollywood! 4. Spirito nuovo. Cinematografo è sintesi di fantasia e immaginazione cioè arte. Non c’è altro da dire. E tuttavia diciamo ancora: non deve esprimere uno spirito nuovo, ma contribuire a crearlo.

5. Intossicazione tecnicistica. Un tempo si studiava rettorica. Pareva impossibile che un tale si potesse scrivere o anche solo meritasse l’epiteto di Valentuomo se non conosceva l’ipotiposi, l’ipallage e la sined­ doche. Ma questo non faceva gli artisti. Come non erano filo430

sofi quelli che si ficcavano in testa epicherema, sillogisma catafratto e sorite. , Gli artisti inventano la tecnica ■ e offrono agli amanuensi ampio campo per ricavare leggi che nessun altro vero arti­ sta seguirà mai.

6. Questa mi pare abbastanza buona! Né scribi né farisei nel Tempio della cinematografia. 7. Attori. E. Boardman (della Folla) è una distofo-genitale e per il suo comportamento fisico e fisiologico non poteva in nessun modo interpretare la parte di Anna pensata certamente per una gastero-sessuale. Sarebbe bene che i direttori si leggessero Pende o Freud. Comunque annunzio una serie di articoli sull’argomento; ed ecco il titolo del primo: Pende al servizio della supermarionetta *. 8. Soggetti. Pensare personaggi che stiano in piedi esige, oltre a tutto il resto, un anno di lavoro. 9. Direttori. Gli attributi del direttore, anche solo quelli indispensa­ bili, sono tali e tanti che se io li elencassi non avrei piu il coraggio di chiedere che mi si affidi la direzione di un film. E tra gli altri c’è dunque la modestia.

10. Happy end. Tutti i film debbono essere a lieto fine. S’intende che niente è più lieto (anche in mezzo alla più grande ecatombe di protagonisti) della « liberazione » o « catarsi ». Insomma vale come dire: tutti i film debbono essere opere d’arte. 1 L’articolo è stato effettivamente scritto e pubblicato su Quadrivio, n. 40, 29 luglio 1934 (n.d.r.).

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Se tutto va bene, è inutile, ed è soprattutto impossibile, fare del cinematografo; non c’è dramma perché tutto va bene, non c’è commedia perché non c’è niente da prendere in giro. Una censura cinematografica è dunque la negazione del cine­ matografo (del resto nella repubblica di Platone non c’era posto per l’arte).

11. Altre cose. Si potrebbero dire molte altre cose ma è forse prematuro.

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Letteratura cinematografica *

È recente di pochi anni lo sforzo per definire il fenomeno cinematografia nella sua essenza e nelle sue possibilità, in quello che le è comune con le diverse arti e in quello che la caratterizza e la differenzia, in quanto arte particolare. Il bisogno di perfezionare la produzione, che ha richiesto e continuamente richiede chiarezza di idee e organizzazione dei dati di esperienza, da un lato; e la necessità, dall’altro, di far rientrare la nuova forma d’arte in sistemi estetici preesistenti, senza contraddizione o risolvendo le contraddi­ zioni che potessero sorgere — vuoi per un fine teorico in sé, vuoi allo scopo di ricavarne una critica degna di questo nome, ancora per altro di là da venire — sono le esigenze da cui è nata la letteratura cinematografica, oggi ormai abbastanza ricca, e già notevole. Letteratura che conserva, per lo più, questi suoi caratteri di origine ed è dunque costituita da manuali pratici e da trattati teorici, salve, s’intende, le frequenti e reciproche inva­ sioni dei campi; e comincia inoltre a sorgere una letteratura che descrive i progressi tecnici e l’evoluzione artistica della cinematografia, i quali già costituiscono una vasta materia di storia non priva di pagine gloriose. Qui non è possibile, per ora, dare altro che una incom­ pleta e molto sommariamente ragionata lista di opere (s’in­ * L’Italia letteraria, a. VII, n. 48, 29 novembre 1931.

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tende senza tener conto delle pubblicazioni, piu o meno con­ fessatamele reclamistiche, che costituiscono, purtroppo, il novanta per cento della stampa cinematografica) colla spe­ ranza che siano invogliati a consultarle i « produttori » ita­ liani e che tali letture possano essere, per loro, motivo non solo di avvilimento, ma anche e soprattutto di sprone; e che qualche intellettuale vi trovi argomento per convincersi, una buona volta, che il cinematografo non è un comodo gagne pain, ma un’attività artistica che non s’improvvisa, che esige spirito di collaborazione o, almeno, quanto le altre attività artistiche, dedizione e sacrificio.

Numerosissimi sono, specialmente in Germania, i manuali tecnici propriamente detti — dai piu antichi sulla fotografia, proiezione fissa a cinematografia ai più recenti sul film so­ noro — e dai più elementari ai più scientifici. Essi trattano ormai particolarmente i singoli rami e problemi della attività cinematografica e quelli affini; cosi che nessun praticante — per vasta che possa essere la sua personale esperienza in materia — può prescinderne. Anche in Italia ne abbiamo qual­ cuno, dal vecchio volumetto del Mariani (Guida pratica alla cinematografia, Milano, Hoepli, 1916) ai recentissimi dell’ingegner Cauda, direttore della Rivista di cinetecnica, sul Film sonoro (Milano, Hoepli, 1930) che descrive in forma meto­ dica, chiara e accessibile i vari metodi e vari tipi di mac­ chine, e la Cinematografia per dilettanti (Roma, 1931) ricco di indicazioni e di suggerimenti pratici. Sulla proiezione esiste un volume del dott. Joachim (Die Kinematographische Proiektion, Berlin, Film Kurier, 1931), sulla gestione dei cinema­ tografi; quello di Richard Otto (Wie fuhre ich mein Rino, Berlin, Lichtbildbiihne, 1931), sulle questioni legali inerenti alla produzione e allo sfruttamento; quello del dottor Eckstein (Film und Kinorech, Berlin, Lichtbildbuhne) e quello del dottor Wenzel Goldbaum (Tonfilmrecht, Berlin, G. Stilke Verlag). Sulla « ripresa » sono considerati fondamentali i manuali dell’ing. Kossowsky (Taschenbuch des Rameramannes, Berlin, 434

Max Mattisson Verlag, 192-8) e di Seeber e Mendel (Der praktische Kameramann, Berlin, Lichtbildbiihne). Interessante più specificamente il problema artistico è il volume di S.A. Luciani (L'Antiteatro, Firenze, La Voce, 1928) che tenta indagare i rapporti tra la cinematografia e le altre arti e che, insieme a varie notizie, anche elementari, e pra­ tiche, abbozza qualche appunto di una teoria estetica che forse sarà un giorno elaborata dall’autore in una forma più sistematica che non in questo volume volutamente introdut­ tivo, e comunque interessante, anche per l’appendice che è costituita da un saggio completo di elaborazione tecnica di un soggetto e precisamente dalla « sceneggiatura » del Cap­ pello a tre punte di Alarcón. Il manuale del grande régisseur russo Vsevolod Pudovkin, già tradotto da tempo in tedesco (Ed. Lichtbildbiihne) e in inglese (da I. Montagu) e di cui è imminente, per le edizioni d’Italia, una versione italiana, non è per forma troppo diverso da un comune manuale: esso dà norma sulla costruzione del sog­ getto e sulla sceneggiatura, sulla elaborazione del materiale plastico, sui rapporti tra il direttore e l’autore, gli attori, gli operatori. Ma il volume, veramente classico ed unico nel suo genere, per essere nata dalla preziosa esperienza del più grande direttore cinematografico del mondo, si presenta come qual­ che cosa di più che non una raccolta di regolette e di consi­ gli, ma quasi come un trattato in cui è implicita una conce­ zione del cinematografo come arte e del suo mezzo tipico, il montaggio. Il lettore appena un po’ acuto intende subito quale giustificazione estetica sia il montaggio per un’arte che si vale di un mezzo meccanico di ripresa e di riproduzione; e quale sia l’importanza dunque di esso, non solo ai fini pratici (montaggio del manoscritto, dell’atto, delle scene e degli epi­ sodi), ma ai fini della teorizzazione della cinematografia co­ me arte. I francesi — abbastanza noti in Italia — che si sono occu­ pati di cinematografia, son rimasti per lo più — s’intende i più interessanti — nella sfera diciamo cosi avanguardistica, tentando di aggiornare l’arte neonata della cinematografia ai

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risultati della letteratura e delle arti plastiche: tentativi molto interessanti certamente e dei quali il cinematografo può av­ vantaggiarsi; sempre però che si tenga presente che l’avan­ guardismo ha sempre carattere di esperimento « tecnico » tendente ad ampliare il campo d’azione di un’arte; mentre che nel caso della cinematografia per il suo carattere il pro­ blema piu interessante è quello di stabilirne i limiti. (Citiamo: i sette volumi della collezione di Alcan L’art cinématographique, quelli di Louis Delluc Cinema et C., Pbotogenie, quelli di J. Epstein Le cinema e la raccolta di scenari, discussioni e cronache Cinema di Gance, Epstein, R. Clair ecc., fino al re­ centissimo dell’Altmann Qa c'est du cinema, Ed. Les Révues, Paris, 1931.) Un atlante eccellente è il volume di Hans Richter (autore di vari film tra cui Inflazione)'. Avversari del film di oggi e amici del film di domani (Filmgegener von Heute Filmfreunde von Morgen, Berlin, Verlag H. Reckendorf, 1929) che dà una piana, sintetica, e spessissimo particolarmente felice, esposi­ zione del direttore e dell’operatore (si veda questa definizione: il montaggio è quell’operazione per cui il régisseur « fa cam­ biare di posto lo spettatore » p. 25) assai opportunamente e largamente accompagnati da una documentazione fotografica modernissima, passa ad una critica dell’attuale produzione cinematografica, del suo contenuto morale e del suo valore artistico ed auspica l’avvento di una nuova cinematografia. Non meno audaci sono i volumi dell’ungherese Béla Balazs (L'uomo visibile e Lo spirito del film) dei quali non è lecito trattare cosi sbrigativamente e sui quali avremo occasione di ritornare (i lettori per altro ne conoscono già qualche saggio comparso su queste colonne). Ed un lungo esame meriterebbe il volume di Paul Rotha (The Film till now, London, Jonathan Cape, 1930) che, oltre a costituire la prima ampia storia della cinematografia, non diciamo completa dato il silenzio sotto cui è passata quasi tutta la cinematografia italiana — vi si cita solo Cabiria e il primo Quo vadis? (sia pure ricordando che questo film sti­ molò Griffith a produrne uno altrettanto importante) ed un 436

prezioso manuale di consultazioni in virtù dei suoi indici per­ fetti, è anche un’opera che domina pienamente la materia vastissima di fatti e di teorie esposte: cosa che presuppone nell’autore una visione teorica ben definita; visione teorica, che, secondo me a torto, gli fu imputato mancargli nell’esame che di questo volume ha dato Alberti (Pègaso, gennaio 1931). Di gran lunga inferiore è il Panorame de la cinématographie di G. Charensol (Paris, Ed. Kra), pieno di francese suf­ ficienza e ricco di errori e di lacune molto bene spulciategli in Italia, tra gli altri, dal Margadonna (Comoedia, 15, 31, 1930) e che, insieme ai tre articoli (di Boisyvon, Ferri-Pisani e Emilio Ghione), sulla cinematografia in Francia e in America e in Italia (nella cit. coll. Alcan) e alla Histoire de la cinemato­ graphic (’Paris, 1925) di G. Michel de Coissac, che ha tenuto conto più che altro della parte tecnica, costituiscono più o meno quanto s’è scritto di storia della cinematografia. Esistono vari dizionari tra i quali citiamo quello dei dr. Kurt Mùhsam e E. Jacobson Lexicon des Films ormai non più recentissimo, e limitato alla Germania, e per di più ricco di strafalcioni (Berlin, Verlag der Lichtbildbiihne, 1926); ma non mai quanto il « volumissimo internazionale » del Mattozzi Annuario della cinematografia (Roma, 1922) che contiene per altro preziose, poiché ormai rare, notizie sulla cinemato­ grafia italiana, nel quale è dato tra l’altro di leggere: Scott Walter, soggettista. Presso la Cines, Roma.

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Qui lavora Totò *

Dire che Antonio de Curtis, in arte Totò, è un grande fantasista, il più grande che abbia oggi l’Italia, e forse anche non solo l’Italia, è fare una constatazione facile che qualun­ que spettatore può permettersi con tranquilla superficialità. Ma se ci si vuol avvicinare con spirito più riflessivo alla sua arte, cercando di coglierne le forme e i motivi essenziali, si intuisce subito la necessità di un lavoro di discriminazione critica che il teatro di varietà solitamente non richiede. Totò — chi non lo conosce ormai? — è un buffo che s’è appoggiato delicatamente, ondeggiante in bilico su di una fron­ te da pensatore, un cappelluccio floscio all’italiana, che pare una barchetta, e s’è combinato, sotto due grandi occhi neris­ simi ed eloquenti di sentimentale, un naso puntuto e rosso che piove già verso una mandibola volitiva e vorace, in contrasto colla sua figura dinoccolata e bighellona di meridionale; che però sa assumere a volta rigidezze di portamento e di linea, piene di sapore araldico — i de Curtis hanno una storia da circa un millennio — per poi, con snodature e snellezze inve­ rosimili, a un tratto contemporaneamente piegare il busto, incrociare gli occhi, roteare il collo, storcere il mento ed agi­ tare verso il pubblico gli indici delle mani aristocratiche tesi in una minaccia piena di intesa maliziosa, mentre la bocca arguta scocca la battuta ormai popolare: « Ah, birichino! bi­ richino! ». * L'Italia letteraria, a. IX, n. 40, 1 ottobre 1933.

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Al semplice comparire di Totò sul proscenio scoppia irre­ frenabile la risata del pubblico tanto delle poltrone che della galleria. E questo risultato poco comune deriva certo dall’aspet­ to comico del tipo e dalla sua mimica straordinaria ed esilaran­ te; ma piu precisamente dalle cause e dalle giustificanti di que­ sto aspetto e di questa mimica: e cioè dall’elaborazione e dalla selezione rigorosa, in vista di scopi precisi, di cui la manife­ stazione esteriore è il risultato evidente. Non si tratta qui dell’invenzione di un carattere che si porti disinvoltamente e dignitosamente a spasso una sua ignorata deformazione — che è, per chi guardi bene, la tecnica comune e corrente della « macchietta » e della situazione comica — ma della felice in­ tuizione di un clima ideale e poetico, tutto coerente e con­ creto in cui possono esistere e vivere le irresistibili incarna­ zioni di Totò, il cameriere disoccupato, il cantante cane, il padre citrullo che ricerca il figlio rapitogli. Personaggi eccen­ trici e strani, nel cui subcosciente si sommano i più vari com­ plessi, a dar vita ed estrinsecazione agli automatismi più illo­ gici ed ai gesti più assurdi. Ed è cosi che ogni apparizione di Totò muove immedia­ tamente al riso lo spettatore parlandogli, direttamente e im­ mediatamente persuasiva, per vie sotterranee che quasi non necessitano della mediazione del linguaggio e dell’intonazione. Perciò la qualifica di fantasista è troppo stretta per questa personalità artistica di prim’ordine: qui siamo di fronte ad un vero attore capace di interpretazione e di creazione. I modi e i tempi delle sue entrate, come ogni suo gesto, sono costantemente significanti, ed in funzione di più larghi significati. E non importa che lo spettacolo sia per necessità adeguato alle esigenze del pubblico della macchietta e della rivista: perché la mimica di Totò trascende costantemente il significato della narrazione e dell’azione scenica, e già si af­ ferma come eloquente e chiaro modo di intendere la vita e come una visuale del mondo. Molti comici posseggono, chi più chi meno, doti naturali e di mestiere non dissimili; ma l’importanza caratteristica di Totò sta nel fatto di averle orga­ nizzate in modo che ogni atto diventi per lui necessità sugge­

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stiva del suo mondo. Un mondo poetico e strano, che è suo patrimonio esclusivo e, cioè a dire, quasi non formulabile in forma diversa. L’acqua, diceva Marcel Proust, non bolle che a cento gradi. Quando Totò è all’altezza di se stesso, la sua caratteristica è unicità e valore assoluto.

Qualche anno fa, indottovi dai suoi discepoli, Bergson si è recato, per la prima volta in vita sua, al cinematografo a vedere Buster Keaton; e si dice che il filosofo sia stato lietis­ simo di questo spettacolo che costituì per lui una conferma piena della teoria psicologico-estetica sulla natura e la signi­ ficazione del comico, che egli ha espresso in un saggio famoso. È certo che una consolazione simile potrebbe essergli data anche da Totò, sebbene nulla sia più lontano dall’attonita e patetica serietà del comico americano della strabocchevole ricchezza mimica di Totò. Se se ne vuole una riprova, basta ricordare qualcuna delle sue trovate. Cinque persone atterrite da una causa qualsiasi scappano agli angoli della stanza, iniziando una partita ai quattro cantoni, che per Totò, rimasto in mezzo, diventa una partita a toccaferro. Dinanzi all’immaginario cadavere di De­ sdemona che un Jago da strapazzo vitupera con un fiume di improperi: « Venduta, infame, perfida, Messalina! », Totò im­ provvisatosi venditore di piazza, imbonisce: « Mezza lira uno. Mezza lira due! Mezza lire tre! Venduta! ». Atterrito da un presunto pazzo, Totò rivolge a se stesso, ad alta voce, una serie di esortazioni alla calma e di ragiona­ menti rassicuranti, mentre, con concentrata e compunta atten­ zione avvolge un brevissimo pezzetto di stella filante: subito dopo, tentando con una risata in falsetto di scagliare verso il pubblico la strisciolina di carta, con una magnifica variazione di intonazione dichiara che i motivi addotti fino a quel punto, per tranquillizzarsi, non sussistono di fronte all’effettiva paz­ zia dell’altro. E, vedendoselo improvvisamente di fronte, il parossismo del suo terrore si manifesta in un incredibile sus­ 440

seguirsi di movimenti vertiginosi, che diventano a un tratto la posa di Napoleone dinanzi al Mulino di Waterloo, i movi­ menti di un rematore di sandolino, Pagi tarsi delle zampe ante­ riori di un cagnolino in equilibrio sulle posteriori, uno stu­ pido e tragico arresto, l’atto di chi tiri l’igienico e purifica­ tore pull, i movimenti di una marionetta guidati da invisibili fili, e infine un balletto cadenzato. La preghiera serale di Totò prima di andare a letto, è uno dei pezzi indimenticabili del teatro comico di questi ultimi anni: in essa si riproducono con rapidità sorprendente una serie di espressioni di terrore, misti a scongiuri, a sberleffi ed allo straordinario « Birichino, biri­ chino! » indirizzato al Padre eterno, tuttavia senza alcuna intenzione di parodia facile e irriverente.

Come possono organizzarsi tutte queste allegre buffonate in un mondo? Come può una cosi oltranzista volontà di ef­ fetto comico armonizzarsi nelle simmetrie superiori della crea­ zione artistica? Queste sono domande che pongono male il problema e lo rendono irrisolvibile. Bisogna intendere, come si è detto già prima, questo perfetto stile come la conseguenza di un fatto interiore di natura artistica, e la cui sede non è quindi nella volontà, e che, grosso modo può indicarsi come la direzione costante verso uno scopo preciso. Scopo che, se in un primo momento è la conquista espressiva, subito dopo diviene più alto e trascendente. Necessità e conseguenza non sono in Totò mezzi di espres­ sione, e tanto meno di effusione e sfogo sentimentale, ma ele­ menti di una vera e propria strumentazione. Tipo, macchietta e aneddoto divengono, nelle sue creazioni, elementi di una superiore armonia.

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Abbasso il cinematografo *

È noto che, più che un esercito di uomini enormi e ga­ gliardi, coperti di ferro e maestri nell’arte di torneare, è stato l’esercito dei 24 minuscoli soldatini di piombo di Gutenberg quello che ha sconfitto il medioevo. E, per tutti coloro che possono concedersi il lusso faticato di avere come maestra di vita la storia, è indubitato che quello che farà diventare (o meglio, che farà riconoscere per) medioevo l’epoca che, più o meno, finisce con le convulsioni del 1914 e che continua a sopravvivere, agonizzando, nelle attuali crisi, non sarà un esercito di piccoli uomini volanti, o naviganti nel fondo dei mari, o mascherati contro i gas e gli altri orrori delle guerre moderne, ma sarà un esercito di ombre. Sarà cioè la cinema­ tografia, quando avrà raggiunto il livello che le compete, a in­ fliggere il colpo di misericordia alla civiltà di ieri, oggi ormai evidentemente in tutto il mondo putrefatta, e a segnare la fine dell'era borghese. E tutti si accorgeranno allora che l’inven­ zione di un mezzo di espressione cosi potente e cosi univer­ sale è uno dei fatti più importanti dell’alba grigia del XX secolo. I tonti e fintitonti hanno una risposta pronta: una sem­ plice invenzione tecnica non può avere una cosi enorme influenza nella vita dello spirito; e: l’arte, ammesso che es­ senza d’arte si voglia concedere alla cinematografia, non può * Quadrivio, a. II, n. 37, 8 luglio 1934.

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essere che fine a se stessa. Ma questa duplice sparata a bru­ ciapelo ha una rosa troppo vasta e potrebbe conficcar qualche pallino proprio là dove non si vorrebbe mai mandarne: e la doppietta da cui parte ha, per di piu, entrambe le canne, la sociale e l’estetica, malamente arrugginite. E s’intenda, fuor di metafora, che ormai ogni sana estetica sa che l’arte è tale un’attività che ogni altra le è subordinata; e che essa deve quindi, e non può non farlo, direttamente e indirettamente, dominare e dirigere le forme della vita stessa, e ispirarsi al suo tempo solo per gettare semi per il miglior tempo di domani. Venendo poi in chiasma logico, alla prima parte dell’obie­ zione del tonto al cento per cento, o finto tonto che sia, oc­ corre citare di mano in mano i 24 cari soldatini di piombo? O non sarà piu divertente mentovare un economista, il Delaisis (cfr. Lei deux Europei, Paris, Payot, pp. 29 e sgg.), che ha sostenuto che il passaggio dal romanico al gotico è stato cau­ sato dalla scoperta dei finimenti e della bordatura del collo del cavallo? O sarà meglio trattare il tonto come se non lo fosse e dire come si articoli dialetticamente la vita dello spirito, come es­ so si crei, nella propria attuazione, la magia (e cioè il potere e la tecnica) che lo adegui a se stesso? A questo punto mi pare si dovrebbe chiarire anche lo stupore degli ingegneri, che, negli ultimi anni, si son sentiti chiamare in causa nelle cose d’arte. Proprio loro, che, per distogliersi dal mondo dei regoli calcolatori e delle livelle, hanno sempre domandato alle moglie, eleganti vestali del fuoco sacro della bellezza, e lettrici di Milanesi, Gotta, Bour­ get e Dekobra, un bel romanzo per prendere sonno: e per la confortabile home qualche tela pregiata e costosa di uno dei pompieri di grido, ben rappresentato alla Galleria d’arte mo­ derna, Ciardi, Tito o Irolli; due nature morte gemelle per la stanza da pranzo, e, per il salotto, una bella veduta, zucchero d’orzo, di tramonto o di Venezia. Sarebbe una nobile impresa quella di fare un po’ di luce nel mistero dell’estetica degli ingegneri, per contrapporla, vit­

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toriosamente, a quella delle loro mogli. Ma l’argomento, por­ terebbe lontano. E almeno fossi riuscito a far capire, magari a un ingegnere solo che, per quanto ostico e urtante possa essergli stato questo sermoncello, egli ha tutto il diritto di ringalluzzirsene; e che, se l’avrà inteso sicuramente, e senza ricorrere alla vestale della bellezza dalle ciglia rosate, esso gli potrà servire anche ad essere un migliore e piu consape­ vole ingegnere. Quest’arte giovanissima del cinematografo, certamente pre­ coce e abbastanza simpaticamente sfacciata, ha un brutto vizio costituzionale: costa denaro. È bensì vero che ne rende anche, ma, anzitutto, comincia col costarne. E per entrambe queste sue caratteristiche, che sono la sua malattia costituzionale piu grave, essa è stata sempre, ed è più che mai oggi, in pessime mani. E nata per di più, in tempi in cui il capitalismo indivi­ dualistico ed avventuroso, cessando di essere uno strumento di progresso sociale, era diventato già — o tendeva a diven­ tare — un ingombro e un impedimento al progresso stesso; era un capitalismo che non aveva più nulla da conquistare, ma solo da difendere e da conservare le posizioni conquistate: e la cinematografia, nelle sue mani, ne è venuta ad essere la più conservatrice e codina delle arti. Anzi la sola arte reazio­ naria che esista. E, anzi ancora (per essere giusti e per far tacere l’appassionato amore che mi lega a questa carissima mia coetanea) — e dato che un’arte reazionaria non può esistere ma solo sembrare arte agli idioti ed ai miopi — la cinemato­ grafia è stata sempre al disotto delle sue possibilità e — salvo pochissime e gloriose eccezioni — non è stata mai, come può e come deve essere, arte. In risposta a un referendum, indetto dalla rivista Cine­ matografo quattro o cinque anni fa, io ho mandato una dozzina di apoftegmi sollazzevoli che furono, mi si permetta di dirlo, la dimostrazione della bontà delle corde vocali di uno a cui piace — tutti i gusti son gusti — strillare nel deser­ to; può darsi anche che la forma di quelle note, sintetica e quindi pregnante e apodittica, ne abbia limitato la risonanza. E dunque mi si permetta (dopo due buoni anni sciupati a lot­ 444

tare nel mondo cinematografico, con risultati disastrosissimi) ritornare ai miei 24 (mila) lettori (quelli di Quadrivio) con l’imperturbabile « heri dicebamus » di quel caro vecchio te­ stardo del Moro. Voglio dire che, prendendo alla lettera certi mordaci suggerimenti del Pamphlet des Pamphlets, proverò a sviluppare e a svolgere il senso di quelle noticine, auguran­ domi che questo non sia solo un metter acqua nel vino. E so­ prattutto che il veleno contenutovi non perda efficacia, e con­ tribuisca almeno a far morire quello che di assurdo, ignobile ed esecrabile c’è nella cinematografia. E, intendiamoci bene, non solo in quella italiana della quale è carità di patria, per ora, tacere. Il primo di questi aforismi diceva: « Sono le possibilità del cinematografo quelle che mi rendono entusiasta di questa forma d’arte, non le sue realizzazioni a tutt’oggi ». Premetto subito che faccio eccezione per Chariot, Pabst, i russi, Capra e qualche altro. Ma quest’idea non è peregrina: credo di ricordare che qualche cosa di simile l’ha scritto, ai suoi tempi, Ricciotto Canudo; ed è probabile che altrettanto abbiano pensato, detto o scritto tutte le persone appena un po’ riflessive. Ma non è poi vero che le idee poco peregrine siano le peggiori; anzi mi pare che siano spesso proprio le migliori, quelle tanto vere che son perfino divenute banali e vengono a noia. Il male sta nell’annoiarsene. Abbandonato a se stesso, povero spettacolo di serve, di soldati e di ragazzini (pubblico degno di Shakespeare) che non avrebbe mai raggiunto la profondità e l’altezza del teatro bor­ ghese e del suo continuo adulteriuzzo stanco, il cinematografo stava allegramente facendo cose da pazzi: destinato alle mas­ se, tentava, sia pure in modo primitivo e ingenuo, di inter­ pretarne i sentimenti e di intenderne i bisogni. Minacciò, in altre parole, di diventare arte. E allora avvenne un fatto cu­ rioso: un processo di autodifesa dei parassiti della pseudo­ intelligenza borghese, che qualcuno ha creduto cosciente e che invece era automatico come il mimetismo animale: la borghesia riconobbe nella cinematografia un’arte, la prese sotto 445

la sua protezione e il suo controllo, la uccise. In Italia il feno­ meno può essere sintetizzato cosi: I cattolici cessarono di to­ nare e scagliar fulmini contro Vimmoralità degli spettatori al buio. Dal punto di vista industriale si creò il mito del superco­ losso, del film d’arte costosissimo ed eccezionale — mito tut­ tora in grande auge tra gli industrialotti del film — e si ven­ ne all’idea di una vasta produzione in serie. Merita di essere ricordato il motto glorioso di uno dei magnati della cinema­ tografia italiana di allora: « Non arte, ma scarpe ». E ci fu un crollo clamoroso che i più anziani si ricordano bene. Non si parlò più di cinematografia italiana; ma il fenome­ no non è soltanto italiano. Da quando fu riconosciuto arte del­ la borghesia il cinematografo ha un contenuto borghese; ed è diventato, in altre parole, un mezzo per glorificare l’arrivismo, per conciliarlo colla precettistica moralizzante più gretta e più assurda, per mentire sulla possibilità di questo arrivismo, per sopire gli stimoli, sani epperò veramente morali, del popo­ lo. Giova ancora una volta citare la falsa ed esecrabile « Segre­ taria privata »? Che fare? •Lo ha suggerito, qualche anno fa, un tedesco. E non si dica che è poco (cfr. H. Richter, Filmgegener voti Heute ecc.): « Siete avversari del film? « Cosi come esso è, esso non ha abbastanza avversari. « Ma l’avversario del film di oggi ha un compito: com­ battere il cattivo film, protestare, organizzare la protesta ». Questo è il moltissimo che c’è da fare. Abbasso il cinematografo!

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Problemi del cinematografo. Dedicato agli uomini Dolitici e agli industriali *

Pellicola impressionata è dunque la seconda voce nella ta­ bella delle esportazioni degli Stati Uniti d’America. Ecco un dato di fatto sul quale è bene richiamare l’attenzione degli uomini politici e degl’industriali che sanno che cosa sia la pro­ duzione e l’esportazione americana; che cosa significhi l’impe­ rialismo del dollaro e quale sia l’attuale situazione dell’Euro­ pa che, dopo la guerra, si è vista diventare da creditrice debi­ trice, e i cui migliori clienti si son trasformati in concorrenti agguerriti e accanitissimi. Anche senza aver fatto studi di matematica superiore, e ignorando Einstein e la teoria generale e speciale della relati­ vità, tutti e gli industriali, e gli uomini politici in particolare, sanno che è lontano di secoli quel 1913-14 in cui si poteva considerare con benevola superiorità l’attivismo americano e le cose dell’altro mondo; in cui il pericolo giallo non era che una spiritosa invenzione del saccardo dalle suole grosse (come lo chiamava il Vate) che voleva distrarre l’Europa dall’attività dei suoi Krupp. E anch’io ricordo benissimo quei lontani tem­ pi di scucxla in cui pericolo giallo non voleva dire dumping giapponese, né sacrosanto risveglio di quattrocento milioni di cinesi, ma designava semplicemente l’esercito delle piccole Zero Fiat color canarino delle R. poste, e che erano guidate, con non rara perizia, da quelli che allora si chiamavano alla * Quadrìvio, a. II, n. 41, 5 agosto 1934.

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romana scioffè e che Enrico Ferri qualificava come i criminali del volante. In quei prischi tempi l’Europa aveva per di più un pri­ mato spirituale che se decisamente non si mette testa a partito ci sfuggirà fatalmente. Gli uomini politici che sono buoni psicologi sanno che lo strumento più forte e più efficace per l’affermazione delle proprie idee, quello più capillarmente insinuante, che agisce direttamente sul subcosciente degli individui singoli, toglien­ do loro ogni possibilità di critica e di controllo è il cinema­ tografo che proietta su di uno schermo enorme 24 fotogrammi al secondo, cioè una serie di immagini e di particolari con una rapidità tale e da un punto di vista invincibilmente obbligato, si da dominare quasi ipnoticamente gli spettatori. Oggi in Europa e in Italia si veste, non solo, si ride, si piange, si cammina cinematograficamente; e cioè all’america­ na. Peggio: non solo si fa cenno di addio col palmo della mano alFinfuori, ma, poiché la natura imita l’arte, si mettono al mondo bambini con gli occhi alla pommarola e colla bocca di pesce di Jean Crawford o con le caratteristiche di qualche altra stelluzza del firmamento di celluloide di Hollywood. È uno strumento serio e pericoloso il cinematografo, ed è un vero delitto lasciarlo in certe mani irresponsabili. In guar­ dia, signori europei! Non è poi detto che l’Europa debba continuare ad offrire al mondo intero lo spettacolo istruttivo di come si chiude il ciclo di una civiltà, e di come, tra massacri inauditi, un con­ tinente perda la direttiva degli affari mondiali: l’Europa è ancora capace, e forse lo ha già mostrato, di bandire una nuova parola di pace e un ordine nuovo che realizzi una mag­ giore giustizia sociale. E il più forte e più poderoso araldo di questo rinnovato indirizzo di una Europa rinsavita sarà in­ discutibilmente il cinematografo.

Un'industria sana L’Italia ha bisogno di 300 o 350 film all’anno. Ne produce,

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al massimo, 20. La richiesta di film è in continuo aumento, come sono in aumento i locali di programmazione: e diven­ terà una richiesta enorme quando ci si deciderà a introdurre nelle scuole, per l’insegnamento almeno di alcune materie, la cinematografia. Si tratta di un’affare, signori industriali, imboscatori di denaro! A questi lumi di luna, con questa crisi e proprio ora che non vola una penna, come dicono i cacciatori, e non si batte un chiodo, come dicono i falegnami e tutti. Una grande industria che in Italia può sorgere; e la storia lo ha dimostrato: perché dal 1902, anno di fondazione della Cines, al 1914 in Italia si produceva e si esportava; qualche nome (Francesca Bertini e Emilio Ghione) era tale una garan­ zia per i noleggiatori di tutto il mondo che i film si vende­ vano in scatola chiusa, e gli incassi erano lautissimi. E ancora nel 1919 — ce lo assicura il Delluc (Louis Delluc, Cinema et C.ie, Paris, Grasset, 1919) poiché allora la natura imitava l’arte — nascevano per i>l mondo tante belle bambine che assomigliavano alla bella Francesca Bertini. È una storia buffa a volte ma gloriosa quella della vecchia cinematografia italiana: una storia che è urgente scrivere per­ ché i vecchi film si vendono a metri ai ragazzini, al Campo de’ fiori, o a peso per esser trasformati in vernici alla nitrocel­ lulosa per le automobili o per le pareti e i pavimenti delle case razionalistiche. Dire che cosa significhi questa perdita di una raccolta di documenti impareggiabili, almeno per la storia del costume, esula per ora dai limiti di questo articolo: nel quale si vuol ricordare che, colla guerra e la conseguente chiu­ sura dei mercati, i diversi paesi furono messi in grado di pro­ durre per conto loro. Gli americani che già con Griffith ave­ vano approfondito i mezzi tipici di questa nuova arte, dandoci un cinematografo cinematografico, mentre da noi l’interessa­ mento della borghesia tendeva a renderlo sempre più lettera­ rio; e i tedeschi che trasformarono la BUFA (si badi, organo del ministero della guerra!) in quell’UFA che, assorbite le diverse piccole case indipendenti, compresa la gloriosa Nordisk di Copenaghen, si mise al servizio degli industriali,

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delle banche, della corte e degli imbottitoti di crani, e fu, a guerra finita, e ai tempi di Pommer, la fucina della migliore cinematografia di tutto il mondo. E tuttavia ancora nel 1921 erano attive in Italia cento case di produzione e l’importazione era di 6.625.735 lire, con­ tro una esportazione di 7.326.990 lire (esclusa l’esportazione in Germania). Ci fu poi il tentativo di un grosso trust che portò a un tracollo memorando ed alla crisi che durò anni e anni fino agli attuali conati di rinascita.

Cifre e fatti Il primo di quei conati, voglio dire il primo film della rinata cinematografia italiana, costò, perché fatto con sper­ pero di tempo, di denaro e di pellicola assolutamente indescri­ vibile, e perché gravato delle enormi spese generali di una organizzazione assurdamente elefantesca, circa due milioni. Rese, di incasso lordo, piu di dodici milioni. Altri film, il cui costo si aggirò intorno al milione, incas­ sarono otto, nove, dieci milioni. Questa era, all’inizio della cosiddetta rinascita, la situazione del mercato italiano. Oggi un film può esser prodotto da un privato con meno di mezzo milione e i possibili incassi, nonostante tutto, sono rimasti quelli di un tempo. C’è qualche ostacolo? Naturalmente: ed è rappresentato dalla produzione stra­ niera e, per meglio dire, dai noleggiatori che non hanno, in genere, alcun interesse al sorgere di una produzione italiana. Un film di produzione straniera costa infatti, compresevi le spese la forte tassa di doppiaggio, un terzo di un film italiano. Citerò un solo esempio che serve anche a dimostrare la competenza e la conoscenza dei gusti del pubblico di certi uf­ fici commerciali: il film austriaco Angeli senza paradiso che tutti ricordano fu offerto per 50 mila lire ad una grande casa di produzione e di noleggio e fu rifiutato.

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Gli uomini del cinematografo

Si viene cosi al punto grave. Chi sono e che cosa valgono gli attuali uomini della cine­ matografia italiana? Chi può rimuoverli? Chi li potrebbe so­ stituire? Alla terza domanda io non voglio rispondere, un po’ per modestia, un po’ perché non si dica che faccio della reclame ai miei amici... Quanto alle altre due... Quando il papa, credo Innocenzo III, bandi la crociata contro gli Albigesi, a chi gli faceva osservare che, anche tra quegli eretici, c’erano o potevano esserci uomini buoni e ge­ nerosi, rispose, forte delle sue convinzioni: « Ammazzateli tutti! Poi Dio sceglierà le anime ». Ora è chiaro che io non ho nessunissima simpatia per questi metodi sbrigativi, e, diciamolo pure, troppo hitleriani; ma è certo che chi esamini la produzione cinematografica ita­ liana di questi ultimi anni non può che formulare una con­ danna totale e assoluta, lasciando alla storia il compito di scegliere le anime pie, se ce ne sono. Può darsi che la proposta di ammazzarli tutti sembri un po’ eccessiva: non sarebbe sembrata tale a quella donna sen­ sibile e fine che fu Eleonora Duse, che istituì una cassa di previdenza per gli attori, ma che sostenne anche che se si voleva salvare il teatro bisognava uccidere tutti gli attori. Conclusione? Tiratela voi stessi una conclusione. Dal canto mio io ho già messo a conto degli uomini del­ l’attuale cinematografia italiana anche l’avermi fatto, sia pure per un attimo solo, conciliare coll’ombra di quell’uomo vio­ lento e crudele che scrisse, col sangue degli Albigesi, una delle piu fosche e piu abominevoli pagine della storia.

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Lezioni del cinematografo: a proposito di « Seconda B » *

In un articolo, che mi sembra un po’ affrettato, sulla Bien­ nale veneziana, Alberto Consiglio fa, insieme ad alcune con­ siderazioni interessanti sull’attuale situazione cinematografica italiana, un’ampia analisi del film di Goffredo Alessandrini e di produzione ICAR Seconda B. Io condivido molte delle tesi del Consiglio, ed alcune di esse ho avuto già occasione di sostenerle in piu scritti: tra tutte quella dell’importanza so­ ciale della cinematografia e, aggiungerò, della sua funzione essenzialmente antiborghese. Vorrei però rettificare qualche inesattezza, e, poiché me se ne offre così il destro, chiarire la mia posizione rispetto al film Seconda B da cui il Consiglio prende le mosse, e di cui io sono ufficialmente l’autore. La cosa non ha, per me, trop­ pa importanza perché è notorio che i direttori, cosiddetti arti­ stici, hanno sempre e ovunque fatto strage del lavoro di quei poveri vasai oraziani che sono gli autori; ed io sono tanto con­ vinto, coll’Arnheim, che la figura del soggettista che protesta perché la sua opera è stata realizzata male è una ridicola figura destinata a scomparire, che ho sempre taciuto, nonostante le due programmazioni di Seconda B (semi-privata a Roma, al Centro di studi cinematografici, e pubblica a Venezia, alla Biennale) e mi sono astenuto dal giudicare quel film. Sicuro della buona conoscenza che il mio pubblico ha di * L'Italia letteraria, a. X, n. 38, 8 settembre 1934.

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me avrei continuato a tacere, sentendomi tutelato dalla mia lunga attività di scrittore, anche di cose cinematografiche, se il Consiglio non dicesse di Seconda B qualche cosa che tocca direttamente il soggetto e precisamente che esso ricucina con salsa aspra e greve « Ragazze in uniforme ». Comunque sia il film realizzato, sta di fatto che il mio soggetto fu presentato alla Cines (dove ne esiste ancora una primitiva redazione con relazione favorevole dell’allora direttore dell’ufficio soggetti, S.A. Luciani) prima della produzione di Mddchen in Uniform; ed è stato proprio il posteriore successo di quel gioiello della cinematografia a far prendere in considerazione Seconda B che presentava un ambiente simile. Si tratta di un fenomeno molto noto nel mondo cinematografico e che nasce dall’abituale con­ cezione della produzione in serie del tipo che va. Se si tiene conto poi che in Seconda B i professori sono vittime delle alunne, mentre che le povere « ragazze in uni­ forme » sono disperate vittime di una concezione nazista ante litteram del mondo, si vedrà che le analogie tra i due film, dato che ne esistano, sono del tutto esterne e certamente indipen­ denti dal mio soggetto. Quanto alla salsa aspra e greve immagino che il Consiglio voglia riferirsi all’inutile trasposizione della trama al 1912 e alla consueta satiretta dei costumi di quel tempo, alla mac­ chietta del bidello scemo (che per qualche tempo si volle anche balbuziente) e che dice che Kerkez la femme è latino e che lupus in fabula è greco antico, alle barbe e alle chiome dei professori del collegio, ai capitomboli di Tofano nei momenti piu psicologicamente interessanti dell’azione, alle serate bor­ ghesi alla Camerini, alle alunne che pronunziano l’italiano con accento esotico, all’ultima riedizione, in carrozze, auto­ mobili e autobus, anteguerra del glorioso trenino di Accidenti che ospitalità e, diciamo pure, a tutto il resto. Ma queste cose, con buona pace del Consiglio, ricordano molto di più La segretaria privata che non Ragazze in uniforme con cui non hanno proprio niente a che spartire. Ed io non mi sono mai preoccupato di dichiararle pubblicamente non mie perché mi sembrò assurdo potessero essermi attribuite, senza mala­

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fede, anche dal più spensierato e più malevolo dei miei lettori. Il punto è un altro e Consiglio lo sa (sono cose vecchie e note fino alla stucchevolezza): quegli assicuratori di affari che passano per produttori e che si danno l’aria di industriali, senza mai investire ma solo garantendo cifre astronomiche, (in regime corporativo questo è uno degli aspetti della produ­ zione cinematografica italiana che non può esser trascurato e che, prima o poi, io stesso vorrò illustrare) e i direttori, co­ siddetti artistici, non hanno altra preoccupazione che quella di piacere al pubblico, credono di essere i depositari del gu­ sto del pubblico, vogliono seguirlo ovunque, servirlo a qua­ lunque costo. E un soggetto che sia affidato loro viene sotto­ posto a revisioni e a correzioni del genere di quelle che (sem­ pre coll’illusione di piacere al pubblico) ha messo in opera Guido da Verona per il suo rifacimento dei Promessi sposi: cosicché un buon soggetto sta alla sua realizzazione come i Promessi sposi di Manzoni stanno a quelli di Guido da Verona. È naturale che ci sia chi preferisce i secondi ai primi, e la questione purtroppo non si può risolvere in un articolo di giornale. Fuori dal fatto personale mi preme ancora avvertire il Consiglio che in Italia ci sono stabilimenti attrezzatissimi e, soprattutto ci sono ottimi operatori, ottimi tecnici del suono, ottimi scenografi, vestiaristi trovarobe; ottimi organizzatori e soggettisti e sceneggiatori. Ottimi cioè, valenti ed esperti, e, quello che più conta, entusiasti. Esistono, perfino tra gli attori e tra le attrici, tipi straordinariamente interessanti ed espressivi. Ma tutta questa gente ha bisogno di direttori che sappiano coordinare il loro lavoro. E, se i film vengono male, è ingiusto qualificar proprio loro di boscimani: boscimano sa­ rebbe, nel caso, anche se vestito secondo i più urlanti e più striduli strilli della moda, il direttore. E, tornando a Secon­ da B vorrei ricordare al Consiglio che un complesso di primo ordine ha collaborate a quel film, e mi piace qui riparare quella che è stata una grave disattenzione della critica che quasi non ha notato i gustosi e gradevolissimi costumi del pittore Sensani.

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Circa il soggetto (a parte il fatto che lo pubblicherò perché chi si diletta di confronti possa farne) dirò che il primo giorno di collaborazione, con Goffredo Alessandrini, per la revisione della sceneggiatura io ebbi a dichiarargli la mia convinzione che il vero autore del film è il direttore e che quindi io approvavo a priori tutte le sue future modificazioni. Salvo, in caso di dis­ senso, di sconsigliarlo di farle. Lo sconsigliai per tutto il film: e dunque quella « umanità piccola e inzuccherata » {Gazzetta del popolo} che vive « una vicenda comico-sentimentale con incertezza da commedia usata » {Tribuna) non ha del mio primitivo soggetto che il titolo: tutta l’infamia (o tutta la lode che sia) ne va attribuita al direttore. Il mio soggetto e la mia sceneggiatura narrava il movi­ mento psicologico di un piccolo professore di latino (anche la salsa degli animali impagliati e del gabinetto di storia natu­ rale è di Alessandrini) che si adeguava coll’aiuto e col sacri­ ficio di una collega divenuta sua amante, ad un mondo di condizione sociale diversa. La separazione tra il prof. Monti e la prof.ssa Valli era definitivo. E il risveglio della primavera della piccola alunna desiderosa di valersi del proprio fascino femminile in sboccio per fare uno scherzo crudele al suo pro­ fessore era pieno degli stordimenti del giuoco pericoloso, ed era reso da una analisi attenta alle Verdrangungen e alle cen­ sure di quel tipico periodo di formazione e di passaggio dal­ l’invidia dell’autorità virile al desiderio di esserne soggiogata. Nella prof.ssa Valli gli istinti erano studiati nel loro subli­ marsi ad atteggiamento materno che, nella vicenda, veniva ad essere risolutivo delle depressioni psichiche del profes­ sor Monti. Caratteri e situazioni visti con lo studio e con l’amore che in una analisi può mettere uno scrittore e che costituivano una vicenda tanto poco zucchero d’orzo da essere magari sgra­ devole; ma che era simpaticamente umana e suggestiva di idee. Che è quello che io credo debba essere il film.

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Il montaggio *

Uno dei portati piu deplorevoli dell’organizzazione indu­ striale cinematografica è la limitazione che inevitabilmente, coi piani di lavorazione perentori e invariabili, essa impone alla fase più delicata e più creativa dell’attività del direttore artistico: il montaggio. Il quale viene cosi nella pratica a ri­ dursi ad un montaggio preventivo, cioè sostanzialmente al piano di montaggio previsto nel manoscritto in sede di sce­ neggiatura. Questo dato di fatto, inevitabile per ora e difficilmente sopprimibile in avvenire, ha avuto ancora un rincalzo per l’avvento del film sonoro e parlato che, cosi come lo si è subito inteso malamente, ha aggiunto nuove e più tiranniche limitazioni al montaggio, per l’esigenza, considerata per lo più assoluta, del sincronismo delle parole, dei suoni e dei ru­ mori con l’immagine. Non è quindi stupendo che il cinema, che anni fa, aveva raggiunto un livello artistico e morale degno delle sue mera­ vigliose possibilità, sia caduto di nuovo, e specialmente a Hollywood, a un certo basso grado del suo peggior periodo né che ripresenti vecchie malattie, che appaiono tanto più gravi, in quanto son ricadute, cosi che a volte finiscono, in un’ondata di scoraggiamento, col sembrare addirittura incura­ bili: lentezza e assenza di ritmo, divismo edificante a base di * Quadrivio, a. Ili, n. 10, 6 gennaio 1935.

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appelli strazianti del sesso, gretto naturalismo, estetismo di inquadratura e di fotografia, falsità scenografica. Malattie a cui si aggiunge quella, costituzionale, più grave di tutte: la vuotezza a cui il cinematografo è costretto per il suo, ora ine­ vitabile, asservimento al denaro. È un circolo vizioso: il film deve rendere denaro — per­ ciò deve divertire il pubblico — per divertire il pubblico deve costringerlo a non pensare: dunque il film non deve espri­ mere nulla se non la sua stessa vuotezza. E non avendo nulla da esprimere può benissimo intendere il montaggio, come sem­ plice taglio e unione di pezzi di pellicola in ordine cronolo­ gico, può fare benissimo a meno di tipi interpreti coerenti col personaggio che debbono incarnare, e, quale compenso per gli esigenti della vuotezza accorante e delle volgari sollecita­ zioni degli istinti peggiori non può fare a meno della bella inquadratura della bella attrice, del AeZ/’attore, del bello sfon­ do (possibilmente storico), di bei costumi e di begli scenari. Quanta bellezza profusa a piene mani! E quale nauseabondo risultato! Ma il campo cinematografico è diviso in due campi che sembrano destinati a non intendersi mai: di quelli che vo­ gliono il film cosi com’è oggi e che passano dalla pochade al film religioso, dalla vita dei briganti a quelle dei martiri cristiani, e di quelli che vogliono il film di più serio e più profondo contenuto morale. E, in virtù del solite di sopra i primi naturalmente sono quelli che vogliono la bella inqua­ dratura invece della buona inquadratura, la bella attrice invece del tipo interessante e cosi via. E che di conseguenza possono trascurare il montaggio o, com’è uso, farlo eseguire a terzi. Infatti che cos’è che rende buona un’inquadratura? Il montaggio, e lo si sa. Un cubo inquadrato di fronte in linea retta non risulterà che un quadrato (Arnheim) e una sigaretta sull’orlo del tavolino, inquadrata allo stesso modo, risulterà un dischetto nero (Pudovkin): son buone o cattive inquadrature queste? In sé non sono né buone né cattive: lo diventano solo secondo quello che si vuol far sapere al pubblico in quel momento e da quello che gli si vorrà far dire subito dopo. 457

Dunque dal montaggio. La mezza figura di Chariot in marsina diviene improvvisamente comicissima quando il pezzo di mon­ taggio successivo, o il carrello che fosse, ce la mostra in mu­ tande (Arnheim). Che cos e che crea la recitazione degli attori? Il montag­ gio. E si potrebbe continuare: che cos’è che conduce la nar­ razione? Che cos’è che immette in essa lo spettatore? Che pro­ duce il ritmo del film, che domina lo spettatore, e che ne de­ termina suo malgrado i sentimenti e le reazioni? Che cos’è che dà vita ai concetti di primo piano e di campo lungo se non il montaggio che dà la possibilità di alternarli? Ma queste note non vogliono esser solo un rapido riepi­ logo e un riassunto sintetico dei frutti migliori dell’osser­ vazione e della riflessione sulla natura e sui modi del film; né semplicemente un ribadimento di alcuni concetti essen­ ziali e di alcuni precetti utili (« tipi e non attori », « distru­ zione del rigoristico concetto di sincronismo assoluto », « ne­ cessità di film di serio e sano contenuto », ecc.) vuol essere invece un esame del montaggio in quanto determinante del valore artistico del film. Quando si dice che il montaggio determina tutto il senso dell’azione e si cita (Béla Balàzs) il caso del film Potemkin, presentato in un paese nordico con un montaggio rifatto in modo che la tesi del film risultava semplicemente capovolta (cosa avvenuta, del resto, anche per il film Messico) o se si dice (Pudovkin) che con pochi fotogrammi di tre pezzi diversi si può far apparire un uomo come coraggioso o come codardo, e se si citano altri esempi del genere, e potrebbero essere infi­ niti, a sempre più rafforzare la sacrosanta tesi dell’importanza del montaggio non si dà tuttavia che una sintassi cinemato­ grafica. E, d’altro canto, sostenere che la regola da applicare nel cosiddetto finale alla Griffith ■(« ecco i nostri! ») — che, tra parentesi, è un vecchio fondamentale invenimento di Edwin Porter che nel 1902 lo mise in opera nella sua Vita di un pom­ piere — è: più si fa rapida l’azione il cui successo è auspi­ cato da tutto il pubblico, più si deve far lenta quella che il 458

pubblico esecra e vuol vedere interrotta (Béla Balazs); e teo­ rizzare (Pudovkin) il contrasto, la parallelità, la similitudine ecc., o allungare (Timosenko), riordinare e completare l’elen­ co di queste figure (Arnheim) non è statuire retoriche, che senza dubbio sono utili al lavoro, e soprattutto alla critica, ma che non toccano l’essenza veramente estetica della que­ stione. Nel suo senso più alto il montaggio, in quanto parte essenziale e creativa, è singolarità, individualità, stile. Elemen­ to cioè che non si lascia costringere nelle strettoie degli sche­ mi di comodo, per quanto chiamati cosi appunto perché co­ modissimi, oltre che per la elaborazione dei dati intuitivi, per l’esercizio della critica. A maggior chiarimento del problema, specie per i profani di tecnica cinematografica, citiamo un esempio tratto dalla letteratura, servendoci della perfetta analisi metrico-ritmica àeXV Infinito leopardiano fatta da Gino Ferretti. Osserviamo i saggi di diverso montaggio del primo verso: Sempre caro mi fu quest’ermo colle

Si tratta, senza dubbio, di Leopardi. Caro sempre mi fu questo colle ermo

Ed abbiamo qui la freddezza vuota ed estetizzante delle andature d’annunziane (« gelida virgo preraffaelita »). Sempre cara mi fu questa collina

E qui due o tre fotogrammi di più ed un pezzetto di mon­ taggio di meno, trasformano quel superbo endecasillabo ridu­ cendolo alla gnagnosa leggerezza di un Vìttorelli. Si noti che, nell’esempio citato, la qualità delle parole, più o meno dell’uso (ed esempio l’aggettivo ermo), è, di per sé, totalmente indifferente: non costituisce un valore positivo né un valore negativo. Questo valore è dato unicamente dalla sua posizione. E cosi l’unica determinante del valore artistico di un film è il montaggio.

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I quarantanni della cinematografia *

L’inventore della camera oscura è il napoletano Giovan Battista della Porta, che ne dette una chiarissima ed esatta descrizione nella sua Magia naturalis, insieme a ricette per filtri d’amore e a ritrovati per guarire le donne troppo lin­ guacciute dell’abitudine di spettegolare. Ma il cammino dalle prime camere oscure di padre Kircher ai moderni apparecchi è lenta e faticosa. Si deve arrivare al 1885 per avere quel chronophotographe di Marey, di poco posteriore al fucile fotografico di Janssen che coglieva, già su placche mobili, il volo degli uccelli. Fino ai fratelli Lumière non si può parlare di cinemato­ grafo: essi ne sono gli inventori; anche se la storia ha già dato a Cesare quello che è di Cesare, cioè se ha ricostruito, una per una, tutte le fasi progressive della scoperta. La prima pubblica programmazione cinematografica ebbe luogo nei sotterranei del Gran Café, boulevard des Capucines, 14, il 28 dicembre 1895: il programma comprendeva dodici film, della lunghezza di 16-17 metri ciascuno. Nella maggior parte questi filmetti erano semplici « documentari », come diremmo oggi (L’arrivée d’un train en gare, Le goùter de bébé, La péche aux pois sons rouges, ecc.) ma ce n’era uno (L’arroseur arrosé) che è già una rudimentale scena comica. Fin dalla sua prima manifestazione pubblica il cinematografo aspirava * L’Italia letteraria, a. XI, n. 9, 2 marzo 1935.

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dunque a superare il carattere di ritrovato ingegnoso utile solo per conservare documenti del tempo che passa, funzione entro cui ancora oggi vogliono costringerlo tutti gli imbecilli. Io credo che i lettori deWItalia letteraria proveranno una viva commozione nel vedere qui riprodotti i primi fotogram­ mi cinematografici: quel primo treno che entra in stazione, e quei primi attori cinematografici, i membri della famiglia Lu­ mière, e quel pupo che mangia la sua pappa e pesca pesci rossi. A quella prima programmazione pubblica seguirono, l’anno successivo, parecchie altre, di cui si può vedere un esatto elenco nell'Histoire du Cinématographe di M. de Coissac; a Lione, a Londra, a Bordeaux, a Bruxelles, a Berlino, nell’America del nord. E infine ce ne fu pure in quell’anno (1896) una a Copenaghen, fatta coll’apparecchio Bioscop di loro invenzione, dei fratelli Skladanowsky. Di questa non ha tenuto conto neppure l’informatissimo Coissac, e perciò ne diamo qui i documenti, curiosi e significantissimi. A marcio dispetto degli scribi e dei farisei, cioè dei pic­ coli intellettualuzzi retrogradi e degli avventurieri del capi­ talismo cinematografico, riaffermiamo in questo anniversario la nostra fede nell’avvenire del cinematografo che, come ha scritto Pudovkin, è « la nuova arte che è succeduta e che sopravviverà a tutte le altre ».

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Polemica cinematografica *

Luigi Chiarini ha pubblicato in questi giorni un volumetto che raccoglie e riordina organicamente i suoi scritti recenti sul Cinematografo (Roma, Cremonese ed., 1935): l’opera, pur nella voluta modestia della forma piana e della mole esi­ gua, è un contributo utilissimo al chiarimento e alla divulga­ zione dei principali problemi del film. L’autore (p. 116) lo considera una « introduzione » alla lettura dei trattati maggio­ ri e canonici, il Pudovkin (Film e fonofilm), il Béla Balàzs (Lo spirito del film), l’Arnheim (Il film come arte) e della classica storia della cinematografia del Rotha (Il film fino ad oggi). È facile intendere che i limiti che così il Chiarini ha assegnato al suo lavoro sono stati largamente oltrepassati: il libro infatti, chiaro e chiarificatore, non solo volgarizza con limpida e vivace garbatezza le idee fondamentali del cinema arte, non solo le approfondisce in varie possibili applicazioni, ma, riferendosi costantemente all’attuale situazione disgra­ ziata del cinema italiano, viene ad assumere una posizione na­ turalmente polemica, opportunissima. Tutti sanno infatti che la cinematografia è oggi, e non soltanto da noi, prigioniera di produttori preoccupati unicamente del lucro che possono ricavarne con basse blandizie alle aspirazioni piu meschine del pubblico peggiore, ed è assediata strettamente da intellettualuzzi piccolo-borghesi e sputasentenze che, mossi anch’essi * L'Italia letteraria, a. XI, n. 17, 4 maggio 1935.

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dall’aspirazione a facili guadagni, o, nel migliore dei casi, da snobismo, confondono le idee con affermazioni che per il loro tono cattedratico non son meno scimunite. Quanto mai dunque felice il volume del Chiarini che sgombra il campo di molti pregiudizi e di molti errori, e che riconduce, spesso proprio dalla discussione del giorno e parti­ colare, alle idee essenziali e fondamentali: e che costituisce una guida, sempre bonaria, anche se qua e là gustosamente ironica, e sempre sicura, per i giovani di buona volontà che introduce piacevolmente nel mondo, non sempre facilissimo, dello spirito cinematografico. Il volume reca una introduzione di Giovanni Gentile, che riportiamo qui sotto per intero; essa inserisce senza difficoltà il cinema tra le altre arti sostenendo che, come quelle, anche il film sarà arte ogni qualvolta avrà assorbito e risolto in sé la tecnica che ha presieduto alla sua creazione. Proposizione che, certamente piu che una semplice tautologia, è un’indi­ cazione pregnante e persuasiva. Gli assertori del montaggio come elemento essenziale dell’arte cinematografica, e tra questi a ribadire la tesi è il Chiarini (« Il montaggio essenza artistica del cinematografo »), non possono dall’affermazione del Gentile che trovare un con­ forto alle loro idee; essi infatti fanno concidere la creazione del film con quel momento finale della lavorazione in cui per l’appunto la tecnica non esiste già piu, se non nel suo lato este­ riore e meccanico, ed in cui il mondo delle apparenze e delle contingenze, dopo le successive elaborazioni date dalla scelta del tema, del materiale plastico, degli angoli visuali (piazza­ mento di macchina e inquadratura), si trasfigura assolutamente nell’immutabile realtà dell’arte. Quanti e. son parecchi, che per amor di polemica e di originalità, contrappongono al montaggio ritmo (come se il ritmo non dipendesse dal montaggio) o sceneggiatura o che so io (ricordate il Carli, rimbeccato su queste colonne da Sera­ fino Gubbio, che gli contrapponeva addirittura la panoramicai) faranno bene a leggere questi periodi semplici e persuasivi del 463

Chiarini, che, se non dicono niente di assolutamente nuovo, sostengono con fervore e con sicurezza la buona causa: « Non nego che la recitazione abbia la sua importanza, che l’inquadratura sia un elemento espressivo, che l’illuminazio­ ne giuochi moltissimo nel complesso del film, che la sceno­ grafia abbia il suo valore, ma mi sembra che tutti questi siano elementi direi quasi extracinematografici che rientrano nella elaborazione preventiva dell’opera e non ne determinano la vera caratteristica e il reale contenuto. Elementi complessi e in certo qual senso artistici in quanto richiedono una scelta e una determinazione precisa, ma che costituiscono un mate­ riale da trasfigurare cinematograficamente. Fino a che non interviene il montaggio noi abbiamo dei pezzi di pellicola che non sono altro che una riproduzione meccanica di una azione o di un luogo e che di per sé non hanno nessun valore artistico e tantomeno cinematografico. Infatti in un pezzo di pellicola io potrò anche ammirare la recitazione di due o piu attori: ma è questa che io ammiro e non la sua meccanica ripresa, come suonando un disco di Caruso io ho la possibi­ lità di ammirare la voce di quel grande tenore. Solo nel mon­ taggio io potrò in effetti parlare di buona recitazione, di buo­ na inquadratura, di buona illuminazione, proprio perché una inquadratura per se stessa, se lo mettano bene in mente gli esteti da strapazzo del cinema (oh! che bella inquadratura!), non dice nulla come un bell’aggettivo staccato da una frase non ha nessun valore. È dunque nel rapporto delle immagini, nel modo e nel tempo con cui si susseguono che si realizza l’espressione cinematografica. Al di fuori di ciò abbiamo le meccaniche riproduzioni dell’opera drammatica o letteraria, della commedia o dell’operetta, che potranno anche essere divertenti e commerciali, ma che non sono opere d’arte. « Dire che la cinematografia è montaggio, significa, secon­ do me, scoprirne la vera essenza di linguaggio delle immagini. « Tutto questo contrasterà un poco con certe correnti rap­ presentate dai pittori e dai musicisti, i quali tendono a ridur­ re il cinema, gli uni a pittura (ed ecco la sopra valutazione del­ l’inquadratura, della scenografia e dell’illuminazione), gli al464

tri a musica (ed ecco 1’erronea interpretazione del ritmo in­ teso solo come tempo) facendo deviare la vera cinematografia in formalismi estetizzanti e borghesi ». Le altre tesi del Chiarini scaturiscono facilmente dalla prima e resta quindi auspicato un cinematografo di contenuto morale, che dia quindi l’indirizzo della suaccennata trasfor­ mazione (z’Z problema morale), parlato e sonoro solo per quel tanto che è indispensabile {il parlato), senza attori ma con tipi senza cartapesta e i fondali di ricostruzioni storiche ma colla viva realtà. Di particolare interesse, specie per l’autore di queste righe, è poi il capitolo che il Chiarini dedica alla necessità di una storia della cinematografia italiana, nel quale riferisce circa la selezione di film da lui presentata per la celebra­ zione del quarantesimo anniversario della scoperta dei fratelli Lumière. Quella selezione e questo scritto confermano la tesi, già sostenuta altre volte con poco successo, che è proprio in Italia che son sorte e si son sviluppate quelle forme di trattazione della lavorazione cinematografica che l’hanno sempre piu al­ lontanata dalla concezione grossolana (in cui ancora oggi qual­ che scrittore sventato vuol confinarla) di riproduzione della realtà e di spettacolo di attrazione. Ed è questo felice lavoro del Chiarini il primo speriamo che si compia in quest’ordine di idee: si che i giovani che si rivolgono con entusiasmo a questa nuova arte possano studiarne le origini e trar profitto dall’evoluzione costante. Una cineteca doterà probabilmente di un materiale prezioso il Centro sperimentale di cinemato­ grafia e, oltre a darci i piu perfetti prodotti dello spirito fil­ mistico, le opere di Chaplin, di Pabst, dei russi, di Capra, di Dupont, ci offrirà quelle che, come Cabiria e Quo Vadis, come Intolerance e come II giglio infranto, hanno segnato una tappa importante nella conquista e nell’elaborazione delle pos­ sibilità tecniche della creazione. Le conclusioni del Chiarini sono quanto mai esplicite ed interessanti. La cinematografia dev'essere considerata come un potentissimo mezzo di educazione e di elevazione delle 465

masse. Chi facendo un film non pensa al popolo è fuori strada, giacché la cinematografia è un’arte popolare per ec­ cellenza ed è proprio in questo carattere che sta tutta la sua nobiltà... Se c'è una forma d'arte che mostra la vuotezza della cosiddetta arte pura questa è proprio la cinematografia, che esige sempre un contenuto chiaro, una precisa presa di posi­ zione. Arte a tesi, direi, che implica perciò un tema fonda­ mentale. Il chiaro libretto è arricchito da gustose illustrazioni del pittore bolognese Corrado Corazza.

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Organi del film *

Alcuni cineasti rimproverano ai teorici del film, inteso come montaggio, la considerazione di materiale grezzo in cui questi ultimi tengono quante altre attività precedono quella fase specificamente creatrice della lavorazione cinematografica. E tuttavia, se è pur certo che l’invenimento del soggetto, la sceneggiatura, l’interpretazione da parte degli autori e la ripresa sono evidentemente altrettanti momenti importantis­ simi dell’elaborazione artistica del film, è anche certo che il modo più giusto di intenderli, consiste nel considerarli fasi preliminari e creatrici degli strumenti del montaggio. È chiaro che non potrà esistere un film senza soggetto, ma ciò non toglie che esso sia semplicemente una primitiva intuizione, allo stesso modo della trama di un romanzo o di una com­ media: al di qua, insomma, dell’arte, e cioè qualche cosa che, indipendentemente dalla futura realizzazione non può essere oggetto di giudizio critico. Come la trama di un romanzo quella di un soggetto non può, in sede estetica, risultare né bella né brutta. E la sceneggiatura che dispone in forma già cinematografica la materia, suddividendola in parti, in episodi, in scene, in sequenze, e che dà indicazioni sui modi della futura ripresa, non può essere intesa sanamente che come previsione del montaggio, un montaggio, diciamo cosi, preventivo, di cui * Lo Schermo, a. Il, n. 1, gennaio 1936.

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quello reale sarà il consuntivo, possibile solo dopo le opera­ zioni di ripresa, di sviluppo e di stampa. La posizione polemica dipende evidentemente dall’errore di puntualizzare il montaggio nell’atto materiale del taglio e dell’incollatura dei pezzi girati, mentre che quando si dice esteticamente montaggio si deve intendere tutto un processo creativo espressivo che, nella pratica, investe l’intera lavora­ zione del film, dal suo primo concepimento alla stampa della copia campione. Che un film debba dunque esser girato solo in base ad una accurata e particolareggiata sceneggiatura o che di essa si pos­ sa fare a meno è un problema del tutto pratico, contingente e dipendente da circostanze esterne, quali l’organizzazione indu­ striale, la necessità della fusione tra i collaboratori, e simili. Certo è del tutto inutile scandalizzarsi alla tesi di S.M. Ejzenstejn che sostiene l’inutilità, anzi addirittura la perniciosità, delle sceneggiature a numeretti, cioè predeterminanti perfino i piazzamenti di macchina, l’ampiezza e i limiti del campo sce­ nico e le inquadrature. A rimuovere l’opposizione basta an­ che stavolta l’analogia con altre forme di creazione: è indi­ spensabile per scrivere un buon romanzo l’aver preventiva­ mente suddiviso la materia in capitoli? O è lecito e possibile abbandonarsi liberamente alla propria ispirazione? Nessuno oserebbe, in sede estetica, sostenere una delle due tesi come esclusiva; ed è giusto relegare il problema nel campo della pratica, subordinando unicamente alle esigenze di tempera­ mento dello scrittore, alle necessità o meno di terminare il lavoro entro un dato periodo di tempo, alla volontà, maggiore o minore, di conseguire determinati effetti: per certo genere di romanzo popolare, avventuroso o giallo ad esempio, una previsione della distribuzione della materia è indispensabile al raggiungimento degli scopi prefissi: non prima che in un dato momento deve entrare in scena un personaggio, né prima che ad un dato punto si deve avere la chiave di un gruppo di avvenimenti. La discussione può, in sede pratica, soprav­ vivere e giovare alla creazione di regole, certo prive di valore assoluto, ma forse non sempre del tutto inutili.

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I numeretti dei vari piazzamenti di macchina nelle sceneg­ giature, e tutti gli altri particolari tecnici, non sono in realtà che la cognizione esatta di un gruppo di specifici problemi espressivi e la proposta, tra le soluzioni possibili, di quelle che, in quella prima fase del lavoro, appaiono come migliori: bene inteso e fermo restando che, specialmente se si sceneg­ gia, come quasi sempre avviene, prima che siano stati costrui­ ti gli ambienti, scelti gli esterni e trovati gli attori, quelle solu­ zioni possono poi, nella pratica successiva della ripresa e del montaggio, risultare del tutto inadeguati ad essere sostituiti da altre migliori. La posizione del montaggio diverrà nella ripresa più im­ pegnativa, essendo la ripresa la creatrice della materia diretta del montaggio vero e proprio, cioè la pellicola impressionata. Stabilito cosi che simili questioni non hanno che una por­ tata pratica, si può volentieri consentire all’Ejzenstejn che sia più utile al regista una novella cinematografica che non una sceneggiatura: occorre cioè che i soggettisti dedichino più cura alla creazione, con mezzi propri, e magari quindi lette­ rari, dell’ambiente, degli stati d’animo e dei sentimenti dei personaggi, piuttosto che non alle descrizioni degli atteggia­ menti esterni, dei gesti e dei possibili modi di fotografarli. Riflessi esterni di quei sentimenti, e traduzioni visive di que­ gli stati d’animo, che il soggettista avrà espresso chiaramen­ te, saranno trovati con facilità dal regista. Si può infatti consta­ tare che la maggior parte dei film, anche se di buon linguag­ gio cinematografico, sono poveri di contenuto, convenzionali nelle situazioni e privi di verosimiglianza artistica: e, in questo senso, migliori sono invece quelli tratti da opere let­ terarie, anche se poi troppo spesso la regia è in essi mediocre. Tipico e istruttivo è il recente film Davide Copperfield. Resta stabilito così che soggetto e sceneggiatura debbono fornire un contenuto concretamente umano ed un movimen­ to di complessi sentimenti e stati d’animo atti a superare il singolo caso narrato e suscettibili, nella definitiva forma, di attingere valori universali; e contenere determinazioni tecni­ 469

che che, anche se dovranno, in sede di ripresa, essere variate, rappresentano tuttavia il primo tentativo di traduzione in ter­ mini cinematografici della materia. Tutte queste determinazioni che la sceneggiatura prevede e che la ripresa attua debbono avere per scopo la futura realtà del film, che, come s’è detto, si attua nel montaggio: è in vista di esso e delle sue possibilità che saranno scelti questi particolari. Il fotogramma di un film, si badi non una fotografia di scena, ad esempio, non ha valore mai di per sé, ma solo in quanto seguito e preceduto da altri fotogrammi: e questo spiega ciò che a molti profani del cinematografo non è quasi mai chiaro perché sia giudicato un inutile seguito di belle fotografie un film, mentre un altro si loda per la sua fotogra­ fia. A voler passare per paradossali a buon mercato, soste­ nendo una verità inoppugnabile, si può dire che, quanto piu belle come tali sono le fotografie di un film, tanto piu brutte risulteranno nel complesso del film. Perché, infatti, in che consiste la bellezza di una fotografìa se non in un complesso di valori di cui tra i primissimi la disposizione delle luci e delle ombre e l’armonia e l’equilibrio delle masse? E la com­ posizione invece di un fotogramma cinematografico deve ave­ re una fattura che permetta la congiunzione di esso al succes­ sivo ed ai seguenti. L’armonia non può essere statica ma dina­ mica, non esistere nel fotogramma ma attuarsi nella sequenza. La composizione, che in un quadro deve essere chiusa, nel fotogramma sarà dunque aperta e si connette direttamente al ritmo della scena e del film. Premesso che questo ritmo origina dagli scopi della narraziorie, da essi dipendono anche i piazzamenti di macchina e le inquadrature.

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Piccola storia del film documentario in Italia *

Nel 1902 fu fondata a Roma la ditta Alberini e Santoni per la produzione di film, ditta che nel 1906 prese un enorme sviluppo e si trasformò in società Cines. Da quei lontani anni al 1921 la cinematografia italiana conobbe uno stato di gran­ de floridezza economica ed ebbe il vanto di imporre sui mer­ cati stranieri larghissimamente i propri film. Ancora nel 1920 erano attive in Italia circa 100 case editrici ed ancora in quel­ l’anno l’esportazione superava di molto l’importazione. Quel­ la vasta attività toccò tutti i generi; il film storico {Cabiria, Quo Vadis, Messalina), i film polizieschi (di Za la Mort), i film psicologici, o, come si diceva allora: dramma di anime (per l’interpretazione di dive allora molto apprezzate quali Lyda Borelli, Francesca Bertini, Hesperia, Pina Menichelli), i film a sfondo popolare e sociale {Sperduti nel buio). Anche i film dal vero ebbero una loro fioritura, e uno dei direttori più apprezzati in quei tempi, il conte Baldassarre Negroni, iniziò la sua fertile carriera abbandonando il suo studio di avvocato per viaggiare per l’Italia con una primitiva macchi­ na da presa, su cui girava scene pittoresche e attualità. Il gusto del documentario era abbastanza diffuso in quel tempo e certi cinematografi, sia pure il venerdì, e cioè considerandoli « di ma­ gro », proiettavano scene dal vero, film scientifici e brevi film comici. Naturalmente qualcuno di quei vecchi documen­ * Quadrivio, a. IV, n. 45, 7 settembre 1936.

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tari è sopravvissuto per il suo interesse storico, come il Bombardamento di Tripoli (1911), quello della Battaglia delle due palme, nella ripresa del quale fu ferito l’operatore, ed i film della grande guerra, tra cui particolarmente drammatico e importante L'affondamento della Santo Stefano, per opera del piccolo mas di Luigi Rizzo.

Ci fu poi, nel 1919, un trust di case di produzione che tentò di intensificare la produzione e che sempre piu si preoc­ cupò della quantità anche a scapito della qualità, coll’idea di soddisfare gli accresciuti bisogni del mercato interno e per riconquistare quelli esteri che, una volta chiusi alla produzio­ ne italiana, per causa della guerra, non dovevano più riaprirsi. Quel trust, cosi mal diretto, portò ad un crack rovinoso e ad una lunga crisi di produzione proprio negli anni in cui, fuori d’Italia, si facevano i più grandi progressi tecnici ed artistici. Intorno al 1929 si verificò un rifiorire di interesse per il cinematografo in Italia e vivaci campagne giornalistiche furo­ no sferrate dai giovani intellettuali, che si raggrupparono in­ torno alle riviste di Alessandro Blasetti, Lo schermo, Cine­ matografo, Lo spettacolo d’Italia. Stefano Pittaluga ne fu indotto a ricostituire la vecchia Cines, dotandola di attrezza­ ture tecniche per il sonoro, per quegli anni notevolissime. Tornarono allora in Italia tutti i vecchi elementi della passata cinematografia che s’erano dispersi per il mondo: Gennaro Righelli, Guido Brignone, A. Palermi, Nunzio Malasomma, ecc. Si riaccesero allora più che mai vivaci le polemiche cine­ matografiche fra questi vecchi elementi, che avevano al loro attivo una vasta esperienza, e i giovani aspiranti alla regia. Il bisogno, sentito ovunque, di rendere sempre più concreta la visione cinematografica, e quella tendenza della generazio­ ne ad una costante oggettività, misero di moda anche tra i giovani cineasti italiani, il film documentario: anche perché tutti lo consideravano come un eccellente campo sperimenta­ le della possibilità del cinema da un canto, e un mezzo per dimostrare ai dirigenti delle case di produzione le proprie 472

attitudini, alla regia. Il documentario fu dunque l’ambito tram­ polino da cui i giovani cineasti italiani speravano di poter prendere l’impulso per maggiori prove. Se si esamina con qualche cura la produzione dei docu­ mentari italiani, si troverà che i piu interessanti, a prescindere dalle cinecronache, cui accenneremo piu oltre, sono quelli prodotti dalla Cines durante la gestione Toeplitz. Prima di quella fortunata serie non si hanno da registrare che il lungo documentario della spedizione Gatti in Africa, nei paesi degli zulu (Siliva Zulù 1928) e il cortometraggio, di produzione privata, dovuto a Goffredo Alessandrini, che riprese alcune fasi della costruzione di una enorme diga sul Nilo. Il film non fu mai, che io sappia, programmato, se non privatamente in Italia, e pubblicamente al Vieux Colombier di Parigi. Alcuni cortimetraggi realizzati alla Cines dai vecchi diret­ tori (p. es. Canterini romagnoli) per la concezione puerile del pittoresco e del folcloristico e per il mediocre impiego del sonoro son da passare del tutto sotto silenzio. Il primo documentario Cines di qualche interesse è dovuto a Mario Serandrei, giovane curioso di psicologia, attento alle esperien­ ze degli avanguardisti francesi e dei direttori russi. Egli ebbe un compito particolarmente difficile: Le campane d’Italia. Il tema, cosi vasto (ci sono solo a Roma più di 400 chiese con relative campane) e così monotono, fu svolto dal Serandrei con notevole bravura: certo che il filo conduttore di un film cosi concepito non poteva essere che formale, e ne risultò un filmet­ to dall’inquadratura costantemente pretensiosetta e la cui emo­ tività è tutta esteriore. A questo punto, dopo la morte di Stefano Pittaluga e dopo un breve interregno, la Cines passò a Ludovico Toeplitz del Ry, quello stesso che, qualche anno dopo, doveva fondare a Londra la London Film. Toeplitz, animato dalle migliori intenzioni, chiamò come direttore della produzione il fine saggista Emilio Cecchi, che resse la produ­ zione per circa due anni e sperimentò, in una serie di docu­ mentari, un gruppo di giovani che, nel complesso, dettero tutti

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ottima prova. I film di quella serie si possono dividere in due gruppi: quelli come Assisi e I cantieri dell’Adriatico, in cui la preoccupazione formale fu subordinata ad una ideazione del contenuto, e quelli come 11 ventre della città e Littoria preva­ lentemente tesi ad una ricerca stilistica.

Alessandro Blasetti, che aveva già tentato, con poca for­ tuna, il film misto di documentario e di narrativo con Palio, è uno spirito fervido ed entusiasta, amante di contrasti forti e drammatici: nemico degli stacchi rapidi e del montaggio che va generalmente sotto il nome di montaggio alla russa, egli usa spesso carrello e panoramica teso com’è all’intenzione di dare consistenza narrativa e fluidità ai suoi film. Dovendo quindi descrivere il santuario di Assisi egli ha risolto il pro­ blema col dare al suo documentario un filo conduttore se­ guendo costantemente, dai più diversi angoli, una processio­ ne, e scoprendo cosi, via via, tutta Assisi. Il risultato fu cer­ tamente notevole e quel breve film è forse la cosa migliore che abbia prodotto a tutt’oggi Alessandro Blasetti: tanto più che la fotografia, a contrasti forti, ha contribuito a rendere l’atmosfera mistica del santuario. Di I cantieri dell’Adriatico di U. Barbaro si è detto che mai la macchina da presa è stata, come nella ripresa di questo film, cosi costantemente a piom­ bo; e infatti la preoccupazione costante fu che i mezzi tecni­ ci impiegati fossero evidenti il meno possibile. Inquadratura piana, fotografia semplice, a luce naturale, montaggio quasi elementare. Attraverso le varie fasi della costruzione di un transatlantico si è voluto, in quel filmetto, più che sul cantiere, far convergere l’attenzione dello spettatore sul conglomerato umano dedito a quel lavoro; e il risultato fu una presentazio­ ne di tipi assai caratteristici. Uno dei migliori documentari italiani, se non il migliore, è 11 ventre della città del pittore Francesco Di Cocco, che illustra gli approvvigionamenti com­ mestibili di Roma. Il film, per cui Mario Labroca ha scritto una composizione d’accompagnamento ispirata, si apre sul mattatoio e passa alle varie fasi di creazione e di distribuzio­ 474

ne dei viveri, dai pastifìci, alle pescherie, alle fabbriche di ghiaccio e ai mercati: per chiudersi con una serie di atteggia­ menti di persone che mangiano, in tutta una gamma che va dallo spizzicare, al divorare. La bella fotografia e il passaggio da un quadro all’altro determinato da felici analogie formali e di tono fotografico, la scelta sapiente del materiale visivo fanno di questo film un piccolo gioiello. Una osservazione si può fare a quel documentario: esso presenta una progressio­ ne di effetti non del tutto giusta, iniziandosi con la forte drammaticità della scena del mattatoio, di sapore quasi rembrandtiano, che si alleggerisce via via fino all’ultima scena idilliaca della madre che allatta il bambino. Raffaello Matarazzo ha, in due cortimetraggi, Littoria e Sabaudia, rappresen­ tato scene di bonifica e il sorgere delle nuove città agricole: il primo è il migliore dei due ed è in esso efficacissimo il contrasto raffiguratovi tra le scene della desolata pianura e il successivo fervore di opere. Marco Elter, con un documen­ tario sulle Miniere di Cogne in Piemonte, e Aldo Vergano, con una serie di visioni dei Fori imperiali, hanno dimostrato entrambi un gusto spiccato per l’inquadratura: gusto che nel filmetto di Ivo Perilli su Zara si è accentuato in un senso troppo estetizzante, riducendo il film ad una serie di edifici e di monumenti fotografati di sghembo. Mentre hanno assol­ to nobilmente il compito difficile di fotografare le colonne e i ruderi di Paestum i direttori Poggioli e Luciani, riuscendo oltre che efficaci nell’intento descrittivo e didascalico, anche abbastanza vivaci per l’inserimento opportuno di particolari, dinamici in tanta staticità, quali il prender volo di uno stormo di uccelli e l’agitarsi delle fronde. L’autore dei celeberrimi e celebratissimi documentari Sin­ fonia d'una grande città e Melodie del mondo, Walter Ruttmann, fu chiamato alla Cines da Emilio Cecchi a dirigere un film, Acciaio, su soggetto di Luigi Pirandello. Quel film susci­ tò un vespaio di polemiche per la prevalenza che vi ebbero gli elementi formali su quelli narrativi. Pirandello considerò sciupata la sua trama e definì, non senza giustizia, il Ruttmann « artista del frammento e dello svolazzo lirico ». Certo si è

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che, nelle molte scene documentarie delle acciaierie di Terni, il Ruttmann, per quanto abbastanza felice per la fotografia, è stato assai meno efficace di quanto avrebbe potuto per l’as­ senza quasi totale di ogni elemento umano, unico punto di riferimento interessante anche in vista delle proporzioni.

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Il film stereoscopico *

C’è stata a Roma, in queste settimane, la programma­ zione di alcuni cortometraggi a rilievo, che hanno rimesso sul tappeto una delle piu vecchie questioni della cinemato­ grafia. Di essa non ci interesseremo dal punto di vista tecni­ co che, già da anni, è abbastanza noto al pubblico nelle sue difficoltà pon piccole e nei modi, ingegnosissimi tutti, con cui si è a piu riprese tentato di superarle, ma dal punto di vista dell’influenza che la nuova scoperta avrebbe, ove fosse lar­ gamente applicata, sull’arte del film. Considerazione che, per quanto complicata possa essere la tecnica del film stereoscopi­ co, è indiscutibilmente piu complessa e piu problematica. Il problema sarebbe, al lume di questa teoria: quando i mezzi di riproduzione della realtà saranno al massimo poten­ ziati e perfezionati quale potrà essere il campo in cui si eserciterà la creatività dell’artista del film? Problema certa­ mente appassionante e che investe tutta la concezione del cinematografo. Ma, a guardar bene, problema che, per l’ap­ punto, presuppone una speciale concezione del cinematografo e fortunatamente problema sbagliato, cosi com’è sbagliata quella concezione estetica. E diciamo fortunatamente perché la risposta è implicita in quel problema stesso: il cinema cesserà di produrre arte, non potrà piu produrne, si trasfor­ merà in commento, spiegazione, documento della realtà. * Quadrivio, a. IV, n. 47, 20 settembre 1936.

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Tanto si era detto anche quando fu scoperto il sonoro contro cui, come tutti ricordano, si sono scagliati gli intellet­ tuali di tutto il mondo, e che, invece, ha continuato a vivere e a prosperare, non solo per esigenze industriali, ma anche e soprattutto per l’eccellente impiego che, fin dai primi tem­ pi, ne hanno fatto i migliori registi: Dupont (in Due mondi), Réne Clair (in A nous la liberté), Mamoulian (Le vìe della città); perché, ad onor del vero, se la nuova tecnica ha messo in grado di riprodurre più fedelmente la realtà, non per questo i registi debbono assolutamente impiegarla ad un fine cosi antiartistico. E c’è stato, fin dalle prime applicazioni del sonoro, chi ha teorizzato il contrappunto, Vasincronismo; la metafora sonora, la panoramica sonora e perfino il primo piano sonoro. Quest’ultimo, mettendo, secondo una felice espressione di Béla Balàzs, « il microfono nel cuore » permette di far sentire, ad esempio, nel frastuono duna battaglia lo stridere spaurito di un uccellino in fuga. L’impressione che si ha, assistendo alla proiezione di un film a rilievo, è quella di trovarsi al centro del quadro; im­ pressione che, come è ovvio, risulta per le prime volte sgra­ devole perché allo spettatore sembra quasi che le figure proiet­ tate sullo schermo escano da esso per trascinar pericolosa­ mente tutti in mezzo alle loro mirabolanti avventure: litiga­ no i protagonisti del film? e certo non è piacevole che noi, che sediamo in platea, ci vediamo precipitare addosso omac­ cioni che pare ci vogliano dare un sacco di cazzotti in testa. Mi si permetta però, di ricordare che, già nel 1902, e cioè nel più aurorale periodo della cinematografia, il pubblico fuggi spaventato da una sala dal cui schermo un bandito sparava colpi di rivoltella cosi come, nella visione stereoscopica di oggi, il pubblico fugge ai getti del sifone d’acqua di selz. Bisogna tener presente il coefficiente abitudine, importantis­ simo, e, soprattutto, ricordare che il fatto dello spettatore che se ne sta inchiodato nella sua poltrona come a teatro è estraneo al cinematografo; in esso lo spettatore continuamente si sposta con gli spostamenti della macchina, cosa che, fin dal suo nascere, è stata la caratteristica più importante

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del film. Anche nel cinematografo quale è oggi, privo di ste­ reoscopia, noi siamo nel mezzo del quadro, noi vediamo il bandito con gli occhi del commissario di polizia e il commis­ sario di polizia con gli occhi del bandito; ed abbiamo, in sostanza, la possibilità di vedere la realtà da infiniti punti di vista. Il primo piano, di cui ognuno sa, ormai, che è la « novi­ tà storicamente assoluta » del cinematografo, non solo tra­ sporta lo spettatore al centro dell’azione, ma viene a dotarlo di nuovi occhi, potenti a volte come microscopi, e spesso anche più dei microscopi, perché, nel suo giusto impiego, il p.p. coglie non l’aspetto esterno dei volti ma quello interiore e nascosto. Ebbene anche questo formidabile mezzo di espres­ sione trovò, nelle sue prime applicazioni, contrasti accaniti e sembrò non particolareggiamento necessario all’azione e alla poesia del film, ma brusca e ingiustificata interruzione di esse in omaggio alla vanità dei divi e delle dive. Goffredo Bel­ lona (che è sempre « il primo che... ») si vantava con me recentemente di esser stato il primo a scrivere di cinematografo da un punto di vista estetico. Ebbene in quel lontano articolo {Apollon, 1916) Bellonci si scagliava contro i primi piani: e dava così una nuova conferma della inettitudine degli intellet­ tuali a percepire con prontezza la portata dei grandi avveni­ menti artistici. Infatti, per una strana ironia della sorte, pro­ prio quell’articolo di Bellonci, posta la sua data, doveva ser­ vire a me per rivendicare alla cinematografia italiana l’impiego dei primi piani anteriormente a Griffith, cui se ne attribuisce tradizionalmente la scoperta. Come dunque l’impiego artistico del sonoro dipende dal montaggio, cosi pure quello del colore e quello della stereosco­ pia. Il quadro cinematografico non è mai fisso ed il valore del film dipende dal modo, appunto, come si succedono in lui i vari quadri. Quando tanti colti studenti di cose cinematografi­ che si sono scagliati contro la cinematografia a colori non hanno tenuto presente che il film, del colore, poteva darci, non lo stato naturale di essere, ma il divenire. Solo il già citato Béla Balàzs, che io sappia, ha ricordato quanto brutte

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e oleografiche siano le pitture di tramonto recisamente per il loro arrestare arbitrario di un attimo di tutto un meravi­ glioso processo coloristico naturale. E lo ha fatto per indicare come invece la cinematografia a colori possa suggestivamente renderlo nella sua interezza. Il cinema stereoscopico sposta dunque il problema del quadro e della sequenza dei quadri obbligando a far conver­ gere l’attenzione sulla importanza del volume e del peso degli oggetti e delle figure; delle quali ormai si dovrà sapere, non più come si dispongano in una superficie piana (come nella pittura) ma come dividano in parti l’atmosfera', che è, da che mondo è mondo, un bel problema artistico, e precisamente il problema della scultura. Atmosfera che, non solo andrà sta­ gliata da masse armoniche nelle sue singole parti, ma che dovrà conservare quest’armonia anche nelle sue continue varia­ zioni. Molti hanno visto, in qualche film scientifico, straordina­ riamente accorciati nel tempo, il crescere di una pianta, lo sbocciare di un fiore, il formarsi di cristalli: ecco esempi di divisioni atmosferiche in una variazione determinata da leggi naturali e quindi già più significative di quelle che pos­ sono avvenire, puta caso, per il casuale entrare o uscire di un uomo da una stanza. Ed ecco infine il nucleo problematico che occorrerà tener presente per i film di domani quando, com’è possibile e probabile, la stereoscopia sarà imposta al cinematografo dalle case costruttrici di apparecchi e da quelle produttrici di film.

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Nel mondo della noia *

Quanuo si parla di crisi di un prodotto e della difficoltà enorme del produrlo o del procurarselo, non si pensa che, oggi specialmente che si è scoperta e dimostrata coi fatti la relatività anche delle leggi economiche, si farebbe meglio a parlare di crisi dell’intelligenza. Perché l’intelligenza e la genialità, quando esistono sul serio, non si adagiano accidio­ samente in vane querimonie su condizioni generali e su parti­ colari difficoltà di ambiente o di tempo che ostacolerebbero il loro naturale esplicarsi, ma si applicano entusiasticamente al superamento appunto di quelle difficoltà; e cavano, verbigrazia, zucchero dalle barbabietole e fanno, all’occorrenza, marciare le automobili colla carbonella. Quello che purtroppo non è possibile mai, come dice il vecchio adagio, è cavar sangue dalle rape, e cioè a dire cavar idee dai cervelli deboli. È proprio per questo che esiste oggi, a quanto si dice, in Italia e in tutto il mondo, una crisi di soggetti cinematografici: ed essa è una nuova riprova della poca intelligenza e della nessu­ na genialità dei produttori e dei registi, salve sempre quelle eccezioni rarissime, che, come si sa, confermano la regola. Di tutte le crisi, di cui ogni tanto si accorge di soffrire il cinematografo, per la pigrizia e per la poca intelligenza dei suoi sommi rappresentanti, che sarebbero poi i produt­ tori, la più ingiustificata è la crisi dei soggetti. Come se il * Quadrivio, a. IV, n. 51, 18 ottobre 1936.

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cinematografo, che compendia in sé le possibilità di tutte le altre arti, non potesse, proprio come tutte le altre arti, far materia per sé di ogni cosa. Una crisi simile esisteva, fino alla guerra, in Italia, per il romanzo. E la scusa che la pigrizia e la poca intelligenza degli scrittori tirava in ballo, e che si sente ripetere ogni tanto, anche oggi, e ancor meno giustificatamente di ieri, era: l’Italia non ha una società da rappresentare. Come se una nazione potesse esistere senza una società! E la verità, semplicissima, era un’altra: l’Italia non aveva una borghesia coi caratteri simili a quelli della borghesia internazionale quale essa appa­ riva nei romanzi internazionali. Esisteva si una nobiltà che si tramutava in borghesia, esistevano proprietari terrieri, latifondisti, bottegai, ma l’economia precapitalistica del paese non aveva prodotto quella ricca borghesia industriale in cui la ro­ mantica internazionale s’andava a scegliere i modelli. I roman­ zieri italiani volevano imitare pedissequamente i romanzi stra­ nieri e non potevano: come fare? Il come lo sapevano benissi­ mo Verga, De Roberto e magari anche De Marchi, e il pro­ blema era bello e risolto. Allo stesso modo, posto cioè come dato immobile, Vimitazione, si rimpiange oggi in Italia (anche se non con esplicite parole) che non ci siano da noi locali not­ turni e gangsters e che quindi non si possano fare buoni film, divertenti e di cassetta.

Una delle conseguenze di questa crisi assurda è la nuova realizzazione di vecchi soggetti: anche citando a casaccio, sen­ za cronologia e senz’ordine, si può fare un bell’elenco di esempi recenti: Capitan Blood era stato già filmato, meglio che oggi, molti anni or sono, e la Rosa-film, in Italia, aveva già ridotto per lo schermo tutti o quasi i romanzi di Salgari; quello che oggi circola sotto il titolo Desiderio aveva già dato argomento (non peregrino) a un precedente film, di Brigitte Helm (Addio giorni felici); Ma non è una cosa seria era già stato, due volte, ridotto in film ai tempi della vecchia cinematografia italiana; Il cappello di paglia di Firenze di cui

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è nota una riduzione dovuta a R. Clair, era stato, nel 1919, realizzato da Umberto Fracchia; Capriccio spagnolo aveva avuto un precedente, abbastanza buono, in La femme et le pantin di Jacques Baroncelli con Conchita Montenegro; Gli ultimi giorni di Pompei, che è stato rieditato l’anno scorso a Hollywood, aveva avuto una celeberrima realizzazione ita­ liana, dovuta ad Amleto Palermi; Il dott. Jekyll, che Mamoulian ha fatto impersonare a F. March, era stato prima incarna­ to da L. Barrymore; prima dell’astratto pasticcio di Ucicky c’era stata la superba Giovanna d’Arco di Dreyer, con l’indi­ menticabile M.me Falconetti; prima delle molte Signora dalle camelie ce n’erano state due italiane in concorrenza, di Fran­ cesca Bertini e di Hesperia; numerosissime sono le edizioni di I miserabili, di I promessi sposi, Resurrezione, Il cadavere vivente, Anna Karenina e soprattutto dei Tre moschettieri. Oggi si legge che sono in lavorazione o appena terminati: Lo studente di Praga, Varieté, Il fu Mattia Pascal, mentre Duvivier si cimenta di nuovo con il romanzo di Meyrink Il Golem, che fu uno dei primi film di Lubitsch, della prima maniera europea ’. La cosa grave, di cui è facile convincersi, da qualche saggio fotografico, è che queste nuove edizioni sono, per lo più, peggiori delle prime. Si pensi che quando non si rifanno addirittura gli stessi soggetti si plagiano gli ambienti, le situazioni, i tipi, le scene madri, i finali; e ancora le trovate drammatiche, quelle comi­ che e i particolari tutti. Si pensi alle tartes a la crème e agli alveari di Mack Sennett, destinati a finire in faccia al personag­ gio cattivo, si pensi ai baci attraverso le inferriate, ai cattivi fotografati dal basso e agli oppress^ dall’alto, alle luci alter­ nate su di un viso per indicare la partenza di un treno, alle lancette impazzite di un orologio e al calendario che si sfoglia 1 Qui Barbaro incorre in una svista: il Golem venne realizzato due volte in Germania nel 1914 e nel 1920, nella prima la regia fu di H. Galeen e nella seconda di P. Wegener e Galeen (n.d.r.).

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per rendere il passaggio di tempo, al portacenere colmo di sigarette per mostrare l’attesa nervosa, ai cani e ai cavalli, scimuniti come direttori cinematografici che abbaiano o si voltano ammiccando quando i protagonisti si baciano, alle ombre invece delle figure nei duelli, nei delitti e nelle scene comunque drammatiche, ai fazzoletti spiegazzati e alle coppe frantumate nelle mani, nervose di interna e compressa tensio­ ne, si pensi alle nuvole in cielo e alla luna tra le nuvole e chi ci si diverta può continuare per un bel pezzo. Ecco il repertorio di passaggi, di metafore, e di trovate che — si badi, felici e addirittura stupende quando furono trovate la prima volta — costituiscono il campionario di uno sceneggiatore di professione: che, se è italiano, le vende in blocco per cinquemila lire, se è un piccolo maleducato forestie­ ro dalle orecchie a ventaglio, per trentamila. Si pensi ancora che, fino a qualche anno fa, quando un divo o una diva raggiungevano un certo grado di notorietà o di simpatia presso il pubblico sorgevano ovunque, come funghi, i suoi emuli t che allora avevano almeno il buon senso di essere dichiaratamente tali; e che lo dichiaravano facendo scomparire il loro nome ignoto accanto a quelli, a caratteri cubitali, degli emulati. La conseguenza di questo lungo discorso è semplicemente questa: al cinema, considerato unicamente come industria, è vietata e preclusa ogni originalità e quindi ogni possibilità artistica.

Un’arte che sia contemporaneamente un’industria, come l’arte del film, non può in alcun caso prescindere dalla previ­ sione delle reazioni che i suoi prodotti provocheranno nei consumatori paganti. Ignorare queste reazioni significherebbe condannare al­ l’insuccesso il lato industriale e dunque non solo l’arte, ma addirittura il film; perché non si potrebbero piu produrre film che nessuno sarebbe disposto a finanziare in pura perdi­ ta. C’è dunque qualche cosa di lecito e di comprensibile 484

nelle discussioni che quotidianamente avvengono negli uffici dalle pareti tappezzate di fotografie di sgualdrinelle dei pro­ duttori cinematografici, circa la maggiore o minore commer­ ciabilità di un soggetto. È un problema che gli intellettuali vorrebbero poter ignorare e ignorano appena possono e contro il quale invece si deve urtare ogni giorno. Alcuni se la pren­ dono con i produttori perché essi, sordi agli appelli delle persone intelligenti e alle pressioni che vengono dall’alto, si rifiutano di fare film se non secondo i gusti del pubblico. E nessuno riuscirà a convincere chi ha fatto, puta caso, L’eredità dello zio Buonanima (non ricordo nemmeno chi sia) che quel film vale poco; quel film, di fatto, ha incassato in cinque mesi, al netto dalla tassa erariale, circa due milioni e cioè, in un periodo di tempo che non raggiunge un terr­ àri periodo di sfruttamento utile, circa il triplo del suo costo presumibile. Queste cifre sono vere e chi può farlo, se non ci crede, si cavi il gusto di controllarle alla Società degli autori; può darsi che esse, o altre analoghe, siano negate nell’ambiente, perché il produttore cinematografico, nel suo candore ingenuo, crede ad una profonda antinomia insanabile tra il film com­ merciale e il film d’arte, e teme che il fatto di buoni successi finanziari realizzati lo esponga a pressioni per fargli cambiar strada: per fargli abbandonare la via sempre sicura delle pa­ gliacciate e delle commedie comico-sentimentali per chissà quali noiose astruserie moraleggianti, o chissà quali vuote bel­ lezze formali. Naturalmente costosissime, e destinate ai più disastrosi insuccessi. Perché film d’arte, per tutti i cinemato­ grafati senza cervello, significa necessariamente mammuth-film del costo di milioni e tale da piacere solo a pochi snob iper­ critici. Il mondo del cinematografo è una specie di torre di Babele in cui le incomprensioni, gli equivoci, le sciocche infatuazioni e le calunnie sono all’ordine del giorno. E basta che un galantuomo sappia leggere e scrivere ed abbia letto qualche cosa di più dei bollettini pubblicitari delle case cinematogra­ fiche e scritto qualche cosa di più delle lettere d’ufficio e

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delle lettere alla fidanzata perché i cinematografari lo procla­ mino senz’altro un illuso, un predicatore evangelico, un sec­ catore che si propone di amareggiare poche ore che il pubbli­ co sano, e che paga le tasse e i biglietti di ingresso dei cine­ matografi, vuol passare ridendo. Certamente i produttori han­ no una trista opinione degli artisti. Ma, ad esser franchi, come dar loro torto? Pensiamo a quello che hanno fatto gli intellettuali quando si sono avvicinati al cinematografo, ai disgraziatissimi esperimenti di film d’arte fatti in Italia; e si pensi al formalismo che domina ancora certi ambienti intel­ lettuali, e ispira certa produzione letteraria e certa critica. Si pensi al mito della poesia pura: a tutto l’annesso bagaglio di ermetismo, di assurdità e di vuotezza: e allora anche la diffi­ denza dei produttori cinematografici per Parte è cosa giusta e giustificata. Perché al cinema puro tutti quelli che hanno gusto, sensibilità e anche solo buon senso preferiranno sem­ pre il cinema senza aggettivi; per il quale parteggia entusiasta, tutto il pubblico.

I veri artisti sanno che quanto piace unicamente a un pubblico selezionato non è mai arte. Le brutte tragedie di Voltaire mandavano in visibilio la corte e la borghesia na­ scente; ma Baretti che, come l’abate Galiani, poteva permet­ tersi il lusso di fare dello spirito in polemica con Voltaire, gli opponeva Shakespeare, che a quella corte e a quella borghesia pareva volgare, e che piaceva invece alla canaglia. Ci pensino, se possono, i produttori cinematografici e i loro consiglieri: quando un vero artista potrà, in Italia, produrre un film entu­ siasmerà — e sarà suo gran vanto — anche e soprattutto la canaglia. E non ci sarà piu crisi di soggetti.

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Natura del cinema *

Le condizioni dello spettatore cinematografico differi­ scono profondamente da quelle dello spettatore teatrale: av­ volto nel buio egli non può far mostra di sé e dei suoi abbiglia­ menti, né indugiarsi ad ammirare il restante pubblico e la sua preziosa eleganza: non può chiacchierare coi vicini senza essere zittito, e, in una parola, non può far altro che fissare il rettan­ golo luminoso dello schermo; poiché non gli è permesso di­ strarsi dalla visione, se il film che si proietta non lo interessa, egli non può che alzarsi e uscire, o abbandonarsi al sonno, e, in sostanza, non può che annullarsi come spettatore. Esclusa dunque ogni mondanità ed ogni possibile distra­ zione dallo spettacolo cinematografico, per lo meno durante la proiezione, potrebbe forse lo spettatore, costretto da circo­ stanze esterne a concentrare la sua attenzione sullo schermo, considerare l’opera d’arte che gli si presenta da un punto di vista sbagliato, cercandovi valori extracinematografici? È un caso che si verifica per tutte le altre arti; c’è chi va cercando, nelle sinfonie di Beethoven, Napoleone, il cuculo o l’usignolo e rimane, naturalmente, assai lontano dalla comprensione del­ l’alta terribilità di quella musica; e c’è chi, ignorando come si guarda un quadro, lo giudica in base a criteri di verosimi­ glianza per gustarlo volgarmente, allo stesso modo cioè, come è stato detto felicemente, dei poveri uccelletti che si affan­ * Lo Schermo, a. II, n. 12, dicembre 1936.

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navano a beccare le ciliegie dipinte da Zeusi. Questa incompren­ sione dei valori tipici di un’arte, tanto comune al pubblico grosso, non solo non esiste di fatto nel pubblico cinematogra­ fico, ma non può esistere; perché quanto appare sullo schermo è scelto e disposto, assolutamente tutto, secondo una inaltera­ bile volontà che determina quello che lo spettatore deve vede­ re e solo quello ed anche il modo con cui deve essere visto. Questa volontà, mediante il montaggio, fa cambiare di po­ sto lo spettatore (H. Richter) non solo trasportandolo da una scena all’altra, ma da un punto all’altro della stessa scena, me­ diante il variare dei piazzamenti di macchina; e col variare della inquadratura determina e limita il campo della sua visio­ ne. Se uno spettatore annoiato, impossibilitato com’è dal buio che lo circonda anche solo a guardarsi attorno, vuol distrarre la sua attenzione dal racconto cinematografico cui assiste per interessarsi a qualche trascurabile particolare di esso, si trova a cozzare inutilmente contro la precisa e invincibile vo­ lontà del regista che glielo impedisce; egli non può, se il regi­ sta non ha creduto opportuno permetterlo in quel dato mo­ mento, indugiarsi a contemplare gli abiti o le forme della pro­ tagonista trascurandone l’espressione: se gli autori del film hanno voluto mettere solo quell’espressione in valore, con un primissimo piano hanno dato al pubblico non piu la donna, e nemmeno, si potrebbe dire, il viso di quella donna, ma solo il riflesso esteriore, su quel viso, di sentimenti interni. E lo spettatore, volente o nolente, è ricostretto nella storia che gli vien narrata, non solo, ma si trova anche obbligato a vederla in un dato modo, e a giudicarla quindi, almeno durante la proiezione, come gli autori del film gli impongono. Lo spettatore cinematografico infatti non ha la possibilità di riflettere e di giudicare immediatamente quanto gli si mo­ stra: il succedersi dei fotogrammi sullo schermo è cosi verti­ ginoso (24 al minuto secondo) da permettere appena la perce­ zione; ogni riflessione è resa impossibile nello spettatore a meno che egli non voglia condannarsi all’incomprensione di quanto vede. Ed il film è anzitutto un’azione diretta sul sub­ cosciente del pubblico e, prima che alla sua intelligenza cri­

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tica, si rivolge e tocca la sua sensibile percettività; per cui si è constatato più volte, è alla visione di film di propaganda ben fatti, che il pubblico applaude tesi che in realtà non sottoscriverebbe se esposte in forma concettuale. Il motivo per cui le sale, in cui si proiettano film di dichiarata ed esplicita propaganda, son disertate va cercato più che altro nell’istru­ zione, magari anche vaga, che il pubblico ha della sua impos­ sibilità a sottrarsi criticamente all’influenza ideologica che il film avrà su lui. Ed è ancora la coscienza di questa mancanza di difesa critica dello spettatore dalle suggestioni dello scher­ mo che ha fatto definire talvolta il film uno stupefacente, oppio o morfina. Le impressioni con cui il film bersaglia il subcosciente degli spettatori possono essere cosi violente da sfociare in azioni subitanee, non mediate da riflessività: e la grande massa dei frequentatori di cinematografi viene cosi a costituire come un immenso campo arato in cui si gettano a piene mani ger­ mi, i cui frutti, immediati o lontani, non possono in alcun caso mancare. Si possono citare, come riprova, gli applausi che la ricca borghesia nei vari cine-clubs d’Europa, dai posti cari assaettati, tributa ai film di propaganda russi, e agli incidenti che spesso quei film provocano nelle vaste sale. E, conside­ rando un fenomeno più vasto e una propaganda meno violen­ ta ma più insinuante, si pensi alla trasformazione che il cine­ ma americano opera, quasi inavvertitamente, non solo sui co­ stumi e sulle fogge, non solo sulle abitudini e sui sentimenti, non solo sulle mentalità e sul gusto, ma perfino sul fisico delle masse europee. Le molte Greta Garbo o le Jean Harlow che passeggiano per le vie di tutto il mondo insegnino. E in sostanza quando si è detto, prima dell’esistenza del cinema­ tografo, che la natura imita l'arte, si è indicato un processo il cui divenire, col film, doveva farsi rapidissimo, e per il quale è lecito considerare il cinematografo come la più formativa di tutte le arti, quella dunque la cui portata sociale e umana è la più potente. Allo stato di passività intellettuale in cui, salvo ulteriori visioni, viene a trovarsi lo spettatore, corrisponde la necessità 489

assoluta di un’autocoscienza nei creatori del film. Necessità che moralmente potrebbe esser giustificata dal senso di respon­ sabilità del regista che, se degno del suo lavoro, mai vorreb­ be, colla cinematografia, che è stata definita arma, sparare a casaccio su di una folla indifesa; ma necessità che è anche, e soprattutto, originata dalla natura stessa del film. La novità del film, rispetto alle altre arti, e la sua carat­ teristica più tipica, è data dal suo esser frutto di una colla­ borazione. Perché questa collaborazione sia efficace occorre che il mondo morale che dovrà esprimersi nella futura opera sia, fin dai primi momenti, criticamente cosciente e delimitato; e condizione sine qua non per il buon esito del lavoro è che ognuno sia membro attivo di una collettività avente uno scopo comune, e non strumento passivo e incosciente nelle mani del presunto unico autore del film, che di fatto non esiste. Anche se taluni ostili buontemponi che commettono l’enorme e ormai quasi inqualificabile errore di considerare il film alla stregua delle altre arti, si dilettano di arzigogolare sull’unico autore del film, che è naturalmente, il regista. È una concezio­ ne grettamente individualistica quella che ci presenta, come ideale, la figura, fortunatamente piuttosto rara, del regista che insegue onanisticamente un suo solitario sogno di bellezza, tro­ va un mecenate imbecille che glielo fa realizzare, e lo pre­ senta infine a uno sparuto gruppo di esteti assetati dell’acqua pura del fonte lustrale, sacro e suggellato per i non iniziati. Il film è una creazione collettiva e, in quanto tale, coscien­ te, e destinata ad una collettività enorme, spesso supernazio­ nale: ed il suo compito e il suo dovere è quello di interpretare i bisogni e le aspirazioni della collettività. Da queste considerazioni si può dedurre e tenere per fer­ mo che ogni film deve avere una tesi che ne costituisca l’asse ideologico, che ne determini tutti i particolari, e che sia il punto di convergenza degli sforzi di tutti i collaboratori. Tesi che non può essere un mediocre precetto, ma ampia e univer­ sale visione del mondo.

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Tolstoj parfa del cinema *

Molte sono le opere di Lev Tolstoj da cui si son tratte opere cinematografiche. Padre Sergio, interpretato da Mozuchin, risale al 1919 e nel ’21, quando venne in Italia, colpi per la sua potente interiorità e per il suo ritmo lento e solenne, che contrastava con quello travolgente dei film americani che co­ minciavano a invadere tutti i mercati. Anche del 1919 è La sonata a Kreutzer, che Umberto Fracchia aveva diretto, con Sainati primattore; due anni dopo Mazzolotti riduceva per lo schermo 11 cadavere vivente (con Franz Sala e Ria Bruna) e, nel ’29, a Berlino, Ozep traduceva cinematograficamente lo stesso dramma avendo per attori il regista V. Pudovkin e Maria Jacobini. In America furono confezionate le due notissime parodie di Anna Karenina con Greta Garbo e i due travesti­ menti cinematografici di Resurrezione, rispettivamente con Dolores del Rio e Anna Sten. Oggi si annuncia, pure dall’Ame­ rica, la messa in lavorazione di un nuovo mammuth-film: Guerra e pace. Può dunque essere interessante, anche per motivi esteriori e d’attualità, sapere quello che Lev Tolstoj pensasse del ci­ nematografo. Nel 1908, benché in quell’anno solo il divieto dello zar gli evitasse l’arresto che colpi il suo segretario, Tolstoj fu festeggiatissimo, in Russia e fuori, per l’ottantesimo anniver* Cinema, a. Ili, n. 51, 10 agosto 1938.

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sario della sua nascita. In quell'occasione si recarono a Jasnaja Pol j an a alcuni operatori cinematografici; essi ripresero qualche scena della vita quotidiana ed intima del grande scrittore, e misero insieme un documentario — un dal vero, come si diceva allora — che fu riesumato qualche anno fa e proiettato a Roma all’Accademia di santa Cecilia. Indipendentemente da valori cinematografici, il breve film aveva naturalmente un valore storico e umano incomparabile. Che cosa sapesse e che cosa potesse direttamente cono­ scere di cinematografo Lev Tolstoj nel 1908 è difficile im­ maginare. Specie ricordando che già dal 1874 egli si era ritirato a Jasnaja Poljana. Forse si potrà saperne qualche cosa di piu quando sarà pubblicato l’interessante materiale che sulla cinematografia russa prerivoluzionaria possiede VEnciclopedia del cinema. Comunque sappiamo che, nel 1908, l’appena quattordicenne cinematografo aveva già tentato e realizzato cose mirabolanti: in quell’anno si chiude con un trattato di pace la guerra di un gruppo di case produttrici americane, in quell’anno in Francia Sarah Bernhardt realizza La signora dalle camelie ed Emile Cohl presenta il primo cartone animato Fantasmagories. In Italia, dove esistevano già da parecchi anni case di produzione, si fonda l’Ambrosio-Film, mentre la Comerio, di Milano, già regolarmente « cinematografava le attualità piu salienti »: le grandi manovre, il circuito di Bologna, il disastro di Messina, e (credo nello stesso anno) l’incontro a Gaeta del re d’Italia col re d’Inghilterra. In Russia erano già stati da molto tempo i pionieri dell’attualità: Promio e Mesguich. Quest’ultimo aveva ripreso: l’incorona­ zione dello zar Nicola, la vergine nera di Kazan, era stato accusato di stregoneria, con relativo incendio del laboratorio, e s’era infine fatto espellere dal paese per aver girato le danze della Bella Otero. La venuta degli operatori a Jasnaja Poljana dette luogo ad una conversazione, nella quale Tolstoj espresse, tra l’altro, alcuni pensieri sul cinematografo, che, qualche anno fa, fu­ rono riferiti da uno dei presenti, e che seguono qui tradotti. « Questo trucco che si fa andare con una manovella sov­

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verte qualche cosa nella nostra vita di uomini e nella nostra attività di scrittori. È una rivolta contro i vecchi metodi del­ l’arte letteraria. Un attacco. Un assalto. A noi non rimane che adattarci alla pallida tela dello schermo e al freddo vetro dell’obbiettivo. Si rende necessaria una nuova maniera di scri­ vere. Io ci ho già pensato e già presento il suo appros­ simarsi. Ma tutto ciò a me piace. « Questo rapido cambiamento delle scene, queste varia­ zioni di stati d’animo, questi diluvi d’esperienze... davvero tutto questo è assai meglio del noioso leccamento del sog­ getto. È, se volete, piu vicino alla vita. E tutti questi cam­ biamenti, tutte queste apparizioni che volano via fulminea­ mente costituiscono esperienze spirituali direttamente simili all’uragano. Il cinematografo ci ha rivelato il movimento. E questa è una cosa grande. « Quando io scrivevo II cadavere vivente mi strappavo i capelli e mi mangiavo le mani dal dispiacere e dalla rabbia; perché non mi era dato di aggiungere un maggior numero di scene, di quadri... né di poter trasferire l’azione dall’uno all’al­ tro di essi. Maledette impalcature teatrali che stringono alla gola il drammaturgo... e tu tagli, stringi la viva ampiezza dello scritto’... « Io ricordo che quando mi annunziarono la novità: che qualche furbacchione aveva escogitato un’astuzia e aveva tro­ vato come far girare il palcoscenico per preparare in anticipo le scene e mostrare al pubblico nuovi ambienti, io mi rallegrai come un bambino: e mi ripromettevo di scrivere una pièce in dieci quadri. Poi temevo che questi dieci quadri d'angolo deformassero il lavoro e andavo calamboureggiando tra di me. Temevo che le scene d’angolo finissero col render d’angolo anche il mio lavoro, me lo guastassero. E sono felice di aver rimandato la messinscena di quel lavoro. Ma il cinematografo! Che bella cosa. Drrr! La scena è pronta. Là: nuovo quadro. E la spiagga, e il mare, e la città... e in tutto questo: il dram­ ma, la tragedia... » È importante rilevare che, trent’anni fa, e con conoscenze cinematografiche certamente molto ristrette, Tolstoj ha felice­ 493

mente intuito qualche cosa di essenziale. Non ha affatto scam­ biato il film per strumento utile a conservare e documentare un’arte preesistente, ma ha stabilito invece: 1) che il cinema è un’arte; 2) che rappresenta una liberazione dalle pastoie del teatro ed un superamento del teatro stesso; 3) che è destinato a sovvertire le vecchie forme di arte e di vita. Non è poco. E sembra quasi miracoloso oggi che il cinema in tutto il mondo, degrada al punto da rimettere in onore gli arrugginiti ferri vecchi del teatro. L’attualità di questo scritto sembrerà dunque non solo esteriore e occasionale a chi voglia rifletterci un poco. Perché, io credo, quei teatranti che non sono in grado di valutare argomentazioni sulla battaglia cinema-teatro, saranno certa­ mente più inclini a sentire il peso di un tanto autorevole parere. Ipse dixit. E certo è per lo meno interessante sapere che da una parte si è d’accordo con Tolstoj e dall’altra con Sacha Guitry.

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Documentario e didattico *

Chi, conscio della limitazione dei concetti di arte singola e di tecnica artistica, si faccia ad esaminare, anche grossa­ mente, i mezzi espressivi del cinema, la sua cosiddetta tecnica, si rende immediatamente conto del fatto che essa riposa totalmente nella conoscenza degli strumenti necessari alla produzione del film e dei risultati che un acconcio impiego può darne. Tutti hanno sentito dire più volte, coll’aria di constata­ zione profonda e misteriosa, che spesso la macchina da presa fa certi scherzi! e si è spessissimo discettato in Europa e in America del miracolismo della camera, lo sono l’occhio della camera! lo l’occhio meccanico! Io, macchina, vi mostro il mondo quale soltanto io posso vederlo! (Dziga Vertov, Kinoki. Perevorot, in Lef, n. 3, 1923.) Sono queste le frasi lapidarie della teoria, che conobbe enorme diffusione e che va sotto il nome di camera-occhio, alla quale assai spesso si rifanno ancora oggi alcuni cineasti, e in specie i documentaristi. Si tratta di una specie di misticismo della macchina da presa, che tende a dotarla di autonomia e di impulsi meravigliosi che la renderebbero adatta a cogliere aspetti ignoti e impre­ visti della realtà, e magari anche a rilevare l’essenza pro­ fonda e nascosta delle cose. Mentre dovrebbe essere evidente che la macchina da * Cinema, a. IV, n. 71, 10 gennaio 1939.

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presa può scherzare solo con coloro che non ne conoscono il funzionamento, che non sanno dominarla e che non sono in gra­ do di prevederne il rendimento. Il miracolismo mistico della camera non è che il letterario alibi alla prosaica incapacità di coloro che ignorandone le caratteristiche l’adoperano a casaccio. Allo stesso modo per cui i bambini dicono: mi si è rotto il calamaio, oppure mi si è spezzata la penna stilo­ grafica, invece di dire ho rotto il calamaio, ho spezzato la penna stilografica; e allo stesso modo per cui gli attori cani dicono: non mi viene, delle espressioni che per loro sono dif­ ficili da inventare o da assumere. Ma, come non esiste nel calamaio autonomia che lo faccia cadere e rompere da sé, cosi non esiste nella macchina da presa che un rendimento fotografico proporzionato all’impiego che se ne è fatto; ren­ dimento che per essere buon regista è necessario saper pre­ vedere e deliberatamente provocare per le esigenze artistiche del proprio film. È chiaro che impiegando un dato filtro io vedrò, puta caso, un vestito in realtà rosso, apparire bianco sullo schermo; e che, impressionando pellicola di una data emulsione, quello stesso vestito mi risulterà nero. ’Miracolo stupendo solo per coloro che ignorano il rendimento fotografico dei colori, l’uso dei filtri e il valore delle diverse emulsioni. Allo stesso modo è chiaro che se io riprenderò una piantina, impressionando ogni giorno otto fotogrammi per la durata di tre mesi e poi proietterò i pochi metri di pellicola che me ne saranno risultati a cadenza normale, assisterò allo spettacolo, nuovo per l’occhio umano fino a ieri, e sotto certi aspetti oltre che inedito forse anche delizioso, del nascere delle foglie e dello sbocciare dei fiori. Ma tutto ciò non ha nulla di miracoloso o di artistico, in sé. Come non è miracolosa né artistica la ripresa al rallen­ tatore che mi mostrerà il volo dolce di una saltatrice o di un tuffatore che sembrino aver distrutte le leggi della caduta dei gravi. Eppure è a questi miracoli che si sono spesso intonati i ditirambi di certa letteratissima estetica del film. E a questa stregua non v’è dubbio si finisca, presto o tardi, col chiamare

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miracolosa e artistica anche la visione, certo inedita per l’oc­ chio umano, di una colonia di bacilli visti al microscopio! Da questo misticismo rinunziatario ha origine anche la teoria, già altrove confutata (Bianco e nero, 1937, n. 5), per cui la macchina da presa, vicinissima al viso umano, coglie­ rebbe, oltre ogni evidenza naturale, il carattere dell’indivi­ duo; oltre il viso che si fa, il viso che si ha, e per cui essa è capace di leggere tra i lineamenti (Béla Balàzs). Ma tanto avverrà con attori non professionisti o con attori inesperti; non con veri attori, i quali sono, per definizione, in grado di padroneggiare la propria materia, e nel caso, oltre che la propria azione e la propria mimica più grossa, anche quella che il Balàzs chiama la microfisonomia; come per altro risulta ottimamente anche dai begli esempi da lui prodotti di primi piani di Asta Nielsen. Miracoli del genere di quelli della macchina da presa, che è barbarie definire cosi, li offrono anche l’apparecchio di registrazione sonora, il proiettore e, come s’è detto, il micro­ scopio e perfino il caleidoscopio, e mille altre macchine e giocattoli di cui l’umanità si serve quotidianamente. E non sono miracoli né arte se non è una personalità artistica a provocarli, prevedendo esattamente il risultato degli strumenti che adopera ai fini della sua creazione. O anche, quando pure si tratti di materiale occasionale, se una personalità artistica non intervenga a organizzarlo a fonderlo e a dargli validità c valore estetico. In quest’ultimo caso la forma creatrice si vale di uno stimolo esterno, piuttosto che di un altro, cosi come faceva Leonardo quando da qualche macchia d’inchiostro traeva una significante caricatura. Ma si tratta di un miracolo che invano cercherebbero di riprodurre, e dalle loro pasticciature, tutti coloro che, incapaci di scrivere o di disegnare, seminano mac­ chie d’inchiostro sull’innocente candore della carta. Che il film documenti una realtà è un fatto che non ha nessuna importanza, fuori dal caso particolare.- E quanto il film documenta vale solo come precedente o come conseguente dell’arte che è in esso. Affermare la possibilità di questa do­ 497

cumentazione è affermare una verità tanto limitata e parziale quanto l'altra che potrebbe sostenersi con pari diritto: che il disegno o la pittura documentino la storia. E sarà anche in un certo senso ammissibile; ma cercare simili valori estrin­ seci e far dipendere da essi la qualità della pittura è proprio come cercare farfalle sotto l’arco di Tito, o come scambiare per opere d’arte le carte geografiche o i figurini di moda e le altre carabattole che ingombrano (vera prova del nove) i salot­ ti degli estetuzzi di tutto il mondo. Invece il cinema, proprio per la sua natura, ha limiti strettissimi nella capacità documentaria. Proposizione che non stupisce chi lo conosca come forma d’arte e non come giocat­ tolo, e che dovrebbe essere tenuta costantemente presente da chi si occupa di film documentari o di film didattici. Il documento infatti vale solo quando parla eloquente­ mente allo spettatore, quando è un elemento offerto alla sua riflessività, come conferma di un precedente ragionamento o di una precedente intuizione. Certi valori stilistici mi fanno riconoscere un quadro per appartenente ad una data epoca di un certo pittore e la commissione che gliene fu fatta ecco sta li ora a confermare la mia attribuzione, frutto di un sottile ragionamento critico. Ma il film non è il linguaggio dei ragio­ namenti, la sua forma non è quella del concetto, proprio perché il film è arte. E provate a spiegare in musica le conse­ guenze della Riforma o le cause della rivoluzione francese! O provate ad illustrare il funzionamento della caldaia a vapore e del treno. Voi potrete darci, nel migliore dei casi, la sinfo­ nia Pacific di Honegger, che fortunatamente però ci lascia del tutto all’oscuro sui misteri del tender e dei suoi componenti. In quanto arte il film non può essere il linguaggio dei docu­ menti bruti né dei concetti. E non si distinguerà mai in un documentario fino a che punto esso sia stato falsato, come non si riuscirà col film a dimostrare il principio di ragion sufficiente o quello del terzo escluso. Col che non si vuol certo bandire il documentario o il didattico della produzione: tutt’altro! Solo si vuole che que­ sti generi non si distinguano dagli altri come effettivamente

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non possono distinguersi. E si vuol suggerire che la loro effi­ cacia, anche in quanto tali, non può venire che dal loro reale valore: dalla loro arte. Non si tratta di insegnare proponendo allo spettatore delle cognizioni piu o meno nuove per lui, ma di insegnare con quel potentissimo strumento formativo che è l’arte. L'uomo di Aran, per citare uno dei migliori documentari che si conoscano, non vale tanto per l’illustrazione delle con­ dizioni di vita che ci offre di un certo conglomerato umano, o per la conoscenza che ci comunica della struttura geologica di una certa isola; ma per il valore artistico di questa, dicia­ mo pure, documentazione. Come converrà chi ricordi, in esso, la scena del bambino che si avvicina allo strapiombo sul mare della cui profondità ci fa indirettamente avvertiti il grido del gabbiano, o le scene straordinarie della faticosa raccolta di un po’ di terra per le future povere culture. Tali che la visione dell’isola e dei suoi abitanti merita per noi la qualifica non di trattato ma di lirica.

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Neo-realismo *

Piu che un’analisi critica rigorosa del Porto delle nebbie di Marcel Carne, credo possa essere interessante qualche ri­ flessione di carattere generale, volta a risolvere certi problemi che la visione di questo bel film rimette sul tappeto con ca­ rattere di attualità e, direi, addirittura di urgenza. Tanto piu che l’alta qualità di questo singolare e suggestivo racconto ci­ nematografico è stata generalmente riconosciuta dalla critica, anche quotidiana, ed apprezzata dal pubblico, anche piu di­ stratto. Accanto al pacato e motivato giudizio dei migliori non man­ cano tuttavia gli osanna e i crucifige degli scalmanati, mossi da tendenze e convinzioni non propriamente critiche, ma piut­ tosto morali, sociali e magari anche politiche; quelle preoc­ cupazioni che, con un termine della teoria dell’arte, entrato largamente nel linguaggio giornalistico e comune si sogliono dire extraestetiche. Basti ricordare che, ad un film come 11 Porto delle nebbie e a quella tendenza cinematografica che, grosso modo, può dirsi il realismo cinematografico francese, si è voluto imputare nientedimeno che la decadenza della Francia o addirittura la disfatta militare di quel paese. Natu­ ralmente: nonostante Pangloss e il tutto va per il meglio, la « faute » è sempre di Voltaire. Credo che sia giusto ripetere ai sordi che la moralità del­ * Film, a. VI, n. 23, 5 giugno 1943.

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l’arte sta nel fatto di essere arte, e che non esiste arte immo­ rale. E mi affretterò ad aggiungere che questo vuol dire anche che non esiste arte al di là della problematicità della vita e del mondo, arte essendo appunto l’espressione di un mondo. E che tutto ciò non esclude affatto l’importanza delle opere nel divenire sociale, anzi che proprio implica il foscoliano « ri­ fare la gente ». Senza di che non si ha l’arte ma il nulla. Anzi appunto « meno che niente ». Con molta maggior verità e con piu equo giudizio si può dire dei film del neo-realismo francese che essi sono stati un grido d’allarme: e che la cruda rappresentazione di fatti di violenza e di sangue, che in essi si è costantemente celebrata, è stato un tentativo, assai nobile, non solo e non tanto di descrivere condizioni umane particolarissime, ma anche di ricercarne le cause e le responsabilità. Cause e respon­ sabilità sociali individuate benissimo, e che avrebbero dovuto interessare e preoccupare non solo la cosiddetta opinione, ma anche e soprattutto i governanti. I quali, evidentemente, hanno invece creduto più seri e attraenti gli scherzi villerecci, po­ niamo di un Pagnol, e consigliabile e saggia politica del consueto struzzo — col risultato che tutti sanno. Recentemente André Gide, interrogato circa la responsa­ bilità degli intellettuali francesi nella crisi del suo paese, ha raccontato un apologo assai gustoso. Una nave s’era inca­ gliata perché sovraccarica: per alleggerirla e salvare il salva­ bile non c’era che da sacrificare alcuni viaggiatori. Furono cosi entusiasticamente buttati in acqua omicidi, ladri, sfrut­ tatori e simili. Invano. Soltanto quando fu la volta di un magro ed ascetico missionario, il barcone parve bastantemente alleviato e si potè muovere. E tutti gridarono che era colpa del missionario se la nave s’era incagliata. È un apologo che conviene ricordare ogni volta che si sia tentati a giudicare con leggerezza dei fatti dell’arte.

Volendo sistemare nella storia del film II porto delle neb­ bie bisogna rifarsi a Renoir, che con La chienne iniziò, nel 501

1931, quello stile cinematografico che oggi chiamiamo cor­ rentemente francese. Alle difficoltà che gli opponevano i pro­ duttori, Renoir sosteneva che qualche anno dopo essi avreb­ bero richiesto solo film di quel genere. E tuttavia non biso­ gna credere ad uno schematismo programmatico dell’autore: né di stile, né di contenuto. Tanto è vero che proprio La chietine ha inizio con una battuta polemica: un teatro di pupi. Un burattino annunzia: « Questo film vuol dimostrare ». In­ terviene un altro burattino, scaccia il precedente e dichiara: « Questo film vuol dimostrare ». Infine un terzo ed ultimo burattino conclude: « Questo è un film, e, come tale, non vuole dimostrare assolutamente nulla ». E allora! Allora vuol dire che esprimere il proprio mondo morale per un artista non è come dimostrare un teorema. E se Carnè è più duro e spietato, Renoir, pur con la sua dichia­ rata indifferenza tematica, non è meno moralmente inflessibile. Mi ricordo di una signora che avevo visto lacrimare abbon­ dantemente al caramelloso Margherita Gauthier della Garbo, che assistette con occhio asciutto a La bete humaine. Vuol dire che l’emozione che possono dare questi film non è di carattere sensibile o sentimentale, e che lo stimolo che provocano è nella sfera della fantasia. Essi non partono dalle insoddisfa­ zioni del pubblico per solleticarne il senso di evasione, ma, con lucida freddezza, ricostringono nella problematica dell’esisten­ za. Senza divertimento, ma con accresciuta umanità. Nella fornace drll’esistenza entrano pochi — ha detto un grande poeta tedesco — gli altri stanno fuori e si scaldano. Quelli che si tirano fuori disertano cosi i propri compiti più umani: e tra i più potenti complici delle diserzioni e delle evasioni, sta in prima linea il film divertente. Divertenti sono i prodotti confezionati dai mestieranti senza scrupoli, sui residui delle opere d’arte. E così si capi­ sce che tra Dupin e Lupin c’è un abisso: non solo di valore artistico, ma anche di valore morale. Nonostante che i vera­ mente straordinari racconti di Poe non siano adatti per i ra­ gazzi e per i nervi sensibili come le avventure del Ladro Gen­ tiluomo. Non diversamente da cosi Bubu de Montparnasse de-

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genera in rapporti giornalistici romanzati tipo Un mois chez les ftlles o Minuti Place Pigalle. Da una parte impegno e sim­ patia umana, dall’altra compiacimento morboso e vuoto di­ vertimento.

Ma, si domandano alcuni, quanto della Francia vera esiste in questi film? Sono proprio reali quei tipi cosi abnormi, quei casi cosi, eccezionali, quelle personalità cosi schiantate? Siamo ad un altro equivoco sul quale è bene intendersi: ad un’opera d’arte non si chiede né verità né verosimiglianza; o, per dirla in altro modo, non si chiede che verità e verosi­ miglianza artistica. Termini che non sopportano rapporti e con­ fronti con nulla di esterno all’opera. Ne 11 porto delle nebbie c’è creazione fantastica, cioè poesia; nelle comico-sentimentali, gabellate per deliziose, c’è solo falsificazione. E se qualcuno volesse ancora insistere a chiedere dov’è la Francia, dove me­ glio si rispecchia risponderemo — per analogia — quello che sentivo dire giorni or sono: che c’è più Italia in I topi grigi, di Emilio Ghione e Kelly Sambucini, che non negli altri film italiani dello stesso periodo. E nessuno mi crederà, spero, tanto ingenuo da considerare vere o verosimili le mirabolanti av­ venture di Za la Mort, della sua fida compagna Za la Vie e dell’allora ragazzo, Martinelli.

Giacché siamo all’Italia, veniamo ad un altro punto che, rispetto al film realistico, è di grandissima importanza. Vi sie­ te mai chiesti perché uno scrittore francese può liberamente usare l’argot più stretto, il gergo professionale più specifico, i modi di espressione più transeunti e contingenti riuscendo a farsi capire da tutto il mondo? Mentre da noi chi tenta fare altrettanto riesce comprensibile solo ad una cerchia strettis­ sima di lettori? Le ragioni sono evidentemente storiche: la vecchia unità della Francia ne ha unificato il linguaggio; men­ tre da noi solo da poco si può sperare, in seguito ad alcune vere e proprie trasmigrazioni di lavoratori (per esempio nella 503

bonifica Pontina), nel sorgere di un linguaggio popolare ve­ ramente italiano. Cosicché il vero grande trinomio della poe­ sia moderna italiana non è: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, ma Porta, Belli, Di Giacomo. La poesia italiana è quasi tutta aulica e, da De Lollis, sap­ piamo che cosa siano stati i suoi « conati realistici ». Appena spunta un cannoniere ci si accorge che egli spara a salve: Cannonier, che fai là cosi inerte? I tuoi bronzi, le polveri accendi (Prati)

E il Carducci, quando voleva dire pane al pane? Ho dei valori pubblici, un’amante paolotta, e un giornale del centro che mi paragona a Dante.

Nel cinema le cose non vanno diversamente. Il nostro maggior film, Cabiria, con tutti i suoi apporti alla creazione di una autonomia della lingua cinematografica, con la sua in­ negabile funzione di primo piano nella scoperta dei mezzi espressivi del cinema, rimane nella corrente solenne e togata della letteratura che lo ha ispirato. Cosicché, almeno per que­ sto aspetto, è stato giusto contrapporgli Sperduti nel buio. Se davvero vogliamo abbandonare il polpettone storico, la rifrittura ottocentesca, la commediola degli equivoci dob­ biamo tentare il film realistico. Confortati dal fatto che può sorreggerci una tradizione nostra — questa veramente tutta nostra e quasi soltanto nostra — quella delle arti figurative. E infatti: l’apparizione di un carrettino da gelataro di cosi stramba fantasiosità in una piazza di Ferrara (nel film Os­ sessione) non ha precedenti araldici che risalgano magari fino ad Ercole de’ Roberti?

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Realismo e moralità *

Uno dei buoni critici dell’ottocento ha giudicato con in­ solita severità il Boccaccio. Con una severità, diremo tutta moderna, che non si è scandalizzata delle storie grassoccie quanto dell’allegria con cui quelle storie venivano narrate; e il Decamerone, dall’alto di quella comprensiva, epperò in­ flessibile, coscienza morale, prima assai che da Vienna ci venisse proposta la storia dell’arte come storia dello spirito, appariva segno e documento del più basso atteggiamento mo­ rale che si possa avere in momenti difficili e calamitosi: quello che volge a straniarsi dalla realtà, a trarsi fuori dai problemi, a crearsi la felicità anche nella servitù e nella mi­ seria. Agonizzante in quelle nebbie medioevali, l’Italia — co­ me dice crudelmente il nostro critico — moriva dal ridere. La storia cammina e i tempi cambiano. Ma la voglia di ridere e di divertirsi, a qualunque costo ed in qualunque con­ dizione, è rimasta purtroppo in qualcuno di noi, ancora e sempre pronto a crearsi felicità illusorie nelle evasioni fanta­ stiche. E vorremmo anche credere che, in certi casi, un simi­ le atteggiamento possa magari essere una necessità: resta il fatto che è, semmai, una tragica e penosa necessità. E sia pure un aspetto della nostra tradizione: resta il fatto che ne è l’aspetto meno bello, la tradizione che vogliamo ripudiare e respingere a qualunque prezzo. * Film, a. VI, n. 31, 31 luglio 1943.

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Non è, si badi, né la migliore né la più alta tradizione, neanche per valori formali. Non quella di Dante, di Machia­ velli, di Galilei, di Foscolo, di Leopardi, di Manzoni, di Ver­ ga. Sarà tutt’al più quella dei Sacchetti, dei Bandelle, degli Aretino; la tradizione delle secchie rapite, degli Adone, dei Bacco in Toscana, dei vespai stuzzicati. Una tradizione alimen­ tata dal dubbio mecenatismo dei, cosi spesso corrotti e cru­ deli, signorotti delle piccole corti provinciali, riparate all’om­ bra di più grossi cognati e vigilate da scherani e da bravi. Non la vera tradizione della nostra grande arte realistica sempre, proprio perché formatrice e trasformatrice della realtà. Nel volgere delle epoche storiche e degli eventi, certa inclinazione giullaresca sbafatrice e mercantile serpeggia — pur episodica — e sboccia ogni tanto in fioriture improvvise riuscendo perfino a sottendere l’altra più alta e più nobile. Anche oggi si può riconoscerla nella calligrafia dei falsi poeti e nei romanzi per largo pubblico: ed ha trovato final­ mente la forma d’arte nella quale si può più pienamente celebrare: il cinematografo dove ingigantisce ed infuria. Chi non sa che, nella produzione corrente, il cinematografo è e vuol essere quello che era e che voleva essere il romanzo nella tarda e decaduta letteratura greca: « Una menzogna pia­ cevole, un tessuto di avventure meravigliose, il racconto di un amore contrastato e infine ricompensato. Qualche cosa che ha per scopo di divertire il lettore meravigliandolo e traspor­ tandolo in un mondo di fantasia che non somiglia in nessun modo al mondo reale e dove egli fa conoscenza con uomini che non assomigliano in nessun modo agli uomini reali ». Ecco una definizione dei prodotti artistici di tanti secoli fa, che conviene in tutto e per tutto ai prodotti dell’attualis­ simo cinema. Non è una formula che adottano incosciente­ mente quelle case che sfornano in serie storie patetiche e storie comico-sentimentali sui chilometrici nastri di pellicola! Il filo che unisce il Romanzo di Etiopia a Trenta secondi di amore è ininterrotto. Ed è la più nera decadenza, il massimo invilimento dell’arte. In attesa che si riscriva la storia della letteratura italiana

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è certo preferibile che il cinema abbandoni il precedente letterario per rifarsi alla gloria intatta e grandissima delle nostre arti figurative, tra le quali deve trovare il suo posto. Una simile discendenza visiva mi pare di riconoscere nel film di Luchino Visconti Ossessione, che si proietta in questi giorni in Italia e che ovunque suscita discussioni animate e talvolta persino violente. Ma un film che scuote e che, appun­ to, fa discutere. E che dunque è impegnato ed obbliga a im­ pegnarsi.

È una storia raccapricciante, quella narrata in questo film, ambientato nel piu dolce e più tenero paesaggio italiano. Non il paesaggio ordinato e odoriferante del classicismo né quello pittorescamente disordinato dei romantici e dei rococò; ma quella Valle padana cosi umida, cosi grassa, cosi fumante, cosi piegata sotto il peso della grave pressione atmosferica e cosi suggestiva nella sua apparente monotonia. Un pezzo d’Italia quale non s’era ancora mai visto nei nostri film. Una lunga strada percorsa da autocarri, a fianco del solenne e pigro scorrere del fiume; una vera osteria, vero spaccio di sale e tabacchi e non caffè internazionale o tabarino\ dove si canta cadenzatamente e distesamente sempre lo stesso facile ritornello e dove la domenica si beve il sangiovese, ci si sdraia sull’erba, si scartocciano merende da carte granulose e da carte oleate, dove si gioca a bocce con pantaloni, se non proprio sbrindellati, certo a ginocchielli; dove le spalle degli uomini sono quadrate e i fianchi delle donne magri e nervosi; le mani degli uomini grosse per i lavori della terra o asciutte e magre per le specializzazioni meccaniche; e quelle delle don­ ne possono essere impiastricciate alle unghie di smalti, ma non sfuggiranno alle varecchine; perché la domenica sera dovranno lavare e sciacquare sesquipedali montagne di piatti sudici. Dove per consolarsi delle reni dolenti, del sudore, della stanchezza, del rimorso e del dolore non ci saranno che le cartoline del pubblico della Domenica del corriere. Dove l’aspirazione femminile e popolana al cappello assume forme 507

di incubo assurdo: quel cappello che si afferra al cucuzzolo, che non si sa mai dove metterlo, sottobraccio, sulle ventitré, oppu­ re accalottato a mezza fronte; ma al quale non si può rinun­ ciare perché è un segno di distinzione preziosa, stretto, anche quando dovrebbe sparire per non creare un sospetto di « indizio » da romanzo giallo. Mentre i cappelli degli uomini sono cosi inamovibili dalle cervici testarde! Città, strade e piazze dove il sole fa luci implacabili ed ombre caritatevoli; dove, ad un passo dal Palazzo dei dia­ manti o da Schifanoia, escono, da case di dubbia moralità, donne con una bottiglia del latte in una mano e la sigaretta nell’altra, e alle cui finestre si pettinano chiome fluenti da degradar quelle di Melisenda. Giardini dove si sferruzza man­ giando coni gelati provenienti da fucine irrealistiche; dal ven­ tre di draghi scesi dai quadri e dagli affreschi a trasformarsi in carrettino-bicicletta. Vie e viottoli e piazze dove girovaghi, venditori ambulanti, autisti, marinai passano per le cure di ogni giorno e dove si aggirano, frenetici e allucinati, i prota­ gonisti del dramma. Mentre ragazze ignare e troppo preste a sfilarsi le magliette aderenti non capiscono e non riescono a decifrare il loro slancio e il loro calore; perché, come nei protagonisti, la circolazione sanguigna non può percepire l’at­ timo delicato in cui si trasforma in sentimento. E dove i conciatetti penzolano dai cornicioni come angeli freccianti dai cieli a porgere la palma del martirio ai protagonisti disperati. Quei protagonisti che non sanno ascoltare l’ingenua sa­ pienza accomodante del prete preoccupato « ne scandala eveniant ». È il mondo drammatico dell’umanità indifesa. Un mondo dove ribellarsi agli accomodamenti, alla bonarietà dell’oste pacioso e del prete indulgente, dove impegnarsi, tutto o nulla, significa sacrificarsi. Significa non retrocedere neanche dinanzi al delitto, e crearsi, per la propria stessa inflessibilità, un desti­ no di morte. È questa che finalmente ci ha dato con Ossessione la cinematografia italiana: la rappresentazione artistica di una

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realtà angosciata, contro le archeologie e i divertimenti a formula fissa.

Per l’apparizione di un pezzo di realismo così improvviso ed urlante forse la critica spicciola cinematografica non era abbastanza preparata. Troppo avvezza a mestierantismi, a convenzionalità, a ripetizioni di viete e fossili norme. Onde: polemiche, discussioni, attacchi. E si capisce bene che, fomen­ tata da cosi mediocri umori, la battaglia sia finita subito ai colpi proibiti. Qui il colpo basso è quello della immoralità di cui si è subito accusato questo bel film. Come se non fosse un altissimo sforzo morale quello di voler far tutto proprio, tutto attuale e vivo un mondo, espresso senza forzature e falsificazioni nel suo apparire esterno e nelle sue molle sotter­ ranee che ora lo volgono al bene ed ora al male. Ma perché, si oppone, qui si mostra come si volga al male? Per la semplice ragione che la felicità non ha storia e la perfetta repubblica non ha arte. Ma dove non c’è arte e non c’è storia non c’è neanche la vita. La vita non è la perfezione, ma la tendenza ad essa, attraverso la perfezione dell’arte.

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Chi sceglie il soggetto *

Per molto tempo si è esagerato, in sede teorica e in sede pratica, nella valutazione del soggetto; oggi mi sembra che si stia trasmodando, in sede teorica, nella svalutazione di esso. Il problema va posto nei suoi veri termini che sono quelli generali del rapporto tra contenuto e forma nell’opera d’arte. Dalla favola dei « contenuti belli » si è passati alla favola della « bella forma ». E non si vuol dire che le due correnti non abbiano pari diritto di cittadinanza nel mondo dei realiz­ zatori; si vuol dire che non l’hanno in quello dei teorici, per i quali i due termini svaniscono, rimanendo solo valido e im­ portante il loro rapporto. Il difficile problema del nascere della forma artistica non può essere puntualizzato e automa­ tizzato nella identità di intuizione espressione; e sembra che sia ancora una pagina importante di estetica da scrivere, quella che sviluppi la distinzione, nel processo fantastico, di due momenti, che distingua cioè l’invenimento della materia dall’invenzione della forma; nell’opera d’arte veramente tale, quelle che sono due tendenze della non poesia, si fondono nel nascere della poesia vera. Non crediamo che possano esistere un poeta apollineo e un poeta dionisiaco, ma l’apollineo e il dionisiaco sono due momenti della creazione. Il primo momen­ to presieduto dalla fantasìa è quello in cui si attua la scelta del soggetto e anche la disposizione delle parti di esso, la sua * Film, a. VI, n. 33, 14 agosto 1943.

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struttura generale, lo schema degli episodi e la subordinazione di essi allo schema principale, il significato e l’eventuale finalità etica o sociale o politica dell’opera, i mezzi tecnici da impie­ gare per il raggiungimento dei quali essi sono stati scelti. Tutto questo materiale, preso a sé e rimasto allo stadio di precedente grezzo, non ha alcuna esistenza concreta, non aven­ do nessuna esistenza artistica. Si potrà caso per caso, esami­ nando un prodotto fantastico rimasto ancora in questa sfera prenatale, attribuirgli certi caratteri: alla redazione psicologica di un delitto si potrà attribuire una naturale emotività, o alla storia di un concatenarsi di equivoci un carattere di comicità. Ma non possiamo determinare questi requisiti, se non piu o meno coscientemente o piu o meno rudimentalmente, domi­ nando coll’immaginazione questa materia e, in altri termini, prevedendone o attuandone una trasformazione concretamente artistica: diciamo una rispetto alle infinite possibili. La reda­ zione psicologica di un delitto potrà anche concretarsi di imma­ gini comiche: si ricordino gli sbornioni dell *Ariosto colpiti nel sonno dell’ebbrezza che inondavano il suolo di sangue e di vino. Chi sceglierà il soggetto? Per lo più il regista. In qualche caso il regista si limita ad accettare il soggetto propostogli dal produttore. E a questo punto un materiale inelaborato acquista una grande importanza perché diviene pegno e pro­ messa di una futura opera. Quando i registi si arrovellano nella ricerca dei soggetti, quando non riescono ad inventarne, e ne esaminano a decine senza trovarne uno che si confaccia loro, si trovano evidentemente in una condizione di aridità fan­ tastica e quindi di nessuna o poca disposizione al fatto crea­ tivo. Né potrebbe valere per questi registi, come efficace argomento, quello che tutti i soggetti sono ugualmente buoni o cattivi, perché, in definitiva, i soggetti sono buoni o cattivi solo in dipendenza di chi li realizza, e nascono al mondo del­ l’arte solo in conseguenza della realizzazione. Non esistono dunque requisiti cinematografici o meno in una qualsiasi storia? Evidentemente no. Quello che può esi­ stere è il tentativo di impegnare già i modi e le forme dei­

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l’opera futura, e quindi per certe forme particolari e per certi indirizzi, esisteranno soggetti più o meno adeguati e suscetti­ bili di essere trattati in un modo che è quello proprio del re­ gista. Sul piano pratico, dicendo film si intende per lo più film narrativo e di un dato metraggio: distinzione che è determinata dagli usi e dalle consuetudini dello spettacolo. Che Greed di Stroheim non sia stato mai proiettato pubblicamente, perché di un metraggio eccezionale, non autorizza nessuno, in base a questo elemento, a formulare un giudizio positivo o negati­ vo. I duemila-tremila metri del normale film cosiddetto spet­ tacolare e i tre-cinquecento metri che sono il metraggio d’uso dei documentari, sono determinati da convenienze e conven­ zioni alle quali i registi possono, per più profonde necessità, non sottostare. Altrettanto si potrebbe dire di tutte le regole che la pra­ tica suggerisce per la compilazione di soggetti e di sceneggia­ ture dei diversi generi di film. Come la teoria dei generi è stata ripudiata dall’estetica contemporanea, nella pratica, alla teorica negazione dei limiti tra le arti ha corrisposto recente­ mente un esteriore forzamento di questi limiti e si è vista dileguare la rigidezza delle distinzioni, putacaso, tra romanzo e lirica: si sono avuti romanzi lirici, poemi in prosa e via dicendo. La storia del film, foltissima di opere, e. rispetto alla sua giovinezza, relativamente ricca di autentiche opere d’arte, ci indica tuttavia (senza per quanto si è detto impegnare possi­ bilità inedite o meno consuete) che i motivi che il cinema predilige sono a carattere realistico. Nel novero dei buoni film forse solo 11 gabinetto del dottor Caligari e qualche film d’avanguardia possono rappresentare uno scarto da que­ sto generale indirizzo realistico e, se si tien conto dei fre­ quenti tentativi di film fantastici per lo più promossi da intel­ lettuali attratti dalle « truccherie » del cinema, bisogna conclu­ dere che la forma che, almeno finora, è sembrata più convenien­ te al complesso dei mezzi espressivi del cinema, è proprio il realismo. La camera oscura che è la base tecnica elementare del cinematografo, lo lega strettamente alla realtà: analisi acu512

te hanno dimostrato come questo legame non sia quello della fedele riproduzione, ma non hanno neanche tentato di scio­ glierlo. Nonostante le possibilità offerte dall’uso dell’accelera­ tore, del rallentatore, della marcia indietro, della proiezione del negativo, di dispositivi speciali che moltiplichino le imma­ gini, di sovrimpressioni e di esposizioni multiple, di distorsio­ ni e di deformazioni, dell’asincronismo, dell’impiego fantastico del doppiaggio delle voci, nonostante il moto mediante il montaggio, di oggetti fermi (un leone di pietra si alza e ruggi­ sce — Ejzenstejn: L'incrociatore Potemkin', una statua di mar­ mo apre l’ombrello sotto la pioggia — Ozep: I miraggi di Pa­ rigi), nonostante tutto questo, a tutt’oggi, i film fantastici si contano sulla punta delle dita: Metropolis, L'uomo invisibile, Il dottor Mabuse, Il dottor Jekyll, Il ladro di Bagdad, Aelita, raccontano fatti inverosimili ma non per questo sono meno realistici. Lo stesso Cbien andalou non sfugge a questo quasi costituzionale realismo del cinema e non vogliamo dire che sia un fatto molto consueto vedere due preti anglicani trasci­ nati per una strada da una bicicletta, ma questo non toglie che quei due preti appaiano proprio due veri preti anglicani, e, nello stesso film, la mano che sporge dall’uscio, solcata dalle formiche, è un fotogramma di impressionante realismo. La consuetudine di oggi ha escluso gli utili sottotitoli dei film. Sia questo o meno un riflesso dei pensamenti estetici contemporanei giunti attraverso mediazioni innumerevoli, fino agli uffici di pubblicità delle case di noleggio, la cosa non manca di essere scomoda e urtante. Le goffe indicazioni di un tempo: dramma di avventure raccapriccianti, trattandosi di un film Saetta o di Campogalliani, dramma d'anime trattandosi di un film Negroni con Hesperia o d’uno di Roberti con Francesca Bertini, grottesco per La morte piange, ride e poi s'annoia di Bonnard, o comica esilarante per un film di Cretinetti, erano utili orientamenti per il pubblico. A questi generi corrispon­ dono naturalmente tecniche particolari e può non essere inutile per un regista, nella scelta del suo soggetto, in qualche modo definirla come appartenente all’uno o all’altro di questi gruppi ed esigente, quindi, almeno per certi versi, la relativa 513

tecnica. Questa caratterizzazione può servire a chi sceglie il soggetto come una particolare forma di contatto tra lui e que­ sta esterna materia e di collaudo della suscettibilità di essa, filtrata attraverso il suo temperamento, a divenire opera d’ar­ te. Che se poi il regista, leggendo un esposto della Zia di Carlo ci veda spunti allo sviluppo di un dramma della perso­ nalità, tanto meglio per lui e peggio per chi volesse dargli la croce addosso. Si vuol concludere che il regista nella scelta del suo sog­ getto è assolutamente libero e che questa sua ideale condizione è la più grave in quanto già in questo primo atto impegna la sua personalità artistica: solo le fantasie che camminano con le grucce, solo i registi esecutori, la cui opera a serie è desti­ nata a soddisfare le richieste dei pubblici, possono per spedi­ tezza di lavoro e soprattutto per incapacità di arrivare a- crea­ zioni originali, affermare rigorosi canoni che distinguano il cinematografico dal non-cinematografico, lo spettacolare dal documentario, il dramma d’anime da un’ora di continua ilarità. Essi sapranno quindi il mestiere, le regolette per cui si tien desta, con la sospensione, l’attenzione del pubblico, distribui­ ranno scene informative e scene madri con progressivi effetti sia di ilarità che di emozione, e, governanti a tutto fare, po­ tranno accettare qualsiasi soggetto. Comico? recipe: equivoci, sostituzione di persona, lancio di torte di crema, sordi, balbu­ zienti e calci nel sedere. Questi ultimi sarebbe ora che cominciassero a prenderli i suddetti registi.

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Luchino Visconti regista dei « Parenti terribili » *

Alla prova generale del dramma di Jean Cocteau I parenti terribili il regista, Luchino Visconti, discuteva con un attore pregandolo di cambiarsi le scarpe che gli parevano troppo grandi e troppo chiare. « Ma via che non si vedranno! », intervenne qualcuno. « C’è una scena in cui si vedono », rispose Visconti spostando un poco e assestando sulla spalliera di una seggiola una calza femminile, certo non per caso usata e spiegazzata. E in verità quelle scarpe si videro poi in una scena in cui l’ipersensibile e nervoso personaggio che le indossava espri­ meva, in fanciullesca e pazzoide agitazione, i suoi sentimenti rovesciandosi su di un letto e sbattendo in aria le gambe: si vedevano certo, ma naturalmente non si notavano, come non si notavano le calze femminili, spiegazzate e disposte con cosi attenta cura personalmente dal regista sulla spalliera. Ma forse che in un quadro si nota ogni pennellata? Da questa minuziosa e attentissima regia, di ascendenza cinematografica (Visconti è stato aiuto regista di 'Renoir e regi­ sta del bellissimo Ossessione), è risultato uno spettacolo in cui finalmente il fatto figurativo ha preso forte rilievo ed è venuto in primo piano, affidato non solo alla scenografia, all’ar­ redamento e al costume, ma anche e soprattutto alla recitazio­ ne, calcolatissima anch’essa, nel suo aspetto formale, oltre che verbale: calibrata cioè in ogni atteggiamento, in ogni gesto, * La Settimana, a. II, n. 6, 15 febbraio 1945.

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in ogni espressione, in ogni sguardo a comporre armonia di visione. Regia si potrebbe dire cinematografica, che non fa come quella teatrale (come è stato detto) miniature con pen­ nellesse da imbianchini e che ha ottenuto buonissimi risultati. Allo stesso modo è stata curata la parte verbale della recita­ zione cercando di vincere quel mormorare urlando che, con­ traddicendo il senso stesso della parola mormorare, è stato in­ dicato come il limite delle possibilità teatrali a rendere le sfu­ mature sottili del sentimento. Ed anche qui il risultato è stato ottimo: la parola degli attori ha perduto l’espressività siglata e convenzionale che è caratteristica della impostazione gene­ rica della voce, ha sostituito le cadenze costanti e trascinate, che simulano naturalezza, con inflessioni calzanti e vive, si è calibrata e ritmata sui significati e sulle intenzioni. Una reci­ tazione dunque e infinitamente più ricca e varia, e più vera, di quella abituale degli attori del Teatro di Roma che appari­ vano trasformati in una dignità artistica nuova. Molto ci sarebbe da dire dell’interpretazione di questo dramma che, più che un vero dramma, è un’elegante esercita­ zione letteraria piena di artificiale violenza e terribilità; que­ sta storia d’incesti, di disordine, di dolore e di morte è un’ope­ ra da prestigiatore raffinato, una manipolazione abilissima, tutta letteraria, con situazioni da tragedia greca in cui la macchina del fato è sostituita da un’anche troppo esperta cono­ scenza dei problemi freudiani. E il giuoco del mestiere abilis­ simo è nascosto in un’apparente indifferenza al mestiere, che fa parte del mestiere essa stessa e ne è la più pericolosa e perciò piu raffinata manifestazione. Intento solo di Cocteau la buona riuscita di uno squisito e modernissimo poema dramma­ tico. Psicologie false, personaggi assurdi, trame inverosimili: e poi — a bella posta — squilibrio di tempi, brusche svolte e variazioni di ritmi, un prim’atto interminabile, i colpi di scena mai a chiusa e sempre audacemente seguiti da dialoghi e sviluppi e smorzamenti. Cocteau finge di non fingere, simula la voce rotta dalla passione, la narrazione convulsa e disordi­ nata. Il modo realistico seguito da Visconti per inscenarlo non

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poteva che far stridere e crepitare tutta l’impalcatura del lavo­ ro e disperderne l’equivoca attrattiva. La piccola poesia del testo è svanita: come può un attore dire sul piano realistico « gli oggetti mi seguivano come gatti »? La resa poetica del favoloso disordine di quella casa simile a un carrozzone zin­ garesco doveva risultare più da espressioni di quel genere che non dall’arrovellato e persino un po’ cincischiato realismo ca­ ratteristico del Visconti. Che ha inteso dare un contenuto ed un senso morale alla storia, facendone quasi una denunzia della corruzione borghese e l’affermazione di una contrapposi­ zione di classe. Grave errore e addirittura grave colpa l’aver voluto accen­ tuare, anzi introdurre addirittura, questo senso sociale in un’opera destinata a schiantare come un recipiente fradicio al fermento del nuovo contenuto. Ma felix culpa se ci ha permes­ so di riconoscere, in questo intellettualismo infetto, la nota umana e dolorosa immessavi dal Visconti. Il cui sbaglio mag­ giore è di aver dato il suo talento a servizio di un’opera, squisita se volete, ma moralmente e artisticamente esecrabile.

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L’uccisione rituale del re del cinema *

Allo stesso modo che ogni altra opera d’arte» il film non può costruirsi in base a regole e precetti, ma solo come spon­ tanea e libera creatività, come fantasia che organizza un mon­ do ideale, costantemente mediata, nel suo espandersi, di rifles­ sione e di plurale autocoscienza che continuamente pongono gli autori come critici e rielaboratori della loro stessa opera. Lavoro collettivo sulla materia fantastica, al quale indiretta­ mente partecipa e quasi collabora anche il pubblico, perché verso il pubblico è costantemente volta l’attenzione vigile degli autori del film: a coglierne le simpatie, i desideri e le aspira­ zioni e a prevederne i movimenti psichici e i giudizi. Perciò sarebbe così desiderabile da parte del pubblico, una piu esigente pretesa, una richiesta di migliori opere. Invece, per sua stessa natura, l’immagine cinematografica non si rivol­ ge alla coscienza critica dei suoi spettatori, ma ne colpisce la sensibilità subcosciente col bombardamento di un vertiginoso succedersi di fotogrammi che provocano reazioni istintive e immediate su cui, nell’atto stesso della visione, è difficile, anzi impossibile, si volgano le menti discriminanti. Da qui l’immensa importanza sociale del film, la sua poten­ za ed anche la sua pericolosità. E da qui anche la speculazione affaristica, il film non più fatto artistico ma prodotto indu­ striale, opera di confezione. * La Settimana, a. II, n. 5, 8 febbraio 1945.

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Il pubblico dovrebbe perciò conoscere, almeno un poco, questi meccanismi industriali per cui un film gli viene a pia­ cere, e guardarsene: non solo e neanche tanto per distinguere i valori artistici effettivi dalle facili abilità ingannatrici, ma per difendersi dall’influenza, dal dominio, dall’avvelenamento psichico e dalla narcosi in cui lo piomba il film di confezione. Al quale, io ho sostenuto altra volta, i governi dovrebbero dar la stessa caccia che si dà in ogni paese civile agli stupefacenti: ma dal quale è soprattutto importante che la massa cosciente impari a guardarsi da se stessa. Il nucleo primo da cui partono gli industriali del film per conquistarsi il pubblico risiede in una prima, fondamentale distinzione dei protagonisti dei soggetti che si distinguono in due gruppi principali, a seconda cioè se la storia si concluda in un lieto fine o con la chiusa drammatica di un destino tragico. Gli eroi del primo gruppo sono gente del tutto antieroica, gente minuta di tutti i giorni, non bella né particolarmente attraente, dotata delle piu comuni debolezze e dei più comuni difetti, afflitta da difficoltà, assilli e tormenti, quotidiani anch’essi e soltanto più accaniti e tenaci. Poveri esseri di scarto, meschini eroi generosi e timidi ed un poco anche teneramente ridicoli che, per duemila metri di pellicola, per quasi tutta cioè la durata del film soffrono il soffribile, espiando chissà quali colpe e non loro, finché non giunge improvvisa e felice la conclusione assurda e riparatrice di un lungo bacio a fran­ cobollo che riscatta ogni passato dolore. Ormai tutto andrà finalmente per il meglio in un mondo non più aspro e crudele, ma fattosi, di colpo e d’incanto, il migliore dei mondi. Piana e facile la sostituzione che il pubblico opera incon­ sciamente, identificandosi col protagonista e sognando ad occhi aperti la favola bella e menzognera, la conquista finale degli ideali sognati. Mondo meraviglioso che distrae ma snerva, che distoglie dai più semplici motivi reali di ogni esistenza, che placa le preoccupazioni e gli affanni del lavoro, della disoccupazione, del dolore, che sopisce la pena dell’amore fatto ormai unica­ mente fonte di gioia perenne. Pigra e comoda fuga dalla 519

realtà in una compenetrazione facile, che svaluta la vita e risospinge nel sonno cullato da sogni riparatori e riequilibranti È la formula nota delle commedie in genere e in particolare della comico-sentimentale. Ben diverso invece il destino della donna fatale o dell’eroe. Qui siamo di fronte a leggendarie bellezze e virtù: qui riesce impossibile allo spettatore inserirsi negli intrighi delle trame romanzesche, nel torbido di quelle passioni sfrenate e di que­ gli istinti scatenati: impossibile identificarsi nelle ombre ma­ liose di quelle enormi personalità. Umile e mortificato lo spet­ tatore si trova ora dinanzi al protagonista come dinanzi ad un re, lontanissimo, altissimo, inattingibile. E la trama ha dunque tutto un corso e soprattutto una fine diversa. Neanche qui si suggerisce al pubblico di poten­ ziare, in fattiva emulazione, la propria grigia esistenza, a sco­ prire nuovi e più elevati sensi alla sua vita quotidiana, a farla più attiva e più creativa: anzi, caricando e colmando di tanti pregi fìsici e morali l’eroe, il superuomo, l’ammaliatrice ed il re, lo si offre al sordo e sotterraneo rancore di tutti i diversi, di tutti i diseredati, di tutti i sudditi che possono amare e addirit­ tura andare in delirio per il divo o per la diva a un patto solo: che le sue storie si concludano distruttivamente e tragi­ camente, che l’idolo s’imponga. Aspetti di vita comunque superiore, che negherebbero ogni valore a quella del pubblico, questi non chiede che non esistano, anzi è lieto di bearsene, purché le trame ci mostrino come operino fatalità tragiche e disperate. Chiede il pubblico insomma che l’eroe muoia. Per lo stesso motivo presso tutti i popoli primitivi nella realtà, e nelle leggende di tutti i popoli artisti, s’è sempre praticata Vuccisione rituale del re. Oggi non si sbranano più né si fanno a pezzi i semidei come Osiride o Set, ma si fa morire negli ultimi quadri del film Greta Garbo o Marlene. Per la commiserazione sincera e le lagrime dolci e felici del pubblico placato dal sacrificio incruento. Lagrime felici. E quale più consolante votarsi del pianto sull’ecatombe dei Ni­ belunghi? 520

La musica guarisce e redime *

Chi intenda l’arte non come svago, riposo e trastullo piace­ vole, ma come effettivo valore, cioè creatività, pensiero e moralità efficiente, non precettistica logica etica e formale, ma suggestione e affermazione di universalità, strumento più che documento di vita, invenimento e non applicazione di leggi espressive e tecniche, irripetibili fuori dalla serie industriale o artigianesca — chi cosi rettamente intende l’arte, si sente opporre con frequenza quella che da taluni è considerata, senza ragione, l’arte per eccellenza, la musica: arte pura, alla cui condizione, alla cui purezza cioè, tenderebbero, attingen­ dola nelle loro manifestazioni più alte, tutte le altre. E, accanto alla musica, secondo un’ingiustificata scala di valore delle diverse arti, l’architettura, astratta dalle sue pratiche finalità e quasi musica ghiacciata, la pittura e la scultura per i loro valori decorativi e disimpegnate dai compiti dell’i//«strazione, la poesia svincolata da istanze contenutistiche e assoluta forma, e magari anche il film che rinunzi alla narra­ zione per farsi, come si dice, film astratto. La lontana origine di questa errata concezione è ancora il vecchio e per certi riguardi fondamentale saggio dell’Hanslick, Del bello nella musica, così acuto nello scagionare quest’arte con argomentazioni stringate, dalla mimesi naturalistica e sen­ timentale e da ogni banale contenutismo; e cosi efficace nelle * La Settimana, a. II, n. 7, 22 febbraio 1945.

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lampanti e inquietanti esemplificazioni: il Corale di Lutero può convenire a qualsiasi culto, la musica degli Ugonotti può servire per i Ghibellini di Pisa, quella per il gioioso ritro­ vamento può esprimere anche la dolorosa scomparsa di Euri­ dice. « J’ai perdu mon Euridice, rien n’égale mon malheur... » oppure, a piacere, « J’ai trouvé mon Euridice, rien n’égale mon bonheur ». Eccellenti principi che molto hanno fruttato alla compren­ sione dei fatti musicali, liberandoli dalle facili interpretazioni programmatiche dei commentatori e degli autori stessi e da tutte le sovrastrutture e le incrostazioni letterarie, e che han­ no immensamente giovato a far intendere che in musica l’ele­ mento essenziale è la musica stessa e non altro, cosi come i valori pittorici sono gli elementi essenziali in pittura e, in una parola, quelli artistici dell’arte in genere. Ma anche origi­ ne positivistica (e cioè onesta e seria se pure limitata) del­ l’inconcludente formalismo e dell’infatuazione tecnicistica in cui si stempera e naufraga oggi, e in Italia più che altrove, ogni slancio artisticamente creativo. Orecchio e occhio, pura udibi­ lità e pura visibilità, e dunque estetica da conoscitori, da gente cioè che più che altro abbiano esercitato e affinato organi fisiologici. Ciò che l’artista si propose di esprimere, la lettera della sua opera, non è ciò che l’opera stessa, realizzata effettiva­ mente, esprime nella sua insostituibile forma. Ed astrarre dalla volontà programmatica dell’autore non significa, né può mai si­ gnificare, astrarre dal reale compito espressivo e significativo dell’arte. Che, se non è compito dell’arte quello di appagare fatui edonismi non è nemmeno quello di effondere l’indi­ viduale sentimento dell’autore. Compito dell’arte è quello di rifare la gente e il mondo: e, più che espressione della propria e contemporanea, l’arte è anticipazione e vaticinio delle ven­ ture civiltà: moralità assoluta dunque, in quanto proiezione verso il futuro; perché il futuro è, ovviamente, il campo di ogni direttiva morale. Appare dunque altamente persuasivo quanto afferma Bru­ no Walter ed ossia che la musica non è mai, come la predica

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di Sant’Antonio ai pesci, dopo la quale gli strani ascoltatori restavano gli stessi pesci di prima: ma è « messaggio, interpre­ te e criterio di valori etici ». Messaggio è la musica in quanto, per la sua sostanziale natura, risolve e compone la dissonanza nella consonanza, interprete in quanto espressione, non solo del sentimento individuale e particolare dell’artista, ma di tutti i suoi sentimenti che stanno in essa come tutti i colori stanno nella luce, criterio per l’attitudine e la possibilità di farsi partecipe e giudice dei sentimenti stessi. Immediata e diretta può essere l’azione della musica ed evidenti i suoi frutti: come nel caso della redenzione morale di un gruppo di carcerati a San Francisco per effetto della pratica del canto corale. Partecipi ed ascoltatori, attratti nel cerchio magico della musica, da antisociali o asociali furono cosi portati al senso della collettività. Base prima di ogni convi­ venza e di ogni morale.

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Risanare la cinematografia *

È finito il tempo in cui il cinema attraeva più per la sua possibilità che per le sue realizzazioni. Nell’arte contemporanea non esiste probabilmente nessuna opera di pittura, di poesia, di teatro, che sia artisticamente pura ed elevata come 11 pelle­ grino, La febbre dell'oro. Quest’arte del film non è monopolio di una classe come negli ultimi tempi hanno finito col diventare le altre arti. An­ che nelle sue forme più nuove ed audaci il film è immediata­ mente compreso ed apprezzato da tutti: creato collettivamente per la collaborazione di artisti, di tecnici, di operai il film è de­ stinato alla collettività. Questa è la sua forza e il suo fascino. È per questo suo carattere di grande arte popolare che Lenin ha scritto: « Il film è per noi la più importante delle arti ». Tale esso è per ogni comunista e per ogni persona intelligente. Per i suoi mezzi il film è un’arte nuova; e, per la sua po­ tenza e diffusione, è la più importante delle arti; ma, in quanto arte non si differenzia dalle altre, perché l’arte è una nelle sue varie manifestazioni. Hanno torto tutti coloro che sostengono la necessità di una estetica autonoma del film. Dire arte nuova, in questo senso (lo ha già notato da tempo il Muratov), vor­ rebbe dire non-arte. Dunque il cinema è un’arte. Come tale c’è da augurarsi che esso e la sua regolamentazione passino, dal defunto Minculpop, * L’Unità, 4 agosto 1945.

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al ministero della pubblica istruzione e non a quello dell’in­ dustria. In questo senso hanno fatto voto le organizzazioni sin­ dacali dei lavoratori dello spettacolo. Ed hanno fatto benissimo. La questione sarà decisa in un prossimo Consiglio dei ministri. Che la pittura e la poesia siano arti non vuol dire che non siano esistiti ed esistano degli industriali pseudo-pittori e pseu­ do-poeti. Tali sono stati gli espositori del premio Cremona e i Soffici, Papini, Pastonchi, ecc. che pennelleggiavano e verseggia­ vano osanna al fascismo. Industriali in questo senso sono molti registi e, in particolare, alcuni provenienti dalla letteratura. C’è stato un letterato di talento, che ora fa esclusivamente il regista che ha inventato il morbus philmicus e, in una conferenza alla Associazione culturale del cinema, ha dichiarato di fare dei film solo per guadagnare. Dichiarazioni simili hanno fatto molti altri. Costoro confondono l’amore colla prostituzione. E, nella repubblica cinematografica, vanno privati dei diritti civili. Si deve loro impedire di avvelenare il pubblico coi film di confezione. Perché uno Stato democratico non può disinteressarsi della produzione cinematografica. Il film non è soltanto un’arte. Può essere un grosso affare. Negli ultimi tempi il governo fa­ scista spendeva circa sessanta milioni all’anno per la cinemato­ grafia, ma ne ricavava un utile netto di duecento milioni. A Roma, nel 1943, il cinema ha dato un milione di giornate lavo­ rative. Basterebbero queste cifre a dimostrare la necessità di un effettivo interessamento ed intervento statale nell’organiz­ zazione cinematografica. Ma, cosa più importante, il film, oltre ad essere un’arte, ed un’arte legata a così grossi interessi di denaro e di lavoro, è lo strumento che foggia il gusto e le tendenze morali e sociali dei popoli. L’immagine cinematografica agisce sul subcosciente del­ lo spettatore e parla prima alla sua emotività che alla sua co­ scienza critica. Un film abile fa aderire lo spettatore anche a te­ si alle quali, su di un piano di riflessione, egli si dichiarerebbe ostile. L’immagine cinematografica bombarda il subcosciente delle masse e le popola di germi che possono essere sani e 525

fruttiferi, ma possono anche essere (come spesso sono) dele­ teri e mortali come bacilli. È quindi assurdo parlare di soppressione della censura. Invece pare che gli industriali produttori di film si siano dichiarati contrari alla censura preventiva: il governo dovrebbe solo mantenere il rimborso delle tasse erariali, secondo la legge fascista. Per amore dell’arte e della libertà? Stentiamo a crederlo. Se avessero interesse a produrre film d’impegno serio reclame­ rebbero la censura preventiva, che garantirebbe i loro investimenti. Prima di spendere i loro soldi per fare un film vorreb­ bero essere ben certi di non vederselo sequestrato una volta finito. Ma questo pericolo essi credono di poterlo evitare evi­ tando film d’impegno e producendo solo storielle innocenti ed insequestrabili: proprio quei film di confezione che sono lo stupefacente delle classi popolari. L’oppio a buon mercato. Quei film ai quali io ho sostenuto più volte bisogna dare la stessa caccia che si dà, in ogni paese civile, agli stupefacenti. Il rimborso della tassa erariale funziona cosi: la tassa era­ riale la paga lo spettatore sul biglietto d’ingresso e lo Stato la rimborsa al produttore del film, che non la paga. È un pre­ mio. Ma un premio che va alla produzione proporzionatamente alla sua diffusione: un premio che tocca ai film più bassamente commerciali, e in misura tanto più alta quanto più bassa è la qualità. A industriali di questo tipo si deve vietare la produzione. Béla Balàzs ha scritto: « Il film, l’arte di vedere, non può rima­ nere nelle mani di coloro che hanno molto da nascondere ». È dunque necessario un risanamento del mondo cinemato­ grafico italiano. Una radicale epurazione.

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L’Azione cattolica lavora per Hollywood *

Farà certamente piacere a tutti i sinceri amatori della verità e dell’arte l’epilogo della vertenza sorta tra la Federazione ita­ liana lavoratori dello spettacolo e il sottosegretario agli interni, on. Andreotti, a proposito della censura cinematografica e del film di Germi Gioventù perduta, vertenza che si è infatti conclusa raggiungendo l’accordo dei tre punti seguenti:

1. Film Gioventù perduta. Il film sarà riesaminato dalla commissione di revisione alla presenza del regista Germi e di qualche altro regista incaricato dal sindacato. Si è avuta assi­ curazione che, salvo qualche ritocco, da apportarsi, se neces­ sario, di comune accordo, il film avrà il nulla osta per la programmazione. 2. In attesa che venga modificata la legge sul cinema l’on. Andreotti ha preso impegno che, per tutti quei film che pre­ sentassero difficoltà di interpretazione della legge, sarà chiama­ ta a collaborate una commissione di registi nominati di intesa col sindacato.

3. Per la modifica della legge il sottosegretario ha invita­ to i registi a presentare, attraverso il sindacato, proposte con­ crete da sottoporsi alle competenti autorità. * L'Unità, 18 gennaio 1948.

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Benissimo. Ma resta il fatto che la lotta è aperta e che il caso di Gioventù perduta non è che un episodio di questa seria lotta. Il film di Germi fu fermato perché affermava una verità indiscutibile e caratteristica: affermava che la crimina­ lità tocca, in questo dopoguerra, alcuni ceti borghesi. Una ve­ rità che si vuol nascondere perché si vuol nascondere che la civiltà capitalistica è giunta alla fase suppurativa. Ma non la nascondono le cronache dei giornali. Non è forse un nipote di un ministro democristiano quel sadico omicida di Maria Gaffi che, per buone amicizie influenti, per aver, come dice, santi in paradiso, potè, arrestato, godere di una meritata licenza per santificare in famiglia il santo natale? E in quali ambienti si sono svolte le storie edificanti di sifilide, suicidio, delitto della signora Cappa e del maestro Graziosi? Il film Gioventù perduta passerà con qualche lieve ritocco. La legge sarà rifor­ mata. Ma non bisogna credere che la battaglia sia vinta. La battaglia è contro la verità oltre che contro il cinema. Abbiamo ricordato di recente (sulla rivista Bianco e nero) l’antica osti­ lità cattolica al cinematografo per la immoralità degli spettacoli al buio (una compagnia alla quale non fu estraneo un uomo, per certi versi eminente come Silvio d’Amico), l’ostilità del mondo cattolico (per bocca di uno scrittore arguto come Chesterton) al montaggio, cioè al film; e si rammenterà l’affer­ mazione di un funzionario per cui « oggi un film come Sciuscià non potrebbe uscire ». Fatti veri e sintomi allarmanti. Si dirà che la frase di un imbecille non conta. Forse si tratterà dello stesso funzionario che, durante la guerra fascista a chi stupiva che dopo tante smargiassate egli restasse a Roma rispondeva che egli restava a Roma a guardia della rivoluzione fascista (il che pareva una barzelletta ed era, ed è — evidentemente — tuttora vero). Si dirà: forse è lo stesso funzionario che dichiarò al regista Vergano che se sua figlia avesse visto il film II sole sorge ancora prima dei tagli illuminati della censura, egli stesso, il padre, avrebbe ammazzato il regista. E non è vero: perché son due diversi personaggi, entrambi altrettanto influenti. E si dirà

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ancora: parole, frasi inconsulte di qualche funzionario irritato dal carovita. Niente affatto. È una manovra organizzata e assai vasta. Oggi infatti scen­ dono in campo, con gli squilli sfiatati di un proclama sgram­ maticato i « cinquecentomila iscritti alla gioventù dell’Azione cattolica » e ci dichiarano che « per il fatto di rappresentare la vita nei suoi aspetti più realistici il cinema espone già una concezione più immorale che morale della vita stessa ». Ed annunziano che « una grande manifestazione nazionale avrà luogo nel prossimo febbraio e sarà l’inizio della Grande Campagna ». Contro chi e contro che cosa? Contro i migliori film ita­ liani, contro i film della scuola neorealistica, come Paisà, di cui un padre domenicano belga O. P., che ha conosciuto quel film al festival di Bruxelles, ha scritto che introduce per la prima volta nel cinema lo spirito cristiano. Ora non si può pretendere che col governo nero — lutto d’Italia — i fun­ zionari della censura siano quello che non possono essere; non si può prendere troppo sul serio le stupide rodomontate dei boy-scouts della Azione cattolica... Ma si può e si deve avvertire che una manovra americana è sostenuta da meschini e sedicenti italiani contro il migliore film italiano. Tanto è vero che i furori dei censori e dei giovani boy-scouts non si rivol­ gono mai contro la immoralità e le stupidaggini d’oltralpe. Aspettiamo dunque vigilanti la Grande Campagna. Ma affret­ tiamo ad avvertire la gioventù ingannata e tradita che c’è chi si serve del loro ingenuo fervore per nascosti é non puliti interessi. Cerchino di capire e di vedere. E rimeditino le sagge parole di Béla Balàzs: « Il cinema che è l’arte di vedere, non può essere di coloro che molto hanno da nascondere ».

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Contenuto e forma *

La creazione artistica — che si distingue, in quanto tale, dalle altre forme dell’attività intellettuale (ideologia e sovra­ struttura che dir si voglia) come prodotto dell’attività fanta­ stica — risulta dunque dalla sintesi di due momenti, rispetti­ vamente presieduti dalla fantasia strictu sensu e dall’immagi­ nazione. Questi due momenti corrispondono al doppio aspetto e alla doppia funzione della creazione artistica: il primo con­ siste nell’esprimere la struttura (cioè, che è lo stesso dire, nel conoscere la realtà oggettiva), il secondo consiste nel reagire su di essa (cioè, che è lo stesso dire, nel contribuire a trasfor­ marla). [...] L’attività meramente fantastica è quella che consente il con­ tatto con la realtà, sia essa anche solo immaginata: e, se non è integrata dall’attività immaginativa, si limita a cogliere qual­ che particolare della realtà stessa, e produce allora quello che, nella storia dell’arte, si è chiamato il naturalismo; o, se incon­ trollatamente porta da una immagine a un’altra, senza finalità per il solo piacere del suo libero esplicarsi, produce quelle eva­ sioni che si chiamano escapism, cioè una delle innumerevoli sot­ tospecie del formalismo. L’attività immaginativa di contro è quella che dà un ordine a questo materiale, in base ad una guida ideologica, conferisce ai dati di realtà raccolti o inventati * Dalle dispense del corso di estetica cinematografica, tenuto alla scuola di Lodz nel 1948-49.

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aspetto e sostanza di verità. La fantasia ci dà il contenuto, la immaginazione la forma. Se si esamina il processo della sua normale attuazione si constata che Kartista non produce mai la sua opera, per minu­ scola che essa sia. di getto, folgorato da un istante di ispira­ zione, toccato dalla grazia mistica, o lirica che sia. La sua crea­ zione si svolge invece come il duplice processo sopradescritto di raccolta (o invenzione) di un certo materiale, e di elabora­ zione di quello stesso materiale. Al momento di slancio crea­ tivo segue un momento in cui l’artista di pone come critico della sua stessa opera per rielaborarla, per formarla: quel se­ condo momento è caratteristico di Dante come « il freno del­ l’arte »: è quello che farà dire a Goethe che « l’arte è una lunga pazienza ». Bisogna insistere sul fatto che i due momenti non sono separabili se non schematicamente e per comodità, e, comun­ que, essi non si esplicano di necessità come successivi, né una sola volta nella creazione di una singola opera. La loro unione attua quella sintesi di contenuto e di forma che è canone fisso di quasi tutte le teorie estetiche: per affermare questa sintesi noi non abbiamo bisogno di concepire la forma come un mo­ mento della vita dello Spirito (Croce), né, d’altro canto, ab­ biamo bisogno di accettare l’idea di forma come mero tecni­ cismo, come un mezzo esterno che si aggiunge per dar bellezza a un contenuto intellettualmente e moralmente valido. Per noi la forma non è una categoria dello Spirito come per Croce e per i crociani, ma non è nemmeno il formaggio che si mette sulla pastasciutta, o i « soavi licor » con cui Torquato Tasso aspergesse gli orli del vaso, che contiene i succhi amari di una medicina didascalica: la forma è il prodotto della imma­ ginazione. Per noi arte è sintesi di contenuto e di forma, è sintesi di fantasia e immaginazione, è conoscenza della realtà e tra­ sformazione della realtà, è espressione della struttura e rea­ zione sulla struttura stessa; insomma è realismo socialista. La non arte per noi è l’attività della fantasia strictu 531

sensu, e di essa sola senza la coordinazione della immagina­ zione inventrice della forma. La non arte dunque per noi è il rozzo contenutismo da un canto e mero tecnicismo dal­ l'altro: è, in una parola, la mancanza di forma: cioè il for­ malismo. Questo, che sembra a noi un giro di parole, ci obbliga a fare un po’ di semantica: senza, beninteso, cadere nelle ri­ dicole deduzioni di certi critici americani, tipo Bernard S. Heyl (Nuovi orientamenti di estetica e di critica d’arte) o tipo Stuart Chase (The tyranny of words). Chase sostiene che, siccome i termini astratti e generali (come arte, bellez­ za, immagine, forma ecc.) « non hanno nessun significato esatto e fisso, e sono perciò traditori », tanto varrebbe so­ stituire a ciascuno di essi un’espressione qualsiasi purché nuova e stabile, per esempio, egli dice, l’espressione blabblab. Per rispondere a questi nuovi barbari basta riesumare un passo, veramente blab-blab, di Benedetto Croce, in cui egli distingue il suo concetto filosofico di liricità dalla liri­ cità che i futuristi consideravano base della loro arte, in cui egli si discolpa « di possedere la parola spirito in comune con gli spiritisti e persino con i fabbricanti di acquavite » (B. Croce, La critica e la storia delle arti figurative, Bari, 1934). Per noi marxisti, naturalmente, anche le parole vanno intese nella loro storia: la storia dei diversi significati che si sono attribuiti loro e che sono cambiati nel tempo. Su questo problema si veda ancora quello che, sempre fulminea­ mente acuto, ha scritto Antonio Gramsci. Se io dico per­ bacco nessuno mi considererà pagano o vorrà immaginare che io creda alle divinità greco-romane: se io dico « disgra­ zia » nessuno vorrà imputarmi di credere che un certo ma­ lanno mi è capitato addosso perché io ho perduto la grazia divina, e se dico « disastro » nessuno vorrà pensare che io credo all’astarologia e all’influenza degli astri che determina il destino degli uomini; e se qui in Polonia per dire che io sono italiano mi chiamano Wloch non per questo io sono da voi considerato quello che non sono affatto e che origi532

nanamente la parola significa un ghibellino o un « papista ». Anche la filologia e la semantica vanno dunque conside­ rate marxisticamente, cioè dando alle parole il significato che esse hanno goduto nei vari momenti della storia, quello che hanno nell’uso che se ne fa o nel nuovo uso che se ne vuol promuovere: e dando alle parole usate dagli altri il significato che esse hanno nel pensiero di questi altri. Cosi la parola bellezza ha quei significati diversi la cui storia si è vista di sopra, trattando della bellezza d’arte e di quella di natura. Cosi dicendo che il formalismo è mancanza di forma, dobbiamo intendere la parola forma nel nuovo signi­ ficato che le abbiamo attribuito. [...] Bisognerà dunque vedere piu da vicino, al lume del pen­ siero estetico marxista, fin qui esposto e coordinato, che cosa siano contenuto e forma e quali conseguenze derivino da questi nuovi concetti e significati. Il fatto che contenuto e forma siano uniti in una sintesi indissolubile e nascano dall’attività di fantasia e di imma­ ginazione non vuol dire che, specie in certe opere del pas­ sato, noi non riusciamo, coll’analisi attenta, a distinguerli. Nell’opera d’arte si presentano, all’osservazione attenta, come due contenuti. Di cui uno è esterno e immediatamente percepibile, l’altro è latente e profondo. Una differenza spesso capitale, che era già stata notata da Vitruvio (nel suo trattato sull’architettura) e che distin­ gueva nelle opere d’arte, un quod significai da un quod significatur. Cioè quello che l’artista dice e quello che l’opera di­ ce. Un fenomeno tanto più caratteristico, quanto più « i con * tenuti sono contrastanti tra loro ». Il contenuto profondo può essere l’inconscia afferma­ zione (contro un tema ricevuto in commissione, o anche volontariamente assunto) della personalità morale dell’arti­ sta : oppure può essere una maniera di affermare il proprio mondo e la propria concezione del mondo, celandola deli­ beratamente sotto un contenuto esterno conformista e or­ todosso. Questi fatti complicati trovano una spiegazione scienti­ 533

fica, anche al di fuori dell’arte, e al di là della pratica distin­ zione di fantasia e immaginazione, nella generalità dei rap­ porti struttura-società-classe, e sovrastruttura. « Non ci si deve però rappresentare le cose in modo ri­ stretto come se la piccola borghesia intendesse [aggiungi men­ talmente: sostenendo posizioni riformiste] difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, al con­ trario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro alle quali soltanto la società mo­ derna può esser salvata e la lotta di classe evitata. « Tanto meno si deve credere che i rappresentanti demo­ cratici siano tutti degli schopkeepers [bottegai] o che nutra­ no per questi un’eccessiva tenerezza. [...] Ciò che fa di essi i rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro in­ telligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e alle stesse soluzioni a cui l’interesse materiale e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in genere, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi rappresentano » (Karl Marx, Il 18 brumaio, p. 49)1. Marx ha scritto: « Al di sopra delle differenti norme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza, si eleva tutta una sovrastruttura di impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita. La clas­ se intiera crea questa sovrastruttura e le dà una forma sulla base delle sue proprie condizioni materiali e delle corrispon­ denti relazioni sociali. L’individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l’educazione, può im­ maginarsi che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza della sua attività. [...] E come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé e ciò che dice e fa in realtà, tanto più nelle lotte della storia si deve far distinzione fra le frasi e le pretese dei 1 Roma, 1974, pp. 99-100 (n.d.r.Y

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partiti e il loro organismo reale e i loro reali interessi, tra ciò che essi si immaginano di essere e ciò che in realtà sono » (Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, p. 45) A maggior ragione nei fatti artistici, dove questi feno­ meni si presentano con piu frequenza ed evidenza, noi dob­ biamo distinguere « ciò che gli artisti immaginano di essere e ciò che essi sono in realtà ». Dobbiamo distinguere un con­ tenuto esterno e un contenuto profondo. Così come ha fatto Engels, nel suo giudizio, acutissimo, sull’opera di Balzac: « Che Balzac sia stato costretto ad andare contro le sue stesse simpatie di classe e contro i suoi pregiudizi politici, che egli abbia visto l’ineluttabilità della fine dei suoi prediletti aristo­ cratici e che abbia descritti come questo indegno di miglior sorte e il fatto inoltre che egli abbia visto i veri uomini del futuro là, dove era unicamente possibile vederli, tutto ciò io lo considero una delle piu grandi vittorie del realismo, una delle caratteristiche piu grandi del vecchio Balzac ». Quest’osservazione è stata fatta da Engels probabilmente indipendentemente da una simile valutazione della Comédie bum aine fatta qualche anno prima da Zola: « Balzac a créé un monde, non pas sans le vouloir, mais sans savoir au juste quelle serait Faction formidable de ce monde. Un detail amusant et qui prouve comme il était inconscient parfois, ce sont ses prétensions de catholique et de legitimiste. Il soutenait Dieu et le roi, sinon en croyant, du moins en politique qui croit a la necessitò d’une police humaine de direction et de repression. Or il a écrit l’oeuvre la plus révolutionnaire, une oeuvre où, sur les ruines d’une société pourrie, le democratic grandit et s’affirme » (E. Zola, Les romanciers naturalistes). Anche Marx, grandissimo « divoratore » di ogni lettera­ tura (cfr. Franz Mehring, K. Marx), era un ammiratore di Balzac. Nello stesso senso: secondo la testimonianza di Lafargue egli vedeva in lui « non solo lo storico della vita sociale nel suo tempo, ma un creatore profetico dei tipi e dei carat­ teri che esistevano solo in embrione sotto il regno di Luigi

1 Ivi, pp. 93-94 (n.d.r.).

Filippo e che ebbero un pieno sviluppo solamente sotto Napo­ leone III, dopo la morte di Balzac » (Lafargue e Liebknecht, K. Marx). In un modo simile può giudicarsi una gran parte del­ l’opera di Alessandro Manzoni, quel cattolicissimo 5 Maggio, che piacque tanto a Goethe, che lo tradusse immediatamente, e quel cattolicissimo romanzo 1 promessi sposi, che piacque tanto immediatamente ad Edgar Poe. Opere che i cattolici più intelligenti sentono profondamente rivoluzionarie e che, per l’esterno contenuto rigidamente ortodosso, non possono apertamente confessare, e son costretti a parziali, ma innu­ merevoli riserve sul presunto, e in parte storicamente, ma altrettanto esternamente, giustificato, giansenismo dell’autore. E in modo simile va giudicata tutta l’opera di Goethe il cui doppio aspetto di cortigiano di Weimar piccola corte provinciale, più o meno operettistica (che tanto ridicola ap­ pare nei Colloqui di Eckermann), o di grande poeta è stato tanto finemente messo in rilievo da Engels (nel suo Socialismo tedesco in versi e prosa). •« Goethe si comporta, nei confronti della società tedesca dei suoi tempi, in due diversi modi. Da prima egli le è av­ verso; egli cerca in diversi modi di fuggirla, come nella Efigenia e soprattutto durante il viaggio in Italia, egli le si ribella contro, come Goetz, come Prometeo, come Faust, egli esercita come Mefistofele la sua più aspra ironia contro di essa » ecc. (ivi) ’. Ma il ribelle e il filisteo non sono sempre divisi nel tempo. Talvolta noi li vediamo convivere anche in Goethe sebbene Goethe fosse una personalità talmente egocentrica da non celarsi in genere, da mostrarsi piuttosto indifferente e altis­ simo quale era. Per questo in lui si possono distinguere opere che esprimono un certo aspetto del suo modo di vedere e di sentire e l’aspetto opposto. Così, da questo punto di vista, va guardata la doppia 1 Cfr. K. Marx-F. Engels, Opere, VI, Roma, 1973, p. 274. Barbaro ha letto quest’opera in Aufbau, n. 2, 1949 (n.d.r.).

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posizione di Goya, come di un demoniaco sovversivo o come di un pittore di corte, pieno di acciacchi e di filisteismo, e cosi anche Dostoevskij. « Il reazionario Dostoevskij, naziona­ lista, panslavista, clericale e chi più ne ha più ne metta, il Dostoevskij piccolo-borghese, descritto dalla figlia, infrancio­ sante il nome di Liuba in Aimée, e che non trovava niente di meglio da lodare in suo padre che l’uso quotidiano dello spazzolino da denti, né altro mezzo per esaltarlo che quello di gettare ombra sulla grandezza di Tolstoj, Dostoevskij che solaltro si proponeva se non di esprimere nella sua opera questi suoi modi di pensare e di essere? Ma a dispetto di tutti, per fortuna dell’umanità, Dostoevskij è un grandissimo artista rivoluzionario, e come tale lo hanno sentito e capito intere generazioni » {Ricche miniere, p. 17). Distingueremo dunque nell’opera d’arte un contenuto ester­ no da un contenuto profondo: e vedremo allora farsi chia­ rezza in noi anche sul dibattuto problema della forma.

Il contenuto esterno, il soggetto e la sua idea non è che un pretesto e non tocca affatto il valore artistico delle opere. Quasi tutta la storia della pittura per molti secoli ha tratto i suoi soggetti, di commissione ecclesiastica, da episodi biblici, e quelli di commissione laica, dalla mitologia. Ma « il peggior modo per classificare un quadro è dire che esso rappresenta una Annunciazione, un Riposo nella Fuga in Egitto, un Giu­ seppe Ebreo con la moglie di Putifarre. E, infatti, una ele­ gante e sofisticata Madonna ferrarese, poniamo di Cosmè Tura, ha ben poco di comune, figurativamente e artisticamente, con una solida e vitale madre popolana investita dalla luce, del Caravaggio, La Madonna di Loreto o La Vergine degli staffieri. Una severa e decisa Madonna di Giotto nulla di simile a una ritrosa e schifiltosa Madonna Annunciata di Simone Martini, una aerea e trascendente scena sacra dell’Angelico non ha nessuna affinità, anche sullo stesso soggetto, con una potente e violenta figurazione di Andrea del Castagno o del Masaccio: e il solfureo e pirotecnico Battesimo di Cristo 537

del Greco è addirittura agli antipodi del solenne e ieratico Battesimo di Piero » (Barbaro, Soggetto e sceneggiatura, p. 42). E atrettanto può dirsi per le Leda col cigno, i Giudizi di Paride, le Danae, e cosi via. Eppure con questi quadri tema e tesi sono eguali: ciò che li supera e differenzia le opere singole tra loro è qualche cosa di intimo e di esclusivo, è il contenuto profondo cioè ge­ nerale del mondo che l’artista propone allo spettatore. Pro­ pone talvolta coscientemente, cioè in aperto contrasto col soggetto e la tesi ricevuti in commissione (si pensi come una Morte della Vergine diventi in Caravaggio un Compianto per l’annegata di Trastevere o come un suo Bacchus si trasformi in un pensieroso e pateticamente tragico autoritratto), o pro­ pone incoscientemente come espressione di un proprio parti­ colare intimo atteggiamento di fronte al mondo. Dalla constatazione che il soggetto e il tema, costituenti il contenuto esterno delle opere, non sono effettivamente che pretesti per moltissimi artisti, e non toccano quasi affatto il valore artistico delle loro creazioni, molti estetici e molti critici sono giunti ad affermare che l’arte è forma e solo forma. Opponendosi ad un contenutismo grossolano e incomprensivo essi hanno avuto facilmente giuoco di esso. Basterà ricordare uno dei più celebrati campioni dell’este­ tica formalistica, l’illustre critico d’arte Bernard Berenson. Egli si è, per la sua vasta conoscenza di opere pittoriche, avviato alla giusta concezione e distinzione di un contenuto esterno da un contenuto profondo quando ha distinto, nei quadri, illustrazione da decorazione. Il valore dell’opera non sta nell’illustrazione, cioè nel suo soggetto oppure nella tesi, ma nella decorazione. E che cosa è per Berenson la deco­ razione? La decorazione è, in sostanza, la forma: e giacché per Berenson i grandi artisti sono stati soprattutto quelli della rinascenza animati per il mito della prospettiva, decorazione, cioè valore artistico, significa per Berenson l’esistenza nel­ l’opera di valori plastici, volumetrici, quelli che egli chiama: valori tattili. L’incapacità di concepire e riconoscere l’esistenza di un

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contenuto profondo fa perdere a Berenson i frutti della sua prima giusta intuizione. Sicché un quadro per lui è bello, in definitiva, non quando parla della fantasia ed esalta nella fantasia i compiti dell’uomo, ma quando possiede valori tat­ tili cioè quando gli stimola i polpastrelli delle dita. A tanta miseria giungono i teorici del formalismo anche nei loro piu valorosi e illustri rappresentanti. Anche per il pontefice massimo dell’estetica idealista for­ malista, Benedetto Croce, l’arte è forma e soltanto forma. Ma Croce stesso, a distanza di qualche anno dalla prima formulazione della sua estetica, ha in parte corretto e con­ traddetto se stesso, affermando un carattere di totalità nel­ l’opera d’arte. Affermazione che, non troppo apertamente, anzi proprio dalla porta di servizio, fa rientrare nell’arte valori di contenuto. Per Benedetto Croce trattare questo ca­ rattere di totalità rimane una nebulosa, intravista ma non conosciuta; difficile a sostenersi perché in contraddizione con tutto il suo sistema filosofico ed estetico. Questi i più alti rappresentanti del formalismo teorico. Il quale formalismo, poi, nelle sue accezioni meno fortunate, riduce i valori dell’arte ad un vuoto tecnicismo, ad una specie di artigianato. La forma non sarebbe altro che il prodotto della conoscenza e l’applicazione di certi artifìci, di certe re­ gole, di certi ritrovati e di certi precetti di certi trucchi. Tale concezione normativa dell’arte, come è chiaro, ne misconosce la creatività ed ogni effettivo valore. In questa concezione dell’arte, essa si identifica con la forma intesa come tecnica. E che cos’è la forma? un com­ plesso di regole che servono appunto a dar forma (cioè bel­ lezza) a un dato contenuto. Le regole che, per la letteratura, sono state codificate dai manuali di rettorica, o di arte del dire, o di stilistica che dir si voglia, e, ancora qualche anno fa, si usavano in tutte le scuole che hanno conservato la costru­ zione data loro dai gesuiti. È interessante notare che per una curiosa superstizione di parola (cioè per il sopravvivere della stessa parola con un significato nuovo) la parola « rettorica » ha preso un significato deteriore e dispregiativo che all’ori-

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gine non aveva affatto. Oggi rettorica vuol dire vuota e tronfia forma priva di contenuto. Del genere di queste vecchie rettoriche sono i manuali che ancora si adottano nelle varie scuole di pittura, di musica di architettura: e li vediamo, con piu forza, apparire nelle scuole cinematografiche, dove il complesso degli strumenti tec­ nici induce a dare molta importanza alla tecnica, con tutte le confusioni di termini che questa espressione comporta. Questo tipo di formalismo è professato, in tutti i tempi, dalle accademie. Un esempio tipico può essere nella pittura, il manierismo o la scuola bolognese del Carracci. Il torto di quest’accademismo (o questo formalismo, o questa estetica normativa) è quello di credere che possano estrarsi e codificarsi i mezzi espressivi di una data arte, e suggerire modi particolari del loro migliore impiego significa credere che possano avere validità assoluta certe maniere che sono caratteristiche di dati periodi, di dati artisti: maniere che hanno avuto validità in climi particolari e in opere e in artisti particolari e che non possono riprodursi. Allora una accademia pittorica insegnerà anzitutto il disegno, poi il modo di colorire il disegno, dando armonia ai colori e tono giusto all’insieme, insegnerà precetti per una buona e ben equilibrata composizione, regole per dar volume ai corpi, proporrà lo studio dell’anatomia degli uomini e degli animali. Ne risulta che Vasari, per esempio, o Annibaie Carracci, hanno il disegno di Michelangelo, i colori di Raffaello, conoscono la prospet­ tiva, che Giotto non conosceva, sanno dare peso e volume ai corpi come certo non poteva Simone Martini: e tuttavia sono in assoluto, e non in riferimento al tempo in cui son vissuti, delle nullità di fronte a Giotto e Simone Martini, a Raffaello e Michelangelo, di cui dovrebbero essere tanto maggiori se tanto maggiori sono i loro mezzi espressivi. Il fatto è che quei colori, quell’anatomia, nella prospettiva, corrispon­ devano a particolari necessità espressive, corrispondevano a particolari bisogni della storia dell’umanità, a reali e concrete esigenze di dire qualche cosa e le dicevano proprio attraverso quella e non altra forma (dicevano, attraverso quella forma,

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il contenuto profondo, non quello esterno che era lo stesso in Giotto e in Simone Martini o nei Vasari o nel Carracci). [...] I trattati, le arti del dire e le stilistiche hanno catalogato i tropi della rettorica, i mezzi espressivi della poesia. Hanno statuito, per esempio, le regole della drammaturgia, delle unità artistiche ai nodi drammatici, ai punti culminanti, agli scio­ glimenti. Regole assurde: anche la necessità di congruenza, e di conseguenza e, poniamo, la necessità che lo scioglimento non possa esser determinato da un antiartistico deus ex machina non ha alcuna legittimità. Tanto è vero che è il mezzo impie­ gato per risolvere i nodi drammatici, in opere altissime, nel teatro greco o in Omero.

Niente dunque regole per costruire le opere d’arte: niente estetica normativa. È interessante osservare che, su questo punto, non si è ancora raggiunto quell’accordo che sarebbe tanto desiderabile ed utile. Uno scrittore sovietico, il prof. B. Mejlach (che cito dalla trad, polacca di Melania Kierczynska cfr. Diskusia Filozoficzna o Zagadnenia Estetyki, Warszawa, Wspolpraca, 1949, p. 12) ha posto con molta giustezza e vivezza la necessità di una estetica marxista, cercando di caratterizzare i compiti, e le ha assegnato anche quello di definire storicamente le norme estetiche’, egli dice che l’estetica sovietica « non deve aver paura della normativa "perché” la normatività dell’estetica russa non si basa su concezioni astratte, metafisiche, specu­ lative, ma sull’esame critico della storia dell’estetica e sulla storia dell’arte in generale e sulla teoria più progressiva, il marxismo-leninismo, nonché sui compiti che pongono all’arte la realtà e il popolo russo ». Dove, se, come sembra, si tratta di una normatività ideologica, siamo tutti d’accordo (salvo l’uso estensivo dell’espressione estetica normativa}. Ma se si trattasse di normatività formale essa è, senza dubbio, da respingere: come ha detto con molta chiarezza il già citato F. Golovencenko (Nouvelle critique, loc. cit.,

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p. 57) respingendo le idee del compagno E. Kovalòik {Novij Mir, n. 9, 1948) difensore di una « cosiddetta estetica nor­ mativa ». Egli scriveva: « L’estetica marxista presenta esi­ genze precise quanto alle idee che costituiscono il contenuto dell’opera d’arte e alla relativa forma artistica. L’estetica so­ vietica deve popolarizzare i migliori esempi di creazione arti­ stica e farli servire alla formazione degli artisti. Ciò non significa tuttavia che l’estetica debba diventare un codice di norme fisse, che debba trasformarsi in estetica normativa. È caratteristica dell’idealismo distinguere le scienze teoriche, o scienze di ciò che è dalle scienze normative, o scienze di ciò che deve essere. Il marxismo rigetta questa distinzione. In luogo delle cosiddette scienze normative, esso ha creato la scienza vera, che, nella conoscenza della realtà vivente, delle sue leggi e della sua tendenza, attinge gli elementi capaci di dirigere l’azione. Il marxismo è incompatibile con qualsiasi scienza normativa: l'estetica normativa è e rimane, una estetica del formalismo. Essa è incompatibile col realismo socialista giacché essa non procede dai fenomeni della vita ma da aprio­ rismi eretti a norme estetiche ». È chiaro invece che la forma è irriproducibile e non può frantumarsi in norme e precetti. Perché la forma è il modo esclusivo e irrepetibile con cui ogni singola opera esprime il proprio contenuto profondo. Per dunque intendere il valore effettivo di un’opera d’arte se ne deve cogliere e intendere il contenuto profondo, prescindendo dal contenuto esteriore, dichiarato e semplicemente enunciato. Il che non vuol certo dire disinteressarsi dei valori etici e sociali, cioè dell’idei dell’opera: vuole anzi proprio dire coglierla appieno. Questo criterio critico, che deriva direttamente, come si è visto, dal concetto di sovrastruttura, è perfettamente antite­ tico alle posizioni formalistiche, come esso ci consente di denunciare le vuotezze del formalismo, ci consente anche di denunciare le grettezze incomprensive del contenutismo mec­ canico e grossolano. Ci consente cioè di intendere che cosa sia, e come possa cogliersi, il contenuto vero dell’arte e quindi di valutarlo. Perché il contenuto delle opere d’arte non è, 542

e suggerisce il modo di considerare il mondo da parte di Leopardi, poeta e filosofo del pessimismo. Ma se noi invertiamo l’ordine delle due parole e diciamo « questo colle ermo », ancora una volta conserviamo all’ende­ casillabo tutto intero il contenuto esterno, nonché valori me­ trici corretti, ma cambiamo totalmente il contenuto profondo. Infatti la parola ermo messa alla fine del verso acquista una particolare evidenza, è una parola messa in vetrina: in questa luce quello che appare è l’eccezionaiità della parola incon­ sueta, non il suo significato: la parola sembra scelta e impie­ gata non per quello che vuol dire ma per la sua rarità, per la sua preziosità. Al principio del verso noi abbiamo tolto all’aggettivo caro, dandogli la forma-posizione piu distratta e usuale, ogni rilievo. Nella prima coppia di parole l’agget­ tivo dopo il sostantivo dava accento e sincerità all’espres­ sione del sentimento: nella seconda coppia l’aggettivo dopo il sostantivo prende un particolare rilievo e l’inconsuetudine della posizione illumina l’inconsuetudine della parola: la pa­ rola perde la sua notazione e il suo significato particolare per prenderne un altro. Sembra che la parola sia messa là solo per sfoggiare la sua preziosità. Due minime variazioni formali, come l’inversione della posizione di due parole in un verso celebre: sempre caro mi fu quest’ermo colle,

lo traducono in altro: caro sempre mi fu questo colle ermo,

in cui il contenuto esterno è identico, ma il cui contenuto profondo è differentissimo. Nel primo verso si esprime una visione di profonda affettuosa (caro) rinuncia (ermo). Nel secondo il suono e il ritmo sono diversissimi; lo accoppia con grande naturalezza a questo verso di D’Annunzio: gelida virgo preraffaelita.

Un verso in cui la forma totalmente nuova e diversa copre un contenuto profondo altrettanto nuovo e diverso: 543

il pensiero di Leopardi, prenderemo, attraverso la forma, con­ tatto e conoscenza di quel pensiero. Non è un incidente o un caso che il poeta metta l’agget­ tivo caro dopo l’avverbio sempre. Infatti se noi proviamo ad introdurre nel verso una prima variazione formale, quella ap­ parentemente piu innocua e indifferente, se cioè invertiamo l’ordine delle due prime parole del verso e invece di dire « sempre caro » diciamo « caro sempre », noi abbiamo man­ tenuto l’endecasillabo nella sua giustezza metrica di sillabe e accenti : Caro sempre mi fu quest’ermo colle.

Ma riflettiamo un momento al valore che prende, nel nuovo verso, la parola « caro »: vediamo che la forma e il peso di quell’aggettivo scompaiono. Cominciare con la parola caro significa cominciare come ogni lettera quotidiana: caro amico. E non vuol dire che l’amico sia sempre caro. Tanto è vero che se qualcuno ci urta o ci pesta i piedi in tram noi gli diciamo, irritati: Eh, stia un po’ attento, caro signore! E il signore sgarbato che ci ha pestato i piedi non ci è affatto caro. Invertire le due prime parole del verso di Leopardi diminuisce la forza effettiva dell’originale e addirittura fa na­ scere un sospetto, più che di tiepidezza, di insincerità nel­ l’amore che il poeta porta per quel colle solitario. Noi ab­ biamo già, alterando la forma, alterato il significato.

Guastato così all’inizio il verso di Leopardi possiamo fare la stessa operazione alla fine: e, in luogo di dire « quest’ermo colle » dire « questo colle ermo ». Ermo vuol dire solitario: è una parola antiquata, che però per Leopardi, tutto dedito allo studio dei classici e degli antichi scrittori, era del tutto ovvia e naturale: è una parola che quasi sugge­ risce l’idea di eremo, di eremita: impiegata come l’ha impie­ gata Leopardi quella parola dà alla solitudine quasi un’idea di volontaria, elettiva solitudine, gli dà un’idea di rinuncia. Una rinuncia che è particolarmente intensificata dalla forza del primo aggettivo « caro ». Il verso di Leopardi contiene già 544

come si è visto, e in particolare in quelle del passato, di neces­ sità quollo che l’autore o gli autori si sono proposti come tale: è un contenuto espresso nei modi caratteristici dell’arte, cioè mediante una forma; contenuto profondo, non assunto come un atto della volontà latente e tuttavia reale, è il solo veramente reale, non semplicemente enunciato, come quello esterno a cui si fermano i contenutisti meccanici, ma espresso. Il primo è il particolare, l’incidente, la materia e il soggetto dell’opera, cioè qualche cosa di occasionale e di momentaneo: il secondo è il mondo dell’artista nella sua unità e nella sua totalità. La strada maestra per giungere alla formulazione di una estetica marxista è questa distinzione tra contenuto esterno e contenuto profondo e il concetto di forma come espressione del secondo. Per comprendere appieno queste distinzioni di contenuti e il loro rapporto con la forma (distinzione e opposizione che i nuovi artisti progressivi tentano nelle loro opere di superare e in realtà riescono spesso a superare) occorrerebbe una larga esemplificazione critica tratta dalle diverse arti. Qui bisognerà limitarsi a qualche indicazione che valga so­ prattutto a chiarire i modi di una possibile analisi formale quale modo di accertamento del contenuto profondo, alla indicazione di questa linea di ricerca critica. Come esempi di poesia possiamo prendere in esame, sulla scorta delle analisi di Ferretti e di Vossler, Vinfinito di Gia­ como Leopardi e La corbeau et la renard di La Fontaine. Sempre caro mi fu quest’ermo colle.

Il contenuto esterno è chiaro e chiaramente enunciato: il poeta dice che quel colle gli è sempre stato caro. Si tratta di uno dei versi più artisticamente belli di tutta la lettera­ tura italiana; eppure il suo contenuto esterno non ci dice un gran che. Per intendere perché sia artisticamente bello, cioè per intendere quello che veramente il verso ci dice, per inten­ dere il suo contenuto profondo noi non abbiamo che un mezzo: analizzarne la forma. Così noi vedremo, nel verso, riflettersi 545

un contenuto dannunziano. Un verso dove l’insincerità del caro all’inizio si sposa all’eleganza preziosa dell’ermo alla fine, al rilievo dato alla parola inconsueta ed arcaica. Vedete come nell’altro autentico verso di D’Annunzio non si parli di una ragazza o di una vergine, ma di un virgo, la quale, manco a dirlo, è gelida, e non bionda ed estatica, ma preraf­ faellita. Un freddo, anzi un gelo, prezioso, pretenzioso, insin­ cero: un suono bello e vuoto. E siamo passati dalla poesia di pensiero, dal pensiero doloroso di umana rinuncia di Leo­ pardi, al mondo della vuota e pretenziosa rettorica insincerità di D’Annunzio. Una preziosità che si gloria di se stessa e se ne compiace. Se allo stesso verso noi sostituiamo la parola colle con la parola collina, lasciando la prima inversione iniziale tra sem­ pre e caro otteniamo un verso: « Cara sempre mi fu questa collina », ma non tronfio, anzi banale, non proprio insincero ma piuttosto dichiaratamente bugiardello, lezioso e frivolo; un verso grazioso ma tenue e insignificante che ci riporta alla mente i versi di un Vittorelli. Ed ancora una volta, con variazioni formali minime e con l’intatta conservazione del contenuto esterno, noi otteniamo il risultato di un con­ tenuto profondo diversissimo. Prendiamo un esempio da una letteratura più universal­ mente conosciuta, come quella francese, per vedere il diver­ gere del contenuto esterno dal contenuto profondo: la celebre favoletta di La Fontaine della volpe e del corvo. Avvicinia­ moci, con l’aiuto di Karl Vossler, ma dal nostro punto di vista, a quel piccolo gioiello della letteratura francese. Diciamo anzitutto che La Fontaine è pericoloso come edu­ catore, è un moralista scettico dei valori morali stessi, è un libertino, un sostenitore del saper vivere, del sapersi destreg­ giare. Naturalmente questa morale non è mai enunciata in tutte lettere, ma risulta dall’opera e espressa nell’opera: la morale enunciata è tutt’altra. Ecco la poesia: Maitre corbeau, sur un arbre perché, Tenait en son hec un fromage.

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Maitre renard, par l’odeur alléché, Lui tint à peu près ce langage: He! bonjour, Monsieur du corbeau, Que vous étes joli! que vous me semblez beau! Sans mentir, si votre ramage Se rapporte à votre plumage, Vous ètes le phénix des hòtes de ces bois. A ces mots, le corbeau ne se sent pas de joie; Et, pour montrer sa belle voix, Il ouvre un large bec, laisse tomber sa proie. Le renard sen saisit et dit: Mon bon Monsieur, Apprenez que tout flatteur Vit aux dépens de celui qui l’écoute. Cette le^on vaut bien un fromage, sans doute. Le corbeau, honteux et confus, Jura, mais un peu tard, qu'on ne l’y prendrait plus.

Esaminiamo i primi due versi. Che ci dice La Fontaine? Che il corvo era appollaiato sull’albero e che teneva in becco un pezzo di formaggio. È una notizia: ma già la semplice notizia attraverso la forma, apparentemente, semplice, ma perfetta, ci dà le prime note del contenuto profondo: ci dice già cioè l’atteggiamento di fronte al mondo di La Fontaine. Maitre Corbeau. Maestro Corvo. Maestro è il termine che si dava e che si dà tuttora agli artigiani di valore. L’autore non dice un corvo, un corvo qualunque, ma un corvo individuato. Come in tutte le favole qui non si parla di un corvo, ma di un difetto umano: perciò l’autore mette la maiuscola alla parola Corvo, la parola corvo diventa un nome proprio. Non si tratta cioè di un generico corvo (che vorrebbe dire tutti i corvi) ma di un particolare Corbeau: le sue caratteristiche non sono quelle dei corvi, ma valgono nell’individuazione. Ma questo corvo, che non è un esemplare qualunque della specie ma un individuo, perché è chiamato Maestro? In che è la sua abilità? Il corvo è nella storia la vittima, ma La Fon­ taine non lo compiange, non simpatizza con lui, non con­ danna la volpe che lo ha ingannato. La Fontaine gli fa colpa della sua ingenuità, addirittura lo accusa di stupidità. Maitre Corbeau, che vuol dire quel bravo, quell’abile corvo, ha una portata ironica: in realtà vuol dire quello stupido del corvo. L’ammirazione di La Fontaine sarà tutta per la volpe, la

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volpe si che merita l’attributo di Maitre Renard, brava, abile. Nel terzo verso la parola Maitre attribuita a Renard ha per­ duto la sua primitiva significazione ironica: la furba volpe. Ma la prima parola Maitre è legata ad altre parole della favola. Se La Fontaine mette il corvo, per ironia, nel mondo dell’abilità artigianesca, la volpe, quando gli parla lusingatrice, gli cambia di nuovo classe sociale: lo mette al culmine della piramide sociale di allora: non lo chiama Maitre ma, dopo un eh, di bugiardamente meravigliata ammirazione, lo saluta: Monsieur du Corbeau! Signore del Corvo o Signor dei Corvi. Il corvo tra i signori della terra, tra i signori feu­ dali: du Corbeau, è diventato, con un magnifico crescendo ironico, un potente della terra. Ma quando il giuoco è sco­ perto perché, convinto delle parole della volpe, il corvo si mette a cantare, egli non è più né Maitre Corbeau, né Mon­ sieur du Corbeau: non ha più nemmeno la C maiuscola: è le corbeau, il corvo! È ringhiottito nell’anonimato della specie, non ha più nessun titolo di distinzione, non ha attri­ buti di capacità e di nobiltà, non è più nemmeno una indivi­ dualità. Ormai il poeta dice apertamente quello che velava d’ironia nelle prime parole della favola: quello stupido del corvo. Ma solo con l’uso ironico della parola Maitre l’autore ci comunica il suo giudizio sul corvo, cioè il suo modo di pen­ sare. Il corvo è appollaiato su di un albero, « sur un arbre perché ». Perché non è il termine degli uccelli ma dei polli che stanno sulla perché del pollaio: è una parola che, impie­ gata per un uccello, diventa dispregiativa. Si tratta di uccelli che hanno le ali ma non volano, stanno appollaiati. Il corvo dunque è appollaiato, ma perché vuol dire che nella posizione si appesantisce, si gonfia, il suo atteggiamento fisico diventa atteggiamento morale, e metaforicamente, nel giudizio del poeta, condanna. Vuol dire ancora: quello stupido, quel di­ sgraziato uccello, che non è neanche uccello, se ne stava tutto tronfio. L’atteggiamento fisico diventa atteggiamento morale, vuol dire pieno di sé, orgoglioso, superbo. Secondo le regole della grammatica francese si sarebbe detto meglio « perché 548

sur un arbre », ma il poeta dice « sur un arbre perché » (« in virtù di una inversione sintattica il corvo appare più alto ») e perché più alto, perché sia più ridicola la sua caduta. L’autore ironizza questa irragionevole fierezza di quello stu­ pido del corvo che non sa conservarsi il suo formaggio. Il for­ maggio. Forse che il corvo è fiero del suo formaggio? Niente affatto. Il corvo non è un buongustaio, tiene in bocca il for­ maggio invece di mangiarlo, tutto distratto dalla sua sciocca vanagloria. La volpe si che conosce i valori della vita, che saprebbe gustarlo; la volpe è « alléché par l’odeur ». E come lo sappiamo? La volpe è « par l’odeur alléché ». L’odorato. Un senso che quel povero diavolo del corvo non ha. Ma alléché non vuol semplicemente dire attirata, nella parola alléché è già in anticipo l’idea di mangiare il formag­ gio, ma non di divorarlo: di gustarlo leccandolo, assaporan­ done il profumo, il gusto. La volpe dunque non solo è astuta ma è anche raffinata, piena di finezza (e qui c’è una carat­ teristica che già giustifica in anticipo la volpe della sua frode), la doppiezza e l’abilità della volpe sono raffinatissime. « Que vous étes joli, que vous me semblez beau. » Dire al corvo che è joli è un’enormità: la volpe se ne accorge, forse il corvo sa di non essere affatto joli, forse si convincerà che lo si sta adulando e si risveglieranno i suoi sospetti. Bisogna attenuare, forse qualcuno non vi giudica grazioso, forse anche non lo siete, ma per me a me voi sem­ brate addirittura bello. È una attenuazione che in realtà accresce, ma, per ogni evenienza, è resa quasi accettabile, col limite «a me sembrate». « Sans mentir (forse anche che io lo creda bello è sospetto di menzogna) si votre ramage. » Il gracchiare del corvo diventa non solo canto, ma addirit­ tura ramage, parola squisita e poetica che evoca il canto degli uccellini tra i rami... proprio per quella specie di pollo che è il corvo e per il suo gracchiare a becco spalancato. Tutto il discorso della volpe è di una straordinaria finezza; ma è fatica e abilità sprecata. Margherite gettate ai porci. Il corvo scoppia, « ne se sent pas de joie... il ouvre un large bec laisse tomber sa proie ». L’azione precipita come tutte le azioni irriflessive

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degli sciocchi. Il lungo sottile e arzigogolato adulare della volpe, e la risposta è uno spalancare il becco, « il ouvre un large bec ». Più che cantare egli appare nell’atteggiamento stupito di chi non ha saputo prevedere le conseguenze di quello che fa. Non si parla del suo gracchiare, non è l’azione del cantare, ma il rimanere sbalordito, bouche bée, si direbbe di un uomo. E insomma: il corvo è tanto stupido che gli sta proprio bene. Il formaggio non è più neanche il suo for­ maggio, è « sa proie ». Nientedimeno. Qui l’enormità morale della posizione dell’autore è dichiarata. Il formaggio dovrebbe dirsi preda della volpe. Ma il corvo è tanto stupido, non sa apprezzare quello che possiede, non sa conservarselo, non sa gustarlo, non se lo merita, in fondo si può dire che i beni della terra sono per chi sa conquistarseli e apprezzarli. Il corvo usurpa quello che possiede, esso diventa « sa proie ». La volpe è a questo punto tanto alta agli occhi dell’autore che egli autorizza questa ingannatrice ladra a far la morale. E la morale è chiara: « apprenez que tout flatteur vit aux dépens de celui qui l’écoute ». Cioè la morale non è non in­ gannate, ma non vi fate ingannare. Una morale che cinicamen­ te si può dire che vale il formaggio. Anche nella chiesa, anche in sede di discussione morale la volpe è giustificata! Essa ha rubato il formaggio, ma ha dato al corvo una lezione di saper vivere che vai bene un pezzo di formaggio. Con questa morale egli potrà a sua volta procurarsi il formaggio.

Spesso si parla delle difficoltà di definire il contenuto della musica. La musica è giudicata in genere, secondo i canoni del pressocché unico trattato di estetica musicale che è quello dell’Hanslick. In quel trattato, come tutti sanno, si sostiene che la musica altro non è che un arabesco musicale, cioè non ha contenuto. Ma la musica ha il suo contenuto e la sua forma, e noi siamo certi di poter distinguere un contenuto esterno, che esiste solo nei titoli e nelle note di interpreta­ zione da un reale e vero contenuto, anche nella musica. Beethoven ha dedicato la sua Eroica a Napoleone e poi ha

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cancellato la dedica senza cambiare una sola nota. Si tratta di un titolo o di una dedica. Certamente il contenuto della Quinta esterna esaltare la gloria di Napoleone. Ma in Napo­ leone Beethoven aveva visto quello che non c’era e che lui gli prestava generosamente: eroismo, amore per la libertà, per l’umanità ecc., che costituiscono — al di là dell’aneddoto Napoleone — il contenuto profondo della sua Eroica. Il metodo della critica è e deve essere quello dell’analisi formale. Un’analisi che non è vuota contemplazione di una vuota e inutile bellezza, un’analisi che astrae dal contenuto, ma è il mezzo per cogliere il contenuto effettivo e che ne permette quindi la valutazione. È molto importante però osservare come le contraddizioni contenuto-forma, contenuto esterno-contenuto profondo dila­ niano costantemente gli artisti che vivono nelle condizioni della società divisa in classi. Ed ancor più interessante è ve­ dere come queste contraddizioni si siano risolte e si vadano risolvendo dagli artisti e dai critici sovietici. Per comprendere bene il superamento delle contraddizioni relative all’arte nella produzione sovietica, bisogna riflettere alle nuove condizioni della società socialista. Forse che questa ha arrestato il corso della storia ed ha quindi fatto svanire la dialettica? Niente affatto. Ma ricordiamoci delle parole di 2danov (nel suo memorabile intervento alla riunione dei filo­ sofi sovietici a proposito della Storia della filosofia di Alek­ sandrov: « La nostra filosofìa sovietica ci deve mostrare come agisce la dialettica nelle condizioni della società socialista. Ecco un campo di ricerche che non è stato ancora arato da nessun filosofo. E tuttavia già da molto tempo il nostro par­ tito ha trovato e messo a servizio del socialismo la forma particolare di scoperta e di superamento delle contraddizioni nella società socialista. Questa forma particolare di lotta tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che muore e ciò che nasce nella società sovietica, si chiama critica ed autocritica. Nella so­ cietà socialista la lotta fra l’antico e il nuovo e, di conse­ guenza, l’evoluzione da uno stato inferiore a uno stato supe­ riore non si produce sotto forma di lotta di classi antago551

niste e non produce cataclismi come nei paesi capitalistici, ma sotto forma di critica e di autocritica. Critica ed auto * critica sono la vera forza motrice della società sovietica ». Queste parole di 2danov ci aiutano a comprendere come gli artisti sovietici possano superare le contraddizioni conte­ nuto-forma, contenuto esterno-contenuto profondo. Mediante cioè l’autocoscienza dei propri compiti, ottenuta attraverso la critica e l’autocritica. Autocoscienza che si attua nelle grandi discussioni collettive, come quelle memorabili sul ro­ manzo, o sulla musica che sono nel ricordo di tutti, o come quelli più recenti sul cosmopolitismo e l’internazionalismo. Artisti autocoscienti sono per noi quelli che, per usare l’espressione di Marx, riescono a « prendere coscienza del proprio contenuto », quelli nelle cui opere, contenuto esterno e contenuto profondo convergono fino ad identificarsi, artisti cioè che possono porsi una tematica ed una problematica at­ tuale, che producono cioè opere socialmente utili. Contro gli ingenui, che credono all'arte per Parte, all’arte disinteressata, e contro i furbi che fingono di crederci, bisogna ancora citare la tesi di Engels suU’tfr/e di tendenza'. « Io non sono affatto contrario all’arte di tendenza, in quanto tale. Il padre della tragedia, Eschilo, e il padre della commedia, Aristofane, furono entrambi poeti di tendenza, cosi come lo furono Dante e Cervantes: e l’enorme merito di Kabale und Liebe di Schiller è quello di essere stato il primo dramma di propaganda politica tedesco. I moderni russi e scandinavi, che scrivono di cosi splendidi romanzi sono tutti tendenziosi » (Lettera a Minna Kautsky, 26 novembre 1885). Nella già citata lettera a Miss Harkness, Engels critica il romanzo di lei per mancanza di realismo nella descrizione delle masse operaie e chiarisce che « il più delle volte le opinioni dell’autore nascondono il meglio della sua opera », spiegando, col celebre esempio di Balzac, che « il realismo può venir fuori anche a dispetto delle opinioni dell’autore ». Cosi, ancora a Minna Kautsky, criticando nel romanzo di lei la mancanza di realismo nella descrizione dei personaggi, « troppo idealizzati » come Elsa, o « dissolti nel principio » 552

come Arnoldo, spiegava che « la tendenza deve emergere da sé stessa, dalla situazione e dall’azione, senza particolari indi­ cazioni dell’autore ». Spiegava cioè che la tendenza deve essere espressa e non enunciata. Questa posizione può chiarire perché Marx, scrivendo a Lassalle a proposito del dramma di questi, cominci con « una questione di forma anzitutto » e lo consigli di « arrotondare meglio i suoi versi ». L’artista progressivo deve avere coscienza e responsabi­ lità della sua opera, ma non deve limitarsi ad assumere un contenuto elevato e degno: deve elaborarlo coll’immagina­ zione, sino a che esso prenda forma. Fino a che esso emerga « da sé stesso dall’azione e dalla situazione », dal ritmo e dalla costruzione e da tutti gli altri — non regolamentabili — elementi costitutivi della forma. Forma, non più dunque intesa come applicazione scolastica di regole a freddo, ma come la portatrice del contenuto reale dell'opera.

Il convegno cinematografico di Perugia *

Il convegno cinematografico tenutosi a Perugia, dal 24 al 28 settembre, è stato concordemente criticato dalla stampa di destra: si è detto che esso ha mantenuto i risultati che era lecito attendersene, perché, sebbene inizialmente promosso da cineasti di diverse tendenze, strada facendo ha preso un carattere spiccatamente di sinistra. Ora che il convegno abbia preso un carattere spiccatamente di sinistra è un fatto che nessuno si sogna di negare. Ed è un fatto che avrebbe potuto indurre a qualche rifles­ sione: avrebbe potuto, partendo dai più semplici e immediati interrogativi — perché i « destri » si sono squagliati all’ul­ timo momento? e perché quelli di loro che hanno parteci­ pato al convegno non hanno preso la parola? — porre più vasti e più interessanti problemi. In tempi in cui la classe dominante è solidamente al potere e produttiva, cioè in grado di sviluppare fino in fondo le forze attive della produzione, l’ideologia che ne deriva orga­ nizza, regolamenta, celebra ed esalta i corrispondenti rap­ porti di produzione: la cultura è allora una espressione orga­ nica della società e della struttura che ne è la base. Ma quando la base è fradicia e franante — come oggi — « precipita, con essa, tutta l’enorme sovrastruttura » (Marx). Tutta la vecchia cultura entra in stato di crisi e, come oggi, ogni fatto * Rinascita, a. VI, n. 10, ottobre 1949.

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moralmente, culturalmente e artisticamente valido viene a prendere un carattere spiccatamente di sinistra. Se in Italia si producono dei buoni film, essi, anche indipendentemente da una precisa volontà degli autori, vengono a prendere un carattere spiccatamente di sinistra. Se le donne italiane chiedono scuole per i bambini, questa semplice richiesta, in un paese dove l’istruzione è per legge obbligatoria, viene a prendere un carattere spiccatamente di sinistra; se si esalta comunque la pace, questo fatto viene a prendere immediata­ mente un carattere di sinistra o addirittura sovversivo. Data la situazione attuale dunque che il convegno di Perugia abbia avuto riconosciutamente un carattere di sini­ stra è soltanto una riprova della sua importanza, della sua validità come fatto di cultura. Perché cultura significa « ado­ zione franca ed aperta del punto di vista di un determinato gruppo sociale » (Lenin). L’assenza dei rappresentanti di una cinematografìa e di una cultura che non fosse di sinistra, l’assenza di contraddit­ torio di quelli che erano presenti autorizzano infatti questa conclusione: nessuna idea sana, nessuna teoria coerente, nes­ sun gusto giustificabile nel mondo del cinema come arte, che non possa definirsi di sinistra. Qui è il significato e la ragione delle prudenti assenze e dei prudentissimi silenzi dei cineasti reazionari. Questa è la prima solennissima lezione di questo convegno. E, del resto, non l’ha detto perfino Benedetto Croce, quando punzecchiava il fascismo, che in tempi di reazione la sola cultura valida è quella all’opposizione? Una riprova di tutto ciò se ne può avere leggendo la stampa governativa e clericale che ha cercato di svalutare i lavori del convegno. Con quali argomenti? Dichiarandolo un convegno di tendenza, una specie di comizio politico, nel quale la voce più autorevole, quella di Pudovkin, avrebbe perduto ogni persuasività, perché non più voce indipendente, perché fattasi ormai paladina di una idea. E non è strano, a parte la sciocca e arbitraria deforma­ zione della posizione teorica e della personalità artistica di

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Pudovkin, che queste difese dell’arte per l'arte ci vengano proprio da certi pulpiti? Ma se le segnalazioni del CCC (Centro cattolico cinematografico), se la critica delPOwertMtore romano e del Popolo e di tutta la stampa cattolica sono basate proprio sull’accettabilità morale, per essi, dei film? Né si tratta di un criterio nuovo o recentemente escogitato: forse che dal Concilio di Trento non nacquero anche norme morali per gli artisti, e particolarmente rigorose? o forse che Vindex librorum prohibitorum è compilato in base a valori formali? Questa flagrante contraddizione denunzia, nei reazionari, la coscienza di mancar d’argomenti, la coscienza di essere nel torto. Quindi la impossibilità di sostenere, alla luce del sole, quelle meschine calunnie sussurrate nelle orecchie dei gazzet­ tieri e dei piccoli minosse della critica cinematografica: perché sputassero le loro sentenze di condanna sui giornali clericali e governativi. L’unanimità di congressisti, pure cosi diversi per naziona­ lità, per cultura, per specializzazione, avrebbe dovuto indurre a riflettere. Uno scrittore delicato e sensibile come Zavattini ha aperto il congresso con una rappresentazione viva e dram­ maticamente artistica del problema proposto: un giorno uscimmo dal cinematografo dove eravamo andati a divertirci e all’uscita gli strilloni annunciavano lo scoppio della guerra. Il cinematografo non ci aveva avvertiti del pericolo, non ci aveva indotto a combatterlo: il cinematografo ci ha diver­ tito, ci ha distolto dalla realtà, ha seguito Méliès e non Lumière, ha tradito il suo compito. Quello che gli chiediamo oggi è ritrovare il compito suo essenziale: quello di farci intendere la realtà. Chi è contro la richiesta che il cinema, potente strumento di informazione e di formazione, sia messo a servizio della pace? Chi è contro questo grido di allarme, contro questo « no » alla guerra? Tutti hanno riaffermato questo « no » alle forze della distruzione del male. Un « no » che si ripeteva, impressio­ nante di argomenti e di documenti, nei ricordi di Joris Ivens;

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che risultava ben chiaro dalle analisi storiche della cinemato­ grafia americana (Strand, Barzman), di quella francese (Sadoul, Lods), di quella cecoslovacca (Brousil), di quella ungherese (Horn), di quella polacca (Ford), di quella italiana (Lizzani), e soprattutto di quella sovietica (Cirskov, Papava); un « no » alla guerra e alle forze del male che risultava dalle teorizza­ zioni di Pudovkin, di Barzman, di Galvano della Volpe e dalla mia; un « no » che si concretava nella ricerca e nella identificazione delle forze reazionarie e guerrafondaie e che proponeva i mezzi per combatterle. Anche i reazionari sono contro la guerra a parole. E sic­ come lo sono soltanto a parole la nostra chiarezza li offende e li esaspera. Li offende e li esaspera la denunzia precisa degli interessi che son dietro alla guerra, la denunzia dei servitori di quegli interessi. Avrebbero voluto un congresso che si risolvesse in un abbraccio generale, una risoluzione che edulcorasse il sincero e commosso grido di allarme di Zavattini, che si mettesse al di sopra del tempo e dello spazio, al di là del bene e del male, nei campi sereni dello spirito. Dichiarazioni di questo genere ne abbiamo avute a iosa in Italia; anzi c’era, al tempo del fascismo, un istituto che sembrava fatto apposta per dotte e umanitarie disquisizioni di questo genere destinate a lasciare il tempo che trovano: era l’istituto internazionale del cinema educatore e aveva sede in una dipendenza di villa Torlonia, cioè nel sottoscala di casa Mussolini. Al congresso di Perugia è stata notata la presenza di padre Morlion, padre domenica, o come si diceva una volta « segugio del Signore » e uomo ben autorizzato a discutere di cinema. Come mai l’illustre prelato ha taciuto? Una volta, su di una rivista cinematografica, padre Morlion ha ricordato che l’OCIC (Office catholique international du cinema) ha premiato Vivere in pace, ed ha ammonito benevolmente i cineasti che « c’è un pericolo nella scuola neo-realista italiana, ed è quello di per­ dere il contatto con le sorgenti profonde della realtà umana, che, in Italia, o è cristiana o non è ». Perché oggi non si entra piu nell’argomento vivo? Perché 557

oggi non ci si pone più dinanzi a questo dilemma? Perché non si chiede più un contenuto cristiano all’arte ma le si chiede di essere giuoco, divertimento, evasione? La risposta non è difficile: perché si vuole che il cinema nuovamente distolga gli occhi del pubblico dalla realtà: da una realtà che è di per sé abbastanza eloquente. Non si chiede più nemmeno un’arte d’ispirazione cristiana. Perché tutti capirebbero: un’arte d’ispirazione democristiana. E democristiano è oggi aggettivo squalificato moralmente. Democristiano è il governo di Sceiba, della provocazione e della guerra civile, democristiano è il governo dello smantel­ lamento delle industrie, democristiano è il governo che pro­ spetta ai lavoratori italiani la sola possibilità di vita nella emigrazione e nel lavoro nei ranchos feudali del Sudamerica, democristiano è il governo che propone di uscire dalla crisi mediante il piccolo risparmio, e lo propone in periodo di villeggiatura, a pochi giorni di distanza da quella svaluta­ zione della sterlina che, oltre a costare quaranta miliardi al­ l’erario, ha trasformato di colpo i risparmiatori italiani in quello che nel gergo cinico delle banche si chiama il campo di buoi destinati al macello dell’allineamento della lira. Perché soprattutto cristiana è la scomunica di coloro che si oppon­ gono alle mene imperialistiche e guerrafondaie, e democristiano il governo del Patto atlantico e della guerra. Ecco perché i compilatori di indici e gli accenditori di roghi si sono precipitosamente fatti paladini dell’arte pura, dell’arte per l’arte. Ed ecco perché, in nome dell’arte per l’arte, hanno condannato in blocco il congresso di cinemato­ grafia di Perugia.

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Trent’anni della cinematografia sovietica *

L’atto di nascita della cinematografia sovietica è costi­ tuito dal decreto, emanato da Lenin nell’agosto 1919, con cui essa è stata nazionalizzata; ne ricorre quindi il trentennale, avvenimento che non può passar sotto silenzio perché la cine­ matografia sovietica costituisce il complesso di fatti artistici più importanti non solo di tutta la storia del film, ma di tutta l’arte contemporanea. Questa verità non è accolta universalmente come dovrebbe, giacché per intendere la cinematografia sovietica, le sue teorie, i suoi metodi, e il reale valore delle sue opere, si debbono abbandonare le vecchie estetiche canoniche — aspetti parti­ colari di sorpassate ideologie — e si deve assumere un punto di vista critico piu rigoroso e più attualmente valido. La mancanza di una tale posizione non ha impedito l’ammi­ razione e lo sbalordimento dinnanzi alla serie ininterrotta di opere originali e profonde come i film sovietici, ma ha pre­ cluso la comprensione del fenomeno in tutta la sua portata e perfino la valutazione piena dell’effettivo valore dei singoli film. Proiettati sugli schermi di tutto il mondo, i film sovie­ tici hanno suscitato entusiasmi unanimi di artisti e di critici, di cineasti e di pubblico, hanno — come si dice — fatto furore; ma la definizione critica di essi, fuori dall’URSS, ne ha stravolto il significato e il valore e ha dimostrato, una * Rinascita, a VII, n. 1, gennaio 1950.

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volta di più, e in modo lampante, l’atonia preagonica della cultura borghese, l’impossibilità congenita, in cui essa si trova ormai, a penetrare e a valutare i fatti dell’arte. Perché fuori dalI’URSS i film sovietici, pur tanto ammi­ rati, non sono stati compresi? Perché i critici occidentali hanno cercato il segreto della loro artisticità in superficie, in qualche cosa di esterno: perché hanno cercato di costrin­ gere quella grandezza negli schemi angusti e fradici delle este­ tiche formalistiche, idealistiche, misticheggianti. E, per esem­ pio: il valore dell 'Incrociaiore Potèmkin andarono a scovarlo nella recitazione degli attori; una recitazione che parve tanto perfetta ed efficace da non poter essere che di professionisti, ed anche particolarmente evoluti e provetti; e, poiché in Russia gli attori più evoluti e provetti erano quelli di Stanislavskij, L’incrociatore Potèmkin fu diffuso, nell’Europa occi­ dentale e in America, con titoli di testa che lo dichiaravano « Interpretato dagli attori del Teatro dell’arte di Mosca ». A Parigi, il regista del film S. M. Ejzenstejn, per il quale s’erano aperte al cinema le solenni porte della Sorbonne, spiegò allegramente che avevano visto in quel film quanto non c’era, perché il film era stato realizzato non solo senza gli attori del teatro di Stanislavskij, ma addirittura senza attori professionisti. Fu un errore marchiano e una prova di straordinaria leg­ gerezza: ma in quell’errore si addensavano e si annidavano i più grossolani equivoci e pregiudizi estetici. Anzitutto quello di considerare l’artisticità del film come precedente e indipen­ dente della macchina da presa riponendola ad esempio nei valori della recitazione; e cioè non si intendeva la macchina da presa come creatrice di arte, ma come uno strumento mec­ canico, un mezzo di riproduzione, un moltiplicatore in copia di un fatto artistico preesistente. Si giudicava il film con una totale incomprensione di ciò che rende il film un’arte. La prima retta impostazione del film, non come strumento meccanico di riproduzione, ma come fatto creativo in sé fu infine acquisita dalla critica occidentale; e fu il punto di par­ tenza della celebre trattazione deH’Arnheim, Film als Kunst 560

(Berlin, 1932): ma la felice intuizione estetica dei sovietici vi si guastò e perdette ogni valore, sistematizzata nel quadro di dottrine e correnti sorpassate, quali lo psicologismo este­ tico positivistico e quegli aspetti del formalismo che, nelle arti figurative vanno sotto il nome di estetica della pura visibilità. Il primo grossolano fraintendimento critico del Pot'èmkin — relativo alla inesistente recitazione — fu seguito da altri errori, anche quando l’informazione sui cineasti sovietici co­ minciò ad estendersi e derivò direttamente dai trattati e dalle opere. Il complesso concetto di montaggio elaborato dai sovie­ tici e posto come « base estetica del film » non fu inteso, come doveva, cioè quale « montaggio come ideologia », ma semplicemente come montaggio di pezzi brevi: montaggio « alla russa » significò genericamente « montaggio rapido »; e non mancò qualche spiritoso imbecille che mise in circola­ zione la freddura per cui il « montaggio alla russa » era una semplice fandonia reclamistica, perché esso era già stato inven­ tato involontariamente dagli operatori di cabina delle sale suburbane, di seconda e di terza visione, col loro costante praticare gran tagli arbitrari nei film, per accorciare la durata degli spettacoli e per guadagnare cosi la possibilità di fare, in una stessa giornata, uno spettacolo in più. Era solo una spiritosaggine: ma abbastanza indicativa del fatto che s’era inteso il « montaggio alla russa » solo nel suo aspetto più esteriore, e anche meno caratteristico, epperò più transitorio, quale montaggio rapido; spiritosaggine indicativa ancora della intenzione di sminuire e di svalutare la presa di coscienza, per opera dei sovietici, del più tipico tra i mezzi espressivi del cinema. A questa interpretazione affrettata e puerile fece seguito una specie di infatuazione mistica per il montaggio. I sovie­ tici lo avevano indicato quale « base estetica del film » e ne avevano elencato, empiricamente e a mo’ di esempio, alcuni dei possibili modi: ebbene, bisognava, in Occidente, rendere esaurienti e sistematiche queste loro ricerche formali, biso­ gnava fonderle con quelle degli avanguardisti francesi e dei

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registi americani: e fu tutto un fervoroso costruire tabelle, schemi, prospetti, in una gara di completezza che, oltre alla assurdità teorica, giungeva all’assurdità pratica, cosi che, per esempio, le tabelle del già citato Amheim, per pretesa scien­ tifica, catalogarono anche casi dichiaratamente impossibili (Unverwendbar!, op. cit., p. 118). Oppure si fece convergere l’attenzione sul fatto che il montaggio è creatore del ritmo del film, e si spesero fiumi d’inchiostro su quest’argomento. Cioè si distorse in senso formalistico una ricerca che nei re­ gisti sovietici era intesa a identificare il mezzo più artistica­ mente efficace per giungere alla espressione contenutistica e ideologica; e che solo in qualche parziale incertezza, smarri­ mento o errore (successivamente riveduto o corretto) mostrava il sopravvivere di vecchie posizioni formalistiche. E, mentre i critici si spassavano inseguendo i modi e le forme del montaggio cinematografico quale creatore del ritmo del film, certi distributori mostrarono di aver bene inteso il concetto di montaggio « come ideologia », tanto che (come fu rivelato da Béla Balazs, nel suo Der Geist des Films) cambiando l’or­ dine delle sequenze deli * Incrociatore Potèmkin trasformarono quel film rivoluzionario in un film reazionario. Anche la grande originalità e libertà delle angolazioni e delle inquadrature, che nel film sovietico significava abban­ dono del concetto teatrale dello spazio entro tre pareti e diretta e piena adesione alla realtà nei suoi aspetti caratte­ ristici, non fu intesa come frutto di una scelta significativa del punto di vista e del taglio, nella realtà, della sua porzione più tipica e rivelatrice, ma semplicemente come « inquadra­ tura sghemba » dall’alto, dal basso, obliqua. Fu intesa come un affrettato gettare a mare il filo a piombo della macchina da presa per soddisfare un bisogno estetistico di originalità a tutti i costi, una maniera inconsueta di presentare la forma degli oggetti in modo che essi non fossero riconoscibili di primo acchito, una caccia di effetti sorprendenti e inediti pour épater le bourgeois. Quasi che l’estetica dei registi sovietici fosse ancora l’estetica controriformistica e barocca, che asse­ gnava come fine dell’arte la maraviglia, o l’estetica dei surrea­

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listi e degli avanguardisti che degradavano Parte al livello del giuoco gratuito. E se taluno vide ciò che era evidentissimo, che i mezzi del cinema erano impiegati dai sovietici non per capriccio for­ malistico o per giuoco, ma con la volontà di « dire qualche cosa », si schematizzò il loro impiego della macchina da presa in normatività estetiche delle più triviali. « Il tiranno si fotografa dal basso e la vittima dall’alto! » Cosi lo scarso uso dei carrelli e delle panoramiche dei primi film sovietici fu visto come ostracismo a mezzi tecnici con­ trastanti col « ritmo rapido » caratteristico del nuovo stile, e cioè ancora una volta e sempre, come preoccupazione mera­ mente formale: e non li si intese, e doveva essere pur facile, come riluttanza ad un convenzionalismo avvertibile dal pubbli­ co e tale pertanto da diminuire l’efficacia realistica della rappre­ sentazione. Perfino l’esclusione delle barbe finte e delle parruc­ che e l’uso di sostituire il cerone con oli e grassi per sottoli­ neare le caratteristiche delle figure e dei visi, fu interpretato come un mezzo per dar evidenza alla plasticità dei corpi e se ne fece un gran chiacchierare e scribacchiare a maggior glo­ ria delle teorie ultraformalistiche dell’ultima borghesia; verbigrazia della teoria berensoniana dei valori tattili, di cui si parlò nel mondo cinematografico da quando il suo divulga­ tore in Italia, Emilio Cecchi, fu inopinatamente nominato di­ rettore generale della Cines, da Ludovico Toeplitz del Ry. La lista di queste grossolane e stupide interpretazioni della cinematografia sovietica e dei suoi metodi potrebbe continuare a lungo e certo più della pazienza dei lettori più pazienti; ma l’esemplificazione che qui ne abbiamo offerta basta certa­ mente a mostrare a qual genere di trastulli si dedichi la critica borghese, e a sottolineare la sua riluttanza e la sua incapacità a intendere, nei suoi veri valori, i fatti artistici. Per intendere la cinematografia sovietica bisognava, e bi­ sogna, battere altra strada: vedere anzitutto in essa un contri­ buto alla edificazione del socialismo, causa primissima del suo indiscusso valore artistico. Il cinema non si differenzia sostanzialmente dalle altre arti,

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proprio perché è un’arte. Ma il cinema è l’arte che risponde piu pienamente ai bisogni della nostra epoca: al bisogno di espressione degli artisti, che non è soltato quello di dar forma, ma anche e soprattutto quello di formare e di trasformare la realtà; e al bisogno del pubblico di comprendere, e di un pub­ blico infinitamente più vasto del pubblico delle, altre arti. Come tale il cinema fu inteso teoricamente dai realizza­ tori sovietici e fu praticamente impiegato come tale. Fu Pudovkin a definire, in un’analisi indimenticabile, il cinema come « momento di evoluzione dello spettacolo » (in L’attore nel film, cap. I). Nel teatro, ha osservato Pudovkin, la qualità dello spettacolo è « inversamente proporzionale al­ l’ampiezza del locale »; perché l’enorme ampiezza della sala obbliga l’attore (che deve esser visto e udito da tutti gli ordini di posti) a « impostare » il proprio gesto e la propria voce, col risultato di renderli generici e di perdere « le sot­ tili sfumature del sentimento » (« l’attore di teatro mormo­ ra urlando, cioè contraddicendo il senso stesso della parola mormorare »); ma la qualità dello spettacolo teatrale è anche inversamente proporzionale alla diffusione della rete dei teatri, per il fatto che l’attore si adegua al suo pubblico, adatta la sua recitazione alle esigenze dei pubblici diversi. Cosicché le contraddizioni tipiche del teatro ne fanno uno spettacolo per cui la qualità artistica è inversamente proporzionale al numero degli spettatori. Questa contraddizione è risolta dal cinema, arte del po­ polo, e non arte di élites: qui la qualità è fissata una volta per tutte e non varia per il variare dell’ampiezza della sala o per il numero delle programmazioni. Caratteristica che ri­ solve una contraddizione affine a quella del teatro, e che è tipica delle arti figurative, irriproducibili per eccellenza (una cosa è vedere un quadro e un’altra vederne una fotografia) e quindi a pubblico limitato. Inoltre il film sonoro e parlato compendia i metodi delle diverse arti che gli consentono la più minuta delle analisi, ma anche la più stringata delle sintesi espressive; così che un film può abbracciare una quantità enorme di realtà e può minuta­ 564

mente analizzarla e approfondirla. In questo senso il film è forse davvero, come vuole Pudovkin (Film e Fonofilm) « l’ar­ te che sopravviverà a tutte le altre », non monopolio della classe borghese e difesa dei suoi interessi, ma potente stru­ mento di lotta nelle mani della classe operaia, che, nell’URSS, ha abolito la distinzione di classe. Strumento di lotta. Oggi l’individuo non è piu monade umana, ma parte organica della società; e l’arte non può esser fine a sè stessa, trastullo di sfaccendati, meccanismo psichico destinato a riparare scompensi individuali o insoddisfazioni singole. E il cinema, arte collettiva per eccellenza, ben rispon­ de a questa nuova coscienza dell’umanità, dei suoi compiti e dei suoi fini. Anche, e soprattutto, perché il necessario ac­ cordo tra i collaboratori alla realizzazione del film, implica che la loro volontà espressiva si definisca concretamente in un’idea, « asse della collaborazione ». Creazione collettiva, cosciente e destinata a enormi collet­ tività, il cinema è dunque davvero, quale l’ha definito Lenin, « la più importante delle arti ». A queste conclusioni è giunta la teoria dell’arte cinema­ tografica sovietica, nella sua concretezza. E le opere, i film sovietici, nella loro alta moralità e nella loro bellezza artistica, ne sono una gloriosa conferma. È da queste premesse esteti­ che fondamentali, che si concreteranno più recentemente nella teoria e nella pratica del realismo socialista, che va guardato il trentennio glorioso della cinematografia sovietica; abban­ donando il metodo fallace, quando non disonesto, dello ste­ rile e vuoto formalismo. Guardare il film sovietico, senza superficialità e senza fraintendenza, significa anzitutto vedere quanto la sua tema­ tica sia lontana, e quanto più degna, di quella del film bor­ ghese in genere e hollywoodiano in particolare. Questo, sog­ getto agli interessi della speculazione affaristica e agli interessi della reazione, non può che sollecitare i più bassi istinti del pubblico, non può che essere espressione e alimento di cor­ ruzione e di vergogna. Il film sovietico è espressione della realtà del paese del socialismo: è perciò esaltazione della vita

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nei suoi valori piu nobili, è fiducia di vivere e gioia di vivere. Da questo punto di vista vanno visti tutti i problemi par­ ticolari del film. E, per esempio: il lieto fine? È già stato detto autorevolmente che solo il film sovie­ tico può essere a lieto fine, perché solo nel film sovietico il lieto fine non è una menzogna. Tanto è vero che, assai spesso, i film sovietici finiscono con un documentario. Per esempio il Circo di Aleksandrov dove i protagonisti si trovano, tutti insieme, a marciare nella grande parata sulla piazza Rossa: quella stupenda gioventù sana e felice, quelle ragazze piene e agili, quei volti ridenti, la salute e la gioia che vi si espri­ mono, non sono menzogna, sono il volto della nuova realtà sovietica, che il film fedelmente riflette.

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Critica e arbitrio nel documentario sulle arti figurative *

Alla chiusa di un mio studio su la prosa cinematografica (in Bianco e nero, a. VI, n. 8, 1942) io ne annunziai un altro complementare su la lettura cinematografica delle opere d’arte-, tema appassionante e difficile che mi pareva urgente, sin d’allora, trattare con qualche rigore e che ora è divenuto, come suol dirsi, di palpitante attualità. Sia per le recenti manife * stazioni di Bruxelles, e perché Venezia annunzia quest’anno, tra la Biennale d’arte e il Festival cinematografico, il codicillo trait d’union di una mostra del film sull’arte; sia, ed ancor più, per il tipo e la qualità dei film di questo genere che si son prodotti e visti sino ad ora. Si son visti infatti tanti film, a pretesa scientifica e dida­ scalica, presentarci statue e monumenti architettonici campati e roteanti con una cosi bizzarra capricciosità su cieli corruschi di nuvole foriere di tempeste, o idilliaci di cirri e nuvolette a pecorelle, annunziatrici di benefiche acque di primavera; si son visti tanti capolavori pittorici percorsi alla brava e alla diavola da annaspanti macchine da presa, raccontarci mala­ mente, col sussidio di lezioncine assai spesso spropositate e vuote, il soggetto e il fattarello che ne erano stati il pretesto creativo; si è vista persino la solenne e densa poesia degli affreschi dell’Arena trasformata in romanzetto flebile per educande, e il Cristo di Giotto nientedimeno che assurda­ mente parlare e, col tremulo birignao con cui i guitti credono * Bianco e nero, a. XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950.

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di rafforzare l’espressione delle battute, annunziare agli apo­ stoli: « Qualcuno di voi mi tradirà » ’; si son viste storie di soggetti e di temi superare addirittura la scherzosa previ­ sione che Croce faceva molti anni fa recensendo la storia ar­ tistica della Madonna di Adolfo Venturi: che presto si sarebbe giunti, per quella via, alla storia artistica del Bue e a quella dell’Asinello; e si è avuta infatti la storia artistica del naso, raccontata cinematograficamente da Glauco Pellegrini12; si son viste insomma tante e poi tante strampalerie e assurdità, offensive del buon gusto, del buon senso, della cultura e della civiltà, che sembra veramente l’ora per un deciso altolà, che arresti, se è possibile, invece di incoraggiarli, gli intraprendenti, che s’avventurano con tanta spensieratezza a trattare cinema­ tograficamente le opere d’arte, e li respinga, una volta per tutte, nel campo della fotografia per tessera o del ritratto for­ mato gabinetto. Giotto romanziere E, per cominciare: servirsi del film per raccontare il sog­ getto di un quadro o di un affresco o di una serie di quadri o di affreschi, anche se sembra un assunto di modesta umiltà, non è affatto legittimo. Perché, cosi facendo, non si avvicina, ma si allontana lo spettatore dall’opera e dalla sua compren­ sione; si nascondono dietro la favoletta e la moraletta esterne, il piu delle volte non scelte dagli artisti ma commissionate loro dall’esterno, i valori concreti e specifici delle opere, il loro reale e concreto significato profondo e la forma che lo esprime. Un significato che, molto spesso, non solo si distanzia, ma ad­ dirittura contraddice quello richiesto dai committenti e tradi­ zionalmente espresso dalla favoletta commissionata. Una ve­ rità questa che è quasi una pena doverla ripetere ancora, e che i registi dei documentari sull’arte figurativa avrebbero po­ tuto apprendere assai facilmente: da uno qualsiasi dei ma1 Luciano Emmer, Romanzo di un affresco. 2 Glauco Pellegrini, Parliamo del naso.

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nualetti intesi a insegnare come si guarda un quadro, di cui quello del Marangoni ha aperto recentemente l’interminabile serie. L’aver fatto di Giotto il romanziere della vita di Cristo e del Beato Angelico quello delle storie dei santi Cosma e Damiano significa aver seguito la via di minor resistenza cri­ tica destinata a sboccare, inevitabilmente, in stravaganze e sconcerti.

Il testo come pretesto Se n’è accorto anche il più celebrato percorri tore di que­ sta strada sbagliata, Luciano Emmer, che l’ha abbandonata per un’altra, non meno grave di conseguenze diseducatrici. Nella quale l’opera d’arte non è più considerata nemmeno per il suo più esterno contenuto, raccontino e moraletta, ma è as­ sunta solo come precedente, come punto di ispirazione per una nuova opera, personale, originale, indipendente. Ciò che è lecito ai registi di teatro, con le tragedie e le commedie classiche, perché non dovrebbe esserlo ai registi ci­ nematografici coi quadri, ad Emmer, per esempio, coi grandi teleri del Carpaccio? Quante volte non s’è detto e ridetto che i fatti artistici non possono esser riprodotti e ripetuti, e che il teatro scritto, diventando spettacolo, cioè fatto preva­ lentemente figurativo, non deve valutarsi in raffronto coll’ori­ ginale che ne è stato solamente il pretesto? E che lo spettacolo va visto come un’opera originale e nuova? L’autorità di Mejerchold e del primo Ochlopkov 1 dovrebbe qui fornir pezze giu­ stificative e d’appoggio ad una santa Orsola e ad una Venezia che, dalla serenità carpaccesca, son sboccate, tramite l’anfibolo wagnerismo e dannunzianesimo di Jean Cocteau e la religio­ sità d’occasione di Emmer, in un guazzabuglio infelice di im­ magini distorte2. 1 Sull’attività del primo Ochlopkov, vedi: Pudovkin, L'attore nel film, Roma, Ed. Ateneo, 1947, I capitolo. 2 L. Emmer, E. Gras, Leggenda di S. Orsola.

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E, certo, nulla osta in teoria al tentativo: piu legittimo quando porta dal fatto letterario al figurativo, com’è il caso del teatro: dove pure hanno fatto gran capitomboli Mejerchold e Vachtangov e Ochlopkov (che ha poi abbandonato quella strada pericolosa) e, dopo l’esordio promettente del Figaro, anche il nostro Luchino Visconti. Ma tentativo tanto più pro­ blematico e difficile quando, come nel caso delle riprese cine­ matografiche dei quadri, si resta sostanzialmente nell’orbita del figurativo. Chi si cimenta e si mette in gara coi grandi artisti lo fa a tutto suo rischio e pericolo, come chi provocasse, per istrada, Camera o Louis; uscendone con le ossa peste egli non ha che battersi il petto tre volte, con decisi mea culpa.

Come un’acqua purgativa

Mi ha molto lusingato il fatto che il direttore della Società filosofica italiana, il prof. Enrico Castelli, mi abbia chiesto un giudizio sincero sul documentario da lui ideato, ed eseguito da suo fratello II demoniaco nell’arte, che qualche settimana or sono è stato proiettato al Barberini a cura del Circolo ro­ mano del cinema. Dopo la visione del film io ne ho cercato a lungo l’autore, ma poiché non mi è capitato d’incontrarlo, e poiché il film mi è parso si prestasse a considerazioni inte­ ressanti, eccomi a rispondere, e spero che egli non avrà a dolersi se lo faccio coram populo. Nel film del prof. Castelli, dunque, son condensati una serie di particolari, macabri, sensuali, orripilanti e, diciamo cosi, demoniaci, di pitture fiamminghe e olandesi; la visione ne è accompagnata da un commento, di intonazione lirica e di contenuto filosofico, che enuncia con sufficiente chiarezza l’idea del film; il quale, nel suo complesso, propone il ripudio del mondo orroroso e postula e anela alla trascendenza. La visione delle immagini provoca nello spettatore una emozione bruta e violenta, come quella che potrebbe nascere dalla visione diretta di atrocità, di scene di lussuria e di san­ 570

gue; e il commento, dopo un lungo accentuare il raccapriccio e l’incubo, inducendo a soffermarcisi e a crogiolarcisi dentro, polarizza poi quei brividi nella esaltazione della primalità dello spirituale che respinge e rinnega quella torbida e infetta materia. Che dire di questo assunto e di questo metodo? Per me essi sono una crudele calunnia della vita e dell’uomo; che non s’appaga piu nemmeno della fuga dal mondo, che non propone più nemmeno i vantaggi della vita eremitica e l’idillio della Tebaide. È una spinta verso l'angoscia esistenzialistica e verso il male; che, magari con illusioni di omeopatismo, magari in­ volontariamente, se ne fa alleata e complice. Per me tutto questo è torbido e brutto. Torbido moralmente e brutto arti­ sticamente. Giacché l’orrore non è rappresentato, ma esibito e spiattellato, non a produrre emozione estetica, ma raccapric­ cio e terrore; ed il commento non nasce come integrazione necessaria della visione, non fa corpo con essa, ma le si acca­ valla come una protuberanza arbitraria. Ma la cosa più straordinaria è che il prof. Castelli si è ser­ vito, per sostenere la sua tesi, dell’opera di alcuni pittori, tra i quali ce n’è di grandissimi, presentando particolari mon­ chi, sconnessi, affastellati e mescolati disinvoltamente come un mazzo di carte da giuoco; fedele, ed anche di raro, solo al soggetto esterno e mai alla ragion d’essere dei quadri; e sempre scardinando la forma e quindi togliendo allo spetta­ tore ogni possibilità di penetrare significati e valori. Cosi dopo aver offeso l’uomo e la vita il prof. Castelli, con questo suo film, offende e degrada anche l’arte; con un risul­ tato che non è opera di idee e di cultura, ma esattamente l’opposto. Credo che anche il più ingenuo, ignaro e malaccorto lettore urlerebbe di indignazione o si torcerebbe dal ridere se il prof. Castelli invece che su pittori avesse lavorato in tal modo su poeti: se avesse preso, ad esempio, qualcuna delle più tra­ giche e grottesche figurazioni dell’inferno dantesco, ne avesse staccato qua e là qualche verso, per mescolarlo poi a versi dell’Ariosto e del Tasso o chi altro sia, colla pretesa di far una

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nuova poesia. Nessuno passerebbe per buono un lavoro simile: e solo la diffusa ignoranza delle arti figurative può, e presso un pubblico speciale, far applaudire un film come il Demo­ niaco nell'arte. Che, in quanto ad arbitrio, dà punti ai film di Emmer, rimanendo in sostanza una bislacca e macabra car­ nevalata che, per puntellare tesi filosofiche alla moda, mette a profitto la grande arte e ne invoca l’autorità allo stesso modo, mi si consenta di dire, che fece quel tale che chiamò Beatrice un’acqua purgativa e la lanciò col dantesco: « io son Beatrice che ti faccio andare ». Quello fu solo uno scherzo triviale ed una trovata pubbli­ citaria di pessimo gusto: e non certo la fine del mondo. Come neanche il film del prof Castelli è la fine del mondo; e nean­ che la fine della cultura.

Michelangelo impressionista

Lasciamo dunque da parte le opere indipendenti e libera­ mente elaborate su precedenti di carattere artistico, che, per quante ne conosciamo, non sono che propalazione di errori e di equivoci circa le arti figurative (come se ce ne fosse bi­ sogno!); e stabiliamo che il cinematografo, colle sue molte possibilità espressive, e proprio per essere un linguaggio arti­ stico, è in grado di fare ciò che dignitosamente va fatto din­ nanzi alle opere d’arte: della buona critica. Dalla quale escluderemo preliminarmente quella che si presenta come Themes d'inspiration ’: un documentario belga che, probabilmente ispirato da un gruppo di inquadrature della prima sequenza di Lampi sul Messico di Ejzenstejn, ha raccordato con quadri celebri una serie di tipi che vagamente somigliano a quelli ritrattati ai quali tentano di avvicinarsi ancor più imitandone gli atteggiamenti e le espressioni. Ma dove Ejzenstejn, assistito dalla mirabile maestria del Tissé, ha fatto una stupenda sequenza che traduce con lirica evidenza l’as1 C. Dekcukelcire, Themes d'inspiration.

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sunto dell’autore, di descrivere un paese rievocando le tradi­ zioni eroiche ed artistiche ancor vive nel sangue dei peoni, l’autore del documentario ci ha presentato i suoi temi di ispi­ razione come una specie di documentazione razzistica e con un risultato non troppo dissimile da quelli che ottengono spen­ sierate e annoiate signore, quando nei loro salotti borghesi o aristocratici, fanno il giuoco dei quadri viventi, infelicissimo tra tutti i giuochi di società. Per altra via, per una via deliberatamente critica, si è mes­ so uno storico dell’arte, con un Rubens *, che fu proiettato e credo premiato alla Mostra veneziana del 1948. Un film al quale va data la gran lode di aver voluto, con linguaggio ci­ nematografico, esaminare criticamente la complessa opera di un artista grandissimo, quale il Rubens. Ma il torto di quel film sta proprio nella natura della sua critica, tutta volta alla ricerca di valori di composizione; col risultato di inutilmente scarabocchiare, su quei grandi dipinti, linee di forza, di resi­ stenza, di equilibrio e che so io. Ricerca dunque tutta este­ riore, arbitraria e schematica, legata al più screditato dei miti formalistici della visione. Si può dar merito al Rubens di non aver voluto fare del cinema a tutti i costi; come s’è visto in un Van Gogh12 dove, a questo scopo fatuo, si è fatta una carrellata che unifica, pas­ sando da un campo lungo a una figura intera, a un totale e a un dettaglio una serie di quadri diversi. Buffo a vedersi ma, per lo meno, inutile. L’uso della macchina da presa, nella lettura cinematogra­ fica delle opere d’arte, deve limitarsi alla sua possibilità di isolare particolari e di avvicinarli enormemente. Un lavoro che di per se stesso impegna una bella responsabilità: quella, estraendo particolari, di non astrarre dallo scopo e dalla fun­ zione di essi. Come è facilissimo sbagliando punto di vista e sbagliando distanza. Una mancanza di cautela in questo senso può far succedere quello che avvenne, anni fa, ad un critico illustre, grande zela1 P. Haesaerts e H. Storck, Rubens. 1 G. Diehl, R. Hessens, A. Resnais, Van Gogh.

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tore della pittura italiana dell’ottocento e di quella di Armando Spadini. In occasione di alcuni restauri volti a fermare con iniezioni sottocutanee di cemento gli affreschi della cappella Sistina, il nostro critico s’era dunque preso la briga di arram­ picarsi sulle impalcature per non perdere l’occasione di guar dare un po’ da vicino quella grande pittura. Ed avvenne che, da quella distanza, gli apparissero chiare le pennellate di Mi­ chelangelo. Onde, ridisceso a terra, il Nostro cominciò a dif­ fondere a destra e a sinistra la sua scoperta mirabolante, e, spinto dalla stessa celebrata eleganza del suo eloquio oltre che della sua scrittura, e ancor più dal suo anarchicheggiante spi­ rito di contraddizione, fini col parlare di Michelangelo proprio come di un tardo impressionista, e di trovarlo grande insom­ ma, proprio perché dipingeva come Spadini. Che è certo una bella prova di originalità, ma che come metodo critico non sembra affatto dei migliori o dei più ac­ cettabili. In questo esame di ciò che non va fatto coi documentari sull’arte è, almeno in parte, implicito ciò che si deve fare. Che è un argomento sul quale si potrà tornare altra volta.

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Servitù e grandezza del cinema *

In quanto spettacolo destinato prevalentemente al popolo, il cinema fu, ai suoi esordi, indirizzato naturalmente a soddi­ sfare gusti ed esigenze popolari. Gusti ed esigenze quali po­ tevano intenderli e interpretarli gli imprenditori, i produttori di film, il cui scopo era allora unicamente quello di realizzare, dai loro investimenti cinematografici, i più alti profitti pos­ sibili. Non certo dunque espressioni delle aspirazioni profonde del popolo lavoratore e cosciente, ma piuttosto demagogiche blandizie e ingenui allettamenti. Eran film in cui il signore ben calzato e vestito, ben rasato e impomatato, aveva infallan­ temente il ruolo del vilain, nella storia lacrimevole della ra­ gazza sedotta ed abbandonata, che albergava sotto i cenci e i vestiti a brandelli, un cuore d’oro. Storie di pene e di sevizie tremende, subite dai buoni popolani affamati, per opera dei ben satolli e crudeli signori; ma storie che terminavano il più delle volte, con assurdi, miracolistici, ed improvvisi capovol­ gimenti delle situazioni, cioè col trionfo del bene e della giu­ stizia, e col castigo, esemplare, della prepotenza e del male. Oggi si può fare molto facilmente dell’ironia su quei film e sulla mentalità primitiva che esprimevano, ma difficilmente, ad un più attento esame, si può negare che un fondo di verità era tuttavia in essi e affiorava. Quelle avventure inverosimili, strambe e raccapriccianti " Filmcritica, a. I, n. 1, dicembre 1950.

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— nelle praterie e nei canon delle Montagne Rocciose dei western — quei drammi di anime, come allora si chiamava­ no, quelle miserie inenarrabili, che contrapponevano angeli di bontà a demoni del male (nei film di periferia e di bassi­ fondi italiani e francesi), quelle passioni tormentose e lanci­ nanti e quei destini d’amore, di morte, di suicidio e di follia, (di certi film nordici, e, per esempio, in quelli di Asta Niel­ sen); tutto questo ingenuo e aggrovigliato tessuto di assurdità, rispecchiava, nonostante tutto, sotterraneamente, e quasi sem­ pre involontariamente, una realtà sociale inoppugnabile; anche se confezionati cinicamente in base a finalità affaristiche e di cassetta, quei film indicavano in definitiva: da quale parte fosse, già all’alba del secolo XX, la semplicità dei costumi e la purezza della vita, e da che parte fosse la sordida avidità e la sfrenata corruzione. Indicavano soprattutto con l’ingenuità del lieto fine di prammatica, come riconosciutamente fosse dal­ la parte del popolo il desiderio, l’aspirazione, il bisogno di giustizia. Alcuni di quei film non mancavano certo di valore artistico e di forza morale. Basti pensare alle prime comiche di Char­ iot e alla allegra buffonata delle torte in faccia; basti pensare che i voli di quelle torte avevano già trovato gustoso indirizzo: i volti duri di supercilio sprezzante, di superbia borghese, su cui spiaccicarsi. Basti pensare che in un film di Griffith, meritatamente ce­ lebre, Il giglio infranto, l’eroe positivo della storia terrificante e patetica è un uomo di colore, un cinese, mentre il brutale antagonista è un bianco: un soggetto ed una tesi che oggi por­ terebbero, dritto dritto, l’autore che lo proponesse a Holly­ wood, dinanzi al comitato per le attività antiamericane e pro­ babilmente anche in carcere, a tener compagnia ad Howard Fast e a Dmytryk e a Dalton Trumbo e a tanti altri artisti e intellettuali statunitensi, rei di aver optato per la giustizia e il progresso e di aver smascherato e denunziato l’iniquità. Anche in Italia, fin dai primi anni della nostra produzione cinematografica ci sono stati molti film di questa tendenza ingenuamente umanitaria e popolare. Sperduti nel buio, del

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1913, ne è un esempio tipico; in esso la contrapposizione ca­ nonica dei ricchi e dei poveri è proclamata apertamente in un prologo, quasi classista, dal titolo « gente che gode e gente che soffre ». Ma, fatto caratteristico, che vedremo ripetersi nella ultima produzione italiana, il film venne realizzato con mezzi quasi di fortuna, a Napoli da una casa di breve vita. E la qualità artistica di Sperduti nel buio e il suo alto livello morale passavano qua­ si inosservati, offuscati ed eclissati dalla retorica spettacola­ rità del film Cabiria dello stesso anno. Naturalmente il film è tutto pervaso da uno spirito inteso a sollecitare il giovane imperialismo italiano, che con la guerra libica aveva da poco, due anni prima, rinnovato le sue prove zoppicanti. Siamo nel 1913 e la grande crisi addensa sull’Europa le nuvole della prima guerra mondiale. Che in quell’anno venga istituita in Italia la censura cinematografica non è certo molto di più di una indicazione; ma è una indicazione assai chiara della eterna necessità dei guerrafondai di mettere in moto tutto un armamentario di menzogne di simulazioni e di dissi­ mulazioni, per persuadere il popolo ad accettare come un fatto bello, attraente ed entusiasmante, la ricorsa barbarie della guerra. La demagogia del film di cassetta dà piacere al popolo cui era destinata e che si poneva inconsciamente, ma spesso anche pungentemente, come questione sociale, dovrà oramai scom­ parire: dovrà cedere il passo e il campo ad altri tipi di film di cui i capitalisti, produttori cinematografici hanno abilmente studiato le formule: film che soddisfino ugualmente il biso­ gno di popolarità e di larga diffusione, i bisogni dell’affare e della cassetta, ma che servano, ad un tempo, alla difesa di classe, alla difesa della borghesia e dei suoi privilegi. Film di propaganda anzitutto. E durante la guerra imperialistica del 1914-18 ne abbiamo a iosa, tristamente esemplari, in tutti i paesi del mondo, anche in quelli rimasti estranei dal conflitto. Come esempio di questa abominevole produzione guerraiola, si può ricordarne uno in Italia, piuttosto curioso, Maci­ ste alpino. Camuffato da alpino questo gigante buono, compi­

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va nel film le più straordinarie e inaudite prodezze: combat­ teva gli austriaci a pugni ed a spintoni e colpi di lotta giap­ ponese: faceva prigionieri interi reparti di soldati nemici e li trasportava sul groppone a grappoli, come fossero fuscelli, prendeva a calci i generali di Francesco Giuseppe, sgominava da solo intieri reggimenti. Allegre cretinerie buffonesche che vai la pena di ricordare solo perché sono il segno tipico di una trasformazione che si compiva in tutto il mondo e par­ ticolarmente in America. Si passerà poi dal film di dichiarata propaganda al film che dissimulava il suo veleno; al film di­ vertente, cioè propriamente al film destinato a divertire ad allontanare dalla realtà e dalla interpretazione della realtà; al film di evasione. Un film diviene così e lo ha dimostrato stupendamente Ilja Ehrenburg nella sua indimenticabile analisi, Fabbrica di sogni, diviene oppio e cocaina a buon mercato, stupefacente alla portata di tutte le borse. Il film può ormai divenire impu­ nemente mondano; giacché il fasto e l’eleganza non sono più simboli di bassezza morale ma anzi già attributi e doti preziose e desiderabili: il mondo ha perduto tutta la sua cru­ dezza, tutta la reale asprezza dei suoi conflitti: gli spigoli e gli angoli si smussano e tutto si colora di un roseo bugiarda­ mente ottimistico. Questo mondo di cartapesta diventa fastoso perché il fasto è, in arte, l’arma della reazione: non è la Con­ troriforma che, nel Seicento, avvia alle fastose vuotezze baroc­ che l’arte figurativa, soffocando la grande rivoluzione reali­ stica del Caravaggio? Ed è nel cinema il fasto grottesco delle corti operettistiche e delle musiche leggere quello che dovrà far sognare il popolo, che dovrà fargli sfuggire per un’ora la durezza della vita e suggerirgli di dimenticare i suoi compiti vitali. Corti, si sa bene, dove il principe studente amoreggia con la sartina e antepone l’amore alla ragione di Stato; dove il principe consorte si sottrae alle cure del trono e ai fastidi dell’etichetta inseguendo le vedove allegre e le dame viennesi dei café chantant; e dove la principessa delle ostriche e dello champagne dei locali notturni si abbandona deliziosamente all'amore di zigano. 578

Ma sono anche i mondi della borghesia capitalistica, della banca e della Borsa: e già compaiono le prime segretarie pri­ vate, le prime dattilografe destinate immancabilmente ad im­ palmare il figlio del principale. Questo genere di film basato sull’evasione in un mondo irreale è praticato in Italia negli anni della prima guerra mon­ diale e nei primissimi del dopoguerra, da uno scrittore di ro­ manzi mondani, Lucio D’Ambra che aspira, incapace di mi­ surare le sue forze, al titolo di Balzac italiano: titolo ad ot­ tenere il quale non bastava evidentemente trasformare il saio che Balzac indossava per scrivere nel mantellone scarlatto da cui Lucio D’Ambra non si separava mai nel dirigere i suoi film: i quali hanno per titolo (e mi pare che i titoli caratteriz­ zino bene anche i contenuti): Il girotondo degli undici lanceri, Le mogli e le arance, La rivoluzione in sleeping-car e simili: c già vi si presenta la grazia leggera sotto la quale Lubitsch dissimulerà il contenuto reazionario della sua brillante pro­ duzione. Ma Vevasione non si dirige in quest’unica direzione: essa creerà il mito della donna fatale, della donna del destino, della vamp: una tendenza alla quale, già prima della guerra, l’Italia pagherà il suo tributo con Lyda Borelli che contrappone i suoi contorcimenti teatraleggianti alla schietta e saporosa espres­ sività popolare di Francesca Bertini. L'evasione si provoca assai facilmente col film di avventure poliziesche ultima degradazione del giuoco sottile delle analisi di Dupin nei lucidi racconti di Edgar Poe. Genere che viene praticato in Italia da Emilio Ghione, regista e attore dal volto espressivo duro ed energico, che si picca di problemi sociali e che li tratta in modo da non turbare i sonni della borghesia ita­ liana. Ma il film poliziesco che fiorisce largamente in Italia, ac­ canto al film storico, tipo Messalina, Cesare e Cleopatra, Vero­ ne, Marozia, unisce all’evasione un segreto insegnamento: esso ribadisce e mitizza l’idolo della borghesia, la proprietà, il da­ naro. A dispetto della violenza e del sangue che si sparge con incredibile facilità in quei film, a dispetto dei metodi della delinquenza illustrati in quei film, quasi in forma dida­

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scalica, quei film non sono mai vietati da nessuna censura: perché essi sanzionano e santificano il privilegio e l'ingiustizia sociale. Come a dispetto del dispiegarsi di nudità e di eroti­ smo delle famosissime scene delle orge di Nerone e delle cene di Trimalcione i film di ricostruzione storica dell'antica Roma non vengono mai vietati dalla censura perché essi dif­ fondono ed alimentano il mito della passata grandezza, della grettezza della democrazia, della rinascita imminente di una Roma imperiale: quei miti sconciamenti nazionalistici che il fascismo trasformerà in slogan aperti per la sua propaganda. Tutto questo si faceva in Italia alla buona e d’istinto e quasi inconsciamente la borghesia elaborava i generi e le tesi utili alla sua consacrazione. In America invece tutto questo diven­ tava oggetto di indagine metodica, di ricerca scientifica, di sistematica raccolta di dati: che venivano poi elaborati in una precettistica rigorosa, che si andava articolando in una normatività tecnica da non potersi mai trasgredire: il tutto sbocciando naturalmente nella perdita di ogni artisticità ma nella finitezza normale ineccepibile che caratterizza la produ­ zione americana: il film diviene un prodotto di serie e la sua normatività e precettistica, il suo formalismo (che s’accom­ pagna, e non è un giuoco di parole, al contenutismo più gros­ solano) mirano alla creazione di un linguaggio immediatamente comprensibile sì, ma anche e soprattutto, universalmente com­ prensibile: creano un linguaggio cosmopolitico da piacere a tutti i pubblici, ai pubblici di tutto il mondo: il film ameri­ cano parte in tromba alla conquista dei mercati mondiali. Decade e precipita e si nega come fatto artistico. Non solo il film americano conquista in breve i mercati dell’Europa (ormai divenuta debitrice del nuovo mondo) ma introduce, colla forte suggestività che il cinema per la sua stessa natura esercita sugli spettatori, le forme di vita americana, i prodotti americani: in un arrembaggio furioso a quella che loro consi­ deravano la sgangherata e dissanguata, decrepita Europa inca­ pace e restia a rinnovarsi. La produzione italiana che vendeva prima della guerra a scatola chiusa i suoi film e che durante la guerra aveva visto

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salire a più di cento le sue case di produzione piegò facilmente sotto la pressione scientificamente organizzata degli americani. Gli americani calarono in forza, nel passato dopoguerra, in Italia, per girarvi un mammut all’italiana, un Bew diretto da Fred Niblo. Quando, dopo più di un anno, in cui tutto comprarono con i loro dollari, ripartirono per andare a finire il loro mammut grottesco in America, la produzione italiana praticamente non esisteva più, non solo sui mercati interna­ zionali, ma anche sul mercato interno: e dovette attendere anni ed anni prima di riprendersi. La guerra, la tremenda esperienza della guerra era dunque passata inutilmente, non aveva insegnato nulla all’Europa? Non aveva lasciato nessuna traccia nei film? Ci furono, è vero, nel passato dopoguerra, fuori d’Italia, tutta una serie di film pacifisti; ma furono purtroppo film che escogitarono que­ sto nuovo inganno per le masse deluse ed esasperate, e sotto la veste dell’accusa alla guerra seminavano e diffondevano nuovo veleno. In una inchiesta promossa dalla Revue du ci­ nema, nel 1931, gli scrittori e gli artisti interpellati risposero quasi unanimemente che i film di pace in realtà non erano che film di guerra, che, in buona o cattiva fede, essi seminava­ no nuovi rancori e nuovi odii. Un caso tipico fu la riduzione del celebre romanzo di Remarque Im Western nichs Neues, che ridotto in film in America, per la regia di Milestone, aveva provocato le giuste proteste dell’autore, che aveva scritto un libro per la difesa della pace e che se lo vedeva tramutato in un film di propaganda antitedesca. Ci fu, tra gli scrittori che risposero all’inchiesta sulla Revue du cinema, Henri Barbusse che andò più a fondo alla questione: « Se i film di guerra — egli scrisse — mostrassero la guerra quale essa è veramente avrebbero un indubbio valore per la propaganda della pace. Ma nessuna censura li permetterebbe ». E concludeva fine­ mente « che tutti i mezzi impiegati nella lotta contro la guerra sono vani, se non si chiariscono le cause profonde della guer­ ra, se non si mette la questione sul piano sociale ». I film che ponevano la questione sul piano sociale erano già nati: film veramente e concretamente pacifisti: e segna­

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rono una svolta radicale nella storia della cinematografia: era­ no i grandi film russi L’incrociatore Pot'émkin e La madre, La linea generale e L’erede di Gengis Khan, La terra. Sono film pa­ cifisti perché esprimono la realtà nuova di una società tesa verso l’edificazione del socialismo e basata sul lavoro. E men­ tre gli intellettuali di tutto il mondo riconoscevano, ammi­ rati, l’alto livello artistico e la potenza innovatrice di quelle opere, entrate a far parte ormai dei classici dell’umanità, i popoli di tutto il mondo vedevano in quei film un messaggio di pace: perché è solo nel socialismo l’eliminazione di quelle crisi periodiche e di quelle contraddizioni che hanno come conseguenza fatale la guerra. Attraverso le maglie della censura, qualcuno dei film sovie­ tici arrivò anche in Italia e fu per i giovani, nel deserto della produzione cinematografica nazionale, come una pioggia be­ nefica e fertilizzante che non potrà mancare di dare, piu tardi, qualche frutto felice. È dallo studio dei film sovietici e degli scritti dei teorici e degli artisti sovietici che rinasce tra noi l’amore e l’interesse per il film. Il governo fascista, mai troppo sicuro della sua stabilità, pensò ad un certo punto di servirsi anche dell’arma del cinema per l’asservimento, l’adescamento e l’addormentamento del popolo italiano: e promulgò in un primo tempo una serie di leggi che favorirono le speculazioni affaristiche della pro­ duzione cinematografica e che richiamarono e in qualche mo­ do valsero a ricostituire i quadri della cinematografia italiana distrutti e dispersi dalla pressione straniera; creò poi, con la mira probabile di una futura produzione monopolistica di Stato, una serie di stabilimenti, impianti, istituti, circuiti di sale che mise provvisoriamente a disposizione della specula­ zione privata. È molto sintomatico il fatto che il fascismo non solo non ha mai favorito, ma anzi ha apertamente osteggiato i film di propaganda diretta. Una simile politica cinematografica però non meraviglia chi conosce la realtà della vita italiana, la sorda e tenace ostilità della parte migliore del popolo italiano alla

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dittatura. Neppure in un film di propaganda il fascismo po­ teva porsi come problema. Se mai governo ebbe bisogno di film di evasione, questo fu appunto il governo fascista. Fu quindi escogitata una legge che concedeva premi alla produzione cinematografica propor­ zionalmente agli incassi. Il film veniva automaticamente pre­ miato in proporzione diretta dei suoi incassi: il film che gua­ dagnava di più veniva anche a percepire dallo Stato un pre­ mio maggiore. Si distoglieva cosi la produzione che avesse voluto cimentarvisi con film di impegno morale e artistico, e si favoriva un tipo di produzione affrettata e imperniata sulla unica attrattiva di un attore popolare: la produzione imbastiva per questi attori le più stravaganti e assurde farsacce e le rea­ lizzava a tempo di record. È noto che ci fu un regista che si specializzò in questo tipo di produzione non impiegando più di 15 giorni per la ripresa di un film; trenta col montaggio, la sincronizzazione, il fissaggio e la stampa della copia campione. Bisogna far ridere il pubblico, raccomandava costantemen­ te ai cineasti Mussolini che sapeva quale minaccia sia per la tirannide un popolo che non ride. E già De Sanctis, alla fine del secolo scorso, analizzando la funzione sociale e antisociale di certi nostri generi letterari, la novella erotica, sollazzevole e boccaccesca ammoniva che « l’Italia moriva dal ridere ».

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Che succede al Centro sperimentale di cinematografia? *

A intendere l’importanza che ha avuto il Centro speri­ mentale di cinematografia potrebbe bastare anche solo il ricordo di quanti, tra i piu vivi e capaci artisti e tecnici del film italiano sono usciti da quella scuola; potrebbero bastare i nomi dei registi: De Santis, Germi, Zampa, Puccini, Anto­ nioni, Chiari, Zeglio, Cerio, Scotese, Morelli, Pozzetti, Furian, Cottafavi; dei documentaristi: Cancellieri, Betti, Pierotti, Maselli, Polidori, Romano, Passante, Fulci, Partesano, Ricci; dei produttori: Salvo D’Angelo, Tamburella, De Laurentis; dei direttori di produzione: Provenzale, Niederkorn; degli sce­ neggiatori: Telimi, L. Trieste, Pietrangeli, Musso; dei critici: Macorini, Cincotti, May Patucchi, Montesanti; degli operatori: Ventimiglia, Schiavinotto, Nebiolo; degli scenografi: Valen­ tini, Scotti, Garbuglia; dei costumisti: Baroni, Patullo; degli attori e delle attrici: A. Valli, Clara Calamai, Elli Parvo, Otel­ lo Toso, Elena Zareschi, Andrea Checchi, Mariella Lotti, Gian­ ni Agus, Adriana Benetti, Carla Del Poggio, Michele Riccardini, Massimo Serato, Luisella Beghi, Duse, Bagolini e via dicendo. E si potrebbe anche ricordare, come titolo d’onore per il Centro, che l’hanno regolamente frequentato, o larga­ mente bazzicato, uomini come Mario Alicata, Pietro Ingrao, Mario Pannunzio. Fu quella una scuola — e qui è il segreto di cosi splen­ * Rinascita, a. Vili, n 1, gennaio 1951.

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didi risultati — dove la cultura non era considerata somma di cognizioni morte, ma come fattivo strumento che solo nella pratica e nell’azione può affermarsi come tale: fu una scuola dove cultura non era informazione ma formazione: e non solo per gli allievi, ma anche per i dirigenti e gli inse­ gnanti: che, nello sforzo di inventare, sperimentare e appli­ care una didattica del cinema furono portati a costantemente vagliare e approfondire le loro capacità e attitudini, ad accre­ scerle e a metterle a fuoco, prodigandosi, non senza genero­ sità, in un lavoro che richiedeva, oltre all’entusiasmo, anche una buona dose di abnegazione. Giacché prima che nascesse il Centro sperimentale di cinematografia nel mondo del cinema italiano vigevano astratti concetti di pratica e di tecnica, vigeva insomma il mito gros­ solanamente artigianesco del mestiere, considerato come som­ ma di norme e di espedienti pratici, come segreto professio­ nale che gli iniziati si guardavano bene dal trasmettere, ma che anzi custodivano gelosamente per non alimentare la pe­ ricolosa concorrenza dei giovani. Quanti eravamo allora gio­ vani, alla Cines di via Veio — Solatoli, Soldati, Di Cocco, Levi — ricordiamo tutti benissimo il divieto anche solo di entrare nei teatri di posa quando i registi giravano, e gli ope­ ratori che, salvo rare eccezioni rifiutavano qualunque risposta alle nostre insaziabili curiosità e domande. E gli intellettuali? Il maggior numero degli intellettuali italiani, che si erano dati, più o meno stabilmente, al lavoro cinematografico, lo avevan fatto senza slancio e senza convinzione, considerando il cinema un guadagna-pane comodo se pure piuttosto inde­ coroso. D’Annunzio disprezzava profóndamente le truccherie del film e Lucio D’Ambra, Luciano Zuccoli, Umberto Fracchia, Ercole Luigi Morselli, Nino Oxilia e tanti altri non meritano, in genere, nella storia del film, più di una nota in corpo sei a pie di pagina: nessun s’è curato di conservare, non dico i film, ma qualsiasi documento di quella loro attività; anzi vien fatto di pensare che essi stessi si siano preoccupati di non conservarne memoria, tanto è difficile, per non dire 585

impossibile, trovare anche solo una annata delle innumere­ voli pubblicazioni periodiche cinematografiche dei tempi del muto, e persino, quelle di Blasetti agli esordi del sonoro. Anche fuori d’Italia la situazione non era diversa e, per qualche buon saggio di Moussinac e contro i sette volumetti antologici di L'art cinématographique di Alcan, e contro La révue du cinéma, sempre elegante ma piuttosto inconsistente, c’era tutta la serqua delle negazioni e delle incomprensioni, dall’antipatia di Marcel Proust per il film, alle spiritose ironie di Chesterton, agli arzigogoli di René Schwob, fino al fe­ roce e sciocco giudizio di Montherlant su quel « mediocre pitre de cinéma nommé Chariot ». E i teorici del film come arte? Canudo, che si può ricordare solo per esserne stato tra i primi, se non il primo, nel tempo, non ha lasciato niente di importante, Delluc s’era impegnato quasi esclusivamente nella difesa delle speditezze del film americano contro le uggiose pretese letterarie del film francese e italiano, mentre S. A. Lu­ ciani, colto, competente ed arguto, poneva il film come anti­ teatro e sosteneva che il film dovesse nascere dalla musica. Un tal Collina, piu tardi, relegava il cinema tra le arti secon­ darie e il poligrafo Alberto Consiglio infarciva il suo Cinema arte linguaggio di innumerevoli sciocchezze e strafalcioni, tra i quali restò memorabile la traduzione di Journey's end in Fine di giornata: cosi da essere assai poco più in su di quel tale Alacci-Alaicevic — che in un libretto, edito da Bempprad, dava delle Nostre attrici cinematografiche descrizioni niente affatto critiche, ma in compenso accese di immagini erotiche. Quanto alle opere di Pudovkin, Béla Balàzs, Ejzenstejn, Arnheim, mi sobbarcavo io, in quel tempo, alla fatica del tradurle e del divulgarle in Italia. La cultura cinematografica era dun­ que, in Italia, a un livello abbastanza sconsolante. Oggi — per merito del Centro sperimentale di cinema­ tografìa — la situazione è profondamente mutata. Non c’è oggi criticuzzo di giornale di provincia e non c’è socio novello di circolo del cinema di periferia che non abbia, assieme a una diretta conoscenza di qualcuno almeno dei classici dello schermo,

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tutto un tessuto di idee chiare e organicamente sistemate; e queste idee sono quelle affermate negli studi promossi dal Centro nei suoi corsi, nei più di cento fascicoli della rivista Bianco e nero e nei volumi di sua edizione. Oggi nessuno chiede più una estetica autonoma del film, come la vagheg­ giavano assurdamente gli avanguardisti francesi e molti intel­ lettuali italiani, nessuno postula più la necessità di un film puro, esigenza che sopravvive ancora in Arnheim, e neanche di un cinema cinematografico come avrebbe voluto, pendant del teatro teatrale, Anton Giulio Bragaglia. Oggi tutti sanno che il film rientra nel generale concetto dell’arte, che la fu­ sione di più tecniche che in esso si attua non ne esclude la artisticità, che il cinema cinematografico è una tendenza arti­ stica e non un canone estetico. Tutti sanno che il film è pro­ dotto da una collaborazione artistica e non affermano più, come una volta Corrado Tavolini, che l’autore del film è il regista; tutti sanno che l’antinomia tra il recitare a freddo e il recitare a caldo si risolve nella creatività fantastica degli attori riportati cosi sul piano dell’arte; tutti conoscono la po­ tenza del film e la sua enorme portata e responsabilità morale e sociale, tutti ripudiano il film di confezione e il film di evasione e lo considerano stupefacente a buon mercato. Su questi cardini teorici fondamentali il Centro sperimentale di cinematografia ha basato il suo insegnamento orientando così in Italia tutta la cultura cinematografica. La ripresa e la rivalutazione del vecchio cinema italiano c del linguaggio nazionale dei primi saggi di realismo cine­ matografico, Sperduti nel buio, Assunta Spina, Teresa Raquin, in opposizione alla retorica imperialistica dei film sulla vec­ chia Roma, le immediate riserve al film francese dei Renoir, Carne, Duvivier, negato come realistico e ricondotto alle sue origini letterarie, e soprattutto, lo studio e l’esaltazione del grande film sovietico, delle sue teorie e delle sue opere, sono grandi e indubbi meriti del Centro sperimentale di cinema­ tografia ed hanno contribuito non poco a determinare quel clima che, alla caduta del fascismo, doveva portare alla felice fioritura del neo-realismo.

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Che cosa avviene ora al Centro sperimentale di cinema * tografia? Sono stati allontanati coloro che lo aveva creato, diretto, animato; per sostituir loro un branco famelico di incompe­ tenti il cui unico titolo è quello di far parte della fazione governativa. Costoro hanno già dato la misura delle loro capacità e dell’indirizzo che intendono imprimere all’istituto: che sarà, come hanno pubblicamente dichiarato, un indirizzo pratico, svincolato dall’eccessivo culturalismo. Un indirizzo che s’ispi­ ra evidentemente alla parola d’ordine di Sceiba contro il culturame. Motivo di soddisfazione e arra di sicuri successi — ha dichiarato il direttore del Centro — è che quest’anno, tra i nuovi allievi, ci sia un giovane « proveniente dal nobile collegio di Mondragone » nonché il figlio di un alto funzio­ nario del ministero degli esteri che sa andar a cavallo. Frattanto ha iniziato i suoi corsi alla Pro Deo — cui prodest? — un Cinejorum, che dovrà sostituire il Centro sperimentale, che qualcuno ha reiteratamente proposto di chiu­ dere e di vendere. Anche questo fa parte, naturalmente, della difesa della cultura e della civiltà occidentale.

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L’arte del film *

Francamente io trasecolo: che un vorace, divoratore di carta stampata, come Glauco Viazzi, non si sia trovato d’ac­ cordo con me nel caratterizzare questa antologia di Guido Aristarco ’ « un compendio dei materiali e delle teorie affer­ mate in Italia già nel 1932 e ribadite, approfondite e divul­ gate, dal 1936 alla liberazione, per opera del Centro speri­ mentale di cinematografia e della rivista Bianco e nero: com­ pendio pressoché completo e, salvo veniali inesattezze e re­ fusi, serio e corretto »2 mi sembra un po’ grossa. « Noi non condividiamo l’opinione di chi ha detto che L’arte del film finisce coll’essere un compendio delle posizioni sostenute dalla rivista Bianco e nero »3, scrive il Viazzi: ed io, senza farmi intimidire dal suo maiestatico noi, sono costretto ad ammonirlo che questa non è materia opinabile, ma proprio matter of fact; e che se lui non se n’è accorto, o se n’è dimen­ ticato, libri e collezioni di riviste stanno lì, facilmente acces­ sibili, a controllarle. Libro pressoché serio e corretto: e il Viazzi mi costringe a precisare che, probabilmente, egli non sarebbe stato indotto a formulare quella sua strana opinione se la puntigliosa filo­ logia dell’Aristarco non fosse venuta di colpo meno quando * 1 2 3

Filmcritica, a. II, n. 3, febbraio 1951. G. Aristarco, L'arte del film, antologia storico-critica, Milano, 1950. U. Barbaro, Due libri di cinema, in l’Unità, 9 settembre 1950. G. Viazzi, L'arte del film, in Cinema, 15 ottobre 1950.

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si trattava di citare le fonti reali della maggior parte dei brani da lui scelti per la sua antologia: che vengono da Bianco e nero e da quella cerchia. Queste citazioni, almeno in certi casi, sarebbero state utili al lettore e doverose. Per esempio: una mia vecchissima traduzione dello scritto di Ejzenstejn sulla sceneggiatura e la novella cinematografica invertiva i primi due periodi, per ragioni di chiarezza, molti altri li fondeva, per le stesse ragioni, eliminando gli innumerevoli a capo, e veniva a prendere un’andatura distesa che l’originale, specie di manifesto d’avanguardia, non aveva. Tutto ciò per­ mane nel brano riportato dall’Aristarco, e non basta qualche sinonimo, in sostituzione di qualche paroletta a far credere a una nuova versione. I brani dell’Arnheim, riportati come da Film als Kunst, sono una riedizione del sunto che io ne feci alla Cines e che, coll’autorizzazione dell’autore, ripubbli­ cai, anni dopo, su Bianco e nero: presentare un sunto fatto da un altro come una traduzione dall’originale è piuttosto curioso. Le versioni da Pudovkin, pregi e difetti, sono le mie, e non c’è dubbio che sarebbe stato utile per il lettore italiano sapere che quei brani fanno parte di volumi editi anche in italiano, nella loro interezza: e altrettanto dicasi per i capitoli di Béla Balazs di Lo spirito del film e cosi via discorrendo. Anche gli editori, che si sono visti riprodurre, a cinquantine, pagine di loro proprietà, avrebbero avuto il diritto — mi pare — alla modesta contropartita di una cita­ zione. Piccolezze? Forse. Che io non avrei nemmeno rilevato se Viazzi non mi avesse costretto a mettere i puntini sugli « i », a spiegare cioè in che modo questo libro, invece di essere pressoché serio e corretto, avrebbe potuto essere serio e corretto tout-court. Sempre poi per quanto mi si riferisce: secondo Aristarco io avrei derivato dai russi il concetto di tesi come asse della collaborazione, il che non è esatto. L’argomentazione è mia e può aver avuto qualche importanza da noi, in pieno for­ malismo e crocianesimo; ma io sono debitore di tante eccel­ lenti idee ai teorici sovietici, che non mi dispiace che l’Ari­ 590

starco dilati, anche oltre il vero, questo mio debito. Mi sor­ prende però che egli mi faccia dire che la tesi è l’asse ottico della collaborazione, perché l’asse ottico qui c’entra come i consueti cavoli a merenda e la frase non ha più alcun senso. In tema di refusi, mentali o tipografici che siano, io non ho detto che la suddivisione del racconto cinematografico in spazi e tempi è dogmatica, ma civettando con le terminologia delle vecchie rettoriche, la dicevo diegmatica, che vuol dire un’altra cosa. E, per finire, e non si finirebbe davvero cosi presto, scrivere « montaggio tout-court, montaggio di pezzi brevi » è una bella svista. Tanto per le veniali inesattezze ed i refusi che, a guardar meglio, risultano molto più numerosi, e assai meno veniali, di quanto non mi fossero sembrati d’acchito. Tali comunque che, in contiguità con lo sfoggio di una cosi arrovellata filolo­ gia, fanno un po’ l’effetto di una celebre acconciatura di Chariot (Charles Spencer Chaplin, direbbe Aristarco): in marsina si, ma senza pantaloni e con le scarpe sfondate. Nella mia recensione dell’antologia di Aristarco io indicavo un problema che da quei vecchi materiali emergeva natural­ mente, offrendo un campo di indagine particolarmente attua­ le: in sostanza mettevo in guardia l’Aristarco dal cercare di connettere una moderna teoria del cinema colle estetiche dcll’idealismo, colle quali essa ha ben poco a che spartire; e gli davo modo così, dopo tante sue trascrizioni e compila­ zioni, di trattare finalmente un problema vivo e di aprire su di esso una discussione. Problema così vivo che immediata­ mente un lettore non specialista lo fece suo domandando a Vie nuove perché io sostenessi la vanità del pensiero ideali­ stico in base al quale il film non può esser considerato un’arte, se contro la mia tesi stanno le precise dichiarazioni di Gen­ tile e di Croce. Io risposi con dati e con argomenti, sperando che la discus­ sione si allargasse e si inserisse nel quadro della generale revisione in atto della cultura italiana ’. 1 Vie nuove, a. V, n. 38, settembre 1950.

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Fin de non recevoir. I miei argomenti non interessano Aristarco, che non si è chiesto se per caso io non avessi ragione, nemmeno in base alla matematica, (che neanch’essa è un’opinione). Giacché nella sua antologia su ventuno scritti undici sono di scrittori marxi­ sti, sette sono dichiarati, nella prefazione, insottoscrivibili, due (Pasinetti e Rotha) non hanno importanza teorica ed uno (Chiarini) è gentiliano, ma con tante riserve. Invece di raccogliere il mio invito Aristarco lancia la pro­ posta di una revisione dei princìpi critici in base alle idee espo­ ste nella sua prefazione. Ne scrive su Cinema e il bollettino Cineclub, del Circolo del cinema di Reggio Calabria, indice un referendum. C’è un apporto personale di Aristarco alla teoria dell’ar­ te del film ed io non l’avevo tenuto in giusto conto? Ed in­ fatti Glauco Viazzi (loc. cit.) dichiara che « i vecchi stru­ menti non sono piu efficaci » e che le posizioni di Aristarco « sono un primo utile stadio per il superamento delle vecchie posizioni e per l’entratura (sic) in un nuovo terreno teorico e critico » (loc. cit). A me non resta che nuovamente trasecolare giacché in quella prefazione si nega lo specifico fìlmico, si nega valore esclusivo al cinema cinematografico, si accettano i nuovi ap­ porti della tecnica meccanica, colore, suono, stereoscopia, e si constata che certi film sembrano aprire una nuova via per il cinema. Per cui, interpellato dal bollettino di Reggio Ca­ labria rispondo:

1. Il problema centrale del referendum di Cineclub io me lo sono già posto e, una dozzina di anni fa, gli ho dato una risposta colla quale mi sembra concordino oggi molti, tra cui l’Aristarco. Si può vedere nel mio Soggetto e sceneggia­ tura il capitolo 1 requisiti cinematografici del soggetto e, in particolare, la sezione Lo specifico cinematografico. Vi dicevo: « Se si afferma l’esistenza di uno specifico cinematografico si deve intendere in esso solo un valore di tendenza. Come se si sostiene il teatro teatrale o la pittura dipinta. Pretendere

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un maggior rigore in questa affermazione di tendenza signi­ ficherebbe postulare nuovamente l’esistenza di limiti e negare quindi l’unità dell’arte. Abbiamo invece visto che nella sua più alta e vera essenza l’arte è una: così che, per poco conformi siano a certe tendenze i quadri di Leonardo, per letterari che possano essere, nessuno può certo per questo cancellarli dalla storia della pittura ». Queste tesi le ho poi ribadite in varie occasioni molte volte; per esempio, recensendo un volume di S.A. Luciani in Bianco e nero (a. VI, n. 8): « Noi che tendenzialmente siamo per il teatro arte figurativa, teatro liberato dall’ingom­ bro dei testi e dalle insuperabili strettoie dell’interpretazione, siamo anche per il cinema cinematografico; ma questa nostra tendenza non giunge alla tendenziosità di farci negare possi­ bilità diverse ». 2. Non è buona critica quella che prende come base per il giudizio delle opere d’arte la normatività tecnicistica di una data tendenza: e quindi neanche della tendenza che, pre­ supponendo uno specifico filmico, sostiene l’artisticità esclu­ siva del cinema cinematografico e puro.

3. Il progresso tecnico del cinema ha creato nuove ten­ denze — e per quello che io ne penso si può vedere il mio scritto Ancora della terza fase ossia dell'arte del film, in Bian­ co e nero. « La negazione teorica di uno specifico delle arti singole come base della loro artisticità è sostenuta tanto dall’ultima estetica idealistica quanto da una più moderna e consapevole estetica: problema interessante sarebbe vedere, oggi, in qua­ le di esse una posizione così antiformalistica possa stare legit­ timamente e senza contraddizione; comunque anche solo ap­ profondire storicamente il problema, cioè ripercorrere la stra­ da che ha portato alla sua giusta soluzione, credo varrebbe di più che non continuare vanamente a segnare il passo su di essa. » Rinunziando ad una discussione su di un piano veramente 593

teorico, io proponevo dunque qualche ricerca sulla storia del problema agitato nuovamente da Aristarco: ricerca davve­ ro interessante. Giacché si potrebbe prender la mossa dalle discussioni cinquecentesche tra pittura e scultura e ricordare come Michelangelo ghignendo dicesse che le due arti hanno lo stesso scopo, solo, che, per entrambe, è difficile conseguirlo: si potrebbe ricordare come Lessing ponesse i suoi limiti tra le arti e come questi limiti siano stati negati dalle posteriori estetiche, e in Italia, particolarmente, per opera del Croce. Avvicinandosi al problema nei confronti del cinema, e in particolare alla terminologia impiegata in queste ricerche, si potrebbe ricordare come l’affermazione di uno specifico delle singole arti è stato caratteristico dei formalisti russi e che Bucharin considerava questo concetto come base anche della sua teoria sociologica dell’arte che egli aveva derivato da Plechanov e che costituisce un vero travisamento del marxi­ smo. A questo errore pagherà il suo tributo anche Pudovkin, indottovi dal Kulesov, che cercava, agli esordi della sua car­ riera, lo specifico filmico, nel senso formalistico del pridm, cioè del procedimento artistico, e lo identificava nel montag­ gio. Posizioni poi abbandonate per più approfondite ricer­ che. Mentre la difesa coerente e pugnace della specificità filmi­ ca e l’opposizione ai progressi della tecnica meccanica è dell’Arnheim, abbozzata nel Film als Kunst e ribadita nel Nuovo Laocoonte. Si potrebbe infine, ed è strano che non lo si sia già fatto, ricordare le teorie del Lebedev, che ha scritto un intero libro sull’argomento Sul problema dello specifico cine­ matografico. E infine la discussione e le risoluzioni più recenti dei cineasti sovietici. Un buon campo, lavorare nel quale varrebbe più davve­ ro che non atteggiarsi a scopritori. E volete vedere in che modo? Arte del film, p. XIV: « ... si disse che Chaplin rimane sostanzialmente anticinematografico per lo scarso valore che in esso ha l’elemento montaggio, caratteristica comune a tutti i suoi film », mentre « niente è più errato che l’identificare la mancanza di montaggio, nella sua accezione più o meno comu­ ne, con la mancanza di artisticità. Senza contare che, se in 594

Chaplin l’elemento montaggio ha uno scarso interesse, nello stesso autore una fondamentale funzione assume, ad esem­ pio, l’impiego del materiale plastico ». Quel tale che disse sono io, nelle note a L'attore nel film: modello insuperato di visione cinematografica, « solo per quanto si riferisce alla scel­ ta del materiale plastico in funzione narrativa e psicologica... con tutto ciò il film rimane sostanzialmente anticinematografi­ co per lo scarso valore che in esso ha l’elemento montaggio ». Mi sembra che dare di un autore una immagine deforma­ ta con una citazione tronca, e polemizzare con questo fanta­ sma, sostenendo, con argomenti a lui plagiati, la tesi a lui plagiata, sia una bella prova di spigliatezza. Spigliatezza che si ripete quando, a pagina XXII, Aristar­ co ricorda qualcuno che « ha voluto sostenere di una terza fase o terza strada, quasi a voler giustificare, talvolta, una involuzione ». Quel qualcuno sono io e non ho parlato affatto di involuzione: e che, cinque anni fa, dicevo (un po’ meglio, mi si consenta) quello che Aristarco dice oggi, e con gli stessi miei esempi: Enrico V, Les cnfants du paradis, Ivan il Terri­ bile (che ho fatto proiettare io per la prima volta in Italia al festival del Quirino del 1945). La cosa prende un aspetto particolarmente piccante se si ricorda che alla mia tesi aderirono Pietrangeli, Puccini, Carancini e molti altri, mentre l’attuale zelatore di Aristarco, Glau­ co Viazzi, era pieno di dubbi e di riserve e si chiedeva penso­ samente: « Qual è il terreno di crescita di questa terza via? ». Ci volevano cinque anni di ponzamenti perché egli scoprisse ['entratura nel nuovo terreno. Lo specifico cinematografico in Aristarco non si nega esteticamente, ma come specifico di ieri, al quale va sosti­ tuito uno specifico di oggi. La posizione della critica che giudi­ ca le opere in base alla loro maggiore o minore rispondenza ad una normatività tecnicistica rimane immutata e solo la normatività cambia. Aspettiamo ancora qualche altro lustro. Viazzi poi, deciso proprio a girare il mondo senza sapere da che parte si levi il sole, aggiunge che il torto di Aristarco 595

è quello di credere che le teorie si svolgano secondo un flusso continuo, mentre « la nuova teoria nascerà dal ribaltamento dialettico delle vecchie posizioni ». Ma ribaltamento dialettico sembra significhi per lui solo cambiare le carte in tavola.

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Importanza del realismo *

Relegati convenientemente in cantina i frutti pur faticati, delle ricerche erudite sulla preistoria del film, presupponendo cioè che siano già state bastantemente districate le questioni inerenti alla invenzione del cinematografo, e già dato a Cesare quello che è di Cesare in fatto di priorità e di preminenza nei singoli apporti e perfezionamenti per la creazione delle complesse apparatore del film: a Marey, a Edison, ai fratelli Lumière e ai fratelli Skladanowsky, rifattici alla Magia Natu­ rali! di Giacomo della Porta, già incontrato con profitto nei campi del teatro e delle arti figurative, e a padre Kircher e al mio forse trisavolo veneziano, il dotto e simpatico Daniele Barbaro, la cui Prattica della prospettiva i sovietici hanno re­ centemente voltato in caratteri cirillici e pubblicato in edizio­ ne monumentale; ricordato l’uso della camera oscura fatto dal Canaletto per le sue preziose vedute della regina dei mari, Venezia, e della bella Varsavia di Stanislao Augusto, risaliti all’epoca agitata della Roma di Mario e Siila al grande Lucre­ zio e al suo De rerum natura, e risospintici nella notte dei tempi fin nelle caverne di Altamira a riscoprire i bisonti graffiti su quelle pareti, antecedente preistorico del dinami­ smo plastico futurista e dei cartoni animati, e soprattutto simbolo di un bisogno antidiluviano, ma anzi di un bisogno di sempre, nell’uomo — quello di rappresentare la realtà in * Filmcritica, a. II, n. 4, marzo-aprile 1951.

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movimento — mobilitato cioè dai distretti culturali più lonta­ ni e remoti, nel tempo e nello spazio, il bottino di cognizioni indispensabili che direttamente o indirettamente interessano il cinema — e si direbbe quasi tutto lo scibile umano — si può finalmente concludere, con tranquilla coscienza, che ciò che interessa nel film, in quanto tale, è il suo essere arte. Conclusione che non significa affatto un restare con un palmo di naso a stringere un pugno di mosche, ma proprio invece essersi muniti della sola lanterna utile a rischiarare tutti i pro­ blemi della cosiddetta filmologia, del solo strumento essenziale quale introibo ad ogni serio studio cinematografico. È dunque sempre un errore, anche se talvolta un errore generoso, quello che propone di studiare il film prescindendo dalla sua artisticità: un errore anche se si vuole indagare un aspetto importantissimo del film, quello della sua utilità o dannosità riguardo agli spettatori, la sua portata sociale. Un errore che nasce da un’ormai antiquata e retriva considera­ zione dell’arte, intesa come qualche cosa di assoluto e di asso­ lutamente valido in sé e per sé, dalla quale sarebbero alieni, anche se spesso vi sono commisti, elementi pseudoartistici, concettuali o pratici. Errore nel quale, stranamente, è caduto anche Béla Balàzs (« nel film l’arte non è nemmeno la cosa più importante ») contraddicendo quella più moderna e più giusta teoria estetica che lui stesso ha tanto auspicato e alla creazione della quale ha dato tanti e tanti contributi e tante suggestioni. Secondo questa più moderna e più sana teoria l’arte è proprio rappresentazione della realtà in movimento cioè rea­ lismo. Il realismo non è dunque una tendenza artistica, che dipenda dal particolare temperamento o dalle particolari con­ dizioni sociali dell’artista seguire o non seguire, ma è la caratteristica stessa dell’arte. Fuori dal realismo ci sono altre cose che qualche volta sembrano, e che molto spesso parti­ colari interessi tendono a spacciare per arte, ma che arte non sono; e che tutte si riconducono al termine opposto: allo straniamento dalla realtà (sogno, evasione, chimera, diverti­ mento, giuoco, piacere o che altro sia). Questa concezione

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del realismo, che l’identifica coll’arte, includerà anche tutte le tendenze e i generi che col realismo inteso in senso gret­ tamente letterale non hanno niente a che fare — la favola, i componenti misti di storia e di fantasia, e tutte le trasfigura­ zioni della realtà purché siano motivate e necessarie, purché, in definitiva, siano un modo particolare, il modo particolare dell’arte, per meglio penetrare, per meglio conoscere e far conoscere la realtà: per cogliere e rendere ciò che è caratte­ ristico in essa. E poiché non si può penetrare e conoscere la realtà per frammenti (ché si cadrebbe nel naturalismo — la tranche de vie! —) si farà dell’arte solo partendo da un'idea, e sarà la presenza di quest’idea, di questa concezione del mondo, che qualificherà i frutti della fantasia umana artistici o meno. E poiché le idee sono frutti della realtà, ma hanno anche la loro reazione, e talvolta fortissima, sulla realtà e ne accelerano il corso, l’arte è da un verso condizionata e deter­ minata, legata cioè ad un’epoca, espressione di una partico­ lare realtà, e dall’altra è proiettata verso il futuro, anticipa­ zione e contributo alla creazione di un’epoca nuova. Ciò significa che l’arte della nostra epoca è il realismo so­ cialista, formula nella quale contrariamente alle incompren­ sioni, ai fraintendimenti e alle calunnie, c’è posto per tutte le tendenze e per tutte le tecniche, per tutti gli umori persino, che siano propri delle singole persone artistiche. Ma — potreb­ be chiedersi — come può esistere realismo socialista là ove esistano ancora le contraddizioni e le lacerazioni della società divisa in classi, dove il socialismo non sia stato ancora instau­ rato? Là ove non esiste una realtà socialista, come può l’arte, specchio della realtà, esprimerla? È chiaro che l’arte non potrà esprimere una realtà inesistente: ma potrà auspicar­ la e preannunciarla, potrà disporre gli animi a desiderarla, ad applicarsi a promuoverla; vuoi con la rappresentazione dei conflitti, delle crisi, delle catastrofi e delle guerre cui è con­ dannata la società divisa in classi — e sarà allora una partico­ lare e meno alta forma d’arte, quella in cui l’elemento deter­ minato è piu forte di quello determinante: sarà realismo si, ma soltanto realismo critico; vuoi stimolando ed esaltando 599

la fantasia verso l’affrancamento dalle classi, dall’alienazione e dallo sfruttamento dell’uomo, e potrà allora dirsi con diritto realismo socialista Alla creazione di questa estetica nuova, la quale salva non solo, ma rivendica, tutte le parti vive, tutte le afferma­ zioni valide, delle estetiche passate, ha dato grande impul­ so e approfondimento, la nuova arte del film. La quale, pur nella sua singolarità e con la peculiarità dei suoi mezzi espres­ sivi, ha saputo respingere l’allettamento capzioso e la pretesa ad una estetica autonoma, che l’avrebbe posta oltre il novero delle sue consorelle, maggiori solo per età. E, affermandosi come arte, si è affermata inscindibile dall’idea che esprime e inscindibile dall’azione pratica che esplica. In quanto arte di collaborazione il cinema necessita di un’idea, o tesi, formu­ lata coscientemente che renda possibile questa collaborazione; e in quanto arte fortemente suggestiva il cinema non resta mai senza lasciar traccia sullo spettatore. L’opera d’arte va dunque sempre vista nei rapporti col suo pubblico che tale la riconosce, che come tale l’apprezza o che anche solo ne subisce l’influenza e viene ad esserne in 1 Con questo credo di aver completato la mia risposta al problema di una revisione della critica cinematografica sollecitato da Aristarco: a me sembrò e sembra (a parte altre e marginali considerazioni larga­ mente servite da questa stessa rivista ai lettori) che, posta nei termini in cui è stata posta, la discussione non abbia ragione di protrarsi. Una revisione critica va condotta sulla linea dell’abbandono delle posizioni teoriche dell'idealismo. Tanto è vero che il problema reale è questo che le piu ragionevoli risposte tendono a ricondurvelo: Chiarini per negare la mia tesi restando sentimentalmente attaccato, e a me sembra, esteriormente attaccato, alle sue vecchie posiizoni teoriche, Fernaldo Di Giammatteo esplicitamente respingendo l’estetica idealistica non però per ricadere nell’estetica marxista, Vito Pandolfi accusando di provincialismo la cultura cinematografica italiana: accusa che vera­ mente non le tocca se per non esserlo deve rifarsi, come egli pro­ pone, a Husserl a Jaspers, a Dewey e non ricordo piu a chi ancora. Dove mi sembra che il desiderio di sfoggiare larghezza di informazione abbia giocato a Pandolfi un brutto tiro: che se l’estetica cinematogra­ fica si mettesse all’ombra delle personalità che egli cita non potrebbe che divenire estetica del fascismo, almeno delle attuali camuffate forme di fascismo. Con quale vantaggio non è chi non veda. Ma, a parte le valutazioni di semplici accenni marginali nelle risposte, queste mi con­ fortano a pensare di aver effettivamente centrato il problema.

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maggiore o minore misura trasformato. Perciò proporsi di studiare e giudicare le opere d’arte significherà anche non prescindere da questo rapporto, significherà studiarle e valu­ tarle non solo come portatrici di un’idea, nel clima storico che le ha determinate, ma studiarle anche nella loro portata socia­ le, nell’efficacia maggiore o minore che esse hanno nel contri­ buire a creare un nuovo clima storico, una nuova storia. Inda­ gini che non sono affatto estranee alla definizione del valore artistico delle opere ma proprio la base e l’essenza stessa di questa valutazione. E possiamo anche concordare con coloro, e son molti, che affermano e ripetono che le vere opere d’arte non sono mai dannose; ma a condizione che ciò non significhi che esse sono indifferenti alle idee e prive di pratica utilità, possiamo, in altri termini, convenire che l’arte non è mai antieduca­ tiva, a condizione che ciò significhi che essa è sempre educa­ tiva, che il suo dar forma alla vita significa soprattutto darle una norma. Indagare sul valore educativo e formativo dell’arte sarà allora non solo lecito ma necessario. L’opera d’arte non è una stella fissa che splende di luce propria indifferente a ciò che illumina. Perciò considerare l’arte nelle idee che esprime e nella portata sociale significa non prescindere dall’artisticità, ma determinarla. Considerando l’arte nel suo rapporto col pubblico, dobbia­ mo anche premettere che quando si parla di arte s’intende che essa nel suo concetto abbraccia e include anche la non arte: nel senso che il film brutto, ad esempio, è un conato abortito verso l’arte anche se produttore e regista si son proposti scopi unicamente affaristici nel realizzarlo; che un brutto quadro è pur sempre un quadro e non un pezzo di tela o una tavola. Per intendere quella che può essere la portata sociale dei film e in particolare il loro valore o disvalore educativo, può esser utile meditare su di un fatto che, sebbene assai ben noto, non ha provocato quelle utili deduzioni che, a mio av­

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viso, se ne possono trarre: ed è che i migliori film italiani di questi ultimi anni, i film neo-realisti, non hanno avuto in patria al loro apparire quel successo che vi ottennero poste­ riormente, e si direbbe di rimpallo, dopo i loro successi inter­ nazionali. Questo fatto dimostra che bisogna, nel valutare i film, tener conto della disposizione dell’animo degli spet­ tatori. Disposizione che è particolarmente importante quan­ do si tratti di un pubblico particolarissimo come, ad esempio, quello dei ragazzi. Il pubblico cinematografico in genere va a vedere un film sapendo in precedenza non tanto quello che il film ammannirà loro (un po’ di riflessione potrebbe, nella maggior parte dei casi, far prevedere anche questo) ma il piacere che lo spetta­ colo produrrà in loro; ed anche che tipo di piacere: una conso­ lante commozione, se si tratta di un dramma e una tensione e una sospensione dell’animo finalmente scaricata in un lieto fine, previsto eppure desiderato al punto da temere per tutto lo spettacolo che possa non avverarsi, o una serie di sberleffi e di situazioni assurde ma irresistibilmente comiche. L’abitua­ le disposizione dell’animo dello spettatore si compendia nel suo desiderio di film divertenti, che comprendono, come è noto, anche quelli terrificanti o larmoaianti. Abituato a quel divertimento, cioè a quel piacere, il pubblico italiano è rima­ sto deluso di non averlo provato alla visione dei film neo­ realisti e li ha giudicati cattivi film; giudizio che diffuso rapi­ dissimamente, come sempre avviene per i film ha determinato il primo insuccesso di quei film. Ma le notizie dei trionfi di quella produzione sugli schermi stranieri e (subordinatamente) il bene che la critica ne ha detto hanno indotto molti spettatori a tornare a rivederli o, nella maggior parte dei casi, ad andarli a vedere: e ne è nato un diverso giudizio. Un giudizio che è dipeso da un diverso atteggiamento, da una diversa disposizione dell’animo del pubblico: andiamo a ve­ dere che cosa c’è di straordinario in questi film, non vuol dire aspettarsi davvero qualche cosa di straordinario, non si­ gnifica di necessità essere fiduciosi e cordiali, può anche signi­ ficare essere scettici ed ostili. La differenza sta in un atteggia­

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mento sia pure rudimentalmente critico succeduto ad un at­ teggiamento del tutto abbandonato, del tutto acritico. Non è una grande scoperta: dinanzi all’arte questi sono i due possibili atteggiamenti del pubblico e lo ha detto stu­ pendamente Chateaubriand: « La musique tient le milieu entre la nature materielle et la nature intellectuelle; elle peut depouiller l’amour de son enveloppe terrestre ou donner un corps à l’ange; selon les dispositions de celui qui l’écoute ses accords sont des pensées ou des caresses » (Ch., Vie de Rancé IV). Gli spettatori di film vanno al cinematografo per averne delle caresses. Sono felici di piangere alla morte della signora delle camelie, che è poi nientedimeno che la morte di Greta Garbo, consigliano di andare a vedere il film di Totò che fa sbellicare dal ridere, e non mancano di aggiungere tuttavia che è una stupidaggine, tremano di ansia ai piu vieti finali alla Griffith, e subiscono senza riserve il thrill dei film gialli, di gangster, di ladri gentiluomini, di poliziotti dilettanti. Caresse chiarisce assai bene che genere di piacere è quel­ lo di questi amatori volgari. È l’eterno atteggiamento dei passeri che volavano a beccare le ciliegie dipinte; ma come tutti ricordano quella storiellina passata attraverso il vaglio di Hegel e di Goethe (cfr. « della verità e della verosimi­ glianza delle opere d’arte ») paragonata cioè alla storia della scimmietta allevata da uno scienziato, che beccava i brutti disegni raffiguranti scarabei di un trattato di storia naturale, ha chiarito definitivamente che ciò che dalla storia si può ricavare è solo il fatto che « quegli amatori erano passeri » o « scimmie ». Ha chiarito (a Edgar Poe, cfr. i Marginalia} che la tendina che coprì quelle ciliegie non bastò a velarne l’antiartisticità. Qui Poe, selon la disposition del pubblico di uccelletti, giunse a giudicare del valore dell’opera e a negare questo valore: opera antiartistica perché volta a soddisfare un bisogno fisico, nel caso: mangiare. E come i film potrebbero soddisfare similmente bisogni fìsici? Dare il piacere delle carezze o il gusto dei cibi? Me­ diante una operazione psichica che ha fatto piu volte identi­ 603

ficare il film con il sogno (da due scrittori che sono agli anti­ podi tra di loro: Hoffmannsthal ed Ehrenburg). Già Bossuet diceva dello spettatore di teatro: « Que veut leur Corneille avec son Cid, sinon qu’on aime Chimène, qu’on adore avec Rodrigue, qu’on tremble avec lui quand il est dans la crainte de la perdre et qu’avec lui on s’extime heureux lorcequ’il espère de la posseder? » (cfr. Maximes et reflexions sur la comédie). Lo spettatore è dunque in una posizione critica che è con­ dizione per ottenere la soddisfazione di un particolare biso­ gno, il piacere di questa soddisfazione sognata, che si attua mediante una sostituzione di persona, mediante Videntificazio­ ne dello spettatore con l’eroe della vicenda. È un processo noto, anche senza risalire alle severità di Bossuet a tutta la letteratura popolare che lo provoca negli spettatori. Ed è un processo che nel cinema, per la sua speciale natura e per i suoi mezzi tipici, è potenziato al massimo (si pensi alla inqua­ dratura soggettiva, si pensi al buio della sala, all’attenzione concentrata su di uno schermo luminoso su cui si muovono, più o meno ritmicamente, immagini e forme e cosi via). E se ne dedurrà che il cattivo film è quello che provoca al massimo questo processo di identificazione, questo annulla­ mento della personalità, questa evasione in mondi fantastici, dove le insoddisfazioni si placano, i torti si raddrizzano, la giustizia trionfa. Il cattivo film è quello che soddisfa questi ingenui bisogni di riposo, di svago, di sogno, bisogni comuni alla maggior parte degli spettatori cinematografici. E bisogni che il cinema non solo soddisfa, ma tende a provocare e a moltiplicare. Come si soddisfano questi bisogni? Con mezzi tecnici stu­ diati e calcolati, che si traducono in una normatività tecnica quasi infallibile. Il film di evasione è anche il film formali­ stico, anche se la sua trama è delle più aggrovigliate e dense. E perché allora preoccuparsi di conoscere la disposizione d’animo con cui i ragazzi vanno al cinematografo? I ragazzi vanno al cinematografo come gli adulti, che non si vergognano di rifarsi ragazzi nel buio delle sale. Facendo tacere ogni 604

spirito critico e in caccia di una meschina soddisfazione, di meschine aspirazioni, subcoscienti. Dove esiste una produzione cinematografica artisticamente e moralmente degna, non si fa divieto ai « minori di sedici anni » (o di quattordici) a frequentare il cinema per adulti, anche se si producono in copia film specialmente destinati alPinfanzia. Ed è PUnione Sovietica, dove nel campo cinema­ tografico si è combattuta ed eliminata la produzione di eva­ sione, la produzione formalistica, la produzione cosmopolitica. E dove gli spettatori assistono a film che parlano alla loro sveglia coscienza e non sollecitano il loro subcosciente.

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Due mostre dell’arte cinematografica

Le due manifestazioni cinematografiche piu importanti di quest’anno, quella di Karlovy Vary e quella di Venezia, vien fatto naturale, ad ogni osservatore, di contrapporle: non foss’altro perché si son svolte l’una al di qua l’altra al di là della cosiddetta cortina di ferro. Quindi: osanna e crucifige, tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, e viceversa, a seconda che l’osservatore sia un baciapile, collo­ torto e fazioso, o un comunista ancora affetto dalle febbri cresciarelle dell’estremismo, voglio dire ancora intinto di set­ tarismo. Ed è, sia da un verso che dall’altro, il modo migliore per render vano un raffronto che potrebbe essere utile, il modo infallibile per precludersi la possibilità di estrarre, da una con­ siderazione non isterica dei fatti, tutti gli ammaestramenti che possono derivarne. Né, d’altro canto, vorrei certo essere io a proporre all’os­ servatore l’abito di pretesa oggettività, di cui si adornano certi scrittori che « vivono da parte con una presunzione pari alla loro inutilità civile », come diceva Ruggero Bonghi quando si domandava perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia non vorrei certo proporre di assumere le posizioni di quei disutilacci, se pure talora ghiribizzosamente eleganti e arguti, che per oggettività intendono assenza di idee e, in nome dell’arte pura, indifferenza ai valori morali e sociali, che sono * Rinascita, a. VII, n. 8-9, agosto-settembre 1950.

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sempre inseparabili dall’arte vera; le posizioni di quei colpevoli senza colpa, che non si rendono conto che la loro presunta, e gelosissima, oggettività e indipendenza, non toglie che essi ef­ fettivamente servano, e che servano proprio la reazione. L’angolo visuale giusto è quello comunista. Ma, si dirà, esser comunista non implica, eo ipso, coerenza e intransigenza? Certo. Ma esser comunista implica, anzitutto, negare le verità che si pongono come eterne e immutabili e delle quali i nostri avversari si dicono detentori; importa cioè una continua ri­ cerca, una critica assidua e un costante pensare dialetticamente. Qui è la sostanziale differenza tra noi e i nostri av­ versari. Questi, dall’alto della loro pseudo-verità immobile, sono costretti a negar sempre, in blocco e indiscriminatamente, tutto ciò che è nuovo e progressivo, in cui non scorgono, né possono, una sola stilla di verità, un solo punto di possibile contatto, di possibile discussione e intesa. Giacché se tanto esistesse, sarebbe movimento, sviluppo, divenire, cioè nega­ zione di quella loro conclamata eternità, immobilità, assolu­ tezza. Perciò i nostri avversari debbono sempre rinnovare il processo di Galileo, il rogo di Giordano Bruno. Lasciamoli alla loro stolta e spensierata faziosità, paghi che essa ci aiuti a liberarci da ogni nostro settarismo, che essa ci aiuti a sempre meglio comprendere che il settarismo, colle sue negazioni assolute, lungi dal portarci su posizioni ultra­ rivoluzionarie e avanzate ci fa persistere e ricadere nelle posi­ zioni reazionarie, alle quali si affianca mentre crede di com­ batterle, e che involontariamente rafforza. Non siamo noi quelli della verità immobile; pensare dialetticamente vuol dire saper vedere in ciò che muore (nella società capitalistica e nella cultura borghese) la premessa indispensabile, la radice di ciò che nasce e, in ciò che nasce, lo sviluppo e lo svolgi­ mento delle parti ancor vive e germinali di ciò che muore. La nostra posizione, (proprio per la sua intransigenza e coe­ renza) è dunque la sola che consenta di individuare i valori effettivi, cioè reali e viventi; e non solo di riconoscerli e di esaltarli, ovunque essi si trovino, ma di rivendicarli legitti­ mamente come nostri. 607

Perciò la nostra posizione di comunisti non è soltanto la piu intelligente e profonda, ma è anche la sola che sia equa e degna. Carlo Marx, lo ha ricordato recentemente Egon Erwin Kisch, poco prima della sua morte immatura (cfr. Carlo Marx in Karlsbad, in Aufbau, Berlin, n. 4, 1949), ha soggiornato a Karlovy Vary, indotto a passarvi un periodo di riposo e di cura dalle insistenze e dagli aiuti fraterni di Engels. E la me­ moria di Marx è viva ovunque in questo bel paese di boschi e di acque, e il pensiero di Marx è lo spirito animatore del festival cinematografico che vi ha luogo e che, non a caso, ha come divisa il motto: « Per la pace, per un uomo nuovo, per una umanità migliore ». Proprio per questo spirito e per questa consegna, così altamente impegnativi, le nazioni partecipanti hanno mandato a Karlovy Vary quanto di meglio potevano non solo di film, ma di uomini veramente rappresentativi. E se n’è creato un pubblico veramente d’eccezione per capacità e per compe­ tenza: una platea di maestri. Registi, autori, tecnici, organiz­ zatori e critici che non perdevano un film sebbene le proiezioni cominciassero presto la mattina e finissero a notte inoltrata; e, dopo le proiezioni, attorno ai tavolini dell’hotel Pupp di­ scussioni animate e interminabili. Un fatto ovvio e ben com­ prensibile, dato che si trattava di uomini di cinema, che vedevano film e che parlavano di film; ma che sforzo di com­ prensione reciproca attraverso lo scambio delle idee e delle esperienze, che fervore, che volontà di superarsi e di mar­ ciare più direttamente e più speditamente verso lo scopo comune. Un clima umano straordinario. L’assenza di compe­ tizione commerciale e di interessi privati e personalistici ripor­ tava con naturalezza il film sotto il segno dell’arte, assunto di tutte le opere e metro di tutti i giudizi. Quanta pulizia e quanta libertà mentale, nei confronti di quel mondo cinema­ tografico occidentale ancora soggetto alla dura servitù del da­ naro, alle fisime dei produttori, ai gusti deteriori di pubblici male avvezzi. Qui la corsa al successo è sostituita dalla fra-

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terna emulazione; e il successo di uno è il successo di tutti, è, per tutti, sprone e incitamento. Con quanto piacere abbiamo sentito, noi della delegazione italiana, le unanimi espressioni di apprezzamento per la mi­ glior cinematografia nostra, le unanimi deplorazioni che la faziosità antinazionale di certe autorità italiane abbia impedito una piena e ufficiale partecipazione dell’Italia a questo festival; abbiamo sentito dei successi, nell’URSS, di Ladri di biciclette di De Sica e del Passo del diavolo di Vergano e Kanski Tutti ci siamo trovati concordi nell’ammirazione per la cinematografia sovietica che, da più di venticinque anni è, sotto ogni riguardo, all’avanguardia della cinematografia mon­ diale, come tutti sanno e come anche gli avversari son costretti talvolta a confessare obtorto collo. Grande emozione abbiamo provato alle calde parole di in­ coraggiamento e di augurio che il regista Pyrev ha rivolto ai rappresentanti della esordiente cinematografia bulgara; la pro­ duzione bulgara presentata a Karlovy Vary, piena di inge­ nuità, di errori e di incertezze aveva deluso un po’ tutti; e Pyrev parlò, con comprensione fraterna, delle difficoltà non superate e degli errori non saputi evitare, che sono cose che capitano, in questo difficilissimo mestiere del film, e che ser­ vono come preziose esperienze. Con grande commozione ab­ biamo sentito Ciaureli rispondere al rappresentante della cine­ matografia cinese, in un momento in cui mancavano gli inter­ preti, che le sue parole, anche se nessuno degli astanti poteva capirle alla lettera, erano trasparenti e chiare nei nostri cuori fraterni. Fu per me un grande piacere sentire dal dott. Toeplitz degli sviluppi e dei successi della scuola di cinematografia di Lodz, del film che gli allievi hanno prodotto e della notizia, da­ tami con franca soddisfazione, che vi s’inaugurerà l’anno prossi­ mo quella classe di attori che io avevo insistentemente propo­ sto, quand’ero consigliere di quell’istituto. E sentimmo dell’or­ ganizzazione della De-Fa di Berlino, dei suoi metodi di organiz1 A questo film, realizzato in Polonia, Barbaro lavorò come sceneg­ giatore; vedi in questa antologia Ricordo di A. Vergano (n.d.r.).

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zazione, dei registi che vi lavorano, dei film che si realizzano; i ricordi di Dudow sui suoi primi film antifascisti, e sui suoi recentissimi lavori teatrali e cinematografici; da Brousil delle prospettive del film cecoslovacco e da Sadoul la sua difesa dell’ultimo René Clair, che molti criticavano come in piena involuzione e decadenza. Questi accenni possono bastare, credo, a dare una idea della molteplicità dei motivi, della ricchezza di temi e di pro­ blemi che s’agitavano, in discorde concordia, a Karlovy Vary tra un film e l’altro, in quel clima umano unanime, che è indi­ spensabile per ogni creazione cinematografica e, in genere, per ogni azione valida e costruttiva. Tutto questo è incalcolabil­ mente prezioso, e credo valesse la pena accennarne perché non so quanto se ne può avere il senso dalle relazioni consegnate negli atti ufficiali: le relazioni erano forse troppe, alcune trop­ po lunghe, altre diffuse su particolari di interesse circoscritto, molte intessute su generalità sulle quali tutti gli astanti erano d’accordo e che non costituivano perciò alcuno stimolo alla discussione. Del miglior film tra quelli dei paesi occidentali presentati a questo festival, L’ereditiera di William Wyler, si è detto tutto quando se n’è lodata la fattura: sceneggiatura, ripresa, reci­ tazione fatte a regola d’arte; ma l’arte non si fa con le regole, e lo spirito che anima il racconto dei casi di questa ereditiera, con la sua stiracchiata psicologia, faceva tra gli altri film di questa mostra, lo stesso effetto che farebbe — toute propor­ tion gardée — in un palchetto di libri, tra Omero, Dante e Shakespeare, un romanzo di Paul Bourget, se non vogliamo dire di Agatha Christie. Come un romanzo per signorine o un romanzo poliziesco, in cui la cincischiatura dei sentimenti, la improbabilità dei casi, la noiosità delle situazioni cento volte riviste e risapute, se non trovano un pubblico atteggiato a crederci per abitudine viziosa, in vista dello svago e del piacere che se ne ripromette, non possono che muover a compati­ mento o a riso. I film dell’Unione Sovietica e dei paesi di nuova demo­ crazia son tutti ispirati ai princìpi del realismo socialista: e la 610

prima constatazione che inducono a fare, indipendentemente dal loro maggiore o minore valore, è la grande varietà di essi, per genere, per soggetto, per maniera di racconto. Di fronte alla disperante monotonia della produzione cinemato­ grafica di Hollywood, o che a Hollywood s’ispira, sta la grande varietà di questi film prodotti al di là della famosa cortina; e questa varietà sussiste anche nei film di ciascun paese, espressi nelle singole e tipiche forme nazionali. Un buon motivo di riflessione per quanti non avessero ancora capito che il reali­ smo socialista è molto di piu di una tendenza o di una scuola. La caduta di Berlino di Ciaureli è una rievocazione epica, attraverso una storia individuale ma tipica, della guerra e della sconfitta del nazismo: un film concepito sulla linea del Giuramento dello stesso Ciaureli, « un misto di storia e di invenzione » che ha l’essenzialità semplice e la purezza di un classico; tanto bello e tanto semplice nella sua solennità da costituire quasi un rompicapo alla dipanatura critica, il cui bandolo va, senza dubbio, cercato nella straordinaria capacità di Ciaureli di porre in un punto geometricamente esatto i grandi personaggi della storia contemporanea (e qui com­ paiono tutti, da Stalin a Churchill) e di farli vivere, parlare e agire in piena luce. Sino a ieri i grandi personaggi della storia non si osava mostrarli, ma solo jarli sentire di riflesso (come Garibaldi nel bel film di Blasetti 1860): qui essi compaiono invece al momento giusto con la stessa miracolosa naturalezza con cui, all’invocazione dell’infuriato Achille, compare Teti, la diva dalle bianche braccia. E questo può avvenire solo quando non s’esprima, più o meno liricamente, la soggettività di un animo sollecitato da impetuose passioni, ma quando si rievoca solennemente la passione di tutto un popolo che ri­ flette le aspirazioni di tutta l’umanità. In perfetta antitesi con la Caduta di Berlino è l’ultimo film di Pudovkin 2ukovskij, biografia di un pioniere russo della aviazione: qui, in opposizione al profluvio di motivi e all’im­ petuosità del canto spiegato di Ciaureli, siamo sulla linea di una poetica più intima e interiore: il carattere del protago­ nista e quello degli altri personaggi, la costruzione degli epi­ 611

sodi, il taglio del quadro sembrano rispondere a norme e funzioni nuove ed esclusive: seguono il largo respiro e le ampie volute di un ritmo narrativo perfettamente armonico che diviene, quasi di per sé, significato. Colori splendidamente intonati di una natura gioiosa, dove uno stormire di fronde, un alito di vento, lo sguardo del protagonista si fa intenso a fissare come una tegola tagli l’acqua cristallina di un ruscello per dedurne una legge, hanno l’incanto di una realtà fresca e felice ed esprimono limpidamente lo spirito rasserenato di un’umanità conciliata. Un nuovo Pudovkin dunque, che svol­ ge pacatamente i migliori motivi del primo. Il complotto dei condannati di Kalatozov è un film di lotta e di propaganda denso di azione, di movimento e di persua­ siva efficacia nel racconto di una serie di sordidi intrighi di provocatori, di attentatori e di spie ai danni di un paese di nuova democrazia: campeggiando su tutto, con un raffinato giuoco cromatico, il rosseggiare d’una veste cardinalizia. Men­ tre lo schietto e semplice Cosacchi del Kuban descrive la vita di un colcos e un’abbondanza strabocchevole da paese di Ben­ godi: un film canoro, coloratissimo ed esultante con cui Pyrev, dopo le prime prove tanto interessanti, dà la misura piena delle sue alte capacità. Con questo gruppo di film il cinema sovietico ha con­ fermato il suo indiscutibile primato: e non è stata una sorpresa. Una sorpresa invece per tutti la cinematografia cinese, con i suoi tre ottimi film, tra i quali La ragazza della Cina che ha raggiunto la potenza espressiva di Capaev, che in qualche episodio ricorda. È la storia di una brigata partigiana femmi­ nile in lotta per la liberazione del proprio paese e che si sacrifica per non cadere in mano al nemico. Un film sul quale converrà fare un piu ampio discorso quando, come spero, sarà visto in Italia. La cinematografia cecoslovacca è al grande impegno di cercare una sua espressione nazionale, disfacendosi, con co­ raggioso sacrificio, di tutte le valentie raggiunte precedentemente attraverso abili derivazioni dai classici del film sovie­ tico, dagli espressionisti tedeschi e (attraverso filtrazioni let-

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terarie) dal gusto francese. Può sembrare che questa cine­ matografìa abbia, quest’anno, perduto qualche punto rispetto alla produzione degli anni passati; ma certo ne ha acquistato uno essenziale se, come a me pare, ha imbroccato risolutamente la strada giusta di una espressione più tipicamente na­ zionale. Una ricerca questa che è comune a tutte le cinema­ tografie delle democrazie popolari, dalla ungherese alla po­ lacca, alla romena e alla bulgara. La Germania orientale con 11 nostro pane quotidiano e con Un concilio degli dei ha dato due ottimi film: particolar­ mente interessante è il secondo che porta alla conoscenza del pubblico larghissimo dei cinema i retroscena politici e di guerra della Società Farben; problemi e notizie che un tempo sarebbero stati custoditi avaramente in archivi segreti e in cancellerie segretissime. Dacci oggi è un film che deriva dal noto romanzo dello scrittore italo-americano Di Donato e tratta con molta nobiltà delle condizioni di vita dei lavoratori italiani in America. Ottimamente sceneggiato da Barzman e bene interpretato (nella parte della protagonista femminile dalla nostra Lea Padovani) il film è stato diretto da Dmytryk, il regista che oggi è, tra gli altri 10 di Hollywood, in galera per « attività antiamericane ». Dacci oggi è stato proiettato anche a Venezia, fuori con­ corso, ed ha ricevuto il premio della critica. Ecco il primo dato positivo del festival veneziano: il commercialismo, la mondanità, la faziosità politica spudorata che presiedono a quella manifestazione hanno provocato una reazione da parte della stampa anche piu conformista. Premiando il film di Dmytryk la critica cinematografica ha senza dubbio voluto non solo segnalare il miglior film (seppure entrato di straforo) della mostra, ma elevare una sua protesta contro i metodi fascisti della società americana che non riesce più a darla a intendere a nessuno spacciandosi per democratica. Concordemente la stampa ha scritto corna e vituperio di questa mostra, la quale dunque, precipitando cosi in basso tome quest’anno, ha reso palese a tutti che a procedere per 613

le vie di pazza faziosità, indicate dall’on. Andreotti e percorse con tanta solerzia dal dott. Petrucci *, non si può ottenere altro risultato che quello di liquidare definitivamente una manifestazione internazionale, che fu la prima del genere e, fino a qualche anno fa, la più autorevole. A questa autorevolezza ha dato un gran colpo la mancanza dei film sovietici, i quali non potevano non mancare dato lo scarso affidamento che dava una manifestazione retta da rego­ lamenti assurdi e, per di più, non applicati (quest’anno nes­ suna nazione poteva presentare più di sei film e gli Stati Uniti ne hanno presentati sette); una manifestazione la cui giuria, non più liberamente eletta fra competenti come fu anni fa, ma nominata dall’alto, è composta di cameadi tipo Luigi Fab­ bri, di critici che debbono la loro effimera notorietà alla pro­ pria somaraggine, tipo Luigi Rondi, o a scrittori di fama non internazionale e che non si son mai occupati di cinema; una manifestazione dove (per beghe tra fraterie e ordini reli­ giosi) un film, Dieu a besoin des hommes, può essere am­ messo, poi ritirato, poi nuovamente ammesso; dove, contro il regolamento, i membri della giuria pubblicano critiche sui quotidiani; dove insomma regna il caos e l’arbitrio più incon­ trollato. Non sono soltanto i sovietici e le Democrazie popo­ lari che hanno rifiutato di partecipare alla Mostra veneziana: sono stati anche gli italiani e molti tra i migliori: De Santis ha preferito mandare a Locamo Non c’è pace tra gli ulivi, e De Sica e Germi non hanno presentato Miracolo a Milano e Il cammino della speranza. E cosi si è giunti a premiare come miglior film italiano un film d’un regista russo-francese! Rossellini? E Stromboli e II giullare di Dio? Film, che a quanto pare, non hanno nemmeno un ricordo della potenza espressiva di Roma città aperta, ma che certo sono molto più in alto delle commedioline premiate. Si dice che ci sia 1 Antonio Petrucci, già nella redazione del Tevere e poi di Sud, au­ tore di un dramma di propaganda fascista c colonialistica Ritorno in colonia, Roma, 1934, è direttore della mostra.

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stato un veto americano e la cosa non meraviglierebbe. Ad ogni modo la lezione sarà probabilmente salutare per il re­ gista che si dice stia ora meditando su di un soggetto dal titolo Mammona e Dio ovvero Nemo potest duobus dominibus servire. Un colpo di scena molto commentato è stato il conferi­ mento del premio di una organizzazione cattolica al film pro­ testante-. Dio ha bisogno degli uomini. In un suo scritto, in occasione della morte di Alessandro Manzoni, don Albertario dichiarò: « Il male che in lui trovammo ci impedisce di farlo nostro. Gli uomini hanno bisogno di Dio, non Dio degli uomini ». La loro intransigenza di allora poteva respingere anche un uomo di genio come il Manzoni; ma la loro fazio­ sità di oggi non esclude i più gretti accomodamenti, sintomo desolante di una decadenza irrimediabile. È soddisfatto Ton. Andreotti di avere cosi squalificato il film italiano che ha possibilità ammesse da tutto il mondo? Di avere squalificato la Mostra cinematografica di Venezia? Non si accorge che in questo modo si avvalorano le voci secondo le quali lo scopo della sua politica è la liquidazione totale e definitiva della nostra produzione? Ed è proprio si­ curo che da tutto ciò non vengano a lui e al suo partito disdoro e vergogna?

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Vsevolod I. Pudovkin *

In Italia si è capito presto che Pudovkin era un artista grandissimo e un teorico di eccezione. Ma, nella definizione concreta del suo valore, cosi prontamente riconosciuto dal gusto e dal raziocinio comune, molti si sono messi per una strada sbagliata. Da molti, infatti, si è visto in Pudovkin un artista piu attento alla realtà interiore che a quella esterna, piu alla psicologia individuale, che ai fatti sociali; un artista piuttosto dedito all’esibizione compiaciuta della propria mae­ stria, che all’espressione di un contenuto di realtà e di idea; un artista a cui temi esterni e occasionali, quando non addi­ rittura imposti, servivano come pretesto alle proprie sottili ricerche di preziosità formali. Gli scritti teorici di Pudovkin, sebbene molto noti e ap­ prezzati, anche oltre la cerchia della cultura cinematografica specializzata, non sono stati riconosciuti nel loro costrutto effettivo, totalmente e rigorosamente estetico, ma piuttosto considerati espressione di una personale tendenza artistica, nella quale affiorano però talvolta felici intuizioni di propo­ sizioni estetiche idealistiche (C.L. Ragghiami). Cosi che, nella stampa quotidiana, cosiddetta indipendente, è diventata una abitudine quella di contrapporre un primo Pudovkin, tutto positivo, a un secondo, tutto negativo, determinato da co­ strizioni esterne, e che si può tranquillamente lasciare ai co­ munisti, senza tema di perder gran cosa (G.L. Rondi). * Rinascita, a. X, n. 7, luglio 1953.

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Alcune riserve della stampa sovietica, la giusta e dura critica del Partito comunista dell’URSS alla prima redazione àeWAmmiraglio Nachimov, giunte di terza o di quarta mano, con opportuni ritocchi e commenti, e la notizia diretta della severa autocritica, data da Pudovkin in persona al pubblico romano, nel 1949, nella sua conferenza al teatro delle Arti, sono le pezze d’appoggio a sostegno di queste strane, e spesso tendenziose, interpretazioni. Strane e tendenziose, giacché nella personalità di Pu­ dovkin, se c’è variazione, essa segna unicamente approfon­ dimento e progresso in una direzione costante; e non c’è trac­ cia mai di quelle avventure spirituali, che quasi sempre de­ nunciano dissidi e squilibri tra volontà e temperamento, tra vocazione e possibilità, tra concezione e creazione artistica, tra personalità e clima storico. La vita, il pensiero e l’opera di Pudovkin, personalità di superiore equilibrio, sono coerenti e conseguenti e fanno come un solo blocco granitico. Dissidi di quel genere, semmai, possono trovarsi, e spesso, nella strana e ispirata figura di un altro artista sovietico di prima grandezza, il cui nome s’accompagna e si accomuna abitualmente a quello di Pudov­ kin: in S. M. Ejzenstejn. Dissidi che si riflettono, in modo piu evidente, nella disproporzione enorme tra le opere d’arte solenni e perfette e il guazzabuglio oscuro e contraddittorio dei suoi scritti teorici; anch’essi indubbiamente interessanti, non come teorie, ma solo come documento e come curiosità; giacché la personalità dell’autore è di tale livello, da qualifi­ care anche le sue attività minori o fallite. Anche l’incom­ prensione dell’enorme divario tra Pudovkin ed Ejzenstejn sembra doversi mettere in conto della pretesa metastoricità c della pretesa insularità dell’arte, cioè di quei cardini della più illustre e diffusa estetica italiana, per cui ogni creazione artistica va vista al di fuori della storia e in sé e per sé. Chi voglia intendere la formazione e l’evoluzione della complessa personalità di quel grande artista e profondo teo­ rico che fu Pudovkin, deve invece saper vedere quanto la sua opera sia radicata alla sua terra, deve saper cogliere il 617

rapporto che, per mille fili, lo legava alla recente storia del­ l’impetuosa rinascita del suo paese. Certo una seria considerazione di Pudovkin, in questo senso, non è ancora totalmente possibile in Italia, dove solo qualcuno dei suoi film è stato pubblicamente proiettato; dove l’iniquo ostracismo decretato dai governi, fascista e clericale, alla cinematografia sovietica, non consente di collocare le opere di Pudovkin al punto giusto di quella gran fioritura artistica; dove i suoi scritti teorici, sebbene pubblicati da tempo e largamente diffusi, son considerati costantemente in rapporto a tutta una serie di concezioni e di idee, non solo lontane, ma del tutto opposte a quelle che li hanno dettati. Deliberatamente dunque, le note che seguono, senza abdi­ care all’indispensabile valutazione critica, voglion restare sul piano del preliminare ragguaglio; anche perché, nonostante che la bibliografia italiana sul Pudovkin sia abbastanza co­ piosa, e ne fa fede quella riportata in un recente volume di Guido Aristarco, l’informazione seria, sul grande artista sovie­ tico e sulla sua opera, non ha di troppo arricchito le rapide note e notizie, che corredarono le traduzioni dei primi scritti di Pudovkin, piu di vent’anni or sono. Il 1926 è l’anno in cui Pudovkin crea il suo primo grande film, La madre, ed è l’anno in cui egli pubblica i saggi del suo breve trattato sul soggetto e la regia: il giovane artista è già maturato da un’intensa e molteplice esperienza di pen­ siero e di attività creatrice, che gli consente di incanalare il suo temperamento artistico, impetuoso e vulcanico, entro gli argini solidi di una teoria, non nata di getto, ma elaborata in varie revisioni e ripensamenti, via via suggeriti e corro­ borati dalla pratica; una teoria che, salvo ulteriori e migliori messe a punto di qualche particolare, resterà il nucleo della sua filosofia dell’arte. Pudovkin ha allora poco più di trenta anni. Portato a Mosca, ancora bambino, dalla nativa Pensa, dove ha visto la luce nel 1893, vi frequenta le scuole; alla vigilia della laurea, in fisico-matematica, nel 1914, è chia­ mato alle armi e mandato, come artigliere al fronte; ferito è 618

fatto prigioniero dai tedeschi, internato in un campo di con­ centramento, presso Kiel, da dove scappa, nel 1918, in occa­ sione di una rivolta dei marinai, uno degli episodi di quella rivoluzione tedesca che, come ha scritto Lenin, i cosiddetti comunisti di sinistra hanno ostacolato e fatto fallire. Raggiun­ ta Mosca, Pudovkin, dopo un umile lavoro impiegatesco, en­ tra, in qualità di chimico, in una fabbrica. Il 1918 è il difficile anno della pace di Brest-Litovsk, dell’invasione tedesca in Ucraina, della difesa di Zarizin da parte di Stalin, degli in­ trighi e degli attentati, tra cui quello di Fanny Kaplan contro Lenin, intrighi orditi dall’Intesa, e che presto si concreteranno in vere e proprie campagne di guerra, con Vrangel, Kolcak, Denikin, ludenic. Sono anni difficili anche nel mondo del­ l’arte, di cui Pudovkin s’è sempre interessato vastamente e variamente, disciplinando le sue curiosità e i suoi interessi, con la metodicità che gli veniva dalla formazione scientifica. Pudovkin dipinge, conosce la musica, si occupa di tutte le arti, ad eccezione del cinematografo, che non è ancora — sal­ vo qualche eccezione — un’arte, e che egli considera « un antiartistico surrogato del teatro ». Il decadere della classe egemonica in Russia produce una crisi, nel campo dell’arte; crisi il cui ritmo diviene precipi­ toso quando la classe, come negli anni immediatamente pre­ cedenti la rivoluzione di ottobre, è in articolo mortis. Come sempre avviene, in queste fasi finali di un periodo storico, l’arte si allontana dalla realtà, in due diverse direzioni, appa­ rentemente agli antipodi, ma sostanzialmente identiche: verso lo svuotamento da ogni idea, da ogni significato e da ogni finalità dell’arte, che si pone come fine a se stessa, come ritmo, come parole in libertà, come forma, nelle diverse scuole e cappelle letterarie e artistiche delle numerose specie e sottospecie avanguardistiche, i vari isnti; e verso un senso apparentemente opposto che, spesso non ha coscienza di se stesso; che professa la profonda immersione nella realtà, ma coglie e ingigantisce solo frammenti di realtà, scegliendo i piu eccezionali, abnormi e orripilanti; dove proprio la ecce­ zionalità viene a prendere falsamente valore generale, e of­ 619

fusca e nasconde il tipico della realtà, cioè la realtà colta, al lume di una idea, nella sua essenza. Queste due tendenze dominano la vita artistica russa, an­ che negli anni immediatamente posteriori alla rivoluzione. Ad esse, in qualche modo, si riallacciano i due primi grandi re­ gisti del film sovietico, Pudovkin ed Ejzenstejn: a Stanislavskij, creatore del teatro dell’arte di Mosca, a tendenza psicologicorealista, Pudovkin; a Mejerchold, il regista teatrale che, in opposizione a Stanislavskij, aveva inventato l’attore eccen­ trico, ballerino e acrobata, e che inscenava anche i testi clas­ sici, riducendoli a balletto o a numero di circo equestre, Ejzenstejn. Quest’ultimo più a Pudovkin si sentiva vicino ai movimenti avanguardistici, a Majakovskij in poesia, a Favorskij nelle arti figurative. Pudovkin era legato alla tra­ dizione dei grandi realisti ottocenteschi e soprattutto a Tolstoj. Nel 1920 Pudovkin lascia la sua fabbrica e s’iscrive alla scuola statale di cinematografia. A chi gli chiedeva spiega­ zione circa la sua conversione rispondeva laconicamente: « Avevo finalmente capito ». Quanto non aveva capito an­ cora, era causa della sua incomprensione la scadente qualità dei film che si vedevano. Film teatraleggianti e statici, storie intime e borghesi, ma stranamente contorte, assurde, irra­ gionevoli. Madri che sacrificano l’amore, facendo sposare le figlie giovinette al proprio vecchio amante, mariti che, sco­ perto il tradimento di vecchia data della moglie, l’obbligano, mediante ipnosi, a strangolare i figli adulterini e simili. A ca­ pire, Pudovkin era stato indotto dal film americano che rac­ contava storie movimentate, con protagonisti giovani, sani, sorridenti, sportivi, Mary Pickford, Pearl White, Douglas Fairbanks. Quei film, che invasero tutta l’Europa, nel dopo­ guerra, di fronte alla stupidità del film psicologico-borghese, delle varie produzioni europee, apparvero ovunque come un vero fatto artistico. Salvo l’eccezione Chaplin e forse qualche altra, non lo erano, ma la loro tecnica, almeno, indicava la via a grandi possibilità. Nella scuola statale di cinematografia, dove Pudovkin entrò come allievo, che immediatamente doveva apparire di

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eccezione, la tendenza naturalistica era rappresentata da Gardin, quella, diciamo cosi, avangardistica da Kulesov. La tendenza avanguardistico-formalistica dominerà per un lungo periodo nel cinema sovietico, ad essa apparterranno idealmente Trauberg e Kozintsev, due giovanissimi registi che fondarono la FEKS (Fabbrica degli attori eccentrici), Ejzen­ stejn e, parzialmente e per influsso di Kulesov, anche Pudov­ kin. Nelle loro opere però tutti superano le loro stesse teorie, specialmente Pudovkin ed Ejzenstejn, portati dal loro stesso genio creativo al realismo: cioè all’arte, se è vero che il rea­ lismo, nel suo senso più pieno e profondo, non è una corren­ te artistica, ma il metodo dell’arte stessa, che comporta, naturalmente, le più varie tendenze, anche quelle che solita­ mente non si sogliono chiamare realistiche. Chiarimenti que­ sti che l’opera di alcuni artisti, fortemente partitici, porterà a chiarire nell’URSS, nel 1934, quando troverà la sua formu­ lazione il « realismo socialista » e quando apparirà il film, che sarà posto come esemplare Capaev. Nella scuola Pudovkin studiò e lavorò sia con Gardin che con Kulesov. Non era un allievo recettivo passivamente; era sempre portato invece, dalla foga naturale del suo tem­ peramento, a discutere, a ribattere e a polemizzare. Fin dalla prima lezione, con Gardin (che nelle sue memorie lo descri­ ve molto vivacemente) egli intervenne precisando all’inse­ gnante il suo pensiero, meglio di quanto egli stesso non sa­ pesse fare. « Il futuro teorico del film si rivelava cosi, fin dalla sua prima manifestazione » (Gardin). Con Gardin, Pudovkin lavorò tutto il 1920 e tutto il 1921. Passò poi al gruppo di Kulesov, col quale esegui una serie di importanti esperimenti di montaggio, nell’intento di defi­ nire esteticamente il film. Anche con Kulesov, come con Gar­ din, fu attore, scenografo, aiuto regista, soggettista, sceneg­ giatore, segretario di scena, segretario di edizione, prese parte a una brigata di lavoro per mettere in funzione un teatro semidistrutto che era stato ceduto alla scuola. Elemento pre­ zioso, univa l’interesse speculativo all’interesse pratico realizzativo; mai gli passò per la mente che il fatto artistico

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potesse esser compiuto indipendentemente dalla sua materia­ le esecuzione, la quale non è una esecuzione, ma la sua stessa creazione. Partendo da questa convinzione, e avendo sperimentato tutti i mezzi di ogni settore di lavoro cinema­ tografico, Pudovkin doveva giungere presto a risolvere, nel modo giusto, il problema dell’autore del film (che ogni tanto ritorna, anche da noi, alla ribalta); sostenendo la creatività di tutti i settori di lavoro, egli affermava il film come frutto di una collaborazione. Questo può essere considerato il primo punto di rottura tra le teorie di Kulesov e quelle di Pudovkin. Giacché per Kulesov l’autore del film è il regista, il quale lo crea al montaggio. Il montaggio, cioè l’unione di diversi pezzi di pellicola impressionata, che non costituiscono che materiale grezzo nelle mani del regista-autore. Da qui Kulesov negava ogni importanza al soggetto, alla sceneggiatura, alla recita­ zione (sosteneva il film senza attori), alla scenografia ecc. Il montaggio era per Kulesov lo specifico filmico, nel senso usato dai teorici del formalismo V. Sklovskij e Jakobson. La teoria di Pudovkin, fin dalla sua prima formulazione, si pone come antitetica a quella di Kulesov. Egli afferma il montaggio come « base estetica del film », ma per montag­ gio intende l’intuizione generale della struttura generale del­ l’opera; intuizione non indifferente giacché essa vale, da sola, a riportare l’elemento di funzione attiva nell’arte. Che d’altro canto è integrato dall’esigenza di un tema, di una idea, che animi il soggetto; col che, dopo il pratico, si pone il ritorno sul piano dell’arte, del concettuale. Il montaggio non è più meccanicamente inteso, ma montaggio è tutta la lavorazione del film che gravita attorno alla sua struttura compositiva. Non si può mai riassumere uno scritto denso di idee; meno che mai uno scritto di Pudovkin che è proprio un concentrato di idee. Qui basterà ricordare che i primi saggi di Pudovkin sono esattamente l’opposto delle tesi di Kulesov, non solo di quelle essenziali suaccennate, ma anche in una serie di affermazioni minori e di corollari complementari: la chiarezza è uno dei requisiti cardinali del film (ed è proprio il contrario di quella ostrannenie, di quel procedimento per 622

cui una cosa diventa strana, che, riflesso dell’obscurité di Mallarmé e dei suoi, certi formalisti ponevano come requi­ sito essenziale dell’arte); gli oggetti, il materiale plastico, vale in quanto traduce un sentimento o un’idea, e, in questo caso, dev’essere inventato; il soggetto è una delle fasi essen­ ziali del film. Di tutto il complesso insegnamento di Kulesov (che egli stesso sottoporrà in seguito a varie revisioni) Pudovkin non eredita che la teoria degli « attori non professionisti ». Ma è una teoria che Pudovkin non metterà mai in pratica, se non per qualche scena o caso particolare, i dimostranti, nella Madre, i mongoli, nell’Ere^e di Gengis Khan, il ragazzo, in Un caso semplice. Anni dopo, Pudovkin ha pubblicato un trattato su L’attore nel film, opera fondamentale, che parten­ do dai concetti esposti nel volume precedente, e in partico­ lare quello della collaborazione artistica e del realismo, for­ ma necessaria dell’arte cinematografica, indica come il meto­ do di Stanislavski) possa essere applicato al lavoro dell’at­ tore cinematografico. Restare nella parte, mantenere il filo del personaggio, colmare gli spazi vuoti del testo sono mezzi fondamentali per l’arte del film. Il volume si apre con una brillantissima analisi del momento del film nell’evoluzione del­ lo spettacolo, in cui si sostiene che il film è una fase di prò» gresso rispetto al teatro, di cui risolve le contraddizioni, e la contraddizione essenziale, il proporzionale scadere della qua lità dello spettacolo teatrale, in rapporto all’aumento degli spettatori. Il breve volume, pregnante di idee, contiene anche numerosi ricordi della carriera di Pudovkin attore; esempi sempre connessi alle proposizioni estetiche generali che esem­ plificano efficacemente. Nella sua successiva opera di saggista, coltivata fino all’ul­ timo, Pudovkin s’è dedicato di preferenza alla definizione della tematica imprescindibile per l’artista sovietico, a quel­ la del concetto di realismo e alla possibilità che esso conviva col romanticismo, alla figura dell’eroe positivo, nel film sovie­ tico. Un bell’esempio di questo tipo di saggistica è dato dalla relazione al Congresso internazionale di cinematografia di Peru-

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già, nel 1949, che è apparso anche in italiano. Oltre a un saggio storico sull’evoluzione del film sovietico, scritto in col­ laborazione con E. Smirnova, si può ancora citare uno studio recente sulla sceneggiatura, e uno recentissimo: L'opera del­ l'attore e il sistema di Stanislavskij. Prima della Madre, Pudovkin ha diretto due film, una commedia II giocatore di scacchi, nella quale è inserita, col metodo del montaggio alla Kulesov, la figura del campione Capablanca; e un film scientifico II meccanismo del cervello, sulle teorie del grande fisiologo Pavlov dei riflessi condizionati. La madre è tratto dal celebre grande romanzo omonimo di Maksim Gorkij, col quale gareggia, forse anche vittorio­ samente, per verità e forza emotiva. Lo scenarista, gli attori, e soprattutto l’operatore, hanno collaborato strettamente riu­ scendo a conferire a tutto il film, di racconto perfetto, un’uni­ tà stilistica esemplare. Figurativamente lo stile è caratteriz­ zato da un luminismo singolarmente nuovo nella storia della cinematografia; dove luce e ombra fungono drammaticamente da elemento espressivo, non di accentuazione e tanto meno di ornamento, ma proprio di discriminazione e di individuazione, come nelle ombre bruciate di Rembrandt. Alla stessa esigen­ za, costantemente significativa, obbediscono le variatissime an­ golazioni, risultanti in scorci, spesso inusitati, ma tuttavia di bellissima evidenza. Può essere interessante riportare un esempio del modo di lavorare di Pudovkin e dei suoi collaboratori, per vedere come questo lavoro sia sempre determinato dall’idea e dagli elementi della storia e mai dal desiderio di stupire o di attin­ gere una qualche esteriore belluria, come si è visto negli innu­ merevoli imitatori e scopiazzatori di inquadrature « alla rus­ sa » in Europa e in America. Riferisce l’operatore Golovnja: « ... l’osteria è tutta caotica, spezzata, pittoresca, nella sua sporca volgarità. Qui la deformità sociale e pittoresca diven­ ta stile. La composizione delle inquadrature dell’episodio del­ l’osteria doveva essere concepita in modo che, attraverso questa deformità, si trasmettesse l’atmosfera eccentrica della trattoria e il suo volto sociale. I numerosi primi piani dei

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frequentatori della trattoria, dei clienti e delle centurie nere furono costruiti su linee spezzate, con voluta mancanza di equilibrio, su bruschi e rotti raggi di luce ed ombre fantasti­ che. Due serie di primi piani: i primi piani dei frequentatori ubriachi e dei suonatori di fisarmonica, che caratterizzano l’ambiente, e i primi piani delle centurie che compiono qui le loro gesta. L’atmosfera vien definita, in egual misura, dai volti e dalle nature morte. Queste ultime furono riprese con esagerato naturalismo: l’aringa, illuminata bruscamente, pog­ gia come una macchia sordida sul piatto sudicio, tra i bicchie­ ri rotti; intorno bicchierini con dentro un liquido torbido. Il sudiciume viene sottolineato dalla luce, messo in rilievo inten­ zionalmente. In un solo quadro non v’è sporcizia, ma la vodka gocciola come sangue. È il quadro in cui le centurie decidono di compiere la provocazione. La vodka diviene nera, accanto agli stivali neri si forma una pozzanghera nera. I visi dei centurioni sono resi naturalisticamente: sono intenzionalmen­ te sottolineate le deformità fisiche, l’ottusità dei volti, la malvagità degli occhi... ». La stessa tecnica, che l’esempio citato illumina con chia­ rezza, è in tutto il film. Essa diviene esemplare nella epopea del finale. Cosa curiosa, il film fu accusato di mancare di unità. Il teorico del formalismo, Viktor Sklovskij, recensendo La madre, affermò: « La madre è un centauro: comincia come un’opera prosastica e finisce come un’opera di formalistica poesia ». Tutti sanno quanto la carica significativa del finale sia intensa. Ma il giudizio dello Sklovskij dev’esser ricordato, in Italia, dove troppo spesso, a proposito di Pudovkin, si segue un criterio simile di valutazione. (Troppo bello per lasciarlo ai comunisti!) Questo lo stile delle opere successive: La fine di Pietro­ burgo, del 1927, opera stupenda seppur meno chiusa e com­ patta della precedente e della seguente per l’apparire di qual­ che elemento di satira sociale, e per qualche accentuazione espressiva, che scivola verso l’espressionismo: generali senza

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testa, il magnate della fabbrica raccordato con la statua di Pietro il grande, gli edifici della civiltà feudale, presi come simbolo della decaduta borghesia e simili. Un enorme salto in avanti è rappresentato da L'erede di Gengis Khan {Tempeste sull'Asia) del 1928. Questa è la storia del progressivo acquisto di una coscienza sociale e pa­ triottica di un individuo isolato, un cacciatore mongolo, che rifiuta le ricchezze e gli equivoci onori, che gli interventisti stranieri gli offrono, in cambio del tradimento, per dedicarsi alla difesa del suo paese e del suo popolo. Il film, universal­ mente considerato un classico della cinematografia mondiale, si apre con una serie di note soggettive, altamente liriche, che si slargano poi, complicandosi in episodi di commovente uma­ nità (come quello indimenticabile del soldato invasore, con­ dannato all’omicidio: ad una esecuzione) e nei grandi proble­ mi generali che porteranno, senza soluzioni di continuità, al fantastico, travolgente finale. Meno felici sono, a detta di chi li ha potuti vedere, Una storia semplice (1932) e II disertore (1933); quest’ul­ timo tuttavia interessante, almeno per l’impiego asincrono della musica, applicazione intelligente e sempre possibile, dei Principi dell'asincronismo, quale mezzo del film sonoro, un manifesto, del 1928, firmato da Pudovkin, Ejzenstejn e Alek­ sandrov, nel quale i registi sovietici sostenevano che il solo impiego possibile del sonoro è quello di dissociare il suono o la parola dalla visione della sua fonte. Nel 1932 Pudovkin entrò come membro candidato nel Partito comunista dell’URSS e poi, allo scadere del termine, come membro effettivo. Seguono nel 1939, 1940 e 1945 i grandi film storici: Minin e Pozarskij, Suvorov, L'ammiraglio Nachimov. Più recentemente Zukovskij, film a colori sulla vita di uno scien­ ziato, precursore dell’aeronautica, realizzato in collaborazione con D. Vasilev. E infine l’ultimo film II ritorno di Vassili Bortnikov, terminato nel 1953, pochi giorni prima della morte, che spegneva, crudelmente, il 1° luglio scorso, questa tra le più grandi figure di artista dei nostri giorni. 626

Arte e vita sovietiche nell’ultimo film di Pudovkin *

Mi pare non debba passar sotto silenzio il commento che, delle premiazioni alla Mostra cinematografica di Venezia, dà la rivista romana 11 Nuovo cinema. Si tratta di una pubblica­ zione redatta da uomini di destra che, come si può consta­ tare anche nel numero 14-15, che pubblica il commento in questione, sostengono spesso posizioni, più che discutibili, apertamente retrive. E tuttavia, criticando aspramente il ver­ detto della giuria veneziana, Il Nuovo cinema scrive: « Tutti, o per lo meno i più, ritenevano che il gran premio lo avrebbe potuto meritare o Pudovkin, con il Ritorno di Vassili Bort­ nikov, o Huston con Moulin Rouge, o Jiri Trnka con il suo meraviglioso film di pupazzi Vecchie leggende ceke », e con­ clude: « Errore imperdonabile il non aver ricordato, almeno, nel comunicato ufficiale, il nome di Pudovkin, la cui presen­ za postuma era, in ogni caso, un onore per la mostra di Vene­ zia. Come italiani e come uomini di cultura ne siamo morti­ ficati ». Oneste parole, che riflettono il giudizio di tutti i frequen­ tatori onesti della mostra. Infatti il verdetto della giuria, quan­ do fu annunciato, alla presenza della critica e delle autorità, con in testa il sottosegretario Bubbio, fu subissato da fischi e da schiamazzi; la sua faziosa tendenziosità fu implicitamente ammessa dal presidente della mostra, on. Ponti, che assegnò * Rinascita, a. X, n. 10, ottobre 1953.

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successivamente premi supplementari al film sovietico e al film cecoslovacco; alla proiezione di Mestre il pubblico decre­ tò un successo entusiastico al film di Pudovkin e inviò rap­ presentanze a manifestare la sua ammirazione alla delegazio­ ne sovietica; una rappresentanza del pubblico veneziano con­ segnò al dott. Brousil capo della delegazione cecoslovacca, per il regista Trnka, un leone d’argento, in tutto uguale a quelli indebitamente assegnati dalla giuria; e, infine, a Roma, alle proiezioni dell’esposizione, Il ritorno di Vassili Bortnikov fu premiato, se pure ex aequo, con un mediocre e vecchio film francese pseudorealistico, Parrabique. Alla ottusità e al servilismo della giuria veneziana, per quanto si riferisce al Ritorno di Vassili Bortnikov, hanno fat­ to puntuale riscontro l’ottusità e il servilismo di molti critici, corrispondenti della stampa periodica, tra i quali ha primeg­ giato quello del Popolo, che, criticando il contenuto ideologi­ co del film, ha parlato di « sbandamento » quasi che i primi film di Pudovkin, poniamo La madre o Gli ultimi giorni di San Pietroburgo, fossero dei film clericali. E avevamo potuto leggere, dovuta a non so piu quale campione della metéquerie cosmopolitica dei collaboratori di Bianco e nero, uniti solo dall’incultura, dall’inurbanità e dal fiero disprezzo per la gram­ matica, la tesi incredibile per cui Pudovkin, grande teorico, sarebbe mancato come artista; e su Cinema, a firma Paolella, che Pudovkin, come teorico, non ha fatto che sistemare le teorie di Griffith sul montaggio, pappagallesca ripetizione delle asinerie di uno storico del cinema, un parruccone ruz­ zolato tra noi, non si sa come d’Oltralpe. Queste sono le uscite più crasse e madornali: che se si legge, sull’ultimo numero di Giovedì, Padre Morlion, che scrive del film La madre che è un’opera religiosa, si può inten­ dere che, nel linguaggio del focoso domenicano, ciò vuol dire che si tratta di un’opera d’arte di alta moralità. Resta comun­ que il fatto che non si è avuta da noi, del Ritorno di Vassili Bortnikov, non dico un’analisi critica seria, difficile indub­ biamente dopo una sola visione del film, ma un equo apprez­ zamento, come di un grande capolavoro, che non solo rag­

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giunge, ma sorpassa di molto il livello altissimo delle prece­ denti opere del maestro. Anche a proposito di questo film si è parlato noiosamen­ te e avventatamente di propaganda; e non si è visto, o non si è voluto vedere, quanto lontano dallo schematismo, dalla genericità e dall'astrazione, sia quest’opera, il cui tema è la bonifica dell’uomo e della natura, che è in atto nell’Unione Sovietica, e in cui l’elemento di conflitto è proprio dato dalle forze di resistenza sia dell’uomo che della natura. Nel colcos in cui si svolge l’azione ci sono, in tutto, tre membri del partito comunista, il lavoro non procede come dovrebbe, i col­ cosiani non sanno adoperare i trattori che hanno in dotazione, si accusano reciprocamente e leggermente, il protagonista Bort­ nikov, con tutte le sue buone intenzioni, inasprito dalla sua personale sventura, si comporta con i suoi collaboratori con asprezza autoritaria. Mi pare che questi elementi di resisten­ za bastino a chiarire la coraggiosa sincerità con cui Pudovkin rispecchia, in questa sua ultima grande opera, una realtà che non ha nulla da nascondere, nemmeno dei suoi lati negativi. Che questa realtà poi sia quella di una società giunta a un livello incomparabilmente superiore rispetto alla realtà dello stesso paese vent’anni fa, si può intendere facilmente se si paragona l’attonito stupore dei mugiki dinanzi al fin troppo prezioso arabesco dei getti di latte da una primitiva screma­ trice, nella Linea generale di Ejzenstejn, alle difficoltà dei colcosiani di oggi a bene impiegare i grandi trattori, le idro­ vore e le altre macchine gigantesche e complesse. Che questa realtà sia quella di una società incomparabilmente più avan­ zata della realtà sociale del mondo cosiddetto occidentale si può intendere facilmente se si paragona il soggetto del Vassili Bortnikov al soggetto, inizialmente simile, di un film italiano entrato in questi giorni in lavorazione. Vassili Bort­ nikov torna dalla guerra in patria dopo una lunga assenza e trova che la moglie, che l’ha creduto morto, si è sposata con un altro; egli si dedica quindi al risanamento del colcos di cui fa parte ed ha la collaborazione attiva della moglie: al successo nel comune lavoro segue anche la ricostruzione

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della famiglia e della felicità perduta. Dove l’amore è conce­ pito come un aspetto di un piu ampio sentimento sociale, dal quale non può scindersi senza degradarsi. È una tesi che sa­ rebbe piaciuta al Manzoni, ma che non piace al critico del Popolo, Sala. Al quale, evidentemente, piacerà invece il modo di vita occidentale, quale emerge dal soggetto Pietà per chi cade, cosi raccontato nell’ultimo numero del notiziario cine­ matografico Ansa: « Un reduce (Amedeo Nazzari) torna, do­ po essere stato dato per morto, alla sua casa, e trova che la moglie (Nadia Gray) vive con un altro uomo. Scoppia la tragedia: il redivivo uccide il rivale, la famiglia è distrutta ». È chiaro che in una società come la nostra la soluzione di Pietà per chi cade sembra ovvia: forse se ne potrebbero tro­ vare altre, altrettanto ovvie per il modo di vita occidentale: il redivivo si dà all’alcool e al vizio fino a morire di delirium tremens, oppure si arruola nella Legione straniera a dimen­ ticare le sue pene facendo un po’ di caccia grossa e di tiro a segno contro uomini di colore, in lotta disperata per la pro­ pria indipendenza.

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Giuoco d’azzardo *

Nell’attuale declino, speriamo momentaneo, del neoreali­ smo cinematografico italiano, si vede riaffiorare, come teoria e come pratica, una vecchia tendenza, già da tempo giudi­ cata e condannata, che vuol apparire anch’essa come reali­ smo, e anzi come progresso e approfondimento delle posizio­ ni realiste già conquistate; ma che, in verità, se ne scarta tanto da costituire, del realismo, precisamente l’opposto. L’illusione di approfondire, per questa via, il realismo (talvolta, bisogna dirlo, non si tratta tanto di illusione, quan­ to del desiderio e della speranza di illudere) parte dalla pre­ messa che il film debba, sempre di piu, avvicinarsi alla vita vera; debba documentare, magari retrospettivamente, fatti veri, fatti di cronaca; della cronaca nera e drammatica, ed anche di quella bianca, cioè banale e quotidiana. Riducendo al minimo, e quasi totalmente eliminando, l’opera del sogget­ tista e del regista, assieme alle quali cadrebbero dunque anche la finzione e la falsificazione dei documenti i quali ormai, nel nuovo e approfondito realismo, dovrebbero apparire nudi e crudi. Questa posizione dimostra come chi la segue non abbia capito che realismo è « presentazione di personaggi tipici in circostanze tipiche » (Engels); e che il tipico della realtà è precisamente il contrario dell’eccezionale e dell’abnorme della cronaca nera, non solo, ma il contrario anche del banale quo­ * L’Unità, 9 agosto 1953.

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tidiano; il tipico « non è ciò che s’incontra piu di frequente », ma « ciò che esprime, col massimo di pienezza e di rilievo, l’essenza di una data forza sociale» (Malenkov). Meraviglia che da noi siano caduti in equivoci di questo genere cineasti anche tra i piu dotati: specie se si ricorda che un simile ingenuo equivoco (o calcolo deliberato) ha già portato fuori strada, piu che venti anni fa, tanto il film tede­ sco che la letteratura tedesca: a quel vicolo cieco che si chia­ mò allora la nuova oggettività, le neue Sachlichkeit, Béla Balàzs, nel suo fondamentale scritto, che resta sempre Lo spirito del film, ha denunciato la mistificazione del realismo, e l’occultamento della realtà che sono caratteristiche di quel­ la tendenza, che egli bene definisce « capovolgimento del ro­ manticismo piccolo-borghese » e « ideologia della politica del­ lo struzzo, che consiste nello sprofondare la testa in una quan­ tità di particolari reali, per poter non vedere la realtà ». I film di allora si chiamavano Cosi è la vita e Uomini nella domenica: certi film italiani recenti li ricordano, anche nei titoli. Talvolta i protagonisti di quei film tedeschi erano persino operai; ma come, ha acutamente osservato un critico allora, S. Kracauer, la loro vita e i problemi della loro vita venivano determinati e risolti piuttosto dal destino che dal sindacato. I cineasti sceglievano i protagonisti operai tra quelli staccati dalla loro associazione e dalla loro classe e mostravano come un felice e benevolo destino riuscisse, quasi come guiderdo­ ne, a strapparli dall’inferno della miseria, della disoccupazione e della lotta, per portarli, senza difficoltà, magari con un ricco patrimonio di amore, a far parte — finalmente! — della classe privilegiata. Cosi l’oggettività si rivela essere tutt’altro che oggettiva, il realismo si rivela essere tutt’altro che realismo. Menzogna, sia di sostanza che di forma, che tradisce a primo esame, la propria miserabile finalità. Destino o sindacato? Ammettere un destino significa ammettere una forza su­ 632

periore ed esterna, che regola le cose umane, e contro la qua­ le è vano (e può apparire eroico o stupido, a seconda dei punti di vista) contendere. Ammettere un destino significa dunque togliere all’uomo ogni libertà. E, siccome i moventi del destino sono insondabili e sic­ come la sua opera è, per definizione, arbitrio cieco, ammet­ tere un destino significa togliere ogni senso alla vita. Significa minare le fonti dell’energia umana, spezzare le molle di ogni sano slancio vitale, inaridire tutta quanta la vita. La vita, non vissuta nell’impegno di realizzarsi tutta in cosciente attività, si trasforma in un’avventura, nella posta di un giuoco d’azzardo impegnato col cieco destino. Abdicando l’uomo alla propria dignità di uomo libero e conseguentemente attivo, la vita, disancorata dalle altre vite, divien tutta determinata, tutta causale, un giuoco d’azzardo. E non il sano giuoco che è il meritato riposo dopo il lavoro e la lotta, non il giuoco che è caratterizzato dal mas­ simo disinteresse. Un giuoco al contrario, che è giocato per il massimo degli interessi, per la volontà accanita di vincere. Non effusione sana, fiduciosa e disinteressata; ma calcolo, furbizia, inganno. Giuoco di avventurieri e di bari. La promessa e la speranza illusoria, che i film denunciati di sopra vorrebbero far balenare dinanzi agli occhi del prole­ tariato, abbagliandoli colla visione della vita fastosa dei privi­ legiati e promettendo all’individuo di potervi un giorno par­ tecipare, si riduce dunque all’invito a sottrarsi alla lotta, colla speranza di poter forse un giorno sottrarsi anche, individual­ mente, alle drammatiche difficoltà della classe. Propongono fughe che sono, peggio che diserzioni, vero e proprio tradi­ mento. E che, quando ne è protagonista qualcuno che si atteggia a guida della classe, diviene un tradimento ancora più basso ed abietto. Come se una guida alpina si sottraesse alle fatiche e ai pericoli di una cordata nella tempesta, sgan­ ciandosi dalla corda — e che gli altri precipitino e tanto peggio per loro! Un tradimento che le guide alpine non com­ piono mai, ma che compiono invece, con trista coscienza, molte sedicenti guide del proletariato. Ma queste avventure e 633

questi tradimenti sono sempre, anche per loro, illusori e de­ ludenti: e sempre di piu lo diventano quanto più forte si fa la classe che essi tradiscono. Nel sindacato si attua l’unione della forza operaia; quel­ l’unione che è la condizione essenziale perché la classe non sia vinta, ma vinca, e che perciò è, per ogni lavoratore, il bene più prezioso da difendere e salvaguardare con tutte le forze: e che è perciò il punto contro il quale si dirigono, aper­ tamente o subdolamente, tutti gli attacchi degli avversari. I lavoratori lo sanno e perciò non credono al destino e credo­ no nei sindacati. Il lavoratore non giuoca la sua vita e quella della sua classe con il cieco destino. Il lavoratore, quando può riposare e giocare, giuoca sanamente alle bocce coi suoi compagni e la posta è una sana mezza « fojetta » di vino. Non giuoca per guadagnare e per vincere, ma per giocare. Per vincere, assieme ai compagni, studia e lavora e lotta. Studia le leggi dello sviluppo della natura e della società, aiutato dalla propria avanguardia, dai partiti della propria classe; per vincere elabora la linea politica e sindacale, che è la conseguente applicazione di quelle leggi. Per vincere non si isola, non giuoca col destino; ma lavora, nel partito e nel sindacato. Perciò i film cosiddetti oggettivi e realistici, colla loro cronaca nera, o bianca, o giallo-rosa, non sono né oggettivi né realistici; e proponendo allo spettatore l’avventura e il giuoco d’azzardo col cieco destino, tentano di disarmarlo nella lotta per la vita, tentano di distoglierlo, con bugiarde concezioni del mondo, dal sindacato e dal partito, cioè dalle organizzazioni che lo aiutano e lo guidano alla realizzazione del compito storico della classe.

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Non luogo a procedere *

Una volta mi è capitato di recarmi a trovare un amico pittore al suo studio nel verde di villa Strohl Fern; egli, sempre distratto e poco puntuale, non era ancora arrivato e, sulla soglia della sua casetta all’ombra dei grandi pini, era ad attenderlo la modella, Fernanda, una bella donna, di Anti­ coli Corrado naturalmente; una donna non più giovanissima, di florida costituzione fisica, esattamente opposta a quella che allora era di moda, della donna crisi, di tutte brame carca nella sua magrezza. Aveva Fernanda un bel corpo, forte e delicato, e una bella faccia sana e saporosa, di contadina di fresco inurbata, con un’espressione quasi fiera, di testarda drittura morale. Parlammo un poco, e quale non fu la mia sorpresa nell’apprendere, da Fernanda, che il mio amico ave­ va iniziato in quei giorni un quadro pornografico, per il qua­ le lei era seccatissima di dover posare. Quadro pornografico? La sorpresa, debbo dirlo a mio disdoro, non era meno grande della mia curiosità. Quando il pittore arrivò ed entrammo nello studio, il mistero cadde di colpo; sul cavalletto in piena luce era il quadro in questione: la bella Fernanda, di tre quarti, porgeva il seno candido e colmo all’avidità di un vecchio sparuto e dalla barbacela arruffata. Fernanda, pur conservando la sua fondamentale espressione di grazia gentile, aveva un’aria com­ * L’Unità, 29 settembre 1953.

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punta e come scontenta che mi fece scoppiar dal ridere. II quadro, come tutti hanno capito, raffigurava la carità romana, ed apparteneva ad una serie, le opere di misericordia, com­ missionata al mio amico per la chiesa della sua città. E certo: se io racconto la trama di un romanzo che comin­ cia cosi: un signorotto di un paesetto della Lombardia, che vuol sedurre una contadinella, si serve, per raggiunger questo scopo, dell’acquiescenza di un prete disonesto prima e poi della complicità di una monaca corrotta... non è improbabile che qualche ignaro pensi trattarsi di un romanzo audace e a sfondo anticlericale. Mentre si tratta, nientedimeno, dei Pro­ messi sposi, cioè di un capolavoro, di ritroso e delicatissimo candore, scritto per esaltare la morale cattolica. Insomma di un’opera di propaganda, come quelle a cui tanti illustri perso­ naggi negano, oggi, che possano attingere il livello dell’arte. Che non sia lecito, da un soggetto, arbitrarsi ad azzar­ dare un giudizio di valore artistico è ovvio: da quanto ho raccontato di sopra mi sembra debba risultare, altrettanto ov­ viamente, l’assurdità, del credere di poter dedurre, da un semplice soggetto, un giudizio di ordine morale. Anche, si badi bene, se si conoscono le idee e le posizioni, morali del­ l’autore. Perché, nella società divisa in classi, non è infre­ quente che gli artisti credano di dover disancorare la loro attività di pensiero e la loro attività pratica da quella arti­ stica; cosicché può succedere che la loro opera esprima, di fatto, una ideologia diversa, o addirittura opposta a quella che essi professano. È il caso, tante volte citato, di Balzac. « Indubbiamente Balzac era legittimista: la sua grande opera è un’elegia continua sull’irreparabile decomposizione del gran mondo; le sue simpatie vanno tutte alla classe condannata a morire... » Ma « egli ha visto l’ineluttabilità del crollo dei suoi cari aristocratici » e li ha descritti come esseri « che non meritavano una migliore sorte: egli ha visto i veri uomini dell’avvenire là dove si trovavano effettivamente al suo tem­ po... » (Engels, Lettera a Miss Harkness')-, e insomma l’opera di questo codino è, contro le sue intenzioni, un’opera positi­ vamente progressista e rivoluzionaria. E a chi dubitasse del­ 636

l’interpretazione di Engels, che è poi quella di Marx, e che recentemente è stata ripresa, illustrata e sviluppata dal Lukacs, si può ricordare l’interpretazione, non sospetta, di Emile Zola che, nel suo studio sul romanzo, dava del Balzac esatta­ mente lo stesso giudizio: o si può ricordare l’odio di classe che trasuda nelle parole di una aristocratica protagonista di Marcel Proust, Madame de Ville Parisis, che sdegnosamente diceva: « Balzac s’è sforzato per tutta la vita a dipingere una società dalla quale non era ricevuto » (come se, tra paren­ tesi, il fatto di non ricevere Balzac non fosse un nuovo moti­ vo di disonore per quella società). Giudicare dal soggetto di una futura opera d’arte sia l’arti­ sticità, sia il valore morale di essa, è assolutamente illegittimo. Anche nel caso che il soggetto contenga, nel modo più espli­ cito, giudizi e apprezzamenti e idee generali; perché quei giu­ dizi, quegli apprezzamenti, quelle idee potrebbero, prendendo forma artistica, addirittura capovolgersi. Agli argomenti portati da tante personalità, da giuristi cosi insigni, per dimostrare la illegalità del procedimento con­ tro i giornalisti cinematografici Renzi e Aristarco, arrestati e deferiti al tribunale militare per aver scritto l’uno, e l’altro pubblicato, un abbozzo di soggetto cinematografico, mi pare possano aggiungersi le osservazioni di cui sopra. L’armata s’agapò non è un film, non è la sceneggiatura di un film, non è nemmeno il soggetto di un film; è la prima idea di un soggetto. La sua forma è imperfetta e provviso­ ria per definizione, giacché si tratta del progetto di un pro­ getto di un’opera futura. Un’opera la cui forma non sarà letteraria, ma essenzialmente visiva, figurativa. E poiché la forma è l’espressione, in termini d’arte, di un mondo morale, la mancanza di questa forma non consente di definire, e tanto meno quindi di giudicare, questo mondo morale. Se non ci fossero stati tanti altri, e cosi validi argomenti, sarebbe bastato questo, come ciascuno può facilmente capire, a sentenziare un non luogo a procedere nel triste caso di Renzi c Aristarco. Dove si vuol arrivare?

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Non solo alla confusione delle idee e dei valori morali, ma persino alla confusione del lecito e dell’illecito sul piano giuridico: dove l’onesto cittadino può essere incriminato per assumere una data posizione di fronte ad un avvenimento, e può essere, con altrettanti articoli di legge, incriminato per assumere la posizione contraria. Situazione gravissima che con­ sente qualsiasi arbitrio al governo e, di fatto, priva il citta­ dino di qualsiasi libertà.

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Riforma della censura? *

Il recente dibattito sulla censura cinematografica mi sug­ gerisce qualche riflessione, di sapore un po’ autocritico, che mi pare possa costituire una premessa alla discussione, se essa vuol effettivamente approdare a qualche cosa. Qualche cosa significa l’abolizione della censura e non la sua riforma. Per un ovvio motivo, che la censura, per la sua sola esistenza, determina immancabilmente un’autocensura nei produttori e nei realizzatori di film. Per l’ovvio motivo che un film costa diecine e diecine, e a volte anche centinaia di milioni e nessuno vuole rischiare di veder volatizzare così enormi somme come avverrebbe se il film fosse bocciato in censura. Il fatto che la censura esiste non sembra grave a chi, giudicando dal­ l’esterno, osserva che pochissimi, o nessun film ha avuto un totale divieto di circolazione: la censura è dunque, essi male argomentano, discreta e comprensiva. Niente affatto: significa solo che la censura, come nel mondo del cinema tutti sanno, determina un’autocensura; determina cioè nei produttori, ed anche, piu che non si creda, nei registi, uno studio non solo per sapere in precedenza se il film è o no gradito alle autorità governative e a quelle ecclesiastiche, ma anche uno studio per interpretare i desiderata di quelle autorità. E la cosa non deve far meraviglia giacché oltre allo spettro della censura esiste, come contropartita, la possibilità di ottenere o meno, crediti * Filmcritica, a. V, n. 32, gennaio 1954.

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cinematografici, che, come è noto, sono monopolio di una banca, e naturalmente della Banca nazionale del lavoro, esi­ ste la possibilità di avere premi (sotto forma di storno o rim­ borso della tassa erariale) e di averli in misura maggiore o minore a seconda del parere di commissioni che, per avere una parvenza di composizione democratica, non cessano di essere nelle mani dell’autorità esecutiva. Solo l’abolizione della censura e un diverso sistema di difesa del cinema (tassa sul doppiaggio in luogo di premi) possono assicurare alla cinematografia italiana, quella libertà che non è una vana parola, nonostante che sia una parola che serve a troppi a coprire troppe cose. Dunque non riforma, ma abolizione della censura. Ma, si dirà, questa è una richiesta assurda: il cinema, forma d’arte che sia, è un mezzo terribilmente potente di persuasione e di propaganda, è un mezzo troppo suggestivo per poter esser lasciato all’arbitrio di chi può servirsene a scopo unicamente speculativo e che sia disposto a subordi­ nare a questo interesse ogni altro, sia di natura artistica che di natura morale. Sta bene. Fu una gioia grandissima, nei primi tempi della cinematografia quella di scoprire che il film dotava finalmente l’umanità di un’arte veramente popolare, un’arte, si diceva, che per la prima volta nella storia, non è monopolio (nel suo godimento e nella sua comprensione) della classe domi­ nante. Un’arte — l’ho scritto anch’io — che non necessita nello spettatore di un preventivo e preliminare apprendimento del suo particolare linguaggio, o meglio, del linguaggio delle singole opere. L’enorme popolarità del film, le sale rigurgi­ tanti, l’immediata comprensione da parte del pubblico più vasto giustificavano quest’idea. Le famose servette e i solda­ tini, quel glorioso pubblico degno di Shakespeare, che sco priva la grandezza di Chariot, prima che la critica si accor­ gesse che uno dei fatti artistici più grandi della nostra epoca era nato, giustificavano questa tesi. Queste osservazioni avevano fatte cadere anche il sotto­ scritto a indulgere ad un errore estetico, nel quale erano ca640

du ti in molti e del quale in genere io mi ero mantenuto immune ed anzi avevo apertamente combattuto. Quello per cui il cinema è un’arte diversa dalle altre. Allora era inutile combattere l’idea di uno specifico filmico; se poi io stesso dovevo ammettere una cosi radicale differenza tra il film e le altre forme d’arte, una particolare suggestività, una im­ possibilità, per il pubblico del film a sottrarsi alle suggestioni dello schermo. Quelle constatazioni nascevano da un’esperienza, che bi­ sognava capire, sarebbe stata circoscritta nel tempo. E stride­ vano con la mia affermazione recisa, un po’ audace in tempo fascista, come quella che io facevo nel mio primo scrittarello sul cinematografo (in Cinematografo di Blasetti, 1931) che « la censura cinematografica è la negazione/ del cinema­ tografo ». La suggestività del cinematografo dipende dall’ingenuità acritica di chi contempla il film; è lo stupore, non del mezzo tecnico, ma l’ignoranza del mezzo tecnico, che dà alle immagini dello schermo l’illusione della realtà e della verità. Nei primi tempi del film un treno che venisse verso la sala faceva fuggire il pubblico, piu tardi, in Sicilia se non erro, ci fu un carabiniere che sparò una pistolettata contro il cattivo del cineromanzo cui assisteva. Oggi nessuno spara piu contro lo schermo in nessuna parte del mondo. È semmai lo schermo che spara sul pubblico, anzi bombarda il pubblico cercando di suggestionarlo. Ma non ci riesce piu. Il cinema è ormai veramente un’arte, e, se non sempre considerata e apprezzata per tale da tutto il pubblico, non è piu certo una illusione irresistibile. La riprova è data dal fatto che l’industria americana lancia il film a tre dimensioni, che dovrebbe riconquistare al cinema la perduta irresistibilità, che dovrebbe ripiombare il cinema al rango di panopticum successivo. Che il fenomeno non sia nuovo, né unicamente caratte­ ristico del film lo dice una frase che si sentiva dire ancora lino a qualche anno fa: « È vero come un libro stampato ». Oggi una verità simile ci fa sorridere, dopo il diluvio di 641

bugie che la stampa ci propina quotidianamente. Ma la frase a pensarci indica una situazione, che è stata, anche se oggi non è piu: la situazione per cui la stampa aveva una forza suggestiva, una potenza persuasiva alla quale il pubblico non era in grado di resistere. Oggi esiste, bene o male, una libertà di stampa. La stampa è uscita di minore età. Mantenere una censura cinematografica è offensivo per il cinema che anch’esso è uscito di minore età, e per il pubblico, che è in grado ormai, tutto, di sottrarsi alle suggestioni dello schermo.

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La camera oscura *

L’attuale momento di stasi e di stagnazione delle ricerche tecniche sul film, fino a ieri sviluppatesi con così vigoroso rigoglio, non deve far supporre che esse abbiano esaurito ormai ogni possibile problematica; non significa che ogni atti­ vità, in questo campo, debba ormai circoscriversi alla siste­ mazione storica delle vecchie opere e alla penetrazione critica delle nuove. Le riserve avanzate piu volte alla cosiddetta filmo­ logia, per considerare essa il film da tutti i possibili punti di vista meno che da quello specifico e che solo interessa, il punto di vista artistico, non tolgono che i complessi assaissimi problemi che il film suscita, specialmente quelli inerenti alla sua sempre piu rilevante e vistosa potenza formatrice e tra­ sformatrice della massa immane dei suoi spettatori, inerenti cioè all’importanza, sempre piu grande, che il film ha nella vita dei popoli di tutta la terra, debbano essere respinti in blocco, come secondari e non pertinenti, perché alieni al campo specifico di queste ricerche, che non può essere che l’estetica. La potenza del film risulta, in questo senso, anche ad una osservazione superficiale, assai maggiore, sia per estensione che per durata di influenza, di quelle delle altre forme di spettacolo e delle altre arti tradizionali; l’importanza del film risulta così molteplice e grande che deborda e trascorre il * Filmcritica, a. V, n 36, maggio 1954.

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concetto di arte, nella sua accezione piu generale e comune­ mente accettata, da farne quasi sospettare impossibile la sua totale risoluzione che, nei riguardi del film, l’arte non è nemmeno la cosa piu importante, di fronte al suo determi­ nare una più acuita capacità visiva negli uomini, al suo aver creato una nuova civiltà ottica, come ha scritto una volta Béla Balàzs: cioè, diremo con più interezza forse, di fronte alla complessità della sua molteplice e profonda azione sugli spettatori, e, in altri termini, di fronte alla sua significazione e responsabilità sociale. Ma è poi esatto dire che l’arte passa in seconda linea di fronte alla significazione e alla responsabilità sociale e a tutta la complessa problematica del film? Meglio sarà, fin d’ora, congetturare, salvo a meglio vederlo e dimostrarlo in seguito, che tutti i problemi del film rientrano in un nuovo, più appro­ fondito e più pieno concetto dell’arte, in una nuova filosofia ed estetica, alla cui nascita il film non è estraneo, ma alla quale ha dato un valido, un decisivo impulso. Certo questa estetica aspetta ancora una trattazione organica ed esauriente; e il cinema, che ci ha dato e ci dà i più alti prodotti artistici dei nostri giorni, ne pone con forza l’istanza. Non acconcian­ dosi alle soluzioni proposte dall’estetica dell’idealismo, alle quali riluttano le sue caratteristiche più notevoli, il cinema non chiede un’estetica autonoma, ma ha l’ambizione, più va­ sta, di approfondire il concetto stesso di arte, meglio inten­ dendo, e più compiutamente, non solo i film, ma anche le opere delle altre arti tradizionali; e ripudia, con l’estetica idealistica, anche l’impostazione generale di questa capovolta visione del mondo, responsabile oltre che dei tentennamenti e delle esitazioni nel riconoscere validità artistica al film — te­ nuto per tanto tempo in quarantena — di un’infinità di stra­ volgimenti e di errori. Il presupposto, da cui ogni cosciente e valida riflessione ed azione deve modernamente prender le mosse, dell’esistenza di già ben individuate e formulate leggi oggettive dello svi­ luppo della natura e della società, leggi sempre e ovunque confermate dalla storia, ci consente di ripensare intero, nella 644

sua poliedricità, il problema del film; e questo generale ripen­ samento, contro ogni avventata presunzione e immediata este­ riore apparenza, comporterà una semplificazione dell’attuale groviglio di problemi mal posti e di soluzioni sbagliate che s’abbarbicano al film con la fertilità delle male erbe. Definire che cosa sia, quando e come sia nato e che cosa sia diventato oggi il film, può sembrare espositivo e ricapitolatorio e manualistico: una serie di dati scientifici, della chi­ mica, della fisica, dell’ottica, della meccanica di precisione e la creazione da essi di un complesso di apparecchi, da un canto, e, dall’altro, una serie di prodotti dell’impiego di que­ sti apparecchi, sempre piu progrediti, che, a un dato punto del loro sviluppo, hanno riconosciutamente acquisito caratteri d’arte. Fatti storici bastantemente accertati e documentati. Eppure, anche a voler solo tentare, esenti e immuni da ogni prurito di polemica e di disputa, qualche preliminare definizione, ci si accorge di essere ancora di fronte a materia controversa e a soluzioni sbagliate. Anche indipendentemente da questioni estetiche e dalla definizione del film, si veda qui il problema delle sue origini. L’origine del film è oggetto di polemiche interminabili, ma solo per quelle che possono essere questioni di priorità e per la definizione della parte da attri­ buire, nell’invenzione, ai fratelli Lumière, ai fratelli Skladanowsky, a Edison o chi altro sia. Persino l’atto di nascita uffi­ ciale del cinematografo, che esso sia nato con la prima pub­ blica programmazione a Parigi, nel 1895, al Grand Café des Capucines è una verità che urta le convinzioni e i nervi di molti ricercatori e studiosi. Ma le origini del cinema vanno poste come ben altro pro­ blema, che non sia quello dell’esser stato Tizio o Caio il pri­ mo a impiegar l’emulsione su di un supporto di celluloide o la croce di Malta. Va posto come uno di quei problemi rom­ picapo, quello dell’uovo e della gallina, che involve ben piu grosse questioni e impegna tutta una concezione del mondo: come il problema della primalità o meno dello spirituale. Sono stati ricordati spesso i poveri e, diciamolo pure, un po’ equivoci natali del film, come spettacolo d’attrazione, da

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baracca di fiera, tra giochi di prestigio, caroselli, musei degli orrori e delle statue di cera. Origine piu che modesta, anche se parallela alle ricerche scientifiche sul trotto dei cavalli o sul volo degli uccelli; e magari anche origine un po’ truffal­ dina, come d’un trucco sedicente magico, per il pubblico, ma poi di fatto misconosciuto, non solo nelle sue possibilità artistiche future, ma persino nella sua importanza commer­ ciale dal suo più qualificato inventore. Non così dai primi che poterono immediatamente conoscerlo. Si sa che del cine­ matografo dovevano immediatamente interessarsi Georges Meliès, direttore allora del teatro Robert Houdin, Thomas, direttore del Musée Grevin, e M. Lallemand, direttore delle Folies Bergères, ospiti eletti da Lumière per una seduta privata dei suoi primi minuscoli film; e che quegli spettatori gli fece­ ro offerte per la concessione dello sfruttamento commerciale dell’invenzione, per quei tempi colossali: diecimila il primo, ventimila il secondo, cinquantamila il terzo. Piaccia o non piaccia, questi furono i primi a interessarsi del cinematografo; quello stesso cinematografo che, solo po­ chi anni dopo, doveva attrarre nella sua orbita Sarah Ber­ nhardt, Réjane, la Duse, D’Annunzio, Saint-Saèns e Pizzetti. Origini modeste e sviluppo impetuosamente rapido: ma appena giunto al suo imprevedibile stadio di diffusione e di importanza, riconosciuto come arte, e proclamato definitiva­ mente la più importante delle arti, il cinema, come un qual­ siasi risalito, fattosi largo in una nobile, ristretta e chiusa cerchia, quella delle arti tradizionali, s’è affrettato alla ricerca di palle araldiche per la sua corona, e di quarti di nobiltà: inventandoli, naturalmente, con l’aiuto non solo di pubbli­ cisti instancabili e indefessi poligrafi, fatti zelatori del nuovo potere, ma anche di ricercatori adorni di filosofica prepa­ razione. E ne è sortita la stravagante audacia dell’affermazione, che gode ancora oggi un bel credito, per cui il film è antico quanto Vumanità. Questa sentenza non è un’uscita meramente bizzarra e paradossale, messa in testa ad uno zibaldone di fotografie di film; né uno scherzo del genere di quelli di cui si sentì 646

rispondere che erano spiacenti di non poterlo servire perché la macchina fotografica aspettava ancora il suo inventore. È un’affermazione che la pretende a validità scientifica e filo­ sofica: è una tesi che ha la sua paleontologia, la sua filologia, la sua teorica giustificazione. Ed è, manco a dirlo, una frottola ben inventata, come appare d’acchito, anche al piu indotto osservatore. Il palinsesto cinematografico, il protofilm, anzi VUr-Film, giacché sospetto che questa frottola sia di origine tedesca (e, se non lo è, bene si attaglia al gusto di certa pseudo-scienza tedesca), risale a circa 20.000 anni or sono: a quelle rozze e suggestive figurazioni di bisonti e di cinghiali, che son graffite nei cavernicoli di Santillana, presso Altamira, nel nord della Spagna. Secondo una diffusa interpretazione, cin­ ghiali e bisonti vi sarebbero raffigurati in movimento. Le numerose zampe, anteriori e posteriori, in qualcuno di essi starebbero a significare il movimento delle bestie, essendo situate in diversi punti dello spazio, corrispondenti ai diversi momenti del loro muoversi. Da questo araldico ed emblematico bisonte o cinghiale prendono le mosse, per giungere al film moderno, innumere­ voli trattati cinematografici e quasi tutte le storie del film. E ci sono caduto, irriflessivamente, anch’io (cfr. Filmcritica, I, n. 2, Roma, 1951). Ora, ciò che stupisce immediatamente, appena si rifletta un poco su quelle antiche immagini, è la supposizione che i loro primitivi autori volessero riprodurre il movimento delle bestie e avessero una capacità di concepirne ed eseguirne la rappresentazione simbolica mediante la ripetizione, in vari punti dello spazio, degli arti della bestia. La soluzione che essi avrebbero dato corrisponde appieno a quella che dovevano dare, tanti secoli dopo, i campioni del futurismo italiano e del dinamismo plastico: per esempio, Gia­ como Balla, col suo quadro La signora dal cagnolino, che è, se non erro, del 1913, dove, come si ricorda, il cagnolino dovrebl>e risultare in movimento per il fatto di avere numerose zam pctte, sia anteriori che posteriori, cosi come il guinzaglio, per

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la stessa ragione, è raffigurato come una serie di guinzagli. La verità è che l’esigenza del « dinamismo plastico » nasceva, nei futuristi, dall’esistenza del cinematografo, come il « fotodina­ mismo » inventato da Anton Giulio Bragaglia, è probabil­ mente il responsabile della soluzione della reiterazione degli arti del cagnolino per indicarne il movimento. È per lo meno strano che artisti, e per di piu futuristi, abbiano aspettato la macchina fotografica e il cinematografo per porsi il problema del dinamismo plastico e per trovarne la soluzione, che sarebbe stata naturalmente ed istintivamente trovata nella preistoria, 20.000 anni prima. Tanto più sorprendente appare l’interpretazione dei graffiti di Altamira quando si constata che quel tipo di riproduzione del movimento non si trova mai più, successivamente; quan­ do si constata cioè che i successivi protofìlm delle varie storie del cinema, che vanno cosi allegramente romanzandone le origini e la preistoria, non presentano mai analoghe soluzioni del problema della raffigurazione del movimento. Anzi non si pongono affatto il problema della riproduzione in figura del movimento. Le spesso citate immagini dell’età del bronzo, circa 20.000 anni avanti Cristo, le lastre di roccia del monu­ mento Kivik a Schonen, in Svezia, rappresentano una serie di figurette, tutte dotate di un regolare numero di gambe e di braccia. Ma, si dice, il movimento vi risulta dalla reitera­ zione della stessa figura: la stessa persona o la stessa bestia, sempre ripetute, danno l’impressione del suo incedere. Altret­ tanto varrebbe per la costruzione del tempio, nelle figurazioni sepolcrali egiziane o nei rilievi capitolini, dove sono narrate le storie di Briseide, dell’ira di Achille e delle divine quadrella di Apollo, dal canto primo deìV Iliade. Ma non ci vuol molto ad accorgersi che, nella costruzione del tempio egizio, non si tratta affatto della stessa persona che si muove, ma di una squadra di schiavi al lavoro; che nei rilievi capitolini, dove effettivamente ci sono in più scene gli stessi personaggi, si raffigurano non persone in movi­ mento, ma una serie di momenti successivi di una stessa storia, nella quale per questo compaiono gli stessi protagonisti.

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Cosa ben diversa dalla raffigurazione del movimento, e solo la puntualizzazione di una storia da raccontare in una serie di punti salienti è comunissima nelle arti figurative; queste ignorano, in tutto il loro sviluppo, la soluzione ideografica del moto mediante la ripetizione di una persona, di una bestia, di un arto. Con l’eccezione della già citata Signora dal cagno­ lino, e di certi disegni recenti, per lo piu infantili, come quelli, ad esempio, del Corriere dei piccoli, nelle storie della Checca, di Fortunello o di Capitan Cocoricò. La singolarità, anzi l’unicità del caso dei bisonti e dei cinghiali di Altamira non ha dato da pensare a coloro che cosi spesso e cosi recisamente ne hanno fatto il « primo film dell’umanità »? È strano che non si sia diffusamente rilevata la retta interpretazione di quelle antiche figure dalle molte­ plici zampe; nemmeno dopo che essa è stata ripetuta, e pro­ prio su di una rivista cinematografica, con l’opportuno corredo di referenze scientifiche Si tratta di pitture sovrapposte, le prime delle quali emer­ gono, parzialmente, sotto le ultime. Fino a questo segno dunque è giunta la smania di nobili­ tare il cinematografo. Ma questa smania ci rivela tutto un modo stravolto d’intendere il mondo, come meglio vedremo più oltre. Una appena maggiore giustificazione può avere, come pre­ cedente del cinematografo, l’antichissimo giuoco delle ombre cinesi, e le leggiadre leggende circa la loro origine. Mentre, naturalmente, è giusto citare i versi di Luciano che descri­ vono il fenomeno della persistenza delle immagini sulla retina, come una delle tappe essenziali verso la definitiva invenzione c così le successive intuizioni e invenzioni di Daniele Barbaro, di Leonardo, di padre Kircher, di Agrippa, di Giovan Battista della Porta e cosi via, dalla lanterna magica alla fotografia, ai primi apparecchi da ripresa e da proiezione. Si tratta qui di precedenti di fatto ed indispensabili, ma allo stesso modo che la ruota è un precedente dell’automobile; e, dall’antichissima 1 Antonio Fornati, Saper vedere ì documentari, in Cinema, a. XIII, n. 1, XIII, 1951.

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scoperta della ruota, non abbiamo ancora sentito dedurre che l’automobile esiste dacché esiste l’umanità. Dopo questo spaccio dell’Ur-Fz/w occorre dileguare anche VUr-Trieb, l’ancestrale bisogno del cinematografo. Dileguare cioè le pretese giustificazioni teoriche della sbalorditiva affer­ mazione del film vecchio quanto l’umanità. Dire che il film è un’aspirazione ab aeterno dell’umanità è un’altra stravaganza, che si è diffusa e che è sostenuta, a volte avventatamente ma spesso anche con copia di argo­ mentazioni e di considerazioni, anzitutto da alcuni studiosi di psicanalisi, per i quali il cinematografo è un bisogno latente da sempre nell’uomo come il bisogno di volare, sostenuto come tale dallo stesso Freud. Il cinema s’identificherebbe, secondo alcuni psicanalisti, con il sogno e sarebbe quindi una manifestazione, una diretta espressione dell’inconscio umano, tendente sempre a esterio­ rizzare e a proiettare fuori di sé le proprie fantasmagorie, i propri « film psichici ». Il film verrebbe ad essere il linguag­ gio dell’inconscio. E il bisogno eterno del cinematografo, testi­ moniato dai vecchi graffiti, ed anche dalle scritture ideografi­ che, urterebbe contro una « censura psichica », subendone una costante « repressione ». In conseguenza di questa cen­ sura e di questa repressione, la tendenza avrebbe subito una soddisfazione parziale appagandosi, di ripiego, mediante una « sostituzione »: trasformandosi cosi il linguaggio diretto delle immagini in movimento nell’articolato linguaggio concettua­ le, trasformando quindi la scrittura ideografica in scrittura alfabetica. Il bisogno del cinematografo, il bisogno di ester­ nare i propri film psichici però, perdurando oltre, e nono­ stante gli appagamenti sostitutivi, avrebbe generato varie forme di spettacolo nonché quelle manifestazioni, cosiddette artistiche, che si sogliono chiamare d’avanguardia: il futu­ rismo, l’astrattismo, il surrealismo, il dadaismo. La scoperta del cinematografo, propriamente detta, cioè delle apparature e dei mezzi tecnici adeguati ad esternare i frutti del « lavoro onirico » dell’inconscio, avrebbe finalmente appagato questo antichissimo bisogno dell’uomo. E tanto piu e meglio lo appa­

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gherà, quanto piu i film, allontanandosi dall’espressione logico­ concettuale, ed anzi rigorosamente escludendola, e rinunziando a riflettere la realtà esterna, direttamente esteriorizzeranno il lavoro onirico dell’inconscio producendo « film puri ». I quali avranno la comprensibilità dell’arte, pur così antiletterari avvicinandosi all’espressione musicale A prescindere dalle conseguenze a cui porta quest’inter­ pretazione dell'Ur-Trieb cinematografico che implica una con­ cezione errata, sebbene diffusa, dell’arte come fatto alogico ed irrealistico, e che porta a propugnare un tipo esclusivo di film e proprio il meno significativo e valido, la confutazione di queste tesi, brillanti ma paradossali, è già stata ottima­ mente fatta e con molto acume. E non resta quindi da aggiun­ gere che le prove materiali accampate, come s’è già visto, sono svanite. Anche se le affermazioni dei due scrittori citati sono coerenti con la dottrina psicanalitica è impossibile attribuire all’inconscio un linguaggio. « Qui — scrive il Secondari — la personificazione dell’inconscio, omologa alle personificazioni delle entità obiettive presso gli antichi, non potrebbe essere piu drastica: l’inconscio viene praticamente assunto come il titolare dell’invenzione, della manutenzione e dell’impiego del cinematografo... Senonché il cinematografo non è nato, né si è alimentato, dal bisogno di conquistare nuovi schemi alle sue fantasmagorie pili di quel che l’addestramento dei cani sia nato ed alimentato dal bisogno che abbiano i cani di andare a caccia con uomini armati di fucile. All’opposto, nell’un caso e nell’altro, è la coscienza dell’uomo che, postasi in posizione dialettica verso la natura, si è razionalmente prevalsa sia delle brute esigenze automatiche dei cani (che non si concretano nel bisogno ”di andare a caccia con uomini armati di fucile”) sia delle brute esigenze dell’inconscio (che non si concretano nel ’’bisogno del cinematografo”) per conseguire due tipi di realizzazioni le quali trascendono infinitamente sia quelle brute 1 G. Pietranera e A. Montani, Psicanalisi del cinema puro, in Psicanalisi, n. 1, 1946.

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esigenze, sia i loro modestissimi titolari. La bruta esigenza dell’inconscio, della quale l’uomo si è prevalso, è quella di sognare ad occhi aperti, anche quando cioè il soggetto è allo stato di veglia. Ed è questa medesima esigenza (dell’inconscio) della quale l’uomo si prevale in ogni attività estetica. La coscienza costringe l’inconscio a sognare in certo modo, e contestualmente contempla le immagini che l’inconscio esibisce e ne modella l’espressione... « Pavlov ha dimostrato l’identità tra inibizione e sonno: una inibizione totale dà un sonno totale — quello che noi chiamiamo ordinariamente il sonno — un’inibizione parziale dà un sonno parziale, circoscritto ai centri inibiti: ma questo è anche sonno, un sonno locale vero e proprio. « Quindi allo stato di veglia una quota dell’organismo sta in stato di sonno; e questa quota abbraccia, d’istante in istan­ te, quel tanto di fibre centrali che giacciono in stato di inibi­ zione. Il che è come dire che, nell’uomo di oggi, nel quale la stessa psicoanalisi ha scoperto moltissimi nuclei di inibizione, costante o fluttuante, una grossa quota dei centri nervosi è permanentemente inibita, ossia giace in stato di sonno. Eb­ bene, la finalità oggettiva dei sogni ad occhi aperti è quella di difendere e agevolare questo sonno parziale, annebbiando le stimolazioni che porterebbero a interromperlo, o a ridurlo, o a vietarne l’automatico estendimento. » 1 Due inoppugnabili corollari derivano da queste acute ed argute osservazioni del Secondari: che l’artisticità del film, come di ogni altra arte, sta proprio nei limiti che l’uomo met­ te all’attività dell’inconscio stesso: e che « l’inconscio del­ l’uomo contemporaneo non è un’entità eterna, ma un prodot­ to contingente della realtà e della storia, passibile d’illimi­ tata redenzione da parte della coscienza ». La tesi di un cinematografo preesistente, come tendenza, al cinematografo stesso, cioè all’invenzione dei mezzi tecnici che lo hanno reso possibile, è stata sostenuta anche, e ovvia­ 1 Roberto Secondari, Psicanalisi e cinema, in Bianco e nero, n. 1, ottobre 1947.

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mente, in base alla filosofia idealistica, e crociana in partico­ lare, da Carlo Ludovico Ragghiami per il quale stare ai fatti significa darne un’« interpretazione mitologica ». « Ho l’impressione — scrive il prof. Ragghiami — che questa o altra interpretazione un po’ mitologica dell’origine del cinema, dal gioco o dall’esigenza scientifica della produ­ zione, siano ancora ben lontane da una rappresentazione stori­ ca vera e propria... La storia della visione cinematografica, e cioè di quella forma originaria dell’imuizione-espressione che si configura come un’espressione figurativa avente per caratte­ re peculiare l’oggettivazione del fattore tempo, è molto più antica e coincide, come ho mostrato altre volte, con la storia del teatro come spettacolo... Ma è poi vero che, anche nella forma più moderna, di successione d’immagini in movimento, fissate per mezzo della pellicola e proiettate per mezzo di speciali ordigni, abbia un’origine meramente naturalistica o edonistica (gioco?)... una distinzione indispensabile si dovrà fare tra visione cinematografica e cioè fattore produttivo, artistico o non artistico che sia considerato, e fissazione e riproduzione della visione cinematografica. È subito chiaro, in questo modo, che pellicola, macchina da ripresa, macchina da proiezione, e insomma tutta la complessa ricerca tecnica non può essere un precedente ma un conseguente dell’origina­ rio interesse o problema. Ragionando diversamente si dovreb­ be concludere, per esempio, sull’anteriorità ideale della tecni­ ca della pittura ad olio sull’arte o la visione di Jan Van Eyck o di Antonello da Messina... » 1 Il Ragghianti vuol qui evidentemente sostenere che i frut­ ti artistici non sono fatti meccanici o materiali; e, fin qui sia­ mo tutti d’accordo, concordiamo, credo, tutti. Anch’io ho, in questo senso, citato una volta Lessing e ripetuto che Raf­ faello sarebbe stato un grande pittore anche se non avesse avuto le mani; ma, in una successiva edizione del mio scritto, mi preoccupai d’aggiungere e precisare, per escludere una pos­ 1 C. L. Ragghianti, Cinema arte figurativa, Torino, Einaudi, 1952, p. 54.

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sibile interpretazione in senso crociano di quell’immagine pa­ radossale ed efficace: « Non è quasi necessario aggiungere che il processo creativo non può mai, se non per astrazione, disgiungersi dall’esecuzione dell’opera », nella quale esso, più che concludersi, propriamente consiste. Le affermazioni del Ragghianti partono dalla posizione crociana per cui i fatti artistici sono solamente fatti spirituali, il processo intuizione-espressione è un processo tutto e sola­ mente interiore e soggettivo, totalmente concluso in sé e affat­ to indipendente dalla sua materiale esteriorizzazione ed estrin­ secazione. Esteriorizzazione tanto secondaria ed accessoria che essa può anche non aver luogo senza in alcun modo menoma­ re la interezza e compiutezza dell’opera d’arte: e per cui l’estrinsecazione ed esecuzione materiale ha luogo solamente perché l’artista vuol conservare « memoria » della sua crea­ zione. Tesi che non ha più bisogno di confutazioni dopo quelle ben note di Adriano Tilgher e di Antonio Gramsci. Da questa proposizione deriva l’affermazione del Rag­ ghianti per cui è nata prima la pittura ad olio di Van Eyck o di Antonello, della sua tecnica, e prima il cinematografo, « almeno come problema e interesse », degli apparecchi neces­ sari a esternarlo. Che vuol anche dire che la pittura ad olio è nata prima dei pennelli e dell’olio stesso. Le posizioni fin qui riassunte e confutate derivano tutte, in sostanza, da quel modo d’intendere il mondo che parte dal pensiero per giungere all’essere; che capovolge cioè il mondo: proprio come la camera oscura quando però non ci sia, come nella camera oscura dell’occhio, l’intervento del cervello a raddrizzarlo.

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Da Caligari a Hitler *

Da Caligari a Hitler è il titolo originale, e bizzarro, ed anche di gusto piuttosto discutibile, di un volume che lo scrit­ tore tedesco e cittadino statunitense Siegfried Kracauer ha dedicato al film del suo paese nel periodo dal 1918 al 1933, e che è recentemente apparso in italiano, col titolo Cinema tedesco. Già nel 1948 Rudolf Arnheim, con una sua lettera a Bianco e nero, caldeggiò una traduzione italiana di questa opera, che egli definiva tra le piu serie e importanti degli ultimi anni. In quella lettera egli avvertiva « che il lavoro si occupa soprattutto di analisi di contenuto » ed aggiungeva varie considerazioni che « le analisi ideologiche sembrano, in questo momento, essenziali » rispetto a quelle formali, giacché un’opera d’arte « volontariamente o no, pone sempre una ideologia, chiara o confusa che sia »: e rimproverava infine a Paisà di Rossellini la poca chiarezza ideologica, il « non far capire, oltre il vago umanitarismo, da che interesse sia sorto ». L’Arnheim, come è noto è autore di una trattazione sul Film come arte (1932), di grande valore per le acute ana­ lisi del linguaggio cinematografico, ma inaccettabile nella sostanza estetica oltranzisticamente formalistica. Per l’Arn­ heim il film non è un mezzo meccanico per riprodurre la realtà, ma uno strumento artistico in quanto il film è privo di * L'Unità, 8 giugno 1954.

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profondità spaziale, di colore, di suono, di reale continuità di tempo e di spazio, perché, in una parola, riduce tutto il mondo sensibile a quello ottico: un particolare impiego di queste limitazioni nella possibilità di riprodurre la realtà determina l’arte del film. Il procedimento tecnico esclusivo, lo specifico filmico, è per l’Arnheim determinante la qualità artistica, e l’avvento del sonoro, del parlato, del colore e della stereosco­ pia hanno precluso al film ogni valore d’arte. L’arte del film per lui esiste solo in un gruppo di opere del muto ed ormai è definitivamente morta. Le recenti affermazioni sul valore del contenuto, sulla presenza inevitabile, nelle opere d’arte, di una ideologia, co­ sciente o meno, sull’essenziale interesse di questa ideologia rispetto a quella formale, sulla importanza della chiarezza rap­ presentano indubbiamente un notevole progresso nella con­ cezione dell’autore; ma esse hanno pur sempre il torto fonda­ mentale di considerare tutti questi elementi al di fuori del­ l’arte, valori morali o sociologici a sé, di non vedere come la giustezza dell’idea espressa in un’opera sia la causa deter­ minante del suo valore artistico. Se pure non esplicitamente, questi punti di vista dell’Arnheim risultano condivisi dal Kracauer; che, col suo volume « scritto per servire gli scopi culturali dell’ONU », si è pro­ posto di « svelare attraverso un’analisi dei film tedeschi » del periodo preso in esame « le profonde tendenze ideologiche » allora predominanti in Germania e che « influirono sul corso degli avvenimenti » e di cui « nell’era post-hitleriana si dovrà tener conto ». Come l’Arnheim, il Kracauer non sospetta nemmeno che il soggetto e l’idea non costituiscano affatto il contenuto del­ l’arte e che la forma sia qualche cosa di diverso dalla tecnica esteriormente intesa. Non vedono essi che la idea, la tesi, si esprime nella opera d’arte attraverso il suo determinare la scelta dell’essenziale e del tipico e l’esclusione dell’incidentale e dell’accessorio, e che l’idea, in definitiva, è la vera e la sola responsabile della forma. Per cui di un’opera d’arte si può enucleare l’idea solo attraverso l’analisi della forma. 656

Da questo fondamentale errore teorico nasce anche l’er­ rore metodologico fondamentale del libro del Kracauer. Libro che, dunque, non solo realizza il paradosso della storia di un’arte che prescinde dall’arte, ma che, anche solo per ciò che dichiaratamente vuol essere, un saggio sociologico, risulta pri­ vo di rigore e di verità. L’autore ha una sua preconcetta idea della psicologia del popolo tedesco nel periodo che va dal primo dopoguerra all’avvento di Hitler e ne cerca i riflessi nei film valutati in base ai soggetti e alle dichiarazioni pro­ grammatiche (e spesso anche a posteriori, scritte, in America, in occasione di riesumazioni e di retrospettive). Ora non si vuol negare che la preconcetta idea dell’autore sulla psicologia dei tedeschi in quel periodo sia tutta e sempre sbagliata — essa è pur sempre una posizione antinazista — ma è sicu­ ramente monca, incomprensiva e, soprattutto, poco persuasiva per l’arbitrarietà delle interpretazioni che l’autore dà dei do­ cumenti che ne offre. L’autore, che pure a p. 60 dell’edizione italiana rimpro­ vera a Lubitsch di Madame Du Barry di aver « svuotato la rivoluzione francese di ogni suo significato perché invece di imputare tutti gli avvenimenti rivoluzionari alle loro cause economiche e ideali fa di tutto per presentarli come sfogo di conflitti psicologici » (il corsivo di imputare è mio) non si accorge di aver seguito un metodo simile nel suo libro. Egli infatti sembra ignorare che la ripartizione della ricchezza è la causa reale della psicologia sociale; e tratta di psicologia di tutto un popolo senza tener conto di quanto sapeva già Cernysevskij, che cioè « si pensa diversamente in una ba­ racca ed in un castello ». Egli semmai descrive la psicologia di una classe e non quella del popolo tedesco. Contro la classe egemonica c’era il proletariato, che combattè, anche se fu scon­ fitto, la reazione nazista e che non potè, naturalmente, fare intendere la sua voce nei film perché i film sono prodotti, nei paesi capitalistici, dai capitalisti. Si aggiunga che i film, in periodo capitalistico, rappresen­ tano della realtà solo un aspetto, il bisogno di nascondere la realtà, sono film di evasione; ed è quindi per lo meno stra­

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vagante prenderli, e per i loro piu esteriori aspetti, come documenti direttamente attendibili. Ne risulta una romanzata psicologia (anzi una sorta di psicanalisi) del popolo tedesco, che avrebbe oscillato tra la tirannia e il caos. L’aspirazione alla tirannia sarebbe rappresentata dal Caligari, dal Dottor Mabuse e dai film con protagonisti grandi criminali, il caos dai film a sfondo erotico. Dove resta a chiedersi come mai Rocambole e Rantomas non abbiano regalato alla Francia un suo Hitler. Il libro è severo verso la Germania e verso i suoi cineasti. Anche con Béla Balàzs, imputato di poco coraggio per aver introdotto una trama sentimentale nel suo 11 biglietto da dieci marchi, trama che il Balàzs sconfessò protestando per l’arbi­ trio del regista che ne era l’autore. Ma il Kracauer ha letto poco Béla Balàzs e molto di più due storie del film di autori collaborazionisti che cita ad ogni piè sospinto. Né manca qualche accenno « al fascino che esercitò in Germania il ca­ rattere ortodosso della dottrina marxista su individui men­ talmente indifesi »; accenno che spiega molte cose e forse anche la cittadinanza americana e le borse di studio ameri­ cane meritate da Kracauer. Sintomatico è il fatto che egli non salvi, e non parli nemmeno con simpatia, del film di Dudow, Kiihle Wampe *, contro il cui divieto egli ebbe a protestare a suo tempo. Ora, senza voler, nonostante tutto, dubitare dell’antinazismo di questo scrittore, non ci si può impedire di pensare che, se esso fosse conseguente, l’avrebbe indotto a tornare in Germania, a lottare, accanto a Dudow, per una cinemato­ grafia che non esprima più l’alternativa (che noi diremmo degasperiana) tra tirannia e caos, ma che esprima la certezza di un mondo nuovo e migliore e che lotti per contribuire ad edificarlo.

1 La sceneggiatura di questo film, realizzato nel 1932, è di Bertolt Brecht (n.d.r.).

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Le teste di legno *

Del teatro di marionette si ha notizia, in Cecoslovacchia, fin dal seicento, alla fine della guerra dei Trent’anni. Pare che esso sia sorto per iniziativa di compagnie teatrali che, per mancanza di attori, decimati dalla guerra, ripiegarono su que­ sta forma di spettacolo. Il repertorio di Marlowe, di Shake­ speare e dei grandi temi tradizionali Faust, Genoveffa, Don Giovanni, dovette trasformarsi, adeguarsi alle esigenze del pubblico popolare; e si arricchì di mille motivi attuali, deri­ vati dai più grossi avvenimenti della cronaca di tutti i giorni. Fu un teatro popolare, non solo perché si valeva di temi popolari e perché si serviva di un linguaggio artistico più accessibile di quello del teatro con attori viventi, ma per una ben più importante, fondamentale ragione: fino alla fine del settecento fu il solo teatro, in Cecoslovacchia, parlato in lingua ceca. Per questo suo carattere popolare e nazionale, il teatro di marionette ceco ha contribuito in misura non certo irrile­ vante alla difesa della lingua e delle caratteristiche nazionali del paese, che per tanto tempo ha dovuto difendersi contro i tentativi di assorbimento di ingombranti e prepotenti vicini. Nel suo processo di popolarizzazione il repertorio tradh zionale si attualizza, si rinnova, si modifica e si arricchisce di motivi e di personaggi nuovi. Matej Kopecky (1775-1847), * Il Contemporaneo, a. I, n. 13, 19 giugno 1954.

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capostipite di una generazione di artisti del teatro di mario­ nette, i cui discendenti lavorano ancora oggi a questi spetta­ coli, crea l’equivalente ceco delle maschere italiane, Brighella e Arlecchino: il pupazzetto Kaspàrek, il cui primo esemplare è conservato anche oggi nella sezione teatrale del Museo nazionale di Praga. Nell’ottocento il teatro di marionette ha un enorme svi­ luppo. Ma il sorgere di un teatro in lingua ceca, con attori viventi, lo modifica: lo fa destinare piuttosto a spettacoli per ragazzi. E ciò determina un suo nuovo ed interessante carat­ tere: per non annoiare gli adulti, che accompagnano i piccoli al loro teatro, questo si fa tutto puntuto di note parodistiche, di allusioni satiriche, attuali e politiche. (Qualche cosa di simile a ciò che accadde in Italia durante il Risorgimento, il cui esempio spesso ricordato è la scenetta della bella peni­ tente, Italia, che prende a bastonate il prete; il quale fugge invocando disperatamente la sua perpetua: Vittoria! Vittoria! Che alludeva, molto trasparentemente, a certi menzogneri bol­ lettini militari.) Oltre ad adempiere, piu o meno consciamente, ad una funzione nazionale, Kaspàrek, sempre piu evoluto, prende dunque col tempo addirittura una posizione politica. Durante la guerra del ’14-18 i teatri di marionette si fanno giudici e critici degli avvenimenti; e in qualche città, per esempio a Plzen, divengono veri e propri circoli rivoluzionari. Come ri­ corda una targa al municipio di quella città dedicata alla ma­ rionetta Kaspàrek, « per la collaborazione data alla distru­ zione dell’impero austro-ungarico ». Cosi, dopo Monaco e l’occupazione nazista, Kaspàrek si troverà, naturalmente, al suo giusto posto di combattimento: specie per opera del prof. Skupka, che mette in scena qualche opera antifascista di Capek e tutta una serie di spettacoli densi di allusioni antinaziste, incomprensibili per la censura, ma trasparenti e stimolanti per tutto il pubblico (cfr. Jan Molik, Les marionnettes tchécoslovaques, Prague, 1948). Il fascino del teatro di marionette è stato studiato e rive­ lato già ai suoi tempi, dal grande poeta tedesco Kleist. La

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grazia, la levità, l’armonia dell’incedere e del muoversi dei piccoli attori di legno non sono determinate da una miriade di fili, come spesso pensa lo spettatore ignaro; il filo governa un unico centro di gravità e le membra, che non sono che pendoli, si muovono automaticamente, e perciò con quei sor­ prendenti effetti di spontaneità e di naturalezza. Questa acuta osservazione porta il Kleist all’affermazione che la creazione esiste solo ove esista la coscienza assoluta (Iddio) o dove non esista affatto coscienza (nella marionetta). Un giorno forse, egli conclude, l’umanità conquisterà quel piano superio­ re in cui la coscienza diventa natura. Ma la coscienza che si fa spontaneità è il caso eterno del­ l’arte. E, nell’arte della marionetta, l’artisticità consiste pro­ prio nel distribuire i centri di gravità dei personaggi al punto giusto: il centro di gravità dunque non sarà definito dall’esigenza di una generica somiglianza con l’uomo in astrat­ to; ma da una specifica somiglianza con un uomo particolare; con quel tipo di uomo che sarà colto nei suoi caratteri tipici, resi salienti da una conveniente accentuazione così che, non solo acquistino naturalezza, ma anche e soprattutto evidenza: e che facciano, così, trasparire il significato. Ed ecco dunque come dalla marionetta e dalle sue parti­ colarità, si giunse ad un ordine di problemi che è al cuore del problema estetico.

Non meno ricca è la problematica che pongono i film di pupazzi animati, nei quali i cecoslovacchi, per opera soprat­ tutto di Zeman e di Trnka, sono giunti ad un livello finora sconosciuto. Ad esempio nelle deliziose storie di Pan Prokuk, nella gradevolissima satira dei film western, Il canto della prateria, nell’intelligente divulgazione delle teorie di Micurin, Il melo dalle mele d’oro. Il fascino dei pupazzi e dei disegni animati conquista, come è noto, anche coloro che in genere non capiscono e non amano il cinematografo in genere. Così c’è stato chi ha con661

siderato Walt Disney, che non lo è affatto, il solo poeta dello schermo. Se si riflette su questi entusiasmi si scopre subito che essi non sono per i singoli artisti, ma per i mezzi con cui i film del genere sono realizzati. Infatti: disegni e pupazzi animati, diversamente dagli altri film, possono essere opera di un solo autore; i cui collaboratori possono essere semplici esecutori materiali. Ed ecco salvata la soggettività dell’opera. Ancora: disegni e pupazzi animati non sono riproduzione fotografica della realtà, non sono legati alla realtà. Altro sco­ glio contro cui urtava l’estetica tradizionale al riconoscimento del film come arte, facilmente superato. Il pupazzo e il car­ tone animato oppongono creazione a realtà, fantasia a realismo. E ancora: uno dei più felici ed ammirati effetti del film di pupazzi e di disegni è la perfetta sincronia tra visione e suono. Ma questo effetto si ottiene incidendo preventivamente la colonna sonora e facendo del grafico, che ne risulta, lo schema che determina il movimento dei personaggi. Il montaggio dunque non è più la base estetica del film, ma è determinato da qualche cosa di esterno, di preesistente. E cosi si può, volendo, riaffermare la vecchia opposizione crociana tra struttura e poesia. Questi cenni bastano a far intendere, al provveduto let­ tore, che il pupazzo e il cartone animato sono Yanticinematografo: e a fargli intendere che se si vuole giustificarli come arte (e come si potrebbe non volerlo, dato che evidente­ mente lo sono?) si deve ancora una volta negare che misura dell’arte possa essere la maggiore o minore applicazione dei mezzi specifici di un’arte singola. Né il teatro di marionette, né i film di marionette ceco­ slovacchi possono, come i pasticci di Walt Disney, servire a rivalutare tramontate posizioni estetiche e le tramontate concezioni del mondo da cui esse derivano.

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Teatro e film di marionette cecoslovacchi sono artistici per la sola ed unica ragione per cui possono esserlo: perché sono realistici della più bizzarra e amena fantasia: sono cioè portatori di una idea. Che è quella che anima tutta la cine­ matografia di quel paese e che si esprime nel motto emble­ matico della sua maggior manifestazione d’arte cinemato­ grafica, il Festival di Karlovy Vary: per la pace, per un uomo nuovo, per una società migliore.

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La bella o la bestia *

Nel 1946 Georges Sadoul ha iniziato la pubblicazione della sua monumentale Histoire générale du cinéma: ne sono comparsi, finora, i primi quattro volumi, ai quali si aggiunge oggi, mentre sono annunciati e in preparazione quelli inter­ medi, che vanno dal 1920 al 1939, il primo dell’epoca contem­ poranea, dedicato al cinema durante la guerra (Georges Sadoul, Le cinéma pendant la guerre, Paris, Denoèl, 1954, in 8°, pp. 327 con 48 tav. f.t.). A riandare ai non numerosi tentativi di storia complessiva del cinema, anteriori a questo del Sadoul, si constata agevol­ mente che tutti ne rimangono di gran lunga al disotto, sia per informazione e documentazione, sia per criteri metodolo­ gici generali. Questi tentativi precedenti sono di due tipi. Il primo è rappresentato da una serie di saggi in cui la narra­ zione storica è appesantita da un nugolo di notizie prelimi­ nari, sul cinema, sulla sua origine, la sua organizzazione, i suoi mezzi tecnici, la sua invenzione, il suo significato e la sua importanza, sul problema se esso sia o non sia un’arte e cosi via. Zibaldoni enciclopedici a carattere propedeutico e divulgativo, ma non per questo assolutamente tutti privi di qualche importanza. L’Histoire du cinématographe (1925) del Coissac resta un’opera alla quale si può far ricorso util­ mente ancora oggi, tanta vi è la scrupolosità e l’esattezza della * Il Contentporaneo, a. I, n. 14, 26 giugno 1954.

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documentazione sui vari aspetti dell’argomento; e non privi di qualche interesse Das Zeitalter des Films (1932) del Gregor e Cinema ieri ed oggi (1932) del Margadonna. Il secondo tipo comprende opere che intendono occuparsi soprattutto del film come arte, trascurandone gli aspetti liminari e accessori. Tra queste primeggia The film till now (1930) del Rotha (ne esiste un’edizione aggiornata da Richard Griffith, del 1949), opera che, sebbene indubbiamente tarata da presupposti este­ tici antiquati, che si traducono in un programmatico amore per la cartapesta, è sempre sorretta dal correttivo di un gusto abbastanza sicuro, che ha permesso all’autore di circoscri­ vere la materia e di prendere in esame un gruppo di opere veramente significative e, cosa essenziale, direttamente cono­ sciute. Poco rilevante è la compilazione abborracciata dallo Charensol Quarante ans de cinéma (1935) e sconnessa confusa e spropositata VHistoire du cinéma (1935) di Bardèche et Brasillach, che si vede spesso citata dai neo e filofascisti per la sua grossolana tendenziosità; una tendenziosità dello stesso tipo, ancor più spinta e appena un poco più scaltra, anima X'Flistoire du cinéma (1939) di un tal Cari (o meglio Karl) Vincent. La Storia del cinema dalle origini ad oggi (1939) del Pasinetti è stata definita, con facile spirito, un orario ferro­ viario o un elenco telefonico, ma a torto, perché essa, con le molte migliaia di film che cita e di cui dà referenze esatte (salvo qualche svista ed errore, prontamente rilevati e cor­ retti), resta un eccellente repertorio filmografie©; con un orientamento, anche signorilmente dissimulato, come voleva lo stile del Pasinetti, personale, antirettorico e incline ad ap­ prezzare, su tutto, certi aspetti di realismo minore, psicologizzante e intimistico. Salvo le storie particolari, non resta quindi, di qualche interesse, che il ristretto, succoso di strambi umori avanguardistici, del Lo Duca Histoire du cinéma, che è del 1942. Scartate le opere del primo tipo, che rispondevano ad esi­ genze pratiche di tempi in cui la cultura cinematografica era poco sviluppata e pochissimo diffusa, resta da dire che quelle del secondo tipo talvolta con l’acqua sporca hanno gettato

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via anche il bambino, cioè che il loro sbarazzarsi del ciar­ pame dell’informazione generica è andato troppo oltre il se­ gno: esse trattano solo dell’arte del film e considerano questa arte come qualche cosa di a sé stante e di assolutamente autonomo, finendo, per cosi dire, col camparla in aria, moti­ vandola insufficientemente e penetrandola, di conseguenza, assai poco e male nei suoi effettivi valori. Mentre d’altro canto coloro che hanno talvolta connesso il film con situa­ zioni storiche generali e con condizioni sociali l’hanno fatto in modo da servire ideologie retrive: e sono questi i nominati Bardèche et Brasillach e il Vincent, che è un belga, che ha lasciato il suo paese per ragioni non propriamente cinema­ tografiche e che ora vive in Italia, dove tien cattedra di fazio­ sità reazionaria. Quello del Sadoul costituisce il primo tentativo di una storia del cinema esaurientemente informata e modernamente critica; che motiva il suo bell’impianto generale, la sua intel­ ligente periodizzazione e di sue valutazioni, complessive e par­ ticolari, partendo da una concezione concreta della realtà e dell’arte e discriminando acutamente l’incarnarsi dell’univer­ sale nella singolarità delle opere. Ad intendere le quali il Sa­ doul le connette sempre al terreno su cui son germinate, al tessuto sociale su cui il singolo e specifico fatto artistico è fiorito. Metodo storico che, non solo non trascura i valori arti­ stici né li sottomette a valori extraestetici, ma che spiega ed illustra le forme individuali, non come mero tecnicismo, ma proprio penetrando la genesi reale e il processo concreto da cui esse son nate. Questo, che è il solo metodo che consenta di fare storia e non cronaca aneddotica, romanzi psicologici o indagini este­ riormente tecnicistiche, è anche, naturalmente, un metodo assai arduo per molti motivi e anzitutto per il suo necessario implicare un padroneggiamento pieno della storia generale, di cui quella del cinema non è che un aspetto. Nel complesso si può affermare che il Sadoul pienamente conscio delle dif­ ficoltà e delle responsabilità del suo lavoro, l’ha condotto con molto merito e con molto onore: e che questa sua è la

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prima storia del cinema valida. Anche se talvolta mi sembri un po’ sbrigativo e meccanico il combaciare, che il Sadoul pone, tra situazione storica ed espressione artistica, trascu­ rando o dimenticando che l’estrinsecarsi in arte del tessuto sociale si media sempre di innumerevoli trapassi, di cui non è possibile non tener conto; ed anche se troppo spesso, invece di procedere dall’analisi formale alla scoperta del substrato ideologico profondo, egli ha seguito il cammino inverso, che può portare facilmente ad errori, non solo di prospettiva e di proporzione, ma anche di comprensione delle singole opere; e quindi anche di valutazione.

Il grande fatto che definisce criticamente il periodo di storia del film, studiato in questo volume, è colto e messo in evidenza esplicitamente ed assai efficacemente dal Sadoul: è il fatto, capitale e prezioso, del nascere delle cinematografie nazionali in paesi che prima non avevano cinema affatto o che avevano solo una produzione scarsa e deteriore; ma anche del prendere caratteri piu spiccatamente nazionali nelle pro­ duzioni di paesi di antica unità e già ricchi di tradizioni cine­ matografiche. Da questo punto di vista è guardata la Francia che prende coscienza, nel passaggio dalla dróle de guerre al­ l’occupazione e alla gloria del maquis e della liberazione, di effettivi valori nazionali e che pone cosi le premesse per libe­ rarsi dalle equivoche raffinatezze di una letteratura naturali­ stica trasferita sullo schermo con suggestiva, ma deludente, perizia tecnica. Lo stesso angolo visuale permette a Sadoul di intendere la genesi del neo-realismo italiano, il primo im­ pulso venutogli dall’apprendimento dei principi teorici del film sovietico, e il ritrovamento di un linguaggio nazionale, attraverso le riscoperte opere cinematografiche italiane dei primi tempi del muto, attraverso le esperienze del teatro dia­ lettale, ma soprattutto attraverso il grande fatto storico, nuovo per l’Italia, della unione nazionale nella lotta di li­ berazione. Il cinema sovietico, sempre inteso alla lotta per una nuova 667

civiltà e una più sana e profonda umanità, durante la guerra patriottico-difensiva, accentua i suoi caratteri nazionali e crea opere di grande intensità. E, in maggiore o minore misura, il fenomeno si ripete nei diciotto paesi europei e in quelli delle Americhe, dell’Asia e dell’Africa che il volume prende in esame. Anche il cinema statunitense, nonostante l’instaurato si­ stema della caccia alle streghe, ha avuto qualche sprazzo felice di allontanamento dal tipo di produzione convenzionale e co­ smopolitico, nel quale è stato per altro rapidamente ricostretto. L’azione, anche in questo campo bestialmente brutale, di Goebbels e della sua Camera internazionale del film, era in­ tesa a snazionalizzare le cinematografie dei paesi d’Europa; e, fatto significativo, Germania compresa. Perché? Perché cinema nazionale significa espressione di una coscienza nazionale che nasce, o che si mantiene e si raf­ forza; significa aderenza alla vita, cioè realismo, cioè riflesso dei problemi e delle aspirazioni popolari: significa espressione dei bisogni delle masse e indicazione delle vie per cui soddi­ sfarli. Il cinema cosmopolitico di contro sollecita, stimola e appaga basse aspirazioni di evasione e di sogno, surrogando la vita con piacevoli e assurde fantasticherie, che svalutano la realtà e distolgono dall’azione. Il cinema cosmopolitico è sempre un potente alleato dell’imperialismo per la degrada­ zione che, non tanto esprime, quanto produce e alimenta; quella degradazione nella quale soltanto gli uomini possono rinunziare alla indipendenza nazionale e alla libertà, magari compensandosi miserabilmente, nel buio delle sale cinema­ tografiche, con sogni fantasiosamente idioti e menzogneri. Cosmopolitismo e film di evasione: ecco ciò che il nazismo si proponeva di realizzare e che chiamava film dell’unione europea, film europeo. Una delle grandi lezioni di questa solida opera del Sadoul è dunque questa: l’imperialismo e quei gruppi spregevoli che, tradendo il proprio paese, se ne atteggiano ad alleati, mentre non ne sono che gli ignobili servitori, riproporranno sempre, 668

c con le stesse false parole del Goebbels, la snazionalizzazione, anche nel dominio del film. Diceva Goebbels (Sadoul, op. cit. p. 12): « La guerra ci ha permesso di mettere in discussione i problemi europei, già maturi e di risolverli nella misura del possibile... Il compi­ mento della nostra missione europea ci dà coraggio... ci induce a raggruppare i problemi in tutti i settori che consentono questa unificazione... Il cinema è proprio uno di questi settori. Se oggi (ed io non parlo come tedesco, ma come europeo) noi non ci mettessimo immediatamente in marcia, il film europeo, nel più largo senso della parola, potrebbe restare assopito come la bella addormentata nel bosco. Perciò io posso ralle­ grarmi di vedere, in piena guerra, i popoli d’Europa che si accordano in un determinato campo, secondo le linee essen­ ziali di un ordine unitario... ». Quando si sente parlare di ordine unitario, di cinema europeo, di pool europeo del cinema, di superamento degli egoismi nazionali, di spirito europeo o simili, conviene stare in guardia. E cercare di capire se si vuol tener desta la bella, o non si vuol piuttosto risvegliare la bestia.

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Per lo studio del film sovietico *

Da un solo osso della tibia o del femore, gli scienziati sono stati spesso capaci di ricostruire l’intero scheletro gigantesco di un animale preistorico, non solo, ma anche di descriverne attendibilmente il comportamento, gli usi, la vita. Così, dalla conoscenza, certa e documentata, magari di un solo quadruc­ cio o due, di uno di quei piccoli, e così spesso incantevoli, maestri minori, che nemmeno figurano nei manuali di storia della pittura, la miglior critica figurativa è in grado di elencare, * Cinema sovietico, a. I, n. 1, settembre-ottobre 1954. Il saggio rien­ trava nel quadro di un dibattito che la rivista intendeva promuovere tra i critici sulla base del questionario che segue. « 1. Quale peso ha avuto la sia pure limitata conoscenza della cul­ tura cinematografica sovietica sulla nostra cinematografia? 2. Crede che, pur nella diversità dei singoli risultati artistici, esista una conti­ nuità tematica e stilistica fra il cinema sovietico muto e sonoro? 3. Che cosa pensa della funzione attribuita alla sceneggiatura nella rea­ lizzazione dei film e dei rapporti fra testo letterario e opera filmica nel cinema sovietico? 4. Qual è la sua opinione sul sistema Sovcolor e, in generale, sull’impiego del colore nel film sovietico? 5. Che ne pensa del documentario sovietico e del rapporto fra cinema documen­ tario e film a soggetto? 6. Qual è la sua opinione sul cinema didattico e per ragazzi e sui rapporti fra cinema e scuola nell’URSS? 7. Che cosa pensa del livello artistico e professionale dell’attore sovietico? 8. Qual è la sua opinione sull’organizzazione cinematografica dell’Unione Sovietica? 9. Che cosa pensa delle discussioni sull’arte svoltesi in URSS negli ultimi anni e della produzione più recente? 10. Ritiene che un colloquio più aperto e continuo tra il cinema italiano e il cinema sovietico (da un più intenso intercambio di film all’incontro fra cinea­ sti dei due paesi, dallo scambio di pubblicazioni alla organizzazione di coproduzioni) possa essere proficuo per la nostra cinematografia? »

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con grande approssimazione, il catalogo delle opere autografe e di ricostruirne, di conseguenza, il profilo artistico. Non si vede perché, con tanta maggior ricchezza, nonostante tutto, di elementi, la critica cinematografica italiana, si sia mostra­ ta, con rare eccezioni, inetta a compiere un processo simile nei confronti del film sovietico; e dopo i primi entusiasmi, bene inteso per le conquiste formali (scioccamente schema­ tizzate in quel montaggio travolgente, per il quale poteva bastare anche un Griffith, o nell’assurda regoletta dell’inqua­ dratura dal basso e dall’alto, rispettivamente per il tiranno e per la vittima), sia passata, nonostante l’aumento quanti­ tativo e qualitativo della produzione sovietica, alla tiepidezza di oggi, quando non addirittura all’ottusità denigratrice di un grande capolavoro come 11 ritorno di Vassili Bortnikov. Mancanza di diretta conoscenza delle opere e mancanza di documenti e di notizie essenziali? E certo non sarà da contestare la verità sacrosanta che la diretta conoscenza delle opere e una buona dose preliminare di seria filologia costituiscono l’unico terreno solido su cui può poggiare e muoversi l’intelligenza critica. Né potrà dav­ vero negarsi da alcuno la lotta vergognosa che, nell’ambito dell’anticomunismo, si conduce, senza tregua dal fascismo ad oggi, anche contro il film sovietico, rifiutando permessi d’importazione e visti di censura e aizzando tutta una canèa di pennivendoli alla sfrontata canizza della propalazione iniqua di notizie calunniosamente menzognere e distorte e a goffe sentenze capitali. Ma può tutto ciò esser accampato come scusa sufficiente all’incomprensione? Sta di fatto che ogni critico appena attento ha avuto, an­ che in Italia, materia bastante per capire, per giudicare rettamente e non sballare giudizi avventati e alla cieca. Dalla proiezione dell’ingenuo Orso di Lunaèarskij, al primo cine­ club romano, diretto da Massimo Bontempelli, nel 1930 salvo errore, e dalla apparizione sugli schermi italiani di alcuni film degli esordi, Il villaggio del peccato, Il cameriere del Grand Hotel, Ivan il Terribile, alla presentazione veneziana, in varie mostre, della Terra e di Verso la vita, nel 1932, di Allegri

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ragazzi, Uragano, Notti di Pietroburgo, nel 19?4, a quella di Capaev, Giuramento, Gli indomiti, Colpevoli senza colpa, del 1946, a\\'Ammiraglio Nachimov, a Primavera e alla retrospet­ tiva di Aleksandrov, nel 1947, fino al Ritorno di Vassili Bort­ nikov, a Sadko e a Rimskij Korsakov dello scorso anno; dai film apparsi sugli schermi pubblici dopo la liberazione, Com­ pagno P., Arcobaleno, Vita di Massimo Gorki, Battaglia per l'Ucraina sovietica a quelli del primo festival romano al teatro Quirino, nel 1945, Ivan il Grande, Lenin nel 1918, La legge elei grande amore, Il circo, Matricola 217, alle nu­ merosissime retrospettive dei circoli del cinema in tutta Italia, che ci hanno fatto rivedere, o vedere, La corazzata Po­ temkin, La madre, L'erede di Gengis Khan, Gli ultimi gior­ ni di Pietroburgo, Il deputato del Baltico, Il maestro, Il quartiere di Vyborg, Biancheggia una vela solitaria, La gran­ de svolta, Sei ore dopo la fine della guerra, L'educazione dei sentimenti, Il grande cittadino, Giuramento, La caduta di Berlino, L'accademico Pavlov, Mièurin, La canzone della terra siberiana, Un treno va in oriente, I trattoristi, Il cava­ liere della stella d'oro e molti altri film narrativi ed una ricca e stupenda serie di documentari: un materiale assai ricco, che comprende quasi tutte le punte più alte della pro­ duzione sovietica, anche se lascia fuori alcuni ottimi film degli stessi Pudovkin, Ejzenstejn, Dovzenko, Ermler, lutkevic e una grande quantità di produzione media, che pure sa­ rebbe importante conoscere per individuarvi e segnalare qual­ che film o qualche personalità di particolare rilievo, come quella, ad esempio, che a me sembra faccia spicco assai netto, di Boris Barnet, e certamente bastevole per un ponderato esame. D’altro canto, dalla pubblicazione, negli anni trenta degli scritti estetici di Pudovkin, a quella recentissima del Mestiere di regista, che comprende saggi di Gerasimov, Ciau­ reli, Pudovkin, Rajzman, Rosal, Borisov, sono comparsi in copia discreta i documenti essenziali sull’attività degli artisti sovietici del film; ed anche libri, opuscoli, riviste specializ­ zate, numeri unici, saggi e articoli numerosissimi. 672

Si dirà: ma questi film sono stati proiettati sporadica * mente e non regolarmente nelle pubbliche sale; spesso si è trattato di visioni uniche e in città diverse e lontane. E che? Forse uno storico dell’arte non deve andarsene al Louvre, se vuol vedere la Gioconda o la Morte della Vergine? O può forse, a scusa di qualche sua ignoranza, accampare il fatto che certi quadri italiani sono alla National Gallery, o all’Ermitage o al Museo di Budapest? E, restando nel mondo del cinema, non ci fu chi, durante il fascismo, parti per Parigi al solo scopo di vedere l’ultimo film di Chariot, cui la censura aveva precluso l’ingresso in Italia? È poi davvero tanto enorme l’idea di intraprendere un viaggio per vedere un gruppo di opere d’arte, od anche una sola opera, in un paese dal quale pure partono periodicamente folle di tifosi, volanti fino a Parigi o a Londra, per assistere a una partita di calcio? La battaglia che gli uomini liberi conducono per una continua e regolare immissione di film sovietici nelle nostre sale e per una migliore informazione su di essi va condotta s’intende instancabilmente: ma essa si riferisce soprattutto alla popolarizzazione, alla larga diffusione di quei film. Gli uomini di cultura possono e debbono saper superare le diffi­ coltà, anche materiali, con mezzi propri; e, in ultima istanza, possono anche supplire alla scarsezza di dati, colla propria acutezza e capacità di penetrazione profonda. Monito e rim­ provero a tutti può essere Antonio Gramsci, che dal fondo del suo carcere, potè, con pochi quadernetti di appunti, porre le basi per il totale rinnovamento della cultura italiana. Un critico che si rispetti sa, già da Dante, che non si viene in fama restandosene sotto coltre; e che se egli non vorrà apparire un modesto cronista sul piede di casa, non deve arrampicarsi sugli specchi per nascondere la propria pigrizia. E insomma: l’ignoranza e l’errata valutazione del film sovietico, anche da noi, è sempre prova di incapacità critica e di disamore per i fatti dell’arte.

In un recente libro di Chiarini, Il film nella battaglia 673

delle idee, si legge a p. 65: « Grierson... dei registi russi, dei quali ammira particolarmente il realismo di Pudovkin e di Ejzenstejn, scriveva, or è quindici anni, che essi si erano lasciati sfuggire l’insegnamento fornito loro dalla rivoluzione, di trattare i problemi di tutti i giorni ». Ed ecco due cineasti illustri su falsa strada. Grierson dunque è ammiratore del film sovietico dei primi anni ed è insoddisfatto di quello successivo, anche dei registi che maggiormente ammira, che avrebbero abbando­ nato le loro posizioni realiste. E Chiarini lo approva. Ma qui, anche a prescindere dal giudizio critico e dalla interpreta­ zione dei fatti, sono proprio i fatti che vengono falsati, certo involontariamente. I primi grandi film di Pudovkin La madre e Gli ultimi giorni di Pietroburgo sono due film storici, e, salvo il minor Disertore, si dovrà attendere II ritor­ no di Vassili Bortnikov per avere da Pudovkin una narra­ zione di avvenimenti di tutti i giorni. La corazzata Potèmkin di Ejzenstejn narra un episodio del 1905. E Dieci giorni che sconvolsero il mondo fu fatto, assieme agli Ultimi giorni di Pietroburgo, per celebrare il decennale della rivoluzione d’ot­ tobre. Avvenimenti non con temporanei dunque alla ripresa dei film e, con buona pace del signor Grierson, non proprio avvenimenti della cronaca quotidiana. L’equivoco nasce dal concetto di contemporaneità intesa come elemento primo del realismo: ma il Grierson la intende in un modo ben strano. Nella pratica egli la intese, come è noto, facendosi propagandista, con una serie di documen­ tari, delle poste e della radio inglesi; e, in teoria, facendosi paladino di un gretto documentarismo derivatogli dalle fumistiche e avariate concezioni di Dziga Vertov. Ma Dziga Ver­ tov partì dalla realtà colta di sorpresa dalla sua camera-occhio, capace di rivelare da sola l’essenza e il significato di quella realtà, e sboccò poi negli arabeschi irrealistici e calligrafici di un montaggio formalistico. Cioè proprio al polo opposto della realtà. La teoria e la pratica di Dziga Vertov furono assai giustamente criticate nell’Unione Sovietica e rimasero senza seguito né conseguenze rilevanti nel posteriore svilup­ 674

po di quella cinematografia. Ed anche in Italia, chi scrive, ignaro di quei film e ignaro delle critiche mosse loro, giudi­ cando la sola teoria del Vertov, rilevò la stravaganza del miracolismo, assurdamente attribuito alla macchina da presa. Oggi Chiarini, che assieme a Zavattini (sebbene meno oltranzisticamente) riafferma quel miracolismo, puntellando­ lo sulle confusioni del Grierson, stupisce di dover insegnare lui a me (lui idealista a me marxista?) che la macchina agisce sull’uomo. E fraintende il complesso degli strumenti della produzione materiale con il singolo strumento, con la singo­ la macchina. Una confusione che prima di lui era dato di incontrare frequentemente nei ristretti positivisti del mar­ xismo e nei plagi spropositati del presuntuoso e ineffabile prof. Loria, che un simile miracolismo attribuiva all’aero­ plano. Il realismo inteso come documentarismo non può dare che i risultati negativi di Dziga Vertov, o i filmetti estetiz­ zanti del gruppo Grierson, o il fiasco colossale di Amore in città. La moderna e giusta accezione della parola realismo comporta che esso non sia una, tra le molte possibili, tendenza dell’arte, ma l’arte. Come tale, il realismo non esclude la ricostruzione storica né la favola, come, senza nemmeno esemplificare col film sovietico, dimostrano i film 1860 e Miracolo a Milano. E la contemporaneità allora? La contemporaneità del realismo sta nella giusta idea della realtà, cioè nella giustezza attuale dell'idea, che è sempre la base essenziale di ogni creazione artistica, e in particolare di quella cinematografica, e non necessariamente nella contemporaneità degli avveni­ menti narrati. Citare Grierson e sollevare la grossa, controversa que­ stione dell’zJe^ come base essenziale di ogni creazione arti­ stica significa proprio toccare Rosina dov’è il suo debole e tramutarla in una vipera. Voglio dire significa pungere sul vivo la borghesia italiana, che si crede giunta tutt’al piu all’età pericolosa, mentre è già visibilmente in piena decre­ pitezza. Ed ecco certa critica cinematografica smaniare, invi­

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perita, che l’arte non è propaganda. Anzi, come dicono i più provveduti, non è oratoria. E resta allora solo da spiegare perché il signor Grierson abbia potuto, senza scadere sul piano della propaganda, o oratoria che dir si voglia, reclamizzare le poste e la radio inglesi. E perché gli artisti sovietici, che nelle loro opere pro­ pugnano ed esaltano la grande causa del socialismo, che muo­ ve centinaia di milioni di uomini e che trasforma e rigenera il mondo, non possano farlo senza sentirsi noiosamente im­ putare di antiartisticità propagandistica. La spiegazione è più semplice di quello che non si creda: è l’adesione o il ripudio delle idee espresse nelle opere d’arte che determina, magari inconsciamente, i due diversi metri di valutazione. Talvolta si sostiene che l’idea madre di un’opera d’arte è effettivamente la molla che ha spinto l’artista alla crea­ zione; ma quello che interessa è proprio e soltanto il risul­ tato, ciò è la perfetta forma raggiunta. E anche questo è un sofisma: ché, se per forma non si intende un mero tecnici­ smo, una abilità, un virtuosismo, si dovrà ammettere che quel nitore di forma è attingibile solo in forza dell’idea e della giustezza dell’idea. La forma dipende dall’idea e ne è la portatrice; respingere l’una significa anche inesorabilmente respingere l’altra. Ciò spiega perché l’entusiasmo per i primi film sovietici sia stato entusiasmo per le loro conquiste formali. E spiega perché quelle conquiste formali siano state ridotte alla mi­ seria di una normatività tecnicistica valida in ogni caso come le ricette cosmopolitiche di Hollywood. Spiega perché si sia parlato di montaggio rapido dei film sovietici e di inqua­ dratura dal basso o dall’alto. Ma il montaggio considerato « base estetica del film » dai maggiori registi del film sovie­ tico non è artificio tecnico: è ideologia. È quella struttura che proprio per il suo originare dalla razionalità, Croce con­ trapponeva alla poesia. Il finale alla Griffith può essere im­ piegato dappertutto, perché è un artificio per ottenere un effetto di emozione sul pubblico, come la domanda rettorica,

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la reticenza o l’anafora. Il montaggio dei film sovietici è espressione di idea. Due cose assolutamente opposte. Non credo occorra esemplificare maggiormente. Il film so­ vietico esprime una concezione del mondo, come tutta l’arte, e la sua forza e grandezza dipende essenzialmente dalla validità di questa concezione del mondo. Le forme smaglianti, che anche in occidente si ammirano, del film sovietico nascono da questa volontà di espressione e di azione: di un mondo migliore e per un mondo migliore. Ma, si sente dire di frequente, i registi sovietici e i loro collaboratori sono dunque tenuti ad una precisa tematica e all’espressione di determinate idee? Sono assolutamente dunque privi di libertà? Lo si sente chiedere spesso e anche affermare perentoriamente. Ed è un ben strano ragionamento che dimostra quanto si sia lontani da un chiaro concetto della libertà dell’arte. Se l’artista va significando ciò che ditta dentro, se egli si esprime incontrollatamente, solo quando è ispirato e solo seguendo, senza forzarla, la propria ispirazione, può vera­ mente dirsi libero? Ma forse che l’ispirazione piove dal cielo? E, posto che piova dal cielo, dov’è la libertà dell’artista se il suo produrre o non produrre, e la direzione e la respon­ sabilità del suo produrre, non dipendono da lui? E se l’ispi­ razione nasce da un complesso di fattori individuali e sociali, se dipende da una situazione storica, come può considerarsi libero quell’artista che è tutto e soltanto determinato, nella sua opera, da una situazione storica? Lo stato di passività che qui si vuol gabellare per liber­ tà ne è precisamente l’opposto. Libertà è quella di un artista che, responsabile, vuole che la sua opera sia una attività e non una passività, che, liberamente scegliendo, razionalmente valutando, si pone il compito, non solo e non tanto di espri­ mere una situazione, ma di agire su di una situazione. Liber­ tà vuol dire razionalità e volontà. Ma se si distingue l’arte dalla razionalità e dalla pratica se ne fa un giuoco vano, non solo, ma un giuoco le cui 677

regole e il cui corso sono determinati fuori e a insaputa di chi vi partecipa. Solo considerando l’arte come fatto gnoseologico e non psicologico, solo risarcendola dei suoi attributi di attività e di razionalità, che come abbiamo accennato sono quelli che ne determinano la forma, l’arte diviene un potente strumento di vita e non un trastullo da sfaccendati. E gli artisti si fanno uomini liberi e non sognatori sfaccendati. In questa libertà è la forza del film sovietico.

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Il pubblico di Chariot *

A Roma, quelli della mia generazione, hanno incontrato Chariot nei primi anni della prima guerra mondiale, in qual­ cuno di quei locali che, per essere allora infestati di insetti, si designano popolarmente anche oggi col nome di cinemapidocchietto. Il più meritatamente famoso di questi locali era allora in una traversa di via Nazionale, all’angolo della quale era il mondano ritrovo dei viveurs della capitale, Il Marinese. Il cinema si chiamava Mefisto, con un nome che testimoniava della meraviglia, ancora non sopita, in quegli anni, per la scoperta tecnica, per la diavoleria del cinemato­ grafo; nome degno del clima mentale del suo precursore, padre Kircher: strumento del diavolo certo, il cinema, se ^Osservatore romano lo combatteva con una campagna acca­ nita scagliando anatemi contro la suggestività del film e con­ tro l’immoralità degli spettacoli al buio. Come che sia, il cinema Mefisto aveva un pubblico degno di Shakespeare, degno di Chariot. Pubblico omogeneo e sim­ paticissimo, sorvegliato da un pastore sui generis, mezzo ma­ schera e mezzo poliziotto, con una solida mazza di cornale appesa negligentemente al braccio, buona a reprimere ogni traboccare e trasmodare d’entusiasmo; pubblico di bellissimi ragazzini sbrindellati, dalle cui labbra uscivano, in barba al « vietato fumare », sapienti boccate di sigarette marcadoro ★ Il Contemporaneo, a. II, n. 20, 14 maggio 1955.

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e fiumi di pittoresche e atroci parolacce e bestemmie, ma, quando sullo schermo appariva Chariot, anche scoppi irresi­ stibili di fresche risate, argentine e innocenti. Pubblico di cop­ pie giovanili, unite prima che da affinità elettive, dall’affini­ tà della condizione umana: lui e lei lontani dalle native cam­ pagne, lontani dalle famiglie, a vivere tra gente sconosciuta e incomprensibile, che li interpellava severamente col tu, e alla quale bisognava rispondere col lei — signorsì e sissignora; servette e soldatini — militari di bassa forza, metà prez­ zo — lui e lei coi rossi della campagna alle guance, non ancora del tutto mangiati dal soffoco dei sottoscala e dei camerini di sbratto o dalle interminabili corvè e consegne in caserma: lui e lei, lei e lui, che felicità! Pubblico, appena un po’ piu in su nella scala sociale, di piccinine e sartine, magari accom­ pagnate da qualche studentello meridionale, coppia letteraria — Gozzano, Corazzini, Nino Oxilia e Camasio — crepusco­ lare e senza domani. Domani l’inclita guarnigione si sposta, o il soldatino si congeda, lo studente si laurea o interrompe gli studi e ritorna al paese. Ah, quant’è bello il cinema! Quante gioie provare ci fa La sartina lascia l’ago e per darsi un po’ di svago dentro il cinema sen’va. Dentro il cinema lei sola si rinfranca e si consola... Ah quant’è bello il cinema, quante gioie provare ci fa... L’illusione ognor ci dà della vera realtà...

La canzoncina del tempo coglie bene i due poli del cine­ ma: la realtà, l’illusione. Squilla il campanello, che prelude al riaccendersi della luce nella sala; le coppie hanno appena il tempo di rettifi­ care le posizioni e di darsi un contegno; si chiude con un colpo secco il pianoforte, la pianista si alza, ravviandosi con la lunga mano magra i capelli ed esce, seguita dalla sordina dei giovanottelli delle prime file; il frastuono monotono di 680

catenacci e ferraglia del proiettore cessa e, dallo sgabuzzino, esce in maniche di camicia e tutto in sudore il proiezionista; un raggio di sole, arrivato lassù chissà come, brilla sul fiasco nudo che fa da condensatore; e, nella sala, circolano i vendi­ tori di mostaccioli, croccantini e caramelle, e canditi, infilzati in uno stuzzicadenti. Poi è di nuovo buio. E compare sullo schermo quello che solo molto piu tardi sarà chiamato il piu grande artista della nostra epoca, Chariot. Bombetta, piedi divaricati, piccola mazza di bambù. Ma è subito una lotta furibonda. Chariot è scaraventato in una stanzaccia sordida, dove un teppista è intento a farsi una inie­ zione stupefacente. Alla parete il ritratto dello zar Nicola; Chariot va a cadere proprio sull’ago della siringa, che gli inietta il suo liquido. Chariot, singolarmente elettrizzato dalla iniezione, riesce ad aver presto ragione del suo avversario. Grida, entusiasmo, battimani. Oppure: il gigantesco boxeur (i boxeurs erano allora con­ siderati i gladiatori moderni, da Conan Doyle, o bruti per deformazione professionale, come nel Giglio infranto di Grif­ fith) sferra un crochet da abbattere un bove, che, evitato de­ stramente da Chariot, piega in due il lampione su cui finisce. La testa del bruto resta dentro il fanale, presso il beccuccio del gas e a Chariot non resta che girare la chiavetta per vin­ cere gloriosamente. Edna Purviance, nel grembiulone dell’Esercito della salvezza, sorride coi suoi grandi occhi dolci a Chariot, che ha ripulito il vicolo malfamato, la Strada della paura. La gioia e le risate del pubblico che fanno tremare tutto il Mefisto sono ottima critica; anche se essa non ha potuto trovar posto, ma solo un accenno, nel bel volume di Glauco Viazzi, Chaplin e la critica (Bari, Laterza, 1955, pp. 557 con ill. L. 5.000). La borghesia, i ragazzini della borghesia romana, hanno visto per la prima volta Chariot in un cinematografo, all’im­ bocco del tunnel, dove ora ha sede la succursale di una banca, 681

e dove, una volta alla settimana, ai venerdì di magro, si tene­ vano spettacoli per ragazzi: film edificanti, dal vero, scene comiche. Le madri, strette nei busti a stecche di balena e con le camicette coi colli, anch’essi a stecca di balena, a tener bene erette le teste vuote, impettite di sussiego come le loro lontane sorelle d’America, ne II pellegrino, tentavano invano di strappare, dopo l’istruttiva dal vero e gli educativi Dieci comandamenti di Cecil de Mille, i loro agghindati rampolli alle sguaiataggini di Chariot; vinte dalla protervia infantile, si rimettevano contegnosamente a sedere e, mentre sullo scher­ mo passava, in una pioggia di macchioline, quel miracoloso gioiello che è II pellegrino, sospiravano il cinema Moderno dove si potevano vedere « autentici spettacoli d’arte »: le contorsioni di Lyda Borelli e i bei vestiti di Hesperia; e, ancora di più, il teatro Valle e gli urli di Teresa Franchini, ne La fiaccola sotto il moggio: Bene ti si è seccato il sangue Come la sugna rancida Ne la vescica rinsecchita...

E qui invece! Dai Lettòni ai Samoiedi sino a quei di San Malò non c’è alcun che muova i piedi come il classico Chariot...

Che quel pagliaccio potesse esser considerato artista unico e classico non poteva entrare in quelle testoline, complicatamente pettinate sotto la ciavatta, modello primaverile della Casa Nori, presentato alle Capannello. Per questo bisognava aspettare, almeno, La febbre dell'oro. La borghesia non ha il merito di aver scoperto, né quello di aver capito Chariot. Incomprensione che rientra nell’al­ tra, totale incomprensione, quella del film in genere. II para­ dosso di quest’arte, prodotta da esponenti di una classe e destinata alla classe antagonista, è il segreto del rancore sordo, della ruggine, talvolta inconfessata, ma tenace e ineli­ minabile, della borghesia verso il film.

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Il volume del Viazzi, che è la prima grande e accurata raccolta di materiali critici su Chaplin, ne offre una esaurien­ te dimostrazione. Il primo studio critico su Chariot, che possa dirsi tale, è del 1919: prima del Monello e prima della Febbre dell’oro, sia detto a maggior onore di Louis Delluc che ne è l’autore. Dal Monello e da La febbre dell’oro le critiche osannanti cominciano a diluviare. Ma a considerare attenta­ mente il ricchissimo materiale offerto dal Viazzi, vediamo che i piu convinti assertori della grandezza di Chaplin sono i surrealisti e gli « avanguardisti » in genere. Una moltitudi­ ne di interpretazioni malamente distorte; e non è difficile vedere che si cerca di accaparrarsi questo grande artista. Lo si vede artista per la sua bravura, in sostanza, per ragioni di forma esteriore: per il ritmo, naturalmente e soprattutto. Oppure si vede in lui la manifestazione spontanea e la rive­ lazione dell’inconscio. Proprio gli antipodi dalla ovvia ed evidente verità: che raramente ci fu un artista cosi reciso assertore di una idea e cosi autocosciente nel darle forma. Altri, interpretando il suo messaggio, lo trovarono nell’ab­ dicazione e nella rinuncia ai beni della terra e della vita: una specie di mistico, magari suo malgrado. Valanga di esaltazioni, frenetica ricerca e riscoperta dei vecchi film, ma poche le osservazioni pertinenti. Tanto che è difficile astenersi dal pensare che, in sostan­ za, Chariot lo hanno meglio compreso i suoi negatori e stron­ catoti. Questi non hanno peli sulla lingua, e possono aiutare ad intendere, per assurdo: possono far definire le sue, dalle posizioni antitetiche. Sarà il cattolico René Schwob a conside­ rare Chariot « un fanciullo senz’anima, una scimmia genia­ le »; sarà il nazionalista e imperialista Montherlant a condan­ nare tutta la nostra epoca per il fatto di considerare artista « un mediocre pagliaccio del cinema, chiamato Chariot »; sarà il — non diciamo altro — « wagneriano » André Suarès che dichiara il suo desiderio di « schiacciare come una cimi­ ce l’ignobile cuore di Chariot ». Dunque cosi: suona male, a certi orecchi, il terribile riso

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di Chariot e quello del suo primo, e sempre fedelissimo, pubsmo esasperato, lo spietato mordente realistico della sua critiblico popolare. E si chiarisce, pur nei limiti dell’individualica. Basta ripensarne l’opera, dalle prime brevi comiche (la direzione costante di quelle torte alla crema, spiaccicantisi sempre sui più spocchiosi musi borghesi) fino all’ultimo film. Basta anche il ricordo di una sola, quale che sia, scena parti­ colare: forse nei macchinari mostruosi di Tempi moderni, o proprio la macchina per mangiare, con quella spaventevole pannocchia di granturco che sembra sgranare i denti del lavo­ ratore affamato e l’ipocrisia di quel tampone di cartasuga, che con grazia soave, gli asciuga la bocca. Una densità inarrivabile di allusioni e di significazioni, a mostrare, quasi in una tra­ sparenza di acquario, quasi dietro una lente d’ingrandimen­ to, l’assurda e crudele struttura della società capitalistica. Il limite di quell’individualismo non poteva non dispia­ cere. E gli fu proposta una più decisa presa di posizione: una posizione costruttiva oltre che distruttiva. Un lieto fine, una buona volta! Ma Chariot ha eluso, con uno sgambetto, il pro­ blema; la bandierina rossa, che egli impugna, non è la ban­ diera del popolo, rossa del sangue dei lavoratori: è la ban­ dierina di un camion raccolta per caso. E se Chariot si allon­ tana per la grande via solitaria assieme a Paulette, la ragazza già dopo i primi passi si stanca, si arresta, piange. Chariot non poteva superare se stesso, il suo limite era ormai eviden­ te e invalicabile. La critica migliore lo intese, intese che ora­ mai il gioco andava giocato a carte scoperte. E lo intese Chariot, che nel successivo film dichiarò apertamente guerra e chiamò apertamente alla guerra contro la tirannide e la barbarie. La critica borghese aveva ormai tutti gli appigli per par­ lare di decadenza (razionalità, finalità pratiche, propaganda); e, come osserva acutamente il Viazzi nella sua introduzione, ad ogni nuovo film dichiarerà che Chariot è finito. Sconcerti e annaspamenti poi senza fine sulle opere recentissime: Verdoux e Limelight. Ma era poi tanto difficile ricordare il vecchio, indimenti­

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cabile Una donna di Parigi? Quella piena, smisurata, traboc­ cante di sentimento e quella spietatezza senza correttivi o attenuanti? Il libro di Viazzi, esemplare per metodo rigoroso e per l’intelligente presentazione e distribuzione della ricca mate­ ria, offre mille spunti a riflessioni ed osservazioni e costitui­ sce la premessa per una auspicata e motivata revisione criti­ ca dell’arte di Chaplin. Tra le osservazioni questa può esser segnalata: che la critica più pertinente su Chariot è, a tutt’oggi, quella dei sovietici e quella degli italiani. Anche questo potrebbe esse­ re oggetto di qualche riflessione: perché, di questo dato di fatto, ci sarà una comprensibile ragione, no?

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La XVI Mostra d’arte cinematografica di Venezia *

La XVI Mostra d’arte cinematografica di Venezia ha favorevolmente risentito, quest’anno, del clima di Ginevra, come si dice; cioè è stata animata da uno spirito di compren­ sione, di tolleranza e di distensione che, non ostante il perdu­ rare di numerosi e sgradevoli residui della faziosità, che vi aveva imperato fino a ieri, non ha mancato di dare frutti positivi. Una anche sommaria analisi dei film principali pre­ sentati quest’anno e del comportamento delle giurie e del pubblico può consentire di ricavare, dalla manifestazione, qualche interessante indicazione e forse anche qualche utile insegnamento. Considerati nel loro complesso, i film presentati quest’an­ no a Venezia dimostrano inoppugnabilmente il precipitoso de­ clinare delle cinematografie di Hollywood e dei paesi occi­ dentali, di fronte alla cinematografia sovietica, che mantiene il livello del proprio periodo classico, e di fronte alle cinema­ tografie dei paesi di nuova democrazia, in costante, se pur più o meno rapido, sviluppo e progresso. Nei paesi ancora capitalistici è solo la cinematografia con caratteri di realismo critico, non conformistica e di opposizione, quella che ne salva l’onore, e l’Italia e la Francia riescono a darne ancora, ogni tanto, qualche esempio notevole. Il pubblico della mostra, sebbene composto in gran parte * Rinascita, a. XII, n. 9, settembre 1955.

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da elementi borghesi e conservatori, è stato di un buon senso e di un equilibrio esemplare. Gli applausi, clamorosi e con­ vinti, tributati al film Gli sbandati di Francesco Maselli e, ad onta di qualche contrasto, al film di Leonid Lukov, Verso una nuova sponda, la travolgente ovazione che ha salu­ tato La cicala di S. Samsonov, da un canto, e la diserzione, dalla sala del Palazzo del cinema, a metà proiezione del film Ordet (Il verbo) di Carl Dreyer, il gelido ostile silenzio che ha accolto i film statunitensi in genere e, in particolare, il sadistico II Kentuckiano e il puerilmente melodrammatico Melodia interrotta, il buon successo del film Le amiche, di Antonioni e l’insuccesso decretato prontamente al film di Federico Fellini, Il bidone, non ostante l’artificiosa aspet­ tativa creata per alcuni di questi film mediante una spetta­ colosa pubblicità, dimostrano come il pubblico del festival, tanto spesso bistrattato per il suo snobismo e la sua fatua mondanità, sia di fatto dotato di un senso critico sviluppato e di immediata prontezza. Non altrettanto bene si può dire delle giurie; ed è da particolarmente criticare quella degli esperti che hanno il com­ pito delle accettazioni o meno dei film proposti. Questa giu­ ria ha commesso un gravissimo errore respingendo uno dei migliori film dell’annata, il film cecoslovacco Jan Huss: uno di quei film la cui presentazione avrebbe, per la sua qualità artistica, sollevato tutto il tono della manifestazione. Jan Huss è stato respinto perché offensivo per il sentimento religioso del popolo italiano: tesi speciosa, ma assurda, perché, come tutti sanno, Huss non ha mai combattuto la fede cristiana, ma solo certe forme di simonia e di corruzione di alcuni pre­ lati, dalla Chiesa stessa sconfessati e ripudiati. Alla stessa stre­ gua i sentimenti religiosi del popolo italiano sarebbero offesi dalle prediche di Savonarola o dalle invettive dantesche, poniamo contro Bonifacio Vili, o contro quel « fìgliol del­ l’orsa », tanto cupido di avanzare i suoi or satti. Gretta, puerile e antistorica considerazione della grande figura di Gio­ vanni Huss, complessa figura di tanto significato e di tanta importanza per la nazione e per la cultura ceca. E non vale

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appellarsi, come qualcuno ha tentato, a una presunta obiet­ tività, per il fatto che è stato respinto anche il film di produ­ zione spagnuola, Il canto del gallo, perché offensivo per l’Ungheria popolare: giacché niente è piu lontano dall’obiettività come il mettere sullo stesso piano la verità e la menzogna, la realtà storica e la falsificazione. La lotta poi che quella giu­ ria ha condotto contro il film Verso una nuova sponda è una riprova della tenacia di quella faziosità inintelligente e inca­ pace di andare a passo col tempo. Un’altra critica grave va fatta alla commissione di accet­ tazione per non aver salvaguardato bastantemente la dignità della mostra, impedendo la presentazione di opere non degne di figurare in una rassegna d’arte: di non aver escluso tutta una serie di film scadenti, come La caccia al ladro di Hitchcock, un regista la cui abilità tecnica è costantemente a servizio del piu frivolo divertimento, né i già citati II Kentuckiano e Me­ lodia interrotta (USA), né la farsaccia inglese Dn dottore in alto mare, né il romanzone d’appendice L'isola dei lupi (Mes­ sico), né il truculento Mani insanguinate (Brasile), o l’ultrasentimentale e flebile falsificazione della psicologia infantile di Due amici (Italia). Per dire solo dei primi che vengono alla mente. Mentre si stenta a credere che non si sarebbe potuto, con una motivata ed energica difesa, impedire il ritiro della Giun­ gla della scuola, chiesto e ottenuto dall’ambasciatrice statu­ nitense, signora Clara Luce. La Giungla della scuola avrebbe sollevato le sorti della selezione americana se è vero quanto si dice della sua qualità artistica e, lungi dal gettar discredito sul paese che l’ha prodotto^ gli avrebbe fatto onore e procu­ rato simpatie: perché torna sempre ad onore di un popolo il fatto di saper fare, attraverso i propri artisti, coraggiose denunce autocritiche. La giuria, che ha presieduto alle premiazioni, ha avuto il torto imperdonabile di assegnare il Leone d’oro, cioè il primo premio, al film Ordet (Danimarca). Lo ha fatto per ragioni contenutistiche, perché la qualità generale del film

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è sicuramente inferiore, ma si è ingannata grossolanamente nella valutazione del contenuto del film: scambiando un’ope­ ra di irrazionalismo superstizioso, di cruda disumanità e di empia fusione di follia, di misticismo e di erotismo, per un’ope­ ra materiata di profonda fede religiosa. La cattiva coscienza con cui il premio è stato attribuito, o per lo meno un vago senso della povertà del film, ha indotto la giuria a cercar di limitare il proprio errore, introducendo il correttivo di una dichiarazione, nella motivazione del premio, per cui esso vien conferito al regista danese, per il complesso della sua attività c per Ordet. Peggio il rattoppo dello strappo: perché il rat­ toppo rende piu evidente lo strappo stesso. Sarebbe stato infi­ nitamente più giusto e più dignitoso ciò che non si è voluto assolutamente fare, non ostante gli autorevoli suggerimenti, in questo senso, del rappresentante degli Stati Uniti, di quello dell’Inghilterra e di quello della Cecoslovacchia: attribuire il Leone d’oro all’Unione Sovietica, per il film La cicala. Tanto più che La cicala doveva poi di fatto risultare il miglior film presentato alla mostra, avendo ottenuto, oltre al primo Leone d’argento, il premio Pasinetti. Si potrebbe lamentare ancora che la giuria per il passo ridotto e per il film per ragazzi abbia dimenticato del tutto i film polacchi e in particolare il fine Stanis la tartaruga; o stupire che la stessa giuria abbia premiato il Viaggio nella preistoria di Zeman (Cecoslovacchia); non perché il film non lo meritasse, ma per il suo contenuto scientifico, materialista c darwinista, che non ci si attendeva dovesse trovar tanto consenso presso una giuria clericale. Tuttavia, ad onta di questi e di altri errori e sconcerti, sui quali si può sorvolare, resta il fatto che le premiazioni, anche se fatte contraggenio, del film di Maselli, della Cicala, del­ l’unico film di lungometraggio presentato dalla Polonia, del film ceco che ha sostituito fan Huss, del film di Zeman per ragazzi, e la premiazione di cinque documentari sovietici e di cinque documentari cechi, hanno dimostrato lampantemen­ te ciò che non è stato possibile nascondere: la superiorità in tutto il mondo della cinematografia progressiva. Un risultato 689

che fa levare alti lai ai critici della reazione e li fa farneti­ care di una presunta bolscevizzazione (nientedimeno!) di Ve­ nezia, sul cui ponte sventolerebbe, a detta di Gian Luigi Ron­ di, bandiera rossa. Un minimo di capacità a riflettere e a capire dovrebbe bastare a trarre, a nostro giudizio, una prima lezione dai risultati di questa mostra veneziana. Che il contenuto ideale non solo non è indifferente ed estraneo al valore artistico delle opere, ma ne è la causa prima e la condizione essenziale; che esso, se è contenuto valido, non può mai dirsi grezzo, perché è frutto di una scelta, di una discriminazione, di una operazione conoscitiva profonda, come quella del ripudio del­ l’errore e della affermazione della verità; verità non appros­ simativa, ma decantata e liberata da tutte le scorie e verità, non parziale, ma totale. Questo contenuto ideale è esso stesso creazione. Non si dà arte senza una giusta visione della realtà. Hanno dovuto riconoscere, sia pure a denti stretti, la superiorità della cinematografia progressiva, anche i colli più torti. Ed è, per loro, una eccellente lezione. Ma la lezione deve valere, a mio avviso, soprattutto per quelli di noi, che, ancora legati a forme di cultura tradizionale, credono di dar prova di libertà spirituale, di spregiudicatezza e di fine comprendonio ricucinando ad ogni occasione, magari colla saisetta di qualche freddurina, quella distinzione dell’attività ar­ tistica, da quelle del pensare e dell’agire; e non si accorgono che quella distinzione degrada l’arte al grado di quel vuoto giuoco, nel quale, lungi dallo svanire, propriamente consiste la retorica, mentre è l’artisticità che, irrimediabilmente, si perde. A mio avviso è dunque proprio quel film che è stato tacciato di retorica, anche da qualche critico di parte nostra, Verso una nuova sponda, quello che avrebbe meritato (alme­ no a pari merito con La cicala), il Leone d’oro. Ha torto il critico del Contemporaneo a non vedere, in esso, che « sven­ tolio di bandiere rosse » (e avrebbe potuto aggiungere: non­ 690

che un clamoroso risuonare dell’Internazionale). Ha torto, perché in quel film c’è dell’altro; e, per dirlo colle parole, non sospette, di un critico non propriamente socialista, Leo Pe­ stelli (La Stampa, 1° settembre 1955) quel film è « tecnicamente finito, arioso e ben modulato nel colore, con grandio­ se scene di massa e vistosi sprazzi di spettacolo » ed ha « un manipolo di interpreti veementi, Jan Priekulis, Velta Line, L. Freiman e Janis Ossis ». Quanto poi a quelle bellissime cose che sono lo sven­ tolio delle bandiere rosse e il canto dell’Internazionale, esse non costituiscono affatto, come sembra al critico del Contem­ poraneo, un elemento negativo: esse sono, al contrario, uno degli elementi nei quali meglio si esprime quel contenuto ideale del film, che è la causa effettiva di tutti gli altri valori, tra i quali quelli lodati dal Pestelli. Non sono retorica. Senza quel valido supporto ideologico, quei valori non sarebbero che vuote abilità tecnicistiche, sarebbero cioè retorica, nel giusto senso della parola, se retorica significa, come significa, arte del dire, cioè complesso di regolette, assurdamente con­ siderate come valide, in ogni caso, a produrre arte, indipen­ dentemente da qualsiasi contenuto di idea. Se per retorica, invece si vuole intendere linguaggio ele­ vato e sostenuto, si deve riflettere che la liberazione di un popolo (che è il tema del film di Lukov) è un argomento grandioso e solenne, al quale mal s’addirebbe un linguaggio sciatto, o anche solo dimesso: è uno di quei temi per il quale è necessità d’arte che il tono alquanto surga, come già voleva padre Dante. Chi poi ha rimproverato al film di Lukov la faticosa andatura e avrebbe voluto una storia che filasse come un direttissimo, dall’esordio al lieto fine, mentre non s’è accorto dell’impetuosità del piglio narrativo audacissimo di Lukov e del coraggioso alternarsi di lente analisi e di spezzature sintetiche drammaticissime, non fa in sostanza che rimpro­ verare al regista la mancata applicazione di quelle regolette di cui sopra, la mancanza di retorica. Con quella retorica qual­ 691

siasi regista di Hollywood, o di dove che sia, può confezionare un racconto la cui costruzione dipenda solo dagli effetti di gradevolezza da produrre, sul pubblico. Ma qui, in questo grande film l’altezza dell’assunto tematico, la quantità delle situazioni e dei personaggi, scelti ad incarnarlo, esigevano tutt’altra struttura.

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La tecnica del successo nei film commerciali *

Ugo Casiraghi ha aperto un dibattito sul problema, sem­ pre ritornante e sempre attuale, del pubblico e della critica del film. E poiché queste discussioni, il piu delle volte, si risolvono in vane logomachie, in sterili battaglie di parole, animate non si sa da quale mai forza centrifuga, per cui ognuno tratta aspetti diversi e, a volte, anche lontanissimi dalla questione fondamentale, Casiraghi ha pensato di imbrigliare gli interventi, contenendoli entro i binari di quattro ben formulate domande. Alle quali, aderendo di buon grado al­ l’invito fattomi, eccomi a rispondere.

I film d’appendice

1) Che cosa sono i film «d’appendice» (cioè i film tipo Catene, Tormento, I figli di nessuno, Il fornaretto di Vene­ zia, La sepolta viva, e, nel genere « politico », Don Camillo ecc.), che cosa rappresentano oggi in Italia, per quali ragioni una parte del pubblico ne è attratta? E l’influenza che essi esercitano come si può giudicare? Casiraghi estende al film l’espressione d’appendice, che è usuale per i romanzi dai quali molti di quei film sono tratti. * L’Unità, 29 dicembre 1955.

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È un’espressione accettabile, sebbene quella che io preferisco, film di confezione, mi sembri piu esatta e più comprensiva. Si chiamano d’appendice, in senso stretto, i romanzi pub­ blicati a puntate su di un quotidiano; romanzi che hanno tutti una comune fisionomia, che deriva da una comune tecnica di racconto; si dicono poi d’appendice, anche se non pubbli­ cati a puntate o a dispense, tutti i romanzi costruiti con una simile tecnica. Questa tecnica consiste, come è noto, nel creare, alla fine di ogni puntata, una sospensione del racconto atta a svegliare la curiosità del lettore, a provocare in lui l’ansia febbrile di conoscere gli sviluppi e la soluzione della situazione. Il film, in quanto forma d’arte destinata a larghe masse, fin dai suoi esordi si è valso largamente del romanzo popo­ lare e ne ha ereditato la tecnica. La sospensione è la base del montaggio all’americana, cioè del montaggio del film commerciale. Si tratta di disporre la materia del racconto in base alla previsione delle reazioni emotive del pubblico, in modo che queste reazioni abbiano una progressione, dal nodo o intrigo iniziale, ai punti salienti, fino allo sciogli­ mento finale, dove, naturalmente, quella che nelle vecchie rettoriche si chiamava la mozione degli affetti deve essere più forte. Il vecchio pioniere della cinematografia americana Grif­ fith diceva che per fare un buon film bisogna far ridere, far piangere e far aspettare il pubblico. L’indicazione è perfetta e non può sfuggire, a chiunque voglia rifletterci un poco, come essa sia un’indicazione di natura esteriormente tecnici­ stica, come essa trascuri totalmente i valori contenutistici e ideologici. Ridere, piangere; ma di che cosa o per che cosa è del tutto indifferente. Aspettare che cosa? Semplicemente il distendersi di una tensione emotiva, creata nel pubblico col facile artificio della sospensione. Gli effetti patetici (pian­ gere) e quelli comici (ridere) si ottengono con mezzi altret­ tanto meccanici ed esterni: i mezzi di quella che si chiamò in Francia la comédie larmoyante e, in Italia, graziosamente, la commedia flebile; l’automatismo del rompersi d’un equili­ brio, per la produzione comica. Il prevalere dell’uno o dell’al­ 694

tro degli ingredienti della ricetta di Griffith, determina parti­ colari generi di film commerciali: ridere (Don Camillo, film di Totò, ecc.), piangere (Catene, I figli di nessuno, La sepolta viva, ecc.), aspettare (tutti i tipi di film giallo). È chiaro che il pianto o il riso della Madre e di Roma città aperta, dei film di Chariot e di Miracolo a Milano non nascono da tecniche prestabilite; questi non sono film di confezione ma creazioni artistiche: cadono quindi fuori da questo particolare discorso. Questa riduzione a termini di pura tecnica del film com­ merciale chiarisce molti dei misteri del cinema. E, tra gli altri, il mistero per cui noi chiamiamo formalistici i film di appen­ dice con parola ostica per coloro che, come il regista Matarazzo, li trovano ricchissimi di contenuto (amori, passioni, ri­ morsi, gelosie, fughe, inseguimenti, vendette e pistolettate); per coloro che non si rendono conto che ciò che attira il pub­ blico è frutto unicamente del procedimento tecnico: uno schema nel quale è impossibile immettere qualsiasi contenuto moralmente e socialmente valido, perché quella tecnica, in definitiva, consiste nello svuotamento di ogni significato. Lo spettatore, per apprezzare quei film, deve inibirsi ogni attività critica e abbandonarsi alla piacevolezza delle sensazioni e delle emozioni che, non la materia, ma la esposizione della materia gli procura. Perché piacciono quei film? Perché sono abilmente confe­ zionati all’unico scopo di piacere. Che valore hanno dal punto di vista artistico? Nessuno: sono, anzi, esattamente l’opposto dell’arte. Che influenza esercitano? Un’influenza del tutto negativa, che non è esagerato paragonare a quella degli stupefacenti. Che, in piccolissime dosi, possono adoperarsi per riposare, per scacciare il mal di testa o di denti e l’insonnia. Ma che, in forti dosi, sono distruttivi dell’organismo fisico, oltreché di quello morale. 2) Considerando come cinematografia d’appendice anche la maggioranza della produzione americana (e tenendo, natu­ ralmente, nel dovuto conto il fatto che tale produzione sia

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imposta al pubblico mediante il monopolio delle sale) quali sono le ragioni per cui essa attrae ancora tanta parte del pubblico, anche democratico?

Queste indagini, che spesso i critici ci propongono di fare, sono già state fatte dai produttori cinematografici, che fab­ bricano film a successo. E sono quelle che hanno portato alla regolamentazione della tecnica del film commerciale. La bontà delle indagini dei produttori ha una riprova proprio nel suc­ cesso dei loro film. I critici che si affaticano a strologare di psicologia collettiva e simili assomigliano a quella bambina di cui discorre Alain in uno dei suoi propos: « Quando un bambino piange e non si riesce a calmarlo, spesso la balia inventa le supposizioni più ingegnose sul carattere del piccino e su ciò che gli piace o no; chiamando in causa anche il fat­ tore ereditario, essa ravvisa nel figlio tutto suo padre; e questi saggi di psicologia durano fino alla scoperta della spilla, vera causa di tutto ». Il critico avveduto deve scoprire la spilla, che non è altro che la regolamentazione dei modi strutturali del film commercialistico. Che riempie di emozione e fa ridere e piangere i bambini, e tanti adulti, rifattisi bambini (o rim­ bambiti?) nel buio delle sale cinematografiche.

Jl gusto del pubblico Anche la produzione commercialistica, del sogno e della evasione, necessita di un punto di partenza che abbia un minimo, una parvenza di verosimiglianza (i film dichiaratamente fantastici, tipo Ladro di Bagdad, non hanno successo, e infatti la loro produzione costituisce un caso eccezionale). E ciò che si sa non può succedere a Roma o a Milano, si crede facilmente possa accadere a New York o a Chicago. Per la stessa ragione gran parte della produzione italiana d’ap­ pendice piace di più in provincia che nelle grandi città: ciò che non è verosimile a Pere tola, sembra vero a Roma o a Milano.

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Il pubblico democratico a cui questi film piacciono è un pubblico che ha capito molte cose (e perciò è democratico) ma non ha ancora capito quanto sia, in ultima analisi, degra­ dante e deludente il piacere che gli procura questo genere di film. Non ha capito ancora che anche quella del film è una lotta: non ha trovato ancora il suo giusto posto di combatti­ mento in questa lotta.

3) Il gusto del pubblico e il suo buonsenso critico quale effettiva evoluzione hanno subito, dopo dieci anni di cinema realistico e dopo l’opera di chiarificazione perseguita in questo campo dalla stampa democratica, dai circoli del cinema e dalle organizzazioni popolari? Il costante diminuire degli incassi dei film americani e il rinato interesse del pubblico italiano per il teatro di prosa sembrano dimostrare che quest’influenza è vasta e profonda.

4) Posto che il critico di un giornale progressista non può non preoccuparsi della frattura che si verifica a proposito di uno stesso film tra il giudizio degli specialisti e quello del pubblico, con quali strumenti critici validi si può affron­ tare sia il problema di tale frattura, sia quello del giudizio da dare sul singolo film?

Frattura o no, il critico ha il dovere di dire sempre quello che pensa, di esprimere sempre, senza reticenze, il proprio giudizio: nessuna considerazione di opportunità deve indurlo a mentire. La forza della nostra propaganda, diceva Lenin, sta nel fatto che noi diciamo sempre la verità. La frattura in questione non è poi così abissale come sembra a qualcuno. Il pubblico infatti, anche se va a vedere certi film, sa benis­ simo (quanto, e forse anche più della critica, che con certi generi ha meno dimestichezza) che si tratta di film antiartistici c stupidi. « Vallo a vedere. È una stupidaggine ma serve a passare due ore » è un ritornello che si sente ripetere spesso e ovunque. Il compito del critico dunque non è tanto di mo­ 697

strare l’antiartisticità o la stupidità di quei film, ma piuttosto quello di chiarire quali interessi di classe, e di quale classe, si nascondano dietro quei film, come quegli interessi speculino sull’ingenuo bisogno del pubblico di riposare e di divertirsi. Anche qui va seguita la raccomandazione di Mao Tsetung: spiegare con pazienza. Quanto agli strumenti validi, per un critico comunista, mi sembra non ci sia da dire altro che una critica è tanto piu valida quanto piu è permeata dello spirito del partito, ugual­ mente distante cioè dall’estremismo quanto dall’acquiescenza opportunistica. E, se mai, a mio parere, anche in tema di « partitismo »: un peu de trop preserve du pas assez (o, come già dicevano i latini, melius abundare quam defreere}.

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Redenzioni e celluloide *

È vero che il dictum de omni et de nullo, il sillogismo, il dilemma cornuto e, in genere, tutte le regole scolastiche del ragionare in forma sono tali da spiritare i cani, come dice il Berni. Ma i ragionamenti che fa Raffaello Matarazzo, che di quelle regole se ne impipa, sono addirittura come i suoi film {Catene, Tormento, I figli di nessuno): tali da spiritare i pachidermi. Infatti, intervenendo nel dibattito Cinema, critica e pub­ blico, indetto dall’UwzVÀ di Milano, Raffaello Matarazzo, dalla constatazione che i suoi film son piaciuti al pubblico e non alla critica, deduce che « per poter dire che il pubblico abbia torto e la critica ragione bisognerebbe che lo stesso pubblico applaudisse i film di gusto dei critici. E invece questo, in genere, non avviene ». E sarebbe come dire: al bambino piac­ ciono i dolci e la mamma lo vuole ingozzare di olio di fegato di merluzzo; per dire che la mamma ha ragione bisognerebbe che al bambino piacesse l’olio di fegato di merluzzo. Non è un buon ragionamento quello di Matarazzo, come non lo è quello del bambino ghiottone che vuol fare una scorpacciata di dolci. Anzi, non è neppure un sofisma, cioè non ha neppure l’apparenza di un ragionamento. Si tratta solo di un ovvio corollario (al pubblico non piacciono i film che la critica loda) della prima constatazione (al pubblico piacciono i film * L'Unità, 29 dicembre 1955.

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di Matarazzo, che la critica stronca); si tratta cioè di una semplice ripetizione della osservazione preliminare (esiste una frattura tra il giudizio del pubblico e quello della critica) che ha originato il dibattito; ripetizione che non spiega e non sfiora nemmeno la scorza del problema. Credendo di aver stabilito che il pubblico ha ragione, Ma­ tarazzo passa poi alla strenua difesa dei suoi film. Che, egli protesta, « non sono di appendice, perché non sfruttano, come fa la letteratura d’appendice, la sorpresa emozionante, il colpo di scena sapientemente dosato, al momento opportuno e in sostanza una meccanica calcolatrice... ». La meccanica calcolatrice mi fa pensare che l’ingegner Olivetti, che è un uomo di tanta iniziativa, potrebbe, in questi tempi di cibernetica, studiare, accanto alla divisumma, una trattasceneggia, per sostituire, con vantaggio di tempo e di denaro almeno, qualche insostituibile sceneggiatrice. Ed egli si accorgerebbe immediatamente che nei film commerciali, nei film di confezione, non è meccanica soltanto la disposizione della materia narrativa, ma è meccanica anche la scelta di quella materia. Tanto l’una che l’altra sono basate su di un calcolo a freddo: sulla previsione degli effetti emotivi che potranno avere sul pubblico. Sospensione e montaggio alla Griffith sono indubbiamente mezzi di basso commercialismo; ma è mezzo di basso commercialismo, altrettanto, se non più, la scelta di una materia melodrammatica, — la ragazza sedotta e abbandonata, il giglio infranto, la sposa scacciata, scacciata, badate bene, il giorno delle nozze. — Questi cineromanzi me­ lodrammatici si producevano in Francia e in Italia, non solo ai tempi del muto, ma prima della fine della guerra mondiale, cioè prima che si divulgassero, in Europa, i metodi del mon­ taggio all'americana, i metodi cioè di un commercialismo meno grezzo e dichiarato. Ora sono quei cineromanzi (quelli stessi) che colla stessa tecnica primitiva, anteriore alla scoperta del montaggio, fa oggi Matarazzo. Le due orfanelle, i due sergenti, i figli di nessuno, il vetturale del Moncenisio, i due derelitti, sono film che, ad ogni stagione, fusi e contaminati, specie se ci sono ancora diritti d’autore da pagare, si portano sullo 700

schermo, si fanno e si rifanno, pari pari. E se è così, perché protestare contro chi ha parlato, per quei film, di facile sen­ timentalità? I film della sospensione, vuotamente tecnicistici anche essi, hanno sui melodrammatici il vantaggio di articolarsi secondo una tecnica che, a volte, giunge alla raffinatezza (come nel caso di Mamoulian e di Hitchcock) di dichiararsi e di ironiz­ zare se stessa. E non è dal pulpito di Matarazzo che può venire la predica contro di essi, che egli invece ci somministra. E pa­ ragoniamo allora la tecnica smagliante di Vie della città o anche del recente Caccia al ladro, con le piccole agghindatezze di Catene, sarà come mettere a raffronto una pagina di Caro­ lina Invernizio con una di Emilio Cecchi. È evidente che, nell’una o nell’altra coppia, siamo di fronte al piu vuoto formalismo, all’indifferenza per tutto ciò che non sia effetto. Ed è altrettanto evidente che la raffinatezza è un disvalore anch’essa. Ma giacché Matarazzo parla di facilità, non sembra dubbio che la facilità sta tutta dalla parte sua. Matarazzo vuol poi correggere sentimentalismo in senti­ mento. E mi fa pensare ad una parodia, che Paolo Vita Finzi lece una volta della idealistica economia del Luzzatti: gli faceva proporre un metodo per pagar le cambiali con valori inorali invece che con valuta pregiata, mediante, come gli faceva dire spiritosamente, « una stanza di compensazione de­ gli effetti con gli affetti ». Il sentimento, nel film di confe­ zione, entra solo in quanto tocca e commuove il pubblico; non è più sentimento, affetto, ma mezzo per muovere gli af­ fetti, come si diceva una volta: effetto, o effettaccio che dir si voglia. Effetto calcolato, da chi fa il film, a freddo per commuovere il pubblico. Perché, come diceva Diderot, « i cuori sensibili stanno in platea ». E, certo, se questi cuori sensibili, che piangono ai film di Matarazzo sono davvero 37 milioni, come una rivista ha calcolato, e come egli tiene a farci sapere, siamo di fronte ad un fatto serio e importante. E, con buona pace di Mata­ razzo, anche triste e grave. Tuttavia un’indagine attenta ci farà convinti che il pub­ 701

blico dei film melodrammatici, per lo piti, non li prende sul serio. Piange, nella sala; ma quando vi racconta il film e vi dice di aver pianto, ve lo dice ridendo: cioè ridendo del film e di se stesso. Che quei film presentino la vita in modo assurdo, cioè retta da misteriosi e invincibili destini, che essi schematizzino assurdamente il bene e il male, che siano falsi e che persino rinunzino ad ogni verosimiglianza per conse­ guire un dato effetto — tutto questo il pubblico migliore lo sa, e quello piu indifeso, almeno vagamente, lo sente. Non di rado il pubblico sa che quei film sono anche nocivi. E allora perché accorre in frotta a vederli? Perché essi gli procurano uno svago ed un piacere ai quali egli non sa rinun­ ciare. Proprio come il fumatore che sa benissimo che fumare è una sciocchezza, che è più che una cosa inutile, una cosa dannosa e tuttavia, anche quando sa che particolarmente la sua salute ne soffre, difficilmente riesce a liberarsi da quella abitudine. Chi segue i gusti del pubblico, chi disprezza il pubblico e perciò gli ammannisce sullo schermo ciò che il pubblico stesso vuole, per riposare, per evadere, per sognare, è ripagato dal pubblico con altrettanto disprezzo. E, generalmente, lo sa; ed anche quando è particolarmente ingenuo, lo sente va­ gamente. Credete che nella società attuale sia tanto semplice la redenzione del fiore cresciuto nel fango, come lo è nei film? Che sia tanto facile incontrare l’amore redentore o scoprirsi figlia di un principe Rodolfo, vendicatore degli oppressi? O la redenzione di quel personaggio de La fossa di Kuprin, che metteva soldi da parte calcolando freddamente il tempo che gli toccava di passare nella fossa, per risparmiare tanto da potersi comprare un amore sincero e un’onesta vita familiare? Quando la deformazione professionale non fa vedere che quei lussi non si comprano? A volte i registi commerciali sognano il film d’arte. Ormai è un lusso che possono permettersi. Si può, per cominciare, mettersi a discutere e polemizzare con la critica (grande lusso anche questo per un regista commerciale) e poi... Ma l’arte 702

è l’opposto del calcolo, anche se è razionalità. E solo un mira­ colo può portare un regista commerciale sul piano dell’arte. Quanto a Matarazzo (per quello di positivo, ad onta di lutto, che io so di lui) gli auguro di cuore di esser presto miracolato in questo senso. Coll’aiuto — diciamo cosi — di Santa Rita, che chiamano la santa dei casi impossibili.

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In Cina, il vecchio e il nuovo *

L’osservatore e lo studioso europeo, o occidentale in genere, che consideri o che visiti la nuova Cina, con occhi aperti e con mente aperta, è immediatamente impressionato dal constatare, in tutto quell’immenso e affascinante paese, una sorprendente convivenza di vecchio e di nuovo. Ed è colpito dalla piana e pacifica, ma decisa e continua, evolu­ zione verso il nuovo; una evoluzione che, se d’acchitto può apparire di una prudenza e di una gradualità quasi eccessiva, nello scrupolo di evitare, a tutti i ceti sociali, e persino ai singoli individui, urti e scossoni, di fatto, ad una migliore osservazione, risulta un moto straordinariamente accelerato. Si può credere, a considerare astrattamente le cose, che si tratti di un fenomeno proprio a tutti i popoli di antijca civiltà, riscontrabile, in misura maggiore o minore, anche in Italia, dove accanto a forme di vita modernissime, di certe metropoli, sopravvivono, specie nel Mezzogiorno, modi e aspetti arretrati e addirittura feudali; ma, nella concretezza reale, il fenomeno assume in Cina, proprio per la enormità delle distanze e delle disproporzioni nel tempo anzitutto (quattromila anni, contro sei anni) caratteri del tutto diversi. La differenza di quantità, nella sua enormità, diviene anche differenza di qualità. Non lontano da Pechino io ho visitato la costruzione, in * Filmcritica, a. VII, n. 55, gennaio-febbraio 1956.

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corso e già quasi sul termine, di una grande diga: impresa d’ingegneria idraulica non solo gigantesca, ma modernamente e razionalmente concepita e condotta in vista di diversi scopi: arginare i periodici distruttivi allagamenti della zona, alimen­ tare una folta rete di canali d’irrigazione, di un piano di rinnovamento delle culture agricole, in grandi estensioni di terreno circostante, costituire la base di una colossale centrale elettrica. Oltre che dalla forte impressione per quell’opera imponente, io fui colpito da uno spettacolo del tutto inatteso, e stridente: un gruppo di operai di quel cantiere, che ribat­ tevano una massicciata di calcestruzzo e di pietra, sollevando a braccia con cordami e carrucole, e dandosi il tempo colla voce, un grandissimo masso, che poi tutti insieme lascia­ vano cadere; procedimento rudimentale, antichissimo, che faceva un vivo contrasto coll’opera già realizzata, con le mo­ dernissime scavatrici idrovore li accanto e con la fila di camion, nuovi fiammanti, che trasportavano ogni sorta di materiale. Una simile impressione si rinnova continuamente sotto gli occhi di chi percorra la Cina; e il suo aspetto più interessante ed inedito, non è quello della stretta attiguità del vecchio col nuovo, ma quello della loro collaborazione. Aspetto, a non intendere il quale, bisogna rassegnarsi a non comprendere nulla della Cina di oggi. Altrettanto si verifica nella produzione intellettuale ed artistica della Cina. Gli osservatori occidentali sono spesso portati a constatare uno jato profondo, una cesura decisa e, insomma, una rottura tra la tradizione culturale e gli sforzi innovatori: e credono di poter constatare l’esistenza di una lotta, tra il vecchio il nuovo, senza quartiere e senza esclu­ sione di colpi. A seconda dei temperamenti e delle prefe­ renze, tra un Saturno divoratore dei propri figli e un Nerone uccisore della propria madre; gli uni versano lagrime d’inchio­ stro sull’antichissima civiltà cinese i cui preziosi raffinamenti plurisecolari il « comuniSmo » calpesta; gli altri versano la­ grime di coccodrillo sulle sorti del povero filosofo Hu Fen, recentemente arrestato perché, vero rivoluzionario, egli soste­ neva la necessità di un radicale ripudio delle tradizioni oscu-

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rantistiche e feudali e un aggiornamento della cultura cinese tale da metterla al livello del pensiero idealistico europeo o delle dottrine nordamericane del Dewey. In verità questa lotta non esiste affatto e, pur nel profondissimo contrasto, esiste anzi una vera e propria collaborazione tra i termini antagonisti. E, quanto a Hu Fen, sulle cui sorti si sono com­ mossi i lettori della Stampa, informati dall’EmanuelIi, si tratta di un traditore del proprio paese, arrestato non per aver pubblicato uno scritto intitolato « cinque coltellate alla rivoluzione cinese » (più bonario e idealista del freddurista Avercenko, che emigrato dopo la rivoluzione russa pubblicò a Costantinopoli un libello intitolato 12 coltellate nella schiena della rivoluzione), ma perché è risultato, ed è stato ampia­ mente dimostrato, che egli era legato all’imperialismo stra­ niero e agli attentatori del Kuomintang. Tanto è vero che alla università di Pechino c’è un professore, di cui mi sfugge il nome, ma che potrei facilmente ritrovare, che sostiene le stesse idee di Hu Fen e che è per questo frequentemente con­ futato e combattuto; e che è considerato ovunque quell’uomo onesto che è, che se sbaglia, sbaglia in buona fede e che, colla sua polemica, contribuisce tuttavia, per assurdo, al chia­ rimento dei problemi e alla vita culturale del proprio paese. Tanto è vero che la realtà in genere, e quella cinese in particolare, per essere intese nella loro interezza e comples­ sità debbono esser considerate nel loro farsi, nel loro movi­ mento, che non è un continuo ininterrotto fluire, ma un movi­ mento zigzagante e dialettico. Un altro aspetto di questa collaborazione di vecchio e di nuovo è dato dalla medicina e dalla farmacopea. Accanto a quella moderna e scientifica, esiste una medicina tradizio­ nale, di semplicisti empirici, e tutto il loro armamentario di erbe curative. Questa vecchia medicina pratica e questa biz­ zarra farmacopea hanno oggi in Cina una degna sede negli ospedali, le cliniche, gli ambulatori; accanto alla medicina vera e propria, alla medicina scientifica, vive questa pratica tradizionale, col complesso dei suoi metodi, tra cui quella puntura cinese, che qualche anno fa fu importata in Italia e 706

parzialmente applicata, da un dott. Assuero, che le dette il nome di assueroterapia. In questa sede la vecchia pratica viene controllata e sperimentata, così che, respinte le forme puramente superstiziose, quel tanto che di valido poteva sussistere in essa, viene vagliato e portato su di un piano scientifico. La tradizione, lungi dall’essere un peso, viene ad essere un ausilio della scienza e le sue parti vive e ancora germinali trovano in queste un fertile terreno di sviluppo. Così vecchi succhi, erbe, resine e cortecce arricchiscono di nuovi utili medicinali la farmacia moderna. Questi fatti, che mi sono un po’ troppo diffuso a narrare, vorrebbero servire a dare una prima chiave per la compren­ sione di molti aspetti della vita cinese di oggi: dovrebbero far intendere perché, nell’ottobre scorso, Mao Tse-tung ha convocato e riunito i capitalisti, ancora attivi in Cina, ed ha parlato dei loro compiti, della loro attuale utilità sociale, nonché, bene inteso, della prossima, e imminente, fine del capitalismo. Politica di tipo nuovo profondamente nazionale, che solo una rivoluzione che è stata ad un tempo nazionale­ borghese e socialista poteva concepire e attuare. Così nel campo dell’arte. La pittura cinese costituisce un complesso di fatti artistici di primo ordine; ma, nonostante si dica comunemente (tanto ne sono stati amatori i grandissimi predoni occidentali) che si può benissimo, e piu che a Pechino, studiarla a Parigi a Stoccolma e negli Stati Uniti, ben poco se ne sa, oltre alla diffusa conoscenza del suo carattere prevalentemente disegnativo più che coloristico. La sua lezione è stata piuttosto ere­ ditata, e talvolta abilmente sfruttata, da alcuni pittori avan­ guardisti de Vécole de Paris: certi cavallini spiritati di Dufy hanno precedenti sicuri nelle grotte di Tuenhuang che risal­ gono al VI ? al VII secolo, così come certe pitture di Antibes, di Picasso, derivano i loro accordi di verde e di nero dalle stesse grotte. Una pittura antichissima, rigidamente tradizionalista e ferma ai suoi metodi e alle sue forme. Accanto ad essa, ancora largamente seguita da alcuni artisti di grido, che dipingono

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farfalle e salici piangenti, crisantemi e fiori di loto, è nata una pittura realista, nel senso moderno della parola di artisti che dipingono officine e alti forni, e i fatti della guerra di liberazione. Ma, se fra i primi si incontra un Yu Peon, che sembra un Matisse di ritorno, una specie di boomerang pitto­ rico con l’occidente, tra i secondi si trova una schiera di artisti originali e potenti, che non è giusto relegare tra gli epigoni della tradizione pompieristica ottocentesca, per il solo fatto che soggetto ed idea hanno un valore preminente nei loro quadri. Osmosi di idee, scambio di temi e di tecnica avvicinano queste forme apparentemente inconciliabili: non è soltanto l’uso dell’inchiostro su seta o dell’acquarello assorbente (espe­ rienze che sono state fatte con profitto dal nostro Treccani e dal pittore cileno Venturelli, nei loro viaggi in Cina) né solo l’uso dell’olio; bensì tutto un processo complicato, che tende alla creazione, più che non alla ricerca, di un proprio linguaggio pittorico nazionale, popolare e moderno in cui gli elementi della tradizione, cosi come quelli giunti dall’esterno possono aver posto e convivere: perché solo in parte nascono le nuove forme dalle antiche, e piuttosto derivano da nuovi temi e da nuovi significati, che schiantano i canoni cristal­ lizzati della tradizione, non meno che gli accatti dell’occidente, a costituire il nuovo, più duttile, più pregnante e più vivo linguaggio espressivo. Questo divario immenso si osserva nel teatro, che non meno della pittura ha conservato la sua struttura tradizionale: i suoi antichi testi, iscenati allo stesso modo, recitati allo stesso modo, commentati dalla stessa musica. Il teatro Opera di Pechino e la ricca varietà dei teatri provinciali, replicano oggi la bella e patetica leggenda del serpente bianco o il padi­ glione rosso, cosi come erano rappresentati secoli addietro. Il saggio, che di quel teatro si è avuto l’anno scorso in diverse città d’Italia, ha conquistato l’ammirazione di tutti i pubblici. Spiegazioni parziali e interpretazioni affrettate han­ no caratterizzato il giudizio della critica. Che ha avvertito che nel teatro cinese ci sono compagnie di soli uomini, o

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di sole donne, o miste; che l’attore Mei Lan Fan, più che ottantenne, interpreta ancora oggi parti di giovinetta; che esiste una serie di metafore ottiche, trasformate oggi in sim­ boli, dalla significazione precisa e trasparente per tutto il pubblico, che l’arte consiste nell’applicazione di rigide norme, che la musica non ha tanto funzione di accompagnamento o di creatrice di atmosfere quanto di elemento drammatico a sé, che costumi e truccature stabiliscono una precisa gerar­ chia tra i personaggi, secondo una simbolica cromatica e formale che non può esser trasgredita, con schematiche suddivisioni in buoni e cattivi. E cosi via, con più o meno rigore ed esattezza. Il pubblico ha preso tutto ciò come un superiore spetta­ colo di varietà, del quale si sa che le profonde significazioni non sono comprensibili se non con un preliminare apprendi­ mento di numerose nozioni e il cui apprezzamento pieno non è possibile se non previo assorbimento di tutta la millenaria cultura cinese. Il suo appagamento e il suo entusiasmo son nati dall’alta qualità dell’esecuzione, come di un prezioso artigianato. In Cina no. In Cina questa tradizione teatrale è sottoposta al vaglio delle idee nuove: e, in base a queste, statuisce valore e disvalore degli spettacoli; per esempio, come scrive Cheu Yang (vice ministro della cultura): c’è nel teatro cinese una « differenza profonda nell’attitudine dei personaggi di fronte al ’’destino”: i racconti delle fate popolari evocano spesso la lotta inflessibile del popolo contro il destino, e si compiac­ ciono di immaginarla come una lotta vittoriosa ». Viceversa « la superstizione diffonde l’idea del fatalismo e del giusto castigo, inculcando al popolo la credenza che tutto sia pre­ determinato dal destino al quale gli uomini non hanno che sottoporsi ». E lo stesso ministro, contrario al « rigetto im­ mediato e a trasformazioni arbitrarie » del teatro tradizionale, illustra la tendenza « a creare una nuova arte teatrale popolare mediante un ragionevole adattamento di ciò che aveva di meglio l’antica ». Che il cinema sia « la più importante delle arti » è vero

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in genere e ovunque. Ma in Cina è vero, ed anche evidente­ mente vero; giacché la mancanza nel film di antiche tradi­ zioni, la sua particolare attitudine a un fedele rispecchiamento della realtà, la sua immediata comprensibilità e la sua conse­ guente popolarità enorme ne fanno, senza dubbio, la forma d’arte che può in Cina assolvere compiti di primaria impor­ tanza. Quanto più spedito e rapido sarà il cammino del cine­ ma cinese, tanto più rapido e spedito sarà il processo per cui le altre arti riusciranno a rompere il bozzolo serico della tradizione che ancora le invischia per procedere a forme nuove e più pienamente rispondenti alle esigenze dei tempi nuovi. Gli esordi sono stati eccellenti: a mio avviso, incompara­ bilmente più alti che non i prodotti della cinematografìa giap­ ponese, tanto più anziana e organizzativamente solida. Il film cinese ha già una sua forma originale; alla quale ha dato certo un contributo fortissimo la cinematografia sovietica; ma queste influenze non sono state che uno stimolo al ritrovamento di modi espressivi consentanei e propri. Come si può vedere ad esempio ne Le ragazze della Cina, dove i ricordi fortissimi, soprattutto di Capaev, sono assorbiti in un racconto soffuso di grazia delicata, anche nei momenti più drammatici, dell’episodio di guerra partigiana che ne costituisce il soggetto. Mentre i Soldati d'acciaio hanno una asciuttezza e secchezza di racconto che rasenta a volte la crudezza naturalistica, l’epica narrazione de La bandiera rossa sulla collina è piena di una grave solennità popolare. Film che debbono esser visti in Europa, e in Italia; e che faciliteranno la comprensione di uno dei più grandi avve­ nimenti della storia mondiale: la liberazione della Cina.

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Dialogo sulla censura *

Cineasta e Critico in piedi nel romano caffè Canova, af­ follatissimo. Continuano ad affluire nuovi avventori che si accalcano davanti alla cassa, allo spaccio dei tabacchi, al ban­ cone delle mescite, obbligando i due a continui piccoli sposta­ menti che, per altro, non sembrano disturbare affatto la loro conversazione. Critico: Ho visto ricomparire certi sciacalli, che era un pezzo non si vedevano più da certe parti. Credo che il loro fiuto sensibile avverta puzzo di cadavere...

Cineasta. Io non me ne accorgo perché, finora, fortunata­ mente, ho sempre lavorato. E tu ci credi veramente a questa crisi del cinema? All’assemblea degli esercenti si è parlato di situazione soddisfacente... Critico. Sicuro. Ma il Corriere dello spettacolo, che è l’or­ gano degli esercenti, dedica un suo articolo di fondo proprio alla crisi. Ma che siamo ciechi? La crisi è in atto e gravissima: la legge è scaduta e non si sa quanto tempo dovrà passare perché se ne abbia una nuova, grosse case di produzione e di noleggio sono in difficoltà o hanno addirittura cessato di esi­ stere, la produzione si contrae e il fermo già si avverte, la qualità dei nostri film precipita sempre più in basso e, fatto * L’Unità, 8 marzo 1956.

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grave, ma giusto e inevitabile, il pubblico deserta le sale che li proiettano... Cineasta. Ma se i film che si fanno da noi sono ormai uni* camente di cassetta, non si preoccupano che di piacere al pubblico? Critico. Proprio per questo. Credendo di andare incontro alle esigenze del pubblico, la produzione scende, in gara preci­ pitosa, sempre più in basso. E il governo, che non sa dare lavoro, cioè pane, a tutti i cittadini, è felice di potergli almeno offrire i circenses di vari bozzetti cinematografici a sfondo conformisticamente ottimistico e ne favorisce con ogni mezzo la produzione. Ma il pubblico è migliore di quanto non si dica, si stanca presto dell’imbecillità, che all’inizio sembrava diver­ tirlo, e ripaga con altrettanto disprezzo coloro che mostrano di disprezzarlo tanto. La primavera si avvicina e alla noia di uno stupido film è preferibile la passeggiata con la ragazza. I produttori se ne stanno accorgendo. Il governo se ne accor­ gerà, speriamo, alle elezioni.

Cineasta. Ecco la politica che guasta tutto. L’opposizione boicotta la legge. E, se la legge non passa, ci troveremo tutti seduti per terra... Critico. La opposizione non boicotta affatto la legge. Chie­ de anzi: subito una buona legge. Tenta cioè di trasformare, questa che minaccia di diventare una crisi mortale, in una crisi di crescenza, in una salutare febbre ere sciar ella... Cineasta. Storie. Se non abbiamo altri moccoli, credo che non ci resti che sperare nel Totocalcio.

Critico. È un’idea. C’è un manuale che insegna: Come si vince al Totocalcio.

Cineasta. Mi pare che l’ho visto in una vetrina: si chiama il Dialogo dei massimi sistemi. Critico. No, non è quello. (Sorride) L’opposizione dunque 712

vuole non una legge qualunque, per il cinema, ma una buona legge. La legge del 1949, che è scaduta in dicembre, non era una buona legge: era la legge fascista di Alfieri. Cineasta. Ma se i fascisti hanno costruito un ponte, non perché erano fascisti bisogna buttarlo giù. Critico. Certo. Ma quella era una pessima legge. Una leg­ ge che, con dispendio enorme di denaro dei contribuenti (10 miliardi all’anno) favoriva il peggior film: premiava il film in proporzione inversa alla qualità. Una volta io l’ho chiamata la legge di Gresham.

Cineasta. ? ?

Critico. La legge per cui la moneta cattiva caccia la buona. Se si dovessero dare premi alla stampa periodica allo stesso modo si attribuirebbero milioni alle riviste tipo Bolero o Grand Hotel e centesimi alle riviste di cultura. Cineasta. Intanto la gente lavora e mangia. Vuol dire che si cercherà, quei miliardi, di spenderli meglio.

Critico. Ma è questo che non si può. Catene ha avuto centinaia di milioni di premio e La terra trema cinque o sei... Cineasta. Quello che importa è che ci sia lavoro: e la legge segnerà una immediata ripresa.

Critico. È un ragionamento miope e sbagliato. Una volta fu un filosofo, il maggior mandarino della cultura italiana, che ne fece uno simile. Sei in buona compagnia. « Per evitare il ritorno del fascismo — egli diceva — si deve ritornare alle condizioni di prima del fascismo »; cioè per evitare un ritorno del fascismo bisogna tornare alle condizioni che lo hanno fatto nascere. Cineasta. Tu sei fissato col fascismo, che qui non c’enira niente.

Critico. Ma è lo stesso. Tu dici: per risolvere la crisi 713

bisogna tornare alla legge che l’ha provocata. Se mi dai per dato che la crisi dipende dalla decadenza della qualità, bisogna difendere il film italiano con una legge che non favorisca il film peggiore. Non dire « finché dura fa verdura ». Perché durerebbe poco e si è già visto. Non ti pare? (Pausa) Lo Stato potrebbe risparmiarsi i suoi dieci miliardi; e invece incas­ sarne, magari, altrettanti.

Cineasta. E come? Critico. Arginando il film americano che invade il nostro, come un mercato coloniale. Contingentamento alla frontiera, contingentamento allo schermo, aumento della tassa erariale ed esenzione, da essa, per il film italiano, tassazione del dop­ piaggio... ecco qualcuno dei sistemi che andrà studiato per tutelare la produzione italiana, per tutelare una degna produ­ zione, come quella che ha fatto la fama del nostro cinema nel primo dopoguerra. Cineasta. E la qualità come la garantisci?

Critico. L’aspetto economico e quello della censura sono inscindibili. La qualità dipende dalla censura. Perciò oggi il problema della libertà di espressione cinematografica è sen­ tito anche dai produttori. Questi dovranno orientarsi verso il minor costo dei film. E il minor costo, obbligando a rinun­ ciare alla spettacolosità dei supercolossi, dovrà orientare verso il buon contenuto, verso le idee... sempre invise alle censure. Cineasta. Ma se non si è mai visto in Italia un film vietato!

Critico. All'Ovest niente di nuovo, oggi permesso, ha aspettato questo permesso un quarto di secolo. E per la pro­ duzione nazionale ciò avviene perché c’è un sistema di cen­ sure che è come quello delle scatolette una dentro l’altra: censura preventiva, autocensura dei produttori intimiditi, cen­ sura del credito, che non viene accordato senza un visto preventivo, censura del Centro cattolico, censura dei pro­ duttori, censura vera e propria... A parte tutto questo, c’è

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poi il modo con cui tutto l’apparato funziona. Non sarebbe male custodire un poco i custodi. Il regista Giannini, in una riunione di autori e critici, ha denunciato il fatto che un suo soggetto presentato da un produttore è stato sconsigliato, mentre è stato poi approvato quando è stato un altro produt­ tore a presentarlo... Cineasta. Ma una buona censura... Critico. Una buona censura non esiste. Buona e censura sono termini contraddittori: come ladro gentiluomo. Cioè: a rigore, la censura dovrebbe essere abolita. L’argomento della suggestività del film è specioso. Oggi l’umanità, ovunque, è abituata a vedere i film e sa difendersi dalla loro suggesti­ vità. Una simile suggestività si attribuiva una volta alla stampa. Ciò che era stampato era creduto come vero. « Vero come un libro stampato. » Oggi il pubblico crede più a quanto sente dire che a quanto legge. E, nel linguaggio comu­ ne, dire « è un cinematografo! » significa dire: è una cosa assurda... Si deve ottenere, almeno, una meno arbitraria cen­ sura. Se poi la censura dovesse aspettare di essere regola­ mentata colla legge per la pubblica sicurezza la cosa andrebbe alle calende greche. La legge per la pubblica sicurezza è sul tappeto da sei anni... Cineasta. Allora, non ci resta proprio che il Totocalcio? Critico. Niente affatto. Bisogna non farsi intimidire, né ricattare, bisogna spiegare, persuadere, protestare, lottare, or­ ganizzare la protesta, la lotta...

Cineasta. È una parola!... Critico. Si. Una parola d’ordine. Subito una buona legge. Una parola d’ordine, che è la sola giusta e la sola, quindi, che può e deve portare alla vittoria: ad una produzione mo­ ralmente, socialmente e artisticamente degna.

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Ricordo di Vergano *

Conobbi Aldo Vergano nella cerchia di Alessandro Blasetti, nel tempo in cui questi, intorno al 1928, si prodigava a riportare in vita la cinematografia italiana, allora praticamente inesistente, battagliando e giovanilmente donchisciot­ teggiando su certi giornali che egli lanciava a ripetizione: Lo schermo, Lo spettacolo d’Italia, Cinematografo. A quei gior­ naletti io collaborai con qualche assiduità, anche dopo che un mio scritto fruttò il sequestro di un numero di Cinemato­ grafo. Tra quei giovani, che propugnavano la rinascita del film italiano, si avvicinarono e si legarono piu strettamente quelli che erano dichiaratamente antifascisti: Libero Solatoli, Mario Serandrei ed io — e, naturalmente, Aldo Vergano, seb­ bene di un decennio più anziano, che aveva fatto le sue bat­ taglie giornalistiche contro il regime, sul quotidiano II Popolo e che aveva denunciato alla magistratura uno dei quadrumviri della marcia su Roma, il generale De Bono, per Tassassimo del deputato socialista Matteotti. Vergano fu, per il primo film di Blasetti, Sole, una specie di factotum; autore del soggetto e della sceneggiatura, con­ sigliere per il riattamento dello stabilimento da ripresa, con­ sulente per l’organizzazione della produzione, che fu affidata a Libero Solatoli, collaboratore per la scenografia e non si sa che altro ancora. Il film si svolgeva in palude, era girato in * L'Unità, 27 settembre 1957.

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gran parte in esterno e i protagonisti erano attori non pro­ fessionisti. L'influenza della cinematografia sovietica, per quanto indiretta, vi traspare chiaramente, come chiare sono le prime maniere di quello che sarà poi il neo-realismo italiano. Qualche anno dopo io lavorai alla sceneggiatura di un soggetto di Vergano, Estuario, che, data la situazione politica di allora, non potè esser realizzato e fui ancora accanto a Ver­ gano, quando egli fu direttore di produzione del film Seconda B, che fu realizzato, su mio soggetto, colla regia di Goffredo Alessandrini. Il film fu presentato a Venezia alla mostra, che allora si chiamava Biennale del cinema, ed ebbe un premio. Per molto tempo ci incontrammo solo saltuariamente: Vergano dirigeva, di tanto in tanto, qualche film, tra i quali si possono ricordare Pietro Micca e Quelli della montagna: alla fine della seconda guerra mondiale, egli realizzò la sua opera migliore, l’eccellente II sole sorge ancora, che doveva immediatamente tanto piacere a Béla Balàzs. Un lungo sodalizio, con Vergano, io potei averlo solo a Lodz, in Polonia, dove lavorammo per circa un anno (tra il 1948 e il 1949), lui alla realizzazione, assieme a Tadeusz Kanski, del film 11 passo del diavolo, io alla Scuola di cinema­ tografia. La nostra antica amicizia si fece più stretta e pro­ fonda nella Manchester polacca, dove fummo anche vicini di camera e compagni di mensa in albergo, finché io non mi sposai, avendo Vergano come testimone alle nozze. Collaborammo alla sceneggiatura del Passo del diavolo e ci recavamo assieme, di mattina presto, a casa di Kanski. Vergano era sempre puntualissimo, elegante, nei suoi completi di taglio italiano, uno dei quali di morbidissima stoffa prin­ cipe di Galles; era sempre accuratamente rasato (aveva una serie di salviettine di carta per asciugare il rasoio, un quinternetto di cartasuga per pulire la lametta gillette senza rischiare di tagliare l’asciugamani, una crema dopo-barba e un gran fla­ cone di acqua di Colonia); non si dimenticava mai di pren­ dere con sé uno sciagurato manualetto di conversazione po­ lacca, a provare a servirsi del quale c’era da andare incontro alle più stupefacenti sorprese. Lavoravamo nello studio dell’ap-

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parlamento di Kanski, in via Sienkiewicz: era sgombro con un bel tavolone di noce, un cassettone nuziale contadinesco, intagliato e molto bello, una radio e, alle pareti, un fucile da caccia e qualche piccolo altorilievo a colori, di quelli fatti coi vecchi stampi del pane e che raffiguravano il re Krakus, la bella Wanda e il dragone. Kanski era alto, col viso segnato da rughe profonde, in­ telligente e pieno di espressività. Era stato anche attore e, prima della guerra, aveva studiato a Torino (dove era stato compagno di scuola di Sergio Amidei, uno degli sceneggia­ tori di Roma città aperta), aveva fatto parte di gruppi alpi­ nistici studenteschi e ricordava molto volentieri di aver sca­ lato il Cervino. Io gli ero molto riconoscente per avermi chia­ mato a lavorare alla scuola di Lodz e apprezzavo molto la sua vivida intelligenza, la sua sana spregiudicatezza e il suo umore cordiale ed arguto. Il lavoro alla sceneggiatura fu contrassegnato da una con­ tinua polemica. Vergano ed io sostenevamo il metodo di lavoro che, al Centro sperimentale di Roma, avevamo chia­ mato della « scaletta » e che, come è noto, dà la massima importanza alla struttura compositiva del film, lasciando mol­ ti particolari alle fasi successive del lavoro e alla collabora­ zione, soprattutto degli attori. Kanski trovava questo meto­ do troppo meccanico e tendeva a seguire l’ispirazione, scri­ vendo la sceneggiatura come un romanzo. Io ero in veste di consulente: dicevo la mia e poi andavo alla finestra a guardare i giochi, in uno squallido giardinetto (era inverno) dei bimbetti di un asilo. Intanto Vergano, terribilmente impulsivo, si arrabbiava, alzava la voce, mi­ nacciava di piantar in asso il lavoro, strillava. Kanski, che non era un temperamento remissivo, né troppo facile nean­ che lui, gli teneva testa gagliardamente. Più volte io dovetti gettare acqua su quel fuoco, e più volte mi trovai nella poco comoda posizione di uno Stato cuscinetto tra due potenze nemiche. Gli strilli erano tali, a volte, che la signora Kanski accorreva spaventata e rimaneva di stucco quando noi le di­ cevamo che stavamo lavorando e che il lavoro procedeva

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benissimo, in discordia concors. Ci portava un caffè satanico, come si dice in Polonia intendendo fortissimo, e allibiva a sentirlo qualificare, anche da suo marito, di broda o di ci­ coria. In questa fase la discussione arrivò all’apice un giorno che ci vedemmo capitare l’aiuto-regista del film, Kawalerowicz (ora uno dei migliori tra i giovani registi polacchi) con sottobraccio un volumone, grosso come un’enciclopedia, che non era altro che la sceneggiatura, annotata di mille parti­ colari e col disegno di tutte le inquadrature, ognuna delle quali occupava una o più pagine. Le riprese procedettero più speditamente, e con più calma. Tanto Vergano che Kanski avevano il dono prezioso di farsi voler bene dai loro collaboratori, specialmente dagli operai, dai macchinisti, dagli elettricisti; e si sa quanto ciò sia impor­ tante per il successo di un film. Le polemiche, naturalmente, non erano del tutto finite. Esse si riaccesero per gli attori che erano tutti troppo teatrali per Vergano, che fece prevalere la tesi di scegliere un protagonista non-professionista. Ma il lavoro con gli attori non era il forte di Vergano e, in questa parte, il film si giovò vantaggiosamente dell’esperienza di re­ citazione del Kanski. Vergano aveva però una maggior espe­ rienza cinematografica e stava benissimo con l’occhio incol­ lato al viser della macchina da presa, assieme al bravo ope­ ratore Forbert. Amanti entrambi della montagna (Vergano era stato uffi­ ciale degli alpini), i due registi si trovavano, a Zachopane, come a casa loro e sfoggiavano a gara bellissime attrezzature: giacche a vento, scarponi, corde e piccozze. Dirigevano con molta autorevolezza le masse, e se ne vedono i risultati nelle bellissime scene del mercato. In genere il film II passo del diavolo, che ha avuto un buon successo di pubblico, è pia­ ciuto per le scene di montagna, che sono di fatto, tutte as­ sai belle, anche se qualcuna è un po’ troppo insistita. Ero da poco tornato in Italia e leggevo II faraone di BoIcslaw Prus, per ricavarne una scaletta, che mi era stata chie­ 719

sta dal Kanski; quando mi giunse, inattesa e dolorosa, la no­ tizia della sua morte immatura. Ora è morto anche Vergano, dopo un triste periodo di sco­ ramento di delusione e di isolamento, dal quale io avevo tentato invano di trarlo fuori. E Kanski e Vergano sono per me legati indissolubilmente in un ricordo affettuoso, fat­ to di profondo rimpianto. Due personalità diverse, ma vicine per la tenacia, il fervore e la combattività con cui si sono adoperate a impiegare la grande arte del film per la causa della libertà e del progresso.

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Come interpretare Chariot. « Un re a New York » *

È certamente un bizzarro paradosso che un grande arti­ sta di cinema come Charlie Chaplin (per qualcuno il più grande e, per altri, addirittura, e con palese esagerazione, il solo) abbia fatto costantemente film che la critica più ac­ corta ha definito anticinematografici. Paradosso che, indub­ biamente, meraviglia soltanto coloro che fantasticano la real­ tà, la verità e l’arte come eternamente congruenti ed immo­ bili, e non chi ne abbia un più adulto e concreto concetto. Ma paradosso anche sul quale non è male riflettere e sul quale sembra opportuno un generale ripensamento, tanto più ur­ gente oggi, che la presentazione di Un re a New York colla sua sorprendente novità ha generato cosi contraddittorie va­ lutazioni, nella critica e nel pubblico. Credo che un primo punto sia da affermare, e che possa essere affermato senza troppi dissensi: Un re a New York, pur non essendo un modello di cinema cinematografico, ad un attento esame appare l’opera che, più di ogni altra pre­ cedente dello stesso autore, si vale dei mezzi espressivi tipici del film. I precedenti film di Charlie Chaplin risultavano antici­ nematografici perché concepiti, in un certo senso, come ope­ re letterarie. Anzitutto: mentre il film è, per sua natura, una creazione collettiva, questi film erano tutti di un solo autore, * Rinascila, a. XIV, n. 10-11, ottobre-novembre 1957.

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che tentava sempre di piegare alle proprie esigenze espressi­ ve e, in definitiva, a ridurre a materiale grezzo da elaborare ogni apporto collaborativo, anche quelli più importanti nor­ malmente, degli altri attori e dell’operatore. Questi film era­ no stati, all’inizio, poco più che la riproduzione su pellicola di un numero da circo equestre o da music hall; numeri che poi si sono moltiplicati attorno ad un più ampio racconto, nel quale tuttavia rimanevano quasi fine a sé stessi, senza un nesso necessario e significante con tutta l’opera. Quasi a con­ validare la teoria, formulata in un dato momento da un altro grande individualista, Ejzenstejn, del film come montaggio di attrazioni. E questo fino alle opere più recenti di Chaplin; si pensi, ad esempio, alla spassosissima pantomima filmata di « Io cerco la Titina » in Tempi Moderni, allo stupendo duetto buffo, con Buster Keaton, in Luci alla ribalta e, persino in Un re a New York, allo spettacolo comico coi secchi di calce. Un montaggio che non raggiunge unità. Si potrebbe quasi credere che questo modo di raccontare frantumato e frammen­ tario, immediatamente dipendente, come è ovvio, dalle ere­ dità del circo equestre e dai procedimenti dell’allegro gruppo di Mack Sennett, fosse coonestato esteticamente colla teoria del « principio poetico » di Edgar Poe che, come tutti sanno, tende a fissare, con rigore quasi matematico, la lunghezza dei componimenti poetici e ne postula la necessaria brevità, pro­ porzionandola alla durata possibile dell’ispirazione. E poi: fotografia a luce diffusa e di chiara, generale evi­ denza; una fotografia che fu detta, con discreta approssima­ zione, quasi da documentario, e, insomma, rinunziante deli­ beratamente a tutti gli effetti espressivi e ridotta al modesto ufficio di cornice o di indispensabile supporto; macchina da presa costantemente a piombo, con analoga rinunzia agli ef­ fetti di particolari angolazioni; cioè a dire frequente e quasi continuo uso del campo totale, ossia della visuale che più si approssima a quella del palcoscenico in teatro; con l’impegno dell’attore, e non della macchina da presa, di dar rilievo a ciò su cui si debba concentrare l’attenzione dello spettatore, co­

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me in teatro; parco, sebbene efficacissimo, e relativamente tardo, anche Fuso dei primi piani-, e si potrebbe continuare a lungo nell’elencazione, che però a questo punto si può, ov­ viamente, concludere col rilievo della caratteristica che som­ ma e compendia tutte le altre: scarso impiego del montaggio, sia narrativo che analitico. Queste osservazioni non sono tutte o del tutto nuove. Ma la constatazione di queste particolarità tecniche di Chaplin non è stata ancora completata da un’approfondita ricerca delle loro cause; che, tutt’a-1 piu, sono state indicate in ra­ gioni, valide certamente, ma incomplete, in quanto solo occa­ sionali ed esterne (la già ricordata sopravvivenza dei procedi­ menti del circo equestre) o solo psicologiche (il temperamen­ to individualista dell’autore). La causa piu vera delle caratte­ ristiche tecnico-espressive di Chaplin, ed anche della sua forma artistica (che non può, bene inteso, farsi consistere nella somma aritmetica dei suoi procedimenti tecnici partico­ lari), può essere individuata solo da un più moderno concetto dell’arte, da una estetica modernamente razionalistica e dalla critica che ne discende; che non s’appagano dell’esistenza, nel­ le opere, e della constatazione, dei valori esteriori della forma, ma che, dall’analisi della forma, sanno giungere a coglierne la vera matrice: il contenuto ideologico. La scarsa cinematograficità dell’opera di Chaplin origina dalla insufficienza della sua concezione del mondo che, gros­ so modo, può dirsi individualistica e anarchica; e dalla scarsa autocoscienza critica di essa, nell’autore. È dalla negatività di questa concezione e dalla limitatezza nell’autocoscienza di essa che dipende la debolezza strutturale (o, in altri termini, lo scarso impiego delle possibilità del montaggio) nelle opere di Chaplin. Giacché struttura implica razionalità e autoco­ scienza, cioè discorsività e, di conseguenza, anche praticità. E qui si può ricordare che Croce opponeva struttura a poesia, proprio per questo implicare razionalità della struttura, per questo implicare una razionalità irrisolta e cioè la manifesta­ zione di una categoria dello spirito distinta da quella del­ l’arte. Tra le molte, e insormontabili, difficoltà dell’estetica

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idealista al riconoscimento dell’artisticità del film, questa è certamente la capitale e ne denuncia, essa sola, l’inconsistenza e l’attuale inadeguatezza. Il richiamo a Poe e al suo « princi­ pio poetico » può essere interessante anche per ricordare che quella celebre conferenza è uno dei precedenti accertati del­ l’estetica crociana. E, come che sia, nell’opera di Chaplin, fino al 1936 di intonazione ideologica coerente, si può agevol­ mente constatare una costanza di modi espressivi, alcuni dei quali fuggevolmente indicati di sopra, la cui causa profonda è dunque da vedersi nel nichilismo di Chaplin. Il cui valore artistico è, naturalmente, tanto alto quanto tutti sanno, per quello che è l’aspetto positivo di questo suo nichilismo, la forza, se pur disperata (e questo è il limite) della sua ribel­ lione. La struttura compositiva, più o meno analoga in tutti i film di Chaplin, compreso il bellissimo Una donna di Parigi, del quale egli fu soltanto il regista, si altera profondamente, nel 1936 in Tempi moderni. È evidente che c’è stata in Chaplin una evoluzione profonda; uno sforzo di rinnovamento e di approfondimento dei propri concetti sulla realtà e sulla vita. È questo uno dei momenti fondamentali dell’evoluzione arti­ stica di Chaplin e andrebbe seriamente studiato anche su materiali biografici per meglio intenderlo. Per ora, o per me, non è possibile far altro che congetturarlo, sulla base, del resto essenziale, del film. Chaplin è insoddisfatto, stavolta, non solo del mondo, ma anche di se stesso: ha capito di es­ sere un anarchico disperato, la cui forza artistica sta tutta nella denuncia, realistica e drammaticissima, dell’ingiustizia del mondo; ora egli vorrebbe non più porre soltanto dei tra­ gici interrogativi che non possono avere risposta, vorrebbe credere, anzi, forse già sa, che una risposta può esserci, se gli interrogativi si pongono diversamente. Una risposta ci deve essere certamente, ci deve essere una via d’uscita dalle dolo­ rose contraddizioni e dalle tragiche atrocità della vita. Ormai anche lui è incline a vedere che le atrocità non sono delia vita, ma di certe forme di vita, cioè di una certa società. E proprio della società divisa in classi. Chaplin lo sa: proba-

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bi I men te qualcuno glielo ha detto, qualche cosa che succede nel mondo glielo ha confermato. La causa del fallimento fatale di tutti gli sforzi eroici del suo vagabondo Chariot, ormai è chiaro, non può essere solo una crudele legge di natura, la legge del più forte. E com’è questa società? È un ingranaggio maledetto che annienta l’individuo facendone un pezzo, cieco c irresponsabile, del proprio macchinismo; ogni slancio dell’in­ dividuo, ogni sua ribellione non porta questo « pezzo » che a trovarsi fuori posto; e la società deve respingerlo, perché esso costituisce allora, pur nella sua piccolezza, un turbamen­ to, una minaccia che può danneggiare, o addirittura paraliz­ zare l’intero organismo. (Si ricordino: le scene nell’officina, l’atroce macchina per mangiare e il gag stupendo per cui Chariot, operaio di un cantiere navale, prende distrattamen­ te un cuneo di legno e provoca addirittura il varo intempestivo di una nave.) Io posso anche immaginare, con straordinaria evidenza, le battute di risposta di Chaplin a certe argomentazioni e a certi suggerimenti. Ché, se fossero state voci solamente inter­ ne, avrebbero avuto nel film una maggiore coerenza. « Si, si. L’ho già detto. Il film finirà colla lunga strada del Circo; ma, stavolta, Chariot avrà con sé la sua compagna. E, se non vi basta, vi dirò di più. A un certo punto del film mi impegno a portarlo alla testa di una dimostrazione di disoccupati e sventolante una bandiera rossa. » Progresso enorme. Ma non artisticamente. E come questo è possibile? Perché le nuove idee non quagliavano colla sua personalità e col suo temperamento, risultante da tutta la sua storia. E il film, assieme alle punte, che sono tra le più alte di tutto il suo curricolo artistico, resta pieno di sconcertanti incongruenze, riflesso puntuale di un lacerante dissidio inte­ riore. Il montaggio, naturalmente, è meno felice che mai. La diretta immediata forza di persuasione delle singole scene di un tempo sembra scomparsa: il famoso finale e la scena del­ la bandiera rossa non prendono (o prendono, e profondissi­ mamente, solo come riflesso di questo commovente travaglio). A primo acchito sembravano quasi un trucco insincero: per­

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che la donna, che accompagna Chariot per l’interminabile strada, si stanca cosi presto? Perché si siede, si sventaglia i piedi doloranti, piange? Perché quel sorriso forzato, con cui riprende il cammino? L’impressione invincibile di tutti gli spettatori è: « Ecco due che non rimarranno a lungo insie­ me ». E lo sventolare alla testa di una dimostrazione di disoc­ cupati dell’invincibile bandiera rossa? Ma è la bandierina di un camion, caduta e raccolta da Chariot, che l’agita in aria solo per restituirla, così da provocare, senza volerlo e senza saperlo, l’accodarsi dietro a lui di un gruppo di dimostranti Analoghe discrepanze formali denunciano la stessa solo parziale comprensione dei tragici avvenimenti dell’ora, nel Dittatore (1940), che tuttavia si chiude con la nobile altezza del solenne finale. Che Chariot riesca a passare dall’indivi­ duale al monumentale? L’artista è scosso da una crisi profonda: il vecchio e il nuovo gli tenzonano dentro. Forse cambiare, capovolgere tutto? Ed appare Verdoux, dove il rovesciamento totale di tutte le situazioni chiave dei suoi primi film coincide colla espressione della stessa disperata ideologia, che sembrava stesse per essere ripudiata; così come invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. O forse allora tutto un sog­ getto, tutto un film ottimistico, dal principio alla fine, senza incertezze? Ma Luci della ribalta potè ingannare sola­ mente qualche distratto che, dall’esterno soggetto, ne lodò lo slancio vitale e la gioia di vivere che vi sarebbero espresse. Invece, dove l’antica disperazione non affiorava, il film si impiccioliva solo nella proposta di un illusorio e povero fi­ lantropismo. Un re a New York segna, infine, il superamento di questa crisi. La posizione di certa critica, nei confronti di quest’ulti­ mo film di Chaplin, è caratteristica e particolarmente inte­ ressante, per chi voglia capire gli sbandamenti di certe zone di intellettuali italiani, forse, come si dicono, assetati di liber­ tà, ma che, dilaniati da tormentose contraddizioni, la vanno cercando per quelle vie dove mai è possibile trovarla. Questo film, dice una certa critica, che voleva essere una condanna

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dantesca dell’America, non è che una dispettosa, pettegola