Michael Haneke: lo spazio bianco. Cinema, storia e immagini del presente 8857587940, 9788857587943

Michael Haneke è uno dei registi contemporanei che da più tempo riflette sulla recente storia dell’Europa. Da anni mette

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Italian Pages 186 [196] Year 2022

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Table of contents :
Circa l’autore
Frontespizio
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Indice
Dedica
Prefazione. di Pietro Bianchi
Introduzione
I. Violenza: Funny Games
II. Famiglia: Benny’s Video
III. Popolo: Happy End
IV. Storia: Il nastro bianco
V. Immagine: Caché
Bibliografia
Indice dei nomi
Storia e Storie del Mondo Contemporaneo
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Michael Haneke: lo spazio bianco. Cinema, storia e immagini del presente
 8857587940, 9788857587943

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Michael Haneke è uno dei registi contemporanei che da più tempo riflette sulla recente storia dell’Europa. Da anni mette al vaglio del proprio cinema molti dei nodi e delle istanze cruciali della storia e della cultura della società occidentale. I suoi film, molti dei quali premiatissimi ai festival e acclamati dalla critica, affrontano temi complessi e irrisolti che spaziano dalle origini culturali del Nazismo (Il nastro bianco, 2009), agli effetti delle politiche coloniali (Niente da nascondere, 2005) sino alla recente emergenza in materia di immigrazione (Happy End, 2017). Questo volume si addentra nell’analisi delle relazioni fra la rappresentazione non riconciliata, traumatica e ricca di istanze autoriali cui Haneke dà vita e gli interrogativi che emergono dalle grandi tematiche sociali e culturali su cui il suo cinema si concentra. Con l’obiettivo di mettere in luce la modernità e l’unicità di un autore che tratta le immagini come i segni, e le ferite, più evidenti della storia degli ultimi decenni. Lorenzo Rossi insegna Stili autoriali del cinema contemporaneo presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Le sue ricerche concernono prevalentemente, nell’ambito dei visual studies, il rapporto fra cinema, storia e arti figurative. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi su volumi e riviste di cultura visuale di ambito nazionale e internazionale. È redattore di Cineforum e ha lavorato per il Torino Film Festival e il Bergamo Film Meeting. Ha svolto inoltre l’attività di formatore di educazione all’immagine presso i ministeri della Cultura e dell’Istruzione.

MIMESIS/ STORIA E STORIE DEL MONDO CONTEMPORANEO n. 2 Collana diretta da Andrea Bellavita, Antonio Maria Orecchia, Katia Visconti Comitato Scientifico: Pietro Bianchi (University of Florida), Edoardo Bressan (Università degli Studi di Macerata), Catia Brilli (Università degli Studi dell’Insubria), Andrea Candela (Università degli Studi dell’Insubria), Gianni Canova (Libera Università di Lingue e Comunicazione – Iulm), Giuseppe Crosa (Università degli Studi dell’Insubria); Antonino De Francesco (Università degli Studi di Milano), Sandro Landi (Université Bordeaux-Montaigne), Fabio Minazzi (Università degli Studi dell’Insubria), Giuseppe Muti (Università degli Studi dell’Insubria), Pierre Serna (Université Paris 1 – Pantheon Sorbonne), Antonio Somaini (Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3), Ezio Vaccari (Università degli Studi dell’Insubria), Alberto Vianelli (Università degli Studi dell’Insubria) Mission della Collana: Il mondo di oggi è comprensibile solo con un dialogo aperto e paritetico tra discipline diverse e il continuo confronto con le molteplici forme di narrazione che contribuiscono a informare l’opinione pubblica. Superando la rigida divisione dei saperi, la Collana Storia e Storie del Mondo Contemporaneo – che trae spunto dall’omonimo Corso di Laurea dell’Università degli Studi dell’Insubria – si propone di indagare, con un approccio multidisciplinare e interdisciplinare, gli eventi e le dinamiche che definiscono la nostra quotidianità e costruiscono il nostro presente. I volumi, aperti anche alle ricerche di giovani studiosi, intendono offrire un contributo alla riflessione critica attraverso un dialogo virtuoso tra storia e storiografia, interpretazioni filosofiche e delle applicazioni scientifiche e studio comparato delle forme, dei linguaggi e delle strategie dell’industria culturale, dal cinema alla televisione, dalla musica all’editoria, dalle visual arts all’ambiente digitale. Tutti i volumi della collana sono sottoposti alla valutazione preventiva di referees anonimi.

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Storia e Storie del Mondo Contemporaneo, n. 2 Isbn: 9788857591483 © 2022 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

INDICE

PREFAZIONE di Pietro Bianchi INTRODUZIONE I. VIOLENZA: FUNNY GAMES II. FAMIGLIA: BENNY’S VIDEO III. POPOLO: HAPPY END IV. STORIA: IL NASTRO BIANCO V. IMMAGINE: CACHÉ BIBLIOGRAFIA INDICE DEI NOMI

Tranne dove espressamente indicato, le traduzioni delle citazioni sono a cura dell’autore

A mio papà

PIETRO BIANCHI PREFAZIONE. LA STORIA E LA SUA IMMAGINE

Lo notò già Sigmund Freud: uno dei fantasmi inconsci più comuni è quello di immaginarsi di stare in un mondo dove è possibile guardare sé stessi dall’esterno. Come avviene in quei sogni dove il soggetto sognante diventa parte dell’immagine stessa del sogno: dove il proprio sé si stacca dallo sguardo e diventa un oggetto. Non è banale: l’idea di fondo di questa esperienza assolutamente comune è che sia possibile diventare un puro sguardo totalmente disincarnato. Che il proprio corpo non sia più attaccato alla propria esperienza di visione. In effetti al cinema facciamo esperienza di qualcosa di molto simile: perché vediamo un mondo senza doverne farne parte; perché oggettiviamo ciò che guardiamo là sullo schermo, riuscendolo a “staccare” completamente dallo spazio dove stiamo noi. È per quello che nella sala cinematografica si sta al buio: per fingere che il nostro sguardo non appartenga più a nessun corpo. O che, per meglio dire, il nostro corpo non faccia più parte del mondo. Guardare senza essere guardati. Guardare il proprio oggetto, senza che lui sappia che noi esistiamo. Non si tratta di voyeurismo, come spesso si dice, dato che il voyeurismo non erotizza il fatto di guardare senza essere guardati, ma semmai erotizza il buco della serratura (e semmai gode della possibilità di essere sorpresi a guardare dal buco della serratura). Si tratta di rimanere sulla soglia del mondo: vedere quello che succede senza doverne essere responsabili; guardare senza che nessuno sappia della nostra presenza. Essere al mondo senza che nessuno lo sappia. In un certo

senso è un fantasma di diventare invisibili. Forse persino di essere nella posizione di Dio. È per questo che il cinema ha sempre intrattenuto un rapporto complesso con la colpa e la responsabilità dello sguardo. È un tema che troviamo in Hitchcock, Welles, Lang, Bresson, Bergman e chissà quanti altri. Non è forse rimanere sulla soglia a guardare le vicende umane – illudendosi di non esserne parte – un modo per rigettare la nostra implicazione verso il mondo? E non è viceversa un principio affatto materialista quello di dire che lo sguardo invece non può mai rifiutarsi di essere dentro le cose? Che il nostro sguardo è sempre attaccato a un corpo e che questo è dentro al mondo che stiamo vedendo? Bisognerebbe prendere seriamente – come giustamente ci invita a fare Lorenzo Rossi in questo libro – quello che Michael Haneke dice a proposito della propria opera: “il tema della colpa è presente in tutti i miei film”. A partire da quello sguardo in camera con cui finisce Funny Games o dai brevi momenti di sfondamento della quarta parete che vediamo in quel film e che ridefiniscono lo spazio delle sevizie e torture, includendovi i sentimenti di repulsione, disagio, intollerabilità ma anche di morbosa curiosità che tengono incollato lo sguardo dello spettatore sullo schermo. E non si tratta, nel caso di Haneke, di un gesto formalista o meta-cinematografico – che magari riesca a stemperare l’angoscia della vicenda nel gioco linguistico di superficie – dato che avviene solo in pochi punti di Funny Games in modo quasi subliminale. E la stessa cosa avviene nella sequenza del video del suicidio di Majid in Caché o nelle immagini delle videocamere di sorveglianza o in quelle dei telefoni cellulari all’inizio di Happy End: chi è il soggetto che guarda? Chi è il responsabile di quelle immagini? Qual è il corpo che occupa quello sguardo? Il problema del soggetto dell’immagine e quello della colpa e della responsabilità sono per questo due facce della stessa medaglia, in un mondo dove le immagini e i soggetti, dove le responsabilità e le colpe hanno rotto il loro legame naturale. Il mondo di Haneke è infatti quello dell’immagine digitale,

diffusa, che per certi versi ha allontanato ancora di più il soggetto dal proprio sguardo: un mondo dell’immagine senza soggetto, immanente, e quindi un mondo dove colpe e responsabilità diventano sempre più opache, o meglio “annacquate” o “sbiancate”, come viene detto nel capitolo su Il nastro bianco, e dove Lorenzo Rossi giustamente insiste sull’ambiguità del bianco della purezza che si trasforma in un bianco dell’indistinzione e della copertura delle responsabilità. E in effetti, nonostante il regime dell’immagine digitale sembrerebbe essere pervasiva e onnipresente (come testimonia la proliferazione di immagini video che si vedono in Caché o in Happy End) il campo visivo dei film di Haneke non manca mai di un punto cieco, e quindi rimane sempre in-totalizzabile e incomprensibile. E non si tratta solo del punto di vista del soggetto dello sguardo delle videocassette di Caché (forse il film contemporaneo per eccellenza che eleva il problema della dimensione non-tutta del campo visivo, per usare una formula cara a Jacques Lacan, a questione teorica e strutturale1) ma anche quello delle violenze di Funny Games, così come di Happy End. Ma forse, in maniera ancora più emblematica riguarda i crimini de Il nastro bianco, che rimangono sempre fuori campo, senza responsabilità, e che non hanno mai nemmeno il contro-campo dell’immagine del soggetto colpevole (cosa che invece esisteva ancora in Funny Games, dove lo sguardo enigmatico, inquietante e privo di emozioni di Arno Frisch faceva comunque da contrappunto ai crimini che rimanevano fuori-campo). In questo senso nell’universo visivo di Haneke le colpe e le responsabilità finiscono sempre per dissimularsi e auto-cancellarsi: le macchie vengono letteralmente “sbiancante” e lasciano semplicemente un’assenza o una traccia invisibile, di cui il film stesso si farebbe testimonianza. In questo senso è fondamentale ricordare qual è il periodo storico in cui il cinema di Haneke inizia a prendere forma. È questo forse l’elemento più originale del libro di Lorenzo Rossi e il contributo più rilevante che offre agli studi e alla letteratura sul regista austriaco. Perché se è vero che il cinema

di Haneke è un cinema che riflette sulla natura non-tutta e strutturalmente opaca del campo visivo contemporaneo nell’epoca dell’immagine digitale diffusa, e sul problema della rottura del nesso tra responsabilità/colpa e soggetto dello sguardo, è vero che questa problematica non acquisisce mai nel suo cinema una declinazione puramente formale o astrattamente teoreticista. Il suo cinema è sempre calato dentro una riflessione determinata storicamente. Basterebbe vedere come nel primo capitolo di questo libro Lorenzo Rossi riflette sul contesto storico in cui nasce la vicenda di Funny Games. Siamo nella seconda metà degli anni Novanta, negli ultimi anni del cancellierato di Helmut Kohl, e appena prima dell’inizio di quello di Gerhard Schröder. Siamo cioè pochi anni dopo la caduta dei regimi del socialismo reale, la riunificazione tedesca e la fine dell’Unione Sovietica, in cui sembra essere definitivamente tramontata ogni alternativa realizzata al capitalismo globalizzato. Nel 1992 esce The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama che popolarizza la tesi della “fine della storia” e a distanza di poco tempo Bill Clinton, Tony Blair, Romano Prodi e lo stesso Gerhard Schröder danno inizio a governi di centro-sinistra che sembrano definitivamente abbracciare, quanto meno in economia, i principi della destra neoliberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Sembra insomma che la politica non sia più attraversata dai conflitti sociali di due decenni prima, o da divisioni ideologiche fondamentali e che il problema capitale sia quello dell’efficienza e della buona amministrazione. Sono anche anni dove i paesi occidentali hanno un boom economico senza precedenti e dove sembra che le loro società possano prosperare senza che vi sia più alcun ostacolo interno e senza che alcuna grande questione sociale possa dividerle al loro interno. In questo panorama, dove appunto sembra che la Storia abbia per sempre abbandonato la lettera maiuscola, Haneke interviene con dei film che mostrano invece sempre un principio di divisione interno: non solo Benny’s Video, che inaugura il grande tema dei conflitti inter-familiari hanekeiani (mai annacquati dalle derive sociologizzanti del conflitto tra generazioni) ma anche e soprattutto Funny Games, con

quell’hitchcockiano (o lynchiano, come ricorda Rossi) insinuarsi di un elemento estraneo e perturbante all’interno delle coordinate più confortevoli della vita borghese. In questo senso è proprio la crisi del confine tra spazio pubblico e spazio privato, tra familiarità ed estraneità, tra noto e ignoto, che espone il momento storico al proprio elemento rimosso e denegato. Ma qual è questo elemento che gli anni Novanta (e poi gli anni Zero e i Dieci) hanno voluto reprimere? Da dove vengono i conflitti che squarciano la Storia, la famiglia, il campo visivo e il regime dell’immagine? Haneke non si lascia mai andare a facili risposte in questo senso: ogni discorso sulla disgregazione dei legami familiari, sul declino della società occidentale, sul confine tra realtà e immagine non assume mai i toni della causalità semplice. Non c’è ragione per cui il figlio di Benny’s Video faccia arrestare i genitori, così come non c’è ragione per cui Paul e Peter si mettano a torturare una normalissima famiglia borghese. Non sapremo mai perché i ragazzi de Il nastro bianco inizino a commettere quei crimini o da dove vengano le videocassette di Caché. C’è una non consequenzialità nei nessi causali del mondo di Haneke che parla innanzitutto di un’opacità di fondo, e che il cinema non è in grado di dipanare. In questo senso la riflessione formale del suo cinema e quella sulla storia vanno di pari passo proprio perché – come spiega splendidamente Lorenzo Rossi in questo libro – sono il dritto e il rovescio della stessa questione. La Storia non è un repertorio di eventi su cui andare a posare il proprio sguardo e da cui trarre degli insegnamenti ma semmai un problema che l’immagine non può risolvere ma al limite solo abitare. In questo senso vorremmo fare nostre le parole di Fredric Jameson che commentando la tesi di Louis Althusser sulla fondamentale e radicale opacità dei rapporti di produzione delle società capitalistiche – la cui determinazione “in ultima istanza” che dovrebbe rendere intellegibile e finalmente chiara la lettura del sociale, in realtà, non arriverà mai – in un passo insolitamente autobiografico, afferma:

[la determinazione in ultima istanza di Althusser] viene tradizionalmente interpretata come una sorta di cruda epifania in cui la produzione e la base economica si spalancherebbero improvvisamente davanti a noi come di fronte a un abisso. Ora invece penso che [Althusser] abbia voluto dire che non abbiamo mai un’esperienza diretta o immediata della Storia, e che i momenti in cui ci sembra più vicina o che sembra più drammatica – quel momento quando in un hotel viennese nel 1956 un bambino, sbirciando da una colonna, mi chiese timidamente: “Magiaro?”; o come quando nel giugno del 1959 sono passato vicino ad alcuni uomini barbuti all’aeroporto dell’Avana e non sono riuscito a trovare la Rivoluzione nella folla delle sue strade o nei negozi del centro – si riducono a dettagli empirici, e la loro oggettività viene rapidamente inghiottita dal soggettivo e assimilata a un aneddoto autobiografico. La memoria non esiste. Successivamente, naturalmente, la società tutta farà esperienza di questa confisca del reale tramite l’enorme sviluppo dei media, che sono fin troppo capaci e disposti a ridurre anche quel piccolo barlume di Storia a un’immagine e attraverso di essa a spingerci tutti verso ciò che abbiamo definito un simulacro (o la società dello spettacolo).2

La storia in questo senso ha sempre la struttura di qualcosa che si sottrae e che mai si palesa nella sua auto-evidenza o oggettività. Il regime dell’immagine – che non riesce mai a eliminare il punto cieco e quella separazione strutturale tra sguardo e soggetto – e il ritrarsi costante della storia da una sua presunta presentificazione auto-evidente, condividono quindi un’opacità comune. Prendono corpo entrambi – come ricorda Lorenzo Rossi commentando Caché – attorno a una rimozione fondamentale. È per quello che il cinema di Haneke ha provato a guardare l’una nell’altra, senza alcun feticismo per il fatto empirico o per un crudo storicismo lineare, ma senza nemmeno risolvere il problema dei “sintomi” della storia all’interno di un formalismo dell’immagine (come se i problemi “teorici” sull’ontologia dell’immagine potessero da soli sostituire l’opacità della storia). È un cinema, quello di Haneke, che si propone di usare l’immagine non come rappresentazione di quello che c’è (e che magari è dimenticato, come fa il cinema “socialmente impegnato” contemporaneo tutto proteso a bilanciare le giuste quote di rappresentazione) ma di farsi testimonianza di ciò che è rimosso, consapevole che la storia si produce per dissimulazioni, cancellature e rimozioni. E che per riuscire ad abitare le sue aporie, è necessario passare attraverso l’immagine.

1

In questo senso, sempre per rimanere all’interno dell’apparato concettuale lacaniano, la sequenza del “rapimento” di Majid da parte dei servizi sociali al termine di Caché è a tutti gli effetti un’immagine-oggetto-sguardo, perché pur appartenendo allo stesso registro visivo delle videocassette, è una costruzione dell’inconscio di Georges (segnalata anche dal fatto, che viene “prodotta” quando Georges va a dormire): segnala cioè, l’inclusione dello sguardo di Georges all’interno del quadro. In questo senso si potrebbe parlare di un’immagine del soggetto dell’inconscio (o dell’oggetto-sguardo) proprio perché il suo grado di realtà è assolutamente indecidibile (o meglio, è reale, anche a prescindere dalla sua realtà empirica). Il suo statuto è semmai quello della Urszene di cui parla Sigmund Freud nel caso clinico de L’uomo dei lupi: una scena primaria traumatica, il cui grado di realtà non si misura dal fatto di essere empiricamente avvenuta, ma dal fatto di lasciare delle tracce sintomatiche nel presente/futuro. Se il rapimento di Majid può avere questo statuto di realtà, nulla vieta che tutte le immagini delle videocassette del film abbiano il medesimo statuto ontologico. Cosa che verrebbe corroborata anche dalla primissima scena, la cui voce fuori campo di Georges andrebbe interpretata in modo affatto letterale: quella è un’immagine sua che gli è estranea proprio come gli è estraneo l’inconscio o il senso di colpa.

2

F. Jameson, Allegory and Ideology, Verso, New York 2020, p. 334.

INTRODUZIONE

Michael Haneke (Monaco di Baviera, 1942) è uno degli ultimi grandi autori del cinema contemporaneo. E non perché l’autorialità sia una forma in via di estinzione, come molti sono portati a credere, o per via del fatto che Haneke incarni una certa forma di resistenza rispetto alle nuove tendenze e ai nuovi linguaggi del cinema. Tutt’altro. Piuttosto perché la rilevanza che un regista come lui riveste nel panorama dell’odierno cinema d’autore, pare davvero di natura quasi più unica che rara. Del resto la percezione che oggi si ha del concetto di autore, considerando le nuove forme di ricezione, partecipazione e fruizione dei film e degli altri contenuti audiovisivi in epoca di rilocazione e disintermediazione1, si sta trasformando radicalmente. Le mutate pratiche della spettatorialità, l’indebolimento della cinefilia sia come esercizio di consumo sia in quanto luogo di discussione, la lenta trasformazione/sparizione della sala cinematografica come spazio della visione, sommati ad altri fattori legati al mutamento di aspetti quali ricezione, consumo, distribuzione, economia e tecnologia dei film e dell’audiovisivo, stanno rapidamente ampliando la frattura, già parecchio dilatata, fra il pubblico per così dire generalista e il cinema d’autore. Se solo un paio di generazioni fa anche coloro i quali non frequentavano abitualmente le sale cinematografiche conoscevano autori come Fellini, Bergman o Godard, ma anche protagonisti del più recente passato come Kim Ki-duk, Kiarostami o Herzog, oggi è molto difficile che chi non si occupi di cinema a livello professionale o non abbia una

passione cinefila forte, sia a conoscenza del lavoro di autori come Jia Zhang-ke, Abdel Kechiche o Nuri Bilge Ceylan2 – per fare tre nomi di autori che nel cinema di oggi valgono certamente lo spessore di quelli appena citati. Haneke da circa trent’anni frequenta i maggiori festival cinematografici del mondo, ha vinto due Palme d’oro, un Gran Prix e un premio per la regia a Cannes, un Oscar per il miglior film straniero e una numerosa serie di altri riconoscimenti nell’ambito del cinema europeo e mondiale. Inoltre alcuni dei suoi film sono diventati nel corso del tempo largamente popolari presso differenti strati di pubblico – non solo quello “colto” cui spesso il regista viene associato –, discussi dalla critica, ammirati da addetti ai lavori e studiati a livello accademico. Un successo che sebbene non si possa definire globale, mostra una ampiezza ricettiva piuttosto vasta. Sufficiente almeno per rendere Haneke un regista facilmente identificabile, appunto, come un autore contemporaneo. Ovvero uno degli ultimi la cui reputazione e il cui prestigio si intersecano alla riconoscibilità e popolarità sia all’interno che all’esterno del panorama cinematografico mondiale. Questa sottolineatura non ha lo scopo di misurare il grado di celebrità dell’autore al fine di rendere più o meno giustificata la volontà di dedicargli uno studio. Ma piuttosto di mettere in luce come la rilevanza di Haneke rispetto al cinema d’autore contemporaneo consenta di tarare le riflessioni intorno alla sua opera su un bacino di ricezione decisamente ampio. E di considerare i suoi film non solo come testi da cui partire per produrre un’analisi teorica, ma anche come elementi che generano sguardi e immagini del presente parlando a un pubblico vasto ed eterogeneo. Nato in Germania da padre tedesco e madre austriaca – entrambi attori – durante la seconda guerra mondiale, Haneke è cresciuto e ha vissuto quasi tutta la sua vita in Austria. Dopo essersi laureato in psicologia a Vienna e aver accarezzato l’idea di fare il musicista si è infine avvicinato al cinema, diventando prima critico cinematografico e poi, dai primi anni Settanta, regista televisivo. La sua produzione televisiva, tanto

in Germania quanto in Austria, è molto nutrita e sia come sceneggiatore sia come regista Haneke ha preso parte a progetti di grande rilevanza e discreto successo. Successo che gli ha consentito di intraprendere la parte più significativa della sua carriera: il passaggio al cinema. Un esordio per la verità tutt’altro che precoce, dato che il suo primo film cinematografico, Il settimo continente (1989), lo ha realizzato all’età di quarantasette anni. Tuttavia quello che salta all’occhio è come lasciata la televisione Haneke sia riuscito a mutare completamente il suo approccio tematico e linguistico alla materia filmica, inaugurando uno sguardo personalissimo ed estremamente riconoscibile. Uno sguardo che si è presto trasformato in forma e infine è diventato stile: un modo di fare cinema che è rimasto inconfondibile attraverso gli anni nonostante l’eterogeneità delle dodici opere prodotte: dodici variazioni e interpretazioni di un concetto e di un’idea autoriale talmente rigorosi da risultare sempre perfettamente identificabili come film di Haneke. Ed è forse questo l’aspetto che più concretamente rende il regista austriaco un autore di rilievo. Nonostante ciò non è affatto semplice raccapezzarsi all’interno di questa filmografia. La multiformità e la vastità dei temi intorno ai quali Haneke concentra il proprio lavoro sono spesso di non facile lettura e comprensione. Anche se è proprio l’attenzione che il regista pone nella scelta e nella definizione delle tematiche su cui lavorare a rendere il suo cinema così unico e personale. Negli studi che gli sono stati dedicati, soprattutto all’estero, le analisi si sono fissate in special maniera sugli argomenti più tangibili e concreti facenti parte dei suoi film. Come la violenza, la complessità dei rapporti interpersonali (soprattutto all’interno del nucleo della famiglia) o più in generale del sottile confine che divide il pubblico dal privato. Gravitando intorno – a livello di rappresentazione cinematografica – alle modalità attraverso cui l’autore opera la messa in scena di un mondo dove valori e traguardi quali un agire sociale moralmente rispettabile o il perseguimento del piacere individuale e collettivo, diventano oggetto di una profonda messa in discussione. Una forma cioè

che predilige il racconto del lato sgradevole, scomodo o perturbante – per usare una definizione che ben identifica lo stile hanekeiano – dell’esistenza. Per dirla con il regista: “i miei film sono una forma di consapevole omissione del ‘lato bello’ della vita”3. Un nucleo tematico, quello evidenziato, impossibile da trascurare nel momento in cui ci si accosta al lavoro di Haneke. Ma che pur offrendo infinite possibilità di ricerca e altrettante chiavi di lettura del suo cinema, rappresenta solo una parte del discorso. Il presente studio partendo proprio da questa base, intende concentrarsi su alcuni aspetti altrettanto centrali rispetto a quelli appena menzionati e facenti parte del complesso autoriale hanekeiano, ma presi da una prospettiva leggermente più periferica. Elementi in grado di fornire, se integrati all’analisi, una modalità di approccio e comprensione alla materia maggiormente esaustiva. Lo strumento di accesso che sarà utilizzato è quello della Storia. Attraverso l’esame dei diversi film che compongono l’opera del regista emerge infatti in maniera manifesta come il racconto della Storia contemporanea sia una delle questioni ricorrenti e presente a differenti livelli di rappresentazione. Ed è proprio la capacità di sottolineare il rilievo e la crucialità di momenti storici fondamentali del recente passato, del presente o della più stringente contemporaneità, una delle caratteristiche peculiari di Haneke. All’interno della sua opera infatti il regista mette al vaglio del proprio cinema eventi storici che non sono soltanto nodali in relazione alla contemporaneità – il focus è fissato sul Novecento e sui primi due decenni del XXI secolo – ma anche in virtù della loro natura particolarmente traumatica. Relativa cioè a momenti che hanno segnato, o letteralmente (ri)scritto, la Storia in maniera dolorosa, violenta e spesso drammatica. Anche se di film a tema – e di genere – specificamente storico Haneke ne ha realizzato soltanto uno, Il nastro bianco (2009), tutta la sua opera contiene una profonda valutazione e considerazione dei processi storici che hanno contribuito a definire il presente e la struttura culturale, sociale e politica del mondo in cui viviamo. Tale corpus tematico, dal quale

scaturiscono giocoforza molteplici spunti interpretativi, si concentra in special maniera sulle più recenti evoluzioni geopolitiche che stanno agitando il continente europeo. Fissando l’attenzione quindi su uno spazio, l’Europa, e un tempo, la contemporaneità, dove la Storia ha lasciato segni profondissimi ed è alla base di molti dei traumi collettivi più feroci e degli sconvolgimenti sociali più cogenti. Occuparsi di Haneke oggi significa quindi tenere in considerazione il lavoro di un autore che come pochi altri sa estrarre dalla contemporaneità gli stigmi e i nodi di forte impatto e che maggiormente scaldano i cuori e le coscienze dei cittadini europei. Fenomeni che da almeno tre decenni sono al centro dei dibattiti socioculturali in seno all’Europa e al mondo occidentale e rispondono a istanze profondamente divisive e polarizzanti. Temi caldissimi e irrisolti che coinvolgono l’origine culturale condivisa degli abitanti del vecchio continente e mettono in evidenza come all’interno di questo contesto agisca un sentimento di rimozione collettiva. Il cinema di Haneke è dunque una specie di porta di accesso alle pagine scomode della nostra Storia recente, come l’epoca dell’adesione ai totalitarismi o la messa in atto delle strategie coloniali, ma anche la definizione delle odierne politiche migratorie. Un complesso di segmenti storici che consente di approfondire, ragionare e allo stesso tempo osservare con uno sguardo mediato, le insicurezze e le fragilità di un mondo contemporaneo sempre più frastagliato e difficile da capire. La ricognizione sull’opera hanekeiana parte dunque da una necessaria riflessione intorno a discorsi di tale natura ed è finalizzata a tracciare le linee di interpretazione di tutti questi fenomeni. Ma ha anche l’ambizione di intercettare le sollecitazioni che un cinema come quello di Haneke possiede. Al fine di configurarsi come guida per la comprensione della Storia e, di conseguenza, della contemporaneità. Per riuscire in questo intento, a livello metodologico, si procederà stabilendo dei nuclei tematici. Ovvero dei macro-segmenti che fungeranno da tracce per indirizzare l’analisi teorica e testuale. Ogni segmento partirà da un film, particolarmente evocativo e

ricco di rimandi e legami con gli argomenti oggetto di discussione, e incrocerà via via le altre opere del regista incentrate sulle medesime traiettorie stilistiche, istanze teoriche e contenutistiche. Conducendo tali approfondimenti il discorso sarà ristretto quindi alle sole opere per il cinema firmate da Haneke, tralasciando volontariamente quelle televisive. E cioè quella parte di produzione pensata e destinata per un medium con finalità e approcci differenti alla materia filmica rispetto al cinema e che oltretutto trascura del tutto, per sua stessa conformazione, la dimensione autoriale. L’obiettivo è dunque quello di mettere al vaglio del lettore la rilevanza, la trasversalità e la modernità dei fenomeni e delle tematiche prese in esame da Haneke, ma anche di mostrare come l’impianto formale da egli messo in atto sia sempre perfettamente pertinente alle intenzioni espressive. Nondimeno si cercherà di fornire una solida struttura teorica che permetta di inquadrare nel modo adeguato gli eventi storici presi in esame. Allo stesso tempo si impiegherà una minuziosa e attenta analisi testuale indirizzata ad andare il più possibile a fondo nello studio degli elementi estetici, grafici ed enunciativi utilizzati dal regista. In aggiunta si auspica che questo elaborato possa, in maniera complementare, porsi come strumento attraverso cui sfatare alcune credenze che si sono generate intorno al lavoro di Haneke e hanno spesso portato a sviluppare nei suoi confronti critiche non troppo giustificate o pertinenti. Per fare tutto questo non si procederà in ordine cronologico, ma si affronteranno i discorsi cercando di evidenziare l’attinenza alle tematiche di riferimento e al loro svilupparsi trasversalmente nella filmografia del regista. Lo scopo è innanzi tutto quello di sottolineare il più possibile l’omogeneità dello stile di Haneke rispetto alle istanze prese in esame. Ma anche di mettere in luce l’importanza della traiettoria stilistica hanekeiana all’interno del panorama autoriale contemporaneo, soprattutto nella misura in cui essa spinge la riflessione sul cinema verso territori di negoziazione con i nodi politici e culturali del contemporaneo. Inoltre la

scelta di non muoversi lungo la successione cronologica della filmografia del regista asseconda la volontà di creare una sorta di tracciato all’interno del volume per mezzo del quale consentire al lettore un’interpretazione più libera e meno costretta dalle categorizzazioni. E favorire un processo di comprensione con il quale affrontare le tematiche materia di studio come una sorta di percorso a tappe, dove partendo da un nucleo tematico si procede verso quello successivo fino ad arrivare ad abbracciare quello di dimensioni più ampie. In questo senso nel primo capitolo, incentrato sul film più significativo della prima parte della carriera di Haneke, Funny Games (1997), l’analisi viene condotta a partire dal tema della violenza. Una delle questioni maggiormente dibattute sin dall’uscita in sala del film e affrontata in termini di etica della rappresentazione e di moralità dell’immagine – oltre che di supposta manipolazione del ruolo dello spettatore. Ma che in questo caso sarà analizzata come fenomeno attraverso il quale emerge il rimosso di alcuni dei grandi traumi del popolo austriaco – ed europeo in senso esteso – collegati alla Storia più recente della nazione. Traumi che si sovrappongono alla colpa e condizionano i comportamenti e le azioni dei personaggi. Haneke, con il suo sguardo endemico e rigoroso, congegna una rappresentazione quasi insostenibile per la crudeltà e il sadismo che esprime, ma trasportando tutto in una dimensione profondamente simbolica compone un testo di grande complessità capace di riscrivere le regole dell’utilizzo della violenza al cinema. Il secondo capitolo, che ha come film di riferimento Benny’s Video (1992) si concentra invece su uno dei temi cardinali dell’opera hanekeiana: la famiglia. Le famiglie nei film di Haneke descrivono il nucleo sociale minimo intorno al quale vengono definiti i comportamenti, le abitudini e le attitudini culturali e ideologiche della classe borghese. Raccontare una famiglia per Haneke significa quasi sempre definire uno spazio, un luogo privato e inviolabile che diventa metafora della chiusura verso il mondo esterno. Oltre che di ricerca di una protezione dalle minacce di ciò che vive al di

fuori di esso. Ma che inevitabilmente diventa anche il luogo di un orrore, dove si consumano tragedie, si originano i traumi e la violenza erompe in modo imprevedibile e feroce. Il terzo capitolo, concepito a partire da Happy End (2017), l’ultimo film realizzato da Haneke fino a questo momento, verte su una questione cruciale della contemporaneità: quella di popolo. Happy End è ambientato in Francia e si confronta con un evento che rappresenta l’emersione forse più macroscopica di quella che è la vera tragedia e insieme la maggiore vergogna dell’Europa di oggi: la cosiddetta Giungla di Calais. Un episodio che ha rivelato il totale fallimento delle politiche migratorie dell’Ue e intorno al quale si sono sviluppati dibattiti, scontri feroci ma anche importanti riflessioni di matrice culturale. Haneke usa il filtro della metafora e tramite la messa in scena del disfacimento di una famiglia borghese, racconta la deriva di un continente intero. Di un popolo che pur condividendo le stesse radici, la stessa origine e lo stesso sangue, non sa evitare né mettersi al riparo dalle grandi catastrofi della Storia. Il quarto e il quinto capitolo conducono una riflessione mirata sulla storia dell’Europa e sul tema correlato della memoria, muovendo dai due film forse più nodali della carriera del regista: Il nastro bianco e Niente da nascondere (2005). Due opere che mettono molto bene in evidenza come l’eredità culturale di determinati processi storici, particolarmente traumatici e ancora per certi versi irrisolti, avvenuti in Europa nel corso del secolo scorso, abbiano sedimentato nelle coscienze di più di una generazione di cittadini europei. E come la loro memoria generi ancora oggi la riemersione di colpe e responsabilità rimosse – sia a livello individuale che collettivo – ma che restano ineliminabili. I capitoli finali tuttavia rappresentano anche l’occasione per mettere in evidenza il complesso impianto estetico che Haneke adotta nei suoi film. E di ragionare a partire dal modo in cui il regista tratta le immagini. Cioè nel solco di una discontinuità e di una frammentazione enunciativa molto articolata, dando

vita a un impianto nel quale la rappresentazione trova un sorprendente equilibrio tra forma e contenuto. E quello legato all’immagine è in ultima analisi un aspetto chiave del percorso artistico di Haneke. Perché mette in evidenza molto chiaramente, destando anche un certo stupore, come all’interno del panorama cinematografico odierno, sia lo sguardo autoriale e ricco di personalità di un regista quasi ottuagenario uno dei pochissimi in grado di osservare e descrivere con accuratezza il discorso geopolitico contemporaneo farsi discorso storico. 1

Cfr. F. Casetti, La galassia Lumière: Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015.

2

Abbiamo volutamente lasciato da parte gli autori del cinema americano contemporaneo per via del fatto che il mercato d’oltreoceano, anche quello d’essai, risponde a logiche differenti da quelle europee o del resto del mondo. Tuttavia anche per quanto riguarda quel tipo di industria, è difficile pensare che lo spettatore medio abbia una conoscenza approfondita dei nuovi autori.

3

Haneke citato in A. Horwath, G. Spagnoletti, La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio, in A. Horwath, G. Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p. 58.

I. VIOLENZA: FUNNY GAMES

Austria, anni Novanta. Georg e Anna Schöber, con il figlio undicenne Schorschi e il cane Rolfi, raggiungono la loro casa al lago. Poco dopo l’arrivo ricevono la visita di Peter, un giovane che avevano visto alcuni minuti prima nel giardino dei vicini. Il ragazzo dice di essere stato mandato da questi ultimi per chiedere in prestito delle uova. Viene ricevuto da Anna, mentre Georg e Schorschi sono al pontile per mettere in acqua la barca vela. Appena prese in mano le uova però Peter, maldestramente, le fa cadere a terra e, con grande stupore della donna, ne chiede subito delle altre. Mentre Anna raccoglie le uova rotte Peter getta il telefono cordless nel lavandino della cucina pieno d’acqua e continua, con modi apparentemente cordiali ma con fastidiosa insistenza, a chiedere altre uova. La donna, esasperata, lo invita ad andarsene, ma sopraggiunge Paul, amico di Peter, che appoggia con fermezza la richiesta dell’altro. Arriva anche Georg che cerca di calmare la situazione, ma la discussione trascende e Paul lo colpisce violentemente al ginocchio con una mazza da golf. I due giovani uccidono quindi Rolfi, che non smetteva di abbaiare, e sequestrano la famiglia. Per diverse ore i due aguzzini costringono gli ostaggi a torture fisiche e psicologiche fino a che Schorschi, scaltramente, riesce a fuggire. Il bambino però viene subito catturato da Paul poco fuori l’abitazione e, riportato in casa, è ucciso da Peter con un colpo di fucile. A questo punto i due giovani, legati Georg e Anna, se ne vanno. Marito e moglie riescono a liberarsi e mentre Georg cerca di rimettere in funzione il telefono, Anna corre sulla strada

principale in cerca di aiuto. È notte fonda e l’unica auto a fermarsi è proprio quella di Paul e Peter. Riportata la donna nella casa le sevizie riprendono e i torturatori propongono ad Anna un gioco sadico per stabilire chi fra lei e il marito dovrà morire per primo. Mentre ha luogo questa farsa beffarda, approfittando di un attimo di distrazione di Paul, Anna afferra il fucile e spara a Peter, uccidendolo. Paul però la disarma prontamente e, preso il telecomando del videoregistratore, riavvolge il film fino a un attimo prima che Anna riesca a impossessarsi del fucile e le impedisce di farlo. A questo punto Paul uccide Georg, mentre Anna, caricata sulla barca a vela, viene gettata nel lago legata, imbavagliata e ancora viva. Poco dopo Paul si reca in un’abitazione poco distante da quella degli Schöber chiedendo in prestito delle uova per conto di Anna e Georg. La padrona di casa lo fa entrare e il ragazzo, avvicinatosi alla macchina da presa (d’ora in poi mdp), sorride compiaciuto guardando in camera. Funny Games (1997), il quarto film di Michael Haneke, è uno dei punti di svolta del cinema del regista austriaco. Da un lato perché evidenzia un deciso cambio di rotta rispetto ai film precedenti e dall’altro perché è l’opera con la quale il suo nome si rivela al pubblico internazionale. Dopo la presentazione al festival di Cannes del 1997 che suscitò reazioni contrastanti e polarizzò le opinioni di critici e addetti ai lavori1, il film non ebbe esiti commerciali particolarmente esaltanti, tuttavia si guadagnò una certa attenzione e una discreta fama nei circuiti culturali europei e consentì al regista di avere accesso, già con il film successivo, a produzioni di più ampia portata e respiro internazionale. Ma cos’è che rende Funny Games, ancora oggi, uno dei film più discussi della carriera di Haneke? E perché resta, a distanza di anni, uno degli archetipi di un certo “cinema della crudeltà”2 contemporaneo? Le risposte sono numerose e molteplici studi, nel corso del tempo, hanno concentrato le proprie riflessioni sulla rappresentazione della violenza. Ovvero sul tema a partire dal quale viene più sovente sviluppata l’analisi intorno al film in questione e, in senso

allargato, al cinema hanekeiano, soprattutto quello degli anni Novanta. Con cognizione di causa e a buona ragione bisogna aggiungere. Del resto è il regista stesso ad aver affrontato il rapporto stretto fra media audiovisivi e violenza, tematizzando la questione in termini teorici3 e aprendo la strada ai numerosi contributi che si sono occupati del tema nel corso degli anni4. Muovendo dalle questioni legate alla violenza tuttavia, a Funny Games è possibile allegare considerazioni che esulano dalla specificità del tema e consentono di leggere l’opera in una prospettiva storica. E ci conducono a ripensare la violenza all’interno di un contesto più ampio, dentro il quale quest’ultima non agisce come mera forza generatrice degli eventi in senso accidentale o strumentale, ma piuttosto come sintomo di una serie di traumi rintracciabili nella dimensione storica in cui il film è inserito. Ciò che proveremo a fare sarà entrare nel merito dell’analisi testuale per capire in quale modo sia possibile rintracciare le caratteristiche utili alla nostra trattazione e come esse emergano dal tessuto narrativo. Lo faremo prendendo in esame il linguaggio filmico nel dettaglio, cercando di evidenziare i particolari che contribuiscono a rendere lo sguardo hanekeiano tanto complesso e sfaccettato. Partendo da tali considerazioni sposteremo poi l’analisi su altri film del regista, i quali messi in relazione con Funny Games aiuteranno a comprendere in modo più esaustivo i temi su cui ci stiamo concentrando. 1) In Funny Games Haneke, dal punto di vista drammaturgico e fin dalla fase di scrittura, compie una meticolosa destrutturazione delle relazioni sociali e porta – o meglio pilota – le azioni e i comportamenti dei personaggi verso uno stato di primitività. A causa della sospensione morale in cui si trovano ad agire questi ultimi diventano vittime dei propri istinti e la violenza si configura come l’unico dispositivo

relazionale entro il quale i rapporti fra i due nuclei antagonisti si esprimono. La violenza in questo senso non è infatti associabile soltanto alle azioni dei due aguzzini, ma si estende anche alla famiglia Schöber sia nei termini in cui questa la subisce, sia per come ne è intrinsecamente parte – a tal punto da diventarne funzionale. Un punto questo che merita di essere approfondito.

Immagine 1.1 Funny Games: Paul (Arno Frisch) afferra il telecomando e riavvolge il film su se stesso.

Il gesto di Anna che afferra il fucile e spara a Peter uccidendolo è l’unico atto di violenza effettivamente ascrivibile a una delle tre vittime cui assistiamo nel film – se escludiamo lo schiaffo che Georg dà a Paul innescandone la reazione che porta il ragazzo a colpire l’uomo con la mazza da golf; ma si tratta di un gesto che per quanto determinante in funzione di ciò che scatena, resta su una dimensione di violenza quasi infantile. Quello di Anna però è anche, allo stesso tempo, l’unico omicidio che vediamo compiersi davanti all’occhio della mdp. In un film in cui la violenza – come è stato spesso notato5 – è lasciata sempre fuori campo è senz’altro una scelta in precisa controtendenza con lo stile dell’opera (oltre che del regista a livello generale). Haneke del resto non sta girando un thriller o un film dell’orrore e come ha più volte sostenuto: “non si dovrebbero mai mostrare i personaggi mentre muoiono, perché risulta sempre falso. Ecco la ragione tecnica. La ragione puramente cinematografica è

che l’immaginazione rende più dell’immagine”6. Al di là della tesi di questa asserzione, sul cui giudizio si potrebbe discutere a lungo, il dato incontrovertibile è come il grado di immedesimazione dello spettatore, nell’intenzione del regista, non debba passare attraverso un processo di immersione con la violenza delle immagini. La scelta di mostrare la morte di Peter sullo schermo è, come si diceva, un evidente strappo rispetto alla dottrina hanekeiana e il significato è probabilmente da individuare nell’eccezionalità della situazione narrativa descritta. Lo stato di sospensione della realtà causato dall’atto di riavvolgere diegeticamente il film su se stesso, che fa da gesto catalizzatore della sequenza, annulla momentaneamente l’immedesimazione – fin lì asfissiante – dello spettatore rispetto alla vicenda e pone in qualche misura l’atto violento cui assistiamo fuori dal contesto del film. Inoltre il valore catartico che l’eliminazione del torturatore ricopre all’interno della narrazione – almeno fino all’annullamento di quest’ultima – lo rende automaticamente giustificabile agli occhi di chi guarda, qui sì assecondando uno dei più classici cliché del cinema di genere7. Tuttavia il fatto che il gesto di violenza più esplicito mostrato nel film sia ascritto a una delle vittime invece che ai carnefici, non è certamente un fattore trascurabile e dimostra in maniera inequivocabile quanto l’uso della violenza da parte dei personaggi non sia assolutamente unilaterale. Ma c’è di più. Osservando con attenzione lo sviluppo della storia appare evidente come l’uso della violenza si renda davvero necessario, in termini emotivi – e quindi empatici da parte dello spettatore – ma anche puramente drammaturgici, solo per i componenti della famiglia. È il loro unico mezzo per trovare scampo da una morte certa e la sola reazione possibile alle sevizie delle quali sono fatti oggetto. All’opposto per i due killer e torturatori la violenza non ha alcuna ragione apparente se non quella di essere una forma di sadico appagamento fine a se stesso. L’inesplicabilità della violenza in Funny Games è del resto uno dei temi che più attraggono (o respingono) gli spettatori, oltre che l’oggetto su cui si fonda il discorso sulla presunta immoralità del regista nei confronti di questi ultimi8.

Haneke traccia questa ambiguità in maniera molto sottile, confondendo volontariamente il registro della narrazione e marcando l’effetto straniante della recitazione degli attori. Oltre all’idea iniziale di introdurre in Funny Games l’elemento farsesco – assente nelle prime tre opere – per controbilanciare la chiave tragica del film, egli decide di aggiungere un’ulteriore indicazione per gli attori, chiedendo loro, a seconda del personaggio assegnato, di differenziare l’interpretazione: avevo detto ai due interpreti torturatori di recitare con un registro comico e a quelli che rappresentavano le loro vittime con quello tragico. Il che rende la loro relazione insopportabile. Nel modo di recitare i due giovani assassini mostrano una totale mancanza di pietà per i loro ostaggi. Da loro ti devi aspettare di tutto.9

Il risultato che Haneke raggiunge, ottenendo ciò che si era prefissato, è quello di spingere lo spettatore a immedesimarsi sì con gli aguzzini, ma contemporaneamente a empatizzare con le vittime. E a trovarsi in una posizione che rispecchia l’ambiguità su cui si fonda tutta l’operazione. Tornando quindi a quanto si diceva rispetto alla violenza come metro di relazione primario all’interno del film, possiamo affermare che essa, anche se in forme differenti, disciplina l’agire tanto dei carnefici quanto delle vittime. E si manifesta quasi come un’eccedenza immateriale del tessuto filmico più che come una forma concreta. Strutturalmente il suo ruolo non è quello di significante del racconto, ma di dispositivo simbolico idoneo a regolare i rapporti fra i personaggi. In tal senso, per di più, il posizionamento dell’unico gesto violento cui viene data una forma grafica – il citato omicidio di Peter – fuori dal registro del reale, acquisisce ancora più senso. Quello descritto da Haneke in Funny Games è dunque uno spazio simbolico. Un territorio dentro il quale si azionano forze incontrollabili e che è definibile come un luogo di mediazione. In cui rintracciare le coordinate della complessa rappresentazione della violenza sin qui descritta e provare a inserirla in una prospettiva che tenga conto delle questioni sociali, culturali e soprattutto storiche che costituiscono

l’humus nel quale affondano le radici del film. Uno spazio che è prima di tutto relazionale, dove i personaggi descrivono le modalità del proprio agire per mezzo dei rapporti che instaurano fra di loro e all’interno del quale si individua una serie di gesti e azioni determinati dalle modalità in cui è lo spazio stesso a influenzare comportamenti, impulsi e reazioni. In questo senso lo spazio non va individuato in termini puramente diegetici o drammaturgici. Ma determinato in senso ampio, come luogo della rappresentazione su più larga scala. Funny Games è ambientato nello spazio circoscritto di una casa ubicata in una località di vacanza vicino a un lago. Ma, in senso più esteso e allargando il punto di osservazione e la geografia dello sguardo, la storia è collocata in Austria, cioè in Europa e, ancora più precisamente, nel cuore dell’Occidente, con tutto ciò cui questo posizionamento rimanda a livello sociale e culturale. In aggiunta il film è situato temporalmente alla fine del Ventesimo secolo, negli anni Novanta del Novecento, in una contemporaneità storica che se per il film è ovviamente definibile come il presente, per noi che osserviamo a due decenni di distanza si identifica come un momento ben determinabile, sia politicamente che in senso storico. Un territorio articolato che è anche profondamente dialettico e se analizzato nello specifico rivela le profonde connessioni che il cinema di Haneke, in ogni sua declinazione, intrattiene con le questioni politiche e sociali della contemporaneità. Terminato infatti il “Secolo breve” – o meglio, il “Secolo delle ideologie” – in cui l’interpretazione della Storia, delle società e delle dinamiche sociali e politiche era definito o perlomeno “codificato”, si era aperta una fase nuova: un secolo nuovo, che vedeva gli Stati e le società ricostruirsi e ridefinirsi, e le persone divenire socialmente e politicamente dei “senzatetto”, per usare una nota definizione di Ralph Darhendorf10. Un periodo, tra l’altro, in cui le “nuove guerre”11 – civili, asimmetriche, totali – mostravano inedite e inaudite forme di violenza12. 2)

Prendiamo in esame l’incipit del film. I primi quattro minuti di Funny Games restano ancora oggi un momento di cinema esemplare per il modo in cui riescono con grande efficacia da un lato a mettere immediatamente lo spettatore in uno stato di allarme pur senza fornire alcun tipo di dettaglio narrativo, dall’altro a racchiudere in poche inquadrature il significato più esteso di tutto il film. Analizziamolo nel dettaglio.

Immagine 1.2 Funny Games: titoli iniziali del film, con la scritta a caratteri cubitali color rosso a coprire lo schermo e i personaggi (Susanne Lothar, Ulrich Mühe e Stefan Clapczynski.

Una famiglia borghese, padre madre e figlioletto, a bordo di una Range Rover. A rimorchio del fuoristrada una piccola barca a vela. La musica, diegetica, è l’aria Tu qui, Santuzza dalla Cavalleria Rusticana di Mascagni. Marito e moglie si sfidano, a turno, a indovinare titolo, autore e interpreti di brani operistici. La mdp inquadra l’auto con un’angolazione dall’alto correre prima su un’autostrada e poi lungo una statale. Le immagini successive sono dettagli e particolari dell’abitacolo: la mano della donna scorre una fila di compact disc e poi infila uno di questi nell’autoradio. La musica è ora l’arioso Care selve dall’Atalanta di Händel. La camera stacca di nuovo sull’auto, ripresa prima dall’alto e poi lateralmente, che ora procede su una strada di campagna molto stretta, a bordo di un lago. Mentre il marito gira intorno al titolo del brano senza riuscire a indovinarlo le inquadrature tornano

all’interno dell’abitacolo e offrono finalmente il totale della famiglia, ripresa frontalmente, mentre scherza e sorride. Senza nessuno stacco di montaggio e alcuna soluzione di continuità la musica di Händel si interrompe ed entra prepotentemente, in modo extradiegetico, il brano grindcore13 Bonehead dei Naked City. L’idillio sui volti dei personaggi non viene alterato, ma lo choc per lo spettatore è inevitabile. Poco dopo la scritta “FUNNY GAMES” tutta in maiuscolo e a caratteri cubitali rossi in sovraimpressione occupa l’intero schermo. Il piano frontale sulla famiglia resta immutato mentre continuano a scorrere i titoli di testa, sempre color rosso acceso. Séguita poi l’alternanza di carrelli laterali sull’auto, che procede fra stradine strette, e piani ravvicinati dell’abitacolo: prima di nuovo il dettaglio dell’autoradio e il particolare della mano della donna che cambia il cd e poi una serie di primi piani di ognuno dei componenti della famiglia. L’incipit si conclude con l’ultimo titolo di testa, “Ein Film von Michael Haneke”, in sovrimpressione a un’altra carrellata laterale dell’auto. Quando quest’ultima si ferma di fronte al cancello di una grande villa, il suono diegetico del clacson interrompe bruscamente la musica dei Naked City. L’ingresso nel film – e per molti spettatori l’ingresso assoluto nel cinema di Haneke – è ottenuto attraverso uno choc. Uno choc rivolto soltanto al pubblico, e rispetto al quale i personaggi sono ovviamente ignari – benché si presenti come una sorta di presagio dei loro destini. L’intento è, in termini narrativi, quello di dare a chi guarda da un lato le prime informazioni rispetto a ciò a cui sta per assistere e dall’altro creare un cortocircuito emotivo che indirizzi verso una determinata tipologia di rappresentazione. Senza che venga dato alcun appiglio narrativo diventa chiaro sin da subito che ai protagonisti accadrà qualcosa di spiacevole, certamente di drammatico. Sul piano enunciativo il regista ottiene questo effetto mettendo in scena un impianto formale apparentemente classico e innestando su di esso una variazione del tutto inaspettata, spezzando il ritmo con una scelta sorprendente: l’inserimento della violenta musica dei Naked City in forma extradiegetica.

In senso più profondo quello cui la sequenza d’apertura rimanda, risultando ancora oggi di grande forza evocativa, è l’esistenza di un altrove indefinibile in cui si annida il male. Qualcosa che esiste, ha le sembianze del perturbante freudiano e resta sommerso, ma è in grado di rivelarsi e diventare tangibile. A livello di riferimenti simbolici l’incipit di Funny Games ne ricorda un altro particolarmente suggestivo e dai tratti simili: quello di Velluto Blu (Blue Velvet, 1984) di David Lynch. Inizio in cui il regista costruisce, a livello grafico, una dimensione dicotomica dentro la quale due mondi, uno di superficie e uno sotterraneo divisi da una sottile linea di separazione, creano una dialettica molto evidente fra le diverse anime, essenze e pulsioni che convivono dentro il medesimo spazio. Similmente al modo in cui Lynch usa la metafora del sottosuolo, inquadrando il brulicare di vermi che striscia nella terra sotto i piedi dei protagonisti, Haneke si serve della musica di John Zorn (il leader e compositore dei Naked City). Pur non ammettendo apertamente di voler creare un conflitto attraverso la giustapposizione fra grindcore e musica classica14, Haneke riconosce almeno in parte come l’effetto di straniamento e violenza risultante da tale gesto crei nello spettatore un disturbo piuttosto accentuato: certo queste due fonti sonore [l’altra cui fa riferimento è l’audio della gara automobilistica trasmessa alla televisione durante la scena in cui i genitori sono legati nel soggiorno di fianco al cadavere del figlioletto, N.d.A.] sono violente. John Zorn mi è stato proposto dal mio montatore. In precedenza avevo scelto una musica sperimentale, certo aggressiva, ma non quanto bastava. Inoltre John Zorn non è puro heavy metal, ma piuttosto una sorta di riflessione su questo genere di musica. Come Funny Games, che offre una forma di riflessione sul thriller.15

Certamente qui Haneke – come spesso accade durante le interviste – recita il ruolo dell’artista dissenziente, che prova un sottile gusto nel contestare le letture e le analisi più diffuse rispetto al suo lavoro. Come nota Brian Price, tuttavia, anche prendendo per buone le considerazioni del regista rispetto all’uso delle musiche come gesto neutro, senza l’intenzione di marcare alcun particolare effetto disturbante, è possibile ricavare un indizio ben preciso su ciò che questa scelta lascia trasparire16. Tenendo presenti le considerazioni espresse poco

fa rispetto a come Haneke operi un deragliamento deliberato da un impianto in apparenza classico, possiamo pensare che quanto asserito dal regista rispetto alla musica riguardi, in senso più ampio, la tendenza della cultura popolare a esprimersi sempre più spesso, soprattutto in epoca postmoderna, in una forma classica17 – tendenza di cui il cinema è uno degli esempi più concreti. Nello specifico Price sostiene che: La musica di Zorn […] segnala una forma popolare, il death metal, ma in una forma già decostruita. Il gioco di indovinare gli autori della musica classica in cui si cimentano marito e moglie, il senso di protezione derivante dal dare un nome a ogni specifico suono, è proprio ciò che andrebbe in pezzi se si provasse a dare un nome a questa esplosione di metal decostruito. Elemento che preannuncia un analogo smantellamento che avverrà in termini cinematografici entro la fine del film.18

Questa decostruzione non funziona soltanto come un avvertimento che mette in allarme anticipando l’esplosione dell’efferatezza cui stiamo per assistere, ma è una sorta di segnale di come lo smantellamento dell’impianto classico del film inizi sin dalle prime inquadrature. Se non forse qualcosa di più: una scelta ben precisa nelle cui intenzioni “Mozart contro John Zorn”19 diventa sinonimo del “mondo umano della vecchia Europa, contro la frammentazione dell’epoca moderna”20. Una interpretazione che stava ottenendo consensi con il nuovo secolo, dopo l’euforia globale che aveva per un breve periodo l’opinione pubblica mondiale – o perlomeno occidentale – dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, e trainata ad esempio dal celebre saggio di Francis Fukuyama La fine della storia21. Lo smontaggio parte quindi dagli elementi più basilari della narrazione, come l’uso della musica diegetica e extradiegetica – e di altri aspetti enunciativi che stiamo per analizzare – e prosegue fino alla messa in crisi della struttura stessa del racconto. Dal punto di vista della regia la sequenza di apertura pone in risalto alcuni elementi che confermano l’esistenza di una frattura nell’impianto classico della messinscena. Il linguaggio che Haneke utilizza, osservato nello specifico, esprime in termini strutturali l’idea di uno smantellamento degli elementi dell’impianto filmico tradizionale e pone in evidenza come

tutto il tessuto narrativo del film si innesti a partire da questa messa in discussione degli aspetti formali. Sempre Price osserva come la scena alterni campi lunghissimi a primi piani, escludendo di fatto il campo medio22 e quindi “il termine medio nella convenzione della narrazione classica, che serve per permetterci di orientarci nello spazio mentre ci avviciniamo gradualmente da un establishing shot23 a un primo piano”24. Lo smantellamento della forma classica è quindi in atto sin dal primo istante. Non solo perché “senza il piano medio, la qualità retorica della narrazione classica comincia a sgretolarsi”25, ma anche perché questa scomposizione ottenuta attraverso il montaggio, produce nello spettatore una forma inconscia di spaesamento che, sommata agli elementi enunciativi forti presenti nella sequenza (la musica, il colore rosso dei titoli d’apertura), lo spinge a sperimentare l’esperienza traumatica in anticipo rispetto agli eventi e ai personaggi. In definitiva la mancanza di un riconoscimento strutturale della forma classica è il primo elemento dissonante cui lo spettatore viene spinto dalla visione del film, ottenuto dal regista attraverso una precisa scelta testuale. In questo senso non si può certo dire che i segnali dell’operazione cui Haneke ci sta per sottoporre non siano già completamente visibili nei pochi minuti dell’incipit. E che tale riduzione in forma essenziale del contenuto esteso di tutto il film non ci ponga immediatamente in un rapporto profondamente dialettico con l’opera stessa. Sia come pura fruizione sia per quel che concerne la sua comprensione a un livello più profondo. 3) Comprese le modalità con cui il regista pone le basi per la definizione dello spazio simbolico in cui inserisce Funny Games e gli strumenti grafico-linguistici con i quali produce l’ingresso e l’immedesimazione dello spettatore all’interno della narrazione, proviamo ora a vedere come tali aspetti – senz’altro funzionali a sviluppare le questioni più rilevanti ai

fini della nostra trattazione – si attestino come costanti nel complesso impianto autoriale hanekeiano. Come si diceva Funny Games è stato spesso visto come un film sulla violenza in quanto tale, su una violenza che erompe all’interno della vita quotidiana senza motivazioni apparenti e che spinge a ragionare sull’inesplicabilità di quest’ultima (o arrendersi ad essa). Eppure stanti gli elementi sin qui descritti e assimilati i concetti secondo le strutture che abbiamo delineato, appare necessario provare a inserire gli istinti che agitano questo spazio in un contesto più ampio. Ciò che emerge da una lettura approfondita tanto dell’impianto narrativo quanto di quello enunciativo del film è dunque un discorso molto complesso e che ha radici profonde. Haneke attraverso la rappresentazione che tratteggia del microcosmo simbolico cui dà vita, porta allo scoperto pulsioni brutali e spaventose alle quali è possibile associare analisi che ne problematizzano in maniera sostanziale la portata. Quello che il regista descrive è uno spazio in cui le forze esiziali che si agitano appaiono talmente radicate da rappresentarne l’essenza stessa. Forze stratificate e storicizzate intorno alle quali si sviluppano le relazioni fra i personaggi. In questo senso le azioni dei protagonisti diventano delle sorte di dispositivi di estrazione. Qualcosa che diseppellisce letteralmente una materia latente, un’entità viva e strisciante imprigionata sotto terra e pronta a esplodere come la lava di un vulcano. Se torniamo per un attimo alla sequenza di apertura notiamo come la rappresentazione sia finalizzata a descrivere una classe sociale con una precisa collocazione spaziale e temporale – la fine degli anni Novanta nell’Austria del benessere economico – e il suo divenire catalizzatrice di una violenza folle e incontrollata. Il ménage familiare che ci viene presentato tuttavia ha già al suo interno, ancora prima che la musica di John Zorn faccia esplodere la situazione, una tensione fortissima, fatta di elementi quasi impercettibili ma funzionali a restituire un senso di sopito allarme. Proprio perché pur nella sua complessa stratificazione “Funny Games

è di una diabolica trasparenza”26 e quanto viene lasciato intendere nei primissimi secondi del film è come “la sciagura si annidi già da tempo nella monotonia della vita quotidiana, nella routine della coppia, nei loro impercettibili malintesi e nei loro meccanici dialoghi”27. Haneke mette in luce come la paura e l’orrore siano fenomeni endogeni, la cui origine va ricercata nella struttura stessa delle relazioni interne allo spazio circoscritto del nucleo familiare. Un aspetto che emerge anche dalla filmografia precedente del regista e un tema presente sin dalle opere d’esordio. Ne Il settimo continente – il primo film di Haneke per il cinema – una coppia di coniugi benestanti della classe media austriaca si suicida in casa, uccidendo anche la figlioletta di dieci anni, dopo aver fatto credere a tutti di essersi trasferita in Australia. Il senso di totale alienazione presente ne Il settimo continente è una sorta di estremizzazione del medesimo sentimento che osserviamo all’interno del nucleo familiare di Funny Games. Nella scelta di isolarsi dal mondo – abbandonando lentamente ogni bene materiale e ogni affetto – la famiglia protagonista opera una scelta che per certi versi si avvicina a quella dei coniugi Schöber. La decisione di Haneke di presentare la vita familiare attraverso una serie di riti che si ripetono identici all’infinito è emblematica. Tutto il film è giocato sulla ricorsività di alcuni momenti del tutto insignificanti della vita quotidiana come il lavaggio dell’auto (che è anche la prima immagine del film e, quindi, del cinema di Haneke in assoluto), la sveglia, le abluzioni mattutine, la colazione, l’arrivo al lavoro… Situazioni che da un lato suggeriscono la monotonia della vita borghese, ma dall’altro sono funzionali all’individuazione di quello che potremmo chiamare un punto di rottura. È infatti l’interruzione di questa catena di abitudini il momento che nel film introduce la tragedia. E porta questi stessi gesti a divenire, simbolicamente, i catalizzatori degli impulsi autodistruttivi messi in atto dai protagonisti. Come dice il regista: L’uomo, alla fine, non esiste, perché è la somma di tutte le sue abitudini. E anche se ha distrutto tutto, nulla è cambiato. Il suo mondo materiale si è impossessato del suo mondo interiore. Ecco perché non gli rimane che suicidarsi.28

Il tema della fragilità dell’esistenza borghese attraversa dunque il cinema di Haneke sin dall’inizio, tuttavia le modalità sia narrative sia enunciative che il regista utilizza per raccontare questa crisi assecondano una prospettiva che muove, per così dire, da un punto di vista interno alla questione. Ne Il settimo continente il “crollo dell’ordine sociale borghese”29 emerge dai comportamenti e dalle azioni dei protagonisti prima ancora che da qualsivoglia elemento esterno, ma anche in Funny Games la situazione non in realtà molto differente. Perché in film come Il settimo continente (1989) e Funny Games (1997) […] il pericolo rappresentato dai protagonisti borghesi emerge claustrofobicamente dall’interno dei loro ranghi familiari e di classe, senza alcuna forza esterna in grado di condannarli o salvarli dall’autodistruzione.30

Anche in Niente da nascondere31 (Caché, 2005) questa sorta di autoriflessività distruttiva della classe borghese emerge come uno dei temi principali. Il film, incentrato sui traumi e i ricatti psicologici che uno stimato critico letterario parigino e padre di famiglia subisce per opera di una mano misteriosa, fra le tante cose che dice (e sulle quali torneremo nei capitoli IV e V) mette in luce anche come la minaccia dello status della famiglia e della coppia borghese nasca da una spinta profondamente endogena. E come questa minaccia possa essere “letta come un’esteriorizzazione del profondo conflitto interno della vita matrimoniale borghese, suggerita in primo luogo dall’uso della cultura come isolamento dalle tensioni del mondo esterno”32. In termini più circoscritti ancora maggiormente che Funny Games, Caché concentra lo sguardo sul matrimonio, assumendolo come simbolo e allo stesso tempo metafora dello “Stato borghese”. Evidenziando le crepe che ne minano la serenità, ma mostrando anche come queste siano dovute solo in parte alla situazione contingente – le intimidazioni anonime che mettono in crisi i legami familiari. Esse fanno parte in realtà del tessuto relazionale in cui si muove la coppia e, in senso più esteso, a tutta l’élite culturale francese ed europea di cui essa diviene espressione. Rendendo esplicito quanto “la

borghesia si sia insinuata nella storia culturale”33 del vecchio continente. Per certi versi possiamo affermare che Haneke utilizzi la rappresentazione del matrimonio borghese, sempre restando all’interno di in una dimensione simbolica, come quella del luogo in cui si concretizza e diviene esplicito il disfacimento dell’individuo. Almeno per quanto riguarda il collettivo sociale circoscritto sul quale si concentra. In questo senso “molto più enfaticamente che Funny Games, Caché suggerisce il fallimento della vita borghese a livello micro e macrocosmico”34 e diventa la continuazione di un discorso che attraversa trasversalmente larga parte della filmografia del regista. E questi stessi temi, del resto, sono riconoscibili e portati alle estreme conseguenze anche nel film che forse meno di tutti somiglia alle altre opere del regista austriaco: Il tempo dei lupi (Le temps du loup, 2003). Si tratta di una distopia ambientata in un prossimo futuro dove una non meglio precisata catastrofe ha ridotto gli esseri umani a uno stato di totale barbarie. Protagonista è una famiglia – padre, madre e i due figli, una femmina e un maschio ancora adolescenti – che prova a sopravvivere in mezzo alla violenza e al crimine che dilagano ovunque. Il totale disfacimento della società è già avvenuto e le relazioni fra gli individui non rispondono più a nessun tipo di legge, né giuridica né tantomeno morale. Al di là delle implicazioni di natura politica e sociologica cui il film rimanda vale la pena di notare, restando in una dimensione simbolica, come esista una prossimità piuttosto evidente, almeno dal punto di vista narrativo, fra questo film e Funny Games. Le due opere iniziano infatti praticamente nello stesso modo, ovvero con una famiglia borghese benestante che raggiunge la casa di villeggiatura in campagna. In Funny Games sappiamo che la vicenda evolverà poi in maniera tragica, ma anche ne Il tempo dei lupi le cose non andranno meglio. Appena entrati in casa i quattro protagonisti si trovano infatti di fronte a degli intrusi – un’altra famiglia composta da una coppia con un bambino piccolo e apparentemente indigente e disperata – armati di fucile. Il padre della prima famiglia prova a ragionare con gli ospiti indesiderati ma viene

immediatamente freddato da una fucilata. La madre e i due figli a questo punto fuggono trovandosi sperduti per la campagna e in balia degli eventi apocalittici che sconvolgono il mondo. È interessante rilevare come Haneke, certamente in modo non casuale, operi qui un ribaltamento narrativo rispetto a Funny Games, lasciando però in qualche modo inalterato l’impianto metaforico. Lo spazio simbolico rappresentato dall’ambiente domestico è infatti presente anche ne Il tempo dei lupi dove viene violato, allo stesso modo che in Funny Games, da elementi esterni. Certamente la natura delle due invasioni è differente. Per le modalità, per le motivazioni che ne stanno alla base, per il carattere e le sembianze – culturali e biologiche – degli invasori. Tuttavia la scelta di definire uno spazio, che corrisponde al nido familiare, dentro il quale si origina la violenza, significa caricare i due film di valenze molto simili. Lo scarto sostanziale, e l’elemento più significativo ai fini della nostra trattazione, è però rappresentato dal fatto che ne Il tempo dei lupi lo spazio simbolico venga subito abbandonato, lasciato indietro dalla famiglia la quale, una volta venuto meno uno dei suoi componenti, si trova letteralmente senza patria e costretta ad abdicare alle norme della civiltà. La messa in relazione fra i due film risulta interessante proprio nella modalità in cui diventa possibile dotare di significato quello spazio. Ne Il tempo dei lupi la domesticità e cioè il territorio della famiglia, assume il ruolo di una rimozione, di un corpo che sopravvive come ricordo-spettro nelle coscienze dei sopravvissuti. E proprio per questo “il nuovo ordine della follia”35 che si instaura al di fuori di questo spazio non fa che riflettere le caratteristiche di violenza, morte e perdita di ogni retaggio di civiltà già viste in Funny Games. È proprio quando “quando l’ordine civile crolla ne Il tempo dei lupi – del resto – [che] le azioni di follia hanno ancora senso”. E il nuovo ordine fornisce le stesse “regole perverse del gioco nel Familienroman, il romanzo familiare freudiano, della faiglia torturata in Funny Games”36.

4) Per tutti questi motivi appare chiaro come la geografia politico-culturale alla quale Funny Games appartiene sia un tratto fondamentale e, una volta compresa, consenta di tracciare alcune delle coordinate utili all’analisi che stiamo affrontando. Procedendo nella stessa direzione è altrettanto cruciale stabilire i termini storici intorno ai quali il film si muove, proviamo a definirli. La contemporaneità di Funny Games, come già detto, è situata a metà degli anni Novanta e cioè nel decennio successivo alla fine della Guerra fredda e in quello precedente alle insicurezze conseguenti l’esplosione del terrorismo. Affondare la vicenda in un’epoca nella quale le paure collettive sono quasi del tutto azzerate, significa lavorare sul sostrato storico e politico di quella stessa contemporaneità. Un momento, cioè, nel quale “la violenza non viene dall’esterno ma dal profondo dell’oggettività”37 e dove ciò che agita le coscienze della borghesia cova sotto la cenere della vita domestica. Del resto la famiglia, così come la coppia e gli altri gruppi sociali, non soltanto in Funny Games, sono profondamente legati a tali istanze. I componenti del nucleo familiare al centro di Benny’s Video, per esempio, dimostrano come gli aberranti comportamenti dei quali si rendono protagonisti siano inscindibili dallo status sociale che ricoprono. Il film (che sarà oggetto di analisi nel prossimo capitolo) racconta di un adolescente appassionato di videoripresa che, un po’ per gioco e un po’ per sbaglio, uccide una coetanea riprendendo il tutto con la propria camera amatoriale. Quando i genitori scoprono l’omicidio la loro unica preoccupazione è quella di evitare al figlio una condanna e cercano in tutti i modi di liberarsi del cadavere e occultare le prove. Al di là delle questioni legate alle trappole della mediatizzazione della vita quotidiana su cui torneremo, ciò che preme mettere in luce è come all’interno di questo quadro di impulsi ferini e condotte ciniche e strumentali, Haneke dipinga anche il fallimento del “mondo

del tardo capitalismo”38 descrivendo “gli effetti alienanti di questo mondo a livello narrativo, stilistico e tematico”39. Il discorso hanekeiano tiene dunque in considerazione il forte legame fra il microcosmo borghese e il macrocosmo sociale di riferimento, mostrando come la contiguità culturale fra questi due mondi sia talmente inesplicabile da non riuscire a distinguere quale dei due spazi sia quello che influenza l’altro. Il fatto che in Benny’s Video la violenza, esattamente come in Funny Games, esploda e resti circoscritta interamente all’interno del nido familiare e quindi della casa, evidenzia in maniera ancora più esplicita, quanto gli impulsi negativi che si agitano abbiano una traiettoria centripeta. E la tragedia non è un evento imponderabile o inaspettato, ma pertiene fortemente la conformazione e la disposizione dello spazio in cui trova sfogo. In Funny Games, oltretutto, le modalità in cui l’elemento di rottura viene introdotto nella storia, appaiono quasi meccaniche. E se l’ingresso della violenza avviene di fatto “senza mediazioni, con calma casuale”40, è innescato da una forma di passività che potremmo definire dolosa. Ci sono almeno due situazioni salienti in questo senso. La prima è quando i due aguzzini vengono lasciati entrare in casa da Anna. La donna non manifesta alcun timore e inizialmente non vive quella di Peter come un’invasione. Al di là della fiducia che ispirano per i loro modi, la raffinatezza dei loro abiti e i comportamenti familiari, Paul e Peter sembrano infatti appartenere allo stesso spazio – inteso come milieu in senso sociale e culturale, ma anche biologico – degli Schöber e degli altri vicini. I due non si rendono protagonisti di alcuna effrazione e, di nuovo, appare evidente come la violenza si inneschi soltanto nel momento in cui tutti e cinque i protagonisti si trovano a condividere lo stesso spazio. Senza che alcun elemento lasci presagire che l’intrusione possa portare agli esiti che conosciamo. Un secondo aspetto significativo a tale proposito è il fatto che in due occasioni nel film si parli di buchi nella recinzione. La prima volta quando Peter è in cucina per farsi dare le uova da Anna e la donna gli

chiede come abbia fatto a entrare nella proprietà sentendosi rispondere dal ragazzo che nei pressi della spiaggia “c’è un buco nel recinto, vicino all’acqua”. Poi di nuovo quando Anna, prima di fuggire per cercare aiuto dopo che i due killer hanno momentaneamente lasciato la casa chiudendo dentro lei e Georg, si procura delle cesoie per tagliare la recinzione e raggiungere la casa dei vicini e successivamente la strada principale.

Immagine 1.3 Funny Games: Anna (Susanne Lothar), Peter (Frank Giering) e Paul (Arno Frisch) nell’ingresso della villa al lago della famiglia Schöber.

Si tratta di due rivelazioni funzionali non tanto a fornire una qualche ricostruzione dell’accaduto, ma piuttosto a rendere esplicita l’illusorietà della protezione data dall’isolamento. La serenità di Anna si incrina insieme a quella dello spettatore. Scoprire che c’è una fenditura nella recinzione equivale a manifestare un elemento di inquietudine nel nitore dell’ambiente borghese fin lì ritratto. Mentre suggerire che la donna debba tagliare lei stessa la rete con le cesoie per fuggire è un gesto carico di ambiguità, perché rende l’esistenza del buco stesso qualcosa di indecifrabile e della quale è impossibile determinare la funzione: esiste perché qualcuno l’ha usato per introdursi oppure per provare a scappare? In entrambi i casi tuttavia ciò che il buco nel recinto suggerisce, in termini di metafora, è l’esistenza di una crepa nel muro del sistema sociale. È un elemento dissonante che mostra la debolezza dell’apparato di valori borghese e la sua sostanziale

fallibilità. Drammaturgicamente è poco più di un MacGuffin41, ma in senso simbolico suona come un campanello d’allarme. Una sorta di rapporto di minoranza che rende concreta e visibile la spaccatura che si sta per manifestare. L’invito a lasciar entrare il male è dunque il gesto più determinante – e tragico – fra quelli cui assistiamo nel film. Rappresenta il momento chiave e il suo significato simbolico trascende da quello contingente all’economia del racconto. In ultima analisi rende esplicito come sia la famiglia la vera causa scatenante della violenza. Mentre la fredda smania omicida dei due killer è la peggiore delle conseguenze. Se proviamo ad allargare il quadro, tuttavia, l’operazione di Haneke acquista contorni più chiari e così pure la scelta autodistruttiva compiuta dai protagonisti del film. In un’ottica storica non si può trascurare il fatto che il film sia ambientato in un luogo, l’Austria, che in un passato ancora recente ha recitato un ruolo determinante per l’ascesa e la diffusione del Nazismo. Un elemento fondamentale per comprendere come a livello tematico Funny Games inglobi questa memoria tragica e diventi, in termini simbolici, una sorta di strumento che ne favorisca la riemersione. Haneke come regista austriaco e germanofono42, nato nei primi anni Quaranta del secolo scorso, non sottovaluta evidentemente questo aspetto. E anche se ha dovuto, nel corso degli anni, difendersi da alcune accuse – piuttosto pretestuose – di aver fatto un film deliberatamente fascista43, appare chiaro come il dato memoriale, la riflessione sulla rimozione e il riaffiorare in forma inconscia di un passato tanto traumatico, emergano dal tessuto narrativo. Ampliando la prospettiva quello del regista si configura quindi come un posizionamento di sguardo rispetto alla Storia dell’Austria, e dell’Europa occidentale, in senso culturale. Spalancare la porta agli assassini significa rimettere in atto un dispositivo, riesumare una memoria, compiere un gesto che apre al perturbante e reinnesca un trauma collettivo44. Ovvero quello dell’Austria “prima vittima della Germania nazista” come esclama la protagonista di un precedente film televisivo del regista (anche sceneggiatore), Drei Wege zum See (1976) –

tra l’altro ambientato sulle sponde di un lago, in una casa di vacanza borghese, vicino a Klagenfurt, nel nord dell’Austria. E quindi, estendendo l’analisi, di un paese intero che ha letteralmente dischiuso le porte al male, lo ha lasciato entrare e ha permesso che si annidasse nelle case della gente e nelle loro coscienze, nell’intimità. E il tutto senza alcuna resistenza e con una passività che si è tramutata, nel corso della Storia, in una colpa collettiva. Non è un caso che il regista faccia spesso riferimento alla questione della colpa quando parla del proprio cinema: Il tema della colpa è presente in tutti i miei film. […] Non c’è nessuna vittima nei miei film che sia completamente innocente. Tuttavia, queste vittime non vengono uccise a causa dei loro sentimenti di colpa. In Funny Games stavo giocando con una contraddizione ironica: ognuna delle mie vittime si è resa colpevole di un atto riprovevole prima che i torturatori prendessero il sopravvento. Certo, sono stati costretti dai due giovani a comportarsi così, […] era un modo ironico per impedire agli spettatori di schierarsi subito con le vittime perché simpatizzavano completamente con loro.45

Per comprendere meglio la connessione fra colpa collettiva e individuale in Funny Games e, in senso più ampio, nel cinema di Haneke vale la pena prendere in considerazione il remake del film, girato dallo stesso regista a dieci anni esatti di distanza dal primo e intitolato allo stesso modo: Funny Games46 (2007). Si tratta di quello che in gergo viene chiamato un remake “shot for shot”, ovvero un rifacimento in cui ogni inquadratura replica il più fedelmente possibile quelle del film originale, con angolazioni di ripresa e movimenti di macchina riprodotti in maniera identica. Così come la sceneggiatura, che è la medesima, e la ricostruzione dei set. Nel caso specifico le differenze più evidenti stanno nella scelta degli attori, nella lingua in cui essi recitano e nell’ambientazione, oltre che ovviamente nel tempo della storia. Non l’Austria degli anni Novanta in cui si parla tedesco quindi, ma gli Stati Uniti del 2007 con la recitazione in lingua inglese. Al posto di Susanne Lothar e Ulrich Mühe – i due interpreti tedeschi protagonisti del film del 1997 – ci sono due attori hollywoodiani come Naomi Watts e Tim Roth. I motivi per cui Haneke ha scelto di girare un remake del proprio film sono molteplici ma il principale è che egli ha sempre

considerato difficile che le sue opere attirassero il pubblico americano, specialmente per via dello scoglio rappresentato dalla lingua47. La versione americana aveva perciò come intento quello di arrivare all’audience che non era andata a vedere il primo film, tuttavia lo scopo non è stato raggiunto nemmeno la seconda volta48. Tralasciando i discorsi produttivi e senza entrare nello specifico delle letture semiotiche che hanno contraddistinto l’analisi di Funny Games U.S. ma tornando alle questioni fin qui espresse, ciò che va tenuto in considerazione più di ogni altra cosa è la distanza temporale che intercorre fra i due film. Essi sono sì separati da un periodo di dieci anni – che è già un lasso di tempo considerevolmente ampio – ma sono soprattutto divisi dall’evento nodale della Storia contemporanea: l’11 settembre 2001. Il trauma collettivo provocato dagli attentati e dalla loro mediatizzazione, così come le conseguenze di natura storica e geopolitica cui essi hanno dato luogo, hanno giocoforza mutato anche le modalità di approccio del pubblico alle immagini cinematografiche. Per quanto riguarda il film oggetto di analisi è innegabile come la violenza, per via della sua natura peculiare, se confrontata con l’immaginario andatosi a definire negli anni dopo l’11 settembre, assume una rilevanza totalmente nuova e differente rispetto al passato. Il riferimento è alle scene di tortura che, come molti studiosi e critici hanno rilevato, dopo le immagini da Guantanamo e Abu Ghraib rimbalzate in tutto il mondo, non potevano più avere lo stesso significato di prima. Il critico Christophe Beney scriveva già nel 2008 come la forza del film in termini di immaginario fosse la sua potenziale replicabilità a livelli differenti: “non c’è motivo di fermarsi a un remake. Si potrebbe immaginare un’intera serie di Funny Games, ad esempio, ‘Funny Games Iraq’ o ‘Funny Games China’”49 come a dire che a seconda di come cambia la realtà di riferimento intorno allo spettatore, così cambia il modo di interpretare le immagini. E di certo osservare un personaggio incappucciato, legato mani e piedi e messo in ginocchio – come è Schorschi nella lunga sequenza delle torture prima che riesca a liberarsi e, momentaneamente, a scappare – ha un

significato differente se lo si guarda prima o dopo i fatti di Abu Ghraib. La prova dell’intento politico di Haneke sta, come osserva Oliver Speck, in questa ripetizione di immagini – perché – dopo l’11 settembre, Guantanamo Bay e lo scandalo di Abu Ghraib, le scene di tortura non sembrano più così inverosimili e separate dalla realtà come in passato, il che fornisce un’idea della motivazione per rifare il proprio film per gli Stati Uniti.50

Si potrebbe aggiungere come in questo quadro il tema della colpa, aggiornato e storicamente ancora più attuale rispetto a come appariva nel film del 1997, diventi a sua volta un dispositivo politico – quasi ideologico – e se configurato in senso collettivo, diviene la rappresentazione del rimosso di un intero popolo. Di una nazione (e qui il discorso è valido sia per l’Austria, e quindi l’Europa, sia per gli Stati Uniti) che condivide una colpa talmente nel profondo da portarla dentro i corpi, le cose, i territori emotivi della propria soggettività e – naturalmente – nelle immagini che produce. Per questo, soprattutto, lo spazio dentro Funny Games diventa un dispositivo simbolico e polisemico. E sempre per questo il film non è un home invasion thriller in senso tradizionale e Haneke non è un regista sadico che si diverte a torturare gli spettatori come gli aguzzini del film torturano le proprie vittime. La questione è riassunta in maniera efficace da Thomas Elsaesser: L’intruso o “invasore domestico” è un personaggio/motivatore standard del film horror, ovviamente, ma è anche una caratteristica relativamente importante del film d’arte europeo. Da un lato, lui (ed è principalmente un “lui”) agisce da catalizzatore o “innesco” per una crisi interna di auto-decostruzione o auto-implosione, spesso del nucleo familiare. Haneke, a quanto pare, lascia aperta la questione se l’intruso nei suoi film sia malevolo, benevolo o entrambi, e così si unisce ad altri registi internazionali in una continua riflessione su uno dei temi chiave del nuovo secolo: il difficile riallineamento della sfera pubblica e privata, di esclusione e inclusione, e – per lo più sottilmente – esclusione attraverso l’inclusione.51

Funny Games in questo senso si dimostra un’opera perfettamente centrata rispetto alla contemporaneità che mette in scena. Capace di riflettere gli stigmi e le problematicità di un’epoca di grossi sconvolgimenti, per lo più molto difficili da comprendere e da mettere nella giusta prospettiva. Temi che

anche a venticinque anni di distanza mostrano come gli orizzonti autoriali consentano di individuare e comprendere al meglio la complessità di tutto quello che sta dentro, e intorno, a un film tanto stratificato – e che il riverbero politico, sociale e culturale che viene a crearsi attraverso il remake rafforza. Ma anche come aiutino a leggere lo spirito e i nodi del presente e dei discorsi storici a esso correlati. Con grande efficacia e senza che letture semplici o superficiali possano comprometterne la portata. 1

Cfr. P. Brunette, Michael Haneke, Illinois University Press, Urbana/Chicago 2010, p. 67.

2

A proposito del tema della crudeltà nel cinema di Haneke e specialmente in Funny Games si vedano fra gli altri i contributi di B. Peucker, Violence and Affect: Haneke’s Modernist Melodramas, in B. Peucker, The Material Image: Art and the Real in Film, Stanford University Press, Palo Alto (CA) 2007, pp. 129-158; L. Coulthard, Ethical Violence: Suicide as Authentic Act in the Films of Michael Haneke in B. McCann, D. Sorfa (a cura di), The Cinema of Michael Haneke: Europe Utopia, Wallflower Press, Londra 2011, pp. 38-48; F. Fogliato, La visione negata – Il cinema di Michael Haneke, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2008, pp. 13-24.

3

Il tema è affrontato nel celebre saggio, di cui Haneke è autore, Violenza e media in A. Horwath, G. Spagnoletti, op. cit.; tr. it. di M. Coletti, pp. 71-76 e pubblicato originariamente come Violence and Media (Gewalt und Medien) in G. Larcher, F. Grabner, C. Wessely (a cura di), Visible Violence. Sichtbare und verschleierte Gewalt im Film, LIT Verlag, Münster 1998, pp. 93-97.

4

Per una migliore comprensione di Funny Games in rapporto al tema della violenza fra gli studi più recenti e rilevanti, senza alcuna pretesa di esaustività, segnaliamo T. Assheuer, Il fascismo dello sguardo. Con violenza contro la violenza: il film scandalo di Michael Haneke “Funny Games” in A. Horwath, G. Spagnoletti. op. cit.; tr. it. di G. Rendi, pp. 153-156; Y. Akyıldız, Funny Games and the Audience, in “European Journal of Business and Social Sciences”, vol. V, n. 8, 2016, pp. 61-70; A. Gerbaz, The Ethical Screen: Funny Games and the Spectacle of Pain, in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., pp. 153171; C. Wheatley, The Ethics of Aggression: Funny Games, in C. Wheatley, Michael Haneke’s Cinema: The Ethic of the Image, Oxford/Berghahn 2009, pp. 78-112.

5

Fra gli altri cfr. P. Brunette, op. cit., p. 67; O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, Continuum, London/New York 2010, p. 9; B. Price, Pain and the Limits of Representation, in B. Price, J. D. Rhodes (a cura di), On Michael Haneke, Wayne State University Press, Detroit 2010, p. 41.

6

Haneke citato in M. Cieutat, P. Rouyer (a cura di), Haneke par Haneke, Éditions Stock, Paris 2017; tr. it. di M. Matteri, Michael Haneke – Non ho niente da nascondere, Il saggiatore, Milano 2019, p. 158.

7

È abbastanza evidente come il genere, in questo caso, venga sfruttato dal regista al fine di mostrarne la distanza rispetto al proprio lavoro “decostruendo lo stereotipo della famiglia presa in ostaggio comune ai generi horror e thriller” (A. Gerbaz, op. cit., p. 163). Lo stesso Haneke ha spesso sottolineato la discordanza fra il suo film e i generi in senso tradizionale e ha definito Funny Games “una forma di riflessione sul thriller” (in M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 197). Sul rapporto fra Funny Games e il sotto-genere dell’“home invasion thriller” si veda anche O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., pp. 30-31.

8

Rispetto alla questione della moralità nel cinema di Haneke segnaliamo soprattutto l’acuta analisi di Catherine Wheatley nel capitolo intitolato The Last Moralist? all’interno del suo volume Michael Haneke’s Cinema: The Ethic of the Image, op. cit., pp. 14-50.

9

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 191.

10

Cfr. R. Darhendorf, Quando i populisti mettono in crisi i partiti, La Repubblica, 29 agosto 2006.

11

Crf. M. Kaldor, New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity Press, Cambridge 1999; tr. it. di G. Foglia, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma 1999; F. Heisbourg, Hyperterrorisme: la nouvelle guerre, Édition Odile Jacob, Paris 2001; tr. it. di A. Perri, Iperterrorismo. La nuova guerra, Meltemi, Roma 2002; M. Jürgensmeyer, Terror in the Mind of God: The Global Rise of Religious Violence, University of California Press, Berkeley 2000; tr. it. di F. Galimberti, Terroristi in nome di Dio, Laterza, Roma-Bari 2003; W. Laqueur, The New Terrorism: Fanaticism and the Arms of Mass Destruction, Oxford University Press, Oxford 1999; tr.it. di S. Mancini, Il nuovo terrorismo, Corbaccio, Milano 2002.

12

Cfr. E. J. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, Michael Joseph, London 1994; tr. it. B. Lotti, Il Secolo breve, Rizzoli, Milano 1996; S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1994; tr. it di S. Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000; A. D’Orsi, Guerra globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Carocci, Roma 2005; J. Black, War Since 1945, Reaktion Books, London 2004; tr. it. di G. Balestrino, Le guerre del mondo contemporaneo, il Mulino, Bologna 2006.

13

Il grindcore è un genere musicale caratterizzato da sonorità particolarmente aggressive e distorte, uno stile vocale gridato – cosiddetto growl (letteralmente “ringhio”, ma inteso come gutturale e dal suono cupo) – e testi provocatori e fortemente politicizzati (con temi che spaziano dall’antimilitarismo, all’anticapitalismo e al femminismo arrivando fino allo splatter e alla pornografia). Il termine è stato coniato dal gruppo britannico dei Napalm Death verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Spesso viene associato e si sovrappone, per affinità tematiche e sonore e per ispirazione, al thrash e al death metal. In questo volume ci riferiremo sempre ai Naked City come a un gruppo grindcore, ma alcune citazioni conterranno in proposito la denominazione “metal”, “death metal” o “heavy metal”. Cfr. J. McIver, Extreme Metal Handbook, Omnibus Press, 2000.

14

A proposito del brusco accostamento dalla musica di Mascagni, Händel e Mozart a quella dei Naked City Haneke ha dichiarato: “Si tratta di distinzioni totalmente assurde, soprattutto se si insiste sul fatto che un artista come John Zorn debba essere considerato come classico o sperimentale o pop, dal momento che il suo lavoro attraversa tutti i generi musicali. Vedo in John Zorn una specie di über-heavy metal, un’accentuazione estrema e ironica di quella forma, così come il film è un’inflessione estrema del thriller. Penso che lo stile di Zorn tenda ad alienare l’ascoltatore in un senso che aumenta la consapevolezza, il che è stato efficace nei punti in cui volevo ottenere quell’effetto”. C. Sharrett, The World That is Known: An Interview with Michael Haneke, in R. Grundmann (a cura di), A Companion to Michael Haneke, Blackwell, Oxford 2010, p. 583.

15

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 197.

16

Cfr. B. Price, op. cit., p. 40.

17

Cfr. C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, in B. Price, J. D. Rhodes, op. cit., p. 216.

18

B. Price, op. cit., p. 40.

19

T. Assheuer, op. cit., p. 155.

20

Ibid.

21

Cfr. F. Fukuyama, The End of History?, in “The National Interest”, n. 16, summer 1989, pp. 3-18. Dal saggio l’autore ricavò successivamente il volume The End of History and the Last Man, Free Press 1992; tr. it. di D. Ceni, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1996.

22

B. Price, op. cit., p. 40.

23

L’establishing shot (in italiano totale d’ambiente) è uno schema di montaggio in cui una o più inquadrature larghe informano lo spettatore del luogo in cui si svolgerà l’azione, azione che sarà ripresa successivamente da inquadrature più strette.

24

B. Price, op. cit., p. 40.

25

Ibid.

26

T. Assheuer, op. cit., p. 155.

27

Ibid.

28

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 197.

29

A. Lykidis, Multicultural Encounters in Haneke’s French-Language Cinema, in R. Grundmann, op. cit., p. 455.

30

T. Assheuer, op. cit., p. 155.

31

Il titolo di distribuzione italiano non restituisce il senso dell’originale – Caché – che è in francese e significa “nascosto”. E pur trattandosi di una battuta tratta dai dialoghi del film – “Non ho niente da nascondere”, pronunciata dal protagonista e ripetuta in due diversi momenti – estrapolata dal contesto risulta fuorviante. Perché contraddice completamente il senso del film stesso, dato che è proprio intorno a ciò che viene nascosto, celato, tenuto segreto – tanto in termini privati quanto in una dimensione pubblica e collettiva – e alla complessità generata da tale gesto, che si articola il significato più profondo

dell’opera. Per tutti questi motivi da qui in avanti faremo riferimento al film utilizzando il solo titolo originale. 32

C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, cit., p. 216.

33

Haneke citato in Id., The World That is Known: An Interview with Michael Haneke, cit., p. 583.

34

C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, cit., p. 217.

35

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 147.

36

Ibid.

37

C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, cit., p. 217.

38

L. Coulthard, op. cit., p. 41.

39

Ibid.

40

C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, cit., p. 217.

41

Al cinema il MacGuffin è un particolare tipo di espediente narrativo. All’interno di un film fa riferimento a un determinato oggetto, evento o personaggio che acquista un’importanza cruciale per i personaggi e intorno al quale si determinano i destini di questi ultimi, ma che ha scarsa rilevanza per lo spettatore. Il termine è stato coniato dallo sceneggiatore Angus MacPhail e poi adottato e reso celebre da Alfred Hitchcock a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Cfr. W. Harmon, A Handbook to Literature, Longman, Boston 2012.

42

Non va trascurato il fatto, in questa riflessione, che Haneke è austriaco per parte materna ma tedesco sia di nascita (Monaco di Baviera è la sua città natale) sia da parte di padre.

43

Intervistato da Michel Cieutat, alla domanda su come giudica le accuse di aver fatto un film fascista Haneke risponde: “Il film non potrà mai essere fascista o nazista, perché il nazismo consiste essenzialmente nel violentare le persone per togliergli qualcosa. Se il mio film fosse fascista, violerebbe i pensieri degli altri. Quelli che chiamano il mio film un film nazista sono quelli che non vogliono capire il fenomeno della colpa […]. Colpa che si applica ugualmente, durante la proiezione, agli spettatori. Ma forse queste persone semplicemente non vogliono capire!”. M. Cieutat, Entretien avec Michael Haneke, “La fragmentation du regard”, in “Positif” n. 478, Décembre 2000, p. 29.

44

Il tema della “colpa”, come è noto, tornò di grande attualità nel 1986 quando lo storico revisionista Ernst Nolte pubblicò sulla “Frankfurter Allgemeine” il famoso articolo Il passato che non vuole passare. Da quell’articolo scaturì la Historikerstreit, la grande disputa degli storici tedeschi sul passato nazista e sulla “unicità” del “male” rappresentato dal nazismo e, naturalmente, dall’Olocausto. Sul tema si veda G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa, Einaudi, Torino 1987.

45

In M. Cieutat, op. cit., p. 29.

46

È indicato spesso anche con il titolo di Funny Games U.S. che è quello che per comodità e al fine di evitare fraintendimenti utilizzeremo anche noi per riferirci al film.

47

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 192.

48

“Il pubblico che volevo raggiungere con Funny Games non è venuto davvero a vedere il film. Ecco perché ho fatto un remake americano a Hollywood con delle star, ma è accaduta di nuovo la stessa cosa”, Haneke citato in ivi, p. 188.

49

C. Beney, Funny Games U.S., in “Cahiers du cinema” n. 633, avril 2008, p. 60.

50

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 167.

51

T. Elsaesser, Performative Self-Contradictions Michael Haneke’s Mind Games, in R. Grundmann, op. cit., p. 59.

II. FAMIGLIA: BENNY’S VIDEO

Vienna, primi anni Novanta. Benny è un adolescente di buona famiglia che abita con i genitori – Georg e Anna – e ha una sorella maggiore, Evi, che vive fuori casa. È appassionato di video: nella sua stanza ha alcune camere amatoriali, una serie di monitor, videoregistratori e moltissime vhs. È particolarmente attratto dai filmati di violenza, come quello dell’uccisione di un maiale – girato da lui stesso – che rivede in continuazione. Un sabato, mentre i genitori sono fuori città per il fine settimana, in una videoteca conosce una coetanea e decide di invitarla a casa. La ragazza accetta, una volta da lui Benny le mostra il video del maiale e subito dopo esibisce la stessa pistola da macello che si vede nel filmato. Per gioco e mentre una delle videocamere li registra, Benny sfida la ragazzina a usare la pistola contro di lui, ma lei prima si rifiuta e poi rivolge la sfida al ragazzo. Quando si trova l’arma fra le mani, forse accidentalmente o forse no, Benny fa partire un colpo e ferisce gravemente la ragazza. In preda al panico e infastidito dalle grida di lei il giovane esplode quindi un altro colpo, questa volta intenzionalmente, uccidendo la povera malcapitata. Dopo aver nascosto il cadavere il giovane decide di passare la notte a casa di un amico; il giorno seguente, andando a zonzo per la città, prima si reca dalla sorella che però non è in casa, poi entra da un barbiere e si fa rasare la testa a zero. La sera, in camera sua, si mette a riguardare il video dell’omicidio mostrandolo anche ai genitori appena rientrati. Essi, sconvolti, discutono sul da farsi e alla fine concludono che la cosa migliore sia quella di evitare al figlio

conseguenze penali. Mentre Benny e la madre partono per un viaggio in Egitto di alcuni giorni, il padre si occupa di fare a pezzi e occultare il cadavere. Al rientro ogni cosa sembra essere tornata alla normalità, Benny riprende la scuola e tutti si comportano come se non fosse mai successo nulla. Poco tempo dopo però il ragazzo si reca al commissariato di polizia e mostra agli agenti una registrazione filmata di nascosto in cui i suoi genitori parlano di come sbarazzarsi del cadavere della ragazzina e salvare il figlio dalla prigione. Il padre e la madre vengono arrestati e portati al commissariato, qui si incontrano brevemente con Benny che, mentre esce dalla stanza dell’interrogatorio, li guarda e si scusa educatamente con loro. Benny’s Video (1992), il secondo film per il cinema di Haneke, è uno dei capitoli che compone la cosiddetta “trilogia della glaciazione”. Ovvero l’insieme di opere realizzate a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, piuttosto diverse fra loro, ma accomunate dal fatto di affrontare storie di anaffettività, dissociazione dal mondo e aridità emotiva, ambientate nell’Austria del presente e tratte da casi di cronaca realmente accaduti. Oltre a Benny’s Video – che è il film intermedio dei tre – completano la struttura in tre atti il già citato Il settimo continente e 71 frammenti di una cronologia del caso (71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, 1994). Anche se l’idea di comporre una trilogia da parte del regista si è manifestata soltanto dopo il completamento del primo film1, la progettualità dell’operazione resta comunque piuttosto evidente. Il termine glaciazione utilizzato per definire questo complesso di opere viene dall’espressione “glaciazione emotiva” (emotionalen Vergletscherung), usata da Haneke stesso per riassumere nella maniera più efficace possibile la prospettiva autoriale lungo la quale si inserisce tutto il lavoro. Per la verità con il tempo Haneke si è disaffezionato e ha preso le distanze da tale etichetta, preferendo evitare di utilizzarla troppo spesso. La ragione, condivisibile, è che i tre film pur avendo diversi tratti in comune descrivono situazioni e

propongono riflessioni piuttosto differenti e raccoglierli sotto una denominazione-contenitore rischia di semplificare eccessivamente il discorso2. In effetti la trilogia rivela questioni e spinge a considerazioni che esulano dalla semantica cui il termine chiave rimanda. La questione dell’anaffettività come metro di relazione fra i personaggi e della mancanza di empatia nei rapporti umani cui “glaciazione emotiva” rimanda, pur rendendo bene l’idea dell’atmosfera che aleggia all’interno dei film – e raccogliendo idealmente molte delle istanze presenti – non risulta affatto esaustiva. Assumendo uno sguardo retrospettivo mirato a esaminare non tanto il contenuto esteriore delle opere, quanto i processi storici dentro i quali esse sono inserite, è possibile però spostare l’analisi su riflessioni più articolate e a più ampio respiro in cui la questione emotiva resta sullo sfondo. Presa in esame oggi la trilogia – e analizzati singolarmente i film che la compongono – ci appare come una sorta di oggetto rivelatore. Una cartina di tornasole in grado di diventare un dispositivo di interpretazione con cui rileggere – e provare a ripensare – alcuni dei momenti cruciali della nostra Storia recente e i sentimenti e le pulsioni che la attraversano. Fornendo al contempo uno sguardo endemico su determinate costanti culturali e tratti tipici della modernità. E questo nonostante la rappresentazione sia per lo più inserita all’interno di quello che potremmo definire un quadro chiuso. Vale a dire uno schema narrativo stringente, nel quale il regista inserisce sotto forma di simboli e metafore gli elementi di cui si serve per imbastire l’impianto teorico, oltre che narrativo, su cui i film si reggono. Quella di costruire dei film cosiddetti a tesi è infatti una delle critiche più frequenti che viene mossa al regista austriaco. Con relative accuse, cui si è già accennato, di manipolazione nei confronti dello spettatore, il quale sarebbe portato ad aderire completamente all’apparato concettuale allegato – e strettamente avvinto – alla materia narrativa3 4. Al di là delle considerazioni di carattere generale sulle strutture significanti che compongono la trilogia, ciò su cui

vogliamo focalizzarci è un’analisi più approfondita di Benny’s Video. Abbiamo già brevemente evidenziato alcune delle attinenze fra questo film e Funny Games. Somiglianze ben note e già esplicitate dallo stesso Haneke il quale ha dichiarato in più di un’occasione come “[i]n un certo senso, Funny Games sia la versione farsesca di Benny’s Video!”5. Tuttavia, al di là delle affinità fra i due film, Benny’s Video presenta al suo interno anche una serie di tematiche che ritroviamo a più riprese in tutta l’opera del regista. Temi che rivelano molta della complessità dello sguardo di Haneke – qui ancora nella fase iniziale della carriera cinematografica – se osservati limitatamente al film oggetto d’analisi, ma ancora più ricchi di sfumature allorché confrontati con la filmografia successiva. Segnatamente intendiamo concentrarci su un elemento particolarmente significativo e utile a rafforzare la prospettiva teorica di questo studio. Dopo aver analizzato la violenza in relazione alla rappresentazione dello spazio domestico proviamo ora ad entrare nello specifico delle modalità in cui nei film di Haneke vengono rappresentati il nucleo familiare e i suoi componenti. Ampliando il discorso iniziato nel capitolo precedente cercheremo di capire come il prototipo della famiglia hanekeiana sia un modello esportabile su scala globale e descriva non solo le pulsioni e gli istinti legati all’esperienza storica dell’Austria, ma possa diventare un dispositivo culturale in grado di incarnare lo stato di dissoluzione dei legami in senso collettivo presente in tutta l’Europa e l’occidente. In questi termini espliciteremo come i legami di sangue, all’interno dello spazio domestico descritto dai film di Haneke, diventino il primo indizio dello sfaldamento delle relazioni – su base sociale, ma anche culturale – del vecchio continente. L’analisi di altri film del regista su cui ci concentreremo, risulterà utile per meglio individuare la continuità e la trasversalità di tali tematiche partendo dai lavori più vecchi fino a quelli recenti. 1)

Benny’s Video è l’unico fra i tre capitoli della trilogia a non essere ispirato da un caso di cronaca precisamente identificabile. Il settimo continente prende infatti spunto da un articolo apparso sul settimanale tedesco Stern nei primi anni Ottanta in cui veniva raccontata la vicenda realmente accaduta di una famiglia che aveva deciso di suicidarsi dopo aver distrutto tutto ciò che possedeva6. 71 frammenti di una cronologia del caso si basa invece su un evento diventato piuttosto celebre nell’Austria dei primi anni Novanta: il 23 dicembre del 1993 un soldato di leva dell’esercito entrò armato in una banca di Vienna e uccise quattro persone senza una ragione apparente7 8. Per Benny’s Video invece, Haneke, pur avendo iniziato a pensare alla storia volendo restare fedele all’idea – che è alla base di tutta la trilogia – di parlare della contemporaneità attraverso casi di cronaca avvenuti nella società austriaca o tedesca, e quindi il più possibile prossimi al suo sguardo e alla sua esperienza, non sceglie nessun particolare evento da cui prendere spunto. Il film nasce dalla messa in relazione di numerosi e differenti episodi di cronaca raccolti nel corso degli anni dal regista: Mi sono imbattuto sui giornali in diversi casi di giovani uomini che avevano commesso un omicidio e che, dopo una richiesta di spiegazioni, si limitavano a dire: “Volevo sapere come ci si sente!”. Mi ha davvero sconvolto e ho iniziato a pensare al soggetto.9

La sceneggiatura, i personaggi e le situazioni narrative nascono dunque dalla fantasia del regista ma sono riconducibili a una serie di fatti di cronaca che messi tutti insieme producono la base per un racconto. Qualcosa che non rimette in scena una vicenda reale – pur con le libertà del caso, come negli altri due film della trilogia – ma si configura tuttavia come plausibile. La notazione è importante perché determina che quanto accade nel film, anche senza essere completamente individuabile in termini concreti, rappresenta una effettiva illustrazione del contesto sociale di riferimento. Ed è perfettamente inserito nel milieu borghese della capitale austriaca. Ovvero dentro il tessuto culturale della classe media viennese in cui il regista ambienta tutto il proprio cinema degli

esordi. Inoltre il fatto di non essere la trasposizione fedele di un fatto reale consente al film di porsi come un’illustrazione prototipica del mondo e della società che rappresenta. Specialmente per quello che riguarda i personaggi e il nucleo familiare al centro della storia. Benny e la sua famiglia incarnano del resto un modello perfettamente identificabile agli occhi dello spettatore. Sappiamo che i genitori hanno dei lavori di alto livello – lui è un pezzo grosso nel campo della tecnologia high-tech, lei è nel mercato dell’arte – ma è attraverso una serie di elementi molto precisi che riconosciamo lo status sociale e culturale al quale appartengono. Come le due case: quella in città che è moderna, ampia, elegante e finemente arredata – la sala da pranzo è ricca di dipinti di epoche diverse, da Leonardo da Vinci a Andy Warhol, appesi alle pareti – e quella in campagna dove i genitori si recano ogni fine settimana in villeggiatura, situata nel luogo in cui Benny filma l’uccisione del maiale. La sorella di Benny è invece, con molta probabilità, una studentessa che abita con altri coetanei mantenuta dai genitori (si fa riferimento a una forte somma di denaro che la madre dà alla figlia all’insaputa del padre). Benny inoltre dispone di un impianto di videoripresa particolarmente all’avanguardia – piuttosto insolito da trovare nella stanza di un adolescente – e tanto da suscitare lo stupore della ragazzina che invita a casa, la quale gli chiede se gliel’abbiano comprato i genitori. Il giovane poi canta nel coro di musica liturgica della scuola – una attività che richiama l’immaginario di un determinato ceto sociale e culturale – con il quale lo vediamo impegnato, elegantemente vestito, nell’esibizione che anticipa il finale del film. Il brano che viene eseguito è il mottetto di Bach “Jesu, bleibet meine Freude” (Gesù, rimane la mia gioia) del quale i versi che ascoltiamo sono quelli del quinto movimento e recitano: “A dispetto dell’antico serpente / a dispetto delle fauci della morte / a dispetto anche della paura / Scatenati, terra, e trema / io resto qui e canto / in perfetta pace”10. Come ha notato Christopher Sharrett: “la professione di fede di Bach si trasforma in un incredibile atto di sfida borghese, i testi esprimono l’assoluto senso di sicurezza di una classe

sociale”11. Non è certamente un caso quindi che il regista scelga di inserire proprio questo preciso estratto della partitura di Bach – fornendo un indizio, peraltro in forma non diegetica e quindi rilevabile dai personaggi stessi – del mondo che sta descrivendo. Nell’ impostare le narrazioni che prevedono al centro la famiglia borghese Haneke designa con grande accuratezza un ambiente – si potrebbe definire quasi un habitat – dentro il quale inserisce tutti gli elementi più idonei a descrivere non solo la collocazione in senso pratico e relativa al mondo materiale dei suoi personaggi, ma anche il loro posizionamento ideologico. Per certi versi la sua è una rappresentazione profondamente didascalica e anche se non propriamente stereotipata, in ogni caso improntata all’evidenza. A presentare cioè gli elementi del racconto nella maniera più decifrabile possibile, un atteggiamento che gli deriva certamente dall’esperienza maturata in campo televisivo. Tuttavia è proprio dentro questa intelligibilità che egli situa l’ambiguità del suo sguardo ed elabora i concetti che punteggiano il racconto a livello più profondo. In tal senso, come sottolinea Ricardo Domizio è dunque piuttosto evidente come: Nei racconti inseriti all’interno della sede della famiglia borghese (leggi: bianca, occidentale) Haneke rivendica una funzione esemplare per questi film, “politica” se si vuole. L’archetipo del nucleo familiare della classe media – l’incarnazione della società “rispettabile” per i partiti socialdemocratici di centro-destra – è messo tra parentesi e messo alla prova fino allo stremo, soggetto a violenti attacchi dall’“esterno”.12

È dunque un archetipo molto chiaro a essere messo in crisi dalla struttura del racconto hanekeiano. Se, come esplicitato nel primo capitolo, nei film del regista esiste uno spazio dentro il quale restano sepolti e ribollono pronti a esplodere i traumi collettivi di un intero popolo, in forma analoga è presente un costrutto sociale formato da individui il cui agire incarna, e allo stesso tempo innesca, la medesima polveriera di istinti negativi. Ovvero la famiglia. La rappresentazione della famiglia borghese come gruppo in grado di catalizzare la catastrofe è una costante che troviamo – regolarmente

aggiornata – in tutta la filmografia di Haneke. E la violenza, quando una famiglia è protagonista del film, erompe sempre all’interno di essa e delle mura domestiche. Elemento che contrasta decisamente, come già visto relativamente a Funny Games, con l’idea più convenzionale e culturalmente accettata dell’interno borghese come luogo rassicurante e, appunto, rispettabile. Del resto la famiglia Schöber, così come quella senza cognome di Benny’s Video – elemento che ne sottolinea il carattere universale – al di là del fatto che la violenza in cui si trova immersa sia subita o provocata, non ha alcun tratto caratteriale o estetico che la identifichi come soggetto in grado di attivare il tipo di azioni di cui si rende protagonista. L’idea di lavorare su questo discrimine è quindi rivelatrice della volontà del regista di porre l’istituzione familiare in un territorio di forte ambiguità morale. E di giocare proprio sulle discrepanze che nella mente degli spettatori si creano mettendo a confronto lo spaccato sociale che viene raccontato e i gesti che si definiscono al suo interno. Concentrando l’attenzione sulla famiglia Haneke compie una scelta molto netta. E cioè quella di creare un referente interno alla propria narrazione in grado di catalizzare ed esprimere in termini concreti le numerose istanze sulle quali riflette e che pone poi al vaglio degli spettatori. Specialmente quelle meno riconciliate e più cariche della complessità tipica del suo cinema. Ma ragiona anche sul concetto istituzionale della famiglia, ovvero sul ruolo di quest’ultima all’interno dello spazio politico, sociale e culturale dei sistemi in cui è inserita. Sistemi che, come vedremo, nel corso del tempo e del progredire della filmografia hanekeiana mutano posizione, temporalità e prospettive. In termini simbolici è dunque possibile leggere l’ente sociale della famiglia come una sorta di schema esemplare del cinema del regista austriaco. E allo stesso modo determinarne la ricorrenza e la trasversalità relativamente alle tematiche dei suoi film.

Immagini 2.1 e 2.2 Benny’s Video: Benny (Arno Frisch) mostra alla ragazza (Ingrid Stassner) i video delle camere a circuito chiuso sul monitor della sua stanza.

La famiglia per Haneke diventa il perno su cui innestare la riflessione riguardo a una delle questioni fondamentali e a lui più care: il rapporto fra dimensione pubblica e privata. Un rapporto che riguardando direttamente lo spazio dell’individuo all’interno della società, nel momento in cui viene messa in crisi o addirittura crolla, può creare delle forti cesure nell’ambiente sociale dentro il quale si trova calato. E determinare quindi una frizione destinata, come dimostra molto bene Benny’s Video, a dare origine a una spaccatura. È quando questo fragile equilibrio si trova sotto minaccia che il

sistema di valori borghese su cui si regge l’esistenza stessa del concetto di famiglia scende a patti con la propria natura deviante. Come nota Oliver Speck, nella trilogia la famiglia nucleare […] – come d’altronde tutte le famiglie del cinema di Haneke – agisce in malafede erigendo una cattiva immanenza, una chiusura al mondo esterno nel vano tentativo di far risorgere ciò che è stato a lungo perso nella postmodernità: la differenza tra spazio pubblico e spazio privato.13

Haneke nel film esplicita proprio questa differenza mediante una scelta grafica evidentissima. Si tratta di un uso dell’immagine – o meglio dell’accostamento fra due immagini – talmente chiaro e semplice da comprendere che è impossibile travisarne il significato. Avviene nella scena in cui Benny invita la ragazzina nella sua stanza e, poco prima di ucciderla, fa sfoggio del proprio impianto di videoripresa e montaggio. Sullo schermo del monitor vicino alla scrivania c’è l’immagine in diretta della strada sottostante inviata da una sorta di camera di sorveglianza posizionata all’esterno. Tramite un tasto sul monitor Benny mostra alla ragazza come sia possibile passare dalla ripresa che stanno osservando a quella di un’altra videocamera posta all’interno (la stessa che poco dopo filmerà l’omicidio), ripetendo il gesto dello “switch” almeno un paio di volte. Sembra un momento banale, eppure nella distanza fra le due immagini che si alternano sullo schermo Haneke inserisce il senso della sua narrazione e descrive come meglio non si potrebbe la contrapposizione fra quello che sta fuori e quello che invece rimane dentro la stanza – e in senso metaforico fra i mondi, gli ambienti, gli spazi culturali coinvolti. Ma anche come la dinamica del controllo – nel tentativo di mantenere intatta questa separazione – domini il comportamento di chi risiede nel lato interno. 2) Perché è proprio da dentro – ancora una volta – che arriva la minaccia. Solo qualche istante più tardi Benny ucciderà la sua vittima nello stesso identico punto in cui le aveva mostrato il funzionamento del video a circuito chiuso, nel buio della

stanza in cui tiene le tende oscuranti sempre abbassate14 e l’unico quadro nitido che è possibile osservare è lo schermo del monitor. Un luogo quasi medianico, una vera e propria “grotta platonica dell’era dei video”15. Dove quindi anche esteticamente il rimando più facile da cogliere è quello all’occultamento, alla volontà di crearsi un rifugio da qualcosa o da qualcuno. E in generale di uno spazio separato e ben protetto dal mondo esterno. Uno spazio in cui, esattamente come si diceva per Funny Games, gli istinti negativi ed esiziali che si agitano sono già tutti lì presenti: stratificati, incamerati e pronti per esplodere. La differenza è che in questo caso essi sembrano cuciti addosso ai soggetti e permeano attraverso la loro storia culturale, come fossero espressione di una memoria inconscia. Come se trovassero sfogo per mezzo dei corpi dei protagonisti in quanto fusi con essi, testimoni di una eredità storicizzata e canonizzata. Quella della borghesia europea colta e benestante. Il concetto di esterno cui si faceva riferimento diventa in questo senso la traccia dell’esistenza di un confine. Una frontiera simbolica cui Haneke dà un risalto enunciativo e narrativo molto netto16. E che in questa fase artistica del regista è definibile entro contorni puramente sociali – quindi non ancora smaccatamente ideologici come vedremo in seguito – ma è senza dubbio strutturabile alla stregua di una dimensione politica. Questa frontiera mette in relazione due mondi – dei quali abbiamo, come detto, due immagini ben distinte – e contempla l’esistenza non soltanto della loro logica disarmonia, ma anche la minaccia di una loro possibile messa in contatto. Ovvero della presenza di una soglia, di un luogo preciso in cui questi due mondi possono entrare in relazione (proprio come il buco nel recinto di cui parlano i protagonisti di Funny Games) dando origine alla catastrofe. Il senso di alienazione – o glaciazione se si preferisce – insito nella trilogia, risiede dunque in questa dimensione di arroccamento della classe borghese rispetto alla difesa del proprio status sociale. Rispetto all’insicurezza data dalla possibilità di perdere il privilegio di abitare uno spazio, stabilire legami e scrivere regole.

Un momento particolarmente indicativo nel film, relativamente a questo discorso, è quello del dialogo fra i genitori di Benny conseguente alla scoperta dell’omicidio compiuto dal figlio, quando seduti in salotto discutono su come comportarsi e quali decisioni prendere in merito al destino di quest’ultimo. Si tratta di una sequenza di circa sei minuti e mezzo composta da trentatré inquadrature delle quali soltanto due non sono primissimi piani di Georg e Anna. Vale la pena analizzarla nel dettaglio. La tecnica classica del campo-controcampo viene portata alle estreme conseguenze da Haneke il quale, senza dare alcun sollievo allo spettatore, scandisce il dialogo in maniera incessante per mezzo di questa soluzione. È Georg a dirigere la conversazione. Prima cerca di individuare quali siano gli argomenti a favore e quali quelli contrari rispetto alla situazione di Benny, poi si chiede se il giudizio dell’opinione pubblica condannerebbe lui e la moglie come genitori negligenti. Quindi lentamente decide, con l’assenso di Anna, che sottrarre il figlio alla giustizia sia la cosa migliore per tutti – non prima di aver valutato l’eventuale impatto di una carcerazione o un internamento di Benny sulla propria carriera lavorativa. Infine inizia a pianificare le raccapriccianti modalità delle quali intende servirsi per l’occultamento del cadavere, descrivendone i dettagli alla moglie.

Immagini 2.3 e 2.4 Benny’s Video: il campo-controcampo del dialogo fra i genitori di Benny (Ulrich Mühe e Angela Winkler).

Immagini 2.5 e 2.6 Benny’s Video: le due immagini dell’interno della stanza di Benny durante la discussione dei genitori. In alto quella diegetica, in basso quella ripresa dalla camera amatoriale del ragazzo.

L’atmosfera che si respira durante il dialogo è quasi tragicomica, almeno nella prima parte. Haneke introduce dei tocchi di humor nero, come la battuta di Georg nell’analizzare la posizione di Benny: “punti a suo favore… A: Benny è minorenne… Sono finiti!”, ma li rende parte di una crescente tensione. Tensione da cui scaturisce la risata isterica di Anna, la quale si lascia andare a un breve momento di ilarità del tutto surreale, subito soppresso dal biasimo del marito. È tuttavia

nella seconda parte a emergere l’orrore che diviene il catalizzatore della sequenza. Quando Georg comincia la sua dettagliata spiegazione di come progetta di smembrare e ridurre in pezzi piccolissimi – perché possano passare dagli scarichi del bagno – il cadavere della ragazzina, la conversazione diventa drammatica e assume un piglio quasi entomologico. Il clima si fa decisamente più angoscioso e le immagini assecondano questo sentimento – soprattutto in direzione dello spettatore. Come detto non c’è una sola inquadratura che spezzi il ritmo, che dia respiro alla sequenza e la cadenza ininterrotta del campocontrocampo diventa a sua volta una forma di dissezione. Nel senso che taglia fuori dal quadro tutto ciò che sta intorno, si fissa sui volti, stringe su di loro e dimensiona lo spazio unicamente in quella direzione. Dando risalto visivo al senso di intrappolamento attraverso il quale viene veicolato l’orrore. Ma restituendo anche il significato ideologico che permea dalla situazione in atto. E cioè il senso di chiusura, di riparo dall’esterno e di eliminazione di ogni altra regola al di fuori di quelle che vengono stabilite in quello spazio e in quel momento: nessuno scampo, nessuna fuga. L’unico confine normativo, sociale e biologico esistente è quello descritto dal quadro della mdp stretto sui visi dei due personaggi. Come si diceva, tuttavia, questa lunga alternanza di primissimi piani si interrompe in due momenti. Si tratta di inquadrature che non sono utilizzate per dare tregua al sistema enunciativo appena descritto, ma hanno una funzione ben precisa. Una è un semplice dettaglio che mostra la mano di Anna raccogliere gli orecchini da un tavolino dove li aveva precedentemente appoggiati e, posta verso la fine del dialogo, serve appunto per dare la sensazione di una chiosa. L’altra, situata grossomodo a metà della sequenza, è invece un’immagine da dentro la camera di Benny dove il ragazzo è coricato a letto e al buio e dalla quale, attraverso la porta socchiusa, filtra la luce del soggiorno e si sentono in lontananza le voci dei genitori. Questa immagine, identica, tornerà circa mezz’ora più tardi, nel finale del film. Quando

Benny denuncerà i genitori alla polizia e mostrerà agli agenti la registrazione che inchioderà questi ultimi alle loro responsabilità. Uguale per angolazione e inclinazione della mdp a quella vista precedentemente, differirà solo per il fatto di essere la ripresa di una camera amatoriale. Elemento chiaramente percepibile per via della sporcatura e della bassa qualità dell’immagine. Di fatto capiamo che Benny era sveglio nella penombra della sua stanza mentre i genitori parlavano e stava filmando ogni cosa, forse senza una reale motivazione ma solo per abitudine, come del resto lo vediamo fare per tutto il film. Si tratta di un twist inaspettato che crea un vero e proprio choc allo spettatore, ma designa anche l’assoluta centralità dell’immagine nel percorso autoriale hanekeiano. Un concetto questo su cui torneremo e che approfondiremo più avanti (cfr. capitolo V); ciò che ci pare importante, per il momento, è comprendere come l’uso della ripetizione possa diventare un dispositivo di senso utile all’analisi del film in oggetto di trattazione. A livello di costruzione formale in Benny’s Video, proprio come ne Il settimo continente (cfr. capitolo I) con cui condivide il fatto di essere uno dei capitoli della trilogia, la ripetizione gioca un ruolo fondamentale: pensiamo al video dell’uccisione del maiale che torna in continuazione, così come quello dell’omicidio rivisto da Benny di fronte ai genitori e anche al colpo di pistola, che viene esploso due volte17. Ripetitivi inoltre sono i gesti del protagonista nei quali lo vediamo impegnato per buona parte del film: mangiare, dormire, guardare video, andare a scuola, al McDonald’s, alla videoteca, ecc. Persino la sequenza di circa venti minuti che racconta il soggiorno di Benny e Anna in Egitto, come ha osservato Oliver Speck, è una “una ripetizione di tutti gli espedienti stilistici che incontriamo in questo film e, in effetti, in tutti gli altri film di Haneke”18. L’uso della ripetizione per Haneke è una formula teorica, un elemento di eccedenza del racconto per mezzo del quale costruire una riflessione articolata non solo sull’immagine come concetto teorico e politico, ma anche relativamente alle questioni più prossime alla nostra analisi. Mostrare le cose due (o più) volte inoltre

vuol dire dotare di significato ancora maggiore le immagini stesse. Perché nel passaggio da una situazione alla sua riproposizione il regista ci chiede di riflettere sulla semantica che si origina dalla loro messa a confronto e dalle conseguenti divergenze che ne scaturiscono19. Nel caso specifico la divergenza dimostra, di nuovo, tutta la problematicità del rapporto fra spazio pubblico e privato e come queste due entità confliggano letteralmente l’una contro l’altra. Il sistema normativo di autoconservazione messo in atto dai genitori di Benny e segnatamente dall’autorità patriarcale incarnata da Georg, retto sull’orrore e sull’indicibile – tanto che proprio questo orrore viene escluso dal quadro – crolla solo quando la sua immagine oltrepassa la soglia. Quando lo spazio viene profanato da uno degli stessi membri della famiglia e il mondo esterno viola la sacralità che risiede al suo interno. Dove i rapporti sociali paiono quasi completamente strumentali e finalizzati alla preservazione di uno status sociale ormai divenuto irrinunciabile. Haneke attraverso il ritratto della famiglia borghese e benestante di cui il film restituisce l’archetipo esplicita l’eredità inalienabile e identitaria di quest’ultima e, riuscendo di fatto a storicizzarla, ne mette in risalto l’aspetto degenere e mostruoso. Che a essere messo al centro del racconto in Benny’s Video non sia quindi l’omicidio della ragazzina commesso da Benny, quanto il gesto di occultamento dello stesso ordito e compiuto dai genitori pare dunque innegabile. A tal punto che più che un’opera drammatica il film si configura come un “orribile melodramma domestico”20. Un racconto che dà risalto a Georg e Anna in quanto protagonisti del “video di Benny” evocato dal titolo. E in cui è il bisogno di “mantenere l’accettazione sociale e il prestigio a richiedere il macabro insabbiamento dell’omicidio”21. Di fatto a essere messa in evidenza è l’aberrante morale perseguita dai genitori. Il cui gesto di protezione è motivato solo in parte dall’affetto nutrito nei confronti del figlio e cioè in conseguenza di una scelta che per quanto discutibile ed egoistica, può risultare comprensibile. “Sebbene Georg mostri sicuramente più

empatia di suo figlio – infatti – i suoi crimini sono molto più orribili”22 e il tipo di situazione in cui agisce rende perfettamente l’idea delle dinamiche relative alla famiglia e il senso più ampio dei rapporti parentali che dominano lo spazio interno e quello esterno a essa. Ad avere il sopravvento è perciò un istinto di conservazione di classe. Ovvero il bisogno di preservare il proprio status dal sospetto che all’interno (e soprattutto dall’interno) del suo ambiente possano ingenerarsi delle crepe. L’anaffettività, la dissociazione dal mondo e l’aridità emotiva di cui si diceva sono quindi un sentimento classista e hanno a che fare con la famiglia come sistema allargato in termini non tanto di relazione parentale o di sangue, ma in senso collettivo. Che identifica nuovamente – come approfondiremo meglio nel prossimo capitolo – un popolo e una nazione. Il discorso ha a che fare con l’eredità storica di un complesso culturale nei termini in cui questo si tramuta in un sistema identitario. È dentro la famiglia che si strutturano le norme relazionali – in direzione sia interna sia esterna – e in cui germina la coscienza sociale e anche politica delle nuove generazioni: La trilogia della glaciazione continua l’esplorazione critica di Haneke delle dinamiche attraverso le quali la colpa e la negazione vengono trasmesse dalla generazione dei genitori a quella dei figli. Situate all’interno della sfera privata della famiglia, queste dinamiche costituiscono non di meno una forma di amnesia storica.23

Benny e l’atto mostruoso del quale si rende protagonista sono il risultato di un humus culturale in cui lavora ed emerge in maniera netta una coscienza storica infestata da traumi e rimozioni. L’“amnesia storica” qui citata del resto non può che riguardare, nuovamente, il passato tragico dell’Austria come stato-popolo-nazione che per primo ha consentito l’avanzata del nazismo. Gli echi di questa colpa ineliminabile, e ancora fortemente viva nelle coscienze degli austriaci, sono facilmente intuibili. Haneke stesso ammette apertamente che una chiave di lettura di questo tipo sia applicabile al film: “Benny’s Video parla, se volete, del nazismo, ma in modo indiretto”24. Tuttavia per quanto, effettivamente, i significati

esteriori cui il film rimanda siano di altra natura, ci pare che i riferimenti al nazismo siano tutt’altro che indiretti. Lo si percepisce osservando le modalità in cui la famiglia agisce dopo aver scoperto l’omicidio. I comportamenti che il padre e la madre assumono sono, come abbiamo appena visto, al di fuori della legge. Non tanto di quella statale – da cui in ogni caso senza l’ammissione di colpevolezza da parte di Benny sarebbero probabilmente rimasti al riparo – quanto di una legge morale comunemente intesa e in nome di un’altra totalmente strumentale e soggettiva. Collocandosi in questo modo in una sorta di stato di eccezione nel quale dal loro punto di vista non si rendono colpevoli di una vera e propria trasgressione. Piuttosto di un giustificato deragliamento rispetto alle norme sociali più comuni e in nome di uno scopo più alto: quello dell’autoconservazione e della messa al riparo dei membri del proprio gruppo sociale dalle ingerenze del mondo esterno e da tutto ciò che esso rappresenta. Ma, allargando la questione, è soprattutto nel modo in cui nel film viene trattata la violenza che emerge “una chiara consapevolezza della politica della Germania nazista, di cui faceva parte la nativa Austria di Haneke”25. Del resto, come ha scritto lo storico Ian Kershaw, l’Anschluss rappresentò “un fatto determinante per il Reich”, anche perché la passività di Inghilterra e Francia convinsero Hitler ad accelerare la costruzione del Grande Reich26. Le responsabilità della “nazione” austriaca nell’accettare il progetto hitleriano, quindi, appaiono significative, e comunque difficilmente edulcorabili. Il senso meccanico di protezione che si innesca nel film dopo la scoperta dell’omicidio è una sorta di automatismo che assolve la funzione di derubricare il gesto di violenza a qualcosa di fortuito o incidentale, normalizzandone la portata. Per Georg il corpo della ragazza che suo figlio ha appena massacrato è “puramente un problema di smaltimento dei rifiuti”27 e occuparsene diventa poco più di un lavoro, una soluzione essenziale e in funzione della quale impegnarsi senza considerare il portato emotivo, morale, etico che tutta l’operazione implica. Il regista, come si diceva, sceglie

sapientemente di escludere dalla narrazione tutta la parte in cui Georg svolge il suo disumano compito, ma riesce ugualmente a restituirne l’orrore mostrando il ritorno alla normalità conseguente, quando la famiglia si riunisce e sembra che non sia mai successo nulla. Il senso di noncuranza che permea dall’atto di ristabilire la quotidianità e la banalità con la quale viene di fatto espunto il trauma dal nucleo della famiglia, sono quasi più agghiaccianti dell’omicidio stesso. E in questo la similitudine con l’efficientissima macchina di morte allestita dal nazismo e circondata da un diffuso sentimento di indifferenza pare davvero evidente. Come è evidente il fatto che il modo in cui Haneke rappresenta il prototipo della famiglia borghese austriaca sia carico dell’ambiguità e della negatività derivanti dal retroterra storico-culturale di cui quest’ultima si configura come emblema. E allo stesso modo diventa chiaro come [al regista] non sfugga che la nazione che si è vista sotto lo sguardo delle generazioni successive è anche la nazione che ha addestrato il proprio sguardo a non vedere un nemico ma un problema puramente logistico.28

Questa regolamentazione della violenza si attesta dunque come metro di relazione fra i componenti della famiglia, ma anche come una sorta di eredità che si è tramandata fra le generazioni. In ultima analisi l’atto mostruoso di Benny si configura come la conseguenza di un sistema morale incontrollabile e deviato. Mentre il modello di riferimento in cui tutto questo prende avvio è un complesso storico che agisce nelle coscienze e trova nella famiglia borghese il proprio modello di comportamento e insieme di sopravvivenza. Come ribadisce ancora Speck “il freddo, calcolato atto di carneficina compiuto da Georg rifocalizza la narrazione; il presente privo di affetti incarnato in Benny è l’eredità della civiltà occidentale incarnata nel padre”29, laddove questa eredità è il segno di una ferita – o di un’amnesia – storica destinata a non rimarginarsi e a continuare a sanguinare. 3)

Un’eredità che però si dispiega e sopravvive ben oltre i confini del film in questione. E in qualche modo, se vogliamo leggerla come una successione dinastica in forma di metafora, coinvolge e arriva a riguardare una larga porzione dell’universo filmico di Haneke. In Benny’s Video esistono molti elementi che ritroviamo e possiamo riconoscere in diversi altri film di Haneke. E non solo quelli della trilogia. La sopracitata attinenza fra Benny’s Video e Funny Games è del resto riconducibile proprio a questo aspetto. E cioè al fatto che entrambi i film abbiano alla base forme drammaturgiche emblematiche di un contesto o di una situazione specifica. I caratteri dei protagonisti di tutti e due i film sono molto somiglianti, quasi sovrapponibili. Tanto che passando da un film all’altro sembra quasi di incontrare delle riproposizioni di personaggi già conosciuti. Tematicamente siamo dalle parti del concetto di ripetizione di cui parlavamo in precedenza, ma in termini più concreti la questione della sopravvivenza risponde a un’intenzione autoriale molto forte da parte del regista. Non può essere un caso infatti che gli attori in alcune delle parti principali di entrambi i film siano gli stessi. Ulrich Mühe interpreta il padre sia in Benny’s Video sia in Funny Games, mentre Arno Frisch che nel primo dei due film ricopre la parte del protagonista, in Funny Games è Paul, uno dei due killertorturatori – senz’altro il più carismatico della coppia. Questa scelta è dovuta evidentemente alla volontà del regista di creare fra i due film una rispondenza che – come si diceva – farebbe diventare uno la versione parodica dell’altro. A rafforzare tale concetto ci sono le parole del regista, il quale ha affermato come la composizione del casting, in questi due casi, sia stata una specie di “inside joke”: una scelta che implicherebbe come un certo significato (probabilmente ironico) possa essere attribuito alla presenza degli attori30. Tuttavia il discorso sembra essere più complesso di così. E il lavoro sul casting già in questi primi film mostra una caratteristica esemplare del cinema hanekeiano destinata a divenire una costante. Se “quando Haneke ha deciso di realizzare Funny Games […] il casting fatto per i ruoli degli

attori principali ha finito per aggiungere un ulteriore livello di ambiguità morale a Benny’s Video”31 tale scelta ha anche strategicamente creato una connessione percettiva nella mente degli spettatori. A prescindere dal fatto che chi guarda possa o meno conoscere entrambi i film, e quindi avere piena coscienza di questo aspetto, proporre in due opere così strettamente connesse e reciprocamente dipendenti volti tanto riconoscibili e in un certo senso interscambiabili, è un gesto assolutamente forte. L’utilizzo degli stessi attori in più film tuttavia è un’abitudine piuttosto frequente per Haneke e successivamente all’esperienza appena descritta avverrà in maniera sistematica fino alle opere più recenti. Da Funny Games in poi non c’è del resto un solo film in cui non sia presente almeno un attore che abbiamo già incontrato – o incontreremo nuovamente – in un altro32. Non si tratta naturalmente di un atteggiamento nuovo o particolarmente originale nel mondo del cinema e anzi di sodalizi anche molto lunghi e frequenti di alcuni registi con determinati attori hanno fatto la storia (non solo del cinema). Eppure questa abitudine di Haneke di avvalersi spesso degli stessi attori ha delle motivazioni che non sono puramente di natura professionale. Scegliere gli stessi volti e costruire personaggi spesso simili per carattere, personalità ed estrazione sociale produce delle inevitabili associazioni istintive negli spettatori. L’uso ripetuto degli stessi attori inoltre “contribuisce anche alla raffigurazione unica dell’essere umano nei film, […] minaccia la singolarità prodotta da una particolare performance sullo schermo e rompe l’ermetica identità diegetica dei singoli film”33. Vale a dire che questo comportamento è figlio di scelte e tratti molto precisi che il regista mette in campo al fine di creare un universo di senso nel quale collocare le coordinate autoriali del proprio cinema. In altri termini creare un legame fra opere diverse attraverso rimandi subliminali e extranarrativi diventa per Haneke la modalità per mezzo della quale costruire una sorta di sovrastruttura stilistica. Una connessione fra più film che permette a chi osserva di ragionare per tematiche trasversali e imbastire riflessioni più ampie rispetto

a quelle che emergerebbero analizzando le opere una per una o prese singolarmente. Per dare un’idea della meticolosità nella strutturazione del casting e delle infinite connessioni che per mezzo degli interpreti si creano nei film di Haneke, elenchiamo brevemente quali film e quali attori tornano come volti costanti nell’opera del regista34. Non solo Ulrich Mühe interpreta il ruolo del padre sia in Benny’s Video sia Funny Games, ma è anche l’ispettore K in Das Schloß, l’adattamento di Haneke de Il castello di Kafka. Arno Frisch, Benny in Benny’s Video, come detto interpreta anche uno degli assassini in Funny Games; Susanne Lothar, la madre di Funny Games, è a sua volta Frieda in Das Schloß, la signora Schöber ne La pianista e la levatrice ne Il nastro bianco. Mentre Frank Giering, l’altro assassino in Funny Games è anch’esso in Das Schloß. Passando ai film francesi Juliette Binoche è la protagonista femminile sia in Storie sia in Caché, Isabelle Huppert invece è l’interprete principale de La pianista e Il tempo dei lupi ed è anche in Amour e Happy End. Jean-Louis Trintignant recita sia in Amour, dove è il protagonista, sia in Happy End, Nathalie Richard ha ruoli secondari in Storie, Caché e Happy End. Molti attori compaiono ripetutamente anche nei ruoli minori: Udo Samel è in Variation, Die Rebellion, Il settimo continente, 71 frammenti di una cronologia del caso e La pianista (è anche il narratore di Das Schloß); Branko Samarowsky è in The Rebellion, 71 frammenti, Das Schloß e Il tempo dei lupi; e Georg Friedrich è in 71 frammenti, La pianista, Il settimo continente e Il tempo dei lupi. E ancora Maurice Bénichou recita in Storie, Il tempo dei lupi e Caché; Annie Girardot ne La pianista e Caché; Luminiţa Gheorghiu, Florence LoiretCaille e Costel Cascaval sono tutti sia in Storie che ne Il tempo dei lupi; Daniel Duval è ne Il tempo dei lupi e Caché; Walid Afkir in Storie, Caché e Amour, mentre Aissa Maïga recita in Storie e in Caché. Laurent Suire infine ha brevemente interpretato un poliziotto sia in Storie sia in Caché. Insomma, al di là dei dettagli appare evidente come ogni territorio di riferimento – prima l’Austria, poi la Francia35 –

reclami per Haneke una propria specifica cittadinanza. O, se vogliamo, l’individuazione di una sorta di famiglia. Un gruppo di volti, personalità e caratteri che abiti lo spazio entro il quale il regista li inserisce, creando in questo modo un vero e proprio mondo simbolico che agisce intorno (o al di fuori) a quello della diegesi cinematografica. E nel quale i personaggi si riconoscono a prescindere dal loro ruolo all’interno del racconto. Ma c’è di più. Spostando l’attenzione dal lavoro sul casting e proseguendo la nostra analisi in questo solco, è importante rilevare come anche la fase di scrittura si posizioni lungo queste coordinate. Se proviamo ad osservare i particolari e a esaminare in maniera più ampia l’impianto drammaturgico impiegato da Haneke per costruire i suoi film, ci accorgiamo infatti come ogni scelta abbia una precisa motivazione sin dalla stesura del soggetto e della sceneggiatura. E come tutto sia finalizzato alla messa in opera di un progetto rigoroso e in cui il complesso autoriale risulti ben riconoscibile. Come è stato da più parti sottolineato, oltre a quello dedicato alla scelta degli attori Haneke ha messo in campo, sin dai film della trilogia, un accurato lavoro per la designazione dei nomi dei propri personaggi. Molti di loro infatti, in opere diverse, mantengono lo stesso nome. Come se questo li identificasse a prescindere dal ruolo che ricoprono all’interno del racconto in cui sono inseriti e diventasse una sorta di appellativo atto a renderli riconoscibili non tanto nei singoli film, quanto nell’intera filmografia del regista. È piuttosto facile accorgersene. Già limitandoci ai film di cui abbiamo finora affrontato l’analisi è semplice riscontare come il personaggio interpretato da Ulrich Mühe sia in Benny’s Video sia in Funny Games si chiami nello stesso modo: Georg. E, ancora in entrambi i film, la protagonista femminile, anche se intrepretata da due attrici differenti – Angela Winkler nel primo e Susanne Lothar nel secondo – si chiami sempre Anna. Georg (o Georges o George), Anna (o Anne o Ann), Benny (o Ben) e Eva (o Ève o Evi)36 rappresentano la famiglia tipo – padre, madre, figlio maschio e figlia femmina – e mantengono

questa struttura e questi nomi, con le dovute eccezioni, in tutti i film di Haneke dove è presente una famiglia. Tranne che in 71 frammenti di una cronologia del caso e ne Il nastro bianco, in quanto film corali che mischiano più linee narrative e personaggi, e in La pianista, che come adattamento di un romanzo mantiene i nomi del racconto originale, infatti nella rappresentazione del modello di famiglia tradizionale i personaggi sono sempre identificabili con questi nomi37. Non dissimile è il comportamento per quanto riguarda i cognomi, ovviamente quando ci sono. Se il cognome Schöber, quello della famiglia del Funny Games austriaco (il cognome dei personaggi americani sarà Farber) lo si ritrova solo ne La pianista e attribuito a due personaggi secondari, il cognome Laurent nei film francesi è praticamente una costante. Si chiamano Georges e Anne Laurent i protagonisti de Il tempo dei lupi, Storie, Caché, Amour e Happy End. Haneke ha sempre assegnato poco peso a tutti questi elementi e interpellato in merito nelle interviste ha spesso dato risposte evasive e quasi canzonatorie – “Sì, utilizzo sempre gli stessi [nomi], perché mi annoia cercarne di nuovi”38 – perfettamente in linea con il personaggio e con la sua attitudine a non voler mai manifestare gli aspetti teorici e autoriali del proprio lavoro. Eppure è evidente come la questione riveli moltissimo in relazione alle modalità di approccio e di progettazione del regista rispetto al proprio cinema. Ma anche quanto tutto questo abbia a che fare con l’importanza del tema della famiglia all’interno di quella che potremmo definire una sorta di poetica. Come detto il fatto di avere protagonisti sempre con lo stesso nome definisce una evidente trasversalità dei racconti e universalità delle tematiche, tuttavia dà anche una fisionomia ben precisa al sistema di valori che questi personaggi incarnano. E la loro “sopravvivenza” attraverso un film e l’altro si configura come una sorta di filtro, o di strumento, con cui lo sguardo di Haneke si posa sulle società e gli ambienti politici e culturali che racconta. Essi rappresentano i soggetti liberali modello. Figure che, sotto le pressioni esercitate su di loro durante il film, abdicano alla violenza, all’interesse personale e

all’aggressione nel medesimo modo che ha permesso loro di raggiungere la posizione privilegiata che occupano. E che sconfessano ardentemente per ritenersi, appunto, liberali.39

Quando si parla di famiglia nel cinema di Haneke è quindi questo l’orizzonte di senso da considerare, un conglomerato molto ampio fatto non solo di personaggi e di una drammaturgia incentrata su piccoli nuclei isolati di persone, ma un grande e complesso arco narrativo costituito da figure che incarnano e restituiscono in forma simbolica gli stigmi e i traumi della contemporaneità e delle sempre più articolate società occidentali europee. 4) Alcuni degli aggettivi che abbiamo utilizzato per definire la categoria della famiglia come elemento fondamentale del cinema hanekeiano sono simbolica, trasversale, archetipica. E utilizzando il caso esemplare di Benny’s Video abbiamo provato a spiegare il significato cui questi termini rimandano all’interno della nostra analisi. Tuttavia, per sgombrare il campo da eventuali equivoci, è importante sottolineare l’unicità e la specificità dei racconti, delle storie e delle tematiche che i diversi film del regista austriaco esprimono. Nel senso che la loro originalità va considerata a prescindere dai ragionamenti di carattere più ampio che filtrano da questo studio. La premessa è necessaria per meglio comprendere come le analisi operate mettendo a confronto i film fra loro siano condotte su un piano simbolico. E non hanno alcun interesse – o pretesa – nel cercare di individuare attinenze o punti di contatto in termini drammaturgici fra le varie opere. Quando si fa riferimento a personaggi legati fra loro dai volti degli attori che li interpretano o dai nomi che portano, l’obiettivo è dunque quello di ragionare sul portato politico di questo tipo di condizioni. Ed è in tale prospettiva che si intende proseguire questo studio. Nell’intenzione di aggiungere ancora più connessioni alle teorie fin qui esposte e di seguire le tracce di quanto messo in

luce, cerchiamo allora di capire quali altri elementi emergano dalla lettura dei film di Haneke precedenti e successivi a Benny’s Video. Georg, Anna e la piccola Evi sono i protagonisti di un film – sempre facente parte della trilogia della glaciazione – che abbiamo già incontrato: Il settimo continente. L’opera prima40 del regista, della quale avevamo già analizzato la composizione a struttura ricorsiva, dice molto anche sul tema della rappresentazione della famiglia all’interno del cinema di Haneke. Osservandolo con attenzione è possibile notare come molte delle questioni che Haneke sviscererà relativamente a questo tema nei film successivi siano già in larga parte presenti. Se infatti, come abbiamo esplicitato, lo spazio domestico ha un ruolo determinante nell’incamerare e poi innescare la violenza, altrettanto decisivo è il modo in cui i componenti della famiglia – che quello spazio abitano – mostrino i segni dei gesti tragici di cui si rendono protagonisti. Haneke in una sequenza determinante del film, sembra fornire una perfetta chiave di interpretazione. Quando Georg e Anna iniziano a fare a pezzi e distruggere tutti i propri averi, mettendo a soqquadro la casa e cancellando ogni elemento materiale riconducibile alla vita sociale della famiglia, essi sfasciano anche l’enorme acquario del soggiorno, lasciando agonizzare sul pavimento i pesci tropicali che lo occupavano. Come è stato notato l’immagine dei pesci che si dibattono fra i cocci di vetro dell’acquario “prefigurano il suicidio della famiglia”41. Di fatto Haneke con una sola immagine riesce mirabilmente a restituire il senso di una tematica centrale del proprio cinema: la scomparsa della famiglia. Attraverso la metafora della morte di alcuni animali (proprio come il maiale in Benny’s Video), viene simbolicamente raccontato il destino tragico cui la famiglia hanekeiana è destinata. E non tanto in conseguenza delle proprie scelte, ma per via della propria condizione ontologica. Del resto, rimanendo attinenti alla nostra analisi, non è difficile scorgere in questa metafora una ulteriore messa a fuoco del rapporto fra lo spazio pubblico e privato e fra esterno e interno. Con l’acquario a rappresentare un mondo di isolamento e privilegi che va in frantumi e la

catastrofe che erompe quando ciò che resta fuori, escluso dal quadro, viola l’ambiente privato che sta dentro. Tali letture, analogamente, emergono dall’analisi di un altro film di Haneke in cui la dimensione familiare domina la narrazione. Ne La pianista (La pianiste, 2001), che come detto è l’unico film del regista tratto da un’opera letteraria42, la storia è incentrata sul rapporto fra una donna di mezz’età e la madre anziana. La protagonista – insegnante di piano severa, anaffettiva e dalla sessualità disturbata – vive da sempre con la madre e ha con lei un ambiguo rapporto di amore e odio che a tratti rasenta una morbosa incestuosità. Quando inizia a frequentare un uomo più giovane il mondo fatto di norme severe e rigidissime che ha eretto intorno a sé, lentamente crolla e anche la relazione con la madre deflagra completamente. La pianista è un film ibrido, a tratti quasi sfuggente rispetto alla più tipica poetica del regista. Girato a Vienna con attori francofoni – Isabelle Huppert, Annie Girardot e Benoît Magimel – risente del debito con una storia non pensata né scritta da Haneke e quindi non del tutto riconducibile al suo universo narrativo. Tuttavia molte delle situazioni del racconto, oltre che l’impianto enunciativo, sono assolutamente hanekeiane. Il personaggio di Huppert, che mantiene lo stesso nome del romanzo, si chiama Erika, mentre la madre non ha nome, ma i loro nomi potrebbero essere Anna e Eva. Al di là dei risvolti freudiani che dominano il loro rapporto, infatti il ménage che instaurano ha i tratti tipici di tutte le relazioni disturbate e mostruose delle famiglie del cinema di Haneke. E, soprattutto, lo spazio domestico si configura anche qui come luogo in cui ribollono traumi, istinti nefasti e cova la violenza. Non è un caso che nel finale, nel momento in cui il personaggio maschile irrompe con forza nella casa delle due donne, le difese di Erika crollino completamente. Quando cioè lo spazio domestico privato, nascosto e protetto in cui si annidano le perversioni e gli istinti più torbidi e inconfessabili, entra in contatto con un elemento esterno. Con un elemento che come un grimaldello non soltanto ne demolisce

fisicamente il recinto, ma ne mette in discussione l’ordine e la morale borghese ai quali è consustanziale. La destrutturazione della famiglia come istituzione passa anche da qui. E cioè dall’atto di decretarne il completo annientamento. E di mostrarla come un’entità morente – in quanto innaturale – e impossibile da salvare, difendere e tenere in vita. Ed è proprio sulla deflagrazione degli affetti e lo sfaldamento dei legami all’interno della famiglia borghese che si concentra Haneke nell’ultima fase del suo cinema. Come incubatrice di traumi e veicolo per l’emersione della violenza la famiglia assume via via un aspetto sempre più disfunzionale anche nella descrizione dei rapporti fra i suoi membri. E in questo senso le ultime due opere del regista, Amour (2012) e Happy End (2017), risultano emblematiche. Amour, premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes, racconta la storia di una coppia di anziani coniugi parigini: Georges e Anne Laurent. Entrambi insegnanti di musica e profondamente legati fra loro i due vedono le proprie vite venire travolte, da un momento all’altro, dalla malattia di lei: un ictus che colpisce Anne rendendola sempre meno autosufficiente e in grado di condurre una vita dignitosa. Sopraffatto dal dolore Georges si rassegna lentamente alla perdita della compagna di tutta una vita e nel finale decide, in un impeto di disperazione, di soffocare Anne con un cuscino, liberandola per sempre dalla sofferenza. Amour è un film duro, di cui è difficile sostenere la visione e per certi versi distante dal cinema più tipico di Haneke. Eppure ha anche molti elementi che ben si adattano alla nostra trattazione. È infatti ambientato tutto dentro l’appartamento dei protagonisti, con la mdp che non esce mai, nemmeno per un momento, da lì. Quindi in uno spazio circoscritto che per sua stessa natura diventa metafora di molte delle istanze che abbiamo affrontato. Uno spazio che, similmente agli altri di cui ci siamo occupati, designa la separazione di chi lo abita dal mondo esterno. Non lasciando mai l’appartamento dei coniugi Laurent, Haneke carica volontariamente di un valore simbolico ogni gesto, azione, oggetto e dialogo che al suo

interno si svolge. E se pure i sentimenti dominanti in Amour sono all’opposto di quelli che abbiamo visto governare i racconti visti fin qui – e sin dal titolo l’idea di un cinema pervaso dalla glaciazione delle emozioni è puntualmente sconfessata – il dato incontrovertibile è come sia ancora dentro lo spazio domestico, e fra le quattro mura della casa di una famiglia benestante dell’Europa occidentale, a consumarsi la tragedia. L’ordine borghese si sfalda laddove anche il più sacro dei riti per un popolo e un continente di cultura cristiana, quello della morte, viene infranto. Sconfessato e superato da un gesto, il suicidio assistito, che sta al di fuori di ogni legge e ogni conformismo comunemente intesi. Happy End è un film completamente diverso da Amour, sia per la storia che mette in scena sia per il tono del racconto. È ambientato nel nord della Francia, a Calais ed è incentrato sulle vicende di una ricca famiglia di imprenditori edili: i Laurent. Il patriarca Georges, in là con gli anni, malato e costretto sulla sedia a rotelle è un personaggio tragicomico: intenzionato a farla finita fallisce tutti i tentativi di suicidio nei quali si cimenta, mente i suoi numerosi parenti – figli, nipoti, generi e nuore – per i quali non nutre alcuna stima, non fanno altro che deluderlo. In una scena del film Georges – interpretato come in Amour da Jean-Louis Trintignant – racconta alla nipotina dodicenne Ève di come tempo prima abbia soffocato la moglie, gravemente malata e sofferente, con un cuscino. E del dolore infinito che questo gesto gli ha causato. Non esiste un collegamento più esplicito di questo, in tutto il cinema di Haneke, per comprendere chiaramente il complesso rapporto, di cui abbiamo detto, fra i film del regista. E per mettere a fuoco l’universalità dei suoi racconti attraverso le opere che costruisce. È evidente che il Georges Laurent di Happy End non sia il medesimo Georges Laurent di Amour. Eppure, allo stesso tempo, è sempre lui. Attraverso il nome del suo “everyman carachter” e il volto di Trintignant Haneke non solo compie un gesto autoriale che afferma il rigore della sua poetica, ma rende perfettamente distinguibile l’universo

simbolico che tratteggia. E la famiglia disfunzionale e mostruosa protagonista di Happy End – sulle cui caratteristiche specifiche torneremo nel prossimo capitolo – diventa lo specchio esemplare di tutte le famiglie rappresentate nei film di Haneke. Una famiglia borghese sfaldata e in disfacimento all’interno della quale non esiste un legame che non sia strumentale, ipocrita e insincero. E dove ogni rapporto è dominato dai personalismi e dall’incapacità di sentire non tanto – o non solo – l’altro, ma anche il mondo che sta attorno e nel quale, come vedremo, si consumano tragedie ancora più grandi. Lo spazio privato, intimo e quello collettivo, pubblico in Happy End sembrano fondersi dando origine a uno smarrimento e una perdita di coordinate che dalla borghesia arriva a riguardare un piano più globale. Facendo sì che la Storia continui. 1

Cfr. M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 170.

2

“Mi rammarico molto di aver coniato questa espressione che oggi mi perseguita dovunque. […] Sono stato così spesso interpellato a proposito di questo tema, al momento della trilogia, che avevo bisogno di un termine per riassumere tutto, come una parola chiave. Ma è pericoloso: una parola chiave riduce sempre la complessità dell’idea espressa. È come mettere un’etichetta, ha sempre una connotazione semplicistica. Non appena dai un nome a una cosa, perde la sua complessità. È questo a rendermi insoddisfatto”. Haneke citato in ivi, p. 84.

3

Riguardo a questi concetti si veda soprattutto il saggio di B. Price, op. cit., p. 40.

4

Senza alcuna volontà di entrare nel merito di tali questioni e restando su un piano che non intende prendere posizioni a favore o contro questo tipo di critiche, crediamo che quanto sarà espresso nelle pagine seguenti potrà aiutare a rivedere alcune considerazioni sull’opera hanekeiana, soprattutto quella della degli anni Novanta. Almeno per quello che concerne la molteplicità dei discorsi producibili a partire dall’analisi della materia narrativa e dallo stile della rappresentazione dei film della trilogia.

5

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 191.

6

Ivi, p. 141.

7

P. Brunette, op. cit., pp. 5, 39.

8

Nel film l’assassino diventa uno studente universitario e le vittime sono tre e non quattro.

9

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 155.

10

Testo originale: “Trotz dem alten Drachen / trotz es Todes Rachen / trotz der Furcht darzu! / Tobe, Welt, und springe / ich steh hier und singe / in gar sichrer

Ruh!” 11

C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, cit., p. 215.

12

R. Domizio, Digital Cinema and the “Schizophrenic” Image: The Case of Michael Haneke’s Hidden, in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., p. 242.

13

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 78.

14

Si noti che quella di tenere le tende abbassate è una precisa scelta del protagonista. Lo capiamo quando più avanti nel film, una volta tornato dal viaggio in Egitto, Benny entra nella propria stanza trovandola con le tende alzate e inondata di luce, presumibilmente perché riordinata dal padre. La sua reazione è un gesto di fastidio che testimonia come l’isolamento dall’esterno del ragazzo e dello spazio domestico in cui abita, sia una condizione consustanziale al suo modo di vivere e di agire.

15

A. Kilb, Fragmente der Gewalt: Bildfetisch und Apparatur in Benny’s Video, in C. Wessely, G. Larcher, F. Grabner (a cura di), Michael Haneke und seine Filme: Eine Pathologie der Konsumgesellschaft, Schüren, Marburg 2005, p. 71.

16

In questo senso anche il personaggio della vittima, la giovane coetanea di Benny, si configura come l’incarnazione della distanza sociale con l’estrazione della famiglia protagonista. Nei pochi dialoghi che i due ragazzi si scambiano prima che lei venga uccisa scopriamo che abita in periferia (deve prendere diversi mezzi per raggiungere il centro città), ha quattro fratelli e passa i pomeriggi davanti alla vetrina della videoteca a guardare i televisori perché presumibilmente non può permettersi, a differenza di Benny, di noleggiare i video.

17

Sul senso della ripetizione in Benny’s Video si veda il saggio di Christa Blümlinger, Figures of Disgust in R. Grundmann, op. cit., pp. 147-160, mentre in generale sul cinema hanekiano, con particolare attenzione alla questione dentro ai due Funny Games, lo studio di David Sorfa, Superegos and Eggs: Repetition in Funny Games (1997, 2007), in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., pp. 172-178.

18

O. C. Speck, Thinking the Event: The Virtual in Michael Haneke’s Films, in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., p. 53.

19

Non occorre ribadire come realizzare il remake shot for shot di un suo stesso film – come fatto per Funny Games – sia la più macroscopica dimostrazione della grande importanza che Haneke dà al concetto di ripetizione.

20

C. Sharrett, Haneke and the Discontents of European Culture, cit., p. 214.

21

Ibid.

22

Ibid.

23

In R. Grundmann, op. cit., p. 18.

24

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 257.

25

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 164.

26

Cfr. I. Kershaw, Hitler 1936-1945: Nemesis, Penguin, London 2001; tr. it. di A. Catania, Hitler. Vol. II: 1936-1945, Bompiani, Milano 2001, p. 103. Sul

Terzo Reich una sintesi aggiornata in D. G. Williamson, The Third Reich, Longman, London 2002; tr. it. di N. Rainò, Il Terzo Reich, il Mulino, Bologna 2005. 27

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 164.

28

Ibid.

29

Ibid.

30

Haneke intervistato da Serge Toubiana (DVD di Niente da nascondere).

31

C. Rowe, Michael Haneke: The Intermedial Void, Northwestern University Press, Evanston 2017, p. 86.

32

Cfr. O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 4.

33

M. Lawrence, The Death of an Animal and the Figuration of the Human, in B. Price, J. D. Rhodes, op. cit., p. 77.

34

Per la compilazione di questa lista è risultato fondamentale l’apporto del saggio di Michael Lawrence, op. cit., p. 76.

35

Si noti che l’unica attrice germanofona a prendere parte in uno dei ruoli principali sia ai film austriaci sia a uno di quelli in lingua francese è Susanne Lothar (Funny Games, Das Schloß, La pianista, Il nastro bianco). Un altro attore di lingua tedesca che recita (sebbene doppiato) in uno dei film francesi è Franz Rogowski, presente in Happy End, fino ad ora sua unica partecipazione in un’opera di Haneke.

36

Le varianti grafiche e di pronuncia assecondano di volta in volta la nazionalità e la lingua dei personaggi.

37

Solo in Funny Games, Caché e Happy End, e solo per quanto riguarda il personaggio del figlio maschio, si trovano nomi diversi. Rispettivamente Schorschi (Georgie per la versione americana), Pierrot e Thomas.

38

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 191.

39

L. Monk, Hollywood Endgames, in R. Grundmann, op. cit., p. 421.

40

Come già specificato quando si parla di “opera prima” ci si riferisce unicamente ai film per il cinema.

41

M. Lawrence, op. cit., p. 83.

42

Si tratta dell’adattamento del romanzo omonimo della scrittrice austriaca premio Nobel Elfriede Jelinek, pubblicato nel 1983 e considerato in larga parte autobiografico.

III. POPOLO: HAPPY END

Ève Laurent ha dodici anni, i suoi genitori sono divorziati e vive insieme alla madre con la quale ha un rapporto conflittuale. La ragazzina riprende continuamente la donna con lo smartphone e si lamenta di lei con le amiche su Snapchat. Un giorno dà i farmaci della madre al proprio criceto causandone la morte e subito dopo ne somministra di nascosto una forte dose anche alla madre stessa, mandandola in coma. Mentre la donna si trova in ospedale Ève va a vivere con il padre Thomas, che fa il chirurgo e vive nella lussuosa villa di famiglia a Calais. Qui abitano anche il padre di Thomas Georges, patriarca dei Laurent, e la sorella Anne che gestisce l’impresa edile di famiglia insieme al figlio Pierre. La ditta ha grossi problemi finanziari e deve anche occuparsi delle conseguenze del grave ferimento di un operaio in seguito a un incidente in uno dei suoi cantieri. Georges è anziano, stanco della vita, mostra i primi segni dell’insorgere della demenza e vuole morire, ma i suoi tentativi di compiere il suicidio assistito in Svizzera sono già falliti più volte. Un giorno va a sbattere volontariamente con l’auto contro un albero ma riporta solo qualche lieve ferita. Durante la convalescenza è assistito da Thomas, il quale affida Ève alla seconda moglie Anaïs che la tratta con un affetto per nulla ricambiato. Nel frattempo Pierre viene aggredito dal figlio dell’operaio ferito nell’incidente dopo che era andato a casa di quest’ultimo per cercare di trovare un accordo. Anne va a trovare il figlio, sconvolto dall’accaduto, per convincerlo a denunciare il fatto e trarre così vantaggio dalla situazione in vista della disputa

legale con la famiglia del lavoratore. Più tardi lei stessa si reca da quest’ultima con un avvocato offrendo del denaro e proponendo un compromesso. Georges intanto avvicina alcuni dei migranti che stazionano a Calais in attesa di superare la Manica e raggiungere la Gran Bretagna, chiedendo loro di aiutarlo nel suo intento di suicidarsi in cambio del proprio orologio d’oro. Non ottenendo risultati ci prova anche con il proprio barbiere, ma di nuovo senza successo. La madre di Ève muore e la ragazza si stabilisce definitivamente a Calais, quando però scopre casualmente alcune mail dal contenuto esplicitamente sessuale sul computer del padre e indirizzate da quest’ultimo alla propria amante Claire, ingoia una scatola di farmaci che la riducono in fin di vita. Una volta ripresasi spiega al padre di aver agito in quel modo per la paura di finire in affidamento se il matrimonio con Anaïs fosse finito. Non sapendo come comunicare con la figlia Thomas manda Ève a parlare con il nonno che le racconta di come tempo prima abbia ucciso la moglie, malata e paralizzata, per porre fine alle sue sofferenze. Ève a sua volta confessa a Georges di aver tentato di avvelenare una compagna durante un campeggio estivo. Anne intanto si fidanza con Lawrence, un bancario inglese che ha accettato di concedere un prestito tramite il proprio istituto di credito alla ditta dei Laurent per aiutarla a ripianare i bilanci. Durante il party di fidanzamento Pierre arriva con un gruppo di rifugiati creando scandalo. Anne si scusa con gli ospiti e nello stesso tempo, insieme a Lawrence, invita i migranti a prendere posto nella sala. Durante il trambusto che si genera Georges riesce a convincere Ève a spingerlo in mare con la sedia rotelle. Mentre l’uomo viene lentamente sommerso dall’acqua e la ragazzina riprende la scena con il proprio smartphone, Anne e Thomas sopraggiungono di corsa. Happy End (2017) è l’ultima opera, in ordine cronologico, della filmografia di Haneke. Per molti aspetti è un film innovativo e profondamente diverso rispetto al passato. E anche se contiene – come si evince già dalla trama – molti dei temi più tipici del cinema del regista austriaco, rivela una freschezza di sguardo e un posizionamento sulle questioni più

scottanti della contemporaneità davvero sorprendenti. Si tratta però di una delle opere hanekeiane meno comprese e intorno alle quali il dibattito che si è creato è inciampato in prese di posizione e fraintendimenti sin dai primi istanti. Con il risultato che il film ha finito per essere considerato comunemente un’opera minore del regista e le analisi intorno a esso sono state finora – salvo rari casi – piuttosto parziali e incomplete. Questo sostanziale disinteresse si è generato soprattutto per via delle letture fuorvianti che sono state formulate da parte di molta della critica e degli osservatori in occasione della presentazione del film al Festival di Cannes del 2017, dove era stato selezionato in competizione. Come lo stesso Haneke ha più volte ricordato Happy End è stato liquidato piuttosto velocemente come un semplice compendio di tutto il suo cinema precedente: “i commentatori più sgradevoli hanno detto che si tratta di una raccolta del ‘best of’ del mio lavoro”1. La cosa più curiosa riguardo questo atteggiamento è il fatto che sia stato accompagnato da un generale sospetto – o accusa nei confronti del regista – di autoreferenzialità. C’è infatti chi l’ha definito un “auto-pastiche”2 realizzato un po’ alla rinfusa. Come se i temi cari ad Haneke avessero finito per dare corpo a una specie di maniera o, nel migliore dei casi, a una variazione su temi ormai risaputi. Al di là del fatto che queste critiche – per quanto legittime – abbiano o meno l’urgenza di essere discusse (cosa di cui dubitiamo), il fatto che siano state formulate è un dato interessante. Perché se ribaltate – e lette cioè come attestatrici della forte fedeltà del regista al proprio stile – non fanno che confermare una volta in più il rigore dell’impianto autoriale entro il quale Haneke si muove. E cioè in un terreno artistico che mira ad aggiornare alla contemporaneità le questioni fondamentali che arricchiscono il suo cinema da diversi anni. E se, come ammette il regista stesso, Happy End è in effetti “una sorta di summa”3 del proprio cinema fino a ora (una cosa comunque molto diversa dalla definizione de “il meglio di”) è altrettanto vero che sul

piano drammaturgico la scelta di intessere una serie di microracconti all’interno di un sistema ampio di situazioni, storie e personaggi si rivela come un’intenzione di complessificare e rendere ancora più composito l’approccio narrativo. Haneke – in effetti con Happy End – tende a rimettere in scena un piccolo numero di storie, trovando nuovi modi per presentare l’insieme di problemi che lo hanno preoccupato sin dall’inizio della carriera – e contestualmente – affina profonde variazioni su un repertorio limitato di trame incentrate sulla famiglia nucleare.4

Riesce, attraverso un film tanto ricco e che ibrida elementi diversi, a realizzare qualcosa che spinge ancora più in là i significati profondi del suo cinema. Tuttavia la ragione principale che ha spinto ai fraintendimenti di cui abbiamo dato conto è probabilmente un’altra. Come si diceva già nel capitolo precedente infatti Happy End è un film molto diverso dagli altri di Haneke innanzitutto per il tono del racconto. Per la prima volta il regista sceglie di utilizzare un registro mai sperimentato prima: quello della commedia. Non che il film sia una commedia in senso letterale, è comunemente considerato (e inserito) nel genere drammatico, ma è punteggiato di tocchi umoristici e farseschi assolutamente inediti per lo stile hanekeiano. E sebbene lo humor nero con cui è descritto il personaggio di Georges – il quale nei suoi tentativi infruttuosi di suicidarsi strappa più di un sorriso – si sia già visto qua e là nel cinema del regista5, non è mai stato utilizzato in maniera tanto sistematica. Interpellato in proposito Haneke ha ammesso che la scelta di aderire a un registro comico sia stata dettata da un tentativo ragionato “di fare qualcosa di diverso, di impostare una differente sfida formale”6. E che per lui Happy End sia in tutto e per tutto “una farsa, […] una realtà accresciuta”7. Non ci può essere alcun fraintendimento riguardo a questo punto, perché assumendo un atteggiamento abbastanza inedito rispetto alle sue abitudini e alla sua personalità – come abbiamo avuto già modo di appurare – parlando del film, Haneke decide di argomentare la natura delle proprie scelte e di fornire qualche informazione in merito:

Penso che l’argomento – il destino di questa famiglia europea benestante – non meriti un approccio serio. Credo che le storie delle nostre piccole paure e disagi siano più adatte a farse che a tragedie. Il film […] è pietoso, ma non è tragico.8

L’adozione di un registro tanto difforme rispetto al consueto è dunque la conseguenza dell’intenzione di rappresentare un certo milieu sociale in una determinata maniera. La scelta di utilizzare la farsa funziona come attribuzione di merito o come un filtro espressivo, se si preferisce, riferito a una ben precisa classe sociale. Quella incarnata dai protagonisti e che non è esattamente la stessa già vista in molta della filmografia del regista. Osservando nel dettaglio appare chiaro infatti come a differenza di tutte le altre famiglie Laurent incontrate nei film del passato, quella di Happy End differisca leggermente per l’estrazione sociale di cui è espressione. Non si tratta della “solita” media borghesia, anche benestante, che siamo abituati a vedere, ma di una classe altoborghese smaccatamente facoltosa (sebbene con una situazione economica non florida) e privilegiata. Una classe per la quale il regista fatica a contenere il disprezzo che prova – specialmente se riferito al contesto sociale che fa da contorno – e che quindi decide di raccontare usando un filtro che lo tenga il più possibile al riparo da scomode (e pretestuose) prese di posizione. All’apparenza tutto questo potrebbe far pensare a un atteggiamento difensivo o a una facile scappatoia. Invece dimostra come il lavoro dell’autore – da valutare alla stregua non di una sola opera, ma muovendosi fra una e l’altra – sia in grado di aderire a differenti forme narrative mutando le proprie caratteristiche formali ma mantenendo intatto l’approccio ai temi e alle istanze che pone in evidenza. In questo senso Haneke con Happy End fa proprio questo tipo di lavoro: arricchisce e problematizza il proprio sguardo aderendo a un linguaggio differente e – sin dal modo in cui tratta le immagini – mette al vaglio dello spettatore l’evoluzione del proprio cinema attraverso il tempo. E le tematiche al centro del film sono esse stesse da leggere in una logica evolutiva. Ciò che in questo capitolo vogliamo approfondire è proprio questa evoluzione dello sguardo del regista che partendo dal

concetto di famiglia, come abbiamo avuto modo di analizzare, è andato ad affinarsi sempre di più creando numerose ramificazioni e connessioni. Dopo averne studiato lo spazio di radicamento e i rapporti fra i componenti, vogliamo provare a comprendere in quale modo l’ontologia stessa della famiglia ci guidi ad attribuirle significati nuovi e ulteriori rispetto a quelli osservati finora. Ovvero a percepire come con Happy End Haneke ci ponga di fronte a un’analisi sociale che utilizza la famiglia come concetto e metafora di un campo di ragionamento ancora più ampio e storicizzato: quello di popolo. La famiglia Laurent nel suo essere l’incarnazione di un determinato e condiviso sistema di valori è infatti la più evidente espressione di una matrice culturale e di una origine identitaria su larga scala. E la scelta di osservarla a distanza con un filtro tanto esplicito come quello della farsa, significa per il regista provare a guardare da fuori la propria stessa natura e appartenenza culturale. Cercando al contempo di metterne in discussione non tanto i valori in senso stretto, ma la legittimità stessa della posizione che occupa sia nella geopolitica contemporanea sia nella Storia del continente in cui è cresciuta: l’Europa. 1) Come puntualizzato in conclusione del capitolo precedente “Happy End non è, letteralmente, un sequel di Amour: piuttosto ne è una conseguenza”9. Tuttavia è utile ripartire proprio da dove finisce Amour per cercare di comprendere in maniera più chiara le dinamiche che rendono Happy End un’opera tanto complessa e ricca di connessioni con la contemporaneità. Georges, come si diceva, in Happy End racconta alla nipotina Ève di aver soffocato la moglie malata, ricordando di fatto l’evento traumatico principale che caratterizza Amour. Restando alla trama di quest’ultimo sappiamo che nel finale il protagonista, seguendo il fantasma della moglie esce di casa e non vi fa più ritorno – lo si capisce perché nell’ultima scena Eva, la figlia della coppia, torna

nell’appartamento vuoto dei genitori. Georges quindi sparisce, evapora anche lui come un fantasma. Ed è proprio come uno spettro che riappare con lo stesso nome e lo stesso volto (quello di Jean-Louis Trintignant) in Happy End. Qui racconta di essersi trasferito a Calais negli ultimi tempi della malattia della moglie e, in conseguenza di questo, di aver affidato l’azienda di famiglia alla figlia – che è interpretata sempre dalla stessa attrice, Isabelle Huppert, ma questa volta si chiama Anne e non Eva. Il disegno autoriale di Haneke è perciò piuttosto evidente, come è evidente la maniera astratta e allo stesso tempo estremamente percettibile in cui i due film dialogano fra loro. Eppure non è necessario attendere la rivelazione che giunge con il racconto di Georges a Ève in Happy End per capire che quello che abbiamo di fronte agli occhi è un proseguimento del discorso iniziato con Amour: Questo viaggio, questo spostamento, che forse è solo un brutto tiro che la decadenza senile gioca alla memoria del patriarca, è il segno del déplacement che si consuma tra i due film. Un’incongruenza narrativa, uno scarto, che viaggia parallelo all’eredità: dei nomi, e soprattutto delle colpe, dei segreti.10

Perché al di là delle ormai ben note costanti che legano i film di Haneke fra loro – e questi due in particolare – esiste qualcosa di profondamente tragico che sopravvive da una storia all’altra. E che rende l’atmosfera nella quale il film è affondato carica di morte. È proprio la morte l’elemento che più di tutti gli altri viene tramandato attraverso questa eredità fatta di nomi, colpe e segreti. E Georges, le cui vicende diventano il legame strutturale fra un film e l’altro, è la figura simbolica che più di tutte si porta dentro questa essenza tragica. Ma la morte in Happy End, a differenza che in Amour e in tutti gli altri film di Haneke, non è mai rappresentata direttamente e più che attestarsi come un accadimento, un evento o una presenza corporea appare come un dispositivo che risiede “dentro la vita di tutti i giorni e dentro i rapporti umani, quelli familiari e quelli economici e che più che una pulsione o una tensione tragica è una vera e propria condizione ontologica”11. I tentativi fallimentari di suicidio di Georges simboleggiano proprio questa impossibilità di rivestire la

morte di un significato che coincida con quello di fine, perché è presente in ogni aspetto del quotidiano. In questo senso la famiglia Laurent si riflette ancora, sfacciatamente, nella contemporaneità. Haneke la trasforma in un coacervo di pulsioni distruttive. Descrivendola e osservandola attraverso uno sguardo mai tanto negativo e certamente reso ancora più sferzante dal registro ironico, a tratti virato al grottesco, che adotta: “ho un punto di vista ambiguo su tutti i personaggi del film. Questa famiglia è come noi. Siamo tutti egocentrici, bugiardi e ipocriti. E allo stesso tempo feriti, tristi e soli”12. Eppure, come è sempre stato, nemmeno questa volta il regista ce l’ha con i suoi personaggi. Non li elegge ad allegorie di un pensiero politico al fine di condannarlo aprioristicamente e non li giudica per le loro mancanze o incompletezze. Quello che fa è descrivere il mondo che li circonda – e del quale diventano espressione – trovando dentro di esso i motivi per coinvolgere lo spettatore e rivolgere la riflessione direttamente verso di lui. E con sfumature differenti rispetto al passato. Se in Amour lo sfaldamento dei legami familiari avveniva perché nello spazio privato della casa si manifestava una violenza gravata dal dolore e dall’afflizione, in Happy End questo senso drammatico, esiziale e catastrofico sembra tradursi in una condizione globale, collettiva. Una dimensione in cui il ventre molle della famiglia borghese decadente al centro del racconto, riconosce la propria stessa essenza, più che la propria origine. E per mezzo del quale Haneke sembra voler riportare a una dimensione soggettiva – la propria, ma soprattutto quella di chi osserva da una posizione sovrapponibile alla sua – “tutte le piccole paure di queste persone che stanno semplicemente ballando intorno al vitello d’oro”13. Dimostrando quanto esse siano minuscole e insignificanti di fronte alle tragedie che scuotono il mondo intorno. La sua considerazione della classe borghese, alla quale si ascrive apertamente, è spietata: A noi (in Occidente) non sembra importare se il mondo è in rovina finché stiamo ancora bene. Questo è il vero tema del film: la nostra ignoranza verso l’altro. Inizia in famiglia: l’ignoranza tra i membri di una stessa famiglia. Poi all’interno della

vita lavorativa. Poi si continua con l’ignoranza verso gli stranieri e gli altri che stanno fuori. Sono tutti aspetti diversi della stessa cosa. E questa freddezza è un fenomeno borghese, borghese. Siamo tutti borghesi adesso, tutti piccolo-borghesi. Quello che si chiamava il “borghese istruito” non esiste più. Ci sono solo forme più ricche e più povere del piccolo borghese. [La famiglia Laurent] è un po’ più ricca, ma sta per diventare più povera. E farà di tutto per impedirlo.14

La famiglia dunque funziona alla stregua di un sistema di rispecchiamento che lavora su larga scala e agisce come espressione “del nostro autismo, del nostro egocentrismo, della nostra freddezza e durezza di cuore verso gli altri”15. Secondo Haneke l’evoluzione della famiglia borghese – che peraltro smette una volta per tutte di essere rappresentata come nucleare – nella contemporaneità si misura con l’evoluzione del suo ruolo sociale. Raccontare una famiglia allargata “in cui è (ormai) impossibile amare, dire la verità, non tradire o fuggire […] che si (s)vende perché incapace di prendersi le proprie responsabilità”16 significa mettere in evidenza la debolezza del “contratto sociale”17 cui essa è costretta. O in altri termini denunciarne la completa incongruenza con il mondo e soprattutto il tempo circostante, motivo per il quale in Happy End tutto risulta così provvisorio, aleatorio. E se non già morto, come si diceva, destinato a una sopravvivenza che ha le stesse sembianze della morte. Descrivere i meccanismi disfunzionali dei rapporti interni alla famiglia Laurent significa quindi raccordare molti dei segni della contemporaneità, che intorno alla famiglia stessa si configurano, in unica enorme rappresentazione18. È evidente come Haneke si muova in un territorio simbolico – ormai riconoscibile se abbiamo imparato a coglierne le tracce – e come in quest’ottica attribuisca ai personaggi che descrive alcune caratteristiche specifiche. E cioè tratti peculiari per mezzo dei quali essi si identificano come personificazioni delle mancanze e degli squilibri che in forma metaforica appartengono a tutta la loro classe sociale. Se proviamo ad analizzare più nel dettaglio ognuno dei componenti della famiglia Laurent ci accorgiamo infatti che attraverso essi Haneke descrive tutte quelle caratteristiche tradizionalmente

legate alla classe borghese protagonista dei suoi film come abbiamo imparato a riconoscerle. L’incomunicabilità fra Thomas e Ève, cioè fra padre e figlia, e fra lo stesso Thomas e il padre Georges è il riflesso della problematicità dei rapporti fra le generazioni di cui dicevamo nel capitolo precedente. Rapporti nei quali filtrano solo le paure, le tensioni e le negatività storicizzate nelle coscienze dei padri, arrivando ai figli sotto forma di fantasmi, traumi e ferite insanabili. E a essere escluse sono la dimensione affettiva, la comprensione e l’empatia, come dimostra la sequenza in cui Thomas rinuncia a cercare un dialogo con la figlia e chiede perciò al padre di parlare con lei. Ève appare in questo molto simile al Benny di Benny’s Video. Entrambi si rendono colpevoli di un omicidio che si consuma quasi per scherzo o senza una precisa intenzione ed entrambi sono attratti dall’estetica voyeuristica del video, in una “combinazione tipicamente hanekeiana di innocenza e sociopatia dove la morte esercita un fascino morboso”19. Ma soprattutto entrambi ci appaiono soggetti disfunzionali interni al contesto – e alla classe – sociale in cui sono radicati. La natura mostruosa di Ève, come quella di Benny, è consustanziale allo spazio che occupa e partecipa di quei medesimi traumi, incubi e istinti esiziali. Attraverso Georges Haneke descrive invece il sentimento autodistruttivo della famiglia protagonista. Come gli Schöber in Funny Games, i Laurent pur non mostrando alcuna precisa consapevolezza, veicolano in qualche modo la propria stessa fine. L’intenzione di morire del patriarca assume il significato di un’abdicazione della famiglia come nucleo e allo stesso tempo come istituzione sociale. Le grane finanziarie che affliggono i Laurent hanno la funzione di mostrare il decadimento sia del loro status sia del loro stesso ruolo, come espressione del potere economico capitalista e della classe borghese. Allo stesso tempo l’impossibilità di uccidersi di Georges diventa la più evidente – e beffarda – delle metafore dell’impasse sociale in cui questa borghesia appassita e senza

qualità resta intrappolata a causa della cecità e dell’incapacità di guardare al di fuori di se stessa. Una condizione nella quale si trova bloccata anche a causa delle spinte contrastanti di un’altra delle sue anime più energiche. Quella incarnata, nel film, da Anne. Ovvero il personaggio che mostra più di tutti gli altri l’istinto di conservazione. Come abbiamo avuto modo di vedere, la borghesia nei film di Haneke mostra uno spiccato – spesso spregiudicato – spirito di auto-protezione e riparo dagli attacchi esterni. I tentativi di Anne di salvare l’azienda di famiglia, di evitare scandali, di schivare possibili guai legali sono, in senso metaforico, strategie di resistenza. Difendere la famiglia diventa, di nuovo, come difendere un intero spazio o una comunità dalle ingerenze esterne. Laddove ciò che arriva da fuori non può essere visto altrimenti che come una minaccia, un pericolo. Un tentativo di distruggere ciò che è stato conquistato.

Immagine 3.1 Happy End: Pierre (Franz Rogowski) irrompe al party di fidanzamento della madre insieme ad alcuni rifugiati.

Anche se l’elemento distruttivo più imprevedibile e difficile da contrastare è quello rappresentato dal figlio di Anne: Pierre. In Happy End il ragazzo esprime tutta l’inadeguatezza del suo ruolo di erede di un impero economico. A differenza della madre con la quale è in perenne conflitto, egli è infatti disinteressato, arrendevole e incapace di integrarsi nel tessuto

familiare e, più in generale, in quello borghese al quale appartiene. Haneke gli assegna il ruolo forse meno sgradevole fra tutti quelli che descrive nel film, eppure lo dipinge come l’entità della famiglia maggiormente irrisolta, smarrita e dolente. Quella destinata all’autodistruzione – la stessa cui aspira il nonno Georges, senza riuscirci – e a smarrire i tratti tipici della propria appartenenza sociale e di classe. Ma anche, come stiamo per vedere, a caricarsi sulle spalle il dolore di tutti gli altri e lanciare un grido dall’allarme che, per quanto inascoltato, resta l’unico tentativo di opporsi al proprio tragico destino. Quello che Haneke ottiene attraverso la descrizione delle psicologie e dei comportamenti dei protagonisti è quindi mettere lo spettatore di fronte un rispecchiamento. Portando quest’ultimo a misurarsi con quella che Thomas Elsaesser definisce una forma di abiezione20. Secondo Elsaesser le modalità espressive per mezzo delle quali Haneke agisce in Happy End sono molto simili a quelle messe in atto in un altro film di Haneke che si muove, in parte, negli stessi ambiti: Caché. In entrambi i film l’obiettivo del regista secondo lo studioso sarebbe quello di rendere, attraverso alcuni dei personaggi, il meno confortevole possibile la posizione dello spettatore. Ma non facendo leva sulla sfera emotiva o sui valori morali di chi guarda, come succede per esempio in Funny Games. E nemmeno utilizzando la violenza come dispositivo sul quale innestare il senso di disagio che ne consegue. In questi film il dis-piacere si costruisce nel momento in cui lo spettatore è costretto a misurarsi con le proprie convinzioni politiche e il proprio spazio ideologico rispetto a situazioni talmente radicali e urgenti che non si possono ignorare. Anche quando si prova in tutti i modi a farlo. In questo senso Elsaesser trova un interessante parallelismo proprio fra Pierre e una delle figure chiave di Caché: Majid, su cui torneremo. Per quanto secondari infatti questi due personaggi sono rivelatori di un preciso atteggiamento da parte del regista nel veicolare le emozioni degli spettatori verso un ben determinato tipo di sentimento: “sia nel caso di Majid, l’algerino di Caché, sia in quello di

Pierre, figlio di Anne Laurent in Happy End (2017), Haneke è particolarmente abile nel mettere il pubblico ‘a disagio’”21. Un atteggiamento finalizzato a far emergere il lato oscuro e non riconciliato della società che racconta: La cosa più enigmatica (e più minacciosa) in loro è che, avendo perso o rinunciato a molto, ottengono una strana sorta di libertà, che rende meno penoso il loro dolore ma anche meno simpatico il loro carattere. […] Majid e Pierre sono, in termini psicoanalitici, le creature (morte) trainanti, piuttosto che le creature desideranti, quindi esercitano il loro potere negativo sugli altri. Qualcosa che si correla all’homo sacer di Giorgio Agamben: essi incarnano la verità sulla società o sul mondo che deve essere sacrificato.22

Senza entrare nello specifico delle letture psicanalitiche, ciò che è importante rilevare da questa lettura è la lucidità di Elsaesser nel cogliere come Haneke, anche in un’opera dal registro lievemente più svagato come Happy End, riesca a inserire elementi capaci di mettere in crisi la forma stessa del racconto. Ovvero a creare dei dispositivi di interferenza che se all’interno del film mostrano una certa discontinuità con il tessuto emotivo prevalente – e rispetto alla famiglia come sistema – dall’altro si pongono come avvertimenti in direzione dello spettatore. Perché rendono percepibile uno scollamento in atto all’interno di un determinato sistema di valori. Riferito alla famiglia, ma in senso allargato a tutto il mondo occidentale coinvolto nel discorso. Pierre quindi è il personaggio attraverso cui Haneke chiede allo spettatore di osservare ciò che racconta. E che utilizza per restituire l’immagine di un mondo dominato da sentimenti di egoismo, ipocrisia e menzogna23 che non ha più occhi per guardare, comprendere e capire. 2) Mostruosa, inadeguata, con tendenze autodistruttive e allo stesso tempo aggrappata ai propri privilegi la classe borghese in cui Haneke specchia la contemporaneità in Happy End è dunque un apparato simbolico che sembra contenere le tracce di tutti i gruppi sociali precedentemente raccontati e osservati all’interno della sua filmografia. Opere in cui la famiglia era

già utilizzata come veicolo per riflettere sulle questioni politiche allegate: mentre l’attenzione alla famiglia, da un lato, trascende la specificità nazionale, dall’altro, i film [di Haneke] implicano la rilevanza per un particolare gruppo di paesi: Austria, Germania e, nei film più recenti […] la Francia. L’impegno dei loro governi a promuovere la democrazia e il consenso politico, i loro sforzi dichiarati per far fronte alle eredità storiche dei loro paesi e per educare i loro cittadini alle tematiche storiche, si trovano in una tensione precaria con l’erosione de facto del potere statale.24 25

Il regista non risparmia simboli, metafore e archetipi per rendere anche la famiglia Laurent di Happy End la personificazione di tutto questo. Il suo scopo non è comporre una sintesi del proprio cinema, ma piuttosto rivolgere questa congerie di soggetti e personaggi esemplari contro al tempo e allo spazio che racconta. Ovvero a un luogo, Calais, e a un momento storico, la fine degli anni Duemiladieci, che inglobano una larga parte dei sintomi e degli stigmi della società occidentale. Dipingendo perciò la raffigurazione dell’Europa odierna come quella di un posto che è diventato lo scenario di alcuni dei nodi e delle tragedie più spaventose del nostro tempo. E dimostra quanto urgente e decisivo sia porre la discorsivizzazione storica e culturale dell’Europa al centro del dibattito sulla contemporaneità. L’importanza di Happy End nella poetica hanekeiana è quindi quella di fornire alle coordinate geografiche, oltre che sociali e culturali, dello sguardo del regista una prospettiva più ampia. Inserendo la riflessione in un tessuto storico che si posiziona fuori dai confini dei paesi tradizionalmente associati al suo cinema come appunto l’Austria, la Germania e la Francia. Pur essendo ambientato a Calais l’orizzonte del film non è soltanto quello relativo al paese transalpino, ma coinvolge tutto il continente europeo in termini più ampi e complessi. E allo stesso modo le società borghesi e le famiglie interne alla cultura di riferimento diventano dei modelli, o delle rappresentazioni in scala, di un discorso collettivo. Che dall’Austria, dalla Germania e dalla Francia arriva a riguardare e legarsi alle sorti e ai destini di tutti i cittadini europei. Questi ultimi intesi come popolo, e cioè quale entità partecipe delle politiche economiche e sociali di un continente che si pone

come espressione di una determinata cultura. E poiché la tensione fra tradizione culturale e potere statale cui si accennava è stata “amplificata piuttosto che risolta dall’espansione verso l’esterno e dalla ristrutturazione interna dell’Ue”26 l’analisi di Haneke degli intricati legami tra consumismo, declino della famiglia ed eredità storica affrontata all’interno di Happy End arriva a coinvolgere direttamente, e in maniera incontrovertibile, l’Europa sia come continente che come soggetto politico27. Calais dunque non è una semplice location, ma un luogo che esprime letteralmente la tragedia del nostro presente. La scelta di Haneke di ambientare il film proprio lì, oltre che non casuale è anche la testimonianza della volontà di individuare una posizione sulla mappa dell’Europa attraverso cui fissare i punti cardinali di questa tragedia. Calais è infatti la città in cui è risieduta per anni una delle peggiori emergenze umanitarie e insieme la maggiore vergogna dell’Europa contemporanea: la cosiddetta Giungla di Calais28. Un episodio che ha rivelato il totale fallimento delle politiche migratorie dell’Ue e intorno al quale si sono sviluppati dibattiti, scontri feroci ma anche importanti riflessioni di matrice culturale. E che il regista osserva e utilizza come simbolo per descrivere l’incapacità da parte dell’Europa di fronteggiare una crisi tanto spaventosa. Forse non esiste davvero alcun altro evento in grado di riassumere e testimoniare l’inadeguatezza dei governi europei come quello rappresentato dalla Giungla. E il fatto che Haneke decida di posizionare il proprio sguardo su di essa è la testimonianza di come il suo cinema vada intenzionalmente a prendere in esame e osservare da vicino i nodi più scottanti – e in questo caso largamente ignorati – della contemporaneità. Calais è il cuore pulsante, il simbolo, la ferita aperta capace di mettere in evidenza colpe e responsabilità che, come dicevamo, non vengono gettate addosso a qualcosa o qualcuno, ma sono assegnate e condivise: Il tema dell’immigrazione e della nostra cecità nei confronti dei problemi del mondo reale è incarnato in Francia dalla parola “Calais”. Non posso fare un film sui migranti perché non conosco la loro vita per esperienza diretta. Ma posso fare un

film sul nostro autismo e sulla nostra indifferenza verso qualsiasi tipo di sofferenza.29

Lo scopo di Haneke non è quello di fare un film sul tema dei rifugiati, né quello di documentare la piaga umanitaria rappresentata dalla Giungla. In maniera molto più articolata Happy End è la messa in scena – grottesca e in forma di farsa – di tutto ciò che sta intorno all’emergenza. E quindi soprattutto di coloro che quell’emergenza osservano e per mezzo della quale – disinteressati o semplicemente impotenti che siano – fondano le proprie opinioni e determinano i propri comportamenti. L’ironia e il malcelato disprezzo riservati ai Laurent permeano attraverso di loro e arrivano a riguardare ogni individuo, Haneke compreso, che condivide il medesimo posizionamento e il medesimo sguardo in direzione della tragedia. Uno sguardo che non conta se sia diretto o in prima persona, perché per quanto esterno all’esperienza di chi osserva – e cioè tutti noi che in Europa abitiamo e siamo parte della sua evoluzione – resta comunque interno alla nostra storia di popolo di questo continente. Se da un lato manca uno sguardo umanizzante verso la condizione dei disperati che sono sotto i nostri occhi, dall’altro emerge la totale disgregazione dell’apparato sociale che si struttura nel nome dell’Europa. La scelta di usare quel tipo di personaggi per veicolare quel tipo di discorso è dunque funzionale all’idea di raffigurare la distanza fra essi e ciò che sta intorno. E i protagonisti del film sono la metafora di questa incomunicabilità e incapacità di osservare il reale. La loro condizione in quanto famiglia rende esplicito il rapporto fra le due posizioni che si contrastano all’interno della storia: Come non è l’autenticità del legame di sangue a garantire l’armonia all’interno del nucleo familiare, altrettanto per un popolo-nazione far parte di qualcosa (e ancora più dell’Europa) non garantisce di evitare le grandi catastrofi.30

Ma questo tipo di rappresentazione risulta idonea anche per mettere in evidenza la problematicità del rapporto fra noi che guardiamo dalla prospettiva occidentale e le nostre radici culturali. Ovvero un sistema di valori che si sta sfaldando e il cui riflesso è avvertibile proprio nella disgregazione dei legami familiari che il film racconta. Come se nel farsi popolo,

poi nazione e infine continente la borghesia europea abbia radicalizzato il proprio ruolo e la propria forma strutturale in termini ideologici e anche biologici. Difendendo uno spazio che pur ibridato e attraversato da tensioni e violenza, viene il più possibile salvaguardato e reso impenetrabile da qualsivoglia invasione. Cioè, nel caso specifico, dall’ingresso di tutto ciò che è straniero, estraneo e rappresenta la più temibile delle minacce. E risponde all’intenzione di procedere lungo queste coordinate la scelta di Haneke di non mostrare praticamente nulla di quello che avviene nella Giungla. Di non mostrare per niente la Giungla stessa e nemmeno gli effetti che l’esistenza di quest’ultima genera sui cittadini. Il motivo principale è che da Calais il campo è praticamente invisibile. Non vi si può accedere e soprattutto è separato da un muro lungo più di un chilometro e alto quattro metri – aggiunto nel 2016 a una preesistente recinzione di oltre tre chilometri – costruito proprio con lo scopo di impedire ai migranti di poter raggiungere la zona urbana della città. A Calais quindi è quasi impossibile comprendere le proporzioni della tragedia. Perché questa tragedia è di fatto invisibile: In genere si pensa che Calais sia invasa da immigrati. Ma non è affatto così. Ce ne sono molti di più a Parigi. Per strada si vedono solo tipi borghesi e di tanto in tanto qualche gruppo di tre o quattro africani che camminano verso i traghetti. Quasi non li noti.31

Immagine 3.2 Happy End: Thomas (Mathieu Kassovitz) e Ève (Fantine Harduin) camminano sulla spiaggia di Calais. Sullo sfondo un gruppo di rifugiati.

Nessuno nel film parla del campo, nessuno pare esserne toccato e tutto quello che rende avvertibile la sua presenza sono tre momenti isolati in cui i migranti entrano nell’inquadratura – peraltro senza mai dire una parola. La prima volta è poco prima di metà film quando Thomas porta Ève al mare. I due stanno camminando lungo la spiaggia e, mentre sono ripresi con una carrellata laterale, si scorge fugacemente in lontananza un gruppetto di uomini di pelle nera, e vestiti con abiti per nulla consoni alla spiaggia, che cammina in direzione opposta ai protagonisti in prossimità del bagnasciuga. Poco dopo ne vediamo altri quando Georges cerca di convincere alcuni di loro ad aiutarlo nel suo intento di morire in cambio del proprio orologio. È di nuovo un lungo carrello laterale a riprendere, in piano sequenza, tutta la scena. Georges procede spingendosi con la propria sedia a rotelle lungo una pista ciclabile, al bordo di una strada trafficata, quando incrocia un gruppo di uomini, presumibilmente africani, li ferma e comincia a parlare con loro. Le voci si sentono in lontananza e sono indistinguibili, lo spettatore comprende perciò la situazione dai gesti: l’aria stranita degli interlocutori, Georges che si slaccia l’orologio dal polso. L’intervento di un passante, che sembra chiedere all’anziano se lo stiano importunando, pone fine alla sequenza. Infine vediamo ancora alcuni rifugiati nella già citata sequenza finale, quando Pierre invita cinque di loro a partecipare al party di fidanzamento della madre. Dopo averli fatti entrare nella sala del ricevimento ed essersi scusato per il ritardo, Pierre inizia a presentarli uno per uno. Viene però interrotto prima da Lawrence e poi da Anne, alle cui richieste di smettere con quel comportamento, reagisce violentemente. Anne allora gli spezza un dito e lo allontana, dopodiché si scusa con gli invitati e chiede ai cinque ragazzi di prendere posto nella sala. Nell’ultima inquadratura i giovani sono ripresi a distanza in campo totale: vediamo i camerieri preparare un tavolo per loro mentre il resto degli invitati li osserva con aria infastidita.

Haneke non mette mai i rifugiati nel foreground dell’inquadratura, ovvero in un punto dove agiscono da protagonisti, ma li tiene a distanza, in secondo piano, sempre alle spalle dell’azione o in uno spazio in cui è più difficile scorgerli. È ovviamente una presa di posizione formale molto forte. Da un lato perché mostra il dovuto rispetto per una tragedia umana che, come si diceva, chi osserva dal punto di vista in cui si trova il regista non è in grado di comprendere del tutto e non può quindi raccontare direttamente – prospettiva alla quale anche il pubblico viene invitato ad aderire. E dall’altro perché intende rendere percepibile come il ruolo dei rifugiati nel racconto sia per forza di cose marginale, inascoltato e periferico.

Immagine 3.3 Happy End: Georges (Jean-Louis Trintignant) a colloquio con alcuni migranti lungo una strada del centro di Calais.

Essi “diventano oggetti umani abusati dalle disperazioni individuali”32. Haneke rende chiaramente evidente questo elemento in termini grafici: in Happy End i protagonisti della tragedia che si consuma a Calais non sono i protagonisti della storia che il film racconta. Come non lo sono allo stesso modo della Storia dell’Europa. Il loro ruolo è subordinato alla percezione e alle azioni degli altri, di coloro che occupano una posizione al di là della recinzione, cioè al di qua del confine, dove risiedono quella zona di sicurezza e quello spazio simbolico che abbiamo imparato a riconoscere. E infatti la recinzione come elemento evocativo della situazione dei

disperati di Calais funziona meglio di tutte le altre soluzioni enunciative, compresa quella di mostrare i migranti in prima persona. Recinzione che vediamo in una delle prime sequenze del film, mentre Anne sta guidando sull’autostrada e parla al telefono con Lawrence: “per me Calais è molto più visibile nella prima scena, quella in cui Huppert è in auto e guida lungo questa infinita recinzione bianca. Quella è Calais”33. E nella sua forza simbolica – che trascende dalle questioni strettamente legate alla nostra trattazione – il muro determina l’emersione di un immaginario ricco di rimandi ideologici, politici e culturali. Ma allo stesso tempo il fatto che resti l’unico elemento riconducibile all’interno del film al dramma di Calais (insieme alle fugaci apparizioni dei migranti di cui abbiamo detto), mette di fronte ad alcune importanti riflessioni. Perché la tragedia, oltre che indicibile, sembra in questo senso anche impossibile da mostrare. E proprio come la violenza più efferata di cui abbiamo osservato le modalità di rappresentazione negli altri film di Haneke, resta appositamente esclusa dal quadro. Se a Calais non si riesce a vedere nulla del dramma dei migranti è perché ciò che interessa mostrare al regista è quello che sta tutto intorno, e che conosce. Ma anche perché quello che si può vedere, osservare con gli occhi di chi quel dramma non lo vive in prima persona, è e rimane invisibile. Almeno in termini ontologici. Per il suo restare distante e non riguardare la vita e le azioni di chi vive al di fuori del campo, l’esperienza non può essere né vista né documentata per davvero. Si tratta di una impasse culturale difficilmente superabile, cui Haneke assegna un significato che ingloba la dimensione coloniale dello sguardo della classe borghese: “conosco, vivo, questa situazione borghese, dove i migranti sono solo ai margini. Non li incontri davvero. Nella migliore delle ipotesi fai una donazione a un istituto per placare la tua coscienza sporca”34. Il territorio in cui si plasma la contemporaneità è perciò un luogo che nel dialogare con la Storia rende presente e corporea un’assenza. Non può parlare di quello che non conosce per esperienza diretta Haneke e quindi affida al fuori campo e alla mancanza di un referente o un dispositivo

corporeo su cui posare lo sguardo, il significato del proprio gesto filmico. Una conclusione molto simile a quella cui giunge lo scrittore Emmanuel Carrère, il quale nel 2016 realizza un reportage sulla Giungla che prende la forma di un romanzo breve. Nel finale Carrère scrive: “Mi avvicino alla conclusione […]. A Calais non ho visto niente, o comunque pochissimo. E delle cose che ho visto ce n’è una quantità che non ha trovato posto in questo resoconto…”35. Quello che lo scrittore non può inserire sono le storie, innumerevoli, che stanno dietro a tutti quelli che affollano “la più grande bidonville d’Europa”36. Perché quelle storie non hanno voce ed esistono solo in relazione al modo in cui sono raccontate dai media che stanno dall’altra parte.

Immagine 3.4 Happy End: Anne (Isabelle Huppert) in auto mentre costeggia la recinzione “anti-migranti” nei pressi del porto di Calais.

L’alterità e l’estraneità intesi come sentimenti, ancor prima che come posizionamenti rispetto alla realtà, sono centrali in questo tipo di discorso. E determinano lo spazio emotivo, ma anche d’azione, entro il quale la rappresentazione prende forma. In Benny’s Video e in Funny Games la classe borghese rinchiusa nel suo perimetro di sicurezza iniziava a mostrare la diffidenza verso lo spazio esterno quando il rischio di un’invasione diventava un’ipotesi concreta. O perché il recinto dentro cui cercava protezione rivelava le prime crepe, oppure perché veniva improvvisamente perforato. In Happy End invece questa compenetrazione fra interno ed esterno è già

avvenuta. Nonostante l’esistenza del muro, con tutti i significati cui questo rimanda, lo scollamento fra entità separate che nei film precedenti prendeva le sembianze di un pericolo da scongiurare, qui appare come un dato di realtà al quale è ormai impossibile opporsi. E quella in atto è un’ibridazione dello spazio che rende esplicita l’impossibilità di una convivenza che sia scevra da traumi e sconvolgimenti. Calais è dunque uno spazio simbolico in continuità con la poetica di Haneke nei termini in cui l’abbiamo sin qui analizzata. Un luogo che rappresenta tutti i luoghi sulla terra dove esistono e si consumano tragedie simili e che ha dentro di sé gli stigmi e le ferite degli altri confini europei intorno ai quali si coagulano i medesimi drammi umani37. Ma è anche uno spazio in cui i significati di cui si dota gli vengono assegnati da coloro che lo abitano. Dai cittadini che ne formano la popolazione e che al suo interno non regolano soltanto il metro dei propri comportamenti sociali, politici e ideologici, ma rintracciano anche la loro stessa origine. 3) La dimensione collettiva che prende forma da questo tipo di rappresentazione e su cui Haneke costruisce le proprie riflessioni riguardo la frammentazione dell’Europa come soggetto politico, sociale e culturale, è un tema che torna più volte nella filmografia del regista. In alcune opere questo discorso emerge attraverso un racconto plurale, costituito cioè da una serie di diverse linee narrative, storie e personaggi che confluiscono nello stesso racconto. Un tipo di drammaturgia che mira alla creazione di una struttura narrativa espansa, densa e articolata, in cui la difficoltà dei rapporti fra gli individui all’interno di società ricche di problematicità come quella dell’Europa contemporanea, si configura come l’elemento cardine. E in cui la forma discontinua dell’incedere narrativo rispecchia la complessità delle vicende raccontate. Happy End si situa in questo filone e anche se presenta caratteristiche formali e di scrittura differenti rispetto agli altri

film di Haneke che stiamo per analizzare, ha molto in comune con il concetto hanekeiano di film collettivo, nel quale storie diverse convergono e si sovrappongono dotando il contesto culturale e sociale che le contiene di significati vasti e articolati. Non è un caso, in questo senso, che Happy End sia nato dalle ceneri di un progetto su cui Haneke ha lavorato per più di due anni e che è poi naufragato costringendo il regista a cambiare direzione e ripensare tutto da zero. Il film, che si sarebbe dovuto intitolare Flashmob, non è mai stato portato a termine per via dei numerosi guai produttivi che ne hanno funestato la lavorazione. Comunque, prima che tutto venisse interrotto, la fase di scrittura era già stata completata, elemento in virtù del quale si hanno molte informazioni rispetto a quello che Flashmob avrebbe dovuto essere – informazioni riferite per lo più da Haneke stesso38. Conosciamo per esempio l’ambientazione, gli Stati Uniti, almeno uno degli interpreti già scritturati, l’attore Forest Whitaker, e come dicevamo anche la struttura a storie sovrapposte e a episodi convergenti. Il film avrebbe infatti raccontato le vicende di alcuni personaggi estranei fra loro e con vite diverse, i quali alla fine si sarebbero poi trovati tutti insieme a condividere lo stesso spazio pubblico. Doveva far parte della storia anche un episodio in cui una ragazzina adolescente tenta di avvelenare la madre. Uno spunto che come sappiamo è stato poi riutilizzato per costruire il personaggio di Ève in Happy End. Al di là di somiglianze e rimandi il dato da rilevare è come Happy End sia concettualmente figlio dell’intenzione da parte di Haneke di intessere una storia collettiva da situare nel solco di opere come 71 frammenti di una cronologia del caso e Storie (Code Inconnu: Recit Incomplet De Divers Voyages, 2000), due film che condividono una struttura simile dal punto di vista drammaturgico e che per stessa ammissione del regista rappresentano una sorta di schema narrativo ricorrente all’interno della sua filmografia: “Flashmob era, come 71 frammenti e Storie, un film corale che raccontava diverse storie i cui protagonisti si incontravano, prima di ritrovarsi

tutti insieme in un flashmob”39. Ciò che possiamo desumere con una certa sicurezza da questi elementi è quindi il fatto che Haneke con Flashmob prima e Happy End poi abbia voluto creare un continuum teorico relativamente a un tipo di discorso sul concetto di appartenenza, cittadinanza e alterità intrapreso già da diverso tempo. E anche che, seppur più per contingenza che per scelta, abbia trasferito questa riflessione allegata inizialmente dall’America, ancora una volta, al continente europeo. L’adozione di una tipologia di racconto discontinuo in Happy End, benché in una modalità differente da quella che avrebbe assunto in Flashmob, sottolinea inoltre l’ulteriore attinenza con le opere citate e rende ancora meglio l’idea di come la perfetta accordanza tra forma e contenuto generi un complesso autoriale di solido rigore: Una rappresentazione della frammentazione dell’esperienza umana e della pluralizzazione delle strutture sociali contemporanee, sembra richiedere una dispersione delle strutture narrative dei film. In modo che la complessità tematica sia riflessa e restituita da una rete altrettanto complessa di contingenze narrative. In 71 frammenti e Storie, queste contingenze narrative fanno parte di un’estetica globale della frammentazione. Sebbene questa estetica fornisca un’impalcatura atta a riflettere i comportamenti e le azioni di una variegata moltitudine di persone, questo non è il suo scopo principale. È invece la forma stessa a essere posta in primo piano. Essa rimane connessa ai contenuti, ma diventa anche il contenuto stesso.40

Questa frammentazione in 71 frammenti è, come appare evidente, dichiarata fin dal titolo. Il film, come abbiamo già avuto modo di osservare (cfr. capitolo II), è il terzo diretto da Haneke in ordine cronologico oltre che l’ultimo capitolo della trilogia della glaciazione. La trama come visto è ispirata a un fatto di cronaca particolarmente drammatico ed efferato accaduto in Austria nei primi anni Novanta: l’omicidio di tre persone e il successivo suicidio da parte di un giovane studente all’interno di una banca di Vienna alcuni giorni prima di Natale. 71 frammenti mette in fila una serie di personaggi alle prese con la spersonalizzazione causata dalla routine del quotidiano, dai problemi di tutti giorni e dalle piccole e grandi sconfitte della vita. Queste questioni relative alla “glaciazione emotiva” riassumibili con quella che Roy Grundmann

definisce “una preoccupazione molto antica del cinema per i problemi più tradizionali del primo mondo come l’alienazione urbana, l’anonimato della società contemporanea e l’anemia sociale della classe media”41 viene posta in relazione con “fenomeni storici più recenti, come le diverse ripercussioni della caduta del blocco orientale, dell’avanzata integrazione politica e burocratica dell’Europa e della sua eredità coloniale”42. E proprio il rapporto con il concetto di straniero, ancora piuttosto nuovo per la società occidentale europea dei primi anni Novanta, diventa uno dei temi centrali sia del film sia della coeva esperienza artistica del regista. Come è stato osservato da più parti in questa fase lo stile narrativo di Haneke risente ancora di alcuni schematismi. Il modo in cui all’interno del film viene costruita la relazione fra le azioni e i comportamenti della società capitalista e consumista – peraltro immortalata non a caso durante il periodo delle feste natalizie – e quelli dei migranti o degli sventurati che si trovano a vivere in mezzo alla povertà e alle guerre, risente di uno sguardo se non stereotipato quantomeno eccessivamente convenzionale. Sguardo che tuttavia mostra già chiaramente alcuni aspetti che si troveranno in molti dei film successivi. Una delle protagoniste del film è una giovane donna benestante che con il marito non riesce ad avere figli. I due decidono per l’adozione e portano a casa una bambina dell’est Europa, la piccola però è piena di traumi e di paure ed è molto diffidente, tanto che col tempo la coppia si rende conto di non riuscire a gestirla. Poi un giorno il telegiornale racconta la storia di un ragazzino rumeno orfano, entrato in Austria illegalmente e che da mesi vive di espedienti e dorme nella metropolitana viennese. Moglie e marito si informano per poterlo adottare e una volta ottenuta l’autorizzazione decidono di “restituire” l’altra bambina. L’amara e sottile ironia di Haneke descrive alla perfezione un luogo sociale che riflette a sua volta una sorta di sentimento storico. La logica colonialista mediante la quale si struttura il rapporto fra la classe borghese e l’entità incarnata dallo straniero, agisce infatti anche

all’interno delle coscienze delle famiglie più progressiste, come quella dei genitori adottivi che il film mostra. E diviene il metro di comportamento che, proprio come in Happy End, denota la propria aderenza a un sistema culturale irrimediabilmente eurocentrico. In uno dei frammenti del film viene descritto il momento in cui la neo-madre si trova da sola con il figlio adottivo per la prima volta. Lei è alla guida della propria auto e mentre percorre le strade del centro di Vienna coperte di addobbi natalizi indica e pronuncia in tedesco i nomi delle cose che vede, al fine di fornire al ragazzino – che ripete ogni parola – maggiore familiarità con la lingua. Un gesto del tutto innocente e all’apparenza quasi insignificante, eppure un atto su cui il regista si concentra e sceglie di mostrare – fra i numerosi che avrebbe potuto selezionare per restituire la medesima sensazione – perché nasconde significati molto più profondi rispetto a ciò che può sembrare a una prima impressione. Insegnare una lingua significa stabilire un canale di comunicazione unilaterale e allo stesso tempo farlo attraverso determinati simboli culturali – il Natale qui diventa una sorta di paradigma della cultura cristiana occidentale – rende esplicito infatti come la relazione fra le due entità in gioco sia basata su una sorta di sostituzione culturale e conseguente “normalizzazione” del soggetto estraneo. Un concetto che Haneke ribadisce, in un certo senso, anche nel gesto – che torna a più riprese nel film – di mostrare le immagini di diversi telegiornali attraverso gli schermi dei televisori dei protagonisti. Le notizie che passano nel corso dei due mesi che il film racconta – da ottobre a dicembre – sono sempre grossomodo le stesse. E due in special modo tornano in continuazione: quella dell’assedio di Sarajevo da parte dell’esercito serbo e quella sull’eco delle accuse di pedofilia contro il cantante Michael Jackson. Ciò che il regista punta a ottenere è una sorta di effetto indistinto nel quale “la forma vuota e ripetitiva delle notizie appiattisce tutto”43. E in cui la perdita dei registri dell’immagine genera un campo visivo dove tutto è giustapposto a tutto il resto e la percezione della

realtà risulta anestetizzata. La morte causata dall’atto violento che erompe nel finale di 71 Frammenti, così come la strisciante intolleranza e la diffidenza verso l’estraneità che permea per tutto il film, vengono dunque neutralizzate dall’appiattimento della loro immagine: “in poche parole, le morti diventano finalmente parte dell’ordine televisivo, tenuemente legato alla violenza in Bosnia e alle macchie sul pene di Michael Jackson”44. Questa uniformazione degli eventi che avviene attraverso l’appiattimento dato dalla forma standardizzata delle notizie e che esclude quindi la natura traumatica o ancor peggio tragica degli eventi che racconta, si porta addosso segni non troppo dissimili, in termini ermeneutici, da quelli che abbiamo assegnato al muro di Calais. Soprattutto per la maniera nella quale ogni effetto disturbante relativo al dramma oggetto del racconto rimane celato allo sguardo. Mentre la possibilità di una integrazione dello sguardo sul mondo sempre più frammentato che ci troviamo di fronte, resta del tutto inattuabile. In Storie il racconto collettivo è molto più complesso e, diversamente che in 71 Frammenti, non punta a una convergenza delle linee narrative in un’unica situazione finale che ricollochi i tasselli a loro posto – almeno in termini drammaturgici. Il film infatti è costruito nella maniera opposta: i personaggi sono tutti insieme nella prima sequenza, dove entrano in contatto in modo fortuito, e successivamente ognuno di loro prende una direzione diversa che lo porta lontano dai destini di tutti gli altri. L’ambientazione principale è Parigi – identificata come l’ideale capitale e centro dell’Europa – ma il film si sposta fisicamente e metaforicamente fra la campagna francese, la Romania, l’Africa e il Kosovo. Come si evince anche dal titolo originale, Code inconnu: Récit incomplet de divers voyages45, Storie è un film che contiene episodi lontani e diversissimi ma tutti estremamente legati fra loro. Sia nel tempo, quello della contemporaneità, sia nello spazio, quello dell’Europa, presente ancora una volta come ideale ombelico del mondo.

Anne Laurent è un’attrice alle prese con il suo primo ruolo da protagonista, ha un fidanzato, Georges, che fa il fotografo di guerra ed è sempre lontano e con il quale il rapporto si sta deteriorando; Jean, il fratello di Georges ancora minorenne, fugge dalla provincia e dal padre allevatore che vorrebbe lavorasse alla fattoria di famiglia per raggiungere la capitale e vivere la sua vita; Amadou è un giovane musicista figlio di immigrati africani che vede la propria famiglia sfaldarsi a causa della fine della relazione fra i suoi genitori e di un’integrazione impossibile con la cultura europea; Maria è una donna rumena che fa la mendicante a Parigi, viene espulsa, ma fa ritorno nella capitale francese per poter racimolare i soldi necessari a pagare il matrimonio della figlia in Romania. Sono queste le storie che il film racconta e intorno alle quali prende forma tutta la narrazione. Ognuna di queste contiene altre piccole storie tutte in qualche modo interconnesse. Non c’è la stessa divisione a compartimenti stagni e la conseguente disgregazione narrativa che osserviamo in 71 frammenti e nemmeno un racconto stretto sulla famiglia e la sua dissoluzione come in Happy End. Storie si situa idealmente nel mezzo fra queste due opere, in una posizione intermedia fra lo sguardo su un mondo fatto di egoismo, glacialità emotiva e solitudine e uno ricco di legami strumentali e impossibili per quanto allo stesso tempo inestricabili. Eppure mantiene intatto quel senso di spaesamento e aleatorietà che troviamo anche negli altri film “collettivi” di Haneke. Una narrazione cioè in cui gli effetti della globalizzazione e dell’ibridazione dello spazio si configurano come i segni che raccontano la contemporaneità nel momento stesso in cui prende forma: Tra gli effetti più facilmente osservabili della dialettica globalizzazione/espansione/dispersione/inclusione, da un lato, e localizzazione/contrazione/collasso/esclusione, dall’altro, vi è l’accresciuto significato dell’accidentale, del casuale e del potenziale. I film di Haneke riflettono l’“intensificazione” o “potenzializzazione” del tempo e dello spazio determinata dalla globalizzazione, un’acuta consapevolezza che ogni “momento” e ogni “luogo” sono potenziali luoghi di conflitto con un numero indeterminato di potenziali ramificazioni. In Storie il gesto banale e sconsiderato di un adolescente – Jean getta l’involucro del suo croissant in grembo a Maria provocando così l’indignazione di

Amadou – mette in moto una serie di incontri casuali tra estranei che drammatizzano una serie di conflitti personali, sociali, di classe, razziali ed etici.46

Quello che emerge in questo contesto è un ampio senso di incomunicabilità fra le entità in gioco. Benché Storie sia il film più ottimista di Haneke – anche secondo lui stesso47 – è infatti permeato da una generale incomprensione che agisce a differenti livelli. Nel film si sentono parlare diverse lingue e anche se il francese, che è quella principale, agisce anche come “lingua passe-partout”, ci sono alcuni momenti in cui Haneke inserisce volutamente elementi incomprensibili. Ne è un esempio l’inizio del film dove alcuni bambini sordomuti – che poi si scopriranno essere allievi di Amadou, che fa l’insegnate di musica – si esprimono mediante un linguaggio dei segni di cui nessuno fornisce la traduzione. Lasciando intendere che il senso di ogni comportamento e azione che si vedrà nel film andrà ricercato nei gesti piuttosto che nelle parole. L’incomunicabilità prende però corpo anche come metafora su più larga scala. La difficoltà di esprimersi diventa il rispecchiamento della difficoltà di comprendere ciò che sta intorno. Il concetto di rottura della comunicazione come forza polarizzante – fra strati sociali, gruppi etnici, giovani e anziani, e così via – è inoltre direttamente legato alla divergenza delle linee narrative tracciate dal film. Un concetto rafforzato dal modo in cui Storie spinge sulla rappresentazione del “collasso del linguaggio, della fine della comunicazione e del rapporto fra quel fallimento e il razzismo e l’ingiustizia economico/sociale che racconta”48. Ma se questo dover ripensare a tutti i costi lo spazio in cui si vive e l’essere costretti a imparare una comunicazione nuova potrebbe non essere una cosa per forza negativa – ed ecco dove sta l’ottimismo hanekeiano – in Storie rimane integro il ritratto di una società messa in crisi dalla perdita dei propri punti di riferimento. E di un luogo, l’Europa, che come suggerisce il titolo è una Babele di lingue e di storie che non troverà mai la propria risoluzione e il proprio punto di approdo: Ciò che manca alle narrazioni parallele di questa raccolta di “outsider” della società francese è, come suggerisce il titolo, il “codice” in base al quale potrebbero

essere interpretati come il racconto di un’unica storia globale, piuttosto che di una “storia incompleta” di viaggi sconnessi.49

Il codice di cui si parla non è quindi, naturalmente, quello dell’ingresso della casa di Anne – che cambia in continuazione e impedisce a chi non lo conosce di poter entrare – ma in senso metaforico riguarda l’accesso alla società europea, alle sue regole e alle forme della sua comunicazione. Haneke rende esplicita l’assenza di un tale codice nella narrazione di ogni individuo – e mostra così come ogni storia sia incompleta, non solo come immagine dell’insieme sociale, ma anche nei suoi stessi termini, come la storia di un singolo personaggio.50

In un certo senso quello che il regista costruisce in Storie è un’ipotesi di futuro, una rappresentazione sospesa che fornisce delle coordinate per osservare l’evoluzione sociale e culturale dell’Europa. Di un continente che, all’epoca dell’uscita del film, alle soglie del nuovo millennio, non aveva ancora compreso appieno gli stravolgimenti attraverso i quali stava passando. Per questo motivo i viaggi raccontati sono incompleti. E per questo l’afflato umanista che filtra dal racconto assume il significato di una sorta di sentimento storico positivista. Provando a mettere in collegamento diretto Storie con Happy End possiamo dunque affermare che a vent’anni di distanza il giudizio di Haneke sul percorso intrapreso dall’Europa è irrimediabilmente negativo. In questa prospettiva la vaga speranza che si intravvedeva in un’idea di Europa ancora in divenire e tutta da costruire, con il passare del tempo ha lasciato il posto al concretizzarsi di un tragico destino. Che oggi ci appare irrimediabile e sempre più difficile da comprendere51. Ma che si configura come realtà autentica e percettibile la cui capitale non si chiama più Parigi, ma Calais. 1

R. Grundmann, F. Naqvi, C. Root (a cura di), Michael Haneke: Interviews, University Press of Mississippi, Jackson 2020, p. 146.

2

Y. Talu, Happy End, in “Film Comment”, vol. LIV, n. 1, jan-feb 2018, p. 70.

3

R. Grundmann, F. Naqvi, C. Root, op. cit., p. 146.

4

Ivi, p. IX.

5

Si veda a proposito la lettura di alcuni dialoghi di Benny’s Video operata nel capitolo II.

6

S. Roxborough, Michael Haneke on “Happy End” and the Art of Making Audiences Uncomfortable, in “Hollywood Reporter”, 30 novembre 2017, https://www.hollywoodreporter.com/movies/movie-news/oscars-michaelhaneke-happy-end-art-making-audiences-uncomfortable-1062407/.

7

Ibid.

8

Ibid.

9

A. Bellavita, Happy End, in “Segnocinema” n. 209, gennaio-febbraio 2018, p. 47.

10

Ibid.

11

L. Rossi, Happy End, in “Cineforum – Critica e cultura cinematografica”, 24 novembre 2017, https://www.cineforum.it/recensione/Happy-End.

12

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 363.

13

S. Roxborough, op. cit.

14

Ibid.

15

Ibid.

16

A. Bellavita, op. cit., p. 48.

17

Ibid.

18

Sullo sfondo sembrano in effetti evocati i concetti della “Società liquida” esposti da Zygmunt Bauman, che produssero un vasto dibattitto agli inizi del XXI secolo e si potrebbero riassumere con le sue stesse parole, per cui “l’incertezza è l’unica certezza”. Si veda in merito Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000; tr. it. di S. Minucci, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2011.

19

Y. Talu, op. cit., p. 70.

20

Cfr. T. Elsaesser, European Cinema and Continental Philosophy: Film as Thought Experiment, Bloomsbury Academic, London/New York 2019, pp. 129-162.

21

Ivi, p. 134.

22

Ibid.

23

Cfr. M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 363.

24

R. Grundmann, op. cit., p. 18.

25

Sulla crisi irreversibile dello Stato-nazione si veda Z. Bauman, Globalization: The Human Consequences, Columbia University Press, New York 2000; tr. it. di O. Pesce, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 70-75.

26

R. Grundmann, op. cit., p. 18.

27

Sul tema, tra i moltissimi cfr. M. Piantini (a cura di) L’Europa nel secolo veloce, Donzelli, Roma 2019.

28

Con Giungla di Calais ci si riferisce in maniera informale all’accampamento di rifugiati e migranti creatosi ai margini del tessuto urbano della città di

Calais a fasi alterne a partire dal 1999 e sino alla fine del 2016. Gli assembramenti si sono formati spontaneamente a causa delle politiche messe in atto dal Regno Unito al fine di combattere l’immigrazione clandestina e basate sui respingimenti. Il risultato è stata la nascita di una vasta area in prossimità del canale della Manica, sul lato francese, in cui le persone hanno iniziato a stazionare a tempo indeterminato sperando prima o poi di riuscire a imbarcarsi su un traghetto, un camion o un treno in viaggio verso l’Inghilterra. Il campo ha guadagnato un’attenzione globale durante il picco della crisi europea dei migranti nel 2015, quando la popolazione dei rifugiati aumentò rapidamente e a dismisura e le autorità francesi iniziarono espulsioni e trasferimenti. A ottobre 2016 il campo è stato definitivamente evacuato ma si calcola che fra l’aprile del 2015 e l’ottobre dell’anno successivo vi siano transitate almeno 10000 persone. Per una più completa ed esaustiva comprensione del fenomeno rimandiamo al volume di M. Agier, La jungle de Calais: Les migrants, la frontière et le camp, Puf, Paris 2018; tr. it di N. Manghi, La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo, Ombre Corte Editore, Verona 2018. 29

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 362.

30

L. Rossi, Michael Haneke and the Trauma of Europe, in “Studies in Visual Arts and Communication – an international journal”, vol. XVIII, n. 1, 2021, p. 70.

31

R. Grundmann, F. Naqvi, Every Unhappy Family Is Unhappy in Its Own Way: An Interview with Michael Haneke, in “Cinéaste”, vol. XLIII, n. 1, Winter 2017, p. 6.

32

A. Bellavita, op. cit., p. 48.

33

R. Grundmann, F. Naqvi, op. cit., p. 6.

34

S. Roxborough, op. cit.

35

E. Carrère, A Calais, tr. it. di L. Di Lella, M. L. Vanorio, Adelphi, Milano 2016, p. 44.

36

Ivi, p. 19.

37

Il fatto che Haneke si concentri su Calais non impedisce di estendere le riflessioni che emergono dall’analisi del film sugli altri luoghi simbolo del dramma dei migranti sul suolo europeo. Come Lampedusa o le isole greche del mar Egeo Chios, Samos, Los, Leros e soprattutto Lesbo in cui sorge il più grande campo d’Europa. O come i confini dei paesi facenti parte della cosiddetta “rotta balcanica”: Bulgaria, Romania, Ungheria oltre agli stati della ex Jugoslavia. La recentissima crisi innescatasi al confine fra Bielorussia e Polonia mostra infine come le tematiche intorno a cui si concentra Happy End – in special modo per come allude al rapporto fra la questione migratoria e lo sguardo su di essa dei cittadini europei – siano di un’urgenza straordinaria.

38

Cfr. M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., pp. 360-361.

39

Ibid.

40

R. Grundmann, op. cit., p. 372.

41

Ibid.

42

Ibid.

43

P. Brunette, op. cit., p. 49.

44

M. Sutherland, Death, with Television, in B. Price, J. D. Rhodes, op. cit., p. 179.

45

Letteralmente: “Codice sconosciuto: resoconto incompleto di diversi viaggi”.

46

T. Trifonova, Michael Haneke and the Politics of Film Form, in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., p. 71.

47

Haneke nel libro intervista a cura di Cieutat e Rouyer a una domanda sul finale di Storie, definito “ottimista” dai due autori, risponde “Sì, è il mio film meno cupo!” (M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 215).

48

C. Sharrett, The World That is Known: An Interview with Michael Haneke, in R. Grundmann, op. cit., p. 582.

49

S. Durham, Codes Unknown – Haneke’s Serial Realism, in B. Price, J. D. Rhodes, op. cit., pp. 253-254.

50

Ivi, p. 254.

51

Una ricostruzione problematica, in merito, in P. Rossi, L’identità europea, il Mulino, Bologna 2007.

IV. STORIA: IL NASTRO BIANCO

Intorno al luglio del 1913 e per i mesi seguenti il giovane maestro di Eichwald, un piccolo villaggio rurale di severa dottrina luterana nel nord della Germania, da poco arrivato in paese, si trova a essere testimone di alcuni fatti particolarmente bizzarri. Tutto inizia il giorno in cui il medico si ferisce gravemente cadendo da cavallo dopo che l’animale è inciampato in una fune tirata fra due alberi. Viene trasportato in ospedale mentre i suoi figli – dal momento che l’uomo è vedovo – vengono affidati alla vicina di casa, la levatrice del paese. Si indaga per trovare il responsabile dell’incidente ma senza successo. Intanto mentre il maestro fa la conoscenza di Eva, la nuova balia al servizio del barone locale che in futuro diventerà sua moglie, due dei figli del pastore, gli adolescenti Martin e Klara, vengono puniti dal padre per aver disobbedito, tardando il rientro a casa e mentendo per giustificarsi. Entrambi dopo essere stati fustigati dovranno indossare un nastro bianco come simbolo della purezza perduta e fino a che, a giudizio di loro padre, non l’avranno recuperata. Qualche tempo dopo la moglie di un contadino alle dipendenze del barone, muore in un incidente nella segheria. Il figlio della donna durante la festa del raccolto, per vendetta, distrugge un campo di cavoli nella tenuta del barone. La stessa sera il figlioletto di quest’ultimo viene ritrovato in una stalla appeso a testa in giù, malmenato e sotto choc. Il barone accusa gli abitanti del villaggio di non essere riconoscenti nei suoi confronti e chiede aiuto per trovare i responsabili. La baronessa invece decide di portare i figli lontano e parte per

l’Italia. Eva viene licenziata e lascia il villaggio per tornare a casa, il maestro allora si decide a dichiararsi e le chiede la mano, ma il padre di lei indugia e domanda loro di aspettare almeno un anno prima di sposarsi. Poco dopo le feste di Natale gli episodi violenti nel villaggio riprendono. Prima viene dato alle fiamme un fienile, poi il marito della donna morta nell’incidente alla segheria si impicca e successivamente il figlio appena nato dell’intendente si ammala dopo essere stato lasciato al freddo in una stanza dove qualcuno ha spalancato di proposito la finestra. Nel mentre il dottore, rimessosi, torna al paese e riprende la relazione segreta che aveva con la levatrice. Poco dopo però decide di interrompere il rapporto e caccia brutalmente la donna di casa. Qualche giorno più tardi l’uomo inizia a molestare la figlia quattordicenne. La moglie del barone, che intanto era tornata al villaggio, informa il marito di avere un amante in Italia e di volersene andare per sempre. Mentre è in corso questa conversazione arriva la notizia che a Sarajevo è stato assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria. Il pericolo che si scateni una guerra è sempre più concreto e il maestro cerca di forzare la mano al padre di Eva per sposarsi il prima possibile. Frattanto Karli, il figlio ritardato della levatrice, viene trovato in un bosco con profonde ferite agli occhi, ma ancora vivo. La madre del ragazzino dice al maestro di aver scoperto chi c’è dietro al ferimento di Karli e a tutti gli altri episodi di violenza che funestano la comunità. Si reca alla stazione della gendarmeria nella città più vicina per denunciare i colpevoli, ma non fa più ritorno. Il maestro allora inizia a indagare per proprio conto e gli viene il sospetto che i responsabili di tutto possano essere i ragazzini adolescenti del villaggio, fra cui Martin e Klara. Va quindi a parlare con loro e poi con il pastore il quale, irritato dalle accuse, lo allontana e minaccia di farlo destituire dal suo ruolo. Il maestro a questo punto decide di abbandonare le indagini. Qualche tempo più tardi giunge la notizia della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia e poi, tre giorni dopo, quella della Germania alla Russia. La domenica seguente tutti gli abitanti del villaggio si ritrovano in chiesa per pregare.

Il nastro bianco (Das weiße Band – Eine deutsche Kindergeschichte, 2009) è uno dei film più significativi di tutta la carriera di Haneke. Oltre a essere l’opera con cui il regista ha vinto la prima delle sue due palme d’oro al Festival di Cannes, si tratta anche di una tappa che per motivi diversi segna alcune innovazioni stilistiche fondamentali all’interno del suo percorso autoriale. Con questo film infatti il regista sceglie per la prima volta di realizzare un’opera in costume1 e, allo stesso tempo, gira per la prima volta in bianco e nero. Il film rappresenta inoltre un deciso ritorno al passato, visto che dopo quattro film in lingua francese (più la parentesi del Funny Games americano) Haneke torna a dirigere un’opera in tedesco e con attori germanofoni – un aspetto molto importante sul quale torneremo. Tutte queste caratteristiche rendono quella de Il nastro bianco un’esperienza difforme – e senz’altro inaspettata – rispetto al resto della filmografia hanekeiana precedente ma anche successiva. Tanto che in molti hanno giudicato il film poco in linea con le tematiche principali del cinema del regista. Ma in tanti l’hanno visto anche come il tentativo di costruire un nuovo percorso teorico, esplorando temi mai trattati in precedenza. Una valutazione quest’ultima che, come vedremo, è vera soltanto in parte e dimostra una volta in più come possa essere difficile raccapezzarsi all’interno di un corpus autoriale tanto complesso. Quello che in molti osservatori hanno trascurato è infatti l’estrema coerenza con il proprio cinema che Haneke ha sempre dimostrato. E nonostante non sia semplice individuare i punti di contatto fra un film come Il nastro bianco e i temi hanekeiani più tipici, la possibilità di osservare a distanza di alcuni anni – e soprattutto di alcuni film – l’evoluzione artistica e autoriale del regista, permette di comprendere meglio molti aspetti della totalità della sua opera. Il film come si accennava ha incontrato immediatamente il gradimento di pubblico e critica ed è stato sin da subito celebrato come un’opera di grande respiro storico. Pressoché tutte le analisi hanno messo in evidenza l’elemento che, nel

corso del tempo, ha finito per coincidere con la principale – se non unica – chiave di lettura dell’opera, ovvero quella che potremmo definire la “profezia nazionalsocialista” in essa contenuta. Essendo ambientato alla vigilia della Prima guerra mondiale Il nastro bianco include infatti molti dei significati politici e culturali legati a quel preciso momento storico, ma rivolge anche il proprio sguardo verso una delle pagine più nere della Storia del Novecento: la dittatura nazista. Nel film si osservano i comportamenti e gli atteggiamenti della generazione che avrebbe dato l’assenso e preso parte all’ascesa e all’affermazione della dottrina hitleriana nella Germania degli anni Trenta. I ragazzini adolescenti sospettati dal maestro di essere gli autori degli episodi di violenza che sconvolgono il villaggio – seppur non esistano elementi sufficienti a dimostrare la loro colpevolezza – sembrano dominati dagli stessi istinti distruttivi, nichilisti e basati sulla visione collettivista tipici delle ideologie di matrice fascista e dei partiti di estrema destra in ascesa in Europa durante la prima metà del Novecento2. Tuttavia il regista non intende fare un film a tesi e cerca in tutti di modi di evitare che gli eventi storici sui quali si concentra possano essere percepiti come il punto di approdo di un ragionamento specifico. E del resto il fatto che il film voglia essere la rappresentazione di come sia cresciuta la generazione che avrebbe originato la nascita e il consenso del Nazionalsocialismo, non viene mai dichiarato direttamente e nemmeno si evince in maniera troppo chiara attraverso lo svolgimento della trama. Haneke stesso afferma che “in quanto germanofono, volevo parlare dell’infanzia della generazione che ha portato al potere i nazisti vent’anni dopo. Ma allo stesso tempo, volevo allargare l’orizzonte”3. Ciò che il regista decide di fare è fissare l’attenzione su eventi marginali e apparentemente poco significativi che contengono, in nuce, una tragedia che non è ancora accaduta. E lavora in maniera non dissimile dal solito, mettendo in campo cioè la rappresentazione di processi storici di grande rilevanza e descrivendo le modalità mediante cui questi

entrano in relazione con le società all’interno delle quali si sviluppano. Il fatto che tutto sia riportato indietro e ambientato al passato però non rende Il nastro bianco un film meno centrato sul contemporaneo e sulle questioni relative alla cittadinanza, l’appartenenza culturale e l’identità storica delle società occidentali che abbiamo fin qui osservato. La prospettiva del resto è ancora una volta fissata sull’Europa. E il paesino immaginario della Germania settentrionale in cui la storia si sviluppa diventa nuovamente, in termini simbolici, il centro del mondo: “questo luogo fuori mano, con i suoi campi di cavoli, è uno dei mille crogioli dove si forgia la storia”4.

Immagine 4.1 Il nastro bianco: il paese di Eichwald (nella realtà Netzow) in cui si svolge la storia.

I sintomi storici che emergono dal racconto sono quindi esportabili in scala molto più ampia e rendono esplicita la grande universalità dei temi trattati. Lo stesso Haneke ha insistito perché il sottotitolo del film – Eine deutsche Kindergeschichte – non venisse tradotto in nessuna lingua e rimanesse tale solo in tedesco. Una scelta dettata dall’intenzione di rendere importanza al carattere universale della storia raccontata nel film e non dare l’impressione di rinchiudere il discorso all’interno del sistema storico-culturale dell’Austria e della Germania dell’epoca: Temevo che la sua traduzione (“Una storia tedesca di bambini”, e non “Una storia di bambini tedeschi”) suggerisse agli spettatori stranieri che il film parlasse di un problema specificamente tedesco. E non è così. È ovvio che questo sottotitolo

richiama per i tedeschi la loro stessa storia. Ma volevo che quelli che non conoscevano la nostra lingua pensassero che questa storia avrebbe potuto facilmente accadere nel loro paese.5

L’allargamento dell’orizzonte al di fuori della sfera culturale germanofona europea è del resto avvertibile anche nella scelta di Haneke di osservare l’evoluzione di questo modo di pensare, agire e comportarsi senza fornire punti di riferimento troppo specifici. E mettendo in scena un luogo che potrebbe essere un posto qualunque dell’Europa rurale degli inizi del Novecento, assegnandogli caratteristiche non direttamente riconducibili al contesto in cui è inserito. La comunità risulta perciò come uno strano ibrido tra feudalesimo e capitalismo in cui un villaggio produce grano per il proprietario terriero e – tagliato fuori dall’esterno – mantiene lo stile di vita ciclico delle comunità agrarie. Aderendo a una fede rigorosa nell’ordine patriarcale, cosa che è certamente non specifico della Germania.6

Ma quello che in termini drammaturgici rende evidente quanto Il nastro bianco sia un film che parla al presente e rimane slegato da un racconto circoscritto a una precisa epoca e area geografica, è la presenza del narratore. Molte delle vicende sono infatti descritte dalla voce fuoricampo del maestro – che dopo quell’esperienza racconta di aver abbandonato l’insegnamento e di essersi dedicato alla professione di sarto ereditata dal padre – il quale a distanza di diverso tempo ricorda quell’anno particolarmente cruciale della propria vita. Il timbro della voce del narratore, quello di una persona piuttosto in là con gli anni, invita lo spettatore a riflettere su come la distanza fra gli eventi descritti e il tempo in cui vengono raccontati si misuri con la memoria di un uomo e occupi lo spazio di due o al massimo tre generazioni. Ma anche come sia quella di qualcuno che condivide lo stesso tempo di chi osserva. Qualcuno che ha certamente conosciuto l’orrore di due guerre mondiali e dei regimi totalitari novecenteschi7. E racconta quindi una Storia condivisa che appartiene e riguarda tutti. I concetti principali sui quali intendiamo ragionare attraverso l’analisi de Il nastro bianco sono proprio quelli legati alla memoria. Ovvero a come il racconto della genesi di

uno dei traumi più sconvolgenti della modernità possa diventare anche quello delle radici storiche ed ereditarie dell’Europa e del mondo contemporaneo come li conosciamo oggi. Proveremo a comprendere in quale modo Haneke nell’andare a tracciare una linea temporale che collega due delle cesure più salienti del Novecento – come la fine della Belle Époque e l’avvento del Nazismo – con il presente, individui l’origine di una storia collettiva. E chieda a chi osserva di valutare questa storia come un dispositivo di senso capace di contenere i segni della nostra evoluzione culturale come cittadini europei e della società occidentale. Lo faremo per mezzo di uno studio che considererà le più comuni letture e analisi del film, ma proveremo anche a spostare il discorso su terreni meno esplorati. Fisseremo l’attenzione sia sulle modalità narrative sia su quelle enunciative e integreremo la nostra indagine con altre opere del regista al fine di capire in che modo attraverso la forma grafica e il lavoro sulle immagini, Haneke riesca a mostrare con grande sensibilità come il discorso storico possa tramutarsi in uno sguardo geo-politico sulla contemporaneità. 1) Benché Il nastro bianco non sia un’opera storica in senso stretto e non miri né a ricostruire eventi precisi, né a fornire una qualsivoglia interpretazione di questi ultimi, è pur vero che quello con cui si confronta sia un dato storiografico specifico. Se nella prima parte del film non viene fornito alcun elemento particolare per capire in quale anno si svolga la vicenda, nella parte finale il narratore indica un evento e due date assolutamente salienti per la Storia dell’Europa e del mondo contemporanei. Si tratta dell’attentato di Sarajevo, avvenuto il 28 giugno del 1914 e delle dichiarazioni di guerra dell’Austria alla Serbia e della Germania alla Russia del 28 luglio e del 1° agosto dello stesso anno. Di fatto i momenti – seguiti dalla dichiarazione di guerra della Germania alla Francia e del Regno Unito alla Germania rispettivamente il 3 e

4 agosto – che segnano lo scoppio della Prima guerra mondiale. Haneke attraverso la scelta di fissare una precisa datazione, mettendo quindi lo spettatore di fronte a dei dati oggettivi, compie il gesto di “riportare la sua storia nella Storia”8. Quest’ultima infatti, fino a quel momento in una posizione subalterna alla narrazione, entra prepotentemente in scena. È dunque la messa in relazione fra queste due entità a generare il racconto storico intorno al quale si sviluppa il film. Ed è in questo spazio fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che il regista situa la propria rappresentazione storica; mettendo in comunicazione il particolare con l’universale e creando un discorso profondamente dialettico di cui vale la pena comprendere le dimensioni. Sin dal suo incipit il film mostra delle caratteristiche specifiche e dà delle precise informazioni al pubblico non soltanto riguardo alle questioni drammaturgiche ma anche in merito all’approccio interpretativo da utilizzare: Non so se la storia che voglio raccontarvi corrisponda alla verità in tutti i suoi dettagli. Molte sono le parti che conosco solo per sentito dire e ancora oggi, dopo tanti anni, ci sono misteri rimasti insoluti e numerose domande rimaste senza risposta. Tuttavia penso sia mio dovere raccontare le strane vicende accadute nel nostro villaggio, perché esse potrebbero in parte chiarire alcuni processi maturati nel nostro paese.

Questa breve introduzione, recitata dalla voce fuori campo e accompagnata da un fondo nero, prima ancora che appaiano le immagini, è la prima cosa che gli spettatori vedono e ascoltano. Il narratore, come si diceva, punteggia di dettagli e descrizioni la storia e introduce gli eventi attraverso alcune coordinate che appaiono non troppo specifiche. Al di là degli indizi di natura più teorica, quello che emerge è l’assoluta parzialità del racconto così come viene dichiarata sin dai primi istanti. Il protagonista mette in chiaro come gli avvenimenti di cui riferirà sono frutto di una reminiscenza, di una memoria che per sua stessa natura – ma anche come effetto dell’esperienza individuale – non può esprimersi in termini oggettivi ed è impossibilitata a produrre un racconto storico lineare. Del resto, come è noto, il rapporto tra memoria e

Storia è assai complesso, perché i due termini non sono sinonimi: la prima è “viva”, è tangibile nel suo essere patrimonio di un singolo o di una collettività vivente. Ma la memoria è anche selettiva, suscettibile a strumentalizzazioni più o meno volontarie, alle manipolazioni, al risveglio dei ricordi, delle passioni, del vissuto del protagonista o di persone a lui vicine. La Storia, invece è un esercizio critico, razionale, problematico, con una metodologia che impone l’obbligo di fornire le prove delle argomentazioni che si presentano. Non per definizione, quindi, memoria e Storia si sovrappongono, anzi. E, nondimeno, la memoria rimane fondamentale nella costruzione della comunità e della sua identità9. Le vicende che accadono a Eichwald, nella loro marginalità, diventano l’espressione di una Storia che dialoga con il futuro – che dal punto di vista dello spettatore è il presente in cui il narratore racconta – e agisce come elemento per la percezione di un’altra Storia, da intendersi su più larga scala. Una Storia che tuttavia non assume la forma di un racconto convenzionale e non viene descritta secondo una cronologia, ma ha le sembianze di una narrazione frammentaria e discontinua. Potrebbe sembrare una notazione marginale questa, ma si rivela di straordinaria importanza se osservata nell’ottica di quelle che sono le prospettive storiche entro le quali il film si muove. Un racconto tanto discontinuo pare essere finalizzato a impedire a chi guarda di dotare gli avvenimenti di un significato valido, oggettivo e documentato. Se prendiamo in esame la violenza per esempio – che anche qui, come in quasi tutti i film di Haneke, catalizza l’attenzione e agisce come motore della storia – è piuttosto semplice riscontrare come essa non venga mai mostrata direttamente: “nel Nastro bianco […] la violenza, fatte salve alcune eccezioni, non ci viene mostrata, mentre ne sono mostrati, in genere senza omissioni, i più catastrofici effetti”10. Pur assistendo alle conseguenze causate dagli incidenti che occorrono ai personaggi, non è possibile arrivare a un dato di realtà certo e incontrovertibile rispetto a quello che succede all’interno della comunità. Haneke orchestra dunque una forma di racconto che resta

sospesa e mette fuori causa ogni tentativo di interpretazione. E la discontinuità si origina da una narrazione che da un lato confessa, sin dall’esergo, la propria parzialità, mentre dall’altro non consente di plasmare un universo di senso uniforme. Ne Il nastro bianco del resto tutto è ellittico: sembriamo essere nella posizione di molti testimoni di un incidente stradale. L’evento cruciale accade pochi istanti prima che i nostri occhi e le nostre orecchie si sintonizzino su di esso e pare che arriviamo sempre una frazione di secondo troppo tardi.11

Questa modalità ellittica con cui è intessuto il racconto drammaturgico nasconde un’analoga modalità di posizionamento rispetto al racconto storico. Configurandosi quasi come un indizio nei confronti dello spettatore per suggerirgli la chiave di lettura migliore sulla quale basare l’interpretazione di un testo tanto complesso. È la sospensione narrativa che Haneke adotta quindi a mettere in evidenza come l’approccio alla Storia proceda nel solco di una concezione che potremmo definire antistoricista in senso benjaminiano – come stiamo per vedere. La discontinuità del racconto viene resa visibile con l’obiettivo di non dare punti di riferimento allo spettatore e spingerlo a confrontare tanto gli avvenimenti, quanto i dati storici, con la propria memoria ed esperienza. Ma ha anche la funzione di testimoniare come all’interno di questo tipo di racconto non esista alcuna storiografia oggettivamente determinabile. Perché in questo modello di rappresentazione ogni accadimento, o evento, non si configura come il risultato di un continuum temporale o l’avvenimento successivo di una narrazione prestabilita. E questo fa sì che il punto di rottura, l’evenemenzialità di un processo storico, diventi una materia di analisi e di racconto a sé stante, un costrutto percettivo che va analizzato nella forma di quel materialismo storico che Walter Benjamin poneva in contrasto allo storicismo12. Ovvero attraverso lo studio della Storia come un vero e proprio oggetto. Un dispositivo cioè, che assume uno statuto materiale, che può essere trattato come un elemento fisico, mobile. E sul quale è possibile innestare ragionamenti

illimitati, prendere infinite posizioni e a cui assegnare innumerevoli significati. Sempre Benjamin, a tale proposito, parla di maceria, di frammento, parla di una Storia che non si può vedere, non si può comprendere nella sua totalità. Nella nota metafora dell’Angelus Novus13 il filosofo tedesco pone le basi per un approccio alla Storia che prescinda dall’idea storicista. E che sarebbe a dire, tornando alla questione cinematografica, rifiuti la possibilità stessa di una narrazione. Perché non esiste in una forma consequenziale, lineare o temporale ma in quella di un vero e proprio cumulo di macerie14. Un concetto che ricorda l’esperienza che è di JeanLuc Godard nelle Histoire(s) du cinéma (1998) – anche se in una maniera differente e per un approccio che è teorico ma non metodologico – laddove “ciò che rende lo storicismo così pericoloso da un punto di vista materialista è la sua futile presunzione di obiettività, che lo porta ad autorappresentarsi come una pratica di ricostruzione”15. In tutti i suoi film – e ne Il nastro bianco in maniera particolare – Haneke affronta il racconto della Storia attraverso una sorta di dissoluzione, come se la Storia stessa fosse considerata in forma di materia residuale: Il cinema di Haneke non cerca di rappresentare la “verità degli eventi”, come quella comunemente diffusa dai media. Pensa invece agli eventi come aporie: paradossali e irriducibili a un unico punto di vista, che sarebbe un tentativo di spiegazione. Piuttosto che come fatti unitari, fissati eternamente in sequenza, li considera come frammentazioni, molteplici accrescimenti di diverse prospettive con una temporalità propria.16

È come se la Storia fosse costituita di pezzi che sono parte di qualcosa che sfugge alla sostanza di cui è costituita, di un tutto al quale si rendono omogenei. E la narrazione si sviluppa attraverso elementi e frammenti che raccontano essi stessi l’esistenza di questo tutto. Come delle macerie fatte di immagini, ma anche di elementi interni al racconto, modalità narrative e soluzioni estetiche che traducono in linguaggio cinematografico (che si fonda su una continuità della visione e del senso) la discontinuità che questa forma di cognizione della Storia porta con sé. Il compito dell’immagine diventa qui – nel suo porsi come strumento di un racconto che va contro

l’ipotesi di una narrazione convenzionalmente intesa, ma che non rifiuta la comprensibilità – quello di guida e di direttrice per andare dentro, a fondo, agli eventi. Ma anche quello di mostrare le connessioni di tali eventi con il momento storico in cui vengono richiamati alla memoria e al confronto con la contemporaneità: considerare gli eventi come effetti aporetici, significa stabilire un confronto con essi a livello etico senza relegarli semplicemente al passato, ma attualizzandoli al presente, facendo i conti con le debite conseguenze etiche e tutto il resto.17

Pur non essendo il soggetto di un racconto documentale, la Storia in Haneke si configura come un processo frammentario che punta a “destrutturare la sua apparente unicità [al fine di] far emergere le correnti carsiche che lo hanno nutrito permettendone la visibilità finale, la sua apparenza sensibile”18. Il film in quest’ottica non è un testo teso a esplorare, pur in forma di metafora, la genesi del nazismo o della Storia contemporanea della Germania. Ma piuttosto a descrivere l’origine della frammentazione del nostro presente. Come manifestazione di un trauma che appartiene alla memoria, l’evento storico non diventa la metafora della “riduzione della cultura tradizionale a fonte di un dominio totalitario”19, ma il portato di una percezione che evochi una lettura del dato storico non legato esclusivamente alla questione del Nazismo. E che coinvolga uno sguardo più ampio e aperto sui processi e le fasi cruciali di tutta la Storia dell’Europa della prima metà del Novecento: Haneke ha volutamente evitato di dare una qualsiasi definizione critica della questione socio-storiografica contenuta nel film. Nonostante appaia chiaro che esso sia un ritratto della società tedesca prima dell’inizio della Prima guerra mondiale con una sottile inclinazione al fascismo. Ma ha anche insistito sul fatto che non stava solo offrendo un’analisi dell’origine del fascismo, come di potrebbe concludere dal momento che il film è ambientato in Germania. No, ha sottolineato, come aveva già fatto in precedenza riguardo la presunta “francesità” di Caché, che questo problema riguarda tutti quanti e in ogni nazione. E oggi forse ancora più di ieri.20

Ne Il nastro bianco, non a caso, le tematiche del cinema hanekeiano che abbiamo sin qui analizzato sono tutte rintracciabili. Quasi che il film funzioni come una sorta di

testo all’interno del quale la Storia dell’Europa consenta di individuare la radice delle forze e dei traumi che agitano la contemporaneità. Il regista sembra voler andare a fondo delle questioni più tipiche del proprio cinema estrapolando però queste ultime dal contesto tecnologico, ipermediatizzato e ibridato in cui fino a quel momento le aveva sempre inserite. E cercando di leggerle come sintomi del presente su più larga scala, restituendo la percezione di voler individuare al loro interno determinati processi storici in forma evolutiva. Ma definendo allo stesso tempo l’esistenza di una memoria comune. La violenza come espressione di forze inconsce e sotterranee, la paura per lo straniero e il conseguente tentativo di difendere gli spazi comuni e condivisi dalle ingerenze esterne, la traumaticità insanabile dei conflitti generazionali, sono tutti temi che ne Il nastro bianco è possibile riconoscere e dei quali si intravvede lo stato originario. E nella medesima forma embrionale si scorge anche il ritratto della classe borghese che verrà. Nell’originale commistione tra feudalesimo e capitalismo di cui il villaggio di Eichwald è espressione sembra infatti di poter individuare una sorta di fase prodromica dell’ascesa della borghesia. Pur esclusa dal quadro quest’ultima è comunque riconoscibile fra le righe in alcune figure al centro del film. Come quella del protagonista: il maestro del villaggio senza nome che è l’incarnazione dell’uomo nuovo. Estraneo alle logiche feudali e alla rigidità della dottrina luterana e già proiettato a diventare parte di una società moderna e fondatrice di una nuova Germania – probabilmente quella di Weimar che ricostruirà il Paese dopo la fine della Grande guerra e sarà presto spazzata via dall’ascesa di Hitler. Ma più ancora che nel maestro la futura borghesia europea è visibile, naturalmente, nei ragazzini del villaggio. Ritratti come protagonisti della futura classe dirigente del Nazismo ed emblema dello scollamento in atto fra Belle Époque e contemporaneità. Coloro che costituiranno la borghesia più dissennata, feroce e mostruosa di tutto il Novecento e la cui eredità – in forma di memoria inconscia – sopravvivrà fino al tempo presente.

Per questo, in definitiva, il passato che Haneke rappresenta ha lo stesso grado di frammentazione del presente degli altri suoi film. Non solo perché il secondo è, evidentemente, la conseguenza del primo, ma anche perché entrambi risultano troppo stratificati, complessi e difformi per poter essere raccontati in maniera esaustiva. E ogni tentativo di narrazione, nella propria parzialità, non intende dare risposte, spiegazioni o interpretazioni riguardo i processi storici su cui fissa lo sguardo. Ma vuole piuttosto provare a capire lungo quale Storia si sia originata la società che abita l’Europa contemporanea e quale posto di questa Storia occupi nel mondo di oggi. 2) La profonda autorialità cui Haneke dà forma consente di osservare la multiformità della sua opera trovando continue connessioni fra un film e l’altro – anche quando questi possono apparire concettualmente molto distanti – dando quindi corpo ad analisi che spaziano dalle questioni meramente tematiche a quelle di natura estetica. Esaminando con attenzione Il nastro bianco e confrontandolo – a dispetto della sua specificità – con il resto della filmografia del regista, emergono alcuni elementi piuttosto interessanti e a prima vista inaspettati che si situano nello spazio fra il côté estetico del film e quello più strettamente contenutistico. Uno degli aspetti che colpisce maggiormente e in merito al quale, sorprendentemente, non esiste alcun approfondimento è quello relativo a un particolare visivo che cattura l’attenzione: il colore bianco. La scelta di Haneke di intitolare il film Il nastro bianco è maturata dopo aver preso in considerazione altre possibilità – fra cui La mano destra di Dio che è stato a lungo il titolo designato – e ha convinto il regista per la forza evocativa che contiene ma anche per il riferimento diretto alla simbologia del ritorno alla purezza dopo un errore commesso cui l’oggetto rimanda. Un’idea presa dal regista direttamente dal libro di “un autore del XIX secolo che dava consigli

sull’educazione dei bambini”21 non meglio specificato. Tuttavia sembra piuttosto evidente come il bianco all’interno del film sia un colore che nasconde molti altri significati anche non direttamente correlati al tema della purezza. O che a questo tema si ricollegano in termini antitetici o contradditori. Non può sfuggire infatti come il colore della purezza e dell’innocenza, e quindi legato a un immaginario infantile, venga qui associato a dei ragazzini che si macchiano di azioni riprovevoli. Questa forzatura, cui Haneke mette lo spettatore di fronte, è ben esemplificata dalle azioni educative del pastore protestante. Quest’ultimo per mezzo del nastro bianco che impone di indossare ai propri figli, pretende di ricostituire una sorta di purezza originaria ormai irrecuperabile. I peccati dei figli infatti non potranno mai essere redenti per davvero. Da un lato perché la gravità di questi – l’abitudine a masturbarsi di Martin e la tendenza a mentire rispetto alle cose più insignificanti di Klara – è tale solo all’interno del rigido contesto religioso descritto dal film. E l’estrema severità del padre allo spettatore odierno pare del tutto sproporzionata. Dall’altro lato perché le colpe più gravi di cui i ragazzi vengono ritenuti responsabili, e quindi quelle vere e concrete, restano di fatto impunite. Quando il maestro rende conto dei suoi sospetti al pastore questi li rigetta con sdegno. In questo modo nega un’ipotesi che presumibilmente, nel profondo, ritiene verosimile ma gli appare talmente abnorme da mettere in discussione le sue certezze sull’educazione e forse addirittura sulla fede. Il nastro bianco dunque più che configurarsi come il simbolo di una purezza perduta o il marchio che evidenzia i più comuni e trascurabili peccati adolescenziali, diventa il segno dell’esistenza della rimozione di una colpa in termini molto più ampi. E il candore del bianco si carica di un significato profondamente ambiguo, tanto da esprimere la sensazione di funzionare come simbolo di un insabbiamento. Un occultamento sia delle responsabilità individuali che di quelle collettive. È dando seguito a tale livello di complessità che andrebbe letta l’intenzione da parte del regista di fotografare il film in

bianco e nero. Le motivazioni addotte da Haneke per spiegare questa scelta sono sostanzialmente due. La prima risponde alla volontà di restituire una sorta di identificazione con l’immagine allo spettatore contemporaneo, il quale istintivamente associa il bianco e nero ai film ambientati in quell’epoca storica. La seconda è l’intenzione di creare un effetto di straniamento: Il bianco e nero crea una distanza che impedisce qualsiasi approccio naturalistico. Rifuggire il naturalismo è un obbligo in un progetto come il nostro, dove è assolutamente impossibile riprodurre l’epoca storica così com’era. Il bianco e nero ci ricorda in ogni momento che non siamo in una realtà finta, ma in una ricreazione.22

Tuttavia non si può non considerare come in un tale universo di senso, e in un film che il colore bianco lo ostenta nel titolo, l’uso del bianco e nero assuma un significato simbolico assolutamente rilevante. Perché la contrapposizione già di per sé evidente che esiste fra due colori opposti e all’interno della quale uno rimanda a un concetto di positività, rettitudine e innocenza e l’altro a quello di negatività, immoralità e abiezione, qui pare dotarsi di sfumature ancora più articolate. Se infatti il bianco del nastro – e quindi del film – si colora idealmente di tinte fosche per via dell’ambiguità della quale dicevamo, il fatto che l’unico altro colore con cui viene in contatto sia proprio il nero, fa sì che lo sguardo dello spettatore sia spinto a considerare le implicazioni metaforiche cui questa antinomia rimanda.

Immagini 4.2 e 4.3 Il nastro bianco: due immagini del coro dei ragazzi. In alto Martin (Leonard Proxauf) e Klara (Maria-Victoria Dragus) indossano entrambi il nastro bianco, in basso i nastri sono stati tolti.

Una sorta di fusione/contrapposizione dei toni cromatici opposti che confluisce nell’aspetto formale ed estetico del film e che è mirabilmente riassunta in un’inquadratura, posta esattamente a metà, nella quale i ragazzini del villaggio, riuniti tutti insieme nel coro della chiesa, cantano gli inni sacri in occasione delle festività natalizie. Haneke posiziona frontalmente alla mdp i principali sospettati delle azioni criminose che tormentano la comunità e li filma mentre impegnati a intonare canti religiosi appaiono del tutto innocui e innocenti. I loro abiti sono scuri, tanto da formare una spessa coltre nera al centro del quadro che contrasta con gli arredi chiari della chiesa – il parapetto in basso e le canne

dell’organo nella parte superiore – che fanno da sfondo. I soli elementi che visivamente spezzano rispetto ai toni foschi dei vestiti sono i due nastri bianchi: quello annodato fra i capelli di Klara e soprattutto quello legato al braccio di Martin. Questa immagine torna in maniera molto simile nel finale del film. Quando gli abitanti si trovano nella chiesa del villaggio per pregare dopo aver appreso la notizia dello scoppio della guerra. In questo caso l’inquadratura è più larga della precedente e mostra gli adulti assiepati fra i banchi nella parte inferiore del quadro, mentre i ragazzi sono sistemati nello spazio del coro, in alto, e iniziano a cantare. I figli del pastore nel frattempo hanno smesso i nastri bianchi e la fascia nera formata dagli abiti dei coristi non mostra più alcuna discontinuità cromatica. Nell’accostamento fra queste due inquadrature diventa molto semplice scorgere l’essenza ambigua del nastro – e del colore – bianco sia come simbolo sia come elemento formale. Perché mettendole una vicina all’altra si nota come la sparizione del nastro certifichi in senso metaforico non tanto il perdono, come il contesto cristiano potrebbe lasciar intendere, quanto la rimozione di ogni colpa. Proprio perché come sostiene Stephen Brockmann “il pastore protestante di Eichwald cerca di insabbiare i crimini dei suoi figli, nonostante la sua presunta rettitudine – e anche perché – Il nastro bianco è, tra l’altro, la storia di un lavaggio (sbiancamento23) di coscienza”24. Restando su questo aspetto dello “sbiancamento”, inteso come ripulitura e lavaggio per mezzo del quale scrollarsi di dosso colpe e responsabilità, risulta importante sottolineare il legame, suggerito da Brockmann, che si manifesta con il termine “bianco” che sta nel titolo del film. Non può sfuggire a questo proposito come il colore bianco nasconda significati estremamente più complessi rispetto a quelli facilmente individuabili che abbiamo analizzato fino a qui. Perché il bianco può essere inteso, estendendo il campo semantico, anche come il colore della pelle. E in un film come Il nastro bianco questo è, per ovvi motivi, un tema centrale. La riflessione in senso storico sul passato recente del continente europeo spinge infatti a considerare il colore chiaro della pelle

come il simbolo tanto dell’imperialismo di matrice nazista quanto, allargando il quadro, dell’espansione coloniale di cui si è resa protagonista la maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale. Il colore bianco nella cultura nazista veicola alcuni significati molto precisi, primo fra i quali quello della supremazia della razza ariana, poiché l’aspetto biologicorazziale era il fulcro dell’intero sistema nazista, il concetto unificante supremo, che si riassumeva nell’appartenenza a una stessa comunità mistico-biologica, appunto25. Un elemento fondante quindi a livello teorico, ma anche in senso strumentale, che ha rappresentato la giustificazione per la maggior parte delle più aberranti politiche di pulizia etnica operate dal nazismo. La centralità del colore bianco nell’ideologia nazionalsocialista è in ogni caso evidenziata anche dal modo in cui questo è stato usato, nel corso del tempo, per costruire un’estetica ben precisa. Lo stesso Führer poco dopo aver preso il potere, nei primi mesi del 1933, durante un discorso a Monaco di Baviera, sostenne la necessità di sostituire il giallo nella bandiera della Repubblica di Weimar – che è poi l’attuale bandiera della Germania, anche se all’epoca era per lo più associata al vessillo rivoluzionario del 1848 – con il bianco, ritornando così ai colori della bandiera dell’impero guglielmino26. Più tardi, sempre Hitler, individuando i tre colori che avrebbero dovuto campeggiare sulla bandiera del terzo Reich – adottato poi come simbolo nazionale fra il 1935 e il 1945 – si rifece a quanto aveva scritto nel “Mein Kampf” dove indicava che accanto al nero e al rosso ci dovesse essere il bianco in quanto esso era il colore che “riassumeva l’idea nazionalista”27. E in effetti questo afflato nazionalista cui il colore bianco rimanda sembra essere ispirato da una concezione tradizionalista molto ben radicata nella cultura tedesca. Ne è un esempio l’esperienza della rivista mensile (e poi trimestrale) Weiße Blätter28, fondata nel 1934 nella cittadina bavarese di Bad Neustadt an der Saale con precisa vocazione monarchica e conservatrice. Anche se in breve tempo si

schierò su posizioni contrastanti a quelle naziste – cosa che gli creò diversi problemi di sopravvivenza – in un primo momento il mensile trovò non pochi punti di contatto con la dottrina hitleriana. Sia per la condivisa avversione nei confronti delle politiche centraliste della ormai morente Repubblica di Weimar, sia per un comune credo nei valori di “storia, tradizione e stato”29 della Germania imperiale. A questo proposito il fatto che il nome della rivista metta in risalto il colore bianco secondo alcuni studiosi non è un caso. Al di là del richiamo a una sorta di ideale libertario cui la metafora della pagina bianca rimanda infatti sembra esistere nel colore bianco un forte legame con la Storia del continente europeo: Il colore bianco ha avuto diversi impieghi nella storia europea. È il colore usato nelle maggiori festività della Chiesa, ad eccezione della Pentecoste. È il colore papale, essendo usato in modo intercambiabile con l’oro. Era il colore reale della Francia, essendo stato a lungo associato all’Ancien Régime.30

Un connubio di elementi questo, profondamente legato a istanze conservatrici, che non può non essere rivelatore di quanto il colore bianco in termini simbolici si associ ai valori più tradizionali e originari dei popoli e le comunità dell’Europa. Un colore dentro il quale si condensa un’idea che tiene insieme i concetti fondanti della conformazione geopolitica europea del Novecento. Concetti come la razza, la religione e le strutture di potere a esse sottese. Se il nastro del film è bianco dunque è perché esiste un sottile filo che unisce la storia immaginaria di Eichwald e di un piccolo gruppo di ragazzini di una sperduta regione della Germania nordorientale, alla Storia dell’Europa in senso più ampio. Un filo che tiene insieme il passato, il presente e il futuro del vecchio continente sotto forma di indizio. Di un segno cioè capace da solo di riassumere l’ambiguità e la complessità di un secolo insieme mostruoso e stupefacente come il Novecento31. Ma se il bianco è anche il colore che più di tutti gli altri rimanda al fenomeno del colonialismo – inteso come espressione dell’egemonia dell’uomo bianco, e dell’occidente, sugli altri popoli della terra – è impossibile non provare ad allargare il campo della riflessione includendo anche i film di

Haneke precedenti e successivi a Il nastro bianco. Specialmente quelli nei quali emergono gli intricati legami fra il passato coloniale dell’Europa e le forze che agitano il presente. Senza esporsi al rischio di sovrainterpretare i simboli di cui è ricca la filmografia del regista è infatti possibile individuare il colore bianco in diversi momenti particolarmente significativi di altre opere hanekeiane. In Happy End – che è un film dove, lo abbiamo visto, la metafora della whiteness come simbolo di privilegio e chiusura verso l’esterno appare assai evidente – il bianco è uno dei colori dominanti. Lo vediamo spiccare nella sequenza finale, quella della festa di fidanzamento ambientata nel ristorante in riva al mare, quando il candore degli arredi, delle tovaglie e degli abiti dei presenti, si contrappone esplicitamente alla pelle nera dei migranti che, invitati da Pierre Laurent, prendono posto fra gli ospiti del party. Ma è anche il colore, limpido e accecante, della recinzione che quegli stessi migranti tiene separati dall’abitato di Calais. Il “muro” che nelle prime scene Anne, la madre di Pierre, costeggia con l’auto così da metterne in risalto l’imponente presenza. Non c’è bisogno di puntualizzare come a livello simbolico tanto l’elemento spaziale quanto quello cromatico in questo senso facciano leva sull’immaginario dello spettatore. Bianchissimo, inoltre, è il soggiorno, finemente arredato con mobili moderni, della casa di Georges e Anne Laurent in Caché. E lo è specialmente il divano al centro della stanza, dove il protagonista si siede per guardare le misteriose vhs che gli vengono recapitate e che funziona come vero centro geografico di tutte le numerose scene ambientate all’interno dell’appartamento. Questa dominante cromatica applicata all’abitazione dei protagonisti esprime un senso di ordine e pulizia, ma nello stesso tempo dà la sensazione di un luogo asettico e freddo. Tuttavia è impossibile non rilevare come le tematiche associate al traumatico passato coloniale della Francia e dell’Europa (che approfondiremo nel prossimo capitolo) di cui i coniugi Laurent sono impersonificazione rendano il bianco, ancora una volta, un elemento grafico carico

di significati. In grado di far leva sulle emozioni più istintive degli spettatori a un livello inconscio, quasi subliminale. Anche in Storie il colore bianco assume un ruolo che fornisce degli strumenti utili all’interpretazione del film. Nella scena di apertura la primissima immagine che lo spettatore osserva è quella di una grande parete bianca con al centro, a figura intera, una bambina sordomuta che mima una parola di fronte ad alcuni suoi coetanei. Questo incipit è apparentemente slegato dal resto del film e anche se più tardi si scoprirà che i bimbi sordomuti sono la classe di allievi di uno dei protagonisti, Amadou, il fatto che le prime immagini non abbiano nulla a che fare con il focus principale della storia è un indizio da non trascurare. Come non va trascurata la scelta di porre il bianco di un muro nell’inquadratura d’attacco. Quel bianco, nella sua conformazione neutra e lattiginosa – quasi impenetrabile – è utilizzato da Haneke per accentuare il senso di incomunicabilità che, come abbiamo avuto modo di vedere, è uno dei temi centrali del film. I compagni della bambina non riescono a capire il significato di quello che viene mimato e così nemmeno lo spettatore. Il regista sceglie deliberatamente di accentuare questa mancanza di comprensione non svelando in nessun momento quale sia la parola misteriosa. Tutto questo fa sì, evidentemente, che il senso di smarrimento e incomunicabilità che in Storie emerge come uno dei temi principali, sia suggerito sin dalla prima inquadratura. E lo spazio bianco che fa da contorno ai primi gesti che si vedono nel film, serve a mostrare come ogni tentativo di mediazione e comunicazione si arresti lì. Contro una parete che sembra essere la metafora visiva di ognuno dei termini che i bambini pronunciano per mezzo del linguaggio dei segni quando provano a indovinare la parola mimata. Parole come “solo”, “nascondiglio”, “criminale”, “cattiva coscienza”, “tristezza”, “rinchiuso”; quasi un istantaneo compendio di gran parte del cinema di Haneke. Ciò che tuttavia esprime nel migliore dei modi il senso di disagio cui il colore bianco rimanda all’interno della poetica hanekeiana è l’uso che il regista ne fa in Funny Games. Lo

stile degli abiti che i due killer indossano sia nella versione austriaca che in quella americana è uno degli elementi in assoluto più peculiari del film ed è fra i dettagli che maggiormente restano impressi nella memoria degli spettatori. Il bianco delle tenute sportive, insieme ai modi gentili e all’aspetto educato di Paul e Peter, come già abbiamo evidenziato, è senz’altro uno dei particolari che aiuta a infondere la fiducia necessaria ad Anna perché inviti i due a entrare in casa. In questo senso il bianco diventa un colore profondamente perverso, capace di trasmettere tutta l’ambiguità di cui, come detto, riesce a caricarsi. L’istintuale disposizione di chiunque a fidarsi, anche in maniera inconscia, del colore comunemente associato alla purezza e all’innocenza è del resto il motivo su cui gioca Haneke per creare la sensazione di malessere e fastidio che colpisce lo spettatore. E in fondo Funny Games e Il nastro bianco sono opere che dialogano in maniera molto stretta. Anche se all’apparenza appaiono distanti, possiedono molti punti di contatto che hanno a che fare proprio con l’aspetto grafico legato al colore bianco. Come dicevamo i due Funny Games si svolgono in spazi simbolici che nascondono e intrappolano forze esiziali capaci di far esplodere una violenza incontrollata. Ma allo stesso tempo quegli spazi sono attraversati da rimozioni e memorie inconsce dentro le quali sopravvivono i fantasmi di un passato traumatico e feroce. In quest’ottica l’aspetto dei due killer ha qualcosa che riconnette all’esperienza del nazismo come già l’abbiamo analizzata nel primo capitolo. Cioè – riferendoci soprattutto al Funny Games del 1997 – come a una tragedia della quale il popolo austriaco si è reso involontariamente complice. E allora il colore bianco sembra davvero richiamare le medesime istanze e ricoprirsi degli stessi significati cui l’abbiamo associato nell’analisi de Il nastro bianco. E i due killer di Funny Games, con i loro guanti bianchi e il loro fare imperturbabile, potrebbero benissimo essere idealmente le personificazioni o i fantasmi dei ragazzini adolescenti de Il nastro bianco. Con tutto il traumatico portato storico e memoriale correlato.

3) Se Il nastro bianco è il primo – e finora unico – film di Haneke a essere ambientato nel passato, non è però il solo a contenuto storico. Alcune tematiche intorno alle quali abbiamo impostato l’analisi in questo capitolo sono al centro anche di Caché. Tematiche che hanno a che fare con la memoria, la rimozione e i traumi per mezzo dei quali si fondano le coscienze storiche di popoli e nazioni. Senza entrare nei particolari della trama di un’opera sulla quale ci soffermeremo più dettagliatamente nel prossimo capitolo, va sottolineato come Caché racconti una vicenda collocata nella contemporaneità ma che ha un legame diretto con la memoria storica della Francia, luogo in cui è ambientato e girato. Questa memoria è direttamente collegata con uno dei momenti più spinosi e contraddittori, per certi versi ancora irrisolto, della società francese: la guerra d’Algeria. Il film è ambientato a Parigi ai giorni nostri e nessun dettaglio dei dialoghi o delle azioni dei personaggi nomina mai direttamente la guerra. Tuttavia alcuni elementi specifici richiamano il trauma del conflitto bellico e fanno sì che resti sullo sfondo alle vicende e alle azioni dei protagonisti. Agendo in questo senso come una sorta di colpa, o una vergogna, dimenticata che non smette mai di ripresentarsi e per quanto si cerchi di rimuoverla risulta ineliminabile. La soluzione che Haneke utilizza per inserire all’interno del racconto questo passato scomodo e ingombrante è indicativa di come il suo intento sia, similmente a molti altri suoi film che abbiamo analizzato, quello di restare fedele al proprio percorso autoriale. Pur trattando un fenomeno storico preciso e documentato come la guerra d’Algeria, e quindi avvenuto fuori dall’Europa, il regista decide di non farvi esplicito e diretto riferimento. Ma di lasciare che il rimando alla guerra si manifesti per mezzo di un particolare evento a essa correlato. Un avvenimento che non ha avuto luogo in Algeria o nell’Africa settentrionale, ma all’interno del territorio francese e più precisamente nella capitale. In questo modo il continente europeo viene messo ancora una volta al centro del discorso e

ogni riflessione che si origina a partire dal passato coloniale della Francia va considerata come legata allo spazio simbolico descritto all’interno dei confini europei, con tutti i significati storici e geopolitici che questa collocazione porta con sé. Il fatto in questione ha una data precisa: il 17 ottobre 1961. Si tratta del giorno – anzi della sera, visto che i fatti si svolsero dopo le ore venti – in cui per le strade di Parigi si tenne una manifestazione organizzata dal Fronte di Liberazione Nazionale algerino con lo scopo di esprimere sostegno alla lotta per l’indipendenza del Paese nordafricano. Ma anche di opporsi al coprifuoco che era stato imposto a tutti gli immigrati algerini residenti nella capitale francese nelle settimane precedenti per disposizione del prefetto di Parigi Maurice Papon, ex collaborazionista del governo di Vichy e futuro ministro gollista. Quel giorno la polizia francese, su ordine diretto dello stesso Papon, represse nel sangue il corteo aggredendo e picchiando violentemente i manifestanti. Fu una carneficina: morì un numero imprecisato di persone – diverse fonti parlano di almeno duecento vittime – la maggior parte delle quali trucidata dagli agenti a calci e manganellate o gettata ancora viva nelle acque della Senna. La storia di questo massacro è resa ancora più drammatica dal fatto che per molti anni se ne sia smarrita la memoria. A partire dagli istanti immediatamente successivi ai fatti le autorità iniziarono una ingente opera di insabbiamento finalizzata a minimizzare la portata della notizia e a tenere l’opinione pubblica all’oscuro32. Non esiste alcuna immagine di quella sera e pochissimi sono i documenti che ne hanno riportato la cronaca. Inoltre gli agenti di polizia che presero parte ai pestaggi furono coperti dai superiori e tutto in breve tempo venne dimenticato. Per questi motivi soprattutto la Francia – intesa come stato, ma anche come popolo e cittadinanza – non ha mai fatto veramente i conti con questo evento. Certamente non li aveva ancora fatti all’epoca dell’uscita di Caché, nel 2005, ma non completamente nemmeno oggi, nonostante negli ultimi anni i tentativi di ristabilire la verità, e soprattutto la memoria, ci siano stati33. Il

collegamento fra Caché e gli eventi del 17 ottobre 1961 è dato dal fatto che nella finzione filmica uno dei personaggi, Majid, è il figlio di una coppia di origine algerina morta durante la manifestazione. All’epoca dei fatti Majid era solo un bambino e per un breve periodo, dopo essere rimasto orfano, era stato adottato dai genitori del protagonista del film, Georges Laurent, di pochi anni più piccolo. Alla fine però Majid era stato allontanato perché Georges non riusciva a legare con lui. Il titolo del film, che come abbiamo ricordato significa “nascosto”, tiene dunque in considerazione, fra i numerosi riferimenti cui rimanda, anche il fatto che tutto il racconto sia incentrato su un nascondimento e su una enorme rimozione. Come se ogni azione, indizio e gesto rimandassero a qualcosa che manca o resta celato, tanto al pubblico quanto ai protagonisti. La “visione negata”34 diventa quindi un elemento intorno a cui si costruisce il significato stesso del film e si determinano le modalità per mezzo delle quali la Storia emerge dalle pieghe del racconto. Come ne Il nastro bianco anche in Caché la narrazione storica è per sua natura non lineare, impossibile da ricondurre a una concatenazione di fatti e assume la configurazione di un’esposizione frammentaria e amnesica. La conseguenza di un trauma che prende le forme di una rimozione genera un racconto pieno di mancanze e impossibile tanto da ricostruire, quanto da osservare in maniera esaustiva e comprensibile. La Storia per Haneke è dunque un dispositivo estremamente malleabile e le modalità espressive con cui ne modella le sembianze all’interno del proprio universo filmico sono altrettanto mutevoli e variegate – sia in termini di racconto che, come vedremo, dal punto di vista dell’immagine. Ma soprattutto sembrano voler escludere nella maniera più assoluta ogni intenzione e velleità storiografica. Perché al regista, in ultima analisi, non interessa far sì che il suo cinema coincida con una logica – che peraltro non appartiene più al cinema d’autore già da diverso tempo – di trasposizione o ricostruzione basata su fonti, dati e precise indagini storiografiche. Quello che Haneke intende far emergere è piuttosto una connessione fra passato e presente che miri a

descrivere uno sguardo sulla Storia recente dell’Europa che differisca dall’idea di film storico tradizionale. E quindi non per forza subordinata ai fatti documentati ma portatrice di un sentimento per mezzo del quale affiori una percezione della Storia radicalmente altra. E in questa direzione non si muove soltanto la questione formale, ma diventa fondamentale anche quella relativa al contenuto. L’esperienza autoriale entro cui si muove il regista austriaco rende percepibile non soltanto l’adesione da parte di quest’ultimo a un preciso codice enunciativo, ma anche il rigore e la forza della riflessione su tematiche che ricompaiono continuamente e prendono corpo come delle costanti fra un film e l’altro. In questo senso è impossibile non rilevare l’ulteriore consonanza riscontrabile fra Caché e Il nastro bianco nel modo in cui i due film descrivono il rapporto fra le responsabilità collettive – quindi intese come relative a un popolo e una nazione – e quelle più strettamente individuali, parte del patrimonio memoriale dei singoli personaggi. Queste due tipologie di colpa finiscono inevitabilmente per coincidere e confluire in un medesimo sentimento condiviso su scala globale. Un sentimento che racconta a sua volta il trauma coloniale della Francia – e dell’Europa – contemporanea come qualcosa di irremovibile e sedimentato nelle coscienze e nelle memorie di ogni cittadino del continente. Spostando la responsabilità degli effetti devastanti della guerra d’Algeria, del colonialismo e del razzismo sulle spalle di un bambino per definizione non eticamente responsabile – Haneke riesce ancora di più che negli altri film, basati su personaggi confusi o inconsapevoli, a far sentire il peso della responsabilità di ognuno e della società intera nei confronti della guerra coloniale.35

Haneke, pur lungi dal tentare di dare risposte o fornire comode analisi dei problemi connessi al tema, prova a individuare l’origine di un fenomeno tanto vasto ed eterogeneo come l’effetto culturale del colonialismo. E come ne Il nastro bianco “non spiega, non trova e non conclude perché il suo obiettivo è quello di mettere a confronto le piccole e grandi colpe con l’imponderabilità delle improvvise espiazioni”36 e perché il ritratto della contemporaneità che intende fornire è quello di un luogo nel quale si agitano forze storicizzate e

stratificate che agiscono ben oltre le nostre possibilità e capacità di dar loro un significato. Il protagonista di Caché, come stiamo per vedere, appartiene a una borghesia colta e progressista molto diversa da quelle che abbiamo imparato a conoscere nel resto della filmografia hanekeiana, eppure è portato a comportarsi in modi non troppo dissimili dagli altri protagonisti dei film che abbiamo osservato. Questo perché, ci dice il regista, la sua storia è la medesima Storia comune, condivisa e collettiva di tutto il popolo francese, europeo e occidentale. Ed essere parte di questo popolo significa assaporare le stesse esperienze, condividere la stessa origine e occupare lo stesso spazio di una moltitudine di individui sulla base di una cultura comune. Tracciare una linea storica che si muove all’indietro, scava nella memoria e mette in comunicazione le diverse epoche, vuol dire quindi descrivere il legame che tiene saldamente insieme le vite e le coscienze dei cittadini dell’Europa e del mondo occidentale di oggi, alle esperienze che hanno ereditato dal passato. Quel legame che nel cinema di Haneke si intravvede molto chiaramente nell’intervallo che separa Il nastro bianco da Caché e arriva, inevitabilmente, fino alla Calais di Happy End. 1

La prima volta relativamente alla carriera cinematografica del regista. Il primo episodio del film per la televisione Lemminge Teil 1: Arkadien, girato da Haneke nel 1979, è infatti ambientato nel 1959.

2

Un quadro sintetico ma esaustivo in R. Overy, The Origins of the Second World War, Pearson Education, London 2008; tr. it. di M. L. Bassi, Le origini della seconda guerra mondiale 1919-1939, il Mulino, Bologna 1998; più datato ma sempre significativo invece R. A. C. Parker, Europe: 1918-1945, Weidenfeld & Nicolson, London 1969; tr. it. di L. Berrini Europa 1918-1945, Feltrinelli, Milano 1969. In merito al confronto tra le democrazie e i diversi totalitarismi si vedano A. Lepre, Guerra e Pace nel XX secolo, il Mulino, Bologna 2005 (in particolare i capp. VI e VIII); P. Viola, Il Novecento, Einaudi, Torino 2000 (capp III e IV); E. J. Hobsbawm, op. cit., (parte prima, La catastrofe). Infine – tra i molti – sulla nascita e l’evoluzione dei totalitarismi si veda ancora E. Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Mondadori, Milano 2001 e S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, oltre al classico H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Schocken Books, New York 1951; tr. it. di Amerigo Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.

3

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 308.

4

A. Lane, Happy Haneke: Michael Haneke and his movies, in “The New Yorker”, October 5, 2009, p. 66.

5

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 308.

6

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 101.

7

Anche se all’interno del film non esistono precisi riferimenti geografici, sappiamo che le riprese si sono svolte nel piccolo villaggio di Netzow che si trova nel Land del Brandeburgo, nel nord-est della Germania. In una zona cioè che nel secondo dopoguerra è diventata parte della Repubblica Democratica Tedesca. Non si può fare nessuna particolare supposizione rispetto al destino del protagonista – non viene fornito nessun tipo di indizio al riguardo – e non sappiamo se al tempo del racconto egli sia (o sia stato) un cittadino della DDR. Tuttavia è lecito pensare che parli in un’epoca nella quale abbia conosciuto da vicino anche quel tipo di esperienza.

8

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 314.

9

Il tema è stato molto indagato, soprattutto in merito al Novecento, appunto, un secolo che è già parte della Storia ma vive ancora nel campo della memoria. Si vedano, tra i molti, T. Todorov, Les abus de la mémoire, Arléa, Paris 1995, tr. it. di R. Revello, Gli abusi della memoria, Meltemi, Milano 2018; M. Flores, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, il Mulino, Bologna 2020; P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; tr. it. di N. Salomon, Ricordare, dimenticare, perdonare, il Mulino, Bologna 2004. Per il caso italiano, a titolo esemplificativo, F. Focardi, Nel cantiere della memoria, Viella, Roma 2020.

10

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 314.

11

J. Orr, The White Ribbon in Michael Haneke’s Cinema, in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., p. 260.

12

Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di M. Bonola, G. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997.

13

Per chiarire la critica allo storicismo Benjamin utilizza un paragone diventato celebre. Riferendosi al dipinto di Paul Klee Angelus Novus (1920) il filosofo esprime l’idea che il soggetto del quadro sia un “angelo della storia”: il cui “viso è rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua macerie su macerie e le trascina ai suoi piedi” W. Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p. 31. L’irrecuperabilità del passato che esprime è un’irrecuperabilità totale perché la Storia si presenta come un cumulo di rovine ai suoi piedi, rovine cui è impossibile dare un ordine, come un passato che non si può redimere.

14

“[L’angelo] vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti a lui al cielo”. W. Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p. 31.

15

M. Dall’Asta, La storia (im)possibile: ancora su Histoire(s) du cinéma, in “La valle dell’Eden” n. 12-13, 2004, p. 110.

16

O. C. Speck, Funny Frames – The Filmic Concepts of Michael Haneke, cit., p. 130.

17

Ibid.

18

M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008, p. 110.

19

Ivi, p. 68.

20

P. Brunette, op. cit., p. 135.

21

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 312.

22

Ivi, p. 299.

23

Si noti come il termine “Weißwäsche” utilizzato dall’autore, che in italiano è traducibile più o meno con “bucato” inteso nel senso del lavaggio della biancheria, in tedesco contenga la parola “bianco” (Weiß). Il gioco linguistico è quindi improntato a mettere in risalto l’azione di lavarsi (in italiano si potrebbe dire candeggiare o sbiancare) la coscienza di fronte a un male che si sceglie deliberatamente di ignorare.

24

S. Brockmann, Narration und Ungewissheit in Das weisse Band, in H-P. Preußer (a cura di), Anschauen und Vorstellen Gelenkte Imagination im Kino, Schüren Verlag, Marburg 2016, p. 379.

25

Cfr. tra i molti L. Dawidowicz, The War against the Jews, Holt, Rinehart e Winston, New York 1975; A. J. Mayer, Why Did the Heavens Not Darken? The “Final Solution” in History, Pantheon Books, New York 1988; tr. it. di G. Panzieri Saija, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Mondadori, Milano 1990; R. Hillberg, Destruction of the European Jews, Quadrangle Books, Chicago 1961; tr. it. di F. Sessi, G. Guastalla, La distruzione degli ebrei in Europa, Einaudi, Torino 1999.

26

Cfr. A. Spinosa, Hitler – Il figlio della Germania, Mondadori, Milano 2014, p. 226.

27

S. O. Zalampas, Adolf Hitler A Psychological Interpretation of His Views on Architecture, Art, and Music, Bowling Green University Popular Press, Bowling Green 1990, p. 43.

28

Letteralmente “Fogli bianchi”.

29

J. Donohoe, Hitler’s conservative opponents in Bavaria, 1930-1945: a study of Catholic, monarchist, and separatist anti-Nazi activities, Brill, Leida 1961, p. 114.

30

Ibid.

31

Cfr. M. Salvati, il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001; utile inoltre M. L. Salvadori, Il Novecento, un’introduzione, Laterza, Roma-Bari 2002.

32

Per una più esaustiva comprensione dei fatti del 17 ottobre 1961 e per mettere a fuoco il contesto storico di riferimento si veda il volume di J. House, N. MacMaster, Paris 1961: Algerians, State Terror, and Memory, Oxford University Press, Oxford 2006. Per provare a farsi un’idea della verità dei fatti supportata dall’esattezza delle fonti rimandiamo al saggio di L. Amiri La répression policière en France vue par les archives, in B. Stora, M. Harbi (a cura di), La guerre d’Algérie – 1954-2004, la fin de l’amnésie, Robert Laffont,

Paris 2004, pp. 403-416. Mentre per una lettura circostanziata di Caché e delle altre opere filmiche che si sono occupate dei tragici eventi di Parigi si veda soprattutto P. Crowley, “When Forgetting Is Remembering. Haneke’s Caché and the Events of October 17, 1961, in B. Price, J. D. Rhodes, op. cit., pp. 267279. 33

I passi più significativi in questo senso sono stati compiuti inizialmente da alcuni politici di sinistra come il sindaco di Parigi Bertrand Delanöe, che il 17 ottobre 2001 – a distanza di quarant’anni dall’eccidio – ha posto una targa commemorativa sul muro della banchina che fronteggia la Préfecture de Police accanto al Pont St. Michel, dove molti manifestanti sono stati manganellati e gettati nella Senna. In tempi più recenti due presidenti della Repubblica hanno compiuto gesti in direzione di un’assunzione di responsabilità. François Hollande nel 2012 ha reso omaggio alla memoria delle vittime, mentre Emmanuel Macron nell’anniversario dei sessant’anni dalla strage, il 17 ottobre 2021, ha ammesso apertamente le colpe del governo francese.

34

Cfr. F. Fogliato, op. cit., pp. 152-161.

35

L. Albano, La guerra d’Algeria. Da Godard ad Haneke: la storia che non si può dire, in “Bianco e nero”, n. 565, 2009, p. 66.

36

Ivi, p. 161.

V. IMMAGINE: CACHÉ

Parigi, terzo millennio. Georges Laurent è un critico letterario e presentatore televisivo di successo. Ha circa cinquant’anni, è sposato con Anne, direttrice editoriale, e ha un figlio adolescente: Pierrot. Un giorno inizia a ricevere delle strane videocassette, inviate anonimamente, sulle quali è impressa la registrazione dell’esterno di casa sua. Insieme ai nastri vengono inviati anche dei macabri disegni, dai tratti infantili e stilizzati, ritraenti soggetti con la gola tagliata o che sputano sangue. Questi disegni vengono recapitati anche al posto di lavoro di Georges e alla scuola di Pierrot. Oltre a questo la famiglia riceve anche strane telefonate anonime. Marito e moglie sporgono denuncia alla polizia, ma non ricevono alcun aiuto concreto. Le cassette continuano ad arrivare: su una di queste – che giunge accompagnata dal disegno di un gallo con la gola tagliata – si vede la ripresa dell’esterno della fattoria in cui Georges è cresciuto. L’uomo a questo punto decide di parlare con l’anziana madre e le dice che gli è riaffiorato il ricordo di Majid, il figlio dei braccianti algerini che lavoravano per i genitori quando era piccolo. La madre tuttavia risponde di non ricordare più molto bene quel periodo. Quella notte Georges sogna la sua infanzia alla fattoria e rivede Majid con il volto coperto di sangue che lo minaccia con una scure. Il giorno seguente l’ennesima videocassetta mostra una ripresa dell’abitato di Romainville, vicino Parigi, e la porta di un appartamento di un caseggiato popolare. Georges si reca sul luogo, bussa alla porta e ad aprirgli è un uomo che sembra conoscere piuttosto bene.

Quest’ultimo viene immediatamente accusato di essere il mittente delle vhs, ma nega fermamente. Georges però non gli crede e con fare minaccioso gli intima di non spedire più altri video. Poi, lasciato l’appartamento, telefona alla moglie e le dice di essere andato all’indirizzo indicato nel nastro ma di non aver trovato nessuno. Poco dopo però Anne in una nuova cassetta appena arrivata vede il filmato della conversazione fra il marito e l’altro uomo ripresa da una camera nascosta nell’appartamento di quest’ultimo. Georges a quel punto decide di dire tutto alla moglie e confessa che la persona insieme a lui nel video è Majid. Le racconta anche che Majid da bambino aveva perso i genitori, entrambi morti durante la manifestazione del Fronte di Liberazione nazionale algerino del 17 ottobre 1961, quando più di duecento donne e uomini che protestavano contro il coprifuoco imposto a Parigi ai soli immigrati algerini, vennero massacrati dalla polizia. Il padre e la madre di Georges decisero perciò di adottare Majid, ma siccome al figlio non piaceva affatto quella situazione il piccolo orfano venne successivamente mandato in affidamento. La convinzione di Georges è che quella in atto sia una sorta di vendetta per i fatti di quarant’anni prima. Più tardi si scopre che la cassetta della conversazione con Majid è stata mandata anche al direttore dell’emittente televisiva in cui lavora Georges, con la chiara intenzione di compromettergli la carriera. Il protagonista, infuriato, torna quindi a casa di Majid ma non trova nessuno. La stessa sera Pierrot scompare. I genitori allarmati avvisano la polizia e fanno arrestare Majid e suo figlio, che si trovava a casa del padre all’arrivo degli agenti, con l’accusa di rapimento. La mattina seguente però Pierrot, che aveva passato la notte da un amico senza avvertire, torna a casa. I due uomini vengono rilasciati e Majid telefona a Georges chiedendogli di raggiungerlo nel proprio appartamento. Non appena Georges arriva Majid ribadisce per l’ultima volta di non avere nulla a che fare con le vhs e, estratto un coltello, con un gesto repentino si taglia la gola uccidendosi. Georges, sconvolto, prima va al cinema, poi torna a casa e racconta l’accaduto ad Anne. Le dice anche che Majid, quando erano bambini, era stato mandato via per colpa

sua. Aveva infatti detto ai genitori che il ragazzino aveva sgozzato un gallo per spaventarlo, mentre Majid aveva agito su richiesta proprio di Georges, che era impaurito dall’aggressività dell’animale. Successivamente il figlio di Majid va a parlare con Georges per informarlo che lo ritiene responsabile della morte del padre. L’uomo respinge le accuse e incolpa il ragazzo di essere l’ideatore e il mittente dei nastri che lo tormentano. Il giovane però nega. Quello stesso giorno Georges, stravolto, torna a casa, si mette a dormire e sogna il momento in cui Majid venne portato via dalla fattoria dagli uomini dei servizi sociali. Nel frattempo Pierrot all’uscita da scuola incontra il figlio di Majid. I due parlano brevemente in tono apparentemente confidenziale, anche se non si riesce a sentire cosa dicono. Finita la conversazione prendono direzioni diverse, Pierrot raggiunge un gruppo di compagni e si allontana. Caché (2005) è una delle opere seminali della carriera di Haneke. Premiato a Cannes per la miglior regia e vincitore di numerosi riconoscimenti soprattutto nell’ambito del cinema europeo, è anche largamente considerato dalla critica come uno dei film più importanti del primo decennio del nuovo millennio e ha assunto grande risalto nell’ambito degli studi accademici1. Lo abbiamo già incontrato diverse volte nel corso di questo studio. E lo abbiamo posto a confronto con molte delle opere sulle quali ci siamo soffermati. Il motivo è che rappresenta senza dubbio il lavoro più complesso, ricco di rimandi e stratificazioni – oltre che di connessioni con i grandi temi della contemporaneità e della Storia – di tutta l’opera di Haneke. Come notano McCann e Sorfa, proponendo un interessante paragone fra il lavoro di Haneke e quello di Lars Von Trier, in Caché sono presenti alcune delle istanze che più incisivamente hanno indirizzato – e continuano tutt’ora a farlo – il cinema degli ultimi due decenni: In questi film c’è un senso di terrore paranoico, un’angoscia heideggeriana, che caratterizza l’Europa contemporanea come scardinata e disancorata; un senso di fluttuazione verso il futuro con poco o nessun senso dell’orientamento e quindi senza alcuna possibilità di prevenire la ripetizione degli errori passati. È questo, ovviamente, il tema che struttura Caché di Haneke.2

In maniera ancora più articolata rispetto ad altri film sui quali ci siamo concentrati – e di cui abbiamo in ogni caso messo in evidenza l’importanza – Caché dimostra di riuscire a tenere insieme in un equilibrio sorprendente tutti i temi più significativi della poetica del regista austriaco. È piuttosto semplice rintracciare diversi elementi fra quelli incontrati nel corso di questo studio già alla prima visione del film e anche soltanto leggendo la trama. Tuttavia quest’opera, più di tutte le altre, rende possibile ragionare sugli aspetti formali che caratterizzano il percorso artistico hanekeiano. La funzione espressiva assegnata alle immagini e agli altri componenti enunciativi che compongono la rappresentazione è infatti cruciale. Sia per aiutare lo spettatore ad andare a fondo nella comprensione del contenuto del film, sia – in un’ottica più ampia – per avere una percezione maggiormente completa della visione autoriale del regista. Con l’ulteriore possibilità di creare un confronto fra gli stimoli che Caché propone dal punto di vista della forma e del modo in cui tratta le immagini, e quelli derivanti dalle altre esperienze filmiche del regista sia precedenti che successive al film oggetto d’analisi. Caché rappresenta del resto una svolta decisiva per la storia artistica di Haneke anche perché si tratta del primo film dell’autore austriaco a essere girato interamente in digitale. E questa è tutt’altro che un’annotazione marginale. Come infatti vedremo, un’opera tanto complessa dal punto di vista grafico – dove le immagini diventano dei fondamentali dispositivi di comprensione sia in termini strettamente drammaturgici sia a livello teorico – pone al centro del discorso la natura ontologica di quelle stesse immagini. Così come la loro riconoscibilità. Una serie di fattori cioè attraverso i quali viene messa in luce la grande sensibilità di Haneke nel costruire un particolare registro espressivo a partire dai costituenti basilari del linguaggio. E allo stesso tempo di intercettare la portata delle innovazioni tecnologiche legate al progresso della tecnica cinematografica al fine di piegarle alle proprie esigenze autoriali. Cosa che dimostra una volta di più tanto la meticolosità con cui il regista affronta il proprio lavoro, quanto la capacità con la quale sa percepire i cambiamenti e ragionare

su di essi. Ma anche come la volontà di creare uno sguardo inedito e trasversale sul contemporaneo per lui passi obbligatoriamente da un modo di fare cinema che contempli le innovazioni tecniche e le nuove modalità di visione con cui entra in contatto. Ed è in questo senso che la rivoluzione digitale diventa un momento di straordinaria importanza all’interno del suo percorso. È proprio muovendo dalla questione dell’immagine – e intorno all’immagine – che sarà impostata l’analisi di questo capitolo. Quello che cercheremo di fare, partendo da Caché, sarà indagare le modalità secondo le quali alcune delle questioni fondamentali che sono state trattate nel corso dei capitoli precedenti si ripropongano nel discorso legato alla messa in scena e alle soluzioni enunciative cui Haneke fa ricorso. Componenti come la frammentazione, la discontinuità, l’individuazione di spazi simbolici, l’incontro fra la memoria – nella sua dimensione politica, ma anche come trauma, colpa e rimozione – e la contemporaneità, oltre a tutti i segni grafici che abbiamo imparato a riconoscere all’interno della complessa rappresentazione per mezzo della quale sono costruiti i film hanekeiani, trovano una rispondenza molto netta all’interno delle immagini che quegli stessi film mettono in campo. Un rispecchiamento fra forma e contenuto al quale si assimila anche un altro dei temi fondamentali su cui si struttura il cinema di Haneke: la Storia. Come abbiamo visto in chiusura del capitolo precedente la questione storica in Caché non risulta determinante solo per comprendere i contorni politici e culturali entro i quali il film si muove, ma riveste anche un’enorme importanza per come consente di mettere a fuoco il rapporto tra memoria e rappresentazione (o rappresentazione della memoria) allegato al racconto. E la Storia in questo senso si configura come un dispositivo profondamente legato all’immagine. Al di là del fatto che il film sia calato completamente nella contemporaneità infatti il legame fra passato e presente si costruisce e risulta evidente proprio grazie al lavoro che il regista fa sulle immagini. La presenza/assenza di queste

ultime, la loro ambiguità, il loro statuto politico e la capacità del regista di tramutarle nei segni e negli stigmi in cui si riflette la contemporaneità, così come l’immanenza del digitale e la sua estetica in grado di risemantizzare la rappresentazione, sono alcuni degli elementi sui quali imposteremo l’analisi e attraverso cui proveremo ad orientarci nel complesso impianto autoriale e formale hanekeiano. Ovvero quella struttura enunciativa rispetto alla quale Caché si configura come un caso emblematico. 1) Ripartendo da dove eravamo arrivati in conclusione del capitolo precedente, cerchiamo ora di approfondire la questione della colpa così come emerge nel film, provando a mettere in luce in quali modalità Haneke lavori al fine di caricare di ambiguità i comportamenti dei personaggi che mette in scena e di dotare di significati il contesto storico di riferimento. Caché come si diceva è un’opera incentrata su un continuo nascondimento di situazioni, fatti, ricordi ed emozioni. E il racconto si carica delle sporcature che da questo torbido sistema di relazioni prende piede. Dando origine a un testo molto complesso, in cui niente appare come sembra e tutto risulta profondamente enigmatico – non solo quindi la questione legata alle vhs misteriose, che funziona semmai come chiave di lettura per la comprensione del film. Il legame fra Storia, memoria e colpa è del resto il tema cardine su cui il film è impostato e il regista costruisce un testo tanto ricco di rimandi e stratificazioni proprio al fine di rendere il discorso il meno superficiale possibile. Per questo motivo soprattutto il materiale storico da cui egli parte è mancante, censurato e occultato: impossibile da vedere e da confrontare in modo diretto con una qualsiasi memoria. Perché Caché concentrandosi su una visione negata della Storia, mette a fuoco come “i […] tentativi di sopprimere la verità storica alla fine siano serviti a dare energia ai tentativi di scoprire cosa fosse successo”3. Ed è effettivamente questa dinamica di

“occlusione e memoria, basata su relazioni di potere, che guida l’allegoria di Haneke. Questi processi sono sintomatici di una colpa negata”4. Dando conto dei fatti della sera del 17 ottobre 1961 a Parigi, abbiamo fatto riferimento all’azione di insabbiamento messa in campo dagli organi governativi francesi sin dai primi istanti successivi al massacro. Si trattò di una vera e propria operazione di occultamento orchestrata in maniera capillare per esigenze di sicurezza nazionale e motivata dall’emergenza derivante dalla guerra in atto. Ma in termini più ampi fu una pagina talmente disonorevole e per molti versi immorale della Storia recente della Francia – e comunque rientrante nel novero di quella che è stata da più parti definita come una “guerra sporca” – da dover essere al più presto rimossa e dimenticata. E in effetti l’opera di censura funzionò in maniera efficacissima. Secondo quanto riportato in un sondaggio condotto dal CSA (Conseil Supérieur de l’Audiovisuel) e pubblicato dal quotidiano L’Humanité nell’ottobre 2001 (quindi solo quattro anni prima della realizzazione di Caché) meno di un francese su due all’epoca era a conoscenza del massacro del 19615. Inoltre nel documentario Une journée portée disparue dedicato alla strage e realizzato da Philip Brooks e Alan Hayling nel 1992 per il neonato canale televisivo franco-tedesco Arté, si fa riferimento al fatto che la quasi totalità dei cittadini francesi ancora ignara della vicenda fosse rimasta incredula, una volta messa al corrente dei fatti, che quanto raccontato potesse aver avuto realmente luogo. E la ragione è che “non c’era alcuna immagine che potesse sostenere quelle affermazioni”6. Le conseguenze di questa meticolosa attività censoria oltre a dare un’idea piuttosto precisa di come gli effetti della guerra abbiano cominciato a sedimentare negativamente nelle coscienze sia delle istituzioni sia dei cittadini francesi fin dai primi istanti, dimostra che dentro il racconto di un episodio tanto efferato e sconvolgente – ma anche emblematico – come quello richiamato da Caché, si manifestino forze e tensioni capaci di avere una ricaduta diretta sulla Storia contemporanea

della Francia e, in senso più ampio, dell’Europa. E che la scelta di Haneke sia quella di muoversi nella direzione di un utilizzo in forma simbolica dell’evento è testimoniato dal fatto che l’idea di inserire nel film i riferimenti alla strage del 17 ottobre 1961 gli sia venuta proprio dopo la visione di Une journée portée disparue: durante i preparativi prima di girare Caché ho appreso di questo massacro in un documentario su Arté. È avvenuto a Parigi nel 1961, circa 200 arabi sono stati fucilati o gettati nella Senna e non se ne è parlato per quattro decenni. Ho approfittato di questo incidente perché si adattava in un modo orribile. Potresti trovare una storia simile in qualsiasi paese, anche se è avvenuta in un momento diverso. C’è sempre un senso di colpa collettivo che può essere collegato a una storia personale. È così che voglio che questo film venga inteso.7

Oltre all’efferatezza, già di per sé scioccante, dei fatti raccontati nel documentario e alla natura particolarmente traumatica che li connota, ciò che più di tutto ha colpito il regista sono stati due elementi molto precisi. Da un lato il carattere universale dell’evento, che a Haneke è parso facilmente esportabile in termini globali al di fuori dei confini francesi, e dall’altro lo stato di quasi totale oblio cui tutto è stato relegato per diversi anni. Ed è proprio da questo oblio, che è la conseguenza di un premeditato occultamento della memoria, che prende le mosse Caché. Le vhs intorno alle quali si sviluppa la storia, generatrici di sospetto e inquietudine, assumono il ruolo di tracce. Indizi attraverso cui cercare di costruire un quadro di realtà. Nonostante questo però guardarle, ripassarle al videoregistratore avanti e indietro e studiarle non porta ad alcuna soluzione e i protagonisti non giungono a nessuna verità. Il film, intenzionalmente, non dà risposte e il mistero su chi si nasconda dietro l’invio dei nastri rimane intatto fino alla fine sia per i personaggi sia per gli spettatori. Tuttavia la soluzione dell’enigma non pare essere particolarmente rilevante. Caché non è un thriller o un film giallo e in fondo non ha la necessità di fornire nessuna spiegazione. Il pubblico inoltre, di fronte a un’opera tanto complessa e stratificata, si presume finisca per concentrarsi su ben altri aspetti rispetto a quelli legati allo sviluppo della trama. Gli unici a restare davvero delusi dalla mancata soluzione del mistero sono in definitiva solo i personaggi. E

questo dimostra come il film colga perfettamente nel segno rispetto al messaggio che intende lanciare. Perché ciò che Haneke riesce a far emergere negando la verità e creando questo testo profondamente ambiguo è la definizione, ancora una volta, di una colpa su larga scala. La colpa che nel film definisce quell’impasse insormontabile da cui si genera l’inquietudine che assale la famiglia Laurent è infatti un dispositivo che si riproduce a diversi strati e differenti livelli. Non si tratta soltanto di mettere in comunicazione, come siamo abituati a vedere nel cinema hanekeiano, l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo – e quindi l’individuale con il collettivo – ma di mostrare come il tema della colpa sia connaturato ai gesti, alle azioni e alle coscienze di tutti gli individui della società. Le responsabilità coloniali della Francia agiscono come una materia sotterranea, come un veleno, o un virus, che infetta tutti. Da qualsiasi parte arrivi. Nel film appare chiaro come per nessuno sia possibile, nonostante i tentativi, dimenticare il trauma coloniale. Non ci riesce Majid, che lo choc della morte dei genitori e dell’allontanamento dalla famiglia adottiva è costretto a riviverlo in continuazione, fino a non riuscire più a sopportarlo. Ma non può farlo nemmeno Georges, il quale cercando di rimuovere la propria colpa individuale – quella di aver causato la cacciata di Majid – vuole nello stesso tempo liberarsi da quella collettiva. Quando racconta ad Anne la storia dei genitori di Majid e accenna alla strage del 17 ottobre 1961, il protagonista sembra riferirsi a qualcosa che non lo riguarda direttamente e rispetto al quale, evidentemente, non si ritiene responsabile – per certi versi anche a ragione dal momento che all’epoca dei fatti era soltanto un bambino. Lo stesso atteggiamento però lo mostra successivamente davanti al figlio di Majid, contro al quale rigetta le accuse di essere colpevole per la morte del padre del ragazzo: “non riuscirai a farmi sentire in colpa perché tuo padre ha vissuto male la sua vita. Io non sono responsabile” esclama Georges di fronte al giovane. Caché, dunque, agisce proprio in questo modo: creando un tessuto narrativo nel quale l’ambiguità di ogni azione, scelta e discorso finiscono per trasportare le

responsabilità di ognuno dei personaggi a un livello più alto. Ma allo stesso tempo fa sì che tutti restino inchiodati, senza scampo, alle proprie colpe. Al di fuori di qualsiasi dimensione di inconsapevolezza, compresa quella derivante dall’innocenza – presunta8 – dell’infanzia: L’ errore passato di Georges è […] il normale egoismo di un bambino di sei anni, indipendentemente dalle sue enormi conseguenze. Le cose si complicano solo quando Georges si rifiuta di riconoscere la sua colpa da adulto. Georges attribuisce il suo comportamento passato al fatto che era un bambino e non se ne assume nemmeno la responsabilità nel presente. Questo è ciò che fa Caché: ci invita a vedere attraverso le scuse e non solo nel film, ma anche nella nostra vita.9

Questo aspetto è reso ancora più evidente dalla scelta di Haneke di mettere al centro del racconto un tipo di borghesia piuttosto differente da quella che solitamente popola le sue storie. La famiglia Laurent di Caché ha infatti una fisionomia esplicitamente progressista e un’estrazione inconfondibilmente di sinistra. Facendo un paragone con i film francesi del regista ricorda, per certi versi, la coppia formata da Anne e Georges in Storie – dove lei fa l’attrice e lui il fotoreporter di guerra – e si pone in completa opposizione alla famiglia Laurent di appartenenza altoborghese di Happy End. Mentre è distante in maniera molto evidente dalla classe borghese austriaca della trilogia e degli altri film girati da Haneke nel proprio paese. Georges e Anne di Caché incarnano un preciso modello di borghesia acculturata e liberal francese, benestante e certamente benpensante. Non si possono allegare loro aprioristicamente – e restando quindi nel campo dei cliché della rappresentazione cinematografica – il serpeggiante razzismo o la velata intolleranza che possiamo intravvedere nei protagonisti degli altri film sopracitati. Georges fa il giornalista letterario mentre Anne è una direttrice editoriale, la loro quindi è una famiglia dove la cultura è uno dei cardini su cui si strutturano tanto le relazioni private quanto l’agire pubblico. Questo tipo di prospettiva è sintetizzata dall’accostamento di due immagini particolarmente evocative. Ovvero quelle delle due librerie che tornano a più riprese durante il film: quella di casa Laurent, posta di fianco al tavolo del soggiorno, e quella stilizzata che compone la scenografia del programma televisivo condotto da Georges.

Ma questo schema rappresentativo che tende a mettere in risalto la mancanza di una separazione fra sfera pubblica e sfera privata all’interno del modello borghese progressista che racconta, è avvertibile anche in una delle prime sequenze del film, poco dopo l’inizio. Anne e Georges invitano alcuni amici a cena a casa e mangiano proprio davanti alla grande libreria del soggiorno. Gli amici sono persone molto simili ai due protagonisti: parigini, benestanti, evidentemente acculturati e bianchi – ad eccezione di una donna di colore, che però conferma simbolicamente il differente posizionamento ideologico di questa particolare borghesia rispetto a quelle viste negli altri film di Haneke. Sono disinvolti, colti e ironici e parlano di problemi tipici del primo mondo come il lavoro, la carriera o le relazioni sentimentali, con in più qualche educato pettegolezzo su altri amici non presenti in quel momento. È durante questa parentesi di convivialità e spensieratezza che giunge una delle misteriose vhs. Si sente suonare il campanello, Georges apre la porta e non vede nessuno, ma a terra trova un sacchetto con all’interno una videocassetta e un disegno. Sceglie di non dire nulla agli amici e informa solo la moglie dell’accaduto. Anne però, al contrario del marito, decide di raccontare a tutti cosa stia succedendo, quanto quelle cassette abbiano gettato lei e George nell’ansia e nella preoccupazione e trova, ovviamente, la solidarietà degli amici. Haneke attraverso il gesto di Anne rimarca il senso di totale innocenza e onestà che lo status sociale e culturale dei due coniugi sottintende. Il significato di quel “non ho niente da nascondere” ripetuto da Georges in più di un’occasione durante il film in questo modo è riassunto in maniera esemplare. Tuttavia l’apparente normalità e rettitudine che i protagonisti ostentano è destinata a sfaldarsi nel momento in cui Georges inizia a mentire alla moglie e a nascondere alla donna alcuni dettagli che aiuterebbero a chiarire i contorni della vicenda. Le bugie e le omissioni dell’uomo creano un cambio di scenario nel quale si insinua la Storia. La colpa individuale, legata al rapporto con Majid e con il passato della propria famiglia, e quella collettiva, incentrata sulla Storia

coloniale della Francia, emergono come dispositivi del tutto inseparabili e attinenti. Haneke, non senza una dose di velato sarcasmo, mostra come anche per un certo tipo di società civile – che si ritiene estranea a logiche di intolleranza o non incline a un’idea conservatrice e reazionaria della politica e dello stato – diventi molto facile arrendersi a modalità di pensiero e di azione completamente opposte alla propria estrazione culturale. E lo fa indicando come oltre a condividere la legittimità del posizionamento politico, sociale e culturale, la dimensione pubblica e quella privata – persino quando non sono nettamente separate, come nel caso della famiglia Laurent – condividano anche il medesimo sentimento di colpa. Il film lavora a fondo su questo aspetto e, come è stato notato da più parti, dal punto di vista storico opera un vero e proprio esercizio di riemersione di una rimozione in senso collettivo. Di una memoria, cioè, relativa ad atti e comportamenti riprovevoli che coinvolge un’intera nazione e – di rimando – un intero continente. La guerra d’Algeria non è infatti l’unico riferimento storico che seppur indiretto risulta fortemente vivo all’interno di Caché. In maniera analoga viene richiamata anche un’altra pagina oscura, mai del tutto risolta e ancora oggi profondamente controversa, della Storia francese del secondo dopoguerra: il governo di Vichy. Senza entrare nei dettagli di una questione troppo vasta per essere trattata in questa sede, va sottolineato come la memoria di Vichy in Caché sia presente e del tutto pertinente alle questioni che Haneke sviscera in termini storici. Abbiamo già visto come la strage del 17 ottobre 1961 inchiodi alle sue responsabilità l’allora prefetto di Parigi Maurice Papon. E come Papon fosse stato, durante la guerra, un funzionario del governo collaborazionista dei nazisti comandato dal Maresciallo Pétain. Il riferimento è tutt’altro che diretto e credere che l’allusione a Vichy come complesso di colpa che si aggiunge a quella relativa al colonialismo – che invece è presente in modo molto più esplicito – sia figlia di una precisa intenzione da parte dell’autore potrebbe apparire una forzatura.

Tuttavia esiste un rimando che per quanto difficilmente avvertibile a una prima visione del film o all’occhio di uno spettatore inesperto, collega in termini molto precisi e per nulla casuali la questione relativa a Vichy con le tematiche sviluppate in Caché. Lo si nota in una breve inquadratura della sequenza in cui Georges telefona alla moglie dal proprio posto di lavoro. Mentre compone il numero l’uomo guarda distrattamente la posta sulla scrivania e trova una cartolina raffigurante un disegno macabro – la stilizzazione di un bambino che vomita sangue – realizzata in uno stile del tutto simile a quello di un altro disegno ricevuto insieme all’ultima vhs giunta la sera precedente. Per un attimo Haneke inquadra Georges frontalmente e sul lato destro del quadro si vede, parzialmente sfuocato, il ripiano di una libreria. Fra i volumi appoggiati è possibile distinguerne soprattutto uno intitolato La Grande histoire des Français sous l’occupation. Si tratta di uno degli otto volumi che compongono l’opera dello scrittore Henri Amouroux pubblicata a partire dal 1976 e dedicata alla Storia della Francia durante l’occupazione tedesca. Il lavoro di Amouroux fu “un primo tentativo di venire a patti con le sgradevoli verità della Francia di Vichy quando era diffusa la collaborazione con le forze di occupazione naziste”10 e dimostra come a partire dagli anni Settanta il paese transalpino abbia cercato di iniziare un serio tentativo di fare i conti con il passato11.

Immagine 5.1 Caché: Georges (Daniel Auteuil) al telefono con la moglie Anne mentre osserva una cartolina anonima che ha appena ricevuto. Sulla destra dell’inquadratura si nota il volume di Henri Amouroux La Grande histoire des Français sous l’occupation.

Ma dà anche l’idea di come “quella struttura di colpa più generale a cui Haneke fa riferimento”12 sia connaturata e inseparabile da un più ampio discorso sulla memoria. Un discorso che si muove trasversalmente fra differenti eventi storici e, come il film mette bene in evidenza, li tiene collegati fra loro. Almeno per quello che concerne quell’enorme bagaglio di rimozioni, incapacità di guardare al passato con spirito critico e assunzione di responsabilità che l’Europa tutta, e non solo la Francia, si trova a dover affrontare ancora oggi. Nonostante i numerosi decenni che ci separano da quegli eventi. 2) Ma in quale modo ciò che stiamo osservando relativamente al tema della memoria e della presenza della Storia nel tessuto narrativo di Caché, entra in contatto con il territorio dell’immagine? Ovvero, quali sono i termini nei quali i discorsi teorici allegabili alla questione dell’immagine e del digitale sono in grado di far emergere in maniera evidente i traumi su cui sono imperniati il racconto storico e la memoria richiamati dal film? Haneke come si diceva utilizza il digitale per la prima volta e comprende subito che le infinite risorse cui il nuovo supporto consente di accedere vanno ben oltre le questioni di natura specificamente tecnica. Ciò che il regista sfrutta è l’opportunità di dar vita a un universo di senso attraverso le immagini e dota queste ultime di significati che non hanno a che vedere con il solo impianto formale del film. Esse diventano strumenti utili all’autore per creare un racconto nel quale la mescolanza dei diversi formati si ponga come elemento teorico. La possibilità che Haneke ha di appiattire l’impianto enunciativo attraverso il digitale – rendendo quindi le immagini legate alla drammaturgia e quelle relative alle

registrazioni video completamente indistinguibili13 – è infatti uno degli aspetti grafici più innovativi che si trova a disposizione e di cui coglie l’enorme potenzialità. Le immagini, in maniera molto articolata, diventano così delle tracce. Delle guide che confondendo e creando trappole a livello di comprensione allo spettatore portano quest’ultimo, nello stesso tempo, a focalizzarsi sui costituenti primari della rappresentazione filmica. I video, i nastri, le riprese televisive e le inquadrature che compongono il film in senso più tradizionale producono invece la forma grafica mediante la quale Haneke dà risalto alla complessità del testo. Un testo che per mezzo di un linguaggio eterogeneo e ricchissimo di stratificazioni e livelli di interpretazione, ingloba tutti i sintomi del contemporaneo. Mentre parallelamente consente alla memoria storica di riaffiorare sotto forma di rimozione. Risultando quindi disturbante sia per chi osserva sia per chi si trova protagonista della narrazione. La continuità visiva fra immagini neutre, riprodotte, elaborate o manipolate in questo senso afferma la creazione di un registro drammaturgico ed enunciativo del tutto nuovo – e che negli stessi anni in cui Caché viene realizzato trova una sorta di rispondenza in Inland Empire – L’impero della mente (2006) di David Lynch – capace di attestarsi come una forma di rappresentazione del tutto nuova. La scelta da parte di Haneke di moltiplicare i formati non è una novità all’interno del suo cinema e del percorso autoriale che lo contraddistingue. Lo abbiamo visto. Basti pensare, giusto per fare due esempi che risultano familiari, alla pluralità di schermi presente in Benny’s Video – aspetto intorno al quale abbiamo impostato una parte della nostra analisi – o come in Happy End le immagini che compongono il film arrivino da una serie di dispositivi molto variegata quali smartphone, computer e diverse tipologie di camere di sorveglianza. Tuttavia in Caché questo utilizzo di differenti tipi di formato diventa per la prima volta parte di un disegno più ampio. Altro rispetto a quello di voler creare una mera stratificazione estetica. Perché quella a cui Haneke dà vita è una vera e

propria tensione fra i numerosi piani narrativi che mette in campo. Utilizzando le immagini come pezzetti di una materia viva e facendole confliggere, pur senza rivestirle di alcuna particolare riconoscibilità, il regista assegna al proprio racconto uno status di estrema frammentazione. Ciò cui costringe lo spettatore è l’atto di mettere continuamente a confronto fra loro le immagini. Per spingere a ragionare sullo statuto materiale e insieme politico di queste ultime, ma anche al fine di evidenziare il problema della vita “reale” contro quella “artificiale”, le emozioni agite contro le emozioni provate, le immagini create per la camera contro le immagini che la camera sembra aver inconsapevolmente “catturato”. [Haneke] propone che tali opposti in realtà non siano così separati: fondendosi insieme, è spesso difficile distinguerli. In Caché, questo intrecciarsi di vita fittizia e reale è un tema centrale, che struttura non solo la forma del film, ma anche la vita dei suoi personaggi.14

Per capire meglio il senso di questo atteggiamento prendiamo in esame l’incipit del film. I primi cinque minuti di Caché sono costituiti da tre sole inquadrature di cui due mostrano esattamente la stessa immagine. E cioè quella dell’esterno della casa dei Laurent: un totale del fronte dell’abitazione e dell’incrocio di strade a essa prospiciente, con in vista le auto parcheggiate e le facciate dei palazzi circostanti. La prima delle due inquadrature mostra questa ripresa in continuità mentre in sovraimpressione scorrono i titoli di testa e i suoni che si sentono sono quelli diegetici provenienti dalla strada. Dopo circa due minuti e mezzo irrompono le voci fuoricampo di un uomo e di una donna – che poi scopriremo essere Georges e Anne – e si comincia a capire che forse quell’inquadratura non è esattamente ciò che sembra. Stacco: siamo sempre all’esterno della casa, questa volta la mdp è collocata molto più vicino all’ingresso e inquadra i due protagonisti, poi compie una panoramica orizzontale verso destra e segue Georges che attraversa la strada, si guarda intorno e poi punta lo sguardo nella direzione verso la quale nell’inquadratura precedente era posizionata la camera. L’uomo infine torna sui suoi passi e rientra in casa insieme ad Anne che era rimasta sull’uscio. Secondo stacco: si torna alla prima immagine ma questa volta l’audio fuoricampo

che ascoltiamo è quello dell’interno dell’appartamento dei protagonisti, li sentiamo discutere a proposito di una vhs e chiedersi se qualcuno dei vicini possa aver notato qualcosa. Ancora non capiamo di cosa stiano parlando, ma ad un certo punto l’immagine che stavamo guardando si interrompe e inizia a scorrere prima in avanti e poi all’indietro, mentre lo schermo si increspa e su di esso compaiono le righe orizzontali, date dalla funzione di avvolgimento rapido del nastro, tipiche dei videoregistratori. A questo punto tutto appare più chiaro: quello che stiamo osservando non è un’immagine che appartiene alla diegesi cinematografica, ma un filmato impresso su una vhs, la medesima che stanno guardano anche i protagonisti. Nello stacco successivo – all’avvio di un lungo piano sequenza – si vede Georges che stoppa il videoregistratore e spegne lo schermo del televisore. L’apertura di Caché è già destinata a diventare una delle scene più commentate della storia del cinema. E probabilmente prenderà posto accanto alla scena della doccia in Psyco (Alfred Hitchcock, 1960) e alla carrellata estesa de L’infernale Quinlan (Orson Welles, 1958) come l’epitome di ciò che il cinema può fare come nessun’altra arte.15

Immagine 5.2 Caché: il primo dei video anonimi inviati alla famiglia Laurent mentre viene mandato avanti veloce sul videoregistratore. Al centro del quadro, in basso, si riconosce Georges (Daniel Auteuil) che esce di casa.

Così scriveva Thomas Elsaesser qualche anno fa a proposito dell’incipit appena descritto. Potrebbe sembrare un’esagerazione quella dello studioso tedesco, ma rende perfettamente l’idea dell’importanza di un film come Caché

non solo nell’ambito della cultura visuale contemporanea, ma per l’intera storia del cinema. In effetti questo inizio così complesso dal punto di vista enunciativo, nella sua apparente semplicità, mette in risalto molto bene l’esistenza e la strutturazione di quello sguardo nuovo di cui dicevamo in precedenza. Ma soprattutto dà l’idea di come la prospettiva cui tale sguardo si associa, possa essere definita con estremo rigore e grande sensibilità. Ciò che rende tanto cruciale una sequenza come questa dal punto di vista dell’impatto sul linguaggio e sulla forma, è il modo in cui le immagini vengono utilizzate. E cioè come dispositivi divergenti, posti in opposizione gli uni contro gli altri. Quella che Haneke ottiene è, una volta di più, una frammentazione del quadro compositivo che si situa nel solco delle discontinuità che abbiamo incontrato in precedenza. Osservando i primi istanti di Caché non si può infatti non ripensare a Funny Games e al gesto di riavvolgere il film su se stesso compiuto da uno dei due killer nel finale del film. Risulta evidente come il grado di astrazione e il posizionamento al di fuori del contesto della realtà che dentro Funny Games contraddistingueva quel tipo di azione sia del tutto assente in Caché. Tuttavia sopravvive il medesimo tipo di stupore e sorpresa che coglie lo spettatore, così come quell’atto di dirottare la rappresentazione verso un registro quasi anti-narrativo, profondamente ambiguo e apparentemente inspiegabile che Haneke mette in pratica. L’immagine, in entrambi i casi, diventa il dispositivo scatenante di un’indeterminatezza, l’oggetto attraverso cui la visione entra in crisi e allo spettatore viene sottratto ogni punto di riferimento. La differenza sostanziale fra questi due tipi di messa in scena sta però nel fatto che in Caché la disarticolazione dell’apparato visivo avviene su un piano puramente enunciativo. Nel senso che si rivolge alla sola attività sensibile dello spettatore, senza alcuna finalità narrativa. Il fatto che alla famiglia protagonista arrivino delle vhs su cui è impressa una ripresa lunga più di due ore dell’esterno della loro abitazione è un fatto abbastanza semplice da raccontare e piuttosto angosciante già di per sé. Ma la scelta di farlo con questo tipo di soluzione descrittiva

significa scegliere di consegnare a chi guarda un piccolo choc emotivo. Vuol dire metterne in crisi lo sguardo utilizzando l’immagine come una trappola. L’inquietudine che si genera attraverso le prime tre inquadrature di Caché sta tutta nell’uso perfettamente calibrato dei “mezzi specifici, se non unici, del film16 – montaggio, movimento della macchina da presa, inquadratura”17 e coinvolge il pubblico a livello emotivo ancora prima che la questione delle videocassette anonime diventi chiara. Haneke agisce in questo senso a un livello quasi subliminale, assegnando cioè una forte dose di indeterminatezza al linguaggio che utilizza e facendo leva sulla percezione inconscia dello spettatore. Il risultato che ottiene è quello di costruire un impianto formale dentro il quale chi guarda non sia in grado di decifrare l’appartenenza delle immagini, di dotarle di un proprietario e nemmeno di un referente. Cosa che mette certamente in dubbio la riconoscibilità e il significato delle immagini stesse, ma che ha a che vedere anche con quella che potremmo definire una responsabilità nei confronti di queste ultime. Se non sappiamo chi le ha girate quelle immagini e non sappiamo nemmeno da dove vengono e perché si trovano di fronte al nostro sguardo, allora non sappiamo neanche per chi sono state realizzate e, in breve, che cosa sono. La diegesi cinematografica stabilisce che i destinatari sono i componenti della famiglia Laurent naturalmente, ma il grado di ambiguità e indistinguibilità di cui esse si dotano ci suggerisce che le cose non stanno per forza (o soltanto) in questo modo. Come dice di nuovo Elsaesser il continuo ricorso che Haneke fa alla “visione retrospettiva” – non solo in questo film – produce una forma di messa in scena nella quale “inquadrare e riformulare ci spiazza sul tempo o sul luogo di ciò che pensavamo di aver visto o riconosciuto”18 e sono proprio questi momenti a conferire ai suoi film “il loro apparente potere di invadere la vita psichica ed emotiva dello spettatore”19 Il déplacement che Haneke opera mette quindi in risalto come la percezione dell’immagine cinematografica non si basi

più, nell’era del digitale, su una questione di riconoscibilità che comprenda categorie come realtà e finzione, verità e artificio o distanziamento e immedesimazione. Ma piuttosto sul significato percettivo, anche in termini negativi, che queste immagini producono. Elsaesser parla di “switch ontologico”, indicando nel gesto che Heneke compie con l’incipit di Caché, la volontà di innescare un gioco mentale contro lo spettatore dove ciò che viene mostrato crea una vertigine sensoriale che si rivolge direttamente alla coscienza sensibile e dentro la quale si estrinseca il significato più profondo di contemporaneità dell’immagine. Ovvero di una serie di dispositivi dei quali non è possibile individuare il grado di realtà proprio perché sono nello stesso momento parte di essa – come immagini filmate e riprodotte “amatorialmente” – e a essa sottratte, perché usate nello spazio della finzione cinematografica. Con tutto il portato di sottintesi che questo gesto veicola: In effetti il gioco di un mezzo contro l’altro, o dell’azione “dal vivo” contro quella “registrata” […] può essere riformulato come significativo principalmente in relazione ai quasi impercettibili spostamenti temporali in tal modo effettuati. Il risultato è una serie di piccoli choc ontologici, come generati da un pungolo per bestiame a bassa tensione, ottenuto da quella che ora voglio chiamare la particolare indicicità metallettica di Haneke, cioè il modo in cui obbliga lo spettatore a entrare in una serie di revisioni retrospettive che lo lasciano in sospeso, instabile e senza punti di riferimento, ma potentemente consapevole della sua presenza fisica nel qui e ora del momento della visione.20

Questo “gioco” che coinvolge la visione retrospettiva da parte dello spettatore è del resto una costante che nel cinema di Haneke si ripete in parecchie occasioni. In Benny’s Video, come abbiamo già avuto modo di osservare, è proprio un’immagine che ritorna apparentemente identica due volte a inchiodare alle proprie responsabilità i genitori del protagonista. Haneke ha dunque cominciato a sperimentare questa ambiguità ben prima di avere a disposizione un formato duttile come il digitale. E se in Benny’s Video le immagini diventano, pur nella loro evasività, il dispositivo di disvelamento – l’elemento cioè grazie al quale emerge la verità dei fatti – è con i film successivi che il regista comincia a rendere sempre più estremo il discorso intorno al loro statuto

ontologico. Allontanandosi progressivamente dalla volontà di far combaciare la forma con il senso compiuto – se non in termini generali, almeno per quel che riguarda le micronarrazioni interne – nelle sequenze dei suoi film. Prima ancora di arrivare al sorprendente equilibrio che raggiunge con Caché il tentativo più interessante e riuscito di Haneke in questo senso è però quello che ottiene con Storie. In una delle prime sequenze la protagonista Anne, che fa l’attrice, si reca a un provino per un film. Si trova in una stanza, è ripresa in piano sequenza da una camera posta frontalmente e tenuta a mano da un operatore e guarda dritto in macchina. La ripresa è di bassa qualità – perché sembri quella di una vera camera amatoriale – una voce fuori campo le descrive quello che deve fare, come comportarsi e cosa dire. Apparentemente nulla di troppo bizzarro eppure con il passare dei minuti la voce fuori campo – che inizialmente aveva chiesto alla donna se doveva darle le battute della controparte e quindi si presume lo stia facendo – inizia farsi ostile, rimprovera Anne di essere fasulla, di non essere capace di mostrare il proprio vero volto e minaccia di ucciderla. La reazione della donna è prima di leggera tensione, poi di spavento e infine di paura e disperazione: inizia a piangere e a supplicare che la lascino uscire dalla stanza. La sequenza si interrompe senza che la situazione si risolva e allo spettatore rimane il sospetto che quello non fosse davvero un provino, che il maltrattamento della protagonista fosse reale (pur nella finzione filmica) e alla donna possa essere capitato qualcosa di spiacevole. Più tardi dal dialogo di Anne con alcuni amici si capirà che non c’era nulla di anomalo in quel casting e il film nel quale la ragazza dovrà recitare ha effettivamente dei risvolti violenti. Tuttavia il gioco del regista – che si sdoppia nell’alter-ego che conduce sadicamente il provino – raggiunge il massimo dell’ambiguità. Quella che Peter Brunette chiama “ambiguità autocosciente” e che definisce quanto l’indeterminatezza formale in cui il regista si muove sia collegata “all’esplorazione […] – iniziata in Benny’s Video e che raggiunge il suo apice in Caché – dell’impossibilità di distinguere completamente, almeno nel contesto del cinema, tra la realtà e la sua rappresentazione”21.

Ovvero in uno spazio in cui Haneke situa il significato più acuto del proprio cinema e tramite il quale lancia una sfida allo spettatore: quella di cercare di “comprendere sempre lo statuto ontologico fondamentale di ogni immagine non contestualizzata”22. 3) Tornando a Caché, ci sono altre due sequenze del film in cui torna lo stesso tipo di visione ambigua e l’afflato mistificatorio delle immagini impone allo spettatore di lasciarsi guidare nel terreno sdrucciolevole segnalato da Elsaesser. Una prima volta quando Georges e Anne osservano la cassetta con le immagini di Romainville che indicano la strada fino all’ingresso dell’appartamento di Majid. La sequenza inizia mentre la vhs è già stata fatta partire e quello che si vede è un camera-car piuttosto tradizionale riprendere un anonimo quartiere popolare. Dopo uno stacco le immagini sono quelle di un corridoio lungo il quale la camera a mano avanza fino ad arrestarsi di fronte al portoncino d’ingresso di un’abitazione. A questo punto ricompaiono le righe riavvolgimento rapido del videoregistratore – noi capiamo trattarsi di un nastro e non della realtà filmica – e tutto torna al punto di partenza per poi ricominciare da capo a velocità normale. In questa ripetizione – proprio come nell’apertura del film – sentiamo Georges e Anne fuoricampo discutere e confrontarsi in merito a ciò che osservano. Ancora una volta Haneke spiazza lo spettatore. Il valore di questa sequenza è perfettamente sovrapponibile a quello già osservato nell’incipit, ma ha la forza di ribadire in modo ancora più chiaro – essendo frutto di un’ennesima ripetizione – quanto lo statuto dell’immagine sia scivoloso e non esista per lo spettatore una forma riconciliata di rappresentazione cui fare affidamento. Differente è invece il finale del film. Nel piano sequenza di chiusura – in cui Pierrot incontra il figlio di Majid all’uscita da scuola e ha una breve conversazione con lui – la ripresa della

scena è in continuità e con la mdp posta a lunga distanza dai soggetti, tanto che è impossibile ascoltare il dialogo fra i due personaggi. Questo long take replica un’immagine già vista nei minuti iniziali del film: una inquadratura neutra dell’esterno della scuola dove Georges è andato a prendere il figlio. Tuttavia nel finale questa neutralità viene completamente meno e il vero significato risulta del tutto indecifrabile. Lo spettatore, a causa della natura enigmatica delle immagini alle quali ha fino a quel momento assistito, è ora portato a dubitare di tutto. E Haneke non fornisce alcun appiglio interpretativo. Questo lungo piano di chiusura potrebbe essere una ulteriore proiezione onirica di Georges che nella sequenza precedente si era appena messo a letto e aveva iniziato a sognare, oppure l’ennesimo filmato di una vhs riprodotto da un videoregistratore. O ancora il ricordo o il flashback di qualcuno dei protagonisti. Secondo Elsaesser: l’enigmatica scena finale di Caché è resa ancora più forte dalla possibilità che possa essere prolettica in quanto potrebbe formare un loop o un nastro di Moebius con l’inizio del film, in modo tale che la fine del film sia di fatto l’inizio della trama, nel senso di essere cronologicamente antecedente all’inizio, anche se mostrato alla fine. In altre parole, Haneke lascia aperta la possibilità che la scena tra Pierrot e il figlio di Majid possa precedere piuttosto che seguire il suicidio e l’epilogo.23

Pierrot e il figlio di Majid si incontrano per la prima volta o si conoscevano già prima? Se la sequenza è posta in ordine cronologico rispetto alla fabula del film questo dialogo sottende una riconciliazione – che è quindi impossibile per i padri ma può avvenire fra i figli? E se viceversa è situata prima dell’inizio della trama, sta a significare che i due hanno architettato tutto, fin dall’invio della prima vhs? Non siamo in grado di stabilire con certezza il significato enunciativo né tantomeno quello narrativo di questo finale e non lo saremo mai. Perché è il regista ad alimentare questa ambiguità. Come dice lo stesso Haneke: Non c’è una sola interpretazione corretta. È ovvio. Questo finale è stato concepito in modo da generare interpretazioni diverse, quindi non può essercene una sola giusta. Possiamo vederci quel che vogliamo. È come nella realtà. Analizziamo le cose perché pensiamo che porteranno a questo o a quello, ma, in realtà, non lo sapremo mai.24

D’altra parte sempre Haneke afferma che la conversazione fra Pierrot e il figlio di Majid non è fasulla e i due attori non fingono di parlare fra loro senza dire nulla di sensato e che il dialogo esiste ed è stato proprio lui a scriverlo. Ma che tuttavia non ne rivelerà mai il contenuto25. Un aspetto questo che non aggiunge e non toglie nulla alla questione, ma aiuta a comprendere meglio la deliberata intenzione di confondere la comprensione e complessificare il più possibile il giudizio interpretativo dello spettatore da parte dell’autore.

Immagine 5.3 Caché: L’inquadratura finale del film con l’esterno della scuola di Pierrot. Nel lato sinistro dell’inquadratura si vedono lo stesso Pierrot (Lester Makedonsky) e il figlio di Majid (Walid Afkir) che conversano.

Oltre a questo articolato impianto estetico a richiamare l’attenzione dal punto di vista del lavoro sulle immagini in Caché sono anche gli inserti – che ci appaiono ormai familiari – provenienti dai numerosi schermi che si vedono nel film. Una serie di frammenti video presi per lo più da notiziari televisivi che il regista sceglie e inserisce per punteggiare la narrazione. Ne abbiamo incontrati di simili in quasi tutti i film di Haneke che abbiamo analizzato e abbiamo messo in relazione il loro utilizzo all’intenzione di assolvere a una logica di stratificazione dei diversi piani di realtà all’interno del tessuto filmico. Peraltro l’uso del telegiornale come forma di rappresentazione “integrata” è uno dei modi con cui il regista assembla frammenti di immagini del contemporaneo con finalità evidentemente simboliche. Nella misura in cui,

cioè, attraverso esse mette in scena il mondo che circonda tanto lo spettatore quanto il film stesso. Ma fa anche sì che i diversi registri cui dà forma possano essere facilmente messi in relazione fra loro e con quelli prodotti da e per l’opera filmica. Dispositivi di visione questi ultimi che hanno giocoforza una struttura estetica e significante del tutto diversa da quella degli inserti sopracitati. E che Haneke definisce appositamente per creare una distanza entro la quale situare uno spazio percettivo e di riflessione sull’immagine. Dentro Caché tuttavia tali elementi sembrano acquisire una complessità ulteriore e che si lega direttamente alle questioni storiche contenute nel film sulle quali ci stiamo concentrando. Lo studioso Michael Rothberg, teorico del concetto di “memoria multidirezionale”26 trova un’interessante rispondenza fra le proprie argomentazioni in tema di sovrapposizione fra diverse forme di memoria – quella pubblica ufficiale e quella pubblica “in contrasto” che finiscono per costituirne una di carattere generale – e il modo in cui Caché ingloba nel proprio racconto immagini prese da registri estranei a quello cinematografico27. Rothberg cita la scena del film in cui Anne e Georges, dopo essersi accorti che Pierrot non è rientrato a casa e non ha lasciato messaggi, presumono che la sua scomparsa sia collegata alle vhs misteriose e quindi a Majid. Lo sfondo della loro conversazione è dominato da un grande schermo televisivo incorniciato da scaffali di libri, videocassette e dvd che si estendono dal pavimento al soffitto, da parete a parete. Euronews trasmette un servizio dall’Iraq sulla mancanza di comunicazione tra gli alleati, seguito da un pezzo sul processo contro lo specialista dell’esercito americano Charles Graner per la sua parte nella tortura dei detenuti di Abu Ghraib. La clip finale del filmato di notizie è su alcuni palestinesi che fuggono dalla violenza dell’esercito israeliano nelle strade dei territori occupati28. Rothberg mette in evidenza la “compenetrazione di diversi quadri di riferimento” così come “la concatenazione di forme mediatiche [che] incarna sia il rapporto irritato tra spazio pubblico e privato sia tra vita

quotidiana e violenza estrema”29 rilevabile dall’accostamento di queste immagini. E sostiene anche come il ritorno del colonialismo represso trovi eco nelle forme contemporanee di imperialismo. E Caché rende concreta quell’incertezza che impedisce alla memoria di condensarsi in un’immagine fissa o di essere bloccata in un momento particolare attraverso la generazione da parte sua di una rete di crimini reali (le immagini televisive di Charles Graner relative alla tortura in Iraq) o che riecheggiano quelle del passato (collaborazione francese con la Germania nazista).30

Il discorso storico tratteggiato da Haneke appare quindi chiaro sin nei più piccoli dettagli. Il complesso estetico che il regista mette in piedi assolve all’intenzione di assegnare all’immagine la portata dei traumi storici e delle colpe coloniali che tematizza sottotraccia. Se da un lato la scelta di rivestire l’apparato enunciativo di una forte ambiguità funziona come sorta di guida per accostarsi alla lettura e alla comprensione del film, dall’altro l’atto di tramutare le immagini mediatiche in frammenti che raccontano la contemporanea repressione/riemersione della memoria fa sì che la Storia si attesti come un dispositivo trasversale a tutte le questioni presenti nel racconto filmico. In questa prospettiva il lavoro del regista acquista una forte connotazione materialista in senso storico e conferma la possibilità di essere accostata, in termini metodologici, ai discorsi di cui abbiamo trattato nel capitolo precedente riguardo all’approccio benjaminiano. La prossimità fra il valore eidetico delle immagini e le connessioni storiche così come l’abbiamo individuata nell’opera hanekeiana, e in particolare dentro Caché, sembra trovare una sua definizione dentro quanto Benjamin stesso esprimeva nella “VI tesi sul concetto di storia”: Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato davvero” (Ranke). Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari.31

L’immagine, seguendo questo assunto, assume il valore di un elemento di rottura, sia in termini estetici sia dal punto di vista memoriale. E dentro Caché questa doppia frattura, o

crisi, che si ingenera attraverso la visione è l’aspetto principale su cui il discorso storico prende forma. Le immagini anonime delle vhs, così come quelle degli inserti televisivi, anche se non direttamente legate all’evento storico sotteso al film, veicolano e sono pervase da un’indecifrabilità endemica a tutto il tessuto narrativo. La discontinuità mediante la quale Haneke dà forma al racconto dunque serve a rivelare la potenziale brutalità delle immagini e il loro statuto politico, che riconnettendosi alla memoria individuale generano la riemersione anche di quella collettiva. Ed è all’interno di questo riaffiorare di una rimozione che ciò che manca, che è “nascosto” o che non è rintracciabile, diventa il costrutto significante: Le immagini in Caché, in definitiva, non svelano nulla ma appaiono indecifrabili e ingannevoli ad ulteriore conferma che quella di Haneke è una continua ricerca sulle modalità disgregative nella società contemporanea che inevitabilmente incrocia sempre l’inconsistenza mediatica e la manipolabilità dell’immagine.32

L’immagine come segno di questa disgregazione diventa in ultima analisi uno dei grandi nodi su cui si fonda il cinema di Haneke. E al pari delle altre tematiche a lui care che abbiamo analizzato, aiuta a comprendere con maggior completezza l’eterogeneo universo autoriale nel quale egli si muove. Anche dal punto di vista estetico la riflessione sulla Storia dell’Europa e su come questa Storia abbia a che fare con la contemporaneità, dimostra di poter essere scritta in maniera articolata e ricca di sfumature. E Caché nella grande complessità cui dà forma risulta in questo senso il più esemplare dei modelli. Almeno per come suggerisce che non esiste un’immagine che non sia ambigua, ingannevole, non lineare o completamente oggettiva e non c’è nessun racconto storico che non sia incompleto, parziale o – nel caso specifico – nascosto. Ovvero difficile da vedere, interpretare e comprendere. Da qualsiasi parte lo si guardi. 1

McCann e Sorfa a proposito della rilevanza di Caché nel panorama del cinema contemporaneo osservano come il film abbia particolarmente catturato il pubblico ma non solo quello: “oltre che nella stampa popolare c’è stato un costante aumento del numero di articoli che trattano Haneke in riviste accademiche, con Screen che ha presentato sei pezzi nel suo ‘The Caché Dossier’ nel 2007. Questa quantità di interesse critico per un singolo autore

europeo è quasi senza precedenti dagli anni ’60 a oggi” (B. McCann, D. Sorfa, op. cit., p. 2). 2

Ibid.

3

P. Crowley, op. cit., p. 271.

4

Ibid.

5

La statistica è riportata da Ivi, pp. 268-269.

6

Ivi, p. 269.

7

Haneke citato in Ivi, p. 267.

8

Come nota Giuseppina Mecchia il ruolo dei bambini e i loro giudizi sul mondo che li circonda in questo senso non sono mai puramente innocenti “perché sono supportati da un sistema adulto fondato su pregiudizi, violenza e razzismo soggiacenti” G. Mecchia, The Children Are Still Watching Us, Caché/Hidden in the Folds of Time, in “Studies in French Cinema,” vol. VII, n. 2, p. 140.

9

T. Laine, Hidden Shame Exposed: Hidden and the Spectator, in B. McCann, D. Sorfa, op. cit., p. 253.

10

P. Crowley, op. cit., p. 271.

11

Sul tema e sulla ricezione dell’opera di Amouroux nel dibattito storico francese si veda soprattutto É. Conan, H. Rousso, Vichy, un passé qui ne passe pas, Fayard, Paris 1994.

12

P. Crowley, op. cit., p. 271.

13

Haneke a proposito di questo asserisce: “Caché è l’opposto di Benny’s Video, in cui c’è una differenza tra la natura dell’immagine del cinema e quella del video. In quel caso, volevo che lo spettatore cadesse più volte nelle trappole che gli tendevo” (in M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 265).

14

J. Burris, Surveillance and the indifferent gaze in Michael Haneke’s Caché (2005), in “Studies in French Cinema”, vol. XI, n. 2, 2011, p. 156.

15

T. Elsaesser, Performative Self-Contradictions Michael Haneke’s Mind Games, in R. Grundmann, op. cit., p. 64.

16

Con “film” l’autore non sta in questo caso facendo riferimento a Caché, ma intende indicare il prodotto dell’arte cinematografica in generale. Va quindi inteso in astratto, come “opera filmica”.

17

T. Elsaesser, Performative Self-Contradictions Michael Haneke’s Mind Games, cit., p. 64.

18

Ivi, p. 65.

19

Ibid.

20

Ibid.

21

P. Brunette, op. cit., p. 76.

22

Ibid.

23

T. Elsaesser, Performative Self-Contradictions Michael Haneke’s Mind Games, cit., p. 65.

24

In M. Cieutat, P. Rouyer, op. cit., p. 268.

25

Cfr. Ibid.

26

Per memoria multidirezionale, secondo la definizione fornita direttamente dall’autore, si intende “l’interferenza, la sovrapposizione e la mutua costituzione di memorie collettive apparentemente distinte che definiscono l’era del dopoguerra e il funzionamento della memoria più in generale”, M. Rothberg, Between Auschwitz and Algeria: Multidirectional Memory and the Counterpublic Witness, in “Critical Inquiry” n. 33 2006, p. 162.

27

Cfr. Ibid.

28

Cfr. P. Crowley, op. cit., p. 272.

29

M. Rothberg, op. cit., p. 182.

30

P. Crowley, op. cit., p. 272.

31

W. Benjamin, op. cit., p. 24.

32

F. Fogliato, op. cit., p. 159.

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Zalampas S. O., Adolf Hitler A Psychological Interpretation of His Views on Architecture, Art, and Music, Bowling Green University Popular Press, Bowling Green 1990.

INDICE DEI NOMI

Afkir W., 1, 2 Agamben G., 1 Agier M., 1n Akyıldız Y., 1n Albano L., 1n Althusser L., 1 Amiri L., 1n Amouroux H., 1 Arendt H., 1n Assheuer T., 1n, 2n, 3n, 4n Auteuil D., 1, 2 Bach J. S., 1, 2 Balestrino G., 1n Bassi M. L., 1n Bauman Z., 1n, 2n Bellavita A., 1n, 2n, 3n Beney C., 1 Bénichou M., 1 Benjamin W., 1, 2 Bergman I., 1, 2 Berrini L., 1n Binoche J., 1 Black J., 1 Blair T., 1 Bonola M., 1n Bresson R., 1

Brockmann S., 1, 2 Brooks P., 1 Brunette P., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6 Burris J., 1n Carrère E., 1 Cascaval C., 1 Casetti F., 1n Ceni D., 1n Ceylan N. B., 1 Cieutat M., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n, 7n, 8n, 9n, 10n, 11n, 12n, 13n, 14n, 15n, 16n, 17n, 18n, 19n, 20n, 21n, 22n, 23n, 24n, 25n Clapczynski S., 1 Clinton B., 1 Coletti M., 1n Conan É., 1n Coulthard L., 1n, 2n Crowley P., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n D’Orsi A., 1n Da Vinci L., 1 Dall’Asta M., 1n Darhendorf R., 1 Dawidowicz L., 1n Delanöe B., 1n Di Lella L., 1n Dinoi M., 1n Domizio R., 1 Donohoe J., 1n Dragus M-V., 1 Durham S., 1n Duval D., 1 Elsaesser T., 1, 2, 3, 4n, 5, 6n, 7, 8, 9, 10n Fellini F., 1 Flores M., 1n Focardi F., 1n Foglia G., 1n Fogliato F., 1n, 2n, 3n Forti S., 1n

Francesco Ferdinando d’Austria, 1 Freud S., 1, 2n, Friedrich G., 1 Frisch A., 1, 2, 3, 4, 5, 6 Fukuyama F., 1, 2 Galimberti F., 1n Gerbaz A., 1n, 2n Gheorghiu L., 1 Giering F., 1, 2 Girardot A., 1, 2 Godard J-L., 1, 2 Grabner F., 1n, 2n Graner C., 1 Grundmann R., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n, 7n, 8n, 9n, 10n, 11n, 12n, 13, 14n, 15n Guadagnin A., 1n Guastalla G., 1n Händel G. F., 1, 2, 3n Harbi M., 1n Harduin F., 1 Harmon W., 1n Hayling A., 1 Heisbourg F., 1n Herzog W., 1 Hillberg R., 1n Hitchcock A., 1, 2n, 3 Hitler A., 1, 2, 3 Hobsbawm E. J., 1n, 2n Hollande F., 1n Horwath A., 1n, 2n House J., 1n Huppert I., 1, 2, 3, 4, 5 Jackson M., 1 Jelinek E., 1n Jürgensmeyer M., 1n Kafka F., 1 Kaldor M., 1n

Kassovitz M., 1 Kechiche A., 1 Kershaw I., 1 Kohl H., 1 Kiarostami A., 1 Ki-duk K., 1 Kilb A., 1n Klee P., 1n Lacan J., 1 Laine T., 1n Lane A., 1n Lang F., 1 Laqueur W., 1n Larcher G., 1n, 2n Lawrence M., 1n, 2n, 3n Lepre A., 1n Loiret-Caille F., 1 Lothar S., 1, 2, 3, 4, 5n, 6 Lotti B., 1n Lykidis A., 1n Lynch D., 1, 2 MacMaster N., 1n MacPhail A., 1n Macron E., 1n Magimel B., 1 Maïga A., 1 Makedonsky L., 1 Mancini S., 1n Manghi N., 1n Mascagni P., 1, 2n Matteri M., 1n Mayer A. J., 1n McCann B., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n, 7, 8 McIver J., 1n Mecchia G., 1n Minucci S., 1n, 2n

Monk L., 1n Mozart W. A., 1n, 2 Mühe U., 1, 2, 3, 4, 5, 6 Naked City, 1, 2 Napalm Death, 1n Naqvi F., 1n, 2n, 3n Nolte E., 1n Overy R., 1n Panzieri Saija G., 1n Papon M., 1, 2 Parker R. A. C., 1n Perri A., 1n Pesce O., 1n Pétain P., 1 Peucker B., 1n Piantini M., 1n Preußer H-P., 1n Price B., 1n, 2, 3, 4n, 5n, 6n, 7n, 8n, 9n Prodi R., 1 Proxauf L., 1 Rainò N., 1n Ranchetti G., 1n Reagan R., 1 Rendi G., 1n Revello R., 1n Rhodes J. D., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n Richard N., 1 Ricoeur P., 1n Rogowski F., 1n, 2 Root C., 1n Rossi L., 1, 2, 3, 4, 5n, 6n Rossi P., 1 Roth T., 1 Rothberg M., 1 Rousso H., 1n Rouyer P., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n, 7n, 8n, 9n, 10n, 11n, 12n, 13n, 14n, 15n, 16n, 17n, 18n, 19n, 20n, 21n, 22n, 23n

Rowe C., 1n Roxborough S., 1n, 2n, 3n Rusconi E., 1n Salomon N., 1n Salvadori L., 1n Salvati M., 1n Samarowsky B., 1 Samel U., 1 Schröder G., 1 Sessi F., 1n Sharrett C., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n, 7, 8n, 9, 10n Sorfa D., 1n, 2n, 3n, 4n, 5n, 6n, 7, 8n Spagnoletti G., 1n, 2n Speck O. C., 1n, 2n, 3n, 4, 5, 6, 7n, 8, 9n, 10n, 11n Spinosa A., 1n Stassner I., 1 Stora B., 1n Suire L., 1 Sutherland M., 1n Talu Y., 1n, 2n Thatcher M., 1 Todorov T., 1n Toubiana S., 1n Traverso E., 1n Trifonova T., 1n Trintignant J-L., 1, 2, 3, 4 Vanorio M. L., 1n Viola P., 1n Von Ranke L., 1 Von Trier L., 1 Warhol A., 1 Watts N., 1 Welles O., 1, 2 Wessely C., 1n, 2n Wheatley C., 1n, 2n Whitaker F., 1

Williamson D. G., 1 Winkler A., 1, 2 Zalampas S. O., 1n Zhang-ke J., 1 Zorn J., 1, 2, 3, 4

STORIA E STORIE DEL MONDO CONTEMPORANEO Collana diretta da Andrea Bellavita, Antonio Maria Orecchia, Katia Visconti

1. Antonio M. Orecchia e Damiano G. Preatoni (a cura di), Bufale, Fake News, Rumors e Post-Verità. Discipline a confronto, 2022