Memoria. Dal ricordo alla previsione 8843094254, 9788843094257

La memoria serve a ricordare? La domanda può apparire provocatoria visto che nel linguaggio comune il significato del te

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Memoria. Dal ricordo alla previsione
 8843094254, 9788843094257

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Daniele Gatti

Tomaso Vecchi

Memoria Dal ricordo alla previsione

Carocci editore

ri ristampa, gennaio io io ia edizione, febbraio 1019 © copyright 2019 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

Finito di stampare nel gennaio 2020 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-9425-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione. La memoria serve a ricordare ?

n

Parte prima Memoria: ricordo e dimenticanza

i.

Come funziona la memoria?

29

li.

1.2. 1.3. 1.4. 1.5.

Teorie Ippocampo e aree frontali Consolidamento Neuroimmagine della memoria Memoria in assenza di consapevolezza

30 33 34 39 42

2.

Ricordi accurati e ricordi non accurati

45

2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5.

Distorsioni mnestiche e falsi ricordi Ipertimesia MemoriayZ^A£W£ Sviluppo della memoria Desensibilizzazione e rielaborazione tramite movimen­ ti saccadicì 5$

45 51 52 56

3.

Perché ricordiamo ?

63

7

MEMORIA

Parte seconda Previsione: verso il futuro attraverso il passato

Come funziona la previsione ?

71

Previsione e percezione Evidenze sperimentali

7274

Continua produzione di previsioni

79

Memoria come sistema di previsione Cognizione e teorema di Bayes Rivalità binoculare

79 81 84

6.

Cognizione e previsione

89

6.1. 6.2. 6.3.

Analogie

89 90

4-

4.1. 4.1.

55.1. 5.1. 5-3-

7.1. 7.Z.

Associazioni Previsioni

92.

La previsione nella memoria episodica

95

Sistemi coinvolti

96 96 98

7Ó-

Meccanismi Funzioni

8.

Cognizione e aspetti senso-motori: il caso della Grounded

8.1. 8.2. 8.3.

Cognition

101

Rappresentazioni Memoria Previsione

103 107 ni

8

INDICE

Parte terza Fisiologia e comportamento: dal cervello al cervelletto

Storia e struttura

121

Storia Struttura Neuroni Nuclei intrinseci

121 115 126 128

IO.

Connessioni

129

10.1. IO.2. IO.3.

Via cortico-ponto'cerebellare Via cerebello'talamo'corticale Sistemi celebro-cerebellari

129 131 132

il.

Funzionalità

135

ILI. II.2. II.3. II.4. II.5.

Controllo e apprendimento Percezione Modelli interni Sequenze Rappresentazione del tempo

137 141

9-1. 9.Z. 9.3. 9.4-

Conclusioni. Può esistere una memoria cerebellare ?

Bibliografìa

143 147 149

151

169

9

Introduzione La memoria serve a ricordare ? [...] e questo libro contiene materiale dalle remises del­ la mia memoria e del mio cuore. Anche se la prima è stata manomessa e il secondo non esiste.

Ernest Hemingway

La memoria è stata una delle tematiche maggiormente studiate all’in­ terno della psicologia cognitiva. Le radici di tale interesse si trovano negli insegnamenti platonici e aristotelici e si sviluppano lungo tutta la storia della filosofìa fino a germogliare sotto la lente della psicologia sperimentale tra fine Ottocento e inizio Novecento, per poi declinar­ si parallelamente in vari domini, come la neurobiologia, l’intelligenza artificiale e, più recentemente, le neuroscienze. Numerosi modelli sono stati elaborati per spiegare il funziona­ mento mnestico, alcuni di questi, come quello di Atkinson e Shiffrin (1968) o quello di Baddeley e Hitch (1974), sono entrati nell’immagi­ nario collettivo e hanno contribuito a creare una terminologia estre­ mamente utile sul piano sperimentale e condivisa anche a un livello più popolare. In termini generali, lo studio della memoria si è concentrato sulle modalità del ricordo, comprendendo nello specifico le fasi di acqui­ sizione, mantenimento e rievocazione/richiamo. Ci si trova spesso a riconoscere la necessità di mantenere un’informazione, sia questa un numero di telefono, un volto o un nome. La fase in cui una data in­ formazione incontra i nostri canali sensoriali e, successivamente, entra in qualche modo nel bagaglio mnestico è detta acquisizione. A questa tipicamente ne segue un’altra, nota come mantenimento, che corri­ sponde generalmente all’immagazzinamento di quell’informazione, alla sua ritenzione. La terza fase infine, detta rievocazione, corrisponde all’esperienza più classica che ciascuno ha della propria memoria: l’at­ to di ricordare un episodio o un concetto. Tulving (1985) ha elaborato una definizione del ricordo episodico che ha avuto notevole successo negli ultimi anni; in particolare, lo psicologo canadese ha sostenuto che questo consista essenzialmente in un viaggio nel tempo mentale.

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MEMORIA

Tale definizione racchiude con successo le caratteristiche della me­ moria episodica: la sensazione di familiarità che accompagna la rie­ vocazione e l’aspetto temporale legato all’evento in cui è incontrata quell’ informazione. Lo studio della memoria pone anche interrogativi di carattere me­ todologico: mentre sono distintamente identificabili i momenti in cui si incontrano nuove informazioni e quelli in cui le si rievoca, tutto ciò che accade durante il loro immagazzinamento non è direttamente in­ dagabile. Una persona, infatti, può leggere un libro e poi, nei mesi se­ guenti, ricordare determinate scene - identificando chiaramente le fasi di acquisizione e rievocazione -, ma i processi cerebrali che sono avve­ nuti nel frattempo, così come le motivazioni psicologiche che hanno portato al ricordo di determinati elementi rispetto ad altri o le distor­ sioni che questi hanno subito non sono soggettivamente conoscibili. Nonostante non sia direttamente osservabile, però, il processo di mantenimento è centrale nella memoria, perché ciò che avviene in tale fase può indicare con chiarezza quale sia la sua funzionalità principale. Affidandoci meramente a evidenze di carattere esperienziale, possia­ mo anche affermare che il ricordo di informazioni incontrate durante la propria vita è esso stesso la funzione che caratterizza la memoria: la memoria serve a ricordare. I numerosi lavori che hanno esplorato il tema l’hanno fatto proprio alla luce dei suoi evidenti legami con il passato, producendo un insie­ me di conoscenze decisamente vasto in materia di quantità di elementi che vengono mantenuti, durata, interferenze nel ricordo e altre varia­ bili collegate (per una rassegna, cfr. Loftus, 2005; Squire, Dede, 2015; Squire, Wixted, 2011; Winocur, Moscovitch, 2011). Il vocabolario Treccani definisce la memoria come: «la capacità, comune a molti organismi, di conservare traccia più o meno completa e duratura degli stimoli esterni sperimentati e delle relative risposte» (http://www.treccani.it/vocabolario/memoria/). Una definizione si­ mile si trova sull’uà * Dictionary ofPsychology > secondo cui la memoria sarebbe «the ability to retain information or a representation of past experience, based on the mental processes of learning or encoding» («L’abilità di ritenere informazioni o rappresentazioni dell’esperienza passata, basata su processi di apprendimento o codifica», VandenBos, 2015, p. 636; trad, nostra). Queste definizioni di memoria sono coerenti e corrette se inqua­ drate all’interno dei filoni di ricerca maggiormente approfonditi in

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INTRODUZIONE, LA MEMORIA SERVE A RICORDARE?

letteratura. Corrispondono, inoltre, alla sensazione soggettiva che tut­ ti noi abbiamo circa la capacità di ritenere le informazioni nel tempo, siano esse precise, come ricordi di eventi o episodi della nostra vita, o invece ricordi meno accessibili, ma altrettanto numerosi e verificabili, come il concetto di sedia, la capacità di riconoscerla o il significato del­ la parola “sedia” nella nostra lingua madre. Il postulato per cui la memoria serve a ricordare, che oggi appare scontato, non ha costituito fin da subito la posizione dominante al? in­ terno del pensiero occidentale. Prima della comparsa di una teorizza­ zione chiaramente orientata riguardo alla temporalità della memoria sono state effettuate varie analisi ~ aperte a numerose interpretazioni anche in chiave contemporanea, talvolta confuse e mistificate - ricono­ scibili, ad esempio, nelle trattazioni di Platone in materia di anamnesi come riscoperta del proprio intelletto, o in quelle di Esiodo, secondo il quale la memoria consentirebbe all’individuo di sganciarsi da una forma temporale oggettiva e spostarsi mentalmente. E stato durante l’epoca ellenistica, in particolare con Aristotele, che si è sostenuto con forza che la memoria riguardi in maniera specifica il passato. La conseguenza più ovvia, una volta riconosciuto questo assunto di base, è stata la ricerca di tecniche che aiutassero a ricordare un numero maggiore di elementi, ovvero lo studio dell’arte di imparare a memoria tipico della ripresa rinascimentale di conoscenze latine, soprattutto le­ gato all’interesse per le opere di Cicerone (per una rassegna, cfr. Yates, 1966). In fase embrionale però erano già noti alcuni concetti che sono stati approfonditi solo in fase con temporanea, come l’interazione con il sonno e la trasformazione che esso sottende, con le parole dell’oratore Quintiliano: «E un fatto curioso [...] che l’intervallo di una notte au­ menti significativamente la forza della memoria. [...] la potenza del ricor­ do [,..] sottende un processo di maturazione che dura per tutto il tempo in cui quello intercorre» (Quintiliano, Institutio oratoria XI, 2, 43; trad, nostra). Cicerone, nel De oratore, ha fatto risalire la nascita delle mnemo­ tecniche a Simonide di Ceo, poeta greco vissuto tra il vi e il v secolo a.C. Durante un banchetto imbandito dal re della Tessaglia, Simonide decantò un poema per il padrone di casa includendo nella narrazione un passaggio lirico dedicato ai Dioscuri, Castore e Polluce. Una volta terminato il canto, il padrone di casa si rifiutò di pagare a Simonide l’intera somma pattuita, intimandogli di rivolgersi proprio ai Dioscuri per ottenere la parte restante, in quanto a loro aveva dedicato alcuni

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MEMORIA

passaggi del poema. Poco dopo, durante il banchetto, a Simonide ven­ ne chiesto di uscire dalla stanza perché due gemelli avevano chiesto insistentemente di lui, ma quando uscì non trovò nessuno ad attender­ lo. Mentre Simonide si trovava fuori, però, il tetto della stanza in cui si teneva il banchetto cedette provocando la morte di tutti i presenti. I corpi dei defunti erano talmente straziati che i familiari non furono in grado di identificarli, fu Simonide a indicare la loro identità in base a dove erano seduti durante il banchetto. L’espediente utilizzato da Simonide nella rievocazione oggi prende il nome di tecnica, dei loci e consiste nell’associazione tra lo stimolo da ricordare e un luogo estre­ mamente familiare alla persona che lo utilizza. La fase successiva e notevolmente estesa, legata a una concezione della memoria come sistema di ritenzione, è proseguita in età medie­ vale e moderna con la proposta di concetti dalla spiccata connotazione contemporanea, come il fatto che il ricordo possieda una natura fisica e consista in tracce cerebrali da parte di Cartesio o la presenza di una sua componente cognitiva rappresentazionale in Hegel. Dall’Ottocento in poi, la strada della memoria ha seguito nume­ rosi percorsi differenti, ma non per forza mutualmente esclusivi: da una parte, Herbart ha orientato il suo studio su come gli individui esperiscono il ricordo e il ricordare, tralasciando quindi le dinamiche cerebrali; da un’altra, con Ebbinghaus, ha avuto inizio lo studio siste­ matico e quantitativo della memoria; e da un’altra ancora, con Watson, si è sostenuta la necessità di studiare la memoria in maniera rigorosa e scientifica alla luce delle sue basi neurofisiologiche. Proprio come molte componenti delle scienze cognitive, anche la memoria è passata attraverso rivoluzioni concettuali che hanno ri­ guardato alcune sue caratteristiche. I comportamentisti, ad esempio, negando la possibilità di indagare con efficacia le componenti cogni­ tive della mente - denominata metaforicamente black box -, hanno trattato l’apprendimento come la probabilità di comparsa di un certo comportamento dato un determinato antecedente. Successivamente, con le rivoluzioni cognitiviste e connessioniste e il relativo fiorire di modelli e reti neurali, la memoria ha assunto il rilievo scientifico che tuttora detiene. Nonostante i salti concettuali che ne hanno modifica­ to la concezione, però, la sua caratteristica fondante, ovvero la qualifica di sistema orientato al passato, non è mai stata messa in discussione. Nella seconda metà del Novecento, inoltre, si è assistito alla costru­ zione di numerosi modelli cognitivi relativi al funzionamento mnesti-

i4

INTRODUZIONE. LA MEMORIA SERVE A RICORDARE ?

co e, parallelamente, grazie allo studio di casi clinici come quello del paziente HM (Scoville, Milner, 1957) sono state integrate le evidenze sperimentali con quelle neuropsicologiche in un quadro unitario. I ter' mini che compongono il linguaggio scientifico in materia di memoria risalgono proprio a quel periodo. Atkinson e Shiffrin (1968), ad esem­ pio, hanno teorizzato resistenza di tre sottosistemi di elaborazione mnestica definiti in base all’aspetto temporale: un registro sensoriale, una memoria a breve termine e una memoria a lungo termine. Rela­ tivamente a quest’ultima, Tulving (1972) ha elaborato il termine me­ moria episodica distinguendola dalla memoria semantica teorizzata da Collins e Quillian (1969). Esistono differenze fenomenologiche molto importanti associate alla rievocazione di ricordi episodici e semantici: un richiamo dei primi è generalmente associato a una sensazione di consapevolezza circa l’atto di rivivere un frammento del passato; gli altri, al contrario, sono legati a forme di conoscenza generali, schemati­ che e collocate cognitivamente nel presente (Wheeler, Stuss, Tulving, 1997), come i comportamenti da tenere in un ristorante o il nome del presidente della Repubblica. Esiste poi una forma di memoria che Baddeley e Hitch (1974; ma cfr. anche Baddeley, 1986; 2000; 2007) hanno definito come memoria di lavoro, riprendendo alcuni aspetti della memoria a breve termine, che è contraddistinta da aspetti di rievocazione spiccatamente senso­ riali e da specifiche caratteristiche di elaborazione. In particolare, que­ sta ha a che fare con una forma di elaborazione e ritenzione di un certo numero di informazioni per un periodo limitato di tempo. A prescin­ dere dalla natura delle informazioni che vengono elaborate, queste possono subire due destini opposti: da una parte ce la possibilità di in­ tegrazione con i ricordi che già si possiedono, modulata da una serie di variabili, come la profondità di codifica (cfr. Cornoldi, Vecchi, 2003; Craik, Lockhart, 1972), in cui è centrale l’aspetto di trasformazione e aggiornamento della semantica esistente (Fernandez, Boccia, Pedreira, 2016); mentre dall’altra c’è l’oblio, che in genere avviene in maniera estremamente rapida. Il passaggio da memoria a breve termine/di lavo­ ro a memoria a lungo termine, così come la durata del mantenimento, è legato alle necessità del compito in oggetto: ricordo la banconota che ho consegnato al commerciante finché non verifico la correttezza del resto; memorizzo la posizione della mia auto nel parcheggio fino al mattino successivo, o fino al mio ritorno in aeroporto, poi l’informa­ zione decade definitivamente perché non è più necessaria.

MEMORIA

Ulteriori teorizzazioni (Cohen, Squire, 1980) hanno sostenuto l’esistenza di due categorie di memoria a lungo termine, differenziate dalla capacità di verbalizzazione del contenuto e dalla consapevolezza del materiale: sono state infatti definite come memoria dichiarativa (o esplicita) e non dichiarativa (o implicita) (Squire, 2004). La prima comprende quei sottosistemi analizzati da Tulving (1972) e da Collins e Quillian (1969) di memoria episodica e semantica, mentre la seconda ha a che fare con le abitudini e le abilità svolte in maniera altamente automatizzata e procedurale: la differenza consisterebbe dunque nella distinzione tra “sapere che” e “sapere come” Individui affetti da amnesia, poi, tendono generalmente a manife­ stare difficoltà ad acquisire memorie episodiche e conoscenze semanti­ che, ma esistono alcune situazioni in cui è possibile per questi individui apprendere nuovo materiale; per tale motivo si distingue la memoria dichiarativa da quella non dichiarativa. Un esempio di questa capacità è legato al condizionamento classico: se a uno stimolo sensoriale ne viene fatto seguire un altro (un suono e subito dopo un soffio d’aria nell’occhio), anche gli individui amnesici impareranno ad anticipare il secondo stimolo (Weiskrantz, Warrington, 1979). Un altro fenomeno che riesce a garantire una certa forma di ricordo anche in individui am­ nesici è A priming, il processo tramite cui la presentazione di un item influenza l’elaborazione di un item successivo facilitandola {priming positivo) o ostacolandola {priming negativo) (Warrington, Weiskrantz, 1968). Allo stato attuale in letteratura si trova un numero sterminato di lavori che hanno approfondito la memoria praticamente in ogni di­ rezione e numerosi vengono pubblicati ogni anno al fine di indaga­ re il tema (per una rassegna, cfr. Baddeley, Eysenck, Anderson, 2014; Axmacher, Rasch, 2017), analizzando componenti sempre più ristrette e specifiche. Il futuro della memoria appare dunque chiaro. O forse no? Il parallelismo mente-computer, che nella seconda metà nel No­ vecento ha riscosso notevole successo, ha invece paradossalmente consentito di comprendere meglio come non funziona la cognizione umana. L’attenzione va di nuovo orientata alla fase di mantenimen­ to citata precedentemente: la memoria dei computer, al contrario di quella umana (cfr. PAR. 2.1; Loftus, 200$; 2013), è un sistema di imma­ gazzinamento estremamente accurato, non risente di trasformazioni,

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INTRODUZIONE. LA MEMORIA SERVE A RICORDARE?

distorsioni o altre modificazioni che potrebbero comprometterne in qualche modo il funzionamento. E noto che negli esseri umani la ritenzione di un’informazione è soggetta a errori di fondo legati agli schemi concettuali di riferimen­ to che ciascuno possiede, ma anche che l’evoluzione del ricordo, nei giorni in cui intercorre, sottintende una sua trasformazione seman­ tica (cfr. par. 1.3). Nella vita di ognuno questa trasformazione è solo parzialmente individuabile, ma è ciò che consente la formazione di conoscenza slegata dalle contingenze contestuali avvenute durante l’acquisizione. Se penso al momento in cui mi hanno insegnato che Roma è la capitale dell’Italia e anche i dettagli legati a quell’evento, ne possiedo un ricordo episodico; invece, se so semplicemente che Roma è la capitale dell’Italia, il ricordo è di natura differente, si è trasformato e mantiene solo le informazioni strettamente necessarie, è semantico. Rivolgendosi alla propria memoria si noterà come solo una piccola parte dei ricordi conservi caratteristiche episodiche e che la maggior parte, invece, sia di natura semantica. Nonostante il termine usato per questa trasformazione sia conso­ lidamento, una parola che sottintende una forma di stabilità, l’imma­ gazzinamento è frequentemente prono a distorsioni ed errori. Anche questa componente è spesso difficile da riconoscere sul piano soggetti­ vo: può capitare a volte di discutere con un amico o con un parente su “come sono andate effettivamente le cose” e trovarsi a sostenere posi­ zioni anche notevolmente differenti da quelle del proprio interlocuto­ re, senza però possedere i mezzi per stabilire chi dei due ha ragione, né se qualcuno ha effettivamente ragione. Al contrario, la ricerca scienti­ fica ha prodotto strumenti, come il paradigma drm (cfr. par. 2..1), che consentono di indurre nei partecipanti distorsioni mnestiche evidenti. La facilità con cui è possibile indurre distorsioni e falsi ricordi costi­ tuisce un’anomalia per il paradigma corrente, che vede esclusivamente la memoria come un sistema di ritenzione, perché non si vedrebbe a livello adattivo il senso di un sistema che funziona così male. Dall’altro lato, esiste una sindrome mnestica, nota come ipertimesia, che rende gli individui che ne sono affetti sostanzialmente incapaci di dimenticare i dettagli episodici dei propri ricordi. Tipicamente, chi ne è affetto tende a ricordare con straordinaria accuratezza ogni singo­ lo giorno della propria vita, ma, lungi dal costituire un vantaggio adat­ tivo, questi mostrano difficoltà piuttosto elevate nell’esercizio delle proprie attività quotidiane (cfr. par. z.z; Luria, 1968; McGaugh, 2.006;

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MEMORIA

Parker, Cahill, Price, Davis, 2008). Esistono poi anche altre condizioni non adattive o chiaramente maladattive, come i ricordi flashbulb - i ricordi legati a eventi come l’attacco terroristico dell’ 11 settembre e quelli traumatici (cfr PARR. 2.3 e 2.5; Brown, Kulik, 1977; Shapiro, 2007; Solomon, Shapiro, 2008; Talarico, Rubin, 2007; van der Kolk, Fisler, 1995) che, allo stesso modo, mostrano livelli di accuratezza note volmen te al di sopra dell’ordinario. Dunque, se un ricordo particolarmente accurato costituisce una condizione non adattiva e, al contrario, in condizioni ordinarie gli individui tendono a effettuare distorsioni anche piuttosto importanti (Schacter, Guerin, St. Jacques, 2011; Zhu et aL> 2010), si può sostene­ re che le trasformazioni mnestiche non costituiscono semplicemente i limiti biologici del cervello, quanto la caratteristica principale di un sistema la cui finalità non è ritenere informazioni (cfr. CAP. 3). Di particolare interesse sono appunto tutti quei casi in cui, per un motivo o per un altro, il ricordo conserva traccia di quei dettagli che generalmente sono soggetti a oblio. Con le dovute precauzioni, si può affermare che i ricordi flashbulb (Brown, Kulik, 1977) e quelli trau­ matici (van der Kolk, Fisler, 1995) siano qualitativamente differenti da quelli ordinari, in quanto conseguenze di eventi eccezionali (nella sua connotazione neutra di “non ordinari”) o particolarmente stressanti. In quei ricordi generalmente si manifesta un livello di accuratezza par­ ticolarmente elevato (Berntsen, Thomsen, 2005; Yarmey, Bull, 1978). Dunque, il fatto che una ritenzione accurata è possibile - il sistema riesce a farlo - ma anche conseguenza di condizioni non ordinarie, mediate dal ruolo dell’emotività, in particolare dalla sorpresa, costituisce un’ul­ teriore voce a supporto di una riconcettualizzazione della memoria. La direzione di questa riconcettualizzazione deve necessariamente svol­ gersi nel senso opposto rispetto al paradigma corrente e dunque essere tesa a indagare i legami che la memoria mantiene con la programma­ zione del comportamento futuro, in una parola: previsione. In letteratura esistono numerosi approcci che hanno affrontato il collegamento tra memoria e previsione da molteplici punti di vista, tra i principali: Memory as a Prediction Framework (Hawkins, Blakeslee, 2004), Bayesian Brain Hypothesis (Doya, 2007; Knill, Pouget, 2004), Proactive Brain (Bar, 2007; 2009) e Constructive Episodic Simulation Hypothesis (Schacter, Addis, 2007; 2011); ciascuno di questi verrà trat­ tato nella Parte seconda dedicata alla previsione (cfr. cape 4-7). Inoltre, una riconcettualizzazione sistematica della cognizione uma­

18

INTRODUZIONE. LA MEMORIA SERVE A RICORDARE?

na parzialmente in linea con queste premesse è stata fornita da quegli approcci che ricadono sotto il termine Grounded Cognition (cfr. CAP. 8; Barsalou, 2008; Dove, 2011; Glenberg, Kaschak, 2002; Glenberg et al., 2008; Pezzulo, Castelfranchi, 2007; 2010) e che hanno sostenuto la necessità di un’integrazione parziale o totale delle componenti percettive, sensoriali e motorie nella costruzione del significato (per una rassegna, cfr. Gibbs, 2006; Wilson, 2002). Questi sono dunque i temi principali del presente lavoro, la cui fi' nalità è illustrare alcune evidenze che, se poste all’interno di un quadro coerente, possono mettere in discussione i fondamenti del paradigma predominante di memoria come sistema di ritenzione. Per fare ciò è necessario un percorso ordinato attraverso una serie di temi cardine: le funzionalità del sistema-memoria, la trasformazione e il consolida­ mento del ricordo, le distorsioni mnestiche e i falsi ricordi, i casi di memoria eccezionalmente accurata, le caratteristiche cognitive della previsione e i costrutti che sono stati elaborati in merito. Nella Parte terza verranno anche approfonditi i correlati neurali della previsione e, in particolare, si rivolgerà l’attenzione su una struttura specifica - il cervelletto - che negli ultimi anni ha attirato su di sé notevole inte­ resse (per una rassegna, cfr. Adamaszek et al., 2016; Baumann et al., 201$; D’Angelo, Casali, 2012; Koziol et al., 2014; Manto et al., 2012; Marién et al., 2014) e che può consentire di operare alcune riflessioni in materia. Il sottotitolo stesso di questo libro comunica quale sia la finalità principale della presente trattazione, ovvero rispondere negativamente alla domanda: la memoria serve a rircordare? e ribaltare il punto di vista, affrontando il tema alla luce di un assunto di base differente: la memoria serve a prevedere.

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Parte prima Memoria: ricordo e dimenticanza

La domanda “perché ricordiamo?” è di fondamentale importanza quando ci si approccia a un tema complesso ed estremamente vasto come la memoria; inoltre, la risposta che viene fornita va automaticamente a strutturare tutto ciò che da essa dipende, ovvero la maggior parte della cognizione. Nonostante la percezione soggettiva sia legata a un elevato livello di accuratezza per tutti quelli che sono i propri ricordi - quantome­ no quelli episodici -, numerosi studi hanno riportato che nella mag­ gior parte dei casi questi subiscono trasformazioni, distorsioni e che è possibile addirittura possedere ricordi di eventi mai accaduti (per una trattazione approfondita, cfr. Brown, Campbell, 2010). La presenza di queste distorsioni costituisce, appunto, un'anomalia per il paradigma classico, che vede la memoria come un sistema di ritenzione di infor­ mazioni e ha portato numerosi autori a interrogarsi alla ricerca di una possibile integrazione di questo aspetto all’interno di un quadro teo­ rico coerente e unitario. In particolare, la discussione si è concentrata - e si concentra tuttora - sulla possibilità di considerare tali distorsioni come il risultato di un processo adattivo o se, al contrario, riflettano componenti maladattive (Newman, Lindsay, 2009; Schacter, 2012a; Schacter, Guerin, St. Jacques, 2011). Schacter (2001) ha classificato i malfunzionamenti della memoria dividendoli in sette categorie. Le prime tre hanno a che fare con lomissione, quindi implicano la mancanza di ricordo, e consistono in: transience, l’indebolimento o la perdita di ricordi dovuti al passare del tempo; absent-mindedness, mancanza di ricordo dovuta a un carico eccessivo di risorse attentive dislocato altrove; e blocking, incapacità momentanea di ricordare un evento o un concetto. Le altre quattro, al contrario, hanno a che fare con ricordi non corretti o non voluti, e

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MEMORIA

si dividono in: misattribution, errore nell’attribuzione della fonte di un ricordo; suggestibility, modifica del ricordo dovuta a contatti con altre fonti (cfr. par. 2.1) o domande mal poste; bias, influenza delle prece­ denti conoscenze semantiche nella rievocazione del ricordo (cfr. parr. i.i e 1.3); e persistence, ricordi intrusivi che non si riesce a dimenticare e che possono portare a problematiche di tipo psichiatrico (cfr. par. 2.5). Come sostenuto ancora da Schacter (zona), nonostante siano state riportate alcune evidenze circa un possibile collegamento tra propen­ sione alla distorsione mnestica e scarso livello intellettivo o sintomato­ logia post-traumatica (Goodman et al., 2014; Zhu et al., 2010), ne esi­ stono altre a favore dell’ipotesi contraria. Sembrerebbe, infatti, che la tendenza a effettuare distorsioni mnestiche quali misattribution, sug­ gestibility e bias sia il risultato di un funzionamento cerebrale normale legato al continuo aggiornamento delle tracce mnestiche; individui con lesioni mediotemporali e conseguenti quadri amnesici riportano in misura minore queste distorsioni rispetto a quelli sani (Koutstaal, Verfaellie, Schacter, 2001; Verfaellie, Schacter, Cook, 2002). Paralle­ lamente è stato mostrato che questa tendenza è legata, in fase di codi­ fica, all’attività dell’area prefrontale ventromediale (Garoff, Slotnick, Schacter, 2005; Kim, Cabeza, 2006; Kubota et al., 2006), quest’ultima area è stata coilegata anche alla codifica semantica del nuovo materiale (cfr. parr. 1.2 e 1.3) e ha portato all’ipotesi che la codifica semantica, che ha finalità altamente adattive, possa contribuire a provocare le di­ storsioni mnestiche in oggetto (Schacter, Guerin, St. Jacques, 2011). L’esistenza di un sistema comune legato alla codifica di ricordi rea­ li e all’errore nell’incorporazione di informazioni (Baym, Gonsalves, 2010; Okado, Stark, 2005) porterebbe alla conclusione che il misin­ formation effect (cfr. par. 2.1) sia in realtà la conseguenza estrema della tendenza mnestica ad aggiornarsi continuamente per garantire un mi­ gliore adattamento (Edelson et al., 2011; Schacter, Guerin, St. Jacques, 2011). Schacter e Addis (2007) hanno inoltre avanzato la Constructive Episodic Simulation Hypothesis, secondo cui la flessibilità della memo­ ria episodica consentirebbe di simulare eventi futuri effettuando ope­ razioni sulle esperienze passate. Evidenze in tal senso provengono da lavori che hanno mostrato una sostanziale sovrapposizione tra le aree implicate nella rievocazione di ricordi episodici e quelle implicate nella simulazione esplicita di esperienze future, in accordo anche con quan­ to ipotizzato da Ingvar (1979, p. 21) sulla costante occupazione cogni-

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PARTE PRIMA. MEMORIA

riva tesa a ipotizzare eventi futuri; tale sistema è composto da corteccia prefrontale mediale, frontopolare, prefrontale laterale, ippocampo, giro paraippocampale, corteccia temporale anteriore e laterale, giro fusiforme, corteccia parietale e cervelletto (Addis, Wong, Schacter, 2007; Addis et al., 2009; Thakral, Benoit, Schacter, 2017; per una ras­ segna, cfr. Schacter et al., 2012). In questo senso, la sovrapposizione dei due sistemi di rievocazio­ ne mnestica e simulazione predittiva rappresenterebbe la causa delle distorsioni e dei falsi ricordi: pur di garantire un buon adattamento all’ambiente, dato dall’elaborazione predittiva, il sistema cognitivo accetterebbe di subire alcune distorsioni a determinate condizioni (Newman, Lindsay, 2009). Gilbert e Wilson (2009, p. 1335) hanno sostenuto che le finalità del­ la memoria siano da ricercarsi nel costrutto della previsione; secondo gli autori, infatti, gli organismi possiedono ricordi del passato al solo scopo di prevedere il futuro. In particolare, questo collegamento è evi­ dente nell’ambito dell’apprendimento associativo: saper riconoscere l’antecedente di un evento dannoso consente di prevederlo ed evitarlo, a patto di averlo sperimentato prima. Siccome però le possibilità esperienziali sono limitate o comunque parziali, gli esseri umani avrebbero sviluppato le funzionalità mnestiche al fine di mantenere traccia di de­ terminati eventi e tramite quelli effettuare simulazioni di eventi futuri per inferirne possibili conseguenze (Gilbert, Wilson, 2007). Anche la simulazione di eventi futuri risentirebbe di distorsioni adattive: ten­ derebbe, ad esempio, a omettere dettagli contestuali basandosi su me­ morie semantiche (Kahneman et al., 2006; Schkade, Kahneman, 1998; Wilson et al., 2000) e a sovrastimare determinati aspetti rilevanti a dispetto di una visione più generale e oggettiva (Gilbert et al., 1998; Menzel et al., 2002; Riis et al., 2005; Ubel, Loewenstein, Jepson, 2003). Queste distorsioni renderebbero più economico il processo e consen­ tirebbero di direzionare le energie cognitive con maggiore efficienza. Allo stesso modo anche Klein (2013, p. 223) ha ribadito la necessità di rie once ttualizzare la memoria orientandola verso il futuro. In parti­ colare, da una prospettiva evolutiva, Klein ha sostenuto che la funzione della memoria consista nel permettere agli organismi di affrontare gli eventi della vita così come si presentano, piuttosto che di rievocare epi­ sodi appartenenti al passato. E innegabile che alcune componenti mnestiche debbano dipende­ re dall’esperienza di determinati eventi passati, ma questa dipendenza

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non garantisce logicamente che la memoria, sia in fase di rievocazione, sia dal punto di vista adattivo, riguardi in maniera specifica il passato. Un errata concettualizzazione delle sue funzioni e delle sue finalità può portare infatti a sostenere che, dipendendo dal passato, riguardi necessariamente il passato. Il contrasto tra fuso dei verbi “dipendere” e “riguardare” è più di un mero fatto grammaticale o semantico; Klein {ibid.} ha utilizzato ri­ spettivamente i termini ofe about, dove il primo indica la provenienza e il secondo la direzione. Da questo punto di vista, la fallacia diventa evidente nel momento in cui si indaga la funzione adattiva della me­ moria analizzandone le capacità di ritenzione. Esiste senza dubbio una forma di immagazzinamento che guida alcune dinamiche mnestiche e che fa espressamente riferimento al passato (conoscere la strada tra casa e lavoro), ma questa va sempre inquadrata in una temporalità futura (serve per andare al lavoro). Definizioni di una memoria costruita in questo modo si trovano, ad esempio, in alcuni lavori del? Ottocento di Bradley (1887), Edridge-Green (1897) o von Feinaigle (1812), che però non sono riusciti a contrastare efficacemente il legame intuitivo e dato quasi per scontato tra memoria e passato. Per ristrutturare ulteriormente questo concetto, può essere utile considerare la memoria come un oggetto e distinguere le sue capa­ cità, ciò che si può fare con quella, dalla sua funzione, Tattivi tà per la quale si è evoluta (Anderson, 1991; Cosmides, Tooby, 1992; Klein, 2007; Klein et al., 2002; Williams, 1966). Il fatto che un oggetto ~ o un sistema - sia capace di eseguire un certo processo, in sostanza, non garantisce che si sia evoluto per metterlo in atto, soprattutto se deter­ minati elementi del suo utilizzo non sono coerenti con la funzione che si suppone svolga (cfr. parr. 1.4,1.5 e 2.1). L’argomento di Klein (2013) è senza dubbio molto forte: il fatto che gli esseri umani siano capaci di ricordare non significa che il ri­ cordo rappresenti la funzione principale della memoria, potrebbe semplicemente essere qualcosa di collaterale al servizio di altre dina­ miche. Questa ristrutturazione del tema va poi inquadrata anche in un’ottica adattiva: è evidente che la memoria costituisca un sistema estremamente evoluto, raffinato dalla selezione naturale, e che esista nella forma attuale perché in qualche modo mette l’organismo nella condizione di adattarsi all’ambiente con maggiore efficacia (Glenberg, 1997; Howe, 2011; Klein et al., 2002; Nairne, 2005; Sherry, Schacter, 1987). Il processo di evoluzione che ha subito nei millenni passati le ha

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consentito di acquisire una certa organizzazione funzionale perché era effettivamente utile sul piano adattivo e dunque ha consentito la so­ pravvivenza e la riproduzione di quegli organismi che la possedevano (Barkow, Cosmides, Tooby, 1992; Howe, 2011; Klein, 2014; Mayr, 2001; Nairne, 2005; Williams, 1966; Sherry, Schacter, 1987). Seguendo que­ sto percorso, possedere una conoscenza precisa di un certo fatto astrat­ ta da ogni altra interazione (quella volta che sono stato attaccato da un orso) non ha biologicamente senso, invece possedere una conoscenza di come si articola un certo stato di cose (come si muove un orso quan­ do vuole attaccare) consente di modulare il proprio comportamento in base alle contingenze del contesto e di cercare di anticipare quello che accadrà al fine di ottenere un vantaggio. Gli effetti del condiziona­ mento classico o del?apprendimento associativo sul comportamento rappresentano gli esempi più semplici di una memoria di questo tipo (Ginsburg, Jablonka, 2007), la cui funzionalità principale sarebbe le­ gata airanticipazione - e dunque alla previsione - piuttosto che alla rievocazione del passato. Uno dei fattori che potrebbe aver influenzato la concezione della memoria è legato all’esperienza soggettiva che si ha del ricordo, soprat­ tutto nella sua componente episodica. Si può pensare - addentrando­ si però nel campo delle illazioni - che la memoria umana sia sempli­ cemente più sofisticata, flessibile ed estesa temporalmente di quella degli altri animali e che si sia sviluppata insieme a quegli elementi di pianificazione e deliberazione che distinguono la nostra specie dalle altre. Quando si pensa soggettivamente alla memoria, infatti, la prima risposta è relativa alla sua componente episodica, che viene esercitata rievocando eventi necessariamente passati, come un viaggio nel tempo mentale (Tulving, 1985). Di contro, se si considera l’orientamento temporale della memo­ ria procedurale, questo appare sostanzialmente ambiguo; il fatto che non sia immediatamente verbalizzabile, rende la memoria procedura­ le in qualche modo sganciata dal passato e difficilmente esprimibile se non tramite un comportamento presente e diretto verso il futuro. Appartengono, infatti, a questa categoria tutte quelle azioni svolte in automatico che hanno ben poco a che fare con il momento in cui sono state apprese, ma servono solo a garantire sul piano motorio un adatta­ mento migliore all’ambiente. Parallelamente, anche la memoria semantica, nel momento in cui viene utilizzata per guidare il comportamento - e quindi prevedere -

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può essere ritenuta rivolta al futuro. Come detto in precedenza, mari' tenere un'informazione astratta da ogni applicazione è un fatto fine a sé stesso, viceversa conoscere il modello di funzionamento di un certo ente o stato di cose - estratto dopo ripetute esposizioni - consente di prevederne il comportamento. In questo senso gli studi pionieristici di Bartlett (1932) in materia di schemi ed estrazione di regolarità statistiche, e i risultati prodotti più recentemente (Dudai, Kami, Born, 2015; Ghosh, Gilboa, 2014; Nadel et al., 2012) pongono interrogativi circa il legame che intercorre tra memoria e temporalità. Inoltre, è stato ripe­ tutamente mostrato come la ritenzione dei ricordi episodici sottenda, nell’arco dei giorni in cui intercorre, una trasformazione radicale del materiale e porti a un immagazzinamento semantico (per una rasse­ gna, cfr. Dudai, Kami, Born, 2015). La memoria episodica cade al di fuori di questa concezione in modo solo apparente: mentre da una parte si può asserire che, viste le distorsioni cui è soggetta (per una rassegna, cfr. Loftus, 2005), il suo esercizio costituisca semplicemente la manifestazione collaterale di un sistema la cui finalità è costruire conoscenza semantica, dall’altra si può nuovamente trattare l’argomento dal punto di vista adattivo. È stato mostrato che memoria episodica e prospezione condividono un substrato neurale comune (Addis, Wong, Schacter, 2007; Addis et al., 2009; Thakral, Benoit, Schacter, 2017), come se, nell’atto di evolversi, Homo sapiens sapiens fosse riuscito a dirottare verso la programmazio­ ne comportamentale a lungo termine anche quel materiale che ritene­ va senza un chiaro aggancio predittivo. Prescindendo dal fondamento adattivo delle distorsioni mnestiche e del ruolo della previsione, Glenberg (1997) ha sostenuto che la me­ moria si sia evoluta al fine di facilitare l’interazione con l’ambiente al servizio della percezione e dell’azione. In particolare, in contesti ecolo­ gici si potrebbe presentare la necessità di discriminare un evento o un oggetto o di riconoscerne uno in particolare. Ciò che consentirebbe di differenziare, e che quindi renderebbe particolare un determinato oggetto, sarebbe la rilevanza personale e soggettiva, ovvero l’insieme di esperienze passate che coinvolgono quell’ente e il soggetto: in una parola, la memoria. In questo senso, la memoria di un oggetto è la me­ moria di una sequenza di possibili azioni e la comprensione è legata all’interazione possibile: la distanza è l’atto necessario ad afferrarlo, il peso la forza necessaria a sollevarlo (o quale si prevede sia l’atto di afferrarlo o la forza necessaria a sollevarlo); inoltre, l’insieme di ricordi

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che coinvolgono un individuo e un oggetto gli consentirebbe di pro­ nunciarsi su un insieme molto vasto di qualità (ad esempio, quella è la tazza in cui ho bevuto il caffè al mattino neirultimo anno -> quella tazza è mia), A supporto di questa forma corporale della memoria vi sono i ri­ sultati di alcuni studi (Cohen, 1981; Saltz, Donnenwerth-Nolan, 1981) che hanno provato che la memoria di un'azione è migliore di quella verbale relativa alla stessa azione. Anche l’atto di rievocare una deter­ minata configurazione o una sequenza di oggetti è sensibile all’utilizzo che viene fatto del corpo in relazione agli stessi oggetti (Bryant, Tversky, Franklin, 1992). In conclusione, che la memoria debba obbligatoriamente relazio­ narsi con quanto accaduto nel passato è in ogni caso dato per scontato, è anche però necessario considerare le sue capacità e il suo funziona­ mento da un punto di vista adattivo. È dunque indispensabile chieder­ si, una volta riconosciuto che si è in grado di ricordare un’informazio­ ne o un evento che è accaduto (qual è la capitale del nostro paese o quel particolare episodio accaduto quella volta che ho visitato Roma con alcuni amici), è qualcosa di veramente utile o è fine a sé stesso? La questione centrale, da un punto di vista parallelo, è che siamo in grado di ritenere a livello dichiarativo molte più informazioni di quan­ te effettivamente servano per sopravvivere in maniera attiva - perché le uniche conoscenze che sono utili esistono in relazione alla program­ mazione di comportamenti futuri - e questo non può che orientare la risposta alla precedente domanda. Questa Parte prima si occuperà proprio di articolare una risposta, inizialmente analizzando le macro-dinamiche cerebrali della memoria, poi appronfondendone alcune componenti cognitive e infine cercan­ do di ristrutturare il concetto per proseguire rivolgendosi al futuro.

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Come funziona la memoria?

Sotto le funzionalità della memoria rientra un ventaglio di abilità che spesso vengono date quasi per scontate. In seguito a disfunzioni di vario genere le persone possono sperimentare difficoltà a ricordare o riconoscere qualunque tipo di ente, sia questo un volto (prosopoagnosia), un oggetto tramite uno o più sensi (agnosia), o semplicemente un insieme di informazioni di carattere semantico o episodico (deficit a livello della memoria dichiarativa episodica o semantica). Allo stesso modo, le persone possono possedere ricordi che non sono del tutto in grado di verbalizzare (memoria procedurale), ricordare eventi mai accaduti (confabulazione e falsi ricordi), ricordarsi di fare qualcosa in futuro (memoria prospettica) o addirittura presentare difficoltà a dimenticare informazioni (ipertimesia). In seguito a trauma cranico, ad esempio, è possibile perdere accesso a una parte dei propri ricordi, in genere immediatamente precedenti al trauma (amnesia retrograda) oppure perdere la capacità di acquisire nuovi ricordi (amnesia anterograda). Nonostante l’apparente demarcazione tra i diversi aspetti, però, è raro che un paziente presenti disturbi a livello di uno solo di quelli sopracitati (Medved, Brockmeier, 2015). Un funzionamento alterato della memoria si presenta anche in di­ sturbi di carattere psichiatrico o neurologico, come depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress o epilessia e come conseguenza di determinati trattamenti medici come radioterapia o chemioterapia. Più di cento anni fa, Burnham (1903) ha sostenuto che esistano due componenti alla base dell’evoluzione temporale del ricordo: una fisiologica, che riguarda le modificazioni a livello neuronaie, e ima psi­ cologica, tramite la quale le nuove esperienze vanno a interagire con strutture cognitive esistenti. Circa mezzo secolo dopo, Scoville e Milner (1957) hanno descritto

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il celebre caso del paziente HM che, a seguito di un’ablazione bilaterale dell’area mediale del lobo temporale (tra cui i tre quarti della forma­ zione ippocampale, il giro paraippocampale e l’amigdala), presentava un quadro di amnesia anterograda completa e una parziale amnesia retrograda, pur conservando totalmente le funzioni intellettive e per­ cettive. In particolare, l’amnesia retrograda riguardava solo i giorni immediatamente precedenti l’operazione; HM conservava infatti me­ morie autobiografiche e semantiche, ma era totalmente incapace di apprenderne di nuove. Secondo Squire (2009), il caso di hm ha consentito di individuare tre principi fondamentali circa il funzionamento mnestico: - la memoria è una funzione cerebrale distinta dalle altre capacità co­ gnitive; - l’area mediale del lobo temporale non è implicata nella memoria di lavoro (hm infatti non presentava prestazioni deficitarie in compiti che misurano questa funzione); - le strutture cerebrali interessate dall’operazione non sono quelle in cui vengono fisicamente immagazzinate le memorie a lungo termine, ma al contrario sono cruciali per l’acquisizione di nuovi ricordi.

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Teorie La conseguenza principale degli studi di Scoville e Milner (1957) è stata l’elaborazione di teorie che integrassero gli aspetti cognitivi e le evidenze neuropsicologiche che erano state prodotte. In letteratura, infatti, sono presenti numerosi lavori di approfondimento circa il ruo­ lo dell’ippocampo all’interno dell’attività mnestica. Secondo la visione tradizionale (Squire, 1992; Squire, Alvarez, 1995; Squire, Zola, 1998), nota come Standard Consolidation Theory (sct), il coinvolgimento ippocampale sarebbe limitato temporalmente: i ri­ cordi sarebbero immagazzinati in questa struttura solo per un breve periodo. Con il passare del tempo e una conseguente riorganizzazione della memoria, questi si consoliderebbero in altre strutture cerebrali, in particolare nella neocorteccia. Le evidenze sperimentali a supporto della SCT fanno riferimento al fatto che pazienti con lesioni ippocampali presentano, oltre ad am­

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I. COME FUNZIONA LA MEMORIA?

nesia anterograda, anche una parziale amnesia retrograda limitata ai ricordi prossimi al trauma (Marslen-Wilson, Teuber, 1975; RempelClower et al., 1996; Squire, Bayley, 2007). In questo senso, quindi, i ricordi più recenti sarebbero immagazzinati presso {’ippocampo e un eventuale trauma a livello di tale struttura li coinvolgerebbe. A seguito del processo di consolidamento, invece, questi verrebbero immagazzi­ nati all’interno di un complesso sistema di aree, generalmente piutto­ sto esteso (per una rassegna, cfr. Binder, Desai, 2011; Garcia-Làzaro et al., 2012). Oltre a quelle provenienti da studi su esseri umani, ulteriori evi­ denze a supporto della SCT provengono da indagini su primati (ZolaMorgan, Squire, 1990) e roditori (Kim, Fanselow, 1992; Squire, 1992; Winocur, 1990). Studi successivi (Corkin, 2002; Nadel, Moscovitch, 1997; Ro­ senbaum et al.) 2000; 2005) hanno mostrato che le memorie che ve­ nivano conservate a seguito di lesioni mediotemporali erano qualitati­ vamente differenti da quelle dei partecipanti sani. I ricordi conservati erano di tipo semantico, mancavano infatti quei dettagli temporali, contestuali e percettivi che consentono a un individuo di riviverli men­ talmente. La presenza di amnesia retrograda per i ricordi immediatamente precedenti il trauma come conseguenza di lesioni ippocampali è un’e­ videnza molto forte a sostegno della SCT, ma da una recente rassegna (Winocur, Moscovitch, 2011) è emerso che questo pattern non era sempre presente nei partecipanti agli studi lesionali in oggetto; in nu­ merosi casi, invece, l’amnesia retrograda si estendeva anche a memorie di eventi occorsi decenni prima del trauma. I ricordi semantici tenderebbero a essere conservati dopo una le­ sione mediotemporale, quelli di natura autobiografica, al contrario, verrebbero coinvolti nel trauma in maniera variabile e a prescindere dal momento di formazione. E stata quindi avanzata l’ipotesi che l’ip­ pocampo non sia strettamente necessario per F immagazzinamento e la rievocazione dei ricordi semantici (Steinvorth, Levine, Corkin, 200$; St-Laurent et al.) 2009). Queste evidenze hanno favorito la comparsa di altre teorie. Trami­ te una di queste, Multiple Trace Theory (mtT; Nadel, Moscovitch, 1997), è stata avanzata l’ipotesi che ogni rievocazione di una memoria episodica ippocampale vada a costituire una nuova traccia che rinforza quel ricordo. Una volta che il ricordo si afferma, le regolarità statistiche

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tra le sue molteplici rappresentazioni verrebbero astratte e concorrerebbero a formare una versione schematica dello stesso, che ne racchiu­ da solo alcuni tratti principali. Questa rappresentazione si consolide­ rebbe quindi semanticamente a livello neocorticale. Moscovitch (2007) e Winocur (Winocur, Moscovitch, 2011) han­ no elaborato successivamente la Trace Transformation Theory (ttt), espandendo la MTT e sostenendo che la versione episodica ippocampale del ricordo e quella semantica neocorticale possano coesistere in individui sani. Queste sarebbero infatti in interazione dinamica e le condizioni al momento della rievocazione influenzerebbero la mani­ festazione di una delle due. A seconda nel livello di dettagli richiesto e dell’utilizzo necessario verrebbe ingaggiata solo quella neocorticale, oppure entrambe. Esistono evidenze a supporto di questa teoria (Sekeres etaL> 2018): negli esseri umani e nei roditori i ricordi episodici recentemente ac­ quisiti e percettivamente molto dettagliati attivano in maniera massic­ cia l’ippocampo; inoltre, il coinvolgimento di questa struttura tende a declinare nel tempo a seguito della perdita di specificità e dettagli contestuali. Successivamente, alla generalizzazione del ricordo corri­ sponde l’attivazione dell’area prefrontale mediale (cfr. parr. 1.2 e 1.3). In accordo con la TTT, fintanto che un ricordo conserva dettagli con­ testuali, l’ippocampo contìnua a essere coinvolto in entrambe le rievo­ cazioni, episodica e semantica. In particolare, è stato anche mostrato che è l’ippocampo destro a essere maggiormente coinvolto nella componente autobiografica ed episodica della rievocazione; quello sinistro, al contrario, appare legato a forme di memoria spaziale (Burgess, Maguire, O’Keefe, 2002; Bur­ gess, O’Keefe, 2003). Sulla base della MTT e della TTT è stata poi elaborata l’ipotesi della trasformazione del ricordo (Wiltgen, Silva, 2007; Wiltgen et al., 2010; Winocur, Moscovitch, Bontempi, 2010; Winocur, Moscovitch, Seke­ res, 2007; Winocur et al., 2009), nella quale viene sostenuto che al con­ solidamento, risultato dal passaggio da rappresentazioni ippocampali a rappresentazioni neocorticali delle memorie, sottostia una perdita di dettagli e caratteristiche contestuali. Il processo di consolidamento quindi implicherebbe una schematizzazione e una trasformazione se­ mantica del ricordo, mentre per quei ricordi che mantengono dettagli contestuali continuerebbero a essere operative le rappresentazioni an­ che a livello ippocampale. Il processo di trasformazione risponderebbe

I. COME FUNZIONA LA MEMORIA?

all'esigenza di possedere ricordi schematici e semantici a cui accedere indipendentemente dalla memoria episodica (Winocur, Moscovitch, 2011). In questo senso, la perdita di dettagli tipica di questa trasforma­ zione appare maladattiva all'interno di un sistema di memoria inteso come archivio di informazioni. Al contrario, la facilità di accesso alla traccia mnestica, l’economicità nell’immagazzinamento e la generalizzabilità del ricordo sul piano semantico rappresentano le caratteristi­ che distintive dei contenuti predittivi del sistema memoria. La trasformazione del ricordo ha inoltre enormi implicazioni sul piano legale e burocratico. La conseguenza più evidente è quella iden­ tificata da Medved e Brockmeier (1015) secondo cui il ricordo con finalità sociali costituisce solo una delle molteplici funzionalità della memoria, nonché la fonte di bias più evidente nel nostro rapportarci con la vita mnestica. Gli stessi termini utilizzati nella trattazione in letteratura: codifica, immagazzinamento, rievocazione, richiamo ecc. risentono di questo errore culturale di considerare la memoria come un archivio.

1.2 Ippocampo e aree frontali Oltre alle funzionalità ippocampali, anche quelle delle aree prefrontali, in particolare della porzione mediale, sono state collegate alla memo­ ria episodica. In un lavoro di Bontempi e colleghi (1999), ad esempio, è stato riportato che l’attività ippocampale durante la rievocazione ten­ de a diminuire con il passare dei giorni e, contemporaneamente, tende ad aumentare quella delle aree prefrontali. Studi successivi effettuati su roditori (Quinn et al., 2008; Takehara, Kawahara, Kirino, 2003) hanno rivelato pattern di deficit mnestici dif­ ferenti a seguito di ablazioni o di lesioni neuro tossiche dell’ippocam­ po o delle aree prefrontali. In particolare, le lesioni ippocampali coin­ volgevano le tracce mnestiche più recenti, mentre le lesioni prefrontali quelle più remote. Parallelamente le prestazioni erano assimilabili alla norma per quanto riguarda il rapporto fra tracce mnestiche remote e lesioni ippocampali, e tracce mnestiche recenti e lesioni prefrontali. È stato proposto che il passaggio da memorie ippocampali a neo­ corticali sia legato a processi di consolidamento che intercorrono du-

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tante il sonno che andrebbero a modificare la struttura cellulare dei neuroni coinvolti (Atherton, Dupret, Mellor, 2015; Diekelmann et al., 2011). Tale processo sembra guidato dall'attività ippocampale (Peyrache et al., 2009); in particolare, per alcune settimane, durante il sonno postcodifìca, Fattività del?area prefrontale mediale diventa selettiva per le tracce mnestiche acquisite (Takehara-Nishiuchi, McNaughton, 2008). Il rapporto tra queste due aree sarebbe però più complesso rispetto a quanto proposto da McClelland, McNaughton e O’Reilly (1995), Que­ sti avevano infatti ipotizzato l’esistenza di due sistemi di memoria, uno basato sull’attività ippocampale e uno sull’attività neocorticale, distinti sulla base dell’elaborazione della traccia a livello temporale. In aggiunta a queste componenti sarebbe centrale anche la relazione tra le cono­ scenze semantiche già esistenti e la formazione di nuovi ricordi (Mc­ Clelland, 2013). Tse e colleghi (2007) hanno mostrato come, nei rodi­ tori, le tracce mnestiche che si basavano su una precedente conoscenza semantica diventavano indipendenti dall’attività ippocampale già dopo 24 ore dalla codifica. A medesimi risultati è giunto più recentemente Sommer (2017) con uno studio longitudinale durato 302 giorni: se le nuove tracce mnestiche possiedono un possibile ancoraggio semantico, il passaggio dall’elaborazione ippocampale a quella prefrontale avviene più velocemente; in aggiunta, la tendenza all’oblio di queste ultime ri­ sulta significativamente inferiore a quelle totalmente nuove. Le aree prefrontali e quelle temporali sembrano dunque interagire durante la formazione di nuove tracce mnestiche, consentendo l’inte­ grazione del nuovo materiale, ove possibile, in complessi semantici già presenti al fine di velocizzarne il consolidamento (Bein, Reggev, Marii, 2014; Liu, Grady, Moscovitch, 2017; van Kesteren et al., 2010; Zeithamova, Dominick, Preston, 2012).

Consolidamento A livello cognitivo, il processo che si è descritto nel precedente para­ grafo è noto come consolidamento e ha a che fare con l’estrazione di regolarità statistiche a livello episodico per trasformarle in strutture semantiche flessibili che possano essere adattate al contesto. Studi su

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esseri umani (Cairney et al,, 2,011; Lewis, Durrant, zon) hanno mo­ strato, ad esempio, che le modificazioni intercorse durante il sonno sottendono nel ricordo una perdita di elementi contestuali a favore del mantenimento di elementi schematici. Studiando la memoria tramite l’approccio ecologico, Bartlett (1931) ha sottoposto ai partecipanti materiale complesso di varia na­ tura (ad esempio, storie popolari di culture differenti) e ha mostrato che il richiamo di questo era sempre più coerente, meno articolato e tendeva maggiormente a uniformarsi con il punto di vista del soggetto piuttosto che con quello della storia vera e propria, come se i parteci­ panti si sforzassero di far rientrare il materiale in schemi di senso già noti. Qui si introduce uno degli elementi cardine della teorizzazione di Bartlett, quello di schema, una rappresentazione strutturata della co­ noscenza, utilizzato dagli individui per dare senso al nuovo materiale e, conseguentemente, immagazzinarlo e rievocarlo. Secondo Bartlett, lo sviluppo di schemi avrebbe una forte matrice socioculturale e di conse­ guenza andrebbe a influenzare finterò sistema mnestico. A supporto di questa tesi concorrono le rievocazioni di storie popolari di culture differenti dalla propria: i partecipanti tendevano a modificare la storia originale adattandola (a tratti distorcendola) ai propri schemi originali e alle proprie aspettative. In uno studio di Sulin e Dooling (1974) è stato corroborato l’as­ sunto di Bartlett secondo cui gli errori sistematici legati all’utilizzo di schemi sono maggiormente evidenti giorni dopo la codifica iniziale del materiale. In particolare, ai partecipanti è stata proposta la stessa storia (“L’uomo indebolì il governo esistente al solo fine di soddisfare le sue ambizioni politiche, divenne un dittatore spietato e incontrolla­ bile e portò alla rovina il suo paese”), ma in alcuni casi il protagonista si chiamava Gerald Martin, in altri Adolf Hitler. A distanza di una set­ timana i partecipanti che avevano sperimentato la seconda condizione tendevano maggiormente a ritenere erroneamente di aver letto la fra­ se: “Odiava particolarmente gli ebrei e dunque li perseguitò” rispetto agli altri. Secondo gli autori, la conoscenza schematica dei partecipanti aveva portato a questa distorsione, che al contrario non si era verificata pochi minuti dopo la presentazione del materiale o nell’altro gruppo sperimentale. Esempi formalmente più accurati di schemi sono stati esposti da Minsky (1975) e da Schank e Abelson (1977) e definiti rispettivamente frame e script, I primi si riferiscono a forme di rappresentazione della

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conoscenza composte da caselle da riempire con opportune informazioni di tipo dichiarativo o procedurale in modo tale da rendere indivi­ duabile un certo tipo di oggetto o di situazione; mentre i secondi con­ sistono in sequenze di azioni che predispongono il comportamento da tenere in determinate situazioni. Quindi il frame “computer” può essere formato da alcune caselle tipo “marca” o “colore” e altre come “se si scarica la batteria allora esegui x”; mentre lo script può riferirsi, ad esempio, a come comportarsi in una determinata situazione, come in un ristorante: entrare, essere condotti al tavolo, ordinare, attendere le portate, consumare il pasto, pagare e uscire. Nel 1977 Rumelhart e Ortony (2017) hanno proposto una defini­ zione di schema che cogliesse le varie caratteristiche, sia dichiarative sia procedurali, delle possibili rappresentazioni della conoscenza. Per gli autori, uno schema è una struttura cognitiva caratterizzata da: - caselle o variabili; - possibilità di strutturazione gerarchica, e quindi di includere o esse­ re incluso in altri schemi; - possibilità di completamento delle caselle con informazioni prove­ nienti da diversi livelli di astrazione. Più recentemente, Ghosh e Gilboa (2014) hanno esposto le carat­ teristiche necessarie perché un costrutto cognitivo come uno schema possa essere definito tale. Esso deve: - avere struttura associativa, ovvero deve essere composto da unità e relazioni tra quelle; - essere basato sull’estrazione di regolarità provenienti da molteplici episodi; - avere flessibilità, abbastanza generale per non essere considerato una definizione, ovvero non deve contenere troppi dettagli degli even­ ti che raggruppa, e deve essere sufficientemente capiente da consentire di accomodare nuove situazioni; - avere adattabilità, possibilità di modificarsi a seconda delle esigenze e dei nuovi eventi. Una rappresentazione della conoscenza basata su schemi presup­ pone che l’immagazzinamento delle nuove informazioni avvenga tramite processi di astrazione, interpretazione e integrazione mediati dalle conoscenze semantiche già presenti (Alba, Hasher, 1983). A sup­ porto di questa ipotesi concorrono numerose evidenze sperimentali legate alla memoria di riconoscimento e al richiamo basato su indizi (Brewer, Treyens, 1981; Loftus, Palmer, 1974; Sachs, 1967) le quali han­

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no provato che i partecipanti tendevano a dimenticare la forma esatta dell’informazione selezionata al fine di astrarne il significato concreto e, come nella fase di integrazione, tendevano a verificarsi distorsioni mnestiche (cfr par. z.i). Più recentemente, Pezzulo e Castelfranchi (2007), per spiegare il problema della formazione di rappresentazioni simboliche anche in assenza di stimoli concreti, hanno proposto che lo sviluppo della co­ gnizione proceda attraverso determinate fasi, ovvero dalla conoscenza delle conseguenze senso-motorie delle proprie azioni fino alla capaci­ tà di attivarle deliberatamente quando si desidera un certo obiettivo complesso. Temi fondanti della trattazione degli autori sono i concetti fonda­ mentali degli Embodied Approaches (Barsalou, 1999; zoo8; Damasio, 1989; Glenberg, 1997), secondo cui le rappresentazioni hanno origi­ ne da interazioni senso-motorie con l’ambiente unitamente all’ela­ borazione di modelli predittivi interni (Clark, Grush, 1999; Gallese, Metzinger, 2003; Grush, 2004). A sostegno di questa ipotesi concor­ rono i risultati di un lavoro (Pezzulo et al., 2010) in cui è stato mostrato che la capacità di costruire simulazioni mentali è modulata dal reper­ torio motorio e dall^^rtóe dell’individuo e quanto questo fatto è centrale in fase di richiamo. La trasformazione del ricordo e la sua conseguente perdita di det­ tagli contestuali avrebbero inoltre caratteristiche altamente adattive, viste le problematiche che insorgono quando questo non accade in ma­ niera sistematica (cfr. PAR. 2.2; Luria, 1968; Parker, Cahill, McGaugh, 2006; Price, Davis, 2008). Venendo poi al rapporto tra strutture cognitive e dinamiche cere­ brali, negli esseri umani, così come nei roditori, lesioni a livello della corteccia prefrontale mediale coinvolgono la memoria episodica, ma le menomazioni conseguenti a tali lesioni si estendono anche a ricordi di natura semantica; ancora non è chiaro se lesioni frontali causino mal­ funzionamenti maggiori a livello episodico oppure semantico (Dalla Barba, La Corte, 201$). Lesioni frontali provocano inoltre uno stato di distorsione mnestica detto confabulazione, in cui gli individui riportano falsi ricordi senza finalità adattive (Hebscher et al., 2016; Moscovitch, 1989; 199s; Nieuwenhuis, Takashima, 2011; Winocur, Moscovitch, 2011). Secon­ do alcuni autori, questo disturbo sarebbe il risultato di schemi cogniti­ vi iperinclusivi o danneggiati, che a loro volta andrebbero a menomare

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MEMORIA

la codifica e la ricerca mnestica, uniti a un ridotto monitoraggio nel richiamo (Ciaramelli, Ghetti, 2007; Moscovitch, Winocur, 2002; Mo­ scovitch et ah, 2016). Negli individui sani l’attività ippocampale tende a declinare circa una settimana dopo l’esperienza dell’episodio (Viskontas et al., 2009), ma ricordi autobiografici remoti che mantengono vividezza a livel­ lo percettivo continuano a essere associati ad alti livelli di attivazio­ ne ippocampale (Addis et al., 2004; Sheldon, Levine, 2013). Questi ricordi sono inoltre associati all’attivazione delle aree prefrontali, in particolare all’area ventromediale, collegando di conseguenza queste ultime all’elaborazione delle memorie episodiche remote (Bonnici et al., 2012). Alcuni studi comportamentali (Bahrick, 1984; Thorndyke, 1977) hanno riportato inoltre che la precisione degli elementi percetti­ vi, contestuali e schematici legati ai ricordi episodici tende a diminuire nel tempo, con un declino più rapido per i primi due. Sekeres e colleghi (2016) hanno indagato tramite risonanza magne­ tica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRi) come il sistema di attivazioni cerebrali si modifichi a seguito del consolida­ mento di ricordi episodici in una settimana, in particolare: - immediatamente dopo la codifica, la rievocazione di ricordi episo­ dici percettivamente dettagliati coinvolgeva fortemente l’ippocampo; - la precisione che accompagna il ricordo di dettagli percettivi tende­ va a declinare nel tempo, si conservavano al contrario elementi centrali riguardo alla storia in oggetto; - la rievocazione di elementi vividi e percettivamente dettagliati coinvolgeva?ippocampo sia al momento della formazione del ricordo, sia dopo sette giorni. L’attività ippocampale dopo sette giorni però era accompagnata anche dalla concomitante attivazione della corteccia prefrontale me­ diale, a sostegno dell’ipotesi secondo cui la memoria diventerebbe un sistema cerebralmente distribuito e alimentato da un ampio ventaglio di aree, e che questo sistema seguiti comunque a essere ippocampodipendente per la rievocazione dei ricordi episodici. Attualmente non è chiaro se le aree prefrontali mediali svolgano un ruolo di supporto o di ridondanza all’interno della memoria episodica. I risultati di Seke­ res e colleghi (ibid} sembrano però fornire supporto all’idea che le due tracce mnestiche (ippocampale e neocorticale) possano coesistere (Sekeres et al., 2018); è stato quindi proposto che queste rappresenta­

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I. COME FUNZIONA LA MEMORIA?

zioni parallele possano interagire tra loro quando intatte e compensar­ si a vicenda quando danneggiate. U coinvolgimento ippocampale nella rievocazione di ricordi detta­ gliati prosegue anche nelle settimane e nei mesi successivi alla codifica, e la sua attivazione è correlata positivamente all’accuratezza nel ricor­ do (Furman, Mendelsohn, Dudai, 2012; Mendelsohn, Furman, Dudai, 2010). Terminato il consolidamento del ricordo, però, questo non è completamente stabile. È infatti soggetto a dinamiche di riconsolida­ mento ogniqualvolta viene rievocata una determinata traccia; questo processo rende i ricordi temporaneamente labili e vulnerabili (Misanin, Miller, Lewis, 1968; Nader, Schafe, Le Doux, 2000; Sara, 2000). Schiller e colleghi (2010) in uno studio comportamentale hanno mostrato che la riattivazione di una risposta maladattiva a uno stimo­ lo (fear-conditioned response} può portare alla perdita della stessa se nell’arco delle 6 ore successive alla riattivazione - ovvero quando il ricordo è labile - viene praticata una procedura di estinzione. Da altri studi è emerso che la riattivazione e il conseguente riconso­ lidamento del ricordo possono indurre modifiche nella traccia origina­ le. Hupbach e colleghi (2008) hanno indagato l’effetto che hanno sul ricordo la riattivazione mnestica di una serie di oggetti e la conseguen­ te presentazione di un’altra serie. Gli autori non hanno riscontrato un peggioramento significativo nella rievocazione degli item originali, quanto la tendenza a incorporare nella serie principale anche item ap­ partenenti a quella nuova, aggiornando di conseguenza la traccia mne­ stica (cfr. par. 2.1 e CAP. 3). Come sostenuto da Dudai, Kami e Born (2015) in una recente ras­ segna, le dinamiche di consolidamento e riconsolidamento sottendo­ no processi cerebrali di modifica e trasformazione del ricordo, nono­ stante il significato letterale punti nella direzione opposta.

Neuroimmagine della memoria La questione successiva che è necessario affrontare è: dove sta la me­ moria? Ovvero, date le dinamiche di trasformazione che intercorrono, dove risiedono i vari sottosistemi, in quali aree cerebrali conserviamo traccia di quanto ci accade e come queste interagiscono tra loro?

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Oltre alle funzionalità dell’ippocampo, dell’area temporale me­ diale e delle aree frontali, che come si è visto rivestono ruoli centrali, sono state collegate all’acquisizione, al mantenimento e al richiamo le attività di numerose altre. Wheeler, Petersen e Buckner (2000) hanno mostrato che in fase di codifica e di richiamo di stimoli visivi o sonori sono attive le stesse aree occipito-temporo-parietali, seppur in fase di richiamo le attivazioni siano meno estese (per una rassegna, cfr. Dan­ ker, Anderson, 2010). In fase di codifica, inoltre, interverrebbero alcune interazioni tra un complesso sistema di aree, in particolare quelle temporali mediali, ventrolaterali frontali e occipitali si attiverebbero maggiormente rispetto alla baseline, mentre quelle parietali si deattiverebbero (Dickerson, Eichenbaum, 2010). Recentemente è stato anche provato che applicando una stimo­ lazione magnetica transcranica (Transcranial Magnetic Stimulation, tms) sulle aree visive si riesce a interferire con le prestazioni in compiti di richiamo mnestico quando il materiale iniziale è stato esperito nel campo visivo controlaterale rispetto alla stimolazione (Waldhauser, Braun, Hanslmayr, 2016); gli autori hanno dunque sostenuto che le funzionalità mnestiche dipendono dalla riattivazione di informazioni sensoriali. Binder e colleghi (2009) hanno revisionato numerosi studi di neu­ roimmagine al fine di analizzare il sistema di aree coinvolto nell’elabo­ razione semantica, riscontrando l’esistenza di un sistema diffuso, no­ tevolmente esteso e con una relativa specificità per l’emisfero sinistro (fig. i). Patterson, Nestor e Rogers (2007) hanno avanzato l’ipotesi secon­ do cui la porzione anteriore del lobo temporale svolgerebbe le funzio­ ni di integratore amodale delle funzionalità semantiche, in aggiunta a quelle compito-specifiche localizzate nelle varie aree circostanti. A sostegno della loro ipotesi concorrerebbero le sedi delle aree cerebrali compromesse in individui affetti da demenza semantica - un disturbo neurodegenerativo che pregiudica la conoscenza concettuale -, che ri­ sultano localizzate nella porzione anteriore del lobo temporale. Parallelamente, dopo una revisione degli studi di neuroimmagine presenti in letteratura, Binder e Desai (2011) hanno sostenuto resi­ stenza di un sistema amodale di elaborazione semantica composto da giro angolare, giro fusiforme, giro frontale inferiore, giro temporale mediale, giro cingolato posteriore, giro frontale superiore, giro sopra-

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I. COME FUNZIONA LA MEMORIA?

FIGURA I

Esempi di aree collegate a forme di memoria semantica

Esistono evidenze sperimentali che collegano Fattività di un complesso sistema di aree a varie forme di elaborazione semantica (per una rassegna, cfr. Binder et al., 2,009): corteccia prefrontale ventromediale (Kuchinke et al, 2005), corteccia pre­ frontale dorsomediale (Robinson, Blair, Cipolotti, 1998), giro angolare (Humphries et al., 2007), cervelletto (Moberget et al., 2014), corteccia temporale (Baumgaertner et al, 2007; Binder et al., 1997) e giro frontale inferiore (Frith et al., 1991).

marginale e corteccia prefrontale ventromediale. Secondo gli autori, resistenza di tale sistema si porrebbe in opposizione alla Grounded Co­ gnition più radicale. Gli autori hanno avanzato un’ipotesi, detta Em­ bodied Abstraction, in cui la rappresentazione concettuale è divisa in più livelli di astrazione: le contingenze del compito che è richiesto di svolgere determinerebbero il livello di astrazione necessario. In conte­ sti familiari o altamente automatizzati, le rappresentazioni semantiche

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più astratte sarebbero sufficienti a svolgere adeguatamente quanto ri­ chiesto; al contrario, in casi di elevata difficoltà, novità o altre variabili contestuali interverrebbero anche le componenti facenti parte dei li­ velli inferiori contraddistinti da una minore astrazione. Un’altra area che è stata ripetutamente collegata all’apprendimento è il cervelletto (Bracha et al., 2000; Jenkins et al., 1994; per una rasse­ gna, cfr. Timmann et al., 2010). Secondo Marr (1969), tale processo si espliciterebbe nella trasformazione di una determinata abilità da controllata in automatica, rendendo quindi la sua messa in atto più efficiente e meno dispendiosa in termini di energie attentive (Shiffrin, Schneider, 1984); mentre secondo Albus (1971), il cervelletto sareb­ be la sede delle componenti motorie della memoria. È stato anche sostenuto che l’automatizzazione delle operazioni cognitive richieda il coinvolgimento cerebellare nelle stesse modalità implicate nell’ap­ prendimento motorio (Koziol et al., 2014), date le evidenze cliniche e neurofìsiologiche disponibili (cfr. par. ili; Bostan, Dum, Strick, 2013; Kelly, Strick, 2003; Schmahmann, Sherman, 1998). Dalle evidenze presentate emerge come non vi sia un quadro chiaro e ben definito in grado di delimitare le aree implicate nei vari sottosi­ stemi. A questo si aggiungono alcune evidenze in materia di memoria in assenza di consapevolezza, che verrà approfondita nel prossimo pa­ ragrafo, che concorrono a complicare l’argomento.

i-5

Memoria in assenza di consapevolezza Il tema della consapevolezza è da sempre al centro della ricerca neuroscientifica; fenomeni come il filling-in o il blindsight hanno portato i ricercatori a domandarsi quale sia il rapporto tra le dinamiche neu­ ronali e il vissuto esperienziale. L’accesso consapevole a determinate informazioni può risultare compromesso anche nel dominio della me­ moria, come nel caso della prosopagnosia. La prosopagnosia è un di­ sturbo legato generalmente ad anormalità congenite o acquisite nell’a­ rea fusiforme dei volti {Fusiform Face Area, ffa) o in quella occipitale dei volti {Occipital Face Area, ofa) (Hadjikhani, De Gelder, 2002; Marotta, Genovese, Behrmann, 2001; Sorger et al., 2007); l’individuo che ne è affetto risulta incapace di riconoscere i volti che gli vengo­

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I. COME FUNZIONA LA MEMORIA ?

no presentati, pur conservando la capacità di discriminarne genere, etnia ed età (Valdés-Sosa et al., 2011). E possibile, inoltre, che appaia compromessa in maniera specifica la capacità di collegare a un volto il nome corrispondente, pur conservando le informazioni semantiche ad essi relate: si tratta di una forma di anomia che colpisce in particolare i nomi propri (Semenza, Zettin, 1988; 1989). La mancanza di accesso consapevole all’informazione tipica della prosopagnosia, però, in numerosi casi non pregiudica il riconoscimen ­ to semantico: si parla infatti di covert recognition o riconoscimento in assenza di consapevolezza. Individui con prosopagnosia mostravano variazioni significative in misure fisiologiche come la conduttanza cutanea o le onde cerebrali P300 quando venivano posti di fronte a volti di parenti o di celebrità rispetto a quelli di persone non familiari (Bauer, 1984; Bobes et al., 2004; Renault et al,, 1989; Tranel, Damasio, 1985). E stato anche mostrato che questi possedevano una preferenza implicita per alcuni volti emotivamente rilevanti, indicando dunque l’accesso a ricordi con valenza personale (Bobes et al., 2004; Tranel, Damasio, 1993). U fenomeno della covert recognition non è presente so­ lamente in individui con prosopognosia acquisita, ma anche in coloro che soffrono di prosopognosia congenita, e che quindi non hanno mai posseduto la capacità di riconoscere i volti dal punto di vista dichiarati­ vo (per una rassegna, cfr. Rivolta, Palermo, Schmalzl, 2013). La capacità di accedere a informazioni di vario genere in assenza di consapevolezza è stata mostrata anche in pazienti affetti da amnesia globale transitoria e sindrome di Balint-Holmes (Denburg, Jones, Tranel, 2009; Mégevand, Landis, 2011). Le questioni sollevate dai risultati dei lavori sulla memoria in as­ senza di consapevolezza riguardano il rapporto tra il sistema esplicito e quello implicito (Dew, Cabeza, 2011; Squire, Dede, 2015). Il fatto che determinate informazioni di carattere episodico o semantico siano co­ munque accessibili, pur dopo una lesione che ne compromette l’elaborazione consapevole, può portare ad avanzare l’ipotesi che i confini tra i due sistemi siano più sottili di quanto si credeva in passato. L’incapacità di accedere a un ricordo consapevole data da lesioni focali ad aree critiche e la contemporanea conservazione di quel ricor­ do, unite al fatto che le numerosissime evidenze in materia di neuroim­ magine della memoria non sono riuscite a produrre risultati sostanzia­ li, portano a sostenere che nel complesso manchi un tassello all’intera

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costruzione o che, viceversa, vi siano alcuni vizi di fondo nell’approc­ cio al tema. Oltre a ciò, il fatto che una lesione focale comprometta l’accesso consapevole a un’informazione, ma non la reazione implicita a quella stessa, supporta la tesi che la ritenzione di informazioni non sia la fi­ nalità principale del sistema mnestico. Ancora una volta, se si cambia direzione e ci si rivolge al futuro, si può notare come la mancanza di accesso al ricordo implichi solo l’incapacità di elaborare dichiarativa­ mente T informazione, mentre la risposta fisiologica - che dal punto di vista adattivo molto spesso è l’unica cosa che conta - è conservata (Bobes et al., 2004; Tranel, Damasio, 1993).

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2

Ricordi accurati e ricordi non accurati

Nel capitolo verranno affrontati sia temi con basi sperimentali molto rilevanti (ad esempio, distorsioni mnestiche e falsi ricordi), sia temi tuttora discussi e controversi (ad esempio, memoriaflashbulb e ruolo dei movimenti oculari nella riabilitazione del disturbo post-traumatico da stress), che in termini generali hanno a che fare con l’accuratezza del ricordo e la sua trasformazione. La finalità principale è quella di esporre alcune evidenze secondo cui in determinate condizioni - ordinarie - gli individui presentano di­ storsioni mnestiche anche piuttosto importanti, mentre in altre - non ordinarie - presentano ricordi eccezionalmente vividi e generalmente accurati. Il fatto stesso che in condizioni ordinarie il ricordo non si con­ figura come qualcosa di stabile, ma che anzi si trasforma in maniera an­ che radicale, e che in condizioni decisamente più rare si mantiene pres­ soché inalterato, senza peraltro costituire un valore adattivo aggiunto, costituisce di per sé un’anomalia piuttosto difficile da integrare in un paradigma classico di memoria come sistema di ritenzione. Oltre a ciò, il fatto che è cognitivamente possibile un ricordo accu­ rato, e che anzi quando presente in maniera estesa e globale (ad esem­ pio, ipertimesia) provoca condizioni estremamente maladattive, sup­ porta una visione della memoria diversa da quella classica.

z.i

Distorsioni mnestiche e falsi ricordi Determinate caratteristiche mnestiche, come l’accuratezza, la trasfor­ mazione e l’oblio, hanno particolare rilevanza anche in contesti che esulano dalla ricerca psicologica in senso stretto: è il caso della testi­

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monianza giuridica. La memoria è ben lungi dall’essere un registratore formalmente corretto e oggettivo, risente infatti di biases e distorsioni che possono intervenire sulla traccia mnestica e provocare modifiche anche radicali (Loftus, 1979; Schacter, 2001), Non di rado questi eventi catturano l’attenzione dell’opinione pubblica perché coivolgono eventi di rilevanza internazionale, come ad esempio il caso Watergate (Neisser, 1981), in cui John Dean, collaboratore del presidente statu­ nitense Nixon, fornì una serie di tesimonianze particolarmente detta­ gliate e vivide dimostratesi poi estremamente distorte tramite il con­ fronto con le registrazioni di quegli stessi eventi. Uno dei primi a occuparsi del rapporto tra memoria e testimonian­ za è stato William Stern, allievo di Ebbinghaus, che ha classificato in un lavoro pubblicato nei primi anni del secolo scorso le domande che possono essere poste a un testimone a seconda del loro grado di effetto suggestivo (Stern, 1902). In particolare, lo psicologo tedesco ha messo in luce che anche solo la forma di una domanda può modificare e di­ storeere significativamente il ricordo di un testimone (per una rasse­ gna in italiano, cfr. Mazzoni, 2003; Vannucci, 2008), Questi temi sono stati ulteriormente approfonditi a partire dagli anni Settanta nei lavori pionieristici di Elizabeth Loftus (1973) sull’in­ formazione fuorviarne e rappresentano tuttora un ambito di ricerca molto attivo e dall’enorme potenziale applicativo (Schacter, Loftus, 2013). Prima di approfondire il tema della creazione di false memorie, va notato che, a prescindere da quel paradigma, la memoria umana è già di per sé prona a una serie di errori di base dovuti a variabili contestuali dell’evento o della rievocazione. Uno dei fattori che influenza l’accura­ tezza del ricordo è, ad esempio, il tempo: la durata di esposizione a un fatto risulta correlata positivamente all’accuratezza (MacLin, MacLin, Malpass, 2001; Memon, Hope, Bull, 2003; Valentine, Pickering, Dar­ ling, zoo3). Gli individui risultano inoltre particolarmente imprecisi quando si tratta di stimare la durata di un evento: tendono a sovrasti­ mare eventi brevi e a sottostimare quelli più lunghi (Loftus et al., 1987; Yarmey, 2000). Anche il coinvolgimento emotivo influenza il ricordo. Tipicamente gli individui tendono a ricordare con vividezza alcuni aspetti centrali dell’evento, come l’arma, a discapito di dettagli periferici o secondari, come addirittura il volto dell’aggressore (Christianson, 1992; Loftus, Loftus, Messo, 1987; Steblay, 1992),

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X. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

Cambiamenti anche parziali delle fattezze dell’aggressore, come Faggiunta di occhiali o un diverso taglio di capelli, possono provocare una diminuzione nelFaccuratezza del riconoscimento (Patterson, Baddeley, 1977; Read, 1995). Parallelamente, aggressori con caratteri­ stiche fìsiche marcate tendono a essere identificati più frequentemente (Read, 1995), proprio come coloro che pronunciano parole che vio­ lano le aspettative dei presenti (Tuckey, Brewer, 2003). Difficoltà nel riconoscimento sono state riportate anche quando tra testimone e aggressore erano presenti differenze di etnia, genere o età (Meissner, Brigham, 2001; Wright, Sladden, 2003). Paradossalmente, anche la rievocazione ripetuta di un evento può indebolire la quantità di dettagli ricordati. Ciò accade perché rinfor­ zando determinate componenti se ne rendono altre sempre meno ac­ cessibili (Shaw, Bjork, Handal, 1995). Recentemente è stato anche mostrato che se una persona mente de­ liberatamente su un determinato fatto, ciò può renderla meno consa­ pevole della menzogna a distanza di sole 28 ore e quindi modificare il suo ricordo (Vieira, Lane, 2013). Venendo poi al tema dei falsi ricordi, negli anni Settanta Eliza­ beth Loftus (1975; 1977; Loftus, Burns, Miller, 1978; Loftus, Palmer, 1974) ha elaborato un paradigma sperimentale, noto come paradigma dell’informazione fuorviante opost-event misinformation effect, un me­ todo per riprodurre in laboratorio una situazione testimoniale e indur­ re in maniera artificiale un falso ricordo nei partecipanti. Il paradigma, tuttora utilizzato, si articola in tre fasi: nella prima si fa vedere ai partecipanti il filmato di un possibile fatto di cronaca, ad esempio, un’auto che, dopo essersi fermata a un segnale di stop, svolta a sinistra e investe un pedone (esempio mutuato da Vannucci, 2008); nella seconda, a una parte dei partecipanti, oltre a una serie di doman­ de comuni anche agli altri, viene postala domanda critica che contiene l’informazione fuorviante: è passata un’altra auto mentre l’auto era ferma al segnale di precedenza?; nella terza, infine, dopo alcuni compi­ ti distrattori, viene chiesto ai partecipanti di eseguire un compito di ri­ conoscimento a scelta forzata. In particolare, quest’ultimo è composto da coppie di diapositive e ai partecipanti è richiesto di scegliere quale delle due è stata mostrata nel filmato. A fronte di un 20-25% di partecipanti del gruppo di controllo che, pur non essendo stati esposti all’informazione fuorviante, fallivano il riconoscimento della diapositiva critica, quelli che appartenevano al

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gruppo sperimentale e riportavano un falso ricordo erano ben il 60%. Questo pattern è stato replicato in centinaia di ricerche successive che hanno confermato tali proporzioni (per una rassegna, cfr. Loftus, 2005). Esistono inoltre evidenze in merito al fatto che anche gli eiementi centrali di un ricordo sono proni a distorsioni e all’insorgenza di falsi ricordi in determinati casi, seppur in maniera minore rispetto agli elementi periferici (Heath, Erickson, 1998). Un altro fattore che ricade all’interno di questo paradigma e che non va ignorato per via della sua alta valenza a livello giuridico è il con­ tatto tra individui che hanno assistito allo stesso evento; in particola­ re, in questo caso, colui che fornisce per primo una testimonianza ha buone probabilità di influenzare quella di un secondo testimone, con ovvie ripercussioni sul piano pratico (Gabbert, Memon, Allan, 2003; Yarmey, Morris, 1998). Proprio come il contatto con altri testimoni, anche quello con dettagli o informazioni non presenti nella versione originale, tramite ad esempio giornali o trasmissioni televisive, può portare il testimone a incorporarli nel proprio ricordo e quindi a mo­ dificare la traccia mnestica (Gerrie, Garry, Loftus, 2005). Estendendo questo paradigma, Chan, Thomas e Bulevich (2009) hanno mostrato che la riattivazione mnestica può indurre modifiche nel ricordo, in particolare l’incorporazione di false memorie anche nei testimoni oculari. Queste dinamiche coinvolgono non solo ricordi recenti, ma anche quelli acquisiti vari giorni prima (Chan, LaPaglia, 2,013). Sempre sul versante episodico, sono stati indotti falsi ricordi di eventi accaduti durante l’infanzia dicendo ai partecipanti di aver sapu­ to di un certo avvenimento dai loro genitori (ad esempio, essersi persi da bambini al supermercato; evento però espressamente smentito dagli stessi genitori) e inducendone la rievocazione tramite apposite tecni­ che e suggestioni (Hyman, Husband, Billings, 1995; Loftus, Pickrell, 1995; Porter, Yuille, Lehman, 1999). La percentuale di partecipanti che tendeva a sviluppare un falso ricordo del fatto si attestava intorno 37% (Wade, Garry, 2005). Alcuni autori (Freyd, 1998) hanno obiettato che i ricordi indotti potevano effettivamente essere plausibili ed essere stati poi oggetto di oblio, e quindi dimenticati, dagli individui e che dunque non si trat­ tava necessariamente di falsificazioni mnestiche. In risposta a queste è stato mostrato che è possibile indurre in una buona percentuale di par­ tecipanti falsi ricordi riferiti a eventi logicamente impossibili (ad esem­

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1. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

pio, ricordo di aver visto Bugs Bunny, un personaggio della Warner Brothers, a Disneyland) o oggettivamente mai accaduti (Braun, Ellis, Loftus, 2002; Mazzoni, Memon, 2003; Thomas, Loftus, zooz; Wade et al.) 2002), Più radicalmente, Seamon, Philbin e Harrison (2006) hanno riportato che, due settimane dopo aver osservato, svolto e ini' maginato determinati compiti, i partecipanti tendevano a ricordare di averne eseguiti anche altri che avevano semplicemente immaginato. Laney e colleghi (zoo8), inoltre, hanno aggirato l’effetto aspetta­ tiva dando indicazioni fuorvianti sullo studio e hanno mostrato che è possibile indurre falsi ricordi anche quando questi non vengono perce­ piti come oggetto della ricerca a cui si sta partecipando. St. Jacques e Schacter (2013) hanno chiesto ai partecipanti di com­ piere il tour di un museo indossando una telecamera che registrava ogni loro movimento. Successivamente, in fase di test, ai partecipan­ ti sono state fatte vedere immagini relative sia al museo visitato, sia a un’altra struttura; le prestazioni mnestiche erano migliori per le imma­ gini riattivate, ma tale riattivazione aveva favorito anche l’insorgenza di false memorie relative a stimoli mai esperiti. Simili risultati sono stati riportati studiando aspetti semantici al posto di quelli episodici. E possibile provocare, ad esempio, l’inclu­ sione mnestica di una determinata parola mai esperita semplicemen­ te chiedendo di ricordarne altre semanticamente collegate, attraverso il paradigma drm (dalle iniziali degli autori che l’hanno introdotto e successivamente modificato: Deese, 1959; Roediger, McDermott, 1995)Anche l’esecuzione di questo paradigma si articola in tre fasi (le prime due sono state elaborate da Deese, 1959; mentre la terza da Roe­ diger e McDermott, 1995): nella prima viene letta ai partecipanti una serie di parole semanticamente relate a una parola critica, che però non è mai pronunciata (porta, vetro, cristallo, veneziana, davanzale, ten­ da... - parola relata: finestra) e viene chiesto loro di memorizzarle; nel­ la seconda viene chiesto di richiamare quante più parole i partecipanti riescano; e infine nella terza, dopo più cicli con parole di varie catego­ rie semantiche, viene chiesto ai partecipanti di svolgere un compito di riconoscimento di parole e di indicare se ricordano in quale occasione hanno memorizzato quella parola (differenziando quindi il ricordare dal conoscere, ovvero differenziando il conservare in memoria dettagli episodici dell’evento in cui si è acquisita una data parola dalla sua fami­ liarità a livello semantico; Tulving, 1985).

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Dai risultati riportati da Roediger e McDermott (1995), confermati anche da numerosi studi successivi (per una rassegna, cfr. Gallo, 2013), è emerso un pattern di falsi richiami e falsi riconoscimenti stabile e importante, tra il 45 e il 60% per i primi e tra il 75 e 1’ 85% per i secon­ di. Un altro aspetto particolarmente interessante è legato alla qualità dei falsi riconoscimenti: il 72% dei partecipanti infatti riportava di ri­ cordare dettagli episodici dell’acquisizione di quel materiale, che però non era mai avvenuta. Alcuni studi hanno anche indagato l’effetto dell’acquisizione di falsi ricordi sulle attività della vita quotidiana e hanno mostrato come i partecipanti che erano maggiormente soggetti a svilupparli tendeva­ no anche ad aggiornare il loro comportamento di conseguenza (Ber­ kowitz etaL, 2008; Bernstein et al., 2005a; 2005b). In due lavori di Bernstein e colleghi (2005a; 2005b), in particolare, i partecipanti che sviluppavano un falso ricordo relativo a problemi alimentari vissuti durante l’infanzia con un determinato cibo erano significativamente più restii ad apprezzare quello stesso cibo rispetto ai membri del gruppo di controllo. Geraerts e colleghi (2008) hanno ottenuto i medesimi risultati: è emerso che il comportamento di evitamento del cibo in oggetto si manteneva anche a distanza di quattro mesi in un esperimento in cui le finalità non erano chiaramente iden­ tificabili per i partecipanti. L’esistenza stessa di fenomeni come le distorsioni mnestiche e i falsi ricordi spinge a porsi domande critiche sulla memoria e sul suo esercizio; come detto, se la sua finalità principale fosse la ritenzione di informazioni, queste dinamiche porterebbero a ritenerla un sistema decisamente limitato. Viceversa, seguendo una prospettiva adattiva per la quale la memoria è dotata di queste caratteristiche perché ga­ rantiscono un miglior adattamento all’ambiente (Schacter, Guerin, St. Jacques, 2011), allora è necessario inquadrare il problema da un altro punto di vista. In particolare, ciò che emerge dall’analisi dei risultati prodotti da decenni di studi sui falsi ricordi è che questi possono essere indotti in una grande percentuale della popolazione e che, secondariamen­ te, vanno a influenzare il comportamento futuro degli individui; in questo senso la memoria va concettualizzata come un sistema di pre­ visione. Ad esempio, è possibile ipotizzare che l’inclusione mnestica durante gli esperimenti effettuati tramite il paradigma DRM rifletta il tentativo di anticipazione di un elemento richiamandone lo schema

SO

1. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

semantico relativo, così come che la facilità con cui insorgono i falsi ricordi rifletta la plasticità di un sistema la cui caratteristica principale è garantire il miglior aggiornamento possibile del materiale.

2.2

Ipertimesia Nel paragrafo precedente sono stati approfonditi i limiti in fase di ri­ tenzione che presenta la memoria; esistono però anche casi molto rari in cui è possibile ritenere fedelmente informazioni e dettagli conte­ stuali, come nell’ipertimesia e nei ricordi flashbulb, che saranno og­ getto rispettivamente del presente paragrafo e di quello successivo. Lo scopo è mostrare come in condizioni ordinarie e tipiche un ricordo accurato non solo non è cognitivamente possibile, ma non è nemmeno utile sul piano biologico. Per prima cosa, come affermato anche in pre­ cedenza, la ritenzione puntuale di dettagli contestuali è un processo fine a sé stesso e, poi, negli individui in cui è presente una condizione di ricordo episodico straordinariamente fedele, detta ipertimesia, si ri­ scontrano notevoli compromissioni a livello adattivo. Il termine ipertimesia (o sindrome ipertimesica) è stato coniato da Parker, Cahill e McGaugh (2006) per descrivere la condizione di AJ, una donna che trascorre un'eccessiva quantità di tempo rievocando ri­ cordi episodici con considerevole accuratezza (ivi, p. 35). AJ ha anche raccontato in prima persona il funzionamento fenomenologico della sua memoria in un libro (Price, Davis, 2008), sostenendo di vivere in uno stato di disagio costante provocatole dalla rievocazione continua di eventi passati e dettagli ininfluenti che si susseguono in maniera fu­ riosa all’interno della sua mente. In termini generali, F ipertimesia, anche nota come Highly Superior Autobiographical Memory (hsam), si riferisce a una forma di memoria autobiografica straordinariamente superiore alla norma: gli individui che la possiedono riescono a ricordare ogni giorno della loro vita con considerevole accuratezza e senza particolari sforzi (Hoffmann, 2016, p. 106). Questa condizione non è però completamente nuova. Nel secolo scorso, infatti, già Luria (1968) aveva descritto la condizione di Solo­ mon Seresevskij, un individuo che lottava continuamente contro la

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MEMORIA

vividezza e l’intrusione dei suoi stessi ricordi nella vita quotidiana, il quale era incapace di distinguere i ricordi in base alla loro significati­ vità e, come hanno sostenuto Medved e Brockmeier (2015), se tutti i ricordi sembrano significativi alla stessa maniera, allora sono tutti in­ significanti. In questo senso la categorizzazione semantica, legata alla perdita di dettagli contestuali e all’estrazione di regolarità statistiche, garantirebbe un adattamento migliore aH’ambiente. Gli studi che si sono occupati di questa condizione sono un nume­ ro estremamente esiguo, recentemente però Ally, Hussey e Donahue (2013) hanno riportato un caso molto interessante, quello di HK, un individuo affetto da ipertimesia che, rispetto ai partecipanti di con­ trollo, era affetto da un’ipertrofia dell’amigdala destra (circa del 20%) e da un’elevata connettività tra amigdala e ippocampo. Gli autori han­ no sostenuto che l’iperattività dell’amigdala possa essere alla base di questa condizione mnestica, visti anche i suoi legami con l’emotività (Colibazzi et al., 2010). Disfunzioni dell’amigdala sono state collegate anche a due condi­ zioni, che verranno approfondite nei prossimi paragrafi (cfr. parr, 2.3 e 2.5), contraddistinte da vividezza dei ricordi ed elevato grado di riten­

zione mnestica.

2.3 Memoriaflashbulb Mentre la condizione di individui come Aj e hk, le persone affette da ipertimesia di cui si è parlato nel precedente paragrafo, è difficile da comprendere sul piano esperienziale, esistono alcuni eventi in grado di provocare ricordi simili, seppur limitati, in un vasto numero di perso­ ne: è il caso delle memorie flashbulb. Nel modello di Conway (2005; Conway, Pleydell-Pearce, 2000) i ricordi autobiografici raggruppano tre livelli innestici: informazioni circa i periodi della propria vita, eventi di carattere generale, conoscen­ za di eventi specifici. Le memorieflashbulb fanno parte di quest’ultima categoria e consistono in rappresentazioni di un’esperienza personale di carattere episodico estremamente specifico. Il concetto di ricordo flashbulb è stato proposto da Brown e Kulik (1977) circa quarantanni fa e si riferisce a tracce mnestiche particolarmente dettagliate, vivide

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2. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

e durature, legate alle circostanze in cui un individuo ha saputo di un particolare evento inaspettato ed emotivamente coinvolgente (Bohan' non, 1988; Conway et al.. 1994). Seguendo questi criteri, il 54% degli americani conservava a distanza di dieci anni un ricordoflashbulb dell’assassinio di Martin Luther King (Brown, Kulik, 1977), il 90% degli americani e 1’84% dei canadesi di quello di John Fitzgerald Kennedy (Yarmey, Bull, 1978), mentre il 95% dei danesi a distanza di più di mezzo secolo ricordava in maniera estremamente vivida i fatti legati all’invasione nazista e alla successiva liberazione (Berntsen, Thomsen, 2005). In letteratura sono numerosi gli studi che, dopo la prima ipotesi di Brown e Kulik (1977), hanno indagato la presenza di ricordiflashbulb a seguito di numerosi eventi pubblici come la morte o le dimissioni di leader politici (Christianson, 1989; Conway et al.. 1994; Curci et al.. 2001; Finkenauer et al.. 1998; Pillemer, 1984), episodi legati alla Seconda guerra mondiale (Berntsen, Thomsen, 2005), l’esplosione dello space shuttle Challenger (Bohannon, 1988; McCloskey, Wible, Cohen, 1988), terremoti (Er, 2003), attacchi terroristici (Curci, Luminet, 2006; Haj, Gandolphe, 2017; Talarico, Rubin, 2003) o addirittura la vittoria della propria nazionale ai Mondiali di calcio (Tinti et al.. 2014). Alcuni autori hanno messo in dubbio la validità teorica di tale con­ cetto (McCloskey et al.. 1988), mentre altri hanno sostenuto che, pur conservando carattere di vividezza, longevità e soggettivo senso di cer­ tezza, i ricordi flashbulb non garantiscano accuratezza (Talarico, Ru­ bin, 2007). I ricordi flashbulb sono particolarmente intriganti perché molto spesso hanno a che fare con momenti della storia individuale che, vo­ lenti o nolenti, molte persone hanno condiviso, come ad esempio l’as­ sassinio di John Fitzgerald Kennedy o, più recentemente, il crollo delle Torri Gemelle durante l’attacco dell’11 settembre 2001. Solitamente quando si chiede a qualcuno dove fosse in quel momento, questi ri­ sponde con descrizioni vivide e dettagliate, qualitativamente differenti da quelle fornite per un ricordo episodico ordinario (per una rassegna, cfr. Julian, Bohannon, Aue, 2009; Luminet, 2009; Wright, 2009). Il fi­ lone di studi che ha seguito la prima formalizzazione di Brown e Kulik (1977) ha sfruttato proprio questo concetto. Le memorie flashbulb si riferiscono specificamente a quei ricordi autobiografici che riguardano le circostanze in cui un individuo ha sa­

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MEMORIA

puto di un certo evento pubblico, e differiscono quindi dai ricordi di eventi vissuti in prima persona (Pillemer, 1009). Pubblico però non significa obbligatoriamente mondiale o nazionale, è possibile conservare ricordiflashbulb di un evento occorso in famiglia, come venire a conoscenza della morte di un parente (Rubin, Kozin, 1984). Gli eventi che possono provocare memorie flashbulb non hanno però solamente valenza emotiva negativa. La caratteristica principale legata ad essi è la sorpresa, come nel caso della caduta del muro di Ber­ lino (Bohn, Berntsen, 2007). La sorpresa è stata definita come l’emozione che si prova quando avviene qualcosa di inaspettato (Mellers et al., 2,013, p. ?)• La natura qualitativamente differente di un ricordo flashbulb ha portato Brown e Kulik (1977) a ipotizzare che ad esso sottostiano mec­ canismi di acquisizione e mantenimento non ordinari; gli autori han­ no avvicinato questa ipotesi a quella formulata da Livingston (1967) e chiamata Now Print!, nome che sottintende di fatto la natura vivida ed elaborata di questi ricordi. Alcuni studi hanno utilizzato la metodologia test-retest per misu­ rare la validità del costrutto teorico comparando la rievocazione di un ricordo flashbulb nei giorni successivi alla formazione con quella for­ nita a distanza di mesi e hanno mostrato che la prestazione sembrava risentire dello stesso declino subito dai ricordi ordinari (Bohannon, Symons, 1992; Neisser, Harsch, 1992). È stato però sostenuto che la me­ todologia test-retest non vada a misurare direttamente l’accuratezza del ricordo, quanto la sua coerenza o che, viceversa, non sia l’accura­ tezza a essere centrale, quanto la coerenza (Hirst, Phelps, 2016). Esisto­ no numerosi studi che hanno mostrato che la coerenza rimane ad alti livelli anche dopo vari intervalli di tempo (Bohannon, 1988; Brown, Kulik, 1977; Conway et al., 1994; Kvavilashvili 2009). Veniamo infine alle evidenze sperimentali e alle ipotesi che negli anni sono state formulate. Conway e colleghi (1994) hanno studiato l’impatto delle dimissioni inaspettate di Margaret Thatcher nel 1990 in un campione composto da cittadini britannici e non, al fine di ap­ profondire la formazione di ricordiflashbulb. Questi sono stati definiti dagli autori come memorie in grado di mantenersi coerenti entro due momenti di misurazione (a 2 settimane e an mesi), e il relativo grado di coerenza è stato stabilito attraverso 5 variabili (descrizione mnestica, persone presenti, luogo, attività che si stava svolgendo, fonte dell’in­ formazione), il cui punteggio poteva variare tra o (elemento dimenti­

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2. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

cato o estremamente corrotto), i (risposta generalmente corretta, ma non completamente accurata) o 2 (risposta totalmente coerente). Per­ ché un ricordo potesse essere considerato flashbulb, il punteggio dopo la seconda misurazione avrebbe dovuto essere 9 o io, e quindi estremamente coerente. Dai risultati è emerso che, nonostante i criteri piutto­ sto restrittivi, circa 1’8$% dei partecipanti aveva sviluppato un ricordo flashbulb relativo alle dimissioni di Margaret Thatcher. Secondo Finkenauer e colleghi (1998), il processo di formazione di ricordiflashbulb seguirebbe due vie: la prima relativa alla valutazione cognitiva della novità legata all’evento, ovvero sorpresa ed emozioni collegate al fatto; la seconda, al contrario, sarebbe dovuta all'appren­ dimento di notizie di carattere pubblico ad alto impatto sulla propria vita. Il loro studio ha analizzato la presenza di ricordiflashbulb in 399 belgi a seguito della notizia della morte di re Baldovino nel 1993 a 7 e 8 mesi di distanza, e i risultati tendevano a corroborare le loro ipotesi circa la formazione. Come spiegato da Brown e Kulik (1977), perché un evento possa elicitare un ricordoflashbulb deve essere nuovo, inaspettato (o impre­ visto) e provocare sorpresa; dato un certo livello di sorpresa, l’evento verrebbe quindi valutato in termini di importanza soggettiva e coin­ volgimento emotivo. Recentemente è stato proposto un modello di memoria che inte­ gra il concetto di sorpresa (Fernandez, Boccia, Pedreira, 2016), defini­ ta come remozione provocata dall’errata o mancata previsione di un evento, e distinta dal concetto di novità, che invece riguarda qualcosa di non riferibile a rappresentazioni conservate in memoria (per una trattazione approfondita, cfr. Barto et al, 2013). In particolare, la no­ vità porterebbe alla formazione di nuovi ricordi, mentre la sorpresa comporterebbe solamente l’aggiornamento dei modelli esistenti tra­ mite l’errore nella previsione. Vanno fatte, però, alcune considerazioni in merito: per definizione, un evento nuovo è di per sé anche impre­ vedibile in un gran numero di casi, non è quindi possibile distinguere in termini comportamentali sorpresa e novità se non in base al diverso coinvolgimento emotivo che situazioni nuove determinano nell’indi­ viduo e nella possibilità di integrarle nella semantica esistente. È stato anche ipotizzato che la sorpresa, in caso di eventi particolar­ mente straordinari e in grado di elicitare una forte risposta ormonale, sia in grado di provocare alterazioni nel funzionamento delle arce lim-

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biche e favorire dunque una prestazione mnestica altrettanto straordi­ naria (Diamond et ai, 2007). Posti di fronte alle varie correnti sperimentali evidenziabili in lette­ ratura è possibile comunque orientare ? attenzione su un dato che non sembra in discussione, quello della persistenza mnestica. Questi ricor­ di forniscono un enorme senso di fiducia nella rievocazione, e sem­ brano non risentire della trasformazione semantica, ma soprattutto le circostanze in cui si è esperito il fatto e i dettagli contestuali vengono richiamati in modo estremamente vivido e simil-sensoriale.

2.4

Sviluppo della memoria Un breve paragrafo va dedicato anche alla componente ontogenetica della memoria (per una rassegna, cfr. Schneider, 2010) e viene necessa­ riamente dopo il paragrafo sui ricordiflashbulb perché a questi si vuole collegare la natura dei primi ricordi. Numerosi aspetti della memoria infantile, però, sono estremamente difficili da testare per via del rap­ porto tra ricordi e linguaggio e della relativa possibilità di rievocare un evento occorso prima di possedere determinate capacità linguistiche. Sono inoltre presenti alcune problematiche rilevanti legate alle mo­ dalità che vengono utilizzate per porre domande, valutare le relative risposte e alla specificità dei quesiti. Simcock e Hayne (2002) hanno ad esempio mostrato che, pur mantenendo a livello non verbale tracce mnestiche, per i bambini (di 27, 33 e 39 mesi) era impossibile tradurle effettivamente in linguaggio; in particolare, i bambini presentavano prestazioni migliori nelle com­ ponenti non verbali rispetto a quelle verbali della memoria. Oltre a ciò, di particolare interesse è il fatto che i resoconti verbali riflettevano le competenze linguistiche al momento della codifica delle informa­ zioni, perciò anche possedere il vocabolario corretto per descriverle al momento della rievocazione non consentiva ai bambini di tradurle in linguaggio. Il concomitante sviluppo linguistico sarebbe dunque una compo­ nente centrale nella comprensione della cosiddetta amnesia infantile (per una rassegna, cfr. Hayne, 2004; Madsen, Kim, 2016). Però, nono­ stante a distanza di anni gli individui siano sostanzialmente incapaci di

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2. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

rievocare eventi occorsi prima della fascia di età che va dalla nascita ai 3 anni e mezzo circa, i bambini in quel periodo sono in grado di acqui' sire, mantenere e rievocare correttamente informazioni di vario genere (Courage, Howe, 2004). Esistono inoltre evidenze legate al fatto che Tinsorgenza dell’amnesia infantile possa essere progressiva (Peterson, Warren, Short, zon) e che dipenda sostanzialmente dallo sviluppo cerebrale che avviene in quel periodo (Madsen, Kim, zoi6). Queste modificazioni potrebbero sottenderne altre anche a livello qualitativo del ricordo. In termini generali, si ritiene che i bambini più giovani possiedano una memoria peggiore rispetto a quelli più grandi (per evidenze speri­ mentali, cfr. Bjorklund, Dukes, Brown, 2009), ma questo potrebbe di­ pendere dalle metodiche utilizzate in fase di indagine: la memoria dei bambini, infatti, viene studiata utilizzando estensioni degli strumenti di indagine tipici della ricerca su individui adulti, come la rievocazione di liste di parole o di figure (Bauer, Larkina, Deocampo, 2010, p. 154). La difficoltà di indagine e Tutilizzo di paradigmi specifici rendono difficile generalizzare le conoscenze in materia di memoria infantile. In questa sede è possibile solamente strutturare il problema seguendo alcuni assunti di base. In particolare, le memorie infantili sono state collocate in questo testo tra quelleflashbulb e il trattamento di quelle traumatiche, perché si prowederà a una loro integrazione (cfr. CAP. 3). Quelle infantili preverbali, secondo una lettura di carattere qualitati­ vo, possono essere assimilate a una forma primitiva di memoria, ovvero a un sistema in cui la componente di estrazione di regolarità statistiche tipica del consolidamento semantico è mancante, legata a una riten­ zione a-fìnalizzata del materiale, come un ricordo flashbulb, appunto. Questa forma primitiva di memoria, che si svilupperebbe cognitiva­ mente con la crescita cerebrale del bambino, andrebbe poi a costrui­ re i sistemi di memoria che conosciamo oggi a seguito della ripetuta esposizione a eventi regolari. Inoltre, i legami tra amnesia infantile e sviluppo delle componenti linguistiche e il fatto che il linguaggio ri­ chieda inevitabilmente di interfacciarsi con componenti semantiche di costruzione del significato potrebbero costituire gli elementi cardine nella trasformazione qualitativa del sistema di ricordo primitivo. E stato ripetutamente affermato che una componente mnestica di ritenzione fedele e duratura sia fortemente maladattiva. La conserva­ zione di elementi slegati da qualunque aggancio con la realtà prossi­ ma appare quindi come un apparato vuoto. Nel bambino, però, una

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memoria di questo tipo non solo è importante, ma è anche tremenda^ mente necessaria, perché ancora non si possiedono le categorie seman­ tiche tipiche dell’età adulta. Gradualmente, tramite {’esercizio di que­ sta forma precisa di ricordo, l’individuo sarebbe in grado di costruire schemi circa l’organizzazione dei vari aspetti della realtà, per fare poi sempre maggiore affidamento su questi. È possibile estendere l’argo­ mento: questa forma simil-sensoriale di memoria si manifesterebbe in tutte quelle occasioni - ordinarie - in cui è necessario costruire nuovi modelli semantici, e anche in quelle - non ordinarie - difficilmente integrabili negli schemi semantici esistenti, come nel caso dei ricordi flashbulb. Questa ipotesi è anche coerente se inquadrata nel ciclo di vita: la generale tendenza al peggioramento delle capacità di ritenzio­ ne mnestica tipiche dell’età matura, entro certi limiti, sarebbe dovuta al fatto che gran parte dei modelli è già formata e opera con efficacia. In questo senso i ricordi flashbulb, la cui rievocazione è collegata a componenti sensoriali, più che a elementi verbalizzabili in maniera diretta, costituirebbero un retaggio del sistema infantile di memoria.

^•5 Desensibilizzazione e rielaborazione tramite movimenti saccadici Negli ultimi anni è stata messa a punto una tecnica riabilitativa, YEye Movement Desensitization and Reprocessing (emdr), che consente di integrare i ricordi traumatici all’interno di schemi semantici esisten­ ti, sopperendo dunque all’incapacità del sistema di portare a termine il consolidamento del ricordo dovuta probabilmente alla presenza di elementi stressanti nell’evento scatenante, portando quindi a una sua rielaborazione e trasformazione. L’emdr è un trattamento riabilitativo indicato principalmente per il disturbo post-traumatico da stress {Post-Traumatic Stress Disorder, ptsd) basato sulla rievocazione delle memorie intrusive e su contem­ poranei movimenti saccadici guidati (Shapiro, 2.001) identificato per la prima volta da Shapiro (1989). È stato recentemente ipotizzato che i movimenti oculari possano ridurre l’attività nelle aree cerebrali legate all’elaborazione emotiva, come ad esempio l’amigdala, e dunque favo­ rire un consolidamento canonico dei ricordi (Thomaes et ah, 2016),

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2. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

o che l’efficacia dell’EMDR sia dovuta all’indebolimento della traccia mnestica originale come conseguenza del sovraccarico della memoria di lavoro (van den Hout, Engelhard, 2,012). Le evidenze al momento disponibili in materia di emdr non con­ sentono di trarre conclusioni definitive circa la sua efficacia o i meccanismi cerebrali che intervengono (per una rassegna, cfr. Shapiro, Wesselmann, Mevissen, 2017), ma numerosi lavori convergono in favore della sua validità nel trattamento del PTSD (Boukezzi et al., 2017; L. Chen et al., 2015; Y. R. Chen et al., 2014; Saltini et al., 2018; Thomaes et al., 2016). Ciò che lega questo trattamento agli approcci esposti in precedenza è la possibilità di modulare il coinvolgimento emotivo e cognitivo di un ricordo e favorirne l’integrazione con la storia di vita dell’individuo tramite una stimolazione puramente sensoriale come il movimento saccadico guidato. L’emdr si basa su un modello, noto come Adaptive Information Processing (aip; Solomon, Shapiro, 2008), che sostiene che la presen­ za di ricordi di esperienze avverse non del tutto elaborati e integrati costituisca la fonte principale di disagio psicologico (Shapiro, 2007). Questi ricordi, immagazzinati tramite una modalità non ordinaria, includono percezioni, sensazioni, credenze ed emozioni che possono essere riattivate da stimoli presenti, sia interni sia esterni, e portare alla sintomatologia classica del PTSD. Farrell (2018, p. 756) ha fatto anche notare che questi ricordi immagazzinati disfunzionalmente possono essere passati, presenti o futuri1. Il rapporto tra EMDR e AIP è caratterizzato da alcuni assunti di base : - gli esseri umani possiedono un sistema di elaborazione delle infor­ mazioni che consente di riorganizzare le risposte a eventi disturbanti e portare da uno stato disfunzionale a uno adattivo di equilibrio; - il trauma causa uno squilibrio nel sistema nervoso, in quanto risul­ tato di modificazioni ormonali, e provoca un’elaborazione non ordi­ naria delle informazioni;

1. Con l’espressione “ricordi futuri” si fa riferimento ad aspetti di memoria pro­ spettica, ovvero il ricordarsi che in futuro accadrà qualcosa o si dovrà fare qualcosa. Anche questa classe di ricordi può causare problematiche a livello psicologico, si pen­ si ad esempio alle sensazioni collegate a un esame imminente o una visita importante.

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- le informazioni disfunzionali sono mantenute a un livello di elabo­ razione (integrazione semantica) parziale o assente; - T identificazione di queste informazioni disfunzionali è una com­ ponente centrale dell’EMDR; - l’elaborazione di queste informazioni porta a una riconfigurazione mnestica del ricordo del trauma. Le fasi dell’EMDR seguono questi assunti e consistono in: history taking, in cui vengono identificati i ricordi elaborati disfunzionalmen­ te; preparation, in cui viene costruita l’alleanza terapeutica; processing (composto assessment, desensitization, installation, body scan), in cui si porta l’individuo all’elaborazione dei ricordi traumatici; closure, in cui ci si assicura che l’individuo si sia riorientato nel tempo e nello spa­ zio; e re-evaluation, condotta all’inizio di ogni sessione successiva, in cui si procede alla valutazione dello stato dell’individuo. La parte centrale, quella del processing, comporta l’attivazione del ricordo traumatico mentre viene eseguita una bilateral stimulation (bls) di circa 30 secondi, in cui l’individuo esegue dei movimenti oculari guidati. Alla fine di ogni serie, viene chiesto alla persona se è emerso del nuovo materiale e questo diviene il focus della serie succes­ siva di stimolazione. Generalmente, dopo varie serie di stimolazione, il distress cala in maniera soggettivamente significativa; quando l’in­ dividuo abbraccia una prospettiva nuova e positiva circa l’accaduto è possibile considerare il ricordo come elaborato con successo. Lo scopo dell’EMDR è dunque quello di indurre l’individuo a in­ corporare il ricordo nel suo sistema cognitivo perché possa farne un uso adattivo rivolgendolo al futuro {ibid.). Shvil e colleghi (2,013) hanno sostenuto che il ptsd sia un distur­ bo legato alla risposta della paura in determinate aree del cervello e che, in particolare, comporti: un’alterazione nella connettività delle aree legate all’elaborazione emotiva; un’iperattivazione dell’amigdala, della corteccia cingolata dorsale anteriore e dell’insula; un’ipoattivazione della corteccia prefrontale mediale, di quella cingolata anterio­ re e rostrale e del giro frontale ventromediale; e un’attività anormale dell’ippocampo. Allo stesso modo, Stickgold (2002) ha sostenuto che il ptsd sia in realtà un disturbo di memoria. Georgopoulos e colleghi (2010), tramite magnetoencelografia (meg), hanno studiato le differenze di attivazioni cerebrali tra indi­ vidui sani e individui affetti da PTSD; questi ultimi, in particolare, presentavano attività cerebrali anormali nelle aree temporali destre

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1. RICORDI ACCURATI E RICORDI NON ACCURATI

e panerò -occipitali destre. L’attività in queste aree sarebbe collegata all’esperienza soggettiva di ricordi traumatici intrusivi. Anche Palom­ bo e colleghi (2016), tramite fMRI, hanno studiato i correlati neurali della rievocazione di ricordi episodici di esperienze traumatiche, mo­ strando che questi elicitavano attivazioni dell’amigdala, delle aree tem­ porali mediali e delle aree visive. Per quanto riguarda le modificazioni che occorrono a livello cere­ brale negli individui affetti da PTSD a seguito di emdr, è disponibile un numero limitato di evidenze. Thomaes e colleghi (2016), ad esem­ pio, in uno studio pilota tramite fMRI hanno affrontato questo tema e riportato che i movimenti s accadici guidati sono associati alla diminu­ zione dell’attività e della connettività nelle aree legate all’elaborazione emotiva, come la corteccia cingolata anteriore e l’amigdala. A conclu­ sioni simili sono giunti Malejko e colleghi (2017) dopo una rassegna della letteratura disponibile. Van der Kolk e Fisler (1995) hanno esposto le differenze tra memo­ ria episodica traumatica e memoria episodica ordinaria. In particolare, la prima sarebbe caratterizzata da legami sensoriali ed emotivi con il ricordo, tendenza a rimanere stabile nel tempo (su questo punto non esiste accordo in letteratura, le argomentazioni seguono quelle esposte in materia di memoriaflashbulb sul significato a livello epistemologico di accuratezza; cfr. Hirst, Phelps, 2016), mancanza di controllo e statodipendenza; mentre la seconda sarebbe semantica, simbolica, control­ labile a seconda delle necessità e adattiva. Van der Kolk (2015) ha anche sostenuto che il trauma non derivi direttamente dall’esperienza di un certo evento, bensì dalla memoria che il singolo individuo si costuisce. Esistono alcuni lavori che hanno messo in relazione in maniera più o meno marcata le memorieflashbulb e quelle traumatiche. In uno studio effettuato poco dopo l’attacco terroristico dell’n settembre, Galea e colleghi (2002), ad esempio, hanno mostrato che anche una percentuale di coloro che avevano semplicemente appreso la notizia aveva sviluppato i sintomi tipici del PTSD; mentre Diamond e colleghi (2007), partendo da evidenze circa gli effetti del cortisolo sull’attivi­ tà ippocampale, hanno ipotizzato che il carico emotivo di un evento possa modificare l’attività di tale struttura portandola a elaborare gli episodi in oggetto a un livello nettamente più superficiale rispetto alla profondità normalmente attribuita alla codifica ippocampale. Da uno studio lesionale di Spanhel e colleghi (2018) è emerso che che individui con lesioni all’amigdala, area centrale nell’eborazione

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MEMORIA

emotiva e iperattiva in caso di esposizione a eventi traumatici (Patel et al., 2012), riportano un’accuratezza dei ricordiflashbulb significati­ vamente inferiore rispetto a quella dei partecipanti di controllo sani. In particolare, gli individui con lesioni all’amigdala nell’emisfero non dominante (generalmente il destro) riportavano prestazioni significa­ tivamente inferiori rispetto a quelle dei partecipanti di controllo, di quelli con epilessia temporale e amigdala intatta, e di quelli con lesioni all’amigdala nell emisfero dominante. Allo stesso modo, come espo­ sto in precedenza, sono state riportate alterazioni strutturali di questa formazione in condizioni come l’ipertimesia (Ally, Hussey, Donahue, 2013); modificazioni nell’attività e nella connettività dell’amigdala e delle aree limbiche a seguito di EMDR durante la rievocazione di ricor­ di traumatici (Malejko et al., 2017; Thomaes et al, 2016); e attivazioni dell’amigdala legate alla rievocazione di ricordi traumatici (Palombo et al., 2016; Patel et al., 2012). E possibile ipotizzare che il funzionamento deh’EMDR nell’inte­ grazione semantica dei ricordi traumatici abbia a che fare con la natura del ricordo: se questo è mantenuto sensorialmente e tramite attivazio­ ni anormali delle aree limbiche, come testimoniano i resoconti esperienziali degli individui affetti da PTSD e gli studi di neuroimmagine citati in precedenza, allora indurre chi ne è affetto a modificare trami­ te movimenti saccadici l’insieme di input simil-sensoriali che general­ mente accompagnano la rievocazione di ricordi, solitamente associati all’esperienza visiva, consentirebbe di contrastare l’unitarietà di quel­ la traccia mnestica e provocarne un conseguente impoverimento. In qualche modo, dunque, si andrebbe ad attaccare l’automatismo senso­ riale che sta alla base delle componenti associative tipicamente attive durante la rievocazione di ricordi traumatici. Nel complesso, il quadro che emerge consente di ipotizzare anche che, a fronte di un sistema ordinario di consolidamento e trasformazio­ ne del ricordo, ne esista un altro legato a forme di ritenzione accurate e vivide. Ciò che accomuna i ricordi che fanno parte di questo secondo sistema non è solamente il resoconto esperienziale degli individui che li riportano, ma anche le differenze a livello cerebrale di strutture come l’amigdala.

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3

Perché ricordiamo ?

E quindi perché ricordiamo? E stato mostrato che, sia sul piano cerebrale, sia su quello cogni­ tivo, le tracce mnestiche subiscono trasformazioni che rendono inac­ curato il ricordo e spesso inaffidabile la testimonianza che ne deriva. Viceversa, esistono condizioni in cui non solo il ricordo è duraturo, ma anche straordinariamente accurato. Particolarmente interessante, poi, è il fatto che queste ultime condizioni sono conseguenza di eventi non ordinari e, nelle declinazioni più estreme (ptsd, ipertimesia), co­ stituiscono elementi maladattivi al?interno della vita quotidiana degli individui. Di particolare interesse sono a questo punto le dinamiche di ri­ consolidamento mnestico (per una rassegna ed evidenze sperimentali, cfr. Lee, Nader, Schiller, 2017). Per riconsolidamento si intende quel processo che segue la riattivazione di un ricordo e che può risultare in un’alterazione dello stesso a seguito di trattamenti farmacologici o comportamentali; numerosi autori (Agren, 2014; Exton-McGuinness, Lee, Reichelt, 2015; Fernandez, Boccia, Pedreira, 2016; Lee, 2009; Nader, Hardt, 2009) hanno sostenuto che la plasticità cerebrale che sta alla base di questo processo consenta ai ricordi di essere aggiornati con nuove informazioni (Lee, Nader, Schiller, 2017, p. 532). Esperire un evento significativo può provocare un ricordo a lungo termine; la rievocazione successiva dello stesso, innescata da un dettaglio, desta­ bilizza la traccia mnestica; ciò che accade nella finestra temporale suc­ cessiva può modificare anche radicalmente la traccia originale, poiché porta a incorporare nuovo materiale aggiornando il ricordo oppure interferendo con il riconsolidamento [ibid?). La finalità biologica principale della trasformazione del ricordo sa­ rebbe quindi garantire il massimo aggiornamento delle tracce mnesti-

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che a discapito della loro accuratezza, consentendo loro di mantenere un certo grado di rilevanza in un ambiente in continuo cambiamento (Dudai, 2004; 2006; Lee, 2009; Sara, 2000; Schiller, Phelps, 2011; Tronson, Taylor, 2007). La rilevanza della traccia mnestica va ovvia­ mente valutata in virtù delle sue componenti adattive, ovvero in base a un possibile utilizzo futuro in fase di previsione (Klein, 2013), e dun­ que il ricordo si trasformerebbe per fornire una previsione più precisa

e aggiornata. Venendo infine ai temi approfonditi nella parte finale del prece­ dente capitolo, i dati a disposizione in materia di EMDR o ipertimesia sono attualmente troppo esigui perché si possano avanzare conclusioni chiare e sostenute da evidenze sperimentali consistenti - esistono co­ munque meta-analisi che hanno mostrato la validità del trattamento riabilitativo (Lee, Cuijpers, 2013); anche il dibattito sull’esistenza stes­ sa dei ricordiflashbulb è molto acceso e numerose evidenze sono state riportate da ambo le parti (per una rassegna, cfr. Hirst, Phelps, 2016; Julian, Bohannon, Aue, 2009; Luminet, 2009; Wright, 2009); è tutta­ via possibile provare a integrare quanto esposto in un quadro coerente. Una componente che sembra guidare la trasformazione della me­ moria e il riconsolidamento, o ampie parti di essi, è legata al concet­ to di errore nella previsione [prediction error, PE; Exton-McGuinness, Lee, Reichelt, 2015; Fernandez, Boccia, Pedreira, 2016). In primo luogo, dal punto di vista adattivo, la mancanza di prevedibilità di un evento richiede la messa in atto di conseguenze comportamentali e cognitive più complesse rispetto a un evento prevedibile. In secondo luogo, l’errore nella previsione costituisce l’occasione principale di apprendimento, in quanto comporta la necessità di aggiornare il mo­ dello di riferimento utilizzato per prevedere (Rescorla, Wagner, 1972). Parallelamente, infine, se le conseguenze di quell’evento raggiungono livelli di rilevanza personale estremamente importanti per il singolo o assolutamente non ordinari, potrebbero portare a modificazioni com­ portamentali e cognitive radicali, come nel caso dei ricordiflashbulb e di quelli traumatici. Fernandez, Boccia e Pedreira (zoió) hanno recentemente proposto un modello di funzionamento della memoria complementare a quan­ to esposto nel presente lavoro e in grado di mettere in relazione alcu­ ne delle tematiche affrontate: le informazioni conservate in memoria vengono innescate dalle variabili contestuali e, tramite l’elaborazione di quelle, viene eseguita la previsione. In particolare, in caso di corret-

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J. PERCHÉ RICORDIAMO?

rezza della previsione, la traccia non subisce modifiche, in quanto in grado di garantire previsioni precise, quantomeno fino all’occasione successiva. In caso di errore, e quindi di necessità di adattare nuove informazioni nel modello utilizzato per prevedere, la traccia diventa labile e soggetta a riconsolidamento; quanto deriva dall’integrazione delle nuove informazioni con ciò che è già noto va infine ad aggiornare il contenuto della memoria. Il modello prevede anche la formazione di nuova conoscenza se il contesto non è sufficientemente noto e dunque non vi sono modelli affidabili sui quali basarsi per effettuare previsioni. Un ruolo centrale nella formazione di nuova conoscenza viene svol­ to dall’ippocampo e dall’area tegmentale ventrale, la cui attivazione regola l’ingresso di nuovi concetti nella memoria a lungo termine (Li­ sman, Grace, 2005) e quindi è alla base dell’integrazione semantica. In particolare, sarebbe la dopamina a modulare la formazione di memorie episodiche (Lisman, Grace, Duzel, 2011), collegando di conseguenza rinforzo e prestazione mnestica (Adcock et al., 2006). Il modello esposto da Fernandez, Boccia e Pedreira (2016) riguarda ovviamente quello che abbiamo descritto come funzionamento ordi­ nario della memoria e qui si può una volta in più riconoscere la valenza adattiva di un sistema così strutturato. L’argomento, però, può essere ulteriormente esteso. Innanzitutto, sono i legami con prevedibilità e ri­ levanza personale le caratteristiche che accomunano i ricordiflashbulb, quelli traumatici e quelli ordinari. In particolare, i primi due sarebbero il risultato di eventi talmente anomali ed eccezionali (numerosi episo­ di in grado di causare ricordi flashbulb sono infatti talmente unici da essere sia sorprendenti sia nuovi) da causare una codifica differente ri­ spetto a quelli ordinari, che, viceversa, comprenderebbero sempre una componente di imprevedibilità e di rilevanza, ma che riuscirebbero a integrarsi compiutamente nelle strutture cognitive esistenti. I ricordi degli individui affetti da ipertimesia, allo stesso modo, sarebbero accomunabili a quelliflashbulb e traumatici, ed essere il retaggio di un siste­ ma di memoria infantile sviluppatosi in modo atipico. Questi ricordi simil-sensoriali - così definiti in virtù delle caratteristiche esperienziali che riportano gli individui quando li rievocano - sarebbero dunque causati dall’incapacità di integrare negli schemi semantici esistenti gli eventi particolarmente sorprendenti e nuovi. Come detto, esistono evidenze che collegano l’attività dell’amigda­ la alla rievocazione dei ricordiflashbulb (Spanhel et al., 2018), di quelli traumatici (Palombo et al., 2016; Patel et al., 2012) e di quelli iperti-

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mesici (Ally, Hussey, Donahue, 2013) e, similmente, è stato mostrato che le aree limbiche in generale subiscono decrementi di attivazione e di connettività a seguito di emdr in individui con PTSD (Malejko et al., 2017; Thomaes et al., 2016). Dal punto di vista cerebrale, dun­ que, appare centrale il ruolo delle aree limbiche, il cui decremento di attività e connettività significherebbe il passaggio terapeutico da ri­ cordo simil-sensoriale a ricordo ordinario. Anche Diamond e colleghi (2007) hanno ipotizzato un ruolo delfamigdala, unitamente all'ippo­ campo, nell'immagazzinare questo tipo di ricordi non ordinari, come conseguenza di modificazioni ormonali che occorrono durante e dopo eventi cardine particolarmente stressanti o anomali. Analizzando da un punto di vista qualitativo i ricordi simil-sen se­ riali e quelli ordinari emerge che i primi sono contraddistinti da in­ fluenze sensoriali più marcate durante la rievocazione e sono, in qual­ che modo, più accurati, vividi e persistenti degli altri, mentre quelli ordinari conservano come caratteristica principale la finalità di inte­ grazione semantica. Uemdr, infatti, sembra portare a un consolida­ mento ordinario dei ricordi simil-sensoriali, come se questi fossero stati precedentemente immagazzinati in una modalità alternativa o il sistema non fosse riuscito a trasformarli semanticamente. La riabilita­ zione tramite movimenti oculari in questo senso sposterebbe i ricordi dalle modalità sensoriali in cui sono immagazzinati e ne favorirebbe un consolidamento ordinario. Esisterebbero due sistemi di memoria legati alla tipologia di codifi­ ca del materiale: uno ordinario, la cui finalità principale è la costruzio­ ne di modelli di interazione predittiva con T ambiente, che esercita le sue funzioni tramite la trasformazione del ricordo rendendo automa­ tici determinati aspetti e integrandoli in schemi o scripts preesistenti; e uno simil-sensoriale, contraddistinto da un elevato coinvolgimento delle aree sensoriali, motorie ed emotive in fase di rievocazione, che, al contrario del primo, tende a ritenere fedelmente dettagli contestuali secondari all evento e la relativa vividezza, e ha uno scarso valore adattivo. Va anche fatto notare che una ritenzione fedele di informazioni co­ stituisce un elemento maladattivo solo quando i ricordi che la riguarda­ no appartengono a forme di memoria a lungo termine. Nell'immedia­ to, possedere una forma di ricordo puntuale e dalla durata estremamente limitata ha caratteristiche pienamente adattive perché consente la for­ mazione di nuova conoscenza ove necessario. La maladattività di que­

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3, PERCHÉ RICORDIAMO?

sto sistema si mostra nel momento in cui si rivela incapace di integrare un episodio nella memoria semantica esistente, rendendolo dunque un’unità a parte. In tal senso, la memoria infantile sarebbe assimilabile a sistemi di questo tipo: durante la costruzione di conoscenza semanti­ ca è necessario mantenere puntualmente un certo numero di elementi, per poi procedere a un’estrazione funzionale di regolarità statistiche; una struttura del genere, poi, si perderebbe con lo sviluppo cognitivo e la relativa formazione di modelli semantici operativi. Le presenti ipotesi possono essere inquadrate come un’estensione del modello AIP di Shapiro (1995; 2001; 2006), che postula l’esistenza di un sistema di memoria adattivo che integra le nuove esperienze con quelle passate quando in grado di operare correttamente (cfr. CAP. 1). Gli eventi particolarmente stressanti, invece, verrebbero mantenuti in una forma stato-dipendente, incapaci di collegarsi e integrarsi con il sistema di memoria adattivo. Può apparire radicale, ma, seguendo il ragionamento, l’uso che viene fatto della memoria in determinati contesti (ad esempio, testi­ monianza giuridica, istruzione, rapporti sociali) costituisce semplicemente una funzione collaterale di un sistema che funziona esattamen­ te nella direzione opposta (Klein, 2013). Questa conclusione cui si è giunti, però, non vuole togliere nulla all’importanza che la memoria autobiografica riveste nella costruzione dell’identità e deU’autonoesi, anche se questa relazione è tuttora molto discussa (Medved, Brockmeier, 2015). E inoltre possibile argomentare come vi sia un posto all’interno di questo sistema anche per la memoria episodica: è stato mostrato, infatti, che questa condivide un substrato neurale con la prospezione (Addis, Wong, Schacter, 2007; Addis et al., 2009; Thakral, Benoit, Schacter, 2017; per una rassegna, cfr. Schacter et al., 2012). II legame tra memoria episodica e orientamento temporale futuro sarebbe dun­ que connesso alla possibilità di operare sulle conoscenze conservate al fine di programmare nuovi comportamenti su un piano prettamente dichiarativo. Addirittura, Klein (2013, p. 231), citando Tulving (2005), si è spinto oltre, sostenendo che simulare situazioni future non sia so­ lamente una delle tante capacità attribuite alla memoria episodica, ma piuttosto la sua funzionalità principale, la sua ragione d’essere. La tra­ sformazione subita dai ricordi, in questo frangente, non contraddice le ipotesi esposte, sempre per l’assunto che un ricordo aggiornato con­ sente di effettuare previsioni più precise.

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MEMORIA

In conclusione, le evidenze sperimentali che si sono accumulate ne­ gli ultimi anni costituiscono delle anomalie piuttosto importanti se si postula che la memoria è un sistema di ritenzione di informazioni; vi­ ceversa, invertendo la direzione, queste appaiono come le caratteristi­ che principali del sistema, per diffusione e valenza sul piano adattivo: ricordiamo per prevedere.

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Parte seconda Previsione: verso il futuro attraverso il passato

Una volta sostenuto che la capacità di conservare informazioni è qualcosa di collaterale, o comunque sempre legato a un rapporto con il futuro, e che dunque la funzione propria della memoria è effettuare previsioni, non resta che esplorare questo aspetto. Bubic, von Cramon e Schubotz (2010) hanno definito come pre­ dittivo qualunque tipo di elaborazione che incorpora o genera, oltre alle informazioni appartenenti al passato e al presente, anche stati futu­ ri del corpo o dell’ambiente. Come mostrato dagli stessi autori, è stato addirittura William James (2004) uno dei primi a collegare previsione e percezione, definendo Fan trapazione sensoriale come prepercezio­ ne, postulando una preattivazione di determinate aree cerebrali rile­ vanti al fine di ridurre le successive elaborazioni. Szpunar, Spreng e Schacter (2014) hanno distinto in quattro domi­ ni le aree cognitive orientate al futuro: simulation,prediction, intention e planning. Ciascuna di queste, proprio come la memoria, può essere declinata in numerose varianti ibride a seconda della specificità del ma­ teriale; si tratta dunque di un continuum da episodico a semantico. In particolare, la simulazione avrebbe a che fare con il concetto di rappresentazione mentale, la previsione con la stima della probabilità di un dato evento, l’intenzione con la decisione di un obiettivo futuro, e la pianificazione con l’organizzazione dei passaggi necessari per rag­ giungere un determinato stato. Al contrario, Bubic, von Cramon e Schubotz (2010) hanno definito la previsione come cognizione orientata al futuro e hanno riconosciuto all’interno di essa tre componenti, che sono solo parzialmente sovrap­ ponibili con quelle esposte in precedenza: anticipation, expectation e prospection. L’anticipazione sarebbe contraddistinta dalla produzione di previsioni a breve termine su componenti motorie e percettive, l’a­

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spettativa consisterebbe nella rappresentazione mentale di ciò che si prevede accadrà in futuro (assimilabile al concetto di simulation), e la prospezione comprenderebbe la produzione di ipotesi circa un futuro distante. In termini generali, le distinzioni di Szpunar, Spreng e Schacter (2014) appaiono più precise nella descrizione dei fenomeni, contenen­ do anche una componente in grado di modularne la specificità; ma, parallelamente, quelle di Bubic, von Cramon e Schubotz (2010) rie­ scono a rappresentare con maggiore efficacia le componenti temporali, che in un contesto come il presente sono centrali. Va inoltre fatto no­ tare come a livello puramente semantico gli autori di questi due lavori utilizzano definizioni differenti del concetto di previsione, per il quale però usano lo stesso termine, prediction, A prescindere dalla tassonomia della previsione, numerosi autori si sono impegnati per chiarire le sue modalità di funzionamento e i relati­ vi fondamenti teorici. Proprio a questi temi saranno dedicati i prossimi capitoli.

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Come funziona la previsione ?

Generalmente, è possibile effettuare previsioni per tutti quegli eventi che non avvengono in maniera casuale. Il sistema cognitivo, nell’atto di prevedere, riuscirebbe a mettere in pratica le elaborazioni fatte in materia di relazioni causali e relazioni tra eventi basate su un appren­ dimento precedente (Bar, 2,007; Butz, Sigaud, Gerard, 2003). Un tale apprendimento può avvenire estraendo le regolarità statistiche (co­ struendo sequenze o modelli di eventi) che si individuano nonostante Tincertezza e il disturbo che permeano l’ambiente circostante o facen­ do uso più o meno esplicito di leggi di inferenza e analogie tra eventi (Bar, 2009; Kórding, Wolpert, 2006; Pezzulo, Butz, Castelfranchi, 2008); sulla base di quei modelli verrebbero poi effettuate le previsioni (Mehta, Schaal, 2002; Wolpert, Miall, Kawato, 1998). Nonostante queste direttive appaiano diffìcili da applicare in conte­ sti mai esperiti, esistono evidenze sperimentali a supporto dell’ipotesi che il sistema cognitivo metta in atto strategie simili anche nel tentati­ vo di ordinare serie casuali di stimoli (Schubotz, 2004; Schubotz, von Cramon, 2002) o di facilitare l’elaborazione di nuovi stimoli tramite quelli già noti (Bar, 2007). Le sequenze in fase di previsione sono state studiate con grande ap­ profondimento per quanto riguarda le capacità motorie, ma trovano riscontro in letteratura anche in domini di natura differente, come la musica, la percezione, le funzioni esecutive e il linguaggio (per l’am­ bito motorio, cfr. Ashe et al., 2006; Clegg, Digirolamo, Keele, 1998; Cohen, Ivry, Keele, 1990; Keele et al., 2003; Tanji, Shima, 1994; per quello musicale, cfr. Pfordresher, Palmer, Jungers, 2007; per quello percettivo, cfr. Hoen et al., 2006; Remillard, 2003; Schubotz, von Cramon, 2001; per le funzioni esecutive, cfr. Jubault, Ody, Koechlin,

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2007; Koechlin et al.) 2000; per l’ambito linguistico, cfr. Maess et al., 2016; Martin, Branzi, Bar, 2018). Il motivo di tale interesse è legato all’idea che i processi predittivi possano costituire la base del comportamento finalizzato, in quanto la programmazione di un’azione richiederebbe la conoscenza delle con­ seguenze della stessa (Hoffmann et al., 2007; Kunde, Elsner, Kiesel, 2007).

Previsione e percezione Il concetto di percezione guidata da categorie o da modelli interni non è nuovo. Se si approfondisce la storia della filosofìa, insieme alle figure di Platone e Aristotele, che in certi passaggi sembrano aver intuito una simile nozione in fase embrionale, compare quella di Immanuel Kant. Secondo il filosofo prussiano infatti, nell’atto di conoscere il mondo, l’uomo utilizzerebbe forme pure e categorie predeterminate per fare ordine nel flusso caotico di informazioni (Kant, 2018), ma è stato con Hermann von Helmholtz, come mostrato da Hohwy (2013), che si è arrivati a una teorizzazione più spendibile a livello scientifico con quella che oggi viene chiamata Idea ofthe Brain as a Hypothesis Tester. Simili tematiche si ritrovano anche nelle trattazioni di alcuni fenomenologi europei, come Husserl (2002), Heidegger (1927) e MerleauPonty (1943), in materia di primato della percezione e della sua relativa componente attiva nell’interazione con il mondo. Secondo von Helmholtz (1867), pur esperendo gli oggetti che com­ pongono la realtà in maniera immediata, l’uomo li percepirebbe come conseguenza di una serie di operazioni mentali legate a varie inferenze implicite basate su un precedente apprendimento. Successivamente, molti autori hanno approfondito il tema in numerose direzioni (Bru­ ner, Goodnow, George, 1956; Fodor, 1983; Gregory, 1980; Neisser, 1967; Pylyshyn, 1999; Rock, 1983); in particolare, è stato sostenuto che le inferenze implicite sottendano meccanismi di individuazione e im­ magazzinamento di regolarità statistiche in quanto percepito (Pearl, 1988; 2000; Woodward, 2003) sulla base della nozione di causalità

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4> COME FUNZIONA LA PREVISIONE?

come definita da David Hume (2018 )*; queste regolarità statistiche sa­ rebbero alla base dei processi di previsione ipotizzati. Da un lato, secondo la visione canonica, la percezione consistereb­ be in una serie di operazioni bottom-up che passano dal mondo ester­ no attraverso gli organi di senso fino a costituire le rappresentazioni neurali a livello corticale. La percezione avverrebbe quindi in maniera gerarchica e passiva a partire dagli stimoli più semplici fino a quelli più complessi al fine di creare un percetto coerente. Dall’altro lato, invece, si pone una visione più recente (Ballard, 1991; Ballard et al., 1997; Churchland, Ramachandran, Sejnowski, 1994) che, rifacendosi ai lavori di von Helmholtz, Merleau-Ponty, Husserl e Heidegger, so­ stiene resistenza di meccanismi di ricerca percettiva just-in-time. Pa­ rallelamente, i dati provenienti da numerosi lavori circa il default mode (Raichle, Snyder, 2.007), definito come un sistema di aree cerebrali che mostra alti livelli di attività quando non è richiesto di svolgere un com­ pito particolare ma solo di riposare (Morcom, Fletcher, 2.007, p. 1073), hanno portato a ipotizzare che le operazioni endogene in assenza di stimolazione siano la manifestazione del tentativo cognitivo di antici­ pare ciò che sta per accadere (Clark, 2015a). Prima ancora che uno stimolo effettivamente entri in contatto con gli organi di senso, il sistema cognitivo sarebbe continuamente impe­ gnato nel tentativo di anticipare la realtà; in questo modo la percezio­ ne appare duplice: da una parte la convergenza tra previsione e realtà, la cui elaborazione avviene in automatico una volta stabilita tale corripondenza; dall’altra la divergenza (definita anche prediction error), che al contrario porta con sé informazioni nuove di cui tenere conto nell’approcciarsi all’ambiente. Date queste premesse, è possibile riconcettualizzare la percezione definendola come la ricerca di errori nella previsione, piuttosto che come l’acquisizione sistematica di dati circa l’ambiente circostante; l’e­ laborazione percettiva consisterebbe quindi in un tener conto dell’er­ rore, invece che in una supervisione passiva di ciò che ci circonda (Friston, Mattout, Kilner, 2011; Poeppel, Monahan, 2011; Price, Devlin, 2011). Il miglior modo per prevedere lo sviluppo e l’evoluzione dei segnali sensoriali sarebbe dunque legato all’apprendimento di come

1. Hume parla di “causa” in relazione al fatto che a un primo evento ne segue un secondo, e che tutti gli eventi simili al primo sono seguiti da eventi simili al secondo.

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questi si rapportano gli uni con gli altri tramite un modello interno in grado di calcolare cause e conseguenze, apprendimento possibile attraverso la correzione di previsioni e il relativo aggiornamento dei modelli di riferimento (Clark, 2015a). E anche possibile spingere più in là?argomentazione: siccome una previsione coerente in ogni sua parte appare estremamente complessa dal punto di vista cognitivo, perché esisteranno sempre numerose va­ riabili impossibili da calcolare per difficoltà e numero, pensare che il sistema tenga conto di ogni singolo errore di previsione appare ecces­ sivamente costoso in termini di energie mentali (Corbetta, Kincade, Shulman, 2002). A tal fine si può ipotizzare che quegli errori di pre­ visione irrilevanti per lo stato cognitivo attuale (ad esempio, determi­ nati dettagli contestuali) possano essere ignorati inibendone l’elabo­ razione, consentendo al sistema di orientarsi solo su ciò che è centrale nel comportamento in atto {ibid.-, Esecra etal., 1000). Parallelamente, in situazioni di elevata incertezza, questi verrebbero analizzati sotto un’altra luce dalle aree coinvolte e utilizzati come informazioni sen­ sibili per il corretto adattamento all’ambiente (Winkler, Karmos, Nààtànen, 1996; Winkler, Czigler, 1998). Gli errori e le situazioni mai esperite non risulterebbero solamen­ te in segnalazioni di errata previsione, ma costituirebbero una valida opportunità di apprendimento e aggiornamento dei modelli esistenti (Kishiyama, Yonelinas, Knight, 2009; Knight, Nakada, 1998).

4.2 Evidenze sperimentali Le evidenze sperimentali relative al ruolo della previsione nella vita cognitiva sono perlopiù indirette e provengono da una serie di lavori che ha esteso i concetti fondamentali fino a ipotizzare le modalità di funzionamento della previsione stessa riprendendo un teorema statisti­ co, quello di Bayes (1763), che verrà approfondito in un paragrafo suc­ cessivo (cfr. PAR. 5.2). Dal punto di vista generale, questi lavori si sono concentrati sull’analisi della probabilità legata a un determinato evento e sulla gestione dell’incertezza da parte del sistema cognitivo (Ernst, 2010; Ernst, Banks, 2002; Helbig, Ernst, 2007; Knill, Pouget, 2004; Weiss, Simoncelli, Adelson, 2002; per una rassegna, cfr. Clark, 2013).

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4- COME FUNZIONA LA PREVISIONE?

Un’altra possibile fonte di evidenze è costituita dagli studi sulla repetition suppression, molti dei quali hanno mostrato che Fattività neurale evocata da un determinato stimolo viene ridotta dalla ripetizione di quello stesso stimolo (per una rassegna, cfr. Grill-Spector, Henson, Martin, 2006). Inoltre, è stato anche riportato che Feffetto della repe­ tition suppression è significativamente inferiore se la ripetizione di un dato simolo è difficile da prevedere (Summerfield, Koechlin, 2008). Esistono anche alcune evidenze sperimentali a favore dell’ipotesi della continua produzione di previsioni, anche implicite, da parte del sistema cognitivo (per una rassegna, cfr. O’Callaghan et al., 2017). Lin, Franconeri ed Enns (2008), ad esempio, hanno studiato come alcuni cambiamenti in un elemento distraente modificassero la prestazione in compiti di ricerca di un elemento target. In particolare, ai partecipanti che hanno preso parte agli esperimenti è stato chiesto di individuare quale degli elementi circolari presenti su uno schermo sarebbe diventa­ to ovale, ignorando le modifiche che avrebbero potuto subire gli altri (di questi infatti uno avrebbe aumentato le proprie dimensioni). Dai risultati è emerso che l’ingrandimento di un elemento era un fatto­ re di distrazione solo quando la direzione in cui avveniva coinvolgeva 1 osservatore. Questi esiti indicherebbero che determinate previsioni a livello percettivo verrebbero comunque effettuate, anche quando non espressamente richiesto dal compito che si sta eseguendo (Enns, Lleras, 2008). Lo studio di Lin Franconeri ed Enns (2008) ha ricevuto conferme anche da lavori più recenti (Moher, Sit, Song, 2015; Skarratt et al., 2014). Allo stesso modo è stato riportato che determinati indizi conte­ stuali possono modificare significativamente la prestazione. lordanescu e colleghi (2008) hanno indagato questo aspetto e dal loro lavoro è emerso che Fascolto di determinati suoni facilita F identificazione di immagini ad essi collegati, ma non della parola a cui rimandano (udire il verso di un gatto facilitava la ricerca dell’immagine del gatto, ma non quella della parola “gatto”). Sempre nel dominio della percezione, Balas e Sinha (2007) hanno indagato il ruolo delle componenti predittive mostrando ai parteci­ panti per un tempo estremamente limitato (50 ms) alcune immagini con parti in bianco e nero e altre colorate e chiesto loro di risponde­ re se lo stimolo percepito fosse colorato, bianco e nero oppure misto. Dai risultati è emerso che le prestazioni dei partecipanti tendevano a essere piuttosto inaccurate quando si trattava di discriminare il colore

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dell'immagine, a prescindere dalla parte mostrata in bianco e nero, e che negli stimoli contenenti scene naturali si presentava un numero significativamente superiore di falsi allarmi. Questi risultati supporte­ rebbero l’ipotesi di una continua produzione di previsioni che verreb­ bero effettuate per rendere coerenti i percetti, come nel caso del campo visivo periferico, il quale viene percepito come densamente colorato nonostante la scarsa concentrazione di coni nelle aree della retina de­ putate (Enns, Lleras, 2008). Un altro corpus di evidenze, che riprende i temi dello studio di Lin, Franconeri ed Enns (2008), è costituito dai lavori sul ruolo del contesto all’interno del riconoscimento degli oggetti (per una rassegna, cfr. Oli­ va, Torralba, 2007). In particolare, è stato mostrato che i partecipanti utilizzavano determinati indizi contestuali per dirigere l’attenzione, gestire le risorse cognitive e, più in generale, rappresentarsi significati. E possibile speculare su questa tematica e avvicinare le previsioni effet­ tuate tramite gli agganci contestuali alle distorsioni mnestiche come suggestibility e bias, soprattutto se declinate nella variante di inclusione per via semantica di parole mai esperite (Roediger, McDermott, 1995), sostenendo che sottendano gli stessi processi a livello della memoria semantica. Saenz e Koch (2008) hanno descritto un fenomeno sinestesico, noto come Visually-Evoked Auditory Response (vear; cfr. anche Fassnidge, Cecconi Marcotti, Freeman, 2017): chi lo prova riferisce di udire il suono di determinati eventi, anche in assenza di stimoli sonori effettivi. Gli autori lo hanno descritto per primi utilizzando un compi­ to di discriminazione di sequenze visive. In particolare, ai partecipanti è stato chiesto di giudicare se due sequenze (formate da stimoli visivi di durata differente, assimilabili a caratteri del codice Morse) erano iden­ tiche o differenti per 100 prove. Dai risultati è emerso che le presta­ zioni di coloro che riferivano di esperire il fenomeno erano significa­ tivamente migliori di quelle dei partecipanti di controllo. Secondo gli autori, gli individui sin estesici avrebbero beneficiato di stimoli uditivi che erano preclusi ai partecipanti di controllo, confermando quindi l’esistenza del fenomeno a livello percettivo. Recentemente Fassnidge, Cecconi Marcotti e Freeman (ibid.) han­ no ottenuto un’evidenza più diretta mostrando che le prestazioni dei partecipanti che riferivano di esperire il fenomeno erano significati­ vamente peggiori di quelle dei partecipanti di controllo in compiti di riconoscimento di suoni quando questi erano accompagnati da stimoli

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