Marxismo 9788815284600, 8815284605

A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l'esposizione d

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indice del volume: Premessa. - I. Dal marxismo a Marx. - II. Dall’opposizione al potere. - III. Marxismi occidentali. - IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia. - V. Un’eredità politica contrastata. - VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. - Bibliografia. - Indice dei nomi.
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 9788815284600, 8815284605

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TRADIZIONI DI PENSIERO a cura di

Massimo Mori

Marxismo di

C e s a r e P ia n c io l a

Itinerari

TRADIZIONI DI PENSIERO a cura di

Ma s s im o M o ri

A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l'esposizione dei loro temi portanti e delie figure in cui si sono concretati.

Marxismo indice del volume: Premessa. - 1. Dal marxismo a Marx. - IL Dall'opposizione al po­ tere. - III. Marxismi occidentali. - IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociolo­ gia. - V. Un'eredità politica contrastata. - VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. - Bibliografia. - Indice dei nomi.

CESARE PIANCIOLA ha insegnato Storia e Filosofia nella Scuola secondaria su­ periore. Fra i suoi libri ricordiamo «Il pensiero di Karl Marx. Una antologia dagli scritti» (Loescher, 1971) e «Piero Gobetti. Biografia per immagini» (Gribaudo, 2001); ha inoltre curato, di Norberto Bobbio, «Scritti su Marx. Dialettica, stato, so­ cietà civile» (con F. Sbarberi, Donzelli, 2014) e «Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)» (con G. Cambiano, Petite plaisance, 2017).

TRADIZIONI DI PENSIERO a cura di MASSIMO MORI

► Aristotelismo di ENRICO BERTI ► Marxismo di CESARE PIANGOLA ► Platonismo di RICCARDO CHIARADONNA di prossima pubblicazione ► Tomismo di PASQUALE PORRO

CESARE PIANGOLA

Marxismo

il M u lin o

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:

www.mulino.it

Redazione e produzione: Edimill srl - www.edimill.it

Indice

Premessa

I.

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Dal marxismo a Marx

1. Quando nasce il marxismo 2. Marx e Engels: dioscuri divergenti? 3. L’ultimo Engels 4. Scoperte del Novecento: i Manoscritti del 1844, L’ideologia tedesca, i Grundrisse 5. La seconda MEGA: un nuovo Marx? II.

III.

Dall'opposizione al potere

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1. La Seconda Internazionale: ortodossi ed eterodossi

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2. Lenin, «marxismodeninismo», stalinismo 3. Dal diamat staliniano al pensiero di Mao

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Marxismi occidentali

1. 2. 3. 4.

I percorsi di Lukàcs e Korsch Gramsci, la Scuola di Francoforte,Benjamin e Bloch Nell’Est europeo Gli individui, le strutture, la storia 5. In Italia: rinnovamenti, crisi, rinascite 6. Domande di ieri e di oggi

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57 57 61 68 71 75 82

6

Indice

IV.

Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia 1. La critica dell’economia politica

2. Prezzo e valore 3. Saggio di profitto e diseguaglianze nel sistema mondiale 4. Liberazione del lavoro e dal lavoro 5. Il lavoro nella «società postindustriale» e «postmoderna» V.

Un'eredità politica contrastata

1. Efficacia delle ideologie 2. Filosofie politiche normative 3. Marxismo, liberalismo, comunitarismo VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente

1. Un passato che non passa 2. Produzione, riproduzione, differenza 3. La sfida ecologica

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Bibliografia

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Indice dei nomi

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Premessa

In una serie di libri che vuole delineare le tradizioni di pensiero, il mar­ xismo è un -ismo diverso da altri -ismi filosofici perché, in primo luogo, nell’originaria teoria di Karl Marx la filosofia è ben presto strettamente in­ trecciata alla critica dell’economia politica e alle conseguenze che ne deriva­ no in ordine alla trasformazione rivoluzionaria della società. Partito da una narrazione della storia come perdita della sostanza umana nell’alienazione del lavoro e realizzazione di una piena umanità nel comuniSmo, nella matu­ rità Marx vuole invece stabilire le leggi di funzionamento del modo di pro­ duzione capitalistico e le sue tendenze obiettive, scientificamente rilevabili. Che rapporto c’è tra il Marx filosofo e il Marx scienziato? Si può isolare una filosofia marxista? E che tipo di scienza è quella di Marx? A queste doman­ de - come vedremo - sono state date risposte molto diverse. La storia del marxismo è la storia dei teorici che hanno ripreso, inter­ pretato, sviluppato il pensiero dei fondatori, ma anche quella della loro collocazione nella storia del socialismo e del comuniSmo. Il marxismo è una teoria che si è fatta anche realtà politica e sociale nei movimenti, partiti poli­ tici e paesi che hanno tentato, o creduto, di realizzarlo, di tradurlo in prassi storica. Pur essendo venute meno - in Occidente - rilevanti formazioni po­ litiche che si riferivano al marxismo come loro base dottrinale, ed essendosi dissolti l’URSS e il sistema degli Stati dell’Europa dell’Est che ne avevano fatto la loro ideologia di legittimazione, rimane tuttavia in qualche misura vero quanto diceva Norberto Bobbio: Marx è un classico ma «M arx non è un Kant né un Leibniz per i quali una discussione puramente teorica può

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essere anche fine a se stessa. In una discussione su Marx, il problema della teoria è inscindibile da quello sulla prassi»1. Quindi, ci muoveremo tra queste tre dimensioni del marxismo: a) in senso ristretto, la teoria di Karl Marx e di Friedrich Engels, ma già con le necessarie distinzioni, perché c’è in Engels una prima elaborazione del marxismo come teoria sistematica, che si avventura anche in campi come la «dialettica della natura» non praticati da Marx; b) in senso più largo, il com­ plesso degli sviluppi concettuali elaborati a partire dalla teoria di Marx, sia rivendicandone la permanente validità, sia operandone le revisioni ritenute necessarie; c) in modo ancora più esteso, il marxismo come storicamente ha preso forma nei movimenti, partiti e Stati che ne hanno fatto il loro punto di riferimento essenziale. Ma accenneremo a questa terza dimensione solo quando sarà indispensabile e ci concentreremo piuttosto sul marxismo teo­ rico nelle mutevoli configurazioni del rapporto tra concetti filosofici, teoria del materialismo storico, critica dell’economia politica, critica della politica. Non si dovrà cercare nelle pagine che seguono una storia del marxismo che si aggiunga a quelle esistenti nella nostra lingua2, anche se i protagonisti di questa storia verranno rapidamente evocati nei capitoli secondo e terzo, e torneranno in rapporto alle problematiche concettuali trattate successiva­ mente. Infine, la nostra ricerca non sarà tanto volta a definire cosa sia il marxi­ smo nei suoi tratti generali e comuni, quanto piuttosto a indicare i modi dif­ ferenti e spesso contrastanti in cui la teoria di Marx è stata ripresa, interpreta­ ta e sviluppata nella storia intellettuale e politica degli oltre centotrent’anni che ci separano dalla sua morte. Siamo convinti che siano oggi attuali, ancor più che nel periodo in cui sono state formulate, le riflessioni che svolgeva nel 1960 Maurice Merleau-Ponty intorno a Marx e al marxismo, quando scrive­ va, nella prefazione a Segni, che «il marxismo è un immenso campo di storia e di pensiero sedimentati». E aggiungeva: La storia del pensiero non pronuncia sentenze sommarie: questo è vero, questo è falso: come ogni storia, essa ha decisioni sorde; rende inoffensive o imbalsama certe dottrine [...]. Ce ne sono invece altre che mantiene in attività [...] perché esse continuano a parlare al di là degli enunciati e delle proposizioni, intermediari obbligati se si vuol proce­ dere oltre. Sono questi i classici, i quali sono riconoscibili dal fatto che

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nessuno li prende alla lettera e che, tuttavia, quanto c e di nuovo non è mai assolutamente fuori della loro competenza, poiché essi ne traggono nuovi echi, vi rivelano nuovi rilievi. Noi diciamo che il riesame di Marx sarebbe la meditazione di un classico, e che non potrebbe finire né con un nihil obstat, né con la messa all’indice3. Sono parole che ricordano quanto aveva detto su Marx nel 1942 l’au­ torevole economista austriaco e storico delle teorie economiche Joseph Schumpeter, un critico del pensatore di Treviri che però considerò le Teorie sul plusvalore «un monumento di passione teoretica» e scrisse: La maggior parte delle creazioni dell’intelligenza o della fantasia scompaiono per sempre dopo un periodo che va da un’ora a una gene­ razione. Alcune, tuttavia, sfuggono a questo destino: subiscono eclissi, è vero, ma risorgono, e risorgono non come elementi irriconoscibili di un patrimonio culturale, ma nella loro veste unica e con le loro inconfon­ dibili cicatrici, che tutti possono vedere e toccare. Sono le creazioni che meritano d’essere chiamate grandi [...]. Preso in questo senso, il termine si applica indubbiamente al messaggio di Marx4. In questo spirito presuppongo un lettore che non cerchi sbrigative con­ futazioni né altrettanto sommarie apologie e abbia, invece, la pazienza di seguire argomentazioni, ragionamenti, interpretazioni, controversie, valu­ tando l’importanza delle domande oltre a quella delle risposte. Ringrazio Massimo Mori, che ha sostenuto la pubblicazione di questo vo­ lume per il Mulino, nonché Antonio Bechelloni, Riccardo Bellofiore, Leonardo Ceppa, Nino De Amicis, Massimo L. Salvadori, Lino Sau e Franco Sbarberi, che, insieme a mia moglie Santina Mobiglia e a mio figlio Niccolò, ne hanno letto in tutto o in parte le prime stesure dandomi utili consigli per quella definitiva, delle cui manchevolezze - come anche delle interpretazioni proposte - sono ovviamen­ te il solo responsabile. Avvertenza Gli scritti di Marx e di Engels sono citati come MEOC-. K. Marx e F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1972-1990; il volume 31, con una nuova traduzione del primo libro del Capitale, è stato pubblicato nel 2011 (Napoli, La

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Città del Sole). La sigla è seguita dal numero del volume e della pagina. Per gli scritti non compresi nella M EO C, rimasta largamente incompleta (per cui nel 2018 le Edizioni di Lotta Comunista ne hanno iniziato a Milano la ristampa ag­ giornata con il progetto di pubblicare anche i volumi mancanti), o per altre ver­ sioni, indicheremo in nota le traduzioni italiane usate. Per gli articoli in formato digitale e i siti citati, l’ultima consultazione è avve­ nuta il 15 maggio 2019.

NOTE

1 N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976, p. 24. 2 Oltre a AANV., Storia del marxismo, 4 voli., Torino, Einaudi, 1978-1982, si veda S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo, 3 voli., Roma, Carocci, 2015. 3 M. Merleau-Ponty, Segni, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 32. 4 J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 20095, p. 3.

CAPITOLO

Dal marxismo a Marx

1. QUANDO NASCE IL MARXISMO Si potrebbe ritenere che il termine «marxismo» abbia indicato la teoria di Karl Marx (1818-1883) almeno a partire dal Manifesto del partito comu­ nista, redatto nel 1847 insieme a Friedrich Engels (1820-1895), un testo fondamentale nella loro biografia politico-intellettuale1 destinato ad ave­ re una diffusione mondiale2. In realtà a metà Ottocento nessuno parlava di «marxismo». Il Manifesto, uscito anonimo a Londra nel febbraio 1848, passò pressoché inosservato nella bufera degli eventi di quell’anno decisi­ vo ed ebbe una faticosa circolazione negli anni successivi. All’epoca della sua stesura Marx e Engels erano conosciuti soltanto in ristretti ambienti intellettuali e in circoli socialisti, soprattutto degli emigrati tedeschi. Più tar­ di, con la Prima Internazionale (Associazione internazionale dei lavoratori, 1864-1876) e con gli scritti sulla Comune di Parigi (1871), Marx acquistò la statura di un leader riconosciuto del movimento operaio europeo. In quegli anni Marx e Engels divennero i mentori del Partito socialdemocratico dei lavoratori fondato in Germania nel 1869 e confluito nel 1875 nel Partito socialista dei lavoratori tedeschi (dal 1890 SPD, Sozialdemokratische Partei Deutschlands) insieme all’altro partito socialista rivale fondato da Ferdi­ nand Lassalle (1825-1864); mantennero però la più completa autonomia rispetto all’organizzazione politica, il cui Programma di Gotha (1875) fu criticato senza mezzi termini da Marx e quello di Erfurt (1891) da Engels. La parola «marxista» comparve tardivamente, con intenti polemici, ne­ gli scritti degli anarchici seguaci di Michail Bakunin (1814-1876) che contra-

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stavano i marxisti come statalisti nelle lotte politico-ideologiche interne alla Prima Internazionale, e solo dagli inizi degli anni ottanta dell’Ottocento il termine «marxismo» venne ripreso in accezione positiva dai seguaci di Marx e di Engels3. Si cominciò anche a costruire un sistema filosofico-scientifico che più che a Marx deve essere attribuito a Engels e a Karl Kautsky (1854-1938), che nello stesso anno della morte di Marx (1883), fondava la grande rivista teorica della socialdemocrazia tedesca «D ie Neue Zeit» (Il tempo nuovo). Entrambi contribuirono in modo determinante alla prima sistemazione del «marxismo» che si diffuse negli anni successivi alla morte del pensatore di Treviri. Engels aveva dato una prima «esposizione più o meno unitaria del me­ todo dialettico e della visione comunista del mondo» (M EOC, 25, p. 6) nella polemica contro il professore positivista Karl Eugen Dùhring (1833-1921): La scienza sovvertita del signor Eugen Dùhring o Anti-Dùhring del 1878, divisa in tre ampie sezioni: filosofia, economia politica (cui contribuì anche Marx), socialismo. In Engels il marxismo veniva a comprendere tre piani interconnessi: l’interpretazione materialistica della storia; la teoria del modo capitalistico di produzione, del suo funzionamento e del suo necessario tramonto; l’enucleazione delle leggi dialettiche che reggono sia la storia umana sia quella della natura. L’originaria teoria critica della società diventava una Weltanschauung, una visione del mondo, che intendeva fornire al movi­ mento socialista in espansione una sicura base scientifica. Essa riprendeva e riqualificava anche alcuni aspetti dei precedenti socialismi e comuniSmi «critico-utopistici» di Henri de Saint-Simon (1760-1825), Charles Fourier (1772-1837), Robert Owen (1771-1858), già discussi nella terza parte del Manifesto del partito comunista. Su questo tema Engels nel 1880 traeva dal suo Anti-Dùhring un opuscolo destinato a una grande diffusione come com­ pendio popolare del marxismo: Devoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza o Socialismo utopistico e socialismo scientifico, come venne intitolato in molte traduzioni italiane. Successivamente, sulla «Neue Zeit» di Kautsky, Engels pubblicò nel 1886 un saggio, poi diffuso nel 1888 come volume, che portava un altro tassello al marxismo in via di edificazione: Ludwig Feuerbach e il punto diap-

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prodo della filosofia classica tedesca. Qui contrapponeva il sistema hegeliano, idealistico e conservatore, che andava respinto, e il metodo dialettico, rivo­ luzionario, che andava bensì ereditato da Hegel, ma riformulato in termini materialistici. Concludeva lo scritto affermando che «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca». In lettere a vari corrispondenti4 Engels ricorda che Marx una volta, prendendo le distanze da alcuni suoi seguaci francesi, aveva detto: «ce qu’il y a de certain c’est que moi, je ne suis pas marxiste» (è certo che, quanto a me, non sono marxista). Questa frase è stata ripetuta molte volte per sottoli­ neare la differenza tra ciò che ha veramente detto il fondatore della dottrina e le sistemazioni degli epigoni, e per tracciare la distanza tra Marx e i mar­ xismi successivi5, anche da quel sistema che venne inizialmente elaborato da Engels e con Kautsky divenne il marxismo «ortodosso» della Seconda Internazionale, fondata dai partiti operai e socialisti nel 1889.

2. MARX E ENGELS: DIOSCURI DIVERGENTI? Al cimitero londinese di Highgate, il 17 marzo 1883, il compagno di Marx, che sopravvisse dodici anni all’amico dedicando gran parte del tempo e delle energie alla pubblicazione delle sue opere postume - facendo uscire il secondo libro del Capitale nel 1885 e il terzo nel 1894 -, pronunciò un breve discorso funebre6 in cui fissava le due grandi scoperte di Marx. La prima era la «legge dello sviluppo della storia umana» per cui le istituzioni statali e giuridiche, le idee e le produzioni culturali dovevano essere spiega­ te riportandole alla base economico-sociale che le ha generate. Così, nella prefazione all’edizione tedesca del Manifesto scritta da Engels appena dopo la morte di Marx, ne riassumeva il «pensiero fondamentale» che avrebbe avuto per l’interpretazione della storia - diceva - un’importanza analoga a quella della teoria di Darwin per le scienze naturali: la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne consegue formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politi­ ca e intellettuale dell’epoca stessa; [...] conforme a ciò, dopo il dissolver­ si della primitiva proprietà comune del suolo, tutta la storia è stata una

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storia di lotte di classi, di lotte tra classi sfruttate e classi sfruttatrici, tra classi dominate e classi dominanti, in diversi gradi dello sviluppo sociale; [...] questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata e op­ pressa (il proletariato) non può più liberarsi della classe che la sfrutta e l’opprime (la borghesia), senza liberare anche a un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento, dall’oppressione e dalle lotte fra le classi (MEOC, 6, p. 662). Questa era in estrema sintesi la «concezione materialistica della storia» o «materialismo storico», termini usati e diffusi da Engels. La seconda scoperta di Marx - proseguiva l’elogio funebre - era «la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitali­ stico e della società borghese da esso generata» e in particolare la teoria del plusvalore esposta nel Capitale. Significativamente, nella prefazione del 1885 al secondo libro del Capitale, Engels, sempre attento alle analogie tra scienze naturali e scienze sociali, fece un parallelo, tratto dalla storia della chimica, tra Lavoisier che, esaminando i fenomeni della combustione, aveva scoperto un nuovo elemento chimico, l’ossigeno, dove i suoi predecessori avevano visto un misterioso flogisto, e Marx che aveva visto nel plusvalore la soluzione dei problemi non risolti dagli economisti classici - come Adam Smith (1723-1790) e David Ricardo (1772-1823) - che avevano indagato il lavoro come origine del valore delle merci. Marx «non pretese di essere il primo ad avere scoperto il fatto dell’esistenza del plusvalore» ma a diffe­ renza dei suoi predecessori vide nel lavoro non pagato di cui si appropria il capitalista non un semplice dato economico, come gli economisti, né il con­ flitto di questo fatto con la giustizia e la morale, come i primi socialisti, bensì la chiave di volta per la comprensione dell’intera produzione capitalistica e delle sue contraddizioni e tendenze storiche. Engels concludeva il suo discorso funebre dicendo che «lo scienziato non era neppure la metà di Marx. [...] Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario» che aveva dato al proletariato moderno «la coscienza delle condizioni della propria liberazione». Nel discorso non compare la parola «dialettica» che lui e Marx usavano ampiamente, né tanto meno la dialettica della natura che è il contributo filosofico più originale della maturità di Engels. Marx e Engels parlarono

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di «dialettica materialistica» e non di «materialismo dialettico», espressione che pare sia stata coniata negli anni novanta dell’Ottocento dal marxista rus­ so Georgi] Plechanov (1856-1918). Ciò non toglie che si debba a Engels l’in­ troduzione nel marxismo dello studio delle leggi generali del movimento e del divenire, che aveva trattato nell’Anti-Duhring e nell’incompiuta Dialetti­ ca della natura, pubblicata postuma in Unione Sovietica nel 1925. In queste opere Engels enunciava le tre leggi della dialettica che poi furono codificate come «materialismo dialettico» e le illustrava con molti esempi tratti dai più vari campi, dalla matematica alle scienze naturali, alla storia. Esse sono: 1. la trasformazione della quantità in qualità (per cui l’accumulazione di mu­ tamenti nella natura e nella storia produce salti qualitativi) e viceversa; 2. la compenetrazione e l’interdipendenza degli opposti (la realtà è fatta di aspet­ ti contraddittori che ne determinano il perenne movimento); 3. lo sviluppo attraverso la negazione della negazione. Secondo quest’ultima legge - negli esempi di Engels - un chicco d ’orzo si nega nella pianta, e questa, quando lo stelo muore, viene a sua volta negata dando luogo a chicchi d ’orzo mol­ tiplicati, così come la proprietà personale degli strumenti di produzione da parte di contadini e artigiani viene negata con la loro proletarizzazione ad opera della proprietà privata capitalistica e questa, a sua volta, viene negata nel futuro assetto comunista. Nella prefazione del 1885 alla seconda edizione dell 'Anti-Duhring En­ gels precisava che si era basato sullo stato delle scienze naturali degli anni settanta e che non aveva poi avuto il tempo di seguire minutamente il «pro­ cesso di rivoluzionamento» in atto in numerosi settori, ma tale processo rafforzava la sua convinzione che nella natura sono operanti, nell’intrico degli innumerevoli cambiamenti, quelle stesse leggi dialettiche del movimento che anche nella storia do­ minano la apparente accidentalità degli avvenimenti; quelle stesse leggi che, costituendo del pari il filo conduttore della storia dello sviluppo del pensiero umano, diventano gradualmente note agli uomini che pensa­ no; leggi che per la prima volta furono sviluppate da Hegel in maniera comprensiva, ma in forma mistificata, e che è stato uno dei nostri intenti liberare da questa forma mistica e rendere chiaramente comprensibili in tutta la loro semplicità e universale validità (MEOC, 25, p. 9).

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Engels si rifaceva largamente a Hegel ma se ne distaccava decisamente quando affermava, nell’Anti-Diihring e nel Ludwig Veuerbach, che non c’è bisogno di una «scienza filosofica» onnicomprensiva, perché la filosofia ha esaurito la sua funzione di sapere globale con pretese di assolutezza, e, con lo sviluppo dei vari rami delle scienze, ciò che resta della filosofia è solo la logica formale e quella dialettica, mentre «tutto il resto si risolve nella scien­ za positiva della natura e della storia», e nella sintesi dei loro risultati. La «scienza positiva» era secondo Engels anche dialettica a condizione che gli scienziati avessero riconosciuto nei loro rispettivi campi l’operare delle leggi scoperte da Hegel e non avessero seguito il materialismo volgare diffuso in Germania all’epoca in cui Engels scriveva. Il materialismo di molti positi­ visti tedeschi, precisava, era il protrarsi nel X IX secolo del meccanicismo sei-settecentesco, incapace «di concepire il mondo come un processo, come una materia soggetta a un continuo perfezionamento storico»7. Questa nuova visione dinamica della natura era dovuta alle scoperte decisive della scienza ottocentesca e soprattutto all’evoluzionismo darwiniano, che Engels difendeva in molte pagine dalle critiche di Dùhring. Tuttavia avvertiva an­ che il pericolo di dissolvere il marxismo in un generico evoluzionismo: il fi­ lologo marxista Sebastiano Timpanaro (1923-2000) ha osservato che Engels «reagì con un irrigidimento hegeliano e addirittura con una rivalutazione polemica (pur senza accoglierla) della parte più caduca dell’hegelismo, la Filosofia della Natura», ma che questo non toglie interesse al suo tentativo di saldare il materialismo storico con le scienze della natura e le filosofie sorte sul loro terreno8. E una saldatura che in Engels ha un aspetto accennato dal filosofo della scienza Ludovico Geymonat (1908-1991): il collaboratore di Marx afferma­ va che il materialismo storico era un filo conduttore degli studi e non uno schema a priori, e tuttavia, legandolo a una visione complessiva della natura, intendeva rafforzarlo, mettendolo al riparo dalla sua riduzione a un possibi­ le modello interpretativo tra altri, a una ipotesi che rischiava sempre di poter essere considerata una costruzione mentale soggettiva9. Spesso si è sostenuto che l’impresa engelsiana aveva poco a che fare con Marx, il quale certamente era immerso in altre preoccupazioni e soprattut­ to nell’impegnativa opera di critica dell’economia politica. Ma, altrettanto certamente, dal carteggio tra i due risulta che Marx seguiva attentamente

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gli studi dell’amico e discuteva con lui anche questioni attinenti a campi scientifici lontani dai suoi interessi diretti, documentandosi, per esempio, sulla biologia evoluzionistica. Marx, inoltre, rileggeva e utilizzava Hegel per la sua critica dell’economia politica, e il 16 gennaio 1858 aveva scritto a En­ gels che, quanto al metodo del lavoro, gli era stata utilissima la rilettura della Logica di Hegel: «Se tornerà mai il tempo per lavori del genere - diceva -, avrei una gran voglia di rendere accessibile all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma nello stesso tempo mistificato» (M EOC, 40, p. 273)10. Infine, Marx rese omaggio a Hegel come grande pensatore del metodo dialettico nel poscritto del 1873 alla seconda edizione tedesca del Capitale: mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là nel capitolo sulla teoria del valore col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato £ primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le sue forme generali del movimento. In lui essa sta in piedi sulla testa. Bisogna rove­ sciarla per scoprire £ nocciolo razionale entro £ guscio mistico (MEOC, 31, p. 22). Riferendosi alla lontana fortuna del pensiero di Hegel e al discredito in cui era caduto, Marx contrappone alla forma idealistica mistificata della dialettica una forma critica e rivoluzionaria che corrisponderebbe all’essen­ za stessa del metodo dialettico, il quale «nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto». Oggi diversi studiosi sottolineano la presenza di Hegel nell’intelaiatura concettuale e linguistica del Capitale ben al di là di quanto dichiarato dallo stesso Marx, riaprendo così il problema del rapporto tormentato con il suo antico maestro11. E comunque difficile ritenere che l’impresa di riesporre materialisticamente le forme generali della dialettica fosse estranea a Marx. La discussione - che è uno dei grandi dibattiti che percorre la storia del mar­ xismo teorico - tocca piuttosto tre punti: a) se si deve intendere la dialettica marxiana come un semplice «capovolgimento» materialistico di quella he­ geliana oppure se essa ha caratteri distintivi che ne fanno uri altra dialettica,

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irriducibile alla dialettica hegeliana seppure capovolta; b) se ha senso parlare di dialettica della natura, oppure se la dialettica della natura è l’estensione al mondo naturale di categorie che derivano dal mondo storico-sociale e solo in esso hanno significato pregnante e non solo metaforico; c) se anche nei pro­ cessi storico-sociali l’uso da parte di Marx di categorie dialettiche come quel­ la di «negazione della negazione» è da considerare come il frutto di «civette­ rie» hegeliane da cui la teoria marxiana andrebbe depurata, oppure - come è stato ed è sostenuto da molti studiosi - se bisogna valutare il metodo dialetti­ co e l’eredità hegeliana come parti costitutive e irrinunciabili del marxismo.

3. L’ULTIMO ENGELS La dialettica della natura avrà una particolare fortuna come compo­ nente del «marxismo-leninismo» sovietico, ma di non minore rilievo furono altri contributi dell’operosa vecchiaia di Engels. Innanzitutto, nella lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890 e in altre lettere dei primi anni novanta, metteva in guardia dal semplificare la teoria marxiana negando l’importanza dei condizionamenti «sovrastrutturali» come le forme giuridiche, politiche, culturali che retroagiscono sulla base economica. Engels raccomandava di raccogliere minuziosamente il ma­ teriale storico prima di avventurarsi in grossolane riduzioni di processi in cui l’economia è sì il motore determinante ma solo «in ultima istanza». Il mo­ vimento economico si impone come fattore più importante, ma altri fattori, benché secondari, dovevano essere presi in considerazione, comprese «le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose e il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici» (MEOC, 48, p. 492). Engels, tra vari interessi, coltivava quello per la storia del cristianesimo e nel 1894 pubblicò il saggio Per la storia del cristianesimo primitivo, in cui istituiva un’analogia tra la diffusione della religione cristiana nel mondo pa­ gano in disgregazione e la rapida diffusione del socialismo alla fine dell’Ot­ tocento: La storia del cristianesimo primitivo offre notevoli punti di con­ tatto col movimento operaio moderno. [...] Entrambi [...] predicano

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un imminente riscatto dalla servitù e dalla miseria; ma il cristianesimo pone questo riscatto in una vita dell’aldilà, dopo la morte, nel cielo, il socialismo lo pone in questo mondo, in una trasformazione della società. Entrambi sono perseguitati e braccati [...]. E nonostante tutte le perse­ cuzioni, anzi proprio favoriti da esse, entrambi avanzano vittoriosamen­ te, irresistibilmente12. Poteva essere un accostamento che si prestava a essere usato contro la dottrina che Engels difendeva. Egli riconosceva che il marxismo dà una base filosofico-scientifica ad aspirazioni comunistiche prima fondate religiosamente, dal cristianesimo primitivo ai movimenti ereticali del Medioevo e della Riforma, ad alcuni socialismi ottocenteschi (Nuovo cristianesimo è, per esempio, l’ultimo scritto di Saint-Simon, del 1825), ma certamente avrebbe protestato vivacemente contro la tesi che vede una intima sostanza religiosa che permane entro l’involucro scientifico del marxismo, come è stato invece sostenuto da vari suoi critici13. Un altro filone di studi è quello che lo portava a correggere la celebre affermazione iniziale del Manifesto secondo cui la storia di ogni società fino­ ra esistita è storia di lotte di classi, apponendo una nota all’edizione inglese del 1888 in cui segnalava che prima della divisione della società in classi era esistita la «società comunistica primitiva», come dimostravano le ricer­ che etnologiche che interessarono Marx negli ultimi anni14, e su cui Engels basò nel 1884 l i origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Di originaria proprietà comune presente nella storia del mondo classico, dei germani, dei celti e in India i due amici avevano già parlato fin dagli anni cinquanta, e Marx aveva scritto nel primo libro del Capitale-. La cooperazione nel processo lavorativo che troviamo predomi­ nante agli inizi dell’incivilimento dell’umanità presso popoli cacciatori o, per esempio, nell’agricoltura delle comunità indiane, poggia da una parte sulla proprietà comune delle condizioni di produzione, dall’altra sul fatto che il singolo individuo non si è ancora strappato dal cordone om­ belicale della tribù o della comunità, come l’individuo ape non si stacca dall’alveare (MEOC, 31, p. 366).

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Ora però trovarono accurate descrizioni delle società irochesi senza proprietà privata e senza Stato - e dei lignaggi matrilineari delle loro gentes (stirpi di consanguinei) - in La società antica (1877) dell’antropologo ameri­ cano Lewis Henry Morgan (1818-1881). Morgan, che era un evoluzionista politicamente progressista, per conto suo aveva considerato giunta alla fine la società fondata sulla proprietà privata e sul culto del denaro, e aveva scrit­ to, in un passo citato da Engels in conclusione del suo libro, che ci sarebbe stato uno stadio superiore della civiltà, con democrazia politica, fraternità sociale, eguaglianza nei diritti, istruzione per tutti: «Sarà - affermava Mor­ gan - una resurrezione, in una forma più elevata, della libertà, dell’egua­ glianza e della fraternità delle antiche gentes». Engels documentava anche, con il ricorso al materiale antropologico e a II matriarcato (1861) dello studioso tedesco Johann Jakob Bachofen, la tardiva apparizione della famiglia monogamica legata alla conservazione della proprietà e alla trasmissione ereditaria dei beni, aggregato sociale che implicava la reclusione domestica della donna. «L o studio della storia delle origini invece - diceva Engels - ci presenta condizioni in cui gli uomini vivo­ no in poligamia e contemporaneamente le loro donne vivono in poliandria, e i figli comuni sono perciò considerati anche come cosa comune a tutti loro»15. L’evoluzionismo di Morgan, con la rigida successione di tre fasi (sel­ vaggia, barbara e civile) e con la collocazione spesso arbitraria del mate­ riale etnologico nelle sue classificazioni, venne abbandonato dalle correnti principali dell’antropologia del Novecento. Ma l’opera di Engels ebbe un notevole rilievo nella storia del marxismo, sia perché ribadiva la transitorietà storica dello Stato, nato con la divisione della società in classi e destinato a essere riposto nel museo delle antichità nella società comunista futura, sia perché introduceva nel materialismo storico la considerazione della riproduzione della vita della specie, la sessualità, e la rilevanza dei sistemi di parentela nell’organizzazione sociale16. Quella di Engels era una «critica della civiltà» che si ricollegava esplici­ tamente a Fourier, elogiato nell'Anti-Dùhring, tra l’altro, per la sua tesi che i progressi sociali sono contrassegnati dal progresso delle donne verso la li­ bertà. I!origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato portava un contributo all’impostazione emancipazionista della «questione femminile»

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nel movimento operaio, insieme a La donna e il socialismo (1883) di August Bebel (1840-1913), uno dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca e stretto collaboratore di Engels. Caratteri e limiti del marxismo di Engels sono infine anche evidenti in un notevole intervento sulla «questione ebraica», poco prima che scoppias­ se Yaffaire Dreyfus. Con una lettera-articolo del 19 aprile 1890 rispondeva a un socialista viennese di origine ebraica, preoccupato dalla diffusione di un antisemitismo popolare17. Prendendo una ferma posizione contro l’anti­ semitismo, Engels lo interpretava come la reazione di strati sociali rovinati dallo sviluppo capitalistico, soprattutto nell’Europa orientale: «una cultura arretrata» che non poteva realmente attecchire nei paesi più progrediti. «Se si volesse fare dell’antisemitismo qui in Inghilterra o in America si farebbe soltanto ridere», affermava. Esprimeva cioè la convinzione che l’antisemiti­ smo fosse solo un residuo arcaico destinato a scomparire ad opera dello stes­ so sviluppo economico che avrebbe portato al grande antagonismo finale tra salariati e capitalisti. Nonostante tutte le precisazioni addotte nelle lettere sul materialismo storico, il marxismo di Engels inclinava, in conclusione, verso una conce­ zione economicistica e unilineare della storia che avrà largo corso - pur con notevoli eccezioni - nei marxismi successivi.

4. SCOPERTE DEL NOVECENTO: I «MANOSCRITTI» DEL 1844, «L’IDEOLOGIA TEDESCA», I «GRUNDRISSE» Nel Novecento sono stati pubblicati importanti testi di Marx che ne hanno fatto ripensare la fisionomia complessiva. Nell’ambito delle iniziative della socialdemocrazia tedesca, che guidava sotto il profilo teorico la Seconda Internazionale, si pubblicarono alcuni importanti inediti di Marx - per esempio Kautsky, tra il 1905 e il 1910, curò il cosiddetto quarto libro del Capitale sulle teorie del plusvalore - ma non venne programmata un’edizione critica completa delle loro opere. Questa fu iniziata in Unione Sovietica con la MEGA (Marx-Engels Gesamtausgabe) negli anni venti del Novecento sotto la direzione del grande filologo David Rjazanov (1870-1938), che poi fu vittima dello stalinismo, e continuata nei

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primi anni trenta da Vladimir Adoratskij per arenarsi nel 1935 dopo i primi dodici volumi. Si scoprì così un giovane Marx filosofo che prima era stato trascurato. In appendice al Ludwig Feuerbach Engels aveva pubblicato con qualche correzione esplicativa le undici Tesi su Feuerbach scritte da Marx nella pri­ mavera del 1845 e pensava anche a una ristampa dei loro scritti giovanili, ma non ne trovò il tempo e, tra gli studiosi della socialdemocrazia tedesca che si occuparono del loro Nachlass (lascito letterario), fu Franz Mehring (18461919) - socialista di sinistra autore della prima grande biografia di Marx (1918) - a ripubblicare nel 1902 i primi saggi dei due amici, insieme a un unico inedito: la tesi di laurea di Marx. Gli scritti giovanili di Marx, secondo Mehring, permettevano «di guardare direttamente nell’officina intellettua­ le di un pensatore geniale e di sorprendere una grande visione del mondo nell’ora della sua nascita»18. Marx è uno scienziato sociale, uno storico, un economista, ma si era for­ mato come filosofo, laureandosi il 15 aprile 1841 nell’Università di Jena con una dissertazione sulla Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Aveva frequentato in quel periodo Bruno Bauer (1809-1882) e gli ambienti della Sinistra hegeliana, e cominciò a interessarsi di problemi economico-sociali solo come giornalista e redattore, dal maggio 1842 al mar­ zo 1843, del quotidiano liberale di Colonia «Rheinische Zeitung» (Gazzetta renana), recandosi poi a Parigi, «antica scuola superiore di filosofia»19, dopo che la censura governativa aveva soppresso il periodico. Prima di partire per Parigi aveva abbozzato nel 1843 una Critica della filosofia hegeliana del dirit­ to pubblico che lasciò incompiuta e che verrà edita da Rjazanov nel 192720. Negli scritti pubblicati da Marx negli «Annali franco-tedeschi», dei quali uscì un solo volume a Parigi nel 1844, alla critica dell’insufficienza dell’emancipazione politica che rende astrattamente eguali i cittadini sul piano giuridico si accompagna la prospettiva di una rivoluzione radicale che istituirà la vera comunità, in cui gli individui si riconosceranno senza me­ diazioni come esseri sociali. Il percorso iniziale di Marx va dalla richiesta di realizzare l’universalità dello Stato teorizzata da Hegel alla critica dell’idea di Stato della filosofia hegeliana del diritto e poi - nel rapido volgere di po­ chi mesi - alla denuncia dell’eguaglianza politica come insufficiente e misti­ ficatoria, per cui occorre una rivoluzione sociale e non solo politica: i mezzi

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politici possono essere solo strumenti in vista di una trasformazione sociale radicale. I saggi marxiani editi negli «Annali franco-tedeschi» (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione, premessa allo scritto che poi rimase un abbozzo incompiuto, e La questione ebraica) derivano da uno sviluppo delle acquisizioni teoriche di Ludwig Feuerbach (1804-1872) del quale fino al 1845 Marx e Engels furono grandi estimatori. In L'essenza del cristianesimo (1841) e in vari altri scritti Feuerbach aveva considerato la religione come proiezione fantastica e alienata della realtà umana e aveva denunciato la filosofia hegeliana come teologia mascherata che sostituisce il Dio della teologia con l’Idea: la nuova filosofia di cui Feuerbach si faceva banditore doveva invece essere un’antropologia filosofica nella quale l’uo­ mo era essenzialmente un essere naturale che ha bisogno degli altri. Marx pensava allora che la critica della religione e della filosofia speculativa avesse raggiunto con Feuerbach risultati teorici definitivi; ma, una volta eliminato teoricamente l’aldilà religioso e metafisico, rimaneva il compito di criticare con la stessa radicalità il mondo storico-sociale che produce le illusioni reli­ giose. La critica non può limitarsi al piano teorico: la filosofia deve mettere capo alla prassi rivoluzionaria. Come riassume poi la celebre undicesima tesi del 1845: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo» (M EOC, 5, p. 5). Negli «Annali franco-tedeschi» Marx identifica anche la leva della ri­ voluzione nel proletariato come classe totalmente deprivata che non può liberare se stessa senza eliminare tutte le condizioni di vita inumane della società moderna. Da queste premesse, rimanendone in qualche misura il motivo ispira­ tore, prende l’avvio il «programma scientifico» marxiano21. Alcuni storici delle scienze ed epistemologi hanno usato i concetti di «quadro metafisico», «nucleo metafisico», «metafisica influente» per indicare gli assunti filosofici che hanno favorito la genesi di teorie scientifiche o sono l’intelaiatura sog­ giacente a teorie scientifiche. C ’è nel pensiero iniziale di Marx una teoria di carattere filosofico che lo incammina sulla strada dell’analisi economicosociale parallelamente percorsa da Engels, il quale sugli «Annali franco-tedeschi» pubblicò lo schizzo Lineamenti di una critica dell’economia politica considerato «geniale» da Marx. Nell’agosto 1844 inizia la collaborazione tra i due e, mentre Engels raccoglieva a Manchester i materiali per la grande

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inchiesta sociale La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), Marx riempiva a Parigi quaderni di estratti dagli economisti e scriveva i testi che saranno raccolti nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. I Manoscritti, separati dagli altri quaderni di estratti e commenti pari­ gini, furono pubblicati nel 1932 nella prima MEGA. Pur essendo pagine provvisorie e frammentarie, furono considerati un’opera alla pari di quelle pubblicate dal pensatore di Treviri e furono oggetto di valutazioni e inter­ pretazioni contrastanti: a) il vero e originario Marx secondo numerosi in­ terpreti occidentali, a cominciare dalla prefazione di Siegfried Landshut e Jacob Mayer a un’edizione degli scritti giovanili da loro curata nel 1932 parallelamente alla MEGA-, b) un pericoloso Marx umanista, che veniva usato per criticare il «socialismo reale» e quindi era da confinare in un vo­ lume supplementare, a margine dell’edizione tedesco-orientale degli scritti di Marx e Engels nel secondo dopoguerra; c) oppure, come sostenne il mar­ xista francese Louis Althusser (1918-1990), la preistoria ideologica della scienza economico-sociale del Marx maturo, il quale rompe con l’impianto categoriale precedente e usa concetti completamente diversi, a cominciare da quello fondamentale di «modo capitalistico di produzione». Sono stati anche ridotti a una congerie di appunti ed estratti che non costituirebbero neppure l’abbozzo di un’opera22. Certamente Marx considerò un passaggio transitorio del suo pensie­ ro questi fogli che furono abbandonati per novant’anni all’oblio, come del resto fu anche abbandonato in soffitta, lasciandolo in balia della «critica roditrice dei topi», il manoscritto dell’Ideologia tedesca. Questo però non autorizza a sottovalutare l’importanza dei Manoscritti. Nelle annotazioni parigine del 1844 - sia in quelle ricomposte nel 1932 come Manoscritti eco­ nomico-filosofici del 1844, sia nelle complementari pagine coeve sull’econo­ mista scozzese James Mill (1773-1836) a proposito del denaro - troviamo la prima critica dell’economia politica, che è per il momento condotta dal giovane Marx su base prevalentemente filosofica. Nei Manoscritti Marx dice che bisogna innalzarsi a un livello superiore a quello degli economisti e cercare di rispondere alla domanda fondamen­ tale che l’economia politica non si pone: «Che senso ha, nello svolgimento dell’umanità, questa riduzione della maggior parte di essa a un astratto lavo­ ro?» (M EOC, 3, p. 261).

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L’economia politica pone come fatti casuali, empirici, i diversi lati di una realtà contraddittoria che va invece compresa nei suoi nessi essenziali e vista unitariamente nel suo principio esplicativo. Questo principio è per Marx il lavoro estraniato, alienato, indifferente ed estraneo al lavoratore al punto da comportare la perdita della stessa essenza che fa dell’uomo un essere specifico e diverso rispetto agli altri animali. Secondo Marx, Hegel aveva visto nella Fenomenologia dello Spirito (1807), seppure in forma idealistica, che l’uomo si produce nella storia attraverso il lavoro. Ma nella situazione capitalistica la grande maggioranza è deprivata degli oggetti prodotti dal suo lavoro e la stessa attività lavorativa è solo strumento per l’accrescimento della ricchezza altrui. Perciò i lavoratori - ma questa situazione negativa coinvolge in varia misura tutti nella società dominata dalla proprietà privata e dalla concorrenza - subiscono la disumanizzazione, la perdita/alienazione dell’essenza umana, in quanto «soltanto nella lavorazione del mondo og­ gettivo l’uomo si realizza [...] come un ente generico», cioè esplica ciò che è proprio della specie umana (M EOC, 3, p. 303). Nei Manoscritti Marx parte dunque dai risultati dell’analisi degli eco­ nomisti, mette in rilievo la loro inconsequenzialità (il lavoro produce la ric­ chezza ma il lavoratore vive nella miseria) e li interpreta filosoficamente alla luce della teoria del lavoro alienato. Ma, solo un anno dopo, con L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti - scritta a Bruxelles insieme a Engels nel 1845-1846, incompiuta e abbandonata dopo inutili tentativi di trovare un editore, ricomposta con criteri discutibili e pubblicata interamente nel 1932 nella prima MEGA - i due amici tracciano le linee di una nuova scienza della società e della storia «reale, empirica», priva dei presupposti idealistici a cui rimanevano ancorati gli ex sodali della Sinistra hegeliana. In un passo cruciale dell 'Ideologia tedesca Marx e Engels dichiaravano: si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologi­ ci di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo mate­ riale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti

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materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni al­ tra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche E loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza {MEOC, 5, p. 22). Quando Engels, dopo la morte di Marx, rilesse E manoscritto dell’7deologia tedesca ritenne che le centinaia di pagine in cui si facevano beffe della Sinistra hegeliana avessero perso interesse e che le loro conoscenze economiche di allora fossero troppo immature. Nel 1903-1904 Eduard Bernstein (1850-1932) - altro importante esponente della socialdemocrazia tedesca - ne ripropose la parte sulla critica di Max Stirner (1806-1856), nel quadro della polemica socialista contro l’anarchismo. Ma c’era molto altro nell’enorme scartafaccio marx-engelsiano infarcito di polemiche re­ mote: E tentativo di dare forma a una nuova scienza critica della società che smaschera e decostruisce le ideologie e la «falsa coscienza», la critica della divisione del lavoro e l’idea dello sviluppo onnilaterale degli individui nella società futura, insieme a un primo tentativo di stabilire la sequenza delle formazioni economico-sociali che si sono storicamente succedute. Solo con la Miseria della filosofia (1847), scritta in polemica contro il socialista francese Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), Marx riprese un confrontò serrato con gli economisti classici e in particolare dette un giudi­ zio positivo della teoria economica di David Ricardo. Poi elaborerà la sua teoria del plusvalore e dello sfruttamento capitalistico negli studi londinesi di economia politica che confluiscono nel grande manoscritto dei Grundrisse, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (come lo intitolarono i primi editori), scritti nel 1857-58, dopo E fallimento dei moti rivoluzionari del 1848 e aspettando con ansia, ma invano, una ripresa rivolu­ zionaria suscitata dalla nuova crisi economica di quegli anni. I Grundrisse - che contengono pagine molto dense e anche rapidi ap­ punti personali di non facile interpretazione - sono un’altra decisiva opera marxiana scoperta nel Novecento23.

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Si tratta di due ampie parti sul denaro e sul capitale, oltre alla fondamentale, sotto il profilo del metodo, Introduzione del ’57, già edita da Kautsky nel 1903 e diffusa in varie traduzioni. Furono pubblicati integralmente in Unione Sovietica negli anni della seconda guerra mondiale e poi nel 1953 a Berlino, suscitando un vasto dibattito tra chi vi ha visto solo il torso incom­ piuto e preparatorio del Capitale e chi vi ha visto un Marx nuovo, diverso e autonomo anche rispetto al Marx delle opere della maturità24. I Grundrisse, tra l’altro, riformulano il concetto di lavoro alienato, cen­ trale nella giovanile critica marxiana dell’economia politica e contengono numerosi passi che fanno da ponte tra gli scritti giovanili e le formulazioni della maturità. Per esempio, vi troviamo questa caratterizzazione della so­ cietà capitalistica come dominio sugli individui del potere estraneo e «og­ gettivo» del mercato: Il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del pro­ dotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano qui come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli in­ dividui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato una condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa25. Leggiamo in essi anche arditi squarci di filosofia della storia e troviamo concetti non più ripresi nelle opere pubblicate in vita da Marx, idee che sono state valorizzate dal pensiero marxista della seconda metà del Nove­ cento. Lo storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012), che è stato anche uno dei più attenti studiosi dei Grundrisse, ha affermato: Essi contengono analisi e intuizioni, per esempio riguardo alla tec­ nologia, che conducono l’analisi marxiana del capitalismo ben oltre il XIX secolo, nell’era di una società in cui la produzione non richiede più il lavoro di massa, nell’era dell’automazione, delle potenzialità aperte al tempo libero e delle nuove forme dell’alienazione26.

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Un altro scritto di grande importanza per l’interpretazione del Capitale e della teoria del plusvalore al di là di letture strettamente economiche è un testo che Marx non utilizzò per la pubblicazione nel 1867 del primo libro della sua opera maggiore. Si tratta del Capitolo VI inedito, pubblicato in Unione Sovietica nel 1933 e studiato in Italia - in connessione ai Grundrisse e al Capitale- cinquantanni fa dall’economista e storico del pensiero econo­ mico Claudio Napoleoni (1924-1988)27.

5. LA SECONDA «MEGA»: UN NUOVO MARX? Una seconda raccolta completa delle opere di Marx, la Marx-Engels Gesamtausgabe (detta M EGA2), programmata inizialmente in 133 volumi poi ridotti a 114, corredati di amplissimi apparati critici, fu avviata nel 1975, si interruppe nei primi anni novanta dopo la dissoluzione dell’Unione Sovie­ tica ed è stata ripresa nel 1998 da un’équipe internazionale di studiosi che è tuttora al lavoro e ha completato circa la metà dei volumi previsti. «Questa impresa - è stato osservato - riveste grande importanza, se si considera che una parte ragguardevole dei manoscritti di Marx, della sua imponente cor­ rispondenza e dell’immensa mole di estratti e annotazioni, che egli era solito compilare dai testi che leggeva, è tuttora inedita». Soprattutto, «contraria­ mente a come in genere si ritiene, la sua opera fu frammentaria e talvolta contraddittoria, aspetti che ne evidenziano una delle caratteristiche pecu­ liari: l’incompiutezza»28, per cui si può parlare della riscoperta di un autore irriducibile a un sistema. Non sembra che si preannuncino scoperte clamorose come furono in passato i Manoscritti del 1844 o i Grundrisse. Il grosso lavoro filologico in atto scompiglia però le carte e anche là dove sembravano esserci opere compiute fa vedere stratificazioni di testi, indagini abbozzate in diverse di­ rezioni, su cui il marxismo, a cominciare da Engels, ha svolto un’opera di selezione e unificazione guidata da un intento sistematico. Il secondo e terzo libro del Capitale furono composti da Engels, rielaborando manoscritti mar­ xiani precedenti e successivi al primo libro, con grande dedizione e capacità, ma anche con scelte interpretative che ora vengono rimesse in discussione, soprattutto per quanto riguarda il terzo libro. Lo stesso primo libro del Ca­

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pitale ebbe ad opera di Marx varie versioni soprattutto della parte iniziale sulla teoria del valore, per cui non appare più quell’opera definitiva come tradizionalmente è stata considerata29. Un altro testo fondativo è stato ricostruito filologicamente. Nella prima MEGA L’ideologia tedesca fu rimontata premettendo la critica a Feuerbach e la fissazione delle linee fondamentali del metodo storico-materialistico ai capitoli di critica agli «ideologi tedeschi» della Sinistra hegeliana; nel 1966 il testo fu riveduto e ripristinato in una nuova edizione tedesca, che riportava anche i passi cancellati e le note a margine degli autori30; ora la seconda MEGA propone un’ulteriore versione dell’opera nella sua forma frammentaria originale disposta in ordine cronologico. E molti altri esempi si potrebbero fare. Da segnalare anche che una nuova attenzione si concen­ tra sull’«ultimo Marx», il quale in parte rivede o ha dei dubbi sugli schemi interpretativi precedentemente elaborati. Alcuni studiosi oggi mettono in rilievo l’originalità di questo Marx rispetto alle opere centrali degli anni cin­ quanta e sessanta dell’Ottocento. Il suo - si sottolinea - non è un pensiero definitivo, ma un’opera in progress incompiuta. In conclusione, l’attuale ricerca su Marx, dispiegata con grande investi­ mento di acribia filologica, pur non disconoscendo gli innegabili aspetti di continuità della sua opera, insiste soprattutto sulla pluralità di dimensioni e di linee di indagine che caratterizza la ricerca marxiana. Si riprende con un’attrezzatura filologica più ricca ciò che è stato più volte osservato, a pro­ posito di Marx, da marxisti ma anche da critici del marxismo. Equivoco e inesauribile era intitolato l’intervento del politologo liberale Raymond Aron (1905-1983), nel convegno internazionale promosso a Parigi dall’UN ESCO nel 1968, per il centocinquantenario della nascita del pensatore di Treviri31. Se si dice che il pensiero di Marx è «plurivoco», la definizione sembra an­ cora pertinente.

NOTE

1 Tra le biografie di Marx: D. McLellan, Karl Marx. La sua vita e il suo pensiero, Milano, Rizzoli, 1983; F. Wheen, Karl Marx. Vita pubblica e privata, Milano, Mondadori, 2000; G. Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and lllusion, Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2016; M. Musto, Karl Marx. Biografia

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intellettuale e politica. 1857-1883, Torino, Einaudi, 2018 (che tiene ampiamente conto della seconda MEGA e degli inediti). Per Engels: T. Hunt, La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, Milano, Colibrì, 2010. 2 Si veda il testo nella traduzione di Paimiro Togliatti e l’antologia delle maggiori interpretazioni storiche raccolte da G.M. Bravo (a cura di), Il Manifesto e i suoi inter­ preti, Roma, Editori Riuniti, 1973. Si rimanda anche alla traduzione di E. Cantimori Mezzomonti, ristampata con un ampio saggio storico-critico di B. Bongiovanni in post­ fazione: K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Torino, Einaudi, 1998. 3 Cfr. la voce Marxisme, in G. Bensussan e G. Labica, Dictionnaire critique du marxisme, Paris, PUF, 19993 e la ricostruzione molto dettagliata dell’origine e della diffusione dei termini in G. Elaupt, Marx e il marxismo, in AA.W ., Storia del marxismo, voi. I: Il marxismo ai tempi di Marx, Torino, Einaudi, 1978, pp. 291-314. 4 Ad esempio, cfr. la lettera di Engels a Paul Lafargue, 27 agosto 1890 (MEOC, 48, p. 478). 5 Si vedano ad esempio gli scritti di Maximilien Rubel (1905-1996), curatore delle opere di Marx per la collana Plèiade di Gallimard, raccolti con il titolo Marx critico del marxismo (1974), Bologna, Cappelli, 1981. 6 F. Engels, Sulla tomba di Marx, in AA.W ., Ricordi su Marx, Roma, Rinascita, 1951, pp. 7-9; una versione è disponibile in rete (https://www.marxists.org/italiano/ marx-engels/1883/marx.htm). 7 F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Napoli, La Città del Sole, 2009, p. 71. 8 S. Timpanaro, Sul materialismo, Milano, Unicopli, 19973, p. 43. Sulle diverse interpretazioni dell’opera di Engels cfr. i saggi pubblicati a cura di M. Cingoli, Friedrich Engels cent’anni dopo. Ipotesi per un bilancio critico, Milano, Teti, 1998. Cfr. anche i saggi introduttivi di S. Distefano e F. Minazzi alla riedizione del voi. 25 della MEOC (Napoli, La Città del Sole, 2015). Una considerazione innovativa dell’elaborazione autonoma di Engels rispetto a quella di Marx, che sottolinea i limiti del capovolgimento materialistico di Hegel ma critica la tendenza largamente diffusa ad attribuire a Engels quello che si vuole respingere di Marx, si trova in G. Sgro’, Friedrich Engels e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017. 9 L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, voi. V: Dall’Ottocento al Novecento, Milano, Garzanti, 1971, pp. 370-371. 10 Poco dopo, agli inizi degli anni sessanta, Marx fece per sé un riassunto-prome­ moria della prima parte della Logica hegeliana; cfr. K. Marx, Manoscritti del 1861-1863, a cura di L. Calabi, Roma, Editori Riuniti, 1980. 11 La sottotraccia hegeliana di concetti portanti del primo libro del Capitale è evi­ denziata nella recente traduzione: K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, a cura di R. Fineschi, Napoli, La Città del Sole, 2011 (MEOC, 31), che contiene anche, nel secondo tomo, le varianti delle edizioni in tedesco e in francese curate da Marx e i suoi manoscritti relativi al primo libro. La traduzione modifica ampiamente quella di Delio Cantimori originariamente uscita nel 1951 e ristampata più volte dagli Editori Riuniti. Si veda anche R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Roma, Carocci, 2006.

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12 F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, in Id., Sulle origini del cristia­ nesimo, Roma, Editori Riuniti, 20004, p. 11. 13 Ad esempio, Karl Lowith (1897-1973) affermava nel 1953: « l’intero processo storico, quale è delineato nel Manifesto comunista, riflette lo schema generale dell’in­ terpretazione ebraico-cristiana della storia come divenire provvidenziale della salvezza verso un fine ultimo dotato di senso» (K. Lowith, Significato e fine della storia. I pre­ supposti teologici della filosofia della storia, Milano, Comunità, 1963, p. 74). 14 Si vedano K. Marx, Quaderni antropologici. Appunti da L.H. Morgan e da H.S. Maine, a cura di P. Foraboschi, Milano, Unicopìi, 2009 e i commenti di L. Achenza, Sui taccuìni etnologici di Marx, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», serie III, XIV, 1984, n. 4, pp. 1385-1413. 15 F. Engels, Idorigine della famiglia della proprietà privata e dello Stato, Roma, Editori Riuniti, 1963, p. 59. 16 Per l’importanza dei temi di antropologia storica nel marxismo della Seconda Internazionale sono da notare l’ampiezza e l’accuratezza dei capitoli su La società comunista primitiva e sulla sua dissoluzione nei corsi di economia politica che Rosa Luxemburg tenne a partire dal 1906 alla scuola quadri del Partito socialdemocratico tedesco. Si veda R. Luxemburg, Introduzione all’economia politica, Milano, Jaca Book, 1975, pp. 81-188. 17 F. Engels, Sull’antisemitismo (da una lettera indirizzata a 'Vienna), in «ArbeiterZeitung», 8 maggio 1890, trad. it. in M. Massara (a cura di), Il marxismo e la questione ebraica, Milano, Edizioni del Calendario/Teti, 1972. Per uno studio analitico e ampia­ mente documentato di questa problematica si veda E. Traverso, Les Marxistes et la Question juive. Histoire d’un débat (1843-1943), Paris, La Brèche, 1990. 18 F. Mehring, Introduzione a «La sacra famiglia», trad. it. in appendice a K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia ovvero Crìtica della critica critica. Contro Pruno Bauer e soci, a cura di A. Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 335. 19 Lettera di Marx ad Arnold Ruge, settembre 1843 (MEOC, 3, p. 153). 20 Sulla formazione e i primi scritti di Marx si vedano M. Cingoli, Il primo Marx (1833-1941), Milano, Unicopìi, 2001 e Id., Il giovane Marx. I. (1842-1843), Milano, Unicopìi, 2005. 21 Cfr. S. Veca, Saggio sidprogramma scientifico di Marx, Milano, Bruno Mondadori, 20052. 22 Cfr. J. Rojahn, Il caso dei cosiddetti «Manoscritti economico-filosofici dell’anno 1844», in «Passato e Presente», 3, 1983, pp. 37-79. Una storia delle edizioni e delle interpretazioni si trova in M. Musto, Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi, Roma, Carocci, 2011, pp. 225-272. Le pagine sul lavoro alienato dei Manoscritti sono state anche raccolte da Musto insieme agli altri testi di Marx che ne mostrano gli sviluppi e le revisioni in K. Marx, Scritti sull’alienazione. Per la critica della società capitalistica, Roma, Donzelli, 2018.1 Manoscritti furono tradotti nel 1949 da Norberto Bobbio per Einaudi (nuova edizione riveduta nel 1968) e nel 1950 nelle Opere filosofiche giovanili da Galvano della Volpe per Rinascita (poi Editori Riuniti). Ora sono disponibili tra­ duzioni condotte sulla seconda MEGA-. a cura di E. Donaggio e P. Kammerer (MEano, Feltrinelli, 2018) e a cura di F. Andolfi e G. Sgro’, con ampie annotazioni (NapoliSalerno, Orthotes, 2018).

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23 I Lineamenti uscirono in italiano in due versioni: a cura di Enzo Grillo presso La Nuova Italia nel 1968 e a cura di Giorgio Backhaus presso Einaudi nel 1976. Alcune parti, tra cui le forme che precedono la produzione capitalistica e l’Introduzione del ’57, erano state tradotte anteriormente. 24 Cfr. l’ampia e sistematica introduzione alla lettura dei Grundrisse dello studioso ucraino Roman Rosdolsky (1898-1967), Genesi e struttura del «Capitale» di Marx (1968), Roma-Bari, Laterza, 1971. 25 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 2 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1968, voi. I, pp. 97-98. 26 E.J. Hobsbawm, Prefazione a M. Musto (a cura di), I «Grundrisse» di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica DO anni dopo, Pisa, ETS, 2015, p. 16, pubblicata anche in E.J. Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Milano, Rizzoli, 2011. 27 Cfr. C. Napoleoni, Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx, Torino, Boringhieri, 1972. Si veda ora anche G. Sgro’, Sul cosiddetto «Capitolo sesto inedito» di Karl Marx. Appunti di lettura e considerazioni critiche, 2013 (http://www.consecutio. org/2013/10/sul-cosiddetto-capitolo-sesto-inedito-di-karl-marx-appunti-di-lettura-econsiderazioni-critiche/). 28 M. Musto, La riscoperta di Karl Marx, disponibile in rete (http://www.marcellomusto.org/la-riscoperta-di-karl-marx/263). Sulla nuova MEGA si vedano anche B. Bongiovanni, Leggere Marx dopo il marxismo. Per una storia della Gesamtausgabe, in «Belfagor», 299,1995, pp. 579-591 (ripreso con modifiche nella postfazione a K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Torino, Einaudi, 1998) e R. Fineschi, Un nuovo Marx, filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008. 29 Soprattutto nell’opinione corrente, perché da tempo gli studiosi hanno messo in rilievo l’esistenza di diverse versioni elaborate da Marx. Cfr. ad esempio K. Marx, Il analisi della fortna di valore, a cura di C. Pennavaja, Roma-Bari, Laterza, 1976. Per una discussione aggiornata si veda ora R. Fineschi, Introduzione a Marx, I l Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, cit. (MEOC, 31). 30 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1967, con un ampio e importante saggio introduttivo di Cesare Luporini. Una recente edizione, con testo tedesco a fronte, è quella a cura e con introduzione di D. Fusaro, Milano, Bom­ piani, 2011. Sulle vicende editoriali della Ideologia tedesca si veda T. Carver e D. Blank, Politicai History of thè Editions ofMarx and Engels’s «German Ideology Manuscripts», New York-Basingstoke, Paigrave Macmillan, 2014. 31 Cfr. R. Aron, Equivoco e inesauribile, in M. Spinella (a cura di), Marx vivo. La presenza di Karl Marx nel pensiero contemporaneo, voi. I: filosofia e metodologia, Milano, Mondadori, 1969, pp. 36-50.

CAPITOLO

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1. LA SECONDA INTERNAZIONALE: ORTODOSSI ED ETERODOSSI Karl Kautsky aderì da giovane a un marxismo influenzato dall’evoluzio­ nismo darwiniano e fu collaboratore e segretario di Engels, del quale con­ tinuò anche l’opera di pubblicazione degli inediti di Marx. Dopo la morte di Engels nel 1895 divenne il più autorevole teorico della Seconda Interna­ zionale1. Svolse un’efficace attività di divulgatore e di semplificatore delle basi teoriche del «socialismo scientifico» (un enorme successo riscosse il suo compendio Le dottrine economiche di Karl Marx, 1887), ed ebbe una idea enciclopedica e onnicomprensiva del marxismo (che espose già anziano nei due volumi su La concezione materialistica della storia, 1927). Ebbe però an­ che la consapevolezza che non si poteva racchiudere la dottrina in un sapere definitivo e che il compito principale del marxismo era di mettersi alla prova nel rilevamento e nell’interpretazione dei mutamenti di un capitalismo in rapida trasformazione e delle prospettive che si aprivano alla classe operaia e ai partiti socialisti. Società per azioni, trust e monopoli, egemonia del capitale finanziario su quello industriale, colonialismo e imperialismo, erano temi nuovi rispetto a quelli al centro delle analisi di Marx e di Engels o poco sviluppati seppure non assenti nei fondatori del «socialismo scientifico». E da ricordare, per esempio, che nel terzo libro del Capitale (cap. 27) Marx analizzava la cre­ scita di società per azioni come separazione tra la produzione industriale

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e la «nuova aristocrazia finanziaria» dei percettori parassitari di dividendi; 10 sfruttamento coloniale era stato spesso oggetto di analisi e di denunce da parte di Marx, che scriveva: «L a profonda ipocrisia e l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, quando dalla madrepa­ tria, dove assumono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove esse vanno nude» (M EOC, 12, p. 228)2; l’Inghilterra era stata indagata come la «fabbrica del mondo» che aveva ridotto l’Irlanda e numerosi altri paesi a sbocco per i suoi prodotti industriali e riserva di materie prime e lavoro a basso costo. Occorrevano comunque analisi più approfondite della nuova fase capitalistica e un merito del marxismo della Seconda Internazionale fu cercare di capire un’epoca mutata con opere socioeconomiche di grande respiro, come La questione agraria, dello stesso Kautsky, nel 1899; Il capitale finanziario pubblicato a Vienna nel 1910 da Rudolf Hilferding (1877-1941); Laccumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’im­ perialismo (1913) della marxista polacca Rosa Luxemburg (1871-1919). Due grandi discussioni - sul revisionismo e sull’imperialismo - si sus­ seguirono e si intrecciarono impegnando i teorici della Seconda Interna­ zionale in dure polemiche ma senza le scomuniche e le espulsioni (e anche l’eliminazione fisica) che appartengono poi alla storia del comuniSmo. Il primo dibattito ebbe come protagonista Eduard Bernstein, il quale era stato anch’egli, come Kautsky, stretto collaboratore di Engels, ma dopo un periodo «ortodosso» aveva messo in discussione i fondamenti su cui pog­ giava il marxismo della Seconda Internazionale, scrivendo a partire dal 1896 una serie di articoli poi rifusi in I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia del 1899, in cui sottoponeva a «revisione» numerose tesi del marxismo corrente. I revisionisti, terminata la grande depressione degli anni 1873-1895, ponevano al movimento operaio intemazionale alcune domande di fondo. 11 capitalismo dimostrava capacità di sviluppo impensate: attendere il suo crollo non era illusorio? Nella politica socialista, alla retorica della rivolu­ zione non si doveva sostituire un programma concreto di riforme? Non si doveva mettere in soffitta la dittatura del proletariato e perseguire il sociali­ smo nel quadro della democrazia rappresentativa, almeno nei paesi più pro­ grediti, come del resto aveva adombrato Engels nella prefazione del 1895 alla riedizione di Le lotte di classe in Francia di Marx? Bisognava sottoporre

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la scolastica marxista a un riesame rigoroso per vedere quanto delle tesi di Marx non era più sostenibile. Nel Manifesto del partito comunista il proletariato non aveva nulla da perdere fuorché le proprie catene e le pagine sulla Tendenza storica dell’accu­ mulazione capitalistica del primo libro del Capitale terminavano prospettan­ do una radicale polarizzazione sociale per cui al ristretto numero di magnati del capitale si sarebbe contrapposta la grande e crescente «massa della mi­ seria, della pressione, deU’asservimento, della degenerazione, dello sfrutta­ mento» (M EOC, 31, p. 838). Ma lo sviluppo storico, secondo Bernstein, non andava in questa direzione: Il numero dei proprietari non è diminuito ma cresciuto. L’enorme aumento della ricchezza sociale non è accompagnato dalla formazione di una cerchia sempre più ristretta di magnati del capitale, ma dalla crescita numerica di capitalisti di ogni grado. I ceti medi mutano il loro carattere ma senza scomparire dalla scala sociale3. In sostanza, l’impoverimento della classe operaia era contrastato dalla forza dei sindacati, dal diffondersi delle cooperative, dai successi elettorali dei partiti socialisti e soprattutto della socialdemocrazia tedesca dopo che le leggi antisocialiste di Bismarck erano state abrogate nel 1890. Più in genera­ le, «ben lungi dall’essersi semplificata rispetto a quella precedente, la strut­ tura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi sia per quanto concerne le attività professio­ nali»4. In queste condizioni l’attesa di un tracollo del sistema era irrealistica e la socialdemocrazia avrebbe dovuto sfruttare tutti gli spazi politici per accrescere il peso dei lavoratori nella società invece di coltivare sogni di pa­ lingenesi radicale. Il movimento - diceva Bernstein - è tutto, il fine è nulla. Nella prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica Marx aveva affermato: «Una formazione sociale non perisce finché non siano svi­ luppate tutte le forze produttive per le quali essa offre spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza» (MEOC, 30, p. 299). Ma bastavano solo le condizioni economiche indispensabili per il nuo­ vo assetto socialista oppure occorreva che tutte le forze produttive cui il

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capitalismo può dare corso fossero completamente maturate? Per Marx e Engels le crisi ricorrenti erano il segno della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali capitalistici. La stagnazione era il futuro del capitalismo? Ci sarebbe stata una crisi finale catastrofica? Ci sono limiti oggettivi dello sviluppo capitalistico oltre i quali il sistema non può perdurare?5 Tra le molte obiezioni mosse al «revisionismo», Kautsky, che rimaneva legato alla formula della sua introduzione al Programma di Erfurt («l’inar­ restabile sviluppo economico porta alla bancarotta del modo di produzione capitalistico con necessità di legge naturale. La creazione di una nuova for­ ma di società al posto di quella attuale non è più solo qualcosa di desiderabile ma è diventata inevitabile»)^, riaffermò la polarizzazione sociale crescente, negò che Marx e Engels avessero teorizzato un crollo catastrofico e avessero sostenuto l’impoverimento assoluto, mentre era vero quello relativo, cioè il divario economico e sociale crescente tra i lavoratori e i proprietari dei mez­ zi di produzione. Kautsky era tuttavia nella sostanza vicino alle posizioni di Bernstein sui metodi della lotta politica che avrebbero dovuto essere demo­ cratici e parlamentari per arrivare prima o poi a quella rivoluzione sociale che rimaneva la ragion d ’essere dei partiti socialisti. E la rivoluzione sociale sarebbe stata quella della grande maggioranza dei lavoratori organizzati ed educati dalla socialdemocrazia, che avrebbe democratizzato e trasformato lo Stato, senza distruggerlo e sostituirlo con forme di democrazia diretta (nel corso del tempo Kautsky si allontanò sempre più esplicitamente dalla dittatura del proletariato come era stata concepita da Marx negli scritti sulla Comune). Diverse furono le posizioni di Rosa Luxemburg, che alle tesi del «re­ visionismo» si oppose con Riforma sociale o rivoluzione? (1899), mettendo in rilievo le contraddizioni insanabili della società borghese e respingendo, contro Bernstein, la separazione tra riforme e rivoluzione, tra movimento e scopo finale, perché essi sono intimamente legati: nelle lotte quotidiane si accumula il potenziale rivoluzionario e matura la coscienza di classe che ha un’accelerazione nei periodi di crisi economico-sociale. La socialdemo­ crazia doveva superare la rigida separazione tra lotta economica, gestita dai sindacati, e lotta politica, guidata dal partito, e puntare sullo sciopero ge­ nerale rivoluzionario. Riferendosi agli scioperi di massa che nel 1905 ave­

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vano scosso la Russia e inferto un duro colpo all’autocrazia zarista, Rosa Luxemburg scriveva: «un anno di rivoluzione ha dato al proletariato russo quell’“educazione” che al proletariato tedesco non possono dare artificiosa­ mente trent’anni di lotta parlamentare e sindacale»7. Il dibattito sulle prospettive del movimento socialista ebbe anche un risvolto filosofico, perché in un capitolo di I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia Bernstein aveva sostenuto che si doveva abbandonare l’armamentario della dialettica hegeliana per rivalutare l’ap­ porto critico di Kant, a torto bistrattato da Marx e Engels come ideologo della borghesia. Si doveva prospettare il socialismo come opzione morale superiore rispetto all’egoismo imperante della società borghese e mettere in rilievo il ruolo dell’idea di giustizia nel movimento operaio. Secondo il filosofo neokantiano Hermann Cohen (1842-1918) Kant era il vero fonda­ tore del socialismo tedesco perché la formula dell’imperativo categorico, che impone di considerare la persona come fine e non solo come mezzo, apriva la strada a un socialismo etico fondato sul rispetto della persona, della libertà e dell’eguale dignità di ciascuno, e non sulla necessità insita nelle contraddizioni economiche e di classe. Il socialismo, per Cohen, doveva abbandonare il materialismo. Altri socialisti neokantiani, come il teorico austriaco Max Adler (1873-1937), separarono e ritennero complementari il piano della conoscenza scientifica in cui vige una causalità deterministica (il terreno dei fatti indagati dal materialismo storico) e quello dell’etica, che non riguarda l’essere ma il dover essere (l’ambito ideale della moralità uni­ versale). Kautsky passò al contrattacco in Etica e concezione materialistica della storia (1906). Sviluppò le notazioni darwiniane sugli istinti sociali degli animali da cui ha origine anche l’altruismo morale degli uomini, combattè la visione platonica e kantiana della divisione in un mondo empirico e in un mondo soprasensibile, vide nell’etica kantiana l’illusione della conciliazio­ ne degli antagonismi sociali. Anche se la socialdemocrazia «non può fare a meno dell’ideale morale, dell’indignazione morale contro lo sfruttamento e il dominio di classe», i fini della lotta di classe proletaria non dipendono da quell’ideale morale ma dalla conoscenza delle «necessarie tendenze» dello sviluppo sociale8. In Italia partecipò marginalmente al dibattito sul revisionismo Antonio Labriola (1843-1904), che fu in corrispondenza con Engels e che con i Saggi

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sulla concezione materialistica della storia (1895-1899) introdusse in Italia il marxismo interpretato come «comuniSmo critico» e «filosofia della prassi», in polemica con le correnti positivistiche del socialismo italiano e con la considerazione del «fattore economico» come unico motore della storia iso­ labile dagli altri aspetti. Nello scritto In memoria del Manifesto dei comunisti l’avvento del socialismo era inteso come una prospettiva di cui non era pos­ sibile una previsione cronologica, ma che era inscritta nella storia delle lotte di classe come «previsione morfologica». Labriola avversava le posizioni di Bernstein ma vedeva nella «crisi del marxismo» di fine secolo non tan­ to questioni urgenti di interesse teorico quanto una grave crisi politica del movimento socialista internazionale. Nel 1899 concludeva una lunga lettera alla rivista «Mouvement Socialiste» con considerazioni amare ma aperte alla speranza nel futuro del movimento operaio: In verità, di dietro a tutto questo rumore di dispute, ce una que­ stione seria e sostanziale. Le ardenti, e vive, e frettolose aspettazioni di alcuni anni fa - le aspettazioni troppo precise nei particolari e nel colo­ re - danno oramai di cozzo nelle più complicate resistenze dei rapporti economici, e nei più intricati ingranaggi del mondo politico. [...] I soli proletari possono contare sul tempo indefinito, e solo essi sono e cresce­ ranno indefiniti di numero. Si complichi pure, come e quanto si vuole, il sistema capitalistico, esso non può [fare] a meno di moltiplicarli e di educarli9. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale la discussione dei marxisti si spostò sul tema delTimperialismo. Nel suo II capitale finanziario (1910) Rudolf Hilferding vide come ine­ luttabili le concentrazioni monopolistiche e la fine del «capitalismo con­ correnziale», insieme alla crescente egemonia del capitale finanziario su quello industriale, con una ristretta oligarchia finanziaria che controllava interi settori economici. Hilferding si spinse fino a prevedere una situazione in cui una banca centrale avrebbe esercitato il controllo sull’intera produ­ zione eliminando l’anarchia concorrenziale del capitalismo, il che avrebbe reso più facile e indolore il passaggio al socialismo. Ma documentava anche come i superprofitti realizzati grazie al controllo monopolistico del mercato cercassero sbocchi all’estero sostenuti dalla potenza militare dei rispettivi

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Stati. La concorrenza cedeva il passo all’espansionismo imperialistico e si prospettavano guerre distruttive, verso cui spingeva anche la Weltanscloauung nazionalistica «della borghesia, che allontana definitivamente gli ideali pacifisti e umanitaristi»10. Tre anni dopo Rosa Luxemburg - per la quale l’opera di Marx non con­ tiene «verità inappellabili e valide una volta per sempre, ma [è] una fonte inesauribile di incitamento a ulteriore lavoro teorico» e, proprio perché in­ compiuta, è di stimolo «a pensare, alla critica e all’autocritica»11 - contro­ batteva la tesi di una espansione capitalistica illimitata in U accumulazione del capitale. Considerava incapace di spiegare la riproduzione allargata del capitale un modello astratto di società in cui l’intera popolazione consiste di soli capitalisti e salariati. Secondo Luxemburg, dato il cronico sottoconsu­ mo delle masse lavoratrici12, la riproduzione allargata era possibile soltanto grazie alla penetrazione del capitale in settori non ancora «modernizzati» e in società precapitalistiche; di qui la necessità per i centri imperialistici di espandersi con la violenza nelle società agrarie periferiche per garantire sbocchi per le merci e per i capitali. Teoricamente si sarebbe verificato il crollo economico del sistema capitalistico mondiale quando non ci fossero state più aree precapitalistiche da conquistare. Rosa Luxemburg condivi­ deva con la maggior parte dei teorici della Seconda Internazionale l’idea dei limiti ferrei dello sviluppo capitalistico e affermava che ammettendo l’illimi­ tatezza dell’accumulazione capitalistica toglieremo da sotto i piedi del socialismo la base granitica della sua ne­ cessità storica obiettiva per rifugiarci nelle nebbie dei sistemi e delle scuole premarxiste, che pretendevano di dedurre il socialismo dalla pura ingiustizia e malvagità del mondo attuale e dalla pura decisione rivolu­ zionaria delle classi lavoratrici13. Tuttavia non si trattava di aspettare il crollo del sistema ma di sostenere la lotta rivoluzionaria delle masse rendendole sempre più consapevoli che l’alternativa era il socialismo o la barbarie del colonialismo, dell’imperiali­ smo, della guerra. ldaccumulazione del capitale fu criticata da molti marxisti perché a loro avviso nell’opera il capitalismo sembrava non potersi reggere fin dai suoi

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inizi senza l’annessione di aree non ancora capitalistiche, mentre era carente una spiegazione specifica dell’imperialismo contemporaneo nei suoi carat­ teri distintivi. Infine, Vladimir fl’ic Ul’janov detto Lenin (1870-1924) nel saggio su L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1917), enumerava riassuntivamente cinque contrassegni dell’imperialismo: 1. la concentrazio­ ne della produzione e del capitale che dà vita ai monopoli; 2. la fusione del capitale bancario col capitale industriale che genera l’oligarchia del capitale finanziario; 3. la preminenza dell’esportazione di capitale sull’esportazione di merci; 4. il sorgere di associazioni monopolistiche intemazionali che si ripartiscono il mondo; 5. la compiuta spartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. Il capitalismo era giunto, secondo Lenin, a una fase ultima, parassitaria e putrescente, in cui la borghesia dei paesi più forti vive­ va esportando capitali e «tagliando cedole». La guerra mondiale era la con­ seguenza inevitabile della spinta per una nuova ripartizione delle colonie e per ridisegnare le sfere di influenza del capitale finanziario. Per Lenin, nella capitolazione, nel 1914, della maggioranza delle socialdemocrazie europee di fronte al bellicismo dei propri governi si erano rivelati l’opportunismo e la bancarotta del socialismo riformista. Il rivoluzionario russo si considerava agli antipodi della visione di Hilferding e di Kautsky sul piano politico ma sul piano economico ne era debi­ tore. Riteneva per esempio un passo decisivo verso il socialismo il controllo statale sull’economia di guerra in Germania e affermava che «il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico»14. Terminato il conflitto, a Hilferding e a Kautsky la guerra imperialisti­ ca appariva una sciagurata scelta politica e militare, che però poteva essere seguita da un accordo tra le potenze capitalistiche e dare luogo a un as­ setto «ultraimperialistico», che Kautsky aveva ipotizzato già alla vigilia del conflitto. In questo quadro, il movimento operaio avrebbe dovuto soste­ nere la formazione degli Stati Uniti d ’Europa: una prospettiva che Lenin denunciava invece come illusoria e dannosa, se perseguita nel contesto degli Stati capitalistici e non attraverso la vittoria internazionale della rivoluzione socialista15.

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2. LENIN, «MARXISMO-LENINISMO», STALINISMO Fu la guerra a riaprire la storia delle rivoluzioni e non nei paesi di più alto sviluppo capitalistico ma in Russia, che divenne un laboratorio per la rivoluzione, prima nel 1905, poi nel febbraio e nell’ottobre 1917, portando così alla ribalta il marxismo russo che era stato una componente di quello della Seconda Internazionale. Dopo la disgregazione di questa organizzazio­ ne nel corso della prima guerra mondiale e dopo la vittoria dei bolscevichi, il marxismo russo sarebbe diventato egemone a livello mondiale nella Terza Internazionale (1919-1943), prima nella forma del leninismo e poi in quella dello stalinismo16. Marx e Engels non avevano escluso l’ipotesi di una rivoluzione in Russia e negli ultimi anni di vita Marx aveva dedicato tempo ed energie allo studio della lingua russa e del caso russo, precedentemente visto da lui soprat­ tutto per il ruolo dello zarismo nel contesto internazionale delle potenze reazionarie. In Russia era attivo, anche con clamorosi attentati terroristici, il movimento Narodnaja Volja (Volontà del popolo), che cercava di sollevare i contadini contro lo zarismo e i proprietari fondiari. Nel 1881 Marx - dopo molte esitazioni e molte bozze scritte e riscritte - rispondeva affermativamente a Vera Zasulic (1849-1919), affiliata a quel gruppo, che gli chiedeva se la comune rurale russa (obscina) potesse essere la base di un socialismo ori­ ginale. Scrivendole che poteva esserlo, sottolineava però che condizione es­ senziale era che ciò avvenisse nel quadro di una rivoluzione europea. Come Marx e Engels affermarono nella prefazione del 1882 alla riedizione russa del Manifesto, «se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’e­ voluzione comunista» (M EO C, 6, p. 663 )17. Marx era perciò decisamente polemico contro chi sentiva « l’irresistibile bisogno di metamorfosare il suo schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino», come scrisse in una bozza di lettera alla rivista russa «Otecestvennye Zapiski»18. Molto più rigido e dottrinario nel ritenere indispensabile per il socia­ lismo il preliminare pieno sviluppo del capitalismo in Russia, e con esso

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della classe operaia, fu il primo teorico marxista russo di rilievo, Georgij Plechanov, che fu in rapporto con Engels e Kautsky, combattè aspramente il revisionismo di Bernstein, e scrisse testi di larga diffusione su quella che chiamava «concezione monistica della storia», improntati a un materialismo spinoziano fortemente deterministico. Plechanov fu uno dei maestri di Lenin, il quale però non condivise la tesi - sostenuta da Plechanov con l’ala menscevica del Partito operaio so­ cialdemocratico russo - che fossero necessari, prima della rivoluzione so­ cialista, una intera epoca di sviluppo industriale e il passaggio per una lunga fase politica «democratico-borghese». Nell’ultimo periodo della sua vita Plechanov considerò la rivoluzione sovietica come una forzatura storica de­ stinata al fallimento (concordando con il giudizio di Kautsky e del marxismo «ortodosso» della Seconda Internazionale). Negli scritti principali di Lenin l’idea fondamentale cui si ricollega­ no tutte le altre - come sottolineò il filosofo Gyòrgy Lukàcs (1885-1971) nell’anno della morte del leader del Partito comunista russo - era fattualità della rivoluzione nell’età deirimperialismo. L’assunto di Lenin era che «il carattere rivoluzionario dell’intera epoca si palesa nello sgretolamento pro­ gressivo della società borghese»19. In questa situazione di crisi acuta e di svi­ luppo ineguale economico e politico dei vari paesi potevano avere successo proprio le forze rivoluzionarie dell’anello più debole della catena imperiali­ stica, rappresentato dalla Russia zarista. Nei saggi giovanili Lenin aveva sostenuto che in Russia riporre le spe­ ranze rivoluzionarie nella comune contadina era profondamente errato per­ ché questa si stava disgregando e lo sviluppo capitalistico aveva già prodotto una classe operaia quantitativamente limitata ma in grado di dare corso a una rivoluzione se avesse saputo legare a sé la massa dei contadini poveri. La rivoluzione socialista doveva essere preceduta da una fase di «democrazia rivoluzionaria» che avrebbe instaurato la repubblica, espropriato i grandi proprietari terrieri, ridotto la giornata lavorativa a otto ore. Ma questa fase transitoria non era destinata a durare a lungo. Riprendendo le indicazioni date da Marx nel 1850 alla Lega dei comunisti, Lenin dichiarava nel 1905: «Dalla rivoluzione democratica cominceremo subito, nella misura delle no­ stre forze, delle forze del proletariato cosciente e organizzato, a passare alla rivoluzione socialista. Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta. Non ci ar­

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resteremo a metà strada»20. Ma, per realizzare questo compito storico, nel Che fare? del 1902 aveva ritenuto necessario un partito molto centralizzato, fatto di rivoluzionari di professione, che portasse dall’esterno la coscienza rivoluzionaria nelle masse (come aveva detto anche Kautsky, allora maestro di Lenin), perché nel complesso gli operai potevano raggiungere solo una coscienza sindacale dei loro interessi, una coscienza economicistica e non politica, incapace di una visone globale della società e del processo stori­ co; ne era una riprova l’esistenza in molti paesi di un’«aristocrazia operaia» integrata nel sistema capitalistico. Il socialdemocratico rivoluzionario, per Lenin, era «il giacobino legato indissolubilmente a^organizzazione del pro­ letariato, consapevole dei propri interessi di classe»21, e il «giacobinismo» rappresentava per lui un modello di energia rivoluzionaria e di organizza­ zione centralistica, mentre per le correnti libertarie del socialismo - e, non senza oscillazioni, anche per Marx e Engels - la rivoluzione proletaria non aveva molto da imparare dai giacobini del 179322. Mettendosi alla testa degli organismi popolari riemersi, dopo il 1903, nel 1917 (i consigli o soviet), il partito, secondo Lenin, li avrebbe guidati alla dittatura del proletariato vista come democrazia non più formale ma sostanziale: i marxisti, i comunisti, [...] rivelano agli operai e alle masse lavoratrici la pura e semplice verità: di fatto, la repubblica democratica, l’Assemblea costituente, il suffragio universale ecc. sono la dittatura della borghesia, e per emancipare il lavoro dall’oppressione del capitale non c’è altra via che la sostituzione di questa dittatura con la dittatura del proletaria­ to. Solo la dittatura del proletariato può emancipare l’umanità dall’op­ pressione del capitale, dalla menzogna, dalla falsità, dall’ipocrisia della democrazia borghese, che è democrazia per i ricchi, e instaurare la demo­ crazia per ipoveri, cioè rendere effettivamente accessibili agli operai e ai contadini poveri i benefici della democrazia, che restano oggi (persino nella repubblica - borghese - più democratica) inaccessibili di fatto alla stragrande maggioranza dei lavoratori23. Lenin ruppe con Kautsky per il suo atteggiamento critico nei confron­ ti dello scioglimento dell’Assemblea costituente e dell’instaurazione della dittatura bolscevica, e lo attaccò violentemente nel pamphlet La rivoluzione

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proletaria e il rinnegato Kautsky del 1918, contrapponendo alle sue preoccu­ pazioni democratiche la definizione lapidaria: «L a dittatura rivoluzionaria del proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del prole­ tariato contro la borghesia, un potere non vincolato da alcuna legge»24. An­ che Lev Trockij (1879-1940), l’altro grande artefice della rivoluzione russa, che inizialmente si era opposto con molta durezza alla concezione leninista del partito in I nostri compiti politici (1904) ma poi aveva aderito pienamente al bolscevismo, difese in Terrorismo e comuniSmo (1920) la legittimità di qualsiasi mezzo coercitivo per salvare il potere sovietico - come dimostrò in pratica condividendo la responsabilità politica della repressione sanguinosa della rivolta di Kronstadt del 1921 - e prospettò anche la militarizzazione dei lavoratori nel nuovo Stato. A questa versione della dittatura del proleta­ riato non si oppose solo Kautsky, ma anche Rosa Luxemburg, che dal carce­ re dove era rinchiusa per la sua attività antimilitarista, scrisse plaudendo alla rivoluzione sovietica, ma ammonendo: Lenin e Trotski hanno sostituito ai corpi rappresentativi eletti con suffragio universale i Soviet, come unica vera rappresentanza delle mas­ se lavoratrici. Ma soffocando la vita politica in tutto il paese è fatale che la vita si paralizzi sempre più nei Soviet stessi. Senza elezioni generali, senza libertà illimitata di stampa e di riunione, senza libera lotta di opi­ nioni, la vita muore in ogni istituzione pubblica, diviene vita apparente ove la burocrazia rimane l’unico elemento attivo25. Anche Lenin avvertì negli ultimi anni in cui fu a capo dell’Unione Sovie­ tica il pericolo di una grave involuzione. In varie prese di posizione - senza mettere in questione la dittatura del partito e opponendosi sempre a libertà che considerava borghesi - si sforzò di combattere le distorsioni burocra­ tiche, e nel cosiddetto Testamento, tenuto segreto e fatto conoscere oltre trent’anni dopo da Nikita Chruscèv (1894-1971), si mostrò preoccupato per la concentrazione di potere nelle mani di Stalin, diventato onnipotente segretario del partito. È con Iosif Stalin (1878-1953) che prende forma e diventa dottrina di Stato il «marxismo-leninismo», formula usata nei primi anni trenta e consa­ crata ufficialmente nell’introduzione alla Storia del PC(b) dell’URSS (1937), scritta da una commissione di partito sotto la supervisione staliniana.

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Nelle lezioni tenute all’Università Sverdlov di Mosca nel 1924, intitolate Principi del leninismo26, Stalin aveva trattato ampiamente i temi principali dell’eredità di Lenin come egli la interpretava, sottolineando la funzione del partito monolitico e la necessità di una continua epurazione rispetto alle «deviazioni» che ne insidiavano l’unità («Il partito, unità di volontà, incompatibile con l’esistenza di frazioni»; «Il partito si rafforza, epurandosi dagli elementi opportunisti»), Lenin in Stato e rivoluzione (scritto nel 1917 e pubblicato nel 1918) aveva riproposto la teoria di Marx su uno Stato di tran­ sizione che avrebbe distrutto l’apparato borghese e si sarebbe appoggiato a forme di democrazia diretta, come nella Comune di Parigi, avviandosi verso la finale estinzione. Ma dopo la rivoluzione i soviet erano stati svuotati delle loro funzioni di autogoverno popolare e Stalin, nel 1933, facendo il bilancio del primo piano quinquennale, affermava senza tema di contravvenire alla logica: L’estinzione dello Stato avverrà non attraverso l’indebolimento del potere statale, ma attraverso il suo rafforzamento massimo, indispensa­ bile per annientare i residui delle classi che si stanno estinguendo, e per organizzare la difesa contro l’accerchiamento del capitalismo, il quale è ben lungi dall’essere stato distrutto e non lo sarà tanto presto27. Come osservò Herbert Marcuse (1898-1979) nel notevole studio So­ viet Marxism (1958, aggiornato nel 1965), formule tratte da Marx venivano svuotate dei loro contenuti critici e applicate a una realtà completamente difforme: «ipostatizzata in struttura rituale», la teoria di Marx diventava «ideologia», nel senso che il vero e il falso non contavano più sul piano co­ gnitivo e la logica delle proposizioni era sacrificata al risultato politico che l’élite al potere intendeva perseguire28. Nel corso della lotta e della liquidazione delle opposizioni - in parti­ colare contro quella di Trockij - Stalin costruì la dottrina del socialismo in un solo paese, cioè - come affermò nel 1924 - dell’«utilizzazione del potere per edificare una società socialista integrale [...] senza la previa vittoria della rivoluzione proletaria negli altri paesi»29. La fine dei tentativi rivoluzionari in Europa conclusi con il fallimento di quello tedesco del 1923 sembrava rafforzare la sua tesi.

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Trockij, al contrario, sosteneva la teoria della rivoluzione permanen­ te, nel suo duplice significato: a) nel corso della presa del potere doveva esserci passaggio senza soluzione di continuità dalla fase della rivoluzione democratico-borghese a quella socialista; b) ma, dopo la presa del potere, era impossibile sviluppare il socialismo al di fuori di un contesto di rivolu­ zione internazionale, mancando il quale diventava difficilmente evitabile la degenerazione burocratico-autoritaria (della quale fu implacabile accusa­ tore in La rivoluzione tradita del 1937 e in molti altri scritti). Alla fine della sua vita - stroncata in Messico nel 1940 da un sicario di Stalin - disse che la successiva evoluzione della storia avrebbe chiarito se la casta burocratica so­ vietica era l’escrescenza parassitarla di uno Stato operaio fondamentalmente socialista perché aveva eliminato la proprietà privata, come Trockij conti­ nuava a credere, oppure se fosse una nuova classe dominante come ritene­ vano, secondo lui a torto, altri marxisti30. E una perplessità che rivela - in un politico rimasto dal 1917 sino alla fine leninista, e che continuava a muoversi nella prospettiva di una rivoluzione mondiale - la difficoltà a interpretare una formazione economico-sociale inedita e inaspettata. Sia in teorici rimasti legati all’eredità della Seconda Internazionale, come Kautsky, sia in militanti che criticavano «da sinistra» lo stalinismo era più diffusa l’idea che si trattasse di una forma di capitalismo di Stato gestita dalla burocrazia, nuova classe sfruttatrice che esercitava una ditta­ tura modernizzatrice sugli operai e sui contadini in una Russia arretrata, con un ruolo analogo a quello svolto dalla borghesia in Occidente (dunque quello sovietico non era uno Stato operaio seppure infettato dalla degene­ razione burocratica, come riteneva Trockij)31. Questo era, per esempio, il giudizio dello scienziato olandese, teorico della democrazia consiliare, An­ ton Pannekoek (1873-1960) in Quindici anni della rivoluzione russa (1932) e in Lenin filosofo (1938). L’astronomo rivoluzionario, attivo nella Seconda Internazionale e figura di primo piano agli inizi della Terza, fu tra i comuni­ sti consiliaristi che nel 1921 ruppero con il leninismo, dopo la repressione di Kronstadt e dopo che Lenin in L’estremismo, malattia infantile del co­ muniSmo del 1920 aveva duramente criticato come «settarie» le posizioni dell’estrema sinistra comunista che sosteneva nei paesi occidentali una ri­ voluzione puramente operaia in contrasto frontale con i maggiori sindacati e con i partiti socialisti parlamentari. Passando al contrattacco, in Lenin

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filosofo Pannekoek metteva in connessione il materialismo di Lenin - che considerava un materialismo premarxiano assimilabile alle punte radicali dell’ideologia rivoluzionaria borghese settecentesca - con il carattere «bor­ ghese» assunto dalla rivoluzione russa. Consiliarista fu anche Paul Mattick (1904-1981) che dalla Germania, dove aveva militato nell’estrema sinistra, si trasferì nel 1926 negli Stati Uniti e scrisse contro il capitalismo di Stato sovietico e la dittatura bolscevica, ma rilanciò anche la teoria del crollo del capitalismo in relazione alla grande crisi del 1929 e, più tardi, decretò il necessario fallimento delle politiche di sostegno all’economia privata attua­ te mediante l’espansione del settore pubblico e l’economia mista (Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, 1969). Per il comuniSmo consiliarista solo i consigli esprimono un’autentica democrazia proletaria, le lotte economiche sono inestricabilmente anche politiche e tendenzialmente rivoluzionarie, il partito ha una funzione del tutto subordinata rispetto alla spontaneità operaia. Il consiliarismo si in­ trecciò a istanze luxemburghiane e anarchiche, ed ebbe una vita marginale come alternativa sia alle correnti riformistiche del socialismo, sia al comu­ niSmo stalinistico prevalenti nel movimento operaio, tenendo vive in piccoli gruppi e in alcuni settori sindacali istanze libertarie di democrazia diretta e di autogestione dei lavoratori (le stesse istanze che sostennero anche i trockisti dopo la morte di Trockij, richiamandosi però alla continuità con il leninismo).

3. DAL «DIAMAT» STALINIANO AL PENSIERO DI MAO________ Se guardiamo più da vicino il «marxismo-leninismo» come ideologia del­ lo Stato sovietico, troviamo innanzi tutto la filosofia generale del «materiali­ smo dialettico», indicata in russo con l’abbreviazione diamat (dialekticeskij materializm), che agli inizi degli anni trenta divenne la filosofia ufficiale del partito e dello Stato insegnata obbligatoriamente nelle scuole e nelle uni­ versità, chiudendo il periodo precedente di relativo pluralismo ideologico. La Storia del PC(b) dell’URSS sopra citata conteneva il compendio teo­ rico del marxismo nel capitolo Materialismo dialettico e materialismo storico scritto dallo stesso Stalin, che iniziava affermando recisamente: «Il materia­

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lismo dialettico è la concezione del mondo del partito marxista-leninista»32. Il materialismo storico era presentato come applicazione al campo della sto­ ria del materialismo dialettico, quale era stato definito da Engels soprattutto nell’Anti-Duhring e nella Dialettica della natura, e tratteggiato da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria (1909). Nei Quaderni filosofici, scritti nei primi anni della guerra mondiale e pubblicati postumi nel 1931, Lenin era però tornato sulla dialettica idealisti­ ca e materialistica. I Quaderni non erano un testo compiuto ma una serie di estratti e di commenti in margine a testi filosofici e in particolare alla Scienza della logica di Hegel, che suscitò l’entusiasmo di Lenin, tanto da fargli scri­ vere che non si può comprendere 11 Capitale «se non si è compresa e studiata attentamente tutta la Logica di Hegel», e che « l’idealismo intelligente [di Hegel] è più vicino al materialismo intelligente di quanto non lo sia il ma­ terialismo sciocco», meccanicistico e adialettico33. La rilettura di Hegel non lo portò però a rivedere le tesi gnoseologiche sostenute in Materialismo ed empiriocriticismo che fece ristampare nel 1920. Materialismo ed empiriocriticismo criticava aspramente il compagno di partito e valente ematologo Aleksandr Bogdanov (1873-1928) - con il qua­ le era anche in dissenso politico - e attaccava la filosofia neopositivista di Ernst Mach e di Richard Avenarius attraverso cui Bogdanov avrebbe voluto svecchiare il marxismo e metterlo in sintonia con gli sviluppi contemporanei della filosofia della scienza. Mach e Avenarius avevano sostenuto, contro la metafisica, che la conoscenza non fa accedere a una realtà ultima oggettiva al di là dell’esperienza sensibile e, contro il vecchio positivismo, che la scien­ za non fotografa la realtà ma produce concetti utili che indicano riassun­ tivamente una serie di esperienze e di sperimentazioni («economicità» dei costrutti scientifici). Dietro queste tesi Lenin vide non solo lo scetticismo di Hume ma l’idealismo soggettivo del vescovo Berkeley e l’agnosticismo di Kant, e alla lunga l’affossamento della scienza e la ripresa della religione. Contro i seguaci di Mach enunciò un realismo gnoseologico per cui la cono­ scenza è il riflesso - man mano che la scienza procede sempre più adeguato, ma mai definitivo - della realtà oggettiva e materiale nella mente umana. La scienza è certo storicamente relativa e Lenin non disconosce le novità della fisica degli inizi del Novecento, ma contro il relativismo filosofico afferma che esiste «la verità oggettiva, e cioè la verità indipendente dall’uomo e dal

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genere umano»34. Mentre, «se la verità obiettiva non esiste, se la verità (com­ presa la verità scientifica) è soltanto una forma organizzatrice dell’esperien­ za umana, si ammette, con ciò, il postulato fondamentale d è i’oscurantismo clericale» 35. La filosofia è da sempre la lotta tra i due campi irriconciliabili del materialismo e dell’idealismo, del progresso e della reazione, e il libro si conclude con la denuncia della «funzione obiettiva, di classe, dell’empi­ riocriticismo», reazionaria e incompatibile con il marxismo nonostante le intenzioni dei bogdanovisti. Anche dopo la presa del potere dei bolscevichi in Russia Lenin fu in forte contrasto con Bogdanov, che divenne guida e ispiratore del Proletkult, organizzazione di cultura proletaria (1917-1923) che ebbe la massima espansione nel 1920. Del Proletkult Lenin combattè le idee di ricostruzio­ ne della scienza dal punto di vista proletario, di esclusione degli specialisti «borghesi», di superamento immediato della distanza tra lavoro intellettuale e manuale, direttivo ed esecutivo, di una cultura e di un’arte proletaria com­ pletamente autonome e nuove rispetto a quelle «borghesi» del passato. Nel periodo del comuniSmo di guerra (1918-1921), quando si trattava di assicurare la sussistenza della classe operaia delle città e di rifornire l’eser­ cito rosso che combatteva le armate dei generali controrivoluzionari, e, an­ cor più, nel successivo periodo della NEP (Nuova politica economica, 19211929), quando di fronte alla minaccia di tracollo economico fu adottata una politica di parziale liberalizzazione del mercato sotto il controllo dello Stato e dell’autorità politica comunista, Lenin difese una linea culturale «rea­ listica», senza fughe in avanti di sapore utopistico, che avrebbero suscitato l’ostilità dell’ambiente accademico e dei quadri tecnico-scientifici «borghe­ si» necessari alla produzione e alla ricerca36. Nel complesso, negli anni venti coesistettero in Russia vari gruppi che si richiamavano al marxismo in modi molto diversi, per cui dal 1922 al 1929 nella rivista «Sotto la bandiera del marxismo» convissero i «dialettici» aperti al nuovo e i «meccanicisti», che rifiutavano qualsiasi credito alla teoria della relatività e alla fisica quantistica. Anche i ricercatori non marxisti (purché non dichiaratamente anticomuni­ sti) godettero di una certa libertà: la scienza fu completamente sottomessa alle direttive del partito solo negli anni trenta37. Alcuni studiosi hanno sostenuto l’importanza del «materialismo dialet­ tico» per la gnoseologia e l’epistemologia contemporanee38, ma è più inte­

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ressante sottolineare come la filosofia di Lenin venne usata per rafforzare l’impasto staliniano di oggettivismo scientista e insieme di partiticità della scienza e della cultura, finendo in un volontarismo iperpolitico che tuttavia pretende di basarsi su leggi oggettive: il marxismo diventava una scienza, di cui il partito si considerava depositario, «altrettanto esatta quanto, ad esempio, la biologia», diceva Stalin in Materialismo dialettico e materialismo storico59. Un caso significativo ed emblematico della partiticità della scienza fu quello che ebbe per protagonista il presidente dell’Istituto di genetica dell’Accademia sovietica delle scienze Trofim Lysenko (1898-1976), che at­ taccò da posizioni neolamarckiane come «borghese» la genetica interna­ zionalmente più accreditata e sostenne la possibilità di alterare attraverso influenze ambientali il normale sviluppo di specie vegetali, moltiplicando così i raccolti di cereali. Dopo un’aspra lotta negli anni trenta contro i suoi avversari - alcuni dei quali furono vittime delle purghe staliniane - Lysenko ottenne nel 1948 il pieno appoggio del comitato centrale del partito, arbitro anche delle questioni scientifiche, e solo nel 1965 l’Accademia delle scienze stabilì l’erroneità dei suoi metodi appoggiati a prove empiriche manipolate40. La partiticità coinvolgeva oltre alle scienze anche le arti. Ci si rifece in­ sistentemente a quanto Lenin aveva affermato in Organizzazione dipartito e letteratura dipartito, del 1905: «Abbasso i letterati senza partito! [...] L’atti­ vità letteraria deve diventare una parte dell’azione generale del proletariato, “una rotella e una vite” dell’unico e grande meccanismo socialdemocratico, messo in moto da tutta l’avanguardia cosciente di tutta la classe operaia»41. Nel 1934, al primo Congresso degù scrittori sovietici, Andrej Zdanov (1896-1948), che diventò nelle questioni culturali la seconda autorità dopo Stalin, enunciò i principi del realismo socialista che avrebbero dovuto guida­ re la letteratura e l’arte nella trasformazione ideologica e nell’educazione dei lavoratori allo spirito del socialismo, e promosse una vasta campagna contro l’influsso del decadentismo, del formalismo e del naturalismo «borghesi» sulla cultura artistica sovietica. Il socialismo sovietico voleva costruire con mezzi autoritari un «uomo nuovo» e anche gli scrittori, secondo l’indicazio­ ne di Stalin, dovevano diventare «ingegneri di anime». Nell’epoca dei primi piani quinquennali i successi dell’industrializza­ zione dispotica, mentre con la crisi del 1929 il capitalismo sembrava avviato

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al tracollo, suscitavano ammirazione anche in studiosi lontani dal comu­ niSmo, come i socialisti riformisti inglesi Sidney e Beatrice Webb che nel 1935 pubblicarono II comuniSmo sovietico: una nuova civiltà? (ma il punto interrogativo scomparve nelle successive edizioni)42. La continuità Marx-Engels-Lenin-Stalin fu data per ovvia nei partiti comunisti aderenti alla Terza Internazionale e, per esempio, si trova anche nelle conferenze tenute da Mao Zedong (1893-1976) all’Università milita­ re e politica antigiapponese di Yenan Sulla pratica e Sulla contraddizione (1937)43. Prescindendo dall’analisi della politica del Partito comunista cine­ se che faceva dei contadini poveri la leva principale della rivoluzione in Cina, diversamente da quanto era avvenuto in URSS, e dalle affinità e differenze della storia del comuniSmo cinese rispetto a quello sovietico, osserviamo che l’originalità di questi scritti non sta tanto nell’esposizione del materialismo dialettico, con citazioni canoniche da Marx, Engels, Lenin e Stalin, quanto nell’accentuazione della prassi come tratto fondamentale del marxismo: «il marxismo attribuisce grande valore alla teoria proprio e solo perché essa può guidare l’azione» (Sulla pratica). Mao ribadirà nel 1963: Da dove provengono le idee giuste degli uomini? Cadono dal cielo? No. Sono innate? No. Esse provengono dalla pratica sociale e solo da questa. Provengono da tre tipi di pratica sociale: la lotta per la produ­ zione, la lotta di classe e la sperimentazione scientifica. E l’essere sociale dell’uomo che determina il suo pensiero. Mao Zedong sosteneva che le contraddizioni sono sempre particolari e concrete e devono essere risolte con metodi diversi, dopo aver individuato in ogni situazione quali sono quelle principali e quelle secondarie (Sulle con­ traddizioni in seno al popolo, 1957). Al primato della prassi e alla polemica di Mao avversa allo scolasticismo marxista nello scritto Contro la mentalità libresca (1930) si collega l’altro tratto originale del maoismo, che è la centra­ lità dell’inchiesta sociale per stabilire una corretta condotta politica, a co­ minciare dall’inchiesta sui contadini nella provincia del Hunan nel febbraio 1927. Uno slogan del maoismo diventerà «Chi non ha fatto inchieste non ha diritto di parola», anche se l’aderenza alla realtà sociale era poi negata in politiche calate dall’alto, come il «grande balzo in avanti» (1958-1962), che comportò milioni di vittime. Il marxismo maoista dopo la crisi del mo­

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vimento comunista internazionale successiva al 1956 - e le lacerazioni degli anni sessanta - apparve un’alternativa a quello sovietico, ispirando compor­ tamenti politici e anche riformulazioni teoriche del marxismo che facevano proprie alcune tesi di Mao. Mentre ai suoi critici il maoismo sembrò «una ideologia dove i resti del marxismo sono mescolati con l’utopia contadina e con le tradizioni del dispotismo orientale»44, ai suoi sostenitori apparve un marxismo (e un comuniSmo) del tutto difforme dal «marxismo-leninismo» tradizionale, e valido non solo per la via rivoluzionaria in aree relativamente arretrate del pianeta ma anche in grado di dare indicazioni positive alle forze anticapitalistiche dell’Occidente «sviluppato»45.

NOTE

1 Cfr. N. Merker, Ortodossia e revisionismo nella socialdemorazia, in S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo, 3 voli., Roma, Carocci, 2015, voi. I, pp. 33-72. Ma per un’ampia analisi storica si veda M.L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista 1880-1938, Milano, Feltrinelli, 1976. 2 K. Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, in «New York Daily Tribune», 8 agosto 1853. 3 E. Bernstein, Ipresupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, RomaBari, Laterza, 19742, p. 4 (il libro ha un importante saggio introduttivo di Lucio Colletti ripreso in L. Colletti, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1969, pp. 61-147). 4 Ibidem, pp. 91-92. 5 Un’ampia discussione con la raccolta dei testi principali dai classici dell’economia politica a Marx, ai marxisti e ai critici del marxismo si trova in L. Colletti e C. Napoleoni, Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?, Bari, Laterza, 1970. 6 K. Kautsky, Il programma di Erfurt, Roma, La nuova sinistra/Samonà e Savelli, 1971, p. 123. 7 R. Luxemburg, Sciopero generale, partito e sindacati, in Ead., Scritti politici, a cura di L. Basso, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 346. 8 K. Kautsky, Etica e concezione materialistica della storia, Milano, Feltrinelli, 1958, p. 172. Sul socialismo neokantiano cfr. G. Ridolfi, Figure del socialismo neokantiano. Fra rigore morale, ragione giuridica e realtà politica, Torino, Giappichelli, 2015. 9 A. Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 2 voli., Torino, Einaudi, 1969, voi. II, p. 918. Cfr. anche F. Sbarberi, Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, FrancoAngeli, 1986, e, per un confronto tra Labriola e Gramsci sull’idea di socialismo: Id., Gramsci: un socialismo armonico, Milano, FrancoAngeli, 1986, pp. 83-84.

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10 R. Hilferding, II capitale finanziario, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 441. L’opera è stata riedita recentemente (Milano-Udine, Mimesis, 2011). 11 F. Mehring, Vita di Marx, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 371 e 380 (sono pagine scritte da Rosa Luxemburg, che contribuì a quest’opera con un paragrafo sul secondo e terzo libro del Capitale). 12 Questa è un’interpretazione diffusa del pensiero della Luxemburg, ma vari studiosi non le attribuiscono il «sottoconsumismo». Si veda R. Bellofiore, Una candela che brucia dalle due parti. Rosa Luxemburg tra critica dell’economia politica e rivoluzione, nella rivista telematica «DEP. Deportate, esuli, profughe», 28,2015 (https://www.umve. it/media/allegato/dep/n28-2015/7_Bellofiore.pdf). 13 R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1974, p. 506 (il passo è nell’Anticritica scritta nel 1916-17 per respingere le numerose obiezioni alla sua teoria). 14 V.I. Lenin, La catastrofe imminente e come lottare contro di essa (1917), in Id., Opere complete, voi. 25, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 340. Cfr. V. Giacché, Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin, in «Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane», 2, 2017, disponibile anche in rete (https://www.sinistrainrete.info/ marxismo/11954-vladimiro-giacche-il-concetto-di-capitalismo-di-stato-in-lenin.html). 15 Cfr. L. Meldolesi, La teoria economica diLenin, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 167 ss.; il libro rimane un’analisi accurata e stimolante dell’elaborazione di Lenin in rapporto alle posizioni in campo sull’imperialismo. 16 Per un’ampia e aggiornata analisi storica si vedano A. Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2010 e Id., L’Unione Sovietica. 1914-1991, Bologna, Il Mulino, 2011. Sul pensiero politico: M.L. Salvadori, Lutopia caduta. Storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, Roma-Bari, Laterza, 1991 e la sintesi dello stesso autore La parabola del comuniSmo, Roma-Bari, Laterza, 1995. 17 Sui rapporti di Marx e Engels con i rivoluzionari russi si vedano E. Cinnella, L'altro Marx, Pisa-Cagliari, Della Porta, 2014 e M. Musto, Uultimo Marx. 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Roma, Donzelli, 2016, pp. 49-75. Per i testi: K. Marx e F. Engels, India Cina Russia, a cura di B. Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1960 (riedito nel 2008). 18 K. Marx, bozza di lettera del novembre 1877 alla rivista russa «Otecestvennye Zapiski» (Annali della Patria), in Marx e Engels, India Cina Russia, cit., p. 303. 19 G. Lukàcs, Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero (1924), Torino, Einaudi, 1970, p. 100.

20 V.I. Lenin, Idatteggiamento della socialdemocrazia verso il movimento contadino (1905), in Id., Opere complete, voi. 9, Roma, Editori Riuniti, 1960, p. 220. 21 V.I. Lenin, Un passo avanti e due indietro (1904), in Id., Opere complete, voi. 7, Roma, Editori Riuniti, 1959, p. 371. 22 Lenin fu accostato nel 1920 a Robespierre dallo storico marxista della rivoluzio­ ne francese Albert Mathiez. Su Marx, il marxismo e la rivoluzione francese si veda B.

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Bongiovanni, Le repliche della storia. Karl Marx tra la Rivoluzione francese e la critica della politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, in particolare le pp. 62-80. Si veda anche la voce di M.L. Salvadori, Vladimir II’ic Lenin, in B. Bongiovanni e L. Guerci (a cura di), L‘albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzionefrancese, Torino, Einaudi, 1989, pp. 386-393. 23 V.I. Lenin, «Democrazia» e dittatura (dicembre 1918), in Id., Opere complete, voi. 28, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 376. 24 V.I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (1918), in Id., Opere complete, voi. 28, cit., p. 241. 25 R. Luxemburg, La rivoluzione russa (1918, pubblicato da Paul Levi nel 1921), in Ead., Scritti politici, cit., pp. 590-591. 26 Lo scritto fu pubblicato poi come prima parte di Stalin, Questioni del leninismo, Roma, Società editrice «l’Unità», 1945, voi. I, pp. 9-97. 2/ Ibidem, p. 108. 28 H. Marcuse, Soviet Marxism, Parma, Guanda, 1968, pp. 79-80 (la traduzione italiana si basa sulla terza edizione del 1965, aggiornata rispetto alla prima del 1958). 29 Stalin, Questioni del leninismo, cit., voi. I, p. 169, corsivo nostro. 30 Cfr. L. Trotskij, L’URSS in guerra (1939), in Id., In difesa del marxismo, Roma, Samonà e Savelli, 1969, p. 47. Cfr. D. Giachetti, I dilemt?ii di Trotsky, in «Il Ponte», 10, ottobre 2012, pp. 67-77. 31 Per un quadro complessivo delle posizioni di sinistra cfr. B. Bongiovanni (a cura di), LIantistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’URSS, Milano, Feltrinelli, 1975. 32 Stalin, Questioni del leninismo, cit., voi. II, p. 271. 33 V.I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 171 e 276. 34 V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, in Id., Opere complete, voi. 14, Roma, Editori Riuniti, 19692, p. 129. 35 Ibidem, p. 122. 36 Per gli scritti sul comuniSmo di guerra e sulla NEP si veda l’antologia V.I. Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di V. Giacché, Milano, Il Saggiatore, 2017. 37 Si vedano S. Tagliagambe, Scienza, filosofia, politica in Unione Sovietica 19241939, Milano, Feltrinelli, 1978 e le pagine antologiche da lui raccolte e introdotte in Scienza e marxismo in URSS e in Materialismo e dialettica nella filosofia sovietica (entrambi Torino, Loescher, 1979). 38 Cfr. E. Bellone, L. Geymonat, G. Giorello e S. Tagliagambe, Attualità del ma­ terialismo dialettico, Roma, Editori Riuniti, 1974. 39 Stalin, Questioni del leninismo, cit., voi. II, p. 282. 40 Si vedano D. Lecourt, Il caso Lysenko, Roma, Editori Riuniti, 1977 e F. Cassata, Le due scienze. Il caso Lysenko in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. 41 V.I. Lenin, Organizzazione dipartito e letteratura dipartito (1905), in Id., Opere complete, voi. 10, Roma, Editori Riuniti, 1961, p. 35.

D all 'opposizione

al potere

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42 Sugli intellettuali occidentali e la Russia sovietica cfr. M. Flores, Uimmagine dell’URSS. L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), Milano, Il Saggiatore, 1990. 44 Questi scritti, insieme ad altri, sono stati ripubblicati in A. Cavazzini (a cura di), Zizek presenta Mao. Sulla pratica e sulla contraddizione. Scritti filosofico-politici del grande timoniere presentati da Zizek, con una lettera di Badiou, Milano-Udine, Mimesis, 2009, da cui sono tratte le citazioni (pp. 59, 78 e 191). Alain Badiou e Slavoj Zizek discutono soprattutto della «rivoluzione culturale» e del suo significato «universale», rivendicato interamente da Badiou. 44 L. Kolakowski, Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo, Milano, SugarCo, 1985, voi. Ili, p. 467. Le «tradizioni del dispotismo orientale» sono quelle del «modo di produzione asiatico» studiato da Marx negli anni cinquanta dell’Ottocento e cassato poi dai manuali staliniani per i possibili usi antisovietici. Il concetto fu riproposto negli anni della guerra fredda dal sinologo tedesco Karl August Wittfogel (1896-1988), autore di II dispotismo orientale (1957). 45 Sulle diverse vie imboccate dai paesi socialisti e sul significato di quella cinese, si veda la discussione tra Paul M. Sweezy e Charles Bettelheim negli anni 1968-1970, tardivamente tradotta in italiano col titolo II socialismo irrealizzato, a cura di G. Riolo, Roma, Editori Riuniti, 1992.

CAPITOLO

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1. I PERCORSI DI LUKÀCS E KORSCH Nel 1923 uscirono in tedesco due opere che il filosofo esistenzialista francese Maurice Merleau-Ponty, nel saggio del 1955 Le avventure della dia­ lettica, contrassegnò come «marxismo occidentale» in alternativa a quello sovietico. Un libro era Marxismo e filosofia di Karl Korsch (1886-1961), il quale, nell 'Anticritica premessa alla seconda edizione aumentata (1930) del volume, si collocò nel «marxismo occidentale della sinistra radicale», in contrasto con l’ideologia marxista-leninista affermatasi in Russia. L’altro era Storia e coscienza di classe dell’ungherese, ma scrittore in lingua tedesca, Gyòrgy Lukàcs, che raccoglieva i suoi saggi marxisti del 1919-22. Entrambi gli autori erano intellettuali impegnati nel movimento comunista: Lukàcs era stato ministro nell’effimera Repubblica ungherese dei consigli del 1919 e Korsch, nel 1923, fu ministro nell’altrettanto breve governo operaio in Turingia. Lukàcs rielaborava in termini marxisti la critica hegeliana dell’intelletto astratto incapace di accedere alla totalità storica concreta1 e l’applicava sia alla frantumazione specialistica delle scienze «borghesi», sia al «revisioni­ smo» socialista, con il loro culto delle statistiche e dei fatti avulsi dall’insie­ me e dalla sostanza del processo storico. Ciò che distingue in modo decisivo 0 marxismo dalla scienza bor­ ghese - diceva Lukàcs - non è il predominio delle motivazioni economi-

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che nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio determinante e onnilaterale dell’in­ tero sulle parti è l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base di una scienza interamente nuova2. Alla comprensione della totalità può accedere solo il proletariato rivolu­ zionario, che rompe nell’azione la reificazione capitalistica che Marx aveva analizzato nella parte sul carattere di feticcio della merce del primo libro del Capitale-, nel mondo delle merci i rapporti sociali tra gli uomini hanno l’ap­ parenza necessaria di rapporti tra cose e anziché rapporti storici appaiono come un dato naturale e sovrastorico. Il prodotto del lavoro umano domina come forza indipendente ed estranea i produttori, alimentando la «coscien­ za capovolta» dell’ideologia e l’apparenza della produttività del capitale in­ vece che del lavoro. La reificazione, secondo Lukàcs, penetra sempre di più in tutti gli aspetti della vita culturale e sociale man mano che il capitalismo sviluppa la «razionalizzazione» della sfera economica e di quella politica (qui Lukàcs utilizza le analisi di Max Weber, che aveva frequentato prima di approdare al marxismo). La reificazione inquina anche la coscienza di ampi strati del proletariato, il quale solo nell’azione rivoluzionaria diventa il soggetto-oggetto che unifica teoria e prassi e plasma la realtà sociale. Il filosofo ungherese relativizzava il materialismo storico, che non consi­ derava applicabile meccanicamente a tutti i tipi di società. A suo giudizio era pienamente valido solo nell’epoca capitalistica in cui l’economia si è autonomizzata come fattore determinante, mentre nelle formazioni economicosociali antecedenti il dominio era non solo economico ma direttamente po­ litico e ideologico, e nella società postcapitalistica l’economia come ambito separato si sarebbe dissolta. In un articolo del 19263 Lukàcs polemizzava contro la feticizzazione della tecnica e delle forze produttive come motore autonomo della storia presente nella Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista di Nikolaj Bucharin (1888-1938), presidente dell’Internazionale comunista e teorico sovietico di prima grandezza, molto noto e autorevole per gli studi di economia finché fu emarginato quando si oppose all’industrializzazione staliniana a tappe forzate, e infine fu liquidato con un processo farsa nel 1938. I rapporti capitalistici non erano causati,

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secondo Lukàcs, dallo sviluppo delle tecniche produttive, ma, al contrario, era stato lo sviluppo dei rapporti capitalistici a causare i mutamenti tecnici, per esempio nel passaggio dall’artigianato alla manifattura e dalla manifat­ tura alla grande industria. Nuove tecniche nascevano dalla logica insita nel capitale ad aumentare la produttività del lavoro e il corrispettivo plusvalore relativo. La questione aveva un risvolto importante perché non solo esclu­ deva lo sviluppo tecnico come fattore isolabile e determinante del processo storico, ma anche perché metteva in dubbio che si potessero ereditare dal capitalismo tecniche produttive e organizzazione del lavoro concresciute con i rapporti capitalistici di produzione. Marxismo e filosofia di Korsch era meno articolato e ricco di analisi concrete rispetto a Storia e coscienza di classe, ma, analogamente a Lukàcs, Korsch sosteneva che il marxismo non può separare le diverse forme della coscienza e considerare la filosofia e le dimensioni culturali mere «sovra­ strutture»: la critica sociale rivoluzionaria che comprende «la realtà sociale nella sua totalità, deve criticarle tutte sul piano teorico e rovesciarle sul pia­ no pratico come nel medesimo tempo fa con la struttura economica, giuridi­ ca e politica della società»4. Lukàcs e Korsch recuperavano dai primi scritti di Marx (del quale tut­ tavia non conoscevano ancora i Manoscritti economico-filosofici del 1844) l’idea che «il lato attivo è stato sviluppato dallddealismo in contrasto col materialismo» (come suonava la prima tesi su Feuerbach) e pensavano che i legami con l’eredità idealistica fossero da riprendere e da sviluppare criticamente. Ricostruivano così un marxismo «pratico-attivistico», respingendo sia l’oggettivismo economicistico di tanta parte del marxismo della Seconda Internazionale, sia il nesso engelsiano tra materialismo storico e dialettica della natura (anche la natura è per loro interna alla prassi storica della cono­ scenza e della produzione sociale), per cui le due opere furono condannate come idealistiche sia da Kautsky sia dagli ideologi della Terza Internazio­ nale. A questo punto le vicende di Lukàcs e di Korsch divergono. Korsch era un comunista consiliarista, che si allontanò rapidamente dal leninismo anco­ ra professato in Marxismo e filosofia. N eli’Anticritica del 1930 rese esplicito e radicale il suo rigetto della teoria leniniana della conoscenza come riflesso della realtà oggettiva, ritenendola regressiva rispetto alle acquisizioni della

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filosofia tedesca da Kant a Hegel e omogenea al materialismo «borghese» premarxiano. Contemporaneamente confutava il positivismo evoluzionisti­ co del vecchio Kautsky (Antikautsky, 1929). In Perché sono marxista (1935) riassumeva il rapporto tra teoria e prassi in queste tesi: tutte le affermazio­ ni di principio del marxismo, anche quelle apparentemente generali, sono storicamente specifiche; il marxismo non è una scienza positiva ma critica: il suo oggetto è la crisi della società capitalistica; «la “teoria” marxista non mira a ottenere una conoscenza obiettiva a partire da un interesse indipen­ dente, teoretico. E spinta ad acquisire questa conoscenza dalle necessità pratiche della lotta»5. Nel 1936, dopo essere stato esule in Inghilterra e in Danimarca, andò a insegnare negli Stati Uniti, pubblicando nel 1938 un im­ portante libro su Marx in cui distingueva il Marx rivoluzionario degli anni quaranta dell’Ottocento dal posteriore scienziato delle leggi economiche che agiscono con ferrea necessità6. La «specificità storica» del marxismo significava per Korsch che l’elaborazione teorica è l’«altro lato» della praxis storica del proletariato e le sue diverse configurazioni esprimono fasi diverse della lotta della classe operaia, dei suoi slanci e dei suoi temporanei fallimen­ ti. Era una radicale storicizzazione che legava le sorti della teoria di Marx a una ripresa rivoluzionaria internazionale, che alla fine, dopo la seconda guerra mondiale, Korsch registrò come non avvenuta né prevedibile, per cui la figura di Marx doveva essere ricollocata tra i tanti pensatori socialisti «utopisti», avendo perso il marxismo la «sua funzione originaria di teoria della rivoluzione sociale della classe operaia»7. Lukàcs invece, come poi fece anche in seguito con numerose autocriti­ che, pagò il prezzo richiesto per rimanere nelle organizzazioni comuniste e accettò di non ripubblicare il suo capolavoro giovanile fino agli anni sessan­ ta. Nel 1967 lo corredò di un’ampia introduzione «autocritica» rispetto alla giovanile identificazione di oggettivazione e alienazione, che Marx aveva respinto nei Manoscritti del 1844, studiati dal filosofo ungherese nell’esilio moscovita. Nella Fenomenologia hegeliana la realtà è un processo di succes­ sive oggettivazioni che sono poste per essere tolte, di successive alienazioni attraverso cui lo Spirito giunge infine alla sua piena esplicazione; in Storia e coscienza di classe il «grossolano errore» giovanile in cui era incorso - diceva Lukàcs - era stato di fare del proletariato qualcosa di analogo all’idealistico «soggetto-oggetto identico» di Hegel.

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Già in Storia e coscienza di classe Lukàcs aveva considerato il partito come tramite indispensabile per rendere effettiva e operante quella coscien­ za di classe che il proletariato possiede in linea teorica e di diritto ma non corrisponde per lo più alla coscienza empirica dei proletari. Negli anni suc­ cessivi accentuava la sua piena adesione al leninismo. Dopo l’avvento del nazismo, si rifugiò a Mosca adattandosi allo stalinismo imperante pur man­ tenendo un’autonomia teorica dallo zdanovismo nelle questioni estetiche e letterarie su cui scrisse numerosi saggi. Soprattutto, non abbandonò la sua radicata convinzione della continuità tra Hegel e Marx, pur declinandola in modi diversi da come l’aveva configurata nel 1923. Con il saggio su II giova­ ne Hegel e iproblemi della società capitalistica, pubblicato nel 1948, fece di Hegel un acuto critico della società capitalistica per vari aspetti precursore di Marx, e con La distruzione della ragione, grosso volume scritto durante la guerra e pubblicato nel 1954, fece iniziare la storia dell’irrazionalismo mo­ derno, che poi culminerà nell’imperialismo e nel nazismo, dalla polemica di Schelling contro Hegel. E da notare come la chiave interpretativa adottata fosse il binomio irrazionalismo/razionalismo invece di quello canonico idealismo/materialismo. Tornato in Ungheria dopo la guerra, Lukàcs partecipò come ministro della Cultura al governo di Imre Nagy scaturito dall’insurre­ zione del 1956 repressa militarmente dai sovietici e perciò fu deportato bre­ vemente in Romania, per tornare a Budapest nel 1958 ed essere riammesso nel partito solo nel 19678.

2. GRAMSCI, LA SCUOLA DI FRANCOFORTE, BENJAMIN E BLOCH Al marxismo occidentale - inteso non come espressione geografica ma come interpretazione antiscolastica dell’eredità teorica di Marx e ripresa cri­ tica di alcuni aspetti dell’eredità idealistica9 - appartiene anche la complessa figura di Antonio Gramsci (1891-1937)10. In un famoso articolo della fine del 1917 ,L a rivoluzione contro il «Capi­ tale», scritto appena dopo la conquista bolscevica del potere, Gramsci ave­ va fatto l’elogio dell’intervento soggettivo e volontaristico dei rivoluzionari contro il preteso determinismo economico del Capitale:

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Vivono il pensiero m arxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti econo­ mici, bruti, ma l’uomo, ma la società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici e li giudicano e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva11.

Poi, con il gruppo dei socialisti di sinistra dell’Ordine Nuovo, sostenne i consigli di fabbrica sorti nelle industrie torinesi nel 1919-1920 vedendovi la dimostrazione da parte della classe operaia della sua capacità di sostituire la borghesia nella direzione della fabbrica e tendenzialmente dell’intera so­ cietà. Nel 1921 il gruppo dell’Ordine Nuovo partecipò alla fondazione del Partito comunista d ’Italia, del quale Gramsci nel 1924 divenne segretario. Nonostante fosse deputato, fu imprigionato dal fascismo nel 1926, mentre stava tracciando le linee di un’alleanza tra operai e contadini in Alcuni temi della quistione meridionale. Condannato a vent’anni e quattro mesi dal Tri­ bunale speciale, scrisse tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta i Quaderni del carcere, che furono pubblicati in edizione tematica presso Einaudi dal 1948 al 1951 per iniziativa di Paimiro Togliatti e poi in edizione critica, a cura di Valentino Gerratana, nel 1975. In essi elaborò un marxismo originale, la «filosofia della prassi» (formula che riprendeva da Antonio L a­ briola) come «storicismo assoluto» e «umanesimo assoluto della storia»12. Come Lukàcs (del quale non conosceva direttamente gli scritti), Gramsci era ostile a ogni forma di sociologia positivistica e considerava affetto da ma­ terialismo «volgare» il Manuale popolare di sociologia marxista di Bucharin, il quale, a suo avviso, non giungeva a concepire il materialismo storico come «una filosofia integrale originale, che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero, in quanto supera (e superando, ne include in sé gli elementi vitali) e l’idealismo e il materialismo tradizionali espressioni delle vecchie società succedutesi nella storia mondiale»13. Tra i tanti temi dei Quaderni, Gramsci gettava le basi per lo studio si­ stematico della funzione degli intellettuali nella vita italiana ed europea, e sul ruolo della cultura e degli intellettuali in un partito politico rivoluziona­

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rio - moderno Principe machiavelliano - che avrebbe dovuto esercitare l’e­ gemonia su ampi strati popolari in vista della conquista del potere (egemo­ nia-consenso necessaria anche nello Stato socialista, riducendone gli aspetti repressivi). Data l’importanza di una cultura autonoma dei ceti subalterni per la disgregazione del «blocco storico» delle forze sociali avversarie, di­ ventava essenziale il confronto critico con Benedetto Croce - che Gramsci considerava il punto più alto della filosofia europea contemporanea - , ri­ fiutando il concetto crociano di storia etico-politica ma riassorbendone il nucleo di verità nella prospettiva marxista. Gramsci affermava che «il più grande teorico moderno della filosofia dellapraxis [cioè Lenin], nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha in op­ posizione alle diverse tendenze “economistiche” rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teo­ ria dello Stato-forza»14. Tanto più era necessario, secondo Gramsci, elabora­ re una teoria e una pratica dell’egemonia nelle condizioni della rivoluzione in Occidente, diverse rispetto a quelle russe perché le forze rivoluzionarie nei paesi di capitalismo avanzato non avevano di fronte solo gli apparati repressivi dello Stato ma la stratificazione di potere, interessi e culture della società civile, ben più complessa che in Russia. Con una metafora tratta dalla riflessione sulla prima guerra mondiale, era necessaria una «guerra di posi­ zione» e di logoramento, che assicurasse solide posizioni sul terreno della società civile in vista della «guerra di movimento» che avrebbe portato alla conquista dello Stato e all’«ordine nuovo» della dittatura del proletariato per vie diverse e più complicate di quelle della rivoluzione d’Ottobre. Gli scritti di Gramsci hanno dimostrato una vitalità che va oltre il «gramscismo» del filone del marxismo italiano del secondo dopoguerra che valorizzò soprattutto il suo storicismo in concorrenza con quello idealisticocrociano. I Quaderni non contengono solo una filosofia ma sono una minie­ ra di riflessioni storico-politico-sociologiche che hanno alimentato ricerche in vari campi e direzioni, dalla storiografia alle scienze politiche, all’antro­ pologia, fino agli studi contemporanei sulla cultura popolare e di massa dei cultural studies e alle ricerche dei subaltern studies sulle società postcolonia­ li, esercitando importanti stimoli su autori extraeuropei15. Del tutto svincolata dall’impegno politico che anima le riflessioni di Gramsci, ma con analoga capacità di dar luogo a nuove ricerche ispirando­

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si al lascito marxiano, è la produzione della Scuola di Francoforte16, il cui primo nucleo si formò nel 1923 attorno all’Istituto per la ricerca sociale, che con l’avvento del nazismo si trasferì prima a Parigi e poi a New York, per ristabilirsi poi a Francoforte nei primi anni cinquanta. Nel 1930 Max Horkheimer (1893-1973) divenne direttore dell’Istituto e nel 1932 fondò la «Zeitschrift fùr Sozialforschung» (Rivista per la ricerca sociale) cui collaborarono filosofi come Theodor W. Adorno (1903-1969) e Herbert Marcuse, psicosociologi come Erich Fromm (1900-1980), economisti come Friedrich Pollock (1894-1970) e Henryk Grossmann (1881-1950). Nel primo numero della rivista, Horkheimer chiariva l’intento di ela­ borare una teoria critica della società come un tutto, facendo interagire i diversi problemi filosofici, psicologici, economici, sociologici. L’ispirazione fondamentalmente marxiana della «teoria critica» percorre il saggio-mani­ festo di Horkheimer Teoria tradizionale e teoria critica del 1937: la società borghese-capitalistica «dopo un periodo di ascesa, di dispiegamento delle energie umane, di emancipazione dell’individuo, dopo una straordinaria diffusione del potere dell’uomo sulla natura finisce per ostacolare l’ulteriore sviluppo e spingere l’umanità verso una nuova barbarie»17. La nuova barba­ rie era quella dei nazifascismi allora dilaganti in Europa, che gli autori della Scuola di Francoforte, costretti all’esilio in quanto studiosi di sinistra, per di più in maggioranza di origine ebraica, contribuirono ad analizzare nelle profonde radici psicosociali18. Da Marx e da Hegel - facendo largo uso del concetto di «reificazione» rielaborato da Lukàcs - i teorici della Scuola di Francoforte derivavano l’i­ dea della società come una totalità che il metodo positivistico frammenta e isola in aspetti separati e in «fatti» avulsi dal contesto, accusando poi il pen­ siero dialettico della totalità di essere metafisico19. Dalla psicoanalisi invece traevano gli strumenti per lo studio della personalità autoritaria (che introietta e fa propria la struttura gerarchica e autoritaria vigente nella società). Gli Studi sull’autorità e la famiglia del 1936 e la ricerca su La personalità autoritaria, pubblicata nel 1950, sono indagini che affrontavano il problema dell’origine dei pregiudizi antiegualitari e razzisti, e dell’adesione di larghe masse alle dittature nazifasciste20, portando un contributo essenziale nel panorama delle scienze sociali contemporanee21. Ma i due esponenti principali della teoria critica della società avevano

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ambizioni teoretiche molto più ampie. Nell’esilio americano, Horkheimer e Adorno maturarono una critica globale della civiltà tecnologica e della ratio occidentale che esposero nella Dialettica dell’illuminismo, pubblicata nel 1947 ad Amsterdam22. In un ampio affresco che va da Omero a Bacone, al fascismo e all’antisemitismo, all’industria culturale americana, gli auto­ ri tracciano una fenomenologia dello spirito occidentale in cui l’approdo finale è il trionfo della ragione strumentale che mira solo all’operation, al procedimento efficace, al successo, e in cui la natura e gli uomini divengono mero oggetto di calcolo e di manipolazione. Il «rischiaramento» illuministico con le sue promesse di emancipazione dell’umanità ad opera della ragio­ ne e della scienza si è ormai trasformato nel suo contrario e anche i progetti politici di liberazione globale ispirati al marxismo hanno mostrato nella loro realizzazione storica un volto autoritario e sanguinoso. In questo e in altri scritti, tra cui particolare rilievo hanno i Minima moralia (1971) di Adorno, i due filosofi francofortesi analizzarono acutamente i diversi aspetti della perdita da parte dell’individuo delle capacità critiche e di pensiero autonomo, perdita che culmina in diverse forme nel nazifa­ scismo, nel comuniSmo sovietico e anche nelle società rimaste istituzional­ mente democratiche, dove però gli individui sono manipolati dall’industria culturale e dalla tecnicizzazione della vita massificata. L’aspirazione degli individui alla realizzazione senza essere conglobati negli organicismi di destra e di sinistra era contemporaneamente sottolinea­ ta con forza da Herbert Marcuse. Il suo originale percorso l’aveva condotto all’inizio degli anni trenta dallo studio di Hegel, dello storicismo tedesco e dell’«esistenzialismo» di Heidegger alla collaborazione all’Istituto per le ricerche sociali, prima in Germania e poi negli Stati Uniti, dove durante la guerra e negli anni immediatamente successivi studiò e criticò il marxismo sovietico. Nel 1932, quando furono pubblicati i Manoscritti del 1844, Mar­ cuse aveva colto il punto essenziale della critica marxiana che fuoriesce dai limiti dell’economia e riguarda « l’essere umano nella sua totalità»: proprio la capacità di tener fermo lo sguardo sulla catastrofe dell’essenza umana nell’alienazione «si trasforma nell’inesorabile impulso a fondare la rivolu­ zione radicale» di cui la soppressione economica e giuridica della proprietà privata è solo l’inizio23. Nel grande saggio su Hegel del 1941 intitolato Ra­ gione e rivoluzione scriveva:

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L’abolizione della proprietà privata può costituire l’inizio di un si­ stema sociale essenzialmente nuovo solo se individui liberi, e non «la società», divengono padroni dei mezzi di produzione socializzati. Marx espone in chiari termini il pericolo di un’altra «reificazione» della società [...]. La vera storia dell’umanità sarà, in senso stretto, la storia dei liberi individui, così che l’interesse dell’insieme sarà costruito dall’esistenza individuale di ogni singolo24. Quella di Marcuse era una critica dello stalinismo e del marxismo so­ vietico, ma anche della condizione degli individui omologati e resi incapaci di trascendere l’esistente nella società capitalistica avanzata descritti poi in Iduomo a una dimensione (1964), che divenne un libro di riferimento dei giovani contestatori dell’establishment negli Stati Uniti e in Europa. Analogamente, per Horkheimer e Adorno bisognava registrare il fal­ limento del razionalismo dialettico in tutte le sue pretese incarnazioni po­ sitive, mentre la capacità di integrazione del «sistema» rendeva obsoleta e anacronistica la prospettiva di una rivoluzione sociale. L’idea che la ragione potesse plasmare la realtà diventava una utopia nel mondo «totalmente am­ ministrato» del tardo capitalismo, anche se non veniva meno il dovere degli intellettuali di contrastare la logica della razionalità strumentale - funziona­ le al dominio - con una ragione critica erede della tensione illuministica e poi marxiana verso una società libera ed egualitaria. Nelle tragiche esperienze del Novecento, il progresso, che era un con­ cetto operante nella tradizionale visione marxista della storia, appare ai fondatori della Scuola di Francoforte come appariva nelle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin (1892-1940), che collaborò all’Istituto per la ricerca sociale e alla sua rivista. Scritte poco prima di suicidarsi alla frontiera spagnola temendo di essere consegnato ai nazisti, Benjamin vi tracciava una potente e oggi famosa immagine simbolica: C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. [...] L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scara­ venta ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricon­ nettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata

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nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera25. Per Benjamin il movimento operaio era stato ingannato dall’idea di marciare in sintonia con la storia e di essere destinato a successi crescenti sulla via di un progresso unilineare e inarrestabile. La rivoluzione è invece come il Messia che rompe l’omogeneità del tempo e improvvisamente ri­ scatta l’asservimento delle generazioni passate realizzandone le speranze. Benjamin ripensava così alcuni concetti fondamentali del marxismo alla luce di elementi tratti dalla cultura ebraica. Più estesamente e sistematicamente gli aspetti religiosi e utopici del­ la tradizione rivoluzionaria furono esplorati dall’amico di Benjamin Ernst Bloch (1885-1977), in libri che vanno da Spinto dell’utopia (1918, riscritto nel 1923 dopo la sua adesione al comuniSmo), a Thomas Mùnzer teologo della rivoluzione (1921), a II principio speranza (1954-1959). Quest’ultima opera, vastissima enciclopedia di tutti gli aspetti artistici, filosofici, religiosi dell’utopia, in cui si concretizza la tensione dell’uomo verso il non-ancora, fu scritta negli Stati Uniti, dove anche Bloch, come i francofortesi, si era rifugiato dopo l’avvento del nazismo, e fu pubblicata quando - tornato in Germania - era docente all’Università di Lipsia, nella Repubblica demo­ cratica tedesca. Ma il suo marxismo eterodosso incontrò ostacoli crescenti frapposti dagli ideologi ufficiali della DDR, per cui nel 1961 si trasferì all’U ­ niversità di Tiibingen nella Germania occidentale. Nei suoi libri l’ideale di un’umanità libera non si realizza nel progresso unilineare scandito dal susseguirsi dei modi di produzione, bensì nella con­ vergenza di molteplici esperienze, sogni e speranze storiche. Tra queste la teoria di Marx ha un particolare rilievo, ma «anche il marxismo è un’utopia, per la prima volta un’utopia concreta»26, purché in esso non prevalga la «corrente fredda» della necessità economica e della subordinazione di ogni altro obiettivo agli imperativi della produzione, a scapito della «corrente calda» della tensione verso il libero sviluppo delle capacità umane che pure lo percorre.

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3. NELL’EST EUROPEO Gli anni che vanno dal rapporto Chruscèv del 1956 al X X congresso del PCUS, cioè dall’inizio della destalinizzazione - seguita dopo pochi mesi dall’invasione dell’Ungheria - fino alla repressione della Primavera di Praga nel 1968, vede il fiorire della speranza in una riforma interna del «socialismo reale», che non ci fu se non in forme limitatissime e, lungi dal divenire quel «socialismo dal volto umano» che a tratti era apparso come una possibilità reale, si chiuse con l’enunciazione della dottrina Breznev sulla sovranità li­ mitata dei paesi dell’Est europeo (13 novembre 1968) e il consolidarsi suc­ cessivo di una grigia epoca di restaurazione. Sul piano teorico, in questo periodo ci fu a Est un notevole marxismo critico i cui esponenti vennero presto emarginati o costretti all’emigrazione27. Un percorso significativo fu quello di Leszek Kolakowski (1927-2009), che, dopo essere stato un brillante filosofo della Polonia socialista, denunciò a partire dal 1956 lo svilimento della teoria a ideologia di legittimazione di un potere assolutistico. Presto mise in connessione il «socialismo reale» con il leninismo e questo con le aporie della stessa dottrina di Marx, in­ cline a una dissoluzione romantica dell’individuo nel tutto e a una hybris prometeica che dimentica i limiti della condizione umana (mentre per una scepsi ragionevole è invece solo possibile limitare il male e il dolore). Di qui la diffidenza di Kolakowski nei confronti del radicalismo utopico tan­ to valorizzato da Ernst Bloch (il quale pubblicò nel 1975 l’ultima sua ope­ ra: Experimentum Mundi) e tanto presente nei movimenti di contestazione giovanile dell’Occidente capitalistico. Espulso dal Partito operaio polacco, Kolakowski nel 1968 lasciò il suo paese, divenendo poi professore a Oxford e, tra l’altro, uno studioso della storia del cristianesimo. A Parigi pubblicò in polacco nel 1976 un bilancio fortemente negativo della storia del marxi­ smo - visto sostanzialmente come una variante del pensiero chiliastico che sfocia in una realtà totalitaria - nei tre volumi di Nascita, sviluppo, dissolu­ zione del marxismo. All’interno del marxismo rimase invece il filosofo polacco Adam Schaff (1913-2006), che cercò di dialogare con gli umanismi di matrice personalisti­ ca ed esistenzialistica mettendo in rilievo la specificità di quello marxista28.

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Anche a Budapest e a Praga vennero pubblicate rilevanti opere del «marxismo critico» dell’Est. Gyòrgy Lukàcs, sempre sperando in una ri­ forma del socialismo reale e dichiarando in varie interviste che «il peggiore socialismo è migliore del migliore capitalismo», dedicò gli ultimi anni del­ la sua vita a una monumentale Estetica e a una impegnativa rifondazione filosofica del marxismo intitolata Ontologia dell’essere sociale (pubblicata postuma, 1984-1986), in cui ripensava il rapporto tra finalismo dell’azione umana e causalità naturale e storica. Sosteneva che «la critica di Marx è una critica ontologica. Parte dal principio che l’essere sociale, in quanto adatta­ mento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia primariamente e insopprimibilmente sulla prassi»29. Il vecchio Lukàcs tornava così a respingere il determinismo naturalistico e l’economicismo, come aveva fatto da giovane, ma questa volta costruendo un ampio sistema in cui, dopo aver illustrato i livelli inorganico e organico della realtà naturale, dedicava ampio spazio ai condizionamenti obiettivi della prassi storica e ai diversi modi in cui l’agire teleologico attraverso il lavoro, anziché realizzare l’umanità dell’uomo, per­ de il suo valore emancipativo in sistemi in cui prevalgono la reificazione e la manipolazione degli individui. La democratizzazione della vita quotidiana su cui lavorava l’ultimo Lukàcs30 fu anche un tema centrale dei suoi allievi della Scuola di Budapest, che però non condividevano gli intenti sistematici della tarda Ontologia del maestro. Tra gli scritti della Scuola di Budapest hanno un particolare rilievo i saggi di Àgnes Heller (nata nel 1929, nel 1977 andò a insegnare in Australia e poi negli Stati Uniti), che a proposito di Marx scriveva: «Caratteristico del grande pensatore non è solo dare importanti indicazioni, ma darle in svariate direzioni»31. In Sociologia della vita quotidiana (1970) e La teoria dei bisogni in Marx (1974) Heller denunciava la subordinazione dei bisogni pro­ priamente umani e qualitativi (cultura, gioco, amicizia, amore, realizzazione di sé...) a quelli alienati e quantitativi, del denaro, del potere e del possesso. Nei paesi socialisti è stata tradita l’aspirazione marxiana a una «rivoluzione sociale totale»32, che per Heller è anche una rivoluzione della vita quotidia­ na e lo sviluppo della libera individualità sulla base della democrazia e del pluralismo delle forme di vita. Nella sua produzione filosofica successiva abbandonò il progetto di rivitalizzazione del marxismo pur rimanendo per lei Marx un importante autore di riferimento.

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In Cecoslovacchia il filosofo marxista più originale, coraggioso soste­ nitore della Primavera di Praga nel 1968, per cui pagò un duro prezzo di emarginazione, fu Karel Kosik (1926-2003). Nella Dialettica del concreto (1963) Kosik svolge la tematica dell’uomo come «soggetto oggettivo» che si estrinseca attraverso il lavoro, che però è suddiviso e spersonalizzato, sicché, come ha visto Heidegger in Essere e tempo, l’uomo è dominato dalla cura e da una quotidianità caratterizzata dalla reiterazione e dall’intercambiabilità. Si tratta, secondo Kosik, di superare la pseudoconcretezza dell’alienazione quotidiana verso la comprensione della totalità concreta dove si uniscono le esigenze di liberazione della classe e quelle dell’umanità, contro la deforma­ zione burocratica del socialismo. Anche nella Repubblica Democratica Tedesca si manifestò un movi­ mento intellettuale per il rinnovamento e la democratizzazione che venne duramente represso. Ne sono rappresentanti Robert Havemann (19101982), che pubblicò nel 1964 Dialettica senza dogma. Marxismo e scienze na­ turali, per cui fu espulso dal partito e dall’Accademia delle scienze, e Rudolf Bahro (1933-1997), che solidarizzò nel 1968 con la Primavera di Praga; in seguito, nel 1977, fece pubblicare nella Germania occidentale Dalternativa, per cui fu arrestato; infine si stabilì a Ovest, partecipando al movimento dei Verdi. Havemann è uno scienziato che riformula il materialismo dialettico in rapporto ai problemi posti dalla cibernetica e dalla teoria dei quanti, ma allarga il discorso alla questione della libertà e termina Dialettica senza dog­ ma chiedendo: «Quando cesserà di esistere lo Stato che vuole indagare e vigilare tutto?»33. Quanto a Bahro, contrappone i testi di Marx al socialismo inteso come dispotismo industriale e riprende la critica marx-engelsiana della divisione del lavoro applicandola a una società in cui l’apparato buro­ cratico assume i caratteri di un ceto privilegiato, mentre a giusto titolo dilaga la disaffezione dei lavoratori nei confronti del socialismo. Secondo Bahro occorre superare la frammentazione delle funzioni attribuendo a tutti sia il lavoro manuale sia la partecipazione alla direzione dei processi produttivi, riunificando l’educazione professionale e quella umanistica, e rendendo tut­ ti i cittadini soggetti attivi delle decisioni politiche34. In Jugoslavia va ricordata la rivista «Praxis», tra i fondatori della quale ci fu Predrag Vranicki (1922-2002), autore nel 1971 di una pregevole Storia del marxismo. «Praxis» uscì dal 1964 al 1975 confrontando l’umanismo del

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giovane Marx con le storture del socialismo sovietico ma anche con i difetti di quello «autogestionario» jugoslavo per cui venne in urto con la Lega dei comunisti. La rivista promosse seminari annuali internazionali in cui si con­ frontarono i filosofi dell’Est e dell’Ovest, al di là delle divisioni determinate dalla guerra fredda35.

4. GLI INDIVIDUI, LE STRUTTURE, LA STORIA Nel marxismo occidentale degli anni sessanta Marcuse sosteneva che la negazione dialettica, che Marx vedeva incarnata nell’azione rivoluzionaria del proletariato, ormai «può trovare benissimo espressione autentica nel linguaggio non politico, soprattutto quando l’intera dimensione politica di­ venta parte integrante dello status quo» 36 e sono piuttosto l’arte e la poesia, la dimensione estetica, a esprimere nella forma più adeguata la negazione e il «Grande Rifiuto» dell’esistente reificato. Invece Jean-Paul Sartre (1905-1980) nella Critica della ragione dialettica (1960), preceduta da Questioni di metodo, vedeva un antidoto allo stali­ nismo e al neostalinismo in un ripensamento critico del marxismo (con­ siderato la filosofia insuperabile del nostro tempo) attraverso l’apporto dell’esistenzialismo, presentato come una ideologia le cui istanze rimaneva­ no però vive finché il marxismo sclerotizzato non si fosse rimesso in moto riassorbendone la verità relativa. La critica della ragione dialettica voleva reperire le condizioni di un uso valido e non mistificato dei concetti marxi­ sti di prassi, dialettica, alienazione, partendo dall’irriducibilità del soggetto esistenziale, contro la liquidazione degli individui concreti da parte di quella «scolastica della totalità» che era divenuto il marxismo. Per comprendere il concreto individuale e sociale proponeva l’integrazione di strumenti tratti dalla microsociologia e dalla psicoanalisi. Sartre si muoveva però entro la contrapposizione di «interiorità» ed «esteriorità», «soggettivazione» e «og­ gettivazione», e in un quadro teorico in cui la disalienazione - almeno fino a quando regnerà la scarsità - può realizzarsi solo momentaneamente nella libertà plénière e fusionale del gruppo che si sottrae al mondo seriale della coesistenza alienata, dando luogo, nell’azione e nella lotta, a un «noi» in cui ognuno si identifica nell’altro, per poi, sotto la minaccia di ricadere nella

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dispersione seriale, mantenere e irrigidire l’unità attraverso la «fraternitàterrore» e il culto del capo. Così alcuni tratti storici della rivoluzione france­ se e di quella russa venivano ripensati all’interno di un originale marxismo esistenzialistico. E anche il concetto di «lotta di classe» veniva ricondotto alla lotta di gruppi che contrastano la passività della classe-serie, mentre la trasformazione dell’intera classe in gruppo in atto non si realizza nemmeno nei periodi rivoluzionari. Dopo lo slancio iniziale, in cui compare un noi indiviso, la rivoluzione si irrigidisce e si istituzionalizza, produce gerarchie e burocrazie, terrore e culto della personalità, ma incarna una tendenza in­ sopprimibile alla libertà e all’«invenzione del nuovo»37. Il primo volume della Critica, che riguardava le condizioni formali della dialettica storica, avrebbe dovuto completarsi con una seconda parte sul senso complessivo della storia, che non venne mai portata a termine, mentre Sartre si dedicava a un’enorme biografia di Flaubert che fa anche capire in che senso si muo­ veva principalmente il suo interesse per il marxismo: comprendere come un individuo nel suo progetto totalizza i condizionamenti della sua collocazio­ ne sociale e familiare verso i suoi fini ed è a sua volta totalizzato, cioè fissato e oggettivato dalla storia. Intervistato a settant’anni, Sartre dichiarò che, per quanto valgono le etichette, avrebbe voluto essere ricordato non come mar­ xista, seppure critico e innovatore, ma come esistenzialista38. Allievo di Sartre fu André Gorz (1923-2007) che declinò in modo origi­ nale filosofia e critica sociale facendo interagire ecologia e marxismo (Eco­ logia e libertà, 1977). Inoltre a Sartre si rifecero ampiamente psichiatri come Ronald Laing (1927-1989) e Frantz Fanon (1925-1961), che con l dannati della terra (1961) scrisse uno dei testi fondamentali dei movimenti di deco­ lonizzazione. Contro la centralità dei concetti di «alienazione» e «reificazione», e con­ tro il porre gli individui a fondamento della dialettica storica, scendeva in campo il filosofo Louis Althusser (1918-1990), iscritto al Partito comunista francese ma in rotta con i filosofi del partito che perseguivano un rinnova­ mento del marxismo attraverso un umanismo della persona. Ricollegando il marxismo alle robuste tradizioni dell’epistemologia francese e facendone in qualche modo l’erede, Althusser prese a prestito da Gaston Bachelard la no­ zione di «rottura epistemologica» per incunearla tra il giovane Marx uma­ nista che, sulla scorta di Feuerbach, elabora una filosofia dell’alienazione e

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il Marx della maturità, completamente diverso, che inaugura il continente dello studio scientifico della storia {Per Marx, 1965). Althusser non negava che nell’opera successiva fossero rimasti sedimenti del giovanile umanismo, ma si trattava appunto di depurarla e renderla coerente per farne un pensie­ ro rigoroso. Nel saggio iniziale della raccolta di testi Leggere il Capitale (1965) Al­ thusser afferma che «M arx non disponeva, al tempo in cui viveva e non ha potuto averlo a disposizione durante la sua vita, del concetto adeguato a pensare ciò che produceva: il concetto dell’efficacia di una struttura sui suoi elementi», cioè di «un concetto essenziale al suo pensiero ma assente dal suo discorso»39. Althusser fa riferimento a Foucault e allo strutturali­ smo francese contemporaneo per il quale ogni elemento è determinato dalla struttura che ne regge la posizione e la funzione. Fa anche riferimento a Spinoza come filosofo che ha liquidato il finalismo e l’antropomorfismo. «Origine» e «fine» sono mistificazioni ideologiche, e tali sono anche gli in­ dividui concreti di Sartre, la cui Critica della ragione dialettica è per lui solo una «psicosociologia» di nessun valore filosofico. Secondo Althusser, ne­ gli scritti marxiani della maturità non c’è l’alienazione dell’umanità, ma un processo senza soggetto, in cui agisce una causalità strutturale, quella dei rapporti di produzione. Marx produce un oggetto di conoscenza che non è un rispecchiamento della realtà empirica e la cui validità non risiede nem­ meno solo nella sua capacità pratica di trasformare la realtà storica, ma ha un criterio interno di verità nel rigore della costruzione teorica. Tra l’altro, Althusser interpretò lo stalinismo come «deviazione» economicistica del primato delle forze produttive che le correzioni «umanistiche», giuridiche (diritti dell’uomo) e filosofiche (centralità della persona), lasciano inalterata: «economicismo e umanesimo vanno di pari passo», mentre l’autentico mar­ xismo-leninismo riconosce solo la lotta delle classi e fa anche della filosofia la «lotta di classe nella teoria»40. Tuttavia negli interventi degli anni 19751980 Althusser si allontanò dal suo originario «teoricismo» e sottolineò non solo le storture del marxismo sovietico ma anche i limiti e le difficoltà della teoria di Marx [Il marxismo come teoria «finita» e Marx nei suoi limiti, del 1978), pervenendo infine a formulare, anche sulla scorta di Machiavelli, una teoria in cui la congiuntura storica appare un insieme di eventi aleatori aperto all’imprevedibile.

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Il marxismo althusseriano ebbe larga eco mondiale e in Francia influen­ zò la politologia marxista di Nicos Poulantzas (1936-1979), studioso delle classi sociali nel capitalismo contemporaneo e del ruolo in esso dello Stato, i lavori sulle società primitive di Emmanuel Terray (n. 1935), la storia delle lotte di classe in URSS di Charles Bettelheim (1913-2006), mentre, partendo dalTalthusserismo filosofico, Etienne Balibar (n. 1942) - autore, tra l’altro, di un importante libro su La filosofia di Marx (1993) - sviluppava origina­ li ricerche sui concetti fondamentali del marxismo. Gli althusseriani - ha scritto recentemente Balibar - cercavano di «strappare la storicità delle lotte di classe alla linearità, alla predeterminazione e al profetismo, in modo da restituirle il suo carattere d ’imprevedibilità evenemenziale e di perpetuo “inizio”» 41. In modo diverso dall’esistenzialismo marxistico di Sartre, gli individui erano anche alla base del marxismo analitico anglo-americano o «marxi­ smo della scelta razionale». George G. Brenkert, Gerald A. Cohen, John E. Roemer, Jon Elster e altri autori hanno riformulato i concetti chiave di Marx rifiutando la logica dialettica e l’olismo di derivazione hegeliana, e usando invece le griglie dell’individualismo metodologico (inteso come metodo che spiega i fenomeni sociali non in termini di aggregati collettivi ma a partire dai fini e dalle azioni degli individui). Il proposito iniziale era di rendere rigorosa - attraverso strumenti tratti dalla filosofia analitica - la concettualizzazione marxiana. Fondativa è stata l’opera del filosofo canade­ se, formatosi a Oxford, Gerald A. Cohen (1941-2009) Teoria della storia di Karl Marx. Una difesa (1978). Cohen sottolineava la centralità dello sviluppo produttivo favorito oppure ostacolato dai rapporti di produzione: una base economica paragonata a quattro muri stabilizzati dal tetto della sovrastrut­ tura giuridico-politica. Le forze produttive assumevano il primato esplica­ tivo dell’intera costruzione sociale, nel senso in cui Marx nella Miseria della filosofia diceva che il mulino a braccia dà la società con il signore feudale e il mulino a vapore quella con il capitalista industriale. Nel corso degli anni ottanta e con posizioni diversificate tra loro, i marxisti analitici misero in questione la dipendenza del socialismo dalla lotta di classe, per sottolineare la razionalità di per sé della scelta da cui deriva la limitazione della proprie­ tà privata e l’uso comune delle principali risorse economiche (del 1994 è Un futuro per il socialismo di Roemer e del 2009 è Socialismo, perché no?,

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l’ultimo libro di Cohen). Il norvegese Jon Elster (nato nel 1940, docente a New York), in Making Seme ofMarx, del 1985, criticava le categorie fondamentali del marxismo e respingeva la teoria marxiana del valore-lavoro, ma affermava in conclusione: Non è possibile oggi moralmente e intellettualmente essere marxisti nel senso tradizionale. Un marxista in questo senso sarebbe qualcuno che accetta tutte o la maggior parte delle teorie che Marx riteneva im­ portanti. [...] Tuttavia io credo che sia possibile essere marxisti in un senso piuttosto differente del termine. Penso che la maggior parte delle tesi che io ritengo vere e importanti posso ricondurle su, fino a Marx. La critica dello sfruttamento e dell’alienazione rimane centrale42. Elster riformulava alcune istanze di Marx nel quadro dell’individua­ lismo metodologico e dell’analisi delle decisioni in situazioni di conflitto, facendo uso della teoria dei giochi. Era un contesto del tutto insolito per il marxismo tradizionale e incompatibile anche con alcuni assunti marxiani fondamentali43, ma teneva viva l’aspirazione a una società che consenta a tutti di «creare, inventare, immaginare altri mondi possibili».

5. IN ITALIA: RINNOVAMENTI, CRISI, RINASCITEIl Il rinnovamento del marxismo italiano dopo la crisi del 1956 - mentre veniva approfondita e affinata la rielaborazione di Gramsci e la sua interpre­ tazione storicistica in convegni internazionali e in numerosi studi44 - prose­ guiva essenzialmente secondo tre linee45. La prima è il rinnovamento per integrazione con altre correnti teoriche, ripensando il marxismo in rapporto alle trasformazioni del capitalismo e agli sviluppi contemporanei sia della filosofia sia delle scienze umane e sociali. In questa direzione si muoveva, per esempio, Praxis ed empirismo (1957) di Giulio Preti (1911-1972), che proponeva l’integrazione del giovane Marx con il pragmatismo deweiano e con l’empirismo logico. Già da un decen­ nio Preti sosteneva che marxismo e pragmatismo «vengono a incontrarsi su questo terreno: che la base e l’essenza fondamentale dell’uomo e di tutta la vita spirituale è l’attività pratico-sensibile, in virtù della quale l’uomo,

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mediante il corpo e le funzioni organiche, viene influenzato dall’ambiente esterno, ma a sua volta lo influenza, con il lavoro» 46. Invece Enzo Paci (1911-1976), in funzione delle scienze e significato dell’uomo (1963), metteva in connessione l’alienazione marxiana con la feticizzazione positivistica del sapere scientifico criticata da Husserl in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale^1. Paci, che sulla ri­ vista «aut aut», da lui fondata nel 1931, perseguiva l’integrazione di marxi­ smo, fenomenologia e scienze umane, in una conferenza tenuta il 24 ottobre 1962 all’Accademia filosofica di Praga, diceva: Come Marx rivela la realtà del lavoro vivente, così Husserl rivela la realtà del soggetto vivente e di tutte le sue operazioni. Il cattivo uso della scienza non capisce che tutte le operazioni scientifiche, come le opera­ zioni del lavoratore di Marx, sono operazioni del soggetto concreto. Le scienze sono in crisi perché fanno diventare rapporti tra cose i rapporti sociali tra le persone48. La seconda linea del marxismo italiano è rappresentata dalla rigorizzazione logico-metodologica e dal ritorno a Marx di Galvano della Volpe (1895-1968) e Lucio Colletti (1924-2001), per i quali il marxismo è meto­ dologia scientifica e analisi di un oggetto storico-sociale specifico, il capi­ talismo. Della Volpe, che nel 1956 ripubblicò la Logica come scienza posi­ tiva di sei anni prima, vedeva in Marx il Galilei del mondo storico-sociale, che sin dal 1843 aveva respinto la logica idealistica di Hegel, caratterizzata dall’inversione tra soggetto e predicato, tra astratto e concreto, e dalla giu­ stificazione filosofica di realtà empiriche (come la monarchia) assunte acriti­ camente. E nucleo del metodo marxiano per Della Volpe era la critica delle astrazioni indeterminate (popolazione, lavoro ecc.) dell’economia politica classica per giungere ad «astrazioni determinate» storicamente: le classi e i rapporti sociali di produzione49. Per Colletti l’insegnamento di Della Volpe era il tentativo di separare il più nettamente possibile Marx da Hegel; il ripu­ dio della logica dialettica idealistica e a maggior ragione, quindi, del pro­ gramma engelsiano di dialettizzazione delle scienze; il tentativo, infine, di ritrovare negli scritti di Marx i lineamenti di una logica sperimentale o

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scientifica dalla cui messa in opera deriverebbero, poi, i concetti chiave dell’analisi economica marxiana: dal concetto di formazione economicosociale, al concetto di lavoro astratto, di capitale, di plusvalore ecc.50 Colletti sostenne la «dialettica scientifica e razionale» marxiana in po­ lemica con la dialettica speculativa di Hegel, ma anche con il materialismo dialettico sovietico e con lo storicismo gramsciano, troppo legato all’eredità di Croce e dell’idealismo (Il marxismo e Hegel, 1969). A suo avviso Della Volpe non aveva messo adeguatamente in rapporto la teoria giovanile dell’a­ lienazione con quella matura del feticismo della merce e con la teoria del valore del Capitale. Il marxismo di Marx è scienza di un mondo capovolto in cui i prodotti del lavoro alienato dominano e asserviscono i produttori e questo è il significato ultimo della teoria del valore, che da un lato è una continuazione critica di quella di Smith e Ricardo, dall’altro è una teoria completamente diversa che pone al centro della realtà capitalistica il lavoro estraniato. L’interpretazione di Colletti fu condivisa da Claudio Napoleoni che svolse notevoli studi sui rapporti tra Marx e i classici dell’economia e sulla teoria filosofico-scientifica del valore. Negli anni settanta, in successivi passaggi - dal^Intervista filosofica-politica del 1974 a Tra marxismo e no del 1979, a Tramonto dell’ideologia del 1980 -, Colletti si convinse però che nella teoria di Marx i fatti positivi e le opposizioni reali, oggettivamente ve­ rificabili, diventano anche inverificabili contraddizioni dialettiche, per cui il marxismo non si è mai liberato dall’hegelismo. Le contraddizioni dialettiche non esistono nella realtà, come credevano Hegel e Marx; nella realtà esisto­ no solo opposizioni reali, come ha insegnato Kant, senza contraddizione, estraneazione, superamento ecc., per cui tutto il bagaglio teorico marxista andava completamente abbandonato o per lo meno profondamente rivisto. Ma negli anni sessanta si forma (e poi si sviluppa negli anni settanta) anche una terza linea, di un marxismo che rilegge Marx per un uso politico diretto, al di fuori dei luoghi politici istituzionali della sinistra: il cosiddetto «operaismo», iniziato da Raniero Panzieri (1921-1964) e da Mario Tronti (n. 1931). Le tesi principali di Panzieri contro il marxismo tradizionale, espres­ se nei primi anni sessanta nella rivista «Quaderni rossi»51, si possono così riassumere: a) le forze produttive sono plasmate dai rapporti di produzione, per cui non c’è progresso neutrale e oggettivo delle tecniche produttive e

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l’organizzazione del lavoro tayloristica e fordista è un processo estremo di espropriazione che suscita una vasta e spontanea insubordinazione operaia; b) il piano nel capitalismo maturo o neocapitalismo si allarga dalla fabbrica all’intera società, per cui non è sufficiente, anzi è fuorviarne, l’identificazio­ ne di capitalismo con anarchia e di socialismo con pianificazione; c) tanto nelle società capitalistiche quanto in quelle socialiste le lotte tendono all’au­ togestione e al potere diretto dei lavoratori; d) il marxismo deve essere rein­ terpretato come sociologia rivoluzionaria, che si deve avvalere del metodo dell’inchiesta e della con-ricerca dei militanti da condurre insieme agli ope­ rai. Il Capitale per Panzieri andava letto come un grande abbozzo di sociolo­ gia delle classi, da riattualizzare nel periodo della trasformazione dell’Italia in paese prevalentemente industriale, con l’imponente immigrazione nelle grandi fabbriche del Nord di masse che formavano una nuova classe operaia molto diversa dall’operaio qualificato della tradizione socialista. Era l’epoca di una forte conflittualità operaia, che si intreccerà, a partire dal 1968 e per oltre un decennio, con quella del movimento degli studenti. Tronti - che aveva scritto in Operai e capitale (1966): «Al livello più alto dello sviluppo capitalistico, il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un articolazione della pro­ duzione, cioè tutta la società vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società»52 - si allontanò dall’ope­ raismo negli anni seguenti per teorizzare l’«autonomia del politico» appog­ giandosi a teorici di destra riletti a sinistra. Nel capitolo Karl und Cari di La politica al tramonto53 sottolineava la necessità di confrontare Karl Marx con la teoria del politico di Cari Schmitt, del quale erano da recuperare alcuni assunti fondamentali. Tronti registrava la fine della «grande politica» nove­ centesca e sosteneva che la democrazia realizzata in Occidente è in realtà un totalitarismo di tipo nuovo, nel quale masse irretite accettano una servitù volontaria54. Nell’ambito «operaista» si mosse inizialmente anche Massimo Cacciari (n. 1944), che con Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein (1976) rivalutò il «pensiero negativo» contro la condanna lukacsiana dell’irrazionalismo e ne concluse che «la critica di Nietzsche a Hegel e alla dialettica idealista coinvolgeva indirettamente an­ che Marx»55 e, soprattutto, minava alle basi lo storicismo di matrice crocia­ na o gramsciana del marxismo italiano.

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Invece l’«operaio-massa» della fabbrica fordista con Antonio Negri (n. 1933) - che aveva dato nel 1979 una rilettura dei Grundrisse come testo piti preveggente e anticipatore di nuovi sviluppi socioeconomici rispetto al Ca­ pitale - diventò l’operaio sociale complessivo che non aveva più il baricentro nella fabbrica e più tardi si trasformò nella «moltitudine» in lotta contro l’Impero, inteso come regime ubiquo, che domina la totalità della vita socia­ le ed esercita il suo «biopotere» sulla stessa natura umana56. Difficilmente collocabili nello schema di lettura delle correnti princi­ pali del marxismo italiano fin qui proposto sono alcune importanti figure di studiosi e militanti: Sebastiano Timpanaro, che rivalutò il materialismo settecentesco e quello leopardiano; Ludovico Geymonat, del quale abbiamo già ricordato il tentativo di rifondazione del materialismo dialettico e la di­ fesa della scientificità del marxismo in rapporto alle teorie epistemologiche contemporanee; Cesare Luporini (1909-1993), che nell’introduzione alla raccolta di saggi Dialettica e materialismo (1974) dichiarò francamente esau­ rita (pur rimanendo Gramsci un riferimento essenziale) l’interpretazione gramsciano-storicistica del marxismo che aveva nutrito gli intellettuali del PCI, partito del quale Luporini rimase un autorevole esponente fino allo scioglimento nel 1991. La rilettura dei testi del «marxismo occidentale» (a cominciare da Mar­ xismo e filosofia di Korsch e da Storia e coscienza di classe di Lukàcs, tradotti in italiano nel 1966 e 1967) e la diffusione dei temi della Scuola di Fran­ coforte si mescolarono con la spinta a ripensare il marxismo in termini di «terzomondismo», nell’epoca della decolonizzazione, della guerra di Alge­ ria (1958-1962), della rivoluzione del 1959 a Cuba, della sconfitta francese (1954) e americana (1975) in Vietnam. Si aggiunse la fascinazione della «ri­ voluzione culturale» cinese iniziata nel 1966, che venne interpretata soprat­ tutto nella sua prima fase - semplificandola e vedendone solo alcuni aspet­ ti - come rivoluzione antiburocratica e libertaria. Per ampi settori giovanili negli anni intorno al 1968 la rivoluzione culturale cinese ebbe una funzione di identificazione e mobilitazione analoga al mito dell’URSS per le vecchie generazioni comuniste. Il senso del riferimento alla Cina come «paese alle­ gorico» è stato lucidamente puntualizzato dal poeta e critico Franco Fortini (1917-1994), che se ne fece propagatore nell’ambito della «nuova sinistra» insieme ad altri intellettuali, tra cui la sinologa Edoarda Masi (1927-2011)57:

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La rivoluzione avrebbe dovuto continuare in regime socialista come conflitto motore interno al sistema, per ininterrotto configurarsi di «con­ traddizioni in seno al popolo». Di qui il diritto alla rivolta («ribellarsi è giusto»). Il partito non era più l’istanza suprema, la sede e la forma as­ sunta dall’autocoscienza; era una delle due fonti della legittimità, l’altra delle quali era la forza, anarchica, delle masse58. Dai primi anni ottanta si discusse di «crisi del marxismo»59, in rapporto sia alle involuzioni storiche dei socialismi sovietico e cinese, sia alle trasfor­ mazioni socioeconomiche che comportavano il tramonto della fabbrica for­ dista e rendevano incerti i tratti del principale soggetto sociale antagonistico, sia infine rispetto ai metodi e all’epistemologia delle scienze contemporanee. Negli anni della «crisi del marxismo» il composto instabile della teoria tra i residui di filosofia della storia derivanti dalla tradizione idealistica tedesca e le istanze «empiristiche» del materialismo storico come scienza sociale venne attaccato su due fronti: quello del coinvolgimento di Marx nella liqui­ dazione dello storicismo e quello della smentita delle previsioni marxiane da parte della storia empirica. Su entrambi i lati sembrarono fondate le critiche al marxismo di Karl Popper (1902-1994) formulate a partire da La società aperta e isuoi nemici (1945) e Miseria dello storicismo (1944-1945): a) preten­ dere di reperire il senso globale della storia è un sogno metafisico e b) il mar­ xismo non ha i criteri di falsificabilità propri della scienza moderna, per cui le sue teorie si sottraggono con aggiustamenti ad hoc alla smentita empirica. In consonanza a quanto in Francia andava teorizzando Michel Fou­ cault, si parlò anche di «crisi della ragione classica», originata dalla «consa­ pevolezza [...] che la struttura socio-economica della nostra civiltà ha gene­ rato un sistema di astrazioni e di generalità che riflettono una costellazione di poteri e di dominio»60. Licenziando l’ultimo volume della Storia del marxismo pubblicata pres­ so Einaudi, dedicato a II marxismo oggi (1982), Eric Hobsbawm scrisse che i «classici» del marxismo non apparivano più il «corpo coerente di una teoria» e sembravano inadeguati per «una descrizione analitica, immediata­ mente fruibile, delle economie e delle società attuali, o come [...] una guida diretta all’azione concreta da parte dei marxisti»61. Per lo meno dei marxisti dei paesi dell’Occidente capitalistico, perché, come faceva notare opportu­

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namente Luciano Canfora in Marx vive a Calcutta (1991), bisognava consi­ derare le masse dei diseredati dell’ex «terzo mondo» e vedere l’attualità del marxismo in un contesto globale. Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo il marxismo italiano in­ traprese anche la via di una riattivazione dello strato normativo implicito e non sviluppato da Marx e Engels, ai quali il comuniSmo, più che una scel­ ta che comporta alternative, appariva l’approdo del movimento oggettivo del corso storico. In uno dei libri della fine del Novecento che discutevano l’eredità della filosofia sociale critica62 era sottolineato l’interesse del marxi­ smo per la filosofia politica normativa e per un confronto sia con la teoria della giustizia di John Rawls, sia con gli approdi della Scuola di Francoforte, soprattutto con Jtirgen Habermas (n. 1929), che vedeva nell’alienazionemanipolazione universale non già il destino finale della modernità, come era apparso a Adorno e Horkheimer, ma il prevalere della logica della ra­ zionalità strumentale, mentre nella modernità è presente anche il paradigma contrastante della comunicazione linguistica volta all’intesa e all’istanza di una compiuta democrazia. Tra i bilanci degli ultimi anni del Novecento il filosofo liberaldemocratico Norberto Bobbio (1909-2004) - non marxista ma nemmeno pregiudi­ zialmente «antimarxista» e al centro di importanti dibattiti con il marxismo italiano del dopoguerra su politica e cultura così come sul marxismo e lo Stato (Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, 1976) -, osservava che molte volte si era dato il marxismo per morto e poi era rinato: le crisi del marxismo erano legate a precise congiunture storiche, quando tra Ottocen­ to e Novecento l’atteso crollo del capitalismo non si era verificato e si era svi­ luppato il dibattito sul revisionismo; quando la rivoluzione socialista, contro le previsioni di Marx e di Engels, aveva vinto in un paese arretrato e aveva assunto i tratti di una dittatura totalitaria con Stalin; quando dopo il 1989, con il crollo del socialismo sovietico, il capitalismo era risultato globalmente vincente. Proprio mentre Marx veniva messo in soffitta da molti ex marxisti, Bobbio chiedeva: «M a la vittoria del capitalismo è definitiva?»63, e sottoli­ neava due aspetti irrinunciabili dell’eredità marxiana: a) il predominio del potere economico sugli altri poteri (politico e ideologico), principio euristi­ co fecondo e attuale nonostante le forzature e le mistificazioni cui può aver dato luogo nella storia dei marxismi, e b) la mercificazione universale, che,

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accompagnandosi all’esaltazione ormai corrente del mercato, pervade tutti gli aspetti della vita. Negli anni di Ronald Reagan e Margaret Thatcher (la quale affermava nel 1987 che la società non esiste, esistono solo gli individui) era infatti di­ ventato mainstream quello che i suoi avversari chiamano «pensiero unico», espressione di un capitalismo distruttore dei legami sociali. Nella teoria si affermarono le richieste di «Stato minimo» (Anarchia, stato e utopia. I fon­ damentifilosofici dello «Stato minimo», di Robert Nozick, pubblicato negli Stati Uniti nel 1974) e il neoliberismo di Milton Friedman e della Scuola di Chicago, secondo i quali il mercato avrebbe dovuto annettersi anche le superstiti forme di Welfare State. Ma la grande crisi iniziata con il collasso finanziario del 2008 ha portato a una rinnovata attenzione per il pensiero di Marx e lo ha ricollocato nel mondo e in Italia tra gli autori più importanti da riconsiderare. Nel settem­ bre 2008 la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» scriveva: «L a storia del capi­ talismo è la storia delle sue crisi. Qui Marx aveva completamente ragione», e nel febbraio 2009 il settimanale statunitense «Time» gli dedicava la coper­ tina. Anche in Italia, diversi economisti hanno proposto di usare strumenti marxiani per interpretare la crisi più recente64. Sul piano delle letture filoso­ fiche complessive, molti annunciarono la «rinascita di un pensiero rivoluzio­ nario» dopo la sua eclissi65. C ’è stata, soprattutto, una notevole fioritura di riletture marxiane, tuttora in atto, sulla base della seconda Gesamtausgabe (.MEGA2) delle opere di Marx e Engels. Per cui è diventato corrente parlare di una Marx-Renaissanceb6.

6. DOMANDE DI IERI E DI OGGI Dopo aver visto nei paragrafi precedenti varie discussioni e problemi affrontati dai marxisti o dai critici del marxismo, vanno posti almeno alcuni interrogativi. Una teoria di liberazione che si capovolge in una realtà di asservimen­ to - la si voglia chiamate totalitarismo o meno - pone interrogativi su quanto nella teoria fosse contraddittorio o deficitario. Se è facile dimostrare che Marx non ha niente a che fare con il feroce collettivismo contadino di Poi

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Pot, non si può sorvolare sulla realtà e sui fallimenti dei comuniSmi nove­ centeschi, come anche sulle realizzazioni e sulle difficoltà dei programmi di Welfare State delle socialdemocrazie, alternativi alla rivoluzione comunista. Spesso - dopo le delusioni storiche - si è invocato un ritorno a Marx, al «vero» Marx che sino ad allora nessuno aveva capito, oppure a qualche assetto iniziale della rivoluzione poi tradito. Le «repliche della storia» (per usare una bella espressione dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel), soprattutto per una teoria che fa affidamento sullo sviluppo storico per la propria realizzazione, non possono non essere prese seriamente in consi­ derazione. Se Marx non voleva dare ricette per « l’osteria dell’avvenire» (poscritto del 1873 al primo libro del Capitale), si può ripeterlo centocinquant’anni dopo che queste parole furono scritte e una gran quantità di osterie si sono aperte e chiuse? E possibile «registrare la cesura provocata da M arx» senza «riflettere sull’ambivalenza degli effetti che essa ha prodot­ to - tra i suoi sostenitori come tra i suoi avversari»?67 Un secondo gruppo di questioni concerne una teoria dell’emancipa­ zione sociale, contrapposta a quella solo politica, che però non può fare a meno dei mezzi politici (i quali nella realtà diventano spesso ipertrofici). È un tema che non cessa di inquietare il fondatore stesso della dottrina, dalla Questione ebraica al Manifesto, agli studi storici sulle lotte sociali in Francia e sulle loro complicazioni politiche, agli scritti sulla Comune, in cui Marx ritiene di avere finalmente scoperto la forma politica in cui può emanciparsi il lavoro. E si ripropone teoricamente con Stato e rivoluzione di Lenin e pra­ ticamente con l’affermazione internazionale di un marxismo-leninismo ben lontano dai teoremi di Stato e rivoluzione. Un altro insieme di interrogativi riguarda una teoria che vuole spiegare l’intera complessità sociale, se non con lo sviluppo delle forze produttive d ’«economicismo» respinto in linea teorica da quasi tutti i marxisti), alme­ no con i rapporti di produzione come chiave esplicativa ultima dell’intero edificio sociale, ma incontra particolari difficoltà a spiegare il peso e l’effica­ cia delle «sovrastrutture». Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte sperava che la rivoluzione proletaria avrebbe fatto a meno di miti, di ideologie e di illusioni, ma non è stato così. E poi: quali sovrastrutture? I sistemi giuridi­ ci, le ideologie religiose e filosofiche, le produzioni artistiche hanno logi­ che intrinseche diverse e pongono problemi differenti. Per l’arte, già Marx,

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nell’Introduzione del ’57, si chiedeva come è possibile che opere d’arte nate in contesti storici lontanissimi siano così vive in un mondo totalmente cam­ biato. C’è un trans-storico che rimanda a una filosofia dell’«uomo», proprio quella filosofia che il marxismo in molte delle sue manifestazioni principali vuole evitare perché sfugge alla specificazione socioeconomica? E comun­ que significativo che l’investimento intellettuale dei marxisti nei campi della letteratura e dell’arte, e nell’elaborazione di estetiche più o meno sistemati­ che (come quella a cui si è dedicato nella tarda maturità Lukàcs), abbia un posto almeno tanto rilevante quanto quello dedicato a questioni più direttamente economico-sociali. Ancora: il marxismo ha una portata universale di esplicazione storico­ sociale? Una teoria che vuole interpretare la storia universale come «storia delle lotte di classe» che sarebbe arrivata alla sua fase conclusiva, e come il susseguirsi dei modi di produzione elencati nella prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, non dipende da un punto di vista eurocen­ trico, in ultima analisi da uno storicismo etnocentrico, almeno in certe sue formulazioni? Lo stesso Marx, negli ultimi anni di vita, discutendo con i suoi interlocutori russi - come si è visto -, ammette di aver elaborato solo uno «schizzo» dell’evoluzione occidentale e si raccomanda di non trarne una filosofia della storia che pretenderebbe di essere una chiave interpre­ tativa universale. Non si tratterà allora di Provincializzare l’Europa - come era intitolato nel 2000 il libro dello storico indiano Dipesh Chakrabarty - e di considerare la storia da un punto di vista non europeo, liberandosi dagli stereotipi dell’«orientalismo» elaborati dalla cultura occidentale?68 Sempre in tema di universalismo: la lotta di classe proletariato/borghesia assorbe tutti i conflitti sociali oppure ce ne sono di indipendenti o alme­ no di autonomi? Quelle che il marxismo tradizionale ha chiamato «que­ stione nazionale», «questione femminile», «questione ebraica», sono solo articolazioni della «questione sociale» con il suo soggetto forte: la classe operaia (o, più in generale, i lavoratori dipendenti salariati)? Il «differenzialismo» femminile rifiuta più o meno animosamente di lasciarsi riassorbire negli schemi del marxismo classico. E trova consonanze nelle lotte per il «riconoscimento» dei gruppi che rivendicano la loro specificità sessuale, etnica, culturale. Si pone la questione del rapporto politico tra socialismo marxista e movimenti di liberazione di altra natura.

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Inoltre, ci sono temi come la crisi ecologica del pianeta che dovreb­ bero interessare tutta l’umanità e non solo questa o quella classe sociale, ma che - come già misero in luce, seppure episodicamente, Marx e En­ gels - sono legati alla crescita senza misura dell’economica capitalistica e alla devastazione ambientale ad essa connessa: come si coniugano critica ecologica e anticapitalismo? Sul piano della filosofia politica, che consistenza ha il «realismo» di Marx, il «Machiavelli del proletariato» nella definizione di Croce, il quale all’inizio del Novecento tanto ne apprezzò «la ferma asserzione del princi­ pio della forza, della lotta, della potenza, e la satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89»?691 filosofi politici normativisti vedono in questo un pesante difetto dell’eredità di Marx. Infine, il marxismo, che aveva percorso la via dall’utopia alla scienza, deve compiere il cammino inverso dalla scienza all’utopia? Bisogna ritenere, con Ernst Bloch, Marcuse e molti altri, che partendo dalle premesse dei padri fondatori si può tratteggiare una «utopia concreta»? Oppure si deve leggere Marx come «lo scienziato liberato dall’utopia»?70 Proveremo ad articolare meglio alcuni di questi interrogativi nelle pagi­ ne che seguono. Forse rispetto all’attuale Marx-Renaissance è prudente mettere le mani avanti ricordando che «non si lavora sui microchips con falce e martello; e non si lavora sulle contraddizioni della società capitalistica degli ultimi cent’anni con il marxismo tradizionale»'1. Due tesi del marxismo tradiziona­ le sembrano oggi difficilmente difendibili. La prima è che la fine del capita­ lismo sia una prospettiva indubitabile (anzi, come ha affermato il sociologo Luciano Gallino, «l’inedito passaggio dal socialismo al capitalismo, avvenu­ to nelle società dell’Europa orientale, è stato un vulnus empirico d ’estrema gravità per una teoria costruita al fine di dimostrare la inevitabilità del suo contrario»)72. La seconda è che il capitalismo produce nel suo sviluppo la classe antagonistica che ne decreterà la fine: 0 proletariato industriale come soggetto storico capace di essere la leva decisiva per transitare a un superio­ re modo di produzione. Il rapporto tra la teoria e la prassi storica è diventato quanto mai pro­ blematico per il marxismo del ventunesimo secolo. Il filosofo marxista sio-

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veno Slavoj Zizek (n. 1949) ha riassunto in occasione del bicentenario della nascita di Marx alcune considerazioni del sociologo ed economista tedesco Wolfgang Streeck: la crisi del capitalismo è un processo prolungato di de­ cadimento e disintegrazione, senza che sia in vista un facile superamento dialettico, e senza che sia individuabile un agente storico capace di dare una svolta positiva verso un livello più alto di organizzazione sociale73. O, come dice anche più recisamente Axel Honneth (nato nel 1949, dal 2001 diretto­ re dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte), «si sa piuttosto bene che cosa non si vuole, e che cosa risulta scandaloso delle attuali condizioni sociali: e tuttavia non si ha neppure la minima idea della meta verso cui una trasformazione mirata dell’esistente dovrebbe puntare», per cui occorre un riesame critico e una ridefinizione del socialismo74. E certo comunque che la storia dei marxismi non è terminata. Soprat­ tutto non è terminato il lavoro di interpretazione e di rielaborazione di Marx come il classico del pensiero sociale con cui l’analisi critica del capitalismo deve sempre di nuovo confrontarsi, anche se a molti studiosi, che pure non intendono rinunciare ad aspetti essenziali del suo pensiero, il rivoluzionario di Treviri appare oggi più importante per i problemi che ha posto che per le soluzioni che ha prospettato75.

NOTE

1 Sulla centralità del concetto di totatilità nel marxismo occidentale cfr. M. Jay, Marxism and Totality. The Adventures ofa Conceptfrom Lukàcs to Habermas, BerkeleyLos Angeles, University of California Press, 1984. 2 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. 35. 3 G. Lukàcs, N. Bucharin. Teoria del materialismo storico, in Id., Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, pp. 187-202. 4 K. Korsch, Marxismo e filosofia, Milano, Sugar, 1966, p. 83. 5 K. Korsch, Perché sono marxista, in Id., Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di G.E. Rusconi, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 182. 6 Cfr. K. Korsch, Karl Marx, Bari, Laterza, 1969, pp. 103-108 e 231-235. Il libro è stato riedito recentemente (Roma, Pgreco, 2017) col titolo Karl Marx. Un’interpre­ tazione marxista.1 1 K. Korsch, Dieci tesi sul marxismo oggi (1950), in Id., Scritti politici, a cura di G.E. Rusconi, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 429.

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8 Sull’ultimo Lukàcs e la sua scuola si veda infra, par. 3. Per la biografia (con pa­ gine rilevanti anche sulle sue ambiguità nei confronti dello stalinismo) cfr. G. Lukàcs, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, intervista di I. Eòrsi, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983. Una ricchissima raccolta di scritti di e su Lukàcs si trova in rete (https://gyorgylukacs.wordpress.com/). 9 L’espressione indica invece tutte le correnti del «marxismo sviluppatosi in Occi­ dente dopo la rivoluzione d’Ottobre» nel saggio II dibattito nel marxismo occidentale (Roma-Bari, Laterza, 1977) di Perry Anderson, allora direttore dell’inglese «New Left Review». 10 Sulle numerose e contrastanti interpretazioni si veda G. Liguori, Gramsci con­ teso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Roma, Editori Riuniti university press, 2012. Tra gli ultimi studi cfr. A. d’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Milano, Feltrinelli, 2018. 11 A. Gramsci, La rivoluzione contro il «Capitale», in Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1958, p. 151. 12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 4 voli., Torino, Einaudi, 1975, voi. II, p. 1437. 13 Ibidem, p. 877. 14 Ibidem, p. 1235. 15 Si vedano il volume della collana «Studi gramsciani nel mondo» Gli studi cultu­ rali, a cura di G. Vacca, P. Capuzzo e G. Schirru, Bologna, Il Mulino, 2008 e G. Liguori, Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci, in «Critica Marxista», 6, 2011, pp. 33-41. 16 Cfr. T. Adorno et al., La Scuola di Francoforte. La storia e i testi, a cura di E. Donaggio, Torino, Einaudi, 2005. 17 Ibidem, p. 46. 18 Si veda l’antologia a cura di E. Saccomani, Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Torino, Loescher, 1977, pp. 209-281. 19 A questo proposito molto significativi sono i testi di Adorno, Popper, Dahren­ dorf, Habermas, Albert e Pilot raccolti nel 1969 e pubblicati in H. Maus e F. Fiirstenberg (a cura di), Dialettica e positivismo in sociologia, Torino, Einaudi, 19722. 20 È da rilevare che Max Horkheimer ancora nel 1939 (Gli ebrei e l’Europa) spiegava l’antisemitismo in termini economici, parlando degli ebrei come agenti di forme arretrate della circolazione nella sfera commerciale che il grande capitale mo­ nopolistico stava smantellando. I membri dell’Istituto per le ricerche sociali si resero conto dell’errore di una «riduzione economica» dell’antisemitismo solo a partire dal 1941: cfr. la recensione di Michel Lòwy a J. Jacobs, The Frankfurt School, Jewish Lines, and Antisemitism, New York, Cambridge University Press, 2015 (http://newpol.org/ content/frankfurt-school-and-jews). 21 Si veda L. Gallino, Sociologia e teoria critica della società, in «Quaderni di so­ ciologia», 29, 2002, pp. 73-90, disponibile in rete (https://journals.openedition.org/ qds/127 8 ?lang=en). 22 Si veda la traduzione italiana di R. Solmi dell’edizione tedesca del 1969, Torino, Einaudi, 1996, con introduzione di C. Galli.

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23 H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, Torino, Einaudi, 1975, pp. 75, 90 e 94. 24 H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della «teoria sociale», Bologna, Il Mulino, 1965, p. 316. 25 W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Tori­ no, Einaudi, 1997, pp. 35-37. Questa edizione critica contiene un notevole apparato esplicativo. Per il lemma Progresso cfr. le pp. 199-202. 26 E. Bloch, Marxismo e utopia, a cura di V. Marzocchi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 98. Cfr. anche R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 19832. 27 Si veda G.D. Neri, Aporie della realizzazione. Filosofia e ideologia nel socialismo reale, Milano, Feltrinelli, 1980. Per un panorama complessivo è ancora utile J.P. Arnason, Prospettive e problemi del marxismo critico nell’Est europeo, in AA.W ., Storia del marxismo, voi. IV: Il marxismo oggi, Torino, Einaudi, 1982, pp. 143-219. Cfr. anche AA.W ., Potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie: una discussione nella si­ nistra, Roma, Alfani, 1978, atti del convegno promosso dal PDUP-Manifesto a Venezia dall’11 al 13 novembre 1977, nel quale presero la parola o inviarono comunicazioni numerosi esponenti del dissenso neU’Est. 28 Cfr. A. Schaff, Marx e l’umanismo contemporaneo, in M. Spinella (a cura di), Marx vivo. La presenza di Karl Marx nel pensiero contemporaneo, voi. I: Filosofia e metodologia, Milano, Mondadori, 1969, pp. 51-65. 29 G. Lukàcs, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile, Milano, Guerini e Associati, 1990, p. 36. 30 Cfr. G. Lukàcs, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, Roma, manifestolibri, 2013 (scritto intorno al 1968, fu pubblicato postumo in tedesco a Budapest nel 1985). Al tema della vita quotidiana aveva dedicato un’ampia ricerca anche il marxista francese Henri Lefebvre (1901-1991) in Critica della vita quotidiana, 2 voli., Bari, Dedalo, 1977. 31 A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 96. Il volu­ me è stato ripubblicato insieme ad altri saggi in Ead., Marx. Un filosofo ebreo-tedesco, Roma, Castelvecchi, 2018. La «teoria dei bisogni» negli anni settanta fu un filone del marxismo italiano: cfr. P.A. Rovatti, R. Tomassini e A. Vigorelli, Bisogni e teoria mar­ xista, Milano, Mazzotta, 1976. 32 L’espressione ritorna spesso negli scritti della Heller degli anni settanta. Si veda, ad esempio, l’ampia intervista a cura di L. Boella e A. Vigorelli, Morale e rivoluzione, Roma, Savelli, 1979, p. 81. 33 R. Havemann, Dialettica senza dogma. Marxismo e scienze naturali, Torino, Einaudi, 1965, p. 229. 34 Si veda P. Kammerer, Rudolf Bahro: la coscienza come forza materiale, in P.P Poggio (a cura di), UAltronovecento. ComuniSmo eretico e pensiero critico, voi. II: Il sistema e i movimenti (Europa: 1945-1989), Milano, Jaca Book, 2011, pp. 455-467. 35 Si veda L. Bogdanic, Praxis. Storia di una rivista eretica nella Jugoslavia di Tito, Roma, Aracne, 2010.

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36 H. Marcuse, Una nota sulla dialettica (1960), in Id., Ragione e rivoluzione, cit., p. 12. 37 Si veda L. Basso, Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre, Verona, ombre corte, 2016. Rimangono importanti - con valutazioni diverse e anche opposte dell’opera sartriana - P. Chiodi, Sartre e il marxismo, Milano, Feltrinelli, 1965 e F. Fergnani, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Milano, Fel­ trinelli, 1978. 38 J.-P. Sartre, Autoritratto a settantanni e Simone de Beauvoir interroga Sartre sul femminismo, Milano, Il Saggiatore, 1976, p. 70. 39 L. Althusser, Dal «Capitale» alla filosofia di Marx, in Id. et al., Leggere il Capitale, a cura di M. Turchetto, Milano-Udine, Mimesis, 2006, p. 30. 40 L. Althusser, Umanesimo e stalinismo. I fondamenti teorici della deviazione staliniana, Bari, De Donato, 1973, pp. 52, 101 e 119-120. 41 E. Balibar, Du marxisme althussérien aux philosophies de Marx, postfazione all’edizione tedesca (2013) di La filosofia di Marx. 42 Cit. in S. Veca, Della lealtà civile. Saggi e messaggi nella bottiglia, Milano, Fel­ trinelli, 1998, p. 72. 43 Si vedano gli scritti di Elster e la discussione interna al marxismo analitico nell’antologia di S. Petrucciani e F.S. Trincia (a cura di), Marx in America. Individui etica scelte razionali, Roma, Editori Riuniti, 1992. 44 Tra gli studiosi principali di questo orientamento storicistico è da ricordare Nicola Badaloni (1924-2005), autore di numerosi saggi, tra cui Marxismo come storici­ smo, Milano, Feltrinelli, 1962, e II marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Torino, Einaudi, 1975. 45 Mi permetto di riprendere alcuni spunti svolti in C. Pianciola, Il marxismo militante di Raniero Ranzieri, Pistoia, Centro di Documentazione Editrice, 2014. Ma sono da vedere, per un quadro più analitico, C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005 (nuova edizione rivista e accresciuta 2011) e R. BeUofiore (a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, Roma, manifestolibri, 2007. 46 G. Preti, Il pragmatismo, che cos’è, in «Il Politecnico», 33-34, 1946, riprodotto in «Il Politecnico», a cura di M. Forti e S. Pautasso, Milano, Rizzoli, 1975, p. 272. 47 Si veda anche il saggio dell’allievo di Paci P.A. Rovatti, Critica e scientificità in Marx. Per una lettura fenomenologica di Marx e una critica del marxismo di Althusser, Milano, Feltrinelli, 1973. 48 E. Paci, Il significato dell’uomo in Marx e in Husserl, in «aut aut»,73,1963,p. 19. 49 G. della Volpe, Chiave della dialettica storica, Roma, Samonà e Savelli, 1964, p. 24. 50 L. Colletti, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza 1979, pp. 59-60. 51 Cfr. R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei «Quaderni rossi» (1959-1964), a cura di S. Merli, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1994.

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52 M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 19712, p. 51. 53 M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, pp. 151-164. 54 Cfr. M. Tronti, Autobiografia filosofica, in D. Antiseri e S. Tagliagambe (a cura di), Storia della filosofia, voi. XIV: Filosofi italiani contemporanei, Milano, Bompiani, 2008, pp. 586-595, disponibile anche in rete (http://www.centroriformastato.it/mario-trontiautobiografia-filosofica/). Si veda ora, per il suo intero percorso, la raccolta M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), Bologna, Il Mulino, 2018. 55 Cfr. Teoria e politica tra anni '10 e '80 in Italia. Intervista a Massimo Cacciari, a cura di G. Bottos e L. Mesini, in «Pandora. Rivista di teoria e politica», 2015 (https:// www.pandorarivista.it/articoli/intervista-massimo-cacciari/). 56 Si veda M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli, 2001. 57 Si veda E. Masi, La Rivoluzione Culturale in Cina, a cura di L. Basitane e G. La Guardia, Arrone (TR), Thyrus, 2016. 58 F. Fortini, Risposta a un ragazzo di oggi (su Mao), in «L’Espresso», 31 agosto 1986, ora in rete (https://www.carmillaonline.eom/2006/06/25/risposta-a-un-ragazzodi-oggi-su-mao/). 39 Si veda F. Fistetti, La crisi del marxismo in Italia. Cronache di filosofia politica (1980-2005). Un abbozzo di storia degli intellettuali, Genova, Il melangolo, 2006. 60 A. Gargani, Introduzione a Id. (a cura di), Crisi della ragione. Nuovi modelli del rapporto tra sapere e attività umane, Torino, Einaudi, 1979, p. 40. 61 AA.VV., Storia del marxismo, cit., voi. IV, p. 43. 62 S. Petrucciani, Marx al tramonto del secolo. Teoria critica tra passato e futuro, Roma, manifestolibri, 1995. 63 N. Bobbio, Invito a rileggere Marx (1993), in Id., Né con Marx né contro Marx, a cura di C. Violi, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 245. Si veda anche Id., Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile, testi inediti a cura di C. Pianciola e F. Sbarberi, Roma, Donzelli, 2014, pp. XXI-XXIII. 64 Cfr. R. Bellofiore, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2012; si veda anche V. Giacché, Karl Marx e le crisi del X X I secolo, nell’antologia da lui curata K. Marx, Il capitalismo e la crisi, Roma, DeriveApprodi, 2009, pp. 7-53. 65 Cfr. D. Fusaro, Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Milano, Bompiani, 2009. 66 Si veda la rassegna di O. Calcagno e G. Ragona, Il ritorno di Marx in Italia, in «Intrasformazione. Rivista di Storia delle Idee», 1, 2012, pp. 46-54, disponibile anche in rete (http://www.intrasformazione.com). Un panorama mondiale del rinnovato interesse per Marx e il marxismo si trova nel numero speciale della rivista «Il Ponte», 5-6, maggio-giugno 2013, a cura di R. Fineschi, T. Redolfi Riva e G. Sgro’. 67 É. Balibar, La filosofia di Marx, Roma, manifestolibri, 1994, p. 126. 68 Oltre a D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi, 2016, si vedano le osservazioni di un altro studioso indiano, Partha Chatterjee, in appendice

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a K. Marx e F. Engels, Il manifesto comunista, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, pp. 184-192. Per il concetto di «orientalismo» si rimanda alla discussa opera dello scrittore di origine palestinese Edward Said, Orientalismo (1978), Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Cfr. in proposito M. Musto, Un europeo non eurocentrico, in A. Carioti (a cura di), Ilari Marx: vivo o morto? Il profeta del comuniSmo duecento anni dopo, Milano, Solferino, 2018, pp. 201-213. 69 B. Croce, Prefazione a Id., Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 19173. 70 G. Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia, Roma-Bari, Laterza, 2005. 71 G. La Grassa, Una "Marx Renaissance”? (marzo 2006), in http://www.confl.ittiestrategie.it/una-marx-renaissance. Si veda anche Id., Due passi in Marx (per uscirne), Padova, Il Poligrafo, 2010. Gianfranco La Grassa è stato, tra gli economisti, uno dei principali esponenti del marxismo althusseriano in Italia. 72 L. Gallino, voce Formazioni economico-sociali, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994. 73 Cfr. W. Streeck, How Will Capitalism End?, London, Verso, 2016, cit. in S. Zizek, La tardiva attualità del «Manifesto», in appendice a Marx e Engels, Il manifesto comunista, cit., p. 319. 74 A. Honneth, L'idea di socialismo. Un sogno necessario, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 14. 75 Ad esempio, E.J. Hobsbawm, alla fine del suo percorso di storico marxista, nel capitolo «Marx oggi» di Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del mar­ xismo, Milano, Rizzoli, 2011, afferma che «non possiamo prevedere le soluzioni che il mondo deve affrontare nel X X I secolo, ma se si vuole avere una chance di successo bisogna porre le stesse domande che si pose Marx» (.ibidem, p. 23).

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1. LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA Come abbiamo precedentemente accennato, già Marx e Engels han­ no interpretato la teoria che hanno fondato, a seconda dei periodi e delle polemiche teoriche e pratiche in cui erano impegnati, come filosofia (cri­ tica filosofica degli economisti nei Manoscritti del 1844 di Marx, ma anche nuova concezione del mondo dialettica nell’Anti-Duhring di Engels), come scienza della storia su basi materialistiche («conosciamo una sola scienza, la scienza della storia», dice L’ideologia tedesca, MEOC, 5, p. 14), come so­ cialismo scientifico (il socialismo dall’utopia alla scienza di Engels), come teoria economica che svela il funzionamento e le leggi di sviluppo del modo capitalistico di produzione e di scambio attraverso la critica dell’economia politica classica, negli studi che Marx intraprese a Londra dopo la sconfitta delle ali radicali e socialiste nella rivoluzione europea del 1848. Nella complessa eredità di Marx, è difficilmente contestabile la cen­ tralità della teoria economica che si propone di fondare scientificamente l’«emancipazione del lavoro» dall’asservimento capitalistico. Tuttavia, se­ condo influenti storici del pensiero economico, quella di Marx sarebbe solo una variante della teoria classica del valore-lavoro di Ricardo, per la quale il valore delle merci che ne regola lo scambio dipende dalla quantità di lavo­ ro mediamente impiegato nella loro produzione. Interpretazione sostenuta anche dall’eminente economista austriaco e storico dell’analisi economica Joseph Schumpeter (1883-1950), che pure riteneva Marx un grande autore

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che ha insegnato a vedere la storicità delle categorie economiche: «L a sua teoria del valore è quella ricardiana» e gli argomenti «di Marx sono soltanto meno garbati, più prolissi e nel senso peggiore del termine più “filosofici”» 1. Addirittura, negli anni cinquanta, Paul Samuelson - autore di uno dei più fortunati manuali di economia politica - considerava Marx un «postricardiano minore». Benché nelle Teorie sul plusvalore Marx riconosca a Ricardo il grande merito di giungere a «una visione teorica complessiva e unitaria del fon­ damento generale e astratto del sistema borghese» (M EOC, 34, p. 62) ed economisti marxisti come Maurice Dobb (1900-1976) abbiano messo in rilievo la derivazione di Marx da R cardo2, altri autori hanno sottolineato la differenza sostanziale tra la teoria marxiana e quella classica del valorelavoro, differenza che Marx così riassume nel paragrafo II carattere feticistico della merce e il suo arcano che conclude il capitolo iniziale del primo libro del Capitale: l’economia politica ha certo analizzato, anche se in m odo incompleto, valore e grandezza di valore, e ha scoperto il contenuto celato in queste forme. Neppure una volta essa si è posta la domanda almeno del perché questo contenuto assuma quella forma, del perché, dunque, il lavoro si esponga nel valore dei prodotti del lavoro e la misura del lavoro attraver­ so la sua durata temporale nella grandezza di valore di essi (MEOC, 31, pp. 91-92).

La centralità e le implicazioni del feticismo della merce - tema ripreso nelle pagine del terzo libro su La formula trinitaria e la «religione della vita quotidiana» capitalistica (cap. 48) - vennero analizzate, oltreché in Storia e coscienza di classe di Lukàcs, nei notevoli Saggi sulla teoria del valore di Marx pubblicati nel 1924 dall’economista sovietico Isaak Rubin che fu vit­ tima delle repressioni staliniane nel 19373. A differenza di altre formazioni storico-sociali - esistite o possibili -, in quella in cui domina il mercato i rapporti tra gli uomini appaiono come rapporti tra cose, sicché i rapporti capitalistici, anziché storici e transeunti, sembrano «naturali» e «razionali» agli agenti stessi del processo economico e agli economisti «borghesi» che lo studiano. Marx distingue nettamente Adam Smith, David Rcardo e l’e­

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conomia politica classica, che ritiene almeno in parte scientifica, da quella «vplgare» che si era diffusa dopo la morte di Ricardo (1823), superficiale e apologetica rispetto alle apparenze del mondo economico. Ma Marx discute l’origine del «sovrappiù» prodotto dal lavoro e le questioni lasciate aperte da Smith e da Ricardo da un altro punto di vista, in un’altra dimensione teorica rispetto a quella degli economisti non solo «volgari» ma anche «clas­ sici». Gli economisti si sono fermati agli aspetti quantitativi dei rapporti di scambio e non hanno messo in questione la forma valore e il lavoro come merce-, la critica dell’economia politica consiste per Marx nel considerare il rapporto capitalistico, il capitale, non come un dato ma come un problema4. Tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta del Novecento L u­ cio Colletti e Claudio Napoleoni hanno sottolineato efficacemente come, per Marx, nel capitalismo sia centrale la riduzione del lavoro a lavoro astrat­ to. Il lavoro astratto non è una rappresentazione mentale - una generalizza­ zione concettuale a partire dai lavori concreti, come hanno ritenuto molti marxisti - ma è invece la realtà del lavoro che produce le merci, in un «totale rovesciamento», per cui i lavori concreti contano solo come forma fenome­ nica del lavoro astratto che produce valore per il capitale5. Il lavoro salariato messo all’opera dal capitale caratterizza un modo sto­ rico di produzione che mostra la sua natura sociale solo ex post, nella sfera della circolazione e del mercato. Ma, perché ciò accada, già nella produ­ zione il lavoro deve essere estraneo e indifferente al lavoratore e funzionale alla valorizzazione del capitale. Marx considera quindi il lavoro salariato come unità contraddittoria di merce (forza-lavoro) venduta e acquistata al suo valore di scambio (il salario corrisponde alla quantità di beni neces­ sari - variabili nelle diverse circostanze storiche - alla riproduzione della forza-lavoro) e lavoro vivo che produce un plusvalore, eccedente il salario, di cui si appropria il capitalista industriale e che è la fonte sia del profitto, sia della rendita dei proprietari di risorse naturali, sia dell’interesse dei deten­ tori di capitale monetario (una parte del plusvalore viene ceduto non senza conflitti dai capitalisti industriali agli altri settori delle classi proprietarie). Il risultato cui Marx perviene nella maturità e al quale attribuiva un significa­ to decisivo è la distinzione tra forza-lavoro - merce venduta e comprata al suo prezzo nella sfera della circolazione delle merci dove regnano «Libertà, uguaglianza, proprietà e Bentham» (M EOC, 31, p. 193), cioè principi libe-

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ristici e utilitaristici - e lavoro vivo, che nella sfera della produzione è sot­ toposto al dispotismo capitalistico, e non solo reintegra il salario anticipato e trasferisce nel prodotto il valore degli strumenti consumati e dei materiali impiegati ma produce il plusvalore6. Questo modo di produzione è però storicamente transitorio e Marx prospetta il passaggio a una società in cui il carattere sociale del lavoro di­ venterà trasparente e il processo produttivo sarà «prodotto di uomini li­ beramente associati, sotto il loro controllo conscio, conforme a un piano» (MEOC, 31, p. 91). Nella Critica al programma di Gotha (1875) afferma che nella società futura non ci sarà scambio di merci né misura del loro valore in base al lavoro in esse contenuto: All’interno della società cooperativa, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto7. Nella storia del pensiero economico8 la teoria marxiana si pone così sia come continuità/cesura rispetto all’economia politica classica, sia come alternativa rispetto alla scuola dell’utilità marginale che nacque negli anni settanta dell’Ottocento con Cari Menger, Léon Walras, Alfred Marshall, Vilfredo Pareto, diventando la teoria dominante neH’insegriamento acca­ demico tra Otto e Novecento, e, con varie modificazioni e integrazioni, in tutto il secolo scorso. La teoria «neoclassica» dell’utilità marginale a) riporta il valore all’apprezzamento soggettivo del consumatore e alla rarità o all’ab­ bondanza dei beni, che si manifestano attraverso i prezzi di mercato; b) svi­ luppa un sofisticato apparato matematico per trattare la domanda e l’offerta ed espunge come questioni «metafisiche» quanto non è suscettibile di tale trattamento; c) privilegia l’approccio microeconomico rispetto a quello ma­ croeconomico; d) infine teorizza un sistema di equilibrio in cui domanda e offerta tendono a eguagliarsi se non intervengono elementi perturbatori del laissez-faire (mentre nella teoria marxiana il capitalismo va incontro inevita­

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bilmente a crisi derivanti dalla sua «anarchia»). Seguendo questi principi, l’economista austriaco Ludwig von Mises (1881-1973) attaccò negli anni venti del Novecento l’idea stessa di pianificazione economica socialista, che, se realizzata compiutamente, avrebbe eliminato insieme al mercato anche il metro per orientare la produzione dei beni secondo le richieste dei consu­ matori, impedendo in ultima analisi un’allocazione razionale delle risorse. La questione della fissazione dei prezzi da parte degli organismi statali in assenza di mercato era effettivamente Un problema sul quale si impegnarono poi sia i pianificatori sovietici sia gli economisti, tra cui il polacco Oskar Lange (1904-1965), che sostennero il socialismo come combinazione di pia­ nificazione e mercato. Un’alternativa non marxista alla teoria «neoclassica» fu quella di John Maynard Keynes (1883-1946), che rimise al centro delle preoccupazioni di una parte rilevante degli economisti le grandi questioni macroeconomiche e il problema delle crisi. Keynes considerò negativamente la teoria di Marx e scrisse al collega Piero Sraffa di non capire cosa ci trovasse di interessante nei suoi libri. A proposito del socialismo marxista, in La fine del «laissezfairé», del 1926, Keynes si chiedeva «come mai una dottrina così illogica e stupida può aver esercitato un’influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini, e, attraverso questi, sugli eventi della storia»9. Non così pen­ sarono parte dei suoi discepoli e continuatori, tra cui Joan Robinson (19031983 ), che in una brillante Lettera aperta di una keyneliana a un marxista, del 1953, diceva: Per Ricardo la teoria del valore era uno strumento per studiare la distribuzione della produzione totale tra i salari, le rendite e i profitti, considerati nel loro complesso. Questa è una grande questione. Marshall trasformò il significato del valore in una piccola questione: «Perché un uovo costa di più di una tazza di tè?». E una piccola questione ma una questione molto difficile e complicata. Sono necessari molto tempo e molta algebra per ricavare la teoria che risponde ad essa. Così questa questione tenne occupati gli allievi di Marshall per cin­ quantanni. [...] Keynes rivoltò la questione di nuovo. Incominciò a pensare nei termini di Ricardo: la produzione nel suo complesso, e perché preoccu­ parsi di una tazza di tè?10

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Dunque poteva esserci una convergenza tra i keynesiani di sinistra e i marxisti. Nella Lettera aperta Joan Robinson concludeva che non c’era bisogno di «una quantità di roba hegeliana e di affermazioni prive di senso» per infor­ care la bicicletta della teoria economica e affrontare il problema della crisi, della disoccupazione e dell’intervento dello Stato per porvi rimedio: «Per amor del cielo, non parlarmi di Hegel. Perché mai Hegel deve ficcare il naso tra me e Ricardo?». Ma la questione del metodo dialettico non era così facile da accanto­ nare. Il metodo scientifico marxiano, come è definito nell 'Introduzione del ’37u , parte da determinazioni isolate dall’«insieme vivente» per riappro­ priarsi infine della totalità concreta quale risultato di una ricostruzione teo­ rica. Tale ricostruzione ha una esposizione (Darstellung) dialettica per cui ogni concetto sembra procedere dal precedente e, come ammette Marx nel poscritto del 1873 alla seconda edizione del primo libro del Capitale, «può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori». Colletti, in un corso sul primo libro del Capitale dei primi anni settanta, aveva scritto: Hegel trasformò il pensiero «in soggetto indipendente». Il pensiero, che è evidentemente sempre il pensiero dell’uomo, cioè una caratteristi­ ca, una prerogativa dell’ente umano, Hegel lo distacca dall’uomo e ne fa un soggetto a sé stante. Quella trasformazione del predicato in soggetto, quella sostantificazione dell’astratto, quell’alienazione o estraneazione è al centro sia della riflessione di metodo sia dell’analisi di contenuto del Capitale12. Con ciò il filosofo romano sottolineava tanto la continuità tra la pro­ blematica del lavoro astratto nel Capitale e quella del lavoro alienato nei manoscritti parigini del 1844, quanto il fatto che il procedimento hegeliano, per quanto idealistico, corrisponde in qualche modo all’astrazione reale del valore e del lavoro che lo produce. Sarà proprio il successivo ripensamento sulla presenza ineliminabile di Hegel nell’apparato concettuale marxiano che condurrà Colletti, a partire dall 'Intervista politico-filosofica del 1974, ad abbandonarlo come non scientifico.

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Negli studi marxiani della seconda metà del Novecento l’eredità dialet­ tico-hegeliana fu rivendicata come fondamentale e positiva soprattutto da parte della Neue Marx-Lektùre (Nuova lettura di Marx) che, a partire dagli anni sessanta, in connessione alla Teoria critica della società dei francofortesi produsse lavori come quelli di Alfred Schmidt {Il concetto di natura in Marx, 1962), Helmut Reichelt {La struttura logica del concetto di capitale in Marx, 1970), Hans Georg Backhaus {Dialettica della forma di valore, 19691997), Alfred Sohn-Rethel {Il denaro. L’apriori in contanti, 1990), Michael Heinrich (per il quale, oggi, «con la nuova MEGA si apre la possibilità di cominciare da capo»)13. Alla Neue Marx-Lektùre si ricollegano anche i partecipanti - tra cui Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi - alTInternational Symposium on Marxian Theory, negli incontri svolti periodicamente in varie università dal 1991. Tralasciando le differenze tra questi studiosi, rileviamo alcuni punti che li accomunano: a) respingono l’equiparazione tra dimostrazione logica (che essi privilegiano) e dimostrazione storica, equiparazione che si trova in En­ gels, perdi quale la teoria del valore si applicherebbe pienamente a società precapitalistiche di contadini e artigiani che scambiano i loro prodotti in ragione del tempo di lavoro in essi impiegato, e il metodo «logico» di Marx sarebbe soltanto un riassunto nel pensiero dell’effettivo processo storico dalla «produzione semplice di merci» al capitalismo; b) ritengono che il metodo «hegeliano» di esposizione delle prime sezioni del Capitale, anzi­ ché qualcosa di esterno traducibile in una forma espositiva diversa, sia la forma richiesta dall’oggetto stesso, perché «esiste una identità strutturale del concetto marxiano di capitale e del concetto hegeliano di spirito»14; c) individuano la teoria del denaro e del rapporto tra denaro e valore come il nucleo fondamentale del lascito marxiano. Su questa base alcuni ritengono che si debba costruire una teoria macromonetaria del processo capitalistico. Come aveva osservato anni fa l’economista Augusto Graziani (1933-2014), il ciclo della moneta è essenziale, perché il processo economico ha inizio nel momento in cui il sistema bancario effettua il finanziamento che dà l’avvio al processo produttivo e ha termine quando le merci vengono vendute e il ca­ pitale monetario si ricostituisce in forma accresciuta15. Sviluppando questi spunti, Riccardo Bellofiore - nato nel 1953, economista ex allievo di Clau-

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dio Napoleoni - propone non solo una «interpretazione» ma una «ricostru­ zione» della teoria marxiana come sequenza che va dal finanziamento mone­ tario della produzione da parte del sistema bancario al processo capitalistico di produzione, nel quale il lavoro astratto è in potenza già denaro, fino al denaro effettivo realizzato nel processo di circolazione; così - respingendo la riduzione di Marx a un «classico» ottocentesco - verrebbero riattivate tutte le categorie principali del Capitale11-1. Secondo Bellofiore, è inoltre inac­ cettabile la tesi che le categorie marxiane della critica dell’economia politica « “nascano” filosofiche e siano “rifunzionalizzate” al discorso economicopolitico: si tratta invece di categorie che, come il loro oggetto, sono irridu­ cibili a una separazione disciplinare precostituita, per essere invece forme di pensiero specifiche di un oggetto specifico»11. Il tema del lavoro astratto è stato anche rielaborato in forma più filoso­ fica da Roberto Finelli. Al contrario di Colletti e della scuola dellavolpiana, Finelli ha sostenuto che il Marx dei Manoscritti, con la sua antropologia di derivazione feuerbachiana, è eterogeneo rispetto al Marx del Capitale. Analogamente al passaggio hegeliano dall’idea in sé all’idea dispiegata nella realtà, il lavoro astratto, indifferente alle particolarità concrete, che deter­ mina il valore delle merci, da «presupposto» iniziale diventa «posto» dalla realtà del capitalismo «quando l’intera storia del capitalismo, nei suoi vari passaggi tecnologici, giunge a mettere in campo nella produzione moderna il lavoro astratto, facendone l’esito della prassi lavorativa di milioni di per­ sone»18. Hegel voleva che le categorie fossero determinazioni oggettive e astrazioni reali. Questo è in sostanza ciò che ha fatto Marx, non il giovane Marx che fallisce il «parricidio» nei confronti del maestro, ma il Marx ma­ turo che analizza il capitale come totalità che ha come struttura portante la natura astratta e meramente quantitativa del lavoro che produce ricchezza. In conclusione, Marx ha delineato una critica dell’economia politi­ ca - come recita il titolo o il sottotitolo delle opere della sua maturità - e insieme una economia politica critica contrassegnata da due tratti principali. Il primo è l’intreccio di aspetti filosofici, sociologici ed economici, difficil­ mente separabili. Il secondo tratto - come scriveva l’economista marxista statunitense, nato nel 1910 e scomparso nel 2004, Paul M. Sweezy in La teoria dello sviluppo capitalistico (1942) - è che l’aspetto quantitativo della teoria economica non può prescindere da quello qualitativo, cioè dal «ca­

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rattere dei rapporti sociali [capitalistici] sottostante alla forma “merci”» 19. Questo è lo strato più fondamentale della teoria di Marx che regge anche i problemi quantitativi connessi alla caduta tendenziale del saggio di profitto, alla trasformazione dei valori in prezzi ecc. Se è opportuno distinguere i due aspetti - osservava più tardi Sweezy -, «l’unione dell’analisi qualitativa e di quella quantitativa è stata una delle maggiori conquiste di Marx e [...] a separarle si corre il rischio, come nel caso dei gemelli siamesi, di ucciderle entrambe»20.

2. PREZZO E VALORE*I, Il rapporto tra il primo libro del Capitale e il terzo è generalmente in­ terpretato come passaggio dall’esposizione dell’essenza dei rapporti capita­ listici alle loro forme fenomeniche e di superficie. All’inizio del terzo libro sul processo complessivo della produzione capitalistica Marx dichiara: «Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente volume, si avvicina­ no quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degù agenti stessi della produzione» (Libro III, voi. I, cap. 1, pp. 55-56)21. Quando il terzo libro, ricomposto da Engels, uscì nel 1894, la sua pub­ blicazione dette origine a una discussione che si è protratta fino ad oggi sotto il nome di «problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzio­ ne». Si tratta cioè di dedurre, partendo dai valori, i prezzi che sono formati dai costi di produzione (spesa in materie prime, macchinari e forza-lavoro) più il saggio medio di profitto risultante dalla concorrenza tra le diverse imprese. Due economisti contemporanei riassumono nel seguente modo l’errore, che anche molti marxisti rilevano, nel ragionamento di Marx: egli calcola negli output il saggio dei profitti ma non ne tiene conto nell 'input. «M arx trasforma soltanto i valori delle merci [in uscita], e non anche i valori dei capitali [in entrata]. Poiché anche questi sono costituiti da merci, anche i loro valori dovrebbero essere trasformati in prezzi. Per fare questo, tuttavia, occorrerebbe conoscere di già il saggio dei profitti»22. Sui problemi posti dal terzo libro del Capitale si appuntò la critica dell’economista austriaco

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Eugen Bohm-Bawerk (1851-1914), nel suo Karl Marx e la conclusione del suo sistema (1896), per invalidare la teoria marxiana del valore e per soste­ nere che i prezzi non rimandano al valore-lavoro soggiacente, ma all’utilità marginale23. Una parte del «revisionismo» socialista della Seconda Interna­ zionale si dimostrò disposto ad abbandonare la teoria del valore-lavoro e, fin dalle discussioni di fine Ottocento in Europa e in Italia24, a molti marxi­ sti ciò apparve esiziale per le tesi dello sfruttamento e della lotta di classe. Perciò misero in rilievo che per Marx «il profitto è la forma fenomenica del plusvalore, il quale ultimo deve essere enucleato dal primo mediante un pro­ cesso di analisi» (Libro III, voi. I, cap. 2, p. 77); dell’analisi fa parte anche la dimostrazione che i prezzi sono valori trasformati e che il profitto, anziché essere remunerazione di un fattore della produzione (il capitale), ha origine dal plusvalore, cioè dallo sfruttamento dei lavoratori. A economisti marxisti autorevoli come Maurice Dobb sembrò decisiva la soluzione data da Piero Sraffa (1898-1983) - vecchio amico di Gramsci trasferitosi a Cambridge - in un breve libro frutto di molti anni di lavoro, Produzione di merci a mezzo di merci, uscito da Einaudi nel 1960. In esso, attraverso un sistema di equazioni simultanee, Sraffa- faceva intervenire il saggio di profitto sia nel calcolo dei capitali iniziali che in quello dei pro­ dotti finali. Tuttavia, non essendo l’analisi svolta esplicitamente in termini di valore-lavoro, a molti economisti sembrò la soppressione, invece della soluzione, del problema così come era stato impostato da Marx. Se la risoluzione dei valori in prezzi risultava in termini marxiani diffici­ le da dimostrare, secondo alcuni interpreti la teoria dello sfruttamento anda­ va riformulata e diventava una teoria filosofica dell’alienazione. E la conclu­ sione cui perveniva, poco prima della sua scomparsa, Claudio Napoleoni nel Discorso sull’economia politica (1985): nel capitalismo tutti - indipenden­ temente dalla collocazione nel processo produttivo -, essendo subordinati al meccanismo oggettivo del mercato e all’astrazione del valore, patiscono l’assoggettamento alienante alla cosalità estranea e impersonale del capitale. Così di Marx rimaneva una teoria economica carente ma anche una potente teoria filosofica sulla condizione umana alienata nel capitalismo e, andando oltre Marx, Napoleoni auspicava un incontro con la riflessione di Heidegger intorno al dominio della tecnica. Negli stessi anni, altri studiosi, come l’esponente del marxismo analitico

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americano John Roemer, sostennero che la teoria del valore-lavoro e il con­ troverso problema della trasformazione dei valori in prezzi potevano essere abbandonati senza rinunciare alla nozione marxiana di «sfruttamento», che risulta dall’appropriazione di una parte della ricchezza sociale in forza della diseguale distribuzione della proprietà. La separazione tra proprietari e non proprietari dei mezzi di produzione sarebbe sufficiente a costruire il concet­ to di sfruttamento, senza bisogno della teoria del valore-lavoro, nemmeno nella forma profondamente modificata rispetto ai classici che Marx riteneva essenziale25.

3. SAGGIO DI PROFITTO E DISEGUAGLIANZE NEL SISTEMA MONDIALE La trasformazione dei valori in prezzi interessava soprattutto gli econo­ misti, mentre un’attenzione più generale riscuotevano le parti del terzo libro deh Capitale che riguardavano la caduta tendenziale del saggio di profitto e la teoria della crisi che ne consegue: la concorrenza capitalistica spinge a investimenti sempre maggiori in tecnologie che risparmiano il lavoro, ma così diminuisce sempre più il rapporto redditizio per l’imprenditore tra il plusvalore estorto e l’entità del capitale impiegato, sicché il saggio di profit­ to tende a scendere al di sotto di quanto è necessario a stimolare il reimpiego produttivo del capitale. Di qui una situazione di crisi che può risolversi solo con la distruzione di merci e capitali dando inizio a un nuovo ciclo, a meno che si produca una stagnazione continua e generalizzata o il crollo dell’in­ tero sistema. Come ha osservato una studiosa del tema26, Marx vede una «tendenza», che «si manifesta in modo convincente solo in condizioni deter­ minate e nel corso di lunghi periodi di tempo» (Libro III, voi. I, cap. 14, p. 293). Ma Marx non rinuncia a considerare questa tendenza come principale rispetto alle controtendenze che pure enumera, per cui la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto ha alimentato sia le teorie del crollo del capitalismo, sia quelle del ciclo economico. Nel periodo del boom del secondo dopoguerra sembrò però che la «de­ pressione cronica» non fosse più all’orizzonte. Paul Baran (1909-1964) e Paul M. Sweezy in II capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica

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e sociale amèricana (1966) elaborarono una teoria che si confrontava con la realtà contemporanea usando strumenti marxiani, ma senza ricorrere all’u­ suale ed estenuante esegesi dei testi canonici. Il libro, che intorno al ’68 ebbe un successo pari a Il uomo a una dimensione di Marcuse, partiva dal concetto di «surplus», o «sovrappiù», come eccedenza tra ciò che la società produce e i costi per produrlo. Nel capitalismo dei monopoli e oligopoli che ha sosti­ tuito il capitalismo concorrenziale dell’epoca di Marx il problema principale diventa lo smaltimento del surplus, che viene perseguito attraverso mezzi come pubblicità e 'consumi indotti, spesa pubblica e ipertrofia dello Stato, spese militari imponenti con la conseguente politica internazionale aggres­ siva. Invece della classe operaia classica, ormai ridotta di numero e in gran parte «integrata», le vittime del sistema per Baran e Sweezy sono i disoccupati e gli incollocabili, i lavoratori agricoli immigrati, gli abitanti dei ghetti delle grandi città, gli studenti che non hanno finito le scuole, gli anziani che vivono con le misere pensioni di vecchiaia. [...] Ma questi gruppi, malgrado il loro numero impressionante, sono troppo eterogenei, troppo sparpagliati e frazionati per costituire una forza coe­ rente nella società27. Stando così le cose, il sistema continua a mostrare gravi contraddizio­ ni, ma all’interno dei suoi livelli più sviluppati appare ormai privo di forze sociali in grado di rovesciarlo; è però un sistema mondiale che trova l’oppo­ sizione rivoluzionaria dei popoli oppressi e sfruttati del «terzo mondo» (il libro è dedicato a Che Guevara). Il solo Paul Baran (1/ «surplus» economico e la teoria marxista dello svilup­ po, 1957) aveva elaborato una «morfologia dell’arretratezza» che aggiornava la teoria marxista dell’imperialismo mettendo in rilievo i rapporti di dipen­ denza e subordinazione delle borghesie nazionali dei paesi periferici ai gran­ di interessi mono-oligopolistici: «la dominazione del capitalismo monopoli­ stico e dell’imperialismo nei paesi progrediti e l’arretratezza sociale nei paesi sottosviluppati sono intimamente connessi, rappresentando semplicemente i differenti aspetti di ciò che, in effetti, rappresenta un problema globale»28. All’inizio degli anni settanta la dipendenza dei paesi periferici dalle me­ tropoli imperialiste fu analizzata dagli economisti neomarxisti Samir Amin,

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Hosea Jaffe e André Gunder Frank. L’egiziano Samir Amin (1931-2018), studioso delle società africane, in Lo sviluppo ineguale. Saggio sulle formazio­ ni sociali del capitalismo periferico (1973) rifiutava l’evoluzionismo monoli­ neare generalmente sotteso al discorso «sviluppo-sottosviluppo» e sostene­ va che in una formazione economico-sociale «sottosviluppata» storicamente concreta si combinano diversi modi di produzione - precapitalistici e capi­ talistici - integrati e subordinati a quello mondiale dei monopoli e oligopoli da cui queste società dipendono attraverso lo «scambio ineguale», concetto ripreso e svolto in una vasta ricerca storica sul sistema-mondo e sul rapporto tra «centri» e «periferie» iniziata nel 1974 dallo studioso americano Imma­ nuel Wallerstein (n. 1930)29. Recentemente l’economista-geografo David Harvey (nato nel 1935, do­ cente di geografia e antropologia a New York) ha ripreso il tema di Baran e Sweezy dell’«assorbimento del surplus», delineandone le modalità nel capi­ talismo attuale, tra cui gli investimenti in capitale fisso sociale (infrastruttu­ re, porti, autostrade ecc.) e lo sviluppo delle attività finanziarie30. Da un punto di vista marxista, con la maturità tecnico-industriale, ri­ spetto al plusvalore «assoluto», che deriva dall’allungamento della giornata lavorativa, diventa preminente il plusvalore «relativo» conseguente all’au­ mento della produttività del lavoro. Se però si considera il mercato mondia­ le, come ha sottolineato Massimiliano Tomba, si vede chiaramente come il plusvalore relativo, ottenuto con l’innovazione tecnologica in alcune arees si intrecci all’estorsione di plusvalore assoluto - e tempi di lavoro da prima rivoluzione industriale - in altre, e persino a forme di sfruttamento schiavi­ stico o semi-schiavistico che non sono solo residui di epoche passate. «Le di­ verse forme di produzione esistenti contemporaneamente in spazi geografici diversi sono integrate in modo tale da impedire qualsiasi considerazione in termini di forme sviluppate e arretrate»31.

4. LIBERAZIONE DEL LAVORO E DAL LAVOROIl Il tema del lavoro in Marx e nel marxismo mette capo alla questione del rapporto tra «lavoro e libertà»32 dove si intersecano dimensioni filosofiche, socioeconomiche e politiche, su uno sfondo di teoria generale della storia esposta in testi come L’ideologia tedesca e il Manifesto del partito comunista.

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Come è noto, Eideologia tedesca ha come obiettivo polemico la visione della storia dei giovani hegeliani mossa da entità spirituali (storia di «sedi­ centi idee, una storia di spiriti e di fantasmi», MEOC, 5, p. 118)33, cui viene contrapposta la storia materiale degli uomini reali che producono e riprodu­ cono le loro condizioni di esistenza attraverso il lavoro. Il concetto centrale diventa la divisione del lavoro che ha permesso lo sviluppo delle forze pro­ duttive, ponendo le premesse necessarie del comuniSmo come abolizione della proprietà privata e della stessa divisione del lavoro (soprattutto della divisione sociale tra lavoro manuale e intellettuale, esecutivo e direttivo, che caratterizza la struttura gerarchica e classista della società). Con la combi­ nazione di scienza e industria, lo sviluppo capitalistico rende storicamente possibile - ribadisce Marx nel primo libro del Capitale - «sostituire l’indi­ viduo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, con l’indi­ viduo totalmente sviluppato per il quale diverse funzioni sociali sono modi di attivazione intercambiabili» (MEOC, 31, p. 532). Nel capitalismo si pon­ gono dialetticamente le premesse per lo sviluppo integrale degli individui associati e per la loro realizzazione onnilaterale. Nella società futura l’attività umana sarà così lontana da quella svolta sotto il segno della divisione del lavoro, e dell’estraniazione delle forze so­ ciali in un potere obiettivo sovrastante i lavoratori, che nell’Ideologia tedesca Marx e Engels parlano di «abolizione del lavoro»34. Celebre è il passo «uto­ pistico», debitore di Fourier, che si potrebbe ritenere solo una presa in giro dei «critici critici» della Sinistra hegeliana, come Bruno Bauer, se i concetti portanti non tornassero, senza l’umoristica esemplificazione qui presente, in altri luoghi dell’Ideologia tedesca (nella quale si afferma senza mezzi termini che «Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta deliberare il lavoro, ma di abolirlo», MEOC, 5, p. 198):

,

appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di at­ tività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire [...]; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra [...] così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pa­ store, né critico (MEOC, 5, p. 33).

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Concettualmente erano possibili due diverse linee del rapporto tra la­ voro e libertà che si trovano entrambe in Marx e sono variamente svolte nei marxismi: a) la libertà come liberazione dal lavoro e sua trasformazione in libera attività di individui associati, come nel passo dell 'Ideologia tedesca citato; b) la libertà come liberazione del lavoro dalle sue forme capitalistiche, permanendo però nel lavoro la finalità esterna rispetto a un’autodetermina­ zione libera, fine a se stessa, la quale si esplica nel tempo libero dal lavoro, come è detto in un altrettanto famoso passo del terzo libro del Capitale. Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavo­ ro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. [...] La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel re­ gno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa (Libro III, voi. Ili, cap. 48, pp. 231-232). Anche sul'tempo di lavoro, come su altri argomenti, Marx lasciava un’e­ redità controversa, che venne declinata prevalentemente con la celebrazione del lavoro e della dignità dei «produttori», che dette al movimento operaio la coscienza della propria forza e dei propri diritti rispetto alle classi pro­ prietarie. In questo contesto si svolse la battaglia per la riduzione legale della giornata lavorativa che impegnò le organizzazioni della Prima e della Secon­ da Internazionale per la conquista delle otto ore35. Nel 1880 il genero di Marx, Paul Lafargue (1842-1911), pubblicò a puntate su «L’Égalité» Il diritto all’ozio, che terminava con la visione delle macchine automatiche che rendono possibile allargare sempre più il tempo «dell’ozio e della libertà» e nel 1891 Kautsky, nell’introduzione al Program­ ma di Erfurt, vide dischiudersi all’umanità «la libertà di vita, la libertà di atti-

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vita artistiche e scientifiche, la libertà dei più nobili godimenti»1*". Per entram­ bi ciò sarebbe dovuto avvenire con il socialismo, che avrebbe trasformato il lavoro, lo avrebbe distribuito equamente e lo avrebbe ridotto enormemente aumentando il «tempo libero» dal lavoro. Cento anni dopo, lo straordinario sviluppo dell’elettronica, della telematica e dell’informatica - con il decre­ mento delle «tute blu» impiegate nel settore manifatturiero nei paesi ad alto sviluppo industriale e con l’aumento esponenziale del settore terziario - ha condotto vari studiosi a riprendere il tema della liberazione dal lavoro in rapporto alle nuove configurazioni economico-sociali37. Per André Gorz (Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione econo­ mica, 1988) nella «società postindustriale» delle tecnologie informatiche e della robotizzazione il lavoro è sempre più scarso, saltuario, discontinuo, e non è più la fonte principale di identità. Occorrerebbe perciò puntare sulla riduzione del tempo di lavoro alienato a favore di quello dedicato ad attività di autorealizzazione in forme nuove di socialità, prendendo atto di un esodo dal lavoro che è nelle cose e che può essere la premessa di forme di vita alternative alla «ragione economica» produttivistica e industriale. In vari scritti più recenti sempre all’incrocio di filosofia, teoria economica e analisi empirica delle trasformazioni in atto, Gorz sostiene sia l’imperativo ecologico della «decrescita» socialmente controllata, sia la tesi che nell’età informatica la ricchezza sociale non è più misurabile con i criteri capitalisticidi redditività, per cui è urgente prospettare l’«utopia concreta» di una fuo­ ruscita dal capitalismo38. Analogamente - partendo anch’egli da preoccupazioni ecologiche - l’e­ conomista e sociologo americano Jeremy Rifkin (n. 1945), in La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento del post-mercato (1995) e in studi successivi, osservava nella «società postindustriale» la tendenza oggettiva all’aumento delle relazioni empatiche disinteressate e la possibile restrizione di quelle rette dalla logica del mercato e dell’individualismo con­ correnziale. La riduzione dell’ambito del lavoro salariato potrebbe esten­ dere gli spazi di vita non sottoposti alla mercificazione, favorendo attività e forme collaborative e comunitarie. Però già l’ultimo Marcuse - che rifletteva sulle istanze di liberazione potenzialmente anticapitalistiche espresse nei nuovi movimenti intorno al ’68 - aveva osservato che se «comuni autosuf­ ficienti e collettivi parzialmente autosufficienti sono le migliori “aree prò-

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tette” per sperimentare solidarietà personale èd emancipazione», è difficile pensare che abbiano un potenziale politico generalizzabile oltre i confini di una resistenza alla penetrazione del dominio tardocapitalistico in tutti gli ambiti della vita39. Negli ultimi decenni del Novecento, nel lascito marxiano apparvero straordinarie - anche nel senso che aprivano prospettive diverse da quelle del marxismo tradizionale - le pagine dei Grundrisse a proposito del «tempo disponibile» che lo sviluppo capitalistico rende possibile e insieme compri­ me entro un’organizzazione sociale dominata dalla valorizzazione del capi­ tale. Lo sviluppo della tecnica e della scienza cui dà impulso l’incessante ten­ sione del capitale verso la massima produttività del lavoro «è strumento di creazione delle possibilità di tempo sociale disponibile, della riduzione del tempo di lavoro per l’intera società a un minimo decrescente, sì da rendere il tempo di tutti libero per il loro sviluppo personale»40. Marx individua an­ che, come risultato dell’aumento del disposable time, una diversa modalità della soggettività dei lavoratóri. Grazie al tempo libero dal lavoro, «che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori»41, nuovi soggetti entrano nel processo produttivo come individui ricchi delle capacità e dei saperi di un diffuso generai intellect. Si tratta di rilievi preceduti nei Grundrisse dal cosiddetto Frammen­ to sulle macchine1'2, uno degli squarci più avveniristici sulle conseguenze dell’automazione per l’intero sistema: la produzione della ricchezza sociale, man mano che si sviluppa l’enorme dispositivo tecnico-scientifico del capi­ tale costante, si dissocia dal tempo di lavoro come misura del valore. Dato il rapporto tra la massa di scienza e tecnologia messa in opera dal capitale e la relativa esiguità del lavoro vivo da esso impiegato, la commisurazione del valore con il tempo di lavoro perde significato: «ilpluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana»43. Le riflessioni marxiane suU’esaurimento storico della legge del valore e sugli effetti della diffusione del generai intellect - analizzate da Antonio Ne­ gri in Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui «Grundrisse» (1979) - hanno alimentato la corrente del marxismo operaista e postoperaista che dapprima ha sostenuto il rifiuto del lavoro salariato, contro la tradizionale contrattazio­

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ne legata al funzionamento del mercato del lavoro e alla qualificazione della forza-lavoro, poi ha posto l’accento sul «lavoro immateriale» e su una intel­ lettualità di massa diffusa, eccedente e contraddittoria - potenzialmente an­ tagonistica - rispetto alla valorizzazione del capitale44. In Negri, che rimane uno degli autori più inventivi di quest’area di pensiero e di maggiore successo internazionale per i libri che ha scritto insieme a Michael Hardt45, «l’operaio massa cede il passo all’operaio sociale, il quale a suà volta, dacché il lavoro non è più distinguibile dalla vita stessa, diviene “moltitudine bio-politica”» 46. Una rielaborazione teorica di ampio respiro su «lavoro e libertà» lar­ gamente fondata sui Grundrisse e una ripresa della tesi dell’abolizione del lavoro si trovano anche negh scritti del filosofo canadese, che è stato do­ cente a Chicago, Moishe Postone (1942-2018), autore di Tempo, lavoro e dominazione sociale (1993)47. Mentre nel marxismo tradizionale il «lavoro» ha generalmente il ruolo di categoria affermativa e positiva, e si trattereb­ be di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione per conseguire 1’«autorealizzazione» del proletariato, una rilettura complessiva della teoria marxiana a partire dai Grundrisse permetterebbe - secondo Postone - di vedere il capitalismo alla luce della contraddizione tra «ricchezza reale» e «valore», e di porre l’emancipazione come liberazione dal lavoro astratto e dalla temporalità astratta che contrassegnano il capitalismo. Postone am­ mette però che è difficile offrire concrete indicazioni in merito ad assetti futuri e a forze storiche alternative decisive. Ancora più radicalmente, la corrente della «critica del valore» (Wertkritik)) sviluppata in Germania da Robert'Kurz (1943-2012) e dalla rivista «Krisis» (poi «Exit!»), ha proposto di abbandonare il Marx «essoterico» del Manifesto e della lotta di classe, imbevuto di una idea iUuministico-positivistica di progresso che ha contri­ buito a trasmettere al movimento operaio. Bisognerebbe, invece, svolgere quello «esoterico» del capitale come «megamacchina», soggetto automatico e autocratico che va verso il collasso. Il conflitto per la redistribuzione tra le classi della ricchezza prodotta sarebbe da respingere perché interno al «fine tautologico del capitalismo», cioè alla crescita fine a se stessa di valore astratto48. Un esponente di questa corrente ha scritto: Parlare del lavoro oggi può solo significare parlare della crisi della società del lavoro e del fatto che è proprio la società del lavoro ad abolire

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il lavoro. Ha un senso continuare a chiedere e a promettere la creazione di posti di lavoro, quando del lavoro non c’è più bisogno? O bisogna piuttosto pensare a garantire a tutti un accesso alle risorse che non sia più legato alla mediazione del lavoro, e del denaro?49 Generalmente i teorici dell’abolizione del lavoro sostengono la possi­ bilità dell’erogazione universale di un reddito indipendente da prestazioni lavorative e il loro modello di società ha qualche tratto in comune con la fase più elevata della società comunista prospettata da Marx nella Critica al pro­ gramma di Gotha, salvo quello decisivo del «lavoro non [...] soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita»50.

5. IL LAVORO NELLA «SOCIETÀ POSTINDUSTRIALE» E «POSTMODERNA» Era il secolo del Lavoro: così il sociologo Aris Acconterò (1931-2018) intitolava nel 1997 un bilancio del secolo che stava finendo51. Da molte parti - come attivazione di concetti marxiani trascurati dalla vulgata marxista o come rilevamento sociologico di nuove figure lavorati­ ve che sfuggono alle grandi sistemazioni teoriche del passato - si è posto l’accento sul tramonto della «civiltà del lavoro» novecentesca52, e delle al­ ternative marxiste e keynesiane cui ha dato luogo, ritenute inadatte a una costellazione storica mutata. In particolare, si è sostenuto che il lavoro come si è configurato nell’età del taylorismo e del fordismo, e come è stato ampia­ mente studiato dagli storici e dai sociologi del lavoro53, non è più una figura paradigmatica e predominante nell’attuale situazione di lavoro flessibilizzato, frammentato e delocalizzato. Osservava Accornero: Mentre nel Lontano Oriente le fabbriche e gli operai stanno diven­ tando portanti per economie come quella cinese, ci si chiede se per l’Oc­ cidente industrializzato si profila un futuro post- o neoindustriale. Si accorcia la permanenza media in azienda, e diventa raro il «mestiere a vita», cosicché itinerari e percorsi individuali si fanno variegati54.

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Il concetto di «società postindustriale», cui si sono affiancate le locuzio­ ni «società dell’informazione» o «società della conoscenza», ha goduto di ampia fortuna, a partire dal libro del sociologo francese Alain Touraine (n. 1925) La società post-industriale (1969) e da quello del sociologo statunitense Daniel Bell (1919-2011) L1'avvento della società post-industriale (1973). Ma è stato anche osservato che il vecchio fordismo si diffonde proprio nei paesi a basso costo del lavoro, e, se si tiene presente il «sistema mondo» - con India, Cina e i paesi emergenti - e non solo le aree tradizionali dello sviluppo in­ dustriale occidentale, quelle che appaiono «diminuzioni assolute (dell’occu­ pazione, dei metodi “fordisti”, delle dimensioni delle imprese ecc.)», vanno considerate all’interno di riconfigurazioni complesse del sistema della pro­ duzione industriale globale, per cui il concetto di «società postindustriale» appare quantomeno di limitata applicazione55. A partire dalle fine degli anni settanta del Novecento il concetto di «so­ cietà postindustriale» si è coniugato con quello di «postmoderno». In La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), scritto per il governo canadese, il filosofo francese Jean-Fran^ois Lyotard (1924-1998), che aveva un passato di marxista critico nel gruppo Socialisme ou Barbarie, procla­ mò la fine delle «grandi narrazioni» totalizzanti - illuminismo, idealismo, marxismo, accomunati dalla fede nel progresso - che avevano dato i quadri unitari del pensiero della modernità. Secondo Lyotard, una storia concepi­ ta come dotata di senso teleologico e articolata in sistemi sociali coesi era entrata in crisi nella società attuale, dell’informatica, dello sviluppo del ter­ ziario, del primato del sapere su altre risorse produttive. La società appariva piuttosto caratterizzata dalla disseminazione di molteplici centri di potere e di sapere, e da «giochi linguistici» irriducibili all’unità di una ideologia. La realtà sociale sembrava cosi perdere quella consistenza per cui, da Marx al marxismo successivo, si poteva far appello, contro le ideologie, alla solidità obiettiva della «base reale», e si poteva pensare di ricondurre la miriade dei fenomeni sociali a una struttura «profonda», determinante e unificante. La discussione che ne seguì coinvolse filosofi, sociologi, artisti, critici letterari, in un quadro molto complesso, in cui però si possono definire al­ cuni tratti generalmente riconosciuti come contrassegni della «condizione postmoderna»56: a) i soggetti e le identità appaiono indeboliti e frammen­ tati; b) cambia il senso del tempo e della storia, e il passato e il futuro sono

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fagocitati dal presente: il passato diventa un grande serbatoio di immagini e idee, oggetto di un incessante bricolage-, c) la mercificazione raggiunge livelli parossistici e al consumo frenetico si accompagna l’accumulo di scorie e di rifiuti; d) crolla la distinzione tra cultura di élite e cultura di massa, e le avanguardie «moderne» perdono la loro funzione critica e dissacrante; e) ai programmi del partito politico cementato da una coerente ideologia si sosti­ tuiscono rivendicazioni molteplici di etnie, movimenti, gruppi. Mentre alcuni filosofi;, come Gianni Vattimo, rielaborando Nietzsche e Heidegger, considerarono liberatoria la dissoluzione di un preteso sen­ so unitario e oggettivo della storia e di tutto ciò che si era finora presenta­ to come «fondamento» reale, necessario e perentoriamente vero57, e altri, come Habermas, polemizzarono contro il «postmoderno» in nome di una modernità che doveva ancora adempiere le sue promesse di emancipazione, la reazione dei marxisti fu generalmente quella di usare gli strumenti con­ cettuali marxiani per ricondurre i fenomeni del «postmoderno» a una nuova fase del capitalismo. Il critico statunitense Fredric Jameson (n. 1934) scrisse un saggio su II postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo (1984) in cui diceva che il tardo capitalismo delle multinazionali distruggeva la «se­ miautonomia» della sfera culturale e che la realtà cedeva il passo ovunque a immagini e simulacri, secondo una tendenza che aveva cominciato a essere esplorata dal filosofo e sociologo francese Guy Debord (1931-1994) in un famoso libro del 1967, La società dello spettacolo. «Tutta la vita delle socie­ tà nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione - diceva Debord riscrivendo l’incipit del Capitale - si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli»58. Il giudizio di Jameson sulla condizione post­ moderna non era però totalmente negativo, come era stato quello dei primi francofortesi sulla cultura di massa. Come Marx e Lenin avevano colto nel capitalismo del loro tempo gli aspetti che erano utili per delineare «un so­ cialismo nuovo e più complesso»59, secondo Jameson, in vista di un rinno­ vamento della prospettiva socialista, bisognava considerare che nell’assetto postindustriale contraddizioni e conflitti sociali non sono scomparsi ma si sono complicati ed è compito dell’analisi sociologico-culturale individuarne significati inediti e rilevanti in un mondo mutato. , Un’altra analisi critica marxista fu quella di David Harvey in The Condition ofTostmodernity. An Enquiry into thè Origins o f Cultural Change del

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1989 (tradotto in italiano come La crisi della modernità), che si soffermava sull’esperienza dello spazio e del tempo nel modernismo fordista e nel post­ modernismo, identificando successive fasi dell’accumulazione di capitale, con le diverse rappresentazioni culturali ad esse connesse. In anni a noi più vicini si è rilevato - sul piano dell’analisi socioecono­ mica - che nei paesi di più antico sviluppo capitalistico la massiccia disoccu­ pazione, la ricomparsa di quote consistenti di working poors (lavoratori che ricevono un salario al di sotto del minimo vitale e sopravvivono solo grazie a reti familiari o pubbliche di assistenza), le abissali e crescenti diseguaglianze di reddito, non permettono di archiviare tra i reperti della prima rivoluzione industriale le pagine di Marx nel primo libro del Capitale sulla polarizzazio­ ne della società e la sovrappopolazione relativa (cap. 23). Anche le pagine sull’accumulazione primitiva o originaria (cap. 24) non illustrano solo la genesi storica del capitalismo occidentale perché analoghi meccanismi di espropriazione e pauperizzazione si riproducono soprattutto in contesti di forte crescita economica dei paesi «in via di sviluppo». Sono pagine che se­ condo molti marxisti delineano tratti strutturali e non solo storici del capita­ lismo. E a marxisti che pure prendono le distanze dal marxismo tradizionale la situazione attuale appare smentire molte delle aspettative formulate in passato sull’assetto postmoderno dello sviluppo capitalistico: I miti della fine della storia e dei conflitti, del valore del frammen­ to in opposizione alla totalità e al sistema, del primato del linguaggio e dell’interpretazione, della cancellazione della realtà ad opera del vir­ tuale, sono crollati ad opera della realtà stessa e della sua lezione che ha intensificato la modernità del capitalismo neU’ipermodernità di un capitalismo globale60. Ovviamente non si tratta di perdere di vista quanto di problematica­ mente nuovo hanno messo in luce i teorici del postindustriale e del post­ moderno, magari con accentuazioni unilaterali, ma di vedere - nel contesto della globalizzazione - come i nuovi fenomeni sono intrecciati non solo con la permanenza di tratti che appartengono alla modernità industriale, ma con il revival di culture premoderne che aspirano, talvolta in modo violento, al «riconoscimento».

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NOTE

1 J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 20095, p. 23. 2 Si veda M. Dobb, Karl Marx nella storia del pensiero economico, premessa a K. Marx, Lavoro salariato e capitale e altri scritti, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 8-9. 3 I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, Milano, Feltrinelli, 1976. 4 Cfr. C. Napoleoni, Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx, Torino, Boringhieri, 1972, p. 14. 5 Si vedano L. Colletti, Il paradosso del Capitale. Marx e il primo libro in tredici lezioni inedite, Roma, Liberal Edizioni, 2011, pp. 65-77 e G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 166-172. Per Napoleoni si rimanda alle Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx, cit., e alla seconda edizione, parzialmente rifatta, di Smith Ricardo Marx. Considerazioni sulla storia del pensiero economico, Torino, Borin­ ghieri, 1973. Per il rapporto tra i concetti di Colletti e quelli di Napoleoni si veda R. Bellofiore, Quelli del lavoro vivo, in Id. (a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, Roma, manifestolibri, 2007, pp. 197-250. 6 Questa distinzione non era ancora presente in Lavoro salariato e capitale, le conferenze marxiane pubblicate nel 1849 che Engels ripubblicò nel 1891 sostituendo alla locuzione «vendita del lavoro» quella di «vendita della forza-lavoro». 7 K. Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, a cura di U. Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 29-30. La traduzione è stata modificata nella prima riga («società cooperativa» anziché «società collettivista») seguendo l’indicazione di M. Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica: 18571883, Torino, Einaudi, 2018, p. 244. 8 Un’esposizione molto chiara si trova in G. Lunghini, Conflitto crisi incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Torino, Bollati Boringhieri, 2012. Di Giorgio Lunghini (1938-2018) si veda anche la voce Capitale, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991. Rimane importante la sintesi di C. Napoleoni, Valore, Milano, ISEDI, 1976. 9 J.M . Keynes, La fine del «laissez-faire» e altri scritti economico-politici, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 15. 10 Del testo, tradotto in J. Robinson, Teoria dell’occupazione e altri saggi, Milano, Etas Kompass, 1967, pp. 259-264, è disponibile in rete una traduzione che riprendiamo con lievi modificazioni (http://gondrano.blogspot.com/2013/12/lettera-aperta-di-unakeynesiana-un.html). Di J. Robinson si veda anche Saggi su Marx e il marxismo, a cura di M.C. Marcuzzo, Milano, Il Saggiatore, 1981, che raccoglie contributi dal 1948 al 1978.1 11 II testo dUCIntroduzione del ’57 è stato oggetto di numerose analisi interpretative. Per le discussioni meno recenti si veda F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia (19581971). I dibattiti e le inchieste su «Rinascita» e il «Contemporaneo», Bari, Dedalo, 1973 e, per un nuovo commento storico-critico, il saggio di Marcello Musto in appendice a K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 51-122. 12 Colletti, Il paradosso del Capitale, cit., p. 72.

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13 M. Heinrich, Rileggendo Marx: nuovi testi e nuove prospettive, in «Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità», 5, novembre 2018 (numero a cura di R. Bellofiore e C.M. Fabiani). Per una esposizione e una collocazione della Neue Marx-Lektùre nella storia del «marxismo occidentale» si veda il saggio di Ingo Elbe, docente all’Università di Oldenburg, Between Marx, Marxism, and Marxisms - Ways ofReading Marx’s Theory, in «Viewpoint Magazine», 21 ottobre 2013 (https://www. viewpointmag.com/2013/10/21/between-marx-marxism-and-marxisms-ways-ofreading-marxs-theory/). 14 H. Reichelt, La struttura logica del concetto di capitale in Marx, Bari, De Donato, 1973, p. 92. Il libro - tradotto e annotato da F. Coppellotti - è stato riedito recentemente (Roma, manifestolibri, 2016) con una nuova prefazione dell’autore. 15 Cfr. A. Graziani, Lanalisi marxiana e la struttura del capitalismo, in AA.W., Storia del marxismo, voi. IV: Il marxismo oggi, Torino, Einaudi, 1982, p. 730. 16 Si veda R. Bellofiore, Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, in S. Petruc­ ciani (a cura di), Storia del marxismo, 3 voli., Roma, Carocci, 2015, voi. Ili, pp. 11-50. 17 R. Bellofiore, Le avventure della socializzazione. Dalla teoria monetaria del valore alla teoria macro-monetaria della produzione capitalistica, Milano-Udine, Mimesis, 2018, p. 59. Quest’affermazione, a mio giudizio, vale per gli scritti della maturità di Marx ma non per i saggi degli «Annali franco-tedeschi» e per i Manoscritti economico-filosofici del 1844 che pongono premesse autonomamente filosofiche alla ricerca marxiana ulteriore. 18 R. Finelli, La scienza del capitale come «circolo del presupposto-posto». Un con­ fronto con il decostruzionismo, in M. Musto (a cura di), Sulle tracce di un fantasma. Doperà di Karl Marx tra filologia e filosofia, Roma, manifestolibri, 2005, pp. 211 -223. Di Finelli cfr. da ultimo Karl Marx, uno e bino. Tra arcaismi del passato e illuminazioni del futuro, Milano, Jaca Book, 2018. 19 P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, a cura di C. Napoleoni, Torino, Boringhieri, 19702, p. 29. 20 P.M. Sweezy, Le crisi e la teoria del valore in Marx, in N. Merker (a cura di), Marx, un secolo, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 256. 21 Per il terzo libro del Capitale citiamo d’ora in poi dalla settima edizione, seconda ristampa, a cura di M.L. Boggeri, 3 voli, Roma, Editori Riuniti, 1973. 22 G. Lunghini e F. Ranchetti, voce Valore, Teorie del, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998. 23 Per una presentazione analitica delle posizioni di Bohm-Bawerk e della replica marxista da parte di Rudolf Elilferding (1904) si veda il capitolo «Marxismo e scienza economica» del volume di P. Rossi, Marxismo, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 67-78. 24 Si veda l’ottima sintesi di G. Becchio e R. Marchionatti, Marx in Italia. La ricezione dell’opera economica, 1883-1900 nei Working Papers del Dipartimento di Economia dell’Università di Torino, disponibile in rete (http://www.cesmep.unito.it/ WP/4_WP_Cesmep.pdf). 25 Si veda J.E. Roemer, Rapporti di proprietà contro plusvalore nello sfruttamento marxiano (1982), in S. Petrucciani e F.S. Trincia, Marx in America. Individui etica scelte razionali, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 99-137.

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26 M. Turchetto, Caduta tendenziale del saggio di profitto, fordismo, postfordismo, in «Trimestre. Storia-politica-società», XXIX, 1996, 2, pp. 177 ss. 27 P. A. Baran e P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura econo­ mica e sociale americana, Torino, Einaudi, 1968, pp. 303-304. 28 P.A. Baran, Il «surplus» economico e la teoria marxista dello sviluppo, Milano, Feltrinelli, 19752, p. 265. 29 Per una sintesi, si veda I. Wallerstein, Economia, politica e cultura di un sistema­ mondo (1983), Torino, Einaudi, 1985. 30 Cfr. G. Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, Roma, manifestolibri, 2012, pp. 95-106. 31 M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Milano, Jaca Book, 2011, p. 251. 32 Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt è il titolo di un’ampia analisi critica di Ferruccio Andolfi (Reggio Emilia, Diabasis, 2004). 33 Su questo aspetto si veda il brillante saggio d ij. Derrida, Spettri di Marx, Milano, Raffaello Cortina, 1994. 34 La trasformazione del lavoro in un’attività completamente diversa non è solo un concetto del «giovane Marx»: nei Grundrisse lo sviluppo capitalistico crea le pre­ messe per «una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo. Il lavoro di questa individualità perciò non si presenta nemmeno più come lavoro, ma come sviluppo integrale dell’attività stessa, nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1968, voi. I, pp. 317-318). 35 Sulle lotte per la riduzione della giornata lavorativa Marx scrisse l’amplissimo ottavo capitolo del primo libro del Capitale. 36 K. Kautsky, Il programma diErfurt, Roma, La nuova sinistra/Samonà e Savelli, 1971, p. 146.

37 Una chiara presentazione e discussione dei teorici della liberazione dal lavoro si trova in G. Sivini, La fine del capitalismo. Dieci scenari, Trieste, Asterios, 2016. 38 Cfr. A. Gorz, Il uscita dal capitalismo è già cominciata, in Id., Ecologica, Milano, Jaca Book, 2009. 39 H. Marcuse, Protosocialismo e tardocapitalismo. Verso una sintesi teorica a partire dall’analisi di Bahro, in Id., Marxismo e nuova sinistra, Roma, manifestolibri, 2007, p. 276. Il saggio, scritto nel 1979, alla vigilia della morte, come rileva R. Laudani nell’in­ troduzione al volume, può essere considerato il testamento intellettuale del filosofo. 40 Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., voi. II, p. 405. 41 Ibidem, p. 410. 42 Ibidem, pp. 389-403. 43 Ibidem, p. 401.

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44 Si veda P. Vimo, voce General intellect, in A. Zanini e U. Fadini (a cura di), Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Milano, Feltrinelli, 2001. Sul «lavoro immateriale» sono interessanti le distinzioni concettuali e i dati empirici del saggio di S. Bologna, I «lavoratori della conoscenza» e la fabbrica che dovrebbe produrli, in «L’ospite ingrato», V ili, 2005, pp. 13-30. 45 Oltre a M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli, 2001, degli stessi autori si vedano: Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli, 2004; Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010; Assemblea, Milano, Ponte alle Grazie, 2018. 46 Così riassume A. Burgio, «Impero» e «lavoro immateriale». Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe, in «Proteo», 3, 2001 (http://www.proteo. rdbcub.it/article.php3 ?id_article=149), che critica la considerazione di alcune attività «immateriali» come paradigmatiche dell’attuale fase di sviluppo e come cifra dell’intera produzione capitalistica odierna. 47 M. Postone, Time, Labor and Social Domination. A Reinterpretation of Marx's Criticai Theory, New York-Cambridge, Cambridge University Press, 1993. Di Postone si veda anche Ripensare «Il Capitale» alla luce dei «Grundrisse», in M. Musto (a cura di), I «Grundrisse» di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, Pisa, ETS, 2015, pp. 217-241. 48 R. Kurz, N. Trenkle ed E. Lohoff, Manifesto contro il lavoro, con postfazione di A. Jappe, Roma, DeriveApprodi, 2003, p. 20. Testi in italiano dal 1991 al 2016 di «Krisis. Kritik der Warengesellschaft» sono disponibili in rete (http://www.krisis.org/ navi/italiano/). 49 A. Jappe, Lavoro astratto o lavoro immateriale?, 2010 (https://www.exit-online. org/textanzl.php?tabelle=transnationales&index=7&posnr=166&backtextl=textl. php). 50 Marx, Critica al programma di Gotha, cit., p. 32. 51 A. Accornero, Era il secolo del Lavoro, Bologna, Il Mulino, 1997. Ma si veda anche la discussione critica delle diverse concezioni storiche del lavoro in Id., Il lavoro come ideologia, Bologna, Il Mulino, 1980. 52 Si vedano di M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2002 (soprattutto la parte terza: «I dilemmi deU’“uomo flessibile”») e il precedente La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. 53 Ad esempio, da B. Coriat, La fabbrica e il cronometro. Saggio sul fordismo e la produzione di massa, Milano, Feltrinelli, 1979. In ambito marxista ebbe larga conside­ razione H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel X X secolo, Torino, Einaudi, 1978. 54 A. Accornero, voce Operai, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996 (http://www.treccani.it/enciclopedia/ operai_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/). 55 Cfr. Turchetto, Caduta tendenziale del saggio di profitto, fordismo, postfordiamo, cit., pp. 179-186.

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56 Si veda R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 76 ss. 57 G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985, pp. 17 e 35. 58 G. Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006, p. 53. 59 F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, p. 94. 60 R. Finelli e F. Toto, Dal postmoderno all’ipermoderno, in «Consecutio rerum. Rivista critica della Postmodernità», aprile 2013 (http://www.consecutio.org/2013/04/ edtoriale-dal-postmoderno-allipermoderno/).

CAPITOLO

Un'eredità politica contrastata

1. EFFICACIA DELLE IDEOLOGIE Marx - secondo una fortunata formula di Paul Ricoeur (1913-2005) - è un «maestro del sospetto» nei confronti della coscienza immediata, del­ la quale cerca le strutture profonde. In questo senso Ricoeur lo accosta a Nietzsche e a Freud: «In fondo, la Genealogia della morale nel senso di Nietzsche, la teoria delle ideologie nel senso marxiano, la teoria degli ideali e delle illusioni nel senso di Freud, rappresentano altrettante convergenti procedure della demistificazione»1. Nel pensiero politico e sociologico si distinguono generalmente due significati principali di ideplogia. Il primo è l’ideologia come visione fallace della realtà che la scienza demistifica. In questo senso la critica marxiana dell’ideologia affonda le sue radici nello sforzo di emancipazione del pen­ siero moderno dai pregiudizi religiosi e metafisici che ostacolano una com­ prensione scientifica della «verità effettuale della cosa» (come la chiamava Machiavelli nel Principe). Ma questo primo senso della critica delle ideologie è stato svolto da Marx e Engels secondo due linee differenti. Da un lato si presenta come demolizione del «sistema di illusioni», re­ ligiose, filosofiche ecc. non corrispondenti ai fatti empiricamente accertati, con un procedimento che spesso si accosta molto a un riduzionismo positi­ vistico. Come scrive Engels,

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ci si decise a concepire il mondo reale - natura e storia - nel modo come esso si presenta a chiunque vi si accosti senza ubbie idealistiche precon­ cette; ci si decise a sacrificare senza pietà ogni ubbia idealistica che non si potesse conciliare con i fatti concepiti nel loro proprio nesso e non in un nesso fantastico2. Tuttavia Engels nelle lettere sul materialismo storico degli anni novanta metteva in guardia dal fraintendimento «secondo cui, poiché noi neghia­ mo alle diverse sfere ideologiche che hanno una funzione nella storia, un’e­ voluzione storica indipendente, negheremmo ad esse anche ogni efficacia storica» (lettera a Franz Mehring del 14 luglio 1893; MEOC, 50, p. I l i ) e Antonio Labriola avvertiva che la spiegazione delle ideologie con la base economica «non vuol dire che siano mere apparenze o bolle di sapone. L’es­ ser quelle delle cose divenute e derivate da altre non implica che non sian cose effettuali»3. Per altro verso, l’ideologia - sempre nell’accezione di rappresentazio­ ne mistificata - è indagata come falsa coscienza o apparenza che inerisce necessariamente agli assetti capitalistici. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848 Marx riflette sull’esperienza storica della potenza dei nazionali­ smi e dei miti del passato che gravano come un peso sul cervello dei viven­ ti. Nel contempo approfondisce lo studio critico dell’economia politica e dell’apporto scientifico dei classici. L’insieme di questi studi porta Marx sia a sottolineare le illusioni nella storia, sia a indagare l’apparenza necessaria connessa alle strutture economiche. Dopo il 1852 usa pochissimo la parola «ideologia», che è ripresa largamente da Engels a partire dall’Anti-Dùhring del 18784 La critica dell’economia politica è per Marx scienza, che però ha un preciso referente sociale: «Nella misura in cui tale critica sta a rappresentare una classe come tale, essa può rappresentare solo quella classe la cui funzio­ ne storica è il rivolgimento del modo capitalistico di produzione e l’abolizio­ ne definitiva delle classi: cioè il proletariato» (poscritto alla seconda edizio­ ne del Capitale-, MEOC, 31, p. 18). E quindi scienza che rimanda a una prassi storica di trasformazione e a un «soggetto sociale» capace di esserne guida. Si apre così nel marxismo un possibile uso del concetto di ideologia dif­ ferente da quello originario marx-engelsiano. Il secondo grande significato

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del termine è infatti quello di sistemi di idee e credenze aventi la funzione pratica di orientamento politico di gruppi e classi. In questo secondo sen­ so ci saranno ideologie rivoluzionarie, conservatrici, reazionarie, e saran­ no usate «nella lotta politica per influire sul comportamento delle masse, per orientarle in una direzione piuttosto che in un’altra, per ottenerne il consenso, infine per fondare la legittimità del potere»5. La funzione pratica delle ideologie è stata indagata da Vilfredo Pareto (1848-1923), per il quale esse appartengono al campo di elaborazioni pseudo-logiche di sentimenti, credenze irrazionali e fedi, che hanno la funzione di persuadere e di influire sui comportamenti sociali (Pareto le chiama «derivazioni»). Analogamente, il teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel (1847-1922) ritiene che nella storia siano all’opera «miti» indispensabili all’azione delle masse (dallo sciopero generale dei sindacalisti alla rivoluzione proletaria dei so­ cialisti). In Pareto e Sorel l’efficacia politica dell’ideologia si dissocia dalla scienza, mentre nel marxismo tale dissociazione è respinta anche quando si mette positivamente in risalto l’ideologia come Weltanschauung che guida l’azione del proletariato in contrapposizione alla visione del mondo della borghesia, secondo una dicotomia netta ed esclusiva di posizioni intermedie affermata da Lenin nel Che fare?-. la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideo­ logia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una «terza» ideologia, e, d’altronde, in una società dilaniata dagli anta­ gonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un raf­ forzamento dell’ideologia borghese6. Anche Gramsci nei Quaderni del carcere formula una concezione posi­ tiva dell’ideologia e distingue tra «ideologie storicamente organiche», che si riferiscono alle classi e ai blocchi sociali in contrasto, e «ideologie arbi­ trarie, razionalistiche», formulate da individui senza rapporto organico con i gruppi sociali fondamentali in conflitto7. Come osserva Guido Liguori in un’analisi accurata del concetto di «ideologia» in Gramsci, il pensatore sar­ do critica la pretesa di Croce di tenere separate filosofia e ideologia, attività cognitiva e attività politica: l’ideologia è una concezione del mondo o filo­

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sofia che è diventata un «movimento culturale», una «religione» o «fede» di larghe masse. Nella teoria gramsciana le ideologie «non sono pure idee, ma sono organizzate in apparati, trincee e casematte, vengono continuamente rielaborate, adattate, propagate [...] dalla stampa, dall’editoria, dalle biblio­ teche, dalla scuola, dai “circoli e clubs” di vario genere»8. Gramsci indicava vasti campi di indagine, e la sua riflessione stimolava anche riformulazioni teoriche, come - per esempio - quella di Louis Althusser sugli «apparati ideologici di Stato», da non confondere con quelli repressivi (per il filosofo francese sono «apparati ideologici di Stato» sia istituzioni come la scuola pubblica, sia le varie forme di associazionismo privato, sindacale, culturale, religioso che concorrono alla riproduzione dei rapporti sociali capitalistici)9. Uno degli aspetti più consapevolmente critici della teoria gramsciana è il pericolo, da lui sottolineato nell’epoca del fascismo trionfante e dello stalinismo, che la stessa filosofia della prassi dimentichi la sua relatività sto­ rica e tenda «a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne»10. Soprattutto nei periodi di ripiega­ mento e di sconfitta, la filosofia della prassi perde la sua dimensione critica e si muta facilmente «in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza ecc., delle religioni confessionali»11. Quello che per Gramsci era un pericolo da tenere sempre presente, e da arginare con un marxismo critico e avvertito, diventava un oggetto polemico da parte di autori conservatori o liberali. ComuniSmo staliniano e nazismo furono accostati e interpretati come «religioni politiche» o «religioni seco­ lari» dal conservatore Eric Voegelin e dal liberale Raymond Aron, che si interrogò in una rivista della resistenza gollista su L’avvenire delle religioni secolari (1944). Secondo Aron sono «religioni di salvezza collettiva» che sot­ traggono l’individuo alla solitudine delle folle massificate, gli offrono un’in­ terpretazione globale del mondo e della storia, e commisurano il valore di pensieri e azioni in base a quanto sono utili per i fini del movimento politico. Aron distingueva bensì e contrapponeva la società universale, aperta a tutti gli uomini, come fine cui tendono i socialisti e il particolarismo della nazione e della razza dei nazisti. Tuttavia metteva in risalto alcuni aspetti comuni, tra cui la mobilitazione permanente delle masse, la fraternità dei fedeli nel

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culto del capo, l’uso cinico delle ideologie a fini di potenza. Sono caratteri spesso evocati nelle successive analisi del totalitarismo12 e dei tratti totalitari del marxismo sovietico, che ebbero una pietra miliare nella grande opera di Hannah Arendt (1906-1975) su Le origini del totalitarismo (1951). Nel capitolo finale Ideologia e terrore aggiunto all’edizione americana del 1958, il regime totalitario si distingue da altri regimi autoritari non per un grado maggiore di illibertà, ma perché usa il terrore per distruggere alla radice la pluralità umana, base della politica autentica, fondendo i molti nell’uno, e si serve per questo dell’ideologia come a) pretesa di spiegazione totale della storia e delle sue leggi necessarie; b) screditamento di ogni esperienza imme­ diata, dietro a cui si suppongono agire forze nascoste; c) attivazione di una logica implacabile che elimina l’aleatorietà degli eventi umani. Ne deriva l’isolamento dell’individuo «per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più»13. Hannah Arendt metteva in evidenza la dif­ ferenza tra la menzogna politica tradizionale e la manipolazione sistematica dei fatti nei totalitarismi, che si manifesta nella continua riscrittura della sto­ ria e nella fabbricazione di immagini sostitutive della realtà. Il capitolo finale più di altri nel libro fu accusato di «essenzialismo» e di astrattezza filosofica, ma conteneva anche i motivi per cui il fenomeno totalitario travalicava i suoi limiti storici, per cui Arendt concludeva la sua ricerca dicendo che «la crisi del nostro tempo e la sua esperienza centrale hanno portato alla luce una forma interamente nuova di governo che, in quanto potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire»14. Più tardi il regime sovietico venne interpretato dallo storico americano Martin Malia come «ideocrazia», cioè come un mondo che, smentendo il rapporto struttura/sovrastruttura di Marx, camminava «sulla testa» della ideologia e della politica, con l’inflessibile volontà di realizzare l’utopia so­ cialista. L’ex allievo di Merleau-Ponty Claude Lefort (1924-2010), traccian­ do un bilancio del comuniSmo, ha però osservato: Meglio diffidare delle soluzioni di stupefacente semplicità quando si tratta di analizzare eventi capaci di stravolgere la fisionomia di una società e di indurre a una nuova interpretazione del nostro secolo - in questo caso quando si tratta di spiegare la nascita e la durata (settantan­ ni) di un regime definito «senza precedenti»15.

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Il Novecento è stato studiato come il «secolo delle ideologie»16. È stato anche il secolo che nella sua seconda metà ha tante volte annunciato la «fine delle ideologie» (con ciò intendendo principalmente la fine dell’ideologia di una trasformazione sociale radicale), a partire dal libro uscito nel 1960 con questo titolo del sociologo Daniel Bell, che come Aron considerava il marxi­ smo una religione secolare e ne annunciava l’esaurimento e l’inattualità nelle democrazie capitalistiche avanzate1'. Alla tesi della fine delle ideologie è stato opposto che in realtà essa vole­ va «squalificare come ideologica ogni teoria critica della società che guardi al di là dello status quo. [...] I sostenitori di questa tesi infatti considerano ideologica una politica che mette in luce i conflitti, ma non quella interessata alla stabilizzazione della situazione esistente»18. Anche i padri della Scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer, re­ spinsero la critica conservatrice delle ideologie, e difesero la critica dialet­ tica, che considera l’ideologia come falsa coscienza ma coscienza obiettiva­ mente necessaria, che inerisce alla società borghese e si distingue dalla sem­ plice falsità e manipolazione quale strumento di potere dell’«assolutismo ideologico di marca totalitaria». In particolare, l’ideologia dell’eguale libertà degli individui sorge «dal processo sociale come qualcosa di autonomo, so­ stanziale e dotato di una sua legittimità» che poi si perde nella metamorfosi della società borghese in una società di massa interamente manipolata e ostile a ogni prospettiva di trascendenza critica19. L’intreccio di verità e fal­ sità dell’ideologia è ben esemplificata da Rahel Jaeggi (n. 1967), allieva di Axel Honneth, che porta a nuovi sviluppi l’eredità di Adorno e Horkhei­ mer. Libertà ed eguaglianza - dice - sono l’ideologia connaturata ai rapporti capitalistici, nei quali il lavoratore deve apparire come libero venditore della forza-lavoro e il contratto di lavoro viene stipulato tra parti formalmente e legalmente libere ed eguali. Libertà ed eguaglianza coprono e nascondono illibertà e sfruttamento, ma non sono meramente illusorie perché a) entrano a costituire la realtà sociale moderna e b) sono insieme funzionali e contrad­ dittorie con questa realtà (contengono una eccedenza normativa rispetto ad essa). Per cui la critica dell’ideologia è «fermento di un processo pratico trasformativo che concerne sia la realtà (sociale), sia la sua interpretazione: devono essere trasformate entrambe»20. La critica immanente, seguendo la lezione marxiana, non si contrappone alla realtà con ideali ad essa esterni

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ma ne sviluppa invece la contraddittorietà interna e in ciò che per lo più ap­ pare come ovvio e «dato» fa emergere problemi da risolvere, con un effetto pratico-performativo.

2. FILOSOFIE POLITICHE NORMATIVE Abbiamo visto nel paragrafo precedente come Rahel Jaeggi abbia tratto dalla critica delle ideologie una conclusione di netto sapore marxiano, ma è utile prendere in considerazione anche alcune alternative del pensiero poli­ tico in cui, pur rimanendo Marx un riferimento importante, l’essenziale dei problemi contemporanei - a differenza della tradizione marxista - non si gioca principalmente o esclusivamente sul terreno del lavoro e tanto meno su quello dell’abolizione del lavoro salariato e della prospettiva del comuniSmo. Molto schematicamente, la dimensione più essenziale è stata vista: a) nell’agire politico, sganciato da motivazioni economiche e sociali; b) nell’in­ terazione linguistico-comunicativa in contrasto con l’agire strumentale cui appartiene il lavoro; c) nei conflitti per il riconoscimento di cui anche la lotta di classe sarebbe una sottospecie. Vediamo brevemente queste alternative in tre filosofie politiche, in certa misura apparentate ma diverse, e che sono caratterizzate dalla distanza ma anche dal confronto con il marxismo: quelle di Hannah Arendt - che già abbiamo incontrato - , di Jurgen Habermas e di Axel Honneth. La politica autentica per Hannah Arendt è l’esercizio plurale, dialogico e comune della libertà non subordinata ad altri fini (come il benessere o la giustizia sociale). In Sulla Rivoluzione (1963) afferma che ciò che ha fatto «deragliare» la rivoluzione francese - a differenza di quella americana - è l’irrompere della «questione sociale» nell’ambito della dimensione politica. Tre sono le modalità della vita adiva che, secondo Arendt, occorre tenere ben distinte: la riproduzione della vita biologica attraverso il lavoro (animai laborans), la fabbricazione di un mondo duraturo di oggetti materiali e cul­ turali (homo faber), l’agire politico che mette in relazione gli individui in un mondo discorsivo comune, come quello inaugurato dalla polis antica. Labor, work, adion, ovvero soddisfazione della necessità biologica, produzione di un mondo oggettivo materiale e culturale, e attività politica sono ambiti che

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hanno logiche diverse. Con l’età moderna la sfera politica diventa funzione della società civile, della proprietà, del lavoro e del consumo. Se è positi­ vo che accedano alla sfera pubblica soggetti prima esclusi, come le classi lavoratrici e le donne, e che siano giuridicamente protetti dall’eguaglian­ za e dall’appartenenza alla cittadinanza (in Vita adiva scrive che «la vera svolta nella storia del lavoro fu l’abolizione del censo come condizione del diritto di voto»21), sempre più nell’epoca moderna le attività economiche hanno respinto in secondo piano e «colonizzato» l’ambito del politico. Il bersaglio principale di Arendt è la società di massa contemporanea con la subordinazione agli imperativi del circolo vizioso di produzione e consumo, in cui si intrecciano le tecnologie avanzatissime dell’homo faber e il ricambio organico con la natura per la riproduzione della vita biologica dell’animai laborans. Arendt non imputa a Marx responsabilità di eventi e costellazioni storiche lontane e imprevedibili, come il totalitarismo sovietico, ma gli rim­ provera a) di essersi fatto apologeta del lavoro sans phrase, della produttività dell 'animai laborans, che - nella visione marxiana - avrebbe portato a una finale società dell’abbondanza e della liberazione dal lavoro come necessità e costrizione; b) di aver confuso poiesis tpraxis, violenza e potere, adottando il modello della fabbricazione che impedisce un’adeguata comprensione dell’agire politico. Secondo Arendt, l’autore del Capitale mette insieme tre assunti: «il lavoro è creatore dell’uomo; la violenza è la levatrice della storia [...]; nessuno può essere libero se domina su altri»22. Ma i primi due assunti elidono il terzo. Infatti la liberazione dal dominio si realizza nella libertà come potere comune che esclude sia la subordinazione a necessità econo­ miche, sia la sottomissione alla violenza. «L a violenza - dice Arendt - può sempre distruggere il potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più effi­ cace, che ha come risultato l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla canna di un fucile è il potere»23, cioè il potere condiviso dell’agire in comune. Mentre in Arendt spesso «il confronto-scontro con alcuni aspetti del pensiero di Marx si svolge in maniera tendenziosa e capziosa»24 e la filo­ sofa trascura gran parte delle specificazioni teorico-storiche marxiane sul lavoro salariato, Habermas - che pure riconosce ad Arendt il merito di ave­ re individuato un concetto normativo di praxis come interazione politico­ linguistica - intrattiene con Marx e il marxismo un rapporto più consistente

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e puntuale, in cui si colloca anche l’ambizioso tentativo Per la ricostruzione del materialismo storico (1976)25. Significativamente, Marx e Weber sono gli autori più discussi nella sua grande opera Teoria dell’agire comunicativo (1981). Nella modernità agiscono tendenze contraddittorie e la ragione cri­ tica, comparsa nella sfera pubblica con l’illuminismo, può essere recuperata nel suo significato normativo respingendo sia la visione catastrofica della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, sia la considerazione weberiana della razionalizzazione capitalistica come «gabbia di acciaio» in­ trascendibile di una modernità che ha perso l’originario spirito emancipativo. Secondo Habermas, neppure Marx, riconducendo unilateralmente la dinamica storica alla produzione materiale e al terreno dell’economia, ha esplorato la tensione principale della modernità, che consiste nel rapporto tra agire strumentale (della tecnica tesa al controllo della natura e all’ot­ timizzazione strategica dei mezzi) e agire comunicativo, che ha radici nel linguaggio, depurato da usi manipolatori e costitutivamente orientato all’in­ tesa in rapporti intersoggettivi liberi dal dominio. Habermas analizza l’isti­ tuzionalizzazione, nel mondo moderno, dei sottosistemi del mercato e dello Stato centralizzato e burocratico: in entrambi vede la tendenza a colonizzare tutti gli ambiti del mondo vitale e a soffocare le istanze autonome dell’agire comunicativo. In uno scritto del periodo del crollo del sistema sovietico, afferma che è irrealistico pensare di eliminare il mercato, ma «il potere della solidarietà, con la sua capacità di integrazione sociale, deve potersi afferma­ re attraverso le istituzioni e l’ampio ventaglio di una sfera pubblica demo­ cratica, nei confronti degli altri due poteri, il denaro e il potere amministra­ tivo»26. In una intervista del 1994 diceva: «Certamente, i fondamenti teorici della critica di Marx al capitalismo sono obsoleti. Al contempo, è quanto mai necessaria una fredda analisi degli effetti liberatori e sradicanti, pro­ duttivi e distruttivi, della nostra organizzazione economica sul mondo della vita»27. Habermas intende tenere vive alcune preoccupazioni marxiane in forma rielaborata e più adatta alla complessità delle società contemporanee in cui certe articolazioni, come il mercato, sono a suo giudizio irreversibili ma i cui effetti negativi potrebbero, e dovrebbero, essere limitati e controlla­ ti. Con Teoria dell’agire comunicativo e Fatti e norme (1992) l’eredità teorica di Marx passa sullo sfondo, in una filosofia che ne riformula alcune esigenze in nuovi contesti concettuali.

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Tra i nuovi contesti concettuali è particolarmente interessante il tema del «riconoscimento», centrale nell’allievo di Habermas Axel Honneth, secondo il quale le lotte sociali delle classi subalterne non sono riducibili alle motivazioni economiche e derivano piuttosto dalla «lesione delle aspet­ tative di riconoscimento che esse nutrivano nei confronti della società»28. Honneth ritiene che Habermas sia troppo legato all’analisi formale del lin­ guaggio e operi una dicotomia troppo rigida, quando delinea l’ideale della comunicazione come intesa intersoggettiva e pone invece il lavoro tra le attività strumentali. Rifacendosi agli studi di psicologia sociale e, soprat­ tutto, agli scritti giovanili di Hegel (tra cui le pagine della Fenomenologia sulla lotta tra servo e signore per il riconoscimento), Honneth delinea le tre forme di riconoscimento che sono necessarie per l’autorealizzazione della persona: a) l’ambito affettivo e familiare; b) la sfera giuridico-politica; c) l’approvazione e la stima nell’ambito sociale. Marx ha diagnosticato l’a­ lienazione in modo pregnante, ma secondo Honneth le avrebbe dato una curvatura oggettiva ed economica, mancando «di situarla nel tessuto rela­ zionale del riconoscimento intersoggettivo, in modo tale da metterne in luce l’importanza morale nelle lotte sociali del suo tempo»29. Anche Lukàcs, che ha avuto il merito di approfondire la tematica della reificazione, l’avrebbe ridotta a patologia del capitalismo invece di vederne le ben più vaste im­ plicazioni psicosociali30. Honneth ha fatto valere da un lato il richiamo alla centralità dei conflitti sociali, dall’altro - come gli ha rimproverato la teorica femminista americana Nancy Fraser31 - ha considerato come secondarie e subordinate le contese per la redistribuzione delle risorse economiche, che invece per Fraser caratterizzerebbero i conflitti sociali almeno tanto quanto l’aspirazione al riconoscimento. Sia Honneth sia Fraser si muovono co­ munque in un orizzonte teorico lontano dall’originaria centralità marxiana dei rapporti capitalistici di produzione e del loro superamento comunistico. Ricostruendo recentemente la storia e il significato dell’idea di socialismo, Honneth ritiene che l’aspetto normativo della solidarietà sociale e della sua integrazione con la libertà rimanga un orizzonte valido, ma al di fuori di ogni riduzionismo economico. Per lui il socialismo dovrebbe diventare «il portavoce morale delle aspettative di libertà non soltanto rispetto ai rapporti di produzione, ma anche rispetto alle relazioni personali e alle possibilità di cogestione politica», facendo valere in tutti gli ambiti l’idea

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basilare di «libertà sociale» come «agire spontaneamente l’uno-per-1’altro» dei membri della società32. È chiaro in conclusione che il discorso della filosofia politica contem­ poranea in una parte molto rilevante si è spostato largamente su quel piano normativo che in Marx era sottaciuto o apertamente avversato, per esempio quando nel Manifesto insieme a Engels affermava: Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra principi che siano inventati o scoperti da questo o quel riformato­ re del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effet­ tivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi (MEOC, 6, pp. 498-499). Nel 1864 Marx aveva introdotto a malincuore nel preambolo degli sta­ tuti dell’Internazionale le parole «diritto», «giustizia», «morale» come con­ cessione tattica ai suoi concorrenti mazziniani e proudhoniani. Più tardi si opponeva radicalmente a coloro che «vogliono sostituire alla base materiale [...] una moderna mitologia con le sue idee di giustizia, libertà, uguaglianza, fraternité» (lettera a FA . Sorge del 19 ottobre 187733). N t\YAnti-Duhring Engels rimandò la validità di una morale universale all’estinzione delle classi nel comuniSmo, e Lenin e Trockij sostennero che è morale tutto ciò che fa­ vorisce la lotta di classe e la liberazione del proletariato34. La domanda che si pongono le teorie normative della società è in fondo questa: le idee che hanno nutrito la modernità sono «mitologia» o lievito storico operante in contrasto con le cieche leggi del mercato? John Rawls (1921-2002) -, il filosofo politico che ha elaborato una teoria normativa della giustizia con cui tutti i maggiori teorici, liberali, democratici, socialisti, si confrontano -, afferma, nel corso di una disamina accurata del pensiero di Marx, che «il concetto di sfruttamento presuppone un concetto di giusto e di giustizia alla luce del quale siano giudicate le strutture fondamentali», e che nella condanna del capitalismo «certamente è richiesta una qualche forma di visione normativa»35. Mentre Marx - seguito da tanti marxisti del Novecento - era fondamentalmente interessato a individuare le forze stori­ che oggettive e la lotta delle classi che avrebbe portato al rovesciamento del capitalismo, e considerava idealistiche e fuorviami le argomentazioni morali

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in proposito, queste ultime sembrano ineludibili a una parte consistente del­ la filosofia politica contemporanea e anche a quei marxisti, come il «marxi­ smo analitico» di lingua inglese, che indagano se e in che misura è possibile svolgere da Marx - al di là della sua autocomprensione letterale, per cui egli si pone «al di là della giustizia» - una teoria normativa della giustizia più efficace di quella del liberalismo di sinistra36. Nella tradizione politica italiana fu il socialismo liberale di Carlo Rossel­ li (1899-1937) a esprimere con grande nettezza le istanze normative di una emancipazione sociale che, a suo giudizio, avrebbe dovuto abbandonare il marxismo e gran parte dell’elaborazione pratico-teorica di Marx. In Socia­ lismo liberale (1930) Rosselli enunciava le tesi che così riassumeva in una pagina pubblicata postuma: I. che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secon­ do luogo trasformazione materiale; II. che, come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di aspettare il sole dell’avvenire; III. che tra socialismo e marxismo non vi è parentela necessaria; VI. che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l’erede del liberalismo; VII. che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come delle collettività, è il più efficace mezzo e l’ultimo fine del sociali­ smo37. Togliatti considerò Rosselli un «intellettuale dilettante, il piccolo bor­ ghese presuntuoso, che alla disciplina scientifica sostituisce il gioco vano delle idee generali masticate a vuoto»38, e lo accusò di fare il gioco dei fasci­ sti. Al di là delle contingenze storiche, che avrebbero presto portato Rosselli ad abbandonare lo scontro frontale con i comunisti, il rapporto fra tradizio­ ne marxista e tradizione liberale merita di essere esplorato nei suoi aspetti conflittuali ma anche negli interrogativi che l’una pone all’altra39.

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3. MARXISMO, LIBERALISMO, COMUNITARISMO Un ormai datato ma pregevole studio sugli anni giovanili di Marx e Engels del germanista francese Auguste Cornu fu parzialmente tradotto in Italia con il titolo Marx e Engels dal liberalismo al comuniSmo40.1 primi testi marxiani sono stati poi scandagliati in numerosi lavori per mettere in rilievo un Marx «prima del marxismo» sensibile a fondamentali istanze liberali e democratiche, ed è stato sostenuto che anche successivamente Marx non disprezza affatto le «libertà negative» del liberalismo, tanto è vero che, nella Critica del programma di Gotha, ribadisce, criti­ cando lo «Stato educatore» sostenuto dai lassalliani, che «ognuno deve poter soddisfare tanto i suoi bisogni religiosi quanto i suoi bisogni cor­ porei senza che la polizia vi ficchi il naso». Come appare evidente anche dal tono di queste righe, Marx considera le libertà negative liberali come qualcosa che dovrebbe essere (anche se spesso non è) un dato ovvio e scontato; ma anche come una dimensione che rimane del tutto limitata e insufficiente se quello che ci interessa è conseguire una effettiva libera­ zione da tutte le forme di asservimento41. Ma è anche vero che a partire dalla Questione ebraica, in cui il nucleo teorico centrale è la critica dello Stato moderno e dei diritti dell’uomo e del cittadino, riportati a quello di proprietà e alla società borghese, Marx, per tutto il corso successivo del suo pensiero, presenta la sua prospettiva come un’alternativa sia al liberismo economico sia al liberalismo politico (e non come sua integrazione), anche a quello disposto a riconoscere alcune buone ragioni al socialismo. Emblematica la considerazione spregiativa riserva­ ta da Marx a John Stuart Mill (1806-1873). Né Sulla libertà (1859), né le Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), né La servitù delle donne (1869) - cioè gli scritti di teoria liberale di Mill - interessarono Marx, che appuntò le sue critiche ai Saggi su alcune questioni controverse di economia politica (1844) e ai Principi di economia politica (1848), e prese in considera­ zione solo il Mill economista42. Le alternative che Marx prospettava erano: a) la critica-superamento dell’economia politica classica, cioè la strada da lui stesso intrapresa; b) la rinuncia dell’economia volgare alla critica scienti­ fica per votarsi all’apologià dell’esistente; c) il «sincretismo esanime» (come

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dice il poscritto alla seconda edizione del Capitale) di chi, come Mill, cerca­ va di conciliare l’economia politica «borghese» con alcune rivendicazioni del proletariato. In sostanza la posizione di Mill era per Marx eclettica e insostenibile perché attribuiva alla produzione capitalistica la fissità delle leggi naturali e voleva intervenire solo sul piano della redistribuzione della ricchezza prodotta. Nell’ottica di Marx era irrilevante che per Mill il diritto di proprietà non fosse da considerare rigido e immutabile, e dovesse essere limitato da considerazioni di utilità sociale: E certamente - diceva Mill - la terribile accusa che i socialisti sono nelle condizioni di muovere al presente ordinamento economico della società impone che vengano presi seriamente in considerazione tutti i mezzi grazie ai quali l’istituto della proprietà possa essere messo in grado di funzionare in modo più vantaggioso per quella vasta porzione della società che al presente gode solo della minima parte dei suoi benefici diretti43. Oggi questo mancato dialogo ci interessa particolarmente, perché si sono visti in Mill gli inizi del liberalismo sociale, che in Gran Bretagna fu continuato da Léonard T. Hobhouse (1864-1929) nel suo Liberalismo ( 1911 )44 e poi è diventata una vasta famiglia di teorie e di posizioni politiche. Lo storico Paul Ginsborg ha immaginato di far discutere Marx e Mill sul tema della democrazia rappresentativa e partecipativa45. Ma il confronto con il liberalismo si può estendere a questioni interconnesse e tuttavia relati­ vamente autonome: a) al rapporto tra dimensione individuale e sociale; b) al tema dei diritti umani riconosciuti dalle carte e dalle costituzioni liberali; c) al problema della limitazione dei poteri pubblici e della divisione dei poteri, centrale per il liberalismo a partire da Montesquieu. a) Fino a che punto Marx era collettivista? Numerose sono le letture di Marx che vedono in lui un teorico della «libera individualità» ben più che dell’eguaglianza e vi ravvisano il primato dell’individuo sulla collettività invece del contrario. E vero che l’individuo di Marx è sempre un individuo sociale perché la libertà individuale è reale solo nella dimensione comunitaria: «Nella comu­

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nità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa», scrivono Marx e Engels nell’Ideologia tedesca (MEOC, 5, p. 64). La libertà liberale, concepita come «il diritto di fare tutto ciò che non nuoce ad altri», si basa invece sull’isolamento dell’uomo dall’altro uomo, che contraddice il carattere sociale e comunitario dell’essere umano. Tutta­ via L’ideologia tedesca definisce il comuniSmo «la base reale che rende im­ possibile tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui» (MEOC, 5, p. 67) e nel Manifesto il comuniSmo è la società in cui «il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti» (MEOC, 6, p. 506). Nei Grundrisse la società futura è delineata quale stadio della «libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subor­ dinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale», dopo lo stadio precapitalistico in cui gli individui fanno parte orga­ nicamente di comunità e quello capitalistico in cui l’indipendenza personale è affermata ma smentita di fatto dalle dipendenze imposte dalla proprietà privata46. Per cui il rapporto tra dimensione individuale e collettiva nella teoria marxiana non è così semplice da definire47 e paradossalmente uno degli ultimi scritti del pedagogista Mario Alighiero Manacorda (1914-2013) era intitolato Quel vecchio liberale del comunista Karl Marx48. b) Nella Questione ebraica «i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme, come distinti dai droits du citoyen non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità», per cui «il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uo­ mo dall’uomo» (MEOC, 3, pp. 175-176). In Marx c’è una giusta critica realistica che vede i rapporti di dominio e di sfruttamento sotto i proclamati diritti dell’uomo e del cittadino, e insieme c’è una colossale riduzione delle istanze di emancipazione contenute nei di­ ritti umani. Ben pochi marxisti sarebbero disposti oggi a condividere questa tesi del Manifesto: «L e idee di libertà di coscienza e di religione non furono altro che l’espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza» (MEOC, 6, p. 504). Il «socialismo reale» ha poi accentuato la svalutazione dei diritti libe­ rali che erano stati ridotti nella dottrina a funzione ideologica dei rapporti

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di produzione capitalistici e dell’individuo egoistico-concorrenziale della società borghese, anche se i diritti alla libertà di coscienza, di parola, di stampa, di riunione e manifestazione, all’inviolabilità della persona e del domicilio e alla segretezza della corrispondenza erano formalmente sanciti in testi legislativi ufficiali, come la Costituzione sovietica del 1936, mentre venivano sistematicamente disattesi49. Nel contempo, la dittatura monopar­ titica veniva ribadita e giustificata. Se i partiti sono l’espressione di interessi sociali, scriveva Stalin, «diversi partiti, e quindi, libertà per i partiti, possono esistere soltanto in una società in cui esistono classi antagonistiche», ma, es­ sendoci in Unione Sovietica solo operai e contadini con interessi affini, «non vi è terreno per l’esistenza di parecchi partiti, e neanche, di conseguenza, per la libertà di questi partiti. Nell’URSS vi è terreno per un solo partito: il partito comunista»50. Il terreno dei diritti civili e politici divenne decisivo quando si trattò di far rispettare gli impegni sottoscritti in materia di diritti umani nell’atto fina­ le della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1975) e i documenti delle Nazioni Unite in proposito. Il dissenso che si manifestò con Charta 77 in Cecoslovacchia e con Solidarnosc nella Polonia degli anni ottanta segnò il declino dell’assetto di potere dei paesi dell’Est europeo. Nel periodo tra le due guerre e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale si diffuse nei paesi democratici dell’Occidente capitalistico anche il riconoscimento della «generazione» dei diritti sociali: il diritto al lavoro, all’istruzione, alla sanità, ai servizi socioassistenziali. Il giurista liberaldemocratico Piero Calamandrei (1889-1956), rilevando il pericolo che «rimanga­ no come vuota formula teorica scritta sulla carta, ma non traducibile nella realtà», affermava: poiché ad essi corrisponde da parte dello Stato un obbligo positivo di fare e di dare, pongono allo Stato, per la loro soddisfazione, una serie di esigenze pratiche che non possono essere soddisfatte se non disponendo di mezzi adeguati, conseguibili soltanto a prezzo di profonde trasforma­ zioni dei rapporti sociali basati sull’economia liberale51. Sono parole che suonano ancora attuali nell’odierna crisi dello Stato sociale.

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c) Il primo passo della rivoluzione prospettata nel Manifesto è «l’ele­ varsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia», in senso etimologico e sostanziale. Successivamente, a proposito della Comune del 1871, Marx indicava l’esempio di consiglieri municipali eletti a suffragio universale e revocabili in qualunque momento. «L a Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo»52. Negli scritti sulla Comune Marx elaborava un modello di democrazia diretta che abolisce la divisione dei poteri della tradizione libe­ rale e che ha agito in varie direzioni nella storia del marxismo, sia nel lenini­ smo di Stato e rivoluzione e della parola d’ordine «tutto il potere ai soviet», sia nell’antileninismo libertario e consiliare. La tradizione socialista marxista ha sempre denunciato lo svuotamento delle libertà liberali e di quelle democratiche da parte del diritto di pro­ prietà, e ha suscitato una serie di domande che continuano a riproporsi. Quali limiti deve avere il diritto di proprietà? Non c’è libertà effettiva se non attraverso la proprietà collettiva? E questa libertà più sostanziale non va a scapito delle libertà fondamentali della tradizione liberale: limitazione dei poteri dello Stato, diritti «naturali», inviolabili e imprescrittibili, rule oflaw, divisione dei poteri? Il motivo ispiratore delle libertà liberali fu classicamente illustrato da Benjamin Constant a Parigi nel 1819. Constant - che pure non trascurava l’importanza della partecipazione al potere politico - vedeva la «libertà dei moderni» nella libertà degli individui da obblighi e impedimenti derivanti dai pubblici poteri, al fine del «godimento pacifico dell’indipendenza pri­ vata»53. Le libertà liberali sono originariamente libertà da, come limitazione e non interferenza dei poteri pubblici nelle attività private, libertà che si sono integrate con quelle democratiche (libertà di, come autodeterminazione ed esercizio, delegato o diretto, del potere). Una integrazione che è anche una storia di conflitti: l’inclusione nella piena cittadinanza è stata lenta e difficile per i lavoratori, per le donne, ed è tuttora fortemente ostacolata per gli im­ migrati. Norberto Bobbio riprese nel 1954 la distinzione tra libertà da e libertà di, che poi divenne un luogo centrale della discussione filosofico-politica a partire dal saggio di Isaiah Berlin Due concetti di libertà del 1958. Ricor­

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diamo perciò brevemente la discussione che il filosofo torinese ebbe con Galvano della Volpe nel 1954, confluita l’anno dopo in Politica e cultura54. Della Volpe difendeva la libertà comunista come democrazia sostanziale e come libertas maior rispetto alle libertà liberali e alle loro istituzioni. Soste­ neva la rigida contrapposizione tra la democrazia socialista, espressione del­ la «proletaria massa organica dei lavoratori»55, che vedeva attuata in Unione Sovietica, e la tradizione liberale dei diritti individuali, considerati «cristia­ no-borghesi»; contrapposizione poi attenuata - dopo il X X congresso del Pcus - dai richiami di Della Volpe al riconoscimento dei meriti individuali e al ripristino della «legalità socialista», nelle varie edizioni del Rousseau e Marx a partire dal 1956. La risposta di Bobbio, nel saggio Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, era la difesa delle libertà liberaldemocratiche. L’errore dei comunisti - diceva - è di voler sopprimere le libertà dei moderni in nome della più piena libertà dei posteri. Ma non c’è una democrazia che non sia anche liberale: le istituzioni democratiche sono «un correttivo, un’integrazione, un perfezionamento delle istituzioni liberali; non ne sono né una sostituzione né un superamento»56. Bobbio citava il grande giurista Hans Kelsen (1881-1973)5', secondo il quale «la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico». Il filosofo torinese, che proveniva dalla militanza liberalsocia­ lista del Partito d’Azione, non dimenticava però che non bastano le libertà civili e quelle politiche, e che occorre la libertà di come effettivo poter fare da parte dei cittadini. La libertà per vivere effettivamente ha bisogno della giustizia sociale e occorre una implementazione sociale delle libertà civili e democratiche, ponendo limiti al diritto di proprietà, come aveva sostenuto Calamandrei. Oggi diversi teorici che rielaborano criticamente l’eredità marxista suggeriscono che istanze differenti devono trovare una composizione che spesso in passato è stata respinta. Per esempio, lo studioso francese Jacques Bidet (n. 1935) ha esplorato le «metastrutture della modernità» come diffi­ cile convivenza tra il contrattualismo del mercato - che tende al liberismo selvaggio delle diseguaglianze crescenti - e quello che dà origine al potere politico comune - ma diventa nel comuniSmo storico uno statalismo illibe­ rale. Per Bidet, denaro e potere devono essere entrambi limitati e in certo

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senso - come ha notato Petrucciani - la democrazia è un lavoro di Sisifo per ridurre le diseguaglianze che il mercato riproduce continuamente e per accrescere col potere pubblico le possibilità di coloro che hanno di meno58. Se il marxismo in passato era l’alternativa più rilevante al liberalismo, nelle dottrine politiche degli ultimi decenni lo è stato piuttosto il comunita­ rismo, che vanta anch’esso una lunga storia. Già nel periodo di istituzionalizzazione della sociologia come scienza, il sociologo tedesco Ferdinand Tònnies (1855-1936) aveva contrapposto, nel saggio Comunità e società (1887), i legami comunitari all’azione dissolvitrice della modernità individualistica, la Gemeinschaft alla Gesellschaft, e il sociologo francese Emile Durkheim (1858-1917) sottolineava i fenomeni di disgregazione e anomia che insidiano la società moderna mettendone a rischio la «solidarietà organica». Di ispirazione solidaristica e talvolta neo­ corporativa erano varie forme di cattolicesimo sociale e tale era anche la dottrina sociale del magistero ecclesiastico. Tutte queste dottrine - laiche 0 religiose - vedono come pericoloso fattore di disgregazione il conflitto tra gruppi sociali, mentre il liberalismo generalmente attribuisce invece al conflitto un valore positivo e foriero di progresso, trovando così talvolta una possibile concordia discors con il conflittualismo classista del marxismo (significativo in Italia, a questo proposito è il liberalismo rivoluzionario di Piero Gobetti, che innesta nella sua cultura liberistica e liberale la concezio­ ne della storia come lotta di classi, svincolandola però dai concetti centrali dell’analisi economica marxiana che respinge). Il liberalismo, come sradicamento degli individui atomizzati e perdita dell’identità assicurata dalle comunità di appartenenza, è avversato dalle versioni più o meno radicali del comunitarismo contemporaneo, da cui alcu­ ne forme di marxismo sono fortemente attratte59. La tesi è che gli individui hanno realtà e consistenza solo all’interno della propria comunità, entro un ethos condiviso, come quello dell’eticità hegeliana culminante nell’apparte­ nenza allo Stato. Il comunitarismo contemporaneo è una famiglia variegata60 ma accomunata dalla critica del liberalismo di John Rawls e del suo neo­ contrattualismo che ritiene le regole della giustizia prioritarie per stabilire il quadro di convivenza entro cui gli individui perseguono diverse concezioni del bene («solidarietà tra estranei» è l’efficace formula di Habermas). Per 1 liberali sono gli individui a essere titolari dei diritti anche quando questi

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si presentino come diritti collettivi. Il filosofo canadese Charles Taylor (n. 1931) e altri autori oppongono al liberalismo «il rifiuto del convenziona­ lismo (la comunità non si stipula) e il rifiuto dell’individualismo (l’identità di ciascuno è immersa e radicata in, nonché condizionata da, una comunità costitutiva di valori, di senso, di strumenti e prestazioni di tipo semiotico e affettivo)»61. In II liberalismo e i limiti della giustizia (1982) il filosofo comunitarista Michael Sandel (n. 1953) ha sostenuto che la comunità non si sceglie, non è un’associazione volontaria, ma è la scoperta di ciò che si è nel profondo. Ma l’economista e filosofo sociale Amartya Sen (n. 1933) e altri critici obiettano ai comunitaristi che le identità sono plurime in ogni indivi­ duo: di cittadinanza, di genere, di religione, di affiliazione politica ecc., per cui, all’interno della gamma di appartenenze, c’è sempre la scelta, implicita o esplicita, di dare priorità all’una o all’altra, e l’identità non è così univoca e compatta come spesso viene presentata. In conclusione, ci sono molti marxismi e molti liberalismi, e non tutti sono in grado di fecondarsi reciprocamente. Si è vista precedentemente la polemica «marxista-leninista» contro gli istituti liberaldemocratici, ma non è in grado di accogliere istanze liberali anche il marxismo che considera qualsiasi istituzione come negativa e alie­ nante, ed esalta i movimenti dell’«insorgenza» sociale contro la democrazia rappresentativa. Sartre vedeva nelle elezioni una «trappola per gonzi» [élections piège à cons) di individui atomizzati e serializzati mentre la vera libertà è quella in atto nel gruppo in azione contro il «pratico-inerte» delle istitu­ zioni62. Oggi tale critica di sapore anarchico si ripresenta in vari contesti concettuali e suscita divergenze anche tra marxisti che hanno per altri versi molto in comune. Per esempio, Balibar prende le distanze dalla «moltitudi­ ne» sovversiva di Antonio Negri, perché la politica «ha bisogno di mediazio­ ni istituzionali; mentre per Negri essa deve mantenere un che di “selvaggio”, nel quadro di un’opposizione radicale tra autonomia e organizzazione»63. In una riconsiderazione della egaliberté (come reciproca implicazione ma anche tensione tra libertà ed eguaglianza, a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino), Balibar esplora la dialettica tra l’isti­ tuzionalizzazione dei diritti nei sistemi politico-giuridici e la contestazione «insurrezionale» che forza continuamente i limiti e le esclusioni di una cit­ tadinanza ristretta allo Stato-nazione o a sovranità «postnazionali» come quella europea. Libertà ed eguaglianza hanno per Balibar una potenzialità

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normativa che confligge con l’«individualismo proprietario» della tradizio­ ne liberale e dei suoi attuali approdi neoliberisti. La democrazia è perciò costitutivamente conflittuale e instabile, esposta all’emergere di movimenti che spingono verso nuovi assetti di «cittadinanza sociale» ed esigono la «de­ mocratizzazione della democrazia»64.

NOTE

1 P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud (1965), Genova, Il melangolo, 1991, p. 45. Dello stesso autore si veda Conferenze su ideologia e utopia, Milano, Jaca Book, 1994. 2 F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Napoli, La Città del Sole, 2009, p. 89. 3 A. Labriola, Del materialismo storico, in Id., Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 2 voli., Torino, Einaudi, 1969, voi. II, p. 553. 4 Cfr. É. Balibar, La filosofia di Marx, Roma, manifestolibri, 1994, pp. 60-62 e 115. 5 N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 100. 6 V.I. Lenin, Che fare?, in Id., Opere complete, voi. 5, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 354. 7 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 4 voli., Torino, Einaudi, 1975, voi. II, p. 868. 8 G. Liguori, Ideologia, in http://www.gramscitalia.it/ideologia.htm. 9 L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato. Note per una ricerca (1970), in Id., Freud e Lacan, a cura di C. Mancina, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 65-123. 10 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., voi. II, p. 1489. 11 Ibidem, p. 1388. 12 Cfr. S. Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001 e Ead. (a cura di), La filosofia difronte all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Torino, Einaudi, 2004, antologia di saggi tra cui l’articolo di Aron che abbiamo riassunto. 13 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1999, p. 649. 14 Ibidem, p. 656. 15 C. Lefort, La complicazione. Al fondo della questione comunista (1999), Mila­ no, Elèuthera, 2000, p. 112. Mi permetto di rinviare a C. Pianciola, Totalitarismo e democrazia in Claude Lefort, in F. Sbarberi (a cura di), La forza dei bisogni e le ragioni della libertà. Il comuniSmo nella riflessione liberale e democratica del Novecento, Reggio Emilia, Diabasis, 2008, pp. 181-198. 16 K.D. Bracher, Il Novecento. Secolo delle ideologie, a cura di E. Grillo, RomaBari, Laterza, 1999.

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17 Si veda D. Bell, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, Milano, SugarCo, 1991. 18 K. Lenk, voce Ideologia, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994. 19 Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di sociologia, a cura di M. Horkheimer e T.W. Adorno, Torino, Einaudi, 1966, pp. 212 e 222. 20 R. Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, p. 72. 21 H. Arendt, Vita adiva. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989, p. 160. 22 H. Arendt, Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, a cura di S. Forti, Milano, Raffaello Cortina, 2016, p. 6 6 .1 due scritti arendtiani tradotti sono del 1953. 23 H. Arendt, Sidla violenza (1970), in Ead., Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985, p. 202. 24 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 192. 21 25 Non è qui il luogo per tracciare il complesso pensiero di Habermas e l’evoluzione del suo rapporto con il marxismo, su cui si rimanda a S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Roma-Bari, Laterza, 2000. Alcuni testi rilevanti sul marxismo sono stati tradotti a cura di Emilio Agazzi in J. Habermas, Dialettica della razionalizzazione, Milano, Unicopli, 1985. 26 J. Habermas, La rivoluzione in corso, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 197. 27 J. Habermas, intervista al «Kòlner Stadtanzeiger», cit. in S. Muller-Doohm, Negazione e argomentazione. La teoria critica di Adorno e Habermas, Torino, Nuova Trauben, 2018, p. 139. 28 E. Piromalli, AxelHonneth. Giustizia sociale come riconoscimento, Milano-Udine, Mimesis, 2012, p. 109. 29 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Milano, Il Saggiatore, 2002, p. 174. 30 Cfr. A. Honneth, Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, Roma, Meltemi, 2007. 31 N. Fraser e A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Lina controversia politico-filosofica, Roma, Meltemi, 2007. 32 A. Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 133-134. Per un uso della categoria di «riconoscimento» tutta interna alla tradizione marxista si veda invece D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Roma-Bari, Laterza, 2013. 33 K. Marx e F. Engels, Lettere 1874-1879, a cura di P. Dalvit, Milano, Edizioni di Lotta Comunista, 2006, p. 231 (trad. leggermente modificata). 34 Per Trockij si veda La loro morale e la nostra (1939) disponibile anche in rete (https://www.marxists.Org/italiano/trotsky/1939/6/morale-loroenostra.htm). 35 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 359 ss. Un accurato confronto tra marxismo e teoria rawlsiana della giustizia si trova

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in S. Maffettone, Karl Marx nel XXI secolo, Roma, Luiss University Press, 2018, in particolare alle pp. 124-142. Per una sintetica presentazione cji Rawls e delle teorie della giustizia si veda anche S. Veca, La filosofia politica, Roma-Bari, Laterza, 20102. 36 Se ne veda la presentazione e la discussione di Stefano Petrucciani in A lezione da Marx. Nuove interpretazioni, Roma, manifestolibri, 20142, pp. 119-150. 3' C. Rosselli, Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Torino, Einaudi, 1997, pp. 143-144. L’edizione contiene tre scritti (del 1979, del 1994 e del 1997) di N. Bobbio, che collocano storicamente il libro di Rosselli e ne discutono l’eredità teorica e politica. 38 Ercoli (P. Togliatti), Sul movimento «Giustizia e Libertà», in «Lo Stato Operaio», settembre 1931. 39 Si vedano i saggi di vari autori in C. Natoli e F.S. Trincia (a cura di), Marxismo e liberalismo. Una riflessione critica di fine secolo, Milano, FrancoAngeli, 1995. 40 A. Cornu, Marx e Engels dal liberalismo al comuniSmo, Milano, Feltrinelli, 1962. 41 S. Petrucciani, Marx e la critica del liberalismo, disponibile in rete (http:// ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/10/16/marx-e-lacritica-del-liberalismo/). Si veda anche Id., Marx critique du libéralisme, s.l., Editions Mimésis, 2018, e sullo stesso tema, con utili approfondimenti, il capitolo «Marx e la socialdemocrazia. Gotha e dopo», in Id. (a cura di), 7/ pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia, Roma, Carocci, 2018, pp. 309-322. 42 Si veda il saggio molto documentato di M. Duichin, Marx lettore e critico dijohn Stuart Mill, in «Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale», 1, aprile 2008, pp. 87138, disponibile in rete (http://www.rivistapolemos.it/wp-content/uploads/2016/04/ Duichin_Marx-lettore-e-critico-di-Mill.pdf). 43 J.S. Mill, Capitoli sul socialismo, pubblicati postumi nel 1879. Riprendiamo la traduzione da S. Bucchi (a cura di), John Stuart Mill. Dizionario delle idee, Roma, Editori Riuniti, 2000, pp. 126-127. 44 L.T. Hobhouse, Liberalismo, con un saggio introduttivo di F. Sbarberi, Firenze, Vallecchi, 1996. 45 Si veda P. Ginsborg, La democrazia che non c’è, Torino, Einaudi, 2006, pp. 3-17. 46 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1968, voi. II, pp. 98-99. 47 Sul tema cfr. L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Roma, Carocci, 2008. 48 M. A. Manacorda, Quel vecchio liberale del comunista Karl Marx, Roma, Aliberti, 2012 . 49 Si vedano i documenti e il commento di E. Magnanimi (a cura di), I diritti civili nell’URSS, 1917-1936, nella rivista telematica «DEP. Deportate, esuli, profughe», Venezia, Università Ca’ Foscari, 5-6, 2006. 50 G. Stalin, Sul progetto di Costituzione dell’URSS, 25 novembre 1936, in Id., Questioni del leninismo, Roma, Società editrice « l’Unità», 1945, voi. II, p. 258. 31 P. Calamandrei, Jdavvenire dei diritti di libertà, prefazione alla ristampa di F.

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Ruffini, Diritti di libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1946, p. XXXVIII (il saggio di Ca­ lamandrei è ora riedito a cura di E. Di Salvatore, Giulianova, Galaad Edizioni, 2018). 52 K. Marx, La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 36. 53 B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Paoletti, Torino, Einaudi, 2001, p. 15. Il volume contiene in appendice (pp. 37-158) un ampio e molto utile Profilo del liberalismo di Pier Paolo Portinaro. 54 II libro è stato riedito nel 2005 da Einaudi a cura e con introduzione di Franco Sbarberi, del quale si veda anche Quel che resta di Marx. La riflessione di Bobbio durante e dopo la Resistenza, ora in Id., Pensatori e culture politiche del Novecento italiano e dintorni, Arezzo, Helicon, 2018, pp. 51-63. 55 G. della Volpe, ComuniSmo e democrazia moderna, in «Nuovi Argomenti», 7, marzo-aprile 1954, p. 133, cit. in N. Bobbio, PolTtica e cultura, Torino, Einaudi, 2005, p. 149. 56 Ibidem, p. 148. 57 Di H. Kelsen si veda La teoria comunista del diritto, Milano, Edizioni di Comu­ nità, 1956 (poi Milano, SugarCo, 1981), che contiene un’analisi critica delle teorie da Marx e Engels ai giuristi sovietici. Ancora utile è l’ampia antologia a cura di D. Zolo, I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, Milano, Il Saggiatore, 1977. 58 Cfr. Petrucciani, A lezione da Marx, cit., p. 167. Di J. Bidet si vedano Teoria della modernità, Roma, Editori Riuniti, 1992 e «Il Capitale». Spiegazione e ricostruzione, Roma, manifestolibri, 2010. 59 Si vedano gli scritti del filosofo torinese Costanzo Preve (1945-2013) L’assalto al cielo. Saggio su marxismo e individualismo, Milano, Vangelista, 1992 ed Elogio del comunitarismo, Napoli, Controcorrente, 2006, che tenta di delineare un comunitari­ smo che salvaguardi l’universalismo marxiano, respingendo le ideologie fasciste della comunità organica e razziale. In vari saggi Preve mette in stretta connessione Marx sia con Hegel, sia con il pensiero antico e la definizione dell’uomo come zoon politikòn di Aristotele (cioè con il carattere «se non politico, certo sociale» dell’uomo - come scriveva Marx nel capitolo 11 del Libro I del Capitale -, da realizzare su altre basi economico-sociali rispetto a quelle della polis greca). 60 Si veda V. Pazé, Il comunitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2004. 61 F.M. De Sanctis, voce Comunità, in Enciclopedia del Novecento, III Supplemento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004. 62 J.-P. Sartre, Elections, piège à cons, in «Les Temps Modernes», 318, gennaio 1973 ; trad. it. in Id., Euniversale singolare. Saggifilosofici e politici dopo la «Critique», a cura di F. Fergnani e P.A. Rovatti, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 229-239. Sartre, dopo il suo lungo e complesso confronto con il marxismo e il comuniSmo, affermava: «ho sempre pensato che debba essere realizzata l’anarchia, vale a dire una società senza poteri» (J.-P. Sartre, Autoritratto a settantanni e Simone de Beauvoir interroga Sartre sul femminismo, Milano, Il Saggiatore, 1976, p. 27). 63 Intervista di C. Giorgi a E. Balibar: Balibar: il desiderio comunista di trasformare il mondo e se stessi, in «il manifesto», 18 gennaio 2017. Di Toni Negri si veda Pour en finir avec la souveraineté?, 2016 (http://www.euronomade.info/?p=8520). Secondo

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Negri la moltitudine è un potere «costituente» come «flusso permanente» sempre mi­ nacciato dal ritorno delle forme organizzative e istituzionali del passato (cfr. M. Hardt e A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 353-358). 64 Si vedano E. Balibar, La proposition de l’egaliberté. Essais politiques 1989-2009, Paris, PUF, 2010 e Id., Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2012. Su Balibar e sulla discussione marxista e «postmarxista» di questi temi in vari autori si veda G. Cesarale, A sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, Roma-Bari, Laterza, 2019.

CAPITOLO

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1. UN PASSATO CHE NON PASSA Se il denominatore comune dei marxismi è sostanzialmente la teoria della lotta tra le classi come chiave esplicativa del divenire politico-sociale, possiamo interrogarci sulle dimensioni che ne impediscono una lettura sem­ plificata e complicano l’antitesi classica borghesia e proletariato, capitale e lavoro. Un primo aspetto riguarda il rapporto tra istanze di liberazione nazio­ nale e lotte di classe. Nella teoria marxiana la vocazione internazionalistica della classe operaia corrisponde allo sviluppo mondiale del mercato capita­ listico che abbatte le barriere e le limitazioni nazionali. Nel Manifesto Marx e Engels pensano che vadano man mano scomparendo gli antagonismi na­ zionali dei popoli «con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di com­ mercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità nel modo di produzione e con le condizioni di vita ad essa rispondenti» (M EOC, 6, p. 503). Tuttavia vedono realisticamente che «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia» {MEOC, 6, p. 497), e su base nazionale si organizzarono i partiti operai e socialisti che si coordinarono nella Secon­ da Internazionale. Dopo il 1848, che dimostrò la potenza dei nazionalismi e la debolezza del proletariato, Marx e Engels studiarono a fondo i casi dell’Irlanda, della

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Polonia e dei popoli extraeuropei sottomessi al dominio imperiale, soprat­ tutto britannico. Ha osservato recentemente Kevin Anderson che gli scritti della maturità di Marx sul nazionalismo, l’etnicità e i popoli extraeuropei sono una parte importante e troppo trascurata della sua opera1. A propo­ sito del caso irlandese, Marx e Engels abbandonarono la loro preceden­ te convinzione che gli operai inglesi avrebbero liberato anche gli irlandesi dall’oppressione britannica e si convinsero che, al contrario, il movimento indipendentista irlandese avrebbe dato impulso a una ripresa di quello ope­ raio in Inghilterra. In linea generale si può dire che i padri del marxismo non considerarono un diritto assoluto, a differenza dei democratici radicali, quello all’autodeterminazione nazionale e lo valutarono caso per caso in rapporto alle congiunture storiche che avrebbero favorito o ostacolato lo sviluppo della lotta di classe nei paesi di maggiore industrializzazione. Poco prima della morte di Marx, Engels scrisse a Bernstein il 22 febbraio 1882: «ciascuno di noi, passando dapprima attraverso una fase di liberalismo e di radicalismo, ha nutrito queste simpatie verso tutte le nazionalità “oppresse”, e so personalmente quanto tempo e studio mi sia costato liberarmene, anche se alla fine l’ho fatto in modo completo»2. Si può aggiungere che soprattutto Engels non abbandonò mai del tutto l’idea formulata nel 1849 che fosse legittimo e progressivo che gli Stati-na­ zione «storici» e più civili inglobassero popoli «senza storia», come molti di quelli slavi in una Europa centro-orientale in cui egli riteneva che solo tede­ schi, ungheresi e polacchi avessero un’esistenza pienamente storica e voce in capitolo nella futura rivoluzione3. Quanto a Marx, l’analisi del colonialismo nella genesi del modo di produzione capitalistico e la denuncia dei tragici effetti dell’espansione imperiale ottocentesca - su cui scrisse molti articoli per la «New York Daily Tribune» - si accompagnano all’idea che la globa­ lizzazione capitalistica sia il passaggio necessario che prepara le condizioni del suo superamento internazionalista e socialista. «Siccome il mondo è ro­ tondo, mi sembra che, con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’apertura della Cina e del Giappone, questo compito sia stato portato a termine», scrive a Engels l’8 ottobre 1858 (M EOC, 40, pp. 376-377), e si chiede se la rivoluzione socialista non sarà soffocata in «questo piccolo an­ golo di mondo» europeo, visto che il capitale ha ancora da sfruttare questi immensi territori.

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Il marxismo successivo dovette comunque confrontarsi con «una sco­ moda anomalia per la teoria marxista»4 e nessuno meglio dell’antropologo Ernest Gellner (1925-1995) ha descritto il fastidio suscitato da questa ano­ malia in una pagina di Nazioni e nazionalismo (1983): i marxisti sostanzialmente amano pensare che lo spirito della storia, o la coscienza umana, ha commesso un errore madornale. Il messaggio di risveglio era destinato alle classi, ma per qualche terribile disguido postale è stato consegnato alle nazioni. E ora necessario che gli attivisti rivoluzionari convincano l’errato destinatario a passare il messaggio, e lo zelo ch’esso genera, al legittimo, designato destinatario. Il rifiuto di entrambi i destinatari, il legittimo e l’usurpatore, di soddisfare questa richiesta provoca grande irritazione negli attivisti3. La «questione nazionale» fu un tema di accesi confronti nella Seconda Internazionale6. Karl Kautsky riconobbe nel 1908 che la nazionalità «è un Proteo che ci sfugge di mano» e, prendendo atto che lo Stato nazionale si rafforzava quanto più la borghesia diventava protezionistica e che una po­ litica ostile alla nazione sarebbe stata suicida per il proletariato, indicava al movimento operaio il compito di perseguire la pace tra le nazioni combat­ tendo lo sciovinismo e il bellicismo delle rispettive borghesie. Una posizione originale fu quella deU’austromarxismo, cui appartenne Otto Bauer (1881-1938) che scrisse La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia ( 1907 ), in cui a) sottolineava la dimensione essenzialmente cultu­ rale del fenomeno e b) affermava che la nazione non coincide necessariamen­ te con uno Stato e può essere una comunità extraterritoriale riconosciuta giuridicamente. Era una proposta rivolta soprattutto alle minoranze etnicoculturali degli imperi multinazionali che fu accolta con interesse dal Bund, l’Unione generale dei lavoratori ebrei di Polonia, Lituania e Russia, fondato a Vilnius nel 1897. La «nazione ebraica», che Bruno Bauer e Karl Marx nella loro polemica degli anni quaranta dell’Ottocento avevano ritenuto «chime­ rica», aspirava a diventare reale dopo i ripetuti fallimend delTassimilazionismo, ed era rivendicata in modi diversi sia nel programma del sionismo di Theodor Herzl, che nel 1895 arrivò a Parigi per seguire il processo à&Vdaf­ faire Dreyfus e l’anno successivo pubblicò Lo Stato ebraico, sia nel program­

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ma del Bund di autonomia e di autogoverno degli ebrei come minoranza nazionale - con identità linguistica e culturale nella diaspora territoriale. Lenin faceva dell’autodeterminazione delle nazioni e dell’indipendenza dei popoli colonizzati un punto essenziale della teoria marxista. Nel 1914 aveva polemizzato con Rosa Luxemburg a proposito della Polonia e, appog­ giandosi a Kautsky, aveva sostenuto l’indipendenza politica e la formazione degli Stati nazionali come terreno più favorevole per lo sviluppo capitalistico e dunque per la lotta di classe7. Rifletté ulteriormente sulla «questione nazionale» nel quadro della guerra imperialista e del cedimento di larga parte della socialdemocrazia. Ripose molte delle speranze rivoluzionarie nei popoli dell’Oriente e propose di costituire una federazione delle repubbli­ che sovietiche di Europa e Asia con ampie autonomie. I bolscevichi mise­ ro in atto una politica di costruzione nazionale per i diversi gruppi etnici dell’Unione Sovietica, con politiche di codificazione di lingue, creazione di proprie istituzioni culturali, inclusione negli apparati dello Stato e del partito di nuove leve di quadri appartenenti alle nazionalità non russe, rico­ noscendo a queste anche diritti speciali - soprattutto nella cultura e nell’i­ struzione - come riparazione dell’oppressione zarista8. Lenin aveva lasciato a Stalin il compito di scrivere II marxismo e la questione nazionale (1913), poi divenuto canonico nel movimento comunista. Ma ebbe anche il tempo di scorgere in lui il prevalere del nazionalismo «grande russo» sull’interna­ zionalismo di principio e nel dicembre del 1922, già molto malato, dettò appunti molto critici che furono resi di pubblico dominio solo dopo il X X congresso del PCUS9. Intanto il nazionalismo antisocialista aveva cercato di trasporre la lotta di classe nella lotta tra le nazioni. «Dobbiamo partire dal riconoscimento di questo principio: ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proleta­ rie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi», aveva affermato Enrico Corradini nel 1910 fondando l’Associazione nazionalista italiana10. Fascismo e nazi­ smo contrapposero un nazionalismo aggressivo airinternazionalismo del movimento operaio. Tra le due guerre mondiali gli Stati totalitari occidentali vollero e in parte riuscirono a realizzare una seconda e più radicale «nazio­ nalizzazione delle masse» - l’integrazione degli strati popolari nello Stato, secondo la fortunata locuzione dello storico tedesco-statunitense George L. M osse-, dopo quella avvenuta tra Otto e Novecento.

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Nello stesso tempo - anche in risposta a questo tentativo - nel movi­ mento comunista internazionale la dottrina marxista-leninista subì una pro­ fonda modificazione. Dopo gli anni in cui il patriottismo era considerato «borghese», ci fu un suo recupero nella seconda metà degli anni trenta, a partire dalla politica dei «fronti popolari», e la seconda guerra mondiale di­ venne - come è tuttora in Russia - la «grande guerra patriottica», che richia­ mava il precedente ottocentesco della guerra antinapoleonica. Alcune tradi­ zioni nazionali - compresa la riabilitazione della Chiesa ortodossa, seppure sottoposta a controlli e vessazioni - furono riattivate, in una sorta di rivincita della longue àuree della storia russa rispetto alla rottura rivoluzionaria. Nel «campo socialista», dopo la seconda guerra mondiale, aspetti na­ zionalisti e geopolitici hanno avuto un peso determinante nei conflitti che l’hanno percorso e motivazioni nazionalistiche e socialiste si sono sovrappo­ ste e intrecciate nei processi di decolonizzazione. Rileggendo i Dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, più del valore liberatorio della controviolenza dei colonizzati (enfatizzata dalla prefazione di Sartre) nella prima parte del libro, è interessante rilevare, nella seconda parte, il lucido sguardo sulla ten­ denza autoritaria dei partiti nazionalisti dopo l’indipendenza, con la speran­ za in un diverso decorso della rivoluzione algerina. Nella storia dei marxismi i nazionalismi sono stati visti talvolta come ideologie politiche esaurite o divenute del tutto marginali. Gramsci con­ siderava la cultura nazionale terreno essenziale della lotta per conquistare l’egemonia, ma scriveva nei Quaderni'. Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la neces­ sità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico ten­ de a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale «municipalismo»11. Verso la fine del X X secolo, Eric Hobsbawm concludeva l’importante libro Nazioni e nazionalismo dal 1780 (1990) dicendo che, nelle ristruttu­ razioni sovranazionali che indeboliscono gli Stati-nazione, «nazioni e na­ zionalismo continueranno a essere presenti in questa storia, ma in funzione

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secondaria e spesso piuttosto secondaria»12. Ma, per limitarsi all’Europa, dopo i sanguinosi conflitti degli anni novanta nell’area della ex Jugoslavia, continuano a essere presenti forti tendenze centrifughe «nazionali» con­ tro i grandi agglomerati statali (per esempio, in Catalogna). Tra i numerosi fenomeni attuali di persistenti nazionalismi, anche le forti tensioni tra «sovranisti» ed «europeisti» dimostrano, ancora una volta, che il nazionalismo ha poche probabilità di finire presto nel museo delle antichità insieme allo Stato, come immaginava Engels.

2. PRODUZIONE, RIPRODUZIONE, DIFFERENZA Si è parlato del rapporto tra marxismo e femminismo come di unhappy marriage, di relazioni burrascose caratterizzate da matrimoni e divorzi13. La richiesta di eguaglianza e pari dignità delle donne - come attestano due celebri documenti (la Dichiarazione dei diritti della donna e della citta­ dina della letterata girondina Olympe de Gouges del 1791 e la Rivendica­ zione dei diritti della donna dell’inglese Mary Wollstonecraft del 1792) - è storicamente coeva alle carte dei diritti della fine del Settecento, ma non trovò sostegno se non in ristrette élite (tra cui particolarmente rilevante fu la prospettiva liberale «emancipazionista» di Harriet Taylor e John Stuart Mill). La rivendicazione dei diritti civili e politici delle donne percorse una strada accidentata anche nel nascente movimento socialista, che considerò insufficiente l’eguaglianza giuridica e la integrò con il diritto al lavoro e a servizi sociali che liberassero la donna dalla schiavitù domestica. La condizione di inferiorità della donna era stata criticata dal socialismo «utopistico» (ma non da Proudhon, difensore della famiglia patriarcale) e ci furono giornali protofemministi come «L a Femme libre» (1832) fondato da ex sansimoniane. Soprattutto Fourier ebbe formulazioni molto nette, come questa, riportata da Marx in La sacra famiglia-. Il cambiamento di un’epoca storica si può sempre determinare dal progresso del rapporto delle donne con la libertà, perché, qui, nel rap­ porto della donna con l’uomo, del debole con il forte, appare nel modo più evidente la vittoria della natura umana sulla brutalità. Il grado dell’e-

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mancipazione femminile è la misura naturale dell’emancipazione gene­ rale (MEOC, 4, pp. 218-219). Il Marx maturo, commentando le relazioni sul lavoro infantile degli ispettori inglesi degli anni sessanta dell’Ottocento, sottolinea nel Capitale come la grande industria, con lo sfruttamento del lavoro infantile e femmi­ nile, dissolva i rapporti familiari in modo «terribile e repellente», ma nondi­ meno crea il fondamento economico «per una forma superiore di famiglia e del rapporto tra i due sessi grazie alla parte decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produ­ zione socialmente organizzati al di là della sfera domestica» (MEOC, 31, p. 534). Si tratta, come spesso in Marx, di un progresso «dialettico», da limi­ tare legalmente nei suoi aspetti peggiori, ma da valutare positivamente in quanto pone le premesse di un’organizzazione sociale superiore. Se la denuncia delle condizioni del lavoro femminile e infantile nelle fabbriche è costante da La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels al Capitale di Marx, l’analisi marxiana era concentrata sul lavoro produttivo (di plusvalore) e relegava ai margini la riproduzione della forzalavoro e della parte in essa sostenuta dalle donne. Sono temi che vennero però in parte affrontati con E origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Engels e con La donna e il socialismo di Bebel. I marxisti della Seconda Internazionale, pur promuovendo organizza­ zioni femminili, videro principalmente la liberazione della donna nella sua integrazione nella produzione industriale, e nella lotta comune di tutto il proletariato - senza distinzione di genere - per il socialismo, in cui tutte le oppressioni, compresa quella delle donne, avrebbero trovato soluzione. Ma c’erano anche posizioni più complesse, come quelle di Clara Zetkin (1856-1933), militante nella sinistra del Partito socialdemocratico tedesco insieme a Rosa Luxemburg e direttrice dal 1892 al 1917 del periodico «Die Gleichheit» (L’eguaglianza). Aderì poi alla rivoluzione bolscevica e nei suoi ricordi su Lenin annotò come questi la rimproverasse per l’eccessiva impor­ tanza che Zetkin dava alle questioni sessuali nel lavoro politico con le don­ ne e con i giovani. Nel resoconto dei colloqui, pubblicato nel 1925, Lenin polemizzava contro il «libero amore», si lamentava della diffusione delle dottrine freudiane e diceva:

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A che cosa conduce, in fin dei conti, questo esame insufficiente e non marxista della questione? A questo: che i problemi sessuali e matri­ moniali non sono visti come una parte della principale questione sociale e che, al contrario, la grande questione sociale stessa appare come una parte, un’appendice del problema sessuale. La questione fondamentale è ricacciata in secondo piano, come cosa secondaria. Non solo ciò nuo­ ce alla chiarezza della questione, ma oscura il pensiero in generale, la coscienza di classe delle operaie. [...] Bisogna sottolineare i legami indis­ solubili che esistono tra la posizione sociale e quella umana della donna: questo servirà a tracciare una linea chiara e indelebile di distinzione tra la nostra politica e il femminismo14. L’eguaglianza giuridica tra i sessi, insieme al diritto al divorzio e all’a­ borto, fu sancita aH’indomani della rivoluzione russa nei codici su matri­ monio e famiglia del 1918 e del 1926, e notevoli sforzi, pur nella difficile situazione, furono diretti a liberare le donne dal lavoro domestico attraverso mense e asili collettivi. Per la prima volta nel mondo, una donna - Aleksandra Kollontaj (1872-1952), che nel 1920-1921 senza molta fortuna sosterrà con l’Opposizione operaia la centralità delle libertà sindacali - divenne mi­ nistro (commissario del popolo per l’assistenza sociale nel 1917-1918). Poi, dal 1924, fu ambasciatrice in Norvegia, in Messico e in Svezia: era un grande riconoscimento ma anche una specie di esilio. Kollontaj condivideva con i dirigenti del partito la priorità liberatoria del lavoro industriale ma non tra­ scurava i nuovi rapporti affettivi e sessuali, liberi dalle costrizioni della fami­ glia tradizionale, che il comuniSmo avrebbe instaurato. La donna - sostene­ va - doveva essere liberata dai lavori domestici e anche la cura e l’educazione dei figli doveva essere affidata prevalentemente allo Stato15. Dopo la rivolu­ zione del 1917 il rapporto tra la vita pubblica e quella privata era risolto in­ teramente a favore della prima e Walter Benjamin nel Diario moscovita, reso­ conto del suo soggiorno nella capitale sovietica tra il 1926 e il 1927, parlò di compressione della «vita privata a un livello inimmaginabile». La dittatura staliniana - alla quale Kollontaj si conformò pur senza entusiasmo - restaurò infine il ruolo della famiglia tradizionale, limitando fortemente il diritto all’a­ borto e restringendo quello al divorzio; l’omosessualità ridiventò un reato. Il fossato tra «femminismo borghese» e movimento comunista si ap­ profondì nel dopoguerra, quando, ad esempio, i comunisti italiani alla Co­

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stituente fecero pesanti concessioni allo schieramento cattolico rinuncian­ do alla battaglia per il divorzio e quelli francesi bollarono II secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir come «un’immondizia». De Beauvoir - in un libro che fece scandalo e che suggeriva molte piste di ricerca - affermava che «donne non si nasce, lo si diventa», in una costruzione sociale e culturale imposta dal «primo sesso», di cui il secondo si fa complice rinunciando alla libertà e alla trascendenza del «per-sé» (secondo la terminologia hegelosartriana), cioè a divenire soggetto e individuo autonomo. Il femminismo della «seconda ondata», negli anni settanta, rivendicò non più l’eguaglianza ma la differenza. «L’uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della donna. [...] La donna non è in rappor­ to dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano», ha scritto Carla Lonzi (1931-1982), una teorica di quegli anni che rifiutava radicalmente le mediazioni hegeliane e marxiste16. Secondo la storica Paola Di Cori (1946-2017), il femminismo contem­ poraneo ha messo in discussione la gerarchia di valori che tradizionalmente assegna agli uomini storica­ mente e socialmente il privilegio di monopolizzare lo spazio della sfera dominante, cioè il pubblico e il politico. Il femminismo capovolge radi­ calmente questa gerarchia proprio quando denuncia la mistificazione che è nascosta dietro queste separazioni e proclama invece che la propria privatezza appartiene alla sfera pubblica e politica, che la sessualità è politica, che la realtà socio-economica entro cui viviamo è costruita sulla base di specifiche politiche sessuali17. Non è qui il luogo per ricostruire le diverse correnti del discorso femmi­ nista18, ma possiamo indicare sommariamente qualche contributo marxista al variegato movimento di «liberazione femminile», al di là del comune im­ pegno delle militanti su divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia, che segnarono parziali ma importanti conquiste civili. Le femministe marxiste si chiedono in che misura si può parlare di inte­ ressi comuni a tutte le donne in quanto oppresse dal maschilismo pur nella diversità dei gruppi sociali cui appartengono. Bisogna pensare che non il sistema capitalistico, ma quello «patriarcale» sia il nemico principale delle

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donne (e anche delle persone L G B T)? Oppure «sia il femminismo radicale che la teoria della differenza hanno contribuito a una destoricizzazione del rapporto di oppressione tra i sessi»19, oscurando il legame tra cultura ma­ schilista oppressiva e rapporti capitalistici di produzione? In Italia temi marxiani sono stati rielaborati nella corrente operaista del femminismo che, agli inizi degli anni settanta, con Mariarosa Dalla Costa (n. 1943), docente all’Università di Padova e autrice di Potere femminile e sovversione sociale20, e altre militanti, promosse una rete di comitati «per il salario al lavoro domestico», in quanto il lavoro a casa è indirettamente pro­ duttivo di plusvalore ed essenziale al sistema capitalistico complessivo. Una rilettura di Marx da un punto di vista femminista - rileva oggi Alisa Del Re (n. 1943), esponente di rilievo dell’area postoperaista - può offrire utili stru­ menti purché si consideri che il conflitto politico «vede emergere un “sog­ getto imprevisto” [come scriveva Carla Lonzi], un soggetto sessuato, le don­ ne, e il venir meno dell’obiettivo finale della presa del potere nel conflitto»21. Tra le rivisitazioni critiche internazionali della storia del femminismo, Nancy Fraser (n. 1947) sostiene che il femminismo è esposto al pericolo del riassorbimento nella cultura neoliberista, capace di deviare le rivendi­ cazioni di femministe e di persone L G B T in forme di riconoscimento senza giustizia sociale: «rifiutando l’economicismo e politicizzando “il personale”, le femministe hanno ampliato l’agenda politica generale», ma la concentra­ zione sul tema dell’«identità di genere» ha fatto passare in seconda linea le battaglie per l’eguaglianza sociale, che un femminismo attento alla critica dell’economia capitalistica dovrebbe riprendere con più vigore22. Nel 1997 Fraser aveva polemizzato con la filosofa statunitense Judith Butler (n. 1956), che in un articolo intitolato Merely Cultural accusava i marxisti di sminuire come «meramente culturali» i nuovi movimenti che consideravano le iden­ tità etero e omosessuali come convenzioni socialmente costruite e imposte. La teoria queer - sostenuta da Butler - vedeva una molteplicità di compor­ tamenti e di gender troubles2i non classificabili in identità definite se non in una politica repressiva di «normalizzazione». Considerare solo culturali i nuovi movimenti rientrava in un marxismo ristretto che continuava a sepa­ rare l’economia all’interno della totalità sociale, riproponendo una divisione tradizionale fra struttura e sovrastruttura che era considerata inaccettabile anche da Fraser.

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La relazione tra genere, sessualità e capitalismo continua a essere un tema importante, oggetto di controversie teoriche e di differenti proposte politiche.

3. LA SFIDA ECOLOGICA Di unhappy marriage si potrebbe parlare anche per il rapporto tra marxismo ed ecologia. Si è sostenuto che in Marx e nei marxisti successi­ vi i problemi ecologici trovano scarsi punti di appoggio, fino agli sviluppi relativamente recenti di un «ecomarxismo» e di un «ecosocialismo» che hanno contrastato sia il feticcio capitalistico autodistruttivo della crescita economica illimitata, sia l’ideologia dell’industrializzazione a qualsiasi costo affermatasi nei paesi del socialismo reale. In realtà, il pensatore di Treviri metteva in guardia dagli effetti dello sfruttamento delle risorse naturali ad opera del capitalismo e affermava: «Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive» (Libro III, voi. Ili, cap. 46, p. 183). Molte osservazioni ecologiche sono presenti in Engels, il quale ripren­ deva anche il tema caro agli utopisti del necessario riequilibrio tra città e campagna, e ammoniva di non gloriarsi troppo per la nostra vittoria umana sulla natura; la natura si vendica di ogni nostra vittoria. [...] Nell’attuale modo di produzione viene preso preva­ lentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia an­ cora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto (MEOC, 25, pp. 467 e 470). Raccogliendo e ordinando le disiecta membra delle anticipazioni ecolo­ giche dei fondatori della dottrina, Giorgio Nebbia - autorevole esponente della sinistra ambientalista italiana, nato nel 1926 - ha potuto affermare che il poco preveggente industrialismo attribuito a Marx e Engels è un idolo

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polemico costruito artificiosamente24. È però un fatto che in Italia solo tra gli anni sessanta e settanta la tematica ecologica fu posta all’ordine del gior­ no nella sinistra25 (che tuttavia avvertiva anche il pericolo dell’«imbroglio ecologico» quando la critica ecologica fosse separata dalla lotta di classe e resa funzionale a un nuovo settore di profitti dei grandi gruppi industria­ li26). Solo negli anni ottanta del Novecento si è sviluppato l’«ecomarxismo», soprattutto ad opera dell’economista nordamericano James O ’Connor (1930-2017), che dal 1988 al 2003 diresse la rivista «Capitalism, Nature, Socialism. A Journal of Socialist Ecology». La rivista ebbe diverse versioni internazionali, tra cui una italiana in cui si trovano i principali documenti dell’incontro tra istanze marxiste e critica ecologica in quegli anni27. O ’Connor parlava di due contraddizioni: quella tra capitale e lavoro e quel­ la tra capitale e natura, distinzione che ha dato luogo a numerose discussio­ ni sul rapporto tra le due28. Sul piano delle teorie filosofiche, Alfred Schmidt (1931-2012) pubblicò nel 1962 un testo rilevante della nuova generazione della Scuola di Franco­ forte: Il concetto di natura in Marx, frutto della tesi svolta sotto la guida di Adorno. In polemica con il diamat sovietico, Schmidt riportava la natura all’interno della prassi storica, del lavoro umano e dei rapporti di classe: «un in-sé tradotto nel per-noi»29. Ma l’introduzione del 1993 alla riedizione tedesca del saggio era intitolata Per un materialismo ecologico e Schmidt, con una parziale revisione, dichiarava che la dialettica tra le forze produttive e i rapporti di produzione ha come ulteriore fondamento «una dialettica ele­ mentare della terra e dell’uomo, condizione a-storica di ogni storia»30. Per una parte dell’ecologia politica sono stati molto influenti i lavori di André Gorz31, di Ivan Illich (1926-2002) su frugalità e convivialità, e, più recentemente, di Serge Latouche (n. 1940), uno dei maggiori teorici della «decrescita», cioè della necessaria inversione di marcia rispetto all’osses­ sione economica della crescita del PIL, inversione che dovrebbe garantire la soddisfazione di bisogni frugali in comunità in qualche misura autosuf­ ficienti. Talvolta i marxisti hanno ravvisato nelle teorie della decrescita una parentela con il filone del socialismo ottocentesco bollato come «reaziona­ rio» dal Manifesto del partito comunista e hanno ricordato che per Marx e Engels è stato altamente progressivo strappare «una parte notevole della popolazione dall’idiotismo della vita rustica» (M EOC, 6, p. 490)32. In ef­

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fetti, nel filone della decrescita non mancano autori che idealizzano modi di vita arcaici e preindustriali. Ma la difficoltà maggiore interna a molte di queste teorie sembra piuttosto quella di ritenere necessario un mutamento antropologico - della sensibilità, dei costumi, degli stili di vita - che richiede tempi lunghi, mentre si documenta l’urgenza improcrastinabile di evitare l’incombente catastrofe ecologica. In passato, alcuni militanti, come Murray Bookchin (1921-2006) - uno studioso statunitense tra socialismo libertario e anarchismo - , hanno con­ trapposto l’«ecologia sociale», finalizzata alla radicale trasformazione dei rapporti sociali nel senso di una rete federativa di comunità autogestite, e l’«ambientalismo» come riduzione illusoria degli aspetti più devastanti dell’economia capitalistica. Nel «municipalismo» di Bookchin è all’opera il principio ispiratore della critica ecologica ed ecopacifista «Pensare glo­ balmente e agire localmente». E in questo la critica politico-ecologica trova oggi sponde nella «teoria dei commons». Negli ultimi anni è emerso infatti il tema della difesa dei beni comuni33 oggetto di privatizzazioni e nuove enclosures soprattutto - ma non esclusi­ vamente - nel Sud del mondo, ripetendo processi della genesi della produ­ zione capitalistica. Secondo Silvia Federici (n. 1942, già docente di filosofia politica a New York) nelle periferie delle megalopoli, in Africa, Asia e Ame­ rica Latina, le donne - ridisegnando lo spazio e il tempo delle città - creano forme comunitarie anticapitalistiche e antipatriarcali di riproduzione della vita quotidiana. Vi si possono scorgere gli embrioni di un modo diverso di vivere, di una società «oltre il mercato e lo Stato», costruita sul principio della solidarietà collettiva: sperimentazioni comunitarie che si differenzia­ no, per l’autogestione e il «potere dal basso», dal sistema pensionistico, sa­ nitario e di istruzione amministrati «dall’alto» dalle istituzioni del welfare statuale. Nell’introduzione del 2017 a Reincantare il mondo Federici mette in rilievo due tratti: la «costruzione, a partire dal presente, di forme pur limitate di autogoverno» e la «necessità di molteplici forme di comunalismo, in corrispondenza alle differenze nelle traiettorie storiche, culturali e alle diverse condizioni geografiche e ambientali»34. In alcuni autori di quella che viene chiamata «politica dei commons» possiamo vedere la tendenza a reinterpretare il socialismo e il comuniSmo non come un mutamento che investe la totalità sociale a partire dalla con­

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quista delle leve politiche dello Stato, ma piuttosto come «sperimentalismo storico» (secondo la formula di Axel Honneth), assaggi di vita alternativa, modi di convivenza che si ricollegano alle esperienze di autogestione e di «potere dal basso» presenti nella storia del socialismo e dell’anarchismo55. Ma osserva il geografo e sociologo marxista David Harvey: Le questioni relative a una gestione razionale delle risorse di pro­ prietà comune che sorgono a una determinata scala (come per esempio i diritti di condivisione dell’acqua tra un centinaio di agricoltori nel baci­ no di un piccolo fiume) non riconducono necessariamente, né possono farlo, a problemi generali come il riscaldamento globale [...]. Quando «saltiamo di scala» (come amano dire i geografi), la natura complessa del problema dei beni comuni e le prospettive in base a cui trovare una soluzione cambiano radicalmente36. Il problema, secondo Harvey, è quello di riportare lo Stato sotto un con­ trollo popolare democratico, facendo passare a un livello politico comples­ sivo i molteplici fenomeni di resistenza e di opposizione ai guasti del neoli­ berismo. Questione non facile, che in termini generali si potrebbe collegare alla duplice (e contraddittoria?) idea che percorre il marxismo a partire da Marx, per il quale «delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo»37: il comuniSmo da un lato come libera associazione di comunità cooperative autogestite, dall’altro come controllo e pianificazione, da parte dei lavoratori, delle risorse economiche su larga scala, nazionale e internazionale. Sono prospettive che sembrano porre questioni e richiedere soluzioni molto differenti.

NOTE

1 K.B. Anderson, Marx at thè Margins. On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies, Chicago, The University of Chicago Press, 2010, p. 14. 2 K. Marx e F. Engels, Lettere 1880-1883 (marzo), a cura di P. Dalvit, Milano, Edizioni di Lotta Comunista, 2008, pp. 162-163. 3 Cfr. F. Engels, Il panslavismo democratico, in «Neue Rheinische Zeitung», 15

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febbraio 1849, in Marx e Engels, II Quarantotto. La «Neue Rheinische Zeitung», a cura di B. Maffi, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 207-217. 4 B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Roma, manifestolibri, 1996, p. 23. 5 E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 146. 6 Si veda R. Gallissot, Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in AA.VV., Storia del marxismo, voi. II: Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Torino, Einaudi, 1979, pp. 785-864. 7 V.I. Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione (1914), in Id., Opere complete, voi. 20, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 375-434. 8 Cfr. A. Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 201-208. 9 V.I. Lenin, Sulla questione delle nazionalità o della «autonomizzazione» (30-31 di­ cembre 1922), in Id., Opere complete, voi. 36, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 439-445. 10 E. Corradini, Il nazionalismo italiano, Milano, Treves, 1914, p. 67. 11 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 4 voli., Torino, Einaudi, 1975, voi. II, p. 748. 12 E.J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, Einaudi, 1991, p. 214. 13 L. Sargent (a cura di), Women and Revolution. A Discussion o f thè Unhappy Marriage ofMarxism and Feminism, Boston, South End Press, 1981 e C. Arruzza, Le relazionipericolose. Matrimoni e divorzi tra marxismo efemminismo, Roma, Aiegre, 2010. 14 C. Zetkin, Lenin e il movimento femmnile, in appendice a V.I. Lenin, Lemanci­ pazione della donna, Roma, Editori Riuniti, 19712, pp. 88 e 97. 15 Si veda A. Kollontaj, Vivere la rivoluzione. Il manifesto femminista che la Rivo­ luzione di Ottobre non seppe attuare, a cura di A. Holt, Milano, Garzanti, 1979. Sulla famiglia e le teorie della liberazione della donna nell’Unione Sovietica sono da leggere i notevoli capitoli dedicati all’argomento da P. Ginsborg, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione, dittature. 1900-1950, Torino, Einaudi,2013, pp. 3-105 e 359-610. L’osservazione di Benjamin è riportata a p. 562. 16 C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Milano, Ri­ volta femminile, 1974 (http://femrad.blogspot.com/2014/01/sputiamo-su-hegel.html). 17 P. Di Cori, Il movimento cresce e sceglie l’autonomia, in A.M. Crispino (a cura di), Esperienza storicafemminile nell’età moderna e contemporanea, 2 voli., Roma, UDICircolo «La Goccia», voi. II, 1989, pp. 109-110, cit. da A. Perrotta Rabissi e L. Tavernini in Femminismo (http://www.url.it/donnestoria/testi/percorso_900/femminismo.htm). 18 Si veda, ad esempio, A. Cavarero e F. Restaino, Le filosofiefemministe. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Milano, Bruno Mondadori, 2009. 19 Arruzza, Le relazioni pericolose, cit., p. 98. 20 M. Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Padova, Marsilio, 1972.

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21 A. Del Re, Una lettura femminista del «Manifesto del Partito Comunista», in appendice a K. Marx e F. Engels, Il manifesto comunista, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 229. 22 Cfr. N. Fraser, Come il femminismo divenne ancella del capitalismo (2013), in http://effimera.org/come-il-femminismo-divenne-ancella-del-capitalismo-di-nancyfraser/. Si veda anche Ead., Portune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Verona, ombre corte, 2014. 23 Cfr. J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Milano, Sansoni, 2004. 24 Cfr. G. Nebbia, L'ecologia è una scienza borghese?, in «Ecologia Politica CNS. Rivista telematica di politica e cultura», 28, 2000. Si veda anche Id., Natura e storia. Raccolta di scritti (1970-2013), a cura di L. Piccioni, Brescia, Fondazione Luigi Miche­ letti, disponibile in rete (http://www.fondazionemicheletti.eu/). 25 Del novembre 1971 è il convegno del PCI «Uomo natura società. Ecologia e rapporti sociali», in cui la relazione introduttiva fu svolta dal filosofo Giuseppe Prestipino (n. 1922), il quale due anni dopo pubblicò Natura e società. Per una nuova lettura di Engels, Roma, Editori Riuniti, 1973. 26 Si veda il pamphlet di Dario Paccino (1918-2005), Eimbroglio ecologico. L'ideo­ logia della natura, Torino, Einaudi, 1972. 27 Cfr. la raccolta di 46 saggi comparsi sulla rivista: A A .W , Capitalismo Natura Socialismo, a cura di G. Ricoveri, Milano, Jaca Book, 2006. 28 Cfr. J.-M. Harribey, Marxisme écologique ou écologie politique marxienne, in J. Bidet e E. Kouvelakis (a cura di), Dictionnaire Marx contemporain, Paris, PUF, 2001, pp. 183-200. 29 A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Milano, Punto Rosso, 2017, p. 275. 30 Ibidem, pp. 52-53. 31 Cfr. supra, cap. 4, par. 4. Sui temi propriamente ecologici del teorico francese si veda S. Benazzo, Ecologia politica di André Gorz. Note su un discorso insostenibile, in «Pandora. Rivista di teoria e politica», 2017 (https://www.pandorarivista.it/articoli/ ecologia-politica-di-andre-gorz/). 32 Si veda D. Moro, Chi sono i teorici della decrescita e come lottano contro il mar­ xismo (www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtbd05-008713.htm). Ma si veda anche G. Mazzetti, Critica della decrescita, Milano, Punto Rosso, 2014. 33 Cfr. AA.W ., La società dei beni comuni. Una rassegna, a cura di P. Cacciari, Roma, Ediesse, 2010 e M. Hardt e A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010. 34 S. Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei «commons», con prefazione di A. Curcio, Verona, ombre corte, 2018, p. 16. Per la critica al marxismo tradizionale e allo stesso Marx si vedano le pp. 186-208. 35 Un percorso storico-teorico di queste esperienze è tracciato da M. Quirico e Gianfranco Ragona in Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Si veda anche la prospettiva di trasformazione del

C omplicazioni: nazione, genere , ambiente 163

capitalismo attraverso «utopie realiste» delineata dal sociologo marxista statunitense Erik Olin Wright (1947-2019) nel suo ultimo saggio: Per un nuovo socialismo e una reale democrazia, Milano, Punto Rosso, 2018. 36 D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street (2012), Milano, Il Saggiatore, 2013, pp. 91-92 (trad. leggermente modificata). 37 K. Marx, La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 42.

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Indice dei nomi

Indice dei nomi

Accornero, Aris, 111, 118 Achenza, Lianella, 31 Adler, Max, 37 Adoratskij, Vladimir Viktorovic, 22 Adorno, Theodor Wiesengrund, 64-66, 81, 87,126,129,142,158 Agazzi, Emilio, 142 Albert, Hans, 87 Althusser, Louis, 24, 72,73, 89,124,141 Amin, Samir, 104,105 Anderson, Benedict, 161 Anderson, Kevin B., 148,160 Anderson, Perry, 87 Andolfi, Ferruccio, 31,117 Antiseri, Dario, 90 Arendt, Hannah, 125,127,128,141,142 Aristotele, 144 Arnason, Johann P., 88 Aron, Raymond, 29,32,124,126 Arruzza, Cinzia, 161 Avenarius, Richard, 48 Bachelard, Gaston, 72 Bachofen, Johann Jakob, 20 Backhaus, Giorgio, 32 Backhaus, Hans Georg, 99 Bacone, Francesco (Francis Bacon), 65 Badaloni, Nicola, 89 Badiou, Alain, 55 Bahro, Rudolf, 70 Bakunin, Michail Aleksandrovic, 11

Balibar, Étienne, 74, 89, 90,140, 141,144, 145 Baran, Paul A., 103-105,117 Basilone, Linetto, 90 Basso, Lelio, 52 Basso, Luca, 89,143 Bauer, Bruno, 22,106,149 Bauer, Otto, 149 Beauvoir, Simone de, 155 Bebel, August Friedrich, 21,153 Becchio, Giandomenica, 116 Bedeschi, Giuseppe, 115 Bell, Daniel, 112,126,142 Bellofiore, Riccardo, 53, 89, 90, 99, 100, 115,116 Bellone, Enrico, 54 Benazzo, Simone, 162 Benjamin, Walter, 66, 67, 88,154,161 Bensussan, Gérard, 30 Bentham, Jeremy, 95 Berkeley, George, 48 Berlin, Isaiah, 137 Bernstein, Eduard, 26,34-38, 42,52,148 Bettelheim, Charles, 55,74 Bidet, Jacques, 138,144,162 Bismarck-Schònhausen, Otto von, 35 Blank, Daniel, 32 Bloch, Ernst, 67, 68, 85, 88 Bloch, Joseph, 18 Bobbio, Norberto, 7, 10, 31, 81, 90, 137, 138,141,143,144

174 Indice

dei nomi

Bodei, Remo, 88 Boella, Laura, 88 Bogdanic, Luka, 88 Bogdanov, Aleksandr Aleksandrovic, 48, 49 Boggeri, Maria Luisa, 116 Bohm-Bawerk, Eugen, 102,116 Bologna, Sergio, 118 Bongiovanni, Bruno, 30,32,54 Bonola, Gianfranco, 88 Bookchin, Murray, 159 Bottos, Giacomo, 90 Bracher, Karl Dietrich, 141 Braverman, Harry, 118 Bravo, Gian Mario, 30 Brenkert, George G., 74 Breznev, Leonid Il’ic, 68 Bucharin, Nikolaj Ivanovic, 58, 62 Burgio, Alberto, 118 Butler, Judith, 156,162 Cacciari, Massimo, 78 Cacciari, Paolo, 162 Calabi, Lorenzo, 30 Calamandrei, Piero, 136,138,143,144 Calcagno, Oliviero, 90 Canfora, Luciano, 81 Cantimori, Delio, 30 Cantimori Mezzomonti, Emma, 30 Capuzzo, Paolo, 87 Carandini, Guido, 91 Carioti, Antonio, 91 Carver, Terrell, 32 Cassano, Franco, 115 Cassata, Francesco, 54 Cavarero, Adriana, 161 Cavazzini, Andrea, 55 Cerroni, Umberto, 115 Cesarale, Giorgio, 117,145 Ceserani, Remo, 119 Chakrabarty, Dipesh, 84, 90 Chatterjee, Partha, 90 Chiodi, Pietro, 89 Chruscév, Nikita Sergejevic, 44, 68 Cingoli, Mario, 30,31 Cinnella, Ettore, 53 Cohen, Gerard Allan, 74, 75 Cohen, Hermann, 37

Colletti, Lucio, 52, 54, 76, 77, 89, 95, 98, 115 Constant de Rebecque, Benjamin Henri, 137,144 Coppellotti, Francesco, 116 Coriat, Benjamin, 118 Cornu, Auguste, 133,143 Corradi, Cristina, 89 Corradini, Enrico, 150,161 Crispino, Anna Maria, 161 Croce, Benedetto, 63,77, 85, 91,123 Curcio, Anna, 162 Dahrendorf, Ralf, 87 Dalla Costa, Mariarosa, 156,161 Dalvit, Paolo, 142,160 Darwin, Charles Robert, 13 Debord, Guy, 113,119 Della Volpe, Galvano, 31, 76, 77, 89, 138, 144 Del Re, Alisa, 156,162 Derrida, Jacques, 117 De Sanctis, Francesco Maria, 144 Di Cori, Paola, 155,161 Di Salvatore, Enzo, 144 Distefano, Salvatore, 30 Dobb, Maurice, 94,102,115 Donaggio, Enrico, 31, 87 D’Orsi, Angelo, 87 Dreyfus, Alfred, 21,149 Diihring, Karl Eugen, 12,16 Duichin, Marco, 143 Durkheim, Emile, 139 Elbe, Ingo, 116 Elster, Jon, 74, 75, 89 Engels, Friedrich, 8, 9, 11-26, 28, 30-34, 36,37,41-43,48,51,53,81,82,85,91, 93, 99, 101, 106, 115, 121, 122, 131, 133, 135, 141, 142, 144, 147, 148,151, 153,157,158,160-162 Eòrsi, Istvàn, 87 Fabiani, Carla Maria, 116 Fadini, Ubaldo, 118 Fanon, Frantz, 72,151 Federici, Silvia, 159, 162 Fergnani, Franco, 89,144

Indice

Feuerbach, Ludwig Andreas, 23,29,59,72 Finelli, Roberto, 100,116,119 Fineschi, Roberto, 30,32, 90, 99 Fistetti, Francesco, 90 Flaubert, Gustave, 72 Flores, Marcello, 55 Foraboschi, Politta, 31 Forti, Marco, 89 Forti, Simona, 141,142 Fortini, Franco, 79, 90 Foucault, Michel, 73, 80 Fourier, Frangois-Marie-Charles, 12, 20, 106,152 Fraser, Nancy, 130,142,156,162 Freud, Sigmund, 121 Friedman, Milton, 82 Fromm, Erich, 64 Fiirstenberg, Friedrich, 87 Fusaro, Diego, 32, 90 Galli, Carlo, 87 Gallino, Luciano, 85, 87, 90 Gallissot, René, 161 Gargani, Aldo, 90 Gellner, Ernest, 149,161 Gerratana, Valentino, 62, 87,161 Geymonat, Ludovico, 16, 30,54,79 Giacché, Vladimiro, 53,54, 90 Giachetti, Diego, 54 Ginsborg, Paul, 134,143,161 Giorello, Giulio, 54 Giorgi, Chiara, 144 Gobetti, Piero, 139 Gorz, André, 72,108,117,158 Gouges, Olympe de, pseud. di Marie Gouze, 152 Gramsci, Antonio, 52, 61-63, 75, 79, 87, 102,123,124,141,151,161 Graziani, Augusto, 99,116 Graziosi, Andrea, 53, 161 Grillo, Enzo, 32,141 Grossmann, Henryk, 64 Guerci, Luciano, 54 Guevara Ernesto, detto el Che, 104 Gunder Frank, André, 105 Flabermas, Jurgen, 81, 87, 113, 127-130, 139,142

dei nomi

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Hardt, Michael, 90,110,118,145,162 Harribey, Jean-Marie, 162 Harvey, David, 105,113,160,163 Haupt, Georges, 30 Havemann, Robert, 70, 88 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 13, 1517, 22, 25, 30, 48, 58, 60, 61, 64, 65, 76-78,83,98,100,130,144 Heidegger, Martin, 65,70,102,113 Heinrich, Michael, 99,116 Heller, Àgnes, 69, 88 Herzl, Theodor, 149 Hilferding, Rudolf, 34,38,40, 53,116 Hobhouse, Léonard T., 134,143 Hobsbawm, Eric John Ernest, 27, 32, 80, 91,151,161 Holt, Alix, 161 Honneth, Axel, 86, 91,126,127,130,142, 160 Horkheimer, Max, 64-66,81,87,126,129, 142 Hume, David, 48 Husserl, Edmund, 76 Illich, Ivan, 158 Jacobs, Jack, 87 Jaeggi, Rahel, 126,127,142 Jaffe, Hosea, 105 Jameson, Fredric, 113,119 Jappe, Anselm, 118 Jay, Martin, 86 Kammerer, Peter, 31, 88 Kant, Immanuel, 37,48,60,77 Kautsky, Karl, 12, 13, 21, 27, 33, 34, 36, 37, 40, 42-44, 46,52,59, 60, 107,117, 149,150 Kelsen, Hans, 138,144 Keynes, John Maynard, 97,115 Klee, Paul, 66 Kolakowski, Leszek, 55,68 Kollontaj, Aleksandra Michajlovna, 154, 161 Korsch, Karl, 57,59,60,79, 86 Koslk, Karel, 70 Kouvelakis, Eustache, 162 Kurz, Robert, 110,118

176 Indice

dei nomi

Labica, Georges, 30 Labriola, Antonio, 37,38,52, 62,122,141 Lafargue, Paul, 30,107 La Grassa, Gianfranco, 91 La Guardia, Giovanni, 90 Laing, Ronald David, 72 Landshut, Siegfried, 24 Lange, Oskar, 97 Lassalle, Ferdinand, 11 Latouche, Serge, 158 Laudani, Raffaele, 117 Lavoisier, Antoine-Laurent de, 14 Lecourt, Dominique, 54 Lefebvre, Henri, 88 Lefort, Claude, 125,141 Lenin, pseud. di Vladimir U’ic Ul’janov, 40, 42-45, 48-51, 53, 54, 63, 83, 113, 123,131,141,150,153,161 Lenk, Kurt, 142 Levi, Paul, 54 Liguori, Guido, 87,123,141 Lohoff, Ernst, 118 Lonzi, Carla, 155,156,161 Losurdo, Domenico, 142 Lowith, Karl, 31 Lòwy, Michel, 87 Lukàcs, Gyòrgy, 42, 53, 57-61, 64, 69, 79, 84,86-88,94,130 Lunghini, Giorgio, 115,116 Luporini, Cesare, 32, 79 Luxemburg, Rosa, 31, 34, 36, 37, 39, 44, 52-54,150,153 Lyotard, Jean-Frangois, 112 Lysenko, Trofim Denisovic, 50 Mach, Ernst, 48 Machiavelli, Niccolò, 73,121 Maffettone, Sebastiano, 143 Maffi, Bruno, 53,161 Magnanimi, Emilia, 143 Malia, Martin Edward, 125 Manacorda, Mario Alighiero, 135,143 Mancina, Claudia, 141 Mao Zedong, 51,52 Marchionatti, Roberto, 116 Marcuse, Herbert, 45, 54, 64-66, 71, 85, 88, 89,104,108,117 Marcuzzo, Maria Cristina, 115

Marshall, Alfred, 96, 97 Marzocchi, Virginio, 88 Masi, Edoarda, 79, 90 Massara, Massimo, 31 Mathiez, Albert, 53 Mattick, Paul, 47 Maus, Heinz, 87 Mayer, Jacob Peter, 24 Mazzetti, Giovanni, 162 McLellan, David, 29 Mehring, Franz, 22,31,53,122 Meldolesi, Luca, 53 Menger, Cari, 96 Merker, Nicolao, 52,116 Merleau-Ponty, Maurice, 8,10,57,125 Merli, Stefano, 89 Mesini, Lorenzo, 90 Mill, James, 24 Mill, John Stuart, 133,134,143,152 Minazzi, Fabio, 30 Mises, Ludwig von, 97 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat de, 134 Morgan, Lewis Henry, 20 Moro, Domenico, 162 Mosse, George L., 150 Muller-Doohm, Stefan, 142 Musto, Marcello, 29, 31, 32, 53, 91, 115, 116,118 Nagy, Imre, 61 Napoleoni, Claudio, 28, 32, 52, 77, 95, 100,102,115,116 Natoli, Claudio, 143 Nebbia, Giorgio, 157, 162 Negri, Antonio, detto Toni, 79, 90, 109, 110,118,140,144,145,162 Neri, Guido Davide, 88 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 78, 113, 121 Nozick, Robert Edwin, 82 O ’Connor, James Richard, 158 Omero, 65 Owen, Robert, 12 Paccino, Dario, 162 Paci, Enzo, 76, 89

Indice

Pandolfi, Alessandro, 90,118 Pannekoek, Anton, 46 Panzieri, Raniero, 77, 78, 89 Paoletti, Giovanni, 144 Pareto, Vilfredo, 96,123 Pautasso, Sergio, 89 Pazé, Valentina, 144 Pennavaja, Cristina, 32 Perrotta Rabissi, Adriana, 161 Petrucciani, Stefano, 10, 52, 89, 90, 116, 139,142-144 Pianciola, Cesare, 89, 90,141 Piccioni, Luigi, 162 Pilot, Harald, 87 Piromalli, Eleonora, 142 Plechanov, Georgij Valentinovic, 15, 42 Poggio, Pier Paolo, 88 Pollock, Friedrich, 64 Poi Pot, pseud. di Saloth Sar, 82, 83 Popper, Karl Raimund, 80, 87 Portinaro, Pier Paolo, 144 Postone, Moishe, 110,118 Poulantzas, Nicos, 74 Preti, Giulio, 75, 89 Preve, Costanzo, 144 Proudhon, Pierre-Joseph, 26,152 Quirico, Monica, 162 Ragona, Gianfranco, 90,162 Ranchetti, Fabio, 116 Ranchetti, Michele, 88 Rawls, John, 81,131,139,142,143 Reagan, Ronald Wilson, 82 Redolfi Riva, Tommaso, 90 Reichelt, Helmut, 99,116 Restaino, Franco, 161 Revelli, Marco, 118 Ricardo, David, 14,26,77, 93-95, 97, 98 Ricoeur, Paul, 121,141 Ricoveri, Giovanna, 162 Ridolfi, Giorgio, 52 Rifkin, Jeremy, 108 Riolo, Giorgio, 55 Rjazanov, David Borisovic, 21,22 Robespierre, Maximilien-Frangois-Isidore de, 53

dei nomi

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Robinson, Joan, 97, 98,115 Roem er,JohnE.,74,103,116 Rojahn, Jùrgen, 31 Rosdolsky, Roman, 32 Rosselli, Carlo, 132,143 Rosselli, John, 143 Rossi, Pietro, 116 Rovatti, Pier Aldo, 88,144 Rubel, Maximilien, 30 Rubin, Isaak, 94,115 Ruffini, Francesco, 144 Ruge, Arnold, 31 Rusconi, Gian Enrico, 86 Saccomani, Edda, 87 Said, Edward, 91 Saint-Simon, Claude-Henri de Rouvroy de, 12,19 Salvadori, Massimo Luigi, 52-54 Samuelson, Paul, 94 Sandel, Michael J., 140 Sargent, Lydia, 161 Sartre, Jean-Paul, 71-73,89,140,144,151 Sbarberi, Franco, 52,90,141,144 Scarponi, Alberto, 87, 88 Schaff, Adam, 68, 88 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 61 Schirru, Giancarlo, 87 Schmidt, Alfred, 99,158,162 Schmitt, Cari, 78 Schumpeter, Joseph Alois, 9,10, 93,115 Sen, Amartya Kumar, 140 Sgro’, Giovanni, 30-32,90 Sivini, Giordano, 117 Smith, Adam, 14,77,94,95 Sohn-Rethel, Alfred, 99 Solmi, Renato, 87 Sorel, Georges, 123 Sorge, Friedrich Adolph, 131 Spinella, Mario, 32, 88 Spinoza, Baruch, 73 Sraffa, Piero, 97,102 Stalin, pseud. di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, 44-47, 50, 51,54, 81, 136,143, 150 Stedman Jones, Gareth, 29 Stirner, Max, 26

178 Indice

dei nomi

Streeck, Wolfgang, 86, 90 Sweezy, Paul Marlor, 55, 100, 101, 103105,116,117 Tagliagambe, Silvano, 54, 90 Tavernini, Luciana, 161 Taylor, Charles Margrave, 140 Taylor, Harriet, 152 Terray, Emmanuel, 74 Thatcher, Margaret Hilda, 82 Timpanaro, Sebastiano, 16,30,79 Togliatti, Paimiro, 30, 62,132,143 Tomassini, Roberta, 88 Tomba, Massimiliano, 105,117 Tònnies, Ferdinand, 139 Toto, Francesco, 119 Touraine, Alain, 112 Traverso, Enzo, 31 Trenkle, Norbert, 118 Trincia, Francesco Saverio, 89,116,143 Trockij, Lev Davidovic, 44-47,54,131,142 Tronti, Mario, 77,78, 90 Turchetto, Maria, 89,117,118 Vacca, Giuseppe, 87

Vattimo, Gianni, 113,119 Veca, Salvatore, 31, 89,143 Vigorelli, Amedeo, 88 Violi, Carlo, 90 Vinto, Paolo, 118 Voegelin, Eric, 124 Vranicki, Predrag, 70 Wallerstein, Immanuel, 105,117 Walras, Léon, 96 Webb, Beatrice Potter, 51 Webb, Sidney James, 51 Weber, Max, 58,129 Wheen, Francis, 29 Wittfogel, Karl August, 55 Wollstonecraft, Mary, 152 Wright, Erik Olin, 163 Zanardo, Aldo, 31 Zanini, Adelino, 118 Zasulic, Vera, 41 Zdanov, Andrej Aleksandrovic, 50 Zetkin, Clara, 153,161 Zizek, Slavoj, 55, 86, 91 Zolo, Danilo, 144

Finito di stampare nel mese di giugno 2019 presso la Tipografia Casma, Bologna Stampato su carta Arcoprint Milk di Fedrigoni S.p.A., prodotta nel pieno rispetto del patrimonio boschivo