L'utilità della Storia 9788868432836


368 14 1014KB

Italian Pages [258] Year 2007

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Frontespizio
Copyright
Indice
Prefazione alla seconda edizione
Introduzione alla terza edizione
Come prologo
I. La svalutazione del passato
1. Una promozione sociale incompresa
2. L’erosione della memoria
3. Il declino dell’avvenire
II. La storia-problema
1. Preliminari di un progetto
2. La storia dei manuali
3. Una nuova economia della memoria
4. Una storia discutibile
III. Il presente e il passato
1. Storici e antiquari
2. L’istituzione del consumismo
3. Il lavoro e le sue metamorfosi
4. L’epopea del lavoro libero
5. Dal fordismo alla società senza lavoro
6. Stato e Stato sociale
IV. Locale e universale
1. Itaca e il mondo
2. Il territorio: un libro aperto
3. Noi e gli altri
V. La storia e il racconto
1. L’evento e la replica
2. La natura nella storia
3. Il racconto del potere
4. La verità della storia
A mo’ di epilogo
Guida bibliografica
Recommend Papers

L'utilità della Storia
 9788868432836

  • Commentary
  • converted from epub
  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Èancora importante la conoscenza storica? Conserva una qualche utilità il suo insegnamento nelle scuole e nelle università? Continua a costituire un vantaggio per la formazione del cittadino del mondo attuale? Inutile nasconderselo: il sistema dei valori dominanti, lo stile stesso dell’epoca presente tendono a considerare superflua la storia. Svalutazione del passato e delle sue possibilità di conoscenza; erosione della memoria, pubblica e privata; «declino dell’avvenire», per l’impossibilità di pensarlo e prefigurarlo: è il presente ad assumere, nelle nostre società, una dimensione totalizzante, come se questo fosse davvero l’unico dei mondi possibili. Ma la storia mostra – ed è questo il suo insostituibile compito civile – che altri mondi sono possibili: che le cose non necessariamente sono andate come dovevano andare; che l’ambito delle possibilità umane si muove in uno spazio predeterminato, ma non chiuso. Questa consapevolezza del carattere aperto della nostra vicenda collettiva si può avere soltanto studiando la storia. Sorge da qui l’afflato culturale e al contempo civile e pedagogico di questo libro, in cui l’autore, a dieci anni di distanza dalla prima edizione, riformula alcuni problemi lasciando però intatta la sostanza originaria, anche perché mai come oggi, e mai come nel nostro paese, il passato è diventato luogo di aspre contese politiche. A partire naturalmente dall’interpretazione di una fase drammatica della storia recente d’Italia, quella della guerra civile e del dopoguerra. In questo senso, si rende necessario soprattutto oggi ciò che questo libro auspica, ovvero la presenza attiva della ricerca storica, con la sua opera di distinzione fra memorie collettive, ricordo dei protagonisti e ricostruzione documentata, priva di intenti strumentali e sostenuta da 2

autentica passione civile

3

Piero Bevilacqua insegna Storia contemporanea all’Università «La Sapienza» di Roma. È autore di numerosi volumi, tra cui, per i tipi della Donzelli, Breve storia dell’Italia meridionale (1993, 1997, 2005); Venezia e le acque (1995, 1998); Tra natura e storia (2000); Demetra e Clio (2001); La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea (2002) e Prometeo e l’aquila (2005).

4

Virgola / 34

5

Piero Bevilacqua

L’UTILITÀ DELLA STORIA Il passato e gli altri mondi possibili

Terza edizione con una nuova Introduzione

DONZELLI EDITORE

6

© 1997, 2000, 2007 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6843-283-6

7

Indice Prefazione alla seconda edizione Introduzione alla terza edizione Come prologo I. La svalutazione del passato 1. Una promozione sociale incompresa 2. L’erosione della memoria 3. Il declino dell’avvenire II. La storia-problema 1. Preliminari di un progetto 2. La storia dei manuali 3. Una nuova economia della memoria 4. Una storia discutibile III. Il presente e il passato 1. Storici e antiquari 2. L’istituzione del consumismo 3. Il lavoro e le sue metamorfosi 4. L’epopea del lavoro libero 5. Dal fordismo alla società senza lavoro 6. Stato e Stato sociale IV. Locale e universale 1. Itaca e il mondo 2. Il territorio: un libro aperto

8

3. Noi e gli altri V. La storia e il racconto 1. L’evento e la replica 2. La natura nella storia 3. Il racconto del potere 4. La verità della storia A mo’ di epilogo Guida bibliografica

9

Prefazione alla seconda edizione Di questo libro – che l’editore Donzelli mi chiede di ripubblicare nella collana dell’«Universale» – posso dire, senza peccare di presunzione, che è riuscito a passare la prova del pubblico per il quale era stato prevalentemente pensato e a cui idealmente, anche se non esclusivamente, era diretto. Insegnanti e studenti con cui sono entrato in contatto sempre più di frequente in questi ultimi due anni mi hanno fornito la testimonianza calorosa di come le indicazioni in esso suggerite, di valorizzazione della storia nell’insegnamento scolastico e universitario, possano restituire uno slancio cognitivo e civile nuovo a tale disciplina. È stata, per i lettori che lo hanno incontrato sulla loro strada, un’esperienza che non li ha lasciati indifferenti. In una fase nella quale la riforma in atto, nella scuola e nell’Università, rimette in discussione l’ordine e la gerarchia dei saperi, l’insegnamento della storia – di questo discutere del passato che è una delle più antiche forme della conoscenza umana – si ripresenta con una centralità difficilmente eludibile nel progetto di fornire alle nuove generazioni una formazione dotata di orientamento e di senso. Resta in me forte la convinzione – e costituisce uno dei motivi dominanti e insistiti del libro – che proprio la storia, «la più inutile delle discipline», possa costituire un antidoto non facilmente aggirabile contro il tentativo oggi promosso dai fronti più diversi di ridurre i saperi formativi a una sorta di apprendistato strumentale che introduca alla 10

corsa collettiva della Crescita. Sembra, infatti, sempre più, che l’imperativo cui le nuove generazioni debbono assoggettarsi sia non la conoscenza, ma l’informazione, non la costruzione di sé, cognitiva ed etica, ma il possesso di tecniche strumentali, immediatamente spendibili per un fine operativamente utile. La scuola «si deve aggiornare», la scuola deve «stare al passo con la società», deve «servire lo sviluppo». Anche questo buon senso antico progressista rivela tutto il carattere attardato, e oggi funesto, dei suoi incitamenti: è un modo di guardare alla cultura e alla formazione da società povera, ossessionata dall’indice di crescita di questo nuovo totem del nostro tempo che è il Prodotto interno lordo. La capacità di guardare disinteressatamente al passato, di interpretare il presente come esito di uno svolgimento, di concepire una pluralità di mondi sociali possibili – dimensioni del conoscere che la storia è in grado di fornire – rischia di essere cancellata dalla pressione formidabile che da ogni parte si esercita sulla mente dei contemporanei: una forma insensata di assoggettamento di ogni atomo vivente sulla terra agli obblighi della crescita economica, della «creazione di valore». Un utilitarismo cieco e totalitario – anche quando si camuffa di modi ragionevoli e moderni – sembra voler imporre il suo unico fine a ogni forma della ricerca, della conoscenza, della formazione, della vita spirituale. Non era mai apparsa nella storia del mondo una società tanto ricca e al tempo stesso così ossessionata dall’esserlo sempre di più. Al punto da mettere a rischio le basi stesse della sua prosperità e obliare i fini umani ultimi dello stesso arricchimento. E la storia, proprio la storia, inutilizzabile nel processo di produzione, che non dà luogo a merci, che si 11

occupa di ciò che non è più producibile, è certamente una delle poche discipline in grado di mostrare il carattere transeunte, storico per l’appunto, delle ossessioni del nostro tempo, e insieme la straordinaria molteplicità di fini, ideali e passioni che ha mosso gli uomini da quando esistono su questa terra. Essa può continuare a dirci ciò che gli uomini sono stati e ciò che potrebbero essere, rispetto a quello che oggi sono. Questo libro ritorna dunque nelle librerie con le sue argomentazioni radicali, ma anche con le sue proposte e suggestioni di metodi di insegnamento. Spero che esso possa continuare la sua opera di orientamento e di sostegno fra i ragazzi e le migliaia di insegnanti che credono ancora – spesso con grande entusiasmo e capacità di lavoro – alla centralità formativa dell’apprendimento storico. Naturalmente questo non è unicamente un libro per gli insegnanti e per gli studenti. Soltanto una grande pigrizia intellettuale – magari tratta in inganno dallo sforzo di chiarezza espositiva che vi è espresso – può indurre a crederlo. In realtà, il testo – penso di poterlo affermare senza nessuna iattanza – possiede più fondi di riflessione e di significato che andrebbero scoperti. Esso è diretto, infatti, oltre che alla scuola e a un pubblico generalmente colto, anche agli storici. Sotto il cielo uniforme dell’utilitarismo rischia di apparire sempre più privo di valore non solo l’insegnamento, ma anche la pratica e il mestiere dello storico. Questa figura sta infatti subendo, nella società presente, un processo di erosione di senso del suo ruolo di cui tarda ad accorgersi. Ed è normale: gli storici, per definizione, arrivano sul posto sempre tardi, quando il clamore dei fatti accaduti si è spento. Ma la stessa smania di 12

taluni studiosi di mettersi al servizio delle più effimere congiunture del presente, di rendere politicamente utile la disciplina, non è, esso stesso, che un sintomo grave della crisi. È un modo facile e corrivo di sfuggire ai grandi e difficili nodi in cui si dibatte questo antico mestiere, su cui gli storici dovrebbero con ben altra lena interrogarsi. Ed è mia convinzione che in questo libro siano disseminati, qua e là, almeno alcuni degli interrogativi da cui dovrebbe prendere avvio la riflessione sulle sorti e il futuro del sapere storico. Roma, 1° marzo 2000 P. B.

13

Introduzione alla terza edizione Riprendere in mano e rileggere interamente questo libro, a dieci anni dalla sua prima edizione, mi ha fatto misurare, non senza disagio, quanto possa essere ampia la divaricazione tra le aspettative personali e il corso reale delle cose. Da una parte il compiacimento e quasi la sorpresa di leggere un testo che non pare toccato dal tempo, che conserva intatta, ai miei occhi, la sua originaria freschezza. Avrei potuto scriverlo in questo 2007. Le parole e i pensieri sono esattamente i miei di oggi. Certo, Narciso è sempre in agguato quando un autore parla dei suoi lavori. Ma posso dire che forse mai mi era capitato di ritornare sui miei scritti a tanta distanza di tempo senza sentirli qua e là datati, senza avvertire la voglia di aggiungere qualche aggiornata considerazione, di riformulare ex novo alcuni problemi. In questo caso, invece, la lettura non ha generato alcun desiderio, nessun impulso migliorativo di questo tipo. E forse perché L’utilità della storia non è propriamente un libro di storia. O non è solo questo. Gli interventi sul testo – che rendono diversa questa terza dalla prima edizione – sono perciò pressoché tutti orientati ad arricchire in qualche tratto il vecchio quadro sulla base di un ovvio desiderio di aggiornamento bibliografico. Un completamento aggiuntivo, sparso qua e là, sulla base di un decennio di nuove letture. E d’altra parte, il fatto che il libro continui ad essere comprato e letto conferma, su un piano che non è quello soggettivo dell’autore, questa impressione di 14

giovinezza. Ancora oggi, presso il pubblico degli insegnanti, ma anche dei docenti, dei dottorandi e degli studenti universitari, mi capita di discuterlo come un lavoro, un repertorio di temi che non sono scaduti, che sono all’ordine del giorno, ancora accompagnati da un senso di scoperta. Ma, fatta questa premessa, debbo anche constatare che la distanza tra gli auspici riformatori espressi dieci anni fa in questo libro e la realtà odierna dell’insegnamento della storia nella nostra scuola e nell’università non poteva essere più drammaticamente ampia. Le proposte di un nuovo modo di avvicinare le nuove generazioni alla lettura del passato non hanno trovato ascolto se non nella solitaria buona volontà di qualche insegnante. La scuola e l’università, in tutti questi anni, sono andati – non solo, ovviamente, nell’ambito delle discipline storiche – in tutt’altre direzioni. Al tempo stesso, il rapporto tra memoria e storia si è venuto complicando per l’irrompere in questo campo della politica e delle ideologie e per il riaprirsi di nuove ferite civili nel corpo vivo del nostro paese. Com’è noto, il decennio tra lo scorcio del XX secolo e i primi anni del nuovo millennio è stato teatro di un processo di trasformazioni, di mutamenti del clima spirituale, che hanno investito con irruenza culture, istituzioni, soggettività collettive. Ovviamente tanto in Italia che nel resto del mondo. Ma da noi con una declinazione particolare, che ha più direttamente a che fare con il nostro passato e la sua memoria, oltre che con il suo studio storico e la sua trasmissione didattica. In Italia, come forse in nessun altro paese dell’Europa occidentale negli ultimi dieci anni, il passato è diventato luogo di aspre e molteplici contese politiche. In nessun’altra stagione precedente 15

l’interpretazione di una fase drammatica della storia d’Italia – nel nostro caso la fine della seconda guerra mondiale, la caduta del fascismo, la Resistenza – è diventata, in maniera così dirompente, uno strumento di lotta, di critica ai partiti e fra i partiti, di messa in discussione degli stessi assetti istituzionali. E mai come in questa circostanza è apparsa necessaria l’opera della distinzione fra memoria e storia, fra il ricordo dei protagonisti, le retoriche ufficiali e la ricostruzione documentata sine ira ac studio. Mai come in questa fase è apparso necessario ciò che il presente libro auspicava nel 1997: la presenza attiva, il presidio degli storici di professione, della comunità scientifica che controlla la veridicità delle affermazioni di ognuno e di tutti, sulla base di documenti e ricerca, e che garantisce, con la critica e il dibattito continuo, quella «verità discutibile» di cui la ricerca storica è portatrice. L’uso politico della storia, soprattutto per effetto della distorsione operata dai media, è invece finito col prevalere. Il passato è diventato territorio di escursioni strumentali, prive della serena passione che anima la ricerca storica, e ispirate spesso da intenzionalità strumentali. Quanto è avvenuto in Italia sul piano politico e culturale spiega, tuttavia, solo in parte ciò che è accaduto alla storia in quanto disciplina scientifica, e soprattutto quale materia d’insegnamento. Le riforme e controriforme varie che hanno investito tanto la scuola che l’università nell’ultimo decennio hanno subìto certamente l’influsso del clima ideologico nazionale, ma fanno parte di un progetto più ampio. Come ormai comincia ad emergere con sempre maggiore consapevolezza e visibilità generale, le riforme dell’ultimo decennio rientrano nel più ampio disegno di costruzione di 16

nuove e più omogenee istituzioni formative all’interno dell’Unione europea. È almeno a partire dalla Dichiarazione di Bologna, sottoscritta il 19 giugno 1999 dai ministri dell’Istruzione dei vari paesi dell’Unione – che metteva a punto un programma da tempo avviato – e poi dalle Dichiarazioni di Lisbona e Parigi, che è emersa in maniera lineare l’intelaiatura progettuale di trasformazione e rimodellamento dell’istruzione superiore proposta per il Vecchio Continente. Secondo tali nuove linee tanto la scuola che l’università devono ricadere nella logica del New Public Management (Npm), esse cioè devono abbracciare le finalità di servizi organizzati secondo regole di mercato, obbligati ad accettare e conformarsi alle sfide della competizione, secondo gli imperativi di una visione neoliberista a cui sembra ormai non dover sfuggire nessun frammento di realtà (C. Lorenz, L’Unione Europea e l’istruzione superiore: economia della conoscenza e neoliberismo, in «Passato e presente», 2006, 69). Ebbene, noi abbiamo visto in Italia l’applicazione concreta e operante di tali nuovi indirizzi all’interno dell’università con la Riforma Berlinguer (1998) e successivamente con la Riforma Moratti (2005). Chi vive e opera all’interno delle sue strutture, e in primo luogo nelle facoltà umanistiche, ha potuto osservare la grande trasformazione che vi è avvenuta, soprattutto nel linguaggio di docenti e studenti, nel comportamento dei vari operatori, nell’organizzazione dello studio e degli esami, nel rapporto con i libri di testo, nei criteri di valutazione culturale. Tra le grandi novità, tra le «fondamentali innovazioni didattiche» – per usare le parole dei pedagogisti che ispirano tali trasformazioni – si segnala indubbiamente l’introduzione 17

dei crediti quale strumento di misurazione delle acquisizioni culturali. Per poter plasmare la mente dei giovani allievi secondo una logica di economia aziendale, e per esercitarli a procacciarsi meriti culturali anche al di là dello studio delle discipline, è stato aggiunto questo ulteriore calcolo dei meriti a quello tradizionale. Ora, il linguaggio bancario immesso nel mondo degli studi non è solo una goffa simulazione e una umiliazione storica per le università d’Europa, nate nel medioevo, che hanno contribuito a far grande per secoli questo Continente non solo di economie, ma soprattutto di conoscenze e saperi. Quasi che i nostri atenei venissero ora rivalutati, sottratti alla loro cadente vetustà, grazie all’efficiente linguaggio delle imprese. Naturalmente non sottovalutiamo il potere del linguaggio. Il riformatore delle università lo sa bene, perciò non si cura del ridicolo. Esso deve addestrare a una nuova visione economica della vita universitaria e degli studi le nuove generazioni. Il linguaggio diventa poi obbligante, perché incarna regolamenti. Così i crediti hanno trasformato i ragazzi in procacciatori di punteggi, come i clienti dei supermercati, che li collezionano per poter riscuotere i premi finali alla cassa. Eppure non è questo il cuore del problema. Non è qui che la riforma neoliberista ha ficcato il suo cuneo devastatore. Non è qui che anche l’insegnamento della storia subisce un colpo micidiale. All’interno delle facoltà umanistiche (non ancora di tutte, per nostra fortuna) la vera e profonda trasformazione, la rottura programmata di un paradigma culturale secolare – talmente grave e profonda da non essere stata neppure avvertita, probabilmente, dagli stessi programmatori – è che nelle università è cambiato il modello storico dello studio, il 18

processo di apprendimento e di formazione, il meccanismo della trasmissione del sapere. Con la moltiplicazione degli esami, ridotti ad esamini – il cosiddetto «spezzatino» come è stato definito da alcuni – non solo si immeschinisce il quadro della formazione complessiva dello studente, costretto ad imparare poco di tutto, ma si realizza qualcosa di più grave, si opera una frattura più profonda. La preparazione dell’esame cessa di essere ciò che è stato per tanti secoli fino ai nostri giorni: l’occasione per studiare e approfondire un determinato campo del sapere. Essa è diventata qualcos’altro. Ciò che prima era studio, lettura di tanti libri su una singola disciplina, riflessione, approfondimento, meditazione, rielaborazione critica, ora si trasforma in una prestazione continua e frammentata, nella rendicontazione di poche letture a quella specie di verificatore fiscale a tempo pieno che è diventato il docente. Gli esami e la loro preparazione, tramite i crediti, vengono misurati sulla base di quantità temporali, contati in ore necessarie richieste, così che il percorso dello studente sia soggetto a una determinata velocità di prestazione come in qualunque fabbrica tayloristica che si rispetti. Il processo di formazione delle nuove generazioni si trasforma così in un percorso di lavoro a cottimo, che mima il dinamismo di fabbrica, piegandosi a una logica di rendimento temporalquantitativo, e mettendo in secondo piano la qualità culturale più profonda dell’apprendimento. Gli studenti apprendono a concepire lo studio come un lavoro scandito, sincopato, soggetto a standard oggettivi di misurazione e si abituano ad essere continuamente monitorati da un’autorità organizzativa posta al di sopra di loro. È la plasmazione aziendale dell’uomo nuovo, così come lo vuole questa 19

recente incarnazione neoliberista dello sviluppo, un progetto camuffato da via libertaria e che rivela il suo reale volto totalitario, portatore della «tetra visione di una esistenza controllata e aritmetizzata in ogni suo gesto» (C. Magris, Aziendalismo universale, 1999, in La storia non è finita. Etica, politica, laicità, Garzanti, Milano 2006, p. 148). Quale posto può avere, dunque, in avvenire, la storia e il suo studio nel quadro di questo progetto di rimpicciolimento della statura intellettuale e culturale delle nuove generazioni? Quale collocazione e rilievo può avere lo studio del passato, se il fine delle università d’Europa è quello di costruire una razionalità strumentale di massa? Temiamo un piccolo posto, soprattutto in considerazione del fatto che esso non incarna un sapere immediatamente e strumentalmente utile. La storia serve a poco per rendere competitive le nostre aziende nell’ambito del commercio globale – come direbbe un commentatore à la page utilizzando le parole della più triviale retorica corrente. Solo ciò che si uniforma a un valore economico finisce coll’avere valore. Ma un piccolo posto avrà anche l’intera cultura umanistica e questo significherà la svendita progressiva di tutta la nostra civiltà. Di tutta la nostra civiltà. È una scelta di deprivazione incalcolabile: «è la perdita del passato, del suo infinito patrimonio di esperienze, di creatività, di intelligenza, e della cultura umanistica cui esso è affidato». Una perdita che toglie alla scuola e all’università il loro essere «luogo deputato alla trasmissione di saperi in grado di offrire identità condivise, punti di riferimento, senso di appartenenza, capacità di riflessione e argomentazione, di giudizio critico, di confronto tollerante» (M. Firpo, La perdita del passato. Cultura umanistica e scuola, in Tre più 20

due uguale zero, La riforma dell’Università da Berlinguer alla Moratti, a cura di G. L. Beccaria, Garzanti, Milano 2004, p. 41). Ed è possibile, davvero, tutto questo? È possibile che un ristretto gruppo di politici, manager, pedagogisti, l’esigua rappresentanza dell’attuale generazione al potere, decida il destino di un patrimonio culturale che ha richiesto secoli di ricerca e di storia per la sua formazione? Questo, in verità, non lo crediamo. Noi riteniamo che il delirio economicistico dei nostri anni sia destinato ad apparire, alla parte più consapevole dei cittadini europei, in tutta la sua miope stoltezza. E nella nostra società sono oggi numerosi, anche se dispersi, gli antidoti contro tale recente malattia. E sono in crescente mobilitazione. Di sicuro, nulla del nostro avvenire è oggi certo: oggi forse più che in passato. E tuttavia nessuno può abbandonare il campo, dare già per perduta la partita. Troppo alta è la posta in gioco perché si possa smettere di credere e di lottare per far valere il fine di civiltà incarnato dall’utilità della storia e dallo studio del nostro passato. Roma, febbraio 2007 P. B.

21

L’utilità della storia A Carmine e agli amici dell’Imes

22

Come prologo

In base a questa tendenza, la cultura sarebbe pressappoco da definire come l’abilità con cui ci si mantiene «all’altezza del nostro tempo», con cui si conoscono tutte le strade che facciano arricchire nel modo più facile, con cui si dominano tutti i mezzi utili al commercio tra uomini e tra popoli. Il vero problema della cultura consisterebbe perciò nell’educare uomini quanto più possibile «correnti», nel senso in cui si chiama «corrente» una moneta. F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole

Che senso ha studiare il nostro passato? È ancora importante la conoscenza storica? Conserva una qualche utilità il suo insegnamento nelle scuole e nelle università? Continua a costituire un qualche vantaggio la sua presenza nella formazione del cittadino del mondo attuale? Non sono interrogativi retorici. E ad essi non si può rispondere con le consuete formule del buonsenso scolastico ormai scolorite e consunte. Sarebbe del tutto coerente con la cultura dominante del nostro tempo se a queste domande un manager d’industria rispondesse con brutale franchezza, riformulando gli interrogativi: «Se tutto ciò di cui abbiamo bisogno, se l’insieme delle nostre ricchezze è vivo e operante nel presente, e ancor più nelle promesse tecnologiche del futuro, a che scopo conservare memoria del passato? I problemi da risolvere sono tutti davanti a noi, non dietro le nostre spalle. Per quale fine, per quale vantaggio e tornaconto ricordare? Cosa hanno da insegnarci le 23

generazioni del passato, se il sapere oggi invecchia così rapidamente, ed esso non vive se non rinnovandosi continuamente? Che senso ha interrogare carte d’archivio se abbiamo mezzi incomparabilmente più precisi e raffinati degli uomini del passato per indagare e comprendere ciò che più ci preme, vale a dire le questioni dell’oggi e i segni incalzanti del futuro?». Inutile nasconderselo, i valori dominanti, lo stile stesso dell’epoca presente tende a rendere inutile, obsoleta, la storia. È questa la prima, onesta e necessaria presa d’atto da cui partire. Se non si afferra questa sfida radicale, che il nostro mondo lancia a una delle più antiche forme culturali dell’umanità, le risposte saranno inadeguate e superficiali. Non sarebbe d’altra parte la prima volta che le società si trascinano dietro tradizioni, valori, mentalità, modi di guardare alla realtà, per pura forza di convenzione. Questi continuano talora a durare oltre la loro stessa vita, per un meccanismo di inerzia, come l’albero rinsecchito che continua a star dritto. Non è già ricca di simili casi la storia della cultura dell’Occidente? Ma l’inganno dura finché non salta sulla scena un qualche genio maligno, che mostra con irrisione come dietro la facciata dell’edificio tutto è già rovinato da un pezzo, ed è sufficiente una sua risata per far crollare l’ultimo simulacro in una nube di polvere. Ci sono momenti in cui occorre risvegliare il cartesiano genio maligno, per interrogarsi con un dubbio radicale sulle istituzioni e sulle culture che ereditiamo dal passato. È un atto arrischiato, ma necessario, per tentare di appurare se esse sono già morte, o se è invece possibile dotarle di nuovo slancio e vitalità. E questo è il momento della storia: l’ora di interrogarsi sul 24

suo valore. Per tale ragione il presente saggio incomincia esattamente col mettere nella luce più chiara possibile alcuni degli attacchi formidabili che la modernità sta portando sia alla memoria individuale e sociale che alla storia. Bisogna appurare se sotto i colpi della testa d’ariete l’edificio conserva qualche fondamento o va abbandonato al crollo che ormai incombe. Ma non ho ancora risposto alla domanda: serve ancora la storia? E a che cosa? La risposta a un quesito di tale portata non può essere una formula. Rinvio il lettore paziente a cercare non una, ma più risposte, disseminate nei capitoli di questo libro. Intanto prestiamo attenzione al senso e al modo della domanda: a che serve? È infatti questa la forma minacciosa con cui la nostra epoca chiede il conto a una delle forme culturali più povere di ricadute strumentali, meno utilizzabile per fini pratici: la più inutile delle discipline scolastiche. A un sapere così poco subordinato a uno scopo operativo, a un qualche valore economico, si è sempre meno disposti a concedere cittadinanza in un’epoca dominata dal demone dell’utile. E la storia, ormai è appurato, non è più in grado di spacciarsi neppure per una generica magistra vitae. Prendiamo dunque atto che in questa domanda si annida tutta l’aggressione della cultura dominante alla storia e ai suoi fondamenti. Ma registriamo anche qualcosa di più. In essa è contenuta una delle ragioni dello smarrimento spirituale che investe il nostro tempo e insieme una spia della crisi di un modello educativo di cui la storia, come sapere e come disciplina, fa parte. È vano e miope nasconderlo. Il disagio in cui si dibatte la scuola in Italia, come nel resto dei paesi di antica industrializzazione, non è 25

legato a inadeguatezze organizzative, alla qualità dei programmi, ai mezzi tecnici eternamente scarsi. Questi sono solo i sintomi di una malattia che ha cause più ampie. E le lamentele con cui li denunciamo fanno parte dell’armamentario di rivendicazioni sindacali con cui la nostra epoca maschera a se stessa più profonde lacerazioni e bisogni. Cosa ancora più grave: noi cadiamo nel diabolico tranello che ci viene oggi teso. Nel suo procedere, a ogni salto di qualità, il modo di produzione capitalistico fa sentire inadeguate al suo ritmo, alle sue «necessità», tutte le istituzioni che gli stanno attorno. E queste corrono, di volta in volta, ad accordarsi ai suoi richiami, pronte a ubbidire, ad adeguarsi, per sentirsi all’altezza dei suoi imperiosi bisogni, come se fossero, appunto, i bisogni dell’epoca. Il disagio della scuola, in realtà, sprofonda nel generale smarrimento culturale e civile del nostro tempo. Dopo una lunga navigazione essa ha perduto l’orientamento, ha visto dileguarsi il porto a cui era diretta, vale a dire il senso della propria collocazione nel mondo attuale. Ogni sistema scolastico, in età contemporanea – questo dovrebbe esser chiaro – è stato a lungo legato a un progetto di costruzione dello Stato-nazione. I paesi usciti dalla seconda guerra mondiale, soprattutto (ma non esclusivamente) quelli che si sono dati un ordinamento democratico, hanno messo in piedi un sistema scolastico in cui gli obiettivi civili – la democrazia, la libertà, la salvaguardia della pace – si fondevano con quelli dello sviluppo economico. Ben presto gli slanci civili, di costruzione ideale della nazione, si sono esauriti. Ma la scuola ha continuato a nutrire un senso della propria funzione preparando i quadri per la crescita economica, 26

rinnovando i ranghi della classe dirigente. Diciamo pure una verità elementare, ma forse mai detta. C’è stato un buon ventennio, in questo dopoguerra, in cui una taciuta e comune convinzione animava il mondo, ad Est come ad Ovest, al Sud e al Nord, indipendentemente dalle tensioni e dalle nubi di guerra che ogni tanto oscuravano l’orizzonte. Era la sicurezza di essere tutti su una strada che portava al progressivo benessere materiale, alla liberazione dell’umanità da antichi spettri di miseria e di fatica. Era questa la razionalità, la stoffa del sentire comune che ha accompagnato il periodo fra la fine della guerra e i primi anni settanta: l’epoca più stabile e più prospera dell’intera storia del mondo industriale. Il progresso era una stella polare visibile da ogni angolo della terra. E lungo questo sentiero, in cui tutti sentivano di avere la possibilità di compiere il proprio percorso, la scuola ha dovunque avvertito la centralità della propria funzione. Percorrerne i gradi era, per tutti i ceti sociali, la condizione di una sicura promozione sociale. Anche la storia, che recava con sé la memoria del glorioso passato delle nazioni, aveva tutte le carte in regola per cantare le magnifiche sorti e progressive del nuovo mondo verso cui si era diretti. Oggi questo fondo spirituale di una intera epoca si è in buona parte dissolto. La funzionalità meramente economica della scuola, di servizio allo sviluppo, è entrata in crisi. Ed essa appare stretta fra due forze che confliggono fra loro e la lacerano nelle sue fibre più profonde. Innanzitutto il mondo della produzione industriale chiede una sempre più stretta funzionalità della formazione scolastica ai fini dell’innovazione tecnologica, della concorrenza economica, della capacità di produrre nuove 27

merci. E tale pressione tende a sorpassare ormai la mediazione stessa dello Stato. Anzi, il potere pubblico appare esso stesso sempre più impegnato a cedere il passo al mondo dell’impresa, a lasciarle spazi ulteriori di libertà, a offrirle nuovi campi di intervento. Il suo unico progetto politico, negli ultimi tempi, sembra esaurirsi nell’aprire sempre più estesi varchi alle forze economiche: perché penetrino, con le proprie logiche, in ogni angolo della società. Ma la scuola è ancora impigliata con i suoi tanti logorati lacci ai vecchi ideali e alle promesse dello Statonazione, ai suoi fini di promozione e di protezione. Come fa ad abbandonare tutti i suoi vecchi fondamenti educativi e darsi alle imprese? Ancora più difficile appare per essa muoversi in questa direzione in una fase come quella attuale, mentre lo Stato-nazione sembra vacillare: navicella nel gran mare agitato dell’«economia competitiva globale». La perdita di riferimento dello Stato, infatti, dei suoi porti ed approdi, mentre si viaggia nella tempesta, non è solo occasione di ansia e di smarrimento. Essa somiglia allo scioglimento di un patto storico, la fine del grande compromesso realizzato per tutta l’età capitalistica fra la scuola e il potere pubblico. Con quel patto lo Stato si era impegnato a predisporre il personale umano e intellettuale per la crescita della macchina economica, ma al tempo stesso si accollava l’onere di promuovere l’emancipazione culturale dei cittadini della nazione. Preparare ingegneri, tecnici, operai specializzati da mettere al servizio dell’attività produttiva privata era ripagato dal potere pubblico con l’impegno parallelo a diffondere cultura e conoscenza: umana liberazione dall’ignoranza e dalla miseria per un numero crescente di cittadini. Oggi il mondo della 28

produzione sempre meno sembra apprezzare i quadri e i profili professionali predisposti dall’insegnamento pubblico. La spinta irresistibile che viene dall’economia mondiale è quella di trasformare ogni cittadino in un produttore di merci. E in un solerte consumatore. Se questa pressione non trovasse un argine superstite nella sapiente inerzia di istituzioni e culture, la scuola oggi sarebbe trasformata in un immenso e uniforme laboratorio tecnologico. Ma l’altra contraddizione che crea smarrimento nei saperi tradizionali e investe in pieno gli edifici dell’educazione scolastica non è meno inquietante. La sirena degli imperativi economici, infatti, oggi ha perso il fascino di un tempo, canta con voce sempre più stridula e incomprensibile. È il fine, lo scopo stesso dell’attività economica che ormai è quasi sparito dal nostro orizzonte. La vecchia stella polare è quasi scomparsa dal cielo del Nord. Perché produrre sempre più merci? Perché chiedere alla scuola schiere sempre più numerose e agguerrite di produttori? Negli ultimi trent’anni si è spezzato l’incanto con cui lo sviluppo capitalistico aveva abbagliato l’umanità per oltre due secoli. Per la prima volta, dopo un’intera epoca di crescita economica, di esaltazione dell’incremento illimitato di beni, un’ombra gigantesca si è sollevata a oscurare un futuro che sembrava la meta sicura dei nostri successi. Lo sviluppo, e con esso l’idea culturale ed etica di progresso, non costituisce più valori indiscussi e generalmente condivisi. È la creazione stessa della ricchezza che ha perso la sua innocenza. Ogni forma di produzione di merci oggi appare finalmente per quello che è: un modo di consumare risorse sempre più limitate e di restituire rifiuti che ingombrano gli spazi della nostra vita. La condizione stessa della cosiddetta 29

«crescita» – che sta oggi in cima ai pensieri di ogni imprenditore e di ogni capo di Stato – è la distruzione sempre più larga e più rapida di oggetti, quindi di risorse, cioè di ricchezza reale. Il fine sostanziale del meccanismo economico delle società industriali sembra ormai essere l’impoverimento finale per mezzo dell’arricchimento senza fine. È venuta ormai fuori la verità. Il pianeta non è il deposito illimitato dei beni, la cornucopia inesauribile al servizio dei nostri bisogni, ma un organismo fragile e vulnerabile, minacciato dall’onnipotenza della tecnica e dalla voracità dei consumi. Così il correre infinito dello sviluppo vede all’orizzonte uno sbarramento imprevisto: la natura ha perso la sua falsa infinità, non è che una terra limitata. Il percorso lineare e trionfante dell’homo oeconomicus, che dal fondo del medioevo arriva ai giorni nostri, ha davanti a sé un sentiero interrotto. È tale limite a disvelare l’incantesimo che per tanto tempo ha nascosto il saccheggio perpetrato dalle società industriali. Non solo, dunque, produrre ulteriore ricchezza materiale non equivale più, automaticamente e necessariamente, a creare maggiore prosperità. Essa altera, minaccia direttamente le basi stesse della vita. Oggi singoli studiosi, commissioni scientifiche impegate da anni nello studio del riscaldamento climatico, organismi internazionali fanno a gara nel pubblicare rapporti che disegnano un quadro apocalittico del nostro non lontano futuro. Ma non si limita a questo la grande zona d’ombra che ha offuscato la stella dell’economia, facendo deperire i fondamenti culturali e ideali che l’hanno fatta brillare sin qui. La razionalità universalistica che riusciva a coprire e giustificare anche i suoi misfatti appare penosamente 30

logorata. Nelle società industriali siamo ormai circondati da una quantità straordinaria di ricchezze – al punto che i loro scarti minacciano la nostra vita quotidiana – eppure nessuna società del passato è apparsa così ossessionata dai traguardi produttivi, asservita, come la nostra, al totem della crescita materiale continua. Bisogni così imperiosi, in mezzo a tanta opulenza, assumono necessariamente le fattezze dell’assurdo. Cosa c’è di più paradossale, sulla terra, dello spettacolo che offre oggi la vita dell’economia? Un tempo scienza e pratica volta all’arricchimento privato ma anche al soddisfacimento di bisogni collettivi, essa si è ormai trasformata, nelle sue espressioni dominanti, e dentro il meccanismo della cosiddetta «competizione globale», in un sottoprodotto della guerra. Nessuno è più sicuro al proprio posto di lavoro. Conoscenze e mestieri diventano inservibili in breve tempo. Nei prossimi anni nessuno avrà più nicchie in cui rifugiarsi. Occorrerà cercare il lavoro dove esso ci chiamerà. Questo ci annunziano i profeti del nuovo millennio. Il lavoro umano deve diventare sempre più flessibile (che geniale invenzione linguistica, il marchio semantico di un’epoca!), pronto a cambiare, ad adattarsi agli imperativi mutevoli della tecnologia che esso stesso ha creato. Così, nell’epoca della massima opulenza si apre uno scenario di imprevedibile immiserimento. Nella fase in cui le macchine sostituiscono continuamente gli individui in carne e ossa, e mentre si dischiude all’orizzonte una prospettiva grandiosa di liberazione dal lavoro, il potere capitalistico tenta con tutti i mezzi di imporre nuove forme di asservimento del lavoro. Per gli uomini non si avanza la promessa di una possibile terra della libertà, ma la minaccia di diventare appendici mobili e flessibili dei loro sostituti. 31

Anche il lavoro, dunque, ciò che per decenni aveva costituito l’ingresso automatico alla società, il premio naturale che attendeva i giovani dopo un lungo percorso scolastico, è diventato un approdo remoto e insicuro. Uno dei fini fondamentali dell’apprendere, nella società capitalistica, sembra scomparso dall’orizzonte. Ma è l’intero fondamento di ragioni su cui lo sviluppo capitalistico industriale ha costruito il proprio consenso negli ultimi due secoli che oggi appare gravemente usurato. Dissoltosi il progetto statal-nazionale che lo accompagnava, esso mostra il nudo e insensato meccanismo del suo motore originario. Dopo tanti secoli di civilizzazione, gli individui si trovano a vivere una vita senza più schermi culturali e simbolici, ridotta alle sue funzioni materiali essenziali: produrre e consumare. L’annichilimento progressivo di ogni significato spirituale dell’esistenza, sempre più soggiogata alle regole dello scambio di mercato, fa sì che gli individui esistano essenzialmente solo in quanto produttori e consumatori. Si produce per poter consumare e si consuma per poter continuare a produrre. È in questo misero e insensato circolo che va precipitando il senso del vivere nelle società industriali. È per tale essenziale ed esclusiva ragione che le culture che hanno fin qui sostenuto lo sviluppo industriale si ritrovano di fronte a scenari inattesi, a richieste impreviste. Ogni istituzione e realtà pubblica è chiamata con insolita urgenza a ubbidire alle logiche del mercato. Accade alla scuola. Accade a maggior ragione alla storia, questa antica musa che ha la testa girata all’indietro. Si capisce dunque bene perché rispondere alla domanda «a che serve la storia?» comporti non una, ma un insieme di risposte. E si comprende anche perché la storia coinvolga 32

necessariamente l’intero edificio della formazione nella società contemporanea. Il più inutile dei saperi impartiti dalla scuola, il meno adatto a servire le sempre più stringenti necessità dell’economia, è il più esposto alla linea del fuoco. L’avanguardia che potrebbe capitolare per prima. Ma è anche il sapere che meglio di tutti gli altri, forse, può lanciare l’allarme, custodire la memoria di ciò che siamo stati prima che essa sia perduta per sempre, mostrarci all’orizzonte un altro possibile approdo. Il lettore che ha una qualche dimestichezza amatoriale con l’opera di Nietzsche (come quella di chi scrive) avrà capito che, come ben evidenziava il titolo originario di questo libretto, Sull’utilità della storia per l’avvenire delle nostre scuole, mi ricollego a un’opera del filosofo tedesco: la seconda delle sue Considerazioni inattuali dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1974. È un modo, un po’ provocatorio, per mostrare come la storia possa fare proprie alcune critiche radicali alla modernità inaugurate da Nietzsche e valorizzare il passato senza deprimere l’avvenire. Nella Guida bibliografica, in fondo al volume, tenterò di documentare le affermazioni contenute nel testo, di fornire qualche consiglio bibliografico aggiuntivo e – nella misura delle mie limitate competenze – di suggerire qualche titolo di carattere didattico. Ringrazio Giovanni Mastroianni, Sergio Bruni, Nicola Siciliani De Cumis e Armando Vitale per la loro lettura del testo e i suggerimenti che mi hanno fornito.

33

I. La svalutazione del passato

Un essenziale svantaggio, che l’estinguersi delle credenze metafisiche comporta, consiste nel fatto che l’individuo tiene troppo strettamente conto della sua breve vita e non accoglie gli impulsi più forti a costruire istituzioni durevoli, progettate per i secoli; vuole essere egli stesso a cogliere il frutto dell’albero che pianta, e perciò non ama più piantare quegli alberi che richiedono una cura regolare e secolare e che sono destinati a far ombra a lunghe teorie di generazioni. F. Nietzsche, Umano, troppo umano

1. Una promozione sociale incompresa. Capita sempre più spesso, conversando con insegnanti, ma anche con genitori che hanno ragazzi a scuola, di sentire una ricorrente recriminazione: la storia interessa sempre meno gli studenti. La loro indifferenza nei confronti degli eventi del passato si accresce di anno in anno. Non si sa come fare per aprire la loro mente a una qualche passione per i testi di storia. È davvero fondata questa impressione, che sovente si accompagna anche a un più generale giudizio pessimistico sulla preparazione e l’interesse per la cultura delle nuove generazioni? Naturalmente le lamentele riflettono esperienze personali molto diverse, a volte legate a circostanze determinate e particolari. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che forti sperequazioni sociali e di classe attraversano il territorio delle nostre città. Una scuola 34

di periferia non ospita studenti con la stessa preparazione di base delle scuole collocate nei centri storici. Assai spesso, tuttavia queste lamentele esprimono un disagio più generale che è frutto addirittura di un processo di avanzamento storico delle nuove generazioni, ma che gli insegnanti e gli osservatori non sempre percepiscono come tale. I ragazzi che oggi si mostrano incapaci di entusiasmarsi per i fatti del passato, ma anche allo studio in generale, sono molto spesso figli di genitori che hanno ricevuto un’istruzione di base sommaria. Essi provengono da classi sociali che trentaquarant’anni fa avevano un accesso assai limitato all’istruzione e che entravano precocemente nel mondo del lavoro. Il loro ingresso nella scuola è una conquista recente. Nelle statistiche si trova una traccia di tale percorso. Nell’anno scolastico 1961-62 risultavano iscritti alla secondaria superiore 167 alunni ogni 10 000 abitanti. Nel 1991-92 il rapporto si era triplicato, con 494 studenti ogni 10 000 abitanti. Un fenomeno analogo, dunque, anche se di minore ampiezza, a quello che si è svolto in Europa, e in sintonia, del resto, con quanto è avvenuto in tutto il mondo. Ma in Italia ciò si è realizzato entro forme di debolezza culturale particolarmente accentuate, se si pensa che ancora oggi il nostro è ai primi posti, fra i maggiori paesi industrializzati, per ampiezza di popolazione analfabeta. E primeggia ancora nel mondo soprattutto per la bassa percentuale di persone che leggono libri nel corso di un anno. Nelle case di tanti ragazzi manca perciò spesso ogni traccia di libri, non si acquista il quotidiano, non circolano nella discussione familiare i temi e l’atmosfera culturale che creano invece il clima prevalente in cui crescono i giovani 35

membri della media borghesia produttiva, burocratica e professionale. Affacciatisi di recente al mondo della formazione, moltissimi giovani non solo sono privi di tradizioni e di consuetudini familiari ai valori della cultura, ma spesso, per ragioni sociali e inadeguatezza delle istituzioni formative, non ricevono le prime fondamenta scolastiche necessarie per accedervi. È difatti nella prima età scolare, soprattutto nella scuola elementare, che si creano le attitudini soggettive allo studio, alla riflessione, all’applicazione mentale su testi e problemi. In quei primi anni un insegnamento accurato può suscitare nel bambino, una volta per sempre, l’amore per la conoscenza, l’interesse spassionato per i fatti spirituali della vita, fondare quel disciplinamento interiore che stimola nei ragazzi la capacità di porsi compiti di ricerca, il gusto di risolvere quesiti concettuali. Nasce allora la prima confidenza con i libri e solo da quella esperienza può nascere il lettore abituale di domani. È in questa fase che si potrebbe curare quella specie di malattia endemica che Tullio De Mauro definisce l’«abiblismo nazionale». Purtroppo la scuola elementare risulta in genere – soprattutto nelle grandi periferie urbane e nelle aree rurali – incapace di svolgere tale funzione. Il ceto politico di governo, in Italia forse più che nel resto d’Europa, è lontano dal cogliere il rilievo fondativo che la scuola elementare ha nella formazione delle nuove generazioni. Così gli insegnanti italiani si sono trovati, e si trovano tuttora, a fronteggiare, con pochi mezzi e mal pagati, gli inconvenienti di un grande processo di promozione sociale che dura da decenni: i figli o i nipoti degli operai o dei contadini, che solo pochi lustri fa avrebbero goduto di un limitato accesso alla scuola, ora 36

percorrono tutti i gradi della formazione, ma sono spesso privi di sufficienti motivazioni allo studio e di quella sedimentata consuetudine alle cose della cultura che solo la tradizione familiare o una stimolante formazione scolastica di base può fornire. 2. L’erosione della memoria. E tuttavia fermarsi a questa risposta sarebbe riduttivo. Si tratta solo di un piccolo pezzo di verità, benché trascurato. L’insoddisfazione degli insegnanti per la crescente insensibilità che le nuove generazioni manifestano nei confronti della storia, come realtà del passato e come disciplina, ha un fondamento ben più ampio e solido. In realtà essa denuncia un mutamento psicologico e culturale delle nuove generazioni che ha radici profonde in alcuni processi in atto nelle società industriali del nostro tempo. Di disamore per la storia i nostri ragazzi si nutrono con l’aria stessa che respirano. Di che natura sono tali mutamenti? Essi non investono soltanto la storia come disciplina e come fatto culturale, ma modificano, in profondità, le strutture mentali, il nostro stesso modo di sentire il passato. Colpiscono le fondamenta della memoria e perciò corrodono le basi stesse del nostro senso della storia. Si pensi alla famiglia. Esiste un luogo sociale in cui più a lungo e più profondamente la memoria sia stata elaborata, conservata e trasmessa? La famiglia, per una lunghissima fase, è stata addirittura la cellula da cui si generava la necessità della ricostruzione storica. E non era solo per disegnare genealogie. I nuclei familiari, dotati di un 37

cognome e di un patrimonio da trasmettere ai discendenti, per secoli hanno fondato il loro potere e il loro prestigio nella conservazione e trasmissione della memoria storica. Nelle carte degli acquisti, nei testamenti ereditari, erano certificati gli averi e la nobiltà delle origini. Ai notai e ai catasti, per secoli, è stata affidata la responsabilità di custodire le prove della ricchezza delle classi dominanti: ed esse erano rappresentate dai documenti che narravano la vicenda delle famiglie. Una memoria, come si può intuire, che si fondava su una grande iniquità sociale trasformata dal pensiero europeo in fatto naturale. Come ha osservato Massimo L. Salvadori, «Il pensiero liberale, a partire da Locke, facendo della proprietà e della sua trasmissibilità nell’ambito della famiglia un diritto di natura, ha di fatto “sacralizzato” la tirannide della culla, la quale nei confronti degli innumerevoli individui nati nelle culle spoglie d’ogni bene si è sempre configurata nei termini di una grande “ingiustizia”, ma anche di un atto di violenza originaria che la società esercita nei loro confronti». La storia, dunque, esisteva e si poteva scrivere solo per individui nati in culle che ereditavano doti e patrimoni. E tuttavia, anche nelle società contemporanee, fino a epoca recente, il ruolo giocato dalla famiglia nella conservazione non certo della storia, ma della memoria sociale, è stato in varia misura rilevante. Anche quando sono apparsi sulla scena sociale e politica quei nuclei familiari che non avevano né ricchezze né blasone da trasmettere: quelli che per più epoche non avevano mai firmato il passato col proprio prestigioso cognome, e avevano attraversato lo svolgersi dei secoli come numeri anonimi, buoni solo per offrire agli storici venturi cifre per la statistica della popolazione. 38

In realtà anche nelle società liberali e democratiche del mondo contemporaneo il nucleo domestico ha funzionato da luogo di trasmissione delle eredità del passato: benché spesso queste non fossero né terre né danaro. Esisteva un mutuo dialogo tra le generazioni. I nomi di battesimo assegnati ai nipoti per onorare i nonni nobilitavano il passato e creavano un legame di continuità che intesseva, come in un circolo, la storia della famiglia nel tempo. I patrimoni che si tramandavano erano, insieme a pochi beni materiali, quelli dei nomi, dei volti, delle ricorrenze, dei ricordi comuni. Del resto la stessa vita entro le mura di casa costituiva il luogo per eccellenza di elaborazione del ricordo e quindi di attivazione della memoria. Il dialogo, la convivialità vi avevano un posto che consentiva alle persone di vivere con una più acuta percezione le diverse dimensioni del tempo. Qui, sia nelle festività domestiche o solenni, sia nei momenti quotidiani di ricomposizione di tutto il nucleo, il passato era sempre di scena. La rievocazione dei parenti morti, il racconto ripetuto dei fatti memorabili di cui si era stati testimoni, il richiamo agli episodi dell’infanzia e della giovinezza si mescolavano e facevano tutt’uno con le questioni del presente, coi propositi per l’avvenire. Lo spazio mentale degli uomini – e quindi il senso stesso della durata della vita – era allora temporalmente più lungo di quanto non sia adesso. Perché il passato non veniva quotidianamente buttato via, come accade oggi, quasi consumato con un uso frettoloso. Esso occupava un posto rilevante, costituiva una parte integrante, emotivamente viva, dell’esperienza di vita di ognuno. È facile immaginare come sul fondo di tale sensibilità corrente, che faceva del passato una dimensione per così 39

dire familiare, la storia acquisisse un significato positivo indiscutibile. Quasi fosse una continuazione e un inveramento colto della memoria, una sua dilatazione, che consentiva a famiglie e interi ceti sociali di riconoscersi in un comune destino. Quale grande collante di senso storia e memoria venivano a costituire per le classi che le custodivano! Oggi questo paesaggio sociale è interamente mutato. Lo spazio domestico è sempre meno un luogo di conservazione emotiva e mentale dei fatti del passato. Si sono ridotte le occasioni per l’elaborazione e la trasmissione della memoria tra le generazioni e tra genitori e figli. Pur senza considerare qui i problemi di unità e di tenuta che investono oggi i nuclei familiari, si pensi a quanto incidano su di essi, e sugli spazi di comunicazione al loro interno, gli stili di vita determinati dalla società industriale. Soprattutto nelle grandi città accade sempre più di frequente che i genitori non tornino a casa per la pausa del pranzo. Il nucleo si ricompone solo a sera, quando tutti sono stanchi, e preferiscono chiudere la bocca davanti a un televisore. Così si assottiglia il tempo della conversazione, lo spazio intimo del convivio. Diventa sempre più residuale, rispetto agli imperativi del lavoro, il dialogo senza scopi strumentali. Al suo posto si impongono i frettolosi messaggi organizzativi che i componenti si scambiano sotto le urgenze della vita quotidiana. Il tempo presente si accampa dentro le case con la sua affannosa onnipresenza e tende a divorare, come un animale famelico, ogni spazio in cui rimangono tracce del passato. Esso ci incalza a correre verso il luogo oscuro che non c’è ancora. E «così si vive – ha scritto Claudio Magris – non per vivere, ma per aver già vissuto, per essere più vicini 40

alla morte, per morire». Questi mutamenti interni ai nuclei familiari, combinandosi con fenomeni sociali più generali, portano i ragazzi a smarrire l’attitudine a riflettere sui loro trascorsi personali, a rielaborare i ricordi e le esperienze accumulate nei mesi e negli anni trascorsi, a pensare il passato come una componente viva della loro vita. Tutto ciò che è già avvenuto tende a scomparire dal loro orizzonte mentale: è consumato una volta per sempre, come un vestito liso, che nessuno usa più. Così il senso di futilità verso tutto ciò che non rientra nell’ambito delle utilità e delle necessità del presente si infiltra nel profondo delle psicologie individuali. E facilmente, agli occhi di un numero crescente di ragazzi, la storia finisce con l’apparire un grottesco e insensato culto dei morti. Ho isolato la famiglia dal contesto sociale per ragioni di comodità espositiva. Ma essa è anche teatro di profonde trasformazioni che si originano soprattutto al di fuori di essa. L’indebolirsi del dialogo tra le generazioni è anche il frutto di processi più generali. Ancora per buona parte dell’età contemporanea l’interesse e il rispetto per il passato trovavano una rilevante espressione nella trasmissione dei saperi tecnici, dei mestieri, delle esperienze di lavoro. L’anziano in famiglia era titolare di un sapere che aveva anche un valore economico e che poteva essere passato in eredità a figli e nipoti. Nelle attuali società il valore della conoscenza è stato strappato al passato e consegnato interamente all’innovazione continua. Il sapere strumentale si è trasformato in un inseguire il presente e anticipare il futuro. È alla incessante trasformazione tecnica delle nostre condizioni di esistenza, alla novità senza tregua dei beni e 41

dei modi di vita da consumare, che le società del mondo industrializzato affidano oggi il primato assoluto. Così, ogni generazione nuova che si affaccia sulla scena finisce col separarsi violentemente dalle proprie origini, identificandosi con luoghi, realtà, linguaggi che gli uomini delle generazioni precedenti stentano sempre più a capire. Grazie all’innovazione tecnica, alla pubblicità, alla moda, il presente si scinde perpetuamente in due, come una cellula. Esso sembra nascere da se stesso, partorito dal proprio seno, senza legami e senza radici. Non a caso la religione attuale del mondo ricco adora un Dio privo di ogni memoria, che solo sui beni, i miti e le gerarchie del presente fonda la propria «sacralità». Di primo acchito sembrerebbe che la televisione possa essere uno strumento utile per la diffusione del sapere storico. E difatti, astrattamente considerata, essa è un mezzo importante con il quale si possono veicolare saperi diversi in forma nuova e integrativa rispetto al libro. Ma il ruolo da essa svolta dentro la vita sociale ha, in realtà, ben altri esiti. E questo si può vedere proprio considerando l’ambito in cui la televisione mostra il suo lato più aperto alla storia: le informazioni giornalistiche sugli accadimenti mondiali. Non c’è dubbio che questo mezzo ci rende testimoni informatissimi del nostro tempo come mai era accaduto alle generazioni precedenti. I fatti salienti verificatisi in tutti gli angoli della terra risuonano entro le mura delle nostre case come un rumore domestico. Eppure questo eccesso di informazione depotenzia, anziché accrescere, la memoria e il senso della storia. Tutto ciò che accade ordinariamente nel mondo non viene infatti presentato come il risultato di un processo, di uno svolgimento che è maturato nel tempo, che 42

ha dietro di sé una storia, ma come un evento. E l’evento è un fatto isolato, singolo, che si impone alla nostra attenzione senza vincoli, senza passato e senza futuro. In realtà le informazioni che riceviamo non sono neppure selezionate secondo un ordine di rilevanza. Esse sono mescolate insieme alla cronaca, confuse in mezzo alla sterminata massa delle cose che semplicemente accadono. Di più: ogni giorno nuove notizie cancellano la registrazione delle precedenti, vi si sostituiscono per essere spazzate via a loro volta dalle nuove in arrivo. La memoria degli eventi diventa così un flusso mobile in continua modificazione, che stenta a solidificarsi in un quadro stabile, dotato di un ordine, sorretto da un senso. È come se il prodursi e cancellarsi continuo di un numero incessante di punti formasse nello spazio della nostra mente una mobile e informe costellazione. A guardar bene si capisce ormai ciò che sta realmente avvenendo. Gli accadimenti messi in onda dalla televisione si impongono come eventi dotati di vita propria, che si sprigionano dal presente e in esso si consumano. Sono news, come dicono gli americani: vale a dire prodotti di consumo, come una lattina di Coca-Cola o un nuovo dentifricio. Il massacro della popolazione Hutu in Ruanda o lo sciopero degli operai metalmeccanici in Germania sono trasformati in news. Una qualsiasi merce che l’industria della comunicazione produce costantemente. Dopo la news segue la pubblicità, si cambia, cioè, il settore merceologico da promuovere. Di che stupirsi? Nella società di mercato l’informazione appare sempre più catturata nelle logiche dello spettacolo. E «nello spettacolo – ricorda Guy Debord – immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo 43

sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso». Il risultato finale di questo nuovo dominio informativo è la cancellazione del senso del passato, l’affermarsi totalizzante del presente. Una dimensione temporale che alla mente dei contemporanei non provvisti di altre fonti di conoscenza appare come un caotico, ingovernabile, disperante esplodere di accadimenti. 3. Il declino dell’avvenire. Ma la memoria e la storia non sono solo minacciate dentro lo spazio domestico. È nella società che esse debbono affrontare le sfide più formidabili. Come potrebbe essere diversamente? Esse non si sottraggono, infatti, ai grandi processi di cambiamento che investono la cultura e la vita spirituale del nostro tempo. E anche in questo caso è il sentimento, il senso stesso della vicinanza del passato a essere colpito. Si pensi, ad esempio, all’affievolimento della fede e dell’esperienza religiosa che ha attraversato la società occidentale negli ultimi decenni. Una «scristianizzazione» del mondo che ha dissolto i fondamenti di un vecchio sentire comune e intaccato indirettamente il senso della storia. «Il cristianesimo – sosteneva Marc Bloch – è una religione di storici». E aggiungeva: «Sono convinto, semplicemente, che noi facciamo della storia perché siamo cristiani». Anche se con alcune ambiguità, il cristianesimo ha in effetti incarnato per duemila anni, e per una gran parte dell’umanità, la forma più alta – ma certo non l’unica – di questa esperienza. Grazie a esso gli uomini hanno potuto rinvenire la radice sacra del proprio essere nel mondo in un lontano passato: l’avvento appunto di Cristo sulla terra. Era 44

questo remoto evento reale che dava senso a tutta la storia successiva. Ciò che era già accaduto forniva valore a tutto ciò che sarebbe venuto dopo. Proprio in quel passato infatti risiedeva la condizione di senso del futuro: la vita ultraterrena promessa dal messaggio evangelico e dalla cultura cattolica. Per questa via terra e cielo, passato e futuro, venivano a incontrarsi, e la storia umana ne costituiva il raccordo continuo e vivente. Con la scomparsa, o con l’affievolirsi dell’attitudine religiosa, anche il passato perde la sua sacralità, cessa di essere una premessa indispensabile per l’avvenire. Non si ritrova, del resto, un analogo fenomeno di ritirata della sacralità del passato nel declino che ha colpito le grandi ideologie del XX secolo? Il socialismo, e soprattutto la sua variante marxista, non sono stati soltanto teorie e movimenti rivoluzionari, che hanno coinvolto milioni di uomini per quasi un secolo e mezzo. Essi hanno incarnato anche una visione di massa della storia: il modo in cui una buona parte dell’umanità ha vissuto il proprio presente come svolgimento storico e al tempo stesso come preparazione del futuro. Per coloro che si sono riconosciuti in questi grandi movimenti politici, attivi sulla scena per buona parte dell’età contemporanea, l’obiettivo finale di una nuova società prendeva senso dal comune passato di sfruttamento. Tutte le lotte sostenute, e gli eroi lasciati sul campo, facevano parte delle memorie accumulate che il movimento si portava con sé nella marcia verso l’avvenire. Non veniva d’altra parte – e non viene in parte ancora oggi – continuamente scandito il valore del passato con ricorrenze, feste, celebrazioni? Decisamente quello socialista e comunista, più di altri fenomeni di massa, è stato un 45

movimento politico che si nutriva continuamente di racconto storico. Per questo la sua eclissi, nello scorcio del XX secolo, ha coinvolto anche quel sentimento profondo che legava tanti uomini e donne agli eventi di una storia comune. La perdita dei fini sociali da perseguire, l’appannarsi dell’avvenire, fa scadere il passato. Se non c’è più una meta, se nessuno sa più dove si va, non ha alcun senso volgersi indietro, sapere da dove si viene. Si sta nel presente, senza memoria e senza speranza. Una condizione che oltre 70 anni fa aveva ben intuito Martin Heidegger, entro il cerchio magico del suo filosofare: «Chi si limita a occuparsi di ciò che è presente ha dimenticato la missione e cioè ha barattato falsamente l’incombenza con l’utilità calcolabile, e non è presente, ma semplicemente sperduto nell’oggi». Le ragioni complesse del declino di questa esperienza fanno parte della storia del nostro secolo e non rientrano nell’economia di queste note. Ma esse sono sicuramente inseparabili dal generale processo di secolarizzazione che ha investito e sempre di più investe ogni aspetto della vita nel nostro tempo. I tedeschi hanno un termine ricco di significati e di fascino per designare questa perdita di senso del sacro che investe la coscienza dell’uomo contemporaneo: Entzauberung, sottrazione del magico alle cose. È questo uno dei grandi fenomeni spirituali dell’età contemporanea. È anzi l’essenza di quello che i filosofi definiscono il moderno, la modernità. Su di essi non solo si è ammassata una letteratura sterminata, ma la ricerca filosofica di alcuni dei maggiori pensatori del secolo XX affonda le proprie radici in questo sconvolgente scenario spirituale dischiuso dalla nostra epoca. 46

Ma in che modo l’avvento della modernità incide sul nostro senso del passato, sul nostro modo di sentire la storia? La sua azione è oggi soprattutto di estensione, di infiltrazione, di penetrazione di ogni angolo della vita quotidiana. Ciò che alcuni giganti solitari avevano intravisto agli albori dell’età contemporanea ha ormai impregnato le nostre culture, domina le nostre psicologie, dilaga per le strade, entra nelle nostre case. Max Weber, il grande sociologo tedesco, aveva messo in luce il processo di progressiva razionalizzazione e disumanizzazione delle strutture della società capitalistica: «La civiltà moderna – scriveva riferendosi agli apparati burocratici – quanto più diventa complessa e specializzata, tanto più esige per l’apparato esterno che la sostiene il competente indifferente a considerazioni umane, e perciò rigorosamente “oggettivo”». Così «la burocrazia nel suo pieno sviluppo si trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine ira ac studio. La sua specifica caratteristica, gradita al capitalismo, ne promuove lo sviluppo in modo tanto più perfetto quanto più essa si “disumanizza”». Anche la scienza è una forma di sapere avalutativo, impassibile e insensibile ai valori. Essa ubbidisce a criteri di esattezza e di verificabilità che prescindono tanto da convinzioni e tradizioni del passato che da possibili fini. Non dà risposte sul perché ultimo dei fenomeni ma sul come essi avvengono. Quindi è muta sul significato delle cose: e i sentimenti, i bisogni, i desideri degli uomini costituiscono una sfera lontana dai suoi domini. Ma la scienza, nel corso del nostro secolo, non è rimasta chiusa nei laboratori. Essa si è intrecciata sempre più strettamente con la tecnica: vale dire con lo scopo strumentale. Attraverso la 47

tecnologia, si è infiltrata in ogni angolo della società, ha creato una vera e propria intelaiatura sociale. E, là dove entra, la tecnologia crea efficienza, velocità, esattezza, ma svuota le istituzioni di valori e di senso. Oggi nessun individuo, ad esempio in un ambiente urbano, è più libero di muoversi senza ubbidire al linguaggio della tecnica che regola lo spostamento di auto e persone. I semafori o la segnaletica stradale ci danno il via libera o ci sbarrano il passo. Ogni pezzo dello spazio cittadino è adibito a funzioni, non vale in sé, ma deve servire agli scopi molteplici dei cittadini-utenti. Così, progressivamente, la stessa vita quotidiana, anche in ambito domestico, sempre più affollato di dispositivi tecnici, si trasforma in un frenetico movimento che usa l’intera realtà esterna e se stesso come mezzo. I fini e i significati si allontanano ormai dalla nostra percezione nella foresta tecnologica dove tutti gli alberi non sono che strumenti. E l’efficienza, sempre più profondamente interiorizzata, è diventata la nostra religione civile. Ma il mutamento quotidiano delle nostre percezioni è legato anche a trasformazioni culturali più profonde. L’affermarsi della scienza ha lacerato ben più pesanti cortine. È ad essa che si deve l’imporsi e il diffondersi definitivo della convinzione che la nostra conoscenza deve limitarsi alle cose verificabili, quelle che stanno al di sotto del cielo. Così tutto ciò che prima aveva una base metafisica, la religione, la morale, i valori, il sacro, si è ritrovato senza fondamenti. A un certo punto tutti questi aspetti dell’esistenza sono apparsi in una luce diversa rispetto al passato: nulla di più che il frutto di una tradizione millenaria passivamente accettata, ma scientificamente non provata, 48

inverificabile. È stato il crollo di una base indiscutibile, per tutto ciò che era dotato di senso. Nietzsche ha battezzato questo evento con una espressione folgorante: «la morte di Dio». Ma quella che, con il suo contributo fondamentale, ha costituito il nascere di una visione solitaria e inattuale del mondo, un capitolo del pensiero filosofico del Novecento, vale a dire il nichilismo, oggi è diventata il fondo inconsapevole del sentire comune: è, ogni giorno di più, il senso comune del nostro tempo. Un prodotto culturale d’élite si è trasformato in un bene ordinario di massa, come accade dopo un po’ a quasi tutte le merci nella società capitalistica. Ha osservato un nostro studioso e traduttore di Heidegger, Franco Volpi: «Chiunque può vedere che il nichilismo non è più soltanto il fosco esperimento di stravaganti avanguardie intellettuali, ma fa parte ormai dell’aria stessa che respiriamo». Esso è sceso dalla mente dei filosofi e si è disperso tra la folla anonima della società di massa. Chiunque oggi voglia capire le ragioni profonde e generali degli episodi di orrore che scandiscono la nostra cronaca quotidiana deve chiederne ragione, prima di tutto, all’eclissarsi del senso nelle società industrializzate. Questa perdita dell’orientamento colpisce simultaneamente il passato e – in una certa maniera – anche il futuro. Due dimensioni che godono di scarsa considerazione di fronte all’unico dio che oggi è rimasto a presidiare l’Olimpo ormai deserto: l’utile economico. Il senso, bandito da ogni contrada, si è infatti rifugiato in un unico scopo, che in realtà è solo un brutale mezzo: l’arricchimento individuale. Ma chi dà più credito al passato, ormai alle nostre spalle? Chi può progettare le linee di una futura organizzazione umana, un nuovo assetto della 49

società, cosa incerta e fumosa, non calcolabile in laboratorio? In un orizzonte così rattrappito, l’avvenire rimane aperto giusto alla curiosità e all’attesa per il prossimo ritrovato tecnico-scientifico. Anche per questo, come ha osservato Remo Bodei, «il presente pare ridursi a un punto evanescente, a uno spazio inospitale, non più sorretto dagli insegnamenti della tradizione, né da una polarizzazione verso il futuro». La storia, in questo scadente clima spirituale, è la vittima più naturale. Ma essa subisce oggi un’altra aggressione. Al nichilismo di massa, che annienta la progettualità non economica e rende inutile la memoria, si somma un’altra perdita. È apparso evidente a molti osservatori, in questi ultimi anni, quanto si sia indebolita l’immagine dello Statonazione. Tanto i processi interni di secolarizzazione cui abbiamo accennato, che l’affermarsi della cosiddetta economia globale tendono a svuotare questo formidabile contenitore di memorie collettive che è la nazione. Essa è minata al suo interno dal disgregarsi individualistico dei suoi membri, ed è aggredita dall’esterno da forze che mirano a sovrastarla. La tendenza stessa dello Stato a sciogliersi nel mercato, a darsi le regole dell’economia di scambio, incide nel tessuto vivo di ogni paese, nelle sue consolidate sicurezze, svuota interi arsenali di tradizione e di senso. Ma occorre anche sottolineare un vero passaggio d’epoca, sinora, credo, scarsamente osservato. Lo Stato non è solo insidiato nella sua sovranità da gruppi finanziari internazionali, dal crescere continuo di imprese transnazionali, dai movimenti errabondi e senza patria dei capitali. Esso sembra aver perso la sua antica centralità di governo e orientamento della realtà sociale, affidata un 50

tempo alla progettualità e all’iniziativa politica. Il motore della dinamica sociale sembra essersi trasferito e come disperso nelle singole imprese private, che producono continuamente non solo merci, ma tecnologie, innovazioni, forme di organizzazione del lavoro, rapporti sociali, ideologie, atteggiamenti collettivi. Sono esse la rivoluzione permanente del nostro tempo. La politica, il progetto del mutamento sociale, appare sempre più surrogato dal potere autonomo dell’economia e della tecnica. Di fatto, ogni mutamento della realtà appare realizzato solo da queste forze libere e incontrollabili. Al potere politico sembra rimanere ormai una capacità sempre più residuale di regolazione. Tale regredire dello Stato-nazione è uno scacco per la storia. Lo sappiamo tutti: questa disciplina come noi oggi la conosciamo è sorta nell’Ottocento. Il «secolo della storia», per l’appunto. È con l’epoca della fioritura delle identità nazionali che sorge il moderno racconto storico. Esso chiama a raccolta tutte le memorie e le glorie di un passato collettivo, del vissuto delle genti, per dare nobiltà e fondamenti all’organizzarsi degli Stati sovrani. Occorreva costruire la sacralità di questo nuovo soggetto, o quella delle vecchie nazioni che dopo la Rivoluzione francese volevano rinnovarsi. Per questo, come ha ricordato Federico Chabod, è allora che «La nazione diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra». Perciò sacri diventavano anche il passato e la memoria storica chiamata a custodirlo e a ricrearlo. Ma lo Stato-nazione è diventato di per sé il grande collettore organizzato della memoria pubblica: attraverso gli archivi, i musei, le biblioteche, le scuole. Per tanti versi questa forma 51

moderna di organizzazione della vita associata ha continuamente prodotto e conservato le tracce quotidiane e solenni del proprio agire collettivo. Oggi dunque la storia sembra deperire insieme alle nazioni che ha contribuito a costruire. Mancanza di fini da perseguire, svuotamento di senso dell’agire sociale, affermarsi di poteri e logiche sovranazionali: tutto sembra cooperare ad allentare i collanti che tenevano unite le compagini nazionali così come si sono venute formando negli ultimi due secoli. Il deperimento dei valori e delle stesse utopie sociali, che si va consumando sotto i nostri occhi, finisce con l’affidare la coesione interna degli Stati alle coercizioni estrinseche del meccanismo economico, al semplice funzionare dei ruoli in cui ogni individuo consuma tutto il suo senso. Non dovrebbe essere mai dimenticato: la storia si nutre di una irriducibile socialità, «lega – come ha ricordato l’egittologo Assmann – l’uomo al suo prossimo […], conferisce fiducia e orientamento grazie alla sua forza legante e vincolante». Essa, dopotutto, non è che il racconto di imprese collettive. Se si indebolisce il senso dello stare insieme, se l’individualismo rimane l’unica bussola in una navigazione così tempestosa, la memoria del comune passato viene abbandonata. Non ha più senso.

52

II. La storia-problema

Noi non ci faremmo bruciare per le nostre opinioni: non siamo abbastanza sicuri di esse. Ma ci faremmo forse bruciare per poter avere e poter cambiare le nostre opinioni. F. Nietzsche, Frammenti postumi (1878-1879)

1. Preliminari di un progetto. Il quadro sin qui sommariamente tratteggiato può apparire fosco e perfino scoraggiante. Non c’è allora nient’altro da fare che attendere il compiersi inesorabile della modernità? Rassegnarsi alla perdita di ogni memoria, cedere le armi al «deserto che avanza»? In genere non fanno parte del corredo degli storici gli alambicchi con cui si formulano i vaticini sul futuro. Neanche quando questi ultimi sembrano delineare, come nel nostro caso, scenari così inquietanti. Per chi fa questo mestiere la vicenda delle società umane costituisce una rappresentazione senza copione, che un dio dispettoso rende eternamente imprevedibile. Dunque l’analisi appena proposta non ha scopi premonitori. Essa d’altra parte doveva cercare di mettere in piena luce il massimo di verità che è capace di scoprire. È una regola del gioco come della lotta: bisogna conoscere tutta intera la forza dell’avversario se si vuol combattere con qualche possibilità di successo. Occorre anche aggiungere 53

che l’analisi, fin qui tratteggiata, dei processi di deperimento della memoria, e della sensibilità per la storia, era necessariamente unilaterale. Si è voluto deliberatamente, e per comodità espositiva, guardare solo un lato dell’intero processo di cambiamento. Ma in realtà, come cercheremo di vedere, le cose sono più complesse. Non tutto del passato merita di essere custodito. Non tutte le memorie sono degne di continuare a popolare il nostro presente. Talora esse sono strumenti di guerra, non forme di dialogo tra gli uomini. La selezione operata dal tempo sulla massa dei fatti, sui pregiudizi e gli errori che intessevano la tradizione, è stata in qualche caso salutare. Ma queste considerazioni introducono a valutazioni di carattere più generale. L’avanzare dei processi sociali non ha mai una sola dimensione, né un solo segno. Fatta dagli uomini, la storia porta nel suo corso tutte le ambivalenze, le contraddizioni, le molte facce dell’agire umano. E quindi anche la modernità è un dio multiforme, che distrugge antichi edifici, ma apre anche nuovi territori su cui tornare a costruire. Ci sono elementi di liberazione, nel corso storico, che bisogna anche saper vedere. Le proposte che seguono costituiscono perciò il tentativo di applicare, in un ambito delimitato – quello della storia e del suo insegnamento – i principi generali di una strategia. Un piano di risposta, concertata, ad alcune trasformazioni inarrestabili della modernità. Ovviamente, si tratta di nulla più che della proposta di alcuni possibili percorsi di lavoro. Basta guardarsi attorno, o essere minimamente informati sulle caratteristiche salienti della nostra società, per cogliere il carattere eternamente ambivalente delle trasformazioni operate dall’innovazione capitalistica. L’introduzione delle 54

macchine in agricoltura ha liberato i contadini da forme millenarie e abbrutenti di fatica, ma ha svuotato le campagne, ha privato il territorio della cura e della manutenzione quotidiana di uomini e donne. L’applicazione su larga scala dell’informatica sostituisce in maniera crescente il lavoro umano con rendimenti più elevati e precisi. Ma essa, oltre a distruggere posti di lavoro, condanna all’oblio antichi mestieri, abilità manuali, sapienze empiriche. L’estendersi degli stili di vita urbani ci ha liberato dai vincoli, dai controlli, dai condizionamenti che erano propri della vita comunitaria nei paesi, nei piccoli centri. Ma la maggiore libertà individuale ci ha consegnato alla solitudine, al disordine fragoroso della città, all’anomia sociale. Esiste dunque almeno un lato della trasformazione in cui si perde qualcosa, attraverso la quale noi stessi veniamo cambiati. E non sempre è possibile erigere un argine, approntare una difesa. Ci sono cose che si perdono per sempre. E per la verità non si tratta di processi esclusivi della modernità. È il modo stesso di procedere della storia. Anche se bisogna riconoscere che consumare rapidamente il passato è caratteristica saliente del nostro tempo. Eppure, ci sono cose che non vengono cancellate, sono solo trasformate, sono ancora vive. Ciò che abbiamo attorno non è un deserto, ma un terreno impervio, disseminato di sfide, che si possono raccogliere. Se il mondo industriale contemporaneo è un laboratorio incessante di innovazioni «spontanee» e socialmente incontrollabili, è il mondo che non produce a doversi assumere il compito ambizioso del progetto, del governo degli uomini. La cultura e la politica devono ritrovare il senso della propria collocazione e della propria opera in un territorio per tanti versi sconosciuto: 55

quello in cui la trasformazione permanente di ogni condizione di vita è ormai un nuovo principio di realtà. In questo territorio occorre intervenire con misure concertate, per dare intelligenza alle lacerazioni prodotte dall’innovazione, per rappresentare gli interessi collettivi che da essa vengono colpiti, per ricostruire secondo un piano ciò che la macchina economico-tecnologica tende a travolgere o ad asservire ai suoi fini. Può sembrare certamente paradossale: ma oggi tanto la politica che la cultura possono riacquistare un proprio senso se si assumono compiti di restaurazione. Il carattere rivoluzionario della politica può essere riscoperto nello sforzo di ricondurre gli squilibri permanenti, indotti dalla tecnica, all’umana misura della vita. Non certo l’inutile sforzo di riportare le cose al passato, ma la mira costante di ricostruire nuovi equilibri sulla base di progetti consapevoli. È il progetto degli interessi collettivi la contromisura politica alla tecnica. Ma, dopo due secoli di sostegno allo sviluppo, la politica deve porre, nel proprio orizzonte d’azione, la distruttività sociale dell’economia di mercato – per usare metaforicamente un linguaggio che non ci appartiene – come il proprio più sovrastante nemico. Se, dunque, le macchine agricole svuotano le campagne si può progettare una loro diversa messa in valore, ripopolandole di nuove figure impegnate a prendersi cura del territorio. Ciò che costituiva il risultato spontaneo dell’agire sociale dei contadini è sostituito da un mirato piano politico. Se l’informatica ruba il lavoro agli uomini occorrerà progettare la riduzione del lavoro sociale obbligato, dilatare il tempo libero, consegnare la custodia dei mestieri, dei saperi, delle tecniche manuali – questo 56

immenso e invisibile patrimonio dell’umanità – agli uomini che continuano a trarne occasione di gioia creativa. Se la città disintegra i rapporti sociali, getta i cittadini nell’anomia, si possono progettare nuove istituzioni di socialità, si può rendere di nuovo ricca la vita dei quartieri, si può restituire più tempo ai rapporti sociali sottraendolo a compiti immediatamente produttivi. Se il nostro tempo tende a prosciugare l’acqua viva della memoria essa andrà compensata, grazie alla scuola, con il patrimonio consapevole della storia. Per questa via, dunque, la cultura e la politica possono diventare i possibili costruttori di senso in una società che tende ad annientarlo, che punta a ridurre il significato del vivere sociale di ciascuno al circuito elementare e impazzito della continua produzione e del continuo consumo di merci. In tale progetto l’insegnamento del passato, come dimensione del sapere, può giocare un ruolo centrale. La scuola, benché colpita, insidiata, minacciata, sottoposta a tensioni contrastanti, è ancora una formidabile «cittadella della restaurazione». Bisogna aiutarla a capire chi sono i suoi veri avversari, a elaborare una linea di difesa, a ritrovare l’orgoglio di essere protagonista in un progetto che mira a ricostruire una società dotata di senso, capace di progetto per l’avvenire. 2. La storia dei manuali. Come si svolge oggi l’insegnamento della storia? Esso segue un modello consolidato da decenni e, benché appaia ai più ormai gravemente usurato, non viene di fatto messo in discussione se non da voci isolate. All’interno delle scuole, 57

ad esempio nelle medie superiori – l’ambito privilegiato ed esclusivo delle mie osservazioni – l’introduzione degli allievi ai fatti della storia è molto simile a un viaggio nel regno dei morti. Si chiede ai ragazzi di intraprendere questa discesa agli inferi, ma senza nessun tremore né emozione. I morti da interrogare sono proprio stecchiti e non comunicano neppure il fremito eccitante della paura. La storia che si insegna nella scuola italiana è la storia dei manuali, vale a dire la storia dei fatti. Con l’aiuto degli insegnanti i ragazzi vengono ogni anno messi letteralmente davanti a una montagna di fatti – quella che si assicura loro essere la realtà veramente accaduta – perché la mandino giù a memoria. La comprensione e l’apprendimento della storia scadono inevitabilmente, e per lo meno tendenzialmente, in esercizio mnemonico, il passato diventa più pesante e indiscutibile di una pietra tombale. Le guerre persiane, le conquiste di Roma, le invasioni barbariche, le crociate, la Guerra dei cento anni, il Risorgimento italiano, tutto diventa un fluire di accadimenti perfettamente ordinato. Per chi è chiamato a studiarli è come svolgere gli incartamenti di un pacco ben confezionato. Tutto è concatenato, necessario e indiscutibile. Ora – sia detto qui una volta per tutte – non è mai del tutto ineliminabile, nell’apprendimento, soprattutto nelle sue prime fasi, la necessità di un atteggiamento passivo, acritico, di mera accettazione. La grammatica non si impara senza discutere? Quanto, nell’apprendimento della matematica, appare alla mente dei ragazzi logicamente motivato? Anche della storia non tutti gli eventi da studiare sono – nel limitato spazio dell’insegnamento scolastico – sottoponibili a critica, a discussione. La stessa memorizzazione degli eventi e la loro esposizione secondo 58

un ordine temporale e logico fanno parte di un processo formativo importante. Vale d’altra parte ancora, e oggi forse a maggior ragione, quanto era chiaro a Dante: non fa scienza, senza lo ritenere, avere inteso. Ma oggi il predominio dell’organizzazione mnemonica dei fatti del passato appare sempre meno giustificato, quanto meno nell’insegnamento della secondaria superiore. Il persistere anzi di questo modello costituisce uno degli inconvenienti più gravi che mina e indebolisce la trasmissione del sapere storico. Sono convinto che una delle ragioni dell’indifferenza dei ragazzi nei confronti di questa disciplina trova per l’appunto origine in questo modulo di insegnamento, che assegna un ruolo passivo e prevalentemente mnemonico allo studente. In assenza di un insegnante singolarmente motivato e preparato, il divorzio tra la storia e i ragazzi è destinato a diventare profondo e definitivo. Cominciamo con l’osservare che il manuale, indipendentemente dai suoi pregi – e in Italia circolano, come è noto, non pochi e ottimi testi – finisce per rafforzare il senso di indiscutibilità che aleggia sul passato in esso rappresentato. Il libro di testo sembra infatti quasi solidificare un senso comune dell’apprendimento storico: «La storia non si fa né con i “se” né con i “ma”». Così recita infatti la nota massima. Ora, indubbiamente, tale principio si erge come un argine salutare contro la tentazione di non fare la storia di ciò che è realmente accaduto, quanto la ricostruzione di ipotesi e di percorsi meramente congetturali. Un paio di decenni fa, ad esempio, soprattutto negli Stati Uniti, è stata praticata – con modesti esiti – la storia cosiddetta «controfattuale». Che cosa sarebbe accaduto se nella guerra civile americana avessero vinto gli Stati del Sud? Quale corso avrebbe preso 59

lo sviluppo economico senza la diffusione della ferrovia? Nella realtà della ricerca avviene tuttavia che lo storico fa la storia utilizzando tanto i «se» che i «ma». Solo che poi li butta via, al momento di scriverla, così come gli operai tolgono le palizzate del cantiere una volta che l’edificio è stato costruito. Ma la storia non sarebbe in effetti ricostruibile senza l’uso mentale di ipotesi e di alternative possibili. Essa ci apparirebbe come una serie di fatti concatenati e necessari che non potevano accadere se non così come sono accaduti. Lo stesso giudizio sul comportamento degli uomini, sulle loro scelte, non sarebbe possibile: dal momento che tutto il loro operare sembrerebbe come iscritto dentro una corrente di necessità superiore e immodificabile. Essi apparirebbero privi di responsabilità. Se, per esempio, non ci poniamo mentalmente l’ipotesi di come sarebbero andate le cose in Russia, nel 1917, se il governo democratico di Kerenskij avesse realizzato efficaci riforme, noi finiamo per interpretare la vittoria di Lenin e dei bolscevichi come un evento ineluttabile e necessario. Allo stesso modo se noi non teniamo presente che nell’ottobre del 1922 il re d’Italia poteva decretare lo stato d’assedio – e sbaragliare così le bande che avevano dato vita alla marcia su Roma – finiamo inevitabilmente coll’accettare il successo di Mussolini come un evento iscritto nelle cose, naturale come lo scorrere di un fiume. È evidente, dunque, che se lo storico – prima di cercare di raccontare come sono andate realmente le cose – non si ponesse il problema di un loro possibile diverso corso non solo non potrebbe giudicare alcunché, ma si trasformerebbe in un pedante antiquario, un bizzarro raccoglitore di 60

memorie. E, d’altro canto, chi non vede le conseguenze, derivanti da una simile impostazione, per il nostro essere uomini che vivono la propria epoca? Se accettassimo davvero una ricostruzione senza i «se» e senza i «ma» dovremmo riconoscere che tutti, in questo momento, stiamo vivendo una storia necessaria e inevitabile, che nessuno potrà cambiare e che è già tutta iscritta nelle cose. Il futuro non potrà essere se non quello che sarà. Se avessimo a disposizione un augure attendibile e veritiero potremmo già sapere quello che ci attende. E invece tanto il presente che il futuro sono dei campi aperti in cui la nostra libertà e le nostre scelte, insieme al caso e al combinarsi imprevedibile degli eventi, faranno la storia imperscrutabile dell’avvenire. Quel che occorre riportare dunque nell’insegnamento della storia è la sua discutibilità. È facile oggi notare come il manuale finisca, anche suo malgrado, con l’alimentare nei ragazzi una formazione tendenzialmente dogmatica. Esso si presenta infatti, con la sua pesante compattezza, come una sorta di stratificazione geologica di eventi e processi. La realtà davvero accaduta è quanto sta scritto nei suoi paragrafi. Si tratta solo di mandarla giù a memoria. Ma questo cancella agli occhi dei ragazzi un dato essenziale che dovrebbero conoscere preliminarmente. Il manuale non solo è una sintesi essenziale e parziale del passato. Esso è prima di tutto interpretazione storiografica di eventi e processi dei secoli e dei decenni che abbiamo alle spalle. Noi non conosciamo realmente i fatti del passato: noi conosciamo la loro interpretazione. La caduta dell’Impero romano non costituisce l’evento che noi portiamo alla nostra mente così come esso è realmente accaduto. Il nostro rapporto di conoscenza vero è con le varie interpretazioni che gli storici 61

hanno dato di quel processo e di cui il manuale condensa una breve sintesi. Nel libro di testo, dunque, noi troviamo solo la collazione di punti di vista, elaborazioni e tesi di scuole e di singoli studiosi che formano la tradizione storiografica. I ragazzi non hanno dunque accesso ai fatti del passato, ma alla loro interpretazione, non hanno a che fare con gli eventi, con delle solidificazioni indiscutibili, ma con le proposte degli storici. Questo comporta che i cosiddetti fatti si possano discutere, sottoporre a verifica, modificare, arricchire, contraddire. È un terreno di riflessione critica. Se gli eventi appaiono per quello che realmente sono: la rielaborazione di una tradizione scientifica – sottoposta a continua revisione e critica dagli storici che si succedono di generazione in generazione – anche il loro apprendimento cesserà di richiedere agli studenti un atteggiamento passivo. Al contrario, come vedremo meglio più avanti, essi saranno chiamati a prendere posizione, a schierarsi. Sempre meno sarà loro richiesto di registrare mnemonicamente fatti, ma di argomentare tesi, punti di vista, critiche. C’è una prima seria obiezione che può essere avanzata nei confronti di una simile impostazione dell’insegnamento, che privilegia la discussione dei problemi più che i fatti, la storiografia più ancora che la storia. Non finiamo col creare nei ragazzi un atteggiamento di sostanziale scetticismo nei confronti del passato? Se esso non è davvero conoscibile in sé e per sé a che scopo studiarlo? Non c’è il rischio di alimentare nelle nuove generazioni un atteggiamento relativistico che le porti di conseguenza al disimpegno culturale e civile? La prima risposta al quesito è: non perdiamo mai di vista il fatto che le ipotesi interpretative 62

non sono mere astrazioni. Esse riguardano fatti e processi realmente accaduti, non invenzioni degli storici. In discussione è la loro interpretazione, non la loro effettiva realtà. Ritornerò sul tema della conoscenza storica, che ha certamente una sua specificità, ma che può oggi stare accanto alle scienze cosiddette esatte con pari dignità teoretica e forse con maggiori meriti culturali. Ma intanto vorrei sottolineare il di più di interesse che viene ai ragazzi da una simile proposta di apprendimento: essi sono sfidati a diventare i protagonisti di una interpretazione, non i ricettacoli inerti di verità indiscutibili. Perché essi dovrebbero diventare scettici se sono chiamati a prender parte, a schierarsi, a contrapporsi a tesi e interpretazioni non condivise? Non viene sollecitato, per questa via, un loro più forte appassionarsi agli eventi e ai processi del passato? In realtà proprio l’aspetto più ampiamente formativo è quello che più guadagnerebbe da una nuova impostazione dell’insegnamento della storia. Così insegnata, infatti, essa contribuirebbe in maniera nuova all’affermarsi, anche fra i ragazzi, di un’idea di scienza come conoscenza parziale, convenzionale, mai definitiva, soggetta continuamente a correzioni. Più che indurre a un atteggiamento scettico, essa li arricchirebbe di antidoti fondamentali contro l’accettazione di principi indimostrabili, contro le convinzioni acquisite e mai verificate, contro il fanatismo. In una società nella quale vengono continuamente prodotti e diffusi realtà immaginarie e virtuali a scopi commerciali o idola ideologici a scopo di manipolazione politica, l’educazione a un sapere che deve continuamente verificare le proprie fonti costituisce uno strumento straordinario per la formazione del cittadino. L’idea di una scienza come 63

costruzione convenzionale provvisoria, imperfetta, mina alla radice uno dei fondamenti dell’ideologia dominante del mondo attuale: la presunzione di un perfetto dominio dell’uomo sulla natura e sulle cose, che è alla base della violenza sull’ambiente e dell’orgoglio individualistico delle società industriali. È almeno da Galilei che gli uomini hanno scoperto di non essere al centro dell’universo, ma di trovarsi casualmente su uno dei tanti corpi senza luce del sistema solare. Eppure non per questo hanno cessato di comportarsi come i signori del creato. Una presunzione antropocentrica che ci suggerisce quanto lunga sia ancora la strada che dovrebbe portare a un’equilibrata e umile visione della realtà. Siamo ancora assai lontani dall’aver fatto nostro quel senso della fallibilità della scienza, del suo essere una continua prova, solo una delle possibili vie, che induce a mettere in forse l’onnipotenza della tecnica e a guardare con altra attitudine la condizione presente degli uomini, il loro insoddisfatto bisogno di mutua solidarietà di fronte alle sfide che li minacciano. Ma occorre aggiungere un’altra, non meno rilevante considerazione, che riguarda più specificamente l’apprendimento della storia. Familiarizzarsi con la convinzione che gli eventi da noi studiati non erano necessari, ma sono stati una delle strade che il corso storico ha imboccato, finisce con l’avere un esito pedagogico di straordinaria portata. Tale pratica impedisce in maniera radicale di accettare il passato come un processo lineare e inevitabile. Ma al tempo stesso essa mina alla radice il fondo geologico di una cultura che spinge a guardare ai fenomeni sociali avvenuti come l’unica realtà possibile. Tale nuovo modo di guardare alla storia conduce a non accettare la 64

razionalità presente come l’unica possibile: quella derivante dal fatto – come voleva Hegel – che essa si è incorporata negli accadimenti reali. Al contrario il nuovo modo di guardare alla storia lascia aperta la strada all’ipotesi di altre possibili vie, percorsi, alternative. L’effetto più generale cui alla fine mette capo è quello di alimentare una cultura della possibilità sociale. In un’epoca in cui le possibilità e le novità del futuro sembrano interamente consegnate alla realizzazione dei miracoli della scienza e della tecnica, la storia può contribuire all’affermarsi di una cultura che guarda all’intera organizzazione della società non come a una solidificazione indiscutibile, ma come al territorio delle ipotesi, delle alternative, della scelta, della libertà. I ragazzi messi in condizione di discutere il nostro passato si educano a mettere in discussione le gerarchie sociali esistenti e ad assumere il futuro come il regno del possibile. 3. Una nuova economia della memoria. I manuali che oggi circolano in Italia, non diversamente da quelli in uso presso le università e le scuole degli altri paesi dell’Europa, sono sicuramente di buono, quando non di ottimo livello. Scritti prevalentemente da storici di mestiere, essi sono, con poche eccezioni, ricchi di informazioni sulle diverse epoche e storiograficamente aggiornati. Bisogna anzi senz’altro riconoscere che l’industria editoriale scolastica nel nostro paese, almeno in questo settore, è stata sempre pronta e sensibile ad accogliere le novità scientifiche prodotte dalla ricerca e a tradurle in proposte didattiche. Occorre tuttavia subito aggiungere che le suggestioni 65

offerte dalla ricerca, soprattutto sul versante della storia sociale e della storia economica, non hanno dato luogo, in genere, a una reinterpretazione generale delle epoche trattate dai manuali. Di certo, hanno innovato il punto di vista su alcuni snodi e problemi, ma non hanno costituito il punto di partenza perché i vecchi testi venissero riscritti interamente. In genere i nuovi motivi, i punti di vista, le interpretazioni delle nuove correnti storiografiche sono stati semplicemente aggiunti, con pochi sfoltimenti, alla intelaiatura dei vecchi manuali. Ai testi di una storia spesso incardinata su strutture narrative di tipo évenémentiel, sono stati sovrapposti o rifusi i quadri strutturali, le cadenze temporali di una storia pensata secondo gerarchie di significato del tutto diverse. Se, per esempio, un inedito spazio è stato assegnato al ruolo del territorio nella vita economica delle comunità, o alla dinamica della vita familiare nelle società di antico regime, esso si è aggiunto alla vicenda della guerra dei Trent’anni, alle guerre napoleoniche, agli equilibri diplomatici in Europa dopo il 1814 e così via. E anche quando la riscrittura è stata storiograficamente più coerente, il risultato, da un certo punto di vista, è stato il medesimo: il manuale è diventato più voluminoso di quelli che circolavano in precedenza. Più voluminoso: ecco un problema di quantità che è immediatamente un problema di qualità e di merito. La massa dei fatti e dei processi che diventano storia tende velocemente a ingrossarsi. Che cosa accadrà quando, tra non molto, arriveranno alla divulgazione didattica i temi della storia ambientale? E i nuovi emergenti interessi per la storia della tecnica e delle forme di comunicazione? E la vicenda delle popolazioni e delle etnie sempre più numerose e più 66

varie che si stanno inserendo e mescolando alla nostra società e alla nostra storia? Saranno aggiunti ai vecchi argomenti, alle consuete strutture, rendendo ancora più voluminosi i testi di oggi? Ma questo è solo un aspetto del problema. Nel mondo attuale, dieci o vent’anni di vicende planetarie – perché noi oggi dobbiamo fare storia planetaria – equivalgono, in fatto di trasformazioni materiali e culturali, a circa un secolo delle età precapitalistiche. E possiamo continuare a escludere i nostri studenti da un primo approccio alla storia recente? Possiamo davvero contare di renderli appassionati di storia se non creiamo un circuito di comunicazione vivente tra i processi di cui essi sono testimoni e gli eventi storici più o meno vicini che li hanno preparati? Aggiungeremo dunque anche questa massa crescente di fatti storici ai vecchi manuali? Non dimentichiamo, peraltro, che oggi nuove espressioni di informazione storica premono alle porte, con il desiderio di farsi ascoltare, di entrare nella scuola con la loro travolgente forza comunicativa. Pensiamo allo sterminato archivio delle immagini, alla documentazione filmica. Il secolo appena finito ci lascia un’immensa eredità di quadri visivi dei fatti memorabili, ma anche della vita quotidiana, dell’ultima stagione dell’età contemporanea. Che posto assegneremo a questo gigantesco deposito di memorie nell’economia dell’insegnamento scolastico? Non è un caso, a questo proposito, che la proposta di un ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, di introdurre come obbligatorio l’insegnamento della storia del XX secolo, pur salutato da molti come una scelta coraggiosa, abbia suscitato al tempo stesso perplessità. O, per meglio dire, abbia generato soprattutto un certo 67

sgomento fra gli insegnanti. In primo luogo per lo schiacciamento dell’intera età contemporanea a un solo secolo. Ma anche per un’altra ragione: come collocare quest’area disciplinare, per alcuni aspetti aggiuntiva, nella ristretta economia dell’orario di insegnamento? È evidente che siamo arrivati a un punto critico. Ci troviamo ormai di fronte a un problema rilevantissimo che non si può più ignorare: la sovrabbondanza tendenzialmente paralizzante dell’informazione. È un portato generale del nostro tempo che incomincia ad affacciarsi anche nella scuola. Intorno a esso si gioca un aspetto decisivo della formazione delle nuove generazioni e l’insegnamento della storia può cominciare a mostrare qualche via d’uscita. Occorre infatti porsi con onestà il quesito: è possibile continuare a richiedere alla memoria dei ragazzi di incamerare sempre più informazioni storiche? Qual è il punto di rottura della loro capacità di memorizzazione? Ma poi qual è il reale vantaggio di un apprendimento in cui la quantità dell’informazione è portata a sovrastare gli aspetti del giudizio e della riflessione critica? Dunque, a questo punto non si può sfuggire ad una necessità evidente: occorre ripensare una nuova economia della memoria storica. Una nuova selezione del passato da ricordare. Del resto sempre le società sono avanzate selezionando le memorie dei processi che si sono lasciate alle spalle. Hanno «deciso» che cosa ricordare e che cosa dimenticare. Quale soluzione dunque? Una via possibile, qualcuno potrebbe suggerire, è quella di amputare intere epoche per rendere meglio gestibile la memoria dei secoli a noi più vicini. Si potrebbe, ad esempio, abolire l’intera storia antica 68

e forse anche quella medievale. A che serve trascinarsi le vicende di tempi ormai così lontani, di civiltà ormai concluse, per le quali i ragazzi non nutrono alcun visibile interesse? Non esiste in questo caso una buona ragione per incidere con un taglio netto il legame con una tradizione ormai inerte, dando agio alle nuove generazioni di concentrarsi su tempi e problemi storici vicini alla loro sensibilità e al loro effettivo interesse? Ecco qui formulata, in via di ipotesi, la posizione di un coerente «modernizzatore» delle nostre scuole. Chi avanza una simile proposta appartiene sicuramente alla schiera di coloro i quali chiedono alla storia il conto della sua utilità economica. Quando accennavo agli avversari da cui la storia deve sapersi guardare pensavo anche a questo genere di consiglieri. Una simile ipotesi è frontalmente avversa agli intendimenti che ispirano queste pagine. La realtà del mondo antico non va assolutamente abbandonata, proprio per l’esatta ragione per cui qualcuno ci chiederebbe di farlo. Essa è lontana, irriducibilmente diversa dalla nostra. È profondamente inattuale, avrebbe detto Nietzsche. Un universo di valori in cui non ci riconosciamo, e che pure è stato nostro. Ma proprio questo lo rende prezioso, inestimabile. Sempre che, naturalmente, il criterio della stima non sia quello degli affari… Quale profonda diversità di relazioni umane non ci suggeriscono oggi, ad esempio, le condizioni della vita sessuale dell’antica Grecia? Un rapporto di naturalezza degli uomini con il proprio corpo e con quello degli altri che noi abbiamo perduto. Qual era la loro concezione del pudore? E di quale speciale impasto sentimentale era fatto il loro amore? E non si dica che 69

questo non possa essere argomento di studio e discussione a scuola. È un tema sicuramente vivissimo e centrale nell’animo di ogni adolescente. È inestricabilmente avviluppato alla sua curiosità, alle sue aspettative, alle sue gioie, ai suoi tremori, ai suoi drammi. E al tempo stesso costituisce una delle dimensioni rilevanti delle società del passato e ancora del nostro tempo. A quali profondità delle strutture di una civiltà non riesce a far arrivare lo sguardo l’attenzione prestata al gioco misterioso dell’eros! Tenerlo lontano dall’insegnamento costituisce un evidente cedimento agli imperativi di una società che più di ogni altra ha selvaggiamente mescolato la mercificazione del sesso, l’esibizione commerciale e la sua ipocrita rimozione. E possiamo lasciare all’oblio quell’esperienza forse unica nella storia, che insieme ci attrae e ci respinge, dell’Atene antica, che inaugura la democrazia, l’uguaglianza politica fra i cittadini della polis, e nello stesso tempo pratica la schiavitù? E davvero non ha più niente da dirci, a noi uomini che abbiamo perduto il possesso del nostro tempo di vita, la socialità edonistica degli antichi romani, che spendevano parte della loro giornata a curare il corpo e a conversare tra i calidari e i tepidari delle terme urbane? Se dunque abbandonassimo alla dimenticanza questa storia non solo perderemmo le radici profonde e uniche della nostra civiltà, una tappa incancellabile nel processo dell’umano incivilimento, ma come ben sanno gli storici di queste epoche praticheremmo un’amputazione più precisa: toglieremmo di mezzo l’irriducibile diversità spirituale con cui il mondo antico continua a guardarci. Che cosa costerebbe all’umanità presente e futura cancellare dal nostro orizzonte, dalla nostra possibilità di comparazione, i 70

tesori di alterità per cui quella civiltà ci affascina? Un primo risultato sarebbe quello di riconfermare l’idea di uno svolgimento storico lineare, di continuo progresso, che dal fondo dell’età moderna arriva sino a noi: il progresso, in realtà, della tecnica e dell’economia, non necessariamente della condotta morale degli individui, della felicità, delle condizioni spirituali degli uomini. Significherebbe, di fatto, accreditare per sempre come l’unico esemplare di uomo possibile l’homo oeconomicus plasmato da oltre due secoli di capitalismo trionfante. L’individuo unidimensionale e nevrotico dell’età delle merci. Come faremmo a comprendere che gli uomini avevano un altro rapporto con il loro corpo, con i propri simili, con la vita, con gli animali, con gli alberi, con il tempo e con la morte, se pensiamo che il nostro modo veloce e affannoso di entrare in rapporto con gli altri e con le cose sia un dato eterno della personalità umana? Come faremmo a ricordarci che noi – direbbe ancora Nietzsche – siamo «divenuti» ciò che siamo: siamo stati cioè trasformati e stravolti nel nostro più originario fondo spirituale? Non tutto ovviamente, delle civiltà del passato può essere oggetto di ammirazione o di rimpianto. La critica storica può corrodere molti dei nostri vecchi miti scolastici. Ma dovrebbe apparire a questo punto evidente quello che rappresenta, per una cultura della possibilità, la conoscenza dei tratti essenziali dell’età antica: un intero mondo possibile, non solo un mondo perduto. Solo avendo consapevolezza di ciò che gli uomini sono stati, è possibile immaginare una dimensione diversa da quella che gli uomini sono, progettare quello che essi possono diventare. Ma allora, se bisogna studiare anche il mondo antico, 71

come si esce dal dilemma? Com’è possibile ridurre il peso del passato, qual è la zavorra a cui possiamo rinunciare? La prima e semplice operazione da compiere è rammentarsi che il manuale scolastico, come ogni altra sintesi storica, è una convenzione. Non si tratta dell’estratto di tutto ciò che è accaduto. Più semplicemente, in esso sono contenute notizie sugli eventi e processi del passato che le precedenti generazioni hanno creduto di dover tramandare. È possibile sottolineare con più forza il carattere parziale e convenzionale di questa rappresentazione del passato, ricordando ciò che ormai è noto: la memoria in realtà non è che una forma di «organizzazione dell’oblio». La scelta di ciò che decidiamo di ricordare condanna al silenzio tutto ciò che non rientra in questa selezione. Occorre che se ne ricordino i difensori a oltranza dei manuali: già il nostro privilegiarli è un modo di cancellare l’immenso arsenale di fatti che essi hanno comunque rimosso. Ma come potrebbe essere diversamente? Senza l’oblio la memoria non sarebbe in nessun modo possibile, il passato ci schiaccerebbe, invaderebbe il presente impedendoci di agire. Croce definiva non a torto catartica la funzione della storiografia, che ci libera dall’oscuro peso del passato rischiarandolo e perciò, di fatto, compiendo una selezione al suo interno. Dunque, occorre saper dimenticare: questo è il cuore della soluzione. Difficilissima scelta, tuttavia. Che cosa dimenticare, in che modo? Intanto un’osservazione generale. Essa forse può aiutare a compiere una scelta che richiede tanto coraggio. Organizzare l’oblio rappresenta ai nostri giorni un passo decisivo in ogni strategia, non solo di formazione scolastica, 72

ma anche di condotta personale e intellettuale. Per comprenderne il carattere decisivo, occorre assumere una posizione controcorrente. È una percezione sempre più forte che ormai si va facendo strada fra gli osservatori più sordi alle sirene delle novità. Se oggi dobbiamo individuare un nuovo e agguerrito nemico del sapere, un subdolo agente già all’opera, nella società e nella nostra mente, questo è, senza ombra di dubbio, l’eccesso di informazione. L’abbiamo appena evocato. Contro di esso, contro questa nuova e sottile forma di violenza, di manipolazione della personalità, di distruzione della memoria, occorre innalzare alti argini di selezione, nuovi strumenti di difesa. La quantità eccessiva e sempre crescente di dati e notizie divora in germe il tempo della riflessione, del meditare, della pacata fioritura del pensiero. Il nostro è il tempo dell’eccesso. Eccesso di merci, di notizie, di velocità, di spostamenti. Tutto gronda un intollerabile di più, sovrabbonda, straborda. Per questa ragione raggiungere una linea di sobrietà è oggi, per il singolo individuo, la più difficile delle operazioni, ma rappresenta un ineguagliabile traguardo di libertà. Diffonderla a livello sociale equivarrebbe a svoltare, nel fondo della più intima soggettività, l’epoca del dominio dell’economia sulla vita degli uomini. Per questo la scelta di una linea di sobrietà, da praticare nell’insegnamento della storia, si può raggiungere solo tramite una riorganizzazione radicale delle gerarchie di rilevanza e dei modi di trasmissione del passato. 4. Una storia discutibile. Non si fa fatica a immaginare che l’insegnante, in classe, 73

nell’avviare una lezione di storia si ponga nella stessa posizione dello storico che intraprende una ricerca. È, a suo modo, uno storico. Come comincia il proprio lavoro il ricercatore, quando ha in mente di scrivere un saggio? In genere, se è un autentico storico, egli prende avvio da un problema. Egli sceglie il «campo-base», prima di intraprendere la propria avventurosa spedizione, in quel frequentato territorio che sono le questioni lasciate insolute dagli altri studiosi, gli enigmi che rimangono aperti nella tradizione storiografica. L’insegnante, naturalmente, non ha l’obbligo, come lo storico, di conoscere la vasta bibliografia che si è accumulata sul singolo tema. Gli basta, per i propri fini, molto meno. Ma si deve porre gli stessi problemi interpretativi. Quali sono state le cause che hanno portato alla dissoluzione dell’Impero romano? È spiegabile un tale evento-processo con l’incontrollabilità anarchica dell’esercito imperiale, che costituì una forza di disarticolazione del potere centrale? Oppure fu l’ondata dei popoli che premevano ai confini, la forza incontenibile dei barbari, a travolgere il grande edificio statuale e territoriale? O esso crollò per intimo disfacimento spirituale di fronte alle sfide di una nuova era annunciata dalla rivoluzione religiosa del cristianesimo? Domande simili possono essere avanzate per le epoche successive. Come si è formata la struttura del mondo feudale? Essa è figlia di una lenta evoluzione della villa romana, o è il frutto di una istituzione interamente germanica, fondata sul «vassallaggio»? Per quale ragione la cosiddetta rivoluzione industriale si realizzò in Inghilterra prima che in altri Stati? Fu grazie alla posizione di dominio commerciale e marittimo goduta da quel paese nel mercato 74

internazionale per tanto tempo? È conseguente all’apertura di una nuova via di traffici nell’Atlantico o fu piuttosto l’evoluzione di una tradizione manifatturiera, consolidatasi nel tempo, che aiutò a compiere scelte strategiche vincenti nel momento opportuno? Deve qualcosa alle trasformazioni realizzatesi nell’agricoltura inglese del XVII e XVIII secolo, o fu un fenomeno del tutto autonomo? E ovviamente la scelta di problemi per l’età contemporanea non offre minori opportunità. Che cosa, ad esempio, ha reso possibile l’affermarsi del fascismo in Italia? Fu una scelta imposta dalle pressioni dei ceti agrari o rispose a una domanda d’ordine e di sicurezza proveniente dai ceti medi urbani? Costituì l’esito di una debolezza originaria, di una tara del sistema liberale italiano, o il risultato di nuove sfide materiali e politiche a cui il vecchio ceto di governo non seppe, in quella congiuntura, rispondere? Il paniere delle questioni, com’è facile immaginare, può essere molto più ricco di quanto non possano suggerire queste rapide esemplificazioni. Ma il problema, ovviamente, non è di quantità. D’altra parte, chi scrive vuol limitarsi ad offrire elementi di riflessione e di discussione, non certo stendere un programma didattico per il quale non ha alcuna competenza. E tuttavia l’indicazione di fondo non può essere in alcun modo equivocata. Si tratta di trasformare il grande racconto della storia dei manuali in un numero limitato e selezionato di questioni. Occorre trasformare gli studenti da immagazzinatori di fatti in protagonisti di indagini e di discussioni. È un gioco del tutto nuovo. Si tratta di mettere al centro della classe il rovello della controversia collettiva, che trascina anche i più distratti. Il gusto e la passione della ricerca, l’abito del confronto di 75

posizioni, si sostituiscono all’esibizione solitaria e mnemonica, da parte del singolo studente, di un qualche pezzo del grande racconto. Naturalmente, i moduli organizzativi e gli strumenti per realizzare un simile approccio per problemi potrebbero essere i più vari. E gli esperti di didattica possono venire in aiuto a queste esigenze con varie soluzioni. Si potrebbe ad esempio immaginare che l’insegnante illustri il problema nei suoi tratti essenziali, menzionando le varie scuole storiografiche a confronto, e chiedendo ai ragazzi di prendere immediatamente e anche impressionisticamente posizione, di schierarsi subito nella controversia. Registrare queste prime ipotesi e convinzioni e farle riascoltare ai ragazzi dopo aver concluso le ricerche e a chiusura del dibattito costituirebbe una salutare lezione mentale e intellettuale. L’operazione consentirebbe di mostrare con quanta facilità e trasporto noi di solito peroriamo convinzioni, sulla base di idee ereditate e mai verificate, che la ricerca e il confronto, dopo qualche settimana, possono mostrare miseramente infondate. Ma come, di fatto, i ragazzi possono prender parte attiva e relativamente autonoma alla storia-problema? Le soluzioni possono essere ovviamente diverse da caso a caso. Nell’ultimo anno delle superiori, per esempio, in una classe di studenti particolarmente motivati, si potrebbe tentare di stimolarli sulla questione delle origini del fascismo, chiedendo loro di motivare con ricerche autonome le loro rispettive posizioni. Naturalmente sulla base di una limitata bibliografia preventivamente fornita dall’insegnante. Esempi di questo genere si potrebbero ovviamente suggerire anche per altri argomenti. Ma è evidente che per passare dalla 76

storia-racconto alla storia-problema occorre una strumentazione didattica nuova, appositamente pensata per questa trasformazione dell’insegnamento. Si rendono necessari manuali di altro genere, in grado di affrontare contestualmente questioni e posizioni storiografiche, fornendo eventualmente, agli studenti, ulteriori suggerimenti di ricerca. E qui finalmente le «tecnologie» didattiche – dai video ai computer – possono trovare un’applicazione capace di esaltare l’intelligenza critica, la creatività degli studenti e non di prefigurare anzitempo una dimessa e subalterna pratica di apprendistato al lavoro. Ma non è qui che si addensano le difficoltà. L’editoria scolastica saprà rispondere con prontezza e con intelligenza a questa nuova sfida. L’obiezione a una simile proposta è di altra natura e viene certamente da quelli che sono chiamati a realizzarla: vale a dire gli insegnanti. Perciò essa merita, per più ragioni, la massima attenzione. La preoccupazione essenziale è la seguente: ma quanti problemi si possono affrontare nel corso di un anno? Non c’è il concretissimo rischio che gli studenti finiscano col conoscere in profondità alcuni momenti del nostro passato, ma a prezzo di perdere il senso dello svolgimento di intere epoche? Non creiamo degli esperti di poche questioni e degli ignoranti della storia generale? Il rischio effettivamente esiste e io non voglio eludere il senso dell’obiezione. Intanto, però, occorre prima di tutto ricordare che quando si compie un’innovazione qualcosa si perde, sempre e inevitabilmente. E qui la riforma proposta non nasce da una trovata arbitraria, da un solitario ghiribizzo. Noi all’innovazione siamo costretti, in maniera drammatica, dalla marea montante di eventi e processi che la ricerca storica ci consegna incessantemente. Ma alla giusta 77

esigenza di non perdere il senso del processo storico complessivo si può rispondere oggi in una forma nuova rispetto alla soluzione offerta dal manuale: ritrovandola, ad esempio, anche per periodi limitati, dall’interno dei singoli casi assunti come problema. Anche perché le questioni andrebbero scelte fra i grandi temi della tradizione storiografica. Non rinvia il problema storico del crollo dell’Impero romano al passaggio fra il mondo antico e l’età di mezzo? Di fatto è un’intera epoca che si prende in considerazione. Ed è proprio necessario, per questo fine, infliggere ai ragazzi l’affanno di mandar giù l’intera vicenda del susseguirsi degli imperatori? Affrontare, ad esempio, il grande nodo storiografico dei caratteri e della formazione del sistema feudale non comporta, di necessità, rielaborare la visione essenziale ma complessiva di un’intera epoca? E per quale ragione costringere gli studenti a investire tanto tempo per memorizzare gli eventi della guerra gotica, la lotta per le investiture, le crociate? Anche lo studio della rivoluzione industriale si presta alle stesse considerazioni. A che scopo occuparsi della guerra dei Trent’anni, dei conflitti per la successione spagnola, della questione del Baltico nel XVII secolo? Senza dover scomodare così tanti fatti ed eventi, occuparsi di quel determinato problema comporta la necessità di affrontare alcuni aspetti essenziali dell’età moderna: dalla configurazione degli Stati nazionali alla composizione delle classi, dalle colonie al commercio atlantico, dai caratteri dell’agricoltura allo sviluppo della scienza e della tecnica. Ma tutti questi aspetti ed altri, che formano i caratteri salienti di una buona parte dell’età moderna, vengono riletti non come i capitoli del grande racconto del manuale, ma come zone e territori da esplorare 78

per comprendere il problema della rivoluzione industriale in Inghilterra. Essi vengono riannodati intorno a un centro vitale di riflessioni. Non sono più i quadri statici di una sorta di museo temporale da allineare astrattamente nella memoria, ma le parti essenziali del grande puzzle, le pedine dello sforzo e del progetto interpretativo. È una nuova logica di memorizzazione che viene proposta, insieme a una diversa strategia di selezione dei materiali del passato. Si dirà che in questo modo i fatti, gli avvenimenti, il senso epico del passato vanno perduti. La narrazione cede al problema interpretativo, l’esposizione alla discussione. Questo è solo in parte vero. E d’altra parte proprio per quest’ultimo aspetto il supporto filmico potrebbe rivestire un carattere integrativo prezioso. Quante ore di lezioni e di studio non si potrebbero risparmiare affidando a Dvd realizzati da storici il compito di raccontarci, in maniera più vivida e avvincente di quanto non possano fare i manuali, i grandi racconti degli eventi, il trascorrere delle epoche?

79

III. Il presente e il passato

Ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita

1. Storici e antiquari. Racconta Marc Bloch: «accompagnavo a Stoccolma Henri Pirenne, il quale all’arrivo mi disse: – Che cosa andiamo a vedere prima di tutto? Pare che ci sia un Municipio nuovissimo. Cominciamo di là. E aggiunse, quasi volesse prevenire il mio stupore: – Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma sono uno storico. Ecco perché amo la vita». L’aneddoto – molto noto fra gli addetti ai lavori – viene raccontato da Bloch con l’esplicita intenzione di mostrare il carattere necessariamente ispiratore che il presente deve assumere nel lavoro dello storico. È il presente che pone le domande al passato, non viceversa. Tutto ciò che abbiamo alle spalle resta muto se non lo fa rivivere la nostra curiosità, il nostro bisogno spirituale di oggi. Anche l’evento più remoto, una tomba preistorica, una bolla papale si colorano di senso se parlano alle nostre passioni attuali di conoscenza. Altrimenti sprofondano nel gelo del silenzio, come la gran parte delle cose accadute. Sono del resto i vivi che richiamano in vita i morti, per intessere il dialogo della memoria, non il 80

contrario. A meno, naturalmente, di qualche speciale incantesimo. Felicemente, Benedetto Croce aveva definito questa subordinazione del passato al presente coniando la nota espressione della storia come «sempre contemporanea». Il fatto che sia il presente a condurre il gioco del nostro rapporto col passato è tuttavia interpretato in genere dagli storici di professione in una maniera sola e alquanto mediata. Essi non prendono l’avvio, nelle proprie ricerche, dai problemi materiali del proprio tempo, ma dalle questioni lasciate aperte dalla tradizione storiografica. Il legame si stabilisce col presente di una tradizione di studi. È una pratica corrente cui abbiamo già fatto cenno. Non diverso, del resto, è il modo di operare del fisico o del chimico nei rispettivi laboratori di ricerca. Si parte dal punto di conoscenze cui gli ultimi predecessori sono arrivati. E tuttavia non è questo l’unico modo con cui di norma procede la conoscenza, né nel campo delle scienze cosiddette esatte, né in quello delle scienze umane. Spesso le trasformazioni più rivoluzionarie del sapere sono avvenute quando è stata messa in discussione la base di partenza, l’intero edificio del sapere fin lì accumulato: per l’appunto la tradizione. Galilei aprì la strada alla fisica moderna scegliendo di leggere direttamente nel gran «libro della natura», cioè osservando direttamente i fenomeni celesti, e rifiutando di leggere i testi dei suoi predecessori, vale a dire di accettare la tradizione aristotelico-tolemaica allora dominante. Anche in storia qualche volta è stata scelta la strada di ubbidire a libere curiosità, a quesiti posti dalla realtà, più che non a vecchie e dibattute questioni storiografiche. Proprio Marc Bloch è stato il protagonista di 81

una tale trasgressione. Osservando le campagne francesi del suo tempo egli si imbatté in alcuni segni inscritti nel paesaggio di cui non sapeva darsi ragione. Perché alcuni campi erano chiusi, cintati, e altri apparivano invece sistematicamente aperti, privi di ogni visibile recinzione? A quale diversa e specifica organizzazione produttiva e sociale rinviava quella evidente e non casuale difformità? Partendo da queste domande, che sorgevano da una semplice osservazione empirica, Bloch risalì indietro nel tempo e finì per utilizzare fonti mai prima prese in considerazione dagli storici di mestiere: le mappe catastali. Carte, che descrivevano la condizione delle proprietà e le forme di utilizzazione della terra, coperte dalla polvere dell’oblio di più secoli. Qui egli trovò alcune risposte agli interrogativi che lo appassionavano, ma nello stesso tempo aprì un nuovo settore di studi storici, insegnò a leggere fonti prima inutilizzate, diede il via a una nuova tradizione di ricerche: quella della storia agraria e del paesaggio. È possibile dunque formulare, anche nell’insegnamento, problemi di storia che non partano necessariamente dalla tradizione storiografica, ma dal presente? È realistico pensare che l’insegnante avvii in classe un percorso di storiaproblema sulla base di interrogativi che sorgono direttamente dal mondo attuale? Realizzare un simile obiettivo consentirebbe, fra l’altro, un risultato pedagogico di grande rilievo. Offrirebbe la possibilità di mostrare agli allievi, in maniera esplicita, ciò che rimane implicito nel lavoro dello storico e che tuttavia costituisce la ragione ultima del nostro volgerci al passato: rispondere a domande che sorgono dal nostro tempo. Cominciare l’insegnamento di questa disciplina dai temi del manuale ha infatti anche 82

questo inconveniente: costringe l’insegnante a partire dal passato, da un mondo muto, che a un giovane non pone più domande, anziché dal groviglio di questioni, dagli interrogativi aperti del presente che invece agitano la sua mente. E accade assai spesso, nel corso di una intera carriera scolastica, che lo studente non scopra mai la propria epoca come esito visibile della storia studiata, convincendosi così che la disciplina su cui è chiamato a impegnarsi costituisca una insensata accumulazione mnemonica. Non è un caso che l’insegnamento scolastico della storia, per coinvolgere l’interesse dell’allievo, si trovi costretto oggi a puntare sulla curiosità quantitativa, da collezionista, non sulla passione esplorativa: deve far leva, nello studente, sulla vivacità dell’«antiquario», che accumula sempre nuovi oggetti da conservare, non sulla sensibilità dello «storico», che vuol connettere il presente con il passato, e così placare i demoni inquisitori del proprio tempo. Proviamo dunque a vedere come sia possibile, anche in classe, avviare una lezione di storia partendo dal «libro aperto della natura», dal paesaggio sociale del nostro tempo. Guardiamo anche noi ai campi chiusi e aperti che ci circondano: con l’ambizione di risalire all’indietro per sciogliere l’enigma che ci avvince o comunque per rendere più ricca e complessa la nostra comprensione dei fenomeni sociali. Vediamo alcuni esempi possibili, con un’avvertenza preliminare. Si tratta di proposte non tutte oggi immediatamente realizzabili a scuola per mancanza di sussidi didattici specifici. Ma l’avvertenza, per la verità, dovrebbe essere un’altra. Ciò che rende in fondo possibili esperimenti di questa natura è alla fine una sola condizione: la conoscenza e la passione dell’insegnante per i problemi 83

del proprio tempo. All’insegnante di storia non è sufficiente una buona preparazione disciplinare. Deve anche possedere l’abitudine di leggere il giornale ogni giorno, la curiosità costante per gli eventi pubblici che gli accadono intorno. Solo la viva coscienza delle questioni essenziali del presente, il prender parte da contemporaneo alla propria epoca, consente davvero di insegnare la storia come forma di conoscenza e non come hobby collezionistico. È nei bisogni e nelle inquietudini spirituali dell’oggi che si custodisce il senso con cui formuliamo le nostre domande al passato. È il realizzarsi di simili condizioni che può trasformare l’insegnamento della storia, dentro le classi, da «disciplina funeraria» al territorio delle contese. Da qui può fiorire, fra le nuove generazioni, la più fervida passione intellettuale per i problemi del presente. 2. L’istituzione del consumismo. Ogni generazione vive il proprio tempo con una profonda e mai discussa convinzione: quella di trovarsi nell’unico mondo possibile. La società che essa eredita dagli uomini del passato appare simile a una solidificazione geologica: la base stabile, il punto di partenza su cui edificare ex novo il proprio originale percorso verso il futuro. Nelle società democratiche la libertà di percorrere il proprio tratto di storia nel «mondo così com’è» appare più incondizionata che mai. A nessuno sorge il sospetto di trovarsi a giocare una partita già truccata da chi sedeva al tavolo prima di noi. Nessuno sospetta che ci abbiano messo in mano carte manipolate. Nell’«unico mondo possibile» ad ogni singolo individuo anche i pensieri, i desideri, le predilezioni, i gusti 84

appaiono come gli unici possibili: quelli di tutti, naturali, «umani», quelli di sempre, immutabili come il colore del cielo. In questo tipo di convinzione si inscrive sicuramente l’atteggiamento consumistico delle nuove generazioni, dei ragazzi che riempiono le nostre scuole e le aule dell’università. Il loro «americanismo» è inconsapevole, antropologicamente assimilato, una seconda natura diventata più «vera» della prima. Allevati sin dalla primissima infanzia dai messaggi pubblicitari della televisione, dai manifesti murali, dalle insegne lucenti dei negozi, i ragazzi hanno introiettato un’attitudine verso gli oggetti di consumo che è naturale quasi quanto il rapporto con i propri genitori. In certi casi è persino più fondativo e profondo. Essi sono naturaliter consumatori della moderna società affluente, prima ancora di diventare persone, e ovviamente ancor prima di diventare cittadini. Persuasi di essere naturali e liberi nelle loro scelte, essi sono stati in realtà già scelti, da chi li ha preceduti, per alcuni aspetti importanti della loro futura condotta sociale. Più precisamente, essi sono stati educati come consumatori di merci prima di formarsi una qualsiasi consapevolezza sulla propria individualità personale e sociale. Per tale ragione credo che costituirebbe una salutare lezione intellettuale, partendo dalla loro soggettività presente, mostrare ai ragazzi come essa non sia un dato di partenza, ma un risultato, non una componente naturale, ma un esito storico. Scoprire il condizionamento artificiale della propria libertà, della propria più profonda e intima spiritualità: ecco come la storia può rispondere a bisogni fondamentali del nostro tempo interrogando il passato. Un 85

modesto esempio di come la scuola, valorizzando un suo insegnamento tradizionale, può svolgere un ruolo fondamentale di critica culturale, di formazione, di liberazione intellettuale delle nuove generazioni. La critica alla società consumistica e alle sue raffinate forme di condizionamento e di persuasione è stata efficacemente condotta, in questo dopoguerra, dalle discipline sociologiche. Discipline, com’è noto, che nelle nostre scuole non godono ancora di cittadinanza. Eppure la storia – anche col loro ausilio – potrebbe oggi svolgere un ruolo ancor più radicalmente disvelatore. La nostra disciplina potrebbe consentire di porre in classe un bel grappolo di domande: il nostro rapporto con le cose, con gli oggetti, con i beni, è naturale o storico, risultato dell’umana insaziabilità o fenomeno sociale, frutto automatico dello sviluppo economico o risultato di specifiche strategie di manipolazione, esito culturale di lungo periodo o componente di uno stile di vita indotto in epoca recente? La ricerca storica oggi ci mostra con disincanto l’«atto di nascita» del consumismo. La sua origine di costruzione culturale deliberata, progettata dal potere economico. Di recente uno studioso americano, Jeremy Rifkin, ha ricostruito succintamente questo evento, mettendolo in stretta connessione con le logiche potenti della grande industria degli Stati Uniti. Si tratta di un racconto necessariamente schematico, e anche lacunoso, ma molto utile sotto il profilo didattico. Agli inizi del XX secolo, per la prima volta nella loro storia, gli imprenditori di quel paese si trovarono di fronte a un inedito e imprevisto problema: le capacità produttive delle loro fabbriche erano di gran lunga superiori alla domanda dei potenziali 86

consumatori. Le innovazioni tecnologiche avevano moltiplicato la massa delle merci disponibili sul mercato, ma la loro richiesta da parte dei consumatori non seguiva affatto tale tendenza. Si creò allora un conflitto evidente, una «crisi» tipica e ricorrente della società capitalistica: da un lato un forte avanzamento tecnologico da parte dei produttori, dall’altro un forte ritardo «culturale» da parte dei consumatori. Gli operai, costretti dal loro ruolo, e grazie alla potenza crescente delle macchine, producevano alacremente sempre nuovi beni: ma i cittadini, lasciati al loro libero comportamento, alle loro libere scelte, non si mostravano altrettanto collaborativi. Infatti, non consumavano con lo stesso ritmo con cui le merci venivano riversate sul mercato. Una crisi da sovrapproduzione, come la chiamano gli economisti. Nel caso degli Stati Uniti il ritardo culturale era determinato dalla mentalità dominante presso la maggioranza della popolazione bianca di allora. Uomini e donne di religione protestante, severi risparmiatori, avvezzi a uno stile di vita sobrio – tempre di persone che avevano edificato con il loro lavoro e i loro sacrifici la società americana –, costituivano ormai un impaccio alla crescita economica. Impareggiabili lavoratori, essi erano, tuttavia, quanto a capacità di consumo, del tutto inadeguati ai bisogni della gigantesca macchina produttiva americana. Occorreva dunque fare qualcosa. Bisognava, nientedimeno, trasformare la spiritualità, il modo di pensare, lo stile di vita di milioni di individui: entrare nella loro anima e orientarla in maniera diversa, tormentarla con nuovi bisogni. Una specie di nuova riforma religiosa, ancora più radicale di quella del XVI secolo, anche se meno cruenta. Questa volta, infatti, si trattava di imporre alla 87

massa dei fedeli un nuovo dio: il consumo continuo di merci. A tale scopo la comunità americana degli affari si mosse su questo nuovo terreno con la stessa mentalità di conquista e di intrapresa con cui i pionieri si lanciarono alla conquista delle terre vergini del West. Un dirigente della General Motors, la potente industria automobilistica, divenuto un apostolo del nuovo credo consumistico, comprese e agitò allora un principio fondamentale. Egli sostenne apertamente che «la chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione». Il nuovo compito dell’imprenditore non era solo quello di produrre merci, ma anche di creare «il consumatore insoddisfatto». Nasceva allora una nuova branca di studi, un settore inesplorato di analisi, quello dell’«economia del consumo», che si occupò sempre più del comportamento del consumatore. Da quel momento gli imprenditori capirono che erano essi stessi a dover creare, non solo le merci, ma anche, nell’animo dei consumatori, il bisogno di acquistarle. È da allora, intorno agli anni venti, che si diffusero in maniera crescente il marketing e la pubblicità: vale a dire le tecniche di studio del mercato e le forme di persuasione ad acquistare prodotti. Era la scoperta di un territorio vergine che prometteva acquisizioni senza fine. Come concludeva nel 1929 l’inchiesta della Commissione voluta dal presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, il primo ingegnere alla Casa Bianca: «Questa ricerca ha dimostrato, in maniera conclusiva, ciò che un tempo veniva considerato teoricamente vero: i desideri sono insaziabili; ogni desiderio soddisfatto apre la strada a un nuovo desiderio. La conclusione è che la soddisfazione di nuovi desideri creerà 88

immediatamente desideri sempre nuovi da soddisfare. Attraverso la pubblicità e altre tecniche di promozione si è data una sensibile spinta alla produzione». Come è successo per tanti altri fenomeni nella storia del Novecento, le esperienze e le «conquiste» realizzate in America si diffusero ben presto in Europa. Fu dopo la seconda guerra mondiale che l’attitudine al consumo di massa, che aveva ormai invaso la società americana, varcò l’oceano per approdare alla vecchia Europa. E il fenomeno si realizzò in una forma così ampia e profonda, con esiti di così vasta portata, da costituire uno dei più grandi fenomeni di trasformazione culturale dell’età contemporanea. Uscita dall’immane conflitto con danni limitati, l’America emerse allora, quasi all’improvviso, come la nuova grande potenza economica del pianeta. Gli Stati nazionali europei, stremati dalle devastazioni belliche – e che talora non si erano neppure ripresi dai danni del primo conflitto mondiale – si trovarono con ogni evidenza in una condizione nuova di subalternità. Una condizione inedita nella storia del mondo. L’ex colonia fondata da europei bianchi era ora la nazione leader, con un sistema industriale diffuso e potente, una organizzazione scientifica e tecnologica superiore, il possesso di un’arma, la bomba atomica, che le dava una supremazia militare assoluta, una società dinamica, un territorio sterminato e ricco di risorse. Significativamente, finita la guerra, il primo grande atto di politica internazionale realizzato da questo paese dei primati verso l’Europa fu un progetto di aiuti economici e finanziari: il piano Marshall. Una grande operazione per rimettere in moto la macchina produttiva del vecchio continente e rendere per questa via ancora più vasto il grande mare del 89

mercato internazionale. La penetrazione dei modelli consumistici americani in Europa, avviatasi negli anni quaranta, fu infatti una delle componenti di un processo espansivo che era insieme militare e politico – occorreva limitare l’influenza del comunismo e dell’Unione Sovietica sui paesi dell’Occidente – economico, ma anche culturale. Come ha scritto la storica americana Victoria de Grazia, in un’ampia e recente ricerca: «Gli Stati Uniti hanno saputo porsi invariabilmente in prima linea nell’innovare la cultura del consumatore, il che ha concorso in modo determinante alla loro egemonia planetaria, oltre naturalmente al grande potere economico del paese, alle alleanze politiche che ha saputo tessere». L’americanismo – fenomeno con cui si designava a un tempo lo stile di vita americano e la sua imitazione nei vari paesi europei – fu infatti uno straordinario e rivoluzionario fenomeno culturale. Esso si manifestò soprattutto sotto forma di diffusione di nuovi linguaggi. I valori e i modelli di comportamento americani, che si affacciarono sullo scenario del Vecchio Continente dopo la guerra, erano soprattutto nuove forme di espressione culturale che differivano dalla cultura scritta dei ceti colti europei e da quella orale delle popolazioni agricole. Si trattava di messaggi che avevano una efficacia e universalità di comunicazione sconosciute ai linguaggi tradizionali della cultura europea. Essi si esprimevano, infatti, soprattutto attraverso le immagini, la velocità, il ritmo musicale, i fenomeni di costume, i prodotti commerciali. Nuovi linguaggi e nuovi modelli di comportamento diventavano in realtà la stessa cosa. Il cinema di Hollywood e i suoi miti, i cartelloni pubblicitari giganteschi, il ritmo febbrile delle città percorse dalle auto, 90

il boogie woogie, la Coca-Cola rappresentavano a un tempo una incitazione al consumo e uno stile di vita. E anzi, per l’esattezza, per la prima volta nella storia dell’umanità, consumare diventava per un numero crescente di uomini la forma più desiderabile di vivere. Nel giro di qualche decennio sarebbe diventata, in tutti i paesi industrializzati, l’unica forma di vita pensabile. L’americanismo ebbe tuttavia una straordinaria capacità di penetrazione non solo grazie alla forza inedita e travolgente della sua universalità comunicativa. Perfino nei più sperduti cinema di paese, le immagini dei cowboys del lontano West incantavano gli occhi dei contadini bretoni, calabresi o andalusi con una immediatezza che non trovava confronto in altri mezzi espressivi. Ma il «modo di vita americano» si presentava al tempo stesso come un’offerta inedita di prosperità: un mondo in cui i beni erano abbondanti e soprattutto disponibili per tutti, senza distinzioni di ceti e classi. Non solo carne in quantità sconosciuta in passato, ma anche prodotti superflui: cioccolato, liquori, chewing-gum, sigarette. Era questa la condizione dei consumi dell’americano che si affermava attraverso le immagini e gli stessi prodotti e che penetrava nella mentalità collettiva europea. Ai milioni di uomini e donne che uscivano dalle privazioni della guerra e soprattutto – nella maggior parte dei casi – da assai parche e spesso misere condizioni di vita rurale, l’America apparve poco meno che l’avvento del Nuovo Regno. Ma un altro messaggio culturale si faceva strada insieme alle immagini della prosperità materiale, e costituì uno degli elementi di fascino presso le nuove generazioni europee e di più profonda innovazione sul terreno sociale. Tanto il cinema 91

che i fumetti, i cartelloni pubblicitari, la musica, o le nuove mode nell’abbigliamento, portavano nella mentalità europea una ventata sconosciuta di egualitarismo. I valori di una società democratica come quella americana si facevano lentamente strada nel costume di una vecchia Europa in cui erano ancora così dominanti i rapporti gerarchici tra le classi, la «distinzione» sociale tra le persone, così vive e sentite le «nobiltà di sangue». La più integrale e coerente società capitalistica della terra metteva in campo i suoi valori dominanti: la capacità di produrre e di consumare degli individui – il nuovo imperativo etico del nostro tempo – rendeva tutti formalmente eguali. A ciascuno, indipendentemente dalle origini sociali e famigliari, era consentito di arricchirsi, se era capace di farsi strada con la propria capacità di lavoro e il proprio talento. Al tempo stesso i modelli americani di vita trasmettevano un messaggio assolutamente nuovo di libertà individuale. Tanto il cowboy sul suo cavallo, al galoppo nelle praterie, che Buster Keaton dietro il volante di un’automobile comunicavano un’irresistibile idea di liberazione dell’individuo dalle costrizioni di una società autoritaria che lo aveva tenuto sino ad allora sotto controllo. Possedere un’automobile, o una motocicletta, sarebbe diventato ben presto anche in Italia e in Francia, in Germania e in Inghilterra una condizione per essere liberi: un modo di essere individualmente indipendenti. La diffusione della televisione, negli anni cinquanta, costituì uno dei veicoli più formidabili del nuovo modello di vita americano e dei valori ad esso collegati in tutti i paesi d’Europa. Attraverso questo nuovo mezzo di comunicazione l’americanismo venne filtrato, ritardato, tradotto nei vari 92

idiomi nazionali, ma alla fine reso vittorioso. Anche in Italia, terra di emigrazione, dove il mito dell’America era più antico e popolare che altrove, la televisione filtrò con cura gli elementi rivoluzionari, di scandalo sociale, contenuti nei messaggi di costume che provenivano da oltreoceano. Monopolizzata dal partito cattolico della Democrazia cristiana – pur fieramente filoamericana e anticomunista – essa cercò di limitare l’assunzione dei modelli consumistici proposti dalla pubblicità americana e di non turbare il quadro etico e culturale del paese, ispirato alla dominante morale cattolica. Ma questo fu possibile per poco più di un decennio. Comunque, sugli altri versanti della vita economica e sociale l’americanismo dilagava in tutte le sue forme. Divenne ben presto l’ideologia di massa che accompagnò, fra gli anni cinquanta e settanta, in tutti i paesi d’Europa, lo sviluppo economico più imponente e tumultuoso dei tempi moderni. I nuovi stili di vita e i nuovi modelli di consumo si affermavano d’altra parte non solo con le immagini, ma con i prodotti. Soprattutto la diffusione degli elettrodomestici, che introdussero la tecnologia nelle case, e la grande offerta di capi di abbigliamento a buon mercato crearono un nuovo rapporto fra il mondo della produzione industriale e i cittadini. Dalla fabbrica veniva ricchezza che cambiava la vita, liberava almeno una parte dell’umanità da antiche fatiche e miserie. Ma ciò che rese la vita degli europei più simile a quella degli americani fu indubbiamente l’automobile, che negli Stati Uniti aveva conosciuto una diffusione di massa già negli anni venti, grazie alle strategie industriali e commerciali di Henry Ford. Per un numero crescente di persone, il territorio apparve allora sottoposto a 93

un nuovo dominio dell’individuo. Questi diventava, in una misura sconosciuta al passato, signore degli spazi, e sperimentava emozioni prima ignote legate alla velocità su strada. Che importava se le nostre città rinascimentali, i borghi medievali erano stati costruiti per gli uomini o tutt’al più per i cavalli? La circolazione automobilistica privata, pensata per le grandi arterie delle nuove città americane, poteva ben essere trapiantata in Europa se essa consentiva di sperimentare nuove esperienze di vita: libertà, corsa, avventura. La dinamica con cui il consumismo si diffondeva era d’altra parte potentemente alimentata da ragioni sociali e psicologiche. Si può anzi dire che essa incorporava ora, e lo riproduceva in dimensioni gigantesche, il meccanismo tipico della moda, analizzato dal filosofo tedesco Georg Simmel agli inizi del Novecento. «Se le forme sociali, i vestiti, i giudizi estetici – scriveva Simmel – ovvero tutti gli stili in cui l’uomo si esprime, vengono continuamente trasformati dalla moda, allora essi, cioè la nuova moda, sono prerogativa delle sole classi superiori. Non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene, superando la linea di demarcazione posta da quelle superiori e infrangendo l’unità simbolica della loro matrice comune, ecco che le classi più elevate ripiegano da questa moda a un’altra e con ciò si differenziano di nuovo dalle grandi masse: il gioco ricomincia da capo». Si comprende bene, dunque, il successo incontenibile di quel formidabile invito a consumare che veniva dall’America. Esso si presentava con il fascino dell’umana liberazione dai bisogni e come realizzazione di antichi desideri di libertà: diventava il lievito che alimentava lo 94

sforzo delle diverse classi sociali ad assomigliare alle altre o a distinguersene. Ma c’è anche qualcosa di carattere storico più generale alle origini di una così generale affermazione. Si potrebbe dire che le ragioni del successo dell’americanismo risiedono nel fatto che l’omologazione capitalistica del mondo, nella seconda metà del XX secolo, ha trovato un suo linguaggio. Il paese ormai leader tra gli Stati industriali ha mostrato a tutti gli altri la via attraverso cui l’economia di mercato si poteva trasformare in società, moda, spettacolo, avventura, gioco: in una parola, forma di vita. Gli Stati Uniti hanno mostrato al mondo la forma di vita più pienamente corrispondente al modo di produzione capitalistico. Ma oggi rispetto alla prima esperienza americana e al dopoguerra europeo siamo di fronte a una condizione inedita. Ancora una volta ci troviamo su un territorio di frontiera. Lo sforzo organizzato per persuadere i cittadini al consumo ha cessato ormai di essere una semplice branca specializzata dell’economia industriale. Esso è diventato, negli ultimi decenni, qualcosa di diverso: è l’essenza stessa della società industriale. Come ha spiegato nel 1968 l’economista americano John Galbraith, in questo dopoguerra è venuto affermandosi alla testa di ogni grande industria un nuovo gruppo di dirigenti. Scomparsi i vecchi capitani di industria, o i singoli imprenditori, è subentrata quella che egli chiama la tecnostruttura: vale dire una cerchia più o meno ristretta di ingegneri, disegnatori, manager, esperti di marketing, pubblicitari. Si tratta di una élite che oggi appare sempre più ossessionata a far salire l’indice delle quotazioni in borsa. A loro spetta il compito di inventare nuovi prodotti, studiarne le dimensioni e le forme, elaborare le innovazioni di macchinario per produrli, indagare le aree 95

di mercato per prevederne la diffusione, creare le forme di pubblicità attraverso cui persuadere i consumatori di aver bisogno di quei beni. Anche le industrie farmaceutiche, che dovrebbero provvedere ad esigenze così particolari e delicate come quelle della salute umana procedono così. E oggi esse sono in genere grandi corporation multinazionali, che operano sul mercato mondiale. Si studia e si crea un nuovo prodotto che determina per qualche anno un vantaggio competitivo – grazie anche al monopolio temporaneo garantito dal brevetto – rispetto alle industrie concorrenti. Esso rende un profitto finché le altre imprese non lo producono a loro volta. Poi sarà il turno di un altro ritrovato, e così di seguito. Nei supermercati americani si contano a centinaia i nuovi prodotti che ogni anno vanno a occupare gli scaffali di vendita, spesso con una vita commerciale molto breve. Naturalmente tutti i nuovi medicinali sono ampiamente e sistematicamente pubblicizzati, e le loro virtù salutistiche vantate spesso dai consigli di medici autorevoli sulla grande stampa e solertemente ratificate dai medici di base. Entro tale logica talora anche disturbi irrilevanti vengono inquadrati nell’ambito delle patologie per le quali esiste, ovviamente, il farmaco adatto. La salute dei cittadini e il loro benessere è così diventato un settore industriale tra i più lucrosi dell’economia contemporanea. Siamo dunque di fronte a una realtà profondamente inedita rispetto al consumismo del dopoguerra. Le industrie non si limitano a produrre beni e forme di persuasione, ma diventano il centro motore della vita sociale. Dal loro interno esce l’innovazione tecnologica, destinata a cambiare le forme del lavoro e le condizioni della vita quotidiana, e al 96

tempo stesso la strategia di manipolazione della psicologia collettiva per imporre le nuove merci. La fabbrica – spesso in collegamento con i gabinetti scientifici, civili e militari – è impegnata a cambiare incessantemente le condizioni materiali della nostra vita e al tempo stesso a rendere desiderabili, anzi indispensabili, questi cambiamenti. Da lì – non più dai tribunali ecclesiastici o dai ministeri statali – si dipartono continuamente disegni di conquista e di asservimento del nostro corpo e della nostra anima. I centri della vita industriale non hanno più solo a che fare con il mondo dell’economia e della produzione di merci. Sono un nuovo ramo della guerra psicologica contemporanea. Essi hanno spazzato vie le vecchie chiese, i templi e i monasteri che avevano finora resistito nelle società dell’Occidente e hanno innalzato nuovi domini teologici. È la coscienza degli uomini il nuovo territorio di conquista di questo nuovo consiglio di guerra che dirige le strategie della crescita economica. Occorre rendere gli uomini perennemente insoddisfatti, intimamente bisognosi. L’infelicità degli individui è feconda di predisposizione agli acquisti. «Il corso della loro esistenza – ci ricorda Ivan Illich – è diventato una catena di bisogni, di volta in volta saziati al fine di suscitare nuovi bisogni e la necessità di appagarli. Con questa riduzione dell’uomo a consumatore passivo, si finisce col perdere persino il senso della differenza fra il vivere e il sopravvivere». Si tratta, com’è evidente, di una grande novità rispetto alle epoche del passato di cui solo la storia può far percepire la portata. Un tempo la coscienza soggettiva degli individui era territorio della religione e dei suoi poteri organizzati. Poi è stato lo Stato, attraverso la scuola, i partiti politici con le 97

loro ideologie, a dividere questo monopolio con le Chiese. Ora è scesa in campo una nuova potenza, che non minaccia nessun inferno e promette anzi il paradiso in terra. È il mondo della produzione di merci, che prospera sull’insoddisfazione permanente degli uomini. È la sua azione universale e penetrante che rende il nostro tempo diverso da tutte le epoche che lo hanno preceduto. L’esortazione incessante al consumo fa dunque parte di un mondo economico artificiale che può sopravvivere, mantenere in moto la sua gigantesca macchina produttiva, solo a condizione di fare violenza alla nostra soggettività, a patto di mettere le mani nella nostra vita spirituale e porla al servizio dei suoi incessanti bisogni. E la televisione, insediata nelle nostre case, è diventata lo strumento perfetto per l’asservimento quotidiano della nostra vita a tale scopo. Agli occhi di un numero crescente di persone, nelle società industriali, il consumismo ha perso tuttavia la sua innocenza. È vero che proprio la distruzione di ogni vita comunitaria, la frustrazione quotidiana e la perdita delle identità sociali aiutano il consumismo a mantenere il suo dominio psicologico sulle persone. Non diversamente da quanto accade nell’ambito della moda. Ancora Simmel lo aveva sottolineato: «per la vita moderna, con la sua frantumazione individualistica, il momento di omogeneità della moda è di particolare importanza». Le persone, infatti, possono ricreare una sorta di comunità perduta, una nuova identità spirituale con gli altri, indossando lo stesso tipo di pantaloni, o tagliandosi i capelli secondo una determinata foggia. I ragazzi portano gli orecchini o si fanno tatuare il corpo per distinguersi nell’anonimato sociale in cui sono immersi, e al tempo stesso per appartenere al gruppo che si 98

fa identificare con tali segnali. Ma sono anche sotto gli occhi di tutti le contraddizioni insanabili che il modello consumistico alimenta, producendo danni sociali giganteschi e crescente sofferenza umana. Che senso ha spingere i cittadini a dilapidare ricchezza sotto forma di merci nel momento in cui deperisce lo Stato sociale, anche per i costi insostenibili della domanda collettiva? Perché ci si deve «arricchire» individualmente, mentre si diventa socialmente più poveri? Perché rendere più crudelmente frustrante la condizione dei milioni di disoccupati che oggi affollano le società industriali, condannandoli a sentirsi sempre più lontani dal paradiso artificiale messo in scena dall’industria pubblicitaria? Ma l’innocenza è perduta anche per altre ragioni. Oggi consumare sempre di più appare – di fronte alla limitatezza delle risorse e degli spazi della terra – una sottrazione al sistema finito che è il pianeta. Un’ulteriore ferita inflitta alla natura. Nella società dei consumi, infatti, i beni si devono logorare e distruggere rapidamente per essere sostituiti. È necessaria una velocità crescente dell’obsolescenza delle merci, cui tutti siamo chiamati a ubbidire, se si vuole elevare il ritmo della crescita economica. Le merci che osserviamo nelle vetrine sono i segni di uno sfruttamento già realizzato dall’industria ai danni delle risorse esistenti. Il nostro consumo sancirà il loro definitivo annientamento e la loro metamorfosi in rifiuti inquinanti. Trasformati in merci, i beni sottratti alla natura vengono restituiti ad essa sotto forma di ingombri o di veleni. Accrescere la ricchezza materiale individuale equivale ormai, a questo punto della crescita economica, a impoverire il pianeta, la ricchezza di tutti. Le stesse prospettive dell’espansione ulteriore del 99

consumismo nel resto del mondo appaiono come una minaccia che incombe sul nostro immediato futuro. Che cosa accadrebbe agli equilibri ambientali dell’intera ecosfera se l’automobile – inevitabilmente accompagnata da una gigantesca trasformazione del territorio – dovesse diventare il mezzo di locomozione comune della Cina e delle restanti popolazioni dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa? Come potrà la terra sopportare la realizzazione dell’obiettivo primario degli Stati industriali: trasformare le «terre vergini» dei paesi in via di sviluppo in avanzate società consumistiche? Ecco dunque un capitolo di storia del Novecento che può offrire agli studenti più di un motivo di riflessione, perché mostra, direi in maniera esemplare, la capacità disvelatrice della conoscenza storica, il suo essere autenticamente cultura: vale a dire forma di liberazione spirituale dalle costrizioni di ciò che confusamente si subisce per mancanza di conoscenza. Al tempo stesso rappresenta una forma di critica che ha un valore più generale nella formazione delle nuove generazioni. La scuola è un’istituzione pubblica: tra i compiti che dovrebbe svolgere c’è la difesa dei cittadini dall’invasione degli interessi privati. Per questo credo che una tale pagina di storia dovrebbe costituire, nel curriculum ideale di ogni studente, il momento conclusivo di un percorso educativo da avviare molto presto. Sin dalle scuole elementari, in forme e linguaggi adeguati, i bambini dovrebbero capire di trovarsi sulla scena di un mondo che li vuole condizionare prima ancora che aprano gli occhi alla vita. Da subito essi dovrebbero sapere di essere al centro di una commedia degli inganni e che la loro soggettività è consegnata in mani invisibili. Solo incominciando a 100

discutere molto presto con i bambini si potranno avere generazioni consapevoli del fatto che la nostra libertà di scelta e di comportamento ci potrà appartenere a condizione di un’aspra e quotidiana critica delle menzogne che respiriamo nell’aria. 3. Il lavoro e le sue metamorfosi. Se c’è un dato sicuramente nuovo nelle aspettative sociali delle più recenti generazioni di studenti, questo è la certezza della precarietà dell’occupazione e del lavoro che le attende dopo gli studi. Da tempo l’automatismo esistente fra acquisizione del titolo di studio e collocazione in un’attività lavorativa o professionale corrispondente si è spezzato. Ogni ragazzo sa, con diversa inquietudine soggettiva – a seconda dell’indole personale e della situazione familiare – che l’impegno nella formazione non sarà sufficiente a garantirgli la sicurezza di un’attività lavorativa e di un reddito. Un mondo incerto e precario gli si schiuderà appena uscito dai banchi di scuola o da quelli dell’università. Si trova di fronte a un ben inedito scenario. Le campagne, le fabbriche, gli uffici, le banche sembrano nel nostro tempo ispirate da un solo impulso: liberarsi quanto più possibile del lavoro umano. Ecco sicuramente un tema di straordinario interesse su cui avviare un percorso di ricerca in classe, impostare un capitolo di storia-problema. Come si è arrivati a questa condizione? Siamo di fronte a una crisi congiunturale, come ce ne sono state tante in passato nella storia del capitalismo? Sono le severe politiche economiche messe in atto dai vari governi europei per rispettare i parametri previsti dal 101

trattato di Maastricht a determinare condizioni difficili per le imprese? O è la crisi del vecchio Stato assistenziale che ha creato una situazione del tutto nuova nel mercato del lavoro tradizionale? Domande di questo genere potrebbero aprire un capitolo davvero innovativo di insegnamento di storia del lavoro all’interno della scuola. Una vicenda da cui la ricerca degli storici di professione, in Italia, si è tenuta sempre e sistematicamente lontana, in coerenza con una cultura storiografica dell’età contemporanea a lungo dominata dalle vicende della politica, dei partiti e dei loro capi, delle ideologie dominanti, delle congiunture della vita pubblica nazionale. Partire dall’oggi potrebbe consentire due diversi percorsi di storia del lavoro: uno di lungo periodo e un altro limitato alle vicende del XX secolo. Da entrambi si potrebbe ritornare alla situazione attuale con un arricchimento conoscitivo sicuramente insolito per i quadri tradizionali della cultura scolastica. Una storia di lungo periodo potrebbe prendere l’avvio esattamente dal dato che sembra costituire la novità epocale che abbiamo davanti agli occhi: il mondo della produzione e delle imprese guarda al lavoro degli uomini come a un peso da cui liberarsi il più possibile ricorrendo alle macchine. Una fabbrica mossa interamente da robot sembra essere, idealmente, l’aspirazione di ogni imprenditore. È questa certamente una inversione radicale rispetto al passato. Sin da quando sono esistite le società organizzate, i poteri statali non hanno fatto altro che predisporre tutti i mezzi possibili per il reclutamento del lavoro. E le forme di approvvigionamento di questa fondamentale «risorsa di 102

energia e di sapere», per produrre ricchezza, hanno segnato la storia delle diverse civiltà della terra sino ai nostri giorni. Bisognerebbe anzi notare che a dispetto delle trasformazioni anche radicali che l’uso del lavoro umano ha subito nelle diverse epoche, un filo rosso, anzi un vero filo di sangue, tiene insieme, per millenni, lo sfruttamento delle braccia da fatica. Nella fiorente civiltà egizia la costruzione delle piramidi richiese una delle più colossali forme di reclutamento temporaneo di lavoro imposto mai realizzato. Migliaia di lavoratori costretti periodicamente, e per la durata di anni, a fatiche durissime, spesso sotto il sole cocente del deserto. In Grecia, la schiavitù era un’istituzione fiorente, come ho già accennato, perfino nella regina delle polis, Atene. E il grande Aristotele ne teorizzava la necessità. Anche i Romani, non appena cominciarono ad affermare la loro egemonia sui popoli italici, fecero ricorso alla manodopera servile. Essi organizzarono vere e proprie razzie nei villaggi appenninici, sulle Alpi, nelle montagne della Sardegna e della Corsica per catturare giovani vigorosi da portare a Roma o nelle villae di cavalieri e senatori sparse nelle varie province. Com’è noto il lavoro coatto e servile conservò un ruolo rilevante nell’Europa medievale, nonostante l’affermazione vittoriosa del cristianesimo e della Chiesa di Roma. I servi della gleba – insieme, talora, ai monaci benedettini – costituirono per alcuni secoli le forze dinamiche che assicurarono la produzione agricola nelle campagne dell’Europa e la loro trasformazione. E se essi scomparvero progressivamente, e in diverso modo, nelle aree dell’Occidente, la loro presenza conobbe una singolare fioritura nelle regioni germaniche a est dell’Elba. La schiavitù nelle campagne, organizzata da cavalieri e grandi 103

proprietari tedeschi e polacchi, diede un’impronta sociale caratteristica per alcuni secoli a società come quella della Germania orientale, della Polonia, dell’Ungheria. Anche in Russia la servitù dei contadini fu la norma per diversi secoli. È noto che essa fu abolita dallo zar Alessandro II solo nel 1861, esattamente quando l’Italia aveva appena realizzato la sua unità nazionale. Ma se proprietari terrieri, impresari di miniere, mercanti, maestri di corporazioni, imprenditori trovarono alla fine conveniente lasciare liberi i loro dipendenti e compensarne il lavoro con un salario, non altrettanto conveniente ritennero una tale condotta con uomini che avevano un diverso colore di pelle. Com’era possibile trattare da eguali uomini con la faccia nera, i capelli crespi, che parlavano una lingua incomprensibile? Era evidente che essi provenivano da una civiltà inferiore e il loro destino era necessariamente quello di servire i padroni bianchi. Com’è noto, l’Europa cristiana, insieme alle spezie e all’oro, ai panni di lana e ai damaschi di seta, fece un commercio crescente di uomini nel bacino del Mediterraneo. Più tardi, dopo la scoperta dell’America, cominciò la tratta su ampia scala che si protrasse per oltre tre secoli. E l’Africa divenne il continente del saccheggio. Come tutti sanno, i giovani di quella terra venivano strappati con la forza e l’inganno dai loro villaggi, imbarcati nelle galere e trasportati nelle colonie del Sud e del Centro America. Ma agli inizi della colonizzazione gli schiavi, impiegati a migliaia nelle piantagioni di caffè, di canna da zucchero o di tabacco – che dovevano garantire il consumo voluttuario degli europei ricchi e bravi cristiani – erano solo maschi. Non avevano famiglia e non si riproducevano. Per questo – visto tra l’altro che avevano 104

una vita breve, a causa delle terribili condizioni in cui venivano trasportati e delle fatiche estenuanti a cui erano sottoposti – era necessario importarne continuamente. Le coste dell’Africa erano allora battute dai mercanti di braccia come mai era accaduto in passato. Un particolare che oggi ci appare davvero degno di considerazione. Gli antenati degli odierni imprenditori si comportavano nei confronti dei loro simili – uomini con un diverso colore di pelle – come oggi gli Stati industriali si comportano con le risorse della terra. Se ce ne sono in abbondanza, a che scopo preoccuparsi della loro rigenerazione? È un esempio di quali vertici di saggezza economica possa attingere la «razionalità» del mercato capitalistico lasciato alla sua libertà. Ma costituisce anche una prova storica di come l’anima genuinamente selvaggia dell’economia di mercato possa oggi apparirci come una «forma di libertà» solo dopo molti secoli di disciplinamento statale. Quella della schiavitù in età moderna e del «commercio triangolare» è una storia nota, a cui oggi molti manuali danno il giusto risalto. Ma essa acquisterebbe un più vasto significato se inserita in un quadro generale della storia del lavoro. Entro una visione d’insieme sarebbe possibile vedere più da vicino i rapporti tra la storia del lavoro coatto e l’evoluzione della società contemporanea. Chi potrebbe allora trascurare, ad esempio, il caso degli Stati del Sud, in Nord America, dove la schiavitù poté essere bandita solo grazie a una sanguinosa guerra civile nei primi anni sessanta dell’Ottocento? E come non vedere in quella particolare storia una delle ragioni profonde della questione razziale che ha scosso la società americana per tutto il XX secolo? Come non scorgervi le radici lontane di una questione 105

sociale che è parte rilevante della realtà di oggi? Ma il filo di sangue del lavoro coatto, in forme del tutto inedite e impreviste, arriva sino a noi, marchia e sporca in maniera indelebile la nostra epoca. Come dimenticare infatti che le campagne sovietiche, sotto Stalin, sono state trasformate in luogo di una nuova e terribile esperienza di lavoro servile di massa? E non rispondevano anche a criteri e finalità di lavoro militarizzato i lager organizzati dai nazisti nel cuore dell’Europa? Anche se non bisogna dimenticare mai la loro unicità. Al loro interno gli ufficiali di Hitler riuscirono a combinare, in forme che nessuna crudeltà umana era stata sino ad allora capace di immaginare, lo sfruttamento del lavoro e la pratica dello sterminio. E non è finita. Negli ultimi anni, probabilmente per effetto dell’inglobamento più stringente di tante economie del Sud del mondo entro i meccanismi della cosiddetta globalizzazione, la schiavitù è tornata a fiorire in nuove forme. Si tratta di uomini e donne, di persone costrette a lavorare anche per 12 ore al giorno, sparse un po’ in tutto il mondo, e che sono private, con varie modalità, della libertà personale. Oggi i nuovi schiavi sono in grande maggioranza fabbricatori di mattoni in remote regioni del Brasile, giovani prostitute thailandesi, tessitori di tappeti pakistani. E sono un numero enorme. Una ricerca molto prudente fornisce oggi la cifra spaventosa di almeno 27 milioni di persone. Ha scritto in proposito Kevin Bales, il maggiore studioso di tale fenomeno: «Vi sono molti più schiavi viventi oggi di quanti non ne furono portati via dall’Africa durante l’intero periodo della tratta transconinentale. Per dirla altrimenti, al momento attuale il popolo degli schiavi è più numeroso della popolazione del Canada e sei volte superiore a quella 106

di Israele». 4. L’epopea del lavoro libero. L’Europa, come sappiamo, ha scelto sin dal tardo medioevo la strada del lavoro libero. «L’aria delle città rende liberi» era la formula che designava il premio concesso ai servi della gleba scappati dalla campagna. Artigiani e mercanti riuscivano, con questi ex contadini liberati, a mandare avanti le loro attività in un’epoca in cui la forza lavoro era scarsa e preziosa. D’altra parte, sempre di più appariva chiaro che era più conveniente retribuire gli operai con un salario giornaliero che doverli mantenere per tutta la vita come propri schiavi. L’unica difficoltà in questa scelta era costituita dal fatto che, in regime di schiavitù, il lavoratore era al servizio del padrone ogni volta che questi lo desiderava. Non altrettanto automatica, invece, era la disponibilità del lavoratore libero: soprattutto nei momenti in cui non era particolarmente pressato dal bisogno di un salario. Occorreva perciò garantire una subalternità di tipo nuovo del lavoratore, che fosse simile a quella della schiavitù, ma che non comportasse per il padrone gli stessi costi e gli stessi vincoli. Come si riuscì a uscire da questa difficoltà? Chi trovò la soluzione? È davvero sorprendente constatare quanto la storia del lavoro sia strettamente connessa alla storia spirituale degli uomini. E può essere davvero una sorpresa illuminante, per un ragazzo delle medie superiori, scoprirlo in una vicenda chiave della storia dell’Europa. La «soluzione» – a voler, naturalmente, semplificare le cose – venne infatti trovata dalla Chiesa di Roma. È lei una delle grandi madri del 107

capitalismo. Spetta a lei il merito di aver reso possibile il passaggio dal lavoro servile a quello libero. E infatti se i corpi dei lavoratori potevano rimanere formalmente liberi, svincolati dai ceppi e dalle catene dei loro antichi padroni, bisognava tuttavia che qualcosa di loro rimanesse asservito per renderli pronti e docili alla disciplina quotidiana del lavoro. Occorreva incatenare in altro modo le braccia da fatica così necessarie ai padroni, così utili a tutta la società. Era necessario che almeno l’anima ubbidisse a un potere supremo e indiscutibile. E l’anima fu soggiogata. Con un lavorio lungo e tenace, protrattosi per diversi secoli, la più riposta soggettività delle persone è stata plasmata e convinta dell’intima necessità del lavoro, della sua ineluttabile disciplina e sofferenza. Lo ha detto Max Weber con una formula che non poteva essere più plastica: «Con l’aiuto della penitenza e della confessione la Chiesa ha addomesticato l’Europa medievale». E infatti – come ha anche ricordato un altro grande della sociologia tedesca che si è occupato delle origini spirituali del capitalismo, Werner Sombart – a partire per lo meno dal Concilio Lateranense del 1215, l’istituto della confessione divenne sistematico. Ogni individuo adulto almeno una volta l’anno doveva inginocchiarsi davanti al confessionale. In effetti la pressione della Chiesa cattolica sulla condotta «professionale» e lavorativa tanto dei mercanti che dei semplici operai fu ampia e sistematica, ma tuttavia temperata da forme di organizzazione del tempo che rispondevano anche a bisogni religiosi. Numerosi giorni di festa cadenzavano il calendario cattolico tra età medievale e moderna. Nei paesi investiti dalla Riforma la pressione sul lavoro divenne più aspra e sistematica. E tuttavia si può dire che l’etica calvinista, che 108

diede un ulteriore e straordinario impulso allo spirito del capitalismo – per parafrasare il titolo dell’opera più fortunata di Weber – non fu, in parte, che la continuazione e lo sviluppo di un’azione già avviata. Ma ovviamente la confessione non fu l’unico strumento. Nell’Europa protestante, come già in quella cattolica, era il terrore del demonio e della dannazione ad atterrire gli animi e a renderli docili ai comandi della Chiesa e ai suoi imperativi di comportamento quotidiano. Bisogna riconoscere che l’idea di peccato ha costituito una grande, geniale «invenzione», sconosciuta all’età antica, che ha consentito alla Chiesa di strutturare il suo immenso potere secolare. Grazie all’«istituzione» del peccato si metteva in mano a un’unità ortodossa centrale un tribunale delle coscienze che poteva controllare ab imis l’innumerevole popolo cristiano. E, non diversamente da oggi, anche allora la sofferenza interiore dei singoli costituiva uno dei fondamenti del potere. Terrorizzare le anime era infatti la condizione per piegarle a una condotta irreprensibile e per renderle flessibili – diremmo oggi – agli imperativi del comando. Fu allora messa in pratica una attività che durò non pochi secoli. Come ricorda uno studioso, illustrando la realtà della Scozia nel XVII secolo «ogni volta che il predicatore nominava Satana, la comunità gemeva e singhiozzava. Spesso la gente sedeva sul proprio banco stordita e pietrificata dalla paura. Immagini di terrore riempivano la sua anima, la inseguivano ovunque, l’accompagnavano durante i suoi lavori quotidiani. Si credeva di vedere il diavolo dappertutto. E il terrore aumentava al pensiero degli spaventosi castighi infernali coi quali i preti minacciavano i loro ascoltatori, ai quali 109

raccontavano compiaciuti come sarebbero stati arrostiti sui grandi fuochi, appesi per la lingua, frustati con gli scorpioni, gettati nell’olio bollente e nel piombo fuso». A pensarci bene, e volendo assumere il linguaggio dei cattolici, potremmo senz’altro affermare che se alle origini del mondo c’è Dio, all’inizio della civiltà moderna c’è la coda di Satana. Belzebù è stato il principio d’ordine degli uomini dell’Occidente. Senza la presenza di questo nemico sarebbe stato molto più difficile, ai poteri religiosi e civili del tempo, unire le coscienze, disciplinare turbe di vagabondi e di poveri, formare dei sudditi fedeli, dei lavoratori disciplinati. Ma per questa via la Chiesa ha reso la vita degli uomini, per innumerevoli generazioni, più piena di angosce di quanto essa non fosse di per sé. Ha reso non solo tormentoso il presente dei fedeli, ma ha anche cancellato dal loro orizzonte mentale l’unica possibile via d’uscita dalle sofferenze terrene: la liberazione concessa dalla morte, che essa aveva ipotecato con la minaccia della pena eterna. Così molti cristiani, per evitare l’inferno ultraterreno, hanno vissuto nell’inferno terreno l’unica vita disponibile. Un’esperienza destinata a ripetersi nel seguito della storia umana, sulla base di un principio a cui oggi dovremmo riconoscere validità universale: chiunque offra un paradiso futuro chiede sempre in cambio la rinuncia alla poca, ma possibile felicità presente. Certo, simili minacce riguardavano tanto il mercante che il povero garzone di bottega. Anche l’imprenditore veniva piegato a obblighi morali stringenti. D’altra parte, non è neppure giusto – né storicamente sostenibile – far apparire la Chiesa, tanto cattolica che riformata, come una sorta di aguzzino dei poveri. Tanto più che essa svolse, com’è noto, 110

un’opera vasta e capillare di protezione nei confronti dei miseri e dei reietti per non pochi secoli. La stessa diffusione e durata dei valori di carità e di solidarietà, nella spiritualità dell’Occidente, sarebbero incomprensibili al di fuori della sua azione e della sua presenza istituzionale nel territorio. Ma certo il potere ecclesiastico svolse un ruolo rilevante nel processo di disciplinamento sociale dell’Europa medievale e moderna. Nell’opera di assoggettamento del lavoro la Chiesa ebbe come alleati sia i suoi sudditi più potenti, sia il potere temporale: re e imperatori. Occorreva infatti non tanto richiedere sobrietà di comportamento e buona condotta morale. Questo bastava per i mercanti. Ai poveri si chiedeva la disponibilità quotidiana alla pena della fatica, alle interminabili giornate di lavoro nei campi, ma soprattutto nel chiuso delle botteghe. Nel XVII secolo la pressione sui vagabondi e senza lavoro diventò generale e sistematica. «A poco a poco – ha ricordato Braudel – attraverso tutto l’Occidente si moltiplicano le case per i poveri e indesiderabili, in cui l’internato è condannato al lavoro forzato: le Workhouse come le Zuchthaüser, o le Maisons de force». In Olanda funzionava invece la cosiddetta «casa dell’acqua» o «grande cisterna». In essa venivano rinchiusi i galeotti che si rifiutavano di lavorare. Avevano a disposizione una pompa per smaltire rapidamente l’acqua che altrimenti li avrebbe fatti annegare. In Inghilterra, in piena rivoluzione industriale si trovò nei bambini e nelle bambine la forza lavoro docile alla quale si poteva chiedere sacrifici supplementari, con la speranza di plasmare anche futuri lavoratori a vita. Questa massa di forza lavoro infantile era messa a disposizione dalle parrocchie della 111

Chiesa anglicana, che lucravano così su orfani o fanciulli affidati. Bisogna «riconoscere – ha raccontato Mantoux – che, nelle prime filande, la sorte degli “apprendisti di parrocchia” fu particolarmente penosa. Alla mercé dei padroni che li tenevano rinchiusi in edifici isolati, lontano da testimoni che si potessero commuovere per le loro sofferenze, erano sottoposti a una schiavitù disumana. La giornata lavorativa era limitata soltanto dal completo sfinimento delle loro forze, e durava quattordici, sedici e anche diciotto ore». Per la verità le cose non andavano diversamente anche per tanti operai adulti nelle fabbriche tessili tedesche nel XVIII secolo. A quell’inferno in terra, che era il lavoro industriale ai suoi inizi, gli uomini e le donne resistevano, in una esistenza necessariamente breve, grazie alle calorie e all’ebbrezza del gin. Perché dunque non fare conoscere ai nostri ragazzi, come un capitolo centrale della storia di questo Occidente oggi trionfante, le vicende e le sofferenze attraverso cui è passato il lavoro umano? Perché ad esempio non mostrar loro come la grande trasformazione industriale dell’Ottocento si sia fondata sul consumo gigantesco di una nuova fonte di energia, il carbone? Ma ricordando che la sua produzione fu resa possibile, fino ai nostri giorni, dal lavoro penosissimo di migliaia di minatori che in Inghilterra, Belgio, Germania spesero la loro intera vita nel buio soffocante delle miniere. Una storia che oggi si ripete in Cina, il paese che è il maggior produttore mondiale di carbone. Tuttavia, una tale conoscenza non deve servire semplicemente a ingenerare una pietà postuma nei confronti di generazioni sfortunate. Anche se non bisogna certamente sottovalutare, nella formazione spirituale di un giovane, il 112

peso che può avervi la pietas: una dimensione del sentire sempre presente nella riflessione dello storico quando sa essere grande, allorché è capace di guardare, al di sopra della mischia, al destino degli uomini. La memoria e la storia hanno un loro modo di rendere giustizia che non può essere irriso. Rammentare l’esistenza di chi è passato sulla terra senza lasciare un nome, una qualche traccia di sé, sacrificando la propria vita per la prosperità altrui, è un modo con cui la storia rende l’umanità, per così dire, sacra a se stessa. «L’atto del ricordo – ha scritto Magris – in tal senso è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell’oscurità, schiacciati dal “terribile potere di annientamento” della storia universale, come lo chiamava Nietzsche». Ma la lezione è anche di altro tipo. Occorre sempre ricordare a quale prezzo, e grazie al sacrificio di chi, è stato possibile edificare la potenza e la ricchezza di cui disponiamo nel presente. È un antidoto morale contro la boria che ancora oggi gonfia il petto delle nazioni e degli individui nelle società dell’Occidente. E c’è infine un altro insegnamento generale da trarre. La storia del lavoro mostra come siamo diventati ciò che siamo. Il nostro disciplinamento, la nostra soggettività piegata al dovere, all’etica del lavoro, subordinata a un senso meccanico, rapido e segmentato del tempo: tutto il nostro modo di essere individui di una società industriale appare finalmente come il frutto di una lunga opera di repressione. Noi siamo diventati così dopo alcuni millenni di manipolazione. Anche il modo di muoverci si manifesta per quello che è: il risultato di una trasformazione che ci è stata 113

imposta. Quale speranza avremo di ricondurre la nostra corporalità e la nostra soggettività a una più rispondente misura umana se non siamo in grado di educare generazioni consapevoli che il nostro stesso modo di vivere il lavoro è una costruzione storica, il frutto di lunghe violenze subite, ma anche di scelte e di lotte che si sono combattute e la cui eco è udibile ancora? 5. Dal fordismo alla società senza lavoro. La storia del lavoro può tuttavia essere limitata nel tempo: un grande capitolo della storia del Novecento. Una simile scelta renderebbe sicuramente l’opera dell’insegnante più facile sia per il grande interesse dei temi trattati, sia per la possibilità di avere a disposizione sintesi storiche e altri supporti documentari. Anche l’inizio e la fine di questa vicenda nel corso del XX secolo appaiono per più di un aspetto esemplari e potrebbero fornire agli studenti un quadro storico di rilevante fascino e utilità culturale. La storia del lavoro nel Novecento inizia con un nome: Taylor. È l’ingegnere americano che con tipica mentalità utilitaristica si mise in testa di abolire, all’interno della fabbrica, i tempi morti che si determinavano tra una lavorazione e l’altra, tra operai e operai, tra reparti e reparti. Considerando il tempo di lavoro come una realtà scarsa e preziosa per l’imprenditore, egli si convinse che esso poteva essere speso meglio dagli operai. Nella stessa giornata si poteva produrre una quantità assai maggiore di merci di quelle prodotte nelle pur avanzate industrie americane che egli aveva visitato. Com’era possibile raggiungere un tale obiettivo? Organizzando il lavoro in fabbrica non secondo i 114

ritmi naturali del lavoratore, che pur sempre serviva delle macchine, ma sulla base di tempi calcolati con il cronometro. Quanti pistoni o quanti cuscinetti a sfera poteva produrre un operaio in un giorno se il materiale di cui aveva bisogno gli veniva recapitato con continuità, se egli non si allontanava mai dal suo banco, se non si concedeva pause di riposo? La produttività potenziale dell’operaio veniva studiata a tavolino, secondo modi di calcolo e suddivisione scientifica del tempo, e poi applicata in fabbrica. Erano questi i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro che Taylor teorizzò in alcuni suoi scritti già negli anni dieci e che riuscì a far mettere in pratica con successo in alcuni stabilimenti. Così l’organizzazione in fabbrica mutò profondamente. Le operazioni complesse vennero scisse in operazioni sempre più semplici sicché i singoli operai erano costretti a svolgere, sempre fermi al proprio posto, secondo un ordine gerarchico rigidamente fissato, solo poche e ripetitive mansioni. Ma si trattava di operazioni che andavano realizzate velocemente, una dopo l’altra, senza fermarsi. Il nastro che trasportava i pezzi su cui l’operaio doveva lavorare correva velocemente ed egli doveva inseguire il suo ritmo. Per l’operaio, alla fatica muscolare, alla lunga costrizione quotidiana in un ambiente chiuso e spesso assordante, si aggiungeva ora un logorio nervoso prima sconosciuto. Egli era ora schiavo non solo della macchina, come nell’Inghilterra dei tempi di Marx, ma anche della sua velocità. Una condizione di vita allucinante la cui rappresentazione, in chiave satirica, l’intera umanità deve al geniale film di Charlie Chaplin Tempi moderni. L’affermarsi in fabbrica dell’organizzazione scientifica del lavoro dovrebbe costituire una svolta periodizzante della 115

storia dell’Occidente più di quanto sinora non sia accaduto. E non certo ai fini della storia economica. Non per magnificare i traguardi produttivi che da allora vennero conseguiti nella grande industria. Parte infatti da quegli anni una trasformazione profonda del rapporto degli uomini con il loro «tempo biologico» che inaugura una nuova era, un salto di qualità nell’uso dell’uomo per la produzione di merci. Rispetto al disciplinamento spirituale realizzato in tempi lunghi dalla Chiesa, si passava ad una forma inedita di asservimento dell’energia nervosa degli individui ai ritmi delle macchine. Tale grande novità non sfuggì alla lungimirante capacità di osservazione di Antonio Gramsci, che dal fondo del carcere fascista osservava: «la storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento “animalità” dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo». C’è tuttavia in questa acuta riflessione di Gramsci un’evidente posizione teleologica che oggi ci appare per tanti aspetti inaccettabile. La repressione degli istinti vitali messa in atto dal progresso industriale appare qui come un passaggio obbligato, una sorta di gradino verso una superiore forma di civiltà. Va da sé che il compimento di questo percorso sarebbe stato, nello schema teorico di Gramsci, l’immancabile liberazione promessa dalla società socialista. Ora noi, dopo il lungo tunnel del lavoro alienato 116

della fabbrica contemporanea, non siamo approdati alla forma di società superiore che Gramsci si aspettava. Ma non è solo per tale ragione che oggi non siamo in nessun modo disposti a riconoscere alle società industriali un superiore telos di civiltà. Una società che ha bisogno della mortificazione e della pena degli uomini per realizzare i suoi scopi non merita alcuna glorificazione teleologica. E poi, perché l’uomo della società industriale dovrebbe essere considerato più civile, poniamo, degli europei dell’età dell’Illuminismo, degli uomini del Rinascimento, o dell’antica Grecia? Perché ha a disposizione più beni materiali, perché è più efficiente e più rapido, perché dispone di tecniche più sofisticate? Egli non è necessariamente né più felice, né più saggio e umano, né spiritualmente più ricco dei suoi antenati. Ma quel disciplinamento che Gramsci riteneva necessario, ancorché umanamente doloroso, ha portato alla fine a un risultato antropologico che domina il nostro tempo e che nessuno può considerare «superiore» rispetto al passato: l’asservimento degli individui, nella fabbrica e nella società, a ritmi frenetici di lavoro e di comportamento, l’assoggettamento della loro intera vita spirituale ai tempi meccanici e «neutri» della produzione di merci. Non dunque «forme più complesse di vita collettiva», come egli profetizzava, ma l’assoggettamento della società alla fabbrica, l’anomia e la solitudine degli individui nella città industriale, vale a dire un intimo scadimento della vita umana. La fabbrica tayloristica ha triturato intere generazioni di lavoratori, distrutto mestieri e saperi secolari, per approdare a una situazione – come quella presente – in cui il lavoro umano comincia a essere considerato un 117

insostenibile costo sociale. D’altra parte, oggi sempre meno si è disposti ad accettare l’industrialismo nelle forme che esso ha assunto, come la nostra strada obbligata, come l’approdo inevitabile che ci attendeva dietro l’ansa del fiume della storia. La società presente è nulla più che quella che si è di fatto affermata. Una strada fra le altre, non necessariamente la migliore possibile, e certamente non la sintesi finale di tutte le precedenti civiltà. E, a giudicarla dalla sommità di questo avvio di millennio essa appare francamente tutt’altro che meritevole di fregiarsi di finalità superiori. È alla società industriale che dobbiamo – costruita per mano dei suoi rappresentanti più tipici, gli scienziati – l’apparizione della bomba atomica: un’arma, come ha ricordato Ivan Illich, che non è stata progettata per uccidere un nemico, ma per compiere genocidi. E non sono state le società industriali a scatenare due sanguinose guerre mondiali? Sarebbe già sufficiente questo sommario elenco di responsabilità per togliere alla società capitalistica ogni possibile fregio finalistico. Ma c’è ancora dell’altro. Le società industriali sono oggi responsabili, con i danni crescenti inflitti all’ecosistema del pianeta, della minaccia più grave mai portata dagli uomini alle premesse elementari di ogni civiltà: vale a dire le condizioni materiali di esistenza di tutte le creature viventi sulla terra. La rivoluzione tayloristica ha conosciuto una delle applicazioni di maggior successo nel corso degli anni venti nelle fabbriche di Henry Ford. Qui, grazie all’applicazione su larga scala della catena di montaggio, è stato possibile accelerare il ritmo della produzione delle automobili su scala di massa. Premiati con salari superiori alla media, gli operai si sottoponevano al duro lavoro di linea garantendo 118

uno sviluppo impetuoso all’industria automobilistica americana. Essa era così in grado di abbassare notevolmente i prezzi delle auto, che progressivamente potevano diventare accessibili agli stessi operai più bravi e più tenaci. In questo modo si inaugurava un circolo virtuoso destinato a diventare l’intimo motore delle società industriali: gli operai diventavano, potenzialmente, produttori e consumatori delle merci che uscivano dalle loro mani. È nel secondo dopoguerra che il «modello fordista» si diffonde anche in Europa a livello di grande industria, soprattutto negli stabilimenti automobilistici. Il lavoro di linea, fondato sulla catena di montaggio, consentiva di immettere in fabbrica, in breve tempo, anche operai privi di qualunque specializzazione. Dalle campagne del nostro Sud i contadini entravano a lavorare negli stabilimenti della Fiat dopo un breve periodo di apprendistato. Dalla campagna alla fabbrica in pochi mesi. La semplicità delle operazioni da eseguire era tale che alla fine ciò che importava per la riuscita del lavoro era soprattutto la resistenza fisica e mentale, la tenacia, la capacità di attenzione mantenuta vigile per otto-nove ore. La fabbrica tayloristico-fordista ha dominato il mondo industrializzato fino ai primi anni settanta, nonostante sia stata, per decenni, progressivamente contrastata e contenuta, nelle sue forme di organizzazione gerarchica e nei suoi ritmi di lavoro, dalle lotte degli operai e dal controllo dei sindacati. Soprattutto gli aspri conflitti degli anni sessanta, in Europa e negli Stati Uniti, hanno mostrato agli imprenditori gli alti costi economici e l’ingovernabilità di una fabbrica troppo coercitiva nei confronti della massa operaia. D’altra parte, la saturazione del mercato con 119

prodotti standardizzati tipici della produzione di massa fordista ha finito con lo spingere gli imprenditori a ricercare nuovi prodotti in cui la presenza creativa del lavoro umano facesse la differenza rispetto ai beni uniformi della produzione in serie. Così l’accordo dei vertici aziendali con gli operai, la loro cooperazione in fabbrica a poco a poco sono diventati determinanti per raggiungere lo scopo di produrre «beni di qualità», fortemente personalizzati, e vincere così la competizione in un mercato sempre più concorrenziale. L’azienda simbolo di questa innovazione – che tuttavia ha riguardato anche la piccola e media industria – è stata la fabbrica automobilistica giapponese della Toyota. L’innovazione fondamentale di questa azienda – che ha fatto da battistrada al resto del mondo industriale – è stata l’abolizione della struttura gerarchica piramidale della fabbrica fordista. Non più un’organizzazione verticale, con i vertici padronali e manageriali in cima, i quadri tecnici e amministrativi nel mezzo e la massa operaia alla base. Nel toyotismo si afferma invece un’organizzazione di tipo orizzontale, per squadre. In ogni squadra c’è l’ingegnere, il tecnico, l’operaio specializzato, l’operaio semplice che insieme operano per realizzare una parte significativa del processo di produzione dell’automobile. Un tempo l’operaio alla catena conosceva solo un piccolo segmento della complessiva attività della fabbrica, ora invece viene coinvolto in una più vasta gamma di operazioni, anche perché l’informazione sull’attività produttiva circola orizzontalmente fra tutti i reparti. Tali importanti innovazioni, che si vanno diffondendo anche in forme diverse e originali, da fabbrica a fabbrica e 120

da paese a paese, non hanno tuttavia significato la fine del lavoro tayloristico, ma spesso una riforma dei suoi aspetti più insostenibili e autoritari. Esse sono state peraltro rese possibili grazie al recente sviluppo dell’elettronica. Molte operazioni, anche pericolose e nocive alla salute – come la verniciatura delle auto – oggi vengono effettuate dai robot. Grazie alle cosiddette «macchine a controllo numerico» è possibile realizzare in fabbrica operazioni lunghe e complesse – come per esempio la produzione di un foglio di lamiera, il suo taglio, la sua pressatura, sagomatura, verniciatura ecc. – senza intervento dell’uomo, in virtù di un semplice comando elettronico. È per via di questa nuova potenza e «intelligenza» delle macchine che alcuni storici parlano apertamente di seconda o terza rivoluzione industriale oggi in corso. Di certo abbiamo sotto gli occhi un passaggio storico di tutto rilievo: dalla «manifattura» le società dell’Occidente stanno approdando alla «macchinofattura». Tale straordinaria capacità dell’elettronica di sostituire lavoro è oggi alla base di un processo di grandioso rivolgimento sociale appena agli inizi: in ogni fabbrica, ma ormai anche in ogni ufficio, imprenditori e manager guardano sempre più all’impiego dei computer come allo strumento privilegiato per risparmiare sui costi e rendere più competitiva l’azienda licenziando lavoratori. Com’è noto, anche in passato le macchine hanno sostituito continuamente il lavoro umano: l’intera storia dello sviluppo industriale è intessuta di questo processo. Ma oggi lo scenario è radicalmente nuovo. Un tempo i lavoratori espulsi dalle campagne venivano reimpiegati nelle fabbriche, gli operai resi superflui dalle innovazioni nell’industria 121

trovavano occupazione in nuove attività manifatturiere o nei servizi. Ai nostri giorni è in maniera simultanea che le campagne, le fabbriche e gli uffici espellono forza lavoro per rendere le proprie attività più competitive ed efficienti. L’informatica, questo strumento rivoluzionario apparso sulla scena delle società dell’Occidente negli anni settanta, è una macchina radicalmente diversa da tutte le altre che si sono succedute nella lunga storia dell’industrialismo: essa non si limita ad accrescere la capacità produttiva dell’uomo lavoratore, ma sostituisce interamente il suo stesso lavoro. Per questo la disoccupazione non riguarda più esclusivamente, come un tempo, le classi povere. È un fenomeno che investe ormai anche le classi medie, trascina nella marginalità sociale anche manager, ingegneri, laureati e diplomati e soprattutto giovani. Ogni anno milioni di ragazzi si affacciano a un mercato del lavoro già intasato da un esercito crescente di disoccupati. Secondo le stime ufficiali agli inizi del millennio ben 20 milioni nella sola Europa e 35 milioni nei paesi dell’Ocse. Ma il fenomeno riguarda ormai tutte le società della terra. Si calcolano intorno a 7-800 milioni i disoccupati totali. Anche se il termine disoccupato, per la verità, designa una varietà di situazioni sociali non tutte assimilabili a un unico modello. Siamo dunque di fronte a un fenomeno in buona parte inedito, che non è figlio di una qualche congiuntura economica avversa, come è accaduto in passato. Si viene al contrario accrescendo in condizioni di relativa buona salute dell’industria. L’andamento storico della produttività ne costituisce d’altra parte una prova irrefutabile. Tra il 1979 e il 1992 la produttività dell’industria, negli Stati Uniti, è aumentata del 35 per cento mentre il numero degli occupati 122

è diminuito del 15 per cento. Nell’Europa occidentale il prodotto interno lordo (Pil), vale a dire la ricchezza globale (misurata con criteri discutibili), è quasi triplicato dal 1960 a fine Novecento, mentre la quantità di lavoro, per anno, è diminuita di un quarto: è passata da 2100 ore a meno di 1600. E in questo arco di tempo il volume globale delle ore di lavoro è diminuito del 30 per cento. Queste cifre, che possono essere tradotte in un altro linguaggio e con altri esempi, mostrano in realtà la continuità di un lungo processo storico. Nel 1900 per produrre una bicicletta occorrevano 600 ore di lavoro, nel 1970 si erano abbassate a 75, oggi bastano 4-5 ore. Nelle agricolture tradizionali per arare un campo di un ettaro con attrezzi manuali occorrevano 400 ore di lavoro, oggi con un aratro ne bastano appena 5. Si pensi che intorno al 1700 un agricoltore francese, italiano o americano non arrivava a nutrire in media, con il proprio lavoro, più di 2,2 persone oltre se stesso. Ma già negli anni settanta del nostro secolo, pur assicurando un nutrimento più ricco e più abbondante, un agricoltore poteva alimentare, in Francia, oltre 20 persone, mentre negli Stati Uniti ne poteva nutrire ben 75. Quindi se il lavoro avesse dovuto limitarsi a soddisfare i puri bisogni di alimentazione degli individui di due secoli fa il tempo di lavoro necessario si aggirerebbe in Francia intorno a 1 ora e 20 minuti per lavoratore, e negli Stati Uniti a circa mezz’ora. Commisurato ai bisogni reali degli uomini il tempo di lavoro appare dunque sempre meno necessario, sempre più superfluo. Ma il meccanismo economico capitalistico non è retto da finalità sociali, non cerca di soddisfare bisogni reali. Esso persegue incessantemente l’accumulazione illimitata di merci e danaro: corre verso 123

l’infinito, consumandolo. È questo il paradosso cui è pervenuto il mondo industrializzato nel nostro tempo. Abbiamo oggi di fronte il dominio di una economia – come ha mostrato lucidamente Luciano Gallino ne L’impresa irresponsabile – ossessionata dalla ricerca di profitti in tempi sempre più brevi, spinta dal capitale finanziario. Essa sempre meno risponde a domande sociali reali e sempre più ubbidisce ai propri imperativi di crescita infinita. Così di fronte a un aumento senza precedenti della ricchezza materiale di beni, si apre un’inedita fase di miseria sociale. La logica e l’ideologia della competizione internazionale a tutti costi, che anima ogni impresa e che è penetrata profondamente nella politica e nel comportamento degli Stati, fa oggi in modo che gli uomini – in una forma del tutto nuova rispetto alle denunce di Marx – siano minacciati di diventare gli strumenti flessibili delle macchine. Potenziali strumenti per alleviare e liberare il lavoro umano dalla fatica, le nuove tecnologie sono diventate le armi di una «guerra economica» mondiale che guarda al profitto aziendale come al proprio unico fine. Per questo esse si trovano a giocare un ruolo invertito rispetto al loro scopo originario: contendono ormai agli uomini il posto di lavoro, ponendoli di fronte a un avvenire di crescente e frustrante insicurezza. Una situazione resa di anno in anno sempre più grave dall’abdicazione crescente del ceto politico – ormai anche in Europa come negli Usa – del governo effettivo dei meccanismi economici. Si comprende allora come la razionalità economica, diventata la razionalità sans phrases delle società industriali, sembra destinata a diventare la fonte che alimenta il più colossale assurdo sociale di tutta la storia umana. 124

È evidente, dunque, che la storia può contribuire in maniera rilevante a fornire alle nuove generazioni elementi di consapevolezza della svolta epocale in cui esse vengono a giocare la propria partita nel mondo. E si tratta di un contributo di non poco rilievo perché oggi – tranne poche voci di studiosi isolati – quasi tutti, imprenditori, uomini di Stato, giornalisti, «esperti», credono di poter «risolvere il problema» della disoccupazione attraverso un’ulteriore crescita economica. Ci troviamo anzi di fronte a un colossale paradosso di cui quasi nessuno vuole accorgersi. Abbiamo davanti la più formidabile sfida che l’economia abbia forse mai lanciato all’intera organizzazione della società, e i governi degli Stati industriali pretendono di rispondervi con le armi dell’economia: con l’esaltazione delle sue più intime logiche. La coazione a ripetere è naturalmente comprensibile, specie quando le alternative sono obiettivamente difficili da perseguire, come in questo caso. È sempre la via più facile e più a portata di mano quella che si finisce col prendere. Eppure è sufficiente spogliarsi della doppia pelle di «funzionari della crescita economica» che noi tutti ci portiamo dietro, per accorgersi non solo della debolezza prospettica di una simile strada, ma anche della sua intima assurdità. Si continua a seguire una logica di accumulazione in una fase storica dello sviluppo capitalistico in cui occorrerebbe attivare una logica della distribuzione: distribuzione di risorse, di beni, di lavoro, di cultura. Si continua a seguire una logica dell’accrescimento quando la possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita è palesemente legata a una logica della diminuzione: meno ore di lavoro, meno merci, meno dissipazione di risorse naturali 125

e di energia, meno consumo, meno velocità, meno fretta. È evidente che siamo giunti a un punto della storia del mondo in cui non è più possibile affidarsi al grimaldello della crescita economica. Come può la politica ignorare che si trova di fronte a una sfida gigantesca? Che occorre progettare una riorganizzazione complessiva della società? Crede davvero di poter abdicare alla sua creatività, alla sua capacità di governare il destino degli uomini con mezzi propri, affidando tutto alle nude regole economiche della competizione tra imprese? E cos’altro le rimarrà da governare? Ma come non scorgere all’orizzonte una vera e propria epoca di sofferenza che attende le nuove generazioni, se le tendenze attuali continueranno? Milioni di persone già oggi appaiono infatti disarmate e impotenti. Dopo secoli di divisione sociale del lavoro e di mansioni lavorative astratte, esse sono incapaci o sentono inutile costruire con le proprie mani beni d’uso. Per chi costruirli? Per quale mercato? La gioia e lo scopo del lavoro immediatamente utile sono svaniti. Ma l’etica del lavoro che sta al fondo della loro coscienza, risultato di una lunga storia della nostra «civilizzazione», diventa una ragione costante di sofferenza dal momento che essa resta inappagata. È lì, come una malattia, che alimenta un oscuro senso di colpa. Nel frattempo, tuttavia, il resto della macchina economica e dell’organizzazione collettiva prosegue la sua crescita secondo le vecchie logiche. E poiché la felicità terrena continua a essere rappresentata e identificata con il possesso di un numero crescente di beni, chi non vi accede è un disperato. In una società tutta incardinata intorno alle gerarchie del successo professionale, della competizione, del danaro, del consumo vistoso, chi non ha occupazione e non 126

ha reddito è condannato a sentirsi un reietto. È dunque eccessivo o scandaloso pretendere che la scuola – attraverso la storia del lavoro – cominci a dire alcune parole di verità, capaci di investire con una critica radicale la logica dominante e le culture che orientano le società industriali del nostro tempo? 6. Stato e Stato sociale. Il termine «Stato» tenta di catturare uno dei concetti più ambivalenti e complessi che oggi circolano tanto nel linguaggio scientifico che in quello corrente. Nessun’altra categoria sintetica, né quella di classe, né quella di società, di partito, assume una così ampia pluralità di significati e insieme mostra un’astrazione così elevata. Col termine «Stato» si può infatti indicare la macchina burocratica (ministeri e pubblica amministrazione), la configurazione costituzionale di una nazione, il monopolio della violenza e della legalità (esercito, polizia, magistratura), la ricchezza pubblica e i servizi (sistema fiscale, aziende, trasporti ecc.), l’assistenza ai cittadini (pensioni, indennità ecc.). Questo per limitarsi ai significati principali. Eppure poche parole del vocabolario quotidiano, quanto questa, invadono l’orizzonte culturale dei nostri ragazzi. A chi sfugge, dunque, che per rendere più comprensibile tale concetto la scuola dovrebbe compiere uno sforzo supplementare? L’insegnante di storia, ad esempio, potrebbe coinvolgere di volta in volta (o anche tutti assieme) giuristi, economisti, sociologi, studiosi dell’amministrazione, in grado di spiegare che cosa è lo Stato dal punto di vista di questi diversi saperi. È un modo di cogliere le diverse dimensioni e funzioni della sfera 127

pubblica attraverso le specializzazioni scientifiche che le studiano. Senza dubbio un esperimento di grande interesse. Dentro le classi esso porterebbe competenze esterne e culture che non hanno se non una limitata circolazione nella scuola e nello stesso tempo comincerebbe a educare gli studenti alla pluralità degli approcci disciplinari. Lo Stato è comunque per eccellenza una formazione storica. Come per il tema del lavoro, la sua evoluzione nel tempo potrebbe conoscere, nella scuola, una trattazione di lungo periodo. Una ricostruzione delle trasformazioni del potere pubblico dall’età moderna all’età contemporanea costituirebbe l’occasione per rileggere un vasto percorso storico sotto il profilo delle istituzioni e soprattutto dei rapporti di potere fra Stato e cittadini. Non mancano i problemi, legati al mondo attuale da cui partire per una appassionante navigazione nel tempo. La storia di questo potere supremo, garanzia di ordine e insieme strumento di oppressione, elargitore di castighi e a un tempo erogatore di protezione, ci consegna ancora oggi non pochi enigmi. Erano più liberi gli individui sotto i poteri illiberali dell’antico regime o oggi, che nello Stato di diritto godono di ampie garanzie, ma sono sottoposti a una maglia fittissima di controlli, restrizioni, obblighi ecc.? Nelle società democratiche avanzate la domanda potrebbe perfino apparire provocatoria. Ma essa può essere invece propedeutica a più profonde riflessioni storiche. Uno studioso francese del potere, de Jouvenel, ha acutamente osservato che «neppure un re ha mai potuto disporre di una polizia che fosse paragonabile a quella di una democrazia moderna». E d’altra parte – si può aggiungere – solo agli Stati contemporanei è riuscito di 128

imporre l’ubbidienza totale, fino al sacrificio personale, a milioni di uomini, trascinati nella carneficina di due guerre mondiali. Ma il termine «Stato» conosce oggi, soprattutto nel linguaggio politico e giornalistico, una declinazione specifica e prevalente. Non si tratta dello Stato senza aggettivi, ma dello Stato accompagnato dall’aggettivo storico più connotante, forse, della sua lunga storia: lo Stato assistenziale, o welfare state, per ricorrere al più universale equivalente inglese. Ed è proprio questa particolare esperienza storica del potere pubblico che le nuove generazioni vedono quotidianamente messa in discussione. Sono ormai oltre due decenni che tale realtà è al centro del dibattito scientifico e politico. Ed è stata prodotta una letteratura ormai sconfinata. Perché non farne dunque, a scuola, il punto di partenza per una trattazione storica specifica? Siamo di fronte a un caso di storia-problema che può coinvolgere gli studenti anche su sentieri disciplinari insoliti. Che cosa è dunque il welfare state e quando è sorto? Attraverso quali processi siamo giunti alla sua attuale crisi? La trattazione potrebbe costituire un capitolo di storia del Novecento. In effetti lo Stato assistenziale, rigorosamente parlando, è quello che si viene configurando nei paesi industrializzati, all’indomani della seconda guerra mondiale. È esattamente la forma di assistenza pubblica che si sviluppa a partire dagli anni quaranta, e che trova diverse modalità da nazione a nazione, quella che viene messa in discussione ai nostri giorni. Essa ha progressivamente posto sotto tutela non solo gli operai e le classi povere, ma anche i ceti medi fino a coprire progressivamente strati amplissimi della società. La ricostruzione potrebbe quindi prendere le 129

mosse, ad esempio, dal 1948: quando in Inghilterra entrò in funzione il piano Beveridge – dal nome del ministro che lo ideò e promosse. From the cradle to the grave (dalla culla alla tomba) era il suo motto: vale a dire una completa assicurazione contro la malattia, la disoccupazione, l’invalidità, la vedovanza ecc. per tutto il corso della vita. Da quel modello si potrebbe partire per illustrare, comparativamente, i diversi sistemi che si sono affermati in Europa, o per privilegiare un singolo caso nazionale. Quasi un cinquantennio di storia, quindi, che potrebbe fornire agli studenti la conoscenza di alcuni processi essenziali per comprendere il nostro tempo. E tuttavia non v’è dubbio – ed è ovviamente noto tra gli studiosi – che le attività di intervento e di assistenza dello Stato a favore di determinate categorie di cittadini inizia molto prima degli anni quaranta e progredisce nel tempo attraverso l’esperienza di diversi paesi. Ed è forse questo punto storico di avvio che può aiutarci a comprendere almeno alcune delle ragioni delle difficoltà di oggi. Quand’è che lo Stato comincia a porsi problemi di tutela a favore di determinati gruppi della società? Come alcuni studiosi hanno osservato, il potere pubblico comincia a intervenire allorché lo sviluppo capitalistico strappa le persone dal loro contesto di comunità e le scaraventa, come individui isolati, nel libero mercato del lavoro. È quanto si verifica, ad esempio, in seguito alla rivoluzione industriale. I contadini e gli artigiani che in Inghilterra diventavano operai di fabbrica perdevano, nelle città industriali, i loro antichi legami familiari e di villaggio. Se essi si ammalavano o si infortunavano, o diventavano vecchi, non avevano più, alle loro spalle, i sistemi solidali di protezione affidati ai rapporti 130

personali, agli amici, ai parenti, ai vicini. È da tale inedita condizione in cui alcune masse di uomini, donne, bambini si vennero a trovare per la prima volta, che sorse, tra gli stessi interessati, e tra i settori più sensibili degli altri ceti e delle stesse classi dominanti, l’esigenza di un nuovo impegno legislativo e di protezione da parte del potere pubblico. Si trattava d’altra parte di una direzione coerente d’azione. Lo Stato, infatti, in diverse forme e modi, a seconda dei paesi, veniva a porsi sempre più decisamente come lo strumento collettivo per la valorizzazione del capitale privato. Attraverso la fondazione di banche centrali, l’organizzazione del sistema creditizio, la costruzione di strade e ferrovie, le protezioni doganali e militari, la pratica delle commesse pubbliche, esso favoriva enormemente il processo di accumulazione capitalistica e lo sviluppo industriale. Era perciò in un certo senso «naturale» che lo stesso Stato si preoccupasse in qualche modo di garantire le buone condizioni e la riproducibilità fisica di quell’elemento della vita sociale senza il quale nessuna valorizzazione del capitale sarebbe stata possibile: la forza lavoro operaia. Per questa via dunque lo Stato realizzava una profonda trasformazione della propria stessa natura rispetto al passato. Non si poneva più solo come il presidio supremo del potere, il detentore monopolistico del diritto, il rastrellatore fiscale di danaro per le sue guerre ecc., ma anche come il centro propulsore del più dinamico e travolgente modo di produzione che mai fosse apparso sulla scena. E dunque doveva assumersi il compito di regolare e attenuare i disagi e i conflitti che quella «testa d’ariete» produceva nel suo avanzare nel tessuto vivo della società. Ovviamente, la nuova sensibilità delle classi dominanti nei 131

confronti delle classi operaie era il risultato della capacità di lotta e di contrasto che queste ultime riuscivano a manifestare. Il sorgere delle leghe operaie, dei sindacati e delle prime formazioni politiche di ispirazione socialista ebbe un ruolo importante in tutto il processo. La configurazione che lo Stato contemporaneo ha oggi assunto nell’Occidente è anche il risultato della grande pressione esercitata dalle masse popolari nel corso del XIX e XX secolo. Com’è comprensibile, il potere centrale si poneva problemi di ordine pubblico, di pace sociale e di consenso, che in genere erano fuori dall’orizzonte dei singoli imprenditori. Ma occorre anche rammentare la natura intimamente duplice del potere in sé. Perché esso possa realizzarsi e durare occorre che ci siano in qualche modo degli elementi di complicità tra chi lo esercita e chi lo subisce. I ceti proletari avevano un bisogno crescente di protezione, i gruppi dominanti avvertivano l’esigenza crescente di porli sotto controllo. Per tale ragione non risulta inspiegabile che proprio governi autoritari e fermamente antisocialisti, come quello di Bismarck alla fine del XIX secolo, costituiscano gli antesignani dello Stato sociale contemporaneo. Con le leggi degli anni ottanta sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie e contro la disoccupazione, il governo del cancelliere di ferro tentava di strappare gli operai tedeschi all’influenza del partito socialdemocratico. Ma avviava una legislazione destinata ad avere l’estensione che conosciamo e soprattutto una singolare fortuna in Germania. È proprio in questo paese, infatti, che per la prima volta i diritti di tutela dei lavoratori entreranno a far parte di una Costituzione: è quanto avvenne, nel 1919, con la Repubblica di Weimar. 132

Con il XX secolo, indubbiamente, l’intervento del potere pubblico in materia di assistenza conosce un’espansione geografica che segue quella dello sviluppo capitalistico ma anche il diffondersi di idee sociali e politiche che guadagnano le élites intellettuali e settori crescenti dell’opinione pubblica del tempo. Nuove leggi vengono emanate tra il 1906 e il 1914 in paesi di prima industrializzazione, come l’Inghilterra, ma anche, in diverse forme, nel resto d’Europa e in altri paesi del mondo. Non c’è dubbio, tuttavia, che prima della seconda guerra mondiale l’esperienza – non solo legislativa, ma anche operativa – di intervento assistenziale più significativo, e in certo senso prefiguratore del welfare state postbellico, è quella realizzata dall’amministrazione Roosevelt con la politica del new deal. Tuttavia, la ricchezza del suo significato non sta solo nell’ampiezza delle misure prese e nel loro carattere innovativo rispetto al passato. Il cuore di quell’esperienza risiede in altro. La grande crisi del 1929 a cui quella politica tentò, con relativo successo, di porre rimedio aveva infatti mostrato, nella maniera più drammatica, la possibilità di un tracollo dell’intero sistema capitalistico, in assenza della forza regolatrice di un’intelligenza pubblica: vale a dire senza regolazione da parte dello Stato. Una delle leve per la ripresa dell’intero meccanismo di accumulazione fu allora intravisto, dal governo Roosevelt, nelle politiche per l’incremento dell’occupazione. Fu grazie all’estendersi del lavoro anche per opere di pubblica utilità che la macchina inceppata dell’economia americana si rimise in moto consentendo la ripresa progressiva, anche se lenta, dell’intera economia mondiale. Ma quell’esperienza – grazie anche alla 133

teorizzazione dell’economista inglese John Maynard Keynes – segnò un punto capitale nella concezione e nella pratica del welfare quale noi l’abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni. Mostrava infatti il ruolo centrale che lo Stato doveva giocare nel mantenere la piena occupazione e nello stesso tempo indicava quanto tale condizione fosse non solo compatibile con lo sviluppo economico, ma ne costituisse anzi una leva. Una concezione e una pratica che per quasi trent’anni sono state premiate da uno straordinario successo. Tra il 1945 e il 1973 il mondo ha conosciuto la fase di espansione economica, di prosperità e di stabilità più intensa, più lunga e spettacolare di tutta la sua storia. Con la fine, ai primi anni settanta, del grande ciclo economico postbellico e il sorgere di nuove forme di instabilità finanziarie internazionali, anche per lo Stato assistenziale si apre una fase di turbolenze e di crescenti squilibri. Molte sono le ragioni che determinano il cambiamento: una crisi che sembra preludere alla sua progressiva liquidazione. Alcune sono di origine demografica. L’allungamento della durata media della vita richiede sempre più numerose e più durature prestazioni pensionistiche, mentre il declino della natalità restringe la base del prelievo fiscale per mantenere chi cessa di lavorare. Parallelamente l’ampliamento della medicalizzazione dei cittadini – fenomeno in parte indotto, come abbiamo avuto già modo di osservare, dal mercato medico e farmaceutico – e il ricorso a cure mediche sempre più sofisticate accrescono progressivamente le spese del settore sanitario. Anche il modesto aumento dell’occupazione e a maggior ragione la disoccupazione crescente disseccano una fonte importante di alimentazione della spesa sociale. Si avvia allora, per 134

manifestarsi in forme dispiegate nel decennio successivo, quel fenomeno che uno studioso americano, James O’Connor, ha definito la crisi fiscale dello Stato. In un’opera che ha avuto una larga eco – e che è stata anche abbondantemente travisata – O’Connor mostrava le crescenti difficoltà del potere pubblico non solo e non tanto nel garantire i cittadini contro la disoccupazione e le malattie, ma di continuare ad alimentare l’accumulazione capitalistica come aveva sino ad allora fatto. Le spese sostenute infatti dallo Stato, garantite attraverso la pressione fiscale, non andavano solo a vantaggio della generalità dei cittadini. Avevano soprattutto lo scopo di dare impulso, direttamente o indirettamente, all’industria capitalistica, civile e militare: attraverso la costruzione di strade e ferrovie, sostenendo gli investimenti in ricerca, alimentando la politica degli armamenti, concedendo facilitazioni fiscali alle aziende ecc. D’altra parte – O’Connor ricordava – anche gli impegni dello Stato a favore dei singoli cittadini, ad esempio a favore di una loro più larga ed elevata istruzione, sono inestricabilmente legati al processo di valorizzazione del capitale. La scuola e le università servono infatti a formare operai, tecnici, manager sempre più preparati per i bisogni dell’industria. A partire degli anni ottanta due paesi, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, hanno avviato politiche di radicale revisione dello Stato sociale, sulla base di un nuovo credo teorico, riassunto nel termine deregulation. Con le due presidenze di Ronald Reagan, e con il dominio incontrastato di Margareth Thatcher nel governo conservatore per oltre undici anni, vengono sperimentate delle politiche con la mira di sanare i difetti e i limiti dell’intervento pubblico in economia. Le 135

idee di fondo di questo credo neoliberista – che ancora oggi ispira o influenza molti settori politici e intellettuali in tutto il mondo – si fondavano su alcune convinzioni semplici: l’intervento dello Stato finisce col richiedere una tassazione elevata, accresce il peso e i costi della burocrazia, alimenta l’inflazione e l’alto costo del denaro, interferisce col mercato e ne altera le regole: in una parola scoraggia le attività delle imprese. Al tempo stesso la protezione accordata ai cittadini crea una cultura della dipendenza, smorza lo spirito di iniziativa degli individui, finisce col pesare sul bilancio dello Stato. La soluzione proposta e praticata in questi due paesi, con diversa intensità, per più di tre lustri, è stata parimenti semplice: diminuzione delle tasse, limitazione dell’assistenza, liberalizzazione sempre più accelerata dell’economia, privatizzazione di imprese pubbliche ecc. Non è ovviamente mio compito – né rientrerebbe nelle mie competenze – entrare nel merito dei risultati di tali politiche. Esse sono a tutt’oggi oggetto di ricerca storica e soprattutto di dibattito politico. E tuttavia, se esse hanno indubbiamente conseguito alcuni risultati – per esempio sul piano del risanamento, per lo meno temporaneo, del bilancio statale – lasciano oggi a noi delle eredità sul piano sociale, politico e culturale, difficilmente aggirabili. È per preminente responsabilità di tali scelte se sono aumentati gli squilibri e le distanze fra i paesi poveri e i paesi ricchi e le distanze fra ricchi e poveri all’interno delle società industrializzate. Come ricorda un rapporto delle Nazioni Unite, tra il 1970 e il 1985 il Prodotto nazionale lordo complessivo è cresciuto nel mondo del 40 per cento, mentre il numero dei poveri è aumentato del 17 per cento. Ma anche all’interno dei paesi più industrializzati (Ocse) si 136

conta oggi un numero crescente di persone che scivola sotto la soglia della povertà: oltre 100 milioni, mentre 5 milioni sono senza casa. Stati Uniti e Inghilterra sono fra i paesi più duramente colpiti da tali fenomeni. Negli Stati Uniti tra il 1975 e il 1990 l’1 per cento più ricco della popolazione ha accresciuto la quota di proprietà sui patrimoni dal 20 al 36 per cento. Nel frattempo il 60 per cento dei disoccupati non riceve alcun sussidio e circa 38 milioni di persone sono privi di assicurazione sanitaria. Tra il 1983 e il 1992 l’impiego illegale di bambini in attività lavorative si è quasi triplicato. Come ha ricordato l’economista indiano Amartya Sen – premio Nobel per l’economia – attualmente «gli uomini hanno meno probabilità di raggiungere i quaranta anni nei sobborghi neri di Harlem a New York che nell’affamato Bangladesh». Squilibri sociali che certamente si intrecciano con problemi storici della società americana, ma che cominciano ad avere effetti evidenti sulla stessa qualità della democrazia di quel paese. Secondo quanto ha osservato il «New York Times» nel 1990 i votanti provenienti da una famiglia con un reddito inferiore ai 15 000 dollari annui, quindi entro la soglia della povertà, costituivano il 13,8 per cento del totale. Nel 1992 essi erano scesi all’11 per cento, mentre nel 1994 si erano ridotti al 7,7 per cento. I poveri tendono dunque a disertare l’esercizio, per loro senza senso, della democrazia formale. La crisi dello Stato sociale apre dunque uno scenario tendenziale di grandi squilibri sociali e lancia sfide formidabili alle classi dirigenti di tutti i paesi. Dopo una lunghissima fase di intervento e di impegno nell’economia e nella vita sociale il potere pubblico, con diverse strategie da Stato a Stato, si ritira. Gli individui sradicati ormai 137

definitivamente dai rapporti sociali della vita di comunità, e ridotti sempre più al proprio essenziale ruolo di produttori e consumatori, vengono abbandonati alla loro solitudine di «attori economici». Non più sotto l’ala dell’assistenza pubblica, essi saranno costretti a regolare la loro condotta civile e privata alle poche leggi che finiranno per dominare l’intera realtà sociale: quelle del mercato. La protezione viene lasciata al potere del danaro in mano ai singoli. In questo modo lo Stato, la sintesi e il garante della protezione collettiva, la figura di potere che nelle forme della tutela incarna anche lo spirito di comunità che anima la nazione, tende a «sciogliersi», a scomparire nei rapporti privati. I cittadini dovranno badare da sé a tutte le necessità di ordine sociale, ma lo potranno fare – ci assicurano gli esperti liberisti – perché saranno sempre più in grado di utilizzare il maggior reddito privato che l’economia di mercato metterà a loro disposizione. I legami di solidarietà sociale, codificati in leggi, sono spinti così a trasformarsi in rapporti mercantili. E non importa a quale dissolvimento della vita comunitaria di una nazione finisce col condurre una tale strategia. Quale prosciugamento di ogni senso dell’esistenza, risospinta nel nudo rapporto dare-avere dell’economia mercantile, tutto ciò verrà a determinare? Fino a quali recessi della vita sociale, familiare, psichica, le regole del denaro penetreranno? Ciò che appare unicamente rilevante, per un numero sempre più esteso di economisti e politici, è che la soluzione proposta funzioni. È a questo orizzonte minimo che si va adattando la politica al potere nelle società del nostro tempo: l’ubbidienza a un principio tecnico elementare. Con le stesse aspettative che si hanno nei confronti di un buon elettrodomestico. 138

Ovviamente, oggi non è ancora dato prevedere quale sarà la futura evoluzione di tali linee di tendenza, che in Europa sono, per taluni aspetti, appena agli inizi. Ciò di cui non si può dubitare è la rilevanza di tali problemi per l’avvenire delle nostre società, probabilmente della nostra stessa civiltà. Ognuno può immaginare quali giganteschi problemi di tenuta del consenso sociale si profilano all’orizzonte degli Stati nazionali. E a nessuno sfugge il senso delle trasformazioni che le società dovranno fronteggiare nel prossimo futuro. Per questo insieme di motivi non è giustificata l’assenza della vicenda dello Stato sociale, la sua nascita e il suo declino, nell’insegnamento della storia nelle nostre scuole.

139

IV. Locale e universale

La malattia moderna è: un eccesso di esperienze. Perciò ognuno deve cercare di tornarsene per tempo a casa, al fine di non perdere se stesso nelle esperienze. F. Nietzsche, Frammenti postumi (1876-1878)

1. Itaca e il mondo. Ho spesso riflettuto sulla mia personale formazione scolastica e universitaria. Sono uscito dal liceo classico di una città di provincia, con una buona conoscenza manualistica della storia universale, ovviamente secondo un’ottica irriducibilmente eurocentrica. Ho preso confidenza col pensiero di Platone e di Kant e in generale con le vicende della cultura occidentale. Una formazione dunque umanistica e universalistica, fondata su una gamma complessa di valori, a cui credo di dovere molto. E tuttavia, uscendo dal liceo, nulla o quasi sapevo della vicenda storica della città in cui sono nato, ancor meno delle caratteristiche e delle evoluzioni economiche e sociali della mia regione. La storia non mi aveva insegnato alcunché sul luogo in cui mi sono formato. Dal suo canto, quell’autentica caricatura che era la geografia nei licei italiani non mi aveva fornito che superficialissime informazioni sulle caratteristiche fisiche ed economiche della mia Calabria. Neppure l’università, pur essendomi iscritto a una facoltà di Lettere, ha aggiunto nulla di conoscenze circostanziate e locali a un curriculum sempre 140

più decisamente generale e universalistico. Solo più tardi, per essere diventato uno storico di mestiere – e per aver posto la mia regione al centro di specifici studi e ricerche – ho cominciato a farmi un’idea non generica della realtà storica e materiale del luogo in cui si era svolta una parte della mia vita e della mia formazione. Ebbene, questa esperienza – che è certamente non dissimile da quella di milioni di italiani nei decenni di questo dopoguerra – merita oggi una particolare riflessione. Induce a interrogarsi con nuove ragioni su un vecchio problema. È ragionevole che la scuola continui a fornire ai giovani una formazione universale senza riscontri e senza legami con le realtà locali in cui essi vivono? Un insegnamento della storia tutto fondato sui grandi processi ed eventi mondiali non rischia di creare, nella mente dei ragazzi, una sorta di sopramondo astratto che si snoda al di sopra di ogni realtà materiale locale? Senza un fondo di conoscenza storica di una realtà territorialmente delimitata, la stessa qualità di percezione dei fenomeni sociali rischia di essere fortemente impoverita. Nell’epoca di dominio dei media essa si candida ad essere facilmente alterata e manipolata, a sprofondare nell’irrealtà di una rappresentazione falsamente universale. Eppure la storia si è svolta in luoghi determinati. Ha percorso il tempo lineare, ma anche lo spazio accidentato delle geografie. E il villaggio, la città, la regione in cui siamo nati non hanno fatto parte della storia mondiale che i manuali ci raccontano? Credo che esistano buone ragioni oggi per ridare alla storia locale una nuova presenza e funzione nella formazione dei giovani. Una vicenda storica, che ha per 141

teatro le strade e le piazze che sono loro familiari, accende un interesse ravvicinato che non possono provare per eventi lontani e astratti. Ed è questo, indubbiamente, un aspetto didattico di rilievo su cui ritorneremo. Ma, non bisogna dimenticarlo, l’inserimento della storia locale nei percorsi della storia generale potrebbe costituire un elemento importante nella formazione delle strutture cognitive degli allievi. È in questa intersezione di locale e universale che gli studenti possono imparare ad apprendere, attraverso la storia, alcuni meccanismi fondamentali della conoscenza, che sono poi anche modi di procedere della scienza: il gioco continuo di particolare e generale, concreto e astratto. Si deve alla ricerca storica italiana un’attenzione particolare all’analisi di realtà locali delimitate per studiare in profondità i processi materiali del passato, le relazioni fra i vari attori che ne furono protagonisti. Nel corso degli anni ottanta la cosiddetta «microstoria» ha cercato di puntare i riflettori su singoli casi con l’intento di illuminare, come in un taglio in sezione, un frammento della storia generale. Per questa via, ad esempio, le classi sociali – che la storia generale si limita a designare in maniera astratta – venivano esaminate al loro interno attraverso la vicenda di singole persone che ne facevano parte: il popolano, il borghese ecc. Così lo Stato o la Chiesa non restavano dei nomi, ma prendevano la forma di funzionari o cardinali che entravano in azione all’interno di vicende minutamente ricostruite. Nel libro Il formaggio e i vermi Carlo Ginzburg, ad esempio, racconta la vicenda di Menocchio, un mugnaio friulano del Cinquecento, che incorse ripetutamente nei rigori della Santa Inquisizione per la sua professione di ateismo materialistico. È un testo dunque che in forma di racconto 142

schiude un frammento originale dell’Italia della Controriforma nel XVI secolo: un pezzo di vita locale che mostra che cosa poteva voler dire, nella realtà di tutti i giorni di quell’epoca, per un singolo individuo, non avere idee cattoliche ortodosse in un qualche angolo della penisola. Ma Il formaggio e i vermi – come del resto alcuni altri libri che con diverso valore e fortuna hanno contribuito più tardi a formare una corrente storiografica – solo apparentemente era una storia locale. Era in realtà una forma di focalizzazione dello sguardo della storia generale. E da questa, in larga parte, dipendeva. Senza la conoscenza della storia della Chiesa, della realtà italiana ed europea del XVI secolo, delle vicende religiose che avevano così profondamente segnato quell’epoca, difficilmente Ginzburg avrebbe potuto comprendere e raccontarci il significato della vicenda di Menocchio. Anche la casuale scoperta di fonti archivistiche su quel singolare caso sarebbe risultata, ai suoi occhi, priva di alcun senso se gli fosse mancata la conoscenza preliminare del vasto contesto storico generale in cui la vicenda si inscriveva. Com’è noto, si vede ciò che si sa. Ho ricordato questo caso perché credo che ci illustri in modo esemplare come la conoscenza storica sia sempre una continua sintesi di locale e universale, di esame circostanziato di contesti determinati, e astrazioni e connessioni più generali. Ma anche per mostrare un modo più generale di procedere della conoscenza che ha bisogno di verifiche concrete, ma che vive anche di astrazioni. Se noi ci poniamo davanti ai cancelli di uno stabilimento della Fiat o della Renault, al momento dell’ingresso o dell’uscita dei dipendenti, difficilmente riusciremo a scorgere la classe 143

operaia. Il nostro occhio coglierà tra la folla mille visi e sguardi differenti, intuendo una straordinaria varietà di destini e di vicende personali. In quelle mille e mille storie che sfilano davanti a noi la classe sembra dissolversi. Eppure la categoria di classe, nella sua astrazione sintetica, coglie una realtà effettiva, una media di condizioni, di comportamenti, di culture che ci consentono di pensare e di ricostruire una storia collettiva. Per questo la vicenda di uno sciopero in una qualsiasi fabbrica ci mette in condizione di conoscere il comportamento concreto della massa operaia e dei singoli in quella determinata vicenda. Ma al tempo stesso quella ricostruzione diventa intelligibile se la colleghiamo alla storia generale della classe operaia in quella fase determinata: una vicenda che l’episodio specifico, a sua volta, finisce col contribuire a formare e arricchire con le sue determinazioni locali e particolari. Ma la conoscenza della storia locale nasce oggi da altri bisogni. Sono in atto ormai da tempo alcuni processi giganteschi di trasformazione e di omologazione delle realtà periferiche. Per meglio dire: l’insieme dei processi che vanno sotto il nome di modernizzazione comporta anche la cancellazione delle differenze di culture, linguaggi, economie, forme di organizzazione del territorio. L’avanzare dei processi di sviluppo economico non si limita a cancellare dalla superficie della terra, ad una velocità sconosciuta al passato, piante ed animali che rappresentano il patrimonio irriproducibile della biodiversità della natura. Ogni anno scompaiono 20 milioni di ettari di foreste tropicali: una superficie poco più piccola dell’Italia, che ne conta 30 milioni. Al suo interno si trovano circa il 40 per cento delle piante primarie del globo e un numero incalcolabile di 144

specie animali. Ma il processo di modernizzazione ha cancellato e continua a cancellare, come è noto, anche altro. Le lingue delle minoranze etniche vanno visibilmente scomparendo. Un fenomeno che già in passato aveva investito – come ha ricordato Keith Thomas – la lingua dei contadini e dei pastori, il ricchissimo vocabolario con cui essi avevano per secoli denominato le varie specie di alberi, piante, animali e i molteplici aspetti e fenomeni della natura. Sotto la spinta dell’agricoltura industriale, il paesaggio delle nostre campagne tende a diventare uniforme e monotono. Campi geometricamente squadrati, resi omogenei e piatti per dar modo ai trattori di operare senza intralci e con rapidità di manovra. Nella gran parte delle aziende agricole le piante sono oggi disposte in filari regolari, a distanze calcolate, per dar modo alle macchine raccoglitrici di realizzare una ordinata raccolta. Chi non si è accorto della quasi sparizione degli olivi nodosi e contorti che giganteggiavano sulle colline del nostro Sud? Al loro posto filari di alberelli snelli, uguali uno all’altro, con poche fronde, regolarmente disposti: quasi protesi artificiali per produrre una più elevata quantità di olive. Anche nelle città da tempo avanzano processi non dissimili, benché diversamente contrastati dai poteri municipali. Non si tratta soltanto dell’uniformità anonima dei manufatti edilizi, soprattutto abitativi, denunciata ormai da decenni dalla letteratura sociologica e urbanistica. È in gioco la trasformazione dei centri storici. Privati sempre più del popolo minuto degli artigiani, del piccolo commercio, della vita quotidiana delle persone, si riempiono di banche e di uffici, che a sera lasciano strade e piazze in un anonimo deserto. Anche i segni e le strutture tecniche della 145

comunicazione tendono a rendere uniformi gli spazi urbani: insegne di negozi, semafori, segnali stradali, tutto rinvia a un unico linguaggio strumentale. Anche le piazze, le mille piazze d’Italia, con le loro diverse personalità artistiche e storiche, vengono sfigurate e rese uguali dall’uniforme mantello metallico delle automobili in sosta. Ogni realtà territoriale sotto l’avanzare della tecnica tende a perdere le proprie differenze, le proprie peculiarità, appunto, che sono eminentemente storiche. È come se una nuova storia universale tendesse non più a dialogare con la pluralità dei luoghi del mondo, ma cercasse di annetterseli, di cancellarli sotto il proprio unilaterale profilo funzionale. L’uniforme dominio delle ragioni utilitaristiche dell’economia e della tecnica cerca di avere la meglio sull’infinita diversità della natura e della storia. Non bisogna d’altra parte dimenticare un nuovo tipo di spaesamento verso cui siamo spinti. La televisione e i computer tendono ad abbattere ogni determinazione territoriale, ad abolire i luoghi. È un processo che si accompagna a un potente desiderio di occultamento che oggi sembra animare il modo di produzione capitalistico. Le culture che esso promuove si vanno mobilitando per procurargli una nuova invisibilità. E nello sforzo di costruire un immaginario virtuale esse tentano di cancellare l’appartenenza dei rapporti sociali a un territorio determinato. Per questa via il vario profilo delle classi sociali, la disparità delle ricchezze fra gli individui tendono a nascondersi: assumono la stessa astrattezza anonima e senza patria del danaro. D’altra parte, attraverso i nuovi media noi veniamo come risucchiati in un nuovo spazio artificiale di dimensioni 146

planetarie. Ma tale tendenza, mentre apre più ampi orizzonti di comunicazione, accresce le nostre frustrazioni. Quanto più si amplifica lo spazio informativo tanto più sembra diminuire quello della nostra possibilità di azione: anche perché i centri di comando e di decisione sembrano ormai posti fuori da ogni confine territoriale. Al carattere sempre più planetario della nostra cittadinanza virtuale fa riscontro la crescente limitatezza della nostra cittadinanza reale, la capacità di agire in termini politici allo stesso livello delle nostre conoscenze. E tale situazione di squilibrio costituisce di certo un problema di prima grandezza della democrazia nel mondo attuale. All’universalità dei mercati e dell’informazione si contrappone la particolarità della politica, la frantumazione del governo dei processi mondiali, la limitatezza della partecipazione democratica. È uno dei grandi nodi del futuro. Ma intanto a maggior ragione si impone oggi un ancoraggio più forte ai luoghi reali, ai punti di partenza. Non c’è alcun dubbio che l’attitudine degli individui alla democrazia si forma e si educa in ambito locale, nella polis. Una formazione culturale che non è in grado di fornire conoscenza storica sulla realtà locale di provenienza, sui suoi problemi e sulle sue peculiarità, depotenzia l’attitudine alla partecipazione democratica, priva l’individuo del senso concreto dell’operare, del muoversi «entro le mura» di una dimensione spaziale controllabile, in cui la sua azione possa apparire immediatamente incisiva. E non c’è dubbio che i punti di partenza locali sono rappresentati dai comuni, dalle città. Per quanto la nostra vita si svolga oggi virtualmente nello spazio del mondo, a meno che non si sia piloti di jet, è sempre nell’ambito delimitato di una città che si svolge la 147

nostra esperienza di cittadini. Proprio per tale ragione occorre contribuire alla formazione di una classe dirigente che sia consapevole del proprio punto di partenza. Come potrebbe governare la propria città, difenderla dall’arrogante anonimato che la minaccia, senza conoscerne la storia? Appare perciò in tutta evidenza il ruolo di memoria consapevole che può assumere la storia di fronte all’avanzare dei fenomeni appena descritti. Questa funzione costituisce uno dei pochi antidoti culturali a disposizione contro lo sradicamento delle persone dalla particolarità dei loro luoghi, contro la cancellazione delle identità locali, contro l’omologazione delle differenze che abbiamo ereditato da millenni di storia locale-universale: quelli nei quali l’economia e la tecnica non costituivano il linguaggio dominante degli uomini. La storia può porsi come uno strumento di tutela, di difesa delle tradizioni, delle culture, dei linguaggi, delle forme di plasmazione della natura e dell’edificazione, realizzate dalle generazioni passate. Ma una tutela all’altezza delle sfide e dei bisogni del nostro tempo, non una sterile mummificazione. E neppure, ovviamente, l’occasione per ritagliarsi patrie artificiali nutrite dall’odio contro i vicini, o contro chi parla un’altra lingua, porta l’orgoglio di un’altra origine, di una diversa storia. La memoria – come sappiamo dalla guerra civile nell’ex Jugoslavia – può farsi promotrice di violenza e di morte se non è accompagnata dalla equanime serenità della storia. E oggi, di fronte al declinare di quel grande collettore di memoria storica che è lo Stato nazionale, di fronte all’irrompere dei segni uniformi del mercato mondiale, sempre più minacciose avanzano risposte che finiscono con 148

l’assecondare quelle tendenze anziché contrastarle. Non si tratta infatti, in nessun modo, di mettere in discussione la forma storica della nazione, che rappresenta un patrimonio di lingua, di culture, di valori condivisi, di comune sentire, di solidarietà, di tragedie e successi comunemente vissuti nel tempo: il luogo di una più vasta identità. Come sappiamo, la nazione è già viva e in atto, nelle sue strutture antropologiche profonde, anche prima che si affermi il concetto moderno della sua realtà. L’Italia esisteva parecchi secoli prima della sua unificazione politica e della fondazione dello Stato unitario. Era il paese dei comuni dialetti, dei molti modi di fare il pane e la pasta, delle diverse e pur affini forme di religiosità e di credenze. Ma partire dal municipio è l’occasione per rileggere quella più ampia aggregazione storica anche dal fondo delle piccole patrie locali, per togliere ad essa ogni boria di superiorità, per neutralizzare al suo interno qualunque pretesa purezza e nobiltà di sangue da parte di gruppi e regioni. La conservazione delle particolarità periferiche, perseguita con consapevolezza storica, non è infatti che lo sforzo di costruire un rinnovato universalismo: per scrivere una nuova pagina di storia del mondo con nuovi e multiformi protagonisti. Occorre sempre rammentare, infatti, che le tradizioni, come le culture, non sono un dato originario che giunge a noi, nella sua immacolata purezza, dal fondo remoto del tempo. Esse altro non sono che una particolare declinazione locale della storia del mondo. Rappresentano un processo in continuo svolgimento, un movimento che è perennemente sotto i nostri occhi. La lingua greca o albanese che ancora si parla in alcuni paesi della Calabria è un lascito delle fitte 149

relazioni che i popoli mediterranei hanno avuto in quell’area tra l’età antica e l’epoca moderna. Non è un dato originario: nasce in qualche momento del passato. Gli ulivi secolari ancora superstiti nelle campagne della Puglia rammentano lo specifico habitat mediterraneo di quella regione, ma insieme la storia del commercio dell’olio con Genova e Venezia in età moderna, che diede impulso a quelle piantagioni. Le risaie della Valle padana, che oggi ci appaiono come un dato primigenio di quel paesaggio, appartengono alla storia mondiale del commercio delle piante: il riso è arrivato dall’India attraverso la mediazione civilizzatrice degli arabi nel medioevo. Perfino nei paesi che consideriamo più immobili e privi di capacità assimilativa di culture esterne è penetrata da tempo la storia mondiale. In Africa le banane sono state importate dal Sud-est asiatico, intorno al Cinquecento, quando venne trapiantato anche il mais, proveniente dall’America. Ma ci sono tradizioni più umili e pur considerate talora come dati originari, che rinviano a storie appena secolari e a vicende differenti della storia mondiale. Il costume, ad esempio, di consumare baccalà nelle festività natalizie – da tempo in uso in tante aree del Sud d’Italia – è la testimonianza di una inserzione atlantica nella cucina meridionale. L’immissione del pesce secco nel Mediterraneo, ad opera dei mercanti europei in età moderna, ha dato inizio a uno scambio di prodotti alimentari che ha fondato – cioè ha cambiato e arricchito – una tradizione. La storia può dunque non solo sottrarre all’uniformità e all’omologazione i tratti irripetibili della realtà locale, le radici profonde dell’identità, ma può farlo in maniera non localistica, senza cadere nell’angustia provinciale. Essa può 150

infatti mostrare i caratteri dell’universalità storica mentre ne ricorda la delimitazione territoriale. Ma può ambire a costruire un nuovo tipo di universalismo, che nella multiforme diversità delle patrie, sotto tutte le latitudini, riconosca il tratto comune di una umanità che ha cercato e cerca le proprie diverse vie di sviluppo, di adattamento alle condizioni della natura, di organizzazione della società, i vari modi culturali di affrontare la vita e la morte. Sentire le proprie tradizioni come un frammento della storia generale previene alla radice ogni culto di purezza etnica, il sorgere dei fondamentalismi che alimentano gli istinti più feroci di cui gli uomini sono capaci. Ma al tempo stesso aiuta a raccogliere grandi sfide. Alla globalizzazione del denaro e delle merci la storia può contrapporre il cosmopolitismo differenziato dei popoli: la geografia in movimento dei diversi modi con cui le società hanno organizzato l’uso delle risorse, elaborato culture, creato istituzioni, espresso le molteplici forme della propria spiritualità. Questa antica forma del sapere può offrire la semplice consapevolezza della necessità di una inedita fondazione: la conservazione consapevole di radici perché gli uomini possano vivere non inermi una nuova stagione della vicenda del mondo. Una fase che in modo nuovo travalica le antiche delimitazioni di Stati e continenti e che appare oggi davanti a noi nuda e confusa, senza miti fondativi e senza eroi eponimi. Dal sapere storico possiamo dunque avere in dono una bussola per affrontare l’incerta navigazione. I processi continui di trasformazione, che costituiscono la stoffa del nostro presente, possono essere filtrati, accolti o rifiutati con consapevolezza, non passivamente subiti. La tradizione può dialogare con l’innovazione e accogliere ciò che l’arricchisce, 151

combattere ciò che le fa violenza. Che cosa sono in effetti le culture locali se non i dialetti che interagiscono costantemente con la lingua universale della storia vivente? È il possesso di un proprio dialetto, vale dire la coscienza di ciò che si è, che rende possibile la partecipazione alla storia quotidiana del mondo senza capitolare, senza subire in silenzio l’omologazione indifferenziata. Solo i luoghi realmente consapevoli di sé partecipano alla storia generale trasformandosi e conservandosi. Ma occorre guardare a tale proposta con tutto l’orgoglio delle proprie origini. A pensarci bene, infatti, questo modo di difendere le realtà locali costituisce anche un presupposto irrinunciabile della nostra capacità di conoscere. È ciò che di fatto consente la nascita stessa delle culture. Nel suo modello si conserva il segreto delle civiltà. Solo chi custodisce un’Itaca in fondo alla propria memoria è l’Ulisse che sa esplorare le diverse terre del mondo. Il viaggiatore che riesce a stupirsi di tutto ciò che è nuovo rispetto all’isola da cui è partito. Chi non ha punti di partenza è solo un girovago, che consuma vanamente il tempo e lo spazio, senza approdi e senza mete. 2. Il territorio: un libro aperto. Bisognerà allora inserire anche la storia locale nei già densi programmi scolastici? E quale coerenza c’è tra tale perorazione e l’invocata necessità di una «nuova economia della memoria storica»? Non tenterò di sottrarmi al problema. E intanto dichiaro subito la mia opposizione più ferma a una eventuale moda delle storie locali che sostituiscano la vecchia storia generale. Una tale scelta costituirebbe una forma di limitazione grave nella 152

formazione culturale dei ragazzi. D’altra parte i limiti orari in cui si dibattono gli insegnanti sono notoriamente invalicabili. Ebbene, io credo che, con l’aiuto di supporti didattici specifici, gli insegnanti potrebbero di tanto in tanto cogliere l’occasione di mostrare le intersezioni locali della storia generale, ravvicinare i problemi o i processi della «grande storia» alle sue formulazioni territorialmente delimitate. La storia-problema potrebbe fornire varie occasioni per mostrare le declinazioni particolari in cui si sono svolti i grandi processi di trasformazione delle diverse epoche. E ciò appare potenzialmente agevole tanto agli insegnanti che operano in Italia che a quelli che lavorano nel resto d’Europa: a Lubecca come a Barcellona. Ma la necessità di rispondere a una simile esigenza di reimpostazione dell’insegnamento della storia, certamente difficile da mettere in pratica, può spingere a trovare soluzioni di insegnamento non solo inedite, ma forse anche di non comune efficacia formativa. Io credo infatti che noi tutti abbiamo davanti agli occhi un grande testo di storia che non riusciamo a leggere o che comprendiamo solo in parte e confusamente. È il grande libro del territorio: lo scenario della nostra vita quotidiana in cui sono inscritti i segni del lavoro e dell’opera di modificazione prodotta dalle generazioni che ci hanno preceduto. È in questo spazio che la storia universale ha conosciuto e conosce le sue declinazioni particolari ed è qui che gli insegnanti dovrebbero essere in grado di mostrare il dipanarsi materiale del processo storico. Ma il territorio è anche il luogo in cui la storia può prendersi le sue rivincite sulla memoria, andare oltre il suo semplice ricordare. Gli uomini infatti tendono a dimenticarsi della natura 153

trasformata. Vivendoci dentro, usandola quotidianamente, essi non la vedono più come un processo del passato, ma come un oggetto del presente, come una cosa. Ha notato acutamente Lucio Gambi, il nostro maggiore geografo, che i reticolati della centuriatio romana, lungo la via Emilia, nel cuore della Valle padana, erano stati dimenticati dalla popolazione. Numerose generazioni li hanno utilizzati per secoli, insediandosi al loro interno, ma senza serbare memoria del fatto che le geometrie dei loro campi e le linee delle loro strade erano state tracciate dagli agrimensori e dai coloni dell’antica Roma. E, d’altra parte, quale cittadino di tante città d’Europa rammenta che l’ubicazione e il disegno del centro in cui vive, i maggiori assi viari che attraversa, ricalcano così spesso il tracciato operato dagli «ingegneri» romani un paio di millenni fa? Si tratta, ovviamente, di considerazioni che hanno un valore più generale. Le zone rurali dell’Europa, con le loro diverse forme di campo e di piantagioni, disegni del territorio, tipi di case, modelli di villaggi agricoli, conservano ancora le tracce di un lungo e accidentato percorso storico, che può esser letto, in ciascun luogo, come la versione locale della grande civilizzazione agricola europea. Ma quali potrebbero essere le formule per realizzare questo insegnamento en plein air? Alcune esperienze esistono già: quelle messe in atto, ad esempio, dagli insegnanti di storia antica che approfondiscono, alcuni aspetti della storia di Roma con l’aiuto di archeologi. Ma esse potrebbero trovare una estensione anche per altre epoche storiche e per l’età contemporanea. Perché gli insegnanti non potrebbero, infatti, organizzare lezioni 154

all’aria aperta insieme ad agronomi, geografi, ingegneri, urbanisti? È con l’aiuto di simili specialisti, infatti, che la campagna e la città diventano in qualche modo leggibili. Ma cominciare a scoprire il territorio costituirebbe per i ragazzi l’occasione per una esperienza singolarmente formativa: essi possono familiarizzare con la diversità dei linguaggi disciplinari degli esperti, percepire la profondità, e insieme la parzialità, delle singole forme di conoscenza espresse dalle diverse professioni. In un esperimento del genere la campagna può rivelarsi una sorprendente fonte di processi storici. Perfino gli alberi che ci sono più famigliari, agli occhi di un osservatore ben informato, possono rivelarsi testimonianze del passato o suggerire i grandi processi di trasformazione di cui essi sono stati protagonisti. Chi si ricorda, ad esempio, che gli eucalipti, spesso allineati in estesi filari lungo le nostre coste, rappresentano l’eredità di una fase particolare della trasformazione del territorio italiano? Provengono originariamente dall’Australia e dalla Tasmania e sono stati piantati ai primi del Novecento, nei luoghi paludosi e lungo i litorali, per assorbire l’acqua, rigenerare l’aria, resistere ai venti e alla salsedine marina. Lungi dall’essere essenze domestiche del nostro territorio, quelle piante costituiscono dunque un capitolo della lunga lotta, igienica e civile, combattuta da tecnici e amministrazioni pubbliche contro la malaria nelle nostre campagne. E che dire dell’ulivo? Ci sono pochi alberi che appartengono alla storia del commercio mondiale oltre che alle civiltà del Mediterraneo quanto questa tenacissima pianta. Già in età moderna essi popolavano il territorio in forma di boschi sterminati, soprattutto in Puglia. Ma non producevano olio per 155

l’insalata. Quell’olio serviva a fabbricare saponi e a rendere filabili le matasse della lana e del cotone nelle fabbriche dell’epoca. Cloth oil lo chiamavano gli inglesi, olio per tessuti, mentre i meridionali, che lo vendevano, lo chiamavano «olio puzzolente». Un lubrificante industriale, dunque. Per secoli le navi dei mercanti genovesi e veneziani sono approdate nei porti del Sud d’Europa, soprattutto del Mezzogiorno d’Italia, per comprare quell’olio che poi rivendevano nelle varie piazze del vecchio continente. Tra Sette e Ottocento, quando la rivoluzione industriale si diffuse in Inghilterra e in alcuni paesi d’Europa, e la domanda di olio industriale si accrebbe, le piantagioni d’ulivi si diffusero nel Sud d’Italia in dimensioni grandiose. La vecchia pianta di Minerva, l’umile e longevo albero del Mediterraneo, rispondeva così alle pressioni dell’industrializzazione europea. I vecchi esemplari che ancora resistono, isolati, nelle campagne di tanti paesi dell’interno – senza che gli abitanti locali lo sappiano – non sono che i frammenti superstiti di una grande vicenda economica e commerciale che ha avuto l’intera Europa come teatro. Nelle piante, dunque, c’è molta più storia generale di quanto noi non immaginiamo. Ma c’è anche un’altra ragione che dovrebbe spingerci a portare i ragazzi nelle campagne, a mostrar loro gli alberi. Non si tratta solo di far prendere loro un qualche contatto con realtà e dimensioni che la vita cittadina tende a occultare. Occorre avviare anche con gli allievi un’opera, paziente ma urgente, di salvezza di elementi importanti del nostro passato. Molte piante considerate economicamente non più convenienti – «senza mercato», per usare il linguaggio degli economisti – diventano sempre 156

più rare nelle nostre campagne e rischiano di sparire. Che fine faranno i gelsi, i sorbi, i corbezzoli, i carrubi, i cedri? E le antiche varietà degli ulivi, dei fichi, degli altri alberi fruttiferi? Queste creature vegetali, che avevano attraversato innumerevoli epoche della civiltà umana, rischiano oggi di scomparire sotto la pressione distruttiva di un utilitarismo unidimensionale e depauperante. Che cosa dunque se non la storia, questa forma colta e organizzata della memoria, può aiutarci a rivendicare il diritto alla vita di tali esseri viventi, testimonianza della ricchezza della natura e del geniale lavoro degli agricoltori che li hanno tramandati sino a noi? Il territorio, tuttavia, non si esaurisce negli alberi, né la sua storia nell’agricoltura. Guardare alle costruzioni sparse per le nostre campagne porta a scoprire una storia sconosciuta ai più. L’argine di un fiume, la costruzione di un ponte, il tracciato di una strada sono i segni viventi di una trasformazione dei dati naturali realizzata da varie generazioni nel corso del tempo. Attraverso di essi è possibile dilatare in maniera inconsueta lo scenario dei processi storici, che nei manuali si esaurisce, spesso, nelle vicende che riguardano gli uomini e gli Stati, ma astratti dai loro contesti materiali. È così possibile osservare come gli uomini non solo cambiano le società in cui vivono, ma modificano al tempo stesso, molecolarmente o violentemente, anche il loro habitat, assoggettandolo ai propri bisogni mutevoli. E quale territorio è più ricco di voci storiche della nostra penisola? Insieme all’Olanda, l’Italia è sicuramente il paese più «costruito» d’Europa: dalla pianura padana per secoli sommersa dalle acque, ai litorali della Sicilia, un tempo infestati dalla malaria. Esso è stato sottoposto, nel corso di un paio di millenni, a un’opera 157

colossale di plasmazione e di adattamento che ha coinvolto più civiltà. Dai Greci agli Etruschi, dai Romani ai monaci benedettini, dagli Stati preunitari sino ai governi repubblicani di questo dopoguerra, un’opera ininterrotta di bonifiche ha adattato l’habitat naturale ai bisogni di abitabilità delle popolazioni e alle pressioni dello sviluppo. Gli ingegneri, e non solo i contadini, hanno «rifatto i connotati» del territorio della penisola. E si tratta di una delle più grandi e misconosciute epopee che abbiano percorso il suolo patrio. Una vicenda che non ha avuto cantori, non ha mai trovato cittadinanza nella scuola, ma che meriterebbe di esser conosciuta, sia pure per frammenti significativi, dalle nuove generazioni. Gli italiani – non posso qui non rammentarlo – soffrono di una smemoratezza inaudita nei confronti della vicenda storica di un territorio a cui devono tanto. Grava su di essi una insensibilità culturale per i problemi dell’habitat che li circonda che appare quasi un dato originario, e forse non ha eguali in nessun paese dell’Occidente. Non a caso essi si accorgono di vivere su un territorio solo in occasione di alluvioni e disastri che si abbattono sulla penisola con regolare frequenza. Ma il territorio è fatto anche di città, è, anzi, sempre più organizzato dai loro presidi, piegato ai loro comandi. E, osservati dall’esterno, i nostri centri urbani possono offrire l’occasione per una lezione, sia conoscitiva che morale, che io definirei fondativa per i nostri ragazzi. Una lezione che oggi forse nessuna disciplina è in grado di offrire. Del territorio, infatti, noi non dimentichiamo soltanto il passato, ma anche il presente, le fonti che giorno e notte lo alimentano e lo fanno vivere. Normalmente, delle città industriali dimentichiamo il loro carattere parassitario: il 158

loro essere divoratrici di risorse ed energie prodotte altrove. E questo accade oggi in dimensioni incomparabili rispetto al passato. In età preindustriale – come ricorda Paolo Malanima – un centro cittadino di appena 10 000 abitanti aveva bisogno di almeno 50-80 chilometri quadrati di bosco nei suoi pressi, per poter assicurare agli abitanti legna per usi domestici e per il riscaldamento quotidiano. La sopravvivenza della popolazione europea è stata assicurata da un bene misconosciuto, gli alberi, prima ancora che dal grano e dagli allevamenti destinati all’alimentazione. E oggi? Oggi non ci sono più i boschi intorno alle città, ma una selva per lo più invisibile di fonti di energia. Sottoterra scorrono tubi, fili, acquedotti, gasdotti che alimentano la vorace vita quotidiana di tutti noi. Mentre siamo al lavoro o corriamo per le strade, conduciamo la lotta politica, raccontiamo la storia del nostro paese, siamo tenuti in vita dai pochi fili che ci collegano alla matrice invisibile della natura. Ci rappresentiamo come titani produttivi, ma in realtà siamo, prima di tutto, passivi consumatori. Il nostro orgoglioso senso del dominio, la nostra stessa capacità di costruire mondi apparenti, universi virtuali, si regge su una fonte di sfruttamento sapientemente occultata. La foresta di luci che abbaglia le notti di Las Vegas e la festa del denaro che esse esibiscono precipiterebbero di colpo nel buio del deserto in cui sorgono, se venisse interrotto l’immenso flusso di acqua e di energia elettrica alimentato dal lago Mead, a qualche chilometro di distanza. Nello stesso buio e silenzio precipiterebbero – senza l’energia che viene dal petrolio e da altre fonti – le reti telematiche con cui si sta avvolgendo il pianeta. Ma da sempre la polis è mossa da questo irresistibile 159

istinto: cancellare le tracce che la legano alle sue origini, che la mostrano dipendente dal mondo fisico. Essa tende a nascondere il suo debito con la natura. Eppure, basterebbe un taglio tutt’intorno al suo perimetro, che recidesse ogni collegamento col resto del territorio, e le città morrebbero nel giro di pochi giorni. Ecco perché conoscere questa vulnerabilità dovrebbe far parte del corredo informativo di ogni cittadino: è la prima, elementare forma di temperamento etico della nostra superbia urbana. Ma le città, ovviamente, ci interessano anche per altre ragioni. Quale più grande teatro di storia del loro spazio edificato? I nostri centri costituiscono infatti lo scenario quotidiano entro il quale è possibile mostrare agli allievi la solidificazione urbana e locale della storia mondiale. Le città europee sono in larga parte delle stratificazioni storiche che ospitano le vestigia delle loro origini quanto meno a partire dall’età medievale. Quante strade non serbano traccia delle attività produttive, dei mestieri, che vi si svolgevano nelle epoche precedenti, testimonianza di fasi diverse e determinate dello sviluppo economico dell’intero continente? In quanti quartieri non è possibile rinvenire le abitazioni, i vicoli, le piazze, capaci di testimoniare i modi di vita comunitari dei loro abitanti? Quanti edifici, sedi di ospedali, di confraternite, di monti dei pegni non offrono l’opportunità di riannodare la loro vicenda particolare alle forme generali con cui in antico regime il clero e i ceti dominanti europei cercavano di provvedere alla povertà, alle malattie, ai bisogni di credito delle classi povere? Quanto può essere fruttuosa una lezione per le strade se essa è in grado di mostrare i segni della storia mondiale vicino alla porta di casa! 160

Esempi e incitamenti di questo genere si potrebbero per la verità moltiplicare. E tuttavia io credo che non tanto in questo tipo di indicazione risieda l’originalità della proposta della lezione en plein air. Per leggere la città in termini storici occorrerebbe saper osservare l’uso dello spazio che i ceti dominanti e i cittadini hanno fatto nel corso del tempo. E non c’è dubbio che, sotto tale profilo, la storia contemporanea, anche dal punto di vista didattico, offra delle straordinarie opportunità. La città nella quale viviamo tende infatti a presentarsi come un mondo di cose, la foresta pietrificata che noi abbiamo ereditato e che ci sovrasta. Ci sono poche altre cose sulla faccia della terra, fatte dagli uomini, che ci appaiono così esterne e «oggettive» quanto le città. Eppure esse non sono che un’occupazione progressiva di spazio da parte di ceti, famiglie, uomini: il territorio organizzato secondo bisogni sociali diversi e mutevoli nel tempo. Ora è proprio contro questa percezione della città come mondo di cose, come natura immodificabile, che andrebbe diretto un particolare sforzo storiografico e didattico: al fine di rendere la realtà urbana leggibile in termini di manufatto storico, di produzione umana. I processi di trasformazione che hanno investito le città in questo dopoguerra potrebbero costituire un capitolo originale di storiaproblema. Al centro della ricerca e della discussione si potrebbe porre la questione se i nuovi quartieri sorti negli ultimi decenni abbiano costituito nuovi pezzi di città – dotati cioè di spazi di vita comunitaria per la socialità cittadina – o semplicemente una nuova massa di edifici abitativi o di altro uso. Le numerose ricerche di storia urbana dell’ultimo ventennio potrebbero venire in aiuto 161

degli insegnanti interessati a un simile esperimento. Ma per un tale compito si rende indispensabile l’aiuto dell’ingegnere o dell’urbanista o di entrambi. Occorrerebbe che un esperto potesse mostrare ai ragazzi com’era un determinato quartiere cinquant’anni fa, per poterlo comparare con la sua condizione odierna. Un ingegnere con una mappa potrebbe ricostruire le linee generali del modo in cui lo spazio è stato occupato. E qui davvero la didattica dovrebbe produrre uno sforzo coraggioso e impegnativo. Preziose possono infatti diventare vecchie cartoline, foto, testimonianze iconografiche e di altra natura, per comparare il prima e il dopo, per potere, ad esempio, realizzare una ricostruzione simulata al computer dello stato precedente della città. In classe, o dall’alto di una collina, tutto questo potrebbe aiutare i ragazzi a cogliere le differenze fra il passato e il presente, a scorgere le alternative costruttive che esistevano e che non sono state realizzate, a misurare il verde che è stato cancellato, le piazze che non sono sorte, i possibili spazi collettivi che sono diventati strade di scorrimento o palazzine. Esistono numerosi ed estesi quartieri, a Roma e nel resto d’Italia, in cui un pugno di costruttori, poche famiglie di uomini di affari, ha non solo sequestrato quel bene pubblico collettivo che è lo spazio, ma hanno perfino ritagliato e imposto la quantità di cielo destinato agli occhi degli abitanti. Il modo in cui costoro hanno edificato, innalzando enormi palazzine addossate l’una all’altra – gli alveari-dormitorio in cui sono state spesso rinchiuse migliaia di cittadini –, non costituisce soltanto la negazione di un’idea umanamente sopportabile di città. In realtà è stato perpetrato un sopruso più grave e duraturo sulle persone. In base a quelle scelte costruttive una lunga 162

serie di generazioni non potrà godere che di una misura limitata di sole e di aria: quella resa possibile dagli spazi ristretti tra un edificio e l’altro che delimitano il cielo. Così alcuni beni elementari e universali, che la natura mette a disposizione di tutti, sono stati sequestrati, per mano di pochi, per una serie indefinita di anni. Al tempo stesso gli abitanti di tali quartieri non avranno piazze in cui riunirsi: quei luoghi in cui per l’appunto la città prende la sua forma di organizzazione sociale. Essi sono costretti a vivere la propria vita tra il luogo del rifugio domestico, l’«appartamento», per l’appunto, e la strada, percorsa dal traffico automobilistico. Le relazioni sociali con gli altri cittadini vengono surrogate da rapporti di lavoro, in fabbrica o nell’ufficio. Il lavoro e la famiglia catturano il tempo e lo spazio di quella figura che era un tempo il cittadino. Più d’una generazione di ragazzi nelle nostre città non ha trovato nel quartiere, sotto casa, il luogo dei giochi e dei rapporti sociali: ma ha dovuto cercarlo a scuola, nel chiuso delle istituzioni formative, affidando al telefono la possibilità della comunicazione interpersonale e amicale con i propri coetanei. Chi ha dunque costruito quei pezzi di città non si è solo limitato a innalzare monumenti di rozzezza costruttiva – da indicare a eterno ludibrio dei responsabili – ma ha condizionato la realtà sociale, le forme di vita, le possibilità di gioia, l’avvenire di intere generazioni. Si può dunque comprendere, da tali rapidi esempi, come il presente che abbiamo sotto gli occhi non è un insieme arbitrario e casuale di dati oggettivi, indiscutibili e immodificabili, ma semplicemente il risultato di un processo, di una storia, quindi di azioni umane ispirate da interessi e progetti. In questo modo allo sguardo degli allievi 163

anche le pietre dei manufatti cominceranno ad apparire quali forme viventi, che parlano un linguaggio umano, comprensibile. A poco a poco l’intera città cesserà di apparire l’esistente per eccellenza, cioè la realtà pietrificata in cui ci è capitato di vivere, per mostrarsi come il frutto di interessi, di conflitti: per dispiegarsi ai nostri occhi come la solidificazione di rapporti sociali e di culture storicamente determinate. Il risultato, giudicabile e modificabile, dell’opera di persone in carne ed ossa. Senza consapevolezza storica gli uomini rimangono schiacciati dalle cose: ma la conoscenza profonda del passato sbriciola anche la roccia e ridà ad essi la gioiosa liberazione del comprendere e del giudicare. Tale difficile modo di insegnare la storia della città potrebbe avere degli esiti di grande interesse sotto più profili. Intanto, può contribuire a correggere il modo dominante con cui la scuola organizza oggi la trasmissione del sapere. Com’è noto questa si svolge, di norma, per accumulo di conoscenza astratta da parte degli allievi. Tutto è affidato alla lettura dei libri. Nelle nostre scuole solo occasionalmente si incoraggia fra i ragazzi quella forma di apprendimento che consiste nell’elaborare forme di riflessione partendo dall’osservazione diretta dei fatti reali. Ciò accade soltanto in pochissimi gabinetti scientifici dei licei o in qualche scuola professionale d’eccellenza, dove si fa un po’ di fisica sperimentale. Paradossalmente, proprio la storia potrebbe offrire questa opportunità pedagogica. Dagli oggetti inanimati l’insegnante può far sprigionare la storia umana che li ha creati, e mostrare dunque, al tempo stesso, il modo in cui è possibile leggere «le cose». Ma tale apprendimento, la capacità di vedere dietro i 164

palazzi, le strade e le piazze delle città, gli interessi, i bisogni, i gusti, dei diversi ceti sociali che li hanno costruiti, ha anche esiti di altra natura. In esso risiede una più alta e sorprendente pedagogia, scientifica e insieme civile. È con lezioni di storia di questo tipo che si alimenta nei ragazzi quella cultura della possibilità a cui è affidato il progetto di un nuovo sapere sociale. Ancora una volta è la storia a dirci quali sono le nostre umane possibilità, perché esse, in alcuni casi, si davano già ad altre generazioni del passato e sono state successivamente cancellate. Un qualunque ventenne, nato e cresciuto in una delle nostre città, grande o piccola, è portato naturalmente a credere, per esempio, che le piazze sono state create per parcheggiare le automobili. Egli ignora totalmente che quegli spazi edificati rappresentano un’invenzione dell’urbanistica in un’epoca in cui le città si costruivano per i bisogni delle persone. Nel loro perimetro si svolgeva una parte rilevante del vivere urbano: per gli incontri, le contrattazioni di lavoro, la sosta, le relazioni, le chiacchiere, l’ozio. In assenza di conoscenza storica, egli è portato a dedurre che esse sono il luogo dell’ozio delle automobili, mentre gli uomini sono al lavoro, o sono a casa: impegnati a rigenerarsi fisicamente per poter riprendere a correre il giorno dopo. Grazie alla storia, inoltre, il nostro adolescente potrebbe apprendere che le città non sono che continue stratificazioni di manufatti, risultato di un’opera secolare di distruzioni e di continue ricostruzioni. Fatte dagli uomini esse vengono disfatte dagli stessi uomini nel corso del tempo, a seconda dell’andamento mutevole degli eventi, dei bisogni e delle culture che si succedono. Non abbiamo, del resto, davanti agli occhi, nella compresenza di epoche e di stili differenti degli edifici nei nostri centri 165

urbani, la testimonianza di questo continuo sovrapporsi di distruzione e costruzione? Quindi in città, là dove si è costruito, si può anche abbattere. Nulla è immodificabile. Le «cose» sono rapporti sociali, creature degli uomini. E se davvero poco di sacro è rimasto nelle nostre città, di sicuro esso non è andato a rifugiarsi nelle costruzioni speculative dell’urbanesimo di questo dopoguerra. Perché dunque non dovrebbe diffondersi – e in alcune città d’Europa si sono realizzati primi passi significativi in tale direzione – una nuova cultura della distruzione del brutto, di ciò che è esteticamente e civilmente riprovevole? Perché nuovi spazi, interi pezzi di città non dovrebbero essere oggi ricostruiti sulla base dei più elevati bisogni del nostro tempo: bisogni di verde, di aria pulita, di spazio libero, di socialità, di bellezza? Perché non dovremmo progettare di abbattere i presidi iniqui e ingombranti di quel vasto saccheggio del territorio perpetrato dai costruttori di case negli ultimi decenni? Perché dovremmo conservare tanta testimonianza di una delle epoche più barbariche nella storia della costruzione urbana in Occidente? Un’ultima considerazione. Le lezioni di storia, incentrate nella lettura del libro aperto del territorio, potrebbero anche essere occasione di educazione alla bellezza. Ai tecnici che accompagnano il docente – dall’urbanista all’agronomo all’insegnante di storia dell’arte – è offerta l’opportunità di iniziare gli allievi all’arte di afferrare e comprendere i segni del bello disseminati tanto nelle campagne che nelle città. Occorrono solo occhi educati per vederli. Non dimentichiamolo: ammiriamo i templi greci, le rovine maestose che si stagliano in mezzo alle nostre campagne, grazie alla cultura storica che ce li rende comprensibili. E la 166

bellezza offre una potenzialità educativa di prima grandezza nel nostro tempo. Essa introduce alla sfera sempre più circoscritta delle realtà senza scopo, che rimangono estranee a ogni finalità strumentale. L’arte, infatti, come le bellezze della natura, non ha in sé altro fine che di farsi contemplare da occhi storicamente educati ad ammirarla. Ma i segni del bello appaiono visibili non soltanto nell’opera artisticamente significativa: nella chiesa, nella statua, nella piazza, negli edifici civili di pregio. Si trovano anche altrove. Perché restiamo ammirati davanti al paesaggio di una collina senese? Quanta bellezza c’è in quello che oggi resta dell’oscuro lavoro di più generazioni di contadini e di mezzadri? Figure d’un mondo ormai lontano, essi producevano beni agricoli e curavano al tempo stesso l’eleganza del disegno delle piante e delle siepi, le proporzioni tra le vigne e il seminativo, le misure tra le linee solenni dei cipressi e il verde lasciato al pascolo. Qui ci viene una prima lezione dalle società del passato, quelle che noi storici abbiamo per decenni definito arretrate perché non sufficientemente capitalistiche. Società che facevano economia, ma sapevano anche produrre bellezza: un bene inutile, non vendibile, ma fonte di intimo godimento per chi lo realizzava e al tempo stesso ammirabile gratuitamente da tutti. Ma tale tipo di bellezza, che mescola l’umana genialità e la sapienza della natura, ci suggerisce un altro motivo di riflessione. È diversa da quella del capolavoro artistico: dal dipinto o dal blocco marmoreo. Il fascino che emana la singola opera d’arte è legato – come ha intuito Walter Benjamin – all’«aura» che finisce per circondare la sua unicità. Essa è «tecnicamente riproducibile», ma solo in 167

copia: la foto, il falso. La Gioconda di Leonardo o il David di Michelangelo, vale a dire gli esemplari usciti dalle loro mani, restano unici. Ma nel caso delle colline toscane, o delle terrazze ad agrumi di certe balze della Sicilia, siamo di fronte a opere anonime e collettive. Così come anonimi e collettivi sono certi vecchi ponti, pievi di campagna, strade medievali, mura di cinta di vecchie città disseminate in ogni angolo d’Italia e d’Europa. Proviamo una speciale emozione di fronte a tali manufatti senza nome. E non solo per la maestria costruttiva che talora ci incanta, ma anche per il fatto che essi appartengono al passato, recano l’impronta di un’epoca scomparsa, rimandano l’eco di un mondo sociale sprofondato nel nulla. Il loro valore è nella loro irriproducibilità storica, non tecnica. Né il presente né il futuro potranno ricrearli, se non in copia. È questa la loro «aura». La loro unicità resta indissolubilmente legata alla irreversibilità del tempo, che nessun procedimento industriale, nessun esborso di danaro, potrà mai revocare. Possiamo restare sicuramente ammirati di fronte alla perfetta ricostruzione di una villa pompeiana nella ex sede del Paul Getty Museum di Los Angeles. Ma le ville di Pompei sono quelle diroccate e sontuose, segnate dal nero di morte della lava vulcanica, che ancora resistono al tempo, ai piedi del Vesuvio. È vero che neppure questi beni riescono a sottrarsi alla mercificazione universale: essi vengono infatti «venduti» dall’industria del turismo. Ma è degno di attenzione il fatto che il denaro s’inchini in un certo senso al passato, riconosca la fonte del valore, non in una qualche produttività del presente, nella potenza di qualche dispositivo tecnico, ma in ciò che è stato e non potrà essere nuovamente 168

prodotto. È in questo collocarsi in una linea del tempo che non ritorna, che ogni manufatto di età trascorse affonda la sua originalità e il suo invendibile mistero. Chi non coglie, in questi limiti invalicabili della tecnica, uno scacco simbolico inferto ai meccanismi della valorizzazione capitalistica? Ciò che non nasce nel presente, ciò che sfugge al processo di produzione continua di merci, ha valore proprio per tale ragione. Esso appartiene all’area del sacro: si può valorizzare solo lasciandolo così com’è. 3. Noi e gli altri. Un sera d’ottobre di qualche anno fa camminavo per Venezia, lungo le calli che portano a piazzale Roma. Dopo una giornata trascorsa tra l’Archivio di Stato e la Biblioteca Marciana, mi dirigevo verso la stazione ferroviaria per prendere il treno che doveva portarmi a Roma. Mentre attraversavo un campiello, benché distratto, assorbito ancora dagli echi interiori di una giornata di intense letture, sono stato colpito con violenza da uno spettacolo assolutamente «normale». Come un colpo di frusta sparato nel mezzo del silenzio. Un giovane nero, accoccolato contro il muro, cercava di richiamare l’attenzione dei passanti che a quell’ora transitavano a frotte. Ai suoi piedi era distesa, sul lastricato del campo, tutta la sua mercanzia: le foto in formato gigante del sorriso di Marilyn Monroe, la silhouette di Charlot, il viso ironico e avventuroso di James Dean. Nelle stesse strade che nei secoli passati avevano visto tanti suoi antenati trascinati come schiavi ai porti della Serenissima, egli cercava di sbarcare il lunario vendendo ai Veneziani un frammento della chincaglieria culturale 169

dell’Occidente: i frusti miti di Hollywood. La finzione cinematografica con cui l’America si è sognata e autocelebrata nel corso del XX secolo era custodita da un africano come un gruzzolo di monete in un angolo di strada. Quel ragazzo più scuro delle ombre della sera, con gli occhi di cerbiatto, strideva come un urlo in mezzo agli articoli da bancarella di un immaginario che non gli era mai appartenuto, che mai lo aveva fatto sognare, e che lo rendeva estraneo a se stesso. Era come se si stesse prostituendo con un corpo non suo. Le cianfrusaglie commerciali di una cultura che lo aveva sradicato dalla sua terra, reso un individuo isolato in una città sconosciuta ed estranea, costituivano il capitale della sua impresa. In una forma simbolicamente drammatica, di cui certo non era consapevole, egli offriva ai passanti, quali oggetti di consumo, gli strumenti dell’asservimento storico della sua gente e del suo umano avvilimento. Un piccolo avvenimento come questo, che rientra ormai nella sfera della nostra esperienza quotidiana di europei, dovrebbe farci riflettere su più cose. Noi non ci poniamo nella condizione di comprendere le ragioni profonde per le quali uomini o donne di altri paesi e continenti affollano sempre più numerosi le nostre città, se non afferriamo ciò che è alla base del loro emigrare. Lasciano le loro terre, le loro città e i loro villaggi per una ragione fondamentale: il dissolvimento della cultura cui appartengono. Vale a dire a causa della distruzione dei sistemi di valori, di senso della vita, di rappresentazione della realtà, di relazione con i propri simili, che li avevano fino ad ora orientati nello stare al mondo. Lo aveva ben compreso oltre mezzo secolo fa Karl Polanyi, sulla base delle osservazioni degli antropologi: 170

le ragioni di degrado delle popolazioni sottoposte alla violenza coloniale dei paesi dell’Occidente non sono propriamente e immediatamente economiche. I mutamenti di carattere economico possono costituire il veicolo, la via che porta al loro impoverimento e perciò alla perdita delle condizioni materiali in cui si svolgeva la loro precedente vita spirituale. Ma alla fine la ragione di fondo è «la ferita mortale», come dice Polanyi, inflitta dai dominatori alle istituzioni che da secoli avevano plasmato le loro esistenze. «Le masse indiane nella seconda metà del diciannovesimo secolo non morivano di fame perché erano sfruttate dal Lancashire, morivano in grande numero perché la comunità del villaggio indiano era stata distrutta». D’altra parte, vere e proprie catastrofi culturali delle popolazioni indigene sembrano essere state, sin dall’inizio, alla base del successo della dominazione europea nel Nuovo Mondo. Come avrebbero potuto veri e propri imperi, quali quello degli Aztechi e degli Inca, crollare rovinosamente sotto l’urto di un manipolo di masnadieri, sia pure armati di fucili del XVI secolo? Come spiegare questo autentico enigma storico se non anche con l’angoscia mortale che un nemico inatteso e incomprensibile, crudele ed efficiente, gettò nell’animo di quelle genti, annientando le loro certezze religiose e psicologiche? Lo sradicamento culturale è dunque il tarlo rovinoso che colpisce le popolazioni dei paesi poveri e in via di sviluppo e che opera in due distinti e convergenti modi. Esso sgretola i valori, le regole e le istituzioni delle società locali privandole di fondamenti materiali, e nello stesso tempo abbaglia le popolazioni disorientate con i modelli della cultura consumistica occidentale. Gli extracomunitari sempre più 171

numerosi che vagano per le strade delle nostre città, sopravvivendo con i più vari mestieri, sono il frutto di tale gigantesco sconvolgimento avviato, nelle sue forme attuali, da alcuni decenni. Sono anch’essi il risultato della sempre più fitta unificazione del mercato mondiale, l’esito del cedimento di culture e tradizioni locali, del venir meno di lingue e dialetti, di saperi, abilità, mestieri che avevano dato vita a società originali. Tutte le complicazioni di usi e di storie millenarie sembrano sciogliersi come neve al sole di fronte alle poche regole dell’economia capitalistica, sotto l’irrompere delle semplificazioni dell’economia di mercato. Come reagisce la scuola italiana di fronte ai fenomeni sociali legati a tali cambiamenti? Come vengono preparati i nostri ragazzi a vivere, non solo con tolleranza, ma con capacità di dialogo e di comprensione, una realtà culturale e civile sempre più multietnica? Da molti segni appare evidente che negli ultimi tempi, di fronte ai tanti focolai di intolleranza che si sono manifestati anche in Italia, la scuola ha prodotto uno sforzo supplementare di informazione e di spiegazione. L’impegno degli insegnanti, e talora delle case editrici, si è indirizzato a educare i ragazzi alla diversità razziale, a informarli sui problemi e i bisogni di tanti ospiti poveri e malvisti, a esortarli a forme civili di rispetto umano. Si tratta di iniziative lodevoli: di quelle che fanno vedere quanto sia viva e ben radicata, malgrado tutto, la pianta della democrazia nel nostro paese, e quanto resistenti e diffusi siano ancora i valori della solidarietà umana in strati amplissimi della nostra società. E tuttavia un tale sforzo rischia di stingersi nella predicazione moralistica senza un fondamento chiaro: il sapere per causas della conoscenza storica. Come si può 172

comprendere l’altro se, in qualche modo, non si sa da dove viene, che storia ha alle spalle, quali vicende lo hanno spinto a venire fin qui? Come avrei potuto accorgermi dell’umiliazione che quel ragazzo nero si infliggeva in un angolo di Venezia se non avessi avuto una qualche conoscenza delle vicende del colonialismo, dell’asservimento secolare che il suo popolo aveva patito transitando in quegli stessi luoghi? Senza coscienza storica la mia sensibilità sarebbe rimasta muta e io sarei passato senza alzare gli occhi e senza osservare. Ma la consapevolezza vale anche e forse soprattutto per comprendere la direzione delle cose, il senso stesso, più profondo, del presente. Se non siamo avvertiti di quale potente macchina di omologazione l’Occidente ha messo in moto, è difficile comprendere il valore inestimabile che per noi conservano le altre culture. Esse rappresentano, per l’appunto, l’altro, il tesoro di diversità e di mistero che resta ancora da scoprire, il luogo in cui si conserva l’incanto di un mondo non piegato alla nostra razionalità dissolvitrice. Di più, nell’interesse nostro e dell’umanità intera: nell’altro rinveniamo il limite, un’ultima frontiera. Al di là di essa resiste la diversità che consente a noi di continuare a riconoscerci, lo specchio che custodisce la nostra identità. Ora, di fronte a tali fenomeni, la conoscenza storica non è operazione concettualmente semplice. Il nostro eurocentrismo, com’è noto, costituisce ormai quasi un modo di funzionare del nostro cervello. Nel nostro immaginario di occidentali è come se gli altri popoli non possedessero storia, o avessero ricevuto in sorte la storia residua dell’Occidente. Il fatto che il loro passato non appaia scandito dalle tappe dell’evoluzione economica che ha attraversato l’Europa, non si mostri segnato dal processo 173

dell’innovazione accelerata e cumulativa della tecnologia, ci porta a considerarlo «immobile», e perciò insignificante sotto il profilo storico. Dal treno in corsa delle nostre società, i tempi lenti della trasformazione sociale e culturale del resto del mondo tendono ad apparirci come cristallizzati: quasi i resti fossili della nostra storia anteriore. E tale nostra percezione li sprofonda nel limbo del disvalore, in quella specie di sottomondo nel quale le società industriali hanno collocato il resto dell’umanità: l’arretratezza. È proprio così: il mancato approdo di tanti paesi e continenti alle magnifiche sorti dello sviluppo industriale capitalistico decide della rilevanza, ai nostri occhi, del loro passato. Anche nei libri di testo meglio informati l’India, la Cina, l’Africa appaiono come oggetto della storia d’Europa, terreno di scontro degli appetiti coloniali, non come soggetti autonomi di storia, profili originali di civiltà in evoluzione. C’è dunque, anche nel nostro più vigile e benevolo modo di guardare gli altri, una ineliminabile pretesa di superiorità: essa fa parte della lunga storia di dominazione inflitta alle varie popolazioni del pianeta dalla colonizzazione europea e occidentale negli ultimi cinque secoli. Le lenti della nostra cultura ci pongono sull’altura di un predominio economico, intellettuale e tecnologico da cui guardiamo tutti gli altri. E nulla riesce a cancellare dalle nostre parole la traccia di quel soggiogamento che ha progressivamente e in diversa misura privato tanti popoli della terra della loro autonomia, dell’orgoglio della propria diversità culturale, della possibilità stessa di uno sviluppo economico coerente con i dati di partenza del proprio habitat naturale e delle proprie tradizioni. È dunque per noi sommamente difficile uscire da 174

quella seconda natura che è la nostra visione eurocentrica della storia. Figuriamoci poi sperimentare una tale pratica nella scuola! Eppure non è impossibile fornire ai ragazzi, attraverso la ricostruzione storica, il senso del dominio imposto e di quello subito, una idea sommaria del diverso destino che è spettato negli ultimi secoli ai vari popoli della terra. Ma soprattutto non dovrebbe essere impossibile mostrar loro la forma storicamente condizionata del nostro modo di guardare, nel presente, i popoli che hanno subito la nostra dominazione. Perché non dovremmo essere capaci di illustrare quanto il successo tecnologico ed economico fin qui raggiunto dai paesi occidentali sia in parte il risultato di un dominio che ha posto gli altri popoli in condizione di subalternità? E come non radicare in tale storia di violenza e di sopraffazione le origini del nostro modo di decretare l’inferiorità di culture che spesso ignoriamo, di sapienze e civiltà diverse dalle nostre, ma che contengono tesori di riflessione sui significati dell’umana esistenza, modi di interpretare il mondo e di entrare in rapporto con la natura e con gli esseri umani, che abbiamo perduto o non abbiamo mai posseduto? Io credo che almeno una volta nel corso delle scuole secondarie superiori l’insegnante di storia dovrebbe svolgere un capitolo della storia-problema dedicato alle vicende dei paesi extraeuropei. Come per altri temi, anche in questo caso l’interesse può essere orientato sia alle vicende che riguardano la storia moderna, sia ai processi più recenti della storia contemporanea e attuale. Per la storia moderna la scoperta dell’America, che costituisce un noto punto di partenza della periodizzazione scolastica, può rappresentare 175

il momento di avvio di un percorso di grande interesse. Oggi, grazie anche agli studi degli ultimi anni, è possibile essere meglio informati, ad esempio, sulle ferite terribili inflitte dagli europei alle popolazioni indigene, sull’opera di sterminio sistematico realizzata tramite l’occupazione militare e la violenza armata. I cristiani europei scoprirono infatti l’America col ferro e col fuoco, facendo schiavi e uccidendo a migliaia uomini, donne e bambini di popolazioni inermi, distruggendo istituzioni, modi di vita, culture. Un massacro continuato anche con mezzi, per così dire, involontari. I conquistatori furono infatti il veicolo inconsapevole di germi e di malattie – come il vaiolo – sconosciute alle popolazioni locali che ne furono letteralmente decimate. Le strutture demografiche di interi paesi, come il Messico e il Perù, subirono tracolli da cui si ripresero solo dopo alcuni secoli. Non ha nessun significato, per la gioventù del nostro tempo, apprendere a scuola che l’allargamento della conoscenza della terra, quella «scoperta» con cui diamo orgogliosamente inizio alla storia moderna del mondo, ha coinciso di fatto – per usare l’espressione di Tzvetan Todorov – con «il più grande genocidio dell’umanità»? Che cosa muta nella nostra visione morale delle cose, nel senso storico del presente, apprendere che il nostro primato ha inizio con lo sterminio degli altri? D’altro canto, grazie ai primi studi di storia dell’ambiente e delle risorse, è possibile cominciare a fare la storia del rapporto tra l’Europa e il resto del mondo aggiungendo nuove conoscenze e nuovi criteri di valutazione. Se ci si libera, infatti, di un punto di vista meramente politico è possibile osservare come la supremazia dell’Occidente non si sia fondata solo sulla superiorità culturale, tecnica e 176

militare. Tutto ciò ha reso di fatto possibile anche un’altra condizione, negata per conseguenza a tutti gli altri popoli: la possibilità di utilizzare le risorse di un territorio che non era quello ristretto delle singole nazioni europee, ma che divenne ben presto esteso quanto quello dell’intero globo terrestre. La possibilità di disporre di terre vergini per le proprie popolazioni eccedenti, di legname, grano, carne, materie prime, mano d’opera a basso costo, ha consentito ai paesi più forti del vecchio continente di godere di spazi immensi e di sfruttare le risorse di territori altrui per incrementare il proprio gigantesco processo di accumulazione. Quando, nel corso del XIX secolo, milioni di contadini e di artigiani europei lasciavano le loro famiglie per raggiungere il Brasile o il Nord America, non facevano che rendere più vasto il territorio dell’Europa per le sue popolazioni esuberanti. Allorché la Gran Bretagna, in quello stesso secolo e oltre, importava carne dall’Argentina per sfamare gli inglesi utilizzava le immense pampas di quel paese come il cortile di casa: avendo ormai un’economia prevalentemente industriale non possedeva i territori, e le convenienze economiche, per un allevamento zootecnico adeguato ai propri crescenti bisogni. Ma la storia contemporanea è in grado di fornire risposte più ravvicinate ai tanti interrogativi che possono sorgere nella mente dei ragazzi. Perché, nonostante il colonialismo sia finito da un pezzo, continenti come l’Africa e l’America Latina continuano a mostrare segni così gravi di debolezza economica e civile? Perché ancora oggi quello che si chiamava un tempo Terzo Mondo costituisce una realtà sociale per alcuni aspetti drammatica? I rischi che si corrono nel tentare di dare risposte a tali interrogativi sono almeno 177

due. Occorre guardarsi dalla facile tentazione di raggruppare sotto un’unica definizione – quella oggi corrente di paesi in via di sviluppo – realtà nazionali, percorsi storici e situazioni differenti. È una strada che porta al «terzomondismo» recriminatorio e indiscriminato: un’ideologia che è bene tenere fuori dalla scuola. Si può stare dalla parte dei deboli e degli sconfitti rispettando, quanto più possibile, la verità storica. Non tutti i problemi di questi popoli dipendono immediatamente dai paesi ricchi e non tutti nella stessa misura. Anche se oggi il peso sovrastante del debito che tanti paesi poveri hanno contratto attraverso il Fondo monetario internazionale si rivela una trappola per le possibilità economiche di un esteso numero di popoli. Essi continuano a pagare enormi interessi alle banche dell’Occidente sottraendo così denaro destinabile alla soluzione dei problemi interni. Ma è pur vero che una cosa sono le questioni degli Stati dell’Africa subsahariana, altra cosa son quelle dell’Egitto o dei paesi arabi per non dire degli Stati dell’America Latina. È sbagliato rendere unico ciò che non ha reso ancora unico neppure il secolare predominio dell’Occidente. L’altro errore che si rischia di commettere è di giudicare la realtà di questi paesi a seconda del grado in cui si discostano dai parametri economici e dagli standard tecnici e produttivi delle nostre società. Arretrato/sviluppato, produttivo/improduttivo, efficiente/inefficiente: sono queste le semplici contrapposizioni binarie con cui il nostro pensiero colonizzato da due secoli di predominio dell’economia tende a valutare le realtà sociali e le culture degli altri. Ma per disvelare il carattere condizionato e parziale di questo modo di valutare bisogna conoscere alcuni processi 178

storici generali. È necessario scorgere le tracce lontane del dominio che stanno dietro le esemplificazioni concettuali. Quanti conflitti interetnici, sanguinosi e assurdi, che di tanto in tanto dilaniano l’Africa sono l’esito di delimitazioni territoriali imposte dai colonizzatori bianchi, con la pretesa di fondare nazioni ammassando popolazioni diverse negli stessi confini? E per l’economia? Molti dei problemi dei paesi in via di sviluppo derivano in realtà dal fatto che essi sono stati sottomessi dagli occidentali ai meccanismi del mercato mondiale e non possono risolverli senza una definitiva, ma socialmente dolorosa, trasformazione in senso capitalistico delle loro strutture. Tanto più in ragione del fatto che non possono vivere in isolamento rispetto al resto del mondo. Oggi la permanenza delle economie di sussistenza – rese inadeguate dalla crescita della popolazione – convive con la creazione delle monocolture agricole destinate al mercato internazionale ereditate dal passato coloniale. Per tale ragione le varie società risultano incapaci sia di sviluppare i loro precedenti sistemi economici secondo i bisogni e le tradizioni locali, sia di avere una posizione non subalterna nella geografia internazionale degli scambi. Così, per far fronte alle necessità alimentari di una popolazione nel frattempo cresciuta essi devono acquistare i beni sul mercato. E a tal fine devono continuare a vendere le uniche merci prodotte dal loro sistema economico: lo zucchero, il caffè, le arachidi, le banane ecc. Il caso di Cuba, che è riuscita perfino a cambiare il proprio sistema economico, ma continua a dipendere dalle piantagioni da zucchero per la propria sopravvivenza, è sicuramente il più noto e il più esemplare. La stessa volontà di aiuto espressa negli ultimi decenni dai paesi ricchi e dagli organismi 179

internazionali come la Banca mondiale – volontà, come sappiamo, sicuramente non disinteressata – spesso non ha fatto che rafforzare il marchio di questa strategia volta all’allargamento del mercato mondiale e al rafforzamento delle strutture di tipo capitalistico, anche in realtà inadatte, sia sotto il profilo ambientale che sociale. Clamorosi sono stati, sotto questo profilo, gli scacchi subiti, ad esempio dagli interventi economici degli occidentali in Africa. Al fine di realizzare la cosiddetta rivoluzione verde, a partire dagli anni sessanta del Novecento, anche in molti paesi di quel continente, europei e americani hanno tentato di trasformare le campagne africane in moderne aziende capitalistiche. Così, ad esempio, introducendo i trattori per offrire agli agricoltori la possibilità di lavorare più velocemente e più profondamente la terra, hanno scoperto in ritardo che la manodopera bracciantile era costituita prevalentemente da donne inadeguate a quel compito. D’altra parte il problema urgente di quelle terre non era certo quello di sostituire braccia da lavoro. Così i trattori sono rimasti a far ruggine, mentre parimenti inutilizzati sono rimasti i complessi sistemi di irrigazione che i tecnici avevano messo a punto, immaginando di dovere irrigare qualche azienda della California. Ma l’errore più grave – e per noi anche più significativo – in cui sono incorsi i tecnici è stato di natura ambientale. L’agricoltura delle popolazioni africane è prevalentemente policolturale: destinata cioè a fornire tutti i prodotti che possono rendere autosufficiente la famiglia contadina. Per tale ragione l’azienda agricola ospita insieme i cereali e le piante, il grano e gli alberi da frutto. Nel tentativo di organizzare le aziende per il mercato 180

internazionale – e di trasformarle così in ampie monocolture lavorabili con le macchine – i tecnici occidentali tagliarono gli alberi spianando vaste distese coltivate a grano. Dopo pochi anni di raccolti l’amara sorpresa: il terreno di quelle aziende sottoposto alle intense calure del sole africano diventava sterile e improduttivo. Gli alberi che prima erano disseminati nei campi – e che venivano considerati degli ingombri per le lavorazioni meccaniche – in realtà ubbidivano a dei principi ecologici elaborati dalla millenaria sapienza contadina: con le loro ombre smorzavano la calura e proteggevano il suolo dai processi di erosione che quel clima e la qualità della terra rendevano altrimenti inevitabili. Occorre dunque oggi saper vedere il modo nuovo in cui il dominio dell’Occidente si viene manifestando se vogliamo comprendere perché tanti uomini e donne di paesi vicini e lontani affollano le nostre città. L’azione potente di modellazione alla propria immagine – programmata o involontaria – che l’Occidente opera sulle società del resto del mondo ormai da decenni agisce come un vortice di risucchio su tutte le genti della periferia del pianeta. Esse guardano con inevitabile crescente interesse alla nostra realtà, dal momento che noi offriamo già il modello ideale vivente di ciò che le loro società dovrebbero diventare, ma dopo lungo e penoso sforzo. Anche la più estesa libertà e democrazia, che essi intravedono come caratteristica delle nostre società, alimenta il sogno di un’emancipazione a portata di mano, realizzabile con l’avventura di un viaggio. E perché non tentare? Nell’epoca della velocità crescente e dell’abolizione virtuale dei luoghi, perché attendere nella miseria reale della periferia? È sufficiente un biglietto di viaggio, l’avventura di una traversata notturna, per toccare 181

la terra dell’Eden. Ma tale liberazione può avvenire per pochi, ed è pagata a caro prezzo dai molti che falliscono, dal resto delle società di provenienza. Come ha ricordato Serge Latouche: «L’Occidente è emancipatore nel senso che libera dalle mille costrizioni della società tradizionale e apre infinite possibilità; tuttavia, questo affrancamento e queste possibilità si realizzeranno soltanto per un’infima minoranza. In cambio, la solidarietà e la sicurezza saranno distrutte per tutti». La solidarietà e la sicurezza rischiano di essere distrutte anche in Occidente. Possiamo ancora continuare a ritenere che la storia degli altri non ci appartiene?

182

V. La storia e il racconto

Chi si sa profondo si sforza d’esser chiaro; chi vorrebbe sembrar profondo alla moltitudine, si sforza d’essere oscuro. La moltitudine infatti prende per profondo tutto quello di cui non può vedere il fondo. F. Nietzsche, La gaia scienza

1. L’evento e la replica. Georges Duby, il grande storico francese scomparso alcuni anni fa, ha affermato, senza mezzi termini, che la storia, dopotutto, non è che «un genere letterario». Una forma di racconto in cui lo storico narra vicende vere, dopo una paziente opera di raccolta di informazioni tratte dai documenti e dalle fonti più diverse. Questa affermazione, per la verità, a dispetto dell’autorevolezza di chi l’ha formulata, si presta a qualche considerazione maliziosa. Finita la straordinaria stagione delle «Annales» – che ha regalato alla cultura internazionale una fioritura senza pari di ricerca storica e di riflessioni sulla storia – gli storici francesi sono da qualche tempo alla ricerca di nuovi paradigmi generali. È una condizione per la verità non solo francese, tipica del vuoto che lasciano le grandi esperienze intellettuali una volta esaurite. Felici stagioni della creatività culturale, ma che non sono riproducibili sulla base della buona volontà dei singoli, né dello sforzo concertato. Qualcuno, tuttavia, sostiene di avere già trovato strade 183

inedite e originali. Attenti ai richiami dell’industria culturale, alcuni storici hanno scoperto che di fronte alla «pesantezza» della storia materiale delle «Annales», è di gran lunga preferibile la narrazione di fatti memorabili del passato. Il racconto ben scritto, non privo di pregi letterari, capace di evocare il fascino di epoche lontane, dovrebbe essere assunto come il nuovo modello di un fare storia davvero all’altezza dei tempi. Oltretutto esso offre il vantaggio di essere preferito dai lettori, può dar vita a dei best-sellers, si presta magnificamente alla divulgazione televisiva. Duby, grande storico del medioevo e finissimo scrittore, è stato negli ultimi anni della sua vita uno dei teorizzatori e il coerente praticante di una tale scelta. Ma, a parte il modo tra l’ingenuo e lo sfacciato con cui Duby ha riproposto tale tema, si tratta in realtà di un vecchio problema. Su di esso, com’è noto agli studiosi, si era già soffermato Benedetto Croce: ovviamente con ben diversa strumentazione concettuale. Ma se certamente non è il caso di riandare a vecchie discussioni per stabilire se la storia va collocata nell’ambito delle arti o della scienza, io credo che la provocazione di Duby vada oggi raccolta in altro modo. Essa può offrirci lo spunto per vedere che cosa guadagniamo e che cosa perdiamo nel ridurre la storia a racconto. Nel tentare di delineare un modo rinnovato di insegnare la storia credo che tale questione possa offrirci qualche spunto degno di riflessione. Sicuramente il racconto costituisce la struttura di un nostro modo di organizzare la conoscenza e di rappresentare la realtà. È, possiamo dire, una forma della memoria, e certo il modo per eccellenza con cui la memoria ama trasmettersi, consegnarsi a chi segue. Ma al tempo 184

stesso opera come uno straordinario collettore di senso. Noi riusciamo a dare intelligibilità ai fatti frammentari e confusi del passato disponendoli nell’ordine di una successione temporale coerente. Non è, del resto, un racconto – che sia un poema o un testo religioso poco importa – alle origini della formazione dei popoli, al fondo della nascita delle nazioni? Dall’Epopea di Gilgamesh all’Iliade, dalla Bibbia all’Eneide, dal Poema de mio Cid alla saga dei Nibelunghi, il racconto (in prosa o in versi) elabora e convoglia identità collettive. Indubbiamente l’epos, la storia, e poi il romanzo sono stati per secoli forme di rappresentazione del passato con cui le comunità hanno elaborato le fattezze della propria identità spirituale. E una continua produzione di racconti ha alimentato la vita degli Stati, ne ha difeso la coerenza di fronte alle minacce esterne. Scrivere con chiarezza, poi, giova sicuramente alla storia. È una forma di onestà nei confronti del lettore: il modo in cui lo storico mette in chiaro quello che realmente sa e ciò che non sa. Ciò che ha «realmente visto» – per dirla con Erodoto – e ciò che invece gli è stato «raccontato» da altri. Nella forma semplice del racconto si realizza più agevolmente anche il dialogo con gli altri, che altrimenti rimane truccato. Per suo tramite è favorita la comunicazione tra autore e lettore. Si realizza una moralità per così dire fondativa dello scrivere comunicativo, pur così negletta – nella pratica corrente – sia dagli storici sia da altri «praticanti» della scrittura. Ma tutto questo non ci impedisce di porre alcune domande radicali. Che cosa, il racconto, lascia fuori dal suo raccontare: vale a dire dal suo modo di rappresentare la realtà? Non è un modo parziale di riportare ciò che è 185

accaduto? Su quale fondo di realtà taciuta scorre il corso coerente della narrazione? In realtà dietro la struttura del racconto, dietro questo modo millenario della cultura occidentale di rappresentare a se stessa il mondo esterno, si nascondono cancellazioni gigantesche e insospettate della realtà. Direi più precisamente che il racconto nasce, in maniera fondativa, come cancellazione di ciò che dovrebbe considerarsi la base stessa di ogni realtà. Esso infatti sorge appena gli uomini hanno rimosso e occultato, sotto il proprio dominio, la natura. Il tempo della natura, per l’appunto, non è convogliabile nel racconto, perché esso è ciclico, si ripete, ritorna. Come si possono raccontare le stagioni, il corso dei fiumi, le eterne montagne? La storia comincia esattamente laddove finisce il tempo naturale, il tempo ciclico del ritorno degli eventi cosmici e naturali. Essa incarna invece il tempo dell’uomo in relazione con altri, che si racconta, che inizia a organizzare la memoria del suo passato sociale, a dare fondamento culturale e valore al suo potere. La storia nasce allorché la società ha sottomesso a sé la natura come fonte di produzione della sopravvivenza e della ricchezza, e vi ha sovrapposto la vita organizzata che genera eventi sempre nuovi e raccontabili. Non è certamente un caso che allorquando gli storici hanno messo al centro dei loro interessi la «natura» – sia pure una natura domesticata dall’uomo – hanno dovuto abbandonare il modello della storia come mera narrazione. Marc Bloch e poi, più sistematicamente, Fernand Braudel – e tutti gli storici attenti alla geografia – che hanno fatto storia del paesaggio agrario, del mare, delle montagne e delle pianure, hanno finito con lo scoprire una nuova dimensione del tempo. Alla cronologia degli eventi, un 186

cronos tipicamente sociale, è subentrata una dimensione diacronica più vasta e più lenta: quella della durata. Pur sotto il dominio degli uomini, il mondo delle cose, la realtà del territorio, ha mostrato di potere essere rappresentata come storia solo a condizione di essere collocata in uno svolgimento temporale che rompeva la linearità rapida della narrazione. Cominciamo dunque col constatare che il racconto si rende possibile grazie a quest’opera preliminare e gigantesca di occultamento. Ma quali esiti culturali generali ha una simile rimozione? Il problema è di quelli che meriterebbero una trattazione sistematica e di maggior lena. Pure, non voglio rinunciare all’idea di far circolare nelle nostre scuole alcune riflessioni insolite, rilevanti tuttavia, a mio avviso, per il rinnovamento della storia e del suo insegnamento. Intanto, credo che vada sottolineato un aspetto poco considerato, strettamente connesso con la sparizione della natura dal paesaggio culturale del racconto. La storianarrazione non cancella anche dai propri percorsi quella seconda natura che è la tecnica? Certo, gli storici hanno scritto e scrivono tante storie della tecnologia: le successioni di invenzioni e applicazioni nel corso del tempo, nelle diverse società. E quante ricostruzioni non sono state realizzate, da valenti studiosi, dell’introduzione, ad esempio, di macchinario per il potenziamento dell’industria nei più diversi paesi. E tuttavia agli storici sfugge qualcosa di fondamentale. Essi non sono in grado di raccontare la tecnica all’opera, la tecnica nelle mani dell’uomo, che continuamente riproduce se stessa, sempre uguale, come per l’appunto il sorgere della luna e il tramontare delle stelle. Una volta trasformata in strumento dell’attività umana la 187

tecnica sprofonda nel regno della natura e appare, come quella, irraccontabile. Si può dare notizia, in forma di racconto, dell’evento: l’invenzione della staffa per montare il cavallo, l’introduzione della sega elettrica per abbattere rapidamente le foreste. E tuttavia non si può fare storia del loro uso: così come non si può raccontare l’uso delle mani e delle braccia, che la tecnica viene a potenziare o a sostituire. Agli occhi degli storici gli uomini che hanno sostituito il lume a petrolio o la candela con la luce elettrica, rimangono sempre uguali, con due occhi e lo stesso colore della pelle. Allo stesso modo gli individui delle società occidentali, che hanno messo da parte gli asini e i cavalli per andare in automobile. Eppure l’uso di quei nuovi dispositivi ha non soltanto cambiato il dominio degli uomini sulla natura, il loro modo di organizzare la società, ma è la loro stessa soggettività di individui che a sua volta è stata trasformata. La tecnica cambia le cose e al tempo stesso anche gli uomini, fin nelle più intime fibre psicologiche, ma riesce a nascondersi nella ripetitività dei gesti. L’originaria cancellazione della natura viene a coprire anche quella natura trasformata che opera in mezzo agli uomini: mettendosi al loro servizio e mettendoli al proprio servizio. Per questo gli storici, impegnati nel grande racconto sociale, non sono riusciti a darci conto della storia di alcuni «personaggi» ciechi e anonimi, simili alla «vecchia talpa» di Marx, ma capaci, come questa, di scavare con lunga lena e a grandi profondità. E sempre per la medesima ragione, a furia di raccontarci battaglie, conflitti, trasformazioni economiche, mutamenti di regimi, il racconto storico ha dimenticato di narrarci che cosa nel frattempo sono diventati gli uomini e le donne nella loro nuda soggettività. 188

Davvero il cittadino di Parigi di metà Ottocento aveva la stessa psicologia, vita sentimentale, tensione spirituale del cittadino berlinese o romano dei nostri giorni? Nessuno lo crederebbe. Ma per la conoscenza storica è come se fosse davvero così. Essa ci tramanda un’idea ancora neutra della soggettività dei suoi attori. È come se i protagonisti restassero sempre gli stessi, eroi di cartapesta che combattono sempre nuove battaglie senza sangue e senza ferite. Ma chi ci ha raccontato quando e come l’uomo romantico si è trasformato nell’angosciato, nevrotico, solitario cittadino della metropoli del XX secolo? Chi ci ha mostrato come la tecnica cambiava non solo la fabbrica, ma l’intera società e la vita spirituale e psichica che la reggeva? Dobbiamo queste conoscenze ad altre ricerche e ad altri saperi. Freud e la psicanalisi fioriscono non a caso nel secolo in cui la psiche umana scopre le patologie da cui è sempre più minacciata. È grazie alla grande sociologia di Émile Durkheim che sappiamo in quale anomia sociale sia caduto l’uomo che ha perduto la sua precedente vita comunitaria. È Simmel che ci ha mostrato come i nostri stessi sentimenti e la nostra capacità di sentirli siano stati alterati dal dominio del danaro nelle relazioni sociali. È grazie al pensiero filosofico dei primi del nostro secolo che noi sappiamo che cosa sia nel suo complesso, per gli uomini in carne ed ossa, la modernità: quell’insieme di fenomeni che gli storici giudicano, in maniera unidimensionale, dal versante positivo e materiale della modernizzazione. Sono stati gli artisti, da Picasso a Braque a Kandinskij a rappresentarci la frantumazione incomponibile della realtà, la perdita della razionalità delle forme, la disintegrazione della soggettività sotto l’urto dei meccanismi alienanti delle società industriali. 189

C’è da considerare un altro esito inatteso di questa rimozione operata dal racconto storico nei confronti della tecnica incorporata nella vita sociale. Ne discende un’idea deterministica del corso storico. È come se un grande e incontenibile fiume determinasse i mutamenti in cui la soggettività viene trascinata rischiando di essere sommersa. Ma il fiume non è rettilineo, è sbarrato da anse, è fatto di tecniche, che sono scelte, operazioni umane, decisioni prese, realizzazioni di interessi particolari. È la loro somma che fa la storia invisibile che noi non vediamo e da cui siamo tuttavia vissuti. Proprio per questo rimettere le tecniche dentro la storia degli uomini, renderle visibili, significa restituire a questi ultimi la possibilità di giudicarle. Consente di trasferirle dal regno della necessità a quello della possibilità. Ma a ben vedere il racconto nasconde sotto di sé un’altra dimensione gigantesca e fondativa della vita reale. Cancella anzi dal suo orizzonte la realtà motrice dell’intera vita sociale: il lavoro. Come si possono infatti raccontare le fatiche del contadino sul suo campo, i movimenti ripetuti dell’operaio alla catena di montaggio, lo scavare quotidiano, sempre uguale, del minatore? Lo storico può certamente indicarli, descriverli una volta per tutte, ma non li può disporre entro lo svolgimento di una narrazione. E infatti esistono tante storie del lavoro, ma non sono racconti del lavoro all’opera. La giornata di un lavoratore non può essere raccontata. È un assurdo. Non diversamente dai fenomeni della natura, il lavoro è il regno dell’iterazione continua, dove gli eventi sono sempre gli stessi. Ma la storia, questo è noto, non racconta ripetizioni. Impegnata a narrare eventi sempre nuovi e significativi che si susseguono formando una 190

trama nel tempo, essa non può prendere in alcuna considerazione fenomeni che non mutano. La sua intima necessità è di dar conto di una produzione di fatti che cambiano nel tempo e che a loro volta cambiano il tempo, nel senso che lo scandiscono linearmente e non lo costringono a svolgersi continuamente su se stesso. Si badi perciò alle conseguenze elementari che bisogna trarre da tale semplice scoperta. La storia, in quanto narrazione, è obbligata a cancellare il lavoro: vale a dire l’attività che produce i beni materiali necessari alla riproduzione fisica degli uomini, che consente l’accumulazione della ricchezza, la vita e la divisione fra le classi sociali, la fondazione di un potere politico centrale. È un paradosso gigantesco. Ciò che rende materialmente possibile la società, la condizione stessa di ogni storia, non può essere oggetto di racconto storico: l’oscuro e sporco sottomondo del lavoro deve restare, come una sorta di purgatorio della ripetizione, al di qua di ogni possibile narrazione. E non è l’antica macula servile, che si porta addosso da secoli, a condannarlo al silenzio. Non siamo di fronte solo all’oscuramento, orchestrato dalle classi dominanti, dell’opera svolta dai ceti produttivi. È, prima di tutto e geneticamente, la sua impossibilità di rappresentarsi nello svolgimento del tempo lineare. Non diversamente da quanto accade alla natura, la fondazione stessa del vivere sociale deve restare celata. Per tracciare la sua linea progrediente nel tempo, per tessere la sua «favola progressista», il suo correre verso il cielo, il racconto ha bisogno di non tornare continuamente indietro, deve cancellare una volta per tutte l’essere naturale sempre uguale che sta sotto l’essere sociale sempre mutevole. Solo a questo 191

patto può raccontare il mito superbo di un avanzamento umano che cresce col tempo, cacciando nell’oblio le origini immodificabili e ripetitive da cui provengono i suoi eroi. È il racconto, dunque, la forma culturale con cui gli uomini nascondono a se stessi i propri limiti originari, il proprio appartenere alla natura. Così, unicamente per raccontare la vicenda, sempre cangiante, del rapporto degli uomini tra loro, ha senso narrare storie. E non per nulla, come voleva Machiavelli, in questo caso lo storico doveva dare solennità al suo gesto, vestendo «panni curiali». Scriveva Hannah Arendt che nel mondo greco la storia aveva il compito di dare rilievo a uomini e imprese eccezionali, perché non cadessero nell’oblio e non morissero, così, per sempre. Quell’arte del racconto era chiamata a rendere immortali i singoli uomini ed eventi. Proprio perché, singoli e transeunti, essi infatti erano esposti alla cancellazione del tempo. Mentre immortale restava la natura, che si svolgeva nei suoi cicli infiniti. Ecco, io credo che questa «ricerca dell’immortalità» sia rimasta strutturalmente legata al racconto storico. Esso infatti divinizza ciò che non si ripete, il fatto che passa, il gesto che sprofonda nel nulla del passato. Per la storia anche i fatti privati dell’uomo di Stato sono importanti, dal momento che essi si dispongono nel tempo lineare, sempre diversi e sempre potenzialmente significativi. I suoi diari personali costituiscono una fonte preziosa. L’alzata di un sopracciglio di un capo di governo in qualche circostanza solenne può acquistare un rilievo memorabile. I suoi gesti pubblici che accadono una volta per tutte sono eventi. Essi non producono necessariamente nulla sul piano materiale: né un tavolo di legno né una coperta di lana. Questi sono il 192

risultato di quell’infinito ciclico che è il lavoro: il quale diventa raccontabile quando non è più tale. Quando, ad esempio, gli operai entrano in sciopero e non producono più merci, ma eventi. E tuttavia quei gesti del potere concorrono a costruire la narrazione, a scandirla con fatti. Ma come non accorgersi che il racconto storico è, precisamente, la rappresentazione del potere all’opera? Esso costituisce lo sforzo di rendere immortali non tanto gli uomini in astratto, ma di rendere divino il dominio. Dunque, bisogna prenderne atto. Uno degli strumenti di rappresentazione della realtà, e di trasmissione della memoria, più antichi e tipici della cultura dell’Occidente, il racconto storico, sorge sulla cancellazione di un soggiogamento consumato. È davvero la nottola di Minerva che si leva sul far della sera. Ma essa non vola tanto sulle macerie fumanti delle umane vicende, quanto su un campo di battaglia che rimane celato alla vista: quello della fatica lavorativa degli uomini e dello sfruttamento della natura. Un duplice e inestricabile dominio: sul mondo fisico che è fondamento di ogni produzione materiale, e sul lavoro degli uomini, che su quello si esercita e che è comandato da altri uomini. La polis, come sappiamo, oscura le sue origini, tende a occultare ogni traccia di dipendenza materiale, a rappresentarsi come potere incondizionato e autonomo. È nei fondamenti stessi della civiltà, nel principio dello storico che racconta, che ha luogo la cancellazione dell’eguaglianza originaria degli uomini fra di loro e degli uomini con la natura. Nel racconto, infine, non c’è attenzione che per il tempo lineare, cumulativo, progrediente. Esso incarna la più coerente metafora dello sviluppo economico che si muove 193

da sé, e in questo perenne muoversi in avanti esaurisce tutto il senso della storia. Ma appare anche evidente che questo cronos unilaterale nasconde un’idea di provvidenza che non appartiene più alla nostra epoca, costretta a prendere atto della possibilità dello scacco, della sconfitta, delle perdite definitive. Essa è ormai divenuta consapevole del fatto che più avanti può aprirsi l’abisso. Come non vedere, dunque, nella rappresentazione storica che più si allontana dalla forma della memoria-racconto uno strumento di rivincita dell’umana conoscenza? La storia critica, in forma di saggio, che non cede alle strutture tradizionali del tramandare il passato, offre un di più di comprensione, si sottrae al giogo di conoscenze occultanti. Essa diventa condizione di scoperte liberatorie, disvela il carattere mistificato che talora accompagna il raccontare. E in questo esempio si può apprezzare quanto non tutto ciò che si perde è degno di essere conservato, non tutte le tradizioni meritano il nostro ossequio, e non sempre tutto ciò che si acquisisce di nuovo è materia di un immondo demonio. 2. La natura nella storia. La storia narrata, dunque, ha fatto parte integrante della cultura di una società che nascondeva la natura dopo averla soggiogata, mentre la sottoponeva a sfruttamento. Fin dall’inizio, del resto, tra storia reale degli uomini ed ecosistema c’è contrapposizione radicale. Più precisamente, la storia comincia il suo cammino quando l’ecosistema subisce le prime ferite, le prime manipolazioni. La realizzazione che consideriamo l’atto di nascita della civiltà 194

fondata dall’homo faber, l’agricoltura, è la prima e profonda alterazione dell’habitat naturale. Storia e violazione della natura sono tutt’uno. Ma la contrapposizione non può essere portata fino in fondo, perché l’uomo che produce storia è esso stesso natura, l’elemento più intraprendente fra le sue creature, ma vulnerabile quanto gli habitat che distrugge. E questo costituisce un limite invalicabile al suo dominio. Ora, è in questo limite che in tempi recenti la storia della società è andata ad imbattersi. Per una lunga fase storica, infatti, il conflitto fra società e habitat si è risolto in una continua creazione di squilibri naturali che dava luogo a sempre nuovi equilibri sociali. La società adattava a sé la natura e la natura si adattava alla società. Ma il cerchio tra le attività umane e i cicli di riproduzione delle risorse naturali – come ha ricordato il biologo americano Barry Commoner – riusciva pur sempre a richiudersi. Oggi, tuttavia, siamo giunti a un punto estremo: gli squilibri naturali non si ricompongono in nuovi equilibri tecnici e sociali, si ingigantiscono, appaiono puramente distruttivi, tendono ad annientare il mondo fisico senza sostituirvi altro. E la natura, violentemente mutilata, ci dà segni della sua esistenza, minacciandoci in quanto esseri naturali, ricordandoci che sotto la scorza della storia dura la sua realtà, scorre la linfa ineliminabile della nostra vita. Si tratta dunque di una vicenda istruttiva. Anche in questo caso il dominio non era visibile fintanto che il soggetto dominato accettava come naturali le regole e il fatto del dominio. Ma non appena l’essere che non aveva voce ha compiuto uno scarto, si è destato come realtà autonoma, ha cessato di essere il calco passivo dell’oppressione, allora ciò che consideravamo come un 195

dato indiscutibile, ovvio come il colore bianco della neve, ci è apparso all’improvviso nella sua realtà di rapporto storico. È stato a quel punto che la pratica del dominio si è presentata come una vicenda prodottasi nel tempo, per umana iniziativa, non più un dato naturale, simile alla presenza di una montagna o allo scorrere di un fiume. Così è stato anche per la percezione della donna e della sua collocazione nella famiglia e nella società. Il suo assoggettamento si era così solidificato nelle culture storiche che nessuno aveva bisogno di rilevare che la neve era bianca. Finché essa non ha sollevato il capo. Ci appare dunque oggi evidente che aver rimosso il mondo fisico dalla nostra considerazione e memoria è stata una forma di delirio. Il grande racconto della storia si è infatti inceppato, le sue magagne appaiono ormai alla luce del sole. Esso aveva espunto dalla rappresentazione un eroe senza voce, lo aveva ridotto a inutile fondale del grande teatro delle glorie umane. Ma l’eroe è saltato sulla scena, non vuole ritornare dietro le quinte. «Improvvisamente – ha ricordato Commoner – abbiamo scoperto ciò che avremmo dovuto conoscere da tempo: che è l’ecosfera a garantire la sopravvivenza dell’uomo e la continuità di tutto il suo agire; che tutto quanto non riesce ad adattarsi all’ecosfera è una minaccia ai cicli e agli equilibri». È perciò rompendo la narrazione-rimozione del tempo progressivo che gli storici possono fare storia della natura e delle trasformazioni ambientali, darsi conto di come si è arrivati sin qui. Per questa via anzi la ricerca può mostrare che l’attuale scenario di distruzione e di minaccia generale all’ecositema della terra ha una storia, è il risultato di una umana vicenda di scelte, interessi, responsabilità. Per quale 196

ragione, poniamo, dal 1975 nei più importanti paesi dell’Europa i rifiuti domestici crescono più della ricchezza, vale dire del Prodotto nazionale lordo? In base a quali vantaggi di potere, gli Stati Uniti, che rappresentano il 4-5 per cento della popolazione mondiale, consumano il 30 per cento dell’energia che si utilizza sul pianeta? Bisogna dunque portare nella scuola anche la storia dell’ambiente? Esistono oggi non pochi ostacoli a dare cittadinanza a un simile sapere. E fra questi la scarsità di strumenti didattici specifici. Ma, su tale tema – che non è certo un argomento alla moda da aggiungere agli altri – non posso qui sottrarmi all’obbligo di avanzare alcune domande. È possibile oggi garantire ai ragazzi una formazione e una educazione «all’altezza dei tempi», trascurando di informarli sul futuro che la nostra generazione sta loro preparando? Possiamo davvero continuare a nascondere, a tenere fuori dai quadri dell’insegnamento scolastico, il fatto sempre più evidente che il modello di crescita economica in cui siamo immersi, risultato di una storia di pochi secoli, può compromettere drammaticamente il loro avvenire e quello dei loro figli? Chi, se non loro, rischia di ereditare dal nostro presente un pianeta povero e avvelenato? Non era mai accaduto a nessuna generazione del passato di dover temere di ricevere in eredità dai propri padri un mondo non più abitabile. Le società industriali stanno cambiando la stessa qualità del tempo storico: esse non consumano solo il proprio, ma anche quello delle società a venire. Il tempo delle prossime generazioni appare già compromesso, accorciato, incatenato da chi l’ha usato qualche decennio prima. Entro quali limiti i nostri figli saranno costretti ad agire se dovranno proteggersi dal sole non più schermato 197

dalla fascia dell’ozono atmosferico, se «l’effetto serra» farà innalzare le acque, se le scorie radioattive che da almeno mezzo secolo si buttano nei mari dovessero contaminare le acque della terra? Chi ha già banchettato decide della vita di chi ancora non è nato. Per queste evidenti ragioni sono prima di tutto le nuove generazioni che vanno messe culturalmente in allarme. E la scuola ha oggi un obbligo morale speciale nei loro confronti, che non si era mai presentato in nessuna epoca precedente. Ma esistono molte altre buone ragioni per introdurre, sotto specie di questioni, capitoli di storia dell’ambiente nell’insegnamento scolastico. E ancora una volta i suggerimenti di tipo didattico e conoscitivo si mescolano con quelli di tipo formativo e culturale. L’ambiente, infatti, è un tema complesso, avvicinabile solo con strumenti conoscitivi multidisciplinari. Non per nulla ha finito coll’imporre la nascita di una scienza pluridisciplinare. Di fronte all’unità indissolubile del vivente, il chimico deve dialogare con il botanico, il geologo con l’agronomo, il geografo con lo zoologo. Come non vedere, in queste nuove sfide che attraversano i campi del sapere, le opportunità che si offrono alla scuola? Studiare un capitolo di storia delle trasformazioni ambientali può finalmente far dialogare i saperi umanistici con quelli scientifici. Quelli stessi che operano nella scuola: la fisica, la chimica, la biologia. Che cosa è successo nelle trasformazioni dell’habitat, poniamo, durante i grandi diboscamenti che hanno investito l’Appennino tra XVIII e XIX secolo? Che cosa ha comportato il passaggio dai fertilizzanti naturali ai concimi chimici nell’agricoltura europea di metà Ottocento? Quali sono i processi sociali, economici, ma anche gli esiti 198

ambientali che accompagnano la distruzione delle foreste equatoriali da alcuni decenni a questa parte? I ragazzi che prendono dimestichezza con tali problemi scorgono l’altra faccia sgradita della luna. Tutto il lato distruttivo delle società industriali appare loro con una evidenza nuova: sia per quanto riguarda la produzione che per il consumo. Essi possono diventare finalmente consapevoli della loro responsabilità di esseri viventi, che prima ancora di produrre consumano, distruggendo natura. È questo infatti un luogo dei saperi del mondo attuale in cui la conoscenza si congiunge con l’etica, l’agire umano si accorge di responsabilità nuove prima inavvertite. La potenza della tecnica ci ha posto in una tale condizione di distruttività nei confronti dell’habitat, e di noi stessi, che la conoscenza è diventata un drammatico obbligo etico. Sino a poco tempo fa anche usare lo spray per darsi la lacca sui capelli produceva una ferita all’ecosfera: i gas clorofluorocarburi – che costituivano il propellente delle bombolette – intaccano infatti lo strato dell’ozono atmosferico. La più innocente delle azioni individuali può avere un riflesso generale di devastante portata. Il mio semplice vivere, che produce rifiuti, condiziona la vita del mio vicino e quella degli altri cittadini. I rifiuti ingombrano spazi, inquinano acqua e aria: beni indivisibili che appartengono a tutti. Anche sul versante dei fenomeni ambientali, dunque, lo studente fa esperienza di una nuova universalità del proprio tempo. Egli anzi scopre, per così dire, il nesso mondiale che lega la sua esperienza locale a fenomeni che riguardano l’intero pianeta. Ma tale considerazione vale non soltanto per i fenomeni generali dell’inquinamento. Anche sul lato 199

dell’economia, dello sfruttamento della natura a scopi produttivi, si scopre uno scenario planetario per secoli rimasto occultato. La scoperta finalmente generale che la natura non è infinita, ma è semplicemente la nostra Terra, ha mutato i caratteri stessi del nostro immaginario. L’universale indistinto in cui essa perdeva un tempo, ai nostri occhi, ogni confine e ogni limite, si presenta oggi nella forma di una minaccia totale, che ci disvela un obliato destino comune. Apparendoci ormai come un pianeta limitato ed esauribile, essa cambia il nostro modo di valutare le risorse naturali e il loro uso a scopi produttivi. Minacciose scarsità si intravedono all’orizzonte. Ed esse inducono a ripensare in modo inedito e su scala universale il problema della proprietà. A chi appartiene l’acqua sempre più scarsa, le foreste che deperiscono, l’aria delle nostre città, avvelenata dai gas di scarico delle automobili, minacciata dalle contaminazioni radioattive? È esattamente la finitezza assoluta delle risorse che disvela la loro universalità e insieme il loro essere proprietà comune: patrimonio indivisibile di tutte le creature che abitano la terra. Credo che pochi insegnamenti, quanto questo, in grado di far dialogare la storia con le scienze naturali, portano con sé, allo stesso tempo, elementi così fondativi per la formazione delle nuove generazioni. Si mostrano così le cause lontane o ravvicinate dei fenomeni presenti, le responsabilità storiche degli uomini del passato, ma si possono anche indicare linee di condotta rilevanti per l’avvenire. D’altronde, quali altre vie di uscita ci si offrono per uscire dai nostri attuali dilemmi? Come è possibile sperare di ricostruire un nuovo ed equilibrato rapporto fra uomini e ambiente, fra produzione di beni e mondo fisico, senza formare, su nuove 200

basi culturali ed etiche, generazioni che in quanto produttori e cittadini siano in grado di prendersi cura della natura? 3. Il racconto del potere. Abbiamo brevemente visto che il potere all’opera possiede una raccontabilità intrinseca che è negata alle attività umane ripetitive. È un fenomeno legato alla creatività della politica? Viene da pensarlo. Infatti, anche il contadino, appena lascia il campo e diventa elettore, scioperante, attivista sindacale, produce eventi che non si ripetono e diventa perciò un attore della storia. Le sue vicende diventano raccontabili. E difatti, soprattutto in questo dopoguerra, gli storici ce le hanno narrate. Occorre tuttavia rilevare che le figure e i gruppi politici dominanti possiedono una raccontabilità superiore rispetto agli attori politici senza nome. Si tratta di una superiorità, per così dire, di grado. Il gesto, la scelta di un leader di partito, di un capo di Stato, per quanto ininfluente in termini concreti, ha una capacità di risonanza generale che pochi altri posseggono. La loro parola è amplificata dal fatto che essi parlano dalla cima di un potere costituito. In un certo senso essi condensano, nella propria figura, la forza di un’organizzazione politica nazionale o addirittura quella dello Stato stesso. È dunque nel potere in sé che viene a collocarsi una rappresentatività (e anche un’arroganza di rappresentazione) che lo fa essere un attore in sommo grado raccontabile. Non è perciò un caso che così spesso la storia politica tradizionale, nel raccontare la vicenda dei gruppi dirigenti, ha preteso di fare la storia della nazione. 201

Raccontare i fatti del potere non equivaleva a ricostruire la storia delle influenze che essi finivano coll’avere su scala nazionale? Il ritorno di Crispi al potere, nel 1893, non è un fatto di valore nazionale? E non lo fu, poniamo, la scelta di De Gasperi di estromettere le sinistre dal governo nel 1947? Dunque dobbiamo prendere atto che nella individualità dei potenti si concentra una sorta di rappresentatività sintetica che surroga la complessità dei fenomeni reali e offre singolari e insostituibili servigi al racconto storico. Nell’amplificazione nazionale degli atti singoli del potere si distende quel tempo lineare che dà significato e coerenza all’agire meglio rappresentabile, ma che cancella le altre oscure e multiformi temporalità in cui pur si svolge la vita della politica. Così, riferendo un dialogo fra Giolitti, Turati e Sturzo nei primi anni venti del Novecento, abbiamo la messinscena immediata di tre potenze all’opera: il governo dell’Italia, il Partito socialista e il mondo politico cattolico. Realtà politiche che nei fatti comprendono forze e posizioni profondamente diverse, infinite stratificazioni di persone, culture, situazioni sono brevemente riassunte nei nomi riconoscibili di tre protagonisti. Ma quale incommensurabile abisso separava quelle tre rappresentanze simboliche dalla moltitudine degli uomini reali, senza cognome e irraccontabili? Tuttavia gli agi del racconto non solo sono pagati con l’esemplificazione sintetica della vita reale. Altre sono le contropartite non ancora del tutto disvelate. Essi sono responsabili di una raffigurazione pletorica del potere. Ne conserviamo i segni nell’immaginario, nelle periodizzazioni, nelle parole. Non chiamiamo tante epoche – nelle quali, per convenzione, racchiudiamo il materiale storico – con i nomi 202

dei massimi protagonisti politici? Non esiste una era carolingia, un’epoca napoleonica, un’età giolittiana? È come se un’intera fase della storia umana uscisse fuori dalle mani di questi demiurghi. Ma quanta rispondenza alla storia reale c’è in questa etichettatura per nomina, in questa rappresentazione antropomorfa del potere? Quale sarebbe stata, poniamo, l’efficacia dell’azione statale di Giolitti senza tutti gli altri molteplici attori della scena del suo tempo? Quale energia riformatrice avrebbe potuto imprimere alla propria azione, poniamo, senza l’iniziativa imprenditoriale di tante anonime figure che fondarono la prima base industriale di massa dell’Italia nord-occidentale? E quale aiuto venne all’economia italiana di quel tempo dall’emigrazione contadina verso le Americhe, resa possibile da navi veloci e dal bisogno di braccia di lavoro da parte di continenti lontani? Certo oggi le acquisizioni della storia economica e sociale rendono sempre più improponibili le narrazioni politico-centriche di un tempo. Gli eroi eponimi hanno perso smalto, vestono abiti più dimessi. Ma l’idea che tutta la storia di una nazione promani alla fin fine dai vertici del suo potere politico non è per nulla morta. Sotto questo aspetto in Italia, possiamo dire, ha trovato incarnazioni simbolicamente «mostruose». Si pensi alla storia del fascismo di Renzo De Felice, che da biografia di Mussolini si è trasformata in una storia d’Italia letta attraverso le vicende del regime. Naturalmente, non si tratta di sottovalutare, né di sminuire la capacità storica reale del potere politico e soprattutto dei suoi maggiori vertici istituzionali. Ma compito scientifico della storia dovrebbe essere la misurazione della sua effettività reale, che muta col tempo e con le situazioni. «Disciplina del contesto» – come 203

saggiamente ci ha ricordato Thompson – la storia ha l’obbligo di darci conto dell’efficacia singolare che gli attori all’opera sono di volta in volta in grado di esercitare. Il potere politico statale è infatti drammaticamente decisivo nelle scelte estreme: si pensi alle guerre. Pochi uomini hanno potuto decidere il destino di milioni di persone: il massacro degli ultimi due conflitti mondiali. E il gioco continua ancor oggi su scala «regionale». Ma non sempre il potere politico concentra in sé tanto peso sui destini generali. In condizioni normali quanti altri piccoli e talora invisibili attori entrano in scena? Proviamo a immaginare che cosa sarebbe cambiato della storia d’Italia di questo dopoguerra se al posto dei protagonisti che conosciamo (De Gasperi, Togliatti, Fanfani, Moro, La Malfa, Berlinguer) ci fossero stati altri personaggi. Difficilmente riusciamo a immaginare un destino diverso da quello che ci è toccato. E non è una considerazione che nasce da svalutazione dei meriti di quei protagonisti. È evidente, infatti, che noi non possiamo ripetere questo ragionamento ipotetico, se chiamiamo in campo altri «attori»: ad esempio, le tecniche. Esse non mostrano la stessa intercambiabilità degli uomini. L’apparizione della bomba atomica non è stato un evento transeunte, il passare di un qualche personaggio nel firmamento politico. Essa rimane nel tempo. Un’arma di tanta potenza ha segnato di una inquietante irreversibilità l’intero percorso storico. Mettendo nelle mani di pochi uomini la possibilità di distruggere il pianeta essa ha reso qualitativamente diverso, e per sempre, tutto il corso dell’avvenire. Da tale esempio si può scorgere quanto sia errato concepire oggi il tempo storico come un nastro neutro su cui si vanno a incidere indifferentemente le azioni 204

degli uomini. Esso invece muta di qualità, «s’incurva» sotto il peso delle potenze immesse dalle società industriali. Ma non occorre scomodare necessariamente le svolte tecniche epocali. È sufficiente rammentare i più umili dispositivi. Che cosa sarebbe la vita quotidiana di milioni di donne senza la lavatrice che le ha liberate dalla schiavitù domestica del bucato? Come sarebbe oggi la nostra esistenza, nel bene e nel male, senza la presenza dell’automobile? L’invenzione tecnica di una macchina, grazie alla sua riproducibilità industriale, costituisce una forma di protagonismo storico anonimo di cui non si tiene conto, perché, come abbiamo visto, scompare nel lavoro. Eppure il suo ingresso tra le vicende umane cambia la stoffa stessa della storia. I dispositivi tecnici mutano in profondità la vita quotidiana delle persone, trasformano i ritmi del tempo sociale. Come demoni insonni continuano a operare nel tessuto vivente delle società, anche dopo che i leader delle nostre rappresentazioni idolatriche sono morti da un pezzo. Perciò si può forse continuare ancora a chiamare napoleonica la fase che copre i primi quindici anni del XIX secolo, ma sempre meno giustificato appare definire gollista, adenaueriano, degasperiano qualche pezzo della storia d’Europa di questo dopoguerra. Diversamente dal passato, i potenti devono dividere il loro potere politico con il potere sociale delle macchine, che producono trasformazioni accanto a loro e oltre la loro presenza. L’eroe che guidava da solo il destino dell’umanità è ormai sceso dal suo cavallo bianco. E il racconto antropomorfo del potere non può più ignorare questa nuova e «scadente» qualità della storia. A tale chiarimento si possono aggiungere delle controprove. Si provi ad accettare l’idea che i vari 205

rappresentanti del potere politico – la cui querula presenza televisiva ci è diventata così fastidiosamente domestica – costituiscano gli artefici del nostro destino nazionale. Chi si sentirebbe di assegnare loro una così impegnativa responsabilità? Eppure, uno storico politico tradizionale che scrivesse la storia della Repubblica fra vent’anni dovrebbe fare di questi personaggi, che spesso non stimiamo, i protagonisti della nostra storia. Non è una constatazione irridente. Per lo meno, non è solo questo. D’altra parte, non sarebbe neppure vero che questi nostri contemporanei, investiti di diverse responsabilità pubbliche, non facciano, nel bene e nel male, anche la nostra storia. Ma in che misura? Proprio questo uno storico davvero innovatore dovrebbe mostrare. E quanto è rivelatore il fatto che da testimoni del nostro tempo siamo disposti a concedere così poca creatività storica al potere politico, mentre come storici o lettori di storia di eventi lontani ne facciamo la fonte primigenia! Di quanto valore supplementare la presbiopia dello storico carica le vicende e gli uomini che la miopia del testimone poco considera o addirittura disprezza? Ma a che pro tali considerazioni che svelano il lato parziale e limitato della storia politica? Prima di tutto per invitare a pensare il potere reale della politica. La sua capacità di modificare le cose non è più quella che essa si rappresenta e che il racconto storico tende ad accreditare. Il governo collettivo degli interessi ha oggi un drammatico bisogno di capire fra quali altre potenze deve spartire la propria capacità di azione. Ma c’è un’altra pedagogia che occorre rendere esplicita. È necessario mostrare come impropriamente questo racconto dall’alto pretenda di assorbire nella sfera della politica tutte le dimensioni della 206

vita umana. Quante cose, che sfuggono a quella sfera, meritano invece la nostra considerazione postuma! Occorre invitare a vedere ciò che la storia come racconto tende a cancellare, sollecitare a pensare il passato con temporalità diverse da quelle lineari e progressive. Ma lo stesso agire politico necessita di nuovi criteri di misurazione. Di tutte le azioni umane, l’attività politica è in fondo la meno individuale, la più collettiva e processuale. Le grandi individualità hanno certamente una concentrazione di potere di comando che non tutti gli altri attori posseggono. Ma persino il comando politico più diretto deve contare sull’ubbidienza di un esecutore, su una soggettività altra cui è affidata la trasmissione o la realizzazione. E più in generale lo stesso comando è un agire politico dialogico: si deve rivolgere agli altri per essere esaudito. Spesso esso deve coinvolgere una pluralità di soggetti e di forze, deve talora inabissarsi in una moltitudine di volontà e interessi prima di tradursi in realtà operante. Nelle società democratiche, del resto, questo è ben visibile: perciò i contemporanei tendono ad avere così poca stima storica dei loro governanti. Ma si pensi anche al peso effettivo dei poteri che non si vedono. Qual è il ruolo che giocano le burocrazie, centrali e periferiche, nella trasmissione del comando politico e nella sua realizzazione? Quanto c’è della loro intelligenza tecnica e del loro interesse di corpo nella promulgazione ed applicazione delle leggi? Quanta politica è diffusa e all’opera nell’amministrazione? E non bisogna scorgere in essa – che è un pezzo vivente dello Stato – una realtà ripetitiva e irraccontabile, la trasmissione e riproduzione tecnica del potere? Ma è solo lo Stato e i suoi dirigenti centrali a fare la storia 207

politica di una nazione? E i comuni, le città impegnate a governarsi? Davvero possiamo credere che il centro di aggregazione amministrativa e spaziale in cui si svolge la più gran parte della nostra vita non produca quotidianamente la nostra storia collettiva, e che questa venga invece sovranamente realizzata solo dai governi e dal Parlamento? Come si vede, le ragioni della sintesi e del racconto non stanno automaticamente dalla parte della verità. Non sempre sono capaci di catturare la complessità del reale. Ad esse sfugge, in questo caso, quanto dell’attività politica è azione collettiva, plurale, e, nella sua reale processualità, attività anonima. Ma il racconto è segnato anche dal grave difetto di svalutare il contributo politico di chi non possiede un cognome storico. Cancella le moltitudini che operano attivamente entro le mura della polis. Di più: educa all’idolatria del comando. Induce a credere che la storia si riduca a quella forma di potere che è capace di raccontarsi. Una buona ragione, anche questa, per evitare la coatta linearità dei racconti del manuale e sperimentare la complessità della storia-problema. Anche dalla scuola – dagli insegnanti che sanno essere quello che potenzialmente sono, degli storici – possono essere avviate sperimentazioni capaci di aiutare la ricerca storica a dilatare i propri orizzonti di conoscenza dei territori e delle dimensioni della politica. 4. La verità della storia. Dunque il racconto va bandito dalla scuola? Non sono affatto queste le conclusioni a cui si vuole giungere. Ho voluto soltanto mostrare quanta parzialità di 208

rappresentazione della realtà possa annidarsi in una forma di conoscenza pur così ricca di senso. Nel racconto noi rinveniamo una parte della verità, come del resto accade un po’ per tutte le altre forme dell’esplorazione intellettuale. Non cerca, d’altra parte, la storia consapevole dei propri limiti, di intessere un dialogo, uno sforzo di cooperazione, con gli altri saperi? Occorre sempre avvertire l’insoddisfazione per il recinto di sicurezza entro cui tendono a rinchiudersi le nostre conoscenze. Solo per questa via lo storico può accorgersi che la narrazione conduce talora alla scoperta di interi continenti sommersi che la rappresentazione storica non ha mai registrato. Non è questo il caso del racconto della letteratura, vale a dire della narrazione non dominata dalla linearità progressiva del tempo? Quanti romanzi non ci forniscono, oggi, dei caratteri spirituali di un’epoca, un’immagine di profondità incomparabile, che nessuna ricostruzione storica ci potrà mai rappresentare? Quale storia della borghesia dell’Ottocento potrà mai restituirci il mondo dei borghesi all’opera, gli umori, le pieghe della loro vita intima, che ci hanno lasciato i romanzi di Balzac? E quale saggio o esplorazione archivistica potrà mai restituirci l’atmosfera politica e spirituale della Restaurazione in Europa meglio de Il rosso e il nero o della Certosa di Parma di Stendhal? Quel genere di racconto non aveva infatti lo scopo di cantare osanna al tempo progrediente dell’epoca. Ubbidiva ad altri bisogni di ricerca e di rappresentazione. Dobbiamo alla letteratura così come all’arte e al pensiero filosofico contributi di conoscenza decisiva per comprendere la condizione degli uomini nella società contemporanea. Chi se non Kafka ci ha rappresentato 209

l’angoscia del vivere in un mondo dominato da logiche impersonali che invadono ogni angolo dell’esistenza? Eppure, ciò che lo sviluppo della società industriale aveva prodotto nei quadri elementari del vivere non era stato registrato dai cantori del progresso delle nazioni. La burocrazia «disumana» esaminata da Max Weber nessuno storico l’ha rappresentata all’opera, mostrata nel suo farsi materia vivente delle società dell’Occidente. Essa cambiava in una maniera così profonda la vita degli uomini, ne diventava una componente così naturale e invisibile, che solo la creatività letteraria poteva scorgerla, grazie alla sua capacità di guardare alla profondità della vita, in virtù delle proprie specifiche capacità espressive. E chi se non l’arte narrativa di Joyce o Svevo ci ha lasciato testimonianza di un passaggio d’epoca nella storia della soggettività umana? Nell’età della tecnica e della velocità, dell’impersonalità e della massificazione delle relazioni sociali, in un mondo dominato dalle merci, l’io umano ha scoperto le patologie che l’epoca gli infliggeva. Ma questa pagina drammatica la storia non l’ha scritta, impegnata com’era a «rendere immortali» gli uomini nella grande narrazione dei fatti pubblici. È a un altro genere di racconto, all’opera letteraria, che è rimasta affidata la testimonianza di quanto era avvenuto. Ho voluto insistere su tali aspetti per sottolineare quali grandi opportunità si offrano, nell’insegnamento della storia, per tentare di unire ciò che la divisione dei saperi tende a dividere. Affrontare i casi della storia-problema può favorire un dialogo tra la storia e la letteratura quale mai si è realizzato finora nella scuola. Esso può condurre a una più profonda conoscenza di intere epoche storiche. Ma può 210

contribuire anche a rendere più visibile la materia vivente del passato, a fornire alla spiegazione storica ciò di cui è sovente priva: il colore e il calore dell’evocazione di un determinato clima spirituale. A questo scopo saranno anche utili le fonti filmiche e documentarie che si renderanno sempre più disponibili per la storia del Novecento. Ma la letteratura può fornire qualcosa di più. Non bisogna mai dimenticare che dietro a ogni scrittore c’è sempre uno storico involontario: colui che mentre inventa le proprie storie ci racconta come «sentivano» gli uomini del suo tempo. La letteratura è infatti, contemporaneamente, fonte documentaria e storia spirituale di fatto. Per questo essa può arricchire, con uno spettro incomparabile di illuminazioni, la lettura del passato. Come si può dunque lasciare alle pagine di un manuale il compito di far capire a un ragazzo che cosa è stata la prima guerra mondiale? Possiamo fermarci alla spiegazione delle cause, al racconto delle battaglie, ai trattati di pace? E che cosa trasmetterà l’orrore che quell’evento disseminò tra milioni di famiglie, il sangue e le distruzioni sparsi nelle campagne del mondo? Quale rendiconto se non la testimonianza della letteratura – per esempio Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu – può dare il senso «di quegli anni in cui – come scrisse Karl Kraus – personaggi da operetta recitarono il dramma dell’umanità»? Ma questa mescolanza di finzione letteraria e di conoscenza scientifica non può ingenerare confusione fra i ragazzi? Qual è alla fine la conoscenza effettiva, la verità a cui la storia mette capo? Domanda tanto più legittima da parte degli insegnanti a cui è stato detto, all’inizio di questo testo, che la storia che conosciamo è storiografia. Non si 211

corre il rischio di ingenerare nella coscienza dei ragazzi un relativismo scettico inconcludente e scoraggiante? Non è certo questo il luogo per ritornare su vecchie dispute intorno all’obiettività del conoscere storico. Ma può essere fruttuoso offrire alcuni brevi e semplici chiarimenti. Ormai da tempo si accetta l’insuperabile soggettività del conoscere storico: esattamente allo stesso modo in cui si accetta quello delle «scienze esatte». È un punto che è stato esaurientemente chiarito, tra gli altri, da Hannah Arendt: «In altre parole, in quanto l’esperimento “è un porre una domanda alla natura” (Galilei), le risposte della scienza rimarranno sempre risposte a domande dell’uomo; la confusione sul problema dell’“oggettività” consisteva nel supporre possibile l’esistenza di risposte indipendenti dalle domande, e di risultati indipendenti dall’esistenza di un interrogante. Come oggi sappiamo, la fisica è una “indagine su ciò che è”, non meno antropocentrica dell’indagine storica, per cui l’antica disputa tra la “soggettività” della storiografia e “l’oggettività” della fisica è molto scaduta». Abbiamo dunque a che fare con una conoscenza parziale, soggetta a discussione, che muta nel tempo, così come mutano le altre conoscenze scientifiche. Certo, la soggettività della storia ha un’invadenza maggiore di quella delle scienze naturali. Essa giudica le azioni degli uomini, non le reazioni chimiche di un composto organico. E il mondo delle passioni bolle più facilmente nel petto dello storico che non sotto il camice bianco del chimico. Ma tutto questo non toglie validità al giudizio, ancorché controverso. Né appare accettabile, nella condotta dello storico, quella ricerca dell’obiettività che si traduce in una equidistanza fasulla sul piano del giudizio e dei valori. L’ha detto bene 212

Tzvetan Todorov, prendendo le distanze da Weber, «la neutralità significa prendere fortemente posizione». Sotto questo punto di vista oggi possiamo forse sentirci più vicini ai latini che tentavano di tutelare l’obiettività della storia con l’espressione sine ira ac studio, che alla pretesa della sociologia tedesca di una wertfreie Wissenschaft, di una scienza avalutativa. E sbaglia per ingenuità chi immagina di conseguire una posizione di obiettività in virtù dell’uso delle fonti di archivio o grazie all’ampiezza della documentazione presa in esame. Queste sono senza dubbio condizioni necessarie del lavoro dello storico probo, ma non sufficienti a garantirne l’obiettività. Le fonti d’archivio sono sempre registrazioni soggettive, non documentano necessariamente i fatti, li interpretano. Tanto più se si tratta di fonti politiche, che possiedono una invadenza di giudizio intrinseca e ineliminabile. Basti dire che i discorsi dei protagonisti, i quali parlano ancora il nostro stesso linguaggio, agitano le nostre stesse ideologie, vengono utilizzati come fonti. La stessa ampiezza della documentazione, per quanto imponente, non può certo coprire la realtà così come essa è effettivamente stata. Non può essere che una sintesi. E la sintesi è interpretazione. Se noi provassimo a registrare gli eventi di una sola giornata della nostra vita, nella sua integrale totalità, occorrerebbero centinaia di pagine, come per l’eroe dell’Ulisse di Joyce. L’ampiezza delle fonti è un prerequisito quantitativo del fare storia, perché consente allo storico un vantaggio supplementare di conoscenza del contesto rispetto agli attori reali che mette in scena. È un di più che si aggiunge al fatto che egli sa, rispetto ai contemporanei, come sono andate a finire le cose… Ma il 213

prerequisito fondamentale, quello che consente davvero di passare dalla memoria storica alla storia propriamente detta, è un altro, e si ritrova raramente tra gli storici politici del Novecento: la diversità di paradigmi concettuali rispetto ai protagonisti di cui si raccontano le vicende. Questa distanza mentale, tale difformità culturale è la vera condizione dell’unica obiettività possibile della storia. Possiamo ricostruire la vicenda dell’Unione Sovietica come storia dell’ideologia comunista, vale a dire con le idee con cui gli eroi di quei fatti rappresentavano le proprie azioni? Quale distanza e profondità interpretativa può produrre lo storico che non sa pensare quel passato se non con i quadri culturali e ideologici dei suoi protagonisti? La storia davvero capace di raggiungere le vette delle sue possibilità di conoscenza è quella che mette in grado di ripensare intere epoche illuminando le cause profonde che sfuggivano ai protagonisti. Ed è solo quando raggiunge simili altezze che essa consente, di rimando, quel distacco prospettico che fa uscire il presente dal magma informe della vita, consentendo di scorgerlo come un’epoca a sé. Ma attenti alle parole. Ho parlato di distacco, o di obiettività, non di neutralità. I termini non sono sinonimi. Può lo storico che analizza il Novecento, per amore di un malinteso scrupolo scientifico, mettere sullo stesso piano il fascismo e lo Stato di diritto, le squadre di Mussolini e i partigiani, le SS hitleriane e gli ebrei, le armate di Franco e gli uomini della Repubblica spagnola? Senza dubbio, se il nazifascismo avesse vinto la seconda guerra mondiale, se la sopraffazione totalitaria si fosse affermata come dominio incontrastato sulla vecchia Europa, oggi noi scriveremmo un’altra storia, priva di dubbi e retta da incrollabili certezze. 214

Tuttavia, poiché ha vinto la democrazia, essa lascia spazio ai dubbi e alle controversie. Ma essa non può assolutamente rinunciare a difendere le condizioni che rendono possibile questo modo aperto e dialogante di scrivere la storia: i valori, appunto, della libertà e della democrazia. Quale senso si può dare al racconto della storia, se gli aggressori e gli aggrediti, le vittime e i carnefici sono posti sullo stesso piano? Quale tribunale impazzito diventerebbe mai la storia se cedesse a una simile «obiettività»? Conservare il giudizio e la distinzione tra il torto e la ragione è un principio disciplinatore della nostra stessa convivenza sociale. Ma esso non comporta in nessun modo l’alterazione e la manipolazione del procedere scientifico della ricerca storica. Claudio Pavone, nel suo Una guerra civile, dedicato agli anni della Resistenza, ha mostrato quanto l’umana comprensione dei conflitti politici, la capacità di vedere il destino doloroso delle singole persone dietro le divise e le bandiere, possa arricchire la visione di quell’epoca del nostro passato. Ma non ha dovuto per questo cedere di un pollice nella difesa, implicita, ovviamente, mai propagandata, dei valori dell’antifascismo. Qual è dunque il grado di veridicità che ci offre la conoscenza storica? Direi che la qualità di una memoria collettiva, o se vogliamo di una storia, della sua attendibilità e onestà, dipende molto dalla qualità del presente che la conserva e la scrive. Quanto più essa si allontana da un possibile controllo monopolistico del potere dominante tanto più è veritiera, nonostante e anzi grazie alla pluralità degli accenti e dei punti di vista. Dopotutto, ogni opera di storia che si rispetti deve addurre le prove documentarie di ciò che afferma. Si sottopone alla critica pubblica degli altri 215

storici. L’esistenza di una comunità di studiosi indipendenti, svincolati dal potere politico, reciprocamente divisi in scuole e correnti, è una garanzia che la storia non diventi una ideologia asservita a un regime. Ma essa, vincolata a regole di probità e di rendicontazione, sottoposta a obblighi di trasparenza documentaria e alle «sanzioni» della critica scientifica, costituisce anche un presidio della verità: della verità mai definitiva, umanamente possibile, quella che riguarda le vicende degli uomini. La verità propria di una società dialogante. Su di essa non si realizza infatti mai l’unanimità dei pareri. Diversamente (ma solo fino a un certo punto) dalle conoscenze strumentali e dalle scienze del dominio, essa offre un campo di accordo che è fatto di discussione. Come potrebbe essere diversamente? Non bisogna mai dimenticare la qualità specifica di questa scienza. Essa risponde a domande di conoscenza e di esattezza, ma non può mettere da parte i valori: trattando di uomini inevitabilmente deve rispondere ai bisogni spirituali di chi scrive e di chi legge. Ma la presenza della comunità scientifica non è un presidio di carta. Viviamo in un’epoca in cui l’industria culturale preferisce spacciare sul mercato delle notizie una menzogna fresca di giornata, se essa appare meglio vendibile di una verità accertata e accettata, ma che ha il difetto di essere già nota. D’altra parte, non c’è stato chi si è provato e si prova a negare l’esistenza stessa dell’Olocausto, lo sterminio degli ebrei: uno dei crimini più feroci di cui un potere politico si sia reso mai responsabile nella lunga storia dell’umanità? E come potremmo difendere la verità del passato senza la comunità degli storici liberi, impegnati in una perenne ricerca e discussione? Come potremmo 216

difendere l’insegnamento scolastico della storia senza il loro presidio?

217

A mo’ di epilogo

E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità! F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Forse può sembrare che per rispondere all’interrogativo che apre questo libretto abbia percorso un troppo ampio itinerario. Troppi territori attraversati, troppe questioni sollevate. Ma, si sa, la storia è una divinità curiosa e vorace: difficile contenerla, sbarrarle la strada. D’altra parte, le esemplificazioni fornite per indicare un nuovo modo di insegnarla dovevano al tempo stesso mostrare i grandi mutamenti che reclamano oggi un suo nuovo protagonismo nella formazione della gioventù: le dimensioni del consumismo, le trasformazioni del lavoro, il declino dello Stato sociale… Inutile, poi, nascondere un’ambizione palese: nella riproposizione di una rinnovata centralità della storia si esprime un’idea, una proposta culturale di «riforma» della scuola. Come potrebbe essere diversamente? Che senso avrebbe assegnare tanto rilievo a questo insegnamento se nel frattempo l’intero mondo degli studi si prostituisse alle imprese, consentendo, ad esempio, l’ingresso della pubblicità nelle classi? La scuola non è un’istituzione qualunque. Posta in mezzo fra la società civile e il mondo produttivo, fra la famiglia e lo Stato, è un anello delicatissimo della nostra vita collettiva. Entro di essa e su di essa si riverberano anche le più sottili vibrazioni 218

dell’organismo sociale. E il mondo presente produce non più vibrazioni, ma scosse telluriche. Siamo entrati in una fase in cui si vengono inceppando alcuni automatismi consolidati, si frantuma l’ordine normale delle cose. D’improvviso le connessure profonde della società appaiono bene in vista, nella loro fragilità e provvisorietà. È come se il grande corso dei processi materiali trovasse il suo antico letto d’improvviso ingombro d’ostacoli e straripasse. Nulla, in periodi siffatti, appare scontato per il futuro. Sono queste le fasi in cui gli interrogativi si fanno più radicali, le scelte diventano più decisive. È apparsa oggi sulla scena, nel mondo del lavoro, una novità di grande portata che chiede alla scuola di interrogarsi sui suoi fondamenti e sul suo futuro. Una lunga traiettoria di convinzioni e di elaborazioni, sia del campo politico conservatore, ma ancor di più del mondo politico progressista, si trova spiazzata di fronte ai mutamenti che agitano le società industriali. La convinzione che appare più drammaticamente disorientata è l’idea «progressista» che la scuola sia obbligata a mettersi al passo con lo sviluppo, debba «adeguarsi» ai ritmi della crescita, diventare efficiente come il mondo che le sta attorno. È l’eredità, stancamente accettata e ormai stravolta, dell’aspirazione storica all’emancipazione da parte dei ceti popolari. Un’emancipazione che era l’altra faccia dello sviluppo: essa intravedeva il proprio fine nell’ampliamento della base materiale della ricchezza, chiedeva una formazione da mettere al servizio della macchina tecnico-produttiva. Ma è questa, ancora, l’esigenza che abbiamo davanti? Di questa inadeguatezza soffre davvero la scuola nelle società industriali del nostro tempo? L’insegnamento deve ubbidire 219

alle esigenze e alle logiche dell’apparato economico, o è chiamato a sorreggere un progetto di società? A queste domande spero di aver dato una qualche risposta nelle pagine precedenti. Ma occorre ancora una volta ricordare il grande passaggio d’epoca che abbiamo di fronte e che impone alla nostra domanda una risposta radicalmente diversa dal passato. Oggi appare necessario ripensare con inedita radicalità le ragioni del sapere e i fini della sua trasmissione e conservazione nella società del prossimo futuro. Ce lo impongono mutamenti prima inimmaginabili, che stanno cambiando rapidamente i quadri d’orientamento che ci governavano da millenni. In tutte le società finora esistite gli uomini hanno elaborato forme di attività economiche di volta in volta diverse per rispondere ai propri bisogni. Rapporti di produzione che si inscrivevano nell’ordine sociale esistente modificandolo secondo gli interessi dei ceti dominanti. Ma è la prima volta, nella storia dell’umanità, che la macchina economica, sempre più svincolata dai bisogni reali, si è impossessata dell’intera società comandandola secondo le proprie logiche e i propri bisogni. Alle esigenze degli uomini si sono aggiunte e si vengono progressivamente sostituendo le necessità dell’economia: una sorta di sopramondo che tende a piegare ai propri fini anche il più remoto angolo della vita. Deve, la scuola, entrare definitivamente a far parte di queste necessità? Occorre che la pubblica istruzione dei paesi industrializzati si trasformi in un ramo della politica economica dei governi? Poiché i rischi paventati costituiscono una possibilità reale, e sono in parte una tendenza in atto, bisogna cominciare a prevederne gli esiti. Occorre, ad esempio, 220

essere consapevoli che se un tale obiettivo venisse raggiunto sarebbe messa in discussione, sin dalle radici, l’attuale organizzazione del sapere: in breve tempo l’intero edificio della nostra cultura colerebbe a picco. Non è una estremizzazione concettuale: basta guardare nel fondo dei processi in atto per indovinare il loro esito più lontano e conclusivo. Oggi è lo stesso mondo del lavoro, la fabbrica capitalistica, il cuore dell’innovazione tecnico-produttiva, a prefigurarci il futuro. Con una velocità sconosciuta al passato, essa produce e distrugge rapidamente i saperi di cui ha bisogno. Anche le professioni che escono dalle università d’Europa o d’America vengono sempre più rapidamente piegate a finalità strumentali ed effimere. Dentro le fabbriche sono continuamente messi a punto procedimenti e forme di organizzazione del lavoro che usurano rapidamente le competenze di dirigenti e operai. Nel giro di cinque-sei anni le conoscenze tecnico-scientifiche di un ingegnere diventano obsolete. Come può, la scuola, inseguire questi processi senza snaturarsi? Come fa a rendersi tanto «moderna» quanto il meccanismo che produce le merci, senza condannarsi a un perpetuo inseguimento dell’innovazione? E si possono anche porre le stesse domande dal lato di una visione utilitaristica. Con il linguaggio dell’economia potremmo chiederci quale sarebbe il vantaggio di dare ai ragazzi, col danaro pubblico, una formazione che diventa inservibile nel giro di pochi anni. «C’è da chiedersi – ha osservato saggiamente Benedetto Vertecchi – che senso possa avere mantenere per quindici anni a scuola le nuove leve della popolazione per far dimenticare più volte, completamente, ciò che è stato appreso» nel corso delle successive esperienze di lavoro. 221

Questo vorrebbe dire cedere, improduttivamente, a quel «consumismo formativo», come lo chiama Vertecchi, che è già entrato nelle nostre scuole e che produce smarrimento, demotivazione, noia, perdita di senso. Ma inseguire il lavoro e le sue necessità significa mettere progressivamente tutto il sapere a servizio della domanda incontenibile del sopramondo dell’economia, fare di esso un ramo della produzione e del consumo. Per questa via l’asservimento dell’intera vita spirituale delle nuove generazioni sarebbe un fatto compiuto nel giro di qualche decennio. Ecco dunque un nodo decisivo su cui fare la più grande chiarezza. La scuola deve sapere quale grande pericolo la minaccia: quale grande insidia minaccia di penetrare, attraverso di essa, nel cuore di tutta la società. Pure, io credo che non siano ancora oggi del tutto chiare le ragioni più drammaticamente profonde che chiederebbero alla scuola di essere realmente «all’altezza dei tempi». Non si tratta infatti di superare una congiuntura avversa, di «risolvere una crisi», di uscire fuori da un qualche inceppo della macchina produttiva e sociale. Non siamo stretti dal bisogno di fare della scuola una istituzione più efficiente che aiuti questi passaggi congiunturali della società. Abbiamo di fronte, in realtà, «congiunture» assolutamente inedite che si stenta ancora a percepire in tutta la loro universale portata. Il nostro tempo ha consumato un’altra, forse la più grande frattura con tutto il nostro passato. Come ha fatto osservare uno studioso tedesco, Hans Immler, per millenni il processo delle attività economiche e sociali delle comunità umane si è svolto in parallelo ai meccanismi spontanei dell’evoluzione naturale. La vicenda degli uomini e i processi del mondo fisico 222

costituivano quasi due storie autonome, che non si urtavano… Nel giro di pochi decenni tutto è rapidamente cambiato. Oggi l’intera evoluzione della natura appare assoggettata ai meccanismi dell’economia capitalistica: è alle sue dipendenze. Dall’assetto geologico del pianeta al clima, dall’atmosfera ai geni degli organismi viventi, ogni cosa appare alterata e manipolabile, soggiogata sempre più agli appetiti e alle logiche della macchina tecnico-produttiva. L’evoluzione è diventata una funzione dell’economia. Non soltanto dunque la società, ma l’intero mondo vivente è caduto sotto la signoria di questo rozzo padrone. Perciò la ricerca di un altro paradigma dell’esistente, che sfugga ai comandi ciechi del produrre e del consumare, ci si presenta come un bisogno urgente, drammatico. Occorre portare alla luce, far diventare coscienza generale, la rimozione su cui si regge l’intera società: l’assoggettamento della natura e del lavoro. L’uguaglianza originaria col mondo fisico, e con gli altri uomini che lavorano per noi, deve essere sottratta al suo oblio millenario, messa al centro della consapevolezza sociale di tutti. Solo da qui può sorgere una cultura capace di tener vivo il senso del limite dell’agire umano, di alimentare con nuove motivazioni spirituali la volontà collettiva. Di fronte alle novità abissali di cui incominciamo a prendere coscienza possiamo dunque continuare a chiedere alla scuola di essere più «moderna», più vicina ai «bisogni» della società? E quali sono i bisogni della società? È nostro compito continuare a chiedere agli uomini delle nuove generazioni di essere più «correnti» come la moneta: per prendere a prestito il sarcasmo di Nietzsche? O non dobbiamo piuttosto interrogarci su quale straordinario 223

sforzo di edificazione culturale e spirituale le istituzioni formative sono oggi chiamate? Quanto e quale sapere, consapevolezza profonda dei bisogni della vita dovrà essa diffondere fra i ragazzi? Quale nuovo slancio morale essi dovranno ritrovare negli insegnamenti se non vogliono soccombere all’unidimensionalità del calcolo utilitario? Di quale senso di responsabilità saranno richieste le nuove generazioni se vogliono governare un pianeta così strettamente piegato alle logiche della macchina gigantesca della crescita? Tali domande sono oggi rese pressanti anche da altri elementi dello scenario che abbiamo di fronte. L’economia e il denaro godono non solo di una inaudita potenza, ma di una ubiquità mondiale che manca assolutamente ai governi, ai poteri della regolazione sociale. All’opposto, la politica appare ancora frantumata e divisa, inchiodata nelle sue antiche, sempre più deboli e mobili, ripartizioni territoriali. Per di più essa è necessariamente lenta, procedurale, quasi quanto il mondo degli affari e della tecnica è veloce, decisionale… Ma non è solo questo, in prospettiva, l’elemento più preoccupante del quadro. C’è un altro aspetto della nostra epoca che inquieta: la crescente abdicazione della politica allo «stato di necessità» che l’economia impone come proprio modo di essere. Questa si presenta, infatti, come un mondo regolato da leggi indiscutibili. Necessità della competizione, necessità dell’efficienza, necessità dell’innovazione, necessità della flessibilità… Un universo di idoli intoccabili costringe l’arte del governo collettivo degli interessi a vedere ristretti i propri spazi di intervento ad ambiti che sempre meno toccano gli aspetti decisivi della vita degli individui. E tale 224

depotenziamento ne accresce il disvalore agli occhi dei cittadini. Sempre meno la politica riesce a spezzare quel circolo infernale che lascia intravedere vie d’uscita solo nel soddisfacimento di quelle necessità con cui il sistema economico la obbliga a perpetuarlo. Stretta fra tanti vincoli, la politica viene perdendo il suo principio vitale costitutivo, la libertà. E senza di essa va incontro al più inevitabile dei processi fisiologici: muore. Ecco dunque perché non bisogna cadere nella trappola fatale di fare anche della scuola un ambito che risponde alle necessità dell’economia. Ma non bisogna neppure commettere l’errore di scambiare quella che oggi è una opportunità storica, uno spazio imprevisto di libertà, per una nuova necessità cui piegare la testa. La crescente distanza del mondo tecnico-produttivo dagli studi scolastici è infatti un grande terreno di possibilità. È, in qualche modo, «l’anello che non tiene», il passaggio aperto fra i vincoli che ci assediano. La crescente indipendenza della produzione della ricchezza dai tempi del lavoro e dal lavoro stesso schiude spazi prima impensabili di liberazione dalle necessità. Quanto tempo strappato agli obblighi della produzione materiale può essere impiegato oggi per lo studio e l’apprendimento? Si pensi, d’altronde, alla crescente inutilità, per i ragazzi, di uscire precocemente dal mondo dello studio. Un mercato dell’occupazione sempre più saturo consiglia sapientemente di prolungare la scuola dell’obbligo fino ai 18 anni di età. Ma sono i contenuti della cultura e soprattutto della cultura umanistica, che possono liberarsi dal complesso di inferiorità in cui sono stati tenuti in tutti questi anni, ritrovare lo slancio e le ragioni che erano andati perduti 225

sotto l’incalzare arrogante del sapere strumentale. Perché lo studio di Sant’Agostino o di Spinoza, la vicenda dell’intero pensiero filosofico non dovrebbe entrare nella formazione di tutti i ragazzi, italiani ed europei? Esiste una sola ragione per la quale una qualunque conoscenza tecnico-scientifica debba avere la precedenza, nella formazione di un giovane, rispetto ai tesori di vita spirituale che può dischiudere l’eterno interrogarsi del pensiero umano? E perché la conoscenza dei più aggiornati strumenti di comunicazione – destinata a diventare inadeguata nel giro di un anno – dovrebbe rubare il tempo alla lettura dedicata a Shakespeare? Per quale ragione una parte rilevante della vita interiore dei ragazzi non dovrebbe essere indirizzata ai grandi problemi, agli eterni problemi degli uomini che vivono su questa terra, alle prese con l’amore, la gioia, il dolore, la morte? Il colore del cielo sotto cui gli uomini si dibattono non muta per il vorticoso e mirabolante mutare delle tecnologie. Occorre davvero sradicare l’idea più profondamente confitta nella nostra mente: la convinzione che si guadagna in sapere solo andando avanti. Questo vale, entro certi limiti, solo per il pensiero tecnico-scientifico. Ma il bisogno di dominio e la ricerca dell’utile non esauriscono tutte le esigenze di conoscenza e di sapere che agitano gli uomini. Volgendoci indietro, talora, troviamo più risposte ai nostri interrogativi di quante non ne rinveniamo in un presente spesso confuso e smarrito. Dunque, dobbiamo abolire il sapere tecnico-scientifico dalle scuole? Non è certo questo che si vuole suggerire. Occorre che la scuola dell’obbligo fino a 18 anni assolva due compiti formativi ed educativi fondamentali: crei delle persone e dei cittadini consapevoli. Individui che posseggano 226

nel proprio foro interiore il senso della sacralità della persona umana, e siano perciò nutriti dei valori della solidarietà e della giustizia: il fondamento spirituale necessario dell’essere cittadino, consapevole dei diritti e dei doveri del vivere in società. È questo il primo e più forte presidio culturale della democrazia. L’economia di mercato può tranquillamente convivere, e perfino prosperare, con ordinamenti autoritari: la Cina di oggi, ad esempio, incarna la prova più luminosa di tale verità. Ma senza persone che custodiscano quella speciale religiosità civile, la democrazia si spegne. Ma naturalmente la scuola non è chiamata solo a produrre e trasmettere valori. Ad essa sono giustamente richiesti anche compiti di formazione cognitiva. Benché in futuro sempre meno ci sarà bisogno di saperi indirizzati alla produzione di merci e sempre più di culture della riproduzione, regolative, di organizzazione e di conservazione. Senza dubbio, la conoscenza scientifica è un patrimonio che fa parte delle conquiste della storia umana, nonostante che il XX secolo abbia mostrato gli scenari più inquietanti e distruttivi delle sue applicazioni. Ma la scuola può restare tranquillamente fuori dalla gara degli aggiornamenti continui e degli assilli di tipo quantitativo. Ciò che essa deve fornire, sotto questo profilo, è la capacità di apprendere la scienza, di interpretare la realtà, il modo di usare la mente, l’attitudine alla ricerca, la curiosità esplorativa. Ma anche su questo terreno oggi occorrerebbe che la scuola fosse «all’altezza dei tempi». Non si pone infatti, per la scienza e la tecnica, una riconsiderazione generale dei loro fini? Che cosa giustifica oggi lo sforzo volto a incrementare 227

le arti del dominio sulla natura? Intere generazioni hanno studiato nelle scuole superiori le leggi della fisica e della chimica, il mondo delle scienze naturali, senza alcuna altra finalità che assolvere un programma scolastico, senza altra mira che un apprendimento utilizzabile in un mestiere o in una professione. E perché mai oggi questi saperi non dovrebbero, anche nella scuola, essere collocati entro un nuovo orizzonte dei fini? Perché l’insegnamento della botanica, della biologia, della chimica non dovrebbe essere presentato ai ragazzi come parte, punto di avvio di uno sforzo collettivo per indagare i meccanismi delicati che governano la vita degli esseri viventi sulla terra, per scoprire i punti deboli del pianeta, per sanare le ferite innumerevoli che gli infliggiamo? Perché non dovrebbero entrare anche nella scuola gli assilli, le speranze, gli obiettivi che animano oggi una parte, sia pur ancora minoritaria, della scienza «ambientalista» del nostro tempo? Quali nuove motivazioni al sapere scientifico potrebbero fiorire nei ragazzi se quelle «neutre» scienze del dominio si caricassero di nuove finalità universali, si presentassero come leve per un vantaggio collettivo? E perché il sapere dell’economia – oggi ridotto a scienza della crescita infinita dai funzionari del sistema capitalistico – non dovrebbe trovare spazio nella scuola? Tanto la storia del pensiero economico che l’economia ecologica dei nostri giorni possono mostrare ai nostri ragazzi che l’industria capitalistica non è l’unica forma di produzione della ricchezza apparsa finora sulla terra. Certo, non mi sfugge una difficoltà rilevante. La scuola non vive nell’empireo. Essa è piantata nel cuore delle nostre società. Simile a un albero, succhia gli umori del terreno in cui è piantato. Come fare rifiorire al suo interno i nuovi fini 228

del sapere e dell’apprendimento se tutto intorno, nella società, essi sono senza voce? Occorrerebbe, in effetti, che un nuovo clima spirituale spirasse intorno ad essa. Sarebbe necessario che alcune domande «ingenue e irrealistiche» diventassero il contenuto di aspirazioni politiche collettive, terreno di dibattito, di riflessione generale, di impegno culturale crescente dei cittadini. Occorrerebbe che nessuno si sentisse un ingenuo nel chiedersi: perché i paesi ricchi non debbono porre tra i propri compiti l’obiettivo di mettere a disposizione una parte significativa dei mezzi immensi di cui dispongono per prendersi cura della natura ferita e in pericolo? Perché le persone di quest’area fortunata del mondo non dovrebbero porre tra i compiti della propria vita di aiutare, nella misura del possibile, i diseredati che si accalcano nelle megalopoli del Terzo Mondo? Perché la macchina economica dell’Occidente non dovrebbe essere piegata alla logica della cooperazione? Perché i gabinetti scientifici e gli istituti di ricerca, che impiegano risorse immense per la tecnologia militare e per i programmi spaziali, non indirizzano i loro sforzi alla ideazione di tecnologie leggere, compatibili con l’ambiente, rispondenti a un’economia della riproduzione? Perché non si fa alcuno sforzo, su questo stesso terreno, per evitare che i paesi in via di sviluppo ripercorrano le stesse forme di crescita industriale dell’Occidente, mettendo in gravissimo pericolo gli equilibri ambientali dell’intero pianeta? Certo, si tratta di domande irragionevoli, perché nel frattempo, grazie al dominio della razionalità economica capitalistica, sono diventate ragionevoli le logiche dominanti: quelle che oggi si vanno trasformando nella più distruttiva irrazionalità sociale. Ma quale potenza di 229

persuasione sono capaci di sprigionare queste domande in tutte le menti che non sono state asservite al fanatismo economico, che non si sono rinchiuse nel recinto dogmatico del proprio realistico funzionariato? Quale breccia possono aprire nel senso di verità e di giustizia che anima ancora i ragazzi? Ecco d’altra parte alcune delle finalità con cui dare senso a un grande progetto politico – l’unificazione dell’Europa – diventato nel frattempo una scatola vuota, perché consegnato agli obiettivi e alle necessità dell’economia. Quali parole di verità possiamo noi rivolgere alle nuove generazioni se un tale progetto si esaurisce nella «capacità di competere», vale a dire nella formazione di un nuovo «esercito» continentale per combattere nella guerra economica globale? Come è possibile creare le nuove classi dirigenti dell’Europa unita se continuiamo a chiedere alla nostra gioventù null’altro che sostenere la crescita economica? Se la esortiamo, in sostanza, a intraprendere un’iniziativa che non ha scopo, o ne ha uno finale, distruttivo? Non si intravedono, d’altra parte, all’orizzonte, altre vie d’uscita. Scomparsa ormai dal nostro cielo la stella provvidenziale del progresso, occorre intravedere nuove costellazioni se si vuole orientare una navigazione che nessuno è in grado di fermare. Se, come vuole Nietzsche, nel mondo attuale «avanza il deserto» della perdita progressiva di senso, agli uomini non resta altra possibilità di ricreare l’incanto che piantando, dove possibile, le «oasi dei fini». E la scuola è uno di questi luoghi. Dentro di essa si possono creare nuovi laboratori di ragioni dello stare insieme, di libertà e di sapere. E gli insegnanti – queste meritorie e, in Italia, neglette e spesso disprezzate figure – possono 230

ritrovare nuove motivazioni al loro prezioso lavoro. A essi è dato di scoprire un compito strategico nuovo, non più subalterno alla macchina economica, della loro collocazione nella società. Gli insegnanti, di ogni ordine e grado, possono riempire di inediti ed entusiasmanti fini la loro attività quotidiana e la vita delle nuove generazioni. E la storia, riscoperta la propria «utilità», può essere una delle grandi portatrici di senso di tutto il progetto. Lo so bene. Dopo la scuola vengono gli studi universitari, le professioni o il lavoro, frantumato e precario, la disoccupazione. Fuori di essa il potere di comando sugli individui apparterrà ad altri. E la scuola, dopo tutto, non è un’assicurazione sulla vita. Vedremo cosa fiorirà. Il futuro rimane comunque aperto, custodito e difeso da menti non asservite. Ma se la generazione presente non farà della scuola il luogo della possibilità, rispetto alle necessità della macchina produttiva, se non riuscirà a piantare, nella coscienza della gioventù, il germe indocile della critica dell’esistente, l’aspirazione a un mondo più confacente ai semplici bisogni umani, allora scomparirà, in breve tempo, la memoria e il sogno di una società diversa da quella che è.

231

Guida bibliografica

Come prologo Sul periodo di massima prosperità del capitalismo fra la seconda metà degli anni quaranta e i primi anni settanta, cfr. D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993; E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995, pp. 303 sgg.; G. C. Falco, Mutamenti e continuità nella storia del Novecento. L’economia, in Aa.Vv., ’900. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Donzelli, Roma 1997, pp. 164 sgg.; P. Bairoch, Victoires et déboires. Histoire économique et sociale du monde du XVIe siècle à nos jours, Gallimard, Paris 1997, III, pp. 123 sgg. Una ricostruzione sistematica del processo di dissoluzione dell’idea di progresso, sul piano puramente filosofico, è quella di G. Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di «progresso» tra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1982. Ma si veda la decostruzione che ne fa S. Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 137 sgg. W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, ed. it a cura di A. Tarozzi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998. Vasta e crescente è oggi la critica alla società industriale, ai meccanismi del modo di produzione capitalistico, al pensiero economico nelle sue espressioni dominanti. Essa proviene da molteplici versanti disciplinari su cui si fornisce solo qualche accenno di testi disponibili in italiano. Per la critica sociale, si veda Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta edizioni, Troina 2004. Per quanto attiene la critica ambientalistica il lettore può trovare abbondante bibliografia nel mio La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma-Bari 2006. Un settore importante di studi è costituito dalla critica alla tecnica e al pensiero utilitaristico che si è sviluppata soprattutto in Francia (oltre che in Germania) con una pluralità di espressioni. Ricordo qui essenzialmente alcune opere disponibili in italiano: J. Ellul, La tecnica rischio del secolo, Giuffrè, Milano 1969; Latouche, La megamacchina cit.; A. Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati Boringhieri, Torino 1992; A. Caillé, Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, presentazione di A. Salsano, Dedalo, Bari 1995. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999. Ma molte sono le singole posizioni: cfr., ad esempio, K. Lorenz, Gli otto peccati

232

capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1974; M. C. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, Vita e pensiero, Milano 1998; I. Illich, La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti dello sviluppo, Red edizioni, Como 1993; G. Ruffolo, Lo sviluppo dei limiti: dove si tratta della crescita insensata, Laterza, Roma-Bari 1994; F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996; A. Caillé - A. Salsano (a cura di), Quale «altra mondializzazione»?, introduzione di E. Morin, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

I. La svalutazione del passato 1. Una promozione sociale incompresa. Il fenomeno dell’indifferenza e della «disaffezione» scolastica, che riguarda anche gli insegnanti, è fenomeno generale delle società industrializzate. Cfr. N. Bottani, Professoressa addio, il Mulino, Bologna 1994, p. 11; L’insegnante come lo/la vorrei, a cura di T. De Mauro, in «Annali della Pubblica Istruzione», XLII, 1996, 2. Una bella e appassionata pagina su questi temi, sempre di T. De Mauro, è Quale formazione per vivere e lavorare in una società complessa, in L’istruzione in Italia: solo un pezzo di carta?, a cura di N. Rossi, il Mulino, Bologna 1997, pp. 479 sgg. Una posizione critica sulle tendenze in atto in G. Ferroni, La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino 1997. Sul ruolo centrale dei maestri elementari una perorazione appassionata svolge ora F. Savater, A mia madre mia prima maestra. Il valore di educare, Laterza, Roma-Bari 1997. Sulla diseguaglianza sociale che si trasmette di generazione in generazione per effetto di deficit culturale, cfr. D. Checchi, La diseguaglianza. Istruzione e mercato del lavoro, prefazione di N. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1997. I dati sulla crescita della scolarità sono tratti dalle pubblicazioni periodiche dell’Istat: cfr. Istituto nazionale di statistica, Le Regioni in cifre. 1993, Roma 1993, p. 88. L’aumento dei tassi di scolarizzazione nell’insegnamento di secondo grado ha interessato, tra il 1970 e il 1990, perfino l’Africa subsahariana. Cfr. Organisation des Nations Unies pour l’Éducation, la Science et la Culture (Unesco), Rapport mondial sur l’éducation 1991, Paris 1991, p. 33. Sull’ampiezza dell’analfabetismo in Italia sino agli anni cinquanta, E. de Fort, Scuola e analfabetismo nell’Italia del ’900, il Mulino, Bologna 1995; T. De Mauro, Idee per il governo. La scuola, discusse con A. Augenti e altri, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 24 sgg. Sulla straordinaria persistenza dell’analfabetismo e dell’«abiblismo nazionale» De Mauro, Quale formazione cit., p. 505. Ma si veda ora anche, dello stesso autore, La cultura degli italiani, a cura di F. Erbani, Laterza, Roma-Bari 2004. Rispetto agli altri paesi, Alfabetizzazione e lettura in Italia e nel mondo, a cura di P. Lucisano, Tecnodid,

233

Napoli 1996, nonché i più recenti dati forniti da S. Trento, Il grado di scolarizzazione: un confronto internazionale, in Rossi, L’istruzione in Italia cit., pp. 43 sgg.

2. L’erosione della memoria. Sull’insensibilità per la storia delle nuove generazioni si sofferma Hobsbawm, Il secolo breve cit., pp. 14 sgg. Sui nessi tra memoria e patrimoni famigliari, J. Le Goff, Storia, in Enciclopedia Einaudi, XIII, Einaudi, Torino 1981, pp. 600 sgg. Questa e altre voci di Le Goff sono state poi raccolte in Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982. La citazione nel testo è di M. L. Salvadori, Le inquietudini dell’uomo onnipotente, Laterza, Bari-Roma, 2003, p. 20. L’uso della storia a scopo di fondazione della supremazia delle grandi gens nella Roma antica era stato segnalato da S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Laterza, Bari 1966, vol. II, t. I, pp. 141 sgg. Per i meccanismi di trasmissione ereditaria in età contemporanea cfr. P. Macry, Ottocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, Einaudi, Torino 1988. La citazione da G. Debord in La società dello spettacolo (1967), Baldini & Castoldi, Milano 1997, prefazione di C. Freccero e D. Strumia, p. 57, che contiene anche i Commentari sulla società dello spettacolo. Un completo asservimento della cultura informativa alla mercificazione coglie anche J. F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 12-3. Per gli effetti negativi, K. R. Popper - J. Condry, Cattiva maestra televisione, introduzione di G. Bosetti, Donzelli, Roma 1995.

3. Il declino dell’avvenire. La citazione di Bloch è in Le Goff, Storia e memoria cit., p. 598 a cui si rinvia anche per lo svolgimento critico di quella asserzione. La frase di M. Heidegger è nello scritto L’attuale situazione della filosofia tedesca e il suo compito per l’avvenire (1934), in Discorsi e altre testimonianze di una vita (1910-76), a cura di H. Heidegger, ed. it. a cura di N. Curcio, il melangolo, Recco 2005, p. 295. Su questo autore, da cui si dipartono non pochi sentieri di critica alla modernità, consiglierei, ai non specialisti come me, un testo di grande fascino, che è insieme una avvincente storia del pensiero filosofico nel XX secolo: R. Safranski, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Longanesi, Milano 1994. Una sintesi acuta più specificamente rivolta al suo filosofare, in G. Steiner, Heidegger, Garzanti Milano, 2002. Sul fenomeno della secolarizzazione: G. Marramao, Cielo e terra: genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994. Per le citazioni di M. Weber, Economia e società. IV, Sociologia politica, Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 76-7 e 76. Per questo aspetto del pensiero di Weber, nel contesto di una vasta ricostruzione della storia della burocrazia, cfr. H. Jacoby, Die Bürokratisierung der Welt, Campus Verlag, Frankfurt-New York 1984, pp. 280-1; di M. Weber si può

234

vedere, per ciò che riguarda la scienza, la conferenza del 1917: cfr. Scienza come vocazione e altri testi di etica e scienza sociale, a cura di P. L. Di Giorgi, presentazione di A. Scivoletto, Franco Angeli, Milano 1996; per le scienze sociali, cfr. Il significato della «avalutatività» delle scienze sociologiche e economiche (1917), in Il metodo delle scienze storico-sociali, introduzione e traduzione di P. Rossi, Einaudi, Torino 1974, pp. 311 sgg. Sul sorgere della tecnoscienza, Latouche, La megamacchina cit., pp. 50 sgg. Sugli effetti della tecnica nella vita quotidiana, un testo anche ricco di bibliografia (prevalentemente in lingua tedesca): L. Hennen, Technisierung des Alltags. Ein handlungstheoretischer Beitrag zur Theorie technischer Vergesellschaftung, Westdeutscher Verlag, Opladen 1992. La citazione nel testo è in F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 4. Su questi aspetti, con posizioni diverse, M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1977; G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1991; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987; nonché l’agile sintesi generale di R. Bodei, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma 1997, pp. 104 sgg. Sul versante dei problemi morali V. Franco, Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Donzelli, Roma 1996. Ma si veda anche un testo che è anche una proposta di morale laica in E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari, 2006. La citazione di R. Bodei è in Il libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995, p. 15, che sviluppa considerazioni sul futuro che qui non si possono riprendere. Il rovesciamento della prospettiva progressista sul futuro è richiamato da A. Placanica, Millennio. Realtà e illusioni dell’anno epocale, Donzelli, Roma 1997, pp. 133-5. Sulla perdita progressiva di sovranità e potere degli Stati nazionali la letteratura è crescente e proviene da più versanti disciplinari. Cfr. S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Bollati Boringhieri, Torino 1992; A. G. A. Valladão, Il XXI secolo sarà americano, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 251 sgg.; P. Engelhard, L’homme mondial. Les societés humaines peuvent-elle survivre?, Arlea, Paris 1996; J. Brecher - T. Costello, Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, Feltrinelli, Milano 1997. Si veda ora, sotto il profilo teorico-giuridico, S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari, 2001; Id., Oltre lo Stato, Laterza, Roma-Bari, 2006. Sulla crescita delle transnational corporations negli ultimi anni, G. Buckman, Global Trade. Past Mistakes, Future Choises, Zed Books, London 2004, pp. 92 sgg. La citazione di F. Chabod è in L’idea di nazione, a cura di A. Saitta e E. Sestan, Laterza, Roma-Bari 1961, p. 51. Sul valore della memoria nella fondazione della nazione pagine «fondative» sono in E. Renan, Che cos’è una nazione? (1882), introduzione di S. Lanaro, Donzelli, Roma 1993, pp. 19 sgg.

235

La citazione di J. Assmann è in La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997, p. XII.

II. La storia-problema 1. Preliminari di un progetto. Sulla necessità di dimenticare si era soffermato Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia cit. Utilizzando Nietzsche da un versante psicologico, ha riflettuto su questo tema A. Oliviero, Ricordi individuali, memorie collettive, Einaudi, Torino 1994. Ma si veda anche J. H. Yerushalmi, N. Loraux, H. Mommsen, J.-C. Milner, G. Vattimo, Usi dell’oblio, Pratiche Editrice, Parma 1990. Sulla superiorità della storia, rispetto alla memoria, in una prospettiva filosofica, P. Rossi, Specializzazione del sapere e comunità scientifica, in La memoria del sapere, a cura di P. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 319 sgg. Per gli usi strumentali, a fine di ritorsione e vendetta, cfr. T. Todorov, Les abus de la mémoire, Arlea, Paris 1995 (Ipermedium, Napoli 1966). Sulle trasformazioni tecniche e sociali cui si fa riferimento nel testo cfr. il mio Lo sviluppo e i suoi limiti, in Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997.

2. La storia dei manuali. Per la storia «controfattuale» cfr. i vari termini del dibattito in R. L. Andreano, La nuova storia economica. Problemi e metodi, Einaudi, Torino 1975. Una proposta di insegnamento della storia moderna è in A. Placanica, Persistenze e mutamento. Lezioni e appunti di storia moderna, I, Uomini ricchezze territori, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1995. Su una impostazione per problemi storiografici si fondano i nuovi manuali Donzelli per l’Università, di cui si veda Storia contemporanea cit. Un quadro sintetico dei mutamenti storiografici recenti in F. Benigno, Storiografia, in Grande dizionario enciclopedico, Appendice 1997, Utet, Torino 1997, pp. 508-11. Una rivista che dal 1995 si occupa, in Italia, di dibattito storiografico è «Storica». Contributi mirati alla didattica della storia sono in A. Brusa, Il programma di storia, La Nuova Italia, Firenze 1991, e S. Guarracino, Guida alla storiografia e didattica della storia: per insegnanti di scuola media e superiore, Editori Riuniti, Roma 1992.

3. Una nuova economia della memoria. Sulle fonti audiovisive e il loro uso storiografico e didattico, N. Tranfaglia, L’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, in «Passato e presente», 1991, 26; G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico, La Nuova Italia, Firenze 1993; M. Flores - N. Gallerano, Introduzione alla storia contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1995, pp. 21-2; L. Ferracin - M. Porcelli, Un video tra i libri: itinerari per un uso dei film in classe, La Nuova Italia,

236

Firenze 1993. Per la fotografia Aa.Vv., Un mondo di foto. L’uso della fotografia nell’insegnamento della storia per le scuole elementari, medie e superiori, in «I viaggi di Erodoto», 1996, 28, Quaderno n. 11. Una felice esperienza di storia regionale condotta sulle immagini è in M. Aymard - G. Barone, Rappresentazioni e immagini della Sicilia, Sciascia, Caltanissetta 2003. Sui processi di dimenticanza da parte delle culture cfr. U. Eco, Ars oblivionis, in «Kos», 1987, 30; P. Rossi, Il passato: la memoria, l’oblio, il Mulino, Bologna 1991; R. Simone, Il futuro nel dimenticare, in Beccaria, Tre più due cit., pp. 132 sgg. Sul rapporto tra cultura classica e i tentativi di stravolgimento degli attuali riformatori si vedano i tanti interventi contenuti in Beccaria, Tre più due cit. Sui rapporti tra didattica e storia antica è spesso intervenuto A. Schiavone, di cui si veda ora La storia spezzata. Roma antica e occidente moderno, Laterza, Roma-Bari 1996. A proposito della centralità e potenza dell’eros in Grecia, L’amore in Grecia, a cura di C. Calame, Laterza, Roma-Bari. Cfr. anche E. Cantarella, Secondo natura: la bisessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988. Per il rapporto tra democrazia e schiavitù nell’antica Atene cfr. E. Meiksins Wood, Contadini-cittadini & schiavi. La nascita della democrazia ateniese, Il Saggiatore, Milano 1994. Avvincente come un romanzo il pur voluminoso C. Meier, Atene. La città che inventò la democrazia e diede un nuovo inizio alla storia, Garzanti, Milano 1996. Sull’ambiguità dello statuto della disciplina e sul fatto che noi conosciamo la «storia della storia» trasmessaci da altri cfr. K. Pomian, L’ordine del tempo, Einaudi, Torino 1992, p. 19. Cfr. anche B. Southgate, History: What & Why? Ancient, Modern, and Postmodern Perspective, Routledge, London-New York 1996, pp. 7 sgg. Sull’uomo che è «divenuto» («der Mensch geworden ist» nell’originale) – in una prospettiva più ampia di quella presa in considerazione nel testo – cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, e Scelta di frammenti postumi, edizione condotta sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1970, p. 16. Per la funzione catartica della storia, B. Croce, La storia come pensiero e come azione (1938), Laterza, Bari 1970, pp. 33-5. A proposito dell’eccesso di informazione, la critica forse più radicale che sia stata mossa all’universo dei media è quella di Debord, La società dello spettacolo cit. Sull’impatto dei media nella scuola si veda M. Loporcaro, Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani, in Beccaria, Tre più due cit., pp. 107 sgg. Una discussione delle varie posizioni relative al dilagare dell’informazione dei nuovi media – che in parte ha a che fare con i problemi qui sollevati – è ora in T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997. Ma su questi temi si veda anche ai successivi paragrafi.

4. Una storia discutibile. I temi indicati in questo paragrafo godono, com’è noto, di una bibliografia

237

sterminata. Cfr. i classici: S. Mazzarino, La fine dell’impero romano, Rizzoli, Milano 1988; M. Bloch, La società feudale (1939-40), Einaudi, Torino 1976. Sulla caduta dell’Impero romano un testo di grande ampiezza, per la molteplicità dei temi trattati e gli autori coinvolti, è Storia di Roma, III, L’età tardoantica, I, Crisi e trasformazioni, a cura di A. Schiavone e A. Momigliano, Einaudi, Torino 1993. Per i temi medievali A. J. Gurevic, Le origini del feudalesimo, prefazione di R. Manselli, Laterza, Roma-Bari 1990, e F. L. Ganshof, Che cos’è il feudalesimo, Einaudi, Torino 1989. Cfr. inoltre R. Ceserani - L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, I, Dall’alto medioevo alla società urbana, Loescher, Torino 1990, pp. 6 sgg. Sulle domande relative alla rivoluzione industriale, cfr. E. J. Hobsbawm, La rivoluzione industriale e l’impero. Dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1972; D. S. Landes, Il Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1978. Un testo molto utile sul tema è quello di V. Castronovo, La rivoluzione industriale, Sansoni, Firenze 1973, con varie edizioni successive. Sulle origini del fascismo cfr. ora N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, Utet, Torino 1995; G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, in Storia d’Italia, IV, Guerre e fascismo, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 101 sgg. Per il problema storiografico in chiave didattica, S. Lupo, Fascismo e nazismo, in Storia contemporanea cit., e, più ampiamente, dello stesso autore, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000, pp. 31 sgg.

III. Il presente e il passato 1. Storici e antiquari. Il racconto di Bloch è in Apologia della storia o mestiere di storico, con uno scritto di L. Febvre, a cura di G. Arnaldi, Einaudi, Torino 1975, p. 54. L’opera in cui Bloch si pose il problema delle forme dei campi al suo tempo è I caratteri originali della storia rurale francese (1931), Einaudi, Torino 1983, con un saggio di G. Luzzatto. Si vedano anche M. Bloch, Storici e storia, a cura di E. Bloch, introduzione di F. Pitocco, Einaudi Torino, 1997 e F. Pitocco, Marc Bloch e dintorni: esercitazioni alla storia, Il centro di ricerca, Roma 2004.

2. L’istituzione del consumismo. Sulla «nascita» del consumismo, J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 49. La citazione di Hoover, ibid., p. 54. La sobrietà protestante, tuttavia, almeno tra gli imprenditori era stata già da tempo sostituita dalla ragione del danaro. Cfr. Valladão, Il XXI secolo cit., pp. 52 sgg. Weber ha del resto ricordato che il lusso – cioè il consumo superfluo – insieme alla guerra è stato una delle leve originarie dello sviluppo capitalistico. Cfr. Storia economica. Linee di una storia

238

universale dell’economia e della società, introduzione di C. Trigilia, Donzelli, Roma 1993, p. 270. Per la ricostruzione della diffusione dell’americanismo debbo molto a S. Gundle, L’organizzazione del quotidiano. Televisione e consumismo nell’Italia degli anni cinquanta, in «Quaderni storici», 1986, 62. Ma si veda ora l’ampia ricostruzione di V. de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006. Della stessa autrice anche La sfida dello «star system»: l’americanismo nella formazione della cultura di massa in Europa, nonché i saggi di P. P. D’Attorre e A. Portelli dedicati agli stessi temi in «Quaderni storici», 1985, 58; M. C. Liguori, Donne e consumi nell’Italia degli anni cinquanta, in «Italia contemporanea», 1996, 205. Cfr. inoltre E. Franzina, L’America, in I luoghi della memoria, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 331 sgg.; P. Ginsborg, Storia d’Italia. Famiglia, società, Stato, Einaudi, Torino 1998, pp. 288 sgg. G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1997, pp. 132 sgg. e R. Ceserani - L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, V, La società industriale avanzata: conflitti sociali e differenze di cultura, Loescher, Torino 1990, pp. 24 sgg. Sulla relativa supremazia americana dopo la guerra, Hobsbawm, Il secolo breve cit., pp. 304, 316 e passim. A proposito dell’americanismo come forma di vita si veda l’osservazione di A. Asor Rosa circa l’attuale coincidere del modo di produzione capitalistico «con un vero e proprio modello “umano naturale”» in Fuori dall’Occidente ovvero ragionamento sull’Apocalisse, Einaudi, Torino 1992, p. 6. Su H. Ford e quella componente fondamentale dell’americanismo che è stato il fordismo, de Grazia, L’impero irresistibile cit. p. 97 sgg. La citazione di G. Simmel è in Saggi di cultura filosofica, Guanda, Parma 1993, p. 33. Questo saggio è stato ripubblicato autonomamente con un rapido profilo di Simmel per mano di G. Lukács: La moda, a cura di G. Perucchi, Se, Milano 1996. La seconda citazione di Simmel è in Saggi di cultura cit., p. 35. Le voci più precoci di critica all’americanismo – provenienti ovviamente da ristretti gruppi intellettuali – sono state quelle degli studiosi che hanno dato vita, fra gli anni trenta e settanta, alla cosiddetta Scuola di Francoforte. Opere come Dialettica dell’illuminismo di M. Horkheimer e T. W. Adorno (1947), Einaudi, Torino 1966 o Minima moralia (1951), di T. W. Adorno, introduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino 1954, hanno avuto vasta eco internazionale. Nel 1968 è stato H. Marcuse, un rappresentante di questa scuola, a conoscere un successo di massa con l’opera L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (1956), Einaudi, Torino 1967. Ovviamente sarebbe impossibile dar conto della vasta letteratura critica che ha fatto seguito a quelle elaborazioni. L’opera di J. K. Galbraith è Il nuovo Stato industriale, Einaudi, Torino 1968, pp. 54 sgg. Sui mutamenti delle imprese capitalistiche negli ultimi venti anni, cfr. D. Cohen, I nostri tempi moderni. Dal capitale finanziario al capitale umano, Einaudi, Torino 2005. Sulle strategie competitive delle industrie farmaceutiche,

239

cfr. B. Commoner, Il cerchio da chiudere, presentazione di G. Nebbia, appendice di V. Bettini, Garzanti, Milano 1986, p. 319. Sulla salute dei cittadini americani affidata al mercato e alla tecnologia, N. Postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 88 sgg. Ma oggi si vedano denunce anche più circostanziate in J. Blech, Gli inventori delle malattie. Come ci hanno convinti di essere malati, Lindau, Torino 2006; J. Law, Big Pharma. Come l’industria farmaceutica controlla la nostra salute, Einaudi, Torino 2006; «L’Ecologist italiano», 2006, n. 4 dedicato a La salute dell’uomo e della natura. La citazione di I. Illich è in La disoccupazione creativa. Un’alternativa desiderabile all’attuale declino delle forme tradizionali d’impiego, Red edizioni, Como 1996, p. 60. Un’analisi ormai classica della società consumistica è in V. Packard, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1962. Sul carattere distruttivo del consumismo attuale cfr. J. Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 1976. Nuove prospettive di ricerca in A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2004, pp. 93 sgg.

3. Il lavoro e le sue metamorfosi. Sulla disoccupazione e la precarietà del lavoro oggi, cfr. L. Gallino, Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino 1998; Id., Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2003; U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino 2000. I. Masulli (a cura di), Precarietà del lavoro e società precaria nell’Europa contemporanea, Carocci, Roma 2004. Un interessante testo generale – non disponibile in lingua italiana – è quello di A. Hayden, Sharing the Work, Sparing the Planet. Worktime, Consuption and Ecology, Zed Books, Toronto 1999. Sulla «spaventosa caccia all’uomo» perpetrata dai Romani nei villaggi dell’Appennino, cfr. G. Salvioli, Il capitalismo antico. Storia dell’economia antica, a cura di A. Giardina, Laterza, Bari 1985, p. 46. Sulla schiavitù nel mondo antico e soprattutto a Roma, M. Mazza, La fatica dell’uomo: schiavi e liberi nel mondo romano, Edizioni del Prisma, Catania 1986; Y. Thébert, Lo schiavo, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 145 sgg. Prima di ricorrere al commercio delle popolazioni africane gli europei praticarono la schiavitù con uomini dell’Islam e di Bisanzio. Cfr. E. R. Wolf, Europe and the People without History, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon 1990, pp. 195 sgg. Sul lavoro nelle piantagioni e la vita familiare cfr. G. Freyre, Padroni e schiavi. La formazione della famiglia brasiliana in regime di economia patriarcale, introduzione di F. Braudel, Einaudi, Torino 1965. Sulla tratta, B. Davidson, Madre nera. L’Africa nera e il commercio degli schiavi, Einaudi, Torino 1966. E ora O. Pétré-Grenouilleau, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, il Mulino, Bologna 2006. L’osservazione sugli schiavi che non erano in grado di riprodursi è in Weber, Storia economica cit., p. 262. Sulle leggi che regolavano il rapporto degli schiavi

240

con le popolazioni indigene a partire dal XVI secolo cfr. L. B. Rout Jr., The African Experience in Spanish America. 1502 to the Present Day, Cambridge University Press, Cambridge 1976, pp. 80 sgg. Sul lavoro schiavile medievale, W. Rosener, I contadini nel medioevo, Laterza, Bari 1987, p. 251 e B. H. Slicher van Bath, Storia agraria dell’Europa occidentale 500-1850, presentazione di R. Romano, Einaudi, Torino 1972, pp. 72-3, 205-7, 219. Sul ruolo giocato dalle città in un’area in cui più precoce è stata l’emancipazione, L. A. Kotel’nikova, Mondo contadino e città in Italia dall’XI al XIV secolo. Dalle fonti dell’Italia centrale e settentrionale, il Mulino, Bologna 1975, introduzione di C. Violante, pp. 143 sgg. Sulla schiavitù e la questione nera negli Stati Uniti, E. D. Genovese, L’economia politica della schiavitù, Einaudi, Torino 1972. Sui persistenti problemi della popolazione nera negli Stati Uniti in prospettiva storica, Bairoch, Victoires et déboires cit., pp. 532 sgg. Le forme di lavoro coatto nel XX secolo (comprese le comuni cinesi) sono state richiamate da C. Ponting, Storia verde del mondo, Sei, Torino 1992, p. 299. Sui lager sovietici e nazisti, in una vasta prospettiva storica, A. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, topologia, a cura di B. Mantelli, Bollati Boringhieri, Torino 1997. Sulla nuova schiavitù oggi e la frase nel testo cfr. K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale (1999), Feltrinelli, Milano 2006, p. 14.

4. L’epopea del lavoro libero. La citazione di Weber è in Storia economica cit., p. 317. Sull’istituto della confessione cfr. W. Sombart, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, presentazione di F. Ferrarotti, Guanda, Parma 1983, p. 183. Sulla differenza, nella produttività del lavoro, fra protestanti e cattolici, dovuto al diverso numero di festività del calendario, K. A. Otto, Die Arbeitszeit! Von der vorindustriellen Gesellschaft bis zur Krise der Arbeitsgesellschaft, Centaurus Verlagsgesellschaft, Pfaffenweiller 1989, p. 38, che riporta una testimonianza del 1773. Sulla progressiva riduzione delle festività religiose e l’aumento delle giornate di lavoro, P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 560-1. Per il ruolo svolto dalla Chiesa nello scandire i tempi quotidiani del lavoro si ricordi il classico J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 1977. Il noto testo di Weber a cui faccio riferimento è L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, introduzione di E. Sestan, Sansoni, Firenze 1965. La citazione relativa ai terrori dei castighi minacciati in chiesa è tratta da una raccolta di T. Buckle riferita da Sombart, Il borghese cit., p. 184. Sulla trasmissione delle idee teologiche delle pene post mortem presso i ceti popolari, J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 1982, p. 157 e sul dominio della paura La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1983, pp. 206 sgg. Anche l’incisione lignea fece parte dell’immaginario terrorifico della morte: J. Huizinga, L’autunno

241

del Medio Evo, introduzione di E. Garin, Sansoni, Firenze 1966, pp. 187 sgg. La citazione di F. Braudel è in Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). Le strutture del quotidiano, Einaudi, Torino 1982, p. 47. La pena applicata ai poveri e ai vagabondi in Olanda è riferita, come una notizia tramandata nella cultura nazionale, da S. Schama, La cultura olandese nel secolo d’oro, il Saggiatore, Milano 1988, pp. 22-3. La citazione di Mantoux è in La rivoluzione industriale. Saggi sulle origini della grande industria moderna in Inghilterra, prefazione di G. Mori, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 478. Sulle 17 ore di lavoro nelle fabbriche tessili tedesche, cfr. Otto, Die Arbeitszeit cit., p. 59. La citazione di Magris è in C. Magris, La storia non è finita. Etica, politica, laicità, Garzanti, Milano 2006, p. 150.

5. Dal fordismo alla società senza lavoro. Su Taylor cfr. F. W. Taylor, Processo a Taylor, a cura di D. De Masi, Edizioni Olivares, Milano 1992. Per una più ampia ricostruzione storica, D. Nelson, Taylor e la rivoluzione manageriale. La nascita dello «scientific management», Einaudi, Torino 1988. Per la mortificazione del lavoro umano nell’industria tayloristica, A. Negri, Il lavoro nel Novecento, Mondadori, Milano 1988, pp. 75 sgg. A Negri si deve anche l’ampia raccolta storica, Filosofia del lavoro. Storia antologica, Marzorati, Milano 1980-81, 7 voll. Una prospettiva storica utilizzabile in termini didattici è in G. De Luna, P. Ortoleva, M. Revelli, Lavoro, in Aa.Vv., Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, I, Percorsi di lettura, La Nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 158 sgg. Sull’irreggimentazione delle persone entro ritmi temporali meccanici cfr. E. Zerubavel, Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, il Mulino, Bologna 1985. Molti stimoli a considerare gli aspetti biologici dell’uomo storico sono in E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Garzanti, Milano 1992, presentazione di B. Commoner; P. Bevilacqua, Ecologia del tempo. Note di storia ambientale, in «Contemporanea», 2005, 3. La citazione di A. Gramsci è in Americanismo e fordismo, introduzione e note di F. De Felice, Einaudi, Torino 1978, p. 60. La critica all’inevitabilità storica del gigantismo industriale è stata avanzata da vari versanti disciplinari: cfr. J. Radkau, Technik in Deutschland. Vom 18. Jahrhundert bis zur Gegenwart, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989, pp. 27 sgg.; E. F. Schumacher, Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mondadori, Milano 1978. La notazione di I. Illich è in Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Red Edizioni, Como 1992, p. 28. Per i problemi storici dell’ambiente sono a disposizione del pubblico italiano la vasta sintesi di Ponting, Storia verde del mondo cit.; J. R. McNeil, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino 2002; Bevilacqua, La Terra è finita cit. Sul fordismo alla Fiat, cfr. M. Revelli, Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano 1989; G. Berta,

242

Conflitto industriale e sistema d’impresa. L’esperienza della Fiat, in «Meridiana», 1993, 16. Sull’opposizione al lavoro alienato e dispotico negli anni sessanta, Negri, Il lavoro cit., pp. 110 sgg. Sulle lotte operaie in quel decennio, D. Albers, W. Goldschmidt, P. Oehlke, Lotte sociali in Europa. 1968-1974. Francia, Gran Bretagna, Repubblica federale tedesca, prefazione di S. Garavini, Editori Riuniti, Roma 1976. Una buona sintesi generale è in M. Kranzberg - J. Gies, Breve storia del lavoro, a cura di G. Canavese e U. Livini, Mondadori, Milano 1991. Sul toyotismo cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota, introduzione di M. Revelli, Einaudi, Torino 1993. Per una versione italiana del modello giapponese di produzione dell’auto cfr. D. Cersosimo, Viaggio a Melfi, Donzelli, Roma 1994 nonché il n. 21 di «Meridiana», 1994, dedicato allo stabilimento Fiat in quel centro. Sul passaggio dal fordismo al post-fordismo, con enfasi soprattutto sulla nuova flessibilità delle piccole e medie imprese, M. J. Piore - C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale. Produzione di massa e produzione flessibile, presentazione di M. Merlino e L. Strambio de Castilla, prefazione di A. Bagnasco, Isedi-Petrini, Torino 1987. Più utilizzabile, A. Marchetti, Tra Ford e Toyota. Mutamento tecnologico e organizzazione del lavoro, in «I viaggi di Erodoto», 1994, 24. Una rassegna sulle attuali condizioni in P. Barrucci, Fattore lavoro e qualità totale. Tra innovazioni tecnologiche e mutamenti organizzativi, Arti Grafiche Favia, Bari 1996. Sulla «macchina a controllo numerico», Rifkin, La fine del lavoro cit., p. 122. Per il passaggio dalla manifattura alla macchinofattura, Negri, Il lavoro cit., p. 20. Per lo sviluppo dell’informatica, Rifkin, La fine del lavoro cit., pp. 114 sgg. I dati sulla disoccupazione, oltre che in quest’ultimo autore (p. 131) e nelle note del precedente paragrafo, sono in Lavoro e non lavoro. Analisi, controversie e questioni aperte, a cura di D. Cersosimo, presentazione di G. Pierino, Meridiana Libri, Roma-Catanzaro 1996; G. Pauli, Svolte epocali. Il business per un futuro migliore, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 142; Brecher - Costello, Contro il capitale globale cit., p. 39. D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma Bari 2004, p. 42. Le cifre relative all’aumento della produttività e alla diminuzione del lavoro in A. Gorz, Il lavoro debole. Oltre la società salariale, Edizioni Lavoro, Roma 1994. Per i tempi del lavoro agricolo cfr. C. Formica, Geografia dell’agricoltura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, p. 91. I calcoli relativi ai tempi di lavoro in Francia e negli Stati Uniti sono di J. Fourastié, Lavoro, in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1978, III, p. 940. Sulla contraddizione del nostro tempo «troppe merci poco lavoro», cfr. G. Lunghini, L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 8; U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino 2000. Sul carattere distruttivo del lavoro contemporaneo, costretto a servire un consumo distruttivo, R. A. Rozzi, Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, il Mulino, Bologna 1997, pp. 26 sgg. Sulla necessità di diminuire il tempo di lavoro,

243

G. Mazzetti, Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1997. Sull’etica del lavoro in età contemporanea A. Accornero, L’ideologia del lavoro, il Mulino, Bologna 1980, di cui si può vedere una sorta di bilancio secolare in Era il secolo del lavoro, il Mulino, Bologna 1997. Sul capitalismo attuale, L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005. Sulla subordinazione delle istituzioni pubbliche alla logica delle imprese – tra tanta bibliografia – molto utile è Zolo, Globalizzazione cit. Sull’etica del lavoro e i conflitti psicologici che essa genera oggi, cfr. Bauman, Lavoro consumismo e nuove povertà cit., pp. 43 sgg.

6. Stato e Stato sociale. Sullo Stato in generale – che gode di una letteratura sterminata – può essere utile il testo di M. Capurso, Che cos’è lo Stato, Eri, Roma 1966, contenente anche un utile Dizionario antologico (pp. 165 sgg.); A. Messeri, Il problema del potere nella società occidentale, Sansoni, Firenze 1973; e ora N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna 1997. Una recente Storia dello Stato italiano dall’unità a oggi è quella a cura di R. Romanelli, Donzelli, Roma 1995. La citazione di B. de Jouvenel è in Del potere. Storia naturale della sua crescita, Sugarco, Milano 1972, p. 33. Sulle vicende generali dello Stato sociale un’ottima ricostruzione storica è quella di G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, con un capitolo finale di L. Gaeta e A. Viscomi, prefazione di P. Pombeni, Laterza, Roma-Bari 1996. Sul piano Beveridge, in una ricostruzione storica generale dello «Stato provvidenza», cfr. Bairoch, Victoires et déboires cit., pp. 465 sgg. A mettere in evidenza in maniera specifica gli effetti di disgregazione sociale prodotti dall’immissione del lavoro nelle regole del mercato è stato, a partire dagli anni quaranta, K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), introduzione di A. Salsano, Einaudi, Torino 1974, pp. 210 e passim. Analoga posizione da una prospettiva di storia del potere burocratico è in Jacoby, Die Bürokratisierung cit., p. 279. Così anche Gorz, Metamorfosi del lavoro cit., p. 147. Una sintesi storica, che tiene conto delle varie posizioni teoriche a livello internazionale, è quella di E. Bartocci, Alle origini del welfare state, in Aa.Vv., Il welfare italiano. Teorie, modelli e pratiche dei sistemi di solidarietà sociale, a cura di V. Cotesta, introduzione di G. Barbero, Donzelli, Roma 1995. Su un aspetto particolare, quello dell’infanzia in Germania, cfr. E. R. Dickinson, The Politics of German Child Welfare from the Empire to the Federal Republic, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996. L’opera di J. O’Connor è La crisi fiscale dello Stato (1973), prefazione di F. Caffè, Einaudi, Torino 1979. Per le posizioni liberiste cfr. M. e R. Friedman, Liberi di scegliere, Tea, Milano 1994, presentazione di S. Ricossa. I dati dell’Onu sugli squilibri sociali in Rapporto sullo sviluppo umano, VII, Il

244

ruolo della crescita economica, Rosenberg e Sellier, Torino 1996, pp. 14 e 29. Sui problemi sociali degli Stati Uniti, cfr. Brecher - Costello, Contro il capitale globale cit., pp. 34 sgg.; Rifkin, La fine del lavoro cit., pp. 282-4. La citazione di Sen è in A. K. Sen, La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 27-8. Più estesamente E. Wolff, Top Heavy. A Study of the Increasing Inequality of Welfare in America, Twentieth Century Fund Press, New York 1995. I dati sugli elettori sono forniti da A. Clymer, Class Warfare? The Rich Win by Default, in «The New York Times», 11 agosto 1996. Assai istruttivo l’articolo di M. De Cecco, Lavoro. Il trucco americano, in «la Repubblica», 7 luglio 1997. Cfr. Anche W. Hutton, Europa vs. Usa. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa, Fazi, Roma 2003, pp. 170 sgg. Sulla Gran Bretagna, S. Horrel - J. Rubery, Politiche liberiste ed aumento della diseguaglianza nell’esperienza inglese, in La distribuzione dei redditi familiari in Europa, a cura di G. Wolleb, il Mulino, Bologna 1991, pp. 213 sgg. e ora Bairoch, Victoires et déboires cit., p. 537, che riporta anche un quadro statistico sulle tendenze negli Stati europei (p. 535). In una prospettiva storica, ma con competenze esclusivamente economiche, P.-N. Giraud, L’inegalité du monde. Èconomie du monde contemporaine, Gallimard, Paris 1996. Un quadro generale più aggiornato è in P. Hossay, Unsustainable. A Primer for Global Environmental and Social Justice, Zed Books, London 2006.

IV. Locale e universale 1. Itaca e il mondo. Il testo di C. Ginzburg è Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1976. Sui temi della microstoria numerosi dibattiti sono stati ospitati dalla rivista «Quaderni storici». Si vedano, ad esempio, i nn. 35, 39, 45. Le posizioni di alcuni dei protagonisti in Il piccolo, il grande, il piccolo, intervista a G. Levi, in «Meridiana», 1990, 10; C. Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, in Id., Il filo e le tracce. Vero, falso, giusto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 241 sgg. Nel quadro di una discussione più generale sulla storia sociale negli ultimi decenni, A. Banti, La storia sociale: un paradigma introvabile?, in Aa.Vv., La storiografia sull’Italia contemporanea, Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro, a cura di C. Cassina, Giardini editori, Pisa 1991, pp. 183 sgg. Sui problemi della democrazia oggi si vedano le fini osservazioni di P. Ginsborg, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino 2006. I dati sui diboscamenti e le foreste in UNDP sono in Rapporto sullo sviluppo cit., p. 32; Ponting, Storia verde cit, pp. 285-6. Sulla diminuzione delle lingue nel mondo, Pauli, Svolte epocali cit., p. 19, fornisce alcuni dati, che paiono non credibili. Il problema è oggi controverso: cfr. G. Sassi, Sono diecimila le lingue al

245

mondo e godono (quasi tutte) ottima salute, in «L’Unità», 23 luglio 1997. Sull’impoverimento prodotto dal linguaggio scientifico per i nomi delle piante, dei fiori ecc. K. Thomas, Man and the Natural World. Changing Attitudes in England, 1500-1800, Penguin, London 1984, pp. 70 sgg. (L’uomo e la natura. Dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente. 1500-1800, Einaudi, Torino 1990). Sul processo di progressiva uniformizzazione culturale, Latouche, L’occidentalizzazione del mondo cit. L’autore che aveva denunciato precocemente il processo di omologazione culturale in Italia è stato, com’è noto, P. P. Pasolini: cfr. Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976 e Scritti corsari, prefazione di A. Berardinelli, Garzanti, Milano 1990. Da un’altra prospettiva Asor Rosa, Fuori dall’Occidente cit. Per quanto riguarda il territorio, una nuova corrente di studi filosofici, la cosiddetta geofilosofia, sta investendo con una critica radicale i processi di omologazione tecnologica in atto. Cfr. C. Resta, 10 tesi di geofilosofia e L. Bonesio, Cartografie della catastrofe, in Appartenenza e località. L’uomo e il territorio. Atti degli incontri di geofilosofia, a cura di L. Bonesio, Società Editrice Barbarossa, Milano 1996; L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997. La rivista che tratta tali temi è «Tellus». Un testo fondativo in materia è quello di M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994. Sul paesaggio agrario cfr. «Annali dell’Istituto A. Cervi», 1988, 10, dedicato agli Studi sul paesaggio agrario in Europa; P. Bevilacqua, Tra Europa e mediterraneo. L’organizzazione degli spazi e i sistemi agrari, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I, Spazi e paesaggi, a cura di P. Bevilacqua, Marsilio, Venezia 1989. Per la vicenda degli ulivi e del commercio dell’olio: P. Bevilacqua, Il Mezzogiorno nel mercato internazionale, in «Meridiana», 1987, 1; Id., Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli, Roma 1996, pp. 187 sgg. A questo testo si rinvia a proposito delle risaie nella Valle padana (pp. 39 sgg.). Sul carattere geneticamente «municipale» della democrazia nei tempi moderni, cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, traduzione e prefazione di G. Candeloro, Cappelli, Bologna 1982, pp. 76 sgg. Su un uso cruento della memoria (la guerra nell’ex Jugoslavia), cfr. L. Bonanate, Etnie: guerre e confini e N. Janigro, Questione jugoslava, in «I viaggi di Erodoto», 1994, 22. Su patria e identità, Magris, La storia non è finita cit., pp. 156 sgg. Sugli effetti «spaesanti» dei media cfr. J. Meyrowitz, No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior, Oxford University Press, OxfordNew York 1985. Sui mutamenti relativi al controllo del territorio (la «fine del territorio giacobino»), S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 121 sgg. Per gli scenari e i dilemmi, cfr. Lo strabismo telematico. Contraddizioni e tendenze della società dell’informazione, a cura di F. Di Spirito, P. Ortoleva, C. Ottaviano, Utet, Torino 1996; Maldonado, Critica della ragione informatica cit. Sulla nazione come realtà di culture materiali prima dell’Unità cfr. R. Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità, Donzelli, Roma 1994. Si veda anche il

246

contributo di F. Ferrarotti, L’Italia tra storia e memoria. Appartenenza e identità, Donzelli, Roma 1997. Sulla nazione contemporanea E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1991; G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione: fra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993. S. Lanaro, Patria: circumnavigazione di una idea controversa, Marsilio, Venezia 1996. Alcuni dei problemi affrontati in questo paragrafo trovano molteplici trattazioni negli atti del convegno Novecento. Teoria e storia del XX secolo, ora in «I viaggi di Erodoto», 1994, 22. Su patria e identità, Magris, La storia non è finita cit., pp. 156 sgg. Sul trasferimento della banana e del mais in Africa dall’Asia e dall’America, cfr. A. Pacey, Technology in World Civilization, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1990, pp. 13, 62, 201. Su lingue e dialetti, T. De Mauro - M. Lodi, Lingua e dialetti, Editori Riuniti, Roma 1979. Per la vicenda dell’ingresso del baccalà in area mediterranea, cfr. F. Birri - C. Coco, Nel segno del baccalà. Dai mari del nord alla tavola italiana. Curiosità, storia e ricette di un piatto tipico e tradizionale, Marsilio, Venezia 1997. Sulla crisi della figura di Ulisse e del mito del «ritorno a casa» pagine finissime sono in C. Magris, Itaca e oltre, Garzanti, Milano 1982 (e successive edizioni) pp. 44-8 e passim. Una riflessione suggestiva su patria, esilio, conoscenza – in una prospettiva diversa da quella di chi scrive – è in T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», nota introduttiva di P. L. Crovetto, Einaudi, Torino 1992, pp. 302-3, di cui si veda anche L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli, Roma 1997. Tra la fine del XX secolo e il 2001 sono stati pubblicati vari volumi di Storie regionali italiane, pensate per la scuola, a cura di F. Benigno e B. Salvemini, presso l’editore Laterza.

2. Il territorio: un libro aperto. In generale, sul territorio italiano, cfr. L. Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia Einaudi, I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972; «Meridiana», 1990, 10, dedicato a questo tema; L. Bortolotti, Storia, città e territorio, Franco Angeli, Milano 1993. Alcuni contributi di carattere teorico in P. Tizon, Qu’est-ce que le territoire? e G. Di Meo, Á la recherche des territoires du quotidien, in Les Territoires du quotidien, a cura di G. Di Meo, L’Harmattan, Paris 1996. Da una prospettiva ambientalista, Aa.Vv., Medio ambiente y ordenaciòn del territorio, Universidad de Valladolid, Salamanca 1993. L’articolo di L. Gambi è La memoria nella tutela del paesaggio, in «Parolechiave», 1995, 9, dedicato a La memoria e le cose. La corrispondenza fra gli insediamenti e gli assi viari di età romana e il moderno paesaggio dell’Europa è illustrata da C. T. Smith, Geografia storica d’Europa. Dalla preistoria al XIX secolo, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 108 sgg. Sul territorio italiano come costruzione artificiale secolare, cfr. P. Bevilacqua -

247

M. Rossi Doria, Le bonifiche in Italia dal ’700 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1994; P. Bevilacqua, Acque e Stati: le bonifiche, in Aa.Vv., Vita civile degli italiani. Società, economia, cultura materiale. Ambiente e società alle origini dell’Italia contemporanea (1700-1850), a cura di L. Gambi, Electa, Milano 1990. Sul versante didattico, P. Cammarosano, Le dimensioni umane della geografia storica, in «I viaggi di Erodoto», 1993, 19; A. Brusa, Sapere storico e sapere geografico, in «I viaggi di Erodoto», 1988, 4. Sull’insensibilità degli italiani, P. Bevilacqua, Sull’impopolarità della storia del territorio in Italia, in P. Bevilacqua - P. Tino (a cura di), Natura e società. Studi in memoria di A. Placanica, Donzelli, Roma 2005. I dati sul fabbisogno di legna sono in P. Malanima, Energia e crescita nell’Europa preindustriale, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, p. 58. Sulle città, ricordo la collana Le città nella storia d’Italia curata presso Laterza da C. De Seta. Cfr. E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari, 1998. Sotto il profilo didattico, G. Di Benedetto - G. Fanelli, La struttura urbana, in Aa.Vv., Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca cit., II, Questioni di metodo, pp. 1265 sgg.; M. R. Pardi, La città come laboratorio di storia, in «I viaggi di Erodoto», 1990, 12, nonché il Quaderno dei «Viaggi di Erodoto», 1994, 7. Sull’urbanistica di questo dopoguerra, una grande pagina di denuncia civile è quella di A. Cederna, I vandali in casa (1956), a cura di F. Erbani, Laterza, Bari 1956. Cfr. anche, con attenzione soprattutto a Napoli e Roma, C. De Seta, Città, territorio e Mezzogiorno in Italia, Einaudi, Torino 1977; V. De Lucia, Se questa è una città (1989), introduzione di P. Bevilacqua, prefazione di A. Cederna, Donzelli, Roma 2006; E. Aureli Cutillo - F. Mignella Calvosa, Abitare a Roma. Urbanizzazione e crescita urbana, Franco Angeli, Milano 1989. Sulla piazza cfr. A. Placanica, La piazza come spazio fisico e come allusione sociale, nonché i contributi di altri autori, in La piazza nella storia: eventi, liturgie, rappresentazioni, a cura di D. Scafoglio e M. Vitale, Esi, Napoli 1995. Su come conservare le piazze d’arte è intervenuta efficacemente M. Barracco, Per combattere i barbari torniamo alla cultura della piazza, in «Corriere della Sera», 28 agosto 1997. Quale luogo reale e simbolico della storia italiana, si veda M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994. Sull’homo currens del nostro tempo Cassano, Il pensiero meridiano cit., pp. 51 sgg. Sulle iniziative di abbattimento di edifici in Europa (Lione, Glasgow, Monaco) cfr. A. Pinchera, Il piacere di demolire, in «Eco. La nuova ecologia», 1995, 3. Ma cfr. anche gli atti del convegno dell’Università di Roma «La Sapienza», Progetto della sottrazione, Palombi, Roma 1997. L’opera di W. Benjamin – tesa a mostrare la fruibilità di massa dell’arte nell’età contemporanea – è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966. Sul patrimonio culturale italiano e le minacce che esso deve

248

fronteggiare, cfr. S. Settis, Italia S.P.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002.

3. Noi e gli altri. Le riflessioni di Polanyi sono in La grande trasformazione cit., pp. 202-5. Sul valore delle istituzioni si è ora soffermato C. Donolo, L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano 1997. Sulla realtà dell’immigrazione una panoramica internazionale, con ampi sfondi storici, è in E. Todd, Le destin des immigrés. Assimilation et segregation dans les démocraties occidentales, Editions du Seuil, Paris 1994. Ma oggi la bibliografia in materia è diventata vastissima. Per i contributi di tipo pedagogico, cfr. K. P. Fritzsche, Xenofobia, una sfida per l’educazione, nonché i vari contributi di D. Petrosino in «I viaggi di Erodoto», 1993, 20-21; M. Antonello, P. P. Eramo, M. Polacco, Le voci dell’altro. Materiali per una educazione alla differenza, Loescher, Torino 1995. L’enigma del successo spagnolo – spiegato con le capacità militari, l’ardimento degli spagnoli e le divisioni interne degli sconfitti – lo aveva riproposto già W. H. Prescott nel classico La conquista del Messico, Einaudi, Torino 1970, II, pp. 578-9. Ma sulle ragioni culturali e psicologiche della sconfitta degli Aztechi – sul loro modo simbolico-rituale di concepire la guerra – già aveva richiamato l’attenzione G. C. Vaillant, La civiltà azteca (1941), Einaudi, Torino 1992, pp. 200 sgg. Ma ora è ritornato sulle ragioni culturali T. Todorov, Le morali della storia, Einaudi, Torino 1995, pp. 42 sgg.; Id., La conquista dell’America cit. Sulla conquista come genocidio cfr. la drammatica testimonianza di un contemporaneo, B. De Las Casas, Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie (1552), a cura di P. Collo, Cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1991. Il punto di vista degli sconfitti in M. L. Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya, e inca, Adelphi, Milano 1994. Sulle terribili pandemie che sconvolsero la vita delle popolazioni indigene A. W. Crosby, Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492, Einaudi, Torino 1992, pp. 27 sgg. Più in generale, Id., L’espansione biologica dell’Europa, Laterza, Roma-Bari 1988. Sul tracollo demografico nel Messico e in Perù, M. Carmagnani, L’America Latina dal ’500 a oggi. Nascita, espansione e crisi di un sistema feudale, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 26-7 e Braudel, Civiltà materiale cit., p. 7. Una riconsiderazione più circostanziata dei fenomeni demografici è in M. Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios, il Mulino, Bologna 2005. Le considerazioni sul territorio del mondo utilizzato per la crescita europea sono in A. W. Crosby, Ecological Imperialism: The Overseas Migration of Western Europeans as a Biological Phenomenon, in The Ends of the Earth. Perspectives on Modern Environmental History, a cura di D. Worster, Cambridge University Press, Cambridge 1988, pp. 104 sgg.; Ponting, Storia verde del mondo cit, pp. 270 sgg. Sulla carne e sul grano argentini provenienti dalle pampas cfr. J. R. Scobie, Revolution on the Pampas. A Social History of Argentina Wheat, 1869-1910, University of Texas Press, Austin 1964,

249

pp. 4 e 43. Il conflitto tra le pretese della Banca mondiale e le conseguenze ambientali sui paesi in via di sviluppo cfr. M. Wöhlcke, Der ökologische Nord-Süd Konflikt, Beck, München 1993, pp. 32-3. Ma più ampiamente ancora Ponting, Storia verde cit., pp. 376 sgg. e ora Contro il capitale globale cit., pp. 77 sgg. Sulla situazione economico-sociale del Terzo Mondo in prospettiva novecentesca, Bairoch, Victoires et déboires cit., pp. 633 sgg. Sulle disuguaglianze create dall’Occidente, J. E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002; sul meccanismo con cui il pagamento del debito strozza le economie dei paesi poveri un’analisi appassionata è quella di J. Ziegler, L’impero della vergogna, Tropea, Milano 2006, pp. 60 sgg. Un’affascinante riflessione sul rapporto tra culture, identità e povertà è in M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 200. Sull’imposizione di modelli nazionali all’Africa, cfr. Latouche, L’occidentalizzazione cit., pp. 81 sgg. In prospettiva storica, B. Davidson, L’Africa nel mondo contemporaneo: in cerca di una nuova società, Sei, Torino 1987. Per la formazione dello stereotipo dell’Oriente – e l’uso ideologico del concetto di Occidente – E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Sulla formazione dell’immagine degli altri popoli già al momento dell’infanzia, M. Ferro, Comment on raconte l’histoire aux enfants, Payot, Paris 1992. Una rivista che tratta tali temi, in Italia, è «Da qui. Rivista di letteratura arte e società fra le Regioni e le Culture mediterranee». Per la didattica: G. Calchi Novati, Postcolonialismo, in «Viaggi di Erodoto», 1994, 22; Flores - Gallerano, Introduzione alla storia cit., pp. 276 sgg. Le informazioni sugli errori dell’intervento in Africa sono in Pacey, Technology in World Civilization cit., pp. 196 sgg. La citazione da Latouche è in L’occidentalizzazione cit., p. 56.

V. La storia e il racconto 1. L’evento e la replica. L’affermazione di G. Duby è in Scrivere storia, in La scrittura e la storia. Problemi di storiografia letteraria, a cura di A. Asor Rosa, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 44. La riproposta della storia narrativa è venuta da L. Stone, The Revival of Narrative: Reflections on a New Old History, in «Past and Present», 1979, 85, che ha suscitato un lungo dibattito. Una riflessione attenta alla storiografia del mondo antico è in L. Canfora, Aspetti e problemi della narrazione storica, in Aa.Vv., Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, II cit., pp. 861 sgg. B. Croce scrisse il saggio La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in «Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli», 1893, t. XXIII. Per i prestiti intellettuali di tale concetto da Labriola, cfr. N. Siciliani De Cumis, Laboratorio Labriola. Ricerca, didattica, formazione, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 191 sgg.

250

Sulla tecnica e il suo potere crescente si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999. Sulla concezione del tempo ciclico e lineare si sofferma Pomian, L’ordine del tempo cit., pp. 56 sgg. Per la visione del tempo storico Braudel cfr. F. Braudel, Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1973, introduzione di A. Tenenti. Su Durkheim, e più specificamente sulla nozione di anomia, A. Izzo, Anomia. Analisi e storia di un concetto, Laterza, Roma-Bari 1996. L’allusione all’opera di G. Simmel riguarda Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Utet, Torino 1984, pp. 610 sgg. Cfr. anche Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, a cura di T. Maldonado, Feltrinelli, Milano 1991. Sul pensiero di Simmel e di altri intorno al tema della metropoli, M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffer e Simmel, Officina edizioni, Roma 1973. Una ricostruzione delle diverse forme di reazione intellettuale alla modernità è in A. Asor Rosa, Avanguardia, in Enciclopedia Einaudi, II, pp. 195 sgg. Più attento al versante della cultura letteraria, M. Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna 1985. Sull’inizio delle nevrosi legate al lavoro, a fine Ottocento, cfr. Radkau, Technik in Deutschland cit., p. 226. Questo studioso ha avviato studi specifici sul tema: cfr. Technik, Tempo, und nationale Nervosität. Die Jahrhundertwende als Zäsur im Zeiterleben, in Ökologie der Zeit. Vom Finden der rechten Zeitmaße, a cura di M. Held e K. A. Geißler, Hirzel, Stuttgart 1993. Da qualche tempo, in Germania, il pensiero ambientalista sta esplorando i nuovi territori del vivere urbano. Cfr. Von Rhythmen und Eigenzeiten. Perspektiven einer Ökologie der Zeit, a cura di M. Held e K. A. Geißler, Hirzel, Stuttgart 1995. La riflessione della Arendt è in H. Arendt, Tra passato e futuro, introduzione di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, pp. 74 sgg. Sotto il profilo storico, cfr. F. Chatelet, La nascita della storia. La formazione del pensiero storico in Grecia, Dedalo, Bari 1995. La Arendt ha posto al centro della propria riflessione la differenza fra il lavoro, l’opera e l’azione (cioè, essenzialmente, l’agire politico) sottolineando la ciclicità del lavoro: cfr. Vita activa. La condizione umana, introduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1994, p. 70. Cfr. anche P. Flores d’Arcais, Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Donzelli, Roma 1995. Sul lavoro che ha conservato a lungo la sua macchia servile nella cultura occidentale, Le Goff, Tempo della chiesa cit., p. 152.

2. La natura nella storia. Sulle origini dell’agricoltura cfr. F. Giusti, La nascita dell’agricoltura. Aree, tipologie, modelli, Donzelli, Roma 1996. Ma si veda anche P. Bevilacqua, Tra Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia, Donzelli, Roma 2001. Il riferimento al cerchio che non si chiude riguarda l’opera di Commoner, Il cerchio da chiudere cit. La citazione riportata nel testo è a p. 101. I dati sui rifiuti in

251

Europa sono in C. Hey, Umweltpolitik in Europa. Fehler, Risiken, Chancen, Beck, München 1994, p. 103. Per lo scarico di materiale radioattivo nell’Atlantico, a partire dal 1949, cfr. F. G. T. Holliday, The Dumping of Radioactive Waste in Deep Ocean: Scientific Advice and Ideological Persuasion, in The Environment in Question. Ethics and Global Issues, a cura di D. E. Cooper e J. A. Palmer, Routledge, London-New York 1992, pp. 51 sgg. In Ponting, Storia verde del mondo cit., p. 234, è l’informazione sul consumo energetico degli Stati Uniti. Per il Novecento e relativa bibliografia, cfr. McNeil, Qualcosa di nuovo cit.; S. Neri Serneri, Incorporare la natura. Storie ambientali del Novecento, Carocci, Roma 2005; Bevilacqua, La Terra è finita cit. Sulla storiografia, M. Armiero - S. Barca, Storia dell’ambiente. Un’introduzione, Carocci, Roma 2004. Cfr. anche, per gli aspetti didattici, G. Deiana, Per una storia «ecologica», in «I viaggi di Erodoto», 1990, 12. Uno strumento utile a tal fine è anche la rivista «I frutti di Demetra. Bollettino di storia e ambiente» giunta al terzo anno di pubblicazione. Per la pluridisciplinarità che l’ecologia comporta si veda la voce Ecologia – scritta significativamente da quattro autori – nell’Enciclopedia Einaudi, 1977, V, pp. 393 sgg. Un autore pluridisciplinare è E. Tiezzi, Il capitombolo di Ulisse: nuova scienza, estetica della natura, sviluppo sostenibile, Feltrinelli, Milano 1991. Sugli effetti della concimazione chimica, P. Bevilacqua, La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea, Donzelli, Roma 2002. Sui problemi relativi alle responsabilità individuali legate al consumo cfr. H. Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Donzelli, Roma 1996, prefazione di P. Bevilacqua, pp. XXIII sgg. e pp. 67 sgg. È di Immler la riflessione sugli effetti degli spray (p. 72). Una proposta di nuova etica è quella di H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.

3. Il racconto del potere. Sulla creatività della politica, cfr. Arendt, Vita activa cit. L’opera di R. De Felice è iniziata con il volume Mussolini, I, Il rivoluzionario (1883-1920), prefazione di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1965 e si è conclusa con il testo, pubblicato postumo, Mussolini l’alleato, II, La guerra civile 1943-45, Einaudi, Torino 1997. Per gli effetti sociali delle «grandi reti», cfr. A. Gras, Nella rete tecnologica. La società dei macrosistemi, introduzione all’edizione italiana di M. Nacci e P. Ortoleva (ricca di informazioni sulla letteratura), Utet, Torino 1997. Gli effetti della tecnica sulla vita quotidiana sono stati studiati dalla sociologia, soprattutto tedesca: cfr. Hennen, Technisierung des Alltags cit. (con ampia bibliografia). Sul rapporto fra mutamenti sociali, riflessione intellettuale, produzione artistica ricca documentazione didattica cfr. Ceserani - De Federicis, Il materiale e l’immaginario cit., V, pp. 180 sgg., 241 sgg., 264 sgg. La definizione di storia come «disciplina del contesto» è in E. P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di

252

antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1981, pp. 258 e passim. Sui poteri locali, cfr. «Meridiana», 1988, 2 e 4, e ora P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995), La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997. P. Dogliani O. Gaspari (a cura di), L’Europa dei comuni, Donzelli, Roma 2003.

4. La verità della storia. La citazione di K. Kraus è in Gli ultimi giorni dell’umanità. Tragedia in cinque atti con preludio ed epilogo (1926), a cura di E. Braun e M. Carpitella con un saggio introduttivo di R. Calasso, Adelphi, Milano 1990, p. 9. B. Croce aveva sottolineato l’inevitabilità del giudicare nella conoscenza storica: cfr. La storia come pensiero e come azione cit., pp. 23, 35-6, 138. Sulle affinità della storia con le scienze esatte già Bloch, Apologia della storia cit., p. 33. Per un’idea della relatività della conoscenza scientifica che gli scienziati già esprimevano ai primi del Novecento, cfr. le riflessioni di H. Poincaré riferite da E. Garin, Bancarotta della scienza e rinascita dell’idealismo (notarella erudita), in Aa.Vv., Studi in onore di Giovanni Mastroianni, in «Bollettino filosofico», 1992, 10, p. 162. A proposito di letteratura e conoscenza storica (e più in generale sui problemi della verità storica) cfr. Ginzburg, Il filo e le tracce cit., pp. 167 sgg. e passim. Occorre anche considerare casi particolari. Ci sono scrittori, ad esempio, che riescono a ricostruire vicende, luoghi, fatti con metodo e rigore storiografico, e sono capaci, al tempo stesso, di far rivivere atmosfere, emozioni, stati d’animo normalmente introvabili nelle ricostruzioni storiche convenzionali. È il caso esemplare del Danubio di C. Magris, Garzanti, Milano 1986 e successive edizioni. La citazione da H. Arendt è in Tra passato e futuro cit., p. 79. La citazione da T. Todorov in Le morali della storia cit., p. 291. Sulla inevitabilità della selezione, anche nel registrare in maniera integrale gli eventi della vita quotidiana, cfr. Pomian, L’ordine del tempo cit., pp. 12-3. L’esempio dell’Ulisse di Joyce è evocato da Southgate, History cit., p. 64. Sui problemi dell’obiettività della storia politica cfr. il mio Storia della politica o uso politico della storia?, in «Meridiana», 1988, 3. Da un punto di vista di epistemologia della storia si veda E. Castelli Gattinara, Le nuvole del tempo, Cisu, Roma 2006. L’opera di C. Pavone è Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Sull’Olocausto cfr. G. Gozzini, La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo sterminio nazista, Bruno Mondadori, Milano 1996; M. Salvati, Il Novecento, in ’900. I tempi cit., pp. 22 sgg. La più significativa posizione di svalutazione del ruolo storico dell’antifascismo è stata tenuta da R. De Felice, da ultimo con Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995, su cui cfr. le acute osservazioni di G. Turi, Rosso e nero, rien ne va plus, in «Passato e presente», 1996, 37. Si vedano anche N. Gallerano, Antifascismo, Resistenza, identità nazionale, in «Passato e presente»,

253

1995, 36; L. Paggi, Le ragioni politiche del revisionismo storiografico, in Antifascismi e Resistenze, a cura di F. De Felice, Annali dell’Istituto Gramsci, Roma 1997, VI, p. 517 (un testo ricco di contenuti aggiornati di respiro internazionale). Sulle posizioni storiografiche, R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1969; N. Tranfaglia, Labirinto italiano: il fascismo, l’antifascismo, gli storici, La Nuova Italia, Scandicci 1989. Una posizione di forte difesa dell’identità dell’antifascismo è quella di G. De Luna - M. Revelli, Fascismo, antifascismo: le idee, le identità, La nuova Italia, Scandicci 1955. A proposito dell’obiettività e della partigianeria in storia, E. J. Hobsbawm, De historia, Rizzoli, Milano 1997, pp. 150 sgg. Sui rischi del monopolio o dell’oligopolio della storia Bodei, Il libro della memoria cit., p. 37. Alcuni contributi multimediali in Il 1948 in Italia: la storia e i film, a cura di N. Tranfaglia, La Nuova Italia, Scandicci 1991; G. Crainz, A. Farassino, E. Forcella, N. Gallerano, La Resistenza italiana nei programmi della Rai, con un contributo di C. Winterhalter, Rai-Eri, Roma 1996. Per i problemi politici e giuridici legati alla diffusione dei media, Rodotà, Tecnopolitica cit.

A mo’ di epilogo Sul fenomeno della pubblicità nella scuola e le sue inevitabili conseguenze, cfr. S. Rodotà, Scuola e democrazia, in La cultura della scuola e la contemporaneità, a cura di A. Sasso, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 171 sgg. Un esempio di posizione «progressista» in G. Viccaro, Scuola e società post-industriale, Liguori, Napoli 1988, pp. 85 sgg. Sulla rapida obsolescenza delle competenze professionali nel lavoro, oltre ai vari testi citati (Rifkin ecc.), cfr. D. Chiesa, Dalle aree del sapere alla cultura della scuola, in La cultura della scuola cit., p. 136; N. Rossi, Introduzione a L’istruzione in Italia cit., p. 8.; C. Castaño Collado, Tecnologìa, empleo y trabajo en España, Alianza Editorial, Madrid 1994, p. 196, che sottolinea la trasformazione delle competenze professionali in attività polivalenti nella grande industria automobilistica. La citazione di Vertecchi è in Apprendere a scuola nella società complessa, in La cultura della scuola cit. Stupefacente è constatare che già nel 1962 «500 esperti di consulenza internazionale di tutti i continenti» nell’affrontare il problema della formazione «in un mondo che sul piano tecnico ed economico si sviluppa a ritmo accelerato», consigliassero ai giovani «di non specializzarsi» (F. Pollock, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Einaudi, Torino 1970, p. 346). Un’acuta critica agli specialismi come forma di frantumazione del sapere sono in E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, pp. 42-3 e passim. Sui bisogni reali e non mercificati della scuola d’oggi, cfr. De Mauro, Quale formazione cit. Sui rapporti fra la politica progressista («la sinistra») e la modernità si vedano le

254

acute osservazioni di F. Cassano, Per una ecologia della modernità, in A. Caillé, Trenta tesi per la sinistra, Donzelli, Roma 1997. La riflessione di H. Immler in Economia della natura cit., p. 108. Una densa ricostruzione storica della capitolazione del mondo progressista alle ragioni del neoliberismo è in S. Halimi, Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberista, prefazione di F. Bertinotti, Fazi, Roma 2006. Riflessioni sulla politica, in consonanza con le preoccupazioni espresse nel testo, oltre all’articolo di Cassano, sono in Caillé, Trenta tesi cit.; R. Esposito, Sistema politico e differenza, S. Latouche, Guerra alla guerra economica, tutti in Trenta tesi cit. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003. Sul politico «divorato dall’economico» cfr., più specificamente, S. Latouche, La mondialisation e la fin du politique: diagnostic et perspective, in «Recherches. Revue du MAUSS semestrielle», 1997, 9; La parabola della democrazia, a cura di R. Iaccarino e M. Stella, introduzione di C. Spreafico, Edizioni Lavoro, Roma 1997. Una posizione estremizzata, ma non priva di acutezza, è quella di R. Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del danaro, introduzione e cura di A. Jappe, manifestolibri, Roma 1997. Sulla necessità di una concertazione mondiale delle politiche e i problemi connessi, cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995, e ora, dello stesso autore, Globalizzazione cit.; L. Bonanate, Una giornata del mondo. Le contraddizioni della teoria democratica, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 109 sgg. Sull’obbligo scolastico a diciotto anni, cfr. A. Visalberghi, Obbligo di studio fino a diciott’anni e Id., La qualità della scuola, in «La Repubblica», 6 luglio 1996 e 30 maggio 1997. Sul rapporto tra letteratura e scuola, Ferroni, La scuola sospesa cit., pp. 145 sgg. Sulle differenze fra conoscenza scientifica e sapere si sofferma Lyotard, La condizione post-moderna cit., pp. 37 sgg. Sull’idea di persona cfr. «Parolechiave», 1996, 10-11, dedicato a questo termine. Sul rapporto tra scuola e cittadinanza, Rodotà, Scuola e democrazia cit., p. 172; padre B. Sorge, Una scuola per la politica, in La cultura della scuola e la contemporaneità cit., pp. 159 sgg. Per l’economia ecologica cfr. J. Martinez-Alier, Economia ecologica. Energia, ambiente, società, presentazione di M. Bresso, Garzanti, Milano 1987; M. Bresso, Per un’economia ecologica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994. Sugli insegnanti, Bottani, Professoressa addio cit.; De Mauro, L’insegnante come lo/la vorrei cit.; Id., Quale formazione cit., p. 53; nonché la lettera al ministro della Pubblica istruzione di G. Reale, Il prof parla? E noi anche, in «Il Sole-24 Ore», 4 maggio 1997. Sull’Europa, Idee di Europa. Attualità e fragilità di un progetto antico, a cura di L. Canfora, Dedalo, Bari 1997; «Meridiana», 2003, il n. 46 dedicato a L’Europa: una identità difficile; Z. Bauman, L’Europa è un’avventura, Laterza, Roma-Bari, 2006. La letteratura, tuttavia, anche in lingua italiana, è molto vasta. Si consiglia, comunque, il delizioso libretto di G. Steiner, Una certa idea di

255

Europa, prefazione di M. Vargas Llosa, prologo di R. Riemen, Garzanti, Milano 2006.

256

Indice Trama Biografia

2 4

Frontespizio Copyright Indice Prefazione alla seconda edizione Introduzione alla terza edizione Come prologo I. La svalutazione del passato 1. Una promozione sociale incompresa 2. L’erosione della memoria 3. Il declino dell’avvenire

II. La storia-problema

6 7 8 10 14 23 34 34 37 44

53

1. Preliminari di un progetto 2. La storia dei manuali 3. Una nuova economia della memoria 4. Una storia discutibile

III. Il presente e il passato 1. Storici e antiquari 2. L’istituzione del consumismo 3. Il lavoro e le sue metamorfosi 4. L’epopea del lavoro libero 257

53 57 65 73

80 80 84 101 107

5. Dal fordismo alla società senza lavoro 6. Stato e Stato sociale

IV. Locale e universale

114 127

140

1. Itaca e il mondo 2. Il territorio: un libro aperto 3. Noi e gli altri

140 152 169

V. La storia e il racconto

183

1. L’evento e la replica 2. La natura nella storia 3. Il racconto del potere 4. La verità della storia

183 194 201 208

A mo’ di epilogo Guida bibliografica

218 232

258