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Italian Pages 121 Year 2009
Erich Rothacker
L’uomo tra dogma e storia Non tutto è relativo A cura di Tonino Griffero
Armando editore
ROTHACKER, Erich L’uomo tra dogma e storia. Non tutto è relativo ; Roma : Armando, © 2009 128 p. ; 17 cm. (Oltre lo sguardo – Itinerari di filosofia) ISBN: 978-88-6081-599-6 1. Scienze dello spirito 2. Storicismo e relativismo 3. Interpretazione CDD 100
Traduzione e cura di Tonino Griffero Titolo originale: Die dogmatische Denkform in den Geisteswissenschaften und das Problem des Historismus, Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz, Abhandlungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen Klasse, Wiesbaden 1954, 60 pp. L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali non volute omissioni di pagamento per il permesso di riproduzione. © 2009 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 18-16-009 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
Sommario
Introduzione: Ragione concreta e coinvolgimento dogmatico (Tonino Griffero) L’uomo tra dogma e storia (Erich Rothacker) Nota bio-bibliografica
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Introduzione ragione concreta e coinvolgimento dogmatico di Tonino Griffero
1. Ragione concreta. “non ho mai fatto e scritto qualcosa che non mi appassionasse” (HE, 67)1: il che conferma, anche biograficamente, la centralità della categoria dell’“interesse” come (problematica) soluzione all’angoscioso problema del relativismo. estraneo a “scuole” e perciò aperto all’interdisciplinarietà, erich rothacker mutua dalla scuola storica tedesca (da savigny in primis) la convinzione che non sia possibile indagare lo spirito in sé o il suo dover-essere ma solo le sue manifestazioni storiche2, solo cioè una “ragione concreta”. e secondo due direzioni fondamentali. anzitutto mediante una ricerca che, proseguendo l’incompiuta “critica della ragione storica” diltheyana, ricostruisca la storia delle scienze dello spirito, ne chiarisca la logica sistematica (ancorché indeducibile, per i suoi legami con la vita, da un singolo sistema), ne definisca il compito, consistente nel comprendere il senso insito in tutto ciò che è “opera” dell’uomo, e infine ne scongiuri i possibili esiti 7
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relativistici. Ma poi, accertato che non esiste uomo che non sia già sempre culturalmente formato, anche attraverso un’antropologia culturale3 di stampo storicistico e irriducibile sia alla metafisica (scheleriana) dello spirito, cui spetterebbe in dote il distacco dall’istintualità, sia alla riduzione biologistica (gehleniana) della cultura a compensazione cerebrale della carenza istintuale: il monismo delle quali non sarebbe all’altezza dell’irriducibile pluralità delle culture4. 2. Tre princìpi della coscienza. in astratto, potremmo forse anche sapere di molti mondi. Ma a vincolarci è uno solo di essi. Quello in cui ci troviamo e da cui, avendo per noi un “significato” ed essendo quindi “vero”, ricaviamo stili di vita eccedenti la coscienza individuale, mitizzata, seppure in senso diverso, sia dal razionalismo sia dall’esistenzialismo. Ma questo principio della “significatività” (Satz der Bedeutsamkeit), annunciato da Dilthey (Lebensbezug) e accolto dal primo Heidegger per ovviare al vicolo cieco del dualismo soggetto-oggetto, dell’elementarismo sensoriale e del proiezionismo-introiezionismo à la nietzsche – nel mondo incontriamo, infatti, significati irriducibili a dati di senso e non soggettivamente proiettati –, deve per rothacker convivere con altri due princìpi preliminari e indispensabili. Col principio non storicisticamente relativizzabile e transculturalmente cogente della coerenza logica o “esattezza”5 (Satz der Richtigkeit), e poi con quello della validità reale o “oggettività” (Satz der Sachlichkeit), garante di una conferma (adaequatio) del senso da parte della “cosa” (in senso lato) al cui “urto” tale senso risponde. Due princìpi – converrà ricordarlo – estendibili anche al mondo extralogico ed extraconcettuale delle “immagini”6, vista 8
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la dipendenza di ogni senso e di ogni cosa dalla “sinteticità” (principio di non contraddizione compreso) e la qualifica di “fatticità” anche per i vissuti mitici, religiosi e comunque prescientifici. 3. La realtà non è il mondo e l’esatto non è il vero. triplice è, dunque, il vincolo. il primo sancisce che l’uomo all’origine incontra non i fenomeni come tali, ma ciò che di significativo in essi appare (phansis) inintenzionalmente alla coscienza7. al principio – vita esclusa naturalmente, oltre la quale, diltheyanamente, sarebbe assurdo voler risalire – abbiamo allora una visione (o intuizione) del mondo e una Sinngebung, una significatività-per-lacoscienza8, talmente vincolante da indurre all’identificazione di “vero” e “significativo”9. Ma questa selezione prospettica, che perfeziona il più primitivo “accorgersi di qualcosa” (PDM, 55) sotto la spinta di interessi certo più plastici dell’innato Bauplan animale, si consolida e stilizza poi, grazie alla relativa possibilità di distacco (excentricità) dell’uomo dalla propria Umwelt10, in questa o quella “cultura”11. la quale non fa perciò altro che ritagliare interpretativamente un’“isola di significatività” (mondo) all’interno di una realtà (Wirklichkeit) “enigmaticamente neutrale” (PA, 84), di una materia-mondo (Welt-Stoff) tanto indipendente dalle intenzionalizzazioni del soggetto (trans-soggettività) e dalle proprie fenomenizzazioni (trans-oggettività)12, tanto “inesauribile sia intensivamente sia estensivamente” (PK, 169) e irrelativa nella sua potenzialità e (al limite) in-sensatezza – senso vi è solo per la coscienza, infatti –, da poter essere espressa a rigore solo in forma negativa o figurata. Si noti subito la (paradossale) duplice trascendenza: se da un lato questa indeterminabile “realtà-in-sé” (GMH, 28) trascende 9
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Introduzione
ogni concretizzazione coscienziale, dall’altro questa inseità è però trascesa dalle sempre nuove significatività prospettiche (mondi) che la coscienza vi ritaglia. di qui al quesito che è all’origine del presente saggio il passo è breve: perché l’intersoggettività, garantita dal principio dell’esattezza e dal principio dell’oggettività, non riguarda mai il contenuto? «Perché gli avversari […] non riescono quasi mai a persuadersi reciprocamente?» (LSG, 111, corsivo nostro). E come si spiega che le epoche (e/o le culture), pur esprimendo convinzioni differenti e tuttavia volta a volta ritenute vere, possano poi, secondo il celebre motto di ranke, essere tutte in diretto rapporto con dio? Perché, detto altrimenti, ogni esperienza, anche quella intuitiva pre- ed extrascientifica, è necessariamente prospettica, articolata in “aspetti” (perciò rothacker parla di “aspettivismo realistico”; sP, 51, n. 3), con cui la coscienza reagisce, anche sul piano del corpo vivente, al milieu prebiotico, biotico e culturale, a quanto nella realtà (esterna non più che interna)13 ci provoca, ci resiste, ci minaccia? l’intuizione realista, insomma, secondo la quale vi è una realtà “esterna”, noumenica e trascendente, la quale non solo permette le diverse prospettive, ma poi le conferma o meno, traducendo quelle “riuscite” (più realistiche?) in tradizione, in “ragione concreta” appunto, non dice ancora nulla su come venire a capo del relativismo epistemico. 4. Coinvolti (dogmaticamente): la necessità ipotetica. “gettato” non tanto nel proprio “esser-ci”, quanto in situazioni fondate sulla correlatività soggetto-“cosa”14, e «nella cui rielaborazione si realizza concretamente il nostro esser-così» (PDM, 54), l’uomo è secondo Rothacker vittima del relativismo solo sul piano (plessnerianamen10
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te) “ex-centrico” della teoria, visto che nella situazione “vissuta”15, nelle rarissime intuizioni generatrici di nuove “significatività”16, creative proprio perché “centriche”, gli è impossibile aderire simultaneamente ad “aspetti” diversi. nei propri stili vitali, intesi come reazioni17, «risposte durature con cui le comunità umane replicano con il loro intero essere alla pressione del tutto» (g, 55)18, l’uomo non può infatti essere contemporaneamente, ad esempio, liberale e totalitario, cristiano e buddista, Picasso e Giotto. E qui l’insegnamento wölffliano, secondo cui non tutto è possibile in ogni epoca, si associa a un’idea della vita come successione di decisioni, volte non a superare, ma semplicemente a padroneggiare in modo creativo le diverse situazioni storiche e naturali19. Ma come perviene rothacker alla forma mentis dogmatica, tematizzata compiutamente, come concetto ermeneutico opposto all’oggettivismo storico20, nel testo qui tradotto? l’intento originario è quello di redimere la nozione stessa di “dogma” da un lato dalla stigmatizzazione illuministica e dall’altro dalla sua erronea identificazione con la logicizzazione geometrico-naturalistica21, di definire “dogmatico”, quasi un sinonimo di “razionale” o “sistematico”, lo speciale compito esplicativo, sovraordinato nei suoi tratti assiomatico-tipizzanti (ma non del tutto estraneo) alla comprensione dell’individuale, che spetta alle convinzioni e ai saperi responsabilmente impegnati a comunicarsi ad altri22. Più precisamente: ricostruita la genesi, quanto meno a partire da Hegel, delle “scienze dello spirito” (EG), accertato che le loro prestazioni ri-cognitive siano sottomesse alle medesime condizioni di ogni riuscita istituzione del senso (oggettività, logicità, significatività), verificata infine l’impossibilità della reductio ad unum sia 11
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dei loro metodi (LSG), sia delle visioni del mondo da essi presupposti (G)23, rothacker si trova al cospetto del “fatto” inoppugnabile del relativismo24, con le sue, per molti quasi automatiche e letali conseguenze scettiche (mai assolute, peraltro, pena l’autocontraddittorietà). nel teorizzare, e a maggior ragione nell’agire, un lato del mondo infatti necessariamente “passa sotto silenzio” (LSG, 133). Quando “le cose si fanno serie”, è necessario «un punto di vista e qualcosa di prospettico, perché un soggetto concreto può esistere solo se ha un terreno sotto ai piedi», il che significa che «ogni fare e creare concreto ha dunque sotto il profilo del suo contenuto un carattere dogmatico» (PDM, 53), esibisce cioè una prospetticità che è il segno sia della finitezza esistenziale ed epistemica dell’uomo, sia della sua creatività cognitiva e pragmatica25. uno storicismo non scettico dovrebbe dunque riconoscere che ogni sistema (religioso, giuridico, politico, artistico, naturalistico, ecc.), scaturendo da un’intuizione selettiva originaria o, che è lo stesso, da una “decisione” della volontà26 tradotta in un’immagine del mondo, è assolutamente parziale27 e tuttavia, non nonostante ma appunto per questo, del tutto inconfutabile al suo interno. dovrebbe quindi ammettere che prospetticità e coerenza logica non sono che i due lati della medesima medaglia, solo cronologicamente diversificati. Il ruolo esplicativo-metodologico della dogmatica, necessariamente postumo, giusta l’immagine della “nottola hegeliana”, viene così esteso da discipline normative come la teologia e il diritto28 a ogni settore che rivendichi la propria scientificità. Nella consapevolezza che l’uomo, lungi dall’essere interessato a “ogni” mondo possibile29, è parziale-prospettico (e quindi creativo) già negli strati 12
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più elementari della propria esistenza30 e, a maggior ragione, quando sviluppa il logos immanente alla “cosa”31 di cui si occupa. Ma come si concretizza sul piano dogmatico questo “metodo della riduzione” esistenziale (G, 120)? Prendiamo l’arte, ad esempio. Laddove l’approccio filosofico vuole scoprirne il senso a partire dal concetto a priori di “artisticità”, quello storico mira a ri-percorrere descrittivamente32 l’iter genetico di quanto si è creato e quindi “conosciuto” (è la celebre formula di Boeckh della “conoscenza del conosciuto”), e quello teoretico cerca di indagarne la coerenza strutturale e oggettiva, l’approccio dogmatico sviluppa sistematicamente la pretesa di verità di quella specifica forma d’arte. Dimostrandosi così scientifico e, nel caso rientrasse in un sapere preposto al controllo della vita associata, indenne da concretizzazioni irrazionali e soggettive33, proprio in virtù della relativa stabilità dell’interrogativo che rivolge a “fatti” (progetti di vita) già acquisiti34 e in una certa misura storicamente e culturalmente familiari. esplicitando l’implicito, ricavando cioè il senso coerente di un certo impegno metafisico dall’opera che esamina (sensus non est inferendus sed efferendus)35, prima di darne una giustificazione critico-teoretica36 e di applicarlo eventualmente alla prassi37, l’approccio dogmatico, colpevolmente misconosciuto dalla filosofia, porterebbe dunque alla luce la coerenza e persuasività, e insieme l’unilateralità esistenziale (prospetticità), di ciò che spiega, ma senza che tale “aspettivismo” possa davvero mai sfociare in un relativismo nichilista. i presupposti di un certo stile, infatti, non cessano mai di essere “relazionisticamente” validi (in relazione cioè a una determinata situazione esistenziale), né possono essere veramente 13
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contraddetti da quelli suggeriti da una diversa situazione, come già riconosciuto da Max Weber38, per il quale «l’analisi logica di un ideale, considerato nel suo contenuto e nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione delle conseguenze che logicamente e praticamente derivano dalla sua realizzazione, deve essere valida per chiunque, anche per un cinese, una volta posto che sia riuscita»39. Questo svelamento (dogmatico) della validità (logicooggettiva) atemporale di un valore di per sé temporale40 starebbe al momento critico41 come, in termini heideggeriani, l’ontico sta all’ontologico, ciò che è illuminato, in cui si è coinvolti e di cui, soltanto, si può fare scienza, sta alla luce che, illuminando, rende possibile i fenomeni e le intuizioni, ma, se guardata direttamente, acceca chi guarda42. una luce nella quale, se proprio si vuole, si potrebbe anche vedere una destinazione dell’essere, ma che forse andrebbe, più sobriamente, ricondotta ai diversi “progetti di mondo” dell’umanità concreta43. 5. Problemi. Molte, ovviamente, le questioni aperte. eccone alcune. a) Sostenendo la totale dipendenza valoriale dell’interprete dogmatico dall’interpretandum44 e non differenziando a sufficienza45 la dogmatica normativa (rivolta cioè a “stili” vigenti) da quella storica (rivolta a “stili” tramontati), Rothacker finisce per sottovalutare la potenziale etero- e auto-trascendenza critica del dogmatico. infatti, riconducendo tutto alla parzialità prospettica46, il dogmatico non solo compie un lavoro solo apparentemente meno scientifico di quello delle scienze naturali (tale perché guidato da interrogativi meno stabili)47, ma soprattutto – e già con quella semplice domanda sul “senso”48 che giunge un “minuto in ritardo” rispetto al 14
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sistema ma almeno un “minuto prima” dell’approccio critico-filosofico49 – svela il condizionamento storicolinguistico sia del sapere che si spaccia per assoluto50, sia del proprio stesso approccio metodico, assiologicamente orientato a ben vedere fin dalla scelta dei suoi materiali. suona dunque quanto meno contradittoria la tesi secondo cui, mentre ogni visione è relativa, “la dottrina delle visioni del mondo”, invece, «non [sarebbe] più una conoscenza legata a una visione del mondo» (LSG, 163), visto che è piuttosto improbabile che la comparazione di più prospettive non dipenda a sua volta da una certa, storicamente ed epistemologicamente qualificata, prospettiva. La polarizzazione dialettica vita/forma, stando alla quale, quando una certa verità (o stile) è passibile di sistemazione logico-dogmatica, cessa ipso facto di essere “la” verità (il solo stile possibile), scoprendosi l’esito di una contingente selezione interessata e guidata da una coerenza non più categorica ma ipotetica51, non può non valere, insomma, anche per l’approccio dogmatico. b) Contrario all’economia di pensiero pare talvolta il richiamo alla dogmatica. infatti, se dogmatico fosse davvero ogni contenuto spirituale, allora (prendiamo il caso dell’Impressionismo) con l’opera d’arte stessa avremmo una prima dogmatica (inconsapevole), con la difesa che ne fa il coevo filosofo dell’“arte” una seconda dogmatica (ancora inconsapevole), con l’analisi che ne fa lo studioso dell’impressionismo una terza dogmatica (questa volta consapevole). Un’ubiquità un po’ eccessiva, che non esclude neppure che un’incipiente dogmatizzazione sia all’opera già nel mondo della vita (forse in ogni contenuto della coscienza), consapevole in fin dei conti solo se relativamente obiettivato52. sarebbe quindi euristicamente preferibile giudicare dogmatico solo il momento 15
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Introduzione
in cui al “battesimo” linguistico («l’attribuzione di un nome storico [è già] ciò che trasforma una convinzione filosofica in un dogma»; PDM, 51) si associa l’effettiva conoscenza di soluzioni artistiche concorrenti53, e si può quindi per la prima volta diversamente considerare (e relativizzare comparativisticamente) l’oggetto, nella fattispecie il genere artistico in questione. c) Altamente problematica risulta poi una soluzione del relativismo che, come sappiamo, si richiama alla nozione quasi-pragmatista di “produttività” (per chi? e rispetto a che cosa?), a quella quasi-verificazionista di “oggettività” (ma è una realtà trascendente e ineffabile a confermare davvero i progetti di senso degli uomini, o questi progetti semplicemente si autoconfermano sul piano della coscienza?) e infine a quella pseudo-logica di “esattezza” (davvero la consequenzialità logica può avere una cogenza extralocale?). d) Né miglior fortuna arride al modello, in fin dei conti organicistico, che induce rothacker a considerare le prospettive come strutture monoliticamente chiuse (anche se in senso storico e non naturalistico)54 anziché come aggregati di “topiche” relativamente scomponibili55 e nelle quali sia eventualmente possibile ricavare dei punti di convergenza56. e il saltuario rinvio del pluralismo prospettico-culturale a un’unica totalità spirituale di tipo volontaristico – «spirituale significa ciò che può essere fondato […] Ma questa fondabilità non segue più alcuna logica di teoria della conoscenza, bensì una logica del volere» (LSG, 163) – serve a ben poco a fronte degli esiti concreti e irriducibilmente plurali anche di questa volontà. e) In conclusione, lo spettro dello scetticismo relativistico è davvero vinto da una concezione dell’«og16
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gettività del rapporto ipotetico-deduttivo tra premesse e conclusioni, che permane con la sua necessità anche quando non c’è consenso sulla verità delle premesse o dei presupposti, legati a diversi e incompatibili punti di vista»57? l’attribuzione di una reciproca irrilevanza (anziché incompatibilità) a saperi di taglia e struttura concettuale diversa, come ad esempio biologia e architettura, non funziona purtroppo nel discorso rothackeriano sulla pluralità degli stili, con ogni evidenza sorti all’interno dello stesso atteggiamento e riferiti in fondo alla medesima “cosa” (bisogni, stimoli ambientali e storici, ecc.). L’indiscutibile scientificità spettante all’ontico, cioè alla ricostruzione dogmatica di un’interrogazione di per sé libera e prerazionale, minimizza sicuramente il rischio relativistico nelle scienze dello spirito, ma non certo quello – fondamentale e inaggirabile – che grava sull’ontologico, vale a dire sugli orientamenti e sulla significatività che li rende possibili.
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Per il siglario cfr. la bibliografia finale. A eccezione di un breve testo pubblicato settanta anni fa per la Biblioteca Hertziana di roma (L’idea di una scienza nuova dell’uomo, Keller, Leipzig 1938), questa è la prima traduzione italiana di un testo di rothacker. 2 Così Rothacker stesso definisce il proprio approccio: «in che modo si formulano e si risolvono i fondamentali problemi metafisici, epistemologici, logici ed etici, se il soggetto di ogni sapere, creare e agire su questa terra non è né la res cogitans di Cartesio né la mente come tabula rasa di locke ma sempre ogni volta un’umanità storica concreta» (A, 375)? 3 l’antropologia culturale tedesca, fondata da rothacker, non è rivolta alle società primitive, come poi nella tradizione etnologica anglosassone, ma alle culture più avanzate. 4 un’apertura interculturale, comunque, non priva di toni assimilatori: «solo il debole teme il contagio. Chi è contagiato, di solito ne ha la colpa. i forti hanno uno stomaco buono, digeriscono anche l’estraneo e progrediscono» (SW, 62). 5 W. Perpeet, E. Rothacker. Philosophie des Geistes aus dem Geist der Deutschen Historischen Schule, Bouvier, Bonn 1968, pp. 37-38: «ma quello che è esatto non è ancora necessariamente vero». «Molte cose sono esatte, ma non tutto ciò che è esatto è anche rilevante». 6 Cfr. t. griffero, Le intuizioni senza concetti non sono cieche. L’immagine come “ideazione qualitativa” in Erich Rothacker, in G. Matteucci (a cura di), Antropologie dell’immagine («Discipline filosofiche», XVIII, 2), Quodlibet, Macerata 2008, pp. 47-63. 7 a sviluppare l’ipotesi già husserliana di una trasformazione della fenomenologia in fanseologia (manoscritto F I 123) alla luce della seguente sintesi (principio della coscienza-dellarilevanza) è G. Funke, “Satz des Bewusstseins” und “Satz der Bedeutsamkeit”, in Id. (a cura di), Konkrete Vernunft, Fest-
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Tonino Griffero schrift für E. Rothacker, Bouvier, Bonn 1958, pp. 79-98, e id., A Transcendental-Phenomenological Investigation Concerning Universal Idealism, Intentional Analysis and the Genesis of Habitus: Arche, Phansis, Hexis, Logos, in W. McKenna-r.M. Harlan-l.e. Winters, Apriori and World. European Contributions to Husserlian Phenomenology, introd. by J.n. Mohanty, nijhoff, den Haag 1981, pp. 71-113. 8 «Il concetto di significatività è un elemento relazionale. Si dà significatività solo “per” dei soggetti» (GMB, 53). 9 «solo ciò che mi riguarda, ciò che “è” “qualcosa” per me, ciò che desta il mio interesse, ciò che tocca il mio essere, ciò che per me è degno di nota, appare […] meritevole di attenzione e, in definitiva, degno degli ulteriori passaggi dell’elaborazione linguistica e concettuale» (G, 99). 10 distanziazione all’opera già nella pre-obiettivistica trasformazione antropomorfica in “paesaggio” di una certa indifferenziata porzione di natura (PA, 62-64) o nella cosalizzazione e “analisi” di stati fluidi (PA, 117), e senza la quale sarebbe impossibile spiegare l’inesauribile molteplicità dei “mondi della vita”. 11 «semplicemente tutto ciò che in generale sappiamo, e ciò che si potrebbe leggere in un vocabolario contenente molte migliaia di vocaboli, prima o poi dev’essere divenuto ciò che noi sappiamo in forza di un simile riferimento alla vita» (GMB, 113). 12 «È del tutto insensato e oltremodo sconclusionato ritenere che la Wirklichkeit trascendente sia fatta esattamente così come la vediamo», dato che, «nella sua consistenza, è assolutamente intoccabile da parte delle opinioni degli uomini, dei loro fraintendimenti e dogmi» (PA, 84; PK, 171). 13 una passione, ad esempio, ci provoca e ci “situa”, pur senza essere esterna in senso fisico. 14 Per un’analisi del concetto rothackeriano di “situazione”, cfr. t. griffero, Vincoli situazionali, in M. di Monte - M. Rotili (a cura di), Vincoli («Sensibilia», 2, 2008), Mimesis, Milano 2009, in corso di stampa.
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a rothacker interessano le «situazioni vissute […] la Umwelt vissuta e non la Umwelt effettiva» (G, 45): «anche l’uomo che scaccia una mosca, scaccia per prima cosa qualcosa di fastidioso e non questa determinata mosca nella sua peculiarità individuale, inanalizzabile persino a livello ultramicroscopico» (SP, 53). 16 rothacker pensa sia al linguaggio poetico, sia alle reazioni imago-motorie, sia a più generali “impressioni iconiche della realtà” (GMB, 210 sgg.; PA, 73, 108 sgg.). Cfr. T. Griffero, Le intuizioni senza concetti, cit. 17 Risuona qui tanto la polarità situazione/crisi (Kierkegaard) quanto e soprattutto quella di challenge/response (toynbee) e Bauplan/Bedeutung (Uexküll). 18 ecco la direzione: «modo di esistenza-partecipazionemodo di vedere (aspetto soggettivo)-immagine del mondo (aspetto oggettivo)» (PK, 172). 19 «solo un fraintendimento bisogna qui decisamente evitare: una interpretazione della condizione non consiste nell’oltrepassare i dati fatali di questa condizione, ma significa invece, e a maggior ragione, mettere a profitto quanto si ha oggettivamente di fronte» (G, 52). Un “realismo” politico che certo non assolve del tutto rothacker dai compromessi col regime nazista, dall’aver ontologizzato (soprattutto G, 145-150), assimilandole a concetti di per sé neutrali come “significatività” e “situazione”, idee irricevibili come “razza”, “aristocrazia di sangue e suolo” e “führer”. V. Böhnigk, Kulturanthropologie als Rassenlehre: Nationalsozialistische Kulturphilosophie aus der Sicht des Philosophen Erich Rothacker, Königshausen & neumann, Würzburg 2002, pp. 10-13, sminuisce l’assoluzione dall’accusa di compromissione col regime da parte della commissione postbellica, segnalando (p. 84) che l’adesione fu esplicita e non circoscrivibile solo all’appendice del libro del 1934 (“Nel terzo Reich”). Sull’intera questione cfr. H. Lützeler, Persönlichkeiten, Herder, Freiburg/Basel/Wien 1978, p. 50 sgg.; t. Weber, Arbeit am Imaginären des Deutschen. Erich Rothackers Ideen für eine NS-Kulturpolitik, in W.f. Haug,
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Tonino Griffero Deutsche Philosophen 1933, argument, Hamburg 1989, pp. 125-158; s. tedesco, Il metodo e la storia (Supplementa 16), aesthetica, Palermo 2006, p. 73, n. 175; t. griffero, Le intuizioni, cit., p. 51 e n. 32. 20 Così H.g. gadamer, Ermeneutica e storicismo (1965), in id., Verità e metodo 2, a cura di r. dottori, Bompiani, Milano 1995, p. 384. 21 liberando così la dogmatica dal solito corteo di “sfumature peggiorative di acriticità o intolleranza” (d. farias, Interpretazione e logica, Giuffrè, Milano 1990, p. 116). Cfr. M. Herberger, Dogmatik. Zur Geschichte von Begriff und Methode in Medizin und Jurisprudenz, Klostermann, frankfurt 1981. 22 «la scienza non asseconda solo il bisogno di scoprire delle verità, ma anche sempre un secondo bisogno, quello di dimostrare tali verità e di valutare come conosciuto solo quanto si è dimostrato» (SW, 14). 23 Precisamente: metodo filosofico (idealismo dualistico), metodo storico (idealismo oggettivo), metodo teoretico (esperienza in senso naturalistico), metodo dogmatico (canonicità del senso dato). 24 «Non [è] completa una filosofia che non esamini con onestà intellettuale anche il problema dello storicismo» (PdM, 55). 25 «il soggetto spirituale ha un interesse esistenziale per la cosa, ma la cosa appare al soggetto a sua volta in una prospettiva esistenziale» (LSG, 161); così, «i noemata concreti [le realizzazioni dei soggetti; N.d.C.] sono costituiti da atti noetici concreti, e gli atti noetici concreti sono irradiazioni di soggetti concreti» (PDM, 53). «Nella vita concreta tanto la cosa quanto il genio produttivo (persona o spirito di un popolo) si trovano in uno stato del tutto particolare, in una “situazione”, e la soluzione di tale situazione concreta non sta nell’infinito bensì nel […] massimamente vicino. la cosa esige infatti di essere rielaborata. e si può rielaborare qualcosa solo in una certa direzione. non si dà progresso effettivo che non poggi su
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Introduzione un punto di vista, e nessun punto di vista che non implichi una decisione, e nessuna decisione il cui sì non contenga anche un no» (LSG, 155). 26 «dietro a queste visioni del mondo vi sono prima di tutto le pretese del volere e non degli atti cognitivi […] ogni sintesi è guidata dal volere»: un volere confusamente ricondotto, peraltro, all’“intreccio tra il dover-essere formale e il nostro destino” (LSG, 144, 138), tra la destinalità storicistica e l’attivismo fichtiano (“il mio essere è il compiersi di Tathandlungen”; G, 141). 27 «l’azione come tale ha dei limiti, appunto perché è coerente»: «se lo spirito vuole fare e agire, non può non scegliere», e infatti «anche gli angeli, se agissero, soffocherebbero con i tridenti le potenze demoniache» (LSG, 157). 28 sulla dogmatica giuridica a partire da rothacker, cfr. M.W. Hebeisen, Recht und Staat als Objektivationen des Geistes in der Geschichte, Books on demand, norderstedt 2004, teilband iii, pp. 361-394. 29 «la vita umana è breve. non possiamo interessarci di ogni cosa […] Ciò che non ci riguarda, non ci tocca, potrà anche essere giusto, ma è al di fuori del nostro mondo vissuto. Quanto meno inizialmente» (GMH, 26). 30 «un movimento si dirige di volta in volta verso destra o sinistra, sopra o sotto, avanti o indietro. un colpo è forte o debole, un mucchio di sabbia diventa più grosso o più piccolo, ecc. Le direzioni sono sempre polarizzate» (A, 377). Per una prima considerazione della teoria rothackeriana degli strati della personalità (SP), cfr. S. Tedesco, Forma e tempo nell’antropologia filosofica a cavallo della metà del Novecento, in «Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia Storia e Critica dei Saperi», 4 (2006), pp. 419-437. 31 «non è l’incompiutezza umana, ma il semplice precetto della coerenza logica a impedirci di essere al tempo stesso classici e romantici, ingenui e sentimentali, apollinei e dionisiaci, conservatori e progressisti […] e se anche lo si potesse, si potrebbe anche di conseguenza non volerlo» (LSG, 153).
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Tonino Griffero
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Ma e. Betti, Teoria generale dell’interpretazione (1955), 2 voll. giuffrè, Milano 1990, p. 598, n. 12, a giusto titolo dubita che lo storico, dipendendo dall’intimo logos di un’opera o un’epoca, possa limitarsi a descrivere estrinsecamente la propria materia. 33 Cfr. l. Mengoni, Interpretazione e nuova dogmatica. L’autorità della dottrina, in «Jus», 3, 1985, p. 484. 34 Cfr. o. Pöggeler, Rothackers Begriff der Geisteswissenschaften, in Kulturwissenschaften. Festgabe für W. Perpeet zum 65. Geburtstag, Bouvier, Bonn 1980, pp. 319-320. una stabilità della domanda che ricorda un po’ la normal science kuhniana (e.W. Müller, Kultur, Gesellschaft und Ethnologie, lit, BerlinHamburg-Münster 2001, p. 164). 35 Cfr. e. Betti, Teoria generale, cit., p. 156: «senza dogmatica non è possibile […] rendersi conto della formazione di opere del pensiero e dell’azione, […] analizzarne la struttura e cercare di riconoscerla nella sua intrinseca coerenza, nella sua propria logica, e nel suo stile. solo così sarà dato all’interprete di intenderla nella sua totalità e nella concatenazione ideale in cui s’inserisce». 36 dogmatica è «l’esplicazione sistematica di convinzioni sulla base di una certezza che si presume evidente. Critico è l’esame di queste convinzioni per quanto concerne i suoi impliciti presupposti e la sua possibilità di fondazione ultima» (PDM, 47). 37 sul presupposto “canonico” di ogni ermeneutica dogmatica cfr. t. griffero, Ermeneutica e canonicità dei testi, in «Rivista di estetica», XXVI (1985), 19-20, pp. 93-111, e soprattutto id., Interpretazione e astuzia del dogma. A partire da Emilio Betti, in V. Rizzo (a cura di), Emilio Betti e l’interpretazione, e.s.i, napoli 1991, pp. 73-101. 38 Cfr. d. farias, Interpretazione e logica, cit., p. 145. 39 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. rossi, Mondadori, Milano 1980, p. 66. 40 Così a. von schelting, Max Webers Wissenschaftslehre, Mohr, tübingen 1934, pp. 402-403.
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Introduzione
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41 Il diritto romano, ad esempio, «è 1) costruito con una coe-
renza logica esemplare (secondo principio); 2) dischiude un mondo di cose intuitivo coerentemente connesso (primo principio); 3) porta però un nome proprio storico; 4) con “Roma” condivide stile di vita e immagine del mondo; 5) è storicamente divenuto insieme a Roma; 6) il suo contenuto obiettivo così come il suo stile di vita sono “convincenti” per il romano e i seguaci; 7) senza la “diversità” da altri sistemi culturali, che suscita l’attenzione del metodo comparativo, potrebbe valere semplicemente come il sistema giuridico assoluto; 8) ciò che a questi sistemi manca in assolutezza, dal punto di vista critico, è la penetrazione della loro base fideistica, del loro terreno, del loro punto di vista, del loro punto prospettico, della loro finitezza e, in ultima analisi, della loro contingenza storica. In questo senso il modo dogmatico in cui formano i concetti è opposto al modo critico» (GMB, 352). 42 osserva a proposito di Betti (ma s’attaglia perfettamente alla dogmatica nel senso di Rothacker), G. Funke, Problem und Theorie der Hermeneutik. Auslegen, Deuten, Verstehen in Emilio Bettis (Teoria generale dell’interpretazione), in Studi in onore di E. Betti, giuffrè, Milano 1962, i, p. 93: «non la Lichtung e la luce vengono interpretate ma i fenomeni che vengono in luce. Perciò le questioni trascendentali e ontologiche fondamentali sono rifiutate a limine». Stupisce perciò che gadamer, Ermeneutica e storicismo, cit., p. 385, n. 23, dichiari di non capire il riferimento di rothacker alla differenza ontologica heideggeriana anziché all’apriorismo trascendentale neokantiano e fenomenologico. rothacker, d’altronde, “urbanizza” talmente Heidegger da considerarlo un “filosofo trascendentale” (GMH, 36). 43 In almeno un caso, Rothacker accosta (GMH, 29) il “mondo” al “gioco linguistico” wittgensteiniano. 44 «il dogmatico vuole intepretare un senso concreto, nella cui verità crede e con la quale egli sta o cade esistenzialmente». «Le discipline dogmatiche sono fin da principio sorrette dallo spirito di una fede determinata, dell’autorità, del volere. dal
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Tonino Griffero punto di vista della “scientificità”, esse occupano una posizione speciale» (LSG, 23, 108). 45 Betti si preoccupa, invece, di degradare la componente empatica del comprendere (il troppo soggettivistico Sichverstehen) a fase solo euristico-preparatoria dell’autentico Fremdverstehen. 46 Così, ad esempio, «l’idealismo della libertà è la dogmatica dell’autonomia, l’idealismo oggettivo la dogmatica di un sentimento armonioso della vita, il naturalismo la dogmatica della sensibilità. tutti e tre i gruppi di sistemi sono costruiti sulla base delle premesse indicate dal loro nome, ed è da queste premesse che i loro sistemi sono deducibili con (idealiter) inconfutabile conclusività. Ma alle premesse si è sempre creduto. Queste premesse dicono quale aspetto del mondo […] è più importante» (LSG, 149-150). 47 Ma K.o. apel, Technognomie. Eine erkenntnis-anthropologische Kategorie, in Konkrete Vernunft, cit., pp. 61-78, tenta di estendere il momento dogmatico all’“intervento” aprioricopreriflessivo del corpo vivente nell’ambiente naturale e sociale quale presupposto di ogni atteggiamento scientifico. 48 «il fatto che si ponga la domanda circa il senso di ideali già sperimentati è già di solito un segno che in essi non si crede più in modo assoluto, che il sentimento non è più del tutto certo» (SW, 8). 49 «stile di vita-sentimento vitale-ordinamento della vitaformulazioni dogmatiche del contenuto vitale-formulazioni teoretico-filosofiche» (PK, 84). 50 ogni decisione «dev’essere necessariamente dogmatica; essa esprime una convinzione legata a una situazione, ossia un dogma, e questo è il fulcro della nostra finitezza» (PDM, 54). 51 e. Betti, Teoria generale, cit., p. 599. 52 Cfr. g. funke, “Satz des Bewusstseins”, cit., p. 85. 53 rothacker ripete varie volte che, se fosse da sempre esistita un’unica forma d’arte, e fosse quindi impossibile ipotizzare delle alternative, quell’unica forma non apparirebbe affatto dogmatica (ossia relativa).
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Introduzione
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È per questa plasticità storica che Habermas (cfr. Antropologia, in Filosofia, a cura di g. Preti, feltrinelli-fischer, Milano 1966, pp. 19-38) può opporre lo storicismo di Rothacker alla teoria delle istituzioni di gehlen (cfr. a. Pinzani, Jürgen Habermas, Beck, München 2007, pp. 39-40). 55 la relativizzazione di una dogmatica comporta sempre il passaggio a un’altra dogmatica, o semplicemente l’enucleazione di alcuni problemi singoli che non vi si adattano più? Se il fisico non si sposa sulla base degli atomi (per citare un esempio caro a Rothacker), non vuol dire che si sposi secondo un’altra dogmatica, ma solo che, non considerando la scienza naturale una dogmatica, non riduce le relazioni interumane a processi fisicalistici (così O. Pöggeler, Rothackers Begriff, cit., pp. 324, 323). 56 s. tedesco, Il metodo e la storia, cit., pp. 65-66. 57 d. farias, Interpretazione e logica, cit., p. 144.
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Nota di edizione
Die dogmatische Denkform in den Geisteswissenschaften und das Problem des Historismus, akademie-Verlag, Mainz; f. steiner in Kommission, Wiesbaden 1954 (akademie der Wissenschaften und der literatur zu Mainz. abhandlungen der geistes- und sozialwissenschfaftlichen Klasse, Jg. 1954, Nr. 6, 239-298). tra parentesi quadre tutti gli interventi del curatore. abbiamo mantenuto, nei limiti del possibile, la punteggiatura originale.
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Erich rothackEr
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L’uomo tra dogma e storia La forma di pensiero dogmatica nelle scienze dello spirito e il problema dello storicismo
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1. Scienze dello spirito e scienze della natura Volendo trattare qui un problema delle scienze dello spirito, sarà meglio premettere qualcosa sulla struttura di questo campo di ricerca che coinvolge tre facoltà. Una premessa necessaria, poiché né la maggior parte delle teorie filosofiche della scienza né i diffusissimi pronunciamenti solenni sull’“unità della scienza” paiono aver adeguatamente compreso questa struttura specifica. Tutte le scienze hanno ovviamente la comune preoccupazione di pervenire alla chiarezza logica. Ma questo non esclude che si rivolgano agli elementi della realtà1, di volta in volta selezionati come loro oggetti dalla totalità delle cose che esistono, da punti di vista totalmente differenti. Un esempio semplicissimo: è assolutamente legittimo che per lo studioso di scienze naturali un mobile non sia che una porzione della realtà materiale-spaziale-temporale. Il legno, di cui il mobile è fatto, pone una gran quantità di problemi di ordine fisico, chimico e tecnico. La sua forma può essere misurata e indagata matematicamente fin nelle sue curvature. 1 [Traduciamo laddove possibile Wirklichkeit con “realtà” e Realität con “effettualità” (talvolta “realtà effettiva”). Per tale distinzione si veda, supra, l’introduzione, p. 9].
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L’uomo tra dogma e storia
Essendo però un mobile, e magari un bellissimo cassettone rococò, esso pone però anche un problema di natura completamente diversa: quali erano le intenzioni (in senso lato) del suo creatore? Ed erano eventualmente comuni alla sua epoca? Qual era la sua volontà? Quale senso ha posto nel mobile? Queste intenzioni, attribuzioni di senso, finalità, ecc., non sono assolutamente nulla di materiale-spaziale-temporale. Ma non sono per questo neppure dei fantasmi. Qualche teorico parlerebbero a questo proposito di valori e di beni. Ma non è corretto sviluppare qui subito delle teorie dei valori, delle teorie dell’essere ideale o delle teorie in generale, e tralasciare così dei fatti assolutamente semplici e intuitivi. E cioè il fatto che, nell’insieme della realtà di cui possiamo fare un’esperienza vissuta tramite una mediazione sensibile, esiste qualcosa di così straordinario come le opere dell’uomo. Queste opere non vogliono essere esaminate nel loro aspetto di realtà cosali, e nella loro struttura complessiva non sarebbero affatto comprensibili in virtù di questo orientamento puramente cosale. Le opere, in generale, non sono come tali delle datità della natura, ma qualcosa di prodotto intenzionalmente. In quanto prodotte, esse implicano qualcosa per cui furono prodotte, e quindi pongono anche un tema del tutto diverso da quello delle pure e semplici cose. Un martello non è affatto una cosa con un manico, alla quale sia fissato un corpo pesante verticalmente al manico; piuttosto, in quanto martello, ossia in quanto utensile, in quanto opera dell’uomo, esso ha un suo senso e un suo scopo precisi. Se non si considera questo scopo, non lo si può intendere come martello, essendo per questo scopo che gli uomini lo hanno fabbricato. Prescindendo da questo scopo, è una cosa tra le altre, anche se dotata 32
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Erich Rothacker
di una forma curiosa e del tutto inesplicabile in natura. Grazie allo scopo, il martello è invece trasparente nella sua struttura. Accanto a cose che hanno la loro forma per natura esistono anche cose la cui forma dipende dagli uomini. Per comprenderle, è necessario domandarsi il senso di questa loro forma: una domanda sul senso che pone dunque un compito scientifico specifico. Ne deriva – per colui che abbia esercitato la capacità di “meravigliarsi” – che esiste allora un intero gruppo di scienze il cui compito non consiste generalmente nel “conoscere” delle “effettualità” (nel senso abituale dell’indagine naturalistica), ma nel ri-conoscere degli orientamenti di senso dati, cioè posti precedentemente in certe cose da altri uomini, nel ri-eseguire delle attribuzioni di senso già operate, nel ri-avvicinarsi a intenzioni già realizzate da uomini creativi. Mentre lo studioso di scienze naturali va a fondo nella “conoscenza della realtà”, studia cioè un oggetto materiale-spaziale-temporale trovato in natura, cercandovi una struttura conforme a leggi, ne analizza la conformazione sotto il profilo causale, lo scienziato dello spirito in genere non si confronta con oggetti dati in natura, ma con opere dell’uomo plasmate in passato per finalità precise, e il suo compito consiste appunto nel rinvenirvi queste finalità. Di nuovo: non nel conoscere qualcosa di effettuale, ma nel riconoscere qualcosa che sia dotato di senso. È con queste parole che il filologo classico August Boeckh definì nel 1877 il compito della filologia: essa intende riconoscere un senso già trovato da altri. Lo scienziato dello spirito, quindi, non deve affatto indagare la materia ma le opere dell’uomo, e indagarle in vista del senso che è loro immanente e che gli è già dato. Scoprire 33
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L’uomo tra dogma e storia
questi contenuti di senso è ciò che si è definito (in senso stretto) “comprendere”. Non è facile convincere chi non vuole assolutamente ammettere che si tratti di due compiti del tutto diversi, e che di conseguenza sarebbe necessario utilizzare metodi diversi. Gli si può solo dire: apri gli occhi e rifletti su ciò che vedi. Gli uomini hanno prodotto molte cose, e quindi non solo mobili e utensili, ma anche edifici, quadri, opere musicali, opere di forma linguistica (dalla semplice frase fino alle sublimi costruzioni del pensiero e della poesia), istituzioni politiche e giuridiche, azioni etiche (a loro volta opera dell’uomo). Ebbene, tutte queste cose contengono ogni volta un loro senso, il quale vuole essere “compreso” e non pesato, misurato o collaudato mediante reagenti. Anche se vi fosse eventualmente in esse qualcosa da misurare, sarebbe comunque un aspetto cosale integrato nel senso stesso dell’opera. Il tema primario delle scienze dello spirito consiste quindi nel compiere nuovamente le attribuzioni di senso precedentemente effettuate dagli uomini nelle opere, cioè i contenuti di senso installati nelle opere. Bisogna senz’altro ammettere la possibilità di cercare altre vie per comprendere la specificità delle scienze dello spirito. Qui ci si domanda però quale sia il modo propedeuticamente più utile e meno fuorviante. In ogni caso, l’ambito di competenza finora descritto è quello comune a tutte le scienze storico-filologiche. Godendo oggi queste scienze di un ruolo predominante in tutte le facoltà di scienze dello spirito, è indispensabile quanto meno assegnare a questa vasta area scientifica il suo luogo logico. Ciò che, a mio parere, è indubbiamente accaduto. 34
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Un’obiezione può sorgere solo da un punto di vista diverso. Se, come si è detto, la filologia nel suo senso lato, comprendente cioè l’arte figurativa, la musica, le formazioni sociopolitiche e perfino le azioni politiche, cerca di riconoscere nelle opere dell’uomo già esistenti il loro senso, allora è naturale domandare in che modo questo senso sia originariamente potuto entrare in tali opere. Gli artisti (nel senso lato del termine), infatti, nelle loro opere vogliono “catturare la bellezza”, renderla accessibile, schiuderla e darle forma. Le istituzioni giuridiche invece, in quanto creazioni del diritto, vogliono produrre un “diritto giusto”, e le conoscenze giunte a formulazione linguistica vogliono invece essere vere. Ma allora il problema fondamentale del senso sembra essere non il riconoscimento di un senso già trovato, bensì la creazione, il primo accertamento e la scoperta iniziale del senso. L’attribuzione di senso. Se concentriamo la nostra attenzione su questa scoperta della verità, vediamo che accanto alle scienze dello spirito storico-filologiche devono esistere anche delle scienze dello spirito filosofiche, volte direttamente alla verità e al senso, all’idea e ai valori come tali. Esse non ricostruiscono alcun senso dato, ma scoprono e creano il senso come tale e in se stesso. S’introducono direttamente in un regno del senso che non è prodotto da altri, ma che deve poter essere autonomamente acquisito. Lo si può senz’altro ammettere. Esistono queste scienze dello spirito filosofiche, e vi rientra anche la logica. Ma come stanno le cose nel territorio estetico? L’artista creatore, pur non parlando primariamente della 35
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bellezza, dando forma alla propria opera vuole però implicitamente dire: “questo è bello”. Se ne potrebbe evincere che il compito primario delle scienze dello spirito sia quello di formulare (non importa ora se esplicitamente o implicitamente) i cosiddetti giudizi di valore. È in ogni caso necessario che l’opera sia stata in qualche modo creata in virtù di una certa cognizione (comunque la si sia ottenuta) del regno del bello in quanto tale. In questo caso qualcosa non viene tanto ri-conosciuto quanto “conosciuto”. Ad essere conosciuta, comunque, non è certo una qualche effettualità cosale, bensì una sfera sovrasensibile per la quale da molto tempo la filosofia è impegnata a trovare un nome adeguato. La distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito non sarebbe quindi quella sopra esposta e peraltro assolutamente valida per tutte le discipline storico-filologiche, perché i due gruppi di scienze si distinguerebbero piuttosto in ragione del fatto che mentre le prime studiano l’effettualità, le seconde indagano la sfera sovrasensibile del senso valido in sé o del valore, dell’idea o della verità (in senso lato). Ecco il punto a cui, stando alla mia esperienza, tutti coloro che non sono studiosi di scienze dello spirito di solito si arrestano e si ribellano. Ammettiamo pure che tutti i creatori di qualche “opera dell’uomo”, capaci di infondere il loro senso in qualche opera, non possano non vivere in questa sfera sovrasensibile di senso, vi debbano essere di casa e vi si possano muovere liberamente. Ammettiamo, inoltre, che essi debbano necessariamente cercare e trovare in questa sfera le ragioni del loro fare, e che ciò valga naturalmente anche per chi, costruendo un martello, ne deve conoscere lo scopo, come pure per chi produce delle opere nelle scienze della natura, 36
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non meno padrone della verità e della logica di quanto lo è lo scienziato dello spirito. Ammettiamo poi che sia la filosofia a dover portare razionalmente chiarezza e ordine in questa sfera sovrasensibile. Ammesso tutto ciò, questo approccio (inteso propedeuticamente) a una dottrina onnicomprensiva della scienza nasconde però enormi pericoli. Chi non sia uno scienziato dello spirito e anzi neppure un filosofo 1. corre infatti il rischio di ravvisare il senso del lavoro delle scienze dello spirito nell’esprimere anzitutto dei giudizi di valore e, inoltre, di misconoscere l’assai più accessibile e indispensabile tema delle scienze storico-filologiche. Abbagliato dalla luce del “mondo del senso in quanto tale”, egli finisce per non vedere più chiaramente ciò che è in piena luce. 2. Chi non sia uno scienziato dello spirito si interroga, a ragione, sulla possibilità generale di esprimere scientificamente dei “giudizi di valore”. Più precisamente, su dove vada posta la linea di demarcazione tra la cognizione scientifica di questa sfera e la libera intuizione di carattere extra- o prescientifico. 3. Neppure il filosofo può negare che l’insieme delle realizzazioni spirituali dell’umanità, per quanto sobriamente considerate, sia comunque dovuto ad “atti creativi” i cui autori chiamiamo geni. Né può negare che queste eccelse realizzazioni dell’uomo (o per lo meno una loro gran parte) debbano concretamente la loro realizzazione più a ispirazioni creative che non a prospettive filosofiche sistematiche. 4. Il filosofo trova qui un immenso ambito di competenza. Se, contrariamente a quanto paiono suggerire le mie esplicite riserve, occorre sottolineare che l’uomo deve essere generalmente “ispirato” dal mondo del sen37
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L’uomo tra dogma e storia
so anche solo per costruire un martello, e a maggior ragione per scrivere le sinfonie di Beethoven, le massime di Confucio o l’opera di Platone, lo scienziato dello spirito di tipo “ordinario” ha invece di solito fortissime remore ad attribuire esclusivamente all’ispirazione l’arduo lavoro da lui svolto su un materiale composto da opere dell’uomo, un lavoro – va notato – solo in relativamente pochi casi coronato dal successo. Potremmo variare ironicamente il motto di Molière e dire: egli non sa proprio di fare poesia. E in effetti questo studioso, in ultima analisi, non possiede quasi mai una piena cognizione di ciò che fa. Gli scienziati2 dello spirito, tuttavia, trovandosi in una produttiva concorrenza con una ricerca naturalistica fiera della propria esattezza, hanno il legittimo diritto di mettere in luce il lato scientifico del proprio lavoro. A dire il vero, essi non potrebbero neppure ricomprendere ciò che è dotato di senso se, come esseri umani, non fossero per definizione già aperti alla sfera di ciò che è dotato di senso e se l’attribuzione di senso non fosse qualcosa a loro familiare. Se però gli scienziati dello spirito conoscono fin da principio gli scopi, le finalità e i compiti, che cosa sia vero, esatto, bello e ancora più bello, buono e migliore, allora vorrà dire che essi fin da principio in quanto scienziati dispongono largamente di questa “competenza” di origine prescientifica e quindi universalmente umana, che la educano, ma per poi applicarla in modo metodico e coerente all’insieme di opere che sono chiamati a indagare. Se il tema è il cassettone rococò, da cui prese le mosse la nostra riflessione e del quale fin da principio dicem2 [Il termine “scienze” nel testo è probabilmente un refuso, come si evince dal prosieguo].
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Erich Rothacker
mo che è bello, si possono avere nei suoi confronti due orientamenti. a) L’artista che l’ha fabbricato vuole semplicemente che sia bello (la sua conformità allo scopo è compensata già dall’artista stesso con la pretesa di bellezza che vi è insita. Sorgono qui dei problemi specifici, ma non delle contraddizioni). b) Per lo storico dell’arte si tratta di un cassettone “rococò”, vale a dire un’opera d’arte con una sua forma particolare. Per il suo “stile”, esso è diverso dai cassettoni di altre epoche nonché da quelli di altri artisti coevi. Anzi, eventualmente perfino da cassettoni fabbricati dall’artista stesso in fasi precedenti della sua vita. Sarà la scienza dell’arte, pertanto, a “caratterizzarlo” in funzione dei princìpi stilistici che gli sono immanenti e di ciò che lo distingue da altre opere. Infine gli assegnerà una collocazione precisa nella storia dell’arte decorativa. c) Comune a entrambi gli orientamenti è l’approccio prescientifico stando al quale il cassettone è un’opera d’arte. Una pretesa rivendicata anche dall’utente, da chi la contempla e dal collezionista, nessuno dei quali è necessariamente uno “scienziato dell’arte”. d) La scissione di questo orientamento primario si ha solo con l’adempimento di questi “problemi di gusto”. Lo storico dell’arte, allora, si rivolgerà al “senso” (alla pretesa di bellezza e al contenuto di bellezza) che l’opera d’arte già possiede. Si atterrà quindi a un senso “dato”. L’artista, invece, non cercherà affatto di classificare scientificamente la propria opera, riconoscendosi semplicemente nella sua bellezza, ossia nella propria intenzione divenuta senso. Dirà: l’opera è bella. Se gli si chiedesse di esprimersi, egli potrebbe del resto confessare di averla realizzata così com’è per questa o quella con39
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L’uomo tra dogma e storia
vinzione artistica, e così come pensava fosse necessario realizzarla secondo scienza e coscienza, cioè sulla base dell’esigenza artistica e del gusto da cui si sente intimamente sollecitato. Egli parla quindi in virtù del proprio accesso diretto al mondo del senso in quanto tale. In linea di principio, egli potrebbe qui anche richiamarsi a una qualche estetica filosofica, la quale a sua volta dirige lo sguardo direttamente sul mondo del senso stesso, soltanto in modo più sistematico di quanto non faccia l’artista. Questi si accontenterà però, nella prassi, per lo più di richiamarsi alla propria convinzione. Di questa autoconfessione dell’autore, ossia di colui che crea un’opera dell’uomo, come pure di ciò che confessa l’ammiratore di quest’opera, dovremo ricordarci più avanti. Ma prima, ossia nel capitolo seguente, faremo un passo completamente nuovo.
2. Il concetto della forma di pensiero dogmatica Leggendo gli scritti impegnati ad abbozzare dei “sistemi delle scienze”3, è spesso inevitabile l’impressione che questi autori non abbiano mai scorso, neppure una volta, un “calendario delle lezioni”. Se infatti si leggessero con qualche attenzione questi autorevoli documenti della concreta attività scientifica se non addirittura della storia della scienza, si vedrebbe che in più facoltà, e sicuramente in quella giuridica e in quella teologica, si 3 Non tutti questi scritti sono necessariamente mediocri quanto Geisteswissenschaften und Naturwissenschaften (1931) di E. Becher [Duncker & Humblot, München 1921]. Ad essere qui discusse sono, in genere, soltanto le teorie correnti sulle cosiddette scienze dello spirito, ma senza che queste scienze siano tematizzate in quanto tali dall’autore.
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tengono lezioni il cui titolo, per alcuni sorprendente, è Dogmatica. I temi sui quali si tengono lezioni sono di solito già trattati in libri di testo. La monografia, il corso di lezioni e non da ultimo l’istituzione di una cattedra di ruolo per la disciplina in questione (forse addirittura prima dell’assegnazione dei compiti didattici) sono le tappe tipiche attraverso cui nasce e si sviluppa una scienza particolare. Abbiamo quindi libri di testo, cattedre e corsi relativi a una disciplina sulla quale le teorie filosofiche della scienza quasi sempre tacciono. La dogmatica giuridica sviluppa il contenuto sistematicamente e concettualmente coerente di un diritto vigente (di codici dati o di loro equivalenti). La dogmatica teologica il contenuto sistematicamente coerente dell’immagine del mondo rivelata, del cristianesimo e del suo contenuto di fede. E qualcosa di corrispondente può naturalmente esistere anche in altre religioni. Lezioni e libri di testo rivelano che si tratta di discipline accademiche già da tempo perfezionate e di metodi in possesso di una specifica struttura logica, oggi come sempre concretamente e solidamente praticati. Questa struttura logica è chiaramente diversa da quella delle scienze dello spirito (o della cultura) di tipo storico e filosofico, così come le si insegna nelle medesime facoltà, ma anche, ad esempio, dal metodo dell’economia politica teorica. In definitiva, con la parola “dogmatica” non è legittimo pensare esclusivamente al tono negativo con cui Kant, in un passo divenuto popolare dei Prolegomena, dice che David Hume lo “svegliò dal sonno dogmatico”4. Dogmatismo (sic!) 4 [I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, a cura di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 8; leggermente modificata].
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significa per Kant procedere “senza una critica preliminare” delle proprie intuizioni5, anche se nel medesimo luogo Kant riconosce che vi è un uso linguistico più neutrale, in cui si parla non di dogmatismo ma del metodo dogmatico tout court come di un «dimostrare a priori rigorosamente, mediante sicuri princìpi»6. Approfondendo questa peculiare problematica e metodica scientifica, possiamo notare che, come orientamento di pensiero, essa è (ed era) presente in un numero di sfere culturali ben più ampio delle due già citate. Tant’è vero che nel corso dei secoli le forme di pensiero dogmatiche hanno acquisito un notevole significato anche nei campi dell’arte, della grammatica, dell’economia politica e della politica. La cosa si rivela particolarmente interessante nell’ambito dell’arte. D’altra parte, è bene non dimenticare che gli sforzi spirituali non si producono abitualmente soltanto nella sfera delle scienze rigorose. Accanto alle sfere differenziate rappresentate dalla scienza dell’arte (ancora relativamente giovane) e analogamente dalla scienza della letteratura, esistono da molto tempo, ad esempio, anche la critica d’arte e la critica letteraria. Questa critica, a dire il vero, non è ritenuta una scienza, e anche se il XVIII secolo era incline a pensare in questi termini, ne ha fatto comunque certamente un autonomo campo professionale. Pur nell’apparente assenza di norme rigorosamente dimostrabili, si prende anche intellettualmente sul serio tale critica, distinguendo i critici validi da quelli mediocri (donde un approccio almeno implicitamente nor5 [I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, bibl. di A. Bosi, Utet, Torino 1986, p. 21]. 6 [Ibidem].
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mativo) e raccogliendo in parte queste critiche, apparse per lo più su giornali, anche in forma di libro. E infatti esistono le “Opere Complete” di grandi critici. Si pensi non necessariamente alle opere di Lessing, Herder e Schlegel, ma anche solo a una corrente letteraria che è particolarmente praticata in Francia. Un ramo letterario affine è costituito dagli scritti dei grandi artisti, i quali riflettono con maggiore o minore talento concettuale sul senso della loro stessa attività creativa e sostengono con grande risolutezza che tale senso è la verità dell’arte. Stiamo pensando allo specifico ramo letterario delle cosiddette “estetiche d’artista”, le quali, d’altronde, si sviluppano praticamente e concretamente entro un ampio raggio d’azione, che va dalle intenzioni rigorosamente teoretiche al campo più soggettivo dell’autoriflessione, della connoisseurship, delle intenzioni programmatiche, della propaganda, dell’autodifesa, ossia dell’apologetica. In teologia anche l’apologetica è considerata una branca della scienza. Ho usato poco fa un termine divenuto imbarazzante come “propaganda”. Se ne radicalizziamo il senso, il termine rinvia a qualcosa da sempre esercitato, nelle più diverse forme letterarie e retoriche, da orientamenti politici come la democrazia, il liberalismo, il conservatorismo, ecc., tanto che questa pubblicità (di opinione o elettorale) fosse di natura più politico-governativa o più politico-ecclesiastica, come nel cosiddetto romanticismo politico, nella letteratura politica ultramontana (per arrivare al caso limite e abilmente nascosto della dottrina politica di Othmar Spann). Per tacere poi della propaganda dei sistemi politici successivi. Ma l’impressionismo artistico, ad esempio negli scritti di Julius Meier-Graefe, non si è forse pubblicizzato 43
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altrettanto propagandisticamente contro il classicismo, il realismo e il romanticismo di Böcklin? O, una generazione dopo, l’espressionismo e i suoi seguaci contro l’impressionismo? Astrazione ed empatia di Worringer non era solo uno studio ma anche uno scritto programmatico. Si trattava, a ben vedere, di un’attività pubblicistica volta a propagandare, con sguardo sicuro e fantasia intuitiva, degli orientamenti artistici che ancora quasi non esistevano, ma che de facto poi emersero. Familiarizzatici con questo orientamento, ci si può domandare se nella storia dell’economia politica i mercantilisti, i fisiocratici, i liberali classici e da ultimo i sistemi socialisti, nelle loro aspre polemiche reciproche, non abbiano a loro volta agito con finalità promozionali, in modo propagandistico e in parte perfino apologetico. Con pathos essi proclamarono infatti delle “verità” politico-economiche, e, cosa particolarmente interessante, in queste confessioni essi introdussero anche il pathos dell’“esattezza” caratteristico della teoria economica. Non hanno forse questa medesima sfumatura patetica anche i contrasti tra i giuristi orientati al diritto romano e quelli che pensano nei termini del diritto tedesco, quei contrasti cioè il cui accomodamento condusse infine al nostro codice civile7? E addirittura, nel campo della lingua, la difesa del tedesco dal francese che troviamo negli scritti giovanili di Herder e in Justus Möser? Come pure gli attacchi dei puristi della lingua fino alla polemica interminabile sull’uso di vocaboli stranieri? Anzi, la grammatica più antica non prevede forse delle esplicite “istruzioni” sul parlare e sullo scrivere così e non altrimenti? Il che vale sia per 7 Cfr. Otto von Gierke, Die historische Rechtsschule und die Germanisten, [Schade, Berlin] 1903.
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le retoriche classiche, sia per l’impegno dell’Académie Française, delle società per la lingua tedesca e perfino della grammatica normativa insegnata a scuola. Il nucleo dell’atteggiamento di base qui prevalente consiste nel fatto che in tutti questi casi si dà espressione a una ferma “convinzione”, e precisamente a una convinzione che si presenta come vera e cerca di procurarsi dei fondamenti scientifici. Rientra non meno necessariamente in questo atteggiamento di base il fatto che questa “fede filosofica” persegua poi la finalità ideale di essere al servizio della “vita” e del proprio “presente” (che sia il presente più prossimo o l’epoca nel suo insieme o anche l’intera umanità), di annunciare verità salvifiche, di fornire ricette per il rinnovamento e il risanamento. È invece secondario che queste “verità” in molti passaggi esprimano la convinzione di singoli profeti e redentori, fondatori di religioni o legislatori, oppure esplicitino il senso di “istituzioni” preesistenti, le quali, pur essendo già al potere e ormai consolidate, in ultima analisi rivendicano però di essere anche vere. Come si è visto, esse possono tanto formulare il senso di comunità religiose e di istituzioni giuridiche esistenti, di orientamenti artistici, sistemi economici (e così via) da tempo in vigore, quanto cercare di suggerire nuovi indirizzi a tali orientamenti. In questo secondo caso operano in modo prevalentemente “profetico”, predicando, propagandando e professando qualcosa in forma programmatica, mentre nel primo caso si muovono in modo prevalentemente riflessivo, cioè meditando su una verità che ha già avuto la meglio. In Lutero la “dogmatica” protestante era ancora un programma aperto, mentre nel XVII secolo era ormai diventata l’illustrazione dogmatica scientificamente articolata di solidi istituti ecclesiastici. Fran45
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cesco annunciava il programma di una nuova cristianità, mentre il suo ordine religioso esplicitava in seguito il senso immanente di un patrimonio consolidato. Prima che nascesse il codice civile, i vari indirizzi programmatici polemizzavano ancora gli uni con gli altri, mentre, una volta acquisita una stabilizzazione legale, la dogmatica giuridica divenne l’esplicazione e l’illustrazione concettuale di tale codice, la critica della sua coerenza immanente: una critica che, del resto, non escludeva affatto la possibilità di un’ulteriore critica sul terreno della filosofia del diritto. Sia il politico del diritto sia il filosofo del diritto si pronunciano de lege ferenda. Rientrano proprio in questa sfera, ossia nella riflessione della filosofia della cultura, anche l’odierna e vivacissima discussione sul “senso” della tecnica e le meditazioni, meno popolari ma altrettanto vivaci, sul compito della medicina. Con queste ultime osservazioni abbiamo comunque oltrepassato l’ambito delle scienze dello spirito, il quale deve restare al centro di queste considerazioni. Bisogna quindi per lo meno sfiorare la questione dell’eventuale presenza di orientamenti dogmatici anche nel campo delle scienze naturali. Naturalmente non si danno qui delle discipline dogmatiche esplicite, eppure anche all’interno della facoltà di medicina sarebbe possibile descrivere come “dogmatiche” la medicina naturale e l’omeopatia, la psicoanalisi e la psicoterapia o indirizzi moderni di medicina interna come quelli di Weizsäcker. Infatti ogni nuovo “indirizzo” viene inteso, quanto meno dai suoi avversari, proprio come “dogmatica”. La dogmatica non è appunto altro che l’esplicazione sistematica di un orientamento particolare, di uno stile determinato, di un modo specifico di vedere le cose. Proprio l’estensione e 46
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l’universalizzazione di questo concetto ci consentiranno di proseguire. Quando infatti il moderno psicoterapeuta designa e combatte il punto di vista dei suoi avversari, ossia della medicina vigente, come “meccanicistico” o “naturalistico”, è chiaro che con questa locuzione egli sta appunto assumendo come dogmatica anche la medicina classica, e in fondo, anzi, tutti gli assiomi della scienza della natura “moderna”. Una volta anche Galilei e Keplero, Descartes e Newton, sono stati indubbiamente dei dogmatici. Poi si sono imposti, ma nel momento in cui la fisica più recente definiva “classica” la fisica da essi edificata, anche la scienza della natura matematica, presentatasi fino ad allora semplicemente con la pretesa di essere la “verità”, si trasformava sotto questo profilo in un “indirizzo particolare”, nell’esplicazione di un “orientamento”, di un certo modo di vedere le cose, di una credenza e di una convinzione. Non appena un’attività culturale è contrassegnata da un attributo storico o tipologico, si trasforma in una dogmatica. Chiariremo tutto ciò specialmente con esempi tratti dalla storia del diritto e dell’arte. Con l’esempio appunto delle scienze naturali ci si è chiarita l’opposizione tra la pura obiettività e la “convinzione”, puramente soggettiva anche se pretende di essere assolutamente obiettiva, l’opposizione cioè tra la pura oggettività e quello che è unicamente un punto di vista, tra i concetti fondamentali universali e assolutamente validi e quelli di validità solo limitata. Nel campo della produzione spirituale è però la filosofia a rivendicare la pretesa assoluta di giungere a conoscenze razionalmente necessarie e universalmente valide. Proprio a questo stadio pareva si fosse giunti nel XIX secolo nei due ambiti summenzionati: da un lato 47
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col nome di “filosofia del diritto”, dall’altro con quello di “estetica”, nel primo caso sul terreno della scoperta, definitivamente riuscita nel diritto romano, dei fondamenti di ogni diritto in generale, nel secondo sul terreno della definitiva scoperta nell’antichità, poi rinnovata nel Rinascimento, del bello in sé. Ma è il momento di semplificare intenzionalmente le cose. Fingiamo consapevolmente che in entrambi i campi si sia effettivamente prodotto un unanime consenso tra gli esperti, e che soprattutto in campo giuridico si sia raggiunta, con tutti i mezzi della scienza, l’unanimità di tutti i giuristi sul fatto che i concetti basilari della giurisprudenza sarebbero stati scoperti e definitivamente formulati nel diritto romano, così che i romani possano essere considerati i classici del diritto e del pensiero giuridico in quanto tale8. L’analogo in campo artistico (nell’arte in senso lato, comprensivo anche di poesia e musica) sarebbe l’idea che i concetti fondamentali del bello e dell’arte siano stati definitivamente stabiliti nell’epoca che va da Winckelmann, attraverso Goethe e Schiller, sino a Hegel. E allora se ne potrebbe ravvisare il culmine nell’estetica in sei volumi di un hegeliano come F.T. Vischer, né sarebbe difficile tracciare un analogo percorso evolutivo in Francia a partire da Boileau. Assumiamo dunque che la situazione di base, quale si presenta idealmente agli occhi del filosofo, preveda che in entrambi i campi siano stati fissati i concetti 8 Sottolineo ancora una volta il carattere fittizio del ragionamento e non affronto le differenze tra diritto privato e diritto pubblico, né tra il diritto romano più antico, il corpus juris costruito nei secoli attraverso compilazioni e interpolazioni, e i suoi perfezionamenti a opera di glossatori e commentatori fino alla pandettistica del XIX secolo.
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fondamentali. Quando questa intenzione è pienamente soddisfatta, il difensore di tali sistemi – perfezionati e resi profondamente sistematici, articolati in forma assiomatica e teoreticamente fondati – non si ritiene ancora un dogmatico ma un filosofo. Dà cioè ai suoi libri titoli come Filosofia del diritto o Estetica, intendendo con ciò dei sistemi universali, sviluppati in modo universalmente valido e necessario, corrispondenti a questa o quella sfera culturale. Poco fa abbiamo però definito proprio questi sistemi come dogmatiche. S’avvia qui un istruttivo gioco dialettico: in effetti una filosofia del diritto o un’estetica di questo tipo si trasformano immediatamente in una dogmatica non appena si assume un punto di vista che sia loro esterno e, su questa base, in parte le si paragona a sistemi di orientamento diverso e in parte le si giudica a partire da una diversa concezione del medesimo oggetto (la bellezza). Dal punto di vista del diritto germanico, ad esempio, il sistema giuridico romano non appare più universalmente valido ma solo come sistema romanistico. E analogamente, dal punto di vista ad esempio di un’estetica naturalistica o realista, l’estetica tradizionale dell’inizio del XIX secolo appare classicistica. Solo ora si chiama legittimamente “classicismo”. Quando però un sistema spirituale assume un nome come questo, non solo se ne sta ponendo in questione la validità universale (a meno che il nome, come accade in teologia, non funga da grido di battaglia dei suoi fedeli), ma al tempo stesso lo si sta storicizzando. Ciò significa che posso, volgendomi interiormente alla considerazione storica, constatare in modo distaccato e obiettivo che il diritto romano insegna questo e quello, così come l’estetica classicistica insegna questo 49
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e quest’altro. Fino a quando, leggendolo, non se ne apprendono le finalità specifiche, un libro il cui titolo sia Sistema del diritto romano può allora essere inteso tanto come una filosofia del diritto quanto come una dogmatica del diritto, ma anche come qualcosa di completamente diverso, cioè come un distaccato resoconto storico del fatto che i romani hanno insegnato questo e quello. L’esempio di un medesimo titolo che può designare tre libri guidati da una diversa intenzione mi pare particolarmente adatto a mettere in risalto ciò che intendo dire. Se si volessero esprimere univocamente già nel titolo queste tre diverse intenzioni, si dovrebbe forse procedere così: a) aggiungere a Sistema del diritto romano il sottotitolo: “Fondazione della scienza del diritto”. Ma in pratica l’utilizzazione del titolo Sistema del diritto romano dovrebbe comunque essere rara in un sistematico, poiché il devoto romanista non adopererebbe semplicemente il termine “romano” per indicare la propria finalità basilare. Darebbe piuttosto a questo libro un titolo come Sistema del diritto, anche se de facto – inevitabilmente – in quanto romanista egli sta elaborando questo sistema sulla base di concetti squisitamente romani. Analogamente, Vischer denominò il proprio lavoro, ancora oggi meritevole di lettura, semplicemente Estetica o scienza del bello, esprimendo così certamente la propria intenzione sistematica, pur pensando de facto in modo classicistico. b) In quanto opera dogmatica, il Sistema del diritto romano non avrebbe bisogno di alcuna aggiunta. Esso sa di essere un’opera di romanistica ed esplicita la coerenza immanente di tutti i concetti di tale sistema giuridico per i suoi lettori, i quali vogliono conoscere il senso del pensiero giuridico romano, perché magari il diritto volta 50
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a volta vigente ha o dovrebbe possedere la struttura del diritto romano, la coerenza immanente che spetta all’insieme concettuale di quel sistema giuridico. c) È così già evidente però la possibilità di un trasferimento nell’ambito storico. E infatti l’esposizione del libro può assumere ora i tratti del resoconto storico. Mentre il dogmatico s’interessa in primo luogo del logos di questo sistema, dell’intima e coerente connessione dei suoi concetti, lo storico considera anzitutto il fatto che esso valeva un tempo come il diritto. Ma la polivocità del titolo ci insegna anche qualcosa di molto importante. 1. Il mutamento del senso metodico poggia esplicitamente su un mutamento degli orientamenti, dei modi di considerare le cose e delle credenze precedenti. È possibilissimo che colui che legge la seguente descrizione storica – “è così che pensavano i romani” (ad esempio nel Diritto pubblico romano di Mommsen) – si convinca del fatto che «si tratta proprio della verità del diritto pubblico, la quale vale anzi anche per noi». Quella che è una descrizione storica si ritrasforma così in un diritto pubblico sistematico di tipo filosofico e ritenuto universalmente valido, del quale i suoi avversari potrebbero nuovamente affermare: «ma proprio questo approccio è dogmatico, poiché la “verità” è invece diversa». 2. Dovrebbe essere ormai chiaro, però, a che cosa mai si deve questo mutamento di orientamento. Il passaggio dall’orientamento filosofico a quello dogmatico e di qui a quello storico non annulla minimamente la perfetta coerenza sistematica del sistema. Anche colui che ci fornisce un’informazione storica, dicendo “è così che i romani formulavano il problema giuridico”, non intacca affatto questo contesto sistematico, volgendosi solo inte51
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riormente al “descrivere”. Non diventa uno storico solo perché cerca di spiegare per quale ragione e in che modo i romani siano appunto pervenuti alla loro specificità romana. Può anche esserlo, ma la sua compiuta esposizione sistematica delle concezioni giuridiche romane è già storica nel momento in cui egli si accinge alla descrizione. Perfino quando studierà a fondo l’evoluzione storicamente databile di queste concezioni giuridiche, egli non dimenticherà però che erano dei pensieri giuridici, ossia connessioni sistematiche determinate dalla logica giuridica. 3. Il passaggio dal sistema di filosofia del diritto al dogma si realizza esclusivamente tramite un mutamento della fede e della convinzione. A cambiare è la fede nella validità universale. Ma non perché si neghi la necessità teoretica delle singole deduzioni. A ben vedere, la critica concerne in questo caso solo gli assiomi impliciti ed espliciti nei quali non si crede più e non la coerenza della deduzione concettuale. Ci è facile integrare la serie delle procedure puramente metodiche finora discusse di queste scienze dello spirito con un quarto tipo di procedura, che il matematico e il logico puri sentiranno familiare. In linea di principio, si può progettare un insieme di sistemi tale che, se valgono gli assiomi-R (intendendo con ciò il diritto romano), allora questo sistema deve necessariamente articolarsi così e così dal punto di vista del contenuto, ossia in riferimento alla totalità degli specifici compiti giuridici. Se valgono gli assiomi-D oppure gli assiomi-C (penso ora al diritto cinese), la connessione contenutistica dei concetti particolari dev’essere questa e quella in modo nuovamente coerente. Un modo di vedere le cose del tutto ovvio, ad esempio, per Max Weber. 52
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4. In tutti e tre i sistemi menzionati si conserva in forma perfetta e unitaria il contesto sistematico dei concetti giuridici. Dobbiamo così ammettere che della dogmatica, pur essendo “soltanto” dogmatica, la critica, esercitata dal critico o dal comparativista che ne coglie il punto di vista, non svela affatto una natura non scientifica o addirittura dilettantesca. Il pensatore di cui a posteriori si scopre l’approccio dogmatico potrebbe comunque aver realizzato un immenso lavoro sistematico e teoretico, e in effetti lo ha realizzato nei casi classici. Detto altrimenti, il pensiero dogmatico rappresenta un indirizzo di ricerca di prim’ordine e dall’esito scientifico duraturo9. 9 Inaspettatamente l’influente romanista P. Koschaker (Europa una das römische Recht, [Beck, München] 19532 [tr. di A. Biscardi, L’europa e il diritto romano, Sansoni, Firenze 1962], p. 337), la cui impostazione è soprattutto storica, esprime un giudizio del tutto diverso. Come già il giurista romano Celso (II sec. d.C.), che definisce lo ius come ars boni et aequi, anche Koschaker non vede nell’applicazione pratica e nel reperimento del diritto una “scienza” ma un’“arte”, il che corrisponde finora all’uso linguistico romano ed è anche per noi del tutto abituale. Poiché quest’arte si serve dei “risultati di indagini scientifiche”, l’ho presa in considerazione (p. 82 sgg.) come teoria applicata. Fin qui siamo d’accordo. Che però la dogmatica del diritto, che “ordina e sistematizza” (p. 337, n.) soltanto il contenuto del diritto, sia una scienza vera e propria, appare a Koschaker dubbio (p. 337) sulla base del “concetto moderno di scienza” (p. 284), visto che, come la Scolastica, la dogmatica presuppone un diritto già vigente, insegna cioè “solo” ex autoritate e non si applica alla libera ricerca della “verità”. Sarebbe stato Savigny a produrre il concetto di scienza del diritto, ossia a estendere il concetto di scienza alla dogmatica, avendo in mente di elevare a scienza qualsiasi attività giuridica (pp. 210 e 265). All’estero si parlerebbe coerentemente solo di giuris-prudenza e negli Usa le facoltà giuridiche si chiamano addirittura law-scouls [-schools]. La Storia del diritto, viceversa,
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Per una più articolata illustrazione di questo peculiare passaggio da filosofia a dogmatica a storia, potremmo prendere in considerazione anche i Concetti fondamentali della storia dell’arte di Heinrich Wölfflin (prima ed. 1915)10. Quando Wölfflin scrisse nel 1898 il suo libro sull’Arte classica, era ancora più o meno in balìa dell’estetica classicistica condivisa dal suo maestro Jakob Burckhardt e dall’intera epoca precedente. Quest’epoca disprezzava talmente l’arte barocca che vendeva dei famosi edifici sarebbe una vera scienza, come pure il diritto comparato. Occorre aggiungere che, in conformità con questo supposto “concetto moderno di scienza” introdotto da Koschaker nella scienza giuridica dall’esterno, a reclamare un rango scientifico a fianco della storia del diritto dovrebbe essere solo la filosofia del diritto, visto che in effetti quest’ultima cerca di scoprire direttamente la “verità”. A questo stimato studioso avrei volentieri domandato se considera più importante come lavoro “scientifico” una “filosofia del diritto” degli anni ’60 del XIX secolo oppure un’opera in tutto e per tutto dogmatica come il Lehrbuch des Pandektenrechts (18621870) di Windscheid. In conformità con l’opinione di Savigny (p. 267) e con l’uso linguistico teologico, vorrei rivendicare anche per la dogmatica del diritto uno status scientifico, anche se essa costruisce un sistema solo ex autoritate (cfr. anche pp. 192 e 265). Uno status che si fonda appunto sulla levatura e sulla profondità di questo lavoro di sistematizzazione (cfr. anche p. 281), ed è di conseguenza opera anche di scienziati (professori). Infatti Koschaker non ignora di certo il fatto che in questo campo si è realizzato e si realizza tuttora un immenso lavoro concettuale. In tal senso egli approverebbe sicuramente l’ultima parte del testo. Glielo impedirebbe esclusivamente quel “concetto moderno di scienza” che ha ricavato in modo estrinseco. Assai convincente è comunque l’osservazione (p. 338, n.) sulle accademie. 10 Si veda la mia recensione nel Repertorium für Kunstwissenschaft, XLI, 1919 [pp. 168-176]. Riedita nella mia raccolta di saggi Mensch und Geschichte, [Athenäum, Bonn] 19502 [pp. 151-165].
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perché fossero demoliti e distruggeva intere casse di progetti architettonici, nella convinzione che in seguito non ci si sarebbe più interessati a questa arte della decadenza. Quando l’altro mio maestro di storia dell’arte, Carl Neumann, fu chiamato a Heidelberg come successore di Henry Thode, ancora non conosceva gli importanti edifici barocchi del vostro circondario. Si trattava di residui della dogmatica classicistica (cosa particolarmente paradossale nel caso di Carl Neumann), i quali però vennero riconosciuti come dogmatica solo nel momento in cui finalmente si arrivò a comprendere l’eccellenza dell’arte barocca in quanto tale. Nel momento in cui anche Wölfflin, che ad esempio da giovane proprio come Burckhardt rifiutava Rembrandt, si aprì a questa nuova prospettiva, accompagnò la dichiarazione estetica per l’arte classica, ossia una vera e propria dogmatica classicistica, con un secondo libro, che ancora descriveva l’arte classica, ma la poneva già anche in contrasto con il sistema in cui ogni artista barocco aveva fermamente creduto, cioè l’estetica del «pittorico, della profondità, della forma aperta, della riduzione del tutto a unità, della chiarezza delle cose come appaiono». Il fatto che Wölfflin ponesse poi in contrasto quest’estetica dogmatica dell’arte barocca con l’estetica dell’arte classica, altrettanto dogmaticamente articolata (l’estetica del «lineare, della superficie, della forma chiusa, del tutto con parti indipendenti, della chiarezza della realtà oggettiva»), non era, come opposizione, che un’operazione teorica. E non meno teorico era che egli tentasse di costruire una filosofia della storia fondata sull’alternanza periodica degli stili. Tanto la spiegazione dell’arte classica, sorta un tempo per vera fede nella stes55
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sa, quanto la spiegazione analitico-descrittiva del logos immanente all’arte barocca erano però l’esposizione di due diverse dogmatiche. Il tenore dell’operazione complessiva è diventato tuttavia aridamente teorico. Il teorico ideale da me prima menzionato direbbe piuttosto: se tu persegui questi fini, allora devi dipingere in questo modo; se ne persegui altri, devi dipingere in altro modo. Ecco l’orientamento teorico: ci sono due possibilità chiuse, ma nella vita vissuta il pittore (e gli altri) deve necessariamente sapere che cosa concretamente vuole, e allora elabora uno stile, il quale può essere spiegato solo in forma dogmatica.
3. L’imprescindibilità del pensiero dogmatico Assicurato così un rango scientifico alla dogmatica, che naturalmente in un primo momento non è che il rango di un gruppo di scienze tra gli altri, è però forse un po’ più difficile procedere molto oltre e comprendere anche l’imprescindibilità di questo metodo. Esso è indispensabile, ma bisogna ancora approfondire nella loro essenza anche le idee già acquisite sulla specificità di tale metodo. 1. A partire da quanto si è detto, si può anzitutto trarre una conclusione fondamentale per la comprensione delle scienze storiche. Come potrebbe procedere lo storico che studia la storia del diritto romano o dell’architettura egizia o della pittura cinese, se non utilizzando metodicamente ciò che abbiamo già appreso sulla convertibilità tra osservazioni dogmatiche e osservazioni storiche? Proprio come il dogmatico, anche come storico egli deve penetrare nel logos interno e nelle intenzio56
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ni fondamentali di queste grandiose realizzazioni dello spirito, caratterizzate da una fisionomia assai pregnante. Quello che il dogmatico, nella intentio recta, ha da dire sulla bellezza che gli si schiude o sulla validità giuridica di queste connessioni dell’opera, lo storico lo deve esporre in forma tanto esplicativa quanto descrittiva. Ciò che il dogmatico “professa”, lo storico lo racconta. Quest’alternanza di confessione e resoconto, di (quasi lirica) “espressione” e descrizione, è molto più importante di quanto sia la logica precedente sia la linguistica abbiano ammesso. Come la poetica è ben consapevole della distinzione tra “lirica espressiva” ed “epica narrativa”, così anche la linguistica dovrebbe spesso considerare con maggiore attenzione quella componente dell’uso linguistico le cui origini affondano nella “lirica”. Non basta riconoscere nelle parole, nelle frasi e nelle loro costruzioni degli aspetti “espressivi” di natura affettiva, legati a stati d’animo e dotati di valenza musicale, con l’intento nascosto di purificare intellettualisticamente con questo artificio i significati delle parole. L’intellettualismo tradizionale – uno stadio che occorre categoricamente superare in tutte le scienze dello spirito – pensa pur sempre, anche se in forma rudimentale, che l’espressione lirica “descriva” stati interiori in una forma che s’avvicina gradualmente a quella oggettiva. Il lirico, però, non “descrive”, ma “esprime”, dice, dà forma, formula quella fluttuante “cosa” intermedia tra lo stato d’animo soggettivo e la correlata visione il cui contenuto è un’immagine. Non “descrive” lo stato d’animo e neppure il contenuto della visione, ma li porta entrambi a espressione nel medesimo tempo. Spesso occorre quindi che anche la psicologia corregga se stessa, visto il grande ruolo che vi gioca il termine “descrittivo”. Io posso certo tentare di 57
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descrivere i processi della mia vita interiore, ma mai e poi mai questa descrizione può considerarsi l’unica possibilità di comunicare a un ascoltatore il contenuto della mia coscienza. L’avvio della “Serenata” di Claudius, La luna è sorta, non è né una constatazione né un’affermazione11, e neppure la descrizione di una visione, piuttosto un “dire lirico”, una peculiare sintesi tra uno stato d’animo “soggettivo” e uno stato d’animo suscitato proprio dall’immagine qualitativa nella cui contemplazione il sentimento è sprofondato. Quando qualcosa mi afferra, fanno egualmente parte del risultato di ciò che accade sia quel qualcosa sia il rapimento emotivo, anche se indubbiamente può esservi una lieve oscillazione interna tra i due poli dell’ellisse. Sfortunamente, questa nostra terminologia scientifica è talmente difettosa, ambigua e antiquata, che persino formulazioni come “asserzione” oscillano in modo fuorviante tra il dire lirico e il dire logico, e che un termine come “espressione” (“egli esprime una visione”, e perfino l’infelice abitudine di chiamare espressioni le parole in genere) suscita qui fraintendimenti su fraintendimenti. Anche locuzioni oggi ampiamente diffuse nell’antropologia filosofica come “autointerpretazione” e “autocomprensione dell’uomo” possono risultare fuorvianti. E in ogni caso non le si può intendere nel senso di oggettivazioni primarie del nostro essere, anche se possono legittimamente diventare la base di asserzioni oggettivanti. A ciò si aggiunga che le “riflessioni” con cui un autore oggettiva se stesso possono avere gradi diversi. La già rammentata riflessione di chi professa una fede sui propri atteggiamenti di fede ha però un’inten11 Così, a giusto titolo, osserva H. Ammann, Vom doppelten Sinn der sprachlichen Formen, [Winter, Heidelberg] 1920.
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zione diversa da quella oggettivante, s’avvicina piuttosto all’“autocoscienza”. Nell’autocoscienza, che è qualcosa di totalmente diverso dall’auto-osservazione psicologica, io tento di trasferirmi nel “senso” (eventualmente celato) del mio fare. Solo che questo contenuto di senso non è affatto un processo temporale psicologicamente descrivibile, ma, appunto, un contenuto. In questo senso, le “asserzioni” liriche e le confessioni dogmatiche risultano collegate nella maniera più stretta. La teoria dovrà qui cercare sempre ulteriori chiarificazioni. Ma le descrizioni, i resoconti, le narrazioni, l’epos e la memoria storica si trovano comunque su un altro piano. Lo storico “descrive”. Descrive cioè quello che il giurista immerso nel mondo intuitivo della dogmatica giuridica romana “vede” nei contesti di vita che approfondisce, oppure quello che il pittore cinese a sua volta “contempla”, quello che cioè egli plasma creativamente muovendo dallo spirito (passibile di formulazione dogmatica) della sua pittura. Per far ciò, è però necessario che lo storico sia penetrato nel senso di questo creare e fare tanto quanto il dogmatico, che ha dipinto o espresso dei giudizi sentendo di aver fatto così qualcosa di giusto e di vero. Il dogmatico ha fede nel senso del proprio creare produttivo, laddove lo storico riferisce questo senso, osservandolo però solo dall’esterno. Pur se dall’esterno, anche lo storico segue l’intimo logos di un’opera oppure dello stile di un’epoca: deve anch’egli chiarire a se stesso e al proprio lettore la necessità insita in queste tendenze stilistiche e vedere quale connessione plausibile vi sia tra l’“immagine del mondo” di una determinata epoca e il modo di vedere e quindi di agire di quella stessa epoca. 59
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Ciò che si definisce con un certo pathos “pensiero storico”, e si ritiene in contrasto con quanto in modo altrettanto carico di pathos si rifiuta come “pensiero astorico”, ha pertanto la sua origine nell’ambito delle scienze dello spirito (della storia della cultura) e non prima di tutto nella cosiddetta storiografia politica. Il pensiero autenticamente storico è perciò di casa più nell’ambito filologico, e quindi in quello della storia dell’arte, del diritto e della religione, che non in quello che tradizionalmente si definisce “storico”. Esso fiorisce pertanto in primo luogo negli ambiti che potremmo definire “storia-conla-lineetta” e che Max Weber, definendola “storia formale”, voleva (del tutto erroneamente) mettere in secondo piano nelle discussioni metodologiche12. Ciò che enfaticamente e con un certo pathos definiamo “pensiero storico” non mira affatto prima di tutto all’accertamento dei fatti, bensì alla comprensione possibilmente congeniale del modo in cui si manifesta il loro logos immanente, ossia degli stili a cui queste manifestazioni appartengono. Una volta perfettamente compresa quest’idea, la si può senz’altro ritenere la base per riflettere sul fatto che Alessandro e Cesare, Carlo Magno e Carlo il Temerario, Federico il Grande, Napoleone e Bismarck, ecc., avevano anche uno “stile”, uno stile politico, strategico, e così via, esattamente nello stesso senso in cui lo avevano Michelangelo, Bach e Goethe, ma anche Adam Smith e Kant. La moda, diffusasi con la Istorica di Droysen13 e da 12 Cfr. D. Henrich, Die Einheit der Wissenschaftslehre Max Webers, [Mohr, Tübingen] 1952, p. 68. 13 Apparsa originariamente nel 1868, poi riedita nel 1875 e nel 1882. Sono state queste edizioni originali, e non la mia riedizione (1925) né l’edizione completa delle lezioni di Droysen sull’istorica
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ultimo grazie alla notorietà delle opere di Rickert, di esemplificare l’essenza delle scienze dello spirito anzitutto con la “storiografia” suscita facilmente degli equivoci. Esponendo soprattutto l’intreccio di fatti ed eventi, la storiografia attira eccessivamente l’attenzione dei teorici della scienza su un tipo particolare di “realtà”, che è rappresentata dall’effettivo accadere spaziale-temporale-storico, e nella quale, soprattutto, è giustificato porre degli “interrogativi causali”. Beninteso, non perché non esista la realtà spaziale-temporale-storica data dagli intrecci di eventi e azioni, ma perché l’analogia tra questa regione della realtà e la realtà “naturale” di competenza dell’indagine naturalistica era troppo spinta, e si poteva così correre il rischio di perdere di vista il carattere prioritario, di senso e di stile anche delle azioni politiche. Cosa tanto più pericolosa quanto più in questo contesto, cioè sul piano di ciò che accade e degli eventi, queste realizzazioni del senso (al cuore delle quali resta appunto il senso) entrano in effetti così drasticamente in conflitto con la resistenza della materia che, dinanzi a pure impressioni energetiche, si poteva perdere di vista il nucleo intenzionale dell’insieme e quindi la fonte anche dei conflitti energetici stessi. Fin qui, seppure in modo frammentario, sull’imprescindibilità del pensiero e del comprendere dogmatici per lo storico (in senso lato, comprensivo anche di tutte le filologie). 2. Il secondo punto consiste ora nel rivolgersi all’imprescindibilità di questo modo di pensare per le nostre curata da R. Hübner (1937), ad avere questa influenza [Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e Metodologia della Storia, a cura di L. Emery, Ricciardi, Milano-Napoli 1966]. E, non da ultimo, sullo stesso Rickert.
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conoscenze sistematiche e teoriche del mondo spirituale. A tal fine teniamo presente anzitutto la possibilità radicale sopra citata (cfr. supra pp. 52 e 56) di assiomatizzare tutti i dogmi (appunto perché costruiti con coerenza sistematica). Abbiamo visto che è teoricamente possibile ricondurre un sistema come il diritto romano a determinati presupposti ultimi e da essi dedurlo. Anche chi si occupa teoricamente di economia politica utilizza metodi come questi. Si tiene conto degli assiomi e si argomenta nel seguente modo: se valgono gli assiomi-R, allora ne derivano i seguenti princìpi giuridici. Se valgono gli assiomi-C (ad esempio per il diritto cinese), ne derivano di conseguenza degli altri. E così via, analogamente, in tutti gli altri ambiti culturali. Il teorico puro può allora costruire dei sistemi di “possibilità” molto articolati, può elaborare degli interi gruppi di possibilità esistenti. Il pensiero puro si muove, in quanto tale, sempre e necessariamente in questo ambito di possibilità esistenti, le quali sono di numero illimitato. Ovviamente vi rientra anche quel paio di possibilità finora realizzate dall’umanità. Se sono diventate realtà, è perché sono necessariamente possibili, altrimenti non avrebbero quella struttura veicolata da consequenzialità logica che esplicitamente abbiamo loro attribuito. Alla loro struttura possibile non si aggiunge qui altro che l’indice di realizzazione. Se da questa circostanza volessimo trarre le conseguenze più estreme, potremmo pensare che tutte le opere d’arte dell’antico Oriente, della Grecia, del Medioevo e dell’età moderna, avrebbero dovuto in linea di principio essere già costruibili nel 100.000 a.C. da uno studioso delle possibilità particolarmente dotato. 62
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Ma è a tutti chiaro che la cosa è impossibile sotto il profilo pratico, visto che non è finora mai esisitito uno studioso delle possibilità così dotato (per riprendere il termine che ho usato). Egli avrebbe bisogno di una quantità sovraumana di fantasia per inventare fin nei minimi dettagli i dipinti di Rembrandt. Dovrebbe cioè essere al tempo stesso un Rembrandt, e non solo per il talento ma anche per tutti i vissuti e le esperienze, le tradizioni e le situazioni di Rembrandt: com’è naturale tutti elementi necessariamente situati nella sfera del possibile. Possiamo infatti parlare concretamente dell’arte di Rembrandt solo dopo che Rembrandt ha dipinto. Il che vale per lo stesso Rembrandt. Solo a partire dal momento in cui Rembrandt ha un proprio stile, egli potrebbe fondamentalmente svilupparlo in un’estetica. Già nella mia Logica e sistematica delle scienze dello spirito (1926) ho potuto mostrare che le cosiddette estetiche d’artista sono esempi paradigmatici del metodo dogmatico: esse spiegano il contenuto formale e semantico, ossia il logos di uno stile non solo possibile, ma anche concretamente realizzato nell’opera dell’uomo. Noi però non conosciamo altri stili se non quelli che si sono concretizzati, quanto meno come progetti della fantasia. Tutte le opere d’arte e tutti gli stili artistici, le opere del diritto e gli stili giuridici, le forme linguistiche, i culti, le idee religiose e le fome economiche, ecc., che di volta in volta sono esistiti o possono esistere, sono concreti e quindi rappresentabili in forma intuitiva. Ma se le cose stanno così, pur suscitando dei dubbi filosofici, il metodo dogmatico appare di fatto come l’unica fonte di tutto il nostro sapere spirituale. Da un lato tale fonte è certamente “vincolata” alle effettive realtà spirituali prodottesi, dall’altro è però solo dog63
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maticamente che possono parlare di arte o di diritto, e comprendere qualcosa di questi ambiti, l’artista creativo e il giurista in quanto tale, l’estetologo o il giurista impegnato a ri-comprendere, ossia a spiegare le cose. La dogmatica è l’unica fonte di quanto è contenuto nel nostro sapere spirituale. La cosa è ancora più chiara se si pensa al modo in cui si potrebbe realmente confutare una produzione dogmatica che funge da base di un pensiero dogmatico. L’uomo è indubbiamente un essere che sempre trascende se stesso, che è continuamente spronato a oltrepassare, a superare il proprio sapere precedente. La filosofia, paladina di questa trascendenza, deve indubbiamente lasciarsi alle spalle la carica passionale, il dogma invalso fino ad allora. E tuttavia: non sarebbe stato affatto possibile criticare il pensiero giuridico romano e il volere artistico classicistico, anzi neppure conoscerli come tali e nella loro specificità, se il critico non avesse avuto presenti quanto meno sul piano intuitivo delle forme diverse di pensiero giuridico e di creazione artistica. Ciò significa che uno stile concreto e dogmaticamente formulabile – ma tutte le branche della cultura hanno uno stile (in questo senso) – può essere oltrepassato esclusivamente da uno stile nuovo e diverso, il quale, anche se nuovo e diverso, è a sua volta uno stile concreto, cioè dogmatico. A partire dal XVII secolo certe forme della religione concreta furono criticate in nome della cosiddetta “religione naturale”, che si considerava particolarmente filosofica, così come certe forme del diritto concreto furono criticate in nome del cosiddetto “diritto naturale”. Ebbene, ciò comportò – detto semplicemente – o la semplice riduzione delle forme precedenti a tratti essenzialmente basilari ed elementari, con astrazione 64
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da ogni aggiunta accessoria, oppure un nuovo concreto sistema giuridico o religioso, inteso magari più come sistema etico che non come culto. Per una legge essenziale, tanto misteriosa quanto inaggirabile, solo ciò che è concreto può essere effettuale, ciò che è effettuale però è sempre particolare e le particolarità possono però essere spiegate solo in forma dogmatica. In breve: sono dogmatici tutti i sistemi giuridici, artistici, religiosi di cui siamo a conoscenza. Non vi è altro metodo per scoprire dei concreti contenuti di senso se non quello dogmatico. Pur avendo dimostrato questa tesi anzitutto nel diritto e nell’arte, se ne possono comunque trarre delle conseguenze generali, che risultano subito assai problematiche nel loro contrasto con la tendenza costitutiva della filosofia, anzi con l’idea che anima qualsiasi scienza, che è quella di vincere ogni relatività. Tocchiamo così per la prima volta il problema assai controverso dello storicismo.
4. Le ragioni dello storicismo In cielo non vi sarebbe alcuna occasione per prendere atto del problema, ma qui, sulla terra, esso nasce dal fatto che molteplici sfere culturali umane e molteplici epoche dello sviluppo di tali sfere producono opere che, pur divergendo contenutisticamente nelle loro “convinzioni”, concordano formalmente nella pretesa di aver scoperto “la” verità. Potremmo anche dire che più stili pretendono una validità assoluta. Più precisamente che, in generale, esistono degli stili (al plurale!) e quindi stili 65
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concreti. Il fatto elementare è quindi la concorrenza di più stili. Un filosofo che non sperimentasse apertamente questa concretezza e pluralità delle pretese di verità, che non ne fosse impressionato, ma si limitasse tutt’al più a prenderne atto superficialmente allo scopo di aggirare il problema, assomiglierebbe davvero alla caricatura di Mefistofele o anche di Morgenstern: «Entra il filosofo, e vi dimostra / che deve essere così per forza» (Faust I, 1574 [ed. A. Casalegno, ma vv. 1928-29]). Oppure: «poiché, com’egli conclude mordace / non può esistere ciò che non dovrebbe esistere»14. Il fatto è che però esistono più sistemi artistici (stili) e più sistemi giuridici, più forme costituzionali e più forme religiose, e tutti pretendono di essere veri. In ultima analisi, esiste – ecco il punto davvero delicato – l’“anarchia dei sistemi metafisici” evocata (con un po’ di esagerazione) da Dilthey. Il modo superficiale con cui i critici dello storicismo di solito “aggirano questa difficoltà” consiste nel tentativo, dapprima, di venire a capo dell’“anarchia” dei sistemi metafisici e, poi, di tacere il fatto che la “differenza” (si veda la formula di Wilhelm von Humboldt: differenza di struttura delle lingue umane) si conserva, inalterata, anche nei restanti ambiti culturali (“ambiti di valore”). C’è comunque un ambito in cui la relatività pare scontrarsi con un limite insuperabile: la scienza singola nel suo rigore. E proprio per questo la disputa filosofica sulla “dif14 [Si tratta di un verso di Christian Morgestern (1871-1914), da Palmström (1910): un cittadino tedesco investito da un’auto in una zona soggetta a divieto di circolazione ritiene che, se le auto non possono circolare, allora l’investimento subìto è un fatto impossibile].
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ferenza” delle metafisiche è sempre collegata alla discussione sulla “scientificità” della filosofia, o meglio, sulla sua scientificità alla luce del modello delle scienze singole. Atteniamoci però anzitutto agli ambiti culturali nei quali le differenze paiono insuperabili e precisiamo in che modo esse si sono propriamente generate. Ebbene, la responsabilità di tali differenze può risiedere solo in quella che è la fonte di tali pretese di verità, ossia nella vita creativa stessa, poiché è proprio a essa che dobbiamo la produzione di questi patrimoni culturali. O perlomeno, è in questi ambiti culturali che non sembra possibile dissociare il concetto di “creatività” dalla fatale imperfezione della relatività. La domanda serissima che sorge qui è se “creativo” e “relativo” non significhino in definitiva la medesima cosa. Nessun manuale di estetica poteva impedire che l’arte del XIX secolo prendesse le distanze dal classicismo. Ci è facile semplificare e radicalizzare casi analoghi ricorrendo a finzioni. Se tutti gli artisti creativi, a partire dal giorno X, in effetti non operassero più secondo le regole di un’estetica precedente, e se tuttavia agissero con talento e successo, si potrebbe pur sempre ipotizzare in piena serietà di avere qui a che fare con un processo accidentale della storia universale. Posto che si prescinda però dalla più banale eventualità che questi artisti siano tutti degli incapaci (cosa per cui abbiamo dei criteri), o che il cosiddetto successo conti su strati della popolazione generalmente privi di qualsiasi rapporto con i problemi dell’arte (ma anche in questo caso si danno dei criteri). Ma siccome agli artisti creativi è un tempo riuscito qualcosa come lo stile dell’arte monumentale egizia, qualcosa come l’architettura templare o la scultura diffuse in Grecia – casi in cui tenderei a considerare realizzati i criteri della creatività – che cosa 67
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avrebbe potuto farci l’estetica precedente? È appunto così che il cristianesimo ha avuto la meglio sul sincretismo tardoantico. A vincere furono le masse ma soprattutto i talenti: già solo per il talento, un Giuliano Apostata non può certo gareggiare con Agostino. È la vita creativa come tale a far progredire lo stile dei fenomeni culturali e quindi a relativizzarli. Ma una cosa è riflettere sulle fatali conseguenze filosofiche di questi fatti, e un’altra cominciare a guardarli in modo rigoroso e imparziale. Ecco i momenti che rinveniamo in tali fatti. 1. È la vita creativa e non la rigorosa sistematica a far continuamente avanzare almeno una parte rilevante degli ambiti culturali, anche se questa priorità delle “intuizioni” creative, attive nella prassi ma giustificabili solo ex post, ha gradi diversi nei vari ambiti culturali. Segue cioè una certa scala di relatività. L’ambito più prossimo al polo relativistico spetta all’arte, ma le cose sostanzialmente non cambiano nella religione e nella lingua, e in larga misura anche nella politica e nel costume. Già un po’ meno relativi sono i campi dell’etica e dell’educazione (se razionalmente considerate), del diritto e dell’economia. Ancora più vicine alla scienza sono la metafisica e la filosofia sistematica dello spirito, mentre la meno minacciata dal relativismo sembra essere la scienza esatta della natura. L’umanità è ormai anziana, e non tutte le culture hanno attraversato delle epoche di rischiaramento. La nostra scala vale però a sua volta per le epoche in cui, come nell’Europa moderna, la consapevole razionalizzazione ha cercato con forza di valorizzare il ruolo del pensiero e della conoscenza razionali. È di certo per questo motivo che in Europa il ruolo della filosofia è stato straordinariamente importante 68
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nello sviluppo di tutte le scienze particolari. Non è un caso che nei secoli scorsi l’esplicita influenza dei grandi metafisici sulle scienze particolari sia stata addirittura la regola: dai singoli presocratici a Democrito e Platone e infine al vertice di questo filosofare enciclopedico, cioè ad Aristotele15. È universalmente noto che fu questo maestro della filosofia a generare anche i fondamenti di numerose scienze particolari. Abbiamo qui con ogni evidenza l’immagine della “madre delle scienze”, e possiamo ancor sempre richiamarci storicamente a questa metafora quando intendiamo renderci conto, tramite una più precisa analisi della storia dello spirito, di come le scienze particolari siano in seguito divenute autonome ma non perché si specializzarono, fondarono, per così dire, le loro ditte specifiche, piuttosto, esse poterono specializzarsi perché erano fin dall’inizio, e continuarono sempre a esserlo anche in seguito, talmente impregnate di idee filosofiche che proprio in ciò risiedeva il duraturo presupposto della loro autonomia, nel quale esse possiedono il loro eterno e concreto status nascens. Questo duraturo legame con la filosofia non è dovuto però solo all’origine delle scienze particolari dalla scienza madre (eccezion fatta per la matematica e la medicina), ma anche al costante contatto con essa, quale si evince da un elementare fatto storico, vale a dire dai numerosi casi di unione nella medesima persona tra ricerca filosofica e ricerca all’interno di una scienza particolare. Quel che salta agli occhi è che qualsiasi storia di una determinata scienza particolare annovera tra i suoi classici delle personalità che furono al tempo stesso e in primo 15 Nel considerare la metafisica e la logica aristoteliche è impossibile prescindere da questo carattere enciclopedico.
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luogo dei classici della filosofia, che appartenevano cioè anche alla storia della filosofia. Di particolare rilievo è che ciò si possa dire non solo per i “primordi” – per quanto certo sia stata enorme l’influenza di Democrito, Platone e Aristotele – ma ugualmente anche per le epoche successive. Descartes non è solo il fondatore della filosofia moderna, e sicuramente di una sua tappa essenziale, ma è anche l’inventore della geometria analitica. Leibniz, da molti ritenuto il principale filosofo tedesco, superiore perfino a Kant, è lo scopritore del calcolo infinitesimale. Pascal fu un genio precoce in matematica, ma qualcosa di non meno prodigioso in filosofia, un pensatore straordinariamente profondo. Il filosofo inglese Thomas Hobbes è uno dei fondatori, e certamente il più acuto, della moderna dottrina dello stato, mentre una tappa successiva di tale dottrina si deve a John Locke. Il suo successore in filosofia, Berkeley, ha per esempio elaborato una teoria della visione. David Hume, insieme a Rousseau e Newton uno dei tre grandi maestri esplicitamente riconosciuti da Kant, scrisse anche una voluminosa Storia dell’Inghilterra. Nella sua Storia naturale del cielo Kant ha formulato la cosiddetta teoria di Kant-Laplace. Colui che a sua volta l’ha indipendentemente formulata, il marchese de Laplace, va senz’altro considerato un astronomo, ma nessuna storia della filosofia potrà davvero tralasciarlo e rinunciare ad arruolarlo nelle proprie fila. Per di più è uno dei classici del calcolo delle probabilità, da lui già applicato ai fatti sociali, oltre ad essere uno dei fondatori della statistica. Il filosofo rinascimentale italiano Cardano è un classico della matematica. E a maggior ragione lo è Johann Heinrich Lambert, precursore di Kant nella teoria del70
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la conoscenza. Un altro precursore di Kant, Tetens, era professore di filosofia e di matematica. Anche il conte Tschirnhausen era un matematico produttivo. Il filosofo D’Alembert è un classico della meccanica. Ma anche Ampère ed Eulero appartengono alla storia della filosofia. Bradley, sicuramente uno dei più rilevanti pensatori inglesi del XIX secolo, era un astronomo. L’astronomo Herschel e il matematico e storico della scienza Whewell sono tra i più significativi logici e filosofi inglesi della natura. Il matematico Cournot ha scritto delle opere di natura squisitamente filosofica. L’economia politica moderna è stata fondata dal professore di filosofia morale Adam Smith, mentre una delle opere fondamentali di questo ambito proviene dal filosofo positivista John Stuart Mill. Un altro positivista, George Grote, ci ha lasciato un importante studio monografico sulla democrazia antica. Con la sua opera sulla legislazione, il capo della scuola positivista, Jeremy Bentham, è un classico della giurisprudenza. Il filosofo B. Bolzano, divenuto influente tardivamente nel XX secolo, era un matematico. Il filosofo e fisico Fechner è il fondatore della psicofisica, mentre il filosofo Hermann Lotze lo è della psicologia medica. Per tacere poi del contributo filosofico dato alla pedagogia da Rousseau, Pestalozzi, e da Herbart, la cui influenza sulla psicologia arriva fino a Th. Lipps e S. Freud. Come pure dell’indispensabile contributo dato dai filosofi alla storia della filosofia antica. E potremmo proseguire. Se anche solo ci riferissimo ai casi di confine, al momento in cui iniziava il conflitto tra i diversi campi disciplinari, dovremmo infatti completare questa lista assolutamente parziale. Nessuno si è preso la briga di calcolare se Paracelso abbia scritto più lavori di filosofia o di medicina. Ugo Grozio, il fondatore 71
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del diritto internazionale, era più un filosofo o più un giurista o un teologo? E quante scienze rivendicano Vico come loro esponente, quanto meno in Italia? Nessuna storia della filosofia si lascerà sfuggire Keplero, notoriamente pervenuto alle proprie scoperte astronomiche partendo da punti di vista filosofici. Perfino (anche se solo con una differenza di grado) più di Copernico. Nessuna storia della filosofia dimentica di inserire Galileo Galilei tra i propri grandi classici. Ed è sempre degno di nota che Newton abbia fissato i fondamenti della fisica moderna in un’opera che si chiama Naturalis Philosophiae Principia Mathematica. Ovviamente, Thomas Hobbes riteneva la dottrina dello stato una “Philosophia Civilis” e August Comte la sociologia da lui fondata una “Philosophie Positive”. Questa lista non può minimamente essere completata. È infatti naturale che nessuna storia della filosofia si scordi di assegnare a Hermann Helmholtz il posto che gli spetta nella storia del neokantismo. Né si può decidere se Ernst Mach sia stato più un fisico o più un filosofo. In ogni caso, da ultimo fu titolare di una cattedra filosofica e cominciava le sue lezioni con la lettura dei Prolegomeni di Kant. Ma che cosa significa tutto ciò? Forse la casuale coesistenza di talenti? Descartes, Leibniz e Kant si sarebbero dunque occupati di scienze naturali per caso, per così dire nel tempo libero? Le loro concezioni fondamentali in matematica, astronomia e fisica non sarebbero cioè per nulla intimamente connesse con le loro idee filosofiche? E viceversa: nel caso dei molti studiosi di scienze naturali che scrissero opere filosofiche o addirittura passarono alla filosofia, possiamo forse parlare solo di un’atti72
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vità secondaria, nella quale trovarono sbocco residui di impulsi speculativi, di bisogni metafisici ed emotivi? Sebbene l’esigenza dei grandi studiosi delle scienze particolari di pensare compiutamente la loro metodica non sempre raggiunga il vertice raggiunto, ad esempio, dalla “logica” di Johannes von Kries, tutti i loro sforzi paiono dimostrare che i concetti fondamentali delle scienze particolari non possono affatto essere essere approfonditi senza prestiti filosofici. La lista relativa alle scienze dello spirito del XIX secolo necessita di molte altre integrazioni. Il mio stesso lavoro iniziale16 intendeva appunto mostrare, attraverso le fonti, quanto Hegel sia stato fecondo per le singole scienze dello spirito, e quanto egli sia rimasto finora un fattore propulsivo nonostante il crollo del suo sistema metafisico prima della metà del XIX secolo. In molti campi ci si spogliò della veste hegeliana, ma solo per portare a compimento lo spirito di Hegel. Kuno Fischer, Friedrich Theodor Vischer, Hermann Hettner, Eduard Zeller, e poi colui che rinnovò la storiografia della Chiesa, Ferdinand Christian Baur, il fondatore della storia dell’arte moderna Schnaase, lo storico J.G. Droysen: tutti costoro appartengono a questa schiera, insieme all’hegeliano finora più influente e che è ovviamente Karl Marx. Ma vi rientra anche Lorenz von Stein. Herbart ha influenzato durevolmente non solo la psicologia ma anche la linguistica. Solo dopo di lui s’impose in questo settore l’influenza di Wilhelm Wundt. Accanto a Wundt quella di Franz Brentano e della sua scuola nelle sue varie diramazioni (Husserl, Scheler, Heidegger). Con il venir meno 16 E. Rothacker, Einleitung in die Geisteswissenschaften, [Mohr, Tübingen] 1920, 19302.
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del romanticismo molti scienziati dello spirito caddero nella sfera d’influenza di Darwin e del positivismo. Basti citare il linguista Schleicher e, non da ultimo, il germanista e storico della letteratura Wilhelm Scherer17. Ma si è detto ormai abbastanza sui reciproci contributi della filosofia e delle singole scienze in vista di un orientamento razionale della ricerca scientifica complessiva! 2. Guardando però più attentantamente, si vedrà in primis quanto sia arduo tracciare qui una precisa linea di confine tra l’influsso della filosofia come scienza e quello della filosofia come “visione del mondo”. Dovunque si abbia a che fare con la configurazione creativa della vita spirituale, del produrre e di ambiti culturali soggetti a ulteriori sviluppi, in gioco non è una rigorosa direzione razionale. A contare sono piuttosto le visioni del mondo e i giudizi di valore, le intuizioni e il senso di un orientamento concreto, le intime costrizioni razionalmente impenetrabili e le invenzioni produttive, la saggezza e i lampi di genialità. Una cosa sono le ricerche sistematiche sulla struttura dei “valori” religiosi o sull’“essenza della religione” e un’altra la concreta fondazione di una religione. Una cosa sono i criteri sistematici di una “poetica” e un’altra l’incontro, nel dramma, con una nuova atmosfera à la Kleist, ecc. Detto in breve: non è mai possibile progettare scientificamente e addirittura preventivare l’effettivo sviluppo della vita spirituale nella maggior parte dei suoi ambiti. Heidegger direbbe che tale sviluppo è una “destinazione dell’essere”. E quindi è dall’osservazione di un puro e semplice fatto – che l’umanità è scissa in culture, epoche e individui – che deriva il dato fondamentale 17
Ivi, cap. V.
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che gli avversari dello storicismo debbono riuscire a digerire. Qui si tratta non di postulare qualcosa di utopico, bensì di riflettere. Se però gli avversari dello storicismo sono a loro volta degli spiriti produttivi, allora anch’essi creano concretamente e si trovano perciò nella condizione di spiegare il logos concreto del loro lavoro in una forma che tutti i loro avversari considereranno dogmatica. Vi sono sicuramente nel campo estremamente relativistico delle arti anche dei compiti rigorosamente scientifici, cioè dei compiti scientifico-strutturali come quelli che risultano assolti in modo esemplare, ad esempio, nell’eccellente Poetica (1946) di Emil Staiger. Si tratta senz’altro di scienza. Ma nozioni relative alla natura del lirico, dell’epico e del drammatico o, analogamente, ai “generi” dell’arte figurativa18 non forniscono ormai più da molto tempo delle ricette utili al creare produttivo. Come si è detto, non è possibile scrivere in modo creativo una tragedia seguendo delle inappuntabili nozioni sull’essenza del tragico. Il che naturalmente non vuol dire che per il poeta non possa essere vantaggioso possedere anche tali nozioni. 3. Ma la parola “ricetta” si fa ora avanti in un altro senso. Infatti, che sia per un’intenzione esplicita e del tutto consapevole oppure solo de facto, ogni produzione creativa si rivela comunque “legata al suo tempo”. In un certo senso, essa si riferisce a una “situazione” che vuole risolvere, e implica perciò un aspetto a cui, volendo sottolineare l’espressione, si può attribuire il carattere di ricetta. Che tale produzione sia in cerca di una “parola salvifica” per 18 Così H. Lützeler, Führer zur Kunst, [Herder, Freiburg] 19536; Id., Vom Sinn der Bauformen [der abendlandischen Architektur], [Herder, Freiburg] 19533.
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un vicino presente o in ultima analisi per l’intera umanità, non meno bisognosa di tale “parola”, si dà comunque già sempre una situazione in cui il genio creativo stesso si trova, poi una situazione del mondo comune a cui egli intende essere d’aiuto (predicando o trasmettendo entusiasmo, con l’intento di dare la felicità o di minacciare, in modo totalmente egocentrico ma pur sempre implicitamente entro una ricca rete di relazioni, ecc.), e infine una situazione a cui guarda come al fine della propria azione. 4. Alla situazione in cui si trova colui che crea noi diamo il nome di “posizione” o “punto di vista”. Ne risulta che tutta la vita creativa deve necessariamente avere una posizione. Chi nella vita è creativo appartiene a una determinata epoca ed è geograficamente collocato in un determinato spazio. La sua azione produttiva è inevitabilmente prospettica. Avere una posizione e avere una prospettiva sono però la medesima cosa. Agendo nella vita ho inevitabilmente – per usare un’immagine tanto popolare quanto esauriente – o la prospettiva dell’uccello o quella della rana. L’uccello non può piombare sulla rana, a meno che a sua volta non assuma la prospettiva della rana. Analogamente, non posso scalare un monte contemporanemente da due diversi lati, pur sapendo teoricamente e dalla mappa che ha appunto più lati e quale aspetto essi abbiano. Ciò che rassicura il “logico” è che in questo caso le prospettive non possono mai contraddirsi. Non possono confutarsi, ma solo integrarsi. Certo, l’uomo dispone, per dirla con H. Plessner19, di una “posizionalità eccentrica”, senza la quale non po19 Cfr. di H. Plessner, da I gradi dell’organico e l’uomo (1928), [a cura di Vallori Rasini, Bollati Boringhieri], Torino 2006, fino a Zwischen Philosophie und Gesellschaft, [Francke, Bern-München] 1953.
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trebbe pensare in forma teorica. E tuttavia, per agire e creare, pur restando sempre eccentrico nelle sue possibilità, deve agire centricamente. Si agisce esclusivamente nello spazio intuitivo e prospettico dell’esperienza vissuta, uno spazio in cui vi sono una destra e una sinistra, un davanti e un dietro, un sopra e un sotto. L’uomo ha ovviamente la possibilità – entro certi limiti e non senza qualche rischio interiore – di cambiare insieme alle proprie prospettive, ma può essere creativo di volta in volta solo all’interno di una di esse. La scienza obiettiva cerca ovviamente con tutti i mezzi di cui dispone di superare il carattere relazionale di queste intuizioni prospettiche. Ma la constatazione che l’oggetto inteso – in ultima analisi una X inesauribile a cui si tende – racchiude in sé in questo e in quel modo il risultato di tutte queste prospettive intuitive è una constatazione che la scienza ha acquisito da un punto esterno alla vita e all’intuizione concreta. La scienza obiettiva non solo assume una distanza contemplativa rispetto all’oggetto – cosa che è possibile anche all’intuizione –, ma si pone anche obliquamente rispetto a ogni concreta intuibilità. Consegue così un sapere concettuale al di fuori e al di là dell’intuizione concreta. In linea di principio, essa è fuoriuscita dalla prassi della vita, anche se di solito con l’intento di poterci rientrare, ossia di essere applicabile. Detto in breve: nella prassi della vita la visione prospettica è inevitabile. Ma la vita produttiva, che abbiamo considerato la fonte di ogni contenuto, è appunto prassi. Non posso nel medesimo tempo essere Rembrandt e anche Fidia, o insieme protezionista e fautore del libero scambio, o contemporaneamente liberale e totalitario, o ancora cristiano e buddista. Tutt’al più posso cercare del77
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le combinazioni, delle sintesi e degli equilibri, ma anche in questo caso solo per cercare un determinato modo di produrre e di agire, il quale dispiegherebbe i suoi fondamenti nuovamente in una dogmatica specifica. 5. Ma questa circostanza si fa valere appieno solo se si capisce che, in generale, un’intuizione immediata si dà esclusivamente in forma prospettica. Intuizione e prospettiva sono essenzialmente inseparabili. Ecco un’importante integrazione della tradizionale teoria dell’intuizione, specialmente per quanto riguarda l’utilizzazione fattane dalla teoria della conoscenza. Kant afferma che il pensiero senza intuizione è vuoto, ma bisognerebbe aggiungere, tra l’altro, che l’intuizione non è solo sensibile ma anche prospettica. Come sarebbe altrimenti possibile che sistemi da molto tempo riconosciuti come dogmatici, ossia unilaterali o prospettici, come il diritto romano o il classicismo artistico, siano stati tanto capaci di scoperte e tanto ricchi di forza ordinatrice? Infatti, non solo il pensiero ma già l’intuizione è coerente e priva di contraddizioni. Quindi è esclusivamente l’orientamento produttivo (esplicabile in ogni momento nella forma di una dogmatica) a esprimere l’intuizione immediata della cosa, cioè il tema la cui chiarificazione è al centro dell’attività produttiva in tutte le sfere culturali. Le opere di Rembrandt possiedono uno stile determinato. Il che significa che Rembrandt ha, fin nelle sue caratteristiche più personali, un punto di vista determinato in Europa, in Olanda, nell’età moderna, e così via. E proprio questo punto di vista determina il suo modo specifico di vedere le cose. Tutto ciò che questo modo di vedere può tematizzare, dai problemi artistici più formali fino all’episodio della benedizione di Giacobbe o 78
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della bontà del samaritano o del ritorno del figliol prodigo, viene visto – ossia rappresentato – dai grandi artisti in maniera del tutto adeguata, conforme e adatta a tale modo di vedere. Non è possibile dipingere, disegnare e incidere questi episodi alla maniera tanto di Rembrandt quanto di Raffaello o degli Egizi, ecc., a meno che non si ricorra a uno stile eclettico reso coerente. Essi possono essere intuiti solo in un modo, che è legittimo, ampliando l’uso linguistico, definire prospettico. In breve, ogni stile concreto, se si vuole ogni dogmatica esplicativa di uno stile, è prospettico, e cioè “intuitivo”, in rapporto diretto col suo oggetto. Questo stile può ben ricavare la propria specificità dal proprio punto di vista, ma ricava la propria forza direttamente dalla cosa stessa a cui si rivolge. Come la percezione, anche lo stile si volge immediatamente al “sujet”. Si esprime in riferimento al proprio tema, ottenendo così, se irrobustito nel suo carattere oggettivo, un tratto di inconfutabilità. Un’inconfutabilità certamente solo prospettica. Ma è evidente che le prospettive non possono mai contraddirsi a vicenda. Solo la prospettiva (in questo senso lato) è immediatamente in rapporto con le cose e di conseguenza in grado di svelarle. Per il teorico è senz’altro possibile tematizzare gli “stili” in quanto tali, in quanto “orientamenti” verso la cosa, e i rapporti di questi orientamenti con l’argomento, ma mai però le cose stesse, le quali si ampliano, modificano e approfondiscono esplorativamente solo con la creatività, vale dire attraverso un’intentio recta di natura intuitiva. Solo dall’intuizione uno stile ricava il proprio compito positivo. Solo nell’intuizione il mondo si manifesta come immagine del mondo, e deve necessariamente diventare un’immagine perché il mondo è così uno. È con soddisfazione che possiamo 79
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constatare che le componenti interne all’immagine non sono in contraddizione tra di loro, che in ultima analisi le molteplici immagini dovute a dei punti di vista non sono tra di loro in contraddizione. Lo si può ripetere: la poiesis creativa e l’agire creativo, lo stile concreto e il riferimento situazionale, l’attualità e l’utilità, l’intuitività e il prospettivismo, sono essenzialmente la medesima cosa. Poiché però tutti i “valori”, tutti i contenuti spirituali e psichici noti all’uomo, possono diventare accessibili esclusivamente in questa intentio recta, creativa e intuitiva, ecco che si pone allora il problema dello storicismo. A rendere tanto controverso il problema dello storicismo non è quindi solo il fatto che l’umanità, distribuita (spazialmente) sulla superficie terrestre e (temporalmente) nella storia universale, produca opere le cui pretese di verità sono in concorrenza tra loro e a prima vista non paiono conciliabili, ma piuttosto l’intima necessità per cui le immagini del mondo e le realizzazioni, entrambe creative, debbono essere concrete. E sono concrete perché sono inevitabilmente intuitive e legate a qualche situazione, vale a dire intrecciate alla vita. La relatività si fonda quindi, in ultima analisi, sul fatto che l’uomo è un essere che agisce. Non si fonda, come normalmente si suppone, direttamente su una “debolezza” spirituale dell’uomo e sulla “finitezza” della sua costituzione essenziale, bensì su una volontà positiva e su un’interiore costrizione dell’uomo ad agire e produrre. Ma siccome tali azioni pretendono di essere vere, non può non derivarne una competizione tra le verità. Far valere una pretesa di verità è fondamentalmente sempre qualcosa di filosofico. Quando la verità cercata si mostra in qualche modo limitata e circoscritta, la pretesa filo80
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sofica di verità si trasforma in una pretesa dogmatica di verità. La dogmatica altro non è che la spiegazione di una pretesa di verità implicita in una certa opera. La pretesa di verità resa esplicita in una dogmatica si differenzia da quella implicita nell’opera esclusivamente per grado di chiarezza ed evidenza esplicativa, ma i contenuti delle due pretese sono assolutamente identici. Ne viene che l’intero nostro patrimonio di contenuti spirituali, il contenuto ogni volta diverso di qualsiasi coscienza, deriva da dogmatiche. Tanto che si potrebbe variare il noto principio di Locke e dire: nihil est in intellectu, quod non fuerit in opere et in dogmatica. E se anche si volesse aggiungere, d’accordo con Leibniz, nisi intellectus ipse, la cosa sarebbe perfettamente corretta, visto che non si può mai dimenticare che tutte le dogmatiche concordano nell’intenzione veritativa loro implicita. E il fatto che queste intenzioni siano non solo possibili, ma anche sempre concretamente realizzate, testimonia la nobiltà dell’uomo. Ma non si deve per questo rinunciare alla concretezza contenutistica delle sue realizzazioni creative, che è anzi, e a maggior ragione, un tema dell’antropologia filosofica che occorre comprendere scientificamente. 6. Di questa inaggirabile concretezza di ogni rapporto pratico con la vita esiste però addirittura una dimostrazione sperimentale: questa concretezza in effetti diminuisce man mano che i contenuti spirituali perdono questo rapporto immediato con la vita, rinunciano a tale rapporto. Ricordiamoci della scala sopra delineata (cfr. supra p. 68) e del rinvio già più volte tentato a teorie strutturali (cfr. supra pp. 41, 52, 55, 62, 76 sgg.). Tutto ciò vale, ovviamente, anche per ogni teoria del modo in cui l’uomo dà forma alle proprie opere. Ma quando queste teorie, distanziandosi dalla vita, si sot81
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traggono via via alla sua prassi, quando anche se per gradi non si riferiscono più ad alcuna situazione concreta e praticamente risolvibile o a un compito pratico, né vogliono più rapportarsi ad alcuna concreta costrizione interiore, si tramutano appunto altrettanto gradualmente in semplici constatazioni “obiettive” e nella mera individuazione di regole. Ponendosi però ora “obliquamente” rispetto alla prassi vitale, estraniandosi rispetto all’atteggiamento creativo appunto nella misura in cui tali teorie sono diventate “obiettive”. Esse non offrono più ormai alcuna diretta istruzione su come agire hic et nunc, su come attualizzare immediatamente le cose e rendere prontamente feconda la vita nella sua concretezza, affacciandosi piuttosto sull’astratto regno delle “possibilità” date. Possibilità che occorre ordinare in forma sistematica e approfondire teoricamente, ma che comunque non sono di numero maggiore, cioè non sono più numerose di quelle precedentemente scoperte e tramandate in forma dogmatica. La materia di questo ordinamento deriva sempre da dogmatiche. 7. A ciò si oppone, però, che in ogni teoria può essere insita o comunque presentarsi la volontà di rientrare ex post nella prassi tramite l’“applicazione”. “Tutta la prassi è teoria applicata”: questa è l’autentica idea guida della razionalità. Un’idea logicamente del tutto inconfutabile, anzi necessaria. Un postulato della ragione ampiamente realizzabile in uno dei due poli entro i quali si articola la prassi umana, ma che fallisce quando sconfina nell’altro polo, risultando relativamente e parzialmente applicabile a vari livelli nello spazio che separa i due poli estremi. Il polo positivo è rappresentato dalla matematica, dalla teoria matematica delle scienze naturali e dalla prassi tecnica, quello negativo dalla teoria estetica e dalla pras82
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si artistica, ma de facto anche dalla teoria politica e dalla prassi dell’azione politica, come pure, analogamente, dai saperi che si occupano delle relazioni umane. Tra questi due poli troviamo forse la medicina e la prassi giuridica in quanto teoria applicata. Che finora si sia illustrato, con particolare vigore, il polo negativo è pienamente giustificato dal fatto che l’idea della “teoria applicata” è a tutti nota, mentre evidentemente non lo è l’idea del carattere creativo e irriducibile a teoria delle azioni e delle opere dell’uomo, perché in tal caso queste solide evidenze non sarebbero così radicalmente misconosciute dai nemici dello storicismo. Usando slogan gonfi di pathos, sentimentalismo e polemicità come “irrazionalità”, non si fa altro che impedire una chiara comprensione dell’effettiva struttura della produttività umana. Ogni “applicazione” presuppone non solo il possesso di una teoria articolata ma anche l’esatta intuizione di una situazione concreta. Ma al di là della intuibilità generale della situazione, l’applicazione presuppone però anche una precedente organizzazione (e una consapevole preparazione) di ciò che potremmo definire la trattabilità teorica e tecnica di quella situazione intuitiva. Cioè una preparazione dei materiali già conforme alla teoria. I colori, ad esempio, sono trattabili in modo ottimale una volta che si sia tradotta la loro qualità, connessa nella prassi alla vita sentimentale, in lunghezze d’onda espresse in forma quantitativa (e prescindo qui dall’applicazione delle gamme cromatiche). La sensibilità alla pressione è, in tutta la sua infinita ricchezza qualitativa (nel senso ad esempio della delicatezza e della tenerezza, della ruvidezza e della brutalità, della localizzazione in zone soggette a tabù e del caratte83
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re di sorpresa, in genere il fatto di essere toccati, ecc., o nudi), razionalmente trattabile, ad esempio, se la si misura con criteri totalmente obiettivi e cioè estranei alla vita. Analogamente, i suoni linguistici sono foneticamente trattabili solo in una minima parte della loro realtà effettiva, semanticamente e situazionalmente pregnante. Ma già il semplice piantare un chiodo è così facilmente interpretabile, mediante principi relativamente semplici della fisica e come esempio di applicazione di una teoria, solo perché in questi casi la prassi solitamente si accontenta di un grado “approssimativo” di correttezza teoretica. In verità, già nella sua natura inorganica l’individualità di questo chiodo, di questo legno, di questo utensile con cui si martella, è idealiter qualcosa di teoreticamente inesauribile. È sempre in questi ambiti tecnici che troviamo vaste e feconde zone di confine, le quali rendono possibili delle convergenze tra teoria e prassi. Nel campo della giurisprudenza l’amministrazione pratica della giustizia è regolata, per quanto possibile, in modo razionale. La materia della vita concreta è già ampiamente trattata e approfondita secondo i punti di vista insiti in questi ordinamenti. Abbiamo qui degli esempi tipici di un’intuizione riflessiva e comprendente, cioè di una realtà già appercepita sulla base di determinate idee-guida di natura concettuale. Un bandito è in certe regioni o contrade anzitutto una realtà concreta, peraltro sufficientemente ambigua. Per una parte dei suoi conterranei è magari un eroe, per la polizia e per il pubblico ministero è invece già qualcosa di giuridicamente definito. Ma questi sono ancora casi relativamente semplici. Nonostante questa razionalizzazione non solo del diritto 84
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ma anche della vita, tutti sappiamo quanto invece siano difficili le applicazioni nell’individuazione pratica del diritto. In ambito religioso Kierkegaard è stato un esempio classico di scepsi radicale verso ogni possibilità di esaurire sul piano teoretico la vita. Nel campo della politica le teorie, ad esempio quella della democrazia, sono certamente razionalizzate. E sono costruttivamente inserite in questa forma anche nelle costituzioni. Se però noi potessimo praticare la politica attiva (nonché l’economia) in base a teorie, la vita sarebbe fondamentalmente meno pericolosa, a meno che non fosse a sua volta condannata a soffrire profondamente a causa di false teorie. Si è spesso tentato di dipingere e poetare seguendo regole teoriche. Quando però esaminiamo più attentamente queste presunte teorie, ci accorgiamo che erano puramente teoriche in rarissimi casi, mentre per lo più erano dogmatiche, ossia immanenti a un certo stile. Il che vuol dire che non erano più teorie nel senso vero e ristretto del termine, che cioè non si ponevano obliquamente rispetto alla vita. In breve, tra il caso limite positivo, da un lato, di una costruzione e riparazione di una linea elettrica guidata dalla teoria e, dall’altro, la realizzazione proprio di questa poesia, vi sono innumerevoli forme intermedie. Il progetto razionale di un sistema filosofico è fortunatamente vicino al polo positivo, sebbene tra la coerenza del progetto e il suo contenuto creativo si produca già una frattura. Quand’anche si disponga di una psicologia teorica, la felice scelta di un ministro s’avvicina già fatalmente al polo negativo. Forse questo esempio non è affatto inadatto a chiarire ancora una volta la situazione al termine di questo excursus sulla “teoria applicata”. E 85
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non sarebbe affatto un male se anche in questo gli esami attitudinali su base integralmente razionale e le varie forme di psicoanalisi contribuissero alla conoscenza pratica dell’uomo da parte delle massime autorità. Sarei io stesso un pessimo “teorico” se dessi anche solo l’impressione di oppormi all’idea fondamentale che la vita merita un approfondimento concettuale. È vero esattamente il contrario, visto che rifletto costantemente su questa idea. Anche in questo scritto. Misconoscere e rimuovere teoricamente il primato che spetta alla soluzione creativa di una situazione vitale sarebbe però un segno di estraneità al mondo, di scarsa “onestà intellettuale”. Ogni agire dell’uomo si riferisce anzitutto in modo creativo alle situazioni in cui si trova a vivere. La teoria applicata può solo essere introdotta nella prassi vitale, nella quale era però possibile piantare un chiodo e mutatis mutandis poetare ben prima dell’esatta sperimentazione tecnica del materiale. Così come si può introdurre una protesi in un braccio vivo, o si può porre un occhiale ben realizzato davanti a un occhio vivo. Purtroppo anche questi esempi non sono del tutto adeguati. Il loro compito è però solo quello di indicare il primato della prassi vitale. L’ideale della teoria applicata sembra però essere la traduzione dell’uomo vivente, mai del tutto prevedibile, in un robot razionale assolutamente affidabile, precisamente calcolato cioè sul piano teorico. Il robot è qui un caso limite della razionalità. Se non ricordo male, è stato il campione di scacchi Lasker a coniare in uno scritto filosofico il concetto di “macheide”20, per indicare un giocatore di scacchi fitti20 [Emanuel Lasker, Kampf, Lasker’s Publishing Co., New York 1907; tr. di L. Pasinato, Lotta. Sacchi e scienze applicate,
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zio che (ipoteticamente) non sbaglia mai. Ma potrebbe davvero un siffatto macheide, passato dalla finzione alla realtà, diventare un campione mondiale di scacchi? O potrebbe davvero una calcolatrice, in grado di calcolare assolutamente senza errori, scrivere un’aritmetica creativa? Senza contare che in questi esempi non sono neppure in primo piano quelle situazioni molto instabili che stimolano ispirazioni creative, le rendono concrete e trasformano così i teorici in dogmatici. Il risultato di tutte queste considerazioni? Che la verità applicabile alla vita può essere teoricamente articolata solo a posteriori. Che solo a posteriori può essere delineata in forma programmatica, e a maggior ragione dogmatica, attraverso un riferimento piuttosto ricco di fantasia a quella medesima vita. Rimarrebbe così solo il problema estremo dell’indagine naturalistica rigorosamente oggettiva, le cui opere sono a tutti gli effetti anche opere dell’uomo. Ma questo punto può essere opportunamente esaminato nel quadro di un’elaborazione sostanziale del “problema” dello storicismo.
5. Il problema dello storicismo La situazione di partenza è tracciata a partire dal cap. 4. L’inevitabilità di questa situazione deriva dal carattere insoluto delle tensioni che sussistono tra l’impulso immanente della ratio verso la validità universale e l’insuVenezia 2007. Con “macheide” (da mache ed eide = lotta ideale) intende il decorso idealizzato e deterministico della lotta, in altri termini lo stratega perfetto].
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perabile concretezza della vita creativa: una concretezza che appunto genera relatività. Stante questa situazione, potrebbe forse essere utile esaminare tutto ciò che non è soggetto a questa relatività. Molte delle versioni divenute popolari dello storicismo e del relativismo21 occultano però questo aspetto del problema. Il detto di Nietzsche, secondo cui «vi sono molte specie di occhi. Anche la Sfinge ha occhi – e di conseguenza esistono molte specie di verità, quindi non esiste alcuna verità» (Volontà di potenza [§540]), occulta come minimo la distinzione tra la verità (come visione del mondo) da un lato e l’esattezza empirica e la compiutezza logica dall’altro22. Bisogna quindi tener presente i seguenti aspetti. 1. Le “constatazioni” necessitano sì di stabili verifiche, ma in quanto tali non possono essere relativizzate. Si può invece relativizzare la pre-decisione in quanto visionedel-mondo (attuata quasi sempre solo implicitamente)23, mentre queste constatazioni sarebbero piuttosto degnedi-nota e degne-di-osservazione, ossia “significative” per 21 Cfr. H. Wein, Das Problem des Relativismus, [De Gruyter & Co, Berlin] 1950, e J. Thyssen, Der philosophische Relativismus, [Röhrscheid, Bonn] 1941. 22 La mia Logik und Systematik der Geisteswissenschaften, [Oldenbourg, München-Berlin] 1926 tentava di distinguere tra “esatto” e “rilevante”. Le visioni del mondo (le verità) vogliono essere rilevanti ma anche esatte, mentre le constatazioni e le deduzioni vogliono essere “esatte”. La scelta più opportuna sarebbe quella di definire in modo coerente “giuste” le constatazioni e “conclusive” o “compiute” le deduzioni. 23 Questo è il lato tangibile della differenza ontologica di Heidegger. Al posto di essere ed ente abbiamo ora significatività e particolarità constatata oppure costituzione del mondo e contenuto del mondo.
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l’uomo. Per questo motivo non si può però mettere in forse la validità che le constatazioni hanno all’interno delle singole scienze come pure già in ambito prescientifico. Le constatazioni si riferiscono al fattuale, colgono questo stesso fattuale, per cui sono qualcosa di assoluto. La teoria della conoscenza deve limitarsi a tener sempre presente che esistono innumerevoli fatti che non sono ancora mai entrati nell’orizzonte dell’uomo, che non sono mai stati appercepiti e che lo sarebbero solo se, a un certo punto, entrassero eventualmente nel cono luminoso della rilevanza, perché in tal caso diverrebbero degni-di-nota. Che li si scopra o meno, come fatti essi se ne stanno pacificamente per conto loro. Una volta entrati a far parte di un’immagine del mondo, possono essere esaminati e, in ragione della loro solidità, incorporati in quest’immagine del mondo. I limiti del relativismo sono dunque dati dai fatti così constatati. L’opinione opposta di molti relativisti positivisti ma anche quella dei loro avversari razionalisti si fondano sull’autoinganno e sull’errore. 2. Tutto questo vale, a maggior ragione, per la conclusività logica dei ragionamenti in quanto base di qualsiasi costruzione teorica. I classici argomenti sempre ripetuti per millenni contro il relativismo – e cioè il fatto che il relativista che mette in dubbio la “logica” annulla la propria tesi, visto che anch’egli pensa in modo logico – cadono nel vuoto. Anche il relativista, effettivamente, non può fare a meno di presupporre la “logica”. Non può sensatamente dubitarne. In un sillogismo di forma corretta non c’è in genere nulla che si possa mettere in dubbio. Lo si esamini: è autonomo e poggia esclusivamente su di sé. Ma è anche possibile formare un numero illimitato di simili deduzioni, la maggior parte delle quali, nonostante 89
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la loro validità, è per noi uomini del tutto indifferente. Anche queste deduzioni, a seconda del tema, possono però un giorno diventare degne di attenzione. Con queste riflessioni abbiamo forse toccato il cuore della tradizionale critica allo storicismo, consolando e tranquillizzando i suoi nemici. Il risultato è che la logica e la fatticità, sintetizzabili in termini di “esattezza”, non possono di per sé essere relativizzate. 3. Il problema più arduo, la vera e propria crux dello storicismo, è però il fatto che si presentano molteplici orientamenti creativi (formulabili come dogmatiche) che, al di là dell’esattezza dei fatti e delle teorie che essi assumono, condividono la medesima assoluta pretesa di verità, si pongono tra di loro in concorrenza e, fino a prova contraria, sono inconfutabili. Anche nella situazione desolata in cui versa quest’unica pretesa di verità e di validità universale della filosofia sono comunque presenti alcuni aspetti consolanti. Il primo è che tutte le dogmatiche possiedono un un “logos immanente”, e quindi che il logos qua logos non viene relativizzato, ma anzi universamente riconosciuto come elemento formale. Ciò che dà da pensare è solo che di volta in volta tale logos risulta immanente. 4. È consolante anche che tutte le dogmatiche, adeguatamente approfondite, si pronuncino nei confronti della medesima realtà, che affrontano e prendono di mira in forma immediata e intuitiva (in intentione directa), pur senza mai esaurirla. Sarebbe lungo discutere quale termine si debba qui usare al posto di “realtà”, perché potrebbe anche accadere che le “prospettive” entrino a tal punto nella costituzione del tema da dare alle dogmatiche temi diversi. In effetti il tema è relativo. Ma è il medesimo il riferimento intenzionale all’unico enigma 90
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dell’“essere” nell’“ente”. È questo stesso enigma ad attirare lo sguardo su di sé, anche se viene diversamente interpretato, cioè diversamente concepito nella sua totalità, ancor prima che abbia inizio una vera e propria spiegazione più puntuale. Se per un verso questa osservazione “consola”, per l’altro peggiora però la situazione. Infatti, è per noi quasi sconfortante che, nonostante l’“oggetto ultimo” sia il medesimo e la medesima sia pure la volontà stessa di dedicarvisi e entrarvi in contatto, rimanga pur sempre la “diversità” dei risultati. Si potrebbe allora differenziare il grado d’intensità con cui vi ci si dedica, ottenendo così nuovamente una “consolazione”. Ma a consolare più profondamente è quello che abbiamo già ricordato, e cioè che le prospettive non possono essere contraddette. 5. Ma il fatto che alle “differenze” delle dogmatiche contribuiscano le prospettive, ossia i punti di vista, implica una consolazione ulteriore. Più precisamente, a tali differenze contribuiscono punti di vista e direzioni dello sguardo, prospettive e orientamenti, modalità osservative e forme di pensiero, bisogni esistenziali, indirizzi della significatività e variazioni di direzione nel modo di formulare l’interrogativo. Questo elenco deve naturalmente lasciar ancora del tutto imprecisato il compito successivo, che è quello di dare un ordine a questi fattori, raggrupparli gerarchicamente ed esaminarne il grado d’intensità. Ma senza la constatazione elementare che questi fattori si situano tra la realtà e il contenuto del sapere, la storia delle scienze sarebbe incomprensibile. Si trasformerebbe in una storia cumulativa fatta di scoperte di valore assoluto e di ampi intervalli di errori radicali. 91
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La possibilità finora meno considerata e tuttavia forse più consolante all’interno della ricerca filosofica è che, anche se l’“interrogare” può variare, non viene affatto meno l’oggettività delle ricerche che rispondono a tali interrogazioni. Questa dipende infatti strettamente dalla comprensione della fusione fattuale presente in ogni contenuto cognitivo tra la questione dell’oggettività e la questione della significatività (per l’uomo) del contesto complessivo in cui i fatti sono inseriti. L’anima individuale dell’uomo è in movimento, oscilla, può essere impressionata da più lati e in vario modo, avendo perciò stati d’animo mutevoli. Per di più ha diversi gradi d’intensità, nonché un’ampiezza e una forza variabili nel sintetizzare i vari aspetti. Il “tempo”, ad esempio, può essere vissuto in modo totalmente differente a seconda dello stato d’animo24, ad esempio a seconda che il riferimento al futuro sia attivo e positivo o negativo (memento mori, la vita è un sogno, e così via). Fin qui l’anima dell’individuo. Queste possibilità individuali assumono una forma letteraria, si consolidano, vengono sviluppate e fortemente stilizzate, ma non tutte e comunque non in egual misura. Sono i grandi poeti e i pensatori a esercitare un potere di suggestione e di orientamento sugli individui del grande pubblico, i quali sono incerti, fragili e sentono il bisogno di avere una guida. A consolidarsi non sono dunque tutte le possibili forme di partecipazione al reale volta a volta psichicamente 24 È oggettivamente incomprensibile il motivo per cui Heidegger avversi con tanta asprezza il termine “fare esperienza vissuta”. “Esperienza vissuta” è qualcosa che si è vissuto ed esperito in modo particolarmente intenso. L’esperienza vissuta è un urto, un irresistibile essere-commossi, l’appello che sentiamo in noi dell’“essere”.
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realizzate, ma alcune di esse si consolidano sicuramente in modo preciso e spiccato, acquisendo così un carattere (relativamente) pubblico. Di qui la possibilità di affermare una tesi di più vasta portata: si “percepisce” quasi solo ciò che viene vissuto come meritevole di percezione. Nella nostra coscienza il vissuto acquista un profilo sufficientemente comprensibile solo quando è evidentemente e gradualmente esprimibile “come” significativo. 6. L’animale vive ciò che è biologicamente rilevante, importante cioè per l’autoconservazione in parte della specie e in parte degli individui. È questa l’idea fondamentale della teoria del mondo-ambiente elaborata da von Uexküll. È la significatività biologica ogni volta diversa, variabile a seconda della specie, a costituire i “mondiambiente”. Per l’orientamento sono di importanza vitale i “mondi percepiti”, mentre di importanza vitale per l’agire istintivo sono i “mondi effettuali”. Entrambi questi mondi si rapportano non solo ad apparati sensoriali ma anche ad ambiti funzionali specie-specifici (alimentazione, sesso, amico-nemico, medium). Il concetto di ambiti funzionali congeniti coincide largamente nel contenuto con ciò che prima di von Uexküll erano gli “impulsi innati”. Nell’uomo a ciò che è biologicamente significativo s’aggiunge ciò che è significativo esistenzialmente (in un senso esteso e la cui specificità è ancora da precisare). Il che vale anche indipendentemente dal fatto che il genere di percezione e di azione dell’uomo cambi fino a rendere possibile una presa di distanza. Attenendoci ora a questo schema, possiamo formulare la seguente tesi: ciò che una comunità culturale articola con l’usilio del linguaggio come proprio “mondo” ufficiale, ricavandolo dal mistero impenetrabile della realtà, 93
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è un insieme di significatività tra loro connesse, chiaramente rapportate allo stile di vita di tale comunità e per giunta sperimentate nella loro “esattezza”. Del tutto analogamente alla “forma congenita di vita” delle specie animali, anche i gruppi umani possiedono degli “stili di vita” che nell’uomo sono storicamente tramandati, ma anche in continuo divenire. A questi stili corrisponde in forma rigorosamente contrappuntistica la significatività del contenuto del mondo di volta in volta divenuto percepibile25. Qualunque cosa la “realtà” possa essere (l’enigmatica totalità dei facta ancora non appercepiti o dell’essente in sé), essa offre comunque molte più possibilità di divenire contenuto di percezioni e costatazioni di quanto di fatto non accada. Da questo punto di vista, la “realtà” è molto più ricca di una certa “immagine del mondo” che le si riferisce. Con l’interpretazione, l’immagine del mondo ha d’altra parte estratto dalla realtà molti più contenuti sostanziali, e cioè connessi alla vita, di quanti questa stessa realtà possa in sé contenere. Solo l’uomo trasforma un rialzo del terreno in un “monte”, una buca in una “caverna abitabile”, una linea di confine tra acqua e terraferma in una “baia”. Ma senza imbarcazioni non ci sono baie, e senza uomini neppure una “magia” dell’acqua. Si forma così un’immagine prescientifica del mondo, una “visione naturale del mondo”, un “mondo della vita”. La scienza intensifica allora alcuni di questi modi concreti di considerare le cose, “conferisce loro un’elevata stilizzazione”26. 25 Cfr. le mie opere: Geschichtsphilosophie, [Oldenbourg, München-Berlin] 1934; [Probleme der] Kulturanthropologie, [Kohlhammer, Stuttgart] 1942. 26 Ibidem e Mensch und Wirklichkeit, in «Der Bund» [2], 1948-1949, pp. 5-22.
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7. Un contributo alla comprensione di questa visione prescientifica del mondo ci viene da Max Scheler. Ma anche da Heidegger con la sua teoria dell’utilizzabile. Apprendiamo poi dal lascito postumo di Husserl27 che il “mondo della vita” ha profondamente impegnato questo pensatore ben al di là degli approcci contenuti in Idee28. Tuttavia le sue ricerche rivelano che egli non era affatto in grado di affrontare il problema in modo sufficientemente articolato. La teoria heideggeriana dell’utilizzabile e quella bergsoniana della percezione e della lingua tengono in eccessiva considerazione l’aspetto pragmatico. La più recente concezione heideggeriana del linguaggio eccede questo ambito, e molto si potrebbe imparare anche da Klages. Cassirer invece intellettualizza troppo le situazioni. In ultima analisi, si può comunque constatare che il mondo prescientifico dell’uomo, accanto ad aspetti pragmatici, ha anche aspetti cosmici, mitici, estetici, magici e ludici. Bisogna poi farvi rientrare tutto ciò che è validamente indagabile nell’immagine del mondo del bambino e dei primitivi, incluse le cosmologie mitiche delle culture arcaiche29. La lingua e l’arte figurativa mostrano chiaramente che anche quest’immagine prescientifica del mondo è in continuo divenire. Pur conservando una natura piuttosto paradossale, essa è tuttavia piena di innumerevoli contenuti cognitivi verificati. Nella sua condizione odierna ha inoltre assorbito numerosi risultati della scienza, ad esempio l’immagine copernicana del mondo. 27
Husserliana VI, 1954 [Nijhoff, Den Haag 1959]. [S’intende ovviamente E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913 e postumo), tr. di V. Costa, introd. di E. Franzini, 2 voll., Einaudi, Torino 2002]. 29 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno (1953), [tr. di G. Cantoni, Rusconi, Milano 1975]. 28
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O almeno in parte, visto che sopravvive pur sempre la diretta esperienza vissuta del sorgere e del tramontare del sole. Attualmente questa immagine del mondo è soggetta a un rapido assorbimento da parte del pensiero tecnico. Heidegger30 ha perfettamente ragione nel giudicare inquietante l’abitudine dello studente di oggi di riferirsi alla propria università dicendo “uni” (sulla falsariga di “cine”) e nel ravvisarvi un sintomo di un cambiamento del modo di pensare, tendente a sostituire le parole con dei segni, un sintomo quindi della progressiva tecnicizzazione di tutta la nostra epoca. Un esempio anche migliore dell’abbreviazione “uni” sarebbero acronimi di rapida diffusione come AA., CDU, ecc. Si tratta di segni in senso più proprio di quanto non lo sia “uni”. La mia generazione parlava ancora di “università” e con ciò pensava qualcosa di preciso. D’altra parte, anche il fisico non ha ancora impregnato con la propria conoscenza scientifica la situazione in cui vive fino al punto di pensare, quando si sposa, di liberare un vortice atomico costituito prevalentemente di cavità. Osservando in modo veramente attento il suo comportamento, vedremo che egli sposa molto più probabilmente un’Artemide, un’Atena, una Carite o simili. Il che ci dice molto sulla struttura fattuale del nostro mondo della vita e di come realmente lo si vive. Infatti tale mondo è ancora oggi de facto intriso di componenti mitiche. Constatiamo con piacere la stretta contiguità metodica qui tra l’indagine sul comportamento umano e l’indagine comportamentale della biologia più recente. 30 M. Heidegger, Che cosa significa pensare? [Chi è lo Zarathustra di Nietzsche (1954), tr. di U. Ugazio e G. Vattimo, pref. di G. Vattimo, SugarCo, Milano 1971, I, p. 117 sgg.].
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8. È da queste immagini “vissute” del mondo31 che anche le scienze sono sorte. E ovviamente anche le scienze esatte della natura. Ma prima di prestare loro un’attenzione speciale, occorre riflettere in modo approfondito sul problema dell’interrogare. Si è detto, schematicamente, che solo ciò che è significativo, cioè quel che s’impone come significativo o “spicca” per la sua significatività, viene istintivamente o esplicitamente percepito (un’esplicitezza a vari livelli). Se, come vuole la natura delle cose, ci si spiega questo fatto prima di tutto sul piano della percezione prescientifica (e qui l’analisi dei mondi-ambiente animali offre degli spunti assai istruttivi), si può notare che la significatività vissuta di quello che ingenuamente e sentimentalmente si è ritenuto degno di percezione si trasforma, considerata nell’analisi scientifica del mondo, in ciò che dal punto di vista scientifico è esplicitamente “degno di essere interrogato”. Anche la scienza non indaga “tutto”, ma procede lungo vie d’indagine determinate, strade meticolosamente tracciate e binari della ricerca che facilitano la tempistica del procedimento e vincolano chi pone gli interrogativi. Spesso le radici di questo interrogare sono ancora immediatamente individuabili nell’esperienza prescientifica del mondo, negli indirizzi secondo cui ci si interessa a qualcosa e lo si giudica degno d’interesse. Se la storia delle scienze fosse tanto nota e vivacemente presente al filosofo medio quanto lo sono altri ambiti scientifici, questi dati sarebbero stati di gran lunga più
31 Ho introdotto questo concetto di immagini del mondo “vissute” nella mia Geschichtsphilosophie [cit.].
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profondamente considerati e utilizzati32. L’evoluzione delle scienze offre infatti tutta una serie di prove del fatto che alla base di tutta la ricerca vi è la storia nascosta di un certo voler-sapere con un suo orientamento determinato, e alla base di questa storia una trasformazione della partecipazione interiore (dell’interesse) al tema. La “scientificità”, in senso stretto, non pertiene anzitutto agli interrogativi elementari che schiudono inediti ambiti di ricerca, ma poggia in quanto tale sulla precisione della risposta a questi interrogativi. Solo una volta che l’attenzione proiettata dall’interesse prescientifico si sia concentrata su una porzione, su un lato o una certa “sezione” della realtà complessiva (ad esempio sul mondo antico o sull’evoluzione del Cristianesimo, sulle antichità orientali o sulla preistoria, ecc.), può allora iniziare la vera e propria indagine – ora però in forma puramente oggettiva, e cioè scientifica – dell’ambito tematico resosi accessibile, messo a fuoco e solo ora davvero articolato. In Europa abbiamo indagato a lungo e in forma molto esclusiva proprio la storia del Cristianesimo, vale a dire un frammento particolare della storia della religione, e perfino attraverso molteplici scienze specialistiche, tanto progredite da giustificare l’esigenza di cattedre universitarie, appunto perché noi siamo cristiani e nutriamo perciò un interesse speciale per questo frammento. Ma questo è un dato prescientifico. Che da noi si siano così profondamente e ampiamente sviluppate proprio le scienze dell’antichità classica molto tempo prima di qualsiasi sinologia, di qualsivoglia disciplina che studi la cultura babilonese, ecc., dipende da ideali umanistici 32 Cfr. la mia Einführung in die Wissenschaftsgeschichte (in preparazione) [lavoro mai pubblicato; N.d.T.].
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prescientifici. L’etnologia, analogamente, è in relazione con la colonializzazione e l’attività missionaria, ecc.33. Poiché però la posizione di un interrogativo gode di una “libertà” prescientifica, poiché si rivolge non solo a regioni ma anche a lati della realtà, poiché anzi la variabilità di metodi con cui, ad esempio, si scrive la storia, si pratica la linguistica o la zoologia, si radica in questo originario ambito prescientifico, a compromettere la scientificità della conoscenza raggiungibile con la ricerca e la sua pretesa di oggettività (questa la prima e massima preoccupazione dei nemici dello storicismo) non è affatto questa libertà e la conseguente varietà dell’interrogazione prescientifica. Questa libera variabilità dell’interrogare non mette in pericolo l’oggettività della ragione scientifica, appunto perché tale variabilità non è affatto qualcosa di scientifico ma di prerazionale. Ecco quindi un argomento ulteriore e a mio avviso fondamentale per esorcizzare il pericolo del relativismo o quanto meno per minimizzarlo. 9. L’anti-storicista si rivolgerà tuttavia con maggiore sollievo a quelle scienze in cui il fattore dell’“interrogare”, fondamentalmente variabile e causa di relatività, è meno evidente, appunto perché in esse la formulazione dell’interrogativo è divenuta nella prassi piuttosto costante e stabile. È il campo delle scienze esatte della natura. L’indagine gode qui di una formidabile stabilità, con risultati che appaiono più obiettivi e universali di quelli della storiografia universale, in ragione del fatto che i suoi artefici e i suoi critici concordano comunque sulle modalità dell’indagine. 33 Cfr. il mio saggio Die Bedeutung der Geisteswissenschaften, in «Der Volkswirt», [8], 1954 [pp. 15-19].
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Ma se guardiamo le cose più attentamente, si vedrà che solo il “carattere obiettivo” dei risultati della scienza poggia però sulla loro oggettività. La loro “validità universalmente umana”, invece, si basa su un fattore totalmente diverso, su un accordo “universale”, vale a dire tra gli uomini, circa la formulazione dell’interrogativo. Nella prima parte del presente lavoro abbiamo definito esplicitamente, ad esempio, il sistema del diritto romano come dogmatica. Ma se l’umanità avesse semplicemente concordato sul fatto che tutte le altre dogmatiche giuridiche (ad esempio quella del diritto germanico) si basano su errori, il diritto romano avrebbe allora acquisito una validità universale. E infatti le cose sono andate proprio così. Non conosco abbastanza il diritto babilonese o cinese. Ma supponiamo che questo diritto fosse stato giuridicamente altrettanto “perfetto” e, procedendo nella finzione, che Babilonia avesse conquistato il mondo e che non fosse nato dopo e contestualmente a tale diritto nessun altro sistema giuridico: ebbene, in tal caso il diritto della scrittura cuneiforme varrebbe oggi non solo (essendo perfetto) come “obiettivo” ma anche come “universalmente valido”, l’intera umanità non conoscendone un altro e concordando su quello. Non ci vuole molta fantasia per moltiplicare questa finzione. Il risultato sarebbe il seguente: di tutte le “dogmatiche” apprezzeremmo la validità universale. La giurisprudenza avrebbe sostanzialmente acquisito l’oggettività e la validità universale delle scienze naturali moderne. Ma così anche la scienza matematica della natura ricade nella luce di una “dogmatica” della conoscenza della natura, ancorché sviluppata in modo particolarmente continuo ed efficace. La sua “natura obiettiva” si fonda, come sappiamo, sulla sua oggettività, mentre la sua “validità 100
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universale” sul fatto che è relativamente raro che altre possibili direzioni della ricerca siano giunte a un vasto riconoscimento “generale”. 10. Ma quest’idea va ora ulteriormente articolata. È escluso, anzitutto, che l’origine palesemente pratica e prescientifica anche di molti orientamenti della ricerca naturalistica abbia necessariamente pregiudicato l’oggettività di tale ricerca. Non bisogna solo pensare ai riferimenti pratici che l’astronomia e la geometria, l’aritmetica e persino la geografia, hanno con l’orientamento nella navigazione, con il rilevamento topografico, con l’arte delle fortificazioni e la balistica, oppure ai precedenti magico-astrologici o alchemici dell’astronomia e della chimica, perché a questo punto sono perfettamente sufficienti l’esempio della medicina e quello ovviamente della tecnica scientifica. L’interesse pratico per il corpo umano, per l’eziologia, ecc., non mette affatto in pericolo la scientificità delle ricerche mediche. Anzi, si dovrebbe ritenere che la promuova. Lo stesso dicasi per il sostegno dato all’aeronautica dagli interessi pratici. Detto in breve, l’origine prescientifica degli indirizzi di ricerca, degli interessi e delle sempre più numerose focalizzazioni che essi garantiscono, non ha assolutamente nulla a che fare con la scientificità della ricerca. La ricerca inizia quando il faro dell’interesse illumina un certo ambito, all’interno del quale essa cerca poi con ogni mezzo di lasciar parlare la cosa. Il che ovviamente non esclude che l’indagine possa estendersi metodicamente sia all’interno di questi ambiti sia al di là di essi. E infatti la passione insita nella ricerca di una spiegazione della realtà si è ormai da un bel pezzo estesa all’universo intero, alla vita e all’uomo nella loro interezza. Ed è per questo che l’anatomia, la fisiologia, la genetica, ecc., da molto tempo possono essere 101
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autonomamente esercitate, indipendentemente cioè da interessi chirurgici e terapeutici. Il biologo può studiare degli ambiti che al profano sembrano molto periferici, come ad esempio la zoologia delle pulci, ma periferico solo prima che le pulci dei ratti, veicolo di diffusione della peste, lo rendessero un campo particolarmente interessante dal punto di vista pratico. Uno zoologo avrebbe potuto scrivere una zoologia delle zanzare prima che si sapesse che esse sono il veicolo della malaria (per quanto ne so, in ciò la zoologia dapprima fallì). Galvani potè interessarsi degli spasmi poco evidenti delle cosce delle rane ancor prima di presagire quali conseguenze teoriche, ma soprattutto pratiche e tecniche, la sua scoperta potesse produrre. Helmholtz potè affermare, in riferimento alla propria invenzione dell’oftalmoscopio, che a interessarlo era l’aspetto dell’occhio. Heinrich Hertz ha studiato le relazioni tra la luce e l’elettricità, senza pensare affatto al telegrafo senza fili e tanto meno alla radio; Röntgen i suoi raggi x, senza immaginare i progressi della medicina. Se il compito di questi uomini fosse stato quello di perfezionare, rispettivamente, la chirurgia e la vita musicale del popolo, il primo avrebbe forse potuto inventare dei coltelli più affilati e il secondo un organetto più a buon mercato. In realtà è da tempo che coloro che finanziano la ricerca, e in primo luogo i governi, hanno capito che una complessiva indagine teorica dell’universo, vale a dire un’estensione possibilmente universale dell’interesse scientifico anche ad ambiti di non stretta attualità, potrebbe rivelarsi imprevedibilmente “utile” a posteriori. La radiologia è tuttavia stata sostenuta in modo particolare perché già era noto il suo significato pratico. E lo stesso dicasi per la balistica, l’aviazione, ecc. 102
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In sintesi, lo slogan tanto enfatizzato da molti scienziati della natura della “ricerca per la ricerca” non rende la ricerca naturalistica più oggettiva di quanto non la renda l’idea della ricerca naturalistica per il dominio della natura. In entrambi i casi la ricerca è vincolata in quanto tale alla cosa. L’origine pratica dell’idea di dominio non pregiudica affatto l’obiettività delle ricerche che all’obiettività mirano. Su questa idea essenziale di oggettività tutte le scienze sono perfettamente concordi, le scienze della natura ma anche le scienze dello spirito. Se ciononostante nelle scienze della natura si è avuto uno sviluppo relativamente più costante rispetto a quello avutosi nelle scienze dello spirito – uno sviluppo piuttosto convincente oltre che rassicurante per il nemico dello storicismo –, è però vero che l’inquietudine delle scienze dello spirito getta una luce istruttiva anche sulle scienze della natura, come pure su dei significati dell’“interrogare” molto meno manifesti di quelli finora esplicitati. 11. L’interrogazione di origine prescientifica non seleziona cioè solo gli ambiti disciplinari o le regioni del mondo, ma esercita un’influenza assai più sotterranea sui metodi utilizzati nella ricerca e sui punti di vista. La “validità universale” della ricerca nelle scienze della natura, niente affatto messa a repentaglio da qualche minaccia storicistica, non poggia cioè sull’assenza di interrogativi prescientifici, ma soltanto sul fatto che da parecchio tempo essi godono di una certa stabilità. La relatività delle scienze dello spirito deriva dall’inquietudine generata da questi interrogativi e dal loro ruolo in aspetti molto meno stabili della vita creativa. Più precisamente: le scienze della natura, effettivamente a loro volta opera dell’uomo, rientrano allo stesso titolo nella vita creativa, solo che, 103
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mentre in tali scienze questa vita risulta da molto tempo (ed è comunque per lunghi periodi) vincolata a un preciso binario dell’interrogare, essa è assai meno vincolata nel campo dell’arte, della religione, della politica, della giurisprudenza, ecc. La relativa instabilità delle scienze dello spirito si basa perciò su un’instabilità della vita stessa. Ma queste due relatività non devono però indurci a supporre che a fondamento degli interrogativi scientifici vi sia solo un rapporto con la vita. Un imprescindibile rapporto con la vita della moderna scienza della natura consiste infatti non solo nell’idea, quanto meno insita in ogni tecnica, del dominio della realtà ma già nella razionalità dei suoi metodi. Per essere più chiari, citiamo qui un’eccellente descrizione del metodo di Galilei34. Il metodo di Galilei? È il metodo sperimentale che associa induzione e deduzione, esperienza e pensiero, ed equivale, come notato specialmente da Kant, a una rivoluzione della forma del pensiero scientifica. Egli ha sostituito una volta per tutte l’antica filosofia della natura con quella moderna, con la scienza della natura. Possiamo ravvisare la totale contrapposizione tra la vecchia e la nuova scienza, come pure l’ampiezza del progresso nel passaggio dalla prima alla seconda, in una semplice parolina. Anziché chiedere perché i corpi cadono, da quale genere di impulso interno essi sono mossi, Galilei si domanda come essi cadono, con quale forma, secondo quali leggi. Questo cambiamento, apparentemente così insignificante, dell’interrogazione scientifica 34 A. Riehl, [Zur Einführung in die] Philosophie der Gegenwart, [Teubner, Leipzig] 19042, p. 37 sgg.
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Erich Rothacker separa in realtà due epoche della conoscenza umana. Al posto dell’indagine vana e ingannevole sull’essenza delle cause la scienza moderna pose il compito, il solo risolvibile, di indagare e rintracciare le leggi causali. Non è per rassegnazione, ma per aver intuito la natura del sapere, che abbiamo imparato a rinunciare al sogno di poter penetrare col nostro spirito l’essenza delle “cose in sé”. Se noi stessi siamo sorretti da questa essenza, allora la nostra esistenza la presuppone: come potremmo quindi coglierla con il nostro pensiero, come potremmo catturarla, per così dire, nella cerchia dei nostri concetti? Per Galilei il vertice dell’audacia consisteva nel rendere commensurabili l’intelligenza e ciò che la natura sa realizzare. Non vi sarebbe nella natura un solo effetto, per quanto poco appariscente, la cui perfetta conoscenza non trascenda la capacità anche dello spirito più illuminato. Ma entro i confini che la scienza stessa si dà quando comprende se stessa il sapere è assoluto o perfetto, non relativo: esso giunge a cogliere la necessità, oltre la quale non vi è più nulla da conoscere, né si può dire che abbia senso ogni ulteriore interrogativo. Con la conoscenza delle leggi causali noi dominiamo gli effetti e ci impadroniamo sia teoricamente sia praticamente delle forze naturali.
L’ultima frase fa cenno per la prima volta al ben noto motivo del dominio della natura, al quale spesso gli studiosi della natura si oppongono. Ma non si può qui tacere che questo motivo domina o, detto con maggiore cautela, potrebbe dominare il volto della modernità ben al di là della ricerca naturalistica in senso stretto. Meno controversi sono nella citazione il richiamo al fondamen105
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tale orientamento delle scienze esatte verso la causalità e la legge, e la predilezione, intrecciata alla razionalizzazione della natura, dell’aspetto quantitativo di tutti i fenomeni. Già il termine stesso “orientamento” dichiara che l’attenzione si concentra qui su un lato determinato della realtà e rinuncia esplicitamente a chiarire sistematicamente gli altri lati. Un’approfondita discussione di quali siano questi lati complicherebbe e svierebbe questa nostra riflessione, ma non si tratta affatto solo dei lati cui pensava la Scolastica, bensì anche di quelli sottolineati dalla fenomenologia, a partire ad esempio da Husserl. Prendiamo ora l’ormai classica antitesi qualitativo/ quantitativo. Anche la scienza esatta ovviamente mira all’aspetto qualitativo dei fenomeni (senza che sia comunque possibile trascurare i punti trattati a p. 83 del presente lavoro). Ma questo lato qualitativo della realtà viene trattato attraverso forme di pensiero quantificanti, donde implicitamente un epifenomenalismo secondo cui la qualità è l’epifenomeno dei lati quantitativi e razionalizzabili della realtà. Sostenendo questa prospettiva, si fa un passo decisivo: che la moderna ricerca naturalistica sia completamente ricavabile dall’idea del dominio della realtà, cioè da un’idea tecnica, oppure sia un’elevata e possibilmente neutrale stilizzazione del modo in cui l’uomo si orienta verso la realtà (l’“orientamento” prende qui il posto del dominio tramite il lavoro), la struttura delle sue categorie resta comunque la medesima. Cioè quella scoperta e introdotta da Galilei. Comunque si valuti la genealogia di tali categorie, il loro modo d’essere, cioè il modo in cui de facto le si utilizza, esse restano in ogni caso finalizzate alla quantificazione finché conservano la razionalità cui mirava Galilei. Questo orientamento razionale verso il mondo insiste su un approccio unilate106
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ralmente quantificante, non meno di quanto vi insista il retropensiero tecnico di un dominio del mondo. Abbiamo già mostrato praticamente e concretamente che l’approccio teorico al mondo tramite questa metodologia risulta agevolissimo e ottiene grandi successi. Successi, comunque, non solo dal punto di vista teorico ma anche, contestualmente, rispetto alle applicazioni tecnologiche. Per prima cosa, bisogna dare la massima “trasparenza” all’ente sensibile-spaziale-temporale-materiale-cosale, e poi far sì che sia massimamente trattabile sotto il profilo quantitativo. Anche se la ben nota leggenda di Galilei, secondo la quale una volta abiurato il copernicanesimo egli avrebbe aggiunto il classico “e pur si muove”, è una perenne testimonianza del puro entusiasmo per la verità dell’autentico scienziato della natura, esiste tuttavia una sorta di armonia prestabilita tra gli strumenti concettuali di questa scoperta della verità e la produttività tecnica di quegli stessi strumenti. Essi sono pacificamente funzionali a entrambe le intenzioni: sia alla delucidazione razionale della realtà, sia al suo dominio tecnico. Un’armonia prestabilita tra la produttività cognitiva, che conduce a scoperte e all’individuazione di relazioni, e, nello stesso tempo, la produttività tecnica. Ma si ammetterebbe così, in definitiva, che l’“interrogativo” sulle relazioni quantitative formulato dalle scienze matematiche della natura è sia un interrogativo particolare sia un interrogativo in generale. La scienza della natura è la dogmatica di una prospettiva quantificante. Quattro fattori hanno cooperato alla nascita e allo sviluppo di quest’opera grandiosa e coerente: la logicità esperita tramite il modello matematico (di ascendenza platonica), l’economia dei suoi procedimenti concettuali (nel senso della moderna interpretazione pragmatica), 107
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la quantità di scoperte e di idee nonché la produttività tecnica insita nel dinamismo della Modernità (sapere è potere, savoir pour prévoir). La quantità di constatazioni e di leggi scoperte, associata alla quantità e redditività delle sue applicazioni tecniche, esercitano un peso sempre maggiore e sono quindi in grado di spostare l’ago della bilancia più di ogni altro sforzo cognitivo. 12. L’insidiosa introduzione del termine “redditività” nell’ultima frase segnala un quinto fattore che non deve essere tralasciato. Alle spalle della “libertà” di formulare un certo interrogativo vi è la “libertà” di un interesse prescientifico radicato nella vita. Ma alle spalle di questa “partecipazione” formale possono esserci come minimo dei concreti motivi d’interesse (nel senso strettamente utilitaristico del termine). Una scienza necessita, in linea di principio, solo dell’interesse ideale da parte di chi la inventa. Questi individui interessati sul piano ideale e i loro seguaci possono – “l’unione fa la forza” – costituire un potere assolutamente rilevante, ma il massimo splendore concreto delle scienze ha avuto alle spalle per lo più degli ingenti interessi “pubblici”. E la cosa vale fondamentalmente anche per le scienze dello spirito. I costi considerevoli sopportati infatti dai poteri pubblici per l’amministrazione della giustizia, compresa la giurisprudenza scientifica, e per le Chiese, compresa la teologia, sono a loro volta giustificati a prima vista solo da esigenze pratiche della vita. Lo stesso vale per il sostegno dato alla medicina, e oggi in modo particolare alla tecnica e alla fisica, alla chimica e alla biologia. Proprio quest’applicabilità pratica di quanto si conosce scientificamente rappresenta, realisticamente considerata, ciò che meglio garantisce la stabilità di interrogativi così produttivi. Siamo così nuovamente tornati alle ragioni 108
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più grossolane e superficiali per cui si formula un certo interrogativo. 13. Torniamo ora da queste ragioni a quelle più occulte e “sottili”, e si vedrà che la componente fattuale dell’interrogativo emerge anche nelle ricerche naturalistiche, non da ultimo dalle notevoli variazioni metodiche immanenti occorse a queste scienze nel corso della loro storia. Un esempio popolare è l’opposizione di Goethe a Newton. Meno influenti invece le tendenze moderne verso una filosofia speculativa della natura. Ma vi rientrano anche la medicina naturale e la psicoterapia. In breve, ovunque oggi si polemizzi in forma del tutto esplicita con il predominio dei “metodi meccanicistici”, troviamo una variabilità degli orientamenti fondamentali anche nelle scienze della natura. La cosa diventa molto concreta in biologia. A livello “micrologico” (se mi è permesso usare questo termine), in biologia – anche al di fuori del rozzo vitalismo – gli interrogativi teleologici non sono mai del tutto eliminabili. Esattamente come quelli psicologici nella fisiologia sensoriale. Ancora più interessante, anche se al profano purtroppo non del tutto palese, è il frequente e sottile avvicendarsi di “orientamenti” anatomici e fisiologici, sottolineature macroanatomiche della “forma”, interrogativi microanatomico-istologici con maggiori o minori ricadute di natura fisiologica e chimica. Ma anche l’avvicendamento nel ruolo trainante di certi programmi di ricerca, ad esempio l’avanzata della genetica dopo l’ondata di indagini filogenetiche, il riuscito imporsi del “lavoro sul campo” di tipo biologico nelle ricerche sul comportamento, ecc. Un esempio classico del ruolo esercitato in questi processi anche da più grossolani “interessi vitali”, contestualmente all’indubbio ruolo di tendenze legate a certe visioni del mondo, 109
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è il predominio temporaneo delle ricerche filogenetiche prima del ’900. Non è facile capire la duratura autorità non solo di Haeckel ma già di Darwin senza chiamare in causa la “recondita” intenzione di riavvicinare l’uomo all’animale e di mettere così alle corde i miti creazionisti sanzionati dalla Chiesa. Fu un’ondata di illuminismo antiteologico, ma di queste ricerche sopravvissero risultati considerevoli. Dietro a ogni cosiddetto “metodo” si cela un “orientamento”. E dietro a ogni orientamento una prospettiva. Dietro a entrambi, per un verso, un’“intuizione”, e per l’altro un interesse per certi lati e aspetti dell’ulteriore campo di ricerca. Dietro a questo interesse, nel senso formale del termine (cioè della sua efficacia interna), vi sono nuovamente degli occulti interessi “esistenziali”, legati alla vita e parzialmente pubblici, anche se non sempre è facile renderli visibili. Quand’anche queste interne variazioni metodiche fossero paragonabili a dei satelliti incapaci di ostacolare l’orbita gravitazionale del pensiero meccanicistico, queste “differenze domestiche” potrebbero comunque acuirsi, fino a diventare delle “crisi” analoghe a quelle da noi vissute con stupore nella fisica del XX secolo. Il futuro è certamente imprevedibile. Il successo filosofico della fenomenologia (in tutte le sue varianti) predispone delle nuove forme di osservazione anche dei fenomeni naturali. Vacilla da tempo la nozione kantiana di natura, fondata esclusivamente su Newton. Ancora più profonda è la crescente opposizione filosofica al tradizionale “concetto di oggetto”, finora invalso a livello epistemologico. In sintesi: a consolazione (!) dei nemici dello storicismo potremmo richiamare nuovamente l’attenzione sul fatto che le scosse subite dalla “validità universale” della precedente ricerca naturalistica, in linea di massi110
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ma sempre possibili, sono dovute “solo” al margine di libertà con cui è possibile porre gli interrogativi, senza che sia così fondamentalmente intaccata l’obiettività delle constatazioni fatte. Il che vale anche per le “constatazioni storiche” passate al vaglio della critica, nonostante la permanente variabilità delle “concezioni” che si possono avere della storia universale. Il momento in cui si formula l’interrogativo è quindi sempre, in linea di principio, il fattore variabile di ogni scienza. E resterebbe tale quand’anche questa variabilità non emergesse mai praticamente e nei fatti. Dovrebbe allora ormai risultare chiaro il fondamentale carattere dogmatico di ogni branca della scienza. 14. Il momento “dogmatico” da noi enucleato all’interno di tutte le scienze, anzi all’interno di tutto il contenuto del sapere umano – umano significa finito, “finito” significa logicamente accidentale e logicamente accidentale significa formulabile solo dogmaticamente – corrisponde in larga misura a quanto Heidegger definisce ontologico in contrapposizione a ontico. L’ontologia della scienza naturale, non diversamente da quella del classicismo, è un “progetto di mondo”, indipendentemente dal fatto che tale progetto sia una “destinazione dell’Essere” oppure qualcosa di progettato dagli uomini (sulla base di ispirazioni che, in effetti, non si possono a loro volta “produrre”, ma che si possono considerare “inviate”). L’ontico (l’essente) resta, mentre le ontologie, cioè i progetti di mondo, cambiano (o sono cambiati fino ad ora). I seguenti interrogativi-limite di natura trascendentale vanno posti ora tra parentesi: perché mai la fattualità concreta non si può affatto “schiudere” senza onto-“logie”? Come si può distinguere questo essente manifesto dall’enigmatico essente “in sé”, da noi inter111
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pretabile dal punto di vista di determinate ontologie? Quel che si può verificare è che un ontico determinato, come ad esempio una baia, può manifestarsi solo nel progetto di mondo dei marinai. Analogamente, l’acqua come H2O, in opposizione all’acqua che “attrae” il “pescatore” di Goethe (“per metà lei lo attirava, per metà lui sprofondava”)35, presuppone un’ontologia fondata sulle scienze naturali, la ninfa invece un’ontologia magica. Grazie al linguaggio, la nostra “visione naturale del mondo” ha in un certo senso fatto sue e reso esperibili (più che non disponibili) entrambe le possibilità. Ciò che dovevamo qui chiarire era il nesso tra ontologia, progetto di mondo, visione-del-mondo, significatività, interesse (in senso formale), formulazione dell’interrogativo, “veduta”, orientamento, “metodi” e dogmatica. L’“essere” di Heidegger coincide con il “significativo” (nel senso lato che abbiamo dato al termine). L’essenziale raggio luminoso della significatività di volta in volta prevalente getta una luce sull’oscurità costituita da una “realtà originaria” misteriosa e ancora inesplicata, nella quale agendo urtiamo continuamente, ma che può ugualmente essere un’occulta fonte di occasioni felici, e rischiarare così un ontico multiforme (come contenuto-del-mondo). Immaginiamo che tale raggio luminoso debba avere sempre un qualche colore concreto: in tal caso la luce blu ci farà vedere dei fatti blu, quella rossa dei fatti rossi. Con colore s’intende qui una tinta ontologica, la tinta che ha un certo “mondo”. E fatto qui significa: selezione che si è ricavata dalla “realtà” stessa dopo attenta osservazione e che ha poi superato le prove di verifica. Se questa “realtà” in sé abbia in generale un 35
[Si tratta della ballata di Goethe, Der Fischer, 1778].
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colore e quale, non lo sappiamo di certo. Una dogmatica non è che la teoria di questo o quell’aspetto obiettivo di questa realtà, reso possibile da una determinata illuminazione. La scienza si occupa in modo approfondito, ma mai definitivo, di verificare e rielaborare teoricamente i fatti resi accessibili da questa illuminazione e le loro relazioni, a loro volta fattesi perspicue. 15. Resta ancora un compito, quello di approfondire ulteriormente il seguente interrogativo: per quale ragione il “contenuto di senso” delle opere delle scienze naturali è meno variabile di quello della maggior parte delle opere delle scienze dello spirito? La scienza esatta della natura ci ha offerto per prima un esempio del fatto che una dogmatica non ha realmente bisogno di variare. Neppure nel campo delle scienze dello spirito. Se l’arte di tutti i tempi e popoli fosse stata e rimasta “classica”, sarebbe stato tanto arduo venire a conoscenza del suo carattere dogmatico quanto lo è conoscere il carattere dogmatico delle scienze meccanicistiche della natura. La dogmatica di quest’arte risulterebbe allora “universalmente valida”. Una pretesa che essa ha per un certo tempo anche avuto, analogamente al diritto romano nell’antichità e nella forma della pandettistica. Ma per approfondire ulteriormente il nostro tema, sarà meglio tornare ancora una volta all’introduzione, le cui risultanze spero abbiano fin dall’inizio gettato una luce sulla riflessione successiva. Si era detto che le scienze dello spirito hanno a che fare con i contenuti di senso di quanto è opera dell’uomo. E che le opere dell’uomo in quanto tali hanno però origine da una concreta attribuzione di senso (o scoperta del senso). Era ragionevole che per motivi propedeutici prendessi le mosse dalla ri-scoperta di tali contenuti di 113
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senso che si dà nelle interpretazioni storico-filologiche delle opere. La riscoperta del senso presente nelle opere dell’uomo riguarda infatti gran parte delle scienze dello spirito, mentre l’attribuzione di senso, realizzata ad esempio da un artista creativo o dal fondatore di una religione con le sue opere, si sottrae ben di più al controllo scientifico. E sotto questo profilo i compiti delle scienze dello spirito vanno distinti, per quanto possibile, da quelli della filosofia. De facto, limitata è la speranza che la filosofia sia in grado di dare una forma scientifica a questa creativa scoperta del senso. Essa lascia irrisolte molte questioni. 1. Fino a che punto la filosofia è in grado di farlo? 2. È qui realmente in grado di guidare questo processo, oppure solo di controllarlo, o addirittura solo di motivarlo a cose fatte? 3. Fino a che punto queste attività si distinguono tra di loro? 4. Mostrandosi capace di scoprire il senso, la filosofia non diventa allora, nel suo legame immediato con la vita e in quanto preparata proprio dalla vita, a sua volta creativa, rimettendoci però purtroppo in scientificità? Una cosa è certa, ed è che lo sviluppo della vita spirituale è veicolato in quanto tale da ispirazioni creative. Non è possibile, per lo meno nella gran parte degli ambiti culturali, costruirlo in modo razionale. Ciò che è possibile fare molto più agevolmente a posteriori, ossia con dogmatiche di forma sistematica. Ma la difficoltà si acuisce così ulteriormente: intrecciate come sono alla vita concreta, queste ispirazioni creative sono a loro volta sempre concrete, si realizzano cioè in uno stile determinato. A questo stile prende parte pure la filosofia, nella misura in cui essa cerca di intervenire creativamente nella vita (cfr. supra pp. 81-82). 114
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Questo vale però anche per la ricerca naturalistica. L’idea e il progetto da cui dipendeva la sua creatività consistevano nella razionalizzazione quantificante dei contenuti percettivi. Ma per le ragioni già addotte, in questa ricerca il riferimento alla vita rimaneva costante, mentre nel campo diametralmente opposto dell’arte esso mutava. Ora, se questo è un fatto, la sua interpretazione è però la seguente: tra i compiti creativi che la vita si pone, specialmente nella Modernità, il compito della conservazione della vita attraverso il dominio della realtà è più stabile degli altri compiti che la vita si pone alla ricerca del proprio senso. Ma, oltre a questo, la scienza della natura ha a che fare con l’applicazione delle sue “ispirazioni” creative a fatti che si presentano sul piano sensibile. In virtù della straordinaria attitudine di questa prospettiva creativa, essa è riuscita appunto a raggiungere il proprio scopo: rendere trasparente e passibile di trattamento un numero sempre crescente di datità sensibili. È ancora ben lungi dall’essere conclusa, ma il suo sviluppo ha coinciso proprio con la marcia vittoriosa di questa interpretazione quantificante delle datità sensibili. Ripetiamolo: la prospettiva era “creativa”, ma la dimostrazione di questa prospettiva si riferiva a fatti osservabili. Al contrario, l’avanzata dell’arte creativa nel mondo del senso non può essere cognitivamente dimostrata con dei dati di fatto, semmai trova la propria dimostrazione in specificazioni di senso che si possono solo “inventare”, configurare o, per meglio dire, plasmare, ma che sono comunque accessibili unicamente alla fantasia. L’autorevolezza dei risultati, i quali giustificano e ne promuovono pubblicamente l’operato, consiste nell’ammirazione che le creazioni artistiche suscitano negli uomini, le cui esigenze di sen115
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so sono in questo campo infinitamente più variabili di quanto non lo sia la stabile esigenza di senso insita nella conservazione della vita. Le scienze dello spirito possono offrire un analogo della possibilità di conferma che i progetti naturalistici trovano nei fatti soltanto quando riscoprono interpretativamente dei contenuti di senso che sono dati sul piano storico-filologico e quando, in qualità di scienze dogmatiche, spiegano il contenuto sistematico di strutture di senso date. Qui la loro “scientificità” è perciò fondamentalmente garantita, mentre l’arte figurativa e la poesia non valgono come scienze, e la formulazione e la scoperta di nuove idee giuridiche possono valere, nel migliore dei casi, come filosofia. Le lingue, comunque, non sono il frutto di un’invenzione, eccezion fatta per i linguaggi tecnico-matematici prodotti dai logici matematici e per i semplici linguaggi economici e commerciali ascrivibili agli inventori delle cosiddette lingue universali. Ma queste non sono lingue vive nel senso necessariamente lato del termine. Neppure la politica è una scienza, a meno che non si verifichi praticamente la situazione limite di un politico che operi seguendo prescrizioni o manuali di filosofia politica. In sintesi, le scienze della natura applicano le loro premesse dogmatiche ai fatti. Le altre creazioni della cultura invece a progetti di vita accessibili esclusivamente alla fantasia. Anche così sono comunque individuabili delle analogie logiche con l’applicazione di problematiche teoriche ai fatti concreti da parte delle scienze naturali. A ben vedere, è senz’altro possibile mettere a raffronto la soluzione trovata ogni volta in un determinato stile (ad esempio classicistico) di certi “compiti” e “problemi” artistici 116
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(pittura di paesaggio, natura morta, ritrattistica, immagini della crocifissione e della Madonna) con l’inclusione dei fenomeni elettrici, termici e ottici nella “prospettiva” meccanicistica. Ciò che vale anche per le applicazioni del diritto romano, del diritto germanico o del diritto orientale a fenomeni della vita come l’economia e il matrimonio, l’eredità e il crimine, ecc. Le differenze tutt’altro che immutabili nel concepire la proprietà, l’omicidio, il delitto, e così via, sono addirittura degli esempi popolari del ruolo svolto da certe “concezioni” fondamentali nell’interpretazione dei fenomeni della vita. Anche in questo caso i fenomeni della vita debbono essere “catturati” entro una certa prospettiva o un tessuto concettuale elaborato sulla base di tale prospettiva. Esattamente come accadde in passato per “elementi classici” quali l’acqua e il fuoco, i fenomeni della vita dovrebbero essere esaminati, analizzati, preparati e interpretati, finché non sia possibile includerli nel sistema degli “elementi” moderni. Gradualmente e attraverso un intenso lavorio spirituale, anche i motivi iconici e i casi giuridici possono apparire delle felici applicazioni di una certa modalità osservativa a una qualche “materia”, esattamente come lo è l’inclusione del radio tra gli aspetti della fisica moderna. Ma la modalità osservativa della fisica è 1) già grandiosamente costruita sin nei dettagli; 2) non patisce una forte concorrenza da parte di altri sistemi analogamente costruiti sin nei dettagli; 3) la si applica a fenomeni sensibili, la cui trasformazione in “fatti” delle scienze naturali è da tempo così consolidata che siamo ormai soliti considerarla un’ovvietà. Viceversa, le applicazioni, ad esempio, delle prospettive classicistiche ai temi della pittura si muovono 1) nella sfera della fantasia; 2) patiscono sempre la concorrenza 117
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da parte di sistemi divergenti e, all’interno di questi stessi sistemi, da parte delle variazioni stilistiche individuali cui vanno incontro le personalità artistiche. Tra questi due estremi troviamo il campo già più realistico della vita quotidiana, un campo che almeno in apparenza è qualcosa di “dato”. Ma, a dire il vero, anche qui è solo un punto di vista giuridico a lungo “esercitato” a trasformare certi fenomeni in proprietà privata, rapina, furto, ecc. Solo che in questo caso la concorrenza di più dogmatiche giuridiche perfettamente costruite rende percepibile con relativa facilità il ruolo esercitato dal fattore dell’attribuzione di senso, laddove, come si è già ricordato, una simile concorrenza è piuttosto assente nel campo delle scienze della natura, per lo meno nel loro stato attuale. A complicare il carattere di tutte le scienze dello spirito rispetto a quelle della natura sono qui allora 1) la variabilità della ricerca del senso messa in opera dalla vita creativa; 2) la variabile concretezza dei “fenomeni”, necessariamente correlativa alla variabilità della ricerca stessa. Non oseremmo quasi parlare di scienza dello spirito, se il suo esercizio consistesse esclusivamente di intuizioni capaci di creare e attribuire un senso. Ma il ri-trovamento di contenuti di senso già realizzati operato dalle scienze storico-filologiche e l’interpretazione del senso di sistemi dati in elaborazioni dogmatiche pongono dei compiti autenticamente scientifici. Né oseremmo parlarne, se non esistessero nondimeno anche in questo ambito delle scienze strutturali che pervengono a precise osservazioni sulla coerenza tra le possibili modalità di realizzazione della spiritualità. Anche questo compito è scientificamente realizzabile e controllabile. E si tratta, non da ultimo, di un compito filosofico. 118
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Anche questa mia stessa relazione è scientifico-strutturale e avanza perciò delle pretese scientifiche. Il suo intento era quello di fare luce, tra le possibili forme di pensiero finora realizzate e per questo divenuteci familiari delle scienze dello spirito (anzi delle scienze in generale), sulla forma di pensiero dogmatica, sulla sua natura peculiare, finora incompresa, e sulla sua inattesa rilevanza. Le difficoltà dello storicismo non sono altro che una conseguenza del semplice fatto – innegabile – che esistono differenti sistemi culturali e che vi sono differenti dogmatiche impegnate a esplicitarli36.
36 Le vaste ricerche di comparativismo linguistico di J. Lohmann («Lexis» [«Studien zur Sprachphilosophie, Sprachgeschichte und Begriffsforschung»] I-III) [1948-54, Lahr i. B.] sulla realizzazione linguistica delle forme di pensiero contengono le migliori conferme di quanto da me esposto, anche se richiederebbero un’indagine specifica. Altrettanto necessario sarebbe un confronto critico tra le teorie sociologiche sulle ideologie e la teoria del pensiero dogmatico da noi sviluppata nelle pagine precedenti.
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Nota bio-bibliografica
Figlio di un facoltoso commerciante, Erich Rothacker nasce a Pforzheim il 12 marzo 1888. Dopo studi di filosofia, storia, scienze naturali e medicina (a Monaco e per brevi periodi a Kiel, Strasburgo e Tübingen), si laurea nel 1911 a Tübingen (con Heinrich Maier) con un lavoro sullo storico Karl Lamprecht, abilitandosi poi in filosofia nel 1920 a Heidelberg (ancora con Maier). Professore straordinario dal 1924 e ordinario a Bonn (cattedra di Filosofia e Psicologia) dal 1928 al 1954, Rothacker avrà tra i suoi allievi Jürgen Habermas, Karl Otto Apel e Hermann Schmitz. Muore a Bonn il 10 agosto 1965. Membro dell’Accademia delle Scienze e della Letteratura di Mainz, promotore di numerose riedizioni di classici, cofondatore della Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte (dal 1923) e fondatore dell’Archiv für Begriffgeschichte (1955 e sgg.), ideatore dell’Historisches Wörterbuch der Philosophie (poi curato ed edito da Joachim Ritter), Rothacker è stato un importante storico della filosofia, un originale prosecutore della riflessione diltheyana sulle scienze dello spirito, uno studioso della ontologia stratificata della personalità nonché il fondatore di un’antropologia della cultura orientata alla filosofia e alle scienze umane. 121
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Nota bio-bibliografica
a. Opere principali Über die Möglichkeit und den Ertrag einer genetischen Geschichtsschreibung im Sinne Karl Lamprechts, Diss., Tübingen 1912, Voigtländer, Leipzig 1912;
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Einleitung in die Geisteswissenschaften, Mohr, Tübingen 1920 (19302) [EG]; Logik und Systematik der Geisteswissenschaften, Oldenbourg, München-Berlin 1927 (Bouvier, Bonn 1947 e sgg.) [LSG]; Geschichtsphilosophie, Oldenbourg, München-Berlin 1934 [G]; Die Schichten der Persönlichkeit, Barth, Leipzig 1938 (Bouvier, Bonn 19525) [SP]; Probleme der Kulturanthropologie, Bouvier, Bonn 19482 (ma prima ed. Kohlhammer, Tübingen 1942; ora Bouvier, Bonn 20083) [PK]; Vom Sinn der Wissenschaft, Schafftstein, Köln 1943 [SW]; Mensch und Geschichte, Junker u. Dünnhaupt, Berlin 1944 (ried. ridotta Athenäum, Bonn 1950); Schelers Durchbruch in die Wirklichkeit, Bouvier, Bonn 1949;
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Nota bio-bibliografica
E. Rothacker [Autopresentazione], in «Philosophenlexikon», a cura di W. Ziegenfuß e G. Jung, 1950, II, pp. 375-381 [A];
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Die dogmatische Denkform in den Geisteswissenschaften und das Problem des Historismus, Steiner (su commissione dell’Accademia delle Scienze e della Letteratura di Mainz), Wiesbaden 1954; Zur Philosophie der dogmatischen Methode, Mainzer Universitätsgespräche, Sommersemester 1961 [PDM]; Intuition und Begriff. Ein Gespräch (zusammen mit Johannes Thyssen), Bouvier, Bonn 1963 [IB]; Heitere Erinnerungen, Athenäum, Frankfurt a. M. Bonn 1963 (nuova ed. rivista a cura di L. Perpeet, Bouvier, Bonn 20083) [HE]; Philosophische Anthropologie, Bouvier, Bonn 1964, 19662 [PA]; (postumo) Zur Genealogie des menschlichen Bewußtseins, a cura di W. Perpeet, Bouvier, Bonn 1966 [GMB]; (postumo) Gedanken über Martin Heidegger (1963), Bouvier, Bonn 1973 [GMH]; (postumo) Das Buch der Natur: Materialien und Grundsätzliches zur Metapherngeschichte, a cura di W. Perpeet, Bouvier, Bonn 1979.
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Nota bio-bibliografica
b. Letteratura secondaria (selezione) Konkrete Vernunft, Festschrift für E. Rothacker, a cura di G. Funke, Bouvier, Bonn 1958;
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W. Perpeet, Aufgaben und Ergebnisse der Menschheitswissenschaft. Zum vorliegenden Werk E. Rothackers, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», 33, 1958, pp. 173-215; H. Blumenberg, Nachruf auf Erich Rothacker, in «Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften und der Literatur zu Mainz», 1966, pp. 70-76; G. Martin - H. Thomae - W. Perpeet, In Memoriam Prof. Erich Rothacker, Hannstein, Bonn 1967; H.W. Nau, Die systematische Struktur von Erich Rothackers Kulturbegriff, Bouvier, Bonn 1968; W. Perpeet, Erich Rothacker. Philosophie des Geistes aus dem Geist der Deutschen Historischen Schule, Bouvier, Bonn 1968; O. Pöggeler, Rothackers Begriff der Geisteswissenschaften, in Kulturwissenschaften, Festgabe für W. Perpeet zum 65, Geburtstag, Bouvier, Bonn 1980, pp. 306353; T. Weber, Arbeit am Imaginären des Deutschen. Erich Rothackers Ideen für eine NS-Kulturpolitik, in W.F. Haug (a cura di), Deutsche Philosophen 1933, Argument, Hamburg 1989, pp. 125-158; 124
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Nota bio-bibliografica
D. Farias, Interpretazione e logica, Giuffrè, Milano 1990, pp. 145-150;
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T. Griffero, Interpretazione e astuzia del dogma. A partire da E. Betti, in V. Rizzo (a cura di), Emilio Betti e l’interpretazione, ESI, Napoli 1991, pp. 73-101; P. Koslowski, A philosophy of the Historical School: Erich Rothacker’s theory of the Geisteswissenschaften (human sciences), in Id. (a cura di), Methodology of the social sciences, ethics, and economics in the newer Historical School. From Max Weber and Rickert to Sombart and Rothacker, Springer, Berlin 1997, pp. 510-528; V. Böhnigk, Kulturanthropologie als Rassenlehre: Nationalsozialistische Kulturphilosophie aus der Sicht des Philosophen Erich Rothacker, Königshausen & Neumann, Würzburg 2002; M.W. Hebeisen, Recht und Staat als Objektivationen des Geistes in der Geschichte, Books on Demand, Norderstedt 2004, Teilband III, pp. 361-394; S. Tedesco, Forma e tempo nell’antropologia filosofica a cavallo della metà del Novecento, in «Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia Storia e Critica dei Saperi», 4, 2006, pp. 419-437; S. Tedesco, Il metodo e la storia (Supplementa 16), Aesthetica, Palermo 2006, pp. 35-74; T. Griffero, Le intuizioni senza concetti non sono cieche. L’immagine come “ideazione qualitativa” in Erich Ro125
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Nota bio-bibliografica
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thacker, in G. Matteucci (a cura di), Antropologie dell’immagine («Discipline filosofiche», XVIII, 2), Quodlibet, Macerata 2008, pp. 47-63.
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