L'opera come dramma 8806117696, 9788806117696


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L'opera come dramma
 8806117696, 9788806117696

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Il libro di Kerman sostiene la tesi che nell’opera - dramma per musica come era definita nelle sue origini italiane - il drammaturgo è lo stesso compositore: è lui che fa teatro, con il tipo, le connessio­ ni e la qualità delle sue invenzioni mu­ sicali. Nella cultura anglosassone, Opera as Drama ha svolto dal suo primo apparire una forte azione di svecchiamento della critica operistica militante, avversando una concezione dell’opera come vacan­ za dell’intelletto, come puro godimento spettacolare polarizzato su grandi voci, sfarzo scenico, ecc.; Kerman propone­ va invece il modello di una critica erme­ neutica, volta a rivelare il senso profondo racchiuso nell’opera: che è appunto il dramma, evidente o nascosto in vario gra­ do, metro di giudizio per misurare il valo­ re di un lavoro o smascherarne, in assen­ za, l’inefficacia. Alla ricerca del dramma, contro le esclusioni di Wagner ma agganciandosi esplicitamente ai suoi assiomi, il libro per­ corre tutta la storia del teatro in musica, da Mozart a Verdi, da Monteverdi a Berg e Stravinskij, attraverso Purcell, Wagner, Gluck, Beethoven e toccando anche il mondo espressivo di Bach, per gli spunti drammatici contenuti nelle sue cantate. Da questo affascinante percorso esce una attenta teoria del genere melodram­ matico e una vera e propria deontologia professionale del compositore d’opera: l’impeto polemico, unito alla vastità della dottrina e a un incontestabile dono di scrittore, non fa che aumentare il piacere della lettura.

In sopracopcrin: Là tiritifazione delle fonti. Bozzetto di Nicola Benois per il Politilo ( i960-1961k

Nato a Londra nel 1924, Joseph Kerman inse­ gna Storia della musica nell*Università di Califor­ nia a Berkeley; oltre al teatro musicale, i settori principali della sua produzione sono stati Beetho­ ven (TAe Bee/Aotwr Quartets, 1967, è un classico della musicologia moderna) e la musica elisabettia­ na; figura di punta nella cultura musicale statuni­ tense, ha suscitato un vasto dibattito internazio­ nale anche con i suoi interventi teorici [Contem­ plating Music. Challenges to Musicology, 1985), di­ fendendo i diritti di una critica di contenuti con­ tro il neopositivismo di metodi prigionieri del me­ ro dato documentario.

SAGGI

734

Titolo originale Opera as Drama

© 1956-1984 Joseph Kerman

© 1988 The Regents of the University of California

© 1990 Giulio Einaudi editore s. p< a., Torino Questa traduzione è pubblicata d’intesa con Alfred A. Knopf Ine.» New York ISBN 88-06-11769-6

Joseph Kerman

L’ opera come dramma Traduzione di Sandro Melani

Giulio Einaudi editore

Indice

p. IX

Prefazione alla nuova edizione

XVII

Prefazione alla prima edizione

L’opera come dramma 3

21 42

61 84

113

144 162 182

207 217

1. Prologo: l’opera come dramma 11. Orfeo: la concezione neoclassica ni. Gli anni bui iv. v.

L’azione e la continuità musicale Mozart

L'Otello di Verdi: l’opera tradizionale e l’immagine di Shakespeare vii. L’opera come teatro cantato vin. L’opera come poema sinfonico ix. Marcia indietro: Wozzeck e La camera del libertino x. Il dramma e la sua alternativa xi. Epilogo : sulla critica operistica vi.

Prefazione alla nuova edizione

i.

Nell’intero corso della storia dell’opera, anche se non proprio inin­ terrottamente, c’è stato chi ha preso sul serio il potenziale drammatico del melodramma e chi no. Sembra che negli ultimi trent’anni il mio Ope­ ra as Drama abbia contribuito a sostenere chi considerava quel poten­ ziale drammatico seriamente, e mi auguro che continui a farlo in questa nuova edizione. Spero, anzi, che la nuova edizione possa svolgere tale compito in modo un po’ più diretto di quella originale, la cui struttura di base era costituita da un capitolo introduttivo, dedicato a una teoria dell’opera, seguito da una serie di studi critici concernenti famosi capolavori operi­ stici. Tutto ciò veniva presentato con amore e sembra, come ho già detto, che si sia dimostrato pertinente e di un certo interesse. Più dibattuta, c’era in tutta VOpera as Drama un’accesa polemica sull’importanza di mantenere dei criteri artistici standard, sugli effetti deleteri del reperto­ rio operistico comune, sui valori veri e falsi in campo artistico, e cosi via. Agli amanti dell’opera con una mentalità dialettica anche quest’aspetto è risultante interessante, a giudicare almeno dalle reazioni, favorevoli o contrarie, ugualmente vivaci. Non tutti, però, amano le discussioni, e non tutti hanno gradito il tono provocatorio del libro. Lo spirito polemico può avere spinto un certo numero di lettori ad accantonare subito anche le discussioni più pacate del libro, cosi come può averne incoraggiati al­ trettanti a leggerle con animo consentaneo. Certo, P ardore polemico e l’intensità critica erano, a livello psicolo­ gico, due facce della stessa medaglia, e senza dubbio si perderebbe qual­ cosa di importante se Opera as Drama dovesse essere riscritto compietamente da una prospettiva più matura. Pure, ci sono affermazioni, para­ grafi e pagine intere risalenti al 1956 che nel 1986 hanno chiaramente bi­

Prefazione alla nuova edizione

X

sogno di una sfrondatura, se non di una potatura. Come guida a questo lavoro, quasi da agricoltore, è stato utile ricordare che molti degli studi su singole opere cui accennavo sopra furono scritti nel corso di parecchi anni come saggi separati, solo in seguito raccolti in un unico testo. Una ragione tecnica, oltre ad altre - non pretendo di elencarle tutte - spiega­ va il tono vivace del libro: lo sforzo dell’autore di fissare rigidamente l’organizzazione del libro, anche al di là delle effettive necessità. Le parti più solide, a mio avviso, sono gli studi monografici, le più deboli le ag­ giunte, il materiale ideato per introdurle, metterle insieme e uniformarle. Il libro aveva vivacità in abbondanza; sicché si può togliere buona parte delle aggiunte senza spegnerne troppo la veroe. È stato eliminato il capitolo finale, in modo da evitare inter alia un attacco troppo forte alle opere di Giancarlo Menotti e una battuta gratuita su Benjamin Britten. Da molto tempo speravo di poter allontanare questi péchés de jeunesse dalla pubblica vista. È stato aggiunto un epilogo, Sulla critica operistica, tratto da un saggio scritto alcuni anni dopo Opera as Drama, anche se ancora concepito nella sua stessa ottica, o nella sua ideologia. Dato il clima critico corrente, spero che questo capitolo semiteprico o almeno metodologico sia ben accetto. Nuova è anche una sezione sulVldomeneo di Mozart.

2.

L’omissione di molti giudizi particolari presenti nell’edizione origi­ nale di Opera as Drama - giudizi su compositori, opere, scene e singoli brani operistici - potrebbe essere interpretata come un’ulteriore rispo­ sta al clima della critica musicale odierna, di gran lunga più portata al­ l’interpretazione che alla valutazione. La mia posizione sui criteri artisti­ ci standard, comunque, rimane sostanzialmente la stessa (anche se non mi è più «difficile pensare che tutta la nostra attività operistica possa continuare ancora a lungo senza criteri standard», secondo quanto af­ fermato a pagina 5). Ritengo importante ad esempio, capire in quale misura Verdi mirasse a qualcosa di più profondo nelle sue opere di quanto abbia fatto Puccini. Tanto che si voglia definire Verdi un dram­ maturgo e Puccini no, o che si possa formulare proficuamente una di­

Prefazione alla nuova edizione

XI

sanzione diversa, è la distinzione che conta e che ha importanza. Mi sembra ancora un efficace brano di critica la breve analisi comparata de gli ultimi atti dell’O/eZZo e della Tosca posta più o meno all’inizio del libro. Cosi, quando Mosco Carner, curatore della Cambridge Opera Guide alla Tosca, mi chiese se poteva ristampare queste poche pagine invece di un rendiconto generale di dissidenti, non ebbi nulla da obiettare e sa­ pevo che non avrei replicato quando la sua reazione alle mie pagine si fosse rivelata simile a molte altre suscitate in precedenza. Senza riferirsi a nessuna delle critiche specifiche che avevo rivolto all’azione e alla mu­ sica, Carner espresse invece una cortese disapprovazione con persone prive di simpatia per il mondo di Puccini. Dopo aver notato in Puccini «la sua pervasiva sensualità mista a sentimentalismo... la sua innegabile vena di volgarità... il suo assalto calcolato alla nostra sensibilità e - cosa forse particolarmente deleteria per le persone di mente elevata - l’etica, o la mancanza di etica, della sua arte», Carner continuava: Quanto alla Tosca, c’è sicuramente un aspetto dell’opera che può offendere il pu­ rista. Ma non è stata scritta per lui, o per l’esteta, o per l’uomo dal gusto pericolo­ samente raffinato. Ci vuole una persona audace per affermare che apprezzare una sanguigna vigorosità nell’arte è incompatibile con il godimento estetico, anzi, può essere il segno di un istinto artistico sano e non distorto*.

Forse, se la vis polemica nell* Opera as Drama fosse stata meno insi­ stente, i punti più rilevanti sarebbero andati perduti completamente, ma quei punti sono andati spesso perduti comunque, perché era fin troppo facile per i critici parlare del mio puritanesimo, del mio raffinato estetismo, e via.dicendo, escludendo la sostanza. Sfortunatamente non posso stipulare una pace postuma con Mosco Carner chiedendogli di riconoscere che l’estrema genericità del suo ra­ gionamento - una genericità che, ancora una volta, è stata tipica di molti altri - lo rende adeguato anche alle farse, le pantomime, le corride e i film truculenti. Per quanto mi riguarda ammetterei prontamente, be­ ninteso, che questi casi non sono tutti uguali, che ci sono molte variazioni di grado tra il «dramma» e la «sanguigna vigorosità» e che è stata una 1 M. Carnet (a cura di), Giacomo Puccini: Tosca, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1985, p. 76.

Prefazione alla nuova edizione

XII

sciocchezza aver parlato della Tosca come se fosse davvero un film tru­ culento.

. 3Uno scrittore che in una recente replica si è occupato minuziosa­ mente della mia critica alla Tosca è Peter Conradi2. All’epoca della rivo­ luzione romantica in cui l’opera è ambientata, osserva Conrad, la chiesa venne soppiantata dal teatro lirico; quello che egli trova impressionante nella Tosca è la rappresentazione straordinariamente franca dell’opera come «profanazione pericolosa e sensuale di un rito sacro». Dagli intri­ ghi profani portati avanti nella chiesa di Sant’Andrea nel primo atto, al­ l’eco blasfema della Cantata dell’atto secondo nel «Trionfai» degli amanti dell’atto terzo, l’azione ricerca una voluta confusione tra Dio e la diva, tra la passione e la finzione teatrale. Scarpia stesso - parlando per Puccini, secondo Conrad - in un punto dell’atto secondo rivela che l’i­ sterismo di Tosca «non è che un’arte facile e piena di sé (cosa che, natu­ ralmente, in una rappresentazione della Tosca, è proprio quanto acca­ de). “Mai Tosca alle scene più tragica fu! ” ». Tosca drammatizza dacca­ po l’incontro con Scarpia quando lo recita di nuovo a beneficio di Cavaradossi nell’atto terzo, pieno di Leitmotiv? e impreziosito da un virtuo­ sismo vocale che prima le era sfuggito. La concezione che Conrad ha dell’opera, con il suo intrinseco ingan­ no, il suo credo ufficiale di «ostinata malafede» e la sua traumatica com­ plicità con il sacrilegio, contrasta sicuramente con la concezione esposta nell’opera as Drama, quella cioè di un genere trasparente (e libero da principi), capace di reggere vari tipi di dramma serio e di subire altret­ tanti tipi di non-dramma. Certo, poi, il concetto di azione operistica concepito sostanzialmente come una riflessione sul proprio genere ac­ quista nel caso della Tosca un significato inaspettato. Non accetto, però, la pretesa di Conrad che Tosca, per come la interpreta lui, costituisca un esempio della mia «ricetta per l’opera, un lavoro in cui è la musica a dar voce al dramma», perche quasi tutto quello che dice a proposito del lai Cfr. P. Conrad, Passion Play, in «Opera News», XLIX (1985), 14, pp. 16-17; si veda anche Id., A Song of Love and Death, New York 1987, pp. 74-75 e 194.

Prefazione alla nuova edizione

Xlll

voto di Puccini andrebbe bene anche per il dramma di Sardou o per il libretto di Illica e Giacosa, abbelliti da una qualsiasi musica operistica o comunque puramente casuale per quell’argomento. Sembra che Conrad consideri la musica nell’opera solo nel senso più generale, che tenga conto soltanto della presenza della musica, di qualsiasi tipo di musica. Non fa gran che per cercare di definire o di va­ lutare la musica particolare che il compositore ha di fatto composto per quell’opera. Ad esempio, Conrad definisce convincente la statica aper­ tura dell’atto terzo perché riassume «la trasvalutazione operistica dei Valori religiosi che introduce», qualcosa che, si può ben dire, viene espresso proprio dalla musica: dalla musica di scena, dalla Canzone del pastorello seguita dal mélange delle campane delle varie chiese. Che cosa realizza, allora, la partitura di Puccini che non sarebbe realizzato da veri e propri motivi popolari e da registrazioni su nastro dei suoni di una qualsiasi domenica mattina? Che cosa ha a che fare con l’« audace profanazione del sacro» compiuta dall’opera il suo particolare caratte­ re, sdolcinato e per niente audace? E di fronte a domande come questa che l’interpretazione di Conrad o si dimostra valida o, come penso io, cade. Anche la sua sagace osservazione sui Leitmotive di Tosca e sulle «acrobazie vocali» del dialogo dell’atto terzo è priva di consistenza cri­ tica. In sé e per sé questi meccanismi fungono soltanto da segnali del fatto che Tosca sta recitando una parte. Se dobbiamo rispondere alla donna dietro all’artista, dobbiamo apprezzare (con l’aiuto del critico, forse) la qualità della manipolazione di tali segnali effettuata dalla donna. Mi sono dilungato su questo punto non soltanto per rispetto del pensiero di Conrad, nonostante l’assoluto disaccordo, ma anche per po­ ter mettere in evidenza la convinzione centrale esposta nel capitolo ini­ ziale, e cioè che in un’opera il drammaturgo è il compositore. Quello che conta non è la storia, la situazione, i simboli, le metafore, e via dicendo, esposti nel libretto, ma il modo in cui tutto questo viene interpretato da un grande ingegno. È questo ingegno a scrivere la musica. So bene, na­ turalmente, che una concezione simile dell’opera è prescrittiva oltre che descrittiva. Un’opera d’arte in cui la musica non riesca a esercitare la propria funzione espressiva centrale dovrebbe essere indicata con un nome diverso da quello di opera.

Prefazione alla nuova edizione

XIV

Conseguenza diretta di questa convinzione è che il critico d’opera deve essere sensibile prima di tutto e soprattutto aUa musica e che tale sensibilità è più, e non meno, importante della sua sensibilità di fronte ad altri stimoli come, per esempio, la letteratura o le componenti stori­ che e sociali. Ad alcuni questa sembrerà - ed è sembrata-una posizione da vecchio tradizionalista. È comunque una delle ortodossie proclamate nell’Open* as Drama che sicuramente continuerei a sostenere. «Che vecchio, maldestro, goffo, sciocco e stupido tentativo di scioc­ care», ha scritto George Bernard Shaw della Tosca di Sardou; «Se solo fosse stata un’opera! »’: Shaw era ben preparato come critico di teatro non meno che come critico d’opera e conosceva la differenza tra quei due ruoli.

4-

La mia attuale e più pacata valutazione del materiale della versione originale di Opera as Drama, concepito per introdurre gli studi che ne costituiscono il nucleo centrale, metterli insieme e completarli, non si estende alla teoria dell’opera come dramma presentata nel capitolo ini­ ziale. Questo può sorprendere il lettore, perché la «teoria» è davvero esi­ gua ed è presentata in modo vistosamente circonlocutorio. Dopo un ri­ ferimento non tanto nascosto ad Aristotele e il rifiuto dei criteri natura­ listici, l’argomentazione procede subito per analogia ed esemplificazio­ ne: l’analogia con il dramma poetico (il mio «argomento base») è illu­ strata tramite punti tratti da brani di Shakespeare e di Verdi. Solo suc­ cessivamente, come se facesse appello a questa rapida dimostrazione, viene esposta, o accennata, la teoria. Il dramma sta nella rivelazione del­ la qualità della risposta umana alle azioni e agli eventi, nel contesto di­ retto di quelle azioni e di quegli eventi, o almeno implica tale rivelazio­ ne. Un’opera si qualifica come dramma quando incoraggia simili rivela­ zioni. «Opera come dramma» non dice nulla di molto specifico, quindi, 5 D. II. Laurence (a cura di), Shaw's Music, Dodd, New York 1981,1, p. 911. Fu Andrew Porter ad attirare la mia attenzione su questo passo, e gliene sono estremamente grato.

Prefazione alla nuova edizione

xv

ma dice qualcosa di importante, e quello che dice è specifico proprio quanto il caso lo richiede. Se l’idea di dramma come presentazione ar­ moniosa della risposta all’azione è aristotelica, lo sia pure; non mi riesce restringere ulteriormente il genere. In effetti, la versione originale di Opera as Drama venne già presentata come uno studio pluralistico, per­ ché si impegnava programmaticamente ad abbracciare tipi di opere completamente diversi sotto l’etichetta di «dramma». La tendenza ari­ stotelica dei saggi critici del libro non è sfuggita a critiche, ed è chiaro che quando essi furono scritti ero meno a mio agio con certi tipi di lavori drammatici che con altri, che possono essere considerati altrettanto o più importanti, toccanti, attinenti ai nostri tempi, o che altro. Di propo­ sito, comunque, non ho formulato una teoria dell’opera in rigidi termini aristotelici, o in altri rigidi termini, e penso che questo costituisca la forza della mia teoria. È una teoria aperta. Può comprendere - o, piuttosto, può illuminare, dato che l’inclusione non c’entra - tipi d’opera che tra­ valicano l’orizzonte immediato di un critico. Sostanzialmente pluralistica era anche l’intimazione di Edward T. Cone che tanto ha influito sulla metodologia di Opera as Drama: È un principio basilare del dramma musicale che ogni motivazione importante debba ad un certo punto essere tradotta in termini musicali. Non basta che se ne parli soltanto o che venga soltanto recitata: la si deve sentire come musica... La comprensione del [dramma in musica] non può derivare soltanto dalla lettura del libretto. In qualsiasi opera possiamo scoprire che i messaggi musicali e quelli ver­ bali sembrano rinforzarsi o contraddirsi a vicenda, ma in entrambi i casi dobbiamo sempre appoggiarci alla musica come guida alla comprensione della concezione che del testo aveva il compositore. È questa concezione, e non il testo nudo in sé e per se, che ha autorità nel momento in cui va definito il significato finale dell'o­ pera4.

Il drammaturgo è il compositore. Cone non parlava di compositori di nessuna specie o epoca particolari, né menzionava tonalità, Leitmotive o numeri operistici. TI suo principio, tuttavia, regge per tutta quanta la musica, passata, presente e futura. E ancora una volta: qual­ siasi musica sia in discussione, il critico d’opera deve essere preparato e pronto a trattarla secondo i termini che le sono propri. H principio metodologico di Cone non regge, beninteso, di fronte a ■* E. T. Cone, The Old Man’s Toys: Verdi’s Last Operas, in «Perspectives Usa», VI (1954), p. 191.

XVI

Prefazione alla nuova edizione

generi artistici accompagnati da una musica secondaria rispetto ai modi verbali o gestuali o scenici. Questi generi si chiamano pièces con musi­ che occasionali, balletti, parate, e in altri modi ancora, ma non opere. Arrivano al dramma, se questo è quello che vogliono i loro creatori, a modo loro. La Atheneum Press ha gentilmente concesso il permesso di fare uso del saggio Opera, apparso su «Quality», diretta da Luis Untermeyer (1969). Ho forti debiti di riconoscenza verso Patrick Carnergy per i commenti e le domande a proposito del capitolo tratto da quel saggio. Nella Prefazione alla prima edizione menzionavo con gratitudine i miei rapporti con un allestimento operistico (si trattava del Barbiere di Sivi­ glia di Paisiello). La piccola compagnia teatrale in questione non esiste più da tempo, ma adesso ne ho altre da ringraziare per rapporti simili. In considerazione della totale mancanza di discussioni su aspetti esecu­ tivi e interpretativi in Opera as Drama, un fatto simile probabilmente farà aggrottare le sopracciglia a qualcuno, ma voglio nondimeno dire quanto ha voluto dire per me lavorare in teatro con Richard Bradshaw, Alan Curtis, Joanna Harris, Lawrence Moe, il Repertory Chorus delPUniversità di California, FOxford Opera Club e, indirettamente, la Ber­ keley Opera Company. j. K.

30 dicembre T986.

Prefazione alla prima edizione

Sono grato ai direttori della «Hudson Review», di «Opera News», di «High Fidelity» e della «Partisan Review» per il permesso di ristam­ pare materiale apparso in precedenza sulle loro riviste, talvolta in forma piuttosto diversa. La mia gratitudine ai direttori della «Hudson» è mol­ to più profonda, perché da otto anni incoraggiano o almeno tollerano che io sviluppi le mie idee e la forma delle mie idee sulle loro pagine. Questo in un periodo in cui la critica musicale trova poco sostegno e scompare. E verso uno di questi direttori, William Arrowsmith, ho un debito di grande amicizia per aver letto attentamente i capitoli, con un discernimento critico inflessibile e comprensivo uguagliato solo da quello di mia moglie. Calorosi ringraziamenti anche a Althea Doyle e Roger Levenson, Herbert Weinstock, Charles C. Cushing, Seymour Shifrin e Seth P. Ulman. Un anno fa i membri della Compagnia del Gold­ en Hind di Berkeley mi hanno insegnato molto quando ho lavorato con loro in un allestimento operistico ritardando piacevolmente le prime fasi di lavorazione di questo libro. j. K. Berkeley, 3 aprile 1956.

come dramma

A David

Capitolo primo Prologo: l’opera come dramma

i.

Non mi scuso per il titolo wagneriano. Questo libro è lungi dall’essere wagneriano, ma il punto di vista che sviluppa è proprio quello che sta al cuore di Oper und Drama, il principale contributo teorico di Wagner, oltre che capitale trattato operistico del suo tempo. La concezione che vi è esposta è risaputa, ma sempre fresca e suggestiva: l’opera è esatta­ mente una forma musicale di dramma con la sua propria forza e la sua propria dignità. Ora, in aggiunta a questo, Wagner ha detto molte altre cose che conferiscono al suo lavoro la sua particolarità, ma che diventano, con il passare degli anni, sempre più insostenibili. Quello che rimane è la sua violenta difesa della vecchia tautologia, opera come dramma. Le opere di Wagner e i suoi scritti hanno costretto il xix e il xx secolo ad accostarsi all’opera con una nuova nobiltà d’animo. Nessuno ha mai pe­ rorato la causa con tanta efficacia. La causa aveva avuto molti sostenitori anche prima, ed ha avuto pure i suoi validi oppositori. Fin dai tempi di quell’accademia semiletteraria, semimusicale che volle la nascita dell’opera, il dramma musicale ha affa­ scinato i critici quasi con la stessa costanza con cui ha affascinato i com­ positori. Gli scritti teorici, satirici e polemici sono innumerevoli; e viva­ ci, grazie all’interesse di Saint-Evremond, Addison, Diderot, Kierke­ gaard, Stendhal, Nietzsche, Shaw e molte intemperanti personalità di minore importanza, Oggi, se riconsideriamo tutte le discussioni e tutte le battaglie, forse l’impressione più forte che ne ricaviamo è quella di una diffusa continuità. Gli esempi cambiano, ma i problemi centrali ri­ mangono, costantemente reinterpretati secondo i termini del periodo. E il dramma musicale possibile, e, se lo è, come? Lully o Gluck o Wag­ ner o Verdi creano davvero con la forma quello di cui noi pensiamo essa sia capace? I postulati e gli ideali, le scontentezze e le controversie si rin­ novano ad uso e consumo di ogni generazione.

4

Capitolo pruno

Il dramma musicale è possibile, e io credo che il clima intellettuale di questo momento dovrebbe essere particolarmente favorevole nei confronti di quest’idea. Abbiamo nuovi vantaggi, ma abbiamo ancora con noi lo svantaggio di sempre, l’apparente contraddizione tra gli ideali e la pratica corrotta. I cantanti, il pubblico e gli impresari sono irrespon­ sabili come lo sono sempre stati; i valori artistici sono messi nel caos più completo dal guazzabuglio di positivo e di negativo che costituisce il no­ stro repertorio corrente. Tutto questo rende difficile e rara una riflessione seria sull’opera. Talvolta il dileggio riesce a colpire nel segno, ma do­ vremmo fare a meno di questa satira comune e indiscriminata del genere nel suo complesso, per quanto possa spesso apparire divertente o meri­ tata. Attualmente la necessità più impellente è quella di riaffermarne le presunte virtù. Addison e W. S. Gilbert, con il loro stile piacevole, hanno avuto la loro influenza negativa sul destino dell’opera in Gran Bretagna. II fascino immediato del loro modo di avvicinarsi all’opera rende tanto più necessario continuare a riformulare i termini di una posizione idea­ listica, scevra da facili umorismi. I termini di Wagner oggi sono impossibili, quanto, forse, nessun al­ tro. Una concezione contemporanea dell’opera non deve anzitutto la sua novità alla situazione attuale negli Stati Uniti, benché, alla luce della storia, sembri abbastanza singolare l’improvviso entusiasmo che qui si è provato per l’opera negli anni posteriori alla seconda guerra mondiale, per l’opera prevalentemente straniera e antica, conosciuta soprattutto attraverso dischi, trasmissioni e seri «teatri di prova» semiamatoriali. Sostanzialmente, la novità è dovuta al modo moderno di accostarsi alla tradizione artistica. La prospettiva storica ha portato da un lato a conce­ pire il drammatico in modo più ampio e più immaginativo, dall’altro a rispettare con maggiore convinzione la musica del passato, fatti, questi, che prima accadevano più raramente. Consideriamo drammatiche molte più cose e molte più cose consideriamo musicalmente espressive. Ab­ biamo l’opportunità e l’occasione di dare un’interpretazione assolutamente nuova del problema e del repertorio operistici. In particolare, è oggi impensabile lo storicismo che tanto ha influito sulla vecchia concezione dell’opera. Wagner, che trovava Racine «ri­ sibile», non avrebbe mai rivolto il suo pensiero alle opere di Montever­ di, anche se avesse potuto conoscerle. La musica del xvn secolo era a

Prologo: l’opera come dramma

5

suo avviso cosi semplice che dall’opera non ci si poteva aspettare nulla di notevole, mentre oggi siamo sicuri che le cose non stanno necessaria­ mente cosi. A mano a mano che si studia la tradizione con occhio più at­ tento e comprensivo, essa sembra sempre meno corrispondere ad una qualsiasi progressione dialettica verso la Gesamtkunstwerk di un centi­ naio di anni fa, verso «la Produzione Artistica del Futuro». I composito­ ri del passato hanno lasciato non una serie di esperimenti immaturi, ma un grande numero di soluzioni, ognuna distinta dall’altra e ognuna con il suo potenziale di successo artistico all’interno dei propri limiti. Que­ sto modo di considerare la storia non è meno indulgente nei confronti di un Wagner del xix secolo di quanto lo sia nei confronti di un Montever­ di del xvn. Wagner può anche esserglisi scagliato contro, ritenendolo una forma di vago relativismo, ma per noi rappresenta un’ampiezza di visione inevitabile quanto diffìcile da mantenere. E ci permette di am­ pliare il nostro orizzonte. Il pericolo è proprio dato da questo relativismo, come ben sanno co­ loro che comprano un abbonamento all’opera. Dando tacitamente per scontato che ogni opera va bene secondo i propri principi, vengono re­ golarmente messi insieme lavori di estrema bellezza e lavori di estrema banalità. Nei nostri teatri lirici l’arte e il Kitsch si alternano una sera dopo l’altra con gli stessi esecutori e lo stesso pubblico, per lo stesso ap­ plauso e con lo stesso assenso critico. Una tale confusione sul valore del­ l’opera deve per forza verificarsi quando non si fa nessuna distinzione pubblica tra lavori come Orfeo e II flauto magico da una parte e Salomè e Turandot dall’altra. Questo rispetto alla critica operistica - ma la man­ canza di intellettualità è un’altra strana caratteristica dell’attuale popo­ larità dell’opera in America. Raramente si parla dei significati, molto di argomenti secondari come l’opera in inglese, i metodi «moderni» di al­ lestimento e le tecniche televisive, e tutto ciò senza avere un’idea di quello che l’opera può o dovrebbe essere e di ciò che vale la pena di tra­ durre, allestire e teletrasmettere per primo. Se questo può essere com­ prensibile nella prima ebbrezza della scoperta, è difficile pensare che tutta la nostra attività operistica possa continuare ancora a lungo senza criteri standard. Una ricerca seria sui valori drammatici, con quel consapevole rispetto per la tradizione che oggi è altrove come una seconda natura, può co­

Capitolo primo

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minciare a costituire la base per questi criteri standard. Al tempo stesso, una ricerca simile può cominciare a ribaltare la generale indulgenza verso qualunque cosa riesca a tenere il cartellone; non è necessario nutrire la ferma ostilità di Wagner nei confronti della mediocrità e del filisteismo, n postulato è che l’opera è una forma artistica con la propria integrità e le proprie convenzioni limitative e liberatorie. Il procedimento critico implica l’affinamento della preparazione musicale e l’ampliamento del nostro campo di risposta immaginativa al dramma.

2.

Opera come dramma. Che cosa si deve considerare come dramma? Ci sono state molte risposte generali, tutte necessariamente parziali. Po­ trei cominciare citando brevemente ciò che il dramma non è, e seguire poi un principio analogico ovvio. Il dramma non dipende esclusivamen ­ te dagli effettivi spiegamenti di forze della trama. Situazioni abilmente congegnate, astute entrate ed uscite e violenti coups de thédtre non costi­ tuiscono l’anima del dramma. Né la costituisce una rigorosa delineazio­ ne naturalistica dei personaggi, dei luoghi e dei particolari. «Imitare un’azione» non vuol dire riprodurla fotograficamente. Pure, quando un’opera viene lodata per la sua drammaticità, in genere sembra che il giudizio si basi su una concezione limitata più o meno di questo tipo. Quello che si vuole dire è poco più di quanto si esprime con «teatrale» o, piuttosto, con «efficace conformemente ai principi teatrali del tardo xix secolo». Tosca è «drammatica»; non è, forse, un lavoro molto acuto o piacevole da un punto di vista musicale, ma almeno è «drammatico»; e cosi regge il cartellone. Non dovrebbe essere necessario osservare che esistono altre tradi­ zioni drammatiche oltre al cosiddetto naturalismo del tardo xix secolo, profondamente diverse l’una dall’altra sia nella tecnica sia nella sfera espressiva. La critica teatrale si occupa di Eschilo e di Euripide, del tea­ tro medievale, di Shakespeare e degli altri elisabettiani, di Racinc, di Goethe e di Schiller, di Pirandello, di Lorca e di Eliot come si occupa di Ibsen, di Shaw e dei loro meno scrupolosi seguaci. Una relazione con­ temporanea sul dramma deve effettuare una valutazione razionale delle

Prologo: l’opera come dramma

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capacità e dei procedimenti particolari di molti drammaturghi diversis­ simi tra loro. (Due classici moderni della critica drammatica, The Idea of a Theater di Francis Fergusson e The Playwright as Thinker di Eric Bentley, riservano un posto importante anche a Wagner.) Nei suoi grandi periodi il dramma ha avuto varie convenzioni e varie artificialità; la tran­ che de vie e la trama ben costruita non sono in alcun modo essenziali. In realtà il naturalismo, qualunque siano i suoi meriti, è meno utile per ca­ pire l’opera di quanto lo sia la maggior parte delle altre forme di dramma parlato. La maggior parte di queste forme sono poetiche e già questo fatto le avvicina all’opera. Il paragone con il dramma poetico può aiutarci a ri­ solvere il problema del dramma per musica^ come gli Italiani chiamavano inizialmente l’opera, dramma che si avvale dell’uso della musica. L’ana­ logia non dovrebbe forse essere spinta troppo avanti, ma è sostanzial­ mente legittima: in entrambe le forme, al loro livello più alto, il dramma è espresso da un mezzo immaginativo, ossia la poesia in un caso e la mu­ sica nell’altro. Nel suo saggio Poetry and Drama Thomas S. Eliot impo­ sta la questione in questi termini: È una funzione di tutta l’arte dare una certa percezione di ordine nella vita, impo­ nendo ad essa un criterio ordinatore. Il pittore lavora scegliendo, combinando e mettendo in rilievo gli elementi del mondo visibile, il musicista quelli del mondo dei suoni. Mi sembra che al di là delle emozioni e delle motivazioni nominabili e classificabili deUa nostra vita cosciente, quando è diretta verso l’azione - quella parte di vita che il dramma in prosa è perfettamente in grado di esprimere - ci sia una sfera di dimensione indefinita, una sfera emotiva che, per cosi dire, possiamo solo cogliere con la coda dell’occhio e che non possiamo mai mettere a fuoco, una sfera emotiva di cui siamo consapevoli solo in una sorta di temporaneo distacco dall’azione. Ci sono grandi drammaturghi in prosa - come Ibsen e Cechov - che a volte hanno fatto cose di cui io non avrei altrimenti immaginato capace la prosa, ma che mi sembrano, nonostante il loro successo, intralciati nell’espressione dal fatto di scrivere in prosa. Questo particolare campo della sensibilità può essere espresso dalla poesia drammatica nei momenti di massima intensità. In tali mo­ menti tocchiamo il confine di quelle emozioni che solo la musica riesce ad espri­ mere.

La funzione della poesia drammatica è fornire al dramma un cer­ to tipo di significati che lo arricchiscano incommensurabilmente, lo ar­ ricchiscano dal punto di vista drammatico e non possano essere pre­ sentati in nessun altro modo. Il punto fondamentale in questione è la ri­

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sposta dei personaggi del dramma agli elementi dell’azione. In questo campo la poesia può fare ben più dell’esposizione in prosa o del fatto di porre gli attori in determinate relazioni fisiche e psicologiche. L’aspetto particolare o il peso di tali relazioni, degli eventi e degli episodi è deter­ minato dalla qualità dei versi; nel senso più ampio, la forma drammatica è realizzata dalla poesia insieme alla struttura della trama. La stessa cosa può valere per la musica. Come dice Eliot, «quando Shakespeare, in uno dei suoi drammi ma­ turi, introduce quello che potrebbe sembrare un verso o un brano pura­ mente poetico, questo non interrompe mai l’azione, non è mai inappro­ priato al personaggio, ma, al contrario, misteriosamente, sostiene sia l’a­ zione sia il personaggio». Scendendo ancora più in profondità, un brano poetico prolungato può determinare criticamente l’intero corso di un dramma con la qualità delle sensazioni da esso trasmesse. In tali casi la poesia diventa l’elemento vitale dell’azione. Viene in mente (per uno scopo speciale) un esempio tratto daW Othello, l’ingresso di Otello con una candela nell’ultima scena, prima dell’uccisione di Desdemona. Dire che non entra più come assassino geloso, ma in veste di giudice, equivale semplicemente a fornire lo scenario di ciò che Shakespeare esprime con la poesia: It is the cause, it is the cause, my soul. Let me not name it to you, you chaste stars! It is the cause. Yet I’ll not shed her blood, Nor scar that whiter skin of hers than snow, And smooth as monumental alabaster. Yet she must die, else she’ll betray more men. Put out the light, and then put out the light. If I quench thee, thou flaming minister, 1 can again thy former light restore, Should I repent me; but once put out thy light, Thou cunning’st pattern of excelling nature, I know not where is that Promethean heat That can thy light relume. When I have pluck’d the rose, 1 cannot give it vital growth again; It needs must wither. I’ll smell it on the tree.

He kisses her *.

1 W. Shakespeare, Othello, V, n, 1-15, trad. it. di C. V. Lodovici in Td., Teatro, III, Einaudi, Torino i960, da cui sono tratte tutte le traduzioni dei passi da Shakespeare: «Questa è la cagione; questa è, anima, la cagione; ch’io non la nomini a voi stelle castissime, questa è la cagione. Non verserò il suo sangue; né vo-

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Linguaggio immaginoso e musicalità poetica si combinano insieme per conferire al comportamento di Otello una solenne bellezza. Prima di tutto, penso, tramite il ritmo grave della ripetizione iniziale con la ri­ corrente assonante sonora «is... cause», interrotta dall’andamento del secondo verso fino al maestoso arresto al lento, di nuovo assonante, spondeo «chaste stars». Subito dopo le ripetizioni vengono riprese e sviluppate, per quattro volte con il richiamo della t, e con un’intensifica­ zione particolarmente bella nella rima e nell’accentazione di «thy light». In secondo luogo, tramite le metafore, semplici e toccanti - spegnere una luce, recidere una rosa. Nella loro semplicità, la sintassi, il linguag­ gio immaginoso e il ritmo si combinano a creare un senso di gentilezza, di inevitabilità e di acuto splendore che nessuna prosa e nessun intreccio avrebbero potuto uguagliare. Tutto questo è messo in risalto dal sottile contrasto drammatico con il tono di Otello durante la sua precedente apparizione, tutto k c s e ritmi scoppiettanti. Desdemona non era una rosa, ma un’erbaccia profumata, «a cistern for foul toads to knot and gender in» («una cisterna di ripugnanti rospi che li s’annodano e fi­ gliano»), e molte altre cose complicate. Subito dopo, il soliloquio volge verso la grande orazione finale in cui Otello cerca di ritrovare la primiti­ va immagine di sé. La reazione al dramma nel suo complesso dipende dal sentimento che anima questo soliloquio e da altri elementi del ge­ nere. In un’opera, in cui è la musica a provvedere all’espressione immagi­ nativa necessaria al dramma, l’orecchio del musicista risponde a ele­ menti analoghi. Si consideri la scena parallela nell’O/e/Zo di Verdi, non esattamente parallela, naturalmente, perché Verdi desiderava ottenere una qualità diversa e per ottenerla modificò il canovaccio (non è stato il libretto a modificare la qualità). Otello entra mentre sta prendendo la sua decisione, non già risoluto. Più che la sobrietà dell’anticipazione tra­ gica, Verdi desiderava presentare l’anima di Otello dilaniata dall’amore glio segnare di ferita questa sua pelle più bianca della neve e liscia come alabastro tombale. Ma, deve morire; o ingannerà altri uomini. Spegni la luce e poi spegni la luce. (Verro la lucerna) Se io ti spengo, fonte di luce, posso sempre riaccendere, se mi pento, la tua fiamma di prima: ma quando io abbia spento (verso Desdemo­ na) questa luce, raffinato modello di eccellenza nella natura, dove troverò io più il fuoco prometeo da riac­ cendere questa fiamma di vita che ora è in te? Io, quando avrò reciso la tua rosa, non potrò più ridarle il suo vitale crescimento, e dovrà per forza appassire. Voglio adorarti sullo stelo. (Ja bacia)».

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e dall’odio. La scena apre su una famosa nota di minaccia, contrabbassi con sordina che interrompono l’etereo finale dell\4ve Maria di Desde­ mona; a caratterizzarla, altrettanto del timbro grottesco e del registro profondo, c il contrasto di tonalità, Mi maggiore collegato direttamente a La bemolle. La frase dei contrabbassi si fa più dolce, e avanza a fatica, punteggiata da un motivo incalzante, dapprima neutro, poi fiammeg­ giante quando Otello fa per colpire Desdemona con la scimitarra. Un motivo lamentoso sembra trattenerlo; gli risponde, con un nuovo, bru­ sco trapasso armonico, una melodia pesantemente ancorata alla tonali­ tà, ricavata dalle prime note del tema dei contrabbassi e portata a tocca­ re con insistenza la sesta minore, Fa (cs. i); la quale si trasforma in una luminosa sesta maggiore e in una leggiadra frase che in un lampo intui­ tivo riconosciamo come punto culminante del duetto amoroso dell’atto primo, ardente, articolato, fiducioso. Ma come Desdemona si risveglia al bacio di Otello, questa possibilità viene tagliata dalla più stupefacente delle modulazioni, un trapasso dal Mi maggiore al Fa minore che suona improvviso come la vera nota della tragedia.

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La reazione al dramma nel suo complesso dipende dal sentimento che anima questa scena nel suo contesto; qui, in modo quanto mai ov­ vio, perché, tramite il tema del bacio, Verdi collega la scena da una parte alla lontana serenità della prima notte a Cipro del primo atto, e dall’altra al momento cruciale dell’opera: 1 kiss’d thee ere I kill’d thee. No way but this, Killing myself, to die upon a kiss2.

Quando Otello si pugnala, si sente di nuovo il tema della sesta minore, ed un nuovo pathos si diffonde quando esso si scioglie nella luminosa musica del bacio. Niente sfugge alla coscienza di Otello; il Fa ritorna come cadenza frigia della tonica di Mi. Mentre Shakespeare ricorda il sentimento passato, Verdi, grazie alla forza della reminiscenza musicale, lo recupera di fatto, rendendolo persino più intenso tramite certi muta­ menti particolari. Se l’uomo di Verdi non raggiunge la nobilitazione del personaggio tentata da Shakespeare, recupera la pienezza del suo amo­ re, risultato non certo di poco conto da un punto di vista drammatico. È la musica a riassumere, modellare e rifinire. In un dramma in versi tutte quelle importantissime emozioni che co­ stituiscono la differenza tra un canovaccio e un’opera d’arte vengono date dalla poesia; in un’opera dalla musica. La rapidità e la flessibilità mentale delle parole conferiscono al dramma in versi un fulgore intellet­ tuale inaccessibile all’opera, e infatti la profusione dei dettagli costitui­ sce una sfida per il poeta che deve organizzarli saldamente intorno alla propria idea drammatica centrale. La poesia è molto più precisa nel trat­ tamento di questioni specifiche. La narrazione, la discussione e le sotti­ gliezze nello sviluppo dei personaggi vengono naturali al dramma in versi, ma in un’opera hanno bisogno di essere trattate con cura. Il pro­ blema di Eliot, «dire cose semplici senza essere banali», è molto più dif­ ficile da risolvere per il compositore di opere. Ma nonostante la flessibilità c la trasparenza della poesia, anche l’o­ razione più appassionata si muove su un livello di riserve emotive che la musica supera automaticamente. La musica può essere semplice ed im­ mediata nella presentazione delle condizioni o delle sfumature emotive. 2 Ibid., w. 359-60 («Io ti ho baciato prima di ucciderti; ora che mi son dato la morte non posso che morire in un tuo bacio»).

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Se in un’opera ci si può abbandonare all’emotività, in un dramma nessuno smette mai del tutto di pensare. La musica è anche un mezzo naturale per esprimere vari tipi di atmosfera e di spettacolarità, e in questo senso è usata nel teatro parlato. Come elementi drammatici, questi vengono spesso, ma non necessariamente, utilizzati male. Nel senso più ampio della forma, poi, la musica ha i contorni più chiari e più forti: le riprese, le cadenze, le transizioni, le interrelazioni e le modulazioni sono mecca­ nismi che essa ha imparato a trattare con grande maestria. Queste ed altre differenze esistono sicuramente e spiegano le forme diverse di sviluppo del dramma parlato e del dramma musicale. Nono­ stante le differenze, però, sottolineerei nuovamente che nel dramma la funzione immaginativa della musica e quella della poesia sono sostan­ zialmente le stesse. Ognuna ha la responsabilità finale del successo del dramma, perché rientra nella sua competenza definire la reazione dei personaggi agli eventi e alle situazioni. Come la poesia, la musica può ri­ velare la qualità dell’azione e determinare cosi la forma drammatica nel senso più profondo. Nei capitoli seguenti svilupperò quest’idea riferendomi ai grandi drammaturghi musicali. Le forme della loro drammaturgia e le loro per­ sonalità differiscono forse quanto differiscono Shakespeare, Sofocle e Strindberg. Per tutti loro, comunque, l’opera non era un semplice con­ certo in costume, o un dramma i cui punti salienti e il cui tono generale erano sottolineati dalla musica, ma una forma artistica con la propria coerenza, la propria intensità, la propria sfera espressiva. L’opera è un tipo di dramma la cui intera esistenza è determinata da un punto all’al­ tro e nel suo complesso dall’espressione musicale. Dramma per musica. Lo confermano non solo le teorie operistiche, ma anche i risultati.

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Nel formulare questa concezione dell’opera non pretendevo certo di esporre una novità. È la stessa concezione che tiene viva la critica operi­ stica da 350 anni, la stessa che molti forse sostengono oggi, anche se con scarsa convinzione: pochi sembrano infatti pronti ad affrontarla, a ri­ fletterci sopra e ad assumersene le conseguenze. Oggi come oggi, sembra

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ci sia più vigore in atteggiamenti avversi all’opera come dramma, in mo­ do diretto o latente. Quelli di cui mi sono occupato negli anni Cinquanta e che ho cercato di esemplificare con passi di autori famosi mi sembrano ancora paradig­ matici. I critici teatrali di dichiarata tendenza letteraria tendono quasi automaticamente a mettere in dubbio l’efficacia drammatica di qualsiasi mezzo artistico non verbale. Non mettono in dubbio che la musica negli ultimi cent’anni abbia raggiunto una maturità tale da poter far fronte a richieste impellenti, possono anche essere appassionati amanti della musica, ma pensano che, a causa della sua tipica mancanza di riferimenti precisi, la musica non possa caratterizzare le idee e non possa quindi de­ finire il dramma in modo significativo. Cosi scrive Eric Bendey in The Playwright as Thinker. ... ogni pratica drammaturgica che subordini le parole a un qualsiasi altro mezzo espressivo ha banalizzato il dramma senza dare pieno dominio al mezzo divenuto dominante... La musica, soprattutto, svolge le sue funzioni drammatiche in ma­ niera inadeguata. Benché Wagner e Richard Strauss abbiano portato la musica drammatica straordinariamente lontano, essi non solo non possono, come deside­ rava il secondo, dare un’esatta descrizione musicale di un cucchiaio da tavola, ma non sono nemmeno in grado di fare nulla con il mondo persino più elusivo del pensiero concettuale. Non possono costruire quei complessi parallelismi e con­ trasti di significato che il dramma richiede.

Ora, è proprio ciò che la musica può fare che costituisce un famoso problema estetico. Secondo la soluzione classica del xvn secolo, la mu­ sica dipinge «affetti». Il xx secolo, però, tende piuttosto a discernere nella musica certi tipi di «significati», ossia significati che per la loro stessa natura non possono essere definiti con le parole, ma che sono pre­ ziosi ed unici, saldamente radicati nell’esperienza umana. Il significato non può essere ridotto in parole. Se si ritiene che persino la musica stru­ mentale, palesemente astratta, abbia un significato, tanto più lo deve avere l’opera, nella quale gli specifici riferimenti concettuali vengono continuamente forniti dal libretto, e forniti il più chiaramente possibile tramite la presentazione delle situazioni e dei conflitti e l’uso delle parole nel loro aspetto «denotativo». Intorno a tali riferimenti la musica è libera di assecondare i desideri delle sue più sottili facoltà espressive e connotative. Bentley propende

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per il «dramma di idee», quello che Wagner adottò con lo stesso entu­ siasmo con cui adottava ogni altra nozione estetica a lui nota. Il dramma letterario, però, si è occupato con più regolarità - e con più successo? delle diverse qualità dell’esperienza e non principalmente di idee. I sen­ timenti, gli atteggiamenti e i significati «al di là delle emozioni e delle motivazoni nominabili e classificabili della nostra vita cosciente» (come dice Eliot) non trovano necessariamente espressione nel canovaccio piu elaborato o nella dialettica più incisiva. A nessun mezzo artistico che abbia una sua esistenza nel tempo e sulla scena si può negare quantomeno l’opportunità teorica di servire da mezzo espressivo del dramma. La musica lo ha fatto benissimo. La critica musicale, comunque, non ha sfidato o confutato sul serio il punto di vista intransigentemente letterario. La maggior parte dei cri­ tici, penso, non riconosce nemmeno il problema. Forse bisogna perdo­ nare loro il fatto di avere un concetto elementare di dramma; ma con To­ sca come ideale drammatico, il concetto di «opera come dramma» non ha veramente senso alcuno. Mentre abbiamo sviluppato una considere­ vole capacità di comprendere i meccanismi con cui la musica può con­ tribuire, e di fatto contribuisce al dramma, questa comprensione è stata raramente integrata in un resoconto completo dell’opera d’arte nella sua totalità. I musicisti, senza dubbio, non sono meno sensibili a teatro di quanto lo siano i letterati in una sala da concerto. Comunque sia, però, l’incompetenza drammatica sta alla base di quasi tutti gli scritti correnti sull’opera, dai più conformisti ai più professionali. Un esempio recente e rilevante di quest’ultimo tipo di scritti fu Mozart's Le Nozze di Figaro^ una monografia esaustiva, per non dire pedan­ te, di Siegmund Levarie, pubblicata per la prima volta nel 1952 e ristam­ pata nel 1977. Vi compariva la prima indiscriminata adozione in inglese delle influenti teorie di Alfred Lorenz, lo studioso tedesco di Wagner degli anni Venti. I presupposti e i procedimenti del metodo analitico di Lorenz sono abbastanza discutibili, ma il punto principale è questo: il sistema è in realtà un sistema preesistente puramente musicale, rispetto al quale i particolari drammatici vengono regolarmente invocati per «spie­ gare» particolari musicali che non vi si adattano affatto. La «spiegazio­ ne» avviene con un’ingenuità logica pari all’insensibilità drammatica. L’«unità» dell’opera nel suo complesso viene in definitiva dimostrata

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riducendola ad una formula di cadenza, I - IV - V -1. Riguardo alle vicis­ situdini, vi si afferma: La riconciliazione degli sposi avviene in Sol maggiore, il regno della contessa; ma la scena finale è in Re maggiore, in cui ci si può aspettare che un conte ravveduto imponga la propria autorità ad una moglie che passa in secondo piano.

Nessuna interpretazione armonica può giustificare questo fraintendi­ mento della situazione domestica degli Almaviva. Come nei peggiori ec­ cessi periferici del New Criticism (che è stato senza colpa chiamato a so­ stenere il metodo di Levarie), la concretezza dell’opera d’arte si è persa per strada, poiché l’opera in questo caso è un dramma e non un esercizio armonico. Lorenz e i suoi seguaci evidenziano l’assurdità di una conce­ zione dell’opera intransigentemente musicale. Scrittori di musica più popolari evitano, o addirittura disdegnano, qualsiasi accostamento all’opera minuziosamente analitico. Non avendo nessun dogma e nessun nodo di particolari tecnici da sbrogliare, fini­ scono col perdere l’opera d’arte in altri modi. Alcuni non riescono mai ad accettare veramente le convenzioni basilari del teatro d’opera, per quanto ci provino; a costoro sembrerà sempre ridicolo che l’affamato Florestano cominci a cantare su un Sol forte e acuto. Ad alcuni manca il coraggio del loro presunto amore per la musica; in una sala da concerto Beethoven può sostenere VInno alla gioia, ma in un teatro non si concede altrettanto per l’estasi finale di Fidelio. Alcuni hanno ereditato il disgu­ sto vittoriano per la musica operistica; sicché Otello diventa un po’ vol­ gare in confronto ad una bella fuga di César Franck. Contraddittorie ti­ midezze si fondono insieme per produrre posizioni tipicamente generi­ che, nel migliore dei casi mitigate da sporadici segni di comprensione: in un caso si passa sopra ad una brutta musica perché considerata ido­ nea a qualche rozzo effetto teatrale, in un altro si rinuncia al dramma, o si giustifica la bruttezza di un dramma, in quanto pretesto per una mu­ sica piacevole. Persino Ernest Newman, il più letto e uno fra i migliori critici che si siano occupati dell’opera dell’inizio del xx secolo, poteva scrivere quanto segue a proposito del Flauto magico*. ... è stato dato eccessivo rilievo ai suoi valori «etici» - la lode della Virtù, della Giustizia, delTUmanità, della Fratellanza Universale, c cosi via. Queste espressioni

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accademiche appaiono oggi un po’ offuscate; noi abbiamo ormai superato la fase in cui si accetta un’opera d’arte semplicemente perché trabocca di sentimenti ele­ vati. In un’opera d’arte quello che conta è infine solo l’arte. Tuttavia, questi senti­ menti hanno avuto molta parte nel fare della musica di opere come IIflauto magico e il finale per coro della Nona Sinfonia ciò che essa è, e quindi dobbiamo accon­ tentarci, per ora, e per ragioni puramente artistiche, di accettarli secondo la valu­ tazione che ne davano Mozart e Beethoven, proprio come quando, assistendo ad A mieto, non ammettiamo l’esistenza dei fantasmi, ma semplicemente sospendiamo per un po’ la nostra incredulità allo scopo di stare alle regole del gioco per la du­ rata dei versi scritti dal poeta.

I peggiori di questi critici hanno trasformato la Tosca di Puccini in una specie di locus classicus del dramma musicale. Penso che valga ora la pena di soffermarsi un pò* sulla Tosca. Esami­ niamone almeno l’ultimo atto. Il fatto che presenti alcune analogie con l’ultimo atto delTOtello - Scarpia non invoca forse Iago nel primo at­ to? - dovrebbe rendere più facile l’analisi. Come Verdi, Puccini si trovò ad aprire l’ultimo atto con il ricordo di forti tensioni e violenze, e con una situazione tendente ad una calma sconcertante prima della catastrofe. Con la «Canzone del salice» Verdi trasforma quella situazione in una calma sinistra, fortemente orientata; Puccini non coglie invece questa qualità, e la sua scena sembra piuttosto un’attesa. Anche Puccini fa uso di un motivo popolare, cantato fuori scena da un pastorello allo spuntare di un’alba nebbiosa e rosata. Subito dopo un lungo brano orchestrale, sovraccarico di rintocchi di campane, introduce l’eroe Cavaradossi, che conversa brevemente con il carcerie­ re. A differenza dell’ingresso orchestrale di Otello, quello di Cavaradossi è statico e presenta un’unica tinta musicale. Lasciato solo, Cavaradossi rievoca nella famosa aria «E lucevan le stelle» un caldo sogno d’amore. Entra Tosca con la notizia della «sospensione della condanna a morte» e la partitura s’impregna di Leitmotive. All’arrivo dei soldati l’azione procede rapida fino ai coups de théàtre finali. Tosca salta giù dal parapet­ to e l’orchestra conclude a tutta forza con grande slancio ripetendo la me­ lodia di «E lucevan le stelle». Lo schema è ancora, superficialmente, quello di Otello. Ora, la prima parte di questo atto, fino all’entrata di Tosca, è una delle cose meno drammatiche del melodramma in genere, non perché sulla scena non succeda gran che, ma perché non succede nulla nella mu­

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sica. È questa certo la dimostrazione pressoché definitiva di quanto Puccini fosse impreparato a far fronte ai facili effetti di Sardou. (La di­ mostrazione definitiva è il dialogo, curiosamente privo di passione, tra Cavaradossi e Tosca, che viene subito dopo). Forse la Canzone del pa­ storello avrebbe potuto essere integrata nel dramma, ma Puccini voleva solo inculcare un senso di malinconia, che è già di per sé inadatto alla si­ tuazione di Cavaradossi, e lo è tanto più quando porta al rarefatto brano delle campane al suo ingresso, e quindi alla sua aria sdolcinata. Se Puc­ cini non era più assolutamente in grado di penetrare nei sentimenti del condannato in questo momento critico e di comprenderli, avrebbe fatto meglio a lasciarli da parte, come fa Verdi con Manrico alla fine del Tro­ vatore. Ma, ovviamente, Cavaradossi non era la sua prima preoccupa­ zione. Quello che importava non era la sua situazione, ma l’effetto che essa poteva avere sul pubblico. Il sentimentalismo di Puccini è diretto oltre le luci della ribalta, vuol farci fare un bel pianto a spese di Cavara­ dossi, e questo provoca la fine immediata del povero pittore come pro­ tagonista drammatico ed erge una barriera contro qualsiasi serio senti­ mento che lo stesso Sardou sperava forse di suscitare in noi. Quanto alla Canzone del pastorello, essa si dimostra estranea quanto il coro dei fanciulli e il cardinale del primo atto, inseriti senza alcuno scopo drammatico e solo per far mostra di un fluttuante lirismo. Non è gran che necessario mettere in contrasto l’elemento analogo nell’Otello, la «Canzone del salice», che non solo crea la calma di Verdi, ma rispon­ de anche meravigliosamente all’indole di Desdemona e chiarisce il suo destino. Nell’ultimo atto dell’O/e//o anche la musica per l’ingresso del­ l’eroe è parte cruciale del dramma. Nel corso dei quattro atti, Verdi non interpola nemmeno una volta elementi spettacolari o lirici senza che questi abbiano un’influenza significativa sul dramma. Tosca si butta giù e l’orchestra grida la prima cosa che le viene in mente, «E lucevan le stelle». Quanto è inutile in confronto con il ritorno della musica del bacio nell’analogo spunto di Otello, che crea il momento drammatico di Verdi con un senso consumato della forma drammatica. Quanto è inutile persino in confronto con il parallelo scoppio orchestrale nella Bohème che sostiene il moto di dolore di Rodolfo al ricordo della confessione di Mimi («Sono andati?... volli con te sola restare»). Ma la Tosca non parla d’amore; «E lucevan le stelle» parla tutta di autocom­

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passione, Tosca stessa non l’ha mai sentita, e la continuità musicale è scadente e arbitraria. Una volta ancora, questo fragoroso, piccolo epilogo è destinato al pubblico, non al dramma. Che peccato (siamo costretti a pensare), che peccato che le farfalle si spezzino su questo meccanismo oliato alla perfezione. Perché si tratta ancora, dopo tutto, delle fragili farfalle della nuova Arcadia che costituisce il mondo bohémien di Pucci­ ni, farfalline che civettano, svolazzano e si acconciano con cura le loro crinoline nelle soffitte. Cavaradossi è Marcello, con una missione, ma senza un maggior senso della realtà; Mimi è messa in caricatura come «La Tosca», con la sua smorfiosa «Non la sospiri la nostra casetta» e il suo tema d’amore alla barcarola. Quello che nell’opera precedente aveva un certo fascino di gioventù qui è assurdo, con Spoletta, Sciarrone, il ba­ rone Scarpia c il cerchio uncinato alla tempia. Non mi prefiggo di analiz­ zare il tessuto musicale di Tosca, che è costantemente e da cima a fondo di una banalità da caffè concerto. Se Joyce Kilmer e Alfred Noyes si fos­ sero messi in mente di fare su Tosca un grandioso dramma poetico, ne sarebbe scaturito qualcosa di analogo nel campo della lingua parlata. È difficile credere, però, che un dramma simile avrebbe tenuto il cartellone, o che sarebbe stato classificato insieme a Shakespeare, o che sarebbe divenuto uno degli esempi preferiti di dramma poetico. Avrebbe avuto i suoi sostenitori, non c’è dubbio; e di fronte a coloro che fossero rimasti colpiti dalla qualità dei versi si sarebbe solo potuto mantenere un prudente silenzio, come dinanzi a coloro che rimangono terrorizzati dagli accordi di Scarpia o si commuovono al «Vissi d’arte». L’errore ve­ ramente insidioso è l’idea che la banalità di Puccini e quella di Sardou possano in qualche modo scusarsi a vicenda e innalzarsi l’un l’altra a li­ vello di dramma. Quanto più a fondo si conoscono i veri risultati dell’arte operistica, tanto più chiaramente si percepisce la portata del fallimento di Puccini, o, per metterla più correttamente, la banalità del suo tentativo. Questa, comunque, è una considerazione secondaria. Questo libro mira molto più al riconoscimento del valore di opere d’arte importanti che alla di­ sinvestitura di quelle non importanti. I risultati positivi del dramma per musica occuperanno felicemente la nostra attenzione, dai primi tentativi di Monteverdi fino alle orgogliose strutture di Wagner, da un’enorme tradizione che ha il suo culmine in Mozart a un’altra che ha il suo cui-

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mine in Verdi, da Purcell a Stravinskij, da Metastasio ad Alban Berg. In 350 anni, l’opera ha messo insieme un impressionante corpus di lavori buoni. Tra questi ci sono alcuni capolavori, cosi come ci sono anche opere eccellenti in cui la visione del drammaturgo non è sorretta piena­ mente e, parlandone, non farò nessuno sforzo per mascherarne i limiti. Sia l’Orfeo di Monteverdi sia V Orfeo di Gluck, per esempio, non riescono ad abbracciare all’interno delle loro diverse, e in alcuni sensi opposte, concezioni drammatiche la catastrofe finale implicita nella leggenda di Orfeo. Queste opere, però, falliscono in un senso completamente diverso da quello della Tosca. Con tutte le loro imperfezioni sono ancora davvero drammatiche, sono ancora prodotti dello spirito, della sensibilità e della bellezza. Fra i molti atteggiamenti parziali oggi correnti nei confronti dell’o­ pera due sono particolarmente frustranti, quello proprio dei musicisti, secondo il quale l’opera è una forma musicale bassa e quello proprio, a quanto pare, di chiunque altro, secondo il quale l’opera è una forma drammatica bassa. Questi atteggiamenti nascono da accostamenti all’o­ pera o esclusivamente musicali o esclusivamente letterari sui quali ho già indicato le mie obiezioni. L’opera è per eccellenza la sua stessa forma. Il ruolo della musica in questa forma è stato definito in modo semplice ma esatto da Edward T. Cone nel corso di un saggio sulle ultime opere di Verdi che vorremmo vedere imitato più spesso nella critica operistica: In qualsiasi opera possiamo scoprire che i messaggi musicali e quelli verbali sem­ brano rinforzarsi o contraddirsi a vicenda, ma in entrambi i casi dobbiamo sempre ricorrere alla musica come guida alla comprensione della concezione che del testo aveva il compositore. È questa concezione, e non il testo nudo in sé e per sé, che ha autorità nel momento in cui va definito il significato finale deiropera\

H giudizio finale, dunque, è correttamente musicale, ma non puramente musicale, non più di quanto sia puramente letterario. È la musica a dar voce al dramma e non si può supporre che un piccolo compositore possa scrivere una grande opera più di quanto si possa supporre che un poeta­ stro possa scrivere un grande dramma. Per valutare il significato di un’opera d’arte del passato, per ricostruire l’idea del compositore in terCone, The Old Mans Toys: Verdi's Last Operas cit.

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mini oggi significativi ci vuole uno sforzo immaginativo, come sempre. Strano o meno, un po' dello stesso sforzo è necessario per comprende­ re i capolavori contemporanei, che completano e continuano la grande tradizione operistica.

Capitolo secondo Orfeo: la concezione neoclassica

Io la Musica son, ch’ai dolci accenti so far tranquillo ogni turbato core, ed or di nobil’ira ed or d’amore poss’infiammar le più gelate menti.

Monteverdi, Orfeo (Prologo a La Musica).

I.

All’inizio ci fu la concezione neoclassica di un dramma rianimato dalla cooperazione della musica. I dubbi sorsero solo più tardi. Questa concezione si presentò come il culmine di tutto quello a cui avevano teso la speculazione e la pratica musicale del Rinascimento. Nel xvi secolo, per la prima volta, i problemi dell’espressività musicale di­ vennero i problemi centrali di molti teorici e compositori e in questo caso, come in altri, il Rinascimento porta il contributo di un punto di vi­ sta moderno di fondamentale importanza. Molto tempo prima dei primi libretti classicheggianti dei Fiorentini, gli umanisti avevano insistito sul fatto che, se la musica nei tempi antichi aveva imitato e risvegliato le emozioni con forza senza pari, poteva e doveva farlo di nuovo. I musici­ sti, di conseguenza, avevano dedicato la loro attenzione ai mezzi dell’e­ spressione emotiva, sperimentando talvolta con grande intuito psicolo­ gico e, nel corso degli anni, con un’inventiva ed un’efficacia sempre cre­ scenti. La forma musicale dominante era il madrigale, un breve pezzo vocale strettamente legato al proprio testo poetico, nel migliore dei casi, e nel caso più tipico un sonetto petrarchesco, una singola stanza dell’Ariosto o una lirica del Tasso. Le immagini, gli stati d’animo e gli «affetti» venivano tradotti in termini musicali. La ricca tradizione del madrigale italiano, da Cipriano Rore a Luca Marenzio e Claudio Monteverdi, de­ terminò il corso espressivo della musica durante la seconda metà del Cinquecento'. 1

[In questo e in casi analoghi utilizziamo il corsivo per indicare termini italiani nell'edizione inglese.

N.d.T.].

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Il passo finale, forse inevitabile, fu il passaggio dal lirico al dramma­ tico. La musica doveva salire sul palcoscenico, come fa il Prologo di Monteverdi, per infiammare variamente persino «le più gelate menti». Per raggiungere la sua massima influenza, la musica doveva aspirare al­ l’alta forma del dramma. Questo rimane senza dubbio un’aspirazione, eccezion fatta per alcune opere. In ogni caso, più che una meta calcolata era lo sbocco naturale dei tentativi//)/ desiècle di raggiungere un’estrema espressività. Furono molte le correnti che portarono alla famosa «rivo­ luzione» musicale del 1600, anno da cui datiamo un po’ troppo grosso­ lanamente l’inizio della musica moderna, l’invenzione del basso conti­ nuo, il trionfo dell’armonia sul contrappunto e la prima opera. È meglio considerare questa rivoluzione come un’impetuosa estensione barocca di certe tendenze del secolo precedente. In molti sensi Monteverdi si al­ lontana di netto da Cipriano Rore e da Palestrina, ma è evidente che c’è una certa continuità. Il primo grande compositore operistico fu anche l’ultimo grande madrigalista. Il dramma musicale fu l’ultimo e più estremo prodotto della fede del xvi secolo nella capacità della musica di toccare gli animi. Per gli umanisti e per coloro che di riflesso condividevano i loro en­ tusiasmi le prove della grande forza della musica erano sempre convin­ centi. Sapevano che le liriche greche erano cantate e che parimenti erano cantate le tragedie, certamente in parte, se non completamente. Nel 158^ venne recitata una versione di Edipo re con i cori fiduciosamente musicati da uno dei più importanti madrigalisti, Andrea Gabrieli. Un’i­ spirazione ancora più profonda, però, doveva essere scoperta nelle storie musicali venerate dagli autori classici, dallo stesso Platone, che avrebbe messo al bando certi tipi di musica ritenendoli troppo forti e troppo pericolosi per il benessere dello Stato. Si parla di grandi prove musicali da parte di Anfione e di Eunomo, di Terpandro e di Timoteo, di Pan e di Apollo. La leggenda del cantore tracio Orfeo è particolar­ mente ben sviluppata, ricca e problematica ed è notevole per la semplice bellezza dell’azione. Già nelle fonti classiche il mito è a metà strada verso la forma drammatica che in seguito sono stati tentati di conferirgli Poli­ ziano e Ottavio Rinuccini, Lope de Vega, Monteverdi e Gluck, Coc­ teau, Milhaud e Stravinskij. I miti eterni contengono gli eterni problemi dell’uomo. Il mito di

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Orfeo, inoltre, tratta in modo specifico dell’uomo come artista, e si è inevitabilmente portati a vedervi, rispecchiati in una sorta di visione prolettica, i problemi tipici del compositore d’opera. All’inizio Orfeo è il supremo artista lirico. Nella concezione classica è l’ideale kitharìsta vincitore di tutti i premi, o, nell’allegoria cristiana, il salmista evangelico che incantava il malinconico Saul. Per il xrv secolo è il menestrello che reclama il proprio dono dal re delle fate; per il xvi, forse, il madrigalista; per il xix l’orgoglioso Walter che persuade i pedanti tedeschi. Il xvin secolo l’ha dipinto, con tremore, come l’amabile cantore dei languidi versi del Metastasio che mandavano in estasi il re di Spagna. Per Orfeo cantore lirico, però, la crisi esistenziale diventa la crisi della sua arte liri­ ca: l’arte ora deve spingere all’azione, deve spingere avanti sul tragico palcoscenico della vita. È un tentativo sublime. Come poteva sfuggire la sua audacia simbolica ai musicisti del 1600 che cercavano nuova forza nelle forme piu vigorose del dramma? Il nuovo trionfo di Orfeo sta nel dare forma al lamento che strazia l’inferno con la forza della sua grande e dolente emozione. Anche questo devono avere particolarmente nota­ to, alle prese com’erano con nuovi mezzi emotivi, sconvolgenti e perico­ losi da trattare. Il conflitto fondamentale del mito, comunque, trascende quel tempo e questo ambiente e si estende ad ogni artista. È il problema dell’emozione e del suo controllo, dell’appello ai sentimenti fino ad un grado di intensità e di comunicabilità e ad una forma di cui l’opera della vita deve tener conto e che la morte provvisoriamente rispetta. Tutto questo Orfeo lo raggiunge come artista, ma come uomo non può model­ lare le proprie emozioni secondo gli scaltri decreti di Plutone. Messo di fronte alla situazione, si volta indietro e fallisce. La vita e l’arte non sono necessariamente una cosa unica. La qualità del fallimento di Orfeo nel mito è oscura, ma per il dram­ maturgo è il nodo della questione. Intorno a questo nodo Monteverdi c Gluck hanno tentato di cristallizzare idee drammatiche profondamente diverse che fanno da guida alle loro versioni della leggenda. Cercheremo di capire e di valutare la qualità del loro successo o del loro fallimento. Certo, questo «problema del controllo» è un’astrazione. Pochi artisti, e certamente né Monteverdi né Gluck, hanno impostato i termini di una questione cosi precisa e scientifica, né lo ha fatto Orfeo nella versione semplice e non elaborata del mito. Sta al drammaturgo chiarire la que­

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stione per Orfeo. Compito del critico è chiarire la questione parallela, il problema del controllo dell’artista, non per il drammaturgo, ma per un pubblico che ha bisogno di comprendere i metodi del drammaturgo per poterne condividere la visione.

2. Le prime due opere conservateci sono trasposizioni musicali di Jacopo Peri e Giulio Caccini (XeW Euridice, un dramma pastorale di Ottavio Rinuccini, il poeta umanista fiorentino della camerata del conte Bardi. La prima grande opera è La favola d'Orfeo di Monteverdi, scritta a Mantova nel 1607, ed Orfeo è la prima opera che rivela la tipica lotta del compo­ sitore con il libretto. Il compositore è il drammaturgo e sono le sue capa­ cità particolari a determinare il dramma nella sua totalità. Dal suo punto di vista, quindi, quegli elementi del libretto che si adattano alle sue capa­ cità possono essere realizzati, altri elementi, invece, o vengono trionfal­ mente distorti, o non hanno importanza, o segnano la sua sconfitta. Il li­ bretto finisce per essere il suo limite. Da un altro punto di vista, però, è in genere vero che le capacità del compositore hanno difficilmente avuto modo di rivelarsi prima e appaiono soltanto quando viene musicato il li­ bretto. All’inizio il libretto costituisce l’ispirazione. Le cose stavano cosi anche con Monteverdi. Non era un maestro del recitativo che si rivolgeva ad Alessandro Striggio per avere un libretto che desse corpo a questa forza particolare. Striggio, diciamo, gli portò il libretto e, musicandolo, Monteverdi scopri il recitativo, non lo inven­ tò, ma, nel senso più profondo, è certo che fu lui a scoprirlo. Da allora in poi il recitativo costituì il suo massimo risultato; forma la base di Orfeo e domina e determina completamente il suo capolavoro di trentacinque anni dopo, L'incoronazione di Poppea. Il recitativo è uno degli elementi basilari e costanti della drammatur­ gia operistica. In realtà, però, già con gli allievi di Monteverdi cominciò a diventare convenzionale e, nonostante le impressionanti riprese dei se­ coli successivi, non è stato mai più usato con la fiducia, l’immaginazione e la convinzione di Monteverdi. Di conseguenza, oggi per noi è difficile pensare al recitativo se non come a qualcosa di seconda scelta, un neces­

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sario legame tra le arie. Nel 1600, comunque, non c’era ancora nessuna idea di quella ponderata esperienza emotiva che i compositori più tardi dovevano elaborare in forme puramente musicali, Bach nella fuga, Beet­ hoven nella sinfonia e Hàndel e Verdi nell’aria. Sarebbe stato compito di Gluck introdurre questo concetto moderno di coesione musicale nella leggenda di Orfeo; Monteverdi non ne sapeva nulla. Nella tradizione che egli conosceva, l’espressività musicale era diretta solo alla pittura di stati d’animo e di immagini nei madrigali. C’era ora un ideale più speci­ ficamente neoclassico secondo il quale, invece, la musica doveva imitare gli accenti del linguaggio appassionato, rappresentato, nella sua forma migliore, dalla retorica grandiosa ed enfatica di un grande attore. La musica doveva seguire la cadenza e di conseguenza le implicazioni emo­ tive della singola parola, tenendo poco contò della frase, del periodo, o persino del sentimento generale. Il risultato era il recitativo, emozioni scomposte, un continuo e mai controllato grido dal profondo del cuore, «la nuda voce umana» dietro la misurata voce del poeta. La sua magni­ ficenza e la sua immediatezza nascono proprio dalla sua natura impulsi­ va, dalla sua mancanza di controllo compositivo. Monteverdi si misurò con questo ideale con una disposizione perfetta per la declamazione; le parole si formavano per lui in modo musicale. E per far raggiungere al recitativo la passione voluta, sfruttava fino all’ul­ timo ogni mezzo musicale disponibile che potesse suscitare un senso di tensione. La declamazione lo portava ad arresti improvvisi, a vivaci ac­ celerazioni ritmiche e a precipitose e intense ascese e discese della linea melodica. Anche se talvolta egli giustappone gli accordi in maniera radi­ cale, le sue armonie base sono in genere semplici e la tensione armonica è accresciuta dalla dissonanza tra la voce e gli accordi sottoposti. Di tanto in tanto sottolinea persino una violenta dissonanza sopra un’armonia senza alcun accenno ad alleviarla (in termini tecnici risoluzione, passag­ gio ad una consonanza più calma). E quando, più comunemente, risolve la dissonanza, l’effetto può essere parziale ed amaro, o anche compro­ messo da nuove tensioni supplementari introdotte sfiorando scottanti note extrarmoniche. Il grande vantaggio del moderno stile monodico della prima decade del 1600, la «nuova musica», era che la voce poteva spaziare libera al di sopra del basso continuo che da solo forniva un sem­ plice supporto armonico. Il ritmo, la linea musicale e la dissonanza erano

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in verità lasciati liberi di compiere le più espressive contorsioni. Nella sostanziale semplicità della concezione totale, non potevano distruggere l’autorità chiara e tranquilla del basso. L’uso che Monteverdi fa della sincope colpisce in modo particolare. La sincope è una tensione ritmica, proprio come la dissonanza è una tensione armonica. Tradizionalmente, le due forme erano state usate ac­ curatamente insieme, soprattutto allo scopo di rafforzare una cadenza imminente. Monteverdi, invece, trasformò la sincope del recitativo in un effettivo manierismo, producendo un curioso senso di dislocamento immediato, uno spazio che permette al cantante di procedere lentamente o di andare in fretta senza tenere conto dei rigidi impulsi metrici. Nell’e­ sempio 2, i due righi inferiori indicano la linea del recitativo sincopato di Monteverdi con il suo basso, mentre sopra ho cercato di ricostruire la versione convenzionale e non sincopata della stessa linea. Per sei volte sembra che la voce arrivi in ritardo sul suo accompagnamento e di solito il suo ritardo è stato la causa di una dissonanza acuta e parzialmente ri­ solta. Alla fine la voce incespica due volte in anticipo sul tempo, con un effetto ancora più straziante: questa è proprio la forza espressiva del ru-

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bato (cfr. es. 2). Senza dubbio Monteverdi ricercava le dissonanze per se stesse, ma era anche interessato a dare un’impressione di libero flusso e riflusso e ad ottenere la reazione immediata che viene in tal modo a crearsi. È come se il cantante si trovasse in un tale trasporto da non poter più stare legato all’artifizio della marcia uniforme del basso. L’esempio, inoltre, è semplice in quanto qui Monteverdi presenta un movimento regolare del basso, per uno scopo speciale. Di solito anche il basso è er­ ratico, dà un notevole senso di flessibilità, di torsione e di espressività al pezzo intero. Il musicista cerca di catturare la fluidità metrica della poe­ sia, della poesia recitata sulla scena. Il risultato è uno stile declamatorio di semplice emotività, assolutamente senza precedenti. Quest’arte del recitativo è il contributo di Monteverdi alla storia di Orfeo, l’artista che con il suo dolore riusciva a commuovere l’inferno, l’amante che non riusciva a dominare le proprie passioni. 11 libretto di Striggio fa di tutto per rifinire con cura l’idea di Orfeo come creatura ir­ riflessiva tutta impulso, che agisce con forza e con il maggior coraggio istintivo possibile. Nel primo atto lo udiamo solo un po’, quando irrompe nell’atmosfera arcadica con un entusiastico inno al sole e si rallegra del proprio successo perché ha finalmente conquistato Euridice. Nell’atto secondo, però, il tono pastorale è infranto da una messaggera quanto mai esplosiva, Silvia, ninfa gentile, che per la prima volta e all’improvviso rivela appieno la forza del recitativo di Monteverdi. Il suo lamento, rapi­ do e superbo, agisce come una sorta di miccia per l’emozione di Orfeo. Anche in questo atto la sua parte è piccola, una decisione improvvisa, intensa e semiconsapevole di ricercare Euridice nell’Ade. Nell’atto ter­ zo si trova sulla riva dello Stige insieme alla Speranza che deve lasciarlo al suo eloquente dolore. Disperato, Orfeo canta nondimeno un lungo e formale lamento a Caronte c questo lamento sfocia in una supplica in­ formale che è ancora più appassionata e che alla fine gli procura l’am­ missione. In modo piuttosto ambiguo, però: Caronte, ovviamente un personaggio semicomico, è ancora inflessibile, ma si addormenta (come Cerbero nella mitologia). Nell’atto quarto, quando Euridice viene libe­ rata, il dramma diventa più veloce man mano che rivela l’inadeguatezza piuttosto terribile di Orfeo. La sua reazione non è né di gratitudine né di vero affetto, ma un inno di lode a sé e alla sua lira. Temendo che Eu­ ridice possa essere riacciuffata, di tanto in tanto si volta a guardarla, sia

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per troppa fiducia sia per amore. Quando Euridice svanisce, Orfeo lan­ cia un altro grido lacerante, di quelli che solo Monteverdi poteva trattare nel recitativo. Come è inadeguato Gluck in questo punto, in questo mo­ mento cruciale! L’Orfeo di Monteverdi è disperato e il coro infernale ne interrompe i lamenti misericordioso. Questo coro osserva che il successo arride solo a coloro che riescono a moderare i propri sentimenti, una morale che è in effetti proclamata da tutti, da uno spirito che mette in guardia Orfeo alla ricerca di Euridice contro il giovenil desio, da Euridice stessa nelle sue ultime parole «Cosi per troppo amor...» e, nell’atto seguente, da Apollo ex machina che fa eco alle sue parole e ulteriormente rimprovera il figlio: « Non è consiglio | di generoso petto | servir al proprio affetto». Orfeo, però, non impara nulla. Nell’atto quinto, prima che venga da lui Apollo, si sta di nuovo la­ mentando in Tracia, con più intensità del solito, ma con poca più consa­ pevolezza. E la sua successiva ascesa al cielo è più o meno priva di signi­ ficato, la cosa più deludente dell’opera. Distinguere tra il modo di pensare del librettista e quello del compo­ sitore è spesso difficile. Striggio stava sperimentando, proprio come Monteverdi. Mentre il primo atto del libretto è di qualità puramente lirica, proprio come V Euridice del Rinuccini, gli atti seguenti rivelano straordinarie tendenze drammatiche, specialmente in confronto al Ri­ nuccini. Striggio, però, non fa niente per colmare il divario tra gli eroici successi di Orfeo nel canto o nei fatti c l’impulso immaturo (consideran­ dolo a freddo) che è la sua sola risposta a tali successi. In un libretto, la poesia non può fare nulla per Orfeo; anche se Striggio avesse avuto una tale arte poetica, non avrebbe avuto né il tempo né la forma necessari. Attraverso il recitativo di Monteverdi, comunque, l’impulso diventa passione, non si può proprio considerare Orfeo con freddo distacco. Quello che nel libretto sembra istinto o capriccio sotto la pressione della musica diventa un’emozione assolutamente irresistibile, cosicché non dubitiamo dell’integrità di Orfeo più di quanto ne dubitino le bestie sel­ vagge della Tracia e le creature dell’Ade che Orfeo ugualmente soggio­ ga. Un libretto fornisce lo scheletro, ma la vera espressione drammatica è data dalla musica. Grazie al recitativo di Monteverdi, il personaggio vuoto o contraddittorio di Striggio raggiunge una realtà tragica. Monteverdi comprese anche che occorrevano elementi che dessero

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coesione e solidità alla struttura primaria del recitativo, per controllarlo dall’esterno, visto che non conosceva nessuna restrizione interna. Si af­ fidò per questo a brevi canzoni, a brevi sezioni orchestrali chiamate ri­ tornelli o sinfonie e a cori che nello stile variavano dal madrigale serio al canto polifonico leggero. Nessuno di essi è in sé davvero espressivo, molti si possono addirittura definire goffi, scialbi e antiquati, e tuttavia costituiscono una zavorra perfetta per la forma. Nel suo compito di dar vita ad una costruzione drammatica, Monteverdi trovò aiuto in una poesiabasata su versi semplici e audaci. Sembra che Striggio abbia lavorato secondo una sorta di schema ideale per un atto, uno schema che si forma nel corso del primo e del secondo atto, raggiunge piena espressione nel terzo e nel quarto e si indebolisce nel quinto. La sua tendenza era di ini­ ziare ogni atto con una situazione statica, farla seguire da una singola azione importante, mostrare la reazione di Orfeo e riepilogare il tutto in una conclusione corale. Specialmente il grande coro infernale, fiancheg­ giato dai tromboni e dai cornetti che soli rimangono nell’inferno di Monteverdi, riflette splendidamente il successo di Orfeo nell’atto terzo e poi il suo fallimento nell’atto quarto. La solenne polifonia madrigali­ stica veneziana, rigidamente controllata come se fosse scolpita, risponde alla voce appassionata e la rende più intensa. Orfeo rivela un meraviglio­ so senso di come deve essere un chiaro movimento drammatico; Strig­ gio non aveva studiato e tradotto le tragedie greche per niente. E Mon­ teverdi, vecchio maestro della sviluppatissima arte corale del xvi secolo, era in grado di dare al coro, in particolare, un’importanza drammatica seconda solo a quella del recitativo. Come ho detto, una delle virtù del libretto è quella di dare ad Orfeo molte occasioni di reagire con violenza nei momenti di crisi, come la no­ tizia della morte di Euridice, la partenza della Speranza, il rifiuto di Ca­ ronte, il ritorno di Euridice e la sua seconda morte. Questi momenti sono perfettamente adatti alle capacità di Monteverdi e segnano in modo indelebile il carattere del dramma. In due punti cruciali del dram­ ma, tuttavia, passato il momento doloroso, Orfeo si trova nella necessità di confrontarsi con emozioni ponderate; egli deve fare appello a tutta la sua arte, al suo controllo, per riassorbire il dolore in una consapevolezza più pura. Per un compositore più tardo, queste sarebbero state naturali «situazioni da aria».



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La prima è il lamento formale a Caronte, e Monteverdi, che non po­ teva scrivere una vera aria, distorse con grande successo il libretto. Striggio aveva scritto sei terzine di terza rima, sapendo che in genere Monte­ verdi era molto rispettoso della forma poetica. Monteverdi musicò le prime quattro terzine come uno sfoggio musicale sempre più brillante, con una fantastica coloratura per il cantante, interrotto da elaborati in­ terludi orchestrali. Siccome, però, questo non fa colpo su Caronte, Or­ feo all’improvviso dimentica se stesso e consegna la quinta terzina come un recitativo libero e, in questo contesto, doppiamente straziante. Poi, con una meravigliosa ispirazione, la terzina finale è assolutamente cal­ ma, senza coloratura e senza passione; Orfeo e gli strumenti si uniscono insieme per la sola volta nel corso dell’opera, in uno stile vagamente ec­ clesiastico, musica a più voci a cui Orfeo si genuflette insieme alle viole, evidenziando con la massima purezza possibile il tranquillo disegno mu­ sicale del basso che aveva tenuto insieme le stanze precedenti. Caronte ha veramente un cuore di pietra. Con intollerabile passione, la supplica del recitativo viene ripresa, fino a culminare nel famoso ritornello «Ren­ detemi il mio ben, Tartarei Numi ! » Come Orfeo entra nella barca di Ca­ ronte, il coro infernale emette la sua sobria sentenza: Nulla impresa per uom si tenta invano né contfa lui più sa Natura armarse...

L’altra «situazione da aria» è naturalmente la scena dell’atto quinto, che inizia con un lamento di cinquanta versi per il disperato Orfeo. Striggio aveva dato al brano un impianto metrico fino ad un palpitante apogeo. Apparentemente l’idea era di far procedere Orfeo da uno stato di mera depressione e da uno scambio di battute con la propria eco fino ad una condizione estatica in cui potesse (finalmente) cantare un inno ad Euridice. Vale la pena ricordare che sinora Orfeo ha cantato solo in lode del successo riportato nella conquista di Euridice, e quindi ancora in lode della propria lira. Il lungo lamento di Striggio, però, era risultato uno di quegli elementi di un libretto che segnano la sconfitta del compo­ sitore. Il recitativo di Monteverdi non è forse mai tanto appassionato e potente come in questo caso, ma egli non aveva altro modo di presen­ tare la visione più serena che Orfeo probabilmente raggiunge riconside­ rando gli eventi dai campi traci. Monteverdi deve essere stato vagamente

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consapevole di un «problema di controllo» del recitativo, donde il ten­ tativo di dargli ordine tramite ritornelli, sequenze, mete ritmiche e me­ lodiche, talvolta anche una sorta di piano tonale e, fatto particolarmente sorprendente, una libera struttura ripetitiva nel basso. Vale a dire, il li­ bero flusso declamatorio acquista unità tramite la ripetizione nel basso di un disegno musicale piuttosto ampio. Anche questo meccanismo, co­ munque, non produce quella coesione della sostanza musicale che dà organicità all’effetto emotivo. Il recitativo è ancora troppo legato alle parole: la tecnica dell’aria non era ancora stata sviluppata. Non avendo imparato nulla, Orfeo reagisce ancora sulla base dell’impulso. E quando ad Orfeo viene meno la forza della passione immediata, Monteverdi si trova nei pasticci sia per la prosecuzione dell’azione sia per un commento finale. Non ho ragione di dubitare che Monteverdi abbia preso in esame il delicato equilibrio tra personaggio e azione im­ plicito in un dramma. Egli era in grado di dare al personaggio di Orfeo uno sviluppo musicale tale da conferire dignità e significato alle sue azioni. Nell’atto quarto il fallimento di Orfeo comincia a toccarci in ma­ niera tragica. Nel tragico finale implicito in un dramma su Orfeo, c’è, però, un altro equilibrio necessario, quello tra la coscienza che si sviluppa nell’eroe e il destino tragico a cui questa lo prepara e che gli permette poi di trascenderlo. In qualche modo Orfeo deve elevarsi fino al punto di poter far fronte al proprio tragico destino, o meritarlo, o esigerlo. Monteverdi non poteva indicare un tale cammino. La conclusione del dramma presentava quindi un problema serio. Monteverdi lo risolse conducendo Orfeo in cielo con la prospettiva di farlo meditare su Euridice ferma tra le stelle. Si deve dire che questa apoteosi platonica è sia musicalmente che concettualmente scialba, ma, almeno, è un atto e conclude il dramma in modo efficace. È qualcosa di più di quello che avrebbe fatto Striggio che, originariamente, intendeva introdurre le baccanti, ma, a differenza di Poliziano, non aveva osato of­ fendere la corte facendogli fare a pezzi Orfeo. Monteverdi, possiamo ben immaginare, avrebbe solo potuto deplorare questa ambiguità priva di drammaticità. Anche se nell’atto quinto non era possibile mostrare una progressione nel personaggio di Orfeo, la forma drammatica esigeva un’azione piena, una realizzazione solida in termini di trama. La tradi­ zione non avrebbe distolto Monteverdi dal portare a compimento l’ac­

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cenno tragico di Striggio se lo avesse desiderato. Forse si rifiutò di farlo intuendo i propri limiti. Apollo glorificante non ha nessuna personalità, ma prima ci sono stati ritrattini di personaggi minori, meravigliosamente puri. Il primo è l’appassionata messaggera del secondo atto che, dopo che Orfeo ha cantato e si è allontanato, continua il suo terribile lamento, egocentrica come l’eroe stesso, persino capace di contagiare le ninfe e i pastori con il suo ritornello declamatorio. Nell’atto seguente, una parte persino più piccola, parallela nella funzione a quella della messaggera è quella di Caronte, grottesca, scabra, con le sue amare memorie di profanazione e di inganno. Dopo il canto di Orfeo, Caronte bofonchia sullo stesso di­ segno musicale del basso che ha accompagnato il suo scoppio iniziale. E commosso, ma deciso a non cambiare idea. La vivace organicità della caratterizzazione e l’opportunità data ad Orfeo di intensificare la sua supplica compensano ampiamente l’improbabile torpore di Caronte, genuino banco di prova sia del coraggio di Orfeo sia della forza del canto. Infine, c’è la coscienziosa figura della Musica, che canta una semplice canzone strofica come prologo. Sulle sue spalle porta tutta l’ansietà arti­ stica del tempo. Quando, alla fine, il suo canto da gaio si fa triste e viene ordinato il silenzio agli uccelli, alle onde e ai venti, noi ci chiediamo se a Mantova, come una volta in Tracia, saranno disposti a cedere. Durante il corso del dramma si sente ritornare la Musica due volte, come se voles­ se informarsi e incoraggiare, muta tra le viole del suo originario ritornel­ lo, La passione può spingere all’azione? Nella Vienna del 1762 la que­ stione doveva essere ancora oggetto di dubbio nella nuova atmosfera di sperimentazione dei mezzi dell’espressione musicale. La faccenda ancora non doveva essere sistemata in modo inequivocabile.

3* Che cosa la musica avesse appreso in centocinquant’anni è presto mostrato dalla scena iniziale dell’Or/eo ed Euridice di Gluck. Gluck va dritto al centro della storia con un coro funebre per Euridice, una grave sezione musicale del tipo che Monteverdi sapeva ben manipolare, anche

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se qui il tono ricorda piuttosto Rameau. Né Monteverdi né Rameau, però, avrebbero potuto concepire la parte di Orfeo durante questo coro. A in­ tervalli irregolari, emette tre lenti lamenti di una singola parola, «Euridi­ ce», apparentemente senza rendersi conto della presenza delle persone in lutto. È però il pesante e composto disegno rituale del loro canto fune­ bre a liberare la sua incontrollata e lacerante emozione. Questa è la pri­ ma delle tante magnifiche ispirazioni di quest’opera. Gluck deve esser­ si congratulato con se stesso per la classica economia per cui dodici note bastavano a musicare il dolore di Orfeo incrinato dai singhiozzi. Il pun­ to, comunque, sta in quello che segue. Dopo che Orfeo ha chiesto di es­ sere lasciato solo, il coro si allontana, ripetendo gran parte della sua mu­ sica, ma Orfeo è silenzioso, immerso nella meditazione. Comincia poi subito la sua prima aria, «Chiamo il mio ben cosi». In quest’opera l’elegia viene cantata da Orfeo, e non dal coro, come nell’opera di Monteverdi. Orfeo non è da meno, il suo inarticolato lamento di prima si è trasforma­ to in una forma di tranquillità che supera quanto Monteverdi avrebbe mai potuto raggiungere. Attraverso queste due espressioni, Orfeo ci vie­ ne mostrato nell’atto di ricomporsi, fino a raggiungere uno stato in cui il dolore è contemplato e compreso, non più vissuto, ma nemmeno scan­ sato. Orfeo trascende il proprio dolore controllandolo nel canto. Quello che era stato appreso era proprio quest’arte del controllo, l’arte dell’aria - dopo il recitativo il secondo dei due elementi fondamen­ tali della drammaturgia operistica. I compositori potevano ora cogliere un sentimento momentaneo ed esprimerlo come un’emozione compresa invece che come un impulsivo guizzo di passione alla maniera di Monte­ verdi. Idealmente l’aria lirica abbraccia un’esperienza completa, ponde­ rata, e la fissa tramite la forma musicale. L’adattamento di elementi lirici all’interno del dramma è stato certo spesso mal condotto, in Turandoti in Lucia àiLammermoor c persino in Don Giovanni, oltre che nelle innu­ merevoli Didoni e negli innumerevoli Egisti metastasiani del xvm seco­ lo. Nondimeno, l’aria, o un suo sostituto lirico, è diventata la forza pri­ maria del dramma musicale, e nessuno ne ha mai capito la funzione me­ glio di Gluck. Anche Gluck era un prodotto della grande scuola italiana dell’opera seria fiorita a Napoli, Venezia, Vienna e Londra. Alcuni dei suoi migliori compositori erano tedeschi, Handel, Hasse e Johann Christian Bach, ol­

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tre a Gluck. Questa scuola sviluppò Paria e ne abusò in modo fantastico. Ad incentivarne lo sviluppo fu l’impostazione formale che ai libretti dette Metastasio, il poeta che più di qualsiasi singolo compositore determinò l’aspetto di quell’opera. Il cattivo uso era dovuto ai musicisti: iper-elaborazione, sia nella coloratura, grazie ai cantanti, sia, in maniera più de­ terminante, nella forma musicale, grazie ai compositori. In un certo sen­ so, naturalmente, ogni opera d’arte, ogni aria è la sua stessa forma, ma quando gli schemi comuni si sviluppano si finisce per rintracciare male il tipo caratteristico di emozione a cui corrispondono. Al tempo di Gluck la forma dell’aria era estremamente elaborata - non dico compli­ cata, perché questo implicherebbe una profondità psicologica che i mu­ sicisti non sapevano ancora come sondare, ma elaborata, fortemente de­ corativa, meditativa ed elegante, esaustiva e sfibrante. Il sentimento era attenuato fino alla distruzione del dramma. Quando Gluck cominciò a scrivere arie di rigorosa semplicità formale, una nuova verità e una nuova intensità di espressione emotiva si presentarono sulla scena con la forza di una rivelazione. Questa realizzazione immaginativa dell’aria rimane la più grande delle tanto discusse «riforme» di Gluck. Fino ad un certo punto, anche se mai fino al punto risolutivo, la forma può sempre essere analizzata con profitto. «Chiamo il mio ben cosi», la prima aria di Orfeo, consiste semplicemente di tre strofe identiche di­ sposte in una perfetta struttura binaria: 9 + 4 battute versola dominante e 11 4- 6 battute di ritorno alla tonica, con un minimo effettivo di altre armonie, nessun ritornello e, come ornamento, soltanto il levare di una battuta e alcuni echi disposti con squisito senso dell’equilibrio. Queste strofe corrispondono alle tre stanze, rigidamente parallele, dell’elegia. Tra di esse ci sono due epistrofe in cui l’idea del poeta Calzabigi era di far riecheggiare il nome di Euridice dai boschi e dalle radure, secondo il miglior cliché pastorale. C’è però un’eco più profonda, quella del la­ mento iniziale di Orfeo con il coro funebre. Gluck intonò le epistrofe come contemplativi, lavorati a fondo, recitativi con echi; e proprio il fatto che sia l’orchestra a rispondere ogni volta alle invocazioni «Euridice» di Orfeo, distanzia e modella il suo dolore illuminando la portata del cam­ mino compiuto. I due recitativi introducono alcune armonie più ricche, tonalmente mobili, il primo conducendo alla tonica minore e alla domi­ nante, il secondo ritornando verso la tonica attraverso entrambe le me-

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elianti. È facile comprendere l’economia e la coerenza di questo schema, nonché la sofisticata irregolarità del fraseggio che sola avrebbe potuto salvarlo dalla banalità. In ultima analisi, però, la famosa purezza di linea e la nobiltà della concezione musicale di Gluck sono tra le cose più dif­ ficili da «spiegare» di tutta la musica. L’aria, pur con tutto il cattivo uso fattone, fu la grande forza dell’o­ pera del primo xvin secolo, la sua sola forza, si è tentati di dire. L’aria costituisce anche le fondamenta dell’edificio operistico di Gluck, che nei recitativi sbiadisce accanto a Monteverdi. Il genere era ormai dive­ nuto convenzionale, tutto dignità e pompa. Certo, Gluck si dette molto da fare per far sprizzare una fiamma dal recitativo e, specialmente nelle opere àd^Alceste in poi, arrivò ad ottenere una certa forza. Ma vi riuscì, tipico di Gluck, avvicinando il recitativo all’aria, prima dandogli un li­ vello orchestrale pari a quello delle arie, poi tenendolo quanto più pos­ sibile saldo tramite la tessitura unitaria con l’accompagnamento, lo sche­ ma tonale, il disegno musicale del basso o la generale pulsazione rit­ mica. Proprio questi meccanismi impediscono al recitativo di rendere l’immediatezza della passione che il suo originario maestro aveva tan­ to amato. Particolarmente riusciti, nell’Or/?o di Gluck, sono i recitativi strettamente legati all’eco all’interno della prima aria, «Chiamo il mio ben così», e il sublime, culminante arioso (quasi un’aria) di Orfeo nei Campi Elisi, «Che puro eie)». Si può anche accennare ai passi di irata declamazione sorretti da tremoli e da motivi risoluti (nel terzo atto, con Euridice, nel primo subito dopo l’aria, quando Orfeo inveisce contro gli dèi e pensa di recarsi all’Ade ed ancora alla fine quando prende la deci­ sione), ma questi passi non sono paragonabili per forza emotiva all’e­ spressione lirica delle arie e dei cori. Il recitativo che più colpisce in tale compagnia è sempre ingiustamente svantaggiato. I recitativi di Gluck non riescono a convincerci dell’ira e del dolore di Orfeo quanto quelli di Monteverdi. Comprendendo questo, forse, Calzabigi offrì a Gluck un libretto, con un numero minimo di situazioni in cui si vedesse Orfeo agire d’im­ pulso. L’adattamento è proprio l’opposto di quello di Alessandro Striggio per Monteverdi: qui tutto è ponderatamente ragionato. Nell’atto primo Orfeo si lamenta a lungo e non viene disturbato da nessuna di­ rompente messaggera. Pensa di andare all’Ade, ma non in un impulso

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momentaneo, e ciò che pensa all’inizio non è una decisione. Anche dopo che Cupido è venuto a incoraggiarlo, Orfeo dibatte la questione prima di decidersi. Sarà un compito difficile, perché accetterà Euridice la condizione ch’egli non la guardi? Teme il peggio, ma nondimeno de­ cide di andare. Il contrasto con Striggio è impressionante nel terzo atto, nel momento cruciale in cui Orfeo riottiene Euridice. Lungi dallo scatu­ rire da troppa fiducia e mancanza di controllo, la catastrofe è favorita da una vibrante Euridice che incita ripetutamente il marito a voltarsi. Or­ feo, che si sforza di essere insensibile al richiamo fin dal primo atto, re­ siste eroicamente mentre la scena prosegue. Cantano un duetto tutto contrasti, ed Euridice un’aria orgogliosa e appassionata rifiutandosi di seguirlo sulla base di quanto lei considera continenza da parte di Orfeo. Disputano ripetutamente in una sezione recitativa la cui qualità sembra mettere in risalto il tormento di un conflitto senza speranza. Alla fine Orfeo si volta verso di lei, pienamente consapevole dell’autosacrificio, ed Euridice muore. Per un momento Orfeo si infuria (senza convinzio­ ne), poi, ancora una volta, con sovrumano sforzo, distilla il suo dolore nel canto. «Che farò senza Euridice?», la seconda ed ultima aria di Or­ feo, lo porta di nuovo al culmine dei suoi sentimenti, abbracciandoli, raffinandoli, proiettandoli in forma artistica. La famosa obiezione di Hanslick che il pezzo non suona subito cupo non centra il punto essen­ ziale: l’aria sta al di là del dolore e rappresenta una soluzione meditata, una risposta alla catastrofe. Possiamo credere a questo risultato, a questo fantastico autocontrollo di fronte al disastro? L’aria è costruita come una sorta di rondò non svi­ luppato, con la solenne melodia e con le parole «Che farò senza Euridi­ ce? | dove andrò senza il mio ben?» cantate tre volte in modo pressoché identico, ma con un effetto sempre più bello. Tra queste esibizioni vi sono brevi episodi senza melodia, imperniati (ancora una volta) su una nuda invocazione del nome di Euridice, che richiamano alla mente l’inarticolato dolore di Orfeo all’inizio dell’opera. Cosi, all’interno di quest’aria, Calzabigi e Gluck descrivono lo stesso cammino che c’è tra il coro funebre dell’inizio e l’elegia che gli fa seguito. Anche nella forma, «Che farò senza Euridice?» è simile ad una intensa concentrazione di «Chiamo il mio ben cosi». Il processo di sublimazione viene ora ripetuto su un più elevato piano d’azione, se non forse di consapevolezza.

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La chiave più chiara alla concezione di Gluck, comunque, sta nella Gestalt del secondo atto. Questo è forse Fatto più commovente e perfetto di tutta l’opera, e forse il più semplice. La prima parte mostra il graduale successo della supplica di Orfeo alle Furie, nella seconda Orfeo è stato trasportato ai Campi Elisi, dove, come in un sogno, Euridice gli viene restituita giusto prima che cali il sipario2. Per la parte in cui le Furie de­ vono essere ammansite Gluck non scrisse un’aria per Orfeo, come aveva fatto persino Monteverdi. Nello schema fermamente coerente di Gluck, le arie di Orfeo sono occasioni per rivelazioni spirituali, e questo non era proprio il momento per una cosa simile. Orfeo è già composto, padrone della situazione; canta un lungo e tranquillo arioso, misurato, virile e lu­ cido; vincerà con la forza onesta della propria personalità o non vincerà affatto. Anche il terrificante c ripetuto «No ! » delle Furie non può spin­ gerlo a nessuna implorazione, coloratura o retorica particolari. Il suo ac­ compagnamento per arpa e la sua linea vocale si espandono e si intensi­ ficano dolcemente, ma il suo successo è in sostanza espresso dalla forza decrescente delle risposte delle Furie: Orfeo deve solo resistere. Inutile dire che, a differenza dell’eroe di Monteverdi, Orfeo qui non è soggetto a splendide dimenticanze di se stesso per improvvisare recitativi, né c’è accenno di giubilo quando le Furie cedono e lo portano ai Campi Elisi. La sua è una reazione di serena meraviglia, sfiorante l’adorazione, e il suo desiderio di Euridice sembra ancor più trattenuto. Avere inserito i Campi Elisi, Virgilio o non Virgilio, va ad onore di Calzabigi; ma è ovvio che Gluck li voleva, e di questa scena fece l’indi­ menticabile momento culminante dell’opera. Il suo significato dramma­ tico, è quindi, senza esagerare, di primaria importanza. Certamente la scena non è concepita per introdurre Euridice, perché la donna che in­ contriamo nell’atto seguente non è al proprio posto nei Campi Elisi e possiamo solo immaginare che vi sia trattenuta dalla corrente stigia. Al luogo, però, appartiene chiaramente Orfeo. Tutte le aspirazioni del suo spirito si concretizzano nella luce grigia e brillante del perfetto cielo di 2 Più tardi, a Parigi. Giuck ampliò le due parti aggiungendo, tra gli altri, tre pezzi meravigliosi: la Dan* za delle Furie, la Danza degli spiriti per flauto, in re minore, e il Coro degli spiriti condotto da un soprano solista, «Cet osile aimable». Per quanto posso giudicare, questi pezzi rallentano l’azione senza alterarla in modo significativo. In questa analisi dell’opera seguo la versione italiana originale perché è piu pura nella sua costruzione drammatica. Non desidererei, comunque, sacrificare i tanti miglioramenti apportati ai par­ ticolari nella versione francese.

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Gluck, ove la passione è stata finalmente purificata. Orfeo risponde alla visione dell’Elisio con un tranquillo rapimento paragonabile a quello di Winckelmann di fronte ad una rovina toscana: Che puro ciel, che chiaro sol, che nuova serena luce è questa mai!...

L’orchestra dispiega un grande arioso sostenuto da una sublime melo­ dia per oboe e dallo stormire di flauti e violini. È un’armonia come que­ sta, a sette corde, quella che deve aver udito Enea alla ricerca di Anchise, un’armonia sprigionata dalla lira di Orfeo. Orfeo indugia, è restio a partire, pensa ad Euridice, certo, ma la scena è costituita da suoni cele­ stiali, non terrestri ed erotici. Euridice stessa non ha niente da dire (ed è un grave errore della versione francese darle la parte dello spirito felice in «Cet asile aimable»). È chiaro che il cambiamento di scena ai Campi Elisi si presenta come un grande sollievo dopo la tensione delle Furie nella parte precedente dell’atto. Cosi, nel senso più profondo, la ricom­ pensa di Orfeo per la bellezza del suo canto e per il suo eroismo non è Euridice, ma l’Esilio. Per prima cosa crediamo a quello che è più evi­ dente nella musica. Per questo eroe cosi virgiliano di Gluck, il distacco dalle cose ter­ rene sopraggiunge con la stessa facilità dell’autocontrollo e della sen­ sibilità estetica. La sua virtù è stata gradualmente messa in evidenza sotto la tensione di una grandiosa serie di eventi. Verso la fine, tutta­ via, cominciamo a notare che gli ostacoli sono trascesi più che superati, che la forza dell’arte di Orfeo è diretta all’interno del suo io più che al­ l’esterno, verso l’azione che dovrebbe regolare. C’è qualcosa di straor­ dinario nella sua reazione passiva ai rimproveri di Euridice, anche se egli è sempre corretto, guidato dalla ragione, e non è affatto santo. Non si sforza di venirle incontro sul suo piano terrestre più di quanto lei si sforzi di venirgli incontro sul suo. Anche se la situazione è più dram­ matica - ben più drammatica - quando Orfeo fa appello a tutte le sue ri­ sorse per «Che farò senza Euridice?», pure c’è quasi un senso di sollievo in questo canto; il suo cuore non è nel conflitto, ma nella propria intro­ spezione lirica. Certo, in questo Orfeo è fedele solo all’ideale del cantore lirico c a quello dell’eroe operistico del xvm secolo, ma alla fine corre il rischio di conferirsi nobiltà tagliandosi fuori dal regno dell’azione

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drammatica. Nello stato di beatitudine a cui tende, i conflitti mondani sembrano banali e l’energia del drammaturgo sprecata. Come si poteva dunque concludere degnamente l’azione? Un finale tragico sarebbe stato inappropriato come nell’opera di Monteverdi, an­ che se per una ragione diversa: fare a pezzi quest’eroe perfetto sarebbe stato un atto di una brutalità inutile e privo di significato. Cosa abba­ stanza strana, qui avrebbe avuto senso l’apoteosi di Monteverdi, ma probabilmente Gluck era abbastanza disorientato dalle esitanti inclina­ zioni verso il religioso del suo eroe. La cosa più semplice era musicare la fatua conclusione «ad effetto» che aveva davanti ai suoi occhi nel li­ bretto di Calzabigi. Così, l’idea costitutiva della sublimazione, propria di Gluck, non era in grado di portare a compimento il dramma più di quanto lo potesse il senso costitutivo della passione di Monteverdi. Dopo «Che farò senza Euridice?» Calzabigi fa prendere ad Orfeo la decisione di uccidersi, l’atto più ambiguo che si potesse concepire. (Non c’è niente di ambiguo, comunque, nella meravigliosa linea melodica inserita da Gluck alla fine del recitativo, «Sì, aspetta, o cara ombra dell’ldol mio». Anche in ques­ ta azione sconsiderata, Gluck sembra ansioso di rassicurarci, Orfeo è pienamente consapevole della propria condizione). Il suicidio è inter­ rotto dal ritorno di Cupido, che spiega che si è trattato di una prova. Or­ feo solleva Euridice da terra in un momento di generale imbarazzo e poi il coro applaude chiassoso la riunione di questa coppia male assortita. Il loro inno all’amore non ha nulla a che vedere con i meriti reali del caso, ma la conclusione è ancor meno che irrilevante, perché cerca di negare che ci sia mai stato un dramma. Fortunatamente, penso che nessuno nel teatro confonderà questa o a qualsiasi altra pretesa di soluzione conven­ zionale con una soluzione drammatica. Gluck rinuncia a questo sogno nel momento cruciale di Alceste. Le Ifigeniee Armida finiscono in modo più soddisfacente.

4L’opera eroica, la quintessenziale forma artistica del barocco, iniziò quando Monteverdi indicò all’improvviso quanto tale forma valesse. La

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grande tradizione giunse alla fine quando Gluck la trasformò nei termini che le erano propri. Orfeo inizia e conclude un’era. Quest’era abbraccia molte forme di neoclassicismo, il tardo umanesimo della camerata del conte Bardi e della corte di Mantova, l’ordine grand siede di Lully e Quinault, la deliziosa ed assurda fantasia dell’Accademia dell’Arcadia, con Crescimbeni, Farinelli e Metastasio, il sereno ideale romano di Goethe, Winckelmann e Gluck. Ad ogni passo qualcuno aveva una vaga visione di una moderna analogia con il dramma greco e, in un modo o nell’altro, nacque il dramma musicale. Fra il tempo di Monteverdi e quello di Gluck, il recitativo comparve e decadde, mentre l’aria si svi­ luppò, si ipersviluppò e giunse finalmente a compimento. Era il mo­ mento della vera tradizione classica dell’opera. La lira di Orfeo estende il suo fascino anche ad un periodo anteriore, a Peri e Caccini nel 1600, e ad uno posteriore, quasi al 1800: un Orfeo scritto per Londra da Joseph Haydn (ma mai rappresentato) fu tra le ul­ timissime opere serie, un’opera ormai decrepita e da molto fuori tempo. Il conflitto drammatico di Orfeo va a situarsi facilmente nella formula preferita del barocco, quella del contrasto fra istinto e dovere, emozione e ragione, «amore e onore». Ma per il compositore d’opera c’era un fa­ scino speciale nel quasi esplicito parallelo tra l’azione di Orfeo e la sua arte. Compito dell’artista è affermare un controllo purificante sulle fonti emotive dell’arte, dar loro forma e metterle a fuoco finché non riesca a commuovere l’inferno - e insieme il pubblico del teatro. All’uomo la prova richiede un eroismo superiore a quello necessario per sfidare l’in­ ferno; si tratta di controllare il proprio impeto passionale quando final­ mente Euridice ritorna, e di convincere insieme il pubblico dell’integri­ tà delle proprie azioni. Con Monteverdi, per il quale la cruda passione era la realtà principale, il conflitto rimane irrisolto. Con Gluck, la cui realtà era la sublimazione della passione, il conflitto, più che risolto, è evitato. La sublimazione lo aveva, praticamente, portato al sublime, all’Elisio. Gluck aveva raggiunto un livello di raffinatezza artistica nel quale era fin troppo semplice far fronte al problema della disciplina delle emozioni. Il pericolo era quello di perdere le radici stesse della passione. Entrambi i drammaturghi falliscono nell’incombenza finale dell’espres­ sione artistica, in quanto abbassano la propria mira espressiva ed espli­ citamente deflettono la conclusione.

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Forse era un male da poco; almeno essi non presumevano piu di quanto sapessero. Questa virtù negativa spicca in contrasto con la suc­ cessiva, curiosa metamorfosi operistica dell’idea di Orfeo, avvenuta un centinaio d’anni dopo e in un altro periodo di sperimentazioni e di «ri­ forme» espressive. Nei Maestri Cantori di Norimberga Richard Wagner attaccò il problema del controllo frontalmente e in modo specifico, con il suo solito inesauribile entusiasmo. Al cantante che noti è disposto a tollerare le regole artistiche o quelle di un’ordinata società borghese, vengono gentilmente insegnati l’autocontrollo e la forma musicale, tutti e due insieme, e ad insegnarglieli è un essere superiore che va in suo soc­ corso con la stessa arbitrarietà di Cupido o di Apollo, ma che insiste nel razionalizzare il soccorso. Il compiaciuto racconto termina con un im­ meritato inno all’arte tedesca, mentre il grandioso macchinario dram­ matico procede soddisfatto verso il calcolato finale. È stata data una ri­ sposta a tutte le domande, senza averne posta seriamente nessuna; non è l’inferno che deve essere placato, ma i pedanti di Norimberga e i gior­ nalisti di Vienna. Ed il cieco, orgoglioso e istintivo Walter non ha nulla della bruciante passione di Monteverdi o dell’eroica autocoscienza di Gluck. La vita drammatica nei Maestri Cantori sta in qualcosa che, ini­ ziato come contrappunto all’idea centrale, ne ha poi gradualmente pre­ so il posto: il dramma di Sachs. È qui, e in altre opere, che Wagner po­ neva le sue domande importanti. «La sacra arte tedesca» - «Frau Musica» è un vero e proprio sostitu­ to all’umbratile Prologo di Monteverdi, che continua nondimeno ad os­ sessionare la nostra immaginazione. La immaginiamo, forse, inquieta sulla riva dello Stige con Orfeo che, ormai invano, supplica un’altra oc­ casione. Come Orfeo, anch’essa ha il suo parziale successo, che è più significativo della vittoria completa di altri. Come Orfeo, continuerà a fronteggiare il drammaturgo con la sua sfida elusiva e stimolante: Io la Musica son, ch’ai dolci accenti so far tranquillo ogni turbato core, ed or di nobil’ira ed or d’amore poss’infiammar le più gelate menti.

Capitolo terzo Gli anni bui

i.

Il periodo che va da Monteverdi a Gluck fu la grande era dell’opera. 11 canto, il disegno scenico e la composizione della musica e dei versi per la scena assistettero tutti ad uno sviluppo e ad un’attività incredibili. La produzione di libretti c di partiture era enorme, ogni cosa veniva imme­ diatamente messa in scena, acclamata, saccheggiata per le stagioni se­ guenti e poi accantonata. In Italia dramma voleva dire opera e il suo li­ brettista, Metastasio, era considerato il poeta laureato universale, il nuovo Sofocle. Al di fuori dei confini italiani c’era lo straordinario fenomeno dei teatri italiani - teatri d’opera - che fiorivano da Londra a Pietrobur­ go e che erano nelle mani di italiani immigrati o di passaggio. E quasi ovunque, in quel tempo musica voleva dire opera. L’opera guidò l’evo­ luzione artistica, imponendo il proprio tono come più tardi avrebbe fatto la sinfonia e come la messa e il madrigale avevano fatto prima. I compositori erano attratti dalle luci della ribalta come falene. Fu un italiano eccezionale, un aristocratico della musica scontento come Benedetto Marcello che potè starne lontano e scrivere una satira mali­ gna come II teatro alla moda. Nella caricatura di Benedetto Marcello l’o­ pera era una malattia sociale, l’asse intorno a cui girava ogni carnevale, il modo di dare magnificenza ad ogni Cesare locale, il sepolcro del culto filisteo degli eroi, la tomba della mascolinità e il tremulo oggetto delle polemiche arcadiche. L’opera, come ha indicato Vernon Lee molti anni fa in Studies of Eighteenth Century in Italy, coglieva lo spirito di quell’e­ poca stranamente coesiva meglio di qualsiasi altra manifestazione. L’au­ dace mescolanza di musica, poesia e messinscena, le elaborate conven­ zioni drammatiche, la pompa e la splendida e sfrenata teatralità, la fiera esclusività delle passioni operistiche, l’emozionante spettacolarità ar­ chitettonica, nei balletti e non, tutto questo riassume con tipica strava­ ganza le aspirazioni più profonde del barocco.

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Il periodo che va da Monteverdi a Gluck può anche essere definito gli anni bui dell’opera. Nonostante la sua ricchezza e la sua fama, e no­ nostante tanti studi musicologici, l’opera barocca è oggi poco conosciuta. È rappresentata di rado e, quando lo è, gli allestimenti quasi sempre biz­ zarri sembrano ideati apposta per distrarre il pubblico da un fatto fon­ damentale, il fatto cioè che i registi moderni la ritengono incredibil­ mente inconsistente dal punto divista drammatico. Questo tacito giudi­ zio è ugualmente duro sia nei confronti dell’opera di corte francese, il cui persistente modello si formò nel decennio 1670-80 per opera di Lul­ ly, sia verso la vastissima tradizione veneziana e napoletana che si stabili tra il 1725 e il 1775 intorno ai libretti di Metastasio. L’opera francese era una pomposa forma di intrattenimento che combinava gli eccessi baroc­ chi con il più asciutto neoclassicismo. L’opera italiana era un impudico sfoggio virtuosistico che svirilizzava la storia classica fino a farne un fiac­ co e tedioso concerto in costume. Quello che, nell’immaginazione musi­ cale, rimane dell’opera francese non va oltre le sue austere suites da bal­ letto, quello che rimane dell’opera italiana è costituito dagli arguti attac­ chi dello Spectator, dell’opera del mendicante e del 7Wro alla moda, nonché da alcune «gemme» liriche, certo, selezionate per gli studenti in Gloires d’Italie o Masters ofthe Bel Canto, talvolta anche cantate in strane versioni anacronistiche. Pure, in ogni considerazione dell’opera ad ampio raggio, i principi del teatro musicale barocco hanno un’importanza unica pari ai principi classici dell’arte. La drammaturgia barocca ha a che fare con grandi se­ zioni semplici ed intense e nella sua lucidità e nel suo ingenuo rigore può essere sfruttata con effetti di magnifica forza. Lo schema rimane fonda­ mentale per le drammaturgie seguenti, più complesse, ma meno forti e meno sicure di sé. Non si può afferrare la regolarità classica dell’opera barocca nel suo complesso da Monteverdi, che occupa una posizione iniziale, né da Gluck che ne occupa una già disgregativa. Dobbiamo considerare i compositori intermedi. Sia le convenzioni italiane sia quelle francesi, come vedremo, avevano le loro virtù, ed alcuni musicisti si sen­ tirono stimolati a volgerle a fini drammatici.

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2. NclTItalia del xvii secolo, l’opera, una volta piantata, crebbe lussu­ reggiante come una pianta tropicale. Già entro il 1680 V Orfeo di Monte­ verdi sarebbe sembrato disperatamente antiquato al pubblico di uno degli otto teatri d’opera di Venezia. A Versailles, comunque, avrebbe potuto essere compreso, perché sotto certi aspetti Lully conservò l’ideale e la tecnica di Orfeo anche molto tempo dopo che Monteverdi stesso li aveva abbandonati. L’opera francese era reazionaria e provinciale c do­ veva ben presto diventare stagnante, ma era anche enormemente tenace e fa piacere pensare che parte della sua forza le derivasse dalla solidità del suo non riconosciuto modello. Nel tono, Lully conservava il nobile spirito classicheggiante degli umanisti fiorentini e di Alessandro Striggio. I suoi argomenti, tratti ancora dalla mitologia greca, erano trattati con qualcosa della maestosa semplicità dell’azione drammatica greca. L’opera veneziana, nel frattempo, aveva gettato la dignità nei canali ed era occupata a rivestire la storia latina di trame confuse, scandalose e pi­ caresche. Nella tecnica, le opere di Lully ricordano anche V Orfeo - par­ ticolarmente quest’opera unica, piuttosto che le precedenti opere fio­ rentine o qualsiasi altra opera più tarda di Monteverdi o di Cavalli. An­ che se Lully scrisse le sue opere settant’anni dopo, gli elementi basilari delle sue convenzioni drammatiche sono stranamente simili: il recitativo sta ancora al centro dell’attenzione e il ruolo ausiliario più importante è sostenuto dal coro, mentre canzonette o airs sono di interesse sostan­ zialmente decorativo. L’opera veneziana, intanto, aveva completamente deprezzato il recitativo a favore di arie ancora piuttosto primitive e aveva del tutto eliminato il coro. Fu, questo, il periodo peggiore per l’opera italiana, il periodo compreso tra Cavalli e la riforma di Zeno e Metastasio. Nessuna meraviglia se a Lully andò la palma negli odiosi paragoni internazionali che deliziarono i critici di quel tempo come di tutte le epoche successive. Ma ovviamente le vecchie virtù non potevano essere perfettamente conservate. La difficoltà di mantenere in vita questo tipo di opera era data dall’impossibilità di scrivere gli ardenti recitativi di Monteverdi nella fredda atmosfera di Racine e di Boileau. Anche in Italia la violenta

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passionalità del primo barocco si era arresa ad un’arte più formale e più disciplinata, e lo spirito di Monteverdi aveva ceduto a quello di Corelli. In Francia l’ordine e il ritegno erano ancora più necessari, e lo stile libero di Monteverdi non sarebbe stato altro che sovversivo. In confronto il re­ citativo di Lully è esangue, il suo vigore accuratamente regolato, la sua passione incanalata, la sua nobiltà convenzionale e affettata: suo massimo orgoglio era l’esattezza della declamazione, una virtù tipica dei Francesi che non nasconde però l’aridità dell’espressione. Ciò nonostante, il recitativo era ancora chiamato a sostenere il ruolo drammatico centrale, perché la parola e la «ragione» non potevano es­ sere abbandonate per la pura espressione lirica. Si evitava l’artificialità dell’aria. Certo, la formalità e lo sfarzo di Racine sono vagamente para­ gonabili a quelli di Lully, tanto che è possibile immaginare un dramma musicale neoclassico nato dalla mescolanza dei due. Il cauto librettista di Lully, Quinault, produceva però qualcosa di completamente diverso, sia a causa delle proprie carenze sia a causa della morsa critica, compli­ cata e deprimente, in cui si trovava intrappolato. I critici gli potevano a mala pena perdonare di aver preso il posto di Racine o di oscurare la precisione dei versi francesi con associazioni musicali irrazionali, per quanto asciutte. Cosi, con tipica ingegnosità, venne decisa una nuova classificazione: tragèdie lyrique. Da un punto di vista logico era inattac­ cabile. La dizione doveva essere piana e decisamente «letteraria», ma ai personaggi drammatici non era mai concesso di giocherellare con l’in­ telligenza. Cosi, nel momento stesso in cui il recitativo di Lully godeva di tanto apprezzamento, il peso dell’opera si spostava verso il coro, insieme ai balletti e agli ampi effetti scenici - ossia ciò che i Francesi a ragione con­ siderano nel suo complesso le merveilleux. Era questo il campo indi­ scusso della musica, come testimoniano persino Andromède e successi­ vamente Esther e Athalie. Il pericolo era che le merveilleux potesse dive­ nire la raison d’etre anziché un elemento drammatico integrato nel con­ testo dell’opera; e infatti le opere più tarde di Rameau, che era un com­ positore di gran lunga superiore a Lully, soffrono fatalmente di questo difetto. Lully conservò un equilibrio più attento, ma anche le sue opere sono condotte sul filo della spettacolarità. È facile comprendere il suo attaccamento al vecchio apparato mitologico, con i suoi mostri e le sue

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apoteosi, i suoi cori di ninfe e di tritoni, le sue trenodie, tombeaux e tra­ sformazioni. Siamo fin troppo abituati ai dirompenti effetti drammatici del merveilleux dell’opera francese di un periodo molto più vicino a noi (e di Tannhauser) per avere fiducia nel compromesso di Lully. Inoltre, mentre possiamo leggere Racine e cantare Lully, presumibilmente non potremo più godere il fantastico spettacolo della scena operistica barocca. Questo significa vedere il drammaturgo Lully sotto il suo aspetto peggiore, ma il critico più favorevole ammetterà che Lully lottava con­ tro ostacoli enormi. L’esame di una sua qualsiasi partitura rivela tuttavia scene in cui il dramma viene all’improvviso profondamente sentito ed espresso con forza. Accanto ad Euripide o a Gluck, VAlceste di Lully è uno scherzo, ma Gluck non si sarebbe vergognato della grande scena corale del pianto funebre per la regina con il suo scenario, il suo balletto e la sua mimica cosi toccanti. Persino Admeto sembra miracolosamente capace di prendere parte al dolore e allo sbalordimento comuni. Né i li­ miti dello schema di Lully erano insormontabili per tutto un dramma; Didone ed Enea, la limpida operina di Henry Purcell e Nahum Tate, rientra sostanzialmente in un tale schema. Didone è un’opera unica, non ha alle spalle nessuna tradizione operistica indigena, non fu scritta per le roi soleil ma per un’accademia di signorine, e venne scritta di getto con un’allegra inaccuratezza che avrebbe scandalizzato Lully. Didone è una miniatura; come VOrfeo di Gluck, scansa il problema spinoso di come far passare una bella serata a una corte che richiede un’appropriata fetta di splendore. La sua perfezione drammatica è nondimeno dello stampo di Lully. Nonostante l’anomalia critica provocata dall’inclusione di vere e proprie arie, la sua drammaturgia è essenzialmente determinata da cori, danze e recitativi formali. Di Virgilio rimane, forse, abbastanza poco. Didone è semplificata in modo drastico ed Enea diventa uno sciocco completo. Il senso delle for­ ze cosmiche in gioco è poi sostituito dalle macchinazioni di un’atroce cricca di streghe della Restaurazione. La semplificazione del carattere di Didone ha, comunque, il risultato positivo di far acquistare concentra­ zione al personaggio, e il coro dei suoi cortigiani è di spirito ammirevol­ mente sofocleo. Questi dànno, anzitutto, una profonda impressione dell’interesse di Cartagine per il suicidio di Didone, e inoltre il procedere del coro, attentamente elaborato in relazione a Didone, illumina e defi­ nisce veramente la tragedia personale.

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La prima scena contiene cinque brevi cori guidati da Belinda (l’An­ na di Virgilio), che funge da capo-coro e da confidante. Questi cori inco­ raggiano ripetutamente l’unione proposta tra Didone ed Enea, invocando alla fine i trionfi d’amore e i diletti di Cupido mentre tutti si allontanano per la caccia. Tale banale, caloroso entusiasmo è in contrasto con il sen­ timento dell’unica aria, piena di apprensione, di Didone, anche se forse anch’essa risente ancora degli accenti delle convenzioni di corte. La seconda scena rivela il complotto delle streghe, che si sostituiscono a Giove e a Venere nell’affrettare l’abbandono di Enea. Didone e il suo seguito, naturalmente, non ne sanno nulla, ma quando nell’atto succes­ sivo li vediamo in campagna il loro canto ha una strana malinconia che la «Danza trionfale» non ci aveva portato ad aspettarci. La scena si apre con quello che potrebbe essere definito un intermezzo drammatico, una suite graziosa e solenne costituita da canti e da danze per intrattenere la regina mentre Enea sta cacciando. In queste « valli solitarie » che si diceva Venere preferisse, però, quello che viene alla mente è l’inquietante sto­ ria di Diana e Atteone. La tempesta disperde il coro e, più correttamen­ te rispetto a Virgilio, allontana anche Didone. Enea viene lasciato solo ad ascoltare il «trusty elf | in form of Mercury himself» (il «fedele elfo con le sembianze di Mercurio mandato dalle streghe»), viene lasciato solo a lottare superficialmente con se stesso e ad acconsentire alle richie­ ste del fato. Nel terzo atto ricompaiono le streghe, con un rude coro di marinai in partenza il cui sanguigno canto d’addio alle loro donne mette in pra­ tica le parole in bocca ad Enea. Dopo una violenta scenata con Didone, Enea parte e Didone si prepara a salire sulla pira funebre. Due cori in­ corniciano squisitamente la famosa aria di Didone «When I am laid in earth» («Quando giacerò sotterra»). Mentre Enea si allontana, Didone canta due versi in recitativo: «But death, alas, I cannot shun; | death must come when he is gone»; e poi il coro, grave e silenzioso durante la lite, commenta: «Great minds against themselves conspire | and shun the cure they most desire» Questo distico banale è simile a quelli con cui il coro greco irrompe spesso in un dialogo veemente. Si tratta in tutto di tredici battute, ma è messo al posto giusto con vivo senso del dramma. 1 «Ma la morte» ahimè, non posso evitare | la morte deve arrivare con la sua partenza»; «I grandi spiriti cospirano contro se stessi | ed evitano il rimedio che maggiormente desiderano».

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Attenua la tensione, crea una nuova, improvvisa posizione di vantaggio, un punto esterno di equilibrio da cui misurare il dolore di Didone, costi­ tuisce una delicata transizione dal lancinante dialogo della lite all’anda­ mento lirico richiesto dalla conclusione, prepara tonalmente il finale in Sol minore e ci offre un grande squarcio temporale, tutta la vita diDidone all’insegna della risolutezza. I luminosi accordi in Si bemolle dell’inizio passano al Sol minore e a tranquille ripetizioni di un motivo straziante nella frase finale. Dalla superficialità dell’atto primo e dalla malinconia vagamente motivata del secondo il coro arriva finalmente ad un tono grave e consapevole. Questo fa dimenticare lo sciocco Enea c le streghe meglio adatte ad una pantomima, e l’altissima aria di Didone può ora far seguito. Orolo­ gio alla mano, occupa all’incirca un dodicesimo della durata di tutta quanta l’opera e si presenta particolarmente ampia dopo l’economia dell’azione precedente. A nessun momento culminante di un’opera ci si è mai avvicinati con forza più immediata, secondo un ritmo drammatico più genuinamente classico. Affidandosi tanto ad un’aria lirica, Purcell si allontanava ovviamente dalle convenzioni di Lully. Lully ha i suoi airs, ma sono cosine della massima semplicità e reticenza, paragonabili alle canzoncine di Belinda in Didone ed Enea. Anche se il recitativo francese tende sempre all’arioso, questi airs sembrano recitativi leggermente melo­ diosi. I Francesi non avrebbero accettato l’esplicita convenzione italiana secondo la quale le parole e la ragione cedono, al momento cruciale, all’e­ spressione emotiva della musica, trattata secondo i suoi stessi termini. Come abbiamo visto in Gluck, è la forma musicale a fissare un’emo­ zione. Purcell non era un gran maestro della forma musicale - né lo era nessun altro nel 1690 - ma era uno specialista del «basso ostinato», un meccanismo formale un po’ naif e talvolta tedioso, magnificamente adatto, comunque, al lamento di Didone in punto di morte. Il suo signi­ ficato sentimentale scaturisce da una ripetizione ossessiva: il basso di quest’aria consiste esclusivamente di nove enunciazioni di un singolo motivo, senza trasposizioni o variazioni di sorta. Effettivamente, questo particolare motivo del basso, discendente e deprimente, era un patri­ monio musicale comune. Cavalli lo impiegava regolarmente per i lamen­ ti; nella storia di Didone ed Enea musicata da Cavalli c’è un lamento simile per Ecuba. Lully ne aveva fatto un’elaborazione nella scena del

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pianto funebre per Alceste. Bach lo usò per il Crucifìxus della Messa in Si minore e altrove. Purcell raggiunse un effetto particolarmente grave dilatandolo in un’unità di cinque battute invece delle più comuni quat­ tro o sei, indugiando sulla dominante Re. Per dare varietà fece si che la linea vocale si accavallasse ingegnosamente alle cadenze del basso (cfr. es. 3). Le armonie cambiano solo di poco con successive ripetizioni del basso, fino al culmine, quando sull’ultimo grido di Didone, sul suo ultimo «ah» l’armonia in maggiore della dominante viene rimpiazzata dal fred­ do, modale accordo minore (si confrontino la prima e la sesta battuta dell’esempio, e si noti anche, di sotto, il lento stridere delle dissonanti di seconda). Nel contesto questo semplice effetto armonico è tragico - e uso il termine nel senso più puro che conosco. Poi, come Didone fini­ sce il suo canto e sale sulla pira, l’orchestra discende una grande, lenta scala cromatica ricavata dal modello musicale del basso, chiudendo l’a­ ria con un senso di quieto tormento, o piuttosto aprendosi un varco verso l’elegia corale conclusiva. La semplicità stessa della forma, con il suo basso inflessibile e caparbio, sembra evidenziare, ingrandire ed imporre l’insistente dolorosità della situazione di Didone.

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Quello che è cosi pienamente conforme all’estetica italiana, e lontano da quella francese, è il fatto che tutto il brano è ricavato da due versi ba­ nali e che il grande culmine dell’accordo di Re minore avviene su una sola sillaba, «ah», un grido pre-verbale. Purcell aveva compreso che questo poteva essere infinitamente più espressivo dell’alessandrino di Lully declamato con tanta eleganza. Aveva però compreso anche qual­ cosa di meglio, come organizzare, cioè, le arie in una forma drammatica completa e coerente. Il lamento non è conclusivo, ma sfocia nel meravi­ glioso coro finale, il più esteso cd elaborato dell’opera. Su una solenne danza corale «Cupids appear in the clouds o’er her tomb» («i Cupidi appaiono sulle nuvole sopra la sua tomba»), Cupidi, però, «with droop­ ing wings» («con le ali abbassate»). II tormento di Didone si addolci­ sce e si fa più profondo per il pubblico attraverso il gruppo dolente sulla scena. Per tutta la durata dell’opera Didone e i cortigiani avanzano e convergono; alla fine i cortigiani, divenuti degni del governo di Didone, possono occupare la scena dopo la sua morte con piena consapevolezza della tragedia. Poche opere usano il coro in modo tanto bello, o cosi integrante. Vale però la pena di mettere in risalto il fatto che le convenzioni impie­ gate si muovevano all’interno dell’ottica di Lully, un’ottica che potrebbe essere facilmente disdegnata ritenendola priva di qualità drammatiche. Il piano era semplicemente quello di finire ogni scena e di cominciarne il maggior numero possibile con canti e danze corali. (Nahum Tate aveva anche provveduto a un coro alla fine del secondo atto, anche se non pare che Purcell l’abbia composto). Le merveilleux era d’obbligo in un lavoro scolastico come alla corte di Luigi XIV: rappresentava una sfida per il drammaturgo e Purcell era in grado di raccoglierla. Meno efficace è il suo recitativo, anche se, come Lully, Purcell vi de­ dicava grande attenzione. Scritto con grande cura, declamato con vi­ gore, il recitativo di Purcell è impersonale, elegante e pomposo; quello che viene presentato è il guscio, la forma della passione. Dai recitativi di Didone possiamo arguire che è in tutto e per tutto una regina, ma sono solo le arie che possono farci interessare a lei come persona. (Ci sono parti riuscite, però: «Thy hand, Belinda», prima della grande aria). Dove più Purcell confidava nel recitativo, tanto più questo gli veniva meno, come nel lungo recitativo di Enea dopo che è stato avvertito dal

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folletto, alla fine del secondo atto. Doveva costituire una conclusione travolgente e dare ad Enea una dimensione drammatica pari a quella della regina, secondo il metodo di Monteverdi e di Lully, ma Enea rimane una nullità, fortunatamente senza distruggere il dramma. Soltanto nel­ l’elaboratissimo recitativo accompagnato per la strega, «Wayward sist­ ers», il cui stesso ritornello anticipa la linea vocale in arrivo, Purcell è ve­ ramente al culmine delle proprie capacità.

3È difficile dire con quali esiti i contemporanei italiani di Purcell riu­ scissero a raccogliere le sfide che si presentavano. Nel 1690, la prospet­ tiva di scrivere settanta arie per opera deve aver scoraggiato anche il più entusiasta drammaturgo, tanto che dalla campionatura delle loro opere non emerge alcun genio paragonabile a quello di Purcell. Ciò nonostan­ te, la drammaturgia dell’opera barocca italiana poggia tutta solidamente sulla forza espressiva dell’aria. Per quanto quest’ideale possa essere stato imperfettamente realizzato nell’Italia del xvn o anche del xvm secolo, la sua eredità è evidente sia in Purcell sia in Gluck, per non parlare di Bach e di Mozart. Senza dubbio, è ancora più facile fare un cattivo uso dell’aria che del coro, ma c anche più salda la sua fondamentale forza drammatica. Secondo il modo in cui in pratica procedeva l’opera italiana, l’azione veniva interrotta a intervalli regolari per lasciare spazio all’introspezione lirica delle arie. Era un dramma caratterizzato da sistematici soliloqui. Quanto era diventato bizzarro al di là delle più sfrenate fantasie venne riformato dal poeta Apostolo Zeno intorno al 1700, seguendo uno sche­ ma raciniano classico che Metastasio, un po’ più tardi, realizzò con un’e­ leganza degna di Racine stesso. Nel recitativo secco ogni scenetta pre­ sentava almeno un personaggio con nuove informazioni o una nuova si­ tuazione e la sua reazione emotiva occupava lo spazio dell’aria sulla quale era costruita la scena. Tali scene e tali emozioni venivano inces­ santemente moltiplicate ed equilibrate Puna con l’altra. Come Racine, Metastasio poteva conservare questo precario artifizio soltanto in un mondo di nobiltà ideale. I compositori si limitavano a concentrare l’at­

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tenzione su una serie di «situazioni da aria», non avevano alcun interesse per la necessaria complessità della trama, perché tutti i dettagli venivano trattati tramite discussioni destinate ad essere musicate in un recitativo secco, scialbo c devitalizzato. Non più veicolo di emozioni, il recitativo diventò semplicemente un tipo convenzionale di parlato. Quando Mo­ zart si trovò molto occupato durante la composizione della sua semime­ tastasiana Clemenza di Tito, fece comporre i recitativi ad uno studente. Questo trattamento del recitativo divenne subito più realizzabile e franco di quello di Lully e di Quinault. Eliminava il recitativo come ele­ mento drammatico. Un dramma simile (come appare evidente dall’opera seria italiana) dipende tutto dalle arie, sezioni liriche concluse disposte in una successione semplice. In confronto a Quinault, Metastasio era più artificiale e più immaginativo, nonché più nel giusto da un punto di vista musicale. Dette alla musica una nuova possibilità e, naturalmente, rischiò la banalità come i Francesi non avevano mai osato fare. Al tempo stesso, la forma complessiva di Metastasio è anche più razionalistica, in quanto gli elementi lirici rimangono rigorosamente separati da quelli dell’azione. Il dramma è come diviso in due piani e non ci sono cori o concertati a creare difficoltà. In teoria, il primo problema dello schema di Metastasio stava nel fatto che la musica contemporanea non esigeva la sottigliezza di Racine ne­ cessaria a ravvivarlo. Come si comprende dall’aria di Purcell, il com­ positore barocco poteva infondere un singolo sentimento con meravi­ gliosa intensità, ma non aveva i mezzi necessari per trattare psicologie più complesse. Anche durante un periodo seguente, comunque, con un compositore che ne aveva i mezzi - con il Mozart Ae&Tdomeneo o della Clemenza di Tito - c’erano altre difficoltà. Il ritmo complessivo di Meta­ stasio, a parte l’urto costante delle arie provocato dal contrasto stridente con tutto il recitativo, è imperturbabile c quanto mai prevedibile. Ogni scena segue il proprio corso prestabilito fino all’«aria di uscita», ogni atto equilibra le proprie scene ed ogni opera rimescola i contrasti con­ sueti. La terribile simmetria di Metastasio non è affatto naturalmente drammatica e l’opera corre sempre il pericolo di essere ridotta ad un ca­ talogo di «affetti» distanziati l’uno dall’altro e messi in evidenza grazie al recitativo. L’aver diviso in due compartimenti l’azione costitutiva della trama e la reazione lirica poneva un interrogativo cruciale sulla relazione

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esistente fra i due elementi. La motivazione stessa era tenuta in poco conto ogni volta che il livello espressivo veniva precluso al recitativo e gli uomini di mondo dei palchi ritornavano al loro tabacco da fiuto e ai loro scacchi. In pratica, anche quel dramma che era possibile all’opera metasta­ siana tendeva a rimanere schiacciato dal peso delle condizioni commer­ ciali al seguito di un’arte genuinamente popolare. Se l’opera francese soffriva sotto la dittatura di una dottrina critica aristocratica, l’opera ita­ liana soffriva della mancanza di un controllo efficace che andasse oltre il gusto volgare del virtuosismo vocale. I libretti di Metastasio, inoltre, pur perfettamente strutturati, erano di una banalità pari alla loro prati­ cità. Il compositore, invece di annaspare qua e là alle prese con i proble­ mi drammatici e di risolverne forse qualcuno, si limitava a provvedere alle sue due dozzine di arie secondo i precisati sentimenti dell’amore, del coraggio, dell’ansia e dello sdegno. Per citare su questo argomento Sir Donald Tovey, «lo schema era fatalmente facile per i musicisti di poco valore e non stimolava le facoltà migliori di quelli grandi, mentre grandi e piccoli rimanevano ugualmente alla mercé dei cantanti». Natu­ ralmente, era questo il limite finale, il forte controllo esercitato dagli in­ teressi dei cantanti. I grandi virtuosi sapevano fin troppo bene che il pubblico pagava soltanto per sentire le loro voci e si potevano permette­ re di tradurre questa fiducia in un complicato sistema di abusi. Un ritratto cosi squallido dell’opera metastasiana è abbastanza fami­ liare. I suoi ostacoli erano certamente persino più grandi di quelli incon­ trati dall’opera di Lully e di Rameau, ma al tempo stesso le sue possibi­ lità erano intrinsecamente più stimolanti per un musicista. Si prenda dallo scaffale della biblioteca La Merope di Apostolo Zeno musicata da Domenico Terradellas, o l’Olimpiade di Metastasio composta da Pergolesi, o il suo Alessandro nell'lndie musicato da Hàndel (Poro), o Yldomeneo di Mozart. Forse nel suo complesso nessuna funziona bene, ma al­ l’interno, scena dopo scena, tutte vibrano di emozione e di vita dramma­ tica. Anche se la costruzione drammatica di queste scene è convenziona­ le e rozza, tanto spoglia da non poter essere nemmeno trattata, l’aria alla fine fa tutto ciò che è necessario in quella modesta situazione. Le stesse cose valgono per l’opera italiana di cent’anni dopo. Nessuno dovrebbe invidiare a Donizetti il semplice successo drammatico dell’ultima scena

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della Lucia di Lammermoor. L’opera metastasiana puntava tutto sulla forza emotiva della voce umana. Vinceva molto. Al tempo stesso si per­ metteva di indebitarsi con i virtuosi che erano di gran lunga più tirannici dei maestri di ballo parigini. Ci volle il genio e il tatto di Mozart per per­ suadere i cantanti, accontentarli e volgere talvolta a fini drammatici le loro vanità. Johann Sebastian Bach per lo meno non ebbe queste preoccupazio­ ni. I cantanti orgogliosi erano tutti all’Opera di Dresda, e Bach, come primo musicista della Chiesa luterana, aveva tutte le ragioni del mondo per tenerli a distanza. La Lipsia luterana non aveva teatro d’opera. Può sembrare capriccioso volgerci alla musica da chiesa di Bach per illustrare il dramma musicale barocco, ma possiamo farlo legittimamente e con profitto grazie alla natura della cantata sacra del tempo: sia la versione cattolica, sia quella luterana erano modellate sull’opera. La cantata te­ desca si sviluppò quando Bach era giovane. Il suo spirito guida, Erd­ mann Neumeister, un sacerdote conservatore, aveva all’inizio progettato di restringere la forma ad una breve serie di arie separate da recitativi. «Per esprimermi brevemente, una Cantata non assomiglia che ad una parte di un Opera composta di Stylo Recitativo e di arie». Alcune delle cantate di Bach evidenziano questa forma minimale, anche se in genere Bach (e in seguito anche Neumeister) preferiva includervi alcuni ele­ menti liturgici, come citazioni dalla Bibbia ed inni. Anche così, non sor­ prende il risultato che molti libretti di cantate avessero potenziale dram­ matico da vendere. «Jesu, der du meine Seele», BWV 78 è una delle cantate drammati­ che di Bach, una delle più grandi e meglio conosciute (o forse dovrei dire una delle meno ignorate). Se ne parlo come se fosse un dramma re­ ligioso sulla conversione, uso naturalmente la frase in un senso specia­ le. Bach non ha scena, non ha personaggi, non ha eventi, avviene tutto nella mente del cristiano, o in quella di Bach, o in quella del cantante della comunità. Da una meditazione all’altra, però, c’è un progressivo sviluppo, un ritmo drammatico e certo non liturgico. Questo pezzo espone drammaticamente la vittoria sul dubbio, e la forma, in piccolo, è metastasiana. Certo, l’opera italiana non presenta nessun precedente per i due cori che saldano insieme la cantata. All’inizio, per ritrarre l’a­ nima immersa nella disperazione, viene presentato, in una versione co-

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rale fittamente elaborata, il primo verso di un vecchio inno, e l’ultimo verso dello stesso inno, trattato con semplicità, conclude la cantata in uno spirito di pace e di illuminazione. Tra di essi, sono i recitativi e le arie a farsi veicolo dell’essenza del dramma. Per la «presentazione» Bach usa il coro iniziale. Nessun dramma re­ golare ha mai uguagliato la forza di questo quadro d’apertura, tremen­ damente vivo, che fa scomparire l’inizio di Ifigenia in Tauride o della Walchiria o di Otello. Può stare alla pari con il primo coro della Passione secondo Matteo, la famosa «scena sulla strada verso il Golgota». Le sedici battute dell’inno «Jesu, der du meine Seele» vengono portate a trentadue e poi dilatate a centoquarantaquattro tramite interludi, un’introdu­ zione e un postludio. Dalla grigia argilla di questa melodia sacra, fitta di associazioni per i devoti, Bach modella una preghiera disperata di fronte all’assalto delle forze infernali, che leggeva (drammaticamente) nella prima stanza, sette versi di invocazione che esplodono nella supplica «Sei doch jetzt, o Gott, mein Hort! » Il meccanismo formale di unificazione usato da Bach è lo stesso basso cromatico discendente che abbiamo appena esaminato nel lamento di Di­ done, ma sia l’ampiezza della forma sia la necessità tecnica di adattare il basso alla melodia dell’inno preesistente determinano una brillante diver­ sità nel trattamento di Bach, che ripete il disegno musicale del basso circa trenta volte. Quello che in Purcell era stato rigidamente invariabile viene qui spostato dal basso ad altre voci, trasposto in tonalità contrastanti, va­ riamente rivestito di contrappunti fortemente tematici, talvolta fissato su un pedale o persino invertito all’allusione alla «bittern Tod » di Cristo (una linea cromatica ascendente ha un effetto particolarmente straziante, come aveva già mostrato Monteverdi in Orfeo). Mentre il soprano intona lenta­ mente la melodia dell’inno, le altre voci fanno eco alle parole con maggiore eccitazione e maggiore soggettività, l’orchestra tesse la propria tela espres­ siva e l’inesorabile basso ripete il proprio disegno musicale sempre identi­ co e sempre diverso. Il brano è un trionfo della complessità barocca e, come sempre in Bach, la complessità viene usata per esaltare un singolo, semplice «affetto», in questo caso il tormento del dubbio. Si paragoni questo coro con l’aria di Didone, cosi simile sotto un cer­ to aspetto. La ricchezza della consapevolezza di Bach è impressionante, particolarmente in contrasto con la limitatezza della concezione di Pur-

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celi, ma il punto essenziale sta nella posizione drammatica: in Bach la pietrificante esposizione iniziale di una condizione conflittuale, in Pur­ cell la progressiva scarnificazione per arrivare all’essenza della tragedia. La complessità di Bach avrebbe solo offuscato il pathos della morte di Didone. È anche vero che con tutta la sua ricchezza ornamentale e la sua energia il coro di Bach progredisce o si sviluppa ancor meno del canto di Didone. In sé non è drammatico. Il dramma musicale barocco nasce dall’accostamento di tali blocchi. Quando si entra nella luminosità di una chiesa barocca dalla ristretta oscurità del vestibolo, si avverte un contrasto drammatico dello stesso tipo di quello raggiunto dall’aria che fa seguito al coro, «Wir eilen mit schwachen, doch emsigen Schritten». È nella tonalità della mediante, Si bemolle dopo Sol minore; l’orchestra è improvvisamente sparita, il rit­ mo ondeggia dolcemente e invece del basso cromatico, qui tutto è diato­ nico. Questa confessione di fede, delicata ma anche un po’ incerta, è cantata da due ragazzi, un soprano ed un contralto che si fanno eco avanti e indietro, ricercando Dio con innocenza, come se i cantanti non conoscessero il peccato originale. L’aria, o piuttosto il duetto, persevera nel suo lungo cammino addolcendosi alla sottodominante. Dopo il ma­ turo terrore del coro, in questa ingenua visione c’è una doppia intensità. Tale intensità è sottolineata dal recitativo seguente che di colpo manda in frantumi lo stato d’animo precedente. Secondo lo schema di Metastasio, il recitativo è il luogo adatto per l’azione, qui non un nuovo messaggio o una nuova decisione, ma una nuova coscienza ed una nuova voce matura per esprimerla, un tenore. È la coscienza del peccato, qual­ cosa di terribilmente reale per Bach, anche se qui questo dolore isterico è presentato come una risposta parziale quanto Tinfantile speranza del duetto. Dopo Monteverdi, Bach è il grande autore di recitativi del ba­ rocco e dell’uomo trafitto dal senso di colpa ci presenta un’immagine straziante. Come d’uso, il recitativo prepara all’aria del tenore, «Dein Blut, so meine Schuld durchstreit», che cerca di dissipare il senso del peccato. Il sangue di Cristo alleggerirà il cuore del cristiano e lo renderà forte contro la sfida dell’inferno. Nonostante queste parole, però, non c’è pace. Quando la questione lo riguardava da vicino Bach sapeva essere un accurato psicologo ed un drammaturgo anche migliore. L’aria è par­ ticolarmente intensa nell’illustrare musicalmente gli alleati di Satana e

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l’atmosfera è dominata dalla dolente immagine del sangue di Cristo che «sprizzando brilla», come dice lo Spiritual, nel ritornello per flauto. Solo nel recitativo seguente, intonato dalla voce del basso, che risuona ancora più matura, il sacrificio di Cristo viene affrontato con la dovuta comprensione e la dovuta umiltà, e solo nell’aria seguente per basso viene conseguita una reale vittoria. Gli episodi si susseguono con un rigido or­ dine. La nuova «azione» è la contemplazione della Passione che, in ogni caso inevitabile, era stata preparata dall’allusione intenzionale alla «morte amara» del primo coro, nonché dal turbato risalto dato poi al­ la qualità purificante del sangue di Cristo nell’aria del tenore. Un’aureola di strumenti ad arco appare al di sopra della voce in questa serena medi­ tazione che ricorda il trattamento di Bach delle parole di Cristo nella Passione secondo Matteo. Il recitativo culmina in un arioso in cui le paro­ le e la melodia dell’inno vengono di nuovo incorporate in modo ricco e sottile: Dies, mein I lerz, mit Leid vermenget, so dein teures Blut besprenget, so am Kreuz vergossen ist, geb ich dir, Herr Jesu Christ*.

L’insufficienza verbale viene dimenticata quando la musica esercita il proprio controllo. Se Bach ha mai raggiunto la serenità cristiana che ri­ petutamente cercava, l’ha raggiunta qui. La grande aria del basso, «Nun, du wirst mein Gewissen stillen», può ora trionfare, anche se un po’ ingenuamente, sulla vendetta infernale, sia nel testo sia nella musica. Per quanto riguarda la musica, la vittoria consiste in una superba colora­ tura che gareggia con uno straordinario tema dell’oboe, in una forma costruita sulla base di echeggianti ritornelli in stile da concerto. Le tre arie hanno presentato una testimonianza personale che com­ muove più profondamente, anche se più semplicemente, dell’esaustivo, sovrumano coro iniziale. Nella sua sostanza il processo presentato è il processo drammatico della conversione. Il coro iniziale non abbandona mai la nostra mente e alla fine, con un semplice tocco tipico di Bach, la sua melodia si ripresenta quando viene cantata l’ultima stanza dell’inno. 1 «Questo mio cuore, intriso di dolore, | asperso del tuo prezioso sangue, | sparso ai piedi della cro­ ce, | io ti dono, Signore Gesù Cristo».



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Con il procedere delle arie, una dopo l’altra, al momento della sua ripe­ tizione è mutato anche l’inno. Le parole importanti ora sono «Herr ich glaube...» e le sedici battute della melodia vengono cantate senza nes­ sun ornamento al di là della più semplice armonia di Bach. La ricorrenza melodica rafforza la composizione intera come solo può farlo la solidità della forma, ma quello che all’inizio era immerso nella disperazione viene riaffermato sotto un aspetto atemporale. Bach trascende il livello sog­ gettivo delle arie per arrivare ad una soluzione liturgica della lotta perso­ nale. Arnold Schering, curando la cantata, nota con una certa sorpresa che questa armonizzazione finale dell’inno non fa nulla per spiegare certe parole sinistre come verzagen, Sund e Tod. Senza dubbio era una cosa voluta. Bach sapeva bene come dipingere uno stato di tensione in un inno rivestito di spoglie armonie, come testimonia la fine di un’altra can­ tata drammatica di un genere estremamente diverso, «O Ewigkeit, du Donnerwort» BWV 60. La semplice e serena chiusura di «Jcsu, der du mcinc Sede», invece, ha qualcosa della luminosità dell’inno finale della Passione secondo Giovanni. La cantata presenta un profondo conflitto, una serie di atteggiamenti sempre più reali nei suoi confronti ed una soluzione finale. Ogni ascol­ tatore, penso, l’avverte come una forma drammatica. Le sue anomalie, dal punto di vista dell’opera metastasiana, sono certamente abbastanza forti, ma le somiglianze meritano forse di essere messe di nuovo in risal­ to. All’interno della cornice liturgica dell’inno, il dramma umano della conversione procede nelle arie e viene espresso dalla loro qualità indivi­ duale e dalle loro relazioni reciproche. Ognuna presenta una singola emozione, in modo rigido. I recitativi di collegamento forniscono lo sti­ molo - qui stimolo psicologico - necessario a favorire l’insorgere del sen­ timento che anima le arie. La situazione è ridotta ai più semplici termini. Ancor più di Metastasio, Bach riusciva a lasciar perdere la trama per concentrarsi sull’esplorazione lirica del sentimento, sia perché il suo dramma si svolge sulla scena astratta della chiesa, sia perché la sua forma poteva essere mantenuta cosi breve. Tutti i compositori barocchi incon­ travano molte difficoltà quando tentavano di sostenere forme più am­ pie, persino Bach quando si accostava alle Passioni. È difficile dire se sa­ rebbe riuscito a conservare questo ritmo drammatico in un libretto ope­ ristico completo.

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Il dramma musicale del barocco ha una purezza e un’intensità che l’opera non avrebbe mai più raggiunto, e queste qualità ben si intonano alla semplicità maestosa e trasparente della sua drammaturgia. Si può avvertirle ancora in Gluck, ma la ricercatezza dei periodi seguenti, costi­ tuisce la matrice dei valori drammatici differenti espressi in un diverso gruppo di progetti drammaturgici. Il dramma di Purcell e di Bach, an­ che se chiaramente al di fuori delle due principali tradizioni operistiche, altrettanto chiaramente trae da esse la propria forza. Possiamo pensare che queste tradizioni venissero impiegate male, senza per questo credere che fossero corrotte nell’anima. Suggerirei infatti che il loro difetto prin­ cipale fu un certo ascetismo, la determinazione di fare a meno di quella varietà di espressione musicale che altrove stava dimostrando la sua con­ temporanca vitalità. Lully rifiutava l’aria, Metastasio il coro, entrambiper pressanti ragioni pratiche, e la necessità guidava anche le loro varie tra­ sformazioni del recitativo. Davano vita entrambi a un’estetica rigorosa che anche secondo i canoni del momento mostrava dei grandi vuoti. Non è per caso, credo, che i drammi che ci colpiscono oggi sono anomali proprio in quanto riempiono tali vuoti. Purcell segue il piano corale di Lully, ma aggiunge delle arie nei momenti culminanti. Bach segue lo schema del soliloquio metastasiano, ma lo modella con cori che suscitano la nostra ammirazione. Le vere possibilità della musica e del dramma del barocco, possiamo dire, venivano sfruttate meno nelle principali tradi­ zioni operistiche che nei capolavori periferici di Purcell e di Bach. Dire poi che questi compositori sceglievano il meglio dell’opera francese e di quella italiana sarebbe una formula facile, né rispondente al loro reale modo di procedere, né alla fine illuminante per quanto riguar­ da la qualità della loro produzione. Di Gluck, comunque, lo si può dire veramente. Entro il 1760, tutti e due i tipi di opera stavano vacillando e i loro limiti erano ovunque evidenti ai compositori. Gluck e il suo poeta Calzabigi avevano un certo fiuto per il momento storico, per non parlare di un certo acume giornalistico e di una forte attrazione per il mondo in­ tellettuale della ribalta. Quasi istintivamente conl’Or/eo per Vienna, vo­ lutamente con le opere più tarde per Parigi, Gluck cercò di trarre in salvo

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le virtù di entrambe le tradizioni e di combinarle insieme con la forza del proprio catalizzatore per il gusto del tardo xvni secolo, in via di matura­ zione. I suoi temi hanno la solenne classicità di Lully. Gluck musicò an­ che uno dei libretti di Quinault, Armide, ben cento anni dopo, e trasse con somma reverenza tre delle sue migliori opere da Euripide. Le mer­ veilleux dell’opera francese costituisce lo sfondo, ma i cori, le danze e i grandi effetti scenici sono saldamente tenuti sotto controllo per ragione­ voli scopi drammatici. E nei momenti culminanti intervengono le grandi arie gluckiane, messe al posto giusto e tremendamente potenti. Gluck aveva imparato Parte dell’aria dall’Italia, ma la nuova immediatezza di espressione era tutta sua. Gluck riformò anche il recitativo, perché doveva riscattarlo dall’abi­ le inesistenza dei compositori dei libretti di Metastasio e dalla pretenzio­ sa vacuità di Lully e di Rameau. Il recitativo fu cosi limato per giungere al livello immaginativo delle arie e dei cori. Qui gli sforzi di Gluck lo portarono sull’orlo di una soluzione operistica che merita di essere defi­ nita assolutamente nuova. In una forma o in un’altra, l’« opera conti­ nua» dominò il xix secolo, tanto che, infatti, i valori della drammaturgia barocca vennero fraintesi, minimizzati e criticati. Sono molti i fili che portarono all’opera continua, quello di Gluck non fu il solo. Quand’egli era ancora vivo un altro stava acquistando vi­ gore nell’opera buffa, la tradizione dell’opera comica italiana che andava dalla farsa popolare napoletana alla commedia brillante e sofisticata. Senza manifesti, compositori come Baldassarre Galuppi, Pergolesi, Ni­ cola Piccinni, Giovanni Paisiello e Mozart svilupparono una tecnica ra­ dicale per mettere in relazione reciproca l’azione drammatica e la conti­ nuità musicale. Come la riforma di Gluck, questa tecnica distrusse le convenzioni operistiche barocche e spianò il terreno alle future sintesi del romanticismo.

Capitolo quarto L’azione e la continuità musicale

i.

Il modo principale con cui si presenta il dramma è l’azione, e nel dramma musicale il veicolo dell’espressione immaginativa è la musica. Inevitabilmente, la relazione o il gioco interno fra questi due elementi - Fazione e la musica - è l’eterno problema centrale di tutta la drammatur­ gia operistica, un problema che è stato risolto in molti modi diversi e le cui soluzioni nel corso degli anni non si sono fatte necessariamente migliori, ma sicuramente più complicate e problematiche di quelle di Lully o di Bach. La valutazione del dramma di Mozart e di Beethoven dipende dalla comprensione, in qualche modo tecnica, della loro drammaturgia, ovvero della loro particolare serie di convenzioni per la qualificazione reciproca della musica e dell’azione. Quello che è in ballo, infatti, è il primo mezzo con cui l’azione venne effettivamente introdotta all’interno della conti­ nuità musicale. Il nuovo mezzo si sviluppò all’interno dell’opera buffa del xvm seco­ lo. Come genere separato, l’opera buffa apparve in Italia solo dopo la ri­ forma classicheggiante di Zeno e Metastasio. Uno dei loro punti di mag­ gior successo fu l’eliminazione degli elementi farseschi da quello che scelsero di considerare come una sorta di dramma essenzialmente eroico. Servi balbettanti, lascive nutrici con voce di tenore e castrati travestiti avevano trasformato V opera seria del xvn secolo in una baraonda dram­ matica. La commedia, nel frattempo, era costretta a sfruttare le proprie risorse. Costituiva una tradizione distinta, molto più umile della solenne opera di corte di Metastasio, oscena, veloce, realistica, assurda e con salde anche se misteriose radici nella commedia dell'arte. L’opera buffa voleva attori che cantassero piuttosto che costosi virtuosi, i suoi compositori erano spesso i meno eminenti, si nutriva dell’opera seria, parodiandola di continuo, e faceva le proprie scoperte estetiche. Di queste, la più im-

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Capitolo quarto

portante fu una nuova realizzabile relazione tra Fazione e la musica. Questa scoperta, che rese possibili i risultati drammatici di Mozart, fu, tra i singoli sviluppi della storia dell’opera, uno dei più impressionanti. La trasformazione dell’opera rientrava nella trasformazione più pro­ fonda della musica in genere, il trapasso dallo stile barocco di Bach e di Metastasio al cosiddetto stile classico di Mozart e di Beethoven. Questo, d’altronde, fu uno degli sviluppi più determinanti di tutta la storia della musica, perché modificò la natura stessa del movimento musicale. Come si ascolta un quartetto di Beethoven dopo un concerto di Bach, appare ovvio che l’andamento regolare della musica barocca ha ceduto il passo ad una dinamica molto più variata. Passi tranquilli si alternano a passi pieni di impulso. Non si alternano, però, semplicemente, secondo la vecchia maniera, ma semmai si sviluppano l’uno dall’altro in un modo che dà un’impressione vitale di guida e di arrivo. I compositori affinavano ora queste qualità calcolando con cura apogei, tensioni ed equilibri. Beethoven controlla sia una stasi sia una propulsione in avanti che sono assolutamente al di là del passo tanto più uniforme di Bach. Inoltre, il nuovo stile dinamico rendeva possibile l’unione di elementi in sostan­ ziale contrasto, ben presto trattati come elementi in sostanziale conflit­ to. Bruschi mutamenti emotivi venivano dapprima giustapposti, poi giustificati e sviluppati finché non si veniva a trovare a portata di mano una risoluzione finale. In una parola, la musica divenne psicologicamente complessa. Conflitti, trapassi, momenti eccitati e mutamenti continui potevano ora essere trattati all’interno di un’unica continuità musicale, come, nel modo più tipico, nel primo movimento di una sinfonia. Dapprima que­ sti pezzi tendevano a separarsi, ma è straordinaria la rapidità con cui ve­ nivano fatti aderire l’uno all’altro, offrendo impressioni unitarie. La ben nota rigorosità della forma classica era una necessità evidente. Infine, con la controllata flessibilità di Beethoven, il senso di progressione poteva essere conservato per un’intera opera ciclica, per tutti i sette movimenti del Quartetto in Do diesis minore. Possiamo forse fare un paragone con un «progress» nel senso di Hogarth. In questi termini i cinque movi­ menti del Concerto brandeburghese n. i mostrano solo l’unità generale di una sala ben progettata in una galleria di quadri. Si può indicare con esattezza la base tecnica di questa rivoluzione.

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Tovey l’ha spiegata in termini più o meno non professionali con una chiarezza ancora insuperata. Preliminare necessario era toglier via il ri­ cercato fogliame che nascondeva il semplice tronco della musica baroc­ ca, per far emergere spoglie frasi musicali da usare in modo fresco, frasi solide e feconde come una betulla di un quadro di Derain. Il ruolo im­ portante della tonalità nella musica moderna è stato paragonato a quello della prospettiva in pittura e possiamo dire che i compositori si rivolge­ vano ora alle ricerche tonali con l’interesse di un Paolo Uccello o di un Signorelli. Lo stesso processo di semplificazione dal barocco dette alla tonalità una nuova chiarezza uditiva e quindi un senso di maggiore pres­ sione. Stabilita risolutamente la tonica d’apertura, le tonalità successive venivano interpretate con nuova forza come aree di contrasto piuttosto che come aggiunte formali ad essa. Una relazione automatica come quel­ la della dominante con la tonica veniva elevata fino a farne una sorta di potenziale musicale o di alta tensione, poteva dare carica alla composi­ zione per interi minuti e guidare correnti complesse. 1 compositori ri­ nunciarono anche all’uso barocco di esporre completamente un’idea e di svilupparla poi immediatamente in modo esaustivo (come, nel modo più tipico, nella fuga). Usavano metodi diversi di sviluppo, circoscritti e orientati, più funzionali che esplicativi. Inoltre, insieme a una nuova semplicità generale nella fraseologia, c’era un senso nuovo quasi di af­ fanno di fronte alle irregolarità che il barocco aveva tranquillamente as­ sorbito. C’era a disposizione un ricco capitale di accelerazioni e di ral­ lentamenti del flusso ritmico, per transizioni, modulazioni, preparazio­ ni ed estensioni di ogni tipo. Tovey ha definito questo nuovo stile, con termine molto diretto, «drammatico», contrapponendolo allo stile «architettonico» del baroc­ co. Per lui, infatti, la musica strumentale era più drammatica dell’opera. La metafora mi sembra illuminante per tutte e due le direzioni in cui può essere applicata. In una sinfonia di Beethoven, per esempio, nella qualità del procedere musicale c’è qualcosa di schiettamente drammati­ co: l’esposizione che subito porta a un crescente conflitto, lo sviluppo dei contrasti e la risoluzione e il risultato finali. E in un’opera di Mozart, il ruolo di quanto si potrebbe definire, in modo impreciso, tecnica sinfo­ nica drammatica è di primaria importanza. Dopo Haydn, Mozart fu il primo a portare a compimento lo stile strumentale classico: solo un

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Capitolo quarto

grande compositore di sinfonie avrebbe potuto scrivere il Don Giovanni. L’unico pericolo nell’uso che Tovey fa del termine «drammatico» in questo contesto sta nel fatto che il senso metaforico può svilupparsi fino a dominare il vero significato di dramma sia per il teatro sia per il teatro lirico. Anche Rembrandt può essere «drammatico», ma i drammi non vanno giudicati secondo le sue tecniche. In un certo senso, il significato ristretto di «dramma», naturalmente, è ancor più limitato, implica un tempo e una scena, o almeno un’azione chiaramente espressa, che né una sinfonia né un dipinto possono proprio avere, nemmeno nella misura di una cantata di Bach. In un altro senso, però, il significato ristretto può essere considerato in modo più ampio. Per tradizione, ha finito con l’in­ cludere forme che stanno al di fuori di qualsiasi sistema estetico circo­ scritto, come quello dello stile sinfonico classico. Il dramma ha anche le sue forme più statiche: Bach come Beethoven, la serie di arringhe di Sansone agonista come la mobile struttura di Antonio e Cleopatra. Per Tovey, il dramma musicale era impossibile prima dell’evoluzione dello stile sinfonico «drammatico», ma spero di aver illustrato parte del potenziale drammatico dello stile «architettonico», secondo il modo in cui Tovey avrebbe usato il termine. La continuità musicale barocca ve­ niva a formarsi grazie a un processo simile a un progressivo dischiudersi piuttosto che grazie a uno sviluppo drammatico, ma era possibile dar vita a un tipo di dramma grandioso e particolarmente intenso tramite la disposizione di questi blocchi musicali. Il compositore barocco non ave­ va i mezzi necessari per incorporare l’azione nella continuità musicale, il compositore classico sì. Operavano con drammaturgie diverse e sotto restrizioni diverse, e sfortunatamente si deve dire che un dramma musi­ cale significativo era raro sia in un’epoca che nell’altra. In ogni caso, ci si deve accostare alla drammaturgia di Mozart dalla prospettiva del suo stile musicale generale e questo richiede la compren­ sione dei meccanismi del «dramma» sinfonico - conservo le virgolet­ te - al suo massimo livello espressivo nella forma sonata. Questa forma splendidamente adattabile è anche la più drammatica di tutte. È dram­ matica anche la sua terminologia. Nell’«esposizione» iniziale viene defi­ nita l’area della tonica, la tonalità centrale del pezzo, talvolta dopo una lenta e solenne introduzione. Le idee musicali in sé e per sé non sono sempre brillanti, ma sono concise, flessibili e senza limiti precisi, ideate

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per portare rapidamente avanti. 11 compito seguente è quello di far vi­ brare la nota del contrasto principale, quello della nuova tonalità; dopo la tonica, bisogna dare un’impressione di intensificazione c di progres­ sione, e tutto ciò senza dare l’impressione di un risultato definitivo: la tonalità della dominante serve a questo scopo in modo perfetto. La tran­ sizione può essere effettuata in molti modi; Schubert talvolta usa un coup de théàtre, Beethoven di solito un’insorgenza drammatica, Mozart spesso un passaggio pratico e funzionale. È prassi comune sottolineare il basilare contrasto di tonalità con ul­ teriori contrasti nella tessitura musicale, nel volume e nel tono, con un contrastante «secondo tema», convenzionalmente di natura lirica in confronto al più inquieto tema d’apertura. Tovey amava sottolineare che i metodi di Beethoven e di Schubert richiedevano questa intensifica­ zione del contrasto più di quelli di Mozart e di Haydn. Haydn, in parti­ colare, ha solo bisogno di un netto mutamento di tonalità. La conquista della nuova tonalità carica la composizione in modo quasi elettrico, dan­ dole un senso di tensione drammatica. Questa tensione è poi espressa da una forte insistenza sulla nuova tonalità alla fine della sezione espositiva, in un passo consegnato a cadenze. Qui possono entrare nuove idee me­ lodiche e si possono avere digressioni senza per questo alterare la dina­ mica essenziale. La successiva sezione di «sviluppo» estende il basilare contrasto di tonalità procedendo verso regioni più remote che appaiono emozionanti o inquiete. Questa sezione è contrassegnata da un costante modulare. Non si tratta più ora di una tonalità che cerca di affermarsi al di sopra della tonica iniziale, ma di molte tonalità che si precipitano all’interno della sezione senza nessun senso di stabilità, che anzi prefigurano per contrasto la risoluzione raggiunta più tardi con il ritorno della tonica. Nello sviluppo, la musica raggiunge la sua arca di maggior flusso ritmico e si ha sempre l’impressione di una sorta di lotta ravvicinata, di esplora­ zione pericolosa, di terrore, di incertezza, di chiarificazione drammatica o di prova. È prassi comune, ancora, sottolineare questa qualità dello sviluppo reinterpretando alcune delle idee tematiche dell’esposizione. Vengono spezzate o espanse, combinate simultaneamente o in sequenza in modi senza precedenti, «sviluppate» con un senso del dramma che il barocco non conosceva. Mozart, peraltro, rinuncia talvolta a questa in­

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tensificazione tematica e si affida interamente al cambio di registro e di tonalità per i suoi momenti cruciali. Verso la fine la tensione cresce e i segni di tensione si moltiplicano, poi lo sviluppo si solleva fino ad un netto accordo di dominante che, fi­ nalmente, con un dovuto senso di trionfo o di sollievo, si risolve sulla to­ nica e sull’inizio della «ripresa». Qui il compositore passa di nuovo at­ traverso lo sviluppo dell’esposizione, per quanto liberamente, ma ora la sua essenziale tensione è esorcizzata, perché ora tutto viene presentato nella tonalità della tonica. Architettonicamente, la vasta area della tonica è necessaria per equilibrare l’instabilità dello sviluppo e l’audace dicoto­ mia dell’esposizione chela precedeva. Drammaticamente, la ripresa di tutte le vigorose mosse dell’esposizione, ma senza il loro incitante con­ trasto, presenta quell’esperienza sotto una luce diversa, superiore. Se l’esposizione era stata il regno della dominante, la ripresa tende al polo opposto, alla tranquilla sottodominante, per rendere più profondo il senso di cadenza o di conclusione. Un semplice equilibrio è raramente sufficiente e la ripresa contiene in genere qualche nuovo riflesso di qual­ che particolare antecedente, quasi ad esporre in piccolo la padronanza acquistata sul precedente conflitto. Beethoven tiene in serbo queste ul­ time parole per code di considerevole lunghezza, ma Mozart spesso usa soltanto le inflessioni più semplici, con un effetto tanto libero quanto ef­ ficace. L’intera forma, finalmente, è coerente e compatta. Questo è il suo massimo risultato. Non si tratta tanto di offrire un conflitto all’arte quanto di dare al conflitto un senso di ordine e di esattezza. Nella forma sonata l’azione psicologica, o «dramma», è sussunta in un’unica conti­ nuità musicale che le dà unità. La reale azione drammatica, quella che si svolge in teatro, poteva essere organizzata in modo simile.

2.

Come in Don Giovanni, nel terzetto poco dopo l’inizio del secondo atto. Donna Elvira esce sulla veranda nel romantico incanto di una sera spagnola per dare libero sfogo ai sentimenti più contrastanti nei con­ fronti del suo infedele e irresistibile libertino che, nel frattempo, di sotto, volendo tenerla lontana per poterne corteggiare la cameriera, si infiamma

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all’idea di farle una serenata e di consegnarla poi nell’oscurità a un Leporello non del tutto contrario, vestito con il mantello del padrone. Lo stato d’animo iniziale di Elvira è istillato dalla frase di apertura del violino del terzetto e dalla sua più gentile risposta. Per essere il tema di una sonata, pur anche in un movimento lento, la musica assomiglia più del consueto a una canzone, come si confà alla meditazione privata di una signora, ma in certi tratti irrisolti mostra segni di appartenenza a un’unità drammatica più ampia: la variazione delicata e semischerzosa della frase di apertura e la sensuale cadenza cromatica nel momento in cui il cuore di Elvira si addolcisce (es. 4): Ah, taci ingiusto core, non palpitarmi in seno; è un empio, è un traditore, è colpa aver pietà.

Il compositore riesce ad avvertire e a sviluppare un sentimento latente anche nel passo meno attraente di un libretto. Appena Elvira tace, don Giovanni e Leporello bisbigliano insieme su un banale ritornello tema­ tico pari alla scurrilità delle loro intenzioni. La situazione, o quadro, ini­ ziale, ancora in tonica, dà già cenni di movimento: dopo che Elvira ha cantato il suo pezzo si odono le due persone più attive e la loro fraseolo­ gia ripetitiva ha un effetto di accelerazione. Quest’intensificazione ritmica prepara all’azione principale di don Giovanni, un passo deciso verso la tonalità di dominante nel momento in cui sbuca fuori per rivolgersi a Elvira (restando dietro Leporello, che deve far finta di cantare). Ha cosi inizio l’azione principale, la sedu­ zione di Elvira. La tensione, il pericolo di questa azione è sostenuto dalla dominante. In questa tonalità, don Giovanni canta con l’accompagna­ mento degli stessi frammenti melodici che avevano contrassegnato il batticuore di Elvira, rispondendo praticamente ai suoi dubbi. Alla fine Elvira e Leporello cantano il banale secondo tema cosi ben progettato per gli «a parte»: (Numi, che strano effetto...) (State a veder la pazza...)

Siccome non si sentono vicendevolmente, forse, la frase può ora acca­ vallarsi su se stessa. In ogni caso la concentrazione dà un altro tocco sot­ tile di urgenza crescente.

Esempio 4.

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Questa è l’esposizione drammatica, corrispondente a una sezione musicale analoga all’esposizione di una forma sonata. A questo punto arriva lo sviluppo. Una nuova fase viene suggerita da una ricca, sorpren­ dente modulazione dell’orchestra (al VI grado minore - questa modu­ lazione, sia detto per inciso, sembra saltar fuori in tutte le scene mozar­ tiane di seduzione). Come si estende il contrasto di tonalità e aumenta il senso di eccitazione, don Giovanni si infiamma alla sua impresa in uno slancio tematico lirico, ricco di una nuova persuasività e di una nuova fertilità. Mcntr’cgli preme, Elvira protesta sempre più c la lotta si fa rav­ vicinata. Elvira lo interrompe in un improvviso agitato e i battiti del cuore nell’orchestra sono ora più seri, la musica ricomincia a modulare, più ra­ pidamente, le frasi si accavallano, quelle di lui sempre più ardenti, quel­ le di lei quasi un po’ isteriche-pazza, come dicono tante volte nel libret­ to. Completamente rapito, don Giovanni ripete la sua supplica finale, «Ah, credimi, o m’uccido!», su una dominante estremamente dilatata, punto di massima tensione. Nel frattempo Leporello tenta invano di trattenere le risa. Elvira tace, per un attimo la dominante indugia, poi le risatine tranquille di Leporello guidano la musica all’inevitabile risolu­ zione sulla tonica. Qui il regista deve escogitare qualche segno della resa di Elvira (qualcosa di più delicato, si vorrebbe, dei soliti scherzi gratuiti e grosso­ lani). L’azione in sé è conclusa, ma il suo effetto deve ora essere misurato in un quadro finale, la ripresa di questa piccola forma sonata. I tre can­ tanti esprimono simultaneamente i loro sentimenti individuali, che si sono sviluppati nel corso del pezzo e che sono naturalmente in conflitto, ma si trovano tutti sotto un unico incanto musicale, chiaro e magico come la luce lunare. La loro diversità è armonizzata dalla continuità musicale. Elvira, pressoché sconvolta, non sa quasi cosa pensare della propria debolezza. Leporello, cessate le risa, desidera il bene di Elvira e benedice la sua credulità, parlando per il pubblico. Don Giovanni di­ chiara di essere orgoglioso del proprio talento amoroso, ma, se dobbiamo credere alla musica, lo fa con una misteriosa umiltà. È commosso dalla resa di Elvira proprio come lo era stato dalla morte del vecchio signore in un terzetto precedente. È questo che lo rende irresistibile. I temi ri­ tornano tutti in tonica, tenuti insieme dall’orchestra mentre i cantanti armonizzano dolcemente quasi sullo sfondo. La musica muove bellissi­

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ma verso la sottodominante e c’è un tocco di espansione al tema chiac­ chierino che riconciliava i vari «a parte». Alla fine spunta fuori, per essere portato a frutto, un elemento che non era stato giustificato nella forma: vengono ripetute le romantiche terze cromatiche di Elvira e vengono ripetute due volte per la cadenza finale, mentre la sua linea musicale ha una nuova decorazione, meravi­ gliosamente delicata, tremula e calda (es. 5). Questo riunisce in un lampo tutto l’episodio e porta inoltre una nuova, penetrante inflessione. Elvira non è più la stessa, o almeno la nostra possibilità di capirla e di compren­ derla è maturata. In un singolo pezzo musicale l’azione è stata incorpo­ rata, unificata e interpretata. In se stessa compiuta, questa scenetta spinge

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avanti tutto il dramma, perché il nostro senso del pezzo nella sua totalità dipende dall’impressione di Elvira che ne abbiamo ricavato. Analoga­ mente, il movimento lento di una sonata di Mozart, in sé e per sé perfet­ tamente realizzato, ha anche un ruolo guida nella composizione com­ plessiva.

3Per Edward J. Dent, finissimo critico delle opere di Mozart, questo terzetto è il pezzo piu bello di Don Giovanni, il che equivale praticamente a dire di tutta la storia dell’opera, e non mi sento incline a contraddirlo. Qui, comunque, l’ho analizzato principalmente per far vedere il grande valore drammatico dei concertati di questo tipo. L’azione viene inclusa in una singola continuità musicale che funge da principio unificante. La situazione cambia e ognuno prova sentimenti diversi. Questo, in un’aria o in un coro barocchi, non accadeva mai. Avere sostituito parte degli in­ differenti recitativi usati nell’opera barocca per l’azione con un veicolo genuinamente musicale, era chiaramente un vantaggio, perché l’azione poteva essere presentata sul livello immaginativo della musica e diventare cosi partecipe della dignità emotiva delle introspezioni riservate alle arie. Il terzetto di Elvira ha la coerenza di un movimento della forma so­ nata, una coerenza la cui instaurazione richiedeva gli sforzi più grandi dei compositori classici e che divenne uno dei massimi risultati di tutta la musica. Il terzetto segue da vicino la dinamica della forma sonata, an­ che se è certamente più semplice dei migliori esempi strumentali. In un certo senso, Tovey aveva ragione a sostenere che la forma sinfonica era troppo «drammatica» per la scena, ma, comunque sia, un concertato classico elaborato è infinitamente più complesso della più ricca delle forme barocche, come il coro iniziale di una cantata di Bach, con tutto il suo fantastico accumulo di particolari. In Mozart i vari elementi muta­ no le loro relazioni reciproche, i conflitti vengono posti, sviluppati e ri­ solti. Non meno che in un coro di Bach, anche se in modo meno osses­ sivo, per tutta la scena c’è una singola intensità immaginativa, un punto di vista che funge da coordinatore. Possiamo anche vedere quale fosse il valore, la necessità, invero, dei

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concertati operistici per la forma drammatica della commedia. Si imma­ gini l’episodio di Mozart trattato da Metastasio. Per realizzarlo sarebbero state necessarie almeno tre arie collegate da recitativi, una per Elvira, che mostrasse il suo stato d’animo iniziale, una per don Giovanni e un’altra ancora per Elvira, per far vedere il suo stato d’animo finale. L’intero ruolo di Leporello, che mantiene in modo splendido l’equili­ brio comico, sarebbe evaporato nel recitativo, per non parlare di tutte le delicate tonalità di modulazione degli atteggiamenti di don Giovanni e di Elvira en route. Ogni aria avrebbe richiesto circa tre minuti... e ques­ to è solo un breve episodio fra i dodici circa del libretto. La commedia del xviii secolo, con la sua ricchezza di intrighi vivaci, richiedeva uno schema operistico che avesse una nuova flessibilità. La commedia ha bisogno di velocità e il concertato gliela dà. Il ter­ zetto di Mozart opera su una scala cronologica abbastanza più veloce di quanto è probabile che succeda nella vita reale (e in verità la scena non sarebbe affatto divertente se Mozart vi indugiasse molto di più). La commedia ha bisogno di un’atmosfera disinvolta, almeno per una certa parte di tempo, i personaggi non possono prendersi sul serio come le Didoni e gli Orfei, o come i sofferenti cristiani del mondo drammatico del barocco. Con una continuità musicale determinata in larga misura dallo sviluppo orchestrale, si può far bisbigliare don Giovanni sullo sfondo, accompagnato da un pezzo musicalmente banale, perché ques­ to si può adattare perfettamente alla tessitura vivace di un pezzo in stile classico. La commedia richiede un senso di superficiale verosimiglianza, le sue convenzioni non possono apparire rigide. Questa è una questione relativa, naturalmente, ma la tecnica classica dei concertati dimostrava di essere ammirevolmente flessibile e naturale, sicuramente tale se messa a confronto con i solenni artifici di Lully o di Metastasio. La flessibilità drammatica del genere può essere appropriatamente dimostrata solo tramite un catalogue raisonné dei concertati di Mozart. Nella forma sono notevolmente liberi, o almeno la loro libertà potrebbe apparire notevole a chi considera dogmatica la forma classica. Un con­ certato raramente si avvicina al piano preciso di una forma sonata tanto quanto il terzetto di Elvira, perché una singola azione drammatica di rado si adatta perfettamente alla dinamica della forma sonata, mentre i principi generali della costruzione della sonata, che ho già esposto, nelle

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opere di Mozart sono sempre potentemente all’opera. In confronto al terzetto «Ah, taci, ingiusto core», ci sono concertati che incorporano molta più azione, con conflitti messi in risalto con umorismo anche maggiore e con risoluzioni dei più svariati tipi. Uno di brillante com­ plessità è il terzetto del primo atto delle Nozze di Figaro, «Cosa sento! » Cherubino e il conte Almaviva hanno a turno amoreggiato con Susanna e a turno ognuno è stato costretto a nascondersi dietro un mobile per un arrivo inopportuno. L’ultimo arrivato, don Basilio, che desidera sedur­ re Susanna non per sé ma per il conte, compie l’errore di ripetere scan­ dalose dicerie su Cherubino e la contessa. Il terzetto inizia nel momento in cui il conte si rivela. Su un forte «primo tema», tipicamente sinfonico, il conte ordina che Cherubino venga bandito dalla corte. Basilio nega untuosamente di avere fonti di prima mano per il suo pettegolezzo. Susanna cerca di trasformare il proprio imbarazzo in innocenza offesa e le sue energiche proteste con­ ducono con naturalezza alla dominante, dove trova conveniente sveni­ re. Su un nuovo tema che denota una certa ansietà, la portano verso il divano in cui è nascosto Cherubino. Con un brusco cambiamento di tat­ tica, Susanna grida violenza! E tocca ora agli uomini essere imbarazzati, in una versione attenuata, sottodominante del loro tema. Il conte, però, non vuole calmarsi sulla questione di Cherubino, come chiarisce la mu­ sica tramite un’enunciazione ancora più decisa del suo tema originale nella tonica d’apertura: una ripresa. Il conte aveva precedenti motivi di sospetto e racconta come fosse passato dalla figlia del giardiniere solo per scoprire il paggio amoroso. Con raro senso dell’umorismo, Mozart usa per questo aneddoto un recitativo, accompagnato, semisolenne, in­ corporandolo magicamente nel brano. Naturalmente il conte scopre di nuovo Cherubino, con grande soddisfazione di Basilio. In un passo che ha tutta l’ironia di una seconda ripresa, l’iniziale indignazione del con­ te nei confronti di Cherubino viene trasferita a Susanna, con lo stesso tema severo in tonica: «Onestissima signora, or capisco come va». Per una ripresa la cosa migliore si dà quando tutti i temi possono essere ripe­ tuti. Cosi Mozart fa ripetere esattamente a Basilio la sua ritrattazione originale, un atto di insolenza che Basilio non avrebbe osato, penso, se il conte stesso non si fosse trovato in uno stato d’animo sarcastico. La sofferenza di Susanna è intensa e costituisce una nuova inflessione nella

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tela musicale della ripresa che funge da elemento unificante. Un altro particolare che sviluppa la situazione nel momento stesso in cui l’appiana è il nuovo ridacchiarne commento di Basilio: «Cosi fan tutte le belle, non c’è alcuna novità! » Con Le nozze di Figaro Mozart divenne per la prima volta consape­ vole delle possibilità del concertato. Scrivendo il Don Giovanni, sem­ brava trascinato dalla sua forza fino al punto da inserire le arie con una certa trascuratezza. Poi, in Cosifan tutte e nel Flauto magico, sottomise il brillante trattamento dei concertati a più ampi fini drammatici e si concentrò sul problema di estendere la continuità al di là dei singoli concertati. Nel Don Giovanni il virtuosismo di Mozart si estende dall’implaca­ bile semplicità della prima entrata di donna Elvira, «Ah! chi mi dice mai», attraverso la ricchezza del terzetto già esaminato, alla complessità della scena del ballo con le orchestre simultanee e la straordinaria forza del confronto finale del Don con il Commendatore e i diavoli. «Ah! chi mi dice mai» ha la forma precisa di un’aria di una pomposa opera seria. Elvira, che sembra aver l’abitudine di lamentarsi per str ada, inizia una lunga diatriba sull’infedeltà di don Giovanni, ma, durante gli obbligatori ritornelli orchestrali, don Giovanni e Leporello, che ancora non l’hanno riconosciuta, fanno furtivi commenti su questa appassionata sconosciuta e don Giovanni decide di farla sua. Come rende ridicola Elvira tutto questo, e che imbarazzo quando essi comprendono chi sia e la musica viene lasciata sospesa e sconcertata! Il tono disinvolto degli a parte sia in «Ah! chi mi dice mai» sia in «Ah, taci, ingiusto core» è spinto molto più in là in altri concertati, fino al punto di farne il principale meccanismo drammatico. Il principio consiste nel tenere l’idea musicale principale da una parte, e dall’altra, in simultaneità, la conversazione necessaria allo sviluppo dell’azione. Il conversare, automaticamente informale, furtivo, comico e naturale, è orientato secondo una specie di embrionale contrappunto che consiste sostanzialmente di toniche e dominanti. L’idea musicale principale può essere costituita da un lavoro tematico dell’orchestra, come nell’aria di Susanna «Venite, inginocchiatevi», in cui il suo cicaleccio è offuscato dagli strumenti che riproducono il suo indaffarato cucire, o può essere cantata da qualche altra persona, come nel sublime canone nuziale di

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Cosi fan tutte, cantato da Ferrando e dalle sorelle mentre Guglielmo si nasconde bofonchiando sullo sfondo, poco propenso a dimenticare il tradimento, oppure può essere una vera e propria musica suonata sulla scena, una marcia o una danza o un postludio per organo. Nella scena del ballo di Don Giovanni, la continuità musicale è data anzitutto dal ri­ gido e antiquato minuetto, simbolo perfetto della formalità esteriore dell’evento, ma l’azione piti importante, la conquista di Zeriina e il teso intrigo degli antagonisti di don Giovanni, procede su a parte sussurrati sullo sfondo. Mozart inventa anche un mezzo straordinario per accre­ scere la tensione incastrandovi gradualmente altre due danze che si sen­ tono provenire dalle stanze contigue, entrambe statiche c fatue come il minuetto. Le tre danze, suonate insieme, dànno vita a una musica da ballo assordante, confusa e vagamente sinistra contro la quale l’azione disperata procede in un sottotono sempre piu incalzante. Questo effetto drammatico non è mai stato uguagliato, anche se è stato imitato in Un ballo in maschera, nel Pipistrello, in Boris Godunov, Tosca, Wozzeck, Pe­ ter Grimes e in altre opere. Ogni analisi del concertato operistico mette sempre in evidenza la sua utilità nella presentazione simultanea di emozioni in conflitto l’una con l’altra, con alcuni dei partecipanti magari all’oscuro della presenza degli altri. L’esempio più famoso, sempre citato, è il quartetto del Rigo­ letto di Verdi. Il terzetto di Otello in cui Otello capta alcune parole della conversazione tra Iago e Cassio riguardo al fazzoletto mostra tutta la forza del meccanismo, specialmente se messo a confronto con Shake­ speare. La presentazione di sentimenti simultanei è, comunque, il più semplice degli effetti di Mozart e non era al di là dei mezzi del barocco, come si può vedere in Lully e in quelle cantate di Bach che trattano la Paura e la Speranza come personaggi. L’eleganza dello stile classico per­ metteva al compositore di sfruttare la possibilità tanto più ricca di modi­ ficare tali emozioni all’interno del brano musicale in risposta all’azione, cosa che non avviene in Bach, ma che avviene invece certamente in Ver­ di. In Mozart uno sviluppo simile è la regola. Tutto considerato, la varietà di effetti drammatici a disposizione del concertato è limitata solo dal­ l’immaginazione del librettista e del compositore.

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4I concertati più ambiziosi e di più ampio respiro furono quelli alla fine degli atti, i «finali», nei quali una maggior quantità di azione - e di azione complicata - era assorbita nella continuità musicale. In essi i compositori del xvm secolo spinsero ai limiti massimi delle loro possibi­ lità di controllo il raggio della coesione musicale. Teoricamente era an­ che possibile costruire un’opera intera come un lungo concertato, ma questo sarebbe stato al di là delle loro possibilità. L'opera buffa classica conservava ancora la matrice del recitativo secco ereditato dall’opera seria. La maggior parte dell’azione, infatti, procedeva sul livello dei recitativi, in un cicaleccio che era per lo meno divertente, anche se di stile antiquato. L’azione importante, però, era riservata al più alto livello musicale dei concertati. Naturalmente vi comparivano anche le arie, alcune leggere e spiritose e probabilmente piuttosto bana­ li, altre serie. Come Purcell e Gluck, Mozart e gli altri compositori di opere buffe riconoscevano il valore di un piccolo numero di arie ben di­ sposte all’interno della forma complessiva. L’importanza del concertato, comunque, non può essere sottolineata troppo, nemmeno con compositori che ne fecero un uso limitato. Con­ venzionalmente, i concertati erano impiegati per gli inizi degli atti, dove era necessaria un’esposizione vivace, e, in particolare, per la fine degli atti, dove la trama raggiungeva la massima complessità c la massima vi­ vacità. La tentazione era di assorbire nel finale una parte sempre più consistente della conclusione di un atto. Già nelle Nozze di Figaro Mo­ zart incluse qualcosa come metà del secondo atto in un immenso finale; nel Flauto magico la musica del secondo finale continua ininterrotta per parecchie scene di particolare intensità. Si tratta ora di vedere come venissero resi omogenei questi lunghi concertati. Poiché era l’epoca di Mozart e non quella di Mahler, vi erano seri limiti temporali: una singola continuità musicale che dur asse venti­ cinque minuti era inconcepibile anche per i compositori dal più lungo respiro. La procedura di un finale consisteva nel mettere assieme una se­ rie di concertati distinti e anche di arie frammentarie, mutando tonalità, tempo e tono, con ogni probabilità, all’arrivo di ogni nuovo personaggio.

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Si può parlare di « concertato composito». Del finale il librettista di Mo­ zart scriveva, usando parole abbastanza semplici e divertenti, che ogni stile di canto vi doveva trovar posto - adagio, allegro, andante, amabile, armonioso, strepitoso, arcistrepitoso, strepitosissimo, dopodiché il finale poteva terminare. Questa ricetta prettamente teatrale è valida per la maggior parte degli esempi scritti da Lorenzo da Ponte, o a lui noti. Pure, per quanto vagamente, negli ultimi finali di Mozart avvertiamo qualcosa di più profondo di questa «efficacia». È notoriamente difficile dire che cosa li tenga assieme, perché que­ sto costituisce un problema critico arduo quanto definire con chiarezza la coesione dei quattro movimenti di una sinfonia di Mozart. Sembra che, in un'opera come in una sinfonia, l’unità sia qualcosa di più di una semplice unità di tonalità o di stile. Non è una sintesi tematica, perché Mozart non ha mai provato Io schema semplice e stranamente profetico inventato da Piccinni per mezzo del quale, nel corso di alcune sezioni successive, ricorrono le idee melodiche, alla maniera di un libero rondò (se ne ha un esempio nell’ultimo finale del Matrimonio segreto di Cimarosa). Con Mozart si tratta della più sottile modulazione di tono; anche se l’ampio campo d’azione del finale non richiede o non riceve la stessa coesione di una singola scena, tutti gli elementi vengono ricondotti as­ sieme con un senso di equilibrio e di inevitabilità. Sostituire una sezione di uno dei finali delle Nozze di Figaro con una di Cosifan tutte sarebbe impensabile quanto scambiare alcuni movimenti tra la Linz e la Jupiter. In confronto a Mozart, Beethoven mantiene sempre una relazione più passionale tra le sezioni musicali, si tratti dei movimenti di una sin­ fonia o delle varie sezioni di brani operistici compositi. La conclusione del Fidelio evidenzia chiaramente quanto qualsiasi altra opera classica l’integrità a cui tendeva il finale composito. L’affermazione di una sin­ gola concezione al di sopra di tutta l’azione era qui di particolare valore drammatico. Certo, è in gioco meno azione di quanta ce ne sia di solito in Mozart, anche se ancora abbastanza da richiedere quattro sezioni. Fi­ delio è un’opera breve e non è una commedia, e per alcuni critici anche la sua modica quantità d’azione è troppa. Nella scena precedente, quella della prigione, Leonora ha finalmente soccorso Florestano e Pizzarro è fuggito via confuso appena uditi i segnali di tromba per l’arrivo di don Ferrando. Finalmente marito e moglie si ritrovano insieme per un està-



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tico duetto e, anche se non è chiaro come vada a finire la storia, si sente chiaramente che il peggio è passato. Il finale si snoda simultaneamente su tutta l’ultima scena, nella chiara luce del giorno sopra la prigione. Vil­ lici inneggianti alla libertà sono li per applaudire don Ferrando, sperano che dimostri di essere un emancipatore, e in effetti le sue prime parole promettono bene. La sconfìtta di Bizzarro confluisce in un momento di sollievo, simile a un inno, seguito dal giubilo generale e dalle generali lodi di Leonora. L’intero sviluppo del finale, quindi, non può non tentare un compositore ad attirare il brano in una struttura unitaria, trasfor­ mando la speranza comune dell’inizio, attraverso l’incertezza della parte centrale, nel ben motivato gaudio conclusivo. La prima sezione di Beethoven è una marcia brillante in Do maggiore per l’entrata di don Ferrando che si trasforma in un coro di benvenuto. La marcia accumula in realtà più tensione di quanta ne scarichi il coro, perché quest’ultimo è ingegnosamente lasciato incompleto. L’angoscio­ sa allusione alla prigione, fatta dalla folla, dà a Beethoven un mezzo na­ turale per spezzare l’attesa completezza formale. Dopo il libero arioso di don Ferrando, ancora in Do, riecheggiano le lodi corali, esitanti e fi­ duciose. Come il buon carceriere Rocco si fa largo tra la folla per denun­ ciare il malvagio, la musica passa alla tonalità minore e trasforma il poco agitato in un andantino in La maggiore che costituisce la seconda sezio­ ne. Qui la coesione interna non è quella di una semplice marcia, ma quella di una complessa tela di motivi. Il suo tono è di tesa chiarificazio­ ne. I riconoscimenti e gli smascheramenti avvengono su una forte mo­ dulazione, con una sortita al Fa diesis minore alla condanna di Pizzarro. Don Ferrando, comunque, risolve la situazione tornando definitiva­ mente al La. Come questi guida Leonora a liberare Florestano dalle catene, l’on­ da delle emozioni di Leonora è tale da trascinare improvvisamente la musica al Fa. La terza sezione, sostenuto assai, è retta da una melodia cele­ stiale dell’oboe contro la quale Leonora e gli altri possono solo emettere mezze frasi restando sullo sfondo. «O Gott, welch’ ein Augenblick! » La tecnica c quella di Mozart e ottiene un effetto di un’intensità emotiva così vera che all’inizio non è possibile esprimerla a parole. Se sorridiamo del­ l’impudente inclinazione del librettista per Augenblick, spero che lo fac­ ciamo tra le lacrime. Il passo ha una qualche affinità con l’eterea scena

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del perdono alla fine delle Nozze di Figaro. I cantanti si uniscono gra­ dualmente all’orchestra finché alla fine non abbracciano e dominano l’emozione. Dopo un momento di calma, cominciano le grandi, enfatiche cele­ brazioni dell’ultima sezione, Allegro ma non troppo, in tonalità di Do. In questa sezione le cadenze intensificate alla Cherubini che hanno con­ traddistinto l’opera hanno il loro dovuto riconoscimento, gli accenti anticonformistici che entrano nello stile di Beethoven intorno a questo periodo ottengono il loro effetto stranamente spirituale e ci sono somi­ glianze, nel testo e nel tono, con la più tarda intonazione dell'inno alla gioia di Schiller della Nona Sinfonia: Wer ein holdes Weib errungen stimnrT in unsern Jubel ein...

Ed ecco giungere lo strepitosissimo di Da Ponte. L’intera dinamica tona­ le ha un impatto immediato impressionante, come raramente avviene in un finale mozartiano: il Do maggiore iniziale è vittoriosamente ripristi­ nato alla fine dopo il doppio trapasso alle sottodominanti, Do-La-Fa. La chiarezza di questo coro finale, frutto della tecnica musicale quanto del­ la drammaticità della situazione, si è sviluppata in modo magnifico dalle ovazioni iniziali, frammentarie e un po’ vaghe. Il finale viene sentito co­ me un’unità drammatica con il suo sviluppo e la sua risoluzione. Questa entusiastica conclusione del Fidelio sembra chiaramente de­ bitrice alla conclusione di Egmont, in cui Goethe, deciso a carpire il trionfo dalla tragedia di una tirannica esecuzione capitale, voleva che le ultime sonore parole di Egmont si dissolvessero in una grande «Sinfo­ nia di vittoria». È difficile immaginare a quale musica potesse pensare nel 1775, ma trentacinque anni dopo Beethoven gliela scrisse con la sua musica di scena per il dramma, un brano violento, estatico e tumultuo­ so, pervaso dalla sincerità quasi sfrenata del suo cosiddetto secondo pe­ riodo. Poi, come ouverture ad Egmont, Beethoven compose un tragico movimento di forma sonata coronato da una trascinante sezione che fungesse da coda, la stessa «Sinfonia di vittoria» che più tardi, nel corso della serata, deve coronare il dramma. Beethoven tendeva sempre a con­ centrare tutto lo sviluppo di un dramma nella sua ouverture. L’idea 1 «Chi ha conquistato una dolce sposa unisca la sua voce al nostro canto gioioso».

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di Goethe di una «Sinfonia di vittoria» come punto culminante di una lotta drammatica si adattava alle necessità di Beethoven per Fidelity, qualcosa del genere appare come sezione musicale risolutoria in tutte le ouvertures scritte per l’opera, cosi come appare alla fine dell’opera stessa. Quest’idea, infatti, ossessionò Beethoven per tutto il suo secondo periodo, nel terzo decennio della sua vita. La si può ritrovare in maniera tipica nelle sinfonie, già in certa misura nell'Eroica, inequivocabilmente nella Quinta, come velata nella Settima e, da una prospettiva religiosa, nella Nona. Proprio come le sezioni dell'ouverture àiEgtnont e del finale composito di Fidelio si sviluppano insieme, così si sviluppano i movi­ menti delle sinfonie. L’intima relazione tra gli ultimi due movimenti della Quinta Sinfonia rivela la stessa necessità interna che hanno queste sezio­ ni. Beethoven raggiunse la sua sintesi finale negli ultimi quartetti, dove sette movimenti potevano procedere insieme come una singola conti­ nuità drammatica mai raggiunta nel resto della musica. Sia la Quinta Sinfonia, sia il Fidelio sembrano indicare il cammino e, per contro, le loro particolari unità vengono illuminate dalle soluzioni più tarde di Beethoven.

5* Nell’aria, infine, Mozart e Beethoven seppero introdurre P« azione psicologica» con mezzi analoghi a quelli del concertato. Fin dal tempo di Pergolesi, i compositori di opere buffe erano riusciti facilmente a scrivere allegre arie comiche che davano vita a vivaci carat­ terizzazioni e spesso univano l’arguzia musicale a quella verbale. Scor­ gevano anche la possibilità di fare della parodia a vari livelli, impiegando tecniche sentenziose da opera seria nel contesto disinvolto della comme­ dia. Certo, i critici non si trovano necessariamente d’accordo nello sta­ bilire dove finisca la solennità e cominci la parodia. Raramente il caso è così lampante come nell’aria di entrata di Elvira - in realtà un concerta­ to - «Ah! chi mi dice mai», dove altri personaggi sulla scena ridono alle sue pretese da opera seria. C’è forse una nota di parodia nell’eroica aria di donna Anna «Or sai chi l’onore», che non è accompagnata da a parte delucidativi? In Cosi fan tutte Mozart e Da Ponte devono essersi presi gioco della furia amorosa di Dorabella in «Smanie implacabili», con le

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sue invocazioni alle Eumenidi e il suo suono orribile e, più mestamente, dell’enorme rimprovero che Fiordiligi rivolge a se stessa in «Per pietà», con la sua fantastica gamma vocale impiegata per mettere in risalto le parole più incongrue e più drammaticamente ironiche del testo. Nel Plauto magico, una squisita parodia, o parallelo, della disperazione di Pamina (la sua grande aria in sol minore «Ach, ich fiihl’s») riecheggia nel più tardo suicidio mancato di Papageno (il finale della sua canzone in sol minore «Papagena! Weibchen! Tàubchen!») Comunque, il problema centrale, particolarmente interessante, era quello di scrivere un’aria interamente seria che stesse sullo stesso livello di consapevolezza dei concertati, sia in una commedia, quando era ri­ chiesto un momento serio, sia in un melodramma come Fidelio, che fa uso dello stile musicale sviluppato per la commedia. Questo stile era fondamentalmente progressivo, mentre un’introspezione o un’aria sono giustamente statiche. La musica barocca funzionava meglio nelle arie, quella classica funzionava meglio nei concertati che implicavano azione. Le arie in genere non abbracciano assolutamente nessuna azione fisica. Anche senza forzare l’azione all’interno dell’aria, Mozart riusciva a ottenere una notevole sottigliezza psicologica grazie alla capacità che aveva il suo stile musicale di abbracciare, modulare e armonizzare acuti contrasti. Cosi, nello spazio di un brano conciso, il ferreo desiderio di vendetta di donna Anna e il tormento del suo ricordo del cadavere del padre vengono accostati e giustificati, proprio come vengono giustificati, c con mezzi musicali analoghi, anche se non identici, i temi contrastanti di una sinfonia. Ora, nell’aria metastasiana era non solo possibile ma in realtà comune ritrarre due «affetti» diversi. Prima ne veniva esposto ampiamente uno, poi l’altro, poi veniva ripreso il primo in una ripetizione letterale o da capo. La differenza, però, tra una simile ripetizione letterale e la ripresa dello stile classico è una differenza cruciale: una sezione rie­ spositiva si sviluppa inevitabilmente dalle precedenti e presenta il mate­ riale originale in una luce del tutto nuova, mentre il da capo barocco si limita a giustapporre le sezioni. Lo schema barocco è, come sempre, ri­ gido e intenso. Nello stile classico Mozart scopri i mezzi per una presen­ tazione più flessibile e naturale della complessità dei sentimenti multi­ formi. Mozart sperimentò inoltre l’idea di introdurre l’azione psicologica

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nell’aria, suggerendo uno sviluppo emotivo tramite una forma di aria composita paragonabile a quella dei concertati più ampi. In questa dire­ zione si spinse forse più lontano con la grande aria per la contessa delle Nozze di Figaro, «Dove sono». Ancora una volta è Beethoven a darcene l’esempio più ricco. L’aria di Florestano in Fidelio ha tre sezioni separa­ te, se contiamo il recitativo iniziale che vi è incorporato. Come il sipario si alza sul secondo atto, una lunga e opprimente introduzione in Fa mi­ nore suggerisce in termini pressoché tragici la sua infelice condizione. Questa trapassa in modo splendido in una nuova sezione, il famoso can­ tabile in La bemolle in cui Florestano considera con animo fermo la sua dedizione al dovere e la sua forza di fronte alla prigionia, all’oscurità e alla fame. Improvvisamente, come Egmont, ha una visione di Leonora come principio di libertà. La musica scivola di nuovo al Fa maggiore per una più veloce terza sezione, un apogeo estatico attraverso il quale l’ap­ parizione premonitoria sembra librarsi in un’estatica melodia per oboe. Anche se incatenato e solitario, Florestano compie un chiaro cammino dalla sofferenza alla consolazione e alla speranza e sviene anche su un adattissimo accompagnamento orchestrale prima che giunga al termine la continuità musicale. Quest’aria composita è, misteriosamente, un pezzo singolo di grandissima forza. Non è mai venuto in mente a nessuno di dubitare che Florestano meriti il soccorso di Leonora. Se accadesse, il dramma crollerebbe (come crolla Tosca), eppure Florestano canta poco. L’eroismo e il pathos di questa sola aria lo sorreggono per tutto il resto dell’opera. Il risultato di Beethoven, comunque, è in realtà meno vicino allo spi­ rito della drammaturgia di Mozart di quanto sia profetico di una dram­ maturgia più tarda. Beethoven guarda indietro al periodo classico di Haydn e di Mozart, ma guarda, anche avanti all’era romantica di Wag­ ner. L’idea di rivelare uno sviluppo emotivo in un dramma senza l’in­ tervento di una vera e propria azione drammatica può essere stata sug­ gerita a Beethoven da un’altra figura bifronte, da Goethe, per il modo in cui tratta Oreste in Ifigenia in Tauride. In un’opera uno sviluppo simile sarebbe stato impossibile senza la «drammaticità» dello stile musicale classico, ma l’idea raggiunse il suo massimo sviluppo (non solo per quanto riguarda l’opera, ma anche per quanto riguarda il dramma tede­ sco nella sua totalità) nella lunghissima scena all’inizio del terzo atto di

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Tristano e Isotta, durante il quale Tristano, inchiodato al suo giaciglio, si innalza da una profonda disperazione ad un'estasi quasi religiosa che lo prepara alla morte. Wagner, a sua volta, aveva affrontato il perenne problema della drammaturgia operistica, la relazione o gioco interno esistente tra l’azione e la musica. La sua soluzione - non necessaria­ mente migliore, ma certamente più complicata e più problematica di quella di Beethoven - era legata a nuovi principi che nella musica clas­ sica erano messi in evidenza solo vagamente.

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i.

La soluzione al problema dell’azione e della continuità musicale pro­ spettata alla fine del xvm secolo trovò il proprio compimento nelle opere di Mozart, che fece qualcosa di più che perfezionare la nuova dramma­ turgia operistica, rivelando e sviluppando al massimo il suo talento drammatico. In quattro opere famose, scritte durante gli ultimi anni, Mozart ci ha lasciato quelli che per molti sono ancora paradigmi del dramma operistico. In genere trattate con condiscendenza nel xix secolo, queste opere sono ritornate sulla scena grazie agli sforzi del direttore di Wagner Her­ mann Levi, di Richard Strauss e di Thomas Beecham, oltre ad altre per­ sone. Edward). Dent merita di essere citato in questo gruppo, perché il suo ammirevole ed influente «studio critico» del 1913, Mozart's Ope­ ras1, non è ancora stato superato, dopo tanti libri su Mozart. Nel periodo tra le due guerre è stato fondato a Glyndebourne una discreta Bayreuth mozartiana. Oggi è raro che una stagione operistica in qualsiasi impor­ tante teatro d’opera non includa Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Cosi fan tutte o II flauto magico, una almeno. Sono tutte opere che stanno al centro della nostra esperienza operistica. In anni recenti, le frange del repertorio operistico hanno fatto posto ad altre due opere di Mozart. Sono i suoi due ultimi tentativi di opera seria italiana. Cresciuti su Figaro e sul Flauto magico, si è portati natural­ mente a pensare a Mozart come a un maestro dell’opera buffa, ma della dozzina circa di opere che scrisse da ragazzo o da giovane prima di re­ carsi a Vienna metà appartiene all’opera seria o a generi simili. Idomeneo, re di Creta, scritto per Monaco nel 1781 (nel suo venticinquesimo anno), si ’ Cfr. E. J. Dent, Mozart’s Operas, London 1913 (trad. it. Il teatro di Mozart, a cura di P. Isotta, Milano •979)-

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staglia al di sopra di tutta la sua produzione operistica o meno, fino allo­ ra realizzata. L'opera non tenne mai il cartellone. La clemenza di Tito fu scritta dieci anni dopo a Praga per una celebrazione dinastica. Era Panno della morte di Mozart. Dapprima un fiasco, conobbe poi per un certo periodo un successo cd un prestigio notevoli, finche non usci di repertorio. Prima di passare alle opere viennesi, dovremmo dare un’occhiata ad IdomeneOy saltando, per cosi dire, il capitolo precedente per esaminare di nuovo gli «anni bui» dell’opera.

2.

Come progenie, progenie seria, di origini miste, infatti, Vldomeneo ricorda opere discusse nel terzo capitolo, come Didone ed Enea c la Can­ tata BWV 78 di Bach, «Jesu, der du meine Sede», ma, mentre Purcell e Bach vivevano entrambi in periodi fertili sia per l’opera barocca fran­ cese sia per quella italiana, al tempo di Mozart le due tradizioni erano entrambe vecchie e criticate. Se Vopera seria aveva ancora qualche de­ cennio di vita, i servizi di Gluck alla tragedie lyrique furono più decisivi (e alla rivoluzione non lasciarono altro che il coup de grace). Di conse­ guenza, i vari tentativi compiuti durante la vita di Mozart di elaborare una sorta di combinazione dei due generi erano tutti minati da una par­ ticolare precarietà. L'Alceste di Gluck costituì l’ispirazione per molti dei brani «france­ si» dellTdomeneo, i grandi quadri corali e i recitativi riservati all’azione. Mozart, che aveva composto relativamente poca musica in stile francese, resse magnificamente il confronto nei brani corali. Raggiunse risultati inferiori nei recitativi per l’azione. Può darsi che si sia lasciato sfuggire i risultati di Gluck in questo campo, o che abbia esitato a cassare piace­ volezze musicali secondo lo stile del compositore più anziano. La sua scena dell’oracolo, apertamente modellata sulla possente scena dell’ora­ colo dell’/lZcerte, è in confronto straordinariamente di poco respiro, una cosina linda e garbata. Bisognava attendere i parchi e strazianti recitativi scritti sei anni dopo per donna Anna in Don Giovanni perché Mozart ri­ conoscesse finalmente l’insegnamento di Gluck, invece di limitarsi a co­ piarlo.

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Molto più a suo agio era con lo stile italiano che, per VIdomeneo, spinse a punte inaudite. La grandezza àeWldomeneo sta soprattutto nei brani lirici. Mozart, naturalmente, sapeva bene che Vopera seria italiana poggiava sulla supremazia degli interessi dei cantanti, ed è abbastanza certo che egli si trovò di fronte a gravi problemi con i suoi cinque prota­ gonisti. Dei tre uomini ognuno fece la sua parte per compromettere il dramma complessivo, cosa che nessun cantante fece mai per nessuna delle opere di Mozart per Vienna. L’attempato tenore che impersonava Idomeneo doveva esibirsi in una gamma e in una coloratura attentamente limitata, non troppo difficile, ossia non troppo brillante. Un altro tenore pretendeva decisamente troppo in un ruolo che rimane potenzialmente gratuito, quello di Arbace, cioè il confidente del re. Il castrato era cosi inesperto e privo di talento che anche Mozart non riusci ad aggirare i suoi limiti scrivendo la musica per Idamante. Le arie - persino una delle arie di Idamante! - sono assolutamente superbe come musica, assolutamente superbe come espressione emoti­ va. Ciò nonostante, temo comportino un altro problema. Delle quattor­ dici arie, dodici hanno la stessa forma, «qualcosa di simile a ciò che si definisce forma sonata», per riciclare un’acuta espressione usata da Dent nella sua analisi Idomeneo quando volle evitare una digres­ sione tecnica. La forma sonata - o, più in generale, lo stile sonata - era il linguaggio basilare di Mozart, che mai lo aveva trattato in modo così ampio, ricco c libero come nel grande quartetto del terzo atto. (La di­ rompente opera seria di questo periodo comprendeva spesso alcuni con­ certati importati dall’opera buffa}, §e le cose fossero state lasciate al li­ brettista, in questo concertato non ci sarebbe assolutamente stata azione. Riportare il rigo iniziale del testo alla fine, di modo che l’«andrò» di Ida­ mante divenisse non un argomento di meditazione ma una vera e pro­ pria didascalia di scena, fu un sotterfugio brillante da parte del compo­ sitore. Questo ed altri punti sono messi in evidenza nella bella valutazione che Daniel Heartz ha fatto di questo brano straordinariosecondo Dent «forse il più bel concertato mai composto per la scena». L’ingegnosità e la forza con cui Mozart piegò il formalismo della struttura dell’aria modellata su quella della sonata sono quasi incredibi­ li; pure, non fece niente di più che piegarlo. Anche se si potesse dimen1 Cfr. D. Heartz, The Great Quartet in Mozart's «idomeneo», in «Music Forum», V (1980), pp. 233-^6.

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ticare l’uniformità di fondo della dinamica emotiva, la forma stessa è quanto mai complessa ed intensa. Dent sapeva che qualcosa non andava ed asseriva che in Idomeneo l’aria «diventa un’esibizione di bellezza mu­ sicale, serena e squisita, che eclissa completamente la passione umana che deve anzitutto esprimere». Io direi piuttosto, d’accordo con Tovey, che l’intensità latente nella forma sonata a cui Mozart dette sfogo nelle arie AoW Idomeneo si dimostrò troppo forte per la scena. La passione è troppo intensa e troppo regolare per essere una risposta plausibile all’a­ zione che si svolge sulla scena. «Troppo bella per le nostre orecchie, e troppe note, mio caro Mo­ zart». Questo aneddoto, riferito a proposito del Ratto dal serraglio, è troppo bello per non esser vero, dato il modo in cui coglie l’imbarazzata ammirazione che la musica di Mozart suscitava nei contemporanei e le difficoltà reali di fronte alle quali li poneva, oltre alla suicida mancan­ za di tatto che rendeva tanto difficile, in un altro senso, il compositore («Esattamente quante ce ne vogliono, Vostra Maestà»). Oggi, senza dubbio, la maggior parte di noi preferirebbe le note di Mozart al dramma di chiunque altro. Resta comunque il fatto che, nelle sue opere più tar­ de, Mozart non scrisse nulla di altrettanto complesso di questi brani dell’Idomeneo, tanto meno un’intera serie di pezzi, come nclVIdomeneo stesso. Quello che dà ad Idomeneo una certa forza ossessiva come dramma, nonostante questi problemi, è il suo tema principale. Come una parabola dinastica, racconta la storia della gioventù e dell’età avanzata e del non facile passaggio di potere dall’una all’altra; la gioventù prevale per pas­ sività. La passività è pari alla natura sostanzialmente statica Adopera seria italiana, il principale antecedente nel confuso lignaggio dell’Womeneo. L’eroismo dell’età si rivela nella vita attiva, sia fra gli uomini sia fra gli dèi. Idomeneo è un guerriero di ritorno dalla guerra di Troia che si accor­ da con Nettuno per aver salva la vita durante una tempesta. Fa il voto di Jefte - e poi si dibatte in vari tentativi per evitare di sacrificare il proprio figlio, persino dopo che gli dèi hanno inviato un mostro per devastare Cre­ ta. È Idomeneo che movimenta la trama respingendo il figlio, mandandolo via insieme ad Elettra, maledicendo gli dèi e via dicendo - il tutto in recita­ tivi «d’azione» privi di convinzione. Si può forse dire che si prendono gio­

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co della futilità dell’azione. L’iniziativa più terribile di Idomeneo viene fatta fallire quando l’oracolo, apertamente commosso dall’amore di Ma­ rnante ed Ilia, gli impedisce di portare finalmente a termine il sacrificio. Da quel momento in poi, la sola azione di Idomeneo è la controazione di abdicare al trono. L’abdicazione è la nuova condizione di Nettuno. Su questo sfondo, la giovinezza ha la meglio sulla sofferenza e la pas­ sività. Idamante, in effetti, in tutta l’opera compie una sola azione, l’ob­ bligatoria azione eroica che la musica di Mozart taglia via con una velo­ cità persino superiore a quella del libretto, perché Idamante parte per uccidere il mostro accompagnato dalla musica assolutamente inconclu­ dente che chiude il quartetto. Non si rimane sorpresi, quindi, quando quest’azione non risolve niente. Il suo risultato, forse, è che Idamante ha cominciato a sperimentare la tempra del mostro, prima il figlio e poi il padre arrivano a capire quello che deve accadere. Idomeneo accetta l’i­ nutilità dell’azione evasiva e Idamante si prepara a morire. La figura di Idamante - cosi ben completata sul palcoscenico dalla musica - si ricorda con particolare intensità al suo ingresso nell’atto ter­ zo, vestito di bianco per il sacrificio. Il ricordo più intenso di Idomeneo è il suo atteggiamento deluso alla fine del secondo atto, quando sta eretto contro gli dèi e il coro fugge intorno a lui mormorando «corriamo, fug­ giamo quel mostro spietato». In nessuno dei due ricordi l’eroe canta un’aria. Come nel caso di Wotan, niente si addice di più ad Idomeneo della sua abdicazione, o, più precisamente, della sua reazione - esposta nel corso di un’aria - all’abdicazione che egli ha appena annunciato in un recitativo trasparente, inerte e assolutamente atipico di Gluck. Gli im­ presari talvolta omettono l’elegiaca aria finale di Idomeneo «Torna in pace», citando l’esempio del compositore stesso che la tagliò (o accon­ senti a .farla tagliare) nella rappresentazione originale c non la ripristinò per una rappresentazione più tarda, per concerto, a Vienna (dove, in ag­ giunta, fu tagliata tanta parte dei recitativi da lasciare la storia priva di una linea direttrice). Comunque, anche se «Torna in pace» di Idome­ neo è certamente un’aria lunghissima e di forma antiquata, è la più sen­ tita delle tre che vengono cantate. Nella conclusione del dramma Elettra impazzisce, ed è importante che l’accettazione di ciò da parte di Idome­ neo sia resa ben chiara. «Fuor del mar», il pezzo forte di Idomeneo nel

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secondo atto, con la sua spavalda coloratura di sfida agli dèi è curiosa­ mente non mozartiana. Anche «Vedrommi intorno», una delle poche arie «composite» della partitura, è difficile da amare, per quanto tesa ef­ ficacemente a conferire un’immediata intensità emotiva a Idomeneo. Fin dalla sua entrata del primo atto, i suoi sensi di colpa praticamente esplodono mentre l’aria passa da una sezione all’altra. Idomeneo, dunque, è un dramma di passività. La frenetica Elettra è in realtà lontana dal vero centro del dramma quanto lo è Arbace. Eppu­ re impone la sua presenza, con tutta quella sua azione fisica eccitata e mal diretta, e tutta quella sua «azione psicologica», diretta superbamen­ te, ma iperdiretta. Costantemente brillante, continuamente bella, solo sporadicamente drammatica, Idomeneo è un’opera geniale che rompe gli argini del proprio genere teatrale.

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Le stesse cose valgono per la prima opera di Mozart scritta a Vienna, Il ratto dal serraglio. Dato il basso livello del territorio su cui operava il genere teatrale in questione, il Singspiel tedesco, lo straripamento è an­ cora più evidente che nel caso (leWIdomeneo e il dramma ancora più sporadico. Nella sua opera successiva, Le nozze di Figaro f Mozart si trovò finalmente in una situazione teatrale adatta a lui, miracolosamente adat­ ta. Per la prima volta, forse, si rivolse ad un problema drammatico con un intuito ed una comprensione totali. Per Mozart, Figaro costituì anche un’iniziazione alla raffinatezza tea­ trale. Il suo librettista era Lorenzo Da Ponte, un professionista esperto dotato d’ingegno, abilità ed eleganza da vendere, non un cappellano della corte di Salisburgo (il Varesco di Idomeneo) o uno scribacchino teatrale viennese (lo Stephanie del Ratto). Una versione operistica del Barbiere di Siviglia aveva appena riportato un certo successo a Vienna. Si trattava di un’opera vivace e semplice, con semplicità scritta da Gio­ vanni Paisiello, uno dei principali compositori di opere buffe del mo­ mento. Il seguito di Beaumarchais, però, Il matrimonio di Figaro, fu po­ liticamente e moralmente così sospetto che non potè essere messo in scena senza l’edulcorazione della musica. Pian piano l'opera buffa del

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tempo si stava volgendo a temi adulti, la libertà di pensiero, il vero inge­ gno e l’umanità. Mozart e Da Ponte devono aver almeno in parte com­ preso che dalla semplice farsa tradizionale di Pergolesi, Piccinni e Paisiello essi stavano dando vita ad una commedia viva. Goldoni aveva fatto qualcosa di simile con la commedia dell’arte. In Figaro tutto era eccezio­ nale, avanzato, brillante, preoccupantemente reale; era un’opera trop­ po intelligente per aver successo a Vienna. Il senso mozartiano di intel­ ligenza, di forza e di allegrezza rimane una sua reale qualità estetica, tale da affascinare sempre il conoscitore. Scrivendo Figaro, Mozart comprese per la prima volta la forza dram­ matica del concertato; in una parola, scopri la propria caratteristica an­ datura drammatica. Assolutamente stupefacente è il modo in cui egli trasformò la tecnica piuttosto ingenua dell’opera buffa. Il barbiere di Si­ viglia di Paisiello - uno dei modelli di Mozart - può essere considerato un esempio superiore del genere, ma la sua drammaturgia appare puerile accanto a quella di Figaro. La forza drammatica di Figaro nasce diretta­ mente dalla comprensione di Mozart dei valori latenti nello stile dell’o­ pera buffa italiana, un fatto chiaramente riscontrabile nella conclusione dell’opera - la riconciliazione tra il conte e la contessa prima del sipario. Mozart ne fece un ampio finale, come avrebbe fatto qualsiasi altro compositore, ma nessun altro avrebbe piegato le peculiarità della forma ad uno scopo drammatico cosi preciso. In questo finale, la complessi­ tà della trama diventa quasi faticosa ed è intensificata dalla complessità della struttura musicale. Le sezioni confluiscono una nell’altra con arti­ colati contrasti musicali, parodie e «a parte» che sviluppano rapida­ mente l’azione su piani diversi all’interno della continuità musicale. L’intensità dell’intrigo è pari all’intensità del sentimento musicale. An­ che la scenografia è sottoposta a tensione con la sua oscurità, la serra in cui si nascondono tutti e la sarcastica formalità del giardino rococò. Il conte di Almaviva, che ha un appuntamento con la cameriera Susanna, corteggia la propria moglie vestita con gli abiti della cameriera; Figaro pretende di corteggiare la «contessa», che in realtà è la sua Susanna ma­ scherata. Quando il conte sente per caso quest’ultima manovra («Ah, senz’arme son io!») raccoglie le torce e prepara una scena di pubblica umiliazione. Susanna (per la contessa) recita una convulsa supplica di perdono, come fanno Figaro e i cortigiani riuniti, ma il conte è inflessi­

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bile, finché non appare la vera contessa che rivela il suo tra vestimento: «Almeno io per loro perdono otterrò». Improvvisamente, dalla musica è sparita ogni allegria. La svolta nell’azione ha il suo riflesso immediato, un brusco spostamento al modo minore, un ritmo teso, sussurrìi, un nervoso staccato su una figura di scala ai violini e una progressione ar­ monica di improvvisa serietà. Questa breve sezione cambia drasticamente l’atmosfera e prepara a un mutamento ancora più grande appena il conte chiede e ottiene il perdono dalla contessa. La nuova sezione è andante, con una calma assolutamente senza precedenti, quasi da inno, senza il comune scintillio mozartiano (es. 6). La complessità del finale antecedente a questo momento è stata critica­ ta e giudicata eccessiva, ma la verità, senza dubbio, sta nel fatto che il tor­ mento stesso prelude alla serenità del finale. La tecnica musicale stessa sot­ tolinea gli elementi essenziali dell’organizzazione della trama. La trama, a sua volta, con il suo scioglimento illumina i personaggi. È un momento di illuminazione, quasi un’epifania, per il conte, che mo­ stra un’insospettata capacità di pentirsi, senza più i palpiti delle finte

Esempio 6.

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suppliche di Figaro e di Susanna di poco prima. La contessa non è mai stata così amabile e sincera con se stessa, o meno presa dalle artificiosità della propria esistenza. Sono commossi persino i Basili e i Cherubini. I personaggi stessi chiariscono l’idea drammatica centrale; la scena svela un nucleo centrale di decoro al di sotto di tutta la meschineria che la commedia ha rivelato ed ha cercato di razionalizzare ridendoci sopra. Tutto questo è possibile perché costituisce musicalmente un momento culminante, perché la musica in questa parte ha acquistato una maggiore gravità ed una nuova chiarezza emotiva. Inefficace in sé, questa sezione dipende, per il suo effetto, dal resto del finale, con la sua alacre ilarità; nasce da esso, ma lo trascende completamente. Qui Mozart prefigura la più tarda concezione del Flauto magico. Le nozze di Figaro sarebbe un’opera meno grande se questa nota su­ blime fosse introdotta alla fine senza essere stata annunciata o articolata prima; e infatti segni tendenti in tale direzione appaiono chiaramente in tutta l’opera. Il primo atto è dedicato all’intrigo comico, ma la prima apparizione della contessa, all’inizio dell’atto secondo, sposta il dramma su un nuovo piano. Chiacchiere più o meno scurrili su di lei avevano do­ minato il primo atto; il conte si è rivelato per quello che è; è sulla contes­ sa quindi che ci poniamo interrogativi. Anche se potevamo prevedere, senza correre rischi, che il compositore ci avrebbe presentato un perso­ naggio di sentimenti più profondi, la sua cavatina «Porgi amor» è sem­ pre tale da mozzare il fiato. (Era prevedibile anche che un’opera buffa avesse le sue parti serie, ma nessuno prima di Mozart era stato disposto ad assumersi la responsabilità di una tale serietà). La contessa, vivendo in un mondo da commedia, porta la maschera di corte per la conversa­ zione e per l’intrigo. Nei soliloqui, tuttavia, appare la donna vera, la stessa che anche la corte vede quando ella si toglie la maschera alla riconcilia­ zione finale. Questa riconciliazione, inoltre, è stata preparata da un’al­ tra, da quella del terzo atto, quando don Bartolo e Marcellina scoprono che Figaro è il loro figlio naturale da tempo smarrito e finalmente si spo­ sano felici, senza pensare più al contratto di matrimonio tra Figaro e Marcellina. Grazie al senso del burlesco di Beaumarchais, è questa una scena spassosa; grazie alla musica di Mozart, è anche una scena strana­ mente bella. La commovente estasi comica dei due vecchi che ritrovano il loro «Raffaellino» contrasta con i fraintendimenti di Susanna e Pesa-

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sperazione del conte, e nell’ultima sezione del sestetto calde armonie suggeriscono una serenità nelle relazioni umane che mai prima era stata indicata. Come personaggi, Bartolo e Marcellina sono tratteggiati solo sommariamente, giusto quel tanto che basta a chiarire il punto dramma­ tico principale di Mozart, dare, cioè, fin da ora un chiaro accenno di sal­ vezza per persone cosi diverse come il conte e la contessa. Il sestetto dà anche inizio ad una significativa sottotrama mostrando i primi segni di attrito nel piccolo nido d’amore di Figaro e di Susanna. Quando Susanna lo vede abbracciare MarceUina («sua madre? sua ma­ dre! ! ») s’infiamma e lo prende a schiaffi, al meglio del suo stile da com­ media dell'arte. Lo sviluppo successivo di questo tema va ben al di là del creare ulteriori situazioni comiche complicandone lo scioglimento; so­ stiene il dramma principale impiantando un’analogia manifesta tra Figaro Susanna da un lato e il conte e la contessa dall’altro. Susanna canta «Deh vieni», confermando i peggiori timori di Figaro con la sua ambi­ gua fraseologia, non tanto perché lo voglia ingelosire, ma perché lo vo­ leva Mozart. (Nel quarto atto, prima del finale, Figaro cominciò a essere composto più in fretta, come sempre accadeva ai finali delle opere di Mozart. La drammaturgia è un po’ goffa e la musica meno interessante). Le coppie complementari di personaggi sono una caratteristica regolare delle opere mozartiane: Belmonte-Costanza contro Pedrillo-Blonde, Ferrando-Fiordiligi contro Guglielmo-Dorabella, Tamino-Pamina con­ tro Papageno-Papagena. Le coppie sono sempre messe accuratamente in parallelo e in Figaro l’analogia è rafforzata dal fatto che le due donne fingono entrambe di essere l’altra. È piuttosto importante per la concezione di Mozart che Figaro e Su­ sanna e il conte e la contessa siano messi in contrasto per tutto il com­ plesso meccanismo di amore, abbandono, gelosia, sospetto e perdono. Nel caso dei servitori, le cause di gelosia sono solo immaginarie e i loro sentimenti sono più o meno banali. Susanna schiaffeggia Figaro due volte e Figaro generalizza la rabbia per il «tradimento» di lei in una diatriba convenzionale contro le donne, la sua aria finale «Aprite un po’ quegli occhi». La loro riconciliazione è altrettanto superficiale, perché sono ben nascosti dietro le loro maschere da commedia dell'arte quando tutto viene perdonato nel delizioso duetto (all’interno del finale) «Pace, pace, mio dolce tesoro». Nel caso del conte e della contessa, invece, il tradi­

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mento c’è stato di sicuro. Il conte ha una vera squadra di mezzani. Invece di rivelare gelosia, la contessa rivela un acuto dolore. La rabbia del conte quando i suoi piani vengono ostacolati, e specialmente quando crede la moglie infedele, è intensa ed estremamente sgradevole. Almaviva è la creazione più violenta di Mozart. Pure, nonostante la gravità dell’offesa e la forte eccitazione, la loro riconciliazione è vera c profonda, la cosa più bella dell’opera. Possono ristabilire dei rapporti che non avevamo mai pensato potessero essere ancora possibili fra loro. Le porte della Saggezza, della Virtù e dell’Amore non sono lontane. Le manage de Figaro era considerato politicamente sovversivo persino ai suoi tempi ed è ovviamente chiaro che in un certo senso anche Mo­ zart, con la meravigliosa caratterizzazione dei suoi vivaci personaggi colti nel conflitto di classe, si schiera dalla parte di Beaumarchais nella critica ancien régime. In un altro senso, però, taglia alla base una critica si­ mile, perché Mozart voleva chiaramente che la nobiltà del ceto simbo­ leggiasse la nobiltà dello spirito. Anche se la corte può sorridere affetta­ tamente, il conte c la contessa ci interessano di più di qualsiasi intrigo di corte. La contessa non è forte e il conte non è buono ed anche i loro ser­ vitori possono smascherarli facendoceli apparire patetici o ridicoli, con l’aiuto dell’istintivo senso della commedia proprio di Mozart e di Da Ponte. Il conte e la contessa, però, sono consapevoli, provano i loro sen­ timenti sino in fondo e c’è una base di comprensione tra di loro che Fi­ garo c Susanna non potranno mai possedere. La crudeltà e la vergogna hanno il loro posto nel quadro che fa Mozart dell’umana fallibilità e par­ ticolarmente in questo contesto il dramma rivela una visione della vita realistica, non sentimentale, ottimistica e umana. Probabilmente nessu­ no se ne è mai andato da una rappresentazione di Figaro senza pensare che il conte presto amoreggerà di nuovo, ma è altrettanto sicuro che ci sarà un’altra riconciliazione, un’altra ripresa altrettanto genuina da en­ trambe le parti, altrettanto piena di contrizione ed altrettanto bella. Gli astuti Figaro e Susanna non possono in realtà dare questa sicurezza. Infine, va sottolineato il fatto che il dramma delle Nozze di Figaro è di Mozart, non di Beaumarchais o di Da Ponte. La musica qui non si li­ mita a decorare quello che il drammaturgo o il librettista avevano pro­ gettato. La musica di Mozart crea un dramma che non potevano sospet­ tare. Trattando seriamente la contessa, Mozart trascende tutto quello

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che c’è nei versi di Da Ponte o nella tradizione operistica a lui nota e nel caso del conte, Cherubino e Susanna compie ben noti miracoli nella ca­ ratterizzazione (non ne ho parlato molto solo perché credo che questo sia un fatto meglio compreso dell’idea drammatica principale di Mo­ zart). Poi, alla riconciliazione tra Bartolo e Marcellina, più che limitarsi a svilupparli, Mozart in realtà si allontana da Da Ponte e da Beaumar­ chais. Il Bartolo originale si irrita di fronte all’inopportuna piega degli eventi e questo sentimento è anche lasciato nel recitativo di Mozart; ma in un’opera ci affidiamo a quanto è musicalmente pieno di forza, e la te­ nera gioia di Bartolo nel sestetto è subito incrollabilmente convincente. Di particolare importanza è poi la trasformazione operata da Mozart sulla conclusione del dramma. In Beaumarchais, la riconciliazione non è nulla, è peggio di niente, suggerisce fatalmente che la complessità della trama ha sconfitto l’autore e che la clemenza era a suo avviso il solo modo per districarla. Quanto a Da Ponte, ecco qui il suo contributo: CONTE

Contessa perdono! CONTESSA

Più docile io sono, e dico di si, TUTTI

Ah tutti contenti saremo così.

Pur avendo di fronte solo questo povero materiale, Mozart riesce a dare vita a una rivelazione e riesce a trovare il modo di farla sostenere da altri elementi dell’impalcatura di Beaumarchais. In un’opera il drammatur­ go è il compositore.

4* Il successo di Figaro fu una questione di genio, di abilità, di bravura, di fortuna e di tempo. Questi due ultimi ingredienti mancarono alle due opere successive di Mozart. Né Don Giovanni né Cosifan tutte hanno la compattezza e la forza drammatiche di Figaro o del più tardo Flauto magico. Le due opere intermedie, infatti, costituiscono una dimostrazione

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pratica delle frustrazioni che i libretti possono provocare al compositore. Da Ponte era naturalmente un librettista superiore e la sua collaborazione con Mozart fu quanto mai felice, qualunque cosa sia potuta accadere, ma il problema, penso, stava nel fatto che egli era uno scrittore troppo sicuro di sé, troppo superficiale e famoso perché Mozart potesse tenerlo sotto controllo, come doveva più tardi accadere con Emanuel Schikaneder per II flauto magico. In ogni caso il libretto per Don Giovanni non fu scritto sufficientemente bene, e quello per Cosifan tutte venne scritto troppo bene. In entrambi i casi Mozart si trovò in difficoltà. Anche il più appassionato mozartiano dovrà ammettere che in Cosi fan tutte c’è qualcosa che non soddisfa. È sicuramente l’opera più pro­ blematica di Mozart, fatto questo che si riflette nella storia curiosa della critica nei confronti della vicenda. I critici romantici la consideravano offensiva, improbabile, immorale, frivola e indegna di Mozart; perso­ nalmente sono disposto a sostenere che le ultime due accuse sono vere, senza certo voler scusare per questo gli ingenui rimedi escogitati nel xrx secolo, come ad esempio adattare la musica a una versione francese di Pene d’amor perdute. Oggi insistiamo perché le opere d’arte abbiano la forma esatta in cui furono create, almeno per quanto riguarda i testi. Gli allestimenti operistici sono un’altra faccenda. H libretto di Lorenzo da Ponte deve restare com’è, e deve essere inoltre razionalizzato. Questo viene sempre fatto con un’aria di offesa disinvoltura, ma io non ho mai visto nessuna spiegazione di qualsivoglia «convenzione» che comprenda il senso sia dell’azione, a qualsiasi livello o livelli, sia della notevole espressività di certa musica. Non si risolve nulla concludendo che Da Ponte dette a Mozart un libretto frivolo, che poi Mozart ne prese alcune parti sul serio e che su queste profuse della bella musica. Si pos­ sono dire le stesse cose a proposito di Don Giovanni e delle Nozze di Fi­ garo. La domanda reale è questa: qual è il risultato di questa strana mi­ stura? La natura artistica e il grado di successo delle due opere prece­ denti sono completamente diversi da quelli di Cosifan tutte. Fondamentalmente, il suo piano di realtà differisce da quello di Fi­ garo c di Don Giovanni da un lato e da quello del Flauto magico dall’al­ tro. Su questo Mozart e Da Ponte avevano divergenze assolute e la con­ fusione si ritrova sia nell’opera sia nella mente del pubblico. Dent non dissipa la confusione affermando che i quattro innamorati sono mario­

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nette che esprimono una gamma di emozioni sorprendentemente am­ pia. Sono certamente dei cari, sciocchi bambini che vengono facilmente menati per il naso, ma le loro azioni e i loro sentimenti sono logici, veri e drammaticamente tali da catturare l’interesse. Sembrerebbe una ra­ gione sufficiente per concedere loro la cortesia della solita metafora e considerarli «gente reale» piuttosto che marionette. «Don Alfonso ma­ novra dietro le quinte in modo così ovvio che si è portati a chiedersi se in realtà don Alfonso non sia don Lorenzo o don Wolfango». È impor­ tante, però, distinguere i ruoli di questi tre manipolatori. Don Alfonso è il più cristallino di tutti e il meno consapevole dei problemi essenziali. Spiega il suo atteggiamento in modo inconfondibile quando recita un’ottava ai ragazzi come giudizio morale, verso la fine. Questo brano risulta più vicino ad un’aria di qualsiasi altra cosa cantata da don Alfonso e incorpora il titolo dell’opera, insieme a della musica che era già apparsa neU’ouverture: Tutti accusan le donne, cd io le scuso se mille volte al di cangiano amore; altri un vizio lo chiama ed altri un uso: ed a me par necessità del core. L’amante che si trova alfìn deluso non condanni l’altrui, ma il proprio errore; giacché, giovani, vecchie, e belle e brutte, ripetete con me: «cosi fan tutte!»

La volubilità c una «necessità del core». Alfonso non nega il sentimento, né vi si oppone, desidera solo mostrare che non dura. Così lo fa, e vince la scommessa, anche se non è chiaro che altro ci guadagni. Il compito di don Lorenzo era quello di attirare questo dramma-neldramma all’interno di un dramma unico. È indiscutibile che il suo li­ bretto sia da un punto di vista tecnico ineccepibile, l’intrigo scorrevole ed elegante, la costruzione magistrale c i versi piacevoli. Inizia con un di­ vertente quadro degli innamorati che scioccamente fanno mostra dei sentimenti previsti dalle convenzioni: le due ragazze vanno in estasi da­ vanti ai loro ritratti nei medaglioni, i giovanotti esigono soddisfazione quando don Alfonso mette in dubbio la fedeltà femminile. La soddisfa­ zione sarà la scommessa che le ragazze soccomberanno al fascino dei giovanotti assurdamente mascherati da Albanesi e agli ordini rigorosi di

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Alfonso, che è spalleggiato dalla cameriera Despina. Per un po’ rifiuti convenzionali sono la risposta al convenzionale corteggiamento degli Albanesi, ma poi, una dopo l’altra, le ragazze capitolano. Si può forse anticipare che in questa trama fortemente simmetrica sono le asimmetrie a dare la spinta drammatica. Dorabella cade subito, ma Fiordiligi instaura una lotta insospettata intorno alla quale viene a ruotare il secondo atto. Da Ponte provvide anche a reazioni diverse da parte dei giovanotti nel momento in cui apprendono di essere stati tradi­ ti. Guglielmo è sprezzante, Ferrando emotivo e ferito. Alla fine, poi, alle ragazze viene svelata la mascherata e con grande imbarazzo ritornano dai loro originali innamorati. Il riaccoppiamento finale non è specifica­ to, ma sembra chiaro che lo status quo originale debba rimanere1. L’insieme non fa una grinza, ed è stato questo a dare dei guai a Mo­ zart. Solo un moralista disapproverà coloro che mutano di sentimento, qualunque sia l’aspetto della realtà in cui si trovano (anche se può sem­ brare strano che i giovanotti rimangano fedeli quando le ragazze tenten­ nano). Solo un pedante criticherà la concentrazione dell’azione in un solo giorno o il fatto che le ragazze non riconoscano gli Albanesi (perché avrebbero dovuto conoscere bene gli altri giovanotti, o, quanto a ciò, persino i loro stessi innamorati?) È persino pomposo lamentarsi degli impliciti aspetti psicologici, perché il dramma poggia saldamente sull’i­ dea che l’emozione è intrinsecamente banale, e questa è un’esagerazione comica più che legittima. Qui Da Ponte si spinge più in là di don Alfon­ so, per il quale il sentimento è transitorio, ma, finché dura, abbastanza reale, mentre per Da Ponte è veramente falso fino al midollo. Dobbiamo credere che i sentimenti delle ragazze per gli Albanesi sono tanto banali quanto i loro sentimenti originali per i loro innamorati, che è stata dav­ vero una burla nel senso di Despina e che nel cedere agli Albanesi hanno agito con la stessa freddezza con cui i giovanotti hanno acconsentito alla mascherata, altrimenti, naturalmente, mal potrebbero ritornare dai loro ’ Tre ragioni: prima, un’affermazione di Alfonso quando dice ai giovanotti di sposare le ragazze nono­ stante la loro volubilità: «In fondo voi le amate, queste vostre cornacchie spennacchiate» e i giovanotti con­ cordano mestamente. Seconda, ritornare dai primitivi innamorati è una cosa «corretta». Siccome ognuno, finché vi è spinto, agisce secondo le convenzioni, ogni sgarro dalla norma dovrebbe sollecitare delle spiega­ zioni. Terza, il secondo cambiamento è drammaticamente necessario, altrimenti l’intero finale non avrebbe mordente, deve fare di piu che canzonare semplicemente le ragazze, deve infatti insegnare loro una lezione rispecchiata dall’azione. Ed è molto buffo che alla fine le ragazze giurino fedeltà eterna proprio come avevano fatto alla loro prima apparizione, atto primo, scena seconda.

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primitivi innamorati con cosi poca pena. A Fiordiligi ci sono volute tre arie e un duetto per cedere la prima volta e, se il suo sentimento avesse una qualsiasi profondità, avrebbe bisogno di uno sviluppo drammatico parallelo per ritornare indietro, ma i veri sentimenti devono essere stati lontani dalla mente di Da Ponte, che scrisse una commedia intelligen­ te, satirica, arguta, superficiale e indegna di Mozart, e lo affermo non sulla base di un qualsiasi sentimentalismo vittoriano nei confronti dcll’arte e degli artisti, ma sulla base di quanto accadde quando Mozart si accinse a musicare il libretto. Il modo con cui si accostava alFazione non era né quello del cinico Da Ponte né quello di don Alfonso, «vecchio fi­ losofo». Ci sono, infatti, più cose in ciclo e in terra di quante ne vengano im­ maginate nella filosofia di don Alfonso. Don Wolfango, com’era inevitabi­ le, prendeva l’emozione sul serio. A quel punto Da Ponte avrebbe dovuto sapere che Mozart sarebbe piombato su qualsiasi questione emotiva che gli fosse sembrata adatta, per quanto arido potesse essere un libretto, e che ne avrebbe tratto profitto. Per molto tempo Mozart parodiò corag­ giosamente tutto secondo i desideri di Da Ponte. Per i concertati svilup­ pò un’impostazione speciale per cui gli innamorati cantano in terze e se­ ste parallele, oppure ripetono a pappagallo l’uno la musica dell’altro. Questo dà ai concertati di Cosifan tutte un tono curiosamente diverso da tutti gli altri concertati di Mozart: la caratterizzazione degli innamo­ rati è incolore, mentre è vivace come sempre nel caso di don Alfonso e di Despina. I tre duetti delle ragazze sono pressoché indistinguibili per quanto riguarda l’emozione che li anima, da «Ah, guarda, sorella», in cui viene espresso l’amore per i primitivi innamorati, a «Ah! che tutta in un momento», in cui viene registrato il dolore per la loro partenza, a «Prenderò quel brunettino», in cui viene annunciata la disponibilità all’amoreggiamento. Anche i recitativi tendono ad essere cantati in terze. L’iniziale mancanza di colore della caratterizzazione determina il li­ vello primario della realtà di Cosifan tutte. Il parallelismo musicale, ov­ viamente, era per Mozart un vantaggio, ma sono certo che lo adottò prima di tutto per presentare gli innamorati come anonimi rappresentanti del loro sesso più che come individui seri, perché questo è tutto ciò che sono per don Alfonso. I rappresentanti anonimi possono solo avere sen­ timenti convenzionali, e sentimenti del genere, come Mozart ben sapeva,

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sono più o meno tutti uguali. Di conseguenza, quello che vi è di scialbo, monotono e sciocco in Cosifan tutte è, da un punto di vista drammatico, abbastanza appropriato e, prima di accantonare la convenzionalità giu­ dicandola poco interessante, dobbiamo considerare la ricca modulazione che Mozart ne fa nel secondo atto. In quest’opera il vigoroso realismo di Figaro sarebbe stato tanto fuori luogo quanto nel Flauto magico o nelVldomeneo. Mozart, poi, fa continuamente la parodia delle arie, perché è molto difficile per questi sciocchi personaggi misurare le proprie emo­ zioni, come lo è nella vita reale per chi è schiavo delle convenzioni. NeiTatto secondo è ancora più difficile per il pubblico comprendere questi personaggi, perché i loro sentimenti più veri vengono automaticamente espressi in termini sentimentali, «operistici». Il pubblico, comunque, non ha dubbi sulla superficialità delle arie delle ragazze del primo atto. Fino a questo punto si tratta di una commedia artificiale secondo il gusto di Da Ponte. Comunque, appena il libretto permette ai personaggi di uscire dalla loro mancanza di colore, Mozart, con eccellente senso del dramma, fa esplodere le loro personalità. Le convenzioni nascondono questi perso­ naggi finché stanno assieme alle loro sorelle, ai loro compagni o ai loro primitivi innamorati, che non possiamo prendere sul serio, ma nei suc­ cessivi soliloqui e particolarmente nei due duetti della seduzione i veli cominciano a cadere. Avviene la stessa cosa anche con Dorabella, la cui funzionò principale è quella di fare da frivolo contrasto a Fiordiligi. Il suo squisito duetto con Guglielmo, con tutto il suo simbolismo del cuore e del medaglione, sembra freddo e contenuto, ma quando Guglielmo la tocca c’è un improvviso sprazzo di emozione in un passo modulatorio, e nella ripresa (o finale di questo minuscolo dramma) le frasi spezzate sono eloquenti quanto il nuovo, tremulo motivo orchestrale. Quanto a Fiordiligi, la sorella più solenne delle due, non riusciamo a scuoterci di dosso l’impressione di dolore della sua seconda aria «Per pietà», nono­ stante tutte le sue assurdità; il suo duetto con Ferrando è sempre stato considerato il centro espressivo dell’opera, come ne è il centro dramma­ tico. Nessuna interpretazione di Cosifan tutte può reggere se non misura appieno il valore di questo brano stupendo. Fiordiligi è più vicina a pro­ vare emozioni sincere di qualsiasi altro personaggio del dramma, in qualsiasi altro momento.

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E che dire di Ferrando nel corso del duetto? Ha appena cantato la sua fedeltà a Dorabella nella cavatina «Tradito, schernito», ma Mozart non lavora mai con due pesi e due misure e vuole certo canzonarlo nello stesso modo in cui ha canzonato Fiordiligi facendole giurare fedeltà eterna in «Come scoglio». Se mai un innamorato operistico è stato sin­ cero, lo è Ferrando nel duetto con Fiordiligi, con la sua eco misteriosa della bella aria del primo atto «Un’aura amorosa». (Si può obiettare che anche don Giovanni sembra del tutto sincero in ogni sua storia, ma Fer­ rando non ha l’esperienza di don Giovanni nella simulazione amorosa). Certo, in seguito Ferrando non mostra nessun affetto per Fiordiligi e, sia detto per inciso, nemmeno più dolore per l’infedeltà di Dorabella, ma di questo dobbiamo dare la colpa al libretto. In un’opera si crede a ciò che più convince nella musica. La musica di Mozart chiarisce e biasima il cinismo di Da Ponte, rovi­ nandone così il dramma impeccabile che aveva scritto. Ne valeva la pena. Dove Da Ponte lasciò spazio ai sentimenti personali sotto la reale spinta dei fatti, Mozart, da perfetto drammaturgo, li prese alla lettera. Si pensi al modo in cui le ragazze reagiscono agli Albanesi c alla loro peno­ sa volubilità o agli atteggiamenti dei giovanotti nei confronti dei tradi­ menti delle ragazze. Don Alfonso voleva far vedere che i sentimenti cambiano, Da Ponte voleva smascherarli presentandoli privi di. signifi­ cato, Mozart voleva definirne la qualità, duraturi o meno che fossero. Cosi, alla fine, per Da Ponte è un tiro beffardo, perché la volubilità sem­ bra irrilevante e relativamente irreale. Il punto di Mozart è che le emo­ zioni in qualche modo toccano, anche se cambiano alla svelta. La trion­ fante dimostrazione di don Alfonso non riguarda il problema centrale, secondo la visuale di Mozart, e cioè il mistero del sentimento stesso. Per Fiordiligi, in realtà, non si tratta di cambiare amore, ma di trovarlo. Nel duetto con Ferrando la nostra impressione più forte è che la ragazza ab­ bia ora una nuova capacità di provare sentimenti genuini, anche, o forse particolarmente, al momento della sua resa. Ferrando, dopo tutto, è ov­ viamente il migliore dei due giovanotti. Secondo la formulazione di Mozart, quindi, l’opera sembra rappre­ sentare un paio di coppie piuttosto inconsapevoli nel momento in cui vengono messe alla prova e tirate un po’ fuori dai loro gusci convenzio­ nali fatti di sentimentalismo, di profferte di suicidio, di medaglioni e di

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terze parallele. Tutto è molto buffo, il loro sviluppo ammirevolmente drammatico, e siamo lieti di scoprire che dopo tutto per loro proviamo compassione. Poi, come conclusione, tutto torna rapidamente allo stato iniziale delle cose. Nella burla finale di Lorenzo Da Ponte l’emozione è eliminata. L’esperienza di Fiordiligi va in fumo nel momento in cui ri­ torna da Guglielmo con espressione assente, quel Guglielmo i cui difetti nel frattempo sono stati resi fin troppo chiari dall’azione. Nello schema di Da Ponte il volte face era abbastanza arguto, ma in quello di Mozart non è altro che una caduta nel banale: è, in ultima analisi, improbabile e immorale. Per la prima volta comprendiamo quanto siamo stanchi di sentir cantare in terze e seste. La serata è stata lunga. Gli innamorati sono tornati alla loro anonimità iniziale senza spiegare il brusco abbas­ samento del livello immaginativo. Questo è completamente privo di drammaticità. Non c’è un’epifania finale come nelle Nozze di Figaro e in realtà non ce ne sarebbe potuta essere una nell’ambito di questo li­ bretto perfettamente calcolato.

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Se il libretto per Cosifan tutte era, nei suoi freddi termini, fin troppo perfetto perché Mozart potesse trattarlo adeguatamente, il libretto per il Don Giovannilasciava molto a desiderare, al di là di quanto un com­ positore sarebbe stato in grado di ovviare. L’atteggiamento critico nei confronti di Don Giovanni è ora davvero cambiato quanto quello nei confronti di Cosifan tutte, sebbene in modo opposto. Il romanticismo l’adorava e lo considerava un capolavoro uni­ co, la sola opera in cui Mozart avesse toccato le radici demoniache della realtà. Da E. Th. A. Hoffmann a Kierkegaard, da G. B. Shaw a Richard Strauss, don Giovanni è stato idealizzato sino a farne un Faust o un su­ peruomo, un fulgido cavaliere dell’eiwg Weibliche) se non la forza stessa della vita. Solo nel xx secolo gli studi storici si sono battuti per interpre­ tare l’opera come una farsa comune con l’aggiunta di elementi sopran­ naturali innestati in maniera goffa e felicemente rielaborati. KWopera buffa la storia era ben nota, in realtà screditata e adatta alla provincia. Se Da Ponte non avesse saputo che Mozart sarebbe stato certamente in grado

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di sistemarla, probabilmente non ci avrebbe mai messo mano. La rapi­ dità con cui il dramma dovette essere scritto spiega parte delle sue gros­ solanità. Da Ponte era impegnato con due compositori alquanto più in voga ed ebbe solo il tempo di ampliare per Mozart un vecchio libretto. Siccome Don Giovanni era stato ordinato per la città che amava Figaro, gli autori si accinsero a duplicare i tratti più seducenti di quell’opera. Dopo l’indicazione datane da Dent, è facile vedere che il Don Giovanni fu inizialmente concepito secondo l’insolito schema in quattro atti del Figaro per potervi includere più azione; che sfrutta lo stesso complesso sociale di padroni e servitori; che ha la stessa preponderanza di baritoni e tre donne, essendo stato progettato per la stessa compagnia; e che molte arie riecheggiano pezzi dell’opera precedente. «Questa poi la co­ nosco pur troppo! » dice Leporello quando la piccola orchestra da Tafelmusik suona l’ultimo successo dalle Nozze di Figaro. La dipendenza è ancora più profonda. Il successo di Figaro a Praga deve aver dato alla testa a Mozart, oltre a toccargli il cuore, e Don Gio­ vanni, scritto meno di un anno dopo, mostra segni stupefacenti della sua ansia di mettere a frutto i suoi progressi artistici. Nelle Nozze di Figaro è notevole il realismo grafico che non aveva precedenti nell’opera buffa e in cui Mozart deve essersi imbattuto sotto l’influsso del dramma, am­ mirevolmente realistico, di Beaumarchais. A Don Giovanni Mozart ap­ plicò, approfondendolo, lo stesso carattere realistico, ma fu un atto piuttosto sconsiderato fare una cosa simile con questa storia picaresca, soprannaturale e per niente contemporanca. (Mozart non ritentò mai più un realismo simile, né in Cosifan tutte né nel Flauto magico). Quasi per caso, si può supporre, aveva scoperto in Figaro le possibilità serie in­ trinseche all’opera buffa. Il suo desiderio di portare avanti questa sco­ perta è ovunque evidente in Don Giovanni', Mozart è pronto a prendere tutto e tutti sul serio. In tale stato d’animo, donna Anna era per lui un dono inestimabile da parte del poeta, un’eroina metastasiana capace di volare, ma per una volta in un contesto vivido e naturalistico! Accanto a lei, l’Elettra di Idomeneo e la Vitellia di Tito sembrano scialbe e com­ poste. Mozart, ora inebriato dalla forza drammatica del concertato, ci ha lasciato in Don Giovanni il massimo esempio di questa forma quintessenziale: gioisce nei tours de force-, ad un effetto abbacinante ne fa se­ guire un altro e il dramma gli prende la mano. Se Figaro era un’opera di

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Capitolo quinto

estrema intelligenza, Don Giovanni è magnificamente impetuoso. Forse doveva essere cosi, con il suo vetusto contenuto. Don Giovanni è la par­ titura più ricca di Mozart e la sua opera più amata sia dai musicisti sia da coloro che vanno oggi all’opera. Sul piano dei particolari (sebbene non sul piano più ampio), il senso del dramma è nel Don Giovanni ancora più vivido che in Figaro. Nessuna lode sarà eccessiva per la famosa introduzione del primo atto, in cui in un’improvvisa onda di impressioni, vediamo Leporello che percorre la strada a grandi passi, donna Anna che lotta con don Giovanni, l’improv­ viso duello e la morte del commendatore, e poi di nuovo il volgare chiac­ chiericcio di Leporello nel recitativo che interrompe la cadenza. Tre cose vengono fissate in modo indelebile: il tono violento, veloce e appas­ sionato, il contrastante tono di commedia, dovuto a Leporello, e la par­ ticolare bellezza a cui Mozart dà voce in quest’opera, grazie al terzetto al chiaro di luna mentre il commendatore muore. Don Giovanni non è esattamente dispiaciuto per questa morte, ma è preso alla sprovvista dalla sua repentinità c dalla sua inverosimiglianza. Forse desiderava qualcosa di diverso, se mai si è preso la briga di pensarci. Un altro tocco perfetto è il terzetto dei cospiratori, con gli strumenti a fiato, inserito nella tesa azione del finale del primo atto, un brano assolutamente privo di realismo che ha lo stesso effetto del commento di un coro e che accre­ sce la solennità dell’intrigo. Ho già parlato della straordinaria scena del ballo nel finale dell’opera e di parecchi concertati di Elvira. «Là ci darem la mano», uno dei passi apparentemente più semplici della partitu­ ra, è anche uno dei più attentamente calcolati, con il suo graduale ac­ coppiamento delle due voci, le nervose battute d’arresto di Zeriina e la pressione gentilmente incalzante di don Giovanni. Il loro incontro suc­ cessivo, nello stesso finale, «Tra quest’arbori celata», è ancora più bello, specialmente nel più ampio contesto drammatico. Il crescente senso mozartiano dei mezzi musicali essenziali per il dramma è illustrato dalla sua rielaborazione di un piccolo dettaglio delle Nozze di Figaro. Nel sestetto del secondo atto di Don Giovanni, la mo­ dulazione dell’emozione dei cospiratori, quando Leporello getta via la maschera e spiega che, dopo tutto, non hanno acciuffato don Giovanni, è parallela, ma addirittura condotta meglio, alla reazione musicale della corte nel finale di Figaro, quando la contessa si toglie la maschera. Ciò

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nonostante, non possiamo fare a meno di notare, al tempo stesso, la ba­ nalità del meccanismo in confronto alla situazione del Figaro. La perfe­ zione drammaturgica non corrisponde sempre a un bel dramma. Ci si può ora chiedere se, nel suo complesso, il libretto di Da Ponte riesca a reggere il senso drammatico di Mozart, il suo realismo grafico, la sua profondità di percezione e di espressione. Certo, a livello genera­ le, il libretto per il Don Giovanni «funziona»; Da Ponte era un teatrante eccellente, e la sua conoscenza del ritmo drammatico non gli venne meno in questo caso. Ma, a vari livelli, il dramma mostra difetti più gravi di quelli riscontrabili nelle altre grandi opere di Mozart. Il libretto è pieno di improbabilità. Per citarne solo una delle prime, la furibonda Elvira ascolta con pazienza un servitore che canta una lunga, insolente aria, ca­ rica di allusioni ai tradimenti subiti. Mentre le improbabilità di Cosifan tutte sono argute e scelte con cura, quelle di Don Giovanni sono fortuite e goffe; nel Figaro, poi, non ve n’è nemmeno una. Ci vuole sempre un po’ di cura per porre le arie al punto giusto di un libretto, e in Cosifan tutte tutto c fatto con eleganza. In Figaro, quattro arie vengono inserite nell’atto quarto con poca scioltezza, ma, anche se mettono alla prova la nostra pazienza, non mettono alla prova la nostra credulità. Il modo in cui viene distorto l’ultimo atto di Don Giovanni per poter introdurre le arie per Anna ed Elvira, invece, può solo essere definito drammaticamente cinico, che tali arie intensifichino o no la caratterizzazione. E que­ sti difetti del Don Giovanni sono particolarmente evidenti nel suo con­ testo di appassionato naturalismo. Per quanto riguarda la caratterizzazione, il bellissimo ritratto che Mozart fa delle tre donne è sempre stato giustamente ammirato, anche se spesso interpretato in maniera erronea: dalla ferrea donna Anna al­ l’innocente (si, innocente) Zeriina, e specialmente a donna Elvira, la pri­ ma delle eroine mozartiane colte in un momento di transizione della loro personalità, un tipo di eroina più sistematicamente sviluppato in Fiordiligi e Pamina. La complessità dei personaggi non contribuisce, però automaticamente a creare un vero dramma. Lo studio della carat­ terizzazione era la strada preferita della vecchia critica teatrale. Che dire dello stesso misterioso don Giovanni? Per essere un eroe mozartiano manca di consapevolezza, anche se sono indiscutibili il suo fascino, la sua generosità, la sua inventiva e la sua ragionevolezza. Il fatto singolare

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è che sino alla fine quasi tutta Fazione e quasi tutta l’espressione musicale servono a delineare la personalità dei personaggi con cui don Giovanni viene in contatto, e non quella di don Giovanni stesso. Da un punto di vista drammatico questo mi sembra un errore, reso per giunta fatalmen­ te più grave quando Da Ponte comincia a costruire il secondo atto intor­ no al personaggio di Leporello. Anche la scena nel cimitero, che senza dubbio dovrebbe coinvolgere don Giovanni e la statua, finisce per esse­ re soprattutto la scena di Leporello. Come Faust e Peer Gynt, don Giovanni passa attraverso una serie di avventure labilmente concatenate, ed è un segno dell’abilità e del senso teatrale di Da Ponte essere riuscito a raccontarle tanto bene. Questa stessa abilità, tuttavia, lo conduce in un vicolo cieco evitato da Marlowe e Ibsen: le avventure sono più interessanti dell’eroe. Dire che la mancanza di coin­ volgimento di don Giovanni è proprio il segno più forte della sua persona­ lità equivale a discutere ah vacuo. In un’opera crediamo a quello che viene meglio fissato dalla musica. La stessa vacuità della caratterizzazione di don Giovanni, in realtà, deve esser stata l’elemento che tanto attrasse i critici romantici, i cui sogni a occhi aperti e le cui idealizzazioni poterono ben germinare e fiorire nel relativo vuoto mozartiano. Nel grande finale, comunque, Leporello viene spinto sotto la tavola mentre la statua trascina don Giovanni all’inferno. Era un’altra occasione mandata dal cielo per essere seri ed intensi, e Mozart compose con amo­ re questo gran finale. Il xvm secolo può esser stato abituato a trattare don Giovanni in termini farseschi con aggiunte soprannaturali, ma sotto l’influsso dell’adattamento mozartiano della catastrofe non possiamo eluderne le implicazioni. Intrinseco alla leggenda è il conflitto tra il fa­ scino e l’irrevocabilità del peccato. L’opera si limita ad ampliare questo conflitto, espressione del «demoniaco» oppure punto carente della concezione centrale, a seconda dei gusti. Fino alla conclusione, le nostre simpatie sono in mille modi andate all’eroe; poi Mozart ce lo fa vedere condannato in una scena che con il suo terrore domina improvvisamente il dramma. Quando finalmente l’azione tocca don Giovanni, lo troviamo magnificamente all’altezza della situazione, impavido e fedele a se stesso in un momento cruciale che va al di là dell’orgoglio. In che senso, dun­ que, merita la condanna? Che cosa pensa Mozart del suo fato? Che cosa pensa don Giovanni stesso, dato che a questo punto deve essere aperto

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ad una certa introspezione? Un’ambiguità onesta e sottile sarebbe stata una possibilità drammatica, ma qui abbiamo invece un’ambiguità ca­ suale ed amorfa. O Da Ponte non era consapevole di tutti gli interroga­ tivi che evocava insieme ai suoi rossi diavoletti, oppure li ricacciava de­ liberatamente nelle profondità da cui li aveva evocati. Certo l’epilogo non risponde a nessuno di questi interrogativi, finisce solo per dimostrare quanto è grigia la vita senza il Don. Speculare su come sarebbero potute andare le cose non serve. Mo­ zart, che aveva trasformato altri drammi, avrebbe potuto trasformare anche questo, ma il principale responsabile di questa debolezza è Da Ponte. Dopo tutto, nessuno crede ai fantasmi e ai diavoli, tanto meno don Giovanni, e certe cose possono senza dubbio essere messe in scena, ma solo a condizione che si stabiliscano prima le convenzioni e il modo di pensare. Questo è quanto hanno fatto tutti coloro che hanno trattato don Giovanni o uno qualsiasi dei suoi fratelli drammatici, ma Da Ponte non è riuscito a razionalizzare l’azione. Si ha il sospetto che gli mancasse la forza intellettuale necessaria a tenerle testa. Kierkegaard fu il primo a parlare di un «matrimonio» magico tra il genio di Mozart e il tema di don Giovanni, e in questa opinione fu se­ guito da molti. Non potrei essere più in disaccordo, perché tutta la base della leggenda di don Giovanni mi sembra curiosamente lontana dallo stile intellettuale, etico e metafisico di Mozart. Sono pochissime le per­ sone che oggi considerano Mozart un compositore «demoniaco», an­ che se pensano alla musica come ad un’arte demoniaca. In un’opera come il Quintetto in Sol minore, avvertiamo un pathos squisitamente trattenuto, nel Concerto per piano in Do minore una controllata antici­ pazione della tragedia beethoveniana e nella Messa da Requiem un sen­ so di frustrazione sorprendentemente simboleggiato dal fatto che l’opera non fu completata. Come compositore operistico, Mozart aveva trattato con più profondità di chiunque altro il problema dell’uomo nei suoi rapporti con gli altri uomini e con le donne, mai nei suoi rapporti con Dio e con l’universo. Poi, all’improvviso, la teologia gli venne imposta alla fine di Don Giovanni, proprio alla fine, quando le cose cominciavano ad essere trattate in fretta, come di consueto. Fece del suo meglio, e lo fece benissimo, ma tutto quello che di Mozart sappiamo, o sentiamo, dovrebbe confermarci che l’inflessibile concetto di peccato e di morte

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presente nella leggenda non dev’essere stato di suo gusto. Mozart non considerò mai la volontà dell’uomo come qualcosa inevitabilmente in contrasto con la volontà di Dio. Immaginava una sostanziale armonia espressa dai sentimenti umani, i suoi termini erano fratcEanza, com­ prensione e umiltà, non dannazione c sfida. Il matrimonio magico è II flauto magico, E nel caso del Flauto magico chiunque potrebbe essere tentato di rie­ cheggiare le parole di Kierkegaard sullo struggente amore del Genio per l’idea. Che argomento straordinario, dopo tutto, in confronto ai tradi­ zionali sproloqui di don Giovanni! Pure, per comprendere l’opera non è necessaria nessuna mistica. Scrive Dent in Mozart’s Operas: «L’idea iniziale della Zauberflòte era dunque all’incirca questa: l’eroe incontra la regina delle fate, che gli dona un ritratto della figlia e lo incarica di libe­ rarla dalla prigionia nel castello del perfido mago. Un flauto magico ren­ derà l’eroe capace di condurre a termine la sua missione. Per qualche ra­ gione che non è mai stata chiarita in modo soddisfacente, il soggetto pri­ mitivo venne a questo punto completamente modificato»4. Penso che questo cambiamento possa essere spiegato in modo molto semplice e convincente presupponendo che sia stato Mozart stesso ad insistervi e che abbia quindi rigorosamente supervisionato il libretto. L’opera, per come la conosciamo, sarebbe stata, dunque, determinata non da una qualche Magia o da un qualche Destino, ma da una consapevole decisio­ ne intellettuale di Mozart. Sembra che per la prima volta Mozart abbia preso finalmente il comando: aveva imparato davvero a tiranneggiare il librettista e fu forse responsabile della collaborazione del grigio Cari Ludwig Giesecke. A differenza di Don Giovanni, Ilflauto magico ha una concezione unitaria e tutto è all’altezza della tempra del genio di Mo­ zart. Tutte le varietà, di stile musicale, d’azione, di tono e di atmosfera, sono perfettamente controllate per un singolo scopo drammatico5. 4 Dent, Mozart's Operas cit., trad. it. p. 308. ’ Non c’è naturalmente nessuna prova esteriore del cambiamento di trama c le incocrenze che questo cambiamento dovrebbe aver provocato sono state esagerate. La regina della notte e le sue dame vengono prima presentate come forze benevole, ma questo corrisponde soltanto all’opinione di Tamino. La sua suc­ cessiva riconsidcrazione, con la migliore comptensioiic che l’accompagna, va di pari passo con quella degli spettatori. È stato obiettato che il flauto magico e i campanelli, in quanto doni della regina, non dovrebbero diventare agenti del bene, ma nelle fiabe gli articoli magici sono sempre moralmeute neutri. E uno degli aspetti non certo minimali dell'azione è che Tamino vince grazie al proprio carattere e all’amore di Pamina, non piu che altro per magia. Nella scena dell’incontro degli amanti Pam ina spiega ampiamente che il flauto

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Ilflauto magico è la meno problematica delle opere di Mozart, nessuno può perderne o equivocarne il messaggio umano. La concezione del de­ stino di Mozart è mistica più che manicheistica. Nel regno di Sarastro il peccato non merita né fascino né dannazione, è semplicemente tenuto sotto controllo, con la stessa inevitabilità con cui il giorno segue alla notte: Die Strahlen der Sonne vertreiben die Nacht, Zernichten der Heuchler erschlichene Macht \

Alle bugie si fa fronte con un temporaneo lucchetto sulle labbra, alla la­ scivia con le percosse e all’inganno rendendo impotenti i ribelli. Alla vir­ tù si giunge tramite un’ascesa esoterica ma democratica e ospitale a cui Tamino, Pamina e anche Papageno possono prendere parte in vario modo. Tamino, dapprima pronto a innamorarsi delle immagini, prende sulla parola la regina della notte, proprio come fa il pubblico. Impara a dubitare, a ricercare una realtà più elevata e a sottomettersi alle prove. Pamina apprende l’amore, la disperazione e la libertà dal dispotismo dei genitori. Per entrambi l’ultimo passo è un amore più profondo ed essi stanno insieme eretti di fronte al Fuoco e all’Acqua. Pamina assiste Ta­ mino. Non so che cosa ne pensasse la massoneria presumibilmente mi­ sogina, ma Mozart ne fece il centro del dramma. Pamina è di gran lunga il personaggio più completo e il suo cammino, che passa attraverso la più grande aria di Mozart, « Ach, ich ftihl’s», è formulato con il massimo risalto. (Basta solo immaginare l’opera senza di lei - potrebbe «funzio­ nare», in qualche modo - per capire quanto è importante il suo ruolo). Attraverso la fratellanza l’uomo raggiunge la Saggezza, la Virtù e l’Amo­ re di Dio, e la fratellanza non ha restrizioni di sesso. Né di intelligenza. Papageno, che è generalmente inconsapevole e intimorito, può raggiun­ gere anch’egli la salvezza purché continui a mangiare e a stare allegro e non dica bugie. Gli dèi sono umili come gli uomini. Sarastro soffre deli­ catamente insieme ai suoi novizi e i sacerdoti, gli spiriti e i guerrieri sono tutti loro fratelli. Dal momento che la concezione sottintesa è cosi pura e unitaria, la quasi pazzesca varietà di stili musicali che Mozart osò accostare riesce era stato misteriosamente modellato da suo padre. In un certo senso, quindi, il flauto le appartiene ed è Pamina a guidare Tamino attraverso le prove. La magia e l’inganno sono i poteri della regina. Quelli di Sarastro sono più profondi, più duraturi e più umani. 6 «I raggi del sole scacciano la notte, | annientano l’illegittima potenza dell'ipocrita».

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ad armonizzarsi tanto quanto ci riescono i solenni animali del Regno della Pace. Nessuna tensione scaturisce dai contrasti stilistici, come in Don Giovanni, anche se, in realtà, gli elementi sono molto più disparati: arie da opera seria e concertati da opera buffa, scalette di siringa di Pan e una ouverture con un vero c proprio tema di fuga, fanfare massoniche e un corale luterano che pare Bach, canzoncine popolari viennesi e (come disse Shaw) la sola musica mai scritta adatta alla bocca di Dio. Tutti questi elementi appaiono inglobati in quello stile particolare che è lo «stile del Flauto magico», lo stile degli ultimi mesi di vita di Mozart. C’è una nuova serenità, un nuovo senso di controllo dei procedimenti di base, una distillazione della tecnica fino alla più pura essenzialità del­ l’arte. Ora Mozart non riesce quasi più a risolvere un accordo di settima dominante senza versarvi sopra una luce di cui nessun altro compositore è mai stato capace (es. 7). Questi accenti sublimi erano stati anticipati dalla scena culminante della riconciliazione alla fine delle Nozze di Figa­ ro. Riappaiono ora in opere quali il Quintetto per clarinetto, il Concerto per clarinetto, l’ultimo Concerto per pianoforte (in Si bemolle, K. 595),

Esempio 7.

[Con Contrabbassi]

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Il Rondò per glass harmonica, la Fantasia per organo meccanico e, tal­ volta nella Clemenza di Aito e nella Messa da Requiem. Non importa aggiungere molto all’analisi e alla valutazione di Dent dell’impeccabile struttura drammatica del Flauto magico. Tutto si svi­ luppa con calma ma in modo fermo e chiaro, l’andatura è perfetta e ad ogni momento la musica riassume la situazione drammatica e la chiari­ sce. Fin dalla scena di apertura, che con il suo tono tranquillo è perfetta quanto l’introduzione di Don Giovanni, ci accorgiamo che il virtuosi­ smo dell’opera precedente ha ceduto il passo ad una sicurezza naturale e spontanea, come risulta particolarmente evidente nel trattamento dei concertati. La musica definisce la meravigliosa illusione drammatica, il mondo fiabesco che presenta la visione mozartiana dell’umana perfetti­ bilità e della vanità del male. In questa musica i piani della realtà si fon­ dono insieme e tutte le varie linee d’azione convergono verso un unico sbocco, la marcia grave, tranquilla e celestiale che si ode quando gli ini­ ziati avanzano verso le prove. Questo culmine quieto, con flauto, timpa­ ni c ottoni sommessi, è senza dubbio il piu straordinario di tutta la storia del melodramma. Se l’avesse scritto Gluck, ci lamenteremmo del fatto che non ha contrappunto, se l’avesse scritto Mozart per un qualsiasi al­ tro momento, lo definiremmo giustamente privo di senso. La coloratura della regina stessa può sviare soltanto i non iniziati o gli sbadati, i bam­ bini o coloro che sono rimasti bambini nello spirito; aveva sedotto Mo­ zart nel Ratto. Si può sentir dire che II flauto magico è una suprema opera d’arte grazie soltanto alla sua meravigliosa musica e a dispetto della sciocca trama che l’accompagna. Questa è la concezione dell’opera come «mu­ sica pura», ma la verità è che i suoi sostenitori non sopporterebbero nemmeno un terzo della musica del Flauto magico in una sala da concer­ to, avulsa dalla sua cornice drammatica. Si pensi ai canti popolari di Pa­ pageno, o al grande recitativo di Tamino con l’oratore, o alla marcia verso le prove, cosi inconcepibilmente spoglia. Altri critici, e particolarmente i tedeschi, hanno ampiamente ammiralo la combinazione di bella musica e di nobili ideali. Tali onori sono dubbi, però, a meno che non venga de­ finita la natura della lega. Molte opere metastasiane hanno accostato bella musica e nobili ideali senza per questo essere santificate. La forza del Flauto magico sta nel fatto che la sua filosofia o l’idea drammatica

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Capitolo quinto

che dà coesione all’opera vengono costantemente plasmate dalla forma drammatica, in cui, come sempre in un’opera, la musica è l’elemento es­ senziale. Qui viene veramente espresso qualcosa di ciò che la massone­ ria poteva significare per Mozart, e il dramma musicale ne c l’elemento raffinatore. Gli ideali possono risultare sminuiti, c senza dubbio lo sono grazie alla scadente poesia di Schikaneder, ma possono anche essere ele­ vati fino a raggiungere un irripetibile punto di incandescenza personale, e questo avviene grazie al dramma di Mozart. Le quattro grandi opere di Mozart indicano tutte paradigmaticamente con quanta forza la musica possa plasmare la forma drammatica. Il flauto magico e Le nozze di Figaro mostrano inoltre in che modo una tale forma drammatica possa articolare una profonda e coerente azione. In questi capolavori tutta la forza e l’eloquenza di Mozart, la sua impec­ cabile risposta all’azione, il suo controllo sulla ricchezza drammaturgica del concertato, la sua sensibilità verso il personaggio nelle arie, la sua fa­ mosa ingegnosità, capacità di comprendere e delicatezza, il suo spirito, il suo superbo senso della forma artistica a qualsiasi livello - tutto questo si infiamma per dar vita ad un’unica concezione drammatica. Non si può descrivere bene una concezione del genere senza cadere in luoghi comuni; è più facile trovare le parole per opere come Don Giovanni e Cosi fan tutte, in cui le idee drammatiche prendono forma solo a metà o rimangono irrisolte, nonostante grandi bellezze. Dove il drammaturgo è riuscito, però, l’idea non può essere definita altro che come l’opera stessa. Il significato di un’opera d’arte completa sarà reso manifesto solo all’interno del mezzo che lo realizza, lo porta a compimento o Io crea. È in questi trionfi, occasionali e unici, che l’opera si afferma come dram­ ma e tra questi Mozart ci ha lasciato gli esempi più preziosi.

Capitolo sesto Ly Otello di Verdi: l’opera tradizionale

e l’immagine di Shakespeare

i.

Il teatro parlato funge da corte d’appello, o almeno da pietra di para­ gone, con cui possa essere verificata l’efficacia drammatica di un’opera o di un qualsiasi altro mezzo espressivo non verbale. L’accertamento, allo­ ra, diventa una sorta di necessità polemica e l’argomento della difesa può anche essere presentato con la massima ampiezza possibile. Su un piano piuttosto generale si possono fare convincenti paralleli di ritmo dramma­ tico, tecnica, convenzioni, e via dicendo, tra i vari generi di dramma mu­ sicale e di dramma letterario. In effetti, la natura di certi drammi greci e di certi drammi elisabettiani è stata spiegata sulla base di una struttura «musicale» - musicale in senso moderno, più che in senso greco o elisa­ bettiano. Su un piano più specifico, si può esaminare criticamente la prova costituita da belle opere che sono attente elaborazioni di bei drammi. Il raffronto indica che il dramma e l’opera sono analogamente drammatici, ricchi e significativi; il contrasto pone nel giusto rilievo le tecniche c le intenzioni particolari di ognuna delle due forme. In questo e nel prossimo capitolo sperimenterò questo metodo comparativo con VOtello di Verdi, tratto fedelmente daW Othello di Shakespeare, e con il Pelléas et Mélisande di Debussy, tratto ancor più fedelmente dal dram­ ma di Maurice Maeterlinck. Questi adattamenti fedeli sono rari nel xvn e nel xviti secolo. Le noz­ ze di Figaro costituiscono piuttosto un’eccezione: l’opera si limitava alle forme, fortemente stilizzate, che le erano proprie. Nel xix secolo, tutta­ via, essa sviluppò, soprattutto in Francia c in Italia, una forte tenden­ za ad adattarsi alla forma del dramma. La preoccupazione della «conti­ nuità» all’interno di un’opera, cosi tipica della metà del secolo, può es­ sere considerata come una tendenza verso quella maggiore regolarità con cui si snoda il dramma letterario. Una volta raggiunto tale traguardo,

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Capitolo sesto

era aperta la strada all’influsso del teatro naturalistico, del verismo. Mol­ ti particolari strutturali dell’opera del xix secolo corrispondono ad ef­ fetti e meccanismi di natura sostanzialmente letteraria. È sintomatico quante opere importanti siano tratte da drammi. Nel caso di Verdi, ad esempio, l’elenco delle fonti dei suoi libretti fa l’effetto di un’antologia drammatica: Hernani e Le Rois amuse di Hugo; La pulcella d* Orléans (Jungfran von Orléans), 1 masnadieri (Die Rauber), Amore e raggiro (Kahale und Liebe) e Don Carlos di Schiller; The Two Foscari e The Corsair di Byron; Macbeth, Othello, The Merry Wives of Windsor e (una speran­ za per molti anni) King Lear di Shakespeare. Certo, nei primi lavori la relazione tra l’opera e il dramma è insignificante, ma Rigoletto, l’opera in cui Verdi sottopose per la prima volta ad una forte tensione la rigida forma ereditata da Rossini e da Donizetti, è modellato con una certa se­ rietà sul dramma di Hugo. La fluidità formale di Otello e di Falstaff alla fine della sua carriera riflette certamente l’influsso di modelli letterari. Quanto a Debussy, egli portò questa tendenza alla conclusione logica. Pelléas etMélisande incorpora per intero il dramma originale e la forma dell’opera è praticamente quella del dramma. Questo non vale però per l’Otello. In confronto al Macbeth verdiano del 1847,l’Otello del 1887 ha una flessibilità di struttura, per non dire una serietà di concezione, dovuta al teatro parlato, ma la forma di Otello non è quella di un dramma, né certamente quella del particolare dramma di Shakespeare. Il dramma qui prende ancora sostanzialmente forma tramite ampi brani lirici, trattati ora con una forza e una sottigliezza nuove e fusi nel resto con nuova maestria. Otello, in altre parole, conser­ va l’essenza della tradizione classica dell’opera italiana. Verdi era orgo­ glioso di continuare questa tradizione e non si entusiasmava troppo di fronte alle riforme operistiche. Pure, era meno conservatore di quanto amasse farsi passare. Nei suoi anni centrali, la tensione tra il desiderio di un andamento più «letterario» e le richieste della tradizione gli provo­ carono seri problemi. Solo in Otello raggiunse un equilibrio coerente e realizzabile. Tale equilibrio richiedeva una trasformazione unica del dramma di Shakespeare. Arrigo Boito, che scrisse il libretto e persuase il vecchio Verdi ad ac­ cettarlo, era un eminente letterato e compositore con forti interessi per la cultura transalpina. Era ben consapevole delle spinte latenti nell’opera

L'Otello di Verdi: l’opera tradizionale e [’immagine di Shakespeare

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del tardo xix secolo. Aveva cercato di affrontarle in Mefistofele, l’opera italiana di più alti sentimenti dai tempi di Gluck. Se falli, questo avvenne a causa delle sue manchevolezze come compositore, non perché man­ casse di audacia, di abilità o di comprensione del problema. Due princi­ pi, dunque, guidarono Boito nella trasformazione del modello shake­ speariano. Il primo, una certa tendenza verso il naturalismo, è rivelato appieno dalla concezione che sottende la storia e sulla quale ritornerò in seguito. Lo rivela anche il suo evidente desiderio di condensare una trama disordinata in qualcosa capace di fare colpo sugli spettatori del dramma tanto ben costruito. Questo non sarebbe venuto in mente a un compositore italiano di un secolo precedente, che forse avrebbe trovato Shakespeare - comunque questo Shakespeare - troppo classico per il suo gusto episodico. Un compositore italiano di un qualsiasi secolo avrebbe però condiviso il se­ condo principio di Boito, in realtà in contraddizione con il primo, quel­ lo, cioè, di cristallizzare con regolarità le situazioni emotive in sezioni li­ riche o quadri in cui la musica potesse avere tutto lo spazio che voleva e potesse contribuire al dramma nel modo più incisivo ed esplicito. Si­ tuazione dopo situazione, Shakespeare venne piegato a questa conce­ zione bilaterale del teatro musicale.

2. Cosi, all’inizio stesso, la tempesta di Shakespeare (atto II, scena 1) venne intensificata a dismisura per farne il quadro di apertura dell’ope­ ra. Era scontato che Boito avrebbe omesso il primo atto di Shakespeare, Fatto veneziano, come aveva profetizzato il dottor Johnson: «Se la scena si fosse aperta a Cipro e gli avvenimenti precedenti fossero stati riferiti di quando in quando, poco sarebbe mancato a un dramma della più esatta e scrupolosa regolarità». Verdi saltò anche V ouverture. Il suo coro iniziale è il temporale più eccitante di tutta l’opera italiana; la violenza e il terrore raggiungono immediatamente il livello caratteristico di tutta l’opera. Shakespeare, come dice Granville-Barker, «fa nascere il suo temporale dalla poesia», ma i versi non sono cosi evocativi quanto la musica nel dipingere atmo­

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sfere di questo tipo. II senso di permeante disordine va dritto al centro delle emozioni in termini musicali, e quando finalmente appare Otello il suo trionfo sugli elementi è magnifico. Canta appena due versi e va a letto, ma un buon tenore può farne l’entrata più indimenticabile di tutta la storia dell’opera. La presentazione di Iago e di Roderigo avviene su un piano emotivo molto più basso; hanno molte cose da spiegare e la fine della loro conversazione è sommersa dai preparativi per la celebrazione della vittoria (il coro accanto al fuoco «Fuoco di gioia! »). Appena fini­ sce il coro, Iago può cominciare a dare ripetutamente da bere a Cassio, e tutto procede come in Shakespeare fino al duello provocato dal vino e al ritorno di Otello, seguito poi da Desdemona. Grazie alla forza della sua prima entrata, Otello resta impresso nell’immaginazione per tutto l’atto e la sua apparizione dominatrice per placare la rissa è preparata in maniera eccellente. Verdi adeguò la tempesta al dramma passando dai tuoni e dai fulmini alla luce del fuoco e poi alla notte senza nubi del duetto d’amore, che conclude l’atto con le parole « Vien - Venere splende». In Shakespeare la tempesta poetica ridotta a proporzioni più modeste guarda indietro verso un intermezzo turbato da pensieri di viaggi per mare, di battaglie e di maledizioni paterne, e guarda in avanti verso le ansie di Desdemo­ na. Questi elementi mancano entrambi nel libretto, perché la tempesta è una scarna introduzione all’azione e Desdemona è accuratamente te­ nuta in serbo fino al momento successivo alla rissa. La sua prima appa­ rizione, poi, richiede parole decisive come quelle previste da Shake­ speare nel primo atto. Verdi fece fronte a questa necessità con il duetto d’amore, una cri­ stallizzazione lirica non direttamente indicata nel dramma, come lo era invece la tempesta. In Shakespeare la reticenza della relazione fra Otello e Desdemona fa parte dell’essenza del dramma. In Verdi l’immediatezza e la schiettezza del loro amore, espresse in questo duetto di suprema bel­ lezza, fanno anch’esse parte di un’essenza, ma di quella di un dramma di­ verso. Nel dramma il solo dialogo affettuoso (II, i, 184) scaturisce dal­ l’eccitazione del loro primo incontro dopo la tempesta; l’opera acquista invece uno speciale senso di pace e di stabilità con l’inserimento del dia­ logo (come duetto) in un momento successivo, dopo che la rissa causata dal vino li ha fatti alzare dal letto. È un momento adatto per i ricordi, e

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Boito è stato ammirato per aver «riferito di quando in quando» parte del racconto del corteggiamento di Otello tratto dall’atto veneziano di Shakespeare. II duetto è un trionfo della nuova flessibilità ed espressività dell’arte lirica di Verdi. Nel momento cruciale la musica, simile a un’on­ da, si solleva perla prima volta dall’orchestra piuttosto che dai cantanti che hanno ora solo frasi spezzate: «Un bacio», «Otello! » La possente melodia orchestrale legata al bacio ricorre due volte alla fine dell’opera come mezzo di organizzazione drammatica della massima importanza. Solo alla fine del primo atto, al calar del sipario, la musica arriva ef­ fettivamente a un arresto netto. Non ci sono state pause per recitativi secchi, né cadenze da applaudire, né improvvisi cambiamenti nel flusso musicale. Tutti i casi sono fusi insieme, proprio come lo sono grazie ai versi ininterrotti del dramma. Otello è naturalmente un’«opera conti­ nua». La continuità operistica era un ideale comune della musica del xix secolo e Otello e Falstaff sono le realizzazioni piu belle della variante non wagneriana.

A giudicare dalle apparenze, sembra che l’opera continua differisca radicalmente dall’opera « a singhiozzo » del xvm secolo. Ogni cosa viene trattata sul piano musicale, senza infrangere all’improvviso e a intervalli regolari l’atmosfera, per inserire dei recitativi o dei dialoghi parlati. La tendenza a stabilire una convenzione unica - anziché doppia - per tutta l’azione, è di spirito letterario e, significativamente, naturalistico. È una tendenza anche fortemente romantica nella sua implicazione che tutti gli elementi della trama debbano essere trattati con la stessa serietà. Nes­ suno dei compositori del xix secolo, però (Debussy sempre a parte), era completamente disposto a sacrificare il risalto di brani musicali perfetta­ mente chiusi. Si raggiunsero vari equilibri, ma i momenti lirici culmi­ nanti sono ancora evidenti, per quanto ne vengano accuratamente smussati i contorni. D’altronde, si può dire la stessa cosa della poesia «continua» di Shakespeare. Sconfiggere l’artificiosità della vecchia di­ cotomia di aria e recitativo significava mettere in ombra il contrasto, co­ modo ed esplicito, fra i dettagli della trama e l’introspezione lirica. Que­ sto precisava il problema principale dei riformatori, la tensione, cioè, di cui Boito e Verdi erano ancora dolorosamente consapevoli. Gluck aveva deciso di innalzare parzialmente il livello dell’azione e

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di portarlo più vicino al livello delle arie dando dignità a tutti i recitativi, e lo fece orchestrando l’accompagnamento e dandogli talvolta un’unità tematica o armonica. Cosi facendo, scopri che doveva limitarsi a quell’a­ zione a cui valeva la pena di dare dignità. È per questo che l’azione di Orfeo è ridotta al minimo. Le sue opere più tarde hanno necessariamente più trama e si aggrappano saggiamente all’azione appassionata dei mo­ delli greci. Mozart, d’altro Iato, seguendo i compositori di opere buffe, dette dignità all’azione togliendola dalla sfera del recitativo ed inseren­ dola in sezioni genuinamente musicali, nei concertati. Sostanzialmente si trattava di un procedimento più radicale di quello di Gluck, ma era meno conclusivo in quanto Mozart applicava questa tecnica soltanto alle parti più importanti dell’azione. Si accontentava di lasciare il resto in recitativi secchi o in un semplice parlato. Come scrittore di comme­ die, non desiderava eliminare tutti gli intrighi di basso grado. L’opera italiana della prima metà del xix secolo era decisa come cen­ t’anni prima a fare affidamento sui recitativi e sulle arie. Alcune delle tecniche di Mozart e di Gluck tendenti alla continuità vennero incor­ porate, ma in una forma spaventosamente degradata. Il recitativo, per esempio, era sempre accompagnato dall’orchestra, e questo rendeva se mai le cose ancora più ampollose, in quanto i librettisti non potevano re­ stringere il recitativo a sentimenti appropriatamente solenni. A Rossini va il merito di aver fissato nell’opera «seria» italiana alcuni dei meccanismi dell’opera buffa. Il risultato immediato fu che la leggerezza del Barbiere di Siviglia potè essere estesa all’O/e//o di Shakespeare, che Rossini mu­ sicò nello stesso anno, 1816, ma l’innovazione fu utile e i compositori successivi riuscirono a controllarne meglio il tono e la tecnica. Prima della composizione dell’Otello di Verdi, l’opera italiana aveva riconqui­ stato la sottigliezza del concertato mozartiano, e Verdi ridusse gradual­ mente la quantità dei recitativi e li inserì in una tessitura più continua. In Rigoletto non avvertiamo più una dicotomia, ma un continuum', in Otello, poi, un continuum straordinariamente sottile. A questo si potè arrivare in parte grazie a tecniche di recitativo grosso modo gluckiane, ma principalmente grazie a una nuova tecnica al tempo conosciuta co­ me parlante. Si trattava, infatti, di una nuova soluzione al problema dell’azione e della continuità musicale. Il principio consisteva nel tenere insieme un

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passo abbastanza esteso di dialogo atto a far progredire Fazione tramite un sistematico modello tematico nell’orchestra; le voci si uniscono con un contrappunto di basso grado, secondo quanto più si addice alle pa­ role e ai sentimenti del testo. Il parlante può scivolare molto facilmente in un’aria o in un coro, grazie all’organizzazione musicale dell’orchestra, e altrettanto facilmente può scivolare nel recitativo, grazie alle linee vo­ cali sostanzialmente declamatorie, parlanti. L’orchestra dà quella coe­ sione necessaria a innalzare il dialogo verso il livello immaginativo dei brani pienamente musicali. Ancora una volta, qualcosa di simile a un precedente può essere tro­ vato in Mozart e Gluck, passando per Rossini. Come ho già indicato, i recitativi cruciali di Gluck acquistano peso e direzione da ripetuti mo­ tivi organizzatori del basso, e i concertati di Mozart includono spesso se­ zioni in cui il dialogo si svolge di nascosto sullo sfondo, mentre il lavoro tematico dell’orchestra determina la continuità musicale. In quel piccolo momento critico delle Nozze di Figaro in cui il conte interroga Figaro sull’incarico di Cherubino, la situazione è unificata e caratterizzata da un serrato e mobile sviluppo modulatorio di un solo tema dell’orche­ stra, mentre l’azione viene definita da frasi sporadiche. La risoluzione nello schema regolare del concertato avviene quando Figaro dà, trion­ fante, una risposta. Abbiamo esaminato una tecnica simile nello sciogli­ mento del Fidelio. Simili raffinatezze, comunque, non alzano il livello del parlante ita­ liano del primo xix secolo. Ogni elemento è stereotipato, prevedibile c, in realtà, organizzato liricamente. Se Gluck è vigoroso e rigido nel trat­ tamento di un motivo orchestrale, se Mozart e Beethoven adottano la tesa dialettica dello sviluppo, chiaramente orientato, della forma sonata, Rossini, Bellini e Donizetti fanno del loro meglio per creare piccole arie strumentali. I motivi orchestrali sono scorrevoli, si dispongono senza dare nell’occhio secondo schemi tipici e regolari, il dialogo procede, ma l’accompagnamento orchestrale rimane fermo. Anche in una tecnica che pretende di trattare il dialogo in modo continuo e «drammatico» Rossini lavora al massimo grado secondo i termini delle sue più semplici arie. Il parlante di Verdi è sempre più esagitato, ma nelle prime opere è tenuto assieme secondo lo stesso procedimento. La tecnica divenne ben

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presto genuinamente drammatica. La regolarità poteva ancora essere utile, per indicare la sinistra pazienza di Sparafucile in Rigoletto o la me­ tallica allegria delle feste della Traviata. Il parlante irregolare poteva creare effetti sorprendentemente naturalistici in quest’ultima opera come l’esplosione di Violetta che conduce alT«Amami, Alfredo». Il duello tra Cassio c Montano {Otello, atto I) costituisce un esempio assai complesso di come Verdi riuscisse ad amalgamare la tessitura con altri elementi di una scena. Dopo il Canto bacchico di Iago («Inaffia l’ugola! Trinca, tracan­ na!»)1, un pezzo strofico in Si minore ravvivato dalla crescente ubria­ chezza di Cassio, entra Montano su alcune battute di recitativo. La se­ zione seguente è di sviluppo ed è organizzata da un chiaro movimento armonico e da un materiale tematico piuttosto insignificante, che trova tuttavia un pungente interesse drammatico essendo ricavato dal Canto bacchico. Grida e commenti slegati dei duellanti, Iago e coro si armo­ nizzano come meglio possono (es. 8). La musica procede in un fosco cir1 Shakespeare: «And let me the canakin dink, clink» («Tintinni il mio bicchier, tin tin»).

Esempio 8.

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colo di quinte per frasi regolari di quattro battute; dapprima dal Fa die­ sis al Re, usando un motivo arpeggiato di due battute aperto da una doppia terzina, poi dal Re al Fa, sfruttando una versione concentrata del motivo. Come Iago dice a Roderigo di sollevare la città, il basso comin­ cia a salire deciso, sostenendo un motivo di scala cromatica discendente collegato a quello originale dalla terzina. Sia la terzina si# la scala derivano dal Canto bacchico, con quelle sonorità striscianti tipiche di Iago. La to­ nalità si stabilizza verso il Fa diesis con temi di nuova derivazione e la complessità tematica e modulatoria crea un effetto di confusione, di forza e di intensità. Poi, l’entrata di Otello alle parole «Abbasso le spade! » porta un senso di raggiante autorità, spostando il Fa diesis al Sol invece di risolverlo, all’indietro, in Si minore, la tonalità del Canto bacchico. Una nuova sezione è chiaramente pronta: con la cadenza d’inganno al Sol, essa viene introdotta con fluidità ma tuttavia drammaticamente. La sezione del duello è integrata nel resto della scena con la stessa meticolosità di una sezione di Mozart, con la stessa meticolosità con cui la sezione dell’interrogatorio di Figaro è legata al concertato totale. Si noti anche come i rigidi contorni strofici del Canto bacchico trapassino facilmente nell’azione che segue. I passi del parlante vengono introdotti in Otello con la massima scaltrezza per smussare i contorni delle arie e dei concertati pieni di tensione. In aggiunta, la tessitura è usata in brani sempre più lunghi. Alcuni recitativi vengono mantenuti per particolari propriamente privi di emotività, «Roderigo, ebben, che pensi?», «Ciò m’accora», «Mi disciogli le chiome»2. Comunque, il recitativo deve assolutamente armonizzarsi alla svelta con sezioni di parlante o di arioso, non deve mai andare avanti a lungo e sviluppa un interessante materiale orchestrale di sfondo alla minima provocazione, affinché non si avverta molta diffe­ renza tra il recitativo e le sezioni pienamente musicali. Il continuum è in­ credibilmente flessibile. Se il librettista non riusciva ad alimentare ques­ to stile facendo diventare appassionate tutte le conversazioni alla prima occasione possibile, tanto peggio. Nel caso del recitativo inizialmente molto secco tra Iago e Roderigo in apertura del primo atto, per esempio, non c’è davvero nessuna impellente ragione per cui Iago debba conti’ Shakespeare: «How now, Roderigo?», «I like not that», «Prithee unpin me» («Evviva, Roderigo! Mbc?», «Oh, non mi piace», «Sfibbiami qui»).

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nuare ad adirarsi passando all’arioso («Se un fragil voto di femmina», «Ed io rimango», ecc.). Come lo fa, acquista subito un aspetto di parti­ colare violenza repressa. Verdi può non aver avvertito del tutto il peri­ colo della iperemotività latente in questo trattamento del recitativo.

3Il secondo e il terzo sono gli atti di Iago, che Shakespeare presenta indirettamente tramite i suoi colloqui con Roderigo, Emilia, Cassio, Otello e Desdemona. In questo caso Verdi gli rimane fedele e caratterizza musicalmente Iago con grande abilità, secondo la maschera che egli pre­ senta al suo interlocutore. Quando però si offre la possibilità di mezzi più vigorosi, il recitativo e l’arioso non possono farsi veicolo della forza primaria. Sostanzialmente, il metodo di Verdi è più deciso: mette insieme quattro o cinque brevi soliloqui di Shakespeare in un’unica grande aria verso l’inizio dell’atto, il «Credo» di Iago. Nel «Credo» di Verdi non ce nulla della «ricerca di motivazioni» di Shakespeare, curiosamente in­ concludente; c’è invece il farabutto completo, esplicito e terribile. È il pezzo più sensazionale della partitura, e giustamente. L’ascoltatore è colpito quanto basta per reggere due atti dell’ipocrisia di Iago da seguire attentamente. Ora Iago comincia a tentare e ad incalzare Otello, seguendo un pro­ cesso meno sottile e graduale di Shakespeare. Anche se era stato costretto a concentrare la trama, Verdi ebbe cura di soffermarsi su alcuni dei mo­ menti più emotivi e il risultato è uno sviluppo del tutto differente da quello di Shakespeare, nonostante l’abilità con cui viene mantenuta buona parte del dialogo originale. Quanto segue servirà a riportare alla mente la disposizione degli eventi effettuata da Shakespeare nell’atto terzo, scena terza:

i. Iago inizia: «I like not that» («Oh, non mi piace»). Otello non vi presta attenzione. 2. Desdemona intercede a favore di Cassio; Otello, soddisfatto di sua moglie, ha intenzione di assecondare presto il suo desiderio. 3. Iago inculca il sospetto. «I see this hath a little dash’d your spi-

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rits» («Vi vedo un po’ scosso»). Otello è certamente preso alla sprovvista. 4. Pure, quando entra Desdemona: «If she be false, O then heaven mocks itself! | I’ll not believe’t» («Se tradisce costei, oh allora il cielo irride a se stesso. Non voglio crederlo»). Desdemona non ha ancora nessun motivo per essere seriamente turbata. Si allontanano dopo ch’ella ha lasciato cadere il fazzoletto. 5. Emilia, Iago e il fazzoletto. Con grande delicatezza, passa del tem­ po, mentre Otello e Desdemona sono fuori scena. 6. Solo ora Otello ritorna infuriato. Che cosa ha ricordato? «Thou hast set me on the rack... Farewell the tranquil mind!... Othello’s occupation gone!» («Mi hai messo alla tortura... Oh, addio per sempre, ora, serenità dell’animo... È finita la giornata d’Otello! ») L’attacco a Iago, la «prova» del sogno di Cassio e il voto di ven­ detta. Le cose vanno più veloci in Verdi, e si dovette escogitare una solu­ zione che permettesse di mantenere una certa credibilità. Prima che De­ sdemona interceda per Cassio, c’è una scena che riunisce i punti 103 della terza scena del terzo atto di Shakespeare, ma, anche se in realtà Otello ha adesso meno motivi, è assai più che preso alla sprovvista, è già sulle spine e pronto alla violenza. Era quindi ancora più importante che Verdi rallentasse qui lo sviluppo (punto 4). Comunque, non è Desde­ mona a farlo, ma i musici dell’atto terzo, scena prima di Shakespeare, trasformati in marinai e contadini ciprioti confanciulli e mandolini, che, a un cenno di Cassio, vengono a fare la serenata alla padrona dell’isola. Mentre nel dramma i dubbi di Otello potrebbero anche essere acquietati dall’apparizione di Desdemona, nell’opera Otello si è spinto ben oltre e ha bisogno di qualcosa di più per essere ammansito; niente di meno che un interludio lirico, di fatto questa serenata. È Otello stesso a ren­ derne chiara la funzione: «Quel canto mi conquide». La cosa più comune sarebbe stata far cantare a questo punto un’aria a Desdemona. Ma che cosa avrebbe potuto cantare questa Desdemona senza sentimentalismo, dopo il duetto d’amore, prima del quartetto? Verdi preferì far simboleggiare al coro la sua purezza e la sua bellezza. Questa dimostrazione di affetto e la dolcezza e la ingenuità del canto ca­

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ratterizzano Desdemona come lei stessa non avrebbe potuto fare. È una delle cose più originali della partitura. Desdemona intercede per Cassio solo ora e questo dà un carattere diverso alla faccenda, rispetto alla più sottile strutturazione della scena effettuata da Shakespeare (punto 2). Non c’è da meravigliarsi se Otello la respinge con una violenza non shakespeariana quand’ella si offre di fasciargli la testa, e non c’è da meravigliarsi se ora Desdemona ne è tanto profondamente ferita da cantare una lunga, disperata melodia - lei, De­ sdemona, cosi silenziosa in Shakespeare. (Si confronti con l’originale: «I am very sorry that you are not well»; «Mi dispiace molto che non vi sen­ tite bene»). Questa melodia è la base di un quartetto abbastanza fuori moda, fondamentalmente il pezzo di Desdemona. Verdi, qui, non vuole abbandonare i suoi sentimenti al caso più di quanto abbia fatto nel primo atto esplicativo. È il suo dolore che viene espresso dalla melodia appas­ sionata mentre, simultaneamente, Otello mormora «Forse perché ho sul viso quest’atto tenebror» (tratto dal punto 3 di Shakespeare’) e di lato Iago ed Emilia bisticciano sul fazzoletto. Era un’economia, questa, ma la tecnica teatrale di Shakespeare in questa parte della scena, appa­ rentemente goffa, era giustificata. Dopo che le donne sono state mandate via, Verdi rimane fedele al dramma. L’atto finisce con il giuramento di vendetta, un duetto strofico accuratamente chiuso, travolgente, melodrammatico, impetuoso e, an­ cora una volta, del tutto appropriato. Otello, e Iago a tenergli testa, in questo frangente dovrebbero essere «operistici» proprio come lo sono in Shakespeare. La musica è tutta una turgida metafora e grandiosa ge­ stualità, fino agli ultimi collerici accordi. Conformemente ai loro due principi guida nella modificazione del dramma originale, Boito e Verdi rimaneggiarono la scena di Shakespeare in modo da farla muovere su binari rigidi e sicuri e vi interposero una se­ rie di vigorose sezioni liriche per metterne in risalto i fini drammatici. Su questa base il secondo atto di Otello può essere definito il più conven­ zionale dei quattro dal punto di vista operistico, ma Verdi manipolava vecchie risorse con la massima consapevolezza. I «pezzi» di norma - il «Credo», la serenata, il quartetto e il duetto - sono messi al loro posto Shakespeare: «Haply, for I am black...» («Forse perché són nero...»)

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con uno sfruttamento assolutamente nuovo della loro convenzionalità. L’aria di Iago elettrizza l’azione per due atti e la caratterizza in modo cosi particolare ch’egli può controllare la trama quando altri sono di fatto molto più loquaci. Il coro parla gentilmente per Desdemona quando per lei è molto più appropriato il silenzio. Il duetto rivela con forza ter­ ribile la nuova furia di Otello e l’ipocrita pomposità di Iago. E facile ca­ pire che questi numeri soddisfano certe esigenze incontestabili della tra­ dizione nella quale scriveva Verdi. Il punto non è comunque che il bari­ tono aveva bisogno di un’aria o che si doveva trovare uno spazio per il coro, che riceveva uno stipendio, o che un «Duetto d’eterna amicizia» costituisce sempre una conclusione infallibile. Il punto è che Verdi sa­ peva splendidamente volgere queste necessità a uno scopo drammatico. Verdi arrivò a una tale consapevolezza con fatica e solo alla fine della carriera - una carriera che, quanto a durata, fu il doppio di quella di Ros­ sini, Bellini e Donizetti, i suoi più grandi predecessori. La situazione del­ l’opera del loro tempo può essere paragonata a quella dell’opera italiana della fine del xvn secolo, prima della riforma di Metastasio. Come in quel periodo precedente, l’opera riceveva in dono i servizi di molti bravi melo­ disti ed era dominata dall’idea del lirismo. In sé e per sé questo non era un male. Il male, quasi sempre, stava nell’abissale mancanza di fusione degli elementi lirici in un piano drammatico ragionevole. La disparità riflette in modo acuto la confusione del primo romanticismo, la sua frantumazione di un ordine stabile in nome di interessi nuovi ma ancora poco convinti. Il romanticismo richiedeva una certa immediatezza emotiva che i compositori provvidero a creare con una drastica semplificazione della forma delle arie. Abbandonarono la sottigliezza e l’elaborazione formali del xvin secolo e dettero invece vita a qualcosa di più popolare. I com­ positori scrivevano ora «melodie», non «composizioni». Mentre l’a­ ria del xvin secolo era stata un modello per la sonata, l’aria del xix se­ colo venne modellata sulla canzone popolare. I compositori delle liriche di Metastasio, cautamente multiformi, avevano potuto trattare i più vari sentimenti idealizzati nello stesso stile retorico e discorsivo. I sentimenti immediati, però, erano più difficili da trattare secondo le condizioni tec­ niche del xix secolo. La condizione della semplicità significava non so­ lo istantanea comprensibilità, ma anche limitazione - limitazione, in

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pratica, a una malinconia svenevole e sentimentale e ad un entusiasmo ardente ed educato, entrambi ugualmente scialbi, perché all’estrema semplicità della forma si accompagna il vuoto. Pure, le arie andavano di­ stribuite per tutta la partitura. Che cosa si poteva fare? La farsa senti­ mentale funzionava e nell’opera buffa Rossini e Donizetti produssero, se non esempi di commedia seria in senso mozartiano, almeno opere con una certa integrità artistica. Per il melodramma romantico, però, la loro gamma emotiva era semplicemente insufficiente. 11 melodramma romantico fu ciò che i tempi richiedevano e a cui si trovarono a dar vita i librettisti. Quanto mancò a Rossini un Metastasio, un poeta che definisse una convenzione chiara adatta ad almeno alcune delle energie che animavano la musica contemporanea! In quell’era di transizione, però, non esisteva alcuna tradizione stabile e vigeva la ten­ denza ad allontanarsi dalle vecchie convenzioni. È raro, e quasi acciden­ tale, che in una delle opere serie italiane di Rossini un’aria sia adatta alla situazione. L’ultimo atto dell’Otello è riuscito nella «Canzone del sali­ ce»: Rossini crea qui una bella melodia, simile alle melodie popolari, la cui sottile nostalgia funziona abbastanza bene (anche se Shakespeare e Verdi danno vita a qualcosa di ancora migliore senza nessun sentimen­ talismo!) Il duetto successivo, però, rivela pienamente la totale fatuità della concezione drammatica di Rossini. Desdemona offre inizialmente il petto alla scimitarra di Otello con una tranquilla melodia accompa­ gnata da un motivo che si ripete in modo monotono, ripreso dall’aria di Basilio del Barbiere. Quando questa melodia tocca a Otello, questi os­ serva che il suo amante è stato ucciso, e ha l’aria di un negoziante che le mostri una pezza di seta. Desdemona ascolta con educazione, perché sa che la melodia deve essere ripetuta un’altra volta. Otello (e la graziosa coloratura non aiuta) canta «Iago il trucidò» (es. 9). Verdi, naturalmente, in questo punto non si sforza di fare nulla secondo i modi di un formale pezzo lirico. L’intero duetto è musicato in un minaccioso e furioso par­ lante. Una delle scene migliori di Donizetti è quella che chiude la Lucia di Lammermoor. Un cimitero è il luogo più adatto per risvegliare la sensi­ bilità ed Edgardo canta un’aria commovente e malinconica. Come ap­ pare il corteo funebre di Lucia, il movimento si accelera verso una nuova aria in cui il caro e sciocco ragazzo riversa tutto il suo cuore. È una cosa

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davvero graziosa e in sé e per sé drammatica, ma in questo momento ele­ giaco niente potrebbe essere più grottesco del suicidio. Metastasio, dopo le sue primissime opere, non corse mai il rischio di un finale tragico. Se in questa tradizione il lirismo doveva essere sfruttato in maniera pienamente drammatica sia nel melodramma sia nella tragedia, erano necessari due sviluppi. Primo, Verdi doveva imparare a essere impieto­ so con i cantanti e con se stesso limitando le arie ai momenti emotiva­ mente appropriati. Secondo, doveva estendere la sfera emotiva dell’aria di Rossini, Bellini e Donizetti; doveva, in effetti, ricomplicare la forma, anche se, naturalmente, da una nuova prospettiva. Questi due processi

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richiedevano una grande autocomprensione. Certo si completavano a vicenda, perché, come si estendeva la sfera emotiva dell’aria, diventava più facile trovarle dei buoni momenti drammatici. Nell’Otello di Verdi l’aria per Iago è eccellente, perché Verdi era in grado di trattare il senti­ mento in termini musicali; in quello di Rossini la stessa collocazione sa­ rebbe stata sprecata. La crescente consapevolezza di Verdi è individuabile nella trasfor­ mazione del suo modo di considerare la cabaletta, una delle peggiori convenzioni liriche dell’opera del primo xix secolo. La cabaletta era (di solito) un’aria o un duetto, veloci e veementi, estremamente rozzi nella forma e nel sentimento. Veniva sempre dopo un passo più lento e più calmo per lo stesso cantante, o per gli stessi cantanti, e serviva a creare un travolgente finale. La forma era strofica e dello schema più semplice (aaba o abb) e l’accompagnamento consisteva nella ripetizione meccanica di una polacca o di un veloce ritmo di marcia. Tra l’aria più lenta e la sua cabaletta, un passo di recitativo o di parlante serviva a presentare una sorta di giustificazione per il mutamento d’avviso del cantante o della cantante. L’intero complesso è, in effetti, una semplificazione e una stereotipizzazione della precedente aria composita di Mozart e di Beetho­ ven. Invece dell’interrelazione piuttosto sottile di un sentimento con il successivo, invece di un senso di flusso tra l’uno e l’altro, c’cra ora una divisione formale in due pezzi indipendenti. Anche se Rossini nella maggior parte dei casi impiegava ancora arie composite, Donizetti faceva in modo di scrivere una mezza dozzina di cabalette in ogni opera. L’uso verdiano della cabaletta è ancora convenzionale in Rigoletto, l’opera che per molti versi segna il suo decisivo sviluppo. All’inizio del secondo atto, il duca canta un’aria gentile, «Farmi veder le lagrime», la­ mentando l’assenza di Gilda. Quando i cortigiani riferiscono che Gilda è nel castello, canta un’impetuosa cabaletta, «Possente amor mi chia­ ma». L’intero complesso è superfluo, più che superfluo, perché il duca di fatto non può essere né gentile né veramente eccitato. Poco dopo, dopo che Gilda e Rigoletto hanno cantato il loro tenero duetto, Verdi ricorre allo straordinario sotterfugio di introdurre Monteronc e le sue guardie sulla strada della prigione semplicemente per incitare Rigoletto alla conclusiva cabaletta di vendetta, «Si vendetta». Nella Traviata, d’al­ tronde, due anni più tardi, provvede a introdurre la cabaletta per Violetta con molta più fantasia. Alla fine del primo atto, commossa dalla prece­

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dente confessione di Alfredo, Violetta si chiede se potrà trovare un amore duraturo nell’aria «Ah fors’è lui». Poi, all’improvviso, allontana questo pensiero a cui è tentata di abbandonarsi e canta la cabaletta leggermente isterica «Sempre libera». Deve essere libera e pensare solo al piacere mo­ mentaneo. Dopo la prima stanza, si sente davvero la voce di Alfredo sotto il balcone, ma Violetta continua la sua stanza successiva (o piuttosto ripete la prima), più decisa che mai nel suo nuovo stato d’animo. Questo è un buon uso drammatico del complesso aria-cabaletta, ma «Sempre libera» è ancora dozzinale nel sentimento in confronto ad altre manifestazioni che Violetta fa dei suoi sentimenti durante il corso dell’opera. Gradualmente, e si direbbe con riluttanza, Verdi ridusse sempre più le cabalette. Le ultime sono quasi tutte duetti in cui le cose si fanno più flessibili. L’ultimo vero esempio si trova nel terzo atto diXf^, «Si: fuggiam da queste mura», che segna il momento in cui Radames decide di scappare con Aida. Verdi troncò abilmente la seconda stanza con un enfatico ritorno alla melodia iniziale della scena, «Pur ti riveggo, mia dolce Aida», ma la rudimentale impetuosità della cabaletta continua a non andare molto bene in questa scena, che è in ogni caso la meno sod­ disfacente di tutta l’opera. Non andò bene nemmeno ai critici contem­ poranei. Alcuni anni dopo Aida, mentre lavorava alla revisione di Simon Boc­ canera per Milano, Verdi scrisse al suo editore a proposito delle caba­ lette'. Ma bisogna rifare tutto ilsecond’atto [...] Musicalmente si potrebbero conservare la cavatina della donna, il duetto col tenore e l’altro duetto tra padre e figlia, quan­ tunque vi sicno le cabalette} ! ! (Apriti o terra!) Io però non ho tanto orrore delle ca­ balette y e se domani nascesse un giovine che ne sapesse fare qualcuna del valore per es. del «Meco tu vieni o misera» oppure «Ah perché non posso odiarti» andrei a sentirla con tanto di cuore, e rinuncerei a tutti gli arzigogoli armonici, a tutte le leziosaggini delle nostre sapienti orchestrazioni. Ah, il progresso, la scienza, il ve­ rismo!... Ahi, ahi! Verista finché volete, ma... Shakespeare era un verista, ma non lo sapeva. Era un verista d’ispirazione; noi siamo veristi per progetto, per calcolo. Allora tanto fa: sistema per sistema, meglio ancora le cabalette4.

Dopo essersi liberato da questo influsso dannoso, Verdi eliminò com­ pletamente una cabaletta dalla versione rivista di Simon Boccanegra c ne 4 Cfr. / Copialettere di Giuseppe Verdi, Milano 1913, p. 539.

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ridusse altre due all’osso. Le cabalette, dopo tutto, non si adattavano alla sua nuova opera, continua e «verista». Pure, una traccia, una traccia appena di cabaletta rimane nel grande duetto della vendetta alla fine del secondo atto di Otello. Questo duetto non nasce da nessun pezzo di strofica c lirica cantabilità, ma serve a far calare la tela, conserva il vecchio, trascinante accompagnamento ritmico e spinge la convenzionale veemenza a punte estreme di violenza e di ri­ solutezza che fanno sembrare davvero smorte le grida di Rigoletto e di Radames. Il pezzo ha anche un’ossatura della vecchia forma strofica aaba, ma lo schema è completamente trasformato per adattarlo alle ne­ cessità del dramma. Accompagnato da un rombo orchestrale, Otello svetta con la sua prima magnifica stanza: quattro battute a che chiudono sulla tonica, quattro battute a che modulano al III grado, b a sequenze collegate; ma prima che possa concludere irrompe Iago: «Non v’alzate ancor!»5. Di nuovo in tonica, Iago comincia la seconda stanza, e noi comprendiamo che Otello non ha affatto cantato la melodia, ma un più alto contrappunto, un discanto. Iago richiama la melodia. Ora la canta: a in tonica, a modulando questa volta al DI grado minore, quindi, dopo b, una tortuosa modulazione interrompe la conclusione sulla terza stan­ za. Questa viene cantata insieme dai due, melodia e discanto. Finalmente (dopo una scaltra battuta in più in b) arriva un libero finale a, che com­ pleta la forma prevista aaba. In un pezzo strofìco, la cadenza è riservata al momento cruciale della strofe finale. Una libertà formale di questo tipo conduceva a una nuova ampiezza espressiva in tutti i pezzi di Otel­ lo. In ogni caso, la libertà agisce non per annullare la tradizione lirica, ma per affinarla. Il lirismo è la forza principale di Verdi come drammaturgo, non solo la sua forza principale, ma anche la grandezza che lo fa spiccare decisa­ mente su tutti i suoi seguaci. Le melodie e le frasi melodiche di Verdi non rivelano mai l’inevitabile, molle sentimentalismo dei suoi seguaci. Nei momenti peggiori esse cadono nella sentita vacuità .di Donizetti, mai nella volgarità, se si fa eccezione per le brillantes francesizzanti di Oscar, Preziosilla e simili. E niente cade dopo Laforza del destino. È certo un vero peccato che Bernard Shaw, nell’atto stesso di difendere Verdi ’ Shakespeare: «Do not rise yet! » («Restate li»).

Otello di Verdi: Topera tradizionale e l’immagine di Shakespeare

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dalle accuse di wagnerismo, abbia contribuito a perpetuare la calunnia ugualmente insensata che le opere tarde rivelano «un inevitabile e natu­ rale isterilimento della sua spontaneità e della sua fertilità». Il carattere di pura bellezza del lirismo di Verdi si sviluppò di pari passo con la con­ sapevolezza del suo appropriato uso drammatico. Verdi affinò la sua arte per rendere interessante e vitale ogni frase melodica, per staccarsi dalle forme schematiche che frenavano il suo genio fortemente romantico e per controllare la sontuosa flessibilità di complessi lirici altrettanto lunghi del duetto d’amore del primo atto di Otello e del concertato che conclude l’atto terzo. Qui Verdi sosteneva arcate melodiche più ampie, in continua espansione e in libera evoluzione, con una nuova intensità emotiva. I wagneriani puri non erano abituati ad una tale ambizione nel solo campo melodico.

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Il preludio dell’atto terzo si sviluppa dall’incisivo frammento di arioso già ascoltato quando Iago, fattosi di colpo confidenziale, untuoso e largo di melodia, mette in guardia Otello contro il mostro della gelosia. «Te­ mete, signor...»6: È un’idra fosca, livida, cieca, col suo veleno sé stessa attosca, vivida piaga le squarcia il seno.

Come si alza il sipario e il preludio volge alla fine, viene interrotto da un accordo pieno e calmo di tutti gli ottoni e su questa tonalità tizianesca un araldo annuncia l’imminente arrivo degli ambasciatori veneziani. Otello, però, non è nello stato d’animo adatto per gli affari di Stato, e, congedato l’araldo, il tema dell’idra ritorna tranquillo a completare la sua cadenza interrotta. Quando si rivolge a Iago e gli dice «continua», l’orchestra ha già indicato l’argomento della conversazione. Venendo dopo un intervallo in cui il veleno di Iago ha lavorato con formidabile sicurezza e la simbolica gravità della perdita del fazzoletto si é Shakespeare; «Beware, my lord...» («Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore»).

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è fatta pienamente strada nella mente di Otello, il preludio agisce come una traduzione affatto musicale del senso di «continuità» ottenuto da Shakespeare quando apre il quarto atto nel bel mezzo di un furioso dia­ logo tra Iago e Otello. Per questa circostanza, tutto quello che Boito ri­ prende dalla lunga scena di Shakespeare (atto IV, scena 1) è questo stato d’animo iniziale e il successivo accordo che Otello ascolti di nascosto quello che Cassio dirà di Bianca. Non è in realtà il momento adatto per l’attacco di Otello, perché, anche se Iago gli ha parlato del fazzoletto, Desdemona non ha ancora negato di averlo perso. Questo lo fa nel duetto successivo, «Dio ti giocondi, o sposo», che unisce due scene di Shake­ speare, quella del fazzoletto e quella del bordello (III, iv e IV, n). Anche se la concentrazione acquista scioltezza e una forza più immediata, perde qualcosa del disgiunto crescendo di Shakespeare e della credibilità che l’accompagna. Il duetto è un pezzo di grande caratterizzazione, con quella sua coe­ siva ripresa musicale che cattura con precisione l’orribile, forzato scherzo di Shakespeare: ... vo’ fare ammenda. Vi credea (perdonate se il mio pensiero è fallo) quella vii cortigiana che è la sposa d’Otello7.

Naturalmente, il brano ha una continuità lirica minore del duetto d’a­ more del primo atto, ma Verdi non trascurò di includervi un appassio­ nato arioso per Desdemona, «Mi guarda! », registrando di nuovo i suoi sentimenti con una completezza non shakespeariana. Quanto a Otello, passa da una forma di correttezza forzata alla furia, secondo uno sviluppo analogo a quello cui abbiamo già assistito due volte nel secondo atto e che vedremo altre due volte in questo atto: sviluppo che raggiunge ogni volta un livello più alto, culminando nell’attacco epilettico. Otello cade ora in una nobile angoscia, «Dio! mi potevi scagliar», ma monta di nuovo in collera. Nel momento culminante dell’arioso fun­ ziona da sprone l’improvvisa apparizione di Iago che annuncia l’arrivo di Cassio. Questo coup de tbéàtre potrebbe sembrare discutibile, se fosse 7 Shakespeare: «Fcry you mercy then. 11 took you for that cunning whore of Venice | that married Ot hello» («E allora, per l’amor di Dio siate generosa con me e perdonatemi. Vi avevo preso per la puttana furba di Venezia, che sposò Otello»).

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più organico. Il terzetto dell’origliamento, con la razionalizzazione degli «a parte» di Otello, è uno dei pezzi più belli della partitura, con l’arpeg­ gio canzonatore del tema del riso di Cassio, etereo finché le parole sfug­ gono all'indiscreto ascoltatore, poi trasformato in un’aspra settima di­ minuita quando Otello riconosce il fazzoletto in mano a Cassio. Di cer­ to, questo è anche il più evidente miglioramento apportato da Verdi alla più goffa organizzazione shakespeariana della scena. È un pezzo d’assieme che ha tutta la sottigliezza di Mozart e la sua conclusione in stretto coglie perfettamente la magia torva, delicata e drammatica del potere del faz­ zoletto: «Vi è riposta l’alta malia di un talismano»8. Da questo momento in poi, l’azione è offuscata dallo splendore di Venezia e insieme a questo dall’immagine del «Leone di San Marco», il nobile moro. Le fanfare di trombe sono già ironiche mentre il nobile moro trama l’omicidio di Desdemona al loro accompagnamento. Le successive grida corali di «Evviva Otello!» lo sono ancora di più, in quanto riportano alla mente la prima entrata di Otello dopo la tempesta, con la notizia della vittoria sua e di Venezia. Dell’arrivo degli ambasciatori era stato dato un preannuncio (con gli ottoni) all’inizio dell’atto e l’umiliazione finale di Desdemona, secondo la forma datale da Boito, doveva aver luogo in loro presenza, ma, dopo che Otello l’ha insultata davanti a loro e l’ha gettata a terra, la Desdemona di Verdi, invece di fuggire, sta all’altezza della situazione con un’altra lunga e franca canzone in cui esprime tutta se stessa. Un ampio concertato, secondo il vecchio stile, con sette solisti e due cori, viene infatti costruito partendo dal suo superbo lamento. Questo pezzo è stato criticato, e Verdi stesso l’abbreviò per la messa in scena di Parigi, ma io lo trovo ammirevolmente drammatico in questo punto. La stessa grandiosità della partitura stabilisce esattamente la va­ nità dello sfarzo veneziano per rispecchiare la precarietà della gloria del Leone, che rimane significativamente in silenzio. Inoltre, il finale costi­ tuisce uno sfondo meraviglioso per Iago, la cui forza sta crescendo co­ stantemente da due atti e che ora sembra in grado di controllare l’intero concertato. È il solo cantante dinamico. Prima organizza con Otello i vari omicidi, poi attraversa il palcoscenico per dare i suoi ordini a Roderigo. • Shakespeare: «Sure there’s some wonder in this handkerchief» («Certo quel suo fazzoletto è stre­ gato»).

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Tutto questo avviene sotto l’incantesimo della melodia di Desdemona, che è tanto piu straziante per gli echi sottili del duetto d’amore del primo atto. Era essenziale, nello schema di Verdi, che Desdemona dicesse la sua. Anche se questo scoppio sonoro avrebbe costituito un efficace fina­ le, Boito lo lasciò perdere per qualcosa di meglio e introdusse a questo punto l’attacco di Otello, nel culmine della situazione, un momento più efficace di quello di Shakespeare. Iago, ancora al comando, sgombra la scena mentre ironiche grida di «Gloria al Leon di Venezia!», prove­ nienti dalla folla ignara che sta al di fuori, risuonano intorno al corpo prostrato di Otello. La musica e la scena si combinano insieme per creare un simbolo adeguatamente violento del declino di Otello: l’uomo che era è pubblicamente celebrato come il nobile generale, mentre l’uomo che è si trova disprezzato sotto il tallone di Iago, annientato dalla pro­ pria furia. «Ecco il Leone! » - con l’equivalente musicale del calcio del­ l’asino. Dopo la rapidità d’azione del terzo atto, l’atto quarto sembra archi­ tettonico, austero. Non è interessato all’intrigo di Iago e all’abbrutimen­ to di Otello, ma alla cupa semplicità della catastrofe. La prima metà del­ l’atto è effettivamente un monologo di Desdemona che si apre con la scena in camera da letto con Emilia, la scena terza dell’atto quarto di Shakespeare ridotta alla «Canzone del salice», il dono più bello che un compositore abbia mai ricevuto da una fonte letteraria. Appena Emilia esce, una preghiera di Desdemona (l’« Ave Maria») dà a Otello il tempo di pensare che si sia addormentata. La seconda metà dell’atto ci mostra Otello, la sua entrata da una porta segreta, l’uccisione, la spiegazione di Emilia e il suicidio. Qui, per una volta, dal suo eroe il compositore ricava meno materia­ le emotivo del drammaturgo. Niente rimpiazza veramente la grande poesia delle operazioni finali di Otello in cui Shakespeare e Otello cer­ cano di riportare in vita il suo vecchio essere. «Niun mi tema» al con­ fronto equivale a esprimersi balbettando. Nel suo desiderio di essere «verista» c avvincente, Verdi fece sempre più uso di un’organizzazione orchestrale, non arie o grandi ariosi, ma lunghe sezioni musicali dialoga­ te e brani del suo più violento parlante, tutti più che mai saturi di riferi­ menti e sviluppi tematici. A questo scopo parecchi motivi vengono in­ trodotti durante la pantomima che segue l’entrata di Otello, che ho già

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citato e illustrato in un contesto più generale (cfr. p. 11). Otello entra nel momento in cui sta prendendo la sua decisione, non già risoluto come lo è nella grande orazione di Shakespeare «It is the cause». Il famoso brano orchestrale che inizia con i contrabbassi segue il conflitto tra amore e furore che si svolge nell’animo di Otello. Come in Shakespeare, Otello bacia Desdemona addormentata. Verdi dilata questo bacio in un simbolo più ampio. Lo aveva «piantato» con la musica del primo atto, nel culmine del duetto d’amore, dove provoca un’impressione che tre atti non riescono ad affievolire. Dopo il furore, questa musica ritorna ancora una volta proprio alla fine: Pria d’ucciderti... sposa... ti baciai. or morendo nell’ombra... ov’io mi giacio... un bacio... un bacio ancora... un altro bacio...’.

Siccome nel finale di Verdi né Otello né Lodovico parlano del passato, questa musica d’amore costituisce un riferimento completo al nobile Otello che è ora caduto. La sua ripetizione riunisce l’intero dramma con un pathos sconvolgente. La ripetizione di frammenti musicali con una sorta di intento simbo­ lico non è sconosciuta all’opera precedente; se ne possono trovare esempi in ognuna delle quattro più famose opere di Mozart, per non parlare dell’Or/eo di Monteverdi. La ripetizione tematica come tecnica drammatica, però, non potè giungere a compimento fino all’avvento dell’opera continua, senza pezzi chiusi, del xix secolo. I temi ricorrenti costringono l’ascoltatore a mettere in relazione un momento del dramma con un altro, lo costringono a riflettere al di là dei rigidi confini tra i vari pezzi: essi sono veramente continui nell’effetto prodotto. Sono stati usati al massimo delle loro possibilità nelle opere di Verdi e di Wagner, ma in modi diversi, caratteristici delle singole soluzioni operistiche di cia­ scuno dei due compositori. Mentre il Leitmotiv wagneriano è un motivo piccolo e flessibile, ideato per riferimenti minuziosi e frequenti e per tessere una complicata tela sinfonica, Verdi preferisce di gran lunga il risalto più forte che si ot­ tiene con la ripetizione nei momenti cruciali di frasi più complete. Si9 Shakespeare: «I kiss'd thee ere I kill'd thee. Noway but this - | killing myself, to die upon a kiss», («Io ti ho baciato prima di ucciderti; ora che mi son dato la morte non posso che morire in un tuo bacio»).

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mili effetti perdono di forza se la musica viene usata più di due o tre volte, mentre i Leitmotive non meritano tale nome se non appaiono molto più frequentemente. Le frasi che Verdi ripete sono in genere liriche e sono tra le sue più impressionanti ispirazioni melodiche. Wagner usa invece cellule flessibili di interesse armonico o ritmico. Nella loro natura sim­ bolica, i temi di Verdi sono meno vari e meno problematici di quelli di Wagner. Generalmente non identificano personaggi o idee, ma riportano alla mente una situazione precedente dell’opera e, insieme a questa, il sentimento provato. Si può dire che esercitano la loro funzione di ricor­ do non a beneficio degli spettatori, ma dei personaggi del dramma. Per quanto riguarda i temi ricorrenti di un’opera, Verdi imparò poco dai suoi immediati predecessori, che, al riguardo, erano del tutto pedestri. L’uso più comune era quello di far cantare la stessa musica a un gruppo di soldati, di monache o di bisboccioni in parecchie occasioni diverse, con un effetto di autoidentificazione più che di rievocazione. Inoltre, durante scene di delirio o di sogno o di sonnambulismo un per­ sonaggio demente o sotto l’influsso di un sogno rievocava spesso musica udita in precedenza. La giusta melodia poteva riportarlo (di solito ripor­ tarla) alla normalità. Però, siccome si può supporre che il personaggio «senta» veramente, anche quest’uso dovrebbe essere considerato pede­ stre, la pedestre rappresentazione di un’anormale condizione mentale. L’esempio più famoso è naturalmente la scena della pazzia di Lucia di Lammermoor. Un’altra opera ispirata da Sir Walter Scott ce ne può for­ nire il primissimo esempio, La donna del lago di Rossini. Anche se Verdi impiegò di quando in quando questo cliché (comunque, fortunatamente non nella scena del sonnambulismo di Lady Macbeth) i suoi più bei temi ripetuti sono i più autenticamente immaginativi. Un personaggio in nor­ mali condizioni mentali è portato, sotto la spinta di qualche circostanza straordinaria, a ricordare un’occasione precedente e, con questa, i pro­ pri sentimenti di allora. La musica viene usata per una rievocazione im­ maginativa, quasi sempre in un momento cruciale. Rigoletto fornisce uno dei primi e più impressionanti esempi di que­ sta tecnica, come di molte altre dello stile di Verdi in via di maturazione. Nella seconda scena del primo atto, Rigoletto ricorda quattro volte la maledizione di Monterone e mormora le parole «Quel vecchio maledivami! », sulla stessa musica. Per quanto semplice, la frase musicale in sé

L’Oidio di Verdi: l’opera tradizionale e l’immagine di Shakespeare

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stessa non potrebbe essere più adatta, e sono propenso a pensare che gran parte del suo effetto spaventoso nasca dall’essere non identica, ma solo simile alla musica realmente cantata da Monterone nella prima scena del primo atto. La frase forma la sostanza del terso preludio dell’opera. Nel secondo atto, Monterone ritorna (gratuitamente) per reiterare la sua maledizione, più o meno. Il terzo atto non fa nessun riferimento mu­ sicale a questa particolare musica della maledizione, ma c’è un altro le­ game: Rigoletto termina sia il primo sia il terzo atto con le stesse parole e la stessa musica, «Ah, la maledizione! ! !» Il titolo originale dell’opera, che non andò a genio al censore, era La maledizione. Sembra proprio che Verdi abbia formulato la vaga idea di usare la musica per unificare l’opera intorno alla maledizione, come per far dispetto al censore! Gino Roncaglia ha parlato del tema cardine in Verdi, un frammento ricorrente intorno al quale viene fatto muovere tutto il dramma. Simili temi sono talvolta abbastanza rozzi, in Emani, nella Battaglia di Legnano e nella Forza del destino. Vengono usati bene per la prima volta in Rigoletto e nella Traviata. In effetti, l’uso sostanziale della ripetizione tematica della Traviata fa sembrare quasi slegato Rigoletto. Nel primo atto, la confessione di Al­ fredo, «Di quell’amor», ritorna, in modo quanto mai bello e sorpren­ dente, durante il corso dell’aria di Violetta «Ah fors’è lui», quand’ella ricorda il momento antecedente. Poi la sua cabaletta è interrotta da Al­ fredo che canta veramente la frase sotto il balcone. Il librettista (meno servizievole di quanto fosse stato in Rigoletto) non suggerì ulteriori ri­ chiami e la riesposizione orchestrale di «Di quell’amor» nell’atto finale, quando Violetta legge la lettera e poi quando muore, fu un’ispirazione di Verdi, come avvenne per la squisita estensione modulante che la frase assume in quest’ultimo caso. Un momento sentimentale, forse, ma Vio­ letta è proprio questa creatura sentimentale, e il dramma si basa sul con­ flitto tra sentimento e realtà. Dopo tutto, quando cala il sipario, ci viene risparmiata una tonante ripresa orchestrale di «Amami, Alfredo», alla Tosca. Nella Traviata il principio della ricorrenza tematica si incrociava con una delle più magistrali tecniche liriche di Verdi. Molte delle sue arie più belle consistono di una sezione in modo minore che sbocca in mag­ giore, per concludere con un episodio di esaltante potere melodico. Nel

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caso dell’aria di Violetta «Ah fors’è lui», che è in Fa minore, Verdi ebbe l’ulteriore idea di usare la conclusione in maggiore come tema ricorren­ te. Il passo finale in Fa maggiore, l’eco della frase di Alfredo, viene can­ tato o suonato in altre quattro occasioni. Brani con melodie che si richia­ mano sono tra le cose più memorabili di Un ballo in maschera e della Forza del destino’. «Consentimi, Signor, virtù», in Mi maggiore, cantato da Amelia per concludere il suo terzetto in Mi minore con Ulrica e Ric­ cardo, e «Deh! non m’abbandonar, pietà, pietà di me, Signore», in Fa diesis maggiore di Leonora per concludere l’aria in Fa diesis minore «Madre, pietosa Vergine»: in entrambi i casi si tratta di preghiere, di grande efficacia, con la prediletta appoggiatura dal VI al V grado, tipica dello stile italiano, e tutte e due le frasi ricorrono altrove, nel corso del­ l’opera, in orchestra. In un passo di Aida, è pieno di significato che l’e­ sordio in minore sia molto corto, lasciando che l’interesse si concentri su quello in maggiore con la conclusiva ricorrenza tematica: «I sacri nomi» (La bemolle minore) e «Numi, pietà» (La bemolle maggiore). Tecnicamente parlando, questi pezzi precorrono la musica del bacio di Otello, anche se è interamente orchestrale. Sebbene in questo caso la melodia non sia mai cantata dall’eroina, pure le appartiene chiaramente. La sezione di apertura in minore viene completamente trasformata nel lungo brano orchestrale dell’entrata di Otello, ma il meraviglioso senso di espansione e di crescente liberazione provocato dal maggiore è più emozionante che mai. Come nella Traviata, Verdi in questo caso era in possesso di un vero «tema cardine», e sembra che fosse più che mai consapevole della piena forza drammatica latente nel meccanismo. L’a­ more di Otello per Desdemona con il nodo cruciale del bacio e dell’uc­ cisione sta alla base della concezione drammatica di Verdi in Otello. La rievocazione musicale, una rievocazione intensa, dà unità musicale e psicologica all’opera, con un solo colpo, penetrante nella sua grandiosa semplicità. La tecnica della ripetizione musicale nel melodramma rag­ giunge in quest’opera la sua massima raffinatezza. Il solo brano musicale, infatti, che possa essere paragonato al caso di Otello è il Liebestod finale di Tristano e Isotta, che non ha affatto le ca­ ratteristiche del Leitmotiv, ma è una ripetizione su larga scala dell’apo­ geo di un precedente duetto d’amore. Forse Wagner è più ingegnoso, cambia l’aspetto del brano persino nella serrata ripresa c naturalmente

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ha bisogno di farlo almeno cinque volte più lungo, ma da un punto di vista drammatico il Liehestod non è più magistrale del finale di Otello.

5Per più di cinquantanni Verdi affinò gradualmente ogni elemento della sua drammaturgia, il parlante, l’aria e il duetto lirici, la ripetizione di temi lirici a scopo rievocativo e molti altri che non ho cercato di deli­ neare. Tutti questi elementi rientrano sostanzialmente nell’ambito della tradizione operistica classica iniziata con Monteverdi. È suggestivo e simbolico che la storia di Aida sia in realtà tratta da Metastasio” e che Falstaff ripristini alla fine la consapevolezza e la chiarezza della comme­ dia mozartiana. Otello, lungi dall’essere un riflesso della riforma wagne­ riana, come era comune affermare, è, in modo più pertinente, una rea­ lizzazione dell’impresa rossiniana d’inizio secolo. Al momento in cui Verdi si accinse a comporre Otello, il suo controllo della tecnica dram­ matica e la sua sensibilità nel trattare una situazione momentanea davano l’impressione di essere sufficienti, qualsiasi scopo egli potesse avere in mente. Verdi condusse alla perfezione l’opera tradizionale, ma come dram­ maturgo, naturalmente, apparteneva interamente al xix secolo. Nella concezione drammatica di fondo, Otello è tanto diverso àaA'Othello di Shakespeare quanto lo è sul piano della drammaturgia. Conoscendo Shakespeare, può darsi che questa concezione non sia completamente di nostro gradimento, ma dovremo riconoscerne il tipico romanticismo e ammirarne la chiarezza, la coerenza e la forza. Vediamo come Verdi trattò i tre personaggi principali e le loro rela­ zioni reciproche. Iago è il caso più chiaro, in quanto venne trasformato dall’essere umano così complicato di Shakespeare in quella perenne ri­ serva operistica che è Mefistofele. Si può anche dire che la qualità mefi­ stofelica che Goethe scorse in Iago venne ingigantita lasciando da parte quasi tutti gli altri elementi. Analogamente a tutti i personaggi dell’ope­ ra, quello che Iago dice e fa è ben caratterizzato, ma, come sempre, le 10 Si veda F. Pérez de la Vega, La Prosapia de Aida, Mexico City 1950, o, più accessibile, «Opera News», XX (1955), n. 8.

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nostre impressioni più profonde del personaggio nascono dai suoi «nu­ meri», in particolare dal suo terribile soliloquio. Anche se la teologia di Iago è un po’ abborracciata nelle parole del «Credo», la musica rag­ giunge inequivocabilmente il tono della spacconeria blasfema caratteri­ stica della messa nera. Il Canto bacchico di Iago ricorda Mefistofele nella cantina di Auerbach e se ne trovano altrove piccole conferme in certi ri­ ferimenti non shakespeariani: «Ti spinge il tuo dimone | e il tuo dimon son io! », «aiuta Satana il mio cimento! » Boito, compositore dìMefisto­ fele, desiderava intitolare quest’opera lago. La semplificazione della personalità di Iago lo alleggerì in realtà della fastidiosa questione delle motivazioni. Forse, nessun italiano del xix secolo avrebbe potuto essere soddi­ sfatto dell’innocente Desdemona e la trasformazione del suo ruolo deve essere stata ancor più deliberata. Ampliare il suo ruolo voleva dire ren­ derla più sciolta. La prima sorpresa è costituita dalla sua prima appari­ zione, nel duetto d’amore del primo atto. Desdemona canta senza riserva alcuna sullo stesso piano del suo Otello, l’uno condivide e riecheggia le frasi, la musica e i sentimenti dell’altra. È stato abile Boito a inserire qui alcune informazioni sul corteggiamento di Otello, ma un conto è far dare a Otello queste informazioni al duca quando viene accusato di stre­ goneria, un altro far ricordare l’episodio a marito e moglie in un mo­ mento di intimità e di comprensione reciproca. Posso dare infatti poco credito all’osservazione di Iago quando ci dice che la coppia verdiana c una coppia di sposi novelli. Come nella novella italiana originale di Giraldi Cinzio (di cui Verdi, sia detto per inciso, sapeva forse qualcosa), Otello e Desdemona devono essere felicemente sposati da un po’ di tempo. Otello non può essere molto più vecchio di sua moglie, anche se certo Desdemona deve essere più vecchia della fanciulla di Shakespeare. Non c’è stato niente di «innaturale» nell’unione e non c’è nessuna ragione per cui Otello debba essere nero. Con il procedere dell’opera, Desdemona si fa sempre più matura, consapevole, sciolta e (in pratica) sdegnata. Le sue lamentele nei grandi concertati del secondo e del terzo atto sono espressioni di una persona che sente l’offesa e la fronteggia. Nei suoi alterchi con Otello, la forte nota di passione e di risentimento può forse non risultare evidente dal libretto, con la sua traduzione, ingannevolmente fedele, degli shake­

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speariani «is’t possible?... is’t true?... In sooth, you are to blame... I un­ derstand a fury in your words... Alas, what ignorant sin have 1 commit­ ted?» e cosi via11, ma traspare dall'accento che a queste esclamazioni, svolgendo i compiti dell’attore, dà la musica. E alla fine dell’incompara­ bile «Canzone del salice», quelTincomparabile grido «Ah! Emilia, ad­ dio! » viene da una persona che supera le proprie emozioni in perfetto stile. La Desdemona di Verdi è una creatura del colorito e non partico­ larmente innocente rinascimento romantico di Symonds, De Sanctis e D’Annunzio. Almeno teoricamente, è capace di adulterio come lo è di passioni in grande stile. L’ampliamento del suo ruolo portò al contempo, forse meno delibe­ ratamente, a ridurre quello di Otello. Ho già indicato come la sua nobiltà e la sua degradazione vengano comunicate dalla poderosa struttura del terzo atto di Verdi, ma per tutti i quattro atti questa nobiltà non è cosi convincente, mancando molti degli appigli di Shakespeare, per esempio l’atto veneziano, che dà solide basi alla personalità dell’eroe tragico, o il piedistallo eretto per Otello dalla Desdemona di Shakespeare. Alla fine, poi, Verdi sacrificò in modo particolarmente critico la tragedia di Otello per il pathos di Desdemona. Verso di lei è diretta cosi tanta attenzione che a Otello non può essere permesso di rievocare il suo vecchio io sotto nessun aspetto, tranne quello dell’amante. Il suo amore viene ricatturato e persino intensificato e la ripetizione della musica associata al bacio è il brano più eloquente dell’opera, ma questa musica è tanto di Desde­ mona quanto di Otello e nel forte impeto di pietà che sentiamo per lei rimaniamo dubbiosi sul nostro eroe. Qui manca anche il solenne post­ scriptum di Lodovico, come manca qualsiasi altra eco dello Stato. Infine, la concezione dell’eroe viene danneggiata perché, dall’inizio alla fine, Otello è cosi incapace di controllare le proprie emozioni. Fin dal momento in cui placa la rissa provocata dal vino il suo carattere la­ scia un senso di disagio. U Now by heaven my blood begins my safer guides to rule”11 12

11 «È possibile?... c vero?... Oh, siete proprio cattivo adesso... Sento il furore nelle vostre parole... Ahi­ mè! Di quali colpe inconsapevoli mi sono coperta?» 12 «Ah - per il cielo - il sangue comincia ad allentarmi i freni più saldi».

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di Shakespeare può essere un presagio, ma Verdi lo prende come una didascalia di scena e lo inserisce nella musica. Il passo orchestrale del­ l’entrata di Otello neirultimo atto rappresenta la sua irresolutezza e la sua instabilità. Otello è certamente uno dei più emotivi eroi tragici di Shakespeare, ma è anche il più volubile dei tenori di Verdi, nella sua opera meno artificiale, ed è un peccato. Verdi tese istintivamente a trasferire una parte sempre più consi­ stente del dramma a Desdemona, e a intervalli regolari le assegnò il cen­ tro della situazione, a spese di Iago e a spese, particolarmente, di Otello; ma in questo egli fu ostacolato dalla sua forte fiducia in Shakespeare. Quello che Desdemona fa, o piuttosto la sua mancanza di azioni, non è all’altezza della persona la cui maturità e il cui spirito vengono manife­ stati dall’espressione musicale. Specialmente nella scena dell’uccisione abbiamo una Desdemona anacronisticamente shakespeariana. Il ritmo sostenuto della sua crescita nelle avversità qui viene arrestato. A questo riguardo, anche Otello, nel suo ruolo shakespeariano di «boia», è abba­ stanza poco convincente, perché la punta massima della sua tragica ca­ duta è indebolita sia prima sia dopo. Se non possiamo credere senza ri­ serve alla grandezza di Otello, la validità del dramma diventa problema­ tica, la relazione di Desdemona con Otello diventa più banale e il virtuo­ sismo di Iago perde la sua forza terribile. Eppure, questo Iago è palese­ mente il Maligno in persona. In Otello, Verdi guarda in avanti verso il teatro del verismo, come certo guarda indietro verso il teatro elisabettiano. Il suo istinto più pro­ fondo, oso credere, era quello di creare qualcosa di più comprensibile e di più naturalistico della criptica tragedia di Shakespeare. Come molti studiosi di Shakespeare, Boito e Verdi desideravano forse armonizzare le ir razionalità del dramma. Nessun’altra tragedia shakespeariana riesce a presentare una storia critica cosi vivace per le repulsioni, le attrazioni, le perplessità e le esasperazioni registrate sulla sua tela di significati con­ trastanti, ma tutti i critici, ad eccezione di quelli più estremi, riconoscono il profondo nucleo di verità che Shakespeare ha toccato e liberato. Le motivazioni del male, le tragiche contraddizioni latenti nell’animo nobi­ le, l’ambiguità dell’innocenza e la crudeltà del caso sono tutti elementi che è difficile poter avvertire con più profondità che in Otello. L’opera di Verdi non presenta esattamente intuizioni simili, né sol-

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leva interrogativi così profondi, né sottopone l’immaginazione artistica a una tensione così elettrizzante. Boito ebbe cura di spiegare nelle sue ultime righe l’etimologia di Des-demona, la «ill-starr’d wench », la «bim­ ba nata sotto una cattiva stella» di Shakespeare: Pia creatura nata sotto maligna stella.

Sono la stella maligna e l’angelo caduto a provocare la rovina e ciò è drammaticamente sincero e al tempo stesso rassicurante. Verdi ha scritto V Otello «credibile», il dramma che poteva appagare (sì, e giustificare) Thomas Rymer e i suoi amici. Le cause vengono portate in superfìcie, le simpatie hanno una chiara direzione, l’azione centrale è stata purificata quanto l’osceno linguaggio immaginoso di Iago, le frecciate di Otello nella scena del bordello e persino un innocente verso della «Canzone del salice». Quello di Verdi è un Otello dignitoso, razionalizzato, anima­ to da un potente afflato romantico.

Capitolo settimo L’opera come teatro cantato

i.

Da certe opere d’arte si ricava l’impressione di una convergenza pressoché magica dell’artista e dell’argomento, come ad esempio, se­ condo Kierkegaard, dall’I/à^ e dal Don Giovanni. Quest’impressione c certamente troppo forte perché la si possa negare, anche se riconosciamo che il modo in cui è formulata tratta in modo rozzo tutta la complessa questione dello spirito dell’artista in relazione al contenuto e alla forma artistici, perché nemmeno la più appassionata affinità sentimentale nei confronti del tema può risolvere automaticamente il problema formale di base dell’artista. L’errore di Kierkegaard - l’errore di un filosofo - era quello di considerare separatamente un contenuto che è in realtà defini­ bile soltanto secondo i termini della sua realizzazione formale. La sua considerazione per Don Giovanni si basava su una scarsa comprensione del dramma di Mozart in quanto tale. Perché il successo finale sia possi­ bile, l’argomento deve stare allo stesso livello della concezione e della tecnica drammatiche del compositore d’opera, cosi come deve stare allo stesso livello del suo temperamento, del suo tempo e delle sue particolari capacità musicali. Una simile concomitanza di fattori spiega l’incande­ scenza particolare del Flauto magico, dell’Or/eo di Gluck, di Tristano e Isotta, di Boris Godunov e di Wozzeck, cosi come il più limitato fulgore di un’opera come La bohème. Nel caso di opere tratte da drammi teatrali, il problema estetico si fa ancora più complesso, perché non sono in gioco soltanto le predilezioni, la forma operistica e l’argomento dell’artista, ma anche l’opera d’arte antecedente che plasma l’argomento da un’altra visuale. In Otello Verdi tese a ignorare questa sintesi precedente, anche se non c’è dubbio che quest’opera è comunque il suo lavoro «ideale». In questo caso, final­ mente, si può dire che Verdi venne a trattare sostanzialmente, e al mas-

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simo della sua consapevolezza drammatica, il tema della gelosia, lo stesso tema che lo aveva ossessionato in Emani, nel Trovatore, nella Traviata, in Un ballo in maschera, in Aida e, più tardi, in Falstaff. In Pelléas et Mélisande, però, Debussy non ignorò nessun aspetto del precedente sforzo letterario di Maurice Maeterlinck. Di tutte le ingegnose, fortunate e ma­ giche convergenze della storia dell’opera, Pelléas è certamente la più straordinaria. Il compositore trovò il suo materiale unico non in un’idea o in una fonte letteraria da piegare a suo uso e consumo, ma già completo nel modello teatrale. Quello che colpì Debussy non fu semplicemente la storia di Pelléas c Mélisande, né una qualsiasi idea in proposito, ma l’in­ tero sistema estetico e metafisico di Maeterlinck nel modo in cui prende corpo nel dramma. Questo fatto spiega la particolarissima relazione esistente fra l’opera e il dramma, una relazione del tutto diversa da quella esistente fra l’Otello di Verdi e 1’ Othello di Shakespeare. Il dramma è letteralmente riversato nell’opera per intero, non c’è un libretto a parte. Debussy prese le scene del drammaturgo proprio come le trovò e operò pochi scrupolosi tagli. Non espanse mai il sentimento di un momento in un’aria o in un Liebestod, né cambiò il tempo drammatico in qualcosa di più vantaggioso per un musicista e nemmeno dette vita a forme musicali forti che facessero da contrappunto a quelle letterarie. Tutto il dramma è trasposto in una declamazione reticente al di sopra di uno sfumato flusso musicale e il te­ sto, l’elemento letterario, è umilmente conservato. Debussy non trasformò musicalmente il dramma in nessun momento, come aveva invece fatto Verdi quando musicò Otello, per non parlare di Macbeth o delle Allegre comari. La musica fa da sostegno al dramma, senza cercare mai di chia­ rificarlo o di renderlo più vivido o più credibile. Con buona pace di Maeterlinck, il dramma è tutto lì, nei suoi essenziali termini letterari. Debussy non elaborò complicate teorie di riforme operistiche, ma la natura radicale del suo metodo può già apparire evidente. Nella sua opera, l’espressione drammatica fondamentale è letteraria più che musi­ cale, in contraddizione con il principio ripetuto così tante volte nel corso di questo studio. Per dirla in altri termini, quando Debussy trovò il suo materiale ideale nel dramma di Maeterlinck, la sua soluzione al «problema formale di base» del compositore operistico fu semplicemente quella di mantenere quel dramma nella sua forma letteraria. La delicata questione

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della continuità operistica e del flusso letterario, che aveva preoccupato Verdi, venne risolta in una maniera che a Verdi avrebbe fatto orrore. Il metodo drastico di Debussy ha avuto sulla drammaturgia operistica più tarda un effetto tanto profondo quanto il metodo, quasi diametralmente opposto, di Wagner. Wagner e Debussy, infatti, possono essere consi­ derati i poli opposti della famosa «riforma» operistica del xix secolo. È però un po’ semplicistico parlare della questione come se iì Pelléas et Mélisande di Maeterlinck avesse ispirato lo schema operistico di De­ bussy. Questa è solo una parte della storia. Questo dramma, e solo que­ sto dramma, trasformò Debussy in un compositore operistico, ma è an­ che vero che prima di leggere Maeterlinck Debussy aveva formulato un ideale operistico quanto mai profetico del suo effettivo modo di proce­ dere nel caso di Pelléas et Mélisande. Senza l’ispirazione giusta, però, quest’ideale sarebbe rimasto allo stadio teorico. Riguardo aW Orfeo di Monteverdi, ho avuto motivo di suggerire due buone maniere di consi­ derare la relazione esistente tra il compositore operistico c il suo testo. Il testo porta alla luce o incanala le tendenze latenti che altrimenti il compositore non avrebbe potuto concretizzare. Inizialmente il libretto costituisce l’ispirazione. D’altro canto, il compositore porta al testo le sue capacità e i suoi ideali particolari e può riuscire solo quando tratta quegli elementi del testo che gli si confanno veramente. Alla fine il li­ bretto costituisce una limitazione. La cosa notevole è che nessun ele­ mento di questo dramma mancò di adattarsi alle particolari, insolite e li­ mitate capacità di Debussy. È abbastanza straordinario che Debussy sia riuscito a trovare un dramma che si prestasse al suo ideale operistico. Le caratteristiche del Pelléas et Mélisande di Maeterlinck che permettono o addirittura inco­ raggiano il caratteristico metodo di Debussy spiegano anche lo stile del­ l’opera. Nel caso di quest’opera, per una volta, il procedimento critico più corretto consiste nel considerare prima il «libretto», per quello che è, accostandosi solo dopo alla musica.

2.

La Mélisande di Maeterlinck è una giovane, bella e misteriosa, che soffre in silenzio, non chiede nulla e non fa mai nulla. Sugli uomini eser­

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cita un fascino irresistibile. Maeterlinck e Debussy sembrano sensibili al suo fascino quanto Golaud, il giovane Pelléas e il loro nonno Arkel, il vecchio re di Allemondc. Del passato di Mélisande non sanno nulla, tranne le evocazioni suscitate da una corona d’oro affondata in un pozzo. Golaud è il primo a imbattersi nella fanciulla in lacrime accanto al poz­ zo. Si è perso in una battuta di caccia nella grande foresta e, affascinato da Mélisande, la porta a casa come sua sposa, perché Mélisande non ha la volontà di resistere. Golaud sa però che non potrà mai penetrare nella coscienza della ragazza o diventare partecipe della sua speciale intuizione della realtà. Gradualmente, senza il minimo impeto da entrambe le par­ ti, Mélisande si trova coinvolta in una romantica storia d’amore con Pel­ léas, che è innocente nella volontà e nella coscienza quanto la stessa Mé­ lisande. Golaud scopre ch’ella ha perduto l’anello nuziale, la incontra con Pelléas in una situazione forse compromettente, avverte Pelléas di tenersene lontano e cerca senza alcuna delicatezza di ascoltare di nasco­ sto uno dei loro silenziosi incontri. Non c’è niente da fare, perché i gio­ vani amanti si muovono, o piuttosto continuano a esistere, come in un sogno. Golaud arriva a prendere Mélisande per i capelli, li chiude fuori del castello e, scoprendo il loro convegno amoroso, uccide Pelléas. Mé­ lisande, in quell’occasione, riceve una piccola ferita e poi muore anche lei, dopo aver dato alla luce una bambina, perdonando, ma senza spie­ gare nulla. Non fa nessun tentativo per comunicare con Golaud, ora penitente e schiacciato. Non riesce proprio nemmeno a concepirne uno. Senza le sfumature delle sue motivazioni e dei suoi risultati, la trama risulta stranamente convenzionale e ricorda la tradizione francese del melodramma borghese, e questo vale anche per il modo in cui è costrui­ ta. Il crescendo è attuato in maniera impeccabile. Il primo atto delucida la situazione iniziale e termina con l’accenno più delicato possibile al­ l’interesse esistente tra Mélisande e il suo nuovo cognato. L’atto secondo traccia l’inizio e la fine del primo evento vero e proprio, la perdita dell’a­ nello di Golaud in un secondo pozzo, la «Fontaine des aveugles», men­ tre Mélisande è con Pelléas. L’atto terzo presenta allusioni più serie, ma ancora non del tutto esplicite. Solo con il quarto atto gli amanti ricono­ scono la loro situazione e fissano l’incontro che porta alla loro morte. Lo sviluppo dell’atteggiamento di Golaud è organizzato con cura anche

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maggiore. L’azione del primo atto suggerisce sottilmente la sua incom­ patibilità costituzionale con Mélisande, espressa poi nel secondo atto da vaghi presagi di guai. Veniamo a sapere che il cavallo di Golaud ha sen­ sitivamente fatto uno scarto nel momento in cui è caduto Panello e, quando ne nota l’assenza dal dito di Mélisande, Golaud si infuria in modo irrazionale, ma, ironicamente, la manda a cercarlo con Pelléas. Posto di fronte agli eventi del terzo atto, Golaud cerca dapprima di mi­ nimizzarli e di considerarli semplici giochi adolescenziali, ma poi tradi­ sce un desiderio inconscio di attaccare Pelléas quando si trovano soli nei sotterranei del castello. Dopo aver avvertito Pelléas con un tono da fra­ tello maggiore, Golaud evidenzia (o evidenzia ulteriormente) l’aspetto peggiore della sua personalità quando origlia invano insieme al piccolo Yniold. Nel quarto atto sono la brutalità e l’assassinio a contrassegnare Golaud. Ora, tutti questi personaggi possono essere riportati su un piano ra­ zionale, come Golaud cerca di continuo di fare con Mélisande, ma un’o­ perazione simile equivale a fraintendere completamente Maeterlinck. Il tentativo di Golaud è una scoperta ironia del dramma. L’idea principale di Maeterlinck sta nel dominio del fato, gentile e irrazionale, ed esprime questa sua idea, con fanatismo wagneriano, ad ogni possibile livello, nella trama, nella caratterizzazione, nella drammaturgia, nel simbolismo, nel­ l’uso delle immagini e nella dizione. Mélisande è l’«eroina» perché in­ tuitivamente comprende e accetta le condizioni della fatalità senza of­ frire una vana resistenza. Va con Golaud, lascia cadere l’anello, accetta le percosse e lascia che la storia d’amore faccia il suo corso fatale. Il vec­ chio Arkel predica una saggia rassegnazione sviluppatasi dalla sua lunga esperienza dell’inutilità della vita, della volontà e dell’azione. Se per er­ rore si permette di fare qualcosa, invariabilmente è per il peggio. Go­ laud è il «cattivo» perché non è disposto ad accettare questa concezione della vita (anche se non ne sembra inconsapevole). È il solo personaggio che agisca: caccia, si lamenta della carestia, ispeziona le fondamenta del castello e lotta per salvare il proprio matrimonio. Lo sforzo principale di Golaud sta nel cercare di capire Mélisande e di razionalizzarla, nel cercare di comprendere l’incomprensibile e di dare una spiegazione ra­ zionale all’irrazionalità del fato. Le sue azioni, tutte completamente fru­ strate, portano ad una maggiore infelicità di quelle di chiunque altro.

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Nel quinto atto è un uomo spezzato e, secondo il suo metro, sincera­ mente pentito, ma, ironicamente, porta avanti il suo tentativo di capire fino al momento stesso dell’agonia mortale di Mélisande. L’esperienza non lo ha avvicinato a Mélisande, né lo ha avvicinato ad una vera accet­ tazione del destino. Golaud combatterà ancora, e questa è la suprema ironia di Maeterlinck. L’inutilità dell’azione è un tema a dir poco paradossale per il tratta­ mento drammatico. Sconfigge anche Maeterlinck, penso, ma non prima di averlo fatto lavorare furiosamente per creare l’illusione della mancanza di scopo, a qualsiasi livello, all’interno di una struttura drammatica se­ gretamente significativa. L’inutilità è espressa sia dai dettagli dramma­ turgici, sia dallo schema complessivo della trama ben costruita su un ar­ gomento nebuloso. Tutte le brevi scene arrivano a qualcosa, ma il loro effetto è quello di una tranche de vie con la grigia monotonia e l’incoerenza caratteristiche del vivere comune. Il naturalismo si adattava bene al piano di Maeterlinck, perché la vita reale è priva di direzione, almeno nei dettagli, e la gente, in genere, non corrobora l’azione in modo appro­ priatamente drammatico. Nascono da qui le famose linee di pensiero di Maeterlinck che si volatilizzano, i suoi non sequitur, le sue reticenze, i suoi silenzi e le sue svagate conclusioni delle scene. (È una falsa dimen­ ticanza quella nei confronti di Geneviève, che esce dal dramma in silen­ zio e senza farsi notare dopo la fine del primo atto). Le scene vengono disposte con cura per dare l’impressione che seguano l’una all’altra ca­ sualmente, anche se in realtà contribuiscono all’insieme con una sorta di metodo di montage. In realtà, la trama nel suo complesso, per come l’ho descritta, è molto meno originale delle minuzie tecniche. Il desiderio di Maeterlinck di creare una superficie apparentemente innocua che nascondesse forti pressioni drammatiche lo condusse natu­ ralmente a un simbolismo e a un linguaggio immaginoso marcati. Ov­ viamente, il dramma è fortemente simbolico. Queste figure borghesi con il loro convenzionale triangolo rappresentano la vita universale nel regno fatato di Allemonde, di «Tutto-il-mondo». Maeterlinck poteva arrivare all’universale soltanto attraverso questa quarta dimensione. Ogni particolare - un bambino che cerca la palla - è investito di un signi­ ficato grandioso che fa il gioco del tema principale. I piccoli eventi e le piccole situazioni, apparentemente privi di interesse, sono stati vagliati

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e raccolti con cura incessante. Simili a un sogno, riflettono tutti la fru­ strazione generale. L’emozione stessa è futile e la dizione è manifesta­ mente semplice come la conversazione francese di ogni giorno. Nono­ stante questo, il dialogo si fa veicolo di un’enorme quantità di immagini, accortamente disposte in modo da apparire «naturali» grazie al coinvol­ gimento di elementi letteralmente a portata di mano, buie foreste, grotte immense, navi che svaniscono nella nebbia e oscuri pozzi vorticosi. La «prosa poetica» di Maeterlinck è trapuntata d’immagini, come la mag­ gior parte dei suoi versi, e questo immaginismo rende palpabile, forse piu di qualsiasi altro elemento, la visione centrale di fatalità. La rende palpabile come un’atmosfera, che è già di per sé quasi «musicale». Co­ munque, nessuno pronuncia mai una parola poetica che travalichi le normali convenienze emotive. Possiamo a questo punto comprendere quanto questo dramma fosse miracolosamente adeguato a questo compositore - al Debussy musici­ sta, qual egli era veramente, e al Debussy teorico con il suo ideale di opera come teatro cantato. La prosa poetica era perfettamente adatta ad una persona sensibile alla prosodia come Debussy, che detestava avere a che fare con gli accenti preziosi della prosa francese, per non parlare della poesia. La dizione fortemente ritmica viene necessariamente trasformata quando l’adattamento musicale sovrappone i ritmi musicali, ma la musi­ ca non distrugge l’immaginismo verbale, può, anzi, corroborarlo, come già avevano dimostrato i madrigalisti, Bach e, molto più recentemente, Wagner. Cosi, nello stesso momento in cui il dramma non era d’intral­ cio a Debussy con ritmi poetici, che avrebbe solo potuto ignorare o di­ storeere, gli procurava una grande quantità di ricche immagini «poeti­ che» per lo sviluppo musicale. Le foreste buie e le navi che svaniscono nella nebbia potevano essere presentate all’orecchio musicale e sono proprio questi effetti che Debussy sapeva trattare tanto bene. La mer, Jardins sous la pluie, La cathédrale engloutie, Voiles, Brouillards e via di­ cendo vengono superbamente e ripetutamente evocate nelle sue com­ posizioni strumentali. Quello che Debussy fa con gli oggetti e le scene esteriori è catturare l’atmosfera che portano con sé. Il pittore impressio­ nista fa la stessa cosa, nonostante tutto il suo naturalismo. E fa la stessa cosa Maeterlinck, che non prova interesse per il genere degli alberi o la velocità delle navi, ma solo per le sensazioni che possono suscitare, da

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un punto di vista poetico, negli spettatori. I procedimenti drammatici di Debussy stanno all’altezza di quelli di Maeterlinck. L’impressionismo sta alla base del tutto. Questa supremazia dell’atmosfera è decisiva. Nel dramma, il senso di fatalità viene trasmesso prima dal dialogo e dall’azione, che Debussy lasciò stare, e poi, in modo più forte, dall’atmosfera creata poeticamen­ te. Debussy riuscì a creare l’atmosfera meglio di Maeterlinck e di chiun­ que altro. Abbandonandosi alla pittura di atmosfere, la sua massima for­ za, Debussy non solo preservò la concezione drammatica di guida di Maeterlinck, ma l’approfondi in direzioni che l’immaginismo verbale non conosceva. Com’è difficile immaginare Debussy scrivere un’altra opera! La sua successiva ricerca di un secondo libretto sembra quasi fantastica. A dif­ ferenza della maggior parte dei compositori operistici trattati in questo libro, Debussy non era affatto un uomo di teatro. Si avvicinò all’opera dall’esterno, esigente e pieno di nobili ideali, per nulla disposto a fare ra­ pide concessioni e senza richiedere un successo immediato. Gluck e Wagner poterono permettersi un tale idealismo solo dopo anni di gavet­ ta e Verdi, poi, non l’avrebbe mai capito. Pelléas et Mélisande fu l’unico serio tentativo d’opera di Debussy, che ci lavorò per un decennio, facen­ do crescere un fiore di serra, con tutta l’incredibile perfezione, l’isola­ mento e la squisita arbitrarietà che si accompagnano al genere. Ma non tutti i prodotti di serra sopportano tanto bene l’aria esterna, le fredde correnti del teatro e le mobili correnti del tempo.

3-

Una forma letteraria di dramma continuamente sostenuta dalla mu­ sica: questo riporta alla mente gli esperimenti classicheggianti della ca­ merata fiorentina della fine del xvi secolo e, in realtà, lo stesso dramma greco. Peri, Caccini e, un po’ più tardi, Monteverdi si erano formati un ideale di declamazione musicale sulla trasposizione musicale della dizione di un grande attore. Appena si cerca di definire la reale funzione dram­ matica della declamazione di Debussy, si può mettere la questione negli stessi termini: la musica fissa in ogni momento l’inflessione, svolgendo il

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compito dell’attore. In modo più puro, forse, del recitativo di chiunque altro, Debussy segue la cadenza della parola momentanea, coma la si po­ trebbe immaginare pronunciata da un grande attore, senza nessuna aspirazione a una logica puramente musicale. La differenza tra Debussy e i primissimi compositori d’opera scatu­ risce, da questo punto di vista, semplicemente dalle opinioni del tutto diverse che essi avevano riguardo a cosa costituisca una grande recita­ zione. Per Monteverdi recitare voleva dire una declamazione fortemente stilizzata, emotiva, appassionata, spropositata, e il suo recitativo, quin­ di, cercava di catturare le inflessioni dei grandi eroi nei momenti di estrema emotività. Per Debussy c per Maeterlinck una bella recitazione era sostanzialmente naturalistica. Nonostante tutto il suo simbolismo, il dramma si propone di registrare il dialogo tranquillo e riservato della vita contemporanea. Debussy cercò letteralmente di cogliere gli accenti del parlato francese di ogni giorno e, nel suo modo reticente, riuscì cer­ tamente bene quanto Monterverdi. Le sue linee vocali sono delicate e mormoranti, hanno molta recita­ zione monotona, pochi ritmi improvvisi, una gamma comune di pochis­ sime note e hanno orrore degli intervalli melodici fortemente emotivi. Tramite i più lievi mutamenti di tono e di ritmo, la linea di Debussy in­ dica precisamente come il personaggio alzi la voce, acceleri le parole, esiti, si conceda un tocco di emozione e poi scivoli in una garbata anoni­ mia emotiva. Quasi tutte queste inflessioni, si noti bene, nascono sottil­ mente dall’inconscio del personaggio. Il risultato è, in Pelléas et Mélisandey veramente squisito, anche se talvolta trito come lo stesso dialogo originale, perché il carattere sfumato di Maeterlinck non nasconde il suo assegnamento sulle convenzioni drammaturgiche del xix secolo. Nella seconda scena del secondo atto, per esempio, quando Golaud in­ terroga Mélisande sulla ragione delle sue lacrime, improvvise e immoti­ vate, il ritmo delle sue risposte è controllato dal compositore quasi troppo abilmente. Le prime domande generali di Golaud sono ricambiate da ri­ sposte lente ed esitanti, separate dalle domande da pause della musica. Tipico di lui, Golaud il realista suggerisce allora che deve essere stato qualcuno a renderla infelice e dalla rapidità delle sue risposte negative sembra avvertire di essere nel giusto. È il re, o Geneviève, o Pelléas? Solo ora il «no» di Mélisande arriva praticamente al culmine dell’ultima

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nota di Golaud. L’arrangiamento ritmico tradisce una fretta colpevole. Golaud le chiede poi se vuole lasciarlo, e di nuovo, nella rapidità e nel­ l’intensità con cui nega, Mélisande tradisce sentimenti di cui lei stessa non è forse pienamente consapevole. Nel dramma, per rivelare tutto questo ci vorrebbe una certa intelligenza da parte dell’attrice o del regi­ sta, nella trasposizione musicale di Debussy non possono sbagliarsi. Più poetico è il concetto delle parole di Golaud un momento dopo, quando cerca di confortare Mélisande. «Ne peux-tu pas te faire à la vie qu’on méne ici? - Il est vrai que ce chateau est très vieux et très som­ bre... Il est très froid et très profond. Et tous ceux qui l’habitent sont déjà vieux» ’. Il lirismo ricco e sobrio della linea vocale rivela improvvi­ samente che anche Golaud avverte l’oppressiva tetraggine del castello di Allemonde. È questo il suo tragico guaio: anche se non è assolutamente insensibile al pathos dell’esistenza, cerca invano, ironicamente, di combatterlo. Se Golaud fosse completamente un petit bourgeois ci sa­ rebbe meno gioco. Ancora una volta, la declamazione di un grande attore renderebbe chiaro quest’aspetto fondamentale del carattere di Golaud. Debussy ne garantisce il risultato. Nonostante tutta l’attenzione di Maeterlinck nei confronti del dialo­ go, comunque, non è questo il suo strumento principale, così come la declamazione non è il principale mezzo drammatico di Debussy. L’ele­ mento principale è l’atmosfera che definisce l’onnicomprensivo senso di fatalità. Quello che un fìtto immaginismo riesce a fare per il poeta, per il compositore riesce a farlo la musica di sottofondo, sia in generale sia in un modo minuzioso che è strettamente analogo ad una tecnica lette­ raria. La tela orchestrale di Debussy al di sotto del dialogo naturalistico è veramente l’elemento che salva l’opera dal gelido ideale del teatro can­ tato. Deliberatamente, ne sono certo. In modo generale, pervasivo e sempre diverso, il flusso orchestrale continuo di Pelléas et Mélisande fissa con grande precisione l’indimenti­ cabile atmosfera emotiva. Questo flusso continuo è qualcosa di impon­ derabile se lo confrontiamo, per esempio, con quello delle ultime opere di Verdi. Nel caso di Debussy, nulla ha una grande coesione musicale nella misteriosa successione di motivi frammentari (alcuni Leitmotive) e 1 «Non riesci ad abituarti alla vita che si conduce qui? - È vero che questo castello è vecchio e cupo... È molto freddo ed estremamente profondo. E tutti quelli che vi abitano sono già canuti».

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di brevi motivi, troppo lievi per essere avvertiti come tematici; di sviluppi espressi solo a metà e di accordi d’attesa; di fruscianti ostinati e di tran­ quille sezioni con un colore orchestrale di colpo sorprendente e iride­ scente. L’atmosfera è tutto e questa atmosfera viene colta alla perfezione. Può essere difficile rendere giustizia critica agli effetti musicali scoperti da Debussy nel momento attuale della loro volgarizzazione, ma le volga­ rizzazioni perderanno la loro forza e il tempo mostrerà di nuovo la bellezza dell’uso che Debussy fa dei meccanismi musicali «impressionistici». Col tempo, anche i suoi originalissimi tentativi di dar vita a forme pura­ mente musicali si faranno più chiari, ma questa è un’altra questione e ri­ guarda meno da vicino Pelléas et Mélisande. In quest’opera Debussy non desiderò mai dare alla sua musica un’organizzazione tale da farle creare di per sé un completo effetto emotivo. La musica suggerisce e, cosi facendo, fa da supporto al dramma. Avvalendosi degli interludi musicali che fluiscono dall’una all’altra delle brevi scene di Maeterlinck, Debussy legò insieme tutte le scene al­ l’interno degli atti. (I primi due atti contengono tre scene ciascuno, il terzo quattro, il quarto nuovamente quattro, mentre il quinto atto è una scena unica). Questo procedimento contribuisce certo in modo signifi­ cativo a conservare e a rendere più intensa l’atmosfera, perché al pubblico non è concesso nessun rilassamento tra una scena e l’altra, cosi come sono nel dramma. Certo, anche i compositori di Otello e di Tristano e Isotta trattengono dispoticamente l’attenzione del pubblico per atti in­ teri, ma solo dando a quegli atti la forma di un’unica, lunga scena. Que­ sta costruzione artificiale era estranea al naturalismo di Maeterlinck e alla sua paradossale descrizione drammatica dell’inutilità dell’azione. Quando usava interludi orchestrali tra le scene, Wagner pretendeva che si verificasse una «trasformazione» davanti agli occhi stessi dello spetta­ tore. Tipicamente suo era il desiderio di impressionare gli occhi quanto gli orecchi... quello che in Pelléas etMélisande ci sta particolarmente ad­ dosso è l’oscurità del teatro. Durante gli interludi di Debussy la musica arriva vicina, come suo solito, a parlare secondo i suoi propri termini. La sua reticenza è ancora forte e si concentra sul compito drammatico di modulare l’atmosfera da una scena a quella seguente. Si può dire, infatti, che ogni scena presenta una sottile variazione dell’atmosfera globale. Questa è un’altra delicata aggiunta del composi-

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tore. Ogni scena impiega un singolo tema che è tutto suo e che tende a staccarla dalle altre. Il tema è spesso introdotto durante il preludio o l’interludio antecedente alla scena, ritorna quindi a sottolineare alcuni punti importanti dell’azione, si sviluppa insieme ad essa e chiude la scena quando cala il sipario. A dire il vero, sono incerto su quanta organizza­ zione Debussy intendesse di fatto fissare tramite questi motivi. Nella mi­ gliore delle ipotesi, sembra modesta, nella peggiore esoterica. La seconda scena del primo atto, la scena della lettera, è sotto ogni punto di vista la più fragile dell’opera. È tenuta assieme da una discreta serie di arpeggi di semicrome dei fiati, uditi solamente all’inizio e alla fine della scena. Nella scena seguente, comunque, quando gli amanti si trovano insieme per la prima volta, il «tema organizzatore» è un tema chiaro, tenero e in­ sistente (es. io). Ricorre molte volte, spesso su un violino solista. Il fatto che sia una variante del principale Leitmotiv dell’opera non ne altera la funzione in questa scena, che consiste nel fungere da calcina musicale. Come tale il Leitmotiv non si è ancora fissato nella mente dell’ascoltato­ re, e solo retrospettivamente può forse essere messo in relazione con l’a­ more di Pelléas e Mélisande. Se l’organizzazione musicale è quanto mai inconsistente e teorica nella scena della lettera, è particolarmente precisa nella terza scena del quarto atto, quella del piccolo Yniold. Qui la musica inizia veramente a coagularsi, tematicamente e ritmicamente. Se una parte dell’opera po­ tesse stare da sola e avere significato senza le parole, sarebbe questa. La sicurezza musicale corrisponde al mondo del bambino, privo di problemi e sicuro di sé fino a commuovere, posto in contrasto con le frustrazioni degli adulti. Anche qui, però, com’è caratteristico, l’organizzazione mu­ sicale si esaurisce alla svelta e, come il povero Yniold finisce per smarrir­ si, alla pari dei grandi che gli stanno intorno, la sua musica si fa sempre

Esempio io.

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meno compatta. Tutto quello che rimane alla fine è un triste rovescia­ mento di quello che era stato un motivo sostanzialmente ottimistico (es. 11). Uno degli scopi drammatici è estendere la sfera dell’impotenza: la vecchiaia (Arkel), la piena maturità (Golaud), la gioventù (Pelléas e Mé­ lisande) c ora la fanciullezza (Yniold, che non riesce a recuperare la sua palla d’oro dietro il roccione - «Elle est plus lourde que moi»-, che non riesce a capire dove vengano portate le pecore, anche se certamente non alla stalla - «Où vont-ils dormir cette nuit?» -, che non può afferrare del tutto le proprie sensazioni - «Je vais dire quclque chose à quelqu’un...» All’ultimo momento Maeterlinck riuscì ad aggiungere alla sua catena anche l’infanzia, opportunamente provvista dalla bambina di Mélisande. «C’est au tour de la pauvre petite» è l’apoftegma finale di Arkel). La sce­ na di Yniold serve anche ad un altro scopo drammatico, quello di allen­ tare la tensione tra il castigo di Mélisande c il momento cruciale del con­ vegno amoroso degli amanti e dell’uccisione. In modo particolarmente appropriato acquista quasi di contorno, interludio lirico tra due scene intense. In aggiunta a quei temi la cui funzione principale è di dare un’orga­ nizzazione alle scene, Pelléas et Mélisande contiene Leitmotive che ap­ partengono sostanzialmente alla tradizione wagneriana, frammenti brevi

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e flessibili che ricorrono moltissime volte, associati ad un personaggio, a un'idea o ad un’atmosfera. Ancor più chiaramente delle traboccanti opere di Wagner, Pelléas rivela l’analogia esistente tra il Leitmotiv musi­ cale e l’immagine poetica, o, più precisamente, l’immagine ricorrente usata più volte. Il dramma di Maeterlinck è piuttosto ricco di tali imma­ gini ricorrenti, che acquistano forza con il procedere dell’opera. Per ci­ tarne una, l’immagine semitranquilla e semisinistra del cieco, l’aveugle. Ironicamente, il saggio Arkel è quasi cieco e gli amanti si incontrano in un luogo chiamato la «Fontaine des Aveugles», anche se adesso non cura più la cecità. Nella seconda scena del secondo atto Golaud dice che il suo cavallo ha fatto uno scarto come un cieco (ma chi di loro era cieco?), nella quarta scena del terzo atto dichiara a gran voce di essere come un cieco che cerca il suo tesoro in fondo all’oceano, nella quarta scena del quarto atto Pelléas si paragona ad un cieco che abbandoni la casa in fiamme e nell’atto quinto Golaud dice che morirà come un cieco. La prima volta che viene citata la parola, l’effetto può essere lieve, ma ad ogni ri­ petizione successiva l’ascoltatore ricorda semiconsciamente tutte le al­ tre, cosicché nella sua immaginazione si stabiliscono ricche associazioni ed interassociazioni. Si aggiungano all’immagine della cecità tutte le im­ magini che le sono correlate, la nave che scompare nella nebbia, gli oc­ chi di Mélisande che non si chiudono mai, l’oscurità che discende su Yniold e sulle sue pecore. TI poeta evoca diligentemente un pervasive senso della cecità umana di fronte al destino irrevocabile. Un Leitmotiv agisce come un’immagine ricorrente, con questa diffe­ renza: mentre il simbolo verbale ha un significato specifico, per quanto limitato, fin dalla sua prima apparizione, il simbolo musicale ha al mas­ simo una sua atmosfera e può solo acquistare un significato concettuale tramite associazioni. Questo è un fatto che Debussy comprese meglio di Wagner e fece in modo che i suoi Leitmotive si chiarissero nella coscienza con estrema gradualità. Come esempio possiamo prendere il Leitmotiv più evidente di Pelléas et Mélisande, di solito indicato come il «tema di Mélisande», orribile semplificazione, perché il significato di un Leitmo­ tiv non è niente di meno (o di più) dell’intero complesso di associazioni, drammatiche e musicali, che si collegano ad ogni sua apparizione. Chi analizza l’opera al microscopio può indicare la presenza di questo motivo nel preludio che precede la prima scena del primo atto, ma in quel punto

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ha poco significato simbolico. Può darsi che in seguito l’ascoltatore comprenda, ascoltandone forse la variante che funge da principio orga­ nizzatore della terza scena del primo atto, citato a pagina 155, che questa idea musicale lo accompagna dall’inizio. Può forse notare che questo piccolo, triste frammento melodico è completamente assente dall’unica scena semifelice dell’opera, quella in cui gli amanti si incontrano al pozzo (atto II, scena 1), ma solo nella scena successiva Debussy si fa avanti con il Leitmotiv in maniera piuttosto energica. Dopo che Mélisande ha con­ fortato Golaud per l’incidente di caccia, Maeterlinck fa un improvviso non sequituY facendo piangere Mélisande senza alcun motivo apparente. Questo momento ha una certa forza drammatica e Debussy lo introduce tramite una pausa semiconsapevole durante la quale il motivo appare isolato nell’orchestra (es. 12). II motivo è collegato alla tristezza che accompagna Mélisande e si trasmette a tutti quelli che hanno a che fare con lei. È usato in modo im­ pressionistico, non letterale. Con molte significative trasformazioni me­ lodiche e ritmiche si sviluppa impercettibilmente nelle scene seguenti; di particolare interesse è la sua trasformazione nel misurato presagio di morte del quinto atto (es. 13). Naturalmente Debussy non può essersi aspettato che ogni sfumatura apparisse evidente in teatro, non più di

Esempio 13.

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quanto lo potesse fare Maeterlinck con il suo cieco, ma ogni volta che lo si ascolta il Leitmotiv ha un effetto subliminale e può significare sempre più cose. Può essere pienamente compreso solo alla fine dell’opera, per accu­ mulazione. Ad una delle sue ultimissime apparizioni, Arkel arriva il più vi­ cino possibile all’interpretazione del suo significato. Mélisande muore e il motivo nell’oboe è toccante. «Mais la tristesse, Golaud... mais la tristessc de tout ce que Ton voit! » Per Maeterlinck una gentile malinconia era mol­ to più importante della personalità di Mélisande, che era solo un piano su cui proiettare la sua visione della futilità. Il Leitmotiv di Mélisande, la prin­ cipale idea tematica e musicale dell’opera, rappresenta l’atmosfera genera­ le più che il personaggio. Un altro dettaglio ancora della drammaturgia musicale si fa portatore dell’idea drammatica fondamentale. Ogni singolo espediente musicale, difatti, si adatta meravigliosa­ mente al dramma e ne mette in risalto le caratteristiche essenziali. Ancora una volta, il contrasto con l’audace e personale trasformazione verdiana dell’Othello di Shakespeare è impressionante. Anche lo stile dei temi di Debussy è fedele all’inutilità universale. Il piccolo motivo di Mélisande e della tristezza è dolce e statico, ritorna debolmente su se stesso. Quello di Pelléas sembra cominciare con un po’ di vigore giovanile, ma scivola in un’indefinita oscillazione. I motivi di Wagner sono completamente diversi, anche i più brevi, come quello del «Fato» nel Ring, hanno un’e­ nergia armonica repressa e sinistra. Il Leitmotiv di Golaud è il più squi­ sitamente inutile di tutti. È una semplice ventata ritmica, ma l’azione che vi è implicata è priva di direzione e la melodia non può innalzarsi per più di un intervallo di seconda (es. 14).

4C'est magnifique, mais,., questo dramma, quest’opera soffre della malattia cronica dei drammi sostanzialmente costruiti sulle idee, invece

Esempio 14.

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che sulle persone con il loro sviluppo. Non discuterò la questione della strana concezione maeterlinckiana del fato come qualcosa di gentilmente patetico più che atroce. Comunque lo si voglia considerare, il fato uccide il dramma. Siccome Mélisande non agisce mai, drammaticamente non na­ sce mai e muore senza aver acquistato né fornito alcuna illuminazione. È esasperante, non soltanto perché è quel tipo di persona, ma perché le vie­ ne assegnata, senza un perché, tanta responsabilità drammatica. E in real­ tà non si conquista mai la comprensione che riceve da Arkel, che alla fine parla per il poeta e per il compositore. Il loro ingènti Pelléas non esiste af­ fatto, accanto a lui don Ottavio è un vero essere umano. Specialmente in questa compagnia, Golaud si attira molto più interesse e comprensione. Il suo ritratto è tratteggiato con grande sicurezza psicologica e con poco sentimentalismo. Lo sbaglio fatale di Maeterlinck, però, è la sua insisten­ za sul fatto che Golaud non debba svilupparsi o imparare qualcosa, men­ talmente o emotivamente, dalla sua ricca e terribile esperienza. Forse, se lo facesse, questo equivarrebbe ad una speranza, ad una negazione dell’i­ nutilità. Anche se l’abilità drammatica merita ammirazione, in ultima ana­ lisi Maeterlinck rimane sconfitto dal suo sforzo paradossale di comunica­ re drammaticamente la mancanza di significato dell’azione. Non soltanto le azioni e le emozioni umane appaiono futili, ma fazione drammatica stessa non porta a niente. L’azione è priva di significato e il melodramma non diventa più interessante per questa giustificazione metafisica. Il paradosso intrappola Maeterlinck ancora prima, e in modo più grave, nell’uso dei simboli e delle immagini. Un Allemonde borghese è ridicolo, temo, e il tentativo di caricare una conversazione semplice e naturalistica di tutte quelle espressioni immaginose raggiunge presto il punto di rottura. Il dramma ha bisogno della distanza concessa dalla poesia, e Debussy fornisce qualcosa di analogo aggiungendo la musica. Se la tessitura fosse tutto, il compositore avrebbe salvato il dramma, per­ ché la musica stabilisce un convincente piano immaginativo al posto dell’equivoco naturalismo di Maeterlinck. L’immaginismo poetico del­ l’opera non sembra esagerato come nel dramma, perché occupa il se­ condo posto dopo la musica e questa non è certamente de trop. Anche se Maeterlinck non l’aveva fatto, Debussy aveva imparato bene la lezione dagli eccessi di Wagner. È difficile immaginare che cosa di più avrebbe potuto fare Debussy se fosse stato pronto a lasciar prendere alla musica una parte più impor­

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tante. In quel punto di Pelléas et Mélisande in cui fu forse tentato a dare più spazio alla musica, l’intera illusione comincia leggermente a rico­ prirsi di nuvole sottili. Mi riferisco alla scena d’amore dell’atto quarto tra Pelléas e Mélisande2. È raro trovare un’opera in cui la musica per le parti amorose sia la meno efficace. Eppure, non mi sento pronto ad af­ fermare in via definitiva che questa scena disturba la coerente tessitura di Debussy. Questo compositore aveva un senso acuto dei propri limiti, oltre ad una serie di teorie operistiche strettamente letterarie. Prendendo un dramma con cui aveva una sintonia quasi miracolosa, Debussy vi si armonizzò perfettamente in termini musicali e lo ampliò solo in misura minima. Solo con questo ampliamento, però, è possibile presentare il dramma. Il paradosso finale è che, nel caso di Pelléas et Mélisande, De­ bussy riuscì esattamente nella misura in cui vanificò il suo ideale di opera come teatro cantato. Gli ideali operistici, forse, sono fatti per essere va­ nificati. L’ideale opposto fu quello di Wagner: l’opera come poema sinfonico. Fortunatamente non fu raggiunto nemmeno questo, anche se la tendenza in tale direzione è forte in Tristano e Isotta e costituisce la base delle con­ venzioni drammatiche, fortemente non letterarie, di Wagner. Tristano è sotto molti aspetti l’ovvio modello di Pelléas, con la sua cupa storia di un amore adulterino asservita ad un’idea ossessiva, una concezione della fatalità che tutto travolge. Wagner fece in modo che la sua opera si im­ perniasse sulla crescente consapevolezza, da parte di Tristano, di questa realtà, sulla conversione di Tristano, se la si vuole considerare in termini religiosi. Tristano, come Golaud, lotta contro il fato e soffre, ma, a diffe­ renza di Golaud, si sviluppa e trionfa. L’idea di un fato onnicomprensivo è una componente regolare della grande tragedia, ma quando domina nella misura voluta da Maeterlinck, quando fa apparire illogica l’azione, la forma cessa di essere drammatica, tanto meno tragica. Ecco un dramma che aveva bisogno di essere trasformato - molto più di Otello ! - e, in sen­ so reale, di essere drammatizzato. Il metodo rispettoso e reticente di De­ bussy non poteva proprio fare abbastanza in proposito. 2 È interessante che questa sia stata la prima scena ad essere composta, dieci anni prima che Vopera completa fosse pronta.

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Giungiamo finalmente a Wagner, colui che si arrogò con tracotanza il concetto stesso di opera e che scrisse Tristano e Isotta e il Ring per de­ limitare i confini del suo territorio, riuscendo in questo modo a scuotere il mondo musicale e a fargli assumere schieramenti ancora oggi indi­ scussi. Solo di recente è stato possibile riconsiderare il vecchio, terribile mago con una certa impassibilità e chiarezza. Nel nostro secolo Wagner è stato il più problematico dei grandi compositori e la critica è stata va­ nificata dalla furiosa partigianeria che ha prima idolatrato e poi esorciz­ zato la sua malia. Ormai, comunque, il fervóre dei primi wagneriani sembra piuttosto remoto e anche le formule magiche degli antiwagne­ riani appaiono meno forti e meno vincolanti. Dai tempi di Nietzsche e di Debussy molti si propongono di smascherare il raggiro c molti dichia­ rano ancora che la magica visione di Bayreuth è semplicemente svanita, ma una volta calmatisi i sentimenti più elevati e gli interessi personali, Tristano e Isotta rimane, come Richard Wagner rimane un nome di som­ mo prestigio. Seguendo l’esempio di Bernard Shaw, in The Playwright as Thinker, Eric Bentley ha collocato Wagner c Ibsen ai poli opposti della tradizione drammatica del xix secolo che costituisce la nostra diretta eredità. In The Idea ofa Theater, Francis Fergusson ha considerato Wagner insieme a Racine in una prospettiva più ampia, quella del « teatro della passione» in contrasto con il «teatro della ragione». Thomas Mann ha scritto tre saggi considerevoli, messi insieme, non proprio accidentalmente, in un libro intitolato Freud, Goethe, Wagner, mentre il suo Doktor Faustus è an­ cora l’opera più profondamente wagneriana del nostro tempo. Jacques Barzun ha scritto uno studio intitolato Darwin, Marx, Wagner. Nel caso

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di Wagner, più che in quello di qualsiasi altro compositore operistico, l’intuito del musicista ha bisogno dell’apporto di altre forme di intuito. La Gesamtkunstwerk richiama a gran voce la propria Gesamtkritik. Il musicista semplice, abituato a pensare secondo linee evolutive re­ lativamente dirette, scriverebbe probabilmente un saggio intitolato Beethoven, Wagner e Schonberg. Dovendo discutere di opere, ha tradi­ zionalmente schierato Wagner contro Verdi e ha parlato di lirismo ita­ liano, di tecnica orchestrale tedesca, di Leitmotive, di arie e cose simili, ma, per quanto riguarda i principi basilari della drammaturgia operisti­ ca, è in realtà più illuminante considerare Wagner in contrasto con De­ bussy. Wagner e Debussy occupano posizioni diametralmente opposte, e questo è inconfutabile, nonostante tutto quello che Maeterlinck vo­ lontariamente e Debussy involontariamente hanno imparato dal formi­ dabile maestro che li aveva preceduti. Wagner tendeva verso l’ideale dell’opera come poema sinfonico, Debussy verso l’ideale dell’opera come teatro cantato, e, sebbene nessuno di questi due ideali sia stato realizzato, i risultati sono stati grandiosi e di ampia portata. Pelléas et Mélisande è il lavoro più ricercato, autocoscicnte, contenuto e singolare; Tristano e Isotta quello più radicale, immaginativo e più difficile da trat­ tare. Per capire la portata della famosa «riforma» operistica del xix se­ colo, è necessario abbracciare entrambe le opere. Come ha ripetutamente affermato Bentley, Tristano e Isotta non è una tragedia. Wagner non volle mai che lo fosse. E un dramma religioso. Sacrilego, fascista, fasullo, gridano i nemici di Wagner, ma la forma del­ l’opera è nondimeno quella del dramma religioso, comunque se ne vo­ glia valutare il messaggio. La questione se Tristano e Isotta sia un’opera fasulla o meno dipende solo dalla sua verità o dalla sua riuscita artistica, e questo dipende dalla valutazione delle sue intenzioni drammatiche (perché Wagner voleva un dramma, non una filosofia, un’autogiustifi­ cazione, un esercizio cromatico, una realizzazione romantica, ecc.). Vorrei seguire a questo punto un’idea espressa da Una Ellis-Fermor nel suo ammirevole (e ammirevolmente lucido) libro intitolato The Fron­ tiers of Drama: Nella prefazione a Samson Agonisles, Milton, chiari che considerava il suo dramma una tragedia, ma alcuni lettori moderni non ritengono che sia esattamente il tipo di dramma che sono stati abituati a chiamare tragedia, sia antica sia moderna. Fi­

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Capitolo ottavo nisce con la morte di Sansone c ha, tecnicamente, un chiaro diritto ad essere incluso nella categoria, ma pochi di noi, se riflettono seguendo l’esperienza e non i nomi, sono convinti che la morte trionfale di Sansone possa essere definita una catastrofe tragica. Come potremmo farlo, infatti, visto che «non c’è nessun motivo per cui si debba piangere»? Siamo abituati ad associare alla tragedia un bilanciamento fra stati d’animo conflittuali, fra il senso del dolore, dell’afflizione e del terrore da un lato e qualcosa di trionfale e di illuminante dall’altro. Nel dramma di Milton tro­ viamo invece una progressione verso il trionfo e l’illuminazione che sottomette gradualmente il senso del dolore, dell’afflizione e della perdita e alla fine lo tra­ scende e lo distrugge completamente. È chiaro che qui abbiamo qualcosa di di­ verso dal bilanciamento della tragedia. Milton capovolge il bilanciamento verso un’interpretazione positiva; giustificando le vie del Signore egli non lascia all’uomo spazio per l’estasi tragica e la sostituisce con un’estasi di un altro tipo. Ha scritto, cioè, un dramma che appartiene alla rara categoria del dramma religioso, un genere che, per la natura di alcuni dei suoi presupposti di base, non può essere tragico.

Quanto viene qui affermato riguardo a Samson Agonistes si applica alla perfezione, mi sembra, a Tristano e Isotta, in cui fondamentalmente si ha un senso di progressione verso uno stato di illuminazione che tra­ scende aneliti e dolori. Il ritmo fondamentale dell’opera è verso la con­ versione di Tristano e il Liebestod finale di Isotta, un’ascesa trionfale, non una catastrofe tragica. E Tristano, credo, risponde ad altri tre requi­ siti che Una Ellis-Fermor avrebbe desiderato mettere in connessione con il dramma religioso. La natura dell’esperienza è propriamente reli­ giosa; tale esperienza è l’argomento principale del dramma e l’esperienza religiosa è in realtà paradossalmente espressa in forma drammatica. Che Tristano e Isotta non sia semplicemente una storia d’amore è fin troppo evidente. Lentamente, ma con decisione, la sua straordinaria concezione avvince gli spettatori: l’amore non è una semplice, pressante forza vitale, ma l’irresistibile realtà superiore del nostro universo spiri­ tuale. L’azione sostanziale dell’opera è costituita dal fatto che gli amanti sono spinti con forza sempre maggiore a percepire questa realtà e a sottomettervisi. Nella loro visione di questa realtà, tutti gli annessi e con­ nessi dell’esistenza comune vengono messi da parte: sentimenti secon­ dari, convenzioni, personalità, ragione e persino la vita stessa. Se a que­ sto non va dato il nome di esperienza religiosa, è difficile sapere quale significato si debba dare al termine e, anche se non è certamente una vi­ sione cristiana, è pur sempre una con i suoi precedenti nella realtà storica (o almeno cosi ci è stato detto). È anche palese che questa esperienza

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pervade e controlla il dramma con il massimo rigore. Francis Fergusson ha riassunto il problema con un’ampiezza critica e una chiarezza spas­ sionata che sono insolite nella critica wagneriana. L’« azione» centrale - «obbedire alla Passione come unica realtà» - soggioga la trama, l’ambientazione, la dizione, l’uso delle immagini, il ritmo drammatico e, sono sicuro che lo aggiungerebbe, la musica. Era questa l’arte terribile che Maeterlinck e Debussy avevano imparato da Wagner. «La passione stessa è considerata come la guida paradossale alla trasformazione della vita umana, alla vera scena notturna della nostra esistenza e alla forma “assoluta e dispotica” dell’opera stessa». Questa « forma assoluta e dispotica» di Wagner è davvero una forma drammatica? Questa domanda è basilare, perché l’autenticità della con­ cezione di Wagner non viene espressa dalle sue intenzioni, o dalla pervasività o supremazia della concezione nell’opera, ma dalla riuscita del­ l’opera d’arte nella particolare forma scelta. Come tutti sanno, gli spet­ tatori alla moda criticano Tristano e Jsotta come la cosa meno dramma­ tica del mondo, esattamente come molti lettori deprecano Samson Agonistes. La critica teatrale, però, non si occupa di lamentele di questo ge­ nere. Fergusson, semmai, dà un po’ troppo per scontata l’efficacia drammatica di Tristano e non mette in luce quello che secondo me è il punto cardine dell’espressione drammatica. È questa la presentazione wagneriana del decisivo cammino di Tri­ stano e Isotta. Una Ellis-Fermor osserva giustamente che un pertinente trattamento drammatico di un’esperienza religiosa deve coinvolgere una progressione verso quell’esperienza. Il dramma religioso, cioè, è centrato sull’atto della conversione. È il caso di Tristano e Isotta: l’ultimo atto, in ogni senso il più grande, tratta specificamente la conversione di Tristano in una lunga scena nota come il «Delirio» e tratta il riflesso di questa conversione nel Liebestod di Isotta. I preliminari sono lunghi, tal­ volta tediosi e privi di drammaticità, ma vanno tutti al loro posto con la prospettiva di questo fulgido apogeo. È inutile dire che è la musica a de­ finire la conversione di Tristano e Isotta e a dare un senso di verità alla visione mistica finale.

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2. La struttura drammatica di Tristano e Isotta rivela rigide linee di svi­ luppo sovrapposte ad elaborate simmetrie. Ognuno dei tre atti è co­ struito abbastanza semplicemente in modo da convergere verso un sin­ golo elemento attivo del mito secondo l’interpretazione datane da Wag­ ner, la somministrazione del filtro d’amore bevuto sulla nave diretta verso la Cornovaglia, il ferimento di Tristano dopo la scoperta del con­ vegno amoroso degli amanti e la morte di Tristano tra le braccia di Isotta. La restrizione dell’azione in ogni atto è avvincente, ingegnosa, quanto mai appropriata alla natura sostanzialmente psicologica del dramma di Wagner e del tutto diversa dalla pratica di Eugène Scribe; anche se alcuni particolari della costruzione tradiscono l’ammirazione di Wagner per questo famoso artigiano. Si possono indicare altre simmetrie. Ogni atto, per esempio, si apre in modo che incatena l’attenzione perché la musica che si sente è realmente agita sulla scena; la canzone nostalgica del ma­ rinaio, i corni da caccia di re Marco e Melot, la cornamusa del pastore a Kareol. Queste idee musicali sono tutte simboliche e permeano gli inizi degli atti in questione, con particolare profondità nel caso dellW/e Weise del pastore nel terzo atto. Al tempo stesso, il piano dell’opera prevede una crescente concentrazione su Tristano atto dopo atto. Il primo atto è principalmente centrato su Isotta e sulla sua lunga «narrazione» espo­ sitiva, ma l’evento finale, la somministrazione del filtro d’amore, coin­ volge gli amanti in egual misura. Dividono insieme la scena nel secondo atto, ma questa volta l’evento finale è il ferimento diTristano e l’atto terzo riguarda principalmente lui. Isotta non compare finch’egli non è pronto a morire e il suo Liebestod, amplificazione e riflesso della più attiva con­ versione di Tristano, completa il ciclo riportando un pacificato interesse verso di lei. I tre eventi che costituiscono i momenti culminanti dei tre atti hanno nello schema wagneriano anche una grande portata simbolica. Nel primo atto, come viene generalmente riconosciuto, la somministrazione del fil­ tro d’amore è un espediente per dare forma drammatica all’amore di Tristano e Isotta, o più esattamente alla loro confessione finale di tale amore. Wagner modificò il mito con una certa cura per indicare che

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questo amore al di sopra di tutto covava sotto la cenere da molto prima di esplodere sulla nave. (Successivamente, nel momento cruciale della scena del «Delirio» dell'atto terzo Tristano chiarisce perfettamente ogni cosa: «Den furchtbaren Trank! ich selbst, ich hab’ ihn gebrau’t», «L’atroce liquore, io stesso l’ho distillato! ») Wagner modificò ancora il mito in relazione al ferimento di Tristano nel secondo atto, perché non è tanto Melot a trafiggere Tristano quanto Tristano a cercare di uccider­ si sulla spada di Melot. Come Sansone, Otello e Orfeo, Tristano ha i suoi momenti di debolezza e il secondo atto lo lascia in una crisi di dispera­ zione, il «giorno» trionfa. Il primo atto ci aveva mostrato gli amanti che lottavano per negare il loro amore, e il filtro d’amore, alla fine, è il sim­ bolo della loro incapacità di negarlo o del loro rifiuto a farlo. L’atto se­ condo rappresenta il loro tentativo di realizzare tale amore in questo mondo, il mondo di Melot e di re Marco, delle amicizie, dei matrimoni, delle lealtà convenzionali e del sesso. Il ferimento di Tristano, opera del­ le dure parole di re Marco come del colpo infetto dalla spada di Melot, è il simbolo dell’abbandono dell’io sotto il trauma della frustrazione e del conflitto interiore. È questo il prezzo che Tristano paga per il suo coinvolgimento totale e lo paga con la passionalità che lo contraddi­ stingue. È solo all’inizio del terzo atto, comunque, che viene rivelata appieno la natura della ferita. H sipario si alza sul tetro e assolato castello in rovina sulla sponda del mare, su Kareol. Le prime battute di soli archi, che esprimono il senso di oppressione con meravigliosa efficacia, fanno spa­ zio all’a solo del cor anglais nella melodia del pastore, la quale rimane so­ spesa in un’atmosfera greve come il piombo. Tristano, ricondotto a casa dal fedele Kurvenaldo, sta languendo in coma. Dopo che l’accorto pa­ store ha promesso di segnalare l’arrivo della nave di Isotta con una me­ lodia allegra, Tristano si sveglia per la prima volta, la mente di fatto vuota. Alle gioiose esclamazioni e spiegazioni di Kurvenaldo può solo contrap­ porre frasi tormentate e monche, che nondimeno rivelano nella musica una profondità inattingibile per Kurvenaldo. Le sue prime frasi di una certa lunghezza sono poco più coerenti, i versi pressoché informi e la musica, con una inabituale absence di passione, scorrevolezza, periodizzazione, Leimotive o idee musicali di una qualsiasi concretezza, corri­ sponde perfettamente alla nebulosa memoria di Tristano.

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Wo ich erwacht, weilt1 ich nicht; doch wo ich weilte, das kann ich dir nicht sagen. Die Sonne sah ich nicht, nicht sah ich Land noch Lcute: doch was ich sah, das kann ich dir nicht sagen. Ich war wo ich von je gewesen woliin auf je ich gehe: im weitcn Reich der Weltennacht. Nur ein Wissen dort uns eigen: gòttlich ew’ges Urvergessen... ’.

Tristano ha desiderato fuggire, ha desiderato dimenticare. La ferita di Melot è il simbolo di quello che potremmo definire un crollo nervoso to­ tale, con amnesia e impulsi suicidi, determinato dalla disintegrazione dei valori di Tristano nell’atto secondo. Forse è solo in questo momento che tutto il nostro interesse e la nostra comprensione pendono dramma­ ticamente dalla sua parte. Si è tentati di sostituire una mitologia freudiana a quella offerta da Wagner. La lunga scena del «Delirio» documenta il tentativo di Tristano di riconquistare il dominio di sé, dragando la propria vita passata e i pro­ pri passati sentimenti per raggiungere una nuova sintesi. Questo proces­ so, che ho definito la conversione di Tristano, è la più grande impresa drammatica dell’opera e, direi quasi, di tutti i lavori di Wagner: dram­ matica anche se non vi sono coinvolti agenti esterni, anzi proprio per questo tanto più eroica. Se solo gli spettatori riescono a sentire insieme a Tristano, non richiederanno una lotta più esplosiva, un tormento mag­ giore e una vittoria più bella di quelli di Tristano nella sua ora di oscurità. Sicuramente questo processo non avrebbe potuto essere uguagliato in 1 «Dove mi svegliai | non rimasi; | ma dove ero | non posso ancora dire. | Non vidi né sole, | né terra, né gente; | ma quello che vidi | non posso ancora dire. | Ero | ove da sempre ero, | ove per sempre andrò: | nel regno infinito | della notte universale. | Un solo pensiero | là ci appartiene: | divino, eterno | insondabile oblio».

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una serie di azioni violente e sconsiderate del genere che Wagner avrebbe potuto recuperare dai materiali delle saghe medievali. E la musica, senza possibilità di dubbio, conduce gli spettatori a sentire insieme a Tristano. Il suo sviluppo prende la forma di un ampio doppio ciclo simmetri­ co, secondo uno schema tipicamente wagneriano. Dopo aver ricordato il suo forte desiderio di oblio, Tristano riporta con pena alla memoria, dal suo passato, un dolore dopo l’altro. I Leitmotive li riflettono ad uno ad uno: la tecnica wagneriana del Leitmotiv non si è mai accordata a una situazione drammatica con più naturalezza e con più forza, o con una precisione psicologica di tale duttilità. Dapprima, di necessità, tutto è ancora vago per Tristano. La lucidità arriva solo dopo. Ricorda dapprima il suo terribile anelito; ricordandolo, naturalmente, lo rivive di nuovo, insieme ad un amaro sentimento di rabbia; e con una parte del suo spi­ rito desidera ancora quell’oblio (la «notte») che un’altra parte ha rifiu­ tato. Il suo anelito sembra l’unica realtà che si possa trovare nella vita (il «giorno»). Non ricorda ancora gli eventi, ma solo questo torturante complesso di sensazioni-giorno, vita, anelito, dolore. Come invoca una tremenda maledizione su tutto, l’onda delle sue emozioni viene trattata in un lento crescendo musicale, di quel genere che Wagner riusciva a fare tutto suo. Dopo la maledizione al «giorno», Tristano ricade esausto, ma anche liberato e alleggerito. Quando Kurvenaldo gli dice che Isotta è stata convocata, all’idea del suo arrivo, torna alla vita in un’altra estasi travolgente. La nave, però, non è ancora lì, Tristano non è ancora pron­ to. Con una lunga cadenza evitata, tipica di Wagner e in specie di que­ st’opera, l’eccitazione cede al pathos sonoro della cornamusa del pasto­ re, che noi ora sappiamo essere il segno del mare tuttora vuoto: «Noch ist kein Schiff zu seh’n» («Non si vede ancora nessuna nave»). Questo dunque è il primo ciclo: ricordo - maledizione - ricaduta - at­ tesa. Gli corrisponde ora un altro ciclo che sta sullo stesso piano, ma è in ogni senso più profondo del primo e porterà davvero Tristano a Isotta. Sinora l’introspezione {ricordo) si è svolta in termini generali, Tristano ha riconquistato soltanto la superficie dei suoi sentimenti. La purifica­ zione che ha raggiunto {maledizione) lo lascia più 0 meno nelle condizioni in cui era alla fine del secondo atto: rifiuto della vita, suicidio, persino abbandono dell’amore. Eppure, questo è stato un viaggio necessario e terribilmente difficile da una voluta amnesia alla riaccettazione del tor-

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mento iniziale. Ora Tristano può andare avanti e nel secondo ciclo tro­ verà il significato del suo viaggio. La melodia del pastore, die alte Weise, aveva risvegliato Tristano dalla sua prima lotta. La si ode di nuovo adesso, a cominciare il nuovo ciclo. Questa volta gli occhi di Tristano sono limpidi. Può penetrare nel cuore degli eventi del suo passato e cercare il significato non solo di quelli che già conosciamo dall’opera, ma anche di altri risalenti alla sua infanzia e ad un tempo persino anteriore, simboleggiati dalla sinistra esuberanza della melodia del pastore, che risuona come suonava il giorno della morte del padre e della madre di Tristano. Con un’altissima ispira­ zione Wagner conserva die alte Weise in tutto questo brano introspetti­ vo, combinata con altri motivi e intrecciata nelle maglie della partitura; sicché Tristano, ora, vede tutto sotto la luce di quello che noi definiremmo il suo passato traumatico o, come dice lui, il destino che ha sempre go­ vernato la sua esistenza. Questa è una motivazione più profonda del «giorno». L’immatura maledizione al giorno ha ceduto di fronte a me­ morie più antiche e ad una comprensione più completa. Ad uno ad uno gli eventi narrati nel primo atto (tutti ricordati musicalmente dai loro motivi) si ripresentano a Tristano e ne guidano finalmente la memoria fino al fatale filtro d’amore. Improvvisamente c’è un’ondata rivelatoria, quella terribile bevanda. Lui stesso ne è stato l’unico responsabile, non il giorno, non Isotta, ma il suo destino, lui stesso. La musica raggiunge il proprio culmine in un nuovo motivo, il più potente ed angosciato di una partitura già tutta intensa (es. 15). «lo stesso l’ho distillato ! », con la maledizione e la purificazione della propria colpa.

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Proprio come questo brano di ricordo-maledizione è sotto ogni aspetto più profondo e più decisivo di quello precedente, penetra nell’a­ nima più profondamente, scaricando le responsabilità, scoprendo nuo­ ve prospettive, così è più seria la successiva ricaduta. Kurvenaldo pensa che Tristano sia morto e l’orchestra fa sentire una versione appena atte­ nuata della famosa musica di «amore e morte» che aveva aperto l’opera e che presto accompagnerà Tristano alla sua morte reale. Tristano, tut­ tavia, si riprende e il successivo episodio culminante non ha un prece­ dente nel ciclo anteriore. Il miracolo, questa volta, si è compiuto. Tristano raggiunge una nuova integrità, una condizione di felicità in cui può in­ vocare Isotta con una purezza priva, o al di sopra, di uno struggente ane­ lito, senza nessun senso riferibile a giorno, ansietà, passione o maledi­ zione. Il sentimento è naturalmente determinato dalla musica, ed è uno dei grandi momenti dell’opera (es. 16). Tutto ciò implica un’incredibile intensità della coscienza per uno che un’ora prima aveva abbandonato la vita. Il passo paracelo dell’attesa del momento in cui arriverà la nave di Isotta è più violento di prima, e

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questa volta l’attesa non deve essere delusa. 11 pastore suona la sua nuova melodia, la cui povera qualità può forse essere scusata con l’impulso ter­ ribile e frenetico che la provoca2. Come entra Isotta e muore Tristano, l’intero complesso dei temi di amore c morte risuona in fortissimo nel­ l’orchestra, complesso già fissato con forza nel preludio e ascoltato in molti mofnenti importanti dell’azione. Paradossalmente, il famoso cro­ matismo continuo serve qui da risoluzione alla straziante ondata musi­ cale che lo precede. Nella morte Tristano non trova più l’oblio, ma il trionfo. Il «Delirio» per lui è stato un noviziato, una grande preparazione. La beatitudine a cui si è preparato è lasciata a Isotta. Secondo i con­ sueti schemi wagneriani, è l’uomo a soffrire e a portarsi al punto della rivelazione, ma è la sublime intuizione della donna a completare la lotta della vita e ad esprimerne il significato. Biologicamente la cosa può essere discutibile, ma in questa opera, almeno, è giusta e drammaticamente ef­ ficace. Il Liebestod finale di Isotta raggiunge, identificandovisi, la con­ centrazione intensa ed estatica sulla realtà finale della Passione, condivi­ dendo l’esperienza di Tristano da un punto divista più ispirato. Impos­ sibile per una donna morire proprio in queste circostanze, dicono i cri­ tici che hanno trangugiato il filtro d’amore solo con difficoltà; ma, come il filtro d’amore e la ferita di Tristano, la morte di Isotta è un altro sim­ bolo grandioso: quello dell’ultima ascesa mistica che sfuma in un nulla supremo, partecipando della divina, celestiale essenza d’Amore.

3Il risultato drammatico di Tristano e Isotta fu reso possibile dal per­ sonalissimo stile musicale di Wagner e solo da quello stile. In che cosa consiste la riforma wagneriana? Questa è la domanda più famosa della critica operistica moderna e, nell’accostarvisi, si deve trarre un solenne avvertimento dalla grande quantità di generalizzazioni c di perentorie ovvietà che la domanda ha suscitato. Metterò in risalto due punti soltan­ to, prima uno storico, riguardante una concezione del melodramma che è stata implicita nel corso di questo studio, e poi uno specifico, riguar­ dante la scena del «Delirio» di Tristano. J Per questo brano Wagner suggerì sfacciatamente di costruire uno speciale alphorn. Non sarebbe servilo.

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La forma musicale di un’opera - elemento espressivo di base del dramma - è sempre interpretata nel modo migliore come un riflesso o come l’immagine originale della forma musicale generalmente diffusa nel periodo in questione. Quando nacque l’opera, Monteverdi raccolse elementi di stile operistico da vari generi musicali di quel vigoroso e con­ fuso periodo di transizione. Il regolare schema barocco dell’aria e del re­ citativo di Metastasio trova espressione anche nella musica strumentale del tempo. La tecnica operistica di Mozart è analoga al suo stile sinfoni­ co. In maniera simile, la continuità operistica di Wagner adotta, defini­ sce o perfeziona il tipico ideale formale della musica romantica. Scrivo «l’ideale» deliberatamente, perché oggi abbiamo seri dub­ bi sui suoi risultati. Era abbastanza tipico del romanticismo sforzarsi di raggiungere l’irraggiungibile. L’ideale romantico consisteva in una grandiosa unità organica conforme ai principi dello stile sinfonico. Beethoven fece i primi passi in tale direzione saldando gradualmente i movimenti della sinfonia in un complesso psicologico della durata di trenta o cinquanta minuti. Ho messo in relazione quest’unità sinfonica con l’unità del concertato operistico, del finale e dell’aria composita. Il senso di continuità nel finale che conclude Fidelio, con le sue varie se­ zioni concatenate, è analogo a quello della ouverture di Egmont, anch’essa divisa in sezioni; e infine a quella del Quartetto in Do diesis mi­ nore i cui sette movimenti fluiscono lune nell’altro senza una pausa, so­ stenendo lo sviluppo con sicurezza e bellezza impareggiabili. Wagner, cui va il merito di avere «scoperto» quel Quartetto, deve aver notato con grande soddisfazione che un tema dell’ultimo movi­ mento è molto simile al tema di fuga del primo movimento. Tali relazioni tematiche sono eccezionali in Beethoven, ma, mentre i suoi principi di organizzazione musicale vennero lasciati cadere nel vuoto oppure sem­ plicemente fraintesi, i compositori si sforzarono di raggiungere un com­ plesso organico su larga scala tramite connessioni tematiche ad ampio raggio di un tipo o di un altro. Il poema con programma di Berlioz pre­ senta una serie di movimenti tenuti insieme (cosi sperava) dall’uso di un’enfatica melodia che subisce continue trasformazioni con il procede­ re dell’opera. Significativamente, a queste melodie venivano dati signifi­ cati simbolici specifici. Ben presto i temi vennero abbreviati e moltiplica­ ti, il flusso musicale rallentato, e vennero sviluppate tecniche più intellet­ tuali, nel poema sinfonico di Liszt, nella sinfonia ciclica di Cesar Franck e

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altri e nel poema sinfonico scopertamente wagneriano di Richard Strauss. L’opera doveva prendere parte a questo ideale. Si dette il caso che essa vi dette di sprone come Berlioz e Liszt non avrebbero mai potuto fare. Wagner portò quest’ideale organico a vertici straordinari, ad un tutto continuo apparente, palpitante e oberato di temi della durata di quattro ore, persino di quattro serate. Una volta che l’opera del xix se­ colo aveva risvegliato l’interesse di un compositore tedesco A" avant-garde come Wagner, doveva diventare fortemente sinfonica, perché la tessitura tematica della sinfonia (tipicamente la tessitura della sezione di sviluppo del primo movimento) dominava il pensiero musicale del tempo di Wag­ ner come la melodia lo aveva dominato al tempo di Handel e la declama­ zione in quello di Monteverdi. Al di là di questo punto, comunque, è pericoloso fare drastiche affer­ mazioni sulla continuità musicale di Wagner. Wagner era un gran chiac­ chierone, ma come artista era pratico e opportunista, un fatto, questo, che i suoi critici non tengono sempre abbastanza presente. Alcuni hanno entu­ siasticamente acclamato le opere di Wagner come esempi di supreme uni­ tà organiche puramente musicali. Alfred Lorenz ne ha cosi analizzate sette con l’aiuto di una fantastica, speciale capacità di perorare una causa e con un’ampiezza che incute timore a guardarla. Il suo lavoro è tanto più esa­ sperante in quanto è una reductio ad absurdum di certe intuizioni valide. Anche Donald Tovey, senza fanatismo, ha insistito sul fatto che Tristano e Isotta è un’opera organizzata su ampia scala sulla base degli stessi principi di una sinfonia di Beethoven, ma in nessun punto dei suoi scritti viene alle prese con questo importante concetto. Personalmente insisterei sul fatto che «l’opera come poema sinfonico» non è più attuabile da un punto di vi­ sta drammatico di quanto lo sia «l’opera come teatro cantato». L’opera deve essere considerata non come una forma puramente musicale, ma come una forma drammatica in cui la musica ha una funzione espressiva. Il rimpianto che Wagner suscita in molti ascoltatori è causato, o almeno in­ gigantito, dalla sensazione che per essere «sinfonico» Wagner predispone condizioni musicali a cui poi non risponde. Le opere di Mozart non hanno la stessa coerenza delle sue sinfonie, anche se riflettono le stesse preoccu­ pazioni estetiche. Wagner non scrisse poemi sinfonici, anche se le sue ope­ re tendevano in tale direzione. È stato detto che Tristano e Isotta potrebbe reggere senza scena e senza cantanti: questo non è più vero per Tristano di quanto lo sia per Don Giovanni.

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I critici del campo opposto, d’altro lato, sono ugualmente in torto quando sostengono che la continuità di Wagner è assolutamente infor­ me, amebica, inarticolata. Quando Nietzsche si lamenta delle intermi­ nabili melodie, ci si domanda se il suo amore iniziale per Wagner fosse mai stato basato su una qualsiasi comprensione correttamente musicale. Cent'anni dopo c’è poca giustificazione per una tale sordità. La padro­ nanza wagneriana della forma musicale in Tristano e Isotta è un dato di fatto, non un’opinione. Se si ha poco orecchio per la musica non si com­ prende Wagner meglio di quanto lo si possa comprendere se si ha la te­ sta piena di teorie sulla perfezione organica. Come forme puramente musicali, le opere di Wagner riescono quanto ci si può aspettare che riesca un qualsiasi poema sinfonico romantico della stessa lunghezza, cioè non troppo bene. Il poema con programma e il poe­ ma sinfonico non hanno mai raggiunto il tipo di unità a cui sembra aspiras­ sero. Come le sinfonie di Berlioz, le opere di Wagner si disgregano in brani di grande forza ed eloquenza, scarsamente legati fra loro. Le connessioni a lungo raggio, a livello dei particolari o a livello più ampio, sono talvolta poetiche ed efficaci, talvolta meccaniche ed esoteriche, ma Wagner non mancò mai di usare la mobile coesione a disposizione della sua tecnica come vigoroso mezzo di trasmissione di atmosfere e, come nel caso di De­ bussy, questa coesione è in sé e per sé di grande valore drammatico. Quan­ to alla coerenza del tutto, questa viene determinata tanto dall’azione quan­ to dalla musica. Come un poema sinfonico di Liszt, Tristano e Isotta com­ prende brani musicalmente opachi che né Beethoven né Brahms (e potrei aggiungere il Verdi degli ultimi anni) tollererebbero di buon grado. Quel­ lo che sorprende è il fatto che, nel corso delle quattro ore, siano cosi pochi. Per quanto riguarda il resto, ci sono brani che riescono in maniera straor­ dinaria, non arie, come nel caso di Verdi, ma brani di natura sinfonica ed evolutiva, più rigorosamente sinfonici, naturalmente, di quegli esempi che possiamo riscontrare in Otello e Falstaff, Sulla scena del «Delirio», il punto da ribadire in relazione alla riforma wagneriana è questo: non solo è una scena risolta in se stessa in modo straordinario, ma, siccome è il momento culminante dell’opera, il suo successo determina il successo dell’opera nel suo complesso. Buona parte del primo atto di Tristano e Isotta tiene dell’esagitato; l’atto secondo comprende, prima del superbo duetto d’amore e dopo, la monotona conversazione degli amanti e la lamentela di re Marco; ma il terzo atto è

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perfetto e la scena del «Delirio» è uno dei più grandi, vasti e continuamente ispirati brani di Wagner. Si può mostrare come quella scena sia legata ad ogni altra sezione dell’opera, anche se con maggiore o minore pertinenza. Considerata semplicemente in sé e per sé, la scena del «De­ lirio» offre la prova più convincente della vitalità drammatica di tutte le tecniche drammaturgiche di Wagner. Prima di tutto, l’idea del Leitmotiv è qui particolarmente ben realiz­ zata. Nel caso di Debussy, come abbiamo visto, un uso ricercato dei Leitmotive contribuisce all’atmosfera generale in modo complementare. In Wagner la tecnica del Leitmotiv è basilare, ben lungi dall’essere reti­ cente e, da Tristano e Isotta in poi, quanto mai complessa. Gli aspetti strutturali e simbolici del Leitmotiv meritano una distin­ zione, anche se naturalmente i due aspetti operano insieme (anche in Debussy). Motivi brevi e pregnanti costituiscono il necessario materiale da cui Wagner costruisce la sua fitta tela sinfonica. Sono sempre presen­ ti, sempre impegnati, ricombinati, riorchestrati, riarmonizzati, riformu­ lati, sviluppati. Ora, una simile scrittura sinfonica, da Haydn a Schon­ berg, giocherella con un solo grosso pericolo: nel tentativo di ricavare molto da un materiale scarso, la musica arriva a quel punto delicato in cui improvvisamente si ha una sensazione di effetto senza causa. Il mate­ riale può essere spinto troppo in là. Wagner era particolarmente soggetto a questo tipo di cadute a causa dell’arrogante distanza a cui spingeva la sua tecnica e a causa di una certa innegabile cecità. In Tristano e Isotta c’era un pericolo in più che veniva dall’aria di famiglia di tutta la musica all’interno della sfera amorosa. Era fatalmente facile produrre un’im­ pressione generale di viscosità. D’altro lato, si poteva ottenere molto grazie all’effetto «organico», nella misura in cui poteva essere affrontato con successo e il compositore poteva passare con prontezza da un tema al seguente nel corso di un lungo brano evolutivo, senza apparire né ar­ bitrario né forzato. La sottile introduzione del nuovo tema della «Colpa di Tristano» (citato a p. 170, es. 15) mostra come l’elaborazione wagneriana condi­ zioni al livello più alto. Il motivo è simile a tutti gli altri. Quando final­ mente appare, porta con sé un senso di compimento e di inevitabilità e, insieme, la forza di una rivelazione. Lo si raffronti ad un famoso esem­ pio precedente: l’introduzione criptica, giustificata solo dalle dida­

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scalie scritte da Wagner, del nuovo tema della «Spada» (l’arpeggio della tromba sulla tonalità di Do maggiore) alla fine delTOro del Reno. Un al­ tro momento di ispirazione è lo sviluppo di alcuni frammenti dcllW/e Weise nel corso del secondo e più profondo ciclo del «Delirio» di Tri­ stano. È di immensa suggestione, anzitutto, che tanti motivi significativi si sviluppino da una melodia presentata all’inizio come qualcosa di ab­ bastanza compatto; con estrema abilità Wagner li combina in contrap­ punto con tutti i temi precedenti che vengono cosi modificati o resi più vividi con insospettata ricchezza. Questa pervasività tematica ha anche un bel valore simbolico. Sotto la malia del motivo ancestrale del pastore, il rinnovato esame di coscienza di Tristano acquista una realtà più profonda e più intensa. Ritornano temi associati ad ogni momento del suo viaggio spirituale e si combinano con la dolente melodia del passato di Tristano. L’uso simbolico dei Leitmotwe, più generalmente riconosciuto del loro uso strutturale, ha anche effetti più ovviamente precari. La corrispondenza del simbolo musicale con l’oggetto può divenire facilmente assurda, specialmente quando i temi sono lineari come di solito in Wagner. Il motivo della «Spada» nel Ring ne è un esempio lampante, anche se forse è un esempio piacevole nella sua ingenuità. Come sembra che Erik Satie abbia avvertito Debus­ sy, sulla scena gli alberi non fremono o non fanno smorfie ogni volta che arriva un personaggio. Wagner, però, aveva rivelato possibilità dram­ matiche nella tecnica del Leitmotiv che Debussy non poteva ignorare. La virtù della tecnica dipende, come sempre, dalla sensibilità del com­ positore nei confronti del singolo contesto. Il simbolismo dei Leitmotive in Pelléas et Mélisande è estremamente elegante e contenuto, nel Ring spesso azzardato, nel «Delirio» di Trista­ no profondamente sentito ma anche esatto, immaginativo e di decisiva importanza drammatica. Mentre Tristano sostiene la sua lotta febbrile per ridare ordine alla propria mente e alla propria memoria, vaghe im­ pressioni riemergenti dal passato lottano nella sua coscienza. Per Trista­ no, ognuna di esse è in quel momento vitale, terribilmente reale, tangibi­ le e prorompente. Le immagini si combinano e si ricombinano musicalmente - sensazioni associate ad idee, più che concetti chiari, un po’ come i buoni borghesi dei Maestri Cantori sono rappresentati come per­ sonaggi divertenti. A tali sensazioni, tanto forti ma indefinite quanto le

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deliranti parole di Tristano, il flusso dei frammenti musicali costantemente interrelati è perfettamente adeguato. Nella scena del «Delirio» vengono trattate particolarmente bene (c con «bene» intendo, come sempre, bene da un punto di vista dramma­ tico) altre due ben note tecniche wagneriane. La prima è il lungo brano del riepilogo della trama, durante il quale un personaggio principale ri­ ferisce il corso delle azioni precedenti con il generoso supporto dei Leitmotive. La maggior parte di coloro che vanno all’opera sopportano il riepilogo della trama quando ha lo scopo di illustrare la situazione di partenza (la lunga «Narrazione» di Isotta nel primo atto), a mala pena la tollerano nel King (è sempre possibile che non fossero presenti la sera prima), ma la criticano aspramente quando Wagner riesamina senza fretta quell’azione a cui hanno appena assistito sulla scena. È una cosa che Wagner fa abbastanza spesso: quale attento ascoltatore non si è sgo­ mentato all’inizio del terzo atto quando il curioso pastore chiede a Kurvenaldo di spiegare la malattia di Tristano? II principio che sta dietro a tali riepiloghi, però, è un principio genuinamente drammatico, serve a reinterpretare l’azione passata in una nuova sintesi, determinata dalle nuove esperienze. Nel secondo atto, per esempio, gli amanti ripercorrono la loro prima conoscenza con una certa forza drammatica da un’angola­ zione del tutto diversa da quella del primo atto. Una tale reinterpreta­ zione non è mai stata più necessaria di quanto lo sia nel caso della con­ versione di Tristano. Tutto il significato drammatico dell’opera dipende dal fatto che Tristano vede l’esperienza precedente in una nuova luce mistica. La novità dell W/e Weise è qui di primaria importanza. La seconda è la solida e bella doppia costruzione della scena. È que­ sto il tratto che affascinava particolarmente Lorenz, ma Lorenz si rifiu­ tava di capire che la pertinenza di simili strutture dipende decisamente dalla forza della loro articolazione. Nella scena del «Delirio» il paralle­ lismo musicale è evidente grazie alla presenza toccante Ae^alte Weise all’inizio di ogni ciclo. Anche la struttura drammatica è parallela. In ogni ciclo abbiamo tranquilli ricordi che aumentano di emotività fino ad arri­ vare ad una maledizione, poi ad una ricaduta e quindi ad un’estatica pregustazione. Il secondo ciclo è sotto ogni aspetto più profondo del primo, comprende il momento culminante della beatitudine e trova la propria risoluzione. Si può solo ammirare il ferreo senso della forma con

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cui Wagner riusciva talvolta a tenere sotto controllo i grandi archi di tempo che osava abbracciare. Il pilastro formale più robusto di Tristano e Isotta è il brano finale, il cosiddetto Liebestod di Isotta. Tovey amava stabilire questo punto. L’ultima ottantina di battute della partitura viene ripresa abbastanza fe­ delmente dal momento culminante del duetto d’amore del secondo atto, con parole nuove, naturalmente, e un nuovo contrappunto musi­ cale di secondario interesse per Isotta. Manca ora, però, la lacerante ca­ denza ingannevole della fine del duetto d’amore, quando il grido di Brangania saluta l’arrivo di Marco e di Melot ad interrompere la passione degli amanti; manca l’intero senso di frenesia e di struggimento, nonché l’eccitazione sessuale che ha elettrizzato molti critici. Lo sforzo errato di circoscrivere l’amore nei termini del «giorno» di questo mondo è ora trasfigurato, verklàrt, nell’accettazione, divorante e serena, che è l’unione nella morte. Finalmente il continuo ondeggiare, muoversi, rinnovarsi, interrompersi e struggersi giunge al termine e la cadenza per tanto tempo evitata sopraggiunge con ineguagliabile autorità in Si maggiore. Il rego­ lare ed esasperante cliché di Wagner, il suo sottrarsi ad una solida defi­ nizione armonica, infatti, trova il proprio posto simbolico in Tristano e Isotta, il dramma del tormento dello struggimento e della sua trasforma­ zione. La risoluzione finale è superba, la forza costruttiva della grande ripresa arriva a definire il significato finale di Wagner. Da un punto di vista puramente musicale, l’effetto del Liebestod Wagner lo chiamava «Verklàrung» - è diverso da qualsiasi effetto si possa ottenere grazie all’uso di Leitmotive. È più simile alla ripresa di un movimento di una sinfonia di Beethoven, o (per arrivarci più vicini) alla ricomparsa del tema del primo movimento nelle pagine finali della Sin­ fonia in Re minore di Cesar Franck. È più simile al ritorno della musica del bacio alla fine di Otello, quella grandiosa ripetizione culminante che riassume il dramma in un singolo gesto, più che dettaglio momentaneo, per quanto toccante. Verdi non aveva alcuna simpatia per la paziente accumulazione che caratterizza la tecnica del Leitmotiv. La sintesi rie­ spositiva di Wagner, comunque, di per sé non dimostra che Tristano e Isotta sia un’unità puramente musicale, salda, sinfonica, beethoveniana. Questo non vale per Tristano più di quanto valga per Otello o per la sin­ fonia di César Franck (con buona pace di Tovey). A differenza di Franck, Wagner era libero da simili, astratti impegni formali.

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Di tutte le opere di Wagner, Tristano e Isotta mi è sempre sembrata (da quando sono arrivato a conoscerle tutte) l’opera suprema, la più chiara sia nella forma sia nella concezione e la più completa per quanto riguarda la realizzazione. Tristano merita la sua reputazione generale di quintessenza delle opere wagneriane. Sotto molti aspetti, va ammesso che può apparire tecnicamente inferiore alle superbe composizioni più tarde di Wagner. Dal punto di vista della drammaturgia, l’esercizio vir­ tuosistico di bella fattura è 1 maestri cantori, mentre Parsifal, d’altro lato, realizza quella purezza di struttura a cui tende Tristano, senza più tolle­ rare nulla di altrettanto rozzo della gratuità con cui vengono tolti di mezzo, alla fine del terzo atto, Marco, Melot, Kurvenaldo e Brangania. Tra le opere di Wagner, Tristano è la più interamente «sinfonica», ma, in confronto alla matura impaginazione di Parsifal, gran parte della mu­ sica può apparire priva di sensibilità, persino rozza. Non è soltanto la turbolenta ciurma del primo atto a far pensare al Vascello fantasma. Tristano, però-quattro ore di cromatismo continuo o meno-, ha an­ che la terribile e tenace determinazione del Vascello fantasma. E di de­ terminazione finale in parte mancano le opere più tarde, qualunque ne sia la ragione. Quello che fa grande Tristano e Isotta è il fatto che Wag­ ner si costrinse a centrare il dramma nell’animo del suo eroe e fece in modo di portare tutto a maturazione nella scena del «Delirio» e nel suo riflesso, il Liebestod di Isotta. Queste scene non hanno uguali nelle opere più tarde - né di Wagner né di nessun altro - quanto a forza drammatica. La musica funziona nel modo migliore quando più è necessaria. Defi­ nendo l’esplicita ed intensa concezione mistica di Wagner, la conversione di Tristano e la morte simbolica di Isotta portano a compimento ogni elemento del dramma. Solo la forza terribile della visione di Wagner po­ teva permettergli di giustificare la sua verbosità, di sconfiggere il senti­ mentalismo e di sottomettere un’eccezionale ricchezza di spunti parti­ colari all’idea drammatica di base. Dell’esperienza religiosa e della forma drammatica scrive Una EllisFermor: «... il solo tipo di conflitto che può offrire questo argomento perché il dramma ne faccia uso è quello della lotta eroica che diventa

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esultanza e trapassa, in alcuni rari casi, nella beatitudine. Questo è il solo punto in cui si possono riconciliare questo contenuto e questa forma, ed è a questo punto che, in tutti i veri drammi religiosi, è avvenuta la ricon­ ciliazione. Stiamo adesso per capire perché il dramma di esperienza re­ ligiosa è raro in ogni periodo di tempo e perché i grandi drammi di que­ sto tipo si possono quasi contare sulle dita di una mano?» Anche Tristano e Isotta, suggerirei, «raggiunge quello che è apparentemente impossibi­ le, dilatando i confini del dramma in un territorio che, per la natura stessa del suo tono, delle sue dimensioni e della sua forma, gli sembrava inter­ detto».

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i.

Come abbiamo visto, l’opera della fine del xix secolo portò ai suoi estremi l’idea di continuità. Un estremo fu quello di Wagner, e l’instau­ razione dell’opera continua fu una delle tante riforme che i wagneriani cercarono di interpretare come la missione del maestro. Potevano cor­ rettamente indicarne lo sviluppo come il solo fatto importante nella sto­ ria della drammaturgia operistica, ma, come tutte le grandi generalizza­ zioni storiche, anche questa nasconde un’enorme complessità. Il pro­ dotto iniziale, l’opera barocca, può essere stato abbastanza lineare, con la sua rigorosa divisione del dramma in un livello parlato costituito da recitativi per l’esposizione della trama, per l’intreccio e per il dialogo, e in un livello musicale, appropriatamente immaginativo, per l’indispen­ sabile espressione drammatica. Il prodotto finale, comunque, l’opera con tutta l’azione incorporata in una singola continuità musicale, è estremamente vario e la sua varietà nasce dalla complessità della sua evoluzione. Wagner vi recitò una parte da protagonista, ma anche i wagneriani riconobbero in Gluck un pioniere. In realtà, i primi passi vennero com­ piuti dai non pretenziosi compositori di opere buffe, che inglobarono azioni drammatiche ancora decisamente limitate all’interno della serrata forma musicale del concertato. In seguito gli Italiani portarono gradual­ mente il recitativo a punte di coesione musicale paragonabili a quella delle arie o degli altri pezzi musicali. Quelle forme autosufficienti, nel frattempo, vennero slegate e mescolate cqn il resto. Otello e Falstaff, in effetti, possono essere interpretati in modo particolarmente chiaro come il frutto della tensione tra il desiderio verdiano di dare all’opera un andamento più uniforme e più letterario e le richieste liriche della tradi­ zione classica italiana. Un po’ più tardi, Debussy, seguito da Wagner,

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Massenet e Musorgskij, dimostrò pacatamente una nuova teoria estetica dell’opera. Inserì un dramma intero in un’opera, lasciandone compietamente intatti tutti i valori letterari, facendoli persino sorreggere da una tela musicale discreta c continua. L’opera continua non sarebbe diven­ tata la «Produzione Artistica del Futuro» se Wagner fosse stato il solo a tendere in quella direzione. Per cinquantanni - non parliamo del futuro - l’opera di questo tipo ha esercitato una grande influenza. Erano gli anni in cui nel teatro domi­ nava il naturalismo. Anche se le convenzioni di base di tutta quanta l’o­ pera sono ben lontane dalla vita reale, l’opera continua tende verso il na­ turalismo sotto un importante punto di vista: sostituisce o tende a sosti­ tuire una convenzione unica per tutte le fasi dell’esperienza del dram­ ma, invece del netto dualismo dell’opera tradizionale. Questo permette ai compositori di lavorare sempre più con il comune dialogo realistico. Paradossalmente, il dramma sfumato e simbolico di Maurice Maeter­ linck diventava così la più naturalistica delle opere. Tosca, Il cavaliere della rosa e Wozzeck sono tutte in vario modo più realistiche del Trova­ tore o del Plauto magico e tutte quante riflettono ovviamente il naturali­ smo del tardo Ottocento. Eppure, tutte quante si ritirano dalle posizioni radicali dei primi ri­ formatori. I compositori desideravano adottare l’andamento naturali­ stico dell’opera come teatro cantato senza inibire la musica con la seve­ rità puritana di Pelléas et Mélisande. Desideravano trarre profitto dal vi­ gore e dalla forza emotiva dell’opera come poema sinfonico senza limi­ tare la trama e senza rendere convenzionale il dialogo come in Tristano e Isotta. La purezza drammaturgica di Debussy e di Wagner venne sacri­ ficata di buon grado; certo, quegli stessi compositori avevano spianato la strada al compromesso, evitando accuratamente di raggiungere i loro impliciti ideali. Infine - forse inevitabilmente - sono stati fatti alcuni sforzi per ritirarsi ancora di più, allontanandosi dal sistema quasi natu­ ralistico dell’opera continua stessa. Dall’angolazione di simili sviluppi, è interessante analizzare insieme il Wozzeck di Alban Berg del 1922 e La carriera del libertino di Igor' Stra­ vinsky del 1951. Wozzeck combina la drammaturgia di Wagner e quella di Debussy con più forza ed originalità di qualsiasi altra opera moderna, spingendo entrambi i metodi a distanze senza precedenti, eppure, nella

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sua stessa mancanza di dogmatismo, nel fatto stesso di combinare due metodi, rivela un’abile ritirata da tali estremi. La carriera del libertino, d’altro lato, è la più convincente delle opere che si sono ritirate ancora più indietro, verso principi strutturali settecenteschi. Questi principi, a quanto sembra, non vennero drammaticamente esauriti nel loro periodo iniziale e se ne possono trarre molti elementi ancora freschi e in grado di produrre una certa impressione. Wozzeck e Lz carriera del libertino sono state rivendicate come i capolavori operistici di due campi potenti della musica contemporanea, la scuola dodecafonica e quella neoclassi­ ca, e se ne parla in genere con partigianeria. Queste opere, però, fanno qualcosa di più che illustrare le tendenze drammaturgiche o rendere po­ polari certi stili musicali del xx secolo. Giustificano lo stile e la dramma­ turgia creando concezioni drammatiche uniche con la particolare, incal­ zante immediatezza dell’arte contemporanea. Come sempre, il nostro interesse è rivolto al dramma e non allo stile o alla tecnica.

2.

Come Pelléas et Mélisande, Wozzeck è un esempio di teatro cantato. Il dramma è uno dei più straordinari della storia del teatro, il Woyzeck di George Biichner, lasciatoci in un incredibile guazzabuglio di note alla morte prematura del suo autore nel 1837. Suo tema prolettico è la fero­ cia della società nei confronti dei diseredati. Woyzeck, un povero soldato comune è condotto sull’orlo della pazzia, al delitto e alla morte per an­ negamento dagli scherzi del suo capitano, dagli esperimenti alimentari del dottore del suo reggimento, dalle infedeltà della sua convivente, Ma­ ria, e dalle botte che gli dà l’amante di lei, il taurino tambur maggiore. La tecnica di Biichner, unita alla sua tematica e alla sua atmosfera di sor­ dido parossismo, offrì al dramma un fascino speciale per gli espressioni­ sti che lo scoprirono nella prima decade del secolo e lo misero in scena per la prima volta. Si dice che Alban Berg sia rimasto profondamente colpito da una delle sue prime rappresentazioni. Woyzeck è costituito da una grande quantità di scene brevissime, realistiche e cinematografiche. Berg ne scelse alcune e le adattò al pro­ prio scopo con grande abilità, disponendone cinque in ognuno dei suoi

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tre atti. Atto I, scena 1: Wozzeck, facendo la barba al capitano, è assalito dai suoi folli rimproveri moralistici, ma non riesce a rispondere in modo articolato. Scena 11: In un magico, bellissimo tramonto campagnolo, Wozzeck assiste ad un’apocalisse massonica. Scena m: Maria nota il tambur maggiore, inizia una lite, canta qualcosa al bambino e si preoc­ cupa dello strano comportamento di Wozzeck. Il giorno seguente, in caserma (scena iv) Wozzeck è stuzzicato in modo grottesco dal dottore. Scena v: Maria e il tambur maggiore vanno a letto insieme. Atto II, sce­ na i: Maria con Wozzeck; segni di guai. Scena il: Il capitano e il dottore, questa volta insieme, tormentano Wozzeck con oscene allusioni alle continue ricadute di Maria, ma quando Wozzeck l’affronta (scena in), la ragazza lo sfida e in una taverna (scena iv) lo ignora per ballare con il tambur maggiore. Scena V: Wozzeck viene picchiato in caserma mentre i suoi compagni, indifferenti, russano. Atto HI, scena i: Rimasta sola, Maria prova rimorso, ma Wozzeck l’accoltella nella scena n. Scena ni: Completamente pazzo, Wozzeck ritorna alla taverna, farnetica, scappa via quando gli scoprono le mani coperte di sangue e (scena iv) annega cercando il coltello. Il capitano e il dottore camminano presso lo stagno. Udendo un uomo dibattersi, scappano via. A questo punto sopraggiunge un culminante interludio orchestrale a sipario abbassato, seguito da un breve epilogo come scena v. Berg modificò di poco lo sferzante ritmo letterario del dramma. Non cercò di modellare arie, duetti o cori a vantaggio della musica più di quanto avesse cercato di fare Debussy, anche se nemmeno disdegnò la ninna-nanna di Maria e il suo monologo del terzo atto. La velocità, la vi­ vacità, l’orrore e il naturalismo assolutamente eccezionali dell’opera sono dovuti prima di tutto al fatto che non usa un libretto fatto su misu­ ra, ma semplicemente l’aspro dramma originale. La possibilità di un me­ todo simile era stata indicata da Debussy. Come Pelléas et Mélisande, Wozzeck fa perno su un genere di decla­ mazione fortemente personale. In un dramma cantato, più che in qual­ siasi altro modello operistico, la declamazione deve avere una vita pro­ pria. Berg si spinge ancora più in là di Debussy nello scindere il parlato dallo sfondo orchestrale. Tecnicamente parlando, usa molti stili vocali, talvolta un semplice parlato, non cantato affatto, altre volte almeno tre diverse misture di Sprechstimine, mezzo parlate e mezzo cantate, con in­

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dicazioni dei toni musicali da seguire solo approssimativamente. In ge­ nere le parole sono cantate appieno, ma anche in questo caso l’ascoltatore distingue molte sfumature, dalle linee bizzarramente cromatiche e di­ sgiunte, davvero vicine alla Sprechstimme, ad uno stile di declamazione più o meno straussiano, postwagneriano. Anche queste sezioni cantate si rifiutano di aderire al loro accompagnamento, per la maggior parte. Le linee vocali sono troppo eccentriche e l’accompagnamento è troppo dissonante. Per natura, la voce non è troppo accurata nel tono e l’orec­ chio non può scomporre immediatamente le imprecisioni di un com­ plesso armonico così complesso come quello impiegato da Berg e Schonberg. Queste carenze possono essere volte a buon fine. In Woz­ zeck Berg si avvicina al realismo della colonna sonora di un film, in cui sostanzialmente il parlato e la musica rimangono separati. Al tempo stesso ne corteggia il limite drammatico, il fatto cioè che la musica agisca solo da commento e non sia parte integrante dell’azione. L’orchestra viene proiettata verso il pubblico, invece che sulla scena. Da un punto divista strettamente drammaturgico, si può anche dire che il ruolo della musica orchestrale di Wozzeck e di Pelléas et Mélisande è simile. In entrambe le opere, ogni scena è trattata come un’unità mu­ sicale con la propria atmosfera, o almeno con la propria particolare sfu­ matura dell’atmosfera generale; in entrambe le opere, la musica acqui­ sta la massima coesione durante gli interludi tra le scene, nell’oscurità del teatro. La stessa tecnica musicale di Berg rende tuttavia piuttosto ac­ cademico il confronto con Debussy; la sua eclettica personalità mostra in particolare in questo caso i suoi aspetti wagneriani. Insieme alla più tarda opera di Berg, Lulu, Wozzeck porta a compi­ mento la tendenza tedesca ad organizzare l’opera come una grandiosa unità sinfonica. Come ho suggerito, quest’ideale è meno esplicito nella pratica di Wagner di quanto lo sia nelle razionalizzazioni dei critici post­ wagneriani. È abbastanza esplicito anche nelle iperelaborate opere di Richard Strauss, in particolare in Salomè ed Elettra del 1903 e del 1909. Negli anni precedenti alla loro composizione, Strauss aveva dimostrato di essere l’esponente di maggior successo del poema sinfonico. Wozzeck è un’opera molto straussiana. Berg si accinse a fissare ognuna delle sue quindici scene in quelle che vengono definite quindici diverse forme pu­ ramente musicali. Si dice che ogni atto costituisca un’unità più ampia. II

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secondo atto, per esempio, è una sinfonia di cinque movimenti e i movi­ menti corrispondono alle cinque scene. Naturalmente, nel suo complesso l’opera è, in termini musicali, «organica». Alla fine dell’ultima scena «... la musica sembra procedere ancora. Procede davvero ! Infatti, la prima misura dell’opera potrebbe essere direttamente attaccata a queste bat­ tute conclusive, e con questo il cerchio si chiuderebbe»1. Ci sono indizi più seri della coesione musicale di Wozzeck, ma cito questo perché è un simbolo grazioso ed è assolutamente tipico delle preoccupazioni e degli atteggiamenti di Berg, nonché della cura esagerata che dedicava alla partitura. All’organizzazione musicale di Wozzeck è stata fatta molta propa­ ganda, così tanta che è bene sottolineare che il giudice definitivo è l’orec­ chio, non Tocchio, e che l’opera è destinata al teatro lirico e non allo stu­ dio dell’analista. Le costruzioni più complicate di Berg non vengono semplicemente percepite a teatro, o meglio, vengono percepite soltanto come forti atmosfere. Delle quindici scene sei sono costruite su forme di ostinato. Queste sono percepite e raggiungono il loro effetto drammati­ co dando un insopportabile senso di ossessione all’azione in questione. La scena dell’assassinio, cosi, descritta come «Invenzione su un tono», ruota chiaramente intorno al Si. Questa nota si fa più sinistramente insi­ stente, finché, nell’interludio dopo la scena, la si ode isolata in un famoso ed emozionante crescendo che si risolve ingannevolmente nell’ignobile polka della scena seguente, ingannevole distrazione per Wozzeck. (Ma collegare questo Si con la nota di gong che conclude l’atto precedente!) Anche la scena seguente è costruita su un ostinato'. Wozzeck si fa vivo alla taverna farneticando, con il sangue di Maria sulle mani, ed un superbo momento drammatico viene creato dalla ripetizione costante di un sin­ golo ritmo. In modo più lieve, molto più lieve, una cosa simile era stata fatta nella scena del gioco della Traviata, nella scena di Yniold di Pelléas et Mélisande e in altre opere. Senza nessun abracadabra critico. Comunque, che il lavoro sia iperelaborato e sia stato iperanalizzato non dà fastidio agli spettatori. Quello che udiamo raggiunge il suo effet­ to. Come Pelléas et Mélisande, Wozzeck crea un’atmosfera particolare 1 Willi Reich apparentemente registra le idee di Berg in A Guide lo «Wozzeck», ristampato in «The Musical Quarterly», XXXVIII (gennaio 1952). Non potrei essere piu in disaccordo con il riferimento edito­ riale a questa guida come ad una «eccellente analisi».

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per fissare ogni scena. A differenza di Pelléas, si tratta di un’atmosfera scioccante. L’unità generale è un’unità di stile, di atmosfera e di azione, come in Pelléas, come nella Traviala, ma in modo molto più violento. In certe scene la musica rimane compatta con grande forza, producendo un curioso effetto schizofrenico in rapporto alla forma solidamente let­ teraria fissata dal dialogo naturalistico. Debussy, che non permetteva mai che la musica prendesse il sopravvento, evitava con cura una simile disparità. Ho il sospetto che Berg la ricercasse deliberatamente. Woz­ zeck dà l’impressione di usare ogni mezzo a disposizione per perfezionare una singolare visione operistica dell’anormalità. L’anormalità è subito evidente. Più problematici sono la sua esatta natura e i mezzi esatti con cui viene proiettata all’esterno. Certi critici sono tentati di attribuire la pazzia semplicemente alle caratteristiche schonberghiane dell’opera. Ora, certo, a livello subartistico quei bru­ schi ritmi irregolari e quelle linee vocali ampiamente spaziate, l’orche­ strazione discontinua e l’alto livello di dissonanza suscitano risposte emotive più tese di quelle suggerite, ad esempio, dal linguaggio di Mo­ zart. Il linguaggio subartistico, però, è inevitabilmente trasceso, sia nel caso di Mozart sia nel caso di Schonberg. La musica, l’arte in generale, è straordinariamente elastica. Con poche moine da parte dell’artista, qualsiasi stile instaurerà la propria coerenza immaginativa e le conven­ zioni dei propri principi. Pierrot lunaire, cosi, per quanto estremo nei sentimenti che lo animano, stabilisce la propria normalità estetica. Come opera d’arte, non è affatto pazza, anche se la sua tessitura è, da un punto di vista conservatore, molto più costantemente pervicace di quella di Wozzeck. La chiave sta forse nella coerenza. L’opera di Berg è splen­ didamente eclettica, non dogmatica, incoerente e il vigoroso flusso stili­ stico ne favorisce la sostanziale illusione. La musica orchestrale, a differenza di quella del Pierrot lunaire, fa mostra di una sottile continuità dall’atonalità di certi brani alla tonalità postwagneriana di altri (in particolare, il culminante interludio finale, la ninna-nanna di Maria e il suo successivo monologo dell’atto terzo). Quanto viene momentaneamente accettato come normale qualifica il resto come anormale e le sfumature non sono mai perfettamente chiare. La declamazione stabilisce il proprio continuum dal canto al parlato, dalla ninna-nanna di Maria, in cui la voce e l’orchestra si uniscono alla

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maniera tradizionale, al grido finale non musicale del capitano: «Kommen Sie! kommen Sie schnell». I continui trapassi all’interno di questo continuum producono un’impressionante confusione tra la declamazione formale e l’esatta rappresentazione della parlata di persone che si trovano in terribili avversità. Considerato unicamente come recitativo, Wozzeck sembrerebbe uno Strauss reso ancor più istericamente irreale; conside­ rato unicamente come un parlato più alto sembrerebbe una grottesca caricatura dei vecchi modi oratori. L’interazione di questi modi contri­ buisce a dare maggiore realtà al primo e a distanziare il secondo renden­ dolo più credibile. È la loro astuta confusione, credo, a infondere quel­ l’illusione di isterismo che sottende il livello del dialogo naturalistico e spesso prosaico. La normalità, comunque, non si impone mai in relazione ai personaggi dell’opera, contrariamente a quanto accade nel dramma che ha i suoi sani stupidotti (Maria, Margherita, Andrea, il tambur maggiore), oltre alla sua buona fetta di eccentrici (Wozzeck, che non è mai in condizioni mentali del tutto normali, il capitano c il dottore, pervertiti e megalomani, l’idiota e lo Handwerksbursche, prodigiosamente ubriaco e predicante). Nell’ope­ ra vivono tutti in un mondo di isterismo. Quelli che vi si trovano meglio sono il capitano e il dottore. Allarmante è il fatto che essi non vengano pre­ sentati come aberrazioni del mondo che conosciamo, ma come abitanti co­ muni di un mondo distorto. Wozzeck li dà per scontati, senza nemmeno contestare le loro persecuzioni, perché apparentemente ci si aspetta che i capitani e i dottori si comportino come loro. La sola cosa che contesta, l’infedeltà di Maria, è in realtà il solo ele­ mento normale del dramma, se si considera a freddo che tipo è Wozzeck e die tipo è Maria, e veniamo di sicuro incoraggiati a considerare Maria con tutta la freddezza concessa dai metodi alla Zola. Superficiale, stupida e sentimentale, vive con Wozzeck da anni senza essere sposata e ha l’a­ bitudine di andare a letto con i soldati. Eppure, nell’ultimo atto si porta improvvisamente al livello drammatico di una Maddalena, cd è anche una scena lacrimevole. Che cosa ha da rimpiangere per aver accettato il tambur maggiore, che l’attrae, se lo paragona a Wozzeck, che fa davvero una brutta figura e (cosa più importante) non suscita in lei il minimo af­ fetto? Fino a che punto dobbiamo prendere sul serio il suo pentimento del giorno dopo? Maria è un personaggio molto incoerente, a meno che

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anche lei, come il capitano e il dottore, non sia vista come una proiezione di quello che Wozzeck decide che lei sia. Si paragoni Wozzeck con il «monodramma» di Schonberg Erwartung (L'attesa), che, scritto nel 1909, ha chiaramente influenzato in vario modo l’opera di Berg. Una donna, alla ricerca del suo amante in una buia foresta, si imbatte o immagina di imbattersi nel suo cadavere e su questo dà libero sfogo al suo amore, alle sue paure e alle sue gelosie. Dal momento che quest’opera si fissa dall’inizio alla fine nel subconscio, non evoca assolutamente il particolare terrore o senso di aberrazione di Wozzeck. La sua macabra recita non ha alcun significato letterale, né ha alcun riferimento musicale ^d una normalità all’esterno. Wozzeck, dal canto suo, è calato nella realtà, come garantiscono la trama e il dialogo naturalistici, non si svolge in un mondo irreale, ma nel mondo reale visto attraverso gli occhi di un pazzo. Gli occhi sono quelli di Wozzeck e l’a­ normalità è evidentemente una forma di paranoia. Berg concepì il dramma filtrandolo con prodigiosa fedeltà attraverso la coscienza del protagonista’. La dissezione di una mente malata dà all’opera il massimo frisson per il xx secolo, come certamente lo procurava al primo Otto­ cento la figura dell’idiota fiutatore di sangue. A questo punto si pone un interrogativo: la mente paranoica può es­ sere un materiale drammatico realizzabile? Il frisson non si identifica con la tragedia. Assai più che nel dramma, nell’opera Wozzeck è una nullità drammatica, senza personalità e senza volontà (e, nonostante i Leitmotive, con la più incerta coscienza sociale). Non si trova coinvolto in nessun conflitto o azione di cui abbia coscienza. È semplicemente os­ sessionato dalle sue ossessioni e si può adeguare al mondo soltanto di­ ventando pazzo, cosa che fa prima che l’opera inizi. La musica non esprime nessuno sviluppo per tutto il tempo in cui sulla scena assistiamo al suo tormento. Si limita a documentare il suo squilibrio mentale, la sua irresponsabilità drammatica. Wozzeck, però, contiene un tipo estremamente originale di «azione musicale», un tipo la cui debolezza sta esattamente nel fatto che è rele­ gato al di fuori dell’azione che si svolge sulla scena, ma la cui forza, nei termini che gli sono propri, rafforza l’opera ancor più del terrore natu2 II Woyzcck storico su cui Biichner basò il dramma era realmente un paranoico, come Berg probabil­ mente sapeva.

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ralistico o dell’atmosfera psicopatica. Questa azione musicale è di pri­ maria importanza nella valutazione del sostanziale effetto drammatico dell’opera. Mi riferisco ad un ampio e ricorrente ritmo musicale che passa dalla tensione alla distensione. Lo si sente nei momenti che stanno tra molte scene e gli interludi orchestrali che le seguono, ma si presenta in tutta la sua forza solamente quando è al massimo della sua espansione, tra l’opera nel suo complesso e l’interludio finale che segue la morte di Wozzeck e precede l’epilogo di ventun battute con i bambini. Al suo primo livello Wozzeck viene avvertito come una serie di orrori che arrivano ad un forte allentamento della tensione in quest’ultimo e più lungo interludio. Questo modo primario di avvertire Wozzeck non va perso di vista per seguire sottigliezze secondarie. Questo culminante interludio orchestrale è la cosa più forte e più abile di Wozzeck e costituisce il suo tratto più genuinamente wagneriano. Nel momento stesso in cui lo perfezionava, Berg si era reso conto del­ l’errore metodologico di Debussy. Se non lascia che la musica prenda il comando e colga un momento emotivamente cruciale nei termini che le sono propri per farne quello che può, il teatro cantato elimina la princi­ pale fonte energetica dell’opera. Debussy si accontentava delle sue reti­ cenze, Alban Berg no. Pure, ritornare alle strutture convenzionali fino al punto di scrivere un’aria o un suo sostituto wagneriano avrebbe spez­ zato l’andatura della presentazione e, insieme a questa, la sua immedia­ tezza e la sua letteralità. L’espansione musicale che la forza finale richiede categoricamente, quindi, poteva aver luogo soltanto negli interludi tra le scene. È nell’interludio finale che ci è dato modo per la prima volta di sentire quello di cui siamo stati testimoni, è qui che per la prima volta l’atrocità può essere misurata in termini emotivi. Wozzeck è morto, il si­ pario è abbassato e la musica suggerisce ora un senso di equilibrio men­ tale e di sollievo in aperto contrasto con il mondo isterico del palcosce­ nico da cui gli spettatori sono appena stati salvati. Senza spezzare l’illu­ sione naturalistica si è trovata una potente collocazione emotiva; o, più esattamente, l’illusione è spezzata dal sipario - una convenzione teatrale che Berg ebbe cura di non ignorare. È la dinamica del poema sinfonico, di spirito completamente wagne­ riano. Dello stesso tipo è la parata di Leitmotive di Berg. C’è un solo pro-

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blema, e per questo, incidentalmente, non c’è nessun precedente wa­ gneriano. La grande e possente emozione orchestrale è staccata dai per­ sonaggi del dramma, non fa parte dell’azione, la riguarda. La musica definisce la reazione degli spettatori, invece di definire la reazione dei personaggi, che ora sono iodt Alles, Alles lodi, secondo le parole di re Marco cosi adatte al caso. In modo audace ed assolutamente insolito, Berg ha inserito una catarsi aristotelica all’interno del dramma. Vi era completamente immerso anche lui, questo è quanto egli provava a proposito dell’azione ed è quanto ci si aspetta che provino anche gli spettatori. Tutto dipende, dunque, dalla musica di questo interludio. Se ci si arrende alla sua dispotica richiesta e se suona vera all’orecchio, allora definirà tcleologicamente la tragedia di Wozzeck, che non era stata for­ mulata se non nei termini di questa reazione. Ma quando si sia ricono­ sciuto l’interludio come un valzer lento nella tradizione sentimentale di Mahler, non è più possibile arrendersi e tutto è perduto (es. 17). Riporta alla mente l’ultimo (e più bel) valzer del Cavaliere della rosa, quello se­ miatonale che accompagna le lacrime, provocate dal vino, di Ottaviano-

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Mariandel. Improvvisamente si vede la terribile disparità tra le lacrime e Fazione drammatica. Sulla base del dramma, lo scialbo Wozzeck si è guadagnato solo la compassione che si può dare ad un animale persegui­ tato. L’emozione dell’interludio finale non può adattargli bene, è, piuttosto, una forma di autoindulgenza dopo l’esperienza sconvolgente alla quale si sono trovati sottoposti gli spettatori. Il ritmo sostanziale va dal terrore all’autocommiserazione, rimanendo separato dall’azione. Viene alla mente il metodo di Puccini, ma solo per poco, devo dire. È vero che anche un’opera come Tosca finisce con l’insistente richiesta da parte del compositore di un’emozione che l’azione, sostanzialmente, non si è guadagnata, ma, a differenza di Wozzeck, la Tosca non ha pre­ sentato alcun serio resoconto di nulla in nessun momento precedente. Wozzeck è anche completamente diversa da qualsiasi opera di Puccini nell’effetto della sua reale conclusione. L’epilogo che segue l’interludio cambia fortemente l’atmosfera dall’isterismo del resto dell’opera e dal sentimentalismo dell’interludio stesso. Fredda e assolutamente norma­ le, è la scena più naturalistica dell’opera: bambini che giocano a cantare una cantilena non secondo il disgiunto stile cromatico del tormento di Wozzeck ma secondo la stonata carenza musicale di un gruppo di gente comune. Parlano (ganzgesprochen!) al bambino di Maria e gli dicono che la mamma è morta. Troppo piccolo per capire o per parlare anche lui, il bambino risponde semplicemente con due note per far roteare il suo cavallo a dondolo. Gli altri bambini vanno a rivedere il cadavere, poi (un tocco macabro che non c’è né in Biichner né nei suoi più fantasiosi cura­ tori) il bambino li segue, ugualmente curioso. Per tutto questo epilogo, brevissimo e cinematografico, lo sfondo musicale è piano e luminoso, praticamente privo di ritmo in confronto al resto dell’opera, assolutamente impressionistico: luce solare. La musica per lo «hop! hop! » del bambino ricorda un brano delle Gigues di Debussy, l’accordo finale per il palcoscenico vuoto è puro Ravel - e che cosa potrebbe essere più lim­ pido di Ravel? È un’ironia finale: \a.Schrecklichkeit finale è passata dopo il terrore, svuotata di importanza come lo è la vita, collocata con la man­ canza di sentimentalismo che Berg conosceva nel mondo banale dei monelli. È un accostamento brutale e per Berg deve essere stato un accosta-

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mento eroico piazzare la gelida reazione dei bambini accanto alla sua e alla nostra fatte ribollire nell'interludio immediatamente precedente. Dando risalto ad un livello obiettivo di equilibrio, questa scena conclu­ siva tende a dare una nuova profondità di realtà alla psicosi dell’azione precedente e una dimensione inaspettata alla visione di degradazione che vi è presentata. Viene troppo tardi, comunque. La scena sembra staccata dalla sostanza della storia e sa fatalmente di finale a trucco. Berg voleva veramente investigare o soltanto affondare il coltello? Per farle acquistare un senso di pertinenza finale, l’azione avrebbe dovuto essere portata a un livello ancora più alto, più alto del livello di coscienza pro­ prio dei bambini di otto anni. Quello che in quest’opera è genuino è il terrore, non la pietà. Il di­ lemma paranoico per Berg era reale quanto lo era per Wozzeck stesso e poteva esprimerlo con una convinzione e una violenza che fanno impal­ lidire ogni altro violento prodotto operistico fino a farlo sembrare una commedia da salotto. Niente era troppo forte se poteva aggiungere un’altra violenta emozione al sinistro dramma di Buchner, un altro pos­ sente dettaglio a questa partitura traboccante di arroganza e di fascino. Quando se ne presentava la necessità, Berg riusciva ad essere più brutale di Strauss, anche se raramente era cosi sfacciato. Poteva evocare un’at­ mosfera con la stessa perfezione di Debussy, anche se aveva di rado bi­ sogno della delicata sensualità di Debussy, Che spacconata aver messo per iscritto il russare dei soldati nella caserma facendone un coro ma­ schile a cinque parti per un totale di nove battute di musica! O aver ap­ paiato di brutto Mahler e Stravinskij per la scena della taverna! In ogni momento la sicurezza drammaturgica è stupefacente come lo è la sua novità e la visione drammatica, qualsiasi cosa non vada, rimane a turba­ re violentemente il subconscio con la sua presentazione dell’oppressio­ ne a cui è sottoposto l’uomo e della sua lotta disperata ed inespressa. Wozzeck è un’opera basilare del teatro del xx secolo proprio per questa concezione che non può essere completamente offuscata dal sentimen­ talismo finale,

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È difficile pensare a due opere più contrastanti di Wozzeck e della Carriera del libertino. Si tende a considerare simili disparità artistiche come tipiche di questo secolo, ma il periodo del Woyzeck di Biichner era anche quello del Prometeo liberato, di Berlioz e di Stendhal, del giovane Mendelssohn e del vecchio Goethe. La carriera del libertino è un esercizio virtuosistico di neoclassicismo novecentesco. Il libretto di W. H. Auden e Chester Kallman non ritrae personaggi della nostra epoca, ma tipi romanzeschi appartenenti allo spi­ rito comico di Fielding. Un bel fannullone e la sua fedele innamorata cam­ pagnola sono i protagonisti di questa «favola» morale, un viaggio alla Bu­ nyan elaborato con spirito dai quadri di Hogarth. Elementi fiabeschi si mescolano con i particolari, il colore c gli ambienti di un idealizzato xviii secolo: il diavolo concede a Tom un anno e tre desideri e alla fine lo con­ danna quasi alla dannazione. C’è anche un chiaro legame con il mito classi­ co. La drammaturgia si ritira sulle linee di Mozart, impiegando recitativi secchi, arie, concertati e una ricchezza quasi ostentata di convenzioni sele­ zionate dall’opera del xvni e dell’inizio del xix secolo. Don Giovanni, in particolare, viene rievocato con una certa audacia: commedia e tragedia, dissolutezza e castigo, donna Anna / Anne Trulove, il cimitero e il moraliz­ zante vaudeville finale. Come attraverso un velo, la musica di Stravinskij sembra talvolta rievocare Monteverdi, Pergolesi, Donizetti, Cajkovskij e altri. Usa pressoché esattamente l’orchestra di Mozart, ma senza trombo­ ni, e riporta persino in vita il clavicembalo per i recitativi. Il neoclassicismo musicale ha i suoi nemici, quanti ne ha la scuola dodecafonica, ma, se La carriera del libertino alla fine risulta debole, non dipende dal neoclassicismo, ma da un difetto della concezione dramma­ tica, lo stesso difetto di Wozzeck'. la pazzia. A differenza di Berg, Stra­ vinskij ci presenta la pazzia come momento culminante di un cammino, lungo e assolutamente cosciente, compiuto dal suo eroe. Se questa sia una concezione più o meno ottimistica della condizione dell’uomo mo­ derno, non sta a me dirlo. Devo dire, però, che dal punto divista dram­ matico non è più realizzabile. La meta del cammino del libertino non è chiara. Il cammino in sé, come il tormento di Wozzeck, è presentato in modo ammirevole ed è la forza perenne del dramma.

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Il libretto inizia con un quadro campagnolo, una coppia di amanti che celebrano il «calendimaggio»: ANNE

... The pious earth observes the solemn year. TOM

Now is the season when the Cyprian Queen With genial charn translates our mortal scene..?.

Questo è un eloquio alto per il Tom Rakewell di Hogarth e questo duetto iniziale ha un forte tono rituale. I riti della primavera celebrano il ritorno annuale di Adone dagli inferi e gli amanti si preparano a rappresentare la storia di Venere e Adone in una nuova interpretazione. Adone, un bel gio­ vane amato da Afrodite, rifiuta il suo amore perché desidera essere libero e dedicarsi ai piaceri della caccia. Questa vita lo distrugge, ma viene semi­ riscattato dalla dea e riportato sulla terra per sei mesi all’anno. A noi sarà dato di vedere Tom rifiutare Anne Trulove per seguire il proprio desiderio di libertà e di piacere nei bordelli, nelle fiere e alla Borsa Valori di Londra. In capo ad «un anno e un giorno» si ritrova nella morsa dell’Ade, rappre­ sentato dal suo servitore Nick Shadow, ma viene semiriscattato dall’amore di Anne, non con una chiara divisione temporale, come nel mito, ma con una simultanea: sarà contemporaneamente sia sulla terra sia all’inferno, pazzo, cioè. A Bedlam Tom crede di essere Adone nell’Ade, circondato da Minosse, Orfeo ed altri, in attesa del ritorno di Afrodite. È di nuovo pri­ mavera, ed ella arriva, ma poi parte per sempre. Adesso noi abbiamo biso­ gno della storia settecentesca e della morale novecentesca. Shadow è un’ombra solo semipagana. Il suo nome di battesimo è Nick e la favola cristiana, più importante, è sovrimposta alla leggenda classica. Caratteristicamente, Audcn esamina l’anima del suo Adone e fa uso di commedia, pathos e lirismo per convogliare su di lui le nostre simpatie. La ricerca della libertà e del piacere, si viene a sapere, è com­ plessa, equivoca e assai poco divertente. Tom può essere abbastanza de­ ciso in campagna, ma quando giunge con Nick alla prima tentazione, si tira indietro e deve essere spinto con l’imbroglio a saltare il fosso. È già semipentito e continua ad esserlo ad ogni nuovo passo che compie sul sentiero della sua rovina, sentiero sul quale, in effetti, può solo essere spinto dall’abilità del suo Satana domestico. Tom è uno smidollato, ma 5 «Anne ... La pia terra osserva tanno solenne. TOM È la stagione in cui la regina di Cipro con gio­ condo incanto trasforma la nostra scena mortale)».

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dobbiamo prendere come un atto di coraggio il momento in cui, durante il rendiconto finale, getta via la propria debolezza e il proprio orgoglio e si affida all’amore di Anne. Nel cimitero, quando il diavolo propone di giocare a carte l’anima di Tom, Tom scommette sull’apparentemente impossibile regina di cuori, ingannando Nick Shadow proprio come Shadow aveva ingannato lui nel primo atto. Il cammino del libertino, in altre parole, è prima di tutto una verifica, una preparazione ad Afrodite che alla fine egli desidera e merita troppo tardi. La ricerca terrena del piacere e della libertà viene presentata come continuamente vana. Tutto questo sembrerebbe materiale drammatico chiaro e appro­ priato, ma è stata sollevata l’obiezione che Tom non è affatto un libertino significativo. La forza di questa obiezione è oscura. Certo, Tom non viene coinvolto in una serie di avventure cosi solleticanti quanto quelle del suo prototipo nei quadri o anche quelle del don Giovanni di Mozart; egli è un essere molto più complicato, è più un personaggio dei nostri tempi. Può appartenere alla stessa famiglia di don Giovanni, insieme a Pulcinella, a Faust, al John Tanner di Shaw e al soldato di Stravinskij, ma questa fami­ glia è fondamentalmente divisa sulla questione della coscienza. Pulcinella e don Giovanni non ne hanno alcuna, non cambiano e la loro dissolutezza e il loro castigo vengono trattati senza ambiguità. (Don Giovanni ha il sot­ totitolo Il dissoluto punito). Faust e Rakewell hanno una coscienza. Il loro cammino è intrinsecamente più interessante dei loro errori e i loro peccati e il loro castigo sono, a vari livelli, ambigui. Forse, né Faust né Rakewell sono oggi argomenti possibili per la commedia, a meno che l’autore non faccia a meno delle simpatie, come Shaw. È da chiedersi se don Giovanni sia ancora un’occasione comica dopo Kierkegaard e Byron. Lasciando da parte, però, la questione della commedia, il caso di Rakewell ha tutta l’im­ mediatezza, la tempestività, l’universalità e il pathos che gli sono necessa­ ri, per non parlare di un’onorevole tradizione. Un’obiezione a priori nei confronti di Tom come figura drammatica, quindi, è assurda quanto il lezioso suggerimento di Eduard Hanslick, secondo il quale la storia di Otello era troppo sgradevole perché se ne potesse fare un’opera decorosa. L’unica questione è se il poeta e il com­ positore riescono a presentarcelo in maniera convincente. Nel libretto di Auden il cammino del semipentito libertino è diretto, stringato, ben strutturato e non deflesso da materiale secondario. È disposto intorno ai tre desideri concessi da Nick Shadow, che non prevede che un quarto

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desiderio, per Anne, alla fine salverà Tom. In campagna, l’immaturo de­ siderio di Tom è rivolto al denaro e ai piaceri che può comprare. Dopo la sua presentazione al bordello, però, questo gli viene a noia e l’intelletto di Tom si affina. Poiché egli desidera più generalmente la felicità, Nick lo persuade a sposare uno scherzo di natura della fiera di St Giles, Baba la turca, non sulla base della soddisfazione dei sensi, ma per esercitare il nobile dono della libertà. La felicità giunge soltanto quando ci si è li­ berati dai dettami gemelli della lussuria e della coscienza. Tom, mai molto intelligente, si appassiona a questa filosofia corrente, che si dimo­ stra però completamente inutile. Infine, Shadow riesce a indurlo alla malvagità solo facendo appello alla patte migliore della sua natura, quella sentimentale, un colpo basso. La macchina per fare il pane, così Tom prega e desidera, potrebbe ancora salvargli l’anima con tutti i benefici che potrebbe diffondere nel mondo. Durante tutto questo periodo ha continuato a dirsi, con tipica debolezza o tipica arroganza, che è ormai giunto a un punto tale di dannazione da non poter ritornare da Anne, nemmeno di fronte a un’offerta di perdono. Naturalmente Tom è uno che si autocommisera e anche di questo si ride un po’. «How handsome­ ly he cries! », «Come piange bene! », dicono le puttane ammirate quando Tom canta la sua aria più bella. La registrazione del cammino di Tom non è deviata dalla trama se­ condaria di Baba, intorno alla quale ruota gran parte della comicità. Ri­ cordando i castrati del tempo di Hogarth, Auden fa della sua artiste una signora con la barba e Stravinsky un mezzo soprano leggero. Far asserire a Tom la propria libertà contraendo un matrimonio, etero o omosessua­ le che sia, è cosa strampalata quanto la filosofia di Shadow. Anche indi­ pendentemente da Shadow (e da Hogarth), Auden aveva bisogno di far accasare il suo eroe ai fini della trama principale. Se Anne doveva fare qualcosa nell’opera oltre ad iniziarla e a concluderla, doveva apparire nel mezzo, e più o meno la sola cosa che le si poteva far fare era dare la caccia a Tom per Londra (come in Hogarth, dove la cosa è spinta ai limiti della tediosità). Ma in questo caso il debole Tom, di buon cuore e pen­ tito, non sarebbe ritornato da lei e non avrebbe sconfitto Shadow prima del tempo? Questo avrebbe distrutto la trama; del resto, il semplice fatto di frequentare le puttane non riesce certo a scoraggiare ragazze assenna­ te e decise come Anne. La sola situazione che poteva costituire per lei un

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ostacolo (temporaneamente) era farle trovare Tom sposato con un’altra. Quando Anne si trova temporaneamente in questa situazione, Tom pre­ cipita in basso con tanta piu chiarezza e drammaticità. In seguito Baba soccorre con decisione la titubante Anne e le dà Tincoraggiamento finale a cercare di nuovo Tom, anche se sposato con un’altra. Stravinskij si dimostra all’altezza della situazione. La rivelazione epifanica di Anne He loves me still! Then I alone In weeping doubt have been untrue...*1

è uno dei momenti più significativi della partitura. Potenzialmente Anne è un bel personaggio, molto migliore della fanciulla di Hogarth, completamente diversa, e ci dispiace vederla sparire alla fine. Baba, co­ munque, è tratteggiata in modo incisivo e completo e il suo ruolo è in ogni momento coordinato alla trama principale. I sospetti di piaceri eso­ tici che Tom dovrebbe presumibilmente gustare con questo fenomeno da baraccone vengono dissipati in modo divertente. È solo dopo il ma­ trimonio e la scena con Anne che veniamo a conoscere (al sipario dell’atto secondo, scena seconda) la natura dei grandi meriti di Baba. Sinora ave­ vamo solo l’oscura informazione che «brave warriors who never flinched at the sound of musketry have swooned after a mere glance of her», che «coraggiosi guerrieri che non si sono mai tirati indietro al suono dei mo­ schetti sono svenuti dopo averle dato una sola occhiata». Nella scena domestica che viene subito dopo Baba ci viene presentata come la cari­ catura perfetta della femminilità comune. È difficile dire che cosa sia più spaventoso, se il suo continuo cicaleccio o i suoi nervi o la sua zucchero­ sa canzoncina d’amore. Come parodia delle verità eterne del mondo dello spettacolo, però, Baba ha l’inevitabile cuor d’oro. È anche quella che si fa l’ultima risata, e ha una certa importanza che si rida sempre di Tom. I tre momenti della sua discesa, corrispondenti al desiderio epicureo, a quello esistenzialista e a quello cristiano, vengono fatti apparire tutti inutili ridendoci sopra. Il bordello di Mother Goose è un affare proprio infantile. La non esotica Baba gli rende la vita infeli­ ce. La «macchina eccellente» che lo inganna è ridicola. Ovviamente, quest’uso dell’umorismo è diametralmente opposto a quello di Don 4 «Mi ama ancora! Allora io sola | tra le lacrime del dubbio sono stata infedele...»

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Giovanni, in cui il divertimento è sempre volto contro le vittime di don Giovanni. Si ride sempre insieme a lui, anche quando rimane gabbato anche lui, perché vede sempre la burla (a differenza di Tom, che non ha nessun senso dell’umorismo). Gli atteggiamenti nei confronti di questi due protagonisti sono scarsamente determinati dalle loro azioni o dal loro grado di obiettiva dissolutezza. I nostri diversi modi di corrispon­ denza sono determinati dalla musica, naturalmente, e dalle diverse dire­ zioni della commedia. Osserviamo sempre Tom con un certo diverti­ mento e con un misto di compassione e di insofferenza, mentre don Giovanni si guadagna la nostra ammirazione. II cammino del libertino pentito è ideato nel libretto in maniera am­ mirevole. Se mi sono soffermato ad analizzare il libretto con insolita am­ piezza, è perché è stato frainteso e perché è davvero inusitatamente sot­ tile per essere un libretto d’opera, anche se certo non dovrei dire ecces­ sivamente sottile. Come sempre, però, il drammaturgo è il compositore e il cammino del libertino viene sostanzialmente formulato dallo sviluppo musicale. La drammaturgia è classica: sostanzialmente, una serie di pezzi lirici autosufficienti che definiscono le tappe successive dei sentimenti di Tom e, cosi facendo, le tappe della sua crescente consapevolezza. 11 suo disprezzo iniziale per il lavoro e la sua fiducia nella fortuna vengono sar­ donicamente salutati da una coppia di fagotti che borbottano durante il corso della sua aria d’apertura, un pezzo allegro, alla maniera di I làndel, ritmicamente audace e semplice, con un orgoglioso La nel momento in cui Tom pretende che i desideri siano cavalli: «This beggar shall ride! », «Questo straccione cavalcherà!» I desideri, però, diventano incubi. In quel bordello infantile Tom è come sbalordito. Anche gli spettatori do­ vrebbero essere sbalorditi dall’improvviso aumento d’intensità della reazione di Tom quando si rivolge ad Afrodite in cerca di sostegno in una cavatina animata da un sentimento semplice c diretto. Il rimorso diventa più complesso dopo l’iniziazione. La lunga aria «Vary the tune», all’inizio del secondo atto, include un doloroso e vigo­ roso resoconto del disinganno di Tom, costruito su una progressione del basso cromaticamente ascendente, e ritorna pateticamente alla lim­ pida melodia iniziale. L’angoscia di Tom si intensifica nel bellissimo ter­ zetto con Anne e Baba. Nel cimitero è troppo teso per sentire o cantare

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molto. La comprensione in termini musicali del suo decisivo atto di fede è lasciata ad un momento successivo, a Bedlam. Qui, il breve duetto con An­ ne è condotto da Tom, che sembra proprio che stia per riacquistare la ra­ gione e per raggiungere davvero, per la prima volta, una piena consapevo­ lezza. Il finale di questo duetto, che gira affannosamente a vuoto su un pe­ dale di tonica, è il momento più straordinario della partitura (es. 18) : Rejoice, beloved: in these fields of Elysium space cannot alter, nor Time our love abate; here has no words for absence or estrangement nor Now a notion of Almost or Too Late5.

Il pedale, il ritmo anapestico e l’alternanza di terze maggiori c minori (Re e Re bemolle) sono mezzi di espressione tipici di Stravinskij. Un’ul­ teriore intensità deriva dal fatto che questo brano è modellato sulla bailatina di Adone cantata da Tom quando diventa pazzo. Dopo che Anne se ne è andata, Tom nel suo finale recitativo accompagnato si rivolge ad Orfeo per offrirgli una musica da aedo. La musica ricorda vagamente quella del balletto Orfeo di Stravinskij, con il suo dolore straordinaria­ mente riservato e penetrante. Quello che tanto colpisce in tutti questi pezzi è la chiarezza dei sentimenti da cui sono pervasi. Chiarezza e di­ screzione sono le grandi virtù del sistema drammaturgico tradizionale di aria e recitativo e sono virtù che Stravinskij riesce a riconquistare. Predisporre un chiaro sviluppo psicologico nelle arie e nei concertati sembra una risorsa abbastanza ovvia, ma che non era del tutto apprezzata al tempo della tradizione operistica classica. Non so se qualche altra opera nc faccia un uso cosi ampio e déterminante, cosi sottile o convin­ cente come La carriera del libertino. Tra i compositori barocchi, forse Bach (in brevi cantate) e I làndel (in lavori come Giulio Cesare e Semelé) furono i soli la cui immaginazione lavorasse in questo modo. Gluck ne ebbe certamente l’idea, ma non aveva la flessibilità musicale necessaria a fissare tappe successive di consapevolezza. In Don Giovanni, donna Elvira diventa la più interessante delle figure femminili grazie allo svi­ luppo che traspare dalle sue espressioni liriche, ma solo con l’aiuto di un pezzo totalmente gratuito, «Mi tradì quell’alma ingrata», che fu inserito ’ «Gioisci, amore: in questi Campi Elisi | lo Spazio non può mutare il nostro amore, né il Tempo dimi­ nuirlo; | il Qui non ha parole per l'assenza o TaUontanamento | c l’Ora non ha nozione di Quasi o di Troppo Tardi».

Esempio 18. Anne

e

Tom:

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a forza nell’ultimo atto per una cantante della rappresentazione vienne­ se. Le prime opere di Wagner e di Verdi appartengono sufficientemente alla maniera classica per essere incluse nel novero, ma nessuno dei due era ancora molto psicologo. Stravinskij usa in modo nuovo una forte possibilità drammatica che era latente nella vecchia convenzione, Si possono citare molte altre rivitalizzazioni di vecchie convenzioni. La scena di Anne alla fine del primo atto è un audace ritorno al peggior cliché di Donizetti, l’aria con cabaletta. Chi canta inizia con un’aria liri­ ca, poi muta d’avviso a causa di un messaggio o di qualcosa udito fuori scena e canta infine una veemente cabaletta per far calare il sipario. Un espediente perfetto, se usato con cautela, cosa che avveniva di rado. Ab­ biamo visto, però, come Verdi sia riuscito a volgerlo a fini drammatici nella scena di Violetta alla fine del primo atto della Traviata, «Ah fors’è lui», che porta al «Sempre libera». L’aria di Stravinskij è interamente seria, ma la sua cabaletta è una parodia di una vecchia aria da capo, for­ nita di un’assurda, breve modulazione per la sezione centrale e poi di un martellante ritorno. Anne piace tanto di più per il fatto che è leggermente ridicola, come la Fiordiligi di Mozart. Come nel caso di Violetta, parte della musica di Anne funziona da «tema cardine», ritornando in seguito come cruciale reminiscenza drammatica. La sola aria di Nick Shadow (anche questa un’aria da capo) conquista Tom alla sua filosofia esoterica con piena convinzione dram­ matica, seguendo la massima operistica che ogni motivazione essenziale deve essere presentata in termini musicali. Anche lo stile musicale e la forma delle arie sono stranamente classici, nonostante i metodi tipica­ mente moderni di Stravinskij. Stravinskij si è sempre rifiutato di modu­ lare con vigore secondo la maniera sviluppata da Mozart e da Beethoven come base dello stile «drammatico» in musica e base, in particolare, della musica wagneriana. Stravinskij ricrea il tono piano di Hàndel c di Bach e la loro intensità ed unicità dell’emozione momentanea. L’uso che Stravinskij fa del clavicembalo è un simbolo appropriato di tutto il suo sforzo e di tutto il suo successo. Niente potrebbe essere mi­ gliore del tono freddo di questo strumento arcaico per allontanare il li­ vello immaginativo delle arie e permettere al recitativo di svolgere il pro­ prio «compito». I vecchi maestri arpeggiavano gli accordi per maggiore chiarezza, Stravinskij scrive un arpeggio violentemente dissonante ogni

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volta che appare Nick Shadow e concede un desiderio, ma impiega la tecnica più che per chiarezza uditiva per un effetto intrinseco di minac­ cia incombente. Nella scena del cimitero, il clavicembalo di Nick Sha­ dow viene improvvisamente alla ribalta e suona assolutamente solo e con totale coerenza per alcuni minuti, durante lo straziante gioco a carte per la conquista dell’anima di Tom. L’empio strepito, misurato e terri­ bilmente stridulo, crea un’incomparabile impressione di sorda crisi: As wind in dry grass or rats’ feet over broken glass in our dry celiar shape without form, shade without colour, paralysed force, gesture without motion4.

Affatto moderna, l’impressione dipende dall’uso più convenzionale del clavicembalo nella parte precedente dell’opera. Gli arpeggi continuano a caratterizzare Shadow e due interruzioni orchestrali della qualità tim­ brica del clavicembalo hanno un effetto irresistibile come i tromboni nel cimitero in Don Giovanni. La prima (strumenti a fiato) è alla disperazio­ ne di Tom: «O God, what hopes have I?», «O Dio, che speranze ho?» La seconda (archi) è al suo trionfo: «Love, first and last, assume eternai reign», «Che l’amore, tutto sommato, assuma il regno eterno», e ritorna la melodia della cabaletta di Anne, la reminiscenza drammatica, a gui­ darlo all’atto di fede finale e alla sconfitta di Shadow. Dopo la dolorosa intensità della scena del cimitero, come diventa squisita la musica nella parte finale, al ritorno della primavera, con l’ul­ timo duetto degli amanti nei ruoli di Venere e Adone, la gentile ninna­ nanna di Anne con i flauti, il minuscolo duettino dissonante su basso ostinato quando Anne e Trulove se ne vanno, il recitativo di Tom in punto di morte e l’austera e monotona elegia del coro funebre dei pazzi. Il sentimento non è né inaridito né sfruttato in maniera stucchevole c c’è una sorta di consapevolezza c di intelligenza che ricorda veramente Mo­ zart, nonostante il rivestimento generale di carattere non mozartiano. In acuto contrasto con Berg, Stravinskij rimane al di fuori della sua opera ad osservare il cammino del libertino con un tono di comprensione gra6 «Come vento nell’erba secca | o zampe di ratti su vetri rotti | nella nostra secca cantina | figura senza forma, ombra senza colore, | forza paralizzata, gesto senza movimento».

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ve e distaccata che costituisce forse la nostra reazione più genuina alla crisi. Poi, nell’epilogo, come si accendono le luci e i personaggi avanzano davanti al sipario, come si tolgono le parrucche e Baba si toglie la barba, Stravinskij indossa la sua maschera da Pulcinella, disegnata per noi da Picasso. Nemmeno Pergolesi era mai riuscito a catturare tanto bene il forte scintillio della farsa. Man mano che la musica si fa più espressiva, però, il significato drammatico si attenua. Proprio come in Don Giovanni, era necessario cercare di ristabilire il clima della commedia, pericolosamente indebolito nel penultimo quadro, e questo, penso, era completamente impossibile sia nell’una sia nell’altra opera. Può passare per hogarthiano questo detto proverbiale «The Devil finds work for idle hands», «L’ozio è il padre dei vizi», ma non ha la vivace crudeltà di Hogarth. Auden si allontana decisamente dalla concenzione settecentesca quando commisera il li­ bertino e si accinge ad analizzarlo. Una volta impegnate le nostre simpa­ tie, vogliamo sapere la meta del cammino del libertino, che cosa ne pensa Tom, che cosa ne pensa Anne e che cosa ne pensa il drammaturgo. Tutto questo non deve essere lasciato nell’incertezza. Anne va anche da Tom a Bedlam, per realizzare drammaticamente il suo atto cruciale di fede nel cimitero. In effetti, se la pazzia di Tom viene vista simbolicamente come una fissazione per Anne, la sua vera realtà, anche questa viene risolta con il suo presunto ritorno alla ragione duran­ te il duetto con lei. Ma poi Anne se ne va, Tom si sveglia e muore di cre­ pacuore. («My heart breaks. I feel the chill of death’s approaching wing...», «Il mio cuore si spezza. Sento il gelo dell’ala della morte die si avvicina...») Che significato ha far salvare Tom ad Anne nel cimitero, soltanto per tradirlo ora? Siccome la sua rinuncia non viene presentata come qualcosa di santo, produce semplicemente un effetto di aridità, persino di crudeltà, e finora Anne non è stata affatto una persona arida. Afrodite non aveva permesso che Adone morisse in preda all’angoscia. In un racconto cosi specificamente faustiano vogliamo sapere da che parte vada Tom quando muore, questione trattata in pieno da Marlow, Goethe e Thomas Mann, che, come Auden, fa impazzire il suo eroe prima della morte. Nella sua pazzia, il fametichio di Tom non può riflettere adeguatamente quello che sente riguardo alla salvazione, al purgatorio, alla partenza di Anne o al significato della sua prova. Anne è svanita.

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Nessuno dei due tocca il tema della redenzione o della semiredenzione sul quale l’opera prometteva di culminare. Il coro geme alla maniera dei folli, creando un’uniforme aria di elegia, in sé e per sé commovente, ma che non esprime nulla riguardo alla conclusione implicata dall’azione precedente. «L’ozio è il padre dei vizi».,. Non penso che le favole morali siano costituite da personaggi così tragicamente vivi come questi. L’epilogo finale dà l’impressione di non illuminare o di non risolvere, ma di ma­ scherare. La meta del cammino del libertino è assolutamente oscura. Può darsi che sia una caratteristica necessaria del moderno pellegrino di Auden scoprire che l’affermazione è impossibile, ma sfortunatamente questa è una condizione mentale che non può essere permessa al dram­ maturgo, per quanto piena di ansia sia la sua epoca.

Capitolo decimo Il dramma e la sua alternativa

Sarebbe possibile disseppellire centinaia di opere as­ solutamente prive di dramma, ma anche se è molto faci­ le che costituiscano la maggioranza, non dimostrano che l’Opera sia priva di drammaticità. Le opere miglio­ ri sono drammatiche, i fallimenti non dimostrano nulla. H. D. F. KITTO

I.

Durante i quattrocento anni di storia dell’opera, storia relativamente breve, l’ideale del dramma per musica ha animato molti buoni compositori e molti intellettuali. Nei capitoli precedenti ho delineato l’evoluzione di questo ideale, o meglio, ne ho descritte alcune delle sue notevoli incarna­ zioni successive, dall’umanesimo fiorentino e mantovano del tardo Rina­ scimento fino ad un genere di neoclassicismo degli anni Cinquanta, com­ pletamente differente. Va da sé che la quantità di metallo puro è piccola, se paragonata ai mucchi di scorie che hanno mantenuto florida l’opera. È il caso di ogni arte popolare. Il xvi secolo produsse, per un Torquato Tas­ so, dozzine di servili imitatori di Petrarca, il xvin migliaia di ordinarie so­ nate per terzetto che dimentichiamo, mentre ricordiamo quelle di Hàndel e di Bach, e nel xx secolo ci basta solo pensare alla pila di bobine sprecate che circondano un singolo film che sembri trattare in modo immaginativo con la piu importante nuova forma d’arte di questo secolo. In effetti, quan­ do si legge la storia dell’opera del primo Ottocento o del primo Novecento si è costretti a ricordare i film di oggi. L’enorme produzione e l’altissima mortalità, i divi e lo strombazzamento pubblicitario, l’appariscenza, la pretenziosità e il cinismo, il disdegno dei critici e l’entusiasmo del pubbli­ co pagante, il culto del supercolossale, tutto questo è una musica familiare. Il critico casuale può supporre che le condizioni dell’opera, come quelle dei film, siano semplicemente antitetiche ad un’arte seria. L’osservatore più attento discerne in ogni momento possibilità con cui alcuni artisti han­ no deciso di lottare, sempre con un certo profitto. Il catalogo di opere significative non è vasto. Monteverdi, Purcell, 15

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Capitolo decimo

Gluck, Mozart, Verdi, Wagner, Debussy, Berg, Stravinskij e alcuni altri ci hanno lasciato un corpus operistico ricco e vario, ma non ampio. L’oc­ chio empirico della storia nota una grande quantità di produzioni operi­ stiche decisamente prive di drammaticità; per esempio, settanta opere scritte tra il 1795 e il 1825 da Simon Mayr e cosi via. Come nota H. D. F. Kitto, però, queste non dimostrano nulla. Le opere migliori sono dram­ matiche e i lavori riusciti sono copiosi ed emozionanti quanto basta per tenere in vita l’ideale e farlo con successo. II nostro repertorio operistico, certo, è ancora intasato dai resti di un periodo che generalmente va dal 1890 al 1914. Questo quarto di secolo, che portò molti elementi a maturazione e molti alla loro conclusione, fu l’ultimo periodo di fioritura dell’opera come qualcosa di vivo e di con­ temporaneo, con un chiaro legame tra il compositore e il pubblico. La società trovava ancora un posto - anche se si stava restringendo - per gli ultimi rappresentanti della serie di compositori operistici di professione e di successo, uomini che continuavano a nutrirsi dell’enorme tradizione operistica del passato, «uomini di teatro» che scrivevano in fretta per un pubblico che rispondeva con non minore rapidità. Gluck, Mozart c Verdi furono uomini che si elevarono al di sopra delle banalità della loro condizione dopo anni di galere, per usare la metafora prediletta da Ver­ di. Gli ultimi della serie, suppongo, furono Richard Strauss e Giacomo Puccini. Oggigiorno c’è quasi un senso di nostalgia nel modo in cui con­ serviamo la loro produzione nel nostro repertorio, al punto di farne la materia prima di alcuni teatri lirici. È roba di second’ordine. Certo, Strauss e Puccini rappresentano il tipo nobile del professionista operistico. Puccini prodigava cure ansiose su ogni partitura quanto qualsiasi altro compositore e Strauss aveva eminenti parentele letterarie. Vennero salutati, in modo avventato ma all’inizio perdonabile, come i legittimi successori di Verdi e di Wagner, ma tra Verdi e Puccini e tra Wagner e Strauss c’è lo stesso abisso che c’è tra l’arte e il sensazionalismo. Fin dall’inizio Puccini e Strauss rivelarono una sensibilità grossolana e un profondo cinismo nei confronti dei veri valori drammatici, caratteristiche che semplicemente si intensificarono man mano che la loro tecnica si fece più notevole. Il talento, l’abilità e la pretenziosità non sono sostituti dello spirito.

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2.

Tosca, quella modesta cosuccia sensazionalistica, è senza dubbio oggi ammirata più che altro in loggione. La platea conviene che Turan­ dot è l’opera più bella di Puccini. Comunque, se Turandot è musicalmente più soave di Tosca, drammaticamente è molto più corrotta, e l’ag­ gettivo è scelto con cura. Certo, siccome Puccini mori prima di aver fi­ nito del tutto la partitura, la sua responsabilità finale è discutibile. Aveva però già fatto la maggior parte dei danni, aveva approvato il libretto e aveva lasciato una minuta di trentasei pagine che Franco Alfano fu in grado di seguire al momento di completare il lavoro. A giudicare dai fi­ nali di altre opere di Puccini, non riesco a credere che le scene conclusi­ ve di Turandot, per come le avrebbe potute comporre lui, sarebbero sta­ te di gran lunga migliori, o anche significativamente diverse. La storia è una storia antica che aveva servito da soggetto a parecchi compositori operistici prima di Puccini. Dopo lunghi viaggi, il principe Calaf arriva a Pechino e si imbatte nel suo vecchio padre, povero e ac­ compagnato dal suo unico sostegno, la schiava Liù, che è da anni segre­ tamente innamorata di Calaf. Questi ascolta comprensivo la sua umile confessione, ma si innamora della gelida principessa Turandot. Prende parte alla gara consueta, indovinare tre enigmi, alla posta consueta, la mano di lei contro la propria testa, e vince. Quando Turandot cerca di tirarsi indietro, Calaf le offre la possibilità di indovinare il suo nome alle stesse condizioni. Per scoprirlo, Turandot tortura Liù, che si uccide senza rivelarlo. Pieno di orrore, Calaf bacia nondimeno Turandot e le rivela il suo nome. Il feroce odio di lei nei confronti degli uomini, però, sva­ nisce e la mattina dopo, incoronandolo, annuncia che il suo nome è «Amore». I Cinesi esultano perla fine delle sanguinose gare di Turandot. Nessuno nega che in questa storia sia possibile trovare del potenziale drammatico. Puccini, comunque, non lo trovò; la sua musica non fa nulla per razionalizzare la leggenda o illuminare i personaggi, è costantemen­ te, in ogni momento, di una banalità da caffè concerto. Semplicemente, non c’è alcuna penetrazione in nessuna delle emozioni che si potrebbero immaginare in una qualsiasi delle situazioni, per non parlare di una con­ cezione immaginativa che dia coesione al tutto. Così, l’azione ci fa veder

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Capitolo decimo

crescere la passione di Calaf per Turandot con l’aumentare della dispe­ razione di lei, ma la musica di Calaf è la solita sdolcinata serenata di Puc­ cini e la vitalità che Io anima si esaurisce nella chinoiserie. H dolce affetto di Liù per Calaf è assolutamente sproporzionato al suo gratuito sacrifi­ cio. I tre semiumoristici consiglieri sono anch’essi gratuiti, come lo è il coro cinese, nonostante la sua parte insolitamente ampia, e l’inno alla luna ha tanto poco a che fare con l’azione quanto ne ha il «Miserere» nel Trovatore. La cosa più deleteria è poi il fatto che la resa di Turandot non ha motivazione alcuna, tranne l’ovvia motivazione fisica che Alfano ha debitamente iscritto nella musica. Considerando l’estensione del suo ruolo, Timur (il padre) è uno dei personaggi più deboli di tutto il reper­ torio operistico per quanto riguarda la definizione musicale. Non ha nessuna reale utilità drammatica e si può difficilmente biasimare Calaf se alla fine se Io scorda completamente. L’inevitabile messaggio centrale dell’opera, quindi, è che il miglior modo di procedere con una bella donna frigida è che tu le metta le ma­ ni addosso, cosi lei griderà «Amore», sentimento che naturalmente tu condividi, anche se prima lei ha svelato il proprio gioco conia sua slealtà assassina nei tuoi confronti e con la distruzione dell’unico carattere se­ miaffascinante del dramma. I contorni della storia, nonché questi vacui personaggi, avrebbero avuto un certo significato nell’ambientazione ve­ rista del Tabarro. In quel caso ci sarebbe forse stata almeno risparmiata l’affermazione che il dramma illustra l’«amore». In Cina, però, per come la musica di Puccini ritrae la Cina, alla storia è stata tolta ogni ghiandola. Non c’è nessuna ragione organica per il falso orientalismo rovesciato su ogni pagina della partitura. Serve a dare un colore locale o un esotismo fini a se stessi, ma anche, più profondamente, una possi­ bilità all’artista di cercare una scappatoia dalla propria irresponsabilità. Puccini deve aver avuto paura di questa storia. Nel mondo misterioso, eccitante, crudele e imperscrutabile del mito cinese tutto può essere giu­ stificato e le sfumature di significato possono gironzolare senza scopo da una melodia pentatonica alla seguente e da una frase sentimentale alla sua pressoché inevitabile ripetizione. Raramente il mito è stato usato in modo cosi vuoto come in questa assurda fantasia. Il dramma è assolu­ tamente fuori questione. Nel loro disinvolto uso del colore locale, Aida, e prima di Aida L’a­

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fricana di Meyerbeer, avevano stabilito dei brutti precedenti. Ma la sola opera famosa che si spinge tanto in là quanto Turando! sotto questo punto di vista è Boris Godunov. Le differenze sono impressionanti e stanno alla base del problema intero del dramma musicale. A differenza di Turandoti Boris Godunov parla veramente di qualcosa, parla della re­ galità e della relazione esistente tra regnanti e sudditi. I sudditi sono il popolo russo, una comunità che Musorgskij conosceva e non si sognò mai di trattare con condiscendenza. Era senza dubbio la sola comunità che avrebbe potuto rappresentare. La sua concezione della presenza nel Popolo di una forza motrice mistica ed incoerente, cosi tipica del suo tempo, è concretizzata dalla pervasività del carattere russo e popolare del coro e della musica dei personaggi minori, la meravigliosa serie di «tipi» di Puskin. Il Popolo trascende le personalità e la Chiesa; trascen­ de le azioni individuali e la storia. Lo zar, quindi, parla la lingua del Po­ polo; il conflitto di Boris sta tra il suo inevitabile legame con la Russia e la sua colpa, e la sua tragedia nasce dalla coscienza di entrambi. Come lo zar, anche la Chiesa condivide lo spirito del Popolo. Nessuna opera, penso, ha incorporato la musica liturgica - inni e salmi - nel dramma in modo cosi determinante e cosi convincente. Non è una questione di tec­ nica, che nel caso di Musorgskij era approssimativa, ma di una bruciante sincerità e purezza di concezione. Tutto questo era lontano dalla visuale di Puccini, anche se, come tanti altri compositori del xx secolo, dà l’impressione di aver studiato Boris Godunov con profitto. Questo compositore aveva un forte senso del teatro, grande facilità e un talento genuino per piccole ma memora­ bili fioriture melodiche all’interno di una ristretta gamma di emozioni. Da questo punto di vista Puccini era veramente simile a George Gersh­ win e superiore ai suoi contemporanei italiani come Umberto Giordano {Andrea Chénier) o Riccardo Zandonai {Francesca da Rimini), ma que­ sto dono lirico era del tutto diverso da quello di Verdi. Puccini rimane ancorato alle sue idee limitate e le ripete quasi a proteggerle; Verdi le preme una sull’altra, avanzando sempre più impetuosamente con un controllo terribilmente ampio delle emozioni e un senso consumato della forma lirica. Puccini usa le sue melodie liriche indiscriminatamente, come abbiamo visto nel caso di Calaf; Verdi, in Otello, piega sempre il lirismo al dramma. Verdi aveva l’anima adatta alla tragedia; solo il dramma

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pastorale, forse, era al sicuro all’interno del campo d’azione di Puccini, fintantoché la convenzione non veniva volta a nessun scopo serio. La Bo­ hème rimane cosi apertamente in superficie che non perderà mai il suo fascino leggermente lezioso. Puccini aveva anche un discreto senso del comico. Il suo indiscriminato lirismo non riesce a rovinare Gianni Schic­ chi. Sfortunatamente, le condizioni lo costrinsero a toccare il tema della tortura in Tosca) dell’abbandono in Madama Butterfly, della religione in Suor Angelica e della coscienza sociale nel Tabarro, insieme ad altri argo­ menti per i quali era assolutamente impreparato. C’è quasi un senso di disperazione nella mancanza di significato di Turandot. La sua preten­ ziosità non aveva mai portato Puccini tanto fuori strada quanto nella sua opera piu attentamente elaborata e più ansiosamente ponderata, quella che non visse tanto da completare. Cecil Gray, il più sprezzante di tutti gli sprezzanti critici inglesi, pa­ ragonava Richard Strauss a Puccini già nel 1924, quando risultò chiaro che la guerra mondiale non era stata sufficiente per allontanare dal repertorio consolidato questi maestri della pretenziosità operistica. Per Gray, nemmeno una delle egregie differenze tra questi compositori po­ teva nascondere il loro inamovibile terreno comune di insensibilità, an­ che se erano arrivati a questi punti per sentieri diversi. Strauss sceglieva i suoi argomenti con considerevole classe: Oscar Wilde, Hofmannsthal, un Sofocle modernizzato e Stefan Zweig, di contro al Sardou, al Belasco e al Gozzi, passando per Soho, di Puccini. In un certo periodo della sua vita, il suo periodo migliore, Strauss appartenne veramente vXTavant garde, mentre Puccini per tutta la sua carriera prese a prestito, purgan­ dole, tecniche moderne per i suoi scopi conservatori. Non si può dire che Puccini abbia fatto alcuna innovazione operistica al di là dello sta­ dio rappresentato dalle opere di Massenet e dal Falstaffài Verdi. La rea­ lizzazione straussiana dell’opera come poema sinfonico era veramente qualcosa di nuovo, o almeno qualcosa che era stato soltanto implicato, ed evitato, da Richard Wagner. Secondo l’opinione di Gray, Salomè è l’opera migliore di Strauss, quella che evidenzia con estrema chiarezza le sue capacità e l’assurdità a cui sono volte. L’opera, incidentalmente, è l’adattamento musicale, parola per parola, di un dramma teatrale, come Pelléas et Mélisande e Wozzeck, anche se, naturalmente, la «prosa poetica» di Oscar Wilde è

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completamente diversa da quella di Maeterlinck. Ogni gesto di ogni personaggio è rispecchiato dalla musica. Strauss era perfettamente ta­ gliato per questo genere di cose. Salomè, Jokanaan, Erode ed Erodiade, però, sono irreali quanto i personaggi meno accuratamente disegnati di Turandot, perché solo una sorta di comprensione o di interesse da parte del compositore avrebbe potuto farli vivere. Questo non era possibile e di conseguenza Fazione sensazionalistica è, nel senso più profondo, irri­ levante. Strauss intendeva probabilmente l’opera come un’astratta esi­ bizione di perversione sessuale, e come tale è stata ammirata da certi cri­ tici, ma io non vi trovo nessuna realtà nemmeno su questo piano. Coe­ renza, forza, unità, abilità, sì, il sovraccarico dei particolari non è uggioso come in altre opere di Strauss e il complesso è tenuto insieme con la massima abilità in una forma paragonabile a quella del poema sinfonico. Lo sviluppo musicale giunge alla sua trionfante conclusione nell’ulti­ missima pagina, in un brano famosissimo e fragorosissimo che spinge l’audacia armonica a punte inusitate. Magistrale nella tecnica musicale, è nel sentimento la musica più banale di tutta l’opera. La testa tagliata del Battista potrebbe anche essere di marzapane. Ed è per questo orga­ smo zuccheroso che è stato necessario tutto l’ingranaggio afrodisiaco prodigiosamente impiegato. 11 barone Ochs almeno vive appieno la propria lascivia. Si potrebbe quasi desiderare che 11 cavaliere della rosa fosse veramente centrato su di lui, data la brillantezza dell’opera, ed egli è l’unico dei personaggi principali che non fa appello ai nostri sentimenti; ma al centro sta la ma­ tura Marescialla e accanto a lei i giovani innamorati. Questi personaggi sono sufficientemente reali, come l’inesauribile superficialità delle loro reazioni. Il quadro iniziale è già così devitalizzato nei suoi sentimenti che la relazione tra Ottaviano e la Marescialla appare tanto poco invi­ tante quanto i loro affettuosi soprannomi; il successivo monologo della donna lo è tanto di più, poiché essa indulge al proprio sentimentalismo in piena coscienza - «mit gar so klarem Sinn». Sofia apre il secondo atto in maniera promettente. La prima scena è concepita in modo delizioso. L’assurda corposità di stile di Strauss è per una volta adatta alla terribile confusione contro la quale Sofìa celebra con risolutezza un’umiltà tanto necessaria, ma così impossibile da raggiungere. La scena dell’offerta della rosa, però, ha tutta la consistenza di un San Valentino da due soldi e

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Capitolo decimo

quando i giovani innamorati si trovano insieme alla fine dell’opera tutto quello che Strauss riesce a produrre è una specie di fiacca canzone po­ polare. Alla luce di qualsiasi principio, penso, è la cosa più povera del­ l’opera. Era per questo livello minimale di coscienza che abbiamo dovuto sopportare l’autocommiserazione della Marescialla e sacrificare Ochs? Solo per questo, la rosa d’argento e il vestito bianco, le tre nobili orfanelle e quattro pignole ore di Leitmotiv?y modulazioni e arguzie adatte ad una musica a programma? La melodia popolare è un evidente inchino a un brano del Flauto magico, Ottaviano e la Marescialla ricordano Le nozze di Figaro. Erano paragoni terribili da corteggiare e rivelano un’ar­ roganza difficilmente attribuibile a qualsiasi vero mozartiano. I Viennesi sono riusciti appieno a rovinare il valzer. Il barone Ochs è la personificazione stessa di questa danza impossibile da evitare. «Die schoene Musi! » Nelle operette dell’omonimo Viennese di Strauss, in un lavoro come II pipistrello, il costante ritmo di valzer ha ancora lo scintil­ lio e la grazia di una volta, crea perfettamente l’illusione del carnevale, dello champagne e della sventata leggerezza, ma già con Brahms, e deci­ samente con Mahler, il valzer comincia ad assumere quelle pretese di sentimento che spinsero Maurice Ravel a comporre la sua feroce paro­ dia verista. Questo avveniva dopo la prima guerra mondiale; ma anche dopo che L'opera da tre soldi ne aveva fatto un’ulteriore satira, un com­ positore come Alban Berg non riusciva a sbarazzarsi di questi orpelli tradizionali. Berg non riuscì mai a scuotersi interamente di dosso Mahler e Richard Strauss. La Danza dei sette veli di Salomè incomincia abba­ stanza apertamente con una musica del tipo associato di solito alle fan­ tasie hollywoodiane d’annata ad ambientazione mediorientale. Quando lo pseudorientalismo cede nel momento saliente ad un grande valzer turbinante che riattraversa tutti i Leitmotive di Salomè, l’ascoltatore sa a mala pena se ridere o piangere. Oscar Wilde, per quanto artificiale fos­ se il suo sentimento, aveva almeno una certa idea del fascino della sen­ sualità perversa. Strauss, con tocco caratteristico, ne fa una gemiìtlich danza del ventre. Il declino di Strauss come compositore operistico dopo Salomè, Elettra e 11 cavaliere della rosa è generalmente ammesso. «Salutato alla sua apparizione come il successore di Wagner - Riccardo II -, fino ad

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una decina di anni fa ancora, per la maggior parte della gente, la figura più autorevole della musica moderna, oggi, con l’eccezione della Ger­ mania e dell’Austria, è quasi ignorato dagli elementi di punta della critica musicale d’avanguardia». Cecil Gray scriveva questo già nel 1924. An­ che le tre popolari opere precedenti, però, sono difficili oggi da accetta­ re: come possiamo accettare Salomè come uno studio della psicopatia dopo Wozzeck? La differenza è prima di tutto quella esistente tra Buch­ ner e Wilde, ma Elettra serve a dimostrare, se serve una dimostrazione, che il difetto di Salomè sta più a fondo del libretto. Nessuna persona che avesse compreso Le nozze di Figaro avrebbe mai potuto prendere sul se­ rio Il cavaliere della rosa, a meno che non si trattasse di Strauss e Hof­ mannsthal, e non è certo nemmeno questo, perché queste opere rivelano alla fine uno sconcertante tono di cinismo. Strauss si muoveva tra le idee drammatiche con una terribile facilità, ma era incapace di stare all’altezza di qualsiasi sentimento reale o di qualsiasi idea reale con qualcosa che non fosse la forma, e la forma è sempre li, pericolosamente precisa, pe­ ricolosamente falsa. In qualche modo si avverte che anche Strauss deve averlo capito. Tutto quello che toccava lo imbrattava con la stessa pervasività con cui il valzer imbratta la tessitura della sua musica. Forse, in effetti, Salomè, che non aspira a ricevere le simpatie di nessuno, è da questo punto di vista la meno criticabile delle sue tre opere famose. Molte opere del repertorio corrente sono ovviamente men che per­ fette. Solo una capricciosa prevenzione critica, si può sostenere, sceglie­ rebbe Strauss e Puccini per questi attacchi, ma alcune imperfezioni sono peggiori di altre e tra i compiti che la critica può ragionevolmente assegnarsi c’è quello di distinguere tra un difetto e la falsità in campo ar­ tistico. Le opere di Strauss e di Puccini sono false fino al midollo, quello che non va arriva molto più a fondo di quanto potrebbero fare semplici difetti concettuali o tecnici, del tipo che abbiamo visto in molte belle opere, a partire dall’Ch/eo di Monteverdi. Orfeo è un bel lavoro che sfor­ tunatamente non riesce a sostenere la sua concezione drammatica. Salo­ mè e II cavaliere della rosa, comunque, sono opere insincere in ogni ge­ sto, false e doppiamente false per il loro sfoggio di esteriore integrità for­ male. Orfeo è un lavoro sincero chiaramente fallito, Salomè e II cavaliere della rosa sono lavori falsi in cui tutto va bene in maniera sconfortante. U dramma richiede non solo la rappresentazione dell’azione, ma una

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Capitolo decimo

comprensione della sua qualità tramite la reazione all’azione. Solo la presentazione di una tale qualità giustifica il tentativo drammatico e nei drammi migliori la reazione appare immaginativa, vera, illuminante c assolutamente pari all’azione. L’Orfeo di Monteverdi si basa su una con­ cezione che viene espressa con vigore per quattro atti, ma non si pro­ spetta nessun elemento dell’azione-o, diciamo, nessun elemento possi­ bile sotto le convenzioni teatrali di quel periodo - che possa portare a compimento e completare il dramma. Si può dire la stessa cosa per l’Orfeo di Gluck. Queste non sono opere perfette, ma con tutte le loro im­ perfezioni sono più significative dei successi tecnici di altri. Si ha un altro, più sottile tipo di fallimento drammatico quando l’i­ dea guida si dimostra inadatta alle necessità della forma drammatica. Una Ellis-Fermor ha abilmente sostenuto che ci sono parecchie aree dell’esperienza umana che è quasi impossibile trattare drammaticamente e che comunque alcuni drammi straordinari hanno superato le limita­ zioni di questo tipo. Tristano e Isotta, ho suggerito, è uno di questi. Pel­ léas et Mélisande e Wozzeck, dal canto loro, mi sembrano opere che lot­ tano, nel complesso senza successo, con un materiale sostanzialmente non drammatico, anche se la lotta crea una forte apparenza di dramma e la genuinità della risposta del compositore non è mai messa in dubbio. Sono opere piene di forza e di sensibilità, opere geniali, anche se dob­ biamo necessariamente notare l’impiego sbagliato della forma dram­ matica. Del tutto diversa è un’opera in cui la reazione, la qualità dell’azione, manchi di sensibilità o sia semplicemente costantemente fasulla. Quanto più astutamente coerenti sono l’azione e lo stile, tanto più esasperante diventa l’opera. Nel senso più profondo le opere di Strauss e di Puccini non sono drammatiche, perché il loro regno immaginativo è un regno di banalità sentimentali. Non riescono a stare all’altezza di nessuna azione, per quanto promettente, con qualcosa che non sia la forma vuota del dramma. E la forma è sempre li. Pericolosamente precisa, pericolosa­ mente falsa.

Capitolo undicesimo

Epilogo: sulla critica operistica

i.

Il dramma esige la rivelazione della maniera in cui l’essere umano reagisce alle azioni e agli eventi. Un’opera si qualifica come dramma quando favorisce tali rivelazioni. Come riesce a farlo? Come avviene? Come si fa a stabilirlo? In un’opera la musica è il mezzo insostituibile dell’espressione arti­ stica, il mezzo su cui poggia la responsabilità definitiva dell’espressione drammatica. Questa premessa sottende tutta la critica operistica di que­ sto libro. Anche se ho spesso - spero di continuo - cercato di far vedere come la musica svolga il proprio compito drammatico nelle varie situa­ zioni, non ho cercato di dare una presentazione sistematica del ruolo della musica nella drammaturgia operistica. I capitoli precedenti sono stati decisamente conformi a questa metodologia. Quello che mi sembra particolarmente importante per il critico è cogliere l’intensità dell’espe­ rienza artistica. Cercando di farlo, non penso che sia un male lasciare che il discorso giri, incespichi, si disperda, vada a balzelloni o a zig-zag. Non credo nemmeno che la critica operistica basata su premesse del genere sia un procedimento del tutto incerto ed arbitrario. Ci sono certe domande - forse sono domande di primaria importanza - che si possono fare a qualsiasi opera o a qualsiasi parte di un’opera, e le risposte, senza avanzare pretese di validità oggettiva, possono arrivare a meritare un consenso abbastanza generale. Quali sono queste domande? Questo ca­ pitolo finale è il punto appropriato per abbozzare un metodo critico in termini più generali di quanto sia stato fatto sinora, il che non vuol dire farlo in termini più astratti. I principi metodologici non possono essere migliori degli esempi, tratti dal corpus operistico, che li sostengono. Al­ cuni di questi saranno esempi già citati nelle pagine precedenti, altri sa­ ranno nuovi.

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2.

Mi sembra che la musica possa contribuire al dramma principalmente in tre modi. Il più ovvio si muove all’interno dell’area della caratterizza­ zione. Se i sentimenti possono essere presentati direttamente nella mu­ sica, come sembra che i compositori operistici abbiano sempre creduto (anche se i filosofi non si sono trovati sempre d’accordo con loro), uno dei contributi della musica in un’opera è quello di completare le infor­ mazioni sui pensieri e sulle azioni di un personaggio, penetrando nella sua vita sentimentale interiore. Un secondo contributo ha a che fare con l’azione. La musica, come l’azione, esiste nel tempo e le dà voce. La musica, quindi, è particolar­ mente adatta a rispecchiare, rafforzare, modellare o caratterizzare le azioni individuali, azioni svolte, passi compiuti, eventi predisposti e «azioni psicologiche» come decisioni, rinunce ed innamoramenti. Un terzo contributo della musica, sebbene più ineffabile, è ugual­ mente della massima importanza. Oltre a presentare i sentimenti indivi­ duali e a definire il tono delle azioni circoscritte, in un’opera la musica lavora in un senso piu generale e più capillare. La musica di un partico­ lare tipo instaura un mondo particolare o un campo particolare in cui certi tipi di pensiero, di sentimento e di azione risultano possibili (o al­ meno plausibili). È questo che intendiamo, in definitiva, quando diciamo che la musica crea un’atmosfera. In ognuna di queste tre aree - caratterizzazione del personaggio, creazione dell’azione e instaurazione di un’atmosfera - vediamo che in un’opera la musica può fare, ai fini del dramma, tre cose positive, cosi come può farne tre negative. La musica dà vita a un personaggio. Con tutta probabilità, questa è la risorsa operistica più frequentemente citata. Che la musica trasformi i personaggi fittizi delineati dalle parole di un libretto e dalla sua trama in persone «reali» è per gli amanti dell’opera un vero e proprio credo. (In effetti, il tentativo di determinare con precisione quale sia l’elemento della musica che contribuisce a creare questa «realtà» può essere per il critico una fonte di problemi maggiori di quelli provocati dalla formu­ lazione di qualsiasi altro criterio. In genere vale la pena di tentare).

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Un caso classico è quello del Florestano nel Fidelio. Ecco un perso­ naggio a cui la vita viene dalla musica, anche se per tutto il corso dell’o­ pera non ha niente da fare e ha poco a cui pensare. Dal momento che Florestano non agisce, in Fidelio il dramma deve scaturire dal modo in cui i suoi sentimenti si collegano non alle sue azioni, ma a quelle di qual­ cun altro. I travestimenti e le manovre improbabili di Leonora per salva­ re il marito, che in sé e per sé attirerebbero poco, acquistano interesse e serietà per la penetrazione nella realtà interiore di Florestano concessa dalla sua unica aria. Posta con semplicità, ma con sicurezza, all’inizio dell’ultimo atto, intrisa del profondo senso beethoveniano della forma musicale, «In des Lebens Fruhlingstage» ci rende direttamente l’uomo con tutta la sua sensibilità, tenacia, chiarezza, moderazione e, soprattut­ to, consapevolezza. Udendo Florestano, possiamo finalmente credere alla ricerca di Leonora. Un caso classico di un altro tipo, pressoché opposto, è quello di Pe­ ter Grimes nell’opera di Benjamin Britten. Grimes è un personaggio le cui azioni dominano, in effetti determinano, il dramma intero. Conqui­ sta le simpatie degli spettatori esclusivamente grazie alla musica, che ri­ vela una vita interiore in acuto contrasto con una facciata quasi pro­ grammatica di riservatezza e di indifferenza. Britten sviluppa pazientemente il quadro psicologico in una serie di canzoni, arie ed episodi lirici che, per tutto il corso dell’opera, si fanno sempre più espressivi. Il risul­ tato è che può attingere, nell’ultima scena, a insolite riserve di pathos. Quando Peter diventa pazzo, il suo canto si dissolve in una mescolanza fortuita e informe di ricordi tematici e poi, con un effetto straziante, nel silenzio. La musica cessa completamente quando viene fatto salire in barca e prende silenziosamente il largo. Un buon compositore operistico - sembra una cosa da nulla - investe ogni personaggio importante di una vita emotiva personale e distinta. Si può avere un’idea del potenziale di Verdi, anche del Verdi giovanile, dalla gamma delle sue caratterizzazioni. Al tempo delle tre celebri opere del 1851-53 - Rigoletto, Il trovatore e La traviata - la sua tecnica era cer­ tamente rozza, alla luce dei suoi risultati più tardi, e altrettanto rozza era la sua coscienza artistica. Queste opere sono ben lungi dall’avere una co­ stante qualità artistica. Al tempo stesso, le loro tre eroine sono ritratte in modo puro e nettamente differenziato. Gilda, Leonora e Violetta si

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differenziano immediatamente nelle loro espressioni liriche. Gilda in «Caro nome» è introspettiva e trepidante, ma monotona e limitata. Leo­ nora, in pezzi come «Tacea la notte», il finale del secondo atto, il «Mi­ serere» e il duetto con il conte di Luna, è appassionata, impulsiva, intro­ spettiva e incredibilmente feconda di energie. Quello che distingue Vio­ letta in questa compagnia è la sua tenerezza, che, come la sua intrepida sentimentalità, si mantiene costante in tutti i suoi stati d’animo. La cari­ ca sentimentale di Violetta è sempre rivolta all’esterno, mai all’interno in una forma di indulgenza nei propri confronti. Una delle peggiori convenzioni da cui Verdi veniva danneggiato in questo periodo (anche se lo avrebbe seccamente negato) era la cabaletta, quella rozza trappola per catturare gli applausi che di solito seguiva le sezioni liriche delle arie e dei duetti. Gilda era semplicemente troppo gracile per una cabaletta tutta sua e, anche se nei duetti con il duca o con Rigoletto si unisce alle cabalette degli uomini, non le inizia mai. Leonora colleziona cabalette sventatamente, tutte secondo il gusto più corrotto e volgare. Quanto al «Sempre libera» di Violetta, è la messa a frutto più immaginativa dell’intera convenzione, come è stato precedentemente notato. Dopo ch’ella ha considerato la possibilità delTamor e ha poi in­ vece optato per la gioia, il febbrile vigore tipico delle cabalette ha un enorme significato nel momento in cui i sentimenti di Violetta cambiano istericamente di direzione da un’alternativa di vita all’altra. Anche se è vero che le tre parti erano destinate a voci di soprano di tipo diverso, questo fu il risultato e non la causa delle differenze di carat­ terizzazione. È anche vero che la parte di Violetta offre più possibilità di sottigliezze perché dura di più di quella di Gilda e di quella di Leono­ ra. Mentre Violetta spicca come il personaggio centrale della Traviata, le eroine di Rigoletto e del Trovatore sono secondarie rispetto ad altre figure centrali e Verdi fece questi personaggi tanto lunghi e sottili quanto era necessario per l’equilibrio drammatico complessivo. La Desdemona di Verdi pone un certo problema. Doveva assomi­ gliare a Gilda, assomiglia di più a Leonora. La musica capovolge un personaggio. Dare vita ad individui distinti e concreti può sembrare una virtù da nulla in un drammaturgo. Nel caso

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di Verdi, comunque, il contrasto tra l’individualità delle sue caratteriz­ zazioni e la ripetizione tipologica dei suoi predecessori smosse notevol­ mente le acque della storia dell’opera. Nel caso dell’opera di Bellini cen­ trata su Romeo e Giulietta, I Caputeti e i Montecchi^ metà della musica di Giulietta era stata originariamente scritta per un’altra fanciulla, Zai­ ra, personaggio di un’opera basata sulla tragedia di Voltaire. I composi­ tori minori hanno sempre applicato quasi indiscriminatamente musica più o meno dello stesso tipo a tutti i loro personaggi. Il risultato è di vi­ vacità più che di vita, una condizione che soddisferà solo in certi conte­ sti, come l’operetta o la commedia musicale. Non abbiamo davvero bi­ sogno che Mabel e Yum-Yum ci colpiscano con la stessa individualità delle eroine verdiane. In aggiunta alle caratterizzazioni positive e neutre, deve essere consi­ derata anche ima possibilità negativa, una possibilità aperta solo ai com­ positori veramente abili. Non tanto di rado, i personaggi di un’opera vengono presentati ad un certo punto in un modo che non può essere conciliato con quanto sappiamo di loro da altri punti dell’opera. I perso­ naggi non hanno bisogno di essere coerenti, la musica può suggerire sot­ tili ambiguità che possono essere di importanza estrema per lo scopo drammatico. Può anche rovesciare i personaggi, facendoli sembrare non semplicemente incoerenti, ma di fatto inconcepibili. Cosi, per esempio, Èva nei Maestri cantori è raffigurata con una quantità di particolari tutti coerenti, nella scena iniziale in chiesa, nella scena con Pogner, nella conversazione nel negozio di Sachs, nell’episo­ dio fugato della baruffa («Was mit den Mànnern ich Muh’ doch hab’») e nella scena della prova della scarpa. Tutto a puntino: calore, spirito, buon umore, fascino e civetteria sono tutti piacevolmente presenti nel temperamento di Èva. Poi, nel momento dell’atto terzo in cui Sachs rivela il suo intrigo riunendo i giovani innamorati, Èva improvvisamente gli si offre, mentre estua il torrente della tipica, surriscaldata ampiezza sin­ fonica di Wagner. In questa scena Wagner perde i contatti con la situa­ zione concreta del dramma e del personaggio, prendendo la sua identi­ ficazione con Sachs come un elemento drammatico pubblico piuttosto che come uno stimolo compositivo privato. Il vecchio libertino si man­ tiene perfettamente sotto controllo quando Sachs risponde nella lingua di Tristano e Isotta. Se però possiamo ironicamente seguire Sachs come

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re Marco, certamente non siamo stati in grado di considerare seriamente (o umoristicamente) Èva come Tsotta. Nell’esplosione di Èva, la fantasia di Wagner dà vita ad un prodigio che spinge il grande mistificatore ad uno sfoggio virtuosistico di passioni mai sospettate o suggerite prima. La musica crea uriazione. Erik Satie disse a Debussy che gli alberi della scena non si contorcono - «les arbres de Naumberg ne se déchirent pas» - ogni volta che un personaggio avanza sul palcoscenico. La musica, comunque, compresa quella di Debussy, tende a rispondere quando nel dramma si hanno degli avvenimenti importanti, perché, sic­ come esiste nel tempo e gli dà voce, essa ha un’affinità naturale e fecon­ da con il dramma, un’affinità più feconda, per esempio, di quella che ha con la danza, arte che ha con il tempo un rapporto meno stretto. Nel trattare azioni compiute, o testimoniate, o anche semplicemente pro­ grammate, il dramma ha a che fare con la loro qualità nel tempo, qualco­ sa di cui si occupa anche la musica, con ottimi risultati. Il finale del secondo atto delle Nozze di Figaro presenta molti esqmpi straordinari, soprattutto nei punti di giunzione tra le sezioni musicali, nettamente separate, a cui dànno voce avvenimenti importanti sulla scena. A proposito del momento in cui Susanna, invece di Cherubino, sbuca fuori dall’anticamera per fronteggiare la spada del conte, Alfred Ein­ stein ha scritto: «Mozart introduce una battuta - molto andante - di contemplazione, un istante di lutto per il mondo e la sua gente, di tri­ stezza per la nullità di tutte le cose. Diciamo forse troppo? Non lo cre­ diamo»1. Un altro evento, Figaro che si intromette nella situazione, è trattato vivacemente con qualcosa di meno di una battuta, in men di un momento, semplicemente con un brusco mutamento di tonalità - dal Si bemolle al Sol; per Mozart una interruzione comica, e allo stesso tempo una grottesca galvanizzazione ritmica dell’astuto cicalare di Figaro. Tut­ to è cosi ben regolato da farci certi che egli era stato ad ascoltare alla por­ ta. Figaro non è mai più pericoloso di quando recita la parte del servo ingenuo. E il meglio è il successivo passo orchestrale del finale, quando Figaro, messo di fronte ai documenti ufficiali di Cherubino, annaspa in 1 A. Einstein, Mozart: His Character, His Work, New York 1945, p. 433 (trad. it. W. A. Mozart: Il ca­ rattere e l’opera, Milano 1951, p. 468).

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cerca di una risposta. Mozart sa quale tempo adottare quando uno è nei guai, ossia una serie di lente modulazioni, esasperanti e regolari, che di­ gradano a intervalli di terza. Bellini non era un drammaturgo teorico, ma all’occasione la sua de­ bole musa sapeva catturare con esattezza il tono dell’azione drammati­ ca. Alla fine di Norma, l’eroina, condannata a morte, implora pietà per i suoi figli dall’alto sacerdote Oroveso. Canta dapprima una melodia strofìca ma molto potente in Mi minore, «Deh! non volerli vittime». Il suo moderato momento culminante-la spinta emotiva sista già facendo intensa - trapassa dolcemente al maggiore e gli spettatori, insieme al coro che emette alcuni accordi consueti al modo maggiore, avvertono che la supplica di Norma è stata accolta. Norma, però, non ha sentito. Intensifica la sua supplica su un motivo orchestrale lento ed oscillante che viene ripetuto e, fatto assolutamente insolito, ripetuto una seconda volta. Secondo i termini della semplice retorica di Bellini, questa tripli­ cità produce un’insopportabile tensione psicologica e, anche se alla terza supplica Oroveso esita, ancora una volta Norma non comprende di aver vinto. Con altre sei battute, lente e strazianti, la tensione si fa più serrata finché finalmente erompe in una violenta armonia e nel famoso colpo dei piatti che preparano il terreno alla comprensione di lei nella cadenza attesa da lungo tempo. Tutto il brano in maggiore è quindi eseguito di nuovo, in sostanza con la stessa musica e con parole solo in parte nuove (la resa di Oroveso è ora espressa un po’ più chiaramente). I tempi sono stati tirati per le lunghe per dar modo alla compassione umana di far entrare in funzione il suo più potente incantesimo. La breve stretta finale, quando Norma e Pollione si avviano al loro sacrificio, abbassa felicemente il livello del coinvolgimento personale. Gli spettatori possono immaginare lo scio­ glimento senza dipingervi veramente i protagonisti. Quando in un’opera la musica ritorna, come avviene cosi di frequen­ te, la funzione drammatica generalmente consiste nel far vedere come un evento o un’azione vengano provati secondo i termini di un altro. In Madama Butterfly, quando la «Abramo Lincoln» entra finalmente nel porto, la musica che viene ripresa è quella di «Un bel di». È una cosa giustissima, perché nel dramma la qualità di quell’arrivo non viene

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espressa secondo termini di statistiche di navigazione, ma secondo quelli della speranza e della pazienza di Butterfly. Alla fine del Giro di vite di Britten, sulla ripresa musicale fanno perno forse più cose che in qualsiasi altra opera. Cantando la canzone «Malo» di Miles, la governante accet­ ta e comprende la tragedia del bambino e la propria (« What have we done, between us?», «Che cosa abbiamo fatto, tra di noi?»). Le sue di­ ciassette battute di musica - musica per voce bianca cantata per la prima volta da un soprano lirico - incapsulano tutta quanta Fazione. Una delle cose più belle di Puccini è la lettura della lettera in Madame Butterfly. La scena si apre con l’accompagnamento di un motivo orche­ strale piuttosto monotono, sfondo discreto per il dialogo mantenuto sui registri bassi. Solo la ripetizione di un breve suono secco suggerisce un movimento, il passaggio del tempo dell’orologio e, forse, la vivacità di Cio-Cio-San. Tutto il resto rimane in attesa, paziente, inerte, sempre pianissimo. Quando l’accompagnamento compie la propria cadenza e ricomincia da capo, dal nulla giunge a fargli fronte una tranquillissima melodia, un acuto Si bemolle degli archi, dolcemente pieno di presagi, che cattura in pieno la totale incredulità di Butterfly alla pusillanime ipotesi di Pinkerton: che essa possa averlo dimenticato. «Non lo ram­ mento? Suzuki, dillo tu. “Non mi rammenta più! ”» Come il tono di at­ tesa della melodia si intensifica di un pedale, la ripetizione del suono secco comincia a risuonare estremamente tesa. Al tempo misurato dall’orologio è stato sovrapposto un tipo di tempo misurato dall’apprensio­ ne umana. Gradualmente Butterfly si ritrova a cantare con la melodia, in cui la frase «se m’aspetta» sopraggiunge nella lettera e Butterfly ne riecheggia le parole accompagnata dal primo giro armonico di un certo calore. Come le speranze di Butterfly, la melodia si perde silenziosamente tra le ombre del tema d’accompagnamento. Poi, in maniera tipica, questo momento temporale, delicato e meravigliosamente appropriato, finisce, Sharpless non ha il coraggio di continuare. La melodia ritorna più tardi nell’opera, più incresciosamente, come coro muto durante la veglia not­ turna di Butterfly. Si può dire che la musica tiene testa all’azione di un’opera, che la il­ lustra o che la sostiene, ma il verbo «creare» mi sembra più adatto a co­ glierne il significato. Nel libretto l’azione è semplicemente indicata. La

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sua vita reale, la vita dell’azione per come ne viene fatta esperienza, è creata dalla musica di Puccini. La musica distrugge un’azione. Quando in un’opera la risposta della musica all’azione non è adeguata, l’azione viene banalizzata o distrutta. La ragione per cui l’opera barocca - di Cavalli o di Handel - appare così priva di forza sta nel fatto che lo stile della musica barocca manca della flessibilità necessaria per rispondere all’azione ad ampio raggio. Stu­ diando Hàndcl, si impara a distinguere tra musica abbastanza dramma­ tica, musica leggermente drammatica e musica risolutamente dramma­ tica. Si può vedere e ammirare il compositore che opera con tutta la sua forza per controllare il proprio mezzo, ma a teatro le distinzioni si atte­ nuano, per quanto belle appaiano durante la lettura. L’opera postwagneriana appare priva di forza per la stessa e per l’op­ posta ragione. La musica si contorce cosi strenuamente ad ogni detta­ glio dell’azione che non si ha più interesse a distinguere fra il terribil­ mente drammatico, il meravigliosamente drammatico e il drammatico semplicemente sconvolgente. Una volta Virgil Thomson ha stabilito un punto simile in un contesto in cui poteva forse aspettarsi pochissimi consensi: Ogni annotazione è esagerata, ogni sentimento gonfiato fino a diventare una pass­ ione. E poiché le passioni, per quanto possano differire Puna dall’altra riguardo alla loro origine e al loro riferimento sociale, hanno tutte la stessa identica quantità di contenuto emotivo (il massimo) e un contenuto espressivo virtualmente identico (a quell’intensità), i primi tre atti di Otello, per la loro cura magistrale dei partico­ lari orchestrali, sono monotoni nella insistenza a volere un applauso a qualunque costo quanto qualsiasi musical o spettacolo di varietà di Broadway’.

Lo speciale risultato ottenuto da Berg con Wozzeck, che dubitiamo egli sia riuscito a ripetere con Lulu, consisteva nel conservare una scala signi­ ficativa di distinzioni in uno stile musicale che era ancora più estremo di quello di Strauss o del primo Schonberg. Un caso famoso di azione pasticciata dalla musica è la fine del Trova­ tore, dove l’orchestra si limita a farfugliare rumorosamente mentre si compiono, a rotta di collo, eventi terribili e vengono rivelati fatti tre2

V. Thomson, Tb e Ari ofJudging Music, New York 1948, p. 115.

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mendi. Un paragone ovvio - con la conclusione di Norma - rivela imme­ diatamente che l’errore non sta nella brevità e nemmeno in una qualche caratteristica tecnica della musica. Il guaio è che i sentimenti di tutti i personaggi principali non sono stati trattati nel pezzo lento che precede, come nel caso di Norma. In entrambe le opere, la musica è adeguata al­ l’azione fisica, non è adeguata, nel Trovatore, alla rimanente azione psi­ cologica. La musica realmente suonata sulla scena sembra offrire trappole speciali al compositore operistico che ne faccia uso per creare azione. Anche Mozart fece alcuni calcoli errati. La sua marcia per soldatini che non vanno a nessuna guerra costituisce un delizioso accompagnamen­ to per la partenza dei due giovanotti in Cosifan tutte- soldatini delle ore liete che fanno solo finta di partire come parte di una vera e propria bur­ la. Pure, in idomeneo, una musica dello stesso tipo banalizza l’azione, in questo caso l’esilio di Idamante nel tentativo di aggirare il severo decre­ to di Nettuno. Se in quest’occasione Idamante non va più lontano di Ferrando o di Guglielmo, non c certo perché non ci provi, ma non si può credere alla lotta eroica dell’uomo contro gli dèi se Idamante mar­ cia in quel modo. Nel Flauto magico c’è un caso interessante in cui il compositore sem­ bra aver voluto distruggere deliberatamente l’azione nel suo momento culminante. Si tratta della sconfitta della regina della notte e del suo se­ guito poco prima della conclusione dell’opera. Benché il libretto forni­ sca ai cospiratori sgradevoli particolari del dialogo e un’empia scena di congiura, la serenità della musica ne viene poco turbata. Al suono di un rombo fuori scena i cospiratori fuggono senza null’altro che un disso­ nante gemito di frustrazione. Nell’universo di Sarastro e della regina, il bene segue al male con la stessa naturalezza con cui il giorno segue alla notte. Mozart aveva scolpito nella coscienza europea il tormento e la lotta della dannazione di don Giovanni in maniera indimenticabile. Era ora il momento di dipingere la fine della regina della notte come qualcosa di naturale e di non doloroso, persino dolce. Ascoltando più attentamente 11flauto magico, comprendiamo che il punto non sta tanto nel fatto che questa particolare azione venga di­ strutta, ma piuttosto nel fatto che l’azione stessa - l’azione tutta - venga posta in una luce insolita che ci colpisce. Questo ci porta ad un’altra ca­

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tegoria o dimensione del contributo drammatico della musica in un'o­ pera. La musica instaura un mondo. Possiamo rispondere non tanto ai mo­ menti o alle sezioni individuali di un'opera quanto alla totale compene­ trazione dell’azione di un particolare tipo di musica. La musica può de­ finire un particolare campo d'azione, di emozione o di analisi. Tutti san­ no, naturalmente, che la musica può fornire un'atmosfera continua di uno spessore che, nel dramma parlato, può essere uguagliato solo da vari elementi accessori non verbali, scenario, illuminazione, costumi e tipo di recitazione. (Naturalmente, il teatro parlato fa regolarmente uso della musica per aiutare a creare un’atmosfera). Più interessanti, e più significativi dal punto di vista del contributo della musica al dramma, sono quei casi in cui l’atmosfera viene fatta penetrare nell’azione, nei pensieri e nei sentimenti. L’atmosfera spagnola di Carmen o dell’Pleure espagnole di Ravel non ottiene questo risultato nello stesso modo dell'atmosfera russa di Boris Godunov. Pensose fioriture di canti popolari russi filtrano dalle canzoni di Varlaam, della nutrice e dell'innocente a compenetrare quanto viene espresso da Pimen, Suiskij e Boris stesso. Dato lo scenario panoramico di PuSkin, Musorgskij creò in questo modo un’essenza irriducibile che collega lo zar con l’innocente, il prete con il cosacco, il boiaro con il ser­ vo della gleba. Per Boris, l’intera gamma di azioni e di emozioni è circo­ scritta dal mondo che viene cosi instaurato dalla musica. È una vittima della sua propria dedizione alla Russia, alla sua sofferenza, alla sua con­ suetudine di confronto stoico, alla sua moralità e alla sua musica. L’opera francese dell’inizio del xx secolo era particolarmente ricca di brevi operette ambientate in mondi unici ed indimenticabili creati dalla musica. Si pensa a Les mamelles de Tirésias di Poulenc, a L’enfant et les sortilèges di Ravel e a Mavra di Stravinskij. Nell’orbita francese si muovevano El retablo de Maese Pedro di Manuel de Falla e Pour Saints in Three Acts di Virgil Thomson. Tra le opere di Britten, si pensa prima di tutto al Giro di vite, una limpida opera da camera la cui precaria illusione potrebbe malamente essere conservata senza la musica, senza una musica così esatta come quella di Britten. Gli interludi orchestrali tra le scene, numerose e rela-

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tivamentc brevi, sono tutti variazioni rigorose su un’unica melodia do­ decafonica che accumula tensione con il suo movimento ascendente a «giro di vite» e per saturazione del totale cromatico. Il tema e le sue componenti appaiono anche all’interno delle scene stesse. La tela musi­ cale che ne risulta diventa dolcemente ossessiva. Nonostante altre idee musicali - un accordo e un timbro associati a Peter Quint, la canzone «Malo» del bambino - il tema a «vite» riempie la mente collettiva degli spettatori. Britten rischiava di mettere a dura prova la pazienza degli spettatori e rischiava qualcosa di più. Il senso di ossessione si accoppia con la dol­ cezza, perché il tema è nella sua costruzione accuratamente infantile, elusivo nel suo scopo o nella sua direzione e alla fine imperturbabile per­ sino nella più tesa di tutte le sue trasformazioni immaginative. Per defi­ nizione il «male» che preoccupa la governante non può essere presenta­ to nell’azione, la donna può solo immaginarlo e fino al momento con­ clusivo dell’opera, quando canta «Malo», il campo della sua immagina­ zione è delimitato dal tema a «vite». «It is a curious story», inizia il nar­ ratore, «written in faded ink», «È una storia curiosa, scritta con un in­ chiostro sbiadito». La musica che rende questa storia non solo credibile sulla scena, ma avvincente, è ugualmente sbiadita, volutamente som­ messa. I personaggi sono tutti fantasmi. È forse per questo che Quint e Miss Jessel possono cantare. Non si può parlare di quest’aspetto della drammaturgia operistica senza ritornare a Wagner, i cui risultati da questo punto di vista sono cosi straordinari. Wagner offri all’opera molte novità, ma erano tutte centrate sulla sua individualissima continuità musicale, sulla «melodia senza fine» e sul flusso di Leitmotive. Quello che poi era principalmente nuovo nel mondo wagneriano era la sottostante esperienza del tempo. Man mano che i Leitmotiv e si ripetono, sempre diversi, mescolati insie­ me, pronti a saltar fuori in ogni concomitanza possibile e ad implicare ogni commento ed ogni requisito possibili, in tutto questo il tempo di­ venta infinitamente teso e complesso, ambiguo e relativo, perché quando in un’opera la musica ritorna, come abbiamo detto, interpreta un mo­ mento temporale secondo i termini di un momento precedente, e Wag­ ner faceva di questo processo interpretativo un processo continuo. Il tempo viene sperimentato come un campo più che come una serie, nes­

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sun momento temporale è veramente distinto, perché ogni momento esiste secondo i termini del passato cd è pronto ad essere reinterpretato secondo i termini del futuro. Questo significa stabilire, grazie alla musi­ ca, una particolarissima intelaiatura per Fazione, i pensieri e i sentimenti. II pensiero in questo mondo, come è stato precedentemente notato, ha più probabilità di essere di natura freudiana che cartesiana. L'azione sarà profondamente problematica, perché in un certo senso l’azione po­ trebbe anche essere accaduta prima. Parsifalt in effetti, ritualizza l’azio­ ne. L’azione è accaduta tutta quanta prima, accade ora ed accadrà di nuovo in saecula saeculorum. Debussy ben comprese Wagner. Il tempo in Pelléas et Mélisande viene sperimentato secondo modalità che potremmo definire wagneriane, con la differenza che tutto esiste al di sotto del livello espressivo. Il tempo è elusivo. Debussy fece uso di quest’esperienza del tempo per creare un mondo che, a differenza di quello di Wagner, non concede nessuna pos­ sibilità di azione significativa. La musica demolisce un mondo. Come osservò Wagner, il caso classico è Faust. Il dramma di Goethe ci ha dato un aggettivo, «faustiano», ma il mondo in cui lotta lo spirito faustiano è interamente fatto sparire dalle timidezze color pastello di Gounod.

3 -

Caratterizzazione, azione, atmosfera: delle tre sopraesposte catego­ rie di contributi apportati dalla musica al melodramma, l’atmosfera è forse la più meravigliosa e la più misteriosa nei suoi meccanismi. È an­ che probabile che offra le maggiori speranze a qualsiasi nuova genera­ zione di compositori. Con il mutare della musica, emergono per l’opera mondi musicali nuovi e insospettati. Non c’è bisogno di affrettarsi a in­ coronare Philip Glass come il drammaturgo musicale degli anni Ottanta per riconoscere la singolarità del mondo drammatico a cui dà vita la sua musica. Arrivare alla caratterizzazione attraverso la musica offre ai com­ positori contemporanei problemi maggiori, ma è anche vero che non tutte le situazioni drammatiche richiedono caratterizzazioni ben deli­

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neate. Per i compositori della fine del xx secolo, anche se certamente non al di là delle loro possibilità, più problematica di tutte, a quanto pare, è la creazione musicale dell’azione. Dal punto di vista adottato in questo libro, questa è anche la categoria più critica. Senza un’azione adeguatamente proiettata nella musica, l’opera diventa una forma lirica o spettacolare o rituale, o una combinazione di queste forme. Per met­ terla in un altro modo, gli elementi lirici, spettacolari o rituali che sono sempre presenti nell’opera superano quelli drammatici. Comunque sia, mi sembra che queste categorie forniscano alla critica operistica di oggi un’utile classificazione. Le mie domande più impor­ tanti sono domande che meritano di essere formulate, fintantoché non si suppone che siano le sole e nemmeno, in nessun caso particolare, le migliori. L’intelaiatura che è stata data dà possibilità di manovra e dà spesso l’impressione di incanalare l’analisi in modo fruttuoso. Non intendo suggerire, naturalmente, che queste manovre possono essere effettuate in modo «oggettivo». Non è stato questo il mio scopo nel delineare una metodologia per la critica operistica. Una buona critica dipende non solo dalle strategie analitiche e dall’impiego di capacità in­ tuitive imparziali, ma anche dall’intensità del coinvolgimento che si ha con l’arte e dalla capacità di trasferire al lettore parte di quest’intensità. La critica, come ha detto Richard Blackmur in una famosa definizione, è «l’analisi formale di un amatore», ed egli si è spinto sino a reclamare considerevoli diritti per l’arte della critica (poiché considerava la critica una forma d’arte) «quando nell’analisi ci sono abbastanza amore e ab­ bastanza conoscenza della materia». Del melodramma si possono amare aspetti diversi. Alcuni critici sono colpiti dal dramma, altri sono inna­ morati del canto, altri ancora s’incapricciano di cose più futili, e tali in­ clinazioni soggettive sviano decisamente il discorso critico. Questo vale sia per le volte in cui le opere vengono considerate nella loro totalità sia per quelle in cui si affronta un’analisi dettagliata; sia seguendo le linee che abbiamo suggerito sia seguendone altre. La cosa utile che il critico può fare, oltre a cercare semplicemente di comunicare il piacere che trova nelle opere d’arte, oppure il suo oppo­ sto, è indicare che cosa in quelle opere gli procuri sentimenti piacevoli o sgradevoli. Un’osservazione paziente e serrata dei particolari di una partitura, di un libretto e di una rappresentazione deve corroborare

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231

qualsiasi metodologia critica applicata all’opera che meriti tale nome. Quei sentimenti dipendono, naturalmente, non solo dall’opera d’arte cosi osservata, ma anche dalle predilezioni e dai preconcetti dell’osser­ vatore. Da qui l’importanza che il critico tenga sempre ben presenti queste ultime e le tenga costantemente davanti agli occhi del lettore. È una cosa che ai critici viene detta spesso. Forse non ci prestano suffi­ cientemente orecchio. A giustificazione si possono citare due difficoltà o problemi. Nei no­ stri tempi mutevoli, prima di tutto, le risposte all’arte cambiano conti­ nuamente. In effetti, considerando la frequenza con cui i critici vengono posti di fronte a novità artistiche del presente e a nuove prospettive sul­ l’arte del passato, si può anche non essere disposti a rimpiangere troppo un fatto simile. In ogni caso, i critici ritengono di dover cercare conti­ nuamente di risolvere la propria mutevole soggettività, per cosi dire, nello stesso momento in cui cercano di risolvere opere d’arte che sono spesso lo strumento stesso del cambiamento. Il secondo problema può essere posto in termini più semplici: è un problema di dignità. Quasi si­ curamente l’argomento dei critici si dimostrerà più interessante per il lettore delle loro riflessioni su se stessi. L’arte della critica include trucchi per aggirare il secondo di questi problemi. Non c’è nessun modo per aggirare il primo. Una critica ope­ ristica oggettiva è un concetto che nessuno oggi può fare proprio, nem­ meno volendolo. La cosa migliore che possiamo fare è coltivare l’osser­ vazione, augurarci di avere capacità intuitive e mantenere la soggettività dei nostri giudizi il più possibile onesta.

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656 Guido Ceronetti, Ufi viaggio in Italia, 1981-1985. 657 Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della fi­ losofia naturale, religione e arte. 658 Man Ray, Oggetti d'affezione. 659 André Chaste!, Il sacco di Roma. 1527.

660 Bruno Zevi, Pretesti di critica architettonica, 661 Bernard Andreae, L’immagine di Ulisse. Mito e archeologia.

662 Ernst H. Gombrich, Il senso dell’ordine. Studio sulla psicologia dell'arte decorativa. 663 Vittorio Foa, La cultura della Cgil. Scritti e interventi 1950-1970. 664 Claudio Magris, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna.

665 Pierre Boulez, Punti di riferimento. 666 Beaumont Newhall, Storia della fotografia.

667 Paola Barocchi, Studi vasariani. 668 Luigi Magnani, Beethoven lettore di Omero. 669 Rudolf Wittkower, Palladio e ilpalladianesimo.

670 Nino Pirrotta, Musica tra Medioevo e Rinascimento. 671 Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro ». 672 Andrej Amal'rik, Rasputin. Il «monaco nero» e la corte dell’ultimo zar. 673 Lu Gwei-Djcn e Joseph Needham, Aghi celesti. Storia e fondamenti razionali dell’agopuntura e della moxibustione. 674 Francis Haskell e Nicholas Penny, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica. 1500-1900. 675 Giorgio De Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943. 676 Ernst H. Gombrich, L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica.

677 Nico Naldini, Vita di Giovanni Comisso.

678 E. T. Salmon, IlSannio e i Sanniti. 679 Kenneth). Dover, L’omossessualità nella Grecia antica. 680 Piemonte medievale. Forme del potere e della società. 681 Luciano Beliosi, La pecora di Giotto.

682 Gian Carlo Roscioni, L’arbitrio letterario. Uno studio su Raymond Roussel. 683 Cesare Cases, Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento. 684 Cesare Brandi, Disegno dell’architettura italiana.

685 La scultura raccontata da Rudolf Wittkower. Dall’antichità al Novecento. 686 Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza e architettura.

687 Guido Ceronctti, Albergo Italia. 688 Ernst H. Gombrich, L’eredità di Aprile. Studi sull’arte del Rinascimento. 689 William J. McGrath, Arte dionisiaca e politica nell’Austria di fine Ottocento. 690 Vittorio Strada, Le veglie della ragione. Miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak.

691 Manlio Brusatin, Arte della meraviglia.

692 Ernst H. Gombrich, Ideali e idoli. I valori nella storia e nell’arte. 693 Antonio Facti, In trappola col topo. Una lettura di Mickey Mouse.

694 Rolf A. Stein, La civiltà tibetana. 695 Vittorio Gregotti, Questioni di architettura. Editoriali di «Casabella» dal 1982 al 1986.

696 Cesare Cases, Patrie lettere. 697 Franco Moretti, Segni e stili del moderno. 698 Laszlo Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film. 699 Carlo Ossola, Dal «Cortegiano» all’« Uomo di mondo». 700 Richard Kraulheimer, Tre capitali cristiane. Topografìa e politica.

701 Gernot Gruber, La fortuna di Mozart.

702 Ernst H. Gombrich, Antichi maestri, nuove letture.

7°3 Arnaldo Momigliano) Pagine ebraiche. 704 Donatella Calabi e Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il Ponte. 705 Donata Levi, Cavalcaseli. Il pioniere della conservazione dell'arte italiana. 7o6 Jerome Kagan, La natura del bambino. Psicologia e bioioga dello sviluppo infantile.

707 Paolo Fossati, La apittura metafisica». 708 Robert C. Ritchie, Capitan Kidd e la guerra contro i pirati. 709 Arnold Schonberg e Wassily Kandinsky, Musica e pittura. Lettere, testi, documenti.

710 Daniel Poirion, Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo. 711 Ludovico Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di Sant'Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento. 712 Jean-JacquesPauvert, Sade. Un'innocenza selvaggia. 1740-1777. 7*3 Tzvetan Todorov e Georges Baudot, Racconti aztechi della conquista.

714 Alberto Savinio, Scatola sonora. 715 Paul Wescher, I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre.

716 Salvatore Settis, Adriano La Regina, Giovanni Agosti e Vincenzo Farinella, La Colonna Traiana. 717 Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia. 718 Henri Matisse, Scrìtti e pensieri sull'arte. Raccolti e annotati da Dominique Fourcade. 719 Paolo Matthiae, Ebla. Un impero ritrovato. Dai primi scavi alle ultime scoperte. 720 Ugo Mulas, La fotografia.

721 Christiaan Snouck Hurgronje, Il pellegrinaggio alla Mecca. 722 L'albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese. A cura di Bruno Dongio­ vanni e Luciano Guerci. 723 A. Rosalie David, I costruttori delle piramidi. Un'indagine sugli operai delfaraone. 724 Roberto Gabetti e Carlo Olmo, Alle radici deH'architetiura contemporanea. Il cantiere e la parola. 725 Manlio Brusatin, Storia delle immagni. 726 Federico Zeri, La percezione visiva dell'Italia e degli italiani.

727 Paul Zanker, Augusto e il potere delle immagini. 728 Angelo Anali, Le Isole Mirabili. Periplo arabo medievale.

729 Peter A. Clayton e Martin J. Price, Le Sette Meraviglie del Mondo. 730 Svetlana Alpers, L’officina di Rembrandt. L'atelier e il mercato. 731 Ludovico Zorzi, L'attore, la Commedia, il drammaturgo. 732 Maurizio Calvesi, Le realtà del Caravaggio. 733 Cesare Cases, Il boom di Roscellino. Satire e polemiche. 734 Joseph Kerman, L'opera come dramma.

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Savinio, Scatola sonora Schumann, La musica romantica Strawinsky - Craft, Colloqui con Strawinsky

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