Piegare la nota. Contrappunto e dramma in Verdi. 882226309X, 9788822263094


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Italian Pages [242] Year 2014

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Table of contents :
Introduzione
Abbreviazioni
Preambolo, Contrappunto e dramma in Verdi
Prima ricognizione, L’Oberto conte di San Bonifacio
Seconda ricognizione, Aspetti della messinscena del Macbeth diVerdi
Terza ricognizione, A proposito di Luisa Miller
Quarta ricognizione, «E quasi si direbbe prosa strumentata»
Quinta ricognizione, Ballabili nei Vespri siciliani
Sesta ricognizione, Prima le scene, poi la musica
Settima ricognizione, Aspetti di melodrammaturgia verdiana
Ottava ricognizione, Esotismi, fato e magia in Aida
Nona ricognizione, Le Ave Maria di Verdi su scala enigmatica
Commiato
Indice dei nomi
Indice delle opere
INDICE GENERALE
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Piegare la nota. Contrappunto e dramma in Verdi.
 882226309X, 9788822263094

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«HISTORIAE MUSICAE CULTORES» CXXVII diretta da

VIRGILIO BERNARDONI, LORENZO BIANCONI, FRANCO PIPERNO

MARCELLO CONATI

PIEGARE LA NOTA CONTRAPPUNTO E DRAMMA IN VERDI

FIRENZE

LEO S. OLSCHKI EDITORE MMXIV

Tutti i diritti riservati

CASA EDITRICE LEO S. OLSCHKI Viuzzo del Pozzetto, 8 50126 Firenze www.olschki.it

ISBN 978 88 222 6309 4

A Teresa compagna d’arte e di vita

INTRODUZIONE

Questa raccolta di miei scritti d’argomento verdiano trae origine da una proposta avanzata da un autorevole studioso ed editorialista, onde farli uscire allo scoperto dall’angusto recinto della stampa specializzata (riviste musicali e atti congressuali) per riproporsi a una piu` ampia cerchia di lettori, cosı` suscitando l’entusiastica attenzione di Alessandro Scansani, noto editore, la cui voglia creativa e il cui coraggio culturale desidero qui rievocare, insieme alla Casa Editrice Olschki, in onore della sua memoria. Fatti i conti con quanto da me pubblicato in cinquant’anni di ricerche sulla vita e sull’opera di Verdi, la scelta definitiva degli argomenti e` stata ispirata dal proposito di dare ampio spazio all’arte di Verdi e alla sua poetica di architetto in musica, ponendo in luce i suoi processi compositivi in funzione drammaturgica, esaminando i criteri di alcuni suoi rifacimenti, trattando di fonti drammatiche, di messinscena, di ballabili, di musica popolare, di problemi storiografici, di contrappunto... E cio` a far inizio dalla prima opera del compositore, l’Oberto, per concludere con una delle sue ultime composizioni, le Ave Maria su scala enigmatica. A capire Verdi ci sono arrivato piuttosto tardi: allevato da mio padre, cantante, al culto di Wagner, la mia attivita` agli esordi era impegnata sul versante della musica contemporanea, con particolare attenzione per Stravinsky. Ci sono arrivato non certo per folgorazione. Ma per gradi. Condottovi, diro` meglio: trascinatovi da varie circostanze (gli spettacoli alla Scala, la monografia di Abbiati, soprattutto un libro di Mila) e, per quanto riguarda in particolare gli aspetti strutturali delle sue opere, da prolungate esperienze: innanzi tutto la mia militanza di musicista pratico esercitata per anni dapprima in privato, quindi nel vasto repertorio di un importante teatro di lingua tedesca, a stretto contatto con cantanti, direttori d’orchestra, registi; e infine l’insegnamento di arte scenica svolto in Conservatorio per oltre un quarto di secolo. Fu inoltre il fascino esercitato in me dall’uomo Verdi a decidermi di svolgere (era il 1963, centocinquantenario della sua nascita) le mie prime ricerche intorno alla sua figura, a cio` sollecitato dalla lettura del suo epistolario. Attraverso la consultazione della stampa periodica, in specie tedesca e francese, — VII —

INTRODUZIONE

raccolsi molte testimonianze sconosciute, poi confluite nel libro dedicato alle interviste e agli incontri con Verdi. Addentrandomi poi nell’esame delle partiture, decisiva e` stata la pratica teatrale nel farmi comprendere il ruolo risolutivo che Verdi assegna alla musica nell’organizzazione del dramma, a cominciare da un mio casuale confronto di carattere strutturale tra Fidelio e Trovatore provocato dalla concomitante preparazione, allo Stadttheater di Zurigo, delle due compagnie di canto. All’immagine di Verdi uomo di teatro – quale mi si era formata negli anni delle mie prime ricerche sulla base soprattutto degli approfondimenti critici avanzati dalla Verdi-Renaissance anglo-tedesca 1 – si e` sovrapposta, a poco a poco, analisi dopo analisi, quella di Verdi musicista. E` nel suo magistero musicale, costruito pietra su pietra alla scuola ‘‘napoletana’’ di Vincenzo Lavigna, che affonda le radici, a parer mio, il suo straordinario senso del teatro, in esso la matrice della sua drammaturgia. Nel licenziare questa raccolta di scritti verdiani desidero pertanto avanzare su tale argomento alcune note supplementari a miglior chiarimento dell’importanza decisiva esercitata sulla formazione musicale dell’esordiente compositore dall’apprendimento tenace, quasi ossessivo, del contrappunto e dello stile fugato. Nota bibliografica. I testi qui ripubblicati hanno avuto la loro prima edizione nelle seguenti pubblicazioni: L’ ‘‘Oberto conte di San Bonifacio’’ in due recensioni straniere poco note e in una lettera inedita di Verdi, in Atti del I Congresso internazionale di Studi Verdiani: Venezia, Isola di S. Giorgio Maggiore, Fondazione Giorgio Cini, 31 luglio-2 agosto 1966, Parma, Istituto di studi verdiani, 1969, pp. 67-92. Aspetti della messinscena del «Macbeth» di Verdi, «Nuova Rivista Musicale Italiana», XV, 1981, pp. 374-404; parzialmente ripubblicato in trad. ingl. come Aspects of the Production of «Macbeth», in Verdi’s Macbeth: A Sourcebook, edited by D. Rosen and A. Porter, New York and London, W.W. Norton & Comp., 1984, pp. 231-238. A proposito di «Luisa Miller», in Verdi und die deutsche Literatur / Verdi e la letteratura tedesca, Tagung im Centro tedesco di studi veneziani: Venedig 20.-21. No-

1 «Verdi ist fu ¨ r uns Deutsche sozusagen der Shakespeare der Oper. Wir du¨rfen uns der Erneuerung der Forza del destino darum ebenso freuen, wie wenn sich die deutsche Schauspielsbu¨hne ein minder bekanntes Shakespearestu¨ck erobert ha¨tte». Questa sentenza, espressa da Eugen Schmitz sulla «Allgemeine Musikzeitung» del 1º aprile 1926, pp. 267-280, all’indomani della Forza del destino rappresentata a Dresda in una memorabile esecuzione promossa da Franz Werfel, che costituı` l’atto di nascita della Verdi-Renaissance, condensa bene l’atteggiamento della musicologia tedesca, gia` all’avanguardia nella revisione critica dell’opera verdiana, con particolare riguardo ai valori drammaturgici.

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INTRODUZIONE

vember 1997, a cura di D. Goldin Folena e W. Osthoff, Ko¨ln, Laaber-Verlag, 2002, pp. 201-216. «E quasi si direbbe prosa strumentata». (L’aria «a due» nello Stiffelio), in Tornando a Stiffelio. Popolarita`, rifacimenti, messinscena, effettismo e altre ‘‘cure’’ nella drammaturgia del Verdi romantico, a cura di G. Morelli, Firenze, Olschki, 1987, pp. 243-263. Ballabili nei «Vespri siciliani», con alcune osservazioni su Verdi e la musica popolare, «Studi verdiani», I, 1982, pp. 21-46. Prima le scene, poi la musica..., in Verdi-Studien. Pierluigi Petrobelli zum 60. Geburtstag, hsgb. von S. Do¨hring und W. Osthoff, Mu¨nchen, G. Ricordi & Co., 2000, pp. 33-57; ripubblicato in trad. ital., «Studi Musicali», XXVI, 1997, pp. 519-541. Aspetti di melodrammaturgia verdiana a proposito di una sconosciuta versione del finale del duetto Aida-Amneris, «Studi Verdiani», III, 1985, pp. 45-60. Esotismi, fato e magia in Aida, in Teatro alla Scala, Aida di Giuseppe Verdi. Stagione 2006-2007 [Libro di sala]. Le «Ave Maria» su scala enigmatica di Verdi dalla prima alla seconda stesura (18891897), «Rivista Italiana di Musicologia», XIII, 1978, pp. 280-311.

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

ABBIATI = F. ABBIATI, Giuseppe Verdi, Milano, Ricordi, 1959, 4 voll. ARRIVABENE = Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene, 1861-1886, raccolto e annotato da A. Alberti, con prefazione di A. Luzio, Milano, Mondadori, 1931. AUTOBIOGRAFIA = Giuseppe Verdi: autobiografia dalle lettere, a cura di A. Oberdorfer, nuova edizione interamente riveduta, con annotazioni e aggiunte a cura di M. Conati, Milano, Rizzoli 1981 rist., ivi, 2001. BASEVI = A. BASEVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tipografia Tofani, 1859; rist. anast.: Bologna, AMIS, 1978; edizione critica a cura di U. Piovano, Milano, Rugginenti, 2001 (si cita dalla prima edizione). BUDDEN = J. BUDDEN, The Operas of Verdi, 3 voll., Cassell, London, 1973-1981, trad. it., Le opere di Verdi, 3 voll., Torino, EdT, 1985-1988 (si cita dall’ed. it.). CARTEGGIO VERDI-BOITO = Carteggio Verdi - Boito, a cura di M. Medici e M. Conati, con la collaborazione di M. Casati Di Gregorio, Parma, Istituto di studi verdiani, 1978; nuova edizione interamente rifatta, a cura di M. Conati, in corso di stampa (cito da questa riedizione). COPIALETTERE = I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati e illustrati da G. Cesari e A. Luzio, Milano, Tip. Stucchi Ceretti, 1913. FENICE = M. CONATI, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Milano, Il Saggiatore, 1983. INTERVISTE = Interviste e incontri con Verdi, a cura di M. Conati, Milano, Il formichiere, 1981; trad. ingl., M. CONATI (ed.), Interviews and Encounters with Verdi, London, Gollancz, 1984; nuova edizione con aggiunte: Torino, EDT, 2000 (si cita da quest’ultima edizione). LUZIO 1935 = Carteggi verdiani, a cura di A. Luzio, voll. I e II, Roma, Accademia d’Italia, 1935. LUZIO 1947 = Carteggi verdiani, a cura di A. Luzio, voll. III e IV, Roma, Accademia d’Italia, 1947. MILA 1958 = M. MILA, Giuseppe Verdi, Bari, Laterza, 1958. MILA 1974 = M. MILA, La giovinezza di Verdi, Torino, ERI, 1974. MUZIO = Giuseppe Verdi nelle lettere di Emanuele Muzio ad Antonio Barezzi, a cura di L.A. Garibaldi, Milano, Treves, 1931.

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

POUGIN = A. POUGIN, Giuseppe Verdi. Vita aneddotica, con note e aggiunte di Folchetto, Milano, Ricordi, 1881; rist. anastatica, con prefazione di M. Conati, Firenze, Passigli, 1989. WALKER = F. WALKER, The Man Verdi, London, J.M. Dent & Sons, 1962; trad. it.: L’uomo Verdi, Milano, Mursia, 1964 (si cita dall’edizione italiana).

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PREAMBOLO CONTRAPPUNTO E DRAMMA IN VERDI La musica e` la cosa principale in un’opera.

Mozart

La musica e` la piu` onnipossente delle arti, ha una logica sua propria, piu` rapida piu` libera della logica del pensiero parlato e piu` eloquente assai. Boito Esercitatevi nella Fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazieta`, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegare la nota a voler vostro. Verdi

Nota contro nota. O sia contrappunto. Ovvero tecnica che consente al compositore d’opera in musica di creare strutture verticali in movimento, regolate dalle leggi dell’armonia e al servizio del dramma. Per Verdi scopo essenziale d’ogni impresa operistica e` la traduzione totale dell’azione drammatica in musica. E` il dramma che dev’essere posseduto dalla musica. Non viceversa. Lo aveva dichiarato egli stesso all’amico Arrivabene: «per fare un’opera bisogna aver in corpo primieramente della musica»,1 e ribadito a Tito Ricordi: «voglio dire che quando si fa opera in musica vi sia prima di tutto musica».2 Riflettendo sugli aspetti strutturali delle sue opere ho constatato che l’interesse che in Verdi suscita un soggetto d’opera prende sempre le mosse dalla possibilita` di rinvenirvi le occasioni atte a tradurre gli effetti drammatici in strutture musicali in movimento, compiute e autosufficienti (per questo aspetto vedi anche Ricognizioni 4, 6 e 7). E` a tal punto radicata in Verdi la concezione della musica come misura del dramma che egli sonda quanto piu` a fondo possibile le prerogative peculiari del linguaggio musicale, sfruttandone tutte le possibili valenze drammaturgiche, a cominciare da quella che ne co1 2

Lettera del 6 marzo 1868, in ARRIVABENE, p. 83. Minuta del 15 maggio 1868 in AUTOBIOGRAFIA, p. 465.

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PREAMBOLO

stituisce una proprieta` assoluta rispetto ad altri linguaggi: vale a dire il potere di sintesi attraverso la sincronia delle parti. Dove maggiormente si rivela il genio di Verdi nello sfruttare le possibilita` di rappresentare il dramma con mezzi eminentemente musicali sta nel rendere concomitanti azioni diverse e contrastanti, moltiplicando o sovrapponendo i luoghi dell’azione scenica, creando infine delle strutture verticali ovvero ensembles da mettere in movimento, nota contro nota, distinguendo e differenziando le parti attraverso il percorso melodico, il ritmo, il timbro, l’altezza. Verdi non venne dal caso. Venne da una formazione culturale (se per cultura s’intende non l’accumulo di nozioni bensı` la capacita` di acquisire gli strumenti per trasformare la realta`) solida, ampia, prolungata, dove gli studi umanistici e scientifici si alternavano alla pratica strumentale, formazione solo apparentemente occasionale, della quale egli stesso volle in seguito nascondere in gran parte le tracce contribuendo a fornire di se´ ai posteri l’immagine di artista istintivo e spontaneo.3 Il pur copioso epistolario verdiano ci ha consegnato pochissime e quanto mai laconiche informazioni sull’educazione musicale impartita al giovane Verdi, in particolare sullo studio del contrappunto, iniziato dapprima con Ferdinando Provesi e quindi svolto per tre anni a Milano alla scuola napoletana di Vincenzo Lavigna; e sono informazioni lasciate spesso dai biografi a galleggiare senza meta sul mare dei documenti, salvo attribuire loro un carattere episodico o trarne conclusioni erronee o ignorarle del tutto, come nel caso di un’affermazione fatta in tarda eta` dal compositore a Boito mentre era intento ad armonizzare una bizzarra scala musicale: 4 Quando si e` vecchi si diventa ragazzi, dicono; Queste inezie mi ricordano i miei diciotto anni quando il mio Maestro si divertiva a rompermi il cervello con bassi consimili.

Tale affermazione va ben oltre la dimensione aneddotica cui sembra doversi confinare un ricordo di gioventu`, per quanto bizzarro; quelle che il vecchio maestro definisce inezie facevano parte, cinquant’anni prima, del normale tirocinio previsto dal piano di studi alla scuola di Vincenzo Lavigna, studi che ora (e solo ora) sappiamo essere integrati dall’armonizzazione di bassi assurdi ovvero «enigmatici». Da un certificato sottoscritto da Lavigna l’11 novembre 1833 apprendiamo che Verdi «trovasi in Milano per studiare la Musica sia 3 Tale e ` almeno l’opinione espressa da Claudio Sartori alla voce Verdi nei seguenti dizionari: Dizionario Ricordi della musica e dei musicisti; Encyclope´die de la Ple´iade. Histoire de la musique; La Musica. Enciclopedia storica. 4 Sull’episodio, che sara ` alle origini delle Ave Maria su scala enigmatica, vedi Ricognizione 8.

— XIV —

CONTRAPPUNTO E DRAMMA IN VERDI

di Contrappunto sia della Composizione ideale».5 Anche la «Composizione ideale»? In proposito Verdi precisera`, anni piu` tardi, a Florimo: Lavigna, era fortissimo nel contrappunto, qualche poco pedante, e non vedeva altra musica, che quella di Paisiello. Mi ricordo che in una sinfonia che io feci, Egli mi corresse tutto l’istromentale, alla maniera di Paisiello!. Starei fresco «dissi fra me» e da quel momento non gli mostrai piu` nulla di composizione ideale; e nei tre anni passati con Lui, non ho fatto altro che Canoni e Fughe, e Fughe e Canoni in tutte le salse. Nissuno m’ha insegnato l’istromentazione, ed il modo di trattare la musica drammatica.6

Quest’orgogliosa dichiarazione (che tuttavia non concorda con un’altra dichiarazione secondo la quale Lavigna era invece a tal punto entusiasta del Don Giovanni di Mozart 7 da procurarne la nausea dell’allievo) puo` indurre il biografo ad avvalorare semmai la tesi di un’educazione formatasi sostanzialmente da autodidatta, relegando ai margini del sapere musicale proprio l’apprendimento di quella tecnica compositiva, il contrappunto, che e` scienza esatta, sottoposta alle regole della matematica, che non viene trasmessa per dono divino, ma conquistata giorno dopo giorno, genio o non genio. Tecnica esplicitamente ed unicamente menzionata nell’attestato rilasciato da Lavigna alla fine dei tre anni di studi: «Dichiaro [...] che il Sig.r Giuseppe Verdi [...] ha studiato il Contrappunto [...], fughe a due, a tre, ed a quattro voci; come pure Canoni, Contrappunto doppio etc.».8 Verdi non vi accennera` mai direttamente, salvo la sua fuorviante dichiarazione a Florimo qui sopra riportata e salvo una sua precisazione al critico Filippo Filippi sul sapere musicale: [...] io sono, fra i Maestri passati e presenti, il meno erudito di tutti. Intendiamoci bene, e sempre per non far blague: dico erudizione e non sapere musicale. Mentirei se dicessi che nella mia gioventu` non abbia fatto lunghi e severi studj. Egli e` per questo, che mi trovo aver la mano abbastanza forte a piegare la nota come desidero, ed abbastanza sicura per ottenere, ordinariamente, gli effetti ch’io immagino.9

Indirettamente Verdi vi accennera` al tempo dell’Aida. Si tratta dell’arcinotissima lettera a Florimo suggellata dal monito: Tornate all’antico, e sara` un progresso,10 troppo spesso interpretata dai settori reazionari della cultura nazioAUTOBIOGRAFIA, p. 90. Lettera a Francesco Florimo, 9 gennaio 1871 (ivi, p. 89). 7 POUGIN p. 102. L’episodio e ` confermato da Boito nei suoi taccuini (INTERVISTE, p.404). 8 Documento datato «Milano, 15 luglio 1835» (AUTOBIOGRAFIA , pp. 90-91). 9 Lettera del 4 marzo 1869 a Filippo Filippi (ivi, p. 425). 10 Lettera del 5 gennaio 1871 (ivi, pp. 411-412). Sull’argomento vedi ora «Sara ` un progresso»... 5 6

— XV —

PREAMBOLO

nale come un breviario d’estetica, mentre invece si tratta di una proposta didattica. Niente piu`. Nel rinunciare alla carica di direttore del Conservatorio di Napoli, Verdi non sa trattenersi – egli appunto, che s’era formato sulle tecniche compositive dell’antica scuola napoletana – dall’indossare i panni del docente di composizione e proporre un piano di studi per l’allievo compositore che rispecchia il tirocinio da lui svolto alla scuola di Lavigna. Affiorano i nomi di Alessandro Scarlatti, Durante, Leo, Palestrina: ovvero l’antico che apre la via al progresso attraverso un addestramento destinato a far acquisire piena consapevolezza dei valori ‘plastici’ del linguaggio musicale, espressa dal compositore ricorrendo all’icastica immagine gia` impiegata nella lettera a Filippi: «piegare la nota». Fulcro del progetto – come evidenziato nell’attestato di Lavigna e ricordato nella lettera del 9 gennaio 1871 a Florimo – e` infatti la fuga: «Esercitatevi nella Fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazieta`, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegare la nota a voler vostro». «Franca e forte» la mano Verdi dimostro` di averla sin dagli esordi nel conferire valenza drammatica (Rossini docet) all’artificio compositivo del canone; vedi in Oberto, alla fine del primo atto, il canone a tre voci «Su quella fronte un fremito»:

e in Nabucco il canone a quattro voci e coro «S’appressan gl’istanti». Franca e forte la sua mano anche nel capovolgere le parti di un percorso armonico al fine di accentuare l’espressione drammatica; e` questo il caso a suo tempo segnalato sulla «Allgemeine musikalische Zeitung» da un critico tedesco nel recensire l’Oberto (vedi Ricognizione 1). Il modello drammaturgico di Verdi guarda a Rossini, al suo integralismo musicale («la musica non e` un’arte imitatrice») onde operare attraverso struttornando a Verdi, a cura di T. Camellini, Reggio Emilia, Diabasis, 2010, e in particolare i contributi di Pierluigi Petrobelli e di Giovanni Morelli.

— XVI —

CONTRAPPUNTO E DRAMMA IN VERDI

ture verticali a piu` voci al servizio del dramma, come attesta in tutta evidenza il concertato ‘‘di stupore’’ nel primo atto dell’Ernani. Un’evidente anomalia, al limite dell’errore grave, che tuttavia dimostra la grande conoscenza che il giovane Verdi aveva delle regole dell’armonia, si presenta nel corso della Preghiera finale del Nabucco, brano replicato a furor di popolo (questo, e non «Va, pensiero») alla prima assoluta alla Scala; ad un certo punto la ripresa del Tutti assume un moto ascensionale, facendo leva su un limpido accordo di settima di dominante che pero` non chiede di meglio che risolvere ripiegando di un semitono. Invece, contro ogni regola apparente, qui la settima risolve al grado superiore. La regola, pero`, c’e`, ignorata da molti compositori, tuttavia contemplata dai trattati d’armonia, e sta in questo: quando il basso dell’accordo di settima scende alla mediante anziche´ alla tonica, per evitare due quinte parallele e` consentito alla settima di risolvere salendo di grado:

cosı` ottenendo, nel caso specifico, di moltiplicare con movimento a ventaglio le voci di tutto un popolo che rende grazie a Dio: un semplice artifizio armonico diventa qui strumento di espressione drammatica. Come tutti gli uomini di genio Verdi era molto creativo. Quando la corretta applicazione della regola non e` in grado di assicurare un risultato adeguato alla spinta dell’espressione drammatica egli la infrange, non mancando di auspicare la riforma dei trattati di contrappunto: Quando scrivo qualche cosa d’irregolare, si e` perche´ la stretta regola non mi da` quel che voglio, e perche´ non credo nemmeno buone tutte le regole finora adottate. Forse i Trattati di Contrappunto han bisogno di riforma.11

Una delle insofferenze della scrittura drammatica di Verdi riguarda quella che io chiamo la tonica precoce ovvero la chiusura anticipata di un percorso melodico ancora aperto. Un esempio (citato in Ricognizione 3, ess. 6 e 7) e` 11

2

Lettera citata alla nota 6.

— XVII —

PREAMBOLO

nella prima aria di Lady Macbeth, che Fe´tis ritiene di correggere sostituendo l’accordo di quarta e sesta con un banale accordo di tonica onde evitare due quinte parallele. Un altro caso che fa storcere il naso ai maestri di composizione (pure citato in Ricognizione 3, es. 8) riguarda un’aria fra le piu` popolari di Verdi, il cantabile di Rodolfo «Quando le sere al placido» in Luisa Miller: il giro armonico e` costituito da una serie di modulazioni che consentono alla melodia di svilupparsi con moto ascensionale, senza mai concludere sulla tonica se non alla fine, al disperato «Ah! mi tradia...». Orbene, il percorso armonico qui non fa che rispecchiare la sintassi del testo poetico, formato da una frase dipendente di sei versi settenari a rima alternata, suggellata solo all’ultimo verso, un quinario, dalla proposizione principale. «Forse i Trattati di Contrappunto han bisogno di riforma»... Senza forse, ormai si puo` ben dire. Discorrendo con un giornalista parigino (siamo alla vigilia dell’Otello) Verdi non arretra dal confessare, alludendo all’assolo del basso «Oro supplex et acclinis» nella Messa da Requiem: Non ho temuto a un certo punto di scrivere tre quinte di seguito. Ma se ho commesso questo errore d’armonia che un semplice allievo del Conservatorio eviterebbe, e` perche´ occorreva e l’effetto da produrre lo richiedeva.12

Vi e` in queste scelte non tanto un atteggiamento innovatore in se´ quanto piuttosto quel coraggioso sperimentalismo al servizio del dramma, all’insegna di quella concretezza che ha ispirato a Verdi alcuni effetti speciali ottenuti con mezzi musicali inconsueti: il coro a bocca chiusa in Rigoletto a imitazione del vento; il suono metallico delle incudini nel Trovatore; in Aida lo squillo delle trombe egizie in marcia; il cluster del pedale d’organo a sostegno dell’uragano in Otello, fatto iniziare da un lacerante accordo di undicesima che alla lunga si disperde irrisolto nell’aria turbolenta... A proposito di cluster, ve n’e` una serie impressionante nell’ensemble che nella Introduzione del Rigoletto precede l’entrata di Monterone, serie prodotta da un ostinato della banda sul palco, e su un incrocio fra una scala cromatica ascendente e una diatonica discendente dal contrasto fra due linee melodiche: l’una cromatica, per moto ascendente; l’altra diatonica, in controcanto discendente: Commenta Claudio Gallico: «Il procedimento compositivo e` di una modernita` addirittura avveniristica, rapportata alla sua epoca, siccome fondato, alla maniera di tanta scrittura contrappuntistica novecentesca, esclusivamente P. FRESNAY, Verdi a` Paris, «Voltaire», Parigi, 29 marzo 1886, riprodotto in italiano in INTERpp. 194-200: 197-198.

12

VISTE ,

— XVIII —

CONTRAPPUNTO E DRAMMA IN VERDI

sull’energia del moto lineare delle parti, indipendentemente dalla considerazione degli avvenimenti armonici determinati da quel moto».13 Ma va anche precisato che e` nell’imperturbabilita` del drammaturgo che si specchia l’aspetto avveniristico di tale scrittura; per quanto vibrate minacce esprimano i cortigiani, non succede nulla al di fuori della solita razione quotidiana di baruffe a corte. Sperimentalismo, s’e` detto, al servizio del dramma, che si riflette nella concretezza delle immagini sonore; un esempio e` nella danza dell’Inverno in Les quatre Saisons, balletto per Les Veˆpres siciliennes: note strisciate si alternano a note pizzicate come sospese nell’aria rarefatta di un’atmosfera atonale; 14 un altro esempio e` nel duo E´lisabeth – Carlos in Don Carlos: lo smarrimento dei sensi da parte del protagonista fa oscillare il canto ai confini della tonalita` (quasi un preannuncio di Debussy): 13 C. G ALLICO , Ricognizione di «Rigoletto», «Nuova Rivista Musicale Italiana», III, 1969, pp. 855-901: 869. 14 Vedi Ricognizione 5, es. mus. n. 7.

— XIX —

PREAMBOLO

e ancora, per la sua originalita`, la «Battaglia» del ‘nuovo’ Macbeth (1865), concepita come fuga a quattro parti, e cosı` descritta dal compositore a Escudier: Voi riderete quando sentirete che per la Battaglia ho fatto una Fuga!!!! Una Fuga?... Io che detesto tutto quello che puzza di scuola ed eran quasi trent’anni che non ne faceva!!! Ma vi diro` che in quel caso puo` andare bene quella forma musicale. Il corrersi dietro che fanno i soggetti e controsoggetti; l’urto delle dissonanze, il frastuono etc. etc. possono esprimere abbastanza bene una battaglia.15

«Quasi trent’anni che non ne faceva»... questa sı` che e` una notizia! sta a significare che Verdi, terminati gli studi con Lavigna, non aveva piu` scrtto fughe... Qui pero` egli dimentica che non trenta bensı` solo sei anni lo separano dall’ultima fuga: fra gli attori di Un ballo in maschera Verdi identifica Samuel e Tom e loro aderenti come personaggio collettivo dotato di un fugato a quattro, destinato ad alimentare un rapido contrasto col tema di Riccardo. E` il modello di elaborazione tematica che Verdi riproporra` nel preludio dell’Aida, fondato su un contrasto fra il tema musicale della protagonista, di andamento cromatico, e quello dell’onnipresente Gran Sacerdote, costituito da un fugato rigorosamente diatonico. La Messa da Requiem doveva costituire, nelle intenzioni di Verdi, l’estremo suggello della sua attivita` di musicista, quasi una sorta di summa della sua arte. Dopo un’intera vita dedicata a scrutare il cuore dell’uomo attraverso i conflitti offerti dalla scena teatrale, l’azione essenziale di espiazione per i defunti racchiusa nel testo liturgico della Messa da Requiem finiva per costituire per Verdi l’occasione drammatica piu` pura, totalmente liberata dagli elementi fittizi della scena, insomma il libretto ideale. E quel sapore ‘terrestre’ che promana dall’intonazione della Messa non deriva tanto da questo o quel particolare accento melodrammatico quanto piuttosto dalla materialita` stessa dell’esistenza umana espressa attraverso il canto, sul quale sostanzialmente s’incardina l’intera struttura compositiva, a ulteriore conferma di come il concetto del sacro in Verdi fosse profondamente radicato in una visione laica del15

Lettera del 5 febbraio 1865, in ABBIATI, III, 219.

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CONTRAPPUNTO E DRAMMA IN VERDI

la societa` umana. Tutto il suo teatro, popolato di infelici, di perseguitati, di ‘diversi’, di vittime sacrificali, sembra rianimarsi attraverso le inquiete pagine della Messa. Il gesto teatrale viene interamente assorbito dalla rappresentazione musicale del terrore dell’uomo serrato in un inesorabile confronto con la propria natura, della sua ribellione di fronte alla morte, del suo sgomento alla soglia dell’eterno ignoto, attraverso un percorso in cui l’accento epico s’alterna a quello elegiaco, il terrore allo sconforto, la preghiera allo scatto iracondo, il grido della disperazione a quell’anelito alla vita che e` il «Libera me Domine». Aida e Messa di Requiem: due capolavori assoluti. Con essi Verdi aveva deciso di ritenere conclusa la carriera di compositore. A sessanta d’eta`... E invece... Con l’avanzare dell’eta` non s’assopisce in Verdi la ricerca del nuovo, ma anzi si accresce, con l’entrata in scena di Boito, il suo interesse verso esperienze inedite: a cominciare dal miracoloso rifacimento del Simon Boccanegra con il suo splendido concertato, in soli tre mesi trasformato da progetto melodrammatico fallito a capolavoro assoluto. E a seguire: una tragedia di Shakespeare, un’opera buffa, dei pezzi sacri. Preso in contropiede da una scala sgangherata pubblicata sulla «Gazzetta musicale di Milano», si sente come sfidato sul proprio terreno. Ne nascono le ardimentose Ave Maria su scala enigmatica, destinate a figurare (Verdi riluttante) quale primo dei Pezzi sacri (vedine le peripezie nell’ottava Ricognizione). A questo punto l’officina verdiana si riapre per accogliere il congedo dal teatro e l’addio alla musica. Vestiti i panni di Falstaff (quasi un autoritratto) Verdi coglie occasione per sigillare il suo addio alla propria carriera con una fuga a doppio quartetto: Mi diverto a fare delle fughe!... – scrive a Boito – Si signore: una fuga... ed una fuga buffa... che potrebbe star bene in Falstaff!... Ma come una fuga buffa? perche´ buffa? direte Voi?... Non so come, ne´ perche´ ma e` una fuga buffa! 16

Ma c’e` qualcosa di piu` sorprendente nella partitura del Falstaff: si tratta dei dodici rintocchi della campana di mezzanotte nell’ultimo quadro dell’opera, che accompagnano l’entrata in scena del protagonista. Questi rintocchi Verdi li aveva gia` incontrati almeno due volte, in Rigoletto e in Un Ballo in maschera, ma solo come segnale acustico; ora, «senza progetti di sorta», ma, da «audace e destro» contrappuntista non si lascia sfuggire l’occasione per armonizzare ciascuno dei dodici rintocchi, numero magico, facendo perno sul pedale di Fa. Ne risulta una sorta di sintesi delle leggi che regolano l’armonia. Scho¨nberg e la sua Harmonielehre sono dietro l’angolo. Ebbene, di questo 16

Lettera del 18 agosto 1889, in CARTEGGIO VERDI-BOITO, n. 142.

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PREAMBOLO

straordinario documento non esiste traccia negli studi verdiani, da Della Corte a Roncaglia, da Gatti a Mila, e fin addirittura a Budden. In tempi recenti un giovane compositore bresciano, Luca Tessadrelli, ne ha fornito un’analisi strutturale accompagnata da nuove considerazioni [...] che ci lasciano congetturare il ‘‘grande vecchio’’ nell’intento di stendere una sorta di testamento spirituale intriso di tutte le sue piu` alte conoscenze teoriche e simboliche (sequenza dei primi 13 suoni armonici naturali intrecciata e retrogradata, rapporti numerici derivati dalla serie di Fibonacci per generare i tracciati melodici delle singole parti strumentali, ecc.), accordi per lo piu` dissonanti e di difficile collocazione meccanicistica, quasi volessero sottrarsi alle naturali leggi della dialettica tonale. Giova segnalare che l’episodio dei 12 rintocchi si discosta nettamente dallo stile classicheggiante e contrappuntistico che attraversa l’intero Falstaff. Eppure, sottraendo tutte le ornamentazioni melodiche (appoggiature, note di passaggio, note sfuggite), ci accorgiamo che la sequenza si basa su un luminoso e solare accordo di Fa maggiore. [...] I punti di distensione triadici (l’accordo perfetto di fa maggiore) si trovano a batt. 1, nel levare di batt. 8 (I grado in primo rivolto) e batt. 13 (nuovamente in stato fondamentale). La serie di Fibonacci e` pure presente nei movimenti melodici delle singole parti strumentali. Ed il piccolo ciclo della giornata, che si conclude con il dodicesimo rintocco, e` segno di massimo buio in atto ma contemporaneamente di massima luce in potenza, cioe`, per estensione al ciclo stagionale, al Solstizio d’Inverno, simbolo della rinascita spirituale, ottenuta con l’iniziazione, e della sconfitta delle tenebre da parte del sole ed il trionfo della Luce. [...] Per concludere: qui la scrittura musicale si proietta con arditezza profetica nel nuovo secolo alle porte.17

Arditezza che a sua volta si estende ai Pezzi sacri, con i quali l’espressione drammatica trova gli ultimi sussulti, in specie nei due brani con orchestra, veri e propri colloqui con la morte. Al nuovo sentimento religioso soccorre ancora una volta l’immagine idealizzata dell’antica musica italiana, da Palestrina in poi, consolidata dalla lettura di Bach, immagine che si riflette in una realta` in progresso, in visioni sonore di una modernita` insospettabile in un artista ultraottantenne che pure aveva dimostrato con il Falstaff di quali energie fosse dotato per procedere verso un continuo rinnovamento stilistico.

17 L. TESSADRELLI , I dodici rintocchi della mezzanotte nel Falstaff di Giuseppe Verdi, in «Sara ` un progresso»..., cit., pp. 99-110.

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PRIMA

RICOGNIZIONE

L’OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO IN DUE RECENSIONI STRANIERE POCO NOTE E IN UNA LETTERA DI

VERDI *

Sulle intricate vicende della composizione dell’Oberto conte di San Bonifacio e sulle ipotesi avanzate intorno al Rocester, primo e ineseguito melodramma di Verdi, lo studioso inglese Frank Walker ha dedicato parte del primo capitolo del suo documentato studio biografico su Verdi, nell’intento di far maggior luce possibile attraverso l’analisi attenta dei documenti conosciuti.1 Ma un altro problema riguardante l’Oberto che non sembra aver trovato una soluzione soddisfacente e` l’esatta dimensione dell’esito che esso riscosse nel novembre del 1839, allorche´ fu rappresentato per la prima volta sulle scene della Scala di Milano. A tale riguardo l’opinione dei biografi verdiani si e` espressa in modo sommario, spesso sbrigativo, attraverso le definizioni piu` contrastanti: chi lo considera un successo ‘buono’, chi ‘tiepido’, chi ‘mancato’, chi ‘debole’, chi ‘mezzo insuccesso’, chi – Eugenio Checchi, ad esempio – addirittura si domanda come «quell’infelice Oberto pote´ salvarsi dai fischi».2 Accanto a tali definizioni manca spesso, nonche´ una documentazione accettabile, l’esigenza di una ricerca che vada oltre la pigra esibizione di alcune critiche giornalistiche dell’epoca (di solito attinte all’edizione italiana della biografia di POUGIN 3); soprattutto manca un’indagine intesa a stabilire precisi rapporti fra l’Oberto e il gusto del tempo, fra i richiami e le anticipazioni di stile e di contenuto intrecciantisi nell’esordio verdiano a1la soglia degli anni 1840. * La stesura di questo saggio risale all’estate del 1966; pertanto la bibliografia in esso citata rispecchia la situazione anteriore a tale data. 1 WALKER , pp. 31-41. Cfr. inoltre anche C. SARTORI , «Rocester» la prima opera di Verdi, «Rivista Musicale Italiana», XLIII, 1939, pp. 97-104. 2 E. CHECCHI , Verdi, Firenze, Barbe ` ra, 1887; seconda ed., ivi, 1901; rist. 1913; terza ed., ivi, 1926; il capitolo riguardante l’Oberto e` rimasto pressoche´ immutato nelle tre edizioni; vedi comunque alle pp. 31-33 (1887) e pp. 36-39 (1926). 3 POUGIN , vedi alle pp. 142-147, dove sono riportate integralmente le recensioni di Lambertini dalla «Gazzetta privilegiata» di Milano, e di Bermani dalla «Moda» pure di Milano.

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PRIMA RICOGNIZIONE

E quei biografi – come il citato Checchi e in particolare Monaldi 4 – che si sono soffermati sull’esame dell’Oberto per addurre gratuite giustificazioni a un preteso insuccesso, hanno in realta` lavorato piu` che altro di fantasia, giungendo a conclusioni arbitrarie sia sotto il profilo storico sia sotto il profilo critico. Quando si lavora di fantasia o si vuole esprimere un parere preconcetto, si finisce con l’ignorare quei documenti che sono facilmente a portata di mano e che contengono quel nocciolo di verita` atto a far qualche luce su qualsivoglia supposizione in materia controversa: e` dal 1881 infatti che esiste sull’esito dell’Oberto una testimonianza precisa dello stesso Verdi, alla quale in fin dei conti sarebbe lecito dare un certo credito. In quella narrazione autobiografica che, trascritta da Giulio Ricordi in data «19 ottobre 1879» durante una visita a S. Agata, fu poi pubblicata a cura di Folchetto (Jacopo Caponi) in margine all’edizione italiana della biografia di POUGIN 5 (narrazione – come ha potuto facilmente dimostrare Frank Walker 6 – non priva di grosse imprecisioni, in particolare per quanto riguarda i lutti familiari che colpirono il compositore agli esordi della carriera) Verdi dichiarava in proposito: [...] in seguito al successo favorevole, l’editore Giovanni Ricordi acquisto` la proprieta` per duemila lire austriache. Oberto di San Bonifacio ebbe dunque un esito non grandissimo, ma abbastanza buono, cosı` d’avere un discreto numero di rappresentazioni, che il Merelli stimo` conveniente di prolungare facendone alcune in piu` delle fissate dall’abbonamento.7

Di fatto l’Oberto ando` in scena a neanche tre settimane (17 novembre) dalla chiusura della stagione autunnale che, come di prammatica, doveva concludersi entro il 6 dicembre. Le cronologie scaligere assegnano all’opera verdiana 14 rappresentazioni: a conti fatti si puo` dire che l’Oberto fu rappresentato in quasi tutte le sere restanti della stagione. Se questo non vuol dire successo... D’altronde, difficilmente Verdi puo` essere accusato d’aver dato giudizi favorevoli per eccesso sull’esito delle proprie opere; le sue espressioni sull’accoglienza ricevuta dall’Oberto valgono meglio e piu` di quante supposizioni sono state avanzate al riguardo, espresse con tale disparita` di definizioni da indurre Franco Abbiati a formulare un dubbio: «Fu un trionfo, come vorrebbero alcuni biografi quali il Bragagnolo e il Bettazzi? Fu un fiasco, come pretendono altri biografi quali il Checchi e il Monaldi?».8 4 5 6 7 8

G. MONALDI, Verdi (1839-1898), Milano, Bocca, 1899 (cito dalla ristampa del 1943), pp. 8-16. POUGIN, Appendice al capitolo VI, pp. 39-46. WALKER, pp. 39 sgg. POUGIN, p. 42. ABBIATI, I, p. 326.

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L’OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO

Fra le biografie piu` note e piu` consultate in passato, quelle di Checchi e di Monaldi, possono essere considerate, successivamente alla biografia «aneddotica» di Pougin (la sola autorizzata da Verdi 9), le piu` anziane, redatte quando il compositore era ancora vivente; e proprio ad esse risalgono quegli errori di prospettiva, quelle distorsioni di giudizio che si sono protratte in non poche narrazioni biografiche posteriori, in particolar modo riguardo all’Oberto. Ancora in una biografia verdiana relativamente recente, a opera di un giornalista nord-americano, che ha avuto l’inopinata e immeritata fortuna di una traduzione italiana (fortuna che finora non hanno avuto lavori di studiosi stranieri quali, per citarne alcuni fra i piu` seri apparsi nel trentennio 1920-1950, i contributi di Weissmann, Gerigk, Unterholzner, Loschelder, Hussey, Cherbuliez 10) – ancora in questa biografia d’oltre oceano, ripeto, ci si sbriga dell’Oberto attraverso questi dati erronei: «La sua prima opera [...] ottenne un moderato successo (quattordici rappresentazioni), e fu immediatamente dimenticata [...]. La Strepponi canto` nella prima opera composta da Verdi [...]».11 La verita` storica e` che la prima interprete del ruolo di Leonora nell’Oberto fu Antonietta Ranieri 12 Marini (l’altra interprete femminile nel ruolo di Cuniza essendo stata l’inglese Maria Shaw, che nell’edizione italiana della biografia di Toye, non si sa se a opera dei traduttori, diventa... un uomo 13), e che la Strepponi non canto` mai nella prima opera di Verdi; 14 inoltre l’Oberto non fu «immediatamente dimenticato» poiche´ fu ripreso l’anno seguente alla Scala, evento non privo di significato per le usanze di quegli anni, e con un maggior numero di repliche; in precedenza, gennaio 1840, era stato messo in scena a Torino; quindi nel gennaio 1841 fu rappresentato a Genova, nel giugno successivo al S. Carlo di Napoli, nel febbraio POUGIN, pp. VIII-IX. A. WEISSMANN, Verdi, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1922; H. GERIGK, Giuseppe Verdi, Potsdam, Athenaion, 1932; L. UNTERHOLZNER, Giuseppe Verdis Opern-Typus, Diss., Hannover, 1935; J. LOSCHELDER, Das Todesproblem in Verdis Opernschaffen, Ko¨ln, Petrarca-Haus, 1938; D. HUSSEY, Verdi. Miracle Man of Opera, London, J.M. Dent & Sons, 1940 (rist.: 1943, 1945, 1962); A.-E´. CHERBULIEZ, Giuseppe Verdi. Leben und Werk, Zu¨rich, Mu¨ller, 1949. 11 V. SHEEAN, Orpheus at Eighty. A Study of Giuseppe Verdi, New York, Random House, 1958; trad. it.: Verdi, Milano, Nuova Accademia, 1963. A proposito di questo «studio» occorre inoltre rilevare che il redattore dell’edizione italiana non si e` nemmeno dato la pena di correggere le numerose inesattezze in esso sparse; le rade annotazioni in margine riguardano per la maggior parte alcune precisazioni intorno a particolari riguardanti la vita di Wagner. In ogni caso, non e` confortante prospettiva che il lettore ‘medio’ nordamericano debba farsi un’idea della vita e dell’opera di Verdi sulle pagine di questo volume, tanto piu` sprovveduto e dilettantesco quanto piu` vuol apparire informato e documentato. 12 Oppure Raineri, come a volte si legge sulle cronache teatrali dell’epoca. 13 F. TOYE , Giuseppe Verdi, Milano, Longanesi, 1951, p. 28. 14 Per il curriculum artistico di Giuseppina Strepponi vedi: WALKER, pp. 66-73 e 215-216. 9

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PRIMA RICOGNIZIONE

1852 a Barcellona, a non contare le rappresentazioni di Zara nel 1847 e di Malta nel 1860.15 Tornando a Monaldi, il suo principale lavoro critico-biografico e` gia` stato oggetto di alcune serrate contestazioni da parte di Frank Walker,16 che hanno messo in luce l’inconsistenza documentaria di molte sue affermazioni, contestazioni tali da rendere assai circospetta la consultazione delle numerose pubblicazioni verdiane del prolifico marchese-impresario; 17 per quanto possa sembrare ardito affermarlo, l’interesse di tali pubblicazioni appare ormai racchiuso nell’indagine e nel computo di quelle sviste, quelle imprecisioni, quegli errori, talvolta false testimonianze, che si sono pigramente tramandate in successive narrazioni biografiche, massime in Germania, dove la biografia verdiana di Monaldi, apparsa in edizione tedesca 18 un anno prima di quella italiana, produsse forse i guai maggiori.19 Per quanto riguarda l’Oberto, Monaldi e` fra i 15 Ecco la cronologia delle rappresentazioni di Oberto avvenute fra il 1839 e il 1860 (i nomi degli interpreti sono elencati secondo il seguente ordine: Cuniza, Riccardo, Oberto, Leonora): 17 novembre 1839, Milano, Teatro alla Scala: Maria Shaw, Lorenzo Salvi, Ignazio Marini, Antonietta Ranieri Marini; 15 gennaio 1840, Torino, Teatro Regio: Luigia Abbadia, L. Salvi, Cesare Badiali, A. Ranieri Marini; 17 ottobre 1840, Milano, Teatro alla Scala: L. Abbadia, L. Salvi, Raffaele Ferlotti, A. Ranieri Marini; 9 gennaio 1841, Genova, Teatro Carlo Felice: Teresa Braggi o Maddalena Croff, Catone Lonati, R. Ferlotti, A. Ranieri Marini; 2 giugno 1841, Napoli, Teatro di S. Carlo: Buccini, Gaetano Fraschini, Filippo Colini, A. Ranieri Marini; 1 febbraio 1842, Barcellona, Teatro de S. Cruz: Palazzesi, Giuseppe Gomez, I. Marini, Rosalia Gariboldi; novembre 1847, Zara, Teatro Nobile, probabili interpreti: Adele Ruggiero, Luigi Guglielmini, Achille Ardavani, Laura Ruggiero; marzo-aprile 1860, Malta, Teatro Reale: R. Piccinini, L. Morandini. 16 WALKER, pp. 53-55, 61, 113, 348-351, 409, 483. 17 Oltre alla biografia critica citata alla nota 4, cfr. Verdi e le sue opere, Firenze, tip. «Gazzetta d’Italia», 1877; Verdi e Wagner, Roma, tip. Civelli, 1887; Aneddoti verdiani, «Rivista Musicale Italiana», 1901; Un’opera buffa: episodio della gioventu` di Verdi, Torino, Bocca, 1902; Il maestro della rivoluzione italiana, Milano, S.E.I., 1913; Saggio di iconografia verdiana, Bergamo, Istituto d’Arti Grafiche, 1913; Verdi nella vita e nell’arte, Milano, Ricordi, 1913; Le opere di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala, Milano, Ricordi, 1914; Verdi aneddotico, L’Aquila, Vecchioni, 1926, oltre a varie pubblicazioni sul melodramma dell’Ottocento contenenti ampi riferimenti alla vita e all’opera di Verdi (La musica melodrammatica in Italia e i suoi progressi, Perugia, 1875; Idealismo e realismo, Perugia, 1877; Cantanti celebri del secolo XIX, «Nuova Antologia», s.d., rist.: 1929; Le prime rappresentazioni celebri, Milano, 1910; Impresari celebri del secolo XIX, Roma, 1918; I miei ricordi musicali, Roma, 1921; Ricordi viventi di artisti scomparsi, Campobasso, 1927) e articoli d’argomento verdiano apparsi su «La Critica», «Emporium», «Musica», «Nuova Antologia» e altri periodici. 18 G. MONALDI , Giuseppe Verdi und seine Werke (aus dem Italienisch von L. Holdorf), Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1898. 19 Si vedano a proposito dell’Oberto, in relazione alle affermazioni di Monaldi, i contributi di C. PERINELLO, Giuseppe Verdi, Berlin, Harmonie, 1900, pp. 15-16; di M. CHOP, Giuseppe Verdi, Leipzig, Reclam, 1913, pp. 25-26; di K. HOLL, Giuseppe Verdi, Wien, Perneder, 1942, pp. 69-70. Fu tuttavia proprio in Germania che affioro` un primo atteggiamento negativo nei confronti del diffuso volume monaldiano; Richard Specht lo definisce: «Muster einer schlechten und leblosen Biographie» [modello di cattiva ed esanime biografia] (Verdis dramatische Technick, «Die Musik», XIII, 1913, p. 50); giudizio piu` tardi condiviso da L. UNTERHOLZNER, Giuseppe Verdis... cit., p. 9.

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L’OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO

maggiori responsabili di molte inesattezze e arbitrarie illazioni che ebbero facile diffusione nonostante le confutazioni, pur tempestive, di Francesco Temistocle Garibaldi e di Bragagnolo e Bettazzi, autori di due contributi biografici assai meglio documentati,20 che tuttavia non godettero la diffusione e la popolarita` del volume monaldiano, onorato di maggiore autorevolezza da parte degli studiosi. Per una diretta smentita alle arbitrarie affermazioni avanzate da Monaldi circa l’esito di Oberto e contenute nel suo primo tentativo biografico verdiano, Verdi e le sue opere (1877) 21 e riconfermate nell’edizione del 1899, si veda il carteggio di Verdi con Arrivabene; scriveva, questi, da Roma il 4 febbraio 1878: Hai letto l’opuscolo di 82 pagine, intitolato Verdi e le sue Opere del Marchese Gino Monaldi? E` stampato qui a Firenze. [...] in questo [opuscolo] del Monaldi si dice che Milano giudico` troppo severamente l’Oberto; invece, per quanto so, fu accolto bene. Oltre a cio`, e in questo caso importava molto, non si dice che fu rappresentato in molti altri teatri non escluso il San Carlo di Napoli.22

Rispondeva Verdi da Genova l’8 febbraio: Ho letto anch’io, o almeno ho dato una vistata all’opuscolo di Monaldi. E` pieno d’inesattezze! 23

Per non dilungarci troppo intorno alle disquisizioni di Monaldi sull’Oberto, bastera` dire che egli dedica alcune pagine per affermare, senza peraltro addurre una seria documentazione, che quest’opera fu composta nel corso di tre lunghi anni a Busseto, ed era pertanto frutto di «una lenta e stentata elaborazione musicale. Fenomeno [...] unico forse nella vita artistica del Verdi, [che] deve quindi attribuirsi soprattutto allo stato psicologico dell’artista in quel tempo». Cosa che Monaldi deduce dal fatto che in quegli anni Verdi godeva di una certa agiatezza dovuta a un «cospicuo stipendio per quei tempi (300 lire al mese)» ed era inoltre «sposo felice di una donna che era stata il sogno della sua giovinezza», ragion per cui egli non sentiva quel bisogno acuto che tormenta l’artista di chiedere all’arte ogni suo bene, d’infervorarsi di essa, di provarne le febbri creatrici, di dimenticare tutto e tutti

20 F.T. GARIBALDI , Giuseppe Verdi nella vita e nell’arte, Firenze, Bemporad, 1904, p. 48; G. BRAGAGNOLO – E. BETTAZZI, La vita di Giuseppe Verdi narrata al popolo, Milano, Ricordi, 1905, pp. 40-41. 21 Citato alla nota 17. 22 ARRIVABENE, p. 207. 23 Ivi, p. 209.

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PRIMA RICOGNIZIONE

per gettarsi a nuoto nello sconfinato oceano del teatro e provare i capogiri dell’abisso e le supreme beatitudini dell’uscita alla riva.24

Dopo queste belle metafore ispirate a un piatto determinismo che sarebbe fin troppo facile mettere in parodia (va comunque precisato che in qualita` di Maestro di Musica del Comune e del Monte di Pieta` di Busseto Verdi percepiva 300 lire non mensili bensı` annue), e` ovvio che Monaldi ritenesse affatto pleonastico addentrarsi in un esame dell’opera in questione, alla quale egli avra` dedicato sı` e no una superficiale lettura, quasi a domandarsi perche´ mai Verdi avesse fatto il torto d’aver esordito con il povero Oberto anziche´ con il trionfale Nabucco. Di tale torto si fa esplicitamente accusatore Eugenio Checchi, le cui osservazioni appaiono frutto di un’altrettanta superficiale lettura dello spartito: Oggi che la posterita` e` incominciata anche per il Verdi, la curiosita` archeologica dei frugatori un po’ guastamestieri vorra` rimettere in onore questo ed altri lavori della gioventu` del maestro, e sara` cagione di meraviglia lo spettacolo di tanta poverta` di fantasia, e d’una cosı` forte dose d’inesperienza istrumentale nella prma opera di lui: onde verra` fatto di domandare, in che modo quell’infelice Oberto pote´ salvarsi dai fischi.25

Si lasci pur cadere l’accenno agli scavi archeologici dei «frugatori» verdiani.26 Ma non si puo` non sottolineare l’incauta affermazione sulla «forte dose d’inesperienza istrumentale», che sta a dimostrare come Checchi o non avesse letto la partitura dell’Oberto o non avesse idee precise sulla strumentazione: si potra` dire tutto il male possibile sull’invenzione musicale dell’Oberto, sulla sua organizzazione drammaturgica; ma riguardo alla strumentazione si puo` semmai affermare che era proprio questo il campo in cui Verdi possedeva gia` a quel tempo una notevole esperienza, fondata sugli anni di tirocinio con l’orchestra (non banda!) di Busseto, sugli esperimenti effettuati in corpore vivo con le musiche composte per gli accademici bussetani, perfezionata negli anni di studio a Milano, nelle manifestazioni musicali al teatro dei Filodrammatici e presso la nobilta` milanese, all’ascolto delle opere rappresentate a Parma e nei teatri di Milano; e cio` senza contare che lo stesso Oberto, oltre a fruire di queG. MONALDI, Verdi (1839-1898)... cit., p. 13. E. CHECCHI, Verdi... cit., pp. 31-32 (1887), p. 36 (1926). 26 Divenuti peraltro attuali negli anni 1960 attraverso le polemiche innescate da Massimo Mila nei confronti di quella che egli sarcasticamente definiva con la sigla O.R.O.V.A.: Operazione Recupero Opere Verdi Avariate (vedi «L’Espresso», 9 febbraio 1964, p. 22; 13 febbraio 1966, p. 22; 15 maggio 1966, p. 30). 24 25

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L’OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO

ste molteplici esperienze, fu eseguito alla Scala, in un teatro cioe` dotato di un organico orchestrale tale da consentire al compositore possibilita` notevolmente piu` ampie di quelle che potevano offrire i teatri minori. Del resto, contro le prevenzioni di Checchi nei confronti dello strumentale dell’Oberto e quelle analoghe di Luisa Miragoli (contenute in un giudizio peraltro positivo sull’opera: «In quelle melodie rudi e miseramente strumentate, si riconosce anche oggi l’impronta di un ‘‘io’’ poderoso» 27), stanno le considerazioni di quei pochi studiosi che si sono dati la pena di scorrere la partitura, quali Barblan: «orchestrazione corretta e sempre accurata»; 28 Gerigk: «La sua sicurezza nel trattamento dell’orchestra, Verdi l’ha acquistata in Busseto, dove anzi aveva sempre occasione di ascoltare subito le sue composizioni»; 29 Travis: «Riguardo alla tecnica orchestrale, le partiture di Oberto e di Un giorno di regno non sono ne´ primitive ne´ prive di abilita`».30 Checchi prosegue rincarando la dose: Volere in un primo lavoro l’individualita` caratteristica dell’autore, sarebbe un pretendere troppo; ma il guaio e` che nel tentativo melodrammatico del Verdi non vi sono che pochi e fuggevoli baleni d’ispirazione, e quasi si contano sulle dita le battute che accennino a qualche cosa d’originale. D’una cosa v’e` abbondanza grande, ed e` la trivialita` delle forme, la quale ricorda la sciatteria d’una parte della scuola napoletana, gia` allora in decadenza: ne´ il maestro riesce a farsela perdonare con qualche indovinata melodia, che rifulga come stella in un cielo tutto chiazzato di nuvole.31

Anche Checchi, come Monaldi, conclude con la sua brava metafora; la quale tuttavia non impedisce di osservare che l’accenno alla «trivialita` delle forme» si risolve in pseudo-critica e che l’anacronistica citazione della «scuola napoletana» (solita, inevitabile ‘testa di turco’ dei panegiristi del ‘dramma musicale’) sta a ulteriore dimostrazione di come Checchi parlasse dell’Oberto senza nemmeno conoscerlo. Quanto Monaldi e Checchi sentenziarono in merito all’Oberto fu confutato da Bragagnolo e Bettazzi in quella che puo` essere ancora considerata una delle migliori biografie verdiane e che, fra tutte quelle apparse prima dello studio di Walker, si presenta la meno romanzata e la piu` aderente ai fatti documentati. Osservano i due autori: L. MIRAGOLI, Il melodramma italiano nell’Ottocento, Roma, Maglione, 1924, p. 173. G. BARBLAN, La tecnica, in Giuseppe Verdi, a cura del Teatro alla Scala, compilatore Franco Milano, Abbiati, 1951, p. 108. 29 H. GERIGK , Giuseppe Verdi... cit., pp. 16-17. 30 F.I. TRAVIS , Verdi’s Orchestration [diss.], Zu ¨ rich, Juris-Verlag, 1956, p. 21. 31 E. CHECCHI , Verdi... cit., p. 36 (1926). 27 28

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PRIMA RICOGNIZIONE

[...] non si comprende come taluni dei piu` recenti biografi affermino che l’Oberto ebbe uno di quei successi che si direbbero di stima, i quali nulla aggiungono o tolgono alla fama d’un compositore, e nemmeno si comprende perche´ giudichino cosı` severamente questa prima manifestazione del genio verdiano [...]. Ora noi pensiamo che il giudizio severo del Monaldi abbia il peccato originale del preconcetto, e che il Checchi giudichi l’Oberto coi criterıˆ con cui si giudica odiernamente il dramma musicale, invece di riferirsi all’epoca in cui quell’opera fu scritta.32

La difficolta` oggettiva di avvertire a distanza di tempo i sintomi precisi di un’arte giovane, di un indirizzo stilistico al suo nascere e altresı` la difficolta` della ricerca delle vere ragioni di un successo ormai remoto nel tempo sono tuttavia presenti in alcuni studiosi, particolarmente riguardo all’Oberto. Afferma Emilio Radius: I posteri [...] sentono nell’Oberto molto Bellini, molto Donizetti e poco Verdi, perche´ sono avvezzi al moltissimo Verdi delle opere celebri e non hanno in genere un orecchio capace di apprezzare le primizie di una volta [...]. In realta` la sensibilita` contemporanea cerca nelle prime opere di Verdi, fra tante ingenuita`, indizi dell’arte piena e un po’ tocca dell’ultimo periodo (eccettuato il Falstaff); e non trovandone pochi o non trovandone affatto, respinge quelle opere tra le esercitazioni scolastiche e i tentativi vani, nella nebbiosa giovinezza di Verdi, dove tutto sarebbe confusione e caos.33

E che al di la` della «confusione» e del «caos» dovessero esser ben presenti e manifesti i segni di uno stile, fu avvertito gia` nel secolo scorso dal fine intuito di Eduard Hanslick, il quale, venendo a parlare delle prime opere di Verdi, in luogo di domandarsi alla maniera di Checchi come mai esse potessero «salvarsi dai fischi», attribuisce viceversa al pubblico italiano dell’epoca il merito di aver subito individuato i sintomi di un’arte nuova: Gli italiani, i quali sono naturalmente piu` avvezzi alle piu` sottili differenze della loro musica, e avvertono quindi apprezzabili variazioni di stile in due opere che a un ` curioso osservare come questo 32 G. BRAGAGNOLO – E. BETTAZZI , La vita... cit., pp. 40-41. E studio biografico non sia stato oggetto di quell’attenzione e di quell’interesse che dagli studiosi fu invece riservato a quello di Monaldi, il quale peraltro – oltre a essere pubblicato dalla prestigiosa casa editrice dei fratelli Bocca, specializzata in pubblicazioni scientifiche e musicologiche – merce´ alcune lettere e testimonianze in esso contenute (ripetute poi e rielaborate in successivi lavori di Monaldi) sembrava suffragare all’autore il ruolo di ‘portavoce ufficiale’ se non proprio di ‘profeta in terra’. D’altronde non pareva consona alla serieta` e alla profondita` degli studi di una certa fase della musicologia italiana la consultazione di una biografia «narrata al popolo» e, peggio, di un’«opera premiata al Comitato per le onoranze a Giuseppe Verdi da parte delle RR. Scuole Secondarie di Milano nel Concorso promosso dalla Societa` dei prodotti chimico-farmaceutici A. Bertelli & C. di Milano»... 33 E. RADIUS , Verdi vivo, Milano, Bompiani, 1951, pp. 51 e 53.

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orecchio tedesco sarebbero appena distinguibili l’una dall’altra (esattamente come fanno i Negri, i quali si riconoscono fra di loro come diversi, mentre per gli Europei essi hanno tutti una stessa faccia), dimostrarono, nei riguardi dei primi tentativi di Verdi, di aver il fiuto piu` acuto.34

Gia` nel secolo scorso era apparsa la tendenza a considerare gli esordi di Verdi con Oberto e Un giorno di regno non avulsi dalle successive opere ben piu` fortunate, bensı` come fase iniziale di una produzione organica, o meglio, come punto di partenza non fortuito della prodigiosa ascesa del compositore. Nel 1887, in occasione della recensione alla ‘prima’ di Otello, il critico D’Arcais non solo si diede la pena di rileggere l’antico Oberto, ma ebbe anche il coraggio di accostarlo, a fini analitici, all’Otello, onde far rilevare la continuita` ininterrotta dell’evoluzione verdiana: Prima di recarci a udir l’Otello, abbiamo voluto soddisfare una strana curiosita`. Come aveva incominciato la sua carriera l’insigne autore di tante opere che a lui e al nome italiano procurarono gloria? [...] Abbiamo dunque letto e studiato attentamente l’Oberto, come attentamente abbiamo udito e poi letto e studiato l’Otello [...]. L’Oberto segna il primo passo in una via che il suo autore doveva percorrere fino alla meta senza smarrirsi [...]. Di melodie [...] non c’e` penuria, ed hanno quasi tutte l’impronta verdiana. Si riconosce subito in esse il futuro autore del Nabucco. Alcuni motivi dell’Oberto sono rimasti popolari, senza che si ricordi a quale opera appartengano. La sinfonia per molti anni e` stata eseguita dalle orchestrine dei teatri di prosa. Un’aria del contralto viene cantata qualche volta, ancora adesso, nelle accademie.35 In quest’opera non manca neppure un pezzo concertato «a canone» [...] in cui le parti sono abilmente disposte e che non isfigurerebbe neanche in qualcuna delle piu` recenti opere del suo autore [...]. Il dire che il Verdi ha avuto parecchie «maniere» e`, a parer nostro, uno di quei luoghi comuni, ai quali ricorrono troppo frequentemente i critici. Non accade mai che un artista si trasformi ripudiando interamente il proprio passato [...]. Chi attentamente studiasse le due opere, non tarderebbe a scoprire nell’Oberto conte di San Bonifacio il germe dell’Otello [...]. I concetti melodici (che sono il fondamento della parte inventiva dell’opera d’arte e determinano il carattere personale dell’artista) appartengono alla medesima famiglia in tutte le opere del Verdi, e, per conseguenza, non meno nell’Oberto che nell’Otello.36

34 E. HANSLICK , Die moderne Oper, Berlin, Hofmann, 1875, p. 218. Vedi anche l’articolo di M. MILA, Verdi e Hanslick, «La rassegna musicale», XXI, 1951, p. 216, rist. in MILA 1958, pp. 316-330. 35 E anche in teatro; era consuetudine nell’Ottocento che i contralti inserissero l’aria di Cuniza nel secondo atto della Luisa Miller; al fine di ‘rimpolpare’ la parte della duchessa Federica, praticamente limitata a un duetto e a un finale. 36 F. D’ARCAIS, La prima e l’ultima opera di Giuseppe Verdi, «Nuova Antologia», Roma, 16 febbraio 1887, pp. 609-624; rist. in Otello. Giudizi della stampa italiana e straniera, Milano, Ricordi, 1887, pp. 85-91.

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Analoghe considerazioni avanzera` Andrea D’Angeli alcuni anni piu` tardi: [...] nella produzione verdiana c’e` tutta una continuita` di carattere, una individualita` che si perfeziona ma non si smentisce mai [...]. Verdi e` sempre lui, con la sua violenza rude e appassionata, [...] con la robustezza drammatica e scultoria del recitativo, con la potenza del canto agitato e irruente: nell’Oberto c’e` il principio dell’Otello, nell’Otello c’e` il ricordo dell’Oberto.37

Siffatta tendenza a considerare l’opera di Verdi, dall’Oberto ai Pezzi sacri, come un tutto organico in ascensionale evoluzione, e` stata ribadita da Alfred Einstein, il quale, pur ravvisando nell’unita` fondamentale dell’arte verdiana la possibilita` teorica di una suddivisione in quattro periodi, la considera «Tutta una lunga e grandiosa evoluzione unificata, in cui non ci sono «folleggiamenti giovanili» come in Wagner, non «rivoluzioni» o giri viziosi, ma una ininterrotta continuita`».38 Tale atteggiamento, ormai prevalente nella critica verdiana,39 trova peraltro un limite presso l’opinione di coloro che considerano Oberto e Un giorno di regno come ‘esperimenti’ o ‘tentativi’ giovanili, come una specie di preistoria, facendo risalire l’inizio ‘ufficiale’ della carriera del bussetano al Nabucco, insinuando cosı` un’artificiosa frattura (e i lutti che colpirono Verdi in breve tempo nei suoi affetti piu` intimi costituiscono per il biografo, ben piu` che per il critico, l’occasione per convalidarla in base a considerazioni deterministiche, extrapoetiche) fra la giovinezza e la maturita` artistica, frattura che oltre a essere quasi codificata nel titolo della biografia di Carlo Gatti,40 appare implicita in un giovanile ma gia` magistrale saggio di Mila,41 e chiaramente ma-

37 A. D’ANGELI , Giuseppe Verdi, Formiggini, Modena, 1910; rist. 1912 e 1924; Milano, Bietti, 1939, pp. 18 e 19. 38 A. EINSTEIN, Music in the Romantic Era, London, Dent, 1947; trad. it.: Firenze, Sansoni, 1952, p. 385. 39 Ma vedi tuttavia la posizione fortemente critica di un autorevole studioso quale M. MILA , L’unita` stilistica nell’opera di Verdi, «Nuova Rivista Musicale Italiana», II, 1968, pp. 62-75 (rist.: ID., L’arte di Verdi, Torino, Einaudi, 1980, pp. 336-349). 40 Tuttavia solo in apparenza, poiche ´ anche Gatti riconosce nell’Oberto e nelle Sei Romanze i caratteri peculiari dell’arte verdiana: «Circa la musica, Verdi adopera, sin dagl’inizi della sua carriera, un linguaggio drammatico che acquista potenza dalla perfetta fusione della nota con la parola. Non si possono separare l’una dall’altra, cosı` nei primi saggi come negli ultimi capolavori, tanto sono strettamente collegate» (C. GATTI, Verdi. L’esordio. Le opere e i giorni. La fine, Milano, Alpes, 1931, 2 voll.; seconda ediz.: Milano, Mondadori, 1951; terza ediz.: ivi, 1955 (cito dalla terza edizione), p. 139). 41 M. MILA , Il melodramma di Verdi, Bari, Laterza, 1935; rist.: Milano, Feltrinelli, 1960; incluso in MILA 1958.

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nifesta, a partire da Basevi,42 nelle considerazioni di studiosi quali Gasperini,43 Oberdorfer,44 Espla´,45 Pannain 46 nonche´ nei giudizi negativi di Oscar Bie,47 Bellaigue,48 Kretzschmar,49 Ribera,50 Tebaldini,51 Mompellio,52 Ku¨hner,53 Malraye 54 e altri ancora. Per contro stanno i giudizi positivi, nel senso del riconoscimento in Oberto di caratteri stilistici verdiani gia` ben definiti, espressi a partire quanto meno 42 BASEVI , p. IX : «Delle due prime Opere del Verdi [...], come di semplici primi tentativi, non mi parve tenerne conto». 43 G. GASPERINI , I caratteri peculiari del melodramma italiano nell’opera dei predecessori ed in quella di Giuseppe Verdi, Parma, Deputazione di Storia Patria, 1913, pp. 25-26: «Chi voglia scoprire nelle prime musiche verdiane le qualita` caratteristiche che, poi, valsero a dare alla produzione del Maestro uno spiccato colorito personale, non deve, pero`, attardarsi sull’Oberto, e neppure sul Finto Stanislao». 44 A. OBERDORFER, Giuseppe Verdi, Milano, Mondadori, 1949 (pubbl. postuma), pp. 21-24: «L’Oberto e` un lavoro impersonale»; ma poco dopo l’autore si contraddice: «Fino dalla sua prima opera Verdi non e` piu` un principiante [...]. La sua maschia natura gli da` una energia di ritmi, una personalita` d’accento che s’impongono al di sopra d’ogni tradizionalismo di formule, d’ogni piu` palese imitazione di grandi modelli». 45 O. E SPLA ´ , Verdi et l’esprit de l’ope ´ra, «Revue Internationale de Musique», XII, 1951, pp. 458-468: 461: «Les deux premiers ope´ras de Verdi ne comptent pas dans la production totale verdienne». 46 G. PANNAIN , Giuseppe Verdi, Torino, Edizioni RAI, 1964, pp. 13-15: «Oberto reca gia ` i segni del temperamento verdiano, per una certa foga e slancio nei movimenti, qualita` generiche e dispersive che sfuggono all’accertamento preciso, ma non vi e` traccia della proprieta` di accento che sara` segno inequivocabile della personalita` verdiana [...]. Col Nabucco si pone il problema critico del Verdi delle prime opere». 47 O. BIE, Die Oper, Berlin, Fischer, 1913, p. 391: «Seine erste Oper, der Oberto, ist nichts als ein schlechter, dummer Bellini». 48 C.F. BELLAIGUE, Verdi. Biographie critique, Paris, Laurens, 1912; rist. 1927 (trad. it.: Milano, Treves, 1913; rist. Milano, Garzanti, 1956), p. 13: «rien qui promit un maıˆtre». 49 H. KRETZSCHMAR, Giuseppe Verdi, «Jahrbuch der Musik-Bibliothek Peters fu ¨ r 1913», Leipzig, Breitkopf & Ha¨rtel, 1914, pp. 43-58: vedi p. 45, dove Oberto e` considerata opera d’imitazione, nella quale si distacca il solo Quartetto del secondo atto. 50 A. RIBERA , Giuseppe Verdi. 1813-1901, Milano, Comitato per le onoranze popolari a Giuseppe Verdi, 1913, p. 14: «appena un’esercitazione e non ancora una promessa». 51 G. TEBALDINI , De «la melodia verdiana», in Verdi. Studi e memorie, a cura del Sindacato Nazionale Fascista Musicisti, Roma, 1941, pp. 101-134: 103: «dai primi saggi, Verdi non si palesa certamente tale da potersi collocare sul medesimo binario gia` percorso da’ suoi predecessori [...]. La vera melodia verdiana, nella sua caratteristica, comincia a delinearsi e ad incidersi soltanto nella «Sinfonia» del Nabucco». 52 F. MOMPELLIO , Lirismo e melodia, in Giuseppe Verdi, a cura del Teatro alla Scala, cit., pp. 123-125: 124: «musica [...] vaga e generica» incapace di conferire carattere ai personaggi ed alle situazioni. 53 H. KU ¨ HNER, Giuseppe Verdi in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Hamburg, Rowohlt, 1961, v. p. 23, dove si esprime conformemente a Kretzschmar. 54 J. MALRAYE, Giuseppe Verdi, Paris, Seghers, 1965, p. 77: «C’est un bon exercice d’e ´ le`ve ou` pourtant se de´ce`le une originalite´ naissante dans la phrase me´lodique».

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da Soffredini 55 e da alcuni studiosi quali Gerigk,56 Della Corte,57 Roncaglia,58 Lualdi,59 Giraldi,60 Cherbuliez,61 Gianoli 62 e particolarmente Barblan, il quale pone l’accento sugli aspetti tecnici della prima opera di Verdi: «Errerebbe chi pensasse che nell’Oberto conte di S. Bonifacio lo scrupolo di Verdi, per tutto cio` che riguarda la parte tecnica, fosse meno controllato che nelle future opere [...]. La zampata dell’ancor giovane leone e` difficile rintracciarla nella condotta melodica che tende a mantenersi su un piano decorativo; ma risalta nella forza dei ritmi e nell’espressiva fragranza di alcuni recitativi».63 Ma e` soprattutto a Mila che si devono considerazioni finalmente libere da preconcetti e pertinenti all’opera: L’Oberto e` veramente gia` la prima opera di Verdi. E` l’apparizione di un carattere, d’un accento nuovo, che non esisteva fino allora nel panorama melodrammatico italia-

55 A. SOFFREDINI , Le Opere di Verdi. Studio critico analitico, Milano, Carlo Aliprandi, 1901, pp. 20-27, che polemizzando con Basevi osserva (p. 20): «[...] il Verdi nel suo primo lavoro non si paleso` per uno scolaretto che tentasse una timida prova, ma dette anzi con esso il maggior saggio del suo talento e il vero primo sfogo al suo carattere musicale, mi si conceda, piu` spiccatamente che nel Nabucco stesso»; e piu` oltre (p. 22): «Non faccio qui una questione di merito, molto meno di sapienza tecnica o ispirazione; [...] ma, il Nabucco e` rossiniano, e l’Oberto e` verdiano! Io parlo di stile, di fisonomia; null’altro». 56 H. GERIGK , Giuseppe Verdi..., cit., pp. 15-18, riconosce, tra influenze rossiniane e belliniane, i caratteri di uno stile personale. 57 A. DELLA CORTE, Verdi, Torino, Arione, 1939, pp. 13-14, esprime un giudizio analogo a quello di Gerigk. 58 G. RONCAGLIA , L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, Napoli, Perrella, 1914; nuova ediz. riveduta: L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, Firenze, Sansoni, 1940; rist., ivi, 1951; vedi la seconda ediz. (1940), pp. 21-25, dove l’autore riesamina attraverso una lettura piu` attenta il giudizio negativo espresso nella prima stesura del suo studio critico (1914, pp. 10-11: «una ben povera cosa»), modificandolo nei seguenti termini: «L’Oberto ci presenta [...] un artista che ha una fisionomia propria [...]. In esso sono i caratteri che Verdi affermera` vieppiu` nelle opere successive e pei quali egli diventera` il bardo sacro della resurrezione d’Italia [...], c’e` gia` in germe quasi tutto il Verdi del primo periodo». 59 A. LUALDI , Discorso [...] nella commemorazione ufficiale di Busseto, in Verdi nel XL anniversario della morte, commemorazioni di A. Lualdi, G. Pannain, U. Sesini, Napoli, tip. Artigianelli, 1941, pp. 18-19: le prime due opere recano gia` «il segno della mente che le aveva concepite. E ripensiamo la firma di Verdi in testa alla partitura di Oberto; e la ritroveremo quasi identica a quella che sara` tracciata, cinquantaquattro anni piu` tardi, sulla partitura di Falstaff». 60 R. GIRALDI , Dall’«Oberto» alla «Battaglia di Legnano», in Verdi. Studi e memorie cit., pp. 4647: «Nell’Oberto Verdi [...] mostra i segni caratteristici della sua arte, come la grande passionalita` che tutto lo pervade». ´ . CHERBULIEZ, Giuseppe Verdi... cit., vedi pp. 47-50, dove rintraccia in Oberto, oltre alle 61 A.-E influenze rossiniane e belliniane, gli elementi caratteristici dello stile verdiano. 62 L. GIANOLI , Verdi, Brescia, La Scuola, 19612, pp. 34-36: all’interno di un commento piu ` meditato rispetto alla prima ediz. (ivi, 1951, pp. 37-39), il giudizio rivela analogie con quello espresso a suo tempo da Mila: «La materia e` aggredita con slancio e sicurezza, con costante impeto senza pentimenti o debolezze [...]. Ci si trova gia` di fronte ad un’arte meditata, molto controllata piu` che in qualche opera successiva». 63 G. BARBLAN , La tecnica..., cit., p. 108.

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no. Il ripiegamento elegiaco, il timbro di malinconica rassegnazione, la gentilezza dell’animo, fondamentalmente debole, degli eroi di Bellini e Donizetti [...] invano li cercheresti nei quattro personaggi principali dell’Oberto [...]. Sono animi grandi, dalle risoluzioni fiere e terribili. Sono gente che agisce, non gente che patisce [...]. E tutto questo si manifesta gia` fin d’ora non altrimenti che attraverso la musica: la qualita` della melodia, il suo sposarsi preciso e duttile alla parola, la sua attitudine a scolpire in due battute un carattere, a colorire una situazione con una semplice modulazione [...], la violenza brutale e scatenata del ritmo [...]. In realta`, l’Oberto, pur concedendo molto ai modi musicali dell’epoca, risulta superiore ad alcune delle opere decisamente cattive che Verdi scrisse pur dopo l’affermazione del Nabucco [...]. Oltre a possedere gia` quel senso tutto verdiano dello svolgimento lineare del dramma che corre inarrestabile verso la sua soluzione [...] l’Oberto e` lavorato con una cura e una diligenza assidua che non sempre Verdi dedico` alle opere di commissione degli anni seguenti.64

Al fine di definire le proporzioni piu` attendibili dell’esito di Oberto, si puo` affermare, sulla scorta di giudizi espressi da studiosi quali Barblan e Mila,65 che la prima opera di Verdi non fu affatto un timido tentativo, un lavoro d’ispirazione scolastica o, peggio, un centone di reminiscenze paesane, come di sovente apprendiamo dai biografi disattenti. I quali biografi, poi, regolarmente si dimenticano di spiegare come mai – dopo un cosiddetto tentativo accolto, nella piu` benevola delle espressioni, da un successo di stima, e per di piu` dopo un secondo tentativo immediatamente naufragato (Un giorno di regno) in quel medesimo teatro alla Scala, che pur vantava uno dei pubblici piu` esigenti della penisola –, dopo aver esposto una serie di elementi cosı` negativi per gli inizıˆ di carriera di un giovane compositore, dimenticano regolarmente di spiegarci, ripeto, come mai fosse concessa a quel medesimo compositore una terza prova d’appello. Sta bene la ruota della fortuna, sulla quale insiste Abbiati, sta bene il fiuto di un impresario incredibilmente ostinato, sta bene pure la non celata simpatia da parte di una celebre primadonna, e possiamo anche ammettere influenze di clan e le potenti amicizie che Verdi seppe coltivare nei ranghi della nobilta` milanese, cio` al fine di giustificare in qualche MILA 1958, pp. 134-35. Come gia` osservato nella nota inziale, la stesura del presente saggio, per quanto qui rielaborato e aggiornato, risale all’estate del 1966, e tiene pertanto conto solo della letteratura verdiana apparsa fino a quella stagione. Da quel tempo sono apparsi libri e articoli che contengono giudizi intorno ai valori reali dell’Oberto piu` pertinenti e meglio circostanziati; fra i piu` importanti di essi mi limito qui a citare: BUDDEN, I, pp. 47-70; MILA 1974, pp. 35-60; M. BARONI, Studi sul dramma in musica dall’Arcadia a Giuseppe Verdi, Bologna, A.M.I.S., 1979, pp. 95-119; ID., Il declino del patriarca. Verdi e le contraddizioni della famiglia borghese, ivi, 1979, pp. 134-152; ID., Le formule d’accompagnamento nel teatro del primo Verdi, «Studi Verdiani», IV, 1986-1987, pp. 18-64; P.D. GIOVANELLI, La storia e la favola dell’«Oberto», ivi, II, 1984, pp. 29-37; L. FONTANA – CHR . OLIVARES, Verdi. Storia illustrata della vita e delle opere, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 39. 64 65

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modo quella terza prova d’appello dopo un ‘successo di stima’ e dopo un clamoroso ‘fiasco’. Sembra tuttavia piu` ragionevole concedere all’Oberto un esito piu` concretamente positivo di quanto non si sia generalmente ammesso, anche se per buona parte circoscritto all’interesse che esso pote´ destare presso il pubblico milanese di quel tempo, che seppe avvertire in questa ‘opera prima’ i segni manifesti di una personalita` artistica spiccata e originale, tali da suscitare l’atmosfera di una favorevole o quanto meno curiosa attesa per le successive prove del giovane compositore. Appare per lo meno arduo sentenziare come ‘tentativo scolastico’ la prima opera di un maestro che esordı` addirittura alla Scala: conosciamo ormai abbastanza bene il carattere di Verdi attraverso i documenti del suo epistolario, per non avere tutte le ragioni di ritenere che egli fosse pienamente consapevole della posta in gioco. Si veda d’altronde una sua lettera dell’autunno 1838, vale a dire un anno prima dell’andata in scena dell’Oberto, indirizzata a un amico bussetano: Che diavolo vi e` saltato in capo che la mia opera debba andare in scena pel 15 corrente? Io non ho mai detto ne´ scritto questo [...]. Ti diro` candidamente che io sono venuto per trattare dell’Opera, ma la stagione era troppo inoltrata [...]. Si potrebbe forse eseguire nel prossimo Carnevale; ma si tratta di un’opera nuova, scritta da un Maestro nuovo, da esporre nientemeno che nel primo teatro del mondo; io ci voglio pensare ancora molto.66

Occorre tener conto di questa consapevolezza nel giovane Verdi quando giudichiamo le sue prime opere; e` uno dei pochi elementi di cui disponiamo per poter ricostruire il ritratto artistico del compositore ai suoi esordi. Sappiamo gia` molto del travaglio creativo, degli stimoli culturali, delle polemiche che stanno dietro Otello e Falstaff; degli esperimenti e delle verifiche che culminano in Aida e nella Messa da Requiem, dei «sedici anni di galera» 67 iniziati con Nabucco e conclusisi con Un ballo in maschera. Ma cosa sappiamo realmente quanto sta dietro Nabucco, e soprattutto dietro Oberto? Solo il mecenatismo di Antonio Barezzi, il sorriso della Strepponi, il fiuto di Merelli? Ed e` sufficiente un solo anno di maturazione artistica avvenuta fra i lutti e la solitudine a far compiere il balzo in avanti compiuto con Nabucco e addirittura a determinare tale maturazione dalla tragedia che travolse la famiglia del giovane maestro? In un giudizio sull’Oberto, tenendo conto della repentina caduta di Un giorno di regno, si sa quanto pesi il trionfale esito di Nabucco, opera in cui risaltano con maggiore accento i tratti caratteristici dello stile verdiano, e so66 C. GATTI , Verdi..., cit., ediz. 1955, p. 129; ABBIATI , I, p. 249; WALKER, p. 35; G. MARCHESI , Verdi, merli e cucu`, Busseto, Quaderno n. 1 di Biblioteca 70, 1979, p. 394. 67 Verdi a Clara Maffei, lettera del 12 maggio 1858, in AUTOBIOGRAFIA , p. 230.

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prattutto quanto pesi in quest’opera un fattore extra-artistico: quello ‘risorgimentale’ (fattore peraltro anacronistico se riferito agli anni 1842-1845). Si puo` pertanto comprendere perche´ molti biografi e studiosi (anche sulla scorta della famosa narrazione autobiografica rilasciata dal compositore molti anni piu` tardi 68) facciano risalire l’inizio ‘ufficiale’ della carriera artistica di Verdi, come s’e` gia` visto, a quel 9 marzo 1842 che vide per l’appunto la prima rappresentazione di Nabucco. *** La risonanza che l’Oberto riscosse al suo apparire sembrava fino a oggi circoscritta nell’ambito di alcuni fogli milanesi. In mancanza di altre fonti d’informazione, sarebbe comprensibile qualche dubbio sulla solidita` del suo successo se si tien conto anche del fatto che quest’opera, quando sembrava stesse per imporsi in altri teatri (doveva rappresentarsi anche a Vienna, secondo i progetti di Merelli), fu travolta e superata dal trionfale esito di Nabucco, Lombardi, Ernani, I due Foscari, avvenuto nel breve volgere di un triennio (18421844). Ma nessuno, a quanto mi consta, s’e` accorto che l’eco del successo di Oberto valico` addirittura le Alpi; nel corso di indagini intorno alla bibliografia verdiana dell’Ottocento svolte alla Zentral Bibliothek di Zurigo ho avuto l’inattesa sorpresa di apprendere come la risonanza del successo riscosso dalla prima opera di Verdi fosse giunta fin sulle pagine di due prestigiose riviste musicali dell’epoca: la «Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia e la «Revue et Gazette musicale de Paris». Nella «Allgemeine musikalische Zeitung» si trova una vera e propria recensione, corredata da esempi musicali, tale da potersi considerare il primo vero contributo critico, in ordine cronologico, su un’opera di Verdi. Apparsa con l’abituale ritardo di questo tipo di corrispondenze dall’estero, nel febbraio del 1840,69 essa fu redatta dall’anonimo corrispondente della rivista tedesca in Italia («Maila¨nder Correspondent»), la cui identita`, secondo il parere di molti studiosi, sembra ormai doversi riconoscere in quella di Peter Lichtenthal (vedi in Appendice i facs. 1a-e).70 Lo scritto rivela apprezzamenti che invano si cer68 «Con quest’opera si puo ` dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica: e se dovetti lottare contro tante contrarieta` e` certo pero` che il Nabucco nacque sotto una stella favorevole, giacche´ anche tutto cio` che poteva riuscire a male contribuı` invece in senso favorevole» (POUGIN, p. 46). 69 «Allgemeine musikalische Zeitung», Leipzig, XLII, n. 6: 5 febbraio 1840, cc. 102-110. 70 Sull’argomento e, piu ` in generale, sull’atteggiamento del «Maila¨nder Correspondent» nei confronti dell’opera italiana in oltre trent’anni di attivita`, dal 1812 al 1846, vedi il mio Saggio di critiche e cronache verdiane dalla «Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia (1840-1848), in Il melodramma italiano dell’Ottocento, Saggi e ricerche per Massimo Mila, a cura di G. Pestelli, Torino, Einaudi, 1977, pp. 13-44.

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cherebbero in altre sue recensioni di quegli anni per opere italiane date in prima esecuzione; esso riveste inoltre un carattere di eccezionalita` nelle abitudini del suo redattore: era infatti un caso molto raro che questi inviasse una recensione cosı` circostanziata su un’opera nuova, e la sottoponesse al giudizio dell’esigente e smaliziato lettore tedesco attraverso estesi esempi musicali. Tale singolarita` acquista pertanto un valore ancor piu` significativo quando si consideri che l’interesse del critico straniero era stato suscitato dalla primizia di un autore esordiente e affatto sconosciuto. Eccone qui la traduzione italiana: Milano (Teatro alla Scala). La stagione [d’autunno] e` terminata con due opere nuove. La prima (29 ottobre), intitolata I ciarlatani (da un vaudeville di Scribe) del Sig. Maestro Giacomo Panizza, ha gia` fatto il suo tempo dopo la seconda rappresentazione. La seconda (17 novembre), intitolata Oberto conte di San Bonifacio, del Maestro Giuseppe Verdi, piacque in maniera straordinaria e fece costı` in certo qual modo una piccola epoca; quanto essa potra` veramente durare in repertorio, ce lo dira` il tempo, ma una sua prossima trasferta al di la` delle Alpi non puo` peraltro mancare, e resta da vedere come essa sara` giudicata dagli oltramontani.

Dopo aver dedicato qualche riga alla sfortunata opera di Panizza, il corrispondente viene a parlare dell’opera di Verdi; ne rileva il forte successo di pubblico dopo il primo atto, e l’ancor piu` forte esito dopo il secondo, ed espone quindi in succinto la trama del libretto, a proposito del quale prosegue affermando: Questo arido argomento, fornito da un giornalista locale, e` stato ridotto a libretto d’opera con inverosimiglianze, mutilato di alcuni episodi e in maniera altrettanto arida quanto l’argomento stesso, da un apprendista di belle lettere, che da qualche tempo fa il maestro. Qui si fa cenno a questi signori anche perche´ ambedue, attraverso i loro numerosi amici, hanno potentemente contribuito alla buona accoglienza di quest’opera.

Per quanto riguarda gli autori del libretto, da identificarsi rispettivamente in Antonio Piazza, giornalista molto conosciuto negli ambienti culturali milanesi, e in Temistocle Solera (‘‘l’apprendista di belle lettere’’), il resoconto del Maila¨nder Correspondent viene a confermare quanto in proposito scrivera` anni piu` tardi Verdi (lettera del 14 maggio 1871) allo storico Emilio Seletti: «Oberto di S. Bonifacio fu aggiustato ed ampliato da Solera sopra un libretto intitolato Lord Hamilton di Antonio Piazza».71 Che Solera fosse, oltre che poeta, anche compositore, e` noto: proprio otto giorni dopo la ‘prima’ di Ober71

WALKER, p. 37.

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to veniva eseguito alla Scala un suo inno intitolato La melodia; l’anno seguente, ancora alla Scala, avrebbe fatto rappresentare la sua opera Ildegonda e nel 1841 Il contadino di Agliate. Che la paternita` dei versi del libretto di Oberto debba attribuirsi per la maggior parte a Solera, viene a confermarlo una curiosa recensione all’opera apparsa sul periodico milanese «Il Corriere delle dame»,72 curiosa in quanto Piazza (poiche´ e` sicuramente in lui, abituale collaboratore di questo periodico, che e` da riconoscersi l’anonimo articolista celato sotto l’iniziale «P.») viene a trovarsi nella posizione di chi deve esprimere un giudizio sul proprio operato... e sara` un giudizio ovviamente lusinghiero, facendo magari candidamente ricorso all’opinione... dell’amico collaboratore: [...] io guardero` lieto al libretto di Oberto [...] e diro` che ha situazioni d’interesse, buoni versi e spontaneita`, tale essendo anche l’opinione del mio collaboratore Solera, che lo ha scritto meco col sistema di Scribe, per via di associazione. Quanto alla musica essa fu giudicata con molto favore; trovata nuova in alcune parti, ben istrumentata, di effetto [...]. Speriamo che Verdi, dotato di molto ingegno, dopo di avere incominciato bene, proseguira` meglio, e cosı` sia.73

La critica della «Allgemeine musikalische Zeitung» prosegue, entrando nel merito dell’opera: Per quanto riguarda piu` specificamente la musica, si deve qui notare, in omaggio alla verita`, che essa e`, in generale, melodiosa, e percio` dunque degna di lode; tuttavia la sua fisionomia ha spesso il colorito della scuola moderna; alla melodia manca il fascino della novita` ed il caratteristico; armonia, composizione, arte in generale risaltano ben poco, e vi e` quindi anche in quest’opera una certa uniformita`. Gia` l’ouverture non documenta alcuna maestria. L’eden delle orchestre italiane odierne e` la graziosissima tromba a pistoni, commovente (soprattutto quando viene impiegata nelle melliflue cabalette) al punto da far sospirare, languire e far l’occhiolino; con questo voluttuoso strumento il Sig. Verdi incomincia la sua ouverture. Egli fa eseguire cioe` da due trombe soliste un «cantabile» (Adagio, Re maggiore, 3/4) che ha il sapore di una banale

«Corriere delle dame, di moda, letteratura e teatri», XLIII, n. 9: 13 febbraio 1839, pp. 70-71. Questa recensione sta anche a indiretta conferma di quanto affermato dal «Maila¨nder Correspondent» relativamente ai due librettisti per aver «potentemente contribuito alla buona accoglienza di quest’opera». E` ormai assodato che gia` prima dell’Oberto Verdi godeva la stima e il sostegno di influenti personaggi della Milano bene che ne avevano subito intuito le doti di uomo e di artista. Un altro giornalista che ben presto si fece paladino di Verdi e ne godette per lunghi anni l’amicizia, fu Francesco Regli, estensore del giornale «Il Pirata», che dedichera` al compositore un appassionato profilo nel suo Dizionario biografico dei piu` celebri poeti ed artisti melodrammatici [...] (Torino, E. Dalmazzo, 1860); Regli recensı` l’Oberto sul «Pirata» del 19 novembre 1839 esprimendo un giudizio molto favorevole sull’opera cosı` concludendo: «Il sig. Verdi [...] ha preso la retta via, la via dell’emozione, la via degli affetti [...]. Continui a studiare [...]. Non si lasci trascinare da falsi esempi [...] e la sua immaginazione fatta piu` ardita e piu` franca, spieghera` le ali a voli sublimi. Egli empira` un vuoto che pur troppo sente l’Italia». 72 73

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pastorale (cos’ha cio` in comune con l’opera?); gli strumenti a fiato lo ripetono, finche´ l’orchestra entra a tutta forza nella maniera tradizionale e, guarda un po’!, viene poi un Allegro formato da brani del tutto eterogenei, messi insieme senza alcuna arte: un misero non erat hic locus!...74 Tuttavia per far in qualche modo conoscere questo maestro esordiente al lettore di queste pagine, segue qui «il meglio del miglior brano dell’opera», quello che ha fatto la sua fortuna, come esattamente ha fatto, nella Norma, il duetto di chiusura del secondo atto. Il miglior brano dell’opera e` il quartetto nel secondo atto, del quale segue qui il meglio (vedi facsimile in appendice, cc. 103-05). Questo canto, interessante sotto l’aspetto melodico e armonico (nella penultima misura, alle parole «T’ascondi», vi sono evidenti ottave proibite) e ottimamente eseguito dal tenore Salvi quanto, immediatamente dopo, dalla Ranieri-Marini, e` incontestabilmente pieno d’effetto. Dopo alcune misure insignificanti, viene il seguente «A quattro» (vedi facsimile in appendice, cc. 105-10). Sebbene in questo «A quattro» (che pure contiene alcuni passaggi con ottave proibite facilmente evitabili) risalti ben poco che sia nuovo e artistico, ciononostante esso e` bello in ogni sua parte, e venne eseguito con non comune efficacia dai citati artisti, dalla lodevole collaboratrice Shaw e dalla voce scaligera (parola importante, questa!) del Sig. Marini, in modo particolare nei due «fortissimi» dell’accordo di quarta e sesta, in cui il soprano entra all’unisono con il basso strumentale mentre il basso cantante, il tenore e il secondo soprano fanno sentire gli altri intervalli di quell’accordo. Segue quindi una banale cabaletta, con la solita comunissima chiusa, che contrasta cosı` crudamente con il resto, tanto che gli ascoltatori, nelle rappresentazioni successive alla prima, abbandonavano il teatro gia` dopo l’Adagio.

Fin qui la critica vera e propria; seguono alcune interessanti notizie di cronaca che mettono in maggior luce il successo dell’esordio di Verdi: Quest’opera, commissionata in origine per il Pio Istituto dell’Orchestra alla Scala, ha fatto la fortuna del suo autore. Si dice in generale che il Sig. Merelli, impresario del suddetto teatro e associato all’impresa dell’opera viennese, abbia firmato una scrittura

74 Quest’ultima affermazione del «Maila ¨ nder Correspondent» non deve sorprendere; e va anzi precisato che l’affermazione di alcuni studiosi verdiani, secondo la quale l’ouverture ovvero la Sinfonia dell’Oberto sia costruita a mo’ di potpourri sui temi principali dell’opera, non e` propriamente esatta: anzitutto, alla lettura della Sinfonia nell’attuale edizione Ricordi per canto e pianoforte (n. edit. 53704, 1910 ca.), non ho rintracciato che due soli temi, e nient’affatto principali, ricorrenti una sola volta nel corso dell’opera; in secondo luogo, all’epoca della ‘prima’ milanese, un solo tema della Sinfonia era inserito nell’opera, e precisamente la breve introduzione orchestrale alla scena ed aria di Oberto, dove appare per alcune misure un tema gia` sviluppato nella Sinfonia al Poco meno. Fu per le rappresentazioni dell’opera al Carlo Felice di Genova nel gennaio del 1841 che Verdi utilizzo` – come si trovera` conferma in una sua lettera che vedremo piu` avanti – il tema iniziale della Sinfonia per un pezzo nuovo: il coro nuziale del primo atto, «Fidanzata avventurosa», brano decorativo, d’altronde, che non e` certo fra i principali dell’opera (cfr. anche D. LAWTON – D. ROSEN, Verdi’s Non-definitive Revisions: The Early Operas, in Atti del III Congresso internazionale di studi verdiani, Parma, Istituto di studi verdiani, 1974, pp. 189-237: 196).

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con il Sig. Verdi per la commissione di altre due opere per Milano e di una per Vienna. Il caso ha voluto che quest’autunno i maestri Speranza e Savi, ambedue di Parma,75 abbiano fatto furore, il primo a Torino, il secondo a Roma; ed ora in Milano il Sig. Verdi, da Borgo S. Donnino (secondo alcuni di Busseto) nella regione di Parma; ragion per cui codesto trifoglio parmense e` stato portato alle stelle da un giornale locale. La rivista milanese «Moda» ha pubblicato dei versi che alludono ai nomi di Verdi e di Speranza, attribuendo al primo l’arte di commuovere, al secondo il brio. I disprezzatori di Mercadante arrivano al punto di affermare che questi, lo volesse il cielo!, dovrebbe andare a scuola dal Sig. Verdi... Gli attuali maestri in attivita` si potrebbero forse cosı` classificare: Donizetti, Mercadante, Ricci, Verdi, ecc.; Donizetti canta di piu` di Mercadante e conosce la composizione altrettanto bene che costui. Ricci e` piu` originale di Verdi. Resta da vedere se quest’ultimo potra` spingersi piu` in alto; e` da augurarselo molto, poiche´ egli potrebbe superare tutti i suoi colleghi.

Con questa lungimirante profezia si conclude la parte della corrispondenza relativa all’Oberto. Il «Maila¨nder Correspondent» assistera` al trionfo delle successive opere verdiane fino all’Attila (le sue corrispondenze stagionali cessarono nella primavera del 1846); ma il tono dei suoi apprezzamenti nei loro confronti mutera` considerevolmente, fino ad assumere un carattere decisamente spregiativo.76 Un’altra corrispondenza straniera sull’Oberto, che e` rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi verdiani, apparve in una corrispondenza anonima pubblicata sulla «Revue et Gazette musicale de Paris» (la stessa sulla quale, circa dieci anni dopo, saranno pubblicati i due feroci e denigratori attacchi del «Grrrran» Fe´tis 77 contro Verdi). Anche questa corrispondenza, per quanto succinta, viene a ribadire la consistenza del successo e dell’interesse che Oberto suscito` nell’ambiente del teatro musicale del tempo, e che lo fece emergere nel mare di quelle opere nuove che annualmente vedevano la luce sui palcoscenici italiani: Nostra corrispondenza particolare (Milano 7 gennaio 1840). La stagione d’autunno s’e` aperta al teatro alla Scala con l’opera di un giovanissimo debuttante, il mae-

75 In realta ` Giovanni Speranza (1801-1850) era nativo di Mantova; la sua opera buffa I due Figaro, su libretto di Felice Romani, era andata in scena al teatro Carignano di Torino il 30 ottobre 1839; a sua volta la Caterina di Cleves del parmigiano Luigi Savi (1803-1842), pure su libretto di Romani e rappresentata per la prima volta nel 1838 alla Pergola di Firenze, aveva ottenuto un grande successo il 16 novembre 1839 al teatro Argentina di Roma. 76 Vedi il mio Saggio di critiche e cronache verdiane dalla «Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia (1840-1848) cit. alla nota 70. 77 «Grrrran» Fe ´ tis: cosı` Verdi chiama l’emerito studioso belga in una lettera del 1878 all’amico Arrivabene (ARRIVABENE, p. 209).

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stro Verdi, intitolata Oberto, conte di San Bonifacio. Nel numero dei lavori sprovvisti di talento e di immaginazione che si producono sulle scene di Milano, quella del Sig. Verdi merita di essere distinta; poiche´ egli non ha abusato almeno di quel sistema assordante e di quelle pallide reminiscenze che caratterizzano la maggior parte delle partiture italiane. Parecchie melodie originali, due pezzi concertati che richiamano felicemente quelli del Bravo di Mercadante e un’orchestrazione accurata e intelligente rendono quest’opera veramente degna degli applausi che le sono stati prodigati con entusiasmo dal pubblico, il quale comincia a stancarsi alle reiterate cadute alle quali assiste da cosı` lungo tempo. La partitura e` stata acquistata dall’editore Ricordi [...].78

E ancora nella stessa rivista, due anni dopo, in una corrispondenza da Milano per la ‘prima’ del Nabucco alla Scala, l’Oberto non era ancora dimenticato: Corrispondenza particolare. [...] Circa due anni or sono, Giuseppe Verdi debutto` nella composizione lirica con un Oberto di San Bonifacio, che ottenne in questo stesso teatro alla Scala un bel successo. I pezzi piu` notati furono quelli che potevano far presagire Nabucco, cioe` i pezzi concertati, tanto ricchi di armonia quanto di melodia. Oberto fu ripreso l’anno seguente, circostanza rara alla Scala e che conferma lo splendido debutto. [...] Z. Z.79

Dalle due corrispondenze sopra riportate si possono ricavare alcune considerazioni: 1) Il successo dell’Oberto, pur senza assurgere a toni trionfali, fu superiore a quanto potevasi attendere per la prima opera di un maestro esordiente, come attestano il corrispondente tedesco («piacque in maniera straordinaria e fece costı` in certo qual modo una piccola epoca») e quello francese («applausi 78 «Revue et Gazette musicale de Paris», VII, n. 5: 16 gennaio 1840, p. 42. Testo originale: «Notre correspondence particulie`re (Milano, 7 janvier 1840). La saison d’automne s’est ouverte au the´aˆtre de la Scala par l’ope´ra d’un jeune de´butant, le maestro Verdi, intitule´: Obe´rto, conte di San Bonifacio. Dans le nombre des ouvrages de´nue´s de talent e d’imagination qui se produisent sur la sce`ne de Milan, celui de M. Verdi me´rite d’eˆtre distingue´; car il n’a pas abuse´ du moins du syste`me e´tourdissant et de ces paˆles re´miniscences qui signalent la plupart des partitions italiennes. Plusieurs me´lodies originales, deux morceaux d’ensemble qui rappellent heureusement ceux du Bravo de Mercadante, et une orchestration soigne´e et intelligente rendent cet ope´ra vraiment digne des applaudissements qui lui a prodigue´s avec enthousiasme le public, qui commence a` se lasser des chutes re´ite´re´es auxquelles il assiste depuis si longtemps. La partition a e´te´ achete´e par l’e´diteur Jean Ricordi [...]». 79 Ivi, 20 marzo 1842, p. 119: «Correspondance particulie `re. [...] Il y a deux ans environ, Giuseppe Verdi de´buta dans la composition lyrique par un Oberto di San-Bonifacio, qui obtint a` ce meˆme the´aˆtre de la Scala, un joli succe`s. Les morceaux les plus remarque´s furent ceux qui pouvaient pre´sager Nabucco, c’est-a`-dire les morceaux concertants, aussi riches d’harmonie que de me´lodie. Oberto fut ‘repris’ l’anne´e suivante, circostance rare a` la Scala, et qui prouve pour l’e´clat du de´but. [...] Z. Z.»

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prodigati con entusiasmo dal pubblico»), informazioni che vengono cosı` a smentire definitivamente tutte quelle arbitrarie motivazioni escogitate intorno al ‘misterioso’ esito della prima opera di Verdi. 2) In ambedue le corrispondenze emerge soprattutto come il successo dell’opera anziche´ scaturire da questa o quella cabaletta o dall’apporto decisivo di divi canori, fondasse su alcune peculiari doti melodrammaturgiche del giovane maestro, vale a dire i brani d’insieme, dove invenzione melodica e costruzione armonica risultano fuse nell’unita` della situazione drammatica. 3) La corrispondenza della «Allgemeine musikalische Zeitung» contribuisce inoltre a fare un po’ di luce sulle vicende che portarono al successo dell’Oberto con l’informare che i due autori del libretto – Piazza e Solera –, pur non esplicitamente nominati, avevano «attraverso i loro numerosi amici, [...] potentemente contribuito alla buona accoglienza di quest’opera». Per questo aspetto non sembra ipotesi remota che proprio a uno dei «numerosi amici» possano attribuirsi le due corrispondenze della «Revue et Gazette musicale de Paris» sopra riportate. Piuttosto l’informazione del «Maila¨nder Correspondent» sembra smentire quanto di casuale vi era, stando a molte biografie, nella decisione di Merelli di allestire l’opera nuova di un giovane sconosciuto. Il racconto di Verdi a proposito di questa vicenda 80 e` molto asciutto, «secco come una cambiale» (per usare una sua espressione). In realta` egli non era affatto ignoto nell’ambiente culturale milanese, ambiente che aveva cominciato a frequentare come studente di musica sin dall’estate del 1832; il suo nome era gia` affiorato sulle pagine di qualche foglio teatrale, e aveva avuto non poche occasioni per entrare in rapporti con personaggi influenti della vita culturale milanese. Per cui alla luce di queste considerazioni il successo riscosso dalla prima opera del giovane compositore trovo` maggiore risonanza non tanto presso il grosso pubblico del loggione quanto piuttosto presso un uditorio piu` selezionato, annidato tra i frequentatori della Societa` Filarmonica, del Casino de’ Nobili, del Teatro dei Filodrammatici, dei salotti privati, presso i quali Verdi aveva avuto occasione di farsi conoscere, guadagnandosi attenzione e stima in alcune manifestazioni musicali pubbliche e private.81 Insomma si potrebbe affermare che il buon esito di Oberto fosse dovuto per buona parte alla ‘intellighenzia’ milanese dell’epoca (in maniera non dissimile a quanto si veriPOUGIN, pp. 40-42. Sull’attivita` svolta da Verdi a Milano anteriormente all’Oberto vedi il mio saggio, Il tempo del giovane Verdi, «Musica Dossier», 2, dicembre 1986, pp. 7-30: 23-30. 80 81

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fichera` trent’anni dopo, in diverse circostanze e con ben diverso esito, per il Mefistofele di Boito). E che tolto da quell’humus e trasferito di fronte a platee estranee ai fermenti culturali del romanticismo lombardo, l’Oberto stentasse a ritrovare un esito altrettanto positivo, lo dimostra la fredda accoglienza che l’opera, con non poca sorpresa dell’autore stesso, incontro` a Genova e a Torino (per tacere di Napoli). Prova ne sia, ad esempio, che il pubblico genovese non degno` della benche´ minima attenzione proprio quel brano che costituı` la vera ‘novita`’ dell’Oberto, il Quartetto del secondo atto. Che il pubblico genovese di quel tempo non palesasse gusti molto sofisticati, lo conferma una lettera sconosciuta di Verdi, concernente appunto le rappresentazioni dell’Oberto a Genova nel gennaio del 1841, lettera affine per contenuto a quella, gia` nota, diretta all’amico e condiscepolo bussetano Luigi Balestra,82 ma piu` dettagliata nella cronaca. Questa lettera fu gia` pubblicata molti anni or sono, ma in traduzione tedesca, peraltro scorretta, in un numero verdiano della rivista lipsiense «Signale fu¨r die musikalische Welt»; 83 essa e` indirizzata al maestro bussetano Pietro Massini: Genova, 11 Genn. 1841 Amico Cariss. L’Oberto ando` in scena sabbato e rimase freddo. Furono applauditi la Sinfonia. L’introduzione a furore con chiamata a Catone [Lonati] ed anche a me, la cavatina della Marini applaudita. Il Duetto tra Ferlotti e la Marini freddo (e` un pezzo nuovo). Il coro che segue che e` pure nuovo rimase freddo (bisogna notare che ho aggiunto in quest’opera la banda). Pochi applausi al Duetto che segue. Il terzetto freddo. Il finale pure. Nel secondo atto tutti i pezzi applauditi ma assai freddamente. Ieri sera l’istesso esito se non che i pochi applausi al Quartetto, ed al Rondo` finale cessarono del tutto. In somma il pezzo che e` veramente piaciuto fu` l’aria del Tenore, e sai perche´? perche´ ora che vi e` la banda fa un fracasso diabolico. L’esecuzione da parte dei cantanti fu` buona, anzi ti diro` che la Marini non ha mai cantato con tanto impegno e cosı` bene, e nel Rondo` fi-

82 Lettera del 21 gennaio 1841, contenente la sola, forse, recriminazione che sia dato di conoscere di Verdi contro il parere del pubblico: «Non so se i Genovesi abbiano sul capo la maledizione d’Euterpe», in C. GATTI, Verdi..., cit., p. 151. 83 LXXI, n. 41: 8 ottobre 1913, pp. 1456-1457. In questo numero e ` pubblicata, pure in traduzione tedesca, la lettera di Verdi del 18 marzo 1851 all’impresario Lanari, riguardante il contratto per un’opera nuova (il futuro Trovatore) e che ritengo inutile riportare in quanto rispecchia in tutto fedelmente la minuta contenuta nei Copialettere (cfr. CXV, pp. 116-117). Come si apprende da una nota introduttiva, i manoscritti originali erano appartenuti al commerciante di vini Nicola Manskopf di Francoforte sul Meno, possessore di una collezione di autografi da lui in seguito donati alla biblioteca di quella citta`. Devo il ritrovamento della lettera a Massini, la riproduzione anastatica dell’autografo e il consenso alla sua pubblicazione alla cortesia del dr. Otfried Bu¨the, della Stadt- und Universita¨tsbibliothek di Francoforte (cui, sia detto per inciso, si deve, in collaborazione con Almuth Lu¨ck-Bochat, la pubblicazione di una raccolta di lettere verdiane inedite in tedesco: Giuseppe Verdi. Briefe zu seinem Schaffen, Frankfurt a.M., Ricordi, 1963).

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L’OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO

nale meritava sicuramente molto. Eccoti la storia sincera sincerissima. Bisogna che ti avverta pero` che questo pubblico e` composto meta` di Genovesi, e meta` militari Torinesi i quali sono fra loro sempre in opposizione. Saro` a Milano Venerdı`. Addio G. Verdi 84 Al Sig. Pietro Massini Maestro Contrada de Filodrammatici 1810 Milano

Infatti di lı` a poco Verdi ritornava a Milano per dedicarsi alla composizione di Nabucco (o, piu` probabilmente, a riprenderla) avendo ancora nelle orecchie gli applausi indirizzati non al Quartetto o al Rondo` finale bensı` all’aria d’introduzione, cui aveva aggiunto la banda che vi faceva «un fracasso diabolico» (e che magari avra` contribuito, almeno sul momento, a sedare gli spiriti surriscaldati di genovesi e militari torinesi «fra loro sempre in opposizione»). Ci avra` fatto un pensierino egli, Verdi, che non alle disquisizioni della critica bensı` alle reazioni del pubblico pagante era disposto a dare qualche credito?

84 La firma di Verdi si presenta – caso estremamente raro se non forse unico – senza il caratteristico svolazzo, a causa forse della mancanza di spazio sul margine inferiore del foglio; il manoscritto comunque denuncia in modo inequivocabile i tratti specifici della scrittura verdiana, tali da non suscitare dubbio alcuno sull’autenticita` del documento.

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APPENDICE 1. FACSIMILE DELLA RECENSIONE ANONIMA APPARSA SULLA «ALLGEMEINE ISCHE ZEITUNG », LEIPZIG , XLII, N. 6: 5 FEBBRAIO 1840, CC . 102-110.

MUSIKAL-

4

2. LETTERA

DI

GIUSEPPE VERDI

A

PIETRO MASSINI, GENOVA, 11 GENNAIO 1841.

SECONDA

RICOGNIZIONE

ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI 1 Fair is foul, and foul is fair SHAKESPEARE, Macbeth, I, 1

«Insomma le cose da curare molto in quest’opera sono Coro e Machinismo». Cosı` Verdi all’impresario Alessandro Lanari il 15 ottobre 1846 2 nell’inviargli lo «schizzo» del Macbeth. Cinque mesi piu` tardi, dopo la prima rappresentazione dell’opera alla Pergola di Firenze, il baritono Felice Varesi, protagonista di quella rappresentazione, faceva eco alle parole del compositore scrivendo a Stefano Ranzanici: «Quest’opera richiede una gran Messa in scena e un doppio Numero di Cori».3 In questa stessa lettera Varesi osservava poi: «Nel Macbeth Verdi ha adottato un nuovo stile adatto al genere fantastico della tragedia di Sheackspear». Analogamente l’anonimo corrispondente del «Pirata», sempre dopo la ‘prima’ fiorentina: [Verdi] spiego` un genere, che fino ad ora non pareva il suo: vi sono dei pezzi, di cui Meyerbeer vorrebbe essere autore. Per le provincie sara` un’Opera che dara` qualche pensiero, mentre esige molte e sontuose decorazioni [...]. I tenori non ne saran troppo contenti, e ci vorra` pazienza [...].4

1 Questo contributo riunisce, con l’aggiunta di due documenti riportati in Appendice, il testo di due comunicazioni presentate rispettivamente a Venezia in occasione del Convegno Internazionale di Studi: «Il melodramma romantico in Italia: Bellini – Donizetti – Il primo Verdi», organizzato dall’Istituto di Lettere Musica e Teatro della Fondazione Giorgio Cini (15-17 settembre 1977), e a Danville, Kentucky, USA, in occasione del IV Congresso internazionale di studi verdiani «Verdi’s Macbeth», organizzato dall’American Institute for Verdi Studies, dall’Istituto di studi verdiani e dal Centre College Regional Arts Center (10-12 novembre 1977). 2 Pubblicata in ABBIATI , I, p. 650 sgg. 3 Lettera datata «Firenze 17 marzo 1847»; autografo nell’archivio del Teatro La Fenice di Venezia presso la Fondazione Levi. 4 «Il Pirata, giornale di letteratura, belle arti, varieta ` e teatri», Milano, XII, n. 76: 25 marzo 1847, pp. 321-322.

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SECONDA RICOGNIZIONE

L’impressione che Verdi avesse inteso cimentarsi in un genere nuovo, per l’appunto il «genere fantastico» (nuovo per lui, ma ancor piu` per le abitudini stesse del melodramma italiano di quegli anni), era d’altronde piuttosto diffusa presso la critica italiana coeva, ignara o dimentica che proprio quel genere vantava nella tradizione teatrale italiana antiche e illustri radici, risalenti – quanto al teatro musicale – alle origini stesse del genere, nel Seicento, in coincidenza con l’affermazione nella scenografia delle «macchine» e del gusto per gli effetti «a sorpresa», per i cambiamenti «a vista», per le «apparizioni», cui provvedevano famosi architetti, a gara nell’escogitare «ingegni» sempre piu` raffinati e complessi al fine di «sorprendere» la fantasia degli spettatori. Altrettanto diffusa era l’impressione che in tale cimento Verdi venisse a subire l’influenza o la suggestione del teatro musicale transalpino, non solo di quel grand ope´ra di Scribe e Meyerbeer che perpetuava in eta` romantica taluni aspetti della macchinistica «a sorpresa» del teatro barocco, bensı` anche dell’opera di un Mozart, di un Weber: accenni in tal senso non erano infrequenti nella critica teatrale all’epoca delle prime affermazioni del Macbeth. Nel recensire quest’opera dopo la prima rappresentazione, Antonio Calvi osservava sul «Ricoglitore» fiorentino: [...] in tutti que’ pezzi, dove hanno parte le potenze soprannaturali [...] tuttoche´ sieno per se´ belli e graziosi, pure non hanno quel misterioso e fantastico, che la situazione richiederebbe, e di cui Weber, Motzart, Mayerbeer [...] ed altri pochi ci hanno mostrato cosı` splendidi esempi. Ed io sarei quasi inclinato a dire, che gl’ingegni italiani, nati sotto un piu` caldo sole ed un piu` splendido cielo, non hanno, diro` cosı`, sopra la lor tavolozza colori adatti per dipingerci le cose soprannaturali, in quella guisa che sanno farlo i settentrionali.5

Particolarmente insistente il richiamo a Roberto il Diavolo, gia` noto al pubblico fiorentino sin dal dicembre 1840. Ma non meno insistente, fin quasi scontato il paragone dell’episodio dell’ombra di Banco con quello dell’ombra di Nino nei due finali della Semiramide di Rossini, volto perlopiu` a sottolineare l’inferiorita` del risultato drammatico ottenuto da Verdi. Esso veniva proposto, ad esempio, da Vincenzo Meini – un cantante allora rinomato, ma in procinto ormai di ritirarsi dalle scene per dedicarsi alla letteratura e alla critica teatrale 6 – che scrivendo dopo la ‘prima’ del Macbeth al periodico milanese «La Moda», rilevava a proposito della scena dell’ombra di Banco: «Il Ricoglitore», Firenze, 20 marzo 1847, p. 124. Vincenzo Meini (Pignone, Firenze, 1812 - Firenze, 1897), per il quale Donizetti aveva scritto una parte nella Maria di Rudenz, si cimento` anche nella poesia e nella composizione musicale (cfr. C. SCHMIDL, Dizionario Universale dei Musicisti, Milano, Sonzogno, 1929). In una nota del volume 5 6

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

Ne´ capisco come la sublime terribilita` di Shakespeare in questo punto sovranamente drammatico, non abbia ispirato a Verdi qualcosa di paragonabile al finale della Semiramide.7

Alessandro Gagliardi, scrivendo a sua volta alla «Revue et Gazette Musicale de Paris», la rivista diretta da Fe´tis, non si lasciava sfuggire un confronto con Roberto il Diavolo: Le troisie`me acte s’ouvre, comme le premier, par un chœur des sorcie`res, que Macbeth vient consulter. On a voulu ici produire un contraste, et lorsque Macbeth tombe e´vanoui, des sylphides viennent danser autour de lui et le raniment. Cette sce`ne est imite´e de Robert-le-Diable, et la musique qui l’accompagne est une re´miniscence assez caracte´risee´e de celle qu’a employe´e Meyerbeer en cette occasion.8

Il confronto verra` ripreso alcuni mesi piu` tardi, dopo la rappresentazione dell’opera al Teatro Nuovo (oggi Verdi) di Padova, da tale Stefani che sul «Caffe` Pedrocchi» del luglio 1847 (cito da «La Moda», dove la recensione fu riportata), osservava a proposito del terzo atto: E` pero` a notarsi che qua e cola` la di lui musica risente delle fantastiche ed eteree melodie prese per iscorta da quell’indefinibile lavoro ch’e` Roberto il Diavolo.9

Ma e` soprattutto l’elemento «fantastico» in se´ ad attirare maggiormente l’attenzione della critica. Scrive Enrico Montazio sulla «Rivista di Firenze»: In quanto alla parte fantastica, diciamolo pur francamente, Verdi e` ancora lontano dal raggiungere quell’alto punto d’idealismo cui poggiarono Weber, Mozart, Beethowen, e il vivente Mayerbeer. Forse fu il timore di riuscire involontariamente plagiario d’uno di questi eccelsi maestri, forse fu la volonta` di starsi all’estremita` opposta di cio` che cotesti fantastici compositori ne diedero per modello del genere fantastico,

di P.E. FERRARI, Spettacoli Drammatico-musicali e Coreografici in Parma, Parma, Battei, 1884, p. 226, si legge che il baritono Antonio Superchi, interpellato sull’argomento della prima rappresentazione dell’Ernani alla Fenice di Venezia, nella quale sostenne la parte di Carlo, «a proposito della parte di Silva, dissemi che doveva essere eseguita da un basso Maini [sic], il quale, per varie circostanze, fu poi sostituito dal Selva che lo stesso mº Verdi e Superchi andarono ad udire al teatro in S. Samuele». In realta` per la propria voce (sull’episodio vedi ora FENICE, pp. 122-123, 126-127). In seguito Meini canto` sı` Ernani – a Madrid nel marzo 1845 e a Casalmaggiore nel successivo ottobre – ma nel ruolo baritonale di Carlo. 7 «La Moda, giornale dedicato al bel sesso», Milano, XI, n. 16: 20 marzo 1847, p. 62; la corrispondenza di Meini reca la data del 15 marzo. 8 «Revue et Gazette Musicale de Paris», XIV, n. 13: 28 marzo 1847, pp. 104-106; la corrispondenza reca la data del 14 marzo. 9 «La Moda», Milano, XI, n. 43: 5 agosto 1847, pp. 170-171; il medesimo articolo si legge anche, in gran parte, in «La Fama del 1847», Milano, VII, n. 62: 5 agosto 1847, pp. 247-248.

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forse fu il tempo che gli manco` per elaborare i suoi concetti; insomma, qualunque siasi la ragione che puossi addurre in discolpa del Verdi, tutto si potra` dire, fuorche´ affermare esservi esempio di grandiosita` fantastica, di caratteristica armonia nella parte assolutamente fantastica del poema di Shakespeare messo in musica dal Verdi.10

E accennando all’episodio dell’ombra di Banco non perdeva l’occasione per un confronto con la Semiramide di Rossini: il musicista non raggiunse l’ideale bellezza a cui parea doverlo spingere la situazione, [...] lo spettatore buon-gustaio consacra un memore sospiro all’inarrivabile finale della Semiramide, mentre si offeriva una splendida occasione per il Verdi di porgli a fronte un condegno pendant [...].

Un altro articolista del «Ricoglitore» fiorentino aveva pure da dire la sua intorno ai risultati raggiunti da Verdi nella parte «fantastica» (cito dal milanese «Bazar», dove l’articolo, a firma D. J., e` riportato): [...] se fosse lecito di dar consigli, quando non si e` di cio` ricercati, direi al fortunato maestro, di non scegliere piu` soggetti fantastici, perche´ in lavori di tanta lena, non basta il desiderio di riuscita ed una buona volonta` per occuparsene, ma occorre piu` del solito ingegno multiforme e fantasioso che nei suoi effetti tutto comprenda e a nulla assomigli, quale e non altrimenti essere deve la primitiva creazione del genio, senza tipi cioe` per seguire, o modelli da imitare, e di cui ne abbiamo esempi incontrovertibili in Meyerbeer, in Rossini e in pochissimi altri.11

Analogo consiglio ad abbandonare il genere «fantastico», unito all’esortazione a non lasciarsi sedurre «dalla vaga Venere dei congiungimenti forestieri», era contenuto in una lettera rivolta da Giuseppe Giusti a Verdi,12 lettera piu` volte postillata dagli studiosi e divenuta famosa sino alla noia, che testimonia a meta` Ottocento la ristrettezza di vedute di tanta cultura nostrana di fronte agli spericolati esperimenti verdiani 13 (anche se a giustificarne il contenuto 10 «Rivista di Firenze», III serie, n. 8: 27 marzo 1847, pp. 29-32. Questo numero, eccezionalmente stampato su carta di color verde, e` interamente redatto da Montazio e dedicato a Verdi e al Macbeth; in appendice la critica al libretto, cosı` intitolata: «Macbeth»: Profanazione in quattro atti di F. M. Piave. 11 «Bazar di novita ` artistiche, letterarie e teatrali», Milano, VII, n. 24: 24 marzo 1847, p. 95. L’articolo e` riportato anche in «Il Messaggero Bolognese», V, n. 1: 31 marzo 1847, pp. 6-8. 12 Datata «Pescia, 19 marzo 1847». Fu dapprima pubblicata in Epistolario edito e inedito di Giuseppe Giusti, a cura di F. Martini, Firenze, 1904 (v. vol. II, p. 531); quindi ristampata in appendice ai COPIALETTERE, pp. 449-450, e in successive pubblicazioni d’argomento verdiano. La risposta di Verdi a Giusti, gia` pubblicata nel «Corriere della Sera» del 12 maggio 1933, si puo` ora leggere in ABBIATI, I, pp. 691-692. 13 Vedine un severo commento in MILA 1974, pp. 273-275.

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ideale soccorre – come ha osservato Baldini 14 – quell’invito all’engagement politico che piu` d’ogni altra questione artistica premeva al letterato e patriota toscano). Il disorientamento della critica rispecchiava quello del pubblico della prima rappresentazione fiorentina. Le prime cronache sono pressoche´ concordi: molti applausi al primo e al secondo atto (in particolare al primo coro delle streghe, alla cavatina di Lady Macbeth, al duetto soprano – baritono, al coro dei sicari, al brindisi), gelida accoglienza al terzo atto (l’atto appunto delle «fantasticherie» e delle apparizioni), pochi applausi al quarto atto (solo dopo la scena del sonnambulismo e dopo l’aria di Macbeth). Quelli che Verdi considerava «i pezzi principali dell’Opera», e cioe` «il Duetto fra Lady e il marito, ed il Sonnambulismo»,15 avevano praticamente protetto il successo della prima serata.16 Meini nella citata corrispondenza alla «Moda» commenta: L’atto terzo e` tutto fantastico, tutto apparizioni e streghe che stanno a far la polta con cert’ingredienti strani [...]. Quest’atto, ch’io non sto a sminuzzare, o non fu apprezzato o non fu inteso; fatto sta che non ebbe incontro favorevole. E chi sa che le apparizioni, gli otto re che sfilavano a guisa di grosse marionette tentennando, barcollando dietro una rete nera che faceva veci di nebbia, chi sa, dico, non cooperassero alla fredda accoglienza. Fatto sta che ne´ le Ondine, ne´ le Silfidi scese in barchetta dalle nuvole a tesser carole armoniche onde richiamare in vita il povero Macbeth, cascato in terra come un cencio, non so se per la fatica della musica o per lo spavento di tante visioni, re, streghe, ecc., ecc., valsero a questo terzo atto la fortuna de’ precedenti. Bisogna confessare che il pubblico non pote´ porgere attenzione alla musica, esilarato o distratto da tante cose e visioni un po’ troppo fantastiche.

14 G. BALDINI , Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano, Garzanti, 1970 (edizione postuma a cura di Fedele d’Amico), pp. 138-140. 15 Lettera di Verdi del 23 novembre 1848 a Salvatore Cammarano, nota attraverso la minuta pubblicata nei COPIALETTERE, p. 61 sgg. Il testo della lettera e` ora in ABBIATI, I, p. 777 sgg. ` indubbio, stando alle cronache coeve, che il Macbeth con il succedersi delle repliche 16 E crebbe nel favore del pubblico. In una corrispondenza a «Il Pirata» (n. 77 del 26 marzo 1847, p. 325), si legge: «Il Macbet continua a destare entusiasmo, ad empire il teatro straordinariamente, ed e` tanto il fanatismo, che non basta il bis ogni sera di diversi pezzi, ma si vuol pure la replica per due volte del magico primo tempo del duetto tra la Barbieri e il Varesi. Ecco un’altra corrispondenza solenne risposta ai botoli che abbajano alla luna». In un’altra a «La Fama del 1847» (Rassegna di Scienze, Lettere, Arti, Industrie e Teatri, Milano, VII, n. 25: 29 marzo 1847, p. 99): «Le rappresentazioni del Macbetalla Pergola segneranno un’epoca nei fasti degli entusiasmi teatrali, come quelle che di mano in mano videro crescere a dismisura gli applausi, che divennero per vero frenetici. La prima e la seconda parte del nuovo lavoro del Verdi sono quelle che, per testimonianza di persone che intervennero allo spettacolo, e recarono a Milano le novelle felici, meritano lode precipua sulle altre due [...]». E infine in una successiva corrispondenza, datata «25 Marzo», alla «Gazzetta di Parma» (n. 27 del 3 aprile 1847, p. 108): «il Macbeth [...] frutto` [a Verdi] venti e piu` chiamate, trenta e tant’altre la seconda, un’aurea corona d’alloro, un cuscino in velluto cremesi ed un vassojo d’argento; [...] il Macbeth [...] continuerebbe anzi crescerebbe ogni dı` di piu` nel favore del pubblico».

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Nell’articolo del «Ricoglitore» del citato D. J., riportato dal «Bazar», si legge: Nell’atto terzo, lungo assai, mancarono perfino gli applausi de’ suoi [di Verdi] ammiratori, e solo il silenzio veniva interrotto da qualche zittire; e se si rattempro` l’impazienza a non decidersi in peggio lo si deve alla predilezione che gode il maestro a Firenze.

Sempre sul «Ricoglitore» Calvi osserva a sua volta: Dove pero` ci sembra che la musica sia rimasta inferiore alla situazione del dramma, e` al second’atto quando apparisce l’ombra di Banco, ed anche al terzo e in generale in tutti que’ pezzi, dove hanno parte le potenze soprannaturali [...].

Gagliardi sulla «Revue et Gazette Musicale de Paris»: A` la premie`re, les deux premiers actes ont passe´s avec de grands applaudissements et de fre´quents appels des chanteurs et du maıˆtre. Le public a e´te´ de glace pour les deux derniers, car les Florentins, tout verdistes qu’ils sont, ne sauraient re´sister a` certaines impressions, et celle de l’ennui est de toutes la plus impe´rieuse. A` la seconde repre´sentation, qui a eu lieu le lendemain, les mesures e´taient prises pour que les deux derniers actes fussent vigoureusement applaudis.

Un corrispondente della «Fama», sempre all’indomani della ‘prima’: L’aspettativa del pubblico era immensa, straordinaria, e quattr’ore prima che si alzasse la tela il teatro capiva a fatica gli spettatori: parecchi de’ quali dovettero rimanersene fuori all’aria aperta. Impossibile faceasi pero`, sebbene il pubblico docile si mostrasse alle varie impressioni che venivangli dall’Opera, che in cotal prima rappresentazione fosse intesa e gustata nel suo vero senso questa produzione di un genere affatto nuova e tanto fantastica. Ad ogni modo l’esito fu clamoroso, trionfale; ben ventidue volte il maestro dovette uscire al palco: e furon fatti ripetere quattro pezzi. Il terzo atto, di quattro onde si compone il Macbet, si fu quello che scapito` nell’effetto, colpa il macchinismo delle apparizioni, e perche´ il piu` bizzarro degli altri. Il primo e il second’atto destarono fanatismo; il terzo ed il quarto furon applauditi con enfasi minore.17

E infine Montazio sulla «Rivista di Firenze» nella recensione gia` citata: Il terz’atto, che tutto intero e` destinato a mostrarci le streghe e le loro incantagioni, e` quello altresı` in cui dovrebbe esclusivamente campeggiare l’elemento fantastico. Ma siamo costretti a confessare che, tranne il primo Coro delle streghe e forse l’allegro ballabile che esse cantano durante la discesa e la pantomima delle ondine e delle silfidi, il quale peraltro ricorda un Coro d’Attila, nulla di caratteristico e di menoma-

17

«La Fama del 1847», VII, n. 23: 22 marzo 1847, p. 91.

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mente fantastico sappiamo rinvenire in questo terz’atto. Un’attenta investigazione degli effetti e dei mezzi dell’arte avrebbe forse condotto a concludere che, toltone i Cori, ogni risorsa, in conclusione, era da rinvenirsi nella parte strumentale, e da evitarsi quel prolungato cantabile del baritono, che troppo richiama lo spettatore alle materialita` della vita, e lo distoglie dai misteri che van succedendo sotto i di lui occhi e ne raffredda le impressioni, ov’anco le melodie ad esso poste in bocca fossero, piu` che nel presente caso nol sono, analoghe al soggetto e improntate di bizzarro e di fantastico. Weber e Meyerbeer erano i duci che Verdi doveva prender per iscorta nel difficile laberinto in cui compiacquesi porre il piede; se l’orbita percorsa dalle loro ale e` vasta, non tanto esteso fu pero` il loro volo da non permettere ad altri lo spingersi piu` oltre nel tentato sentiero, ed incarnare l’idea che essi accontentaronsi di accennare. Il Verdi fu troppo timido o precipitoso troppo, e, volendo semplicizzare, pecco` nella grettezza; e, volendo limitarsi negli effetti musicali, cadde nella monotonia.

Da queste impressioni nonche´ da altre che saranno riportate piu` oltre, si puo` dunque dedurre che alla prima rappresentazione il pubblico durante il terzo atto fu distratto dall’aspetto spettacolare dell’elemento «fantastico», piu` propriamente dai «macchinismi» che fungevano da supporto materiale. Non e` da escludere che si fosse verificata, almeno in quella prima sera, qualche smagliatura nell’allestimento, benche´ curato da Verdi in persona e per quanto egli si fosse dato da fare assai per tempo affinche´ la messinscena risultasse il piu` possibilmente accurata; infatti, sin dal 25 ottobre 1846 aveva avvertito Piave: Mettiti subito in relazione con Lanari per la messa in scena del Macbeth. Scrivi subito una lettera e descrivi le ordinazioni, attrezzi, figurini, scenari, vestiario, comparseria etc. etc. ... Non dimenticare nulla e fa` tutto quello che abbisogna.18

Non e` che il pubblico fiorentino non avesse preso conoscenza, se non dimestichezza, con il genere fantastico; sotto questo aspetto esso era per cosı` dire all’avanguardia rispetto al pubblico teatrale italiano: alla Pergola erano gia` stati rappresentati Roberto il Diavolo (1840-41) e Il franco cacciatore (1845), per non parlare del Don Giovanni eseguito al teatro Goldoni nel 1835, alla Pergola nel 1837 e infine alla Societa` Filarmonica tre mesi prima del Macbeth. Tuttavia, se teniamo presenti le consuetudini dell’opera italiana di quegli anni e il fatto che il Macbeth era appunto d’autore italiano, lo spettatore si trovo` inaspettatamente di fronte a singolarita` scenotecniche che sembravano esorbitare dalle consuetudini cui era assuefatto, tali da stornare – almeno la sera della ‘prima’ – la sua attenzione dall’azione musicale. 18

ABBIATI, I, p. 651.

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A commento di tutto quanto sopra resta comunque l’esplicito proposito di Verdi di fare cosa diversa, inconsueta, che desse adito alle polemiche d’arte, proposito espresso in una lettera a Piave alla vigilia di procedere alla scelta del soggetto dell’opera per la Pergola di Firenze: «Sono stanco dei sogetti soliti. Io voglio fare una cosa che non voglio si giudichi dopo una sera e` bella e` brutta... no` no`, amo che si quistioni un pezzo».19 A parte il cambiamento «a vista» che durante il quarto atto trasforma la «Sala del Castello» in «una vasta pianura» con la «foresta di Birna» sullo sfondo (ovvero «soldati inglesi, i quali lentamente si avanzano, portando ciascheduno un ramo d’albero avanti di se´»), sono cinque i principali momenti della messinscena del Macbeth di Verdi in cui intervengono i macchinismi, di cui quattro nel solo terzo atto; i loro interventi sono sempre in funzione dell’elemento fantastico del dramma: nel 2º atto: L’ombra di Banco (che appare due volte) nel 3º atto: Le tre apparizioni La sparizione della caldaia La sfilata degli otto re Il ballabile degli spiriti aerei A questi si aggiunge un sesto macchinismo, che seppure non partecipa direttamente all’aspetto visivo della messinscena, pure rientra nella dimensione scenografica ampliandone la spazialita` acustica e accentuandone l’atmosfera fantastica: esso consiste in una «trappe aperta e abbastanza larga» 20 posta sul palcoscenico, dalla quale deve sortire, durante la sfilata dei re, il suono cupo e misterioso delle ‘cornamuse’ situate sotto il palco: poiche´ si tratta della medesima «Trappa da cui sortiranno le ombre dei Re» – come e` esplicitamente indicato nella partitura autografa –, esso viene in pratica a coincidere con il quarto dei macchinismi sopra elencati. Come Verdi si propose di realizzarli? All’epoca del Macbeth fiorentino non erano ancora d’uso corrente – almeno in Italia in forma stampata – le disposizioni sceniche. Non se ne conoscono relative al Macbeth ne´ dell’edizione fiorentina ne´ di quella parigina; 21 e quand’anche esistesse negli archivi parigiLettera del 22 agosto 1846; copia fotostatica presso l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma. Cfr. lettera di Verdi del 23 gennaio 1865 a Escudier riportata qui appresso. 21 La prima disposizione scenica a stampa di un’opera di Verdi deve ritenersi, allo stadio attuale delle ricerche, quella dei Vespri siciliani sia nella versione originale per l’Ope´ra di Parigi (1855) sia nella versione italiana con il titolo Giovanna di Guzman. All’epoca del Macbeth riformato per Parigi (1865) erano nel frattempo apparse in Italia anche le disposizioni sceniche di Un ballo in maschera e della prima versione di La forza del destino. Successivamente si aggiungeranno – sempre a proposito 19 20

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ni una disposizione manoscritta relativa all’edizione riformata (e della quale peraltro non si trova traccia 22) questa non costituirebbe comunque una fonte primaria poiche´, com’e` noto, Verdi (cui ancora bruciava la forte arrabbiatura che s’era presa all’Ope´ra nel 1863 durante le prove per la ripresa di Les Veˆpres siciliennes) non si reco` a Parigi per presiedere di persona la messinscena della versione riformata, caso quasi unico, questo, nella carriera del compositore; in precedenza si era verificato, in via del tutto eccezionale, solo per la ‘prima’ del Corsaro a Trieste. Possediamo tuttavia le lettere, non tutte peraltro, che il compositore diresse ai due interpreti principali, al librettista e all’impresario in occasione della ‘prima’ fiorentina, l’importante lettera a Cammarano in vista dell’allestimento al San Carlo di Napoli 23 e infine le lettere che piu` tardi rivolgera` a Escudier in occasione della revisione per il The´aˆtre-Lyrique di Parigi. Queste lettere – tutte ampiamente note a eccezione di due missive alla Barbieri Nini (di cui alcuni frammenti sono stati pubblicati in due numeri di catalogo di un antiquario tedesco 24) e di una lettera all’editore Escudier 25 – insieme alle didascalie delle due edizioni del libretto e dello spartito e alle indicazioni delle due partiture autografe,26 costituiscono materiale, se non esauriente, tuttavia sufficiente ai di disposizioni sceniche di opere verdiane – quelle per il Don Carlos nella prima versione parigina (1867), per Aida, per il rinnovato Simon Boccanegra, ancora per Don Carlo nella versione italiana in quattro atti, e infine per Otello. Di una disposizione scenica per il Falstaff, preannunciata dalla casa Ricordi con annesso numero editoriale, non s’e` trovata finora alcuna traccia. 22 Cfr. H.R. COHEN , A Survey of French Sources for the Staging of Verdi’s Operas. «Livrets de mise en sce`ne» annotated Scores and annotated Libretti in two Parisian Collections, «Studi Verdiani», 3, 1985, pp. 11-44; nonche´ Cent ans de mise en sce`ne lyrique en France (env. 1830-1930), Catalogue descriptif [...] par H.R. Cohen et M.-O. Gigou, New York, Pendragon Press, 1986. 23 Vedi nota 15. 24 J.A. STARGARDT , Autographen, Marburg, catalogo n. 603, 1974 (v. n. 559: lettera del 2 gennaio 1847) e catalogo n. 606, 1975 (v. n. 867: lettera del 31 gennaio 1847). Il frammento della lettera del 2 gennaio e` riprodotto nel presente scritto a p. 23. La lettera del 31 gennaio e` ora di proprieta` del signor Max Reis di Zurigo, che ne ha gentilmente trasmesso copia fotostatica all’Istituto nazionale di studi verdiani (vedine il testo integrale in appendice). 25 INTERVISTE, p. 26, nota 11. L’autografo di questa lettera – di cui fotocopia mi e ` stata trasmessa da Martin Chusid, direttore dell’American Institute for Verdi Studies di New York – si trova presso la Folger Library di Washington. Si tratta di un documento di fondamentale importanza per l’interpretazione delle opere di Verdi; basterebbe leggere quanto il compositore scrive in fatto di rantoli (Macbeth), colpi di tosse (Traviata), risatine (Un ballo in maschera: «E` scherzo od e` follia» solitamente interpolati dagli interpreti: «In musica non si deve, ne´ si puo` fare», affermazione che richiama per la forte analogia quella espressa a suo tempo da Mozart in una lettera al padre Leopold: «La musica, anche nelle situazioni piu` terribili, non deve mai offendere l’orecchio, bensı` essere gradevole all’ascoltatore (in altre parole, essa non deve mai cessare di essere musica)». Il testo integrale di questa lettera – di rilevante interesse per la messinscena del terzo e del quarto atto del Macbeth, soprattutto riguardo agli effetti richiesti per le apparizioni dei re, per la scena del sonnambulismo e il cambiamento «a vista» nel finale – e` riportato in appendice al presente scritto. 26 La partitura autografa della versione fiorentina si conserva presso l’archivio della Casa Ri-

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fini di una corretta interpretazione della messinscena dell’opera. A questa documentazione si possono infine aggiungere alcune cronache coeve, dalle quali e` possibile ricavare informazioni che valgano a integrare le indicazioni fornite dai documenti, in particolare dall’epistolario verdiano. Di tutto questo materiale ho raccolto qui di seguito quanto puo` servire a documentare la realizzazione dei macchinismi sopra elencati, macchinismi – va sottolineato sin d’ora – la cui funzione drammatica non sara` poi minimamente alterata nella revisione operata da Verdi per l’edizione parigina. Un’avvertenza: si tenga presente che il Macbeth di Shakespeare era del tutto sconosciuto alle compagnie drammatiche italiane; fu solo a se`guito del successo dell’opera di Verdi che il Macbeth di Shakespeare comincio` ad essere accolto nel repertorio di alcune compagnie di prosa, a cominciare almeno dalla Compagnia Lombarda di Alamanno Morelli nel 1849 (Milano, Teatro Re, 18 dicembre 1849), seguita dalla compagnia Zoppetti e Forti l’anno seguente. Adelaide Ristori aveva interpretato per la prima volta il Macbeth di Shakespeare a Londra nel 1857 dopo essersi esibita, in quello stesso anno, al The´aˆtre Italien di Parigi nella sola scena del sonnambulismo; questa scena per la Ristori «divenne subito (e rimase fino ai suoi ultimi anni) una delle ‘situazioni’ drammatiche piu` ripetute e acclamate».27 L’OMBRA

DI

BANCO

Per la realizzazione dello spettro di Banco durante la scena del banchetto, Verdi aveva fatto richiedere scrupolose informazioni direttamente a Londra. Il 22 dicembre 1846 le trasmetteva all’impresario Lanari: Guarda che l’ombra di Banco deve sortire sotterra: dovra` essere l’attore istesso che rappresentava Banco nell’Atto 1.º dovra` avere un velo cenerino ma assai rado e fino che appena si veda, e Banco dovra` avere i capelli rabbuffati e diverse ferite al collo visibili. Tutte queste nozioni le ho da Londra ove si rappresenta continuamente questa Tragedia da 200 anni e piu`.28 cordi; copie manoscritte della medesima si conservano presso le biblioteche del Conservatorio di Firenze, del Museo della Musica di Bologna, del Conservatorio di Milano (due copie, di cui una nel fondo Noseda insieme alla partitura ms. di alcuni pezzi staccati), del Conservatorio di Napoli nonche´ alla Library of Congress di Washington (due copie, di cui una con strumentale ridotto ad opera di tale Zitowski, Madrid). La partitura originale, solo parzialmente autografa, della versione parigina e` descritta alla nota 36. Per tutto questo vedi ora la descrizione delle fonti nel Commento critico, in G. VERDI, Macbeth, edizione critica a cura di D. Lawton, Chicago, University of Chicago Press, Milano, Ricordi, 2006. 27 L. CARETTI , «La regia di Lady Macbeth», in Il teatro del personaggio. Shakespeare sulla scena italiana dell’ ’800, a cura di L. Caretti, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 147-180: 150. 28 Autografo presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

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Alcuni mesi dopo la ‘prima’ fiorentina Verdi si rechera` a Londra per mettervi in scena I masnadieri e non si sara` certamente fatta mancare l’occasione d’assistere a una rappresentazione in inglese del Macbeth di Shakespeare (come del resto confermato da una sua lettera a Cammarano, che vedremo in seguito). Cio` non varra` tuttavia a modificare la soluzione che il compositore aveva suggerito per la messinscena fiorentina, soluzione che mirava a ottenere il massimo d’illusione scenica possibile in armonia con le esigenze dell’azione musicale. Come Verdi realizzasse sul piano tecnico tale soluzione non lo apprendiamo dalle cronache teatrali coeve bensı` da una sua lettera del 23 gennaio 1865 a Escudier: Altra osservazione per la scena del Convito Macbet nell’Atto Secondo. Ho visto recitare piu` volte questo dramma in Francia, in Inghilterra, in Italia, dappertutto si fa` apparire Banco da una coulisse che gira, si dimena, inveisce contro Macbet poi se ne va tranquillamente dentro un’altra coulisse. Cio`, secondo me, non ha illusione, non fa` alcuna sensazione, e non si capisce bene se sia ombra o uomo. Quando io posi in scena il Macbet a Firenze feci apparire Banco (con una larga ferita in fronte) da una trappe sottoterra precisamente nel posto di Macbet. Non si moveva; [parola illeggibile] sollevava soltanto a suo tempo il capo. Faceva terrore. La scena era distribuita cosı`:

Questa distribuzione da` campo a Macbet di muoversi, e Lady le puo` stare sempre al fianco per dirle sotto voce le parole che la situazione esige. Trovando meglio, fate; ma badate che il pubblico capisca bene l’ombra di Banco.29

Con acuto senso di praticita` teatrale Verdi non escludeva a priori soluzioni diverse da quelle ch’egli proponeva, purche´ tali da rendere l’effetto scenico da lui immaginato, in modo che il pubblico comprendesse bene, senza possi29 Autografo presso la Bibliothe ` que de l’Ope´ra, Parigi. La lettera e` stata pubblicata da LUZIO 1947, IV, p. 160 sgg.; la minuta e` stata pubblicata in appendice ai COPIALETTERE, pp. 452-454.

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bilita` di equivoci, il significato della spettrale apparizione. E` tuttavia interessante osservare che a quasi vent’anni di distanza egli riteneva la soluzione adottata per la prima rappresentazione fiorentina ancora valida per Parigi, in ogni caso piu` convincente che non quelle offerte dalla prassi del teatro di prosa, ivi compresa la tradizione teatrale inglese.

LE

TRE APPARIZIONI

E` noto l’accenno che Verdi fa circa la fantasmagoria in una sua lettera a Lanari del 21 gennaio 1847 relativamente alla scena delle apparizioni nel terzo atto: Bisogna anche che ti prevenga che parlando giorni fa` con Sanquirico del Macbet ed esternandoli il mio desiderio di montare assai bene nel terzo Atto delle apparizioni egli mi suggerı` diverse cose, ma la piu` bella e` certamente la fantasmagorı`a. Egli mi assicuro` che sarebbe stata cosa estremamente bella ed adattissima; ed Egli stesso s’e` incaricato di parlare coll’ottimo Duroni onde preparare la macchina. Tu sai cosa e` la fantasmagorı`a ed e` inutile te ne faccia la descrizione. Per Dio se la cosa riesce bene come me l’ha descritta Sanquirico sara` un’affare da sbalordire, e da far correre un mondo di gente soltanto per quello. Circa la spesa m’assicura che sara` poco piu` d’una altra macchina [...].30

La fantasmagoria era sostanzialmente una macchina basata sul principio della lanterna magica, tuttora impiegato per la proiezione di foto-diapositive e come sussidio della scenografia. Il nome deriva dagli spettacoli, divenuti ben presto molto popolari, che un fisico belga, E´tienne-Gaspard Robert, meglio noto con la pseudonimo di Robertson, presentava sin dai primi anni dell’Ottocento servendosi di una macchina da lui brevettata e battezzata con il nome «Fantascope». Robertson ebbe presto degli imitatori in ogni parte d’Europa. A proposito del suggerimento proposto da Sanquirico, e da Verdi avanzato a Lanari, sull’impiego della fantasmagoria, e` stato giustamente osservato ai nostri giorni: «E se non si vuol azzardare che Giuseppe Verdi precorresse il cinematografo, si puo` senz’altro considerare il maestro un precursore dei modernissimi sistemi di proiezione in movimento che oggi, a distanza di oltre cento anni, si usano nei palcoscenici meglio attrezzati».31 Autografo presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Verdi e Firenze, Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 1951, p. 15. Leonardo Pinzauti m’informa che l’anonimo estensore di questo volume debba identificarsi nel giornalista fiorentino Nando Vitali. 30 31

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

Dall’epistolario verdiano non si ricavano ulteriori accenni ne´ sulla fantasmagoria ne´ sul macchinismo effettivamente adottato per realizzare le tre apparizioni. Ci soccorre tuttavia, in qualche modo, un articolo di Montazio apparso sulla «Rivista» di Firenze alla vigilia della prima rappresentazione: si tratta di una cronaca dei «Viaggi e Peripezie della macchina per la Fantasmagoria del Macbeth», alla fine della quale peraltro l’autore avverte i lettori «essere in buona coscienza vero il principio e vera la fine». Dal «principio» e dalla «fine» di detta cronaca si ricava che la macchina della fantasmagoria, conforme i propositi di Verdi tosto assecondati da Lanari, fu fatta effettivamente costruire a Milano (donde la comprensibile stizza del macchinista del Teatro alla Pergola, Cosimo Canovetti, il quale – al dire di Montazio – sosteneva d’essere in grado egli stesso di costruirne una perfettamente funzionante) e fu quindi spedita, via Modena – dove fu fatta sostare a lungo da una dogana diffidente e sospettosa – a Firenze. Ma non se ne fece poi nulla; ed e` quanto si apprende dal poscritto dell’articolo di Montazio: Ahime`! l’ultima e la piu` grande delle peripezie per la macchina della fantasmagoria le era proprio riserbata a Firenze! Non trovandosi decenti le tenebre assolute in un primario teatro, venne proibito alla lumiera di abbandonarsi capricciosamente al gusto di giuocare a cache-cache. Questa interdizione per la lumiera, ognun vede come sia il colpo di grazia per la fantasmagoria, a cui il buio piu` profondo e` un sine qua non, e` un accompagnamento obbligato, e` una conseguenza necessaria. Percio` in questo momento il Canovetti e` occupato alla inumazione della macchina la quale sara` inonoratamente sepolta in cantina, aspettando con santa pazienza qualche antiquario che la dissotterri e la faccia passare per qualche capolavoro piu` o meno etrusco.32

In buona sostanza – da quanto par di capire dalla prosa di Montazio – era intervenuto da parte dell’autorita` il divieto, per motivi di decenza, del buio assoluto in sala, condizione indispensabile, questa, affinche´ la macchina per la fantasmagoria potesse esercitare tutta l’illusione ottica richiesta dall’effetto scenico (e` appena il caso di ricordare che a quei tempi i teatri erano ancora illuminati a olio 33 e che l’illuminazione in sala – vale a dire nei palchi e in platea – perdurava per tutto il corso della rappresentazione). Venuto a mancare l’impiego della lanterna magica, e` probabile che Verdi facesse utilizzare anche 32 E. MONTAZIO , Appendice teatrale. Cronaca fiorentina; [...] Viaggi e Peripezie della macchina per la Fantasmagoria del «Macbeth» del M. Verdi, «La Rivista» (da non confondersi con la «Rivista di Firenze» citata alla nota 9), n. 75: 10 marzo 1847, p. 9. 33 Per quanto riguarda il Teatro alla Pergola l’illuminazione a olio sara ` soppiantata da quella a gas solo nel 1867 in palcoscenico e nel 1875 in teatro; verra` a sua volta sostituita dall’illuminazione elettrica nel 1899.

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SECONDA RICOGNIZIONE

per le tre apparizioni la «rete nera» predisposta per la sfilata dei re; e` quanto si puo` arguire dal seguente accenno contenuto nella corrispondenza, gia` citata, di Meini alla «Moda» di Milano: [Il terzo atto] o non fu apprezzato o non fu inteso: fatto sta che non ebbe incontro favorevole. E chi sa che le apparizioni, gli otto re che sfilavano a guisa di grosse marionette tentennando, barcollando dietro una rete nera che faceva veci di nebbia, chi sa, dico, non cooperassero alla fredda accoglienza.34

E` tutto quanto per ora si sa intorno al macchinismo adottato per le tre apparizioni in occasione della ‘prima’ fiorentina; Verdi non tornera` sull’argomento, nemmeno vent’anni piu` tardi per l’allestimento parigino. LA

SFILATA DEGLI OTTO RE

L’accenno di Meini alla «rete nera che faceva veci di nebbia» e` l’unico per ora noto in merito all’accorgimento adottato da Verdi per la sfilata dei re in occasione della messinscena fiorentina. Inoltre da un’indicazione contenuta nella partitura manoscritta dell’opera conservata in copia presso la biblioteca del Conservatorio di Firenze (copia che si presume essere conforme all’autografo) si apprende che la «trappa» da cui doveva sortire il suono dell’orchestra sotterranea di ‘cornamuse’ era utilizzata anche per farvi sortire gli otto re: «Questi Istromenti dovranno essere sotto il palco scenico, vicini alla Trappa da cui sortiranno le ombre dei Re». Maggiori precisazioni – contenenti forse delle correzioni alla messinscena fiorentina suggerite da qualche rappresentazione della tragedia di Shakespeare cui Verdi aveva nel frattempo assistito a Londra – si ricavano dalla lettera del compositore del 23 novembre 1848 a Cammarano, gia` citata, ricca di preziosi suggerimenti per l’allestimento dell’opera al San Carlo di Napoli: Nel terzo Atto le apparizioni dei re (io l’ho visto a Londra) si devono fare dietro un foro nella scena, con avanti un velo non spesso, cenerino. I re devono essere non fantocci, ma otto uomini in carne ed ossa: il piano su cui devono passare deve essere come una montagnuola, e che si veda ben distintamente montare e discendere. La scena dovra` essere perfettamente scura, specialmente quando la caldaja sparisce, e soltanto chiara ove passano i re.

Ma da un’altra lettera di Verdi diretta a Escudier in data 11 marzo 1865, si apprende una nuova soluzione per la sfilata dei re, suggerita al compositore 34

Vedi nota 6.

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

da un nuovo allestimento del Macbeth, versione fiorentina, al Carlo Felice di Genova; 35 ben diverso il macchinismo, e assai complesso, ma il risultato ottico corrisponde a quanto Verdi aveva indicato anni prima a Cammarano: «otto uomini in carne ed ossa, [...] e che si veda ben distintamente montare e discendere»: Qui a Genova si fa` ora il Macbet (vecchio) e per l’apparizione dei Re nel Terz’Atto si fa` un machinismo che mi par buono e che vi voglio indicare. – Cio` consiste in una gran ruota, che non si vede, su cui sono posti i Re; e questo circolo in moto che alza ed avvanza, abbassa, e fa` sparire la figura di questi Re produce un’eccellente effetto. I Re sono sopra un[a] piccola base appoggiata per stare in piedi ed in equilibrio ad una forte spranga di ferro; la base si piega in modo che la persona sia sempre diritta, e cio` si ottiene con dei contrapesi. La ruota e` tutta sotto terra, e soltanto la sua estremita` e` al livello del palco scenico (segue un disegno: vedine la riproduzione, insieme al testo integrale della lettera, in APPENDICE). [...] Io trovo buonissimo questo machinismo perche´ toglie la monotonia dei Re in processione a linea diritta, e perche´ fa` muovere questi Re senza che sieno obbligati a camminare. Cio` e` piu` fantastico. Se Voi trovate meglio... tanto meglio.

Ma e` anche al suono sotterraneo delle ‘cornamuse’ che Verdi dedica cure costanti. A Cammarano nella lettera sopra citata: La musica che e` sotto il palco scenico dovra` essere (per il gran Teatro di S. Carlo) rinforzata, ma badate bene non vi siano ne´ trombe ne´ tromboni. Il suono deve apparir lontano e muto quindi dovra` essere composta di clarini bassi, fagotti, controfagotti e nient’altro.

A Escudier il 23 gennaio 1865: Altra cosa raccomando, cioe` di conservare rigorosamente gli istromenti che formano l’orchestrina sotto il palco scenico al momento dell’apparizione delli otto Re. Quella piccola Orchestra di due Oboi, sei Clarinetti in la, Due Fagotti e un ContraFagotto formano una sonorita` strana, misteriosa, e nello stesso tempo calma e quieta che altri stromenti non potrebbero dare. Dovranno essere posti sotto il palco scenico vicini ad una trappe aperta ed abbastanza larga onde il suono possa sortire, e spandersi per il teatro ma in modo misterioso, e come in lontananza.36

Analoga raccomandazione si legge nella partitura del rifacimento parigino: 37 35 L’opera era andata in scena il 22 febbraio, avendo a interpreti principali Balbina Steffenoni e Giuseppe Cima. 36 Lettera citata alla nota 27. 37 Bibliothe ` que Nationale di Parigi (Mss. 1.075, 1.076, 1.077, 1.078); microfilm e copia foto-

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SECONDA RICOGNIZIONE

Questi Istromenti dovranno essere sotto il palco scenico, vicino alla Trappa da cui sortiranno le ombre dei Re. – Questi istromenti si possono duplicare, triplicare, quadruplicare se lo esige la vastita` del Teatro, ma non si dovra` cambiarne la qualita`. Altri istromenti darebbero una sonorita` diversa da quella che ho immaginato.

IL

BALLABILE DEGLI SPIRITI AEREI

Il 23 novembre 1846 l’impresario Lanari aveva avvertito Piave: Ti osservo poi che i spiriti aerei, che tu noti devono ballare, bisogna toglierli, come ne scrissi anche in addietro a Verdi, poiche´ in quaresima sono proibite le danze di qualunque specie e non sono ammissibili. Quindi bisogna, finche´ c’e` tempo, variar l’idea in quel punto di scena per non esser poi costretti di lasciare la cosa mozza.38

statica presso l’Istituto nazionale di studi verdiani (vedine la descrizione nel cit. Commento critico all’ediz. critica del Macbeth, a cura di D. Lawton, pp. 15-22). Le parti autografe corrispondono ai brani modificati o nuovamente composti da Verdi su testo italiano per l’esecuzione dell’opera al The´aˆtre-Lyrique nell’aprile 1865; tali parti sono inserite in una copia manoscritta, pressoche´ integrale per il 1º e il 2º atto, della partitura della prima versione. Il testo della traduzione francese del libretto, sottoposto alle note del canto, non e` autografo: in alcuni punti esso e` mancante e in altri presenta alcune varianti rispetto allo spartito per canto e piano in francese edito da Escudier (L. E. 2442), il quale spartito a sua volta presenta sensibili difformita` nella parte musicale rispetto all’autografo della partitura, riguardanti perlopiu` l’«ampliamento» della parte di Macduff arbitrariamente perpetrate dall’impresario Carvalho per favorire il tenore Monjauze, e cio` nonostante il divieto di Verdi (lettera a Escudier del 28 marzo 1865, in ABBIATI, II, pp. 822 sg). Facendo riferimento all’edizione Ricordi della seconda versione dello spartito per canto e pianoforte con testo italiano (ripristino 1947, num. ed. 42311), ecco l’elenco delle parti autografe della partitura manoscritta conservata a Parigi: Atto 1º: Dalla penultima battuta di p. 63 («parti d’udire?») a tutta p. 67 (seconda parte del duetto soprano – baritono; Atto 2º: dalla seconda battuta di p. 110 a tutta p. 115 (fine del recitativo soprano – baritono e aria «La luce langue»); Atto 2º: Dalla seconda battuta del’ultimo sistema di p. 140 alla terza battuta compresa dell’ultimo sistema di p. 145 (Finale secondo: apparizione dell’ombra di Banco); Atto 2º: dalla seconda battuta del secondo sistema di p. 150 al penultimo sistema compreso di p. 152 (seconda apparizione di Banco, «Fuggi fantasma»). N.B. Tutto il concertato e` in copia ms. corrispondente alla versione fiorentina del 1847; non vi appare pertanto un’importante modifica al canto di Lady Macbeth onde farle evitare il Si acuto (v. a pp. 167 e 174 dello spartito Ricordi sopra citato), modifica risalente con tutta probabilita` alle rappresentazioni di Macbeth a Bologna nell’autunno del 1850. Atto 3º: Dalla quinta battuta del primo sistema di p. 190 a tutta p. 225 (Finale del Coro d’Introduzione, Ballo, Gran scena delle Apparizioni); Atto 3º: Dalla terza battuta dell’ultimo sistema di p. 232 a tutta p. 241 (Finale del ballabile degli spiriti aerei, scena e duetto soprano – baritono «Ora di morte»); Atto 4º: Dall’inizio di p. 242 fino alla seconda battuta compresa del secondo sistema di p. 249 (Coro di profughi scozzesi, prime sei battute del recitativo che precede l’aria di Macduff); Atto 4º: Dall’inizio di p. 255 a tutta p. 261 (stretta «La patria tradita»); Atto 4º: Dall’inizio di p. 280 alla fine dell’opera (scena e Battaglia, Inno di vittoria – finale). 38 COPIALETTERE , p. 446.

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

Ma il 10 dicembre successivo Verdi cosı` rispondeva a Piave, il quale evidentemente gli aveva trasmesso le osservazioni di Lanari: «che difficolta` mi fai sulli spiriti aerei che non possono ballare?... Falli come e` indicato. Il poema e la musica devono essere cosı` e cosı` bisogna farli».39 «In quaresima sono proibite le danze di qualunque specie» aveva avvertito Lanari. Ma Verdi aveva in mente una «specie» di danza che non doveva incorrere nella censura granducale. Infatti nella realizzazione scenica il «ballabile degli spiriti aerei» consistette in evoluzioni ‘aree’ di Ondine e Silfidi, «scese in barchetta dalle nuvole» (ad esempio alla Pergola di Firenze) ovvero sostenute da argani e carrucole (a Padova), seguite da una breve pantomima accompagnata dal canto delle streghe: «... Tessete in vortice / Carole armoniche ...». E` quanto si apprende infatti da alcune cronache del tempo. Montazio, gia` citato, sulla «Rivista di Firenze»: [...] siamo costretti a confessare che, tranne il primo Coro delle streghe e forse l’allegro ballabile che esse cantano durante la discesa e la pantomima delle ondine e delle silfidi, nulla di caratteristico e di menomamente fantastico sappiamo rinvenire in questo terz’atto.40

Meini sulla «Moda» di Milano: Fatto sta che ne´ le Ondine, ne´ le Silfidi scese in barchetta dalle nuvole a tesser carole armoniche onde richiamare in vita il povero Macbeth [...] valsero a questo terzo atto la fortuna de’ precedenti.41

Antonio Calvi sul «Ricoglitore»: [...] le Ondine e le Silfidi compariscono scendendo da certi trespoli, e si mettono ad eccitare gli smarriti sensi di Macbeth; ma quando alle carole armoniche si guardan bene dal porgere ascolto alle Streghe, in primo luogo, perche´ e` quaresima, in secondo luogo perche´ non e` facile sapere che cosa siano le carole armoniche.42

Infine Stefani sul «Caffe` Pedrocchi», dopo quello che in ordine di tempo fu il secondo allestimento dell’opera, effettuato nel luglio del 1847 al Teatro Nuovo di Padova: L’atto terzo e` l’atto degli incantesimi, delle stregonerie, quello in cui passano quei famosi otto re; in cui calano, sorgono, spuntano angeli, fanciulli coronati, ombre in39 40 41 42

ABBIATI, I, p. 668. Vedi nota 9. Vedi nota 6. Vedi nota 4.

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SECONDA RICOGNIZIONE

sanguinate, streghe, ondine e silfidi, e tutte queste belle cose rappresentate al naturale dalle signore coriste e ballerine, sostenute, strascinate, sollevate, abbassate a furia delle corde, delle carrucole, dei trabocchetti del macchinista il quale, ad esser sinceri, condusse la cosa, per esser la prima sera, abbastanza lodevolmente. Qui e` dove il maestro Verdi intese sfoggiare tutta la scienza fantastica, e la teoria della musica metafisico-pittorico-meccanica oltremontana. Ci e` riuscito? Ci pare di no. Bisogna pero` confessare che il primo coro delle streghe, [...] e l’allegro ballabile da esse cantato, mentre le ondine e le silfidi si prendono la pena di far fresco colle loro sottanine al povero Macbeth caduto in terra, come una pera fracida, sono due bellissime ispirazioni fantastiche.43

In base a queste informazioni di cronaca si puo` forse supporre che il macchinismo richiesto per il «ballabile degli spiriti aerei» fosse intervenuto in modo troppo pesante e scoperto, per non dire rudimentale, almeno la prima sera, cosı` da non produrre compiutamente quell’illusione scenica che il compositore si proponeva (e che anni piu` tardi, con procedimento non molto dissimile, Wagner si proporra` per il Rheingold).

IL

CAMBIAMENTO

«A

VISTA » NEL QUARTO ATTO

Dalle cronache del 1847 non si ricavano informazioni utili a capire come Verdi avesse inteso realizzare la trasformazione a vista della «Sala del Castello» in una «vasta pianura» con la «foresta di Birna» sullo sfondo, anche se tale trasformazione non pone particolari problemi di natura tecnica. Ne pone, pero`, di natura espressiva. La lettera a Escudier dell’11 marzo 1865 (vedi APPENDICE) contiene alcune disposizioni che rivelano quanto stesse a cuore al compositore l’effetto che il cambiamento a vista doveva produrre. Da esse appare chiara la funzione fondamentale di questo effetto nel sostenere tutto il crescendo drammatico nel momento in cui la tragedia si avvia a rapida conclusione, a tal punto chiara che e` lecito supporre che quelle disposizioni riflettano in massima parte una concezione gia` applicata nell’allestimento fiorentino del 1847. Esse si riassumono in una scena lunga, a tutto teatro, «senza ingombri di macchinismi»; in tre o quattro file di comparse disposte il piu` lontano possibile; e soprattutto nella «velocita` dei movimenti» in modo che, nel momento in cui la scena si scopre, tutta la massa di uomini e fronde sia gia` in moto. ***

43

Vedi nota 8.

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

IL «FANTASTICO»

NEL

MACBETH

DI

VERDI

Le scene «fantastiche» del Macbeth di Verdi costituiscono i momenti nodali della messinscena ove si tenga conto dell’elemento fantastico non a se´ stante, quale puro gioco di «macchine» che deve sorprendere la fantasia dello spettatore, bensı` in relazione al dramma morale che sta al centro della tragedia. Illuminare il rapporto che intercorre fra l’elemento umano e quello fantastico e` il problema centrale della messinscena del Macbeth, la chiave per realizzare le intenzioni dell’autore, ispirate a una concezione drammaturgica che restera` sostanzialmente invariata anche nella revisione operata per il The´aˆtreLyrique di Parigi. S’e` gia` osservato: in difetto di una disposizione scenica del Macbeth le lettere di Verdi costituiscono una fonte primaria nello stabilire in pochi tratti vigorosi il ruolo fondamentale dei tre personaggi principali – che per il compositore sono, com’e` noto, Macbeth, Lady e le streghe 44 – e nel predisporre gli elementi essenziali per l’allestimento. Fonte altrettanto primaria sono le didascalie disseminate nelle due edizioni della partitura e dello spartito, cosı` frequenti come in nessun’altra opera di Verdi. Fonte non meno preziosa sono infine le cronache coeve dalle quali ricavare informazioni sull’allestimento del 1847. Quanto alle didascalie, le indicazioni di carattere espressivo attinenti l’interpretazione vocale («staccate e marcate assai: ne´ dimenticarsi che sono streghe che parlano»; 45 «misterioso»; «a voce spiegata»; «con voce soffocata» e cosı` via) riflettono direttamente le esigenze dell’azione scenica e costituiscono pertanto una guida indispensabile per la stessa messinscena. Tuttavia l’abbondanza di tali didascalie secondo qualche studioso starebbe a denunciare implicitamente un’intrinseca debolezza nell’espressione del pensiero musicale. Osserva Massimo Mila: Di solito, siamo portati a diffidare della musica che si adorna di troppe indicazioni espressive. Non e` come se Verdi, sul punto di accedere a un’arte meditata, colta, psicologicamente approfondita, abbia quasi avuto poca fiducia nella propria musica e abbia dubitato ch’essa potesse da sola esprimere un ideale artistico cosı` elaborato? Di 44 «Abbiate per massima che i roles di quest’opera sono tre, e non possono essere che tre: Lady Macbet, Macbet – il Coro delle Streghe. Le Streghe dominano il dramma; [...]. Sono veramente un personaggio ed un personaggio della piu` alta importanza. [...] Vi ripeto che il coro delle Streghe ha una grandissima importanza: e` un personaggio»: cosı` Verdi a Escudier l’8 febbraio 1865 (autografo presso il museo del teatro Colo´n di Buenos Aires, pubblicato da F. WALKER, Cinque lettere verdiane, «La Rassegna Musicale», XI, 1951, pp. 256-261: 260-261. 45 Non appare senza significato il fatto che Verdi in questo caso scriva «parlano» anziche ´ «cantano». Sull’insistenza del compositore intorno al valore espressivo che l’interprete deve affidare alla parola vedi la lettera alla Barbieri Nini pubblicata in appendice.

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SECONDA RICOGNIZIONE

conseguenza ha fatto largo ricorso ad espedienti extra-musicali, curando con la massima attenzione la messa in scena fantasmagorica e sbalorditiva, predicando che le arie di quest’opera non vanno cantate ma recitate, diffondendo per tutta la partitura quelle minuziose prescrizioni espressive, quasi che l’espressione non sia la musica stessa, ma qualcosa di esteriore che l’interprete puo` mettere o non mettere a piacer suo.46

Meglio si potrebbe comprendere la necessita` da parte di Verdi di abbondare nelle didascalie se ci si rifa` a un’epoca in cui la vocalita` era ancora fortemente improntata allo stile cosiddetto ‘belcantistico’ di scuola rossiniana. Quell’abbondanza di indicazioni espressive che ancora oggi intimorisce gli interpreti costituisce l’affermazione palese di una vocalita` teatrale asservita alla parola e alla situazione, che s’era venuta gradualmente individuando nel corso degli anni 1830, al tempo del predominio di Bellini, Donizetti e Mercadante, con l’affermazione dei nuovi esponenti del canto drammatico, quali ad esempio Giorgio Ronconi, Gaetano Fraschini, Erminia Frezzolini, Giuseppina Strepponi.47 Ma non e` tanto questo il punto. La questione vera e` che gia` da tempo Verdi aspirava a plasmare il ‘canto d’azione’ tenendo presente il modello del teatro recitato; anzi, osserva Guccini, il teatro recitato costituı` «ben piu` che un modello o un serbatoio di argomenti, un termine di confronto, che consentı` al compositore di individuare i caratteri propri e gli elementi comuni ai diversi generi di spettacolo».48 Il Macbeth e` infine l’occasione attesa per rendere esplicito in un ambiente culturale prestigioso quale quello fiorentino il nuovo corso del ‘canto d’azione’ traendo partito dalla cooperazione di due interpreti – il basso cantante Felice Varesi e la primadonna Marianna Barbieri Nini – forse meno dotati per qualita` vocali intrinseche rispetto a piu` celebrati colleghi, ma certamente provvisti di quelle risorse mimiche richieste da una vocalita` asservita all’azione drammatica. Non era dunque tanto «la poca fiducia nella propria musica» a indurre Verdi alla «proliferazione incredibile di indicazioni espressive»,49 quanto semmai la poca fiducia che riponeva negli interpreti, presenti e futuri 46 MILA 1974, p. 271 sgg.; il passo e ` ripreso e ampliato da un precedente studio dello stesso autore, Il melodramma di Verdi, Bari, Laterza, 1933 (rist. Milano, Feltrinelli, 1960). 47 A proposito del carattere ‘moderno’ intravisto da Berlioz nel canto della Strepponi vedi il mio articolo: La Strepponi insegnante di canto a Parigi e un giudizio sconosciuto di Berlioz, «Rassegna Musicale Curci», XXXII, n. 2: agosto 1979, pp. 25-28. Sull’argomento vedi anche il mio contributo La svolta degli anni Trenta. Il «canto in azione» (a proposito di Giuseppina Strepponi), in Il Teatro di Donizetti. Atti dei Convegni delle Celebrazioni: I. La vocalita` e i cantanti (Bergamo, 25-27 settembre 1997), Bergamo, Fondazione Donizetti, 2001, pp. 277-294. 48 G. GUCCINI , La drammaturgia dell’attore nella sintesi di Giuseppe Verdi, «Teatro e Storia», IV, n. 2: ottobre 1989, pp. 245-282: 250. 49 MILA 1974, p. 271.

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

– solitamente propensi a lasciarsi distrarre dalle note dimenticando di ‘servire’ il dramma – affinche´ comprendessero il ‘salto di qualita`’ compiuto con il Macbeth. Le sue lettere agli interpreti fiorentini non lasciano dubbi in proposito. Alla Barbieri Nini scriveva il 2 gennaio 1847: Prima di tutto il carattere e` risoluto, fiero, drammatico estremamente. Il sogetto e` preso da una delle piu` grandi tragedie che vanti il teatro ed io ho cercato di farne estrarre tutte le posizioni con fedelta`, di farlo verseggiare bene... e di fare della musica attaccata, il piu` che poteva, alla parola ed alla posizione; ed io desidero che questa mia idea la comprendano bene gli artisti, in somma desidero che gli artisti servano meglio il poeta che il maestro.50

Quasi con le stesse parole cinque giorni dopo a Varesi: Io non cessero` mai di raccomandarti di studiare bene la posizione, e le parole; la musica viene da se. Insomma ho piu` piacere che servi meglio il poeta del maestro.51

Ancora a Varesi in una successiva lettera: In somma bada alle parole, ed al sogetto: io non cerco altro. Il sogetto e` bello, le parole anche [...].52

Infine ancora alla Barbieri Nini il 31 gennaio 1847, alla vigilia della partenza per Firenze: Credo di averglielo detto altra volta questo e` un dramma che non ha nulla di comune cogli altri, e tutti dobbiamo fare ogni sforzo per renderlo nel modo piu` originale possibile. Io credo poi che sia ormai tempo di abbandonare le formule solite, ed i soliti modi, e credo che se ne possa trarre un maggior partito.53

Tuttavia, a dispetto di tali esortazioni e nonostante una documentazione piuttosto ricca che consente di evitare arbitrarie interpretazioni nella messinscena del Macbeth verdiano, non avviene di frequente che quest’opera venga eseguita, almeno nei teatri italiani, conforme la versione stabilita dall’autore nel 1865 senza tagli e senza interpolazioni. Cio` accade forse perche´ registi e direttori d’orchestra guardano piu` alla sostanza di singole scene che non alla struttura Frammento di lettera pubblicato nel catalogo di autografi citato alla nota 23. Autografo presso la biblioteca dell’Accademia Musicale Chigiana, Siena; pubblicato per la prima volta da G. CORA VARESI, L’interpretazione del Macbeth (con lettere inedite di Giuseppe Verdi), «Nuova Antologia», n. 364, 1932, pp. 433-440. 52 Come nota precedente. La lettera, priva di data, e ` comunque attribuibile a epoca immediatamente successiva al 7 gennaio 1847. 53 Vedi l’Appendice, dove questa lettera e ` riportata integralmente. 50 51

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SECONDA RICOGNIZIONE

generale del dramma, trascurando in tal modo proprio quanto Verdi raccomandava ai propri interpreti ‘fiorentini’. Quando ai fini di un allestimento del Macbeth verdiano ci si pone a fare il bilancio del bello e del brutto, del sublime e del volgare, di cio` che e` utile al dramma e di cio` che e` inutile, di cio` che c’e` da espungere o addirittura da aggiungere, ci si dimentica che questo bilancio era gia` stata fatto dall’autore quasi vent’anni dopo la prima rappresentazione (bilancio preceduto da una verifica compiuta a Bologna nell’ottobre del 1850, allorche´ Verdi pose in scena il Macbeth 54 senza apportarvi sostanziali modifiche, a eccezione di una ‘puntatura’, o meglio ‘spuntatura’, della protagonista nel concertato del secondo atto 55). E fu un bilancio ne´ affrettato ne´ superficiale dacche´ si trattava di affrontare l’allestimento dell’opera a Parigi,56 al cospetto di un ambiente culturale che Verdi non teneva certo in scarsa considerazione. E` anche da ricordare che a quell’epoca il compositore aveva ormai alle spalle I vespri siciliani, Simon Boccanegra, Un ballo in maschera, La forza del destino, e di lı` a pochi mesi avrebbe affrontato la composizione del Don Carlos. Ci sarebbe piuttosto da riflettere sul significato dell’operazione compiuta da Verdi nel tradurre il suo Macbeth per le scene francesi aggiungendovi un divertissement. Contrariamente a quanto si afferma in un volume di Serafin e Toni – dove si parla del Macbeth come di lavoro «gia` travolto pacificamente nel dimenticatoio delle opere cui non arrise e non pote´ arridere il favor popolare» 57 – all’epoca della revisione parigina quest’opera era ancora saldamente nel repertorio delle compagnie liriche italiane al pari delle opere considerate le piu` popolari di Verdi,58 e fino alle scadere del secolo si continuo` a eseguirlo 54 L’opera ando ` in scena al Comunale il 3 ottobre 1850 avendo a interpreti principali Marianna Barbieri Nini, il baritono Gaetano Ferri, il basso Nicola Contedini e il tenore Gaetano Biondi. Il battesimo bolognese dell’opera era tuttavia gia` avvenuto un anno prima, il 7 novembre 1849, con i coniugi Pizzigati. 55 Cfr. nota 36. 56 Un tentativo di rappresentare il Macbeth in italiano (ovviamente nella versione fiorentina) era stato fatto dall’impresario Calzado al The´aˆtre Italien nel dicembre del 1855 con Giulia Grisi (a quel tempo gia` in netto declino vocale) e i fratelli Francesco e Lodovico Graziani; partitura e figurini furono spediti a Parigi per l’occasione; ma alla fine l’impresario desistette dal progetto, sembra con soddisfazione di Verdi, che proprio contro Calzado aveva intentato e perduto un processo (cfr. INTERVISTE , p. 292, nota 12). 57 T. SERAFIN e A. TONI , Stile, tradizioni e convenzioni del melodramma del Settecento e dell’Ottocento, vol. II [dedicato alle opere di Verdi], Milano, Ricordi, 1964, p. 83. 58 Nei primi dieci anni di vita dell’opera, dal 1847 al 1857, si contano oltre centosessanta allestimenti (cfr. Verdi’s Macbeth Source book, ed. by D. Rosen and A. Porter, New York and London, W.W. Norton & Comp., 1984, pp. 428-434), ivi compresi quelli avvenuti nei teatri italiani all’estero: Barcellona, Costantinopoli, Valencia, Madrid, Varsavia, Lisbona, La Habana, Corfu`, Vienna, New York, Malaga, Rio de Janeiro, Stoccolma, Copenaghen, Pietroburgo (col titolo Sivardo il Sassone), Odessa (col titolo Galmar Ben [a proposito di quest’ultima versione vedi il mio contributo Verdi cen-

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ASPETTI DELLA MESSINSCENA DEL MACBETH DI VERDI ( 1847 - 1865 )

prevalentemente nella versione primitiva (l’edizione parigina arrivera` alla Scala solo nel gennaio del 1874).59 E` un fatto che ne´ Verdi ne´ l’editore Ricordi stimarono doversi ritirare la prima versione per sostituirvi la versione parigina, considerando anche l’ormai inveterata abitudine degli interpreti di eseguire la partitura fiorentina. L’edizione francese del Macbeth puo` considerarsi operazione inversa rispetto a quella che anni piu` tardi Verdi affrontera` con la riduzione del Don Carlos da cinque a quattro atti. Pratico del teatro e costantemente rivolto alla concretezza dei risultati, Verdi conosceva bene le consuetudini teatrali di due pubblici diversi, per gusto e per tradizione culturale, come quello francese e quello italiano: la versione parigina del Macbeth puo` considerarsi come un adattamento alle tradizioni del grand ope´ra francese cosı` come, inversamente, la riduzione del Don Carlos un adeguamento alle consuetudini del melodramma italiano. Certamente in entrambi i casi la revisione venne a coincidere con una nuova verifica della struttura drammaturgica, quindi con una nuova versione della stesura primitiva tale da imporsi come ‘definitiva’. Nell’accondiscendere alla proposta di Le´on Escudier, suo editore in Francia, di far rappresentare il Macbeth in francese al The´aˆtre-Lyrique con l’aggiunta di ballabili, Verdi gli osservava il 24 ottobre 1864: Ho scorso il Macbet coll’intenzione di fare le arie di ballo, ma ohime`! alla lettura di questa musica sono stato colpito da cose che non avrei voluto trovare. Per dire tutto in una parola vi sono diversi pezzi che sono o deboli, o mancanti di carattere che e` ancor peggio...60

Va sottolineato sin d’ora: in questa lettera il compositore non parla affatto di situazioni sceniche da eliminare, di ‘posizioni’ da modificare, bensı` di «pezzi che sono deboli, o mancanti di carattere». Se ne puo` dedurre per il momento surato. Macbetto fra papa e zar, in L’immaginario scenografico e la realizzazione musicale. Atti del Convegno dedicato a Mercedes Viale Ferrero, a cura di M.I. Biggi e P. Gallarati, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, pp. 181-189]). Il Macbeth verdiano fu rappresentato anche in tedesco al teatro di Hannover nel 1850. ` solo a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento che le rappresentazioni del Macbeth su59 E biscono un forte calo, fino a cessare del tutto – fatta eccezione per una ripresa isolata al Costanzi di Roma nel 1911 – nel primo ventennio di questo secolo, subendo quel fenomeno di disinteresse generale che colpı` gran parte del repertorio d’epoca romantica e in particolare, per restare a Verdi, oltre a Macbeth anche I Lombardi, I due Foscari, I masnadieri, Luisa Miller, Aroldo e I vespri siciliani; solo Nabucco ed Ernani fra le opere ‘giovanili’ resistettero in qualche misura nel repertorio corrente. La rinascita del Macbeth verdiano, destinata a stabilire l’opera nel repertorio teatrale internazionale, e` merito precipuo della Verdi-Renaissance; a far inizio dall’allestimento in versione tedesca rappresentato a Dresda il 21 aprile 1928 e diretto da Fritz Busch. 60 Autografo presso la Bibliothe ` que de l’Ope´ra, Parigi; pubblicato in appendice ai COPIALETTERE , pp. 451-52.

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che la struttura drammaturgica concepita nel lontano 1846 era da lui considerata – salvo un’importante eccezione: la morte in scena di Macbeth – ancora valida e funzionante. La lettera continua con l’elenco dei pezzi da «rifare» o da «ritoccare»: 1. 2. 3. 4. 5.

Un’aria di Lady Macbet nell’Atto II Diversi squarci a rifare nella Visione Atto III Rifare completamente Aria Macbet Atto III Ritoccare le prime scene dell’Atto IV Far di nuovo l’ultimo Finale togliendo la morte in scena di Macbet.

L’elenco corrisponde gia`, in linea di massima, agli interventi poi effettivamente operati per la revisione dell’opera. Ora e` significativo rilevare che nell’elenco delle «cose» che l’autore non avrebbe voluto trovare in quest’opera degli anni giovanili sono escluse per l’appunto quelle pagine che spesso la critica, di ieri e di oggi, considera scadenti o triviali: il quadro delle streghe nell’atto I, la marcetta interna per l’arrivo di re Duncano, la stretta finale del duetto Lady – Macbeth nell’atto I, la scena introduttiva delle streghe nell’atto III. Vi sono escluse anche quelle scene che, per le medesime ragioni, e` consuetudine omettere in molte esecuzioni odierne: stretta dell’introduzione nell’atto I («S’allontanarono») e il «Ballabile degli spiriti aerei». Per contro e` divenuta consuetudine il ripristino nel finale dell’opera di quella sola, unica situazione scenica che Verdi nell’edizione per Parigi aveva deciso di sopprimere: la morte di Macbeth in scena. Questa interpolazione trae origine, con tutta probabilita`, dalla famosa esecuzione in lingua tedesca avvenuta a Berlino nel 1931 con la regı`a di Carl Ebert (che la ripropose in successivi allestimenti, fra cui quelli di Glyndebourne nel 1938 e di New York nel 1941, entrambi sotto la direzione musicale di Fritz Busch, che aveva gia` diretto l’opera a Dresda nel 1928) ed e` stata accolta in seguito da numerosi registi, con il consenso, tacito o meno, dei direttori d’orchestra. Cio` non impedisce che si debba ritenere tale interpolazione del tutto incongrua sia dal punto di vista della coerenza musicale sia da quello della verita` drammatica. Il ritmo marziale, diremmo ‘barbaro’ nella sua ostinata perentorieta`, impresso al canto dei bardi dal pizzicato degli archi e dallo staccato di flauti e oboi (quasi una enfatizzazione sonora del timbro della cetra, strumento tradizionale dei popoli celtici), riceve impulso dal brano immediatamente precedente, la Battaglia, un pezzo musicalmente rifatto, costruito su un fugato affidato alle trombe. Spezzare la logica concatenazione ritmico-musicale di questi due brani concepiti come un solo blocco, al solo fine di ripristinare (in ossequio a un gusto tutto ‘intellettuale’ e in fondo sterile per il canto declamato) la morte in scena di Macbeth, oltre a vanificare l’effetto — 54 —

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dirompente del fugato, contribuisce anche a indebolire e a vanificare il ritmo incalzante e trionfante dell’inno dei bardi. D’altronde anche il testo iniziale dell’inno, «Macbeth, Macbeth ov’e`?» suona stridente (anche se non del tutto incongruente sotto il profilo della logica teatrale) con la presenza in scena del cadavere di Macbeth, una presenza davvero troppo ingombrante per l’apoteosi finale, cioe` proprio per quella nuova soluzione del dramma che Verdi intese realizzare in occasione della revisione. L’obiezione, talvolta avanzata sulla base di un parere espresso dal compositore in una lettera a Escudier, d’esser stato egli costretto a optare per tale soluzione in mancanza di meglio (e quindi, implicitamente per adeguare il finale a quello della tragedia di Shakespeare in cui, com’e` noto, conforme i canoni del teatro elisabettiano il protagonista muore fuori scena), va circoscritta semmai alla forma adottata per il nuovo pezzo musicale, ma non riguarda la nuova situazione scenica in se´. Si rilegga attentamente il passo della lettera in questione: Son’ io pure di parere di cambiare la morte di Macbet, ma non si potra` fare altro che un’Inno di vittoria: Macbet, e Lady non sono piu` in scena, e, mancando questi, poco si potra` fare con parti secondarie.61

Se interpretiamo Macbet e Lady, citati nella lettera, non come personaggi della tragedia bensı` come attori vocali primari, rispettivamente primo basso cantante (ovv. baritono) e prima donna, il significato dell’osservazione di Verdi diventa chiaro: e` evidente che il compositore, pensando al concertato d’uso nei finali d’opera, pone l’accento sull’assenza forzata, a conclusione del dramma, di esecutori primari. Rimane in scena Macduff, e` vero; ma per Verdi si tratta di una parte secondaria: «per quanto facciate non la ridurrete mai a grande interesse. Anzi piu` lo si mettera` in vista piu` dimostrera` la sua nullita`» scrivera` piu` tardi a Escudier.62 Di qui la necessita` per il compositore di doversi valere del solo impiego del coro e delle parti secondarie dando forma all’apoteosi finale attraverso un «Inno di vittoria» in sostituzione di un finale con61 Datata 2 dicembre 1864; autografo presso la Bibliothe ` que de l’Ope´ra di Parigi, pubblicato da J.G. PROD’HOMME, Lettres ine´dites de Giuseppe Verdi a` Le´on Escudier, «Rivista Musicale Italiana», XXXV, 1928, p. 183. 62 Lettera dell’8 febbraio 1865, citata alla nota 43. Nonostante il parere nettamente contrario del compositore, nell’allestimento parigino la parte di Macduff venne ampliata: le fu affidata la seconda parte del brindisi dell’atto II (togliendola quindi a Lady Macbeth) e quasi tutta la stretta finale del primo quadro dell’atto IV (togliendola quindi a Malcolm e al coro). Tale ampliamento e` rimasto fissato anche nelle edizioni moderne del libretto francese; cfr. Macbeth / Ope´ra en quatre actes / Musique de / G. Verdi / Paroles de / Nuitter et Beaumont / Librairie The´aˆtrale – E´ditions M.-R. Braun / [...] / Paris [s.a.], pp. 29 e 42-43. Ai tenori e` sempre andata stretta la parte di Macduff, a tal punto che nell’Ottocento sostituivano abitualmente la stretta a due che succede alla romanza «Ah, la paterna mano» con la cabaletta di Zamoro nell’Alzira «Non di codarde lagrime».

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certato previsto dalle consuetudini del melodramma, per il quale sarebbe stata invece indispensabile la presenza di parti primarie. Ma vi e` soprattutto una ragione drammatica a rendere illogica l’interpolazione della morte di Macbeth in scena dopo la revisione parigina. La musica, d’altronde, non fa che rispecchiare ed esaltare la concatenazione degli eventi scenici, conforme il criterio estetico a suo tempo espresso agli interpreti fiorentini: «fare della musica attaccata» il piu` possibile «alle parole ed alla posizione». Togliendo la «morte in scena» di Macbeth era forse nelle intenzioni di Verdi di restituire il finale dell’opera alla condotta originale della tragedia di Shakespeare. Di certo egli mirava a ricomporre l’equilibrio della struttura drammaturgica proponendo un pendant simmetrico alla morte «fuori scena» di Lady Macbeth, accomunando attraverso un parallelo nell’azione scenica la sorte dei due protagonisti ‘negativi’. E veniva cosı` a conferire un nuovo e ben diverso significato alla soluzione del dramma rispetto alla versione del 1847. Macbeth, al pari di Lady, scompare di scena come foglia rinsecchita spazzata via da un vento turbinoso. L’immaterializzarsi della sua fine realizza in modo ben piu` efficace la fine stessa di un incantesimo. E` come il ridestarsi da un sogno stregonesco, da un incubo in cui tutto assume la parvenza di un’orrenda realta`. I bardi che intonando l’inno di vittoria avanzano lentamente dal fondo della scena (cosı` la didascalia della partitura riformata) diradano man mano le nebbie, disperdono gli incantesimi, vanificano le magie, riportano la luce del giorno dopo i fallaci bagliori della notte: tutto quanto prima era accaduto sembra ormai solo un’avventura angosciosa nell’irreale. Del tiranno non rimane alcuna parvenza fisica, vittima egli stesso di quella irrealta` evocata dalla propria fantasia. La fine di Macbeth, del resto, cosı` come realizzata da Verdi per Parigi, ci riporta al ricordo di quella, avvolta nella leggenda, di tanti tiranni della storia. La realta` s’incarica a volte di confermare l’immaginazione dei poeti, se pensiamo a quanto avvenne in tempi non lontani a uno dei tiranni piu` feroci e sanguinari della storia: Hitler, la cui scomparsa e` stata per tanto tempo circondata di mistero, e il cui corpo, ricercato dai soldati dell’Armata Rossa entrati vincitori in Berlino, sembrava svanito nel nulla... E infine la morte «fuori scena» si presenta come il piu` coerente suggello all’esistenza di chi appena prima di scomparire nel vortice della sconfitta aveva affermato La vita!... che importa? E` il racconto d’un povero idiota! Vento e suono che nulla dinota!

Dopo tali affermazioni far morire in scena chi le aveva appena espresse, addirittura facendogli poi dire parole che suonano pentimento, dovette sembrare a — 56 —

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Verdi un’incongruenza. Egli sapeva bene sacrificare, senza esitazione, una bella pagina di musica alla verita` poetica e drammatica. S’e` gia` osservato che nell’elenco dei pezzi che Verdi desiderava ritoccare o rifare per la revisione parigina del Macbeth non ve n’e` alcuno che riguardi le streghe, salvo la scena delle apparizioni (le cui modifiche peraltro riguardano soprattutto la parte di Macbeth) e il «Ballabile degli spiriti aerei» (lievemente ma significativamente ritoccato nelle ultime misure). In sostanza nella seconda versione dell’opera e` rimasta pressoche´ inalterata quasi tutta la parte legata all’elemento ‘fantastico’, quella parte, cioe`, che la critica in generale giudica piu` severamente e che e` solita ritenere inadeguata. Ora, occorre piuttosto scavalcare il problema dell’adeguatezza o meno del risultato ottenuto dal compositore con mezzi musicali, per giungere invece a precisare la funzione da lui attribuita all’elemento fantastico all’interno delle strutture drammaturgiche, non al loro esterno come ‘genere’ musicale a se´ stante. Si tratta insomma di stabilire la posizione che le Streghe (vero e proprio personaggio del dramma, come Verdi precisava a Escudier) 63 assumono nel corso dell’azione. A Verdi non importava tanto di adeguare l’invenzione musicale all’atmosfera fantastica concepita nella sua autonomia espressiva, quanto piuttosto di far aderire il discorso musicale al rapporto, tutto interno all’azione scenica, fra l’elemento soprannaturale e quello umano. La funzione drammaturgica che Verdi assegna all’elemento fantastico costituito dalle Streghe e dai loro incantesimi non e` infatti quello d’intervenire direttamente sull’animo dello spettatore, bensı` di agire di riflesso, all’interno della struttura scenica, direttamente sul protagonista. Il dramma interiore di Macbeth, questo sı`, deve agire direttamente e immediatamente sull’animo dello spettatore, proiettato per cosı` dire dal fondo della scena, inteso come sede ideale dell’elemento ‘soprannaturale’, come da un secondo piano che determina e circoscrive l’azione che si sviluppa in primo piano sull’elemento ‘umano’, nello spazio ideale riservato al protagonista. In sostanza l’elemento ‘fantastico’ assolve nel Macbeth alla funzione di elemento catalizzatore del dramma, una funzione quindi sostanzialmente diversa da quella svolta nella tragedia di Shakespeare. Verdi stesso, d’altronde, nella citata lettera dell’8 febbraio 1865 a Escudier, avvertiva: «Le Streghe dominano il dramma: tutto deriva da loro; sguajate e pettegole nel primo Atto; sublimi e profetiche nel Terzo» (analogo scarto si puo` osservare nella scena dell’antro di Ulrica in Un ballo in maschera: una prima parte improntata a un ciarlatanismo magniloquente e tutto sommato 63

Vedi nota 42.

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esteriore, destinato a incidere sulla folla di popolani in scena, cui corrisponde una seconda parte in cui le parole dell’indovina acquistano un tono ‘sublime’ e ‘profetico’ che incombe come segnale ineluttabile di morte). E` quindi condivisibile, almeno in gran in parte, il giudizio espresso da Carlo Delfrati in polemica con Giovanni Ugolini 64 a difesa dell’elevata qualita` dell’elemento ‘fantastico’ del Macbeth verdiano: «Il soprannaturale e` nel Macbeth una struttura librettistica, accettata da Verdi per la suggestione operata dall’arte di Shakespeare, ma non tale da motivare, dirigere, condizionare il dramma stesso. Nelle scene demoniache e` sempre da cercare, quando riesce ad essere, l’estrinsecazione del dramma morale incentrato sui personaggi dell’opera, al quale solo e` rivolta tutta l’attenzione poetica di Verdi».65 Una struttura librettistica che tuttavia non rimane, come sembra sottintendere Delfrati, separata dal contesto drammaturgico, ma e` anzi inserita attraverso un procedimento di stilizzazione musicale nel quadro della vicenda tragica. Si puo` anzi osservare che quando le Streghe agiscono da sole la forma musicale presenta una struttura strofica ‘a maglie strette’, su ritmi costanti, mentre negli squarci in cui interviene Macbeth la struttura si allarga, assumendo una forma articolata e aperta, insomma piu` frastagliata (ad es. la scena delle apparizioni e la ‘sfilata dei re’). L’alternarsi delle due strutture strofiche – l’una stretta, iterativa; l’altra larga, aperta – nelle scene che hanno per protagonisti le streghe e Macbeth, e quindi l’alterna forma del discorso musicale, corrisponde all’allungarsi e all’accorciarsi di un obiettivo, una sorta di zoom che avvicina e allontana le immagini – obiettivando e soggettivando – in funzione drammatica e in chiave espressiva. Cosicche´, ad esempio, il «Ballabile degli spiriti aerei» – brano a struttura strofica stretta che segue immediatamente a un brano a struttura larga, libero da una rigorosa stroficita` quale quello che oppone Macbeth alle visioni evocate dalle Streghe – esso ballabile ha per cosı` dire la funzione di riportare l’obiettivo alla posizione iniziale, allontanando il campo visivo dal dramma morale, dall’elemento propriamente ‘umano’. Sopprimere questo ballabile, come a volte avviene in occasione di rappresentazioni del Macbeth verdiano, costituisce un errore madornale che nessun regista e soprattutto nessun direttore d’orchestra che non voglia attentare all’organizzazione drammatica concepita da Verdi dovrebbe commettere.

64 G. UGOLINI , «Macbeth»: un melodramma «soprannaturale», «La Rassegna Musicale», XXXII, 1962, pp. 66-75. 65 C. DELFRATI , Appunti per l’interpretazione di un melodramma, «Musica/Universita ` », 1964, pp. 5-7.

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APPENDICE DI DOCUMENTI A) Lettera di Verdi a Marianna Barbieri Nini, 31 gennaio 1847: Genma Sig. Milano 31 1847 Le spedisco li altri pezzi del Macbet: ora a completare la sua parte non manca che una sola cabaletta la quale glie la faro` a Firenze onde le sia perfettamente nelle sue corde e di sicuro effetto —— Dalla sua lettera ho visto quanto Ella desidererebbe un cantabile sul genere di quello della Fausta [di Donizetti]. Ma osservi un po’ bene il carattere di questa parte e vedra` che senza tradirlo e far guerra apertamente al buon gusto non si potrebbe fare. D’altronde sarebbe una profanazione alterare un carattere cosı` grande, cosı` energico, cosı` originale come questo creato dal gran tragico Inglese. Credo di averglielo detto altra volta questo e` un dramma che non ha nulla di comune cogli altri, e tutti dobbiamo fare ogni sforzo per renderlo nel modo piu` originale possibile. Io credo poi che sia ormai tempo di abbandonare le formule solite, ed i soliti modi, e credo che se ne possa trarre un maggior partito, con Lei poi che ha tanti mezzi. In quanto alla lettera e` impossibile levarla perche´ su` questa ha fondamento il dramma, ma se a Lei rincresce recitarla la metteremo in musica. Le raccomando questi due pezzi le note sono semplici, e sono fatte per la scena: soprattutto la scena del sonnambulismo che come posizione drammatica e` una delle piu` alte creazioni teatrali: badi bene che ogni parola ha un significato, e che bisogna assolutamente esprimerle e col canto e coll’azione. Tutto va` detto sotto voce ed in modo da incutere terrore e pieta`. La studj bene e vedra` che le fara` effetto se anche non ha uno di quei canti filati, e soliti, che si riscontrano dappertutto e che tutti si somigliano ———— In questi pezzi e nelli altri ricevuti mi sappia dire se c’e` qualche nota incomoda prima che io li istromenti. Nel brindisi c’e` un passo a due maniere: mi dica quale le sta` meglio – In questo Duetto nel Adagio 3/8 in fine c’e` una scala semitonata

bisogna dirla rallentando e terminare in un pianissimo: se questa Le riescisse difficile me lo sappia dire —— Il Sonnambulismo va molto adagio —— Mi favorisca dirmi quando sara` a Firenze. Le raccomando poi di venire la` colla parte quasi a memoria perche´ desidero fare poche prove di cembalo e molte di scena e d’orchestra.

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Probabilmente io verro` a riverirla prima a Parma: 66 ma in ogni modo mi scriva intorno la cosa che ho domandato —— Con tutta la stima mi dico Suo Ammiratore ed Amico G. Verdi ***

B) Lettera di Verdi a Le´on Escudier, 11 marzo 1865: Genova 11 Marzo 1865 Caro Leon —— Bisogna correggere nell’Adagio del Balletto dell’atto 3º diversi bequadri n che mancano Battuta 18

Cosı` anche alla seconda volta Nello stesso Adagio dopo il solo dei tre stromenti Clarone, Fagotto, Violoncello

solo bisogna aggiungere la parola tutti perche´ entrino a suonare tutti i Violoncelli All’Atto quarto nella Battaglia bisogna correggere la seconda tromba alla Battuta 70 –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– ––––––––––––––

Ora eccovi alcune osservazioni sull’Atto Quarto. Il primo Coro deve essere triste, desolato come indicano la parola e la scena. Cosı` l’Adagio dell’Aria del Tenore: L’allegro vivo e col massimo entusiasmo. – Eccoci al Sonnambulismo che e` sempre la Scena capitale dell’opera. Chi ha visto la Ristori sa che non si devono fare che pochissimi

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In quel carnevale 1846-47 la Barbieri Nini stava cantando a Parma Attila ed Ernani.

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gesti, anzi tutto si limita quasi ad un gesto solo, cioe` di cancellare una macchia di sangue che crede aver sulla mano. I movimenti devono esser lenti, e non bisogna veder fare i passi; i piedi devono strisciare sul terreno come se fosse una statua, od un’ombra che cammini. Gli occhi fissi, la figura cadaverica; e` in agonia e muore subito dopo. La Ristori faceva un rantolo; il rantolo della morte. In musica non si deve, ne´ si puo` fare; come non si deve tossire nell’ultim’atto della Traviata; ne´ ridere nello scherzo od e` follia del Ballo in Maschera. Qui vi e` un lamento del Corno inglese che supplisce benissimo al rantolo, e piu` poeticamente. Bisogna cantarlo colla massima semplicita`, e colla voce cupa (e` una morente) senza pero` mai che la voce sia ventriloca. Vi e` qualche momento in cui la voce puo` spiegarsi, ma devono essere lampi brevissimi che sono indicati nello spartito. Infine per l’effetto, e pel terrore che deve incutere questo pezzo abbisogna «figura cadaverica, pochi gesti, movimenti lenti, voce cupa» espress... etc. etc. – Notate poi che tanto quı`, come nel Duetto del prim’atto, se i cantanti non cantano sotto voce l’effetto ne riuscira` disgustoso perche´ vie e` troppa sproporzione e troppo squilibrio fra cantanti ed orchestra / l’orchestra non ha che pochi istromenti e violini con sordine. – Le scene che succedono al Sonnambulismo non han bisogno di commenti. A Voi che siete Maestri di mise en scene non abbisognano suggerimenti, nonostante permettete che vi dica che si ottiene un’effetto magnifico nella Foresta di Birna con pochissimi mezzi, e colla semplice velocita` dei movimenti. Intanto che Macbet (con una scena corta) canta la Romanza «pieta rispetto amore» etc. ... bisogna preparare una scena lunga e vasta a tutto teatro, e con una semplice tela dipinta nel fondo senza ingombri di macchinismi. In fondo 3 o 4 file di comparse (soldati di Macduff); ognuna di queste con un gran ramo d’albero che copra tutta la persona; alcuni di questi rami dovranno essere alti perche´ figurino alberi. Quando la scena si scopre dovra` essere in movimento tutta questa massa di uomini e fronde, e piu` sara` lontano meglio sara`. Macduff – solo sul davanti – sara` senza fronde ed Il movimento sara` lento ed eguale. A questo aggiungete l’altro che vien dopo quando gettano a terra i rami all’ordine di Macduff «via le fronde» ed il subito sparire di tutta l’armata, e tutti questi effetti di sorpresa formano un’insieme e teatrale purche´ tutti i movimenti sieno fatti esattamente e rapidamente. La scena a vista che scopre la vasta scena della foresta non dovrebbe sparire che sul gran forte della musica = Battaglia alla battuta 21

Sul resto di quest’atto non v’e` da dire che di dar molto carattere al costume dei Bardi e di servirsi per questi delle migliori voci del Coro. ———— Qui a Genova si fa` ora il Macbet (vecchio) e per l’apparizione dei Re nel Terz’Atto si fa` un machinismo che mi par buono e che vi voglio indicare. – Cio` consiste in una gran ruota, che non si vede, su cui sono posti i Re; e questo circolo in moto che alza ed avvanza, abbassa, e fa` sparire la figura di questi Re produce un’eccellente ef-

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SECONDA RICOGNIZIONE

fetto. I Re sono sopra un[a] piccola base appoggiata per stare in piedi ed in equilibrio ad una forte spranga di ferro; la base si piega in modo che la persona sia sempre diritta, e cio` si ottiene con dei contrapesi. La ruota e` tutta sotto terra, e soltanto la sua estremita` e` al livello del palco scenico: Scena

La scena e` oscura; soltanto vi e` la luce elletrica che batte sulla figura dei Re. —— La Ruota non ha che sei raggi, mentre i Re sono otto, ma e` facile vedere che i due ultimi che si possono mettere nel posto dei primi. La Ruota gira per conseguenza vi sono sempre posti vuoti. —— Io trovo buonissimo questo machinismo perche´ toglie la monotonia dei Re in processione a linea diritta, e perche´ fa` muovere questi Re senza che sieno obbligati a camminare. Cio` e` piu` fantastico. Se Voi trovate meglio... tanto meglio. Dall’ultima vostra lettera, parmi che potreste portare il vostro letto chez Monsieur Macbet... Buon divertimento ed Addio. Parto stassera per St Agata a piantar cavoli. Scrivetemi dumque a Busseto. Addio. G. Verdi

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TERZA

RICOGNIZIONE

A PROPOSITO DI LUISA MILLER DA TRAGEDIA BORGHESE A DRAMMA FAMILIARE

Nel febbraio del 1956 ando` in scena al Piccolo Teatro di Milano, per la prima volta in Italia, L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht con la regia di Giorgio Strehler. Fu un evento memorabile, onorato nel corso delle repliche dalla visita compiuta, a pochi mesi dalla sua improvvisa scomparsa, dall’autore, visto commuoversi fino alle lacrime nell’assistere alla rappresentazione della propria opera. L’azione di questo lavoro teatrale di Brecht si conclude, com’e` noto, inaspettatamente con un happy end, a uso finale d’opera: infatti nel preciso momento in cui il capo dei malfattori, Macheath detto ‘‘Mackie Messer’’, viene condotto alla forca, entra il messo reale a cavallo ad annunciare che, per volere della regina, Macheath viene graziato e rimesso immediatamente in liberta`; in pari tempo gli viene conferita dignita` nobiliare, «il castello di Marmerel e un vistoso patrimonio fino al termine dei suoi dı`». Brecht teneva in modo particolare a questo finale perche´, come egli stesso afferma nelle Osservazioni al suo dramma, «L’opera da tre soldi mette in questione le concezioni borghesi non solo come contenuto, in quanto cioe` le rappresenta, ma anche per il modo nel quale le rappresenta»,1 precisando nell’ultimo paragrafo, dedicato all’apparizione del messo a cavallo: L’opera da tre soldi da` un quadro della societa` borghese (e non solo di «elementi della teppaglia»). Questa societa` borghese ha prodotto, per conto suo, un ordine borghese del mondo, ossia una ben precisa Weltanschauung, dalla quale non puo` in alcun modo prescindere. L’apparizione del messo reale a cavallo, la` dove la borghesia vede ritratto il suo proprio mondo, e` assolutamente indispensabile. [...]. Il messaggero a cavallo garantisce un godimento realmente senza macchia anche in situazioni che non si reggono in piedi, ed e` percio` conditio sine qua non per una letteratura che ha per conditio sine qua non il non lasciar traccia di se´. Non occorre

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B. BRECHT, L’opera da tre soldi, traduzione di E. Castellani, Torino, Einaudi, 1956, p. 143.

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TERZA RICOGNIZIONE

dire che il finale del terzo atto deve essere eseguito con la massima serieta` e con assoluta dignita`.2

In buona sostanza Brecht nell’accogliere all’interno del proprio dramma la funzione gastronomica del teatro tradizionale, del melodramma in particolare (dove di frequente la soluzione del dramma e` affidata al deus ex machina), la sottopone – attraverso un processo di straniamento – a una sorta di smascheramento. Pochi mesi appresso – ed ecco il motivo di questo esordio, apparentemente estraneo al tema centrale della presente ricognizione – nel numero di novembre della rivista «Ricordiana» appariva un saggio intitolato ‘‘Amore e raggiro’’ tra Schiller e Verdi, nella quale l’autore, Niccolo` Castiglioni, uno dei maggiori compositori italiani del secondo Novecento, attraverso un confronto fra i contenuti drammatici della tragedia di Schiller e quelli dell’opera di Verdi, alla fine trovava convalidato il concetto brechtiano della funzione evasiva ovvero gastronomica, del melodramma, esemplata nel finale dell’Opera da tre soldi.3 Osserva Castiglioni come in Kabale und Liebe di Schiller vi sia una precisa intonazione critica che sfugge al lettore frettoloso [...] che fa di questo dramma l’opera forse piu` sicuramente rivoluzionaria di tutto il Settecento tedesco: non solo [...] un anelito di ribellione al potere costituito, non solo un’istintiva rivolta contro l’ingiustizia; ma anche un’implicita condanna formulata contro una rivolta impostata sentimentalmente in nome del cuore, e risolventesi logicamente in senso negativo: con il suicidio del protagonista.

Pertanto il rapporto obiettivo che intercorre tra i personaggi di questa «tragedia borghese» e` quello [...] di un realismo che esclude implicitamente ogni spostamento cronologico della azione in un’epoca estranea a quella di Schiller; di un realismo che critica (consapevolmente o meno) i motivi ideologici e morali dell’ambiente borghese; sicche´, in ultima istanza, l’unico (e veramente provvidenziale) insegnamento che e` possibile trarre dal bu¨rgerlisches Trauerspiel schilleriano e` sostanzialmente antiromantico.

Venendo a prendere in considerazione l’opera di Verdi, Castiglioni rivolge la sua attenzione, si badi bene, non al libretto («concepito sulle tracce di Amore e raggiro») bensı` al «contesto musicale» del dramma, Ivi, p. 154. N. CASTIGLIONI, ‘‘Amore e raggiro’’ tra Schiller e Verdi, «Ricordiana», II, 1956, pp. 426-428. In occasione della prima uscita, 1997, il presente saggio venne dedicato alla memoria di Niccolo` Castiglioni da poco scomparso. 2 3

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A PROPOSITO DI LUISA MILLER

che sta alla soglia della piu` grande violenza teatrale osata da Verdi: lo scatenamento ritmico delle opere del Trittico, l’impostazione conturbante del colpo di scena scandalistico, il riferimento a una soggettistica grottesca e (in riferimento all’etica convenzionale) anche ‘‘immorale’’, [...] elementi che fanno del Rigoletto e del Trovatore non soltanto due grandissimi capolavori, ma due melodrammi tra i piu` chiaramente impegnati di tutto il teatro verdiano.

La Luisa Miller rivela, nonostante l’evidente riferimento morale, una sostanziale divergenza d’impostazione estetica: e` in rapporto alla tornitura della melodia (un canto, che a differenza di Rigoletto e del Trovatore, tende «a risolversi in giri melodici estremamente soavi, astrattamente puri») che Castiglioni ravvisa nel dramma una sorta di «femminilita`, malgrado le pagine innegabilmente impetuose e drammatiche». E inoltre: La stessa nobilta` del contesto musicale [...] si risolve quasi sempre verso soluzioni stilistiche elegiache, pressoche´ belliniane. Lo si nota nelle arie, persino negli accompagnamenti (si vedano le sestine ondeggianti che cullano morbidamente la bella melodia di Rodolfo «Quando le sere al placido...», appassionatamente condensata in una sensibilissima ripercussione della mediante, secondo una prassi melodica, che gia` Berlioz aveva identificato come tipicamente belliniana); ma lo si sente anche, e soprattutto, nei recitativi, cosı` nobilmente espressivi in certe volute melodiche patetiche, estremamente femminili e languide.

Cio` fa sı` che quest’opera si ponga «su di un piano di estremo romanticismo nell’interpretazione del testo schilleriano», un piano idealizzato e rarefatto. E cosı` conclude Castiglioni: Il rapporto Schiller-Verdi rimane comunque molto indicativo per tutto un particolare mondo culturale, la cui importanza in tutta l’organizzazione della cultura italiana non e` stata ancora sufficientemente valutata: e` il mondo del melodramma. Un mondo dove la spinta rivoluzionaria (risorgimentale) e l’impegno morale sono sempre dati sensibili e violenti, ma anche distorti sentimentalmente nell’astratto furore di una passione fine a se stessa. Per il melodramma ogni rivoluzione e` buona, purche´ si faccia: che e` il contrario della consapevolezza. [...] Il cuore e` sempre il riferimento etico che prevale. Per la logica del melodramma, Schiller non puo` esser letto che in chiave sentimentale. Mentre la denuncia critica (implicita in Kabale und Liebe) del fallimento inevitabile di una rivolta concepita soltanto in termine di cuore [...] non veniva, per un melodrammaturgo italiano del secolo scorso, neppure avvertita. E sotto questo aspetto, rimane ancora convalidata la valutazione brechtiana (evasiva, «gastronomica») del melodramma; quella del prefinale dell’Opera da tre soldi: arriva un messo a cavallo, promette grazia e liberta`, commozione generale, «tu salvo sei», catarsi; mentre invece purtroppo la realta` e` ben diversa.

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Intorno al processo genetico della Luisa Miller i dati essenziali sono abbastanza noti grazie ai documenti pubblicati nei Copialettere 4 e nella monografia di Abbiati,5 poi raccolti e illustrati da Carlo Matteo Mossa nel Carteggio VerdiCammarano.6 Questi dati possono essere cosı` sintetizzati: 1) La prima proposta di un’opera da ricavarsi da Amore e raggiro di Schiller era stata avanzata da Verdi a Cammarano alla fine di agosto del 1846,7 ma tosto accantonata. La proposta era nata, con tutta probabilita`, dagli stretti contatti che in quel periodo il compositore stava intrattenendo con Andrea Maffei, traduttore di Schiller, insieme al quale aveva appena trascorso un periodo di convalescenza a Recoaro 8 e al quale avrebbe di lı` a breve affidato la revisione del libretto di Macbeth e la stesura del libretto dei Masnadieri. 2) Quasi tre anni dopo, tramontato il progetto di un’opera d’argomento patriottico (l’Ettore Fieramosca proposto da Cammarano 9 ma rifiutato da Verdi, e l’Assedio di Firenze, proposto da Verdi ma rifiutato dalla censura napoletana), e` lo stesso Cammarano, con lettera del 14 aprile 1849, a riproporre il soggetto schilleriano.10 3) Ne1 frattempo l’11 giugno 1847 era andato in scena al The´aˆtre Historique di Parigi Intrigue et amour di Alexandre Dumas pe`re in collaborazione con Maquet, ricavato da Kabale und Liebe di Schiller. Assiduo frequentatore dei teatri durante il soggiorno nella capitale francese, Verdi aveva forse assistito, di ritorno da Londra, a una delle repliche di quella produzione; certamente ne conosceva il testo, come si deduce da una lettera di Cammarano; 11 l’adattamento di Dumas potrebbe aver contribuito a maturare la scelta definitiva dell’argomento della nuova opera per Napoli. 4) Gia` con lettera del 22 dicembre 1847 Cammarano aveva giudicato il dramma «ricco di vive posizioni, e di caldi affetti» e la catastrofe «piu` che altra tremenda e compassionevole», tuttavia facendo presente «non meno di COPIALETTERE, pp. 71-72, 78-80, nonche´ in Appendice a pp. 470-477. ABBIATI, II, pp. 7-26. 6 Parma, Istituto nazionale di studi verdiani, 2001. 7 E non del novembre 1848, come si legge in ABBIATI , I, p. 770: «In quanto agli argomenti ne ho in vista diversi, per cui la vostra censura troverebbe da dire, nonostante uno sarebbe passabile: Amore e Raggiro di Schiller. E` un magnifico dramma di grand’effetto in teatro e di passione ma abbisognerebbero due donne». 8 MUZIO , p. 255. 9 Soggetto gia ` trattato da alcuni compositori quali Antonio Laudamo, Costantino Quaranta, Mariano Manzocchi. 10 «Posto in sı` dura condizione non so meglio rivolgermi che ad un argomento da voi stesso altra volta proposto, Amore e raggiro di Schiller» (COPIALETTERE, p. 71). 11 Vedi alla nota seguente. 4 5

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tre ostacoli»: la censura; la necessita` di «innalzare a maggior nobilta` il Dramma, o per lo meno alcuno de’ suoi personaggi»; «stringere il numero di questi personaggi».12 Tutti e tre gli «ostacoli» erano destinati fatalmente a interferire sui valori drammaturgici; in particolare il secondo, in quanto ‘l’innalzamento’ del dramma a «maggior nobilta`» comportava implicitamente un netto distacco dagli aspetti ‘realistici’, o meglio ancora, dal contesto storico-sociale di questa «tragedia borghese», in parte gia` compromessi (come vedremo) dalle traduzioni italiane che Verdi e Cammarano avevano sott’occhio. 5) Dopo aver scelto definitivamente il soggetto schilleriano, il 3 maggio 1849 Cammarano spedisce al compositore il «programma» o meglio, come egli stesso lo intitola, il «progetto d’un melodramma tragico»,13 cui fa seguire il 15 maggio «l’orditura dei pezzi» preceduta da alcune precisazioni: «si e` fatto qualche cosa per dar luogo ai cori e ad un poco di spettacolo: in quanto al carattere dell’altra donna fu prudenza cangiarlo, e sembra che basterebbe all’uopo una comprimaria, evitando cosı` lo scoglio delle convenienze di due prime donne».14 Come ha gia` osservato Jeffrey Kallberg a introduzione dell’edizione critica della Luisa Miller, il «progetto» di Cammarano anticipa quello che sara`, in sostanza, il risultato finale.15 In esso «progetto» vengono schivati i tre ostacoli in precedenza segnalati; il primo e il terzo (censura e diminuzione di personaggi) in un colpo solo tramite l’eliminazione della favorita, Lady Milford, che nella tragedia di Schiller riveste un ruolo di aperta contestazione sociale (e pertanto esposta ai rigori della censura napoletana). Ma anche altri personaggi scompaiono; fra essi la figura comica (fin nel nome) del ciambellano von Kalb, utile per la possibilita` – ricercata da Verdi – di miscelare il tragico con il comico, e la madre di Eloisa, una meschina donnicciola, la cui presenza sarebbe stata indispensabile ove si avesse voluto sottolineare l’ambiente piccolo borghese, che non e` sfondo bensı` sostanza della protesta implicita nella tragedia di Schiller. 12 «[...] ho diligentemente esaminato l’Amore e raggiro di Schiller, da voi propostomi, e le varie riduzioni del teatro italiano, non che quella francese di Dumas; e sono anch’io del vostro avviso, cioe` esser quel Dramma ricco di vive posizioni, e di caldi affetti, e soprattutto me ne sembra la catastrofe piu` che altra tremenda e compassionevole. Cio` non di meno tre ostacoli ne si parano d’innanzi: primo dover togliere quanto non sarebbe ammissibile dalla censura; secondo innalzare a maggior nobilta` il Dramma, o per lo meno alcuno de’ suoi personaggi; terzo stringere il numero di questi personaggi [...]» (P. WEISS, Verdi e la fusione dei generi, in La drammaturgia musicale, a cura di L. Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 75-92: 85). 13 Interamente riportato in ABBIATI , II, pp. 10-16. 14 COPIALETTERE , pp. 78-79. 15 G. VERDI , Luisa Miller, a cura di J. Kallberg, Chicago and London-Milano, The University of Chicago Press - Ricordi, 1991, p. XII.

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6) Con quali criteri drammaturgici Verdi intendesse affrontare il dramma di Schiller lo si comprende dalla sua risposta, del 17 maggio, al ricevimento del «progetto» di Cammarano.16 Si rassegna, sı`, per cause di forza maggiore davanti allo «scoglio delle convenienze di due prime donne», nonostante avesse preferito «in tutta l’estensione del suo carattere la favorita del principe, precisamente come l’ha fatta Schiller», ma non senza obiettare «che tutto quell’infernale intrigo tra Walter e Wurm, che domina come il fato tutto il dramma, non abbia qui tutto il colore e tutta la forza che vi e` in Schiller», e infine precisando che «sarebbe piu` naturale e credibile» se Eloisa «invece di dirsi l’amante di Wurm si dichiarasse l’amante d’un’altro qualumque». E intanto apporta modifiche sostanziali all’«orditura dei pezzi» 17 nell’intento di conferire sostanza melodrammaturgica al «progetto», e soprattutto insistendo su un aspetto, quel «misto di comico e di terribile (a uso Shaespeare)» cui aveva accennato qualche mese prima a proposito del progetto dell’Assedio di Firenze.18 7) Alla ‘nobilitazione’ del dramma perseguita da Cammarano contribuisce lo stesso Verdi, almeno per quanto si desume da una lettera del librettista 16 «[...] vi confesso che avrei amato due primedonne, e mi sarebbe piaciuta in tutta l’estensione del suo carattere la favorita del principe precisamente come l’ha fatta Schiller. [...] ma infine so che non si puo` fare quello che si vuole e sta bene anche cosı`. Mi pare peraltro che tutto quell’infernale intrigo tra Valter e Wurm, che domina come il fato tutto il dramma non abbia qui tutto il colore e tutta la forza che vi e` in Schiller. [...] Infine parmi che quando Eloisa e` costretta da Wurm di scrivere la lettera, se invece di dirsi l’amante di Wurm si dichiarasse l’amante di un altro qualunque, parmi avrebbe piu` significato e sarebbe piu` naturale e credibile. Di queste osservazioni voi ne farete quel caso che vorrete: cio` che mi preme si e` di dirvi che nel 1º finale non amerei una stretta o cabaletta finale. La situazione non lo esige, ed una stretta farebbe perdere tutto l’effetto della posizione. [...] Nell’atto secondo vi raccomando il Duetto fra Wurm ed Eloisa. Fara` un bel contrasto il terrore e la disperazione di Eloisa colla freddezza infernale di Wurm. Mi pare anzi che se darete al carattere di Wurm un certo non so che di comico, la posizione diverra` ancor piu` terribile. [...] Il terzo atto e` bellissimo. Sviluppate bene il duetto tra padre e figlia: fatene un duetto da cavare le lagrime. Il duetto che vien dopo e` pure bellissimo e tremendo, e credo anche sia necessario finire con un terzetto col padre. Quando entra Walter, bisogna fare meno versi che potete! [...] Non dimenticate di conservare in tutta la parte di [Wurm] quel certo non so che di comico che servira` a dare maggior risalto alle sue finezze e alle sue scellerataggini» (COPIALETTERE, op. cit., pp. 470-472). 17 Sulla corrispondenza fra atti e scene di Kabale und Liebe e di Luisa Miller rinvio a P. ROSS, «Luisa Miller» – ein kantiger Schiller-Verschnitt? Sozialkontext und a¨stetische Autonomie der Opernkomposition im Ottocento, in Zwischen Opera buffa und Melodramma. Italienische Oper im 18. und 19. Jahrhundert, hsgb. von J. Maehder und J. Stenzl, Frankfurt a.M., Peter Lang, 1994, pp. 159-178. 18 Lettera del 24 marzo 1849 a Cammarano: «Eccomi [...] a dirvi tutte le pazzie che mi saltano in testa intorno al nostro dramma. Incominciando dalla scena del convito io la desidererei bella, estesa, caratteristica, mista di comico e di serio etc. [...] In quanto ai versi fateli come volete, voi potete alternare e cambiare i metri, e siano strani e disordinati come la posizione. Questo misto di comico e di terribile (a uso Shaespeare) credo fara` bene e servira` anche a distrarre e togliere la monotonia di tante scene serie. [...] Nella tenda d’Orange non amerei molta gravita`; vorrei vi giocasse, e nello stesso tempo vi parlasse dell’assalto andato a vuoto etc. Intanto il resto della scena vorrei rappresentasse un vero campo d’armata. C’e` una scena stupenda in questo genere nel Valensthein di Schiller [...]. Anche qui i versi e i metri alternati e bizzarri» (ABBIATI, II, pp. 4-5).

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al compositore del 4 giugno: «Il pensiero che Miller abbia nella sua gioventu` servito l’armi non e` cattivo, esso ne rialza il carattere, e gli da` qualche energico slancio, e forma una drammatica antitesi col patetico di cui esso carattere e` bello».19 Operazione, questa, che tuttavia non altera, ma anzi conserva, nella sostanza, la condizione sociale subalterna, ‘bassa’, di Miller e di sua figlia, ancorche´ trasferita dalla citta` alla campagna. 8) Il 15 agosto 1849 Cammarano invia a Verdi «il libro completo».20 Alla vigilia della partenza per Napoli (3 ottobre) la musica della nuova opera – cui viene ripristinato, inconsapevolmente o meno, il titolo primitivo del dramma di Schiller 21 – risulta quasi interamente composta. Questo il succo della genesi di Luisa Miller, una genesi rinchiusa nello stretto spazio temporale di sei mesi: da maggio a ottobre. Ora, la riduzione di una «tragedia borghese» a ‘dramma familiare’, anzi – per citare il sottotitolo prudentemente impiegato da Carlo Rusconi nella sua traduzione 22 – a «tragedia domestica», non puo` essere giudicata solo sulla base delle divergenze dal testo di Schiller astraendo dalle condizioni politiche, culturali e ambientali napoletane di quegli anni, condizioni che comunque pesarono in misura decisiva sul «progetto» di Cammarano. Ancor piu` decisivo in tal senso e` potuto risultare il filtro esercitato dal contatto con le versioni italiane della tragedia «borghese» di Schiller, oltre che da quello con l’adattamento francese – «insolitamente rispettoso», stando all’opinione di Piero Weiss 23 – di Dumas e Maquet. Al momento non possediamo dati sicuri sulle versioni e gli adattamenti che compositore e librettista tennero sott’occhio. Possiamo procedere solo per indizi. Certamente l’adattamento di Dumas: Cammarano lo aveva gia` presente sin dal dicembre del 1847. Secondo Piero Weiss, nella risposta a Cammarano del 17 maggio 1849 Verdi tentava «di ripristinare [...] alcune situazioni drammatiche dell’originale, andate perdute nella riduzione librettistica», e citava per la fine del secondo atto, scena 7, di Kabale und Liebe, «versi tratti dall’adattamento di Dumas»; 24 ancora Weiss segnala come Cammarano avesse tolto da Dumas il gesto (inesistente in Schiller) di Rodolfo che alla fine dell’opera COPIALETTERE, p. 472. ABBIATI, II, pp. 26-27. 21 Louise Millerin, questo il titolo dato da Schiller alla sua tragedia, poi trasformato in Kabale und Liebe dietro suggerimento dell’attore nonche´ drammaturgo e direttore teatrale August Wilhelm Iffland, che alla prima rappresentazione della tragedia (Mannheim, Nationaltheater, 15 aprile 1784) sostenne la parte di Wurm. 22 Teatro di Federico Schiller, tradotto in prosa italiana da C. Rusconi, Padova, coi tipi della Minerva, 1844; vedi Amore e raggiro. Tragedia domestica, pp. 171-225. 23 P. WEISS , Verdi e la fusione dei generi... cit., p. 84. 24 Ivi, p. 85. 19 20

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trafigge Wurm con la spada.25 Fra le traduzioni italiane quasi certamente musicista e poeta ebbero come punto di riferimento quella di Rusconi, abbastanza rispettosa, entro certi limiti, del testo originale. Meno probabile che si servissero anche della versione pubblicata nel 1828 a Milano dall’editore Nicolo` Bettoni, una versione peraltro assai mutila rispetto all’originale. Ma non e` da escludere che il compositore avesse potuto valersi anche della traduzione ancora inedita (e forse ancora in corso) di Andrea Maffei, il quale sin dall’agosto del 1845 (cioe` un anno prima che Verdi avanzasse a Cammarano la proposta di Amore e raggiro) si era assunto con l’editore Pirola l’impegno di tradurre «anche i tre drammi in prosa di Federico Schiller, cioe` i Masnadieri, Cabala ed amore e Fiesco», sı` da completare tutto il teatro del drammaturgo tedesco.26 Sembra lecito supporre che Verdi, considerati i suoi rapporti di stretta amicizia con Maffei, gli si rivolgesse per porre a confronto piu` direttamente la tela drammatica del libretto con il testo originale di Schiller. Su Maffei traduttore di Schiller gia` Lavinia Mazzucchetti aveva rilevato, a suo tempo, come egli «con la sua versione classicheggiante, [avesse avuto] il merito certo involontario di sottrarre Schiller all’ormai oziosa polemica sul classico e sul romantico e di porre fine all’equivoco di uno Schiller poeta romantico che era stato dei conciliatoristi».27 Di contro al carattere diretto, stringato, della parlata del drammaturgo tedesco, Maffei oppone infatti uno stile ricercato, aulico; osserva Bianca Cetti Marinoni in proposito: «formatosi al gusto del classicismo montiano, non concepiva nemmeno che in una composizione in versi potessero entrare termini piani o dimessi: tutto doveva essere nobile, elevato, idealizzato. Di qui la frequenza, che non si riscontra nell’originale, di locuzioni auliche ed enfatiche, la scomparsa della concisione, l’arbitraria introduzione di pleonasmi e di figure retoriche».28 Ma al di la` dell’enfasi e dello stile classicheggiante cui approdano le traduzioni italiane, quella di Maffei in particolare, una perdita secca per tutte e` nei Ivi, pp. 85-86, in nota. Lettera del 21 agosto 1845 all’editore Pirola: «Secondo le nostre verbali intelligenze assumo di buon grado l’incarico di tradurre anche i tre drammi in prosa di Federico Schiller, cioe` i Masnadieri, Cabala ed amore e Fiesco. Quantunque un tal lavoro mi sia poco grato veggo benissimo, al pari di Lei, che potra` di molto avvantaggiar l’edizione, giacche´ colla pubblicazione dei drammi accennati il Teatro dello Schiller sara` completo» (cit. in B. CETTI MARINONI, Andrea Maffei traduttore di Schiller, in Annali dell’Istituto di Lingue e Letterature Germaniche, Universita` di Parma, Facolta` di Magistero, 4, 1976, pp. 231-247: 236-237). Le traduzioni dei tre drammi saranno pubblicate rispettivamente nel 1846, nel 1852 e nel 1853. 27 L. MAZZUCCHETTI , Schiller in Italia, Milano, Hoepli, 1913, p. 159 sgg., cit. in B. CETTI MARINONI, op. cit., p. 234. 28 B. CETTI MARINONI , op. cit., p. 239. 25 26

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livelli linguistici impiegati da Schiller in funzione realistica e al tempo stesso di polemica sociale, resi evidenti dal contrasto fra la rustica parlata, infarcita di schwa¨bische Mundart, del vecchio Miller e di sua moglie,29 e quella forbita e curialesca del ceto dominante, di Wurm e di von Kalb in particolare.30 Inoltre nelle traduzioni italiane viene evitata – quasi come per una sorta di autocensura – la traduzione letterale di termini-chiave quali Bu¨rger, Bu¨rgersmann, bu¨rgerlich, sostituiti con artigiano, popolano e consimili. Date queste condizioni, intuire la carica rivoluzionaria che la tragedia di Schiller esprime attraverso una protesta sociale resa ancor piu` violenta da un’ambientazione ‘realistica’, diluita o annacquata e per taluni aspetti anche cancellata dalle traduzioni italiane, era assai difficile, se non forse impossibile, per Verdi, che aveva pure il suo bel da fare con il librettista per restare «attaccato» (per usare un’espressione ricorrente nel lessico del compositore) al dramma originale senza incorrere nei rigori della censura e pur rispettando, per quanto obtorto collo, le «convenienze» melodrammatiche. E altrettanto difficile era per Verdi intuire nella tragedia «un’implicita condanna formulata contro una rivolta impostata sentimentalmente in nome del cuore» e interpretare l’atteggiamento del vecchio Miller e soprattutto quello di Luisa come supina accettazione della loro subalternita` alla classe dominante. Ha giustamente osservato Virginia Cisotti nel suo tuttora fondamentale studio su Verdi e Schiller, che «cio` che divide Ferdinand e Luise non e` tanto l’intrigo di Wurm quanto l’attaccamento di Luise al rigorismo morale del mondo borghese».31 Su questo versante la sensibilita` del compositore era forse meno accentuata o come disorientata, e semmai sollecitata a puntare, piuttosto, sul conflitto sentimentale dei protagonisti scatenato dal contrasto padri – figli, sottolineando da un lato l’atteggiamento sottomesso di Luise e quello esasperatamente ribelle (e a suo modo gia` ‘melodrammatico’ 32) di Ferdinand, dall’altro accentuando lo spessore psicologico della fiUn esempio di questa schwa¨bische Mundart nel dialogo d’apertura: «Zimmer beim Musikus. Miller steht eben vom Sessel auf und stellt sein Violoncell auf die Seite. An einem Tisch sitzt Frau Millerin noch in Nachtgewand und trinkt ihren Kaffee. Miller (schnell auf und ab gehend). Einmal fu¨r allemal! Der Handel wird ernsthaft. Meine Tochter kommt mit dem Baron ins Geschrei. Mein Haus wird verrufen. [...] Ich ha¨tt’ meine Tochter mehr koram nehmen sollen. Ich ha¨tt dem Major besser austrumpfen sollen – oder ha¨tt’ gleich alles Seiner Exzellenz, dem Herrn Papa, stecken sollen. Der junge Baron bringt’s mit einem Wischer hinaus, das muss ich wissen, und alles Wetter kommt u¨ber den Geiger». 30 B. CETTI MARINONI , op. cit., p. 243. 31 V. CISOTTI , Schiller e il melodramma di Verdi, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 81-107: 82-83. 32 «Rodolfo e ` stato ricalcato su Ferdinand con relativa facilita`, dato che esso e` nell’originale un personaggio gia` melodrammatico» (ivi, p. 90). 29

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gura del padre, il vecchio Miller, «un precursore – osserva ancora la Cisotti – di Rigoletto, un frammento del Lear mai musicato»; tuttavia non trascurando, in pari tempo, di attirare in qualche misura nella vicenda uno degli elementi ‘realistici’ della tragedia originale: la «miscela gotica di comico e di tragico».33 Ma circa il preteso ‘realismo’ di Kabale und Liebe non sembra piu` possibile ignorare l’illuminante interpretazione proposta da Auerbach in un memorabile capitolo, Miller il musicista, della sua Mimesis: «si direbbe che ci venga posto innanzi un primo tentativo di far sentire attraverso un destino individuale tutta la realta` contemporanea»; e tuttavia «Luise Millerin e` ben piu` assai un’opera politica, anzi demagogica, che un’opera puramente realistica».34 Nel disegnare la figura di un ‘potente’ come persona non per bene ma anzi «birbone», Auerbach vede infatti una coloritura «melodrammatica»: «Questa e` un’opera tempestosa, travolgente, di grande effetto, ma, osservata meglio, risulta assai brutta, e nulla piu` che un drammone d’arena scritto da un autore geniale».35 Tuttavia, l’aver individuato in questa «tragedia borghese» non tanto una denuncia indignata e perentoria contro l’ingiustizia e la violenza del potere quanto piuttosto una condanna di quel rigorismo morale della societa` borghese in cui e` la radice stessa della sua servitu` politica e` soprattutto merito della critica moderna. Appare pertanto antistorico imputare a Cammarano l’eliminazione del messaggio sociale espresso dalla tragedia originale e addossargli inoltre la colpa d’aver sottratto alla vicenda il suo carattere ‘‘urbano’’ nobilitandone i personaggi: nella traduzione librettistica infatti la scena viene spostata dalla citta` alla campagna (a vantaggio dei cori, come lo stesso Cammarano ebbe piu` volte a chiarire a Verdi) «privando il dramma della sua minacciosita` quasi claustrofobica».36 La didascalia scenica del primo atto di Luisa Miller proposta da Cammarano e accolta da Verdi – il villaggio in primo piano e il castello di Walter sullo sfondo – gia` riflette e rende visivamente evidente negli opposti luoghi i termini del conflitto su cui s’impernia l’azione, ma al tempo stesso mantiene e sottolinea quella differenza di condizione sociale che sta alla base della tragedia originale. D’altronde, se l’operazione compiuta da Cammarano (e da Verdi) da un lato veniva a fondarsi su un’interpretazione classicistica dei requisiti aristoteIvi, p. 89. E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 19777, vol. II: Miller il musicista, pp. 198-219: 204. 35 Ivi, p. 205. 36 P. WEISS , op. cit., p. 84. 33 34

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lici della pieta` e del terrore, dall’altro lato essa non poteva che ritagliarsi sulla base dei parametri melodrammaturgici dell’opera italiana del tempo, i quali a loro volta dovevano rispondere al sistema produttivo corrente di questo o quel teatro: vedi l’impiego del coro, l’innesto di arie per la prima donna, il primo tenore, il primo basso, la presenza o meno nella compagnia di canto di una seconda primadonna. Dal canto suo Verdi ravviso` nel dramma soprattutto alcuni temi centrali di tutto il suo teatro, dall’Oberto al Falstaff: la ‘rivolta contro il padre’ 37 (una duplice rivolta, nel caso specifico), il conflitto fra i sentimenti e l’arroganza del potere, il contrasto delle situazioni. E ravviso` inoltre un elemento drammatico: quel «misto di comico e di terribile (a uso Shaespeare)» ovvero, secondo la definizione dello stesso Schiller, «la miscela gotica di comico e di tragico» che ha attirato l’attenzione di alcuni studiosi (vedi in particolare Julian Budden 38 e Pietro Weiss 39). Su quest’ultimo aspetto l’intento del compositore veniva a trovarsi in sintonia con il proposito di Schiller, il quale in una lettera del 27 marzo 1783 scriveva: «[...] la mia Luise Millerin possiede proprieta` alquanto contraddittorie in se´, che poco si addicono al teatro com’e` concepito oggi. Per esempio, la miscela gotica di comico e di tragico [...]»; 40 tuttavia osservando il 3 aprile 1783 a Dalberg, sovrintendente del teatro di Mannheim: «Oltre alla varieta` dei personaggi e agli sviluppi della storia, oltre alla satira forse francamente eccessiva e alla presa in giro di alcuni matti da legare e di delinquenti di ogni risma, questo Trauerspiel pecca anche del seguente vizio di forma: che il comico avvicenda il tragico, il capriccio l’orrore e che, malgrado gli sviluppi procedano abbastanza tragicamente, ci sono alcuni personaggi e situazioni esilaranti che irrompono a rallentarne il de´nouement [...]».41 In Kabale und Liebe v’e` certo una critica sociale consapevole e lucida che sovrasta le passioni scatenate dai conflitti drammatici. Schiller non ha aspettato Karl Marx per affermare, anzi dimostrare, che e` la condizione sociale a determinare il pensiero; e non viceversa. Si veda ad esempio nell’ultimo atto della tragedia l’episodio di Miller che alla fine accetta la borsa d’oro con la quale Ferdinando cerca di riscattare il proprio senso di colpa, cosı` suggellando la propria subalternita` politica e morale al potere dominante, tacitamente Cfr. L. BALDACCI, Libretti d’opera e altri saggi, Firenze, Vallecchi, 1974, pp. 191-192. BUDDEN, I, p. 527: «Sia nei progetti per L’assedio di Firenze, sia nelle riflessioni sulla Luisa Miller, Verdi aveva rivelato il desiderio di attirare la commedia nella sua musica». 39 P. WEISS , op. cit. 40 Citata in F. SCHILLER, Intrigo e amore. (Un dramma in cinque atti di nobilta ` vs. borghesia), introduzione, traduzione e commenti di A. Busi, Milano, Rizzoli, 1994, p. 8. 41 Ibid. 37 38

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omologando la corruzione di un’aristocrazia arrogante e al tempo stesso rivelando la propria incapacita` a ribellarsi per rovesciare o almeno tentar di rovesciare il potere che umilia lui e la sua famiglia. In Luisa Miller questa scena, anzi questa ‘posizione’ (come Verdi stesso l’avrebbe definita) non c’e`: troppo umiliante, infatti, per un padre trasformato da ‘musicante’ in «vecchio soldato in ritiro». Il fatto stesso che Verdi non accolga questa ‘posizione’ sta a indicare che non tanto gli premeva l’elemento borghese della vicenda, quanto, piuttosto, il suo aspetto familiare, domestico, fin quasi privato, in opposizione al mondo dei potenti; e assai piu` premevano le passioni individuali in contrasto con l’ambiente sociale. Premevano infine quelle posizioni – amore e intrigo, appunto; 42 due elementi che nella tragedia di Schiller funzionano piu` che altro come espedienti drammaturgici – che gli consentivano, attraverso uno scavo psicologico dei personaggi, di tradurre i conflitti drammatici in termini musicali. Il problema della fedelta` a Schiller nulla ha a che vedere con il valore intrinseco dell’opera musicale; come e` stato gia` osservato da Gabriele Baldini a proposito di un confronto fra Verdi e Shakespeare nel Macbeth, «parlare di adeguamento dell’uno all’altro e` uno pseudo problema critico».43 Appunto nello scavo psicologico dei singoli personaggi (di tutti i personaggi, va sottolineato, Wurm compreso), mai prima di allora tentato dal compositore con altrettanta determinazione, e operato per gradi, lungo un percorso ascendente che si addensa e culmina nel terzo atto, risiede il valore intrinseco della Luisa Miller verdiana in termini melodrammaturgici. Un valore autonomo, in ogni caso, anche se e` pur lecito interpretarlo come premessa di quello «scatenamento ritmico» e di quella «soggettistica grottesca» di cui parla Castiglioni a proposito della cosiddetta ‘trilogia romantica’. E in merito a quel carattere di «femminilita`, malgrado le pagine innegabilmente impetuose e drammatiche», che Castiglioni attribuisce a quest’opera, va fatta qualche precisazione. Indubbiamente il personaggio di Luisa e` centrale nel dramma, lo inizia e lo conclude, tutta la vicenda si snoda e si riannoda intorno alla sua presenza. Il suo carattere trepido e` segnato dal ritmo palpitante di una melodia spezzata, sia all’esordio: ` stato talvolta rimproverato a Verdi di non aver conferito a Wurm quel rilievo marcato che 42 E si ritrovera` in figure ‘mefistofeliche’ delle sue opere piu` tarde (Paolo in Simon Boccanegra, Jago in Otello), lasciando che la sua presenza nella scena della lettera si riduca in pratica a pertichino, quasi pretesto per l’inevitabile aria con cabaletta della primadonna. Ma anche in questo caso giova ricordare il sistema produttivo di un’epoca nella quale era impensabile che un terzo basso potesse sostenere ruoli vocali di un certo peso (d’altronde anche nella prima versione del Boccanegra, di otto anni posteriore alla Miller, il personaggio di Paolo – che pure dara` non poche preoccupazioni a Verdi per la ricerca di un interprete idoneo – avra` dimensioni di comprimario, e solo molti anni piu` tardi, con la revisione di Boito, esso assumera` le caratteristiche di ruolo vocale primario). 43 G. BALDINI , Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano, Garzanti, 1970, p. 124.

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A PROPOSITO DI LUISA MILLER

sia all’epilogo:

alfa ed omega di una vocalita` che tuttavia assurge, nei momenti piu` tragici, a violenti scatti contrassegnati da veemente empito melodico. Ma veramente il «contesto musicale [...] si risolve quasi sempre verso soluzioni stilistiche elegiache, pressoche´ belliniane»? L’accenno alla melodia di Rodolfo, «Quando le sere al placido», avanzato come esempio da Castiglioni, merita una riflessione. Non ho parlato finora, e di proposito, del libretto in se´ di Cammarano, libretto, che a differenza di tanti altri dello stesso autore, sembra aver raccolto il generale consenso della critica.44 Infatti, la trasparente chiarezza della sceneggiatura e` sostenuta dalla forza evocativa delle immagini poetiche (non casualmente assai dense di significati, quasi apodittiche, nel verso iniziale di un cantabile o di una cabaletta), che Cammarano possedette in misura superiore a ogni altro librettista italiano del suo tempo, dalla buona qualita` intrinseca 44 Vedi soprattutto V. CISOTTI , op. cit.; ma vedi anche E. PANTINI , «Kabale und Liebe» e «Luisa Miller»: i due volti di un intreccio, Roma, Teatro dell’Opera, Stagione 1989-90: Luisa Miller, pp. 5765: «Anzi, il rifacimento librettistico e` per molti versi geniale, visto che riesce a conciliare la tragedia di Schiller con il teatro in musica nell’unica maniera che le convenzioni teatrali permettevano: conservando cioe` l’impalcatura originale del dramma schilleriano e frantumando un unico grande conflitto di enorme rilevanza sociale in piu` conflitti diversi di dimensioni ridotte, meglio malleabili drammaturgicamente e meno politicamente dirompenti».

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TERZA RICOGNIZIONE

della verseggiatura e soprattutto dall’abilita` nel redigere un testo atto ad alimentare l’ispirazione del compositore. A quest’ultimo proposito le due strofe del cantabile «Quando le sere al placido» costituiscono un modello forse unico nel genere; entrambe intessute da lunghe proposizioni subordinate (sei versi settenari a rima alternata) rette dalla proposizione principale contenuta nel quinario finale (l’esclamazione «Ah!, mi tradia!»), implicano di per se´ stesse una melodia di ampio respiro e di andamento ascendente, cui di fatto Verdi corrispose facendone una delle sue romanze piu` ispirate: Quando le sere al placido Chiaror d’un ciel stellato, Meco figgea nell’etere Lo sguardo innamorato, E questa mano stringermi Dalla sua man sentia Ah!... mi tradia!... Allor, ch’io muto, estatico Da’ labbri suoi pendea, Ed ella in suono angelico – Amo te sol – dicea, Tal che sembro` l’empireo Aprirsi all’alma mia!... Ah!... mi tradia!...

La musica teatrale, si sa, e` in grado di andare oltre il testo verbale e oltre le situazioni; puo` evocare sentimenti che le parole e le scene non sanno o non possono o non sono in grado di esprimere: basta un ritmo, un giro armonico, un timbro strumentale. Innanzi tutto non so se sia da accogliersi senza beneficio d’inventario l’affermazione di Berlioz, citata da Castiglioni, secondo il quale una caratteristica della prassi melodica «tipicamente belliniana» e` la ripercussione sulla mediante; forse Berlioz pensava a «Casta diva», la piu` celebre aria del compositore catanese; ma si tratta di un caso poco frequente in Bellini, e pertanto non molto indicativo. Quanto alle «sestine ondeggianti che cullano morbidamente la bella melodia di Rodolfo», strategicamente collocata alla fine del secondo atto, cioe` alla soglia della catastrofe, vorrei attirare l’attenzione sull’andamento armonico, giacche´ in Verdi non solo il ritmo, ma anche le transizioni armoniche contribuiscono a caratterizzare una situazione drammatica. Ora, in questo brano, e` pur vero che le sestine del clarinetto – impiegato peraltro, si badi bene, nel suo registro grave, il chalumeau, un registro dal timbro piuttosto minaccioso, nient’affatto soave, e tanto meno ‘estatico’ – presentano apparentemente un andamento ‘cullante’ che sembra aderire alla nostalgica immagine di una placida notte stellata (ES. 3). — 76 —

A PROPOSITO DI LUISA MILLER

Ma intanto c’e` da osservare che l’aspetto ‘cullante’ di questo andamento viene contraddetto sia dal ritmo acefalo delle sestine del clarinetto che conferisce al sostegno del canto un che di ansioso, sia dall’accento innaturale ovvero in contrattempo sulla seconda e sulla quarta semicroma di ogni sestina, che sembra increspare il ritmo, accentuandone il carattere agitato, o per meglio dire, conturbato; per cui queste sestine oserei definirle, piu` che «morbidamente» cullanti, ‘inquietamente concitanti’. Inoltre esso andamento e` percorso da un’instabilita`, oltre che ritmica, anche armonica che a sua volta riflette e accentua l’agitazione interiore di Rodolfo. Verdi cerca infatti di mantenere l’espressione musicale su un doppio binario: il felice ricordo di un’estasi amorosa, la disperazione per il disinganno presente. Ricordera` il compositore anni piu` tardi, al tempo di Aida: «La musica puo` riuscire egregiamente a [...] dire in certo modo, due cose in una volta. E` una qualita` di quest’arte mal considerata dai critici e mal tenuta dai maestri».45 Ogni volta che suono o riascolto questa pagina, mi ricordo sempre di quando, durante i miei anni di apprendistato, trovandomi ad accompagnare 45

Lettera a Ghislanzoni del 26 ottobre 1870, in COPIALETTERE, pp. 667-668.

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TERZA RICOGNIZIONE

quest’aria al pianoforte, sentii chiaramente affermare da parte di un autorevolissimo professore di armonia e contrappunto che il giro armonico della quarta battuta (vedi ancora Es. 6) e` sbagliato, o quanto meno scorretto. Il rilievo fa il paio con quello mosso a sua volta da Fe´tis a proposito di un passo della cavatina di Lady Macbeth;

la correzione proposta da Fe´tis 46 nella sua piatta banalita` basterebbe a dimostrare l’insensibilita` del teorico – terrorizzato come uno scolaretto dalle quinte e ottave parallele – nei confronti della scrittura drammatica e delle esigenze dello stile concitato.47 Nel caso specifico del cantabile di Rodolfo il giro armo-

46 Cfr. F.J. FE´ TIS , Verdi, «Revue et Gazette musicale de Paris», XVII, n. 39, 29 settembre 1850, pp. 324-325. 47 Nella nuova versione del Macheth (1865) Verdi, manco a dirsi, manterra ` inalterato il passo in questione. A proposito delle proibitissime quinte parallele, molti anni piu` tardi, parlando della Messa da Requiem nel corso di un’intervista rilasciata a un giornalista parigino, Paul Fresnay del «Voltaire», Verdi osservera`, alludendo forse all’attacco dell’assolo del basso nel Dies irae («Oro supplex et aclini»): «Non ho temuto a un certo punto di scrivere tre quinte di seguito. Ma se ho commesso questo errore d’armonia che un semplice allievo del Conservatorio eviterebbe, e` perche´ occorreva e l’effetto da prodursi lo richiedeva» (INTERVISTE, p. 165).

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A PROPOSITO DI LUISA MILLER

nico – dall’accordo di settima di dominante ancora a un accordo di settima di dominante attraverso gli accordi di terza e sesta sul sesto grado, settima di dominante in primo rivolto, e tonica – non e` solo espressione di irrequietudine emotiva che invita il compositore a derogare dalle norme scolastiche, ma e` anche il punto d’avvio di una serie di transizioni che consentono alla melodia di svilupparsi con moto ascensionale senza mai concludere sulla tonica se non alla fine, attraverso un’ultima ascesa sulla proposizione principale, il disperato «Ah! mi tradia!...». Dira` un giorno Verdi: «quando scrivo qualcosa d’irregolare, si e` perche´ la stretta regola non mi da` quel che voglio, e perche´ non credo nemmeno buone, tutte le regole finora adottate. Forse i Trattati di Contrappunto han bisogno di riforma».48

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Verdi a Filippi, lettera del 4 marzo 1869, in AUTOBIOGRAFIA, p. 425.

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QUARTA

RICOGNIZIONE

«E QUASI SI DIREBBE PROSA STRUMENTATA» L’ARIA «A DUE» IN STIFFELIO

In una corrispondenza apparsa sulla «Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia nell’ottobre del 1845 a proposito dei Lombardi di Verdi rappresentati al teatro di corte di Berlino (25 agosto 1843) da una compagnia italiana,1 si legge fra l’altro: [...] Il Nabucodonosor di Verdi, che gli italiani chiamano semplicemente Nabucco, e` stata la prima opera di questo giovane maestro che e` stata rappresentata a Berlino, e precisamente nella stagione scorsa. Essa fu eseguita molto mediocremente da parte dei cantanti [...].2 Per questa ragione il nostro giudizio ci riuscı` duro verso il giovane musicista, che sebbene non geniale e` quanto mai dotato di ricco talento. La nuova opera I Lombardi ha contribuito a una diversa migliore opinione, e noi riconosciamo in Verdi il talento piu` rilevante per l’opera italiana, il rivale vittorioso dell’abbastanza logorato Donizetti. Verdi lotta per l’espressione drammatica, per l’emancipazione del coro, che da un mezzo secolo in Italia, come altrove, porta le catene della schiavitu`, per nuove forme; pero` egli non riformera` certamente l’opera italiana, decaduta ad articolo di moda, perche´ a cio` occorre ben piu` che talento. [...] No, un genio Verdi non lo e`, anch’egli e` afflitto dal modello dell’opera italiana moderna, e ha imparato poco come Bellini, il quale, nonostante il suo grande anche se unilaterale talento per l’invenzione melodica, e` stato il piu` meschino guastamestieri che mai abbia acquistato fama mondiale, e, fosse anch’egli noto per aver inventato gli andamenti per terze, in tutta la sua vita non e` mai riuscito a fare un duetto. Da lui derivano quegli unisoni d’ensemble insopportabilmente bercianti, quel confuso rumore di strumenti a` la cirque Olympique che solitamente uccide tutta la poesia di una bella melodia elegiaca.

1 La critica e ` riprodotta, in traduzione italiana, nel mio Saggio di critiche e cronache verdiane dalla «Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia (1840-1848), in Il melodramma italiano dell’Ottocento, Saggi e ricerche per Massimo Mila [a cura di G. Pestelli], Torino, Einaudi, 1977, pp. 13-44: 33-34. 2 Nelle tre parti principali cantarono la primadonna Luigia Schieroni Nulli, il baritono Ramonda e il basso Mitrovich.

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QUARTA RICOGNIZIONE

Colpisce in questa recensione il giudizio acremente polemico nei confronti di Bellini. In particolare colpisce la frase: «fosse anche egli noto per aver inventato gli andamenti per terze, in tutta la sua vita non e` mai riuscito a fare un duetto». Al di la` di certa enfasi dettata dall’accento polemico, tale affermazione puo` lasciare sorpresi e perplessi quanti conoscono il ruolo fondamentale che l’autore della Norma (opera che pur conta non meno di quattro grandi arie «a due») assegna alla forma del duetto. Si puo` tuttavia interpretare il pensiero dell’anonimo recensore berlinese dal punto di vista degli apprezzamenti che egli rivolge al giovane Verdi, compositore «quanto mai ricco di talento», il quale, «sebbene afflitto dal modello dell’opera italiana moderna [...] lotta per l’espressione drammatica». Quel riferimento agli andamenti per terze – procedimento di consueto impiegato nel Cantabile del Duetto e nell’Allegro finale ovv. Cabaletta, trasformandolo in quell’«Aria a due» che secondo il critico berlinese non vale a formare un Duetto che tale voglia propriamente essere – investe l’aspetto non tanto musicale in se´ (considerando che gli andamenti per terze e loro rivolto intensificano il procedere orizzontale di una melodia, ma sottraggono vigore e varieta` alla disposizione verticale delle parti) quanto piuttosto l’espressione drammatica, dato che in presenza di situazioni antagonistiche fra due personaggi questa comporterebbe quanto meno una diversificazione nella condotta delle parti. Si ricava insomma l’impressione che il critico berlinese trovasse ormai insopportabile quella struttura dell’«Aria a due» divenuta pressoche´ inevitabile in presenza di due voci protagoniste (solitamente un soprano ovvero prima donna, e un contralto ovvero «musico»), che si protraeva da decenni nell’opera italiana seria con stucchevole regolarita` nella sezione centrale, cioe` nel Cantabile: dapprima una melodia affidata a una voce, indi la ripresa della stessa melodia affidata alla seconda voce, quindi una sezione dialogata che sfocia nell’«a due» vero e proprio, in cui le due voci si dispongono verticalmente in rapporto di terza o sesta, spesso con ripresa della melodia iniziale. Tale struttura si ritrova nelle opere dell’epoca pre-rossiniana. Si veda ad esempio il Duetto Cleopatra – Marc’Antonio «Regina adorata» nella Morte di Cleopatra di Nasolini (1791), il Duetto Gertrude – Amleto «Ah figlio... t’arresta...» nell’Amleto di Andreozzi (1792), il Duetto Giulietta – Romeo «Ahime`, gia` vengo meno» in Giulietta e Romeo di Zingarelli (1796), il Duetto Camilla – Duca «No, crudel, mai non m’amasti» nella Camilla di Pae¨r (1799), Il Duetto Ginevra – Ariodante «Per pieta`! deh! non lasciarmi» nella Ginevra di Scozia di Mayr (1801), il Duetto Elena – Corradino «Dunque tu vuoi» nel Corradino di Pavesi (1809). La struttura si manifesta ancora vitale in epoca rossiniana: si veda il duetto Tancredi – Amenaide «L’aura che intorno spiri» nel Tancredi di Rossini (1813), e il Duetto Fecennia – Ebuzio «Ah s’e` ver che m’ami ancora» nei Baccanali di Roma di Generali (1816). Modello esemplare di tale strut— 82 —

«E QUASI SI DIREBBE PROSA STRUMENTATA»

tura, anzi un vero e proprio paradigma della forma Duetto per voci femminili, destinato a esercitare grande influenza sull’opera seria italiana negli anni seguenti, e` la prima parte del Duetto Semiramide – Arsace nel secondo atto della Semiramide di Rossini (1823), comprendente Tempo d’attacco e Cantabile. Il Tempo d’attacco, qui costituito da due fasi o sezioni che un po’ rozzamente potremmo definire di carattere rispettivamente declamato e melodico, si presenta come un lungo assolo di Semiramide, nella tonalita` iniziale di Mi minore:

Il Tempo d’attacco viene quindi interamente ripreso, ora nella tonalita` di Mi maggiore, come assolo di risposta da parte di Arsace.

Segue una seconda ripresa del Tempo d’attacco, questa volta alla dominante, sulla quale s’innesta la sezione dialogata, che infine sfocia nel Cantabile «a due», vera e propria apoteosi, fuor d’ogni ironia, del procedimento per ter— 83 —

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ze e seste, qui ampiamente motivato dalla situazione drammatica o meglio, come avrebbe detto Rossini, dall’«atmosfera morale del dramma»: 3

Del pari esemplare, in tal senso, il Duetto «Mira, o Norma, ai tuoi ginocchi» nella Norma di Bellini, nel quale scompare ormai la sezione dialogata che tradizionalmente precede il Cantabile «a due». L’intensa melodia, di sole otto misure, esposta da Adalgisa:

viene ripresa, nella stessa tonalita`, da Norma. Alla fine del canto di Norma le due voci si uniscono e procedendo per terze modulano alla ripresa «a due» della melodia d’attacco:

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A. ZANOLINI, Biografia di Gioachino Rossini, Bologna, Zanichelli, 1875, p. 288.

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Il modello della Semiramide e della Norma e` ben presente a Mercadante, che al cospetto di due voci femminili lo adotta, ad esempio, nel Cantabile del «Duo» Elaisa – Bianca «Dolce conforto al misero», nel secondo atto del Giuramento, brano consistente praticamente in un «a due» con costante andamento per terze:

e nel cantabile del Duetto Violetta – Teodora, «Cielo di grazia, cielo clemente», nel terzo atto del Bravo:

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QUARTA RICOGNIZIONE

modello che tuttavia Mercadante non applica nel Duetto Elaisa – Bianca «Di Viscardo io sono amante», nel primo atto del Giuramento, in quanto caratterizzato da un irriducibile contrasto di ‘‘affetti’’ fra le due prime donne. Il modello e` meno presente in Donizetti, il quale – a partire almeno dall’Anna Bolena (vedi il Duetto Anna – Giovanna, il cui Cantabile «Dal mio cor punita io sono» si presenta come un assolo di Giovanna con pertichini di Anna, senza «a due») – evita quando possibile (fra le poche eccezioni il duetto Maria – Ines nella Maria Padilla) gli «a due» per terze fra voci femminili. Il tradizionale schema dell’«a due» con andamenti per terze e` tuttavia presente anche nei duetti a voci miste. Nel secondo atto del Bravo di Mercadante il Duetto Violetta – Pisani, inserito nel contesto di una scena complessa e articolata: «Gran Scena Romanza e Duetto», presenta la singolarita` di un doppio Cantabile:

E` solo nel secondo Cantabile, alla ripresa del tema da parte del tenore, che le due voci si congiungono in un «a due» con andamento per terze:

Non diversamente si comporta Donizetti, ma con una sostanziale differenza: cioe` con la rottura, determinata dall’espressione drammatica, di quella perfetta simmetria raggiunta da Rossini nella Semiramide e riproposta con maggiore semplicita` di schemi da Bellini nella Norma. Nel cantabile del duetto — 86 —

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Lucia – Enrico nel secondo atto della Lucia di Lammermoor la melodia del cantabile (Larghetto), dapprima esposta in orchestra dal corno, viene ripresa da Lucia: «Soffriva nel pianto». Alle parole «Un folle t’accende» Enrico interviene non con la stessa melodia di Lucia, come ci si sarebbe potuto attendere, bensı` con un nuovo pensiero musicale, caratterizzato da una diversa «mossa». Si tratta pertanto (per adottare la terminologia proposta da Julian Budden 4) di un duetto «asimmetrico». Segue pero`, subito dopo l’esclamazione «Oh Dio!», l’«a due» che procede per terze e seste. Era probabilmente questa la forma asimmetrica (che peraltro non costituiva in se´ una novita` assoluta; vedine un bell’esempio tardo-settecentesco nel Duetto Orazia – Marco Orazio: «Svenami ormai, crudele» negli Orazi e i Curiazi di Cimarosa) che Verdi aveva maggiormente sott’occhio nell’organizzazione melodrammaturgica delle «scene a due». Ma vi e` una ragione non tanto musicale in se´ quanto piuttosto drammaturgica, o meglio poetica, in questo atteggiamento. L’«a due» con andamento per terze rispecchia un’estetica ispirata al superamento dei conflitti verso l’univocita` degli «affetti»; la forma asimmetrica riflette la irriducibilita` dei conflitti. Tuttavia l’imperterrito Bellini – e il suo atteggiamento ci riporta al commento del critico berlinese citato all’inizio – di fronte a una situazione di estrema inconciliabilita` istituitasi fra i due personaggi, Norma e Pollione, alla fine del dramma, non ricorre alla forma asimettrica, ma si limita a un solo motivo tematico entro il quale esprimere, ben servito dal libretto, le opposte ragioni dei due personaggi. E` Norma a condurre il canto attraverso un tema spianato che nell’esposizione accoglie anche le brevi risposte dell’antagonista Pollione:

Segue una fase concitata in cui Norma e Pollione s’alternano su materiale tematico nuovo; improvvisamente la voce di Norma s’impenna per minacciare, su un ritmo di cabaletta, lo sterminio dei Romani: 4 BUDDEN , I, p. X: «Ai fini dell’analisi sono stato costretto sovente, come Abramo Basevi, ad inventare miei termini tecnici: ad esempio «simmetrico» per indicare un movimento di duetto nel quale entrambe le voci entrano con lo stesso materiale, «asimmetrico» per il caso contrario».

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Questa fase si conclude con la cabaletta, intonata separatamente prima da Norma, quindi da Pollione, con stretta finale «a due»:

A ben esaminare le tre fasi che scandiscono questo brano, definito in partitura «Scena e Duetto», in realta` dal punto di vista formale ci troviamo di fronte non tanto a un duetto vero e proprio quanto piuttosto a un’aria con pertichini, conclusa da una cabaletta «a due». Il duetto, cardine della drammaturgia verdiana, in quanto luogo privilegiato della conflittualita` di situazioni e di personaggi, inevitabilmente assume forma asimmetrica. Gia` con il Nabucco Verdi tende a superare lo schema tradizionale del Cantabile «a due» evitando gli andamenti per terze. Quest’opera presenta un solo grande Duetto, quello fra Abigaille e Nabucco nel terz’atto. Dal contrasto di affetti che si instaura fra i due personaggi deriva la forma asimmetrica del brano, in particolare nel Cantabile; questo inizia con un’ampia frase melodica di Nabucco in Fa minore:

Risponde Abigaille con arrogante accento in altra tonalita`, Re bem. maggiore, e con diversa mossa, cui da` impeto la cellula ritmica costituita dalla semicroma puntata: — 88 —

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Nel momento in cui le due voci dovrebbero congiungersi per dar luogo, secondo le attese dettate dal codice melodrammatico, a un «a due» con andamento per terze e seste, Verdi mantiene distinta l’espressione musicale delle due parti, conservando cosı` al canto di Nabucco il carattere spiegato e dolente, e accentuando nella antagonista il ritmo oppressivo, spietato, delle semicrome puntate. Il punto d’incontro – ma in questo caso sarebbe meglio dire: di scontro – avviene fra le due voci alla dominante di Re bem. maggiore:

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Perfino nel momento in cui il canto di Abigaille, con ulteriore accensione dell’idea melodica, si distende ad arco potendo cosı` consentire un andamento parallelo fra le parti, Verdi evita il consueto andamento per terze:

Fu questo trattamento delle parti, nel Duetto del Nabucco cosı` come gia` in precedenza nel Quartetto dell’Oberto 5 e, poco piu` tardi, nel Terzetto dei Lombardi, a conferire quel senso di ‘novita`’ che il pubblico avvertiva nelle prime opere del giovane Verdi e a marcare, secondo l’opinione del recensore berlinese sopra citato, la sostanziale differenza che lo distingueva, ad esempio, da Bellini. Resta da precisare che il Duetto Giselda – Oronte nel terzo atto dei Lombardi di Verdi presenta nel Cantabile «O belle, a questa misera, tende lombarde» una forma simmetrica qui ampiamente giustificata dalla situazione di ‘simpatia’ affettiva che s’istituisce fra i due personaggi, a differenza del Duetto del Nabucco basato sull’antagonismo delle parti; l’«a due» che segue la ripresa del tema ha quasi il gesto di una «coda» ed e` da Verdi condotto attraverso l’alternanza delle parti, le quali s’intrecciano fra loro senza mai dar luogo ad andamenti per terze. In un articolo apparso sulla «Schweizerische Musikzeitung» nel 1963, in occasione del 150º anniversario della nascita di Verdi, Herbert Dresser, al fine di porre in evidenza la funzione sempre piu` eminente assunta dalla forma Duetto nella melodrammaturgia verdiana, esponeva la seguente statistica: un solo Duetto nel Nabucco, due nell’Ernani, tre nei Masnadieri, quattro nella Luisa Miller, cinque nel Don Carlos e nell’Aida, e ben sei Duetti e quattro Duettini nel Simon Boccanegra.6 Non so se questa statistica, peraltro imprecisa, possa rivestire un significato in se´. La presenza di tre Duetti nell’opera seria italiana nel ventennio 1820-1840 costituiva un fatto abbastanza normale. Riportato nel primo capitolo del presente volume. H. DRESSLER, Das grosse Duett. (Zu Giuseppe Verdis 150. Geburtstag), «Schweizerische Musikzeitung», CIII, 1963, pp. 355-361. 5 6

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Tre Duetti si trovano in opere di Donizetti, Bellini e Mercadante quali Anna Bolena, Maria di Rudenz, Marin Faliero, Lucrezia Borgia, I Puritani, Il Giuramento, Il Bravo. Tre Duetti e un Duettino sono in Roberto Devereux e in Maria Stuarda; quattro Duetti contano opere quali Norma e I Capuleti e i Montecchi di Bellini, e la Vestale di Mercadante. E quattro ne contiene Rigoletto, giusto l’opera che Verdi stesso in una lettera a Carlo Borsi, marito della cantante Teresa De Giuli, sosteneva d’aver «ideato [...] con una filza interminabile di Duetti perche´ cosı` era convinto».7 Le statistiche in se´ non dicono molto. Non il numero fa la forza, bensı` la funzione che una data forma assume nell’economia generale dell’organizzazione drammatica. Venendo agli anni dello Stiffelio si puo` osservare come Verdi tenda in qualche modo a forzare ulteriormente lo schema tradizionale del Duetto operando al suo interno onde renderlo sempre piu` flessibile alle esigenze dell’azione drammatica. E` ormai risaputo da parte degli studiosi dell’opera italiana dell’Ottocento come la struttura del Duetto si fosse codificata sin dagli anni 1820 in una sequenza pentapartita costituita dalla Scena introduttiva, dal Tempo d’attacco, dal Cantabile, dal Tempo di mezzo e dalla Cabaletta con Stretta finale. Verdi sperimenta tale sequenza apportando varianti e modificando funzioni.8 Particolarmente in Stiffelio si puo` notare una maggiore disinvoltura nell’impiego delle tradizionali forme melodrammaturgiche rispetto alle opere giovanili, che a mio parere si spiega soprattutto con il contatto avvenuto nel biennio 1847-1849 con l’ambiente teatrale parigino, non solo con quello delle scene liriche (Ope´ra, Ope´ra-Comique, The´aˆtre-Italien), ma anche, e soprattutto, con quello delle scene non operistiche, da l’Historique al Porte-St.Martin, dalla Come´die al Vaudeville. La frequentazione di questi teatri da parte di Verdi puo` contribuire a spiegare la svolta affrontata dal 1849 in poi, svolta gia` avvertibile nella Battaglia di Legnano e nella Luisa Miller.9 A tal proposito riten7 Lettera dell’8 settembre 1852, in M. CONATI , Rigoletto. Un’analisi drammatico-musicale, Venezia, Marsilio, 19922, pp. 72-73. 8 Su questa struttura e in particolare dalla nuova funzione assegnata da Verdi alla Cabaletta «a due» a partire da Un ballo in maschera, vedi in questo volume al cap. Aspetti di melodrammaturgia verdiana (a proposito di una sconosciuta versione del finale del duetto Aida - Amneris), pp. 153 sgg. 9 Fra le pie `ces rappresentate (e pubblicate) durante il primo soggiorno di Verdi, e a questi molto probabilmente non ignote, occorre ricordare Intrigue et amour di Dumas et Maquet (The´aˆtre Historique, 11 giugno 1847), adattamento di Kabale und Liebe, il dramma di Schiller dal quale pochi mesi dopo il compositore avrebbe ricavato l’argomento di Luisa Miller. In quanto ad altri soggetti d’opera che suscitarono l’interesse di Verdi durante il primo soggiorno parigino, ho dimostrato in altra sede (vedi a p. 92 del mio Rigoletto sopra citato) come la lista «Argomenti d’opere» redatta dal compositore sul verso dell’ultima pagina del secondo fascicolo dei copialettere (facsimile in COPIALETTERE, tav. XI), finora accreditata da alcuni studiosi all’anno 1844, in realta` risalga a una data non anteriore al febbraio del 1849 e possa essere stata compilata a Parigi.

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go, con non poca presunzione, ancora valide le osservazioni da me espresse in occasione di una ripresa dello Stiffelio avvenuta al Teatro Regio di Parma il 26 dicembre 1968 e che qui riassumo. Agli anni 1849-1850 appartiene una nuova fase dell’evoluzione dell’arte verdiana: in quegli anni trova alfine sbocco la lunga crisi in cui l’opera dell’artista s’era addentrata all’indomani della svolta compiuta con l’Ernani e che pareva risolta con il prodigioso balzo del Macbeth. All’avvio di questa nuova fase che vedra` il coronamento nei tre capolavori Rigoletto, Il Trovatore e Traviata, non furono estranei le provocazioni, le riflessioni, i suggerimenti ricavati dal compositore durante il lungo soggiorno parigino dall’estate del 1847 all’estate del 1849. Gli stimoli, gli spunti ricevuti durante la tenace sosta nell’irrequieta capitale francese, crocevia delle correnti culturali dell’epoca e a un tempo roccaforte del movimento romantico, indubbiamente contribuirono a maturare nell’animo del compositore un rinnovamento della sua drammaturgia e un sostanziale affinamento dei mezzi, avviandolo verso la scelta di un teatro piu` articolato ma anche piu` moderno, piu` complesso ma anche piu` ardito. Non e` nemmeno arrischiato ritenere che l’unione, concretatasi appunto durante quel soggiorno, con una donna di eccezionale sentire quale Giuseppina Strepponi abbia contribuito in maniera determinante al nuovo indirizzo dell’arte verdiana. [...] Nello Stiffelio e` evidente il tentativo verso un teatro, come diremmo oggi, impegnato, non piu` circoscritto al solo effetto, al gesto; un teatro di contenuti, non alieno da intendimenti didascalici, ma tutto calato nell’atmosfera del tempo, all’indomani del Quarantotto, nel pieno vigore dell’aggressivita` romantica.10 Cio` che sembra molto importante in Stiffelio quale aspetto connotante un nuovo indirizzo teatrale sia – al di la` del trattamento di un argomento contemporaneo, al di la` del fatto che il protagonista sia un sacerdote, al di la` del tema del divorzio e dei costumi dell’epoca, al di la` del finale non tragico (ma neppure lieto), al di la` degli aspetti letterari – il tenace tentativo di rendere maggiormente flessibili le forme tradizionali dell’opera seria italiana per piegarle a una drammaturgia piu` strettamente vincolata alle esigenze dell’azione. Vi e` come un rimescolamento di carte, un proposito di alterare le regole del gioco per dinamizzare il discorso musicale in funzione dell’espressione drammatica. Lo si nota gia` nella prima Aria di Stiffelio, «Vidi dovunque gemere»: chi leggesse il testo del libretto non conoscendone la musica, potrebbe ritenere di trovarsi di fronte a un Duetto. Di primo acchito tale impressione potrebbe essere confermata cominciando ad ascoltare la musica; infatti la Scena che 10 M. CONATI , Cronologia - Critica - Bibliografia, in Stiffelio, Parma, Istituto di studi verdiani, 1968 («Quaderni dell’Istituto di studi verdiani», 3); vedi «Introduzione», pp. 144-145.

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precede l’Aria e` quasi tutta di Lina in quanto costituita da una melodia di buon respiro che si distende per dodici misure, quasi le dimensioni di un foglio d’album:

Tale impressione trova ulteriore conferma nella prima parte dell’Aria, il cosiddetto Cantabile, strutturato in maniera affatto diversa dal consueto, e viene accentuata dai frequenti, per quanto brevi, interventi di Lina. Medesima impressione ricevette infatti un critico dell’epoca, Tommaso Locatelli, che nell’elencare i «pezzi piu` nobili» dell’opera cita, fra quelli del primo atto, «un duetto tra il tenore e la donna».11 L’inganno, se tale puo` essere definito, e` prodotto proprio dal carattere della melodia d’ingresso del Cantabile: non una melodia che si sviluppa ad arco fino a comprendere tutta la sezione del Cantabile, bensı` una melodia di carattere ‘narrativo’, la cui mossa denota un Tempo d’attacco di Duetto (la si confronti, per l’analogia della mossa, con «Mal reggendo all’aspro assalto» nel duetto Azucena – Manrico del Trovatore):

11

«Gazzetta Ufficiale di Venezia» del 15 gennaio 1852, rist. in M. CONATI, Cronologia..., cit.,

p. 128.

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QUARTA RICOGNIZIONE

E che si tratti di un Tempo d’attacco lo conferma successivamente, dopo una breve sezione dialogata, l’ingresso di una nuova melodia, dal carattere di «romanza», nuovamente affidata a Stiffelio, che a questo punto si configura come l’inizio del Cantabile di un Duetto, e che si sviluppa per quattordici misure:

La nuova melodia non viene ripresa dal soprano (trattandosi infatti, dal punto di vista strettamente formale di un’Aria ovvero di un brano solistico per tenore); ma i successivi interventi dell’orchestra mirano direttamente a dipingere la ‘posizione’ di Lina; nel momento in cui Stiffelio osserva a Lina «Ma... lagrime ti grondano!...» appare in orchestra il disegno ritmico del pianto:

Insomma siamo di fronte a un’Aria, pur conclusa dalla canonica Cabaletta, che nella prima parte presenta la struttura di un Duetto: una falsa aria o, per dirla con Basevi, un’«aria sfasciata».12 A sua volta il Duetto fra Lina e Stankar presenta nella prima parte, avendo riguardo all’economia musicale dei mezzi, piu` l’aspetto di un’Aria (in questo caso un’Aria doppia) per baritono, che non quello di un vero Duetto. Il tempo d’attacco «Dite che il fallo a tergere», che fa se´guito alla scena introduttiva, e` interamente affidato al baritono, senza ripresa simmetrica da parte del soprano: 12 «Questa prima parte dell’aria, per la sua varieta ` , esce dal comune, ma non merita lode per questo; imperocche´ la varieta` e` bella soltanto allora che si associa all’unita`. E questa prima parte dell’aria, manca in guisa d’unita`, ed assume aspetto di cosa cosı` sconnessa, che non la saprei significar meglio che colla parola sfasciata» (BASEVI, pp. 176-177).

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Il Tempo d’attacco si conclude con una sezione dialogata che modula al Cantabile vero e proprio, «Ed io pure in faccia agl’uomini», anch’esso interamente sviluppato dal baritono:

La melodia si conclude con una cadenza. A questo punto ci si dovrebbe attendere la risposta del soprano attraverso la ripresa del tema o, in forma asimmetrica, con una melodia nuova. Avviene invece che le voci gia` si congiungono per l’«a due», ma in maniera alquanto inconsueta: Stankar prosegue il canto conservandone inalterato il carattere, mentre Lina interviene con un canto spezzato che ha piu` l’aspetto di un ‘pertichino’ che non di vera e propria impronta deuteragonistica: piu` contrappunto che melodia, che s’innesta sulla continuazione del canto di Stankar, il quale a sua volta procede autonomamente, quasi si trattasse di un’Aria per baritono, mentre in realta`, dal punto di vista strettamente formale, siamo di fronte a un duetto:

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QUARTA RICOGNIZIONE

In questo caso, dunque, un «falso duetto» o un «duetto sfasciato». Non v’e` tuttavia bisogno di sottolineare che proprio dal contrappunto di Lina, dal suo canto spezzato, deriva il fascino di questo brano tanto ammirato dal pubblico e dalla critica dell’epoca per novita` di forma e qualita` d’ispirazione. Dopo la rappresentazione di Stiffelio al Teatro di San Carlo di Napoli nella versione censurata, dal titolo Guglielmo Wellingrode, un critico ebbe a osservare: La musica del Guglielmo in molti punti confina con la prosa, e quasi si direbbe prosa strumentata. Pero` da questo caos informe Verdi ha segnato il punto di partenza della sua nuova maniera; in questa musica si contengono le fondamenta del Rigoletto, del Trovatore e della Traviata [...].13

Prosa strumentata: per l’appunto questa era l’intenzione di Verdi; forzare cioe` dall’interno le forme strofiche convenzionali del melodramma fino al limite, per cosı` dire, delle loro leggi gravitazionali, per renderle flessibili a situazioni che sono piu` della commedia recitata che non del dramma cantato. Ai nostri giorni Massimo Mila ha definito questa «prosa strumentata» come «un parlare commosso, piu` che un cantare, un accento, un’inflessione melodica lasciata cadere al momento giusto; l’accento, e non il motivo di quattro od otto battute, e` la nuova unita` di misura melodica che permette una penetrazione infinitamente piu` ‘‘duttile» nei meandri di una psicologia gia` morbida e sottile».14 Mi sembra molto significativo che questa svolta radicale della drammaturgia verdiana, pure a lungo meditata, si sia compiuta nel breve giro di pochi mesi, tra il giugno e il dicembre del 1850, attraverso due opere, Stiffelio e Rigoletto, affatto diverse per «tinta» musicale e drammatica (derivanti nell’una dal background chiesastico, nell’altra da quello cortigiano), ma affini 13 «Il Palazzo di Cristallo» di Napoli, del 27 novembre 1855, rist. in M. CONATI , Cronologia..., cit., p. 131. 14 MILA 1974, p. 407.

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per concezione melodrammaturgica. Una svolta che, seppure preannunciata dalla Battaglia di Legnano e da Luisa Miller, appare subitanea nelle dimensioni, come di chi voglia rompere gl’indugi, e aggressiva nelle proporzioni per coraggio di scelte e rapidita` d’esecuzione; svolta alle cui origini stanno, torno a ripetere, le esperienze maturate durante i due anni del soggiorno parigino. E che qualcosa di queste esperienze trapelasse alle orecchie degli ascoltatori contemporanei puo` confermarlo un’osservazione avanzata dal corrispondente dell’«Italia Musicale», il periodico dell’editore Lucca, dopo la prima rappresentazione dello Stiffelio a Trieste (16 novembre 1850): In numero dei meno, gl’intelligenti, trovano che il Verdi abbia esaurito tutto quanto sa di genere italiano; ed infatti non trovate in quest’opera, presa in complesso, ne´ le forme, ne´ le cantilene, ne´ il ritmo melodico della nostra scuola, ma piuttosto vi spicca il genere e la scuola francese. Essa presenta dei quadri drammatici ove l’azione vi domina con grave scapito della melodia. Il recitativo non e` piu` il nostro [...].15

Sull’altro fronte, quello dei sostenitori di Verdi, Francesco Hermet scriveva sulla «Favilla» triestina: Or chi con il solito frasario musicale si facesse a vestire quest’azione drammatica, semplice, piana [...] e quindi volesse ottenere l’effetto colle solite cavatine od arioni a coro obbligato, dal ricamo sovrabbondante dell’strumentazione a gran colpi di cassa e clangore assordante degli ottoni, andrebbe grandemente errato. Nuove vie bisognava tentare, nuove forme adottare, e secondo noi il Verdi vi e` pienamente riuscito.16

Di queste «nuove vie», di queste «nuove forme», insomma di questa «prosa strumentata», l’esempio piu` singolare e` la scena-cardine dell’opera, a mio avviso la piu` bella e intensa oltre che la piu` ardita e sconvolgente di tutto lo Stiffelio, vale a dire la Scena e Duetto tra Lina e Stiffelio nel terzo atto: in tutto questo brano e` assente un vero e proprio «a due»; manca perfino nella Cabaletta, salvo nella breve Stretta finale. Caso rarissimo, per non dire forse unico, fra i duetti d’opera almeno fino all’Aida, non vi e` un solo momento del Cantabile in cui le due voci procedano insieme, fosse pure per una sola battuta. Se mai l’idea del «divorzio» poteva essere resa in musica, Verdi la realizza di fatto tenendo separate le voci dei due coniugi, senza mai congiungerle. Tutto il brano si sviluppa lungo un percorso orizzontale: per esigenze drammaturgiche il compositore rinuncia qui all’espressione sincronica dei sentimenti consentita dal linguaggio musicale attraverso l’organizzazione verticale 15 16

«L’Italia Musicale» del 20 novembre 1850, rist. in M. CONATI, Cronologia..., cit., p. 117. F. Hermet, in «La Favilla» del 20 novembre 1850, rist. ivi, p. 105.

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dei suoni. Al fine di conferire a questa struttura un’estrema flessibilita` Verdi fa un uso molto raffinato, vorrei dire ‘ambiguo’, delle modulazioni, non mai concludendo ogni nuova melodia, per quanto intensa e sviluppata, bensı` mantenendo sempre aperto, dall’inizio alla fine, il discorso musicale attraverso continue accelerazioni e decelerazioni che conducono dal carattere sostenuto del Tempo d’attacco al turbolento Finale. Da questa scena ancora una volta si ricava l’impressione di un impiego coerente, non certo casuale, delle aree tonali; e` gia` stato da altri osservato che la tonalita` di Re assume il ruolo di sfera sonora della tinta chiesastica. Ma vi sono altre aree tonali impiegate in funzione drammaturgica. Mi limito qui ad accennare all’area tonale di Mi collegata all’idea dell’adulterio: nel primo atto Stiffelio, allorche´ s’appresta a gettare alle fiamme il portafoglio che potrebbe rivelare il nome dell’adultero, modula a Mi maggiore. Si tratta della stessa tonalita` nella quale egli, all’inizio del Duetto con Lina nell’ultimo atto, impone a questa il divorzio:

Ancora un Mi, violentemente ribattuto, e` la nota d’attacco della Scena ed Aria di Stankar all’inizio del terzo atto:

E sull’insistente nota di Mi alla fine dell’opera risuona per bocca di Stiffelio, quindi del coro (nelle voci dei soprani e dei tenori) la parola scenica che conclude il dramma, «perdonata»:

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Analogamente l’area tonale di Mi bem. e` esplicitamente collegata al personaggio di Lina, o meglio, all’idea del ‘rimorso’ di Lina. La Preghiera nel primo atto «A te ascenda, o Dio clemente» e` nella tonalita` di Mi bem. maggiore; all’inizio del preludio strumentale che apre il secondo atto e introduce la Scena ed Aria di Lina, «Ah, dagli scanni eterei», la tonalita` si cangia in quella di Mi bem. minore:

Questa stessa tonalita` si ripresenta nel momento culminante del Duetto Lina – Stiffelio, quello della confessione dell’adultera, brano d’intenso effetto che Verdi realizza affidando la melodia – piu` esattamente una breve cellula ritmico-melodica – al timbro solista del corno inglese, mentre Lina si esprime attraverso un ‘parlante’:

Lo si potrebbe definire un me´lodrame, almeno nella mossa iniziale; poi la voce di Lina ascende, il ‘parlante’ si trasforma in canto, un canto sempre piu` intenso che tuttavia non e` melodia, almeno per l’aspetto esteriore; un canto che alla fine, dopo un ultimo disperato appello, «sempre v’amo», rapidamente ripiega come per concludere, ma in realta` per recare nuova spinta al prosieguo dell’azione e all’ingresso dell’Allegro finale. L’arditezza di concezione e` tale che per assistere a qualcosa di analogo e di altrettanto sconvolgente effetto bisognera` attendere il monologo di Otello, «Dio, mi potevi scagliar». Ma infine e` proprio questo il vero Cantabile del Duetto Lina – Stiffelio? o non si tratta piuttosto del Tempo di mezzo che precede la Cabaletta, dovendosi considerare come il vero Cantabile l’Andante sostenuto di Lina, «Non allo sposo volgomi», nella stessa tonalita` del Tempo d’attacco? In questa Scena e Duetto Verdi sconvolge e rimescola a tal punto le carte da rendere irriconoscibile lo schema convenzionale del duetto. Se tuttavia si volesse asetticamente anatomizzare l’intero brano per tentare di riconoscere — 99 —

QUARTA RICOGNIZIONE

le sezioni che costituiscono la sequenza pentapartita dell’aria «a due» cui s’era piu` sopra accennato, si potrebbe ricavare il seguente schema: 1) Scena: un brevissimo recitativo, che subito va al 2) Tempo d’attacco: «Opposto e` il calle» (Allegro sostenuto, in Mi maggiore) affidato al tenore, con ripresa del tema affidata allo stesso; cui segue una sezione dialogata, contenente una nuova idea musicale, pure affidata al tenore: «Speraste che per lagrime» (Moderato assai), nella tonalita` di Do maggiore, che conduce al 3) Cantabile: «Non allo sposo volgomi» (Andante sostenuto, in Mi maggiore) affidato al soprano; cui segue una breve sezione dialogata che introduce il 4) Tempo di mezzo: «Egli un patto proponea» (Andantino, in Mi bem. minore), ancora affidato al soprano; senza soluzione di continuita` il movimento, dopo un innesto di dialogo, si trasforma in un Allegro che da` luogo a una breve scena – con la subitanea apparizione di Stankar – la quale subito sfocia nella 5) Cabaletta: «Ah sı`, voliamo al tempio» (Allegro agitato mosso, nella tonalita` di Si bem. minore), con tema al tenore, cui seguono ripresa variata del tema in tono maggiore affidata al soprano e Stretta finale «a due». Ma e` tale in realta` la connessione fra le parti che costituiscono questo duetto d’aspetto cosı` singolare e tale la compattezza di un discorso musicale che fluisce ininterrotto, rinnovandosi senza cesure, che ogni analisi di tipo formale risulterebbe sterile a tutti gli effetti. E` questa la via per la quale Verdi approdera` ben presto a un altro grande duetto, altrettanto complesso, quello fra Violetta e Giorgio Germont nella Traviata, sul piano strutturale non dissimile dal duetto Lina – Stiffelio; con la differenza, tuttavia, che il Cantabile del Duetto della Traviata presenta un «a due», sia pure di forma asimmetrica. Ma nella Traviata la situazione drammatica e` tale da consentire, anzi da favorire (all’atto della patetica accondiscendenza di Violetta) il procedere ‘armonico’ delle due voci; nello Stiffelio Verdi sa sempre individuare a colpo sicuro cio` che l’azione del dramma, una volta definita, comporta nell’organizzazione dei processi sonori, ma mai al punto di dimenticare che il fine ultimo del compositore e` pur sempre quello di tradurre il dramma in termini compiutamente musicali.

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QUINTA

RICOGNIZIONE

BALLABILI NEI VESPRI SICILIANI (CON

ALCUNE OSSERVAZIONI SU

VERDI

E LA MUSICA POPOLARE)

Il divertissement Les quatre saisons, collocato nel terzo atto di Les Veˆpres siciliennes, rappresenta un importante tributo verdiano a questo essenziale ingrediente del grand-ope´ra. E` tutto un settore, quello delle musiche di danza, sbrigativamente accantonato negli studi verdiani; in questo saggio – che non pretende certamente d’essere esauriente di tutte le possibilita` sull’argomento – si vuole porre in luce il particolare impegno e la singolare abilita` tecnica di Verdi in questo genere di musica teatrale, spesso sottovalutato dall’indagine critica. In realta`, i ritmi di danza sono spesso sfruttati da Verdi in funzione drammatica: essi vengono inseriti nel corso dell’azione scenica per definire musicalmente una situazione, e questo ho cercato di verificare nella partitura dei Vespri siciliani. Inoltre, per questi ritmi e per questi spunti melodici e` possibile anche rintracciare radici che affondano nell’humus della civilta` contadina che Verdi dovette conoscere e – consciamente o inconsciamente – assorbire nella linfa del suo linguaggio artistico. Anche in questa direzione gli studi verdiani non sono molto avanzati; il materiale dei Vespri siciliani mi ha fornito non piu` di uno spunto per alcune osservazioni su di un argomento ancora quasi inesplorato. DANZE

E RITMI DI DANZA

La «Tarantella» (finale secondo) La Tarantella del finale secondo dei Vespri siciliani offre essa stessa lo spunto per lo sviluppo dell’azione drammatica: i soldati francesi – eccitati dalla danza che i giovani popolani improvvisano in onore delle loro fidanzate e aizzati dalle parole di Procida, qui in veste di provocatore – irrompono improvvisamente fra le coppie e rapiscono le giovani siciliane. Il 4 dicembre — 101 —

QUINTA RICOGNIZIONE

1853, durante la composizione dei Vespri, Verdi s’era rivolto da Parigi all’amico napoletano Cesarino De Sanctis per avere notizie sulla festa «che si fa` annualmente al Monte Solitario o a S. Rosalia», chiedendo inoltre: Se questa festa non e` che religiosa o se e` anche profana; se c’e` qualcosa di caratteristico, se c’e` qualche ballo etc. etc. Ditemi anche a che epoca e` stata istituita? Procurate di darmi le istruzioni esatte.1

Il 18 gennaio successivo il compositore gli chiedeva ulteriori informazioni: Vorrei sapere se la Tarantella e` sempre in tono minore, ed in tempo di 6/8. Se vi ha esempio di altro tono, e di altro tempo? Sappiatemelo dire e se vi fosse una Tarantella in maggiore ed in tempo diverso dal 6/8 mandatemene una copia sotto fascia. Vorrei pure sapere se in Sicilia vi e` qualche ballo popolare diverso dalla Tarantella: se vi e` mandatemelo.2

Verdi – che nella fanciullezza aveva avuto modo di accostarsi direttamente alle espressioni autentiche della musica popolare 3 – nutriva probabilmente un’istintiva diffidenza nei confronti della stilizzazione ritmica che la tarantella aveva subito nelle applicazioni della musica colta e semicolta; la sua sensibilita` gli suggeriva forse che nell’autentica realta` popolare doveva esservi qualcosa di piu` genuino o di diverso riguardo alla tonalita` e al ritmo. Ma a quel tempo a rispondere ai quesiti sollevati dal compositore non c’era ancora ne´ un Pitre` 4 ne´ tanto meno un Favara: 5 lo studio delle tradizioni musicali popolari era allora appena agli inizi in Italia. Ci penso` comunque, sollecitato da De Sanctis, Cottrau: questi – che in fatto di musica popolare napoletana almeno per quei tempi non poteva considerarsi uno sprovveduto – invio` a Verdi alcune «musiche da ballo». E` da ritenersi che gli esempi proposti dall’editore napoletano presentassero il consueto ritmo stilizzato con il quale la danza dell’Italia meridionale era nota in Europa, vale a dire un ritmo in 6/8 piu` uniforme e soprattutto molto piu` vivace di quanto non sia quello dell’autentica tarantella (o tammuriata, come viene detta in area napoletana). Le ricerche svolte in queLUZIO 1935, I, pp. 21-22. Ivi, pp. 30-31. 3 Significativo l’episodio relativo a Bagasse ` t, violinista girovago dell’agro bussetano e forse il primo ‘educatore musicale’ del piccolo Giuseppe, narrato da Pougin, p. 2 (edizione francese, 1886, pp. 7-8) e ripreso in INTERVISTE, pp. 153-155. Sull’argomento e in particolare sulla figura di Bagasse`t, vedi piu` avanti, alla nota 23. 4 Giuseppe Pitre ` (1841-1916), il piu` importante raccoglitore e studioso di tradizioni popolari siciliane. 5 Alberto Favara (1863-1921), compositore, compilatore del Corpus di musiche popolari siciliane (vedi nota 20). 1 2

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BALLABILI NEI VESPRI SICILIANI

sti ultimi decenni dagli etnomusicologi hanno dimostrato che la tarantella autentica (quando non venga confusa con la pizzica tarantata impiegata nella cura rituale del tarantismo 6) si presenta perlopiu` in ritmo binario o in raggruppamenti binari e ternari nella stessa battuta; e la melodia, che si svolge in un ambito modale non molto ampio (almeno nei documenti considerati piu` arcaici), presenta – rispetto alla stilizzazione ‘culta’ – una grande liberta` formale, in stretta dipendenza con il carattere della danza, che e` quello di vera e propria danza rituale di corteggiamento, e che si esprime «in forme dure, violente, cariche di aggressivita` e di represso furore panico».7 La Tarantella dei Vespri, pur ricca di inventiva e pur cosı` trascinante nel suo ritmo vorticoso, rispecchia in sostanza la forma ‘culta’, stilizzata (lo stesso avverra` qualche anno piu` tardi per la Tarantella che Verdi comporra` per la Forza del destino, ambientandola in un campo militare):

La «Barcarola» (finale secondo) Non una danza vera e propria, ma pur sempre un ritmo danzante, la Barcarola che si ode di lontano, sempre nel finale secondo,8 dopo la Tarantella, e

6 Sul tarantismo – «malattia ipocondriaca ed isterica» provocata dal morso immaginario della mitica «taranta» – vedi l’opera fondamentale di E. DE MARTINO, La terra del rimorso, Milano, Il Saggiatore, 1961 (rist. 1968), frutto di un’indagine interdisciplinare condotta nel Salento nel giugno del 1959. Per l’aspetto musico-terapeutico del tarantismo vedi in particolare, nello stesso volume, D. CARPITELLA, L’esorcismo coreutico-musicale del tarantismo, ristampato in D. CARPITELLA, Musica e tradizione orale, Palermo, Flaccovio, 1973. 7 Cosı` Roberto Leydi in una nota di commento a una tarantella (di tempo binario) registrata dallo stesso e da Carpitella il 10 dicembre 1966 a Carpı´no in provincia di Foggia e pubblicata nel disco Vedette VPA 8082 (serie «Albatros», Documenti originali del folklore musicale europeo: Italia, vol. 1). Sui caratteri della tarantella in territorio campa`no vedi soprattutto i contributi di Roberto De Simone in A. ROSSI e R. DE SIMONE, Carnevale si chiama Vincenzo, Roma, De Luca, 1977. 8 Gli esempi musicali qui riportati sono stati ricavati dallo spartito per canto e pianoforte, edi-

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QUINTA RICOGNIZIONE

la cui melodia risuona improvvisamente come un raggio rasserenante che voglia fugare la tempesta che sta per addensarsi ed esplodere, assolve a una funzione eminente di contrasto drammatico. Il ritmo cullante della melodia cantata in lontananza, fuori campo, dai nobili e gentildonne francesi, riesce a conservare la propria identita` anche quando vi si sovrappone il ritmo spezzato delle parole di vendetta cantate con voce soffocata dai popolani siciliani. E` un effetto drammatico di chiaroscuro ottenuto in termini di spazialita` acustica con mezzi puramente musicali, che per la nettezza e la crudezza dei contorni si potrebbe definire ‘caravaggesco’: la festosa gaiezza dei ‘dominatori’ nella luminosita` dello sfondo, di contro al furore degli ‘assoggettati’ nella penombra dell’avanscena. Stando alle cronache della prima rappresentazione a Parigi fu questa la scena piu` ammirata dell’opera.9 Finale terzo Subito all’inizio del finale terzo, immediatamente dopo il divertissement Le quattro stagioni, irrompe un ritmo di danza in 2/4 in cui si alternano figure sincopate a figure puntate. Esso si presenta bruscamente, come per mettere sull’avviso gli spettatori che i tutu` sono ormai usciti definitivamente di scena e che il dramma ha ripreso il suo corso:

Nessuna sofisticheria, anzi qualche apparenza volutamente banale, in questa musica per danza, il cui carattere perentorio e rude contrasta in maniera singolare con l’atmosfera raffinata del divertissement appena conclusosi. Non e` piu`

zione Ricordi, num. ed. 50278; per la Barcarola, cfr. p. 133 sgg. Per i ballabili gli esempi musicali sono ricavati dalla partitura, edizione Ricordi, vol. III, num. ed. 99589. 9 Si vedano in proposito le recensioni di Fiorentino sul «Costitutionnel», di Reyer su «Athenaeum Franc¸ais», di Bourges sulla «Revue et Gazette musicale de Paris», di Delord su «Le Charivari», di Leon Escudier su «Le Pays», nonche´ le corrispondenze della «Gazzetta dei Teatri», dell’«Italia Musicale», del «Trovatore».

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BALLABILI NEI VESPRI SICILIANI

luogo per eleganze sulle punte e per volteggi aerei. Ancorche´ eseguita in orchestra, si tratta pur sempre di una sorta di Hintergrundsmusik, musica di sfondo, che con il suo carattere danzante funge da contrasto e in pari tempo da supporto ritmico allo svolgimento dell’azione drammatica quale si viene delineando sull’avanscena fra i protagonisti (gli ultimi sommessi accordi dei congiurati, il terrore di Arrigo, il suo dialogo concitato con il padre, intercalati dall’intervento festoso delle masse ancora ignare di quanto sta per accadere): come nubi trascinate dal vento che si addensano per un temporale, la tensione dell’atmosfera drammatica aumenta gradatamente, attraverso la falsa impressione di accelerando prodotta dall’intervento dei bassi su un disegno ritmico diminuito, fino all’istante in cui gli eventi precipitano. Si tratta di un procedimento tipico della drammaturgia verdiana, risolto con mezzi musicali; due esempi ben noti di questo procedimento ricorrono nella cosiddetta «scena del gioco» nel finale secondo di Traviata e il finale ultimo di Un ballo in maschera. Altri ritmi di danza nei «Vespri siciliani» Nell’opera sono presenti altri ritmi di danza, non destinati a una vera e propria funzione coreutica, che tuttavia non rivestono un ruolo eminentemente drammaturgico come nel caso del finale terzo, bensı` una funzione di ambientazione scenica. Fra questi si puo` annoverare il breve preludio del secondo atto che precede la scena e aria di Procida («O tu, Palermo»), il cui ritmo, anche se non espressamente indicato come tale, e` in sostanza quello di una barcarola, giusta la didascalia d’apertura al quadro, ove si legge fra l’altro: «Due uomini arrivano in una scialuppa e guadagnano la riva – il pescatore che la conduce s’allontana». Con un ritmo di danza si apre anche il quinto e ultimo atto; e` il coro «Si celebri alfine tra canti», sostanzialmente un valzer:

Ad esso segue tosto la celebre Siciliana di He´le`ne: «Merce´, dilette amiche», brano che comunemente viene definito bolero: il ritmo di base e` infatti affine a quello stilizzato della danza spagnola, e ha ben poco a che vedere con quello, pur esso stilizzato (come si vedra` meglio poi) della siciliana; forse il titolo va interpretato non tanto come riferimento al ritmo in se´ quanto piuttosto all’aspetto formale del brano: canzone siciliana. Con tutta probabilita`, tuttavia, — 105 —

QUINTA RICOGNIZIONE

non e` questo il brano che deve porsi in relazione con una lettera del 10 aprile 1855 (riportata piu` avanti), con la quale Verdi, oltre a informare l’amico De Sanctis che non gli restava da comporre altro che i ballabili dei Vespri, lo pregava di inviargli un esempio di «Siciliana vera». Ma di questa «Siciliana vera» si parlera` piu` oltre.

IL

DIVERTISSEMENT

«LES

QUATRE SAISONS»

Verdi e i «ballabili» nel grand ope´ra Il divertissement Les quatre saisons costituisce un’azione coreografica del tutto indipendente dall’azione drammatica, della quale rappresenta un’interruzione, o meglio, una pausa. La polemica contro il divertissement (ovvero i «ballabili») nell’opera, nacque in sede critica nella seconda meta` dell’Ottocento, al tempo delle prime affermazioni di quella nuova convenzione del teatro in musica, concepita come il superamento delle convenzioni del melodramma, nota sotto il nome di «dramma musicale». Fino ad allora i compositori invitati a scrivere per l’Ope´ra di Parigi – da Spontini a Rossini, da Donizetti a Meyerbeer, da Verdi a Gounod – avevano tranquillamente assolto anche al compito di comporre la musica per il divertissement previsto dalle consuetudini del teatro musicale francese, consuetudini che attraverso Gluck e Rameau risalivano all’ope´ra-ballet di Lully, come a dire alle origini stesse di quel teatro. Erano consuetudini che non avevano se´guito fuori del teatro francese, particolarmente in Italia, dove il balletto si accompagnava sı` alla rappresentazione di un’opera, ma non all’interno di questa bensı` fra un atto e l’altro, con l’aggiunta di un divertissement a conclusione della serata. Nei teatri della penisola gli stessi grand-ope´ra – come ad esempio Guglielmo Tell, La favorita, Il profeta – venivano eseguiti quasi sempre con numerosi tagli, che comprendevano in particolare l’eliminazione integrale del divertissement, sostituito (ovviamente tra un atto e l’altro dell’opera) da un normale balletto. Anche i Vespri, fatta eccezione per alcune importanti ‘prime’ locali (come a Parma, a Torino, a Milano, a Venezia) subirono la medesima sorte. Ad attestare l’insofferenza dello spettatore italiano nei confronti dei ballabili originali inseriti nell’opera, valga l’osservazione che il critico Corinno Mariotti fa sulla «Gazzetta Musicale di Milano» in una corrispondenza sul Don Carlos rappresentato a Torino, a proposito del ballo La peregrina: «A parer mio questa concessione che Verdi ha fatto alle esigenze della grand’opera deve essere l’ultima, poiche´ noi Italiani siamo logici quando ci ribelliamo, come accade quasi sempre, a quell’ibridismo — 106 —

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francese che e` l’opera ballo».10 Il buon Mariotti era lungi dall’immaginare che la ‘logica’ del pubblico italiano avrebbe tuttavia accettato, di lı` a qualche anno, e una volta per sempre, i ballabili ‘‘italiani’’ di Aida, della Gioconda e financo del Mefistofele. La data di nascita della polemica contro i ballabili puo` farsi risalire, simbolicamente, al marzo del 1861, all’epoca cioe` della prima rappresentazione del Tannha¨user di Wagner all’Ope´ra di Parigi, allorche´ i membri dell’influente Jockey Club protestarono vivacemente perche´ il divertissement, aggiunto da Wagner per l’occasione parigina, era stato collocato all’inizio dell’opera, vale a dire in grande anticipo rispetto alla loro consuetudine di recarsi a teatro a spettacolo inoltrato. I motivi del fiasco del Tannha¨user e le polemiche tosto divampate non turberanno Verdi ne´ interferiranno sulla sua attivita` di compositore alle prese con convenienze e inconvenienze del grand-ope´ra: tutto sommato, mezzo secolo di ballabili all’Ope´ra, da Je´rusalem (1847) ai Vespri, dalla versione francese del Trovatore al Don Carlos e alla versione francese dell’Otello (1894). Tuttavia in quest’ultimo caso specifico, alla richiesta dell’editore Ricordi di stamparne la musica nello spartito francese Verdi oppose un netto rifiuto (lettera del 5 marzo 1887): Perche´ stamparlo? E` una concessione (una lachete´) che gli autori fanno a torto all’Ope´ra; ma artisticamente parlando e` una mostruosita`. Nel furor dell’azione interrompere con un balletto?!!! 11

Ma alla fin fine resta comunque il fatto che Verdi, pur cosciente di compiere un atto di politesse, non si sottrasse al compito di far stampare la musica per la breve azione coreografica da inserire nel terzo atto della versione francese di Otello, cosı` intendendo rispettare le leggi antiche di un teatro glorioso che tanta parte aveva avuto nella sua carriera. Per venire al ballo Les quatre saisons, occorre innanzi tutto tener presente quel senso pragmatico, direi artigianale, che Verdi mostro` di possedere in ogni fase della sua lunga attivita`. Egli non scriveva su libretti ideali, per teatri ideali, per pubblici ideali, bensı` solo su quel libretto, per quel teatro, quel cantante (come sta a dimostrarlo, proprio in occasione dei Vespri, il rifiuto di scrivere l’opera per altra cantante che non fosse quella ormai stabilita, cioe` Sofia Cruvelli, con la conseguente decisione di ritirare lo spartito qualora costei, improvvisamente eclissatasi, non fosse ritornata a teatro 12) e scri10 11 12

9

«Gazzetta Musicale di Milano», XII, 52: 29 dicembre 1867, p. 412. ABBIATI, IV, p. 239. Vedi lettera del compositore a Piave dell’ottobre 1855 (pubblicata in ABBIATI, II, p. 279):

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veva infine, come ora vedremo, anche per quelle prime ballerine. Egli badava insomma al concreto, pur non lasciandosi sfuggire ogni occasione per sperimentare, provocare, allontanarsi dagli schemi risaputi; ma proprio per questo non trascurava gli aspetti contingenti, cercava di valersi al massimo del materiale disponibile e di quanto era umanamente conseguibile, basandosi su quanto era concretamente e piu` convenientemente realizzabile, al fine di fare opera non peritura e tuttavia aperta alla sensibilita` del pubblico del suo tempo. «Le quattro stagioni». Aspetti coreografici Con i Vespri siciliani Verdi era alla sua seconda esperienza in fatto di ballabili, la prima essendo stata quella di Je´rusalem otto anni prima (nel frattempo un’altra opera verdiana era andata in scena all’Ope´ra il 2 febbraio: Louise Miller, peraltro in un adattamento in quattro atti, in luogo dei tre originali, che non comporto` da parte del compositore alcuna aggiunta di brani nuovi ne´ quindi di divertissement). Nella lettera del 10 aprile 1855 sopra citata Verdi scriveva a De Sanctis: «L’opera e` terminata e non ho piu` a che fare i ballabili. Andra` in scena verso la fine del mese».13 Da questa lettera si apprende dunque che il divertissement fu l’ultimo a esser composto, e per questo compito il maestro aveva a disposizione ancora poco meno di due settimane di tempo. In realta` egli potra` ancora disporre di due mesi: l’opera, infatti, andra` in scena soltanto il 13 giugno. Un semplice esame della partitura e` piu` che sufficiente per accertarci che i ballabili non furono scritti da Verdi con la mano sinistra: vi emerge anzi una grande finitezza di lavoro, che sta a dimostrare come il compositore vi avesse dedicato la massima cura, trattando l’azione coreografica da uomo di teatro, conscio dei vari aspetti tecnici e materiali, oltre che artistici, che dovevano concorrere alla sua realizzazione. L’esame rivela infatti una disposizione, da parte del compositore, in un certo senso analoga a quella da lui tenuta nel trattamento delle parti vocali di un’opera; vi emerge cioe` una concretezza volta a conformare il carattere e il ritmo della musica alle esigenze coreutiche cui essa e` destinata. Gia` a una prima lettura risalta l’icasticita` di temi che sembrano fin quasi suggerire il passo alle ballerine, determinando il movimento del corpo, lo stacco delle punte:

«La Cruvelli e` fuggita! Dove? Il diavolo lo sa! [...] Questa fuga mi da` diritto di sciogliere il mio contratto». 13 LUZIO 1935, p. 30.

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In questo comporre musica in funzione di una precisa azione coreutica, in questo misurare il ritmo e la melodia fin quasi sulle gambe stesse delle ballerine – cosı` come nel misurare la tensione della vocalita` drammatica sulla gola dei cantanti –, insomma in questo badare al sodo si dimostra tutta la grandezza artigiana di Verdi. Questa costante aderenza della musica all’azione coreografica, oltre che dimostrare una conoscenza non superficiale della tecnica del balletto da parte di Verdi, e` anche il risultato di un lavoro compiuto a stretto contatto con il coreografo incaricato della messinscena del divertissement. A tal ultimo proposito e` lecito ipotizzare consigli e suggerimenti dati dal coreografo al compositore intorno alla scelta dei ritmi delle danze, analogamente a quanto anni piu` tardi fara` Petipa con Cˇajkovskij. Coreografo delle Quattro stagioni fu per l’appunto un Petipa: ma in questo caso si tratta di Lucien (che firmera` in seguito anche le coreografie dei divertissements di altre due opere verdiane rappresentate all’Ope´ra: Le Trouve`re e Don Carlos), fratello maggiore del piu` celebre Marius, ed egli pure ballerino famoso, ammirato per l’eleganza e la purezza dello stile (aveva ‘creato’ il ruolo di Albrecht nella Giselle di Coralli e Perrot); tuttavia in campo coreografico, in cui aveva esordito nel 1853, Lucien non diede prova di talento originale, e il suo nome resta oscurato da quello del fratello. Del resto, anche in occasione dei Vespri la critica parigina – che pure diede giudizi nel complesso favorevoli sulla musica del divertissement – si espresse in termini piuttosto negativi quanto all’azione coreografica in se´. E` assai probabile che con il soggetto Le quattro stagioni — 109 —

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Lucien Petipa ambisse a rinnovare il successo dei favolosi divertissements allestiti da Perrot a Londra negli anni Quaranta. Di essi – oltre al leggendario pas de quatre con la Taglioni, la Grisi, la Cerrito e la Grahn – e` da ricordare, per l’analogia dell’argomento, Les quatre saisons, rappresentato nel 1848 con la Taglioni, la Cerrito, la Grisi e la Rosati. Il 1855 era l’anno dell’Exposition universelle, e il ricordo ancora vivo di quei successi londinesi non poteva che favorire il progetto di un divertissement costruito in modo tale da poter offrire al pubblico internazionale la spettacolare presenza di ben quattro prime ballerine. Il divertissement dei Vespri e` sostanzialmente un ballet d’action, e come tale si colloca in un momento preciso nella storia del balletto romantico, in quanto segna, per cosı` dire, il grado di assimilazione dell’orchestica di scuola italiana nel balletto francese, e contemporaneamente il grado di resistenza della tradizione pantomimica francese di fronte alla trionfante avanzata della danza pura. Com’e` noto, nell’Ottocento, all’inizio degli anni Trenta, si verifico` una vera rivoluzione attraverso la conquista delle punte per merito precipuo di Maria Taglioni, conquista che rappresento` in un certo senso cio` che in campo vocale, in quella stessa epoca, rappresento` la conquista del Do di petto. L’introduzione del genere puntato – il nouveau genre, come fu subito definito – porto` rapidamente al concetto di e´le´vation, e quindi a una nuova concezione coreutica: la danse ae´rienne, che consacro` l’ingresso del romanticismo nel balletto, portando all’affermazione dell’elemento orchestico puro su quello pantomimico di tradizione classica. Il trionfo di Maria Taglioni in La sylphide, con la coreografia del padre Filippo (Ope´ra di Parigi, 12 marzo 1832), segno` il punto di svolta nella storia del balletto, con conseguenze sul piano della tecnica che si protrarranno fino ai Ballets russes e oltre. All’epoca dei Vespri, la tecnica delle punte aveva ormai raggiunto una notevole perfezione, soprattutto a Milano, alla scuola scaligera di Blasis, considerata la migliore in Europa, e si assisteva all’affermazione internazionale di ballerine italiane il cui virtuosismo confinava con l’acrobazia, quasi tutte uscite da quella scuola. Il divertissement dei Vespri rispecchia dunque la situazione del balletto romantico a Parigi in un momento che vedeva il trionfo dell’orchestica di scuola italiana. Se l’elemento pantomimico non soccombe ancora del tutto nelle due parti l’Inverno e l’Estate – non a caso interpretate da due ballerine di scuola francese, rispettivamente la Legrain e la Nathan – quello del nouveau genre e` nettamente predominante nella Primavera e nell’Autunno, le due parti cioe` interpretate da due ballerine lombarde, entrambe allieve di Blasis: le giovanissime Cucchi e Beretta. La musica riflette fedelmente que— 110 —

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sti due aspetti: Verdi, lo si e` gia` detto, non scriveva mai a caso, nemmeno i ballabili. Nel 1855 queste quattro ballerine erano scritturate all’Ope´ra come secondes premie`res danseuses e nell’ordine gerarchico venivano immediatamente dopo la prima ballerina assoluta, la bolognese Carolina Rosati, essa pure allieva di Blasis, che pero` non partecipava al balletto dei Vespri. Charles de Boigne nei suoi Petits me´moirs de l’Ope´ra ci ha lasciato su di esse alcune lapidarie definizioni; della Legrain scrive: «elle a du talent, de l’acquit»; della Nathan: «assez d’entrain, le´ge`re»; della Beretta: «elle bruˆle les planches de l’Ope´ra».14 La milanese Caterina Beretta aveva esordito all’Ope´ra di Parigi non ancora sedicenne, il 22 febbraio di quello stesso anno, 1855, nel Diable a` quatre con la coreografia di Mazilier; Verdi, che gia` da tempo si trovava a Parigi per la composizione dei Vespri, dovette avere occasione di osservarla bene e quindi ricavare utili indicazioni per la musica del divertissement a lei assegnato.15 Claudia Cucchi, di Monza, allieva dei coniugi Blasis e in se´guito di Huss, nell’autunno del 1853 figurava gia` fra le «prime ballerine danzanti» della Scala di Milano. Nel 1855, appena diciannovenne, si era recata a Parigi per seguire (stando a quanto lei stessa lascio` scritto nelle sue memorie) il suo fidanzato, il conte Carlo Locatelli. Era ancora sconosciuta in campo internazionale, e il suo esordio all’Ope´ra avvenne appunto con i Vespri nel difficile ruolo della Primavera: vi ottenne un trionfo personale che oscuro` quello delle colleghe e la lancio` subito nel rango delle vedettes piu` prestigiose del tempo. Cosı` la descrive Castil-Blaze nella sua storia dell’Ope´ra, pubblicata quasi all’indomani dei Vespri: «danseuse e´nergique, gracieuse, le´ge`re, ayant le physique du roˆle».16 CH. DE BOIGNE, Petites me´moires de l’Ope´ra, Paris, Librairie nouvelle, 1857, p. 351. Dopo i successi parigini la Beretta fu scritturata come prima ballerina alla Scala (1855-56), ritornandovi nel 1859, 1861, 1869 e 1877; fu all’Apollo di Roma (1856-57), per quattro volte al Regio di Torino (1857-58, 1863-64, 1864-65 e 1870-71), alla Fenice di Venezia (1859 e 1868), al Pagliano di Firenze (1861) e al San Carlo di Napoli (1865), oltre che in altri teatri italiani e stranieri. Recatasi in Russia nel 1887 suscito` tale ammirazione da essere invitata come prima ballerina e insegnante al Mariinskij di Pietroburgo, dove ebbe ad allieve la Preobrajenska, la Pavlova e la Trefilova. Rientrata in Italia, diresse la scuola di ballo della Scala negli anni 1901-1908 e diede lezioni alla Karsavina. Considerata una delle piu` grandi esponenti del genere puntato, la Beretta era dotata di punte d’acciaio e di una tecnica sbalorditiva che le procuro` l’appellativo di «acrobatica», nonche´ di un temperamento e di un fuoco virtuosistico rimasti leggendari. Che questo temperamento fosse gia` evidente a sedici anni lo si puo` rilevare, oltre che dalle parole di de Boigne sopra citate, indirettamente dalla musica del divertissement dei Vespri, dove non a caso le fu affidato il ruolo della baccante nella parte conclusiva dell’Autunno. 16 CASTIL -BLAZE [Franc ¸ ois-Henri-Joseph Blaze], Histoire de l’Acade´mie Impe´riale de Musique, Paris, L’auteur, 1855, vol. II, p. 440. La Cucchi, dopo i successi parigini, fu per dieci anni prima ballerina a Vienna e intraprese numerose tourne´es in Europa (Berlino, Londra, Pietroburgo, Buda14 15

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Sulla personalita` artistica e sulla carriera delle altre due ballerine che parteciparono alla ‘prima’ dei Vespri non ho potuto raccogliere ulteriori informazioni oltre quel pochissimo che e` stato citato dal volume di de Boigne. Ambedue avevano certamente assimilato la tecnica del nouveau genre, divenuta ormai indispensabile a quell’epoca per ogni prima ballerina (con maggiori attitudini per la danse ae´rienne probabilmente da parte della Nathan), innestati sulla tecnica pantomimica della scuola francese del ballet d’action (sotto questo aspetto particolarmente notevoli dovevano essere le qualita` mimiche della Legrain). Tali elementi si possono d’altronde ricavare indirettamente da una semplice analisi dei quattro ballabili che costituiscono il divertissement dei Vespri. Infatti, come s’e` notato in precedenza, nel corso del suo lungo soggiorno parigino, Verdi, oltre a tener conto dei suggerimenti del coreografo, doveva aver tenuto sottocchio, le qualita` peculiari delle singole ballerine che avrebbero dovuto danzare nel divertissement dei Vespri, qualita` che in effetti si riflettono fedelmente nella musica. «Les quatre saisons». Aspetti formali e musicali Gia` il titolo del divertissement e` sufficiente a indicare la divisione quadripartita dell’azione coreografica, la quale si apre con un’introduzione ovvero Promenade, riservata all’ingresso del dio Giano «che presiede all’anno», e si conclude alla fine con una pas de quatre a tempo di galop, nel quale intervengono tutt’e quattro le stagioni, ossia le quattro prime ballerine. Ciascuno dei quattro ballabili o parti, corrispondenti alle singole stagioni (si comincia dall’Inverno per giungere all’Autunno, secondo il ciclo annuale che va dai riti propiziatori per la semina a quelli per l’epoca del raccolto, ciclo qui rispettato anche perche´ consente al coreografo di concludere l’azione sul piano spettacolare con una frenetica danza di baccanti) si divide a sua volta in tre sezioni distinte. La prima e` sostanzialmente una breve introduzione, formata da accordi modulanti, che commenta il momento narrativo, esplicativo dell’azione coreografica, e che coincide con l’entrata della prima ballerina. La seconda sezione corrisponde alla danza lenta, che Verdi, a eccezione dell’Inverno, affida sempre a uno strumento solista. Nella Primavera e` il clarinetto a condurre la melodia:

pest, Praga, Varsavia). Fu spesso presente anche in Italia: nel 1864 alla Scala, nel 1868-69 alla Fenice di Venezia, al Carlo Felice di Genova, al Principe Umberto di Firenze, al San Carlo di Napoli. Concluse la sua carriera all’Apollo di Roma. Dotata di eminenti capacita` virtuosistiche, possedeva anche notevoli qualita` mimiche, per le quali fu spesso ammirata e lodata.

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una melodia dai tratti vocali, nel corso della quale Verdi tramuta in canto disteso una semplice scala discendente in modo maggiore. Nell’Estate e` l’oboe, che intona una delle melodie piu` ispirate dell’intera partitura dei Vespri (e sulla quale si ritornera` piu` oltre). Nell’Autunno e` l’intera sezione dei violoncelli che esegue una melodia di ampio respiro e di intensa bellezza, pur conservando un’esplicita funzione coreutica attraverso i bruschi interventi, a mo’ di contrasto, delle altre sezioni dell’orchestra:

A questo schema tripartito fa eccezione l’Inverno, privo della danza lenta; in suo luogo l’elemento descrittivo e` piu` sviluppato e articolato in senso evidentemente mimico, sı` da costituire, con la brevissima introduzione, un’unica sezione. Vi e` un passaggio che val la pena citare per il suo singolare aspetto di ‘modernita`’ armonica; la musica sembra scaturire fin dalle pause (v. esempio a pag. seguente).

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La terza sezione di ciascun ballabile e` costituita dalle danze veloci. I loro ritmi riflettono in gran parte quelli della Salonmusk dell’epoca, vale a dire i ritmi stilizzati del valzer:

della polka:

della mazurka:

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del galop:

Ma la fantasia inventiva del compositore infonde negli abituali schemi ritmici aspetti sempre nuovi, introducendo contrastanti disegni melodici che incidono sulla forza motrice del ritmo. La forma delle danze risponde quasi sempre allo schema A B A e coda. Sono piuttosto brevi, essenziali, il che e` forse conseguenza diretta dell’impostazione coreografica del divertissement. Resta comunque il fatto che lo stile asciutto di Verdi, privo di fronzoli e di inutili indugi, ha modo di affermarsi anche in questo genere di composizioni. L’intero divertissement dura all’incirca quaranta minuti; ma se si tien presente la stretta economia formale dei brani che lo compongono, non e` da considerarsi lungo. Non vi si puo` pertanto operare tagli senza arrecare notevoli squilibri nella struttura generale. La semplice lettura al pianoforte non consente di apprezzare pienamente il valore di questo divertissement, dato che la ricchezza coloristica della partitura e fin la spinta coreutica che si sprigiona dal ritmo delle danze risiedono in uno strumentale raffinato, estremamente vario, che da solo e` sufficiente a testimoniare la grande perizia di Verdi in questo campo. Il compositore, che nello strumentale delle sue opere ama di preferenza i toni grigi, neutri, atti a far risaltare al massimo l’espressione drammatica delle voci, non si lascio` sfuggire l’occasione per dimostrare allo smaliziato pubblico cosmopolita della capitale francese il proprio talento nella strumentazione, dedicandovi cure attentissime, a rischio anche di apparire raffinato ed elegante (infatti de Boigne, bonta` sua, annotava che il compositore italiano con i Vespri «s’est pour ainsi dire francise´; il a conquis cette e´le´gance de style, cette purete´ de gouˆt qu’on acquiert qu’a` Paris»...).17 Rispetto alle opere immediatamente precedenti (da Luisa Miller a Traviata, il cui colore strumentale veniva attribuito da alcuni critici italiani dell’epoca all’influenza francese) la strumentazione dei Vespri presenta spesso un aspetto peculiare, consistente nell’impiego per blocchi delle singole sezioni orchestrali (impiego che sara` poi tipico 17

Ch.

DE

BOIGNE, Petites me´moires... cit., p. 335.

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dell’orchestrazione di Cˇajkovskij). Anche nei ballabili del divertissement cio` appare abbastanza evidente: vedi ad esempio la Promenade, la Dance des frileuses nell’Inverno e soprattutto la Dance des vagues nell’Estate (cfr. Es. 12 a pag. seguente). La «Siciliana» Sempre nella citata lettera del 10 aprile 1855 a De Sanctis, Verdi, nel comunicare all’amico d’aver terminato la composizione dell’opera non restandogli che quella dei ballabili, esprimeva una richiesta: Ho bisogno da voi un favore, ma lo vorrei al piu` presto. Desidererei mi mandaste una Canzone, un’Aria o che so io Siciliana. Ma vorrei una Siciliana vera; vale a dire una canzone del popolo e non una canzone fabricata da’ vostri maestri; infine la piu` bella e la piu` caratteristica che vi e`. Fatela copiare in un pezzetto di carta con un semplice basso d’accompagnamento e mandatemela in una lettera col mezzo piu` pronto.18

Venti giorni dopo il compositore rispondeva (lettera senza data, con timbro postale: Paris, 29 Apr. 1855) d’aver ricevuto le frasi musicali: «[...] ma ora e` tardi: tutto e` fatto e d’altronde non c’e` nulla di rilevante come carattere in quelle canzonette».19 Avanti di esaminare la danza delle Quattro stagioni per la quale, con tutta probabilita`, Verdi s’era rivolto all’amico napoletano, vi sono due considerazioni da fare. Prima di tutto e` da rilevare l’insistenza del compositore nel voler attingere direttamente, senza intermediari ‘colti’, alla fonte popolare: «una canzone del popolo e non una canzone fabricata da’ vostri maestri». Il riferimento era forse indirettamente rivolto a Cottrau che (come s’era accennato a proposito della Tarantella) gli aveva inviato delle musiche non autenticamente popolari: forse ‘popolaresche’, che in ogni caso a Verdi erano sembrate ‘fabbricate’. Evidentemente Verdi aveva idee molto chiare in fatto di musica autenticamente popolare, e diffidava delle rielaborazioni. Inoltre, per quanto riguarda la «Siciliana vera», Verdi chiedeva la risposta a un quesito che solo in tempi recenti sembra aver trovato una soluzione. Stando almeno alle osservazioni di Ottavio Tiby – che in un suo studio introduttivo al Corpus di musiche popolari siciliane di Alberto Favara 20 ha dedicato un intero capitolo alle misteriose origini della Siciliana indagando LUZIO 1935, pp. 30-31. LUZIO 1935, pp. 31-32. 20 A. FAVARA , Corpus di musiche popolari siciliane, a cura di Ottavio Tiby, Palermo, Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, 1957; vedi vol. I (interamente dedicato a uno studio di Tiby sul canto popolare siciliano), al cap. XIV: «La Siciliana nella musica d’arte – conclusione sul problema della datazione», pp. 61-83. 18 19

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nella lacunosa e contrastante documentazione del Cinquecento e del Seicento (ritmi non solo ternari ma anche binari; movimento anche vivace, oltre che lento) – la «Siciliana vera» nel senso in cui la intendeva Verdi, cioe` una forma di canto o di danza popolare che fosse all’origine della forma stilizzata che ritroviamo nella letteratura musicale del Settecento, non esiste. Tiby considera la Siciliana un esito della musica co´lta, la quale a partire dalla fine del Seicento ne ha fissato gradualmente la forma, stilizzandone il ritmo (il cosiddetto ‘ritmo siciliano’):

il movimento (lento, pastorale) e il carattere (patetico). Di tale esito le origini vanno sostanzialmente individuate nell’intonazione passionale, patetica dell’istintiva creazione popolare degli isolani: [...] e si comprende come, sparse sempre piu` largamente pel mondo, quelle arie [popolari] persero a poco per volta gli accenti primigeni, la liberta` originale, per non conservare che la passionalita`; soggiacquero ad un’evoluzione stilizzante che ne stabilı` la formula ritmica, l’agogica, il colorito, conducendo i tardi esemplari lontano dal primitivo canto rusticale.21

Ora, e` interessante vedere come Verdi abbia dato una risposta al proprio quesito componendo una Siciliana dal carattere singolarmente patetico e passionale a un tempo. Osserviamo dunque la danza lenta (Allegretto) dell’Estate, poiche´ e` di questa che si tratta. Essa inizia in Si minore con un bordone di quinta vuota, a ritmo costante, eseguito dal quintetto degli archi; la melodia viene intonata dall’oboe, il cui timbro agreste rappresenta un diretto richiamo a quello della zampogna:

La melodia si ripete con alcune piccole varianti; dopo un passaggio a Fa diesis minore essa ritorna, ma per modulare e giungere attraverso una sesta napole21

Ivi, p. 83.

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tana all’episodio in Si maggiore, in cui la melodia presenta i tratti inconfondibili dell’ispirazione verdiana (fors’anche in virtu` di una cadenza che ricorda una frase di «Parigi, o cara» nella Traviata):

Ritorna quindi la voce solista dell’oboe che intona ancora per due volte la melodia in minore. Notevole di questa melodia e` il suo aspetto modale: e` costruita su sei note; il settimo grado della scala, cioe` la moderna «sensibile», e` del tutto assente. Ma l’aspetto forse piu` interessante, che piu` contribuisce all’impressione di una modalita` ‘arcaica’ d’ispirazione popolare, sta nel fatto che all’interno dei singoli kola e` accuratamente evitato ogni possibile rapporto di tritono: di qui la dolcezza languida che questo canto produce all’ascolto. Attraverso questa modalita` ‘arcaica’ si puo` dire Verdi ‘reinventa’ la Sicilia, cosı` come piu` tardi reinventera` l’Oriente attraverso il canto delle Sacerdotesse in Aida,22 di cui si dira` appresso. Alcune osservazioni su Verdi e la musica popolare L’artista che rappresenta il suo paese e la sua epoca diventa necessariamente universale, del presente e dell’avvenire Verdi a Domenico Morelli, febbraio 1871

Tracce di antiche modalita` sono state peraltro documentate anche in tempi relativamente recenti non solo nell’Italia meridionale, ma anche in alcune aree dell’Italia settentrionale, in specie nel vastissimo repertorio delle mondine.23 A me e` accaduto di registrare, e proprio in terra verdiana, due ballate 22 «Verdi puo ` rivedere tutta una Sicilia nell’interno di un frutto nostrano come la melarancia», cosı` B. BARILLI, Il sorcio nel violino, a cura di L. Avellini e A. Cristiani, introduzione di M. Lavagetto, Torino, Einaudi, 1982, p. 70. 23 Cito qui il motivo ‘circolare’ La Ibela del Piamonte, di area veronese (trascritto in Primo documentario per la storia dell’Etnofonia in Italia, a cura di F. Balilla Pratella, vol. I, Udine, Idea, 1941, p. 142) e una versione mantovana della Donna lombarda (registrata nel disco I canti delle mondine di Villa Garibaldi (MN), Piadena, 1976, Biblioteca Popolare di Piadena).

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dagli evidenti caratteri modali: Ratto al ballo e Il testamento dell’avvelenato, cantatemi da due ex-mondine: 24

Particolare attenzione credo meriti l’aspetto melodico della ballata dell’Avvelenato caratterizzato dalla sensibile abbassata: 25

24 Licia Ghielmi e la madre Marcellina Ghielmi, di Carbonizzo, fraz. di Ciano d’Enza; registrazioni effettuate a Parma rispettivamente nel giugno 1975 e nel febbraio 1974, e pubblicate in M. CONATI , Canti popolari della Val d’Enza e della Val Cedra, a cura della Comunita` dei Cavalieri, Parma, Palatina, 1976, pp. 76 e 79. 25 Le piu ` antiche citazioni di questa ballata risalgono a un’incatenatura di canti popolari pubblicata a Verona nel 1629 da Camillo detto «il Bianchino, cieco Fiorentino» e alla Cicalata in lode della Padella e della Frittura del canonico Lorenzo Panciatichi recitata all’Accademia della Crusca nel 1656 (ora in L. PANCIATICHI, Scritti vari, Firenze, Le Monnier, 1856, p. 32).

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I rapporti dell’arte verdiana con alcuni aspetti della cultura popolare attendono tuttora un’indagine estesa oltre l’ambito strettamente musicale, per investire in particolare anche la tecnica narrativa. Qui tuttavia mi limitero` ad accennare ad alcuni aspetti musicali, partendo da sporadiche constatazioni avanzate dalla critica ottocentesca. Proprio a proposito dei Vespri Pier Agnolo Fiorentino, sotto lo pseudonimo De Rovray, asseriva su «Le Constitutionnel» 26 che il tema della Barcarola nel finale secondo era improntato a un pont-neuf napoletano. Analoga impressione riportava Enrico Montazio, nel recensire le Veˆpres su «Europe Artiste»,27 col sostenere che detta Barcarola era stata da Verdi raccolta dalla viva voce dei lazzaroni napoletani. A sua volta un critico romano, Nicola Cecchi, nel trattare di Un ballo in maschera dopo la prima rappresentazione avvenuta nel febbraio 1859 al Teatro di Apollo in Roma, rilevava sul «Filodrammatico» «una certa somiglianza» della Ballata di Riccardo, travestito da pescatore, «con i canti dei marinari baresi».28 Ma si tratta di indicazioni, queste, volte a sottolineare piu` che altro la presenza di un certo «colore locale», comunque riferite, nei casi sopra segnalati, alla musica popolare di area napoletana (peraltro non ignota a un compositore come Verdi, educatosi alla scuola del «napoletano» Lavigna, a sua volta allievo di Fenaroli), che non bastano a stabilire un rapporto immediato fra alcuni caratteri della melodia verdiana e quelli delle autentiche melodie di tradizione orale. Sono tuttavia indicazioni che inducono a fare un po’ di luce sulle matrici ‘popolari’ di molte ispirazioni verdiane. L’arte di Verdi ha radici che penetrano profondamente nel tessuto della cultura popolare della sua terra. Radici messe sin dagli anni dell’infanzia allorche´ appena pote´ reggersi sulle proprie gambe, seguiva come ipnotizzato, per le vie della contrada nativa, il suono di un violinista girovago (quel Bagasse`t che abbiamo incontrato all’inizio del presente saggio 29), irresistibilmente at26

Parzialmente riprodotta in «Gazzetta Musicale di Milano», XIII, N. 26, 1º Luglio 1855,

p. 206. 27 Cito dalla «Neue Wiener Musikzeitung» del 28 giugno 1855, dove la recensione di Montazio fu integralmente riportata in traduzione tedesca. 28 «Il Filodrammatico», n. 36 del 10 marzo 1855; l’articolo e ` riportato in E. GARA, Il cammino dell’opera in un secolo d’interpretazioni, «Verdi», Bollettino dell’Istituto di Studi Verdiani, n. 1, 1960; vedi a p. 125. 29 Vedi nota 3. Nel resoconto di una visita fatta a Verdi nella primavera del 1883 da un giornalista tedesco si legge fra l’altro: «Verdi ci racconto` anche di un originale tipo di musicista vagabondo, chiamato Bagasse`t, il cui suono di violino gli diede la prima idea della musica, e che quando era ancora un piccolo bambino aveva ascoltato semplicemente in estasi» (A. VON WINTERFELD , Unterhaltungen in Verdis Tuskulum, «Deutsche Revue», 1887, pp. 327-332, rist. in «Neue Musikzeitung», 1901, pp. 57-58, riprodotto in INTERVISTE, pp. 146-156. L’episodio trova

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QUINTA RICOGNIZIONE

tratto dal suono del suo strumento e dei suoi ritmi di danze popolari, dalla furlana alla manfrina, dal tresco`n in cade`ina alla piva, che formavano il consueto repertorio dei violinisti popolari. Non par dubbio che Verdi fanciullo avesse udito qualcuno di questi ritmi tradizionali, frequentemente eseguiti in periodo di carnevale e durante le sagre e le fiere. Una di queste danze, sopravvissuta fino ai primi anni del Novecento, era il bigordı`n, ricordato da Giuseppe Micheli che lo udı` suonare da un popolarissimo violinista della Val Cedra, soprannominato «il Paganini del Cerchio», e che ce lo descrive nel suo volume sulle Valli dei Cavalieri.30 Bigordı`n e` parola dialettale per Perigordino. E appunto Perigordino e` la danza vivacissima che si esegue nell’Introduzione del Rigoletto: la struttura bipartita, il tempo in 6/8 e lo stacco in levare rispecchiano i caratteri del bigordı`n popolare; e non a caso il perigordino – a differenza delle danze d’apertura, affidate alla banda interna – viene eseguito sulla scena da una piccola orchestra d’archi, il tema affidato al violino, il ritmo impresso da un accentuato strappo sul tempo debole, come nella tradizione strumentale-coreutica del bigordı`n. Quelle prime impressioni sonore destate da un violinista girovago dovettero rimanere incancellabili, a livello d’inconscio, cosı` come lo furono i primi canti da lui uditi dalle donne del suo villaggio, i canti alla stesa degli uomini al lavoro nei campi, e soprattutto quel salmodiare chiesastico, assorbito nella fanciullezza durante i servizi religiosi e le processioni alle Roncole, alla Madonna dei Prati, a Busseto, che riaffiora a volte nelle sue opere (vedi Aida, vedi la Messa da Requiem). Il Verdi fanciullo, affascinato dallo strumento di un suonatore girovago, e` lo stesso Verdi che alla soglia dei sessant’anni viene improvvisamente colpito dal canto lontano di un venditore ambulante di pere cotte. L’episodio e` noto; lo racconta un orchestrale parmigiano, Stefano Sivelli, che partecipo` come suonatore di oficleide alla prima esecuzione dell’Aida al Cairo: 31 in un pomeriscontro in una sconosciuta biografia verdiana del bussetano Ercole Cavalli, il quale molto probabilmente l’apprese direttamente dalla madre di Verdi: «il bambino era di indole abbastanza buona, docile ed obbediente; ma era molto introverso e amante della solitudine. Poche volte sua madre era obbligata a riprenderlo; ma quando erano di passaggio organetti o musici ambulanti, era impossibile trattenerlo, essendo necessario usare la forza per riportarlo a casa. La povera madre era solita dire alle amiche: «Questo bambino non potrebbe essere piu` bravo; ma se sente un organetto, non mi lascia in pace»» (H. CAVALLI, Biografı´as artı´sticas contemporaneas de los ce´lebres Jose´ Verdi, maestro de mu´sica y Antonio Canova escultor, Madrid, Imprenta de J.M. Ducazcal, 1867, p. 8). 30 G. MICHELI , Le Valli dei Cavalieri, Parma, Tip. Federale 1915, al cap. XIX: Leggende, canti e rappresentazioni popolari, pp. 287-301, con musiche. 31 Il suo nome figura a pp. 4-5 della prima edizione del libretto di Aida pubblicata al Cairo nel 1871.

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BALLABILI NEI VESPRI SICILIANI

riggio dell’autunno 1869, trovandosi in un negozio di terraglie in borgo dei Genovesi a Parma (oggi via Farini), Sivelli vide entrarvi il maestro Verdi con la consorte; mentre questi stava procedendo all’acquisto di scodelle, si sentiva provenire di lontano il canto di un venditore di pere cotte: Boie`nt i pe`r co`tt, boie`e`e`nt! Il canto si faceva sempre piu` vicino...: «Verdi levo` gli occhi sfavillanti dalle variopinte scodelle e rimase un istante in ascolto, quasi inseguendo un suo pensiero [...] estrasse dal taschino del panciotto un piccolo notes e corse sulla soglia del negozio [...] Scrisse rapidamente alcune righe sul notes». Due anni dopo, alla prima lettura dello spartito, Sivelli riconobbe nell’invocazione delle Sacerdotesse all’inizio del terzo atto la cantilena del percottaio: 32

Nel commentare l’episodio, Virginio Marchi 33 lo pone in relazione con una osservazione di Marcel Proust, citata da Leo Spitzer, circa l’identita` della musica delle grida dei venditori ambulanti di Parigi con il canto della chiesa cattolica.34 Ed invero sembra come se una eco ancestrale avesse ispirato all’eccezionale orecchio di Verdi questa trasfigurazione del canto di venditore, restituendolo alla melopea sacra.

32 S. SIVELLI , L’origine di un motivo dell’«Aida», «L’Italia», Milano, 14 gennaio 1914; ora in INTERVISTE, pp. 91-92. 33 V. MARCHI , Un’invocazione dell’«Aida», «Aurea Parma», XLIV, 1960, pp. 101-102. 34 L. SPITZER, L’etimologia di un «cri de Paris», «Palatina», I/3, 1957, poi incluso nel volume dello stesso autore Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese, Torino, Einaudi, 1959, pp. 345-351.

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SESTA

RICOGNIZIONE

PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

Le considerazioni esposte nel presente contributo procedono da alcune riflessioni maturate intorno alla messinscena della prima versione del Simon Boccanegra di Verdi, messinscena che per varieta` e complessita` di mezzi scenotecnici impiegati ritengo ‘centrale’ ai fini di una migliore comprensione dei significati della spettacolarita` verdiana e della sua funzionalita` musicale e drammaturgica.1 1. VIENI

A MIRAR LA CERULA MARINA

Andato in scena alla Fenice di Venezia il 12 marzo 1857 il Boccanegra ebbe, com’e` noto, una fredda accoglienza; un «fiasco» lo definı` senza mezzi termini Giuseppe Verdi.2 Troppo elaborata e poco melodica fu giudicata la musica, oscuro e incomprensibile l’argomento. Impietose furono le condanne che si riversarono sul libretto, firmato da Piave, e sulla qualita` dei versi. Alle stroncature dei giornali fecero seguito anche alcuni pettegolezzi che mettevano in dubbio l’autorita` effettiva di Piave sul libretto, per attribuirne piuttosto la paternita` allo stesso compositore. Che si trattasse di pettegolezzi non privi di fondamento (ai quali non fu forse estraneo lo stesso Piave, ma in piena buonafede, costretto, com’era, a difendersi con accanimento dalle feroci critiche, al limite del dileggio, di cui veniva fatto oggetto il testo da lui sottoscritto) ci e` ora attestato dai documenti, dai quali infatti apprendiamo che innanzi tutto fu Verdi in persona a predisporre per intero il libretto «in prosa» 3 e che in se1 Cfr. M. CONATI – N. GRILLI , «Simone Boccanegra» di Giuseppe Verdi, Collana di Disposizioni sceniche, Milano, Ricordi, 1993, pp. 9-72. 2 «Boccanegra [...] ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata», lettera a Vincenzo Torelli del 13 marzo 1857, in FENICE, p. 408. In termini analoghi il compositore si espresse con Clarina Maffei e con Vincenzo Luccardi; cfr. ABBIATI, II, p. 398. 3 Sul libretto «in prosa» del Simon Boccanegra vedi FENICE, pp. 380-383.

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guito per la verseggiatura egli, trattenuto da impegni a Parigi, si rivolse non solo a Piave ma anche – onde non perdere tempo – al patriota e letterato Giuseppe Montanelli,4 esule nella capitale francese. Di quei pettegolezzi volle farsi eco un medico veneziano, Cesare Vigna, per informarne, il 23 marzo, il compositore appena rientrato a S. Agata: Sebbene io non vi annetta certa importanza, avvezzo come sono alle spiritose invenzioni di questa brava gente, tuttavia ti notifico per norma, essersi diffusa la voce, che il libretto e` una tua composizione.5

E` nota la risposta, piu` volte riportata dai biografi, resa da Verdi in data 11 aprile a testimonianza della stima e dell’affetto del maestro per il suo poeta veneziano. Tuttavia rileggiamola: Non ci mancava altro che inventare essere il libretto di mia composizione!!!. Un libretto che porta il nome di Piave e` giudicato d’avvanzo come pessima poesia: ed io francamente sarei contento se fossi buono da fare delle strofe come: Vieni a mirar la cerula ..................................... Delle faci festanti al barlume, ed altre e altre, con tanti altri versi sparsi qua` e la`. Confesso la mia ignoranza non son buono da tanto.6

Nel contesto di questa lettera la citazione di quelle due strofe sembra fatta quasi a caso e in virtu` solamente dell’intrinseco pregio poetico loro attribuito da Verdi. Ma se teniamo presente il processo genetico del Boccanegra quale risulta dai documenti, improntato sin dall’inizio a una concezione dinamica della messinscena, la loro citazione si rivela meno casuale o innocente di quanto voglia sembrare. Quelle due strofe sono presenti nella mente del maestro in quanto strettamente connesse con due momenti chiave della messinscena dell’opera quale egli l’aveva immaginata e impostata sin dal primo concepimento e quale restera` anche dopo la revisione che sara` effettuata con la collaborazione di Boito 4 Sull’argomento vedi F. WALKER, Verdi, Giuseppe Montanelli e il libretto del «Simon Boccanegra», in «Verdi», Bollettino dell’Istituto di Studi Verdiani, n. 3, 1960, pp. 1767-1789. 5 ABBIATI , II, p. 396. 6 Analoghi concetti in difesa di Piave esprimeva Verdi in una lettera a Tito Ricordi in pari data (11 aprile 1857): «Torelli mi scrive di mandargli il libretto [del Simone]... Egli mi domanda inoltre se la poesia ne e` veramente cosı` orribile come si dice: e pare sia opinione universale!! Cosa curiosa! a me pare la poesia migliore che in tanti altri libretti di Piave. Ma basta che un libretto porti il nome di questo povero diavolo perche´ la poesia venga giudicata cattiva, anche prima di leggerla» (COPIALETTERE, p. 444).

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PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

nel 1881; due strofe irradianti ciascuna una propria luce sul dramma e quindi funzionali ad altrettante scene-quadro concepite per l’effetto musicale, che resteranno inalterate anche dopo la revisione del libretto operata nel 1881. Proprio in forza di tale funzionalita` nulla vieta di pensare che fossero state direttamente suggerite, se non proprio dettate, da Verdi stesso, per quanto egli, autore del libretto «in prosa», si adoperasse per attribuirne a Piave la paternita`. Infatti la prima strofa citata nella lettera a Vigna Vieni a mirar la cerula Marina tremolante; La` Genova torreggia Sul talamo spumante

risulta cosı` predefinita nel libretto «in prosa»: Vieni, Gabriele a contemplare gl’incanti di questo mare. Sopra il suo letto spumoso 7 s’innalza Genova.

Al fine di ribadire il concetto della ‘spuma marina’ Verdi aveva raccomandato a Piave nella prima decade del febbraio 1857: Il Palazzo Grimaldi nel I.º Atto non deve aver molto sfondo.8 In vece d’una finestra ne farei diverse fino a terra: una terrazza; metterei una seconda tela di fondo colla luna i cui raggi battessero sul mare, che si dovrebbe vedere dal pubblico: il mare sarebbe una tela luccicante in pendio – etc. Se io fossi pittore farei certamente una bella scena: semplice e di grande effetto.9

Era dunque preoccupazione del compositore che si vedesse il mare luccicare sullo sfondo perche´ e` con l’immagine musicale della «tremula marina» che inizia infatti questo primo atto: un ‘luccichı`o tremolante’ dapprima avvolto nella semioscurita` dell’alba incipiente e quindi sempre piu` rischiarato dal sorgere del sole. A tutti e` noto l’inizio di quest’atto nella versione riformata del 1881; meno nota e` la versione del 1857, forse non altrettanto raffinata per disposizione di temi musicali e per colore strumentale, ma certamente non meno icastica nell’esprimere l’atmosfera ambientale: al ‘luccichı`o’ del mare sotto il raggio lunare, visibile oltre il verone, corrisponde quello del preludio strumentale, in particolare il ritmo ‘tremolante’ di violini e viole, che si prolunga nell’accompagnamento della cavatina di Amelia.

Il carattere evidenziato in questa e nelle successive didascalie e` mio. L’espressione equivale a «scena corta» o piuttosto «a mezzo teatro», qui resa necessaria dall’allestimento della scena successiva, «a tutto teatro», con cambiamento a vista. 9 FENICE , p. 401. 7 8

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PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

Da notare che alla Fenice l’intera prima parte dell’atto si svolgeva all’interno del Palazzo Grimaldi; 10 pochi mesi dopo, per l’allestimento dell’opera a Reggio Emilia il compositore, «onde togliere la monotonia di tanti interni»,11 apportava un’importante modifica alla messinscena attraverso l’inserimento di un giardino al fine di rendere piu` evidente la presenza del mare che sullo sfondo addirittura ne «lambisce l’estremita`». Nel Boccanegra il mare costituisce una presenza insistente, destinata ad aumentare ulteriormente nella versione riformata attraverso la riduzione dell’impianto scenico nella prima parte dell’atto primo operata con l’eliminazione del «salotto di passaggio» di palazzo Grimaldi e conseguente convocazione di tutta l’azione che precede il finale (scene I-IX) nell’annesso giardino prospiciente il mare. La presenza del mare sullo sfondo dell’azione del Simon Boccanegra, insistentemente riflessa nella tinta musicale (una tinta gia` esplorata per alcuni aspetti nel Corsaro, soggetto anch’esso caratterizzato da scene marine, dall’inizio alla fine), si ripropone nell’epilogo: una presenza indiretta nella versione veneziana, evocata dalle parole del Doge: «Oh refrigerio!... La marina brezza!... Il mare!... il mare!...»; direttamente definita nell’edizione riformata attraverso la vista del porto e dei «bastimenti splendidamente illuminati» con «in fondo, il mare». E all’effetto di questa luminaria (effetto cui Verdi teneva moltissimo, 10 Cosı` la didascalia del libretto veneziano: «Apparecchiata, corta, scopre a vista la seguente. All’alzar del Sipario e` notte con luna e stelle, che qualche tempo dopo impallidiranno per l’aurora che sorge; poi spariranno del tutto perche´ aggiorna. Palazzo Grimaldi fuori di Genova. Salotto di passaggio con porta nel fondo e larga finestra, fuor della quale si vedranno la campagna, i colli, il golfo di Genova». 11 Lettera di Verdi a Tito Ricordi del 27 aprile 1857, in M. CONATI , Il «Simon Boccanegra» di Verdi a Reggio Emilia (1857). Storia documentata. Alcune varianti alla prima edizione dell’opera, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale «Romolo Valli», 1984, pp. 31-32.

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come documentano le sue lettere a Ricordi per la messinscena alla Scala nel 188112) si riferisce la seconda strofa citata da Verdi nella risposta a Vigna: Delle faci festanti al barlume Cifre arcane, funebri vedrai. Tua sentenza la mano del nume Sopra queste pareti vergo`.

Nel libretto «in prosa» il concetto espresso dalle «faci festanti» risulta cosı` anticipato: Qui ora non sei Doge... Qui non t’assedia de’ cortigiani la vilissima turba [...] Pero` muori felice; lo splendore della vittoria illumina la tua morte (In questo momento cominciano a spegnersi le luci della piazza, per modo che allo spirar del Doge saranno tutte completamente spente).

Sempre nella lettera di febbraio sopra citata il compositore aveva avvertito Piave: Raccomando la scena ultima: Quando il Doge ordina a Pietro di schiudere i balconi devesi vedere l’illuminazione ricca, larga che prenda un gran spazio, onde si possano vedere bene i lumi che a poco a poco, l’un dopo l’altro si spengono fino a che alla morte del Doge tutto e` nella profonda oscurita`. E` un momento, io credo, di gran effetto, e guai se la scena non e` ben fatta. Non e` neccessario che la prima tela abbia un gran sfondo, ma la seconda, la tela dell’illuminazione deve essere ben lontana...».13

Anche in questo caso la dimensione scenica concepita da Verdi, basata su un effetto luminoso di retroscena, e` in funzione della situazione drammaturgico-musicale, in quanto essa sfuma il clima festante che si ode da fuori scena, e al tempo stesso accentua, con l’aumentare dell’oscurita`, la tensione drammatica: infatti il lento effetto decrescente della luminaria sullo sfondo coincide con il trapasso dalla fase della festa (la vittoria contro i rivoltosi e le nozze di Amelia e Gabriele) a quella della morte incombente e della tragedia. Nel Boccanegra l’impiego in senso dinamico di speciali effetti di luce – in particolare nel prologo, all’inizio dell’atto I e nell’atto III – erano resi allora attuabili, oltre che con i tradizionali dispositivi a olio (quasi certamente impiegati nella luminaria), anche con le nuove ma gia` collaudate tecniche dell’illuminazione a gas (quest’ultima introdotta alla Fenice, primo fra i teatri italiani, 12 13

Sull’argomento vedi ora il mio contributo in CONATI – GRILLI, «Simone Boccanegra»... cit. FENICE, p. 401.

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sin dal 1833), ed erano gia` stati sperimentati da Verdi, sempre alla Fenice, con l’Attila, opera in cui l’illuminazione svolge pure un ruolo dinamico, come ora vedremo. Va tenuto tuttavia presente che ancora in quegli anni i teatri rimanevano costantemente illuminati nel corso della rappresentazione: per quanto il proscenio (luogo deputato all’azione dei personaggi principali, che nel secolo scorso ancora avanzava all’interno della sala, oltre l’arcoscenico),14 fosse rischiarato dalle luci della sola ribalta, e` presumibile che la visibilita` dell’intero spettacolo sul palcoscenico non risultasse sempre ottimale, soprattutto per gli effetti di fondo scena. Si tenga altresı` presente che la visibilita` era resa precaria dal fumo dei lumi a petrolio che andava via via aumentando nel corso della serata (per non parlare del fumo dei sigari); gli sfiatatoi di cui erano provvisti i teatri a malapena potevano contrastare la ‘nebbia’ che si andava addensando durante la rappresentazione. Si veda in proposito una cronaca dell’inaugurazione del sistema elettrico effettuato alla Scala, primo teatro al mondo, con la Gioconda di Ponchielli il 26 dicembre 1883: Quest’anno la sera di Santo Stefano aveva una doppia attrattiva per i frequentatori della Scala; doveva essere, e fu, una festa della luce elettrica. [...] I milanesi stessi, per quanto preparati oramai agli stupori della luce elettrica [...] non immaginavano l’effetto bellissimo che l’ampia platea fa ora che l’illuminazione parte da quelle fiammelle fisse, cosı` immobili che paiono dipinte. A chi pensava agli effetti teatrali della luce ad arco voltaico Siemens, questa luce tranquilla ed eguale dei globetti Edison sembro` a bella prima minore di quanto si aspettasse, ma in seguito si ravvide; perche´ la meraviglia di questa illuminazione e` che non scema ne´ muta d’un millesimo tutta sera. Non avviene, come prima, che l’atmosfera si affumichi, si condensi, si abbruci a poco a poco, e diventi, oltre che disadatta alla respirazione, una specie di velo gettato sulle fiammelle tremolanti del gas. – Per le lunghe sei ore, che´ tanto duro` la cerimonia del Santo Stefano alla Scala, non ci fu un momento in cui si penasse a respirare, o si vedessero i lumi annebbiati.15

2. L’ALZARE

DEL

SOLE

Tuttavia l’insistenza che le didascalie dei libretti d’opera ponevano su alcuni effetti di luce, induce a ritenere che una certa illusione ottica per gli ef14 Su tale argomento vedi M. CONATI , Teatri e orchestre al tempo di Verdi, in Giuseppe Verdi: vicende, problemi e mito di un artista e del suo tempo, Colorno, Edizioni «Una Citta` costruisce una mostra», 1985, a pp. 60-62, nonche´ ID., Orchestre, teatri e diapason in Italia nell’Ottocento, «Musica/ Realta`», n. 40, aprile 1993, pp. 111-127. 15 «Gazzetta musicale di Milano», n. 52 del 30 dicembre 1883, p. 468.

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fetti di fondo scena fosse pur sempre ottenibile con i mezzi d’allora e resa percepibile a buona parte del pubblico, anche se con risultati che oggi possono sembrare discutibili. Non si comprenderebbe altrimenti l’importanza che Verdi attribuiva all’impiego della luce, per effetti speciali sulla scena e sul fondo, nell’Attila (opera che risale al 1846, quindi anteriore alle esperienze che di lı` a poco egli avrebbe affrontato sulle scene parigine). Scriveva a Piave il 12 aprile 1845: Eccoti lo schizzo della tragedia di Verner. Vi sono delle cose magnifiche e piene d’effetto. Leggi l’Allemagna della Stael. Sono di parere di fare un prologo e tre atti. Bisogna alzar la tenda e far vedere Aquileja incendiata. [...].16

E infatti la didascalia del libretto, di poi affidato a Solera,17 recita all’inizio del prologo: Piazza di Aquileja – La notte, vicina al termine, e` rischiarata da una grande quantita` di torce. Tutto all’intorno e` un miserando cumulo di rovine. Qua e la` vedesi ancora tratto tratto sollevarsi qualche fiamma, residuo di un orribile incendio di quattro giorni.

L’impiego di effetti di luce e` costante nell’Attila per la resa del clima drammatico; basterebbe citare la didascalia del primo quadro dell’atto primo, dedicato al lamento di Odabella e al suo duetto con Foresto: Bosco presso il campo d’Attila. E` notte; nel vicino ruscello brillano i raggi della luna.

Costante, ma di non facile realizzazione, come ad esempio il quadro secondo dell’atto II: «Campo d’Attila [...]. La notte e` vivamente rischiarata da cento fiamme che irrompono da grossi tronchi di quercia preparati all’uopo»; improvvisamente, durante il coro delle Sacerdotesse «fischia il vento, rumoreggia il tuono / Sol dan le corde della tromba il suono» e «In quel mentre un improvviso e rapido soffio procelloso spegne gran parte delle fiamme». Si tratta di un effetto spettacolare non fine a se stesso bensı` destinato a sottolineare – attraverso il repentino trapasso dalle luci della festa all’oscurita` della procella tumultuante – il capovolgimento degli stati d’animo, dalla gioia alla «tristezza generale». Si tratta di un effetto che chissa` in quanti teatri sara` stato deliberatamente ignorato per la difficolta` della sua realizzazione. Certamente fu ignorato per la prima rappresentazione dell’Attila al Teatro alla Scala, come In «Gazzetta di Novara», 30-31 gennaio 1901 (con data errata), rist. in FENICE, pp. 143-144. Sul passaggio di consegne fra Piave e Solera e nuovamente fra Solera e Piave per il libretto dell’Attila vedi ivi, pp. 153 sgg. 16 17

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apprendiamo da una lettera di Emanuele Muzio a Barezzi in data 27 dicembre 1847: La mise en sce`ne e` perfida; il sole si era alzato prima che fosse segnato dalla musica. Il mare, invece di essere burrascoso ed in tempesta, era placido e senza un’onda increspata [...]; nella scena del convito Attila ha fatto banchetto senza lumi, senza le quercie accese, e quando viene la burrasca ed il temporale il cielo e` rimasto sereno e limpido come in un piu` bel giorno di primavera.18

L’effetto di luce che a Verdi stava maggiormente a cuore per la messinscena dell’Attila e` il sorgere del sole nel secondo quadro dell’atto I; scriveva a Lanari nel settembre del 1845 in preparazione dell’allestimento feniceo: quelle [scene] che desidererei sublime e` la Seconda alla Scena VI. che e` il principio della Citta` di Venezia: Sia ben fatto l’alzare del Sole, che io voglio esprimere colla Musica».19

La didascalia del libretto recita in proposito: Rio-Alto nelle Lagune Adriatiche. [...] Le tenebre vanno diradandosi fra le nubi tempestose: e quindi a poco a poco una rosea luce, sino a che (sul finir della scena), il subito raggio di sole innondando per tutto, riabbella il firmamento del piu` sereno e limpido azzurro. Il tocco lento della campana saluta il mattino.

Anche in questo caso non si tratta di un effetto spettacolare a se´ stante, magari rivolto a emulare un effetto analogo presente in una composizione particolarmente ammirata in quel periodo da Verdi, l’ode-sinfonia Le De´sert di Fe´licien David: 20 in quanto allusione alla nascita di Venezia «l’alzare del sole» assume un significato scopertamente simbolico.

3. EFFETTI D’ILLUMINAZIONE Circa l’impiego di effetti d’illuminazione della scena in funzione del dramma musicale considerazioni non dissimili possono essere avanzate anche a proposito di altre opere dei «sedici anni di galera». Alcuni esempi proposti dalle didascalie dei libretti: In MUZIO, p. 303. In FENICE, p. 159. 20 A Milano era stata eseguita per la prima volta alla Canobbiana il 20 giugno 1845; sull’interesse di Verdi per questa composizione vedi INTERVISTE, p. 5. 18 19

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Ernani, atto IV: il fondo deve apparire «chiuso da cancelli» con i «giardini del palazzo illuminati». Alzira, prologo: «l’oriente e` ingombro di maestose nubi, imporporate dai raggi del sole nascente». Ancora Alzira, atto II, parte seconda: «Orrida caverna, appena rischiarata da un raggio di luna, che vi scende attraverso un forame» (da osservare nel preludio di questa scena il colore strumentale dominato dal timbro del serpentone). Luisa Miller, atto III: «Casa di Miller. La finestra e` aperta, ed attraverso di essa vedesi il tempio, internamente illuminato. Luisa scrive presso una tavola, su cui arde una lampada». Stiffelio, atto II: «Antico cimitero. [...] a sinistra la porta d’un tempio internamente illuminato [...]; la luna piove sua luce sulle sparse tombe ombreggiate da spessi cipressi». Il Trovatore, atto II, parte prima («Un diruto abituro» popolato da «una banda di Zingari»): «Nel fondo, quasi tutto aperto, arde un gran fuoco. I primi albori. Azucena siede presso il fuoco».

Un caso quasi isolato nell’opera teatrale del Verdi degli «anni di galera» e` costituito dall’elemento fantastico nel Macbeth, gia` incontrato e discusso nel corso della seconda Ricognizione, riguardante soluzioni articolate nell’impiego dell’illuminotecnica: l’ombra di Banco, la sfilata dei re, la sparizione della caldaia, le apparizioni, la foresta di Birna, ecc. Per le apparizioni nell’atto terzo il compositore aveva proposto una soluzione, suggeritagli da Sanquirico, che si potrebbe definire avveniristica per quei tempi, in quanto si trattava di un sistema per la proiezione di immagini in movimento basato sul principio della lanterna magica, una soluzione che pero` richiedeva, per funzionare, il buio totale in sala. «Non trovandosi decenti le tenebre assolute in un primario teatro» – come ci informa un giornalista dell’epoca – la fantasmagoria fu tosto accantonata.

4. A

TUTTO TEATRO

L’esame degli effetti di luce richiesti da Verdi a sostegno dell’effetto drammatico-musicale non va disgiunto dall’esame di un altro aspetto strettamente connesso con la visibilita` e la luminosita` della scena. Intendo riferirmi ai praticabili, agli spezzati, insomma a quanto contribuisce a rendere in qualche misura tridimensionale l’azione scenica e ad approfondirne la prospettiva. Verdi tende, se non a sovvertire, quanto meno a mettere in crisi l’impiego di fondali e quinte piatte, ancora nettamente predominante ai suoi tempi nei teatri italiani, cio` al fine di approfondire la prospettiva «a tutto teatro» e ricorrendo a scene per quanto possibile «plastiche». — 134 —

PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

Circa la profondita` della scena «a tutto teatro», richiesta dal compositore in funzione dell’azione drammatica, un esplicito richiamo e` gia` nella citata lettera a Lanari per la messinscena dell’Attila relativamente al «Campo d’Attila»: «Nella Scena VI. del prim’Atto nel finale, guarda che quella Scena sia piu` lontana che sia possibile, e la tenda d’Attila sia fatta in modo da potersi aprire spaccattamente per intero».21 La scena profonda «a tutto teatro» viene richiesta non solamente, come ora vedremo, per la rapidita` con cui deve avvenire la mutazione rispetto a una precedente scena corta, ma anche per conferire effetto all’azione che si svolge sul fondo scena. Ne e` un esempio la piantazione «a tutto teatro» della seconda parte dell’atto II della Forza del destino: «Una piccola spianata sul declivio di scoscesa montagna. A destra precipizi e rupi: di fronte, la facciata della chiesa della Madonna degli Angeli». In questo caso si tratta di una profondita` articolata in due tempi, in quanto ottenuta sul piano della visibilita` solo allorche´, alla «Scena decima», la «gran porta della chiesa si apre» e di fronte «vedesi l’altare maggiore illuminato». Quanto alla plasticita` richiesta dalla scena in appoggio all’azione bastera` qui ricordare il «terrazzo praticabile, sostenuto da arcate» nella seconda parte dell’atto I del Rigoletto,22 e ancora, nell’ultimo atto della stessa opera, la «rustica osteria» di Sparafucile con «una rozza scala che mette al granaio, entro cui, da un balcone, senza imposte, si vede un lettuccio».

5. SPEZZATI,

PRATICABILI , PROFILI ASIMMETRICI

Ma torniamo alla messinscena del primo Boccanegra. Dalle lettere del compositore s’e` visto come risulti evidente il suo proposito di utilizzare la luce in termini dinamici ai fini dell’effetto musicale. Altrettanto dinamismo egli richiede alla piantazione delle scene aumentandone la profondita` «a tutto teatro». L’azione scenica della prima versione immaginata dal compositore implicava alcune soluzioni scenotecniche innovative, per lo meno avanzate o quanto meno inusuali per la messinscena dei teatri italiani a meta` Ottocento, soluzioni che seppure gia` presenti in precedenti esperienze (vedi Attila e soprattutto Macbeth) si possono considerare peculiari della visione drammaturgica maturata dal compositore verso la fine degli anni Quaranta a contatto con FENICE, p. 159. Sulla difficolta` di allestimento di questa scena vedi M.T. MURARO, Giuseppe Bertoja e le scene per la prima di «Rigoletto» alla Fenice, «Verdi», Bollettino dell’Istituto di Studi Verdiani, n. 9, 1982, p. 1586. 21 22

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SESTA RICOGNIZIONE

le scene teatrali parigine e ben presto culminata nei capolavori dei primi anni Cinquanta, da Stiffelio a Traviata. Nel rendere sempre piu` profonda e plastica la scena Verdi accoglieva in pratica le innovazioni teorizzate all’alba del secolo da Franz Ludwig Catel: 23 la figura tridimensionale dell’attore non doveva piu` stagliarsi entro una cornice di quinte piatte e di fondali piatti, tradizionali della scena barocca, bensı` inserirsi in spazi reali in modo da accrescere il ‘realismo’ della finzione scenica. Di qui la necessita` di impiegare – ove necessario al dramma – spezzati, praticabili, profili asimmetrici, spazi multipli, scene divise. Gia` sperimentato proprio alla Fenice di Venezia con Rigoletto, dramma ‘francese’ derivato dal Roi s’amuse di Victor Hugo, l’impiego di numerosi praticabili diventa una necessita` inderogabile nel Boccanegra, dettata dalla musica, anzi dal dramma musicale. A tale proposito Verdi aveva avvertito Piave sin dal 3 settembre 1856, quando la composizione del Boccanegra era ancora in fieri: Oh le decorazioni potrebbero essere cosı` belle in questo Simone! In tre specialmente un pittore dovrebbe e potrebbe fare molto bene. Ma le scene dovrebbero essere a doppi e tripli teloni,24 ed i praticabili, non sgabelli come quegli del Guglielmo Tel 25 ma veri praticabili. In quanto poi a costumi... Basta!... Basta!... [...].26 E aveva poi precisato qualche mese piu` tardi (lettera del febbraio 1857, gia` citata) relativamente al prologo: Cura molto le scene: le indicazioni sono abbastanza esatte nonostante mi permetto alcune osservazioni = Nella prima scena se il Palazzo di Fieschi e` di fianco, bisogna che sia ben in vista di tutto il publico, perche´ e` neccessario che tutti veggano Simone quando entra in casa, quando viene sul balcone, e stacca il lanternino: credo d’averci cavato un’effetto musicale che io non voglio perdere causa la scena – Piu` desidererei che avanti la chiesa di S. Lorenzo vi fosse un[a] piccola gradinata praticabile di 3. o 4. gradini, con qualche colonna le quali servirebbero per appoggiare e nascondere ora Paolo ora Fiesco... etc. etc. Questa scena deve avere molto sfondo 27

23 Vorschla ¨ge zur Verbesserung der Schauspielha¨user, 1892, citato in A. NICOLL, Lo spazio scenico. Storia dell’arte teatrale, Roma, Bulzoni, 1971, p. 156. 24 Ovvero «principali». 25 Il Guglielmo Tell di Rossini era andato in scena il 15 luglio 1856, a inaugurazione della stagione estiva del Teatro La Fenice, con Piave direttore della messinscena; Verdi aveva assistito alla rappresentazione nel corso di una breve vacanza effettuata a Venezia con Giuseppina Strepponi prima della partenza per Parigi (cfr. FENICE, pp. 375-377). 26 Ivi, p. 383. 27 Come a dire: «a tutto teatro», nel senso della profondita `.

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PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

Altrettanta profondita` e altrettanta plasticita` di elementi scenici sono richieste dal finale dell’atto I. Le ordinazioni trasmesse da Piave per l’allestimento feniceo del 1857 forniscono, assai meglio della didascalia del libretto, la misura della complessita` e varieta` dell’arredo scenico richiesto da questo finale d’atto: Apparecchiata, lunghissima, a tutto teatro, scoperta a vista dalla precedente; e` giorno brillante. Vasta piazza di Genova. Di fronte e` il porto con legni pavesati; piu` lontano a destra veggonsi colline con castelli e palazzi. A’ fianchi due fughe d’archi praticabili che sostengono balconi pur praticabili apparati, dai quali molte dame devono assistere ad una festa. A destra in fondo e` una larga via; a sinistra spaziosa scalea per cui si sale a magnifico palazzo, praticabile; presso alla bocca d’opera e` un palco riccamente addobbato con trono pel Doge e dodici sedili per senatori. Codesto palco sia preparato dietro la tela precedente.28

Sulla base delle indicazioni e delle raccomandazioni avanzate per la messinscena di alcune opere, dall’Attila al Boccanegra, relativamente all’illuminazione, alla profondita` della scena, ai praticabili, non sembra arrischiato affermare che gia` allora la concezione scenica di Verdi si ispirasse in qualche misura all’effetto della ‘scatola ottica’ teatrale (buio in sala, luce sul palcoscenico), oggetto in quegli anni delle teorie sceniche di Gottfried Semper, allievo di Catel, che tanta suggestione esercitarono su Wagner, in seguito applicate da Oscar Bru¨ckwald per il Festspielhaus di Bayreuth. Forse Verdi non conosceva gli studi di Semper (il forse e` di rigore quando si tratta di un artista come Verdi, che si teneva costantemente a giorno sui progressi tecnici, anche se non lasciava mai trapelare l’oggetto dei suoi interessi e la fonte delle sue informazioni); tuttavia non si puo` non rilevare nella sua concezione della messinscena una certa sintonia con la tendenza – espressa da innovatori della scena teatrale quali appunto i citati Catel, Semper, Bru¨ckwald – a far convergere la rappresentazione del dramma in toto entro le dimensioni di una ‘scatola ottica’ al fine di accentuare il ‘realismo’ della finzione scenica. E si comprende molto bene, dunque, come Verdi – cosı` poco propenso, almeno sulle prime, ad apprezzare la musica di Wagner – aderisse invece all’idea dell’orchestra invisibile, cosı` scrivendo a Giulio Ricordi il 10 luglio 1871 in vista della rappresentazione dell’Aida alla Scala: «rendere l’orchestra invisibile. Quest’idea non e` mia, e` di Wagner: e` buonissima».29 Vi e` in queste parole non tanto una semplice 28 Manoscritto autografo presso l’Archivio storico del Teatro La Fenice, ora alla Fondazione Levi, Venezia. 29 COPIALETTERE , p. 264. Ma a proposito dell’orchestra invisibile vedi anche cosa Verdi ne pensasse anni piu` tardi scrivendo a Mascheroni l’8 dicembre 1890: «Orchestra invisibile!... E` un’idea

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SESTA RICOGNIZIONE

adesione a un’idea altrui quanto piuttosto una scelta operata in piena coerenza con le proprie convinzioni e le proprie esperienze in fatto di spettacolo teatrale, esperienze sviluppate all’insegna di quel coraggio intellettuale che gli aveva fatto esclamare molti anni prima in una lettera a Piave, alla vigilia d’intraprendere il Macbeth: «Sono stanco dei sogetti soliti. Io voglio fare una cosa che non voglio si giudichi dopo una sera e` bella e` brutta... no` no`, amo che si quistioni un pezzo».30

6. IL

DINAMISMO DELLA RAPPRESENTAZIONE

Finora s’e` accennato al carattere dinamico impresso da Verdi al ruolo delle luci e delle scene in appoggio all’azione drammatico-musicale. Il dinamismo della rappresentazione si esplica nella drammaturgia verdiana anche attraverso la rapidita` impressa allo sviluppo dell’azione e mediante la sintesi delle situazioni drammatiche. Verdi possiede la straordinaria capacita` di influire sullo spettatore in modo diretto, senza alcun passaggio; tiene sempre presente il punto di vista di chi vede e ascolta, e non perde tempo nello sviluppo dell’azione drammatica. Egli si preoccupa sempre che tutto sia funzionale non solo alla sua opera, alla sua idea musicale del dramma, ma anche all’ascoltatore, al processo di assimilazione di chi e` seduto in sala. Bene osserva Fedele d’Amico che in Verdi l’essenza dell’effetto drammatico sta in «un gioco di tensioni e distensioni, di precipitazioni e indugi ed esplosioni e contrasti, tale che ogni situazione colpisca l’attenzione dello spettatore con la freschezza dell’elemento nascente: di ogni situazione musicale [Verdi] calcola percio`, oltretutto, la durata temporale, in rapporto al peso ch’essa assume sulla misura di quest’attenzione».31 E` a tal punto radicata in Verdi la concezione della musica come misura del dramma (una concezione del tutto antitetica rispetto a quella di Wagner, tanto vecchia che tutti o almeno tanti hanno sognato! Anch’io vorrei nei teatri l’orchestra invisibile; ma non a meta`. La vorrei completamente invisibile! L’orchestra che fa parte del mondo ideale poetico, ecc., ecc., e suona in mezzo al pubblico che applaude o fischia, e` la cosa piu` ridicola del mondo. Coi grandi vantaggi dell’orchestra invisibile si potrebbero tollerare anche le mancanze inevitabili di forza e di sonorita`, il suono nasale ed infantile che assumerebbe l’orchestra messa, diro` cosı`, coi sordini. Ma se l’orchestra completamente invisibile non e` possibile, come lo dimostrano non solo l’Ope´ra, molti teatri di Germania, e perfino Monaco e Berlino (ripeto completamente), tutte le modificazioni che farete sono puerili, non hanno nulla a fare coll’arte [...]» (ivi, pp. 690-691). 30 Lettera del 22 agosto 1846 (copia fotostatica presso l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma). 31 F. D ’AMICO , Note sulla drammaturgia verdiana, «Analecta Musicologica», XI: Colloquium VerdiWagner, 1972, pp. 272-287: 278, ora in ID., Un ragazzino all’Augusteo, Torino, Einaudi, 1991, pp. 41-58.

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per il quale e` il dramma la misura della musica) che egli sonda quanto piu` a fondo possibile le prerogative peculiari del linguaggio musicale, sfruttandone tutte le possibili valenze drammaturgiche, a cominciare da quella che ne costituisce una proprieta` assoluta rispetto ad altri linguaggi: vale a dire il potere di sintesi attraverso la sincronia delle parti. Dove maggiormente si rivela il genio di Verdi potendo sfruttare le possibilita` di rappresentare il dramma con mezzi eminentemente musicali e` nella capacita` di rendere concomitanti azioni diverse e contrastanti, moltiplicando o sovrapponendo i luoghi dell’azione scenica. Nel calcolo della durata temporale Verdi agisce spesso per assemblamento di due o piu` quadri scenici all’interno di un atto al fine di rendere piu` serrata e conseguente la rappresentazione. Per far cio` egli ricorre a diverse soluzioni. In questa sede mi limito a citarne almeno tre: la prima e` fornita dalla scena apparecchiata ovvero dall’alternanza di scena corta e di scena lunga, con possibilita` di cambio a vista; la seconda soluzione e` costituita dalla scena divisa; la terza riguarda la scena multipla o sovrapposta.

7. SCENA

APPARECCHIATA E CAMBIO A VISTA

La prima soluzione consente di accelerare il tempo teatrale e consiste in cio` che nel gergo teatrale ottocentesco si diceva scena apparecchiata ovvero l’allestimento contestuale, all’interno di un atto comprendente due o piu` mutazioni, di una scena corta (o cortissima) cui succede una scena lunga «a tutto teatro», per l’appunto gia` «apparecchiata», in modo da non consentire indugi nel cambio di quadro. Un esempio di tale successione e` nell’atto II della Traviata: dal salotto di una casa di campagna alla galleria nel palazzo di Flora. Un altro esempio, di molto posteriore e ben piu` eloquente per la saldatura realizzata fra un quadro e l’altro dalla musica fuori campo, e` fornito dall’atto II di Aida: da «Una sala nell’appartamento di Amneris», disposta a teatro cortissimo, con fondale «rappresentante un elegante gabinetto», a «Uno degli ingressi della citta` di Tebe», disposto «a tutto teatro».32 Di grande efficacia drammatica e` la successione di scena corta e scena lunga con cambio a vista. Questo procedimento tecnico, impiegato per ottenere un effetto di sorpresa, era stato gia` stato adottato da Verdi nell’ultimo 32 Vedi Disposizione scenica per l’opera «Aida» [...] compilata e regolata [...] da Giulio Ricordi, Milano [1873], p. 22.

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atto del Macbeth e ribadito in occasione della revisione dell’opera per la scena francese.33 Per quanto riguarda il Boccanegra s’e` visto piu` sopra la descrizione della scena «apparecchiata» per il finale dell’atto primo: il cambio di scena doveva essere effettuato «a vista». Nella revisione del 1881 l’atto primo conserva il cambiamento a vista anche sul nuovo finale, la Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati, da effettuarsi sulla battuta vuota del breve intermezzo orchestrale (si noti la continuita` dell’area tonale di Do che collega le due parti dell’atto). In Un ballo in maschera il cambio a vista si verifica due volte. La prima volta nell’atto primo: la sala nel palazzo del Governatore «va via a vista, e scopre l’abituro». In questo caso il procedimento serve non tanto a ottenere un particolare effetto spettacolare quanto piuttosto a stringere i tempi dell’azione; si tratta di «scena lunga» apparecchiata (l’abituro dell’indovina) che «viene scoperta dall’antecedente», la sala, piantata «a mezzo teatro».34 Il secondo cambio a vista, splendido per preparazione musicale, avviene nell’atto terzo: il Gabinetto (scena cortissima) «Va via a vista, e scopre la sala [...] splendidamente illuminata e parata a festa». Un altro cambiamento a vista viene solitamente effettuato negli odierni allestimenti nell’atto III dell’Otello. Ne´ la partitura ne´ la Disposizione scenica vi accennano esplicitamente.35 E tuttavia non si tratta di un abuso. In vista di una ripresa dell’opera alla Scala Verdi aveva infatti suggerito a Ricordi il 1º gennaio 1889 lamentando le insufficienze del primitivo allestimento: Troppo piccola e corta la prima scena, e quindi affastellata l’azione. Troppo lunga la scena del Giardino. Cambierei la terza, e ne farei due: una piccola sala interna per le prime scene fra Otello, Desdemona, Jago e Cassio. Poi, cambiamento a vista per il resto.36

8. SCENA

DIVISA

Il modello piu` illustre di scena divisa e` nel Rigoletto: ovviamente il maestro in questo caso non fa che accogliere la struttura scenica del dramma ori33 M. CONATI , Aspetti della messinscena del «Macbeth» di Verdi cit., pp. 383-384 in nota; ora in questo volume, p. 48. 34 Disposizione scenica per l’opera «Un ballo in maschera», compilata e regolata [...] da Giuseppe Cencetti, Milano, Ricordi, 1859, pp. 7-12. 35 Ne tace J.A. HEPOKOSKI , La disposizione scenica per l’«Otello» di Verdi. Studio critico, in «Otello» di Giuseppe Verdi, a cura di J.A. Hepokoski, M. Viale Ferrero, Collana di Disposizioni Sceniche, Milano, Ricordi, 1990, pp. 9 sgg. 36 In ABBIATI , IV, p. 366.

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ginale di Victor Hugo, Le Roi s’amuse. Ma proprio in questa struttura – una scena due volte divisa: la seconda parte dell’atto I e l’atto III – e` quasi la ragion d’essere del Rigoletto in quanto dramma per musica, poiche´ essa consente al compositore di convocare situazioni diverse o contrastanti all’interno del discorso musicale. Lo ha ben osservato Wolfgang Osthoff a proposito dell’aria di Gilda, allorche´ nel finale «Verdi insinua, su un diverso piano, l’inquietudine che sara` il germe del successivo svolgimento: il mormorio dei cortigiani che ordiscono le loro trame funeste. Il grande drammaturgo si qualifica pero` drammaturgo musicale. Nel libretto l’entrata dei cortigiani costituiva una scena a parte (I, 14). Il musicista e` in grado di inserirla nella scena precedente. L’azione in musica si svolge quindi simultanea, su due piani diversi; il che e` possibile soltanto in un’opera lirica».37 Analoga considerazione puo` essere fatta per il quartetto dell’ultimo atto del Rigoletto in cui il compositore concentra in unico quadro musicale un’azione drammatica che nel dramma originale si sviluppa attraverso la successione di due dialoghi distinti. Della divisione di scena Verdi si vale in un’altra opera, l’Aida, per il quadro finale: in questo caso uno spaccato non piu` verticale come in Rigoletto, bensı` orizzontale. La lettura della Disposizione scenica dell’Aida offre un’eloquente conferma di quella perfetta identita` raggiunta fra espressione musicale, drammatica e scenica, che fa di quest’opera il culmine del melodramma italiano del secondo Ottocento, alla vigilia delle lacerazioni introdotte a fine secolo. Il senso esatto di questa identita` lo si puo` cogliere soprattutto nell’ultima scena, divisa orizzontalmente per dar luogo alla visione simultanea del sotterraneo e del tempio: «il sotterraneo cupo, con tinte fredde, illuminato da una luce grigio-verdastra; il tempio risplendente di luce, a tinte calde».38 Attraverso questo contrasto di tinte 39 si esprime, per cosı` dire, la sintesi suprema del dramma. Una sintesi che la musica s’incarica di sfumare e di evaporare («genere vaporoso» e` appunto la definizione di Verdi per la musica di questo finale 40) con una lentissima dissolvenza attraverso la quale

37 W. OSTHOFF , Caratterizzazione musicale del personaggio di Gilda, «Verdi», Bollettino dell’Istituto di Studi Verdiani, Parma, n. 8, 1973, p. 1295. 38 Vedi Disposizione scenica per l’opera «Aida» cit., p. 63. 39 A tale proposito la Disposizione scenica raccomanda: «Il scenografo ponga molto studio nel contrasto dei due piani» (ibid.). 40 Vedi lettera del 10 dicembre 1871 a Giovanni Bottesini: «Ti prego dunque caldamente a volermi dare notizie del duetto ultimo [...]. Tu leggendo lo spartito, capirai ch’io ho messo tutta la cura in questo duetto; ma appartenendo esso al genere, diro`, vaporoso, potrebbe darsi che l’effetto non corrispondesse a’ miei desideri» (COPIALETTERE, p. 678).

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SESTA RICOGNIZIONE

la cantilena del tempio e il pianto di Amneris sembrano alla fine fondersi con il canto estremo dei due amanti. Un altro esempio di scena, a suo modo divisa, e` fornito dal secondo quadro del II atto del Falstaff; in questo caso si tratta di una divisione giocata tutta all’interno dell’azione in quanto determinata da un elemento mobile, un semplice paravento che separa due mondi: da un lato il mondo perturbato dei compari schiamazzanti e delle comari sornione con in mezzo Falstaff semiaffogato fra i panni sporchi in una cesta da bucato, dall’altro il mondo pulito e sereno dei due giovanissimi amanti... In realta` il quadro e` scenicamente assai ben piu` complesso: regolato in senso verticale nei suoi diversi piani dall’organizzazione musicale, esso fornisce la misura del magistero del compositore nel «piegare la nota» all’effetto desiderato.41 9. SCENA

MULTIPLA

Un’altra soluzione per ottenere la sintesi drammatica viene da Verdi individuata nella scena multipla o sovrapposta. Non si vuol qui accennare al tipo di sovrapposizione ottenuto con un intervento fuori campo (come ad esempio con la musica interna nel «Miserere» del Trovatore o nel finale del duetto Aida – Amneris) bensı` alla scena disposta in profondita` su piani diversi. Un esempio e` nella scena del campo d’Attila, che Verdi aveva gia` prefigurato in fase di abbozzo del dramma 42 e che alla vigilia della rappresentazione raccomandava, come s’e` gia` visto,43 «piu` lontana che sia possibile», cioe` «a tutto teatro», onde poter rendere piu` evidente il contrasto dell’azione, un contrasto espresso fin nelle tinte dei costumi: sul fondo la processione di papa Leone e di una «schiera di Vergini e Fanciulli in bianche vesti», in primo piano le «schiere d’Attila in armi». Un altro esempio di azione in profondita` su due piani diversi e` nella seconda parte dell’atto secondo dei Vespri siciliani, cosı` descritta dalla relativa didascalia scenica: Una ridente valle presso Palermo. A dritta, colline fiorite e sparse di cedri e d’aranci – a sinistra, la Cappella di Santa Rosalia – in fondo il mare.

COPIALETTERE, p. 616. «Sarebbe magnifico nel terzo atto tutta la scena di Leone sull’Avventino mentre sotto si combatte [...]» aveva scritto a Piave nella lettera, gia` citata, del 12 aprile 1845. 43 Lettera a Lanari citata alla nota 21. 41 42

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PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

L’azione, iniziata con le danze nuziali dei giovani siciliani, culmina con il rapimento delle fidanzate da parte dei soldati francesi. A un certo punto, recita il libretto, «al tumulto succede il silenzio e l’avvilimento. Danieli e tutti i Siciliani collocati in cerchio nel mezzo del teatro cantano a voce bassa [...]». Il loro furore si accresce «fino all’ultimo grado», allorche´ «in mezzo alle grida tumultuose che s’innalzano, una musica graziosa ed allegra si fa sentire. I Siciliani corrono sulla sponda del mare e veggono avanzarsi una barca splendidamente adorna che costeggia la riva». La melodia della barcarola, che improvvisamente risuona come un raggio rasserenante che voglia fugare la tempesta che sta per addensarsi ed esplodere, assolve a un’eminente funzione di contrasto drammatico. «Il ritmo cullante della melodia cantata in lontananza, fuori campo, dai nobili e gentildonne francesi, riesce a conservare la propria identita` anche quando vi si sovrappone il ritmo spezzato delle parole di vendetta cantate con voce soffocata dai popolani siciliani (vedi esempio a p. 144). E` un effetto drammatico di chiaroscuro ottenuto in termini di spazialita` acustica con mezzi puramente musicali, che per la nettezza e la crudezza dei contorni si potrebbe definire ‘caravaggesco’: la festosa gaiezza dei ‘dominatori’ nella luminosita` dello sfondo, di contro al furore degli ‘assoggettati’ nella penombra dell’avanscena».44 Per l’atto secondo dell’Otello si puo` parlare di vera e propria scena doppia, divisa in profondita`. La didascalia del libretto non da` la chiara misura di questa divisione, limitandosi ad accennare a «Una sala terrena nel castello. Una invetriata la divide da un grande giardino». In questo giardino si deve svolgere l’omaggio dei popolani ciprioti a Desdemona: la sua profondita` e visibilita` rispetto al primo piano della scena e` dunque una condizione indispensabile. Verdi non celo` mai la propria insoddisfazione per l’allestimento dell’Otello in occasione della premie`re alla Scala, e del suo malcontento a due anni di distanza e` una riprova la sopra citata lettera a Ricordi del 10 luglio 1889; per quanto riguarda nella fattispecie la scena dell’atto secondo con il giardino ben visibile sul fondo, gia` un mese dopo la prima, il 14 marzo 1887, scriveva a Ricordi: Discendendo jeri con Boito e Du Locle dallo scalone dell’Eden Hotel di Nervi, dissi «Ecco la scena del II atto d’Otello!» L’atrio di quell’albergo e` grandioso, e bellissimo. Ha tre grandi finistroni; al di la` un giardino (ancor giovine) di la` del giardino, il mare. Dunque per Otello: una scena corta quasi al sipario, e nella tela tanti finistroni divisi da colonnette moresche, o veneziane etc. etc. Di la` dai finestroni un grande parco con un gran piazzale ed uno stradone grande, ed altri di traverso piu` piccoli [...]. Cosı` si potrebbe fare l’azione voluta dal dramma, ed il pubblico capirebbe anzi sentirebbe che in quel momento succedono contemporaneamente due fatti, due azioni:

44

Riporto qui la descrizione fattane nella Quinta ricognizione. Ballabili nei Vespri siciliani.

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PRIMA LE SCENE, POI LA MUSICA...

una festa per Desdemona: un complotto fra Jago e Otello. [...] Infine, per dir tutto in una parola, quella scena deve presentare al publico due locali ben marcati e distinti: Un grande parco per la festa di Desdemona. Un salotto per Otello e Jago. L’ho gia` detto. Per Dio! e` tanto facile! Ma prevedo i ma e i se...45

Non sembrano necessari ulteriori commenti alle ragioni qui esposte da Verdi per una doppia scena che consenta lo svolgersi simultaneo di due azioni distinte e contrastanti.

10. «UN

BEL QUADRO DRAMMATICO -MUSICALE »

Il complesso dei documenti fin qui esaminati e` rivelatore di quanto organica fosse in Verdi, fin dallo stadio di abbozzo, la concezione spettacolare d’un’opera in musica: un tutto unitario – parole scene luci azione – regolato e saldato dall’espressione musicale del dramma, che in sede di rappresentazione dovra` tradursi in una perfetta corrispondenza fra allestimento scenico e sentimento drammaturgico-musicale. Verdi vede scenicamente il dramma gia` nella fase di concepimento. Lo vede cioe` come spettacolo in azione e gia` immagina durante la stesura dello schizzo e quindi del libretto, ancor prima cioe` di comporre la musica, come dovra` essere realizzato e quale potra` esserne il risultato finale. Da questo atteggiamento l’esigenza di un controllo totale sull’organismo nel suo farsi e nel suo realizzarsi: quindi non solo la scelta del soggetto, non solo la stesura della «selva» o meglio ancora del libretto «in prosa», non solo la scelta degli interpreti adatti, ma la realizzazione dello spettacolo nella sua interezza, in quanto parte integrante del dramma e della musica. Si tratta di una concezione comune al processo genetico di tutte, o quasi tutte, le opere del compositore, che un attento studioso ha commentato nei seguenti termini: «Il controllo assunto da Verdi su tutto l’arco produttivo consentı` l’assimilazione di alcuni elementi delle forme spettacolari implicite (come la varia articolazione degli spazi, i ritmi dell’accadere scenico e i modi della recitazione attorica) e, d’altra parte, scardino` fin dalle fondamenta la funzione equilibratrice svolta fino allora dal poeta, che era l’effettivo custode delle tradizioni formali del melodramma».46 E` nella fase dello schizzo preparatorio d’un’opera, al momento del suo primo concepimento, che meglio si puo` cogliere il procedimento compositivo ABBIATI, IV, p. 328. G. GUCCINI, La drammaturgia dell’attore nella sintesi di Giuseppe Verdi, «Teatro e Storia», IV, 7, ottobre 1989, pp. 254-255. 45 46

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SESTA RICOGNIZIONE

di Verdi. Egli non procede per progetti parziali, cui aggiungere, integrare con successivi ritocchi: una volta verificata la musicabilita` del soggetto egli procede gia` con un progetto globale, rinserrato entro pochi, ferrei punti nodali. Forse la testimonianza piu` eloquente della sua visione fortemente unitaria della rappresentazione drammatica ci viene da una lettera relativa a un’opera mai composta, l’Assedio di Firenze, dal romanzo storico di Guerrazzi, un progetto forte nei propositi del compositore per drammaticita` e spettacolarita`, un progetto che, per dirla con Abbiati, sembrava lo «divorasse tutto». Rileggiamo un brano della lettera da lui diretta a Cammarano da Parigi il 24 marzo 1849: La scena del Campo d’Orange si presta pure per fare un bel quadro drammaticomusicale, ma bisognerebbe distribuire la scena in questo modo: il fondo rappresenterebbe Firenze; da un lato, sul davanti fare realmente la tenda d’Orange,47 dall’altro in fondo diverse tende dei soldati etc. Nella tenda d’Orange non amerei molta gravita`: vorrei vi giocasse, e nello stesso tempo vi parlasse dell’assalto andato a vuoto etc. Intanto il resto della scena vorrei rappresentasse un vero campo d’armata. C’e` una scena stupenda in questo genere nel Valesthein di Shiller: soldati, vivandiere, zingari, astrologhi, persino un frate che predica alla maniera piu` comica e deliziosa del mondo. Voi non potete mettere un frate, ma potrete mettere tutto il resto, e potete anche fare un ballabile di zingare.48 Insomma fatemi una scena caratteristica che dia veramente l’idea di un campo d’armata. Anche qui i versi e i metri alternati e bizzarri. [...] Ho osservato ancora il quart’atto ed a me pare di nuovo che la prima meta` di questo atto sia confusa [...]. Eccovi come io avrei immaginato quest’ultimo atto. Colonnato nel vestibolo di palazzo Martelli: fra le colonne vedonsi la piazza, ed il tempio di S. Spirito. Scena scura. Un guerriero in atto di profondo dolore e` sdraiato avanti le colonne. Silenzio profondo. Squilla un tocco di campana; una voce lugubre grida di lontano: «L’ora del tradimento s’avvicina; adunatevi uccelli in cielo; scendete lupi dall’Appennino, la spada v’apparecchia il convito». Odesi un fremito come di mare lontano, a poco a poco appariscono torcie accese [...].49

Questa descrizione dell’ultimo atto dell’Assedio di Firenze rivela bene l’unita` di pensiero che per Verdi deve presiedere all’organismo drammatico sin dal suo primo formarsi; in poche parole, con rapidi tocchi, egli descrive quello che gia` vede, che gia` sente: scene, spazi, luci, suoni, parole sceniche, elementi tutti che si integrano l’un l’altro per formare un tutt’uno di dramma e spettacolo. Prima le scene, poi la musica...

47 48 49

Farla cioe` ‘praticabile’. E` noto che questa scena fu poi introdotta da Verdi nella Forza del destino. ABBIATI, II, pp. 4-6.

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SETTIMA

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ASPETTI DI MELODRAMMATURGIA VERDIANA (A PROPOSITO DEL DUETTO AIDA-AMNERIS)

Il punto di vista da cui muove un compositore d’opera all’atto di organizzare un’azione teatrale e` alquanto differente rispetto a quello di un autore di drammi destinati alla recitazione. In quanto musicista il compositore deve prefigurare il proprio materiale entro linee di durata determinate dalla sintassi del discorso musicale e non da quella del dialogo parlato, e deve pertanto prefissarne le dimensioni tenendo conto dei poteri di concentrazione, di sincronia e di evocazione che sono propri del linguaggio della musica. La scelta di un argomento d’opera avviene dunque in funzione di una drammaturgia soggetta alle leggi che governano la composizione musicale. Del potere informatore che il linguaggio musicale e` in grado di assumere nei confronti dell’azione teatrale, e quindi delle sue potenzialita` di organizzazione drammaturgica, Verdi ebbe coscienza come pochissimi altri nella storia dell’opera. Di questa consapevolezza si puo` trovare traccia gia` nei primi anni della sua attivita`, come prova una sua lettera del 15 novembre 1843 al segretario della Fenice di Venezia, Guglielmo Brenna, al tempo della composizione di Ernani: Per quanta poca esperienza io mi possa avere, vado nonostante in teatro tutto l’anno, e sto` attento moltissimo: ho toccato con mano che tante composizioni non sarebbero cadute se vi fosse stata miglior distribuzione nel [sic] pezzi, meglio calcolati gli effetti, piu` chiare le forme musicali ... insomma se vi fosse stata maggior esperienza sı` nel poeta che nel maestro. Tante volte un’ recitativo troppo lungo una frase, una sentenza che sarebbe bellissima in un libro, ed anche in un dramma recitato, fan ridere in un dramma cantato.1

E come chiara sin dall’inizio della carriera fosse in Verdi la concezione di un intervento dinamico nel discorso musicale organizzato in scene d’azione, e 1

FENICE, p. 102 sgg.

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conseguentemente l’esigenza della riduzione della funzione del recitativo in termini di durata, lo rivela bene un altro passo della lettera sopra citata: Chi sara` quel Maestro che potra` metter in musica senza seccare 100 versi di Recitativo come in questo terz’atto? In tutti intieri i quattro atti del Nabucco, o dei Lombardi non trovera` sicuramente piu` di 100 versi di Recitativo...2

Sin dagli esordi Verdi era dunque consapevole che nell’opera il drammaturgo dev’essere innanzi tutto un architetto in musica. L’indagine sulla drammaturgia verdiana non raggiunge il suo scopo se non viene affrontata attraverso l’esame del processo compositivo per mezzo del quale Verdi ottiene di realizzare strutture melodrammaturgiche che danno corpo e verita` al dramma raggiungendo l’effetto desiderato. In Verdi scopo essenziale d’ogni impresa operistica e` sempre la traduzione totale dell’azione drammatica in musica. E` il dramma che dev’essere posseduto dalla musica. Non viceversa. Si rilegga una sua lettera, del 6 marzo 1868, all’amico Opprandino Arrivabene: [...] io presentemente penso e pensero` cosı` anche l’anno venturo che per fare una scarpa ci vuole del corame e delle pelli!... Che ti pare di questo stupido paragone che vuol dire che per fare un’opera bisogna aver in corpo primieramente della musica?!... Dichiaro che io sono e saro` un ammiratore entusiasta degli avveniristi a una condizione che mi facciano della musica... qualunque ne sia il genere, il sistema ecc. ma musica!... Basta, basta! che non vorrei che parlandone troppo mi si attaccasse il male. Sta’ tranquillo. Mi possono benissimo mancare le forze per arrivare dove io voglia, ma io so quello che voglio.3

L’interesse che in Verdi suscita un soggetto d’opera prende sempre le mosse dalla possibilita` di rinvenirvi le occasioni atte a tradurre gli effetti in strutture musicali in movimento, compiute e autosufficienti. Riprendendo una considerazione avanzata da Pierluigi Petrobelli, si puo` affermare che Verdi insegue sempre la possibilita` che «l’elemento musicale» diventi «di per se´ elemento di articolazione drammatica, strumento ideale di teatralita` pura».4 Pertanto la chiave di lettura di un soggetto d’opera avviene sempre in Verdi attraverso una griglia di situazioni, di posizioni sceniche, di effetti teatrali che consenta di realizzare una drammaturgia interamente posseduta dal discorso musicale. Elemento fondamentale della griglia attraverso la quale Verdi valuta la possibilita` Ivi, p. 102. ARRIVABENE, p. 83 sgg. 4 P. PETROBELLI , Per un’esegesi della struttura drammatica del «Trovatore», «Atti del IIIº Congresso internazionale di studi verdiani», Parma, Istituto di studi verdiani, 1974, p. 391. 2 3

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di un soggetto teatrale di essere tradotto in musica e` costituito dalla sequenza formale derivata dallo sviluppo della forma bipartita dell’aria, adagio-allegro, sviluppo assestatosi gia` in epoca rossiniana sul seguente schema: a) scena d’attacco b) cantabile c) scena di mezzo d) cabaletta, con o senza stretta, con o senza ‘pertichini’ o cori. I due termini ‘cabaletta’ e ‘stretta’ vengono spesso confusi fra loro, ma in realta` non s’identificano. Verdi stesso, come vedremo, opera una distinzione fra i due termini. La stretta costituisce la parte conclusiva della cabaletta. Meno frequente nell’aria solistica in quanto implica, in ragione della sua struttura musicale, la presenza di almeno un ‘pertichino’ (sia pure fuori di scena, come ad esempio nel finale della grande aria di Violetta nell’atto I di Traviata) o di cori, la stretta e` quasi di norma alla conclusione di un duetto; vedi ad esempio la lunga stretta che conclude la cabaletta del duetto Gilda-Rigoletto nell’atto I di Rigoletto:

o di un concertato (ad esempio nell’Introduzione di Rigoletto: «Tutto e` gioia, tutto e` festa’’, e, come si vedra` poi, nel finale dell’atto II di Aida). Tuttavia quando la rapidita` dell’azione lo richiede, Verdi va direttamente alla stretta senza passare per la cabaletta, come ad esempio alla conclusione del duetto fra Don Alvaro e Don Carlo nell’atto IV della Forza del destino:

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La stessa considerazione puo` farsi per il finale del duetto Gilda – Duca nell’atto I di Rigoletto «Addio, addio», che presenta in blocco piu` l’aspetto di una stretta che non di una cabaletta:

La sequenza quadripartita dell’aria non viene da Verdi impiegata in modo piattamente schematico al solo fine di garantire una scansione musicale delle fasi principali di un’azione scenica. All’interno della sequenza egli opera modifiche che spesso ampliano la funzione della scena d’attacco o, piu` spesso, della scena di mezzo, che egli individua come elemento dinamico volto a esaltare l’opposizione e il contrasto fra l’adagio e l’allegro, fra il cantabile e la cabaletta, fino a farle assumere le dimensioni di brano musicalmente compiuto, autonomamente organizzato e tuttavia integrato nel corso della sequenza da non lasciar traccia di suture. Si veda ad esempio la scena delle apparizioni nella prima versione del Macbeth (1847), strutturata sullo schema della sequenza quadripartita dell’aria — 150 —

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solistica benche´ a prima vista cio` non appaia dai tre titoli che ne distinguono le sezioni in partitura: «Gran Scena delle Apparizioni» (comprendente la scena d’attacco «Che fate voi, misterı¨ose donne?» e il cantabile «Oh mio terror!»), «Coro e Ballabile» (scena di mezzo) e «Gran Scena Finale III» (sostanzialmente una cabaletta, «Vada in fiamme e in polve cada», preceduta da un recitativo). Si veda ancora la grande aria di Leonora nell’atto IV del Trovatore, la cui scena di mezzo e` costituita da un brano per soli e coro, il «Miserere». La scena intermedia e` pertanto la leva che, trasformando lo schema tradizionale della sequenza quadripartita dell’aria solistica, consente diverse possibilita` di organizzazione melodrammaturgica, investendo anche le scene d’insieme, come ad esempio nel secondo quadro dell’atto I di Un ballo in maschera, e fin nel gran finale dell’atto II di Aida subito dopo la parte introduttiva costituita dagli inni, dalla marcia e dalle danze: a) scena d’attacco («Salvator della patria») b) cantabile («Ma tu, Re, tu signore possente») c) scena di mezzo («O Re: pei sacri Numi») d) allegro finale con stretta. In senso inverso, vale a dire con processo di riduzione in termini di durata, Verdi opera nell’aria di Eboli nel Don Carlos, dove perviene a conferire un accentuato dinamismo scenico al brano solistico tramite la concentrazione massima dei quattro elementi della sequenza, saldandoli fra loro in un blocco compatto, con perfetta continuita` di pensiero musicale: a) scena d’attacco («O don fatal et de´teste´») b) cantabile («Adieu, Reine, victime pure») c) scena di mezzo («Et Carlos? Oui! demain, peut-eˆtre») d) allegro («Ah! je me sens renaıˆtre!»). Va tuttavia tenuto presente che vi e` una differenza sostanziale nella funzionalita` drammatica derivante dall’opposizione adagio-allegro nell’aria solistica rispetto all’aria «a due» ovvero duetto e piu` in generale alle scene d’insieme. Nell’aria solistica, in assenza di antagonisti, il contrasto si sviluppa per fasi diacroniche (da qui l’importanza che riveste nel determinare tale contrasto la scena di mezzo), temporalmente distanti fra loro, a meno che il coro non venga utilizzato in funzione antagonistica, come appunto nella scena delle apparizioni del Macbeth, gia` citata, o nel finale dei Due Foscari. Dopo Traviata Verdi praticamente abbandona l’impiego della sequenza quadripartita nell’aria solistica; fra le poche eccezioni l’aria di Procida in Les Veˆpres Siciliennes, quella di Amelia/Maria nella prima versione di Simon Boccanegra (1857), e da ultimo quella di Carlo nella Forza del destino (qui l’impiego della sequenza e` giustificato dal fatto che la cabaletta e` — 151 —

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destinata a chiudere l’atto; tale opportunita` non presenta invece la cabaletta di Amelia/Maria, la quale infatti nel rifacimento del Simone [1881] viene eliminata: il canto interno di Gabriele Adorno, che ne aveva costituito la motivazione esterna, nella nuova versione esso introduce direttamente al duetto). Nelle scene d’insieme, piu` particolarmente nel duetto (struttura portante della drammaturgia verdiana), il contrasto si verifica all’interno del brano, si sviluppa cioe` non per fasi diacroniche bensı` in modo sincronico o, comunque, per fasi assai ravvicinate, attraverso antitesi ritmiche e tematiche.5 La presenza di due o piu` personaggi e` di per se stessa un fattore dinamico che consente l’incalzare dell’azione e un movimento piu` serrato nelle transizioni drammatiche. La forma canonica del duetto presenta uno schema piu` articolato, nel quale e` possibile riconoscere come punto di partenza quello dell’aria solistica: preceduta da un preludio strumentale o da un coro, e introdotta da un breve recitativo, la scena d’attacco si dilata alle dimensioni di brano organizzato in forma strofica: e` il cosiddetto «tempo d’attacco», secondo la definizione a suo tempo proposta da Basevi 6 e ormai concordemente accolta dagli studiosi, in cui il discorso musicale viene sostenuto dall’orchestra mentre il canto si svolge perlopiu` in stile ‘parlante’. Parimenti avviene per la scena di mezzo (ovvero ‘tempo di mezzo’ secondo la definizione di Basevi). Dovendosi calcolare come parte integrante del brano la scena d’introduzione che precede il tempo d’attacco, la sequenza puo` cosı` definirsi pentapartita: a) scena introduttiva b) tempo d’attacco c) cantabile d) tempo di mezzo e) cabaletta con stretta Anche in questo caso si tratta di uno schema che s’era gia` affermato nelle opere di Rossini, di Bellini e di Donizetti: esempi illustri, gia` citati nella Quarta ricognizione, ne sono il duetto Semiramide-Arsace nell’atto II della Semiramide, il duetto Norma-Adalgisa nell’atto II della Norma, il duetto Lucia-Enrico nell’atto I della Lucia di Lammermoor. In Verdi un esempio mirabile e tuttavia complesso e` dato dal duetto Lady-Macbeth nel secondo quadro dell’atto I del Macbeth, gia` nella prima versione: a) scena introduttiva: «Mi si affaccia un pugnal?!» b) tempo d’attacco: «Fatal mia donna! un murmure» 5 Sull’evoluzione della funzione drammaturgica del duetto vedi in questo volume anche la Quarta ricognizione «E quasi si direbbe prosa strumentata». L’aria «a due» in Stiffelio, pp. 81-100. 6 BASEVI , pp. 104 e 191.

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c) cantabile: «Allor questa voce m’intesi nel petto» d) tempo di mezzo: «Il pugnal la` riportate...» e) cabaletta: «Vien! vieni altrove, ogni sospetto» Analoga, se non forse maggiore, complessita` presenta il duetto ViolettaGermont nell’atto II di Traviata, particolarmente per i continui capovolgimenti di fronte della lunga scena d’attacco che precede il cantabile vero e proprio: a) scena introduttiva: «Madamigella Valery» b) tempo d’attacco: «Pura siccome un angelo» c) cantabile: «Dite alla giovine» d) tempo di mezzo: «Imponete» – «Non amarlo ditegli» e) cabaletta: «Morro`!... la mia memoria», con stretta (otto misure dopo il «sempre piu` animando») e coda («Qui giunge alcun: partite»).7 La cabaletta, s’e` accennato, agisce come elemento di contrasto dinamico nel contesto dell’aria. Di solito essa presenta un carattere risolutivo che si presta alla conclusione di una scena o di un atto; spesso s’identifica con un capovolgimento dell’azione scenica: tipico in tal senso l’impiego della cabaletta nel duetto ErnaniSilva «In arcion, in arcion, cavalieri» e nel duetto Gilda-Rigoletto «Sı`, vendetta, tremenda vendetta» (in entrambi i casi il metro verbale e` fornito, non casualmente, dal decasillabo anapestico, verso battagliero, ‘marziale’, che Verdi usa di preferenza in situazioni perentorie che richiedono particolare veemenza). Ne´ dissimile appare tale impiego nel finale del duetto Otello-Jago a conclusione dell’atto II di Otello «Sı`, pel ciel marmoreo giuro!». Consapevole della funzione che la cabaletta puo` assolvere nella scansione dei conflitti drammatici, Verdi non rinnego` il suo impiego nemmeno negli anni di maggiore avanzamento della sua arte. Il 27 aprile 1872, pochi mesi dopo Aida, scriveva all’amico Arrivabene: [...] in questo momento e` venuto di moda di gridare e di non volere ascoltare le cabalette. E` un errore uguale a quello di una volta che non si voleva altro che cabalette. Si grida tanto contro il convenzionalismo e se ne abbandona uno per abbracciarne un altro! Oh! i gran pecoroni!! 8

E il 20 novembre 1880, all’immediata vigilia del rifacimento del Simon Boccanegra e della composizione dell’Otello, replicava a Giulio Ricordi citando due esempi belliniani, rispettivamente dalla Straniera e dalla Sonnambula: 7 Su questa partizione del duetto Violetta-Germont vedi ora il commento di H. POWERS , Basevi, Conati, and La Traviata: The Uses of Convention, in Una piacente estate di San Martino, Studi e ricerche per Marcello Conati, a cura di T. Camellini, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2000, pp. 215-235: 226-235. 8 ARRIVABENE , p. 144.

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Io pero` non ho tanto orrore delle cabalette, e se domani nascesse un giovine che me ne sapesse fare qualcheduna del valore per es.: Del «Meco tu vieni o misera» oppure Ah perche´ non posso odiarti andrei a sentirla con tanto di cuore, e rinuncierei a tutti gli arzigogoli armonici, a tutte le leziosaggini delle nostre sapienti orchestrazioni ... Ah il progresso, la scienza, il verismo ... ahi ahi ... verista finche´ volete, ma ... Shakespeare era un verista ma non lo sapeva. Era un verista d’ispirazione; noi siamo veristi per progetto per calcolo. Allora tanto fa`; sistema per sistema; Meglio ancora le cabalette. Il Bello poi si e` che a furia di progresso, l’Arte torna indietro.9

Se dopo Traviata, come gia` osservato, Verdi abbandona in pratica l’impiego della cabaletta nell’aria solistica, egli lo mantiene tuttavia, ove necessario ai fini drammaturgici, nei duetti, ma affidando alla cabaletta una funzione rinnovata, vale a dire quella di una risoluzione apparente, provvisoria, del conflitto drammatico, a sua volta preparatoria di un capovolgimento della situazione. Essa viene pertanto a collocarsi non piu` a conclusione di un quadro o di un atto, ma immediatamente a ridosso del preciso momento in cui nel dramma sta per verificarsi la svolta decisiva. Si veda in proposito la cabaletta del duetto Amelia – Riccardo nell’atto II di Un ballo in maschera «Oh qual soave brivido», che precede di poco lo scoprimento dell’adulterio. Vedi ancora la cabaletta del duetto Leonora – Alvaro nel primo quadro della Forza del destino «Seguirti fino agli ultimi», che immediatamente precede lo scoprimento della fuga dei due amanti. E infine la cabaletta del duetto Aida – Radame`s nell’atto III di Aida «Sı`, fuggiam da queste mura», che a sua volta precede il tradimento di Radame`s e la subitanea apparizione di Amonasro. L’Aida contiene ben cinque duetti: Aida-Amneris nell’atto II Aida-Amonasro nell’atto III Aida-Radame`s ancora nell’atto III Amneris – Radame`s nell’atto IV Aida-Radame`s ancora nell’atto IV Solo per due di essi Verdi ammette la cabaletta: per il duetto Aida – Radame`s nell’atto III e per il duetto Amneris-Radame`s nell’atto IV (l’allegro finale «Chi ti salva o sciagurato»). Quali fossero le intenzioni di Verdi al tempo di Aida circa l’impiego della cabaletta, lo spiegano bene alcune sue lettere ad Antonio Ghislanzoni riguardanti il duetto Aida – Amneris.10 Il 17 agosto 1870: 9 Carteggio Verdi-Ricordi, a cura di P. Petrobelli, M. Di Gregorio Casati, C.M. Mossa, vol. I, 1880-1881, Parma, Istituto di Studi Verdiani, 1988, p. 70. 10 Sulla gestazione di Aida in rapporto all’impiego di cabalette, e piu ` in generale sulla struttura delle forme melodrammatiche nelle opere di Verdi, gia` si era espresso Ph. GOSSETT, Verdi, Ghislanzoni and «Aida». The Uses of Convention, «Critical Inquiry», I, 1974, pp. 291-334; per la struttura del finale del duetto Aida-Amneris nel II atto vedi in particolare pp. 321-324.

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Nel Duetto vi sono ottime cose in principio ed in fine, quantumque sia troppo disteso e lungo. Mi pare che il Rec.vo si poteva dire in minor numero di versi. Le strofe vanno bene fino ... a te in cor desto`? Ma quando in seguito l’azione si scalda mi pare che manchi la parola scenica. Non so s’io mi spiego dicendo, parola scenica; ma io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione [...].11 So bene ch’Ella mi dira` «E il verso, la rima, la strofa?...» Non so che dire ... ma io, quando l’azione lo domanda abbandonerei subito, ritmo; rima; strofa farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige.12 Pur troppo, per il teatro e` necessario qualche volta che Poeti e Compositori abbiano il talento di non fare, ne´ poesia, ne´ musica. Il duetto finisce con una delle solite cabalette, ed anche troppo lunga, per la situazione. Vedremo cosa si potra` fare in musica. In ogni modo, non mi par bello far dire ad Aida Questo amore che t’irrita Di scordare io tentero`,13 Procuri di mandarmi al piu` presto questo Duetto [...].14

«Pur troppo, per il teatro e` necessario qualche volta che Poeti e Compositori abbiano il talento di non fare, ne´ poesia, ne´ musica»: Verdi non poteva essere piu` eloquente. Il 22 agosto, sempre a Ghislanzoni, dopo che questi aveva sostituito alla cabaletta una forma strofica piu` breve: Ricevei ieri il finale, oggi il duetto che va bene, salvo il recitativo che, secondo me (mi scusi), si poteva dire ancora con minori parole; ma, ripeto, puo` star bene cosı` [...]. Non dubiti, io non aborro dalle cabalette, ma voglio che vi sia il soggetto ed il pretesto. Nel duetto del Ballo in maschera, c’era un pretesto magnifico. Dopo tutta quella scena bisognava, sto per dire, che l’amore scoppiasse [...].15

11 Sul concetto di parola scenica vedi F. DELLA SETA , «... non senza pazzia». Prospettive sul teatro musicale, Roma, Carocci, 2008, al cap. «Parola scenica’’ in Verdi e nella critica verdiana, pp. 214-226. 12 Concetti analoghi intorno alla parola scenica e alla liberta ` metrica Verdi aveva gia` espresso al tempo di Un ballo in maschera in una lettera del 6 novembre 1857 ad Antonio Somma avente per oggetto l’ensemble che segue la profezia della Strega (la futura Ulrica): «Tutto questo squarcio non e` abbastanza scenico; voi dite, e` vero, tutto quello che si deve dire, ma la parola non scolpisce bene, non e` evidente, e quindi non sorte abbastanza ne´ l’indifferenza di Gustavo, ne´ la sorpresa della Strega, ne´ il terrore dei congiurati. Come la scena qui ha vivacita` ed importanza, desidererei che fosse ben resa. Forse ve lo impedisce il metro e la rima? Se cosı` e`, fate di questo squarcio un recitativo. Preferisco un buon recitativo a delle strofe liriche mediocri» (A. PASCOLATO, «Re Lear» e «Un ballo in maschera». Lettere di Giuseppe Verdi ad Antonio Somma, Citta` di Castello, Lapi, 1902, p. 80). 13 Nella prima versione del finale di questo duetto (vedi piu ` avanti) il verso risulta cosı` modificato: «Nella tomba portero`». Un’ulteriore modifica sara` apportata nella versione definitiva: «Nella tomba spegnero`». 14 COPIALETTERE , p. 641. 15 Ivi, p. 642.

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Tra la fine di agosto e il principio di settembre del 1870, Ghislanzoni presente a S. Agata, Verdi definisce il duetto Aida – Amneris, non ancora nella versione che tuttora conosciamo: la sezione conclusiva, pur evitando la forma della cabaletta, conserva, come poi vedremo, un carattere di stretta finale. Il 20 (o 27) settembre Verdi, affrontando ormai l’atto III, ancora a Ghislanzoni: Molto bene questo terzo atto [...]. Vedo ch’ella ha paura di due cose; di alcuni, diro` cosı`, ardimenti scenici, e di non far cabalette! Io sono sempre d’opinione che le cabalette bisogna farle quando la situazione lo domanda. Quelle dei due duetti non sono domandate dalla situazione, e quella specialmente del duetto tra padre e figlia non parmi a suo posto. Aida in quello stato di spavento e di abbattimento morale non puo` ne´ deve cantare una cabaletta.16

«Quelle dei due duetti»: vale a dire il duetto Aida-Amonasro, cui Verdi accenna nella stessa lettera, e quello Aida-Amneris nell’atto II (non puo` trattarsi del duetto Aida-Radame`s, in quanto per questo brano appunto il compositore prevede una vera e propria cabaletta). Ora si osservi il finale del duetto Aida-Amneris. Esso inizia subito dopo il cantabile «Ah!... pieta` ti prenda del mio dolor» che conclude la prima parte della «Scena e Duetto». A questo punto dell’azione dovrebbe prevedersi, conforme allo schema tradizionale dell’aria «a due» (ovvero secondo la sequenza canonica pentapartita) una scena di mezzo che, capovolgendo o quanto meno modificando la situazione scenica determinatasi alla fine del cantabile, offra l’opportunita` di concludere il quadro con un allegro finale ovvero cabaletta. Ma ogni modificazione a una situazione di cosı` irriducibile antagonismo psicologico, quale quella creatasi dopo che le due principesse si sono scoperte rivali in amore, toglierebbe sostanza drammaturgica (e quale sostanza! ove si pensi con quanta arte sottile, perfettamente tradotta in termini musicali, Amneris ha saputo scandagliare il cuore di Aida e strapparle la rivelazione del nome dell’amato) a tutta l’azione fin qui sviluppatasi, e rischierebbe di alterare o quanto meno attenuare gli effetti di un conflitto sul quale si regge l’intera vicenda: dal punto di vista drammaturgico le posizioni dei due personaggi in scena sono ormai nettamente definite alla fine del cantabile e quindi immodificabili. Non v’e` scena di mezzo che possa giustificare un allegro finale se non procedendo con l’accentuare ulteriormente il contrasto psicologico fra Aida e Amneris. Una cabaletta vi starebbe pertanto fuori luogo. Ma se l’aspetto drammaturgico del duetto e` praticamente definito alla conclusione del cantabile – da un lato l’arroganza della figlia dei Faraoni, dall’altro lato l’abbatti16

Ivi, p. 645. Per la corretta datazione di questa lettera vedi Ph. GOSSETT, art. cit., p. 298.

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mento della schiava –, rimane tuttavia pur sempre aperto il problema della forma musicale: un allegro finale avrebbe in questo caso non solo il compito di equilibrare la struttura dell’intero brano scaricando la tensione accumulatasi nella scena d’attacco e nel cantabile, e cosı` definire la conclusione dell’intero quadro, ma anche quello di preparare psicologicamente la scena del trionfo di Radame`s che immediatamente segue. A questo punto Verdi ha una trovata di genio risolvendo il problema drammaturgico con mezzi puramente musicali. Apparentemente egli rinuncia alla scena di mezzo onde affrontare direttamente una stretta finale che consenta di accentuare il contrasto psicologico fra i due personaggi in scena. Ma la scena di mezzo in effetti c’e`, ed e` costituita dall’improvviso intervento della banda e del coro interni che annunciano il ritorno vittorioso di Radame`s alla testa del suo «esercito di prodi». La trovata consiste non tanto in questo tipo d’intervento (in se´ e per se´ esso non costituisce una novita` in assoluto: gia` Donizetti s’era servito di un intervento analogo, cioe` del suono di una banda interna, nel duetto Lucia-Enrico nell’atto II della Lucia di Lammermoor «Che fia? – Suonar di giubilo», quale scena di mezzo introduttiva della cabaletta), quanto nella sua applicazione, consistente in una struttura verticale che consente lo svolgimento sincronico di scena di mezzo e stretta. Oggi disponiamo della precedente versione di questo finale, gia` destinata all’esecuzione, che l’autore si affretto` a modificare e a sostituire in extremis, quando le prove dell’opera al Cairo erano ormai molto avanzate, inviando al direttore d’orchestra, Giovanni Bottesini, la versione definitiva, quella a tutti nota. Di tale modifica v’e` un primo accenno in una lettera del compositore all’editore Ricordi in data 2 dicembre 1871: Ho fatto un’altro cambiamento nella fine del Duetto Aida Amneris del Secondo Atto. E` presso a poco come era prima, ma i pochi cambiamenti fatti domandano una nuova copiatura. Abbiate dumque pazienza ancora, che´ questo restera`. Anzi vi prego di farlo copiare al piu` presto, e di mandarlo al Cairo onde farlo eseguire se e` possibile. Pare che la` andra` verso il 18.17 Fate dumque presto.18

Un accenno piu` circostanziato, che spiega le ragioni della modifica, e` contenuto in una lettera a Bottesini del 7 dicembre: 19 Ho fatto un cambiamento nella stretta del Duetto delle due donne del Secondo Atto. L’ho mandato da due o tre giorni fa` a Ricordi, che deve gia` averlo spedito al L’Aida andra` in scena al Cairo una settimana piu` tardi, esattamente il 24 dicembre. ABBIATI, III, p. 515. 19 E non 17 dicembre come pubblicato in COPIALETTERE, p. 677, e in se ´ guito da altri studiosi e biografi. 17 18

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Cairo. Appena arrivi, io ti prego caldamente di farlo ripassare alle due artiste, e di farlo eseguire. La stretta che vi era mi e` parsa sempre un po’ comune. Questa che ho rifatta non e` tale e finisce bene, se col ritornare al motivo della scena del 1.º Atto, la Pozzone 20 lo cantera` marciando a stento verso la scena.

La versione precedente questa stretta, della quale s’ignorava finora l’esistenza, si era resa disponibile nel 1971 grazie a una serie d’iniziative rivolte dal direttore dell’Istituto di studi verdiani, Mº Mario Medici, a celebrare il centenario di Aida con una pubblicazione a cura del sovrintendente di quel teatro, Saleh Abdoun,21 avente per oggetto i documenti conservati presso l’archivio del Teatro dell’Opera del Cairo, e fra essi quelle pagine della copia manoscritta della partitura servita a Bottesini per la prima rappresentazione che egli ritenne difformi rispetto alla versione definitiva, pagine corrispondenti appunto alla stretta del duetto Aida-Amneris. Iniziativa provvidenziale, quella del maestro Medici, poiche´ pochissimi giorni dopo che erano state effettuate le riproduzioni fotografiche del duetto il Teatro del Cairo ando` distrutto in un incendio e con esso il prezioso materiale archivistico ivi conservato, fra cui la ‘storica’ copia manoscritta della partitura, della quale Medici aveva insistentemente richiesto la riproduzione integrale.22 Sotto l’aspetto strettamente strutturale tale versione non differisce di molto dalla stesura definitiva, salvo l’aggiunta, assai significativa, in quest’ultima di una ‘coda’.«E` presso a poco come era prima», aveva avvertito Verdi all’editore; infatti gia` nella versione precedente, risalente alla fine dell’estate del 1870, la scena di mezzo viene a coincidere, o meglio a sovrapporsi, all’inizio della stretta: all’intervento interno della banda e del coro Amneris risponde dopo appena quattro misure. Ma nella prima versione banda e coro non funzionano come elemento portante dell’inizio della stretta, salvo assumere questa funzione solo a chiusura del brano (misure 39-43); di fatto Amneris procede con canto autonomo su un motivo di carattere marziale, accompagnato dal pizzicato degli archi, basato su un ritmo avente valore tematico:

Antonietta Pozzoni, la primadonna designata a sostenere la parte protagonista. Genesi dell’Aida, con documentazione inedita a cura di Saleh Abdoun, Parma, Istituto di studi verdiani, 1971 («Quaderni dell’Istituto di studi verdiani», 4). 22 Questa versione e ` stata per la prima volta da me illustrata il 26 aprile 1980 al Sixt International Verdi Congress tenutosi alla University of California, Irvine, School of Fine Arts (24-26 aprile 1980). Depositata presso l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani, tale versione e` consultabile nella riproduzione fotostatica pubblicata in «Studi Verdiani», n. 3, facs a pp. 60-68. 20 21

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e` infatti lo stesso ritmo sul quale sara` poi intonata la marcia trionfale:

Questo motivo, destinato a scomparire nella versione definitiva, prende avvio con una serie di note ribattute di uguale valore; si tratta di una figurazione significante che in Verdi spesso sottolinea la protervia del Persecutore od Oppositore; essa infatti riapparira` nella scena del trionfo, dopo il cantabile del concertato, per bocca di Ramfis:

Sulla sezione modulante che prepara la ripresa del tema d’attacco s’innesta il canto di Aida che, pur presentando un disegno agitato e tortuoso (misure 17-22), non cessa di destare l’impressione di una sua filiazione diretta dal motivo d’attacco di Amneris. Nel corso della ripresa le due voci si uniscono per dar luogo alla stretta vera e propria (misure 33-38); ad esse si aggiungono infine la banda e il coro interni, e il brano si conclude con un fortissimo sigillato dal tutti orchestrale. Come lo stesso autore aveva osservato a Bottesini, questa versione presenta un aspetto effettivamente «un po’ comune»: allo scopo di concludere la scena in crescendo onde non annullare il climax drammatico raggiunto nella prima parte del duetto, e preparare cosı` l’atmosfera ovvero la ‘tinta’ della scena del trionfo di Radame`s, viene accentuato il furore arrogante della figlia dei Faraoni. Ma il suo impeto incalzante finisce con il travolgere la personalita` di Aida, emarginandone la ‘posizione’, e rischia di alterare il rapporto di conflittualita` raggiunto alla fine del cantabile stingendone l’effetto: l’accasciamento della schiava passa in secondo piano rispetto al gesto vittorioso e prepotente di Amneris. Il dolore e la disperazione di Aida costituiscono un elemento troppo importante, in vista degli sviluppi che la vicenda avra` nel corso dell’atto III, perche´ possa essere travolto e quasi accantonato in favore di un finale musicale a tutti i costi. Nella revisione del brano Verdi rinuncia al carattere tematico del ritmo impresso al canto di Amneris e cambia procedimento al fine di ristabilire e semmai accentuare il contrasto di situazioni ottenuto alla fine della prima parte del duetto. Cogliendo lo spunto da una delle misure finali della prima versione, la` dove — 159 —

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banda e coro interni si uniscono alle voci delle due rivali (misura 40: «Non echeggi»), Verdi conferisce all’irruzione iniziale della banda e del coro il ruolo di struttura portante sulla quale imbastire l’entrata di Amneris, un’entrata non piu` basata su un motivo autonomo, passibile di sviluppo, bensı` avente carattere di controcanto, immediato riflesso dell’inno di guerra intonato dal coro interno; il tutto contenuto nell’arco di otto misure. A questo punto, pur lasciando immutato il testo poetico (fatta eccezione per una lieve modifica nell’ultimo verso della sestina di Aida: «Nella tomba io portero`», trasformato in un piu` desolante «Nella tomba spegnero`»), Verdi cambia itinerario: con repentino trapasso da La bem. maggiore a La bem. minore (la stessa tonalita` incontrata nella romanza di Aida nell’atto I «I sacri nomi di padre... d’amante») innesta subito il canto della schiava, «Poco piu` vivo», su una melodia dal profilo mobilissimo, tormentato da modulazioni armoniche estremamente ravvicinate (fin otto armonie diverse nel corso di una stessa misura). Pagina interamente nuova, rapinante, di grande efficacia, contenuta in sole sei misure che in un certo senso costituiscono la sezione modulante che conduce alla ripresa. Si tratta pero`, questa volta, di una ripresa variata: «Vien... mi segui... e apprenderai». Le voci delle due donne si uniscono nella stretta finale in un crescendo incalzante sostenuto dall’orchestra, cui si aggiungono banda e coro interni. Una rapida scala ascendente dell’orchestra si arresta improvvisamente su un accordo di settima di secondo grado in primo rivolto con la quinta abbassata, creando come un vuoto nel quale risuona isolata, ma con accento perentorio, ultimativo, a mo’ di parola scenica, la voce di Amneris: «E apprenderai se lottar tu puoi con me». Il carattere indomito della giovane principessa egizia emerge con vigore ben maggiore e, se vogliamo, anche con un tono piu` regale, che non nella precedente versione. Banda e coro interni sembrano sigillare la conclusione dell’intera Scena e Duetto con l’uscita di scena da parte di Amneris. Ma si tratta di una falsa conclusione. Verdi non poteva permettere che andasse dispersa l’impressione di grande accasciamento morale di cui e` preda la principessa etiope. Sull’ultimo accordo improvvisamente si eleva, accompagnato dai soli archi, il canto dolente di Aida «Numi, pieta` del mio martir», motivo ripreso dalla chiusa della romanza del primo atto. La supplica si spegne lentamente, quasi in un soffio, mentre Aida, come da didascalia, «s’incammina verso la scena ... a stento ... sull’ultima nota ... sara` scomparsa». In luogo di una conclusione in fortissimo, scandita dal tutti orchestrale, una conclusione in pianissimo, ridotta a un sospiro, cosı` come l’opera era incominciata, cosı` come l’opera alla fine terminera`. Nella prima versione la stretta constava di cinquanta misure. Nella versione definitiva le misure sono in tutto quarantanove; solo una di meno... ma con quale maggiore varieta` di accenti e ricchezza di effetti, e con quale — 160 —

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fluidita` di pensiero musicale sempre al servizio della logica drammatica, non e` necessario di sottolineare ulteriormente. Un miracolo di concisione direttamente proporzionale all’efficacia musicale e drammatica raggiunta. Uscendo dal comune e senza tuttavia mai rinunciare, nemmeno per un istante, alla ragione drammatica da un lato e a fare musica dall’altro, Verdi e` cosı` pervenuto a risolvere, con perfetto equilibrio di forma e di contenuto, il problema della stretta di un duetto che dopo il risultato raggiunto nella prima parte non sembrava offrire possibilita` di sviluppi al di fuori di una chiassosa conclusione conforme gli schemi convenzionali del codice melodrammatico. Il risultato complessivo, ottenuto con mezzi puramente musicali, colpisce per la sua novita`. Ne fu a suo tempo colpito anche Amilcare Ponchielli alle prese con il duetto Enzo – Barnaba della Gioconda, che il 27 gennaio 1876 cosı` si rivolgeva a Giulio Ricordi: Io sto alle ultime battute del Duetto fra Enzo e Barnaba. Tornai ancora ai versi biliosi: Va furibondo mostro colmo di sangue e fiel facendo un’altra cabaletta che ancora non mi soddisfa, e quanto Le devo dire l’animo mio sto quasi per far subire a questo pezzo la cremazione rifacendolo di pianta. [...] Io avrei voluto poter evitare la Cabaletta, e che il Duetto complessivamente fosse piu` corto. Finire il pezzo con una trovata come seppe pescare Verdi sulla fine del Duetto a due donne nell’Aida, che, per rimediare alla poco felice idea della Cabaletta, fa sentire il Coro interno e torna alla frase simpatica: Numi pieta`! facendo partire prima Amneris senza la consueta comune. Certamente qui ci voleva un’altra cosa...23

Ponchielli – operista non insensibile alle ragioni drammatiche, come prova questa lettera – vedeva certamente chiaro. Il fatto e` che certe trovate non sono i librettisti a doverle ‘pescare’ (ancorche´ provvisti di cognizioni musicali, come nella fattispecie Tobia Gorrio alias Arrigo Boito). Esse competono al lavoro creativo del compositore in grado di dominare tutta la materia drammatica attraverso gli strumenti del linguaggio musicale, guidando quindi e determinando il lavoro del librettista. Dal confronto tra le due versioni del finale del duetto Aida – Amneris si ricava ulteriore conferma della genialita` di Verdi come drammaturgo, sı`, ma tale in quanto sostenuta dalla grandezza del musicista, consapevole della facolta` del linguaggio dei suoni di tradursi in linguaggio drammatico senza mai cessare di essere musica e con «la mano abbastanza forte a piegare la nota» 24 all’effetto desiderato. 23 G. CESARI , Amilcare Ponchielli nell’arte del suo tempo. (ricordi e carteggi), Cremona, VI (1974), p. 372. 24 COPIALETTERE , p. 616.

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OTTAVA

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E` stato piu` volte sottolineato dagli studiosi come non vi sia nell’Aida una sola nota che derivi direttamente da musica egiziana o araba o comunque ‘orientale’. La tinta esotica – quel particolare colore che investe la partitura, volto a definire un ambiente lontanissimo nel tempo – e` tutta farina del sacco di Verdi. A questa tinta il compositore perviene con mezzi musicali che si rivelano di una semplicita` disarmante: timbri strumentali quali l’oboe (in particolare nel terzo atto, come poi si vedra`), l’arpa, il registro grave del flauto, i violini a punta d’arco, melodie con il secondo grado abbassato e il quarto grado aumentato, impiego di accordi vuoti, oscillazioni fra minore e maggiore, il ricorso alla salmodia chiesastica... La famosa metafora di Bruno Barilli «Verdi puo` rivedere tutto un Oriente nell’interno di un frutto nostrano come il cocomero»,1 condensa bene la testimonianza di uno strumentista parmigiano, il gia` citato Stefano Sivelli,2 presente nell’orchestra del Cairo alla prima rappresentazione di Aida, che riconobbe nel canto interno delle sacerdotesse all’inizio del 3º atto quello di un venditore di pere cotte della sua citta`.3 Commenta Massimo Mila a tale proposito: «L’episodio [...], vero o inventato che sia, dice bene quali siano la forza e l’originalita` dell’esotismo verdiano».4 La cosiddetta tinta esotica che contraddistingue la partitura di Aida costituisce tuttavia un aspetto assai piu` complesso di quanto non appaia a un primo esame. Gia` la parola stessa, tinta, la ritengo impropria in quanto rimanda alla superficie e non alla sostanza del tessuto musicale, rinvia cioe` a una sorta di involucro decorativo che avvolge la sonorita` di alcune particolari situazioni del dramma per conferire colore locale, laddove invece essa tinta funge non da 1

B. BARILLI, Il paese del melodramma, a cura di L. Viola e L. Avellini, Torino, Einaudi, 1985,

p. 20. 2 3 4

Vedi in questo volume la Quinta ricognizione, Ballabili nei «Vespri siciliani». V. MARCHI, Un’invocazione dell’ ‘‘Aida’’, «Aurea Parma», aprile-giugno 1960, pp. 100-104. MILA 1958, p. 85, n. 1.

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vernice esteriore, bensı` da elemento strutturale che investe il tessuto musicale da un capo all’altro del dramma, contribuendo in modo determinante a definirne la grana musicale. Intendo per grana musicale la fitta rete delle sonorita` che compongono il tessuto musicale, per cui si costituiscono diversi assembramenti o diradamenti sonori che contribuiscono a definire il paesaggio sonoro. Lo ha gia` sottolineato Fabrizio Della Seta in un suo illuminante contributo sul «pluristilismo» di Aida; egli considera infatti l’aspetto esotico «non come fatto di gusto o di colore ma come elemento stilistico che diviene significativo in quanto opposto a tutto cio` che esotico non e`»,5 inoltre sottolineando come in Aida «sul piano dell’invenzione musicale [...] il fattore linguistico decisivo e` la creazione, non di una, ma di due distinte tinte esotiche collegate a due campi semantici» diversi: quello proprio all’ambiente egizio, ovvero al ‘‘qui ed ora’’, e ‘‘l’immagine di un altrove fantastico’’. In estrema sintesi: l’ambito della realta` e quello del sogno, in contrasto fra loro. Infatti, in questo paesaggio sonoro i due diversi livelli linguistici si pongono, a parer mio, in antitesi fra loro: l’uno esterno, legato all’ambiente egizio e particolarmente alle scene cerimoniali, e l’altro interno, in quanto proiezione dei sentimenti espressi dal personaggio di Aida, dominati dalla nostalgia della patria lontana con i suoi cieli azzurri e le sue foreste imbalsamate. Si potrebbe affermare che il primo livello, il colorito egizio, si integra in qualche misura con quanto «esotico non e`» tramite il ricorso alla salmodia chiesastica, laddove il secondo livello esprime un netto distacco che non ammette assimilazione, salvo trasfigurarsi e lentamente ‘evaporare’ alla fine del dramma, attraverso un’interminabile dissolvenza, in cui la cantilena del tempio e il lamento funebre di Amneris alla fine si fondono con il canto estremo dei due amanti per perdersi nell’infinito, cosı` come dall’infinito sembravano provenire le prime note del preludio da cui la vicenda drammatica aveva preso le mosse. Il secondo livello si manifesta improvvisamente nel silenzio notturno attraverso l’intervento di un oboe il cui suono introduce la romanza «Cieli azzurri». Il suo timbro pastorale associato al carattere dichiaratamente esotizzante del motivo melodico assume una funzione segnaletica evidente, da vero e proprio ‘richiamo della foresta’, in opposizione agli «ardori inospiti» della terra egizia: un richiamo che penetra attraverso il timbro dell’oboe all’interno della romanza di Aida per dialogare con il suo canto. Della Seta intravvede una parentela, dovuta ad ‘‘analogia fisionomica’’, tra il motivo dell’oboe (quello che 5 F. DELLA SETA , ‘‘O cieli azzurri’’. Pluristilismo e discorso drammatico, in VERDI , Aida, Fondazione Teatro La Fenice di Venezia (programma di sala, 4 dicembre 1998), pp. 79-92: 80.

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ho teste´ definito ‘richiamo della foresta’) e «tutta una serie di figure associate alla sfera sacerdotale, e indirettamente ad Amneris»,6 contrassegnate da un movimento ‘serpentino’ in terzine, che implicherebbero una sorta di integrazione, se non una vera e propria osmosi, fra le due tinte esotiche. A mio parere il fattore determinante non e` tanto la configurazione ritmica espressa dalla scrittura musicale in se´, quanto piuttosto il timbro nella sua fisicita` sonora attraverso la quale esso si manifesta all’interno del paesaggio musicale. Il timbro cosı` inteso si esplica in uno spazio teatrale producendo – insieme allo svolgersi bidimensionale della musica – una terza dimensione che caratterizza, dal punto di vista della fisica acustica,7 lo spessore del paesaggio musicale. In tal modo il timbro solitario dell’oboe funge da epicentro sonoro, per cui tutte le attenzioni auditive vengono coinvolte e assorbite. E pertanto esso fuoriesce da aspetti di tipo fisionomico per assumere il valore di elemento sonoro di diffusione intorno al quale la musica stessa costruisce il suo percorso. In quanto alla romanza «Cieli azzurri», s’e` gia` osservato come essa risponda a una ben precisa funzione drammaturgica, volta a evidenziare quell’anelito di liberta` espresso da Aida attraverso il ricordo – evocato dal timbro dell’oboe – della propria patria. E non casuale appare il ritorno del timbro solitario dell’oboe, su una melodia nuova e assai piu` sinuosa e ancor piu` ‘orientaleggiante’ della precedente, nel momento in cui Aida, nel tentativo di indurre Radame`s alla fuga, evoca a sua volta il profumo delle «foreste vergini» della patria lontana. Verdi stesso lo aveva precisato a Ghislanzoni nel suggerirgli il testo delle due quartine di endecasillabi: «Non rivedro` le nostre fresche foreste, i verdi / prati ed il nostro ciel limpido e azzurro [...]. Sono idee che si ripetono piu` tardi, ma a me non spiacerebbe questa ripetizione».8 Mi preme peraltro osservare che il carattere esotizzante espresso dalla melodia solitaria dell’oboe si pone in una doppia prospettiva; vale a dire che esso risuona esotico – ovvero non egizio – non tanto alle orecchie dell’ascoltatore, quanto piuttosto a quelle stesse di Radame`s. L’altro livello, quello piu` propriamente legato all’ambiente egizio, si distende sull’intera partitura, impregnando di se´ situazioni e personaggi, ma si addensa soprattutto nelle scene cerimoniali che sono al tempo stesso cornice e sostanza della vicenda drammatica. Nulla e` superfluo in Aida. La «danza di piccoli schiavi mori», ad esempio, riveste una funzione solo apparentemenIvi, p. 84. Sul timbro inteso come «il risultato dell’accumulazione degli altri parametri del suono» vedi T. CAMELLINI, La voce racconta se stessa, in Prove e saggi sui saperi musicali, Pisa, Edizioni ETS, 2003, pp. 15-68: 19 sgg. 8 Lettera del 5 agosto 1871, in COPIALETTERE , p. 675. 6 7

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te ludica e decorativa: collocata alla soglia dello scontro fra Amneris e Aida, essa svolge in realta` una funzione ‘alienante’, volta a sottolineare il grado di subalternita` e di prostrazione della «schiava etiope» di fronte alla «possente rivale». Ma dove ancor piu` determinante si rivela il ricorso alla tinta egizia in funzione ‘alienante’ e` in tutte quelle situazioni segnate dalla presenza dei sacerdoti ovvero preti, come sbrigativamente li chiama lo stesso Verdi,9 e dei loro riti. Una tinta ovvero un linguaggio che si configura in un terzo livello stilistico, quello sacerdotale, espresso attraverso l’artificio del fugato (che immediatamente rinvia alla musica sacra occidentale), ma soprattutto attraverso la salmodia chiesastica, che a sua volta riceve un’impronta ‘‘egizia’’ dall’alternarsi del canto ‘orientaleggiante’ delle sacerdotesse. Aveva ben scritto Verdi a Ghislanzoni: «Non abbia paura delle antifone religiose».10 Ora e` curioso constatare (e si tratta di constatazione gia` avanzata in passato, in particolare da Gino Roncaglia 11) come la melodia del canto interno dei sacerdoti ad apertura del terzo atto, «O tu che sei d’Osiride»:

sia pressoche´ analoga a quella dell’«Hostias» della Messa da Requiem:

Non so se Verdi fosse consapevole di tale analogia. Forse lo fu allorche´ sottopose a parodia questa stessa melodia nella giaculatoria che viene intonata nell’ultimo quadro del Falstaff, «Domine fallo casto!», analogia non sfuggita ad alcuni studiosi: 12

9 «I preti non sono abbastanza preti» scriveva a Ghislanzoni a proposito della scena della consacrazione (lettera del 14 agosto 1870, in COPIALETTERE, p. 639). 10 Lettera del 13 settembre 1870, in ABBIATI , III, p. 388. 11 G. RONCAGLIA , L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, Firenze, Sansoni, 1952, p. 323. 12 In particolare a Virginio Marchi, cit., p. 103.

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Un’ultima riflessione riguarda la presenza incombente della casta sacerdotale, una presenza che si traduce nell’espressione di un potere assoluto che domina tutta la vicenda da cima a fondo, sin dal primo alzarsi di sipario, allorche´ il capo dei sacerdoti comunica a Radame`s l’appressarsi della guerra contro gli Etiopi e la nomina in pectore del comandante supremo dell’esercito egizio, fino al suo rinchiudersi sulla visione del tempio che sovrasta la tomba dei due amanti. Il «nume custode e vindice», arbitro assoluto dei destini umani, parla e agisce attraverso la figura onnipresente di Ramfis. E` lui che nomina «delle Egizie falangi il condottier supremo»; e` lui che lo consacra nel tempio; e` lui che lo processa e lo condanna a morte. Ed e` ancora lui che alla fin fine emerge come vero vincitore durante la trionfale parata del 2º atto opponendosi alla richiesta di liberta` per i prigionieri e ottenendo in cambio di trattenere in ostaggio almeno Aida e suo padre. Il Re regna, ma non governa; volendo fare una boutade si potrebbe affermare che la sua principale cura sia quella di assicurare un marito alla propria figlia; per il resto ‘cede al consiglio’ del gran sacerdote, vero detentore di un potere, quello spirituale, che si estende dal pubblico al privato: e` infatti ancora lui, Ramfis, ad accompagnare la promessa sposa, Amneris, al tempio dove pregare, restandole a fianco «fino all’alba». Raffigurazione del re-mago delle societa` primitive, Ramfis, in quanto detentore del potere e suscitatore di superstizione, rappresenta l’istituzione che detta le leggi sulle quali si regge l’intera societa`: governo, proprieta`, matrimonio; egli e` insomma «il fulcro su cui poggia la bilancia del mondo».13 Per Verdi il fato rientra nella sfera del sacro. Uno dei temi dominanti del suo teatro e` rappresentato dai conflitti scatenati dall’infrazione alla legge del fato identificata nell’inesorabile padre-padrone, custode della legge morale, dell’onore, delle tradizioni familiari e sociali, il garante della famiglia, della societa`, dello stato, detentore di un potere spirituale che si pone al di sopra dei destini umani. Nello scontro con il ‘grande Vecchio’ e` sempre il giovane eroe a soccombere, inesorabilmente. La figura ‘sacro-infera’ del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart puo` essere assunta come un condensato della funzione attanziale svolta nel teatro verdiano dal personaggio che si configura come rappresentante della legge morale e giudice delle azioni umane. 13

J.G. FRAZER, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino, Boringhieri, 1965, p. 265.

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Raffigurato di volta in volta, con una propria connotazione musicale, in personaggi quali Ruiz de Silva, in papa Leone, in Moser, in Monterone, in Fiesco, nel Grande Inquisitore, esso trova in Ramfis e nella casta dei sacerdoti, attraverso il loro canto salmodiante, la sua ultima incarnazione, prima della sua piu` completa definizione nel ‘‘Rex tremendæ majestatis’’ della Messa da Requiem.

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LE AVE MARIA DI VERDI SU SCALA ENIGMATICA DALLA PRIMA ALLA SECONDA STESURA (1889-1897)

Una serie di indagini svolte intorno ai rapporti di amicizia e di collaborazione artistica fra Verdi e Boito allo scopo di raccogliere e vagliare il materiale di corredo da utilizzare nelle annotazioni all’edizione del carteggio Verdi–Boito, curata dallo scrivente insieme a Mario Medici e pubblicata dall’Istituto di studi verdiani,1 mi ha condotto all’occasionale e inaspettata scoperta della prima stesura delle Ave Maria su ‘‘scala enigmatica’’ armonizzata per quattro voci miste, il primo dei quattro Pezzi sacri di Verdi. A pormi sulle tracce di questa stesura e` stata la lettura di una corrispondenza da Parma, intitolata La Scala-Rebus e le Ave Maria di G. Verdi e datata «29 giugno 1895», a firma M[ichele] C[arlo] Caputo (a quel tempo direttore della biblioteca del Conservatorio parmense), pubblicata nella «Gazzetta Musicale di Milano» del 7 luglio 1895; 2 in essa viene data notizia dell’esecuzione delle Ave Maria composte da Verdi su una «scala-rebus» pubblicata dallo stesso periodico qualche anno avanti, esecuzione avvenuta il giorno prima, cioe` il 28 giugno 1895, sotto la direzione di Giuseppe Gallignani nella sala «Verdi» del Conservatorio di Parma «dinanzi a un ristretto numero di cultori dell’arte». Dopo un sunto della conferenza che lo stesso Gallignani, allora direttore di quel Conservatorio, aveva fatto precedere all’esecuzione, l’articolo di Caputo riproduce le prime otto misure della «Sancta Maria» della seconda Ave Maria. Nell’esaminarle m’accorsi che il movimento delle parti quale risulta in queste otto misure presenta alcune differenze rispetto alla versione che ci e` comunemente nota, come si puo` appurare attraverso un immediato confron1 Carteggio Verdi-Boito, a cura di M. Medici e M. Conati, con la collaborazione di M. Casati Di Gregorio, Parma, Istituto di studi verdiani, 1978; nuova edizione interamente rifatta, a cura di M. Conati, in corso di stampa (cito da questa riedizione, rinviando al numero del documento). 2 Anno L, n. 27, p. 453 sgg.; il testo di Caputo e ` qui riprodotto alla nota 18.

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to con l’edizione a stampa dei Pezzi sacri.3 Il sospetto che non potesse trattarsi di una trascrizione infedele da parte del corrispondente parmense, bensı` di una diversa e finora sconosciuta versione, anteriore alla definitiva pubblicata da Ricordi, trovava conferma da una visita compiuta alla sezione musicale della Biblioteca Palatina presso il Conservatorio di Parma, dove, grazie alla cortese collaborazione del direttore, Marcello Pavarani, mi e` stato possibile rintracciare questa diversa versione nella sua integrita`. Si tratta di una copia manoscritta della partitura (vedine il facsimile in appendice), quasi certamente quella servita per l’esecuzione promossa da Gallignani, regolarmente registrata nel catalogo pubblico della biblioteca con la segnatura AB.I.4, cui sono unite le parti staccate (numeri d’ingresso: 13172-13184). In base al numero di queste parti (tre per ogni voce) e` facile risalire al numero dei cantori che parteciparono a quell’esecuzione, cioe` dodici, come d’altronde conferma una notizia della «Gazzetta di Parma» del 29 giugno 1895 (qui riprodotta alla nota 18). Dalle notizie d’archivio fornitemi da Pavarani si apprende inoltre che tutto il materiale, di mano di un copista di nome Manghi, entro` in carico alla biblioteca l’8 maggio 1895, quasi due mesi prima, dunque, dell’esecuzione. Il ritrovamento di questa primitiva versione delle Ave Maria su scala enigmatica va pertanto messo in relazione con una richiesta contenuta in una lettera di Verdi a Gallignani del gennaio 1895.4 Ma prima sara` bene riepilogare la storia esterna di questa composizione verdiana in base ai documenti disponibili. 1889 Nel n. 32 del 5 agosto 1888, a p. 292, la «Gazzetta Musicale di Milano», allora diretta da Giulio Ricordi, pubblicava il seguente trafiletto sotto il titolo Curiosita`... armoniche: Da Bologna ci viene comunicata la seguente SCALA... che armonizzata a dovere, dice l’inventore, non manca di effetto. Lasciamo ai musicisti, dilettanti di ricerche armoniche, la cura di tale operazione.

3 4

Ricordi, n. ed. 101279, Cop. 1898. Pubblicata in COPIALETTERE, p. 411 sgg.

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LE AVE MARIA DI VERDI SU SCALA ENIGMATICA

Nel numero successivo (12 agosto 1888, a p. 299) il settimanale di Ricordi faceva seguire un altro trafiletto sotto il titolo A proposito della Scala... Rebus: Ci sono pervenute alcune armonizzazioni della scala che pubblicammo nel numero passato sotto il titolo di Curiosita` armoniche. Anche l’inventore di detta scala, che e` un egregio musicista di Bologna, ci ha favorito la sua. Nel numero prossimo le offriremo tutte ai nostri lettori e siamo certi che la cosa non manchera` di interesse.

La «Gazzetta Musicale» ritardera` tuttavia di una settimana la pubblicazione delle armonizzazioni pervenute; queste appaiono infatti nel numero del 26 agosto 1888, p. 318 sgg., sotto il titolo La Scala-Rebus e precedute da un preambolo: Le armonizzazioni di questa scala che ci sono pervenute, delle quali ne pubblichiamo in buon numero, hanno servito, se non altro, a dare una idea assai consolante del come in Italia venga coltivata l’armonia. Ci siamo astenuti dal pubblicare quelle che, pur commendevolissime, perdevano il loro principale carattere, avendo i loro autori alterato in qualche parte il procedimento della scala proposta; inoltre, per quelle che vedonsi esposte qui sotto, noi lasciamo interamente responsabili gli egregi musicisti che ce le hanno inviate in quanto riguarda alla perfezione di esse, nonche´ la maggiore o minore purezza di certi movimenti di parti. L’ultima scala [cfr. qui di se´guito] e` quella dello stesso inventore, e naturalmente la piu` omogenea, senza per questo disconoscere i pregi contenuti nelle altre.

«Inventore» della scala era dunque «Crescentini», da identificarsi certamente in Adolfo Crescentini (Bologna 1854 – ivi 1921): gia` allievo di Stefano

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Golinelli (pianoforte) e Alessandro Busi (composizione), aveva trascorso alcuni anni di tirocinio a Parigi; nel 1884 aveva vinto con un Trio per pianoforte, violino e violoncello un concorso indetto dalla Societa` del Quartetto di Bologna; considerato gia` a quel tempo valente pianista, nel 1890 verra` nominato professore al Liceo musicale di Bologna e nel 1894 vicepresidente dell’Accademia Filarmonica. Degli altri autori delle armonizzazioni della scala-rebus i soli nomi che ci sono oggi ancora noti sono, oltre a Crescentini, quelli di Giuseppe Cerquetelli (Cingoli 1848 – Terni 1931) e di Vittorio Norsa (Mantova 1859 – Milano 1933).5 Comunque, in tutti gli esempi pubblicati dalla «Gazzetta Musicale» la scala viene sempre affidata al Basso e le armonizzazioni, tranne quella proposta da Aldo Forlı`, procedono per semplici accordi. Ma oltre un mese dopo, nel n. 41 del 7 ottobre 1888 a p. 371, la «Gazzetta» ricordiana pubblicava un’altra armonizzazione, di tale Ottorino Varsi, in cui la scala, trasportata da Do a Fa, non e` piu` affidata al Basso bensı` al Tenore, ed e` inoltre armonizzata in stile contrappuntistico: Echi della Scala-Rebus Giunsero alla Direzione molte altre armonizzazioni di detta scala, ma quasi tutte avevano alterato in qualche piccola cosa il testo originale, percio` pubblichiamo soltanto la seguente, perche´, mantenendo l’integrita` della scala proposta, viene anche presentata sotto un nuovo aspetto, non meno interessante [vedi pagina seguente].

Fu forse proprio questo «Contrappunto a quattro parti reali» di Ottorino Varsi a stimolare l’impegno ‘agonistico’ di Verdi? E` lecito supporre che il compositore ricevesse di consueto la «Gazzetta Musicale di Milano», periodico ufficiale della casa editrice delle sue opere (d’altronde molte sue lettere a Ricordi confermano tale supposizione): non sarebbero dovute quindi sfuggirgli la pubblicazione della scala-rebus e quelle delle relative armonizzazioni. Tuttavia bisogna attendere alcuni mesi per rintracciare la prima prova documentata del suo interesse per quella scala, e cioe` il 6 marzo 1889 allorche´, rientrato a Genova da un viaggio a Milano, il compositore cosı` si rivolgeva a Boito: Partendo da Milano gettai sul fuoco alcune carte, fra le quali anche quella tale sgraziata Scala. tengo la prima parte di questa Scala, ma della seconda, fatta lı` per

5 Notizie sulla loro attivita ` si leggono in A. DE ANGELIS, L’Italia musicale di oggi. Dizionario dei musicisti, Roma, Ausonia, 1918, e in C. SCHMIDL, Dizionario universale dei musicisti, Milano, Sonzogno, 1926-1938. Gli altri autori sono Augusto Ferrari, Aldo Forlı`, Ciriache Celestino (sic), Luigi Pucci.

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lı`, ho dimenticato le modulazioni e la disposizion[e] delle parti specialmente di queste tre note:

Se Voi non l’avete abbrucciata mandatemi gli accordi del la # e del sol #. Direte che non val la pena di occuparsi di queste inezie, ed avete ben ragione. Ma che volete! Quando si e` vecchi si diventa ragazzi, dicono; Queste inezie mi ricordano i miei diciotto anni quando il mio Maestro si divertiva a rompermi il cervello con bassi consimili. E piu` credo che di questa Scala si potrebbe fare un pezzo con parole per es: Un Ave Maria aggiungendo pero` alla quarta del Tono al Tenore od al Soprano la stessa Scala con modulazioni e disposizioni differenti. Sarebbe pero` difficile ritornare al Tono principale con naturalezza. Un’altra Ave Maria! Sarebbe la quarta! Potrei cosı` sperare d’essere dopo la mia morte, beatificato. [...] [CARTEGGIO VERDI-BOITO, n. 127].

Estremamente difficile avanzare delle congetture su come Verdi principio` a interessarsi alla scala-rebus; si puo` al massimo avanzare l’ipotesi che fosse stato lo stesso Boito – di cui e` nota la predilezione per i rompicapi e per gli enigmi – ad attirare l’attenzione del compositore nel corso delle periodiche visite effettuate da questi a Milano. Difficile anche stabilire con esattezza le date dei soggiorni di Verdi a Milano durante l’inverno 1888-1889 per poter individuare l’epoca in cui egli s’interesso` dell’‘enigma’ proposto da Cre— 174 —

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scentini.6 Sta di fatto che e` solo a distanza di alcuni mesi dalla pubblicazione avvenuta sulla «Gazzetta» ricordiana che Verdi s’interessa alla scala-rebus di Crescentini. Un suo primo tentativo di armonizzazione era avvenuto a Milano (e` quanto si puo` arguire dalla lettera qui sopra riportata), forse alla presenza dello stesso Boito in veste di istigatore. Questi, a sua volta, cosı` rispondeva a Verdi il 7 marzo 1889 (la lettera reca solo l’indicazione «Milano, Giovedı`»: la data e` ricavata dal timbro postale): Ho fatto bene a copiare quelle due paginette della scala sconquassata, sulla quale Lei s’e` aggirato su` e giu` con tanta facilita`. Ogni difficolta` vinta senza sforzo e` una grazia. In quei contrappunti che cantano c’e` una vaghezza mesta che fa venire in mente la preghiera della sera. – Venga questa quarta Ave Maria. Non lo diro` a nessuno, si fidi. Molte Ave Marie ci vogliono perche´ Lei possa farsi perdonare da S.S. il Credo di Jago. – Sabato sera voglio andare a sentire l’Otello. Gliene daro` le notizie. Suonate al cembalo quelle due paginette mi piacciono ancora di piu` di quando le pensavo coll’orecchio della memoria. [...] [CARTEGGIO VERDI-BOITO , ivi].

Nella quiete di palazzo Doria il compositore ritornava sull’armonizzazione abbozzata durante il breve soggiorno milanese e ne ricavava quella che ora sappiamo essere, con ogni probabilita`, la prima stesura delle Ave Maria su scala enigmatica. Gia` l’11 marzo Verdi informava Boito: [...] Nella patria di Shaspeare ci rimprovereranno di aver omesso il Primo atto [dell’Otello, che stava per andare in scena a Londra per la prima volta]: ma non faranno a Voi appunti pel Credo di Jago. Ed a proposito: Siete Voi, Voi principale colpevole, che dovete farvi perdonare quel Credo! Ora voi non potete far a meno di metter in musica un Credo cattolico a quattro parti alla Palestrina; [...] In quanto a me spero d’aver aggiustate bene le cose mie con S.S. Le Ave Maria sono diventate cinque in vece di quattro!!

6 La presenza del compositore nella capitale lombarda e ` segnalata dalla «Gazzetta Musicale di Milano» del 9 dicembre 1888 (nella rubrica Alla rinfusa, p. 444) relativamente al periodo che va dalla fine di novembre ai primi di dicembre. Di un suo secondo viaggio a Milano a meta` dicembre siamo informati da una sua lettera a Giulio Ricordi del 12 dello stesso mese. Entrambi i viaggi sono da porsi in relazione con l’acquisto del terreno sul quale verra` poi costruita la Casa di Riposo per Musicisti. E` molto improbabile che l’accenno iniziale della lettera a Boito sopra citata («Partendo da Milano») sia da riferirsi a una data ormai lontana come il dicembre 1888, tenendo presente che in due sue lettere a Boito del 17 e del 21 febbraio 1889 [cfr. Carteggio Verdi-Boito cit., pp. 135-138], precedenti dunque quella del 6 marzo, non appare alcun riferimento alla scala-rebus. E` quindi lecito ritenere che l’accenno alla partenza da Milano di riferisca a un viaggio molto recente e di breve durata, da porsi a sua volta in relazione con la ‘ripresa’ di Otello alla Scala, le cui repliche erano state sospese dopo la prima rappresentazione, avvenuta il 19 febbraio, causa un’indisposizione del tenore Oxilia (si sarebbero riprese a partire dal 9 marzo).

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E come? Quella tal Scala non bastava per tutta la Preghiera; e cosı` credetti di aggiungere al Soprano la stessa Scala alla Quarta del Tono... ma impossibile dopo (e par tanto facile) tornare al Tono Principale con garbo e naturalezza. Allora ho aggiunto un’altra Scala al Contralto in do; ed un’altra al Tenore in fa`: e cosı` ho fatto le due Ave Maria. Strano che con quella sgangherata Scala riescano buone le modulazioni, e buona la distribuzione di parti!! [Carteggio Verdi-Boito, n. 127].

Potrebbe sembrare pedantesco aggiungere ulteriori chiarimenti alla spiegazione fornita da Verdi in questa lettera, almeno per quanti conoscono la composizione in questione nella stesura definitiva. Nondimeno ritengo non del tutto inutile tentare di riepilogare brevemente le fasi del processo compositivo verdiano: 1) In un primo momento, a Milano, interessatosi alla scala-rebus di Crescentini, si limita ad armonizzarla al Basso, ma gia` in stile contrappuntistico (come si puo` dedurre dalla lettera di Boito del 7 marzo). 2) Ritornato a Genova, il compositore medita di vincolare l’armonizzazione a un testo, evidentemente per dare un rilievo piu` pronunciato e al tempo stesso piu` naturale, quindi cantabile, al movimento delle parti; e pensa al testo dell’Ave Maria (ed e` quanto si apprende dalla sua lettera a Boito del 6 marzo). 3) Dopo aver armonizzato la scala al Basso, rendendosi conto che l’armonizzazione non basta per tutto il testo, ma solo per la prima parte della preghiera (cioe` fino alle parole «et benedictus fructus ventris tui Jesus»), per completare il testo risolve di replicare la scala, ma questa volta alla quarta del tono, affidandola al Tenore o al Soprano (vedi ancora la lettera del 6 marzo): in realta` solo al Soprano, come si deduce dalla sua lettera a Boito dell’11 marzo. 4) A questo punto, avvedendosi che e` «impossibile [...] tornare al Tono Principale con garbo e naturalezza», il compositore risolve di utilizzare una seconda volta il testo latino della preghiera. Pertanto armonizza un’altra volta la scala in Do, affidandola pero` al Contralto e concludendo cosı` una prima volta il testo della preghiera iniziato con la scala al Basso. Replica quindi la preghiera alla quarta del tono, affidando la scala al Tenore e completando il testo con l’armonizzazione della scala al Soprano, gia` fatta in precedenza, nel corso del primo tentativo, in continuazione all’armonizzazione della scala al Basso. Conclude infine la duplice preghiera con una cadenza sulla parola «Amen» che gli consente di tornare al tono principale. In tal modo le Ave Maria da quattro sono diventate cinque. Le tre precedenti – val la pena ricordarlo – sono il «Salve Maria» nel primo atto dei Lombardi (1843; nel testo originale del libretto era in realta` un «Ave», mutato poi — 176 —

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in «Salve» per l’intervento della censura ecclesiastica milanese), l’Ave Maria su testo «volgarizzato da Dante», per soprano e archi (1880), e infine la preghiera di Desdemona nel quarto atto di Otello (1887), tutte su testo italiano. A parte la succinta analisi di Gino Roncaglia 7 e alcuni accenni perlopiu` frettolosi di Dyneley Hussey, Francis Toye, Massimo Mila, Charles Osborne,8 ch’io sappia l’unico studioso che abbia dedicato un’attenzione per cosı` dire ‘tecnica’ alle Ave Maria di Verdi su scala enigmatica e` stato Hermann Scherchen in un breve saggio sui Pezzi sacri, del 1951. Piu` esattamente Scherchen dedica la sua attenzione alle caratteristiche strutturali della scala enigmatica, che egli non esita a definire una «costruzione geniale».9 7 G. RONCAGLIA , Giuseppe Verdi. L’ascensione dell’arte sua, Napoli, Perrella, 1914, p. 202 sgg. (nella seconda edizione, interamente riveduta, L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi (Firenze, Sansoni, 1951), il passo non e` riportato in quanto sostituito da una diversa illustrazione di questa composizione verdiana. 8 D. HUSSEY , Verdi. Miracle man of opera, London, Dent, 1940, p. 307 sgg.; F. TOYE, Giuseppe Verdi. His life and works, New York, Knopf, 1959 (1a ed. Heinemann, London, 1951), p. 434 sg.; M. MILA, L’ultimo Verdi e i «Quattro pezzi sacri» (discorso tenuto il 5 ottobre 1963 nel Teatro Regio di Parma), «Disclub», I, n. 3: dicembre 1963, pp. 10-16; C. OSBORNE, The complete operas of Verdi, London, Gollancz, 1969, p. 464 (trad. it. Milano, Mursia, 1975, p. 457). 9 H. SCHERCHEN , I quattro Pezzi sacri, «il Diapason», II, n. 1 (numero dedicato a Verdi): febbraio 1951, pp. 13-15. Val la pena riportare il passo in questione perche´ costituisce il contributo piu` serio per comprendere il lavoro creativo che si cela sotto quello che Verdi stesso dava a intendere fosse un «gioco», una «sciarada»:

«E` per fondata ragione, che Verdi, nell’Ave Maria, si servı` per quattro volte, come di una continua ossatura melodica, della Scala enigmatica: do re bemolle, mi, fa diesis, sol diesis, la diesis, si do. Questa scala unisce genialmente i tratti caratteristici delle scale che fino al principio del XXº secolo hanno servito alla musica come elementi di una «scala». Essa inizia con le note do, re b, mi le quali caratterizzano il quinto, sesto e settimo grado della scala minore armonica. Ma invece di rendere definitiva questa scala minore, aggiungendo un fa alle altre note (do, re b, mi) essa usa un fa diesis quale nota successiva e vi aggiunge il sol diesis. Con cio` al caratteristico minore del passaggio do, re b, mi, segue il tipico maggiore basato su due intervalli esatonali: mi - fa diesis - sol [diesis]. Anche qui basterebbe soltanto l’aggiunta del la e ci troveremmo di fronte alla seconda meta` della scala maggiore: mi - fa diesis - sol diesis - la. Adesso pero` la scala si serve dello stesso metodo di prima, e cioe` invece del la segue il la diesis. Con cio` e` entrato nella scala la caratteristica della cala esatonale mi - fa diesis - sol diesis - la diesis. Sarebbe poi bastato di terminare la scala col passaggio finale la diesis - do, per concludere la scala, dopo i tentativi in maggiore e minore in modo esatonale. Si verifica invece un’altra modificazione inaspettata: con un intervallo di semitono viene inserita la nota si fra la diesis e do. Con cio` si ottiene in ultimo anche la caratteristica della scala cromatica: la diesis - si - do. Cosı` la Scala enigmatica si manifesta come costruzione geniale, in cui, sulla base della tradizionale compagine di sette suoni, si trovano congiunti i quattro tipi di scala storici della musica moderna:

Non fa dunque meraviglia che Verdi si sia sentito attratto ad armonizzare la Scala enigmatica. Ancor meno deve stupire il fatto che questa miracolosa sintesi della musica moderna europea abbia servito di base a Verdi per la creazione di un’opera d’arte; basti constatare l’affinita` immediata con l’ultimo preludio dell’Arte della fuga di Bach, testamento musicale anch’essa d’un sommo artefice dei suoni: «Vor deinen Thron tret’ich nur hin» (Eccomi dinanzi al tuo trono)». N.B. Sia qui consentito di notare che le considerazioni di Scherchen riguardano esclusivamente la scala per moto ascendente. E` forse superfluo rilevare che nel moto discendente essa scala presenta una modifica (Fa natu-

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Il 13 marzo Boito rispondeva a Verdi: [...] Ho una gran voglia di vedere la quinta Ave Maria. La prima volta che ci vedremo la preghero` d’accontentarmi. Ripensando al disegno che Lei mi ha tracciato nella sua lettera, dubitavo che quella scala sgangherata, riportata al Soprano e alle altre voci non potesse cantare umanamente. Ma poi, ripensandoci meglio e osservando le due paginette che mi sono rimaste, ho capito che l’armonia che la circonda e che la tempera e che la governa trasforma quello sgorbio in una linea che veramente canta e facilmente s’imperna nella modulazione dell’insieme. E cosı` tutti i giorni s’impara qualche cosa. [Carteggio Verdi-Boito, n. 128].

Non si sa esattamente quando Boito pote´ «vedere la quinta Ave Maria». Nel corso della primavera del 1889 egli incontrera` Verdi un paio di volte in occasione di brevi viaggi compiuti dal compositore a Milano in aprile e in giugno: e` il periodo in cui sta maturando il progetto di Falstaff, che prendera` definitivamente corpo nel corso dell’estate; nulla vieta di pensare che Verdi avesse portato seco le sue Ave Maria per farle vedere a Boito. Sara` solo ai primi di novembre che Boito si rechera` a S. Agata per una visita di circa una settimana: durante questo soggiorno non sara` certo mancata a Verdi l’occasione per far ascoltare all’amico la sua «sciarada». Ad ogni modo di essa non si parla piu` nelle lettere fra i due musicisti in questo periodo, il cui argomento centrale e` divenuto ormai Falstaff; ed e` appunto in relazione a tale argomento che Boito vi accenna fugacemente in una sua lettera a Verdi del 9 luglio: [...] Lei ha una gran voglia di lavorare, questa e` un prova indubbia di salute e di potenza. Le Ave Maria non le bastano, ci vuol dell’altro! Lei ha desiderato tutta la sua vita un bel tema d’opera comica [...] [Carteggio Verdi-Boito, n. 135].

Un successivo accenno alle Ave Maria e` contenuto in una lettera di Verdi del 1º aprile 1890 in risposta ad Aldo Noseda, presidente della Societa` Orchestrale di Milano, il quale gli aveva chiesto se conservasse «in portafoglio» vecchie o nuove musiche da includere nei concerti di primavera: Non sono mai stato tanto tenero delle cose mie da tenerle in portafoglio per accarezzarle ed ammirarle! Tutto quello che ho fatto, e` stato pubblicato!... Ma... correggo! Circa 60 anni fa, prima che io venissi a Milano, ho musicato qualche Coro delle tragedie di Manzoni e il Cinque Maggio; che non vedranno mai la luce. Piu`: in questi

rale in luogo di Fa Diesis) che elimina la successione tritonale da Mi a La diesis del moto ascendente e conferisce un piu` marcato carattere di «minore armonico» alla sezione inferiore della scala (Fa minore), predisponendone cosı` il passaggio alla quarta del tono.

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ultimi tempi ho sovrapposto alcune note ad un basso sgangherato, che trovai nella «Gazzetta Musicale». E` cosa da non parlarne. [...] 10

1895 Sulle Ave Maria su scala enigmatica scende quindi un lungo silenzio che viene improvvisamente interrotto il 31 gennaio 1895 (quasi due anni dopo, dunque, la prima rappresentazione di Falstaff) da una singolare richiesta di Verdi a Gallignani, contenuta in una sua lettera unicamente nota, credo, per il frammento riportatone nei Copialettere: 11 [...] E cosa ne avete fatto di quel basso sgangherato su cui ho posto quelle note di Ave Maria...? Mandatemele, vi prego, che forse le faro` stampare per mio conto in numero ristrettissimo di 8 o 10 copie e ne mandero` una per voi.

Dunque l’autografo delle Ave Maria nel frattempo era stato dato in deposito... o quanto meno in visione all’allora direttore del Conservatorio di Parma. Cio` dovette accadere in epoca successiva all’estate del 1891. E` a partire dal settembre di quell’anno, infatti, che il nome di Giuseppe Gallignani entra nella biografia verdiana quale candidato proposto da Verdi e da Boito alla direzione del Conservatorio di Parma che fino a quella data Boito aveva retto in sostituzione di Franco Faccio, spentosi nel luglio di quell’anno.12 Sin dal 1884 Gallignani era stato maestro di cappella del Duomo di Milano e inoltre dal 1886 era divenuto direttore del periodico «Musica Sacra»: per questa sua competenza nella musica polifonica la sua candidatura a direttore del Conservatorio di Parma veniva avanzata da un Verdi sempre piu` ostile verso la musica strumentale e sempre piu` intenzionato a tradurre in pratica il motto «torniamo all’antico e sara` un progresso» favorendo ogni possibile iniziativa nel campo della musica vocale non operistica, massime nell’ambito dell’insegnamento musicale. Nominato a Parma, Gallignani vi organizzava per il 1894 una serie di manifestazioni in commemorazione del terzo centenario della morte di Pierluigi da Palestrina, che oltre a concerti comprendevano anche un congresso di musica sacra. Per l’occasione egli si rivolgeva anche a Verdi per chiedergli una sua composizione sacra. Verdi naturalmente rifiutava la riCOPIALETTERE, p. 355 sg. Ivi, p. 411 sg., in nota. 12 Cfr. M. CONATI , Arrigo Boito direttore onorario del Conservatorio di Musica di Parma, in Parma, Conservatorio di Musica, Studi e ricerche, a cura di Guido Piamonte e Gaspare Nello Vetro, Parma, Battei, 1973, pp. 109-69, nonche´ G. MARCHESI, Giuseppe Verdi e il Conservatorio di Parma, Conservatorio di Musica, 1976. 10 11

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chiesta, limitandosi a inviare la somma di cento lire quale contributo materiale per le celebrazioni palestriniane; il 27 dicembre 1893 da Genova egli infatti rispondeva a Gallignani: Dite davvero? No, no, voi scherzate! Sapete bene che io non so, non posso, ne´ debbo piu` far nulla, a meno di farmi di relegare nell’ospedale dei matti!! Posso, e mandero` il mio obolo, ed il resto farete voi. Lodo altamente il progetto di onorare il Padre Eterno della musica italiana. Vedo che, fra i primi del Comitato, fa parte anche il conte Lurani. Si dice ch’egli sia un ammiratore appassionato di Bach... esclusivamente di Bach! Vedo che l’hanno calunniato! S’egli fa parte del Comitato per Palestrina, prova ch’egli e` un vero musicista con idee larghe, senza pregiudizi e prevenzioni. Si puo` ammirare Bach, ed onorare Palestrina, i quali sono i veri e soli Padri della musica dell’epoca nostra, dal ‘600 in poi. Tutto deriva da loro. Ed ora salute, coraggio, e fortuna.13

Le celebrazioni palestriniane promosse da Gallignani si tennero fra giugno e novembre del 1894. Alle manifestazioni del 20-22 novembre (che comprendevano anche l’esecuzione della Missa Papæ Marcelli e di alcuni madrigali del Palestrina) assistette Boito, il quale ne riferı` brevemente a Verdi in una lettera del 2 dicembre.14 E` in relazione, dunque, con le feste palestriniane parmensi del 1894 che Gallignani pote´ ottenere da Verdi (in visione, e` lecito supporre) l’autografo delle Ave Maria? In base alla richiesta di Verdi del 31 gennaio 1895, sopra riportata, e all’esecuzione avvenutane alla fine di giugno di quell’anno, tutto quanto si puo` per ora dedurre e` che Gallignani, prima di restituire l’autografo (cosa che indubbiamente fece, come ci viene indirettamente confermato da una lettera di Verdi a Ricordi del 1º giugno 1897 che sara` riportata piu` avanti) e temendo – a ragione, come vedremo – che l’autore abbandonasse il proposito di farlo stampare «in un numero limitatissimo di copie», prese la decisione di ricavarne copia e di allestirne un’esecuzione in forma strettamente privata. Infatti, a quanto sembra, Verdi non attuo` il proposito di far stampare le sue Ave Maria in un ristretto numero di copie (indagini svolte presso gli archivi della casa Ricordi a Milano e di villa Verdi a S. Agata hanno dato esito negativo), sebbene Abbiati lo dia per scontato,15 male interpretando una lettera che il compositore scrivera` a Ricordi il 9 dicembre 1896 (e che Abbiati pubblica unendola erroneamente ad altra lettera di Verdi a Ricordi, posteriore di alcune settimane): 13 14 15

COPIALETTERE, p. 633 sg. Essa lettera e` datata erroneamente «novembre» da LUZIO 1935, II, p. 177. Cfr. ABBIATI, IV, p. 599.

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Ho ricevuto i due Spartiti e vi ringrazio molto molto!... Ma ohime`!... ne sento quasi rimorso! Perdere tanto tempo! dare una bella edizione! Darsi tante cure... e poi?... Bell’affare per un Editore! [...] [Archivio Storico Ricordi]

In realta` tali parole si riferiscono all’invio da parte di Giulio Ricordi dei due nuovissimi spartiti di Oberto conte di S. Bonifacio e di Il finto Stanislao nella nuova edizione delle opere complete di Verdi che la Casa Ricordi aveva appena iniziato a pubblicare: se ne puo` avere conferma da una recensione della «Gazzetta di Venezia» riportata dalla «Gazzetta Musicale di Milano» del 7 gennaio 1897, riguardante appunto l’iniziativa ricordiana e in particolare i due citati spartiti, nonche´ da un’altra lettera di Verdi a Ricordi del 6 gennaio 1897: «Ho ricevuto jeri Nabuc[co] Lombar[di.] Mille ringraziamenti. Simpatiche Edizioni! Idea ruinosa! [...] [Archivio Storico Ricordi]. Intanto Gallignani attuava il suo progetto in apparente segretezza: non sappiamo se ne informasse direttamente o indirettamente l’autore. Ma qualcosa dovevano pur saperne Ricordi e forse lo stesso Boito: non appare coincidenza del tutto fortuita, proprio a due settimane dall’esecuzione progettata da Gallignani, la pubblicazione sulla «Perseveranza» di un articolo di N. (Giovanni Battista Nappi, critico musicale del quotidiano milanese) che aveva per oggetto appunto le Ave Maria verdiane su scala enigmatica. Vi era in cio` lo zampino dell’editore che – come vedremo – si proponeva di dare alle stampe la composizione verdiana ancora ignota al pubblico? L’articolo di Nappi lo si legge nel numero del 15 giugno 1895.16 A parte un paio di inesattezze (pale16

Eccone la trascrizione:

«Teatri e Notizie Artistiche. Le nuove Ave Maria di Verdi. Nella rubrica Notizie musicali del Corriere della Sera d’ieri l’altro, e` stato fatto cenno, colla clausola del si dice, ad alcune nuove composizioni di Verdi. Anche il si dice, quando trattasi dell’autore del Falstaff, ha un grande valore presso il mondo musicale. E` una calamita` di tutti i grandi, il non potere impedire che il pubblico cerchi d’indagare ogni azione della loro vita. Verdi, cosı` schivo di tutto cio` che sa di re´clame, d’empirismo – potesse quest’esempio avere imitatori non solo nel campo dei musicisti – sopporti dunque che anche col si dice gli italiani esprimano il fervido loro desiderio di vedere ancora sulla breccia la sua gigantesca figura di artista che deride colla giovanile freschezza del genio, i prossimi ottantadue anni. Nessuno suppone del resto che Verdi se ne stia colle mani in mano: ma se egli lavora, lo fa per semplice passatempo, nel suo tranquillo romitaggio di S. Agata. Se, pur troppo, non sta componendo un’opera, che sarebbe desideratissima – riguardo a questo argomento egli non vuol piu` sentire a parlare – certamente scrive della musica. L’illustrazione del Paradiso di Dante e` forse un desiderio del Corriere. Quanto all’Ave Maria la notizia e` vera. Siamo in ora grado di completarla coll’accennare, garantendo l’esattezza, all’origine interessante della nuova composizione verdiana. Nel numero 32 della Gazzetta Musicale del 1888 fu pubblicata, proveniente da Bologna, una scala che presentava, per l’originale disposizione degli intervalli, un vero quesito di curiosita` armonica. Non pochi musicisti tentarono di risolverlo! Nel numero 35 della medesima Gazzetta furono pubblicati vari esempi della scala armonizzata.

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semente erronea e` l’affermazione che «Ogni Ave Maria [...] fa pezzo da se´»; e quanto all’«illustrazione del Paradiso di Dante» essa non era «un desiderio del Corriere» bensı` un’indiscrezione molto attendibile che si riferiva alle Laudi alla Vergine dall’ultimo canto del Paradiso, per quattro voci femminili sole, la cui composizione viene fatta risalire da alcuni biografi al tempo della composizione di Otello, e che saranno pure inserite nei Pezzi Sacri) esso appare nel complesso abbastanza ben informato, tanto da lasciar pensare che fosse stato ispirato di proposito da «alcuni intimi» di Verdi, con buone probabilita` dallo stesso editore Ricordi. Pochi giorni dopo si verificava, sia pure in forma privata, l’«autentico avvenimento musicale» auspicato da Nappi: il 28 giugno – mentre Verdi con la moglie si trovava a Milano, tappa obbligata del suo consueto viaggio di trasferimento per le cure di Montecatini – nella sala «Verdi» del Conservatorio di Parma, di fronte a «un pubblico composto unicamente di allievi e professori del Conservatorio e di qualche maestro estraneo all’Istituto», Gallignani dirigeva l’esecuzione delle Ave Maria affidandola a un «piccolo coro di dodici voci». Il giorno dopo la «Gazzetta di Parma» (anno XXXVI, n. 77, sabato 29 giugno 1895) ne dava un resoconto; 17 infine, nel Verdi, che s’interessa infatti di tutte le cose grandi e piccole, trovo` strana la scala proposta. Ne parlo` con alcuni intimi, accennando anche al singolare soggetto della cosı` detta Fuga del Gatto di Scarlatti. Dopo qualche tempo, trovandosi nella sua villa di S. Agata, cogli intimi poc’anzi citati, si torno` sul discorso della nota scala. Verdi disse: «A proposito ho tentato ancor io qualche cosa, prendendo a testo l’Ave Maria. Si riuscı` a persuaderlo di mostrare questo suo lavoro... che fu trovato semplicemente una meraviglia. L’Ave Maria e` a quattro parti: – soprani, contralti, tenori e bassi – e si ripete quattro volte. La nota scala e` data in ogni Ave Maria ad una delle voci, cosı` e` canto nel soprano fondamentale, poi nel basso, per passare quindi nelle parti mediane. Ogni Ave Maria e` diversamente armonizzata in puro stile e fa pezzo da se´. Verdi non ha mai voluto ne´ pubblicare ne´ lasciar eseguire questo lavoro, quantunque anche insistentemente pregato dal maestro Gallignani, direttore del Conservatorio di Parma. Egli dice che non ne vale la pena, avendo voluto esercitarsi soltanto un poco nell’armonizzare. Cosı` si potesse sperare di fargli mutar parere, e ci fosse accordato di salutare quanto prima, merce´ il glorioso maestro, un nuovo, grande, autentico avvenimento musicale, di cui si ha proprio tanto bisogno! [...] N.». 17

Eccone il testo per esteso:

«Teatri e cose d’arte. Le Ave Marie di Verdi. Jeri il m. Gallignani nella sala Verdi del R. Conservatorio fece udire, eseguite da un piccolo coro di dodici voci, le Ave Maria di Verdi e le commento` ad un pubblico composto unicamente di allievi e professori del Conservatorio e di qualche maestro estraneo all’istituto. E` stata una lezione di estetica musicale, dalla quale egli volle tenere lontano il volgo dei profani... compreso la stampa! Ma pel quarto potere non vi sono segreti: e noi abbiamo potuto procurarci per mezzo di uno dei meno discreti ma de piu` competenti ascoltatori di ieri, le seguenti informazioni, che ci affrettiamo a comunicare ai lettori; visto ch’esse si riferiscono ad un nuovo lavoro di Verdi, che, quantunque inedito, ha gia` messo il mondo a rumore. Verdi, secondo disse il m. Gallignani, ha scritto queste Ave Maria prima del Falstaff, in uno di quei periodi d’ozio ch’egli purtroppo s’impone, in cui il fervore della creazione e` appena tenuto a freno dalla sua ferrea volonta`. Gliene porse occasione la scala scorbutica da Bologna comunicata alla Gazzetta Musicale e da questa offerta come quesito ai dilettanti di ricerche armoniche in un suo numero del 1888. Ed il pensiero gliene venne forse solo dopo aver visto le soluzioni inviate e stampate dalla Gazzetta nei numeri seguenti; delle quali, se alcune sono abbastanza spontanee, altre sono assai stentate. Verdi cosı` si creo` un passatempo. Ma il passatempo doveva essere degno di lui. Armonizzare semplicemente la scala, dato l’odierno sviluppo dell’armonia e l’orecchio nostro ormai abituati alle piu` strane combinazioni di suoni, sarebbe stato puerile. Egli dunque si propose che: avrebbe composto sopra la scala un pezzo di musica vocale a quattro voci e con parole: le parti dovrebbero essere disposte in modo, nel loro andamento melodico-imitativo, da sostenersi l’un

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numero del 7 luglio, la «Gazzetta Musicale di Milano» pubblicava quell’esempio musicale che mi ha fornito lo spunto per rintracciare questa prima versione delle due Ave Maria.18 l’altra e preparasi, facilitarsi vicendevolmente l’intonazione: la scala scorbutica sarebbe riuscita facile e naturale a cantarsi. Le parole scelte furon quelle dell’Ave Maria. Per lo sviluppo del pezzo la scala venne armonizzata quattro volte in quattro modi differenti, affidata prima al basso, poi al contralto e quindi, trasportata di una quarta in su, al tenore ed al soprano. La voce, cui e` affidata la scala, canta: Ave Maria; le altre dicono per disteso e per due volte tutte le parole della salutazione angelica. Le Ave Maria dunque sono due, ma raggruppate alla fine da un unico Amen, specie di coda che viene a ristabilire la tonalita` iniziale e a chiudere il pezzo. Quanta novita` e dolcezza armonica e quanta soavita` melodica siano scaturite da questo passatempo del grande maestro e` impossibile descrivere. Il piccolo coro di ieri, quantunque composto nella maggior parte di giovani appena iniziati alle discipline musicali, riuscı` ad eseguire queste Ave Maria con molta sicurezza e colorito. Specialmente alla terza replica le voci, senza sostegno di alcun accompagnamento, si mantennero in tono. Prova evidente che il maestro seppe raggiungere il difficile scopo prefissosi. Le Ave Maria non sono destinate a trascinare le masse all’entusiasmo, benche´ a qualunque pubblico debbano piacere, ma piuttosto a soggiogare l’ammirazione degl’intelligenti. Verdi e` gigante anche quando giuoca!». 18

Eccone il testo per esteso:

«La Scala-Rebus e le Ave Maria di G. Verdi. Senza alcun dubbio, il Crescentini di Bologna – allorche´, nel 1888, proponeva alle elucubrazioni armoniche degli studiosi quella scala che la Gazzetta pubblico` col titolo di Scala-Rebus, e della quale egli stesso offriva una soluzione – non prevedeva affatto che il suo giuoco potesse un giorno interessare un artista di primo ordine, cosı` da spingerlo a creare su di esso un nuovo capolavoro. E che questo capolavoro ormai esista, ne abbiamo avuto ieri la prova palmare nella esecuzione che – dinanzi a un ristretto numero di cultori dell’arte – il maestro Gallignani ha dato delle Ave Maria di Giuseppe Verdi nella sala omonima del Conservatorio di musica di questa citta`. Il maestro Gallignani, prima di procedere all’esecuzione del nuovo lavoro del Verdi, ci descrisse la genesi di questo, aggiungendo qualche parola di commento, che riassumo. Le Ave Maria sono due: l’una nel tono di Do maggiore, nella quale prima il basso e poi il contralto cantano sulle parole Ave Maria i due tetracordi della Scala-Rebus, l’altra nel tono di Fa maggiore, nella quale, sulle medesime parole, prima il tenore e poi il soprano, cantano gli stessi tetracordi. Cosı` la detta scala vien ripetuta quattro volte in due toni diversi, ma armonizzata in quattro maniere diverse. A ricondurre la composizione nella tonalita` iniziale, provvedono cinque battute, nelle quali le quattro voci modulano sulla parola Amen. L’idea di questo lavoro – che, a quanto pare, rimonta al periodo degli ozi forzati cui la ricerca dell’argomento del Falstaff condannava la irrefrenabile attivita` della mente di Giuseppe Verdi – gli venne forse dallo esame delle soluzioni che, di quella Scala-Rebus – la quale, tenuto conto dei quarti di tono, ricorda un po’ il Modo Zirafkend (61.a circolazione degli Arabi – furono pubblicate dalla Gazzetta Musicale. Non e` il caso oggi di far la critica di quelle soluzioni, alcune delle quali furono anche ingegnose. A cominciare dal proponente, quasi tutti coloro che si posero a risolvere il quesito, non si occuparono che di un fatto solo: quello di armonizzare la scala proposta e, a furia di enarmonie e – me lo consentano – anche di false relazioni, sforzar l’orecchio dell’uditorio ad accettare l’accordo di Do maggiore sull’ottava nota ascendente e sulla ultima discendente. Uno solo dei solutori del rebus [Ottorino Varsi; vedi es. mus. n. 3] intravide che si potea tentar qualche cosa di piu`, ed ordı` intorno al tema – trasportandolo in Fa ed affidandolo al tenore – un contrappunto a quattro parti reali, che non e` privo di pregi considerato appunto come lavoro scolastico. Certo che il quesito era arduo, e a risolverlo non era solo sufficiente l’esser fornito di buoni studi. Occorreva qualche cosa di piu`, occorreva che l’ala del genio vivificasse la materia bruta, e ne facesse sgorgar la scintilla che illumina, riscalda e irradia orizzonti altissimi ed inesplorati. E l’ala del genio si agito` sul capo di Giuseppe Verdi, quasi a sollevarne il pensiero dalla coazione con cui l’ozio lo tormentava. Quel tema – che pare un giuoco ed e` una nobile palestra – non era indegno di lui, come non furono indegni di Ercole e di Teseo i giuochi olimpici e gl’istmici che tentarono la musa di Pindaro ad immortalarli. E Giuseppe Verdi vi si pose: e vi si pose da par suo. Egli comprese, infatti, che quel problema, a risolverlo, occorreva che fosse trattato con la forma classica della polifonia, e che il tema, che dovea servir di sostrato alla sua composizione, dovesse esser quasi quel che era il Can-

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Pochi giorni dopo la pubblicazione della corrispondenza di Caputo, e precisamente il 16 luglio, Giulio Ricordi si rivolgeva a Verdi: [...] Ella avra` visto che le sue Ave Maria, anziche´ religiose, sono rivoluzionarie, che tutto il mondo musicale se ne e` occupato. Ma proprio, proprio le vuole tenere nascoste?... veda, Maestro, come le riescı` male questo progetto!... ed allora perche´ non pubblicare una cosa di tanto interesse artistico?... Dunque?... [...] [Archivio di Sant’Agata].

Evidentemente l’editore, buon musicista, doveva aver avuto occasione di ascoltare la composizione verdiana eseguita dall’autore stesso durante una delle non infrequenti visite compiute a S. Agata: l’articolo di Caputo rafforzava il suo proposito di pubblicarla. Ma Verdi, imperturbabile, gli rispondeva il 19 luglio successivo da Montecatini: [...] In quanto alle Ave Maria non vale la pena di parlarne. E` stato uno scherzo ed e` quasi un puro esercizio scolastico. Se vi potesse essere qualche cosa di buono sarebbe nella disposizione delle parti; ma all’epoca nostra non si ammira, diro` di piu`, non si capisce!... Vi e` un Conservatorio in Italia ove un Maestro di composizione insegna ed impone di non studiar Palestrina che e` mercanzia vecchia ed inutile... Io mi sottoscrivo all’alta sentenza!! E` inutile mostrare il Sole ad un cieco... [...].19 tus firmus nelle opere dei grandi maestri del XVI secolo. Ma sentı` ancora che la antifonale successione di suoni, che doveagli servir da Cantus firmus, per tornar gradevole all’orecchio e intelligibile al sentimento, avea mestieri di esser vestita e sopraffatta dagli allettamenti della melodia e dall’impeto della passione. La soluzione, e` vero, diveniva ancor piu` difficile, perche´ da un’artificiosa successione di suoni discordanti si trattava di far sorgere un’opera d’arte, tenendosi intanto dentro ai cancelli piu` severi del genere polifonico ideale. Ma, per Giuseppe Verdi, quelle difficolta` non erano tali da scoraggiarlo e farlo desistere dall’impresa. L’energia del suo ingegno, della sua volonta`, della sua fibra, gli impeti della passione di cui sono a dovizia fornite tutte le sue opere, gli davan fidanza che la riuscita della prova cui si accingeva non potrebbe esser dubbia. E l’opera d’arte venne fuori bella, purissima, incantevole, perche´ opera di sentimento. Poiche´ egli, servendosi del tema unicamente come un filo conduttore nel labirinto armonico, ma tenendolo costantemente in seconda linea, diede la stura al ritmo melodico, che e` una delle piu` spiccanti caratteristiche del suo ingegno, e slancio` nel concerto delle voci, armonizzanti tra loro con la maggior semplicita` e chiarezza, l’onda vivificatrice della passione e del sentimento. E quando, alla fine della seconda delle Ave Maria, che, per la natura del tema e della struttura complessiva della composizione, egli sentı` di dover porre un Amen che riconducesse questa alla tonalita` iniziale, quella chiusa dolcissima, armoniosa, eterea, riuscı` ad esser una trovata, come si dice in linguaggio volgare, un tratto di genio. Queste sono le impressioni provate da quanti poterono aver la fortuna di assistere ieri all’esecuzione – cortesemente ripetuta tre volte dal maestro Gallignani e dalla piccola ma valorosa falange di allievi e dilettanti – di questa nuova ed inedita composizione del Nestore dei grandi italiani viventi. Un’analisi accurata e particolareggiata del lavoro, uno studio delle difficolta` cosı` agevolmente superate dal maestro, sarebbero ora precoci ed indiscreti. Molto avranno ad apprendervi gli studiosi quando esso sara` pubblicato: perche´ io non dubito punto che quell’opera debba esserlo al piu` presto. Non so, pertanto, resistere alla tentazione di commettere una piccola indiscrezione, trascrivendo qui sotto le prime otto battute della Sancta Maria della seconda Ave Maria, uno dei momenti piu` belli e deliziosi di tutta la composizione. [L’esempio dato da Caputo corrisponde alle prime otto battute dell’Ave Maria con la scala al Soprano come appare qui nel facsimile di p. 195]. Son sicuro che della indiscrezione commessa i lettori mi sapran grado, ma ne chieggo scusa intanto all’illustre Maestro, in grazia della buona intenzione – come dicono i causidici. E concludo intanto con l’augurare all’Italia che, per sua gloria e fortuna, di ozi forzati ne tocchino ancora e per lunghi anni a Giuseppe Verdi, e che, magari, di Scala-Rebus ne capitino fra le mani di lui parecchie e parecchie. Parma, 29 giugno 1895. M. C. Caputo.» 19

ABBIATI, IV, p. 575.

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All’editore non restava che rassegnarsi a malincuore, almeno per il momento; e sei giorni dopo, il 25 luglio, scriveva all’autore: [...] mi procuro l’onore di rispondere alla gentilissima sua lettera!... gentilissima sı`, ma crudele per cio` che riguarda la risposta relativa alle Ave Maria! Peccato! peccato davvero... ma fiat voluntas!... sempre sperando pero`!!!... Chissa`?... [...] [Archivio Storico Ricordi].

Giulio Ricordi era tuttavia paziente e ostinato: alla fine riuscira` ad avere ragione della resistenza di Verdi (resistenza che potremmo interpretare come una sorta di ritrosia dettata dal fatto che il tema della scala-rebus non era di sua invenzione). 1896 Frattanto all’autore cominciavano a pervenire altre richieste per far conoscere le sue Ave Maria. Una di queste proveniva dal critico musicale francese Camille Bellaigue, che da qualche anno era in rapporti di cordiale amicizia con Boito e con Verdi. Verso la fine di maggio del 1895 (proprio nel periodo in cui Gallignani stava preparando l’esecuzione in forma privata di cui s’e` detto), Bellaigue s’era recato con la moglie a far visita a Verdi in S. Agata, e in tale occasione aveva avuto modo di ascoltare l’inedita composizione eseguita al pianoforte dall’autore stesso. Questa informazione e` contenuta in una lettera del 3 febbraio 1896 con la quale Bellaigue si rivolgeva a Verdi onde pregarlo di far pubblicare le Ave Maria su «La Tribune de Saint-Gervais», periodico francese fondato nel 1895: Mon cher maıˆtre, voulez-vous me faire un plaisir? Alors faites-moi parvenir le bel Ave Maria (alla Palestrina) que vous nous avez joue´ cette anne´e a` S.ta Agata. Est-il grave´? Ensuite ceci ne me sera pas seulement agre´able, mais a` beaucoup d’autres. me permettriez vous d’e´crire quelques lignes, ou meˆme, un peu plus, a` propos de cet Ave Maria, dans une petite Revue tre`s se´rieuse, tre`s digne d’intereˆt. C’est la Tribune de S. Gervais fonde´e par Borrel,20 lequel a restaure´ chez nous le chant polyphonique et religieux du XVIe sie`cle. On pourrait (si vous y consentirez) publier l’Ave Maria dans ce journal, dont chaque nume´ro (mensuel) comporte un œuvre a cappella. Consentez vous cela? Vous allez m’accuser d’indiscretion, d’avidite´ meˆme. Pour peu que vous ne soyez pas d’humeur consentante supposons que je n’ai rien dit. [...].21 20 Luzio trascrive «Bordes»: con ogni probabilita ` si tratta di un suo errore di lettura dell’autografo, poiche´ Bellaigue non avrebbe dovuto sbagliare nello scrivere correttamente il nome del fondatore del periodico, Euge`ne Borrel. 21 LUZIO 1935, II, p. 310.

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Non si conosce la risposta di Verdi alla richiesta di Bellaigue se non indirettamente, attraverso cioe` un frammento di lettera senza data e senza nome di destinatario (forse Giulio Ricordi? o Arrigo Boito?), certamente non di molto posteriore alla lettera di Bellaigue: [...] e` cosa da non parlarne... quella non e` vera musica, e` un tour de force, e` una sciarada. Mi preme tanto dirvi che e` meglio che quelle Ave Marie restino sepolte! Mi e` stato domandato di vedere pubblicate quelle Ave Marie nella Tribune de S. Gervais, ma e` meglio restino senza vedere la luce del sole.22

Analoga risposta il compositore dava qualche mese piu` tardi a Boito, che gli aveva inoltrato una richiesta di Giovanni Tebaldini, allora direttore della Cappella Antoniana di Padova, con il quale Verdi, a partire dal febbraio 1896, era entrato in corrispondenza per alcuni ragguagli intorno ai Te Deum composti da alcuni polifonisti del passato. Evidentemente Tebaldini non osava rivolgere la sua richiesta direttamente a Verdi e preferı` aggirare l’ostacolo appellandosi ai buoni uffici di Boito, il quale il 9 giugno 1896 cosı` scriveva a Verdi da Milano: [...] Il Tebaldini mi annuncia d’aver scoperto un Te Deum del Vittoria, a due cori alternati con organo, esistente nella Biblioteca del Liceo di Bologna. Se Lei lo desidera, il Tebaldini si offre di rintracciare in Bologna un copista che ne faccia una copia per Lei. [...] Ma il Tebaldini chiude la sua lettera manifestando il desiderio di eseguire in Novembre a Padova le Ave Maria di Verdi per inaugurare con quelle la sala dei concerti. Chiede a questo intento un intercessore e questo sarei precisamente io ma con pochissima fede d’ottenere la grazia perche´ so come Lei la pensa circa all’esecuzione di quel pezzo. [CARTEGGIO VERDI-BOITO, n. 267].

Due giorni dopo Verdi rispondeva a Boito senza entrare nel merito della richiesta di Tebaldini, ma implicitamente negando la «grazia»: Ringraziate tanto Tebaldini delle sue premure pel Te Deum: ma oramai quello che e` fatto e` fatto [...]. Una volta che avro` finito, che´ non mancano che pochi squarci d’Istromentale, lo uniro` alle Ave Maria e dormiranno insieme senza veder mai la luce del Sole... Amen - [...] [CARTEGGIO VERDI-BOITO, n. 268].

Un ulteriore tentativo veniva fatto nell’ottobre successivo da Giulio Ricordi, il quale, nel comunicare a Verdi che il numero delle pubblicazioni edite dalla casa Ricordi stava per raggiungere la cifra tonda di 100.000, esprimeva il vivo desiderio che tale numero potesse venir assegnato a una composizione 22

COPIALETTERE, p. 411, in nota.

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inedita del maestro: se non alle Ave Maria, almeno al Te Deum... Il tentativo non approdo` ad alcun risultato immediato; ma l’ostinato editore penso` bene di accantonare quel numero, convinto in cuor suo che prima o poi sarebbe stato assegnato a una nuova composizione di Verdi. 1897 Si giunge cosı` alla tarda primavera del 1897 e a una nuova richiesta di Giulio Ricordi. Non si conosce la lettera con la quale l’editore sollecitava la pubblicazione della «sciarada»; ma dalla risposta di Verdi si puo` intuire che Ricordi, in un ennesimo tentativo di persuasione, pur di pubblicare le Ave Maria (rimaste ancora, presumibilmente, alla stesura fatta conoscere da Gallignani nel giugno 1895 al Conservatorio di Parma) si dichiarasse disposto a tacerne il nome dell’autore. Verdi, apparentemente quasi rassegnato, rispondeva il 1º giugno: [...] La sciarada? Non ci ho pensato, e non sono ben certo d’averla portata qui da Genova. Ci guardero`: ma ohime` sempre con poca voglia di stamparla... sia pure senza nome! [...] [Archivio Storico Ricordi].

E` a questo punto della cronistoria delle Ave Maria su scala gia` rebus, gia` sciarada, ora «enigmatica, armonizzata a quattro parti» conforme il sottotitolo definito da Verdi, che avvengono le modifiche alla prima versione. Ma l’aspetto davvero singolare, anzi sorprendente, di tutta la vicenda e` che tali modifiche – come si apprende da un’altra lettera di Verdi, del 4 giugno successivo, a Giulio Ricordi – sono la conseguenza di una banale dimenticanza: Non ho potuto trovare quella tal Sciarada che forse e` restata a Genova; ma la trascrivero`, anzi l’ho quasi trascritta di nuovo ed avro` certamente cambiato qualche battuta qua` e la` perche´ non ricordavo del tutto la prima: ma poco male; anzi credo che questa sia piu` corretta nelle modulazioni e disposizioni di parti. E` tutto quello che si puo` fare su questa strana scala... cioe` tutto quello che posso far io: un’altro chiunque farebbe ben altra cosa. Appena finita ve la mandero`. 1. Per essere stampata soltanto nella vostra Gazzetta Musicale. 2. Senza nome d’autore. 3. Sciarada non e` un bel titolo sopra due Ave Maria Diremo solo Scala enigmatica armonizzata a quattro parti. [...] [Archivio Storico Ricordi].

L’episodio della ‘ricomposizione’ a mente delle Ave Maria, in se´ apparentemente non molto significativo, e` in realta` rivelatore non solo della freschezza di mente davvero eccezionale del quasi ottantaquattrenne maestro che a oltre otto anni di distanza ricordava ancora le soluzioni armoniche adottate per la scala-rebus proposta da Crescentini, anzi, piu` esattamente per le quattro scale

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enigmatiche, ma anche della solidita` tecnica e della coerenza di pensiero che erano alla base della sua visione del mondo dei suoni, tali da consentirgli di legare le concatenazioni armoniche suggeritegli da una scala «refrattaria» entro una ferrea logica, la stessa logica, in fondo, che aveva governato tutta la sua opera di musicista, dall’Oberto al Falstaff, e che affondava le sue radici nell’antica armonistica modale pervenutagli attraverso l’insegnamento di quel Lavigna che a sua volta era stato allievo di Fenaroli e di Valente. Come si puo` osservare dal confronto della partitura della prima versione conservata presso la biblioteca del Conservatorio di Parma con l’edizione definitiva a stampa, l’armonizzazione della scala al Basso e` rimasta praticamente immutata. Le modifiche sostanziali, riguardanti cioe` le armonie, si concentrano all’inizio della prima «Sancta Maria» (le prime quattro misure della scala al Contralto) e nella seconda Ave Maria (in particolare, nella scala al Tenore: le prime quattro misure, nonche´ le misure 9-10 in cui e` stato eliminato un accordo non risolto di quarta e sesta). Altre modifiche riguardano il movimento delle parti (specie nella seconda «Sancta Maria») e, piu` numerose, la disposizione del testo (ad esempio sulla scala discendente la parola «Ave» viene ripetuta due volte). Un lieve ritocco anche nell’«Amen»: oltre al segno di respiro, trasformato in una battuta vuota coronata, i valori della seconda misura vengono raddoppiati. Risulta evidente che tutte queste modifiche – a parte quelle di natura armonica – mirano a una maggiore naturalezza nel movimento delle parti e a una migliore cantabilita` del testo. Tuttavia le modifiche apportate alla versione primitiva non bastavano, a giudizio del compositore, a fugare definitivamente ogni perplessita` intorno all’opportunita` di pubblicare, anche «senza nome d’autore», la sciarada. Circa negli stessi giorni in cui Verdi nella quiete di S. Agata andava ‘ricomponendo’ le Ave Maria, era suo ospite Arrigo Boito, gia` intenzionato, a quanto pare, in accordo con Giulio Ricordi, a promuovere l’esecuzione pubblica delle ultime composizioni sacre del maestro (Te Deum, Stabat Mater e Laudi alla Vergine). Durante la visita di Boito, Verdi ritirava la promessa fatta il 4 giugno all’editore, come si puo` dedurre da una sua risposta dell’11 giugno successivo a una lettera, molto probabilmente smarrita, di Ricordi: Gran stordito quel Boito! Io l’avevo pregato di dirvi (dietro anche sua opinione) di non pensare piu` alla Sciarada... E Voi mi dite che l’aspettate!! Non daro` mai piu` a Lui commissione di sorta, nemmeno quella di farmi il Nerone –

..... Dumque dietro riflessioni fatte e meglio lasciar dormire Sciarada, Preghiera-Paradiso, Te Deum e Stabat... [...] Strapazzate Boito, e salutate i vostri. [CARTEGGIO VERDI-BOITO, n. 278, nota 1].

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Nondimeno l’astuto editore doveva aver capito che il desiderio di Verdi di «lasciar dormire» i pezzi sacri non equivaleva a un rifiuto definitivo e irrevocabile, ma dava anzi adito a qualche speranza per il futuro. Il 1º luglio, durante il viaggio di trasferimento per Montecatini, Verdi s’incontrava a Milano con Giulio Ricordi (lo annunciava un asterisco della «Gazzetta Musicale di Milano» dell’8 luglio 1897, p. 389); motivo ufficiale della sosta di Verdi a Milano: una visita ai lavori della futura Casa di Riposo per Musicisti. Con ogni probabilita` l’editore non si sara` lasciato sfuggire l’occasione per tastare nuovamente il terreno in merito alla possibilita` di pubblicazione o di esecuzione della Sciarada e degli altri pezzi sacri. E` comunque nel corso di questa estate, l’ultima estate di Giuseppina, che Verdi viene lentamente maturando il proposito di rendere pubbliche le sue ultime composizioni polifoniche. Il 22 agosto da S. Agata si rivolgeva a Giulio Ricordi, iniziando con la stessa domanda forse contenuta in una precedente lettera dell’editore, anch’essa andata smarrita (la fida ‘segretaria’, Giuseppina, era troppo malandata di salute per poter tenere in ordine la copiosa corrispondenza del maestro): Cosa fanno le Ave Maria, Te Deum, Stabat?... Aspettano d’essere giustiziati? Io opino per le... Ne parleremo andando o ritornando da Genova, come parleremo di tante altre cose non affatto liete! Ditemi su questo proposito in quali giorni potro` trovarvi a Milano. Una parola [...] [Archivio Storico Ricordi].

Il colloquio avveniva il 1º settembre nel corso di una breve sosta a Milano, compiuta durante il viaggio a Genova cui Verdi accennava nella lettera. Era in occasione di questo colloquio che Verdi prendeva la decisione di pubblicare i pezzi sacri. Infatti, ritornato a S. Agata e apportati gli ultimi ritocchi, il 21 ottobre 1897 scrive all’editore: [...] Mando oggi stesso due soli pezzi: La Scala enigmatica e Te Deum. Mandero` fra pochi giorni La Preghiera del Paradiso Lo Stabat I Due piccoli pezzi a voci soli hanno le stesse dimensioni [...] Non ho mandati questi pezzi perche´ desidero darvi un’ultima occhiata. Ma sara` fatto presto. [...] [Archivio Storico Ricordi].

E quattro giorni dopo, cioe` il 25 ottobre, ancora a Giulio Ricordi: Vi spedisco, ahime´, anche questi due altri pezzi: la Preghiera del Paradiso, e lo Stabat... con immenso dolore! Finche´ esistevano sul mio scrittojo li guardavo qualche volta con compiacenza e mi parevano cosa mia! – Ora non sono piu` miei!!

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Non sono ancora pubblicati, direte voi. E` vero: ma non esistono piu` per me esclusivamente e non li vedo piu` sul mio scrittojo!! E` un vero dolore! Ditemene quando saranno arrivati! La Peppina non migliora! Ah cio` e` triste assai! Ad. Ad. [Archivio Storico Ricordi].

Le condizioni di salute di Giuseppina Verdi andavano sempre piu` declinando. L’11 novembre (sembrava quasi che essa avesse voluto attendere sin che Verdi terminasse la sua estrema fatica artistica...) veniva colpita da un violenta polmonite che ne stroncava le forze residue; nel pomeriggio del 14 esalava l’ultimo respiro. Frattanto Boito, che da tempo meditava in accordo con Giulio Ricordi di far eseguire i pezzi sacri di Verdi, s’era recato a Parigi per aprire le trattative con il direttore d’orchestra Paul Taffanel, lo stesso che aveva diretto la prima rappresentazione in francese dell’Otello di Verdi all’Ope´ra nell’ottobre del 1894. Dal 1892 Taffanel era direttore della Socie´te´ des Concerts du Conservatoire: da una sua lettera del 21 gennaio 1898 a Verdi 23 si apprende che un primo accordo per l’esecuzione dei pezzi sacri era stato stabilito la sera del 10 novembre, giorno della prima rappresentazione in francese all’Ope´ra dei Meistersinger von Nu¨rnberg di Wagner,24 diretti dallo stesso Taffanel: «L’audition des quatres pie`ces avait e´te´ bien convenue entre M. Boito et moi lors de notre entretien le soir des Maıˆtres Chanteurs». 1898 Verdi si era ormai rassegnato al progetto di Boito, ma limitava il suo consenso all’esecuzione di soli tre pezzi (Stabat Mater, Laudi alla Vergine Maria e Te Deum), escludendo quelle Ave Maria su scala enigmatica che tanto premevano a Boito e a Ricordi. Alla fine di gennaio del 1898, mentre si trovava a Milano, informava Boito: Aspettavo risposta da Taffanel a una mia, in cui domandavo quando la Casa Ricordi doveva mandare a Parigi le parti prima, dei Cori, poi le parti d’orchestra –. Bisognerebbe anche dirgli che i pezzi da eseguirsi non sarebbero piu` quattro, ma tre [...] [CARTEGGIO VERDI-BOITO, n. 285].

Cio` non impediva naturalmente all’editore Ricordi di pubblicare, secondo gli accordi presi in autunno, tutte e quattro le composizioni sacre, sia separa23 24

Ivi, p. 411 sg. Non il 10 dicembre, come scrive ABBIATI, IV, p. 619.

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LE AVE MARIA DI VERDI SU SCALA ENIGMATICA

tamente, sia riunite sotto il titolo Quattro Pezzi Sacri. Il numero editoriale 100.000, che il previdente editore aveva accantonato sin dall’autunno del 1896, veniva assegnato alla stampa della partitura del Te Deum.25 Dopo la prima esecuzione avvenuta il 7 aprile 1898 all’Ope´ra di Parigi per la Socie´te´ des Concerts du Conservatoire sotto la direzione di Paul Taffanel, i ‘tre’ Pezzi sacri ricevevano il battesimo italiano il 26 maggio successivo a Torino nel nuovo salone dei concerti dell’Esposizione Nazionale sotto la direzione di Arturo Toscanini,26 quello inglese il 14 settembre 1898 nella cattedrale di Gloucester (cui tenne dietro il 15 dicembre dello stesso anno l’esecuzione diretta da Alexandre Mackenzie alla Royal Academy of Music di Londra), quello tedesco nel settembre 1898 a Colonia (seguı`to il 19 gennaio 1899 dall’esecuzione nella sala della Filarmonica di Berlino). E` lecito supporre che Verdi rimanesse sempre contrario all’esecuzione pubblica delle sue Ave Maria su scala enigmatica, almeno in Italia, dato che a Milano (Teatro alla Scala, 16 aprile 1899, direttore ancora Arturo Toscanini), a Pesaro (Liceo Musicale, 22 maggio 1899, direttore Pietro Mascagni) e a Roma (Accademia di S. Cecilia, 2 aprile 1900, direttore Stanislao Falchi) furono eseguiti soltanto i tre pezzi della premie`re parigina: Stabat Mater, Laudi e Te Deum. Ma nel frattempo – come si apprende dalla «Gazzetta Musicale di Milano» del 24 novembre 1898, n. 47, a p. 683 – il battesimo ufficiale delle Ave Maria su scala enigmatica avveniva il 13 novembre 1898 a Vienna in occasione dell’esecuzione dei Quattro Pezzi Sacri diretti da Richard von Perger per il primo concerto in abbonamento della Societa` degli Amici della Musica. Quando sia avvenuta in Italia la prima esecuzione della nuova versione delle Ave Maria, resta ancora da stabilire con esattezza.27

25 Cfr. C. HOPKINSON , A bibliography of the works of Giuseppe Verdi, I, Broude Brothers, New York, 1973, p. 29: vi si apprende anche che le Ave Maria, oltre che nei Quattro pezzi sacri «per Canto e Pianoforte» (n. ed. 101729), venivano pubblicate sempre nel 1898 separatamente sia per voci sole con il n. ed. 100010 sia nella «Riduzione per Canto e Pianoforte di Gaetano Luporini» con il n. ed. 101468. 26 Sull’incontro di Toscanini con Verdi a Genova in preparazione dell’esecuzione torinese cfr. G. DEPANIS, I Concerti Popolari ed il Teatro Regio di Torino. Quindici anni di vita musicale, Torino, S.T.E.N., 1914-1915, vol. II, pp. 234-240 (brano riportato in Interviste cit., pp. 341-345). 27 Oltre le opere citate in nota nel corso di questo contributo, trattano brevemente delle Ave Maria verdiane le seguenti pubblicazioni: Et BOUCKE, Verdis «Quattro Pezzi Sacri», «Allgemeine Musikzeitung», LXV, n. 40: 7 ottobre 1938, p. 610 sg.; G. GALLIGNANI, «Tornate all’antico e sara` un progresso», discorso e commento del motto, nel VI anniversario della morte di G. Verdi, tenuta nella sala del R. Conservatorio di Milano, «Il Giornale dei Musicisti», II, nn. 1, 2, 3, 4, 5: settembre-dicembre 1908 (anche in estratto: Milano, Bonetti, 1908): F. GRU¨NINGER, «Quattro Pezzi Sacri» von Giuseppe Verdi, «Ca¨cilienverein-Organ, Zeitschrift fu¨r Kirchenmusik», LXXI, 1951, pp. 68-72; E. HANSLICK, Am Ende des Jahrhunderts (1895-1899). Musikalisches Kritiken und Schilderungen, Berlin, Allgemeine Verein fu¨r deutsche Literatur, 1899, pp. 303-330; L. HU¨BSCH-PFLEGER, Giuseppe Verdis geistliche Werke, «Musikhandel», Bonn, XIV, 1963, p. 206 sg.; K. HOLL, Giuseppe Verdi, Wien, Perneder, 1942 (1a ed. Berlin, Siegismund, 1939, p. 362; E. SCHMITZ, Verdis «Quattro Pezzi Sacri», «Hochland», Mu¨nchen, IX, n. 6: luglio 1912, pp. 471-477.

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APPENDICE LA PRIMA VERSIONE DELLE AVE MARIA DI VERDI SU SCALA ENIGMATICA

COMMIATO

«Grandi musicisti ce ne sono stati tanti [...]. Ma che abbiano saputo rinnovarsi completamente cogli anni, tanto da interpretare due epoche durante l’arco d’una lunga esistenza, la Storia non ne conosce che due: uno e` Claudio Monteverdi, e l’altro si chiama Giuseppe Verdi»: cosı` Massimo Mila a conclusione d’una sua disamina sul Verdi sacro (L’arte di Verdi, Torino, Einaudi, 1980, p. 281).1 Per restare a Verdi, effettivamente la sua esistenza comprende due fasi nette sulla scena del teatro musicale: una prima fase dalla giovinezza alla piena maturita`, come dire dall’Oberto all’Aida; una seconda fase di completo rinnovamento che va dalla maturita` alla vecchiaia, ovvero dalla revisione del Simon Boccanegra al Falstaff. Ora e` interessante osservare che ciascuna delle due epoche si conclude con composizioni sacre, rispettivamente la Messa da Requiem (1874) e i Pezzi sacri (1898), le quali stanno come vertice di uno sviluppo artistico e soprattutto spirituale di due epoche distinte. L’espressione religiosa delle due composizioni – quella perentoria, sanguigna, della Messa, quella interrogativa, sfumata, dei Pezzi sacri – e il loro tono – piu` epico nell’una composizione, piu` lirico nell’altra – riflettono due fasi della vita spirituale dell’artista e del suo atteggiamento di fronte a quell’idea della morte e del mondo trascendente che aveva incessantemente accompagnato la sua opera sin dagli esordi. In te Domine speravi... e` l’ultima voce di Verdi. Voce che aveva intonato inni di guerra, cantato passioni, gridato vendetta, pianto miserie e gioie perdute, scagliato maledizioni... La stessa voce che aveva dato l’addio alla scena della vita con l’irridente «Tutti gabbati»... Ora solo «voce di sgomento e di supplicazione»...

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INDICE DEI NOMI*

ABBADIA, Luigia, 4n ABBIATI, Franco, VII, XI, XX, 2 e n, 13, 14n, 31n, 34n-35n, 37n, 46n-47n, 66 e n, 67n68n, 69, 107n, 125n-126n, 140n, 145n, 146 e n, 157n, 166, 180 e n, 184n, 190 ABDOUN, Saleh, 158 e n ALBERTI, Annibale, XI ALIGHIERI, Dante, 177, 181n, 182 ANDREOZZI, Gaetano, 82 ARDAVANI, Achille, 4n ARRIVABENE, Opprandino, XI, XIII e n, 5 e n, 19n, 148 e n, 153 e n AUERBACH, Erich, 72 e n AVELLINI, Luisa, 119n, 163n BACH, Johann Sebastian, XXII, 177n, 180 BADIALI, Cesare, 4n BAGASSE`T, 102n, 121 e n BALDACCI, Luigi, 73n BALDINI, Gabriele, 35 e n, 74 e n BALESTRA, Luigi, 22 BALILLA PRATELLA, Francesco, 119n BARBIERI NINI, Marianna, 35n, 39, 49n, 5051, 52n, 59, 60n BARBLAN, Guglielmo, 7 e n, 12 e n, 13 BAREZZI, Antonio, XI, 14 BARILLI, Bruno, 119n, 163 e n BARONI, Mario, 13n BASEVI, Abramo, XI, 11 e n, 12n, 87n, 94 e n, 152 e n, 153n BEAUMONT (pseud. di BEAUME) Alexandre, 55n BEETHOVEN, Ludwig van, 33 BELLAIGUE, Camille F., 11 e n, 185-186 BELLINI, Vincenzo, 8, 13, 31n, 50, 76, 81-82, 84, 86-87, 90-91, 152

BERETTA, Caterina, 110, 111 e n BERLIOZ, Hector, 50n, 65, 76 BERTOJA, Giuseppe, 135n BETTAZZI, Enrico, 2 BETTONI, Nicolo`, 70 BIANCONI, Lorenzo, 67n BIE, Oscar, 11 e n BIGGI, Maria Ida, 53n BIONDI, Gaetano, 52n BLASIS, Carlo, 110-111 BOIGNE, Charles de, 111 e n, 112, 115 e n BOITO, Arrigo, XI, XIII-XV, XXI e n, 5 e n, 7, 8n, 22, 74n, 126, 143, 161, 169 e n, 172, 174, 175 e n, 176, 178, 179 e n, 180-181, 185-186, 188, 190 BORREL, Euge`ne, 185 e n BORSI, Carlo, 91 BOTTESINI, Giovanni, 141n, 157-159 BOURGES, Maurice, 104n BRAGAGNOLO, Giovanni, 2, 5 e n, 7, 8n BRAGGI, Teresa, 4n BRECHT, Bertolt, 63 e n, 64 BRENNA, Guglielmo, 147 BRU¨CKWALD, Oscar, 137 BUCCINI, Eloisa, 4n BUDDEN, Julian, XI, XXII, 13n, 73 e n, 87 e n BUSCH, Fritz, 53n, 54 BUSI, Aldo, 73n BUSI, Alessandro, 172 BU¨THE, Otfried, 22n CˇAJKOVSKIJ, Pe¨tr Il’ic, 109, 116 CALVI, Antonio, 32, 36, 47 CALZADO, Toribio, 52n CAMELLINI, Teresa, XVI, 153n, 165n CAMILLO (detto ‘‘IL BIANCHINO’’), 120n

* In neretto si sono evidenziate le pagine in cui il nome delle opere verdiane ricorre piu` frequentemente.

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INDICE DEI NOMI

CAMMARANO, Salvatore, 35n, 39, 41, 44-45, 67, 68 e n, 69-70, 72, 75, 146 CANOVA, Antonio, 122n CANOVETTI, Cosimo, 43 CAPONI, Jacopo (FOLCHETTO), 2 CAPUTO, Michele Carlo, 169 e n, 184 e n CARETTI, Laura, 40n CARPITELLA, Diego, 103n CARVALHO, Le´on, 46n CASATI DI GREGORIO, Marisa, XI, 169n CASTELLANI, Emilio, 63n CASTIGLIONI, Niccolo`, 64 e n, 65, 74-76 CASTIL-BLAZE (Franc¸ois-Henri-Joseph BLAZE ), 111 e n CATEL, Franz Ludwig, 136 CAVALLI, Hercules, 122n, 137 CECCHI, Nicola, 121 CENCETTI, Giuseppe, 140n CERQUETELLI, Giuseppe, 172 CERRITO, Fanny, 110 CESARI, Gaetano, XI, 161n CETTI MARINONI, Bianca, 70 e n, 71n CHECCHI, Eugenio, 1 e n, 2-3, 6-7 e n, 8 CHERBULIEZ, Antoine E’lise’e Adolphe, 3 e n, 12 e n CHOP, Max, 4n CHUSID, Martin, 39n CIMA, Giuseppe, 45n CIMAROSA, Domenico, 87 CIRIACHE, Celestino, 172n CISOTTI, Virginia, 71 e n, 72, 75 COHEN, Robert H., 39n COLINI, Filippo, 4n CONATI, Marcello, XI, XII, 91n-93n, 96n-97n, 120n, 125n, 130n-131n, 140n, 153n, 169n, 179n CONTEDINI, Nicola, 52n CORALLI, Jean, 109 COTTRAU, Teodoro, 116 CRESCENTINI, Adolfo, 171-172, 174, 183n, 187 CRISTIANI, Andrea, 119n CROFF, Maddalena, 4n CRUVELLI, Sofia, 107, 108n CUCCHI, Claudia, 110, 111 e n DALBERG, Wolfgang Heribert, 73 D ’AMICO, Fedele, 138 e n D’ANGELI, Andrea, 10 e n D’ARCAIS FLORES, Francesco, 9 DE ANGELIS, Alberto, 172n

DEBUSSY, Claude, XIX DE GIULI, Teresa, 91 DELFRATI, Carlo, 58 e n DELLA CORTE, Andrea, XXII, 12 e n DELLA SETA, Fabrizio, 155n, 164 e n DELORD, Taxile, 104n DE MARTINO, Ernesto, 103n DEPANIS, Giuseppe, 191n DE ROVRAY, si veda FIORENTINO, Pier Angelo DE SANCTIS, Cesarino, 102, 106, 108, 116 DE SIMONE, Roberto, 103n DI GREGORIO CASATI, Marisa, 154n DONIZETTI, Gaetano, 8, 13, 19, 31n-32n, 50 e n, 59, 81, 86, 91, 106, 152, 157 DRESSER, Herbert, 90 e n DU LOCLE, Camille, 143 DUMAS, Alexandre (pe`re), 66, 67n, 69, 91n DURANTE, Francesco, XVI EBERT, Carl, 54 EINSTEIN, Alfred, 10 e n ESCUDIER, Le´on, XX, 39, 41, 44-45, 46n, 48, 49n, 53, 55 e n, 57, 60, 104n ESPLA´, Oscar, 11 e n FACCIO, Franco, 179 FALCHI, Stanislao, 191 FAVARA, Alberto, 102 e n, 116 e n FENAROLI, Fedele, 121, 188 FERLOTTI, Raffaele, 4n, 22 FERRARI, Augusto, 172n FERRARI, Paolo Emilio, 33n FERRI, Gaetano, 52n FE´TIS, Franc¸ois-Joseph, XVIII, 19 e n, 33, 78 e n FILIPPI, Filippo, XV e n, XVI, 79n FIORENTINO, Pier Angelo, 104n, 121 FLORIMO, Francesco, XV e n FOLCHETTO, si veda CAPONI, Jacopo FONTANA, Luca, 13n FORLI`, Aldo, 172 e n FRASCHINI, Gaetano, 4n, 50 FRAZER, James G., 167n FRESNAY, Paul, XVIII, 78n FREZZOLINI, Erminia, 50 GAGLIARDI, Alessandro, 33 GALLARATI, Paolo, 53n GALLICO, Claudio, XVIII, XIX

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INDICE DEI NOMI

GALLIGNANI, Giuseppe, 169-170, 179-181, 182 e n, 183n-184n, 185, 187, 191n GARA, Eugenio, 121n GARIBALDI, Francesco Temistocle, 5 e n GARIBALDI, Luigi Agostino, XI GARIBOLDI, Rosalia, 4n GASPERINI, Guido, 11 e n GATTI, Carlo, XXII, 10 e n, 14n, 22n GENERALI, Pietro, 82 GERICK, Herbert, 3 e n, 7 e n, 12 e n GERMONT, Giorgio, 100, 153 e n GHIELMI, Licia, 120n GHIELMI, Marcellina, 120n GHISLANZONI, Antonio, 77n, 154 e n, 155-156, 165-166 GIANOLI, Luigi, 12 e n GIGOU, Marie-Odile, 39n GIOVANELLI, Paola Daniela, 13n GIRALDI, Romolo, 12 e n GIUSTI, Giuseppe, 34 e n GLUCK, Christoph Willibald, 106 GOLDIN FOLENA, Daniela, IX GOLINELLI, Stefano, 172 GOMEZ, Giuseppe, 4n GORRIO, Tobia, si veda BOITO, Arrigo GOSSETT, Philip, 154n, 156n GOUNOD, Charles, 106 GRAHN, Lucile, 110 GRAZIANI, Francesco, 52n GRAZIANI, Lodovico, 52n GRILLI, Natalia, 125n, 130n GRISI, Carlotta, 110 GRISI, Giulia, 52n GRU¨NINGER, Fritz, 191n GUCCINI, Gerardo, 50 e n, 145n GUERRAZZI, Francesco Domenico, 146 GUGLIELMINI, Luigi, 4n HANSLICK, Eduard, 8, 9n, 191n HEPOKOSKI, James A., 140n HERMET, Francesco, 97 e n HOLL, Karl, 4n, 191n HOPKINSON, Cecil, 191n HU¨BSCH-PFLEGER, Lini, 191n HUGO, Victor, 136, 141 HUSS, Pierre, 111 HUSSEY, Dyneley, 3 e n, 177 e n KALLBERG, Jeffrey, 67 e n KRETZSCHMAR, Hermann, 11 e n KU¨HNER, Hans, 11 e n IFFLAND, August Wilhelm, 69n

LAMBERTINI, Angelo, 1n LANARI, Alessandro, 22n, 31, 37, 40, 42-43, 46-47, 135, 142n LAUDAMO, Antonio, 66 LAVAGETTO, Mario, 119n LAVIGNA, Vincenzo, VIII, XIV-XVI, XX, 121, 188 LAWTON, David, 18n, 40n, 46 LEGRAIN, Vittorina, 110-112 LEO, Leonardo, XVI LEYDI, Roberto, 103n LICHTENTHAL, Peter, 15 LOCATELLI, Carlo, 111 LOCATELLI, Tommaso, 93 LONATI, Catone, 4n LOSCHELDER, Joseph, 3 e n LUALDI, Adriano, 12 e n LUCEARDI, Vincenzo, 125n LU¨CK-BOCHAT, Almuth, 22n LULLY, Jean-Baptiste, 106 LUPORINI, Gaetano, 191n LURANI, Giovanni (conte), 180 LUZIO, Alessandro, XI, 41n, 102n, 108n, 116n, 185n MACKENZIE, Alexandre, 191 MAEHDER, Ju¨rgen, 68n MAFFEI, Andrea, 66, 70 e n MAFFEI, Clara, 14n, 125n MALRAYE, Jean, 11 e n MANSKOPF, Nicola, 22n MANZOCCHI, Mariano, 66n MANZONI, Alessandro, 178 MAQUET, Auguste, 66, 69, 91n MARCHESI, Gustavo, 14n, 179n MARCHI, Virginio, 123 e n, 163n, 166n MARINI, Ignazio, 4 e n, 18 MARIOTTI, Corinno, 106, 107 MARTINI, Ferdinando, 34n MASCAGNI, Pietro, 191 MASCHERONI, Edoardo, 137n MASSINI, Pietro, 22 e n, 29 MAYR, Johann Simon, 82 MAZILIER, Joseph, 111 MAZZUCCHETTI, Lavinia, 70 e n MEDICI, Mario, XI, 158, 169 e n MEINI, Vincenzo, 32 e n, 33n, 35, 44, 47 MERCADANTE, Saverio, 19, 20 e n, 50, 85-86, 91 MERELLI, Bartolomeo, 2, 14-15, 18, 21 MEYERBEER, Giacomo, 31-34, 37, 106

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INDICE DEI NOMI

MICHELI, Giuseppe, 122 e n MILA, Massimo, VII, XI-XXII, 6n, 9n, 10 e n, 12-13 e n, 15n, 34n, 49-50, 81, 96 e n, 163 e n, 177 e n, 197 MIRAGOLI, Luisa, 7 e n MITROVICH, Giovanni, 81n MONTEVERDI, Claudio, 197 MOMPELLIO, Federico, 11 e n MONALDI, Gino, 2 e n, 3, 4 e n, 5, 6 e n, 7, 8 e n MONJAUZE, Jules-Se´bastien, 46n MONTANELLI, Giuseppe, 126 e n MONTAZIO, Enrico, 33-34, 36, 43 e n, 47, 121 en MORANDINI, L., 4n MORELLI, Alamanno, 40 MORELLI, Domenico, 119 MORELLI, Giovanni, IX, XVI MOSSA, Carlo Matteo, 66, 154n MOZART, Leopold, 39n MOZART, Wolfgang Amadeus, XIII, XV, 32-33, 39n, 167 MURARO, Maria Teresa, 135n MUZIO, Emanuele, XI, 66 NAPPI, Giovanni Battista, 181 NASOLINI, Sebastiano, 82 NATHAN, Ernesto, 110-112 NICOLL, Allardyce, 136n NORSA, Vittorio, 172 NOSEDA, Aldo, 178 NUITTER, Charles-Louis-E´tienne, 55n

QUARANTA, Costantino, 66n

OBERDORFER, Aldo, XI, 11 e n OLIVARES, Christian, 13n OSBORNE, Charles, 177 e n OSTHOFF, Wolfgang, IX, 141 e n OXILIA, Giuseppe, 175n PAE¨R, Ferdinando, 82 PAISIELLO, Giovanni, XV PALAZZESI, Matilde, 4n PALESTRINA, Giovanni Pierluigi da, 179-180, 184 PANCIATICHI, Lorenzo, 120n PANIZZA, Giacomo, 16 PANNAIN, Guido, 11 e n PANTINI, Emi, 75n PASCOLATO, Alessandro, 155n PAVARANI, Marcello, 170 PAVESI, Stefano, 82

PAVLOVA, Anna, 111n PERGER, Richard von, 191 PERINELLO, Carlo, 4n PERROT, Jules, 109-110 PESTELLI, Giorgio, 15n, 81n PETIPA, Lucien, 109-110 PETIPA, Marius, 109 PETROBELLI, Pierluigi, XVI, 148 e n, 154n PIAMONTE, Guido, 179n PIAVE, Francesco Maria, 34n, 37-38, 46-47, 107n, 125, 126 e n, 127, 130, 132 e n, 136 e n, 137, 142n PIAZZA, Antonio, 16-17, 21 PICCININI, R., 4n PICCININI, Piovano, Ugo, XI PINZAUTI, Leonardo, 42n PITRE`, Giuseppe, 102 e n PIZZIGATI, coniugi, 52n PONCHIELLI, Amilcare, 131, 161 e n PORTER, Andrew, VIII, 52n POUGIN, Arthur, XII, XV, 1, 2-3 e n, 15n, 21n, 102n POWERS, Harold, 153n POZZONI, Antonietta, 158 e n PREOBRAJENSKA, Olga, 111n PROD’HOMME, Jacques-Gabriel, 55n PROUST, Marcel, 123 e n PROVESI, Ferdinando, XIV PUCCI, Luigi, 172n

XVI , XXII,

RADIUS, Emilio, 8 e n RAINERI MARINI, Antonietta, si veda Ranieri RAMEAU, Jean-Philippe, 106 RAMONDA, Jose´, 81n RANIERI MARINI, Antonietta, 3 e n, 4n, 18, 22 RANZANICI, Stefano, 31 REGLI, Francesco, 17n REIS, Max, 39n REYER, Ernest, 104n RIBERA, Almerico, 11 e n RICCI, Luigi, 19 RICORDI, Giovanni, 2, 20 e n RICORDI, Giulio, 2, 137, 139n, 140, 143, 154n, 157, 161, 170-171, 175n, 180-182, 184-190 RICORDI, Tito, XIII, 126n, 129n, 130 RISTORI, Adelaide, 40, 60, 61 ROBERTSON (pseud. di ROBERT, E´tienne-Gaspard), 42

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INDICE DEI NOMI

ROMANI, Felice, 19n RONCAGLIA, Gino, XXII, 12 e n, 166 e n, 177 e n RONCONI, Giorgio, 50 ROSATI, Carolina, 110-111 ROSEN, David, VIII, 18n, 52n ROSS, Peter, 68n ROSSI, Annabella, 103n ROSSINI, Gioachino, XVI, 32-33, 82-83, 84 e n, 86, 106, 136n, 152 RUGGIERO, Adele, 4n RUGGIERO, Laura, 4n RUSCONI, Carlo, 69 e n SALVI, Lorenzo, 4n, 18 SANQUIRICO, Alessandro, 42, 134 SARTORI, Claudio, XIVn, 1n SAVI, Luigi, 19 e n SCANSANI, Alessandro, VII SCARLATTI, Alessandro, XVI, 182n SCHERCHEN, Hermann, 177 e n SCHIERONI NULLI, Luigia, 81n SCHILLER, Friedrich, 64 e n, 65, 66-69 e n, 7071, 73 e n, 74, 75n, 91n, 146 SCHMIDL, Carlo, 32n, 172n SCHMITZ, Eugen, 191n SCHO¨NBERG, Arnold, XXI SCRIBE, Euge`ne, 16-17, 32 SELETTI, Emilio, 16 SELVA, Antonio, 33n SEMPER, Gottfried, 137 SERAFIN, Tullio, 52 e n SHAKESPEARE, William, XXI, 31, 33-34, 40 e n, 44, 55-58, 68n, 73-74 SHAW, Maria, 3, 4n, 18 SHEEAN, Vincent, 3n SIVELLI, Stefano, 122, 123 e n, 163 SOFFREDINI, Alfredo, 12 e n SOLERA, Temistocle, 16-17, 21, 132 e n SOMMA, Antonio, 155n SPECHT, Richard, 4n SPERANZA, Giovanni, 19 e n SPITZER, Leo, 123 e n SPONTINI, Gaspare, 106 STAE¨L, Madame de, 132 STARGARDT, Joseph A., 39bn STEFANI, Guglielmo, 33, 47 STEFFENONI, Balbina, 45n STENZL, Ju¨rg, 68n

15

STRAVINSKY, Igor Fe¨dorovic, VII STREHLER, Giorgio, 63 STREPPONI, Giuseppina, 3 e n, 14, 50 e n, 92, 136n, 189 SUPERCHI, Antonio, 33n TAFFANEL, Paul, 190-191 TAGLIONI, Filippo, 110 TAGLIONI, Maria, 110 TEBALDINI, Giovanni, 11 e n, 186 TESSADRELLI, Luca, XXII e n TIBY, Ottavio, 116 e n, 118 TONI, Alceo, 52 e n TOYE, Francis, 3 e n, 177 e n TORELLI, Vincenzo, 125n-126n TOSCANINI, Arturo, 191 TRAVIS, Francis Irving, 7 e n TREFILOVA, Vera, 111n UGOLINI, Giovanni, 58 e n UNTERHOLZNER, Ludwig, 3 e n, 4n VALENTE, Saverio, 188 VARESI, Felice, 31, 35n, 50-51 VARESI, Giulia Cora, 51n VARSI, Ottorino, 172, 183n VERNER, Zacharias, si veda WERNER, Zacharias VETRO, Gaspare Nello, 179n VIALE FERRERO, Mercedes, 53n, 140n VIGNA, Cesare, 126-127, 130 VIOLA, Luisa, 163n VITALI, Nando, 42n WAGNER, Richard, VII, 3n-4n, 10, 48, 107, 137, 190 WALKER, Frank, XII, 1-2 e n, 3n, 4 e n, 7, 14n, 16n, 49n, 126n WEBER, Carl Maria von, 32-33, 37 WEISS, Piero, 67n, 69 e n, 72n, 73 WEISSMANN, Adolf, 3 e n WERFEL, Franz, VIII WERNER, Zacharias, 132 WINTERFELD, Adolf von, 121n ZANOLINI, Antonio, 83 ZINGARELLI, Nicola Antonio, 82

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INDICE DELLE OPERE

Aida (Giuseppe Verdi), IX, XV, XVIII, XX-XXI, 14, 39n, 77, 90, 97, 107, 119, 122 e n, 123n, 137, 139 e n, 141 e n, 149, 151, 153, 154 e n, 157n, 158 e n, 161, 163-164 e n, 165, 197 Allemagne (De l’) (Madame De Stae¨l), 132 Alzira (Giuseppe Verdi), 55n, 134 Amleto (Gaetano Andreozzi), 82 Amore e raggiro (Friedrich Schiller), 64, 66, 67n, 69n, 70 Anna Bolena (Gaetano Donizetti), 86, 91 Aroldo (Giuseppe Verdi), 53n Arte della fuga (L’) (Johann Sebastian Bach), 177n Assedio di Firenze (L’) (Francesco Domenico Guerrazzi), 66, 68, 73n, 146 Attila (Giuseppe Verdi), 19, 36, 60n, 131, 132 e n, 133, 135, 137, 142 Ave Maria su scala enigmatica (Giuseppe Verdi), VII, IX, XIVn, XXI, 169-170, 174-176, 177 e n, 178-180, 181-184 e n, 185-190, 191 e n Baccanali di Roma (I) (Pietro Generali), 82 Ballo in maschera (Un) (Giuseppe Verdi), XX, XXI , 14, 38n-39n, 52, 57, 61, 91n, 105, 121, 140 e n, 151, 154, 155 e n Battaglia di Legnano (La) (Giuseppe Verdi), 12n, 91, 97 Bravo (Il) (Saverio Mercadante), 20 e n, 8586, 91 Cabala e amore (Friedrich Schiller), 70 e n Camilla (Ferdinando Pae¨r), 82 Capuleti e i Montecchi (I) (Vincenzo Bellini), 91 Caterina di Cleves (Luigi Savi), 19n Ciarlatani (I) (Giacomo Panizza), 16 Contadino di Agliate (Il) (Temistocle Solera), 17 Corradino (Stefano Pavesi), 82 Corsaro (Il) (Giuseppe Verdi), 39, 129 De´sert (Le) (Fe´licien David), 133

Diable a` quatre (Adolphe Adam), 111 Don Carlos (Giuseppe Verdi), XIX, 39n, 52-53, 90, 106-107, 109, 151 Don Giovanni (Wolfgang Amadeus Mozart), XV , 37, 167 Due Figaro (I) (Giovanni Antonio Speranza), 19n Due Foscari (I) (Giuseppe Verdi), 15, 53n, 151 Ernani (Giuseppe Verdi), XVII, 15, 33n, 53n, 60, 90, 92, 134, 147 Ettore Fieramosca (Antonio Laudamo), 66 e n Ettore Fieramosca (Marcello Manzocchi), 66 e n Ettore Fieramosca (Costantino Quaranta), 66 en Falstaff (Giuseppe Verdi), XXI-XXII, 8, 12n, 14, 39n, 73, 142, 166, 178-179, 181n-183n, 188, 197 Fausta (Gaetano Donizetti), 59 Favorita (La) (Gaetano Donizetti), 106 Fidelio (Ludwig van Beethoven), VIII Fiesco (Friedrich Schiller), 70 Finto Stanislao (Il) (Giuseppe Verdi), 11n, 181 Forza del destino (La) (Giuseppe Verdi), VIIIn, 38n, 52, 103, 135, 146n, 149, 151, 154 Franco cacciatore (Il) (Carl Maria von Weber), 37 Fuga del gatto (La) (Domenico Scarlatti), 182n Galmar Ben [Macbeth] (Giuseppe Verdi), 52n Ginevra di Scozia (Johann Simon Mayr), 82 Gioconda (La) (Amilcare Ponchielli), 107, 131, 161 Giorno di regno (Un) (Giuseppe Verdi), 7, 9-10, 11n, 13-14, 181 Giovanna di Guzman [Vespri siciliani, I] (Giuseppe Verdi), 38n Giselle (Adolphe-Charles Adam), 109 Giulietta e Romeo (Nicola Antonio Zingarelli), 82

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INDICE DELLE OPERE

Giuramento (Il) (Saverio Mercadante), 85-86, 91 Guglielmo Tell (Gioachino Rossini), 106, 136 en Guglielmo Wellingrode [Stiffelio] (Giuseppe Verdi), 96 Harmonielehre (Arnold Franz Walther Scho¨nberg), XXI Kabale und Liebe (Friedrich Schiller), 64-66, 68, 69 e n, 72-73, 75n, 91 Ildegonda (Temistocle Solera), 17 Intrigue et amour (Alexandre Dumas, Auguste Maquet), 66, 91n Je´rusalem (Giuseppe Verdi), 107-108 Laudi alla Vergine (Giuseppe Verdi), 182 Lombardi (I) (Giuseppe Verdi), 15, 53n, 81, 90, 148, 176, 181 Lord Hamilton (Antonio Piazza), 16 Louise Miller, si veda Luisa Miller Louise Millerin (Friedrich Schiller), 69 Lucia di Lammermoor (Gaetano Donizetti), 87, 152, 157 Lucrezia Borgia (Gaetano Donizetti), 91 Luisa Miller (Giuseppe Verdi), VIII, XVIII, 9n, 53n, 63, 65-66, 67 e n, 68n, 69, 72, 73n, 74, 75n, 90, 91 e n, 97, 108, 115, 134 Macbeth (Giuseppe Verdi), VIII, XX, 31 e n, 32, 34n-35n, 36-37, 38 e n, 39n, 40 e n, 41-42, 43 e n, 45, 46n, 49-50, 51-53 e n, 55n, 57, 58 e n, 66, 74, 92, 134-135, 138, 140 e n, 150-152 Maria di Rudenz (Gaetano Donizetti), 32n, 91 Maria Padilla (Gaetano Donizetti), 86 Maria Stuarda (Gaetano Donizetti), 91 Marin Faliero (Gaetano Donizetti), 91 Masnadieri (I) (Giuseppe Verdi), 41, 53n, 66, 70 e n, 90 Masnadieri (I) (Friedrich Schiller), 41, 53n, 66, 70 e n, 90 Mefistofele (Arrigo Boito), 22, 107 Meistersinger von Nu¨rnberg (Die), [Maestri cantori di Normiberga (I)] (Richard Wagner), 190 Messa da Requiem (Giuseppe Verdi), XVIII, XX-XXI , 14, 78n, 122, 166, 168, 197

Missa Papæ Marcelli (Giovanni Pierluigi da Palestrina), 180 Morte di Cleopatra (Sebastiano Nasolini), 82 Nabucco (Giuseppe Verdi), XV, XVII, 6, 9-10, 11n-12n, 13-14, 15 e n, 20 e n, 23, 53n, 81, 88, 90, 148, 181 Norma (Vincenzo Bellini), 18, 82, 84-86, 91, 152 Oberto conte di San Bonifacio (Giuseppe Verdi), VII-VIII, XV, 1 e n, 2-3, 4 e n, 5-9, 10-13 e n, 14-15, 16 e n, 17n, 18-19, 20-21 e n, 22, 73, 90, 181, 188, 197 Opera da tre soldi (L’) (Bertold Brecht), 63 e n, 64-65 Orazi e i Curiazi (Gli) (Domenico Cimarosa), 87 Otello (Giuseppe Verdi), XVIII, 9 e n, 10, 14, 39n, 74n, 107, 140 e n, 143, 153, 175 e n, 177, 182, 190 Peregrina (La) (Giuseppe Verdi), 106 Pezzi sacri (Giuseppe Verdi), XXI, XXII e n, 10, 169-170, 177 e n, 182, 189-190, 191 e n, 197 Profeta (Il) (Giacomo Meyerbeer), 106 Puritani (I) (Vincenzo Bellini), 91 Quatre Saisons (Les) [Quattro stagioni (Le)] (Giuseppe Verdi), XIX, 109-110, 116 Rheingold (Das), [Oro del Reno (L’)] (Richard Wagner), 48 Rigoletto (Giuseppe Verdi), XVIII, XIXn, XXI, 65, 91 e n, 92, 96, 122, 135 e n, 136, 140141, 149-150 Roberto Devereux (Gaetano Donizetti), 91 Roberto il Diavolo [Robert le Diable] (Giacomo Meyerbeer), 32-33, 37 Rocester, [Rochester], (Antonio Piazza), 1 e n Roi s’amuse (Le) (Victor Hugo), 136 Sei Romanze (Giuseppe Verdi), 10n Semiramide (Gioachino Rossini), 32-34, 83, 85-86, 152 Simon Boccanegra (Giuseppe Verdi), XXI, 39n, 52, 74n, 90, 125-126 e n, 129-130 e n, 135137, 140, 151-153, 197 Sivardo il Sassone [Macbeth] (Giuseppe Verdi), 52n

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INDICE DELLE OPERE

Sonnambula (La) (Vincenzo Bellini), 153 Stiffelio (Giuseppe Verdi), IX, 81, 91, 92 e n, 96-97, 100, 134, 136, 152n Straniera (La) (Vincenzo Bellini), 153 Sylphide (La) (Jean Schneitzho¨ffer), 110 Tancredi (Gioachino Rossini), 82 Tannha¨user (Richard Wagner), 107 Traviata (La) (Giuseppe Verdi), 39n, 61, 92, 96, 100, 105, 115, 119, 125n, 136, 139, 149, 151, 153 e n, 154

Trouve`re (Le) (Giuseppe Verdi), 109 Trovatore (Il) (Giuseppe Verdi), VIII, XVIII, 22n, 65, 92-93, 96, 107, 134, 142, 148n, 151 Vespri siciliani (I) [Veˆpres siciliennes (Les)] (Giuseppe Verdi), IX, XIX, 38n, 39, 52, 53n, 101-103, 105-108, 110-113, 115, 121, 142, 143n, 151, 163n Vestale (La) (Gaspare Spontini), 91 Wallenstein (Friedrich Schiller), 68, 146

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INDICE GENERALE

Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Pag. VII

Abbreviazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

Preambolo, Contrappunto e dramma in Verdi . . . . . . . . . . . . .

» XIII

Prima ricognizione, L’Oberto conte di San Bonifacio. In due recensioni straniere poco note e in una lettera di Verdi . . . . . . . . . . .

»

1

Seconda ricognizione, Aspetti della messinscena del Macbeth di Verdi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

31

Terza ricognizione, A proposito di Luisa Miller. Da tragedia borghese a dramma familiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

63

Quarta ricognizione, «E quasi si direbbe prosa strumentata». L’aria «a due» in Stiffelio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

81

Quinta ricognizione, Ballabili nei Vespri siciliani (con alcune osservazioni su Verdi e la musica popolare) . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

101

Sesta ricognizione, Prima le scene, poi la musica... . . . . . . . . . .

»

125

Settima ricognizione, Aspetti di melodrammaturgia verdiana (a proposito del duetto Aida-Amneris) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

147

Ottava ricognizione, Esotismi, fato e magia in Aida . . . . . . . . .

»

163

Nona ricognizione, Le Ave Maria di Verdi su scala enigmatica. Dalla prima alla seconda stesura (1889-1897) . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

169

Commiato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

197

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

199

Indice delle opere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

205

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XI

FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GIUGNO 2014

«HISTORIAE MUSICAE CULTORES» Diretta da VIRGILIO BERNARDONI, LORENZO BIANCONI, FRANCO PIPERNO 1. Mostra di strumenti musicali in disegni degli Uffizi. A cura di L. Marcucci. 1952. Esaurito 2. Collectanea Historiae Musicae, vol. I. 1953. Esaurito 3. PARIGI, L., «Laurentiana». Lorenzo dei Medici (16241705), Musicista - Letterato - Architetto. Perugia-Dresda. 1956. Esaurito 4. BRIGANTI, F., Gio. Andrea Angelini-Bontempi cultore della musica. 1954. Esaurito 5. RONCAGLIA, G., La cappella musicale del Duomo di Modena. 1957, 334 pp. con 17 tavv. f.t. 6. Collectanea Historiae Musicae, vol. II. 1956, 478 pp. con ill. ed es. mus. 7. PACCAGNELLA, E., Palestrina, il linguaggio melodico e armonico. 1957. Esaurito 8. CARRARA, M., La intavolatura di liuto del MDLXXXV. A cura di B. Disertori. 1957, 4 pp. con un foglio per la riprod. dell’originale e con la trascr. sul verso. In busta. 9. TIBY, O., Il Real Teatro Carolino e l’Ottocento musicale palermitano. 1957. Esaurito 10. LUNELLI, R., L’Arte organaria del Rinascimento in Roma e gli organi di S. Pietro in Vaticano dalle origini a tutto il periodo frescobaldiano. 1958. Esaurito 11. RICCI DES FERRES-CANCANI, G., Francesco Morlacchi (1784-1841). Un maestro italiano alla Corte di Sassonia. 1958, VIII-224 pp. con 14 tavv. f.t. e 1 pieghevole. 12. ALLORTO, R., Le sonate per pianoforte di Muzio Clementi. Studio critico e catalogo tematico. 1959. Esaurito 13. GALLICO, C., Un canzoniere musicale italiano del Cinquecento. 1961, 214 pp. con es. mus., 1 tav. f.t. e indici. 14. GEORGII ANSELMI PARMENSIS, De musica. A cura di G. Massera. 1961, 210 pp. con 5 tavv. f.t. e 1 pieghevole. 15. GAMBERINI, L., La parola e la musica nell’antichita`. Confronto fra documenti musicali antichi e dei primi secoli del Medioevo. 1962, XII-450 pp. con molti es. mus. Rilegato in imitlin. 16. FABBRI, M., Alessandro Scarlatti e il Principe Ferdinando de’ Medici. 1961. Esaurito 17. Collectanea Historiae Musicae, vol. III. 1963, 192 pp. con 13 tavv. f.t. ed es. mus. 18. MASSERA, G., La «mano musicale perfetta» di Francesco de Brugis, dalle prefazioni ai corali di L. A. Giunta (Venezia, 1499-1504). 1963. Esaurito 19. Luigi Cherubini nel II centenario della nascita. Contributo alla conoscenza della vita e dell’opera. 1962, VIII220 pp. con 11 tavv. f.t. 20. SELDEN-GOTH, G., Ferruccio Busoni. Un profilo. 1964, 136 pp. con 3 tavv. f.t. 21. BONACCORSI, A., Maestri di Lucca. I Guami ed altri musicisti. 1967, IV-160 pp. con 10 tavv. f.t. e molti es. mus.

22. Collectanea Historiae Musicae, vol. IV. 1966, VI-318 pp. con molti es. mus. 23. MOMPELLIO, F., Lodovico Viadana. Musicista fra due secoli (XVI-XVII). 1966, XII-354 pp. con 40 tavv. f.t. e molti es. mus. 24. Gioacchino Rossini. A cura di A. Bonaccorsi. 1968, 262 pp. 25. DONA`, M., Espressione e significato nella musica. 1968, 144 pp. con molti es. mus. 26. DERE´GIS, H., Alessandro Marcello, nel terzo centenario della nascita (Venezia 1669-1747). Sei cantate da camera. 1969, 32 pp. di introduzione e 164 pp. di testo musicale, con 2 ill. f.t. 27. CASELLI, A., Catalogo delle opere liriche pubblicate in Italia. 1969, XII-896 pp. 28. NICOLAI BURTII PARMENSIS, Florum Libellus. Introduz. testo e commento a cura di G. Massera. 1975, 192 pp. con ill. n.t. e 5 tavv. f.t. 29. RINALDI, M., Le opere meno note di G. Verdi. 1975, VIII-304 pp. con 12 tavv. f.t. 30. MARIANI, R., Verismo in musica e altri studi. 1976. Esaurito 31. PELUZZI, E., Tecnica costruttiva degli antichi liutai italiani. 1978, X-426 pp. con 285 ill. n.t. e 5 tavv. f.t. Ristampa 2002. 32. GAMBERINI, L., Plutarco «Della Musica». 1979, 360 pp. con molti es. mus. n.t. e 2 tavv. f.t. 33. RINALDI, M., Il teatro musicale di Antonio Vivaldi. 1979, VIII-280 pp. con molti es. mus. n.t. e 16 tavv. f.t. 34. DALMONTE, R., Camillo Cortellini madrigalista bolognese. 1980, 196 pp. con 6 tavv. f.t. 35. Musica italiana del primo Novecento. «La generazione dell’80». A cura di F. Nicolodi. 1981, XII-448 pp. 36. ARNESE, R., Storia della musica nel Medioevo europeo. 1983, 336 pp. con 17 tavv. f.t. 37. RINALDI, M., Wagner senza segreti. 1983, XIV-602 pp. con una tav. f.t. e molti es. mus. n.t. 38. GIAZOTTO, R., Le due patrie di Giulio Caccini. Musico mediceo (1551-1618). 1984, VIII-90 pp. con 23 tavv. f.t. 39. PIPERNO F., Gli «Eccellentissimi musici della citta` di Bologna». 1985, VIII-200 pp. 40. Restauro, conservazione e recupero di antichi strumenti musicali. 1986, II-282 pp. con 24 ill. f.t. 41. RINALDI, M., Le opere piu` note di Giuseppe Verdi. 1986, VIII-516 pp. con 17 ill. f.t. 42. GOZZI, S., ROCCATAGLIATI, A., Catalogo della discoteca storica «Arrigo ed Egle Agosti» di Reggio Emilia, vol. I: Opere complete e selezioni, 1985, XXII-106 pp. 43. VILLANI, G., Il primo e il secondo libro delle Toscanelle a quattro voci. Introduzione, testi musicali e letterari e apparato critico a cura di F. Bussi. 1987, II-246 pp.

44. GAMBASSI, O., La Cappella musicale di S. Petronio. Maestri, organisti, cantori e strumentisti dal 1436 al 1920. 1987, VIII-514 pp. con 99 ill. n.t. e 1 tav. f.t. 45. ROSSI, F., I manoscritti del Fondo Torrefranca del Conservatorio Benedetto Marcello. Catalogo per autori. 1986, XVI-360 pp. 46. Non pubblicato. 47. BRUMANA, B., CILIBERTI, G., GUIDOBALDI, N., Catalogo delle composizioni musicali di Francesco Morlacchi (1784-1841). 1987, 208 pp. con 24 pp. di incipit mus. e 13 ill. f.t. 48. BIANCHINI, G., BOSTICCO, G., Liceo-Societa` musicale «Benedetto Marcello» (1877-1895). Catalogo dei manoscritti (Prima Serie). 1989, LII-336 pp. con ill. ed es. mus. n.t. 49. Benedetto Marcello, la sua opera e il suo tempo. A cura di C. Madricardo e F. Rossi. 1988, VIII-484 pp. con es. mus. n.t. 50. MECARELLI, P., «Il Zabaione musicale» di Adriano Banchieri. 1987, VI-162 pp. con 3 ill. f.t. 51. MIGGIANI, M. G., Il Fondo Giustiniani del Conservatorio Benedetto Marcello. Catalogo dei manoscritti e delle stampe. 1990, VI-616 pp. 52. BIANCHINI, G., MANFREDI, C., Fondo Pascolato del Conservatorio Benedetto Marcello. Catalogo dei manoscritti (Prima Serie). 1990, XLVIII-426 pp. 53. DE GREGORIO, V., Gli strumenti musicali nella «Gazzetta Musicale di Milano». (1842-1902). Indice analitico. 1989, 112 pp. 54. La figura e l’opera di Ranieri de’ Calzabigi. Atti del Convegno. A cura di F. Marri. 1989, X-234 pp. 55. GAMBASSI, O., Il concerto palatino della Signoria di Bologna, 1989, VIII-736 pp. con 8 tavv. f.t. 56. ASSENZA, C., Giovan Ferretti tra canzonetta e madrigale. Con l’edizione critica del quinto libro di canzoni alla napolitana a cinque voci (1585). 1989, 228 pp. con es. mus. n.t. 57. La musica come linguaggio uniuersale. Genesi e storia di un’idea. A cura di R. Pozzi. 1990, 288 pp. 58. BRUMANA, B., CILIBERTI, G., Orvieto. Una cattedrale e la sua musica (1450-1610). 1990, XIV-426 pp. con 7 tavv. f.t. 59. VILLANI, G., Gratiarum actiones in Ser.mi Alexandri Farnesii II natali die a venti voci aggiunto il mottetto O sacrum convivium a cinque voci. Introduzione, testi musicali e letterari e apparato critico a cura di F. Bussi. 1992, 168 pp. 60. GARGIULO, P., Luca Bati madrigalista fiorentino. Con l’edizione moderna del Secondo Libro de Madrigali a cinque voci (1598). 1991, 208 pp. con 3 tavv. f.t. 61. KIRKENDALE, W., The Court Musicians in Florence during the Principate of the Medici. 1993, 754 pp. con 13 tavv. f.t. di cui 2 a colori e 2 pieghevoli. Rilegato. 62. BRUMANA, B., CILIBERTI, G., Musica e musicisti nella

Cattedrale di S. Lorenzo a Perugia (XIV-XVIII secolo). 1991, XVI-228 pp. 63. GAMBASSI O., L’Accademia filarmonica di Bologna. Fondazione, Statuti e Aggregazioni. 1992, X-474 pp. con ill. n.t. 64. CETRANGOLO, A., Esordi del melodramma in Spagna, Portogallo e America. Giacomo Facco e le cerimonie del 1729. 1992, 276 pp. con 30 ill. n.t. e 2 tavv. f.t. 65. FABIANO, A., Le stampe musicali antiche del Fondo Torrefranca del Conservatorio Benedetto Marcello. 1992, 2 tomi di XXIV-778 pp. complessive. 66. NEGRI, E., Catalogo dei libretti del Conservatorio Benedetto Marcello, vol. I. 1994, XXIV-394 pp. 67. GIACOMELLI, G., SETTESOLDI, E., Gli organi di Santa Maria del Fiore di Firenze. Sette secoli di storia dal ’300 al ’900. 1993, 508 pp. con 16 tavv. f.t. di cui 2 a colori e 1 pieghevole. 68. CARBONI, S., Catalogo dei libretti d’opera del Conservatorio Benedetto Marcello, vol. II. 1994, XIV-360 pp. 69. CHEGAI, A., Le novellette a sei voci di Simone Balsamino. Prime musiche su Aminta di Torquato Tasso (1594). 1993, 252 pp. con 4 tavv. f.t. 70. Musica e immagine. Tra iconografia e mondo dell’opera. Studi in onore di Massimo Bogianckino. A cura di B. Brumana e G. Ciliberti. 1993, 246 pp. con es. mus. e 66 ill. n.t. 71. Tendenze e metodi nella ricerca musicologica. A cura di R. Pozzi. 1995, XXIV-250 pp. con 3 tavv. f.t. e es. mus. n.t. 72. GATTA, F., Catalogo dei libretti del Conservatorio Benedetto Marcello, vol. III. 1994, XIV-408 pp. 73. Teatro e musica nel Settecento estense. Momenti di storia culturale e artistica, polemica di idee, vita teatrale, economia e impresariato. A cura di G. Vecchi e M. Calore. 1994, 328 pp. con es. mus. n.t. 74. Musicologia Humana. Studies in honor of Warren and Ursula Kirkendale. A cura di S. Gmeinwieser, D. Hiley, J. Riedlbauer. 1994, 598 pp. con 3 tavv. f.t. Rilegato. 75. ARAGONA, L., Catalogo dei libretti del Conservatorio Benedetto Marcello, vol. IV. 1995, XIV-338 pp. 76. GRANDINI, A., Cronache musicali del Teatro Petrarca di Arezzo. Il primo cinquantennio (1833-1882). 1995, XII378 pp. con 40 ill. n.t., 5 figg. f.t. e 29 ill. f.t di cui 16 ill. a colori. 77. Felice Romani. Melodrammi - Poesie - Documenti. A cura di A. Sommariva. 1996, VI-366 pp. con es. mus. n.t. 78. DALMONTE, R., PRIVITERA, M., Gitene, Canzonette. Studio e trascrizione delle Canzonette a sei voci d’Horatio Vecchi (1587). 1996, 204 pp. 79. La musica e il sacro. A cura di B. Brumana e G. Ciliberti. 1997, VI-246 pp. 80. GAMBASSI, O., «Pueri Cantores» nelle cattedrali d’Italia tra Medioevo ed eta` moderna. Le scuole eugeniane: scuole di canto annesse alle cappelle musicali. 1997, 286 pp. 81. MAFFEI, M.I., RUSSO, F.P., Catalogo del Fondo musicale antico della Biblioteca dell’Accademia di Francia a Roma. 1999, XXVI-288 pp.

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C A S A E D I T R I C E L E O S. O L S C H K I - C A S E L L A P O S T A L E 6 6 - 5 0 1 2 3 F I R E N Z E (I T A L I A)