L'ira e l'onore. Forme della vendetta nel teatro senecano e nella sua tradizione 8880204289


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L'ira e l'onore. Forme della vendetta nel teatro senecano e nella sua tradizione
 8880204289

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L’ira e l’onore

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Forme della vendetta nel teatro senecano e nella sua tradizione

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LETTERATURA

CLASSICA

Collana fondata da Giusto Monaco e diretta da Giusto Picone Var.

Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/liraelonoreforme0000guas

Gianni Guastella

L'ira e l’onore Forme della vendetta nel teatro senecano e nella sua tradizione

Gianni Quastella

L'IRA E L'ONORE

a.B. PALUMBO

Editore

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Greci, Latini e Musicali Tradizione

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Università dorli Studi di Palermo Viale delle Scienze - 90128 Palermo

Volume pubblicato con i fondi del Progetto di ricerca scentitica (ex 40%) Anno 1998

© Copyright by G. B. Palumbo Editore & C. Editore S.p.A. - 2001 Proprietà letteraria dell’Editore Stampato in Italia

ISBN 88-8020-428-9

INDICE

PREMESSA INTRODUZIONE

L’ira e l'onore: due modi diversi di parlare della vendetta Il tema della vendetta in una prospettiva antropologica La vendetta nelle tragedie di Seneca: il modello dell’ira Gli effetti della cornice dell’ira sulla costruzione degli intrecci La vendetta nella tragedia moderna: il modello dell’onore Un percorso di ricerca CAPITOLO I

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste L’ira di Atreo La storia di una dinastia criminale Il mito della casa di Tantalo La rivalità fra Atreo e Tieste Il perché della vendetta Gli effetti dell’adulterio Adulterio e incesto nelle tragedie di Seneca I Pelopidi e l’adulterio Il ruolo e l’identità dei figli Una lucida vendetta Due linee di discendenza rivali CAPITOLO II

Viscera exedi mea: il corpo del padre Domus Odrysia. Un delitto esemplare Vendette parallele: Atreo, Procne, Medea Sua viscera, suos artus esse Sua viscera: madri e figli Il significato del termine viscera Corpi sepolti in tombe viventi Sua viscera: padri e figli Dopo Ovidio Tereo e Tieste Medea e Procne Atreo CAPITOLO

HI

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca) i EURIPIDE La Medea di Euripide: l’intreccio Il letto di Medea Il divorzio di una coppia irregolare Il nuovo destino dei figli La vendetta Dimenticare di essere madre

II.

OVIDIO La centralità delle versioni ovidiane di Medea

I figli come possibile elemento di unione della coppia

124 124 128 132

III. SENECA Matrimonio e maternità

Il repudium La vendetta CAPITOLO

122; 1122: 123

IV

Virgo, coniunx, mater: Medea L’ira di Medea

Le premesse della vendetta Una vita spezzata da un divorzio I meriti e le perdite di Medea Dall’amore all'ira La “dote” di Medea «Medea nunc sum» Coniunx vs mater

Gli infanticidii di Medea La restituzione della dote

137 137 138 139 141 144 145 148 149 151 153

CAPITOLO V

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

195)

Di quale “Seneca” si parla Seneca e il “senechismo” La produzione tragica cinquecentesca in Francia, Italia, Inghilterra I. SENECA E IL TEATRO DEGLI INNS OF COURT Il “tragico” nell'ambiente degli Inns of Court Le traduzioni di Seneca Seneca nella cornice tragica tipica degli Inns of Court La produzione tragica degli Inns of Court II. IL «REVENGE TRAGEDY» Un genere del teatro popolare La vendetta in Seneca e negli elisabettiani The Spanish Tragedy Titus Andronicus Antonio’s Revenge

155 161 165 168 168 17 183 187 192: 192 193 196 200 205

APPENDICE

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca Strano destino di un’opera minore

La Progne e la rinascita della tragedia Procne come soggetto tragico La fabula ovidiana Dalle Metamorfosi alla Progne La Procne di Ovidio in una tragedia senecana RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

209 209 212 214 218 222 229,

239)

INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E DEI PASSI CITATI

DSS

INDICE DEGLI ARGOMENTI

263

E DEGLI AUTORI

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI

269

Indice

PREMESSA

Questo tempo, dizione intento

libro appartiene a un progetto di ricerca che sto seguendo da e che conto di sviluppare con altri contributi dedicati alla tradei racconti antichi (in particolare degli intrecci tragici). Il mio è quello di considerare la vita “culturale” delle storie antiche,

nel loro passaggio attraverso diversi contesti antropologici. Le varia-

zioni che i racconti romani (gli intrecci tragici, nel caso specifico) subiscono passando da epoca ad epoca, da cultura a cultura, sono a mio parere documenti importanti delle “differenze” che caratterizzano gli sviluppi della tradizione letteraria occidentale: quelle differenze che troppo spesso vengono invece trascurate da un’analisi per grandi temi (il mito, la tradizione dell’antico etc.), che si accontenta frettolosamente

di raggruppare i suoi oggetti di studio tramite somiglianze generali, che sono peraltro di indubbia praticità classificatoria. I capitoli che compongono il volume sono incentrati sulla tragedia senecana e sulla sua fortuna fra ’400 e ’500. Precedenti versioni di questi saggi sono state presentate in varie sedi. La prova nel delitto (cap. I) è comparso, in una versione ora rivista e arricchita, sulla rivista “Dioniso” (64, 1994, pp. 105-153). Viscera exedi mea: il corpo del padre (cap. II) è stato presentato nel giugno del 1996, in una forma ridotta, al Seminario del Dottorato «Antropologia e mondo classico» organizzato da Maurizio Bettini presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Siena. Il destino dei figli di Giasone (cap. III) è stato presentato al Seminario «Giornata di Studio su Medea», tenutosi nel settembre 1998 presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Urbino, ed è recentemente comparso, in una versione un po’ diversa rispetto a quella che qui si presenta, nel volume curato da Bruno Gentili e Franca Perusino, Medea nella letteratura e nell’arte (Venezia, Marsilio 2000, pp. 139-175). Virgo, coniunx, mater: Medea (cap. IV) è stato presentato nell’ottobre 1998

all’Heller Colloquium, organizzato da James Ker e Laura Gibbs presso la University of California, Berkeley (una versione inglese ridotta, con lo stesso titolo, comparirà sul volume 20.2 della rivista «Classical Antiquity»). Una sintesi di Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana (cap. V) è stata presentata nel novembre 1999 al Congresso «Il teatro di Seneca», organizzato da Giusto Picone presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo. Il saggio compreso in questo volume verrà pubblicato con poche variazioni negli Atti dell’incontro. Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca (Appendice) è stato presentato nel settembre 1999 al Symposium «Beyond Belief: Neo-Latin Myth and Mythography», organizzato da Philip Ford per la Cambridge Society for Neo-Latin Studies presso il Clare College della University of Cambridge (una versione ridotta, dal titolo Constructing Progne: Correr, Ovid, and Seneca, dovrebbe compa-

rire in un progettato volume che raccoglierà le relazioni presentate al convegno). Agli organizzatori degli incontri (e delle relative pubblicazioni) cui sono stato invitato a partecipare, come pure a tutti coloro che mi hanno fornito in quelle occasioni utili suggerimenti, desidero rivolgere un ringraziamento sentito. Ringrazio inoltre Maurizio Bettini, Giacomo Cardinali, Stefania D’Ottavi, Laura Gibbs, Francesca Mencacci e Silvia Salvatici per i loro consigli e per l’aiuto che mi hanno dato nella revisione di questi saggi. Un grazie particolare va a Giusto Picone, che con la sua consueta generosità ha accolto il volume nella collana da lui diretta, e con impagabile amicizia ha sostenuto il mio lavoro in questi ultimi anni. Dedico queste pagine ai miei studenti di Siena, che hanno discusso insieme a me, con grande partecipazione, ognuna delle proposte di lettura che presento qui. Firenze, marzo 2001

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Premessa

INTRODUZIONE

L’ira e l’onore: due modi diversi

di parlare della vendetta

Il tema della vendetta in una prospettiva antropologica Usare il termine “vendetta” è per noi qualcosa di semplice e poco problematico: sappiamo esattamente di cosa si tratta, e tendiamo a pensare che anche altre culture, lontane dalla nostra nello spazio e/o nel tempo, debbano condividere una pratica così elementare, che consiste sostanzialmente nel restituire un’offesa (spesso decisamente maggiorata) a chi per primo l’ha fatta. La constatazione del fatto che un uso del genere sia fondato sulle più elementari regole dello scambio spinge facilmente a credere che si debba trattare di qualcosa di tendenzialmente universale: dovrebbe bastare trovare le parole equivalenti al nostro termine “vendetta” nelle varie culture per individuare subito in queste ultime anche l’uso corrispondente. È partendo da simili presupposti che la letteratura critica ha regolarmente trattato il tema della “vendetta” nelle culture antiche, come pure in quelle moderne dell'Europa rinascimentale, riscontrandone dovunque le tracce, e postulando senza problemi, alla base di esso, una matrice antropologica comune, che si riproporrebbe ogni volta, sostanzialmente, negli stessi termini. Indubbiamente l’esistenza di meccanismi di ritorsione (individuali o socialmente organizzati) basati su un forte principio di reciprocità nella regolamentazione dell’aggressività appare come qualcosa di ricorrente nelle varie culture umane.! Ma a tutto questo non si 1. Un’importante serie di contributi dedicati al tema della vendetta si trova in Verdier-Poly-Courtois 1980-1984, un’opera che presenta un’ampia pluralità di riflessioni sul concetto, studiato a partire da diverse prospettive storiche e culturali. La centralità del principio di reciprocità, pur all’interno di un ventaglio estremamente ampio di modi di parlare della “vendetta” nelle società umane, è sotto-

accompagna affatto una precisa serie di equivalenze linguistiche. Quello che infatti varia, e molto, da cultura a cultura, è il modo di parlare di ciò che noi chiamiamo “vendetta”. Come è noto, in alcuni con-

testi storico-culturali si preferisce mettere in evidenza il meccanismo passionale che scatena la reazione vendicativa, in altri si sottolinea la spinta del vendicatore a ristabilire una forma privata e non mediata di “giustizia”, in altri ancora si concentra l’attenzione sul potere del “sangue” versato, che richiede il versamento di altro sangue, in altri infine viene enfatizzata la necessità di ristabilire l’onore ferito, e così

via. Potrebbe sembrare questione di sfumature piuttosto sottili, e si tratta infatti quasi sempre di sfumature, che però ci consentono di individuare dietro il meccanismo della vendetta universi culturali sostanzialmente distanti. Questo mi spinge a pensare che non sia utile schiacciare ogni discorso prodotto dalle culture antiche sulla ritorsione dentro lo stampo comune della nostra “vendetta”, usando senza alcun filtro culturale un ter-

mine connotato da una serie di implicazioni che con tutta probabilità appartengono specificamente all’età moderna, e sono difficilmente esportabili in maniera meccanica sulla lingua e sulla società degli antichi.» Mi sembra anzi molto più proficuo mettere in evidenza proprio questa difficoltà di stabilire precise corrispondenze fra il nostro lessico e quello dei Greci o dei Romani. Noi tendiamo infatti a tradurre meccanicamente con “vendetta” termini antichi che potrebbero altrettanto bene essere tradotti con equivalenti italiani come “giustizia”, “punizione”, “sdegno”, “castigo”, “ritorsione”, “rivendicazione”. E lineata nell’introduzione generale di Verdier 1980 (cfr. in part. pp. 30 s.). Non prendo in considerazione gli studi della prima metà di questo secolo, che presuppongono come universale l’istituto della vendetta, e lo considerano l’elemento di partenza nella scala evolutiva che avrebbe portato dalla giustizia individuale e privata al sistema del diritto. Si tratta di una prospettiva che postula l’esistenza di una mentalità “primitiva” e di stadi di cultura corrispondente, che sono ormai inaccettabili per qualunque serio approccio alle tematiche antropologiche, considerate in una prospettiva diacronica (cfr. al proposito le giuste osservazioni di Verdier 1980, pp. 13 s.; su questi temi cfr. anche Courtois 1984). 2. In un lavoro dedicato ai testi biblici Peels 1995 ha mostrato (cfr. ad es. pp. 1-14, 79-86 e 265-267) come la proiezione della categoria moderna sulla cultura ebraica abbia causato una radicale incomprensione degli stessi usi linguistici semitici, spingendo spesso a tradurre con “vendetta” termini che indicano comportamenti aggressivi di natura sensibilmente diversa. Lo studio sistematico del lessico relativo consente così a Peels di offrire una visione analitica molto meglio differenziata delle varie forme di reazione alla violenza, che di solito non è possibile cogliere nelle traduzioni moderne di quei testi. Una prospettiva diametralmente opposta è quella di studi, anche molto stimolanti, come Kerrigan 1996, che trattano sullo stesso piano testi estremamente lontani fra di loro, da Sofocle a John Ford a Toni Morrison (basterebbe leggere Kerrigan 1996, pp. 3-29, pp. 21-23 in part.). È chiaro che, date le premesse metodologiche che cerco qui di chiarire, lavori di quest’ultimo tipo risultano per me pressoché inutilizzabili.

10

Introduzione

questa non perfetta sovrapponibilità terminologica dovrebbe se non altro destare il sospetto che anche le corrispondenze culturali non debbano essere poi così precise. Riflettere sul modo in cui le varie culture parlano di ciò che noi chiamiamo “vendetta” potrebbe essere un esercizio utile per affrontare il problema in termini più chiari. Per comprendere i rischi di una rapida assimilazione fra usi linguistici che sono in realtà piuttosto distanti basterebbe pensare a due termini-base del lessico antico che, nel corso della tradizione, sono stati utilizzati come diretti equivalenti del nostro “vendetta”: il latino vindicta e il greco véueoic. Il primo, almeno a partire dal ’500, è stato

regolarmente usato come equivalente dell’italiano “vendetta” o dell’inglese “revenge”;* eppure è ben noto come tanto questo termine quanto il corrispondente verbo vindicare rimandino a categorie come quella della “garanzia”, della “rivendicazione” e della “punizione”, che costituiscono un complesso culturale completamente diverso da quello che sta alla base del concetto moderno di “vendetta”. Il greco véueoic, a sua volta, è stato sin dall’antichità utilizzato per indicare la

personificazione dello sdegno divino, e quindi un agente soprannaturale incaricato di punire la tracotanza umana. Da qui si è sviluppata quella concezione della Nemesi come “vendetta”, che si è poi generalizzata nella cultura europea.* Ma il termine greco, costruito sulla stessa radice del verbo véueiv, significa propriamente qualcosa di ben diverso da “vendetta”, e cioè “riprovazione, disprezzo, sdegno”.' In questo campo c’è ancora molto da fare per riportare gli stessi

dati fondamentali della questione ad un livello di chiarezza accettabile. Bisognerebbe prima di tutto impostare un’analisi dettagliata del 3. Basterebbe ricordare la parodia della tipica scena “senecana” che si trova nell’Induction a A Warning for Fair Women (ante 1599), in cui si prende in giro il classico fantasma che «Comes skreaming like a pigge halfe stickt, /And cries Vin-

dicta, revenge, revenge». 4. Anche nel caso di “Nemesi”, nel ’500 si faceva riferimento a un concetto

o a un personaggio mitologico assolutamente sovrapponibile all’italiano “Vendetta” o all’inglese “Revenge”. Basti considerare il personaggio Nemesi che compare all’inizio dell’Orbecche di Giraldi Cinzio (cfr. infra, p. 197). 5.In Chantraine 1968, p. 743, s.v. véuw, si legge, a proposito di véueoic: «“attribution par autorité légale”, d’où par spécialisation “blame collectif” (Hom., Hdt., poètes), associé avec une valeur sociale et objective à aiddc qui est subjectif (I/. 13, 122, Hés. Tr. 200); formule où véueoig “il n°y a pas lieu de s’indigner”; se dit après Homère de la vengeance divine; personnifiée chez Hés., Pi., les tragiques». Williams 1993, pp. 80 s. definisce così il senso del termine in Omero: «a reaction that can be understood, according to the context, as ranging from shock, contempt and malice to righteous rage and indignation» (all’interno di un discorso che riguarda le relazioni fra véueoic ed aid cfr. anche Cairns 1993, pp. 51-54 e passim). 6. Stranamente, però, gli studi, anche pregevoli, dedicati a questo tema, tendono ad appiattire tutto sul modello della vendetta elaborato dalle culture moderne. Si vedano ad esempio, fra i contributi più recenti dedicati al mondo greco e romano, Said

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

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lessico e dei testi relativi a questo tema (un po’ come si è fatto recentemente nel campo di valori come il pudore, la vergogna e l’onore).” In particolare, bisognerebbe studiare daccapo, in una corretta prospettiva etnografica, la serie di termini che possono essere ricondotti al meccanismo generale della reciprocità nel danneggiamento,* che in Grecia e a Roma appartengono a serie culturali diverse. In Grecia, ad esempio, abbiamo termini come riuwpia, Tor e avrà vmnot6, che rimandano a situazioni e meccanismi comportamentali abbastanza diversi l’uno dall’altro, anche se vengono solitamente tradotti come “vendetta” senza tanti problemi.? Questi termini rimandano infatti, rispettivamente, al risarcimento della tiuT) offesa — cioè, grosso modo, dell’onore personale!° — a quello di “pagamento/compensazione” (tivw)!! e a quello di una più generica “sofferenza” (Xùtn). L’uso di una terminologia come questa andrebbe studiato fondandosi unicamente sui materiali antichi disponibili, invece che su una sistematica contaminazione di categorie antiche e moderne. E il discorso non riguarda solo il piano delle semplici equivalenze linguistiche, ma più in generale quello del complesso di valori culturali all’interno dei quali i processi di ritorsione vengono pensati e messi in atto. Infatti, ad essere diverso non è solo il modo di parlare di quella che noi chiamiamo “vendetta”, ma anche il modo di pensare i meccanismi psicologici e sociali che la generano. Consideriamo, ad esempio, la sezione dedicata alla passione dell’òpyr da Aristotele in Rbet. I1.2 (1378a-1380a). È appunto in questa cornice che lo Stagirita inquadra la prassi della vendetta, definendo la tIUWpia come il gesto scatenato da un desiderio dolo1984, Burnett 1998 e Thomas 1984. Le stesse osservazioni generali della pur meritoria introduzione di Verdier 1980 (cfr. pp. 34-36 in part.) sono viziate, più che da un’incapacità di distanziare adeguatamente la categoria moderna dalle diverse prospettive etnografiche raccolte, dal desiderio di unificare queste ultime nella prima. 7. Penso a contributi come quello di Cairns 1993, relativo alla cultura greca (cfr. anche Williams 1993, pp. 75-102 e 219-223); cfr., per il mondo romano, Kaster 1997 e Lendon 1997, pp. 30-106 e 272-279. Altri contributi dedicati a questi temi (cfr. ad es. le belle pagine di Cohen 1991a, pp. 111-123), pur discutendo in modo molto appassionante e utile questioni importanti, come quelle relative ai valori implicati dalle trasgressioni sessuali, risentono invece pesantemente dell’influenza di studi antropologici ormai superati, come quelli che tendevano a confondere le differenze delle diverse società nell’unico calderone di una concezione dell’onore che sarebbe comune a una presunta “cultura del Mediterraneo” (mi riferisco a lavori, peraltro molto importanti, come Peristiany 1965, Pitt-Rivers 1977 e Peristiany - Pitt-Rivers 1992, sui quali cfr. le giuste obiezioni di Stewart 1994, pp. 75-78). 8. Cfr. Said 1984, pp. 50 s. 9. Cfr. le analisi del lessico greco della vendetta proposte da Said 1984, pp. 48-51 e da Milani 1997, pp. 3-9. 10. Cfr. ad es. Aristot., Rhet. II.2 (1378b), dove si associa l’àtipia all’aioxévn, come meccanismi psicologici attivati dall’òpyt. 11. Cfr. Said 1984, pp. 49-51.

12.

Introduzione

roso, causato dalla percezione di essere stati oggetto di una scarsa considerazione.!? Se confrontiamo questo approccio a quelli tipici di epoche più vicine a noi, osserviamo subito un considerevole spostamento della prospettiva. Infatti nella trattatistica moderna (penso soprattutto ai trattati dedicati ai codici d’onore sviluppatisi nella cultura europea a partire dal Rinascimento) la prassi della vendetta viene di preferenza vincolata a una serie di tematiche canoniche, come quella rappresentata dalla salvaguardia della reputazione individuale. Per quanto anche la formulazione aristotelica possa presentare qualche tratto di somiglianza con la moderna concezione della dignità personale, non se ne può certo dedurre che tanto essa quanto il desiderio di “rivalsa” degli eroi tragici o epici nella letteratura greca rispondano a una logica come quella della difesa dell’onore. Gli autori antichi, infatti, come pure i personaggi delle loro opere, raramente usano questa categoria, anche quando fanno ricorso a termini che sembrerebbero rimandare ad essa. In contesti di vendetta, ad esempio, il richiamo al rispetto della propria tiurj compare talvolta,!? ma non occupa mai il ruolo di assoluta centralità che la rivendicazione dell’“onore” assume nella trattatistica moderna; senza contare poi il fatto che difficilmente il termine greco può essere sovrapposto a quello moderno di “onore”, come si legge invece troppo spesso.!* 12. 1378a, 30 ss.: "Eotw dî) òpyù Opetic uetà Admin Tiuwpiac [parvouévnc] dià parvouevnv OAiywpiav eig AÙTÒV 7) TV abdrod, Tod O)1Ywpeiv ud TPo— ongovtoc. Si veda l’efficace sintesi di Courtois 1984a pp. 97 s.: «La colère est un désir d’exercer une puissance, sur celui qui a paru mettre en cause la nòtre ... Aristote insiste beaucoup sur l’antithèse actif/passif. [...] Se venger, c’est redevenir actif (moro dvToc). Les vengeurs sont appelés: avtitoLo dvTEG [...]. Le propre de l’Aristotélisme est de montrer que l’agresseur a noué avec sa victime une relation singulière qui donne son cadre et tout son sens à l’action du vengeur. Ce que manifeste la sémiotique de la vengeance: la douleur que veut infliger le vengeur a un signifié: la réattestation de sa valeur. C'est ce qui distingue la colère vengeresse et la haine. Le haineux veut du mal purement et simplement à celui qu'il hait, il peut méme vouloir le supprimer comme un objet, alors que le vengeur veut faire avouer une valeur à un sujet. Il ne lui suffit pas que l’autre souffre, il faut qu’il soit témoin de sa souffrance, et surtout qu'il sache qu'il souffre du fait de son offensé». Come ricorda lo stesso Courtois 1984a, pp. 91-106, negli altri interventi sul tema Aristotele si concentra su altri elementi ancora (come le ferite e gli attacchi alla persona), ma sempre ponendo al centro delle sue osservazioni il discorso sulle passioni e sull’ira in particolare. 13. Basterebbe considerare i casi in cui la Medea di Euripide lamenta l’atipia a cui viene esposta dal tradimento di Giasone (cfr. infra pp. 120 s. e n. 40). 14. L’assimilazione di tut ad “onore” cancella la sottile distinzione che si ritrova in definizioni come quella di Chantraine 1968, p. 1120, s. v. iu: «Tout le champ sémantique de tir) est centré sur la notion de “prix, valeur”, d’où les significations divergentes d’“honneur”, telle qu'elle est analysée par Benveniste et Adkins» (ed è logi-

co che questo avvenga, all’interno di una famiglia semantica che comprende anche tiw, “stimare il valore di qualcosa / onorare”). L’abitudine di parlare della turi più o meno come esatto equivalente dell’“onore” è entrata anche nel dibattito critico rela-

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

13

Stando così le cose, in sede di analisi filologica e antropologica sarebbe corretto tenere distinte le nostre categorie da quelle degli antichi. Ricondurre sempre tutto ad etichette come quelle di “onore” e “vendetta” rischia di farci perdere di vista la specificità del discorso antico sulla restituzione dei torti subiti.!! A maggior ragione questo non si dovrebbe fare parlando del mondo romano, nel quale il concetto di “onore” non ha affatto quella centralità che assumerà solo nelle culture moderne. Il latino non ha nemmeno un termine equivalente al nostro “onore”, ma solo una varietà di termini che rimandano a concetti come “fama”, “splendore”, “lode”, “buona opinione”, “prestigio” etc.!° Quando prendiamo in considerazione parole come decus, dignitas e, a maggior ragione, l’antenato etimologico honos/-r, abbiamo a che fare con valori che presentano corrispondenze molto parziali rispetto ai termini analoghi che si ritrovano nelle culture moderne. Soprattutto, nel lessico antico non possiamo ritrovare quella concezione dell’identità personale che è necessaria per sostenere l’idea di un “onore” che di quell’identità rappresenti come l’immagine astratta.

La vendetta nelle tragedie di Seneca: il modello dell’ira Ma una ricerca linguistica come quella che sarebbe necessaria per impostare in modo rigoroso un discorso antropologico complessivo sulla “vendetta” nel mondo antico non può essere svolta in questa sede. tivo alla vendetta (cfr. ad es. Said 1984, p. 48 e passim). Si tratta però di un’assimilazione che in molti casi crea difficoltà. Così anche autori che tendono a tradurre tut] con il termine “onore”, come Riedinger 1976, pp. 251 s., devono poi ad un certo punto affermare che tium) è qualcosa di molto complesso, che non può essere ridotto né a un «sentiment d’honneur», né a «une sorte de capital qui comprendrait les possessions d’un individu, le rang qu’elles lui assurent et le courage qui le défend», ma piuttosto «une relation» (sul valore di tum in Omero cfr. anche Cairns 1993, pp. 95-103, e passim sull’evoluzione di questo concetto negli autori successivi; cfr. anche la breve rassegna di Lendon 1997, pp. 276-278). Peraltro, è lo stesso nostro concetto di onore ad essere imprecisamente definito. Come osserva giustamente Stewart 1994, p. IX: «The anthropological literature on honor certainly has a number of curious features, one of them being that it rarely asks what exactly honor is». Si tratta di una stranezza forse inevitabile, condivisa da gran parte della letteratura dedicata a “valori” di portata molto generale (come, appunto, onore, vergogna, dignità etc.). 15. Come osserva giustamente Courtois 1984a p. 100: «La vengeance pure mettant aux prises deux individus abstraits n’existe pas dans la réflexion d’Aristote [...]». 16. Al proposito osservazioni molto giuste si possono trovare nell’utile volume di Stewart 1994, pp. 55-61, che a p. 112 afferma: «The fact that a certain society has the notion of ignominy, dishonor, infamy, disgrace, or whatever does not entail that it also has the notion of personal honor [...]». Un’illustrazione completa del lessico dell’onore a Roma si può trovare nell’appendice di Lendon 1997, pp. 272279, dove vengono elencati e brevemente discussi i seguenti termini: gloria, decus, laus, fama, existimatio, honos/-r, claritas/claritudo, splendor, bonestas, dignitas,

auctoritas, maiestas. 14

Introduzione

Qui posso solo richiamarmi a una serie di principi metodologici gene-

rali, sulla base dei quali andrebbe organizzato lo studio del tema letterario di cui intendo occuparmi in questo volume. Quando si parla del tema della vendetta in testi antichi come le tragedie di Seneca, che costituiscono il terreno d’indagine privilegiato dei capitoli che seguono, è preferibile abbandonare le coordinate moderne, se si vuole mettere in piena luce il contesto culturale in cui queste opere sono state prodotte. Infatti, così come può risultare fuorviante proiettare improprie equivalenze semantiche sui termini antichi, è poco appropriato costringere le tematiche antiche entro le categorie che noi invece utilizziamo per parlare di catene di delitti, contraccambio delle offese etc. Tanto più se si considera il fatto che gli autori antichi hanno prodotto esplicite teorie all’interno delle quali questi fenomeni sono stati chiaramente illustrati e discussi. Le correnti più interessanti dell’antropologia contemporanea ci hanno abituati, in questo senso, a prendere molto sul serio le “categorie indigene” quando si fanno indagini etnografiche, evitando il più possibile di proiettare etnocentricamente i nostri pregiudizi sul discorso degli altri. È dunque opportuno seguire questa strada, in un’indagine che può giovarsi di elaborati discorsi teorici sul proprio universo culturale prodotti da società, come quelle antiche, caratterizzate da un uso consapevole ed estremamente sofisticato della scrittura. Nel caso di Seneca, in particolare, abbiamo la fortuna di possedere addirittura un intero trattato, all’interno del quale il tema della vendetta (inteso in senso moderno) trova la sua più naturale e corretta collocazione; non solo se lo consideriamo nella prospettiva antropologica adeguata al contesto antico in generale, ma anche e soprattutto se lo inquadriamo secondo le coordinate necessarie per una corretta lettura dei suoi stessi testi tragici. Mi riferisco al De ira, in cui Seneca tratta le questioni che ci interessano direttamente, all’interno

di una teoria delle passioni, non diversamente da quanto, come abbiamo visto, aveva fatto un autore come Aristotele.!”

Secondo quanto esposto da Seneca nel suo trattato, l’ira si scatena quando un soggetto subisce (o anche solo prevede di dover subire) un’iniuria, e si abbandona a un’irritazione senza freni. Chi ha ceduto all’ira smania per il desiderio di ritorsione (ltio), e scavalcando tutte le mediazioni razionali previste dalla iustitia, si scaglia contro il suo nemico, preda di un incontrollabile impulso a nuocergli. In questa fre17. Cfr. Courtois 1984a, pp. 107-114. Il discorso sulla letteratura repi op yîg meriterebbe di essere considerato con particolare attenzione: ma ai fini che ci interessano, basterà qui parlare dei testi che più direttamente ci consentono di illustrare il tema che stiamo considerando. Sul De ira, sulla sua destinazione a un pub-

blico più ampio rispetto a quello costituito dalla cerchia degli Stoici e sui suoi rapporti con la letteratura mepi òpyfic precedente cfr. la monografia di Fillion-Lahille 1984 e Nussbaum1996, pp. 426-461 (pp. 428-435 in part.). L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

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nesia di wltio,!8 l’irato supera tutti i confini del comportamento razionale, e finisce il più delle volte per restituire, in cambio dell’iniuria patita, un’altra iriuria, che è però assolutamente sproporzionata, in quanto obbedisce solo alla necessità di sedare il dolor suscitato dal torto originario. Così il dirompere dell’ira rischia di aprire una catena di delitti, in cui l’assenza di un equilibrio razionale nella gestione dei meccanismi di reciprocità genera una spirale di violenza potenzialmente senza fine. È appunto questa la prospettiva in cui anchei protagonisti delle tragedie senecane progettano lucidamentei propri delitti.!° Stando a Seneca, l’îra può essere considerata come l’elemento che trasforma la pratica della ritorsione, dell’ultio, in un gesto privo di misura, e dunque estraneo all’ambito della giustizia e della stessa umanità. In teoria, infatti, non ogni ultio dovrebbe essere considerata negativa, ma solo quella che perde di vista l’ancoraggio della ragione e dell’equilibrio. E in ogni caso, l’atteggiamento di assoluto equilibrio proposto nel trattato pone il saggio in una posizione di superiorità che lo mette al riparo da ogni logica di reciprocità capace di generare la spirale di iniuria e vendetta.?0 Come si vede, il focus dell’argomentazione senecana è costituito non tanto da elementi come l’“onore”, quanto piuttosto dall’iniuria e dal dolor incontrollato che essa suscita in chi la riceve. L’attenzione a questi aspetti deve spiegarsi probabilmente non solo col fatto che si tratta di un’argomentazione filosofica, ma soprattutto col fatto che stiamo considerando un testo indirizzato a un pubblico romano, partecipe di un orizzonte culturale che, nel suo modo di parlare della “vendetta”, sembra aver attribuito sempre una particolare attenzione ad elementi di questo genere. La stessa terminologia latina della ritorsione, infatti, appare legata, già a livello etimologico, all’aspetto della violenza e del “colpo ricevuto”, se è vero che wlcisci/ultio vanno riconnessi a ulcus, e vindicare/vindicta a vim dicere.?* Ma anche le consi18. Seneca in questo riprendeva le classiche definizioni stoiche, che si concentravano sull’elemento dell’&m@vuia niuwpiac, in conseguenza di un’ddikia subita (cfr. Nussbaum 1996, p. 458, n. 17). 19. Nel Thyestes (vv. 195 s.), ad esempio, Atreo esclama: scelera non ulcisceris/ nisi vincis. Sulla logica della vendetta scatenata dall’îra nel Thyestes cfr. Staley 1975, pp. 129 ss. 20. Cfr. Sen., ira 2.33.1: ‘minus, inquit, contemnemur, si vindicaverimus iniu-

riam’. Si tamquam ad remedium venimus, sine ira veniamus, non quasi dulce sit vindicari, sed quasi utile; saepe autem satius fuit dissimulare quam ulcisci. Potentiorum iniuriae hbilari vultu, non patienter tantum ferendae sunt: facient iterum, si se fecisse crediderint. 21. Purtroppo, però, si tratta di etimologie assai incerte (Ernout-Meillet 1967, s. vv., le presentano come decisamente improbabili). Anche chi ha cercato di difendere l’etimologia di vindicare da vim dicere (come Noailles 1948, pp. 53-65) è dovuto arrivare a conclusioni che ci portano lontano dal senso più comune di

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Introduzione

derazioni dedicate da autori latini a ira e vendetta ci riportano di frequente a questa meccanica dell’offesa recata con iniuria.?* Questo non vuol dire, naturalmente; che il modello culturale del-

la “vendetta” romana si esaurisse all’interno della cornice delle passioni (e in particolare dell’ira), che abbiamo considerato fin qui. In realtà anche nelle trattazioni dedicate a questo tema dagli autori latini si ritrova una serie di elementi che possono essere riconnessi al motivo dell’“onore” (o di ciò che in latino può essere approssimativamente tradotto con onore; ad esempio la dignitas).? È vero anzi che, se guardiamo ad alcuni testi giuridici (come il capitolo del Dig. 47.10, De iniuriis et famosis libellis), o ad altre opere dello stesso Seneca (come il De constantia sapientis), possiamo mettere in relazione la nozione di irziuria con quella di vio-

lazione della dignitas o della fama.” Se si vuole, insomma, è possibile vis (secondo Noailles 1948, p. 65, il vindex sarebbe colui il quale «[...] a imposé à son adversaire [...] la vindicta, la vis dicta, la force manifestée, c’est-à-dire la force rituelle»). Sul significato e sull’etimologia di vindicare/vindex e ulcisci/ ultor cfr. Thomas 1984, p. 68 (con le note relative a pp. 91 s.): «L’inchoatif ulcisci, venger (soi-mème ou un tiers) et punir (en tirant vengeance), désigne le processus enclen-

ché par la blessure (w/cus) infligée et regue [...] Cette réversibilité de l’action est

précisément ce qui distingue u/cisci de vindicare. Nous avons ici affaire à la notion transitive et procédurale d’une violence déclarée: manifestée et réalisée verbalement, l’action na d’unité que sous sa forme judiciaire; seule la définition de son objet en détermine le sens. Puisque la réclamation porte aussi bien sur un mal passé que futur (le vindex étant vengeur et garant), il faut à la notion de vengeance la précision d’une victime pour laquelle on agit (vindicare in aliquem), ou la mention du délit poursuivi [...] Lorsque l’accusation en vient à régir toute réponse liciteà la violence, il devient dès lors inutile de distinguer entre vengeance immédiate ou réglée sur une procédure. Une mèéme modalité s’impose: les mots recouvrent indifféremment une fonction qui seule est désormais signifiée» (sul significato del termine vindicta nei suoi usi giuridici cfr. anche Noailles 1948, pp. 45-90). Sul lessico latino della vendetta cfr. anche Milani 1997, pp. 12-14. 22. Cfr. ad es. la definizione ciceroniana (Tusc. 4.21) delle varie passioni che rispondono al principio della libido e che consistono in una sostanziale intemperantia: quae autem libidini subiecta sunt, ea sic definiuntur, ut ira sit libido poeniendi eius qui videatur laesisse iniuria, excandescentia autem sit ira nascens et modo existens, quae 0vuwois

Graece dicitur, odium ira inveterata, inimicitia ira ulcis-

cendi tempus observans, discordia ira acerbior intimo animo et corde concepta |...] Cfr. anche Cic., off. 1.11.34 e 2.5.18, Val. Max. 9.3.praef. e 9.10.praef., Sen., clem. 3.18[1.20].1 ss., Gell. 1.26.11. 23. Molti di questi elementi sono posti in luce da Thomas 1984 (pp. 73-77 in part.), che fa uso della nozione di “onore” senza particolari mediazioni. 24. Cfr. Sen., const. sap. S.4: omnis iniuria deminutio eius est in quem incurrit, nec potest quisquam iniuriam accipere sine aliquo detrimento vel dignitatis vel corporis vel rerum extra nos positarum. Si tratta di una prospettiva cui può sottrarsi solo il sapiens, come si dice ad es. al par. 5: quodsi iniuria nihil laedere potest ex his quae propria sapientis sunt, quia virtute sua salva sunt, iniuria sapienti non potest fieri; cfr. anche 8.1, 9.3 (dove si spiega che per gli stessi motivi il sapiens non è soggetto all’ira) e 12.3 (dove si dice che il sapiens, punendo coloro i quali gli avessero rivolto un’offesa, non [...] se ulciscitur, sed illos emendat) etc.

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

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riconoscere dietro la formula che lega la vendetta dell’irato all’iriuria subita, qualcosa che somiglia molto da vicino all’“onore” ferito.? La compresenza di queste due prospettive crea un curioso effetto ottico che, come ho detto prima, ha spinto molti commentatori a selezionare esclusivamente la prospettiva dell’“onore”, finendo per farci assimilare la visione del problema che avevano gli antichi a quella che ne abbiamo noi moderni. Come succede guardando un disegno di Escher, il nostro sguardo è costantemente attratto da due diverse, ma coesistenti, letture possibili dell’unico complesso culturale che stiamo considerando. In queste condizioni, quello che mi sembra utile fare è evitare di procedere a semplificazioni assimilative, tentando piuttosto di apprezzare la complessità culturale creata dagli effetti di questa compresenza, in cui probabilmente si può anche individuare la specificità della concezione romana della vendetta. Detto questo, però, va anche sottolineato il fatto che per quanto riguarda il tema di cui mi occupo in questo volume, cioè il motivo della vendetta nella tradizione tragica, non è l’onore l’elemento su cui un autore come Seneca ha scelto di concentrarsi. Nel suo modo di presentare il meccanismo della vendetta, infatti, Seneca mette di preferenza in rilievo l’aspetto della passione incontroliata, che sfugge al freno della ratio, spingendo l’eroe a forme delittuose esasperate.?6 È questa la prospettiva che gli interessa, ed è questa, non a caso, anche la luce in cui ci appaiono gli eroi vendicatori delle sue tragedie.?”

Gli effetti della cornice dell’ira sulla costruzione degli intrecci Già in passato è stato evidenziato?* come il modello culturale che sta 25. Cfr. Ulp. in Dig. 47.10.1.1-2 (sono le definizioni che aprono la sezione De iniuriis et famosis libellis): Iniuria ex eo dicta est, quod non iure fiat: omne enim, quod non iure fit, iniuria fieri dicitur. Hoc generaliter. Specialiter autem iniuria dicitur contumelia. Interdum iniuriae appellatione damnum culpa datum significatur |...| Omnemque iniuriam aut in corpus inferri aut ad dignitatem aut ad infamiam pertinere: in corpus fit, cum quis pulsatur: ad dignitatem, cum comes matronae abducitur; ad infamiam, cum pudicitia adtemptatur. Sulla nozione giuridica di iniuria (in particolarè riguardo ai possibili effetti di infamatio) cfr. Play 1989. 26. Cfr. ad es. De ira 2.3.4-2.4.2. Cfr. anche 3.27.1: Quanto satius est sanare iniuriam quam ulcisci! Multum temporis ultio absumit, multis se iniuriis obicit dum una dolet; diutius irascimur omnes quam laedimur. Nella regolamentazione delle forme di ritorsione, invece, il principio dell’adeguatezza è sottolineato dalle fonti antiche: cfr. Thomas 1984, p. 75: «[...] il était recommendeé de soutenir la vertu de l’égalité dans la contre-offense (id quod par sit)». 27. Diversa è invece la situazione che riguarda i “vendicatori” della tragedia greca, che agiscono secondo un complesso di motivazioni culturali estremamente ricco e vario (per averne un’idea, si può rimandare a Said 1984, pp. 52-73 o al volume di Burnett 1998). 28. Faccio riferimento in particolare a Staley 1975 e 1981/1983 (su cui cfr. infra, pp. 31-33). Recentemente, cfr. soprattutto Burnett 1998, pp. 7-18. 18

Introduzione

alla base della concezione stoica (ma non solo stoica) dell’îra sostenga gran parte dell’universo passionale messo in scena nei drammi di

Seneca.?° Nei primi capitoli cercherò di mostrare come questo sia vero a proposito del Thyestes e della Medea: ma il discorso si può estendere anche alle altre tragedie. Si pensi all'apparato di personaggi mitici, di eccessi comportamentali, di invasione della follia che attraversa tutte queste opere, che agli occhi del lettore moderno si presentano come un mondo popolato di furiae e di furor. L’incapacità di dominare le passioni è certamente una delle caratteristiche principali dei personaggi senecani; e il tema ricorrente costituito da ciò che noi chiameremmo

“vendetta” viene di conseguenza a entrare in questa cornice, che ne giustifica i meccanismi in modo piuttosto preciso. Si tratta di uno schema che possiamo vedere all’opera in forme diverse. Particolarmente interessante, per limitarci ad un solo esempio, è il modo in cui l’intera vicenda della follia che prende il protagonista dell’ Hercules furens viene inserita in una cornice del genere. Per comprenderlo basterà fare un rapido confronto con la presentazione della stessa vicenda in un’opera appartenente a un altro contesto culturale: l’Eracle di Euripide.?° La tragedia di Furipide si apre su Anfitrione che illustra al pubblico la penosa situazione in cui versa la famiglia di Fracle. Durante l’assenza dell’eroe, che non è ancora tornato dall’Ade, da cui deve portare Cerbero sulla terra, l’usurpatore Lico cerca di sbarazzarsi di tutta la sua famiglia, e sta per portare a compimento il suo piano. Perciò Anfitrione, Megara e i figli di Eracle si trovano presso l’altare di Zeus, tentando con le loro suppliche di sottrarsi alla crudeltà del tiranno. Quando tutto sembra perduto, finalmente compare Eracle (vv. 523 ss.), e predispone un tranello, nel quale Lico troverà la morte. A questo punto, però, la situazione della casa di Eracle conosce un nuovo radicale rovesciamento. Infatti, non appena il coro ha terminato di celebrare la forza dell’eroe, che ha potuto manifestarsi in tutto il suo splendore, si presentano in scena Lyssa e Iride (vv. 815-874), inviate da Hera per

punire il figlio di Zeus tornato dagli Inferi. La ragione dell’odio che la dea nutre nei confronti del figliastro non viene precisata. Iride dice soltanto, con una formulazione assai generica, che se Eracle, dopo aver portato a termine un’impresa così straordinaria come è quella di attraversare incolume l’Ade, non sperimentasse l’odio di Hera, e gli dèi lo

lasciassero impunito, la grandezza degli immortali risulterebbe com29. Ovviamente un discorso del genere non sarebbe applicabile negli stessi termini alla tragedia attica (sulle errate aspettative che un lettore di Seneca o della tragedia rinascimentale proietta sui testi tragici greci cfr. Burnett 1998, pp. 1-32). 30. Per un confronto puntuale fra gli intrecci delle due tragedie cfr. Billerbeck 1999, pp. 11-23.

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

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promessa.3! Da questo momento in poi l’eroe perde la ragione e rivolge le sue armi contro i propri figli. Questo, che nella tragedia euripidea è solo uno spunto rapidissimo, verosimilmente basato sulla ben nota ostilità di Hera verso i figli bastardi nati dagli adulterii di Zeus, viene ampiamente sviluppato da Seneca, che non a caso reimposta l’intera struttura dell’intreccio partendo proprio da questo motivo. Nella tragedia senecana è infatti la stessa Giunone a pronunciare un lungo prologo, in cui compaiono tutti gli elementi tipici del modello culturale dell’ira che abbiamo descritto: dal furor della dea discenderanno direttamente tutte le sventure dell’eroe.?* Giunone si presenta in scena in preda a una forma esasperata di ira, come riconosce lei stessa, quando dice di essere stata come spodestata dalle paelices di Giove, che ormai la fanno da padrone sull’Olimpo3* (Sen. Herc. fur. 27-29): Non sic abibunt odia; vivaces aget violentus iras animus et saevus dolor aeterna bella pace sublata geret.È

In sostanza Seneca costruisce il discorso di ingresso della dea (che descrive le imprese di Ercole direttamente come un trionfo su lei stessa)*5 alla maniera di un programma di “vendetta” contro il bastardo che si è dimostrato talmente superiore a tutte le prove propostegli, da poter ormai aspirare al potere divino. Giunone si propone di fermare Ercole: per farlo, ricorrerà a tutte le risorse della sua îra, del suo dolor, del suo odium, e visto che Ercole si dimostra capace di superare ogni ostacolo, userà l’eroe stesso come arma per vincerlo. Fra l’altro,

la sposa di Giove chiama a raccolta tutte le divinità infernali, e in particolare le Eumenides, cioè le Furie, le dee della passione priva di

31. Vv. 838 ss.: Wwe Av Topevoac dl’ Axepovoarov tépov |tòv xaXXira1da

ot&davov adbévtn divo |yv@ uèv tòv “Hpac oî6c tor' adt@ x6Aoc, |udan dè tòv eudv: Î) Beoì uèv ovdapod, |tà Avntà d' ÉEorai ueydda, un dévtog diknv. I commentatori sono giustamente in imbarazzo nel costruire su queste poche parole un’interpretazione dell’intero personaggio di Eracle come protagonista di 5ppic contro gli dèi (cfr. ad es. Bond 1981, p. 285). 32. Che la colpa che Eracle deve scontare sia quella tradizionale di essere il figlio bastardo di Zeus si ricava dai vv. 1308-1310: f yovaikòc obvexa| MEKTPWY dAovodboa Zevi todc evepyétac | 'EX\adoc dmwAieo'® obdèv dvtac altiove. 33. Cfr. Billerbeck 1999, pp. 32-38. 34. Cfr. vv. 1-5: Soror Tonantis (hoc enim solum mibhi/ nomen relictum est) semper alienum Iovem/ ac templa summi vidua deserui aetheris/ locumque caelo pulsa paelicibus dedi;/ tellus colenda est, paelices caelum tenent. 35. Altri riferimenti espliciti all'ira e al furor sono ai vv. 33-5, 75 s., 98 s. (invocazione del Furor personificato), 108 s. 36. Vv. 57 s.: at ille, rupto carcere umbrarum ferox,/ de me triumphat.

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Introduzione

misura, che di regola nelle tragedie senecane presiedono alla realizzazione dei delitti (vv. 100-118):37 Incipite, famulae Ditis, ardentem citae concutite pinum et agmen horrendum anguibus Megaera ducat atque luctifica manu vastam rogo flagrante corripiat trabem. Hoc agite, poenas petite violatae Stygis; concutite pectus, acrior mentem excoquat quam qui caminis ignis Aetnaeis furit. Ut possit animum captus Alcides agi, magno furore percitus, nobis prius insaniendum est: luno, cur nondum furis? Me me, sorores, mente deiectam mea versate primam, facere si quicquam apparo dignum noverca [...]

Inveni diem, invisa quo nos Herculis virtus iuvet. Me vicit? Et se vincat et cupiat mori

ab inferis reversus. Hic prosit mihi Iove esse genitum.

Ciò che rende Ercole inviso alla matrigna è dunque sia il suo essere figlio di Giove (qualità che l’eroe ha anche dimostrato a tutti di possedere, superando ogni possibile prova umana) sia l’aver fatto ritorno dall’oltretomba: quest’ultima, in particolare, è la colpa che le Furie sono espressamente invitate a punire al v. 104.

Il discorso di Giunone è organizzato secondo gli stessi schemi retorici che ritroviamo nelle battute dei due più grandi vendicatori senecani: Atreo e Medea. Assistiamo così alla rassegna delle “colpe” dell’avversario (vv. 30 ss.),3* alla complessa gestazione del progetto di vendetta, con la topica invocazione delle Furie (vv. 75-108),4° e con l’appello a se stessa (v. 109),4! a partire dal quale viene escogitata una sofisticata 37. È interessante notare come Seneca sfrutti il ruolo delle Furiae, le dee che portano inscritto nel proprio nome quel furor che sembra essere la marca principale dell’irrazionalità scatenata dall’îra. In questo senso, le Furie romane sviluppano un aspetto peculiare, che non compare nel loro corrispettivo greco, le Erinni. Queste ultime sono infatti divinità anch'esse specializzate nella gestione della “vendetta”, ma in un’ottica più decisamente orientata secondo il principio della reciprocità (un’interessante ipotesi sulle Erinni come personaggi in questo senso complementari rispetto alle Cariti si trova in Santillan 1987). Riporto il testo di Seneca secondo l’edizione di Zwierlein 1988, senza discutere le sue scelte testuali, non sempre condivisibili, se non laddove siano implicati elementi fondamentali per lo svolgimento del mio discorso. 38. Cfr. ad es. Thyest. 220-241, Med. 117-142. 39. Cfr. ad es. Thyest. 260-286, Med. 893-944. 40. Cfr. Thyest. 249-253, Med. 13-18. 41. Cfr. ad es. Thyest. 192-196, 241-244 e 283-284 , Med. 893-907.

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punizione dell’avversario, che dovrà diventare vittima diretta proprio di quelle doti che Jo rendono così odioso e pericoloso (vv. 112-122). L’impostazione della vicenda a partire dal progetto vendicativo di Giunone ha notevoli conseguenze sulla costruzione dell’intreccio. Nell’Hercules furens, ad esempio, non c’è spazio per la suspence che nella prima metà del dramma euripideo circonda il ritorno dell’eroe dagli Inferi: anche se Megara invoca l’apparizione del marito (279-295), lo spettatore sa che Ercole è tornato, come pure sa bene che il nodo tragico della vicenda non riguarda il progetto criminale di Lico. Il destino di follia che incombe su Ercole, e che lo porterà alla sventura finale, incombe infatti su tutta la tragedia, sin dall’inizio, perché Giunone stessa gli ha dato la forma esplicita di un progetto di vendetta perseguito con metodo. Alla base di tutto sta il meccanismo del bilanciamento della pena tipico della logica dell’ira: se Ercole ha dimostrato a tutto il mondo di essere davvero figlio di Giove, questa sua stessa grandezza dev'essere ora ritorta contro di lui. A differenza di quanto accade nella tragedia euripidea, l’intero dramma senecano sulla follia di Ercole diventa così la conseguenza dell’avversione che la dea riversa contro il figlio che Giove ha avuto da Alcmena. L’esempio dell’Hercules furens ci permette di visualizzare bene la prospettiva in cui Seneca ama inquadrare vicende fondate sul meccanismo della ritorsione: gli eventi che trascinano nella sventura gli eroi di queste tragedie sono regolarmente generati da un’;ra che si proietta verso la dimensione della follia, del furor. In questo contesto, ripeto, la “vendetta” non può essere considerata come un motivo autonomo, ma come una sequenza comportamentale che ha la sua motivazione all’interno di una ben pre-

cisa ed articolata concezione della dinamica delle passioni.

La vendetta nella tragedia moderna: il modello dell'onore E consiste l’honor nel vendicarsi (G.F. Busenello, L’incoronazione di Poppea, a. I, sc. V)

La cornice in cui Seneca pone di preferenza le vicende che stiamo considerando viene sostanzialmente abbandonata dalla tradizione tragica successiva, che pure proprio a Seneca ha guardato come a un modello privilegiato.4* O meglio, gli elementi della-teoria delle passioni pre42. Cfr. Thyest. 259-280 e Med. 916-925. Anche vari stilemi del prologo sono tipici dei discorsi che Seneca fa pronunciare ai suoi due grandi “vendicatori”. Mi limito a pochi riscontri: v. 75 (perge, ira, perge), cfr. Thyest. 890-895, Med. 566 s.; vv. 89 s. (i nunc, superbe, caelitum sedes pete,/ hbumana temne), cfr. Med. 1007 s.; 100-104 (incipite, famulae Ditis, [...] hoc agite), cfr. Thyest. 241-243, Med. 562 s., 566 e 976. 43. Cfr. Burnett 1998, pp. 18-31.

DO,

Introduzione

senti nel suo teatro (in particolare il nesso fra ira e ritorsione) sono sta-

ti in seguito ridistribuiti diversamente, e comunque in una posizione gerarchicamente subordinata a nuovi elementi culturali, attorno ai quali si organizza la concezione moderna della vendetta. Primo fra tutti, quel valore che, come abbiamo già detto, acquista un’importanza così centrale in molti trattati cinquecenteschi: l'onore." Anche nel caso delle società europee del Cinque-Seicento sarebbe necessario, ovviamente,

procedere a un’analisi dei testi storica-

mente e filologicamente corretta, evitando di procedere a generiche assimilazioni fra contesti culturali che mantengono comunque importanti elementi di differenziazione. Se parlo adesso dell’“onore” come di una categoria unica, e valida in termini grosso modo analoghi per i testi teatrali di tradizioni diverse tra loro, come sono quella italiana, francese e inglese del Cinquecento, lo faccio più che altro per comodità espositiva,*' individuando una generale linea di tendenza che mi permetta di mettere la visione moderna della vendetta in immediato contrasto con quella di un autore come Seneca. Nei testi del Cinquecento europeo, a cambiare sensibilmente è il modo di parlare del movente della vendetta e delle passioni che si scatenano nel vendicatore. Infatti la reazione del vendicatore al torto subito non si configura più tanto come un’esplosione incontrollabile di ira, ma viene presentata in modo da mettere in evidenza nuovi fattori: ad esempio il richiamo ineludibile e vincolante del sangue versato di una persona cara, che “chiama altro sangue”; oppure l’inaffidabilità della giustizia uma44. Alcuni contributi critici recenti (cfr. ad es. Hallett & Hallett 1980, pp. 3-14 e passim) presentano anche la vendetta dei drammaturghi cinque-seicenteschi come una passione (un’idea della centralità della relazione fra ira e desiderio di vendetta nella riflessione filosofica occidentale si può ricavare da Courtois 1984, pp. 12-15): una posizione che Burnett 1998, p. 27, n. 72 ha criticato, con

buoni argomenti (cfr. anche Robertson 1989, p. 92). 45. Ci sono ovviamente anche delle ragioni culturali ben più fondate, come il fatto banale che i trattati dedicati a questo tema (in massima parte composti in Italia) conoscono una vastissima circolazione, e vengono presto tradotti in Francia e in Inghilterra, diventando testi di riferimento per l’intera cultura europea (cfr. ad es. Bryson 1935, pp. 1-14 e Watson 1960, pp. 54-91). Tuttavia questo non autorizza a generalizzare, come troppo spesso si fa, considerando l’intera società europea, con le sue tensioni religiose e la varietà dei suoi costumi, come un contesto culturale unico e tutto sommato poco differenziato, in cui valori come |’ “onore” hanno grosso modo lo stesso senso. Nei contributi di Barber 1957 e 1985 (pp. 4047 e 59-64 in part.), ad esempio, l’analisi dettagliata (anche se troppo spesso discutibile, per la stretta focalizzazione lessicale della ricerca sul solo termine «honour») della categoria di “onore” permette di porre in evidenza significativi mutamenti di prospettiva, nel corso del XVI secolo, persino all’interno di un’unica tradizione teatrale. In Barber 1957, pp. 46-87 si può trovare, fra l’altro, un tentativo di analisi componenziale ante litteram della categoria di onore, all’interno del corpus di testi tragici inglesi presi in esame.

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

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na, come pure l’incerta protezione della lenta e imperscrutabile provvidenza divina. Ma in questi contesti, ad assumere spesso il maggior peso è appunto il tema dell’onore violato. Molte volte il fattore scatenante della vendetta è un gesto, o anche solo una minaccia, un’intenzione, che vengano sentiti come capaci di sminuire la dignità della persona offesa. Questa dignità può consistere tanto nel “buon nome” di un personaggio, quanto nella valutazione del valore della sua persona, quanto nella percezione soggettiva di questo stesso valore. Per fare solo qualcuno degli esempi più comuni, l’adulterio subìto da un gentiluomo, o il sospetto che una maldicenza può avere messo in giro sulla sua reputazione, sulla sua rettitudine, sul suo coraggio etc., oppure ancora l’affronto rappresentato da una percossa ricevuta in pubblico, o anche solo da un mancato tributo di rispetto, sono tutti motivi ritenuti sufficienti per generare una ferita nell’onore, e di conseguenza per scatenare il desiderio di vendetta. Quel che più conta, però, è il fatto che ad essere regolarmente sottolineata è la condizione disonorevole di chi non si sia ancora dimostrato capace di

restituire un grave torto subito, specie quando si trovi nella dolorosa condizione di non potersi giovare dell’adeguata protezione che la giustizia umana sarebbe chiamata a garantire agli individui. In varie forme, dunque, l’elemento dell’onore viene a costituire uno

dei principali moventi dei vendicatori: tanto di quelli i cui delitti ci vengono raccontati nei resoconti storici dell’epoca, quanto di quelli che fanno da protagonisti nella rinascente tragedia moderna. L’onore rappresenta una categoria che si offre, per così dire, come comoda sintesi di ciò che viene messo in discussione dalle offese che chiedono di essere vendicate. Secondo una celebre equivalenza, più volte proposta nei testi del Cinquecento, l’onore è come l’indice prezioso del valore di un’identità, della virtù di un individuo; inscindibile dalla sua persona, così come l’ombra, che accompagna dovunque il corpo che la proietta.'” Ogni macchia che si depositi su un tale schermo sensibile dell’identità rappresenta perciò un attentato alla sua distinzione sociale, che rischia di diventare permanente se un’appropriata reazione non riesce a toglierla di mezzo. In realtà, non è semplice spiegare cos'è l’onore: un concetto astratto, di cui sarebbe necessario studiare, come si è detto, le implicazio-

ni nei singoli contesti culturali in cui se ne può rilevare l’emergenza.#8 46. Cfr. Bevan 1967. Un esempio della varietà di possibili letture del fenomeno si può ricavare dal quadro ben diversificato che Bowers 1940, pp. 3-40 offre dei motivi scatenanti che venivano attribuiti al desiderio di vendetta nelle fonti inglesi fra Cinquecento e Seicento. 47. Cfr. ad esempio il verso del Tasso (Torrismondo I.iii.793 s.): «L’onore/ seguita il bene oprar, come ombra il corpo».

48. Una buona trattazione delle varie definizioni proposte per questo concetto è in Stewart 1994 (pp. 9-63 in part.), che parte da premesse antropologiche

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Introduzione

Ai fini del nostro discorso, però, può essere sufficiente limitarsi a qualche definizione generale, che consenta di tracciare a grandi linee i contorni di questa categoria, così ossessivamente utilizzata nei testi del Cinquecento e del Seicento. Una delle formule più frequentemente citate, nella vasta bibliografia dedicata all’onore, è quella ormai classica di Julian A. Pitt-Rivers, secondo cui «honour is the value of a person in his own eyes, but also in the eyes of his society. It is his estimation of his own worth, his claim to pride, but it is also the acknowledgement of that claim, his excellence recognized by society, his right to pride».5°Secondo una tale definizione, l’onore sarebbe una sorta di contrassegno, nel quale l’individuo riconosce — e pretende che resti fissato e riconosciuto — il valore della sua persona rispetto alla società in cui vive. Questa formula rappresenta un modo utile per cominciare ad accostarsi alla nozione di onore, che va però ulteriormente precisata. Un’interessante messa a fuoco della definizione di Pitt-Rivers è venuta, in anni recenti, dalle pagine che F. Henderson Stewart ha dedicato a questo tema."! Secondo Stewart, l’onore può essere definito come un diritto al rispetto («a right to respect»), o meglio un diritto a pretendere il rispetto («a claim-right»), da considerarsi in una duplice prospettiva: da un lato, il soggetto dell’onore deve essere riconoscibile come un individuo che possiede le caratteristiche che gli conferiscono un tale diritto; dall’altro, in conseguenza di ciò, il mondo esterno è tenuto a tributargli le adeguate forme di rispetto. Non tutte le forme di rispetto, però, sono uguali. Con un «horizontal (or negative) honor», che viene all’individuo dal gruppo dei suoi pari? si articola infatti anche un «vertical (or positive) honor», che sareb-

be il diritto a un particolare rispetto goduto da chi è riconosciuto come superiore."3 Ma insieme ad esse va anche considerato quello che Stewart definisce un «reflexive honor», e che costituisce la percezione del proprio onore da parte dell’individuo stesso. È appunto la difesa di questo «reflexive honor» che sta alla base di ciò che possiamo definire “vendetta”. Secondo la definizione di Stewart quando, all’interno di un gruppo di pari, qualcuno mette in discussione o mette in pericolo l’onore corrette nel suo tentativo di ricostruire per grandi linee i caratteri generali della concezione occidentale dell’onore. 49. Per quanto riguarda, in particolare, il concetto di onore nelle società rinascimentali, un’utile trattazione generale si può trovare in Watson 1960, pp. 91-101. 50. Pitt-Rivers 1977, p. 1 (e si veda l’intero cap. I, «The Anthropology of Honour», pp. 1-17). S1. Cfr. Stewart 1994, p. 9-71. 52. Definito da Stewart 1994, p. 54, come «honor group». 53. È appunto questo il tipo di onore che è stato preminente in Occidente, soprattutto dal XVII secolo in poi, e che ha ricevuto la maggiore attenzione da parte della critica.

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta .

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di un individuo, automaticamente esso viene a deprezzarsi e corre il rischio di andare interamente perduto, in primo luogo agli occhi dello stesso soggetto, a meno che egli non risponda adeguatamente alla minaccia, attaccando a sua volta direttamente chi lo ha insidiato. È su questo principio che si fondano le regole del codice d’onore: un principio che non bada tanto alla compensazione degli eventuali torti subiti, quanto al recupero, con ogni mezzo possibile, della reputazione messa in pericolo, e del conseguente diritto a pretenderne il rispetto. Si tratta di una concezione fondata sul possesso di un’ampia serie di virtù morali, che fa di quella che potremmo considerare, originariamente, come una generica nozione di prestigio, una precisa forma di “diritto”, su cui si basa ciò che può essere definito il “senso dell’ono”. Un “senso dell’onore” che diventa progressivamente sempre più suscettibile di fronte a forme anche minime di insulto e di mancanza di rispetto, ben al di là di ogni considerazione della giustizia e delle sue regole. Come osserva Stewart, una simile concezione dell’onore pare sconosciuta alle culture antiche, e in particolare a quella romana,°* mentre ha avuto uno straordinario sviluppo nell’Occidente europeo (con l’Italia come uno dei suoi principali centri di irradiazione), soprattutto dall’epoca rinascimentale in poi. Se torniamo da queste definizioni generali all'ambito che ci interessa più direttamente, quello della tragedia, vediamo che il mutamento di prospettiva antropologica ha cospicue conseguenze sulla strutturazione degli intrecci.’ Se infatti un autore antico come Seneca riconduceva i gesti di ritorsione alla sfera delle passioni, una cultura come quella europea del Cinquecento insiste piuttosto sui limiti del diritto di chi deve salvaguardare il proprio onore.’ Lo stesso modo che hanno gli eroi tragici di percepire i torti subiti presenta diversi elementi di novità, e per molti versi appare assai più irritabile e reattivo di quello dei loro corrispettivi antichi. Basta pochissimo all’eroe di una tragedia moderna per sentirsi ferito nell’onore. Come vedremo più avanti, a un tiranno particolarmente malvagio basterà essersi visto preferire un rivale da parte della donna amata per sentire menomata la propria dignità, e per precipitarsi ad uccidere l’avversario.’” Questa nuova cornice, in cui va 54. Cfr. Stewart 1994, pp. 67-71. Anche se alcuni generi di irziuria di cui ci parlano i testi antichi sembrano compromettere la dignitas o l’existimatio degli individui, «we nowhere find it written that a man brings infamy upon himself if he fails to prosecute (or otherwise to retaliate against) another who slapped him in the face, or who wrote epigrams against him, or who seduced his wife» [...] «There is nowhere any indication that to ignore an insult or injury will endanger one's social standing, and indeed Seneca says explicitly of insult (as opposed to injury) that “men are not harmed, but angered by it” (non laeduntur homines sed offenduntur)». 55. Diversa sembra la tipologia di altri intrecci narrativi: cfr. De Chickera 1960. 56. Cfr. Watson 1960, pp. 127-162. 57. Cfr. infra, p. 194.

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Introduzione

valutata la portata e la tipologia delle offese che generano il desiderio di vendetta, ha le sue radici nell’universo culturale delle società rinascimentali europee. Di questa nuova situazione risente persino l’approc-

cio legislativo a problemi relativi alla gestione della giustizia in situazioni di violazione delle più elementari regole sessuali. Ad esempio, come ha mostrato Eva Cantarella, è solo dopo il Medioevo che nel diritto viene elaborata la categoria del delitto “honoris causa”, al posto del iustus dolor che, nell’antichità e nel Medioevo, giustificava i delitti dei

mariti che si vendicavano degli adulterii subiti. Questa nuova situazione culturale finisce per esercitare una serie di effetti notevoli anche sull’evoluzione del genere tragico. Se infatti si può dire che nei testi senecani la “vendetta” abbia un ruolo centrale ma non predominante (fatta eccezione per il Thyestes e la Medea, che su questo tema sono fondate), nella tradizione del Cinquecento e del primo Seicento si può dire invece che la “tragedia di vendetta” diventi un vero e proprio ramo specializzato all’interno del genere tragico." Come ho brevemente accennato, e come si vedrà meglio nel corso di questo libro, il vendicatore senecano è un eroe dell’eccesso, della man-

canza di misura: un folle che si illude di ripristinare lo stato delle cose restituendo colpo su colpo i torti subiti, ma che finisce per sconfinare con i suoi misfatti nella disumanità. Nella tragedia europea, invece, e in quella inglese in particolare (sulla quale avrò modo di soffermarmi nel V capitolo), il vendicatore (o meglio, il protagonista delle tragedie di vendetta) è di regola un uomo giustificato nel suo ricorso alla violenza: un eroe spinto a sconfinare in atti di violenza estrema dagli eccessi e dalle ingiustizie altrui. In molti casi, fra l’altro, questi eccessi e queste ingiustizie sono a loro volta frutto di gesti di vendetta, compiuti da personaggi che ritengono (più o meno giustamente) di essere stati privati del proprio onore.9° 58. Cantarella 1991, in part. pp. 235-244. 59. Per il teatro inglese e francese basti citare Bowers 1940, Forsyth 1962 e Hallett & Hallett 1980. 60. Su questo punto Barber 1957, p. 273, e soprattutto 1985, pp. 31-33 e 5982 ha cercato di dimostrare che l’onore non è al centro delle tragedie di vendetta, se non altro all’inizio dello sviluppo di questo genere drammatico. Si tratta di una posizione sostenuta più che altro sulla base delle ricorrenze del termine «honour» in questi testi. Ma, a parte alcune curiose forzature dei dati (Barber, ad esempio, per poter sostenere la sua tesi è costretto a tralasciare una tragedia come Titus Andronicus, in cui l’onore è un fondamentale movente delle vendette incrociate, ed ha un ruolo assolutamente centrale nel testo, anche a livello lessicale), la tesi di Barber non regge a un’analisi culturale che non dipenda solo dal dato linguistico. Non c’è dubbio, ad esempio, che il movente della condotta dei due “cattivi” della Spanish Tragedy, Balthazar e Lorenzo, sia l’onore ferito (anche se Kyd non usa sistematicamente il termine) nella competizione militare con Andrea prima e con Horatio poi. Inoltre, sebbene Hieronimo non concentri il suo progetto di vendetta sul tentativo di ricostruire il proprio onore, ricorre più volte al concetto (cfr. ad es. III.vii.57-58: «O false Lorenzo, are these thy flattering looks?/Is this the honour that thou didst my son?»). E come spiegare,

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta

DIA,

Il tipico protagonista di Revenge tragedy si configura così, il più delle volte, come un vendicatore in mezzo ad altri vendicatori, che si distingue per essere un giusto che vive, fino alla lacerazione della follia, la contraddizione di doversi ribellare, superando ogni limite, a una violenza (quasi sempre esercitata da chi gestisce il potere ingiustamente) talmente perversa da non poter rimanere senza risposta. In assenza di una giustizia che difenda i suoi diritti, il vendicatore delle tragedie moderne appare di solito come

un individuo che viene trascinato ad eccessi di violenza dalla necessità di non venire meno alle più elementari forme di rispetto di sé.*! Sulle caratteristiche esasperate di questa figura, che è tipica del teatro moderno, influisce in modo determinante anche la terribile ambiva-

lenza di una cultura che non riusciva a conciliare l’irrinunciabilità della difesa del proprio onore con le esigenze dell’ideologia cristiana. Non solo, infatti, esisteva una netta cesura fra il complesso delle norme del codice d’onore (che prevedeva una vendetta privata degli oltraggi) e quello delle norme di giustizia pubblica (che rivendicava a sé la competenza per la punizione dei delitti); ma a quest’ultima si associava anche la decisa condanna che la morale cristiana esprimeva a proposito della vendetta, che doveva essere riservata a Dio, secondo il dettato neotestamentario.9* Tali principi religiosi non potevano in teoria essere smentiti, e tuttavia la priorità della difesa dell’onore veniva in genere affermata nei fatti.9* se non all’interno del sistema dell’onore, i rimproveri che Bel-Imperia rivolge a Hieronimo e che Hieronimo stesso indirizza a se stesso, per la dilazione della vendetta? (cfr. ad es. IM.xiii.106-107:

«Then sham’st thou not Hieronimo, to neglect/ The

sweet revenge of thy Horatio?»). Non c’è dubbio, poi, che un personaggio come Amleto, a dispetto di ogni possibile ricorrenza lessicale, non avrebbe nemmeno senso fuori da un contesto culturale in cui il codice dell’onore esercita una pressione insopportabile, con l’inevitabilità delle sue richieste di vendetta. Si può convenire con Barber nel sostenere che le esigenze dell’onore non sono le uniche (e in alcuni casi nemmeno le principali) che sucitano i gesti di violenza nelle tragedie elisabettiane; ciò non toglie, però, che questo tema resti al centro dell’universo culturale dei grandi vendicatori di questo teatro, motivando in buona parte la logica del loro comportamento. 61. Per la centralità che la categoria di onore mantiene, nell’ottica di una ricerca dell’identità, per la cultura e per la produzione tragica di Inghilterra e Spagna cfr. Bickmann-de Villegas Lopez 1991, pp. 1-31 (con ampi riferimenti alla bibliografia precedente sull’argomento). 62. Cfr. al proposito Stewart 1994, pp. 79-81. 63.1 testi fondamentali sono discussi in Forsyth 1962, pp. 57-84, a cominciare da Paolo, Rom. 12.19-21 (Sed date locum irae. Scriptum est enim: Mibi vindictam, et ego retribuam, dicit dominus — quest’ultima è una citazione da Deut. 32.35). Il problema era ovviamente presente già in epoca medievale: cfr. Davy 1984. 64. Si tratta di una contraddizione che era interna alle società rinascimentali, come attestano abbondantemente i documenti dell’epoca: cfr. su questo punto Campbell 1931, Farnham 1936, pp. 345-348, Bowers 1940, pp. 12-14, Barber 1957, pp. 137-147 e Watson 1960, pp. 128-133 («the Christian injunction was definite, but so, too, was the passionate concern of the Renaissance gentleman to defend his honor, good name, and reputation»).

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Introduzione

Difficile, peraltro, era affermare apertamente questa priorità: ad esempio facendone un valore positivo in testi letterari come le tragedie. Non a caso le vicende dei grandi vendicatori tragici vengono configurate come iniziative estreme e assolutamente tormentate di eroi che vorrebbero aspirare a una forma impossibile di giustizia, e che di regola scontano con la morte la necessità di esercitare in prima persona la loro vendetta privata. Oltretutto queste vicende vengono spostate di preferenza verso luoghi e tempi “altri”, dove la pratica della violenza eccessiva possa essere imputata a difetti culturali. Così, ad esempio, scenari prediletti delle tragedie di vendetta elisabettiane sono l’antichità, le culture dei “barbari”, oppure nazioni come la Spagna e l’Italia, tradizionalmente descritte dai contemporanei come terre d’origine di popoli maniacalmente vendicativi.99

Un percorso di ricerca Seguendo le tappe di questo processo culturale, la vendetta è così diventata un tema autonomo, su cui un intero filone della produzione tragica sembra volersi concentrare: cosa che difficilmente si potrebbe dire della tragedia attica, e in fondo anche della tragedia senecana. Il mio intento è di mostrare alcuni aspetti di questo processo, partendo dallo schema senecano dell’îra, e cercando di illustrarne la meccanica, fondata sulla ricerca impossibile di una precisa reciprocità nella ritorsione. Mi concentrerò sulle due più grandi figure di vendicatori presenti nel corpus senecano, Atreo e Medea, che, come è stato notato molte volte, sono legate da una notevole serie di somiglianze.9” 65. Una delle poche eccezioni è rappresentata dal finale di Antonio’s Tragedy di Marston (cfr. infra, p. 195 e n. 119), che giustamente Hallett & Hallett 1980, pp. 32 s. presentano come un maldestro tentativo di conciliare la consueta con-

cezione della vendetta con quella cristiana. 66. Per una descrizione del senso dell’onore e del conseguente uso della vendetta nella società spagnola (anche per come veniva presentata nei testi letterari

del Cinquecento) può essere ancora utile il classico contributo di Caro Baroja 1965 (pp. 81-95 in part.); per i materiali documentari relativi all’Italia si può ancora fare riferimento a lavori ormai invecchiati come Maugain 1935 (una raccolta di testimonianze distribuite secondo criteri un po’ vaghi) e Bryson 1935 (pp. 1-14 in part.). Sulla considerazione di cui godevano all’epoca Italiani e Spagnoli (specialmente da parte di Francesi e Inglesi) basti qui rimandare alle testimonianze raccolte da Forsyth 1962, pp. 37-39 e 117-135 e Bevan 1967, pp. 67-69. In ogni caso aveva ragione Barber 1957, pp. 11-28 e 291-295, a insistere sulla forte compatibilità fra la concezione inglese dell’onore e quella attribuita dalla cultura dell’epoca ai paesi mediterranei. 67. Cfr. ad es. Forsyth 1962, pp. 102-107, Staley 1975, p. 107 (non a caso Staley dedica il cap. II, pp. 47-105, e il III, pp. 107-163, proprio alla Medea e al Thyestes), Braden 1985, p. 57 e Burnett 1998, pp. 10-18.

L’ira e l’onore: due modi diversi di parlare della vendetta .

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Atreo e Medea parlano infatti allo stesso modo e cercano di raggiungere lo stesso scopo, che è quello di riportarsi nella situazione precedente al momento in cui hanno ricevuto il torto che scatena la loro ira. Tenterò soprattutto di mostrare come la condotta di questi due personaggi, caratterizzata dall’eccesso e dal furor, sia in realtà organizzata secondo una “logica” paradossale, che ispira anche l’intera struttura degli intrecci che li vedono come protagonisti (capp. I e IV): e cercherò anche di ricostruire le radici culturali di quella forma ricorrente di vendetta, realizzata tramite l’infanticidio e il cannibalismo, che prende di mira i figli di un padre colpevole (cap. II). Lo studio del tema letterario che propongo mira, in generale, a ricostruire il contesto antropologico all’interno del quale vanno collocati gli intrecci che prendo in considerazione. In questa prospettiva, anche il confronto dei testi senecani con altri testi letterari greci costruiti sugli stessi episodi mitici (cap. III), o con testi latini incentrati su vicende analoghe (cap. II), servirà ad illustrare la diversa fisionomia che uno stesso racconto assume nelle sue varie elaborazioni. In particolare, per

comprendere in quale stampo drammaturgico Seneca abbia collocato due personaggi come Atreo e Medea, sarà utile mostrare anche le deformazioni cui è stata sottoposta una storia che presenta diverse analogie con le loro vicende. Mi riferisco alla vendetta compiuta da una celebre eroina ovidiana, Procne, la cui vicenda ha dovuto essere significativamente riformulata da un umanista come Gregorio Correr, per

poter entrare in uno stampo letterario “tragico”, ricavato da una diretta e un po’ meccanica ispirazione senecana (Appendice). Infine, lo studio dell’influenza senecana sulla tragedia rinascimentale inglese (cap. V) consentirà di approfondire alcuni spunti già toccati in questa introduzione. Verranno messe in luce soprattutto le differenze letterarie che separano due modi diversi di concepire le vicende tragiche, in stretta relazione con le peculiarità culturali dei contesti antropologici in cui le varie forme di produzione drammatica sono state generate.

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Introduzione

CAPITOLO I

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste

L’ira di Atreo

Il personaggio di Atreo rappresenta una così metodica applicazione del meccanismo illustrato da Seneca nel De tra, che si sarebbe tentati di

leggere il Tieste col commento dello stesso trattato.! Tanto più che proprio lì Seneca cita la più celebre frase dell’Atreo acciano? per esemplificare l’atteggiamento del rappresentante più tipico degli irati,? cioè di quella figura di tyrannus* che si pone decisamente al di fuori dell’umanità. Inoltre, fra i vari esempi citati nel III libro del trattato (cap. 15), Seneca indica quello erodoteo di Arpago, cui Astiage uccise e fece mangiare il figlio: un episodio che per molti versi è sovrapponibile alla vicenda di Atreo e Tieste.9 1. Specie dopo i lavori di Staley 1975 e 1981/1983, questa possibilità sta diventando un punto di riferimento per gli studi senecani: cfr. ad es. Abel 1985, p. 765 e Seidensticker 1985, pp. 131 s. (con la bibliografia da lui cit. a n. 47). 2. Oderint, dum metuant, 1.20.4 (= Acc. trag. 203 s. Ribbeck?). Sui rapporti fra l’Atreus di Accio e il Thyestes cfr. Ribbeck 1875, pp. 447-457, Marchesi 1908, pp. 178 s., Zwierlein 1983, pp. 123 s., Dingel 1985, pp. 1060-1062, Tarrant 1985, pp. 40-43, Messina 1988 pp. 53-73, Dangel 1990, pp. 109-111, Monteleone 1991, pp. 323-338.

3. L’Atreo acciano era già per Cicerone un tipico rappresentante dell’isania provocata dall’ira: cfr. Tusc. 4.77. 4. Se si volesse prendere molto alla lettera la definizione senecana di De ira 1.3.fr.3a, il tyrannus sarebbe un rex irato: da regi (scil. iram), tyrannus est. Sulla figura del tyrannus nella tradizione teatrale romana cfr. Lanza 1977, pp. 194-222. Sulla figura di Atreo tiranno cfr. ora Schiesaro 2000. 5. Non è un caso che Seneca nel De îra (vd. ad es. 1.20 s.) citi più volte le vicende di Caligola, il quale, come sappiamo da Svetonio (Cal. 30.1), si era spes-

so atteggiato ad “Atreo dei suoi tempi”. E anche Tiberio viene associato da Seneca alla figura di Atreo: cfr. ancora Seidensticker 1985, pp. 134-136. 6. Hdt. 1.119 (cfr. Staley 1975, pp. 112-115 e 1981/1983, p. 235; una complicata ipotesi sul legame fra le due storie è proposta da Burkert 1972, pp. 91 s.).

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Ma non è necessario proporre qui un confronto sistematico fra le due opere: c’è chi l’ha già fatto, con risultati molto interessanti.” A noi basta soltanto mettere in evidenza la portata di questo meccanismo, che attiva il desiderio di vendetta al di là di ogni controllo razionale, e così trascende nelle forme delittuose più esasperate. Atreo, dunque, è un tiranno che si vendica. E ci si può aspettare che voglia trarre la sua soddisfazione dal restituire a usura i torti subiti dal fratello. Il testo conferma subito questa presupposizione: le prime parole che il tiranno pronuncia sulla scena sono chiarissime al proposito (vv. 176-180): Ignave, iners, enervis et (quod maximum

probrum tyranno rebus in summis reor) inulte, post tot scelera, post fratris dolos fasque omne ruptum questibus vanis agis iratus Atreus?

In questo appello a se stesso non manca nessuno degli elementi che abbiamo finora focalizzato: la definizione di tyrannus, la necessità di vendetta (inulte),* l'esplicita indicazione del sentimento di ira (iratus). Si tratta di un episodio storico che la tradizione ha più volte esplicitamente associato alla vicenda mitica di Tieste (cfr. anche infra, n. 89). Nella linea poetica a cui Seneca si collega è particolarmente significativo il caso di Ov., Ibis 543 s.: ut puer Harpagides referas exempla Thyestae/ inque tui caesus viscera patris eas (su questo passo cfr. più avanti, p. 95). In generale si può dire che nel De ira trovi ampia illustrazione ogni tratto tipico della figura del fyrannus crudele (la cui tipologia è sinteticamente schematizzata da Lanza 1977, pp. 232-236). Sono molte le occasioni per istituire un confronto fra il Thyestes e il De ira. Facciamo solo qualche esempio (cfr. anche quelli raccolti da Staley 1975, in part. pp. 106-163). In 2.9 Seneca cita il passo che Ovidio, Met. 1.127-162 dedica all’età del ferro, per dire che di fron-

te a una realtà del genere il sapiens dovrebbe essere sempre adirato; il passo ovidiano è chiaramente riecheggiato in Th. 40-51 (cfr. Tarrant 1985, p. 93 e Jakobi 1988, p. 154). Il motivo topico del non vides ut maiorem quamque fortunam maior ira comitetur (2.21.7) viene variamente rielaborato nel Thyestes, a partire dal I coro. L'episodio di De ira 2.33.3-6, in cui il cavaliere Pastore è invitato a cena da Caligola dopo l’esecuzione del figlio (Propinavit illi Caesar hbeminam et posuit illi custodem: perduravit miser non aliter quam si filii sanguinem biberet. Unguentum et coronas misit et observare iussit an sumeret: sumpsit) rivela chiare analogie con i vv. 780-784 e con la scena proposta nell’ultimo atto della tragedia. In 2.34.3, fra i vari precetti, c'è anche ne irascamur inimicorum et hostium liberis [...] nibil est iniquius quam aliquem heredem paterni odii fieri, che vieta quanto appunto fa Atreo. Un’analoga opposizione frai precetti esposti e i propositi di Atreo si può trovare in 2.34.5 ([...] utrimque certabit ira, concurritur: ille est melior qui prior pedem rettulit, victus est qui vicit) e Th. 195-204 (scelera non ulcisceris/ nisi vincis; in part. 202-4, petatur ultro ne quiescentem petat./ Aut perdet aut peribit: in medio est scelus/ positum occupanti). E l’elenco potrebbe continuare. 7. Staley 1975 e 1981/1983. Anche se Staley esagera nel considerare le singole parti della tragedia come coerenti e quasi meccanici sviluppi di processi illustrati nel De ira. 8. Hine 1981, p. 271 nota che alla vendetta sono dedicate sia le prime che le ultime parole (v. 1112) pronunciate da Atreo sulla scena.

SZ

Capitolo I

Per quanto la presenza di questo processo psicologico nella condotta del tiranno sia assolutamente evidente in tutto il corso della tragedia, c’è un aspetto fondamentale della sua vendetta che gioca un ruolo decisivo nell’intreccio, e che non mi pare sia stato studiato come meriterebbe. Atreo organizza infatti il suo delitto in un modo che per molti versi risulta speculare al torto che è all’origine del suo risentimento. Si tratta di un elemento verosimilmente centrale nell’economia stessa del Thyestes, che Seneca ha sviluppato, come vedremo, con una certa sistematicità. Solo che, per coglierlo, bisogna dare il giusto valore anche ad alcuni spunti che i commentatori moderni, almeno i più recenti, tendono a sottovalutare.” Da tempo, in effetti, la critica ha rubricato la vicenda dell’Atreo senecano come un caso esemplare di patologia della tirannide: come il delitto mostruoso di una mente sconvolta, che in preda a una smisurata smania di affermare il proprio potere si spinge fino a eccessi sempre più disumani, al di là di ogni regola. Si ritiene quindi che sia tutto sommato superfluo cercare una logica precisa nel progetto delittuoso di Atreo: la natura eccessiva della personalità drammatica costruita da Seneca si muoverebbe infatti in una dimensione decisamente remota da ogni normale coordinata del comportamento umano. Ma, se è vero che la condotta di Atreo sconfina nella sfera della follia senza regole, nulla impedisce che nel suo progetto possa esserci un preciso tentativo di controbilanciare il torto subito o di porre rimedio alle sue eventuali conseguenze: è anzi la stessa meccanica della vendetta ispirata dall’ira a suggerirci di guardare in questa direzione. È dunque opportuno riconsiderare l’intera vicenda tragica in un’ottica che valuti anche sotto questo aspetto la condotta dell’Atreo senecano. Si tratta, cioè, di porsi alcune domande del tipo: cosa spinge l’Atreo senecano a richiamare in patria il fratello per potersi vendicare di lui? Qual è il torto rispetto al quale il tiranno ritiene di essere ancora inultus? Perché la vendetta colpisce proprio i discendenti di Tieste, e in un modo così perverso?

Si tratta di domande che ci spingono a considerare da vicino temi antropologici forti, come la parentela e la concezione della discendenza, che Seneca ha sistematicamente sviluppato nelle sue tragedie. Ma secoli di interpretazione esercitata su questi testi hanno a poco a poco orientato l’interesse dei lettori quasi esclusivamente verso tematiche di ordine filosofico e politico: e così hanno finito per sbiadire il significato elementare dei materiali narrativi riproposti nelle forme fortemente retoriche e patetiche predilette da Seneca. Svincolati dalla loro originaria matrice antropologica, i personaggi del teatro senecano 9. Un ampio quadro delle tendenze seguite dalla critica moderna si può ricavare dai saggi raccolti in Lefèvre 1972, e dai resoconti di Hiltbrunner 1985 e, specificamente per il Thyestes, Lefèvre 1985 (in part. pp. 1269-1281).

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sono stati irrigiditi in simboli, e sono stati considerati quasi 1 vamente nella loro funzione di exempla legati ad insegnamenti etici.! Non c’è ovviamente bisogno di dire come tutte queste operazioni colgano aspetti fondamentali del teatro senecano; tuttavia c’è il rischio che, orientando in maniera così esclusiva la prospettiva di studio, si finisca per perdere di vista una dimensione importante del testo letterario. Si può certo continuare a ridurre Atreo alla maschera dell’ambitio sfrenata, come faceva già Melantone,!! e magari portarlo in scena con successo anche così; ma non si capisce fino in fondo, ad esempio, cosa scateni in Atreo l’odio per il fratello e perché la sua smania per il potere debba far scorrere tanto sangue nell’ambito della famiglia. La storia di una dinastia criminale

Per isolare il tema che ci interessa possiamo partire dalla fine della tragedia senecana. Il pasto cannibalesco è stato consumato: Tieste ha appena appreso dal fratello Atreo di aver mangiato le carni dei propri figli, di averne bevuto il sangue, e invoca Giove perché lo fulmini, dando così l’unica sepoltura possibile a quei cadaveri straziati. La scena ha una grandiosità sinistra, che sembra disgregarsi però in un concettismo capzioso quando arriviamo alle battute finali. Di fronte alle parole disperate di Tieste, Atreo intona un elaborato canto di vittoria. Ecco i versi più significativi (vv. 1096-1112):

AT. Nunc meas laudo manus nunc parta vera est palma.!* Perdideram scelus 10. Cfr. Hunter 1974, pp. 170-178 e Lefèvre 1985, pp. 1263-1266. Que-

sta, ad esempio, era la prospettiva secondo cui era impostato anche un commento scolastico come quello del Trevet. Si veda quanto il domenicano scriveva nella lettera al cardinale Nicola degli Albertini (cito da Franceschini 1938, p. 3): «Cuius [scil. Senecae] doctam maturitatem in arduo virtutum culmine obversantem ad scribendum tragedias reor inclinatam, ut more prudentium medicorum, qui amara antidota melleo involuta dulcore, gustu inoffenso ad humorum purgamentum et sanitatis fomentum transmittunt, ethica documenta fabularum oblectamentis immersa cum iocunditate mentibus infirmis ingereret, per que, eruderatis vitiis, uberem virtutum segetem iniectis seminibus procrearet». 11. Una tragedia come il Thyestes, in cui campeggia la figura del despota Atreo, è stata, si può dire da sempre, letta in chiave simbolica, come il dramma dell’eccesso

a cui porta un dissennato amore per il potere. Filippo Melantone, nel presentare questa tragedia, parlava esplicitamente di un «exemplum [...] utile», capace di mostrare come l’ambizione sconvolge ogni norma, umana e divina («Proinde spectaculum exemplum damus utile; /Nam cernere licebit haciin tragoedia / Nil esse peius ambitione quae omnia / Divina humana, iusque et fas vertere solet»: cit. da Hunter 1974, p. 172).

12. Sul significato, particolarmente pregnante, del verbo pario in questo contesto, cfr. Picone 1995, dove tutto il brano viene interpretato come un paradossale “parto” dello stesso tiranno, che «comporta per Atreo un nuovo cominciamento, e dunque il superamento della confusione che Tieste aveva portato nella sua domus attraverso l’adulterio». 34

Capitolo I

nisi sic doleres. Liberos nasci mihi nunc credo, castis nunc fidem reddi toris. TH. Quid liberi meruere? AT. Quod fuerant tui. TH. Natos parenti — AT. Fateor, et, quod me iuvat, certos. TH. Piorum praesides testor deos. AT. Quid? Coniugales? TH. Scelere quis pensat scelus? AT. Scio quid queraris: scelere praerepto doles; nec quod nefandas hauseris angit dapes: quod non pararis! Fuerat hic animus tibi instruere similes inscio fratri cibos

et adiuvante liberos matre aggredi similique leto sternere — hoc unum obstitit: tuos putasti. TH. Vindices aderunt dei; his puniendum vota te tradunt mea. AT. Te puniendum liberis trado tuis.

Nell’ottica che abbiamo scelto di adottare, bisognerebbe porsi una serie di domande, cui troveremmo risposte piuttosto sbrigative nei commenti o nei saggi critici relativi al Thyestes. Cosa c'entrano i figli? e il letto di Atreo? e gli dèi del matrimonio? e come mai tutti questi elementi, solitamente ritenuti quasi marginali nell'economia del dramma, vengono messi tanto in risalto proprio nella chiusa, coronando l’azione e raccogliendo in sé la tensione dell’intera vicenda? Perché, insomma, Atreo sintetizza proprio in questi elementi lo scopo del suo delitto, della sua vendetta? Per comprendere meglio dobbiamo tornare a considerare le radici mitiche della storia dei due fratelli, e magari cercare di individuare gli spunti del mito che Seneca ha maggiormente sviluppato, in armonia con il contesto antropologico in cui viveva e con le linee del suo gusto.

Cominciamo allora a considerare il racconto mitico da cui Seneca avrà preso le mosse. Si potrebbe pensare che questo debba essere un compito facile. Quella di Tieste era infatti una delle storie più note dell’antichità, tanto che Aristotele! la indicava, insieme a quella di Edipo, come l’intreccio più adatto da cui ricavare una tragedia ideale: e anzi, assicurava che era proprio uno di quei racconti su cui si concentravano di preferenza i tragediografi suoi contemporanei. In realtà lo studio del mito di Atreo e Tieste risulta tutt'altro che agevole. Per una serie di sfortunate coincidenze, quasi tutte le testimonianze antiche su questa vicenda sono andate perdute. Le nostre fonti più complete sono piuttosto tarde: risalgono infatti al I secolo d. C. tanto la Biblioteca dello pseudo-Apollodoro!* quanto le Fabulae di Igino. 13

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14. In realtà, la parte relativa all’intera casa di Tantalo non compare nemmeno nel testo della Biblioteca, ma in quello dell’Epitome vaticana: per comodità, nei riferimenti al testo dell’Epitome (2.1-14) ho seguito la numerazione comune alle edizioni di Frazer 1921 e Scarpi 1996.

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D’altra parte, della grande produzione tragica! non ci è arrivato altro che il dramma senecano. i Tuttavia la presenza di questo tema nella produzione drammatica antica riemerge continuamente, perché il mito dei due fratelli si inserisce nella storia, che è molto lunga e complessa, di una dinastia criminale, in cui i delitti si ripetono, generazione dopo generazione, con notevoli somiglianze fra di loro. Si tratta della stirpe di Tantalo, il celebre condannato degli Inferi, anch’egli, come è noto, protagonista di un banchetto cannibalesco. Dopo di lui troviamo i misfatti di suo figlio Pelope, quindi quelli di Atreo e Tieste, che rappresentano l’episodio centrale e forse più noto dell’intera vicenda; e poi ancora le imprese di Agamennone e Menelao, figli di Atreo, e di Egisto, figlio di Tieste. Solo col figlio di Agamennone, Oreste, si porrà fine alla catena dei delitti.!*

Ogni volta che uno di questi personaggi appare sulla scena è inevitabile un richiamo alla tormentata storia di famiglia, al pedigree scellerato che ognuna di queste figure è in grado di esibire.!” Lo stesso Thyestes di Seneca si apre con il fantasma di Tantalo che, contro la sua volontà, è costretto da una Furia a seminare l’odio, il delitto nella sua casa (vv. 28 s.: rabies parentum duret et longum nefas/ eat in nepotes).!* All’inizio dell’ Agamemnon, poi, è proprio l’ombra di Tieste a comparire in scena, per fare l’elenco delle colpe accumulate nella sua stirpe, compresa quella che il figlio Egisto sta per compiere ai danni del figlio di Atreo, Agamennone: e anche in questa occasione Seneca non rinuncia a connettere le colpe di Tieste con quelle di Tantalo (v. 22), sottolineando come il discendente sia in procinto di inserirsi con i suoi misfatti nella catena dei delitti passati.!? 15. Almeno tre tragedie di Sofocle (una delle quali dal titolo @véotne èv Zikvévi) più un Atpedc N Mvenvoiai (cfr. Radt 1977, pp. 162 e 239), almeno due tragedie di Euripide (Kpfiooai e ®véotnc), per non parlare della vastissima fortuna del tema a Roma: basti ricordare l’Atreus di Accio, il Thyestes di Ennio e il Thyestes di Vario Rufo. Per la fortuna del tema nella letteratura greca e romana in genere cfr. Marchesi 1908, Lesky 1922/1923, Lana 1958/1959, pp. 321-344 (Radt 1977, p. 240, Martina 1981, pp. 177-179 e Seidensticker 1985, pp. 118 s. presentano comodi elenchi dei vari drammi incentrati sulla vicenda di Tieste e indicazioni bibliografiche fondamentali). 16. Cfr. Rivoltella 1993, pp. 124-128. 17. Bastino due soli esempi: l’esclamazione di un coro eschileo (Ag. 1565 s.) tic àv yovàv apaiov EKBoor douwv:/KeKoMetai yevoc Tpdc de: e quella della Clitennestra di Seneca in Ag. 169: o scelera semper sceleribus vincens domus. Il motivo della successione (o anche della gara) di delitti all’interno di una stirpe è uno di quelli prediletti da Seneca: cfr. ad es. Phoen. 298-300, 330-339, Phaedr. 142 s., 687- 698 e 907-914.

18. Cfr. anche 89-95 (ducam in hborrendum nefas/ avus nepotes? etc.), 133135 (alternae scelerum ne redeant vices/ nec succedat avo deterior nepos/ et maior placeat culpa minoribus). 19. Cfr. Ag. 22-52 (v. 25: vincam Thyestes sceleribus cunctos meis. Cfr. Tarrant 1976, p. 172 ad vv. 26 s.). Cfr. anche Ag. 906 s. Su questi temi cfr. Anliker 1960, pp. 15-19 (p. 18, in part., sulla tendenza di Seneca tragico a inserire simili vicende nella necessità del destino ricorrente di una stirpe) e Mazzoli 1989, pp. 338 s.

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Capitolo I

Nella variante del mito che per noi è costituita dal Thyestes di Seneca non si ripropone soltanto un meccanico ripetersi delle colpe di generazione in generazione, ma la successione nélla stirpe si accompagna a una consapevole e voluta ripetizione dei misfatti precedenti: stavolta, anzi, è Atreo stesso ad affermare apertamente la sua volontà di primeggiare nel delitto. Seneca insiste molto sull’aspirazione del tiranno a superare non solo le colpe del fratello, ma anche quelle dell’intera dinastia.?° In quest’aspirazione, com’è stato giustamente notato, si realizza in modo paradossale uno dei più noti e diffusi modelli di comportamento, tipici della cultura nobiliare:?! quella sorta di gara che i rappresentanti delle famiglie illustri, generazione dopo generazione, praticavano con i propri avi per accumulare nel patrimonio della stirpe il maggior numero possibile di onori e segni di distinzione.?* A questo modello dà un certo rilievo lo stesso Seneca, facendo pronunciare al personaggio di Atreo una formula significativa, proprio nel momento in cui si appresta ad architettare il suo progetto di vendetta (vv. 242 s.): Tantalum et Pelopem aspice;

ad haec manus exempla poscuntur meae.?*

Atreo si rifà esplicitamente ai modelli più illustri della sua tradizione familiare, alle “glorie” della sua casa. Ma le azioni memorabili che dovrà compiere per imitare e superare i suoi avi non appartengono alla sfera della virtù eroica, bensì a quella del delitto disumano. Il mito della casa di Tantalo

Non è possibile qui impostare l’analisi organica di un complesso di racconti estremamente ricco com’è quello che riguarda Tantalo e i suoi discendenti.?* Dovremo limitarci ad alcuni elementi più direttamente connessi alla 20. Più in generale, Atreo vuole andare al di là di ogni limite umano: il motivo è stato studiato soprattutto da Seidensticker 1985. 21. Cfr. Knoche 1941, p. 480, Picone 1984, pp. 18-22, Monteleone 1991, pp. 194 s. e soprattutto Pòschl 1977, p. 226: «Das certamen virtutis, das die ròmischen Adelsgeschlechten zu immer neuen Ruhmestaten anspornte, hat sich in ein certamen scelerum verwandelt, in das certamen nequitiae, von dem Seneca in De ira so eindrucksvoll spricht».

22. Cfr. Bettini 1986, pp. 191-193.

23. Con questi versi Atreo si pone nella prospettiva che già nel prologo Tantalo aveva aperto, parlando di successori capaci di superare i propri antenati (18-20): iam nostra subit/ e stirpe turba quae suum vincat genus/ ac me innocentem faciat et inausa audeat. Più avanti, al momento di raccontare l’uccisione dei figli di Tieste, il untius dirà (vv. 625 s.): 0 domus Pelopi quoque/ et Tantalo pudenda. Sul motivo dell’ «outdoing previous standars of crime» cfr. anche i rimandi ad loc. in Tarrant 1985, p. 90. 24. Per una trattazione del mito dei Tantalidi, anche se in una prospettiva piuttosto lontana da quella che a noi qui interessa, cfr. Piccaluga 1968, pp. 156-179.

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vicenda che stiamo trattando; e quindi estrapoleremo dall’insieme delle varianti mitiche soprattutto quegli spunti che Seneca richiama esplicitamente o presuppone noti al suo pubblico. Si tratta di spunti ricorrenti, che attraversano come un filo rosso la storia di questa stirpe criminale. Cominciamo da Tantalo. Il suo primo misfatto lo accomuna proprio ad Atreo: si tratta della sequenza infanticidio-pasto cannibalesco. Già Pindaro parlava di un racconto ampiamente diffuso, secondo cui Tantalo avrebbe imbandito agli dèi, a loro insaputa, le carni del proprio figlio Pelope.?° Anche Atreo farà qualcosa di simile, dando in pasto a Tieste le carni dei figli (dei figli di Tieste stesso, stavolta). La variante relativa a Tantalo è ben nota alla tradizione romana; e Seneca, in

particolare, la connette esplicitamente alla celebre punizione che l’eroe subisce negli Inferi. Proprio a questo proposito, anzi, il primo canto del coro, in cui si passano in rassegna i successivi misfatti della stirpe tantalide,?* contiene un cenno piuttosto marcato (vv. 144-151):

Exceptus gladio parvulus impio dum currit patrium natus ad osculum immatura focis victima concidit divisusque tua est, Tantale, dextera,

mensas ut strueres hospitibus deis. Hos aeterna fames persequitur cibos, hos aeterna sitis; nec dapibus feris decerni potuit poena decentior.?”

Dunque la prima fase della storia di questa stirpe, che va da Tantalo ad Atreo, si apre e si chiude con due delitti analoghi: entrambi gli eroi hanno escogitato un inganno, rispettivamente ai danni degli dèi e di Tieste, preparando loro un pasto scellerato. E già nel prologo del Thyestes, quando la Furia spinge Tantalo ad ispirare il delitto di Atreo, questa analogia viene enfatizzata ai vv. 62 s.: Non novi sceleris tibi conviva venies.

Se scendiamo di una generazione nell’albero genealogico, troviamo poi Pelope, il figlio di Tantalo riportato alla vita dagli dèi dopo il banchetto cannibalesco di cui abbiamo parlato. La fonte antica che offre il quadro più organico delle vicende di tutta la stirpe tantalide è ps.-Apollod., Epit. 2.1-14. 25. Ol. 1.36-64 (Pindaro, però, negava |’stendi di questo racconto, sostenendo invece che Pelope sarebbe stato rapito da Poseidone). 26. Alv. 133 si parla di alternae scelerum [...] vices, di cui si vorrebbe scongiurare il ripetersi. 27. Cfr. Ag. 19-21: et inter undas fervida exustus siti/ aquas fugaces ore decepto appetit/ poenas daturus caelitum dapibus graves. 28. Sul rapporto di continuità/innovazione che il testo senecano imposta fra queste due colpe cfr. Hine 1981, pp. 259 s. e Picone 1984, pp. 23 s.

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Capitolo I

L'impresa principale di Pelope è la conquista della mano di Ippodamia. Secondo la più diffusa versione del mito, cui si rifà anche Seneca, Pelope si sarebbe giovato dell’aiuto di Mirtilo, figlio di Hermes e auriga di Enomao, il quale avrebbe truccato il carro del suo padrone, causandone la morte. Ma, in cambio del suo aiuto, Mirtilo avrebbe

avuto solo una tragica fine: infatti, venendo meno alla fides data, Pelope non solo negò all’auriga le ricompense promesse, ma lo fece morire, gettandolo nel mare che da lui avrebbe preso il nome.?? Anche di questa vicenda si parla nel I canto corale del Thyestes, ai vv. 139-142: Proditus occidit deceptor domini Myrtilus, et fide vectus qua tulerat nobile reddidit mutato pelagus nomine.

Pelope viene meno alla parola data e inganna chi a sua volta aveva ingannato Enomao. È significativo che nel ricordare questo segmento della storia tantalide Seneca insista così tanto sull’elemento dell’inganno, un tema che ricorre più volte nel corso dell’intera tragedia.3° Possiamo anche dire, più in generale, che la tendenza all’inganno sia uno dei tratti che caratterizzano i membri di questa stirpe: in particolare Atreo e Tieste. 29. Per il complesso delle versioni del mito, cfr. Scherling 1933, coll. 1152-

1158. Per la variante che ci interessa più direttamente possiamo limitarci qui a rimandare a Soph., E/. 508-515, Eur., Or. 988-1012 e 1546-1548, Hyg., Fab. LKXXIV

(Oenomaus), 4 s. In alcune versioni del mito i rapporti fra Pelope e Mirtilo sono complicati dalla loro rivalità nel cercare l’amore di Ippodamia: gli Schol. ad Eur., Or. 982 parlano di una gelosia da parte di Pelope nei confronti di Mirtilo; di Mirtilo innamorato di Ippodamia, che tenta di violentarla o di rapirla, si parla in Schol. ad Eur., Or. 990, ps.-Apollod., Epiît. 2.7 s.; Serv., ad Verg., Georg. 3.7 parla di una promessa sessuale fatta da Ippodamia a Mirtilo (primi coitus pactione). Di un’Ippodamia innamorata e respinta da Mirtilo (che poi fa uccidere da Pelope) parlano gli Schol. ad Hom., I. 2.104 Dindorf. 30. Giustamente Tarrant 1985, p. 110 nota che «deceit is a recurrent theme of the first part of the play», e cita una decina di passi a riscontro (cfr. anche Picone 1984, pp. 35 s., 103 e passim). Particolarmente significativo è il fatto che Seneca privilegi proprio l’elemento dell’inganno anche nella descrizione del lugubre tempio, nascosto nell’arx della casa di Pelope, dove si conservano le memorie delle “glorie” di famiglia. Infatti ai vv. 659-662 il nuntius ricorda che lì stanno le spoglie del duplice inganno di Pelope: vocales tubae/ fractique currus, spolia Myrtoi maris,/ victaeque falsis axibus pendent rotae /et omne gentis facinus. A proposito di quest’ultimo passo, il Trevet, che già ad 139 s. insisteva sull’elemento dell’inganno (cfr. Franceschini 1938, p. 19), spiegava il valore di fa/sis sviluppando proprio il motivo dell’inganno (cfr. Franceschini 1938, pp. 56 s.): «victe rote falsis axibus pendent, axes false dicte sunt ad similitudinem hominum qui decipiunt illos qui confidunt in eis et eodem modo axes dum franguntur decipiunt eos qui eis innituntur» (di questa interpretazione si è mantenuta eco nei commenti successivi, come si intuisce dalla nota ad loc. in Giancotti 1988/1989, pp. 134 s.).

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Prima di arrivare alle vicende dei due fratelli rivali è opportuno ricordare un altro episodio della casa di Pelope, anche se stavolta non ne troviamo riscontro in Seneca. Si tratta però di una vicenda che ci permette di focalizzare un ulteriore tratto ricorrente nella storia della stirpe. Secondo alcuni raccontî,?! Pelope avrebbe avuto da una ninfa un figlio, Crisippo, da lui molto amato. Atreo e Tieste, i figli legittimi di Pelope,* avrebbero però ucciso il fratellastro, per timore di essere scavalcati da lui nella successione al padre: e, secondo varie versioni, a istigarli sarebbe stata proprio la madre Ippodamia.*# Troviamo quindi già a questo livello del mito un caso di rivalità fraterna: un contrasto fra i figli legittimi e il figlio naturale di Pelope, che fra l’altro, secondo alcune fonti, sarebbe alle origini dell’esilio di Atreo e Tieste e della maledizione scagliata contro di essi dal loro padre.* Con questa premessa giungiamo dunque al contrasto fraterno da cui ha origine la vicenda che Seneca sviluppa nel suo Thyestes. La rivalità fra Atreo e Tieste, in origine, è prevalentemente legata al possesso dell’insegna che assicurava il diritto di regnare su Micene: per ottenerla, i due fratelli mettono in atto una serie di inganni (sulla cui successione le fonti non sono molto chiare), finché il potere non viene asse-

gnato ad Atreo, mentre Tieste viene allontanato dalla città. È a partire da questa situazione che Seneca costruisce l’azione della sua tragedia: Atreo richiama il fratello e si vendica dei torti subiti da lui in passato. Limitiamoci per ora a fissare questo punto iniziale. Quando la vendetta sarà compiuta e Tieste avrà mangiato le carni dei suoi figli, la lotta fraterna dovrà essere nuovamente rilanciata. 31. Cfr. Bethe, 1899, coll. 2498 s. Le fonti principali sono Schol. ad Hom., Il. 2.105, Schol. ad Eur., Or. 4 e Hyg., Fab. LXKXXV. Euripide dedicò a questa vicenda la tragedia Xpvowroc (cfr. Nauck 1889?, pp. 632-635). 32. Su questo elemento le fonti ritornano con una certa insistenza: cfr. Schol. ad Eur., Or. 4 (v600c), Schoi. ad Hom., Il. 2.105 Erbse (v60w gavt°ov ddeAdG; nel testo ulteriore riportato ad loc. da Dindorf, Crisippo è contrapposto agli altri figli ixavovc), Hyg., Fab. LXXXV (Pelopis filium nothum), lo. Tzetzes, Chil. 1.18.417. 33. Cfr. Schol. ad Eur., Or. 4, Hyg., Fab. LKXXV: bunc (scil. Chrysippum) Atreus et Thyestes matris Hippodamiae impulsu interfecerunt; Pelops cum Hippodamiam argueret, ipsa se interfecit (cfr. anche Fab. CCXLII. 3), Io. Tzetzes, Chil. 1.18.415-420,

34. Cfr. in part. Schol. ad Fur., Or. 4 (0 dé HéXoy brértove Éxwv TOdc Toidac EKBaMer EKk Tfic tatpidoc ètapaoduevoc) è Io. Tzetzes, Chil. 1.18.420 s. 35. Parlerò sempre di Micene, anche se nel testo senecano, per indicare il tea-

tro degli avvenimenti, si oscilla fra le denominazioni di Argo e Micene (con una certa preferenza per la prima: cfr. Tarrant 1976, pp. 160 s.). Com'è noto, sin dai testi omerici c’è una tendenza ad usare "Apyoc per indicare tanto la città di Argo quanto l’intera Argolide o «the whole Mycenaean world» (cfr. Kirk 1985, p. 128). Probabilmente è da quest’uso che discende la confusione, o meglio l’impiego indiscriminato dei nomi Argo e Micene, specialmente in ambito tragico, come osservava già Strabone 8.377.

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Capitolo I

Ma Tieste, ormai privo di discendenza, dovrà innanzitutto procurarsi l'appoggio di un vendicatore. Realizzando una predizione divina, genererà allora un nuovo discendente, Egisto, commettendo incesto con la propria figlia Pelopia.* Al figlio di questa nuova colpa, che va ad arricchire il patrimonio scellerato della stirpe, spetterà il compito di vendicare il padre: ma le nostre fonti non sono concordi sulle modalità di questa vendetta. Secondo alcune notizie,” infatti, Egisto uccide direttamente lo zio Atreo: ma questa versione sembra la meno nota del mito. Il racconto più celebre sposta invece la realizzazione della vendetta alla generazione successiva, quando Egisto, dopo aver commesso adulterio con Clitennestra, la moglie del figlio di Atreo Agamennone, uccide quest’ultimo, al suo ritorno da Troia.?* È appunto questa la versione cui si rifà anche Seneca nel suo Agamemnon. Come ho già ricordato, nel prologo di quest'opera è la stessa ombra di Tieste a presentarsi in scena, annunciando l’imminente delitto del figlio.5° Con un simile ulteriore rilancio delle vendette reciproche non si giunge ancora a una conclusione della sequenza omicida. Egisto e la sua amante saranno infatti uccisi, a loro volta, da Oreste,'° la cui suc-

cessione al proprio padre era stata seriamente compromessa dall’ini36. È questa sicuramente la versione del mito cui si rifà Seneca, come si ricava chiaramente da Ag. 28-36, 47 s. e 294 (cfr. Tarrant 1976, p. 173 ad v. 30). Ritroviamo la stessa versione in Aesch., Ag. 1219-1225 (1223-1225 in part.: &k tOvde Tolvac pdnui povAeverv TIvà, / AÉOVT dvaAXkiv Ev XÉéxel OTPwpwuevov/ oikovpév, oiuo1, tò uoXdvmti deotoTm; cfr. vv. 1500-1503, 1577-1611 e Fraenkel 1962, pp. 560 s. ad 1223), Schol. ad Fur., Or. 15, ps.-Apollod., Epit. 2.14, Hyg., Fab. LXXXVII (Thyesti [...] responsum fuit quem ex filia sua Pelopia procreasset, eum fratris fore ultorem) e LXXXVIII. 3-7 (ma in questo caso Tieste non sembra con-

sapevole dell’identità della donna che violenta nella notte a Sicione), Dio Chrysost. 62.6, Serv., ad Verg., Aen. 11.262, Mythogr. Vat. 1.22 (= Lact. Plac. ad Stat., Theb. 4.306, cfr. anche ad 1.694). 37. Cfr. Hyg., Fab. LKXXVII. 11 (cfr. anche CCXLIV. 2: Aegisthus Atreum et Agamemnonem Atrei filium [scil. occidit]), Myth. Vat. 1.22 (= Lact. Plac., ad Stat., Theb. 4.306), ps.-Apollod., Epit. 2.14 (e Io. Tzetzes, Chil. 1.18.452-455).

38. La duplice impresa delittuosa di Egisto potrebbe anche essere considerata come contraccambio di un precedente delitto di Agamennone, di cui ci parlano alcuni testi antichi. Secondo una versione del mito, infatti, a sua volta Agamennone avrebbe ucciso il precedente marito di Clitennestra, Tantalo, che era anch'egli figlio di Tieste. Questo racconto, che Seneca non sembra tener presente, si trova in Eur., Iph. Aul. 1148-1152, Paus. 2.18.2, Schol. ad Hom., Od. 11.430, Io. Tzetzes, Chil. 1.18.462-465 (Agamennone sarebbe diventato genero di Tindareo, prendendo in sposa Clitennestra kTeivac aùTfic tòv ovluvyov, Tav-

Tadov TÒv Avéotov,/ dv TÉEKVW TAvv veoyvoò, vv. 464 s.). 39. Cfr. vv. 44-52, e 48 s. in part.: causa natalis tui,/ Aegisthe, venit (cfr. supra, pasbien. 19).

40. Basti citare le parole del coro eschileo che, alla fine delle Coefore (vv. 1065-1076), connette fra loro le tre successive sciagure della casa di Atreo: il banchetto cannibalesco, l’uccisione di Agamennone e quella di Clitennestra ed Egisto; e conclude, toì dfita xpavei, moi xataArée/ uetaxoruodèv ugvoc dTnc;

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ziativa delittuosa della madre.*! A questo punto, con la definitiva cancellazione della parte avversa, la legittima discendenza di Atreo sembrerebbe finalmente padrona assoluta del campo: ma saranno le stesse divinità della vendetta, le Erinni, a intervenire per perseguitare Oreste. La catena di delitti inaugurata da Tantalo potrà finalmente chiudersi solo quando l’Areopago, grazie anche all’intervento divino, assolverà il matricida Oreste dalla sua colpa. Questo resoconto, come ho detto, è una ricostruzione sommaria,

che propongo per comodità, mettendo assieme alcuni pezzi sparsi del mito tantalide: quelli più direttamente connessi all’uso che di queste storie Seneca ha fatto nelle sue tragedie. D’altra parte, troppo spesso non è neanche possibile stabilire esattamente quale fosse la storia della stirpe che Seneca conosceva o aveva in mente. Per fare un esempio, prima di arrivare all’ultimo contrasto fra Egisto e Oreste, le nostre fonti ci mostrano una serie di convulse (e confuse) vendette che interessano ancora Atreo, Tieste e i loro figli: ma purtroppo in Seneca non c’è una traccia chiara di questa parte del mito,* in cui compaiono {lo 41. Bisogna ricordare, fra l’altro, che secondo alcune versioni del mito Egi-

sto e Clitennestra generano dei figli, cui dovrebbe passare il potere della casa di Agamennone: cfr. Soph., E/. 589 s. (Elettra rinfaccia alla madre: kai ta1do— Toigic, todc dì Tpoopdev evospeic/ xa edDoeBov BAaoTovTac EkpaXodo Exeic: cfr. la nota ad loc. di Kells 1973, pp. 128 s.); cfr. anche Eur., El. 62 s. 42. Di quanto sta fra il contrasto fraterno e il ritorno di Agamennone a Micene Seneca ci parla soltanto nel prologo del Thyestes, in una forma retoricamente assai elaborata, che ci consente di farci un’idea piuttosto parziale della successione di eventi presupposta. Si tratta dei vv. 37-51, in cui la Furia assegna a Tantalo il compito di diffondere nella stirpe sventure che sempre si rinnovano: Ob scelera pulsi, cum dabit patriam deusl în scelera redeant, sintque tam invisi omnibus/ quam sibi; nihil sit ira quod vetitum putet:/ fratrem expavescat frater et gnatum parens/ gnatusque patrem: liberi pereant male,/ peius tamen nascantur; immineat viro/ infesta coniunx: bella trans pontum vehant/ etc. In questi versi (che mostrano interessanti analogie con un frammento del perduto De matrimonio, 66-68 Haase, ridistribuito nella raccolta di Vottero fra i frammenti F36 e FS1: cfr. in part. Vottero 1998, pp. 277 s.) sono chiaramente riconoscibili le allusioni al‘ rovesciamento delle posizioni fra Atreo e Tieste e al loro odio reciproco; alla morte dei figli di Tieste (liberi pereant male) e all’incesto fra questi e Pelopia (peius tamen nascantur: cfr. anche la n. ad loc. del Trevet, in Franceschini 1938, p. 13); all’odio di Clitennestra per Agamennone; alla guerra di Troia. Più oscuro è il senso della coppia speculare gnatum parens/ gnatusque patrem (scil. expavescat), che fa probabilmente riferimento a una di quelle storie che Igino (cfr. infra, pp. 58-60) ci racconta nelle Fabulae LXKXXVI (Atreo uccide Plistene, che era suo figlio, ma che era stato allevato da Tieste come se fosse stato suo) e LXAXXVIII. 6-11 (Egisto, cresciuto da Atreo come fosse figlio suo, prima viene incaricato di uccidere il suo vero padre, Tieste, e poi, riconosciutolo, volge la spada contro Atreo). Seneca ha interesse, in questo caso, a sottolineare soltanto la pervasività, in ogni direzione, dell’odio familiare: non è da escludere, però, che faccia riferimento ad Egisto, e forse anche a Plistene (cfr. Tarrant 1985, p. 93 e Anliker 1960, p. 25).

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Capitolo I

vedremo meglio più avanti) figure di figli dalla paternità incerta, che entrano in conflitto con i loro genitori (veri o presunti).

Possiamo quindi abbandonare questa complessa ragnatela di racconti. Al termine della nostra breve rassegna risulta infatti evidente che anche per un autore come Seneca non ci doveva essere soluzione di continuità fra i delitti del capostipite, l’odio di Atreo contro il fratello e la vendetta che Egisto portava a termine consumando l’adulterio con la moglie del cugino e sostituendosi a lui nella sua casa. Una sorta di perversa gara di delitti (inganni, adulteri, infanticidi* e omicidi) rinnova di generazione in generazione il carattere scellerato della discendenza di Tantalo.

La rivalità fra Atreo e Tieste Possiamo ora tornare più precisamente entro denti che la trama del ricostruirli abbastanza ce ai vv. 225-243.

alla vicenda di Atreo e Tieste, e inquadrarla la cornice mitica che ho ricostruito. I preceThyestes senecano dà per scontati possiamo bene dalle nostre fonti e da quanto Atreo di-

Secondo tutte le versioni del mito la contesa fra i due fratelli nasce attorno al privilegio di governare sulla città di Micene. Ma non c’è unanimità sulle origini del contrasto. Alcune notizie riconnettono le radici della rivalità fraterna alla maledizione lanciata da Pelope contro i due figli, che avevano ucciso il loro fratellastro Crisippo;** altre lo attribuiscono all’ostilità che Hermes, padre di Mirtilo, nutriva per la stirpe di Pelope.*# Non siamo in grado di dire quale di queste versioni seguisse Seneca; e non possiamo neanche ricostruire quale fosse, secondo lui, la successione esatta degli avvenimenti che videro Atreo e Tieste contendersi il trono. Una cosa, però, è chiara: la con-

tesa aveva per oggetto il possesso di un ariete dal vello d’oro, che la 43. A questa tipologia di delitto può essere riconnesso anche il fatto che Agamennone è costretto a sacrificare la propria figlia Ifigenia. Il sacrificio sarà poi vendicato da Clitennestra in preda all’ira (cfr. Aesch., Agam. 154 s.: piuver yàp pope pà taXivoptoc/ oikovéuoc dora, uvauwv Mfivic tekvoToIvoc, Sen., Agam. 158-173). 44. Cfr. ad es. Thuc., 1.9, Schol. ad Eur., Or. 5, Schol. ad Hom., Il. 2.105

Dindorf. 45. Cfr. ad es. Eur., Or. 2988-1000 e 1547-1549, Myth. Vat. 1.22 (= Lact. Plac., ad Stat., Theb. 4.306), Io. Tzetzes, Chil. 1.18.433-435. Sulle possibili origini di questo racconto cfr. Voigt 1886, pp. 330-335. 46. Il testo di Seneca non offre comunque alcun appiglio per accreditare la versione (che stranamente ha avuto qualche diffusione, in passato, anche in manua-

lie commenti), secondo cui in origine sarebbe esistito un accordo fra Atreo e Tieste per governare ad anni alterni (come Eteocle e Polinice): si tratta di un racconto noto già al Myth. Vat. 1.22 (=Lact. Plac., ad Stat., Theb. 4.306).

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste

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maggior parte delle nostre fonti indica come l’insegna del potere sulla città di Micene?” (vv. 225-231): Est Pelopis altis nobile in stabulis pecus, arcanus aries, ductor opulenti gregis,

cuius per omne corpus effuso coma dependet auro, cuius e tergo novi

aurata reges sceptra Tantalici gerunt; possessor huius regnat, bunc tantae domus

fortuna sequitur.

Dalle parole dell’Atreo senecano risulta chiaramente che la contesa nasce quando Tieste sottrae questo ariete al fratello, con la complicità di Aerope, la moglie di Atreo di cui Tieste è diventato amante. Leggiamo i vv. 234-243, pronunciati dal tiranno: Hunc facinus ingens ausus assumpta in scelus

consorte nostri perfidus thalami avehit. Hinc omne cladis mutuae fluxit malum: per regna trepidus exul erravi mea,

pars nulla generis** tuta ab insidiis vacat, corrupta coniunx, imperi quassa est fides, 47. Cfr. ad es. Eur., Or. 807-818 e 995-1000, Iph. T. 812 s., El. 712-726, Plat., Polit. 268c-269a, Paus. 2.18.1, Schol. ad Eur., Or. 811, 995 e 998, Dio Chrysost. 62.6, Acc., fr. VIII, Myth. Vat. 1.22 (=Lact. Plac., ad Stat., Theb. 4.306). Secondo una versione del mito (risalente almeno a Ferecide: ma cfr. i dubbi di Voigt 1886,

pp. 400-410), la discordia fra Atreo e il fratello sarebbe stata suscitata da Artemide, offesa per il fatto che Atreo non aveva tenuto fede alla sua promessa di sacrificarle appunto il capo più prezioso del suo gregge: cfr. Schol. ad Eur., Or. 995 e 811, ps.-Apollod., Epiît. 2.10 s., Schol. ad Hom., Il. 2.105 Dindorf, Io. Tzetzes,

Chil. 1.18.436-439. 48. Generis è la lezione dell’Etruscus, accolta, fra gli editori più recenti, da Leo 1879, Giardina 1966, Tarrant 1985, Monteleone 1991. Preferiscono invece la lezione dei codici del gruppo A, mostri, Zwierlein e, sulla sua scia, Giancotti

1988/1989. Lo stesso Zwierlein 1984, pp. 26 s. rubrica questo caso fra i «konjekturelle Eingriffe» tipici di E, «die mythologische Zusammenhànge erhellen (oder als Parallelen in den Blick riicken), den Gedanken oder die Satzstruktur vereinfachen und die Wortwahl und Wortstellung normalisieren sollen». Infine, Zwierlein 1986, p. 299, dopo aver in passato sostenuto che fosse l’intero verso 239 a dover essere espunto (cfr. Zwierlein 1976, p. 197), intende, con Axelson, nostri come equivalente a rerum nostrarum («nichts, was zu ihm gehòrt, ist frei von Nachstellun-

gen»), ma non porta nessun parallelo a sostegno di questa interpretazione. In realtà il senso del passo e la sua struttura sintattica risultano molto più accettabili con generis, senza che questa lezione debba essere necessariamente intesa come una normalizzazione del testo. Atreo lamenta la rovina insieme del suo regnum e del suo genus: gli effetti di questa rovina vengono poi ripresi chiasticamente nei due versi successivi (corrupta coniunx - imperi fides - domus aegra - dubius sanguis). Non si potrebbe pensare che nostri sia una glossa di generis, inseritasi erroneamente nel testo? Comunque sia, anche accettando mostri il senso del passo non cambia ai fini del nostro discorso (in questa direzione va infatti anche la citata nota di Zwierlein 1986, p. 299).

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domus aegra, dubius sanguis est*° certi nihil nisi frater hostis. Quid stupes? Tandem incipe animosque sume: Tantalum et Pelopem aspice; ad haec manus exempla poscuntur meae.

Atreo descrive dunque l’impresa di Tieste come ciò che ha gettato lo scompiglio nella sua casa e lo ha costretto a fuggire dalla sua stessa patria. Non è chiaro come Seneca immaginasse lo svolgersi degli eventi; come, cioè, secondo lui Atreo avesse potuto tornare in possesso del potere, rovesciando la situazione a suo favore ed esiliando a sua volta Tieste. Possiamo immaginare che Seneca seguisse una delle versioni del mito a noi note, secondo cui Atreo rimediava all’iniziale scon-

fitta con una contro-frode, ispiratagli dagli dèi.5° Si tratta comunque di un particolare, tutto sommato, di scarso rilievo ai fini del nostro

discorso. Qualunque fosse la struttura della storia presupposta da Seneca, a noi interessa sottolineare come la situazione su cui si inne-

sta la vicenda della nostra tragedia (e in particolare la vendetta di Atreo) sia una rivalità per il potere, intrecciata con un adulterio."

Il perché della vendetta Ma come mai, pur essendo in possesso del potere su Micene, l’Atreo senecano ha bisogno di richiamare il fratello dall’esilio per vendicarsi? 49. Non c’è alcun bisogno di accogliere nel testo, con Zwierlein, la corre-

zione di Heinsius et al posto del tràdito est. 50. Secondo varie fonti, Zeus avrebbe favorito Atreo: o informandolo tramite Hermes della sua volontà di invertire il corso del sole (e suggerendogli di far giurare al fratello che avrebbe avuto il potere finché il sole avesse mantenuto il suo corso), o testimoniando con questo fenomeno l’illegittimità del potere di Tieste: cfr. Eur., El. 720-736, Plat., Politic. 269a, Schol. ad Eur., Or. 811 e 998, ps.-Apollod., Epit., 2.12, Schol. ad Hom., Il. 2.105 Dindorf. 51. Questa era anche la versione acciana della vicenda. Basta considerare il fr. VII dell’Atreus (Ribbeck?): Adde buc quod mihi portento caelestum pater/ prodigium misit, regni stabilimen mei,/ agnum inter pecudes aurea clarum coma./ Em clam Thyestem clepere ausum esse e regia,/ qua in re adiutricem coniugem cepit sibi (cfr. anche fr. VI: qui non sat babuit coniugem inlexe in stuprum). La rilevanza del tema dell’adulterio nel Thyestes di Seneca è però in genere sottovalutata dai critici. Particolarmente deciso, ad esempio, era Lesky 1922/1923, pp. 528 s., che ha avuto grande influenza sugli studi successivi: «Bei Seneca fehlt diese enge Verbindung von Rache und Ehebruch, und des Atreus Tat wird lediglich aus seinem patologisch herrschsichtigen und unmenschlichen Charakter motiviert [...]; was Thyestes vorher einmal verbrochen, ist verbla&t, und die ganze Katastrophe erwàchst aus der Gestalt dieses gigantischen Wiiterichs». Non mancano voci più equilibrate, come quella di La Penna 1972, p. 137: «[...] sarebbe rischioso affermare che per Atreo il compimento del male sia fine a se stesso, che il suo delitto sia “gratuito” [...] Seneca, come Accio, non tralascia la motivazione delia vendetta per le offese che Atreo ha ricevuto dal fratello». E tuttavia nessuno ha studiato adeguatamente la natura di questa «motivazione», in cui appunto l’adulterio occupa una posizione centrale.

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La risposta ce la dà Atreo stesso nelle prime battute che pronuncia sulla scena,°? quando dice di non essersi potuto ancora vendicare degli scelera, dei doli del fratello, e di volerlo fare con un delitto ben superiore a quelli che ha subito: è la logica dell’ira, di cui abbiamo parlato all’inizio, che suggerisce vendette precipitose e sproporzionate rispetto alle iriuriae effettivamente subite o presunte. Ed è appunto la volontà di vendetta che, da sola, giustifica la finta riconciliazione.” Tenendo Tieste lontano da Micene e dal potere, Atreo non si può vendicare di lui. Per riparare ai torti subiti il tiranno ha bisogno di danneggiare il fratello in modo ben più radicale. Torniamo così alle domande che avevamo posto in precedenza. Quali sono, esattamente, gli aspetti dell’imiuria subita che Atreo intende vendicare? c’è una logica nella sua macchinazione delittuosa? ed eventualmente, che rapporti ha questa logica con la qualità e con le conseguenze del torto patito? In effetti dalle parole di Atreo apprendiamo che i danni provocati dagli inganni fraterni permangono, minacciando la stabilità del suo regno. Anche se Atreo detiene il potere sulla città, tutta la sua casa è ancora minacciata. Rileggiamo i vv. 236-241: Hinc omne cladis mutuae fluxit malum;

per regna trepidus exul erravi mea, pars nulli generis tuta ab insidiis vacat,

corrupta coniunx, imperi quassa est fides, domus aegra, dubius sanguis est certi nihil nisi frater hostis.

La frode di Tieste ha degli effetti permanenti: la rottura della fides su cui doveva basarsi tanto il rapporto fraterno quanto quello coniugale,'* ma soprattutto lo sconvolgimento totale delle certezze nella casa regnante. Non c’e più nulla di certum, tutto è dubium: e in particolare il sangue della stirpe.’ 52. Vv. 176-180, cfr. supra, p. 32. 53. Cfr. Hyg., Fab. LXXXVIII. 1 s.: Atreus. Atreus Pelopis et Hippodamiae filius cupiens a Thyeste fratre suo iniurias exsequi, in gratiam cum eo rediit et in

regnum suum eum reduxit, filiosque eius infantes Tantalum et Plisthenem occidit et epulis Thyesti apposuit. Qui cum vesceretur, Atreus imperavit bracchia et ora

puerorum afferri; ob id scelus etiam Sol currum avertit. Fin qui, l’intreccio raccontato da Igino corrisponde fédelmente a quello della tragedia senecana (cfr. Monteleone 1991, p. 43).

54. Si può ricordare che, nella ricostruzione di Ribbeck3, il fr. XV dell’Atreus di Accio presenta i due fratelli che si rinfacciano proprio la violazione della fides. 55. Sul valore dell’espressione dubius sanguis in questo passo senecano cfr. Bettini 1984, pp. 155 s. Già Trevet ad loc. (Franceschini 1938, pp. 26 s.) lo intuiva correttamente: «dubius sanguis est, scilicet filiorum, quia dubito utrum sint mei vel fratris». L'aggettivo dubius sembra quasi avere un valore “tecnico” in conte-

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La colpa di Tieste ha degli effetti ben più gravi di quelli che potrebbe avere la semplice sostituzione di un sovrano all’altro: ha minato alla base l’intera dinastia di Atreo.° La fonte di ogni successivo contrasto è dunque tanto l’adulterio quanto il furtum: se poi si considera il fatto che molte delle nostre fonti rubricano questo episodio del mito come una vicenda di adulterio tout court,” si è addirittura spin-

sto di adulterio. Per esempio, il turbamento della paternità è chiaramente indicato da Ovidio in Trist. 2.351 s., dove il poeta dice che nessuno potrebbe accusarlo di aver commesso adulterio: nec quisquam est adeo media de plebe maritus,/ ut dubius vitio sit pater ille meo (cfr. infra, n. 75). S$6. Già Accio, nell’ Atreus, aveva introdotto le stesse considerazioni. Cfr. frr. VI-VII, e in part. VII (vv. 206-208 Ribbeck?): [...] quod re in summa summum esse arbitror/ periclum, matres conquinari regias,/ contaminari stirpem ac misce-

ri genus. Cfr. Guastella 1988, pp. 40 s. e 68-72. 57. Cfr. Ov., trist. 2.391 s.: si non Aeropen frater sceleratus amasset,/ aversos solis non legeremus equos (in un elenco di temi tragici, questo caso segue immediatamente il ratto di Ippodamia e il delitto di Procne, e precede di poco il crimine di Egisto e la vendetta di Oreste); cfr. anche Ov., ars 1.327-330 (Cressa Thyesteo si se abstinuisset amore/ (et quantum est uno posse carere viro!)/ non medium rupisset iter curruque retorto/ Auroram versis Phoebus adisset equis). Oltre ad Ovidio presentano la storia di Atreo e Tieste come una vicenda di adulterio anche Aesch., Ag. 1193 (cfr. Fraenkel 1962, pp. 546 s. ad v. 1193), Eur., Or. 1007-1012 (e Schol. ad 14, 16, 811 e 998), Electr. 720-726, Acc., frr. VI-VIII dell’ Atreus, Cic., nat. deor., 3.68 (qui regnum adulterio quaereret), Dio Chrysost. 11.7 e 15.6, Stat., silv. 5.1.58 s., ps.-Apollod., Epit. 2.10-13, Paus. 2.18.1, Lucian., de saltat. 43 (implicitamente: cfr. anche 67), Hyg., Fab. LXXXVI (Pelopidae. Thyestes Pelopis et Hippodamiae filius quod cum Aeropa Atrei uxore concubuit a fratre Atreo de regno est eiectus), Serv., ad Verg., Aen.1.568 e 11.262, Myth. Vat. 1.12 (=Lact. Plac., ad Stat., Theb. 4.306, qui Aerope è diventata «Europa»), Schol. ad Hom., Il. 2.105 Dindorf, Suda s. v. Atpéwc 6uuata, Io. Tzetzes, Chiliades 1.18.441-449.

Anche nel prologo del Thyestes il delitto di Tieste viene chiaramente indicato come stuprum fratris (vv. 46 s.). L'espressione (unanimemente attestata dai codici) è sicuramente autentica, e non è necessaria, al v. 47, la correzione di fratris in

facinus proposta da Bentley (accolta, ultimamente, nelle edizioni di Tarrant e Zwierlein). È sbagliato anche, d’altra parte, interpungere prima di fratris, come hanno fatto diversi editori (fra gli altri Leo 1879, Giardina 1966 e Monteleone 1991, pp. 138 s., n. 21; cfr. anche Anliker 1960, pp. 25 s.): il nesso che ne risulta (fratris et fas et fides) è insolito e privo di riscontri (è piuttosto difficile giustificare un’espressione come fratris fas: cfr. Giancotti 1988/1989, pp. 11 s.). La soluzione migliore è quella indicata già da Hieronymus Commelinus («potius sic distingue impia stuprum in domo/ Levissimum sit fratris: & fas & fides»: cito da L. ANNAEVS/ SENECA / TRAGICVS;/ Ex/ Recensione & Museo/ Petri Scriverii. [...] / [...] / Lugduni Batavorum/ Apud Iohannem Maire/ 1621, t. II, p. 105), che Zwierlein adottava ancora nella prima versione della sua edizione oxoniense, e che accoglie anche Giancotti 1988/1989 (cfr. Zwierlein 1986, p. 294 e Picone 1984, p. 22). Si tratta, fra l’altro, del testo seguito dal Trevet (cfr. Franceschini 1938, p. 13). Credo che il complesso dell’interpretazione che propongo in queste mie pagine dovrebbe bastare a giustificare il mantenimento della lezione tràdita: come vedremo, è proprio lo stuprum fratris che scatena la mostruosa vendetta di Atreo e la successiva serie di delitti, altrettanto orribili (cfr. infra, pp. 65-67).

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ti a privilegiare la rilevanza della colpa sessuale rispetto alla sottrazione dell’ariete.58 Del resto, ancora il dorthenicano Nicholas Trevet apriva il suo commento al Thyestes proprio sottolineando la centralità di questo elemento nella logica stessa della tragedia senecana. È utile riportare per esteso l’inizio di questa sezione del suo commento: «Secunda tragedia Senece est de Thieste, cui pro argumento premittendum est quod Atreus et Thiestes fratres erant, Thiestes autem adulterium commisit cum uxore Atrei, propter quod Atreus in odium Thiestis vehementer exarsit, et non suffecit ei quod, occupato regno, fratrem egit in exilium, sed volens desevire in eum crudelius finxit se velle ei reconciliari et acceptis ab eo filiis in obsides partitus est cum eo regnum; quem postea vocavit ad convivium et interfectis filiis, quos

habuit obsides, dedit patri ad comedendum commiscens cruorem eorum cum vino, quod dedit ei bibere».°° Com'è noto, il commento di Trevet si colloca in una fase storica —

l’inizio del XIV secolo — in cui il testo di Seneca tragico cominciava finalmente a riemergere su vasta scala nella cultura europea, dopo secoli di assoluta marginalità (se non addirittura di oblio). In un momento come questo, in cui la fortuna dalle tragedie senecane cominciava appena ad imporsi, era ancora ben viva la consapevolezza della centralità che l’adulterio aveva anche all’interno del testo che stiamo studiando, così come nelle varie versioni antiche della lotta fra Atreo e Tieste. Ancora all’inizio della seconda metà dello stesso secolo, poi, un autore come Boccaccio, che conosceva bene le tragedie senecane, insiste regolarmente, e con forza ancora maggiore, sugli stessi elementi, mettendo in evidenza come la meccanica della vendetta di Atreo sia decisamente organizzata in modo da riparare al torto rappresentato dall’adulterio del fratello. Nel De casibus virorum illustrium 1.9.1322 (Thiestis et Atrei iurgium), quando arriva il turno di Atreo nell’esposizione dell’accaduto, Tieste viene presentato appunto come un adultero, che addirittura genera dei figli con la cognata (il cui nome viene storpiato in Meropes). Leggiamo il paragrafo 14: 58. Si tenga comunque presente che le fonti giuridiche «configurano spesso l’adulterio come una sorta di furtum ed assimilano l’adultero al ladro» (Rizzelli 1997, pp. 13 s.: cfr. anche Beltrami 1998, pp. 79-82). 59. Cito da Franceschini 1938, p. 9: cfr. anche le note del Trevet ad vv. 138 s. (p. 19) e ad vv. 1103 ss. (p. 89). Con le stesse parole troviamo narrato l’antefatto in alcuni degli Argumenta che precedono il testo del Thyestes in varie edizioni del Cinquecento e del Seicento: cfr. le «Periochae Tragoediarum Senecae, Nomine Luctatii Grammatici e Ms. codice descriptae a Georgio Fabricio» (traggo la citazione dall’edizione dello Scriverius, citata a n. 57): «II THYESTES. Atreus & Thyestes, e Pelope & Hippodamia, fratres fuerunt. Thyestes autem adulterium commisit cum uxore Atrei; propter quod Atreus in odium Thyestes vehementer exarsit; nec contentus, quod occupato regno fratrem egisset in exilium, sed volens in eum crudelius desaevire, finxit se velle ei reconciliari etc.»

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«Ego infelix sum: hic scelestus homo! Ft ne per cuncta discurram, si nescis, sumpsi uxorem Meropem, etate et forma valentem, cuius pudicitiam mentemque integram suasionibus et blanditiis suis exornator iste facinorum corrupit violavitque, inde genialem thorum, filiosque ex mea suscepit, quos ego simplex et de fratre nil suspicans

meos existimabam»9° Per confermare le sue accuse contro la lussuria del fratello, Atreo

cita anche il suo successivo incesto con la figlia Pelopia. Per questi suoi delitti Tieste sarebbe stato meritatamente allontanato dalla città. Ma sentiamo qual è lo scopo della vendetta di Atreo (parr. 17-20): «Que inaudita facinora etiam intolerabilia ut purgarem, dum forte vires non sufficerent ad artes quas ipse, doli fabricator eximius,

docuerat et quas agendo premonstraverat, ipse in tantum infortunium meum divertendum censui; ea feci quibus ipse causam dedit: filios edendos dedi — fateor — quos ipse michi diu ante dedisset, nisi suos suspicatus fuisset. Ergo infelix ego ante uxoris adulterio; infelix fraude fratris; infelix expiationis desiderio, quod mortalium mentium communis est morbus; infelix quia in nepotes seu privignos sevire oportuerit. Volui ultionem equa lance cum offensione pensare. Meum violaverat thorum: suam violavi mensam; in meo utero suos genuerat filios: in suo alvo condendos existimavi. Non poteram aliter nephastos ortus in pristinum, tanquam non fuissent, revocare locum».

In questo brano i riecheggiamenti di espressioni senecane sono talmente numerosi — e talmente scoperti — da non lasciar alcun dubbio sul fatto che la principale fonte della storia fosse anche per Boccaccio il Thyestes. Dunque la tragedia veniva letta anche da Boccaccio come la vendetta di un uomo irritato per aver subito un adulterio che ha confuso la stirpe reale.®! 60. I passi citati sono tratti da Ricci-Zaccaria 1983, pp. 44-50. 61. Non è facile capire, dalle non chiarissime espressioni del Boccaccio, se i figli considerati “propri” in un primo tempo da Atreo siano qui Agamennone e Menelao (come sembrerebbe peraltro più probabile), oppure gli stessi fanciulli che alla fine saranno mangiati da Tieste. In ogni caso, i figli di Tieste sacrificati da Atreo sono stati certamente generati da Aerope-Merope, come evidenzia l’accentuato parallelismo della vendetta: gli stessi figli che Tieste aveva generato in un utero “non suo” vengono ricacciati nel suo ventre. È probabile che la poco chiara presentazione di questo particolare rifletta l’indecisione di cui lo stesso Boccaccio darà prova qualche anno più tardi, riproponendo un’analoga lettura della vicenda nei capitoli delle Genealogie deorum gentilinum che si occupano delle storie dei Pelopidi (12.5, 7, 8, 11 e 12). Le informazioni rielaborate in questi capitoli vengono dalla tragedia senecana (citata esplicitamente), dagli scoli di Lattanzio Placido alla Tebaide di Stazio e dall’autorità del fantomatico Teodonzio (su cui cfr. Pade 1997). In 12.5.2 la storia è presentata in questi termini (i passi citati di seguito sono tratti da Zaccaria 1998, pp. 1162-1170): «Hunc [scil. l’ariete dal vello d’oro] habere cupiens Thyestes arbitratus est posse per concubitum Meropis Atrei coniugis obtinere, nec defuit sceleri locus; nam ex ea filios concepit, et illam eripuit viro, ex quo

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La lettura boccacciana della vicenda di Atreo e Tieste si fonda dunque principalmente sul tema della vendetta e dell’identità dei figli. Ora, questo genere di lettura non sembra aver influenzato in maniera decisiva l’interpretazione della tragedia senecana di cui ci stiamo occupando. I secoli successivi, infatti, hanno finito per spostare progressivamente in secondo piano questi elementi, quando lo studio delle tragedie di Seneca ha cominciato a orientare l’interesse dei lettori verso nuove linee interpretative. Questo orientamento della lettura, perciò, ha finito per obliterare quello che a me pare il nucleo centrale della vendetta di Atreo: un nucleo, fra l’altro, che Seneca non manca di mettere in fortissimo rilievo a più riprese. Vediamo come. L’Atreo senecano sembra scindere la fraus di cui è accusato Tieste in due diversi momenti. Leggiamo i versi che introducono il brano che abbiamo citato in precedenza (vv. 220-224): Fas est in illo quidquid in fratre est nefas. Quid enim reliquit crimine intactum aut ubi sceleri pepercit? Coniugem stupro abstulit regnumque furto: specimen antiquum imperi

fraude est adeptus, fraude turbavit domum.**

Il crimen di Tieste ha contaminato ogni cosa. I vv. 222-4, in particolare, condensano la presentazione della colpa in un’elaborata struttura retorica. Una complessa figura chiastica propone e poi rovescia l’ordine dei misfatti di Tieste, presentandoli sotto l’etichetta comune della fraus in bellum venere fratres, et pulsus regno Thyestes est. Sed Atreus non contentus fratris exilio, illum ficta gratia revocavit, et credulo tres filios decoctos in convi-

vio apposuit, et eorum sanguinem poculis mixtum illi dedit in potum [...]». Dunque l’adulterio è sempre indicato come la causa scatenante della vendetta di Atreo, ma il tema della prole confusa sembra scivolare in secondo piano. Rimane comunque assodato che i tre figli di Tieste siano stati concepiti da Aerope-Merope (12.8.1: «Tantalus, Phystenes et Arpagiges filii fuerunt Thyestis ex coniuge Atrei suscepti, ut per verba Senece poete in tragedia Thyestis comprehenditur»). Di Agamennone e Menelao, invece, che nel testo senecano sembrano suscitare i dubbi paterni sulla loro reale identità, si racconta in 12.11.1, sulla base dell’autorità di Teodonzio: «Phystenes, ut ait Theodontius, filius fuit Pelopis et Hippodamie. Qui cum iuvenis moreretur, Agamemnonem et Menelaum filios suos parvulus commendavit Atreo fratri suo; qui illos suscepit et in filios educavit, et ob id, abolita tractu temporis Phystenis memoria, Atrei filii habiti sunt, et Atrides ab omnibus appellati». Boccaccio propende per quest’ipotesi, ma non manca di segnalare la diversità dell’altra versione dei fatti, quella senecana. In 12.12.1 leggiamo infatti, dopo la ripresa della stessa notizia di Teodonzio riportata sopra: «Hos [scil. Agamennone e Menelao] Seneca in tragedia Thyestis videtur omnino tenere filios fuisse Atrei, in cuius persona sic ait “Consilii Agamemnon [...] si patruum vocant, pater est” etc. Et sic Atrei ex Merope videntur filii; teneat quod mavult lector». 62. L’unione di questi due aspetti in un unico nodo tragico, da cui discende la serie dei delitti dei due fratelli, è già confusamente prospettata, ad esempio, nel commo che Elettra recita nell’Oreste di Euripide (vv. 995-1012) .

SO

Capitolo I

(il termine che, all’ablativo, scandisce parallelamente i due emistichi del v. 224). Abbiamo così la sequenza stuprum-furtum-furto-adulterio, la cui seconda metà distribuisce a sua volta Chiasticamente gli accusativi e i verbi che li reggono (specimen antiquum imperi-fraude est adeptusfraude turbauit-domum). Da un lato, è dunque definito fraus il furtum che consente a Tieste di impadronirsi dell’ariete, dall’altra — ed è questo l’elemento su cui si insiste di più — è fraus anche il fatto che egli si sia unito alla donna di Atreo, commettendo adulterio con lei.

Dicevo che non è chiaro come Seneca immaginasse le vicende intercorse fra il furtum di Tieste e l’esilio che lo ha allontanato da Micene. È però evidente che gli effetti del furtu non sono in grado di mettere in discussione la regalità di Atreo: il confronto con le altre versioni del mito ci spingerebbe anzi a pensare che questo problema dovesse essere stato vanificato da una contromossa del tiranno di Micene. Ma se le conseguenze del furtum sono state annullate, la stes-

sa cosa chiaramente non è avvenuta per quelle dell’adulterio, che ancora alimentano la confusione della casa: insidiano il genus, continuano a corrompere la sposa, minano la fides, portano la malattia nella casa e rendono dubius il sangue dei discendenti. Se Atreo descrive con tanta passione gli effetti dell’unione colpevole fra Aerope e Tieste, è dunque verosimile che la sua vendetta debba incentrarsi su questo punto: rimediare all’adulterio che ha contaminato la sposa e turbato la stirpe. Prima però di vedere in che modo questo elemento entri nella meccanica della vendetta escogitata da Atreo, dobbiamo chiederci come mai, se le conseguenze del furtum sono state superate, quelle dell’adulterio permangono.

Gli effetti dell’adulterio Per rispondere a questa domanda dobbiamo metterci nell’ottica secondo cui i Romani (ma possiamo dire anche, più in generale, gli antichi), guardavano alla colpe che vanno sotto la categoria dello stuprum,* 63. Per avere un’idea di come poteva essere organizzato il racconto nella sezione compresa fra la riconquista del potere da parte di Atreo e la vendetta, si può considerare, exempli gratia, quanto dice lo pseudo-Apollodoro in Epit. 2.12 s.: dopo aver approfittato, grazie all’aiuto degli dèi, dell’inversione del corso del sole, [...] tàv PaowAeiav ’Atpedc tapéAXape kai Qvéotnv epuyddevoev. Alodduevoc dè Tfic porxeiac voTepov kripvka méuyac eri diadAayàc abtòv EKdder: kai yevoduevoc elvai diXoc, Ttapayevoutvov Todc TAidac [... gopate. Sebbene alcuni particolari di questa versione non trovino un preciso riscontro nella storia raccontata da Seneca, a me pare verosimile che anche l’autore latino presupponesse un analogo succedersi dei fatti. 64. La terminologia giuridica distingueva fra stuprum e adulterium: cfr. ad es. Papinian., Dig. 48.5.6.1 ([...] proprie adulterium in nupta committitur propter partum ex altero conceptum composito nomine: stuprum vero in virginem viduamve

committitur) e Mod., Dig.

50.16.101 (Inter stuprum et adulterium hoc interesse qui-

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste .

Sul

l’unione sessuale illecita. All’interno di questa categoria generale l’adulterio veniva classificato secondo criteri sensibilmente diversi rispetto

al nostro modo di concepire le unioni illecite. Nella nostra cultura, che concepisce l’adulterio come un’unione che attenta alle fondamenta affettive e istituzionali della relazione coniugale, l’Atreo senecano potrebbe apparire come un irascibile marito ingannato, che trascende nel cercare di vendicarsi di un adultero particolarmente spregevole: un fratello che cerca di sottrargli, con la moglie, il trono, e che per di più contrae un’unione dal sapore vagamente incestuoso.$ Ma se consideriamo la colpa dell’adulterio secondo una prospettiva più interna alla cultura romana, il nostro sguardo dovrà assumere improvvisamente un’altra angolatura. Possiamo partire da una definizione giuridica, che troviamo nel Digesto (48.5.6.1). Papiniano, commentando a due secoli di distanza la Lex Iulia de adulteriis del 18 a. C., così descriveva gli effetti dell’adulterio: proprie adulterium in nupta committitur, propter partum ex altero conceptum composito nomine. Dunque l’adulterio viene considerato una colpa che ha come oggetto specifico una donna sposata, e come conseguenza il concepimento di figli da parte di una persona diversa dal marito legittimo (ex altero). Questi figli hanno così un’identità composita (composito nomine), che mette assieme paternità diverse. L’attenzione sembra rivolta essenzialmente agli effetti che l’adulterio provoca sulla funzione riproduttiva di una sposa e sull’identità dei suoi tigli:°® Anche fuori dall’ambito giuridico troviamo un’analoga insistenza sul fatto che l’adulterio sommi indebitamente componenti diverse. A livello linguistico, per esempio, il termine adulterium si presenta come un derivato da adulterare,” che a sua volta, dal punto di vista morfologico, può essere considerato come composto di un verbo semplice, alterare («mutare, rendere diverso»), che però nell’uso compare solo molto raramente e in epoca tarda.88 dam putant, quod adulterium in nuptam, stuprum in viduam committitur. Sed lex Iulia de adulteriis hoc verbo indifferenter utitur). Questa distinzione è quindi peculiare della terminologia giuridica imperiale, e difatti non trova corrispondenze nell’uso linguistico, secondo cui stuprum è chiaramente un termine generale e “non marcato”, che indica qualsiasi tipo di unione sessuale illecita (e quindi anche l’adulterio): cfr. Richlin 1981, p. 399 n. 4, Treggiari 1991, p. 264, Rizzelli 1997, pp. 170-179 (ma cfr. tutto il cap. IV, «Il crimen stupri», pp. 171-267) e nel Thyestes i vv. 46 e 222. 65. In realtà, secondo il diritto romano non sarebbe stato possibile parlare in un caso del genere di incesto: cfr. Gai., Ist. 1.58-64 e Kunkel 1930, col. 2267 (la proibizione dei matrimoni fra ex-cognati non sembra anteriore alla metà del ]Visecga No)

66. Cfr. Beltrami 1998, pp. 41-56. 67, Cfr. Leumann:/197# pp. 293. 68. Cfr. TbIL s.v., vol. I, col. 1758.

DI

Capitolo I

Il verbo adulterare, nel suo valore tecnico, indica appunto «commettere adulterio»; mentre in senso traslato significa «alterare mischiando», «contraffare», «corrompere».9° In ‘questa famiglia lessicale è manifesta, sul piano etimologico, la rilevanza della nozione di alter;

cioè di un “secondo” elemento che, aggiungendosi a qualcosa, ne “rende diversa”, ne “altera”, appunto, la natura, contraffacendola.7?° Anche nel nome della colpa, dunque, i Romani potevano riconoscere quello stesso meccanismo di alterazione corruttrice che sembra centrale nella concezione giuridica dell’adulterio.”! Cerchiamo ora di capire meglio in cosa consista questa alterazione colpevole. Gli antichi (a Roma ancora più che in Grecia)?? descrivono la colpa dell’adulterio principalmente come un delitto commesso contro le finalità stesse del matrimonio: e in particolare contro la fondamentale funzione che una cultura come quella romana attribuiva alla figura femminile: la funzione di generare una discendenza legittima.” Il latino indicava con i termini dell’area semantica che stiamo considerando operazioni che alterano le caratteristiche di una sostanza (o di una persona), in particolare mescolando ad esse qualcosa di estraneo, che ne confonde l’identità.”* Nel caso di una donna che avesse rapporti sessuali 69. Cfr. TEIL s. v., vol. I, coll. 883 s. Sulle implicazioni antropologiche e linguistiche della nozione di contaminazione come “mistione che altera” cfr. Guastella 1988, pp. 25-35. 70. Cfr. Ernout - Meillet 1967, p. 22 (s. v. alter). Va detto però che le poche etimologie antiche che conosciamo sembrano orientate verso interpretazioni piuttosto lontane da questa (cfr. ad es. Fest. 20 Lindsay: adulter et adultera dicuntur, quia et ille ad alteram et haec ad alterum se conferunt). 71. Sul significato dei termini adulter, adulterium, adulterare cfr. Treggiari 1991, pp. 262-264: in part. 263: «Adulterare was early used to mean ‘to practise counterfeiting’ so perhaps the risk of counterfeit children was an idea present from early on together with the idea, suggested by the transitive use of the verb, that the wife was corrupted, adulterated, or made false». Cfr. anche Rizzelli 1997, pp. 176-179. 72. Fra i testi greci, cfr. almeno Lisia, Per l’uccisione di Fratostene, 33:

nyovuevoc Todc uèv diatpattouevove pia dò TGV PraoBévtwv urosioda1, Todc dè meioavtac oUTWw° abtaov Tàc yvxàc diappeiperv, GOT olkKELOTEpac abùtoic ToEiv TÀg AAA otpiac yuvoikac T) Toic Avdpaor, kai maoav ÈT' èKkeivoIG TÙV cikiav yeyovévai, kai todc Taidac ddrjiovc elvai dtoTEpwv TvYxdvovorv dvTEG, TOV Avòpov î) TGV porxòv. 73. Per la Grecia, cfr. Paoli 1950, p. 140, Lacey 1968, pp. 113-118, Harrison 1968, p. 32, Just 1989, pp. 69 s. («in short the result of a woman's adultery was to place her outside the category of women capable of producing gresioi») e Cohen 1991, pp. 106109 (ma gli interi capp. V, «The law of adultery», e VI, «Adultery, women and social control», pp. 98-170 sono di fondamentale importanza). Per Roma, cfr. Petrocelli 1989, pp. 124-133, Treggiari 1991, pp. 262-298, Beltrami 1998, pp. 41-56 (per rimandi bibliografici è utile Richlin, 1981, pp. 398 s. n. 1). Cfr. anche infra, n. 96. 74. Cfr. ad es., Cic., Part. or. 25.90 (boni [...] naturam fallaciter imitando adulterat), Plin. 14.68 (saporem coloremque adulterat), Flor. 1.27 (gens Gallograecorum, sicut ipsum nomen indicio est, mixta et adulterata est), Aug., Gen. ad litt. 10.17 (dove, per indicare gli effetti corruttivi dell’adulterio, si parla di conta-

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste

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con più uomini, in particolare, si diceva che concepiva una prole incerta, «dubbia». L’incertezza consisteva nell’impossibilità di distinguere le diverse componenti concorrenti nel sangue del nuovo nato: insomma, l’impossibilità di stabilire la precisa identità del bambino. Per questo tipo di confusione nell’identità di figli nati da una donna che si fosse accoppiata a più di un uomo, una tradizione giuridica tarda aveva anche coniato un’espressione significativa: turbatio sanguinis.”° Dunque l’adultero “turbava”, confondeva il sangue dei figli concepiti dalla sua amante. Diventava così impossibile stabilire a quale discendenza maschile appartenesse effettivamente il bambino: lo scopo del matrimonio, quello di generare a una casa una prole legittima (si pensi alle celebri espressioni formulari con cui si indicava la finalità delle nozze: liberorum quaerundorum causal tod TA1dOTOIETOG01 yvnoiws Éveka),7 veniva dunque vanificato, e l’adultera non aveva più spazio nella logica della vita domestica: doveva essere ripudiata dal marito.” Proprio questo modo di concepire l’adulterio traspare piuttosto chiaramente anche dalle parole con cui Atreo presenta la colpa del fratello: Tieste turbavit domum, rendendo dubius il sangue della discendenza.

Adulterio e incesto nelle tragedie di Seneca Sembra dunque piuttosto evidente che il tema dell’adulterio costituisca un nucleo di importanza decisiva all’interno del Thyestes, e la cosa non sorprende, se si considera la particolare preferenza accordata da minatio adulterina). Nel TbIL, s.v. adulterium (vol. I, coll. 882 s.), il senso traslato del termine è giustamente classificato come «i. q. mixtio insolita, deterior plerumque». Un esempio di terminologia che descrive gli effetti contaminatorii dell’adulterio è discusso in questa propettiva in Guastella 1988, pp. 40 s. 75. Cfr.i passi raccolti nel TL, s. v. dubius, vol. V, col. 2117, Il. 31-36 e s. v. incertus, vol. VII, col. 877, Il. 67-79. Particolarmente interessanti Ov., Trist. 2.351 s. (cit. supra, n. 55) e Pont. 3.3.54 s. (ecquando didicisti fallere nuptas/ et facere incertum per mea iussa genus?), [Quint.], decl. min. 310.11 (si rimprovera a un uomo che

per due volte ha commesso adulterio: duas familias incerta stirpe confudisti), Mela 1.45 (i Garamanti, che non hanno certae uxores, passim incertique nascuntur).

76. Cfr. Ulp., Dig. 3.2.11.1: non posse eam (scil. la vedova) nuptum intra legitimum tempus collocari: praetor enim ad id tempus se rettulit, quo vir elugeretur, qui solet elugeri, propter turbationem sanguinis. Cfr. Noailles 1948, pp. 1720, Bettini 1984, pp. 157-159, Rizzelli 1997, pp. 29, 264 s. e 310 s., e Beltrami 1998, pp. 52 s. Anche l’Atreo senecano, in un passo che abbiamo già visto, descrive proprio gli effetti dell’adulterio del fratello col verbo turbare (vv. 222-224): coniugem stupro abstulit/ regnumque furto: specimen antiquum imperi/ fraude est adeptus, fraude turbavit domum. 77. Su cui cfr. Beltrami 1998, pp. 101 s.e 113 s. 78. Ma poteva anche essere uccisa, se fosse stata colta in flagrante. Cfr. Cantarella 1972, Treggiari 1991, pp. 264-275 (per la legge ateniese cfr. Harrison 1968, pp. 34-36, Cohen 1991, pp. 122-132).

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Capitolo I

Seneca tragico a questo genere di storie. Una preferenza sulla quale è anzi opportuno soffermarsi, prima di riprendere il nostro discorso. Innanzi tutto, proprio in una tragedia senecana abbiamo un indi-

zio abbastanza chiaro del fatto che l’adulterio dovesse essere per Seneca uno dei temi tragici più tipici. Nel primo coro dell’ Agamemnon, in cui si compiangono gli inevitabili rovesci nella sorte dei potenti (i protagonisti assoluti di questi testi), si dice, fra l’altro, che nel contesto scellerato delle corti regali la fedeltà coniugale sembra proprio una virtù destinata a restare poco praticata, insieme a un valore come la pudicizia (vv. 77-81): Quas non arces scelus alternum dedit in praeceps? impia quas non arma fatigant? iura pudorque et coniugii sacrata fides fugiunt aulas.

Con simili premesse non può dunque stupire che le vicende mitiche rielaborate in varie tragedie senecane ruotino attorno a colpe sessuali: non solo attorno all’incesto (come nell’Oedipus) e agli effetti disastrosi che esso causa nella stirpe (come nelle Phoenissae), ma anche,

appunto, attorno all’adulterio, che talvolta viene ad affiancarsi o ad aggiungersi all’incesto (nell’Agamemnon e nella Phaedra).? Seneca ha una predilezione evidente per un’analisi dettagliata e virtuosistica degli effetti che colpe del genere creano sull’identità dei figli che da esse vengono generati:* Edipo riunisce in sé i ruoli di «marito, figlio e padre»! Fedra - moglie di Teseo e matrigna di Ippolito — rischia di concepire nel suo ventre una «prole confusa», «mischiando i letti del padre e del figlio»;8° Tieste stesso, che più tardi commetterà incesto con la figlia Pelopia, avrà da lei Egisto, diventando così padre e nonno di quest’ultimo, padre e marito della prima;** e si potrebbe ancora continuare. Insomma, Seneca sembra essere decisamente attratto da questo tema, e la scelta dei soggetti tragici da lui portati sulla scena, o nelle sale di recitazione, pare fortemente influenzata da una simile preferenza. Per capire fino in fondo il significato culturale del personaggio tragico predi79. Una rassegna relativa a questi motivi si trova in Borgo 1993, pp. 38-71 (con l’aggiunta della Medea, la cui vicenda, però, secondo l’ottica romana difficilmente potrebbe essere classificata come un adulterio vero e proprio: per una corretta definizione dell’adulterio cfr. supra, pp. 51 s.). 80. Cfr. Bettini 1983. 81. H. F. 388: mixtumque nomen coniugis nati patris. 82. Ph. 171 s.: miscere thalamos patris et gnati apparas/ uteroque prolem capere confusam impio? 83. Ag. 35 s.: avo parentem, pro nefas, patri virum,/ gnatis nepotes miscui - nocti diem; cfr. l’accusa che Elettra rivolge ad Egisto in Ag. 984 s.: per scelera natus, nomen ambiguum suis/ idem sororis gnatus et patris nepos.

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste .



letto da Seneca, il tiranno agitato da passioni eccessive, va dunque sottolineato con decisione il ruolo giotato in questi testi dall’attenzione rivolta a vicende costellate di adulteri e incesti.

I Pelopidi e l’adulterio Possiamo ritornare adesso alla vicenda mitica sviluppata da Seneca nella tragedia che stiamo studiando. Nel caso del Thyestes la presenza dell’adulterio è tanto più interessante perché è la stessa struttura del mito a insistere molto sull’elemento dell’unione colpevole. Per chiarire meglio in cosa consista la rilevanza di questo tema è utile innanzi tutto considerare due storie mitiche analoghe a quella di Atreo e Tieste. Si tratta di racconti in cui emerge un’analoga sequenza narrativa fra un’unione sessuale colpevole (adulterio, incesto) e un

infanticidio seguito da un pasto cannibalesco, la cui funzione consiste prevalentemente nella punizione di un padre colpevole.8* Sarebbe utile studiare in dettaglio la struttura di questi racconti, ma non è possibile in questa sede. Ai fini del nostro discorso possiamo accontentarci di evidenziare come alla base di vicende tragiche che culminano nella feroce uccisione di bambini innocenti ci sia spesso un delitto sessuale che va vendicato. L’esempio più celebre è la storia che presenta il maggior numero di somiglianze, fra i racconti antichi, rispetto a quella di Atreo e Tieste; la storia, cioè, di Procne, Tereo e Filomela, di cui torneremo a parlare molto spesso nelle pagine seguenti, soprattutto a proposito della versione ovidiana di Met. 6.537-541 e 609-635.85 È il racconto, potremmo dire, paradigmatico, data la sua fortuna nella cultura occidentale,*° della tragica scelta di una moglie (l’ateniese Procne), la quale, uccidendo il proprio stesso figlio (Iti), si vendica del marito (il tracio Tereo), che ha stuprato la sorella di lei (Filomela). Si tratta, fra l’altro, anche del principale modello letterario del Thyestes di Seneca,*” che non manca di richiamarsi esplicitamente alla forma ovidiana della vicenda tracia (ad esempio nei vv. 56 e 275).88 Un altro racconto che ha diverse analogie con quelli che stiamo analizzando si può trovare negli Epwtikà ra@nuata di Partenio (XII): 84. Anche la vicenda di Medea, sotto questo aspetto, presenta qualche analogia strutturale, almeno per quanto riguarda la meccanica della vendetta, con la storia di Atreo e Tieste. Cfr. infra, pp. 69, 75-83, 105, 154 e 232 s. 85. Cfr. anche Ov., Fast. 2.627-630, Trist. 2.381-392.

86. Su questo tema spero di tornare ampiamente in un lavoro complessivo dedicato alla fortuna del racconto ovidiano di Procne e Filomena fra il Medioevo e la fine del Cinquecento. 87. Cfr. Cazzaniga 1951, pp. 71 s., Jakobi 1988, pp. 152-167, Monteleone 1991, pp. 355-360, Frings 1992, pp. 27 s. 88. Cfr. infra, pp. 76 e 83.

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Capitolo I

qui abbiamo a che fare con una figlia (Arpalice) che viene violentata dal padre (Climeno), il quale le uccide anche lo sposo (Alastore). Per vendicarsi dei torti subiti la ragazza arriva infine a far mangiare al padre le carni del suo fratellino più giovane, e viene poi trasformata in

«uccello Calcide».8° Se poi passiamo dal piano generale costituito dall’intero patrimonio delle storie mitiche alla struttura dello specifico racconto che stiamo considerando, vediamo chiaramente che il tema dell’adulterio riveste in

esso un’importanza centrale. L’adulterio fra Tieste a Aerope, infatti, è il primo, ma non è affatto l’unico che si verifica all’interno di questa famiglia;?° e sembra anzi un pesante precedente destinato a gravare sulla stirpe di Atreo. Alla generazione successiva, infatti, anche le spose dei due figli di Atreo saranno due celebri adultere?! (a loro volta figlie, secondo alcune versioni, di una donna che si era unita a un dio e a un uomo), 89. Cfr. Hyg., Fab. CCVI e Piccaluga 1968, pp. 212 s., che cita anche altre fonti. Esiste anche un caso storico che presenta qualche analogia coi racconti che stiamo considerando. Si tratta di una celebre storia narrata da Erodoto 1.107-130 (e ripresa anche, non a caso, da Sen., De ira 3.15: cfr. supra, n. 6). Il re Astiage costringe Arpago a mangiare le carni del proprio figlio, perché non ha provveduto con il dovuto scrupolo all’esposizione di suo nipote Ciro (che è stato poi allevato da un pastore, e finirà per realizzare la predizione che indicava in lui colui che avrebbe regnato al posto del nonno). In questo caso non abbiamo a che fare con un tradimento coniugale o con colpe sessuali, eppure anche qui compare un fattore che ha una notevole rilevanza all’interno della storia di Atreo e Tieste: l’oscura identità di un bambino, destinato a succedere a colui che si vendica (in questo caso Ciro, figlio della figlia di Astiage e destinato a spodestare il nonno). 90. Si ricordi, fra l’altro, che nel passato di Aerope, del mito, c’era stata un’altra unione sessuale disonorevole. Euripide aveva rielaborato nelle sue Kpfiooai (cfr. Nauck ci è attestato da Soph., Ai. 1295-1298 (e Schol. ad loc.),

secondo alcune versioni

Secondo il racconto che 18892, pp. 501 s.), e che Aerope rischiò di essere

uccisa dal padre per essersi unita a uno schiavo: cfr. Roscher 1884, pp. 87 s. 91. Il coro dell’Agarennone di Eschilo definisce la sorte che si è abbattuta sulle case di Agamennone e Menelao kpatoc indyvxov EK yovarkov (v. 1470). In Eur., E/. 1083-1085 Elettra rimprovera alla madre di non aver saputo evitare una colpa simile a quella che già sua sorella aveva commesso: cfr. anche Hyg., Fab. LXXVII, e LXXX. 4. Un autore come Dione Crisostomo, il quale individuava seccamente

la colpa principale di Tieste nell’adulterio (11.7), connetteva proprio a questo antecedente l’adulterio di Clitennestra (15.6). Anche Seneca fa esplicito riferimento a questo tratto comune fra le due sorelle (cfr. Boyle 1983, p. 201; cfr. ad es. Ag. 123 s.: quid timida loqueris furta et exilium et fugas?/ Soror ista fecit: te decet maius nefas), collegandolo inoltre ai trascorsi di adultero di Tieste (cfr. vv. 906 s.: uterque tanto scelere respondet suis:/ est hic Thyestae natus, baec Helenae soror).

92. Elena sarebbe nata dall’unione di Zeus, in forma di cigno, con Leda: secon-

do alcune versioni del mito la donna, dopo essersi unita al dio, si sarebbe unita anche al marito Tindareo, generando così dei figli divini (Polluce ed Elena) e uno o due figli umani (il solo Castore 0, secondo la versione di ps.-Apollod., Bibl. 3.10.7, Castore e Clitennestra). Il personaggio stesso di Elena parla di una sorta di doppia paternità in Eur., Hel. 16-21 (cfr. 214-6 e 256-9). Cfr. anche Eur., Or. 13857 e Iph. Aul. 793-800; Ov., Her. 16.291-294 e 17.43-50; Serv., ad Verg., Aen. 3.328.

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste

SV

le cui colpe, com’è noto, hanno enormi conseguenze: niente meno che la guerra di Troia e la morte del capo dell’esercito greco. Si può dire che questa fase del mito dei Tantalidi, che è anche la più nota, cominci con l’adulterio di Aerope e finisca con l’uccisione dell’adultero Egisto. Non è un caso, quindi, che nel prologo del Thyestes, quando l’ombra di Tantalo elenca i misfatti passati e futuri della propria stirpe, prospetti una serie di sventure che iniziano come conseguenza dello stuprum fratris, ma continuano anche in seguito ad essere originate da varie colpe di adulterio.” Dopo quanto abbiamo visto c’è da attendersi che gli effetti di queste colpe debbano verosimilmente riflettersi sull’identità della discendenza. In effetti, in una delle versioni a noi note delle vicende dei Pelopidi, nel seguito del contrasto fra Atreo e Tieste si assiste a una curiosa proliferazione di figli incerti, di cui si ignora o si confonde la paternità.?** Purtroppo, però, non abbiamo la possibilità di fare un uso adeguato di tali notizie, perché le vicende in questione le conosciamo solo da una fonte, le Fabulae di Igino, che per di più ci offre dei racconti difficilmente conciliabili fra di loro. Mi limito perciò a segnalare queste strane presenze, che sono comunque un indizio interessante dell’insistenza con cui il mito dei Pelopidi ritorna sul tema dell’identità incerta e delle difficoltà nella definizione delle linee di discendenza. Nei due racconti di Igino (Fabulae LXKXXVI e LXKXXVIII) compaiono due figli, rispettivamente Plistene ed Egisto, di cui Atreo ignora la vera paternità. Nella Fabula LXXXVI (Pelopidae) leggiamo: Tbyestes Pelopis et Hippodamiae filius quod cum Aeropa Atrei uxore concubuit a fratre Atreo de regno est eiectus; at is Atrei filius Plisthenem, quem pro suo educaverat, ad Atreum interficiendum misit, quem Atreus credens fratris filium esse imprudens filium suum occidit.?

Assistiamo qui a un episodio per alcuni versi speculare rispetto a quello che troviamo nella vendetta di Atreo. Il tiranno aveva usato i 93. Cfr. vv. 40-48: fratrem expavescat frater et gnatum parens / gnatusque patrem; liberi pereant male,/ peius tamen nascantur; immineat viro/ infesta coniunx: bella trans pontum vehant,/ effusus omnis irriget terras cruor,/ supraque magnos gentium exultet duces/ Libido victrix; impia stuprum in domo] levissimum sit fratris: et fas et fides/ iusque omne pereat (cfr. supra, n. 57).

94. Andrebbe anche sottolineato il ricorrere di rivalità fra figli dello stesso padre, ma nati da due matrimoni diversi: al caso di Crisippo (cfr. supra, p. 40) segue quello di Oreste ed Elettra, messi in ombra dai figli che Clitennestra ha avuto da Egisto (cfr. supra, n. 41). 95. Secondo Nauck 18892, p. 556 sarebbe stato questo l’intreccio del perduto Plistene di Euripide. Il solo Boardman 1986, pp. 17-18 inserisce quest’episodio fra la prima cacciata di Tieste da Micene e la vendetta di Atreo, indicando anzi in esso proprio la causa del risentimento del tiranno contro il fratello: questa ricostruzione è molto attraente, ma purtroppo non trova riscontro in nessuno dei testi antichi, ed è anzi in evidente contrasto con la maggioranza delle nostre fonti (cfr. supra, pp. 43-47).

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Capitolo I

figli del fratello per punirlo, e aveva fatto mangiare le loro carni all’inconsapevole Tieste: stavolta invece è Tieste stesso a usare Plistene come strumento di vendetta, ed è l’infonsapevole Atreo a uccidere il proprio figlio. Non è chiaro come si motivi l’incerta identità di Plistene: il racconto non ci dice chi fosse la madre di Plistene né tanto meno ci spiega perché il figlio di Atreo fosse “diventato” figlio di Tieste (esposizione, adozione, fosterage?). È significativo, però, il fatto che a livello narrativo l’intreccio di questa storia impieghi un personaggio che somma in sé le identità di “figlio di Tieste” e “figlio di Atreo”. Più complessa, ma per certi aspetti analoga, è la storia di Egisto che troviamo nella Fabula LXXXVIII (Atreus), ai paragrafi 6-11. Tutto comincia con le nozze fra Atreo e la nipote Pelopia (che egli però crede sia figlia del re Tesproto), già resa incinta dal proprio padre este: Thesprotus, ne qua suspicio esset, dat ei (scil. Atreo) Pelopiam, quae iam conceptum e patre Thyeste habebat Aegisthum. Quae cum ad Atreum venisset, parit Aegisthum, quem exposuit; at pastores caprae supposuerunt, quem Atreus iussit perquiri et pro suo educari.

Dunque ci troviamo qui di fronte a una situazione rovesciata rispetto a quella che avevamo visto nella Fabula LKXXVI. Stavolta il padre vero è Tieste, e quello “adottivo” Atreo: le loro “paternità” vengono quasi a sommarsi nell’identità di un figlio che, per usare un’espressione tipica del linguaggio giuridico relativo all’adulterio, risulta composito nomine. Le analogie speculari fra le due storie non sono finite: Atreo infatti continua a perseguitare il fratello, e riesce a farlo imprigionare. Comprehensus ab eis (scil. Thyestes ab Agamemnone et Menelao) ad Atreum perducitur, quem Atreus in custodiam conici iussit Aegistumque vocat, aestimans suum filium esse, et mittit eum ad Thyestem inter-

ficiendum.

Dunque anche Atreo manda il figlio “adottivo” perché uccida il proprio padre vero. A questo punto, però, le analogie speculari si arrestano. Nella cella di Tieste, infatti, avviene un chiarimento decisivo: Tieste riconosce nella spada di Egisto l’arma che aveva perso quando 96. Cfr. supra, p. 52. Questo caso è anzi piuttosto utile per comprendere la natura dell’identità composita presupposta dalla concezione romana dell’adulterio. Egisto, nel ventre materno, è già di un altro padre, ma il fatto che nasca all’interno della famiglia di Atreo somma alla sua identità fisica quella sociale determinata dal matrimonio fra Atreo e Pelopia. Questa somma di identità, che in un racconto del genere risulta determinata dal caso, in occasione di un’unione adulterina si

realizza ugualmente nel ventre della donna; con l’aggravante che non è possibile determinare a quale dei due padri concorrenti il figlio appartenga veramente.

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste .

DIO

aveva violentato la figlia, Pelopia riconosce nel padre il suo violentatore, ed Egisto apprende quale sia il suo vero padre (10 s.): Tunc Pelopia gladium arripuit, simulans se agnoscere, et in pectus sibi detrusit. Quem Aegisthus e pectore matris cruentum tenens ad Atreum attulit. Ille aestimans Tbyesten interfectum laetabatur; quem Aegisthus in litore sacrificantem occidit et cum patre Thyeste in regnum avitum rediit.

Anche stavolta a morire è Atreo, ucciso non più dal figlio suo, ma che credeva di un altro, bensì dal figlio di un altro che credeva suo. La qualità e l’oscura provenienza di simili racconti non ci permettono di stabilire con certezza quale fosse l’esatta portata di questi temi all’interno del mito.?” Va comunque sottolineato il ripresentarsi dello stesso elemento narrativo (l’incerta identità di un figlio) entro una storia che ripropone la vendetta fra i fratelli. Collocando anche queste storie nella sequenza delittuosa della stirpe di Tantalo, possiamo ricavare da esse se non altro un indizio del fatto che il tema della prole incerta (accanto a quello dell’adulterio) poteva rappresentare un motivo ricorrente in questa vicenda mitica.

Il ruolo e l’identità dei figli Torniamo ora alla nostra tragedia. Abbiamo visto come anche nel Thyestes di Seneca si alluda chiaramente agli effetti dell’adulterio: cioè alla confusione che si crea attorno all’identità dei figli. Si tratta per di più di un fattore le cui conseguenze sono particolarmente complesse, visto che il sangue di una stessa famiglia (il cui capostipite è Pelope) si propaga stavolta in modo irregolare nel contesto di una contesa fra due fratelli. La rivalità fra Atreo e Tieste coinvolge così anche la loro capacità di trasmettere il potere a discendenti autentici. Su questo tema si gioca una parte non trascurabile dell'impresa delittuosa con cui Atreo punisce il fratello. Il tiranno, infatti, trova modo di coinvolgere anche i suoi figli nel delitto, e per un motivo che ha direttamente a che fare con il problema dell’adulterio. La questione emerge nel testo senecano in un punto veramente cruciale della tragedia. Nel dialogo col satelles Atreo costruisce il progetto della sua vendetta in un crescendo di lucidità e di tensione. Ora, è certamente mol97. Prevale comunque l’opinione di chi (come ad es. Lesky 1922/1923, pp. 522-524) considera queste Fabulae rielaborazioni di materiale tragico antico. Si tratta di una convinzione che si basa sulla chiara presenza di intrecci tragici antichi (greci e romani) fra le fonti esplicitamente dichiarate da Igino (cfr. ad es. Fab. IV e VIII). Tuttavia in casi come il nostro non è possibile stabilire alcun chiaro legame con le fonti letterarie più antiche.

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Capitolo I

to significativo il fatto che proprio al culmine del progetto, quando Atreo ha già concepito l’idea di ripetere il delitto di Procne, la sua attenzione si concentri per un lungo tratto (vv. 295-333) sulla necessità di coinvolgere i figli, Agamennone e Menelao, nell’impresa. Il satelles cerca vanamente di dissuadere da questa iniziativa il tiranno, il quale anzi arriva per un attimo a decidere di chiedere apertamente ai figli una completa collaborazione. La decisione di usare Agamennone e Menelao come strumenti della vendetta viene alla fine ridimensionata per precauzione: i ragazzi non sapranno quantae rei/ fiant ministri (vv. 332 s.), tuttavia saranno pur sempre chiamati ad essere mirzistri del crimine, e ad attirare lo zio nella trappola. Saranno loro che, in veste di ambasciatori, riallacceranno i rapporti fra i due fratelli;?* mentre ai loro cugini spetta, specularmente, il ruolo di obsides, necessario per ripristinare la fides così profondamente compromessa in passato.’ Ma perché la partecipazione di Agamennone e Menelao costituisce un problema così importante nell’economia del delitto? Una risposta possiamo cercarla nelle parole che Atreo pronuncia ai vv. 325-330: Consili Agamemnon mei sciens minister fiat et patri! sciens Menelaus adsit. Prolis incertae fides ex hoc petatur scelere: si bella abnuunt et gerere nolunt odia, si patruum vocant, pater est. Eatur.

È a questo punto che Atreo raggiunge il limite estremo della sua macchinazione delittuosa: talmente estremo da dover fare, seppure par98. Cfr. vv. 294-297: SAT. Quis fidem pacis dabit?/ cui tanta credet? AT. Credula est spes improba./ Gnatis tamen mandata quae patruo ferant/ dabimus etc. 99. Cfr. vv. 520 s.: obsides fidei accipe/ hos innocentes, frater. Alla fine della tragedia, di fronte ai resti dei propri figli, Tieste esclamerà (v. 1024): Hoc foedus? haec est gratia, haec fratris fides? 100. Leggo con E patri sciens. La lezione dei manoscritti A (patri/patris cliens), accolta da Giardina, è verosimilmente il frutto di un banale errore (da patri sciens a patris cliens). Il testo di E è stato seguito dal Leo 1879 e, ultimamente, anche da Monteleone 1991, pp. 149 s., che osserva giustamente: «A favore di patri stanno la concordanza sostanziale di tutta la tradizione e il fatto che patri (= mihi) [...] adsit definisce la posizione di Menelao in maniera parallela a quella di Agamennone [...], così come, subito dopo, a verifica della legittimità della nascita, la si definisce in rapporto a Tieste». Altri editori (Tarrant 1985, Zwierlein 1988 e Giancotti 1988/1989) accolgono nel testo una congettura di Bentley, fratri sciens, con motivazioni francamente un po’ troppo capziose. Tarrant 1985, p. 136 afferma che «E’s reading is not impossible, but since Atreus will not be present at this encounter, fratri fits adsit better than patri»: a parte che adsit non deve necessariamente riferirsi all’incontro con Tieste (Atreo sta ancora parlando del suo consilium), il fatto che, seguendo un ragionamento simile, fratri sembri “più appropriato” non è motivo sufficiente per accogliere una congettura nel testo (ancora più complicato il ragionamento di Giancotti 1988/1989, pp. 53 s.).

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zialmente, marcia indietro. Siamo quindi in un luogo testuale verosimilmente molto significativo: eppure molti critici considerano questi versi semplicemente come un pleonastico appesantimento del ritratto mostruoso di Atreo.!0! In realtà, se leggiamo queste battute alla luce dei modelli culturali che siamo venuti illustrando, cominciamo a intravedere un aspetto rilevante tanto della logica seguita da Atreo nel suo progetto quanto delle finalità profonde che può avere la sua vendetta. Il tiranno vuole infatti non solo ripagare il fratello dei danni che il suo gesto ha causato alla stabilità del regno, ma anche rimettere ordine nella confusione che l’adulterio ha creato all’interno della sua famiglia. Lo fa, naturalmente, con mezzi adeguati a una figura disumana, e per di più nel contesto sciagurato di una tradizione di famiglia criminale: ma lo fa anche seguendo un progetto lucido, che mira a uno scopo ben preciso. Coinvolgendo i figli nel delitto, Atreo cerca anche una prova che sveli la reale identità della sua proles incerta: se Agamennone e Menelao saranno al suo fianco nel momento cruciale, vorrà dire che essi sono veri figli di Atreo.!° Schierandosi da una parte o dall’altra, i due mostreranno chi debba essere considerato loro padre. Il fatto che, sul piano dell’azione scenica, la partecipazione di Agamennone e Menelao non venga più rievocata esplicitamente non può

togliere nulla alla funzione retorica che queste espressioni rivestono all’interno del dramma. La battuta del tiranno, in un luogo così cruciale del testo, introduce in modo estremamente efficace e suggestivo l’impressione che dall’imminente delitto debba risultare finalmente chiaro a quale delle due parti confuse dall’adulterio appartengano i figli di Atreo. Ma, per apprezzare adeguatamente il valore di questi versi, è necessario chiedersi come sia possibile attribuire all’intervento dei figli la funzione di una prova capace di stabilire addirittura la loro identità. Qui Seneca ha certamente dato enfasi retorica a un luogo comune della sua cultura: quello che, per comodità, si potrebbe sintetizza101. Cfr. Tarrant 1985, p. 135: «The speech does not advance the action, but fills on the portrait of Atreus by showing him rooting out the last vestiges of respect for goodness». Abel 1985, p. 766 sostiene invece che la funzione di Agamennone e Menelao nel Tieste sarebbe di natura «psicologica», e non «drammaturgica». Monteleone 1991, pp. 333-338 ipotizza che l’intera “missione diplomatica” di Agamennone e Menelao sia un’innovazione di Seneca rispetto ai suoi modelli (ma la riduce a un semplice inserto nel finale del II atto, di cui non si parla più in seguito). Individuano bene il motivo Dingel 1985, pp. 1056 s. e Frings 1992, pp. 29 e 62 (cfr. anche n. s.). 102. I commentatori sono unanimi su questo punto, a partire da Trevet (in Franceschini 1938, p. 33): «ex hoc scelere petitur fides prolis incerte, id est experiar utrum sit proles mea vel non; si abnuunt bella [...], scilicet cum Thieste, si patruum vocant, id est recognoscunt, pater est, id est reputo quod Thiestes pater eorum est».

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Capitolo I

re con l’espressione “voce del sangue”. Tuttavia anche l’elaborazione retorica si muove seguendo le coordinate antropologiche tipiche della cultura di una società: e la costruzione ‘del motivo di cui ci stiamo occupando può essere meglio compresa se si considerano appunto i

modelli antropologici che essa presuppone. Nel nostro caso bisogna risalire ancora una volta a una credenza ben nota dell’ideologia nobiliare romana: cioè a uno di quei paradigmi culturali cui abbiamo fatto riferimento parlando della “gara di virtù” all’interno di una stirpe illustre.!* L'ideologia nobiliare insisteva molto sui tratti di somiglianza fra i figli maschi e i loro antenati in linea maschile; in particolare sulla somiglianza fra i figli e il padre. Si tratta di una somiglianza tanto fisica quanto di costumi e di carattere; capace, da sola, di dimostrare sia l'appartenenza di un bambino alla sua lignée patrilineare che la “pudicizia” di sua madre. Le pagine che Bettini ha dedicato alla rilevanza di questo tema! mi risparmiano il compito di illustrarne le linee fondamentali, peraltro ben note a chiunque abbia dimestichezza con i testi della letteratura repubblicana.! Basterà qui citare il brano in cui questo modello viene presentato nella maniera insieme più pre1UBRKGrras207 Ap 97 104. Cfr. Bettini 1992, pp. 211-239; cfr. Guastella 1985, pp. 82 s. e n. 92. 105. Il motivo (su cui adesso cfr. anche Beltrami 1998, pp. 19-26 e 57-66) ha una straordinaria rilevanza non solo a Roma (basta considerare ad es. Val. Max. 6.1 e 9.14.ext.3), e non solo nell’antichità. Già Esiodo, com’è noto, lodava nella “Città Giusta” il fatto che tiktovotv dè yuvofikec gorkoTa TÉEKva yovedor (Op.

235), mentre indicava nella dissimiglianza fra padri e figli uno dei segni caratteristici della perversione in cui è destinata a piombare l’umanità malvagia (Op. 182: obdè taTip Taideoorv duoiroc ovdé Ti Toidec): gli Scholia vetera ad loc. riconnettevano esplicitamente questo fatto al diffondersi di adulteri e unioni sessuali senza regole (ad 182a: dà tàc porxeiac dè n avouoidtne; 182d: N dià Tàc dAAnAopitiac Xéywv TÒV yvvairk@v kai Todc vodove viovc). Il motivo ha poi conosciuto un continuo sviluppo: per fare solo un esempio, si possono citare i vv. 4044 dell’Encomio di Tolemeo di Teocrito (XVII: cfr. i passi cit. ad loc. da Gow 1965, II, pp. 333 s.). Nell’elogiare la concordia fra Tolemeo Soter e sua moglie Berenice, Teocrito celebrava l’amore reciproco, premessa indispensabile per avere una discendenza affidabile. Al contrario (vv. 43 s.): dotépyov dè yuva1rkòg èT° dAXotpiw véoc aiei,/ pnidio1 dè yovai, tekva è’ où totEoIKOTA TATPI. Questi due versi furono tradotti e rielaborati nel madrigale L’adultera di Teocrito di Battista Guarini: «La donna a cui gradito/ non è il pudico amor del suo marito,/ perché sempre ha nel cor fiso il sembiante/ de l’adultero amante,/ d’agevol prole è ben feconda madre,/ ma prole tal che non somiglia al padre». Guarini traduce il motivo teocriteo facendolo passare attraverso il filtro di una credenza diffusa sin dall’antichità (cfr. Bettini 1992, pp. 221-225), secondo cui bastava che una donna tenesse costantemente viva nei suoi pensieri e nel suo desiderio l’iimmagine di una persona amata, perché un riflesso di questa finisse per incidersi nei tratti della creatura che da Jaiveniva concepita. È nota la lunga vitalità di questo modello culturale che, pur nelle sue diverse declinazioni, metteva in relazione unione coniugale corretta e somiglianza dei figli al padre: secondo questo modello, un figlio dissimile rispetto al padre rappresentava sempre un possibile indizio di adulterio.

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gnante e più aggraziata. Si tratta di versi molto celebri, in cui Catullo augura a Manlio Torquato la nascita di un erede (61, 209-218): Torquatus volo parvolus matris e gremio suae porrigens teneras manus

dulce rideat ad patrem semihiante labello. Sit suo similis patri Manlio et facile insciis noscitetur ab omnibus et pudicitiam suae matris indicet ore.

Nella sintetica formulazione catulliana, la somiglianza fra il padre e il figlio realizza su due diversi piani la perfetta riuscita dell’unione coniugale. Da un lato, garantisce quella continuità patrilineare che rappresenta uno dei valori fondamentali della cultura aristocratica; dall’altro, è in grado anche di documentare la pudicitia della matrona, che consente la corretta riproduzione della stirpe. Analoga pudicitia, ovviamente, non potrebbe vantare un’adultera, che mescolando nel suo ventre il “sangue” di uomini diversi confonde i tratti della linea di discendenza.!° Di questo modo di concepire la continuità fra le generazioni e la funzione della donna all’interno del matrimonio troviamo una significativa testimonianza proprio in un brano di Seneca: un frammento del suo De matrimonio (78 s. Haase = F 50 Vottero!°) tramandatoci

da S. Gerolamo (Adv. Iovin. 1.49): Bene meretur de maioribus [scil. pudicitia], quorum sanguinem furtiva sobole non vitiat, bene de liberis, quibus nec de matre erubescendum

nec de patre dubitandum est, bene in primis de se, quam a contumelia externi corporis vindicat.

Dunque anche per Seneca pudicitia della madre e certezza della paternità erano due elementi strettamente legati fra di loro, a garanzia di una corretta unione coniugale;!°* e certamente anche per lui la 106. È istruttivo un aneddoto raccontato da Valerio Massimo (9.dA4:ext.3): il proconsole di Sicilia aveva detto a un tale che gli somigliava straordinariamente, che la cosa era davvero strana, dato che suo padre non aveva mai visitato l’isola, ma l’altro gli aveva risposto per le rime: At meus - inquit- Romam accessit. Ioco namque lacessitam matris suae pudicitiam |...] Da passi come questo si comprende chiaramente che il nesso somiglianza-pudicitia doveva rappresentare una sorta di luogo comune di larga diffusione (cfr. Beltrami 1998, pp. 21 s.). 107. Su cui cfr. Bickel 1915, pp. 362-366 e Vottero 1998, pp. 274-277. 108. Si tratta di una valutazione che si mantenne sostanzialmente invariata anche nella cultura cristiana: un autore come Tertulliano, ad esempio, definiva così la pudicitia (De pudicitia 1): integritas sanguinis, fides generis.

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Capitolo I

somiglianza fra padri e figli doveva rappresentare il documento fisico di tale correttezza. Come s’è detto, non è solo a livello fisico che la somiglianza segnalava il legame di continuità fra le generazioni. Anche sul piano etico e comportamentale"! riprodurre una stirpe significava ripresentare nella discendenza ogni caratteristica tipica di una determinata lignée. Seguendo il modello paterno nel comportamento, così come ne riproduceva i tratti nel fisico, il giovane rampollo di una casata nobiliare doveva avanzare nel cammino di gloria che avrebbe portato la sua famiglia a traguardi sempre più prestigiosi.!!° Ma c’è di più. Abbiamo visto in precedenza che l’incertezza nello stabilire l’identità dei figli appariva come la conseguenza più pericolosa attribuita dai Romani all’adulterio. E non a caso, quando un padre romano si trovava di fronte al tradimento del proprio figlio, il dubbio sulle sue possibili origini adulterine era uno di quelli che emergevano con più facilità. Un esempio interessante si trova in un episodio raccontato da Valerio Massimo (5.9.4). Un padre viene a sapere che il proprio figlio trama contro di lui, e non si dà pace al pensiero che una cosa del genere sia possibile. Alla fine chiede alla moglie di rivelargli la verità sulle origini di questo figlio, sive illum adulescentem subiecisset sive ex alio concepisset: pensa infatti che egli non possa essere davvero “suo” (verus sanguis). L'eventuale nascita del ragazzo da un adulterio renderebbe dunque la sua presunta ostilità comprensibile, perché lo farebbe appartenere per natura a un padre diverso. Difatti, quando la donna rassicura l’uomo sulla propria onestà, questi decide di affrontare a viso aperto il figlio, che naturalmente si ravvede. Un racconto come questo sembra dare per scontato che la “voce del sangue” non possa che spingere un figlio dalla parte del proprio padre. Non si tratta però solo del potere di una “voce del sangue”, più o meno metaforica. Gli effetti dell’adulterio sembra che compromettessero l’identità dei figli di chi lo subiva comunque, anche a prescindere dalle modalità effettive del loro concepimento. Sembra anzi di poter 109. Cfr. ancora Beltrami 1998, pp. 22-26 e 40 s. (a proposito del brano di Valerio Massimo 5.9.4, di cui si parla poco più avanti). 110. A questo modello risponde, nelle Troades, la figura del piccolo Astianatte, definito certa progenies patris, proprio in base alla somiglianza fisica (vv. 461-468): O nate, magni certa progenies patris,/|...|/veterisque suboles sanguinis nimium inclita/ nimiumque patri similis etc. Sulla somiglianza fra Astianatte e il padre sia nell’aspetto fisico che nel carattere si insiste moltissimo nel corso di tutta la tragedia (cfr. vv. 504, 646-648, 1110-1117). Al contrario, Edipo nelle Phoenissae si stupisce a lungo del fatto che la figlia Antigone sia tanto dissimile da lui e dal suo genus (cfr. ad es. vv. 81 s.: unde ista generi virgo dissimilis suo?! [...] Aliquis est ex me pius?); riconosce invece in Eteocle e Polinice la sua stessa propensione agli scelera (cfr. vv. 296-306, 328-339; fra l’altro, 335 s., gloriam ac laudes meas/ superate). Su questo aspetto delle Phoenissae cfr. Barchiesi 1988, pp. 22-24.

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dire che un uomo, commettendo adulterio con la moglie di un altro, acquisisse un ascendente, se non un vero e proprio potere, sui figli di

lei. Capita infatti di trovare nei testi romani uomini tradìti che si rivolgono ai propri figli, facendo leva proprio sulla loro identità per chiederne l’aiuto. Non si fa nemmeno riferimento alla nascita “biologica” del figlio dall’unione adulterina: sembra quasi che la consumazione dell’adulterio basti per far passare la prole di un matrimonio dalla parte dell’ultimo partner sessuale della donna. Un caso interessante si trova nella raccolta delle Controversiae di Seneca padre (1.4),

che ci presenta la storia di un uomo privo delle mani, il quale coglie la moglie in flagrante adulterio e chiede aiuto al figlio perché uccida la madre e l’amante di lei. Mentre il figlio, che non intende macchiarsi di parricidio, oppone il suo rifiuto, gli adulteri scappano. Seneca riporta alcune celebri sententiae escogitate da grandi retori per dare risalto patetico all’appello rivolto dal padre al proprio figlio. Fusco avrebbe dato così voce allo sdegno dell’uomo (1.4.11): fili, tuam fidem! ostende te integro manus me non perdidisse. Controversiam mihi de te facit adulter. Veni, utrius sis filius, indica. Con il gesto di punizione dell’adul-

tero il giovane verrebbe dunque invitato a mostrare “di chi dei due è figlio”, risolvendo a favore del padre la controversia che l’adulterio apre sulla sua identità. La sententia che Cestio (ibid.) avrebbe attri-

buito al padre chiarisce ancora meglio la situazione: voca filium; risit adulter, tamquam qui diceret ‘meus est’. L’adultero sembra dunque potersi sentire al sicuro grazie a una sorta di autorità sul figlio della propria amante, che definisce direttamente come “proprio”. Dello stesso tenore anche le altre sententiae riferite da Seneca. Latrone (1.4.12), avrebbe invitato il ragazzo a “seguire i propri genitori” (parentes tuos sequere!) nella loro fuga. Albucio (ibid.) avrebbe riportato le parole del ragazzo con un’aggiunta ironica: ‘on potui” inquit ‘matrem occidere’: quo excusatior sis, adice et ‘patrem’. Infine P. Asprenate (ibid.) avrebbe formulato la stessa insinuazione con queste parole: matrem occidere non potes? adulterum certe occide. An et iste pater est? Si tratta di una formula che per noi acquista un particolare valore, perché richiama molto da vicino le parole di Atreo ai vv. 328330 del Thbyestes (si bella abnuunt/ et gerere nolunt odia, si patruum vocant/ pater est). Nel brano di Seneca padre che abbiamo preso in considerazione non si parla di paternità biologica, e credo non sia necessario pensare per forza a un vero e proprio legame di sangue fra l’adultero e il figlio. Quel che importa è sottolineare come, fin quando non si sia posto rimedio con la dovuta punizione alla colpa femminile dell’adulterio, l’identità dei figli rimanga incerta, come una sorta di oggetto di contesa fra il marito e l'amante. Più precisamente, il rifiuto di prendere le parti del padre contro l’adultero si trasformerebbe tanto per il giova66

Capitolo I

ne protagonista della controversia senecana quanto per Agamennone e Menelao in qualcosa di più che un semplice sospetto sulla loro identità: diventerebbe una prova capace di assegnare automaticamente al rivale paterno il ruolo di loro pater. Leggendo in questa luce i vv. 325-330 del Thyestes, possiamo chiarirne meglio il senso se diciamo dunque che anche Agamennone e Menelao sono chiamati a dimostrare con il loro comportamento di chi sono veramente figli. All’interno di una simile cornice culturale, la battuta dell’“incerto” padre Atreo configura la loro partecipazione al delitto come possibile prova della loro effettiva identità. E non a caso il modello culturale che qui ho rapidamente delineato verrà esplicitamente ripreso in tutte le sue implicazioni nel grido finale di Atreo; in quei versi dai quali ha preso le mosse il mio discorso e ai quali possiamo finalmente ritornare. Una lucida vendetta

È possibile dunque riconsiderare tutto il quadro della vicenda e del progetto di vendetta di Atreo tenendo presente la rilevanza centrale che l’adulterio con le sue conseguenze assume nella storia della discendenza dei Pelopidi. Nella variante senecana del mito è infatti dall’adulterio che discendono tutte le motivazioni dell’odio fra i due fratelli:!!! tanto il furtum quanto il turbamento della discendenza sono avvenuti in questo contesto. Anche Seneca, come gran parte delle fonti antiche, metteva dunque in relazione immediata il banchetto cannibalesco e l’unione fra Aerope e Tieste. Ma questa relazione diventa tanto più stretta se consideriamo che è la stessa vendetta di Atreo a strutturarsi come un complesso tentativo di ristabilire ordine nell’identità della stirpe e nella legittimità della discendenza. Possiamo ora vederlo chiaramente, se rileggiamo le parole di Atreo ai vv. 1098 s.: Liberos nasci mihi nunc credo, castis nunc fidem reddi toris.

Col tono enfatico ed esagerato del suo grido di trionfo, il tiranno proclama che la sua vendetta ha definitivamente ristabilito le fondamenta su cui il genus può basare la sua legittimazione a gestire il potere. Atreo può infatti esclamare di avere finalmente dei «veri figli» e di aver ridato fides alla sua unione coniugale.!!° A dimostrare che la 111. Cfr. v. 236: hinc omne cladis mutuae fluxit malum. 112. Si noti che prima, al v. 887, quando la vendetta non ha ancora raggiunto il suo culmine, Atreo dice qualcosa di molto simile: nunc decora regni teneo, nunc

solium patris (anche qui con la ripetizione di nunc). In quel momento Atreo ha già

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sua vendetta è compiuta sta dunque, da una parte, l’inconsolabilità di Tieste, che vede la sua discendenza completamente annientata, a favore di quella del fratello;'!3 dall’altra, la certezza, definitivamente acquisita da Atreo, di avere accanto a sé dei figli veramente “suoi”. In questo modo di dare una ricercata espressione retorica alla gioia per la vendetta riuscita gioca verosimilmente un ruolo importante il fatto che i figli di Atreo abbiano dato prova di essere simili a lui. Come tutti i discendenti autentici, generati correttamente, essi hanno collaborato con lui, schierandosi dalla sua parte e manifestando di possedere un’indole vicina a quella del padre; cosa che, indirettamente, è in grado anche di testimoniare la pudicitia della madre (quella pudicitia su cui si fonda la fides coniugale). Il modello della somiglianza padre-figlio che abbiamo delineato alla fine della sezione precedente viene coerentemente rielaborato da Seneca anche in questa battuta di Atreo, sfruttando fino alle estreme conseguenze le sue possibili implicazioni retoriche. Anche il letto di una moglie adultera può tornare, paradossalmente, ad ospitare la fides, e anche l’identità dei figli che da quel letto sono nati può essere finalmente provata, può diventare chiara. La vendetta di Atreo ottiene come risultato di azzerare tutti gli effetti dell’ivzzuria subita dal fratello. Saldamente in possesso del trono, ormai sicuro della sua discendenza, Atreo può addirittura rifondare la propria autorità come se l’unione fra Aerope e Tieste non si fosse mai verificata. L’esasperata logica vendicativa dell’ira è riuscita a danneggiare l’offensore in maniera completa:!! mentre la colpa di Tieste aveva gettato un’ombra sulla legittimità della discendenza di Atreo, quest’ultimo riesce alla fine non solo a recuperare la fides perduta e la stabilità della sua casa, ma addirittura a cancellare la discendenza del fratello, facendola tornare nel corpo di lui.

eliminato i discendenti del concorrente, e il suo potere è assicurato: solo la vista del dolore di Tieste (cfr. vv. 903-907: fructus hic operis mei est) lo spingerà a dire di aver anche completamente annullato l’iziuria subita un tempo dal fratello. 113. Si ricordi che, nel formulare il suo progetto di vendetta, Atreo si figura in anticipo la scena dell’ingesta orbitas/ in ora patris (vv. 282 s.: cfr. Tarrant 1985, pp. 27 e 131). In quest'immagine, di straordinaria pregnanza, viene espressa non solo la crudeltà della rivelazione, «gettata in faccia» al padre che non sa ancora di aver mangiato i propri figli; ma anche l’orbitas, la completa cancellazione della sua discendenza legittima (cfr. infra pp. 142-144). 114. Questa concezione della vendetta ispirata dall’ira di un marito tradito dev'essere considerata anche nella cornice antropologica di una visione dell’adulterio ben radicata nella vita sociale romana. Si ricordi, fra l’altro, che la legislazione augustea sull’adulterio aveva fra i suoi scopi principali proprio quello di porre un freno al dolor (per quanto ritenuto iustus) troppo acceso del marito, evitando gli eccessi di una sua vendetta privata scatenata dall’ira (su questi aspetti cfr. Rizzelli 1997, pp. 35-57). La vendetta di Atreo rappresenta appunto un esempio estremo di ciò che la legislazione imperiale tendeva a sottoporre a regole restrittive.

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Capitolo I

Sembra dunque esserci un preciso calcolo in quest’impresa, così come c’è un metodo nella vendetta di altri eroi senecani. Il caso più simile è certamente la vendetta di Medea, che ragiona, parla e agisce in modi molto vicini a quelli di Atreo. Lo vedremo in dettaglio nei capitoli seguenti, dedicati all’altra grande tragedia senecana di vendetta. Sul punto di punire il corizerx che l’ha abbandonata, anche Medea nutre l’illusione di esser riuscita a riportare l’intera vicenda al punto di partenza, di aver recuperato una per una tutte le cose che aveva perduto per darsi al suo amante: la sua condizione regale, il fratello morto, il padre abbandonato, persino la sua stessa verginità perduta.!!5 Sia nel caso di Atreo che in quello di Medea è il meccanismo della vendetta che “rimette le cose a posto” a giustificare l’impiego di tali espressioni paradossali.!!°

Due linee di discendenza rivali

Per quanto riguarda Atreo, la recuperata legittimità della stirpe è giunta proprio per mezzo di quel delitto con cui i figli di Tieste sono stati eliminati. Tieste è rimasto da solo: come sappiamo dal seguito del mito, per rilanciare la propria stirpe egli dovrà riaprire la catena delle colpe e della vendetta, unendosi a sua figlia Pelopia e generando un discendente che saprà tornare a danneggiare la stirpe del fratello. Tutta la vicenda del Thyestes senecano si può leggere dunque come una contrapposizione fra due linee di discendenza antagonistiche. Se Atreo e Tieste, in un primo momento, anteriore all’intreccio della tragedia, si erano contesi la sovranità su Micene, ora la rivalità tocca anche i

loro figli. Che questa sia la prospettiva in cui bisogna inquadrare i fatti lo dimostra la preoccupazione con cui Tieste presagisce non ciò che il fratello potrebbe macchinare contro di lui, ma i rischi che corre la sua prole. Nel dialogo fra Tieste e suo figlio Tantalo leggiamo (v. 485 s.):

Pro me nihil iam metuo: vos facitis mihi Atrea timendum. 115. Med. 982-984: iam iam recepi sceptra germanum patrem/ spoliumque Colchi pecudis auratae tenent;/ rediere regna, rapta virginitas redit. Cfr. infra, PpalSSis: A

116. Cfr. Tarrant 1985, p. 241 (ad 1098-99) e soprattutto Dupont 1975,

pp. 451-455. Io però non direi: «Le passé est nié, les personnages sortent du temps de leur histoire humaine». Il passato viene sì negato, ma più che di un’uscita dal tempo della storia umana parlerei di un tempo che viene riavvolto come la pellicola di un film: la logica della vendetta riporta le cose indietro, al momento che precede le iniuriae subite.

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste

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Tieste, in quanto antagonista del fratello, sta uscendo di scena: la lotta di Atreo per il possesso del trono si orienta ormai contro i suoi discendenti. D’altra parte, è cedendo alle pressioni dei figli, più interessati di lui a recuperare i privilegi del potere, che Tieste supera le proprie resistenze nei confronti del fratello (vv. 443 s.): TA. Summa est potestas - TH. Nulla, si cupias nihil. TA. Gnatis relinques.!!”

La centralità del legame fra Tieste e i suoi figli risulta dunque piuttosto evidente nella tragedia senecana; e del resto appare determinante anche nei racconti mitici relativi ai Pelopidi. Nel mito a fianco dell’eroe non compare mai una sposa dall’identità definita: Tieste sembra anzi un padre che, per così dire, i figli se li fa da solo. La cosa è abbastanza evidente nel caso di Egisto (Tieste deve ricorrere al corto circuito dell’incesto per rilanciare la propria discendenza); ma anche prima, accanto a lui nelle nostre fonti compare sporadicamente, come madre dei suoi figli, una non meglio identificata Naiade,!!* oppure compaiono i figli e basta. I figli di Tieste, insomma, sembrano, per così dire, un’emanazione diretta della figura paterna, fanno tutt'uno con lui. Rappresentano dunque più che mai la prosecuzione patrilineare dell’identità di Tieste. Proprio su quest’aspetto si insiste molto nella nostra tragedia. Quando Atreo vede arrivare il fratello esclama (vv. 492-495): 117. Cfr. anche v. 489: ego vos sequor, non duco (cfr. Frings 1992, p. 32). Su questo punto, Lefèvre 1985, p. 1279 nota giustamente che non è possibile considerare il ritorno di Tieste al potere semplicemente come un suo passivo adeguarsi alle richieste dei figli, ma poi aggiunge: «Wenn er wirklich von den so eindrucksvoll vertretenen Maximen iberzeugt ware, mufBte er sie auch seinen Sohnen zu vermitteln versuchen und sie nicht zu einer verabscheuungswùrdigen Lebensweise fùhren!». A parte il fatto che Tieste sostiene proprio di fronte ai suoi figli -anche se non con la necessaria fermezza- la validità dei propri princìpi, si può anche vedere la questione in una prospettiva diversa, se solo si considerano i figli stessi come la naturale prosecuzione della regalità paterna. Tieste, sopraffatto dal senso di colpa e convinto del progresso morale che ha sperimentato, non aspira più a una forma di potere personale (che di fatto intende delegare al fratello); ma non arriva neppure fino al punto di negare anche a quella parte di sé che gli dovrebbe sopravvivere il privilegio del potere assoluto. La condizione necessaria perché questo venga nelle mani dei suoi figli è appunto il suo rientro nella reggia del fratello: un gesto che si rivelerà fatale soprattutto per coloro ai quali sarebbe dovuto passare il potere. Sull’ineluttabilità del gesto di Tieste che cede ai figli cfr. anche le belle osservazioni di Dupont 1975, pp. 449 s. 118. Un’anonima Naiade (&k vnidoc véupne) sarebbe madre di Aglaos, Kallileon e Orchomenos secondo lo ps.-Apollod., Epit. 2.13 (e di conseguenza anche secondo Io. Tzetzes, Chil. 1.18.448 s., che però nomina un K@XAat1oc). Di una Laodamia, che sarebbe la madre dei tre figli di Tieste Orchomenos, Aglaos e Kalaos, parlano gli Schol. ad Eur., Or. 4. Cfr. anche Mayer 1936, col. 672. Sulle varie versioni relative ai nomi e al numero dei figli di Tieste (Aesch., Ag. 1605 parla di 13 figli!) cfr. Fraenkel 1962, pp. 758-760.

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Capitolo I

Et ipsum et una generis invisi indolem iunctam parenti cerno. lam tuto in loco versantur odia. Venit in nostras manus tandem Thyestes, venit et totus quidem.

La vendetta di Atreo non farà che radicalizzare quest'immagine: ritornati dentro il corpo da cui avevano avuto origine, e che ora è il loro sepolcro, i figli di Tieste diventeranno davvero, anche materialmente, carne della carne del proprio padre.!!° Tieste dunque viene punito in quella parte di sé che è costituita dalla sua discendenza. D'altra parte, nel dramma senecano lo stretto collegamento fra figli e padre è enfatizzato tanto nel caso di Tieste quanto in quello di Atreo. La storia procede quasi come se le donne di entrambi i fratelli non esistessero. Aerope non entra nell’azione, e neppure si parla esplicitamente di lei; il suo stesso nome resta nascosto dietro il generico appellativo di coniunx 0 consors.!?° Di una madre dei figli di Tieste, poi, anche nella tragedia non si parla mai in nessun modo. Il contrasto si focalizza dunque esclusivamente sui due partiti contrapposti, costituiti dai due fratelli e dalla loro prole. Il parallelismo della contrapposizione sarebbe assolutamente perfetto se fosse possibile applicare anche al dramma di Seneca una notizia che troviamo in Igino (Fab. CCXLVI) e negli scolii al v. 429 dell’Ibis, secondo la quale i due figli di Tieste (Tantalo e Plistene, nel testo di Igino)!?! sarebbero nati da Aerope.!? Anche una notizia isolata come questa contribuisce a 119. Il motivo era già nell’Atreus di Accio, fr. XIV Ribbeck®: natis sepulchro ipse est parens, e verrà ripreso dallo stesso Seneca in Ag. 26 s.: Liberis plenus tribus/ in me sepultis? Su questo tema, e sul motivo dei sua viscera, che Tieste consumerebbe mangiando le carni dei propri figli, cfr. cap. II. IRUMGtrfadiestvy2227e/23922357

121. Sonoinomi dei due figli divorati di Tieste che compaiono nei manoscritti senecani. Anche sulla base del fatto che imanoscritti presentano solo due nomi, Lefèvre 1973 ha proposto un’ipotesi molto ingegnosa, secondo cui nel Thyestes i figli uccisi sarebbero due (come, fra l’altro, anche in Hyg., Fab. LXXXVIII) e non tre. Lefèvre solleva un problema interessante, dato che in effetti il resto della tradizione romana, cui si riconnette anche Seneca, sembra conoscere solo i due figli Tantalo e Plistene (cui il solo Seneca aggiunge un anonimo puer: cfr. Monteleone 1991, pp. 151 s.). Tuttavia la sua ipotesi non regge alla prova del testo. Oltre a quanto obiettato a Lefèvre da Dingel 1985, p. 1055, pare proprio decisivo il confronto con Ag., 26 s., dove l’ombra di Tieste dice di sé liberis plenus tribus/ in me sepultis. 122. Hyg., Fab. CCXLVI (Qui filios suos in epulis consumpserunt): |...) Tbyestes Pelopis ex Aerope Tantalum et Plisthenem; Schol. ad Ibin 429 La Penna: Thyestes cum uxore fratris sui Atrei concubuit et genuit ex ea filios, quos Atreus dedit ipsi Thyesti ad comedendum. Quod scelus Sol videns retro fugit, ut Seneca in tragoediis et Ovidius Metamor. Come abbiamo visto (cfr. supra, pp. 49 s. e n. 61), questa notizia passa anche a Boccaccio, che difatti enfatizza molto, su tale base, il parallelismo fra le due discendenze, posto da Atreo a base del suo progetto di vendetta.

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste .

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rafforzare l’idea che l’intera vicenda mitica dei Pelopidi potesse essere letta (e anzi venisse di fatto letta) come la bilanciata contrapposi-

zione fra due parti che si contendono il trono di Micene: due fratelli e i loro rispettivi due figli (che potrebbero essere nati, addirittura, dalla stessa madre).

Comunque stiano le cose, nel momento su cui si incentra la tragedia è chiaro però che l’adulterio ha determinato un sostanziale sbilanciamento fra i due schieramenti. Atreo infatti regna, ma dispone di un sanguis dubius, di una proles incerta;'?* Tieste invece ha dei figli certi, come

Atreo non manca

di sottolineare alla fine (certos, v.

1102).!24 Era anche a questo imbarazzante rischio dinastico che il tiranno doveva guardare nell’atto di vendicarsi del suo antagonista. Nel finale della tragedia Atreo può dunque ben vantarsi di aver posto rimedio ai guasti creati nella sua casa da Tieste. La sua abilità è consistita nel rovesciare a proprio favore lo sbilanciamento determinato dall’adulterio. Nelle battute finali, infatti, il tiranno torna ad esprimere la sua maniacale convinzione che il fratello nutra nei suoi confronti propositi ostili analoghi ai suoi:!°° e sottolinea come, pur giovandosi del sostegno della cognata infedele, Tieste non avrebbe mai potuto realizzare un delitto analogo al suo (vv. 1106-1110): Fuerat hic animus tibi instruere similes inscio fratri cibos et adiuvante liberos matre aggredi similique leto sternere - hoc unum obstitit: tuos putasti.

Tieste aveva motivo di ritenere propri i figli di Atreo (tuos putasti): non poteva cioè essere certo che nelle loro vene non scorresse anche il suo sangue. La sottile riflessione dell’Atreo senecano mette a nudo un’importante conseguenza dell’adulterio ai fini della logica di reciprocità su cui si basa la vendetta: l’adultero non può nuocere ai figli del rivale, perché ha mischiato il proprio sangue a quello di lui, ha coinvolto nel dubbio che grava sulla discendenza qualcosa della propria identità.

Possiamo dunque concludere, ripercorrendo in sintesi le tappe del progetto delittuoso di Atreo. Secondo l’ossessiva convinzione del tiranno, Tieste si era insinuato nella reggia tramite l’adulterio e aveva spo123. Espressione opposta al certa progenies patris con cui, nelle Troades (461), viene definito il piccolo Astianatte (cfr. supra, n. 110). 124. Cfr. la nota ad loc. di Trevet (Franceschini 1938, pp. 88 s.): «certos,

quasi dicat: non dedi patri filios comedendos de quibus dubium est utrum essent sui vel non, sicut est de liberis meis, sed de quibus certum est tam sibi quam mihi quod sui fuerunt», 125. Cfr. vv. 193-204, 288-294, 917 s.

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Capitolo I

stato l’asse della discendenza a proprio favore. Attirando a sé la moglie del fratello, introducendo un elemento diincertezza nella sua prole, “turbando la sua casa”, egli aveva infatti minato la legittimità della successione di Atreo. Al momento di vendicarsi, Atreo elimina i figli certi di Tieste e ridà una chiara identità alla propria discendenza, che fino a quel momento era rimasta dubbia. Agamennone e Menelao, sui quali prima si proiettava confusamente l’identità dei due fratelli rivali, hanno dimostrato la loro affinità alla natura scellerata del padre: possono dunque

essere assegnati a una parte precisa, mentre l’altra viene completamente distrutta. Se Tieste aveva cercato di intromettere il proprio sangue nella famiglia del fratello, nel ventre della sua sposa, ora, con un completo rovesciamento della situazione precedente, Atreo gli ha imposto di riprendersi nel proprio ventre tutto quello che era suo,'? separando i due rami della discendenza e lasciandolo solo con la sua punizione.!?7 È questa l’intelaiatura su cui si innestano le riflessioni che il testo di Seneca propone sugli effetti del potere e sulla ferinità dei sovrani assoluti. Isolare il legame fra cannibalismo “autofagico” e adulterio è assolutamente necessario per comprendere il meccanismo della vendetta all’interno della tragedia senecana, e quindi la mostruosità del delitto di Atreo. Tanto l’autore quanto i suoi interpreti hanno dovuto rielaborare questo materiale per arricchire con le loro varianti la storia complessa di un mito sinistro come quello della casa di Tantalo. Il nesso fra la colpa sessuale e l’autofagia, del resto, è un tema culturale di grandissima rilevanza nella cultura occidentale, la cui sorprendente persistenza si può osservare anche in epoche molto lontane da quelle dell’antichità classica. Nel suo libro sul cannibalismo, ad esempio, Lestringant!* ne ha rapidamente mostrato il riemergere in 126. Si può leggere meglio, in questa luce, la battuta sarcastica con cui Atreo comincia a svelare al fratello quello che è successo (vv. 976-981): Hic esse natos crede in amplexu patris./ Hic sunt eruntque; nulla pars prolis tuae/ tibi subtrahetur. Ora quae exoptas dabo/ totumque turba iam sua implebo patrem./ [...) Nunc mixti meis/ iucunda mensae sacra iuvenilis colunt. 127. Nel contrasto non trova un posto preciso, come s’è detto, la figura di Aerope. Sul ruolo della donna Seneca non si sofferma esplicitamente, limitandosi all’insinuazione dei vv. 1108 s. È chiaro però che in tutta la vicenda la donna viene sempre immaginata da Atreo a fianco del fratello adultero, e quindi schierata a favore della discendenza di lui e contro la propria (liberos aggredi/ similique leto sternere). È probabilmente in questa prospettiva che Trevet leggeva anche il grido paradossale di Atreo ai vv. 1096 s.; una volta realizzata la vendetta, Aerope verrebbe finalmente indotta a tornare casta e sottomessa al marito (cfr. Franceschini 1938, p. 88): «credo mihi nasci liberos, quia, scilicet, non amplius curabis incestare uxorem meam, nunc, scilicet credo, reddi fidem castis thoris, id est nunc credo quod uxor mea fidelis erit et servabit castum thorum». 128. Lestringant 1994, pp. 143-148. Cfr., in part., p. 147: «Dans tous les cas, le recours au cannibalisme peut se comprendre comme la réparation apportée à une faute de nature sexuelle, le plus souvent l’adultère».

La prova nel delitto. Seneca e il mito di Atreo e Tieste

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alcuni episodi storicamente documentabili fra la fine del Medioevo e il XVII secolo. Particolarmente impressionante è il caso che costituisce lo spunto su cui è basato un canard dell’inizio del Seicento.!?° Una ragazza, sedotta e costretta a una sorta di matrimonio clandestino, punisce il suo seduttore facendogli mangiare il fegato del figlio; e viene poi processata e giustiziata per il suo delitto. La relazione fra il pasto cannibalesco imposto al padre e la punizione del suo crimine sessuale viene stabilita esplicitamente nel testo stesso del canard:!5° «Cecile [la ragazza protagonista della vicenda] [...] prend son enfant qu'elle avoit secrettement fait venir à cest effect, le tué, en prend le foye, et le faict apprester en achis pour le faire rentrer au lieu d’où il relevoit l’origine de son estre». Lestringant, riprendendo una famosa formula di LéviStrauss che associa il cannibalismo all’incesto, commenta così: «le fruit de son ventre retourne à son ventre. Faire communiquer le mème avec le méme, tel est le but expressément poursuivi par Cécile qui accomplit alors, par personne interposée, un véritable “inceste alimentaire” ». Si tratta, come si vede, di formule addirittura comuni nella cultura condivisa dell’epoca che, con opportune modifiche, potrebbero essere applicate anche al caso di Tieste di cui ci siamo occupati fin qui.!3! Ma non è mia intenzione impostare un discorso comparativo fra culture così lontane e diverse.!* Per una più completa e corretta comprensione del testo senecano penso sia sufficiente aver posto in risalto la centralità che questi temi rivestono all’interno di una tragedia impressionante e profonda come il Thyestes.

129. Histoire prodigieuse d’une jeune Damoiselle de Dole, en la Franche Conté, laquelle fit manger le foye de son enfant à un jeune Gentilhbomme qui avoit violé sa pudicité sous ombre d’un mariage pretendu: ensemble comme elle le fit cruellement mourir, et se remit entre les mains de la Justice pour estre punie exemplairement: le Samedy 19. jour de Novembre, 1608. Avec l’Arrest de la Cour de Parlement prononcé contre elle (pubblicato a Troyes, chez N. Dureau, nel 1698). 130. P. 14 (cito da Lestringant 1994, p. 145). 131. Si noti l’impressionante somiglianza fra le espressioni usate nel canard e quelle adoperate da Boccaccio per descrivere proprio la vicenda di Atreo e Tieste: cfr. supra, p.49. 132. Anche se, leggendo il contributo di Lestringant sull’origine della concezione moderna del “cannibale”, è inevitabile interrogarsi spesso sulla relazione fra l'irregolarità sessuale e l'irregolarità alimentare, che viene quasi regolarmente registrata da viaggiatori, etnografi e pensatori a proposito delle popolazioni dedite alla pratica del cannibalismo. Sembra che la violazione parallela di entrambi i sistemi di regole (sessuali e alimentari) venga considerato come inevitabile dall’osservatore europeo del Cinquecento.

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Capitolo I

CAPITOLO II

Viscera exedi mea: il corpo del padre

L’immagine del padre che divora la carne dei propri figli è, si può dire, quella che meglio sintetizza la vicenda tragica di Tieste. Come ho già avuto modo di dire in precedenza, la forma della vendetta scelta da Atreo per punire il fratello mostra una notevole serie di somiglianze con quella escogitata da Procne per vendicarsi del marito Tereo. Attorno a questa somiglianza è possibile individuare un singolare nodo intertestuale, che lega fra loro i testi teatrali di Accio e di Seneca, passando attraverso l’autore sul quale ci soffermeremo prevalentemente in questo capitolo: Ovidio. L’Ovidio delle Metamorfosi (in particolare del sesto libro di quell’opera), ma anche l’Ovidio delle Heroides e delle altre opere elegiache. I racconti mitici di cui ci stiamo occupando culminano tutti in delitti efferati, la cui natura estrema risulta strettamente legata a un motivo culturale di assoluta centralità nella cultura romana: la relazione fra un padre e la sua discendenza. La natura di questa relazione viene messa in fortissima evidenza anche per mezzo di una serie di immagini impressionanti: immagini in cui l’identità paterna si sdoppia per poi tornare a ripiegarsi su se stessa, ora proiettandosi nel corpo del figlio come in una sorta di appendice del proprio corpo, ora facendosi tomba di se stessa. Studiare il significato culturale di queste espressioni è importante per comprendere meglio il valore simbolico dei gesti di vendetta che stiamo prendendo in considerazione.

Domus Odrysia. Un delitto esemplare Il “primo atto” del Thyestes contiene una delle più aperte confessioni di debito, sia tematico che più ampiamente letterario, di Seneca nei confronti di Ovidio. È la scena in cui Atreo, agitato dall’ira, progetI (Gin 624 1 NO

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ta, in un crescedo di lucidità, il suo delitto: un delitto destinato a superare non solo tutti quelli passati della stirpe, ma anche qualsiasi altro misfatto umano. Dopo una breve e agitata gestazione, il tiranno intravede finalmente la soluzione (vv. 266-286): SAT. Facere quid tandem paras? AT. Nescioquid animus maius et solito amplius supraque fines moris bumani tumet instatque pigris manibus — baud quid sit scio, sed grande quiddam est. Ita sit. Hoc, anime, occupa (dignum est Thyeste facinus et dignum Atreo, quod uterque faciat): vidit infandas domus Odrysia mensas — fateor, immane est scelus, sed occupatum: maius hoc aliquid dolor inveniat. Animum Daulis inspira parens sororque; causa est similis: assiste et manum

impelle nostram. Liberos avidus pater gaudensque laceret et suos artus edat.* Bene est, abunde est: hic placet poenae modus tantisper. Ubinam est? tam diu cur innocens servatur Atreus? Tota iam ante oculos meos

imago caedis errat, ingesta orbitas in ora patris — anime, quid rursus times et ante rem subsidis? audendum est, age:

quod est in isto scelere praecipuum nefas, hoc ipse faciet.

La rete intertestuale che è possibile tessere attorno a questi versi è davvero notevole. Si comincia subito col verso 267, una possibile ripresa del verso finale dell’epistola 12 delle Heroides, in cui Medea lascia presagire con un rintocco lugubre il suo ben noto progetto di vendet-

ta 122012): Nescio quid certe mens mea maius agit.

Si tratta di un’espressione che sembra essersi dilatata nella formulazione che troviamo nel testo di Seneca, con quell’effetto d’eco che ripete per tre volte maius fra i vv. 259 e 274. Non molto diversamente, proprio nella Medea senecana, leggiamo ai vv. 674 s.:

2. Con le stesse parole (ulteriormente caricate in senso patetico, cfr. Tarrant 1985, p. 202, ad loc.) il nuntius descrive il pasto cannibalesco ai vv. 778 s.: lancinat gnatos pater/ artusque mandit ore funesto suos. Ricorda anche l’effetto

di tremenda ironia tragica nelle parole che Tantalo rivolge al padre Tieste, nel tentativo di convincerlo ad accettare le proposte di riconciliazione di Atreo (vv. 431-433): ira frater abiecta redit/ partemque regni reddit et lacerae domus/ componit artus teque restituit tibi (cfr. anche infra, p. 106). 3. Cfroinfra; p144j 1219, 76

Capitolo II

Maius his, maius parat Medea monstrum.

Sono le parole con cui la nutrice descrive Medea che si appresta a celebrare il suo rito magico: anche in quest'occasione la gestazione di un crimine orribile è scandita dai rintocchi di un mais tanto indefinito quanto minaccioso.

Si tratta in realtà di un’espressione che aveva una sua nobile e lunga ascendenza letteraria, all’interno delle storie che stiamo prendendo in considerazione. Possiamo fortunosamente controllarla grazie a Cicerone, che nel De oratore (3.58.219) ci riporta un frammento dell’Atreus di Accio (fr. III Ribbeck3, vv. 198-201): Iterum Thyestes Atreum adtractatum iterum iam adgreditur me et quietum maior mihi moles, maius miscendum qui illius acerbum cor contundam et

advenit, exsuscitat: est malum, comprimam.

Torniamo così da un Atreo (quello di Seneca) ad un Atreo precedente (quello di Accio), dopo essere “passati per Medea”: un percorso che si disegna come una delle possibili tracce su cui impostare la nostra indagine. Alla fine di questa breve rassegna, in altri termini, potremo dire che l’Atreo di Seneca usa espressioni da un lato simili a quelle dell’Atreo di Accio, dall’altro a quelle della Medea di Ovidio. A questo mosaico va aggiunto solo un ultimo tassello, che viene ancora da Ovidio, ovviamente dal sesto libro delle Metamorfosi, dal celebre episodio di Tereo, Procne e Filomela. Siamo nel momento in cui Procne sta immaginando il modo in cui punirà il marito che ha violentato e seviziato sua sorella (vv. 618 s.): Magnum quodcumque paravi: quid sit, adhuc dubito.

Dunque anche la Procne di Ovidio, come la Medea di Ovidio e di Seneca e l’Atreo di Accio e di Seneca, in preda all’ira che la porterà alla vendetta, formula minacce che restano ancora indistinte nel dub-

bio, nella loro stessa enormità, prima di prendere la forma di un castigo estremo: e lo fa usando un’espressione simile a quelle che abbiamo appena considerato. Si tratta di analogie che trovano gran parte del loro fondamento nel fatto che questi personaggi del mito hanno in comune imprese e sentimenti di straordinaria somiglianza. Somiglianza che porta appunto autori come Ovidio a classificarle regolarmente assieme. Basterebbe considerare un passo come Fast. 2.627-630, in cui il poeta allontana dalla celebrazione dei Caristia tutte quelle figure esemViscera exedi mea: il corpo del padre

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plari che si sono rese protagoniste di delitti nei confronti dei propri familiari: Tantalidae fratres absint et Iasonis uxor, et quae ruricolis semina tosta dedit, et soror et Procne Tereusque duabus iniquus et quicumque suas per scelus auget opes.

Non si tratta di una prospettiva classificatoria che si ritrova nel solo Ovidio. Nella letteratura antica queste tre storie vengono più volte associate l’una all’altra.4 Senza entrare in un’analisi dettagliata di tali accostamenti, mi limiterò a concentrare la mia attenzione sui testi di Seneca e Ovidio, che costituiscono il nucleo del mio oggetto di studio, cercando di vedere cosa spinga i personaggi del sesto libro delle Metamorfosi e delle tragedie senecane a parlare in modo così simile. Cosa lega fra di loro situazioni come quelle della Procne e della Medea di Ovidio da un lato e quelle dell’Atreo e della Medea di Seneca dall’altro? Certamente l’impulso alla vendetta provocato da un’ira mostruosa e confusa: ma anche qualcosa di molto più profondo, che riguarda le modalità della loro vendetta, la logica stessa su cui essa si basa. Per riuscire a cogliere gli aspetti più significativi di questa logica dovremo seguire un percorso letterario leggermente sinuoso, partendo dal legame diretto che il testo della tragedia senecana dichiara rispetto al suo modello. Dobbiamo perciò allontanarci per un momento dai casi di Medea e Atreo, che abbiamo considerato finora muovendoci fra i testi di Ovidio e Seneca, per concentrarci sulla storia di Tereo, Procne e Filomela, raccontata nel sesto libro delle Meta-

morfosi. È un percorso che viene suggerito dalla stessa tragedia senecana che ha come protagonista Atreo. Già nel prologo del Thyestes, infatti, l’ombra di Tantalo viene invitata dalla Furia a far ripetere, nel-

4. Analoghe associazioni di questi eroi del mito ricorrono frequentemente. Tereo e Tieste sono associati già in Plaut., Rud. 508 s. (Carmide a Labrax): scelestiorem cenam cenavi tuam/ quam quae Thyestae quondam aut posita est Te-

reo. L’intero gruppo Medea, Tereo e Tieste compare in Tristia 2.381-402 (storie d’amore infelici della tragedia: Fedra, Canace, Pelope, e poi, vv. 387-392): tingeret ut ferrum natorum sanguine mater,/ concitus a laeso fecit amore dolor./ Fecit amor subitas volucres cum paelice regem,/ quaeque suum luget nunc quoque mater Ityn./ Si non Aeropen frater sceleratus amasset,/ aversos solis non legeremus equos (seguono Scilla, Oreste, Bellerofonte, Ermione, Atalanta, Cassandra, Danae, Semele). Più frequente pare l’associazione di Medea e Procne: cfr. ad es. Pont. 3.1.119-122: non impia Procne/ filiave Aeetae voce movenda tua est,/ nec nurus Aegypti, nec saeva Agamemnonis uxor,/ Scyllaque, quae Siculas

inguine terret aquas etc. Sulle analogie fra questi due racconti cfr. in particolare infra, n: 21.

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Capitolo II

la casa dei suoi discendenti, Thracium |...] nefas/maiore numero (vv. 56 s.). Riprendendo questa premessa, le parole di Atreo citate all’inizio di questo capitolo fanno riferimento con sempre maggiore insistenza e chiarezza al precedente costituito dall’impresa delittuosa dell’eroina ovidiana. In questa luce va letto, in particolare, l’accenno alla domus Odrysia (v. 273) e al suo celebre delitto: cioè alla casa della lontana e barbara Tracia (gli Odrisii erano la popolazione più importante della regione) dove, secondo Seneca e Ovidio, si svolge la vicenda di Tereo. Proprio Ovidio, a quanto pare, è il primo autore latino a usare questo aggettivo per indicare la Tracia: e lo fa appunto nell’episodio di Tereo e Procne, in Mer. 6.490 s. (At rex Odrysius, quamuvis secessit, in illa/ aestuat).è Molto probabilmente l’uso di questo epiteto in Seneca può essere considerato come un riconoscimento cifrato (forse neanche tanto) del debito letterario che è alla base

della stessa ideazione dell’intreccio.‘ Vendette parallele: Atreo, Procne, Medea

Del resto non è questo il solo punto in cui è possibile dimostrare come l’episodio ovidiano sia il modello tenuto presente da Seneca. Molte e chiare sono, nel Thyestes, le riprese di versi ed espressioni ovidiane, S. Cfr. Bomer 1976, p. 138 (ad loc.): «Die Odrysen (’Oòpvoa), der bedeutendste Stamm der Thraker, sind der Altertum seit Herod. IV 92 und Thuk. II 29, 2 bekannt. Ovid verwendet das Wort auch sonst (6 Stellen) im Sinne von ‘thrakisch’ [...] Der Vòlkername erscheint in lateinischer Literatur zuerst bei Ovid und Livius [...] Interessant ist, da Thuk. II 29, 1 ff. [...] unseren Tereus

von dem Odrysenkònig Teres, unter dem der Stamm seine Herrschaft iber die anderen Thraker ausdehnte, in aller Form absetzt». Tucidide dice infatti (222953)

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p. 130 (ad loc.): «is simply a recherché epithet that can be freely conflated with the usual Thracian setting: cf. Cons. Liv. 106 deflet Threicium Daulias ales Ityn [...]». i 6. Cfr. Schiesaro 1992, p. 62 e 1994, p. 200. Meno probabile mi pare che qui Ovidio e Seneca dipendano entrambi da una fonte comune, che potrebbe essere Sofocle, secondo un’ipotesi proposta da Cazzaniga 1950, p. 55, il quale pensava che l’epiteto «Odrisio» potesse venire a Ovidio solo dal Tepevc sofocleo.

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già ampiamente segnalate (anche se non tutte) nei commenti e nella monografia di Jakobi.” Resta però da chiarire meglio còme mai, per raccontare la storia di Tieste, Seneca sia andato a ispirarsi a un modello che raccontava la vicenda di Procne e Filomela. Si tratta di due storie che certamente presentano analogie macroscopiche. Abbiamo visto come la vicenda del Thyestes debba essere considerata nella prospettiva di un tiranno (Atreo) intenzionato a vendicarsi del fratello che, commettendo adul-

terio con sua moglie (Aerope), ha gettato un’ombra sulla legittimità della discendenza reale. La vendetta, che coinvolge in maniera diretta gli stessi figli di Atreo, ottiene i due risultati complementari di distruggere la discendenza del fratello (costretto anche a mangiare le carni dei propri bambini) e accertare l’identità dei propri discendenti. Anche l’intreccio dell’episodio ovidiano può essere descritto in modo molto simile: Procne si vendica di una colpa sessuale del marito Tereo, uccidendogli il figlio Iti e facendoglielo mangiare. Tuttavia, al di là di queste evidenti somiglianze, i due racconti

mostrano anche delle sostanziali differenze. Sarà bene perciò passare brevemente in rassegna l’episodio ovidiano. Procne e Filomela sono le figlie del re ateniese Pandione, che viene a trovarsi in difficoltà nel corso di

un conflitto contro non meglio precisati barbara agmina.* Per ricompensare il tracio Tereo del soccorso militare che gli ha prestato, Pandione gli concede in sposa la figlia Procne. Le nozze si svolgono sotto pessimi auspicii, alla presenza delle Eumenides e di segni decisamente funesti.? Dopo qualche tempo Procne manifesta il desiderio di rivedere la sorella, e prega Tereo di recarsi ad Atene per farsela affidare dal padre. Così avviene; ma Tereo, che riceve la ragazza in un modo che assomiglia vaga-

mente alle forme di un vero e proprio matrimonio,!° si è nel frattempo invaghito della ragazza, e appena arrivato in patria la violenta. Filomela rinfaccia al ferus tyrannus!! la sua natura barbara, la violazione dei giuramenti fatti al suocero e di ogni regola della pietas; e infine lamenta di essere diventata inevitabilmente paelex e hostis della sorella,'? propo7. Cfr. Jakobi 1988, pp. 152-167 e Bòmer 1976, p. 117, il quale prende anche in considerazione la possibilità di individuare anche «ein [...] gemeinsames Vorbild fir Ovid und Seneca», che potrebbe essere l’Atreus di Accio. Una più ampia raccolta di passi oggi è disponibile in Ciappi 1998, pp. 458-461. 8. Ov., Met. 6.423. 9. Ov., Met. 6.428-434. Si tratta di un tema letterario che vedremo ricom-

parire anche nel caso di Medea: cfr. infra, pp. 138 s. 10. Cfr. Ov., Met. 6.494-510. li

GiriOvEtMerNo:S49)

12. Ov., Met. 6.533-538: ‘O diris barbare factis!/ O crudelis!’ ait ‘nec te mandata parentis/ cum lacrimis movere piis nec cura sororis/ nec mea virginitas nec coniugialia iura./ Omnia turbasti: paelex ego facta sororis,/ tu geminus coniunx! Hostis mihi debita poena. Sul significato di paelex cfr. Pavlock 1991, pp. 38 s.

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nendosi comunque di svelarle ogni cosa. A questo punto Tereo le mozza la lingua, credendo così di toglierle ogni possibile canale di comunicazione col resto del mondo. In realtà il vantaggio culturale che la ragazza ha nei confronti del barbaro Tereo le consentirà di aggirare l’ostacolo, facendo pervenire alla sorella un messaggio verbale tessuto in una tela.!* Procne riesce poi a liberare Filomela, e comincia a progettare la vendetta, immaginando con quali ferite potrebbe ricambiare adeguatamente i danni subiti dal corpo della sorella. È questa la parte del progetto che culmina con i vv. 618 s., che abbiamo citato in precedenza. A questo punto entra in scena il piccolo Itys (vv. 619-623): Peragit dum talia Procne, ad matrem veniebat Itys: quid possit, ab illo admonita est oculisque tuens inmitibus ‘A! quam es similis patri!” dixit nec plura locuta triste parat facinus tacitaque exaestuat ira.

Dopo qualche esitazione, dovuta al riemergere dei sentimenti materni di pietas, Procne finisce per obbedire alla voce del sangue della sua famiglia, preferendo il ruolo di sorella a quello di madre (vv. 631-635): ‘Cur admovet’ — inquit — ‘alter blanditias, rapta silet altera lingua? Quam vocat hic matrem, cur non vocat illa sororem? Cui sis nupta, vide, Pandione nata, marito! Degeneras! scelus est pietas in coniuge Tereo”.

Subito Procne si getta come una tigre sul figlio e lo uccide senza nemmeno distogliere gli occhi. Poi ne cuoce le carni e le fa mangiare al marito, cui rivelerà infine l’orrore del suo pasto, mentre Filomela gli lancerà in faccia la testa del figlio. Inutilmente Tereo cercherà di rigettare le carni di Iti, che restano in lui come in un bustum miserabile nati.!* Segue l’inevitabile trasformazione, il cui possibile significato simbolico non ha rilevanza per il nostro discorso. Ricapitoliamo schematicamente. Abbiamo già detto che le somiglianze fra i due racconti di Tieste e di Tereo si riducono a questo: in conseguenza di uno stuprum (un adulterio nel caso di Tieste, una violenza carnale nel caso di Tereo),!° scatta una vendetta che punisce il colpevole con l’uccisione dei figli e con l’orrore di doverne mangiare 13. Cfr. Ov., Met. 6.574-580. Come nota anche Bòmer 1976, p. 158 ad v. 582, il messaggio è certamente costituito da frasi tessute nella tela. L’ipotesi di un messaggio figurato (sostenuta di recente da Pavlock 1991, p. 41) appare se non altro di gran lunga meno probabile: fra l’altro, un messaggio del genere avrebbe potuto decifrarlo anche il barbaro Tereo o uno dei suoi servi. 14. Cfr. Ov., Met. 6.665. 15. Sul significato di stuprum cfr. supra, pp. S1 s.

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i corpi. Diversi sono però gli effetti di queste vendette per chi le ha realizzate. Come abbiamo visto in precedenza,!5 infatti, Atreo (fratello del suo nemico) è preoccupato di rimediare agli effetti di confusione che l’adulterio di Tieste ha introdotto nella sua casa, separando nettamente la propria discendenza da quella del fratello, che viene distrutta. Procne, invece, che è moglie del suo stesso nemico, non può tenere distinta la propria discendenza da quella del suo antagonista: si trova così nella condizione atroce di dover uccidere il proprio figlio per poter danneggiare il marito. Questo gesto sconvolgente ha lo scopo sia di punire lo stupratore nella sua discendenza, sia di rinnegare l’unione matrimoniale, in nome dei diritti della propria famiglia d’origine.!” Da questo punto di vista la vicenda di Procne si differenzia sensibilmente da quella di Atreo, ed è più facile inquadrarla sullo schermo del mito di Medea. Si potrebbe dire anzi che il delitto di Procne si situi a metà strada fra quello di Atreo e quello di Medea. Come Medea, infatti, Procne uccide la discendenza del proprio marito perché vede in essa un’immagine di lui proiettata verso un futuro da cui lei intende restare staccata per sempre.!* Perché la vendetta si realizzi la decisione delle due eroine deve attraversare questo paradosso: per cancellare la propria unione coniugale è necessario distruggerne i frutti, cioè i figli, la cui fisicità ed emotività li lega ancora strettissimamente al corpo della madre che li ha partoriti. È dunque importante sottoli-

neare il fatto che al momento della decisione risulta determinante un particolare: l’immagine fisica del bambino rimanda direttamente a quella del suo genitore.!? Sembra che questo dettaglio contribuisca in modo decisivo a far sì che il figlio diventi bersaglio di una vendetta che si configura tanto come danneggiamento della figura paterna quanto come dissoluzione del vincolo coniugale. Il legame fisico fra il padre e il figlio, segnalato in maniera lampante dalla somiglianza, si configura come lo strumento grazie al quale la madre può elaborare il proprio distacco da un marito traditore e dalla sua stirpe.?0 16. Cfr. supra, pp. 61-67. 17. Cfr. Ov., Met. 6.634 s. 18. Si confronti il testo di Met. 6.621 s. con l’epistola 12 delle Heroides, vv. 187-193 (che torneremo a commentare infra, pp. 123 s.), dove Medea, ancora innamorata, scongiura Giasone proprio in nome dei figli, prima di abbandonare ogni speranza residua e rivolgersi al suo progetto di vendetta: Si tibi sum vilis, communis respice natos:/ saeviet in partus dira noverca meos./ Et nimium similes tibi sunt, et imagine tangor,/ et quotiens video, lumina nostra madent./ Per superos oro, per avitae lumina flammae,/ per meritum et natos, pignora nostra,

duos,/ redde torum, pro quo tot res insana reliqui. Una volta perduta la speranza, i bambini passeranno da «pegni dell’unione» a vittime sacrificali, la cui soppressione sancisce la definitiva rottura del rapporto. Cfr. anche Sen., Med. 24-26. 19. “A! quam/ es similis patri!” (Ov., Met. 6.621 s.). 20. Cfr. supra, pp. 63-69.

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Questa serie di elementi comuni spiega come mai queste vicende si prestino a un trattamento linguistico analogo, e come mai i loro protagonisti sviluppino i propri progetti delittuosi sulla spinta di passioni simili.?! Alla base delle storie di Medea, Procne e Atreo c’è un ricercato progetto di vendetta, che si scarica sul corpo dei figli di un nemico. Ma l’Atreo di Seneca sceglie, per così dire, solo la “forma” della vendetta di Procne (infanticidio e cannibalismo), la cui logica sembra invece orientata, come nel caso di Medea, verso la cancellazione di un

legame matrimoniale. Sua viscera, suos artus esse

Ma perché, in racconti del genere, per vendicarsi di un uomo, bisogna uccidergli i figli (tanto più quando a farlo deve essere la madre stessa di quei bambini)? e perché mai si ritiene adeguato alle colpe di questi uomini costringerli a mangiare addirittura la carne della propria prole? Sia la Procne di Ovidio che l’Atreo di Seneca mostrano di aver ben chiaro questo problema se è vero che, nell’elaborare il loro progetto, scartano come inappropriate quelle forme di punizione che potrebbero 21. Si è molto dibattuto sull’eventualità che la somiglianza strutturale di questi racconti dipenda dal fatto che gli autori tragici abbiano tentato di uniformare le due storie. Si è di conseguenza immaginato che le analogie fra le due storie, nel corso dell’intera letteratura greca e romana, dipendano dal fatto che Euripide avrebbe strutturato la sua Medea secondo le linee-guida del Te— pevg di Sofocle, o viceversa (così, ad es., Cazzaniga 1935, Cazzaniga 1950, pp. 60-64 e Larmour 1990, p. 133), a seconda della datazione proposta per i due drammi (sulla questione cfr. da ultimo Ciappi 1998, pp. 447 s. e n. 41, con indicazioni bibliografiche). A spingere i critici in questa direzione sono state sia le somiglianze fra i frammenti superstiti della tragedia sofoclea e alcuni versi della Medea di Euripide (che sono in effetti assai notevoli), sia il fatto che verosimilmente Euripide ha presentato in modo molto innovativo la vicenda corinzia dell’eroina colchica, specialmente nel segmento narrativo che riguarda proprio l’uccisione dei figli (prima di Euripide non sembrano bene attestate versioni del mito in cui Medea uccide i figli per vendicarsi di Giasone: cfr. la messa a punto di Giannini 2000). L’impossibilità di fare dei riscontri precisi non ci consente di dire nulla di certo a proposito. Del resto, questo modo di considerare la costruzione dei racconti finisce per far somigliare troppo da vicino la creatività degli autori antichi alle manie classificatorie dei loro commentatori moderni. In realtà, già nelle più antiche versioni del mito di Medea (come ad esempio quella di Eumelo, tramandataci da Pausania 2.3.11) la morte dei figli ha comunque l’effetto di separare l’eroina da Giasone, danneggiando quest’ultimo. Euripide può aver rielaborato tali materiali senza necessariamente aver tratto ispirazione dalla vicenda di Procne. Le radici strutturali della somiglianza fra questi racconti fondati sull’infanticidio sono tali da far sembrare francamente un po’ troppo semplicistica l’ipotesi di una genesi letteraria e meccanica dell’assimilazione.

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essere inflitte direttamente al corpo dei loro nemici,?? per orientarsi poi verso una forma di castigo che è nello stesso tempo più sofisticata ma anche più radicale. L'attenzione si sposta dal corpo del padre a quello della discendenza, e in questo modo la vendetta riesce a colpire più a fondo, a recidere legami, ad annientare il nemico. Atreo arriva a dire che userà come arma della sua vendetta lo stesso Tieste:? sarà Tieste a danneggiare (inconsapevolmente) se stesso, nel momento in cui man-

gerà la carne dei suoi figli. In questo gesto si intravede un oscuro meccanismo di riflessività, che costituisce il Leit-motiv dei testi ovidiano

e senecano. Mi sembra importante spiegare i risvolti culturali di un simile meccanismo di riflessività, per come ci viene presentato nei testi letterari di cui ci stiamo occupando. E credo che un buon modo per farlo sia analizzare le espressioni con cui viene indicato il gesto in cui culmina la vendetta: appunto, l’ingestione delle carni dei figli. Per cominciare, torniamo ai vv. 277 s. del Thyestes: «il padre faccia a pezzi con gioia e avidità le carni dei suoi figli, mangi le membra sue». L’espressione suos artus esse viene solitamente accostata alla descrizione ovidiana del pasto di Tereo (Ov., Met. 6.650 s.): Ipse sedens solio Tereus sublimis avito vescitur inque suam sua viscera congerit alvum.

In realtà, se dal punto di vista tematico il raffronto è giusto, dal punto di vista linguistico le differenze sono consistenti. Artus è cosa diversa da viscera,” indica le «membra»

che costituiscono, con le

22. Cfr. Sen., Thy. 244-259 (l’ovvio progetto di uccidere Tieste viene proposto dal satelles, e scartato da Atreo); Ov., Met. 6.611-619. Fra l’altro, la sequenza delle armi scartate, e la climax verso il magnum pieno di dubbi è la stessa nel passo ovidiano e in Thy. 257-270. Un po’ diverso è il caso della Medea di Seneca (vv. 124-126 e 893-901), che, come vedremo, ritenendo Giasone solo

parzialmente responsabile del tradimento, si concentra sulla possibilità di colpire il corpo della sua rivale Creusa (cfr. infra, p. 142). 23. Vv. 257 s.: SAT. Ferrum? AT. Parum est. SAT. Quid ignis? AT.

Etiamnunc parum est.l SAT. Quonam ergo telo tantus utetur dolor?/ AT. Ipso Thyeste. 24. C’è una serie limitata di casi in cui i due termini sembrano usati in modo poco differenziato, con effetto di accumulo (cfr. TbIL s. v. artus, vol. I, col. 714, ll. 44 ss.): basterebbe considerare il passo ovidiano (Met. 14. 208 s.) in

cui Achemenide descrive il pasto cannibalesco del Ciclope, praticamente con gli stessi termini usati per descrivere il banchetto di Tereo (6.650 s.): visceraque et carnes cumque albis ossa medullis/ semianimesque artus avidam condebat in al-

vum. In effetti, anche in casi come questi c’è una distanza sostanziale fra artus e viscera, ma l’uso dei termini è talmente generico da sfumarla: cfr. anche [Quint.], decl. min. 307.6: meos artus, mea lacerari viscera putabam (è un amico che parla di un suo compagno torturato). Cfr. ancora Lucr. 2.963, 3.374377, Suet., Cal. 28; Avien., Arat. 214; Hier., epist. 100.9).

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loro articolazioni, il corpo:” il termine viscera, invece, indica le parti più intime del corpo, con una serie di connotazioni non direttamente

trasferibili sulla nozione di artus. Quest'ultima nozione rimanda semmai alla struttura, all’architettura del complesso organico. E poi il modo elaborato in cui Ovidio indica l'accumulo delle carni nel ventre è proprio lontano dalla breve espressione senecana: da una parte c’è uno che fa a pezzi (laceret) e, semplicemente, «mangia» (edat); dall’altra c'è uno che «accumula nel proprio ventre le proprie viscere», un’immagine assai più barocca e complessa (come vedremo, anche più profonda e significativa). Forse i commentatori hanno avuto troppa fretta, limitandosi a cercare dove era probabile trovare qualcosa. Più vicino all'espressione senecana è invece un altro verso, ancora una volta ovidiano, che troviamo alla fine dell’episodio di Erisittone, nell’ottavo libro delle Metamorfosi. Ormai privo di risorse, l’eroe divorato dalla fame non può fare altro che rivolgere contro se stesso 1 propri morsi (Mer. 8.877 s.): Ipse suos artus lacerans divellere morsu coepit et infelix minuendo corpus alebat.

Qui Ovidio sfrutta magistralmente il paradosso di un uomo che tenta invano di alimentare il proprio corpo con le sue stesse parti.?° Non è improbabile che un’espressione come suos artus lacerans di Ovidio sia diventata /aceret et suos artus edat di Seneca.?” E certo, anche dal punto di vista tematico siamo ancora ampiamente all’interno di una forte analogia: il Tieste immaginato da Atreo è uno che «mangia le proprie membra» esattamente come l’Erisittone di Ovidio: solo che quest’ultimo lo fa in senso proprio, mentre il corpo di Tieste e le carni dei suoi figli sono assimilati per mezzo di una metafora. L’espressione ovidiana del sesto libro torna invece, anche se in una forma ben più sintetica, nel prologo dell’Agamemnon di Seneca, dove l’ombra di Tieste contende al fratello Atreo il primato nel delitto (vv. 26 s.):

A fratre vincar? liberis plenus tribus in me sepultis? Viscera exedi mea. 25. Cfr. ad es. Paul. Fest. 19 Lindsay: artus ex Graeco appellantur, quos illi &pBpa dicunt: sive artus dicti, quod membra membris artentur. Sul significato di artus cfr. André 1991, p. 78. 26. Su questo passo cfr. Bòmer 1977, pp. 235 e 269 ad 877 e Degl’Innocenti Pierini 1990, pp. 82-86. 27. Cfr. anche i vv. 778 s. del Thyestes, riportati sopra alla n. 2. Sull’immediata e straordinaria fortuna di questo verso ovidiano, già nelle scuole di retorica, cfr. Degl’Innocenti Pierini 1990, pp. 88-94. Basti ricordare Quint., Inst. or. 8.2.20: qui suos artus morsu lacerasse fingitur in scholis ‘supra se cubasse’. Neanche la Degl’Innocenti Pierini cita però il passo senecano.

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Qui Tieste usa la stessa espressione che abbiamo trovato in Met. 6.650 s.: «le mie viscere». E in più usa l’immagine della sepoltura, su cui dovremo tornare anche più avanti, e che si potrebbe far risalire ancora una volta a un verso dell’Atreus di Accio, tramandatoci da Cicerone nel De officiis (1.28.97 = 226 Ribbeck®): Natis sepulchro ipse est parens.

Questo modo di indicare il ritorno “circolare” dei figli in un organismo da cui sono nati, e che diventa ora la loro tomba, dipende

da una concezione piuttosto complessa del corpo, cui Ovidio ha dato come al solito una formulazione esemplare nel sesto libro delle Metamorfosi, subito dopo i versi che abbiamo citato sopra. Anche in quel caso, infatti, compare l’immagine della sepoltura, con cui viene sintetizzata la condizione di Tereo (vv. 661-666): Thracius ingenti mensas clamore repellit vipereasque ciet Stygia de valle sorores et modo, si posset, reserato pectore diras egerere inde dapes semesaque viscera gestit, flet modo seque vocat bustum miserabile nati; nunc sequitur nudo genitas Pandione ferro.

L’insistenza con cui si torna a parlare del destino dei viscera consumati da Tereo mette a fuoco la continuità radicale che sembra legare i corpi messi in “corto circuito” dalla vendetta di Procne. I «visceri» del figlio, cioè, quei semesa viscera del v. 664, finiscono per apparirci come qualcosa di non più separabile dai «visceri» del proprio padre, ora che sono stati ricongiunti ad essi dal pasto cannibalesco (v. 651: inque suam sua viscera congerit alvum).?*

Sua viscera: madri e figli Definire i figli «le proprie membra» o «le proprie viscere» non sembra essere stato comune ai tempi di Ovidio. Possiamo anzi dire che, stando ai dati a nostra disposizione, Ovidio potrebbe essere stato il primo autore latino a usare quest’espressione. In ogni caso, Ovidio è lo 28. A proposito di questo verso già Raffaele Regio (nella sua edizione lionese del 1518, alla p. XCr) commentava: «Sua viscera. suas carnes. nam Itis ex Terei sanguine fuerat conceptus». Una notevole somiglianza col passo ovidiano mostra la tirata del cuoco plautino in Pseud. 819-824, in cui i colleghi vegetariani sono accusati di rovinare lo stomaco dei propri clienti con un pasto presentato come assolutamente repellente: ei homines cenas ubi coquont, quom condiunt,/ non condimentis condiunt, sed strigibus/ vivis convivis intestina quae

exedint./ Hoc hic quidem homines tam brevem vitam colunt,/ quom hasce herbas huius modi in suom alvum congerunt,/ formidulosas dictu, non essu modo.

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scrittore che, nella storia della letteratura latina, usa questa e simili immagini con più insistenza e con più variazioni degli altri. Alla sua predilezione per questa immagine si accosta (e a una certa distanza) solo un autore successivo, che è appunto Seneca.?° Ovidio usa l’espressione mea, nostra, sua viscera nove volte, una

delle quali di interpretazione controversa. In cinque occasioni si tratta di madri che parlano dei propri figli; in quattro di padri (in senso proprio e figurato). Il primo caso è quello di Penelope, in Epist. 1.88-90. L’eroina indirizza a Ulisse un lamento per lo scempio che i Proci compiono nella sua casa: Turba ruunt in me luxuriosa proci, inque tua regnant nullis probibentibus aula; viscera nostra, tuae dilacerantur opes.

Di questo passo sono state proposte due interpretazioni: quella, sostenuta da Palmer, secondo cui viscera vorrebbe dire qui «le nostre (oppure «le mie») viscere», cioè Telemaco, e quella più comunemente accolta dai commentatori,?! secondo cui il riferimento sarebbe alle

sostanze della casa di Ulisse «dilapidate» dai Proci. Per sostenere la prima ipotesi è stato anche invocato il parallelo con un verso dell’Odissea,?? in cui Telemaco lamenta che i Proci pILvÉBovoarv Edovtec |oikov éudv: tdxa dr ue diappaicovor kai aòTov. La Penelope ovidiana, invertendo l’ordine del verso odissiaco, 29. Si può dire direttamente “Seneca tragico”, perché l’unico caso senecano esterno al corpus delle tragedie appartiene al De clementia (1.14.2 s.) e presenta un uso traslato, relativo alla metafora del rapporto padre-figlio che legherebbe un imperatore ai suoi sudditi: Patrem quidem Patriae appellavimus, ut sciret datam sibi potestatem patriam, quae est temperantissima liberis consulens suaque post illos reponens. Tarde sibi pater membra sua abscidat, etiam, cum absciderit, reponere cupiat et in abscidendo gemat cunctatus multum diuque. 30. Palmer 1898, pp. 285 s. ad loc.: «“our son (Telemachus) is tortured, your wealth is pillaged.” So I now understand, with zeugma. Ovid often uses viscera for a son or a daughter» (per l’originalità dell’uso ovidiano di viscera in questo senso cfr. Pokrowskij 1907-1910, p. 398). L’interpretazione di Palmer è stata scartata con sussiego da Housman 1899, p. 478, secondo cui viscera nostra

non può che essere apposizione di opes, da intendere nel senso «your substance, which is my very life, is pillaged» (naturalmente Housman non spiegava perché non potesse essere che così). Una proposta piuttosto avventurosa è stata avanzata da Jacobson 1974, pp. 269 s., che dopo aver dichiarato la propria propensione per un’altra interpretazione scartata da Palmer («my heart is rent»), si è poi sbilanciato a proporre una lettura del passo in chiave sessuale («I am being sexually assaulted»: cioè, «Penelope is loosing control over her sexual life, Ulysses is loosing control of his material possessions»). 31. Fra gli interventi più recenti cfr. Barchiesi 1992, pp. 95 s. ad v. 90 e Knox 1995, p. 106 ad v. 90. 32. Od. 16.127 s. (segnalato da Jacobson 1974, p. 270 n. 87).

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si riferirebbe quindi da un lato a Telemaco (le «viscere» comuni ai due sposi), dall’altro alle ricchezze dell’gikos, che appartengono al marito lontano. Si tratta di un’interpretazione che risulta davvero piuttosto dura, e che si potrebbe sostenere solo a condizione di ipotizzare che il lettore ovidiano avesse ben presente il passo omerico. Barchiesi ha ben mostrato che la cosa è improbabile. A prima vista sembrerebbero più forti gli argomenti portati a sostegno dell’altra interpretazione, che vede nell’espressione viscera nostra un’apposizione di tuae opes, le «sostanze» della casa di Ulisse.?* Tuttavia anche questa interpretazione non convince del tutto. Se anche non si considera la stranezza del modo in cui Penelope si associa tanto intimamente al possesso del patrimonio del marito lontano (viscera nostra), l’espressione appare comunque senza riscontri nell’opera di

Ovidio, e la stessa metafora legata alle «sostanze dilapidate» non può essere considerata (come sostengono comunemente i commentatori) topica, ma ha anzi una vita decisamente stentata nella letteratura latina. Usata, in un’epoca vicina ad Ovidio, esclusivamente da Cicerone (ma in un senso leggermente diverso), ricomparirà solo molto più tar-

di, in due casi delle biografie degli Scriptores Historiae Augustae.?® Resta quindi un certo margine di incertezza nell’interpretazione di questo passo. Esso comunque andrà considerato alla luce degli altri usi ovidia33. Barchiesi 1992, p. 96. Cfr. anche Owen 1931, p. 98. 34. Buoni paralleli per questo uso ovidiano dell’apposizione sono proposti da Barchiesi 1992, p. 95 (Met. 13.495: tuum, mea vulnera, pectus) e da Knox 1995, p. 106 (Trist. 1.7.19 s.: libellos/ imposui rapidis, viscera nostra, rogis). A quanto pare, già Massimo Planude intendeva in questo senso (cito da Palmer 1898, p. 164: kai Tv fiv TEplovotav TÀ ÈÉuà oTAdyXva diaoTapaTtTOvOn). 35. Cfr. De domo sua 9.23: Homini [...] turpissimo [...] quis pecuniam ad emendos agros constitutam, ereptam ex visceribus aerarii [...] dedit?; cfr. anche De domo sua 47.124: sin est ratum, cur ille gurges, belluatus tecum simul rei publicae sanguine, ad caelum tamen extruit villam in Tusculano visceribus aerarii [...]? (Nisbet 1939, p. 173 ad loc. traduce: «with the very vitals, the hard-won resources of the treasury»); e infine Pis. 12.28: caverat enim sibi ille |...) ut [...] si pecuniam ereptam ex rei publicae visceribus dedisset, omnium ut suorum scelerum socium te adiutoremque praeberes. Questi tre esempi rappresentano dei paralleli solo relativamente calzanti rispetto alla nostra espressione. Infatti si parla sempre di denaro che appartiene «al più profondo dell’erario», che viene strappato dal cuore della proprietà pubblica, a scopi totalmente opposti a quelli della pubblica utilità. Un po’ diverso è invece il caso di O. fr. 1.3.7, che appare maggiormente appropriato: qua in re ipsa video miser et sentio quid sceleris admiserim, cum de visceribus tuis et filii tui satis facturus sis quibus debes, ego acceptam ex aerario pecuniam tuo nomine frustra dissiparim. Tradurrei «mentre tu paghi con la tua stessa carne e con quella di tuo figlio» (cioè con ciò che hai di più tuo, con ciò che ti è più necessario). In tutti i casi prevale l’idea di «strappare qualcosa dal profondo», e non di «fare a pezzi le viscere», come in Ovidio. 36. Avid. Cass.14.8 ([...] divitem factum [...] de visceribus rei p. [...]), Alex. Sev. 15.3 ([...] imperatorem, qui ex visceribus provincialium homines non necessarios nec rei p. utiles pasceret).

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ni, che vanno in un’altra direzione, e che a noi interessano maggiormente. Vediamoli in dettaglio. L’espressione mea/nostra viscera ricorre due volte in un’altra delle Heroides; quella dedicata alla triste storia di Canace (XI), costret-

ta dal padre Folo ad esporre il figlio nato dalla sua unione incestuosa con Macareo. Ai vv. 89 s. l’eroina si rivolge al fratello-amante, chiedendogli come crede che lei abbia potuto sopportare l’idea di sapere il corpo del proprio figlio esposto al morso degli animali: Cum mea me coram silvas inimicus in altas viscera montanis ferret edenda lupis?

Nell’altro passo Canace lamenta di non aver potuto piangere sul corpo del figlio (vv. 117 s.): Non super incubui, non oscula frigida carpsi, Diripiunt avidae viscera nostra ferae.

È importante sottolineare come questa volta la metafora usata per indicare il corpo del bambino?” venga usata in un contesto in cui si parla di un cadavere straziato da bestie selvagge. Si tratta infatti di un contesto in cui solitamente nei testi latini (lo vedremo meglio più avanti) compaiono espressioni centrate sul termine viscera.? Stavolta, però, le «viscere» straziate del bambino, forse addirittura ancora vivo, sono chiaramente identificate, tramite la metafora, con le viscere stesse della madre. Il caso successivo ci porta nel poema maggiore di Ovidio. Si tratta della vicenda di Altea, che fa morire il figlio Meleagro, colpevole di aver ucciso i suoi zii materni. Dopo aver esitato fra il suo ruolo di mater e quello di soror,?? Altea decide di bruciare il tizzone cui è legata la vita del figlio (Mer. 8.478): ‘Rogus iste cremet mea viscera’ dixit.

Abbiamo qui un caso molto simile a quelli di Procne e di Medea, di cui abbiamo parlato in precedenza. E su di esso dovremo tornare anche più avanti.4° Sono storie in cui un’eroina si trova a dover decidere se mantenersi fedele al proprio ruolo di sorella o a quello di moglie/madre. Anche Altea, come Procne e Medea, finisce per sacri37. Knox 1995, p. 272, ad v. 89 traduce viscera con «flesh», ed elenca al-

tri passi ovidiani che testimoniano lo stesso uso. 38. Cfr. infra, pp. 93-95. 39. Ovid., met. 8.463 s.: pugnat materque sororque,/ et diversa trabunt unum duo nomina pectus; e, più avanti, vv. 475-477: incipit esse tamen melior germana parente et, consanguineas ut sanguine leniat umbras,/ inpietate pia est.

40. Cfr. infra, p. 151.

Viscera exediî mea: il corpo del padre

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ficare il secondo ruolo, indicando tramite un’espressione così forte come mea viscera il legame di “carne” cheila unisce al proprio figlio, da cui decide però di separarsi per sempre. Infine, va ricordato il caso proprio di Medea, che non poteva mancare in una galleria come questa. Si tratta di un breve accenno, che troviamo nei Remedia amoris, in un lungo elenco che comprende i nomi di Fillide e Didone prima, e quelli di Procne, Pasifae, Fedra etc. poi. Sono eroine che, se avessero potuto disporre delle provvidenziali avvertenze del poeta-medico, avrebbero evitato sicuramente il loro triste destino. Dunque anche nel caso di Medea, in presenza di opportuni accorgimenti (vv. $9-62): Nec dolor armasset contra sua viscera matrem,

quae socii damno sanguinis ulta virum est. Arte mea Tereus, quamvis Philomela placeret, per facinus fieri non meruisset avis.*!

In tutti questi casi** una madre parla dei propri figli (o il poeta parla dei figli di una madre) come di una parte del suo stesso corpo: ed esattamente di quella parte che in un gran numero di passi viene indicata come la sede della gestazione, cioè, appunto, i viscera materni.4 C’è come una continuità fra il corpo materno, in particolare il suo ventre," e il corpo del figlio. Una continuità che potremmo illustrare 41. In realtà l’accenno a Medea non è immediatamente decifrabile: teoricamente il riferimento potrebbe essere proprio a Procne, il cui nome viene taciuto anche nel distico successivo (dove vengono nominati Tereo e Filomela). Tuttavia l’interpretazione comune, che vede nei vv. 59 s. un riferimento a Medea, è senz’altro giusta, ed è comunque degno di nota il fatto che, come al solito, i due exempla di Medea e Procne vadano assieme, fino quasi a fondersi. Per un analogo uso del termine viscera da parte di Medea, cfr. Sen., Med. 40, su cui cfr.

infra, p. 101. 42. Per altri casi, vicini a quelli che abbiamo discusso fin qui, cfr. anche

Ad Liviam de morte Drusi 264: spes quoque multorum flammis uruntur in isdem;/ iste rogus miserae viscera matris habet. Un po’ diverso è il caso di Penteo, di cui Ovidio parla in Met. 4.422-4 (sono parole di Giunone, adirata con Ino e con Bacco): potwit de paelice natus/ vertere Maeonios pelagoque immergere nautasl et laceranda suae nati dare viscera matri etc. 43. Gli esempi sono moltissimi, ma ancora una volta partono dall’epoca di Ovidio (e appartengono di frequente alle molte tirate contro l’aborto di cui è piena la letteratura imperiale). Cfr. fra gli altri Ov., Amores 1.10.51, 2.14.27, Her. 4.126,

11.42, Met. 7.128,

15.219, Fast.

1.624, 3.24; Sen., Phoen.

249,

Med. 1013, Dial. 12.16.3, N. O. 3.25.11, Epist. 102.26, 124.8; Lucan., 1.377, 2.340, 3.604, 5.79 etc.

44. Come vedremo meglio nel paragrafo successivo, il termine viscera è spesso usato per indicare il ventre, l’utero di una donna incinta: su quest’impiego del termine viscera cfr. Pokrowskij 1907-1910, pp. 396-399, che cita passi come Quint., [rst. Or. 10.3.4: quae [scil. rerum natura) nascendi quoque hanc fecerit legem, ut maiora animalia diutius visceribus parentis continerentur [...].

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Capitolo II

efficacemente facendo ricorso all’espressione che ricorre in un testo giuridico, in cui il feto viene esplicitamente definito «parte delle madre o delle sue viscere» (Ulp. in Dig. 25.4.1.1r partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum).*

Il significato del termine viscera Prima di andare avanti con i nostri esempi sarà bene però specificare qual è esattamente il significato del termine viscera, e come mai venga così strettamente associato alla funzione generativa.# Bisogna partire da una premessa generale. È chiaro, dagli usi linguistici romani, che il ventre veniva pensato come un contenitore i cui “reparti” rimanevano abbastanza indistinti. In maniera, tutto sommato,

analoga a quanto avviene ancora nella nostra lingua, in cui possiamo usare i termini «ventre» e «pancia» indifferentemente per indicare la sede della funzione digestiva e della funzione riproduttiva. Qualcosa di simile avveniva anche in greco, dove il termine yaotnp poteva esse-

re utilizzato in entrambi i sensi. Termini come alvus, venter e persino uterus si prestano così ad indicare tanto lo stomaco e/o gli intestini, quanto l’utero femminile.4” La con45. Si tratta di una citazione dal l. XXIV di Ulpiano ad edictum, in cui si riporta il parere dato dal pretore Valerio Prisciano sul caso di un Rutilius Severus e di una Domitia (siamo all’epoca dei Divi fratres, Marco Aurelio e Lucio Vero). Domizia aveva divorziato, ma il marito, che sosteneva che lei fosse incinta, pretendeva di assegnarle un custos partus. In un rescriptum si consigliava alla donna di sottoporsi a una visita, per accertare come stessero veramente le cose: ex hoc rescripto evidentissime apparet senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. Post editum plane partum a muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut exhiberi sibi aut ducere permitti. 46. Sul valore “tecnico” di viscera cfr. André 1991, p. 141: «Par wiscera, -um [...] on entendait en principe les organes contenus dans la cage thoracique, au-dessus du diaphragme; cf. la définition de Caelius Aurelianus, acut. 2, 180, diaphragma, hoc est membranam quae a uisceribus discernit intestina [...] Ce peut donc ètre l’oesophage et l’estomac (ibid. 2, 21), le coeur et les poumons (Celse, 7, 4, 2A) [...] Le terme a été

étendu également à des parties au-dessous du diaphragme, aux testicules (Pline, nat. 20, 142) et à la matrice (Sén., Quint., Ulp., Dig. 48, 8, 8). On entendait aussi par là, et

depuis Plaute, les chairs des animaux à usage alimentaire: Cic., N. D. 2, 159, (boum) uisceribus uesci, et la uisceratio était la distribution des chairs des victimes pour le repas sacrificiel». Sul valore più generale del termine invece cfr. p. 202 s.: «Au pl. uiscera a communément le sens d’entrailles, organes internes (coeur, poumons, foie, intestins)

sans discrimination, mais plus spécialement ceux de l’abdomen, depuis Plaute». 47. Cfr. André 1991, pp. 132-138 e 188-193. In particolare cfr. quanto André dice a pp. 188 s. a proposito dell’utero: «Congue comme le siège du fcetus avant la naissance, la matrice était présentée non comme une partie du ventre, mais comme le ventre lui-méme. Aussi est-elle désignée par des termes géné-

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tiguità fisica delle sedi delegate a queste funzioni finisce dunque per annullare, per così dire, i confini fra gli organi specifici, facendo del ventre l’unico luogo in cui digestione e gestazione finiscono per mescolarsi assieme. Un discorso analogo si può fare anche a proposito dell’uso del termine viscera. Viscera, solitamente impiegato al plurale, indica gli organi interni e le parti molli del còrpo (contrapposte alle ossa, al midollo, ai nervi, alle venae e agli umori come il sangue) e sembra essere un termine generico (proprio come il nostro “viscere”): non sembra infat-

ti possibile indicare delle parti specifiche cui esso faccia riferimento esclusivo. Autori come Celso 4.1.4-13 fanno un uso generico di viscera, per riferirsi a organi come il fegato, la milza, i reni.** Anche altri scrittori sembrano voler riferire il termine ad organi che vengono tenuti distinti dagli intestini. Tuttavia non è possibile delineare un uso rigoroso e coerente del termine nell’ambito delle descrizioni anatomiche. Accanto a questa variabile applicazione del termine agli organi interni, si registra un’ampia serie di usi che si riferiscono, in maniera pre-

valente, alla «carne» (in generale) e alle parti molli più interne del corpo, anche se non solo a queste.°° Abbastanza indicativa è la definizione che troviamo in Servio, il quale ci dice in sostanza che il termine visceraux. D’abord aluus -i, dont P. Fest. 7, 18 donne le sens par une fausse étymologie reposant sur la fonction (d’alo «nourrir, développer»): aluus uenter feminae ab alendo dicta». Un analogo discorso vale per il termine venter. 48. Non pare che secondo Celso il termine possa essere anche riferito allo stomaco e agli intestini. Cfr. ad es. 4.1.4: At sub corde atque pulmone traversum ex valida membrana saeptum est, quod praecordiis uterum diducit [...]; a superiore parte non solum intestina, sed iecur quoque lienemque discernit. Haec

viscera proxuma sed infra tamen posita dextra sinistraque sunt. Cfr. anche 4.1.6: Ac viscerum quidem hae sedes sunt. Stomachus vero, qui intestinorum

principium est [...]. Cfr. soprattutto 4.14.1, dove, dopo una lunga sezione dedicata alle malattie dello stomaco, inizia la sezione dedicata specificamente alle malattie che colpiscono i viscera:

A compagine corporis ad viscera transeundum

est, et inprimis ad pulmonem veniendum. Dopo i polmoni, si passa quindi a parlare del fegato (4.15.1-4), della milza (4.16.1-4), dei reni (4.17.1-2), per tornare infine agli intestini (cfr. 4.18.1: A visceribus ad intestina veniendum est). 49. Cfr. ad es. Celio Aureliano, acut. 2.180 (diapbragma, hoc est membranam, quae a visceribus discernit intestina) e Plinio, N. H. 11.197 s. (exta bomini ab inferiore viscerum parte separantur membrana, quam praecordia appellant, quia a corde praetenditur quod Graeci appellaverunt ppévas. Omnia quidem principalia viscera membranis propriis ac velut vaginis inclusit providens natura).

Plinio (N. H. 11. 133 e 135) arriva ad includere nel novero dei wiscera anche il cerebrum, definendolo il «viscere posto più in alto» (viscerum excelsissimum).

50. Ci sono ad esempio vari usi del termine in cui il riferimento è alle parti sessuali: cfr. Petron. 119, v. 21 exectaque viscera ferro (riferito alla castrazione). Viscera è anche usato alcune volte per descrivere rapporti omosessuali passivi (cfr. ad es. Mart. 11.61.6 e Iuv. 9.43). Per l’uso di viscera ad indicare l’utero femminile cfr. ad es. Ulpiano, Dig. 48.8.8 (un passo tratto dal 1. XXXII ad edictum): si mulierem visceribus suis vim intulisse quo partum abigeret constiterit, eam in exilium praeses provinciae exigeret.

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ra indica la «carne» nel suo complesso (ad Aen. 1.211): viscera non tantum intestina dicimus, sed quicquid sub corio est, ut ‘in Albano Latinis visceratio dabatur’ id est caro.d! Questa definizione è stata ripresa più tardi da Isidoro (Etym. 11.1.116), con un significativo ampliamento: viscera non tantum intestina dicimus, sed quidquid sub corio est, a visco quod est inter cutem et carnem. Item viscera vitalia, id est circumfusa cordis loca, quasi viscora, eo quod ibi vita, id est anima, continetur. In passi come questo il termine viscera sembra indicare gli organi che sono, per così dire, la sede più intima della vita, e che sono raggiunti per ultimi dai pericoli che minacciano il corpo. Un’arma che trapassa le viscere, una malattia che le brucia in genere indicano il superamento della soglia oltre cui la morte si fa imminente.? Di conseguenza anche le figure retoriche fondate su questo termine tendono a enfatizzare l’idea di interiorità. In latino un’espressione come «nel, dal profondo del cuore» può essere resa con in visceribus, ex visceribus. viscera rei publicae sono il «cuore» dello stato; i viscera terrae sono le «profondità della terra» .°* Infine, anche negli usi linguistici più diffusi le viscere sono talvolta presentate quasi “materialmente” come la sede degli affetti più profondi.’ Di conseguenza l’appello alle proprie «viscere» può suonare come un appello alla parte più

autentica e più profonda del “sé”. Si possono ricordare i famosi versi, tramandatici da Svetonio (De poetis 40), che Mecenate indirizzava a Orazio: ni te visceribus meis, Horati,/ plus iam diligo, dove visceribus meis si può tradurre, direttamente, «di me stesso».

Corpi sepolti in tombe viventi L’uso del termine viscera per indicare la «carne» è documentabile anche tramite una serie di espressioni che potrebbero contenere al suo posto anche parole come membra o artus. Si tratta di espressioni che ricorroS1. Cfr. anche ad Aen. 6.253: SOLIDA INPONIT TAURORUM MIS non exta dicit, sed carnes,

nam

VISCERA FLAM-

‘viscera’ sunt quicquid inter ossa et cutem

est; ad Aen. 3.622: viscera proprie carnes sunt; ad Georg. 1.139: ‘viscus’ [...] id

est caro. 52. Cfr., 6.580 s.: Leve Sen., Tro. 584 quos cruciatus cotidie aliquid SS MGir 54. Cfr., 55. Cfr.,

ad es., Ov., Met. 7.601: tristes penetrant ad viscera morbi, Sil. vulnus? An alte/ usque ad nostra ferus penetravit viscera mucro?, s.: et ferrum inditum/ visceribus ipsis, [Quint.], decl. mai. 5.15: compares, quem dolorem, cum penitus visceribus immissa tabes ex homine praemittit in mortem |...]? sadici Cie ian 139 Ris 2228: ad es., Ov., Met. 1.138, Plin., N. H. 2.158. ad es., Val. Max. $.7ext.1: itaque diversi adfectus iisdem visceri-

bus ac medullis inclusi, summa cupiditas et maxima verecundia.

56. Cfr. anche Cic., Att. 6.1.8: sed noli me putare éyxeAevouara illa tua abiecisse, quae mihi in visceribus haerent.

Viscera exedi mea: il corpo del padre

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no con una certa insistenza per indicare il corpo fatto a pezzi, smem-

brato: ad esempio in un consistente numero di casi che descrivono il trattamento delle vittime sacrificali.” Ma soprattutto, come abbiamo già avuto modo di accennare, il termine compare in un gran numero di descrizioni del destino riservato ai corpi insepolti: siano essi cadaveri 0 corpi che vengono straziati ancora vivi da bestie feroci. Frequentissime sono espressioni come viscera (0 artus, membra) haurire, lacerare, mandere,

pascere, laniare, diripere, usate per descrivere lo scempio delle carni umane divorate dagli animali. Un’immagine, questa, che viene quasi regolarmente accompagnata dalla constatazione del fatto che in questo modo i corpi vengono sottratti alla pratica normale della sepoltura. Si tratta di un motivo che ha una lunghissima tradizione. Il passo che i commentatori indicano di solito come tipico, nella presentazione di questo motivo, è un celebre frammento di Gorgia, in cui gli avvoltoi vengono indicati come «sepolcri viventi» dei corpi di cui si nutrono (BSa Diels-Kranz: yùrec éuyvyoi TApo1). Questa stessa immagine compare in un importante frammento della letteratura romana arcaica. Si tratta di un celebre verso degli Annales di Ennio (125 s. Skutsch = 138 s. Vahlen?), in cui si descrive lo scempio che un avvoltoio fa di un cadavere: Volturus in tspinetot miserum mandebat hbomonem,

heu quam crudeli condebat membra sepulcro!

Dunque l’animale che si nutre del cadavere di un uomo viene presentato come il corpo che svolge la medesima funzione di una tomba. Quel corpo diventa il sepolcro dell’altro corpo che fagocita. Ma forse la più famosa e impressionante ripresa di questo tema è costituita da un passo del V libro del De rerum natura di Lucrezio. È la descrizione della morte di un uomo primitivo, il cui corpo viene fatto a pezzi da una bestia feroce (5.990-993): Unus enim tum quisque magis deprensus eorum

pabula viva feris praebebat, dentibus baustus, et nemora ac montis gemitu silvasque replebat viva videns vivo sepeliri viscera busto? 57. Cir. ad es. Cic Nat. Deor:2,64,159; 6.253, 8.180, Lucan. 1.624, Stat., Theb. 1.522 s.

Verg., Aen.

1.211,.5-103,

58. Vengono spesso citati anche luoghi della tragedia classica come Aesch., Sept. 1020-1024, Soph., El. 1487-1489, Eur., Ion 932 s. Sulla tradizione gorgiana cfr. Norden 1898, I, pp. 395-397. 59. Questi versi avevano certamente fatto molta impressione anche a Ovidio: cfr. Met. 6.651, 13.865, 14.525, 14.208, 15.88. Un’eco se ne può trovare ancora in un passo delle Metamorfosi di Apuleio (5.18.2, il discorso delle sorelle a Psyche: Ad haec iam tua est existimatio, utrum [...] velis [...) declinata morte nobiscum secura periculi vivere an saevissimae bestiae sepeliri visceribus).

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Queste scene vengono presentate in forme così orripilanti perché toccano un elemento antropologico fondamentale, su cui si gioca l'importante rapporto che molte culture cercano di stabilire con la sfera della morte. Mi riferisco alla regola di garantire ai defunti quella corretta sepoltura che consente ai vivi di attribuire loro una posizione marginale e controllata nel proprio mondo. L'universo culturale ha bisogno di eliminare dal suo spazio la materia senza vita, che altrimenti rimarrebbe come un pericoloso strumento di contaminazione. Gli animali che sottraggono alle pratiche culturali della sepoltura questi corpi senza vita vengono così associati, tramite le metafore che stiamo considerando, a improprie forme di sepolcri viventi, che si collocano decisamente dalla parte della natura selvaggia. È interessante notare come per terminologia e impostazione anche certi modi di descrivere le pratiche cannibalesche si rivelino simili a quelli che ho appena illustrato. Si tratta, com’è ovvio, di pratiche che vengono tendenzialmente classificate fra le azioni “naturali” di un’umanità posta fuori dai confini della cultura; e che quindi si colloca più dalla parte delle bestie feroci che non da quella degli esseri civilizzati. Possiamo qui limitarci a qualche esempio, che si collega più direttamente al nostro discorso. Potremmo cominciare dal Ciclope di Virgilio (Aen. 3.622), che visceribus miserorum et sanguine pascitur atro. Oppure considerare le popolazioni antropofaghe di cui ci parla Pomponio Mela nel De corographia 2.2.14: Apud Antropophagos ipsae etiam epulae visceribus bumanis apparantur.° Oppure il celebre, paradossale testamento di Fumolpo, alla fine del Satyricon 141.7: Operi modo oculos et finge te non bumana viscera sed centies sestertium comesse. Ma i passi per noi più interessanti possiamo andarli a cercare direttamente nei testi del solito Ovidio, che a questo tema ha dedicato una particolare attenzione. Presentando scene di cannibalismo, Ovidio! usa il termine visce-

ra tanto per indicare le carni di chi è mangiato (Met. 14.194: viscera cuius edam), quanto il ventre dove queste carni finiscono (Ibis 543 s.: Ut puer Harpagides referas exempla Thyestae/ inque tui caesus viscera patris eas). E non è certo un caso (come si comprenderà meglio più avanti) che a quest'immagine della “discesa nei visceri” venga subito associata la vicenda di Tieste e del figlio di Arpago.®* L’episodio in cui queste espressioni compaiono nel modo più elaborato e significativo è quello in cui il povero Achemenide racconta 60. Cfr. 3.7.64: Quidam proximos parentes priusquam annis aut aegritudine in maciem eant velut hostias caedunt, caesorumque visceribus epulari fas et maxime pium est. 61. Cfr. Met. 4.424; 14.192-209 (l’episodio del Ciclope), 15.88, 15.462 (neve Thyesteis cumulemus viscera mensis), Fast. 4.200, Ibis 544.

62. Cfr. Hdt:1.119 e;Sen., Deira 3:15; eicfr. supra, pi 32.

Viscera exedi mea: il corpo del padre

DS

le sue avventure nella spelonca del Ciclope. La logica del pasto cannibalesco emerge chiaramente già nelle parole che lo stesso Polifemo pronuncia dopo la fuga di Ulisse (Met. 14.192-196): O si quis referat mihi casus Ulixen aut aliquem e sociis, in quem»mea saeviat ira, viscera cuius edam, cuius viventia dextra

membra mea laniem, cuius mihi sanguis inundet guttur et elisi trepident sub dentibus artus.

Le «viscere», le «membra» di Ulisse e dei suoi compagni devono entrare ancora vive nel corpo del Ciclope, per realizzare il più completo rovesciamento di tutte le regole di una alimentazione civilizzata. Il povero Achemenide si vede già preda del mostro (vv. 202-

209):

Mors erat ante oculos, minimum tamen ipsa doloris. Et iam prensurum, iam nunc mea viscera rebar in sua mersurum, mentique haerebat imago temporis illius, quo vidi bina meorum

ter quater adfligi sociorum corpora terrae, cum super ipse iacens hirsuti more leonis visceraque et carnes cumque albis ossa medullis semianimesque artus avidam condebat in alvum. Le espressioni usate in questo passo (in particolare mea visceral in sua mersurum e semianimesque artus avidam condebat in alvum) ci rimandano direttamente a Met. 6.651 (vescitur inque suam sua viscera congerit alvum), il brano in cui si descrive il pasto di Tereo,

che ho illustrato all’inizio di questo capitolo. Ma mentre il Ciclope condit (un verbo tipico della sepoltura) i viscera dei prigionieri nella sua alvus, Tereo non mangia i viscera di qualcun altro, bensì i propri stessi viscera, che va «accumulando» nel suo ventre. Questi viscera sono appunto le carni dei suoi figli: nel gesto di Tereo al cannibalismo si aggiunge quell’elemento di riflessività di cui ho parlato in precedenza.

Un pasto cannibalesco come quello del Ciclope, alla stessa maniera di quelli inconsapevolmente consumati da Tereo o Tieste, viene presentato dunque come un’alimentazione ferina, che svolge una funzione contrapposta a quella di una corretta sepoltura. La contiguità fra questi abnormi modelli alimentari si vede bene se si prende in considerazione un altro luogo importante delle Metamorfosi: il controverso libro XV, in cui viene esposta (secondo lo schema metamorfico del63. Cfr. Ennio, loc. cit., Verg., Aen. 6.152 e TbIL, vol. IV, s. v. condo, col. 150, 1.83-151, I. 57 (Il. 1-3 in part.).

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la vita che sempre si rinnova) la dottrina pitagorica della reincarnazione. In base a questa dottrina viene pronunciata una pesante condanna dell’alimentazione carnea, che si configura come una vera e propria forma di cannibalismo. Le anime trasmigrano anche nel corpo degli animali di cui ci nutriamo solitamente: e dunque cibarsi della loro carne non è diverso dal cibarsi di carne umana. Alcuni passi di questo libro ripropongono significativamente immagini e stilemi che siamo venuti commentando fin qui. Già nelle prime parole di Pitagora contro l’abitudine di mangiare carne troviamo (Met. 15.85-90):

At quibus ingenium est inmansuetumque ferumque, Armeniae tigres iracundique leones cumque lupis ursi dapibus cum sanguine gaudent. Heu quantum scelus est in viscera viscera condi congestoque avidum pinguescere corpore corpus alteriusque animantem animantis vivere leto!

In una visione come quella ovidiana, che crea una sorta di ininterrotta continuità fra le varie forme di vita, il cannibalismo si lega direttamente alla consumazione di qualsiasi carne animale: quest’ultima viene descritta in modo assai vicino a quello con cui era stato descritto il pasto del Ciclope (analogo gioco col termine viscera, analogo uso del verbo condere). E ancora, alla fine della lunga predica di Pitagora, l'esortazione viene ribadita proprio facendo appello all’exemplum di Tieste (vv. 456-462):

Nos quoque, pars mundi, quoniam non corpora solum, verum etiam volucres animae sumus, inque ferinas possumus ire domos pecudumque in pectora condi, corpora, quae possunt animas habuisse parentum aut fratrum aut aliquo iunctorum foedere nobis aut hominum certe, tuta esse et honesta sinamus neve Thyesteis cumulemus viscera mensis.

La comunione della vita avvicina tutti gli esseri animati: fa dei loro corpi la sede possibile non solo delle anime di altri uomini, ma anche di quelle delle persone che ci sono più vicine. Mangiando carne si corre dunque il rischio di nutrirsi senza saperlo delle carni dei propri cari, esattamente come era successo a Tieste.® Manca solo un ulteriore passaggio perché da questo modo di concepire l’alimentazione carnea si passi a vedere in essa una sorta di atto di autofagia. 64. Cfr. Bòmer 1986, p. 282 ad v. 88. Sulla presenza insistente di questi stilemi nel poema cfr. Barkan 1986, pp. 91 s. 65. Su questi versi ovidiani cfr. anche le osservazioni di Petrone 1996, pp. 81-84.

Viscera exedi mea: il corpo del padre

SI

Sua viscera: padri e figli Dopo questo lungo percorso possiamo finalmente tornare ai passi ovidiani in cui i figli vengono detti sua viscera: ma non più in quanto, come in precedenza, «viscere della propria madre», bensì in quanto «viscere del proprio padre». La continuità che avevamo visto prima, concretamente, fra le viscere materne e il corpo dei figli adesso si complica di una nuova dimensione: i figli vengono visti come la continuazione del corpo paterno. Stavolta la costruzione culturale dell’espressione appare più artificiosa: fra il corpo del padre e quello dei figli si frappone il corpo della madre, eppure l’immagine della continuità corporea funziona ugualmente.

Il brano più interessante che le Metamorfosi che abbiamo già che si nutre appunto della carne tata come «la sua stessa carne». senta in altri due casi lo stesso uso

ci testimonia questo uso è quello delconsiderato (6.651): riguarda Tereo del proprio figlio, che viene presenOltre a questo brano Ovidio ci prelinguistico. Il primo viene dal V libro

del poema (vv. 18 s.), dove Cefeo descrive il mostro che avrebbe dovu-

to divorare la propria figlia Andromeda: Sed quae visceribus veniebat belua ponti exsaturanda meis.

Il corpo di Andromeda, destinato a nutrire una bestia mostruosa, viene definito come «carne» del padre stesso che lo ha generato. Come si vede, queste parole richiamano molto da vicino le parole usate da Canace nelle Heroides:9 un padre parla del corpo filiale nello stesso modo di una madre. Più complesso e pregnante è un altro uso ovidiano, in uno dei passi più torbidi dell’opera. Siamo nel momento in cui Mirra riesce a realizzare il suo desiderio di unirsi al padre Cinira. La nutrice l’ha appena consegnata, nell’oscurità, all’uomo, che non si rende conto dell’identità della ragazza (Met. 10.462-468): Cunctantem longaeva manu deducit et alto admotam lecto cum traderet ‘accipe’ dixit, ‘ista tua est, Cinyra’ devotaque corpora iunxit. Accipit obsceno genitor sua viscera lecto virgineosque metus levat hortaturque timentem. Forsitan aetatis quoque nomine ‘filia’ dixit, dixit et illa ‘pater’, sceleri ne nomina desint.

Come si vede, la pregnanza dell’espressione qui è intimamente legata alla natura estrema della colpa: il corto circuito antropologico costi66. Cfr. Epist. 11. 89 s. e 117 s. e supra, p. 89.

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tuito dall’incesto viene riprodotto con la circolarità dell’immagine di un padre che quasi sdoppia il proprio corpo in un’unione contro natura. È come se Cinira si unisse a se stesso, con un gesto analogo a quello di Tereo che mangia le proprie carni. Quest’immagine prediletta da Ovidio conosce un’ulteriore estensione metaforica in un celebre passo dei Tristia. Il poeta esiliato si rivolge a chi mantiene ancora vivo il suo ricordo e conserva una sua immagine (1.7.11-20): Grata tua est pietas, sed carmina maior imago sunt mea, quae mando qualiacumque legas, carmina mutatas hominum dicentia formas, infelix domini quod fuga rupit opus. Haec ego discedens, sicut bene multa meorum, ipse mea posui maestus in igne manu. Utque cremasse suum fertur sub stipite natum Thestias et melior matre fuisse soror,

sic ego non meritos mecum peritura libellos imposui rapidis viscera nostra rogis.

Ovidio sembra voler citare se stesso con civetteria: come l’Altea delle sue Metamorfosi,” anche lui, padre dei propri scritti, ha consegnato al rogo le sue stesse viscere.?* Anche in questo caso possiamo dire che un padre (metaforico) parla dei propri figli usando la stessa espressione che la madre di Meleagro usava al momento di bruciare (metonimicamente) la vita di suo figlio. Non è l’unico caso in cui la metafora compare nel corpus ovidiano.

Che Ovidio si considerasse “padre” dei propri versi lo vediamo in un altro passo dei Tristia (3.14.13-16): Palladis exemplo de me sine matre creata carmina sunt; stirps haec progeniesque mea est.

Haec tibi? commendo, quae quo magis orba parente est, hoc tibi tutori sarcina maior erit.

A conclusione di questa galleria di passi, possiamo dire che l’immagine ovidiana dei sua viscera si presenta in modo sostanzialmente analogo, sia che venga riferita a un padre sia che venga riferita a una madre. Che sia proprio o figurato il senso di questo rapporto di filiazione, fra il corpo dei genitori e quello dei figli si stabilisce una conti67. Cfr. Ov., Met. 8.478 (rogus iste cremet mea viscera).

68. Gli scritti di un poeta sono le sue stesse membra: l’immagine è frequente; basti ricordare il celebre disiecti membra poetae di Hor., Sat. 1.4.62. In Ovidio cfr. ancora Trist. 3.1.65 s. e Luck 1977, II, p. 170 ad loc. 69. Il destinatario è forse Gaio Giulio Igino, il liberto che dirigeva la biblioteca palatina (cfr. Luck 1977, II, p. 227).

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nuità, una comunione di sostanza. Questa sostanza viene preferibilmente chiamata col termine che in genere indica la parte più intima e più vitale del corpo: viscera.

Dopo Ovidio La metafora delle “viscere” conosce una qualche fortuna dopo Ovidio ma, ripeto, nessun autore ne ha fatto un uso così insistito e coerente come il poeta delle Metamorfosi. Nel suo commento al sesto libro Bémer?® cita diversi passi che illustrano bene la fortuna di questa immagine. Ad esempio nelle Historiae Alexandri Magni (4.14.22) Curzio Rufo fa pronunciare a Dario un appello patetico ai suoi soldati perché lo aiutino a liberare dalla prigionia sua madre e le sue due figlie: Eripite viscera mea ex vinculis.?! E ancora Valerio Massimo, nei sui Dictorum ac factorum memorabilium libri (7.6.ext.3) descrive il pasto cannibalesco degli assediati di Calagurris con espressioni simili a quelle che abbiamo incontrato in precedenza (viscera sua visceribus suis aleret).?? E si potrebbe ancora riportare un certo numero di analoghe espressioni tratte da opere di età imperiale, come quelle che si possono ricavare dalle opere quintilianee e pseudo-quintilianee.?? Ma non si tratta comunque di un numero molto cospicuo di passi.”* Si può invece dire che abbiamo a che fare con un’espressione metaforica e con un motivo letterario che hanno una fortuna decisamente ristretta, fuori dal testo ovidiano.

70. Bòmer 1976, pp. 173 s. 71. Cfr. anche 6.9.19 (riferimento agli amici di Alessandro). 72. A proposito di questo particolare dell’assedio di Calagurris si può cfr. anche Iuv. 15.99-103: Post omnis herbas, post cuncta animalia, quidquid/ cogebat vacui ventris furor, hostibus ipsis/ pallorem ac maciem et tenuis miserantibus artus,/ membra aliena fame lacerabant, esse parati/ et

sua. 73. Quint., Inst. Or. 6.pr.3 (detto del figlio morto consegnato al rogo: consumpturis viscera mea flammis); [Quint.], decl. min. 307.6 (detto di un amico: meos artus mea lacerari viscera putabam, cfr. supra, n. 24); 338.19 (filium matri eripere conaris et partem viscerum avellis [...}); decl. mai. 18.15 (filium consumpsisti per flagella, per laminas |...) viscera de tuis concepta vitalibus, sanguinem, qui de tua fluxit anima |...] consilio, gravitate lacerasti). 74. Fra i casi più interessanti, ai fini del nostro discorso, va ricordato Apul., Met. 8.22, dove si parla della tragedia di una schiava, che si vendica del

proprio marito (colpevole di adulterio con una donna libera) bruciando il granaio di cui egli è amministratore, e poi suicidandosi insieme al figlioletto: nec tali damno

tori sui contumeliam

vindicasse contenta, iam contra sua saeviens

viscera laqueum sibi nectit infantulumque, quem de eodem marito iam dudum susceperat, eodem funiculo nectit seque per altissimum puteum adpendicem parvolum trahens praecipitat.

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Capitolo II

Fra gli autori successivi, il solo che mostra una certa predilezione per quest'immagine, come ho detto,” è Seneca tragico, che la usa tre volte in contesto “tiesteo”: due nel Thyestes (vv. 278 e 779),7 una nel prologo dell’Agamemnon (27).7? A questi passi, che ho già commentato in precedenza, si può aggiungere un altro caso dubbio,” che compare proprio nella Medea, ed esattamente nel prologo, dove in termini confusi l’eroina esorta il proprio animo a tentare un delitto capace di vendicarla dei torti subiti (40-43): Per viscera ipsa quaere supplicio viam,

si vivis, anime, si quid antiqui tibi remanet vigoris; pelle femineos metus et inhospitalem Caucasum mente indue.

A una prima lettura, sembrerebbe di capire che Medea dica a se stessa «cerca dentro di te» la vendetta. Ma a me pare piuttosto probabile che qui debba essere letto un oscuro riferimento al progetto che prenderà corpo solo gradatamente nel corso della tragedia.”? Parlando di viscera, Seneca può così obliquamente alludere proprio a quei figli che Medea sacrificherà alla fine della tragedia, e che ogni spettatore sapeva essere il bersaglio inevitabile del suo delitto finale. Anche in un’espressione del genere è dunque possibile intravedere la solita riproposizione di continuità fra il corpo della madre e quello della sua prole.8°

Tereo e Tieste

Il quadro che ho disegnato costituisce un contesto abbastanza ampio (sebbene limitato sostanzialmente all’opera di Ovidio e Seneca) per com-

prendere il significato delle immagini con cui viene presentato il pasto cannibalesco tramite il quale Atreo e Procne si vendicano, rispettivamente, di Tieste e Tereo. Del resto non è inverosimile che si debba riven75, Cfr supra,n29. 6 Cir. suprap.i76./e082. 77. Cfr. supra, p. 85. 78. Va anche segnalato H.O.

1894-1898:

Date, Bistoniae, verbera, ma-

tres! gelidusque sonet planctibus Hebrus:/ flete Alciden, quod non stabulis/ nascitur infans/ nec vestra greges viscera carpunt (riferimento ai cavalli antropofa-

gi di Diomede tracio). 79. Così anche Zwierlein 1986, p. 135. 80. Si ricordi, fra l’altro, che alla fine della tragedia l’eroina dichiara di voler cancellare ogni possibile traccia della sua unione con Giasone; se necessario liberando il suo stesso utero di un feto che vi fosse ospitato (vv. 1012 s.): In matre si quod pignus etiamnunc latet/ scrutabor ense viscera et ferro extrabam, (qui viscera indica il ventre materno, secondo un uso che abbiamo commentato in precedenza: cfr. supra, pp. 90 s.). Su questo passo cfr. infra, p. 135.

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dicare proprio alla fantasia di Ovidio l’invenzione del motivo dei sua viscera di cui ci stiamo occupando.#! Nonostante la ristrettezza del campo letterario che mi sono ritagliato, si tratta ora di chiedersi quale sia, se c’è, il fondamento antro-

pologico di queste immagini, di quest’idea della continuità, del prolungamento del corpo dei genitori nel corpo dei figli. Un fondamento che, evidentemente, dev’essere anche alla base del rapporto intertestuale fra la tragedia senecana e il suo modello ovidiano. Si può ripartire dalla domanda che mi ero posto all’inizio: perché per vendicarsi di un uomo i protagonisti di queste storie si accaniscono contro la sua prole? Una risposta la dànno già i risultati della precedente rassegna di passi: perché in realtà i corpi dei figli non sono altro che il prolungamento dei corpi dei genitori. Se la cosa risulta particolarmente chiara sul piano fisico, nel caso del contatto immediato che si può immaginare fra le «viscere» della madre e il corpo del figlio che da esse è uscito, c’è ancora da superare il piccolo vuoto che si determina fra il corpo del figlio e quello del padre. In realtà si tratta di un vuoto davvero minimo: per rendersene conto basta pensare alla molla che in Ovidio fa scattare il piano di vendetta di Procne, cioè alla somiglianza fra il padre e il figlio. Come abbiamo visto nel primo capitolo,* questo è uno dei temi su cui la cultura nobiliare romana (e non solo quella romana) insisteva maggiormente nella rappresentazione dei meccanismi di discendenza. I figli, quando sono simili ai padri e agli antenati, quando riproducono nel proprio corpo i tratti di chi li ha preceduti nella cordata patrilineare, garantiscono la corretta continuità della stirpe. In questa propagazione di un minimo comun denominatore fisico hanno una grande rilevanza alcuni elementi corporei di forte richiamo simbolico sull’immaginario: primo fra tutti il sangue che, ben al di qua delle formulazioni scientifiche date dagli antichi ai processi embriologici, veniva immaginato come elemento comune fra le generazioni.8 81. In mancanza di uno studio complessivo sulla storia di questo stilema, si sono registrate in passato opinioni imprecise sulle sue possibili origini e sulla sua evoluzione. Ortega 1970, p. 221 s. e n. 14 riteneva che Ovidio si rifacesse a usi linguistici diffusi, senza però portare alcun argomento a sostegno di questa ipotesi. Un fine ed esperto conoscitore di Ovidio come Rosati 1983, p. 156 (a

proposito di Met. 6.651), afferma: «la figura retorica che fa comunemente dei figli le “viscere” dei gènitori permette a Ovidio il concettismo (di cui abuserà Seneca tragico) delle ‘viscere nelle viscere’, il quale traduce nell’espressione ingegnosa l'orrore che Tereo sta inconsapevolmente compiendo». In realtà quest’immagine, che effettivamente si è tentati di ritenere peculiare di un’atmosfera tragica senecana, ha la sua più vera radice proprio in formule ovidiane, e ad abusarne è Ovidio stesso, non Seneca.

82. Cfr. supra, pp. 63-65. 83. Cfr. Guastella 1985, pp. 65-97, Pomata 1994, pp. 307-312.

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Capitolo II

Ora, in una cultura a forte impronta patrilineare come quella romana, il “sangue” determinante era quello paterno: e difatti, almeno fino all’inizio dell’epoca imperiale, è sulla comunanza di sangue fra padri e figli (e non fra madri e figli) che si concentra l’attenzione quando si vuole sottolineare la continuità della stirpe all’interno di una famiglia. Queste opinioni erano sostenute anche da teorie “scientifiche” (come quella aristotelica) che, tramite l’ipotesi emogenetica del seme,** riconducevano allo sperma maschile la vera origine della vita, attribuendo al “seme” o ad altre sostanze generative femminili soltanto la funzione di fornire la materia che il seme dell’uomo doveva plasmare.8 Questo genere di concezione mostra significative analogie funzionali con altre credenze relative alla generazione dei figli: credenze secondo cui la donna associava il proprio sangue a quello del marito, ma realizzava nel modo migliore la sua funzione riproduttiva quando il suo apporto fisico alla generazione non influiva sull’aspetto fisico del bambino; quando cioè il suo corpo non interferiva con la trasmissione delle caratteristiche maschili fra una generazione e l’altra. Se le teorie “scientifiche” attribuivano la migliore realizzazione possibile della filiazione alla generazione di un figlio maschio somigliante al padre, le credenze diffuse8? sembrano aver seguito lo stesso percorso: e verosimilmente hanno disegnato la via su cui poi si sono incamminate anche le teorie scientifiche. Ovviamente non bisogna esagerare nel considerare i modelli culturali romani come esclusivamente orientati verso una dimensione patrilineare: basta aprire il quarto libro di Lucrezio o il settimo libro di Plinio (capp. 50-56) per vedere quanto il problema delle possibili somiglianze intrigasse già gli autori antichi, che si mostrano interessati a studiare i possibili incroci delle influenze materne e paterne sui tratti della discendenza.#” E tuttavia non c’è dubbio che alla concezione patrilineare della discendenza si ispirasse il modo più comune di rap84. Cfr. Lesky 1950, pp. 1344-1417, Pomata 1994, pp. 312-320. 85. In genere, tutte le teorie embriologiche antiche tendono a sopravvalutare l'apporto paterno: persino quelle che ammettono l’esistenza del seme femminile (Corpus hippocraticum, De genitura e Galeno, De usu partium e De semine) finiscono per attribuire un peso decisamente superiore all’apporto maschile (cfr. Blayney 1986, pp. 234-236); e in questo concordano con un modo di concepire la filiazione verosimilmente assai diffuso. In genere, su questi problemi, cfr. le brevi rassegne di Blayney 1986 e Brown 1987, pp. 320-323, i cui dati risalgono comunque alla monografia della Lesky 1950 (importanti correzioni allo studio della Lesky sono state apportate recentemente, in particolare, da Jouanna 1992 e Thivel 1996). 86. Su queste credenze diffuse cfr. quanto abbiamo già detto supra, pp.

60-67. 87. Cfr. Lucr. 4. 1209-1232 e Plin., N. H. 7.48-56. Su questi passi cfr. Brown

1987, pp. 320-336 e Bettini 1992, pp. 219-231.

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presentare la “normale” generazione di una prole legittima. Se dunque fra la madre e il figlio c’è una continuità, per così dire, materiale, di contatto, fra padre e figlio la cultura antica postulava una continuità sostanziale, che era forse ritenuta più rilevante e profonda: il figlio veniva di conseguenza ritenuto come la “vera” prosecuzione del corpo paterno; quel corpo che si riteneva desse il contributo principale e più autentico alla sua generazione.

Medea e Procne

Come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, Catullo si augurava di vedere sul volto del piccolo Torquato gli stessi tratti del volto paterno. Ma quello che nel carme catulliano è un augurio, in Ovidio diventa una condanna per Itys, il bambino di Procne. E come abbiamo visto, anche nel caso dei figli di Medea l’elemento della somiglianza è sottolineato con particolare enfasi.* Infatti essere simile al padre significa testimoniare la continuità della stirpe, la proiezione del corpo paterno in un futuro che non è più solo personale ma è anche familiare. Di conseguenza, colpire i figli di un uomo rappresenta una forma di vendetta che concretamente danneggia il padre in quella parte di sé che va persino oltre la sua esistenza individuale. Oltre a questo effetto, però, le vendette di Medea e Procne ne hanno in comune anche un altro. Ovidio non manca di sottolinearlo in modo esplicito, in un passo degli Amores, in una delle frequenti tirate contro l’aborto, in cui il poeta fa riferimento fra l’altro alle due eroine del mito (2.14.29-32):

Colchida respersam puerorum sanguine culpant, atque sua caesum matre queruntur Ityn:

utraque saeva parens, sed tristibus utraque causis iactura socii sanguinis ulta virum.

Il riferimento al socius sanguis, il sangue degli sposi che si è unito nel corpo dei loro figli, ci riporta al modello che abbiamo appena illustrato: la soppressione di questo elemento comune della coppia coniugale comporta anche la dissoluzione di quella che gli antichi consideravano come la concretizzazione materiale dell’unione, senza la quale il matrimonio non si poteva neanche dire realizzato a tutti gli effetti. 88. Cfr. supra, p. 82. Cfr. anche Jacobson 1974, p. 122 e Larmour 1990,

p. 133.

89. Cfr. il già citato Rem. 59 s.: nec dolor armasset contra sua viscera matrem/ quae socii damno sanguinis ulta virum est. Sul significato dell’espressione socius sanguis cfr. Guastella 1985, pp. 91-93. 90. Cfr. supra, pp. 82-84 e infra, pp. 123 s. e 129.

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Capitolo II

Tanto Medea quanto Procne puniscono i propri mariti colpendo anche se stesse: ma così facendo riescono anche a troncare ogni vincolo che le lega a un compagno ormai odiato. Infatti le due eroine, che sono state

offese dalla colpa sessuale di un coniuge che ha danneggiato la loro famiglia di origine, cancellano il frutto del proprio ruolo di coniugi/madri perché vedono nel corpo dei propri figli la materia (legata anche al loro corpo) su cui si prolunga (come rivela la somiglianza) una “persona” fisica con cui hanno deciso di troncare ogni rapporto.”

Atreo

Possiamo infine tornare al Thyestes, che ci presenta un caso abbastanza diverso rispetto a quello di Procne e Medea. Atreo non è ovviamente implicato in modo diretto nella generazione della discendenza di Tieste, e tuttavia anche lui rischia di “avere in comune” i figli col fratello, a causa dell’adulterio che costui ha commesso con Aerope. Come ho detto, la strategia di Atreo è duplice: da un lato egli riassocia a sé i propri figli, ristabilendo l’ordine nella propria famiglia; dall’altro distrugge la discendenza del fratello. Facendo questo, a differenza di Procne e Medea, Atreo non distrugge il rapporto che lo lega al fratello, e ovviamente non subisce alcun danno per il sacrificio dei nipoti. Atreo punisce Tieste proprio in ciò che fa di lui un padre sicuro,” 92 che può aspirare a prolungare la sua esistenza in quella dei figli. Non è un caso che, quando Tieste e i tre figli compaiono sulla scena, Atreo parli di loro come se fossero una sola cosa (è un brano che abbiamo già considerato, vv. 494 s.):? Venit in nostras manus

tandem Thyestes, venit, et totus quidem.

L’immagine del padre che fa «tutt'uno» coi sui figli comincia a delinearsi, ma in una luce decisamente tetra. Poco prima, con un effetto di terribile ironia tragica, Tantalo, il figlio di Tieste, aveva detto al 91. Diverso è invece il caso di un’eroina come Altea, che è stata danneggiata direttamente dal figlio, e dunque vendica la propria famiglia d’origine rivolgendosi contro la persona di Meleagro. Tutte e tre le donne, comunque, privilegiano i ruoli parentali della propria famiglia d’origine rispetto a quelli conseguenti alle loro unioni matrimoniali. Sulle analogie fra queste tre storie cfr. anche Ciappi 1998, pp. 447-450. 92. Basterebbe considerare i versi finali (Thy. 1100-1102): TH. Quid liberi meruere? AT. Quod fuerant tui.! TH. Natos parenti — AT. Fateor, et, quod me iuvat,/ certos.

93. Cfr. supra, pp. 70 s.

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padre, nel tentativo di convincerlo ad accettare le proposte di riconciliazione di Atreo (vv. 431-433): Ira frater abiecta redit partemque regni reddit et lacerae domus componit artus teque restituit tibi.

Nell’illusione del ragazzo, la casa sconvolta dalla lite dei fratelli viene finalmente «rimessa in ordine», grazie alla riconciliazione, e Tieste sta per ritornare ad occupare il posto che gli spetta. In realtà Atreo non farà nulla di tutto questo: e semmai il suo intento è quello di disporre i lacerae domusl...artus in una combinazione mostruosa, che radicalizza l’immagine del totus quidem: l’unione dei corpi di padre e figli si realizzerà infatti materialmente nel ventre di Tieste. Invece di un padre che ha generato una prole legittima e si è anche introdotto in una discendenza che non è la sua, Tieste si troverà ad essere,

alla fine della tragedia, privo di ogni forma di discendenza: sarà addirittura il sepolcro dei propri figli. Non a caso proprio questo motivo del “padre tomba dei figli” viene straordinariamente sviluppato da Seneca nel finale della tragedia. Nella climax di orrore che sale sotto i nostri occhi, via via che Atreo svela una per una le tappe del proprio delitto al fratello ignaro, la preoccupazione della sepoltura scandisce i gradi del dramma. Dapprima Atreo scopre le teste e le mani dei figli di Tieste e questi, quasi senza altri commenti, si affretta a chiedere (vv. 1025-1034): Sic odia ponis? Non peto, incolumis pater natos ut habeam; scelere quod salvo dari odioque possit, frater hoc fratrem rogo: sepelire liceat. Redde quod cernas statim uri; nihil te genitor babiturus rogo, sed perditurus. AT. Quidquid e natis tuis superest habes, quodcumque non superest babes. TH. Utrumne saevis pabulum alitibus iacent, an beluis servantur, an pascunt feras? AT. Epulatus ipse es impia natos dape.

La rivelazione del pasto cannibalesco arriva in forma di risposta all’ansiosa preoccupazione del padre che i corpi dei figli giacciano esposti ai morsi degli animali. È qui che Tieste scopre di essere lui la “bestia” che ha fatto scempio dei loro cadaveri insepolti. Seneca si lancia in un’ulteriore serie di variazioni su questo tema, che finiscono per sconfinare decisamente nell’eccesso (vv. 1041-1047): Volvuntur intus viscera et clusum nefas sine exitu luctatur et quaerit fugam: da, frater, ensem (sanguinis multum mei

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Capitolo II

habet ille): ferro liberis detur via.?* Negatur ensis? Pectora inliso sonent contusa planctu — sustine, infelix, manum,

parcamus umbris.

E non è finita: in un’elaboratissima invocazione finale al summus caeli rector Tieste torna sull’argomento, quando chiede di essere fulminato (vv. 1089-1092):

Me pete, trisulco flammeam telo facem per pectus hoc transmitte — si gnatos pater

humare et igni tradere extremo volo, ego sum cremandus.

Dunque, come Tereo, anche Tieste ha accumulato nelle proprie viscere le viscere dei suoi figli, di cui è diventato sepolcro. Come in un parto alla rovescia, il banchetto cannibalesco ha realizzato letteralmente l’immagine di Tieste ormai in trappola, et totus quidem. Facendola tornare nel luogo da cui aveva avuto origine, Atreo fa letteralmente “rimangiare” al fratello la sua discendenza: e in questo modo cancella un aspetto fondamentale della sua identità, la sua funzione di padre, la sua possibilità di proiettare una parte di sé nel futuro.” Sulla scena del dramma ovidiano e di quello senecano restano due padri gravati da un destino di solitudine radicale: custodi involontari, paradossali della morte del proprio domani.

94. Cfr. Ov., Met. 6.663 s. ([...] reserato pectore diras/ egerere inde dapes immersaque viscera gestit).

95. Si tratta di una lettura del significato attribuibile al pasto di Tieste che già in passato è stata rielaborata in varie forme. Nella sua riscrittura della vicenda di Tereo, ad esempio, Gregorio Correr (cfr. infra, pp. 209-233), oltre a usare le solite immagini autoriflessive (viscera exedat sua, v. 762; sanguinem bibet suum, v. 785; viscera edisti tua, v. 941) fa pronunciare a Progne una formula

che assimila esplicitamente il gesto cannibalesco a un ritorno dei figli dentro il corpo del loro genitore (vv. 761 s.: quod tamen venter tulit/ redeat in patrem, nil sit ex illo meum: cfr. la traduzione di Lodovico Domenichi, vv. 1258-1260:

«Ma però quel che sol portò il mio corpo/ voglio che al padre rio nel corpo torni:/ et non vo’ nulla aver che sia di lui»).

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CAPITOLO

II

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

Se ci si addentra con pazienza e curiosità fra le pieghe delle motivazioni che muovono i delitti della Medea messa in scena dagli antichi si vede subito che per comprendere pienamente il senso di questa vicenda non è possibile accontentarsi di ragionare con categorie moderne; attribuendo alla fanciulla innamorata, alla maga della Colchide o alla madre angosciata passioni e ragionamenti che appartengono alla nostra cultura o a mondi culturali vicini al nostro. Sebbene la Medea di Furipide o quella di Seneca ci appaiano ancora come vicende dai contorni assai chiaramente delineati! e in apparenza facili da cogliere anche con i nostri mezzi, una lettura che parta dalla realtà antropologica delle società antiche è capace di mettere in evidenza come alla base della condotta di Medea ci sia una trama di forti condizionamenti culturali, che è assai più complessa di quanto si possa pensare. Questa trama si rivela, prevedibilmente, piuttosto diversa in drammi come quello di Euripide e quello di Seneca: e non solo per ragioni di semplici scelte letterarie. Con ogni probabilità era il diverso contesto culturale a richiedere una differente declinazione del mito, che ne rendesse più efficace la portata emotiva sul pubblico. Vorrei proporre, in questa prospettiva, una serie di semplici riflessioni sull’intreccio della tragedia senecana, mostrando, anche tramite il confronto con il testo delle Heroides ovidiane, come la diversità di impostazione della stessa trama rispetto al “modello” euripideo? sia 1. Cfr. Easterling 1977, p. 180: «Like other dramatists in other plays Euripides permits himself a certain vagueness in legal matters, relying on the fact that the story is set in the heroic age, not in fifth-century Athens, however strongly the social comment may strike us as contemporary. This is one of those questions which in real life would be crucially important, but which it suits a dramatist to suppress. The essential situation is perfectly clear-cut». 2. Ovviamente parlo di modello in una prospettiva che riguarda noi lettori moderni, e non gli spettatori (e forse nemmeno i lettori) antichi. Il modello lette-

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in stretta relazione con il variare degli elementi antropologici messi in gioco. Credo infatti che questo genere*di considerazioni costituisca una premessa indispensabile a una corretta ricostruzione della storia letteraria dei miti antichi. Mi concentrerò su un elemento particolare: le conseguenze che nello sviluppo dell’intreccio senecano comporta il destino dei figli dopo il divorzio dei genitori. Esporre l’intreccio di una tragedia significa sempre proporre un taglio interpretativo nuovo a opere che continuano ad essere al centro di infinite discussioni. La mia breve lettura della tragedia di Euripide e di quella di Seneca si concentrerà soprattutto sul quadro parentale che si prospetta attorno alla separazione fra Medea e Giasone.® La prospettiva di riferimento che vorrei assumere è pressappoco que-

sta: come avrebbero considerato la situazione che si trovavano davanti, rispettivamente, un ateniese del V secolo a. C. o un romano del I sec. d. C.? Cosa della propria condizione antropologica potevano proiettare sulla vicenda cui assistevano? I. EURIPIDE

La Medea di Euripide: l’intreccio Cominciamo da Euripide. La casa di Giasone non esiste più:* l’uomo l’ha abbandonata per entrare in un’altra famiglia in cui, a sentir lui, potrebbero trovar posto anche la sua vecchia compagna e i suoi figli. Per Medea, la straniera abbandonata, è questione di accettare questa nuova situazione oppure no. È qui comincia appunto l’intreccio euripideo.

Medea non accetta, e il suo rifiuto si configura come l’apertura di una situazione di ostilità (&x0pa) fra lei e Giasone. Tutta la tragedia è attraversata dalla tensione fra ostilità e “amicizia” (&xOpa e dia), secondo un modulo ben noto nel codice eroico greco. L’inimicizia è causata dal rario, per un autore come Seneca, doveva essere verosimilmente più la Medea di Ovidio che quella di Euripide. Per quanto riguarda l’epistola 12 delle Heroides di Ovidio, cfr. le giuste osservazioni di Jacobson 1974, pp. 109 s. 3. Nella mia esposizione dovrò mettere in forte risalto alcuni elementi che hanno apparentemente una valenza giuridica. Ma non è affatto mia intenzione ricercare esatte corrispondenze fra la situazione delineata nei testi e quella che è possibile ricostruire per le società antiche, come esortano a non fare le giuste osservazioni della Easterling 1977, p. 180 (cit. supra, n. 1). Un chiaro e accettabile inquadramento della vicenda dal punto di vista che ci interessa si trova in Ogden 1996, pp. 194-196. Molti spunti erano stati colti correttamente nell’articolo ingiustamente trascurato di Palmer 1957. 4. Cfr. 139: oùk eloì déuor dpodda Tad’ dn. S. Basterebbe considerare il v. 16: vòv 3’ &xBpà taAvTa Kai voorì tà dia tata. La questione, finora, è stata considerata solo nell’ottica del modello «help your friends and harm your enemies», tipico dell’ideologia eroica: basti ricordare le cele-

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Capitolo III

significato del gesto compiuto dall’uomo, ma è dichiarata dal rifiuto opposto dalla donna all’ipotesi di accettare la nuova situazione. Sulla constatazione di questo dato di fatto si concentra il riassunto della trama che i manoscritti fanno risalire all’autorità di Aristofane di Bisanzio: Mndeia dla Thv mpòc Igoova ExBpav tò Ekeîvov yeyaunkévai thv Kpéovtoc Ovyatépa amgkterve uèv TAavknv kai Kpéovta kai Toùc Idiovo viovc, exwWpiodn d' Idoovog Alyeì ovvorkrjoovoa. Nell’ottica che mi interessa, si tratta del più efficace e sintetico rias-

sunto della vicenda che io conosca. Gli elementi individuati sono i seguenti: nuove nozze che scatenano l’inimicizia, uccisione dei nemici e dei figli, separazione da Giasone e nuova unione con Egeo. L’accento sull’inimicizia sembra molto utile per leggere la tragedia: è questo lo spazio in cui Medea fa le sue scelte, prendendo ancora una volta lei, secondo le sue regole, la decisione di lasciare Giasone, e di lasciar-

lo completamente solo; rovesciando su di lui, con la propria vendetta, quella condizione di completo isolamento e solitudine in cui l’iniziativa del coniuge l’aveva per un momento fatta precipitare. Alla fine, dei due sarà Medea che conclude un nuovo matrimonio presso un re, con la speranza di avere nuovi figli, mentre Giasone viene abbandonato sulla scena di Corinto, ormai privo delle nozze regali che si era procurato e annientato dalla sua condizione di padre senza discendenza (àa1c), che non ha più prospettive per il futuro. Come si può definire l’unione fra Giasone e Medea? Se si prova ad assumere un’ottica compatibile con le leggi attiche dell’epoca euripidea, nessuna formula sembra adeguata. Innanzitutto, il matrimonio bri pagine di Knox 1977 al proposito (fra i molti che hanno seguito questa impostazione cfr. soprattutto Easterling 1977, pp. 185-187 e Schein 1990). Ma la terminologia che contrappone &xBpa e piXia era ovviamente tipica anche del linguaggio adoperato in occasione di divorzi non consensuali. Si consideri ad esempio Antifonte fr. 131 Blass: yxaAerai uv èkmToutai, Todg pix ove ExApodc Tocai, Toa ppovodvtac, Toa Ttvéovtag [...].. A differenza di quanto sostiene Schein 1990, p. 59, a me non sembra che Medea confonda per tutta la tragedia le categorie di «caro» (piXoc) e «ostile» (&x0p6c): mi sembra, al contrario, che esse vengano usate con grande coerenza per tutto l’arco del dramma, seguendo esattamente l’evoluzione del rapporto fra Medea e Giasone. Il fatto che l’uccisione dei figli sia in contrasto con i principi della piXia dipende dalla contraddittorietà della situazione di Medea, non da una sua manipolazione della realtà e dei valori. Tant'è vero che nel contrasto finale con Giasone (v. 1397) la donna può ribattere a Giasone, il quale definisce i propri figli piXtata, dicendo: untpi ye, coi è’ où. In questa prospettiva si può comunque condividere la sintetica conclusione di Schein 1990, p. 68: «[...] Medea consciously killed those who were philoi in order to hurt Jason, a philos whom she hated»; ma va sempre tenuto presente, con Easterling 1977, p. 187, che «Indeed she thinks she is being loyal to her dear ones [...]» e che il suo è un «heroic language which a psychologist would probably describe as an ‘altruistic’ and ‘protective’ rationalization of the child murder».

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca) .

i Itclail

fra i due non è un’unione regolare, perché non c’è mai stata promessa di matrimonio paragonabile a quella che era consueta nella società ateniese del tempo (èyy6én) né pagamento di dote: Medea non è stata scambiata fra due famiglie che stabilivano un’alleanza fra di loro. Anzi, la sua scelta di seguire Giasone ha coinciso con il tradimento della sua stessa famiglia.” Fin dall’inizio Medea è presentata come una donna isolata,5 la cui disgrazia consiste in buona parte nell’essere priva di quel legame con la famiglia paterna alla quale, in un momento di crisi come quello che attraversa durante il dramma, qualsiasi donna avrebbe fatto ricorso per ottenerne sostegno. Euripide glissa sui termini di questa insolita unione coniugale: e anche le varie versioni del mito sono in genere piuttosto ambigue sulla natura di questo legame. Per quanto la natura stessa del matrimonio in Grecia appaia ai nostri occhi alquanto sfuggente,’ bisogna dire che nel caso in questione i contorni di queste nozze si fanno decisamente oscuri. Il più delle volte si dà per scontata l’unione, senza scendere nei dettagli della sua realizzazione.!° Basta il fatto che Giasone porti via con sé la vergine figlia di Feta perché la loro relazione acquisti i tratti di un legame matrimoniale.!! Solo la na6. Cfr. Gernet 1953, pp. 112-120 e Vérilhac-Vial 1998, pp. 125-279. 7. Su questo punto cfr. soprattutto Visser 1986, pp.151 s. 8. Su questo aspetto cfr. McDermott 1989, pp. 43-45 e Menu 1996, pp. 116122, che insiste sulle privazioni di Medea, concludendo (p. 121): «Euripide situe Médée en quelque sorte comme le prototype de “l’héroîne tragique à l’alpha privatif”»: una prospettiva che verrà sviluppata poi, a modo suo, da Seneca. 9. Cfr. Harrison 1968, pp. 1 s. e Vérilhac-Vial 1998, pp. 9 s. In particolare, a proposito del contesto tragico, cfr. Seaford 1987, pp. 106 s. 10. Del resto, il fatto che la stessa Medea si lanci nel celebre monologo sulla condizione delle donne (cfr. in partic. vv. 225-266) mostra chiaramente che il personaggio è quello di una donna sposata, che chiama il suo compagno 6016 (v. 229). Tuttavia èproprio Medea a contrapporre la sua unione a quella delle donne corinzie (vv. 252-258): loro hanno una patria, una famiglia d’ origine e un gruppo di diXor che le proteggono: lei invece è épnuog drroMic [...] èk yîîc Bapfapov

\MeAnouévn. Cfr. Palmer 1957, pp. S1 s. 11. Solo raramente disponiamo di qualche dettaglio, che però non sembra mai indirizzare verso alcuna forma di regolarità. In Apollonio Rodio, ad esempio, Giasone promette a Medea di sposarla al suo arrivo a Iolco: ma è poi costretto a unirsi a lei in tutta fretta, sotto la spinta della necessità, nella terra di Alcinoo, celebrando un trepido imeneo, a cui vengono chiamati come testimoni i compagni armati, che

fanno anche da sentinelle contro un possibile attacco dei Colchi che li stanno inseguendo: cfr. Apoll. Rhod,, 4. 1128-1200 (in part. vv. 1153-1169 e soprattutto 1164, T6T' ad xpeò riye ufivai). Questa unione sommaria, finalizzata sostanzialmente a certificare la perdita della verginità (tapevia) da parte di Medea, non assomiglia affatto a una libera scelta, e non avviene certo sotto i migliori auspici. In seguito non si assiste a nessuna ulteriore ratifica di quest’unione nella terra di Giasone. Analogaè la versione dello pseudo-Apollodoro, Bibl. 1.25 (dove Arete, moglie di Alcinoo, sembra avere un ruolo appena un po” più attivo). Più rozza la versione di Igino, Fab. XXIII.2 s. (Medeam noctu in antro devirginavit [scil. Iason]).

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scita dei due figli rappresenta nel modo più concreto la solidità del rapporto." Anche lo statuto sociologico dei figli è irregolare come quello dell’unione da cui sono stati generati. Privi di una vera e propria stirpe paterna e di un gruppo di parentela (Gyxioteia) radicato nella città, questi bambini appaiono come figure decisamente vicine alla condizione di bastardi (v6001) che si trovino nell’impossibilità di percorrere tutte le tappe necessarie per inserirsi correttamente nel tessuto sociale. E anche se lo spettatore ateniese avesse assimilato la situazione di Giasone alla propria (sottovalutando così la condizione di straniero o meteco che l’eroe avrebbe dovuto avere in terra di Corinto)," i suoi figli avrebbero dovuto essere considerati stranieri per via della loro madre (untpétevo1);'4 e dunque

bastardi e tendenzialmente legati al gruppo di discendenza materno.! Il letto di Medea

Dunque nella tragedia di Euripide Medea non si rifà a un referente giuridico, a un contratto a cui abbiano presenziato testimoni umani, ma invo-

ca due circostanze comunque assai impegnative: da una parte i meriti che

lei stessa ha acquisito nei confronti di Giasone, sostenendolo in tutte le sue imprese, dall’altra i giuramenti pronunciati da lui. Facendo appello a questi due elementi, Medea reclama ossessivamente i suoi diritti al rispetEsistono comunque versioni in cui i due si sposano a Iolco (a cominciare da Hes., Theog. 992-1002: cfr. Moreau 1994, pp. 45-48). Va poi anche ricordata l’arca di Cipselo (Paus. 5.18.3), dove compariva Medea seduta su un trono, insieme a Giasone e Afrodite, con l’epigramma Mnderav Iaowv yauter, xéXetat è’ Appodita. 12. Sull’irregolarità del matrimonio di Giasone e Medea cfr. Palmer 1957, pp. 51 s., Burnett 1973, pp. 13 s., Ogden 1996, pp. 194-196. 13. Lo ha sostenuto recentemente Ogden 1996, pp. 194-199, partendo dal fatto che l’intero confronto fra Giasone e Medea è impostato sul registro della contrapposizione fra origini barbare e cultura ellenica (cfr. anche Palmer 1957, pp. 50-2): ma sulla scarsa rilevanza di questa contrapposizione nell’intreccio euripideo cfr. anche Knox 1977, pp. 216-218. Cfr. anche infra, n. 17. 14. Per una definizione di untpétevoc cfr. Poll., Onom. 3.21: [...] v600g è’ Ò Èk Eévnc Î) taMAaxkidoc. Yr èviwv dì xaAeitai untpotevoc [...] (cfr. Harrison 1968, pp. 61-68). Già nella tradizione precedente ci dovevano essere tracce di questa particolare condizione di estraneità dei figli: si ricordi che lo scolio a Pind., Ol. 13.74, riportando una versione del mito probabilmente risalente ad Eumelo (in cui non si fa riferimento a Giasone), afferma che i figli di Medea, dopo la loro morte, venivano onorati dai Corinzi, che si rivolgevano a loro chiamandoli ugofapfapot. 15. Cfr. Erdmann 1934, pp. 372-375: la posizione sociale inferiore di figli come questi, in Attica, sarebbe dipesa dal fatto che non avrebbero potuto essere registrati in una fratria e che non avrebbero posseduto i diritti di un gruppo ereditario di parentela (Gyxtoteta); il demos sarebbe stato quello della madre o del-

la famiglia di lei. Per avere un’idea di situazioni documentate in Attica, che si possono considerare per alcuni versi analoghe a quella in cui si trovano i figli di Giasone e Medea, cfr. Rudhardt 1962, pp. 56-64 e Ogden 1996, pp. 126-135.

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca) -

TRS

to del «letto» (Xéx0c, eùvi)). Questo del letto comune è un elemento che nella tragedia occupa una posizione dirassoluto rilievo, come è stato messo in risalto con enfasi da Gentili:!* il letto è al centro della contesa fra Giasone e Medea, la quale ne reclama il rispetto e l’onore. Se cerchiamo un corrispettivo di questa relazione fra le unioni matrimoniali di cui si occupa il diritto attico, riusciamo a individuare solo delle vaghe somiglianze con situazioni note e codificate. Per alcuni versi si potrebbe dire che l’unione fra Giasone e Medea assomigli a quella fra un cittadino libero e una Èévn: se non fosse che anche Giasone è a sua volta uno Èévoc, dato che si trova lontano dalla propria ter-

ra di Iolco e dalla casa di Esone.!” In generale, comunque, si può dire che l’unione assomigli vagamente a quella fra un cittadino libero e una straniera, la cui condizione era sentita come assai vicina a quella di una concubina (m7aXXax1!8): ma tanto l’identità regale di Medea, quanto soprattutto il ruolo di partecipazione attiva che la donna ha avuto nella determinazione del legame escludono la possibilità che Giasone eserciti su di lei un tipo di autorità simile a quella che un guerriero vincitore, di ritorno da una campagna militare, esercitava su una schiava conquistata come bottino. Tuttavia Medea stessa, al v. 256, si definisce «strappata come una preda a una terra barbara» (Èk yfigc papfapov \eAnouévn), cosa che fa sospettare un suo forte cambiamento di statuto, nel momento in cui Giasone è passato, grazie a un matrimonio finalmente regolare, nella nuova casa di Creonte.!?

Il divorzio di una coppia irregolare Quello che risulta particolarmente difficile stabilire, date queste premesse, è ovviamente anche il tipo di separazione che Giasone impone a Medea.?° 16. Gentili 1972 (e ora Gentili 2000); cfr. anche Boedeker 1997, p. 141.

17. Mi sembra corretta la precisazione di Just 1989, p. 270: «In fact both Jason and Medea are foreigners in Corinth. Both are cut off from their own society. It is precisely Jason°s attempt to integrate himself into Corinthian society by marrying its princess which causes Medea to commit the crimes for which, later, he berates her in horror». 18. Cfr. il passo di Polluce citato supra, n. 14. Sullo statuto della toXXakr cfr. Erdmann 1949, Harrison 1968, pp. 13-15. Su Medea come raXXaxri cfr. Palmenil9S7 ppa9:185:

19. Sulla terminologia usata da Medea stessa per descrivere la regolarità dello scambio matrimoniale fra Creonte e Giasone cfr. vv. 262 (un verso ingiustamente espunto dagli editori), 288 e 309. 20. Cfr. la versione dello pseudo-Apollodoro, Bibl. 1.9.28, che parla di un normale allontanamento della sposa: ad@ic dè tod Tg KopivBov BaoiXéwc Kpéovtoc tùv Bvyatépa TXAavknv Idoovi Èyyv@vtoc, Tapateuyduevoc Taowv Mrderav gyauer. Come vedremo, questa versione sembra più vicina a quello che accade nella tragedia di Seneca.

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Nel primo dialogo fra i due Medea non si presenta solo come una persona abbandonata, ma anche come una donna il cui letto è sta-

to disonorato per un gesto di ddikia. Giasone obietta che in realtà con le sue nuove nozze egli intendeva aiutare la propria famiglia, offrendo tanto a Medea quanto ai suoi figli una migliore condizione. Dunque in apparenza Giasone non propone a Medea una vera e propria separazione, ma come una fusione della sua famiglia già esistente conla nuova famiglia, fondata attraverso il matrimonio con Glauce.?! È una proposta disonorevole per Medea, che si vede scivolare così dal ruolo di compagna irregolare ma indiscussa a quello di una preda di guerra.’ Disconoscendo a Medea la dignità di comprimaria nell’unione coniugale, Giasone ne fa ora a tutti gli effetti una concubina (maXX@aKkr), come una qualsiasi schiava che si fosse portato appresso dalla Colchide, strappandola alla sua casa di origine. La proposta è di fatto un attentato all’identità di Medea. E anche per i figli la situazione prospettata da Giasone non è in realtà così vantaggiosa: è ben noto infatti quanto nell’immaginario greco fosse ritenuta rischiosa per i figli di un matrimonio l’entrata in casa di una matrigna.” Giasone è infatti, come s’è detto, uno straniero, e gode di una sorta di concessione epigamica da parte di Creonte.?* Dunque Medea avrebbe dovuto assoggettarsi a essere una donna di secondo piano non nella casa d’origine del proprio coniuge, ma nella casa più nobile della città che la ospitava. La separazione fra i due non si configura come un ripudio (atorouti) da parte di Giasone, ma piuttosto come un declassamento dell’unione. A quanto pare, Giasone non allontana dalla sua casa Medea: è anzi lui a lasciare quella che fino ad allora era stata la sua casa (e i suoi figli). Il contrasto 21. Tarditi 1957, pp. 365-371 ha proposto di vedere in questa situazione il riflesso di quanto doveva essere accaduto dopo la legge di Pericle sulla cittadinanza (451 a. C.). Secondo Tarditi, molti ateniesi avrebbero ripudiato le mogli straniere per poter sposare donne ateniesi da cui avere una prole legittima; e contestualmente avrebbero proposto alle vecchie compagne di restare loro amanti. Si tratta di un’ipotesi interessante, ma improbabile (non pare infatti che la legge periclea avesse effetto retroattivo). 22. In alcune versioni del mito Medea è effettivamente rapita da Giasone. Basti considerare i celebri capitoli iniziali di Erodoto (1.2.2), in cui si dice che i Greci aprodoai Tod faoméoc tiv Bvyatéepa Mndeinv: un rapimento che, secondo la ricostruzione dei Persiani, si inquadrerebbe in una serie di reciproche razzie fra i Greci e gli altri popoli. 23. Basta cfr. Erdmann 1934, pp. 403 s., Watson 1995, pp. 1-49 e le osservazioni sul problema “anfimetrico” su cui Ogden 1996 basa gran parte delle sue argomentazioni. 24. Sulle concessioni epigamiche cfr. ancora Ogden 1996, pp. 69-72, 290295 (in quest’ultimo caso con riferimento a contesti ellenistici); cfr. anche pp. 131-135 sui matrimoni di meteci (con documentazione che però risale al IV secolora:

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

LS

nasce nel momento in cui non gli riesce di portare con sé nella nuova residenza i propri figli (e la propria moglie precedente).?°

Il nuovo destino dei figli (N

In questa situazione tesa e confusa i figli sembrano le vittime predestinate del conflitto che oppone due parti in contrasto. Non sono infatti, come avveniva solitamente, un elemento di unione della coppia,’ ma restano in una posizione assai poco chiara: quasi il pericoloso e ingom-

brante residuo di un contrasto irrisolto. Come v6001, dovrebbero seguire la madre nella casa del padre di lei: ma questo è ovviamente impossibile, nel caso di Medea, che infatti molto lamenta la sua particolarissima condizione di esule.?” Oppure potrebbero seguire il padre nella sua nuova famiglia, ma come figli di secondo piano:°* ma proprio questo è quanto Medea rifiuta di accettare. Finché la loro situazione non si chiarisce, i bambini restano ostaggio di questa lotta: oggetto dell’esplicito odio della madre e della completa indifferenza del padre. Medea ha un atteggiamento di decisa aggressività nei confronti dei suoi figli: non solo li guarda con occhi minacciosi?? e senza gioia3° (tanto che la nutrice comincia già a temere per la loro sorte), ma fra le primissime cose che nel prologo Medea dice 25. Non sappiamo quanto la condotta di Giasone potesse apparire legittima al pubblico ateniese. Nel contrasto fra lui e Medea sembrano contrapporsi due concezioni incomunicabili di giustizia: ma tutto lascia pensare che il discorso di Giasone dovesse apparire al pubblico palesemente pretestuoso, come il coro non manca di rimarcare, affermando che nonostante le sue belle parole, il tradimento e l’adikia di cui si è reso colpevole restano (cfr. vv. 576-578). Il fatto stesso che, come ricorda Medea (vv. 586 s.), Giasone abbia preso le sue decisioni di nascosto, mettendo la donna davanti al fatto compiuto, non sembra essere un indizio a

favore della legittimità del comportamento di Giasone (sulla figura di Giasone spergiuro cfr. Burnett 1998, pp. 196-205). 26. Cfr. Ogden 1996, p. 194, che discute Demostene 39.23 (= 40.29): 70Ad yàp uaiov eLwWdagiv, dv dv gavtoîg dievexO@orv dvip kai yuvr, dià Todc Taldac Kata XX aTTE0Da1 N) di’ dv adiknOdo1v dp adTbov, Todc Korvodc TaAî—dac TPÒG ULogìv. 27. Condizione che, fra l’altro, l’ha resa nemica (èx0pd) dei suoi stessi cari (i piXo1 della sua famiglia di origine), come Medea dice ai vv. 506 s. 28. In questo senso vanno anche le assicurazioni pretestuose di Giasone ai vv. 555-567. Alla luce di quanto succederà dopo è fortemente carico di ironia tragica il verso in cui Giasone dice che non ha intenzione di lanciarsi in gare di prolificità: Arg yàp o1 yeyoteg oùdè uéupouai (v. 558). 29. Si veda ad esempio il v. 92 s.: iòn yàp eidov duua viv tavpovpévnv |toîod’, dic ti Spacetovoav. Sull’iniziale atteggiamento ostile di Medea nei confronti dei figli cfr. Ebener 1961, pp. 216 s., McDermott 1989, pp. 33-37, Manuwald 1983, pp. 30-34 e 38. 30. Cfr. v. 36: otvyeì dè TAdaAc odd’ Op@o” edppaivetan.

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dall’interno della casa c’è una terribile maledizione lanciata contro di loro, e insieme contro la casa di Giasone.?! Anche Giasone, però, in questa fase sembra aver quasi ripudiato

i propri figli. Si dice espressamente che egli se ne disinteressa;?* e poco più avanti si vedrà quanto poco il padre si curi di vederli mandati in esilio insieme alla ex moglie. Il pedagogo, commentando il fatto con la nutrice, osserva che è ben noto come il contrarre nuove forme di

pia porti normalmente la gente a scordarsi dei propri vecchi vincoli di parentela e di affetto. Sembra insomma che Giasone abbia completamente abbandonato la propria casa; e che l’éxBpa che si è aperta fra lui e coloro che prima erano suoi piXo1 abbia reciso ogni legame fra di loro. Così si dà per scontato che i figli debbano seguire il destino della madre, anche se questo destino è l’esilio: come se il padre li avesse disconosciuti.

La vendetta

La tattica seguita da Medea per realizzare la sua vendetta consiste in gran parte nel rovesciare questa situazione di partenza. Con la finta riconciliazione, infatti, otterrà lo scopo di restituire a Giasone i figli che lui le aveva lasciato, costringendo il padre a provare per loro quell’interesse che nella prima metà della tragedia sembra così lontano dal suo orizzonte. Nell’elaborazione di questo progetto è assolutamente centrale l’episodio di Egeo. Egeo rappresenta il puntuale sostituto di Giasone nel destino di Medea, contribuendo in maniera decisiva al completo rovesciamento che si verifica nella vita dell’eroe argonautico.* Inizialmente le sue preoccupazioni ruotano tutte attorno alla sua condizione di padre dra1g,8* che Medea promette di aiutare a superare. A questo scopo la donna conclude con lui un accordo (anch’esso giurato), che le garantisce 31. Cfr. vv. 112-114: ® xatapatot |toidec dAo10de OTUYEPÀG E, i oÙv TATPi, Kad TAG dOuOG Eppor. La nutrice ribatte (115- 117): 1 uol uo, TAirjuwv. |Ti dé vo1 maîdec TaTpòg aumdar€iac |petéxovor; Ti TOvod' Mae:

32. Cfr. vv. 74-88. Al v. 88, in particolare, il pedagogo dice che où otépyei tattp, usando proprio il verbo tipico dell’affetto dei genitori (cfr. ad. es. Soph., OT 1023). Cfr. anche quanto Medea dice ai vv. 340-345. 33. Menu 1996, p. 123 ha osservato come Egeo, attorno alla cui figura ruota il progetto di vendetta di Medea, non a caso sia esattamente l’oppostodi Giasone: «Jason est celui pour qui Médeée a perdu tous ses points d’ancrage. Egée est celui par qui ces mèmes points d’ancrage seront restaurés. Jason a trahi ses serments. Égée s ‘engage par serment. Jason a des enfants, mais deviendra dans. Égée est dra, mais obtiendra une descendance [...] Médée [...] a perdu sa raison d’ètre à cause de Jason; elle retrouve sa raison d’étre par Egée». 34. Sul tema della &moidia in Euripide cfr. Barone 1991.

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

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una sistemazione nella terra attica sotto la protezione del re, aprendole di fatto la prospettiva di una nuova relazione matrimoniale, regolarmente finalizzata alla produzione di una discendenza. Insomma, Medea rimpiazza quella casa e quelle nozze che Giasone le ha tolto.? A questo punto i due partiti sono in parità. Medea, di fatto, ha già lasciato Giasone: ma per vendicarsi ha ‘bisogno di spostare l’equilibrio della situazione a suo vantaggio. Alla fine della tragedia Giasone avrà perduto tutto quello che Egeo (e con lui Medea) ha acquisito: le nuove nozze e la promessa di una nuova discendenza. Inoltre, dopo l’infanticidio, Giasone si ritroverà in quella stessa &ma1dia che era il cruccio iniziale di Egeo.?° La decisione di uccidere i figli si giustifica all’interno delle complesse modalità di una vendetta che è finalizzata a ottenere questo radicale ribaltamento.” All’inizio i bambini dovranno entrare strumentalmente nell’impresa: Medea fingerà di riconciliarsi con Giasone, cioè di ristabilire la piXta originaria, e tramite questa mossa potrà utilizzare i figli come supplici. Nel momento stesso in cui chiederanno alla regina di poter restare a Corinto, saranno latori del dono letale grazie al quale Glauce e Creonte moriranno. Medea dice espressamente che tanto la riconciliazione quanto la richiesta di lasciare i figli a Corinto sono solo funzionali al suo primo delitto. I figli infatti sono, per così dire, l’unica parte di lei che possa accostarsi ai nemici senza destare sospetto: saranno dunque loro a entrare (in tutti i sensi) nella casa di Glauce, portandovi la distruzione. Solo a quel punto, quan-

35. Si noti che dei propri bambini Medea non fa parola nel dialogo con Egeo: sembra quasi che la donna voglia tenere nascosta la loro presenza. Tutte le promesse che Medea richiede al vecchio re contengono il pronome singolare èué e non quello plurale nudg: a quanto pare, Egeo si impegna con lei e per lei, non anche per altri componenti della casa di Giasone. 36. Proprio in quella condizione, cioè, che secondo le parole di Medea (v. 490) avrebbe potuto giustificare il suo desiderio di contrarre una nuova unione. Alla fine della tragedia, quando Giasone rimprovera a Medea i suoi delitti, lei lo canzona (1394): oteîXE TPÒG cikovg kai AatT' dAoxov, puntando il dito su quello che Giasone ha perso (e lui, per completare il conto, aggiunge al verso successivo: OTEIXW, dIOO®Vv Y° duopog TEKVWV). 37. Molti di questi elementi interpretativi sono stati messi in luce da Friedrich 1960, pp. 195-209 (in part. pp. 207 s., cfr. anche p. 225). 38. I figli sono chiaramente chiamati a fare ciò che Medea, ai vv. 381-385 e 392-394, dice di non poter fare da sola, se non a costo di sacrificare se stessa,

esponendosi allo scherno dei suoi nemici. Nel dialogo con Creonte, poi, Medea farà appello alla pietà per i figli, allo scopo di ottenere il giorno di dilazione dell’esilio (vv. 340-347). Sembra che anche in quest'occasione Medea, siccome non può ottenere nulla per sé, chieda compassione per i figli, sapendo che essi sono l’unica “parte di sé” per la quale può ancora chiedere comprensione. Schein 1990 ha

già notato come Medea si appelli strumentalmente al sentimento paterno di Creonte, in una precisa strategia dell’inganno che attraversa tutta la tragedia.

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do per Giasone sarà perduta la speranza di avere una nuova casa nobile e una nuova discendenza, uccidere i due bambini significherà colpire Giasone nell’unica discendenza di cui dispone.?° Medea infatti sintetizza così la finalità della sua vendetta in due fasi (vv. 792-796):

TÉKVA YÙP KATAKTEVOÒ Tau” oUTIg EotIv GoTIg EE aIpnoetar douov Te TAvTa cvyXxÉéao' Tdoovog Eteui yaiac, piATAaT”wYv TAIdwv dévov devyovoa kai TAG0 Epyov AvociWTaTOv.

In queste parole viene sintetizzato il destino di tutti gli attori principali del dramma: Medea, Giasone e i figli. Ora che per lei si prospetta una nuova sistemazione, Medea può elaborare un progetto che le consenta di staccarsi dalla precedente unione in modo terribilmente efficace. Ciò che la lega al suo passato è ormai solo la piàta nei confronti dei figli: ma anche questa è una parte della sua vita che Medea è destinata a lasciarsi alle spalle, fuggendo via da Corinto. Oltretutto la morte dei bambini è considerata da Medea come inevitabile: la donna dà infatti per scontato che i nemici Corinzi cercheranno di vendicarsi su di essi, che sono non solo gli esecutori materiali dell’assassinio di Glauce, ma anche l’unica parte di Medea ancora in mano loro. C’è anche un’altra ragione importante per cui l’eliminazione dei figli deve avvenire solo dopo la morte di Glauce. Finché infatti Giasone ha davanti a sé la possibilità di nuove nozze, può disinteressarsi dei figli (come di fatto sta già facendo, dato che lascia che vengano esiliati). Invece, dopo che Glauce sarà scomparsa, i figli torneranno ovviamente a rappresentare la speranza che Giasone può proiettare verso il proprio futuro. Il meccanismo della vendetta è dunque estremamente delicato: usandoli come strumento del primo delitto, Medea otterrà lo scopo di fare crescere nella considerazione del padre quegli 39. Già nel primo dialogo con Medea Giasone aveva sottolineato il valore della propria discendenza. Tuttavia in quella fase l’eroe ragionava come se i figli avuti da Medea, costretti a uno status di esuli e privi della cornice di una famiglia nobile, non avrebbero mai potuto godere di una condizione confacente alla dignità della propria stirpe. Da qui la proposta (respinta dalla donna) di staccare i figli dalla madre, inserendoli in una nuova famiglia. Cfr. v. 565: coi te yàp Taidwv ti dei; Manuwald 1983, pp. 36 s. sottolinea giustamente il fatto che in questa battuta i figli vengono presentati come un vantaggio per il padre (sul carattere utili-

taristico dell’atteggiamento di Giasone nei confronti dei figli cfr. anche Ebener 1961, pp. 219-221 e Just 1989, p. 272). In quanto tali, appunto, Medea li avrebbe potuti individuare già allora come bersaglio privilegiato della propria vendetta. Ma in quel momento l’ostilità di Medea alle proposte di Giasone aveva tagliato fuorii due figli dalla prospettiva di rappresentare per lui una vera discendenza. È solo dopo la finta riconciliazione, e soprattutto dopo l’eliminazione di Glauce, che questi stessi bambini acquistano un valore assolutamente insostituibile, a prescindere dalla loro posizione sociale (cfr. ancora Ebener 1961, pp. 221-224).

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

AS)

stessi figli che subito dopo potrà uccidere, annientando completamente il suo nemico. Ai versi 803-809 viene presentato un quadro molto chiaro degli effetti che la vendetta produrrà sulla vita di Giasone: oùt’ EE guod yàp Todas dyetat mote T@vtac TÒ Xoutòv oùte Tfig veotuyov véudne texvuoei Tod’, ETEI KAKiyv KaKk®e Aaveiv od dvdykn Toîg èuoîoi dapuakors. undeic ue dpavinv xaodevi) vouitéto und novxaiav dAXà Batépov Tporov, Bapeîav gxBpoîc kai piXoiorv eduevf.

La donna abbandonata si trasforma in colei che, in un certo senso, riprende le redini del proprio destino, abbandonando sì Corinto, ma ormai alle sue condizioni; e lasciandosi alle spalle un cumulo di rovine. La sua vendetta, infatti, è radicale e cancella la casa di Giasone in

ogni prospettiva possibile: al passato (i figli di Medea), al presente (il matrimonio regale) e al futuro (la prospettiva di una prole corinzia). Dimenticare di essere madre

Il contrasto fra Medea e Giasone sembra focalizzato principalmente sul valore della loro unione. A vendicarsi è la moglie abbandonata e privata della propria dignità, assai più che la madre; la quale, fra l’altro, non viene inizialmente privata dei propri figli, fin quando la macchina della vendetta (messa in moto da Îei stessa) non li condanna a una morte quasi inevitabile. I figli entrano in una luce decisamente secondaria nel calcolo dei torti che Medea attribuisce a Giasone; mentre hanno invece un ruolo assai più importante nelle giustificazioni che l’uomo cerca di avanzare a sua discolpa. Medea non parla dei propri bambini (che, ricordiamolo, per lei non sono più occasione di gioia) come di un elemento centrale della sua vita e della sua unione con Giasone; e a lui rimprovera soltanto di permettere che i suoi figli siano avviati all’esilio e alla povertà (513-515). Giasone invece appare più decisamente preoccupato del destino della propria discendenza futura (555-567), e cerca di dimostrare che la fusione della sua vecchia prole con la nuova non potrà che essere vantaggiosa. A queste argomentazioni, però, Medea (e con lei il coro) non risponde affatto, concentrandosi piuttosto sull’onore del proprio letto (591-592).f9 40. Il letto è effettivamente al centro della sua attenzione: cfr. ad es. già prima, vv. 265 s. La sintesi della vicenda che il coro offre nel quarto stasimo (vv. 9901001) non è diversa. Anche Giasone, alla fine (vv. 1338 e 1363-1367), dirà qualcosa di molto simile; e Medea (v. 1354, tou’ dtiUdoac Aéxn) ribatterà di conseguenza (cfr. soprattutto v. 1368: ouikpòv yuvatrì mfiua Toùt' siva dokeîc;).

120

Capitolo III

In questo dramma, dunque, i figli rimangono sempre sospesi in una zona di totale incertezza. Di fatto è solo quando fra Medea e Giasone la concordia (o meglio la piXia) viene per un attimo ristabilita che essi ritrovano una posizione definita, accanto al padre nella sua nuova casa: ma si tratta di una concordia familiare fittizia, l’ingannevole effetto della vendetta che presto è destinata a inghiottire anche loro. È come se, privi della cornice rassicurante di una casa comune, essi restino indifesi, in balia dell’inimicizia fra i due genitori che hanno interrotto le loro relazioni. Sembrano vittime predestinate, per la cui salvezza nessuno è in grado di fare nulla, e la cui inevitabile perdita sarà alla fine l’unico movente capace di accendere l’affetto tardivo dei loro genitori. Ma per quanto Medea sembri preoccupata prevalentemente del suo letto e della sua relazione con Giasone, quando si trova di fronte al delitto che il suo progetto ha reso inevitabile deve ovviamente superare il dato ineludibile della sua maternità. Oltre ad annientare la discendenza di Giasone, infatti, deve sopprimere i bambini che sono comunque una parte di lei: quella parte di lei che dopo la morte di Glauce resterebbe in mano ai nemici;*! quella parte a cui resta legata da un vincolo di piXia più volte ed enfaticamente sottolineato solo nella seconda metà della tragedia. Si tratta infatti di un sentimento che fa la sua prima comparsa nella tragedia tardivamente. Merita di essere messo in particolare rilievo il fatto che la prima espressione di affetto che Medea usa nei confronti dei figli compaia al v. 795.4 È un passo che appartiene alla prima formulazione del progetto di infanticidio: come se Medea scoprisse quanto le sono cari i figli solo quando prende la decisione di ucciderli.4 E anche Giasone mostra chiari segni di affetto verso i bambini solo quando questi sono morti.* I due genitori, che hanno mostrato odio o disattenzione verso i bambini, da quando è scoppiata la loro éx9pa, sembrano sco-

prire la dimensione affettiva del loro ruolo solo quando stanno per per41. È importante ricordare come la preoccupazione di lasciare i figli in mano ai nemici sia un semplice trasferimento della stessa ansia che, nella prima parte della tragedia, Medea denunciava a proposito di se stessa (vv. 381-383): eì Anparooua: |Séuovg vTepPaivovoa kai texvwuévn, |Bavodoa Brow toîc guoîg exBpoîc YÉXwv. 42. Si ricorderà invece che le prime parole rivolte dalla donna verso i figli, ai vv. 112 s., sono una maledizione (cfr. supra, p. 117, n. 31). Fino al v. 795 l’atteggiamento della donna nei confronti dei bambini non mostra segni di cambiamento (cfr. poi anche passi come 1247-1250 e 1397). 43. In questa prospettiva si comprende anche come mai, nell’economia del dramma euripideo, Medea non accetti di lasciare i corpi dei bambini a Corinto. Dice infatti che i Corinzi sarebbero capaci persino di violare la loro tomba (vv. 1378-1381). 44. Cfr. vv. 1397 (IA. © tékva piXtata. MH. untpi ye, coi è où), 1399 s. (IA. Spot. piXiov xprjtw otéuatog |raidwv 6 TAXA AG TPoOTTLEAOBAL, con

la risposta di Medea ai vv. 1401 s.: vòv ode rpocavddac, vov dordtn, |T6T' drmwoduevoc) e 1402 s. (cfr. anche 1303, 1349 s. e 1408-1414).

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

124.

derli o li hanno già perduti: quasi che sia la scomparsa dei figli a riattivare un legame che non è possibile tenere in vita attraverso la normale dinamica relazionale di una famiglia che non funziona più. Per compiere il suo delitto, dunque, Medea deve lottare con i sentimenti che la legano ai suoi figli, senza mai negare la propria maternità, ma semplicemente sospendendola per il tempo necessario a commettere l’infanticidio. Le ultime parole che l’eroina pronuncia prima di entrare nella casa dove consumerà il delitto sono un invito a scordare di essere madre, ma solo per poco (vv. 1244-1250): dy È td” ava yeip ur, Aapè Eidos, dp", épre tpòc paXpida Avrnpàv fiov, kai uî) xax100fg und avauvno@fis TEKvwv, de FIATO”, we ETIKTEG, AAAA TIvdE Ye X000î fpaxsiav fugpav taidwv cEdev kareta Opriver: kai yàp el kTeveic od’, Guwe diiol y &voav: Svotvxîs d Eyò yuvr.

II. OvIDIO

La centralità delle versioni ovidiane di Medea

Sul ruolo giocato da Ovidio nella fortuna scenica di Medea si sono fatte molte ipotesi, che però servono poco ai fini del mio discorso. La perdita della celebre tragedia ovidiana resta una lacuna irrimediabile. I tentativi di colmare questo vuoto, mettendo assieme l’ampio episodio del settimo libro delle Metamorfosi, la dodicesima epistola delle Heroides e la stessa Medea di Seneca, hanno finora offerto dei risultati piuttosto deludenti. E non mi pare proficuo insistere nelle congetture. Tuttavia possiamo utilmente riflettere sul testo della dodicesima Eroide,* per vedere le varie funzioni che alla posizione dei figli avrebbero potuto essere assegnate nella dinamica della separazione fra Giasone e Medea."

397).

45. Che alla fase corinzia del mito di Medea dedica appena quattro versi (394-

46. Sull’autenticità dell’epistola personalmente non nutro alcun dubbio. La recente discussione sollevata da Knox 1986 non mi pare ben fondata. Non appare conclusivo nessuno degli argomenti di Knox (che funzionalizza una discussione preconcetta del testo al desiderio di stabilire una questione cronologica). E curiosamente non sembrano decisivi nemmeno gli argomenti di Hinds 1993, che riesce solo a mostrare come gli'spunti critici di Knox possano portare a leggere l’epistola in un modo diametralmente opposto (non ovidiano vs. tipicamente ovidiano). Entrambi i saggi mi sembrano utili più che altro per evidenziare come i pregiudizi e le convenzioni professionali dei critici moderni finiscano spesso per proiettare sui testi esigenze di lettura poco proficue dal punto di vista filologico. 47. Un ruolo che non sapremo mai se era lo stesso nella perduta Medea ovidiana.

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Capitolo III

Secondo le necessarie regole di genere letterario, questa Medea ovidiana è una donna innamorata, che reclama dal traditore Giasone il rispetto dei giuramenti e una sorta di compenso per i mille merita da lei acquisiti, anche a costo di tremendi delitti, durante la permanenza di Giaso-

ne in Colchide e nel corso della fuga che hanno affrontato insieme. In sostanza, Medea si lamenta di essere stata improvvisamente messa da parte, a favore di un matrimonio più prestigioso e ricco; e chiede a Giasone di riavere indietro quel letto che le è stato tolto (v. 193: redde torum).

Dalle parole di Medea non si capisce bene quale fosse il tipo di relazione intercorsa fra lei e Giasone. Non si parla mai di nozze, ma solo di promesse giurate (vv. 83-88) e dei molti merita criminali che la donna, verso la fine dell’elegia (vv. 190-207), descrive addirittura come la dote pagata in contanti all’uomo ingrato che ora la tradisce.

La situazione in cui Ovidio fa parlare la sua eroina è molto simile a quella che vedremo all’inizio della tragedia senecana. Medea è stata già ripudiata, come si dice chiaramente ai vv. 134-136, e abita in

una casa che non è (o non è più) quella di Giasone." I figli sono ancora con lei, e sono anzi i primi ad accorgersi del passaggio in strada del corteo nuziale che celebra le nuove nozze fra Giasone e Creusa (vv. 137-152). Non è chiarissimo il destino che attende i bambini: perché,

sebbene li vediamo vivere accanto alla madre, Medea esprime chiaramente la preoccupazione che in futuro la matrigna faccia loro del male.°° È dunque verosimile immaginare una situazione transitoria: infatti, come vedremo meglio più avanti, dopo la celebrazione delle nozze era probabile che i figli fossero destinati a passare nella casa del padre.

I figli come possibile elemento di unione della coppia Comunque sia, un dato è certo. In questa fase transitoria i figli rappresentano ancora un fortissimo elemento coesivo, al quale — non a caso — Medea fa appello (insieme agli dèi e ai propri meriti) nella sua supplica dai toni fortemente patetici (vv. 187-198): 48. Anche nella sesta epistola delle Heroides, quella di Ipsipile a Giasone, non si fanno riferimenti chiari al tipo di unione dell’eroe argonautico con Medea, ma si insiste molto sul fatto che si tratti di un’unione irregolare e contratta in modo vergognoso (turpiter). Per quanto ci si riferisca alla donna con termini come nupta, la sua relazione furtiva con Giasone, il suo averlo conquistato a furia di delitti (ipso /crimine dotata est emeruitque virum), viene contrapposta alla taeda pudica che invece aveva unito lo stesso Giasone a Ipsipile (vv. 133-138). Cfr. ancora Epist. 12.197: te peto, quem merui, quem nobis ipse dedisti. 49. Vv. 134-136 col commento ad loc. di Heinze 1997, pp. 179-182. Sull’uso di una terminologia a carattere marcatamente giuridico cfr. invece la n. ad loc. di Bessone 1997, p. 197. 50. V. 188: saeviet in partus dira noverca meos.

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

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Si tibi sum vilis, communes respice natos: saeviet in partus dira noverca meos. Et nimium similes tibi sunt, et imagine tangor, et, quotiens video, lumina nostra madent.

Per superos oro, per avitae lumina flammae, per meritum et natos, pignora nostra, duos: redde torum, pro quo tot res insana reliqui. fi Te peto, quem merui, quem nobis ipse dedisti,

cum quo sum pariter facta parente parens. Anche se, come qualunque lettore di queste elegie sa da sempre, lo sviluppo successivo della vicenda era destinato a rendere vana una simile richiesta, è utile mettere in evidenza il fatto che qui si faccia ricorso al

potere connettivo dei figli: si tratta infatti di un elemento culturale di grandissima rilevanza, che non a caso non viene sfruttato né da Euripide né da Seneca, quando mettono in scena l’ultimo atto del dramma di Medea: quello in cui i figli vengono eliminati. Ho già avuto modo di sottolineare come a Roma la nascita dei figli fosse lo scopo dichiarato delle unioni matrimoniali; e fosse anche l’elemento che materialmente realizzava queste unioni, mettendo assieme in un unico corpo il sangue dei genitori (socius sanguis)."* L'alleanza delle famiglie “prendeva corpo” (è il caso di dirlo) nei nuovi nati: e i figli rappresentavano dunque un impor-

tante documento del legame comune fra i genitori, anche se la loro funzione principale era quella di prolungare la stirpe paterna. Prima che la separazione venga consumata, dunque, la Medea ovidiana fa un ultimo appello a una funzione che, come sappiamo dal seguito della storia, i figli non saranno in grado di svolgere. Ma non saranno in grado di svolgerla anche per una serie di condizionamenti antropologici che verosimilmente derivano dal tipo di repudium che autori come Seneca dovevano mettere in scena davanti a un pubblico romano. III. SENECA Matrimonio e maternità

Per studiare le peculiarità dell’intreccio tragico senecano è necessario innanzitutto vedere come si presenti la situazione matrimoniale di Medea. Le rivendicazioni avanzate dall’eroina sono fatte tutte e sempre in nome di valori che si possono tranquillamente ricondurre alla più tradizionale concezione del matrimonio romano. E questi valori naturalmente rimandano a un duplice piano di riferimento: non solo quello dell’unione, ma anche (e direi soprattutto) quello della riproS1. Cfr. supra, p. 104.

Capitolo III

duzione. La Medea di Euripide si richiama esplicitamente alla sua funzione materna solo una volta (ai versi 489-491), presentando come estre-

ma prova della slealtà di Giasone il fatto che egli non avesse neanche la sterilità di Medea come scusa per abbandonare il suo letto. La Medea di Seneca, invece, si richiama al proprio ruolo materno in continuazione, e fin dall’inizio della tragedia.°? Se la Medea di Furipide è soprattutto la compagna abbandonata, quella del tragediografo romano è la moglie e la madre tradita. Leggiamo i primissimi versi, pronunciati da Medea nel prologo (vv. 1 ss.): Di coniugales tuque genialis tori, Lucina, custos quaeque domituram freta Tiphbyn novam frenare docuisti ratem etc.

Medea sta nominando gli dèi che erano stati invocati da Giasone al momento di pronunciare il suo giuramento in favore della donna; e poi in base a questa formula passa a invocare le Furie, le dee della vendetta. Negli altri testi in cui compare la stessa invocazione," Hera/Giunone vie52. Del resto nei testi latini Medea è spesso e volentieri ricordata come madre scellerata, il cui ruolo viene spesso inevitabilmente a intrecciarsi con quello di (innamorata 0) moglie offesa: cfr. ad es. Verg., Ecl. 8.47-50: Saevus Amor docuit natorum sanguine matrem/ commaculare manus: crudelis tu quoque, mater!/ Crudelis mater magis an puer improbus ille?/ Improbus ille puer: crudelis tu quoque, mater. Prop. 3.19.17 s.: nam quid Medeae referam, quo tempore matris/ iram natorum caede piavit amor?; Ov., Met. 7.396 s.: sanguine natorum perfunditur impius ensis/ ultaque se male mater lasonis effugit arma; cfr. Ars 1.335 s.: cui non defleta est Ephyraeae flamma Creusae/ et nece natorum sanguinolenta parens? Frequente quest’immagine di Medea «madre macchiata del sangue dei propri figli», che la fa somigliare alle Furie (cfr. Sen., Med. 15). Cfr. anche Ars 2. 381 s.: coniugis admissum violataque

iura marita est/ barbara per natos Phasias ulta suos; Ars 3.31-34: saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae/ paucaque, si quaeras, crimina fraudis habent./ Phasida, iam matrem, fallax dimisit laso;/ venit in Aesonios altera nupta sinus; Am. 2.14.29-

32: Colchida respersam puerorum sanguine culpant,/ atque sua caesum matre queruntur Ityn:/ utraque saeva parens; sed tristibus utraque causis/ iactura socii sanguinis ulta virum. Cfr. ancora Rem. S9 s.: nec dolor armasset contra sua viscera matrem,/ quae socii damno sanguinis ulta virum est; Trist. 2.387 s.: tingeret ut ferrum natorum sanguine mater,/ concitus a laeso fecit amore dolor; Trist. 2.525 s.: utque sedet vultu fassus Telamonius iram,/ inque oculis facinus barbara mater habet. Cfr. Fast.

2.623-627: innocui veniant: procul hinc, procul impius esto/ frater et in partus mater acerba suos/ [...|/ Tantalidae fratres absint et lasonis uxor. 53. La formula del giuramento di Giasone compare già in Apollonio Rodio (4.95-100): "Aaiuovin, Zedc adtòg 'OAbutiOg Spriog Éorw |“Hpn te Zvyin, Aiòdg eùvétic, 7) pèv èuoîo1v |xovpidinv ce déporoiv eviottoEodai dikortiv,

|edt” dv èc 'EMdda yaîav ixdueda vootrfjoavtec' |"Ac nda, kai xeîpa mapa oxedòv fipape xeipi |Setitepriv. La formula compare anche in Ovidio (Epist. 12.77-88): Per mala nostra precor, quorum potes esse levamen,/ per genus et numen cuncta videntis avi,/ per triplicis vultus arcanaque sacra Dianae,/ et si forte aliquos gens habet ista deos/ [...]/ Conscia sit Iuno sacris praefecta maritis,/ et dea marmorea cuius in aede sumus. Cfr. anche Ov., Met. 7.94-97: Per sacra trifor-

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

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ne evocata nella sua funzione di dea che protegge il matrimonio (Cuyin e sacris praefecta maritis).:4 Ma in Seneca, oltre agli dèi del matrimonio (gli dei coniugales, fra i quali è certamente compresa Iuno pronuba, la Giunone che favorisce le nozze), viene subito espressamente evocata la dea che presiede al parto, cioè (Juno) Lucina, la dea matronale che appunto sovrintendeva al lectus genialis. Fin dall’inizio il letto coniugale non viene evocato per rimandare alla relazione con il coniuge, come avveniva in Euripide, ma come luogo destinato a perpetuare la stirpe. Medea, insomma, sottolinea subito la sua duplice condizione di moglie e di madre, le due funzioni che rappresentano le due facce della stessa medaglia per una cultura come quella romana. Questo modo di parlare dell’unione continuerà insistentemente per tutto il dramma: l’elenco degli accenni al parto e alla presenza dei figli è incomparabilmente più ricco nella tragedia di Seneca che in quella di Euripide. misi ille deae, lucoque foret quod numen in illo,/ perque patrem soceri cernentem cuncta futuri/ eventusque suos et tanta pericula iurat. Si ricordi anche che in Euripide Medea fa pronunciare ad Egeo il seguente giuramento (vv. 746 s. e 752 s.): 6uvvpi L'oîiav Aaumpòv HMt0v Te doc |Beode Te TAvTAG èuueveiv d dov KAvw. 54. Sulla presenza di Hera/Iuno in questo genere di episodi ampio materiale è raccolto da Bòmer 1976, pp. 124-126. Sulla funzione matrimoniale di Hera cfr. Pòtscher 1987, pp. 138-143. Il corrispettivo di questa denominazione per i Romani sarà stato, molto probabilmente, Juno Iuga. Cfr. Paul.-Fest. 92 Lindsay (s. v. Iugarius): [...] ara Iunonis Iugae, quam putabant matrimonia iungere (cfr. anche lo scolio di Serv., ad Verg., Aen. 4.16, Wissowa 19122, p. 186 e Noailles 1948, pp. 39-43). SS. Perla rilevanza intertestuale che hanno questi passi, basterà cfr. Ov., Met. 6.428 e Epist. 6.45. 56. Sulla funzione di questa divinità cfr. Wissowa 1912?, pp. 183-186 e DuryMoyaers-Renard 1981, pp. 149-153. Cfr. anche Cic., Nat. deor. 2.68: [...] apud nostros lunonem Lucinam in pariendo invocant. Nella stessa tragedia senecana il coro, durante l’epitalamio, invita a placare Lucina con una vittima (vv. 61 s.). Anche questa deve essere considerata un’invocazione alla dea della fertilità. Ov., Met. 9.315 definisce Lucina diva potens uteri (cfr. anche 9.294 s. e 10.510 s.). Anche se con divertita esagerazione, le funzioni di Lucina vengono evocate nella cornice dei Lupercalia in Fast. 2.448-452: dopo la celebrazione del rito suggerito dalla dea virque pater subito nuptaque mater erat./ Gratia Lucinae! Dedit haec tibi nomina lucus,/ aut quia principium tu, dea, lucis babes./ Parce, precor, gravidis, facilis Lucina, puellis,/maturumque utero molliter aufer onus. In generale, sulla presenza di questa divinità in Ovidio cfr. Petersmann 1990, pp. 157-159, n. 3 in part. SYACirAFyteil083* 477. 58. La Medea di Euripide al v. 160 si rivolge, oltre che a Themis, anche ad Artemide, ma è difficile intendere questo particolare nel senso voluto da Knox 1977, p. 204 («woman's help in childbirth»). Tutt’al più, si potrà vedere in una simile invocazione un generico appello a una divinità della sfera femminile (sul valore di Artemide in questi contesti cfr. Just 1989, pp. 230-241). In ogni caso l’atteggiamento della Medea di Euripide nei confronti della maternità sembra decisamente diverso da quello dell’eroina senecana: basti considerare il celebre riferimento al parto come a un doloroso e spiacevole atto eroico (vv. 250 s.). Per i riferimenti ai figli e al parto cfr. invece Sen., Medea 1, 25 s., 50, 55, 61, 145 s., 171, 283 s., 421 s.,438443, 478, 507-512, 540-549, 808-810, 845, 920-957, 1000-1008, 1012 s.

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Capitolo III

Nonostante queste premesse e l’uso regolare di una terminologia che potrebbe far pensare al linguaggio di una matrona, il matrimonio di Medea viene chiaramente presentato come un’unione irregolare, e in quanto tale contrapposta a quella che l’eroe argonautico sta per inaugurare con Creusa.’ La stessa Medea presenta nel prologo le proprie nozze come un evento avvenuto sotto i peggiori auspici. Ma se queste espressioni alludono solo obliquamente all’irregolarità (le Furie celebrano le nozze al posto delle normali divinità del matrimonio), più avanti il coro è mol-

to esplicito nel dire che l’unione fra Giasone e Medea è stata celebrata in uno stato di necessità e contro le regole giuste (vv. 102-106): Ereptus thalamis Phasidis horridi, effrenae solitus pectora coniugis invita trepidus prendere dextera, felix Aeoliam corripe virginem nunc primum soceris sponse volentibus.

E la prima volta che Giasone si è unito a una donna soceris volentibus: cioè in un tradizionale contesto di scambio matrimoniale. Anche altrove, nella tragedia, la condizione di Medea (che viene presentata qua59. Questo comunque non vuol dire che Medea e Giasone non venissero considerati moglie e marito a tutti gli effetti. Cfr. Treggiari 1991, pp. 56 s. che, riprendendo Modestino, afferma: «if there was no fundamental or statutory legal disqualification [...] and (I add) no evidence that concubinage was intended, then

a free woman cohabiting with a man is assumed to be his wife» (una situazione che poi raggiungeva la piena «openness» quando da quest’unione nascevano dei figli). Il fatto che uno dei due coniugi (l’uomo) non intendesse l’unione come matrimoniale faceva automaticamente scivolare il rapporto al livello di una relazione di concubinato: ma questo ron è certamente il contesto della vicenda rappresentata da Seneca, che contrariamente a Euripide inquadra la separazione fra i due direttamente come un vero e proprio divorzio. Diversamente, infatti, i figli avrebbero acquisito lo statuto di bastardi: cosa che nella tragedia senecana non viene mai prospettata. 60. Vv. 13-18: Nunc, nunc adeste sceleris ultrices deae, /crinem solutis squalidae serpentibus,/ atram cruentis manibus amplexae facem,/adeste, thalamis borridae quondam meis/ quales stetistis: coniugi letum novae/ letumque socero et regiae stirpi date. Si tratta di un passo che ci riporta, oltre a vari altri paralleli (cfr. le note di Bòmer 1976, pp. 124-126: cfr. in part. Verg., Aen. 4.168, Ov., Met. 10.1-8, Epist. 2.117-120,

7.96, Sen., Oed. 644-6, Tro. 1132-1136), al sesto libro delle Metamorfosi, dove Ovidio descrive le nozze fra Procne e Tereo (vv. 428-434); e anche alle espressioni con cui Ipsipile nelle Heroides (6. 45-46) descrive le proprie nozze con Giasone. In tutti i casi che si possono citare a riscontro si tratta di nozze che hanno avuto una fine terribile. Il motivo è probabilmente di ascendenza ellenistica: cfr. Knox 1995, p. 180. Su questo motivo in Ovidio e in Virgilio cfr. Cleasby 1907, pp. 45 s., Cazzaniga 1951, pp. 8-16, Bòmer 1976, pp. 124-126 e Pease 1935, pp. 207-209 ad Verg., Aen. 4.168. 61. Le definizioni che anche altrove vengono date dell’unione irregolare fra Medea e Giasone prospettano un’unione con una effrena coniunx, fatta contro il

volere dei suoceri: oppure il matrimonio fra uno straniero e una donna che abbandona la propria casa, accompagnando l’uomo nel suo esilio. Al v. 114 s. la fosca unione con Medea viene nuovamente evocata come un tipo di matrimonio da conIl destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

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si come colei che ha imposto l’unione a Giasone) è contrapposta sotto ogni punto di vista a quella, corretta, di Creusa; è lei, la vergine corinzia, che viene regolarmente affidata dalla propria famiglia al peregrinus, lo accoglie nella propria casa e così lo sottrae all’esilio e alla trepidazione continua che è diventata la sua vita.

Il repudium Il modo in cui viene descritta la rottura di questo rapporto ha tutte le caratteristiche tipiche del repudium, un termine che non a caso compare nella tragedia.£? Giasone, unilateralmente, allontana Medea dal suo

letto nuziale e dalla sua famiglia. L’eroina, quando ancora l’azione deve iniziare, sintetizza la propria situazione così (vv. 52-55): Paria narrentur tua repudia thalamis: quo virum linques modo? hoc quo secuta es. Rumpe iam segnes moras: quae scelere parta est, scelere linquenda est domus.

Nella tragedia di Seneca non viene prospettata in nessun modo la possibilità per Medea di restare accanto a Giasone, come una paelex o come una figura simile. Il bando di Creonte non fa che radicalizdannare: tacitis eat illa tenebris,/ si qua peregrino nubit fugitiva marito. Fugitiva è la lezione del codice Etruscus: i codici della famiglia A presentano fugitura, mentre Heinsius correggeva in furtiva, che Zwierlein mette direttamente nel testo (cfr. anche Zwierlein 1986, pp. 137 s.). Heinsius partiva dal parallelo con Ov., Epist. 6.43 (non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iunol adfuit etc.). A sostenere le lezioni dei codici ci sono tutti gli accenni insistenti al motivo della fuga che caratterizza l’unione dei due: cfr. anche vv. 22, 119, 172 (dove il verbo fugere è usato per il nuovo esilio di Medea come in 272 s., 541, 948 e 1022), 220, 447-450, 459 s., 486, 489, 509, 524. L'immagine della donna che celebra la propria unione con uno straniero in un contesto di esilio sembra decisamente più appropriata per contrapporre la sorte di Medea a quella di Creusa che non l’immagine di chi semplicemente celebra la propria unione «di nascosto». 62. Oltre ai vv. 53-55 si ricordi l’espressione coniunx viduata taedis di v. 581, che nonostante il livello stilistico alto del canto corale può essere considerato un termine tecnico per indicare la donna divorziata (cfr. Costa 1973, p. 122: in generale, sull’uso del termine vidua a proposito delle donne divorziate cfr. Treggiari 1991, pp. 472 s. e Rizzelli 1997, pp. 310-312). Cfr. fra l’altro l’epigramma dell’ Anthologia Latina 102 (91 Shackleton Bailey) De Medea cum filiis suis, dove al v. 3 Medea viene definita mater vivo viduata marito (ed effettivamente il divorzio può essere in un certo senso considerato, dalla persona cui esso viene imposto, come un lutto subito mentre l’altra parte è ancora in vita). Sulle modalità della separazione mi rifaccio sostanzialmente al quadro delineato da Treggiari 1991, pp. 436-482. 63. Medea deve essere allontanata, altrimenti la sua condizione potrebbe somigliare a quella di una rivale della nuova sposa. È Medea stessa a dire espressamente che dopo il nuovo matrimonio la sua è una condizione di concubina (paelex) che va rimossa (vv. 494 s.): Hoc suades mibi,/ praestas Creusae: paelicem invisam amoves.

128

Capitolo III

zare una situazione che già viene chiaramente instaurata dal divorzio.

E si tenga ben presente che nella tragedia senecana il principale responsabile delle nuove nozze (e quindi del divorzio) è Creonte, al

quale il pavido Giasone non ha la forza (0 dice di non avere la forza) di opporsi. Gli effetti di questa separazione imposta dal tiranno sono descritti chiaramente da Medea ai vv. 143-146: Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens coniugia solvit quique genetricem abstrabit gnatis et arto pignore astrictam fidem dirimit.

L’unione (coniugium) di Giasone e Medea viene dissolta, come

pure la fides su cui essa si fonda. Ma questa fides non è garantita tanto (0 solo) dal potere dei giuramenti, come in Euripide, quanto dalla funzione vincolante della prole: non a caso viene qui impiegato quel termine pignus che in epoca imperiale si usava spessissimo proprio per indicare i figli, visti come veri e propri contrassegni, punti di riferimento all’interno dell’unione.?* Ora questi «pegni» vengono staccati dalla madre (contrariamente a quanto avveniva in Euripide) e seguono il padre nella casa del nuovo matrimonio: esattamente come avveniva in ogni normale divorzio romano. Erdmann 1942, col. 222.5 afferma che, dato il suo statuto, la paelex assumeva il carattere prevalentemente «einer Nebenbuhlerin der legitimen Fhefrau» (cfr. anche Treggiari 1991, p. 264). Per il significato di paelex cfr. Gell. 4.3 e Paul.-Fest. p. 248 Lindsay s. v. Pelices: [...] Antiqui proprie eam pelicem nominabant, quae uxorem habenti nubebat. Cui generi mulierum etiam poena constituta est a Numa Pompilio hac lege: ‘Pelex aram Iunonis ne tangito; si tanget, lunoni crinibus dimissis agnum feminam caedito’. Festo faceva qui riferimento all’altare di Giunone Lucina (cfr. Wissowa 1912?, p. 185): dunque la divinità invocata all’inizio della tragedia senecana è ostile alle paelices per un motivo culturale che certo va tenuto presente nel considerare la dinamica dei ruoli ricoperti dai personaggi di questo dramma. 64. Che il termine vada riferito ai figli è garantito dal confronto con Oed. 804 (liberi astringunt fidem) segnalato da Costa 1973, p. 85. Per altri passi in cui pignus ha questo valore basti qui rimandare a Ov., Fast. 3.218, Met. 3.134, Trist. 1.3.60 e, nella stessa Medea di Seneca, al v. 1012 (sul significato di pignus in questi contesti cfr. Guastella 1985, pp. 91 s. e Minardi 1999). 65. Cfr. ancora Treggiari 1991, pp. 466-471. Partendo da queste stesse premesse, Abrahamsen 1999 arriva a conclusioni molto distanti dalle mie. Abrahamsen

dà infatti per scontato che la posizione di Giasone sia assimilabile a quella di un qualsiasi cittadino di Corinto (e quindi, per riflesso, di uno spettatore romano che in lui tenderebbe a identificarsi): rispetto a un “cittadino” come Giasone, la straniera Medea non avrebbe diritto di conubiur, e i suoi figli sarebbero dunque dei bastardi, il cui destino dovrebbe essere quello di seguire la condizione materna. Così, trattenendo i figli presso di sé, Giasone sarebbe protagonista di un’ennesima violenza nei confronti della donna, privata persino dei figli che per legge le spetterebbero. Ma, a parte ogni considerazione sui delicati meccanismi di identificazione del

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

129

La situazione che si presenta agli spettatori è dunque fortemente caratterizzata da un colorito romano, che spiega molte cose nel successivo sviluppo della trama. I figli entrano senza alcun dubbio nella casa di una matrigna, per trovare lì la sicurezza che la condizione di esule non garantiva a Giasone. Contrariamente a quanto avevamo visto in Euripide, essi non hanno stavolta lo statuto di bastardi, e non restano sospesi fra le due case, ma trovano sin da principio una sicura e naturale appartenenza, alla quale, con la sua fatale concessione, Creonte dà anche il

suggello della sua autorità. Dunque nel dramma non c’è alcun bisogno di farli entrare in quella casa con un sotterfugio (la finta riconciliazione): di quella casa essi fanno già parte a tutti gli effetti. Se i figli vengono ora staccati dalla madre e ricondotti alla sfera della stirpe paterna, il divorzio distrugge anche quella funzione connettiva che essi avevano ancora nelle parole della Medea innamorata di Ovidio.” Sebbene anche la Medea senecana sia ancora innamorata di Giasone, l’avvenuta separazione dei due coniugi e la celebrazione delle nuove nozze determinano un sensibile cambiamento rispetto alla situazione dell’epistola ovidiana. I figli sono già stati tolti alla madre, e dunque difficilmente possono rappresentare un elemento di connessione: addirittura, anzi, diventano motivo di separazione quando Giasone dice di aver dovuto fare le sue scelte proprio in termini alternativi fra la propria coniuge e i propri figli (vv. 434-443): Si vellem fidem praestare meritis coniugis, leto fuit caput offerendum; si mori nollem, fide misero carendum. Non timor vicit fidem, pubblico e sulla ricerca di troppo precise analogie fra le situazioni sceniche e quelle sociologiche di chi produce (e/o fruisce della) letteratura, una simile proposta interpretativa mi sembra difficilmente sostenibile. Se le cose stessero veramente così, sarebbe infatti inverosimile che un’eroina come Medea, straordinariamente accu-

rata nel redigere l’elenco dei torti subiti da Giasone, non facesse neanche il più timido accenno a questa ulteriore colpa dell’uomo (che, fra l’altro, viene regolarmente definito come il suo coniunx). Nella tragedia di Seneca, invece, non c’è traccia di una rivendicazione dei figli da parte della madre (l’unico spunto in questa direzione, i vv. 541-543, è più che altro, come vedremo, una battuta funzionale a mettere in luce il punto debole di Giasone); e soprattutto non c'è nemmeno la più velata protesta da parte di Medea contro un simile trattamento (cfr. invece i vv. 288290 e 421 s.). Sembra, proprio che anche agli occhi-dell’eroina senecana la destinazione dei figli alla nuova casa di Giasone sia scontata: e questo ci rimanda appunto alla situazione tipica del divorzio romano. 66. Che questa motivazione dovesse suonare come una scusa improponibile risulta molto chiaramente da quanto dice Watson 1995, pp. 7 s. e n. 26. 67. Nel dramma di Seneca, quando Medea rivolge la sua supplica a Giasone (vv. 478-482), l’accenno ai figli non è orientato sul loro essere un patrimonio comune, ma piuttosto sulla loro appartenenza al padre (per spes tuorum liberum et certum larem).

130

Capitolo III

sed trepida pietas: quippe sequeretur necem

proles parentum. Sancta si caelum incolis lustitia, numen invoco ac testor tuum: nati patrem vicere. Quin ipsam quoque,

etsi ferox est corde nec patiens iugi, consulere natis malle quam thalamis reor.

La scelta di sposare Creusa dipenderebbe dunque dalla pietas: dal desiderio, cioè, di salvare la vita dei figli, staccando il loro destino da

quello di una madre criminale. È chiaro che in questa prospettiva l’augurio di Giasone che Medea tenga il suo stesso atteggiamento nei confronti dei bambini suona come la richiesta di un prezzo altissimo da pagare.?* Data la situazione in cui i due si trovano, un invito del genere significa infatti chiedere a Medea di rinunciare a tutto, staccandosi dal suo compagno non solo in conseguenza del ripudio, ma anche in nome della comune discendenza. Il legame coi figli diventa in questo modo l’elemento attorno a cui si misura la distanza incolmabile fra i due coniugi. Medea invita inutilmente Giasone a opporsi a Creonte per amor suo. Quando ormai ha perso ogni speranza, inviterà anche inutilmente Giasone a intraprendere la sua nuova vita con una nuova prole, senza mischiare la propria a quella del re di Corinto. Ma alla richiesta di Medea di poter

portare con sé i figli Giasone risponderà che mai si staccherebbe da loro; e che, anzi, per loro sarebbe disposto a fare ciò che per Medea non ha avuto la forza di fare (vv. 540-550): ME. Contemnere animus regias, ut scis, opes

potest soletque; liberos tantum fugae habere comites liceat, in quorum sinu lacrimas profundam. Te novi gnati manent. IA. Parere precibus cupere me fateor tuis; pietas vetat: namque istud ut possim pati, non ipse memet cogat et rex et socer. Haec causa vitae est, hoc perusti pectoris

curis levamen. Spiritu citius queam carere, membris, luce. ME. Sic natos amat?

Bene est, tenetur, vulneri patuit locus.

Questo brano è cruciale per l’interpretazione della tragedia: è infatti qui che per la prima volta Medea individua il punto debole di Giasone, ciò che conta più della sua vita. Ed è proprio da qui che si deve partire per comprendere uno dei meccanismi che regolano la complessa architettura che la vendetta assume nella tragedia senecana. 68. La richiesta verrà poi fatta alla donna esplicitamente da Giasone alv. 506 s. Sulla figura di Giasone, che sceglie di seguire la propria pietas invece che la fedeltà alla sua compagna cfr. Zwierlein 1978, pp. 40-45.

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

IS)

La vendetta

Nel prossimo capitolo mi soffermerò a illustrare in dettaglio la meccanica della vendetta di Medea: per ora vorrei limitarmi a considerarne gli aspetti che differenziano radicalmente il progetto dell’eroina senecana da quello del personaggio euripideo. Dato che i figli appartengono già al padre, che mostra per loro un attaccamento così grande, è chiaro che la vendetta di Medea non dovrà seguire quel delicato percorso che in Euripide era necessario per spingere Giasone a riprendersi

cura di loro. FE difatti i due momenti della vendetta vengono bruscamente separati da Seneca, che dedica alla prima fase (l’uccisione di Creusa e Creonte) uno spazio molto contenuto, riducendola sostanzialmente

alla semplice distruzione di Creonte e della sua casa.°° Nel punire l’ingratitudine di Giasone, invece, Medea colpisce l’uomo che non ha saputo o voluto resistere a Creonte in nome della sua compagna, ma ha preferito cedere in nome dei figli. In questa prospettiva Medea deve cancellare la propria identità di madre, che come abbiamo visto è funzione diretta della sua identità di corniunx. Non si tratta, come in Furipide, semplicemente di sospendere o dimenticare la propria maternità: si tratta proprio di negarne la presenza, ormai, nella sua vita. Per ottenere questo scopo il personaggio senecano ricorre a diversi strumenti retorici, evidentemente ben radicati in una realtà antropologica come quella romana, che subordinava la funzione materna a quella del-

la prosecuzione della stirpe di un padre, e che staccava decisamente una madre divorziata dai propri figli, facendo passare questi ultimi sotto la giurisdizione di una nuova madre.7 Già nel dialogo con la nutrice, che cerca di calmarla, il significato della funzione materna emerge nel modo più chiaro (v. 171): NVT. Medea —- ME. Fiam. NVT. Mater es. ME. Cui sim vide.

Medea osserva giustamente che una madre (una madre romana,

aggiungerei) non è tale in astratto, ma lo è a vantaggio di qualcuno: di fronte al comportamento di Giasone, che l’ha ripudiata, lo scopo di questa funzione diventa quanto meno problematico. Il valore di questa espressione si comprende meglio attraverso il confronto con un brano a cui forse Seneca allude in modo voluto.”! Si tratta di alcuni versi del sesto libro delle Metamorfosi, che abbiamo già avuto modo di presentare in precedenza.” Procne sta metten69. Cfr. infra, pp. 148 s. 70. Si ricordi che Medea dice ai propri bambini di portare i doni fatali a Creusa per ingraziarsi dominam ac novercam (v. 847). Sulle implicazioni negative del termine noverca già a livello etimologico cfr. Watson 1995, pp. 15 s. 71. Cfr. Zwierlein 1978, pp. 50 s. 72. Cfr. supra, p. 81; cfr. anche infra, p. 151.

132.

Capitolo IMI

do in scena la lotta interna fra le sue funzioni di sorella, che vuole vendicare lo stupro subito da Filomela, e di madre, che non osa uccidere il figlio Iti per punire lo stupratore Teréo, che è appunto suo marito (vv. 633-635):

Quam vocat hic matrem, cur non vocat illa sororem? Cui sis nupta, vide, Pandione nata, marito. Degeneras! Scelus est pietas in coniuge Tereo.

Ovviamente le parole di Procne sono un terribile sofisma: ma si tratta di un sofisma altamente istruttivo su un tratto importante della concezione matrimoniale romana. Essere madre di Iti ed essere sposa di Tereo sono facce inseparabili della stessa medaglia, e dunque rendono in qualche modo ammissibile un crimine (la soppressione della prole comune) che altrimenti risulterebbe mostruoso. Essere sposa ed essere madre sono due funzioni entrambe collegate al vantaggio dello stesso uomo. Non a caso sia la Medea di Seneca che la Procne di Ovidio usano il dativo cui. Si tratta di un dativo che è normale nel caso di Procne, ma è assai meno normale nel caso di Medea, la quale non dice «di chi è madre» (come Procne dice «di chi è moglie»), ma «per chi è madre», e segnala così, attraverso la costruzione sintattica leggermen-

te straniata, la reale finalità della sua funzione materna. In queste condizioni, dunque, il sacrificio dei figli diventa manifestamente il suggello di una separazione che danneggia il beneficiario di quell’unione.”? Di fronte all’intransigenza di Giasone, Medea svilupperà coerentemente questo tentativo di negare la sua stessa funzione materna. A cominciare da quando Giasone le chiede per la prima volta di calmare la sua ira pensando ai figli, cioè facendo la stessa cosa che la pietas paterna aveva spinto lui a fare (vv. 506-512): Quin potius ira concitum pectus doma, placare natis. ME. Abdico eiuro abnuomeis Creusa liberis fratres dabit? IA. Regina natis exulum, afflictis potens. ME. Ne veniat umquam tam malus miseris dies, qui prole foeda misceat prolem inclitam, Phoebi nepotes Sisyphi nepotibus.

Messa davanti alla prospettiva di lasciare che i propri figli vadano in un’altra casa, Medea pronuncia una formula che suona, più che come una maledizione, come un vero e proprio disconoscimento. E seguendo questo modo di considerare la nuova condizione dei propri figli, anche più avanti Medea tornerà varie volte ad affermare che ormai i bambini non le appartengono più, o che sono come 73. Cfr. infra, pp. 150-153 e supra, pp. 104 s.

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca)

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ormai morti per lei.” Si tratta di versi pronunciati tutti nel convulso finale, quando si tratterà di superare (e molto in fretta) ogni esitazione e ogni dubbio. Nella breve e tesissima gestazione del delitto Medea accenna prima al fatto che non le può bastare di aver privato Giasone della nuova famiglia, con l’uccisione di Creusa (v. 899), e poi dice espressamente che la situazione ideale per la sua vendetta sarebbe stata quella di poter uccidere i figli della rivale. Partendo da questa formulazione l’eroina senecana arriva a precisare finalmente i contorni del proprio delitto (vv. 919-925): Stulta properavi nimis: ex paelice utinam liberos hostis meus aliquos haberet — quidquid ex illo tuum est, Creusa peperit. Placuit hoc poenae genus,

meritoque placuit: ultimum agnosco scelus animo parandum est: liberi quondam mei, vos pro paternis sceleribus poenas date.

L’artificio retorico attraverso il quale Medea trasferisce alla rivale la maternità dei figli che sta per uccidere tornerà poco dopo, quando l’eroina passerà attraverso il tradizionale dissidio interno che è tipico di tutte le eroine infanticide del mito (vv. 926-936): Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu pectusque tremuit. Ira discessit loco materque tota coniuge expulsa redit.

Egone ut meorum liberum ac prolis meae fundam cruorem?’> Melius, a, demens furor! Incognitum istud facinus ac dirum nefas a me quoque absit; quod scelus miseri luent? Scelus est Iason genitor et maius scelus Medea mater — occidant, non sunt mei; pereant, mei sunt. Crimine et culpa carent,

sunt innocentes, fateor: et frater fuit.” 74. Cfr. vv. 947-951:

Habeat incolumes pater,/ dum et mater habeat —

urguet exilium ac fuga:/ iam iam meo rapientur avulsi e sinu,/ flentes, gementesosculis pereant patris,/ periere matris.

75. Cfr. l’espressione caros cruores di v. 810. 76. E interessante la proposta di punteggiatura avanzata da Nussbaum 1997, p. 227: Pereant. Mei sunt, crimine et culpa carent,/ sunt innocentes — fateor: et frater

fuit. In questo modo l’appartenenza a Medea verrebbe a coincidere con l'innocenza dei figli, che risulterebbero vittime senza colpa in modo esattamente parallelo a quello di Apsirto. Si tratta però di una proposta non necessaria, che determinerebbe l’improbabile rottura di un forte parallelismo sintattico tipicamente senecano (e ovidiano). Questa soluzione comporterebbe inoltre la cancellazione della sequenza oppositiva in cui il tema dell’innocenza dei figli è inserito. Medea propone qui una duplice motivazione dell’infanticidio: i figli devono infatti morire non solo perché sono ormai «prole di Creusa» (pur continuando a essere «di Medea»), ma anche così come era

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Capitolo III

«Sono miei», «non sono miei»: Medea deve risolvere lo strappo (tutto interno alla sua identità) che continua ad apririsi fra la funzione materna (mater tota, v. 928; Medea mater, v. 934) e quella coniugale (coniunx, v. 928). Ma «per chi» (v. 171) adesso Medea è madre?

Per un coniunx che non la vuole più: e dunque i suoi figli nello stesso tempo appartengono a quella parte di lei che ad essi è legata dal sangue, e che non può cessare di essere mater; mentre sono stati alienati alla coniunx che viene ripudiata. Se dunque la coniunx rifiutata, preda dell’ira, può prendere in considerazione l’idea dell’infanticidio, la

mater che nutre sentimenti di amor e di pietas respinge l’idea con orrore.” Medea cerca in ogni modo di dare un fondamento retorico alla necessità del delitto: sia col negare la propria maternità (ron sunt mei),

sia con l’attribuire ai figli il delitto (scelus) di essere nati da una coppia maledetta. Le colpe non appartengono ai bambini, ma al loro stesso essere legati alle colpe dei genitori, diventando dunque vittime predestinate della vendetta che deve necessariamente seguire alla loro separazione.” I tentativi di negare la propria maternità vengono spinti poi all'estremo quando alla fine Medea, dopo aver ucciso i propri figli, dichiara di voler cancellare ogni traccia residua di questa maternità, se necessario persino nelle proprie stesse viscere (vv. 1012 s.): In matre si quod pignus etiamnune latet,

scrutabor ense viscera et ferro extraham.?? Non a caso, con un artificio retorico tipico delle tragedie senecane, Medea affermerà alla fine (vv. 982-984)8° di aver ottenuto, tramite morto Apsirto (questo senso risulterebbe con o senza la punteggiatura proposta da Nussbaum). Su questo registro, infatti, avverrà il sacrificio almeno del primo dei due bambini (cfr. infra, pp. 151-153). Ma l’innocenza dei bambini è un dato di fatto banale, che non dipende (come vorrebbe Nussbaum) dal loro essere “figli di Medea”. 77. Cfr. vv. 943 s.: ira pietatem fugat/ iramque pietas — cede pietati, dolor. Cfr. la descrizione del delitto di Medea in Ov., Met. 7.396 s. (dopo l’uccisione della sposa novella: Sanguine natorum perfunditur inpius ensis/ ultaque se male mater lasonis effugit arma). Liebermann 1974, pp. 190 s. nota giustamente come tutta quest’ultima parte della tragedia sia costruita sulle opposizioni pietas/dolor, amor/ira, mater/coniunx.

78. Per comprendere il senso dell’espressione scelus est Iason genitor et maius scelus! Medea mater può essere utile ancora una volta il confronto con il già citato verso ovidiano (Met. 6. 635): scelus est pietas in coniuge Tereus. Se nel caso di Procne è l’identità del marito a far diventare colpevole il rapporto coniugale, allo stesso modo, nel caso di Giasone e di Medea, è il legame di sangue a cari-

carsi di connotazioni sinistre. Pur senza essere colpevoli, i figli sembrano destinati a essere vittime della loro stessa natura. 79. L’autenticità di questi due versi, messa in dubbio da Leo 1878, p. 208, è stata giustamente difesa da Zwierlein 1978, pp. 28-30. 80. Cfr. infra, p. 154.

Il destino dei figli di Giasone (Euripide, Ovidio, Seneca) .

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la propria vendetta, di tornare addirittura ad essere la virgo di un tempo. Con la morte dei figli Giasone è stato punito in ciò che, per sua stessa ammissione, valeva più della sua vita:8! e che lui fino all’ultimo cerca inutilmente di salvare, offrendo se stesso al posto delle vittime innocenti.8? Il pater resta sconfitto e solo. La mater invece è come scomparsa: cancellata anche lei da un delitto che ha portato alle estreme conseguenze ciò che il divorzio aveva già di fatto determinato. Gli stessi corpi dei figli, che dopo il delitto la Medea di Euripide portava con sé, per piangerli e seppellirli, vengono ora lasciati al loro padre.* La Medea di Seneca non porta nel suo cielo vuoto nessuna traccia di quella mater che Giasone non ha avuto scrupolo di abbandonare.8*

81. Cfr. vv. 547-549.

82. Cfr. vv. 1002-4: Per numen omne perque communes fugas/ torosque, quos non nostra violavit fides,/ iam parce nato. Si quod est crimen, meum est:/ me dedo morti; noxium macta caput. Cfr. anche v. 1018: memet perime. 83. Credo che vada precisato in questo senso quanto dice Steidle 19431944, p. 291 al proposito (la variazione rispetto a Euripide non sarebbe «nichts anderes als das aufere Zeichen seiner [sci/. di Giasone] vòlligen Vernichtung und ihres [scil. di Medea] Triumphes». 84. Cfr. vv. 1007 s.: I nunc, superbe, virginum thalamos pete,/ relinque matres.

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Capitolo III

CAPITOLO IV

Virgo, coniunx, mater: Medea

L’ira di Medea

La Medea di Seneca è una figura che porta nel suo stesso “patrimonio genetico-letterario” i segni dell’ira. Basterebbe ricordare il ppev@ov Bapdc |xéXoc di cui parla Euripide (Medea 1265 s.).! Ma come abbiamo visto nei capitoli precedenti, questa Medea è un personaggio completamente diverso da quello euripideo. Se infatti l’eroina di Euripide sembra ispirata da una complessa serie di motivazioni (fra le quali l’ira non occupa un posto di particolare rilievo), quella di Seneca appare guidata in modo assai più diretto e assoluto dalla perversa logica dell’u/tio, che ho illustrato nell’introduzione a questo volume. Non stupisce dunque il fatto che la Medea senecana mostri tratti decisamente vicini a quelli di una figura come l’Atreo del Thyestes, col quale condivide soprattutto la lenta, metodica e precisa ricerca di un principio di reciprocità nella realizzazione della propria vendetta. È appunto la costruzione di questo progetto di vendetta che cercherò di mostrare adesso nei suoi particolari. “Come si deve risolvere la rottura di un’unione coniugale”: è questo il tema che sta al centro della tragedia senecana. La Medea che abbiamo ora di fronte è una donna ancora innamorata di Giasone, che si

vede ripudiata dal suo coniunx in un modo che — lo abbiamo detto nel capitolo precedente — ricorda molto da vicino le consuetudini di un normale divorzio romano. Per lei risulta impossibile accettare questo repudium senza dover rimettere in discussione il senso di tutta la sua vita passata: una vita segnata da una serie di delitti che Medea ha commesso contro la propria famiglia di origine, per aiutare Giasone e poter1. Oppure si ricordi la celebre raccomandazione oraziana (ars 123): sit Medea ferox invictaque.

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si unire a lui: primo fra tutti l’assassinio del fratello Apsirto, ancora bambino. Ma adesso Giasone respinge la sua coniunx, cedendo alle pressioni esercitate su di lui dal tiranno di Corinto, Creonte, che gli impone quasi il nuovo matrimonio. La vendetta che Medea realizza, prima incendiando la reggia di Corinto e poi uccidendo i propri figli, non è solo un modo per danneggiare Creonte e Giasone, come nel precedente dramma euripideo: è anche un modo per cercare di ridare senso alle rinunce che la donna ha dovuto affrontare per un uomo infedele; un modo che tenta di ricostruire un’identità messa in crisi dalla separazione.

Le premesse della vendetta L’idea della vendetta è presente nel dramma fin dal suo avvio. Già nel prologo, infatti, Medea invoca le Furie (13-18): Nunc, nunc adeste sceleris ultrices deae,

crinem solutis squalidae serpentibus, atram cruentis manibus amplexae facem, adeste, thalamis horridae quondam meis quales stetistis: coniugi letum novae letumque socero et regiae stirpi date.

Seneca ripropone qui il motivo delle nozze infauste, che a partire almeno dal IV libro dell’Eneide di Virgilio, per finire con vari luoghi ovidiani, godeva di una consolidata fortuna nella letteratura romana dell’epoca:? ma lo fa in modo originale. Medea non si limita infatti a evocare secondo un modulo collaudato l’immagine delle nozze maledette, ma stabilisce subito fra il rito luttuoso che ha accompagnato il suo matrimonio (quondam) e le nuove nozze di Giasone (nunc, nunc) una continuità e un parallelismo fondati sulla costante presenza delle dee della vendetta. Le Furie erano intervenute alle prime nozze di Giasone perché esse erano state suscitate dal sangue versato del fratello Apsirto. Questo delitto che, come vedremo, avrà un ruolo assolutamente centrale nell’evoluzione successiva del dramma senecano,

è subito indicato come la base dei pensieri di vendetta di Medea. L’eroina presto parlerà della morte del fratello come di un danno subito da lei stessa: fino a che non si concentrerà su di esso, facendone addirittura il principale movente della ritorsione realizzata attraverso l’uccisione dei figli.* Ora però Medea si limita a invocare le Furie perché, come un giorno avevano portato la sciagura nella sua nuova casa, oggi la riportino in quella di Creusa. È come se Medea tentasse 2. Su questo motivo cfr. supra, p. 127 e n. 60. 3. Sui precedenti letterari di questo motivo cfr. Bremmer 1997, pp. 83-88.

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Capitolo IV

di trasferire sulle nuove nozze di Giasone la vendetta che l’ombra del fratello aveva già reclamato in occasione delle sue nozze.

Una vita spezzata da un divorzio L’istituzione di questo genere di parallelismi fra il passato e il presente di Medea è un meccanismo centrale nella strutturazione dell’intreccio e della “psicologia” della Medea senecana. La vita dell’eroina è come tagliata in due dal repudium di Giasone. Tutto quanto la donna aveva fatto per raggiungere il coniugium con l’eroe argonautico è stato d’improvviso spazzato via. Nel dramma senecano questo aspetto viene esasperato, fra l’altro, dal fatto che sia Giasone che Creonte cercano di scaricare la completa responsabilità di tutti i delitti passati sulla sola Medea: un artificio sofistico, questo, che serve a scagionare l’eroe argonautico dalle colpe che lui non ha materialmente commesso, pur essendone stato il beneficiario.* Medea riconosce le proprie colpe,’ e invano cerca di mostrare come la loro stessa logica la leghi a Giasone, il cui destino Creonte intende separare dal suo.° A lei però non verrà restituito quel comes che si è conquistata coi propri delitti.” Di conseguenza questi crimini si ritorcono contro Medea, rimasta ormai completamente isolata a por-

tare il peso della colpa. Ma se Medea è sola, che senso, che scopo si può dare a tutto il suo passato e a tutti i suoi delitti? che senso ha avuto la sua scelta di abbandonare un’ambìta condizione regale, una patria e una famiglia nobilissime? che senso può avere quello stesso assassinio di Apsirto che ha scatenato contro di lei le Furie? per chi Medea ha osato tanto, se 4. Cfr. vv. 258-271 e 497-503.

5. Medea non solo ammette di aver commesso i crimini che abbiamo già visto, ma dice anche implicitamente di avere violato le norme che una virgo dovrebbe rispettare: il mantenimento del pudor e l’attaccamento al proprio pater (cfr. 238241: virgini placeat pudor/ paterque placeat: tota cum ducibus ruet/ Pelasga tellus, hic tuus primum gener/ tauri ferocis ore flagranti occidet). Per l'ammissione di colpevolezza cfr. in part. i vv. 245-251, che nona caso ricordano molto da vicino espressioni ricorrenti nell’epistola 12 delle Heroides di Ovidio, dove il motivo della colpevolezza consapevole è ampiamente sviluppato (cfr. 106, 118, 124, 129, 132, con le nn. di Bessone 1997 ad locc.). 6. A sua volta la Medea senecana tenta di scindere il concetto di colpa da

quello di responsabilità (cfr. Perrenoud 1963): questo infatti sarebbe l’unico modo per lei possibile di mantenere il destino di Giasone (beneficiario dei delitti) legato al proprio (esecutrice materiale di quei crimini). 7. Vv. 272-280: Profugere cogis? Redde fugienti ratem/ vel redde comitem — fugere cur solam iubes?/ Non sola veni. Bella si metuis pati,/ utrumque regno pelle. Cur sontes duos/ distinguis? Illi Pelia, non nobis iacet:/ fugam, rapinas adice, desertum patrem/ lacerumque fratrem, quidquid etiamnunc novas/ docet maritus coniuges, non est meumi:/totiens nocens sum facta, sed numquam mihi.

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lo stesso beneficiario di quei gesti la respinge? È questo il vero nucleo del progetto di vendetta elaborato dall’eroina senecana. Da qui Seneca sembra essere partito nella costruzione della sua variante del mito di Medea. Possiamo subito delineare un’opposizione fra la ragazza di un tempo, la virgo innamorata, che ha lasciato tutto per Giasone, e la coriunxmater che ha ottenuto l’oggetto del suo amore e ha consolidato la propria unione con l’eroe argonautico tramite la generazione di due figli. Ho già avuto modo di sottolineare come le funzioni di coniunx e di mater rappresentino, per la cultura romana, le due facce di una stessa medaglia: i figli sono infatti i pignora che testimoniano con il loro stesso corpo l’avvenuta unione del sangue materno e di quello paterno. È per questo motivo che parlo adesso di opposizione fra la vîrgo, da un lato, e la coniunx-mater dall’altro, anche se vedremo come la complessa funzione materna diventerà problematica nel prosieguo della vicenda. Ciò che la “prima” Medea (la virgo) aveva fatto per poter diventare la “seconda” Medea (la coniunx-mater) rimane privo di senso, ora che la seconda funzione è stata annullata dall’iniziativa di

Creonte, il quale, seguendo le regole di un normale divorzio romano, ha tolto alla donna non solo il coniunx, ma anche i nati.? La logica della vendetta di Medea si costruisce con una sistematicità impressionante. E il principio su cui si basa è un preciso bilanciamento fra i delitti che avevano fatto diventare la virgo Medea coniunx/mater e quelli (assai più grandi) che sono destinati a dare un nuovo assetto alla sua vita sconvolta dal repudium. Si vedano ad esempio i versi con cui si chiude il prologo pronunciato da Medea (44-55):

Quodcumque vidit Phasis aut Pontus nefas, videbit Isthmos. Effera ignota horrida, tremenda caelo pariter ac terris mala mens intus agitat: vulnera et caedem et vagum funus per artus — levia memoravi nimis:

haec virgo feci; gravior exurgat dolor: maiora iam me scelera post partus decent. Accingere ira teque in exitium para furore toto. Paria narrentur tua repudia thalamis: quo virum linques modo? hoc quo secuta es. Rumpe iam segnes moras: quae scelere parta est, scelere linquenda est domus.

8. Cfr. supra, pp. 124 e 129. 9. Cfr. i vv. 143-6: Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens/ coniugia solvit quique genetricem abstrahit / gnatis et arto pignore astrictam fidem /dirimit. Sul fatto che i figli vengano tolti alla madre, come in ogni normale divorzio romano, cfr. supra, pp. 128-131.

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La Medea di Seneca sceglie il delitto (scelus) come filo conduttore della propria vita e della ricostruzione della propria identità.!° Questa barbara violenta, che con la sua marginalità culturale rappresenta un pericolo per la città che l’ha ospitata, è il personaggio ideale per interpretare lo scatenarsi di ira e furor oltre i confini della razionalità. Tuttavia si intravede subito anche una ratio precisa e perversa, che appare straordinariamente

accurata nello stabilire un’esatta corrispondenza fra le due Medee. Se il matrimonio fra Giasone e Medea era stato l’unione irregolare e scellerata di un eroe greco con una virgo barbara, anche il loro divorzio assumerà un aspetto decisamente anomalo e criminale: quello di una separazione le cui forme rispettano tendenzialmente l'impianto di un'istituzione romana, ma vengono realizzate attraverso una serie di gesti estremi, adeguati

alla nuova condizione della donna. Post partus, i suoi delitti dovranno essere infatti m24i0ra rispetto a quelli di un tempo: solo in questo modo ciò che era stato necessario per raggiungere l’unione coniugale (thalami) potrà

essere “pareggiato” dall’inevitabile separazione (repudia).

I meriti e le perdite di Medea Cerchiamo allora di seguire lo sviluppo del progetto di vendetta di Medea.!! Tutto il monologo pronunciato dall’eroina, in particolare, ai vv. 116-149, è incentrato su questo tema. Medea si chiede innanzitutto (118-122):

Hoc facere lason potuit, erepto patre patria atque regno sedibus solam exteris deserere durus? merita contempsit mea qui scelere flammas viderat vinci et mare?

Bisogna innanzitutto mettere in rilievo la sottile strategia retorica

adottata da Medea. L’eroina non si limita a elencare i propri merita, presentandoli come crediti, fondati sistematicamente sullo scelus,!? acquisiti nei confronti del suo compagno. Piuttosto il personaggio senecano sembra preoccupato di presentare questi merita come perdite 10. La centralità del delitto nella costruzione del personaggio si vede chiaramente anche dal fatto che l’estremo tentativo fatto dall’eroina per convincere Giasone a restare con lei è un invito a fuggire insieme, se necessario compiendo un delitto (scelus, v. 515), oppure anche mantenendosi, come in passato, inzocens e lasciando a lei il compito di abbattere tutti i nemici che si presentassero sulla loro strada (vv. 521-528). 11. Sulla lenta e sofferta gestazione della vendetta di Medea (in questo simile al personaggio di Atreo) cfr. almeno Picone 1995. Per le somiglianze fra i due vendicatori senecani cfr. supra, pp. 29, 75-83 e 104-107. 12. Su questo tema dei merita Ovidio nell’epistola 12 delle Heroides si sofferma moltissimo nella stessa prospettiva (vv. 21, 82, 192 e 197: cfr. Bessone 1997, pp. 90-93). Nel rinfacciare i suoi merita a Giasone la Medea di Seneca si distacca dalla tradizione tragica (cfr. Eurip., Med. 472-491), per assumere piuttosto un atteggiamento analogo a quello dell’eroina ovidiana nelle Heroides.

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subite da lei stessa.!* Contrariamente a quanto avviene nelle precedenti versioni letterarie di questo mito, in altri termini, i merita non vengo-

no evocati qui da Medea solo come una prestazione offerta vanamente a un ingrato, ma anche come danni che lei stessa ha dovuto patire, e che andranno risarciti in qualche modo.!* In quest’ottica vengono subito individuati tre danneggiamenti fondamentali: la perdita del padre, della patria e del regno (erepto patre/ patria atque regno, vv. 119 s.). Questi elementi torneranno più avanti (insieme ad altri), come una base su cui fondare progressivamente il calcolo del “dare” e dell’“avere” instaurato attraverso il meccanismo della vendetta. Per lasciare la sua condizione di virgo, seguendo Giasone in un esilio incerto, Medea ha dovuto rinunciare alla sua famiglia e alla sua terra: cioè alle sicurezze che avrebbero potuto costituire per lei un rifugio dopo l’abbandono del marito. E lo ha fatto commettendo diversi delitti: il più importante dei quali è certamente l’uccisione del fratellino Apsirto.!* Da dove cominciare a vendicarsi per queste perdite? Ai vv. 124 s. Medea dà un primo esempio del suo modo di concepire la corrispondenza fra i delitti passati e i futuri, e si augura che Giasone abbia un fratello con la cui uccisione ripagare la morte di Apsirto. Ma Giasone non ha un fratello, ha una moglie: dunque sarà lei a cadere per prima (124-126): Unde me ulcisci queam? Utinam esset illi frater! est coniunx: in banc ferrum exigatur.

Ma certo questo non può bastare. Medea, infatti, si comporta come chi, per realizzare pienamente la sua vendetta, intenda ripetere esattamente i suoi delitti. Icrimini del passato devono «tornare» (redire, v. 131), riproponendo la stessa situazione che un tempo si era presentata davanti alla virgo Medea. In una simile prospettiva il fratricidio viene presen-

tato in un modo molto significativo: non tanto come la perdita di un parente di sangue, quanto come un lutto inflitto a un padre (129-132): Scelera te bortentur tua et cuncta redeant: inclitum regni decus raptum et nefandae virginis parvus comes divisus ense, funus ingestum patti [...] 13. Una prospettiva non molto lontana da questa si trova anche, ma solo episodicamente, nell’epistola 12 delle Heroides di Ovidio: cfr. infra, n. 23. 14. Questo aspettò è stato ben individuato da Liebermann 1974, p. 205, a proposito dei vv. 482 ss. (di cui parleremo più avanti): «Medea fordert bei Seneca nicht Lohn fùr gute Taten, sondern schlicht Schadenersatz». Seneca non fa altro che rifunzionalizzare diversamente, nel quadro del suo schema di vendetta, un dato costitutivo fondamentale del personaggio euripideo (su cui cfr. Menu 1996, pp. 119-121). 15. Questa è anche la versione ovidiana del mito di Apsirto, come si vede dal confronto con Epist. 6.129 s. e soprattutto Trist. 3.9.

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L’importanza di un simile modo di concepire l’uccisione di Apsirto si comprende se si confronta questo verso con due brani a loro volta connessi fra di loro in quella che a me pare un’importante costellazione intertestuale, e che riguarda ancora una volta i testi di cui ci siamo fin qui occupati. Mi riferisco a due versi tratti, rispettivamente, dal Tieste dello stesso Seneca e dall’episodio di Procne e Filomela nel sesto libro delle Metamorfosi di Ovidio. Nel primo caso, Atreo descrive così l’effetto del delitto che sta per compiere (Sen., Thy. 281-3): Tota iam ante oculos meos imago caedis errat, ingesta orbitas in ora patris.

Nel secondo brano Filomela getta addosso a Tereo la testa mozzata del figlio di lui, Iti (Ov., Met. 6.658 s.):

Ityosque caput Philomela cruentum misit in ora patris.

In tutti e due i casi si parla di bambini uccisi per compiere una vendetta ai danni di un padre colpevole: la perdita dei figli viene «gettata in faccia» (ingesta [...] in ora) ai loro genitori. Ora, questo non è esattamente il caso del padre di Medea, Feta, il quale, pur essendo un personaggio tirannico, in questa occasione viene solo arrestato mentre insegue la figlia che fugge insieme a Giasone.!* Tuttavia, a prescindere dalle motivazioni del delitto, l’analogia fra le espressioni usate in questi tre brani fa pensare a una comune concezione del delitto compiuto. Anche nel caso di Medea, dunque, l’infanticidio finisce per strutturarsi come un orribile danneggiamento contro il padre realizzato dall’eroina:! e 16. Un’altra uccisione di un bambino compiuta allo scopo di punire un padre colpevole di abusi sessuali (come nel caso di Tieste e Tereo) è quella di Arpalice (Parth., Erot. 13, Hyg., Fab. CCVI, Euphorion fr. 24a) che, per vendicarsi del padre Climeno, il quale ha commesso incesto con lei e le ha ucciso lo sposo, gli fa mangiare le carni del proprio fratellino (o del figlio che lei stessa ha generato al proprio padre). Un’analogia fra questa vendetta e il fratricidio di Medea potrebbe essere costituita dal fatto che in entrambi i casi viene colpito un padre che esercita pressioni endogamiche sulla figlia. 17. Del resto, era già stato lo stesso Ovidio a presentare tanto l’infanticidio di Apsirto quanto quello di Iti in modo analogo. Basti considerare che nell’elegia dei Tristia (3.9) dedicata all’assassinio di Apsirto Ovidio descrive i gesti della vîrgo Medea in modo straordinariamente simile a quello in cui, in Met. 6. 619-660, descrive il delitto di Procne. Sono analoghi, quando non addirittura identici, il casuale arrivo del bambino davanti alla donna che cerca una soluzione al suo dilemma, l’incredulità del piccolo, le modalità dell’uccisione e dello smembramento del corpo e l’ostensione di mani e testa al padre. Sarà bene riportare l’intero passo, a partire da quando la donna si vede perduta e cerca un modo per sfuggire all’inseguimento del padre (21-32): Dum quid agat quaerit, dum versat in omnia vultus,/ ad fratrem casu lumina flexa tulit. /Cuius ut oblata est praesentia: ‘Vicimus’, inquit;/

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questo costituisce un modo di concepire il delitto che lo rende molto simile a quello che Giasone subirà alla:fine della tragedia. Dunque l’uso di un’espressione del genere proietta l’assassinio di Apsirto verso modelli di infanticidio che possiamo indicare nelle notissime uccisioni di Iti e dei figli di Tieste. Una simile proiezione troverà poi la sua piena giustificazione, come vedremo, proprio nel delitto finale della tragedia. Dall’amore all’ira

Ma torniamo a seguire nel suo farsi la lenta costruzione della vendetta di Medea. Una cosa importante da sottolineare è la contrapposizione fra i moventi emotivi che stanno alla base delle due serie di delitti (vv. 135 s.):

Et nullum scelus irata feci: saevit infelix amor.

Gli scelera di un tempo, quelli che erano serviti a far passare Medea dalla condizione di virgo a quella di coniunx, erano motivati dall’amor: d’ora in poi, invece, il movente della vendetta sarà l’îra.!* O meglio, come osserverà il coro ai vv. 866-869, la vendetta nascerà da una fusione di ira ed amor: Frenare nescit iras Medea, non amores: nunc ira amorque causam

iunxere: quid sequetur?

Mentre la carriera scellerata della virgo Medea è motivata dall’amore,!” quella della coniunx/mater sarà segnata dalle conseguenze di ‘hic mihi morte sua causa salutis erit’./ Protinus ignari nec quicquam tale timentis/ innocuum rigido perforat ense latus/ atque ita divellit divulsaque membra per agros/ dissipat in multis invenienda locis/— neu pater ignoret, scopulo proponit in alto/ pallentesque manus sanguineumque caput —,/ ut genitor luctuque novo tardetur et, artus/ dum legit extinctos, triste moretur iter. È possibile istituire una serie di confronti fra questo brano e l’intero episodio del sesto libro delle Metamorfosi (a cominciare dal vicimus di v. 23: cfr. Met. 6.513). Sulle somiglianze fra l’elegia e la Procne ovidiana cfr. Degl’Innocenti Pierini 1980, pp. 153 s. (Schubert 1990

cerca invece somiglianze in altre direzioni, e non considera i parallelismi che abbiamo appena segnalato). 18. Il motivo dell’îra di Medea scatenata dall’amore ferito ricorreva più volte già in Ovidio: cfr. ad es. Ars 2.373-386, Rem. 55'e Trist. 2.387 s.: tingeret ut ferrum natorum sanguine mater/ concitus a laeso fecit amore dolor. 19. Cfr. Kullmann 1970, pp. 158 s. È questa la carriera scellerata che Ovidio illustra (in linea con le esigenze del genere elegiaco) nell’epistola 12 delle Heroides, lasciando al solo ultimo verso di accennare al seguito “tragico” della catena di delitti: sulle implicazioni letterarie del verso che conclude l’epistola cfr. Spoth 1992, pp. 202-204 e Barchiesi 1993, pp. 343-345 (cfr. anche Hinds 1993, pp. 34-43 e Bessone 1997, pp. 32-41).

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quello stesso amore ferito.?® Come ho già detto, questa strategia ha anche la funzione di ricostruire l’identità di Medea, messa in crisi dal divorzio. Si tratta di un procedimento di cui ci sono tracce molto consistenti nel testo senecano, e che val la pena di seguire nel loro succedersi. La

prima si trova in una risposta che Medea dà alla nutrice (vv. 164-167): NVT. Abiere Colchi, coniugis nulla est fides nibilque superest opibus e tantis tibi. ME. Medea superest: hic mare et terras vides ferrumque et ignes et deos et fulmina.

Medea ha perduto tutto: di nuovo viene sottolineata la mancanza della patria, insieme a quella del coriurnx, che è venuto meno alla sua fides. La donna dovrà partire da quello che resta della sua identità (Medea superest) per rimettere in piedi i pezzi sconnessi della propria esistenza, come si vede da un altro passo che abbiamo già avuto modo di considerare in precedenza (vv. 170-2):?!

NVT. Profuge. ME. Paenituit fugae. NVT. Medea - ME. Fiam. NVT. Mater es. ME. Cui sim vide. NVT. Profugere dubitas? ME. Fugiam at ulciscar prius. Medea superest, ma deve ancora «diventare»

(fieri) se stessa. La sua

identità di mater non ha più senso accanto a Giasone, che ripudiandola rende vana questa sua funzione. È dunque necessario che ricominci una nuova vita, in cui tutto il passato riacquisti quel senso che dopo il divorzio rischia di perdere. La vendetta sarà appunto lo strumento capace di ridare a tutta questa storia una consequenzialità e una logica imprevisti.

La “dote” di Medea

Se ricapitoliamo il conto delle perdite lamentate fino a questo momento da Medea, possiamo elencare pater, patria, regnum,°* coniugis 20. Dopo il dialogo con Creonte, sarà Medea stessa a istituire un preciso parallelismo fra i sentimenti di un tempo e l’odio che ora deve agire, con una violenza uguale e contraria a quella dei gesti un tempo suscitati dalla passione amorosa (vv. 397-399): Si quaeris odio, misera, quem statuas modum,/ imitare amorem. Regias egone ut faces/ inulta patiar? Nel dialogo con Giasone Medea tenterà poi per l’ultima volta di rilanciare la forza del suo amor (vv. 465-490).

21. Cfr. supra, pp. 132 s. 22. Nell’idea della condizione regale vanno comprese ovviamente anche la nobiltà e le opes di cui si parla al v. 165, e su cui Medea tornerà più volte in seguito. Nel dialogo con Creonte, ad esempio, la donna lamenterà la sua perduta condizione, che consisteva nell’essere: a. una nobile discendente del Sole (209 s.), b.

figlia del sovrano di un vastissimo regno (211-216), c. sposa molto ambita (218 s.). Medea dice di aver perso tutto questo, ridotta alla povertà e all’esilio, per salvare gli eroi argonautici alla Grecia, tenendo per sé il solo Giasone (225-235).

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fides. Anche questo delle perdite è un motivo che viene ripreso più volte nella tragedia, e che val la pena di seguire ad ogni sua tappa successiva. Un elenco del genere ricompare anche nel dialogo con il coniunx traditore, cui Medea ricorda di aver commesso ogni genere

di delitto per poterlo seguire nell’esilio (483-489): Ex opibus illis [...]

nil exul tuli nisi fratris artus: hos quoque impendi tibi; tibi patria cessit, tibi pater frater pudorhac dote nupsi. Redde fugienti sua.

Al regno, alla patria e al padre si aggiungono ora anche il fratello e la condizione di virgo pudica.® È il disastroso bilancio finale della carriera scellerata intrapresa dalla virgo Medea per raggiungere le nozze con Giasone: un bilancio formulato utilizzando un argomento che ci rimanda direttamente alla cornice del matrimonio romano. Quello che Medea ha perso viene infatti presentato come la «dote» con cui la donna ha pagato il suo diritto alle nozze. Si tratta ovviamente di una metafora. Medea si è sposata in modo anomalo, in assenza di qualsiasi garanzia necessaria per un corretto scambio matrimoniale.?* Con l’immagine della dote viene evocato qui un singolare prezzo di delitti pagato per l’ottenimento della sposa. La dote non è stata corrisposta, come avrebbe dovuto, da Feta, ma è stata pagata direttamente da Medea, e ai propri danni. La retorica senecana permette dunque di dare un assetto formale figurato a un’unione irregolare e delittuosa: e lo fa seguendo le linee di una precisa realtà antropologica. Se l’unione è stata realizzata su queste basi, di esse si dovrà tener conto anche per il divorzio. È noto infatti che uno dei passi centrali nel repudium romano era proprio la restituzione della dote alla famiglia della donna allontanata.?° Ma Giasone non potrebbe restituire nulla al suocero, contro la cui volontà si è sposato. E inoltre il suocero non può essere il destinatario di questa restituzione, se a pagare il prezzo delle nozze è stata la stessa Medea. Con una richiesta paradossale 23. Sono gli stessi elementi che ricorrono anche, in un’analoga prospettiva, nell’epistola 12 delle Heroides di Ovidio: cfr. ad es. 109-114: Proditus est genitor, regnum patriamque reliqui,/ munus in exilio quodlibet esse tuli;/ virginitas facta est peregrini praeda latronis;/ optima cum cara matre relicta soror./ At non te fugiens sine me, germane, reliqui!/ Deficit hoc uno littera nostra loco. 24. Cfr. supra, pp. 124-128. 25. Cfr. Treggiari 1991, pp. 325 e 446-482 (466 in part.): «The legal effect of divorce was normally considered to be the physical separation of the coniuges and the restoration of the dowry, apart from whatever the husband retained on account of children, fault, expenses, gifts, or things taken away».

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quanto la dote qui evocata, Medea pretende di riavere indietro quello che ha perduto; chiede di essere risarcita del danno incalcolabile che le è costato seguire l’uomo che ora la tradisce. Il cupo epilogo della vicenda sarà la conseguenza inevitabile di una richiesta del genere. Con questo modo di reclamare la restituzione di una dote viene radicalizzato uno spunto che si trova già ampiamente sviluppato alla fine dell’epistola 12 delle Heroides ovidiane.?9 Lì Medea scriveva a Giasone (vv. 199-208): Dos ubi sit, quaeris? Campo numeravimus illo, qui tibi laturo vellus arandus erat. Aureus ille aries villo spectabilis alto dos mea, quam, dicam si tibi ‘Redde’, neges. Dos mea tu sospes, dos est mea Graia iuventus;

i nunc, Sisyphias, improbe, confer opes! Quod vivis, quod habes nuptam socerumque potentes, hoc ipsum, ingratus quod potes esse, meum est.

Quos equidem actutum — sed quid praedicere poenam attinet? Ingentes parturit ira minas.?”

Mentre nella cornice dell’epistola ovidiana le parole di Medea appaiono come un semplice artificio retorico, come una pretesa assolutamente irrealizzabile (v. 202),°* la Medea di Seneca non solo rivuole indietro la «dote»? ma, attraverso la vendetta, alla fine trova anche un modo

(paradossale tanto quanto l’immagine qui usata) per dire di essersela ripresa davvero. Se la Medea di Ovidio usa parole simili solo per costruire una metafora, quella di Seneca applica il modello culturale che sta dietro questa metafora come regola per organizzare la propria vendetta. 26. Non è escluso che anche nella sua Medea Ovidio sviluppasse questo tema. Lo potrebbe far pensare il fatto che la Medea ovidiana tagli corto proprio nel mezzo del brano in cui questo motivo viene sviluppato, per abbandonarsi all’ira, ai propositi di vendetta e al lugubre verso finale. Ma potrebbe farlo pensare anche la corrispondenza di questi motivi presenti nella dodicesima epistola delle Heroides, con quelli che stiamo considerando nella tragedia di Seneca (sono tutti, in ordine sparso, presenti nei dialoghi della Medea senecana con Creonte e con Giasone); e, anco-

ra, il fatto che il tema ricorra anche nell’epistola di Ipsipile (6.137 s.: quid refert, scelerata piam si vincit et ipso/ crimine dotata est emeruitque virum?). 27. Peri vv. 199-203 di questo passo Leo 1878, pp. 168 s. parlava addirittura di un’«imitatio aperta» da parte di Seneca (486-489). Cfr. l'ampio commento a questi versi in Bessone 1997, pp. 266-286 e Heinze 1997, pp. 206-219. 28. La Medea di Ovidio sembra infatti riconoscere che si tratta di una dote che Giasone non solo non vorrebbe, ma neanche potrebbe restituire in alcun modo. 29. Medea avanza la richiesta con la stessa energia con cui aveva prima reclamato da Creonte la restituzione del suo compagno (cfr. vv. 272 s.: redde fugienti ratem/ vel redde comitem). Sulle risonanze giuridiche di questo imperativo cfr. Perrenoud 1963, pp. 495-497.

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«Medea nunc sum»

L’infanticidio, in cui Medea intravede la possibilità di colpire i figli per punire il suo coniunx, viene pensato e realizzato rapidamente, e solo nell’ultimo “atto” della tragedia. Questo è il vero e quasi unico nucleo della vendetta. Infatti, come ho già detto,” l’ùccisione di Creonte e di sua figlia hanno nella tragedia senecana un ruolo ridottissimo, e rappresentano la parte meno significativa del complesso progetto di Medea. Sembra quasi che Seneca abbia cercato di pagare il più rapidamente possibile il suo debito nei confronti della tradizione letteraria del mito di Medea, che richiedeva necessariamente l’eliminazione dei sovrani corinzi. Nella tragedia senecana l’uccisione di Creonte e Creusa certo non possiede quel peso determinante che ha nella tragedia di Furipide.?! Prima degli improvvisi preparativi di questo delitto, gli unici accenni alla necessità di uccidere il re di Corinto e sua figlia si trovano espressi convulsamente ai vv. 125 s. e 143-149: e anche nella lunga scena dell’incantesimo non si insiste affatto sul motivo che spinge Medea a uccidere la sua rivale; c’è solo un generico riferimento ai novi thalami (743) contro cui si indirizza l’intenzione omicida. Lo stesso racconto del nuntius che riferisce la scomparsa di Creonte e Creusa occupa in Seneca solo dodici versi (879-890), contro i più di novanta dell’&yye— og euripideo.* Gli stessi artifici logici e retorici che Seneca spende attorno all’uccisione dei figli sono assolutamente incomparabili, per complessità e significato, ai pochi cenni dedicati alla coppia Creonte-Creusa. Nelle parole di Medea la vendetta è chiaramente divisa in due fasi, la prima delle quali costituisce solo una premessa incompleta all’infanticidio (896-899): Pars ultionis ista, qua gaudes, quota est? Amas adbhuc, furiosa,33 si satis est tibi

caelebs Iason. Quaere poenarum genus haut usitatum iamque sic temet para.

La vera e propria vendetta, quella più terribile, deve ancora cominciare. E il ricercatissimo impianto retorico di tutto il lungo monologo di Medea 30. Cfr. supra, p. 132. 31. Cfr. supra, p. 118 s. 32. Cfr. Eur., Med. 1136-1230. Seneca ha sfruttato questo delitto più che altro per costruire, secondo il gusto dell’epoca, la grande scena di magia dei vv. 670-848 (che probabilmente deve molto alla Medea del settimo libro delle Metamorfosi ovidiane, su cui cfr. Newlands 1997, pp. 186-192). 33. La correzione del testo tràdito in furiose, che fu proposta da Bentley ed è ora accolta sia da Costa 1973 che da Zwierlein 1988, non è necessaria. Non è infatti richiesta dal metro e, per quanto riguarda il senso, a me non pare invero-

simile che Medea interrompa per un attimo la sua apostrofe al proprio animus per rivolgersi a se stessa. Oltretutto mi pare improbabile che Medea definisca il suo animus, piuttosto che se stessa, «ancora innamorato».

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(893-977) mostra chiaramente che è solo qui che si tirano le fila dell’intreccio. Solo adesso, infatti, l’eroina sembra ritrovare il bandolo dei frammenti della propria vita che il ripudio di Giasone aveva reso sconnessi e privi di

senso. Solo adesso si comincia a vedere un progetto che rimetta tutto assieme, in un’articolazione e con un senso tanto chiari quanto folli (907-915): Prolusit dolor per ista noster: quid manus poterant rudes audere magnum, quid puellaris furor? Medea nunc sum; crevit ingenium malis: iuvat, invat rapuisse fraternum caput, artus invat secuisse et arcano patrem spoliasse sacro, iuvat in exitium senis armasse natas. Quaere materiam, dolor: ad omne facinus non rudem dextram afferes.

Di nuovo Medea fa l’elenco delle colpe precedenti, appartenenti alla sua carriera scellerata di vîrgo (puellaris furor). Questi delitti stanno finalmente per trovare un nuovo scopo, e quindi val la pena (iuvat, ripetuto per quattro volte in tre versi) averli commessi. Ora infatti, attraverso la sofferenza, Medea ha raggiunto il pieno compimento della sua identità (sum).3* Non più virgo inesperta, ma madre dolente e irata, ormai pratica di ogni sorta di delitto, può avviarsi a compiere quei maiora |...] scelera che erano stati oscuramente prospettati all’inizio della tragedia (v. 50). Abbiamo dunque visto come lo sviluppo di questa identità si sia svolto in tre tempi:* dal disordine totale, in cui rimaneva in piedi solo l’energia terribile della donna abbandonata (Medea superest, v. 166) al progetto di rimettere ordine fra le rovine (Medea :: Fiam, v. 171) e infine alla realizzazione della vendetta. Al termine, tutto avrà di nuovo un senso. Stiamo

per assistere al momento in cui la virgo Medea potrà essere riconciliata con la coniunx/mater offesa, diventando finalmente “se stessa”.

Coniunx vs mater

Per confermarsi nella decisione di uccidere i propri figli Medea usa una serie di espressioni che rappresentano la sua condizione di madre come incompatibile con la realtà del divorzio. Ora che è stata sepa34. Cfr. Kullmann 1970, pp. 161-164. 35. Cfr. Liebermann 1974, p. 189. Sulla fortuna straordinaria del tema Medea fiam nelle versioni successive del racconto cfr. Friedrich 1960, pp. 227-237. Per il precedente ovidiano cfr. Epist. 12.5, 25 e 182, con le note di Bessone 1997 ad locc. In Seneca viene ulteriormente ampliata, rispetto a questo precedente (a cui si deve aggiungere almeno Epist. 6.127 s. e 151), l'insistenza sul nome Medea (cfr. 8, 166, 171, 179, 362, 496, 517, 524, 567, 675, 867, 892, 910, 934). Su questo

punto cfr. Traina 1981 e Segal 1982.

Virgo, coniunx, mater: Medea

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rata dalla sua prole, la donna cerca infatti (come abbiamo visto) di convincersi che i suoi figli appartengono a Creusa, la matrigna sotto la cui giurisdizione sono passati. Ma nonostante il massiccio impiego di questi aggiustamenti retorici, la decisione di Medea rimane impossibile, e deve passare attraverso il tradizionale dissidio interno che è tipico di varie eroine infanticide del mito (927-930): Ira discessit loco materque tota coniuge expulsa redit. Egone ut meorum liberum ac prolis meae fundam cruorem? Melius, a, demens furor! Medea si trova a dover ricucire lo strappo che si apre in lei fra la funzione materna (mater tota, v. 928) e quella coniugale (coniunx, v. 928). Questi due aspetti ovviamente diventano inconciliabili nel momento in cui il matrimonio è dissolto. «Per chi» adesso Medea è madre? È il problema che abbiamo visto emergere al v. 171, già commentato in precedenza:3” NVT. Medea - ME. Fiam. NVT. Mater es. ME. Cui sim vide.

Ripudiandola come coniunx, Giasone stacca Medea non solo da sé ma anche dai suoi figli. La funzione materna perde così una delle sue basi fondamentali. Recentemente Sarah Iles Johnston?* ha osservato che il fascino ancora oggi esercitato dal mito di Medea «owes much to the fact that a mother’s deliberate slaughter of her children undermines one of the basic assumptions upon which society — indeed humanity — is constructed: mothers nurture their children». Se dovessimo declinare questa affermazione secondo i paradigmi culturali di una società antica, sarebbe certo bene aggiungere (come fa la Medea di Seneca) che questa funzione di allevamento viene svolta da una madre non in assoluto, ma “per qualcun altro”. Perciò, come ho già detto, il sacrificio dei figli realizza la separazione della coppia danneggiando soprattutto colui il quale fino a quel momento è stato il beneficiario dell’unione, e che continua a conservarne i frutti, mantenendo con sé i figli. È dunque giusto dire che, in molti racconti antichi, l’infanticidio è non tanto una negazione di tutte le regole culturali, ma più precisamente uno strumento — estremo, ma ben finalizzato — per dissolvere matrimoni sbagliati o per punire genitori (maschi) che contraggono unioni sessuali scorrette.3? 36. Cfr. supra, pp. 133-136. 37. Cfr. supra, p. 132. 38. Johnston 1997, p. 44. 39. Questo è uno spunto di osservazione con cui forse andrebbe integrato il materiale raccolto ormai vent'anni fa da Easterling 1977, la quale tendeva a spiegare in un’unica cornice psicologica tipi di infanticidio antico e moderno che sembrano avere fondamenti culturali piuttosto lontani fra di loro. Bisognerebbe

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Capitolo IV

Gli infanticidii di Medea Prima di arrivare a realizzare il suo progetto Medea deve attraversare il terribile dissidio fra le relazioni con i propri parenti di sangue e le relazioni con 1 parenti acquisiti tramite il matrimonio.4° Per comprendere la rilevanza di un simile ostacolo, all’interno di storie come questa, è utile tornare a confrontare da vicino l’atteggiamento di Medea con quello di due personaggi che, come abbiamo visto, sono legati a lei da diverse analogie: Procne (ancora una volta) e Altea.*! Secondo le versioni ovidiane dei due racconti, tanto in Procne (Mer. 6.627-635)?? quanto in Altea (Met. 8.462-484)* nasce un dissidio fra il ruolo di madre e quel-

lo di sorella. Entrambe decidono infatti di uccidere i propri figli per vendicare le colpe che i loro nemici (rispettivamente il marito e il figlio stesso) hanno commesso contro i loro fratelli/sorelle. Per esse si tratta di

scegliere fra due gine), decidendo Medea non il semplice fatto

campi alternativi (la famiglia acquisita o quella di oridi essere o una buona madre o una buona sorella.# potrebbe avere le stesse esitazioni di Procne e Altea, per che lei ha già ucciso il proprio fratello. Il problema di

Medea è ora tutto interno all’unica sua funzione di coniunx/mater, che va ridefinita. Tuttavia, se il contrasto fra le funzioni di madre e di sorel-

la non si pone per Medea a livello “sincronico” (Medea non può scegliere fra le alternative di dimostrarsi “buona madre” o “buona sorella”), l'eroina senecana può riproporlo a livello “diacronico”, in un modo del tutto inedito. Infatti la sua rinunzia alla funzione di madre non si configura come equivalente a una scelta della propria funzione di sorella, ma replica la sua precedente rinunzia a tale funzione. Rinunzia che può essere concepita in questi termini grazie all’artificio retorico che, come

abbiamo visto, permette a Medea di presentare tutti i suoi delitti precedenti come perdite da lei stessa patite. In questa prospettiva la vendetta contro Giasone può espiare il delitto di un tempo tramite un nuovo infanticidio ad esso assolutamente analogo. Uccidere i figli diventa considerare il fatto, ad esempio, che l’atteggiamento psicologico negli infanticidi oggi appare analogo per i genitori di entrambi i sessi: tanto l’uomo quanto la donna cercano di danneggiare il partner attraverso il delitto, più o meno alla stessa maniera. Nel mito antico, invece, pare proprio che questo genere di delitto si rivolga esclusivamente contro i padri (cfr. anche Segal 1996, p. 16). 40. Su questo punto cfr. già supra, pp. 77-83, 89-91 e p. 132 s. 41. Per questo parallelo cfr., fra gli altri, Friedrich 1960, pp. 202 s. 42. Cfr. supra, p. 133. 43. Cfr. in part. 8.475-477: Incipit esse tamen melior germana parente! et, consanguineas ut sanguine leniat umbrasl inpietate pia est. Cfr. Med. 779 s.: piae sororis, impiae matris (detto proprio di Altea). Sul confronto fra questo brano e Sen., Med. 779 s. cfr. Jakobi 1988, p. 59, che giustamente segnala anche la corrispondenza fra Med. 939-944 e Met. 8.470-477. 44. Itesti ovidiani che ci presentano Altea, Procne e Medea sono discussi da Cazzaniga 1951, pp. 62-67 e 85 s., in una prospettiva evoluzionistica diversa dalla mia.

Virgo, coniunx, mater: Medea

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cioè per Medea un modo tardivo e perverso di privilegiare il ruolo di sorella, vendicando il fratello della morte che lei stessa gli ha inflitto. Di conseguenza la vendetta si struttura come un vero e proprio sacrificio offerto alle Erinni del fratello: quelle stesse Erinni che erano state evocate all’inizio della tragedia. Dal verso 951 in poi Medea cede completamente al dolor e viene circondata dalle Furie che la spingono al delitto.*° Fin quando addirittura il fantasma del fratello smembrato comparirà davanti a lei, guidandole (forse anche materialmente) la mano nell’uccisione del primo bambino.**

In questo gesto di Medea, dunque, l’intenzione di punire Giasone non deriva semplicemente dal tradimento del coniunx (come in Euripide), ma viene proiettata in una strategia molto più ampia. Non si trat-

ta infatti semplicemente di togliere a Giasone la discendenza, ma di fare questo compensando nello stesso tempo le perdite che Medea aveva subito in passato per potersi unire all’eroe argonautico.*7 In tal modo la scelta del bersaglio per la vendetta è direttamente motivata dal torto che va riparato: l’uccisione del primo dei due figli viene esplicitamente messa in relazione con la morte del piccolo Apsirto. Così il nuovo infanticidio serve a bilanciare quello precedente, e la carriera scellerata della virgo e della coniunx-mater acquistano un’imprevista consequenzialità. Le due “metà” sconnesse dell’identità di Medea sembrano finalmente poter trovare un collegamento. Il matrimonio con Giasone non è più un evento senza scopo, la cui dissoluzione ha vanificato ogni iniziativa intrapresa in passato per raggiungerlo, ma si configura come una cerniera che lega fra loro i due delitti, secondo uno schema che potremmo descrivere così: 45. Nonsi può escludere che Medea vedesse le Furie sulla scena, se la tragedia veniva portata in teatro. Il motivo di Medea trasportata dalle Furie era tradizionale: era infatti presente già in Neofrone (fr. 2.10-2: cfr. Dingel 1985, p. 1074). Nella stessa tragedia di Euripide (1333-1335) Giasone dice che gli dèi hanno scagliato contro di lui l'AA &oTwp suscitato dal fratricidio di Medea. Anche Ovidio (Epist. 12.160) aveva fatto dire a Medea, in un’altra prospettiva, che nel divorzio stesso si realizzavano le inferiae dovute all’umbra del fratello (inferias umbrae fratris babete mei!) 46.

Vv. 963-971:

Cuius umbra dispersis venit/ incerta membris? Frater est,

poenas petit:/ dabimus, sed omnes. Fige luminibus faces,/ lania, perure, pectus en Furiis patet./ Discedere a me, frater, ultrices deas/ manesque ad imos ire securas iube: / mihi me relinque et utere hac, frater, manu/ quae strinxit ensem — victima manes tuos/ placamus ista. Per la ricezione di questo motivo è importante ricordare il fatto che Osidio Geta fa diventare effettivamente l’umbra Absyrti un personaggio parlante nel suo centone (vv. 390-391): cfr. al proposito Friedrich 1960, pp. 211 s., che tratta anche delle versioni successive in cui questo espediente viene ripreso. 47. La vendetta si inserisce inoltre nel più ampio contesto del nefas argonautico, che ha lasciato dietro di sé una catena di punizioni divine, ricordate nel terzo canto corale (vv. 579-669): cfr. Lawall 1979, p. 426. Probabilmente c’è anche un motivo folklorico alla base di questo spunto: non ci si poteva portare un assassino non purificato su una nave. Il motivo, su cui già Apollonio Rodio aveva insistito (4.557-591), è anche in Ov., Epist. 12.117 s. (cfr. Heinze 1997, p. 166 ad loc.).

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Capitolo IV

Medea ha ucciso Apsirto per poter sposare quel Giasone, cui ha dato i bambini, uccidendo i quali ora può vendicare la morte del fratello. All’inizio, dunque, Giasone è il destinatore di un delitto di cui Medea

è soggetto e che danneggia, attraverso Apsirto, il padre di Medea; ora, invece, (Eeta tramite) il fantasma di Apsirto è il destinatore del delitto

di cui Medea è soggetto e che danneggia, attraverso i figli, Giasone. Con il parallelismo tipico dell’ultio, l’irzivria iniziale subita dalla casa di Medea

viene compensata con un’analoga irziuria subita dalla casa di Giasone. Questo motivo probabilmente non era una novità assoluta. Ad esempio, era presente già nella sesta epistola delle Heroides di Ovidio, quella che Ipsipile indirizza a Giasone. Ipsipile scaglia una serie di maledizioni contro Medea, che le ha tolto Giasone in un modo assolutamente

parallelo a quello in cui Creusa toglierà il coriurx a Medea. L’augurio finale è che la barbara possa attraversare tutte le sofferenze che Ipsipile stessa ha dovuto affrontare e possa commettere esattamente tutti i delitti che il suo destino letterario la condanna a compiere. In questa prospettiva è interessante il modo in cui viene prospettato l’infanticidio (vv. 159 s.): Quam fratri germana fuit miseroque parenti filia, tam natis, tam sit acerba viro.

Come si vede, si tratta proprio dello stesso modo che più tardi avrebbe usato Seneca per contrapporre punto per punto i delitti di un tempo a quelli successivi al divorzio. A essere centrale, in questa visione della vendetta, è soprattutto il contenuto culturale dei valori messi in gioco. Ancora una volta quello che in Ovidio può sembrare un puro esercizio verbale, nell’azione scenica senecana diventa la radicale attuazione di un preciso modello culturale, sfruttato in ogni sua potenzialità narrativa e drammatica.

La restituzione della dote

Il destino di Medea viene concepito come l’opposto di quello di una classica sposa, che in teoria dovrebbe essere destinata a mediare l'alleanza fra due case. Medea infatti arreca danni tanto alla famiglia d’origine quanto a quella acquisita: ma la sua strategia viene presentata come un tentativo di compensare il danno che il suo matrimonio ha apportato alla famiglia paterna tramite un danno parallelo inflitto alla sua nuova famiglia.4* L'intenzione di vendicare i torti subiti dalla casa di Medea, del tutto assente dalla tragedia euripidea, diventa così in Seneca addirittura il motore principale dell’infanticidio. E la con48. Su questi aspetti del mito di Medea, in generale, cfr. Visser 1986, pp. 153-159.

Virgo, coniunx, mater: Medea

ISS)

sapevolezza di aver riparato al danneggiamento iniziale trova espressione nel grido con cui la donna accoglie l’arrivo sulla scena di Giasone, che invano vorrebbe catturarla (982-987): lam iam recepi sceptra germanum patrem, spoliumque Colchi pecudis auratae tenent; rediere regna, rapta virginitas redit. O placida tandem numina, o festum diem,

o nuptialem! Vade, perfectum est scelusvindicta nondum: perage, dum faciunt manus.

Come abbiamo già visto, si tratta di un grido assolutamente analogo a quello cui si lascia andare Atreo alla fine del Thyestes (1096-1099).#? Come Atreo, anche Medea dichiara di essere riuscita a riportare indietro il nastro della propria vita, e dice di aver recuperato tutto ciò che aveva perduto “a vantaggio di Giasone”: la regalità, il fratello, il padre, il vello d’oro e la sua stessa condizione verginale. Cioè proprio quelle perdite che, come abbiamo visto, erano state così a lungo lamentate nella prima metà della tragedia, e che rappresentavano la “dote” pagata da Medea stessa per potersi unire a Giasone. È come se Medea nutrisse l’illusione di essere tornata virgo nella casa paterna, prima ancora che tutta questa triste avventura fosse cominciata. Nello stesso tempo, la “restituzione della dote”, che finora era rimasta incompiuta, può essere considerata come ottenuta, anche se solo nella logica di una metafora paradossale: Medea ha come riavuto indietro ciò che aveva perso. La vendetta crea insomma l’illusione di “rimettere le cose a posto” .0! La virgo sedotta e la mater abbandonata sono state vendicate. Finalmente Medea può mostrarsi a Giasone per quello che lui rifiutava di accettare: non più la rivale di Creusa, ma l’antica coniunx, la terribile e scellerata compagna dell’esilio (1020-1022). Ora questa donna, liberatasi dalla sua identità di madre, e dopo aver cancellato il suo passato, fugge da sola verso un cielo vuoto. Alla fine della tragedia Giasone non è più colui che allontana Medea: è lei che lo lascia, dopo aver compensato i delitti commessi per lui con i delitti commessi contro di lui. La virgo che aveva ucciso per Giasone, la coniunx che aveva partorito “a vantaggio” di lui ha infine cancellato la propria maternità “contro” di lui. In questo modo viene realizzato esattamente ciò che Medea aveva promesso alla fine del prologo (55): Quae scelere parta est, scelere linquenda est domus.

49. Cfr. supra, pp. 65-67. Cfr. anche infra, p. 232 s. 50. Cfr. 209-220 e 483-489. S1. Anche l’accenno al dies nuptialis dev'essere forse interpretato come un riferimento al fatto che si è posto rimedio alla perdita d@ifa coniugis fides lamentata al v. 164.

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Capitolo IV

CAPITOLO V

Una presenza mediata: Seneca

e la drammaturgia elisabettiana

The closet tragedies of Seneca may have had some influence upon their style of rhetoric, the comedies of Plautus and Terence provided a few comic situations and devices, but Elizabethan drama would be pretty much the same if these authors had never be known at all. W. H. AUDEN!

Di quale “Seneca” si parla In una celebre battuta di Amleto (1601) Polonio presenta al giovane principe danese una compagnia di attori comici (apparentemente una tipica compagnia di commedia dell’arte), vantandone l’abilità in tutti i possibili generi teatrali. Nessun dramma è fuori dalla loro portata: per loro, «Seneca cannot be too heavy, nor Plautus too light» (Hamlet II.ii.386). Sinteticamente, nei nomi dei due autori classici, viene indicato il massimo grado di difficoltà pensabile; ed anche il massimo grado di quelle qualità ritenute fondamentali per il genere tragico e il genere comico (gravi-

tas e levitas, verosimilmente). Il peso dell’auctoritas dei poeti antichi riassume nel modo migliore l’idea stessa di tragico e comico. Qualche anno prima (1598) Francis Meres, nel «Comparative Discourse of our English Poets with the Greeke, Latine, and Italian Poets»* compreso nella sua 1. W.H. Auden, The Dyer's Hand and Other Essays, London, Faber and Faber

1975, p. 173.

2. Cfr Clubb:1989; pp. 21. 3. Sul senso di questa espressione cfr. Costa 1975, pp. 38-41. 4. F. Meres, Palladis Tamia, in Smith 1904, II, pp. 317 s. (il «Comparative

Discourse» è riprodotto alle pp. 314-324).

ISIS)

Palladis Tamia, parlava di Shakespeare evocando da un lato, per quanto riguarda la «dolcezza» dimostrata nello stile dei poemetti e dei sonetti, il nome di Ovidio (che in lui si sarebbe reincarnato); e dall’altro, per

quanto riguarda l’eccellenza nella scrittura comica e tragica, ancora una volta, i nomi di Plauto e Seneca: «As Plautus and Seneca are accounted the best for Comedy and Tragedy among the Latines: so Shakespeare among the English is the most excellent in both kinds for the stage». Insomma, Plauto e Seneca sembra fossero proprio delle comode etichette paradigmatiche per indicare i modelli sommi del teatro comico e tragico, tanto per gli attori quanto per gli autori. Questi due passi sono comunemente citati come chiare testimonianze dell’importanza che tanto Plauto quanto Seneca avevano per la scrittura drammatica dell’epoca elisabettiana. E, nel caso che ci interessa più direttamente, l’importanza del teatro senecano per la tragedia inglese è stata così tante volte e con così tanta insistenza ribadita e sottolineata da far apparire un ennesimo intervento sull’importanza di Seneca per gli elisabettiani come un’inutile ripresa di un tema fin troppo risaputo. Ma il fatto che i due passi citati riguardino Shakespeare ci mette in guardia dall’intendere questa battuta come un semplice riferi-

mento a un festo comunemente conosciuto e imitato (0 messo in scena) dai drammaturghi e dagli attori dell’epoca. Nonostante l’immensa quantità di studi dedicati alla cultura e alla formazione di Shakespeare, nessuno è in grado di affermare con un sufficiente grado di sicurezza se e quanto il drammaturgo inglese conoscesse (nel testo originale o in traduzione) le opere dei due autori latini; e quanto della propria ispirazione avesse tratto direttamente dai loro testi. La grandezza e l’originalità delle invenzioni shakespeareane è sempre tale da non consentire un puntuale riscontro dei modelli come quello a cui ci abitua Îa nostra pratica filologica comune. Se di rapporto con i modelli classici si deve parlare, nel suo caso, si tratta sempre, nella migliore delle ipotesi, di una trasfigurazione completa dei modelli antichi.” Basterebbe considerare cosa diventa l’intreccio dei Menaechmi 5. Giustamente Borgmeier 1978, p. 286 commenta: «Seneca bedeutet die klas-

sische Tragodie, und ein Vergleich mit ihm stellt fiir einen zeitgenòssischen Dramatiker die grof£te mògliche Ehre dar». Si può anche ricordare, con Boas 1914, pp. 235 s., che William Gager raccomandava a chi organizzava le rappresentazioni teatrali nei college di Oxford, di avere una buona dimestichezza, appunto, con Seneca e Plauto. 6. Il discorso è ovviamente diverso per la scena accademica, dove le rappresentazioni senecane sono ampiamente attestate. Non sono invece state finora prodotte prove accettabili per sostenere l’ipotesi di una rappresentazione teatrale delle traduzioni di Heywood e degli altri traduttori. Il cenno nella prefazione di Neville non può essere interpretato in questo senso (cfr. infra, p. 181). 7. Cfr. Martindale & Martindale 1990, p. 10.

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Capitolo V

nel Comedy of Errors.* In molte circostanze, poi, il rapporto pare passare attraverso una serie di filtri non sempre facili da individuare: e questo avviene soprattutto nelle tragédie, dove non è quasi mai possibile individuare un preciso e diretto collegamento con i testi antichi. Del resto, non solo la diretta conoscenza di Seneca da parte di Shakespeare è stata da più parti messa in dubbio,” ma più in generale la presenza delle tragedie senecane come modelli vivi di ispirazione diretta nella cultura del Cinquecento inglese appare oggi sempre più problematica, ed è stata insistentemente ridimensionata nel dibattito critico dell’ultimo secolo, e degli ultimi trent'anni in particolare. Il pregiudizio classicistico, che tendeva a presentare anche gli autori elisabettiani a diretto confronto con i testi antichi, è stato progressivamente superato, a vantaggio di una visione più articolata della cultura inglese, in cui gli spunti classici (legati sia ai testi originali che ai volgarizzamenti) si mescolano in modo molto complesso con la tradizione locale, con l’eredità medievale e con i ricchissimi canali di influenza delle altre letterature europee (italiana e francese prima di tutto). In questo dibattito continua ad essere poco chiara la posizione di Seneca. Dal tono con cui i critici parlano delle sue tragedie, si sarebbe 8. Le differenze strutturali fra le due trame sono state recentemente studiate da Oniga 1999. Queste differenze si spiegano in gran parte col fatto che non si tratta di una derivazione diretta, ma dello sviluppo autonomo di un tipo di intreccio (basato sul tema dei simillimi) che aveva avuto già varie riprese (basti pensare a commedie italiane come La Calandria, I suppositi, e persino a tragedie come Gli Antivalomeni di Giraldi Cinzio). Senza contare la quantità davvero eccezionale di rappresentazioni dei Menechmi (o Menechini) che si registra in Italia, già nella seconda metà del Quattrocento (in particolare in area ferrarese e veneziana), a cominciare dalla traduzione di Niccolò da Correggio del 1486. Per quanto riguarda Comedy of Errors, un quadro delle possibili influenze da ipotizzare si trova in Clubb 1989, pp. 49-63. Secondo Clubb, a parte un generico gusto italianate, non c’è bisogno di ipotizzare, oltre ai Menaechmi e all’Amphitruo di Plauto, altre fonti, se non «Gower's version of Apollonius of Tyre, and the account of St. Paul in the Acts of the Apostles». L’ipotesi di una più diretta influenza di Plauto su Shakespeare è stata di recente riproposta da Riehle 1990. 9. Basti qui ricordare le conclusioni di Baldwin 1944, vol. II, pp. 560 s.: «It is highly unlikely that Shakspere had anything more than sententiae from Seneca in grammar school, and as yet we have no convincing evidence that he ever had any considerable direct acquaintance with Seneca at any time. We will do well to remember here that the rage for Senecan tragedies, as Seneca, had passed before Shakspere began writing tragedies, and that already such tragedy was popular Seneca at its fullest height, which is rather a different thing. The very most that can be claimed for any of Shakspere”s tragedies is that it is popular Seneca; no one of them aimed to be true Seneca. So early as 1589, Nashe had laughed out of court those who read English Seneca by candle light — not having read him in Latin in grammar school —, and erudite Seneca at Inns of Court had long since spent its force. If Shakspere had not already studied Seneca, there was no need for him to do so either in original or in translation when eventually he tried his hand at writing popular Senecan tragedy».

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

LS

in genere portati a credere che il loro testo dovesse essere di vasta circolazione e di facile accesso sia per il pubblico degli eruditi che per quel lo delle persone colte in genere. Ma si tratta di un equivoco, che si svela subito quando, controllando meglio il senso dato a questo nome dagli studiosi, si constata che con esso si tende a indicare non tanto l’autore antico direttamente conosciuto dal pubblico dei lettori, quanto uno stile tragico diffuso nella cultura europea dell’epoca. In particolare, l’equivoco è dovuto all’uso di un aggettivo come «senecano», di solito impiegato come un'etichetta generica per indicare il complesso del gusto teatrale italiano, fondato sull’orrore, sull’esasperazione degli elementi patetici, sulla sentenziosità e così via.!° Prendiamo ad esempio, fra molte altre possibili, una definizione come quella di Gordon Braden:!! «Much of what we call Renaissance Senecanism is really Italian Senecanism; Titus Andronicus is more like a play of Giraldi’s or Dolce’s than like a play of Seneca’s».!° In questo modo di presentare e concepire la presenza di Seneca tanto nel teatro italiano quanto (di riflesso o direttamente) nel

teatro inglese, si finisce curiosamente per perdere di vista l’oggetto stesso che starebbe alla base di questo processo culturale. E difatti attorno a questo tema, da circa settant’anni, si protrae una polemica accesa, e abbastanza sterile, fra chi rivendica una centralità diretta del testo senecano in sé e per sé per la tradizione inglese, e chi invece sostiene che l’influenza diretta del testo senecano sia solo secondaria e derivata.

Non è possibile dar conto qui di questa lunga e vivace discussione.!5 Schematizzando, potremmo dire che negli studi inglesi sulla tragedia è successo l’inverso di quanto era accaduto negli studi italiani sui precedenti della tragedia rinascimentale. In Italia, infatti, nei pri10. Cfr. ad es. la formula usata da Pagnini 1981, p. 391: «Ma furono l’Italia e la Francia a trasmettere agli inglesi il gusto di uno spettacolo tragico che aveva preso il teatro senechiano a modello e aveva raggiunto per quella via gran favore di pubblico. Questo nuovo tipo di tragedia—che appunto si conosce per “senechiana” — si deve far risalire dunque primariamente, per una parte all’Orbecche (1541) di Giovan Battista Giraldi Cinzio, e per un’altra alla Cléopatre captive (1552) di Etienne Jodelle» (cfr. anche le giuste osservazioni a p. 407). È bene però precisare subito che, come è noto, la ricaduta della “drammaturgia” francese cinquecentesca è sostanzialmente nulla sulla produzione maggiore del teatro elisabettiano (quella pensata per la scena e non per la lettura). Il quadro migliore del problema si trova in Charlton 1921. 11. Braden 1985, p. 118. 12. Cfr. Bate 1995, p. 29 (a proposito del Titus Andronicus): «Senecanism’

in a broader sense is a key to the rhetoric of the drama». Anche fra i classicisti questa posizione, pur rimanendo minoritaria, è stata seguita da alcuni: cfr. ad es. Rees 1969, p. 123 e Goldberg 2000, pp. 209-221. L’evoluzione della tragedia elisabettiana nei termini di una possibile fusione progressiva fra l’«Italian Seneca» e la tradizione del teatro nazionale è stata ipotizzata nel modo più interessante da Charlton 1921 (basti considerare il quadro d’insieme proposto a pp. CLXVI-CLXX). 13. Esistono comunque delle comode rassegne del dibattito, come quelle di Kiefer 1978 e Frank 1997.

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Capitolo V

mi anni Settanta si è avuta una rivalutazione dell’importanza di Seneca per le tragedie quattrocentesche e in generale per la tragedia del Cinquecento.!* Questa rivalutazione si contrapponeva al parere, all’epoca ancora piuttosto radicato, di chi alla fine dell'Ottocento aveva

accentuato la centralità della tradizione fondata sulle sacre rappresentazioni come base culturale, letteraria e drammatica su cui si sarebbe sviluppato il teatro tragico regolare italiano.!" Nel mondo anglo-

sassone, invece, si è partiti da una posizione inversa, quella di John W. Cunliffe,!° che riconduceva proprio a Seneca il nucleo fondamentale di ispirazione per la drammaturgia elisabettiana regolare, basandosi su un lungo elenco di passi paralleli. Reagendo a questa posizione, che ancora oggi è molto salda persino nei manuali di storia letteraria, verso la fine degli anni Sessanta si è assistito a una più decisa sottolineatura degli elementi di continuità fra la tragedia regolare e la tradizione del dramma medievale inglese.!” Possiamo limitarci a dire, in estrema sintesi, che alla luce di questa discussione, se non altro, oggi dobbiamo abbandonare le generalizzazioni che fino a non molto tempo fa attribuivano al teatro tragico elisabettiano uno sviluppo sistematico di temi e forme tratti direttamente dai drammi di Seneca, e cercare invece di restituire un’immagine più variegata di un’influenza che si è esercitata secondo modalità diverse sia nelle varie fasi di sviluppo di questo teatro che sui singoli autori.!* 14. Cfr. soprattutto Paratore 1975 e 1980. 15. Cfr. soprattutto D'Ancona 1891?. Solo relativamente diversa era, in anni più recenti, la posizione di Toschi 1955, che si interessava soprattutto degli elementi popolari che stanno alla base dello sviluppo dei generi teatrali (cfr. la prefazione di Bronzini al volume ristampato da Boringhieri, pp. IX-XXVIII). Un ridimensionamento della posizione di D'Ancona era stato proposto già molto presto, ad esempio in studi come quelli di Neri 1904 e Bertana 1906, che avanzavano riserve su varie questioni di dettaglio. 16. Cunliffe 1893. 17. Cfr. soprattutto i saggi fondamentali di Hunter 1967 e 1974. Anche in questo caso si erano già avuti vari attacchi alla posizione di Cunliffe, da parte di Lucas 1922, Baker 1939, Baldwin 1944 e altri. La posizione di Cunliffe rimase peraltro molto forte, e si può dire che il filone risalente alla sua auctoritas predomini ancora ampiamente nel campo degli studi classici: basti considerare gli studi recenti di Miola 1992, Martindale & Martindale 1990, e soprattutto Boyle 1997, che ovviamente affrontano il problema con strumenti assai più raffinati e duttili di quelli a suo tempo adoperati da Cunliffe, ma sembrano ugualmente mossi dal desiderio di ricondurre a tutti i costi a Seneca l’origine di un’ampia serie di spunti letterari che ormai erano moneta comune nella letteratura dell’epoca. 18. Una valutazione equilibrata delle controversie critiche sul tema è quella di Borgmeier 1978, pp. 277 s. Merita di essere citata per esteso: «[...] die Forschung schwierige Fragen nicht so sachlich und vorurteilsfrei angeht, wie man es vielleicht erwarten k6nnte, sondern entscheidend durch nicht unmittelbar gegenstandsbezogene, vorgegebene Tendenzen und Pràmissen sowie durch immanente Gesetzmàssigkeiten und eigengeschichtliche Zusammenhànge bestimmit wird. Das allgemei-

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SS

Non si tratta di mettere in dubbio una presenza indiscutibile: si tratta piuttosto di capire meglio in cosa consistesse, e soprattutto attraverso quali filtri culturali assumesse la sua nuova fisionomia una volta trapiantata in un’pumus culturale diversa.!? Più che altro è necessario superare le contrapposizioni un po’ troppo rigide che hanno attraversato gli studi sulla questione. Queste contrapposizioni, quasi sempre, ci informano più sulle manie classificatorie dei critici moderni che sulla vita culturale e letteraria del passato. Hunter, nella sua discussione sulla posizione dei “senecani”, partiva da un principio che mi pare vada tenuto sempre presente: bisogna abbandonare prospettive troppo ristrette nella ricostruzione storica, sostituendo alla concezione dell’«influence» (categoria che nel frattempo è anche diventata obsoleta) una visione più “etimologica” del fenomeno di influenza, inteso come uno «stream of tendency raining down upon its object»; e quindi bisogna considerare la presenza di Seneca nel teatro degli Elisabettiani solo «in the context of the other competing influences that were raining down at the same time» .2° Anch’io sono convinto del fatto che sia solo il complesso delle «competing influences» a poterci dare un’idea sufficientemente articolata dei processi letterari e culturali che danno origine alla tragedia del Cinquecento. In questo senso credo si debba chiarire cosa si vuol dire esattamente con quel “Seneca” che ci sembra di ritrovare nei drammaturghi elisabettiani: un Seneca che ovviamente non può coincidere con il testo delle tragedie diffuso in Inghilterra dai manoscritti della tradizione A, dalle edizioni a stampa e, in un periodo compreso fra il 1559 e il 1581, anche dai volgarizzamenti. Si tratta di vedere il “Seneca” di ne Verhàltnis zur klassischen Antike, die kiinstlerische Einschàtzung von Seneca selbst, bereits aufgestellte Thesen und vorhandene Konzeptionen, die methodologische Einstellung zu Quellenforschung, Publikationsrahmen und Argumentationskontext — diese Faktoren bedingen ma8geblich das Bild, das die verschiedene Arbeiten von Senecas Einwirkung auf das elisabethanische Drama zeichnen». In generale la ricostruzione che Borgmeier 1978, pp. 277-284 fa della polemica svoltasi in Inghilterra è piena di osservazioni utili e pertinenti dal punto di vista della storia degli studi. 19. Buone osservazioni in questo senso si trovano anche in Martindale & Martindale 1990, pp. 29-44. 20. Hunter 1967, pp. 160-162. Un modello esemplare di ricostruzione mi pare quello offerto da Horne 1962, pp. 124-6 nel suo inquadramento della figura dello «scheming villain». Rifiutando ipotesi che riconducevano l’invenzione di questa figura a un’unica fonte italiana, Horne distingue le varie tipologie di villain del teatro inglese: «The villain-antagonist of Kyd and his followers, the villain-hero of Marlowe and the later revenge tragedies, the tool-villain, and the villainaccomplice may all be studied as types; and the various influences that went to their making, — Seneca, Machiavelli, the Italian novelle, reports of notorious Italian crimes, and in the case of the tool-villain, the scheming parasite of comedy and ‘vice’ of the moralities — may be ascertained with more or less precision» (si tratta di tipologie che non conoscono alcuno sviluppo in Italia).

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cui parlano Meres e Polonio?! non come un oggetto fisso, che ha i contorni ben definiti di un testo, ma come un oggetto in movimento nel sistema culturale cinquecentesco di cui faceva parte. Si tratta, insomma, di vedere più che altro cosa è diventato Seneca, una volta messo

a reagire con la cultura del Cinquecento. Quali filtri culturali hanno mediato la sua recezione, trasformando la tragedia di Seneca nel “senechismo” dei drammi inglesi del XVI secolo? Seneca e il “senechismo”

Non è un problema di poco conto. Trascurare, come spesso si fa, i gra-

di intermedi delle tradizioni culturali, magari secondo le modalità tipiche di un approccio intertestuale, finisce per deformare l’importanza modellizzante dei testi classici per la cultura rinascimentale, talvolta al di là di ogni verosimiglianza storica. E quasi sempre finisce per proiettare nella nostra visione storica pesanti pregiudizi, provenienti dalla nostra lettura critica degli autori antichi. Così, ad esempio, si parla spesso di toni stoicheggianti nelle battute di vari personaggi del teatro elisabettiano, quasi si trattasse di elementi direttamente derivati dalla lettura di Seneca: dimenticando che la continuità fra il testo di Seneca tragico e quello di Seneca “morale” (che è un dato fondamentale del nostro approccio critico), non era affatto scontata per i lettori del Cinquecento, che fra l’altro spesso consideravano gli autori dei due corpora come persone diverse (anche se imparentate fra loro).?* La tra21. Il discorso si potrebbe facilmente estendere anche al celeberrimo «English Seneca read by candle light» di cui parla con evidente disprezzo Thomas Nashe nella sua prefazione al Menaphon di Greene (1589). Anche in quella caricatura di una scrittura di stampo senecano, infatti, è facile vedere le più macroscopiche caratteristiche di una drammaturgia enfatica e amante delle atmosfere più sanguinarie, che ancora oggi tendiamo sbrigativamente a definire “senecana”, a prescindere dalla sua identità nazionale. Sul celebre passo di Nashe, edito in Smith 1904, I, pp.

307-320, cfr. Cunliffe 1912, pp. XCV-XCVII e Hunter 1974, pp. 182-185. 22. Lo stesso principio dovrebbe valere in genere per ogni tradizione culturale. Come scriveva Hunter 1967, p. 161: «But if work B is more than a passive and parasitic object — that is, if it is any good — it will make new whatever it borrows, it will render what it treats into organic substance, into substance whose principal relationship is to context, not to source». 23. Questa discussione però non attecchì in Inghilterra (cfr. Cohon 1960, pp. 78-81). Come già faceva Lydgate (cfr. ad es. Fall of Princes 1.2383-2387 o Siege of Thebes 994 s.), anche gli Elisabettiani attribuivano le tragedie allo stesso autore delle opere filosofiche (cfr. Brower 1971, pp. 141-143 e Bate 1995, p. 30). Mentre Jasper Heywood, nel Preface alla sua traduzione del Thyestes ci presenta l’apparizione di Seneca tragico, ma non fa parola della sua produzione in prosa, Newton 1581, pp. 4 s., nella sua lettera dedicatoria, giustifica la presenza nel testo di Seneca tragico di alcune frasi che potrebbero in apparenza suonare come lode dell’ambizione e della crudeltà, chiamando in causa l’opera di Seneca filosofo («For it may not at any

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dizione dello stoicismo ha ovviamente una lunga storia, che attraversa il Medioevo e raggiunge le rielaborazioni del Lipsio: ma questa storia interferisce molto poco con la tradizione delle tragedie senecane e con la loro lettura, specialmente in ambienti culturali estremamente larghi, com'è quello della produzione tragica elisabettiana.?4 Utilizzare questo strumento per individuare rapporti fra i testi del Cinquecento e i modelli classici finisce per presupporre da parte dei drammaturghi dell’epoca una lettura che è la nostra. Un procedimento che, dal punto di vista storico, a me pare quanto meno discutibile. Il Seneca di cui si parla, in questo modo, diventa una sorta di astrazione a-storica, la cui identità è fortemente determinata dalla nostra lettura delle sue tragedie. Di conseguenza il “senechismo” diventa una categoria astratta e confusa, in cui il testo di Seneca e le sue varie trasformazioni successive vengono mischiate in modo inestricabile e, a mio parere, assai poco utile. In un saggio di trent'anni fa Manlio Pastore Stocchi?* aveva già mostrato ad altro proposito come alle basi del “senechismo” potessero esserci fenomeni culturali ben diversi dal testo puro e semplice delle tragedie di Seneca. Com'è noto, si può dire che in generale la concezione del tragico diffusa nel Medioevo traesse il suo fondamento da una riflessione ormai del tutto staccata dalla prassi teatrale: e dunque guardasse a definizioni come hand be thought and deemed the direct meaning of Seneca himselfe, whose whole wrytinges penned with a peerlesse sublimity and loftiness of Style, are so farre from countenauncing vice, that I doubt whether there bee any amonge all the Catalogue of Heathen wryters, that with more grauity of Philosophicall sentences, more waightynes of sappy words, or greater authority of sound matter beateth down sinne, loose lyfe, dissolute dealinge, and unbrydled sensuality [...]: which is the dryft, whereunto he leueleth the whole yssue of ech one of his Tragedies»). Cfr. anche n. s. 24. Sebbene in Inghilterra non troviamo tracce del complesso dibattito sui “due Seneca”, che finiva pre disgiungere il “Seneca morale” da quello tragico, l’impatto della scrittura filosofica senecana sulla sua produzione drammatica non sembra che venisse considerato con particolare interesse nella cultura dell’epoca (cfr. Cohon 1960, p. 61). Seneca “tragico” e Seneca “morale” restavano comunque due figure sostanzialmente staccate. Ad esempio, Cornwallis 1601 trae dai drammi senecani undici sententiae che commenta in una prospettiva politica dai toni fortemente mora-

listici, ma senza che questa lettura si risolva in un’interpretazione delle tragedie (che come testi non interessano affatto all’autore), tanto meno secondo linee filosofiche

di stampo stoico. Di fatto, come ha mostrato Cohon 1960, pp. 234-237, si trattava di un interesse per le «sentences» in sé (dieci su undici ricorrono, fra l’altro, proprio nei florilegi, su cui cfr. infra, n. 39). L'impressione generale (ma non è più che un’impressione) è che i due corpora di testi, anche quando compaiono fianco a fianco, non vengano di regola messi a reagire direttamente l’uno con l’altro dagli autori dell’epoca: anche perché, in generale, rimangono due corpora nettamente separati nella presentazione editoriale del tempo. Come ricorda Braden 1985, p. 69: «A Renaissance edition of Seneca’s Opera omnia is an edition of his philosophy; a purchaser of Thomas Lodge's translation if The Workes of Lucius Annaeus Seneca (London, 1620 [...]) would not feel cheated at finding in it no mention of the tragedies at all». Sulla questione cfr. anche i brevi cenni di Costa 1975, p. 34. 25. Pastore Stocchi 1964, pp. 22-26.

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quella di Boezio (Cons. Phil. 2.pr.2.36-40), che metteva al centro del tragoediarum clamor l’azione della fortuna, capace di rovesciare la sorte di chi raggiunge la sommità del potere. In assenza di una conoscenza diretta dei testi, la visione medievale della tragedia come genere letterario si concentra così su aspetti tematici e stilistici, sviluppando organicamente i pochi cenni che a questo tipo di poesia dedicavano autori tardo antichi come Isidoro di Siviglia (Etym. 18.45), il quale sosteneva che tragoedi sunt qui antiqua gesta atque facinora sceleratorum regum luctuosa [0, secondo

un’altra variante testuale, luctuoso] carmine spectante populo concinebant.?6 Secondo questi criteri, il Medioevo considerava “tragiche” gran parte delle vicende trattate in vari generi letterari, e soprattutto nell’epica. Il fatto che fino al XII secolo l’opera di Seneca tragico fosse largamente sconosciuta non impediva così ad alcuni testi della tradizione medievale di dimostrare varie affinità con la scrittura tragica: solo che queste affinità si sviluppavano prevalentemente secondo le linee letterarie tipiche del genere epico. Assistiamo così alla scrittura di brani che in apparenza richiamano molto da vicino Seneca. Un bell’esempio ci viene dalla Poetria de arte prosayca metrica et rithmica di Johannes de Garlandia, il quale certamente non conosceva Seneca.?” Egli descrive una donna che medita vendetta in un pezzo esametrico composto «graui stilo», di movenze che in apparenza potrebbero essere considerate come assolutamente senecane: Altera baccatur furiali concita motu;

inflammata tumet ira, celerique?? parata cladibus accincta, fas commixtura nephasque; induit immitem?® Medeam, plus potuisse, 26. La raccolta delle principali fonti tardo antiche e medievali relative al tragico si trova in testi canonici come Cloetta 1890, I, pp. 14-54 e Cunliffe 1912, pp. XI-XVI (cfr. anche Stàuble 1980, pp. 47-54). La più recente e ampia discussione sull’effettivo peso di queste fonti nella cultura medievale è in Kelly 1993. 27. Le citazioni di Johannes de Garlandia sono tratte da Lawler 1974, pp. 136-142 (cfr. anche Mari 1902, pp. 940-943). Il settimo capitolo della Poetria è dedicato appunto alle Proprietates Tragoediae, e contiene anche una “tragedia” composta da Giovanni (si tratta di 115 esametri), introducendo la quale l’autore precisa: «Unica vero tragedia scripta fuit quondam ab Ovidio apud Latinos, que sepulta sub silencio non venit in usum. Hec est secunda tragedia, cuius proprietates diligenter debent notari». 28. Su questa “tragedia” cfr. Kelly 1993, pp. 100-102. 29. Cioè scelerique. 30. Il manoscritto Miinchen, Staatsbibliothek, Ms. Lat. 6911 presenta la lezione immentem, sulla base della quale Mari stampava il verso in questa forma: induit in mentem Medeam plus potuisse. Si tratta di una lezione non improbabile, anche

se sono pochi, nella letteratura latina, i casi vagamente accostabili a questo uso del verbo induere: cfr. ad es. Sen., Med. 42 s.: pelle femineos metus | et inhospitalem Caucasum mente indue (su cui cfr. infra, n. 35), Gell. 2.29.1: [...] res salubriter [...] animadversas in mentes |...) hominum induit [scil. Aesopus]; Claud., Pan. in tert. cons. Hon. 157, indue mente patrem, Aug., civ. 2.10: dum tamen [scil. maligni spiritus] [...] bumanas mentes his opinionibus velut retibus induant [...].

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Progne, plus Cilla,?! plus Fedra, plus Clitemestra; seua suum stimulat parente furore furorem, quodlibet ausa nephas describi digna tragedo.

Per scrivere brani come questo, in realtà, bastava conoscere bene i grandi autori epici: Virgilio, Ovidio, Lucano e Stazio. Ed esiste una gran quantità di esempi possibilt per documentare modi analoghi di descrivere vicende orripilanti e vendette sanguinose. In particolare, Pastore Stocchi sottolinea, fra i molti percorsi che si possono individuare per spiegare questo genere di fenomeni, l’importanza di almeno due fonti del tragico, che erano certamente fondamentali per il Medioevo: una “culturale” e l’altra letteraria. Quella culturale è, se vogliamo, la storia: era la vita stessa a proporre nel Medioevo storie di eccezionale crudeltà, registrate con dovizia di particolari nelle cronache. Quella letteraria è l'ampia presenza di queste storie in molte rielaborazioni della letteratura epica e novellistica.?? Non è possibile discutere qui in dettaglio questo quadro,# ma credo si debba senz’altro convenire sui caratteri generali del panorama culturale così delineato, e sulle conclusioni che ne derivano. Un quadro del genere può essere definito “senecano”, paradossalmente, solo a condizione di riconoscere che «c’est justement Sénèque qui manque [...]». Una simile prospettiva storica muta di segno i rapporti fra la letteratura medievale e Seneca, perché, come conclude giustamente Pastore Stocchi, «Sénèque n’est nullement responsable des origines du “sénéquisme”». Quando le tragedie di Seneca arriveranno in un contesto del genere, che era già, per così dire, pronto per accoglierle, acquisteranno un’autorità indiscutibile: senza però essere la “fonte” di qualcosa che era già presente nella cultura in cui esse sono piuttosto venute ad inserirsi.8! Le pagine di Pastore Stocchi mostrano molto bene come certi effetti di lettura (anche se sostenuti da apparenti 31. Cioè Scilla. 32. La fonte letteraria di molti degli orrori, secondo Pastore Stocchi, sarebbe un testo che in questo senso ha continuato a esercitare la sua influenza fino al Tasso: si tratta del poema del più importante poeta luctuosus di cui disponesse il Medioevo: la Pharsalia di Lucano (sull’apporto che all’epica italiana ha dato il pathos retorico lucaneo cfr. il celebre contributo di Fraenkel 1924).

33. Per esempio, si dovrebbe insistere molto sull’assoluta centralità delle Metamorfosi di Ovidio: un poema in cui sono presenti quasi tutti gli ingredienti di questa scrittura “senecana” (compreso un alto tasso di “teatralità”), e la cui indiscussa paradigmaticità, dalla fine dell’XI secolo in poi, è nota a tutti. 34. Pastore Stocchi 1964, pp. 26-28 mostra come lo stesso Mussato contimuasse a scrivere in una dimensione medievale, che metteva la sua Ecerinis in rela-

zione principalmente a poemi epici come la Tebaide di Stazio. Sui rapporti fra Johannes de Garlandia e la tradizione medievale relativa alla tragedia cfr. Lawler 1974, pp. 262-264 e Kelly 1993, pp. 100-102.

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riscontri testuali) possano essere frutto di semplici illusioni ottiche.? Ecco, molte delle presunte affinità fra il testo di Seneca e i tragici cinquecenteschi inglesi sono state stabilite in base a somiglianze di questo genere: anzi, sinceramente, il più delle volte si tratta di somiglianze assai meno stringenti di queste. In simili condizioni il “senechismo” non è uno strumento di chiarezza, se si vogliono comprendere i veri

percorsi culturali della tradizione.

La produzione tragica cinquecentesca in Francia, Italia, Inghilterra In altri contesti la situazione è molto più lineare. Le tradizioni culturali in cui l’influenza di Seneca è davvero forte e indiscutibile mostrano contatti chiari e precisi fra i testi, Basti pensare alla tradizione francese, in cui gli autori non fanno mistero della loro ispirazione, tratta direttamente da Seneca, e spesso per larghi tratti delle loro opere parafrasano il testo del loro modello. Non è un caso che in questa tradizione abbondino titoli che da soli denunciano una ripresa diretta degli intrecci senecani: basti pensare alla Médée di Jean de la Péruse (1553), e a quella di Corneille (1634-35); e il di-

scorso si potrebbe facilmente allargare alle varie riprese della 35. Induit immitem Medeam, plus potuisse, nel passo di Johannes de Garlandia, potrebbe sembrare da mettere in diretta relazione con Sen., Med. 42 s.: pelle femineos metus | et inbospitalem Caucasum mente indue (e in una prospettiva intertestuale moderna siamo autorizzati a dire così); ma Giovanni ignorava, a quanto pare, le tragedie di Seneca. Non è probabile che avesse la possibilità di leggere proprio la Medea, magari credendola la perduta tragedia di Ovidio: in un caso del genere la natura particolare del metro sarebbe stata certamente oggetto di attenzione da parte sua. Resta il fatto che nella letteratura latina giunta fino a noi mancano altre espressioni accostabili a questo uso del verbo induere (con l’accusativo del nome del personaggio “assunto”, invece che con espressioni tipo alicuius imaginem, faciem induere). In epica l’uso di forme trisillabiche del verbo induere è più comune in Ovidio (in particolare, per la forma induit nella stessa posizione metrica, cfr. Met. 1.88, induit ignotas hominum conversa figuras, 6.598 s. raptaeque insignia Bacchi / induit, 8.853 s. formamque novat vultumque virilem / induit et cultus piscem capientibus aptum). In generale, si può dire che tutto il passo abbia un andamento ovidiano (e trattandosi di Johannes de Garlandia la cosa non può stupire). Per citare solo uno degli accostamenti possibili, nel nostro passo, cfr. Ov., Met. 6.585 s.: sed fasque nefasque / confusura ruit. La questione meriterebbe di essere studiata più approfonditamente. 36. Cfr. le giuste osservazioni di Jacquot 1964a, p. 300: verso la fine del XVI secolo, in Inghilterra «à l’imitation consciente de Sénèque tend à s’ajouter un “senecanism” diffus et comme répandu dans l’air du temps», e questo rende difficile individuare influenze dirette. «D’une part la pratique du modéle latin contribue à la formation d’un style tragique où l’on croit reconnaître des accents sénéquiens mème en l’absence de toute imitation d’un passage précis. D’autre part un dramaturge peut chercher un point d’appui dans tel passage de Sénèque, tout en s’attachant à renouveler l’expresson de l’idée ou de l’image qu'il s'approprie».

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Fedra, del Tieste, ai molti drammi

basati sulle vicende di Ercole,

agli Edipi, Agamennoni, Troadi di cui è ricca la produzione del Cinquecento e del primo Seicento. Nulla di simile avviene in Italia (eccezion fatta per gli esperimenti drammatici di Lodovico Dolce) o in Inghilterra. Se si parla dell’ambiente italiano, i rapporti col modello senecano appaiono già più ingarbugliati. Mentre infatti nella fase iniziale della produzione tragica italiana in volgare (a cominciare dall’Orbecche di Giraldi Cinzio, che è del 1541), quasi ogni volta che si parla di passi che presentano temi tratti da Seneca abbiamo a che fare con parafrasi abbastanza trasparenti, se non addirittura con vere e proprie traduzioni del testo latino, nella fase successiva i rapporti si fanno meno chiari. Perché ovviamente nel frattempo si è depositata una tradizione tragica nazionale che ormai si frappone come filtro fra i tragediografi della fine del Cinquecento e Seneca. E comunque, fin dall’inizio sono sostanziali le differenze fra opere come l’Orbecche del senecanissimo Giraldi e le tragedie di Seneca: sono diversi gli intrecci e le loro strutture, sono diverse le dimensioni dei drammi, il nume-

ro degli attori, l’attenzione alle esigenze dello spettacolo, e soprattutto le finalità della scrittura tragica, che cerca un compromesso fra le esigenze letterarie dell’epoca e una opportuna lettura delle teorie aristoteliche.}” Per il teatro elisabettiano le cose sono ancora più intricate, e lo sono sin dall’inizio. In Inghilterra le condizioni culturali in cui la lettura di Seneca viene ad inserirsi ricordano vagamente il quadro che Pastore Stocchi ricostruiva per il “senechismo” del periodo a cavallo fra XII e XIII secolo. In tutta la prima fase dello sviluppo del tea37. Già Bertana 1906, p. 46-49 osservava giustamente: «E chi paragona al Tieste | Orbecche, che pure è la tragedia giraldiana più direttamente dipendente da Seneca, s’accorge subito d’un capitale divario tra i due autori nel modo di concepire e d’ordire il dramma [...] La capitale differenza che intercede tra Seneca e il Giraldi è questa; che mentre il primo par che dello spettacolo non si preoccupi, il secondo cerca appunto nello spettacolo vario e magnifico un elemento del successo». Seneca è più un modello di stile, come del resto Giraldi sostiene nel suo Discorso over lettera di Giovanbattista Giraldi Cinzio intorno al comporre delle comedie e delle tragedie a Giulio Ponzio Ponzoni (cfr. Giraldi Cinzio 1543, pp. 184 e 210 s.) che non di drammaturgia tout court (tanto meno per quello che riguarda gli intrecci). Concentrandosi soprattutto sulla resa spettacolare delle loro tragedie, era ovvio che gli scrittori italiani finissero, come dice Herrick 1965, pp. 292-295, per «out-Seneca Seneca». Herrick mostra bene come i motivi senecani (fantasmi e furie, messaggeri, sogni profetici etc.) siano caratteri decisamente amplificati nelle riprese italiane ed elisabettiane. Le stesse teorie del tragico di Giraldi (su cui cfr. ancora Herrick 1965, pp. 72-92) sono fortemente condizionate da un’attenzione agli effetti patetici dello spettacolo (basterebbe considerare la sua traduzione dei classici termini aristotelici &X£0g e pofoc con «compassione» e «orrore»: cfr. ad es. Giraldi Cinzio 1543, p. 212, con esemplificazione tratta proprio dall’Orbecche).

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tro tragico inglese, diciamo dalla metà alla fine del Cinquecento, i rapporti col testo di Seneca appaiono quanto meno molto difficili da individuare. Per grandi autori come Kyd, Marlowe e, come s’è detto, Shake-

speare,* l’individuazione dei rapporti col testo di Seneca è argomento di discussioni infinite e sfuggenti. Questi autori certamente conoscevano e usavano Seneca (talvolta ne citano anche dei versi in latino): ma non si capisce mai bene quanto e come. Soprattutto non si

capisce mai bene quale sia il Seneca di cui si sta parlando. È il testo latino, è il volgarizzamento di Heywood, Studley, Neville, Nuce e Newton, è la raccolta delle sententiae tratte dalle tragedie che si poteva trovare in vari florilegi,}° è Seneca mediato dal teatro italiano? Di fron-

te a questo genere di questioni l’etichetta del “senechismo” è ovviamente uno strumento efficace per disinnescare un problema culturale forse di impossibile soluzione. E inoltre ha una legittimità che poggia su un importante fondamento culturale: forse davvero, all’epoca, “Seneca” era tutte queste cose assieme. Detto questo, però, bisogna

aggiungere che era diventato anche qualcosa di sensibilmente diverso dall’autore romano che studiamo noi antichisti. Come ha scritto Hunter: «[...] there is no need to reiterate the point that Seneca’s ‘nontheatrical’ or narrative qualities helped to make him assimilable; but at the same time as we say this we should see that his assimilability helped to submerge bis qualities among the apparently similar qualities of the Gothic tradition, his ghosts melting away into the throng of

38. Persino Cunliffe 1893, p. 58 svalutava la presenza senecana anche in Kyd (una posizione che, però, avrebbe rivisto in seguito: cfr. Cunliffe 1912, pp. XCII-XCV). Contro questa posizione si sono schierati in molti: cfr. ad es. Borgmeier 1978, pp. 302-305, che è disposto ad ammettere la scarsa evidenza del rapporto con Seneca per quanto riguarda Marlowe e Shakespeare, non per quanto riguarda Kyd. Ma in mancanza di precisi riscontri testuali, discorsi come quelli di Borgmeier sono destinati a rimanere nel vago. Le somiglianze da lui sottolineate, spesso con qualche sofisma, fra The Spanish Tragedy di Kyd e le tragedie di Seneca non tengono conto del fatto che nel 1587 circolavano ormai comunemente, fra Italia, Inghilterra e Francia, moltissimi degli elementi senecani (fantasmi, vendette etc.) di cui lui parla. Ci vorrebbe qualche argomento molto forte, qualche somiglianza davvero stringente per dimostrare che anche in Kyd essi venissero proprio dall’influenza senecana, e non da uno stile e da un temario ormai di vastissima diffusione. 39. Miola 1992, p. 5, ribattendo all’ipotesi di Hunter secondo cui le citazioni shakespeareane da Seneca potrebbero semplicemente provenire da antologie, osserva: «[...] the misquotations of Phaedra in Titus Andronicus, appear in the plays although they do not appear in the anthologies [...]» (cfr. anche pp. 13 s.). Cohon 1960 ha dimostrato che gran parte del materiale senecano presente nei drammi inglesi proveniva dai florilegi, e non da una lettura diretta delle tragedie (cfr. in sintesi Cohon 1960, pp. 10 s. e, in dettaglio, i capp.

III-IV, pp. 115-237).

40. Hunter 1967, p. 163.

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their ghosts, his horrors rendered barely visible against the background of their horrors».#! ‘ Un paio di temi mi sembrano particolarmente utili per comprendere questo processo di interazione fra il “Seneca” che veniva recepito nel Cinquecento inglese e la cultura dell’epoca. Il primo riguarda l’operazione che intendeva progtammaticamente diffondere la conoscenza del testo senecano presso un pubblico vasto: cioè i volgarizzamenti, inaugurati nel 1559 dalla Troas di Jasper Heywood. Il secondo riguarda alcune rielaborazioni (vere e presunte) di situazioni tratte dalle tragedie di Seneca nel filone del Revenge tragedy, inaugurato da The Spanish Tragedy di Thomas Kyd (composta intorno al 1587). Questo tipo di tragedia, infatti, viene in genere considerato come il più dipendente dall’influsso senecano. I. SENECA E IL TEATRO DEGLI INNS OF COURT

Il “tragico” nell'ambiente degli Inns of Court Consideriamo innanzitutto l’ambiente e l’epoca in cui vennero realizzati i volgarizzamenti delle tragedie senecane. Di solito si tende a considerare questi testi nella raccolta complessiva che ne curò Thomas Newton nel 1581.4 In realtà l’insieme di queste traduzioni venne realizzato in un periodo compreso fra il 1559 e il 1567 (al più tardi il 1570). Si trat41. Hunter 1967, p. 163, n. 6 ricorda che, ad esempio, già Santa Caterina ave-

va fatto molto prima di Hieronimo il gesto di mozzarsi la lingua, e che lo smembramento di St. James o di St. Erasmus non erano meno orribili di quello di Ippolito. 42. Cunliffe 1912, p. XCII sosteneva che questo genere di tragedia senecana, opportunamente modificata per la rappresentazione sulla scena pubblica, dovesse essere il primo tipo di dramma a conquistarsi un consistente favore presso il pubblico (si ricordi quanto dice Ben Jonson a vent’anni di distanza nell’Induction a Bartholomew Fair, 1614, parlando del Revenge tragedy come di un genere ormai fuori moda). The Spanish Tragedy fu stampata una decina di volte entro il 1633: molte sono le allusioni (magari parodistiche) e le menzioni di questa tragedia nella letteratura (anche drammatica) successiva. 43. La raccolta completa delle Tenne Tragedies sembra sia passata abbastanza inosservata all’epoca della sua pubblicazione (cfr. Braden 1985, pp. 171-173). Nessun autore degli anni Ottanta del Cinquecento (o degli anni successivi) sembra mai tener presente il testo di questa traduzione, nella composizione dei suoi versi, nem-

meno drammaturghi regolarmente classificati come “senecani” (ad esempio Kyd). L’importanza dell’operazione di Newton va dunque probabilmente valutata in modo diverso da quella delle singole traduzioni senecane. In particolare bisognerebbe considerare come casi a sé le prime due traduzioni realizzate da Heywood, sulla cui fortuna (fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta) ha giustamente richiamato l’attenzione Daalder 1982, pp. XXVI s. Se le prime edizioni godettero di una qualche fortuna editoriale, lo stesso non si può dire della raccolta di Newton, che non fu mai ristampata, e che paradossalmente ha goduto di un’assai maggiore fortuna nel nostro secolo, grazie soprattutto alla celebre prefazione di Eliot 1927.

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ta certamente del periodo in cui possiamo dire che le tragedie di Seneca arrivano in Inghilterra su vasta scala. Persino l’attività teatrale accademica in latino comincia a presentare un.significativo numero di rappresentazioni “senecane”, a Oxford e Cambridge, solo a partire dal 1559.4 Ma il fenomeno che intendo illustrare rimane sostanzialmente svincolato dall’atmosfera accademica delle due università inglesi, e si svolge quasi interamente in quella che è stata definita come la terza università inglese: cioè gli Inns of Court, l’insieme di collegi riservati agli studenti di legge. Gli Inns of Court si potrebbe dire che fossero Nonostante le cure dell’editore, nel 1581 queste traduzioni, scritte in quei fourteeners in rima che nel frattempo erano passati di moda, dovevano sembrare alquanto rozze (sul metro delle Tenne Tragedies cfr. Spearing 1912, pp. 51-55). Cunliffe 1893, passim, affermava che esse ebbero una grande considerazione fra i contemporanei: ma citava a riscontro di questa affermazione solo l’elogio di William Webbe nel suo Discourse of English Poetrie (1586) dei «laudable Authors of Seneca in English» (Cunliffe 1893, p. 11) e la generica menzione di Meres in Palladis Tamia. Spearing 1912, pp. 5-6 e Spearing 1913, pp. XIII-XIV forniva invece un quadro più completo. Oltre ai versi introduttivi di un Th. B. alla traduzione dell’Agamzemnon, in cui si parla del successo ottenuto dalla Troas di Heywood (non a caso l’unica ad essere ristampata più volte subito dopo la sua uscita), Spearing ricorda il giudizio piuttosto tiepido di Ascham, e ovviamente il cenno di Nashe nella prefazione al Menaphon di Greene (1589). Per avere un termine di confronto si potrebbe ricordare che dell’edizione delle tragedie di Seneca curata da Farnaby (1623-4), la prima a comparire in Inghilterra accompagnata da un commento, furono realizzate venti edizioni (cfr. ancora Cunliffe 1893, p. 11). 44. In precedenza abbiamo notizia solo di un Hippolytus al Westminster School, nel 1546. Se ne è conservato manoscritto il draft di un prologo di Alexander Nowell: cfr. Smith 1978, pp. 8-16. Non a caso Seneca tragico era presente anche nel sy/labus di questa scuola (cfr. Binns 1974, p. 205): cosa abbastanza eccezionale nel Cinquecento inglese (cfr. Cohon 1960, pp. 119-124). Una Troas era stata anche rappresentata al Trinity College di Cambridge nel 1551-2. Ma la quantità di rappresentazioni basate direttamente sui testi di Seneca, o comunque con caratteri fortemente “senecani”, cresce proprio a partire dal 1559. Ancora al Trinity College di Cambridge vennero portati in scena nel 1559-60 l’Oedipus e l’Hecuba (probabilmente una versione della Troas), nel 1560-1 la Troas e Medea. Sempre a Cambridge, nel 1563, la Medea andò in scena al Queen’s College. Nel 1564, poi, Cambridge vide una Dido che potrebbe essere venuta da un originale italiano, non diversamente dalla Progre di James Calfhill (il riadattamento della Progne di Gregorio Correr, di cui parleremo infra, p. 211), andata in scena davanti alla regina a Oxford, Christ Church, nel 1566. Le rappresentazioni accademiche di drammi senecani vanno avanti, a quanto pare, almeno fino al 1583: cfr. Binns 1974, p. 206 (sulla produzione teatrale accademica in latino, più in generale, cfr. Binns 1990, pp. 120-140). 45. In ordine di grandezza, i principali collegi erano Gray's Inn, Inner Temple, Middle Temple e Lincoln's Inn: essi erano passati sotto la corona nel 1545, e a ognuno di questi era sottoposta una serie di Inns of Chauncery. Sugli Inns of Court nel Cinquecento cfr. Johnson 1948 (=1987), pp. 6-41 e Finkelpearl 1969, pp. 344. Sebbene somigliassero alle università come strutture, questi collegi non avevano un vero curriculum né esami, e per questo molti le associano a «craft guilds» più che a università. Il carattere di questi centri culturali è ben descritto da Finkelpearl 1969, p. 11: «For many, probably the majority, the Inns were a finishing school:

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l’Università di Londra: un’Università in cui, non molto diversamente da quanto negli stessi anni accadeva in atenei come quello padovano, gli studi giuridici convivevano con quelli medici, scientifici e umanistici. In questo ambiente i figli delle famiglie della media nobiltà, magari dopo aver già trascorso un periodo di studi nelle università di Oxford e Cambridge, venivano a ricevere una formazione che, prima ancora che sulla sfera intellettuale, sembra fosse diretta a influire sulla sfera comportamentale e mondana. Queste scuole, infatti, costituivano una sorta di vivaio degli uomini di corte: e qui venivano dunque elaborati anche molti modelli comportamentali tipicamente cortigiani. In campo letterario vanno segnalati almeno due elementi impor-

tanti per il nostro discorso. Il primo è il fatto che negli Inns of Court fosse molto sentita l’esigenza di rendere facilmente accessibili i grandi testi della letteratura antica e delle letterature italiana e francese: tanto che una buona metà dei volgarizzamenti di queste opere vennero realizzati proprio in quest’ambiente.* Il secondo è la straordinaria importanza che i membri di queste comunità attribuivano alle attività teatrali.4? Si può anzi dire che quella degli Inns of Court sia stata per lungo tempo una delle scene importanti della capitale: un vero e proprio laboratorio di nuove esperienze drammaturgiche, in cui lo spirito cortigiano veniva come a mediare fra la tradizione del teatro accademico e i fermenti del teatro popolare." a place to mingle with the “creame o’th kingdome,” to sample the glories of the great capital city, and perhaps incidentally to acquire some useful knowledge, including the law. It is difficult to ascertain exactly when such a use of the Inns arose, although it was essentially a product of Elizabeth's reign». 46. Cfr. Conley 1927, pp. 26-33, che ricorda come dei 54 traduttori di classici noti fra il 1558 e il 1572 almeno 23 o 25 erano membri degli Inns of Court. 47. Cfr. l’ampia e ancora convincente trattazione di Charlton 1921, pp. CLIVCLXII.

48. Ancora Shakespeare vi rappresenterà due dei suoi drammi. The Comedy of Errors fu presentata a Gray's Inn il 28 dicembre 1594, mentre Twelfth Night andò in scena a Middle Temple il 2 febbraio 1602. 49. Charlton 1921, pp. CLXVI s. osserva come questo ambiente svolgesse un ruolo importante nell’evoluzione del teatro. È in un contesto come questo, infatti, che, subito prima della fase in cui la tragedia popolare si staccò dalla tragedia accademica: «[...] English Seneca [...] moved on in a direct line of forward growth, acquiring Italianate qualities progressively at each step», e persino superando la prassi italiana, per il maggior influsso che il teatro popolare esercitava in questo ambiente. «In effect, the free interaction of distinctly popular and of more cultured and learned qualities, out of which Elizabethan tragedy was ultimately shaped, was primarily occasioned by the peculiar nature of the English Court and its unique relation to the theatre». In un contesto del genere la tradizione medievale, che non conosceva le restrizioni classiche del teatro accademico, continuava a esercitare un grosso influsso, che portava probabilmente a declinare le storie “senecane” secondo forme peculiari, ignote agli italiani. Di particolare importanza, poi, fu l’editto del 1572, che mise gli attori sotto la protezione della nobiltà, rendendo così l’ambiente di cor-

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Anche i cinque traduttori delle tragedie senecane furono strettamente legati a quest'ambiente, per motivi che hanno direttamente a che fare con le motivazioni culturali che li spinsero ad occuparsi di Seneca e, più in generale, della tragedia.’ Per comprendere queste motivazioni bisogna fare qualche considerazione generale su alcune tendenze della letteratura di questo periodo. Nella produzione letteraria dell’epoca hanno un ruolo centrale le esigenze dell’esemplarità: in molte introduzioni di opere originali e traduzioni ricorrono richiami alla funzione di esempio che le vicende narrative o storiche devono esercitare sui lettori. Molto si scrive, 0 si traduce, con l’esplicita intenzione di offrire un insegnamento, di permettere al lettore di rispecchiarsi in quanto accade ai protagonisti delle storie che vengono raccontate (specialmente se questi personaggi appartengono a epoche antiche), traen-

done le conseguenze necessarie per regolare la propria morale e la propria condotta. Si tratta, come è noto, di una visione della letteratura che in gran parte affonda le sue radici nel Medioevo, e che ha grante, di fatto, il principale punto di riferimento della sperimentazione teatrale. Infatti il coinvolgimento della corte, che negli stessi anni troviamo anche in visita alle rappresentazioni accademiche oxoniensi, metteva in comunicazione due diversi modi di fare teatro. Come afferma ancora Charlton 1921, p. CXLI: «the Court was the great mediator between academic and popular drama». 50. Ecco qualche dato sui rapporti fra i traduttori e gli Inns of Court. Jasper Heywood portò a termine le sue tre traduzioni quando era fellow a AIl Souls di Oxford: la Troas fu pubblicata nel 1559 (sul suo grande successo cfr. Spearing 1912, pp. 14 s. e 1913, p. XIII), Thbyestes nel 1560, Hercules furens nel 1561. Nonostante la sua attività accademica, Heywood era certamente in contatto con l’ambiente di Sackville, Norton, Yelverton e Baldwin (personaggi di spicco degli Inns of Court),

e fu anche per breve tempo membro del Gray’s Inn, nel 1561 (cfr. de Vocht 1913, pp. VII-XIX). Alexander Neville (formatosi a Cambridge) tradusse l’Oedipus nel 1560 e lo pubblicò nel 1563; fu amico di George Gascoigne, e quasi certamente

fece parte degli Inns of Court (cfr. Spearing 1912, pp. 20-29). John Studley (cfr. Spearing 1912, pp. 30-40 e Spearing 1913, pp. IX-XII) pubblicò le sue traduzioni mentre era fellow del Trinity College di Cambridge: l’Agamemmnon e la Medea uscirono nel 1566, l’Hippolytus nel 1567, e nello stesso anno (o al più tardi nel 1570) l’Hercules Oetaeus. È quasi certo che fosse legato all'ambiente degli Inns of Court (forse a Gray’s Inn: cfr. Spearing 1913, pp. XI s. e XXII s.). Solo di Thomas Nuce (o Newce), che tradusse l’Octavia (pubblicata a Londra nel 1566-7) non risulta che avesse fatto parte direttamente di questo ambiente (anche lui si era formato a Cambridge; cfr. Spearing 1912, pp. 41-45); ma a questo ambiente era certamente legato, dato che suoi versi in lode dell’Agamiermnon di Studley compaiono nella prima edizione di quella traduzione (cfr. Spearing 1913, pp. [3]-[9]). L’unica traduzione a non appartenere a questo periodo è quella della Thebais, realizzata dallo stesso Newton al momento di pubblicare la sua raccolta nel 1581 (su Newton cfr. Spearing 1912, pp. 46-50). Non esistono attestazioni esplicite di un’appartenenza di Newton agli Inns of Court, e tuttavia suoi versi celebrativi del Mirrour compaiono all’inizio dell’ottava edizione dell’opera, realizzata nel 1587 (cfr. Trench 1898, p. 33 s.). S1. Cfr. Curtius 1948, pp. 67-71 e 372 s.

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dissima importanza in tutta la produzione rinascimentale (anche in quella italiana, ad esempio). Nell” Inghilterra dell’epoca elisabettiana sembra sia proprio questa la cornice in ‘cui la concezione del tragico trova la sua originaria collocazione. E appunto all’interno degli Inns of Court questa concezione viene codificata, in una forma destinata a esercitare una forte influenza su tutta la produzione drammatica e, in particolare, sulla stessa ricezione delle tragedie di Seneca. Questa forma è quella che le vicende “tragiche” dei grandi potenti del passato trovano nel Mirrour for Magistrates, la più ambiziosa creazione letteraria che può essere riconnessa all’ambiente degli Inns of Court. Il Mirrour for Magistrates'? può essere definito come una “raccolta di tragedie”, se diamo al termine “tragedie” il suo significato medievale, non solo sulla scorta di definizioni come quella di Isidoro che ho citato sopra, ma soprattutto seguendo l’uso degli stessi estensori dell’opera.* Si tratta di un’ampia collezione di complaints, pronunciati dalle ombre dei grandi governanti (i «Magistrates») del passato, 52. Conley 1927, pp. 60-77 ricorda come sotto l’insegna dell’esemplarità finissero assieme, nella letteratura dell’epoca, scrittori diversissimi come Ovidio, Seneca, i romanzieri greci, Bandello, Livio o Curzio Rufo: «In other words, the whole

body of narrative and dramatic literature was regarded much as we look upon novels, as stories representative of life in its details» (p. 61). 53. La prima edizione dell’opera progettata da William Baldwin (di cui si sono conservati solo pochi frammenti) risale al 1554, e fu censurata dal Chancellor della regina Maria, il vescovo Stephen Gardiner; sicché si può dire che essa vide veramente la luce solo nel 1559 (nell’edizione realizzata da Thomas Marsh): comprendeva una serie di complaints in versi (connessi fra loro da una cornice in prosa, che riproduce la discussione svoltasi fra i diversi autori che parteciparono alla realizzazione dell’opera) pronunciati da personaggi dell’antica storia inglese, appartenenti a un’epoca che va dalla fine del XIV secolo alla fine del secolo successivo. Dalla terza edizione (1563) in poi il Mirrour conobbe una nutrita serie di aggiunte, e finì per fondersi con altre raccolte di complaints (curate, rispettivamente, da John Higgins e da Thomas Blennerhasset), che coprivano periodi storici più antichi (rispettivamente dalle origini fino al INI sec. d. C. e dal INI sec. d. C. al 1066). Sulla complessa vicenda delle varie edizioni di quest'opera, come pure sulla sua fortuna successiva, cfr. Trench 1898. Sul Mirrowur in generale cfr. il cap. VII di Farnham 1936 (pp. 271-303; anche Farnham si sofferma sulla fortuna successiva dell’opera, nel capitolo VIII, pp. 304-339) e Johnson 1948 (=1987), pp. 105-128. 54. Ivari complaints che costituiscono l’opera sono regolarmente definiti «tra-

gedies» nel Mirrour, così come del resto erano definiti nell’opera di Lydgate, su cui cfr. infra, nn. 56, 58 e 73). Sulla concezione di questo genere di “tragedie”, che si

può fare risalire sostanzialmente all’opera di Chaucer, cfr. Kelly 1997, pp. 1-91 e 149-175. Quando la fortuna del Mirrour si fu consolidata, nel quinquennio 15741579 cominciarono ad'essere pubblicati anche singoli complaints isolati, composti alla maniera dei vari modelli del Mirrowr, o raccolte di racconti d’altro genere, come The Rocke of Regard di George Whetstone (1576), che usano anche materiali novellistici per costruire «tragedies». Nell'ambito di questa produzione, lo schema della narrazione poetica esemplare (fondata sul principio della «mundane retribution» e della giustizia divina) consente una significativa fusione fra il filone boccacciano, quello novellistico e quello tragico (cfr. Farnham 1936, pp. 304-322).

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i quali lamentano i rovesci della propria fortuna, che li ha gettati dalle sommità del potere all’abisso della sventura e della morte. Il loro esempio serve da “specchio” per il lettore (un nobile o un ideale uomo di potere), invitato a valutare l’azione della Fortuna secondo uno schema ampiamente diffuso in tutta la letteratura medievale.5 L’impostazione narrativa del Mirrour for Magistrates è, in sostanza, la stessa che Boccaccio aveva adoperato nel suo fortunatissimo De casibus virorum illustrium. E difatti la raccolta inglese fu concepita come un’aggiunta a quella che possiamo definire come una parafrasi in versi, piuttosto che una traduzione vera e propria, dell’opera di Boccaccio: i nove libri del Fall of Princes del monaco benedettino John Lydgate, scritti fra il 1431 e il 1439.°° Com'è noto, Lydgate non lavorava sull’originale latino del De casibus, ma sulla seconda redazione (1409) della traduzione francese dell’opera di Boccaccio realizzata da Laurent de Premierfait (Des cas des Nobles Hommes et Ferimes). Ma mentre né Boccaccio né Laurent definivano «tragedie» le vicende degli uomini i cui fantasmi lamentavano i rovesci della propria sorte, Lydgate, sulla scorta del suo predecessore Chaucer, definisce regolarmente «tragedies» queste vicende.7 L’opera di Lydgate fu poi espressamente indicata come punto di partenza della propria ispirazione dal principale artefice del Mirrour, William Baldwin. Lo si può leggere già nella notizia introduttiva che egli indirizza al suo lettore,* e anche nella lettera introduttiva «To the 55. Nel Medioevo la Fortuna è una sorta di eccentrica divinità, che eserci-

ta il potere supremo sulle cose umane, al di sopra di re, potenti e prelati. I suoi caratteri sono sensibilmente diversi da quelli dell’iconografia antica: l’immagine della Fortuna medievale è infatti legata prevalentemente alla sua celeberrima ruota, destinata a far scendere in basso chi si era illuso di aver raggiunto le più grandi altezze riservate al destino degli uomini (cfr. infra, n. 107). 56. L’opera di Lydgate è stata edita da Bergen 1924-1927. Sui rapporti fra l’opera di Boccaccio, la traduzione di Laurent de Premierfait e la parafrasi di Lydgate cfr. Farnham 1936, pp. 69-172, Gathercole 1968, pp. 33-38 e soprattutto la nuova, puntuale discussione di Kelly 1997, pp. 176-215. 57. Su questo punto cfr. Kelly 1997, pp. 10-25, 149-175 e passim. 58. «A Briefe Memorial of sundrye Vnfortunate Englishe men. William Baldwin to the Reader» (cito dalla seconda edizione dell’opera — su cui cfr. Trench 1898, pp. 24-27 —: Baldwin 1559, p. A.i r): «Whan the Printer had purposed with hym selfe to printe Lidgates booke of the fall of Princes, and had made priuye thereto, many both honourable and worshipfull, he was counsailed by dyuers of them, to procure to haue the storye contynewed from where as Bochas lefte, vnto this presente time, chiefly of suche as Fortune had dalyed with here in this ylande: whiche might be as a myrrour for al men as well noble as others, to shewe the slyppery deceytes of the waueryng lady, and the due rewarde of all kinde of vices». Sul progetto, impedito dalla censura, di pubblicare assieme Lydgate e il Mirrowr, cfr. Trench 1898, pp. 1-24. Cfr. anche Baldwin 1559, p. A.i v: «I resorted vnto them [sci/. gli altri partecipanti all’impresa], bering with me the booke of Bochas, translated by Dan Lidgate, for the better obseruacion of his order: whiche although we lyked well, yet woulde it not cumlily serue, seynge that both Bochas and Lidgate were dead, neyther were there

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nobilitye and all other in office». In quest’ultima, in particolare, Baldwin afferma fra l’altro che l’opera intende realizzare, tramite episodi tratti dalla storia inglese, e documentati prevalentemente nei Chronicles, lo stesso scopo di insegnamento morale proposto da Boccaccio, il quale aveva usato nella sua opera esempi tratti dalla storia di altre nazioni per mostrare come Dio avesse punito i cattivi regnanti.’ Nella prospettiva decisamente didattica del protestante Baldwin, la caduta dei potenti è narrata mettendo in fortissimo rilievo, accanto al tema del rovescio di fortuna, una riflessione morale ricorrente già fin dal frontespizio dell’opera.9° Alla base della rovina dei potenti c’è la giusta punizione per le loro colpe e per i loro vizi, più che altro generati da passioni come l’ambizione, l’avidità e la lussuria. La logica di questi racconti rientra in una visione della storia secondo cui la giustizia agirebbe razionalmente già nel corso della vita degli uomini. È questo, fra l’altro, il discorso esemplare che giustifica la destinazione dell’opera, indirizzata ai nobili e ai detentori delle “magistrature”. Baldwin stesso dichiara: «For here as in a loking glas, you shal see (if any vice be in you) howe the like hath bene punished in other heretofore, whereby admonished, I trust it will be a good occasion to move you to the soner amendment. This is the chiefest ende, whye it is set furth, which God graunt it may attayne»..9! Questo spirito rientra perfettamente nella funzione “educatrice” dei governanti, che veniva riconosciuta agli uomini di legge.?° any alyue that meddled with lyke argument, to whom the vnfortunat might make their mone. To make therfore a state mete for the matter, they al agreed that I shoulde vsurpe Bochas rowme, and the wretched princes complayne vnto me: and tooke vpon themselues euery man for his parte to be sundrye personages, and in theyr behalfes to bewayle vnto me theyr greuous chaunces, heuy destinies, & wofull misfortunes. This doen, we opened suche bookes of Cronicles as we had there present, and maister Ferrers, after he had founde where Bochas left, whiche was about the ende of king Edwarde the thirdes raigne, to begin the matter, sayde thus» etc. 59. Baldwin 1559, p. C.iii r: «Howe he [sci/. God] hath plaged euill rulers from time to time, in other nacions, you may see gathered in Boccas booke intituled the fall of Princes, translated into Englishe by Lydgate: Howe he hath delt with sum of our countreymen your auncestors, for sundrye vices not yet left, this booke named A Myrrour for Magistrates, can shewe». 60. “A MYRROVRE / For Magistrates. / Wherein may be seen by / example of other, with hbowe gre — / uous plages vices are punished: and / howe frayle and vnstable worldly / prosperitie is founde, even of /those, whom Fortune see — / meth most highly / to fauour”. 61. Baldwin 1559, pp. C.iii r-v. 62. Cfr. Finkelpearle 1969, p. 22: «It is not a coincidence that many of the authors of the Mirror were members of Inns and became lawyers. Despite differences in emphasis these tales are unified not merely by their subject matter, the fall of princes, but by their purpose. [...] It seems to have been a natural function — it was at any rate their self-appointed task in the sixteenth and seventeenth centuries — for the lawyers of the Inns of Court to “instruct” their governors on their proper duties and responsibilities».

dA

Capitolo V

Il Mirrour conobbe un grandissimo successo, e rimase to il periodo elisabettiano al centro dell’attenzione letteraria. to al suo modello boccacciano, fra l’altro, questa raccolta gedie” in versi si distingueva per la forté drammatizzazione

per tutRispetdi “tradei vari

episodi. La forma del complaint, infatti, essendo strettamente autobiografica, si prestava particolarmente bene a essere sentita come un

monologo drammatico.9 Non è questo il solo elemento che mette a contatto, nelle pagine del Mirrour, la tradizione tragica medievale e quella propriamente teatrale:9 i legami fra il dramma e il Mirrour meriterebbero un ampio discorso, che qui non è possibile fare. Mi limiterò a dire che attorno a questa raccolta, dai caratteri ancora fortemente medievali, è attiva una comunità intellettuale che fa per la prima volta delle forme tragiche un oggetto di interesse privilegiato, arrivando infine a creare una nuova tragedia, che fonde assieme spunti tratti sia dall’antica tradizione nazionale (storica e drammatica) che dall’opera senecana. Non è un caso che al Mirrowr abbia partecipato con un intervento particolarmente impegnativo, di un livello stilistico decisamente superiore rispetto al generale tenore dell’opera, anche Thomas Sackville,®° il quale, insieme a Thomas Norton,69 fu appunto autore della prima tragedia “regolare” inglese, Gorboduc (1561-2). 63. Cfr. Trench 1898, pp. 17 s. Si ricordi che almeno da Chaucer e Lydgate in poi si registra anche in Inghilterra una forte tendenza a definire «tragedies», secondo un uso ben documentato in Francia (cfr. Kelly 1993, pp. 175-185), i complaints in versi. 64. Fra l’altro, può essere interessante ricordare come lo stesso Baldwin, insieme a George Ferrers (l’altro principale partecipante all’impresa del Mirrour), sotto il regno prima di Edoardo VI e poi di Maria la Sanguinaria, si fosse attivamente adoperato per l’organizzazione di rappresentazioni teatrali a corte (cfr. Collier 1879, I, pp. 148-152). 65. Su Thomas Sackville (1536-1608) cfr. Hearsey 1936, pp. 21-37 e Johnson 1948 (=1987), pp. 97-128. Fu un favorito della regina Elisabetta, con cui era imparentato alla lontana tramite un comune bisnonno, William Boleyn (nonno di Anna). Fece forse parte di Inner Temple (Hearsey 1936, pp. 24 s. tende ad escluderlo, osservando però che senza dubbio Sackville, come Norton, era «a familiar figure in the Inns of Court»). Il suo complaint di Henry Duke of Buckingham era forse già pronto per la seconda edizione del Mîrrowr del 1559, ma non vi venne inserito, comparendo soltanto nella terza edizione del 1563. Da questa data in poi la sua attività fu esclusivamente quella di diplomatico, ma l'apprezzamento per la sua poesia non accennava a diminuire, se ancora nel 1574 Tuberville elogiava in lui il maggior poeta inglese vivente. Il complaint del duca di Buckingham è uno dei più lunghi fra quelli del Mirrour, e certamente quello più impegnativo e stilisticamente più pregevole. È anche preceduto da un lunghissimo Induction, in cui Sackville racconta di essere stato guidato negli Inferi dalla figura allegorica di Sorrow, secondo l’ormai classico schema narrativo del viaggio nell’aldilà. Il contributo di Sackville al Miîrrour è stato edito e commentato da Hearsey 1936. 66. Su di lui cfr. Johnson 1948, pp. 42-95.

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

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Questo dramma, che andò in scena a Inner Temple,” rientra anche tematicamente nella cornice culturale che stiamo considerando. Nello spirito “esemplare”, tipico dell’insegnamento proposto dal Mirrour, Gorboduc rappresenta un problema di successione. Il vecchio re Gorboduc, stanco di regnare, lascia all’iniziativa dei propri figli, Ferrex e Porrex, la decisione di spartirsi il potere: ed essi finiscono per uccidersi, trascinati dal loro desiderio eccessivo di detenere il comando assoluto. Il dramma era esplicitamente indirizzato alla regina Elisabetta, allo scopo di mostrarle i pericoli di un regno senza eredi (come il suo), o comunque di un regno in cui le prospettive della successione non fossero delineate chiaramente (un trasparente invito a provvedere a un matrimonio dinastico).68 L’insegnamento era ovviamente anche di portata generale, come sottolinea il coro alla fine del I atto di Gorboduc, dicendo che il dramma «A myrrour shall become to Princes all / To learne to shunne the cause of such a fall». Le traduzioni di Seneca

Ma se i contenuti di una tragedia come Gorboduc erano determinati dalla tradizione nazionale, le sue forme per la prima volta introducevano in Inghilterra i caratteri tipici della tragedia italiana e, tramite essa, del “Seneca tragico” che era stato rielaborato in forme moderne sulla scena di Ferrara e soprattutto di Venezia. A differenza degli interludes di tradizione medievale, che pure sono piuttosto frequenti in quest'epoca e continueranno a prosperare negli anni successivi

(soprattutto nella seconda metà del decennio), Gorboduc presenta infatti i cinque atti, il coro e il blank verse.9? Alcuni critici hanno volu67. Su Gorboduc cfr. Cunliffe 1912, pp. LKXXI-LXXXII e le note, pp. 297307, Green 1931, pp. 142-145, Johnson 1948 (=1987), pp. 129-223, Cohon 1960, pp. 95-107, Bacquet 1964. Quando la tragedia venne rappresentata sir Richard, padre di Sackville, era governor dell’Inner Temple. La tragedia venne pubblicata, pare senza l’autorizzazione degli autori, nel 1565. La pubblicazione autorizzata del 1570 porta il titolo di The Tragedy of Ferrex and Porrex. 68. Si tratta di un tema che resterà di centrale importanza nel teatro inglese: basti pensare a Titus Andronicus e King Lear di Shakespeare. L’invito non parve certamente fuori luogo alla regina, che volle assistere alla replica di Gorboduc al palazzo di Whitehall, il 18 gennaio. La tragedia ebbe un discreto successo anche in seguito. Fu ripresentata, in forme abbreviate, più volte fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta (una volta con Burbage nella parte di Gorboduc): cfr. Johnson 1948 (=1987), pp. 840 s. Fu senz’altro il più fortunato dei drammi prodotti nella cornice degli Inns of Court. 69. Cioè l'equivalente inglese dell’endecasillabo sciolto. Va detto comunque che il blank verse era stato già impiegato nella traduzione di Surrey dei libri secondo e quarto dell’Eneide (1554-1567), e che anche a prescindere dal teatro, apparteneva alla sperimentazione metrica che in quegli anni si andava facendo nell’ambiente letterario degli Inns of Court. Molto controversa è l’attribuzione di una precisa ascendenza ai dumbshows: di derivazione italiana anch'essi (come riteneva, fra gli altri, Cunliffe 1907, pp.

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to attribuire a questa tragedia dei tratti dipendenti dall’influenza di Seneca, ma senza alcun riscontro preciso.?° Persino il più autorevole “senechista”, John W. Cunliffe, svalutava decisamente il legame con Seneca, e sottolineava invece molto di più quello con la tradizione nazionale U L’atmosfera “senecana” che si può sentire in Gorboduc molto probabilmente non è altro che il semplice riflesso di un gusto italianate, che in quegli anni e in quell’ambiente letterario era molto diffuso: non è improbabile che Sackville e Norton, così come tenevano presenti le forme tipiche delle tragedie italiane dell’epoca, tenessero presente anche lo stile di quei drammi, piuttosto che rifarsi direttamente a Seneca.” E dunque nei dintorni di quest'ambiente che il Seneca inglese comincia a circolare, proprio in quegli anni. E se consideriamo da vicino il testo delle traduzioni di Heywood, vediamo subito che il riadattamento del testo senecano risulta in parte condizionato dalla tradizione “tragica” degli Inns of Court, a cui i protagonisti dell’esperimento sembrano rivolgere un’attenzione tutta particolare.?? La stessa forma 5 s.) o dipendenti dalla tradizione teatrale inglese (come sosteneva il collaboratore di Cunliffe, H.A. Watt, in Cunliffe 1912, p. 298)? Si tratta probabilmente di due forme teatrali che, sebbene presentino qualche analogia, si svilupparono secondo tradizioni e modalità sostanzialmente indipendenti (anche se è difficile precisare i contorni del problema, data la scarsità di informazioni relative agli «intermedii» e alle «moresche» che sicuramente caratterizzavano la rappresentazione delle tragedie italiane, pur non essendo regolarmente registrate nei testi dei drammi che venivano dati alle stampe). Sulla questione cfr. l’equilibrata posizione di Mehl 1965, pp. 3-17. 70. Fra imolti interventi in questo senso mi limito a segnalarne due, che mi sembrano piuttosto tipici. Borgmeier 1978, p. 298 parla, per Gorboduc, di elementi senecani, ma trasformati. Per esempio, il consigliere, reagendo col motivo tipico dei moralities, diventa qualcos’altro: «Die handelnden Personen haben nicht lediglich, wie bei Seneca, einen guten Ratgeber zur Seite, sie stehen vielmehr im moralischen Spannungsfeld zwischen einem guten und einem schlechten Berater». Bacquet 1964, pp. 153-174 sostiene che Seneca è certamente presente, ma non spiega tutto. Il senechismo che indica Bacquet consiste nell’orrore e nella sanguinarietà, in un certo colorito “antico”, nelle Furie presenti nel quarto dumb-show o nel coro dell’atto IV. 71. Cfr. Cunliffe 1912, pp. LKXXI-LXXXIII. 72. Cfr. Praz 1962, p. 11: «Inoltre gli autori di quelle tragedie senecane inglesi appartenevano a quella parte della società che sosteneva la necessità di viaggiare in Italia per formare un compìto gentiluomo, e di fatto la sola tragedia del primo gruppo di drammi senecani che non è ricalcata su un modello italiano, Gorboduc, è opera, in parte, d’un autore che aveva viaggiato in Italia». Difatti fra il 1563 e il 1566 (e quindi dopo la scrittura di Gorboduc) Sackville viaggiò in Francia e in Italia. Fu anche arrestato dall’Inquisizione a Roma nel 1563, con l’accusa di spionaggio. 73. Il discorso si potrebbe anche allargare, dicendo che già chi parlava di Seneca senza ancora averlo letto tendeva a immaginare le sue tragedie come strutturate secondo lo schema del complaint. Ad esempio questa è l’impressione che si ricava dagli accenni che Lydgate fa alle tragedie di Seneca, al quale attribuisce dei particolari narrativi che non compaiono nel suo testo (cfr. i brani riportati da Kelly 1997, pp. 153 s.). In altri termini, l’“attesa” del lettore di Seneca, all’epoca, era condizionata sensibilmente dalle peculiarità delle forme considerate “tragiche” nella cultura tardo medievale.

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

Az

metrica è quella tipica del Mirrour for Magistrates (la cui prima edizione, nel 1559, esce quasi contemporaneamente alla prima traduzione senecana). Non solo Jasper Heywood, ma anche gli altri traduttori” usano infatti soprattutto il fourteener in rima, un metro in cui sono composti anche i complaints del Mirrour. L’importanza dell’autorità esercitata su queste traduzioni dall’opera di Baldwin e dei suoi collaboratori si vede chiaramente se consideriamo le non poche aggiunte o modifiche apportate dai vari traduttori al testo senecano.” Si tratta in genere di dichiarazioni programmatiche o alterazioni del testo che da un lato tendono a sottolineare quegli elementi tipici della concezione “tragica” che abbiamo delineato parlando del Mirrour, dall’altro tendono ad esasperare alcune caratteristiche “senecane” (nel senso ampio e generico del termine), spesso molto al di là della misura richiesta dal testo stesso di Seneca. Vediamo in dettaglio i principali fra questi interventi, seguendo l’ordine cronologico nella pubblicazione delle varie traduzioni. Nella Troas, tradotta da Jasper Heywood (pubblicata nel 1559),7° gli interventi del traduttore sono giustificati sin dal suo «Preface to the readers» :77 Fyrst forasmuch as thys worke semed vnto me, in some places vnperfytte (whether left so of the authour or part of it lost as tyme deuoureth all 74. Con la sola eccezione dell’Octavia di Nuce, l’unica a non avere i four-

teeners (cfr. Spearing 1912, p. 43). Va comunque ricordato, con Cohon 1960, pp. 87 s., che tutti i traduttori erano «University men»

(cfr. supra, n. 45), e che per-

tanto dovevano aver subito anche l’influenza delle rappresentazioni accademiche. Non è improbabile che il loro ruolo sia stato appunto quello di mediare fra due diverse tipologie di presentazione teatrale, adattando i drammi senecani a forme più congeniali alla scena londinese. 75. Sulle modifiche del testo di Seneca in queste traduzioni cfr. i cenni di Rees 1969, pp. 125-130. In generale, sui legami stilistici e tematici fra l’opera dei traduttori e il Mirrowr, cfr. Hunter 1974, pp. 187-190. 76. La Troas fu dedicata da Heywood alla regina Elisabetta (di cui Jasper, da piccolo, era stato paggio), per motivi direttamente connessi agli interessi culturali della regina. Verso la fine della dedica si dice: «[...] I haue here presumed to offer vnto you such a simple new yeres gift as neither presenteth golde nor perle, but dutie & good will of a scholler, a piece of Seneca translated into Englishe which I the rather enterprise to giue to your highnes, as well for that I thought it should not be vnpleasant for your grace to se some part of so excellent an author in your owne tong (the reading of whom in laten I vnderstande delightes greatly your maiesty) as also for that none may be a better iudge of my doinges herein, then who best vnderstandeth my author» (p. [5] dell’ed. De Vocht 1913). Dell’interesse di Elisabetta per Seneca abbiamo anchè una testimonianza diretta, costituita da un esercizio che la

futura regina doveva aver svolto sotto la guida di Roger Ascham. Nella c. 48 del manoscritto Oxford, Bodleian Library, 3499 è conservato un autografo di Elisabetta, con la traduzione in 123 versi (si tratta forse della prima utilizzazione del blank verse in una traduzione da Seneca) di un lungo brano tratto dal secondo coro dell’ Hercules Oetaeus (vv. 600-699). Se ne può vedere l’edizione in Walpole 1806, 1, pp. 101-109. 77. De Vocht 1913, pp. [7]. s.

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thyngesJwotte not) J haue (whereJthought good,) wyth addicyon of mine owne pen, supplied the want of some thynges, as the fyrst Chorus, after the fyrst act [...] Also in the second'acte. J haue added the speche of Achilles spright, rysing from hell to require the sacrifice of Polixena [...] Againe the three last staues of the Chorus after the same acte, and as for the third Chorus [...] For as much, as nothing is therin but a heaped noumbre of farre & strange countreies, consydering with my selfe, y' the names of so many vnknowne countreyes, mountaines, desertes, and woodes should haue no grace in the englishe tonge, but be a straunge and vnpleasaunt thing to the readers, (except J should expounde the histories of eche one, which would be farre to tedious) J haue in the place therof, made a nother beginning in thys maner. O Joue that leadst & c. whych alteracyon may be borne withall, seeing that the Corus is no part of the substance of the matter. Jn the restJ haue for my sclender learning, endeuored to kepe touche with the Latten, not woorde for woorde or verse for verse as to expounde it, but neglecting the placing of the wordes obserued their sence.

Alla fine del I atto, nelle parole del coro (uno di quelli alterati da Heywood) si trova fra l’altro una presentazione esemplare della vicenda, secondo il modello dello “specchio per i principi”: And Hecuba that wayleth now in care That was so late of high estate a Queene, A mirrour is to teach you what you are Your wavering wealth, O Princes here is seene.

Il Thyestes tradotto da Heywood (edito nel 1560) è preceduto da un importantissimo Preface in versi,” in cui il traduttore racconta come in sogno gli fosse apparso il fantasma di Seneca, per invitarlo a proseguire nel suo lavoro di traduzione, e gli avesse persino messo a disposizione il suo testo delle tragedie, per evitare le molte scorrettezze di cui copisti ed editori lo avevano infarcito, col passare del tempo.” Heywood si scher78. Cito da Daalder 1982, pp. 3-21. 79. I versi più significativi sono i seguenti (13-17 = 115-123 in De Vocht 1913):

«I felt how Morpheus bound my brows and eke my temples stroke, / That down I sunk my heavy head and slept upon my book. Then dream’d I thus, that by my side me thought I saw one stand / That down to ground in scarlet gown was dight; and in his hand / A book he bare» etc. Rivolgendosi a Heywood, l’apparizione dice (vv. 25-27=139-144 in De Vocht 1913): «Spain was, quoth he, ‘my native soil. A man of worthy fame / Sometime I was in former age, and Seneca my name.’ / The name of Senec when I heard, then scantly could I speak». Si tratta di Seneca tragico (non si fa alcun cenno alle sue opere “morali”), venuto in terra per chiedere a chi aveva già tradotto la Troas di continuare a perpetuare la fama delle sue tragedie (vv. 4244=173-178 in De Vocht 1913): «And here I come to seek someone that might renew my name, / And make me speak in stranger speech, and set my works to sight, /And scan my verse in other tongue than I was wont to wright». Seneca dice a Heywood che gli sarà infinitamente grato (vv. 56-57=201-204 in De Vocht 1913): «[...] When

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misce, dicendo che a quest’impresa sarebbero più adatti gli uomini degli Inns of Court, già protagonisti di molte importanti iniziative letterarie. Vengono esplicitamente menzionati i principali rappresentanti di quest'ambiente (i «Minerva’s men»: Thomas North, il terzetto composto da Thomas Sackville, Thomas Norton e Christopher Yelverton, William Baldwin, Thomas Blundeville, William Bavand (o Bavaund) e Barnabe Googe); e fra le varie iniziative letterarie spicca la redazione (esplicitamente menzionata) del «Myrrour of Magistrates», insieme ad altre traduzioni di classici.*

Particolarmente significativa è l’aggiunta alla tragedia di un finale di 62 versi, in cui Tieste si rivolge alla divinità degli Inferi, perché vengano sulla terra a maledirlo e a punirlo per l’orribile gesto che ha compiuto, divorando i propri figli. Si tratta di un brano il cui unico scopo sembra quello di accentuare fino all’esasperazione il sentimento di colthey themselves my tragedies shall see / In English verse, that never yet could Latin understand». Nel lamentarsi del cattivo stato delle edizioni del tempo, Heywood ci fornisce importanti informazioni sui testi da lui usati (Gryphius [Lyon 1536 e ristampe], Colineus e Aldo [cioè l'edizione dell’Avanzio del 1517]). Cfr. Daalder 1982, pp. 83-88, che spiega cosa possa nascondersi dietro l’enigmatica indicazione dell’edizione del Colineus, e mostra come Heywood usasse anche l’edizione dell’ Ascensio [Parigi 1513], pur senza mai citarla. Bisogna anche ricordare che un Seneca in latino fu pubblicato in Inghilterra solo nel 1589, sempre sulla base dell’edizione del Gryphius (cfr. Daalder 1982, pp. 83 e 88). Va infine precisato (cfr. Daalder 1982, p. XXIV, n. 6) che l’adattamento del Tieste realizzato da Lodovico Dolce a Venezia è del 1547, ma non pare sia stato tenuto presente da Heywood (Daalder però non dà alcuna dimostrazione di quanto afferma, e il problema delle relazioni fra l’opera dei traduttori inglesi e i volgarizzamenti italiani e francesi deve ancora essere studiato). 80. Vv. 81-106=251-302 in De Vocht 1913: «But if thy will be rather bent a young man's wit to prove, / And think'st that elder learned men perhaps it shall behove / In works of weight to spend their time, go where Minerva’s men / And finest wits do swarm whom she hath taught to pass with pen. / In Lincoln’s Inn and Temples twaine, Gray’s Inn and other mo, / Thou shalt them find whose painful pen thy verse shall flourish so / That Melpomen thou wouldst well ween had taught them for to write, / And all their works with stately style and goodly grace t’indite. / There shalt thou see the selfsame North whose work his wit displays, / And Dial doth of Princes paint, and preach abroad his praise. / There Sackville®s Sonnets sweetly sauc’d and featly fined be; / There Norton’ ditties do delight; there Yelverton®s do

flee / Well pur’d with pen: such young men three as ween thou mightst again / To be begot as Pallas was of mighty Jove his brain. /There hear thou shalt a great report of Baldwin®s worthy name, / Whose Mirror doth of Magistrates proclaim eternal fame. / And there the gentle Blundeville is, by name and eke by kind, /Of whom we learn, by Plutarch’s lore, what Fruit by Foes to find. / There Bavand bides, that turn’d his tool a Commonwealth to frame, / And greater grace in English gives to worthy authors name. / There Googe a grateful gains hath got — report that runneth rife-/Who crooked Compass doth describe and Zodiac of Life. /And yet great number more, whose names

if I should now recite, / A ten times greater work than thine I should be forc’d to write. / A princely place in Parnass hill for these there is prepar’d, / Where crown of glitt'ring glory hangs, for them a right reward» etc. Infine, (vv. 111-112=311-314 in De Vocht 1913): «These are the wits that can display thy Tragedies all ten, / Replete with sug’red sentence sweet and practice of the pen».

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pevolezza del protagonista, e di richiedere una pena infernale definitiva, capace di lavare la macchia che l’esistenza stessa di Tieste comporta. La prefazione all’ Oedipus tradotto da Neville (pubblicato nel 1563) è importante, perché ci fornisce alcuni dati interessanti sulle attese che circondavano queste iniziative. Neville dice infatti, fra l’altro, di essersi deciso a pubblicare la sua impresa per compiacere le pressanti richieste dei propri amici: [...] onely to satisfy the instant requests of a few my familiar frends, who thought to haue put it to the very same use, that Seneca himselfe in his Inuention pretended: Which was by the tragicall and Pompous showe vpon Stage, to admonish

all men of their fickle Estates, to

declare the vnconstant head of wauering Fortune, her sodayne interchaunged and soone altered Face: and lyuely to expresse the iust reuenge, and fearefull punishments of horrible Crimes, wherewith the wretched worlde in these our myserable dayes pyteously swarmeth.8!

Sulla base di questa dichiarazione, alcuni studiosi*? hanno ipotizzato che la tragedia fosse stata tradotta in vista di una rappresentazione, e che quindi l’intero corpus dei volgarizzamenti senecani potesse avere avuto una destinazione del genere. Si tratta però di un’ipotesi assai poco probabile. Neville, infatti, utilizza una giustificazione piuttosto comune nelle presentazioni di questo genere di testi, e in particolare di imprese letterarie relativamente minori, come sono appunto le traduzioni. Il topos ricorrente, in questi casi, è quello secondo cui l’autore, nella sua mode-

stia, avrebbe pubblicato controvoglia. Nel caso specifico, però, questo non vuol dire che gli amici del traduttore volessero mettere in scena la tragedia, bensì che tanto Seneca (mettendo in scena i suoi drammi),

quanto gli amici di Neville, pubblicando il testo, intendevano ammonire il proprio pubblico. Come al solito, lo scopo didattico è quello privilegiato, in perfetta sintonia con quanto leggiamo tanto nelle dichiarazioni programmatiche di Heywood quanto in quelle di Studley.8* Alla fine del III atto Neville rimpiazza il testo senecano con un nuovo canto corale, tutto giocato sul solito tema dello “specchio dei Principi”, subito introdotto al primo verso («See, see, the myserable State of Prynces carefull lyfe»), e poi ripreso verso la fine («Let CEdipus 81. Cito da Spearing 1912, p. 27, che mette a confronto le versioni (sostanzialmente identiche) dell’epistola dedicatoria nella forma originaria del 1563 e nella riedizione del 1581. Sulla traduzione di Neville e sulle sue vicende editoriali (quella di Neville fu l’unica traduzione ad essere completamente rivista dall’autore prima di essere ristampata da Newton nel 1581), cfr. Spearing 1912, pp. 20-29, Spearing 1920 (per le modifiche all’epistola cfr. in part. p. 363) e Smith 1978, pp. 16-26 (pagine piene di belle osservazioni, ma che purtroppo considerano il testo come un vero e proprio «script»). 82. In particolare Smith 1978, p. 19. 83. Sull’assoluta improbabilità di pensare le traduzioni di Heywood come scritte per la scena cfr. De Vocht 1913, pp. XXXIII s.

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example bee of this unto you all, / A Mirrour meete, A Patern playne, of Princes carefull thrall»).8 Nel presentare la sua traduzione dell’ Agamemnon (pubblicata nel 1566),8° John Studley sottolinea fra l’altro l’esemplarità delle vicende senecane, offerte al lettore come paradigma dell’instabilità della fortuna: Beholde gentle Reader, howe SENECA in this present Tragedie hath most liuelie painted out vnto thee, the vnstabilytie of fortune, who when she hath aduaunced to the hyest hym, with whom (as the cat with the mouse) it liketh her to daly, sodeinly she turning her wheele, doth let hym fall to greater mysery, then was his former felicitie: wherof AGAMEMNON may be a perfect paterne, as is at large shewed in the Tragedie it selfe.8°

Alla fine della tragedia Studley ha aggiunto un monologo di 72 versi, pronunciato da Furibate, in cui viene fatta prima una ricognizione della stirpe tantalide, in chiave di «remembraunce of revenge», quindi viene descritto il modo coraggioso in cui Cassandra ha affrontato la decapitazione, la fuga di Oreste, la prigionia di Elettra. In forte evidenza viene posta la citazione della profezia finale di Cassandra: Who [scil. Oreste] (as Cassandra telleth) shall reuenge his fathers death, Depryue with swerd thadulterour, and mother both of breath. So after all these bloody broyles, Greece neuer shall be free: But blood for blood, and death by turnes, the after age shall see.8

Come Heywood aveva dovuto sostituire il finale aperto del Thyestes, così anche Studley non poteva conservare quello dell’ Agamzemnon, che consiste nello scambio di battute fra Clitennestra, che dice a Cassan-

dra furiosa morere, e la profetessa, che risponde verniet et vobis furor.88 La precisazione di questo quadro finale, nella prospettiva di una catena di delitti fondati sul principio del “sangue che chiama sangue”, accentua la rilevanza del tema della vendetta, con toni decisamente estra-

nei allo spirito delle tragedie senecane. Nel «Preface to the Reader» che precede la traduzione della Medea (edita nel 1566) Studley stesso dà ragione dei cambiamenti apportati al testo di Seneca: 84. Cito da Newton 1581, vol. I, pp. 215 s. Dall’edizione di Newton 1581 sono tratte anche le citazioni, supra, di p. 179 (vol. II, p. 15) e, infra, di p. 183 (vol. II, pp. 58 s.).

85. Importanti sono anche i versi premessi da Thomas Nuce a questa traduzione: cfr. infra, n. 111. 86. Spearing 1913, pp. [22] s. 87. Spearing 1913, p. [120], vv. 3130-3136.

88. Sulle cornici “aperte” delle tragedie senecane sarà da vedere un intervento di Alessandro Schiesaro, di prossima pubblicazione.

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And bycause that all thynge myght be to the better vnderstandyng and commodytye of the vnlearned, as in some places I do expound at large the darke sence of the Poet: so haue I chaunged the fyrste Chorus, because in it I sawe nothyng but an heape of prophane storyes, and names of prophane Idoles: therfore I haue altered the whole matter of it [...] Diuers reasons could I aledge to mayntayne thys myne alteracion, but I truste thy gentlenes wyll waye it to the vttermoste, and take all thynges in better parte.8°

È curioso questo modo di presentare l’epitalamio del I coro come «un cumulo di storie blasfeme, pieno di nomi di idoli pagani». Se infatti è vero che in quel brano c’è un certo numero di nomi del mito, non facili da intendere da parte di un lettore comune, non c'è dubbio, comunque, che la motivazione addotta da Studley sia speciosa. In realtà il traduttore ha interesse a sostituire l’epitalamio cantato dal coro corinzio contro Medea con una lunga tirata contro l’infedeltà dei giuramenti di Giasone. Così facendo, però, egli realizza uno stravolgimento radicale della tragedia senecana. Infatti, grazie a questo coro modificato da Studley, la vicenda di Medea viene presentata, secondo le formule tipiche del Mîrrour, come una

sorta di modello della credulità punita, che non sa scoprire sotto il falso velo dell’amore le reali motivazioni dell’avidità, che avevano mosso Giasone. Basta considerare i versi con cui Studley apre e chiude questo brano: Who hath not wist that windy words be vayne, And that in talke of trust is not the grounde, Heere in a mirrour may hee see it playne, Medea so by proofe the same hath founde

E poi, alla fine, la tipica esortazione rivolta ai «Prynces»: Loe, Prynces loe, what deadly poyson sup Of Bane, erst sweete, now turned into sower,

Medea dranke out of agoulden Cup.

Seneca nella cornice tragica tipica degli Inns of Court Proviamo a fare un bilancio degli elementi più significativi di questi interventi. Nella Troas Heywood dice esplicitamente di aver trovato Seneca «in some places vnperfytte (whether left so of the authour or part of it lost as tyme deuoureth all thynges Jwotte not)». Di conseguenza, perché la Troas possa risultare accettabile come tragedia da presentare a un pubblico inglese, manca un fantasma che si presenti in scena a reclamare la sua vendetta; e inoltre un coro non risulta adeguato alle aspet-

89. Spearing 1913, pp. [125] s.

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tative. Da dove poteva venire una tale convinzione a Heywood, se davvero Seneca fosse stato il modello assoluto per i tragici elisabettiani? La trasformazione del testo è in questo caso particolarmente istruttiva, e merita di essere illustrata in dettaglio. Nelle Troades l’apparizione del fantasma di Achille viene raccontata in poche battute da Taltibio (vv. 164-202), e culmina nella richiesta del sacrificio di Polissena, formulata in appena sei versi (191-196): Ite, ite, inertes, debitos manibus meis

auferte honores, solvite ingratas rates per nostra ituri maria. Non parvo luit iras Achillis Graecia et magno luet: desponsa nostris cineribus Polyxene Pyrrbi manu mactetur et tumulum riget.

Nella traduzione di Heywood, invece, il fantasma di Achille compare all’inizio del secondo atto, pronunciando un lungo discorso (13 strofe di sette versi ciascuna), in cui vanta i propri meriti nella presa di Troia e ricorda l’inganno di Paride, che lo aveva ucciso a tradimento, durante la cerimonia che avrebbe dovuto unire l’eroe a Polissena. Di qui la richiesta, insistente e amplificata (occupa ben otto strofe), di una vendetta terribile: Remembred is alowe where sprites do dwell The wicked slaughter wrought by wyly way. Not yet revenged hath the deepest hell, Achilles bloud on them that did him slay But now of vengeance come the yrefull day And darkest dennes of Tartare from beneath Conspire the fautes, of them that wrought my death etc.

Il più vicino parallelo per questa scena, all’interno del corpus senecano, si trova nel monologo dell’ombra di Agrippina, ai vv. 593-645 dell’Octavia: è questo infatti l’unico fantasma senecano che, comparendo sulla scena, chiede esplicitamente vendetta per sé. Le altre due più celebri apparizioni di spettri (quella di Tantalo all’inizio del Thyestes e di Tieste all’inizio dell’Agamemnon) rispondono ad esigenze drammaturgiche diverse da quelle che Heywood soddisfa con questo espediente.” 90. Su questa scena cfr. la bella trattazione di Dahinten 1958, pp. 29-33 e Goldberg 2000, pp. 213 s. Cito da Newton 1581, vol. II, p. 17. 91. Cfr. supra, p. 36 e infra, pp. 196 s. Dahinten 1958, pp. 33-39 osserva come anche le apparizioni di fantasmi del Thyestes e dell’ Agamemnon vengano rese, rispettivamente da Heywood e Studley, in modo da attribuire ad esse un «Racheimpuls» che struttura l’intera vicenda all’interno di una cornice di vendetta sostanzialmente estranea ai modelli senecani («so da die Riickkehr des Geistes zur Erde auf seine eigene Initiative, seine Rachesucht, zuriickgefiùhrt werden mu»; e mostra

poi come la riscrittura di queste scene senecane sia realizzata tramite una forte cri-

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Dunque la stessa scrittura senecana non sembra appropriata al “Seneca” che un intellettuale come Heywood sentiva di dover offrire al suo pubblico: il fantasma delle Troadesmon era, paradossalmente, sufficientemente “senecano” per il pubblico dell’epoca.’ Ovviamente il paradosso scompare subito se smettiamo di considerare necessariamente “senecani” tutti i fantasmi che compaiono nelle tragedie inglesi. Dovrebbe essere ormai chiaro che questi fantasmi sono altrettanto “italiani”, “boccacciani”, tipici dell'atmosfera del Mirrour for Magistrates e di chissà cos'altro. Analoghe osservazioni si potrebbero fare per l’apparizione di Seneca di cui Heywood parla nella sua prefazione in versi al Thyestes: la finzione del sogno ispiratore è uno strumento narrativo estraneo all’ispirazione senecana, e invece piuttosto frequente nella tradizione medievale.” Tutti questi elementi costituiscono, nel loro insieme, un mondo “tragico”, in cui anche la lettura di Seneca viene ad inserirsi; e che, se vogliamo, in Seneca “si ricono-

sce” come in un ideale modello dotato dell’eccezionale autorità che gli viene dalla sua appartenenza al mondo antico. Questo si vede bene se consideriamo anche le espressioni usate da Heywood, Neville e Studley per sintetizzare il valore esemplare delle vicende tragiche che hanno riprodotto traducendo Seneca. Ancora una volta quello che il testo forniva era insufficiente per giustificare come “tragiche” le storie del mito greco. Ecco allora che piccole aggiunte correggono il tiro, uniformando anche queste vicende ad una tipologia che rientra pienamente negli schemi medievali rimasti alla base del Mirrour:?* Ecuba è la regina che serve da «mirrour» per stianizzazione delle figure dei fantasmi, in linea con le credenze contemporanee ai traduttori (su questo tema cfr. anche Campbell 1931, pp. 294-296). 92. Boyle 1997, p. 155 osserva: «The first Senecan revenge ghost to enter English drama ironically was not Seneca”s». 93. Già Baker 1939, pp. 147 s. aveva notato che Heywood non faceva altro che inserire la sua opera all’interno di quella tradizione “tragica” medievale che era culminata nel Mirrour for Magistrates. Riporto le sue due conclusioni: «[...] the first translator of Seneca did not distinguish between metrical tragedies and regular tragedies; the first translator, even though he had Senecan texts before him, pursued medieval conventions in part when he created the ghost of Achilles [scil. nella Troas] and entirely when he created the ghost of Seneca». Cfr. anche Farnham 1936, pp. 342-351. Si ritrova in quest’operazione qualcosa di simile a quanto faceva, negli stessi anni, un poeta come George Gascoigne col suo Complaint of Philomene, che declinava la forma in cui la vicenda “tragica” ovidiana veniva inserita secondo un paradigma tipico del complaint (con elementi tipici come il sogno del poeta), modificato in modo originale (ad apparire al poeta e a raccontare la storia di Filomela è Nemesis, e non l’eroina stessa): cfr. Wallace 1975, pp. 50-58. 94. Cfr. quanto affermava già Borgmeier 1978, p. 292-294, dove si dice, fra l’altro «Vor allem die lingeren Finschiibe und Erginzungen deuten mehrfach und unmiBverstindlich darauf hin, daf die Ubersetzer Senecas Tragòdien in dem gleichen Sinne wie die Fiùrstenfall-Tragòdien deuten». Borgmeier aggiunge che sia la prospettiva dello speculum principis che il motivo della ruota della Fortuna sono

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insegnare ai Princes quanto sia incerta la loro sorte. Così pure, Edipo è un Prynce che fa da «example» «Mirrour» e «Paterne» dell’instabile fortuna dei potenti;** Agamennone è un «perfect paterne» che dimostra l’«vnstabilytie of fortune» (stavolta esplicitamente descritta nel gesto canonico di «turning her wheele»); e infine Medea è un «mirrour» sul quale è richiamata l’attenzione dei «Prynces». L’esemplarità entra pesantemente nelle tragedie di Seneca, portando in esse delle esigenze che sono tipiche della letteratura e più in generale della cultura dell’epoca, quando si tratta di narrare vicende “tragiche”.» 97 Se infatti consideriamo anche altri generi letterari, come ad esempio la novella (anch’essa di derivazione italiana e francese, anch’essa spesso rivolta alle storie dell’antichità), troviamo lo stesso modo di presentare i racconti antichi in una cornice didattica di valutazione morale.’ elementi strutturali importantissimi nella raccolta del Mirrour for Magistrates, e conclude: «Senecas Tragòdien werden also nicht als fremd und fernstehend aufgefaBt, sondern gehen gleich in heimische literarische Traditionen ein. Sie stehen auf einer Stufe mit nationalen, zeitgenòssischen Werken. Zwischen ihnen und dem ‘Mirror for Magistrates’ etwa erhebt sich keine Schranke der Klassizitàt, was

auch umgekehrt dadurch zum Ausdruck kommt, da£ der ‘Mirror’ mehrfach auf Seneca Bezug nimmt». 95. Sulle somiglianze fra questa presentazione della vicenda di Edipo e quel-

la offerta da Gascoigne nella Jocasta, cfr. infra, p. 190. 96. Ovviamente alcuni di questi spunti si trovano anche in Seneca. Per fare solo un esempio, cfr. Tro. 266-275, in cui Agamennone dice di aver smesso di insu-

perbire per il suo potere, dopo aver visto i rovesci della Fortuna (Fortunae favor) di un re come Priamo (tu me superbum, Priame? tu timidum facis). Anche in questo caso, volendo a tutti i costi stabilire delle analogie, si potrebbe dire che Agamennone usa la “fortuna” di Priamo come specchio esemplare della sua sorte, traendone un insegnamento diretto. Ma si tratta di un’analogia fuorviante. Per quanto il tema delle fortuna sia frequentissimo e assolutamente centrale anche nelle tragedie senecane, le stesse scelte lessicali dei traduttori elisabettiani ci indirizzano chiaramente verso modelli compositivi diversi da Seneca (cfr. infra, n. 107). 97. Un’ampia esemplificazione di questo processo di modificazione del modello senecano si può trovare in Dahinten 1958, pp. 39-60, dove si mostra come i topoi più tipici delle scene di apparizioni di fantasmi siano stati costantemente riscritti dagli elisabettiani secondo schemi cristiani che rispondono a criteri moralistici di esemplarità. 98. Cfr. ad es. quanto William Painter afferma nella premessa indirizzata «To the Reader», all’inizio della sua raccolta di novelle (Painter 1575), che definisce «Profitable |...] in that they do reueale the miseries of rapes and fleshly actions, the cuerthrow of noble men and Princes by disordred gouernment, the tragical ends of them that vnhappely do attempt practises vicious and horrible. Wilt thou learne how to behaue thy self with modestie after thou hast atchieued any victorious conquest, and not to forget thy prosperous fortune amyd thy glorious triumphe, by committing a facte vnworthy of thy valiaunce: reade the firste Nouel of the fortunate Romane Horatius? Wilt thou vnderstande what dishonour and infamie, desire of libidinous lust doth bring, read the rape of Lucrece?» etc.

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La produzione tragica degli Inns of Court Alla luce di queste osservazioni diventa chiaro il significato dell’enfasi con cui Heywood, nel suo Preface al Thyestes, si rivolge all’ambiente letterario degli Inns of Court. Nel clima culturale in cui nasce, l’impresa di ridurre Seneca in inglese trova nelle scuole di diritto l’ambiente letterario di riferimento ideale in cui collocarsi: sia perché si tratta di tragedie, sia perché si tratta di traduzioni. In questo ambiente, infatti, sfilano, come abbiamo detto, i maggiori traduttori dei classici, gli autori del Miîrrour e quasi tutti i più importanti tragediografi del periodo. Per limitarci all'ambito della produzione tragica, accanto a Sackville e Norton, i due autori del Gorboduc, Heywood nomina anche Christopher Yelverton, coinvolto in altre due notevoli iniziative drammaturgiche dell’epoca: la Jocasta di George Gascoigne? e Francis Kinwelmershe, presentata al Gray’s Inn nel 1566-7 (e alla quale Yelverton aggiunse un epilogo), e la “senecanissima” The Misfortunes of Arthur (prodotta vent'anni più tardi, anch’essa dagli uomini del Gray's Inn, alla corte di Greenwich, il 28 febbraio 1587-88).!° Anche in questi drammi alcuni elementi risentono della tipologia tragica presente nel Mirrour for Magistrates, in modo analogo a quanto abbiamo visto nei volgarizzamenti di Seneca. Per quanto riguarda poi i modelli a cui si rifanno gli autori di queste tragedie (le prime tragedie “regolari” rappresentate in ambiente londinese), già gli intrecci denunciano uno stretto legame con il teatro italiano; in particolare con la produzione di Venezia, che com’è noto rappresenta uno dei più importanti centri di sviluppo della tradizione senecana nel Cinquecento. Mi limiterò qui a parlare della Jocasta, che è addirittura la traduzione di un dramma italiano. La Jocasta venne presentata dai suoi autori come un dramma originale tradotto dalle Phoenissae di Euripide.!®! Le forme erano quelle già sperimentate cinque anni prima nel Gorboduc: anche qui abbiamo cinque atti, il coro, un accompagnamento musicale e i dumb99. Sulle vicende biografiche di Gascoigne negli anni degli Inns of Court cfr. Prouty 1942, pp. 17-46. Sulla Jocasta in particolare cfr. pp. 143-188. 100. L'elenco completo dei personaggi coinvolti nella scrittura e nella rappresentazione di questa tragedia è il seguente: Nicholas Trotte, William Fulbeck, Francis Flower, Christopher Yelverton, Francis Bacon (al quale, in particolare, si dovevano i dumb-shows), John Lancaster, Maister Penroodocke (che diresse la recita a corte) e Thomas Hughes (cfr. Green 1931, pp. 150-153 e Johnson 1948 [=1987], pp. 318-377). Anche in questo dramma Arthur muore dicendo al morente Mordred che la loro fine è «a mirror to the worlde, / Both of incestuous life, and wicked birth» (cfr. Farnham 1936, p. 362).

101. «A Tragedie written in Greeke by Euripides, translated and digested into Acte by George Gascoigne and Francis Kinwelmershe of Grayes Inne, and there by them presented, 1566» (cito da Cunliffe 1906, p. 129).

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shows. Per lungo tempo si era creduto si trattasse davvero della prima rappresentazione di una tragedia greca in Inghilterra: ma nel 1879 Mahaffy!° mostrò come in realtà l'Opera di Gascoigne e Kinwelmersh fosse semplicemente una traduzione della Giocasta di Lodovico Dolce (edita nel 1549 per i tipi di Aldo): e quella di Dolce, più che una vera traduzione delle Phoenissae di Euripide, era un adattamento della tragedia greca secondo esigenze tipiche della letteratura italiana del Cinquecento.!° Tanto Gascoigne quanto Kinwelmersh si tennero vicinissimi al testo di Dolce, realizzando dunque qualcosa di abbastanza simile a quanto andavano facendo in quegli anni i traduttori di Seneca: con la differenza che, mentre le tragedie di Seneca non venivano tradotte pensando di portarle in scena, Jocasta fu prodotta sicuramente 102. In Euripides, ed. by J. R. Green (London, Macmillan). Cfr. Cunliffe 1907, p. 600. Maggiori notizie in Orr 1970, p. 57 n. 9: cfr. anche Corti 1977, pp. 87 s. 103. Gascoigne non era nuovo a questo tipo di iniziative: nel 1566 aveva portato in scena, sempre a Gray”s Inn, la traduzione dei Suppositi di Ariosto. Rebora 1925, p. 37 ricorda che già nel 1552 J.P. Mesmes aveva tradotto la commedia: ma Gascoigne, che pure ammette di sapere l’italiano meno bene del francese e del iatino, per averlo appreso a Londra, sembra proprio che traduca direttamente dall’italiano (cfr. anche Prouty 1942, pp. 159-172). I Supposes di Gascoigne erano destinati ad avere poi una grande influenza su The Taming of the Sbrew di Shakespeare. Sono anni in cui l’influsso italiano sull'ambiente degli Inns of Court sembra decisamente forte. L’anno dopo la Jocasta, nel 1567-8, un gruppo di autori dello stesso ambiente mise in scena a Inner Temple, alla presenza della Regina, una tragedia che era l’adattamento di una novella boccacciana (Dec. IV.1: la stessa da cui il Cammelli, nel 1499 a Ferrara, aveva tratto la sua Panfila). Si tratta di Gismond ofSalerne, l’unico caso di questa produzione in cui non compaia il blank verse. Ecco il prospetto completo degli autori: Rod Stafford (I atto), Henry Noel (II atto), G. Al. (III atto), Christopher Hatton (IV atto) e Robert Wilmot (V atto) (probabilmente erano tutti membri dell’Inner Temple: cfr. Cunliffe 1912, p. LXXXVI). La tragedia prese poi il titolo di Tarncred and Gismund, quando nel 1591-2 Robert Wilmot ne curò l’edizione a stampa. In quest'edizione (cfr. Cunliffe 1912, p. LXXXVI) vennero aggiunti i dumb-shows che, pur essendo stati messi in scena, mancano nei manoscritti, e i versi rimati dell’originale vennero sciolti nel blank verse ormai più gradito al pubblico. Sulle vicende di questa redazione cfr. Green 1931, pp. 147-150. Sulla Gismond cfr. Johnson 1948 (=1987), pp. 265-317. Anche questa volta la figura di Dolce entra in gioco: infatti i primi versi del prologo, pronunciati dal personaggio di Cupido, sono la traduzione fedele dei primi versi del prologo della Didone del drammaturgo veneziano. Inoltre, all'ambiente italiano rimandano sia il fatto che la tragedia sia tratta da una novella del Decameron (4.1) sia la costruzione del personaggio della protagonista secondo moduli tipici della tragedia italiana e della tradizione che discendeva dalla Phaedra di Seneca (così Cunliffe 1912, p. LKXXVIII). A questo proposito si può ricordare anche il fatto che nel 1561-2 (forse a Inner Temple) era stata rappresentata un’altra tragedia tratta da una celeberrima novella, il Romeus and Juliet, a cui dice di aver assistito Arthur Brooke (Rebora 1925, pp. 245 s. fa un’interessante ipotesi: Brooke potrebbe aver visto La Hadriana del Groto, fondata sullo stesso intreccio, composta nel 1560. Groto stesso diceva della sua tragedia, nella prefazione all’edizione a stampa del 1578, di aver lasciato che insieme alla sua “sorella”, La Dalida, «vagassero per lo mondo»).

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al Gray’s Inn, e per quella destinazione era stata espressamente pensata. Per creare un prodotto adatto alla scena, dunque, gli autori degli Inns of Court non si rivolgevano al “modello” senecano, ma andavano a cercare ispirazione là dove la prassi teatrale aveva già dato frutti considerevoli: la scena veneziana. Ma anche in questo caso il testo di partenza andava opportunamente modificato, per renderlo più adatto al contesto inglese. Le uniche aggiunte ai versi di Dolce sono un «Argument of the Tragedie», scritto da Gascoigne, e l’epilogo, scritto da Christopher Yelverton:!% è qui che compare qualche piccolo adattamento, necessario per inquadrare la vicenda nei canoni tipici del moralismo del Mîrrour.!° Così, nell’«Argument», Creonte ed Edipo vengono presentati, rispettivamente, come «the type [o, secondo un’altra variante, «fygure»] of Tyranny» e «a myrrour of misery»: «Fortunatus Infeelix». Anche il coro finale presenta tracce significative di questo procedimento. Dolce aveva chiuso la sua tragedia con un breve coro incentrato sull’esemplarità della sorte di Edipo:!% Con l’esempio d’Edipo Impari ognun che regge, Come cangia Fortuna ordine, e stile; Tal che ’l basso et umile Siede in alto sovente,

E colui che superbo 104. Su Jocasta cfr. Cunliffe 1912, pp. LKXXII-LXXXVI (cfr. anche le note al testo, alle pp. 307-313), Johnson 1948 (=1987) pp. 224-264 e Smith 1988, pp. 217-

224. Contrariamente a quanto sostiene Orr 1970, p. 59, Jocasta ebbe una grande importanza nella letteratura dell’epoca, tant'è vero che fu stampata quattro volte in 15 anni (1572 e 1575, e per ben due volte nel 1587, cioè negli anni di The Spanish Tragedy di Kyd). Interessante l’ipotesi di Johnson 1948 (=1987) pp. 257 s., secondo cui fu forse la traduzione dell’Oedipus di Neville (amico di Gascoigne e di Kinwelmershe) a fornire agli autori lo stimolo a cercare qualcosa di vicino nella tragedia di Dolce, per scrivere un testo da portare in scena. Ci sono precise analogie nel modo di presentare Edipo come Mirrour tanto nella traduzione di Neville quanto nel finale di Jocasta. 105. Sull’adattamento della tragedia del Dolce cfr. Herrick 1965, pp. 161165 e Corti 1977, la quale nota fra l’altro (pp. 100-102) come, a differenza del Dolce, gli autori inglesi «indulgano su tocchi singolarmente crudi, ogni volta che devono comunicare al pubblico parentesi di violenza». 106. Le citazioni di Dolce e Gascoigne sono tratte da Cunliffe 1906, pp. 412 s. Nel dramma euripideo il tema è più volte toccato nel dialogo finale fra Edipo e Antigone. In particolare cfr. i sospetti vv. 1757-1763 (® TATPAc KAELvig TON

tai, \evocet”, Oidirmove 6de, | dc TÀ KAgiv' alviyuat’ Eyvw Kkaù uéyiotog Mv avifp, | 6g udvog Egiyyòc katéoxov Tic urardovov kpatn, |vv ditiuog aùtòg oikTpòg eteravvouai x8ovéc.| dAXà yàp Ti TadTa Bpnvo kai uatnv ddbpouai; |Tag yàp Èk Be@dv davaykac Avntòv dvta dei péperv). Vicine allo

spirito di questi versi sembrano anche le parole del coro nel quarto stasimo dell’Edipo re sofocleo (cfr. ad es. i vv. 1192-1195: tòv odv to tapaderyu’ Éxwv, |tòv vv daiuova, tòv 06v, ® |tTAGUOv O1d1T6da, Bporov |oddèv Lakapitw etc.).

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Ebbe già signoria di molta gente Spesso si trova in stato aspro et acerbo Gue,

Riprendendo ed ampliando uno spunto del genere, Gascoigne accentua i toni tipici della produzione tragica del suo ambiente (quelli, appunto, del Mirrour), inserendo fra l’altro un lungo riferimento all’immagine canonica della ruota della Fortuna (che in Dolce manca),!9 con espressioni che ricordano molto da vicino quelle che abbiamo trovato nelle traduzioni da Seneca: Example here, loe! take by Oedipus, You kings and princes in prosperitie, And every one that is desirous To sway the seate of worldlie dignitie, How fickle tis to trust in Fortunes whele: For bim whome now she hoyseth up on hie,

If so he chaunce on any side to reele, She hburles him downe in twinkling of an eye: And him againe, that grovleth nowe on ground, And lieth lowe in dungeon of dispaire, Hir whirling wheele can heave up at a bounde,

And place aloft in stay ofstatelie chaire etc.!®8 107. Il tema della Fortuna è uno di quelli da cui meglio si può vedere come venisse letto Seneca nel Rinascimento. La ruota della Fortuna è un elemento tipicamente medievale (per la cui storia basta rimandare al vecchio Patch 1927, pp. 147-177), sebbene l’immagine abbia vaghe radici classiche (sulle quali cfr. Robinson 1946). In realtà si tratta di un simbolo che non ha quasi nulla a che fare con l’immagine medievale. La ruota è spesso infatti una ruota su cui sta la Fortuna (cfr. ad es. Tib. 1.5.70: versatur celeri Fors levis orbe rotae). Sulla differenza fra l’iconografia della Fortuna medievale — che si sviluppa a partire da Boezio — e i precedenti classici cfr. in generale Doren 1922-3, pp. 82-92). Dunque anche espressioni come Sen., Ag. 71 s. (ut praecipites regum casus / Fortuna rotat) non possono essere lette come testimonianze di un’immagine che solo il medioevo avrebbe sviluppato nel modo che sappiamo (così già Tarrant 1976 ad loc.), ma sono solo riferimenti al ben noto vorticare della fortuna stessa, che trascina con sé le sue vittime. Tuttavia è chiaro che un lettore del Rinascimento, leggendo un verso come Agamemnon 72, non poteva fare a meno di riconnetterlo al proprio immaginario, in cui la “ruota della Fortuna” aveva un ruolo d’elezione; e di conseguenza avrà molto probabilmente visto questo testo come l’archetipo di un motivo che in realtà sarebbe nato solo molto più tardi. Questo poteva accadere solo perché il lettore medievale “aveva già” il concetto, e attraverso esso filtrava le parole senecane. I critici di solito tendono a dire, ogni volta che in una tragedia cinquecentesca ricorre un riferimento alla Fortuna (con o senza ruota) che si tratta di un elemento

“senecano”, senza quasi mai ricordare che il tema della Fortuna è uno dei più diffusi e ricorrenti nella letteratura medievale (basti pensare, nel caso che ci riguarda più direttamente, al De casibus di Boccaccio): ma è chiaro che, ammesso che di influsso senecano davvero si tratti, avremmo a che fare con un Seneca la cui identità si è nel

frattempo accresciuta di significativi connotati medievali. 108. Cfr. la presentazione di Studley della sua traduzione dell’ Agamermnon del 1561 (Spearing 1913, pp. [22] s.), e soprattutto il I coro, modificato da Studley per la Medea, citato supra, p. 183.

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Il tema viene ripreso, su per giù negli stessi termini, anche nei 40 versi dell’epilogo aggiunto da Yelverton, che si chiude con un’esplicita esortazione a rinunciare ad aspirazioni troppo alte.!°° In questo approccio alla materia tragica, e in questa sottolineatura di ciò che sia nelle tragedie di Seneca, sia nel modello di Dolce si trova solo a livello di spunti, si può osservare una importante caratterizzazione dei drammi inglesi rispetto alle scelte di poetica della tradizione italiana. Si pensi ad esempio alle teorizzazioni di un Giraldi Cinzio (o di un Trissino), con le loro considerazioni “aristoteliche” sugli effet-

ti del tragico, che «purga gli animi» attraverso «orrore e compassione».!!° Nel teatro inglese degli Inns of Court, il fatto che il messaggio sia indirizzato ai Princes cambia sensibilmente la prospettiva: il modello è quello dello speculum, e l'insegnamento morale che tramite queste opere viene proposto è strettamente legato a una concezione della giustizia divina secondo modelli retributivi: «se fai del male, prima o poi Dio si vendica su di te» (come scriveva pressappoco Nuce, introducendo l’Agamemnon di Studley).!!! L’esemplarità, che come abbiamo visto è un tratto predominante in larga parte della letteratura dell’epoca, è di marca sensibilmente diversa da quanto possiamo trovare nel Seneca latino e in quello degli italiani.!!? Fd è all’interno di questo stampo che tanto gli autori quanto i traduttori legati all'ambiente degli Inns of Court fanno rientrare, con opportuni aggiustamenti, le opere che presentano al loro pubblico. Sia il “Seneca” della tradizione lati109. Vv. 37-40: «Cease to aspire, then, cease to soare so hie, / And shunne

the plague that pierceth noble breastes. / To glittring courtes what fondnesse is to flie, / When better state in baser towers rests!». Cito da Cunliffe 1906, p. 417.

110. Cfr. ad esempio Giraldi Cinzio 1543, pp. 182 s.: «Le persone adunque d’alto grado (le quali sono mezze tra i buoni e gli scellerati) destano maravigliosa compassione se loro avviene cosa orribile, e la cagione di ciò è che pare allo spettatore che ad ogni modo fosse degna di qualche pena la persona che soffre il male, ma non già di così grave. E questa giustizia, mescolata colla gravezza del supplizio, induce quell’orrore e quella compassione, la qualeè necessaria alla tragedia [...] Perché la tragedia coll’orrore e colla compassione mostrando quello che debbiam fuggire, ci purga dalle perturbazioni nelle quali sono incorse le persone tragiche». 111. Cfr. Spearing 1913, pp. 8 s., vv. 151-186. Nuce ricostruisce la sequenza di «revenges» che caratterizza la storia della famiglia tantalide, osservando come il castigo divino arrivi sempre, se non al diretto interessato, alla sua discendenza, e ne trae un insegnamento morale: «Wherby thou cheefly mayst be taught the prouydence of god: / That so longe after, Atreus fact Thyests reuenge abod [...] /For be thou sure, though god doth spare thee for a season here, / And suffer thee with poysoned tonge to frump, and carp thys gere, /That eyther thou thy selfe shalt feele some bytter bytyng greefe, / Or els shall thy posterytie with payne haue their releefe [...] /Learne here to lyue a ryght, and know how that thear is a god, / That well deserues well rewardes, and ill, doth scurge with rod. / For to thys and is thys compylde thys play thou hast in hand, / In vertues race to make thee run, and vyce for to with stand». 112. Per avere un’idea della diversa concezione del «fall of princes» nella tradizione medievale e in Giraldi cfr. Herrick 1965, p. 89 s.

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na che quello della “senecana” tragedia italiana hanno dovuto passare attraverso questo filtro per poter essere presentati al pubblico londinese degli anni Sessanta del Cinquecento. Ed è da lì che ia tradizione tragica inglese ha preso le mosse per il suo successivo sviluppo.!! II. IL «REVENGE TRAGEDY»

Un genere del teatro popolare Fin qui ho parlato di traduzioni e di un teatro che rimase, nonostante tutto, chiuso entro la cerchia abbastanza ristretta di un gruppo elitario. L'importanza del teatro degli Inns of Court degli anni Sessanta è certo fondamentale per la storia della tragedia elisabettiana, ma non va nemmeno sopravvalutata, dal momento che non si può dire che questo modello drammatico abbia avuto una grande ricaduta sul teatro popolare. Comunque, ogni tipo di influenza si perde in una sorta di calderone magmatico, quando lo sviluppo travolgente della produzione popolare, a partire dalla metà degli anni Ottanta, fa della tragedia inglese un genere assolutamente unico e originale. L’intreccio inestricabile di questi filoni di influenza rende in sostanza vano l’impegno di chi vorrebbe individuare influenze classiche o straniere con la tipica meticolosità dei filologi. Diventa perciò necessario, anche in questo caso, abbandonare la prospettiva troppo ristretta della ricerca di analogie e passi paralleli fra i drammi elisabettiani e il presunto modello senecano, per cercare invece di capire cosa diventano, in questo contesto letterario e drammatico, gli spunti che di solito vengono riconnessi al teatro di Seneca. In particolare può essere interessante fare qualche considerazione generale sul filone del Revenge tragedy, dalle tragedie di Kyd fino almeno al primo decennio del Seicento. Il tema della vendetta sembra del resto un motivo centrale in tutta la produzione tragica elisabettiana, e molte delle considerazioni che farò a proposito delle tragedie esplicitamente incentrate su questo argomento potrebbero facilmente essere esportate anche ad altre opere. Parlerò di Revenge tragedy senza soffermarmi sulle delimitazioni di questo genere teatrale, che sono state oggetto di qualche discussione.!!* La nostra 113. Il fatto stesso che la tragedia inglese “regolare” sia stata creata in questo ambiente ha avuto certo qualche conseguenza sulla tradizione successiva. Ad esempio, gran parte degli elementi “senecani” e di gusto italiano che la tragedia popolare conserva lungo tutto il suo sviluppo sembrano affondare le proprie radici nella pratica teatrale di questo ambiente, cortigiano e italianate. Basterebbe considerare l'ampio numero di tragedie, già all’interno dello stesso corpus shakespeareano, fondate su un intreccio tratto dalle cronache storiche inglesi: una tradizione che può certo essere riconnessa alle scelte narrative del Mirrour. 114. Cfr. Hallett & Hallett 1980, pp. 265-300.

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osservazione può infatti limitarsi ad alcuni dei testi che per comune ammissione sono fra i più rappresentativi di questo genere: The Spanish Tragedy (ca. 1586-7) di Thomas Kyd, il Titus Afdronicus di William Shakespeare (1593-4) e l’Antonio’s Revenge di John Marston (1600-1).!!5

La vendetta in Seneca e negli elisabettiani Bisogna innanzitutto riprendere il discorso, avviato nell’Introduzione a questo volume, sulle differenze fra il modello di vendetta presente nelle tragedie di Seneca e quello presente nella produzione teatrale degli elisabettiani. Come si è detto, infatti, è ovvio che due culture così distan-

ti come quella romana del I secolo d. C. e quella inglese (e, più in generale, europea) del Cinquecento abbiano elaborato concezioni diverse di uno schema comportameentale che noi classifichiamo all’interno di un’unica categoria. Già in termini molto generali le differenze appaiono subito rilevanti. I “vendicatori” di Seneca sono tutti personaggi che agiscono sin dall’inizio del dramma in preda a un furor che li spinge a delitti smisurati, con i quali essi ricambiano iniuriae ricevute dai loro nemici (basti pensare a Medea e Atreo): irziuriae che appartengono regolarmente all’antefatto della tragedia. I vendicatori elisabettiani, invece, sono in genere dei giusti, che davanti agli occhi del pubblico prima subiscono dei torti eccezionali e quindi, gradatamente, vengono trascinati nel vortice di una vendetta estrema. A questo schema rispondono tutti e tre i protagonisti delle tragedie che prendo in considerazione (Hieronimo, Titus e Antonio).

Questa differenza si comprende abbastanza bene se risaliamo alle diverse premesse culturali su cui le rispettive concezioni della vendetta stessa sono fondate. In Seneca, come ho già detto, il tema della vendetta si inquadra all’interno di una cornice più ampia: quella dell’ira e della sua “patologia”. La stessa spinta del furor, che costituisce la base del meccanismo di vendetta, va vista in questa prospettiva: e in questa prospettiva vanno considerati anche gli agenti soprannaturali che guidano le azioni umane dei vendicatori, cioè le Furie, che 115. Si tratta di una produzione che ricevette anche delle critiche dai contemporanei. Ho già più volte citato la premessa di Thomas Nashe al Menaphon di Robert Greene (1589), in cui fra l’altro si faceva una pesante ironia contro gente come Kyd che, senza avere una preparazione accademica, e senza conoscere bene l’italiano, saccheggiava l’«English Seneca» per trarne “sentenze” ad effetto, fantasmi che gridano continuamente «Revenge, revenge» etc. Ma si può ricordare anche l’analoga caricatura di questo tipo di produzione che si trova nell’Induction all’anonimo A Warning for Fair Women (scritto prima del 1599), su cui cfr. Cunliffe 1893, p. 46 s., Cunliffe 1912, p. XCII, Hunter 1974, pp. 179 s., e l’Induction al Bartholomew Fair di Jonson (1614), in cui si parla del Revenge Tragedy come di un genere ormai desueto.

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portano iscritto nel loro stesso nome il marchio di questa forma di accecamento passionale. La riflessione sull’universo delle passioni sta al centro dell’osservazione di Seneca, che soprattutto nei cori insiste sulla necessità di preservare quella quies, quella mens bona, che al riparo dalla tempesta scatenata dai turbamenti dell’animo può garantire l’unica forma possibile di felicità. . Nell’universo culturale degli elisabettiani la dinamica della vendetta si muove lungo linee piuttosto diverse. Innanzitutto, muta sensibilmente la concezione del “torto” che sta alla base del progetto di vendetta. Si parla sì di «outrages», «wrongs» etc., che devono essere «revenged»: ma molto spesso, accanto ad essi, e direi a un livello più generale, è la concezione dell’honour, come si è visto, a muovere gran parte delle motivazioni delittuose. La società cinquecentesca è ossessionata dal tema dell’onore, un’entità che costituisce in un certo senso la sintesi dell’identità sociale degli individui. La terminologia dell’onore compare in continuazione nei drammi cinquecenteschi (tanto in quelli italiani quanto in quelli inglesi): e spesso è su questa base che viene apertamente motivato l’impulso alla vendetta. Il riferimento a questo ordine di motivazioni culturali avvicina molto le posizioni dei “buoni” e dei “cattivi”, in quanto l’essere privati di privilegi e vantaggi può essere descritto facilmente in termini di violazione dell’onore anche là dove non interviene alcuna forma di torto. Emblematico, ad esempio, è il caso di Piero, il tiranno del dramma di Marston, Antonio’s Revenge: egli infatti uccide Andrugio per il solo fatto che, sposando la donna che lui amava, Maria, lo ha umiliato, e quindi disonorato.!!° Si tratta di un caso estremo, ma proprio per questo molto utile, se si vuole comprendere quanto l’ambigua retorica dell’onore permetta di presentare i più vari delitti come forme di vendetta. Si comprende così facilmente come mai in queste tragedie si susseguano diversi crimini motivati dal desiderio di vendetta. In Spanish Tragedy, ad esempio, si vendicano tutti: si vendica il fantasma di Andrea, che è stato ucciso da Balthazar; si vendica il “cattivo” Balthazar, che non sopporta di essere stato respinto da Bel-Imperia (la quale ama Horatio); si vendica Bel-Imperia, cui Balthazar ha ucciso l’amante; si vendica Hieronimo, cui Balthazar e Lorenzo hanno ucci-

so il figlio. In Titus Andronicus si vendica la “cattiva” Tamora, cui Titus ha ucciso il figlio e Lavinia ha rimproverato i vili amori con il moro Aaron; e si vendica Titus!!7 contro Tamora e i figli di lei, che gli hanno inflitto ogni sorta di dolore. In Antonio’s Revenge, infine, si vendica il tirannico Piero ai danni di Andrugio, per i motivi che abbiamo 116. Cfr. I.i.25: «he won the Lady, to my honour's death». 117. All’inizio della tragedia Titus punisce con la morte il suo stesso figlio, che lo ha disonorato davanti all'imperatore, consentendo a Bassiano di rapire la sorella Lavinia.

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detto; si vendica Pandulfo, cui Piero ha ucciso il figlio; e si vendica Antonio, cui Piero ha ucciso il padre e tolto la donna che ama (Mellida).

Inoltre, a differenza di quanto accade in Seneca, i protagonisti delle tragedie di vendetta elisabettiane approfittano del doloroso disorientamento della ragione in cui vengono spinti dalle offese ricevute per poter raggiungere il loro scopo senza insospettire i propri nemi-

ci.!!* Questo vale per Hieronimo, per Titus e per Antonio: e vale per il più celebre dei vendicatori elisabettiani, Amleto. Per finire con le più macroscopiche differenze fra le vendette di Seneca e quelle degli elisabettiani, l’esito delle scelte di violenza fatte dagli eroi dei drammi inglesi è sempre la morte.!!° Tutti i vendicatori del teatro elisabettiano (come quelli del teatro italiano, del resto) alla fine muoiono (uccisi a loro volta o suicidi), colmando così il vuoto che

separa la loro condotta dalla morale cristiana, che affida a Dio la punizione dei colpevoli e concepisce la compensazione dei delitti in modo incompatibile con la logica della vendetta.!?° Se gli elisabettiani riconoscevano nelle vendette delle tragedie di Seneca uno dei modelli della loro attenzione a questo tema, certamen118. Hunter 1965, p. XIV, affermava giustamente che gli intrecci di queste tragedie sono radicalmente diversi da quelli delle tragedie senecane, perché «none of Seneca’s plays shows a good man driven into the insanity of revenge». 119. A questa regola non ci sono praticamente eccezioni, tranne quella di Antonio e Pandulfo in Antonio’s Revenge: ma è un’eccezione relativa, perché i due scelgono di farsi frati, che è comunque una forma di “ritiro dal mondo” (cfr. Hunter 1965, pp. XVI s.). Di fronte all’inattesa clemenza dei senatori veneziani, Pandulfo afferma (V.vi.3036): «We know the world, and did we know no more / We would not live to know; but since constraint / Of holy bands forceth us keep this lodge / Of dirt’s corruption till dread power calls / Our souls’ appearance, we will live enclosed /In holy verge of some religious order, / Most constant votaries» (corsivo mio). Hallett & Hallett 1980, p. 32

osservano: «Marston has fallen into a trap that Kyd, Shakespeare, and Tourneur safely escape; he has tried to reconcile the Senecan tradition with the Christian». 120. Su questo tema cfr. Farnham 1936, pp. 343-348, Hallett & Hallett 1980, pp. 7-11 e Boyle 1997, pp. 181-183. Non è possibile qui soffermarsi sul problema fondamentale della doppia morale comportata da questo tema per una cultura cristiana, che attribuiva solo a Dio il diritto alla vendetta (icenni fondamentali in Camp-

bell 1931, pp. 281-289 e Mulryne 19892, pp. XVI s.). È chiaro che sta proprio qui la radice della differenza fra le due culture (cfr. anche supra, pp. 28 s. e infra, n. 135). Basterebbe considerare la storia del tema all’interno della tradizione tragica degli interludes. In quest'ambito la vendetta viene di solito scatenata da un’entità dotata di forti connotazioni morali: Vice. Habicht 1964, p. 183 nota giustamente che questa eredità indirizzava il nascente Revenge Tragedy in un senso sensibilmente diverso da quello senecano. Esempi istruttivi si trovano in Truchet 1980, I, pp. 45-51 (la morte di Caino nel Ludus Coventriae) e soprattutto I, pp. 131-133: nell’Horestes di John Pyckering (1566-1567) il Vice si fa Vengeance e incita Oreste a commettere un crimine contro natura (su questo dramma come antecedente del Tragedy of revenge cfr. Farnham 1936, p. 259 e Kerrigan 1996, pp. 189-192). Sull’atmosfera culturale in cui il teatro elisabettiano ha sviluppato il tema della vendetta cfr. Farnham 1936, pp. 340351 e le belle osservazioni di Jacquot 1964a, pp. 293 s.

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te lo facevano leggendo i testi del cordovano con le lenti della loro cultura.!2! E dunque riducevano la tematica dell’îira a uno schema culturale che concepiva la vendetta in termini di violazione dell’onore e della dignità personale. È in questa prospettiva che possiamo analizzare alcuni esempi, tratti da tre fra i maggiori esempi del Revenge Tragedy.

The Spanish Tragedy Un’idea della modificazione a cui andavano soggetti gli elementi stessi di questo motivo si può avere se si considera la personificazione di «Vendetta» che compare già nella prima scena del I atto di The Spanish Tragedy. Appare il fantasma di Andrea, che è stato ucciso da Balthazar, il quale a sua volta, alla fine della tragedia, sarà ucciso da Bel-Imperia, prima innamorata di Andrea e poi del suo amico Horatio. Andrea racconta della sua morte, della sua discesa agli Inferi e del permesso concessogli da Proserpina di tornare nel mondo dei vivi, accompagnato da Revenge.! I due personaggi restano sulla scena per tutto il dramma, come dice lo stesso Revenge (I.i.90 s.): «Here sit we down to see the mystery, / and serve for Chorus in this tragedy». Alla fine di ogni atto (I.v, I.vi, I.xv, IV.v) i due commenteranno gli avvenimenti, che Revenge presenta come guidati dal suo diretto influsso. In particolare, nell’ultima scena del II atto, Andrea rivolge un accorato appello a Revenge addormentata perché «si svegli», e non ostacoli la punizione di Balthazar e del suo complice Lorenzo. E alla fine dichiara la propria soddisfazione, di fronte al bagno di sangue in cui la vicenda finisce: pronto a guidare i propri amici nell’aldilà e a consegnare i propri nemici alle torture eterne.!?* Il prologo di questa tragedia viene di solito presentato dai critici come una scena tipicamente senecana, sul modello del primo atto del Tbyestes, dove l’ombra di Tantalo ritorna nella reggia di Argo ed è costretta dalla Furia, contro la sua volontà, a seminare il delitto fra i propri discendenti.!24 Ma a parte ogni considerazione d’ordine stori121. Su questo punto cfr. le giuste osservazioni di Boyle 1997, pp. 183-6. 122. Revenge sembra essere un personaggio distinto dalle Furie, descritte da Andrea come intente a torturare i dannati degli inferi. Cfr. I.i.64 s.: «[...] the deepest hell, / Where bloody Furies shakes their whips of steel, / and poor Ixion turns an endless wheel». In III.xv.1-7 Revenge occupa l’ultimo posto nell’invocazione rivolta da Andrea alle potenze infernali: «Awake, Erichtho! Cerberus, awake! / Solicit Pluto, gentle Proserpine; / To combat, Acheron and Erebus! / [...] Revenge, awake!». In IV.v. 27 s. Revenge descrive l’inferno come un luogo «where none but Furies, bugs and tortures dwell». 123. Sulla presenza in scena del fantasma di Andrea e di Revenge per tutto il corso della tragedia cfr. la trattazione di Dahinten 1958, pp. 98-109. 124. Contro la tendenza a vedere nel Thyestes il modello della coppia fantasma-Revenge già Baker 1935-1936 aveva mostrato come in realtà essa risalisse a una tradizione diversa, quella che dalle traduzioni boccacciane di Lydgate por-

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co, che porterebbe a cercare anche nei precedenti del teatro inglese il modello di una simile trovata drammaturgica," se anche la scena senecana in cui compare il fantasma di Tantalo può davvero costituire l’“archetipo” di quella messa in scena da Kyd, bisogna dire che le sue riprese, nel teatro cinquecentesco, erano già state innumerevoli. Mi limiterò a un caso italiano, che può essere considerato “archetipico” tanto quanto l’inizio del Thyestes. Già nell’Orbecche di Giraldi Cinzio la prima scena dell’atto primo presenta Nemesi, agente terreno della giustizia divina, che comanda alle Furie di spargere il «furor» omicida nella casa di Sulmone, il «fiero tiran» colpevole di aver sempre pensato «essere al par de la divina altezza». Nella scena successiva compare poi l’ombra di Selina, la defunta moglie incestuosa di Sulmone, che dice di essere tornata sulla terra «con licenzia di Pluto» (238) per vendicarsi del marito.!*° La sovrapposizione fra i due interventi viene sottolineata dalla stessa Selina, ai vv. 244 ss.: Ma dimmi, ch’uopo t’era da l’inferno, Nemesi, trar le scelerate Furie

Per accender furor in questa casa? Che Furia più potente aver potevi Di me?

Come si vede, a differenza di quanto avviene nella tragedia di Seneca, qui lo spirito di Selina è ben contento di eseguire personalmente una vendetta, indipendentemente dalle divinità infernali delegate a svolgere questo compito. La centralità del concetto di vendetta comincia a farsi strada, accanto al motivo del «furore», che in Giraldi Cinzio è ancora

correttamente connesso alle Furie, in stretta analogia con la situazione prospettata dai modelli senecani. Il motivo della Furia che guida un’appata al Mirrour for Magistrates. Cfr. anche Baker 1939, pp. 107-118, Cohon 1960, pp. 41-45, Hunter 1974, pp. 183-185 e soprattutto Dahinten 1958, pp. 106-109 per una valutazione complessiva del processo di fusione fra varie tipologie drammatiche realizzato da Kyd (cfr. anche supra, n. 91). 125. Per quanto riguarda specificamente il personaggio (e in generale tutta l’atmosfera della discesa agli Inferi raccontata da Andrea in 1.1.1-85), si potrebbe confrontare, ad esempio, il Complaint of Henry Duke of Buckingham (inserito nel Mirrour) di Sackville, e in particolare la stanza 34, dedicata proprio alla figura di «fell revenge gnashing her tethe for yre / and sekes all meanes how she may vengeance take / never in rest till she have her desyre» (cito da Hearsay 1936, p. 49). Per quanto riguarda la funzione di queste scene di collegamento cfr. Dahinten 1958, pp. 98 s.: «Die Bezeichnung “Chorus” und die entsprechende Stellung der Geisterszenen zwischen den Akten weisen aber auch auf eine nationale Tradition. Denn die Verwendung eines “Chorus” als Bindeglied zwischen einzelnen Akten, nicht als Interpret von Sinnzusammenhangen, ist im nationalen englischen Drama des 16. Jahrhunderts ùblich; sie griindet sich hauptsachlich auf eine Praxis der Mysterien» (cfr. anche p. 103). 126. Vv. 241-243: «[...] perché questo giorno non si fugga / Et io non faccia a mio poter almeno / De l’aspra morte mia crudel vendetta».

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rizione, insomma, si era evoluto nel tempo, e aveva subito significative riscritture.!27 Quando Kyd scrive, ormai da molti anni i fantasmi delle tragedie italiane tornavano sulla terra per chiedere vendetta direttamente.!28 Come abbiamo visto, modelli del genere esistevano anche in Seneca: oltre al già citato fantasma di Agrippina dell’Octavia,'?? si può ricordare la scena della Medea in cui Peroina sacrifica il primo dei suoi figli, spinta da una turba impotens di Frinni e dal fantasma del fratello, venuto a esigere l’espiazione del proprio assassinio.'3° Assai probabilmente la tipologia del prologo che si viene delineando nella tradizione tragica cinquecentesca è una mistione originale di tutte queste situazioni, nella cornice tipologica offerta dalla nuova concezione della vendetta.!5! La soluzione adottata dal tragediografo elisabettiano finisce poi per ampliare ulteriormente l’azione dei due personaggi, estendendola a tutto il corpo della tragedia, e costituendo un sipario metateatrale che addirittura inghiotte la funzione stessa del coro. Il “Seneca” con cui abbiamo a che fare, in questo caso, è un modello che ha già attraversato un lungo cammino all’interno della cultura cinquecentesca. È scomparso il furor che faceva da cornice alle situazioni originarie, moltiplicando i delitti come per una sorta di maledizione che si stende su tutta la discendenza di una famiglia criminale.!? Ad esso si è sostituita 127. Fra gli altri esempi possibili di prologhi a due, con l’intervento di un'entità sovrumana, si può ricordare la Didone di Dolce (1547), dove l’ombra di Sicheo viene guidata da Cupido sulla terra perché si presenti alla moglie. Questo esempio può essere particolarmente significativo, in contesto inglese, dato che i primi versi del prologo,

pronunciati da Cupido, vennero tradotti dagli autori della Gismund of Salerne nel 15678 (cfr. supra, n. 103). Nel teatro elisabettiano il fantasma che chiede vendetta per sé compare sulle scene per la prima volta, significativamente, col Gorlois (accompagnato dalle tre furie) all’inizio e alla fine di Misfortunes of Arthur, un dramma degli Inns of Court che però era stato composto in un’epoca che ormai vedeva la produzione del Revenge Tragedy ben affermata. Cfr. Johnson 1948 (=1987), pp. 469 s. e supra, p. 187. 128. Cfr. Charlton 1921, p. CLXVI, il quale, oltre a notare che il fantasma, nel teatro elisabettiano, è diventato uno che chiede vendetta, sottolineava anche

che non si tratta mai di una figura mitologica. 129. Vv. 593-645. 130. Vv. 958-972: cfr. supra, pp. 151 s. 131. Le differenze fra le scene senecane in cui compaiono fantasmi e quelle del teatro elisabettiano sono state indagate a fondo da Dahinten 1958 (cfr. in part. pp. 20-60). Dahinten sottolinea come, contrariamente a quanto succede nelle tragedie inglesi, i fantasmi di Seneca compaiano al pubblico, ma non agli altri personaggi del dramma, svolgendo funzioni informative sui precedenti e sul seguito dell’azione drammatica. In generale sulla continua fusione, in Spanish Tragedy, di elementi formali senecani ed elementi culturali moderni, è da vedere il saggio di Habicht 1964 (pp. 184-187 in particolare). 132. Anche il fantasma di Tieste che compare all’inizio dell’Agamemnon non parla di vendetta, ma di una stirpe criminale, in cui i figli continuano a riprodurre le passioni e i delitti dei padri. Fra Tieste e Atreo si è come ingaggiata una inesauribile gara di scelleratezza, e ad Egisto, di conseguenza, “si addice” il delitto, come una sorta di destino individuale ineludibile. Cfr. Rivoltella 1993, pp. 124-128 (p. 126 in part.).

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una concezione moderna della vendetta, fondata su una serrata sequenza di vari delitti e varie violazioni dell’“onore”, che si susseguono a distanza ravvicinatissima.!* Parallelamente,alla Furia del Thyestes si è sostituito il «Revenge» della Spanish Tragedy. Questo non vuol dire, ovviamente, negare la presenza dell’ispirazione senecana in un dramma come quello di Kyd. Per sottolinearla, basterebbe soltanto considerare la celebre scena XIII del terzo atto, in cui Hie-

ronimo entra con in mano un libro da cui legge versi dell’ Agamemnon, delle Troades e dell’Oedipus. Ma, anche in questa scena, lo spirito senecano viene significativamente adattato a un contesto nuovo. Le parole con cui il protagonista apre questo suo monologo sono una citazione biblica, la rivendicazione che Dio stesso fa del diritto alla vendetta: «Vindicta mihi!» (cfr. Paolo, Lettera ai Romani 12.9). La citazione serve a introdurre le esortazioni alla pazienza e all’attesa che Hieronimo rivolge a se stesso, finché giunga il momento opportuno in cui egli potrà realizzare la sua vendetta. Tale vendetta, però, sarà un gesto individuale di piena responsabilità, e quindi un rifiuto di delegare al Cielo e al tempo il compimento della punizione meritata dai malvagi. Ecco i primi versi del monologo (1-7):

Vindicta mihi! Ay, heaven will be revenged of every ill, Nor will they suffer murder unrepaid: Then stay, Hieronimo, attend their will, For mortal men may not appoint their time.

‘Per scelus semper tutum est sceleribus iter’. Strike, and strike bome, where wrong is offered thee. 133. Cfr. Herrick 1965, p. 296: «Seneca”s plots are never complicated; but the Spanish Tragedy is made up of intrigues and counterintrigues». La diversa concezione della vendetta che caratterizza la cultura di Seneca e quella degli elisabettiani è ovviamente un problema che riguarda anche le fasi precedenti della tradizione, compresa quella dei volgarizzamenti di cui abbiamo parlato sopra. Se ne può avere un’idea anche dai versi che Thomas Nuce ha premesso alla traduzione di Studley dell’Agamzemnon (vv. 111-190, in Spearing 1913, pp. [7]-[9]): cfr. in part. i vv. 119-122: «Hys [scil. di Tieste] grysely ghoast comes back againe from deepe infernall pyt,/ To make reuenge in Aegists harte, hys onely sonne to syt». E soprattutto vv. 151-186: «Thys deede was done: by Talyon lawe here blood dyd blood requyer:/ And now Thyest hath that reuenge, that he dyd longe desyer./ Wherby thou cheefly mayst be taught the prouydence of god:/ That so longe after, Atreus fact Thyests reuenge abod./ And to thy selfe take better heede, least loytryng styll in sinne,/ In pinching slaunders, touching talke (whear greater greefes begyn)/ Thy selfe alone thou do not plague, which of it selfe is muche,/ But also make thyne after stocke to smarte, and for thy tuche./ For be thou sure, though god doth spare thee for a season here,/ And suffer thee with poysoned tonge to frump, and carp thys gere,/ That eyther thou thy selfe shalt feele some bytter bytyng greefe,/ Or els shall thy posterytie with payne haue their releefe [...]. For to thys and is thys compylde thys play thou hast in hand,/ In vertues race to make thee run, and vyce

for to with stand».

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Nel penultimo verso, come si yede, la celebre battuta della Cli-

tennestra senecana imprime una netta inversione di rotta al discorso di Hieronimo.!34 Le due modalità della vendetta (quella divina e giustificabile da un lato, e quella umana e peccaminosa dall’altro)!5° che la cultura cristiana dell’epoca metteva l’una accanto all’altra, in un contrasto inconciliabile fra giustizia e onore, vengono qui accostate con una mossa drammaturgica di estrema efficacia. La consapevolezza del diritto esclusivo che Dio rivendica a sé e l’urgenza della vendetta convivono in una prospettiva culturale decisamente lontana da (e più complessa di) quella delle tragedie di Seneca, e rispecchiano perfettamente un problema morale che non poteva portare a una soluzione che non fosse tragica.'56 È chiaro che, per entrare in questo stampo culturale, la logica della vendetta legata all’ira, che è tipica del dramma senecano, doveva passare attraverso una significativa riscrittura. Titus Andronicus

Abbiamo considerato fin qui un caso in cui gli elementi formalmente riconducibili a un’ascendenza senecana rivelano un fondo di complesse interazioni letterarie e culturali. Leggere dietro il «revenge» degli elisabettiani l’ultio di Seneca, in casi come questi, è un’operazione che semplifica troppo la prospettiva culturale, accontentandosi di analogie apparenti, che però sfumano, a un esame analitico più ravvicinato. In altri casi, addirittura, l’abitudine meccanica di cercare elementi senecani nei drammi elisabettiani di vendetta porta a vedere cose che nei testi inglesi proprio non ci sono. È ormai diventata quasi un

luogo comune l’affermazione che il banchetto cannibalesco durante il quale, nel Titus Andronicus, il protagonista fa mangiare a Tamora le 134. Cfr. Ag. 115: per scelera semper sceleribus tutum est iter. Peraltro McMillin 1974 ha mostrato come le tre battute senecane citate in sequenza da Hieronimo non abbiano nulla a che fare, nel testo latino, col motivo della vendetta: «Literally, the quotations are wrenched from their original meaning, for they do not bear upon revenge. Beneath the distorted language, however, in three examples of action turning to self-distruction, Hieronimo recognizes a radical similarity to his own situation» (McMillin 1974, p. 207). Cfr. anche, su questo passo, Kerrigan 1996, pp. 177 s. e Cenni 2000, pp. 103-107. 135. La presenza conflittuale di questi due modelli nella cultura elisabettiana è da tempo al centro di un’animata discussione. Fra gli interventi più significativi, mi limito qui a rimandare a Campbell 1931 e Ayres 1972 (il quale offre una convincente proposta di lettura dei drammi come scenari ideali per la convivenza di questi due modelli culturali inconciliabili): cfr. anche Burnett 1998, pp. 18-32. 136. Sulla funzione della vendetta nella tragedia di Kyd (e nel Titus Andronicus, che si pone sulla scia del precedente stabilito da The Spanish Tragedy) cfr. Bate 1992 e soprattutto l’ampia trattazione di Braden 1985, pp. 200-215.

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carni dei propri figli sia derivato dal Thyestes di Seneca.!7 Eppure non ce ne sarebbe bisogno, perché tutta questa sequenza dell’intreccio corrisponde esattamente allo svolgimento dell’épisodio che Shakespeare ha dichiaratamente tenuto presente come modello della sua ispirazione: la lunga sezione del sesto libro delle Metamorfosi di Ovidio, a noi ormai familiare, in cui Procne si vendica dello stuprum commesso dal marito Tereo facendogli mangiare le carni del proprio figlio Iti.'38 Come si è visto, questo modello era del resto stato tenuto presente dallo stesso Seneca per la composizione del suo Thyestes.!? Ma nonostante le palesi e ripetute dichiarazioni di collegamento fra il testo shakespeareano e quello ovidiano, l’appartenenza del Titus al genere tragico di un’epoca letteraria che avrebbe tenuto costantemente presente Seneca ha spinto molti a cercare questo genere di somiglianze. !4° Infatti la realizzazione del banchetto del Titus non ha nulla dell’esasperata lentezza con cui si snodano gli “atti” IV e V del Thyestes senecano. Non a caso, anzi, la catastrofe finale si svolge fulminea: in appena quaranta versi (la metà dei quali impiegati ad evocare l’antica storia di Virginia) si assiste alla morte della figlia di Titus, Lavinia, di Tamora, di Titus stesso e di Saturninus. La stessa preparazione del banchetto e il “sacrificio” delle vittime (i due figli di Tamora) non ha nulla di analogo al “sacrificio alla rovescia” con cui Atreo uccide i nipoti:!4! un sacrificio, fra l’altro, che in Seneca è raccontato in ogni minimo dettaglio dal messaggero, mentre in Shakespeare avviene davanti agli occhi degli spettatori. È importante sottolineare queste differenze nella costruzione della scena, perché invece, quando Shakespeare si rifà da vicino a un modello antico, la somiglianza di impostazione degli elementi dell’intreccio è 137. Cfr. ad es. Cunliffe 1912, p. XCVII: «the source of the horrible banquet of V.iii is obviously the Thyestes» (corsivo mio). Si potrebbe fare una lista lunghissima, fino a Boyle 1997, p. 195. L’intervento più deciso a favore dell’ascendenza senecana è Helzle 1985. Da noi cfr., fra gli altri, Pagnini 1981, pp. 402 s., e recentemente Melchiori 1994, pp. 34-36. 138. Il punto era stato già egregiamente trattato da Baker 1939, pp. 119139. È fuorviante anche il tentativo di Miola 1992, p. 4 di considerare parallele le “fonti” costituite da Ovidio e Seneca (che al primo si rifaceva, come abbiamo visto, chiaramente): «Renaissance writers — including Shakespeare in Titus Andronicus — often draw upon both versions, encouraged, no doubt, by editions which routinely printed cross-references in the marginalia». Si tratta, come si vedrà da quanto segue, di un’ipotesi assolutamente non necessaria.

139. Cfr. supra, pp. 75-83. 140. Altri studiosi, come Bowers 1940, pp. 110-118, avevano anche ampiamente sottolineato le strette, evidenti relazioni che uniscono il Titus alla tradizione teatrale più recente: soprattutto a The Spanish Tragedy e, per quanto riguarda

la figura di Aaron, al precedente costituito dal Barabas di Marlowe. 141. Per indirizzare diversamente la lettura basterebbe considerare il fatto che nella scena dell’uccisione di Chiron e Demetrius (V.ii.168-205) Titus dice espressamente che si vendicherà «worse than Progne» (195: cfr. Th. 56 s. e 274-283).

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palese. Gli esempi apportati da Vanna Gentili a proposito del Julius Caesar sono illuminanti al proposito: «è*Appiano a fornire letteralmente la didascalia per l’actio di Antonio e a suggerire le lamentazioni dei plebei [...], che Shakespeare introduce nel medesimo punto in cui occorrono nella narrazione storica, imprimendo loro, per giunta, una solennità da coro nettamente distinta dal tono colloquiale e ‘umile’ degli altri interventi del popolo nel corso di tutta la scena nel Foro».!# Nel Titus non c’è alcuna di queste corrispondenze rispetto all’intreccio del Thyestes, mentre qualche analogia più indicativa si può individuare con la scena ovidiana. Ma il punto non è nemmeno questo: qui non c’è alcun modello seguito direttamente per la costruzione dell’intreccio: c’è solo un elemento narrativo obbligato, sviluppato liberamente da Shakespeare secondo le esigenze della sua trama. Il punto di partenza è chiaramente la storia raccontata da Ovidio,!4 ma l’azione scenica si muove verso una dimensione che ci porta molto lontano anche da lì; e comunque in una direzione che non ha certo molto di specificamente senecano.!# Il Titus Andronicus appartiene alla fase più ovidiana della produzione del giovane Shakespeare.!#' Erano questi gli anni che avevano fatto dire nel 1598 a Francis Meres: «As the soule of Euphorbus was thought to live in Pythagoras: so the sweete wittie soule of Ovid lives in mellifluous and hony-tongued Shakespeare, witness his Venus and Adonis, his Lucrece, his sugred Sonnets among his private friends etc.».!49 142. Gentili 1991, p. 70 (corsivo mio). Si potrebbero anche ricordare altri casi, come il celebre passo di The Tempest 1.2.154-163, che sembra quasi una traduzione letterale di una pagina dedicata da Montaigne ai cannibali brasiliani descritti in termini “da età dell’oro” (Essaîs 1.31, p. 206 dell’ed. P. Villey, Paris, PUF, 1965 e 1978). 143. E raccontata, nel frattempo, molte altre volte, in svariati testi. Fra quelli più vicini a Shakespeare basterebbe ricordare il Complaint of Philomene di George Gascoigne (iniziato nel 1562 e pubblicato a Londra nel 1576) e il racconto Tereus and Progne, che compare nel Petite Pallace di George Pettie (anch’esso pubblicato per la prima volta a Londra nel 1576). In teatro la vicenda era stata presentata anche in The Second Part of the Seven Deadly Sins, di cui resta solo il Plot (1592). Si tratta del programma di una produzione organizzata da Richard Tarlton, a cui un tempo si era pensato avesse preso parte lo stesso Shakespeare. In questa rappresentazione la storia di Tereo, in forma di dimnb-show, serviva ad esemplificare il peccato della Lussuria, e veniva illustrata verbalmente al pubbli-

co dal personaggio di Lydgate (cfr. Collier 1879, III, pp. 197-212). 144. Su questo punto cfr. anche Goldberg 2000, pp. 214-218. 145. Se si accetta come data di composizione il 1593-4, Shakespeare aveva allora 29-30 anni. Sull’importanza di Ovidio per Shakespeare, e in particolar modo per il Titus, cfr. soprattutto Hunter 1967, pp. 165 s. (che tratta insieme Titus e The Spanish Tragedy) e Bate 1993, pp. 100-117. 146. In effetti Venus and Adonis (il poemetto di 1194 versi che si ispira all’episodio di Met. 10. 519-739) viene composto nel 1593, mentre Lucrece (il poemetto di 1855 versi, ispirato a Fast. 2.685-856) è del 1594. Sono per l’appunto gli stessi anni della composizione del Titus: anni in cui la produzione extra-drammatica di Shakespeare era stata alimentata dalla chiusura dei teatri.

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Ovidio, fra l’altro, era non solo il poeta preferito da Shakespeare, ma anche il poeta antico di gran lunga più influente sulla letteratura dell’epoca, come ha ben messo in evidenza da ultimo Bate.!47 Aveva dunque ragione Meres a parlare di Shakespeare come di un Ovidio reincarnato. Tuttavia, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, accanto a Ovidio Meres evocava anche Seneca per descrivere la grandezza di Shakespeare; e, fra le tragedie citate ad attestare il primato di Shakespeare, Meres menzionava anche il Titus Andronicus.!4 Dunque l’“ovidiano” Shakespeare era anche visto come il “Seneca” del suo tempo: e il suo Titus veniva citato per attestare proprio questo secondo aspetto del suo legame con la classicità. Forse proprio un simile modo di classificare il drammaturgo inglese spiega la lettura deformata dei critici.!4° Una lettura che finisce per cercare Seneca dove non c’è. Seneca, infatti, è certo presente in questa tragedia, ma non nel punto in cui lo vuol trovare a tutti i costi chi è portato meccanicamente a pensare che ogni banchetto cannibalesco dovesse necessariamente derivare, in una tragedia elisabettiana, dal precedente senecano del Thyestes.!50 Ad esempio, Titus recita due versi dell’Hippolytus (0, secondo il titolo dell’Etruscus oggi più familiare, della Phaedra) subito dopo che Lavinia ha rivelato i nomi dei suoi violentatori.!! Ed è importante sot-

147. Bate 1993, pp. 1-47. 148. «As Plautus and Seneca are accounted the best for Comedy and Tragedy among the Latines: so Shakespeare among the English is the most excellent in both kinds for the stage [...] witness [...] his Richard the 2, Richard the 3, Henry the 4, King lobn, Titus Andronicus, and his Romeo and Iuliet» (cito da Smith 1904, II, p. 318). Va notato che qui Meres parla specificamente di generi «for the stage» (altrove, parlando più genericamente di «Tragedy», metteva anche Shakespeare insieme ad autori del Mirrour come Sackville, oltre che a Marlowe, Kyd, Chapman etc.). 149. Cfr. la giusta osservazione di Hunter 1967, p. 166: «In fact, take down the artificial barriers between tragedy and narrative, and Seneca all but disappears into the engulfing sea of Ovidian and quasi-Ovidian imitation». 150. In realtà non è affatto vero che all’epoca fosse esemplare la cena di Tieste per i banchetti cannibaleschi. Cfr. ad es. Marlowe, Tamburlaine (pt. 1, IV.iv.2325): «And may this banquet prove as ominous / As Progne”s to th’adulterous Thracian king / That fed upon the substance of his child!» (un brano, fra l’altro, che anche nelle scelte lessicali risulta molto simile tanto al testo di Shakespeare quanto alla traduzione di Golding delle Metamorfosi. Si ricordi che la tragedia di Marlowe andò in scena a Londra nel 1587, mentre l’edizione completa della traduzione di Golding risale al 1567). Goldberg 2000, p. 229 n. 16 ricorda fra l’altro che banchetti cannibaleschi erano già comparsi sulla scena inglese in A Warning for Fair Women (ante 1599) e in The Battle of Alcazar di George Peele (1588-9). 151. IV.i.81 s.: «Magni dominator poli, / Tam lentus audis scelera, tam lentus vides?». Boyle 1997, p. 145 osserva giustamente che abbiamo qui una fusione fra i versi pronunciati da Ippolito in Phaedra 672 s. (Magne regnator deum, / tam lentus audis scelera? tam lentus vides?) e i versi tratti dall’inno a Zeus di Cleante che Seneca cita in epist. 107.12 (Duc, o parens celsique dominator poli, / Quocumque placuit), e che Agostino, Civ. Dei 5.8 cita come direttamente di Seneca (cfr. anche Bate 1995, p. 30). Si potrebbero anche aggiungere i versi pronunciati da Tieste in

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

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tolineare questa presenza “accessoria” di Seneca, in un contesto del genere: l’invocazione di Ippolito sembra proprio un dettaglio utile e appropriato, per uno scrittore tragico, anche in un contesto la cui atmosfera rimane essenzialmente ovidiana.!52 I versi di Seneca, in altri termini, si inseriscono bene in una vicenda tragica per la cui costruzione, però, non è necessario ipotizzare una base senecana.

Se poi si cerca nel Titus qualcosa di vagamente simile all’atteggiamento e alle espressioni tipiche del vendicatore protagonista del dramma senecano, Atreo, lo si ritrova non fra le battute di Tito, ma fra quel-

le del moro Aaron, che difatti svolge la funzione del “cattivo”, anche se secondo modalità che sembrano tipiche più che altro del villain marlowiano.!53 Titus, invece, non ha nessuna delle caratteristiche salienti di Atreo: non è un tiranno né un personaggio cattivo, non si vendica a freddo e per il gusto di vendicarsi, e soprattutto non parla come Atreo. Titus, infatti, “fa la parte di Procne”, e la strutturazione drammatica delle due scene cruciali delle tragedia indirizza precisamente in questo senso. !° Se dunque l’intreccio di un dramma come Titus Andronicus ci riporta direttamente a un’ispirazione ovidiana, cosa finiamo per vedere in esso, quando lo consideriamo come una tragedia “senecana”? Non molto più di un oggetto culturale sfocato, che risulta dalla somma Th. 1077 s. (situazione per molti versi analoga a quella della Phaedra, con analoga richiesta alla divinità di sconvolgere il mondo per punire i delitti mostruosi che sono stati commessi): Tu, summe caeli rector, aetheriae potens / dominator aulae. Boyle

commenta: « Titus’outburst fuses Hippolytus? cry [...] with the ‘philosophical’ Seneca’s famous statement of Stoic endurance at Epistle 107.12 [...] The double allusion not only conveys the cosmic dimension of Titus’ outrage within a Senecanesque world of cosmic neglect of human suffering, but anticipates the inner strength, the steely indifference to pain and calamity, that will be the hallmark of Titus” response». Niente di questo è vero. Titus non dimostra alcuna attitudine stoica nel prosieguo della tragedia, anzi realizza a sangue freddo (grazie alla finzione — molto elisabettiana — della follia) una vendetta che non ha proprio nulla di stoico. 152. Sui rapporti fra il testo del Titus e il testo senecano, nessuno dei luoghi paralleli discussi da Cunliffe 1893, pp. 69-72 sembra indice di una connessione diretta. Il passo che meglio sembra suggerire una ispirazione senecana (II.iii.12-14) mostra anch’esso un vago legame con un brano della Phaedra (508-510). Forse non è un caso che anche le due citazioni quasi letterali del testo senecano vengano dalla Phaedra (1.i.635-1180; e la già citata IV.i.81 s.-671-2: cfr. supra, n. prec.). 153. Cfr. Hunter 1978, pp. 43 s.: «Aaron is in the play as the representative of a world of generalized barbarism, which is Gothic in Tamora and Moorish in Aaron, and unfocused in both» (cfr. anche Hunter 1978, pp. 29 s. sulla tipologia dei Mori stupidi e/o cattivi sulla scena inglese prima di Otello). Basterebbe confrontare una battuta come III.i.201-203 («I go, Andronicus, and for thy hand / Look by and by to have thy sons with thee / [aside] Their heads I mean») con Sen., Thy. 976-978 (Hic esse natos crede in amplexu patris. / Hic sunt eruntque; nulla pars prolis tuae / tibi subtrabetur. Ora quae exoptas dabo [...]. 154. Cfr. al proposito West 1982, pp. 65-74.

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di vari pregiudizi critici. Le cose cambiano se Seneca viene considerato non come il modello necessario, ma solo come uno fra i molti filoni del-

la tradizione letteraria a cui un autore come Shakespeare guardava contemporaneamente e senza preferenze gerarchiche. Ancora una volta, gli elementi che siamo abituati a chiamare senecani non vengono direttamente dal testo di Seneca, ma fanno parte di una complessa tradizione culturale, che li ha in gran parte sviluppati indipendentemente. Antonio’s Revenge Se si vuole avere un’idea di cosa significasse realmente, per un autore dell’epoca, utilizzare il Thyestes come modello diretto, un’occasione privilegiata è rappresentata da Antonio’s Revenge di John Marston. Questa tragedia presenta una sistematica esasperazione degli ingredienti più tipici del genere Revenge Tragedy:' e risulta quindi particolarmente utile per mettere a nudo il repertorio compositivo di un poeta elisabettiano. Diversamente dai suoi predecessori, Marston è molto “filologico” nell’uso del modello latino, e difatti non solo alcuni tratti dei suoi personaggi sembrano costruiti direttamente su modelli senecani,!9 ma ricorrono anche varie citazioni letterali di versi della tragedia di Seneca.” Anche in questo caso, però, l’osservazione diretta dei passi in cui il testo senecano viene riprodotto verbatim ci mostra chiaramente come il modello abbia dovuto essere significativamente riorientato, per poter 155. Forse con intento parodistico, come sostiene un filone della critica che si

è occupata del dittico Antonio and Mellida e Antonio’s Revenge. L’ipotesi è stata avanzata da Foakes 1962: fra gli interventi più recenti, cfr. ad es. Bliss 1990, pp. 240242 e Burnett 1998, p. 26 e n. 69. Contro questa posizione cfr. ad es. Gair 1978, pp. 35-39 (indicazioni bibliografiche sulla questione in Sturgess 1997, p. XXXI). 156. Diverse battute, nel corso del dramma, sembrano quasi tradotte da quelle dell’Atreo senecano (cfr. ad es. III.ii.76-78, III.iii.17-19, V.v.44 s. e 61-64: cfr.

i passi raccolti da Boyle 1997, pp. 144-146). Ma tutta la tragedia si presenta come un fitto collage di allusioni a testi esemplari del genere: in questo “paradigma” il Thyestes (più di altre tragedie) di Seneca compare ormai a fianco di The Spanish Tragedy e Titus Andronicus. 157. Si tratta decisamente del più cospicuo caso di utilizzazione diretta del modello. Cfr. Braden 1985, p. 173: «A small seam of Latin quotations from Senecan tragedy does run through English drama, though only those in Marston’s Antonio plays have serious allusive weight: Piero is a modern Atreus, and much of the action looks consciously back to Thyestes». In Antonio’s Revenge, fra l’altro, Antonio si presenta in scena con un libro di Seneca, da cui legge alcuni brani in latino, come aveva già fatto Hieronimo in The Spanish Tragedy: ma in questo caso non si tratta delle tragedie, bensì del De providentia (atto II, sc. iii). Per quanto riguarda invece citazioni dal testo delle tragedie, Marston riusa il Thyestes anche nella sua commedia Antonio and Mellida (cfr. ad es. I.i.59-89 e, al proposito, Boyle 1997, pp. 144-146). Diverso è il caso di consapevoli e volute esibizioni di citazioni senecane in autori come Ben Jonson (cfr. Braden 1985, pp. 173-175).

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

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entrare in una tragedia la cui atmosfera culturale è decisamente lontana da quella romana. Ecco qualche esempio, tratto dal terzo atto. In II.i.50 il fantasma di Andrugio invita il figlio Antonio a vendicarlo contro il tirannico Piero, che lo ha ucciso. Fra l’altro, Antonio viene ammonito con una celebre battuta di Atreo: Scelera non ulcisceris nisi vincis.!58 Nella scena successiva (III.ii.15 ss.), Antonio compare recitando

in latino un collage di versi!’ tratti dal monologo di Tantalo e dal suo dialogo con la Furia, all’inizio del Thyestes. Eccoli con, tra parentesi, l’indicazione dei passi senecani corrispondenti: O quisquis nova Supplicia functis durus umbrarum arbiter Disponis (fine 13-inizio 15), quisquis exeso iaces Pavidus sub antro, quisquis!9° venturi times Montis ruinam, quisquis avidorum feros,

Rictus leonum, et dira furiarum agmina Implicitus borres (fine 75-inizio 79), Antonii vocem excipe Properantis ad vos: Ulciscar (fine 80-inizio 81).

Con l’ovvia sostituzione del nome «Antonii» all’originale Tantali e l’aggiunta di un sintetico «Ulciscar» alla fine, Marston ha qui realizzato un’efficace trasfigurazione delle parole di Tantalo in un programma di vendetta. Assumendo quasi su di sé l’identità del padre che lo ha chiamato a punire il suo assassino, Antonio esprime il proposito, che ha così intimamente fatto suo, con le stesse parole di quello che si può considerare l’archetipo letterario del fantasma paterno. Ma per fare questo deve anche sottoporre il suo modello a un sensibile stravolgimento. Come abbiamo detto, infatti, nulla è più estraneo al Tantalo senecano del desiderio di vendetta, mentre Andrugio parla secondo lo schema (tradizionale nel teatro europeo del Cinquecento) dello spettro che torna fra i vivi per esigere la vendetta che gli è dovuta. Anche in IM.iii.7-8, di fronte al figlioletto del suo nemico, ormai suo prigioniero, Antonio usa un’esclamazione di Atreo: venit in nostras manus / tandem vindicta, venit et tota quidem.!6! E anche più avanti Antonio continua a parlare “come Atreo”, quando afferma (vv. 1719): «Methinks I pace upon the front of Jove, / And kick corruption with a scornful heel, / Griping this flesh, disdain mortality». Parole che 158. Vv. 195-6. La battuta, che in Seneca occupa due emistichi in enjambement, è disposta da Marston in un unico verso. 159.

Stavolta arrangiati in modo metricamente corretto.

160. In apparato Zwierlein segnala quique come lezione di A (E ha iamque, che Zwierlein preferisce). 161. Vv. 494-5, con la necessaria sostituzione dell’ametrico vindicta all’originario Thyestes, e la conseguente correzione (anch’essa ametrica) del totus sucCESssiVvo.

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Capitolo V

chiaramente ci riportano alle celebri battute iniziali del monologo di Atreo (885-888): Aequalis astris gradior et cunctos super / altum superbo vertice attingens polum. / Nune decora regni teneo, nunc solium patris. / Dimitto superos: summa votorum attigi.

In questi brani di Marston la vendetta è il motivo unificante che sembra giustificare il richiamo al modello senecano: ma nello stesso tempo lo piega ad esigenze culturali che sono decisamente estranee al testo latino. Basterebbe considerare il fatto che queste ultime sono messe in bocca a un “giusto” che vanta il proprio progetto di vendetta. In Antonio’s Revenge i vendicatori appartengono ad entrambi i “partiti”: quello dei “buoni” e quello dei “cattivi”. Piero e Antonio agiscono seguendo le stesse motivazioni, quelle dell’onore ferito, e dunque possono parlare allo stesso modo, nonostante l’opposta natura dei loro gesti. Così, mentre nella prima parte della tragedia è il villain Piero a usare espressioni di Atreo, quando l’iniziativa passa ai suoi antagonisti, ecco che anche un “giusto” come Andrugio può appropriarsi di una battuta del tiranno senecano, per stimolare contro il suo nemico il proprio figlio. E quest’ultimo, a sua volta, finirà per usare lo stesso lessico.

Dunque anche quando un autore elisabettiano usa davvero, e apertamente, il modello senecano, le forme del testo latino sembrano subire una notevole metamorfosi. Questa deformazione degli elementi comuni dipende in gran parte dalle esigenze di un genere letterario, quello tragico, che possiede una serie ormai codificata di suoi motivi ricorrenti, sviluppatisi in almeno un secolo di produzione drammatica europea, che ha progressivamente elaborato gli spunti della tradizione (in primo luogo quella classica), secondo le caratteristiche di uno spettacolo che chiedeva di essere com-

preso dal suo pubblico per potersi affermare. Bisogna dunque guardare al rapporto di questa produzione coi modelli classici partendo proprio dalle regole che il genere letterario e la cultura del tempo impongono a ciò che viene ripreso dal passato. In questa prospettiva le differenze sono spesso più significative delle somiglianze: ma non sempre sono facili da vedere. Risulta certo fin troppo evidente, ad esempio, che in Seneca sarebbe impensabile una scena come quella di un “giusto” come Antonio che spruzza il sangue del piccolo figlio di Piero, Julio, sulla tomba di suo padre Andrugio.'° 162. Concludendo la sua preghiera allucinata con l’espressione proverbiale (di ascendenza biblica) «Blood cries for blood, and murder murder craves»

(IIL.iii.71). In generale, un “sacrificio umano” sulla tomba di un defunto, rappresentato addirittura sulla scena, sembra un espediente drammatico estraneo alla pur sanguinosissima tragedia senecana (cfr. Hunter 1974, p. 177 e Robertson 1989).

Va detto anche, però, che sebbene non ci vengano documentati casi del genere in testi tragici dell’antichità, esistono casi attestati nella letteratura di comportamenti “reali” di questo genere. Un esempio potrebbe essere Plut., Ant. 22.7, in cui Antonio fa uccidere Ortensio sulla tomba del fratello, della cui morte lo considerava responsabile.

Una presenza mediata: Seneca e la drammaturgia elisabettiana

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Sfugge, invece, il fatto che anche fra le battute dei vendicatori che compaiono nel teatro di Seneca e la riutilizzazione che ne fanno gli elisabettiani i filtri della cultura cristiana, della letteratura medievale e della tradizione scenica nazionale hanno creato degli scarti talmente rilevanti da rendere diverso ciò che in apparenza continua a sembrarci estremamente simile. È nell’azione di questi filtri che bisogna forse vedere l’aspetto più vitale dell’eredità tragica senecana: quello che le ha permesso di attraversare i secoli, rinunciando ai suoi tratti distintivi, per diventare parte delle culture su cui ha esercitato la sua autorità di modello.

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Capitolo V

APPENDICE

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

Strano destino di un’opera minore

La tragedia Progne del veneziano Gregorio Correr (1409-1464) ha avuto un destino singolare. In anni piuttosto lontani dalla sua composizione, infatti, ha goduto di una celebrità che possiamo dire abbastanza imprevedibile, se si considerano solo il suo valore letterario e le stesse ambizioni di chi l’aveva composta.! Fu la prima opera che Correr scrisse, nel 1426-7, probabilmente come semplice esercizio scolastico, e certo non con l’intenzione di produrre un testo da mettere in scena. Correr era allora diciottenne, e frequentava la scuola di Vittorino da Feltre alla Giocosa di Mantova.? Ancora a diversi anni di distanza l’autore ricordava l’apprezzamento del maestro e il successo della sua opera giovanile con un compiacimento volutamente moderato.? Ma Correr abbandonò molto presto le sue velleità 1. Sulla fortuna della Progne la trattazione più completa resta quella di Cloetta 1892, II, pp. 158-164. 2. Cfr., alla fine della tabula sui «Genera metrorum» (par. 11), l’indicazione «Edidi Mantuae, anno aetatis meae decimo octavo» (tutte le citazioni della tragedia seguono l’edizione Casarsa 1981). 3. Cfr. l’epistola 31 «Ad Ceciliam virginem de fugiendo seculo» (cito da Onorato 1991, vol. II, p. 553, Il. 461-465): «Scripsi Prognem tragoediam anno aetatis meae decimo octavo, quam postquam edidi, nihil non speravit de me Victorinus: cadebant legenti ubertim lacrimae». Cfr. anche Sat. II, vv. 91-96: «si me mea Progne / plus aequo attollit, dementer non tamen hosce / in turbam versus recito, nec credo libellum / assentatori, dudum premo. Scit pater ipse / hoc Victorinus, timido qui saepe tabellam / extorsit manibus» e Sat. VI, vv. 84-89: «Aut aliquis Prognem coram laudaverit: implet / officium chorus et raro torquetur iambus. / At ne satis vehemens dubito. Sermone modesto / insurgunt cristae, veteri purganda cicuta, / fervescit bilis, suppressumque in cute virus / apparet, veluti coluber pressus pede saevus». In modo analogo, in una nota marginale del ms. Venezia, Bibl.

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letterarie, per dedicarsi a una sfortunata carriera religiosa e diplomatica.' La fine della sua attività di scrittore si può anche datare con precisione, sulla base del manoscritto autografo che si conserva nella Biblioteca Marciana (Marc. Lat. XII 155 [3953]). In questo codice Correr ricopiò, fra il settembre del 1443 e il gennaio del 1445, tutti gli scritti di carattere letterario che aveva composto fino a quel momento. La Progne è la prima delle opere che compaiono nel manoscritto (cc. 1r18r), in una redazione che l’autore considerava definitiva.°

La tragedia è menzionata con giudizi piuttosto lusinghieri da contemporanei autorevoli come Enea Silvio Piccolomini” e Giovanni Tortelli,8 i quali riconoscevano in essa l’unico dramma moderno che fosse davvero degno di stare accanto a quelli di Seneca, l’indiscusso modello tragico antico. Ma nonostante questi apprezzamenti, non si può dire che l’opera godesse di una circolazione particolarmente ampia. Del resto quello scorcio del Quattrocento non era nemmeno una stagione adatta alla produzione tragica. La fortuna di questo testo doveva ancora cominciare. Fu poco più di un secolo più tardi che la Progne di Correr conobbe un imprevisto rilancio; nel 1558, a Venezia, e dunque proprio nell’epoca e nel centro di massima fioritura della tragedia italiana. In quell’anno, infatti, Giovanni Ricci aveva trovato un manoscritto Marciana XII 155 (=3953), c. 91v, Correr afferma: «Gaudebam nimis cum uerba iratae Prognes lectorem meum uehementer commouerent. Et hic erat fructus uanitatis meae dum fornicarer a castis eloquiis tuis». Per altri cenni del Correr alla sua opera cfr. Cloetta 1892, II, pp. 155 s. e Casarsa 1980, pp. 122-124. 4. Per un quadro biografico cfr. Cloetta 1892, II, pp. 148-158, Preto 1983, Casarsa 1980, pp. 119-122 e Onorato 1991, pp. 7-49. 5. «Ritenendo di aver ultimato la produzione letteraria» (Casarsa 1981, p. 113). 6. In varie note marginali del manoscritto Correr evidenzia le revisioni

apportate in seguito alla forma dei suoi testi, invitando i suoi lettori a inserire le stesse correzioni in tutti i manoscritti esistenti della stessa opera, e usa espressioni di questo genere (c. 18 v): «Ex hac oda postquam edidi nonnullos uersus amoui, et correxi. Rogo uti aliis exemplaribus amoueantur, et corrigantur ad hoc exemplar» (note simili si trovano anche alle cc. 15v, 18r, 23r, 27v, S2r, 68r, 81v). 7. Nel De liberorum educatione (cito da «Aeneae Syl / vii Piccolomi — / nei senensis [...] opera quae extant omnia [...]Basileae, ex officina / Henricpetrina», 1551, p. 984): «Tragoediae quoque perutiles sunt, sed latinum hodie praeter Senecam [...] nullum habemus, nisi Gregorium corario [sic] Venetum qui Memneterei [sic! sicuramente bisogna intendere «me iuuene Terei»] fabulam, quae apud Quidium habetur, in tragoediam uertit». 8. G. Tortelli, De ortographia («[...] Romae in domo de /taliacoxis Sub iussu VIrici Galli / Teutonici: Et Simonis Nicolai / Lucensis. Anno. do. Mccccelxxi»), c. 222 v, s. v. Philomena: «Quam omnem Tragoediam miro stilo & par antiquis Gregorius corrarius uenetus diuino quodam ingenio nostra aetate dum adulescentulus esset pertractauit. Imitatus Thyesten Senecae quo in nulla re minor comperitur» (cfr. anche ce. 287 v-288r, s. v. Tereus: «[...] ut elegantissime pertractauit Quidius: & nec minus eleganter nostra aetate Gregorius corrarius uenetus in praestantissima tragoedia cuius titulus est Progne»).

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Appendice

dell’opera, privo dell’indicazione dell’autore,? e ne aveva curato un’edizione presso Paolo Manuzio, per conto dell’«Academia Venetiana della Fama», di cui era membro, e che proprio in quell’anno inaugurava i suoi ambiziosi progetti editoriali.!° La ricomparsa della tragedia sembra dunque coincidere con la cancellazione dell’identità del suo autore.!! Ne approfittò immediatamente Lodovico Domenichi, un letterato piacentino noto per la sua intensa attività di traduttore e di curatore di testi, prima presso il Giolito a Venezia e successivamente, dal 1546 in poi, presso i Giunti a Firenze.!? Senza alcuno scrupolo Domenichi tradusse in italiano la tragedia e la pubblicò nel 1561 (appunto presso i Giunti), facendola passare come una sua composizione originale. Non è escluso che, a differenza di Correr, Domenichi mirasse a met-

tere in scena la tragedia, anche se non si hanno notizie di una sua effettiva fortuna teatrale. Erano anni in cui la storia di Procne suscitava un certo interesse, almeno sulle scene veneziane. Nel 1548 Gerolamo Parabo-

sco aveva pubblicato a Venezia («per Comin da Trino») una Progne;! e sappiamo che anche il celebre drammaturgo Luigi Groto aveva composto in anni giovanili (e quindi fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta) una tragedia dello stesso titolo, che però è andata perduta.!* Non meraviglia dunque che in questo ambiente culturale l’opera di Correr sia stata prima riesumata e poi adattata ai gusti letterari di un pubblico più vasto. Sull’onda di questo rilancio, pochi anni dopo, il 5 settembre del 1566, la Progne comparve sulla scena accademica del Christ Church di Oxford, alla presenza della regina Elisabetta, in quella che con ogni probabilità dovette essere una versione rielaborata da James Calfhill (1530?-1570).! 9. Il tono dell’apprezzamento per l’opera, comunque, è ancora molto vicino a quello del Piccolomini o del Tortelli. Si veda l’appello finale rivolto dal Ricci agli «studiosi», in cui si dice fra l’altro: «communicandam uobis putauimus eo libentius, quod in hoc genere, praeter unum Senecam, nihil habemus: cuius tragoediis minimum certe Progne nostra concedit» (cito da Progne / Tragoedia, / nunc primum / edita. / In Academia Veneta, / MDLVIII, c. 27v).

10. Ricci era un professore di diritto canonico dell’università di Padova (cfr. Foscarini 1854, p. 32). Sull’attività dell’Accademia cfr. Rose 1969, in part. pp. 199209 (che però purtroppo non si occupa della pubblicazione del nostro testo). La Progne è la prima tragedia neo-latina ad essere stata stampata: cfr. Bradner 1957, p. 32. 11. Una cancellazione che durerà per circa due secoli, sebbene Apostolo Zeno 1753, pp. 473 s., n. 4 avesse già rivendicato la paternità di Correr. 12. Cfr. Piscini 1991 e soprattutto Di Filippo Bareggi 1988, per una ricostruzione completa di questi ambienti editoriali. 13. La tragedia di Parabosco non presenta alcun punto di contatto con il testo di Correr. Più tardi, nel 1549, un’altra Progne, di Alessandro Spinello, pare venisse rappresentata a Venezia, ma non venne data in seguito alle stampe: cfr. Zeno 1753, p. 473, n. 2. 14. Cfr. Neri 1904, p. 105 e n. 2. 15. Il testo della cronaca dell’evento, dovuto a John Bereblock, è riportato in Plummer 1887, pp. 139-148 (sulla rappresentazione della Progne di Calfhill cfr. in part. pp. 146-148). Cfr. Durand 1905, pp. 502 e 520-523 (notizie biografiche su Calfhill a p. 520, n. 1) e Boas 1914, pp. 104 s.

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

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Il capitolo successivo della fortuna della Progne ci porta di nuovo lontano dalle scene, nel mondo dei libri. A parte una riedizione romana del 1639 (anch’essa adespota),!9 la Progne suscitò un breve ed effimero dibattito alla fine del Settecento, quando G. N. Heerkens ne pubblicò un ampio stralcio, tratto forse da un manoscritto frammentario.! Heerkens proponeva l’opera come un testo antico, un Tereus da attribuire addirittura a Vario. Ma la proposta parve subito poco credibile, e già nel 1792 Iacopo Morelli poneva fine alle polemiche,'* restituendo una volta per tutte la paternità dell’opera a Correr sulla base del manoscritto marciano, che apparteneva alla sua collezione privata. Da allora la notorietà della Progne e del suo autore non si è più spenta, e ha anzi conosciuto in anni recenti uno straordinario incre-

mento, dato che fra il 1980 e il 1994 questa tragedia ha avuto la fortuna non comune di essere edita per ben quattro volte.!°

La Progne e la rinascita della tragedia La Progne è uno dei tre principali esemplari del genere tragico composti nella prima età umanistica, in un periodo che rappresenta, potremmo dire, la fase di transizione fra la riscoperta di Seneca nel circolo preumanistico padovano e la fioritura del genere tragico in volgare in Italia (e, da lì, in tutta Furopa). Insieme con l’Ecerinis di Albertino Mussato (1314) e l’Achilles di Loschi (1390 ca.) l’opera di Correr costituisce il nucleo originario di un genere letterario che, per la prima volta dopo oltre dodici secoli, rinasceva nelle forme tipiche del teatro tragico classico. Con queste opere possiamo dire che il teatro moderno riprendesse a confrontarsi con l’antichità, abbandonando la prospettiva tipica del Medioevo, che aveva sistematicamente relegato la “tragedia” a un ruolo piuttosto riduttivo: a essere cioè una semplice etichetta di un determinato tipo di intrecci che i vari generi, e soprattutto l’epica, organizzavano secondo le forme tipiche della loro impostazione.?° 16. L’edizione era a cura di Agostino Mascardi (cfr. Casarsa 1981, p. 113 n. 29). 17. Cfr. Heerkens 1788, pp. XI-XCIII. La prima edizione delle Icones di Heerkens (Utrecht 1787) fu subito seguita da una seconda (1788), apparentemente uscita a Parigi, se si crede alle notizie del frontespizio. Ma quasi certamente, come affermava già Villoison (cfr. Morelli 1820, p. 215), anche la seconda edizione dove-

va essere stata stampata a Utrecht. 18. Cfr. Morelli 1820, pp. 211-217 (riproduzione della lettera di risposta del Morelli, datata 22 settembre 1792, alla richiesta di chiarimenti da parte di Gaspare de Ansse Villoison, seguita da un’«annotatio» dell’autore). 19. Berrigan-Tournoy 1980, Casarsa 1981, De Vries 1987, Onorato 1991. Una

nuova edizione, a cura di J.-F. Chevalier, è in preparazione per le edizioni del Galluzzo. 20. La migliore trattazione della concezione medievale del tragico, dopo Cloetta 1890, I, pp. 14-54, è oggi Kelly 1993. Cfr. anche le belle osservazioni di Pastore Stocchi 1964, pp. 20-24 e Stàuble 1980, pp. 47-54.

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Una suggestiva ipotesi di Cloetta ricostruiva un’unica linea di continuità che porterebbe dalla riscoperta di Seneca tragico presso il circolo di Lovato Lovati all’opera di Correr.?! Dall’entusiasmo per la riscoperta del teatro di Seneca sarebbe nata l’ispirazione dell’atipica opera di Mussato, ancora in bilico fra forme epiche e forme compiutamente tragiche. A ispirare al Loschi l’interesse per l’Ecerinis era stato poi Coluccio Salutati, che tanta importanza attribuiva alla tragedia del Mussato da ricopiarla di suo pugno di seguito alle dieci tragedie del corpus senecano.°° Al Correr, infine, il precedente del Loschi? sarebbe stato noto grazie al principale manoscritto dell’ Achilles, rimasto per lungo tempo nella biblioteca dei Correr.?* Quella di Cloetta era solo un’ipotesi, ma certo questi testi sono eccezionali e isolati rispetto alla produzione letteraria dell’epoca, e rappresentano modi complementari di sperimentare una costruzione del tragico in chiave senecana a partire da materiali narrativi piuttosto diversi fra loro.?° L’intreccio dell’Ecerinis è fondato su notizie tratte dalla produzione cronachistica, lAchi/les rielabora spunti derivati da quella complessa congerie di storie che è l’opera di Darete Frigio. Rispetto a queste operazioni, che organiz-

zano racconti di forte impronta medievale secondo forme che si possono sicuramente ricondurre al modello senecano, la Progre di Correr, che nasce in un ambiente di decisa impostazione umanistica, rappresenta un ulteriore passo avanti nella direzione di un recupero anche dei materiali narrativi classici. Oltretutto, la fedelissima imitazione del modello senecano rende quest'opera assai più vicina dei suoi precedenti alla produzione tragica del secolo successivo. Non è esagerato dire che 21. Cloetta 1892, II, pp. 9-11 e passim. 22. Nel codice London, British Library, Addit. 11987 (le tragedie di Seneca sono ai ff. 2'-175‘, l’Ecerinis ai ff. 180"-189": cfr. Ullman 1963, p. 197). Per uno strano destino, al Mussato verrà poi per lungo tempo attribuito anche l’Achilles (o Achilleis) del Loschi (cfr. il volume degli Opera omnia di Mussato, citato sotto alla n. 32).

23. Alcuni passi del Loschi potrebbero anche essere stati imitati direttamente da Correr (cf. Onorato 1991, p. 59, nota 2). I vv. 851-3 della Progne, ad esem-

pio, sono piuttosto simili ad Ach. 760 s. (ma quasi certamente la somiglianza dipende dalla loro fonte comune, cioè Iuv. 10.112 s.); i vv. 859 s. ricordano Ach. 601 (ma si tratta solo di una vaga somiglianza, e l’espressione usata da entrambi gli

autori è una formula senecana abbastanza tipica). Altre somiglianze sono registrate da Casarsa 1981, p. 125, n. 64. 24. Si tratta del ms. Vicenza, Bibl. Bertoliana G.26.113 (Onorato 1991, I,

p. 59 n. 2 non ritiene che questo renda probabile una conoscenza diretta della tragedia del Loschi da parte di Correr). 25. Per una discussione complessiva di questi drammi basti qui rimandare a Cloetta, 1892, II, pp. 11-76 e 91-221, Creizenach 1893, pp. 496-529, Bradner 1957, pp. 31-33, Berrigan 1973 e 1973a, Casarsa 1980, pp. 123 s., Kelly 1993, pp. 134-143 e 185-194 (purtroppo Braden 1985, nel suo quarto capitolo dedicato

a «Senecan Imitation», pp. 99-114, ha scelto di dedicarsi solo all’analisi dell’Ecerinis: insignificanti i cenni ad Achilles e Progne, alle pp. 101 s.).

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

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il taglio patetico, la sentenziosità e il gusto dell’orrido che Correr traeva in così larga misura dalle tragedie di Seneca facciano della sua Progne il primo, vero rappresentante della tragedia moderna.’ Riflettere sull’organizzazione dell’intreccio di questa tragedia diventa dunque un’ottima occasione per studiare il rapporto fra la creazione umanistica e la tradizione antica: un rapporto che, come vedremo, non è di semplice riproposizione dei modelli classici, ma passa attraverso significative mediazioni, letterarie e culturali.

Procne come soggetto tragico Per chi, come Correr, intendesse riproporre sulla scena (o nella cornice di un testo tragico) la vicenda di Procne, il punto di partenza obbligato era costituito dall’opera che, soprattutto nella fase finale dell’epoca medievale, aveva costituito un inesauribile repertorio di racconti mitici: le Metamorfosi di Ovidio. L'episodio del sesto libro, su cui ci siamo soffermati già a lungo, è certamente uno dei modelli principali seguiti da Correr per riscrivere la vicenda tragica delle due sorelle ateniesi Progne e Filomena.?” Ma Progne rientrava a pieno titolo anche fra i personaggi del repertorio tragico. La sua fortuna nella letteratura scenica è oggi testimoniata per noi soltanto da una scarsa quantità di frammenti, e dai pochi titoli di drammi perduti, dal Tnpevg di Sofocle al Tereus di Livio Andronico, a quello di Accio.?* Tuttavia, nonostante la scarsità dei dati, l’appartenenza di questa vicenda al più tipico repertorio tragico resta fuori discussione. Per restare all’epoca di Ovidio, Orazio nell’Ars poetica registrava la storia di Progne insieme a quella di Atreo e di Medea fra gli intrecci tradizionali che dovevano essere portati in scena con alcune precauzioni (vv. 185-187): Ne pueros coram populo Medea trucidet, aut bumana palam coquat exta nefarius Atreus, aut in avem Procne vertatur, Cadmus in anguem.

L’associazione della figura di Progne a questi personaggi tragici è un luogo comune estremamente diffuso nella letteratura latina: 26. Cfr. per es. Creizenach 1893, p. 523: «Hier zeigt sich also zum erstenmal eine Tendenz, die spaterhin in der Renaissance-Litteratur so haufig wiederkehrt, nimlich die, das Tragische vor allem in der Anhaufung unnatirlicher Greuelthaten zu suchen». 27. D'ora in poi, per comodità, userò sempre la grafia dei nomi presente nell’opera di Correr. La questione della grafia di questi nomi è complessa. Sia le forme Progne-Procne che quelle Philomena-Philomela sono ben attestate nei manoscritti (sulla grafia di Procne-Progne, in part., cfr. la bibliografia cit. in Bòmer 1976, pp. 118 s.). 28. Cfr. Bomer 1976, pp. 117 s.

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basterebbe considerare, fra i molti esempi possibili, la galleria di personaggi presentati da Ovidio stesso in Trist. 2. 387-392, in un passo

che ho già avuto occasione di citare: Tingeret ut ferrum natorum sanguine mater, concitus a laeso fecit amore dolor.

Fecit amor subitas volucres cum paelice regem, quaeque suum luget nunc quoque mater Ityn. Si non Aeropen frater sceleratus amasset, aversos solis non legeremus equos.?*

Come ho già detto, l’accostamento fra questi personaggi è motivato soprattutto dalla somiglianza dei crimini commessi. Igino, ad esempio, in due delle Fabulae che chiudono la sua raccolta, registrava prima il nome di Progne accanto a quello di Medea fra le «Matres quae filios interfecerunt» (CCXXXIX),° e poi il nome di Tereo accanto a quello di Tieste fra coloro «Qui filios suos in epulis consumpserunt» (CCXLVI).? Insomma, per gli antichi la posizione del personaggio di Progne si poteva stabilire, in un’ideale mappa tipologica delle vicende tragiche, da un lato in relazione alla figura di Medea, per via della vendetta realizzata tramite l’infanticidio; dall’altra in relazione alla figura di Atreo, per via del banchetto cannibalesco. Questa collocazione della figura di Progne è di lunghissima durata, tant'è vero che la ritroviamo ancora nella prima Epistola di Albertino Mussato:!? 29. Cfr. anche Fast. 2.627-630 (Tantalidae fratres absint et Iasonis uxor / et quae ruricolis semina tosta dedit / et soror et Procne Tereusque duabus iniquus / et quicumque suas per scelus auget opes). Le due madri omicide Medea e Procne, in particolare, vengono stabilmente associate nella poesia latina, fino ai carmi dell’Anthologia latina (cfr. 220 Shackleton-Bailey [= 228 Riese], 226.2-6 Sh.-B. [=234 R.], 267.6 Sh.-B. [=273 R.]). Altri passi in cui le due eroine vengono associate sono registrati in Cazzaniga 1950, p. 83, n. 2. 30. Le altre eroine menzionate da Igino sono Ino, Altea, Agave e Arpalice. Per avere un’idea di quanto fosse tipica un’associazione del genere, si potrebbe ancora citare l’invocazione di Deianira in [Sen.], Herc. Oet. 949-958: Recipe me comitem tibi, /Phasiaca coniunx: peior haec, peior tuo / utroque dextra est scelere, seu mater nocens / seu dira soror es; adde me comitem tuis, /Threicia coniunx, sceleribus; natam tuam, / Althaea mater, recipe, nunc veram tui / agnosce prolem — quid tamen tantum manus / vestrae abstulerunt? Claudite Elysium mihi, / quaecumque fidae coniuges nemoris sacri / lucos tenetis (segue un’esplicita menzione delle Danaidi). 31. L’unico altro eroe menzionato, in questo caso, è Climeno, il padre di Arpalice. 32. Cito da: Albertini Mussati / Historia Augusta / Henrici VII. Caesaris / & alia, quae extant opera. / Laurentii Pignorii vir. clar. spicilegio, necnon Foelicis Osij, & Nicolai Villani, castigationibus, collationibus, & notis illustrata, [...] Venetiis, MDCXXXVI / Ex Typographia Ducali Pinelliana, pp. 39-42 del volume che contie-

ne le tragedie e le opere poetiche in genere (sostanzialmente identico il testo stampato ora da Chevalier 2000, p. 34). Su questa epistola cfr. Pastore Stocchi 1964, pp. 26-28.

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Sunt tabulae Tragici dubiae certamina vitae, Quae species omnis crudelitatis habent. Phasidis interitu mutilati funera fratris Non fuerant alijs commemoranda mettris. Ante oculos patris laniati corpora nati Constiterant alio non recitanda pede. Atrea quis durum nisi metro scripsit eodem Gnatorum miserum carne cibasse patrem?

Mandit Ityn Tereus, Progne sic ulta sororem est, pes Pandionias narrat iambus aves.

Anche per Mussato, dunque, Progne era una delle vicende tragiche per eccellenza;}? e, come al solito, si collocava tipologicamente accanto agli autori dei due altri grandi infanticidi “esemplari”: Medea** e Atreo. Ma passiamo da una considerazione generale di queste figure del mito a una rassegna precisa dei principali testi classici che un autore dell’epoca di Correr aveva a disposizione per conoscerne le storie in tutti i loro risvolti. Non c’è dubbio che l’elenco si possa limitare a tre sole opere: oltre al sesto libro delle Metamorfosi, le due grandi tragedie senecane Medea e Thyestes. Possiamo limitarci ad esse non solo perché, fra i testi più letti e più noti all’epoca di Correr, questi erano senza dubbio i testimoni principali delle tre storie che ci interessano, ma anche perché i commentatori hanno mostrato a sufficienza come proprio questi tre testi siano quelli su cui Correr ha costruito prevalentemente la sua tragedia. Pri33. Resta poco chiaro se effettivamente Mussato si riferisse qui specificamente a qualche precedente tragico. La conoscenza della fortuna scenica di questo intreccio sarà stata certamente indiretta. Per fare solo un esempio, si potrebbe ricordare il rapido cenno presente negli Integumenta Ovidii di Johannes de Garlandia, che presentando il racconto del sesto libro delle Metamorfosi dice fra l’altro (vv. 289 s.): Historiam tangit describens Terea de quo / Musa Sophocleo carmine grande canit (ma qui l’aggettivo sophocleus è un semplice equivalente di “tragico”, sulla scorta della notissima formula di Verg., Ecl. 8.10 con il relativo scolio serviano ad loc.). Se Mussato aveva in mente qualcosa del genere, ad essere evocata sarebbe proprio l’associazione fra il racconto ovidiano e la grande e sconosciuta produzione tragica greca; e dunque il passo potrebbe valere proprio come indicazione “di genere”, che prospetta come assolutamente naturale la declinazione tragica del racconto ovidiano. Che anche Mussato parlasse di Sophoclea cothurna senza conoscere i testi della tragedia greca si vede chiaramente da un passo della Epist. I (vv. 129-136), citato e commentato da Megas 1967, pp. 26 s. 34. Nel passo citato si fa specifico riferimento all’uccisione del piccolo Apsirto, fratello di Medea, e non alla più celebre uccisione dei figli. Ma si tratta di un semplice accorgimento, che serve a riproporre in forma variata il riferimento a una vicenda che Albertino aveva già citato in precedenza, in una sorta di elenco delle vicende tragiche narrate da Seneca. Sull’importanza del fratricidio per la meccanica della vendetta di Medea cfr. supra, pp. 142-144 e 151-153. 35. Basti qui citare dalla prefazione all’edizione di Casarsa 1981, p. 103: «Nell’Argumentum |...] Gregorio indica con chiarezza: “imitatur in hac tragoedia Senecam in Thieste...”, ma si può aggiungere che egli utilizzò in ugual misura la

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ma Cloetta, nel suo saggio fondamentale,} e poi tanto Casarsa quanto De Vries e Onorato nelle loro note alla tragedia hanno sistematicamente (anche se in modo ancora incompleto) registrato le innumerevoli occasioni in cui Correr ha imitato, o addirittura semplicemente riprodotto versi tratti da questi modelli. La tecnica di Correr talvolta si risolve in una semplice centonatura, ma più spesso mira a realizzare una complessa interazione fra i vari modelli utilizzati. Diamo un prospetto semplificato della tragedia di Correr in relazione ai testi latini che a noi interessano più direttamente: I ATTO (prologo): vv. 1-67 L’ombra di Diomede rilancia la serie di scelleratezze della sua casa tracia (cfr. Seneca, prologo del Thyestes con l’ombra di Tantalo);37 I CORO: vv. 68-136 Invocazione a Nettuno (non c’è un testo guida ben preciso);

HI ATTO: vv. 137-299 Tereo dà notizia a Progne della morte della sorella (anche qui senza modelli fortemente delineati);?°

Il CORO: vv. 300-356 Instabilità delle gioie umane, esemplificate ampiamente tramite il tema della navigazione (cfr. II coro di Seneca, Medea) IN ATTO: vv. 357-788 Vv. 357-449, descrizione dello stupro (cfr. Ovidio, Met. 6.519-562); Vv. 450-486, monologo irato di Progne (vari spunti tratti da Ovidio, Met. 6 e da Seneca, Medea); Medea e ì suggerimenti derivanti dall’approfondita conoscenza di tutte le altre tragedie. Se Seneca gli offriva il modello tecnicamente più perfetto, da Ovidio (Met. 6, 421-674) il Correr trasse l’episodio di Tereo e Progne, per definizione uno dei più drammatici, e lo modificò secondo la tecnica teatrale senecana [...]». Cfr. anche Cloetta 1892, II, p. 190 (la Progne sarebbe «eine auf Grund von Ovid’s Metamorphosen bewerkstelligte Copie von Seneca’s Thyestes und Medea [...]») e Onorato 1991, p. 56. La relazione fra la Progne e la Medea non viene invece considerata da Berrigan 1973a, pp. 3-6 (forse perché ritenuta poco importante). Alla segnalazione, da parte di Correr, del modello rappresentato dal Tieste si potrebbe aggiungere l’ossessivo richiamo al precedente “colchico” nel corso dell’intera tragedia (cfr. vv. 700, 864, 947 e 1042). 36. Cloetta 1892, II, pp. 191-216. 37. In molti punti si ha in realtà una combinazione con elementi tratti anche

dal prologo dell’ Agamemmnon, in cui compare l’ombra di Tieste. 38. Ma cfr. vv. 89-114 con Sen., Herc. Oet. 1061-1101.

39. Ma cfr. vv. 191-256 con Sen., Agam. 421-578. 40. Cfr. ad es. Met. 6.430-438, già ripreso in Sen., Med., cfr. ad es. 13-18.

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Vv. 487-554, scena bacchica di Progne con le donne del coro (cfr. Ovidio, Met. 6.587-609);1!° Vv. 554-610, incontro fra Progne e Filomena, primi progetti di vendetta (vari spunti tratti da Ovidio, Met. 6 e da Seneca, Medea);* Vv. 611-788, dialogo con la nutrice e progetti definitivi

(cfr. Seneca, Med. 116-178 e380-430);*

II CORO: vv. 789-858 Instabilità della fortuna dei potenti e loro inclinazione al vizio (combinazione di vari motivi senecani: cfr. soprattutto Thy. 336-403 e 607-622);44

IV ATTO: vv. 859-942 Racconto dell’uccisione di Iti e della preparazione del banchetto (cfr. Seneca, Thy. IV atto); IV CORO: vv. 943-955 Commiserazione per Iti (senza particolare caratterizzazione)*

V ATTO: vv. 956-1060 Banchetto di Tereo e svelamento del delitto

(cfr. Seneca, Thy. atto V).

Un quadro del genere è solo l’estrema semplificazione di una struttura compositiva in cui vengono fusi ed elaborati in modi complessi spunti derivanti da una più ampia rosa di modelli letterari. Ma può servire come base di partenza per mostrare le modalità di un impiego delle fonti che mira a costruire il personaggio di Progne come una combinazione di tratti derivati dalle figure senecane di Medea e di Atreo.

La fabula ovidiana

Cominciamo dall’impianto generale della storia, e quindi cominciamo dal sesto libro delle Metamorfosi di Ovidio, che rappresenta l’ovvio pun41. Mail passo con cui si segnala un maggior numero di paralleli, per questo coro, è Sen., Oed. 403-508. 42. Cfr. ad es. vv. 560-610 e Met. 6.596-619; e ancora, cfr. le espressioni

usate ai vv. 598-610 con quelle della celebre scena di magia della Medea di Seneca (vv. 740-842).

43. Vanno però segnalati moltissimi altri richiami a espressioni utilizzate tanto dalla Medea (in part. cfr. 681-717 e Med. 893-977) che dall’Atreo senecani (in

part. cfr. Thy. 176-286). 44. Ma cfr. anche Agam. 57-107, Herc. Oet. 604-672, Phaedr. 299-324. 45. Sulle somiglianze fra il IV atto della tragedia di Correr e il IV atto del Thyestes cfr. in part. Cloetta 1892, II, pp. 185 s. 46. Si può segnalare, tutt'al più, la presenza di un rimando all’esemplarità del delitto di Medea ai vv. 946 s.

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Appendice

to di partenza per la costruzione dell’intreccio. Il testo ovidiano costituiva per Correr, come ancora per noi oggi, la fonte antica più com-

pleta di questo mito, ma non l’unica. Accanto alle Metamorfosi, infatti, Correr mostra di tenere ben presente il capitolo 9.8 delle Genealogie deorum gentilium di Boccaccio, cioè un’altra “fabula”, in cui varie fonti, sia antiche che medievali, erano state combinate insieme.

La presenza di questi due punti di riferimento non sorprende. Chiuso nella sua cornice medievale, il testo ovidiano usato da Correr

era naturalmente molto diverso da quello a cui siamo abituati noi. Nei manoscritti tardo medievali (e ancora nelle prime edizioni a stampa) ogni “fabula” delle Metamorfosi era di solito circondata da materiali interpretativi,*” che ne condizionavano fortemente la lettura. L’opera ovidiana che dobbiamo considerare è una raccolta di fabulae, di intrecci,4 in cui erano state inserite note di commento, riassunti e interpretazio-

ni allegoriche, che spesso ne modificavano il significato originario. Gli stessi tratti della presentazione “editoriale” delle Metamorfosi ovidiane alterava non solo la funzione che il poeta aveva attribuito alle singole storie all’interno della complessa architettura del suo carmen perpetuum, ma anche il significato culturale che queste storie avevano per la società romana della prima età imperiale. Il poema ovidiano si prestava così ad essere facilmente utilizzato come un ricco repertorio di racconti, che potevano essere considerati come staccati l’uno dall’altro.?° 47. Anche un paio di elementi della fabula boccacciana di Tereo potrebbero essere derivati dai testi che circondavano i versi ovidiani nei manoscritti medievali. 48. La semplice struttura dei “manuali” mitografici in prosa (come le Fabulae di Igino o i cosiddetti Mythographi Vaticani I e II) non era molto diversa, sebbene la disposizione di queste fabulae mutasse a seconda delle diverse strategie narrative. 49. Cfr. Ghisalberti 1932, p. 192: «Le metamorfosi così, levata di mezzo ogni preoccupazione artistica, sono giustapposte l’una all’altra come la serie di paragrafi di un trattatello di mitologia. Lattanzio Placido, in forma assai perspicua, offre di ogni episodio del poema di Ovidio una immagine rimpicciolita ma assai fedele e precisa nei contorni. Gli accorgimenti stilistici, l'ispirazione epica, il colorito romanzesco, tutta l’arte insomma di Ovidio, spariscono, e il compilatore ha cura invece di rendere più precisa l’informazione mitologica» (cfr. anche Ghisalberti 1933, p. 12). Recentemente Tarrant 1995, p. 105 ha ipotizzato che «most, if not all, extant

medieval witnesses to the text of the Metamorphoses descend from copies in which the ‘Lactantian’ material was present». 50. Sulle forme medievali di “segmentazione” imposte al poema ovidiano cfr. Hexter 1987: lo stesso processo continua, più o meno negli stessi termini, anche durante il Rinascimento (cfr. Guthmiiller 1986, pp. 37-40, che illustra le sentite cri-

tiche di Raffaele Regio a questo procedimento). Più tardi le forme del poema vennero riplasmate seguendo le regole letterarie del genere epico contemporaneo. Lodovico Dolce, nella sua traduzione delle Metamorphoses (pubblicata per la prima volta nel 1553) mutò la forma del poema ovidiano in una struttura suddivisa in canti, aggiungendo ad essi delle allegorie, secondo un modello che aveva già adottato nella sua edizione dell’Orlando Furioso di Ariosto (1542). Egli riorganizzò i raggruppamenti delle varie storie all’interno delle singole sezioni della sua opera,

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

DINO.

In modo simile le storie raccolte in un’opera come le Genedlogie di Boccaccio erano parte di una specie di enciclopedia mitografica, che rag-, gruppava le sue fabulae in vari alberi genealogici. Questo stato di cose determina un notevole scarto fra il significato della storia di Progne e Filomena all’interno del poema ovidiano e quello che essa acquista in un’opera come la tragedia di Correr. Non che sia facile, naturalmente, stabilire in modo univoco il senso delle storie mitiche per Ovidio. La consuetudine con la bibliografia ovidiana più recente, anzi, mostra abbondantemente come sia possibile escogitare sempre nuove strategie interpretative, al riparo della sfuggente ironia ovidiana. Ovidio è diventato particolarmente studiato da quando è diventato evidente quanto sia facile de-costruire il senso delle sue storie. Ma a me non interessa questo tipo di lavoro interpretativo. Non mi preoccuperò dunque di dare un’interpretazione approfondita delle storie contenute nel sesto libro delle Metamorfosi, limitandomi invece a segnalare alcuni aspetti macroscopici della struttura di questo libro, che hanno verosimilmente una grande rilevanza per il significato della nostra fabula.! Le storie principali del sesto libro delle Metamorfosi hanno tutte a che fare, in un modo o nell’altro, con un uso improprio della parola da parte di personaggi che sfidano o oltraggiano esseri più forti di loro. Aracne (vv. 1-145) viene punita per essersi troppo vantata della sua abilità di tessitrice, per aver voluto gareggiare con Pallade e per averla persino offesa a viso aperto. La sua punizione consiste nella trasformazione in un ragno, cioè in un animale muto e incapace di tessere storie “eloquenti”, come quelle prodotte da Aracne. Niobe (vv. 146-312) viene punita anche lei per non essersi servita di verba minora di fronte a una dea (v. 151): la figlia di Tantalo si era infatti troppo gloriata della propria fertilità, vantando l’ampio numero dei suoi figli rispetto all’unica coppia di gemelli partorita da Latona. La sua punizione consiste nella trasformazione in una roccia muta, capace solo di piangere. I contadini di Licia (vv. 313381) vengono puniti per avere anch'essi oltraggiato Latona. Vengono trasformati in rane, capaci solo di emettere versi senza senso. mantenendo, com’è espressamente detto nello stesso frontespizio delle varie edizioni (cito dall’edizione Sansovino, Venetia 1568), «gli argomenti et allegorie al principio & alla fine di ciascun canto». Così il racconto di Progne, ad esempio, veniva a trovarsi a cavallo fra la fine del canto XIII e l’inizio del XIV. Sulle caratteristiche della traduzione di Dolce cfr. Guthmiiller 1986, pp. 47-61 (pp. 56-58 in part.). 51. Il mio scopo è semplicemente quello di dare un’idea del contesto narrativo in cui Ovidio aveva collocato la storia di Progne. Ludwig 1965, pp. 30-47, Otis 19702, pp. 166-230, Holzberg 1997, pp. 123-158 ricostruiscono la struttura generale del poema ovidiano in una prospettiva sensibilmente diversa dalla mia. 52. Non è semplice stabilire il significato dei due episodi di transizione dal racconto delle vicende di Niobe e dei contadini di Licia a quello di Progne. Si tratta di due rapidi accenni alla storia di Marsia e a quella di Pelope (rispettivamente vv. 382-400 e 401-411). Come Aracne e Niobe, anche Marsia ha sfidato Apollo in

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Appendice

A questo punto troviamo la storia di Progne e Filomena (412-674).83 Il racconto (che ho già illustrato in precedenza)? si divide in sostanza in due movimenti: il primo, incentrato sulla figura della virgo Filomena, culmina nello stupro perpetrato da Tereo e nell’ingegnoso mezzo escogitato dalla ragazza per superare l’ostacolo del silenzio cui è stata costretta dalla mutilazione della lingua. Il secondo, incentrato sulla figura di Pro-

gne, presenta la vendetta della donna attraverso la punizione che, come abbiamo visto, l’antichità sembra aver riservato specificamente agli uomini che sono stati protagonisti di stupra all’interno della propria famiglia5 Per troncare ogni legame col marito Progne uccide infatti il proprio figlio (come fa Medea): mentre per punire la violenza sessuale commessa da Tereo gli fa mangiare (come fa Atreo) le carni del piccolo Iti. È soprattutto nel primo movimento che tornano due dei motivi ricorrenti nell’arco del sesto libro: quello dell’uso insolito della parola da parte di un debole e quello della tessitura “parlante”. Contrariamente alle abitudini femminili, infatti, Filomena promette di rendere noto in qualsiasi modo il crimine di Tereo, senza curarsi di perdere il proprio pudore anche agli occhi di tutti. È questo che determina la decisione di Tereo di mutilare la cognata, invece di portarla alla reggia, come verosimilmente progettava di fare, contando sul silenzio che avrebbe permesso alla ragazza di coprire la perdita della castità, e a lui di tenere segreta la sua colpa.’ Il proposito di denunciare il violentatore a tutti i costi, che Filomena persegue con ostinazione, e contro le consuetudini di un “normale” comportamento femminile, sfocia nella trovata della “tela parlante”, che attraverso la scrittura supera gli ostacoli di una parola fisicamente bloccata. una gara col flauto, e viene trasformato in un corso d’acqua. Pelope, invece, sembra inserito un po’ forzatamente, più che altro per preparare il tema del pasto cannibalesco. È importante osservare come nei vari tentativi di moralizzare queste storie le vicende di Marsia e Pelope acquistino un peso pari (se non, in alcuni casi, addirittura maggiore) rispetto a quello degli episodi principali del poema ovidiano. 53. Seguita da quella di Borea e Orizia (vv. 675-721), ad essa strettamente legata da una serie di affinità tematiche, con cui si chiude il libro. 54. Cfr. supra, pp. 80 s. 55. Cfr. supra, capitolo II e p. 150, n. 39. Un’ interpretazione analoga del significato di questa forma di vendetta era curiosamente ancora condiviso dalla cultura cristiana, ed era stato proposto, fra gli altri, nella Metamorphosis |[...] moraliter explanata di Bersuire (cf. Bersuire 1509, cc. LIIv-LIIIr). 56. Cfr. vv. 544 s.: ipsa pudore /proiecto tua facta loquar. 57. Si ricordi che su un’analoga fiducia nel silenzio femminile si basa la condotta di celebri stupratori, come Sesto Tarquinio, il quale anzi minaccia Lucrezia di esporla proprio all’infamia per vincere le sue resistenze: cfr. Liv. 1.58.4 e Ov., Fast. 2.810. Come Filomena, anche Lucrezia, nel momento in cui denuncia l’accaduto, si trova davanti alla penosa necessità di dover rendere pubblico il proprio disonore (cfr., al v. 826, l’espressione usata per esprimere l’esitazione: eloquar infelix dedecus ipsa meum?).

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

221

Dalle Metamorfosi alla Progne è

Il più deciso intervento di Correr riguarda il primo movimento del racconto ovidiano, che è stato radicalmente alterato e svuotato di senso.

Basta leggere l’argumentum della tragedia per rendersene conto. In particolare, la sequenza della tessitura di Filomena è stata completamente abolita. A denunciare il delitto non è più la stessa virgo, che “scrive” nella tela la storia della sua sventura, ma uno dei servitori che accom-

pagnavano la ragazza, Pistus, sfuggito fortunosamente alla strage dei compagni di Filomena.5° È lui a raccontare a Progne la scena dello stupro, svolgendo le tradizionali funzioni di un nuntius senecano. Si tratta di un elemento della storia che non si trova, che io sappia, in nessun’altra fonte antica o medievale, e che non verrà più ripreso nemmeno nelle versioni teatrali successive della storia. Verosimilmente siamo di fronte a un’invenzione originale di Correr.9° E in ogni caso l’abolizione della sequenza in cui compare la tela costituisce una variazione che toglie alla vicenda l’elemento forse più ovidiano di tutto il racconto, non solo per quanto riguarda il suo collegamento con gli altri 58. Riporto il testo nell’edizione Casarsa 1981, p. 129: «Huic tragoediae titulus est Progne. Argumentum huiusmodi: Tereus, rex Thraciae, bellum Pandioni regi Athenarum intulerat. Demumque inter reges firmata pace convenerat, ut Tereus uxorem duceret Prognem, maiorem natu filiam Pandionis: hoc scilicet haud leve pacis stabilimentum rati, si mutua necessitudine devincerentur. Duxerat igitur Tereus Prognem. Natus erat Ythis, iam quinquennis puer. Progne (interim crescit desiderium Philomenae sororis, quae domi innupta erat) exorat coniugem, ut sibi eius visendae copiam faciat. It Tereus, impetrat a patre virginem. Navigant e Graecia, Thraciam deveniunt, urbi appropinquant. Amat Tereus, infert vim virgini; lacessitur convitiis, puellam elinguem facit, clausam servari iubet, comites eius necat, detur ut fallaciae locus. Solus Pistus, puellae alumnus, fuga eripitur. Ita, re gesta, Tereus ad Prognem venit, mentitur lacrimas, refert sororem, vi maris gravatam, defecisse.

Credidit Progne. Sed diu tantum scelus latere non potuit: venit sororis alumnus, omne scelus detegit. Forte tunc orgia Bacchi repetita triennia suadebant: more igitur sacri exit in silvas Progne, Bacchantes sequuntur. Deveniunt ad locum ubi servabatur Philomena, occiduntur custodes. Ducitur puella more sacrorum ornata. Furit Progne, per abominandum scelus ulciscitur: natum unicum interimit patrique epulandum ponit. Dictum autem poetice Tereum ex Marte genitum ob saeviciam bellorum et ex nimpha Bistonide, ab eo per vim oppressa. Fictum etiam Prognem conversam in hyrundinem, Philomenam in avem sui nominis, Tereum vero in uppupam, cuius facies cristata est, ut indicet regium caput. Vivit autem e stercore propter memoriam

comesi nati. Imitatur in hac tragoedia Senecam in Thieste, ut ibi Tantalus ab inferis veniens introducitur, ita hic Diomedes Thrax tyrannus». 59. Simmetrica a questa strage (un ulteriore gesto di crudeltà da parte di Tereo, che va ad aggiungersi a quelli del racconto tradizionale), è l’uccisione dei carcerieri di Filomena, con cui si può dire che inizi la vendetta di Progne (cfr. vv. 556 s.). 60. In una delle sue aggiunte autografe al codice Firenze, Bibl. Riccardiana, 721 (f 12r) Correr si preoccupava anche di riportare una spiegazione del significato del nome Pistus, riprendendola da un lemma del Catholicon di Johannes de Balbis de Janua («Pistis grece: latine dicitur fides»).

200:

Appendice

episodi del sesto libro, ma anche per quanto riguarda il suo significato profondo a livello culturale e letterario.9! Il risultato è invece l'aggiunta di una sequenza tipicamente senecana, in cui un messaggero racconta con toni patetici e agitati un crimine particolarmente ripu-

gnante. Riprodurre anche sulla scena quel momento della storia ovidiana era un’impresa difficile, ma non impossibile: altri drammaturghi non certo eccelsi sarebbero riusciti a inserire senza problemi anche questo episodio nelle loro tragedie.?* Non era dunque un banale problema di realizzazione scenica a scoraggiare Correr: tanto più che la sua Pro-

gne non era certo stata pensata per la scena. Il fatto è, più semplicemente, che Correr aveva interesse a ridurre al minimo lo spazio asse-

gnato al primo movimento della storia, per concentrarsi piuttosto sul secondo. Per motivi che possiamo subito cominciare ad individuare, Correr era piuttosto interessato ad approfondire la figura di vendicatrice di Progne e lo svolgimento del suo delitto, dando a questi elementi un carattere chiaramente ispirato alla scrittura senecana. Soffermarsi sui temi più strettamente connessi alla figura di Filomena avrebbe disperso l’attenzione che invece, nella tragedia, si va progressivamente focalizzando attorno all’ira della protagonista. 61. Fra i contributi più recenti, basterebbe ricordare Joplin 1984, Barkan 1986,

pp. 243-247 e Segal 1994. Per le diverse caratteristiche che la figura di Filomena assume nell’opera di Correr cfr. anche Casarsa 1980, pp. 130 s. Per valutare l’importanza del movimento centrato sulla scrittura di Filomela nella fabula ovidiana, può essere utile un confronto con la storia di Aedon e Chelidonis secondo la versione che ce ne dà Antonino Liberale nelle sue Metamorfosi (11). In questo racconto la tessitrice è Aedon (=Progne) che, con la sua abilità, suscita l’invidia del marito Poly-

technus (=Tereo). Spinto da questo sentimento, egli stupra la sorella di lei Chelidonis (=Filomela), ma non le taglia la lingua, le rasa la testa. Quindi dà la ragazza in dono alla moglie, che non riesce a riconoscerla, in quello stato. Chelidonis potrebbe allora rivelare quello che le è successo parlando, ma si vergogna, e solo per caso Aedon ascolta il racconto della sorella. La tela non è necessaria, in un intreccio del genere, perché, contrariamente alla Filomela ovidiana, la Chelidonis di Antonino non

ha alcuna intenzione di denunciare Polytechnus, e rimane all’interno di una cornice che risponde alla concezione maschile dello stupro, che per tenere nascosto il crimine approfitta del silenzio femminile. Sia il taglio della lingua che la tessitura della tela sono assenti anche da un’altra versione della storia di Progne (Hygin., Fab. XLV.2 s.). Queste due versioni, che secondo Halliday 1933, pp. 109-112 sarebbero «both Hellenistic and both compilations», mostrano il legame strutturale che unisce i due elementi narrativi: legame del tutto cancellato, in apparenza, da Correr. 62. Cfr. ad esempio la già citata Progne di Parabosco (atto III), dove la denuncia del delitto è realizzata unendo al racconto della mutilazione di Filomena, fat-

to dalla «Messaggiera», la “lettura” della tela (che svela a Progne lo stupro del marito). O ancora il dramma latino Philomela recitato il 29 dicembre del 1607 al St.

John's College di Oxford: nella scena V dell’atto III di questo dramma (vv. 24492475) Progne apprende il delitto del marito dalla lettura diretta del messaggio scritto sulla tela da Filomela (cfr. Richards 1982, p. 71).

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

225

L’altra notevole innovazione che Correr ha apportato alla storia riguarda il prologo, in cui compare fl fantasma di Diomede. Come Correr stesso dichiara alla fine dell’argumentum, l'ispirazione gli veniva dal prologo del Thyestes, in cui l’ombra di Tantalo viene richiamata dagli Inferi, per diffondere nella reggia di Micene, fra i suoi discendenti, lo stesso spirito delittuoso che aveva un giorno spinto il celebre dannato a offrire le carni del proprio figlio Pelope agli dèi. Anche nel caso di Diomede si tratta di creare le condizioni perché nella reggia tracia si ripeta un episodio cannibalesco. Il Thrax tyrannus, come lo chiama Correr, era celebre per aver dato in pasto ai propri cavalli i cadaveri dei suoi ospiti. Era stato Ercole a porre fine alla crudeltà di Diomede, sostituendo alla fine il corpo del re tracio a quello delle sue vittime, per nutrire un’ultima volta i cavalli di carne umana. Correr trovava vari accenni alla figura di Diomede nell’opera di Seneca, in Ovidio e nei repertori di mitologia, e forzando un po’ i dati ricostruiva una fantasiosa dinastia, che faceva del tiranno tracio un antenato di Tereo, a lui legato tramite la comune discendenza da Marte.®° Il richiamo alle imprese scellerate di Diomede diventa poi, lungo tutto il corso della tragedia, un motivo ricorrente, rispetto al quale viene misurata la mostruosità prima dello stupro di Tereo (vv. 450-2), e poi dell’inaudito delitto di Progne (vv. 866 e 920 s.). Nell’utilizzazione di questo motivo Correr dimostra un’insolita abilità: si può forse dire che questo sia lo spunto più originale e riuscito nella sua riscrittura dell’intreccio ovidiano. La stessa uccisione di Iti e lo scempio del suo corpo vengono ambientati proprio nelle stalle che un giorno erano sta63. Cfr. l’espressione ovidiana rex thracius e quella di Boccaccio regem Tracie (cfr. n. s.)

64. Cfr. Ov., Ib. 379 s.: Ut qui Threicii quondam praesepia regis / fecerunt dapibus sanguinolenta suis, (cfr. anche 401 s.); Met. 9. 194-196: Quid, cum Thracis equos humano sanguine pingues / plenaque corporibus laceris praesepia vidi / visaque deieci dominumque ipsosque peremi? Cfr. Sen., Tro. 1108 s. (cit. alla n. 66), Herc. fur. 226 s.: Quid stabula memorem dira Bistonii gregis / suisque regem pabulum armentis datum [...|?, Per altre menzioni della storia di Diomede in Seneca (registrate da Cloetta 1892, II, p. 165), cfr. Herc. fur. 1169 s., Agam. 842-847, Herc. Oet. 19 s., 1538-1540,

1789-1791,

1894-1898. Ctr. poi Boccaccio, Gen.

13.1.13 (che cita il passo dell’Hercules furens su riportato): «[...] Dyomedem regem Tracie, cui mos erat hospites suos occidere et iumentis suis in cibum apponere, ipse [scil. Hercules] superavit et occidit, et eisdem iumentis manducandum apposuit» (cfr. anche Hyg., Fab. XXX.9, Scoli ad Ibin 381 La Penna; cfr. inoltre Myth. Vat. 1.61 e 1.63 Kulcsar — con formulazioni molto vicine a quelle di Schol. ad Stat., Achill. 238 Sweeney, — e II Myth. Vat. 174 Kulesar (151 Bode) —con formulazioni molto vicine a quelle di Serv., ad Verg., Aen. 1.752, Lact. Plac., ad Stat., Theb. 6.346-8 e ad Stat., Theb. 12.156 Sweeney). 65. Per la discendenza di Diomede da Marte cfr. anche Hyg., Fab. CLIX e CCL.2. Hyg., Fab. XLV.1, CCXXXIX.1 e CCXLVI.1 definisce anche Tereo Martis filius (ma qui non si stabiliscono legami di discendenza con Diomede).

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te lo scenario dei delitti di Diomede, e dove ancora continuavano ad

aggirarsi le ombre delle vittime di un tempo (vv. 875-890).56 Un’altra significativa variazione della fabula ovidiana riguarda la figura di Tereo. Ovidio ce lo presenta inizialmente come il celebre guerriero trace, figlio di Marte, che salva il re ateniese Pandione dall’assedio di non meglio identificati barbara agmina (vv. 422-428). Come ricompensa per l’aiuto militare Tereo riceve in matrimonio Progne, e la sposa sotto i peggiori auspici. Solo progressivamente, nel testo ovidiano, la figura di Tereo si va precisando come quella di un rex, di un tyrannus barbaro, trascinato da un’innata libido (v. 458). Nella Pro-

gne, invece, questi tratti tirannici della figura di Tereo vengono non solo presentati sin dall’inizio, ma anche sensibilmente aggravati da alcuni particolari secondari dell’intreccio. La cosa è evidente già nella presentazione della vicenda che si trova nell’Argumentum: «Tereus, rex Thraciae, bellum Pandioni regi Athenarum intulerat. Demumque inter reges firmata pace convenerat, ut Tereus uxorem duceret Prognem, maiorem natu filiam Pandionis: hoc scilicet haud leve pacis stabilimentum rati, si mutua necessitudine devincerentur».

Dunque per Correr Tereo è nemico e non alleato di Pandione, e il suo matrimonio è un gesto che ratifica un accordo di pace. Stavolta non si tratta di un’originale modificazione del racconto ovidiano: Correr la trovava nel già citato capitolo boccacciano delle Genealogie (9.8.1),9” dove si dice: «Cum fatigasset Thereus bello Pandionem Athenarum regem, et in pacem tandem venisset, ut firmior esset,

Prognem eius filiam, natu maiorem, sumpsit glio non resta relegato nel prologo, ma viene dia, quando Tereo fa la sua comparsa in scena, te e vantando la propria forza, che fa tremare

in coniugem». Il dettasviluppato nella trageinvocando il padre Mari popoli (vv. 143-147):

Tremiscunt ultimi vires meas Thraces et omnis regio glacialis poli me me tremiscit; arma Cecropidae mea

timuere. Nata vixque Pandion socer pacem impetravit.

Indicando la fonte boccacciana dell’innovazione, Casarsa nota giustamente: «La diversa situazione consente all’autore di rendere il 66. In questo non è improbabile che Correr seguisse lo spunto che trovava nel passo delle Troades di Seneca (1108 s.), dove Andromaca lamenta che neppure Diomede si era macchiato di un infanticidio come quello del piccolo Astianatte (ucciso da Ulisse a sangue freddo): nec parva gregibus membra Diomedes suis / epulanda posuit (poco prima, vv. 1104 s., la stessa Andromaca aveva detto che nessun abitante della Colchide o della Scizia avrebbe mai commesso

un delitto simile).

67. Le citazioni delle Genealogie sono tratte dall’edizione di Zaccaria 1998, I, pp. 910-915.

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

pIS

protagonista maschile più odioso e perfido agli occhi della moglie». Più in generale, possiamo anche dire che questo tratto serva ad accrescere da un lato l’aspetto ostile e aggressivo del personaggio; dall’altro l’inimicizia sempre latente fra la famiglia del re di Atene e il guerriero barbaro. In questo senso il motivo viene anche efficacemente sviluppato, soprattutto ai vv. 473-478, dove Progne indica appunto nella natura dei rapporti fra Pandione e Tereo l’origine delle proprie sventure (e il carattere infausto delle proprie nozze).9? Non si tratta dell’unico particolare della storia ovidiana che Correr ha mutato seguendo Boccaccio. Se leggiamo l’Argumentum della Progne, infatti, troviamo almeno sei particolari che derivano dal racconto delle Genealogie: 1. l’ostilità di Tereo che ho appena illustrato; 2. l’indicazione (per quanto sia ovvia) del fatto che Progne era la maggiore delle figlie di Pandione, che non si trova esplicitata in Ovidio; 3. l’indicazione della causa della presunta morte di Filomena (il mal di mare), che non compare in Ovidio e in nessun’altra fonte antica a me nota; 4. l’interpretazione “poetica” del fatto che Tereo è detto figlio di Marte, e l'indicazione della madre, una ninfa Bistonide violentata dal dio. Entrambi i particolari sono sconosciuti tanto a Ovidio quanto alle fonti antiche;”!

68. Casarsa 1981, pp. 168 s., n. 48 (cfr. p. 170, n. 88): cfr. anche Casarsa 1980, p. 129. 69. «Speranda iam tum scelera, cum hosti barbaro / sociata cessi. Superat hic animus sibi. / Utinam dehiscens tellus hoc olim caput / mersisset orco, bella cum primum intulit / iuvenis protervus! Pacis heu pignus fui, / ut hoc viderem facinus! In thalamis meis / cruenta Erynnis crine vipereo stetit». Il motivo delle nozze infauste (su cui cfr. supra, pp. 138 s.) viene adattato efficacemente, in questo caso, da Correr alla particolare impostazione “boccacciana” del suo racconto. 70. «Vi maris gravatam»: cfr. Boccaccio Gen. 9.8.1: «maris nausea mortuam». 71. «Dictum autem poetice Tereum ex Marte genitum, ob saeviciam bellorum et ex nimpha Bistonide, ab eo per vim oppressa»: cfr. Boccaccio Gen. 9.8.1: «Thereus rex Tracum fuit, et, ut ait Theodontius, filius fuit Martis ex nynpha Bistonide

per vim ab eo oppressa». In realtà Boccaccio, fondandosi sull’autorità di Barlaam, precisa (par. 3) che Tereo era figlio di Astogiri, re dei Bistoni, e che il serzsus della fictio che ne faceva un figlio di Marte stava semplicemente nel suo essere «homo impius et ferox, nil nisi per bellum cupiens aut sumens». Va detto anche che questa caratterizzazione di Tereo come figlio di uno stupro non viene ulteriormente sviluppata nel corso della tragedia di Correr. Il suo atto di violenza nei confronti di Filomena non viene mai presentato, ad esempio, come la replica di quello che gli aveva dato la vita. Piuttosto, come abbiamo detto, sia Filomena che Procne paragonano Tereo al suo “antenato” Diomede (cfr. vv. 409 s. e 450 s.). Molto di quanto Boccaccio scrive nella sua allegoria di questa storia (in particolare a proposito delle trasformazioni dei personaggi) non ha riscontro nelle altre fonti precedenti, sia antiche che medievali. In particolare, la notizia relativa alla trasformazione di Iti in un carduelis (Gen. 9.9) è assolutamente priva di paralleli (in Servio e in ‘Lattanzio Placido” si dice che

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S. la precisazione degli uccelli in cui sono trasformate le due sorelle,” e in particolare l’etimologia del nome di Filomena («Philomena in avem sui nominis» ),”}

6. l’interpretazione della trasformazione di Tereo in upupa.”*

Tutti questi dettagli, come abbiamo detto, compaiono nell’ Argumentum, dov'è chiaro che Correr ha seguito molto da vicino il dettaIti era stato trasformato in un fagiano). Dato che in questo caso Barlaam è l’auctoritas a cui si richiama l’intera sezione “allegorica” (forse attraverso l’opera di Paolo da Perugia), potrebbe trattarsi di una invenzione del monaco calabrese, che forse rielaborava motivi folklorici greci o dell’Italia meridionale (per analoghe ipotesi su alcune informazioni relative a origini mitiche italiche basate sull’autorità di Paolo da Perugia e/o di Teodonzio, cfr. Jocelyn 1993). 72. In Ovidio l’indicazione è imprecisa, e a prima vista sembrerebbe possibile pensare che sia Progne ad essere trasformata in usignolo, come accade in varie

fonti, anche romane, che dipendono da una tradizione differente (su tutta la questione basti cfr. Bòomer 1976, pp. 177 s.). In realtà, però, non è verosimile che Ovidio pensasse a una soluzione del genere: tutte le occasioni in cui, nelle altre sue opere, fa riferimento alla trasformazione delle due donne, Procne è la rondine e Filomela l’usignolo. Contrariamente a quanto pensa Bòmer, loc. cit., i due passi dei Tristia (2.390 e 5.1.60) in cui si parla di un uccello (una «Procne») querulo, che piange la morte di Iti, non sono necessariamente da interpretare come riferimenti all’usignolo (cfr. Luck 1977, p. 136 ad Ov., Trist. 2.389 s.). 73. «Fictum etiam Prognem conversam in hyrundinem, Philomenam in avem sui nominis»: cfr. Boccaccio Gen. 9.8.2: «[...] factum est miseratione deorum ut Prognes in hirundinem verteretur [...] Altera vero, in avem sui nominis mutata [...]». Quest’ultimo dettaglio riflette un uso linguistico che è tipico del Medioevo. La preferenza per il termine «philomena» (invece che luscirzia) come nome dell’usignolo sembra piuttosto comune in epoca medievale: cfr. Pfeffer 1985, pp. 1-6. Ma cfr. già Verg., Georg. 4.511. La stessa grafia del nome («philomena», invece che philomela) usata da Correr è tipicamente medievale (la si ritrova anche di frequente nei codici ovidiani). 74. «Tereum vero in uppupam [sci/. conversum] cuius facies cristata est, ut indicet regium caput. Vivit autem e stercore propter memoriam comesi nati»: cfr. Boccaccio, Gen. 9.8.3: «Thereum autem ideo in upupam versum dixere, quia et cristata sit avis, [...] et stercora cibus, ut per cristam insigne regii capitis designetur, [...] et per fetidum cibum aspernanda atque fastidiosa memoria comesti nati». Quest’interpretazione dipende da informazioni che Boccaccio doveva aver ricavato da fonti tarde (Plin., N. H. 1086 e Isid., Etym. 12.7.66 [= Hier., in Zachar. 25] non forniscono tutte le notizie necessarie per mettere insieme una nota come quella di Boccaccio). In una diversa prospettiva, le presunte abitudini coprologiche dell’upupa sono menzionate anche nelle moralizzazioni ovidiane di Bersuire (cfr. Bersuire 1509, Fo. LII v, cfr. Ghisalberti 1933, p. 126), come pure nell’Ovide moralisé (VI.3709-3718 e 3824 ss., De Boer 1920, pp. 366-369) e nell’Ovide moralisé en prose (De Boer 1954, p. 198). L’interpretazione della trasformazione di Tereo più simile a quella che stiamo commentando si trova nel commento di Giovanni del Virgilio alle Metamorphoses, ma questa è l’unica spiegazione allegorica della storia di Progne che trova corrispondenza nella fabula di Boccaccio («Sed Thereus quia fetidissimum peccatum commisit ideo dicitur conversus in upupuam cristatam et stercoribus manentem quia ille cum esset rex et coronam gereret, sicut upupa, incestuosa libidine usus est violata uxoris sorore»: cfr. Ghisalberti 1933a, p. 74). Qualche ulteriore informazione poteva venire a Boccaccio da materiali greci noti a Barlaam (cfr. supra, n. 71).

Riscrivere Progne: Correr, Ovidio e Seneca

VISTA

to stesso del capitolo boccacciano.”' A prima vista si potrebbe credere che Correr abbia utilizzato Boccaccio per comodità, per avere sott'occhio una traccia su cui impostare il suo Argumentum,” indipendentemente dall’effettiva costruzione del suo intreccio. Ma se si considera più da vicino la portata delle innovazioni introdotte nello schema del racconto ovidiano sulla scorta del testo di Boccaccio si deve concludere che non è così.” In realtà la lettura boccaccianaè quella su cui Correr ha in parte pensato alcuni punti dell’intreccio della sua opera: è lì infatti che trovava particolari importanti per lo svolgimento dell’azione, che mancavano nel testo ovidiano (il mal di mare, causa della presunta morte di Filomena, la caratterizzazione di Tereo come guerriero tirannico ostile a Pandione). È su questo canovaccio che Correr ha fatto le sue ulteriori aggiunte (Diomede) e sottrazioni (la sequenza della tela, che già in Boccaccio è sensibilmente ridotta). E certo merita di essere segnalata 75. Cfr. Onorato 1991, p. 121 e n. 2. Non è improbabile l’ipotesi proposta da Onorato, secondo cui l’Argumentum dell’editio princeps (di cui si è detto supra, pp. 210 s.) sarebbe da attribuire a una redazione originaria, poi rivista nelle redazioni successive, che ci sono testimoniate dai manoscritti. Si tratta infatti di

una redazione estremamente vicina a quella di Genealogie 9.8. Nel caso in cui si fosse trattato di una rielaborazione dell’ Argumentum del Correr realizzata da Ricci, invece, bisognerebbe arrivare alla meno probabile conclusione secondo cui il professore padovano sarebbe risalito lui alla fonte boccacciana, riproducendola più fedelmente di quanto non avesse fatto già a suo tempo l’autore. 76. Così ad esempio sembrerebbe intendere Casarsa 1981, p. 115: «Risponde a esigenze scolastiche anche l’aggiunta dell’ Argumentum e dei Genera metrorum scritti dal Correr e inseriti nel codice già confezionato» (il riferimento è ai ff. 1-2, autografi, del codice Firenze, Biblioteca Riccardiana, 721).

77. La cosa non stupisce, se si considera l’importanza che l’opera di Boccaccio doveva ancora avere a quell’epoca. Non è difficile rintracciare significative tracce di interesse per le Gerealogie nel circolo di Vittorino da Feltre, il quale ancora nel 1434 cercava con particolare insistenza di procurarsi un manoscritto dell’opera (cfr. Luzio 1888, pp. 338 s.). Vittorino raccomandava anche esplicitamente la lettura tanto delle Metamorfosi quanto delle tragedie di Seneca, come del resto anche gli altri umanisti che scrissero di pedagogia (cfr. Woodward 1905, pp. 47, 151, 170 e 215). È ovvio che Correr utilizzasse gli strumenti culturali che gli venivano dalla sua formazione alla Giocosa. Si tratta di un approccio comprensibile, in questa prima fase dell’umanesimo. Non molto diversamente, una cinquantina di anni prima di Correr un pioniere (e “allievo” di Boccaccio) come Coluccio Salutati, nel suo De laboribus Herculis, usava le Genealogie di Boccaccio fra le fonti principali delle sue conoscenze mitologiche accanto a Ovidio. Per avere un’idea del valore attribuito da Coluccio a questo lavoro, si può cfr. la sua lettera del 24 dicembre 1375 a Francescuolo da Brossano, in morte di Boccaccio (III, 25): nelle Genealogie Boccaccio avrebbe realizzato un’opera tale «ut omnes etiam priscos viros huius rei indagine superarit», III, p. 226 Novati). Sull’importanza delle Genealogie di Boccaccio per la conoscenza del mito antico nei secoli XIV e XV cfr. Guthmiiller 1986, pp. 21-33. 78. 9.8.1: due righe scarse! Appare piuttosto significativo che, nei passi di Tortelli citati supra, n. 8, compaia un “analoga mistione di elementi ovidiani e boccacciani. Tortelli, ad esempio, alla v. «Philomena» (cc. 222 r-v dell’ediz. citata supra, n. 8) ricorda il taglio della lingua, ma non fa alcuna menzione della tela di Filomena.

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Appendice

l'importante funzione di filtro che un’opera come quella di Boccaccio esercitava ancora sulla fabula delle Metamorfosi, anche “in presenza”,

per così dire, dell’originale ovidiano.?° La Procne di Ovidio in una tragedia senecana Dunque le principali innovazioni che Correr ha apportato all’intreccio ovidiano tendono a trasferirlo nello stampo abbastanza irrigidito di un’altra forma “classica”: quella della tragedia senecana. In questo senso vanno sia l’introduzione del fantasma iniziale o l’accentuazione dei tratti violenti nella figura del tiranno Tereo; sia, soprattutto, la

semplificazione della vicenda, che ridimensiona l’importanza del movimento incentrato sulla figura di Filomena, per sviluppare invece la parte in cui prevale il personaggio di Progne. In generale possiamo dire che il racconto ovidiano sia stato drasticamente ridotto a una storia esclusivamente incentrata sul gesto estremo di una donna che, in preda all’ira, cerca con la propria vendetta di superare l’efferatezza dello stupro commesso dal marito ai danni della propria sorella. Alla complessa rete di significati culturali implicati nel discorso ovidiano Correr ha semplicemente sostituito la logica senecana di una vendetta che ripaga un torto subito con un delitto ancora più grande. Non c’è spazio possibile, nella sua opera, per i dettagli raffinati della narrazione ovidiana. Basterebbe ricordare il celebre silenzio di Progne che, dopo aver letto il messaggio contenuto nella tela, Questo elemento però potrebbe essere dovuto solo all’impostazione particolarmente essenziale della voce. Nella ben più ampia voce «Tereus» (cc. 287v-288r), infatti, Tortelli ricorda la sequenza della tela. È proprio in questa voce, però, che compaiono chiaramente dettagli analoghi a quelli presenti nel racconto di Boccaccio. Tortelli infatti afferma che Tereo era figlio di Marte «ex Bistonide Nympha» (sebbene attribuisca la notizia a Callimaco), e che avrebbe attribuito la causa della presunta morte di Filomela «maris nausea». Come altri umanisti che raccontano la storia di Procne, anche Tortelli aggiunge alla storia un particolare che poteva leggere nelle Narrationes dello pseudo-Lattanzio Placido, e cioè la trasformazione di Iti in fagiano: un particolare che risale a uno scolio di Servio, ad Verg., Ecl. 6.78 (scolio che viene interamente riprodotto sia in Myth. Vat. I.4 che in Myth. Vat. II.261 Kulesar (217 Bode)). 79. Lo stesso originale ovidiano, del resto, doveva anche per Correr essere arricchito dagli apparati di letture di contorno che lo hanno accompagnato dal Medioevo fin nelle prime edizioni a stampa. Un caso abbastanza evidente a me pare quello del v. 1044, dove l’espressione scelere vicisti scelus, usata da Tereo per rimproverare a Progne di essere stata ancora più crudele di Medea, sembra essere stata ripresa direttamente dalle Narrationes fabularum ovidianarum del cosiddetto Lattanzio Placido: Tereus cum intellexisset scelus scelere victum, coniugem et sororem coniugis dum persequeretur [...]. Questa, almeno, è la versione riportata da Hunt 1925, p. 47: nella versione delle Narrationes pubblicata invece da Magnus 1914, a p. 665 si legge: Tereus cum intellexisset scelus scelere ultum esse, coniu-

gem et sororem dum persequitur.

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reprime il proprio dolore in una tensione già carica della terribile vendetta imminente.8° All’annuncio dell’accaduto la Progne di Correr deve subito esplodere nelle più tradizionali grida tipiche delle eroine senecane in preda all’ira.8! Si tratta di adattamenti in bupna parte ovvi. Anche un autore come Correr, che di fatto è uno dei primi sperimentatori della forma tragica moderna, doveva “senecanizzare” la storia tratta da Ovidio per poterla inserire nel contesto letterario di un testo drammatico.8 A spingerlo in questa direzione era non solo la ben nota predominanza di cui il modello senecano ha goduto nella cultura europea, come assoluta “autorità” classica del genere tragico, fino a tempi piuttosto recenti.* La forte compatibilità fra la storia di Progne raccontata da Ovidio e alcune di quelle messe in scena da Seneca si può fare risalire al debito che, come abbiamo visto, lo stesso Seneca tragico dimostra di avere rispetto alla scrittura ovidiana. Nel caso specifico, l’importanza assolutamente centrale che il modello ovidiano riveste nella costruzione del Thyestes basterebbe a spiegare perché uno scrittore come Correr trovasse naturale e appropriato trasferire il racconto ovidiano di Progne e Filomena nello stampo delle forme tragiche senecane.8* Un analogo discorso si potrebbe fare per la Medea di Seneca, anch’essa legata, come abbiamo visto, da una fitta trama di nessi intertestuali tanto al Thyestes quanto al sesto libro delle Metamorfosi ovidiane. Su questi nessi ci siamo soffermati in precedenza, e non è necessario ritornare a illustrar-

li adesso. Inserendosi in questa complessa rete di rapporti letterari, Correr non ha fatto altro che esplicitare sistematicamente le analogie tematiche e strutturali fra i suoi testi di riferimento. In generale potremmo dire che il disegno del mosaico messo assieme da Correr è dato dal rac80. Ov., Met. 6.582-586: [...] carmen miserabile legit / et (mirum potuisse)

silet: dolor ora repressit, / verbaque quaerenti satis indignantia linguae / defuerunt, nec flere vacat, sed fasque nefasque / confusura ruit, poenaeque in imagine tota est.

81. Cfr. vv. 450-454: «O machinator fraudis! O crudelior / Diomede Thraco (sanguinis verus parens / ille est nefandi)! Siccine obtendis dolo / commenta mortis funera? Ft tantum nefas / speras inultum?» 82. E tuttavia bisogna sottolineare come la tragedia di Correr sia sensibilmente diversa dai modelli precedenti, in una direzione che apre la strada alla tragedia del secolo successivo. Come ha giustamente osservato Creizenach 1893, p. 523: «Hier zeigt sich [...] zum erstenmal eine Tendenz, die spaàterhin in der Renaissance-Litteratur so hàufig wiederkehrt, nàmlich die, das Tragische vor allem in der

Anhaufung unnatirlicher Greuelthaten zu suchen». 83. Sull’indiscussa autorità del modello senecano per il teatro tragico, fino alla prima metà del XVIII secolo e oltre, cfr. Flashar 1984, pp. 11-48. 84. Cfr. supra, pp. 75-79. Del resto, nel corpus di Seneca tragico l’“ovidiana” vicenda tragica di Progne viene menzionata anche in varie altre occasioni (un elenco dei passi in Cloetta 1892, II, p. 165).

85. Cfr. supra, pp. 75-83 e 132 s.

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Appendice

conto di Ovidio. A livello strutturale questo disegno viene da un lato corretto in una serie di particolari tratti-dalla fabula di Boccaccio, dall’altro viene drasticamente semplificato, allo scopo di adattare la vicenda al letto di Procuste di una prospettiva “senecana”.8° Concretamente, però, le varie tessere di cui questo mosaico si compone sono

tratte prevalentemente dal Thyestes e dalla Medea di Seneca. È infatti più che altro da questi due modelli senecani che Correr trae la sua ispirazione stilistica. La sua Progne parla ora come Atreo ora come Medea: più volte, anzi, Correr ha tentato chiaramente di fondere assieme, nelle parole della sua eroina, atteggiamenti ed espressioni tipici di entrambi i personaggi senecani. Gli esempi possibili per illustrare questo procedimento sarebbero troppi, e non meritano nemmeno di essere passati in rassegna.8” L’imitazione di Correr è infatti molto scolastica, e spesso si riduce alla semplice riproduzione di versi tratti di peso dalla Medea e dal Tieste. Mi limiterò a due soli casi, particolarmente istruttivi. Il primo è costituito da un passo in cui Progne, in cerca di un modello per la sua vendetta imminente, si rivolge al delitto di Medea, usando un tono e un lessico molto vicini a quelli tanto dell’Atreo che della stessa Medea senecani (vv. 697-703):83 Discede pietas. Prima concipiam nefas, quod omnis aetas horreat.*? Post me pia sit nulla mater. Hoc sed est etiam parum. Medea Colchis caede puerili manus 86. Fra i vari esempi possibili per illustrare queste correzioni dell’intreccio ovidiano, merita di essere sottolineata una variazione che Correr apporta ad esso, in modo da consolidare la somiglianza con la Medea di Seneca. Nel sesto libro delle Metamorfosi, l’idea del delitto viene a Progne quando per caso vede passare il figlioletto Iti, che le ricorda così da vicino Tereo (vv. 619-623: Peragit dum talia Procne, / ad matrem veniebat Itys: quid possit, ab illo / admonita est oculisque tuens inmitibus ‘a, quam / es similis patri!” dixit nec plura locuta / triste parat facinus tacitaque exaestuat ira). Nella Progne, invece, l’idea dell’infanticidio viene risvegliata casualmente nella donna, durante il dialogo con la nutrice (vv. 660-665: «NVT. [...] Si nil movet te, respice at gnatum, parens! / PRO. At qui sororem? lam ipsa cum gnato patrem / cremabo flammis [...] /Omnis eruam stirpis notas, / super ipsa iaciar». Il progetto viene poi delineandosi ai vv. 681-717). Questa impostazione della scena richiama molto da vicino le circostanze in cui la Medea senecana sviluppa l’idea del suo delitto, a cominciare dal momento in cui l’esortazione di Giasone a preoccuparsi dei figli scatena nella donna un totale rifiuto della propria maternità (vv. 506 s.). 87. Lo diceva già Cloetta 1892, II, p. 191. Oltretutto, come osservava Creizenach 1893, p. 524, lo spirito imitativo di Correr nei confronti di Seneca è estremamente pervasivo: «Auch da, wo keine direkten Entlehnungen stattfinden, zeigt sich Corraro bestrebt, aus dem Geist Senecas herauszudichten, seine Effektmittel selbstàndig nachzubilden». 88. Sul tema del delitto maius solito cfr. Ov., Met. 6.618 s., Epist. 12.212, Sen., Thy. 266-8, Med. 674 s. (cfr. supra, pp. 75-77). 89. Cfr. Thy. 249 s. e 192 s.

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maculavit; addam maius huic sceleri scelus! Magnum est quod animus fluctuat, quid sit tamen ignoro.

Con una mossa che istituisce un esplicito legame fra tutte le vicende di cui ci stiamo occupando, Progne si propone di ripetere e perfezionare il crimine di Medea:”° e in questo modo fa sì che il suo crimine, che come abbiamo visto sarà poi destinato ad essere imitato dall’Atreo senecano, contenga già in sé, per così dire, il delitto di Medea. A livello mitico, il personaggio di Medea viene individuato come auctor dell’infanticidio, cioè del delitto che costituisce la base della ven-

detta tanto di Progne quanto di Atreo (che a sua volta si ispira a Progne). A livello letterario, invece, Correr non fa altro che rimandare alle due tragedie di Seneca e, tramite esse, alle Metamorfosi di Ovidio. Il secondo esempio riguarda il finale della tragedia, in cui la protagonista gioisce per aver raggiunto lo scopo della sua vendetta. Il motivo è ancora una volta tratto dalle due tragedie senecane, nelle quali, come abbiamo visto, le vendette di Atreo e di Medea sono costruite in modo analogo. In entrambi i casi, dopo aver portato a termine i loro misfatti, idue personaggi senecani si vantano di aver riconquistato tutto ciò di cui erano stati privati dai torti che avevano subito dai propri nemici.?! È utile tornare a riportare questi due passi, su cui ci siamo già ampiamente soffermati in precedenza. Di fronte al dolore del fratello Atreo dice di aver finalmente recuperato la purezza del proprio letto nuziale e l’identità certa dei suoi figli, turbati dall’adulterio del fratello (Sen., Thy. vv. 1096-1099): Nunc meas laudo manus,

nunc parta vera est palma. Perdideram scelus, nisi sic doleres. Liberos nasci mihi nunc credo, castis nunc fidem reddi toris.

Medea, invece, dopo aver ucciso il primo dei suoi figli, afferma di aver recuperato tutto ciò che aveva sacrificato per amore di Giasone, la sua condizione regale, il vello d’oro, la sua verginità e il fratello Apsirto (Sen., Med. 982-984): lam iam recepi sceptra germanum patrem,

spoliumque Colchi pecudis auratae tenent; rediere regna, rapta virginitas redit.

Correr fonde in un’unica espressione i due gridi di vittoria degli eroi senecani (Progne, vv. 1022-1024): 90. Per un’analoga associazione del proprio delitto a quello di Medea e a quello di Progne, cfr. le parole di Deianira nell’ Hercules Oetaeus, citato supra, n. 30. 91. Cfr. supra, pp. 65-67 e 153 s.

297)

Appendice

lam summa voti contigi: Tereus dolet. Nunc restitutum credo germanae penitus

raptum pudorem, nunc meis thalamis fidem.

Lo sforzo imitativo ha qui finito per prendere la mano al poeta. Come in varie altre occasioni, infatti, l’utilizzazione dei passi seneca-

ni non sembra particolarmente pertinente. Non stupisce certo il fatto che Correr non sia riuscito a cogliere alcuni temi impliciti nella costruzione delle trame senecane. Ad esempio il significato culturale che Seneca attribuiva al meccanismo della vendetta” viene sostanzialmente ignorato da Correr: e questo sarebbe comprensibile perché, come abbiamo visto in precedenza,” è la stessa logica della vendetta che cambia, se si passa dal contesto senecano a quello delle società medievali o rinascimentali. Nel caso di Correr, però, si evidenziano i segni di un certo impaccio: quasi che la scarsa confidenza col modello tragico antico avesse finito per spingere fuori strada l’autore, il quale, riprendendo un po’ meccanicamente gli spunti senecani, non è stato capace di armonizzarli rispetto alle stesse coordinate dell’intreccio. Da un lato, infatti, mentre con la sua vendetta l’Atreo di Seneca ha davvero consolidato l’identità dei propri figli, la Progne di Correr non recupera affatto la fedeltà di un matrimonio che anzi ha definitivamente troncato. Dall'altro, mentre Medea, cancellando ogni legame con Giasone, si può illudere di essere tornata alla sua condizione di un tempo, Progne non può dire certo di aver ridato alla sorella quel che Tereo le ha tolto.” Tuttavia questo era probabilmente un aspetto solo secondario nella prospettiva scolastica di Correr. Quel che contava era che le forme letterarie venissero rispettate, e che il linguaggio dell’eroina irata riproducesse fedelmente quello dei suoi modelli letterari più importanti. Il racconto delle Metamorfosi era stato ridotto alla semplice ossatura di una tipica vendetta tragica: e in questa cornice bastava che Progne ripetesse le formule più tipiche dell’Atreo e della Medea di Seneca perché l'esercizio dell’allievo di Vittorino da Feltre potesse dirsi riuscito.

92. Un analogo discorso si potrebbe fare a proposito della cancellazione di un motivo centrale, come quello già illustrato (cfr. supra, pp. 221-223) della tela usata dalla Filomela ovidiana per denunziare lo stupro subito. 93. Cfr. supra, Introduzione e pp. 193-196. 94. Tant'è vero che lo stesso Correr si sente in dovere di aggiungere un goffissimo verso, in cui cerca di adattare a questo schema anche la perdita della lingua subita da Filomena (vv. 1025 s.: «Erepta ferro lingua nil curo, miserum / dum muta videat»).

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Riferimenti bibliografici

INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E DEI PASSI CITATI

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100

Demostene

Apuleio

59236e41i6ni

Metamorphoses, 5.18.2 : 94 n.; 8.22 :100 n.

Aristotele Ars Rbetorica, 1378a, 30 ss. : 13 n.

Ennio

Annales, 125-126 Skutsch (= 138139 Vahlen?) : 94 Erodoto

Antifonte fr. 131 Blass : 111 n.

Apollonio Rodio 295-1007125

0.;:4:1164 : 112 n.

Catullo 61, 209-218 : 64

RE

Eschilo Agamemnon, 123-124 : 57 n.; 154155 : 43 n.; 906-907 : 57 n.; 12231225 : 41 n.; 1470 : 57 n.; 15651566 : 36 n. Coephoroi, 1075-1076 : 41 n.

Passiones acutae, 2.180 : 92 n.

Esiodo Opera et dies, 182 : 63 n.; 235 : 63

Celso

n. Scholia vetera ad 182 : 63 n.

Celio Aureliano

451044 :92'n.:4.14.1: 92.n,; 4.18.1:92 n. Cicerone Ad Atticum, 6.1.8 : 93 n.

Ad Quintum fratrem, 1.3.7 : 88 n. De domo sua, 9.23 : 88 n.3 47.124: 88 n.

Euripide Heracles, 838-842 : 20 n.; 1308-1310: 20 n. Medea, 16 : 110 n.; 36: 116 n.; 88:

117 n.; 92-93 : 116 n.; 112-117: ia 139x110 252-258, 112 n.;256 : 114; 381-383 : 12 n.; 259

Sea ins 70%798 12 792-796 : 119; 803-809 : 120; 1244-1250 : 122; 1354 : 120 n.; 1368 : 120 n.; 1394 : 118 n.; 1397: 121 n.; 1401-1402 : 121 n.; 17571763: 189 n =

Ovidio