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Italian Pages 192 [193] Year 2009
Biblioteca di Cultura Moderna 1171
Mario De Caro
Il libero arbitrio Una introduzione
Editori Laterza
© 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004 Quarta edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2011 Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7183-9
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
Premessa
In questo saggio sono condensati i risultati di vari anni di letture, riflessioni e conversazioni sui temi della libertà e della responsabilità e, più in generale, sul posto che gli agenti occupano nel mondo della natura. Molte, ovviamente, sono le persone verso le quali sono in debito. Sono grato in particolare a Giacomo Marramao, per il prezioso sostegno che mi ha offerto in questi anni e per le molte proficue discussioni sui temi qui trattati. Ringrazio poi Rosaria Egidi per l’assidua partecipazione con cui ha seguito il mio lavoro e per l’accurata lettura del dattiloscritto di questo libro. Anche Nicola Ciprotti, Gaspare De Caro, Massimo Marraffa e Giulia Raymondi hanno letto il dattiloscritto, offrendo suggerimenti preziosi di cui sono loro riconoscente. Per le utili discussioni sugli argomenti affrontati in questo libro ringrazio inoltre Robert Audi, Akeel Bilgrami, Ian Carter, Felice Cimatti, Cesare Cozzo, Donald Davidson, Massimo Dell’Utri, Michele Di Francesco, Mauro Dorato, Sandro Ferrara, Francesco Ferretti, Daniele Gambarara, Erin Kelly, Roberta Lanfredini, David Macarthur, Sebastiano Maffettone, Tito Magri, Elio Matassi, Sandro Nannini, Paolo Parrini, Roberto Pujia, Hilary Putnam, Mario Ricciardi, Peter van Inwagen, Paolo Virno, Stephen White. Questo libro è frutto di una ricerca condotta in parte negli Stati Uniti, presso il Massachusetts Institute of Technology, la Harvard University, la Tutfs University e il Saint Mary’s College (Notre Dame). Per i finanziamenti che hanno reso possibili tali soggiorni di studio ringrazio il Dipartimento di Filosofia dell’Università Roma Tre e la J. William Fulbright Foreign Scholarship Board.
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Il libero arbitrio
Avvertenza Per le citazioni da opere straniere ho usato, ove presenti, le traduzioni riportate in Bibliografia (salvo alcune eccezioni rilevate in nota). Il numero di pagina riportato in nota, ove in Bibliografia sia segnalata l’edizione italiana, si riferisce a quest’ultima.
Introduzione
Un mistero filosofico
La libertà è un concetto vago. Otto von Bismarck
1. La libertà umana: ovvietà o enigma? Tra le eccelse doti intellettuali del dottor Samuel Johnson, la sensibilità filosofica non aveva particolare preminenza. Come ci racconta il fido Boswell, un giorno il famoso dottore pensò di liquidare la veneranda controversia sul libero arbitrio prendendo a calci un ciottolo e chiosando cotanto gesto con le fatidiche parole: «Noi sappiamo di avere il libero arbitrio, e non c’è altro da dire»1. Ciò facendo, peraltro, il dottor Johnson dava voce a una nitida intuizione del senso comune, per la quale è semplicemente ovvio che noi godiamo della libertà. Secondo questa intuizione, non c’è dubbio che noi controlliamo, in molti casi, le scelte e le azioni che compiamo, che di esse portiamo la responsabilità e che, dunque, possiamo dirci arbitri del nostro destino. Anche alcuni filosofi, peraltro, hanno dato voce a tale intuizione. Tra questi, ad esempio, Cartesio: È così evidente che noi abbiamo una volontà libera, che può dare il suo consenso o negarlo, quando le piace, che questa può essere considerata una delle nostre più comuni nozioni2. Boswell (1791, vol. 2, p. 453; trad. modificata). Cartesio (1644, p. 41). Va notato, peraltro, che alla presunta nitidezza dell’intuizione non corrispose, nel sistema cartesiano, una sistematizzazione semplice, né del tutto coerente, del concetto di libero arbitrio. Sulla concezione cartesiana si veda Mori (2001), che è in generale un’ottima presentazione del dibattito sul libero arbitrio dal punto di vista storico. 1 2
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Per la maggior parte dei filosofi però, le cose stanno diversamente. Da secoli una diatriba infuria attorno alla possibilità della libertà umana e alle molte, fosche minacce che sembrano incombere su essa: dalla prescienza e dalla provvidenza divine alle ubique leggi del mondo fisico, dagli influssi sociali e ambientali ai condizionamenti neurofisiologici e genetici. Più si ha ragione di credere nella concretezza dell’una o dell’altra fra queste minacce – più si ritiene, cioè, che i nostri comportamenti siano predeterminati –, più la nostra intuitiva fiducia nella libertà vacilla. Dagli albori dell’età moderna, in particolare, a molti è parso che l’idea di libertà sia messa a repentaglio dal cieco determinismo delle leggi naturali. In questo senso, come testimonia magistralmente la terza antinomia della Critica della ragion pura, il problema consiste nello spiegare se – e, nel caso, come – gli esseri umani possano sfuggire alle ferree leggi che regolano il mondo della natura. E se non possono sfuggirvi, in quale senso possono dirsi liberi? A queste domande, molti hanno risposto scetticamente. Ad esempio, Diderot: «La parola libertà è priva di senso: non si danno né possono darsi esseri liberi»3. Oppure Lichtenberg: L’uomo è un capolavoro della creazione non foss’altro perché – nonostante tutto il determinismo – crede di agire come un essere libero4.
Sembra, allora, che ci troviamo di fronte a un contrasto insanabile, a un vero e proprio mistero filosofico: da una parte, abbiamo nitida l’intuizione della nostra libertà; dall’altra, ciò che sappiamo del mondo naturale ci porta a ritenere che la libertà non possa avervi posto alcuno. È vero che, in generale, le domande filosofiche dispongono per loro natura a discussioni interminabili, tortuose e talora oscure; la questione del libero arbitrio, però, sembra intrinsecamente più misteriosa delle altre, proprio in virtù del radicale conflitto di intuizioni che presuppone. «La più controversa delle questioni metafisiche», la definiva Hume5, e Voltaire scriveva: Alle obiezioni contro la libertà possiamo rispondere soltanto con un’eloquenza generica. È un triste tema su cui il più saggio paventa perfino di osare di riflettere6. Diderot (1756, p. 56). Lichtenberg (1902-8, p. 1266). 5 Hume (1748, pp. 145-147; trad. mia). 6 Voltaire (1741, p. 105). 3 4
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Non sorprenderà allora che la storia della riflessione filosofica sul libero arbitrio sia una storia di tentativi infruttuosi, dilemmi insolubili, insanabili conflitti teorici. Il dibattito contemporaneo, in questo senso, non fa eccezione: la polifonia delle voci è frastornante, i rivoli in cui la discussione si dirama innumerevoli, le complicazioni illimitate. Il mistero del libero arbitrio (il «più frustrante e ostinato» dei problemi filosofici, secondo Robert Nozick)7, insomma, è ancora di fronte a noi. 2. Le forme della libertà La libertà ha molte facce. Ci si può riferire alla libertà politica, alla libertà religiosa, alla libertà di stampa, alla libertà sessuale oppure alla libertà di cambiare nazionalità, di adottare un bambino, di intraprendere iniziative economiche. In questi casi, libertà significa libertà ‘da qualcosa’: libertà, ad esempio, dai vincoli che lo stato o le istituzioni politiche, religiose o economiche pongono agli individui; oppure libertà da costrizioni esterne. Un agente non è libero se agisce sotto la minaccia delle armi oppure se è ricattato, minacciato o in qualche modo impedito o costretto nelle sue azioni. Né è libero se è indotto a compiere determinate azioni perché è ipnotizzato o sotto l’effetto di droghe o, ancora, è preda di allucinazioni oppure è affetto da particolari patologie (ad esempio, la cleptomania), che possono essere considerate alla stregua di ‘costrizioni interne’. In tutti questi casi la libertà è intesa in senso negativo, come mera mancanza di vincoli o costrizioni. Ma nell’idea di libertà c’è anche una connotazione positiva, legata all’idea che ognuno di noi, autodeterminandosi, è arbitro del proprio destino e per questo porta la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni8. Si può dire che esistono tante forme della libertà quanti sono i possibili fattori di costrizione: politici, religiosi, sociali, economici o psicologici. In questo senso il grado di libertà di cui un agente gode è inNozick (1981, p. 293). Per la distinzione tra libertà positiva e libertà negativa, cfr. Kant (1785, cap. 3), e il celebre Berlin (1958), che adotta, peraltro, un punto di vista prettamente politico. Secondo Berlin, storicamente l’ideale della libertà positiva è stato usato per giustificare forme politiche antiliberali, a detrimento della libertà negativa, che è a suo giudizio prioritaria (Bobbio 1995, Carter, Ricciardi, a cura di, 1996, Ricciardi 1998b). Marramao (2000, pp. 58-67) muove acute critiche alla proposta di Berlin, che concepisce il pluralismo liberale come medio virtuoso fra l’universalismo e il relativismo culturale. 7 8
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versamente proporzionale ai vincoli o alle costrizioni cui è sottoposto: così, per fare un esempio, la libertà politica aumenta con il diminuire dei vincoli che lo stato pone all’esercizio dei diritti dei cittadini9. Il libero arbitrio è la forma di libertà più generale e astratta, in quanto si definisce in relazione a fattori di costrizione di carattere metafisico. In questo caso, non è in gioco tanto il grado della libertà, quanto la sua stessa possibilità. Così, in una visione teocentrica della realtà, il problema del libero arbitrio consiste nello stabilire se le proprietà divine (come la capacità di prevedere tutte le nostre azioni future) lascino agli esseri umani un qualche spazio di libertà; mentre in una visione metafisica naturalistica una minaccia analoga viene dal carattere ubiquo e ineludibile delle leggi di natura. Ad un primo livello di analisi, la questione del libero arbitrio si può dunque porre come un’alternativa tra due scenari: uno nel quale gli esseri umani sono vincolati in modo ferreo, come fossero automi, ad agire e a scegliere in un certo modo; l’altro, nel quale gli esseri umani sono agenti che hanno la possibilità di determinare il proprio destino. 3. Un’indagine transfilosofica Procedendo nell’analisi, tuttavia, ci si accorge che la questione del libero arbitrio è assai più complicata. Una delle ragioni di ciò è che tale questione interessa una molteplicità di ambiti filosofici. In primo luogo, si è detto, la metafisica. Il dibattito contemporaneo, in particolare, si sviluppa principalmente attorno alla relazione tra gli esseri umani e la legalità naturale o, per dirla diversamente, tra gli agenti e la struttura nomologica che regge il mondo o, ancora, tra il fare e l’accadere o tra la contingenza e la necessità. Non sorprenderà, dunque, che molti preferiscano parlare di libertà metafisica, invece di usare il termine – in effetti un po’ vetusto – di ‘libero arbitrio’10. Qui, comunque, per consuetudine continuerò ad usare questo termine nella sua accezione più ampia, per riferirmi alla questione generale della libertà umana nel senso appena definito. In questo senso, dunque, la questione del libero arbitrio riguarda anche la libertà delle nostre azioni, oltre a quella delle nostre scelte e della nostra volontà11. 9 Sulla questione della misurazione della libertà, si veda Carter (1999). Sulla libertà politica, Maffettone (1996), Barberis (1999). 10 Cfr. van Inwagen (1998) e De Caro (1999b). 11 Talora, per semplicità, userò il termine ‘libertà’ come sinonimo di ‘libero arbitrio’. Inoltre, all’inizio l’aggettivo ‘libero’ verrà applicato sia agli agenti sia alle lo-
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Occorre sottolineare, comunque, in primo luogo, che la discussione metafisica sulla libertà ha immediate e assai rilevanti implicazioni per l’etica, la filosofia del diritto e la filosofia politica. A giudizio quasi universale, infatti, la libertà è da ritenersi conditio sine qua non di alcuni concetti fondamentali di queste discipline, come quelli di responsabilità e di autodeterminazione. In effetti, di norma gli agenti vengono considerati responsabili delle loro azioni (dal punto di vista legale, morale e politico) solo se essi le hanno compiute liberamente: il nesso concettuale tra responsabilità e libertà è, dunque, di assoluta centralità filosofica (vi tornerò ampiamente nel quinto capitolo di questo libro). D’altra parte, come si vedrà, l’analisi mette in chiaro anche lo strettissimo nesso concettuale tra libero arbitrio e autodeterminazione (di contro all’eterodeterminazione dell’agente da parte di fattori fuori del suo controllo). Illuminando il concetto di libero arbitrio, si getta luce anche su quello di autodeterminazione; e in tal modo si contribuisce all’analisi dei fondamenti concettuali dell’etica e della politica12. Inoltre, come si vedrà, per il modo in cui la discussione sul libero arbitrio si sviluppa oggi, essa coinvolge anche altre discipline filosofiche come la filosofia della scienza (rispetto al tema del determinismo o dell’indeterminismo delle leggi di natura), la filosofia della mente e la teoria dell’azione (perché la questione del libero arbitrio è strettamente connessa tanto al problema mente-corpo quanto al tema del nesso tra ragioni e cause), la logica (in particolare quella modale), l’epistemologia (giacché secondo alcuni autori il problema della libertà ha carattere cognitivo) e la filosofia del linguaggio (poiché molto spesso l’indagine sul libero arbitrio utilizza le risorse dell’analisi linguistica). Sullo sfondo c’è poi, naturalmente, il carattere originariamente teologico della discussione sul libero arbitrio: e benché secolarizzata – in quanto riguarda il nesso tra agenti e natura, non quello tra creature umane e Dio – la questione contemporanea presenta molte analogie con le classiche discussioni teologiche. Infine va menzionaro azioni sia alle loro scelte; più avanti, però, occorrerà precisare alcuni di questi usi. Va notato, infine, che nel dibattito contemporaneo di solito le scelte e le omissioni sono trattate come tipi particolari di azioni. 12 Cfr. Pettit (2001), che è un importante tentativo di studiare il nesso tra libero arbitrio e libertà politica. A questo proposito, inoltre, va ricordato che già Thomas Hobbes – il vero iniziatore della discussione moderna sia sul libero arbitrio sia sulla libertà politica – trattava questi due temi come aspetti interrelati di una più generale ‘libertà dei soggetti’ (cfr. Hobbes 1651, 1654, 1656).
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ta la filosofia della storia, ambito in cui la questione libertà/determinismo assume valenze proprie13. 4. Uno scandalo per la filosofia? La reazione tipica dei non filosofi alle infinite disquisizioni sulla libertà è del genere: «È innegabile che noi scegliamo ed agiamo liberamente. Tutte le disquisizioni sul tema sono, dunque, vane sofisticherie». D’altra parte, anche numerosi filosofi hanno manifestato il loro fastidio per le tante energie intellettuali spese in questa riflessione. Moritz Schlick è tra i più espliciti: È veramente uno dei più grandi scandali della filosofia che a tale questione si continuino a dedicare tanta carta e tanto inchiostro, per non dire del pensiero così dissipato, che potrebbe essere impiegato per problemi più importanti14.
La soluzione (o meglio la dissoluzione) del problema proposta da Schlick sarà discussa nel quinto capitolo; da quando, comunque, egli espresse questo aspro giudizio (e in particolare negli ultimi trent’anni), la quantità di carta, di inchiostro e di pensiero dedicata alla questione della libertà è stata probabilmente maggiore che in tutti i secoli precedenti. A meno, dunque, che non si voglia sostenere che la comunità filosofica abbia nel frattempo perduto ogni capacità di giudicare quali siano i problemi importanti, si può ritenere che la critica schlickiana sia preconcetta, un effetto particolare del veto neopositivistico generale contro la metafisica – un veto che, tuttavia, ben pochi oggi sottoscriverebbero. John Dewey espone un’opinione non dissimile da quella di Schlick. Per quanto la questione del libero arbitrio affascini i filosofi, essa non ha – secondo Dewey – alcuna importanza pratica e dunque sarebbe saggio smettere di occuparsene: Le ragioni in cui, in nome della libertà, gli uomini hanno creduto e per cui hanno combattuto sono molte e complesse – ma certamente tra queste non figura il libero arbitrio della metafisica15. Cfr. Berlin (1954), Nagel (1960). Schlick (1930, p. 54). 15 Dewey (1957, p. 303). 13 14
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Tre brevi osservazioni su questa citazione. Primo, quando scriveva queste parole, forse Dewey non ricordava che le feroci guerre di religione del Cinquecento e del Seicento dipesero anche da ragioni di identità religiosa e culturale (e certamente la questione del libero arbitrio rappresentava uno dei principali motivi della frattura dottrinale tra protestanti e cattolici). Secondo, se la legittimità delle discussioni filosofiche si dovesse misurare dalla combattività che inducono nel pubblico dei profani, ai filosofi rimarrebbe ben poco di cui discutere (certo non dell’esistenza del mondo esterno né della teoria del riferimento né del circolo ermeneutico). Terzo e fondamentale punto: Dewey trascura del tutto le ragioni per cui si riconosce centralità teoretica alla nozione di «libero arbitrio della metafisica». Tale nozione, come mostrò magistralmente Kant, è filosoficamente cruciale proprio in virtù dei suoi strettissimi nessi concettuali con alcune delle nostre più fondamentali pratiche – come le attribuzioni di sanzioni e il gioco delle valutazioni morali – e delle nostre più radicate credenze, quelle per le quali le persone tendono a diventare pugnaci (per usare il criterio deweyano), quali la dignità personale e l’autonomia. Uno dei compiti fondamentali della filosofia è la chiarificazione intellettuale: se per illuminare il senso e i limiti delle esperienze e delle credenze centrali nelle nostre forme di vita è utile investigare il concetto del «libero arbitrio della metafisica», una tale indagine è per ciò stesso legittimata. 5. Le condizioni della libertà Immaginiamo di sedere tra i giurati di un processo. Le arringhe delle parti sono terminate, la giuria si è ritirata per determinare il verdetto. I nostri pensieri ripercorrono le fasi processuali, le prove apportate, le testimonianze. Con tutto l’impegno di cui siamo capaci, tentiamo di stabilire se sia giusto votare per l’innocenza o per la colpevolezza dell’imputato. Il clima nella giuria è sereno, nulla ci costringe in un senso o nell’altro: la decisione che prenderemo dipenderà interamente da noi e noi ne porteremo la responsabilità. In sostanza, allora, sentiamo di poter esprimere il nostro voto in tutta libertà. Ma in che cosa consiste esattamente questo sentimento di libertà? In che modo, cioè, l’intuizione prefilosofica connota l’idea di libertà? Secondo l’intuizione, innanzitutto, perché un’azione sia libera è essenziale che all’agente si presenti una molteplicità di possibili cor9
si d’azione alternativi. Se partecipassimo ad un processo truccato in cui è già deciso che l’imputato sarà condannato, certamente non penseremmo che il nostro voto è libero nemmeno nel caso in cui avremmo comunque votato per la condanna. In questo senso, allora, possiamo considerare la possibilità di fare altrimenti come la prima condizione della libertà. Essa, tuttavia, non basta. Se un giurato decidesse il suo voto sulla base del lancio di una monetina, diremmo che il voto da lui espresso è stato casuale, non che è stato libero. Ciò significa che un’altra essenziale condizione della libertà è che le azioni non siano il prodotto esclusivo del caso o di fattori del tutto indipendenti dalla volontà dell’agente; è cioè necessario che l’agente controlli le azioni che compie o ancora – come si preferisce dire oggi – che tali azioni siano l’effetto di una catena causale in cui i desideri, le credenze e le intenzioni dell’agente giocano un ruolo determinante. Il controllo degli agenti sulle proprie azioni ovvero la loro autodeterminazione è, dunque, la seconda condizione della libertà16. Tra queste due condizioni, si noti, c’è un chiaro nesso: per agire liberamente, l’agente deve poter esercitare il proprio controllo sul corso d’azione che decide di intraprendere. Detto altrimenti: egli deve contribuire in maniera decisiva – tramite la sua volontà o, come si preferisce dire oggi, tramite suoi adeguati stati mentali – a determinare quale tra le possibili azioni alternative effettivamente compirà17. Già la tradizione filosofica medievale, peraltro, aveva intuito l’importanza sia della possibilità di fare altrimenti sia dell’autodeterminazione, ma le aveva interpretate come due distinte forme di libertà, piuttosto che come sue condizioni necessarie: la libertas indifferentiae e la libertas spontaneitatis. Tuttavia, com’è stato più volte notato18, è errato concepire la possibilità di fare altrimenti e l’autodeterminazione come proprietà mutuamente esclusive. In verità, almeno a livello intuitivo, entrambe si presentano come condizioni necessarie della libertà; ed è anche plausibile che, prese congiuntamente, esse ne costituiscano le condizioni sufficienti19. 16 Altri termini per definire questa condizione della libertà sono ‘autonomia’ (in particolare secondo l’impostazione kantiana, su cui cfr. Allison 1990), ‘autocontrollo’, ‘spontaneità’: cfr. Mele (1995). 17 Su questo punto, cfr. O’Connor (1993). 18 Ad esempio da Kenny (1975) e Watson (1987a). 19 Alcuni propongono di aggiungere altre condizioni alla definizione di libertà, in particolare quella secondo la quale un’azione è libera solo se l’agente può correttamente esserne ritenuto responsabile (ad esempio, Pettit 2001, p. 6). Tuttavia,
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Più avanti, peraltro, considereremo alcuni recenti tentativi di dimostrare che la libertà non presuppone la possibilità di fare altrimenti. Io sosterrò, tuttavia, che questi tentativi sono infruttuosi e che dunque, per affrontare in maniera adeguata il problema del libero arbitrio, non si può eludere l’arduo compito di fornire un’analisi del concetto di libertà che dia adeguatamente conto di entrambe le condizioni appena discusse. 6. Determinismo e indeterminismo Con il termine ‘determinismo’ ci si riferisce a una tesi concernente il mondo (e non allo stato del mondo che tale tesi postula). Secondo la tesi deterministica, ogni evento è determinato dal verificarsi di condizioni sufficienti per il suo accadere. Siccome il determinismo è una tesi, si può affermare che è vero oppure che è falso, non che esiste o non esiste. Nondimeno, il valore di verità della tesi deterministica dipende da come il mondo è fatto, non da convenzioni linguistiche (e ciò anche nel caso che sia per noi impossibile conoscere tale valore di verità)20. Ho detto che secondo il determinismo ogni evento è determinato da condizioni sufficienti. Dal modo in cui tali condizioni vengono interpretate, derivano forme diverse di determinismo. Così – per riprendere un esempio già menzionato – il determinismo teologico afferma che gli eventi, le azioni umane in particolare, sono determinati dall’una o dall’altra proprietà di Dio (ad esempio, dalla sua prescienza oppure dalla sua onnipotente provvidenza)21. L’indeterminismo è semplicemente la negazione del determinismo. Il determinismo e l’indeterminismo, dunque, sono mutuamente esclusivi e congiuntamente esaustivi. Uno dei due è vero, l’altro è falso. Alcune forme di determinismo attribuiscono alle condizioni determinanti un ruolo non causale. Così, secondo il determinismo logico gli eventi futuri sono già determinati, non perché vi siano cause a me pare che questa proposta inverta l’ordine dei fattori: una corretta attribuzione di responsabilità è conseguenza (non condizione) del fatto che una determinata azione sia libera – ed è libera se ottempera alle due condizioni citate nel testo. 20 Per una discussione di queste definizioni, cfr. Berofsky (1971). 21 Per il dibattito medievale sul determinismo teologico, cfr. Korolec (1982); per quello rinascimentale, Poppi (1988); per quello contemporaneo, Fischer (a cura di) (1989) e Zagzebski (2002).
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che li determinano, ma perché gli enunciati che li descrivono sono atemporalmente veri o falsi: e da ciò si deduce che il futuro non è contingente, ma necessario. Questa concezione, tuttavia, non è di particolare interesse in questa sede, perché essa non concerne tanto le nostre intuizioni sulla libertà, quanto quelle sulla verità22. Una forma di determinismo non causale per noi più interessante è il fatalismo, l’antica concezione secondo la quale alcuni eventi accadranno ineluttabilmente, quali che siano gli eventi o le azioni umane che li precedono («Che giova nelle fata dar di cozzo?», viene chiesto nella Commedia)23. In tale prospettiva, gli eventi fatidici non sono determinati causalmente dagli eventi che li precedono, ma soltanto dagli insondabili decreti del fato o degli dei24. Ci sono, però, anche concezioni deterministiche secondo le quali la determinazione degli eventi ha carattere causale25. Secondo tali concezioni, gli eventi sono causalmente determinati nel senso che essi vengono necessitati da altri eventi che sono, dunque, loro cause sufficienti. Più precisamente, si può adottare questa definizione: Determinismo causale. Secondo la famiglia di concezioni del determinismo causale, ogni evento e di una certa classe F è causalmente determinato. Un evento e si dice causalmente determinato se e solo se, quando occorre, esso è causato da altri eventi che ne sono cause sufficienti26. 22 Il luogo classico del dibattito sul determinismo logico è, ovviamente, la discussione sulla battaglia navale che avverrà domani, com’è condotta nel Nono libro del De interpretatione aristotelico. Per un’interessante proposta di soluzione contemporanea, si veda von Wright (1984) che distingue tra le proposizioni vere rispetto al passato, che sono anche «diacronicamente necessarie», e quelle vere rispetto al futuro, che sono solo contingentemente vere (su ciò, cfr. Egidi 1999). †ukasiewicz (1920) ha invece proposto di risolvere la questione dei futuri contingenti rinunciando al principio di bivalenza (in base al quale ogni enunciato è vero o falso): a suo giudizio, gli enunciati concernenti il futuro hanno infatti un valore di verità intermedio tra il vero e il falso (un valore di verità «indefinito» o «possibile»). 23 Inferno, IX, 97. Sul fatalismo cfr. R. Taylor (1962), Sellars (1966) e Bernstein (2002). 24 Si noti che il fatalismo potrebbe essere vero anche in un universo indeterministico. 25 Qui non potrò che toccare tangenzialmente le molte questioni relative alla causalità, che sono al centro di vasti dibattiti. Per un primo orientamento a tali dibattiti, cfr. Sosa, Tooley (a cura di) (1993) e Laudisa (1999). 26 Nel caso del determinismo causale universale, la classe F, che contiene gli eventi causalmente determinati, contiene tutti gli eventi della storia dell’universo (con l’eventuale eccezione del primo evento).
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Nella maggior parte dei casi, quando i filosofi contemporanei discutono delle ricadute del determinismo per la questione della libertà si riferiscono al determinismo causale (da qui in poi, a meno che non venga specificato diversamente, quando parlerò di determinismo, mi riferirò alla sua versione causale). Alcune precisazioni su questa concezione sono importanti. In primo luogo, dal punto di vista empirico, il determinismo causale può essere falso (e dunque può essere vero l’indeterminismo) per due diverse ragioni: perché esistono eventi che non sono causati e perché esistono eventi che sono causati indeterministicamente. La possibilità della causalità indeterministica, in particolare, è un tema molto discusso negli ultimi anni (su di esso tornerò nel prossimo capitolo). L’idea, in breve, è quella di una relazione causale in cui la causa accresce la probabilità che si verifichi l’effetto, senza necessitarlo: in una parola, tra la causa e l’effetto intercorre un nesso meramente probabilistico. Da ciò segue che gli eventi possono essere causati senza essere determinati; ma, allora, questa stessa possibilità prova che è errato identificare – come spesso avviene – il determinismo causale con la tesi secondo la quale ogni evento ha una causa, ovvero con la causalità universale tout court27. Ma su ciò occorrerà tornare. In secondo luogo, il determinismo causale può essere visto come una tesi ontologica (una tesi, cioè, su come è fatto il mondo), oppure come una tesi epistemologica (ossia come una tesi empirica, risultato dell’esperienza osservativa)28. Nella discussione sul libero arbitrio, tuttavia, ciò che è interessante è il rapporto della libertà con la realtà, non con la nostra conoscenza della libertà: ad esempio, che la libertà sia compatibile o meno con la necessitazione degli eventi è questione che dipende dal modo in cui la realtà è strutturata, non dal nostro modo di conoscerla. Pertanto, qui ci interesseremo soltanto del determinismo nel senso ontologico. In terzo luogo, è utile notare una differenza tra il determinismo causale e il determinismo logico: al contrario di quanto afferma quest’ultima concezione, infatti, per il determinismo causale gli eventi 27 Questa errata identificazione si rinviene, ad esempio, nei classici Moore (1912), Hobart (1934) e Ayer (1954); ancora più sorprendente che essa sia ripetuta nel recente McFee (2000). Nicola Ciprotti mi suggerisce che il primo ad operare la distinzione tra determinismo e causazione universale fu probabilmente Carl Ginet (1966). 28 Cfr. Flanagan (2002, p. 120).
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che accadono non sono necessari ma solo necessitati, ovvero accadono condizionatamente, in virtù del darsi delle loro cause e delle leggi di natura29. Il determinismo causale ha molte varianti. Una prima importante suddivisione è quella tra determinismi causali locali e determinismi causali universali. Alla prima categoria appartengono le concezioni che limitano il determinismo a una particolare classe di fenomeni: un esempio in tal senso è offerto dal determinismo etico socratico, secondo il quale le azioni di una persona che sappia cosa sia il bene non possono che essere azioni buone. Il carattere deterministico di tale concezione è chiaro: chi conosce il bene è necessitato da tale conoscenza a compiere esclusivamente azioni buone. Inoltre, anche alcune forme di determinismo scientifico hanno carattere locale: ad esempio, il determinismo neurofisiologico, quello genetico e quello socioculturale30. Tutte queste forme di determinismo riguardano ambiti determinati di fenomeni e specifiche forme di determinazione; esse però, non dicono nulla sugli altri ambiti, che possono dunque essere deterministici o meno. Esistono poi forme di determinismo causale dal carattere universale, onnipervasivo: esse concernono tutti i fenomeni. La caratteristica principale di questa famiglia di concezioni è che esse restringono i futuri possibili ad uno solo31. Ve ne sono, per cominciare, di carattere teologico: l’occasionalismo (la concezione per cui tutti gli eventi sono causati dal costante intervento divino) ne è un esempio. Ma la forma più importante è il determinismo scientifico universale. Secondo una classica formulazione ispirata da Laplace, questa con29 Talora si sente affermare che il determinismo renderebbe gli eventi necessari. Tuttavia chi sostiene ciò equivoca sulla modalizzazione della formula che esprime questa concezione, in quanto da «Nec ((L & P0) e)» inferisce paralogisticamente «Nec (e)». Per comprendere la differenza immaginiamo un mondo possibile che è identico al nostro fino all’istante t, quando nel nostro mondo accade l’evento e, ma nell’altro mondo accade invece l’evento e* – semplicemente perché, ad esempio, in quel mondo le leggi di natura sono diverse (una diversità tale che si manifesta solo dopo l’istante t). L’evento e, dunque, non è necessario, perché non accade in tutti i mondi possibili (ringrazio Robert Audi per un’interessante conversazione sull’argomento). 30 Secondo il determinismo neurofisiologico, quello genetico e quello socioculturale il nostro carattere, i nostri comportamenti, la nostra intera vita mentale sono causalmente determinati dai fattori rispettivamente menzionati nel nome della concezione: cfr. Weatherford (1991, parte II). 31 Berofsky (1971, p. 5).
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cezione afferma che la descrizione dello stato del mondo in un certo istante, congiunta con la proposizione che specifica tutte le leggi di natura, implica la descrizione dello stato del mondo in ogni istante successivo. Da ciò segue che a ogni istante un solo futuro è fisicamente possibile32. Con più precisione: Determinismo scientifico universale. Siano t0 un istante qualsiasi nella storia dell’universo, t1 un istante qualsiasi successivo a t0, P0 la proposizione che esprime lo stato fisico dell’universo al tempo t0, P1 la proposizione che esprime lo stato fisico dell’universo al tempo t1 ed L l’insieme delle leggi scientifiche. Secondo il determinismo scientifico, allora, ‘Nec (P0 + L) P1’33.
Questa definizione, si noti, non implica che gli esseri umani – o qualunque altra entità epistemicamente limitata – siano in linea di principio in grado di formulare una teoria deterministica dell’universo che permetta di prevedere tutti gli eventi futuri. La definizione implica piuttosto che nulla sfugge al determinismo della legalità naturale34. 32 Qui la questione sul determinismo interessa soltanto in virtù delle sue ricadute rispetto alla questione della libertà. Va ricordato, però, che il dibattito concernente il determinismo in quanto tale è vasto e complesso: Sobel (1998), ad esempio, elenca novanta possibili forme di determinismo! Per un orientamento sui molteplici aspetti della questione cfr. Earman (1986), Honderich (1988) e Bishop (2002). 33 Come nota Lewis (1973, p. 162), ciò implica che non esistono due mondi possibili deterministici in cui valgono le stesse leggi di natura e che sono assolutamente identici ad un certo istante, ma che differiscono per qualche rispetto in un istante successivo. 34 Talora, come accennato, la tesi deterministica è declinata in senso epistemologico, come la possibilità teorica di prevedere tutti gli eventi futuri sulla base della conoscenza dello stato dell’universo ad un certo istante e dell’insieme delle leggi di natura (cfr., ad esempio, Ayer 1954, p. 53, e Popper 1982, p. 36; l’origine di questa idea è in Laplace 1812, su cui si veda Israel 1998). Tale definizione adombra la possibilità di un agente dalle straordinarie capacità epistemiche che incombe su di noi (in questo senso, il determinismo causale potrebbe evocare la minaccia rappresentata per la libertà dalla preveggenza divina). Tuttavia questa definizione non è accurata: come detto, il determinismo è una tesi primariamente ontologica, non epistemologica; e tale tesi potrebbe essere vera anche se fosse falsa la tesi di Ayer e Popper che lega il determinismo alla conoscibilità in linea di principio – ad esempio a causa dell’imprevedibilità dei fenomeni caotici, che secondo molti hanno carattere deterministico (cfr. Earman 1986, pp. 8-10, e Dorato 1995, cap. 6). Inoltre, una vasta tradizione (iniziata da Agostino) ha fornito interessanti argomenti per pensare che quando il determinismo è declinato in senso epistemologico, esso non rappresenta una vera minaccia per la libertà.
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È importante notare che questa definizione del determinismo scientifico universale incorpora tesi proprie della metafisica naturalistica classica: che i nessi causali tra eventi esemplifichino leggi scientifiche universali; che si dia soltanto causalità efficiente (e non, ad esempio, causalità finale, secondo la quale un evento può essere causa di un evento cronologicamente precedente); che sia possibile, in linea di principio, descrivere lo stato dell’universo ad un certo istante. Queste tesi, sebbene comuni, sono, in effetti, alquanto controverse (e alcuni autori esprimono dubbi perfino sulla perspicuità di tale definizione)35. Nondimeno, a noi qui non interessa la questione del determinismo in sé, ma soltanto le sue eventuali ricadute per la discussione sulla libertà. Ciò significa che non è poi molto rilevante se la tesi del determinismo scientifico universale sia vera (e nemmeno se sia perspicua o plausibile alla luce delle attuali cognizioni scientifiche). Quello che interessa è se sia deterministico, o indeterministico, l’ambito dell’agire umano e quali ricadute ciò abbia per la libertà umana. Se, poi, l’eventuale carattere deterministico delle nostre azioni sia conseguenza del determinismo universale oppure di uno dei determinismi locali (da quello neurofisiologico a quello genetico) non è questione che interessi specificamente chi studia la questione della libertà. 7. Questioni concettuali e questioni empiriche Sarebbe errato pensare che esista un problema filosofico del libero arbitrio: ci sono, in realtà, svariate questioni che ricadono sotto questa denominazione – ovvero il problema della libertà può, e deve, essere affrontato da una pluralità di punti di vista. Tali punti di vista possono essere riassunti in altrettante domande: qual è la definizione corretta di libero arbitrio? Il libero arbitrio è compatibile con il determinismo causale? E con l’indeterminismo? E fattualmente esiste la libertà? E ancora: la questione della libertà si deve porre soltanto per le nostre azioni o va estesa anche alle nostre scelte? La libertà è 35 Come conciliare, ad esempio, la nozione di ‘stesso istante’ per l’intero universo con la teoria della relatività che rifiuta la nozione assoluta di simultaneità? Analogamente (pur non essendo questa la sede per affrontare la complessa questione dello statuto ontologico delle proposizioni), è metafisicamente ardito postulare che esistano proposizioni che descrivono lo stato del mondo a un certo istante oppure l’insieme di tutte le leggi di natura. Su questi temi cfr. Earman (1986) e Suppes (1993).
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condizione necessaria della responsabilità morale (e della dignità personale e della razionalità)? E la lista potrebbe continuare36. È importante notare che la maggior parte di queste domande si possono suddividere in due gruppi fondamentali. Un primo gruppo di domande (qual è la definizione di libertà? È possibile essere liberi in un ambiente deterministico? E in uno indeterministico? La libertà è requisito essenziale della responsabilità morale?) declina la questione della libertà nel senso dell’analisi logico-concettuale: queste domande riguardano la connotazione del concetto di libertà, la sua coerenza e i nessi con altri concetti. Altre domande, invece, concernono le modalità empiriche della libertà (in quali occasioni noi esseri umani siamo liberi, se mai lo siamo? Quali sono i requisiti fisici perché qualcuno possa esercitare la sua libertà? Esistono altre entità che possono dirsi libere?). I due piani di discussione non vanno confusi. La questione fattuale della libertà ha valenze empiriche tali che se ne può discutere soltanto alla luce delle acquisizioni più attuali dell’indagine scientifica. Rispetto a tale questione, ovviamente, la filosofia non ha nessuna particolare autorità; essa tuttavia è perfettamente legittimata a discutere della questione concettuale della libertà – e ciò verrà fatto in questo libro. Ciò non significa, naturalmente, che i due livelli siano irrelati: anzi, ciascuno di essi, a suo modo, delimita l’ambito d’azione dell’altro. Ma rispetto a questi punti gli equivoci sono frequenti e, dunque, occorre essere più precisi. 8. Un fraintendimento su libertà e indeterminismo Nella letteratura sul libero arbitrio (e non soltanto in quella divulgativa) è comune imbattersi in un errore che è bene prevenire. Questo errore può essere sintetizzato in uno slogan: «La scienza ha ormai provato che il mondo è indeterministico; dunque il mistero della libertà è ormai risolto». Nelle linee generali, l’argomento sotteso allo slogan si sviluppa in questi termini: È innegabile che, dal punto di vista storico, il problema del libero arbitrio abbia grande rilievo: fino a quando è stato ragionevole pensare che 36 Per altre liste di domande relative alla questione del libero arbitrio, cfr. Dennett (1984) e Kane (1996).
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il determinismo causale fosse un’opzione scientificamente accettabile – se non indiscutibile –, era legittimo temere che la libertà umana fosse una mera illusione. Ormai, tuttavia, di quel problema non ha più senso discutere: come dimostra la meccanica quantistica, infatti, l’indeterminismo è oggi accettato perfino all’interno della fisica (scienza che per secoli ha rappresentato il bastione del determinismo). Possiamo, dunque, concludere che il problema della libertà è stato risolto empiricamente, dal progresso della scienza. E sarebbe ora che anche i filosofi – sempre in ritardo nel comprendere il senso delle acquisizioni scientifiche – se ne rendessero conto37.
I filosofi saranno forse lenti di comprendonio, ma questo ragionamento è sbagliato per vari motivi. Innanzitutto, ragioni di carattere epistemologico generale dovrebbero indurre alla prudenza prima di affermare che la scienza ha dimostrato la verità dell’indeterminismo. Ad esempio, resta da stabilire se l’interpretazione indeterministica – che pure è oggi maggioritaria – dica l’ultima parola rispetto alla meccanica quantistica: non mancano, infatti, autori secondo i quali non è affatto chiaro quali siano le implicazioni della meccanica quantistica rispetto al determinismo; né d’altra parte è impossibile (come ci ha insegnato la storia della scienza) che in futuro tale teoria venga abbandonata e rimpiazzata da una teoria esplicitamente deterministica38. Inoltre ci sono ragioni più specifiche per pensare che la questione della libertà non sia stata affatto risolta dal progresso scientifico. Ad esempio, è opinione oggi diffusa che l’indeterminismo quantistico non abbia ricadute significative al livello macroscopico: così, secondo molti autori, alla luce delle nostre attuali conoscenze è ragionevole ritenere che al livello macroscopico la tesi deterministica sia approssimativamente vera e che, dunque, gli eventi macroscopici in genere, e le nostre azioni in particolare, manifestino comportamenti sostanzialmente deterministici39. Questo atteggiamento trova ri37 Per versioni sofisticate di questo argomento, cfr. Compton (1935), Eccles (1994), Penrose (1994). 38 Per un primo orientamento, cfr. Earman (1986, cap. 11) e Hodgson (2002). Incidentalmente si può notare che è controverso perfino se la stessa meccanica classica sia una teoria rigorosamente deterministica: cfr. Earman (1986, cap. 3). 39 Secondo questo punto di vista, lo scarto tra il determinismo vero e proprio e il quasi-determinismo del mondo macroscopico non avrebbe ricadute apprezzabili dal punto pratico: cfr. Honderich (1988), Weatherford (1991, cap. 10), Pereboom (2002), Bishop (2002). L’idea opposta, secondo la quale l’attività cerebrale
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spondenza in molte scienze particolari: così, al contrario di quanto accade in microfisica, nell’ambito delle scienze del comportamento si assiste oggi a una potente ripresa di credito di teorie che, a vario titolo, possono dirsi deterministiche. Lo spettro teorico, in questo senso, è molto ampio: teorie deterministiche sono oggi comuni in biologia (con il determinismo genetico, ad esempio), nelle neuroscienze, in psicologia (si pensi alla psicologia evoluzionistica), in molte teorie delle scienze sociali. Da ciò segue che se veramente il determinismo rappresentasse una minaccia per la libertà umana (un punto, in realtà, come vedremo, controverso), allora dovremmo concludere che quella minaccia non ha cessato di incombere su di noi. E non è tutto. C’è infatti un argomento che dovrebbe farci sospettare che il problema della libertà non sarebbe risolto neppure se un giorno si riuscisse effettivamente a mostrare che l’ambito dell’agire umano è indeterministico. In sé, in effetti, il mero indeterminismo fisico – comportando la semplice casualità degli accadimenti – non garantisce affatto la libertà; anzi, secondo molti filosofi, la rende impossibile. L’idea è che se fosse vero l’indeterminismo le azioni umane, al pari di tutti gli altri eventi, sarebbero fisicamente indeterminate; nulla, dunque, ne determinerebbe il verificarsi – a fortiori, nemmeno gli agenti. Ma in questo modo gli agenti non eserciterebbero alcun controllo sulle proprie azioni; e dunque – conclude questo argomento – la libertà collasserebbe sul caso. Indubbiamente l’idea di libertà che ci sta a cuore (quella connessa all’autonomia, alla responsabilità, alla retribuzione, alla dignità, alla razionalità) non ha nulla a che spartire con il caso, con la mera accidentalità; non sorprenderà, dunque, che le implicazioni di questo argomento siano molto discusse. Secondo alcuni autori, infatti, esso dimostra che l’indeterminismo non può in alcun caso coesistere con la libertà, mentre altri lo negano40. Di una cosa almeno possiamo comunque essesarebbe caratterizzata da un indeterminismo molto significativo, è difesa da Eccles (1994) e Penrose (1989 e 1994). Un punto di vista equilibrato sembra essere quello di Owen Flanagan (2002, cap. 4), secondo il quale «alcune ricerche nelle teorie del caos e della complessità e nella teoria dei sistemi dinamici auto-organizzati suggeriscono che il sistema nervoso umano operi, almeno a volte, con modalità ontologiche indeterministiche». Flanagan, tuttavia, riconosce che non è affatto chiaro se queste modalità indeterministiche siano effettivamente ontologiche o non dipendano piuttosto dalla nostra ignoranza. E, comunque, non è affatto evidente quale rilevanza tale indeterminismo avrebbe per la questione della libertà. 40 Di ciò si discuterà nel primo capitolo.
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re certi: ovvero che questo argomento prova che l’indeterminismo non è condizione sufficiente della libertà – come invece implicitamente assumono quanti sostengono che se il mondo fosse indeterministico, allora il mistero della libertà si dissolverebbe. 9. Analisi filosofica e ricerca scientifica C’è anche una ragione metafilosofica generale per dubitare della tesi secondo la quale l’indeterminismo della meccanica quantistica basterebbe a dimostrare la nostra libertà. Come detto poco fa, la filosofia non può che dedicarsi prevalentemente alla questione concettuale della libertà (anche se, come ho accennato, ciò non significa che possa ignorare del tutto le connesse questioni empiriche). In questa luce, ai filosofi spetta chiarire, ad esempio, che cosa la libertà sia, se essa sia compatibile con il determinismo, con l’indeterminismo o con entrambi e se sia effettivamente una precondizione della responsabilità, della razionalità e della vita morale. Ma ciò implica che, da un certo punto di vista, l’indagine empirica relativa alla libertà umana, lungi dall’essere risolutiva, presuppone l’analisi concettuale della nozione di libertà. Su questo punto è meglio evitare equivoci: non sto certo sostenendo che l’indagine scientifica sul determinismo e l’indeterminismo non possa prescindere dall’analisi filosofica. Il punto, piuttosto, è che quando si tenta di applicare i risultati della ricerca empirica alla questione della libertà è indispensabile avere preliminarmente indagato che cosa la libertà sia, se essa sia possibile, se in linea di principio sia compatibile con il determinismo e con l’indeterminismo: e questi sono compiti che si possono svolgere solo sul piano concettuale. Così, ad esempio, se l’analisi concettuale provasse che la libertà è impossibile sia in un ambiente deterministico sia in uno indeterministico, nessun risultato empirico potrebbe mutare questa diagnosi. Oppure, se l’indagine scientifica dimostrasse che tutti i nostri comportamenti sono determinati, questo risultato in sé non proverebbe nulla rispetto alla libertà, se non fosse già stato preliminarmente chiarito – a livello di indagine concettuale – quale relazione la libertà abbia con il determinismo. D’altra parte, è vero anche che non si può condurre l’indagine filosofica in completa indipendenza dai risultati della ricerca scientifica (e non solo quella delle scienze naturali – come troppo spesso si presuppone –, ma anche quella delle scienze umane e sociali). In pri20
mo luogo, se è vero che l’analisi concettuale è l’ineludibile punto di partenza dell’indagine filosofica – perché deve preliminarmente chiarire il senso e le relazioni reciproche dei concetti implicati –, è anche vero che in seguito occorre trovare un equilibrio riflessivo tra l’analisi concettuale e ciò che la scienza ci dice del mondo41. Rispetto alla questione della libertà, in particolare, in molti casi i responsi dell’analisi logico-concettuale rimandano anche all’indagine empirica42. Ad esempio, se l’analisi concettuale dimostrasse che la libertà è possibile solo in un ambiente deterministico, non avremmo ancora risposto alla questione relativa alla nostra libertà: a quel punto, infatti, toccherebbe all’indagine empirica stabilire se l’ambito dell’agire umano è deterministico o indeterministico. Inoltre, un vincolo generale che – a mio giudizio almeno – le teorie filosofiche non dovrebbero trascurare è quello della compatibilità con le migliori teorie scientifiche del periodo. Una concezione della libertà che, al fine di spiegare il nesso tra gli agenti e il mondo fisico, contraddicesse le migliori teorie scientifiche di cui disponiamo, si dimostrerebbe ipso facto inadeguata. Nondimeno il requisito della compatibilità della filosofia con la scienza non implica la contiguità tra tali discipline, e meno ancora la riducibilità della prima alla seconda, come invece baldanzosamente sostengono molti teorici del rampante naturalismo scientifico contemporaneo43. A questo proposito va notato che l’influenza di tale naturalismo scientifico è molto evidente nel dibattito contemporaneo sulla libertà: in particolare, nelle concezioni di quanti vogliono ridurre la questione concettuale a quella empirica. Prima di entrare nel merito della questione concettuale della libertà, allora, una breve digressione sulla questione empirica può essere utile a comprendere quan-
Riprendo qui i termini della nota proposta di John Rawls (1971, pp. 48-51). Dico ‘in molti casi’, perché se, come detto, una corretta analisi concettuale provasse l’impossibilità della libertà, allora i risultati dell’indagine empirica diventerebbero ininfluenti. Inoltre va detto che anche nella filosofia anglosassone contemporanea, che è quella che qui interessa, sono stati operati tentativi (spesso di matrice kantiana) di impostare la discussione sulla libertà in completa indipendenza da ciò che la scienza empirica ci può dire del mondo. Il più noto di questi tentativi si deve a P.F. Strawson, su cui si veda, infra, quarto capitolo. 43 La concezione che sto implicitamente difendendo è un naturalismo liberale, ben differente dai naturalismi scientifici oggi comuni, secondo i quali la filosofia deve approssimarsi per quanto possibile alla scienza (se non può ridurvisi del tutto). Questi temi sono sviluppati in De Caro, Macarthur (a cura di) (2004). 41 42
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to detto finora. Sempre più spesso, si sente sostenere che la discussione sulla libertà può essere decisa, e forse sarà positivamente decisa (se non è addirittura già stata decisa), dalle acquisizioni delle neuroscienze44. In genere, però, queste dichiarazioni sono sostenute da analisi concettuali superficiali e da prove sperimentali scarse e dal significato spesso molto controverso. Un tipico esempio in questo senso è offerto da una serie di famosi esperimenti dovuti al neurofisiologo Benjamin Libet, che hanno suscitato entusiasmo e speranze in non pochi filosofi45. Secondo Libet, un agente diviene cosciente dell’intenzione di compiere una determinata azione circa trecentocinquanta millisecondi dopo il verificarsi dell’evento neurale che dà inizio all’azione; e questo prova, secondo Libet, che i processi volizionali iniziano in modo inconscio. Molti autori, delle più diverse tendenze, hanno usato gli esperimenti di Libet a sostegno delle loro teorie sul libero arbitrio. Secondo alcuni, tali esperimenti mostrano che la nostra libertà è fondata su processi deterministici46; secondo altri, che essa è fondata su processi indeterministici47; mentre per altri ancora questi risultati sono perfettamente compatibili con l’idea che noi non siamo liberi48. In realtà, a mio giudizio, sono del tutto giustificate le critiche di quanti ritengono che gli esperimenti di Libet, per quanto interessanti, siano viziati da una visione troppo ingenua della coscienza e della causazione mentale49. Ad ogni modo sembra equo dire almeno che, al momento, la ricerca empirica sui processi volizionali non ha provato in modo conclusivo alcunché di filosoficamente dirimente e che non si vedono ragioni convincenti per sostenere che la soluzione finale del problema del libero arbitrio – nella pluralità degli aspetti che lo caratterizzano – arriverà da quell’ambito. Ma ciò non deve sorprendere: come abbiamo visto, se alcuni aspetti del problema del libero arbitrio vanno affrontati in modo empirico, altri – non meno importanti e, da un certo punto di vista, prioritari – hanno bisogno di un trattamento logico-concettuale. Questo non vuol dire, naturalmente, che Influenti tentativi in questa direzione sono Walter (1999) e Wegner (2002). Cfr. Libet (1993 e 1999) e Libet, Freeman, Sutherland (a cura di) (1999). 46 Flanagan (1996, pp. 59-62). 47 Kane (1996, p. 232, nota 12). 48 Honderich (1988, p. 300-302) 49 Walter (1999, pp. 245-252); Dennett (2003, cap. 8). 44 45
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i filosofi non possano interessarsi ai dibattiti neurofisiologici né che tali dibattiti non siano rilevanti per la questione empirica della libertà: naturalmente lo sono. Il punto, piuttosto, è che la questione empirica presuppone che siano state date risposte alla questione concettuale: ignorare quest’ultima o liquidarla con risposte approssimative e generiche non è certo il modo migliore per affrontare «la più controversa questione della metafisica e della scienza»50. Un altro tentativo di offrire una soluzione ‘scientifica’ del problema del libero arbitrio è stato proposto da Daniel Dennett, in un recente volume51. Dennett argomenta in modo brillante che il libero arbitrio è un’abilità che gli esseri umani hanno acquisito nel corso della loro storia evolutiva. In effetti ciò sembra molto plausibile (se è vero che gli esseri umani godono del libero arbitrio, questa loro abilità deve essere emersa durante la filogenesi, perché sicuramente alcuni dei nostri antenati nella storia evolutiva, che comincia con gli organismi unicellulari, il libero arbitrio certamente non l’avevano). Tuttavia occorre riflettere su quanta e quale parte della questione della libertà possa essere spiegata in termini evoluzionistici. Molto plausibilmente le spiegazioni neodarwiniane sono potenzialmente in grado di dare conto dei motivi per cui un certo tratto o una certa abilità siano stati selezionati nel corso della storia evolutiva (una questione molto interessante, naturalmente). Non si vede, però, perché dovremmo pensare che le spiegazioni evoluzionistiche possano esaurire la discussione sulla natura di quel tratto o di quella abilità né quella sulla sua rilevanza (al di là di quella adattiva), sul suo significato e sulle sue implicazioni: tutte questioni fondamentali, ovviamente, per un tema come quello del libero arbitrio. Inoltre la discussione sulla rilevanza filosofica delle spiegazioni evolutive (e sulle loro presunte, portentose potenzialità) non si restringe certo al tema del libero arbitrio, ma tocca altre questioni fondamentali, come la coscienza, l’intenzionalità, la morale, la conoscenza; essa dunque non può essere esaurita qui52. Per quanto riguarda, comunque, il senso generale del tentativo di Dennett (su alcune delle sue tesi parHume (1748, p. 95; trad. mia). Dennett (2003). 52 L’ultima, controversa, opera di Robert Nozick (2001), rappresenta un ottimo esempio di quanto lontano si possano spingere i filosofi che tentano di risolvere i problemi filosofici ricorrendo alle teorie scientifiche (in particolare, la fisica e la teoria dell’evoluzione). 50 51
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ticolari tornerò poi), basterà allora dire che esso può contribuire ad affrontare uno dei numerosi aspetti della questione della libertà, ma certo non può avere il carattere risolutivo che Dennett stesso sembra attribuirgli53. 10. Le opzioni teoriche Molte sono le concezioni che si fronteggiano nella discussione sul libero arbitrio. Una prima divisione fondamentale è quella tra due grandi famiglie di teorie: il compatibilismo e l’incompatibilismo54. Secondo il compatibilismo (la concezione che, nella sua forma classica, fu sviluppata da Hobbes, Locke, Hume e Mill) il determinismo non impedisce affatto la libertà. È importante notare che, in sé, tale tesi non impegna a sostenere che il nostro mondo sia deterministico né che gli esseri umani siano liberi; essa, piuttosto, impegna ad accettare una definizione di libertà compatibile con il determinismo55. L’incompatibilismo è semplicemente la negazione del compatibilismo. Si tratta, dunque, di una posizione meramente destruens, che si limita a negare la compatibilità della libertà con il determinismo causale. Per quanto riguarda la pars construens, invece, gli incompatibilisti si dividono in diverse fazioni. Vi sono, innanzitutto, gli incompatibilisti libertari (da qui in poi, semplicemente ‘libertari’), i quali in positivo affermano tre tesi: che la libertà è compatibile con l’indeterminismo causale, che nel mondo umano è presente una si53 Cfr. Fodor (2003) per una critica di Dennett per certi versi non lontana dalla mia. Secondo Fodor, il tentativo di Dennett, come altri analoghi, è costitutivamente insoddisfacente e lascia la stessa sensazione di un pranzo al ristorante cinese: non ci viene mai portato ciò che ci aspettavamo e mezz’ora dopo siamo di nuovo affamati. Forse Fodor si ostina a ordinare dal menu scritto in cantonese; tuttavia si può concordare con l’idea che Dennett riformuli ad hoc i termini del problema della libertà, in modo che esso divenga trattabile, nella sua presunta integrità, in termini evoluzionistici. 54 Questa terminologia si deve a van Inwagen (1983). 55 Detto in termini metafisici: per un compatibilista vi sono mondi possibili che contengono esseri liberi, anche se tutti gli eventi che accadono in quei mondi sono determinati. Questa tesi può essere integrata in diversi modi: un compatibilista può, infatti, affermare tanto che il nostro mondo è deterministico quanto che è indeterministico e, nel contempo, assumere oppure negare la nostra libertà. Come si vedrà, però, nel terzo capitolo alcuni filosofi (talora detti supercompatibilisti) ritengono che il determinismo, oltre ad essere compatibile con la libertà, ne sia anche condizione necessaria: dunque, secondo questo punto di vista, non può darsi libertà senza determinismo.
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gnificativa quantità di indeterminismo e che gli esseri umani godono della libertà. Vi sono poi gli incompatibilisti antilibertari, i quali invece negano la libertà umana. Alcuni di essi (i cosiddetti deterministi hard) pensano che il mondo sia deterministico e che dunque, data l’incompatibilità tra libertà e determinismo, nel mondo non vi sia libertà. Altri (gli scettici) pensano invece che la libertà umana sia incompatibile, oltre che con il determinismo anche con l’indeterminismo; dunque, per questi autori, la libertà è semplicemente impossibile. Il proposito fondamentale di questo volume è di offrire un quadro per quanto possibile completo del dibattito contemporaneo. Nel primo capitolo discuterò dunque del libertarismo e nel secondo del compatibilismo56. Il terzo capitolo sarà invece dedicato alle posizioni dell’incompatibilismo antilibertario, che sono scettiche rispetto alla libertà. Il quarto capitolo, poi, tratterà del nesso tra libertà e responsabilità. Nel quinto ed ultimo capitolo, infine, presenterò una proposta personale per sciogliere alcuni nodi della questione. In particolare, svilupperò una teoria della libertà che, riconoscendo peso ontologico alle peculiari modalità con cui le scienze umane guardano agli uomini in quanto agenti, pone in questione il monismo ontologico e causale del naturalismo scientifico corrente senza per questo rifiutare la concezione scientifica del mondo. Prima di entrare nel merito di questi temi, occorre però dire qualcosa su un altro comune fraintendimento. 11. Un altro fraintendimento Spesso si sente affermare che la discussione contemporanea sulla libertà non ha, in fondo, aggiunto nulla di veramente nuovo rispetto a quanto i filosofi sono andati dicendo dai tempi di Hobbes, Locke e Hume, i quali declinarono in termini naturalistici un tema che fino ad allora aveva avuto carattere teologico. Anzi, secondo alcuni, mutatis mutandis, la discussione contemporanea non è molto originale nemmeno rispetto al finissimo dibattito medievale. Una cita56 Queste due posizioni, si noti, non sono logicamente contraddittorie (come lo sono invece compatibilismo e incompatibilismo), ma contrarie, in quanto possono essere contemporaneamente false (ad esempio, nel caso in cui, in effetti, la libertà fosse impossibile), anche se non possono essere contemporaneamente vere.
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zione da Roderick Chisholm, uno dei protagonisti del dibattito contemporaneo è, in questo senso, molto significativa: È forse superfluo notare che, con ogni probabilità, riguardo a questo antico problema non è possibile dire alcunché di veramente significativo che non sia già stato detto in passato57.
In effetti, è innegabile che la discussione contemporanea dipende, per molti versi, da quelle del passato. Lo spettro delle opzioni teoriche non è sostanzialmente cambiato, alcuni argomenti classici sono ancora molto discussi e, in definitiva, lo strumentario concettuale è, per molti aspetti, simile a quello forgiato nel Seicento e nel Settecento. Nondimeno, il giudizio di Chisholm è, a mio giudizio, estremamente riduttivo. In primo luogo, come si vedrà, il livello di sofisticazione con la quale le suddette opzioni teoriche sono state esplorate negli ultimi decenni è assai superiore a quello del passato. In secondo luogo, è molto migliorata la comprensione di alcuni nodi concettuali essenziali (come il nesso libertà-responsabilità, il significato della ‘possibilità di fare altrimenti’, i diversi tipi di causalità). Inoltre gli apporti della filosofia della scienza e della filosofia della mente hanno modificato sostanzialmente il modo in cui si discute di determinismo, indeterminismo e causazione mentale. Infine, recentemente sono stati proposti argomenti originali – come il celebre Consequence Argument, l’arma più tagliente contro il compatibilismo, su cui tornerò nel secondo capitolo – che hanno fatto progredire notevolmente la discussione, anche se (va detto) non necessariamente ci hanno portato più vicino a una soddisfacente soluzione della controversia. Possiamo dunque dire che la discussione contemporanea ha quantomeno migliorato di molto la nostra comprensione del problema del libero arbitrio. Ma è tempo, ormai, di guardare a questo problema più da vicino. Inizieremo dunque considerando il libertarismo, ovvero la famiglia di concezioni che radicano la libertà nell’indeterminismo. 57
Chisholm (1964a, p. 55).
Capitolo primo
Libertà e indeterminismo
Noi dobbiamo credere al libero arbitrio. Non abbiamo scelta. Isaac B. Singer
La prima famiglia di teorie della libertà è l’incompatibilismo libertario – o, più brevemente, libertarismo1. La tesi cardine delle teorie libertarie è che la libertà è possibile in un contesto indeterministico e soltanto in esso. Questa tesi, tuttavia, è estremamente controversa. Da un lato, infatti, l’indeterminismo – in quanto lascia il futuro costitutivamente aperto – sembrerebbe rappresentare l’ambiente naturale della libertà. Dall’altro lato, però, il tentativo di calare la libertà in un contesto in cui non può esservi determinazione genera enormi difficoltà, se non vere e proprie aporie, sulle quali la letteratura antilibertaria insiste da secoli. Tali difficoltà – che tutte le teorie libertarie devono proporsi di risolvere – saranno affrontate nella prima parte di questo capitolo. Nella seconda parte verranno invece presentate e discusse le diverse teorie della famiglia libertaria. Esse si possono dividere in tre gruppi. Il primo gruppo sostiene una concezione che possiamo chiamare indeterminismo radicale, che si propone di spiegare la libertà congiun1 Naturalmente il significato del termine ‘libertarismo’ in questo contesto è diverso da quello che esso assume nel contesto filosofico-politico, dove denota una teoria che insiste sull’inalienabilità dei diritti individuali e sulla limitazione dell’intervento dello stato nella vita dei cittadini (ma ovviamente possono esserci delle intersezioni: Robert Nozick, ad esempio, era un libertario in entrambi i sensi). Va poi notato che una grave imprecisione terminologica, che si riscontra frequentemente, è l’uso del termine ‘incompatibilismo’ come sinonimo di ‘libertarismo’: come spiegato nell’Introduzione, infatti, molti filosofi che aderiscono all’incompatibilismo non sono libertari (ad esempio perché sono deterministi hard).
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gendo l’indeterminismo con una concezione non causale dell’azione. Il secondo gruppo difende invece l’indeterminismo causale, che coniuga l’indeterminismo con una concezione causale dell’azione. Il terzo gruppo, infine, propugna una concezione comunemente detta agent causation, secondo la quale la libertà dipende da speciali poteri causali degli agenti, incompatibili con il determinismo. Queste versioni del libertarismo hanno diversi gradi di plausibilità. Come si vedrà, tuttavia, nessuna di esse è in grado di rispondere in maniera del tutto convincente alle obiezioni che tradizionalmente vengono mosse contro il libertarismo. 1. Potenzialità dell’indeterminismo Secondo la tesi fondante del libertarismo, la libertà non può che radicarsi nell’indeterminismo. Una vivace difesa di questa tesi fu offerta da Charles S. Peirce, con la sua teoria del ‘tichismo’. Secondo tale teoria, la presunta eccezionalità della mente dipende dalla ‘pura spontaneità’ con la quale nell’universo si producono infinitesimali scostamenti indeterministici nei processi materiali; e tali processi, ovviamente, possono solo approssimarsi all’ideale perfezione del determinismo newtoniano2. In questa prospettiva, il caso è dunque concepito come il fondamento ontologico della coscienza e della libertà: Supponendo che venga meno la rigida precisione della catena causale, non importa di quanto – fosse pure di una quantità infinitesimale –, si trova posto nel nostro schema per inserire la mente, mettendola là dove è necessaria, cioè nella posizione che essa, nella sua qualità di cosa autointelligibile ha il diritto di occupare, quale fonte dell’esistenza: e così facendo, risolviamo il problema della connessione tra l’anima e il corpo3.
La mancanza di determinazione è dunque condizione necessaria della libertà. In uno spirito simile, un altro grande filosofo pragmatista, William James – pur affermando l’insolubilità teorica della questione della libertà – insistette sul valore eminentemente pratico della concezione indeterministica, in ragione del suo intrinseco plurali2 Peirce (1931-1958, passim). Cfr. anche Mori (2001, pp. 192-197) e Calcaterra (1997, pp. 24-28). 3 Peirce (1931-1958, vol. VI, pp. 42-43).
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smo4. In un mondo indeterministico, infatti, il futuro non è già univocamente definito come accade in un mondo deterministico (nel quale «qualsiasi sviluppo futuro diverso da quello stabilito dall’eternità è impossibile»)5. L’indeterminismo, dunque, crea lo spazio logico per l’idea che gli agenti contribuiscano in maniera decisiva a forgiare il proprio futuro. In una tale prospettiva, le scelte e le azioni degli individui possono, secondo James, caricarsi di senso e assumere valore morale (laddove, invece, la concezione deterministica implica un rigido monismo che, secondo James, non lascia spazio per alcuna attribuzione di significato all’agire umano)6. Anche in tradizioni filosofiche ben lontane dalla filosofia pragmatista si insiste sul ruolo dell’indeterminazione e della contingenza nella definizione della libertà umana7. Dallo spiritualismo all’esistenzialismo, infatti, l’esaltazione della spontanea autodeterminazione del soggetto insiste costitutivamente sul reciso rifiuto del determinismo e sulla centralità della contingenza: in questa prospettiva, la libertà diviene il tratto ontologico costitutivo dell’essere umano (per riprendere la celebre formula sartriana, «l’uomo è condannato alla libertà»)8. Nondimeno, l’invisibile ma profondissimo solco che separa – non sempre giustificatamente – le tradizioni filosofiche ha fatto sì che la discussione anglosassone sulla libertà (sulla quale questo lavoro per la maggior parte si concentra) fosse pressoché impermeabile a quella continentale e viceversa. 2. Le sfide del libertarismo Laddove, come si vedrà nel prossimo capitolo, la forza del compatibilismo è nel suo stretto rapporto con la visione scientifica del mondo (all’interno del quale questa concezione tenta di accomodare la nozione di libertà), il valore del libertarismo è nella sua contiguità James (1896). James (1896, p. 174). 6 Mori (2001, pp. 197-200). 7 Per una prospettiva originale sull’emergere della nozione di contingenza nel moderno, alla luce del gioco endiadico tra le categorie di tempo-storia e potereidentità, cfr. Marramao (1985, 2000, cap. 15, e 2003, cap. 2). In Marramao (1992) l’analisi della contingenza connota un programma filosofico in cui limite e possibilità non sono considerati come un deficit ontologico, ma come nodi cruciali di intersezione e apertura di opportunità. 8 Sartre (1943, p. 495). Su queste correnti, cfr. Mori (2001, cap. 6). 4 5
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con l’idea di libertà offertaci dal senso comune. Non è vero, forse, che quando riteniamo di agire liberamente pensiamo di poter scegliere tra diversi corsi d’azione che ci si aprono davanti? E, in tali casi, non pensiamo forse che la scelta tra i possibili corsi d’azione non sia già determinata, ma dipenda interamente da noi? Questa è esattamente l’intuizione che il libertarismo si propone prima di chiarire e poi di incorporare. L’appello dei libertari all’indeterminismo causale si inquadra in questa prospettiva: esso viene pensato come il fondamento ontologico adeguato per una concezione dell’agire che si incentra sulla possibilità di fare altrimenti, intesa in senso categorico: è qui e ora che l’agente, in quanto è libero, potrebbe compiere una scelta o un’azione diversa da quella che di fatto compirà. Nondimeno, il libertarismo incontra molte gravi difficoltà teoriche – al punto che Hume sarcasticamente definiva questa concezione un «fantastico sistema della libertà»9. In particolare, quattro almeno sono i problemi fondamentali ai quali le teorie libertarie devono dare risposta. Essi sono: a) l’apparente incapacità di spiegare come gli agenti possano controllare le azioni che compiono; b) il costante rischio di formulare ipotesi metafisicamente oscure; c) il pericolo di cadere in un regresso all’infinito nella definizione del momento in cui la libertà si esplica; d) la difficoltà di localizzare il cruciale momento indeterministico nel processo che conduce al compimento di un’azione. Il primo di questi problemi – quello relativo al controllo delle azioni – è senz’altro il più grave e da esso, dunque, è bene incominciare. 3. Il problema della mancanza di controllo Il primo problema – vera crux del libertarismo – è che tale concezione, radicando la libertà nell’indeterminismo, sembra farla coincidere con la casualità, che della libertà appare come la negazione. Questo argomento, cui ho già accennato nel primo capitolo, è molto importante; dunque dobbiamo analizzarlo in qualche dettaglio. Come abbiamo visto, una delle due condizioni essenziali della libertà è che al soggetto siano accessibili corsi d’azione alternativi. Questa possibilità, naturalmente, è costitutivamente implicita nell’indeterminismo, proprio perché secondo questa concezione nes9
Hume (1739-40, p. 452).
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sun fattore predetermina ciò che accadrà: dunque, come spesso si dice, in un mondo indeterministico il futuro è aperto (se il lancio di un dado fosse effettivamente un processo indeterministico, non sarebbe pertanto predeterminato il numero che ne risulterebbe). Sembrerebbe che l’indeterminismo sia l’humus adatto per la libertà; ma le cose, purtroppo, non sono affatto così semplici. In un ambiente indeterministico, infatti, per definizione nulla – e dunque nemmeno l’agente – può determinare quale tra i corsi d’azione possibili si attualizzerà: in questo senso, la selezione appare governata dal caso. E il caso è la negazione della libertà. Questo ragionamento può essere reso più perspicuo modificando i termini di un classico esperimento mentale contemporaneo proposto da Hilary Putnam10. Immaginiamo dunque un universo parallelo che sia governato dalle stesse leggi di natura e che fino ad ora abbia avuto una storia assolutamente uguale al nostro universo. Da ciò segue che lo stato in cui l’universo parallelo si trova ora è identico a quello in cui si trova il nostro. Immaginiamo, allora, che nel nostro universo un agente si trovi a dover compiere una scelta tra due corsi d’azione, A e B. Per definizione, nell’universo parallelo c’è il duplicato di questo agente, a lui assolutamente identico, che si trova a dover compiere esattamente la stessa scelta. Ammettiamo ora che da questo momento in poi i due universi comincino ad essere governati da leggi indeterministiche. A questo punto, dunque, le storie dei due universi si divaricano: così, ad esempio, nel nostro universo l’agente sceglie il corso d’azione A e nell’altro il suo gemello sceglie il corso d’azione B (ciò è possibile perché in un universo indeterministico gli stati dell’universo non sempre determinano gli stati successivi). Ora la domanda che dobbiamo porci è questa: dato che l’agente e il suo gemello sono per definizione assolutamente identici – e dunque sono identici tutti i loro stati mentali (credenze, desideri, intenzioni ecc.) – su quale base l’uno sceglie il corso d’azione A e l’altro il corso d’azione B? Qual è, per usare un termine della metafisica classica, la ragione sufficiente di tale divaricazione? La differenza di tali scelte, in effetti, non può essere ascritta né agli agenti né alla loro volontà né ai loro stati mentali, che sono identici. In nessun modo si può allora dire che gli agenti determinino ciò che accade o che essi controllino le proprie scelte e le azioni. Esse avvengono, dunque, per puro caso, per 10 Cfr. Putnam (1975), che peraltro discuteva di tutt’altra questione: il significato dei termini che denotano generi naturali, come ‘oro’ o ‘acqua’.
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mera accidentalità. Ma se il nostro universo fosse effettivamente indeterministico, allora questa situazione si potrebbe generalizzare a tutte le nostre azioni. Tutte, cioè, sarebbero frutto del caso. Intuitivamente, però, è chiaro che, per dirsi libera, un’azione o una scelta non può essere meramente casuale, ma deve essere, in qualche misura rilevante, sotto il controllo dell’agente (o della sua volontà o della sua razionalità o di qualche suo adeguato stato mentale). Quando una persona getta due dadi – non truccati – sperando che diano sette, e ciò accade effettivamente, non diciamo certo che si tratti di un caso di esercizio della libertà, ma solo di mera accidentalità (o di ‘fortuna’, per usare una categoria della metafisica ingenua – ma non solo di essa)11. Quell’agente, infatti, non poteva in alcun modo controllare il risultato che i dadi avrebbero prodotto12. Il libertarismo è dunque esposto all’accusa che l’appello all’indeterminismo, implicando la casualità, lungi dal permettere di dare conto della libertà, di fatto la rende impossibile, perché rende impossibile il controllo degli agenti sulle proprie azioni: e in tal modo anche le idee di responsabilità e razionalità paiono inesorabilmente compromesse. Oggi, come detto nell’introduzione, un argomento di questo genere è sovente ripetuto contro i libertari che tentano di dimostrare la libertà umana facendo appello all’indeterminismo quantistico13. Non si tratta, d’altra parte, di un argomento nuovo14. Molti decenni fa, ad esempio, Moritz Schlick affermava: La libertà d’azione, la responsabilità e la sanità mentale [...] terminano dove comincia il caso [...]. Un alto livello di casualità [significa semplicemente] un alto livello di irresponsabilità15.
A proposito di questo celebre argomento occorre approfondire, però, un aspetto cui ho già accennato nell’Introduzione. Sovente, a sostegno della tesi che l’indeterminismo rende impossibile il controlCfr. Nagel (1976) e Williams (1976), che riprendono un tema kantiano. Ai fini della nostra discussione è irrilevante se in realtà il risultato del lancio dei dadi sia causalmente determinato o meno; il punto rilevante è che l’agente non può controllare il risultato del suo lancio. 13 Cfr. Kane (2002, p. 86). 14 In sede teologica, ad esempio, fu già usato nel Medioevo (contro i sostenitori della cosiddetta libertas indifferentiae) e da Leibniz: cfr. Kenny (1973) e Mori (2001, p. 29). 15 Cit. in Popper (1966, pp. 226-227). 11 12
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lo degli agenti sulle loro azioni, e dunque la stessa libertà, molti autori apportano – o sostengono implicitamente – una tesi ulteriore: quella secondo la quale l’unica forma possibile di causalità è quella deterministica. Secondo questo punto di vista, l’idea stessa di causalità indeterministica è un ossimoro (per questo, spesso si afferma che il libertarismo fa necessariamente appello ad una nozione ‘contro-causale’ di libertà). Fino a tempi recenti la tesi della coincidenza di causalità e determinismo è stata accettata quasi universalmente e su essa si sono accordati autori per altri versi molto distanti tra loro: da Hobbes a Spinoza, da Leibniz a Kant, da Mill a Peirce (che pure era un antideterminista)16. Una classica esposizione di questa tesi si trova ad esempio nel Trattato sulla natura umana di Hume. Secondo Hume, esiste un solo tipo di necessità, quella fisico-causale (in termini contemporanei, quella deterministica), la quale viene inferita dalla mente in presenza della congiunzione costante di eventi17; e dove non si dà questo tipo di necessità, c’è solo il puro caso: C’è un solo tipo possibile di necessità, come c’è un solo tipo di causa [ovvero] la congiunzione costante di oggetti, insieme alla determinazione della mente, la quale costituisce la necessità fisica: e la rimozione di questi elementi è la stessa cosa del caso. [Così] è impossibile ammettere nulla di intermedio tra il caso e l’assoluta necessità18.
Per Hume, allora, se c’è causalità, c’è determinismo; e, di conseguenza, dove c’è indeterminismo c’è solo il caso: La libertà [come la intendono i libertari] rimuove la necessità, e dunque anche le cause, ed è la stessa cosa del caso19. 16 Cfr. Mori (2001, passim). Sull’identificazione teorica di determinismo e causalità, cfr. Earman (1986, cap. 2), Dorato (1997, cap. 1), Pizzi (1997), Laudisa (1999). 17 Sebbene Hume (1748, p. 76) scriva che «si può definire una causa come un oggetto seguito da un altro oggetto, nel caso in cui tutti gli oggetti simili al primo siano seguiti da oggetti simili al secondo», i filosofi contemporanei interpretano il termine ‘oggetto’ come se significasse ‘evento’ (così, ad esempio, Davidson 1967). Altri interpretano i relata causali in termini di proprietà (ad esempio, Crane 2001, cap. 2). 18 Hume (1739-40, p. 221; corsivo mio). Sulle ricadute della concezione humeana della causalità rispetto alla discussione sul libero arbitrio, si vedano le interessanti e molto originali osservazioni sviluppate da Paul Russell (1995, cap. 3 e passim). 19 Hume (1739-40, pp. 454-455).
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I libertari più consapevoli si rendono ben conto della rilevanza del problema del controllo. Popper, ad esempio, scrive che il problema fondamentale è quello di «combinare la libertà e il controllo»20. E, in questa prospettiva, l’indeterminismo, se è certamente condizione necessaria per una soddisfacente spiegazione della libertà, non ne può essere condizione sufficiente: Il mero indeterminismo fisico non è abbastanza. È certo che noi dobbiamo essere indeterministi; ma dobbiamo anche riuscire a capire come gli uomini, e forse gli animali, possano essere ‘influenzati’ o ‘controllati’ da cose come i propositi, gli scopi, le regole o gli accordi21. Ciò di cui abbiamo bisogno per comprendere il comportamento umano razionale [...] è qualcosa di intermedio tra il perfetto caso e il perfetto determinismo22.
Ma che cosa c’è di intermedio tra il caso e la causalità deterministica? Una promettente indicazione in questo senso è venuta da alcuni filosofi della scienza che, negli ultimi decenni, hanno lavorato sull’idea di causalità indeterministica, ovvero una forma di causalità in cui le cause non necessitano gli eventi, ma si limitano ad accrescere la possibilità che si verifichino (o, per metterla diversamente, una forma di causalità in cui le cause non sono sufficienti per l’occorrenza degli effetti)23. Così, un autore come David Lewis, che pure simpatizzava con il compatibilismo, poteva scrivere: Io certamente non penso che la causalità richieda il determinismo. Eventi che accadono casualmente possono nondimeno essere causati. In verità, sembra probabile che nella maggior parte dei casi la causalità sia Popper (1966, p. 232). Ivi, p. 230. 22 Ivi, p. 228. 23 Non è questa la sede per discutere degli aspetti, peraltro estremamente interessanti, che distinguono le varie teorie della causalità indeterministica (essa si applica a singoli eventi o a tipi di eventi? È meglio analizzarla in termini di probabilità condizionali o di condizionali controfattuali?). Cfr., comunque, Reichenbach (1956), Suppes (1970), Salmon (1980 e 1998), Eels (1991) e Laudisa (1999). Va però ricordato che la falsità della tesi deterministica non implica in sé la confutazione del compatibilismo: come ho detto, infatti, questa concezione si limita ad affermare che tra il determinismo causale e la libertà c’è compatibilità logica. Per questo David Lewis (1986) va considerato un compatibilista anche se crede nell’indeterminismo causale, mentre Anthony Kenny (1989, cap. 10) è un compatibilista che si dichiara agnostico rispetto alla questione determinismo-indeterminismo. 20 21
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proprio di questo tipo. [Dunque faremmo bene] a tener conto della causalità indeterministica ovvero della causalità che concerne eventi per i quali le condizioni antecedenti non sono nomicamente sufficienti24.
Nondimeno, se anche questi autori avessero ragione, se cioè fosse vero che esistono processi causali indeterministici, il libertario dovrebbe ancora provare che il riferimento a tali processi è effettivamente utile alla sua causa; resterebbe da chiarire, cioè, in che modo la causalità indeterministica possa aiutare a spiegare come gli agenti possano controllare le azioni che compiono. Come si vedrà, molti libertari (ma non tutti) tentano di rispondere a questa sfida contestando la classica tesi di matrice humeana secondo la quale la causalità indeterministica è impossibile. Se infatti si dimostrasse che indeterminismo e causalità possono coesistere, ci sarebbe forse spazio per impostare una soddisfacente risposta al problema della mancanza di controllo. 4. Il problema dell’oscurità metafisica Il secondo problema che il libertarismo deve affrontare è il rischio dell’oscurità metafisica. Spesso, infatti – nel tentativo di sfuggire all’accusa di schiacciare la libertà sul caso –, le concezioni libertarie ricorrono a spiegazioni metafisicamente molto ardite, che non a torto vengono tacciate di essere oscure, antiscientifiche, miracolistiche o addirittura incoerenti25. Già Hobbes, nel suo dibattito con John Bramhall, vescovo arminiano di Derry, attaccò il libertarismo su questo terreno. Hobbes infatti riteneva che la teoria libertaria di Bramhall presupponesse una concezione di libertà del tutto ad hoc, che non aveva nemmeno il pregio dell’intelligibilità. A parere di Hobbes, nelle tesi di Bramhall gli errori, le confusioni e le contraddizioni erano così numerosi che si potevano spiegare soltanto assumendo che il vescovo fosse incapace di comprendere l’inglese o che difendesse in mala fede tesi ovviamente false o, ancora, che usasse le parole del tutto a caso26. In particolare, Hobbes – come tutta la tradizione compatibilistica successiva – non riteneva intelligibile la nozione di una volontà che si autodetermina. Lewis (1986, p. 175). Cfr. Mele (1995, cap. 11). 26 Cfr. Hobbes (1656, pp. 170, 172, 186). 24 25
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L’accusa di oscurità e di antiscientificità è stata spesso mossa contro le concezioni libertarie: da quella radicalmente dualistica di Cartesio e dei cartesiani a quella trascendentale di Kant – che esplicitamente assumeva l’insolubilità del problema del libero arbitrio sul piano empirico –, da quella tichistica di Peirce al contingentismo di Boutroux27. Molti assertori contemporanei del libertarismo, peraltro, sembrano consapevoli della plausibilità di queste accuse. Di recente, ad esempio, Robert Kane ha descritto (auto)ironicamente una situazione in cui «la mente [del libertario] si obnubila e viene visitata da visioni di sé noumenici, di cause non-occorrenti, di io transempirici, e da altre fantasie»28. Questa è una sfida che il libertarismo contemporaneo non può eludere: dare conto della libertà nei propri termini senza per questo entrare in conflitto con la visione scientifica del mondo. Ma ciò significa che si deve chiarire che cosa la visione scientifica del mondo sia esattamente: un punto – per nulla ovvio, peraltro – su cui occorrerà tornare nell’ultimo capitolo. 5. Il problema del regresso all’infinito Le versioni del libertarismo che considereremo in questo capitolo si differenziano innanzitutto per il tipo di soluzione che danno ai due problemi appena menzionati: per il modo cioè in cui essi tentano di mostrare – senza ricorrere a oscurità metafisiche – come gli agenti controllino le loro azioni. Altre difficoltà tuttavia minacciano le concezioni libertarie. In particolare, una terza accusa, filosoficamente molto grave, è quella di incorrere in un regresso all’infinito. L’argomento che sorregge questa accusa è declinato in maniera diversa, a seconda delle concezioni libertarie contro il quale viene rivolto; la sua struttura essenziale, comunque, è molto semplice. Nella prospettiva libertaria, la libertà di un agente non riguarda solo la sua capacità di agire secondo i decreti della propria volontà (decisioni, scelte, deliberazioni), ma si estende anche a tali decreti. Da ciò segue, secondo questa obiezione, che la decisione di agire in un certo modo deve essere stata a sua volta preliminarmente vagliata e prescelta dall’agente, senza che egli sia stato in ciò determinato (altrimenti si ricadrebbe nello scenario deterministico): in una paro27 28
Su questi temi, cfr. Dessì (1997) e Mori (2001). Kane (1996, p. 14).
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la, è necessario presupporre una metascelta fondata su un criterio liberamente scelto dall’agente. Ma ovviamente anche questa metascelta deve essere stata operata liberamente, e così via ad infinitum29. In una parola, secondo questo argomento l’autodeterminazione è impossibile perché essa presupporrebbe che un agente finito abbia compiuto un numero infinito di scelte. I libertari, dunque, devono spiegare quale processo possa fare sì che un agente determini liberamente le proprie azioni senza innescare un regresso all’infinito. 6. Il problema della localizzazione dell’indeterminismo La quarta, e ultima, difficoltà del libertarismo cui occorre accennare riguarda l’esatta collocazione dell’elemento indeterministico che, secondo i fautori di questa concezione, è cruciale per la libertà. Non è affatto chiaro, infatti, dove debba avvenire la rottura della catena causale deterministica che porta all’azione: le possibilità in questo senso sono molteplici. Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare che il quid indeterministico intervenga al momento della valutazione dei diversi possibili corsi d’azione da parte dell’agente o al momento della sua deliberazione oppure nel tragitto causale tra la deliberazione e l’azione che ne discende o ancora all’atto della formazione delle credenze e dei desideri che poi porteranno l’agente a propendere per una certa scelta o, addirittura, nel corso del processo della formazione del carattere dell’agente (e, naturalmente, si potrebbe anche pensare che nel processo che conduce all’azione vi siano diversi momenti indeterministici). Secondo alcuni, è questa la maggiore difficoltà di ogni teoria libertaria: La difficoltà essenziale, e più significativa, cui vanno incontro i tentativi di fornire una spiegazione incompatibilistica della natura dell’azione libera è quella di localizzare il necessario indeterminismo nella storia cau-
29 Per una dettagliata analisi di questo argomento, già sviluppato da Hobbes contro Bramhall, cfr. G. Strawson (1986, cap. 2). L’argomento del regresso potrebbe anche essere considerato come una variante dell’argomento della mancanza di controllo: se esso è vero, infatti, il libertarismo non può dare ragione del controllo dell’agente sulle proprie azioni (come potremmo controllare un numero infinito di scelte?). Per la sua rilevanza, tuttavia, mi sembra utile tenere separato questo argomento da quello generale della mancanza di controllo. Per una discussione, da una diversa prospettiva, di questo ‘paradosso della scelta’, cfr. Marramao (2000, p. 325).
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sale dell’azione, spiegando perché quella specifica localizzazione è appropriata e importante30.
A mio giudizio, però, sebbene questo sia un problema innegabilmente importante, esso non è cruciale quanto i problemi visti in precedenza: mentre quelli concernevano la stessa legittimità di una concezione libertaria, il problema della localizzazione dell’indeterminismo è logicamente subordinato in quanto riguarda il modo migliore di sviluppare tale concezione. Rispondere a queste domande è il compito principale del libertarismo contemporaneo. Tale compito non si presenta affatto agevole; d’altra parte, dobbiamo ricordarlo, gli autori che tentano di assolverlo, sono già convinti dell’incompatibilità di determinismo e libertà – ad essi dunque non si presenta altra via, se vogliono salvare la nozione di libertà, che dimostrare la praticabilità della proposta libertaria. Robert Kane riassume molto bene il senso di questa sfida: È possibile il libero arbitrio libertario o incompatibilistico? Possiamo dimostrare che tale libertà è coerente e darne una spiegazione più chiara di quella offerta dai libertari in passato, una spiegazione in grado di mostrare come tale libertà possa esistere nell’ordine naturale?31
Nell’ambito della filosofia angloamericana, questa concezione ha conosciuto, negli ultimi decenni, una vigorosa renaissance, grazie alla quale le si sono aperte nuove, e incoraggianti, prospettive32. In tal modo, secondo molti filosofi questa concezione è oggi assai più promettente di quanto non fosse solo pochi decenni fa, quando Peter F. Strawson, esprimendo un diffuso sentire, la bollava come una metafisica «oscura e timorosa»33. 7. Tre forme di libertarismo Le varianti del libertarismo contemporaneo sono tanto numerose quanti i filosofi che difendono questa concezione; nondimeno, nella grande maggioranza dei casi esse possono essere ricondotte ai tre Ekstrom (2000, p. 85). Kane (1996, p. 106). 32 Presentazioni generali del libertarismo contemporaneo nelle sue diverse forme sono in O’Connor (1993), O’Connor (a cura di) (1995a), Kane (1996), Ekstrom (2000, cap. 4), Kane (a cura di) (2002b, parte VI). 33 P.F. Strawson (1962, p. 25). 30 31
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gruppi menzionati all’inizio del capitolo. Il primo gruppo, quello dell’indeterminismo radicale, è caratterizzato da una tesi molto semplice: che per spiegare la natura della libertà sia sufficiente presupporre che le azioni libere sono connesse agli agenti che le compiono (o a loro appropriati stati mentali) mediante un nesso di carattere indeterministico, ma non causale. Il secondo gruppo di teorie libertarie è quello dell’indeterminismo causale, che tenta al contrario di coniugare indeterminismo e causazione. Tanto l’indeterminismo radicale quanto quello causale si propongono di rendere intelligibili le azioni riconducendole agli eventi mentali (motivi, intenzioni, scopi, desideri) che ne sono all’origine34. Tali concezioni, dunque, restano nell’ambito della teoria classica della causalità, secondo la quale l’unica forma possibile di relazione causale è quella che intercorre tra eventi – nel nostro caso tra eventi mentali (qualunque cosa essi siano) ed eventi fisici. Diversa, in questo senso, è invece la terza versione del libertarismo, la cosiddetta agent causation, la quale – sebbene tradizionalmente tacciata di essere metafisicamente oscura e in urto con le acquisizioni della scienza moderna – ha oggi numerosi fautori, i quali sperano di poterne finalmente offrire un’interpretazione che non urti con la visione scientifica del mondo. Analizziamo ora più da vicino queste tre concezioni. 8. Indeterminismo radicale L’indeterminismo radicale (detto anche ‘indeterminismo semplice’, ‘indeterminismo acausale’ e ‘indeterminismo non-causale’) si incentra su una concezione non-causale dell’azione, le cui remote radici storiche possono essere rintracciate nella polemica antideterministica degli epicurei e nella loro tesi che il clinamen fosse condizione necessaria della libertà35. Nella discussione contemporanea, questa tesi viene presentata dicendo che tra l’agente e le sue azioni – almeno quando tali azioni sono libere – intercorrono nessi indeterministici, ma non causali: le azioni, dunque, sono eventi senza cause. A conferma di questa tesi i fautori dell’indeterminismo radicale ricorrono 34 Si noti anche che, com’è comune nella filosofia della mente e nella metafisica contemporanee, uso il termine ‘evento mentale’ in modo da includere anche gli stati mentali. 35 Cfr. Bobzien (2000). Ringrazio Emidio Spinelli per avermi segnalato questo testo.
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spesso ad una peculiare analisi delle spiegazioni delle azioni36. A loro giudizio, tali spiegazioni sono infatti di un tipo diverso rispetto alle spiegazioni causali proprie delle scienze naturali: esse hanno carattere intenzionale, ma irriducibilmente non causale. Consideriamo il caso di una persona, Rossi, che entra in un ristorante. Se noi spieghiamo questa azione dicendo che Rossi è entrato nel ristorante perché ha il desiderio e l’intenzione di mangiare e la credenza che in quel luogo potrà farlo, abbiamo spiegato una determinata azione in termini di stati intenzionali (desideri, credenze e intenzioni) che assumiamo rappresentino le ragioni per cui quell’azione è stata compiuta. Una tale spiegazione, tuttavia, secondo gli indeterministi radicali ha carattere essenzialmente non-causale; e ciò mostra che non v’è motivo di ritenere che le ragioni causino le azioni di cui sono ragioni. Questa tesi conobbe un momento di notevole popolarità all’inizio degli anni Sessanta, grazie a una «fortissima corrente di libretti rossi neo-wittgensteiniani» (per riprendere un’ironica definizione di Donald Davidson)37. Riassunto in maniera schematica, l’argomento apportato a sostegno di questa tesi procedeva così: come ha mostrato Hume, noi non inferiamo nessi causali per mezzo di un’analisi concettuale, ma induttivamente, ovvero verificando la «congiunzione costante» di fenomeni tra loro indipendenti. Tuttavia la relazione tra una ragione e l’azione che ne discende ha, al contrario, carattere logico-concettuale, in quanto noi possiamo inferire ciò che gli agenti fanno solo traendo delle inferenze a partire dalle azioni (anche verbali) che essi compiono: così, quando Rossi entra al ristorante, noi possiamo inferire che egli ha il desiderio e l’intenzione di mangiare (e la credenza che nel ristorante potrà farlo). E ciò, secondo questo argomento, mostra che tra gli stati mentali dell’agente e le azioni che questi compie non vi può essere un nesso di carattere causale – sebbene naturalmente ve ne sia uno di carattere intenzionale. Gli indeterministi radicali contemporanei coniugano l’anticausalismo con la tesi indeterministica: secondo il loro punto di vista, un elemento indeterministico interviene in qualche punto cruciale del processo che conduce al compimento dell’azione. È proprio in forza di questo elemento indeterministico che l’azione che di fatto è compiuta avrebbe potuto non essere compiuta. E si noti che in queLucas (1970), Ginet (1990), Goetz (1997), McCann (1998). Davidson (1976, p. 347). Tra gli autori di questa corrente figuravano A.I. Melden (1961) e S.N. Hampshire (1959). 36 37
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sto contesto ‘avrebbe potuto’ va inteso in senso categorico: trovandosi esattamente nello stato mentale in cui si trovava al momento di entrare nel ristorante, Rossi avrebbe potuto decidere di non farlo. Questo punto di vista permette dunque di spiegare agevolmente in quale senso il futuro sia categoricamente aperto di fronte all’agente; detto altrimenti, esso permette di dare conto del requisito delle possibilità alternative, che abbiamo visto essere componente essenziale della nostra idea intuitiva di libertà. Se le azioni sono incausate, nulla le necessita: dunque, fino al momento in cui una determinata azione è stata compiuta è «nel potere dell’agente compiere in sua vece una qualche azione alternativa (o rimanere inattivo)»38. Tuttavia l’indeterminismo radicale incontra notevoli difficoltà teoriche: basterà qui indicarne tre. In primo luogo, tale concezione implica un’ovvia violazione del principio di causalità, secondo il quale tutti gli eventi hanno una causa: e a parere di molti filosofi tale principio è metafisicamente irrinunciabile. In secondo luogo, l’indeterminismo radicale deve rispondere ad un classico argomento, esposto originariamente da Davidson, teso a dimostrare che le ragioni delle azioni possono esserne anche cause. Infine questa concezione è particolarmente esposta al ‘problema del controllo’ che ho presentato sopra: se si adotta tale teoria, sembra impossibile spiegare come un agente possa esercitare un controllo adeguato sulle proprie azioni. Alla prima obiezione, ovviamente, i fautori di questa concezione non possono che tentare di ribattere con una mossa metafisicamente audace: mettendo in questione la presunta ovvietà del principio di causalità (un punto sul quale tornerò nell’ultimo capitolo). La seconda obiezione, sollevata da Davidson, non è però meno minacciosa39. Davidson nota che per ogni azione si può offrire un numero indefinito di ragioni potenzialmente idonee a spiegarla. Nondimeno è intuitivo pensare che si possa, ed anzi che spesso si debba, distinguere tra le spiegazioni corrette e quelle scorrette; e non c’è dubbio che tale intuizione sia fondamento di molte rilevanti pratiche, a cominciare da quelle giuridiche (si pensi al caso in cui, nell’ambito del diritto penale, occorre accertare quale sia il cosiddetto ‘elemento soggettivo’ di un omicidio che si presta ad essere descritto, alternativamente, come colposo, preterintenzionale o doloso). Ma, allora, come potremmo operare la distinzione tra spiegazioni corrette e scorrette, se non am38 39
Ginet (1989, p. 69). Davidson (1963).
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mettendo che la spiegazione corretta è quella che individua, tra tutte le ragioni potenzialmente attribuibili all’agente, quelle a causa delle quali egli ha compiuto quella determinata azione? Per spiegare perché Rossi è entrato nel ristorante possiamo ipotizzare che intendesse mangiarvi oppure che volesse chiedere un’informazione oppure che desiderasse guardarne l’arredamento e così via. Possiamo ammettere che tutte queste spiegazioni siano plausibili; in genere, però, una sola sarà corretta: quella che individua la ragione, o le ragioni, che hanno causato l’entrata di Rossi nel ristorante40. Secondo Davidson, dunque, se non vogliamo accettare l’assurda idea che tutte le spiegazioni plausibili di una certa azione si equivalgono, dobbiamo concedere che la nozione di causalità sia applicabile alle ragioni ovvero – con buona pace degli indeterministi radicali – che le azioni sono causate dalle ragioni per cui vengono compiute41. Queste due prime difficoltà sono di non poco conto; la terza, quella che imputa all’indeterminismo radicale l’incapacità di spiegare come gli agenti possano controllare le loro azioni, è addirittura devastante. Essa dunque merita una discussione più approfondita. L’idea è che se un evento (ad esempio un’azione) è causalmente indeterminato, allora nulla può controllarne l’accadere, nemmeno l’agente: sembra infatti questione di casualità che quell’evento accada o meno. Carl Ginet – il più autorevole difensore contemporaneo di tale posizione – a questa obiezione replica ricorrendo a una peculiare teoria dell’azione e delle sue spiegazioni. A giudizio di Ginet, tutto il controllo di cui c’è bisogno per spiegare razionalmente le azioni viene in realtà esercitato dall’agente nel momento stesso in cui egli agisce. Infatti, afferma Ginet, chi compie un’azione per definizione ne controlla l’esecuzione – e ciò basta a far sì che l’agente sia responsabile dell’azione che compie, senza bisogno di postulare un presunto (ma inesistente) nesso causale tra l’agente e l’azione. A sostegno di questa tesi, Ginet argomenta che, pace Davidson, le spie40 In molti casi, un agente può dire quale tra le ragioni che potrebbero, potenzialmente, spiegare una sua azione è quella corretta: diremo, allora, che quella ragione ha causato quell’azione. Talora questa ragione può essere meglio individuata da una terza persona (ad esempio, da uno psicologo che ha in cura l’agente). In altri casi, infine, non c’è modo per noi di scoprire quale sia la ragione che ha causato un certo comportamento; ma ciò non significa, naturalmente, che nessuna ragione abbia causato quell’azione. 41 Un interessante corollario di questa tesi è che tutte le spiegazioni intenzionali hanno carattere causale: su ciò, cfr. De Caro (1998a, cap. 2).
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gazioni delle azioni non hanno carattere nomico-causale, ma soltanto intenzionale42. È dunque un errore – tanto grave quanto comune – tentare di uniformare queste spiegazioni a quelle delle scienze naturali: «il paradigma esplicativo delle nostre comuni spiegazioni basate su ragioni è del tutto diverso» scrive Ginet, in quanto «una relazione interna [di carattere intenzionale] è sufficiente a produrre la connessione esplicativa e non c’è alcun bisogno di una connessione nomica»43. In questa luce, «la sola cosa necessaria per la verità di una determinata spiegazione basata su ragioni, oltre al darsi dell’azione spiegata, è che l’azione sia stata accompagnata da un’intenzione con il giusto tipo di contenuto»44. Le spiegazioni intenzionali sono dunque necessarie e sufficienti a dare conto della libertà. Va però detto che questa proposta di Ginet (e altre analoghe avanzate dagli indeterministi radicali) non è convincente45: non si vede infatti come il problema della mancanza di controllo si possa risolvere sostenendo che un agente ha adeguato controllo su un’azione per il fatto stesso che, pur senza causarla, la compie. Il punto è che se un’azione è un evento incausato – anche se è ‘accompagnato’ da una intenzione che lo riguarda, come scrive Ginet – essa è ipso facto indipendente da tutti gli eventi precedenti, inclusi quelli che riguardano l’agente (sia quelli che occorrono in lui quando agisce sia quelli che nel tempo ne hanno forgiato il carattere e il modo di comportarsi): «un evento totalmente incausato è un evento che scaturisce dal nulla, che ha la sua origine nel nulla»46. Un tale evento accade arbitrariamente, casualmente: ceteris paribus, esso potrebbe – 42 Ginet (2002) discute la tesi secondo la quale un genuino ruolo causale nella produzione delle azioni non può essere giocato dagli eventi mentali, ma solo da presunti eventi neurali che realizzerebbero quegli eventi mentali (o che forse, si potrebbe aggiungere, sarebbero ad essi identici, come pensa Davidson 1970). Ma questa è una mera ipotesi empirica ben lungi dall’essere confermata: quindi, secondo Ginet, non si vede perché la dovremmo assumere per confutare la concezione non causale dell’azione. 43 Ginet (1989, p. 91). È interessante paragonare la tesi di Ginet, secondo la quale non è necessario postulare che la relazione intenzionale tra le ragioni e le azioni abbia anche carattere nomologico-causale (deterministico o indeterministico), con quella di Malcolm (1968), secondo la quale le spiegazioni intenzionali sono costitutivamente incompatibili con il determinismo (Malcolm non si pronuncia sull’indeterminismo causale). 44 Ginet (1990, p. 138). 45 Cfr., ad esempio, le critiche di Velleman (1992), O’Connor (1996) e Mele (1992, cap. 13). 46 Ekstrom (2000, p. 92).
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esattamente allo stesso titolo – non accadere (e l’idea dell’intenzione che l’‘accompagnerebbe’ appare tanto misteriosa quanto teoricamente debole). La nozione di controllo, al contrario, richiede che l’agente scelga di compiere una specifica azione in forza dei suoi desideri, delle sue intenzioni, delle sue credenze; in una parola, richiede che egli scelga e agisca nel modo in cui sceglie e agisce perché (un ‘perché’ che ha evidente carattere causale, si noti) quell’agente è la persona che è. Le azioni, considerate alla luce di questa concezione, si presentano come eventi casuali, incontrollabili: la rinuncia al nesso causale tra agente e azione sembra dunque compromettere non solo la possibilità dell’azione libera, ma dell’azione tout court. Questo argomento è molto convincente. Esso fornisce un’ulteriore dimostrazione che l’indeterminismo radicale non è in grado di dare conto del concetto di libertà metafisica. 9. Indeterminismo causale La seconda concezione libertaria, il cosiddetto ‘indeterminismo causale’, è più sofisticata dell’indeterminismo radicale. Nei suoi dettagli, tale concezione è stata elaborata recentemente, incontrando un certo successo47. I suoi fautori accettano la critica contro l’indeterminismo radicale, secondo la quale tale concezione non riesce a spiegare come gli agenti esercitino il controllo sulle azioni che intraprendono (e, dunque, non riesce nemmeno a spiegare perché tali azioni siano libere); nondimeno, essi pensano che al libertarismo possa essere data una veste metafisicamente accettabile. La loro idea, in sostanza, è che la nozione di causazione indeterministica può rendere conto della possibilità di fare altrimenti – che, come si vedrà, è molto problematica se si accetta il punto di vista compatibilistico – senza tuttavia postulare una bizzarra peculiarità causale dell’agire umano o nessuna causalità affatto (come accade con le altre versioni del libertarismo). Secondo la tesi fondamentale di questa concezione, lungo la catena causale ininterrotta che conduce al compimento dell’azione, interviene in qualche punto rilevante – tra il processo di formazione delle credenze, il processo deliberativo e l’esecuzione dell’azione – un cruciale elemento di indeterminismo. È tale elemento a garantire la possibilità di fare altrimenti: in questa prospettiva, infatti, per de47 Cfr. Wiggins (1973), Thorp (1980), Nozick (1981), Kane (1996) e Ekstrom (2000).
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finizione le azioni non sono il prodotto di una causazione deterministica; quindi potrebbero non accadere, anche in presenza dello stesso passato e delle stesse leggi di natura. L’idea di coniugare indeterminismo e causalità per spiegare la libertà a molti è sembrata audace: come abbiamo visto, infatti, molti filosofi, come Hume e Schlick, ritengono che la causalità non possa che essere deterministica. Nondimeno, come detto, recentemente alcuni studi di filosofia della scienza hanno aperto la strada a questa ipotesi: e, sulla loro scia, autori come John Austin, Elizabeth Anscombe, Hilary Putnam e più recentemente Robert Kane hanno iniziato ad applicare la nozione di causalità indeterministica alla questione del libero arbitrio48. L’idea fondamentale di questo indirizzo di ricerca è presto detta: per poter affermare che un agente causa una certa azione è sufficiente che egli intenzionalmente si adoperi in maniera adeguata per compiere quell’azione, anche se il risultato dei suoi sforzi in tal senso non è determinato o inevitabile. In una parola, l’idea è quella di una forma di causalità indeterministica che non necessiti l’effetto, ma semplicemente aumenti la probabilità che esso accada: in questo modo, l’effetto non è determinato dalla propria causa. Immaginiamo che un efferato bracconiere si appresti a sparare a un panda e che nel sistema cerebrale del bracconiere avvengano degli eventi indeterministici che lo influenzano mentre prende la mira e preme il grilletto. Ora, qualunque sia l’effetto dello sparo, esso non seguirà deterministicamente, ma solo probabilisticamente, alle azioni del bracconiere. È del tutto chiaro, tuttavia, che nel caso in cui lo sparo uccida effettivamente il panda non diremmo che l’azione del bracconiere non sia causa della sua morte né che questi non ne sia responsabile. Anche se la catena causale di questi eventi è indeterministica, non ne segue affatto che tutto sia ridotto a caos né che libertà e responsabilità svaniscano ipso facto, come spesso, invece, viene affermato49. La causalità indeterministica non sembra dunque impossibile. Resta tuttavia da chiarire in quale modo essa possa contribuire a spiegare la libertà. Una delle più chiare presentazioni in questo senso è stata offerta da Robert Nozick50. Secondo la proposta di Nozick, un cruciale momento indeterministico si dà nel momento in cui l’agente valuta comparativamente gli insiemi di ragioni che militano Cfr. Austin (1961), Anscombe (1971), Putnam (1976), Kane (1996). Vedi Kane (1996, pp. 54 sgg.). 50 Nozick (1981, pp. 291-362). 48 49
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in favore dei diversi corsi d’azione che gli si aprono davanti; più in particolare, secondo Nozick prima di questa valutazione le diverse ragioni non hanno un ‘peso’ oggettivo, ovvero non determinano già, intrinsecamente, quale sarà il corso d’azione che l’agente sceglierà. Infatti è soltanto al momento della ‘pesatura’, in cui l’agente compara le diverse ragioni, che esse assumono i pesi relativi che fanno propendere l’agente in favore di una di esse a scapito delle altre: Le ragioni non occorrono con pesi già dati e specificati in precedenza; il processo decisionale non consiste nello scoprire quali siano tali pesi, ma nell’assegnarli. Tale processo non consiste solo nel soppesare le ragioni, ma (anche) nell’attribuirle [...]. Questo processo di pesatura può essere precisamente focalizzato oppure può implicare il considerare o il decidere che genere di persona si vuole essere, quale genere di vita si vuole condurre [...]. L’azione [dell’agente] non è (causalmente) determinata, perché esattamente nella stessa situazione egli potrebbe aver deciso diversamente; se la storia del mondo tornasse indietro fino a quel punto, essa potrebbe continuare con un’azione diversa. Rispetto alla sua azione, quella persona possiede ciò che è stata chiamata libertà contro-causale – e che meglio potremmo dire contro-deterministica51.
In questo quadro, si noti, la possibilità di fare altrimenti non è concepita in termini controfattuali, come accade nello scenario compatibilistico (non è cioè del tipo: ‘se l’agente avesse un desiderio diverso, sceglierebbe diversamente’), ma categorici: l’agente potrebbe effettivamente agire, in un modo o nell’altro, esattamente nelle condizioni in cui si trova: hic et nunc. Consideriamo un esempio. Cesare è in meditazione sulle rive del Rubicone: è meglio passarlo con le proprie legioni, dando inizio all’ennesima guerra civile, oppure sciogliere le truppe e consegnare Roma all’odiato Pompeo? Si pone qui, evidentemente, un conflitto tra due insiemi di ragioni (desideri, credenze, timori, intenzioni ecc.), che sono dati. Tuttavia, secondo il modello della causazione indeterministica, non è già stabilito quale sia l’insieme di ragioni preponderante né, conseguentemente, quale corso d’azione Cesare sceglierà: il peso delle ragioni, in una parola, non è assoluto, ma viene determinato nel corso del processo deliberativo che porta l’agente ad intraprendere un determinato corso d’azione. Una tale decisione, tuttavia, non giunge in maniera arbi51
Nozick (1981, pp. 294-295).
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traria: essa, infatti, è causalmente influenzata, sebbene non sia determinata, dalle ragioni che militano in favore di quello specifico corso d’azione (ad esempio, la gloria e il potere che Cesare poteva pensare gli sarebbero derivati dal passaggio in armi del Rubicone). Adattando un adagio medievale, potremmo dire che, in questo scenario, le ragioni ci inclinano in favore di certe scelte, ma non le necessitano. Per fare un esempio diverso, si pensi al personaggio dell’alcolista interpretato da Ray Milland in Giorni perduti di Billy Wilder: quel soggetto alterna momenti in cui segue l’inclinazione al vizio che lo rende schiavo e altri in cui riesce ad imporsi di non bere. Secondo il modello indeterministico-causale, dunque, gli agenti possono scegliere tra corsi d’azioni alternativa, privilegiando (senza essere in ciò determinati) l’uno o l’altro degli insiemi di ragioni che ne stanno a fondamento. Tale processo di valutazione ha nello stesso tempo carattere indeterministico e causale. Il carattere indeterministico discende dal fatto che il peso relativo dei diversi insiemi di ragioni per agire non è predeterminato: è nel potere dell’agente, in senso categorico, privilegiare l’uno o l’altro di questi insiemi e agire di conseguenza. Il carattere causale del processo descritto da Nozick dipende invece dal fatto che la particolare valutazione operata dall’agente ha come effetto l’azione che questi compie. In tal modo questa concezione ha soprattutto il pregio di garantire, nella maniera appena descritta, la problematica ‘possibilità di agire altrimenti’, senza spezzare il filo che lega causalmente le ragioni, le valutazioni e le deliberazioni degli agenti alle azioni che ne discendono. Anche se la catena causale degli eventi che conduce all’azione non è deterministica, sostengono i fautori di questa concezione, non ne segue che tutto sia ridotto a caos, come accade con l’indeterminismo radicale. Ciò tuttavia non significa che l’indeterminismo causale sia completamente convincente. Tre difficoltà, infatti, lo insidiano – e definiscono l’agenda dei filosofi che vorranno tentare di sviluppare questa concezione nei prossimi anni. In primo luogo, come si è visto nell’Introduzione, occorre ancora chiarire esattamente che cosa la causazione indeterministica sia, come funzioni e in quali casi essa si dia; e questo è un compito che attende, in modo particolare, i sostenitori delle versioni indeterministico-causali del libertarismo. Ma questi autori devono fronteggiare anche altre sfide. Intuitivamente, ad esempio, verrebbe da pensare che in realtà accade di rado che noi ponderiamo a fondo le nostre decisioni, valutando i pro e contro delle diverse azioni. Nella maggior parte dei casi, piuttosto, agiamo 47
d’istinto o comunque senza un processo deliberativo definito del tipo di quello cui si riferisce Nozick. Diremmo forse che in quei casi non godiamo della facoltà del libero arbitrio?52 La critica più insidiosa è però un’altra. Essa riformula l’accusa che abbiamo già visto muovere contro l’indeterminismo radicale, secondo la quale quella concezione non è veramente in grado di spiegare come gli agenti possano esercitare il controllo sugli specifici corsi d’azione che, tra tutti quelli possibili, essi effettivamente intraprendono. Per comprendere questa obiezione concediamo per un momento che, nel valutare le ragioni che militano in favore di due azioni alternative (ad esempio, bere un bicchiere di whisky o un bicchiere d’acqua), un agente ricorra effettivamente all’operazione indeterministica di ‘pesatura’ descritta da Nozick e immaginiamo che, in virtù di ciò, egli decida di bere un bicchiere d’acqua. Dato il carattere indeterministico del processo, tuttavia, l’agente avrebbe potuto pesare diversamente le proprie ragioni e optare, di conseguenza, per l’azione alternativa. A questo punto dobbiamo chiederci che cosa abbia fatto sì che l’agente scegliesse la prima opzione. Si noti che, esattamente nella stessa situazione, egli avrebbe potuto scegliere diversamente: se così non fosse, infatti, la sua scelta sarebbe stata determinata; dunque, in quello specifico momento, dagli stati interni dell’agente – dalle sue credenze, dai suoi desideri – sarebbero potute discendere scelte e azioni diverse. Ma allora non si può dire che tali stati abbiano fatto la differenza, ovvero che sia dipeso da essi che l’agente abbia scelto di bere l’acqua invece del whisky: infatti, se un atto è indeterminato, per definizione nulla lo determina: a fortiori nemmeno l’agente con i suoi stati interni. Dunque, se anche fosse vero che l’agente causa indeterministicamente le proprie azioni, non ne seguirebbe che egli le controlla, ovvero che è in grado di determinare quale tra i possibili futuri si attuerà. In sostanza, in tale scenario il contributo causale indeterministico dell’agente al compimento dell’azione non pare sufficiente a impedire che anche contro questa concezione venga elevata, sia pure riformulata, la classica accusa antilibertaria: quella secondo la quale l’indeterminismo impedisce il controllo dell’agente sulle proprie azioni.
52 Sull’interessante questione di quali e quante siano le situazioni in cui noi esercitiamo il libero arbitrio (assumendo che l’abbiamo), si veda l’interessante dibattito tra van Inwagen (1989 e 1994), da una parte, e Fischer, Ravizza (1992), dall’altra.
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Tali difficoltà non sono affatto di poco conto53. Per questa ragione, alcuni filosofi tentano oggi di legittimare un’altra teoria libertaria, metafisicamente molto più audace, ma immune – secondo i suoi fautori – da queste difficoltà. 10. L’«agent causation» Come abbiamo visto, il problema fondamentale che affligge tanto l’indeterminismo radicale quanto quello causale è che queste concezioni non sembrano in grado di dare conto del controllo che un agente deve avere sulle proprie azioni se queste devono dirsi libere. A questa difficoltà, secondo alcuni autori non è invece esposta la terza forma di libertarismo, l’agent causation, detta anche «causalità creativa» e «causalità immanente»54. Questa concezione, tuttavia, ha origini molto antiche e i suoi stessi sostenitori citano come loro ispiratori Aristotele, Carneade, Kant e soprattutto Thomas Reid, il quale, negli Essays on the Active Powers, sviluppò una vigorosa polemica contro «la grande e gloriosa dottrina della necessità»55 – alla quale, secondo Reid, apparteneva anche la concezione humeana – proponendo una visione libertaria incentrata su un’originale concezione della causalità. L’idea fondamentale dell’agent causation è di postulare uno speciale fattore di controllo causale che, evitando l’apparentemente ineludibile collasso della causazione indeterministica sul caso, permetta di spiegare come gli agenti possano controllare le proprie azioni. Tale fattore causale è rappresentato dallo stesso agente, al quale viene attribuita la peculiare capacità di autodeterminare la propria volontà originando nuove catene causali. Questa concezione si fonda su due tesi – tra loro connesse – che, a seconda dello spirito con cui le si guarda, possono essere viste come originali e promettenti oppure come bizzarre, misteriose e intrinsecamente antiscientifiche. La prima tesi — che è propria, come detto, del libertarismo in generale, ma viene declinata in senso molto radicale dai teorici dell’agent causation – afferma che la libertà non 53 Va notato che lo stesso Nozick non abbracciò mai completamente la propria proposta e, dopo Philosophical Explanations, si rifiutò di tornare su un tema che considerava intrattabile. 54 Cfr. Chisholm (1964 e 1976), R. Taylor (1966), Campbell (1967), O’Connor (1993 e 2000), Clarke (1996) e, sebbene provengano da un diverso humus culturale, Popper (1966) e Popper, Eccles (1977). 55 Reid (1788, p. 307).
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riguarda soltanto le azioni, ma si estende anche (anzi, soprattutto) alla volontà; la seconda è che la libertà richiede una forma peculiare di causalità, irriducibile alla normale causalità tra eventi. Per giudicare l’agent causation bisogna dunque valutare la plausibilità di queste due tesi. A questo scopo, è bene ricordare come esse siano state difese prima da Thomas Reid e poi dal suo continuatore contemporaneo più autorevole, Roderick Chisholm. Secondo la prospettiva reideana oltre alla forma di causazione che intercorre tra eventi, che è l’unica riconosciuta dalla tradizione humeana e neohumeana, ve n’è un’altra, del tutto peculiare, che entra in gioco quando si considerino gli agenti razionali. Gli agenti, infatti, possono originare nuove catene causali e possono fare ciò perché svolgono il loro ruolo causale in quanto sono sostanze. Le sostanze non possono essere causate, al contrario degli eventi, ma possono iniziare nuove catene causali di eventi che poi seguiranno un corso deterministico56: più precisamente, gli agenti deliberano quali corsi d’azione intraprendere, determinando liberamente la propria volontà. In tale processo, naturalmente, le passate esperienze, il carattere, le circostanze del momento influiscono sugli agenti; tuttavia è essenziale notare che tale influsso non ha carattere deterministico: anche in questo caso si può ripetere la formula leibniziana secondo la quale nelle loro determinazioni gli agenti sono inclinati, ma non necessitati57. Secondo Reid, questa è l’unica vera forma di autodeterminazione ed essa è incompatibile con il determinismo. I compatibilisti, come Hobbes e Hume, al contrario, prospettano una libertà fittizia secondo la quale gli agenti sono liberi di agire secondo i decreti della loro volontà, sulla quale tuttavia non possono intervenire perché essa è sempre già determinata: Dire che ciò che dipende dalla volontà è nel potere dell’uomo, mentre la volontà non è nel potere dell’uomo è come dire che il fine è in suo potere, ma i mezzi necessari per raggiungere quel fine non sono in suo potere, il che è una contraddizione58.
Dunque, laddove per la tradizione Hobbes-Hume la libertà è la capacità degli esseri razionali di agire, in assenza di vincoli interni ed 56 Sull’approccio reideano alla questione della libertà metafisica, cfr. Rowe (1991). 57 Chisholm (1964a, p. 69). 58 Reid (1788, p. 329).
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esterni, seguendo la propria volontà – la quale è però integralmente eterodeterminata –, secondo Reid la libertà è un potere causale degli agenti che in primis si rivolge alla loro stessa volontà, determinandola, e solo derivativamente alle azioni che ne discendono59. Reid concede, naturalmente, che nel mondo degli eventi naturali non accade mai che catene causali inizino ex nihilo. E tuttavia egli aggiunge che non si può assumere, come una sorta di dogma scientifico, che anche gli esseri umani facciano parte del meccanismo della natura. Occorre provarlo – e una tale prova, secondo Reid, non è disponibile (ché anzi, il senso comune e l’esperienza quotidiana ci suggeriscono il contrario): Io concedo che, se si considera una bilancia o una qualunque macchina, quando non c’è causa esterna del suo movimento, essa debba rimanere in quiete, in quanto la macchina non dispone del potere di muovere se stessa. Ma applicare questo ragionamento all’uomo significa dare per scontato che l’uomo è una macchina, che è proprio il punto in questione60.
A parziale difesa di questa ardita tesi reideana va detto che, almeno prima facie, l’agent causation pare in grado di dare conto di entrambi i requisiti della libertà meglio di quanto non facciano il compatibilismo e le altre concezioni libertarie. Da una parte, infatti, tale teoria garantisce il controllo da parte degli agenti sulle proprie azioni per il fatto stesso che essi determinano la propria volontà e le azioni che ne discendono, senza essere in ciò determinati, e dall’altra lascia ovviamente spazio per la possibilità di fare altrimenti in quanto nega il determinismo. Nondimeno, come già si può inferire dal passo di Reid appena citato, l’agent causation corre palesemente due rischi, entrambi esiziali. In primo luogo, tale concezione sembra precipitare l’idea di libertà nel baratro di una metafisica arcana e antiscientifica: noi – affermano i critici di questa condizione – abbiamo esperienza soltanto di forme di causazione tra eventi; cos’è mai, dunque, questa misteriosa ‘causazione da parte degli agenti’? E questo problema è certamente pressante, se perfino un fautore contemporaneo dell’agent causation quale Richard Taylor ha scritto che «la concezione degli uomini e dei loro poteri che essa implica è in realtà 59 La libertà è «un potere sulle determinazioni della propria volontà» (Reid 1788, p. 323). 60 Reid (1788, p. 328).
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strana, se non misteriosa del tutto»61. In secondo luogo, molti critici hanno affermato, non del tutto ingiustificatamente, che l’agent causation ha tutta l’apparenza di una concezione costruita ad hoc allo scopo di risolvere il problema della libertà, ma che essa manca del tutto di ogni altro sostegno empirico o teorico indipendente: insomma, che essa è nulla più di «un’etichetta per ciò che i libertari desiderano, piuttosto che la teoria di cui hanno bisogno»62. Nondimeno alcuni filosofi contemporanei sperano di dare una veste metafisicamente accettabile all’agent causation63. Con questa speranza, essi ripartono dalla proposta di Reid, postulando – come spiega un giovane fautore di questa teoria – «una forma di causazione sui generis da parte dell’agente, che viene considerata irriducibile (tanto ontologicamente quanto concettualmente) ai processi della causazione tra eventi»64. Naturalmente, oggi i teorici dell’agent causation non polemizzano più contro la vetusta visione meccanicistica del mondo. Piuttosto, il loro obiettivo polemico sono le versioni riduzionistiche del naturalismo (la concezione secondo la quale le scienze della natura, se non la sola fisica, definiscono completamente i limiti dell’ontologia): in una prospettiva del genere, in effetti, certamente nel mondo non c’è spazio per i presunti poteri causali degli agenti. A mio giudizio, la sfida principale per i fautori contemporanei dell’agent causation è, dunque, di darne una versione che sia antiriduzionistica, ma non antiscientifica. Per giudicare della plausibilità di questo progetto, consideriamo una delle più autorevoli proposte: quella di Roderick Chisholm. La proposta di Chisholm, oltre che a Reid, si ispira anche ad Aristotele. Ad epigrafe di un celebre articolo dal carattere programmatico, Human Freedom and the Self, Chisholm pone infatti il passo della Fisica che recita: «Un bastone muove una pietra ed è mosso da una mano, che è mossa da un uomo»65. Egli intende così sottolineare che, quando procediamo a ritroso nelle analisi delle azioni, giungiamo a un punto in cui non si deve più dire che un evento ne ha causato un altro, ma piuttosto che un agente ha iniziato una nuova catena causale senza essere in ciò necessitato. Così Chisholm riformula la tesi che attribuisce ad Aristotele: Taylor (1974, p. 56). Kane (1996, p. 121). 63 Cfr. Chisholm (1964a e 1976), O’Connor (2002). 64 O’Connor (1995c, p. 7). 65 La citazione da Phys., 256a, 6-8, è in esergo a Chisholm (1964a). 61 62
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Ognuno di noi [...], nel fare ciò che fa causa l’accadere di alcuni eventi e nulla – o nessuno – è causa del suo causare l’accadere di quegli eventi66.
La causazione deterministica tra eventi, che Chisholm definisce «transeunte», non è dunque l’unica: esiste anche la causazione «immanente» che è propria degli agenti razionali e che lascia spazio per la libertà. Per chiarire il senso della sua proposta, Chisholm audacemente richiama un’analogia tra l’agente che liberamente inizia nuove catene causali deterministiche e il «primo motore immobile» della tradizione aristotelico-tomistica. Secondo la sua concezione Noi abbiamo una prerogativa che alcuni sarebbero inclini ad attribuire soltanto a Dio: ognuno di noi quando agisce è un primo motore immobile67.
In tale prospettiva, afferma ancora Chisholm, un’azione è libera in quanto deriva dalla creazione della volontà dell’agente, non dalla sua mera esplicazione. In tal modo la possibilità di fare altrimenti non è condizionata, come vorrebbero i compatibilisti, ma categorica (se l’agente non è necessitato nelle sue scelte, infatti, egli per definizione potrebbe decidere diversamente). Sia la possibilità di fare altrimenti che l’autodeterminazione sono garantite: e in tal modo la libertà sembra spiegata. Tuttavia, come detto, l’agent causation corre un duplice rischio. Da una parte, sembra postulare una misteriosa eccezione all’ordine di natura; dall’altra, pare elaborata ad hoc, proprio al fine di spiegare come la libertà sia possibile: essa, infatti, postula speciali poteri causali negli agenti. Ma se non si dà una spiegazione indipendente di che cosa questi poteri siano e di come essi si integrino nel sistema nomologico della natura, il rischio è quello di evocare la parodia molieriana dei poteri aristotelici, con il sonnifero che fa dormire perché possiede la vis dormitiva. La risposta di Chisholm a quest’ultima obiezione – anche in questo caso ispirata da Reid – è interessante e degna di essere esplorata. Se Hume ha ragione, scrive Chisholm, a ritenere che la nozione di causa non è fondata ontologicamente, ma è soltanto inferita dalla mente umana a partire dall’osservazione di congiunzioni costanti di fenomeni, ci si deve domandare da dove noi deriviamo l’idea di causalità, che poi applichiamo ai fenomeni che sono in congiunzione co66 67
Chisholm (1964a, p. 68). Ibid.
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stante tra loro. Naturalmente in una prospettiva empiristica non si può certo assumere che l’idea di causalità sia innata: la tesi di Reid, citata da Chisholm, è che questa idea derivi dalla nostra consapevolezza di poter far accadere eventi agendo nel mondo: Noi, molto probabilmente, possiamo concepire cause efficienti perché le deriviamo dall’esperienza [...] del nostro potere di produrre determinati effetti68.
Noi, in quanto agenti, abbiamo la consapevolezza di causare eventi: ed è proprio da qui che deriviamo il concetto di causalità, che poi applichiamo alle relazioni tra eventi in congiunzione costante. Questo argomento mi sembra di notevole interesse e credo possa offrire una base per replicare a chi vede nella causazione degli agenti solo uno stratagemma metafisico ad hoc per risolvere l’enigma del libero arbitrio. Nondimeno resta ancora in piedi l’altra, più grave obiezione che viene mossa contro l’agent causation. Essa riguarda la nozione di una mente (di un sé, di una coscienza) che si autodetermina, così rappresentando un’eccezione all’ordine naturale, che è invece scandito dalle leggi della causazione tra eventi. Che cos’è questa mente? Qual è il suo nesso con gli enti naturali? Come può essa creare una tale frattura nella struttura nomologica dell’universo? Nel tentativo di rispondere a queste domande, i fautori dell’agent causation si dividono in due fazioni. Alcuni si sforzano di inquadrare la loro concezione in una visione naturalistica (sia pure di naturalismo soft)69 e a questo scopo lavorano su nozioni come quelle di sopravvenienza ed emergenza70. Questi tentativi, ancorché allo stato aurorale, sono a mio giudizio abbastanza promettenti e vanno seguiti con interesse. Un altro gruppo di fautori dell’agent causation, invece, adotta una strategia metafisicamente assai più radicale e non esita ad appellarsi a nozioni sovrannaturalistiche – che la maggior parte degli autori considera oggi screditate – come quelle di dualismo ontologico cartesiano e di interazionismo. In questa luce, ad esempio, Popper scrive: «Io sono quasi un cartesiano, perché rifiuto la tesi della completezza fisica di tutti gli organismi viventi»; e poi aggiunge: «asChisholm (1964a, p. 67; trad. modificata). Cfr. O’Connor (1995, 2000, cap. 6, e 2002) e Clarke (1996). 70 Su queste nozioni, cfr. Kim (1996). 68 69
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sumere un’interazione di stati fisici e mentali offre la sola soluzione soddisfacente del problema di Cartesio» (ovvero il problema dell’interazione tra il mentale e il fisico)71. Popper ha poi sviluppato questa concezione, tentando di corroborarla alla luce delle acquisizioni della meccanica quantistica72. Numerose ragioni però (l’infelice interpretazione in termini epistemici del determinismo73, la quasi assoluta mancanza di riferimenti al dibattito contemporaneo sulla libertà, gli spiccati toni spiritualistici, il recupero di categorie metafisiche comunemente considerate obsolete) hanno fatto sì che il contributo di Popper al dibattito sulla libertà non incidesse veramente sulla discussione. Alcuni dei suoi suggerimenti, tuttavia, possono a mio giudizio presentare elementi di interesse – sempre che vengano depurati dall’ispirazione realistico-metafisica di stampo spiritualistico che li pervade: tra questi mi paiono particolarmente rilevanti, in particolare, l’insistenza sul carattere pluralistico della realtà e il rifiuto della tesi della chiusura causale del mondo fisico. Su questi temi, e in generale sulla possibilità di formulare una versione dell’agent causation che non urti con la visione scientifica del mondo, tornerò nell’ultimo capitolo, formulando una proposta in tal senso. In questo capitolo abbiamo studiato le principali varianti del libertarismo: l’indeterminismo radicale (che è basato su una teoria non causale dell’azione), l’indeterminismo causale (che fa invece riferimento a una teoria causale dell’azione) e l’agent causation (che postula speciali poteri causali degli agenti). Ne è risultato che tutte le teorie libertarie sono afflitte da difficoltà maggiori di quelle che riescono a risolvere. In particolare, tali teorie sembrano incapaci di spiegare in modo convincente come gli agenti possano controllare le azioni che compiono; esse, inoltre, risultano metafisicamente oscure e, nel tentativo di dare conto della nozione di ‘libera scelta’ rischiano di incorrere in un regresso all’infinito. Nel prossimo capitolo constateremo però che anche l’alternativa teorica al libertarismo – il compatibilismo – è esposta a critiche tanto giustificate quanto distruttive. 71 Popper (1966, p. 231 n., e p. 252 n.). Per una proposta per certi versi simile, cfr. Swinburne (1986). 72 Cfr. Popper, Eccles (1977). 73 «Il determinismo fisico implica che ogni evento fisico nel futuro remoto (o nel passato remoto) è prevedibile (o retrovedibile) a qualunque livello di precisione desiderato, a condizione che noi abbiamo conoscenza sufficiente dello stato presente del mondo fisico» (Popper 1972, p. 221). Per una critica di questa definizione di determinismo, cfr. supra, Introduzione.
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Capitolo secondo
Libertà e determinismo
Nessun uomo è libero, se non è padrone di se stesso. Epitteto
Come abbiamo visto nel precedente capitolo, il tentativo libertario di provare che la libertà si radica nell’indeterminismo non raggiunge risultati soddisfacenti: tutte le versioni del libertarismo, infatti, incorrono in difficoltà apparentemente insormontabili. Alla luce di questo insuccesso generale, molti hanno ipotizzato che il punto debole del libertarismo risieda nel suo presupposto fondamentale, secondo la quale la libertà è incompatibile con il determinismo. Il compatibilismo (l’altra grande famiglia di concezioni della libertà) si fonda sul rovesciamento della tesi libertaria ovvero sull’idea che, in sé, il determinismo non impedisce affatto la libertà. Ma la ragione del vasto credito di cui il compatibilismo ha a lungo goduto – e in parte ancora gode, soprattutto nel mondo filosofico anglosassone – non risiede soltanto negli insuccessi del libertarismo. Un importante pregio di tale concezione è che essa si pone programmaticamente il compito di dare conto della libertà umana nel quadro della visione scientifica del mondo: e questo è il motivo per cui il compatibilismo attrae molti di coloro che si preoccupano dell’armonizzazione delle teorie filosofiche con quelle scientifiche. Non tutti, però, sono convinti del valore di questa concezione della libertà. Negli ultimi anni, in particolare, il compatibilismo è stato oggetto di attacchi energici e ben argomentati; per questo le sue prospettive appaiono oggi tanto indefinite e incerte quanto quelle del libertarismo.
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1. Il compatibilismo e i suoi critici In Freedom To Act, un saggio del 1973, Davidson celebrava il compatibilismo: [Taluni] credono di poter asserire, o addirittura provare, che la libertà sia incompatibile con l’assunzione che le azioni sono determinate causalmente, almeno nel caso in cui le loro cause possano venire ricondotte a eventi esterni all’agente. Io non discuterò direttamente di tali argomenti, perché non ne conosco di plausibili, se non superficialmente. Hobbes, Locke, Hume, Moore, Schlick, Ayer, Stevenson e un gran numero di altri hanno fatto tutto ciò che era possibile fare, o che poteva essere necessario fare, per rimuovere le confusioni che danno l’impressione che il determinismo impedisca la libertà1.
Questa citazione è degna di nota per varie ragioni. In primo luogo, per la nettezza con cui sostiene che il rifiuto del compatibilismo non può che riposare su «confusioni» concettuali; in secondo luogo, perché, nel lodare la tradizione compatibilistica, Davidson ne elenca utilmente i numi tutelari (da Hobbes ai neopositivisti); in terzo luogo, perché – per ragioni che spiegherò tra breve – questa citazione può essere proficuamente richiamata per comprendere quanto il dibattito sulla libertà sia cambiato negli ultimi anni. Le «confusioni» concettuali cui Davidson si riferisce sono quelle che, a suo giudizio, caratterizzano l’incompatibilismo – la concezione secondo la quale il determinismo impedirebbe la libertà poiché ridurrebbe gli agenti a meri automi o macchine. Come abbiamo visto nel primo capitolo, l’incompatibilismo si presenta in due versioni principali: quella determinista hard (secondo la quale gli esseri umani non sono liberi in quanto sono determinati) e quella libertaria (per la quale, invece, in quanto sono liberi, gli esseri umani non possono essere determinati). Tra gli incompatibilisti sostenitori del determinismo hard basterà ricordare i più radicali tra i philosophes, come La Mettrie («Noi siamo trascinati da un determinismo assolutamente necessario e non ne vogliamo essere schiavi. Quanto siamo pazzi!»)2 e Diderot («La parola libertà è priva di senso: non si danno né possono darsi esseri li1 2
Davidson (1973a, p. 63; trad. mia). La Mettrie (1748, p. 120).
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beri»)3. Spesso, tuttavia, l’incompatibilismo dei deterministi hard è più ideologico che ben argomentato, in quanto si fonda sulla mera asserzione che il determinismo è incompatibile con la libertà. Più interessante, dunque – perché filosoficamente più elaborato – è l’incompatibilismo di matrice libertaria. L’annus mirabilis dell’incompatibilismo libertario fu il 1788, quando vennero pubblicati due testi capitali di questa concezione: la Critica della ragion pratica di Kant e i Saggi sulle facoltà attive della mente umana di Reid. Sebbene, in positivo, il primo dislocasse la libertà sul piano trascendentale, mentre il secondo la collocava sul piano empirico, entrambi criticavano aspramente i tentativi di conciliare la libertà con il determinismo. In questa luce, Kant sosteneva – con una metafora poi divenuta canonica – che la libertà attribuita agli esseri umani dal compatibilismo (in particolare, quello leibniziano) era come quella di «un girarrosto, dato che anch’esso, una volta caricato, fa da sé i propri movimenti»4. Con analogo vigore, Thomas Reid criticava il tentativo hobbesiano e humeano di coniugare determinismo e libertà, che a suo giudizio presupponeva – invece di provare – che l’uomo è soggetto al meccanicismo universale5. Le critiche contro il compatibilismo non furono, però, una novità della fine del Settecento: esse infatti avevano già una storia secolare, che rimandava al dibattito teologico sul libero arbitrio. Un campione dell’incompatibilismo libertario di matrice teologica era stato, ad esempio, il già citato John Bramhall, il quale fu critico feroce della concezione di Hobbes (che peraltro aveva forma teologica solo superficialmente)6. Bramhall, in particolare, contestava la definizione hobbesiana di libertà, che a suo giudizio a nulla rimandava se non a una «libertà puerile», a una pseudolibertà che è propria, forse, dei neonati e degli animali selvaggi, non certo degli esseri umani adulti7. Secondo Bramhall, la compatibilità di libertà e determinismo implicherebbe che le nostre scelte siano interamente determinate da cause incontrolDiderot (1756, p. 56). Kant (1788, p. 240). Sulla critica kantiana al compatibilismo (in special modo quello leibniziano, che fa riferimento a una forma di determinazione interna al soggetto), cfr. Mori (2001, cap. 2). 5 Cfr. supra, primo capitolo, p. 51. 6 Sul dibattito tra Hobbes e Bramhall, cfr. Longega (2000). Un altro classico dell’incompatibilismo libertario in ambito teologico è rappresentato da Jonathan Edwards (1754). 7 Cit. in Kane (1996, p. 11). 3 4
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labili (come la volontà divina) e che, dunque, l’agente, al pari dei neonati e delle bestie, non possa esercitare su esse alcun controllo. Se questa fosse tutta la libertà che abbiamo – concludeva Bramhall – non saremmo più liberi di quanto lo sia un bastone nelle mani di un uomo (e d’altra parte lo stesso Hobbes si faceva un vanto delle conseguenze controintuitive della sua concezione, se arditamente paragonava la libertà umana a quella di un fiume che scende lungo il suo letto)8. Nei secoli successivi, come detto, il dibattito sulla libertà prenderà una forma secolarizzata, giacché, nella maggior parte dei casi, la minaccia alla libertà non verrà più percepita come derivante dall’onniscienza e dalla provvidenza divine, ma dall’inderogabilità delle leggi deterministiche di natura. Nondimeno, anche nel corso del dibattito secolarizzato gli incompatibilisti libertari continueranno ad usare critiche analoghe a quelle che il vescovo Bramhall aveva mosso contro Hobbes. Tuttavia, almeno nei paesi anglosassoni (ma in taluni periodi anche in altre aree culturali), il compatibilismo è stato a lungo la concezione predominante. In particolare, all’inizio degli anni Settanta, quando Davidson enunciava l’apologetico giudizio sopra riportato, probabilmente la maggioranza dei filosofi di formazione analitica lo avrebbe sottoscritto9. La ragione di ciò era che una tradizione filosofica assai autorevole – una tradizione che, come ricordava Davidson, andava da Hobbes agli empiristi sino ai neopositivisti – aveva offerto risposte, che ai più erano sembrate convincenti, alle tipiche obiezioni dei critici del compatibilismo. Consideriamo, dunque, più nel dettaglio le caratteristiche teoriche di questa concezione. 2. I principi del compatibilismo Il compito statutario del compatibilismo è di provare che determinismo causale e libertà non sono inconciliabili, come potrebbe sembrare prima facie. Un ovvio rischio che tuttavia incombe sull’esecu8 «Libertà e necessità sono compatibili. Lo sono nel caso dell’acqua che ha non solo la libertà ma la necessità di scorrere nel letto del fiume, e lo sono altrettanto nel caso delle azioni che gli uomini compiono volontariamente e che procedono, da un lato, dalla libertà (poiché procedono dalla volontà) e tuttavia, dall’altro, dalla necessità, poiché ogni atto della volontà umana, ogni desiderio e ogni inclinazione procede da qualche causa, questa da un’altra e così via in una catena continua». Hobbes (1651, p. 176). 9 Cfr. van Inwagen (1983, p. V) e Warfield (1999).
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zione di questo programma è di snaturare la nozione di libertà, costruendone una versione ad hoc proprio in funzione della sua compatibilità con il determinismo: e questa è infatti la critica mossa più frequentemente contro i compatibilisti dai loro avversari10. I fautori del compatibilismo devono, dunque, riuscire a provare che la nozione di libertà cui si appellano è proprio quella che intuitivamente ci preme o, tutt’al più, un suo distillato, ottenuto per via di rigorizzazione concettuale. Già Hume, in effetti, aveva presentato la sua concezione compatibilistica come una delucidazione dell’unico, vero senso del termine libertà – un senso che soltanto le «oscure sofisticherie» dei filosofi avevano potuto far smarrire: Spero, dunque, di mostrare che tutti gli uomini sono sempre stati d’accordo nella dottrina sia della necessità che della libertà, secondo ogni significato ragionevole che si possa attribuire a questi termini; e che tutta la controversia ha fin qui girato soltanto su parole11.
La definizione canonica di libertà offerta dalla tradizione compatibilistica – secondo una proposta prima abbozzata da Hobbes e poi sviluppata da Locke e da Hume12 – è quella secondo la quale la libertà equivale alla possibilità di agire senza impedimenti o costrizioni. Secondo questa prospettiva, è libero colui che non è impedito nell’agire (perché non gli si vieta di fare ciò che vuole fare) né vi è costretto (perché non viene obbligato a compiere un’azione che non vorrebbe compiere). La tesi, allora, è che quando non siamo impediti o costretti, possiamo liberamente compiere le azioni che vogliamo. Così, ad esempio, si esprime Hobbes: Un UOMO LIBERO è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha la volontà di fare13. 10 Come detto nell’Introduzione, il compatibilismo, in sé, non impegna in favore della tesi che il nostro mondo sia deterministico né in favore della libertà umana. Esso, piuttosto, impegna ad accettare una particolare definizione di libertà tale che essa è possibile in un mondo deterministico (le definizioni di libertà date dai libertari, ovviamente, non sono di questo tipo). 11 Hume (1748, p. 125). 12 Sull’importante contributo di Locke, cfr. Rowe (1987). Sulla concezione humeana della libertà metafisica, cfr. Stroud (1977, pp. 141-154) e, per un’innovativa interpretazione di Hume in chiave strawsoniana, Russell (1995). 13 Hobbes (1651, p. 175).
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Essere liberi – secondo la versione classica del compatibilismo – equivale a compiere l’azione che si vuole compiere: se io voglio un bicchiere d’acqua, e nulla mi impedisce di prenderlo, allora la mia azione di prendere un bicchiere d’acqua è un’azione libera. In questa prospettiva, tutto ciò che serve per dirci liberi è che le nostre azioni discendano dalla nostra volontà, senza impedimenti o costrizioni. Con le parole di Hume: Con libertà [...] vogliamo significare soltanto un potere di agire o di non agire, secondo le determinazioni della volontà; ossia che, se preferiamo restar fermi, possiamo; se preferiamo muoverci, egualmente possiamo14.
È essenziale notare che – secondo lo spirito del compatibilismo – così definita, la libertà non è affatto in contraddizione con il determinismo (come accade, invece, quando la libertà è intesa nei termini dei libertari). Secondo questa definizione, infatti, un’azione è libera in quanto è determinata dalla volontà (non impedita o costretta) dell’agente. La volontà medesima, tuttavia, è a sua volta completamente determinata da fattori come le esperienze passate dell’agente, l’istruzione che ha ricevuto, l’ambiente circostante o ancora (nelle concezioni più decisamente naturalistiche) dal suo assetto biologico oppure dall’insieme delle variabili fisiche in gioco. In questo modo, non c’è nessuna rottura nella catena deterministica delle cause e degli effetti: la volontà dell’agente è determinata da cause su cui egli non può agire ed essa a sua volta determina, causandole, le azioni che l’agente compie; nondimeno, tali azioni – in quanto discendono dalla sua volontà non costretta né impedita – sono libere. I compatibilisti classici, peraltro, non si limitavano a sostenere che il determinismo non impedisce la libertà, ma aggiungevano due ulteriori tesi. La prima, che abbiamo già discusso nel capitolo precedente, affermava che il determinismo è anche condizione necessaria della libertà, in quanto la sua alternativa (l’indeterminismo) annichilirebbe la libertà, facendola coincidere con il caso. La seconda tesi è che il determinismo è vero. In questa prospettiva, non è tanto che siamo liberi anche se siamo determinati; siamo liberi grazie al fatto che siamo determinati. Nella maggior parte delle sue espressioni, il compatibilismo contemporaneo si richiama a quello tradizionale anche rispetto alle due te14
Hume (1748, p. 147).
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si ulteriori appena enunciate; naturalmente, però, ci sono anche alcune differenze. Così, i compatibilisti contemporanei ripetono la tesi classica secondo la quale il processo che conduce al compimento dell’azione è deterministico-causale, ma non per questo impedisce la libertà; essi, tuttavia, si affrettano ad aggiungere che un tale processo è deterministico in quanto, essendo macroscopico, è sostanzialmente immune dall’indeterminismo quantistico. Così, ad esempio, si esprime Quine: Come Spinoza, Hume, e moltissimi altri, io ritengo che un atto sia libero nella misura in cui i motivi o gli impulsi dell’agente figurano come anelli della catena causale [che conduce a quell’atto]. Tali motivi o impulsi possono, a loro volta, essere tanto determinati quanto si desidera [...]. Sottoscrivere al determinismo tanto pienamente quanto mi sarà consentito dalla fisica quantistica è per me un ideale della ragione pura15.
Questa citazione è significativa anche perché (come si evince dalla spavalda dichiarazione secondo la quale il determinismo è «un ideale della ragione pura») implicitamente difende la tesi per cui il determinismo, oltre ad essere compatibile con libertà, ne è condizione necessaria. Su questo, la maggior parte dei compatibilisti contemporanei concorda con Quine16, sebbene non manchino alcune voci dissenzienti17. C’è anche un’altra ragione per cui il passo di Quine rappresenta bene la specificità del compatibilismo contemporaneo: esso non menziona – come invece era tipico in passato – il ruolo della volontà nei processi decisionali che portano all’azione. Come ho detto nel primo capitolo, infatti, dal punto di vista della psicologia, delle scienze cognitive e della filosofia della mente contemporanee, il concetto di volontà è considerato un retaggio della psicologia prescientifica18. Non sorprende, allora, che Quine preferisca riferirsi ai «motivi», agli «impulsi» o ai «desideri» che conducono all’azione, ovveQuine (1981, p. 11). La concezione (talora chiamata supercompatibilismo) secondo la quale non soltanto il determinismo è compatibile con la libertà, ma ne rappresenta anche una condizione necessaria è difesa, ad esempio, da Schlick (1930), Ayer (1954) e Hobart (1934, che porta il significativo titolo Free Will as Involving Determination and Inconceivable without It). 17 Cfr., ad esempio, Dennett (1978), il quale sostiene che l’indeterminismo è ininfluente rispetto alle forme di libertà che veramente ci premono, ma non incompatibile con esse. 18 Cfr. Wegner (2002). 15 16
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ro agli eventi mentali causalmente rilevanti per le scelte, le decisioni e le deliberazioni dell’agente19. Anche se su questo tema occorrerà dire di più, va detto che la ricaduta di questa innovazione, ai fini della discussione sulla libertà, non è poi così importante. Infatti – che ci si appelli alla funzione della volontà oppure al ruolo giocato da motivi, impulsi e desideri – pregi, limiti e strategie del progetto di coniugare libertà e determinismo sono sostanzialmente gli stessi. Per uniformità e concisione, allora, quando possibile continuerò ad usare il termine ‘volontà’; quanto dirò in quei casi, tuttavia, si applicherà, mutatis mutandis, anche alle versioni contemporanee del compatibilismo. Per il momento, comunque, dobbiamo considerare una delle più classiche obiezioni mosse contro il compatibilismo, sia nelle versioni classiche sia in quelle contemporanee. 3. Libertà d’azione e libertà di scelta Abbiamo visto che, secondo l’impostazione dei compatibilisti, affinché un agente sia libero è sufficiente – e, per molti, anche necessario – che le azioni che egli compie siano causalmente determinate dalla sua volontà (o, secondo le versioni odierne, dai suoi motivi, impulsi o desideri): da questo punto di vista, cioè, un agente è libero in quanto compie le azioni che vuole o desidera compiere. D’altra parte, secondo il modello compatibilistico la volontà dell’agente è invece interamente determinata – ad esempio, da fattori ambientali o dalla nostra educazione o da leggi biologiche o fisiche. In tale scenario (che è poi quello tipico del determinismo), un agente può volere soltanto ciò che vuole, perché la sua volontà è interamente determinata da fattori, come quelli appena elencati, che sono al di fuori del suo controllo (e lo stesso vale, in generale, per tutti gli eventi mentali che occorrono all’agente). La libertà, in definitiva, può essere predicata soltanto delle nostre azioni, non della nostra volontà o degli eventi mentali rilevanti per quelle azioni. Già i compatibilisti classici, d’altra parte, riconoscevano questo aspetto della loro concezione, ma lo ritenevano un loro punto di for19 Va notato che questi eventi mentali devono essere in qualche misura consci: un agente che agisse sulla base di stati mentali inconsci (ad esempio, in stato di sonnambulismo o sotto l’effetto di patologie compulsive) non compirebbe certo un’azione libera. Inoltre, ovviamente, Quine assume che gli eventi mentali abbiano efficacia causale (di contro alla tesi detta epifenomenismo).
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za. Voltaire, ad esempio, citando Locke, sostiene che l’unica libertà possibile è quella relativa all’azione, mentre la presunta libertà della volontà è un’illusione: [Al] saggio Locke una volontà libera [...] sembra una chimera. Egli conosce una sola libertà: il potere di fare quel che si vuole. Il gottoso non ha la libertà di camminare, il prigioniero quella di uscire a passeggio: l’uno è libero quando è guarito, l’altro quando gli viene aperta la porta della prigione20.
Tuttavia per gli avversari del compatibilismo è assurdo pensare che le condizioni della libertà discendano dalla volontà dell’agente, ma che ad essa non si applichino, come invece pretendono i compatibilisti. Detto in breve: secondo questa obiezione, la libertà richiede che la volontà si autodetermini, invece di essere eterodeterminata da condizioni ed eventi esterni. Per convincersene, continuano gli incompatibilisti, basta considerare la nostra esperienza quotidiana: quando la volontà sfugge al controllo dell’agente (ad esempio, quando l’agente è ipnotizzato o afflitto da certe psicopatologie, come la cleptomania), non diciamo certo che le azioni che ne discendono sono libere; piuttosto diremmo che quell’agente si comporta in modo automatico o meccanico. D’altra parte – proseguono gli avversari del compatibilismo –, il quadro che questa concezione prospetta è tale che tutto pare accadere meccanicamente o automaticamente, e ciò anche per quanto riguarda gli agenti, dato che anche la loro volontà è interamente determinata. Tuttavia la generalità di tale determinazione non deve impedire di coglierne il senso: la volontà degli agenti è in realtà eterodiretta; dunque non può esservi libertà. Così, ad esempio, scrive Popper: Il determinismo fisico [...] è un incubo perché asserisce che il mondo intero, con tutto ciò che contiene, è un enorme meccanismo e che noi nulla siamo se non piccoli ingranaggi o, al massimo, piccoli sotto-meccanismi21.
Secondo questo punto di vista, insomma, la vera libertà richiede, oltre alla facoltà di agire secondo le determinazioni della volontà, an20 Voltaire (1741, p. 215). La posizione voltairiana sul libero arbitrio (che, peraltro, si modificò negli anni) è discussa in Cosili (2000). 21 Popper (1981, p. 11).
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che la libertà del volere. Ma ciò significa che la volontà deve poter sfuggire alla catena delle cause deterministiche, che non lasciano nessuno spazio di libertà di scelta, nessuna possibilità di indeterminatezza. Solo quando venga considerata in questo modo – sostengono gli avversari del compatibilismo – la libertà è degna del suo nome. Questo è, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il modo in cui la libertà è concepita dai libertari, secondo i quali essa è inconciliabile con il determinismo scientifico. Ma per i compatibilisti, una volontà che si autodetermina – che è causa delle proprie scelte, che determina il proprio destino – sfugge per definizione alle leggi di natura e diventa, ipso facto, una misteriosa eccezione all’ordine del mondo messo in luce dalla scienza. Contro questa concezione, ancora una volta, Voltaire usa l’ironia: In realtà, sarebbe ben strano che tutta la natura, tutti gli astri obbedissero a delle leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi, potesse agire come gli piace solo in funzione del suo capriccio22.
Anche oggi i compatibilisti ritengono che la polemica contro il determinismo sia del tutto ingiustificata. A proprio sostegno essi portano vari argomenti, alcuni dei quali meritano di essere menzionati23. Il primo si deve al filosofo americano Harry Frankfurt ed è noto con il nome di «analisi gerarchica»24. Come abbiamo visto, una tipica obiezione contro il compatibilismo è che tale concezione non lascia spazio sufficiente per la libertà in quanto assume che la volontà o gli eventi mentali rilevanti siano interamente determinati o (come talora si dice con terminologia vagamente inquietante) ‘eterodiretti’. A questa obiezione, Frankfurt risponde con una sottile analisi della struttura motivazionale degli agenti25. Nella sostanza, l’idea è che normalmente gli agenti sono in grado di formare ‘desideri di seconVoltaire (1766, p. 71). La celebre risposta di P.F. Strawson a queste obiezioni verrà discussa nel quinto capitolo. 24 Frankfurt (1971 e 1987). Per ulteriori sviluppi, si vedano anche Jeffrey (1974), Lehrer (1980), Dworkin (1988), Bratman (1996). Su questo tema, Ekstrom (2000, pp. 74-77) e Haji (2002). 25 Per semplicità mi limiterò a considerare i desideri di un agente, ma questa analisi può naturalmente essere raffinata prendendo in considerazione anche altri tipi di eventi mentali, come le volizioni, le preferenze e le credenze. 22 23
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do ordine’ (desideri che hanno come oggetto altri desideri) e che la formazione di questa struttura gerarchica di desideri, se anche fosse vero il determinismo, sarebbe autodeterminata e dunque non si presterebbe all’obiezione di quanti ritengono che il determinismo necessariamente annichilisca la libertà. Un esempio può essere utile. Immaginiamo che a una persona molto golosa, che ha finalmente deciso di seguire una rigida dieta, vengano offerti dei pasticcini. Il desiderio immediato di questa persona è, naturalmente, di gettarsi a capofitto sul vassoio dei dolcetti; subito, però, interviene un tipo di desiderio più profondo – un desiderio ‘di secondo ordine’, secondo la terminologia di Frankfurt –, ovvero il metadesiderio che la scelta di accettare o meno l’offerta dei pasticcini sia operata sulla base del desiderio di rispettare la dieta. Ciò, naturalmente, ingenera un conflitto di desideri; ma – nota Frankfurt – qualora la persona riesca effettivamente a rifiutare la ghiotta offerta, si potrà dire che lo ha fatto sulla base di un suo profondo metadesiderio (un desiderio che esprime ciò che l’agente vuole veramente), e non perché è eterodiretta, come pretendono gli incompatibilisti. Questo suggerimento di Frankfurt è interessante (anche se non è immune da difficoltà interne). Il problema, però, è che ciò non risolve il problema prospettato dagli incompatibilisti, ovvero che il determinismo non sembra lasciare spazio per scelte che siano genuinamente dipendenti dall’agente. Se concediamo, infatti, che i desideri dell’agente siano determinati dai suoi desideri di secondo livello, dobbiamo chiederci in che modo ciò avvenga. Se essi sono determinati da fattori che sfuggono al controllo dell’agente, siamo di nuovo di fronte al problema posto dagli incompatibilisti: perché dovremmo considerare un agente libero solo perché fa ciò che i suoi metadesideri (che sono eterodeterminati) gli dettano? Alternativamente, si può supporre che i desideri di secondo livello siano determinati da desideri di un livello ancora superiore: ma questa assunzione, evidentemente, innesca la possibilità di un regresso all’infinito. Se, dunque, l’analisi gerarchica può forse essere promettente per indagare la fenomenologia dei processi decisionali26, non vi possiamo ricorrere nel tentativo di dare plausibilità al compatibilismo. 26 Un altro problema del modello gerarchico è che non appare immediatamente chiaro perché i metadesideri dovrebbero dare conto meglio dei desideri di primo ordine di ciò che l’agente vuole veramente: cfr. Watson (1987a).
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4. La ‘minaccia’ del determinismo Una diversa, e più promettente, strategia in favore del compatibilismo riprende e sviluppa un’acuta indicazione di Hume. L’idea è che per mostrare l’infondatezza dei timori degli incompatibilisti sia sufficiente offrire una corretta analisi della nozione di necessità implicata nel determinismo causale delle leggi di natura. Secondo questo punto di vista, la causazione deterministica non è affatto l’opposto della libertà, come pretenderebbero i libertari. Il fatto che le nostre azioni discendono deterministicamente dai nostri eventi mentali, che a loro volta sono determinati in accordo con le leggi di natura, non ha nulla a che fare con situazioni come la coercizione di un agente costretto con la violenza ad agire in un certo modo, con la costrizione che deriva a un individuo dal fatto di venire ipnotizzato o con la compulsione prodotta da determinate psicosi. Coercizione, costrizione e compulsione comportano effettivamente la negazione della libertà; ma ciò accade perché in questi casi le azioni non discendono veramente dalla volontà dell’agente (o dai suoi desideri e dalle sue intenzioni). In una parola, in tutti questi casi non sarebbe corretto dire che le azioni sono sotto il controllo dell’agente e che egli ne porta la responsabilità. A parere dei compatibilisti, allora, le «confusioni» (come le chiama Davidson) che inducono a scambiare gli innocui effetti della causazione deterministica con i casi di coercizione, costrizione o compulsione, in cui la libertà è effettivamente assente, sono di varia natura. Quattro, almeno, meritano di essere ricordate. Una prima fonte di confusione è rappresentata, secondo i compatibilisti, da una tendenza naturale, ma assai fuorviante, ad antropomorfizzare le leggi di natura, quasi che – come nota Dennett – le leggi naturali fossero agenti malvagi, ansiosi di controllarci27. Ma ovviamente le leggi non sono agenti, non hanno volontà o desideri e non sono consapevoli di alcunché; dunque non possono esercitare alcun controllo su di noi. Pertanto il determinismo – essendo una tesi riguardante la natura di queste leggi – secondo Dennett non dovrebbe essere percepito come una minaccia. In secondo luogo, secondo i compatibilisti le ubbie che circondano il determinismo causale derivano dal retaggio influente, ma spesso occulto, delle metafisiche di matrice religiosa. Il problema teologico 27
Dennett (1984, cap. 1).
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del libero arbitrio nasceva perché la preveggenza e la provvidenza divine erano percepite come un’oscura e potente minaccia gravante su di noi: e spesso si considera il determinismo come fosse la versione secolare di quegli attributi divini – e dunque come ugualmente minaccioso. Il determinismo, tuttavia, ha una natura del tutto diversa: come è stato spesso notato28, il determinismo è una tesi empirica riguardante il carattere regolare delle leggi di natura. Secondo molti, come detto nel primo capitolo, alla luce delle nostre attuali conoscenze possiamo affermare che la tesi deterministica sia approssimativamente vera e che dunque gli eventi macroscopici in genere, e le nostre azioni in particolare, siano da considerarsi ‘quasi-determinati’29. In nessun modo, però, il determinismo causale richiama le prerogative divine. In terzo luogo, i compatibilisti sottolineano la tipica confusione tra necessitazione causale e necessità logica, che già aveva messo in luce Hume. Gli eventi non accadono di necessità per il mero fatto che essi sono gli effetti di cause deterministiche; al contrario, secondo il determinismo causale, gli eventi accadono condizionatamente – in quanto sono dati il passato e le leggi di natura – e dunque il loro accadere è necessitato, ma non è necessario30. Per questo, secondo i compatibilisti, il determinismo causale non è affatto incompatibile con la libertà. In quarto luogo infine, talora accade – come già notava Schlick31 – che le leggi di natura (che, secondo la lettura humeana, si limitano a descrivere le uniformità di natura) vengano indebitamente assimilate alle leggi giuridiche (che invece prescrivono). Se fosse vero che le leggi di natura, al pari di quelle giuridiche, costringono gli agenti ad agire in un certo modo, certo la libertà sarebbe impossibile: la costrizione, infatti, è l’opposto della libertà. Ma così non è: le leggi di natura non costringono gli agenti ad agire; esse si limitano a rappresentare l’immutabile regolarità con cui certi tipi di fenomeni succedono a certi altri tipi di fenomeni. Così spiega questo punto Kielsen: Le leggi di natura non sono prescrizioni ad agire in un certo modo. Esse non ci costringono; piuttosto, affermano delle regolarità, delle sequenze [di eventi] de facto invariabili che sono parte del mondo [...]. Un Berofsky (1971). Cfr. Honderich (1988), Bishop (2002). 30 Cfr. supra, Introduzione, n. 29. 31 Cfr. Schlick (1930). 28 29
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determinista, nell’affermare che A causa B, s’impegna a sostenere che ogni volta che si verifica un evento o un atto del tipo A, si verificherà anche un evento del tipo B. La parte relativa al vincolo o alla costrizione è metaforica. È in ragione della metafora, non del fatto, che si arriva a credere che causazione e libertà siano antitetiche32.
I compatibilisti hanno ragione, a mio giudizio, a sottolineare questi punti. È certamente scorretto antropomorfizzare le leggi di natura o scambiarle con le leggi del diritto oppure confondere il determinismo causale con quello teologico e la necessitazione causale con la necessità logica. La domanda che dobbiamo porci, però, è se una volta concessi tutti questi punti, la questione del rapporto tra determinismo e libertà possa considerarsi risolta. A mio giudizio vi sono ottime ragioni per ritenere che le cose non stiano così. 5. Determinismo e possibilità di fare altrimenti Per decenni, come detto, il compatibilismo ha solcato trionfalmente le acque della filosofia angloamericana, rappresentando senz’altro il punto di vista maggioritario, se non egemone, rispetto alla questione della libertà. Il giudizio di Davidson sopra riportato riassumeva in poche righe l’orgoglio del rappresentante di una tradizione filosofica che poteva dirsi sostanzialmente incontrastata. Negli ultimi anni, però, contro il compatibilismo sono stati sviluppati nuovi e potenti argomenti. Ne sono seguiti vasti dibattiti, che hanno comportato una rilevante perdita di consenso per tale concezione33, al punto che – con entusiasmo polemico forse un po’ eccessivo – un’autorità come Peter van Inwagen ha potuto recentemente sostenere che «oggi il compatibilismo è comunemente considerato implausibile»34. Come detto, ogni concezione della libertà deve dare conto, in qualche modo, di due condizioni fondamentali: deve cioè spiegare Kielsen (1971, p. 42). In funzione anticompatibilistica sono state recentemente presentate anche alcune – molto criticate – interpretazioni basate sul teorema di Gödel (cfr. Lucas 1970 e Penrose 1989). 34 Van Inwagen (1997, p. 373). Ted Warfield (1999), un altro difensore del libertarismo, ritiene questo giudizio un po’ troppo drastico. È indubbio però – e anche Warfield lo nota – che negli ultimi anni la maggior parte dei contributi teorici sulla questione del libero arbitrio sono stati offerti da filosofi che difendono l’incompatibilismo libertario. Questo però non vuol dire che molti filosofi analitici non continuino a ritenersi compatibilisti. 32 33
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in quale senso all’agente si presentino possibilità d’azione alternative e come questi possa autodeterminare le proprie azioni. Come abbiamo constatato, il compatibilismo può facilmente dare conto della seconda condizione: l’agente autodetermina le proprie azioni se esse sono causalmente determinate dalla sua volontà (ovvero da suoi adeguati eventi mentali). Ma come può il compatibilismo dare conto del secondo requisito, per il quale un’azione è libera solo nel caso in cui una qualche azione alternativa sia possibile? È questo, evidentemente, il punctum dolens di ogni concezione compatibilistica: almeno prima facie, in un universo deterministico parrebbe non esserci alcun posto per l’idea di corsi d’azione alternativi. Già i primi compatibilisti – da Hobbes e Locke al teologo di Yale Jonathan Edwards a Hume – abbozzarono però un ingegnoso tentativo di soluzione di tale difficoltà, divenuto poi canonico: la cosiddetta analisi condizionale (o ipotetica) della nozione di ‘poter fare altrimenti’. Nelle Ricerche sull’intelletto umano, Hume vi allude nella continuazione di un brano già citato: Per libertà [...] possiamo intendere soltanto un potere di agire o non agire, secondo le determinazioni della volontà; ovvero, se scegliamo di rimanere in quiete, possiamo; se scegliamo di muoverci, possiamo ugualmente. Ora, si riconosce universalmente che questa libertà ipotetica appartiene a tutti coloro che non sono prigionieri e in catene35.
Il punto qui fondamentale è la tesi secondo la quale il concetto di libertà andrebbe interpretato in termini ipotetici («questa libertà ipotetica», scrive Hume) o, per dirla con il gergo metafisico contemporaneo, controfattuali. La libertà, secondo questa lettura, è il potere di agire in accordo con la propria volontà, nel senso che se la nostra volontà fosse diversa, anche le scelte e azioni che essa determina sarebbero diverse. La proposta humeana fu portata a compimento da George E. Moore, che offrì una compiuta analisi controfattuale della nozione di ‘poter fare altrimenti’. Secondo Moore, l’enunciato «L’agente A avrebbe potuto fare altrimenti» ha le stesse condizioni di verità dell’enunciato «Se l’agente A avesse deciso di fare altrimenti, avrebbe fatto altrimenti»36. Detto diversamente: l’analisi condizionale inHume (1748, p. 95). Moore (1912, cap. 6). Cfr. anche Ayer (1954), Schlick (1930), Nowell-Smith (1954 e 1960). Si noti che, secondo altre analisi, nella clausola condizionale si può so35 36
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tende fornire le condizioni necessarie e sufficienti affinché a un agente si possa correttamente attribuire la possibilità di fare altrimenti. Tale lettura condizionale, peraltro, permette di incorporare adeguatamente l’intuizione compatibilistica. Secondo questa intuizione, come abbiamo visto, quando un agente non è vincolato da obblighi e impedimenti (esogeni o endogeni) che gli impediscono di fare quanto vorrebbe fare, allora quell’agente agisce liberamente. Immaginiamo che un guidatore – non sottoposto a vincoli o costrizioni – si trovi di fronte ad un bivio: in questo caso volta a sinistra, ma se lo avesse desiderato (giacché non era impedito o costretto) avrebbe potuto girare a destra. Naturalmente, dato che in un quadro compatibilistico si ammette la verità del determinismo, si deve concedere che l’agente era determinato a voler girare a sinistra e dunque lo ha fatto; ma in senso condizionale egli «avrebbe potuto fare altrimenti» se i suoi desideri fossero stati determinati diversamente; e questo, secondo i compatibilisti, è proprio il senso in cui la ‘possibilità di fare altrimenti’ è rilevante per l’attribuzione della libertà. In seguito la proposta di Moore è stata ulteriormente raffinata. In particolare, sono state rilevate interessanti differenze tra la capacità di azione e di scelta, da una parte, e l’opportunità o la possibilità di agire e di scegliere, dall’altra, oppure tra il possesso di una capacità e il suo esercizio37. Tuttavia, anche se queste analisi certamente approfondiscono la nostra comprensione delle nozioni in gioco in questa discussione, esse si prestano a varie obiezioni. Non sorprenderà allora che intorno ad esse si siano sviluppate serrate polemiche38. Sullo sfondo, natustituire il riferimento a una decisione con quello a una scelta, a un desiderio, a un’intenzione, a un motivo ecc. Cfr. infra, n. 45, per una di queste proposte alternative. 37 Cfr. Kenny (1975), Gert, Duggan (1979), Landucci (1980) e, per un’utile discussione, da una prospettiva non simpatetica con il compatibilismo, Ciprotti (2003a). Le proposte presentate in questi saggi sono interessanti; dubito, però, che siano risolutive. Se, infatti, è giusto sottolineare che la capacità di agire o di scegliere non è identica alla possibilità di agire e di scegliere (come pure talora si afferma), è naturale pensare che la seconda sia condizione necessaria della prima. E così rimane aperto il problema di chiarire come vada interpretata in un mondo deterministico la possibilità di agire e di scegliere. 38 Austin (1961), Chisholm (1964b), Lehrer (1968), Davidson (1973a), van Inwagen (1975), von Wright (1985). Discussioni generali sono in Kane (1996), Fischer (a cura di) (1986, Introduzione), Watson (1987a, pp. 153-161), Kane (1996, pp. 52-58), Dessì (1997, pp. 41-64), Berofsky (2002). È da notare che alcune critiche contemporanee all’analisi condizionale furono già anticipate da Thomas Reid (cfr. Rowe 1991).
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ralmente, si oppongono due intuizioni fondamentalmente diverse: secondo i compatibilisti, la nozione di ‘possibilità – o capacità – di fare altrimenti’ rilevante per la libertà ha un senso condizionale («io potrei fare altrimenti se decidessi di fare altrimenti»)39, mentre per gli incompatibilisti ciò che s’intende con una locuzione del tipo ‘l’agente A potrebbe fare altrimenti’ è che categoricamente (non sub conditione, ma in quel momento e in quella situazione) l’agente potrebbe fare diversamente da come di fatto farà. Più specificamente, comunque, le obiezioni all’analisi condizionale sono di due tipi fondamentali. Per il primo tipo di obiezioni, l’analisi condizionale non riesce ad esprimere condizioni necessarie della possibilità di fare altrimenti; per il secondo tipo, invece, tale analisi non riesce a dare condizioni sufficienti. Consideriamo dunque l’accusa secondo la quale la verità dell’enunciato che esprime l’analisi condizionale non è condizione necessaria per la verità dell’enunciato che esprime la possibilità di fare altrimenti40. Da ciò segue che l’enunciato che esprime tale possibilità, ovvero: 1. L’agente A avrebbe potuto fare altrimenti.
potrebbe essere vero, quand’anche fosse falso il connesso enunciato condizionale: 2. Se l’agente A avesse deciso di fare altrimenti, avrebbe fatto altrimenti.
Per comprendere questa tesi, si può utilmente modificare un famoso esempio di John Austin41. Immaginiamo un’atleta, Giulia, che pratica il salto in alto: molte volte Giulia ha superato i due metri, ma altre volte ha fallito. Alla finale delle Olimpiadi, Giulia tenta i due metri, ma non ce la fa. Avrebbe potuto fare altrimenti? Certo, perché in passato l’ha fatto (dunque l’enunciato 1 è vero). Tuttavia, anche in questa occasione Giulia aveva deciso di saltare i due metri e Ma cfr. infra, nota 46, per alcune eccezioni a questa regola. Cfr. Foot (1957), Austin (1961), per una brillante analisi di molti aspetti della questione, e Anscombe (1971), che trasforma intelligentemente le critiche all’analisi condizionale in una difesa della compatibilità tra indeterminismo e libertà. 41 Cfr. Austin (1961). 39 40
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tuttavia non ce l’ha fatta: dunque, essendo vero l’antecedente e falso il conseguente, l’enunciato condizionale 2 è falso. Perciò, la sua verità non è condizione necessaria della verità dell’enunciato 1, che esprime la possibilità di fare altrimenti. I compatibilisti hanno tentato di rispondere a questa obiezione offrendo modelli sempre più sofisticati dell’analisi condizionale, ma, al momento almeno, non sembrano aver escogitato soluzioni soddisfacenti42. Come detto, questa non è però l’unica critica che viene mossa all’analisi condizionale. Un’altra obiezione tende invece a mostrare come la verità dell’enunciato che esprime l’analisi condizionale non sia condizione sufficiente per la verità dell’enunciato che esprime la possibilità di fare altrimenti43. In quest’ottica può, cioè, accadere che l’enunciato 1. L’agente A avrebbe potuto fare altrimenti.
sia falso, mentre è vero l’enunciato 2. Se l’agente A avesse deciso di fare altrimenti, avrebbe fatto altrimenti.
Immaginiamo che l’agente A sia amante dell’architettura e stia visitando la cattedrale di Chartres. Gli viene proposto di salire su per una scala molto ripida, fino alla cima del campanile; nulla impedirebbe ad A di salire lassù, se così decidesse: dunque l’enunciato condizionale 2 è vero. Tuttavia, A soffre patologicamente di vertigini, al punto che non accetterebbe mai di salire sul campanile; dunque, A non avrebbe potuto decidere diversamente da come ha di fatto deciso. E ciò mostra che 1 è falso, nonostante che 2 sia vero. Per ottenere un’analisi condizionale che dia condizioni sufficienti per la possibilità di fare altrimenti – per ottenere cioè un enunciato la cui verità sia condizione sufficiente della verità di 1 – occorre congiungere l’enunciato 2 con il seguente enunciato44: 3. L’agente A avrebbe potuto decidere altrimenti.
42 Interessanti analisi critiche sono in Ayers (1968), M. White (1993), Ciprotti (2003b). 43 Campbell (1951), Broad (1952), Chisholm (1964b), Lehrer (1966a), Berofsky (1987 e 2002). 44 La proposta è di Chisholm (1964b).
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Contro la congiunzione di 2 e 3, il controesempio dell’appassionato di architettura non fa più presa: infatti, 3 sarebbe falso quanto 1, e dunque sarebbe falsa anche la congiunzione di 2 e 3. Il problema, tuttavia, è che 3 introduce un altro riferimento alla possibilità di fare altrimenti (in questo caso, di decidere altrimenti), proprio ciò che l’analisi condizionale doveva spiegare. A questo punto, forse, per poter dare conto del significato di questo enunciato in modo che esso possa essere vero in un universo deterministico, un compatibilista potrebbe tentarne un’altra lettura condizionale. Potrebbe, cioè, tentare di affermare che il senso di 3 è reso dal seguente enunciato: 4. L’agente A avrebbe scelto altrimenti, se avesse deciso di scegliere altrimenti.
Questo enunciato vagamente dadaista, però, è a sua volta esposto a controesempi come quello sopra citato (si può immaginare che l’agente A si trovi in una condizione psicopatologica che gli impedisce quella metadecisione) e dunque il compatibilista dovrebbe darne un’ulteriore lettura condizionale. Ma ciò ovviamente innescherebbe un regresso all’infinito (da decisioni ad altre decisioni), che ovviamente farebbe fallire il tentativo di fornire una soddisfacente analisi condizionale della possibilità di fare altrimenti. Anche in questo caso, sono state avanzate proposte sempre più bizantine e remote dall’intuizione del senso comune45. Tuttavia, considerando l’intera discussione sull’analisi condizionale, sembra equo il 45 Davidson (1973a) ha proposto un’altra interessante analisi condizionale della possibilità di fare altrimenti, in cui l’enunciato 4 viene sostituito dall’enunciato 4*: «L’agente A avrebbe scelto diversamente, se avesse desiderato scegliere diversamente», in cui il riferimento a una decisione è rimpiazzato con il riferimento al desiderare (o al volere) qualcosa. L’idea è che mentre le scelte sono azioni, il desiderare è uno stato (o disposizione) in cui l’agente si trova e, in quanto tale, non rimanda a nessun’altra azione che l’agente avrebbe potuto compiere o non compiere; esso dunque, secondo Davidson, non richiede ulteriori analisi condizionali. Tuttavia (come nota Berofsky 2002, p. 186) ai fini della discussione sulla libertà non c’è alcuna differenza pertinente tra l’incapacità ad agire e l’incapacità ad entrare in un certo stato, come quello di desiderare di compiere un’azione. Infatti se qualcuno soffrisse di aracnofobia, non sarebbe nella condizione di rimuovere un ragno da una parete anche se, nel caso lo desiderasse, potrebbe farlo: la sua fobia gli impedirebbe, infatti, di avere quel desiderio. Dunque, ogni volta che si dice che un agente potrebbe scegliere in un certo modo qualora lo desideri, ci si può chiedere se quella persona possa veramente avere quel desiderio – e ciò basta ad innescare di nuovo il regresso all’infinito.
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giudizio di un compatibilista quale Bernard Berofsky, che ammette il fallimento di tutti i tentativi di mostrare che in un ambiente deterministico un agente potrebbe fare altrimenti da come di fatto fa: «Con il determinismo» scrive Berofsky, «solo ciò che è può essere»46. Ma non è solo per i limiti dell’analisi condizionale che negli ultimi anni il compatibilismo è stato sotto attacco. Oggi c’è un’altra, ancor più stringente ragione per rifiutare questa concezione. Questa ragione è rappresentata dal cosiddetto Consequence Argument. 6. Il «Consequence Argument» È il 49 a.C.: dopo aver tratto il dado, Cesare ha varcato il Rubicone con le truppe in armi, dando inizio alla guerra civile. Questa azione è stata compiuta dopo una tormentata riflessione, in cui Cesare ha attentamente ponderato benefici e svantaggi dei diversi corsi d’azione che gli si prospettavano. Nulla, o nessuno, lo ha costretto ad agire in questo modo: egli, insomma, ha compiuto l’azione in piena libertà. O almeno così sembra. Dal punto di vista metafisico, infatti, i dubbi in proposito sono leciti. In questo paragrafo, in particolare, la domanda da porci è: ammettendo che il mondo sia deterministico, possiamo veramente affermare che, passando il Rubicone, Cesare agì liberamente? Secondo il Consequence Argument, se è vero il determinismo, in realtà Cesare non agì liberamente (né avrebbe potuto farlo), perché non esistono, non sono mai esistite né mai esisteranno azioni libere. Secondo questo argomento, cioè, libertà e determinismo sono assolutamente incompatibili. Il Consequence Argument ha forma condizionale: esso assume la verità del determinismo e da ciò inferisce l’inevitabilità di tutte le azioni (ovvero l’impossibilità di fare altrimenti da parte degli agenti) e dunque l’impossibilità della libertà. Il nucleo della dimostrazione consiste nell’idea che, per agire liberamente, dobbiamo poter con46 Berofsky (2002, p. 198). Berofsky (1987) propone una versione di compatibilismo incentrata sulla teoria regolaristica delle leggi di natura, in cui la libertà è separata dalla possibilità di fare altrimenti; l’idea di libertà che ne emerge, tuttavia, è a mio giudizio fortemente controintuitiva. Altri compatibilisti che criticano l’analisi condizionale sono Audi (1974) e Lehrer (1976). Si veda inoltre infra, quarto capitolo, per una discussione di Frankfurt (1969), in cui si argomenta che la possibilità di fare altrimenti non è necessaria per la responsabilità morale.
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trollare i fattori che, eventualmente, rendono le nostre azioni inevitabili. Ma se è vero il determinismo, tali fattori includono l’insieme delle leggi di natura e gli stati passati dell’universo: e questi sono due fattori che nessun agente può controllare. Dunque, se è vero il determinismo, nessun agente agisce mai liberamente. Con le parole del più autorevole presentatore di questo argomento: Se il determinismo è vero, allora le nostre azioni sono le conseguenze delle leggi di natura e di eventi del passato remoto. Ma ciò che accadde prima della nostra nascita non dipende da noi né dipende da noi quali siano le leggi di natura. In tal modo, le conseguenze di queste cose (incluse le azioni che compiamo ora) non dipendono da noi47.
Molti autori hanno offerto versioni formali di questo argomento48. Lo stesso van Inwagen ne ha esposte varie; ecco la più semplice tra esse49. Nota preliminare La peculiarità di questa versione del Consequence Argument sta nel modo in cui essa rende una componente essenziale del concetto di libertà, quella di ‘poter fare altrimenti’. Tale condizione viene resa con l’espressione ‘poter falsificare la proposizione P’, dove ‘P’ è una proposizione fattualmente vera che esprime un’azione, come, ad esempio, la proposizione ‘Cesare passa il Rubicone’50. Se Cesare, inVan Inwagen (1983, p. 16). Ginet (1966 e 1990, pp. 101-106), Wiggins (1973), van Inwagen (1975, 1983 e 2000), Lamb (1977), Fischer (1994, pp. 62-66), McKay, Johnson (1996), Finch, Warfield (1998). Ampie rassegne delle discussioni su questo argomento sono in Ekstrom (2000, cap. 2) e Kapitan (2002). 49 Cfr. van Inwagen (1975 e 1983). 50 Cfr. van Inwagen (1975, p. 187). Questa versione del Consequence Argument fa riferimento alla nozione di ‘proposizione’, molto controversa in filosofia del linguaggio. Qui, comunque, la si può intendere, senza contrarre particolari impegni teoretici, nel suo senso basilare: ovvero come ‘ciò che viene asserito da un enunciato dichiarativo (vero o falso)’. Il Consequence Argument, in generale, fa riferimento a nozioni (come lo stato dell’universo ad un certo istante o l’insieme delle leggi di natura) che sono improntate ad un realismo metafisico molto pronunciato; d’altra parte, come si è visto nell’Introduzione, è la stessa tesi deterministica ad avere un tale carattere. In proposito, va poi ricordato che l’argomento ha carattere condizionale (se è vero il determinismo – con tutto il connesso apparato metafisico –, allora non può esservi libertà). Dunque, l’argomento si può accettare anche senza impegnarsi verso le correlate nozioni metafisiche. 47 48
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fatti, avesse potuto fare altrimenti – ovvero se fosse potuto tornare indietro verso il suo accampamento, senza passare il Rubicone –, allora egli sarebbe stato in grado di compiere un’azione che avrebbe reso falsa la proposizione ‘Cesare passa il Rubicone’. (La ragione per cui van Inwagen usa questo strano modo per esprimere la possibilità di fare altrimenti è che esso permette di dare conto in modo sufficientemente perspicuo di una quantità di casi complessi.) Definizioni a) P = la proposizione che esprime l’azione del passaggio del Rubicone, compiuta da Cesare a capo delle sue truppe51. b) t = è il momento in cui Cesare passa il Rubicone. c) L = è l’insieme delle leggi naturali. d) P0 = è la proposizione che esprime lo stato dell’universo all’alba delle idi di marzo del 250 a.C. – ben prima, dunque, della nascita di Cesare (che avvenne nel 100 a.C.). e) Tesi del determinismo = Per ogni evento E che avviene nel mondo (dunque anche le azioni umane), la proposizione che descrive quell’evento è implicata dalla congiunzione della proposizione che esprime tutte le leggi di natura con una proposizione che esprime lo stato del mondo a un istante qualsiasi precedente E. Dimostrazione Premessa 1. Se il determinismo è vero, allora (L & P0) implica P. Premessa 2. Se, nel momento t in cui passò il Rubicone, Cesare avesse potuto agire altrimenti, allora Cesare avrebbe potuto falsificare P. Premessa 3. Se Cesare avesse potuto falsificare P e P era implicata da (L & P0), allora Cesare avrebbe potuto falsificare (L & P0). Premessa 4. Cesare non avrebbe potuto falsificare L. Premessa 5. Cesare non avrebbe potuto falsificare P0. Premessa 6. Dunque Cesare non avrebbe potuto falsificare (L & P0). Conclusione. Cesare non avrebbe potuto falsificare P; ovvero non era in suo potere fare altrimenti da come di fatto fece, quando passò il Rubicone. 51 P è uno dei congiunti che compongono la proposizione complessa che descrive lo stato del mondo all’istante t.
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Analisi della dimostrazione Premessa 1. Segue immediatamente dalla definizione e) (la tesi del determinismo). Premessa 2. Vedi la definizione a) e la nota preliminare. Premessa 3. Questa premessa si fonda su uno dei cosiddetti ‘principi del trasferimento di potere’, secondo i quali il potere di un agente può essere trasferito attraverso l’implicazione (entailment) logica. Secondo il principio qui in gioco, in particolare, se in un certo istante un agente può rendere falsa una determinata proposizione, egli può rendere false anche le proposizioni che la implicano. A prima vista, questo principio sembra molto plausibile («un’ovvia verità», secondo van Inwagen)52, come può mostrare un esempio. La proposizione «Se nessuno può mandare a memoria più di diecimila endecasillabi, allora nessuno può mandare a memoria la Divina Commedia» è vera; perciò una persona che potesse falsificare la proposizione «Nessuno può mandare a memoria la Divina Commedia» potrebbe falsificare anche la proposizione «Nessuno può mandare a memoria più di diecimila endecasillabi». Premessa 4. È conseguenza della tesi secondo la quale nessun essere umano può falsificare la proposizione che descrive l’insieme delle leggi di natura (per falsificare la quale sarebbe sufficiente, ovviamente, falsificare la proposizione che esprime una delle leggi di natura). Non c’è nulla, ad esempio, che un essere umano possa fare per falsificare la proposizione che esprime la legge dell’isocronismo del pendolo o quella di Coulomb oppure quella secondo la quale nessun corpo può viaggiare a una velocità maggiore di quella della luce (questi esempi, naturalmente, sono validi solo se – come pare lecito ritenere – essi esprimono vere leggi di natura)53. Alle leggi naturali non si può sfuggire: esse sono ineludibili. Premessa 5. È conseguenza della tesi secondo la quale nessun essere umano può falsificare una proposizione che esprime uno stato Van Inwagen (1983, p. 72). Non è necessario entrare qui nel complesso dibattito sullo statuto metafisico ed epistemologico delle leggi di natura e in particolare sulla visione regolaristica, di matrice humeana, che è sottesa a molte, ma non a tutte le posizioni compatibilistiche (cfr. comunque Armstrong 1983, Cartwright 1983, Dorato 2000). Come suggerisce Lewis (1981, p. 292), ai fini di questa dimostrazione basterà assumere un senso minimale di legge, come «regolarità assolutamente non infranta». Se dunque qualcosa o qualcuno violasse una presunta legge di natura, ciò proverebbe ipso facto che non si trattava di una legge genuina. 52 53
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passato dell’universo: il passato, infatti, è inalterabile. Tuttavia, a qualche compatibilista potrebbe forse venire la tentazione di usare l’analisi condizionale per sostenere che, in un certo senso, un agente avrebbe potuto agire in modo da cambiare almeno il proprio passato: nel caso di Cesare, ad esempio, se egli avesse rifiutato la nomina a triumviro non si sarebbe trovato a passare il Rubicone con le truppe in armi. Questa strategia, però, si baserebbe su un fraintendimento: il punto, infatti, è che la proposizione P0 esprime lo stato dell’universo in un istante passato qualsiasi. Così, nell’esempio di Cesare ho scelto un istante passato che precedette di 150 anni quello della sua nascita (ma avrei potuto scegliere un qualunque momento precedente, fino al momento della nascita dell’universo). Che cosa avrebbe mai potuto fare Cesare per falsificare una proposizione che descrive il mondo in un istante di molto precedente la sua nascita? Premessa 6. Segue dalla legge logica secondo la quale la verità di a e la verità di b implicano la verità di a & b. Conclusione. Questo argomento prova dunque che, dato il determinismo, non era in potere di Cesare evitare di passare il Rubicone: tale azione, cioè, era per lui inevitabile. Naturalmente questo argomento può essere esteso a tutte le azioni compiute da tutti gli agenti in tutti i momenti della storia dell’universo; ne segue che, data la condizione della verità del determinismo, non è mai in potere di alcun agente che sottostà alle leggi fisiche evitare di compiere le azioni che di fatto compie. In breve, se è vero il determinismo, non vi può essere libertà. È molto ragionevole ritenere che l’argomento sia corretto (ovvero che la conclusione segua validamente dalle premesse 1-6). Chi voglia contestarne la conclusione, dunque, deve mostrare che qualcuna delle premesse 1-6 è falsa. Nel corso del dibattito, gli sforzi in tal senso si sono concentrati in particolare sulle premesse 3, 4 e 554. I tentativi di attaccare la premessa 3 dell’argomento sono stati numerosi. Molti autori, in particolare, hanno escogitato presunti con54 Frankfurt (1969) ha presentato un importante esperimento mentale che potrebbe essere usato, tra l’altro, per sostenere l’irrilevanza del Consequence Argument per la questione della responsabilità morale (che secondo molti è strettamente connessa alla questione della libertà). La conclusione dell’argomento, infatti, è che Cesare non poteva evitare di passare il Rubicone ovvero non poteva fare altrimenti; secondo Frankfurt, tuttavia, la possibilità di fare altrimenti non è condizione necessaria della responsabilità. Su ciò, cfr. infra, quarto capitolo.
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troesempi (in particolare rispetto al principio di trasferimento di potere che tale premessa sottende). Nessuno si è dimostrato veramente convincente55. Una strategia diversa è stata quella di interpretare la nozione di ‘poter falsificare una proposizione’ per mezzo dell’analisi condizionale56. Tuttavia, come abbiamo visto, l’analisi condizionale incontra a sua volta notevoli difficoltà; dunque i tentativi di richiamarla per cercare di falsificare il Consequence Argument non sembrano portare molto lontano57. Più interessanti sono stati, invece, i tentativi di falsificare la premessa 4. Secondo tale premessa, nessun agente può fare alcunché per falsificare una legge di natura. A prima vista essa sembrerebbe ovvia; nondimeno, David Lewis ha presentato un ingegnoso argomento per negarla58. Secondo Lewis, la proposizione «L’agente X avrebbe potuto falsificare una legge di natura» può essere interpretata legittimamente in due maniere diverse. In senso forte (un senso causale) un agente avrebbe potuto falsificare una legge di natura se, e solo se, fosse stato in grado di compiere un’azione tale che quella legge sarebbe stata falsificata a causa di quell’azione (o di un evento causato da quell’azione). È ovvio, nota Lewis, che nessun agente è in grado di violare le leggi di natura in questo senso. In senso debole (un senso non-causale), invece, un agente avrebbe potuto falsificare una legge di natura se, e solo se, fosse stato in grado di compiere un’azione tale che, se l’avesse compiuta, allora la legge sarebbe stata falsificata. E questo non equivale a dire che l’agente avrebbe falsificato la legge, ma solo che – se avesse agito diversamente da come di fatto ha agito –, allora almeno una legge di natura sarebbe stata diversa (e dunque sarebbe falsificata la proposizione che descrive la legge come essa di fatto è). Secondo Lewis, nel senso debole gli agenti possono falsificare le leggi di natura; e siccome questa inter55 Cfr., ad esempio, Slote (1982), Fischer (1983), Watson (1987a), Flint (1987). In effetti, McKay, Johnson (1996) hanno dimostrato che nella formulazione originariamente data da van Inwagen (1983), il principio del trasferimento di potere era esposto a un controesempio. Non è stato difficile, però, riformulare il principio in modo da renderlo immune da tale controesempio: cfr. gli stessi McKay, Johnson (1996), Finch, Warfield (1998), van Inwagen (2000). Discussioni generali sono in Ekstrom (2000, cap. 2) Berofsky (1987, cap. 7), Fischer (1994), Kane (1996, pp. 4452), O’Connor (2000, cap. 1), Kapitan (2002). 56 Narveson (1977), Foley (1979). 57 Per un’analisi critica di questi tentativi, cfr. Kane (1996, pp. 46-48). 58 Lewis (1981).
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pretazione è legittima, si dimostra che si può dare una lettura della premessa 4 del Consequence Argument tale che essa si dimostra falsa. In quella lettura, dunque, l’argomento non prova la conclusione e dunque non prova la falsità del compatibilismo. Per Lewis, quindi, i compatibilisti, potendo richiamarsi a tale lettura della premessa 4, non hanno nulla da temere dal Consequence Argument. Tuttavia, a me pare che, sebbene acuto, questo tentativo di Lewis più che altro dimostri, paradossalmente, i limiti del compatibilismo. Consideriamo una proposizione come «Ludwig Wittgenstein avrebbe potuto falsificare la legge di natura secondo la quale nulla viaggia più veloce della luce». Lewis ci chiede di accettare due idee: che questa proposizione è in un certo senso vera e che quel senso è rilevante per la discussione sulla libertà. Anche se concedessimo che nella lettura ‘debole’ di Lewis la proposizione è vera, dovremmo chiederci quale sia la pertinenza di tale lettura. Detto diversamente: perché mai una lettura tanto bizzarra dovrebbe essere rilevante per la discussione sulla libertà? Questa lettura, in realtà, dà la netta impressione di essere stata escogitata del tutto ad hoc, al solo scopo di salvare il progetto compatibilistico dagli attacchi del Consequence Argument. David Lewis, d’altra parte, in questi anni ha rappresentato certamente una delle voci più autorevoli del compatibilismo. Ciò dovrebbe, a mio avviso, indurci a una riflessione generale sul compatibilismo contemporaneo e sul suo rapporto con il progetto originariamente sviluppato dai suoi padri fondatori Locke, Hume, Mill, Schlick e Ayer. Questi filosofi sottolineavano con forza che la loro interpretazione del concetto di libertà era la stessa del senso comune, quella che è incorporata nelle nostre pratiche quotidiane: «un soggetto di vita comune e di esperienza» scriveva Hume, reso sterilmente complesso dal «labirinto di oscure sofisticherie» escogitate dai filosofi. Occorre dunque tornare – continuava Hume – al senso originario, prefilosofico, della libertà, un senso su cui «tutti gli uomini sono sempre stati d’accordo [...], secondo ogni significato ragionevole che si possa attribuire a questi termini»59. Forse l’idea di Hume era irrealizzabile; forse il concetto di libertà è intrinsecamente complesso, ambiguo e magari confuso. Ma un’indagine filosofica non può perderne completamente di vista l’origine, l’intrinseco valore sedimentato nelle nostre vite e nelle nostre prati59
Hume (1748, p. 125).
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che. La libertà ci interessa perché appare fortemente connessa a tanti aspetti rilevanti delle nostre vite (come le attribuzioni di responsabilità, i giudizi morali, le pratiche punitive, le ascrizioni di razionalità e così via). Rinunciando del tutto alla connessione con l’intuizione prefilosofica – in nome di intuizioni iperfilosofiche come quelle che sottostanno alla sua interpretazione della falsificabilità delle leggi di natura – Lewis costruisce un perfetto esempio di quelle «oscure sofisticherie» contro cui, a ragione, si scagliava Hume. E ciò già basta, io credo, per ritenere che la presunta confutazione del Consequence Argument da parte di Lewis non abbia successo60. Io credo, perciò, che possiamo richiamarci a questo argomento a sostegno dell’incompatibilismo. E così abbiamo una ragione in più per credere nella robusta intuizione che ci suggerisce che libertà e determinismo non sono conciliabili. 7. Metafisica e filosofia della mente Questo capitolo, dedicato al compatibilismo, è iniziato con una famosa citazione di Donald Davidson che plaudiva a tale concezione. Per concludere, credo sia utile considerare più in dettaglio la concezione di Davidson: ciò ci permetterà di cogliere un’altra importante difficoltà in cui si impania il compatibilismo61. Tra le molte soluzioni che la filosofia della mente contemporanea ha offerto al cosiddetto problema mente-corpo (ovvero quale sia la relazione ontologica tra il mentale e il fisico), quella oggi più accreditata è probabilmente la cosiddetta ‘teoria dell’identità delle occorrenze’. Secondo tale teoria, di cui Davidson è stato uno dei primi difen60 Alcuni compatibilisti hanno tentato anche di attaccare la premessa 5 del Consequence Argument, quella secondo cui non si possono falsificare enunciati concernenti il passato remoto. La struttura di questi tentativi di confutazione è molto simile a quella impiegata da Lewis contro la premessa 4. L’idea in sostanza è che, nel compiere una determinata azione, un agente avrebbe potuto falsificare (in senso debole) l’enunciato che descrive lo stato dell’universo in un istante passato, nel senso che – se egli avesse compiuto un’azione diversa da quella che ha compiuto – allora il passato sarebbe stato diverso (cfr. Foley 1979, Fischer 1983). Anche rispetto a questa proposta, tuttavia, viene da pensare che essa si fondi su un’idea di potere (e di libertà) costruita arbitrariamente. 61 A mia conoscenza, l’argomento critico sviluppato nel prossimo paragrafo è inedito. Per una diversa critica della teoria della libertà di Davidson, cfr. Nannini (1999).
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sori, ogni singola occorrenza di evento mentale (ogni particolare credenza, desiderio, intenzione ecc.) è identica a una corrispondente occorrenza di un evento fisico. Ciò significa che, in linea di principio, un unico evento può essere alternativamente descritto per mezzo del vocabolario delle scienze naturali o del vocabolario mentalistico. In proposito va notato che, secondo la teoria dell’identità delle occorrenze, l’identità tra un’occorrenza di evento mentale e un’occorrenza di evento fisico non si estende ai corrispondenti tipi o classi di eventi, mentali e fisici. Due individui, cioè, possono avere due occorrenze dello stesso evento mentale (ad esempio, possono entrambi credere che Katmandu sia la capitale del Nepal), ma tali occorrenze possono essere rispettivamente identiche a occorrenze di tipi diversi di eventi fisici. Davidson ha battezzato la sua fortunata versione della teoria dell’identità delle occorrenze «monismo anomalo». Tale nome deriva dal fatto che la concezione davidsoniana coniuga due tesi. La prima tesi è il monismo ontologico fisicalistico, secondo il quale in linea di principio tutte le entità e tutti gli eventi possono essere descritti nei termini della fisica e tutte le relazioni causali esemplificano leggi fisiche, ossia leggi che sono «tanto deterministiche quanto se ne possono trovare in natura»62. Da questo punto di vista, allora, nessuna relazione di causa ed effetto può sfuggire alla rete nomologica della necessità fisica; anzi, una relazione causale è tale solo se in linea di principio esemplifica una legge della fisica. La seconda tesi del monismo anomalo è l’irriducibilità del mentale rispetto al sistema nomologico delle scienze naturali: quando gli eventi sono descritti in termini mentalistici, dunque, non c’è modo di ricondurli a leggi63. Questa concezione è esplicitamente presentata da Davidson come una difesa dell’autonomia e della libertà umane. A sostegno, egli richiama un brano di Kant: Davidson (1992, p. 8). L’argomento offerto da Davidson per sostenere l’anomalia del mentale è uno dei più complessi e dibattuti nella filosofia analitica contemporanea. In breve, l’idea è che il mentale ha carattere olistico, nel senso che le condizioni di identità del contenuto intenzionale di ogni evento mentale dipendono dalla posizione che tale evento occupa all’interno di una rete mediante la quale esso è connesso a una molteplicità di altri eventi mentali; tale rete è definita essenzialmente da principi normativi di carattere razionale. Una tale organizzazione non trova un analogo nel mondo dei concetti delle scienze naturali; in tal modo tra i due ambiti non c’è possibilità di riduzione nomica. Per una discussione di questo tema, cfr. De Caro (1998a, cap. 3). 62 63
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Quando diciamo l’uomo libero, lo pensiamo in un altro senso e per un altro riguardo di quando lo consideriamo sottoposto, in quanto parte della natura, alle leggi di questa; i due sensi non solo sono perfettamente compatibili, ma debbono anche esser pensati come necessariamente congiunti nello stesso soggetto64.
Davidson afferma che quando descriviamo una sequenza di eventi in termini mentalistici (quando diciamo, ad esempio, che un agente agisce a causa di determinate credenze e determinati desideri), stiamo dando una spiegazione che è in linea di principio irriducibile alle spiegazioni nomologiche delle scienze. In quella descrizione, dunque, le azioni dell’agente sono in linea di principio irriconducibili a spiegazioni deterministiche (mentre vi sono riconducibili quando vengono descritte in termini fisici). E in questo modo, secondo Davidson, si comprende perché siamo sia liberi sia determinati. A mio giudizio, la concezione di Davidson non riesce però ad assolvere il compito di dare conto della libertà umana. Vediamo perché. Come abbiamo visto, Davidson, aderendo al monismo fisicalistico, accetta l’idea che tutte le relazioni causali tra eventi devono esemplificare una legge fisica. In forza del suo monismo fisicalistico, infatti, Davidson afferma che «dove c’è causalità, deve esserci una legge [fisica]»65. Ma, ovviamente, due eventi possono esemplificare una legge fisica solo quando siano descritti per mezzo di predicati fisici: come abbiamo visto, infatti, secondo il monismo anomalo non esistono leggi che possano connettere eventi descritti in termini mentalistici. Jaegwon Kim, tuttavia, ha convincentemente argomentato che questa concezione è una forma mascherata di epifenomenismo, la screditata concezione secondo la quale tutti gli eventi mentali sono causalmente inerti (nel senso che nessun nostro desiderio, credenza, intenzione, timore può causare alcunché)66. Il fondamento di questa accusa sta nella tesi secondo la quale due eventi, per trovarsi in relazione 64 Kant (1785, pp. 117). Va ricordato però che la teoria kantiana della libertà è una forma di libertarismo, perché dal punto di vista metafisico Kant concepisce la libertà (sul piano trascendentale, non su quello fenomenico) come causalità incondizionata (cfr. Allison 1990, Mori 2001, cap. 2). Davidson è, invece, un compatibilista, giacché definisce la libertà come possibilità di agire senza impedimenti o costrizioni – dove ‘agire’ significa che una sequenza di eventi si può appropriatamente descrivere come la causazione di un evento fisico da parte di uno o più eventi mentali. 65 Davidson (1970, p. 286). 66 Kim (1989 e 1993a).
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causale tra loro, devono esemplificare una legge della fisica: dunque, gli eventi giocano un ruolo causale solo nella misura in cui sono descrivibili per mezzo di predicati fisici. Tuttavia i predicati mediante i quali gli eventi sono descritti fanno riferimento alle proprietà di quegli eventi: è grazie alle proprietà fisiche, dunque, e non a quelle mentali, che gli eventi esemplificano le leggi della fisica. Ma, allora, in virtù delle sue sole proprietà mentali un evento non può esemplificare alcuna legge causale rigorosa. Detto altrimenti: è solo in virtù delle loro proprietà fisiche che gli eventi possono avere efficacia causale. Ma che cosa rimane, allora, della rilevanza causale del mentale? Nulla, perché nulla può essere causato dagli eventi mentali in quanto mentali. I tentativi di Davidson di difendersi dalla critica di Kim non sono, a mio giudizio, convincenti67. L’accusa di epifenomenismo contro il monismo anomalo, dunque, è ben fondata. Ma se è così, anche la proposta davidsoniana di soluzione del problema della libertà si dimostra insoddisfacente. La ragione è semplice. Come abbiamo visto, l’idea fondamentale del compatibilismo contemporaneo è che, per essere libera, un’azione deve essere causata da appropriati eventi mentali dell’agente. Molto chiara in questo senso è una già richiamata affermazione di Quine (il quale, va ricordato, accettò il monismo anomalo di Davidson): «un atto [è] libero nella misura in cui i motivi o gli impulsi dell’agente figurano come anelli della catena causale» che conduce all’azione68. Ma come abbiamo appena visto, il monismo anomalo – essendo una forma di epifenomenismo – priva gli eventi mentali di ogni potere causale. Dunque, se questa concezione è vera, nessun evento mentale potrà mai figurare in alcuna catena causale! Nessun motivo, impulso, desiderio, credenza o intenzione può, dunque, causare alcuna azione; allora, se è vero il monismo anomalo, non possono esistere azioni libere. La libertà, dunque, è negata agli esseri umani. Il fallimento dell’autorevole tentativo davidsoniano di offrire una filosofia della mente adeguata al compatibilismo può dunque essere visto come un’ulteriore conferma della debolezza intrinseca di questa concezione. 67 Per difendere il monismo anomalo dall’accusa di epifenomenismo, Davidson, in particolare, si appella alla sua peculiare teoria degli eventi, la quale tuttavia a sua volta non sembra molto convincente. Per una discussione più completa, cfr. De Caro (1998a, cap. 2). 68 Quine (1981, p. 11).
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In questo capitolo sono state analizzate le varianti del compatibilismo – la concezione secondo la quale il determinismo causale non ostacola la libertà (e, secondo alcuni autori, ne è addirittura condizione necessaria). Abbiamo però visto che tale concezione incontra alcune gravi difficoltà, che non sembra in grado di risolvere. In questo senso, in primo luogo abbiamo considerato le insoddisfacenti proposte dei compatibilisti per rendere conto in termini condizionali di una componente essenziale della libertà: la possibilità di fare altrimenti. In secondo luogo, abbiamo analizzato il cosiddetto Consequence Argument, secondo il quale il determinismo ha implicazioni incompatibili con la libertà. Infine, abbiamo discusso l’autorevole, ma infruttuoso tentativo operato da Donald Davidson di sviluppare una filosofia della mente adeguata al compatibilismo. La conclusione di questa discussione è stata che, come teoria della libertà, il compatibilismo non offre certo prospettive migliori del libertarismo. In tal modo, entrambe le concezioni classiche della libertà si dimostrano inadeguate. Non sorprenderà, perciò, che negli ultimi anni attorno all’idea stessa di libertà si siano andate addensando nubi minacciose. Il prossimo capitolo sarà dedicato dunque alla recente, rapida ascesa di posizioni di impronta scettica.
Capitolo terzo
Libertà e scetticismo
Occorre dimenticare la libertà, che non esiste, e riconoscere la dipendenza, che non avvertiamo. Lev Tolstoj
Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, i tentativi di elaborare una teoria filosofica del libero arbitrio si dimostrano alquanto insoddisfacenti. Tanto le teorie compatibilistiche quanto quelle libertarie, infatti, falliscono nel tentativo di armonizzarsi con le nostre intuizioni più fondamentali, da una parte, e con i presupposti fondamentali della visione scientifica del mondo, dall’altra parte. Verrebbe dunque da concludere, a proposito della libertà, con le parole che Metastasio riferiva all’araba fenice: «che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa». E, in effetti, un numero crescente di autori, anche molto autorevoli, trae oggi conclusioni apertamente scettiche rispetto alla libertà. Alcuni affermano che la questione della libertà è intrinsecamente insolubile; altri concludono, ancor più radicalmente, che la libertà di fatto non si dà e altri ancora che è addirittura impossibile. In questo capitolo discuterò di tali esiti scettici del dibattito contemporaneo. La mia conclusione sarà che queste posizioni, sebbene radicali, rappresentano l’esito più coerente ed intellettualmente consapevole di un modo, oggi molto comune, di impostare la discussione sulla libertà. 1. Il mistero della libertà Le discussioni filosofiche, soprattutto in ambito analitico, hanno un andamento piuttosto uniforme. Se consideriamo dibattiti come quelli sull’identità personale, lo statuto della conoscenza, la natura dei con87
cetti etici o di quelli matematici notiamo, infatti, che teorie alternative si fronteggiano, nessuna delle quali appare interamente convincente, ma neppure del tutto implausibile. Per considerare un esempio specifico, nel corso della classica discussione sul problema mente-corpo i difensori di tutte le principali concezioni in campo – come la teoria dell’identità dei tipi, quella dell’identità delle occorrenze, l’eliminazionismo o l’emergentismo – hanno apportato a proprio sostegno intuizioni ed argomenti di una qualche persuasività (sebbene, naturalmente, tutte quelle concezioni si prestino anche ad obiezioni e critiche)1. L’attuale discussione sul libero arbitrio, tuttavia, ha un andamento alquanto diverso e credo sia giusto dire che i risultati che essa raggiunge sono, nel complesso, intellettualmente assai più deludenti di quelli ottenuti nel corso degli altri dibattiti filosofici. Per fornire un quadro d’insieme dell’attuale discussione sulla libertà si può utilmente ricorrere alla categoria di «scienza straordinaria» proposta da Thomas Kuhn. Secondo Kuhn, i periodi di scienza straordinaria si verificano quando una teoria scientifica, dopo avere ricoperto a lungo il ruolo di «paradigma» dominante nel proprio campo, entra in crisi e perde buona parte dell’attrattiva che esercitava sui ricercatori di quel campo; nello stesso tempo, però, nessuna delle teorie alternative riesce a guadagnare consensi significativi. Il risultato è una seria impasse teorica, che può alternativamente condurre alla restaurazione del vecchio paradigma oppure all’emergere di uno nuovo o, infine, al diffuso riconoscimento che «il problema resiste anche a modi innovativi, e apparentemente radicali, per affrontarlo». E in questo ultimo caso la comunità scientifica concluderà che per quel problema «nello stato attuale in cui quel campo si trova non si intravede nessuna soluzione»2. Questa descrizione si applica molto bene alla discussione contemporanea sulla libertà. Come abbiamo visto nel secondo capitolo, infatti, negli ultimi anni sono state offerte prove convincenti contro il compatibilismo – la concezione che fu dominante per gran parte del Novecento. In virtù di quegli argomenti, molti studiosi sono oggi convinti che, di contro a quanto sostenuto dai compatibilisti, libertà e determinismo causale siano incompatibili. Così, come detto, tale concezione è oggi in fase declinante. Riferendoci, allora, alle ca1 Sulle ragioni che ognuna di queste concezioni può apportare a proprio sostegno, e naturalmente anche sulle critiche cui si espongono, si veda Paternoster (2002). 2 Kuhn (19702, p. 84, trad. mia. Per qualche misteriosa ragione questo importante passo manca nell’edizione italiana).
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tegorie kuhniane possiamo notare che, come accade nei periodi di scienza straordinaria, nell’ambito del dibattito sulla libertà il paradigma una volta dominante ha ormai perduto buona parte del credito di cui godeva ed è entrato in uno stato di crisi. Nello stesso tempo, però, anche la tradizionale alternativa teorica al compatibilismo, il libertarismo – la concezione secondo la quale la libertà è possibile soltanto in un mondo indeterministico – non riesce ad attrarre su di sé un consenso di qualche rilievo. Come si è visto nel primo capitolo, infatti, tutte le teorie libertarie sono costitutivamente afflitte da problemi tanto rilevanti quanto apparentemente insolubili (quali la costitutiva oscurità metafisica e l’incapacità di spiegare come gli agenti possano controllare le proprie azioni)3. Naturalmente, come abbiamo visto, vi sono ancora autori che si propongono di rivitalizzare il compatibilismo, rinverdendone i passati fasti di paradigma dominante; né mancano filosofi che tentano di affrancare il libertarismo dalle sue croniche debolezze, nella speranza di farne finalmente l’ortodossia che non è mai riuscito a divenire. Questi orientamenti teorici tendono, rispettivamente, verso due dei possibili esiti cui, secondo Kuhn, può condurre una situazione di ‘straordinarietà’: rispettivamente, la restaurazione del vecchio paradigma e l’affermazione di uno nuovo. A mio giudizio, però, è ragionevole ritenere che il paradigma libertario e quello compatibilistico, così come sono stati sino ad oggi sviluppati, abbiano ormai perduto la loro vitalità teorica e siano, per così dire, chiusi irrimediabilmente in se stessi. La prova di una tale involuzione è che oggi, in molti casi, i contributi al dibattito sulla libertà si presentano come mere esercitazioni scolastiche incentrate su microproblemi, interni all’uno o all’altro dei paradigmi in competizione, ma ignorano le formidabili difficoltà, aporie e contraddizioni che minano alla base la credibilità generale di quei paradigmi. D’altra parte, come detto, nell’analizzare la dinamica dello sviluppo scientifico Kuhn discute anche una terza, più radicale, conclusione di un periodo di straordinarietà. Ciò accade quando la discussione tra i diversi paradigmi in conflitto si fa inconcludente e nessun paradigma riesce a presentarsi come plausibile: in casi del genere, si può giungere al riconoscimento condiviso che «nello stato attuale in cui quel campo si trova non si intravede nessuna soluzione». E, in effetti, un numero crescente di filosofi che studiano la questione della libertà 3
Cfr. Dennett (1978), van Inwagen (1983, cap. 4).
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si dichiara ormai estremamente scettico rispetto alla possibilità che i paradigmi tradizionali recuperino plausibilità. Uno dei casi più noti è rappresentato da Thomas Nagel, che così descrive l’attuale discussione sulla libertà: La mia attuale posizione è che nulla che potrebbe rappresentare una soluzione è stato ancora descritto. Questo non è un caso in cui ci sono diverse possibili soluzioni e noi non sappiamo qual è quella corretta. Piuttosto si tratta di un caso in cui, nel corso della vasta discussione pubblica sul tema, nessuno (a mia conoscenza) ha proposto alcunché di credibile4.
In realtà, conclude scetticamente Nagel, «al termine del cammino che sembra condurre verso la libertà e la conoscenza si trovano scetticismo e impotenza»5. Anche Peter van Inwagen (che pure idealmente tende a simpatizzare con il libertarismo) si dimostra molto scettico rispetto allo stato e alle prospettive della discussione sulla libertà. Negli ultimi anni – in saggi dai titoli molto eloquenti, come The Mystery of Metaphysical Freedom e Free Will Remains a Mystery – van Inwagen si è fatto assertore della tesi secondo la quale è molto verosimile che, in ragione dei nostri insuperabili limiti cognitivi, nessun essere umano potrà mai risolvere il mistero della libertà: Mi pare così evidente che trovare una soluzione a questo problema sia impossibile che trovo molto interessante un suggerimento recentemente formulato da Noam Chomsky [...]. Secondo Chomsky, nella nostra biologia, nelle modalità con cui il pensiero è ‘installato’ nei nostri cervelli c’è qualcosa che fa sì che per noi esseri umani sia impossibile risolvere il mistero della libertà metafisica. Comunque stiano le cose, io sono certo di non poter risolvere il mistero e sono altrettanto certo che nessun altro lo abbia fatto6.
Nell’esporre questa tesi, van Inwagen cita a proprio sostegno uno dei filosofi più provocatori della scena contemporanea, Colin McGinn, il quale, in effetti, con toni simili (ma intenzionalmente più paradossali), scrive che «il libero arbitrio è un mistero e in ciò consiste Nagel (1986, pp. 119-120). Ibid. 6 Van Inwagen (1998, p. 174). 4 5
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la sua possibilità»7. McGinn, in particolare, mette in luce come il suo scetticismo rispetto alla libertà dipenda dall’idea che noi non abbiamo (né potremo mai avere) la benché minima idea di come gli stati mentali possano causare cambiamenti nel mondo fisico. In una parola, la libertà è un mistero perché lo è la causazione mentale: «Il libero arbitrio è causazione mentale in azione, la misteriosa interfaccia tra la mente e l’azione»8. L’idea di McGinn è semplice. Quando un agente desidera mangiare, crede che sul tavolo vi sia una mela, intende prendere quella mela per mangiarla ed effettivamente compie l’azione di afferrare quel frutto e di addentarlo, si tratta di un caso di causazione mentale. Quel che occorre chiedersi, allora, è se noi siamo in grado di dare conto di questo processo causale preservando, nello stesso tempo, lo spazio della libertà. Secondo McGinn, non possiamo. In effetti, tanto i compatibilisti quanto la maggior parte dei libertari si propongono di fornire un modello di causazione mentale compatibile con le rispettive idee di libertà. Gli argomenti critici discussi nei capitoli precedenti, però, sembrano dare ragione a McGinn: sembra, infatti, che un tale compito non si possa svolgere né facendo appello alla causalità deterministica, come pretendono i compatibilisti, né richiamandosi alla causalità indeterministica o all’agent causation, come fanno i libertari. Secondo McGinn, tutti questi tentativi falliscono perché la causazione mentale – vero e proprio locus della libertà – è in linea di principio irriducibile alla causalità fisica. Infatti, nota McGinn, quando nell’ambito delle scienze naturali si dice, ad esempio, che il movimento di un corpo causa lo spostamento di un altro corpo, s’intende che tra i due corpi c’è uno scambio di energia (quantità di moto), governato da leggi rigorose9. Ma la nostra idea di causazione mentale non è affatto di questo genere: quando diciamo che un agente o i suoi stati mentali causano un’azione, infatti, non alludiamo ad alcun contatto tra corpi né a presunte leggi deterministiche che sovrintendano a tale nesso causale. In effetti, un modello di causazione mentale – almeno quando si voglia dar conto di azioni non compulsive – dovrebbe dare (in qualche 7 McGinn (1999, p. 168). Nel caso di McGinn, peraltro, lo scetticismo non è limitato alla questione della libertà, ma si estende ad altre nozioni teoreticamente centrali, come quelle di coscienza, significato, identità personale e conoscenza. 8 Ivi, pp. 167-168. 9 Ivi, p. 167.
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modo) conto di proprietà di tutt’altro genere: in particolare, come abbiamo visto, del controllo che l’agente ha sulle proprie azioni e della sua capacità di agire diversamente da come di fatto agisce. Tutto ciò richiederebbe un modello peculiare di causalità, che sappiamo essere irriducibile ai modelli di causalità fisica, ma di cui, secondo McGinn, nulla conosciamo e mai conosceremo. Molti scettici contemporanei – tra cui van Inwagen e McGinn – impostano la questione della libertà in una forma antinomica: da una parte, infatti, essi pongono l’irrinunciabile idea della libertà, dall’altra gli argomenti che ne dimostrano l’impossibilità. Questo modo di impostare la questione può forse evocare la terza antimonia della Critica della ragion pura (ma, naturalmente, non la ‘risoluzione’ sul piano trascendentale che vi fa seguito né gli sviluppi che la questione ebbe nella Critica della ragion pratica). Anche l’antinomia kantiana, in effetti, verteva sull’apparente incompatibilità della «causalità secondo le leggi della natura» con la «causalità mediante libertà» – pensata come reale e intesa come «causalità incondizionata»10. Va però notato che tra l’antinomia kantiana e il modo in cui gli scettici, rifacendosi ai risultati della discussione contemporanea, pongono la questione della libertà ci sono alcune importanti differenze. In primo luogo, a differenza di quanto pensava Kant, il determinismo causale è oggi considerato una tesi empirica. Inoltre, come abbiamo visto, solo una parte dei libertari contemporanei (in particolare alcuni teorici della agent causation) concepisce la libertà nei termini kantiani, come «causalità incondizionata»; altri, invece, preferiscono pensare la libertà in termini non causali oppure indeterministico-causali. Non sorprenderà, allora, che le antinomie degli scettici contemporanei si distinguano, su questo punto, da quella kantiana: esse, difatti, si sono arricchite – nel versante antitetico – degli argomenti tesi a confutare le concezioni acausali e indeterministicocausali della libertà11. Tenendo presente questa precisazione, i principali argomenti contro il compatibilismo e il libertarismo possono essere richiamati per formulare una sorta di nuova antinomia tra la causazione mentale, che dovrebbe garantire la libertà, da una parte, e quella fisica, che sembra invece renderla impossibile, all’altra parte. Tale impossibilità è argo-
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Kant (1787, pp. 502 e 506). Per una discussione di questi argomenti, cfr. supra, primo capitolo.
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mentata ricorrendo agli argomenti contro la libertà discussi nei capitoli precedenti. Come abbiamo visto, il Consequence Argument dimostra, infatti, che la causazione deterministica, a cui si appellano i compatibilisti, non lascia spazio per dare conto del controllo da parte degli agenti sulle azioni che essi causano, mentre la causazione indeterministica, cui si richiamano i libertari, sembra far collassare la libertà sul caso. Riassumendo, McGinn coglie un punto molto importante. Egli infatti ha senz’altro ragione, a mio giudizio, a ritenere che l’attuale insolubilità del problema della libertà dipenda dal fatto che questo problema viene oggi affrontato con strumenti concettuali adatti, tutt’al più, a comprendere soltanto l’ambito del naturale e quello delle scienze che se ne occupano, ma che sono del tutto inadeguati per concettualizzare (e meno ancora per spiegare) l’ambito dell’agire umano. Tuttavia, McGinn è a mio parere in errore quando, a partire da queste premesse, conclude scetticamente che la domanda filosofica sulla libertà è destinata a rimanere insoddisfatta. Su ciò tornerò comunque nell’ultimo capitolo. 2. L’illusione della libertà Le tesi di Nagel, van Inwagen e McGinn hanno un indubbio carattere scettico: tuttavia va notato che lo scetticismo di questi autori non ha senso ontologico, ma epistemico. Essi – quasi riprendessero il celebre «ignorabimus» di Du Bois-Reymond – non affermano, infatti, che noi non siamo liberi e neppure dubitano della nostra libertà; piuttosto, sostengono che la questione del libero arbitrio è, almeno per noi, irresolubile. La ragione di ciò è che le nostre più radicate intuizioni in materia contraddicono quanto sappiamo del mondo e anche quanto, plausibilmente, potremo mai arrivare a sapere. Nondimeno, secondo questi autori, l’intuizione della libertà è condizione ineliminabile dei giudizi morali, delle nostre attribuzioni di senso ad attività come la riflessione e la deliberazione, di pratiche sociali essenziali come la punizione o la lode e perfino delle imputazioni di razionalità agli agenti12. Per questo, secondo Nagel, van Inwagen e McGinn, l’intuizione della libertà va presa sul serio: «Non è certo che noi tutti, come hanno sostenuto gli esistenzialisti, siamo condannati 12
Cfr. Nagel (1986, cap. 7) e Korsgaard (1996).
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alla libertà, ma certamente siamo tutti condannati a credere nella libertà»13. Tale intuizione, per quanto nitida, è però in contraddizione con gli argomenti contro il compatibilismo e il libertarismo, i quali presi congiuntamente sembrano provare che la libertà è impossibile. Da una parte, abbiamo dunque buone ragioni per pensare che non siamo liberi; dall’altra parte, l’idea della libertà è per noi irrinunciabile. Per questo, nota van Inwagen, la questione del libero arbitrio è un mistero insondabile: «Il libero arbitrio sembra [...] essere impossibile. Ma sembra anche che il libero arbitrio esista. Perciò l’impossibile sembra esistere»14. Secondo van Inwagen (così come per Nagel e McGinn), dunque, non possiamo sfuggire al paradosso di dover credere a qualcosa la cui esistenza sembra impossibile da provare. È però istruttivo notare che un numero crescente di altri autori ha assunto una posizione ancora più radicale di questa, difendendo una forma di scetticismo non solo epistemico, ma metafisico. Secondo questi autori, infatti, non è tanto che non potremo mai provare di essere liberi; piuttosto, semplicemente non siamo liberi; in questa prospettiva, dunque, la libertà è nulla più di un’illusione. Una mera elencazione di titoli di libri molto recenti può dare un’idea di quanto siano oggi comuni posizioni di questo tipo: The Non-Reality of Free Will, Free Will and Illusion, Living Without Free Will, The Illusion of Conscious Will sono tutti usciti negli ultimi anni, presso editori molto autorevoli15. A me pare che questa vorticosa ascesa dello scetticismo, tanto epistemico quanto metafisico, sia oggi il fenomeno più rilevante dell’intera discussione sulla libertà. In proposito è però importante una precisazione. Sarebbe errato pensare che lo scetticismo rispetto alla libertà sia una posizione filosoficamente inedita: al contrario, sia la versione epistemica sia quella metafisica hanno avuto, in passato, non pochi propugnatori. Lo scetticismo epistemico fu difeso, ad esempio, da Lorenzo Valla, il quale concludeva il suo celebre dialogo De libero arbitrio con queste parole: «ben difficile e arduo è questo problema, e non so se risolto da qualcuno. Ma non c’è motivo per cui tu debba turbarti e confonderti anche se non lo risolverai mai. È forse giusto irritarsi se non si raggiunge quello che da nessu13 Van Inwagen (1998, p. 172). Per una difesa della tesi secondo la quale la negazione del libero arbitrio sarebbe contraddittoria, cfr. van Inwagen (1983, pp. 160-161). 14 Van Inwagen (2000, p. 11). 15 Double (1991), Smilansky (2000), Pereboom (2001), Wegner (2002).
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no si vede raggiunto?»16. Ancora più numerosi sono poi stati, nel corso della storia del pensiero, i propugnatori di visioni metafisicamente scettiche della libertà – e basterà ricordare Lutero, Calvino, Pomponazzi, La Mettrie, Holbach e Laplace17. In tempi più recenti, una delle più nitide manifestazioni di scetticismo metafisico è stata offerta da Einstein: Un Essere, dotato di superiore capacità di comprensione e di più perfetta intelligenza, che guardasse all’uomo e al suo agire, sorriderebbe dell’illusione umana di agire secondo libertà [...]. Questa è la mia opinione, sebbene io sappia bene che essa non è pienamente dimostrabile [...]. L’uomo rifiuta di essere considerato un oggetto impotente rispetto al corso dell’Universo. Ma la legalità degli eventi – come essa si svela più o meno chiaramente nella natura inorganica – dovrebbe forse interrompersi di fronte alle attività del nostro cervello?18
Tuttavia lo scetticismo contemporaneo rispetto alla libertà ha oggi caratteristiche peculiari rispetto al passato – e questo per tre ordini di ragioni. Innanzitutto, il numero e la rilevanza degli autori che aderiscono oggi a posizioni scettiche (tanto in senso epistemico quanto in senso metafisico) è particolarmente significativo. In secondo luogo, contro le varie concezioni della libertà oggi gli scettici possono ricorrere all’impressionante batteria di argomenti considerati nei capitoli precedenti. Infine molto spesso le concezioni scettiche contemporanee si distinguono da quelle classiche anche rispetto all’ispirazione di fondo. Lo scetticismo classico, infatti, si presentava generalmente in guisa di determinismo hard, componendosi sia di una tesi empirica sia di una tesi concettuale: da una parte, infatti, si assumeva che il mondo naturale fosse deterministico (tesi empirica), dall’altro si predicava l’incompatibilità del determinismo con la libertà (tesi concettuale). Ne seguiva che nessun ente naturale può essere libero. Sebbene ancora oggi alcuni argomentino in modo simile (richiamandosi in particolare ai risultati delle neuroscienze)19, Valla (1440 ca., p. 529). Naturalmente le ragioni dello scetticismo di Valla, Lutero, Calvino e Pomponazzi erano di carattere teologico, laddove La Mettrie e Holbach si appellavano al determinismo della meccanica newtoniana (che ritenevano incompatibile con la libertà). 18 Citato in Libet, Freeman, Sutherland (a cura di) (1999, p. XII). 19 Ad esempio, Honderich (1988) e Wegner (2002, cap. 9). 16 17
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molti scettici contemporanei ricorrono – sulla base di una strategia non comune in passato – ad analisi concettuali tese a dimostrare l’impossibilità della libertà, e ciò indipendentemente dal fatto che il mondo sia deterministico o indeterministico. Torniamo allora alla variante metafisica dello scetticismo contemporaneo. Dato che gli argomenti anticompatibilistici e antilibertari dimostrano che la libertà è impossibile – sostengono gli autori di questa corrente – dobbiamo inferirne, a meno di non essere irrazionali, che la libertà non è affatto un mistero, ma una mera illusione. In questa prospettiva, l’intuizione della libertà (per quanto possa essere utile, e forse addirittura praticamente indispensabile)20 produce una credenza che è semplicemente falsa. D’altra parte, non è forse illusoria l’intuizione che ci induce a ritenere che il Sole giri intorno alla Terra? E, analogamente, perché non potrebbe essere illusoria l’intuizione della libertà (e falsa la credenza che la concerne)? Una posizione di questo tipo è stata difesa con particolare vigore da Galen Strawson, il quale ha sviluppato una variante della concezione etica conosciuta come error theory21. Questa denominazione riprende quella proposta da John Mackie per la propria teoria morale – sviluppata in un famoso libro dal significativo titolo Ethics: Inventing Right and Wrong22 –, secondo la quale gli enunciati valutativi, pur essendo dotati di senso, sono falsi in quanto elevano una illecita pretesa di validità oggettiva. Analogamente, Galen Strawson sostiene che le credenze concernenti la nostra presunta libertà, sebbene siano per noi insopprimibili, sono semplicemente false; dunque la libertà è una mera illusione. In questa direzione, egli apporta un duplice ordine di argomenti, tesi a confutare tutte le teorie della libertà. In primo luogo, Galen Strawson contesta la tesi che chiama «oggettivistica», secondo la quale l’essere liberi non presupporrebbe l’esperienza della libertà. A proprio sostegno, egli sviluppa un esperimento mentale incentrato su agenti per i quali valgono tutti i requisiti delle teorie oggettivistiche della libertà, pur non essendo questi agenti in grado di avere alcuna esperienza di se stessi in quanto esseri liberi. Con una sottile e convincente analisi, Galen Strawson 20 Smilansky (2000, p. 6), ad esempio, scrive: «Fortunatamente l’umanità viene ingannata sulla questione del libero arbitrio, ché questa sembra essere una condizione della moralità e del senso personale del valore». 21 G. Strawson (1986). 22 Mackie (1977).
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dimostra che sarebbe errato concludere che tali agenti siano liberi (a meno di non distorcere arbitrariamente il significato ordinario del termine ‘libertà’). L’esperienza soggettiva della libertà è dunque componente essenziale di quest’ultima. Essa tuttavia non ne è condizione sufficiente, come mostra la seconda batteria di argomenti offerti da Galen Strawson. La nostra intuizione, infatti, riconosce anche un’essenziale componente oggettiva della libertà: in questo senso si può immaginare il caso di una persona ipnotizzata, che esegue completamente gli ordini dell’ipnotizzatore, incluso quello di credere di essere libera. Quella persona potrà anche avere l’intuizione, o l’esperienza soggettiva, della libertà; ma di certo non è affatto libera. In questa luce, nota Galen Strawson, l’esperienza soggettiva della libertà può essere fuorviante: essa infatti, pur essendo condizione necessaria per il godimento della libertà, non ne è condizione sufficiente. Perché si possa dire che noi siamo liberi sarebbe anche necessario che la libertà fosse una proprietà reale del mondo; ma certamente non è così, come – secondo Galen Strawson – dimostra ampiamente il fallimento di tutte le teorie della libertà, confutate dagli argomenti considerati nei capitoli precedenti23. 3. Naturalismo scientifico e scetticismo In sostanza, il dibattito contemporaneo sulla libertà conduce sempre più spesso ad un radicale scetticismo, che in alcune versioni è declinato in senso epistemico (in quanto afferma che la libertà è per noi impossibile da provare), in altre ha invece carattere metafisico (in quanto sostiene che la libertà semplicemente non c’è). D’altra parte, a mio giudizio si deve ammettere che lo scetticismo è l’esito più coerente di un modo oggi molto comune di impostare la questione della libertà. Come si è visto, nessuna delle concezioni che abbiamo considerato riesce nel tentativo di coniugare il contenuto intuitivo di questo concetto con le premesse del naturalismo scientifico corrente: che il mondo sia deterministico o indeterministico, non sembra che gli agenti abbiano il potere di optare, consciamente e autonomamente, per uno dei corsi d’azione alternativi che si aprono innanzi a loro. Se è vero l’indeterminismo causale, infatti, non sembrerebbe che essi possano 23 Cfr. White (1991a e 2004) per un’acuta analisi della concezione di Galen Strawson.
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autodeterminarsi; se invece è vero il determinismo causale, parrebbe che non ci sia spazio per la possibilità di fare altrimenti. Ma, per avere la libertà, occorrono sia l’autodeterminazione sia la possibilità di fare altrimenti. Dunque la libertà è impossibile. La diagnosi di Colin McGinn, accennata sopra, sembra dunque corretta: la nozione di libertà non può essere declinata per mezzo delle categorie naturalistiche oggi in voga. In particolare, la causazione mentale che l’intuizione ci suggerisce essere a fondamento del nostro agire non può essere interpretata per mezzo della concezione della causalità propria del naturalismo scientifico contemporaneo: il prezzo che si paga, infatti, è che diviene impossibile spiegare come una mente possa agire sul mondo (ad esempio, come possa scegliere tra corsi d’azione alternativi). E, in tale prospettiva, la libertà non può che essere concepita come un mistero insolubile o una vera e propria illusione. La domanda che occorre porsi, allora, è se tale radicale scetticismo sia ineludibile o se invece non si possano tentare nuove vie, che permettano di reimpostare la discussione sulla libertà su nuove, più promettenti basi, senza per questo rinunciare alle coordinate fondamentali della visione scientifica del mondo. In questo capitolo abbiamo considerato gli sviluppi scettici, oggi in notevole crescita, della discussione sul libero arbitrio. Tale scetticismo appare, d’altra parte, ben giustificato alla luce delle gravi impasse in cui si trovano tanto il compatibilismo quanto il libertarismo. Nondimeno, è lecito chiedersi se non sia possibile concepire altri accessi teorici alla questione del libero arbitrio, che possano eludere lo scetticismo. Su questo tema tornerò nell’ultimo capitolo. Prima, infatti, sarà necessario occuparsi più da vicino del nesso tra libertà e responsabilità. Come detto, l’immane sforzo teoretico fatto per illuminare il concetto di libertà – e per sciogliere le aporie che lo circondano – è tradizionalmente motivato soprattutto dal desiderio di chiarire i presupposti del concetto di responsabilità, che secondo un’opinione molto consolidata ne dipende. Recentemente, tuttavia, alcuni autori hanno contestato tale opinione, sostenendo che in realtà la responsabilità non presuppone la libertà (almeno nel senso in cui l’abbiamo intesa qui). Se gli argomenti avanzati da questi autori fossero corretti, il dibattito sulla libertà perderebbe buona parte del suo pathos e del suo rilievo teoretico. Nel prossimo capitolo discuterò dunque di tali proposte. 98
Capitolo quarto
Libertà e responsabilità
Essere uomo è, esattamente, essere responsabile. Antoine de Saint-Exupéry
Come abbiamo visto, la discussione sul libero arbitrio ha oggi ripreso formidabile vigore; ma non è soltanto in ragione del suo intrinseco interesse che tale discussione è tanto vivace. Un altro importante motivo è che questa discussione ha connessioni e ricadute rilevanti rispetto ad altri importanti dibattiti filosofici, come, ad esempio, quelli sul significato dell’essere persona, sulla natura della causalità o sulle modalità dell’interazione tra la mente e il corpo. In particolare, però, molti filosofi si interessano del concetto di libertà perché ritengono che esso sia essenziale per la definizione di un altro concetto, fondamentale in ambito etico, giuridico, politico, religioso: il concetto di responsabilità. È intuitivo pensare, in effetti, che l’imputazione di responsabilità nei confronti di un agente sia legata strettamente all’assunzione secondo la quale tale agente ha agito liberamente: sarebbe ingiusto, in effetti, ritenere responsabile di una determinata azione una persona che non poteva fare nulla per evitarla. Ciò è quanto ci dice l’intuizione. A livello di analisi filosofica, tuttavia, tale intuizione deve essere vagliata: occorre dunque chiedersi se la libertà sia effettivamente precondizione della responsabilità. 1. Un altro enigma Magistrale espressione di una nitida intuizione del senso comune, il rimorso che in Delitto e castigo tormenta Raskolnikov, fino ad indurlo a rendere pubblico il suo terribile segreto, dà evidenza dram99
matica al valore che nelle nostre vite ha il senso di responsabilità. Noi ci sentiamo responsabili per le azioni e le scelte che compiamo, per i giudizi che esprimiamo, talora perfino per i pensieri su cui ci soffermiamo; parimenti, consideriamo gli altri responsabili di ciò che fanno e dicono. Ciò non significa, naturalmente, che tutti gli esseri umani siano responsabili per le proprie azioni, né che vi siano alcuni di noi che sono responsabili in tutte le occasioni. Condizioni patologiche, immaturità psicologica, costrizioni o vincoli di vario genere sono circostanze per le quali gli agenti sono comunemente esonerati dall’attribuzione di responsabilità e dalle conseguenze (legali e morali) che potrebbero seguirne. Nondimeno, dal punto di vista del senso comune non c’è dubbio che in molti casi la maggior parte di noi porti la responsabilità di ciò che fa. Quando, tuttavia, da queste osservazioni generali, sostanzialmente non controverse, si passa a considerare il concetto di responsabilità più da vicino, si scopre che è molto più complesso di quanto non appaia a prima vista. Una questione, in particolare, pur essendo del maggiore rilievo filosofico, appare di complessa risoluzione: essa concerne la giustificazione della nozione di responsabilità. In che senso possiamo dire che è giusto considerare gli agenti responsabili del loro operato? Per fare luce su tale nesso concettuale, consideriamo di nuovo il caso di Raskolnikov, il quale compie il suo duplice delitto consapevolmente e senza esservi costretto in alcun modo. In tale prospettiva egli è senza dubbio responsabile della sua azione e può essere legittimamente biasimato e punito. Ora però consideriamo un’ipotesi diversa (esteticamente raccapricciante, ma utile dal punto di vista teoretico): immaginiamo cioè che Dostoevskij abbia scritto un romanzo diverso, in cui Raskolnikov – mite studente che mai penserebbe di macchiarsi le mani di sangue – viene ipnotizzato da un sofisticato criminale che lo induce in tal modo a compiere i due omicidi. In questo caso non diremmo forse che Raskolnikov, essendo stato costretto a compiere i suoi delitti, non era libero di agire altrimenti, e che, perciò, non dovrebbe essere considerato moralmente responsabile della propria condotta? Non diremmo, insomma, che il biasimo e il castigo sarebbero in questo caso del tutto fuori luogo? Questo esempio sembra suggerire che le nostre attribuzioni di responsabilità presuppongono che l’agente avrebbe potuto evitare di compiere l’azione che ha compiuto e che l’abbia compiuta deliberatamente; e ciò equivale a dire che le ascrizioni di responsabilità ri100
chiedono che un agente sia libero nel compiere le proprie azioni1. Sembra intuitivo inferire allora – e su questo hanno concordato legioni di filosofi – che la responsabilità presuppone la libertà2. Secondo questo punto di vista, per dare esaustivamente conto dell’idea che gli agenti sono responsabili delle azioni che compiono occorre preliminarmente spiegare se e in quale misura essi possano scegliere e agire liberamente, in che cosa consista tale loro libertà e in quali condizioni essa sia possibile3. Ma se è così – se per spiegare la responsabilità occorre prima spiegare la libertà – e se, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, la possibilità stessa della libertà costituisce un problema filosofico tra i più complessi, è ragionevole attendersi che un’analoga problematicità si comunichi anche al concetto di responsabilità. E, in effetti, ciò è proprio quanto accade. Roderick Chisholm descrive molto bene l’impasse teorica in cui si trovano coloro i quali tentano di fondare metafisicamente la nozione di responsabilità su quella di libertà: Sembra dunque che ci troviamo di fronte a un dilemma: o le nostre scelte hanno condizioni causali sufficienti [ovvero, sono determinate] oppure non le hanno [ovvero, sono indeterminate]; se hanno condizioni causali sufficienti esse non sono evitabili; se non le hanno, sono fortuite o casuali; dunque, poiché o le nostre scelte sono inevitabili oppure sono fortuite, noi non siamo responsabili di esse4.
L’enigma della responsabilità è dunque una conseguenza dell’enigma della libertà: se le nostre azioni sono inevitabili (ciò che accade se esse sono il prodotto di una catena causale deterministica), non è ragionevole ritenere che noi ne siamo responsabili, in quanto non avremmo potuto fare altrimenti. Se le nostre azioni sono invece 1 Come abbiamo visto nell’Introduzione, la concezione intuitiva della libertà richiede sia l’autodeterminazione dell’agente sia la possibilità di fare altrimenti (due requisiti di cui ogni concezione filosofica deve in qualche modo dare conto). 2 Cfr., ad esempio, Hume (1748, p. 153): «[la libertà] è ugualmente essenziale per la moralità e [...] nessuna azione umana, se manca la libertà, è suscettibile di qualche qualità morale o può essere oggetto sia di approvazione che di biasimo». Analogamente, nella Critica della ragion pura (Kant 1787, p. 506) si assume che la libertà sia «vero e proprio fondamento dell’imputabilità dell’azione», cioè della responsabilità. E si potrebbero portare innumerevoli altri esempi. 3 Sul nesso libertà-responsabilità, cfr. Fischer, Ravizza (a cura di) (1993 e 1998), Ekstrom (2000, cap. 5). 4 Chisholm (1961, pp. 146-147).
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casuali (ciò che accade se sono indeterminate), non c’è ragione di pensare che noi avremmo potuto fare alcunché per evitarle e, di nuovo, non siamo responsabili di esse. Detto altrimenti: dato che non si riesce a spiegare in quale caso possa darsi un’azione libera (poiché le azioni o sono inevitabili o sono casuali), non si può neanche dire in quali condizioni si possa essere responsabili di un’azione. In questa luce, dare conto dell’idea di responabilità si presenta come un compito estremamente arduo. Su questa base, non sorprende che negli ultimi anni molti autori abbiano mosso attacchi scettici contro l’idea di responsabilità. Uno dei campioni di questo orientamento, Richard Double, ha scritto ad esempio: L’attribuzione di responsabilità a una determinata persona non presuppone la sua [effettiva] responsabilità più di quanto il ritenere qualcuno incantevole presupponga l’esistenza oggettiva della proprietà dell’incantevolezza [...]. Il quadro più probabile di ciò che esiste – che le scelte umane siano determinate o meno – non contiene né le libere scelte né la responsabilità morale5.
Analogamente altri autori contemporanei (come Bruce Waller, Ted Honderich e Saul Smilansky), sostengono che l’idea di responsabilità, per quanto intuitiva, è – al pari di quella di libertà – meramente illusoria6. Il già citato Galen Strawson è molto esplicito nel trarre le conclusioni che seguono da questa tesi rispetto alla concezione retributiva delle pene (e delle ricompense): C’è un senso fondamentale in cui, in definitiva, nessuna punizione o nessuna ricompensa è giusta. Punire o ricompensare le persone per le loro azioni è tanto giusto quanto lo sarebbe punirle o premiarle per il colore (naturale) dei loro capelli o per la forma (naturale) dei loro volti7.
Anche rispetto all’idea di responsabilità, dunque, molti autori propendono oggi verso posizioni scettiche; e, in effetti, prima facie un tale scetticismo può apparire giustificato. Nondimeno, come vedremo, non mancano buone ragioni per opporvisi. Due sono allora Double (1991, pp. 145, 156). Waller (1990), Honderich (1988, vol. 2), Smilansky (2000). 7 G. Strawson (2002, p. 458). 5 6
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le opzioni che si presentano a chi voglia tentare di salvare l’idea di responsabilità dalla bancarotta scettica. In primo luogo, si potrebbe cercare di eludere la sfida degli scettici disancorando l’idea di responsabilità dalle sue presunte precondizioni metafisiche: si potrebbe cioè tentare di mostrare l’indipendenza concettuale della responsabilità dalla libertà. Se questa strategia avesse successo, sarebbe ipotizzabile dare conto della nozione di responsabilità in termini strettamente utilitaristici. Tuttavia, come si vedrà, i più autorevoli tentativi in questa direzione, seppure ingegnosi, falliscono quando cercano di provare l’indipendenza concettuale dell’idea di responsabilità da quella di libertà. Da ciò segue che se si vuole salvare l’idea di responsabilità, la sfida degli scettici non si può eludere. E ciò significa che occorre far fronte al loro argomento principale, secondo il quale la responsabilità presuppone la libertà, ma la libertà è impossibile e dunque lo è anche la responsabilità. Per smontare questo argomento bisogna tornare alla questione della libertà, cercando di provare che la libertà non è impossibile e che essa si applica (in misura e con modalità da definire) agli esseri umani. Se questo tentativo riuscisse, il concetto di libertà sarebbe salvo dalla bancarotta – e con esso sarebbe salvo anche il concetto di responsabilità. Alle prospettive di questa sfida sarà dedicato l’ultimo capitolo di questo libro; in questo, invece, si discuterà dei citati tentativi volti a provare l’indipendenza del concetto di responsabilità da quello di libertà. Preliminarmente occorre però definire l’accezione del concetto di responsabilità qui pertinente. 2. Forme della responsabilità Una prima distinzione che occorre operare concerne le nozioni di responsabilità causale, responsabilità personale e responsabilità collettiva8. La nozione di responsabilità causale riguarda primariamente eventi, e solo in maniera subordinata le entità che sono affette da quegli eventi9. Il transito di una mucca sui binari (e non la mucca in quanto tale) potrebbe così essere causalmente responsabile del deragliamento di un treno, lo scoccare di un fulmine dell’incendio di un ripe8 Rispetto alla discussione filosofica sul tema della responsabilità, cfr. Glover (1970), Feinberg (1970), Schoeman (a cura di) (1987), Zimmermann (1989). 9 Cfr. Davidson (1967) e De Caro (1998a, cap. 2).
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titore televisivo, mentre la presenza di Nettuno potrebbe essere responsabile di certe perturbazioni del movimento orbitale di Urano. La responsabilità personale si distingue dalla responsabilità causale per due aspetti fondamentali: in primo luogo, essa non concerne eventi, ma un particolare tipo di entità (le persone considerate in quanto agenti); in secondo luogo, essa possiede un peculiare aspetto normativo che manca nelle attribuzioni di responsabilità causale: essere responsabili di qualcosa vuol dire avere un dovere o un obbligo verso quel qualcosa10. Naturalmente tra questi due tipi di responsabilità intercorre un nesso rilevante: generalmente (sebbene non sempre, come si vedrà tra breve), a un agente viene attribuita la responsabilità personale di una certa azione – e dunque è corretto lodarlo, biasimarlo, premiarlo o punirlo per tale azione – soltanto nel caso in cui egli l’abbia effettivamente causata. L’ultima, e più controversa, forma di responsabilità è la cosiddetta responsabilità collettiva. Sebbene concerna il mondo umano, e venga attribuita ad entità, non ad eventi, essa non riguarda gli individui, ma enti collettivi, quali associazioni, corporazioni, società, multinazionali ecc. È questione assai rilevante (filosoficamente e giuridicamente) se in casi del genere si possa parlare correttamente di entità e se ad esse si possa attribuire responsabilità di qualche genere11. Non è questa la sede, tuttavia, per entrare nel merito di tali discussioni; la nozione qui rilevante, infatti, è quella di responsabilità personale. Su questa dunque mi soffermerò. Rispetto alla responsabilità personale occorre fare una precisazione e due ulteriori distinzioni. La precisazione riguarda la valenza stessa del termine ‘responsabilità personale’. In certi usi, tale termine ha valenza esclusivamente negativa e corrisponde, più o meno, al termine ‘colpa’ («portava con sé il peso delle proprie responsabilità»). Secondo un’accezione filosoficamente più utile, che io seguirò qui, il termine ‘responsabilità’ copre invece tanto la valenza positiva quanto quella negativa (si può essere responsabile tanto di azioni lodevoli quanto di azioni biasimevoli). La prima distinzione cui accennavo concerne invece il punto di vista da cui si guarda alla responsabilità di una persona. Un primo punto di vista (che può essere detto della responsabilità retrospettiva) riguarda le azioni effettivamente compiute da un agente. Noi sia10 11
Cfr. Wallace (1994). French (1984).
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mo responsabili delle scelte e delle azioni che abbiamo compiuto, e per esse possiamo essere lodati o biasimati, premiati o puniti. Un diverso punto di vista concerne eventi non ancora avvenuti, verso i quali l’agente – a causa delle mansioni che svolge o per il posto che occupa nella società – ha un certo dovere (in questo caso si può parlare di responsabilità in prospettiva): il rettore dell’università ha determinate responsabilità verso gli studenti, i docenti e in generale verso il proprio ateneo; un genitore le ha verso i propri figli. Per il dibattito che qui interessa, comunque, la nozione rilevante è quella di responsabilità retrospettiva12. Una seconda distinzione da tenere presente riguarda le diverse forme di responsabilità personale. Quelle filosoficamente più rilevanti sono la responsabilità morale e la responsabilità legale (ma si potrebbero citare anche la responsabilità politica, quella religiosa, quella storica e così via). È ben noto che, sebbene tra la responsabilità morale e quella legale vi siano ampie sovrapposizioni (in genere, un omicidio premeditato è tanto moralmente biasimevole quanto penalmente sanzionabile), le due nozioni non sono coestensive. È facile pensare ad azioni che implicano la rilevanza morale ma non quella penale (come quando si tratta qualcuno con disprezzo, ad esempio); ma vi sono anche situazioni nelle quali a un agente che non ha responsabilità morale per una certa azione può essere tuttavia attribuita responsabilità legale (è questo il caso della cosiddetta ‘responsabilità oggettiva’ sanzionata dal nostro codice civile). La responsabilità morale, dunque, non è né condizione necessaria né condizione sufficiente della responsabilità penale. In questo saggio, comunque, la nozione rilevante è quella di responsabilità morale. C’è poi, naturalmente, la questione concernente l’oggetto delle attribuzioni di responsabilità morale, ovvero ciò per cui gli agenti vengono considerati moralmente responsabili. Siamo responsabili per le nostre azioni, per le loro conseguenze (prevedibili o non prevedibili) oppure per le intenzioni con cui tali azioni sono state compiute?13 E la responsabilità, oltre che per le azioni, vale ugualmente per le omissioni, ovvero per le azioni che potremmo e dovremmo compiere, ma che di fatto non compiamo? E ancora, siamo noi responsabili per il nostro carattere, da cui le azioni che compiamo discendono? Le diverse concezioni etiche propongono diversi modi di rispondere a tali 12 13
Cfr. Feinberg (1970, pp. 25-26). Cfr. Duff (1990, capp. 4-5).
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problemi (basterà ricordare qui la fondamentale suddivisione tra etiche deontologiche ed etiche consequenzialistiche). In questa sede non è tuttavia necessario prendere posizione rispetto a queste ultime questioni, perché esse non hanno significative ricadute per quanto riguarda il nesso che intercorre tra la libertà e la responsabilità morale. La problematicità che sembra derivare dal legame concettuale che connette queste due nozioni, infatti, permane – mutatis mutandis – quale che sia il modo in cui si guarda all’oggetto dell’attribuzione della responsabilità personale. Che io sia responsabile delle mie azioni, delle mie scelte, delle mie omissioni, delle conseguenze delle mie azioni o del mio carattere (o di tutti questi fattori insieme), infatti, la questione fondamentale resta immutata: l’attribuzione di responsabilità sembra richiedere essenzialmente la corrispondente forma di libertà (libertà di scegliere, di agire, di omettere alcune azioni o di forgiare il proprio carattere). Come potremmo essere considerati responsabili per una certa omissione, ad esempio, se non fossimo stati liberi di compiere l’azione omessa? E la situazione è analoga negli altri casi: quale che sia l’oggetto delle nostre ascrizioni di responsabilità morale a un determinato agente, il prerequisito della sua libertà resta inalterato. Perciò, per semplicità, nel seguito mi concentrerò soltanto sul caso in cui la responsabilità venga attribuita alle azioni compiute dagli agenti. 3. Responsabilità e utilità sociale In quali condizioni diremmo che l’attribuzione di responsabilità morale ad un agente è giustificata? Due sembrano essere le condizioni fondamentali: primo, che l’agente abbia agito consapevolmente; secondo, che non sia stato costretto a compiere quell’azione. Nei casi in cui, per ignoranza o coercizione, almeno una di queste due condizioni non si verifica, l’agente può essere esonerato dall’imputazione di responsabilità morale. Così, se un agente ignora che una certa azione è moralmente biasimevole o se qualcuno lo induce, con le minacce o la violenza, a compiere un’azione riprovevole, allora quell’agente è in genere scusato. Il caso della costrizione è per noi più interessante. I fattori coercitivi cui ci si può appellare come scusanti sono molteplici (coercizione violenta, suggestione, patologie che causano comportamenti compulsivi, ipnosi ecc): tutti questi fattori, in quanto fanno sì che l’agente non possa fare altrimenti, sono considerati valide ragioni per 106
esonerare l’agente dalla responsabilità morale. Ciò ha, ovviamente, una notevole ricaduta per quanto riguarda la questione che stiamo qui discutendo: abbiamo visto, infatti, che se l’ambito dell’agire umano avesse carattere deterministico sembrerebbe definitivamente compromessa la possibilità di fare altrimenti. Se ciò è vero, allora il determinismo – giacché implica che gli agenti possano essere sempre scusati per le loro azioni in quanto non potevano non compierle – è incompatibile, oltre che con la libertà, anche con la responsabilità morale. Così scriveva, ad esempio, un acceso sostenitore del determinismo quale John Hospers: Tutte le distinzioni morali sono cancellate [...]. In ultima analisi, noi siamo le persone che siamo a causa delle innumerevoli circostanze che ci hanno modellato; dunque, anche se continueremo a lodare le azioni che ci pare vadano incoraggiate, dovremmo tenere a mente che quando si considera la questione del merito ultimo [ultimate desert], allora tutti gli uomini sono uguali14.
Questa radicale denuncia delle distinzioni morali si fonda sull’idea che gli esseri umani, in quanto del tutto determinati, non sono liberi e dunque non sono nemmeno responsabili per ciò che fanno. In tale prospettiva, le intuizioni fondamentali alla base dell’etica e del diritto vanno, dunque, radicalmente ripensate. Così, ad esempio, Clarence Darrow – celebre avvocato di Chicago – usò metodicamente l’argomento secondo il quale nessun criminale può essere considerato veramente responsabile per i propri reati e ciò perché i fattori socioculturali e biologici ne determinano completamente il carattere e, di conseguenza, le azioni: Ci sono abbastanza statistiche per essere certi che ogni caso criminale potrebbe essere spiegato su basi puramente scientifiche, se fossero conosciuti tutti i fatti che vi hanno condotto: sistemi nervosi anormali, mancanza di istruzione o di addestramento [...], sfavorevoli fattori ereditari, infanzia sfortunata, squilibri emotivi15.
Per Darrow, dato che non siamo liberi di scegliere e di agire, non siamo nemmeno responsabili per le azioni che compiamo né meri14 15
Hospers (1961, p. 521). Cit. in Stone (1941, p. 92). Su Darrow, cfr. Weatherford (1991, pp. 96-102).
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tiamo le punizioni che talora ce ne derivano. Analogamente si esprimono altri autori, da Moritz Schlick a Daniel Dennett: La pena è uno strumento educativo, e come tale atto a costituire motivazioni, che da una parte devono impedire al trasgressore la ripetizione dell’azione (riabilitazione), dall’altra devono impedire ad altri di commettere azioni simili (intimidazione). Analogamente, nel caso della remunerazione abbiamo a che fare con incentivi16.
Secondo questo punto di vista, non ha senso dire che i criminali meritano le pene loro attribuite o che queste sono la giusta retribuzione per i loro reati17. Le pene, piuttosto, si giustificano per la loro utilità sociale, in quanto misure rieducative per gli autori di atti criminosi e deterrenti per i criminali potenziali (la giustificazione utilitaristica dei giudizi morali è analoga a quella delle pene: le lodi e le critiche hanno la funzione di incentivare i comportamenti benefici e disincentivare gli altri). In tal modo, la nozione di responsabilità viene definita in termini esclusivamente pragmatici: un agente è moralmente e penalmente responsabile se, e solo se, indirizzandogli giudizi morali o comminandogli pene si possono ottenere conseguenze utili sul piano pratico. Secondo questo punto di vista, che possiamo chiamare ‘tesi della regolazione sociale’, non c’è alcun buon motivo per interessarsi alla questione del nesso tra responsabilità e libertà – e meno ancora per preoccuparsi dell’apparente insolubilità del problema della libertà – semplicemente perché i due concetti sono sostanzialmente irrelati. 4. La terza via di Peter Frederick Strawson Le critiche da parte degli utilitaristi hanno avuto senz’altro il merito di mostrare i limiti della concezione tradizionale della responsabilità; nondimeno anche la concezione utilitaristica è stata oggetto di energici attacchi, il più autorevole dei quali fu sviluppato, nel 1962, in un celebre articolo di Peter Frederick Strawson, Freedom and Resentment18. Secondo Strawson il concetto di responsabilità è in16 Schlick (1930, p. 60). Cfr. anche Smart (1961), Hobart (1966), Dennett (1984), nonché Watson (1987b) e l’introduzione a Fischer, Ravizza (a cura di) (1993). 17 Cfr. Hospers (1961), Skinner (1971), Klein (1990), Waller (1990), G. Strawson (1986), Honderich (1988, vol. 2, capp. 1-2), Double (1991). 18 P.F. Strawson (1962). Per i paragrafi dedicati a P.F. Strawson (derivati, in parte, da De Caro 2000), ho beneficiato di una molto utile conversazione con Eugenio Lecaldano, che ringrazio.
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scindibile dagli «atteggiamenti reattivi» (reactive attitudes) e dai sentimenti morali – come il risentimento, la gratitudine, l’indignazione – mediante i quali rispondiamo ai comportamenti degli altri individui: sono questi atteggiamenti che, per così dire, strutturano socialmente la nozione di responsabilità. La concezione strawsoniana della responsabilità è alternativa tanto alla concezione utilitaristica quanto a quella tradizionale. Contro gli utilitaristi, Strawson obietta che l’interpretazione della responsabilità in termini meramente consequenzialistici non è in grado di cogliere la vera natura dei giudizi di responsabilità, in quanto perde completamente di vista i sentimenti e gli atteggiamenti che vengono espressi, e giustificati, mediante l’attribuzione di responsabilità e le connesse pratiche punitive. Dall’altro lato, Strawson contesta il «pessimismo» dei fautori della concezione tradizionale della responsabilità – ovvero i libertari –, i quali ritengono che la libertà sia prerequisito essenziale della responsabilità e che in un mondo deterministico non vi sia posto né per l’una né per l’altra. Secondo Strawson questa concezione ricerca un’impossibile giustificazione esterna ai sentimenti morali reattivi che sottostanno alle attribuzioni di responsabilità, laddove sono proprio tali sentimenti che costituiscono o meglio esprimono la responsabilità19, al punto che – al contrario di ciò che pensano i libertari – noi non potremmo smettere di considerare i nostri simili responsabili per le loro azioni nemmeno nel caso in cui disponessimo di valide ragioni per credere nella verità del determinismo causale20. Se Strawson ha ragione, non c’è motivo di temere che qualora il mondo sia deterministico le nostre attribuzioni di responsabilità siano ingiustificate; né v’è ragione per sforzarsi di fondare la nozione di responsabilità, o quella di libertà, su presupposti metafisici indeterministici, come fanno i libertari. Riassumendo in una formula le sue critiche a questi due approcci, Strawson afferma che entrambi «iperintellettualizzano i fatti»21: tan19 La concezione di P.F. Strawson è detta spesso «expressive theory»: cfr., ad esempio, Ekstrom (2000, pp. 146 sgg.). 20 Va detto che P.F. Strawson ritiene che quello di determinismo causale sia un concetto definito in maniera oscura e dunque si dichiara agnostico sulla possibilità, anche teorica, di verificarne la verità empirica. Egli comunque concede al libertario che in linea di principio ciò sia possibile, giacché comunque una tale eventualità sarebbe del tutto irrilevante per le attribuzioni di responsabilità. 21 P.F. Strawson (1962, p. 23; le traduzioni da P.F. Strawson sono mie).
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to i teorici della tesi della regolazione sociale quanto i libertari, infatti, sono abbagliati da pregiudizi filosofici (la tesi che la sola utilità possa giustificare le pratiche sociali, nell’un caso; l’ideale della libertà, nell’altro caso) e dimenticano il ruolo essenziale che il nostro impegno negli «atteggiamenti interpersonali ordinari» gioca nella «struttura generale della vita umana»22. In questa prospettiva, la nozione di responsabilità si concretizza, «si esprime», nelle dinamiche sociali proprie degli atteggiamenti reattivi e dei sentimenti morali e dunque non dipende affatto da un giudizio intellettuale riguardante l’utilità di quelle pratiche o i meriti e i demeriti degli agenti. Nella nozione di responsabilità non c’è nulla, in sostanza, oltre alle nostre pratiche23. Al fine di articolare questa tesi, Strawson elabora una fine tassonomia degli atteggiamenti e delle pratiche – morali, psicologici e legali – con cui rispondiamo alle azioni degli altri verso di noi. Quando tali atteggiamenti e pratiche originano in transazioni in cui siamo personalmente coinvolti, Strawson parla di ‘atteggiamenti reattivi non distaccati’. È questo il caso dei sentimenti di gratitudine e di risentimento, del perdono, dell’amore e dell’odio, che nascono in noi in risposta al modo in cui gli altri si pongono nei nostri confronti24. Quando invece reagiamo al modo in cui gli altri si pongono non verso di noi, ma verso un terzo, assumiamo un diverso tipo di atteggiamenti, che Strawson chiama ‘distaccati’, ‘vicari’, ‘disinteressati’ o ‘impersonali’. In questo caso, il nostro interesse o la nostra dignità non sono in gioco e noi possiamo, per così dire, collocarci al di sopra delle parti, in quanto siamo emotivamente non coinvolti (o, almeno, siamo meno coinvolti delle parti in causa). Laddove il punto di vista ‘non distaccato’ ha connotazioni sostanzialmente psicologiche, quello ‘distaccato’ coincide con il punto di vista etico, in quanto prescinde dall’interesse personale ed aspira alla validità intersoggettiva (ciò accade ad esempio nel caso dell’approvazione e della disapprovazione morali). C’è infine un terzo tipo di atteggiamenti, quelli ‘autoreferenti’, che soIvi, p. 13. Watson (1987b). 24 Si noti che il risentimento è solo uno degli atteggiamenti e delle pratiche studiati da P.F. Strawson (la seconda parte del saggio s’incentra, ad esempio, sull’indignazione morale). Ciò mostra che il titolo del celebre saggio strawsoniano, Freedom and Resentment, oltre ad essere leggermente fuorviante nel riferimento alla libertà (in fondo il tema della libertà rimane sullo sfondo rispetto a quello della responsabilità), incorpora anche una sineddoche nel rimando al risentimento (che è appunto soltanto uno degli atteggiamenti che Strawson discute). 22 23
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no associati al modo in cui noi reagiamo al nostro stesso comportamento, come quando ci sentiamo in debito verso qualcuno o come quando proviamo rimorso, senso di colpa o orgoglio per le nostre azioni. Naturalmente, nota Strawson, questi tre diversi tipi di atteggiamenti sono strettamente interdipendenti: se ad esempio un agente non desse mai prova di provare atteggiamenti distaccati sarebbe visto come un solipsista morale – o come un mostro di egoismo, come si potrebbe dire in linguaggio quotidiano. Tutti, comunque, abbiamo presenti situazioni in cui i normali atteggiamenti reattivi vengono sospesi nei confronti di determinati agenti ritenuti responsabili di azioni per cui, in situazioni normali, essi sarebbero criticati o puniti; tali agenti, insomma, vengono giustificati o scusati per le loro azioni. L’analisi di tali casi è di particolare interesse, secondo Strawson, per stabilire se sia vero, come sostengono i libertari, che il determinismo è incompatibile con la responsabilità. Le situazioni in cui i normali atteggiamenti reattivi sono sospesi, e gli agenti scusati per le loro azioni, appartengono a due categorie. In primo luogo vi sono circostanze in cui la sospensione è limitata. Ciò avviene, ad esempio, quando l’agente non aveva l’intenzione di compiere un’azione che di per sé sarebbe biasimevole o non gli era possibile evitare di compierla o, ancora, non conosceva gli effetti che ne sarebbero seguiti. In tutti questi casi, l’agente, pur venendo scusato per quella particolare azione, continua ad essere considerato pienamente responsabile; ovvero, per riprendere la terminologia strawsoniana, egli continua ad essere visto come un agente a cui può essere legittimamente applicato tutto il normale ventaglio di atteggiamenti reattivi (tale agente, dunque, può essere perfettamente biasimato per altre azioni). Diverso il caso in cui la sospensione degli atteggiamenti e dei sentimenti di reazione nei confronti di un determinato agente non riguarda soltanto una particolare azione da questi compiuta, ma è generale. Una tale sospensione può essere temporanea (come quando scusiamo un agente per le azioni che compie in situazioni di particolare stress emotivo o sotto l’effetto di droghe) o permanente (come accade nel caso di determinate patologie psichiche). Il punto cruciale della discussione è che secondo i libertari una eventuale dimostrazione del determinismo causale varrebbe invece da scusante universale e perpetua. In fondo, notano i libertari, questa non sarebbe che un’estensione della sospensione locale dei giudizi di responsabilità: se normalmente accettiamo il fatto che alcuni indivi111
dui non sono responsabili – in quanto li riteniamo incapaci di controllare le proprie azioni – non si vede allora perché non dovremmo fare altrettanto con tutti gli individui, quando scoprissimo che essi sono interamente determinati ad agire come di fatto agiscono. In tale condizione, secondo i libertari sarebbe per noi razionale abbandonare ogni illusione di libertà, rinunciando a tutti gli atteggiamenti reattivi e alle attribuzioni di responsabilità che ne dipendono. Per Strawson, al contrario, ciò sarebbe errato perché è illecito generalizzare dal caso dell’irresponsabilità di specifici soggetti patologici in situazioni ordinarie all’irresponsabilità di tutti gli agenti nel caso in cui si dimostrasse la verità del determinismo. I due tipi di casi sono, infatti, intrinsecamente diversi e, secondo la prospettiva strawsoniana, nulla si può inferire dall’uno all’altro. In presenza di individui che, a torto o a ragione, consideriamo irresponsabili, noi cessiamo di rispondere con i consueti atteggiamenti reattivi: abbandoniamo, cioè, la tipica prospettiva ‘soggettiva’ o agenziale e, al suo posto, adottiamo una prospettiva oggettiva o naturalistica. Prendiamo, cioè, a considerare questi individui come oggetti di possibili trattamenti clinici o, eventualmente, di misure di contenimento25. E quando tentiamo di capire i comportamenti di tali soggetti, non cerchiamo spiegazioni di carattere razionale (non cerchiamo, cioè, di risalire a un insieme di stati intenzionali, più o meno coerenti, che sono all’origine delle loro azioni), ma spiegazioni causali di carattere scientifico. Situazioni del genere non sono affatto infrequenti. La tesi di Strawson, tuttavia, è che esse non provano proprio nulla (con buona pace dei libertari) rispetto al rapporto tra determinismo e responsabilità. 5. Il ruolo degli atteggiamenti reattivi La tesi sostenuta da Strawson è chiara; meno evidente è il modo in cui egli argomenta in suo favore. Secondo un acuto saggio di Paul Russell, in Freedom and Resentment in realtà Strawson sviluppa due diverse strategie argomentative per dimostrare che la responsabilità è compatibile con il determinismo: la «strategia razionalistica» (che af25 P.F. Strawson (1962, p. 9). Sulla specificità del punto di vista ‘oggettivo’ (rispetto a quello ‘agenziale’, che guarda agli esseri umani come ad agenti intenzionali) è di grande rilievo la riflessione di Nagel (1986).
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fronta la questione de jure) e la «strategia naturalistica» (che affronta invece la questione de facto)26. E in effetti, lo stesso Strawson riassume l’argomento fondamentale del suo saggio con una domanda che suggerisce queste due diverse strategie argomentative: «potrebbe, o dovrebbe, l’accettazione della tesi deterministica indurci a considerare tutti quanti sempre e solo in questo modo [cioè, dal punto vista oggettivo]?»27. Il verbo ‘dovrebbe’ suggerisce la strategia razionalistica (che pone la questione de jure); il verbo ‘potrebbe’ quella naturalistica (che pone la questione de facto). Nel saggio di Strawson, in effetti, coesistono queste due strategie argomentative: a mio giudizio, tuttavia, la strategia razionalistica è chiaramente subalterna a quella naturalistica. Iniziamo, dunque, ad analizzare la prima. Secondo i libertari – che sostengono l’incompatibilità di libero arbitrio e determinismo – se si provasse la verità del determinismo, allora sarebbe razionale abbandonare i normali atteggiamenti reattivi e le quotidiane attribuzioni di responsabilità: in una tale situazione, cioè, dovremmo assumere, sempre e per tutti, l’atteggiamento oggettivo che normalmente usiamo solo nei confronti degli sfortunati portatori di determinate, gravi patologie psichiche. A parere di Strawson, al contrario, in una tale situazione sarebbe comunque razionale conservare l’intero sistema degli atteggiamenti reattivi e delle attribuzioni di responsabilità: dovremmo cioè continuare a guardare agli altri e a noi stessi come ad agenti, non come a meri oggetti naturali. In effetti, noi di norma assumiamo il punto di vista oggettivo solo nei confronti di persone che consideriamo psichicamente anormali; ma quella di ‘anormalità’ è ovviamente un’attribuzione relativa, che assume la ‘normalità’ degli altri agenti come base comparativa. Tuttavia, nota Strawson, il libertario pretende di dimostrare che se scoprissimo la verità del determinismo, dovremmo applicare il punto di vista oggettivo a tutti gli agenti: ma ciò sarebbe errato. Anche in uno scenario del genere, infatti, sarebbe per noi impossibile considerare tutti e sempre anormali, come invece pretenderebbe il libertario: l’anormalità infatti può essere percepita soltanto sullo sfondo della normalità28. Ora, che l’anormalità possa essere percepita solo sullo sfondo della normalità è certamente vero; ma Strawson sbaglia nel pensare Russell (1992). P.F. Strawson (1962, p. 11, corsivo mio). 28 Ibid. 26 27
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che ciò rappresenti un problema per il libertario. Questi, infatti, non afferma che se il determinismo si dimostrasse vero, scopriremmo ipso facto che siamo tutti anormali; egli afferma piuttosto che scopriremmo che siamo incapaci di agire liberamente. Tuttavia, se è effettivamente assurda l’idea di anormalità globale, non c’è proprio nulla di assurdo nell’idea di incapacità globale29. E la cupa prospettiva dell’incapacità globale è più che sufficiente al libertario per sviluppare il suo argomento30. Contro i libertari, comunque, Strawson propone anche altre obiezioni. Ad esempio, egli offre anche una diversa ragione per ritenere che se anche scoprissimo la verità del determinismo non sarebbe per noi razionale abbandonare il sistema dei sentimenti morali, degli atteggiamenti reattivi, delle attribuzioni di responsabilità, come invece perorano i libertari. A suo giudizio, infatti, la razionalità di una decisione va valutata considerando «i guadagni e le perdite che ne deriverebbero alla vita umana, l’arricchimento o l’impoverimento che essa potrebbe riceverne». Ma quale potrebbe mai essere l’arricchimento che deriverebbe dall’abbandono delle nostre consuete modalità d’interazione sociale e di valutazione morale?31 Un tale abbandono in realtà comporterebbe un’enorme svalutazione delle nostre vite: dunque la razionalità ci imporrebbe di conservare il sistema dei sentimenti morali e delle attribuzioni di responsabilità. A mio giudizio, però, nemmeno questo argomento è convincente. Esso tenta di mostrare a priori, sulla base di un’analisi della nozione di razionalità, l’erroneità della tesi libertaria secondo la quale, qualora scoprissimo che siamo determinati, non potremmo razionalmente continuare a pensarci responsabili e passibili di giudizi morali. Tuttavia, a mio giudizio, questo argomento di Strawson si fonda su una concezione troppo rigidamente utilitaristica della razionalità: tale concezione, infatti, contraddice una nostra nitida intuizione secondo la quale il perseguimento della verità e della conoscenza è una componente essenziale del nostro essere razionali32. Di qualcuno che consapevolmente decidesse di vivere nell’ignoranza e 29 Cfr. infra in questo paragrafo per un argomento teso a dimostrare la concepibilità di questa ipotesi. 30 Cfr. Russell (1995, pp. 298-301). 31 P.F. Strawson (1962, p. 13). 32 Galen Strawson (1986) sviluppa questo e altri argomenti contro le tesi espresse dal padre in Freedom and Resentment.
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nell’inganno pur di aumentare, o di preservare, il proprio benessere, non diremmo affatto che tiene un comportamento razionale: al contrario, la vita di questo individuo ci apparirebbe radicalmente impoverita. In considerazione di ciò, se un giorno avessimo ragione di ritenere che la nostra responsabilità è minata dal determinismo (una possibilità che questo argomento di Strawson non esclude), sarebbe irrazionale continuare a crederci responsabili33. La strategia strawsoniana tesa a dimostrare l’irrazionalità delle tesi del libertario non è dunque convincente. Tuttavia, come dicevo, il fulcro della polemica antilibertaria di Strawson è rappresentato piuttosto da un’altra, indipendente, strategia argomentativa: quella naturalistica. Secondo la tesi cruciale di tale strategia, è un fatto – un «fatto naturale» della nostra costituzione – che noi non potremmo mai abbandonare il sistema dei sentimenti morali, degli atteggiamenti reattivi e delle attribuzioni di responsabilità, quali che siano le indicazioni teoriche o metafisiche in proposito: Il nostro essere ineludibilmente impegnati [negli atteggiamenti reattivi] è un fatto naturale, qualcosa di così profondamente radicato nella nostra natura quanto lo è la nostra esistenza di esseri sociali34.
In tal modo, se anche potessimo un giorno convincerci della verità del determinismo – e perfino della necessità razionale di abbandonare i sentimenti morali, gli atteggiamenti reattivi e le attribuzioni di responsabilità –, di fatto un tale passo sarebbe per noi impossibile. La rete dei sentimenti morali infatti è, secondo Strawson, un elemento costitutivo essenziale della vita sociale e non è possibile porsi da un punto di vista esterno ad essa (ovvero da un punto di vista metafisico) dal quale giudicare della correttezza o meno dell’adozione di questa rete. Se un giorno divenissimo consapevoli di essere causalmente determinati, ciò sarebbe ininfluente sul piano pratico: noi non potremmo che continuare ad interagire, come se nulla fosse, gli uni con gli altri, alla luce del sistema degli atteggiamenti reattivi e dei sentimenti morali. La nozione di responsabilità e tutte le pratiche che ne dipendono (incluse le pratiche punitive, morali e legali) non ne sarebbero in alcun modo alterate. Con le parole di Strawson: 33 Per una concezione della razionalità simile, per molti versi, a quella qui delineata, cfr. Nozick 1989 (su cui Gessa Kurotschka 2004). 34 P.F. Strawson (1985, pp. 32-33, corsivo mio).
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A mio giudizio, per gli esseri umani la partecipazione alle relazioni interpersonali ordinarie rappresenta un impegno troppo completo e troppo profondamente radicato per poter seriamente pensare che una convinzione teorica generale [come la scoperta della verità del determinismo] possa cambiare il nostro mondo al punto che non si darebbe più nulla come le relazioni interpersonali, così come noi normalmente le intendiamo35.
Considerata tale ‘naturalezza’ del sistema degli atteggiamenti reattivi e delle ascrizioni di responsabilità, nota Strawson con spirito humeano, la richiesta libertaria di abbandonare il sistema qualora si dimostrasse la verità del determinismo avrebbe la stessa possibilità di successo della richiesta di abbandonare – sulla base di altrettanti argomenti metafisici – la nostra istintiva fiducia nell’induzione36, nel principio di causalità37 o nell’esistenza dei corpi38. Questa strategia argomentativa è seducente; ma a mio giudizio nemmeno essa si dimostra adeguata. In primo luogo, se anche si riuscisse a dimostrare che noi non saremo mai in grado di abbandonare gli atteggiamenti reattivi sulla base di mere considerazioni intellettuali, la forza di una tale conclusione sarebbe meramente descrittiva: essa, cioè, concernerebbe il piano psico-antropologico, ma non quello della razionalità (e, come abbiamo appena visto, la strategia razionalistica tentata da Strawson per dimostrare questa tesi sul piano razionale-prescrittivo non riesce nell’intento)39. Quand’anche, allora, l’autore avesse ragione nel pensare che un’eventuale constatazione della verità del determinismo non potrebbe comunque alterare il nostro naturale coinvolgimento nella rete degli atteggiamenti reattivi e delle attribuzioni di responsabilità, resterebbe comunque il fatto che, a quel punto, un tale coinvolgimento non sarebbe più razionale: insorgerebbe infatti un conflitto tra ciò che in tale situazione sarebbe per noi razionale fare e ciò che invece ci verrebbe naturale fare. E taP.F. Strawson (1962, p. 11). Ivi, p. 23 n. 37 P.F. Strawson (1998, p. 260). 38 P.F. Strawson (1985, pp. 32-33). 39 Un sostenitore della strategia naturalistica di P.F. Strawson potrebbe forse essere tentato di identificare simpliciter il piano della razionalità con quello della naturalità, superando così la difficoltà cui accenno in questo paragrafo. Ma una tale inferenza ab esse ad necesse – per quanto, in questi anni di naturalismo rampante, a qualcuno possa forse apparire auspicabile – avrebbe senz’altro bisogno di vigorosi argomenti a sostegno. 35 36
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le conflitto, si noti, non sarebbe di poco conto: laddove, infatti, sarebbe razionale sostenere che gli agenti non sono responsabili delle proprie azioni, noi naturalmente tenderemmo a ritenerli tali. Ma la strategia naturalistica di Strawson presenta anche difficoltà interne. Essa, per iniziare, si basa su un’intuizione che non è affatto universalmente condivisa: secondo alcuni, infatti, le conseguenze dell’accertamento della verità del determinismo sarebbero diametralmente opposte a quelle prospettate da Strawson. Ecco come si esprime in proposito un altro celebre filosofo oxoniense: Se il determinismo sociale e psicologico venisse accettato come una verità conclamata, il nostro mondo si trasformerebbe più radicalmente di quanto non accadde al mondo teleologico dell’età classica e del medioevo con i trionfi dei principi meccanicistici o con quelli della selezione naturale. Le nostre parole – i nostri modi di parlare e di pensare – si trasformerebbero in maniera letteralmente inimmaginabile; le nozioni di scelta, di responsabilità, di libertà sono così profondamente incastonate nella nostra concezione che è per noi enormemente difficile immaginare la nostra nuova vita di creature viventi in un mondo in cui veramente mancassero questi concetti. Ad ogni modo, allarmarci per questo sarebbe per noi del tutto ingiustificato40.
L’ipotesi di Berlin non è affatto assurda, come può dimostrare un esperimento mentale. Se un giorno scoprissi che il mio vicino di casa è un sofisticato robot, controllato deterministicamente da uno scienziato, certo cambierei il mio atteggiamento verso di lui41. In un simile caso, non sarebbe affatto ‘naturale’ per me continuare a considerarlo responsabile delle sue azioni: ad esempio, se il mio vicino di casa-robot una notte mi svegliasse suonando il tamburo non proverei risentimento verso di lui, ma verso lo scienziato che lo ha programmato a fare una cosa del genere. D’altra parte sarei ancora più 40 Berlin (1954, pp. 161-162). Sulle tesi berliniane sulla libertà, cfr. Ricciardi (1998b). 41 Questa ipotesi non è affatto inconcepibile (sebbene sia al momento del tutto improbabile). Possiamo immaginare che lo scienziato potrebbe convocarmi un giorno nel suo laboratorio e mostrarmi come determina le azioni del mio vicino di casa. Possiamo anche immaginare che l’evidenza empirica apportata dallo scienziato sia tanto imponente che sarebbe per me irrazionale rifiutarmi di credere che il vicino è interamente determinato (lo scienziato, ad esempio, potrebbe prevedere completamente, in mia presenza, le azioni del mio vicino per un lungo periodo, magari inducendolo a compiere azioni bizzarre).
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sconcertato se scoprissi che tutti gli abitanti del mio palazzo (o tutti i miei concittadini) sono controllati deterministicamente. E cosa faremmo, allora, se avessimo ragione di pensare che noi tutti siamo meccanismi deterministici?42 A mio giudizio, non è affatto ovvio che Strawson abbia ragione e Berlin torto: non è affatto ovvio cioè che il mantenimento degli atteggiamenti reattivi e delle ascrizioni di responsabilità da parte nostra sarebbe, come pensa Strawson, un «fatto naturale». La verità sembra essere piuttosto che in questo ambito le nostre intuizioni non sono chiare a sufficienza, né in un senso né nell’altro, dunque non possiamo fondarci su di esse per capire che cosa faremmo di fatto se scoprissimo la verità del determinismo. Che la strategia naturalistica non funzioni si evince anche da un rapido sguardo all’analogia che Strawson sviluppa richiamandosi alle nostre credenze nella causalità, nell’induzione, nell’esistenza dei corpi43. È vero, a mio giudizio, che noi non potremmo cessare di mantenere tali credenze, anche in presenza di convincenti argomenti contrari. Ma, si chiede Strawson, con la responsabilità non accade forse la stessa cosa, che sia vero il determinismo o meno? A me sembra invece che l’analogia strawsoniana non sia calzante. Noi probabilmente non possiamo, per fare un esempio, concepire un mondo senza causazione (lo humeano «cemento dell’universo»); possiamo però facilmente figurarci un mondo senza responsabilità: un mondo senza esseri razionali, ad esempio. Oppure possiamo immaginare che nel nostro mondo gli esseri umani si estinguano, ma sopravvivano loro macchine deterministiche in grado di ripro42 Sviluppando l’argomento della nota precedente, non mi sembra inconcepibile nemmeno la situazione in cui uno scienziato determini i comportamenti di tutti gli esseri umani e possa dimostrarlo induttivamente (ad esempio, mostrando come determina le azioni di un numero sufficientemente alto di individui presi a caso). In un tale scenario, la nostra fiducia nelle attribuzioni di responsabilità sarebbe profondamente scossa, con buona pace di Strawson. Molto meno chiaro, invece, è ciò che accadrebbe se si avesse ragione di pensare che la determinazione riguardi se stessi. Thomas Nagel (1997, p. 117) ritiene una tale situazione sia letteralmente inconcepibile: «Il dubbio rispetto alla propria razionalità è instabile e non ci lascia nulla su cui pensare». Così, se teoricamente non posso escludere la possibilità che io effettivamente non controlli le mie azioni, di fatto «non posso attribuirla a me stesso più di quanto possa immaginare che ora non sto pensando». Le perplessità di Nagel su questo punto non mi sembrano illegittime; esse però non alterano sostanzialmente i termini della questione. 43 P.F. Strawson (1998).
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dursi: in fondo, il libertario non fa altro che temere che questo sia già il caso del nostro mondo – se è vero il determinismo. Per quanto brillante, la duplice argomentazione antilibertaria di Strawson non è stringente: essa non prova, infatti, che per noi sarebbe irrazionale e innaturale smettere di considerarci responsabili delle nostre azioni, qualora si dimostrasse che siamo determinati44. In realtà, l’interessante tentativo strawsoniano, pur avendo l’innegabile merito di mettere in luce il fondamentale nesso che le attribuzioni di responsabilità hanno con la rete degli atteggiamenti reattivi e dei sentimenti morali, e più in generale con la prospettiva agenziale, sembra troppo sbilanciato sul versante avverso alla metafisica. Come dimostrano con chiarezza gli sviluppi che questa disciplina ha conosciuto negli ultimi decenni, soprattutto in ambiente analitico, non è affatto necessario che la metafisica assuma un punto di vista simile a quello della teologia né che ignori metodologicamente le acquisizioni della scienza e le intuizioni del senso comune45. Nei prossimi paragrafi considereremo invece un diverso tentativo di attaccare la tesi libertaria secondo la quale la libertà (intesa in senso abbastanza robusto da inglobare la possibilità di fare altrimenti) è prerequisito essenziale della responsabilità. Questo tentativo, al contrario di quello di Strawson, si sviluppa proprio su un terreno esplicitamente metafisico. 6. La rilevanza della libertà In un breve saggio del 1958, Roderick Chisholm sosteneva che il seguente enunciato è un esempio di verità logica: Se una scelta [da noi compiuta] è tale che non avremmo potuto evitare di compierla, allora tale scelta è tale che noi non ne siamo moralmente responsabili46. Tornerò su alcuni aspetti della concezione di Strawson nell’ultimo capitolo. Da questo punto di vista, la prospettiva di Freedom and Resentment è un po’ invecchiata, nel suo presupporre un punto di vista come quello dell’analisi del linguaggio ordinario, che com’è noto è di impianto radicalmente antimetafisico. Tuttavia da Kripke a Putnam, da Dummett a Nozick, oggi non mancano certo autori che ci autorizzano a ritenere che la metafisica possa indagare la struttura più profonda della realtà, senza per questo incorrere nel venerando realismo metafisico che presupponeva il punto di vista divino sulla realtà. 46 Chisholm (1961, p. 145). 44 45
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Secondo Chisholm, dunque, la possibilità di fare altrimenti (che concerne sia le scelte sia le azioni) è condizione (logicamente) necessaria della responsabilità morale: Se un uomo è responsabile di ciò che ha fatto, allora possiamo dire: «avrebbe potuto fare altrimenti». E se possiamo dire: «Non avrebbe potuto evitare [una determinata scelta o azione]», allora egli non è responsabile di ciò che ha fatto47.
In effetti, fino a tempi recenti è parso estremamente naturale ritenere che il concetto di responsabilità morale fosse correlato da un nesso di carattere analitico con la possibilità di fare altrimenti (che abbiamo visto essere requisito essenziale della definizione di libertà). Tuttavia, in un famoso saggio del 1969, il già citato Harry Frankfurt ha mostrato che le cose non sono affatto così semplici48. Frankfurt ha battezzato la tesi discussa da Chisholm «principio delle possibilità alternative» e l’ha così formulata: Una persona è moralmente responsabile per ciò che ha fatto solo se poteva fare altrimenti49.
Secondo questo principio, la possibilità di fare altrimenti (oltre ad essere requisito fondamentale della libertà, come abbiamo visto) è indispensabile anche per la corretta attribuzione di responsabilità. La tesi di Frankfurt è che tale principio, per quanto apparentemente ovvio, è in realtà falso. Per dimostrare ciò, Frankfurt ha esposto alcuni casi che, a suo giudizio, rappresentano chiari controesempi al principio delle possibilità alternative (un gran numero di altri ‘controesempi à la Frankfurt’ è stato in seguito elaborato da altri autori)50. Immaginiamo, dunque, che il signor Rossi sia sul punto di prendere una decisione di una qualche rilevanza morale. Egli, ad esempio, deve decidere se rubare un portafoglio lasciato momentaneamente incustodito. Dopo un breve processo deliberativo, Rossi, che non ha una tempra morale particolarmente robusta, decide di apIbid. Frankfurt (1969). I paragrafi 6 e 7 di questo capitolo, dedicati a Frankfurt, derivano in parte da De Caro (1999c). 49 Ivi, p. 116 (le traduzioni da Frankfurt sono mie). 50 Per una rassegna della letteratura sui controesempi à la Frankfurt, con le sue complesse diramazioni, cfr. Fischer (2002). 47 48
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propriarsi del portafoglio. Una tale decisione appare certamente biasimevole, e su ciò Frankfurt concorda pienamente. A suo giudizio, però, una corretta attribuzione di responsabilità morale agli agenti non dipende affatto – come pure parrebbe naturale pensare – da un’implicita attribuzione a Rossi della possibilità di fare altrimenti. Per comprendere questa tesi possiamo costruire un controesempio à la Frankfurt. Immaginiamo che un geniale e protervo neurofisiologo abbia costruito una macchina in grado di controllare a distanza la volontà e le azioni di Rossi. Non che lo scienziato manipoli continuamente Rossi; egli, piuttosto, si limita ad intervenire nei casi in cui Rossi opera una scelta che lo scienziato non gradisce, inducendolo immediatamente a modificarla. Nel caso del portafoglio incustodito, ad esempio, il diabolico scienziato vuole che Rossi compia il furto; egli dunque è pronto ad intervenire nel caso in cui Rossi decida invece di asternersi dal misfatto. Dato però che Rossi decide autonomamente di rubare il portafoglio, lo scienziato non ha bisogno di intervenire e di fatto non interviene (in questo caso egli è una sorta di ‘controllore controfattuale’). La biasimevole scelta è tutta di Rossi, che ne porta intera la responsabilità: giustamente, dunque, egli può essere criticato per questa sua condotta51. Il punto importante dell’esperimento mentale proposto da Frankfurt è che sebbene Rossi sia responsabile della propria scelta e della propria azione, non era in suo potere scegliere o agire altrimenti. Se infatti una resipiscenza morale lo avesse indotto ad astenersi dal furto, immediatamente il perfido scienziato sarebbe intervenuto per modificare tale intenzione. Da una parte, dunque, Rossi ha scelto e agito autonomamente, e dunque è responsabile della propria condotta; dall’altra, egli non avrebbe potuto compiere scelte o azioni diverse da quelle che ha effettivamente compiuto. Egli, pur essendo responsabile, non avrebbe potuto fare altrimenti: dunque il principio delle possibilità alternative è, secondo Frankfurt, confutato. 51 Sebbene in questa forma il controesempio à la Frankfurt sia particolarmente icastico, va notato che se ne potrebbero offrire versioni in cui non figura un agente – nel nostro caso il neurofisiologo – che ne controlla un altro (una situazione che potrebbe indurre a ritenere, in modo fuorviante, che Frankfurt non faccia che spostare il problema della responsabilità dall’agente al neurofisiologo, il quale è pur sempre un agente). Lo stesso Frankfurt (1969, p. 132, n. 4) suggerisce che il ruolo del ‘controllore controfattuale’ potrebbe essere svolto da un computer o da forze naturali che non obbediscono ad alcun disegno razionale (quali potrebbero essere quelle che agiscono in un mondo deterministico). Su ciò, cfr. Blumefeld (1971).
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Occorre sottolineare che, nella sua discussione, Frankfurt non è affatto interessato a discutere della possibilità di fare altrimenti in sé e tantomeno della libertà in generale. Discutendo di questo tema, anzi, egli lascia impregiudicata la questione della compatibilità della libertà con il determinismo e/o con l’indeterminismo, nonché la più specifica questione della libertà degli esseri umani52. Ciò che gli preme non è stabilire se gli esseri umani siano liberi, ma in quale senso essi siano responsabili; e la sua tesi è che la possibilità di fare altrimenti (che, abbiamo visto, è requisito indispensabile della libertà) è del tutto irrilevante per la corretta attribuzione di responsabilità morale. I ‘controesempi à la Frankfurt’ intendono proprio mostrare che la questione della responsabilità morale può essere discussa indipendentemente dalla questione della libertà (come è stata definita qui). Che il concetto di libertà sia compatibile con il determinismo, o con l’indeterminismo, o che sia logicamente incoerente, secondo Frankfurt l’essenza della responsabilità rimane esattamente la stessa: un agente, infatti, può essere ritenuto responsabile di una scelta o di un’azione anche nel caso in cui egli non possa fare altrimenti, purché tale scelta o azione dipenda da una sua autonoma decisione. Così, quando Rossi si appropria del portafoglio incustodito, egli – pur non essendo libero di agire altrimenti – è pienamente responsabile per la propria condotta. Naturalmente Frankfurt non nega che vi siano molte situazioni in cui un agente che non può agire altrimenti da come di fatto agisce non è moralmente responsabile dei propri atti (si pensi ai casi, ricordati sopra, in cui un agente è scusato perché agisce sotto coercizione o perché è afflitto da una particolare infermità); egli, tuttavia, non crede che in questi casi la responsabilità morale venga negata in quanto l’agente ‘non potrebbe fare altrimenti’. Il punto, a giudizio di Frankfurt, è piuttosto che i fattori coercitivi che inducono l’agente ad agire in quel certo modo sono le uniche cause di quell’azione: ad esempio non accade che un agente che compie una certa azione perché è ipnotizzato la compia anche perché aveva un autonomo desiderio in tal senso (se così fosse, l’agente sarebbe responsabile della propria azione). 52 La tesi della compatibilità di libertà e determinismo è invece difesa esplicitamente in Frankfurt (1971), su cui si vedano le acute osservazioni critiche di Watson (1975).
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Nell’esempio discusso sopra, invece, la volontà dell’agente è ragion sufficiente della sua (cattiva) azione – e ciò anche se comunque non avrebbe potuto fare altrimenti. Secondo Frankfurt, ciò che conta per la corretta attribuzione di responsabilità è che il reale corso d’azione sia tale che l’azione di Rossi non avvenga solo perché il neurofisiologo è intervenuto. Questo, invece, è esattamente ciò che accade nel caso di una persona ipnotizzata, quando la ragione per cui una certa azione è compiuta è proprio, e soltanto, l’intervento di un fattore determinante – diverso dalla volontà dell’agente – che funge dunque da unica causa sufficiente per il compimento di quell’azione. Questo spiega, secondo Frankfurt, la ragione per cui in casi del genere l’agente non viene ritenuto responsabile dell’azione: egli, infatti, «ha agito come ha agito soltanto perché era impossibilitato a fare altrimenti o soltanto perché doveva agire così» e non perché «egli voleva compiere veramente quell’azione». In sostanza, dunque, «una persona non è moralmente responsabile per ciò che ha fatto, se l’ha fatto soltanto perché non avrebbe potuto fare altrimenti»53. In tal modo, l’unico aspetto rilevante per una corretta attribuzione di responsabilità è se la volontà dell’agente sia parte integrante della ragione sufficiente dell’azione o no (e in tal caso è del tutto ininfluente se, per soprammercato, l’agente non avrebbe potuto fare altrimenti). Se ciò è corretto, Chisholm e quanti concordano con lui errano nel ritenere che il requisito delle possibilità alternative – proprio della libertà, come è stata qui definita – sia condizione necessaria della responsabilità morale. Secondo il punto di vista di Frankfurt, infatti, i controesempi eponimi provano che possono darsi casi in cui la responsabilità morale non è esclusa, anche se l’agente è impossibilitato a fare altrimenti. Ciò lascia dunque aperta la possibilità che in un mondo in cui gli agenti non siano mai in grado di fare altrimenti – ovvero in un mondo deterministico – si dia responsabilità morale54. Seppure, allora, il determinismo fosse incompatibile con la libertà (o più esattamente con il requisito delle possibilità alternative, Frankfurt (1969, p. 131); gli ultimi due corsivi sono miei. Frankfurt sostiene anzi esplicitamente che i suoi controesempi mostrano come la responsabilità morale sia compatibile con il determinismo; su ciò, cfr. anche l’introduzione a Fischer, Ravizza (a cura di) (1993). Si noti che Frankfurt (1969) non s’interessa ai tentativi di mostrare che in un mondo deterministico la possibilità di fare altrimenti non è esclusa (su questi tentativi, cfr. supra, capitolo secondo). Se ne può dedurre che, a parere di Frankfurt, il determinismo impedisce la possibilità di fare altrimenti ma, ciononostante, è compatibile con la responsabilità. 53 54
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che ne sta a fondamento), da ciò non seguirebbe affatto l’incompatibilità del determinismo con la responsabilità morale55. Riassumendo: secondo Frankfurt, se anche le nostre azioni fossero totalmente determinate dagli eventi passati e dalle leggi di natura in modo tale che non potremmo mai agire altrimenti da come di fatto agiamo, avremmo nondimeno ragione a considerarci responsabili per le scelte e le azioni in cui la nostra volontà funge da ragion sufficiente. Se questa tesi fosse giusta, avremmo trovato (nella misura in cui il mondo è deterministico o, più limitatamente e più plausibilmente, nella misura in cui è deterministico l’ambito dell’agire umano) un modo di salvare la responsabilità morale – e ciò anche se dovessimo perdere il libero arbitrio. 7. Un nesso inscindibile Se Frankfurt fosse nel giusto, la nozione di responsabilità morale, in quanto concettualmente indipendente dalla nozione di libertà, sarebbe al riparo dai problemi e dalle aporie che gravano su quest’ultima. L’unica condizione per il darsi della responsabilità sarebbe, infatti, l’autodeterminazione da parte degli agenti: una condizione che sembra perfettamente compatibile con un ambiente deterministico. In tale prospettiva il dibattito sulla libertà, privato di ogni interessante ricaduta etica, perderebbe innegabilmente buona parte del suo appeal teoretico; in fondo, come ho detto in precedenza, la libertà ci preme soprattutto (sebbene non esclusivamente) in quanto sembra essere una condizione necessaria dell’attribuzione di responsabilità morale. Ma Frankfurt è nel giusto? Io credo di no. Detto in una parola, mi pare che il suo argomento – per quanto brillante e apparentemente lineare – sia in realtà viziato da una petitio principii. Torniamo al caso del signor Rossi, che – mentre ruba un portafoglio – è controllato da un malefico scienziato in grado di modificarne le azioni. Il caso interessante, abbiamo visto, è quello in cui lo scienziato non ha bisogno di intervenire, perché Rossi fa di sua iniziativa proprio ciò che lo scienziato desidera. Se Rossi agisse senza interferenze, come potrebbe non essere responsabile della propria 55 Alcuni autori seguono Frankfurt nell’affermare che il determinismo causale è compatibile con la responsabilità morale; se ne distaccano però quando affermano l’incompatibilità del determinismo causale con il requisito delle possibilità alternative proprio della libertà: cfr., ad esempio, Fischer (1994).
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azione? E, in effetti, su un punto almeno Frankfurt ha ragione: la mera possibilità di un’interferenza, che di fatto non avviene, non può avere alcuna rilevanza nello stabilire se l’agente è responsabile o meno. Il punto cruciale, però, è: in base a cosa affermiamo che, nello scenario di Frankfurt, il nostro agente è responsabile? In verità, in primo luogo, non è chiaro se Rossi sia effettivamente responsabile. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere affetto da una particolare patologia mentale (ad esempio, la cleptomania) che ne determina i comportamenti in modo tale che egli, pur agendo senza interferenze esterne, non è responsabile delle proprie azioni. Oppure potrebbe essere sotto ipnosi o preda di allucinogeni oppure (visto che si tratta di un esperimento mentale) potrebbe perfino essere controllato a distanza da un altro scienziato. In questi casi, che non sono esclusi nello scenario di Frankfurt, ma che certo non servono a provare la sua tesi, Rossi non sarebbe responsabile quando ruba il portafoglio (e il fatto che egli sia controllato da uno scienziato che comunque non interviene sarebbe in questo senso del tutto ininfluente). Consideriamo allora il caso in cui Rossi è responsabile quando ruba il portafogli. Naturalmente la presenza dello scienziato che vigila passivamente su di lui non ha alcun effetto sulla situazione. In questo scenario, dunque, la responsabilità di Rossi viene presupposta, non dimostrata. La sua responsabilità, in sostanza, deve essere già data affinché si possa dire, come fa Frankfurt, che il controllore controfattuale non la lede. Ciò che l’esperimento di Frankfurt prova è dunque questo: se Rossi è responsabile per la sua azione, allora egli rimane tale anche quando su di lui incombe un controllore controfattuale; o, detto altrimenti, se Rossi è responsabile di quella sua specifica azione, egli rimane responsabile anche quando gli manca la possibilità di fare altrimenti. Il punto cruciale, allora, è comprendere in quali condizioni Rossi possa essere preliminarmente responsabile, a prescindere dal potenziale intervento dello scienziato. Sopra abbiamo visto che in realtà non è affatto chiaro se un’azione responsabile debba presupporre processi deterministici o processi indeterministici. Anzi è equo dire che noi non sappiamo se siamo veramente responsabili e, qualora lo fossimo, in quale tipo di scenario ci troviamo: se uno di causazione deterministica o uno di causazione indeterministica. Dato che, comunque, tra questi due tipi di causazione tertium non datur e, se siamo responsabili, dobbiamo esserlo in uno di questi due scenari (o, meno plausibilmente, in tutti e due), pos125
siamo provare a riflettere su quali conseguenze deriverebbero, rispettivamente, per l’esperimento mentale di Frankfurt nei due casi. Concediamo in primo luogo che il processo causale che porta Rossi al compimento dell’azione sia deterministico e che ciò nonostante egli ne sia responsabile (concediamo cioè che abbia ragione Frankfurt nel sostenere che il determinismo è compatibile con la responsabilità). In questo scenario deterministico Rossi, dunque, è per definizione responsabile pur non potendo fare altrimenti. Ma in questo caso l’ipotesi di Frankfurt non aggiunge proprio nulla a favore della compatibilità del determinismo con la responsabilità, che è invece presupposta. Detto altrimenti: se la responsabilità è compatibile con il determinismo, per definizione Rossi non può fare altrimenti e ciononostante è responsabile. In quest’ottica, però, l’ipotesi del controllore controfattuale è ridondante: l’esperimento mentale di Frankfurt invece di provare la propria tesi, insomma, la presuppone. Consideriamo allora l’altro caso, che è quello teorizzato dai libertari. Assumiamo, cioè, che la catena causale che ha condotto Rossi a compiere spontaneamente l’azione di cui porterà la responsabilità (che è proprio l’azione desiderata dallo scienziato, il quale per questo non interviene) sia una catena causale indeterministica. Se è così, allora, per definizione, quando causa l’azione l’agente non è determinato; ovvero, in un qualche momento del processo causale che conduce al compimento dell’azione (al livello della maturazione delle decisioni o a quello dell’esecuzione delle azioni), egli potrebbe fare altrimenti. In sostanza, in questo scenario la responsabilità è basata proprio sulla possibilità di fare altrimenti: esattamente il contrario di quello che Frankfurt vuole dimostrare. Nella situazione che Frankfurt descrive, infatti, Rossi non può mai fare altrimenti, in quanto lo scienziato è pronto ad interferire per riportare il corso degli eventi nella direzione da lui preferita. Dunque, dei due casi, quello indeterministico non è rilevante, e quello deterministico incorre in una petitio principii! Fallisce, così, anche il tentativo di Frankfurt di sganciare il concetto di responsabilità da quello, altamente problematico, di libertà (o, più specificamente, dalla possibilità di fare altrimenti, che della libertà è condizione essenziale). In realtà, per quanto ne sappiamo, la nostra responsabilità presuppone l’esistenza della libertà; e dunque per salvare l’idea di responsabilità è necessario risolvere l’enigma della libertà. 126
Si ripropone, allora, la domanda iniziale: la libertà è possibile? Ovvero – per porre la questione in maniera leggermente diversa – com’è possibile che gli agenti godano di entrambi i requisiti essenziali della libertà, se il primo (l’autocontrollo) sembra impossibile in un universo indeterministico e il secondo (la possibilità di fare altrimenti) sembra impossibile in un universo deterministico? In questo capitolo abbiamo discusso i rapporti tra il concetto di libertà e quello di responsabilità. In particolare, sono stati analizzati due ingegnosi tentativi, sviluppati rispettivamente da Peter Frederick Strawson e Harry Frankfurt, tesi a provare che le attribuzioni di responsabilità non presuppongono la possibilità di fare altrimenti, e dunque non presuppongono la libertà (come essa è stata concepita in questo libro). La conclusione della nostra analisi, tuttavia, è stata che questi tentativi falliscono nel loro intento e che, dunque, è ragionevole continuare a pensare che la libertà sia prerequisito della responsabilità. Nei capitoli precedenti, d’altra parte, era emerso che, dato lo stato attuale della discussione, lo scetticismo rispetto alla libertà è giustificato. In questo modo però, lo scetticismo si propaga immediatamente alla responsabilità: se non abbiamo ragione di pensarci liberi, non abbiamo nemmeno ragione di pensarci responsabili. La situazione teorica sembra allora senza speranza. O forse una speranza c’è. Se si riuscisse a mostrare che l’attuale impasse del dibattito sul libero arbitrio dipende da qualche ingiustificata assunzione, forse si aprirebbero nuove prospettive teoriche. Ciò è quanto argomenterò nel prossimo capitolo.
Capitolo quinto
Libertà e pluralismo
[...] LIBERTÀ, NECESSITÀ, e tutto il resto, sulle cui sconfortanti e inaccessibili teorie tante teste fini si sono torte e fracassate. Laurence Sterne
All’inizio di questo libro ricordavo come il dottor Samuel Johnson non gradisse affatto le disquisizioni sul libero arbitrio. Una volta, il famoso dottore suggerì la ragione di questo suo fastidio: «Tutta la teoria [è] contro il libero arbitrio», spiegò il nostro, «tutta la pratica [è] in suo favore»1. Secondo Johnson, dunque, l’idea della libertà trova robusto sostegno nelle intuizioni del senso comune incorporate nelle nostre pratiche; sul piano della giustificazione razionale, però, possiamo soltanto concludere che non siamo liberi né mai lo saremo. Tanto peggio per la giustificazione razionale, allora – concludeva il famoso dottore. Oggi, come abbiamo visto nel quarto capitolo, molti filosofi partono da premesse simili a quelle di Samuel Johnson, ma ne traggono conclusioni opposte. Al pari di Johnson essi affermano, da un lato, che la nostra credenza nella libertà è sorretta dalle intuizioni prefilosofiche che presiedono alle attribuzioni di responsabilità, alle pratiche punitive, alle valutazioni morali; dall’altro lato, sostengono che la libertà non trova alcuna giustificazione sul piano dell’argomentazione razionale. Tuttavia, secondo molti di questi autori, quando le intuizioni si oppongono agli argomenti teorici, non si può che rinunciare alle intuizioni (che sono facilmente errate) e accettare, con buona pace del dottor Johnson, gli argomenti teorici – anche se essi conducono inevitabilmente allo scetticismo. 1
Citato in Rowe (1987, p. 151).
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In genere, come abbiamo visto, il ragionamento degli scettici viene sostanziato coniugando gli argomenti anticompatibilistici con quelli antilibertari. Così, se il mondo è deterministico – ripetono gli scettici – un essere libero dovrebbe poter controllare gli eventi passati e/o le leggi di natura, ma nell’universo fisico non esistono entità in grado di fare ciò; se invece il mondo è indeterministico, la nostra presunta libertà è nulla più che mera casualità. D’altra parte – continuano gli scettici – o il mondo naturale è deterministico oppure è indeterministico: dunque per la libertà non v’è spazio in alcuno scenario fisicamente possibile. Tuttavia, se la libertà è fisicamente impossibile, allora – a meno che non si postulino obsoleti scenari antinaturalistici, come quelli dei teorici della agent causation – si deve concludere che noi non siamo liberi. In tale prospettiva, ai filosofi resta solo il mesto compito di stabilire se la nostra intuizione della libertà rimandi a un mistero insolubile oppure a una mera illusione. Prima di rassegnarci ad uno scetticismo tanto radicale, tuttavia, è doveroso domandarci se l’argomentazione degli scettici sia veramente impermeabile ad ogni obiezione. E in realtà, a mio giudizio, ci sono ottime ragioni per pensare che non lo sia. Lo scetticismo contemporaneo rispetto alla libertà, infatti, si basa su alcune assunzioni assai dubbie – generalmente implicite – proprie di una forma molto radicale di naturalismo scientifico. Rinunciando allora a tali assunzioni, e al naturalismo scientifico che le incorpora, potremmo forse sperare di rispondere alla sfida degli scettici. In questo capitolo svilupperò un argomento in favore della libertà – che chiamerò ‘Argomento dell’abduzione’ – fondato su premesse che si ispirano a un naturalismo assai più moderato di quello oggi in auge. Alla luce di questo argomento, la questione della libertà e della responsabilità assumerà, a mio giudizio, un aspetto assai meno enigmatico. 1. La prospettiva agenziale Nel capitolo precedente, abbiamo considerato la celebre tesi di Strawson, secondo la quale gli esseri umani possono essere considerati da due prospettive antitetiche. La prima è una prospettiva oggettivistica, assumendo la quale gli esseri umani vengono studiati alla stregua degli oggetti naturali: possiamo chiamarla prospettiva naturalistica. La seconda prospettiva considera, invece, gli esseri umani come agenti: possiamo chiamarla prospettiva agenziale. Questo se129
condo punto di vista presuppone, come abbiamo osservato, che (a parte casi particolari) agli agenti vada attribuita la responsabilità di ciò che fanno. Per Strawson, la prospettiva agenziale è irrinunciabile: non dovremmo – né potremmo – abbandonarla nemmeno se scoprissimo che tutti i comportamenti umani sono causalmente determinati. Su due punti, molti importanti, Strawson ha, a mio giudizio, ragione. In primo luogo, quando afferma che la prospettiva che adottiamo quando guardiamo a noi stessi in quanto agenti è radicalmente diverso dal modo in cui guardiamo a noi stessi in quanto oggetti naturali. In secondo luogo, quando (all’opposto di quanto pensano gli scettici) afferma che siamo perfettamente giustificati nell’adottare il punto di vista agenziale. Tuttavia, come abbiamo visto nel precedente capitolo, per altri versi la concezione di Strawson è insoddisfacente. Innanzitutto, tale concezione tenta di sganciare la responsabilità dalla libertà: in realtà, come abbiamo visto nel capitolo precedente, le attribuzioni di responsabilità presuppongono tanto l’autodeterminazione quanto la possibilità di fare altrimenti – ossia, presuppongono il libero arbitrio2. Un altro problema della concezione strawsoniana è il suo carattere a priori. Secondo Strawson, infatti, non si possono immaginare scenari in cui potremmo rinunciare a credere di essere responsabili (e, dunque, di essere agenti). Tuttavia, come si è visto, molti oggi vedono le cose in modo opposto a quello di Strawson e negano apertamente l’idea di responsabilità e, più in generale, la legittimità della stessa prospettiva agenziale. In genere, come abbiamo già detto, questo scetticismo è basato su argomenti secondo i quali le attribuzioni di responsabilità sono illegittime tanto in uno scenario deterministico quanto in uno indeterministico. L’argomento a priori in favore della responsabilità proposto da Strawson, dunque, è inadeguato fosse solo perché si possono immaginare scenari in cui gli esseri umani non sono responsabili. E, in verità, secondo gli scettici tutti gli scenari fisicamente possibili sono di questo genere! Ciò che dobbiamo chiederci, allora, è se sia possibile riformare la proposta strawsoniana, emendandola da questi difetti ma recuperandone gli aspetti positivi. A questo scopo, occorre in primo luogo attribuire alla libertà il posto essenziale che le spetta all’interno della prospettiva agenziale: occorre, cioè, riconoscere che per essere agenti bisogna essere liberi e che solo gli agenti possono essere liberi. 2
Su questo punto, cfr. S. White (2004).
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In secondo luogo, se è vero che la prospettiva agenziale non si può giustificare a priori (in quanto, come abbiamo visto, si possono concepire situazioni in cui essa non sarebbe legittima), allora la legittimità di tale prospettiva non può che essere provata a posteriori. In considerazione di ciò possiamo sperare, al più, di trovare buone ragioni per sostenere che noi siamo giustificati nell’usare la prospettiva agenziale e che, dunque, siamo anche giustificati nel ritenerci liberi. L’‘argomento dell’abduzione’, che verrà proposto in questo capitolo, è un argomento a posteriori di questo tipo. Se fosse corretto – come credo – ne seguirebbero risultati interessanti. In primo luogo, verrebbe in chiaro che il dottor Johnson e gli scettici contemporanei hanno torto quando sostengono che la nostra credenza nella libertà è giustificata soltanto dalle intuizioni, non da argomenti razionali. Ciò metterebbe in luce un interessante conflitto teorico: da una parte, ci troveremmo a disporre di un argomento in favore della libertà; dall’altra, vi sarebbero gli argomenti scettici contro essa. A quel punto, non sarebbe irragionevole ipotizzare che, al di là delle apparenze, le conclusioni degli scettici possono essere messe in dubbio – forse perché qualcuna delle premesse su cui si fondano è incerta o falsa. 2. Un argomento contro lo scetticismo La tesi che l’‘argomento dell’abduzione’ si propone di provare è che noi siamo liberi. Esso consta di tre premesse. Eccone una versione schematica. Argomento dell’abduzione Premessa I. I concetti che usiamo nel descrivere gli esseri umani secondo la prospettiva agenziale (ragioni, deliberazioni, scelte, credenze ecc.) rimandano intrinsecamente all’idea di libertà. Essere agenti implica essere liberi. Chiamerò questa premessa, dalla chiara ispirazione kantiana, ‘tesi di von Wright’, perché Georg Henrik von Wright l’ha sostenuta con particolare vigore. Premessa II. La maggior parte delle spiegazioni delle scienze umane e sociali – cui ci riferiamo per spiegare un gran numero di fenomeni riguardanti la vita umana – incorporano costitutivamente e ineliminabilmente i concetti agenziali e dunque, per loro tramite, rimandano all’idea della libertà umana. Chiamerò questa premessa ‘tesi di Davidson’, in quanto Donald Davidson ne è stato un autorevole fautore. 131
Premessa III. A partire da spiegazioni delle scienze umane si può costruire un’abduzione – o, come si dice spesso oggi, una inferenza alla miglior spiegazione – in favore della libertà. Dato che tali teorie offrono le migliori spiegazioni nei rispettivi ambiti è infatti razionale accettarle; ma in tal modo contraiamo anche l’impegno ad accettare ciò che tali teorie ci dicono sul loro oggetto, ovvero sugli esseri umani. Conclusione. Da ciò segue che è razionale accettare l’idea della libertà umana, in quanto essa è implicata dalle spiegazioni delle scienze umane. A me sembra che l’argomento dell’abduzione sia chiaramente valido (se sono vere le premesse, è vera la conclusione). Per accettarlo occorre dunque provare che le sue premesse sono vere. Questo è l’obiettivo dei prossimi paragrafi. 3. La tesi di von Wright La prima premessa dell’argomento dell’abduzione (o tesi di von Wright) pone dunque la libertà al centro della prospettiva agenziale. Secondo von Wright, i concetti normativi, intenzionali e olistici mediante i quali esprimiamo la prospettiva agenziale rimandano intrinsecamente all’idea della libertà degli agenti3: Tutti i concetti usati per descrivere e spiegare le azioni di un uomo – come motivo, ragione, intenzione, scelta, deliberazione ecc. – sono legati all’idea di ‘libertà’. Negare che un agente sia libero equivale a commettere una contraddizione in termini. Il ‘mistero’ della libertà, se esiste una tale cosa, è il ‘mistero’ del fatto che ci sono agenti ed azioni4.
Questo suggerimento di von Wright è interessante; occorre però sostanziarlo con un argomento. È quanto mi propongo di fare in questo paragrafo5. Secondo von Wright i concetti agenziali riman3 I concetti propri della prospettiva agenziale sono normativi perché rimandano alla distinzione corretto-scorretto; sono intenzionali perché rimandano intrinsecamente a qualcos’altro (non si può credere o deliberare senza credere o deliberare qualcosa); sono olistici perché formano una rete integrata, all’interno della quale ricevono le proprie condizioni di individuazione (per esempio, la mia credenza che una nuvola passi davanti al sole dipende dalle mie credenze sulle nuvole, sul sole, sul cielo e così via: cfr. Davidson 1977, p. 200). 4 Von Wright (1980, pp. 78-79), su cui cfr. Egidi (1999b). 5 Probabilmente von Wright non avrebbe sottoscritto il mio modo di argomentare in favore della sua tesi, in ragione della sua peculiare concezione del men-
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dano alla libertà; d’altra parte, come abbiamo visto, la libertà equivale alla congiunzione di autodeterminazione e possibilità di fare altrimenti. Perciò per provare che la tesi di von Wright è corretta si può cercare di mostrare che una spiegazione dei comportamenti di un agente per mezzo dei concetti agenziali implica che quell’agente da una parte si autodetermini e, dall’altra, possa fare altrimenti. Consideriamo, dunque, questi due aspetti separatamente, cominciando dal nesso tra azione e autodeterminazione. Le azioni sono un tipo particolare di eventi: esse, infatti, si possono peculiarmente descrivere e spiegare riconducendole alle ragioni (credenze, desideri, intenzioni ecc.) per cui gli agenti le compiono. Se una persona cade accidentalmente dalla sedia, siamo in presenza di un evento che non è un’azione; invece si ha un’azione quando la caduta di qualcuno si spiega facendo riferimento ai suoi desideri, alle sue credenze, alle sue intenzioni – in una parola, appunto, quando si possono individuare le ragioni per cui quella persona ha compiuto quella determinata azione. Ad esempio, se in un circo vediamo un clown cadere dalla sedia, possiamo ragionevolmente supporre che il clown desiderasse divertire il pubblico, credesse che una gag di questo tipo fosse divertente e, per questo, si sia gettato intenzionalmente giù dalla sedia: alla luce di questa spiegazione intenzionale, la caduta del clown può essere considerata un’azione6. Le azioni umane, dunque, possono essere descritte e spiegate – in quanto azioni – soltanto mediante il vocabolario agenziale. Naturalmente, le azioni possono essere descritte anche in quanto comportamenti o movimenti fisici, usando il vocabolario non agenziale delle scienze della natura: in questo modo, tuttavia, si perde ogni capacità di connettere i comportamenti con le ragioni che li hanno causati, di razionalizzare ciò che gli individui fanno. Tuttavia il fatto che le azioni possano essere descritte e spiegate in riferimento alle ragioni per cui sono compiute non basta a provare che esse sono autodeterminate – non basta cioè a dire che le azioni sono determinate dall’agente, o meglio dai suoi rilevanti stati mentali (che è il primo risultato da ottenere se vogliamo provare che le nozioni agenziali implicano la libertà). In sé, infatti, la questione della determinazione non riguarda il piano epistemologico delle tale (su cui cfr. De Caro 1999d). Nondimeno, il punto importante è che egli sarebbe stato d’accordo nell’opporre la sua tesi agli argomenti scettici contro la libertà. 6 De Caro (1998a, pp. 79-89).
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spiegazioni, ma quello ontologico delle cause. Se si vuole concludere che le ragioni determinano le azioni, dunque, manca ancora un passo: bisogna provare che le ragioni sono anche cause determinanti delle azioni. A questo proposito, ci viene in soccorso un potente argomento proposto da Donald Davidson, a cui ho già accennato nel primo capitolo7. Come si ricorderà, secondo Davidson, per distinguere tra le spiegazioni corrette di una certa azione e quelle soltanto plausibili, occorre discriminare – fra tutte le ragioni compatibili con lo svolgimento di una determinata azione – quelle che effettivamente vi hanno condotto, ovvero quelle che l’hanno causata. E ciò significa che dobbiamo ammettere che le ragioni delle azioni sono anch’esse cause determinanti. In tal modo, possiamo concludere che gli agenti causano le azioni che compiono in forza delle ragioni per le quali le compiono. E così si può concludere che gli agenti determinano le proprie azioni, ovvero che si autodeterminano. Per provare la tesi di von Wright, nel modo in cui l’ho ricostruita, occorre però ancora mostrare che le nozioni agenziali per mezzo delle quali spieghiamo le azioni implicano anche la seconda condizione della libertà: la possibilità di fare altrimenti. Ebbene, c’è un’ottima ragione per pensare che questa implicazione sussista: mi riferisco al carattere intrinsecamente normativo di concetti agenziali come ‘ragione’, ‘deliberazione’, ‘scelta’. Tali concetti presuppongono che l’agente valuti i diversi corsi d’azione possibili e opti per uno di essi: tale opzione potrà essere giusta o sbagliata, razionale o irrazionale, migliore o peggiore di quelle alternative; ma queste valutazioni di carattere normativo implicano che essa non sia l’unica scelta possibile. Più in generale, ogniqualvolta attribuiamo razionalità ad un certo agente, noi presupponiamo che egli possa scegliere ed agire diversamente da come di fatto sceglie ed agisce; presupponiamo, cioè, che egli scelga, in modo non troppo scorretto, tra i diversi corsi d’azione che gli si aprono davanti, ma potrebbe anche scegliere diversamente – nel qual caso il suo grado di razionalità muterebbe8. D’altra parte, come ancora Davidson ha mostrato bene, le attribuzioni di razionaDavidson (1963). Naturalmente, come visto nei capitoli precedenti, si può discutere a lungo su che cosa ‘possibilità di fare altrimenti’ significhi esattamente. Ciò che conta ora, però, è soltanto che le nostre attribuzioni di razionalità presuppongono la possibilità di fare altrimenti da parte dell’agente – qualunque cosa ciò significhi. 7 8
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lità sono essenziali per ogni processo interpretativo – ovvero per ogni attribuzione di stati intenzionali che ci permetta di comprendere il senso di ciò che un agente fa e dice9. Quando interpretiamo il comportamento di qualcuno, non possiamo infatti non attribuirgli un certo grado di razionalità, giacché un agente che violasse in modo consistente le norme della razionalità sarebbe ipso facto opaco alle nostre interpretazioni. Se dunque l’interpretazione deve essere possibile, devono esserlo anche le attribuzioni di razionalità; dunque deve avere senso l’idea che gli agenti, nella misura in cui sono razionali, avrebbero potuto scegliere ed agire diversamente da come di fatto hanno scelto ed agito. Ciò dimostra che anche la seconda condizione della libertà – l’esistenza di corsi d’azioni alternativi tra i quali l’agente sceglie – è implicata dalle nozioni agenziali per mezzo delle quali noi diamo conto delle azioni degli agenti. E così la tesi di von Wright – secondo la quale nozioni agenziali come quelle di credenza, desiderio, determinazione e scelta presuppongono essenzialmente la libertà umana – è provata. 4. La tesi di Davidson La seconda premessa dell’argomento dell’abduzione (o tesi di Davidson) è costituita dalla tesi secondo la quale nella maggior parte dei casi le spiegazioni delle scienze umane incorporano ineliminabilmente i concetti agenziali. Se questa tesi si dimostrasse corretta, essa potrebbe venire richiamata (in congiunzione con la tesi di von Wright) per provare che molto spesso le spiegazioni delle scienze umane – dato che non possono non assumere la prospettiva agenziale – postulano intrinsecamente la libertà degli agenti10. Davidson (1973c). Va ricordato che, oltre a sostenere la tesi eponima (secondo la quale le scienze umane incorporano ineliminabilmente i concetti agenziali), Davidson concreta la sua teoria della libertà con tesi di carattere compatibilistico che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, non risultano soddisfacenti: io qui mi impegno soltanto sulla tesi eponima, non sulla concezione compatibilistica di Davidson. Occorre poi dire che questo autore viene talora interpretato come se sostenesse che la psicologia non potrà mai essere una scienza o che le leggi psicologiche sono impossibili. Anche se Davidson ha forse legittimato tali interpretazioni, ciò che in verità egli vuole sottolineare è soltanto la profonda differenza tra le rigorose leggi fisiche e le generalizzazioni psicologiche, le quali anche (pur essendo intrise di agenzialità) possono, volendo, essere chiamate ‘leggi’, in quanto esprimono regolarità. Analo9
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Davidson ha argomentato con forza che la psicologia ricorre costitutivamente al vocabolario normativo, intenzionale e olistico della prospettiva agenziale; ma lo stesso discorso si può fare per la maggior parte delle scienze umane11. Tali scienze si prefiggono costitutivamente l’obiettivo di connettere le azioni umane alle ragioni, alle prospettive, alle determinazioni, alle scelte in virtù delle quali gli agenti compiono le proprie azioni. Le spiegazioni naturalistiche non possono, secondo Davidson, surrogare questo compito: I fenomeni psicologici [...] non sono riconducibili, nemmeno in teoria, a previsioni precise o alla sussunzione entro leggi deterministiche. Il limite così posto alle scienze sociali non è prescritto dalla natura, ma da noi, allorché decidiamo di considerare gli uomini come agenti razionali che hanno scopi e intenti e come esseri soggetti alla valutazione morale12.
La prospettiva agenziale, in sostanza, permette di descrivere un aspetto peculiare del mondo (le azioni e la vita mentale degli agenti) con modalità che sono per noi illuminanti – perché ci danno modo di comprendere i nostri simili – ma che sono precluse alle spiegazioni delle scienze hard come la fisica. Secondo Davidson la separazione tra scienze umane e scienze naturali non è contingente. A suo giudizio, il sistema concettuale a cui ricorriamo per interpretare il comportamento degli agenti quando ci poniamo dalla prospettiva agenziale è anomalo, ossia è in linea di principio irriducibile al sistema concettuale delle scienze fisiche: [Le] spiegazioni del comportamento intenzionale operano entro una cornice concettuale lontana dalla presa delle leggi fisiche, descrivendo sia gamente, Davidson non obietta all’idea di considerare la psicologia una scienza: vuole però sottolinearne le differenze dalle scienze hard come, appunto, la fisica (su questi temi, cfr. Davidson 1987 e 1995). 11 Naturalmente la tesi di Davidson non si applica a scienze come l’antropologia fisica, che pur essendo considerata parte delle scienze umane, in realtà si occupa prevalentemente di proprietà (come le caratteristiche somatiche degli esseri umani) che statutariamente vanno studiate mediante categorie non agenziali. Un discorso analogo si può fare per l’etologia cognitiva, per la psicopatologia e per la psicologia dell’età evolutiva: queste scienze si occupano di soggetti che non presentano una vita mentale tale che noi li considereremmo agenti pleno jure (né attribuiremmo certo loro libertà o responsabilità). Dunque, anche a queste scienze ovviamente la tesi di Davidson non si applica. 12 Davidson (1973b, p. 323).
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la causa, sia l’effetto, sia la ragione, sia l’azione, come momenti del ritratto di un agente13.
D’altra parte, le spiegazioni delle scienze umane incorporano necessariamente i concetti agenziali; dunque tali spiegazioni sono irriducibili a quelle delle scienze fisiche. A sostegno di questa tesi, Davidson ha offerto un famoso argomento, già discusso nel secondo capitolo. Tale argomento si può sintetizzare, usando la terminologia strawsoniana, in questo modo: i concetti intenzionali che si usano quando si adotta la prospettiva agenziale hanno carattere olistico (sono necessariamente interrelati) e normativo (sono sottoposti a vincoli di correttezza). Ma nel sistema concettuale delle scienze fisiche non c’è nulla che possa restituire tali caratteristiche della prospettiva agenziale; dunque ogni possibilità di riduzione della prospettiva agenziale a quella oggettivistica delle scienze naturali è impossibile. Va riconosciuto, tuttavia, che questo argomento è controverso. Ci sono però anche altre ragioni per accettare la tesi dell’ineliminabilità delle nozioni agenziali dalle scienze umane. Prima di discuterne, però, è utile notare che la tesi di Davidson può suscitare due reazioni antitetiche. Alcuni – in particolare i sostenitori di visioni storicistiche ed ermeneutiche, memori della distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften e di quella, corrispondente, tra comprensione e spiegazione – possono considerarla ovviamente corretta e dunque non meritevole di essere argomentata; altri, muovendo da posizioni radicalmente naturalistiche, possono viceversa considerarla ovviamente scorretta. A mio giudizio, entrambe queste posizioni sono errate: la prima perché chiede di accettare senza argomenti una tesi che oggi molti contestano e perché la estende indebitamente, fino a sostenere che il metodo delle scienze umane è costitutivamente diverso da quello di tutte le scienze della natura; la seconda perché collide con un’analisi non pregiudizialmente ideologica delle concrete pratiche scientifiche. Consideriamo allora la questione più da vicino. Si sente spesso affermare (più da parte dei filosofi, peraltro, che degli scienziati) che questo o quel programma di ricerca sarebbe potenzialmente in grado 13 Davidson (1970, p. 307). Per una presentazione generale della prospettiva di Davidson, cfr. De Caro (1998a e 1999a).
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di ridurre le categorie agenziali a categorie non agenziali o, secondo gli auspici dei più audaci, di eliminarle del tutto. In una parola, secondo alcuni sostenitori del naturalismo scientifico vi sono oggi programmi di ricerca in grado di mostrare che le scienze umane possono essere completamente naturalizzate: che esse, cioè, possono essere sviluppate da una prospettiva naturalistica, invece che da una prospettiva agenziale. Come esempi di programmi di questo genere vengono menzionati i progetti della sociobiologia (che insiste sul ruolo dei fattori ereditari nella determinazione dei comportamenti)14, alcune forme di eliminazionismo in psicologia e nelle neuroscienze (secondo le quali le categorie intenzionali della psicologia del senso comune sono recalcitranti ad ogni serio trattamento scientifico e dunque vanno eliminate dal vocabolario della psicologia così come il flogisto fu eliminato da quello della chimica), i progetti espansionistici del riduzionismo genetico, alcune teorie riduzionistiche in economia o in sociologia ecc. Dobbiamo dunque valutare se questi programmi di ricerca siano effettivamente in grado di sostenere gli ambiziosi obiettivi riduzionistici ed eliminazionistici dei loro promotori. Consideriamo, innanzitutto, l’ambito della ricerca psicologica (che offre un humus molto ricco per le ambizioni colonizzatrici dei più radicali tra i filosofi naturalisti contemporanei). In primo luogo, va ricordato che in questo ambito alcuni dei programmi più esplicitamente eliminazionistici, come il ‘comportamentismo radicale’ o ‘eliminativo’ – difeso, in un certo periodo, da John B. Watson e Burrhus F. Skinner – sono ormai assolutamente minoritari, certamente anche a causa del loro radicalismo. In secondo luogo, va detto che, in realtà, molte delle cosiddette teorie ‘eliminazionistiche’ sopra citate sono, in realtà, assai più sottili e sofisticate di quanto spesso non si pensi. La nota teoria psicologica di Stephen Stich, ad esempio, sviluppa un argomento assai meno drastico di quanto si ritiene in genere, poiché si limita a sostenere che oggi disponiamo di indicazioni per ipotizzare ragionevolmente che la psicologia del futuro potrà fare a meno delle nozioni intenzionali15. E discorsi analoghi si poCfr. Wilson (2000). Stich (1983). Ad ogni modo, lo stesso Stich è ormai schierato nel fronte antieliminazionista (cfr. Paternoster 2002). Inoltre, perfino Paul e Patricia Churchland, comunemente considerati i campioni dell’eliminazionismo, credono in realtà che i modelli connessionistici riguardino rappresentazioni (ovvero nozioni intenzionali, e dunque agenziali, che restituiscono le categorie della psicologia ingenua): cfr. Marraffa (1998) e Nannini (2002, pp. 182-193). 14 15
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trebbero fare per altre teorie eliminazionistiche nell’ambito della scienza cognitiva16. Ad ogni modo, quali che siano le reali intenzioni dei promotori delle diverse teorie eliminazionistiche, è certo che tali teorie, oltre ad avere ottenuto risultati assai parziali, sono oggi molto minoritarie. Le scienze cognitive contemporanee sono infatti dominate da programmi di ricerca che si presentano come tentativi di formalizzare la psicologia del senso comune e che vengono esplicitamente presentati – si pensi ad un influente filosofo della mente come Jerry Fodor – quali esempi di ‘realismo intenzionale’17. Analogamente, anche per quanto riguarda le altre altre scienze umane, i tentativi riduzionistici ed eliminazionistici sono ben lungi dall’avere compiuto la missione ‘purificatrice’ nei confronti delle categorie agenziali che spesso viene loro attribuita18. In proposito, è bene notare che qui è rilevante solo la tesi circoscritta secondo la quale le scienze umane presuppongono il punto di vista agenziale. Per quel che qui interessa, dunque, è importante non confondere questo tema con altre questioni a cui è spesso collegato nel corso del dibattito filosofico, quali, ad esempio, la possibilità che le scienze umane forniscano spiegazioni e predizioni, se esse nei rispettivi ambiti possano formulare leggi, se siano formalizzabili ecc. Tutte queste – sebbene ovviamente importanti – sono questioni indipendenti e non incidono sul tema che qui interessa. Per fare un solo esempio, qualcuno può affermare – da una parte – che le teorie economiche, al pari di quelle delle scienze naturali, sono formalizzabili e possono offrire predizioni e spiegazioni corrette, ma ritenere anche – dall’altra parte – che tali teorie facciano necessariamente uso di concetti agenziali (quali quelli di preferenza, scelta, credenza, desiderio): una chiara espressione di ciò è offerta dai modelli di razionalità economica vincolata di orientamento cognitivo19. In generale, poi, quando si studiano le applicazioni concrete dei modelli economici, il dato di interesse per l’economista ha carattere statistico e si basa sulla rilevazione di preferenze e scelte individuali (che divengono, una volta aggregate, medie collettive). Ma il discorso sul ruoMarraffa (2003, cap. 4). Su Fodor, cfr. Ferretti (2001) e Paternoster (2002, passim). 18 Putnam (1992, 1999) offre ottime ragioni generali per dubitare della riducibilità delle nozioni agenziali a quelle non agenziali. 19 Rizzello (1997). 16 17
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lo essenziale dei concetti agenziali si può estendere a tutte le scienze sociali. Basti, in proposito, riportare quanto si legge in una recente summa filosofica delle scienze sociali a proposito del modo di procedere di queste scienze: «Gli scienziati sociali fanno inferenze in due direzioni: dalle credenze e dai desideri degli attori sociali alle loro azioni e dalle loro azioni alle loro credenze e ai loro desideri»20. Per quanto possiamo giudicare attualmente, dunque, le spiegazioni delle scienze umane fanno stabilmente riferimento alle categorie agenziali. In questo senso, allora, la tesi di Davidson può essere considerata corretta. 5. Inferenza alla miglior spiegazione Riassumiamo quanto detto fino a questo punto. Secondo la tesi di von Wright le nozioni agenziali usate per dare conto delle azioni rimandano essenzialmente all’idea di libertà. Inoltre, secondo la tesi di Davidson le teorie offerte dalle scienze umane e sociali costitutivamente spiegano il nostro agire per mezzo del vocabolario agenziale. Ne segue che il riferimento alla libertà è implicito nelle spiegazioni delle scienze umane, ma da esse ineliminabile. L’ultima premessa dell’argomento dell’abduzione asserisce che, su queste basi, è possibile operare un’inferenza alla miglior spiegazione che suffraghi la nostra credenza nella libertà. Ma prima di entrare nel merito di questa premessa, è forse bene dare alcune indicazioni generali sulla forma di ragionamento conosciuta come ‘inferenza alla miglior spiegazione’. L’inferenza alla miglior spiegazione – o ‘abduzione’, secondo la classica terminologia di Peirce21 – è una forma di ragionamento, non deduttivo né strettamente induttivo, grazie alla quale si accetta un’ipotesi (o una teoria) che spiega nel modo migliore un determinato fenomeno. Molti ragionamenti pratici sono inferenze alla miglior spiegazione. Ottimi esempi in questo senso sono le famose ‘deduzioni’ di Sherlock Holmes – che deduzioni non erano affatto, trattandosi, appunto, di inferenze alla miglior spiegazione. Immaginiamo che dalle impronte lasciate sulla neve dall’assassino, Sherlock inferisca che questi pesava oltre un quintale e che, per questo, incastri il più corpulento tra gli indagati. Questa inferenza alla miglior spie20 21
Martin, McIntyre (a cura di) (1994, p. 283). Peirce (1931-58, §§ 5.180-5.212).
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gazione è ingegnosa (non è ovvio che dalle impronte si possa risalire al peso della persona che le ha lasciate), ma non porta necessariamente alla conclusione giusta: il vero assassino potrebbe, ad esempio, essere magro, ma avere portato sulle spalle uno zaino molto pesante. Naturalmente queste cose non accadono mai a Sherlock Holmes (il quale, oltre che geniale, è pure fortunato), ma non sono affatto infrequenti nella vita reale22. Anche le ipotesi e le teorie scientifiche, in effetti, sono spesso formulate e accettate per mezzo di inferenze alla miglior spiegazione. In questo senso, Charles Darwin giunse alla sua teoria della selezione naturale con un’inferenza alla miglior spiegazione. Quella teoria, in effetti, non seguiva necessariamente dai dati disponibili (tant’è che i lamarckiani e i creazionisti non l’accolsero); ma Darwin e la vasta maggioranza degli scienziati ritennero che essa offrisse la spiegazione migliore di tali dati e, dunque, l’accettarono – e naturalmente continuano a farlo (anche se non si può escludere, in linea di principio, che in futuro emerga una spiegazione migliore)23. Analogamente, John Dalton inferì l’esistenza degli atomi, pur in mancanza di osservazioni dirette, in quanto la teoria atomica permetteva di spiegare molto meglio delle teorie tradizionali i rapporti ponderali tra i costituenti dei miscugli gassosi. Negli ultimi decenni i filosofi hanno spesso fatto uso di inferenze alla miglior spiegazione. Così, Davidson ne ha fatto uso per difendere la tesi che gli eventi sono ontologicamente primitivi24, mentre altri vi si sono appellati per giustificare le credenze nell’esistenza del mondo esterno, quelle nel passato e quelle nel futuro o per confutare lo scetticismo25. A mia conoscenza, però, nessuno ha ancora applicato l’inferenza della miglior spiegazione alla questione della libertà. Cfr. Lipton (2000). Darwin stesso era consapevole di aver formulato un tipo di ragionamento che oggi noi definiamo ‘inferenza alla miglior spiegazione’. Riferendosi alla sua teoria della selezione naturale, infatti, scriveva: «Sarebbe ben difficile [ma non impossibile!, N.d.A.] supporre che una teoria falsa possa spiegare, in modo tanto soddisfacente quanto la teoria della selezione naturale, i molti tipi di fatti sopra specificati» (Darwin 1859, p. 476; trad. mia). 24 Cfr. De Caro (1998a, cap. 2, in particolare pp. 55-58). 25 Fumerton (1993). È interessante notare che nella prima fase del suo sviluppo filosofico, Hilary Putnam si appellò all’inferenza alla miglior spiegazione per giustificare il realismo scientifico nel suo complesso (1978, pp. 18-22). 22 23
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Normalmente le inferenze alla miglior spiegazione richiedono un certo grado di immaginazione, se non di vera e propria creatività: per questo sono spesso molto feconde. Tale fecondità ha però un prezzo: le conclusioni tratte sulla base di un’inferenza alla miglior spiegazione rimangono sempre revocabili. Nulla può escludere, infatti, che in seguito la teoria su cui esse si basano venga screditata o falsificata – che essa cessi, cioè, di fornire le migliori spiegazioni nel proprio ambito. Naturalmente, i filosofi non sono concordi rispetto alla natura, alle modalità, alle potenzialità e ai limiti delle inferenze alla miglior spiegazione. In particolare non è ovvio quali siano i criteri adatti per individuare l’ipotesi o la teoria che spiega nel modo migliore un determinato fenomeno o processo. Esistono infatti diversi criteri a cui ci si potrebbe appellare: dalla semplicità alla fecondità epistemica, dal potere esplicativo all’eleganza. A seconda dei criteri che si privilegeranno, si otterranno risposte diverse alla domanda: ‘Qual è la migliore teoria per spiegare il fenomeno x?’. Tuttavia, anche se i criteri con cui gli scienziati scelgono tra le diverse teorie possiedono elementi di arbitrarietà, la storia della scienza mostra che generalmente le loro scelte sono estremamente fruttuose. Questo problema relativo all’inferenza alla miglior spiegazione e altri cui non posso qui accennare26 sono intellettualmente rilevanti; sarebbe però errato supporre che, in ragione di ciò, non sia lecito od opportuno ricorrere a questa forma di ragionamento. Tali problemi riguardano infatti la giustificazione delle inferenze alla miglior spiegazione, ma certo non mettono in discussione il fatto che di tali inferenze si faccia, come detto, largo e legittimo uso nelle scienze della natura. A mio giudizio allora – a meno che non si voglia sostenere che anche nella scienza si dovrebbe rinunciare ad usare le inferenze alla miglior spiegazione – dobbiamo concludere che, in linea di principio, nulla osta al loro uso in filosofia. D’altra parte, anche la giustificazione dell’induzione è molto controversa e, secondo alcuni, perfino la deduzione ha bisogno di essere giustificata27. Ma ciò non implica certo che i filosofi non debbano ricorrere a induzioni e deduzioni! Secondo molti autori, ogni specifica inferenza alla miglior spiegazione ci dà ragione di presumere che quella determinata spiega26 Per altre questioni aperte rispetto all’analisi dell’inferenza alla miglior spiegazione, cfr. Lipton (1991). 27 Sui problemi dell’induzione, cfr. Dancy (1985, cap. 13); su quelli della deduzione, Dummett (1975).
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zione sia vera e che da essa si possano legittimamente trarre conclusioni ontologiche (come abbiamo visto nel caso dell’atomismo di Dalton)28. Così ad esempio si esprimeva Wilfrid Sellars: Avere una buona ragione per accettare una teoria significa ipso facto avere una buona ragione per accettare che le entità postulate da quella teoria esistono29.
Interpretata in questo senso, l’inferenza alla miglior spiegazione è stata spesso usata dai filosofi a sostegno di posizioni realistiche. Un chiaro esempio in questo senso è offerto da Quine, che in forza di un’inferenza alla miglior spiegazione derogò al suo giovanile nominalismo, arrivando ad accettare l’esistenza delle entità astratte. Secondo Quine non c’è dubbio infatti che le migliori spiegazioni del mondo naturale siano offerte da teorie che presuppongono indispensabilmente la matematica. Accettando quelle teorie, allora, si contrae un impegno verso l’ontologia matematica: «Noi tolleriamo [le classi], seppure con riluttanza, dato il ruolo indispensabile che i numeri, le funzioni e le altre classi svolgono nella scienza naturale»30. Perfino un filosofo ontologicamente parsimonioso come Quine accettò, dunque, di trarre conclusioni ontologiche (peraltro sgradite) sulla base di un’inferenza alla miglior spiegazione. Pare dunque molto ragionevole concludere che questa sia una forma legittima di ragionamento e che sulla sua base sia lecito trarre conclusioni ontologiche. 6. Un nuovo libertarismo A questo punto possiamo ritornare all’argomento dell’abduzione. Come abbiamo visto, le spiegazioni delle scienze umane incorporano necessariamente i concetti agenziali, che a loro volta rimandano 28 Harman (1965). A partire da una forma molto recisa di strumentalismo, Bas van Frassen (1980, pp. 19-22 e 1989, cap. 6) ha contestato l’idea che, in generale, le inferenze alla miglior spiegazione permettano di trarre conclusioni ontologiche legittime. Cfr. Lipton (1991, passim) per alcune convincenti critiche a van Frassen. 29 Sellars (1962, p. 97). 30 Quine 1985 (p. 167). Cfr. anche Quine (1960, cap. VII) e Putnam (1971, capp. V-VIII). Quine (1969, p. 94) sintetizzò in uno slogan famoso («Essere è essere il valore di una variabile vincolata») la tesi secondo la quale, nell’accettare una teoria scientifica, noi contraiamo un impegno ontologico verso le entità necessarie per interpretare gli enunciati quantificati di quella teoria in modo che essa risulti vera.
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intrinsecamente all’idea di libertà. Poiché le spiegazioni delle scienze umane sono le uniche in grado di dare conto di una parte di realtà per noi essenziale – quella abitata dagli agenti – non possiamo non accettarle. Ma così facendo ne dobbiamo accettare anche le implicazioni ontologiche: in particolare, l’intrinseco e ineliminabile richiamo alla libertà. E ciò prova che, di contro a quanto sostenuto dal dottor Johnson e dagli scettici contemporanei, un argomento – e non solo l’intuizione – suffraga la nostra credenza nella libertà. Naturalmente, tale conclusione è – come tutte quelle raggiunte sulla base di inferenze alla miglior spiegazione – revocabile. Ma questo è perfettamente in linea con quanto detto nel precedente capitolo, ovvero che si possono immaginare situazioni in cui sarebbe razionale cessare di guardare a noi stessi nella prospettiva agenziale. Se avessimo ragione di pensare che noi viviamo effettivamente in una situazione di quel tipo, non potremmo richiamarci all’argomento qui sviluppato per suffragare l’idea della libertà; tuttavia, a mio parere, siamo attualmente ben lungi dal dover trarre una tale conclusione. Esiste dunque un argomento che ci dà ragione di credere nella nostra libertà ovvero nel nostro essere agenti che causano le proprie azioni, autodeterminandosi e potendo fare altrimenti. A questo punto, però, dobbiamo chiederci quale concezione della libertà sia compatibile con un tale argomento. In primo luogo, va notato che da quanto precede si va delineando una nuova versione di libertarismo: più specificamente, di agent causation. Come abbiamo visto, infatti, secondo la prospettiva agenziale incorporata nelle scienze umane, gli agenti si autodeterminano. D’altra parte, che questa concezione abbia carattere libertario è evidente anche dal fatto che essa richiede che gli agenti possano fare altrimenti – una condizione che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, l’altra famiglia di concezioni della libertà (il compatibilismo) non pare in grado di accogliere. Dobbiamo, allora, chiederci come questa concezione risponda alle classiche obiezioni antilibertarie ricordate nel primo capitolo. La prima di queste obiezioni è quella di oscurità metafisica. In prima battuta, tale accusa è facilmente eludibile, perché la concezione qui difesa non ha fondamenti esclusivamente metafisici, ma si radica saldamente nel piano delle scienze umane – che certamente non si possono accusare di essere metafisicamente oscure. Va però detto che, come si vedrà tra poco, l’obiezione di oscurità metafisica contro questa concezione può essere riformulata; dunque su di essa si dovrà tornare. 144
Secondo le altre obiezioni viste nel primo capitolo, le teorie libertarie non riescono a spiegare come gli agenti controllino le proprie azioni, incorrono facilmente in un regresso all’infinito e non sono in grado di localizzare il presunto momento indeterministico nel corso del processo che conduce all’azione. A queste obiezioni, la concezione qui difesa risponde in modo drastico, mettendo in questione il monismo ontologico e causale tacitamente assunto dalla gran parte del dibattito contemporaneo sulla libertà – e dal quale, a mio giudizio, lo scetticismo rispetto alla libertà trae le sue armi. Secondo il punto di vista qui difeso, invece di modellare la concezione della libertà sulle teorie naturalistiche della causalità e dell’ontologia (che in realtà con la libertà si dimostrano incompatibili), occorre operare nella direzione opposta. Occorre cioè concepire la causalità e l’ontologia in modo che esse incorporino ciò che le spiegazioni agenziali ci mostrano con chiarezza: ovvero che gli agenti operano per mezzo di una forma peculiare di causalità – non riducibile alla causalità fisica – che garantisce ad un tempo l’autodeterminazione e la possibilità di fare altrimenti. La sfida diviene, allora, quella di mostrare che una tale concezione ontologica e causale pluralistica non rimanda necessariamente a obsolete forme metafisiche, incompatibili con la visione scientifica del mondo. Negli ultimi anni, alcune voci hanno iniziato a levarsi a difesa di concezioni pluralistiche non antiscientifiche. Hilary Putnam, ad esempio, ha recentemente argomentato – in modo a mio giudizio molto convincente – che la nozione di causazione si trova in un rapporto di interdipendenza con quella di spiegazione e che differenti spiegazioni comportano diversi tipi di causalità, tutti ugualmente legittimi («ci sono tanti tipi di cause quanti sono i ‘perché’»)31. In questa luce, Putnam ha insistito sulla tesi ontologica secondo la quale il significato di ‘esistenza’ non è univoco: atomi, ambasciatori, numeri, proprietà come la solubilità o la libertà, eventi come il mio leggere il giornale di oggi o l’accadere della Rivoluzione francese esistono, o sono esistiti, in sensi molto diversi, ma tutti legittimi, del verbo ‘esistere’32. Putnam (1999, p. 137; la citazione è ripresa da John Haldane). Ivi, p. 179, n. 12. Putnam (2004), nel difendere una concezione che chiama «pluralismo concettuale», afferma esplicitamente che, rispetto alla questione dell’impegno ontologico, è tempo di andare oltre la classica impostazione quineana. In proposito Putnam scrive che le asserzioni sulla matematica, sull’etica, sul significato, sulla causalità e così via non hanno valore meramente euristico, come pensano i naturalisti scientifici, ma sono asserzioni perfettamente legittime governate 31 32
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Ma l’autore che negli ultimi anni più si è impegnato a sviluppare un pluralismo ontologico e causale non antiscientifico è, a mio giudizio, John Dupré. Secondo Dupré non c’è nulla di oscuro in tale concezione: Quando gli oggetti sono uniti in complessi integrati, essi acquisiscono nuove proprietà causali [...]. Non vedo alcuna ragione per cui questi complessi di alto livello non dovrebbero avere proprietà causali tanto reali quanto quelle dei complessi di livello inferiore da cui essi sono costituiti33.
Più in particolare, Dupré ha sviluppato un’interessante difesa di una concezione ontologica pluralistica, antiriduzionistica ed antiessenzialistica, la quale non può affatto essere tacciata di nostalgie cartesiane in quanto nega esplicitamente l’esistenza di entità puramente mentali. In tale prospettiva, diviene legittimo ritenere che le scienze umane e sociali possono contribuire alla definizione degli enti e delle proprietà che accettiamo nella nostra ontologia, nonostante ciò che possano pensarne i naturalisti scientifici più massimalisti34. Non che, naturalmente, in questo modo si risolvano tutti i problemi filosofici. Così, per fare un esempio, occorre lavorare per chiarire come i livelli causali superiori possano interagire causalmente con i livelli ontologici inferiori (occorre chiarire, cioè, se e come sia possibile la cosiddetta ‘downward causation’). D’altra parte, come si vedrà, non mancano ragioni per pensare che anche questo problema risulterà molto meno intrattabile una volta che si rinunci alle premesse ontologiche fisicalistiche che informano gran parte della discussione nella filosofia della mente contemporanea35.
(come, sotto l’influenza di Putnam, ha scritto James Conant) da norme di verità e validità come tutte le altre asserzioni. 33 Dupré (2001, pp, 162-163). 34 Costoro, in verità, spesso non si accontentano di negare peso ontologico alle nostre intuizioni sul mondo umano, ma arrivano a negare realtà perfino agli oggetti macroscopici del mondo naturale, in linea con il famoso giudizio di Arthur Eddington: «Il mio tavolo scientifico è per la maggior parte vuotezza. Sparpagliate qua e là in siffatta vuotezza, numerose cariche elettriche sfrecciano a gran velocità, ma la loro massa combinata equivale a meno di un miliardesimo della massa del tavolo stesso» (cit. in Flanagan 2002, p. 45). Si noti: il tavolo è vuotezza, perché in sé esso non esiste; esistono solo gli atomi che lo compongono! 35 Crane (2001, pp. 62-69) offre interessanti indicazioni in questo senso: egli, ad esempio, sottolinea che la ‘downward causation’ è un problema anche per le for-
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Non è questa la sede, naturalmente, per addentrarci in questi enormi problemi. Ciò che tuttavia si può, sinteticamente, tentare di fare è rispondere ad alcune obiezioni che potrebbero essere facilmente mosse contro la concezione della libertà qui difesa. 7. Un intollerabile divario ontologico? Secondo una prima obiezione, l’argomento dell’abduzione qui sviluppato in favore della libertà è inaccettabile perché assume illecitamente che si possano trarre inferenze ontologiche dalle scienze umane. Molti filosofi naturalisti contemporanei – ispirati da Quine – in effetti distinguono nettamente fra due tipi di teorie scientifiche: da una parte vengono collocate le teorie ‘di prima classe’ (che appartengono alle scienze naturali, in particolare alla fisica); dall’altra, quelle ‘di seconda classe’ (proprie delle scienze umane e sociali), le quali fanno essenzialmente riferimento a nozioni normative ed intenzionali – ovvero quelle che adottano la prospettiva agenziale36. Secondo questo punto di vista, soltanto le teorie ‘di prima classe’ possono dare indicazioni ontologiche legittime, possono cioè dare veramente conto di com’è fatto il mondo, mentre ciò non sarebbe lecito per quanto riguarda le teorie ‘di seconda classe’. Se così non fosse – continuano i sostenitori di questo punto di vista – l’ambito umano costituirebbe una misteriosa eccezione rispetto all’ordine della natura. Diego Marconi ha recentemente sviluppato un’obiezione di questo genere contro le tesi presentate da John McDowell nel suo celebre Mente e mondo37. Secondo McDowell, gli esseri umani hanno natura duplice: da una parte, essi sono perfettamente integrati della struttura causale del mondo fisico; dall’altra, in quanto agenti, partecipano di una ‘seconda natura’, quella della vita razionale e della normatività (lo ‘spazio delle ragioni’). A parere di Marconi, però, questa concezione crea un confine invalicabile, una troppo netta cesura tra il mondo delle ragioni e quello delle cause: me ontologiche più plausibili di fisicalismo, ovvero quelle non riduzionistiche. Utile anche quanto notato in Bishop (2002, p. 122, n. 4) e, soprattutto, in Dupré (2001, cap. 7). 36 Quine (1960, capp. 5 e 6). Per alcune utili osservazioni critiche, cfr. Wagner (1993). 37 McDowell (1994) su cui cfr. Marconi (2001, cap. 4).
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[In questo modo] il divario tra la specie umana e le altre specie animali risulta profondo oltre ogni plausibilità, e, ciò che più conta, incomprensibile: diventa difficile comprendere come la specie umana si sia potuta evolvere e, più in generale, come si possa sostenere che la vita mentale appartiene, oltre che allo spazio delle ragioni, anche allo spazio delle cause38.
Contro la concezione di McDowell, in effetti, l’obiezione di Marconi è, a mio giudizio, convincente. McDowell sembra in effetti giustapporre due mondi, quello causale e quello razionale, postulando così un dualismo intellettualmente poco soddisfacente. D’altra parte, la concezione della libertà che ho presentato qui non esclude affatto la causalità (sia pure una peculiare forma di causalità) dal mondo agenziale: gli agenti sono liberi, secondo tale concezione, in quanto causano le loro azioni autodeterminandosi e potendo fare altrimenti. In questo senso, tale concezione è immune dall’obiezione di Marconi. Nondimeno, questa obiezione si può riformulare in modo che concerna anche la concezione qui difesa. Quest’ultima postula infatti che gli esseri umani, in quanto agenti, non possano essere studiati dalle scienze della natura, ma soltanto dalle scienze umane, con il loro bagaglio di concetti normativi, olistici e intenzionali. Ma in questo modo non si ripropone forse, in termini diversi, il «profondo» e «incomprensibile divario tra la specie umana e le altre specie animali»? Questa obiezione, anche se apparentemente plausibile, è a mio giudizio poco fondata. Il presunto divario tra mondo umano e mondo della natura non è che una tra le molte discontinuità di cui il nostro sistema scientifico ci dà testimonianza. Già la fisica mostra al proprio interno, in effetti, una netta frattura – non meno profonda e incomprensibile di quella che sembra separare gli esseri umani dagli altri animali – tra il mondo microfisico e quello macrofisico; analogamente le spiegazioni dei fenomeni biologici appaiono irriducibili a quelle delle loro basi chimiche39 e ‘scienze speciali’ come la geologia o la meteorologia danno conto dei rispettivi fenomeni in modo profondamente diverso da come fanno le teorie della fisica40. In questa luce, la presunta eccezionalità delle scienze umane si ridimensiona molto. A questo punto, però, il sostenitore del naturalismo scientifico potrebbe riformulare la sua obiezione. Potrebbe cioè sostenere che la Marconi (2001, pp. 136-137). Dupré (1993, capp. 5 e 6). 40 Fodor (1974) e Putnam (1992, cap. 3). 38 39
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frattura tra il mondo umano e il mondo naturale è assai più profonda che negli altri casi citati, perché essa minaccia direttamente il monismo ontologico naturalistico. Detto diversamente: gli altri ambiti scientifici, per quanto variegati, rimandano tutti alla visione naturalistica del mondo, mentre la prospettiva agenziale incorporata nelle scienze umane rifiuta quella visione in nome di un obsoleto dualismo. Nemmeno questa obiezione, però, è convincente. In proposito è utile richiamarsi a un altro recente saggio di John Dupré, The Miracle of Monism41. Dupré argomenta, in modo a mio giudizio convincente, che l’idea del monismo ontologico è sostanzialmente un mito la cui presunta plausibilità è basata su quella di un altro mito: quello dell’unità della scienza (metodologica e/o di contenuto). Né dal punto di vista del metodo né da quello del contenuto, secondo Dupré, abbiamo in realtà ragione di credere che la scienza manifesti alcuna sostanziale unità42. È ben noto, in effetti, che i tentativi di individuare il metodo della scienza (da Bacone fino a Popper) si sono sempre dimostrati unilaterali, arbitrari e implausibili. L’idea che l’unità della scienza dipenda invece dall’unità del contenuto trova oggi maggior credito, ma – come mostra Dupré – è altrettanto ingiustificata e sostanzialmente priva di sostegno empirico. Di solito la tesi che l’unità della scienza dipenda dall’unità del suo contenuto viene sostanziata facendo riferimento al riduzionismo oppure al fisicalismo. Del riduzionismo ho già detto qualcosa in precedenza, con riferimento proprio agli insoddisfacenti tentativi di eliminare i concetti agenziali dalle scienze umane. Ora basterà ricordare che anche all’interno delle scienze naturali, i tentativi riusciti di riduzione interteorica sono estremamente limitati43. Per quanto riguarda i tentativi di sostanziare la tesi dell’unità contenutistica della scienza facendo appello al fisicalismo la situazione è più complessa. Secondo questa concezione, la fisica è la scienza che per definizione studia le entità e le proprietà fondamentali del mondo naturale (il quale, a sua volta, per definizione esaurisce l’intero spazio dell’ontologia)44. Ne segue che tutto ciò che esiste è in linea di principio studiabile dalla fisica; e così si può dire, per metonimia, che tutto ciò che esiste ‘è fisico’ (nel senso che tutto ciò che esiste è il prodotto Dupré (2004). Un’utile raccolta di saggi su questo tema è Galison, Stump (a cura di) (1996). 43 Dupré (1993). 44 Davidson (1994, p. 231), Kim (1996, p. 12). 41 42
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di eventi ed enti studiati dalla fisica, che agiscono in ottemperanza a leggi fisiche). Si noti che in questa lettura la scienza fisica funge da definiens, mentre il mondo fisico è il definiendum: se qualcosa esiste, allora è fisico perché in linea di principio è spiegabile dalla fisica. Il principale argomento in favore del fisicalismo è rappresentato, naturalmente, dai grandi successi della fisica moderna. Ma certo la fisica attuale non è in grado di dare conto di tutti i fenomeni, e di ricondurre a sé tutte le altre forme di spiegazione. Il fisicalismo, dunque, non può che postulare una fisica ideale, ovvero – secondo un’autorevole definizione – una fisica in grado di dare la «conoscenza assoluta della realtà»45. Tale fisica ideale dovrebbe fornire una visione unitaria, coerente, onnicomprensiva e completa dell’intera realtà. Di fatto, non è chiaro se una tale teoria sia possibile46; ma se anche fosse possibile, il fisicalismo non apparirebbe convincente: resterebbe per noi sempre oscuro come la fisica ideale possa dare conto degli ambiti della realtà rispetto ai quali la fisica attuale risulta invece inefficace. Come si potrebbe stabilire oggi, ad esempio, in che modo la teoria ultima darebbe conto dei fenomeni geologici o di quelli biologici o di quelli agenziali? E non sarebbe dogmatico assumere che la fisica ideale spieghi questi fenomeni in modo simile a come la fisica attuale spiega i fenomeni di sua competenza e che, per questo, già oggi sia lecito assumere che le scienze umane siano subalterne a quelle naturali, se non del tutto false?47 In realtà, l’adesione di molti filosofi naturalisti contemporanei al fisicalismo ha carattere ideologico, non empirico (quanto tale atteggiamento sia coerente con lo spirito del naturalismo giudicherà il lettore). Un autorevole promotore del fisicalismo, ad esempio, ha recentemente scritto: Quando ci troviamo di fronte a un complesso teorico (o ad un complesso di presunte spiegazioni causali) che riteniamo non possa avere una Williams (1985a), p. 138-139. Nancy Cartwright argomenta convincentemente che «per quanto ne sappiamo, la maggior parte di ciò che accade in natura, accade per caso, senza essere soggetto ad alcuna legge» (1999, p. 1; cfr. anche 1983). Secondo Cartwright, le leggi di natura valgono – quando valgono – soltanto in ambiti specifici, spesso creati ad hoc dagli sperimentatori; e l’evidenza empirica di cui disponiamo non lascia certo presagire la possibilità di un’unica teoria che dia conto dell’intera realtà. 47 Su questi temi, cfr. anche Crane, Mellor (1990), De Caro (2002b). 45 46
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fondazione fisica, noi tendiamo a rifiutare quel complesso teorico (o quelle presunte spiegazioni causali)48.
Il fisicalismo insomma – sebbene non sia giustificato empiricamente – diviene parametro dei giudizi empirici! Esistono, va detto, anche forme di fisicalismo più moderato di quella di Field, che cercano di coniugare il monismo ontologico con il pluralismo epistemologico. Fodor e Davidson, per fare due nomi autorevoli, sono campioni di questo schieramento. Il problema fondamentale del fisicalismo moderato è tuttavia che esso è esposto a una critica ferale, che abbiamo già considerato nel secondo capitolo. Come è stato convincentemente mostrato da Jaegwon Kim in un classico articolo dal significativo titolo The Myth of Nonreductive Materialism49, infatti, il fisicalismo moderato non riesce a riconoscere alcun potere causale alla mente. In tal modo, questa concezione può essere considerata una sorta di versione en travesti della vituperata concezione conosciuta con il nome di epifenomenismo50. Se Kim ha ragione (come io credo), allora il fisicalismo non può che essere riduzionista, sia dal punto di vista ontologico sia da quello epistemologico: vale a dire che esso deve fare necessariamente riferimento a un modo privilegiato di conoscere il mondo, ovvero all’idea dell’unità (in linea di principio) della scienza51. Tuttavia, come già detto, la tesi dell’unità della scienza non è, attualmente almeno, molto credibile52. Perde dunque vigore l’obiezione secondo la quale, considerando la prospettiva agenziale come un punto di vista legittimo sulla realtà del mondo, creiamo un’insostenibile frattura tra il mondo umano, da una parte, e il mondo naturale, dall’altra. In realtà, per quanto ne sappiamo, il mondo naturale appare tanto variegato al suo interno – così poco unitario, così poco monistico – che tale «divario» non dovrebbe dare scandalo53. 48 Field (1992, p. 271). Per un approfondimento di questa discussione, cfr. Crane, Mellor (1990). 49 Kim (1989). Non posso qui diffondermi sui dettagli della dimostrazione di Kim, che ha diverse varianti. Nel secondo capitolo, comunque, ho accennato alla variante dell’argomento utilizzata da Kim contro il monismo anomalo di Davidson. 50 Sull’epifenomenismo, cfr. McLaughlin (1994). 51 Per una discussione più approfondita di questi punti, cfr. De Caro (2002a). 52 Su ciò, cfr. anche Hacking (1996). 53 Molto ragionevolmente, Hooker (2000) nota che le tante fratture del mondo naturale potrebbero dipendere da diversi fattori: a) dalle deficienze della scienza
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8. Altre due obiezioni Ciò, tuttavia, potrebbe non soddisfare ancora i filosofi fautori del naturalismo scientifico. Essi potrebbero insistere che la concezione della libertà qui difesa, facendo riferimento ai peculiari poteri causali degli agenti viola un principio fondamentale della metafisica naturalistica: la ‘chiusura causale del mondo fisico’. Secondo questo principio, tutte le relazioni causali devono, in linea di principio, esemplificare una legge fisica. D’altra parte, se si dà credito ontologico alle scienze umane, allora si deve ammettere che gli agenti possono causare cambiamenti nel mondo fisico senza che questo tipo di relazione causale sia necessariamente riducibile alla causalità fisica54. Tale concezione parrebbe dunque prestarsi all’obiezione che Jaegwon Kim rivolge contro tutte le teorie che negano il principio della chiusura causale del mondo fisico: ovvero quella di operare «un’anacronistica regressione verso il dualismo interazionistico cartesiano»55. Anche in questo caso, però, l’obiezione non pare convincente. In primo luogo, alcuni autori hanno addotto buone ragioni per pensare che la nozione di causalità non ha affatto carattere prioritariamente fisico: anzi, più una scienza è avanzata, meno essa fa appello a nozioni causali – al punto che la fisica contemporanea tende ad eliminare queste nozioni dal proprio strumentario56. Contro Kim, tuttavia, si può muovere un’obiezione ancora più convincente. Non c’è dubbio, in effetti, che l’idea della chiusura causale del mondo fisico funziona egregiamente come assunzione mecontemporanea; b) dalla reale disunità del mondo; c) dall’impossibilità in linea di principio, da parte di esseri finiti, di dare una descrizione adeguata della troppo complessa unitarietà del mondo. Mi pare dunque prudente sospendere il giudizio a questo proposito; ma resta il fatto che, al momento, non abbiamo ragione di accettare una tesi tanto impegnativa quanto quella del monismo ontologico (mentre, naturalmente, è del tutto legittimo assumere il monismo a fini metodologici). 54 È questa la già citata ‘downward causation’. 55 Kim (1991, p. 290). 56 Cfr. Davidson (1987). Per spiegare determinati fenomeni macroscopici, i fisici ricorrono talora a nozioni di carattere causale come la malleabilità o la solubilità (che si possono considerare come ‘cause in potenza’, in quanto producono i loro effetti solo in determinate circostanze). A livello microfisico, però, quei fenomeni si possono spiegare mediante leggi non causali concernenti la struttura molecolare dei materiali. Invece nel caso delle ‘scienze speciali’, come la geologia, il riferimento alle nozioni causali appare ineliminabile (una roccia ignea, ad esempio, viene necessariamente definita riferendosi al processo causale che l’ha generata).
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todologica per i fisici57. Ma perché i filosofi dovrebbero interpretarla come fosse un postulato ontologico? Di quali ragioni disponiamo per essere certi che ogni evento abbia una causa fisica sufficiente?58 Anche se in parecchi casi noi riteniamo di aver trovato tale causa, è ovvio che l’induzione non può giustificare il quantificatore universale implicato dalla tesi della ‘chiusura causale del mondo fisico’. Inoltre, come abbiamo visto, i tentativi di sostenere tale tesi riferendosi alla nozione di una ‘fisica ideale’ (in grado di offrire una descrizione monoliticamente vera del mondo, in tutti i suoi aspetti) sono espressione di un realismo metafisico di stampo naturalistico, tanto estremo quanto difficilmente giustificabile. Infine non si vede perché dal rifiuto dell’unità ontologico-causale (in senso fisicalistico) del mondo dovrebbe seguire necessariamente una ‘regressione’ al cartesianismo, come sostiene Kim. In verità, infatti, questa conclusione si può trarre solo se si assume che il cartesianismo e il fisicalismo siano esaustivi: ma perché mai si dovrebbe concedere che il fisicalismo sia l’unica alternativa ontologica alle intollerabilmente obsolete tesi del cartesianismo?59 Perché, ad esempio, dovremmo pensare che l’emergentismo o il pluralismo ontologico non spiritualistico – che si propongono come soluzioni intermedie tra il fisicalismo e il cartesianismo – siano impossibili?60 A questo punto, il fautore del naturalismo scientifico può giocare un’ultima carta, sostenendo che un pluralismo ontologico e causale (come quello qui difeso) è insostenibile perché comporta la violazione di leggi fisiche fondamentali61. Jerry Fodor si è fatto porta57 Max Planck, ad esempio, scriveva che il principio di causalità è «un principio euristico, un indicatore e, a mio giudizio, l’indicatore più prezioso che abbiamo per farci guidare attraverso l’eterogeneo disordine degli eventi e per trovare la direzione in cui la ricerca scientifica deve procedere per ottenere risultati fecondi» (cit. in Earman 1992, p. 234). 58 Posso solo accennare, ora, ad un ulteriore argomento contro la tesi della chiusura causale del mondo fisico: se tutte le relazioni causali dovessero veramente esemplificare leggi fisiche, come postula questo principio, esso non potrebbe che fare riferimento (di nuovo!) a una fisica ideale. Ma, come abbiamo testé visto, l’idea di una ‘fisica ideale’ è estremamente controversa. 59 Cfr. De Caro (2002b), Dupré (2004). 60 Per l’emergentismo, cfr. Crane (2001); per il pluralismo ontologico non spiritualista, si veda la già citata concezione di Dupré (2001). Dupré sviluppa una concezione che implica la messa in mora della nozione di sopravvenienza sul fisico, ma non quella di dipendenza costitutiva dei livelli ontologici superiori dal livello fisico. 61 Cfr. l’Introduzione di questo volume per una difesa della tesi secondo la qua-
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voce di questa obiezione, quando ha scritto che la tesi dell’indipendenza del mentale (o, per usare la terminologia di questo capitolo, dell’agenziale) dal fisico provocherebbe un’inspiegabile cesura nell’ordine nomologico della natura: «Come potrebbe il non-fisico» si domanda Fodor «dare origine al fisico, senza violare le leggi di conservazione della massa, dell’energia e del momento?»62. Questa obiezione suona molto minacciosa; tuttavia essa, evidentemente, presuppone la correttezza del fisicalismo, come spiega bene Tim Crane: È bene considerare l’opinione di Fodor come un’espressione della completezza della fisica: la ragione per la quale l’energia non sarebbe conservata in un’interazione tra il mentale e il fisico è che ogni effetto fisico deve vedere la luce in virtà di cause puramente fisiche. La causazione mentale dovrebbe perciò introdurre ‘più energia’ nel mondo fisico, violando così le leggi di conservazione. Per il fisicalismo, il mondo degli effetti fisici deve essere causalmente chiuso63.
Tuttavia, come abbiamo visto, disponiamo di ottime ragioni per dubitare della correttezza del fisicalismo (senza che questo implichi che ci si debba necessariamente consegnare a vetuste metafisiche di stampo cartesiano)64. E così, a mio avviso, si dimostra la debolezza anche di quest’ultima obiezione contro la tesi secondo la quale gli esseri umani, in quanto agenti, dispongono di peculiari poteri causali mediante i quali esprimono la loro libertà. Recentemente è stato argomentato in modo persuasivo che le assunzioni fisicalistiche implicite nel naturalismo scientifico contemporaneo sono all’origine dell’insorgenza del problema mente-corpo65. In questo capitolo ho sostenuto, analogamente, che le argomentazioni scettiche sulla libertà paiono stringenti soltanto se si assume come sfondo metafisico un naturalismo scientistico di stampo fisicalistico tanto estremo quanto dubbio. In tale prospettiva, la rinuncia a tale sfondo metafisico (auspicabile, peraltro, anche per rale la compatibilità di una teoria filosofica con le migliori teorie scientifiche è un requisito cui le concezioni filosofiche devono ottemperare. 62 Fodor (1981, p. 25). 63 Crane (2001, p. 48). 64 Ivi, cap. 2. 65 Ivi, pp. 66-68.
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gioni indipendenti) permette di impostare la discussione sulla libertà in maniera assai più promettente. Naturalmente, qui ho soltanto accennato a una possibile direzione di ricerca, che ha l’obiettivo di sviluppare una concezione pluralistica scientificamente accettabile. D’altra parte, come alternativa ontologica al naturalismo scientifico, il pluralismo non cartesiano merita certamente considerazione, anche perché tale concezione ha il pregio di restituirci un’idea di libertà assai meno misteriosa o illusoria di quanto oggi si creda. E, considerando quanto la libertà ci stia a cuore, questa è una virtù che non dovrebbe essere sottovalutata.
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Indice dei nomi
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Rowe, W.L., 50 n., 60 n., 71 n., 128. Russell, P., 60 n., 113 n., 114 n.
Tolstoj, L.N., 87. Tooley, M., 12 n.
Saint-Exupéry, A. de, 99. Salmon, W.C., 34 n. Sartre, J.-P., 29 n. Schlick, M., 8 e n., 32 e n., 45, 57, 62 n., 68 e n., 70 n., 81, 108 e n. Schoeman, F., 103 n. Sellars, W., 12 n., 29 e n. Singer, I.B., 27. Skinner, B.F., 108 n., 138. Slote, M., 80 n. Smart, J.J.C., 108 n. Smilansky, S., 94 n., 96 n., 102 e n. Sobel, J.H., 15 n. Sosa, E., 12 n. Spinelli, E., 39 n. Spinoza, B., 33, 62. Sterne, L., 128. Stevenson, C.L., 57. Stich, S., 138 e n. Stone, I., 107 n. Strawson, G., 37 n., 96-97 e n., 102 e n., 108 n., 114 n. Strawson, P.F., 21 n., 38 e n., 65 n., 108-119 e n., 127, 129-130. Stroud, B., 60 n. Stump, D.J., 149 n. Suppes, P., 16 n., 34 n. Sutherland, K., 22 n. Swinburne, R., 55 n.
Valla, L., 94, 95 n. Van Frassen, B., 143 n. Van Inwagen, P., V, 6 n., 24 n., 48 n., 59 n., 69 e n., 71 n., 76 n., 76 n., 78 n., 80 n., 89 n., 90 e n., 92, 93, 94 e n. Velleman, D., 43 n. Virno, P., V. Voltaire (F.-M. Arouet), 4 n., 64-65 e n.
Taylor, R., 12 n., 49 n., 51-52 e n. Thorp, J., 44 n.
Zagzebski, L.T. 11 n. Zimmermann, M., 103 n.
Wagner, S.J., 147 n. Wallace, R.J., 104 n. Waller, B., 102 e n., 108 n. Walter, H., 22 n. Warfield, T., 59 n., 69 n., 76 n., 80 n. Watson, G., 10 n., 66 n., 71 n., 80 n., 108 n., 110 n., 122 n. Watson, J.B., 138. Weatherford, R., 14 n., 18 n., 107 n. Wegner, D.M., 22 n., 62 n., 94 n., 95 n. White, M., 73 n. White, S., V, 97 n., 130 n. Wiggins, D., 45 n., 76 n. Williams, B., 32 n., 150 n. Wilson, E.O., 138 n. Wright, G.H. von, 12 n., 71 n., 131, 132-135 e n., 140.
Indice degli argomenti*
Libertà d’azione, II.3. Libertà di scelta, II.3. Libertarismo, I, V.6.
Abduzione, V.5. Agent causation, I.7, I.10. Analisi condizionale, II.5. Atteggiamenti reattivi, IV.4, IV.5, V.1. Autodeterminazione, Intr. § 5.
Monismo anomalo, II.7. Naturalismo scientifico, III.3.
Compatibilismo, Intr. § 10, II. Consequence argument, II.6. Controllo, I.3, v. anche Autodeterminazione.
Pluralismo, V. Possibilità di fare altrimenti, Intr. § 5, II.5, IV.6, IV.7. Principio della chiusura causale del mondo fisico, V.8. Prospettiva agenziale, V.1. Prospettiva naturalistica, V.1.
Determinismo, Intr. § 6, II; – forme del, Intr. § 6. Epifenomenismo, II.7.
Responsabilità, IV; – causale, IV.2; – forme della, II.2.
Fisicalismo, V.7, V.8. Incompatibilismo, Intr. § 10. Indeterminismo, Intr. § 6, Intr. § 8; – causale, I.7, I.9; – radicale, I.7, I.8. Inferenza alla miglior spiegazione, v. Abduzione.
Scetticismo, III, V. Scienze umane, V.4. Utilitarismo, IV.3.
* La cifra romana indica il numero di capitolo, la cifra araba il numero di paragrafo.
183
Indice del volume
Premessa
V
Introduzione. Un mistero filosofico
3
1. La libertà umana: ovvietà o enigma?, p. 3 - 2. Le forme della libertà, p. 5 - 3. Un’indagine transfilosofica, p. 6 - 4. Uno scandalo per la filosofia?, p. 8 - 5. Le condizioni della libertà, p. 9 - 6. Determinismo e indeterminismo, p. 11 - 7. Questioni concettuali e questioni empiriche, p. 16 - 8. Un fraintendimento su libertà e indeterminismo, p. 17 - 9. Analisi filosofica e ricerca scientifica, p. 20 - 10. Le opzioni teoriche, p. 24 11. Un altro fraintendimento, p. 25
I. Libertà e indeterminismo
27
1. Potenzialità dell’indeterminismo, p. 28 - 2. Le sfide del libertarismo, p. 29 - 3. Il problema della mancanza di controllo, p. 30 - 4. Il problema dell’oscurità metafisica, p. 35 - 5. Il problema del regresso all’infinito, p. 36 - 6. Il problema della localizzazione dell’indeterminismo, p. 37 - 7. Tre forme di libertarismo, p. 38 - 8. Indeterminismo radicale, p. 39 - 9. Indeterminismo causale, p. 44 - 10. L’«agent causation», p. 49
II. Libertà e determinismo
56
1. Il compatibilismo e i suoi critici, p. 57 - 2. I principi del compatibilismo, p. 59 - 3. Libertà d’azione e libertà di scelta, p. 63 - 4. La ‘minaccia’ del determinismo, p. 67 - 5. Determinismo e possibilità di fare altrimenti, p. 69 - 6. Il «Consequence Argument», p. 75 - 7. Metafisica e filosofia della mente, p. 82
III. Libertà e scetticismo
87
1. Il mistero della libertà, p. 87 - 2. L’illusione della libertà, p. 93 - 3. Naturalismo scientifico e scetticismo, p. 97
185
IV. Libertà e responsabilità
99
1. Un altro enigma, p. 99 - 2. Forme della responsabilità, p. 103 - 3. Responsabilità e utilità sociale, p. 106 - 4. La terza via di Peter Strawson, p. 108 - 5. Il ruolo degli atteggiamenti reattivi, p. 112 - 6. La rilevanza della libertà, p. 119 - 7. Un nesso inscindibile, p. 124
V. Libertà e pluralismo
128
1. La prospettiva agenziale, p. 129 - 2. Un argomento contro lo scetticismo, p. 131 - 3. La tesi di von Wright, p. 132 - 4. La tesi di Davidson, p. 135 - 5. Inferenza alla miglior spiegazione, p. 140 - 6. Un nuovo libertarismo, p. 143 - 7. Un intollerabile divario ontologico?, p. 147 - 8. Altre due obiezioni, p. 152
Bibliografia
157
Indice dei nomi
179
Indice degli argomenti
183