Lettere a Lucilio. Libri I-IX [Vol. 1] 8817151939, 9788817151931


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Italian Pages 280 [281] Year 1994

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Table of contents :
Introduzione
Cronologia della vita e i tempi di Seneca
Cronologia delle opere
Testimonianze e giudizi critici
Nota bibliografica
Nota al testo
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Libro ottavo
Libro nono
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Lettere a Lucilio. Libri I-IX [Vol. 1]
 8817151939, 9788817151931

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SENECA in BUR

AGAMENNONE APOCOLOCYNTOSIS LA BREVITÀ DELLA VITA LE CONSOLAZIONI EDIPO EPIGRAMMI ERCOLE SUL MONTE ETÀ LE FENICIE LA FOLLIA DI ERCOLE L’IRA LETTERE A LUCILIO MEDEA. FEDRA LA PROVVIDENZA SULLA FELICITÀ LA TRANQUILLITÀ DELL’ANIMO LE TROIANE

Lucio Anneo Seneca

Lettere a Lucilio introduzione di luca canali traduzione e note di Giuseppe m o n ti

volume primo (libri I - IX) testo latino a fronte

tutti con testo latino a fronte

Biblioteca Universale Rizzoli

INTRODUZIONE

SENECA, UOMO IN PRESTITO

Proprietà letteraria riservata © 1966,1974,1985 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 1994 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano © 1998 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 88-17-17144-1 Titolo originale dell’opera: AD LUCILIUM EPISTULARUM MORALIUM LIBRI XX

prima edizione: ottobre 1974 diciottesima edizione: maggio 2001

Se si volesse preporre alle Epistulae morales ad Lucilium un breve passo di un’altra opera senecana, pochi sareb­ bero più adatti di quello famoso del De tranquillitate animi: «(Il saggio) non deve camminare a tentoni, con passi incerti, è sì grande infatti la fede che egli ha in se stesso, che non esita ad andare incontro alla fortuna e non indietreggia mai di fronte ad essa. Né ha di che temerla, perché non soltanto gli schiavi e le proprietà e gli onori, ma anche il proprio corpo e gli occhi e le mani e qualsiasi cosa gli rende più cara la vita, e se stesso insomma, egli annovera fra i beni conquistati per grazia altrui e vive come ceduto in prestito a se stesso e pronto a restituirsi senza rammarico al creditore che ne facesse richiesta», (trad. E. Paratore). Tutta la saggezza di Seneca, così generosamente profusa nel suo capolavoro, si può far consistere in questa singo­ lare condizione: una proprietà condizionata di se stessi, che permette, a uno spirito inquieto ma dignitoso, o querulo e ambiguo, ma privo di sensi di colpa, sia di essere vivo in pienezza di splendore e di potenza, con 1animo incline allo spregio di quanto può godere senza sforzo, sia di prepararsi alla morte e infine d’incontrarla con la naturalezza di chi ha saputo usare di un oggetto prezioso, senza perciò contrarre il morbo del possesso. La saggezza dottrinaria, sostituita daH’umanità di chi aveva saputo calarla nelle vicende quotidiane e ricom5

porla così in una saggezza nuova, intercambiabile tra le diverse sètte, eppure estranea a tutte e padrona di tutte in una fantasmagoria di citazioni di comodo, di furti con destrezza, di sentimenti della vita più che di precetti di virtù, diveniva in Seneca rigenerazione poetica, negando se stessa come repertorio di precetti, e proponendosi semmai come una semplice metodologia, valida solo in quanto ognuno sapesse piegarla alle proprie esigenze e trascegliervi i miliaria della via verso la conquista del «saper esistere» tra gli uomini, in solitudine non proterva o in compagnia non tripudiarne, mai traviati dalla super­ bia e dall’ira. Meglio, se questa quotidianità della saggezza e questa mitezza della morale, non frantumata nella casistica ma neanche irrigidita nei giudizi senza appello, sapessero anche salire sulla scena, essere un poco teatrali, animare una tragicommedia senza coturni e senza maschera, o con le mille maschere tutte sincere e tutte fallaci della persona umana. Sarebbe facile parlare di coincidentia oppositorum, di antitesi formulate e armonizzate in una moderna concezione della vita che potrebbe librarsi tra certe formulazioni junghiane e la misteriosa disponibilità di alcune filosofie orientali. È invece necessario compiere un’operazione in un certo senso riduttiva, prima di esa­ minare più liberamente un’opera così complessa e appa­ rentemente contraddittoria; bisogna cioè ricondurre il segreto del polisenso senecano alla sua matrice economico-sociale, e Seneca, al di là delle infatuazioni sulla sua opera e degli anatemi contro la sua vita, alla sua condizione di interprete non già di un’astratta «anima umana», bensì di una precisa ma non perciò meno ricca situazione storica, riflessa in una coscienza disposta a vivere con perplessità e determinazione, tra compromes­ si e atti di libertà, le fasi più disperate o felici di una vicenda comunque privilegiata nella tarda età giulioclaudia. La condizione teorizzata e vagheggiata, l’essere in prestito e il sapersi restituire senza rimpianto, non rap­ presenta solo una conquista psicologica: essa è anche,

in primo luogo, lo status soggettivo del figlio d’una grande famiglia provinciale, entrato a far parte della élite imperiale, ma continuamente insidiato dal suo schie­ ramento senatorio. L’instabilità emotiva e politica, che le basi economiche di un patrimonio in continua espan­ sione non potevano compensare, caratterizzò sicuramen­ te gran parte della vita di Seneca, soprattutto negli anni in cui l’esercizio del potere e la consuetudine con i più spregiudicati espedienti della direzione dello stato, non avevano ancora armato il suo cuore del necessario distac­ co. Malvisto da Caligola, esiliato da Claudio, richiamato da Agrippina, posto al vertice della gerarchia politica, al fianco del giovinetto imperatore Nerone, prima del dissidio con lui e infine dell’ingiunzione di morte ricevuta durante la repressione della congiura di Pisone, egli sperimentò su di sé i rovesci della sorte, riemergendone ogni volta con una «macchia» e con un acquisto, un riconoscimento di fragilità, una richiesta d’indulgenza, una esasperazione d’amore per la vita, un progressivo aumento della rassegnazione alla morte. Ma certo, come un filo continuo, l’orgoglio di aristo­ cratico «occidentale» doveva persistere e opporsi alla «democratizzazione» ed «orientalizzazione» della cultu­ ra e dello stato, perseguita da Caligola e da Nerone, e in parte da Claudio con il suo corteggio di donne e di onnipotenti liberti che nella prassi degli equilibri politici bisognava comunque accettare. Come poteva non essere sublimata in conquista della mente e dell’animo, una estraneità a quanti, nella vita quotidiana o nella corte imperiale, era impossibile ricac­ ciare nell’ombra, un’avversione frustrata che finiva per distaccare da se stessi, recuperando se stessi e gli altri solo in una comune sorte di «creature in prestito»? Seneca attinse i vertici del potere e della ricchezza e le depressioni della sventura. Tra questi opposti livelli acquisì un’inesauribile gamma di esperienze: a pochi intellettuali latini si adattò forse meglio la massima di Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. La sua vita interiore dovette avere la complessità, nei

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rapporti, nel pensiero, nello slancio ideale e nella pene­ trazione psicologica, nella materialità dei sensi, nella speculazione, nelFintrigo, nel ripensamento, nell’estasi, nell’adulazione, nella dignità, nello sgomento, nel «pec­ cato» e nella «grazia», di quella d’un S. Agostino senza fede e senza città di Dio, che quella fede e quella città tentava di reperire nella società e, ripugnandone la società, nell’intimità della propria coscienza, racchiusa in se stessa per poter ritrovare il senso della comunione con tutti gli uomini. La politica «ultrasenatoria» di Seneca fallì: la sua influenza sul giovane Nerone diminuì, infine dileguò del tutto. Il distacco di Nerone dagli ideali e dagli interessi aristocratici divenne irreparabile: manifestazione clamo­ rosa di esso fu la riforma monetaria che aumentava il valore del denarius argenteo nei confronti dtWaureus, m favore della piccola e media borghesia, contro la ricchezza parassitarla e il luxus dell’aristocrazia senato­ ria. Sarebbe semplicistico porre questo fatto brutalmente finanziario alla base del dissidio con Nerone e del ritiro di Seneca dalla vita politica, ma certo esso sintetizza il contrasto fra due modi d’intendere l’amministrazione dello stato, e in definitiva fra due concezioni della vita. Il sogno di ordinare uno stato ideale, governato da un principe-filosofo e dai suoi consiglieri illuminati, aristo­ cratici del sangue o dell’intelletto, falliva di fronte alla svolta antioligarchica che avrebbe fatto di Nerone, nella tradizione storiografica senatoria, il prototipo del tiran­ no folle e degenerato. E difficile ritenere che Seneca non accettasse le ferree leggi della «ragione di stato»: egli sapeva bene che 1esercizio del potere, anche in nome di un alto ideale, comportava deroghe spietate alla norma della virtù, della lealtà, della mansuetudine. Né è possibile stabilire in che misura egli abbia dissentito da Nerone in alcune delle sue iniziative più efferate. Il distacco avvenne, se non per ragioni di natura esclusivamente finanziaria, certo per un profondo divario sulla valutazione del fine’ piu che sulla scelta dei mezzi per raggiungerlo. Dopo la rottura, Seneca divenne un emarginato di 8

lusso, anche se i suoi contatti con l’opposizione antineroniana, che lo avrebbero perduto, continuarono in un’ap­ parente solitudine popolata dai rassicuranti fantasmi della meditazione e dagli inquietanti emissari della cospi­ razione. Ora davvero la sua ottica di estraniato dal mondo poteva permettergli di considerare fratelli gli schiavi, dissennati gli oppressori, felici i mansueti, i rassegnati alla sorte, i disposti al giudizio e al perdono, i forti nella sconfitta, gli equanimi nella vittoria, i mediocri nella mediocrità delle scelte per sopravvivere. La polivalenza senecana sarebbe incomprensibile sen­ za questo retroterra biografico e politico: l’aristocratico sconfitto poteva risarcire, attraverso la sua saggezza problematica e il suo umanitarismo non pietistico, non solo il proprio fallimento, ma anche l’assiduo errare dei mortali, finché non avessero appreso a considerare non l’astratta virtù, ma la reale rinunzia come premessa di serena accettazione della vita. Questo ideale non è eroi­ co di per sé, diventa eroico nel consapevole assenso alla morte come quiete alle tempeste della vita attraverso le quali non ci si sia rifiutati di navigare. Arrendersi alla vita, cioè lasciarsi vivere dagli eventi e insieme cercare di dominarli senza presunzione di trionfo, godere di ogni bene in cui accada di imbattersi senza averlo febbrilmen­ te cercato, significa vincere nella morte, cioè rientrare in un disegno divino riconoscibile in ogni cifra dell’uni­ verso. Seneca non deve compiere nessuno sforzo per imparti­ re la sua sommessa lezione: la sua personale vicenda è essa stessa una lunga epistola piena di antinomie compo­ ste nella muta armonia dell’accettazione del suicidio. Era stato un politico fallito, un dovizioso predicatore di povertà, uno sventurato assertore di ricchezza, un censore di tiranni dopo la loro scomparsa, un tragedio­ grafo che distillava in eroi truculenti la sua repressa carica di violenza, la sua lucida penetrazione psicologica, la sua sete di verità e di menzogna, per realizzare il lato oscuro della sua natura, e nello stesso tempo lievitare, purificandolo, il suo versante di luce, fino ad una nuova 9

compenetrazione dei due volti in un’unica fisionomia, affascinante e varia, turpe e nobile, umile e superba, come quella del popolo che non aveva voluto accettare il calco di un’utopia politica conservatrice - il dispotismo di un aristocratico illuminato - e aveva dovuto subire un’ibrida rivoluzione economico-sociale - tirannide d’un principe «democratico» - , per cadere in una sanguinosa anarchia domata dal primo imperatore «borghese», dopo il disastroso tramonto dell’aristocratica dinastia giulioclaudia. Quel che resta delle Epistole senecane non è una somma di regole morali, né un breviario di solidarietà umana; è una grande opera di poesia nei drappeggi di una cangiante saggezza, il trascorrere tra tutti i vizi e le sventure degli uomini con la spenta emozione di chi, compiuti gli stessi errori e sofferti gli stessi dolori, senza perdere indulgenza, né acquistare rigore, annunzia la vittoria dell’amore per la vita germogliato nella consue­ tudine con la morte, della solidarietà con gli uomini senza distinzione di classe, generata dalla disfatta del­ l’autoritario disegno concepito da un intellettuale orgo­ gliosamente classista. Lo stile delle Epistole è lo strumento di un’aggrovigliata opera di semplificazione, la metamorfosi di una mente forte e solitaria in animo solidale, partecipe della fragilità di tutti i provvisoriamente vivi: uno strumento o un’arma che penetra senza ferire, o ferisce senza uccidere, per risanare, o elargire dimestichezza con il morbo: agile, tagliente, mutevole, semplice nella selezione della com­ plicatezza, eloquente nella rinunzia all’eloquenza come categoria retorica «classica», nell’accettazione di una mera funzione di veicolo di corroborante pessimismo, moderato relativismo, messaggio ritornante, dopo l’in­ tercettazione, alla fonte sonora che l’ha emesso. «Asia­ no» è solo una definizione da conservare per i collezioni­ sti di etichette. LUCA CANALI

CRONOLOGIA DELLA VITA E I TEMPI DI SENECA

CRONOLOGIA DELLA VITA

I TEMPI DI SENECA

749 di Roma (4 a.C.) Nasce a Cordova, in Spagna, Lucio Anneo Seneca, da Elvia, moglie di Lucio Anneo Seneca il retore (55 a.C. - 40 d.C.). Ancora bambino, è condotto a Roma dal padre, insieme coi due fratelli: il maggiore M. Anneo Novato (che da adulto avrebbe assunto il nome di L. Giunio Anneano Gallione, in seguito all’adozione di lui da parte del retore Giunio Gallione), e il terzogenito M. Anneo Mela, che sarebbe divenuto padre di Lucio Anneo Lucano, il poeta della Farsaglia. A Roma, il giovane Lucio ha come maestri il neopitagorico Sozione di Alessandria, che lo avvia alla pratica del vegetarianismo, da cui lo distoglie il padre, preoccupato per la sua non buona salute e anche per motivi politici (queste pratiche, non propriamente roma­ ne, non erano ben viste da Augusto); lo stoico Attico e soprattutto lo stoico Papirio Fabiano, che lo avvicina alla setta dei Sestii. Suo maestro è pure il filosofo cinico Demetrio.

753 dalla fondazione di Roma (o più probabilmente 749) Sotto il principato di Augusto, nasce in Palestina Gesù.

14 d.C. È l’anno della morte di Augusto. Il giovane Lucio si avvia decisamente agli studi filosofici.

4-6 d.C.

Nuova spedizione di Tiberio in Germania.

8 Scoppia a Roma lo scandalo di Giulia Minore, nipote di Augusto; il poeta Publio Ovidio Nasone, autore delVArs amatoria e delle Metamorfosi, è mandato in esilio a Tomi, sul Mar Nero. 9 II principe germanico Arminio distrugge le tre legioni romane di Varo nella Selva di Teutoburgo. 12 II senato ordina la ricerca e la distruzione delle opere storiche di Tito Labieno, particolarmente di una sua Storia delle guerre civili. Suicidio di Tito Labieno. Il senato decreta una prima condanna degli scritti storici di Cassio Severo, autore di libelli satirici. Suo esilio a Creta. 14, 19 agosto Morte di Augusto a Nola. Gli succede il figliastro Tiberio. 14-37 Principato di Claudio Nerone Tiberio (42 a.C. 37 d.C.). 14-16 Vittoriosa campagna in Germania del nipote di Augusto Giulio Cesare, detto per questo Germanico. Resta di lui un’opera letteraria, il rifacimento dei Phaenomena di Arato, in 725 esametri.

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I TEMPI DI SENECA CRONOLOGIA DELLA VITA

Composto intórno a questi anni, ci resta un poema astrologico in 5 libri, Astronomica, di Marco Manilio. 17 Vengono costruite le due nuove province di Cappadocia e Commagene. Muore Tito Livio, autore della monumentale storia ro­ mana A b Urbe condita (era nato a Padova nel 59 a.C.). Muore a Tomi Publio Ovidio Nasone (era nato a Sulmo­ na nel 43 a.C.). 19 In concomitanza col decreto senatoriale di sciogli­ mento della setta dei Sestii, Lucio, forse anche per motivi di salute, si reca in Egitto, ospite di una sorella di sua madre Elvia. Vi resta più di undici anni e ne ritorna soltanto nel 31, alla vigilia della caduta di Seiano, il ministro di Tiberio.

19 Per decreto di Tiberio viene sciolta e dispersa la setta dei Sestii (dal nome del fondatore Quinto Sestio e di suo figlio medico Sestio Nigro). Era una setta filosofi­ ca che proclamava la libertà del sapiente di fronte all’au­ torità politica, la rinuncia alla vita pubblica e aveva come norma la vita in comunità e l’esame quotidiano di coscienza a stimolo del più deciso rigorismo morale. I maggiori seguaci della setta furono Sozione di Alessan­ dria, Papirio Fabiano, Cornelio Celso. 22-31 Tiberio subisce l’influenza del suo prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano. 24 Nasce a Como C. Plinio Secondo (Plinio il Vecchio). Cassio Severo, ritornato a Roma, viene di nuovo esiliato per la franchezza dei suoi scritti e la forza della sua eloquenza. 25 Seiano fa condannare gli scritti di Cremuzio Cordo, che si lascia morir di fame. Nasce Silio Italico. È l’autore del poema Punica in 17 libri. 27 Tiberio si ritira a Capri. 31 Caduta improvvisa ed esecuzione di Lucio Elio Seia­ no. In questi anni scrive tragedie, andate perdute, Mamerco Scauro; muore lo storico Velleio Patercolo, auto­ re di un Compendio di storia romana in due libri; muore

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CRONOLOGIA DELLA VITA

I TEMPI DI SENECA

Valerio Massimo, autore dei celebri Factorum et dictorum memorabilium libri IX. 33 (o più probabilmente 27) Viene crocifisso a Gerusa­ lemme Gesù Cristo, sotto Ponzio Pilato, procuratore romano di Giudea dal 26 al 36. 34 Sotto Tiberio, il senato decreta la condanna degli scritti di Mamerco Scauro, il tragico. 35 Nasce a Calahorra di Spagna Marco Fabio Quintilia­ no, il futuro retore, autore de\VInstitutio oratoria in 12 libri ( t 96). 37 Muore Tiberio, a 78 anni, dopo 23 anni di regno, nella villa di Lucullo a Capo Miseno.

38 Sotto Caligola, Seneca è nominato questore. A quest’epoca risalgono il suo primo matrimonio con una donna di cui non ci resta il nome e la nascita di un figlio che sarebbe morto bambino nel 41. 39 Da questo anno, Seneca fa parte del senato, con rango questorio. Si può riferire a quest’epoca il seguente passo di Svetonio1 (Caligola, 53): «[Caligola] disprezzava le compo­ sizioni troppo eleganti, fino al punto di rimproverare a Seneca, che allora era l’autore più in voga, di comporre delle pure e semplici tiritere degne tutt’al più del teatro e che avevano la consistenza di costruzioni di sabbia

37-41 Principato di Gaio Cesare Germanico, detto Ca­ ligola (12-41), figlio di Germanico. Caligola tenta di trasformare il principato di Augusto in una monarchia teocratica di stampo ellenistico-orientale. Tra i primi atti di regno, Caligola fa ricercare gli scritti di Tito Labieno, Cremuzio Cordo, Cassio Severo che erano stati dati alle fiamme.

39 La figlia minore di Germanico, sorella di Caligola, Giulia Livilla (17-41), dopo esser stata l’amante del fratello, viene da lui esiliata nell’isola di Ponza. Nello scandalo è coinvolto anche Seneca, ritenuto amante di lei. Nasce a Bilbilis, nella Spagna Tarraconese, Valerio Mar­ ziale, il futuro autore degli epigrammi.

1 I passi di Svetonio son dati nella traduzione di Felice Dessi (BUR, 1968); quelli di Tacito nella traduzione di Bianca Ceva (BUR,

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CRONOLOGIA DELLA VITA

I TEMPI DI SENECA

senza calce, barena sine calce». Per una sua bella orazio­ ne in senato, rischia la condanna a morte; è salvato da una favorita di Caligola che fa notare al principe come Seneca, per la malferma salute, non potrà campare a lungo. La notizia è di Dione Cassio (Storia Romana, LIX, 19,7) autore assai tardivo (III sec.) e poco attendi­ bile. In questo stesso anno, la bella sorella di Caligola, Giulia Livilla, già amante del fratello e ora a quanto pare dello stesso Seneca, è bandita da Roma ed esiliata a Ponza. 40 Muore a Roma ultranovantenne il padre di Lucio, Lucio Anneo Seneca il retore, autore di dieci libri di Controversiae (ce ne rimangono cinque) e di due libri di Suasoriae (ne resta uno), nonché di una storia degli avvenimenti contemporanei, dettata negli ultimi anni e andata perduta. Seneca compone, probabilmente in questo stesso anno, il libro A d Marciam de consolatione. 41 Giulia Livilla, la sorella esiliata di Caligola, è richia­ mata a Roma da Claudio, ma poi, per istigazione di Messalina, è nuovamente esiliata e fatta uccidere. Sene­ ca è travolto dallo scandalo. Deve comparire davanti al senato accusato di favoreggiamento agli adulteri di Giu­ lia; Claudio lo salva dalla condanna a morte facendolo inviare in esilio in Corsica; il che comporta la confisca di metà del suo patrimonio. Tre settimane prima gli era morto il figlio, quando già era probabilmente vedovo della moglie. Si fanno risalire a quest’anno il libro De ira e quello De providentia, quest’ultimo scritto in Corsica. 42 In Corsica avrebbe composto in quest’anno la Con­ solano ad Helviam matrem.

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40 ca. Nasce a Napoli P. Papinio Stazio, futuro autore della Tebaide e àe\YAchilleide.

41, 24 gennaio Caligola cade in una congiura di palaz­ zo, assassinato da Cassio Cherea e con lui tramonta il primo tentativo di trasformazione in senso teocratico del principato augusteo, tentativo che sarà ripreso in parte da Nerone. 41-54 Principato di Tiberio Druso Nerone Germanico Claudio (10 a.C. - 54 d.C.). 41 Esecuzione di Giulia Livilla, voluta da Messalina, moglie di Claudio. 42 Viene scoperta la congiura di Annio Viniciano e Furio Camillo Scriboniano contro l’Imperatore. Vi è coinvolto anche A. Cecina Peto, che si uccide con un colpo di pugnale, preceduto dalla moglie Arria Maggiore (è celebre l’episodio di Arria che passa il pugnale al marito: Paete, non dolet). 19

CRONOLOGIA DELLA VITA

43 Probabile composizione della Consolatio ad Polybium dove si professa innocente delle accuse che l’hanno implicato nella rovina di Giulia Livilla e tenta di dar la colpa della sua disgrazia alla sfortuna. Il libretto, smaccatamente adulatorio, indica in Seneca un momento di grave smarrimento spirituale.

I TEMPI DI SENECA

43 Conquista della Britannia meridionale. 45 Comincia la sua predicazione San Paolo (Saulo di Tarso, 10-67). 46 Viene costituita la nuova provincia della Tracia. Fallimento della congiura contro Claudio di Asinio Gal­ lo, fratellastro di Druso. 47 Claudio assume la censura e la esercita con molto rigore. Morte del potente liberto Polibio, voluta da Messalina, che si inimica gli altri liberti di Claudio, con a capo Narciso. 48 Claudio concede il pieno ius honorum ai Galli tran­ salpini (a cominciare dagli Edui) che già possedevano la cittadinanza romana. Censimento di Claudio in Italia: vengono registrati 6 milioni di liberi, dotati di cittadinanza romana, per cui il calcolo approssimativo della popolazione italiana (compresi i bambini e le donne, ma esclusi gli schiavi) è di almeno 15 milioni. Congiura contro Claudio di Valeria Messalina e di Silio. Claudio ordina l’esecuzione della moglie eseguita dal liberto Narciso.

49 Ancora in Corsica, alla vigilia del ritorno a Roma, avrebbe composto il De brevitate vitae. In quest’anno Agrippina, la nuova moglie dell’imperato­ re Claudio, ottiene il richiamo di Seneca dalla Corsica e la sua nomina a pretore. «Agrippina... intercedette perché fosse richiamato dall’esilio Anneo Seneca e gli fosse nello stesso tempo affidata la pretura, pensando che il ritorno di lui sarebbe stato gradito a tutti a causa della gloria dei suoi scritti.» (Tacito, Ann., XII, 8) «Burro e Seneca... erano di guida all’imperatore [Nero­ ne] nella sua giovinezza... Burro nell’istruzione militare

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49 Claudio sposa Agrippina Minore, già moglie di Enobarbo e madre di Domizio, il futuro Nerone. Nello stesso giorno delle loro nozze, per sfuggire alla ostilità di Agrippina, si uccide Silano, fidanzato di Ottavia, la figlia di Claudio e Messalina.

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CRONOLOGIA DELLA VITA I TEMPI DI SENECA

Seneca negli insegnamenti dell’arte oratoria e nella di­ gnitosa cortesia [maestro quindi di eloquenza e di mora­ le, non di filosofia]... L’uno e l’altro insieme lottavano contro la prepotenza di Agrippina...» (Tacito, Ann., XIII, 2) «Nerone, adottato da Claudio a undici anni, fu affidato a Seneca, che già era senatore, perché lo educasse. Si dice che Seneca, la notte seguente, abbia sognato di avere come allievo Gaio Cesare [cioè Caligola], e Nero­ ne rese veritiero questo sogno rivelando subito la crudel­ tà della propria natura.» (Svetonio, Nerone, 7) «Nerone, fin da bambino, attese a quasi tutte le discipli­ ne liberali, ma sua madre lo distolse dalla filosofia, avvertendolo che era controindicata a chi sarebbe stato imperatore. Il suo precettore Seneca lo distolse dallo studio degli oratori antichi per spingerlo ad ammirarlo ancor di più.» (Svetonio, Nerone, 52) 50 A questo periodo si fa risalire l’inizio della composi­ zione delle tragedie; ma è congettura controversa.

53 Seneca assiste alla rovina di Lollia Paolina e Domizia Lepida, voluta da Agrippina; la prima, perché aveva osato gareggiare con Agrippina nel matrimonio con Claudio; la seconda, zia di Nerone, per antica ostilità.

50 Claudio adotta Domizio, figlio tredicenne di primo letto di Agrippina, e gli dà il nome di Nerone. In Atene, dinanzi all’Areopago, San Paolo tiene il cele­ bre discorso sul «dio ignoto». 51-52 A Corinto, davanti al proconsole Gallione, fra­ tello di Seneca, San Paolo difende la «stoltezza della croce». 53 Nerone, quindicenne, sposa Ottavia, tredicenne, figlia di Claudio e Messalina. Agrippina fa mettere a morte Lollia Paolina e Domizia Lepida. Seneca è complice o consenziente. 54 Appare sul cielo di Roma, una cometa; precede di poco la morte di Claudio. Sotto Claudio, almeno 200.000 cittadini romani residenti nell’Urbe sono a carico dell’amministrazione privata dell’Imperatore. L’Italia consuma circa 265 milioni di

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CRONOLOGIA DELLA VITA

I TEMPI DI SENECA

litri di grano all’anno: 175 milioni ne vengono forniti dall’Egitto. Il trasporto del grano, da Ostia a Roma, è assicurato da oltre 6.000 zattere. Roma consuma 85 milioni di litri annui di vino e 5 milioni di litri d’olio. Claudio dà inizio alla costruzione del porto di Ostia, opera pubblica di gigantesche proporzioni; ordina il prosciugamento del Fucino, condotto a termine da 30.000 uomini in undici anni di lavoro, con una spesa di 130 milioni di denari (il denaro è l’84esima parte di una libbra d’argento, circa 4 grammi); fa costruire l’acque­ dotto Claudio con una spesa di 87 milioni di denari; fonda colonie in Germania, Britannia, Balcani, Siria, ecc. per sistemare i veterani; rafforza il sistema difensivo danubiano con la costruzione della strada del Brennero. Claudio perseguita ed espelle gli ebrei da Roma; vieta l’uccisione degli schiavi malati. Giunge a Roma un’ambasceria da Ceylon. Sotto Claudio vengono pronunciate 35 condanne di sena­ tori e oltre 300 di cavalieri, con relative confische di beni. I maggiori esponenti della cultura, sotto il suo principato, sono Anneo Seneca e Lucio Anneo Cornuto, che alcuni ritengono autore della praetexta Octavia, che i codici hanno tramandato tra le tragedie di Seneca. Claudio stesso si diletta di filologia, con ricerche e proposte sull’ortografia latina. Scrive tragedie, andate perdute, Pomponio Secondo. Un anonimo compone il Panegyricus Pisonis, in 261 esametri, che ci è rimasto. Opera lo storico Curzio Rufo, autore della famosa Vita di Alessandro Magno. Calpurnio Siculo compone sette Egloghe pervenuteci. Continuano a fiorire il pantomimo, il mimo e l’atellana. Muore, negli ultimi anni del princi­ pato di Claudio, il favolista Fedro. 54 Alla morte di Claudio, Seneca compone YApokolokynthosis o «Zucchificazione», satira contro Claudio. Da questo momento, fino al 62, sarà con Burro ministro di

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54, 12-13 ottobre Muore Claudio. 13 ottobre Viene eletto Imperatore dai pretoriani il figlio di Agrippina Lucio Domizio Nerone (37-68).

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I TEMPI DI SENECA CRONOLOGIA DELLA VITA

Nerone e responsabile di gran parte della politica del­ l’imperatore1. Nerone, acclamato imperatore dai preto­ riani, pronuncia alcune orazioni scritte da Seneca: una ai pretoriani e una davanti al senato. Davanti al popolo, legge l’elogio funebre di Claudio «e fu con gravità ascol­ tato finché parlò della nobiltà della stirpe di lui... Ma quando prese a parlare della previdente saggezza del principe, nessuno trattenne le risa, per quanto l’orazio­ ne, scritta da Seneca, fosse molto bella ed elegante, come degna di quell’uomo di alto ingegno che lo stile aveva saputo armonizzare col gusto dei tempi». (Tacito, Ann., XIII, 3). (Tutti ben sapevano come Seneca, da Claudio, fosse stato mandato in esilio; e magari già era nota in tutto o in parte 1’Apokolokynthosis.)

54-68 Principato di Nerone. 54 II liberto Narciso è costretto da Agrippina al suici­ dio. 54-62 Lucio Anneo Seneca e Afranio Burro ministri di Nerone.

54-58 Gli storici concordano nell’attestare il grande successo, in questi anni, degli scritti di Seneca tra la gioventù romana. Seneca è appoggiato anche dal severis­ simo P. Clodio Thrasea Peto, sposo di Arria Minore. 55 Probabile anno di composizione del De clementia. Nerone si innamora della liberta Atte: «...soggiogato dalla violenza della passione, si spogliò di ogni sentimen­ to di ossequio verso la madre e si affidò tutto a Seneca. Uno degli intimi del filosofo, Anneo Sereno [era co-

55 Nerone fa avvelenare il fratellastro Britannico, quattordicenne, figlio di Claudio e Messalina. Seneca e Burro hanno parte dei beni di lui. Nasce Tacito, il futuro grande storico delle Storie e degli Annali.

1 Alla loro amministrazione e particolarmente all’influenza di Sene­ ca sono tradizionalmente attribuiti numerosi provvedimenti che fanno dire a Tacito (Ann., XIII, 28) «...sopravviveva ancora una certa parvenza di repubblica»: limitazione alle spese suntuarie, limitazione dei poteri dei questori dell’erario a favore dei meno abbienti da loro spesso perseguitati, allontanamento della truppa dagli spettacoli, distribuzione al popolo di 400 sesterzi a testa e donativo del principe all’erario pubblico di 40 milioni di sesterzi; provvedimenti per il trasporto dei cereali a Roma, provvigione annua ai senatori in difficoltà finanziarie, provvedimenti atti a frenare la venalità degli avvocati, ecc. Ma non tutti gli storici sono d’accordo sull’eccellenza dell’ammini­ strazione senecana nei primi cinque anni del principato di Nerone, pure esaltati da tutti gli antichi. Si veda M. A. Levi, L ’impero romano, ed. Il Saggiatore, Milano 1967, voi. I, pp. 252 e segg.

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mandante delle coorti dei vigili] fingendosi preso d’amo­ re per la stessa Atte, aveva mascherato i primi moti di passione del giovane ed aveva fatto in modo che sembrassero apertamente largiti da lui quei doni che il principe di nascosto inviava alla liberta». (Tacito, Ann., XIII, 13) Alla morte di Britannico, Seneca e Burro accettano (o debbono accettare) parte dei beni di lui. Agrippina, in urto col figlio, è accusata di congiura. L’accusa viene contestata ad Agrippina: «Burro assolve­ va questo ufficio alla presenza di Seneca, testimoni al colloquio alcuni liberti». (Tacito, Ann., XIII, 21) 56 Seneca è console suffectus (sostituto, supplente). Diventa proverbiale a Roma la sua generosità: «Nessuno ti chiede i regali che Seneca mandava ai modesti amici...» (Giovenale, V, 108)

58 P. Suillio muove gravi accuse contro Seneca: «Dice­ va che di Germanico lui, Suillio, era stato questore, mentre in quella famiglia Seneca aveva fatto soltanto la parte dell’amante [con allusione ai rapporti di Seneca con Giulia Livilla, figlia di Germanico]... Con quale saggezza morale, con quali precetti filosofici aveva Sene­ ca saputo accumulare in quattro anni trecento milioni di sesterzi? In Roma erano attratti nelle sue reti di cacciato­ re i testamenti di vecchi senza figli; l’Italia e le province erano per opera sua esauste da una immensa usura...» (Tacito, A n n ., XIII, 42). Seneca ritorce contro di lui le accuse e Suillio è esiliato alle Baleari e i suoi beni confiscati. Ma Seneca non può sottrarsi a un odioso giudizio dell’opinione pubblica. Altre calunnie, scarsa­ mente attendibili, contro di lui sono in Dione Cassio, LXI, 10. Forse è di questo stesso anno il libro De vita beata.

57 Nerone fonda colonie per i veterani ad Anzio, Capua, Pozzuoli, Nocera e Taranto. San Paolo, nell 'Epistola ai Romani, esalta la giustizia del governo di Roma in quei primi anni del principato di Nerone. 58 Nerone propone in senato l’abolizione delle imposte indirette, ammontanti a circa 25 milioni di denari annui. Il senato respinge la proposta. Nerone allontana Salvio Otone per strappargli la moglie Poppea Sabina, da poco sposata. 58-63 II generale Corbulone conquista l’Armenia; i Parti accettano il protettorato romano.

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59 «Agrippina, per non lasciarsi sfuggire la sua poten­ za, giunse a tal punto da offrire più volte sé adorna e pronta all’incesto al figlio ebro... Seneca ricorse all’aiuto di una donna contro i femminili adescamenti...» (Tacito, Ann., XIV, 2) Tentativo di assassinare Agrippina a Baia, facendola affogare con la sua nave. Agrippina ferita si salva a nuoto. Nerone, spaventato, «fece subito chiama­ re Burro e Seneca che, forse, erano già prima al corrente della cosa. Stettero a lungo in silenzio per non pronuncia­ re vane parole di dissuasione, o, forse, perché pensavano che si fosse giunti ad un punto tale che se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente perire. Dopo qualche momento, Seneca in questo soltanto si mostrò più deciso, in quanto, guardan­ do Burro, gli domandò se fosse possibile ordinare ai soldati l’assassinio...». (Tacito, Ann., XIV, 7) Agrippina è assassinata dagli uomini del liberto Aniceto, capo della flotta del Miseno. Aveva 44 anni. Nerone scrive al senato, per giustificare la morte della madre. «A conclusione di tutto ciò, l’opinione pubblica condannò non già Nerone, la cui immane ferocia supera­ va qualsiasi possibilità di sdegno, ma Seneca, che con quello scritto aveva confessato la sua complicità.» (Taci­ to, Ann., XIV, 11) Si fa risalire a quest’anno e a dopo la morte di Agrippina il libro De tranquillitate animi. 60 ca. Aulo Persio, l’autore delle Satire (36-42) «conob­ be anche Seneca, ma non rimase sedotto dal suo inge­ gno». (Svetonio, Vita di Aulo Persio Fiacco)

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59, 19-23 marzo II dissidio con la madre Agrippina giunge alla sua crisi: Nerone la fa uccidere nella sua villa di Baia. Famose le pagine tacitiane che narrano la vicenda negli Annali (XIV, 1-8). Vengono istituiti i Ludi invernali e i Ludi augustali, sul modello dei giochi pitici.

60 Nerone istituisce i Ludi neroniani quinquennali nel teatro di Pompeo. Vincitore della gara di poesia è Anneo Lucano con le Laudes Neronis, in cui il principe è lodato per la voce e per il poema Troica, da lui composto e diffuso allora persino nelle scuole. Appare nel cielo di Roma una nuova cometa; il popolo ne desume la caduta di Nerone e indica in Rubellio Plauto il suo successore.

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61-62 Seneca compone il De otio. «Poiché non era più possibile trattenerlo, parve opportu­ no a Seneca e a Burro di concedergli una delle due cose [guidare la quadriga o suonare in pubblico la cetra]... Nella valle del Vaticano fu costruito un recinto nel quale egli potesse guidare i cavalli nella corsa...» (Tacito, Ann., XIV, 14)

62 «La morte di Burro rese vano ogni influsso di Sene­ ca... I peggiori elementi cominciarono ad attaccarlo con varie accuse, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che aveva accumulato in modo eccessivo per un privato... Gli rinfacciavano anche di voler attri­ buire a sé solo la gloria dell’eloquenza e di essersi dedicato a comporre versi [le tragedie?] proprio quando Nerone era stato preso da quella passione...» (Tacito, Ann., XIV, 52) Seneca chiede a Nerone di potersi ritirare a vita privata, pronto a restituirgli tutti i beni ricevuti. Ma Nerone rifiuta. Sul finire dell’anno, un liberto, Romano, accusa Seneca di essere amico di Calpurnio Pisone, ritenuto ambizioso di principato. Seneca può dimostrare la pro­ pria innocenza. Tuttavia, alla fine dell’anno, non è più ministro di Nerone. 62-63 Probabile data di composizione dei libri delle Naturales quaestiones.

61 Scoppia una rivolta in Britannia, sedata da Svetonio Paolino. La rivolta sembra causata, tra l’altro, dalle pretese di Seneca di farsi restituire quaranta milioni di sesterzi prestati ai britanni. Il prefetto Pedanio Secondo viene ucciso da un suo schiavo e in senato prevale, contro il parere di Seneca, la decisione di suppliziare tutti gli schiavi della casa secondo l’antica consuetudine. Il poeta Anneo Lucano è interdetto da Nerone a recitare poesie in pubblico. San Paolo giunge a Roma, dove fino al 63 vive sotto custodia militare. A Roma scrive le Lettere ai Filippesi, ai Colossesi, a Filemone, agli Efesini. 62, primi mesi Viene rimessa in vigore la legge di lesa maestà che Seneca era riuscito a rendere fino allora inoperante. 5 febbraio Un terremoto distrugge Pompei. Nerone fa assassinare la moglie Ottavia (40-62) e sposa Poppea Sabina, già moglie di Rufio Crispino e quindi, dal 58, di Otone, il futuro imperatore. Assassinio di Rubellio Plauto. Muore il prefetto del pretorio Afranio Burro. Muore Anneo Sereno, comandante delle coorti dei vigili, intimo di Seneca. Gli succede Ofonio Tigellino, poco dopo prefetto del pretorio in seguito alla morte di Burro. Il pretore Antistio Sosiano, per un carme lesivo di Nerone, viene condannato all’esilio. La stessa sorte subisce Fabricio Veientone e i suoi scritti sono dati alle fiamme. Muore il poeta satirico Aulo Persio (34-62). Seneca perde ogni influenza su Nerone e si ritira. Il suo posto è occupato da Tigellino.

62-64 Data probabile di composizione dei sette libri De beneficiis.

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63-64 Seneca frequenta la scuola del filosofo Metronatte. «Voglio confidarti anche questo: seguo le lezioni di un filosofo e son già cinque giorni che vado a scuola, per sentirlo parlare, alle due del pomeriggio... Come sai, chi va alla casa di Metronatte deve passare davanti al teatro dei napoletani...» (Epistole a Lucilio, Lettera 76)

63 Poppea Sabina dà alla luce una figlia, Claudia Augu­ sta, che muore di pochi mesi. Nerone conia nuove monete ricavando da una libbra d’oro 45 aurei anziché 40, e da una libbra d’argento 96 denari anziché 84. 64 Nerone fa studiare il progetto di un canale navigabi­ le dal lago Averno fino al porto di Ostia, architetti Severo e Celere. 19 luglio Incendio di Roma: comincia dal quartiere del Circo Massimo, si estende al Palatino, alla Suburra e al Viminale, che vengono completamente distrutti. Gravi danni subiscono i quartieri di Porta Capena, il Celio, le Carine, gli Orti Luculliani e Sallustiani, la zona Flaminia, i quartieri delle Terme e di Campo Marzio. Restano indenni l’Aventino, il Gianicolo, il Quirinale e l’Esquilino. Nerone accusa i cristiani e ne uccide gran numero sulle croci e sui roghi o dandoli in pasto alle fiere. A questa persecuzione neroniana (o più probabilmente a quella del 67) si fa risalire il martirio di San Pietro. Poppea Sabina appoggia la comunità ebraica, che considera eretica la setta cristiana. Diretta dagli architetti Severo e Celere comincia la rapida ricostruzione della città: sorge sul colle Oppio la Domus Aurea, si dà mano alla costruzione del tempio della Fortuna di Seiano (il riabilitato ministro di Tibe­ rio), si innalza la gigantesca statua del Sole (col volto del dio somigliante a quello di Nerone). Si ricostruiscono la Via Sacra e il Circo Massimo; si intraprendono i lavori per l’acquedotto Celimontano e per un nuovo ponte sul Tevere. Roma è trasformata in un cantiere.

65 Porta avanti, fino ad almeno 22 libri (di cui due non rimasti) le Epistulae morales ad Lucilium, cominciate forse nel 61.

65 Morte di Poppea Sabina (forse per un calcio del marito mentr’era incinta). Nerone ne ordina la divinizza­ zione insieme con la figlioletta Claudia Augusta.

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Il cavaliere Antonio Natale denuncia Calpurnio Pisone e Seneca per congiura contro Nerone. Da Tacito, Ann., XV, 60-65: «Seguì la morte violenta di Anneo Seneca, che fu occasione di gran gioia per Nerone... Fu comandato al tribuno dei pretoriani Gavio Silvano di chiedere a Seneca se ammettesse come vere le affermazioni di Natale e quali fossero le sue risposte. Non si sa se per caso o per prudenza, Seneca in quel giorno era ritornato dalla Campania e si era fermato in una villa a quattro miglia dalla città. Sul far della sera là giunse il tribuno, e fatta circondare la villa da gruppi armati, comunicò gli ordini deU’Imperatore a Seneca, mentre pranzava insieme con la moglie Pompeia Paolina e due amici... Seneca rispose che Natale era andato da lui a riferirgli che Pisone si rammaricava perché Seneca non gli aveva permesso di fargli visita, al che egli aveva addotto come giustificazione le sue condizioni di salute e il desiderio di star tranquillo. Non aveva avuto nessuna ragione per anteporre alla sua incolumità la salvezza di un cittadino privato e, d’altra parte, egli non aveva natura incline all’adulazione. Ciò a nessuno era maggior­ mente noto che a Nerone, come colui che spesso aveva sperimentato in Seneca l’indipendenza più che il servili­ smo. Allorché queste dichiarazioni furono dal tribuno riferite a Nerone, alla presenza di Poppea e di Tigellino, i suoi più intimi consiglieri in fatto di crudeltà, Nerone domandò se Seneca si preparava al suicidio. Il tribuno dichiarò che non aveva colto sul volto e nelle parole di lui alcun segno di terrore o di dolorosa tristezza. Il principe allora gli comandò di ritornare subito da Seneca con l’ordine di morire... Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centu­ rione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di mostrare la sua gratitudi­ ne, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la più bella, l’esempio della sua vita. 36

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Viene denunciata la congiura di Calpurnio Pisone. Suo suicidio, seguito da quello di Plauzio Laterano e di Anneo Seneca. Suicidio di Anneo Lucano, il poeta della Farsaglia. Era nato 26 anni prima. Tra i numerosi congiurati, è travolto anche Anneo Mela, fratello di Seneca e padre di Lucano. Suicidio di Petronio, Arbiter elegantiarum, presunto au­ tore del romanzo Satyricon.

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...La moglie dichiarò che anche a lei era destinata la morte... e da un sol colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, ed abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un’altra stanza. Anche negli estremi momenti, non essendogli venuta meno l’eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che, testualmente divulgate, tralascio di riferire con altre parole». Il testamento spirituale di Seneca è andato perduto. Nerone, non avendo alcun rancore verso la moglie di Seneca, Paolina (della quale si sa soltanto che era molto più giovane del marito, ma non quando si fosse unita a lui), ordina che Paolina sia salvata, ed essa «visse ancora pochi anni, conservando sacra memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della vitalità perduta». Quindi così prosegue il racconto di Tacito: «Seneca, protraendosi la morte lenta, pregò il medico Anneo Stazio di propinargli quel veleno già da tempo provvedu­ to, col quale si facevano morire gli ateniesi condannati in pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all’azione del veleno. Alla fine entrò in una vasca piena d’acqua, spruzzandone i servi più vicini e dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove liberatore2. Fu portato poi in un bagno a vapore do-

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67 Decollazione di San Paolo, durante il suo secondo soggiorno a Roma. Rivolta di Vindice, governatore della Gallia Lugdunense. Si uniscono a Vindice Sulpicio Galba dalla Spagna e Salvio Otone dalla Lusitania. 68 Suicidio di Nerone. 69 Nasce Svetonio Tranquillo, il futuro storico dei dodici Cesari.

2 Giovanni Boccaccio, commentando in vecchiaia i primi canti della Divina Commedia, giunto al passo famoso del limbo («e vidi Orfeo, / e Tullio e Lino e Seneca morale» Inf., IV, 140-41), poiché aveva per le mani questi libri di Tacito, che aveva egli stesso recente­ mente scoperti, ritiene che Seneca, in punto di morte, spruzzando quell’acqua non libasse tanto a Giove Liberatore, quanto piuttosto prendesse il battesimo cristiano. Il Boccaccio si riallacciava così alla leggenda di Seneca amico di San Paolo e cristiano egli stesso o simpatizzante per il cristianesimo. Leggenda che trovò un certo credito

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ve morì soffocato... Si era diffusa la diceria che Subrio Flavo, in un convegno segreto dei centurioni, senza tuttavia che Seneca lo ignorasse, avesse espresso l’inten­ zione che, ucciso Nerone per mano di Pisone e questi a sua volta tolto di mezzo, si chiamasse Seneca all’Impe­ ro»3. tra i Padri della Chiesa, nel Medioevo, nel primo Umanesimo e anche tra alcuni scrittori dell’età romantica (si veda il saggio di Arnaldo Momigliano in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955: «La corrispondenza tra Seneca e San Paolo», dove sono dimostrate 1 inconsistenza della leggenda e le ragioni della sua fortuna). Sulla partecipazione diretta di Seneca alla congiura di Pisone può valer la pena ricordare al lettore un passo del De beneficiis (VII, 20), nel quale Seneca, a chi gli chiede se davvero si sia tenuti a restituire un beneficio al tiranno quand’esso sia divenuto feroce e bestiale come Apollodoro o Falaride (ed era chiaramente la sua situazione nei riguardi di Nerone dopo il 62), risponde: «Se proprio non c’è nessuna speranza che egli guarisca, con una stessa azione darò a tutti e restituirò a lui il beneficio, perché, per uomini come lui, la morte è il rimedio, e per chi non può più ritornare in sé, la cosa migliore è andarsene». Se queste righe, come sembra, sono del 64, cioè dell’anno precedente la congiura, è difficile non pensare che Seneca non ne sia stato direttamente l’ispiratore. Egli da Nerone aveva ottenuto grandissimi benefici, ma s’era dovuto compromettere per lui in gravi delitti, come il matricidio. Ora, che doveva sentirsi minacciato direttamente, con questa affermazione dichiarava che se al tiranno, divenuto feroce e bestiale, incurabile nella sua ferocia, era dovuta qualche riconoscenza, questa non poteva consistere che nel tirannicidio, «per dare a tutti e restituire a lui il beneficio» (eadem manu, beneficium omnibus dabo, illi reddam). Orbene, è sintomatico che Tacito e Svetonio pongano in bocca ai congiurati, a giustificazione del loro tentativo fallito, le stesse parole del De beneficiis di Seneca. Narra Tacito (Ann., XV, 68): «Il centurione Sulpicio Aspro diede il primo esempio di fermezza, poiché, a Nerone che gli chiedeva perché aveva congiurato per ucciderlo, rispose brevemente che in nessun altro modo sarebbe stato possibile porgergli aiuto dopo tanti delitti». E Svetonio (Nerone, 36): «Mentre alcuni confessarono apertamente il loro delitto, altri se ne vantarono dicendo che non avrebbero potuto essergli d aiuto in altro modo se non col dargli la morte, coperto com’era di ogni abbrobrio». E certo il ritorno di Seneca dalla Campania, testimoniato da Tacito, come s’è visto, in A nn., XV, 60 (is forte an prudens ad eum diem ex Campania remeaverat, per caso o per prudenza, in quel giorno era ritornato dalla Campania) è piuttosto sospetto e induce facilmente a

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pensare che non si trattò di un caso, ma che fu proprio la presenza di Seneca a quattro miglia da Roma, con quel che doveva significare, a far scattare la delazione di Natale. Si veda, in proposito, lo scritto di Piero Treves, Il giorno della morte di Seneca, in Studia Fiorentina, Firenze 1965.

non sul piacere. Sembra composto nel 58, nei primi anni del principato di Nerone. Manca dell’ultima parte.

CRONOLOGIA DELLE OPERE

Dopo la morte di Seneca, una decina di sue opere morali vennero raccolte sotto il nome improprio di dialoghi (infatti non tutte sono in forma dialogica). Si tratta della raccolta intitolata Dialogorum libri X ll, che comprende: 1 De providentia, dedicato a Lucilio. La provvidenza divina vuol mettere alla prova, coi mali della vita, la virtù del saggio. Ritenuto composto negli ultimi anni, per altri risale al 41, all’inizio dell’esilio in Corsica. 2 De constantia sapientis, dedicato ad Anneo Sereno, comandante delle coorti dei vigili. Il saggio non può ricevere offesa dai vili; la virtù è invulnerabile. E di datazione incerta. 3 De ira, tre libri, dedicati al fratello M. Anneo Novato. E un trattato sull’ira, che impedisce la libera espres­ sione del bene; l’odio è un errore e il saggio non deve odiare. L’opera sembra essere tra le prime; da alcuni è datata al 41, l’anno dell’esilio. 4 Ad Marciam de consolatione, dedicato a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, che aveva perduto un figlio di tre anni. Da alcuni è fatta risalire al 40; altri la ritengono composta assai più tardi, l’anno dell’allontana­ mento dal potere. 5 De vita beata al fratello Gallione (il nome assunto da Novato in seguito alla sua adozione da parte del retore Giunio Gallione). La vita felice è fondata sulla virtù e 42

6 De otio, dedicato ad Anneo Sereno. Sia nella vita attiva, sia nella contemplazione, si può giovare agli altri. Composto probabilmente tra il 61 e il 62, manca della prima parte. 7 De tranquillitate animi, dedicato anch’esso a Sereno. La tranquillità è nella virtù del saggio, che non si esalta troppo né si deprime mai e sa sorridere dei mali del mondo. Si fa risalire ai primi anni del principato di Nerone. 8 De brevitate vitae, dedicato a Paolino, prefetto del­ l’annona. È un discorso contro le perdite di tempo e la convinzione di non dover mai morire. Fu composto probabilmente nel 49, dopo il ritorno dall’esilio, o subito prima, in Corsica. 9 Consolatio ad Polybium, dedicato al potente liberto di Claudio e inteso a perorare il ritorno dall’esilio. Si fa risalire ai primi anni del soggiorno in Corsica, intorno al 43. 10 Consolatio ad Helviam matrem, dedicato alla madre Elvia e scritto all’inizio dell’esilio, intorno al 42. Il concetto è che la sua condizione di esiliato non merita molte lacrime. Forse il suo capolavoro consolatorio. Ludus de morte Claudii vel Apokolokynthosis, ovvero la «Zucchificazione», satira menippea contro il morto Imperatore. Fu fatta conoscere l’anno stesso della morte di Claudio, il 54. L’Imperatore, espulso dallOlimpo, finisce agli inferi, schiavo di un liberto. Il titolo sembra alludere, con scherzo osceno, alla punizione che si usava infliggere agli adulteri colti sul fatto, trattati con ravanel­ li, o, come in questo caso, addirittura con una zucca, in greco kolókyntha (si veda A. Rostagni, Apokolokyntho­ sis, Milano 1944). De clementia, tre libri dedicati a Nerone, di cui avanzano 43

il primo e il principio del secondo. È un trattato sulla necessità della clemenza nel principe. Risale al 55. De beneficiis, sette libri dedicati a Ebuzio Liberale, scritti dopo il ritiro di Seneca dalla scena politica (62­ 64). Studiano i rapporti tra beneficante e beneficato, con allusioni alla sua posizione nei confronti di Nerone.

TESTIMONIANZE E GIUDIZI CRITICI

Naturales quaestiones, sette libri dedicati a Lucilio, pub­ blicati tra il 62 e il 63, ma fondati probabilmente su osservazioni e appunti raccolti in precedenza. Affronta­ no i problemi connessi coi fenomeni celesti. A d Lucilium epistularum moralium libri. Almeno 22 libri, di cui ne restano 20, con 124 lettere, composte probabilmente dal 61 fino agli ultimi momenti di vita (65). Il suo capolavoro di filosofia morale. Il Lana in: I. Lana, Lucio Atineo Seneca, Torino, 1957, propone la datazione di alcune di esse: la lettera 18, dicembre del 62 o del 63; la 23, primavera del 63 o del 64; la 67, maggio del 64 o del 65; la 86, fine giugno del 64 (o del 65); la 91, agosto-settembre e la 122 ottobre del 64 o del 65. Databili a dopo il 50 fino al 62 sono le nove tragedie rimaste: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. La tragedia praetexta Octavia, unita nei codici alle altre, da nessuno è più attribuita a Seneca (da alcuni è attribuita ad Anneo Cornuto). Tra le numerose opere perdute, di cui si trovano citazioni e frammenti in più luoghi dello stesso Seneca, in Lattan­ zio, Tertulliano, Plinio, Marziale, Agostino, Prisciano, ecc., sono trattati di filosofia morale, di scienze naturali, le orazioni, e le ultime parole dettate in punto di morte e di cui parla Tacito in Ann., XV, 63, dicendole larga­ mente diffuse dopo la morte di Seneca.

«A bella posta, nella rassegna dei generi letterari, ho differito di parlare di Seneca per l’opinione falsamente divulgata sul mio conto che io lo condanni e non lo possa neppure vedere. E questo mi è accaduto mentre io mi sforzavo di richiamare lo stile corrotto e depravato da ogni vizio a più severo gusto; allora egli solo era nelle mani dei giovani [tum autem solus hic fere in manibus adulescentium fuit]. Orbene, non ero certo io che mi sforzavo di strapparlo assolutamente, ma non potevo tollerare che fosse prefe­ rito ai migliori, che egli non aveva cessato mai di attacca­ re, dal momento che, consapevole della diversità del suo stile, diffidava di poter piacere a quei lettori ai quali quelli piacevano. Più che imitarlo, ne erano affascinati e tanto da lui degeneravano, quanto egli s’era allontanato dagli antichi. Sarebbe davvero desiderabile che riuscisse­ ro pari o almeno molto vicini a quell’uomo. Purtroppo piaceva per i suoi soli difetti e ciascuno si volgeva a riprodurre quelli che poteva; poi, quando si vantava di avere il medesimo stile, screditava Seneca! Del resto, molti e grandi furono i suoi pregi, ingegno facile e abbondante, moltissimo studio, molta erudizione [ingenium facile et copiosum, plurimum studii, multa rerum cognitio]... Trattò anche quasi tutti i generi letterari; di lui vanno per le mani e orazioni e scritti poetici e lettere e dialoghi. In materia di filosofia fu troppo poco accurato [parum diligens], tuttavia nobile persecutore dei vizi. In lui sono molti e bei pensieri, molte parti anche meritano di essere lette per il contenuto morale; ma nello stile c’è 45

molto di corrotto e tanto più dannoso perché abbonda di difetti seducenti [sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis] Si vorrebbe che avesse dettato con il suo ingegno, ma con il gusto altrui [velles eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio]. Se egli avesse disprezzato l’affettazione [obli­ qua], se non avesse desiderato lo stile di maniera [parum recto], se non avesse ceduto in tutto alle sue tendenze, se non avesse sminuzzato in periodetti [minutissimis sententiis] i suoi gravi pensieri, avrebbe il plauso dei dotti piuttosto che l’entusiasmo dei ragazzi. Ma anche così va letto dagli adulti e dagli abbastanza formati nello stile più corretto, anche perché può esercitare lo spirito critico [exercere utrimque iudicìum]. Difatti, come ho detto, c’è in lui molto di buono, molto anche da ammira­ re, purché si usi discernimento nella scelta; e così magari avesse fatto egli stesso! Quell’indole meritava di tendere a un ideale migliore: seppe fare quel che volle [quod voluit effecit].»

che Seneca ha espresso bene, come ciò che ha detto dell’uomo avaro, avido e assetato di denaro: ”Che ti importa ciò che possiedi? è ancor molto di più ciò che non hai” . Ben detto! Ma al carattere dei giovani non giovano tanto le cose dette bene, quanto li danneggiano quelle dette male, e tanto più se predominano queste ultime e non si tratta di argomentazioni su questioni comuni e semplici, ma consigli dati su questioni dubbio­ se.»

(M. Fabio Quintiliano [35-96 d.C.], Istituzione ora­ toria, X, I, 125-131; trad. P. Giardelli, Firenze 1943.)

10.)

«L’eloquenza di Seneca è tutta seminata di prugnettine flaccide e malaticce...» (M. Cornelio Frontone [100-166 d.C.]; ed. V. den Hout, p. 149.) «Alcuni ritengono che Anneo Seneca sia scrittore di scarso valore, e che non valga la spesa di cercare le sue opere, perché il suo stile è considerato comune e volgare, il pensiero e gli argomenti svolti con un’inutile e ridicola enfasi, o con una sofisticheria poco profonda e curiale­ sca, un insegnamento sciatto e plebeo: insomma, nulla che ricordi la grazia e la dignità degli antichi scrittori. Altri, al contrario, pur riconoscendo che vi è poca ele­ ganza nello stile, ritengono che non gli manchi conoscen­ za dei soggetti che tratta, ordine nell’esposizione e una severità e serietà non prive di garbo nel censurare i vizi del suo tempo. Desidero però riferire e ricordare alcune poche cose 46

(Aulo Gellio [II sec. d.C.], Le notti attiche, XII, 2; trad. L. Rusca, BUR, 1968.) «Ma costui, che lo studio della filosofia tanto accostò alla vera libertà, senatore com’era dell’illustre popolo romano, inseguiva ciò che rimproverava, faceva ciò che biasimava, ciò che incolpava, adorava [colebat quod reprehendebat, agebat quod arguebat, quod culpabat, adorabat].» (Aurelio Agostino [354-430], La città di Dio, VI,

«Quanto all’altra mia lettura, che unisce un po’ più di frutto al piacere, da cui imparo a ordinare i miei umori e le mie posizioni, i libri che mi servono a questo sono Plutarco... e Seneca. Hanno tutti e due questo vantaggio notevole per la mia indole, che la scienza che vi cerco vi è trattata a brani scuciti, che non richiedono l’obbligo di un lungo lavoro, di cui sono incapace, come gli Opuscoli di Plutarco e le Lettere di Seneca, che sono la parte più bella dei suoi scritti, e la più utile.» (Montaigne, Saggi, Milano, 1970, pp. 532-533; trad. F. Garavini.) «È lo scrittore più moderno della letteratura latina: ed è l’unico che ci parli ancora come fosse vivo nella lingua morta di Roma. Pensatore e artista, prosatore e poeta, non fu creatore di nuove dottrine, non fu propriamente né un fisico né un filosofo: ma dei problemi fisici e filosofici ebbe la conoscenza e soprattutto la sensibilità, 47

e nessuno meglio di lui nel mondo antico seppe parlare a tutti gli uomini dei casi della vita e della morte.» (Concetto Marchesi, Storia della Letteratura latina, Seneca, Messina-Milano 1937.) «Seneca ha potuto introdurre variazioni sulla necessità per il saggio di partecipare alla vita politica: ma non ha mai cessato di affermare come il perfezionamento interiore del saggio illumini la collettività... Le Lettere a Lucilio e, in genere, l’opera del filosofo esprimono una grande tenerezza per l’uomo. Egli ci strapazza, ci propone talvolta un ideale che ci scoraggia, con la sua irrealizzabile perfezione. Ma ha per noi un’amicizia com­ movente, e la sua rigidezza si distempera in commisera­ zione. Un simile amore degli uomini spiega ch’egli non abbia mai cessato d’essere oggetto delle nostre letture e dei nostri pensieri. È per noi un Montaigne spoglio di egoismo, un Montaigne che ci ritrova in sé, che pensa a noi e ci offre quello che ha di più prezioso: la certezza.» (H. Bardon, Il genio latino, Roma 1961, pp. 106 e 195; trad. E. Paratore.) «Per raggiungere quell’armonia interiore che in Musonio era un dono di natura, Seneca dovette lottare tutta la vita. Era un uomo problematico per carattere, combattu­ to da tendenze diverse e contrastanti. Al bisogno di attività e all’ardente ambizione del provinciale, che lo spingevano nell’arena politica, egli univa l’inclinazione alla riflessione e allo studio scientifico; col romano senso dello stato fondeva l’individualismo della nuova genera­ zione. Non c’è scrittore satirico che abbia flagellato con più impeto di lui le debolezze e i mali del tempo, eppure si lasciò di buon grado travolgere dal turbine della vita della capitale. Non immune da una certa tendenza all’ascetismo, indulse anche lui all’insensato lusso della mensa, quasi fosse un obbligo connesso alla sua posizio­ ne sociale. Era onestamente convinto che la ricchezza non procura la felicità, ma accettò ben volentieri i milioni che il favore di Nerone gli faceva piovere in grembo. Condannò come cosa inutile le sottigliezze della dialetti­ 48

ca stoica, ma se ne compiacque come di un elegante gioco dell’intelligenza. Questo medesimo gusto per il gioco intelligente, unito all’odio personale, lo indusse a dare in pasto agli scherni della società di corte, dopo la sua morte, Claudio, di cui durante l’esilio aveva implora­ to la grazia con smaccate adulazioni, e ciò nello stesso momento in cui componeva l’elogio funebre ufficiale dell’Imperatore. Non gli sfuggì l’innaturalezza della reto­ rica del tempo, eppure fu egli stesso il più splendido rappresentante dello stile in voga e, mentre in teoria sosteneva che l’esposizione filosofica, pur perseguendo la bellezza formale, deve sempre anteporre il che cosa al come, cedette troppo facilmente alla tentazione di falsare o caricare il pensiero per amore di una pointe spiritosa o di un’antitesi smagliante, e anche nella sua struttura complessiva lo stile senecano, inquieto e saltel­ lante, non favorisce l’uniforme fluire della trattazione scientifica. Ancor più dà a pensare il fatto che l’educazio­ ne retorica aveva abituato Seneca all’idea che un discor­ so costruito secondo le regole dell’arte rappresenta un mondo a sé, il quale non deve necessariamente coincide­ re in modo perfetto con la realtà dei fatti e con i veri sentimenti dell’autore. Seneca visse un conflitto veramente tragico quando, salito al trono Nerone, si trovò a dividere con Burro la responsabilità del governo dello stato. Egli sapeva bene quale belva sonnecchiasse nel suo discepolo e intuiva che si sarebbe lasciata guidare solo se, in parte, venivano allentate le briglie. Avvenne così che non solo favorì la vita di piaceri e le velleità artistiche del giovane Imperatore, ma si prestò, dopo l’assassinio di Agrippina, a comporre l’orazione destinata a giustificare davanti al senato il matricidio. È indubbio che né lui né Burro agirono a questo modo per pura sete di potere o per servilismo; Seneca comprendeva che solo così poteva assolvere il suo più alto dovere morale: provvedere al bene deH’umanità. E in effetti i primi anni del regno di Nerone erano considerati ancora molti decenni dopo un periodo particolarmente felice nella vita dell’Impero. Fu probabilmente allora che Seneca scrisse, nelle sue 49

Esortazioni alla filosofia, questa frase: ”11 saggio farà anche ciò che non approva per trovare il passaggio verso cose più alte, né rinuncerà ai suoi buoni costumi, ma li adatterà ai tempi, e le cose che agli altri servono per la gloria e il piacere le userà per Fattività pratica” (fr. 19). [...] E facile dare addosso a Seneca, additarlo come l’uomo dei compromessi o, peggio, come un ipocrita. Più difficile rendergli giustizia, cogliendo le diverse ten­ denze - spesso radicate nella realtà storica dell’epoca che si scontravano nel suo animo. Seneca stesso espresse questo giudizio su Mecenate: "Aveva un animo grande e virile, se non lo avesse snervato la fortuna” . Anche per Seneca il favore di Nerone rappresentò un pericolo. Ma egli indubbiamente sfruttò il periodo in cui fu in auge per compiere grandi cose a vantaggio dell’umanità. Nessuno può negare l’onestà delle sue intenzioni. Il fondamento morale lo trovò nella fede stoica. Non sem­ pre riuscì ad impostare la sua vita in armonia con la dottrina stoica. Ma da stoico seppe morire. E in faccia alla morte potè dire ai suoi amici che la più bella eredità che lasciava loro era l’esempio della sua vita. Certo non è stato solo lo scintillio del suo stile a procurare tanti lettori, attraverso i millenni, alle sue opere.»

getta in faccia la sua ultima definizione del sapiens: humani generis paedagogus (ep. 89,13). Una parola così tesa corre il rischio di cadere nel teatrale, in quello iactare ingenium che gli rimprovera la malevola acutezza di Tacito (ann. 13, 11); ma la retorica di Seneca è il suo modo sincero di parlare agli uomini per giovare agli uomini. Lo stile senecano riflette dunque un doppio e opposto movimento: dall’esterno all’interno, verso la solitaria libertà dell’io - il linguaggio dell’interiorità; dall’interno all’esterno, verso la liberazione dell’umanità - il linguag­ gio della predicazione: malitia liberatus et liberai (ep. 94, 19). In questo noi sentiamo la sua drammaticità. Dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cella e il pulpito; ma forse c’è qualcosa di più, che ci tocca più da vicino: il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uomini.» (A. Traina, Lo stile «drammatico» del filosofo Sene­ ca, Bologna 19843 p. 41.)

(Max Pohlenz [1872-1962], La Stoa\ trad. Ottone De Gregorio, Firenze 1967 pp. 56, 104.) «Come pedagogo e ministro di Nerone, Seneca cerca di realizzare nella società romana quell’età dell’oro in cui egli vedeva, con Posidonio, non il regno di Saturno, ma il regno dei sapienti (ep. 90, 5). Sconfitto dalla realtà, tagliato fuori dalla politica, si sceglie un altro allievo, Lucilio, e lo rivendica a sé: adsero te mihi, meum opus es (ep. 34, 2). Ma, dietro Lucilio, Seneca parla al genere umano, alle moltitudini che verranno: posterorum negotium ago (ep. 8, 2). Escluso dal presente, costruisce l’avvenire: paucis natus est, qui populum aetatis suae cogitai. Multa annorum milia, multa populorum supervenient: ad illa respice (ep. 79, 17). In questa vertiginosa prospettiva egli può prendersi la rivincita sulla più bru­ ciante delusione della sua vita: all’imperiale ex-allievo 50

La cronologia, le testimonianze e giudizi critici sono a cura di Ettore Barelli. La nota bibliografica, la nota al testo e l’adattamento della traduzione al testo a fronte sono a cura di Gianpiero Rosati.

NOTA BIBLIOGRAFICA

EDIZIONI COMPLETE DI SENECA

F. Haase, Leipzig (Bibl. Teubn.) 1852-53. EDIZIONI DELLE «EPISTULAE»

O. Hense, Leipzig (Bibl. Teubn.) 19142. R.M. Gummere (con trad. ingl.), London-Cambridee M. (Coll. Loeb) 1917. A. Beltrami, Roma 1931. F. Préchac (con trad. frane, di H. Noblot), Paris (Coll. G. Budé) 1945-64. L.D. Reynolds, Oxford (Oxford Classical Texts) 1965.

Seneca. Letture critiche, a c. di A. Traina, Milano 1976. C. Marchesi, Seneca, Messina 1920 (19443). U. Knoche, Der Philosoph Seneca, Frankfurt 1933. I. Lana, Lucio Anneo Seneca, Torino 1955. W. Trillitzsch, Interpretationen zu Senecas Beweisfuhrung, Berlin 1962. H. Cancik, Untersuchungen zu Senecas epistulae morales, Hildesheim 1967. I. Hadot, Seneca und die griechisch-rómische Tradition der Seelenleitung, Berlin 1969. M.T. Griffin, Seneca, a Philosopher in Politics, Oxford 1976. M. Rozelaar, Seneca. Eine Gesamtdarstellung, Amster­ dam 1976. G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente ebraico e cristiano, Brescia 1977. M. Bellincioni, Educazione alla sapientia in Seneca, Brescia 1978. P. Grimal, Sénèque ou la conscience de l’Empire, Paris 1978. K. Abel, Dos Problem der Faktizitàt der Senecanischen Korrespondenz, in «Hermes» 109, 1981, pp. 472-499. REPERTORI TEMATICI

COMMENTI O STUDI PARZIALI

Libro 1 (ep. 1-12), a.c. di G. Scarpai, Brescia 1975. G. Scarpai, La lettera 65 di Seneca, Brescia 1965 (19702). A. Stuckelberger, Senecas 88. Brief, Heidelberg 1965. H. Zechel, Seneca. Brief 89, Diss. Wurzburg 1966. Libro X V (ep. 94 e 95), a.c. di M. Bellincioni, Brescia 1979. STUDI SU SENECA, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLE «EPISTULAE»

Seneca, ed. by C.D.N. Costa, London-Boston 1974. Seneca als Philosoph, hrsg. v. G. Maurach, Darmstadt 1975. 52

A.L. M o t t o , Guide to thè Thought o f Lucius Annaeus Seneca, Amsterdam 1970. SU LINGUA, STILE, COMPOSIZIONE, STRUTTURA

A. Bourgery, Sénèque prosateur, Paris 1922. E. Albertini, La composition dans les ouvrages philosophiques de Sénèque, Paris 1923. G. Maurach, Der Bau von Senecas Epistulae Morales, Heidelberg 1970. A. Traina, Lo stile «drammatico» del filosofo Seneca, Bologna 1974 (19843). B. L. Hijmans, Inlaboratus etfacilis. Aspects ofStructure in Some Letters o f Seneca, Leiden 1976. 53

SUL GENERE EPISTOLARE

H. Peter, Der Brief in der ròmischen Literatur, Leipzig 190L K. Thraede, Grundziige griechisch-ròmischer Brieftopik, Munchen 1970. W.G. Mùller, Der Brief als Spiegel der Seele. Zur Geschichte eines Topos der Epistolartheorie von der Antike bis zu Samuel Richardson, in «Antike und Abendland» 26, 1980, pp. 138-157. G. Rosati, Seneca sulla lettera filosofica. Un genere lette­ rario nel cammino verso la saggezza, in «Maia» 33, 1981, pp. 3-15. SULLA TRADIZIONE MANOSCRITTA

L. D. Reynolds, The Medieval Tradition ofSeneca’s Letters, Oxford 1965. SULLA FORTUNA

P. Faider, Études sur Sénèque, Gand 1921. K.D. Nothdurft, Studien zum Einfluss Senecas auf die Philosophie und Theologie des zwòlften Jahrhunderts, Leiden-Kòln 1963. W. Trillitzsch, Seneca im literarischen Urteil der Antike, Amsterdam 1971.

NOTA AL TESTO

Divise in 20 libri (ma sono incerti gli inizi dei libri XII, XIII, XVIII), le 124 epistole superstiti (che fossero più numerose lo attesta un passo di Aulo Gellio, XII 2, 2 sgg., che cita brani estratti da un ventiduesimo libro) ci sono state per lo più tramandate in due gruppi separati: 1-88 e 89-124. Quasi tutti i codici precedenti al sec. XII, salvo l’importante Q (Brixiensis Quirinianus B. IL 6, databile tra la fine del IX e l’inizio del X sec.), contengono solo l’uno o l’altro dei due gruppi (il primo dei quali pare che abbia subito talora un’ulte­ riore divisione in due sezioni: 1-52 e 53-88). Abbiamo quindi due tradizioni separate: quella del primo volu­ me, cioè il gruppo 1-88, che godette di diffusione molto più ampia durante il Medioevo, si ricostruisce sulla base di due famiglie di manoscritti (designate a e γ) e del codice p (Parisinus lat. 8540, sec. IX). Le testimonianze antiche del gruppo 89-124 sono invece assai più rare: oltre che sul già nominato Q ci si fonda soprattutto sul codice B {Bambergensis V. 14, sec. IX), il più antico e meglio conservato, e probabilmen­ te copia diretta di un codice in onciale che costituisce l’archetipo di questa parte della tradizione. Il corpus senecano (o almeno le sue parti superstiti) si ricompo­ ne nel dodicesimo secolo, in coincidenza con la straor­ dinaria impennata della fortuna di Seneca, che fece delle Lettere un testo molto letto e diffuso in tutta l’Europa occidentale. GIANPIERO ROSATI

LETTERE A LUCILIO EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM (LIBRI I - IX)

AVVERTENZA

Il testo latino qui riprodotto è quello dell’edizione cura­ ta da L. D. Reynolds (Oxford 1965). A fronte del testo si stampa la traduzione di Giuseppe Monti, già compar­ sa precedentemente nella Biblioteca Universale Rizzo­ li, con gli aggiustamenti ritenuti necessari. Nel testo latino le parentesi quadre ([ ]) indicano espunzione; gli asterischi (* * *) una lacuna; le cruces (t t) passi corrotti e impossibili da restituire; le paren­ tesi uncinate (< >) le integrazioni dell’editore.

PARTE PRIMA L I BER P R IM V S

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S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris adtendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, 2 maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori ? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas conplectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. 3 Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum inpetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam deber,e qui 1

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L IB R O PR IM O

LETTERA I

L ’uso del tempo Fa’ così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com’egli muoia giorno per giorno? In questo c’inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa’ ciò che mi scrivi; fa’ tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone del­ l’oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l’uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli 59

tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. 4 Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue : quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constai inpensae. N on possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, 5 nemo succurrit. Quid ergo est ? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, ‘sera parsimonia in fundo est’; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale.

2

S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum 2 morari. Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis inmorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant 1

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altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l’unico bene che l’uomo non può restituire, nep­ pure con tutta la sua buona volontà. Mi domanderai forse come mi comporti io che ti dò questi consigli. Te lo dirò francamente: il mio caso è quello di un uomo che spende con liberalità, ma tiene in ordine la sua amministrazione; anch’io tengo i conti esatti della spesa. Non posso dire che nulla vada perduto, ma sono in grado di dire quanto tempo perdo, perché e come lo perdo; posso cioè spiegare i motivi della mia povertà. Capita anche a me, come alla maggior parte della gente caduta in miseria senza sua colpa: tutti sono disposti a scusare, ma nessuno viene in aiuto. E che dunque? Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare. Ma tu, fin d’ora, serba gelosamente tutto quello che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché - ci ammoniscono i nostri vecchi —«è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia». Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore. Addio. LETTERA 2

La lettura che giova Quello che mi scrivi, come quello che sento dire, mi fa bene sperare di te. Tu non vai qua e là, né ti agiti cambiando continuamente luogo. Quest’irrequietezza è propria di uno spirito malato; ed io considero come primo indizio di un animo equilibrato il sapere restar fermo e raccolto in se stesso. Bada inoltre che, in codesta lettura di molti autori e di libri di ogni genere, tu non vada vagando dall’uno all’altro. Devi acquistare dimestichezza con autori scelti e nutrirti di essi, se vuoi trarne qualcosa che rimanga stabilmente nell’animo. Chi vuol essere da per tutto, non sta in nessun luogo. Chi passa la vita in un continuo vagabondaggio, troverà molti ospiti, ma nessun vero amico. Così è necessario che capiti a chi non si applica con assiduità allo studio 61

3 sed omnia cursim et properantes transmittunt. Non prodest

cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem inpedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur;, non convalescit pianta quae saépe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est 4 habere quantum legas. ‘Sed modo’ inquis ‘hunc librum evolvere volo, modo illum.’ Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversus paupertatem, aliquid adversus mortem auxili compara, nec minus adversus còteras pestes; et cum multa percurreris, 5 unum excerpe quod ilio die concoquas. Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid adprehendo. Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum (soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam 6 explorator): ‘honesta’ inquit ‘res est laeta paupertas’. Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est. Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non adquisita sed adquirenda conputat ? Quis sit divitiarum modus quaeris ? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. Vale.

di nessun autore ma tutti li scorre in fretta. Non giova, né si assimila, il cibo rigettato appena preso. Niente impedisce tanto la guarigione quanto il cambiare spesso i rimedi. Non arriva a cicatrizzarsi la ferita, se si provano varie medicature. Non cresce vigoroso l’albero che è spesso trapiantato. Nessuna cosa, per quanto utile, reca giovamento in un fuggevole contatto. Troppi libri produ­ cono dissipazione: perciò, se non ti è possibile leggere tutti i libri che potresti avere, basta che tu abbia i libri che puoi leggere. «Ma» tu dici «a me piace sfogliare ora questo volume, ora quello.» Assaggiare qua e là è pro­ prio di uno stomaco viziato e troppi cibi diversi non nutrono, ma rovinano l’organismo. Perciò leggi sempre i migliori autori e, se talvolta vuoi passare ad altri, torna poi ai primi. Cerca ogni giorno nella lettura un aiuto per sopportare la povertà e per affrontare la morte e tutte le altre sventure umane. Dopo aver letto molto, scegli un pensiero che tu possa assimilare in quel giorno. Anch’io faccio così: del molto che leggo, prendo sempre qualcosa. Questa, ad esempio, è la massima di oggi, che ho trovato in Epicuro (ho, infatti, l’abitudine di passare in campo altrui, ma come esploratore, non come diserto­ re1): «E una bella cosa» egli dice «la povertà accettata con animo lieto». Ma, se è bene accolta, non è più povertà. È povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più. Che conta quanto uno abbia nella cassaforte o nei granai, quanti armenti abbia al pascolo o quanto gli rendano i crediti, se pensa sempre alla ricchezza altrui e fa calcoli, non su quello che possiede, ma su quello che vorrebbe acquistare? Mi chiedi quale sia il giusto limite della ricchezza. Avere anzitutto l’indispensabile, poi ciò che basta. Addio.

1 Seneca intende dire che cerca anche in altre dottrine tutto ciò che di buono vi può trovare, senza però tradire i suoi ideali di filosofo stoico. Come si vedrà nelle lettere successive, cita spesso Epicuro, anche se non accetta la morale epicurea.

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3 1

S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Epistulas ad me perferendas tradidisti, ut scribis, amico tuo; deinde admones me ne omnia cum eo ad te pertinentia communicem, quia non soleas ne ipse quidem id facere: ita eadem epistula illum et dixisti amicum et negasti. Itaque si proprio ilio verbo quasi publico usus es et sic illum amicum vocasti quomodo omnes candidatos ‘bonos viros’ dicimus, quomodo obvios, si nomen non succurrit, ‘dominos’ saluta2 mus, hac abierit. Sed Si aliquem amicum existimas cui non tantundem credis quantum tibi, vehementer erras et non satis nosti vim verae amicitiae. T u vero omnia cum amico delibera, sed de ipso prius: post amicitiam credendum est, ante amicitiam iudicandum. Isti vero praepostero officia permiscent qui, contra praecepta Theophrasti, cum amaverunt iudicant, et non amant cum iudicaverunt. Diu cogita an tibi in amicitiam aliquis recipiendus sit. Cum placuerit fieri, toto illum pectore admitte; tam audaciter cum ilio loquere 3 quam tecum. T u quidem ita vive ut nihil tibi committas nisi quod committere etiam inimico tuo possis; sed quia interveniunt quaedam quae consuetudo fecit arcana, cum amico omnes curas, omnes cogitationes tuas misce. Fidelem si putaveris, facies; nam quidam fallere docuerunt dum timent falli, et illi ius peccandi suspicando fecerunt. Quid est quare ego ulla verba coram amico meo retraham ? quid est 4 quare me coram ilio non putem solum ? Quidam quae tantum amicis committenda sunt obviis narrant, et in quaslibet aures quidquid illos urit exonerant; quidam rursus etiam carissimorum conscientiam reformidant et, si possent, ne

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LETTERA 3

La vera amicizia Mi scrivi di aver consegnato delle lettere per me ad un amico; ma poi mi avverti di non metterlo a parte di tutto ciò che ti riguarda, poiché neppure tu sei solito farlo. Così nella stessa lettera affermi e neghi che egli ti è amico. Se hai usato quel vocabolo specifico con un significato generico e hai chiamato amico quel tale, come noi chiamiamo «onorevoli» i candidati alle cariche pubbliche, o come salutiamo con la parola «signori» le persone che incontriamo, se non ci viene in mente il nome, passi pure. Ma se stimi amico uno, e poi non hai in lui la stessa fiducia che hai in te stesso, commetti un grave errore e ignori il valore della vera amicizia. Prendi ogni decisione d’accordo con l’amico, ma prima sii ben sicuro di lui. Prima devi giudicarlo, ma, una volta che hai stretto l’amicizia, devi fidarti pienamente di lui. Applicano a rovescio i doveri dell’amicizia quelli che, contro l’insegnamento di Teofrasto, si fanno giudici di uno, dopo avergli concesso il loro affetto; poi, quando l’hanno giudicato, rompono l’amicizia. Rifletti a lungo se devi accettare qualcuno fra i tuoi amici, ma, presa la decisione, accoglilo di tutto cuore; e, quando parli con lui, sii schietto come con te stesso. La tua vita sia così sincera che tu possa confidare anche al tuo nemico tutto quello che ti passa per la mente. Ma poiché ci sono fatti che si usa tenere nascosti, è l’amico che devi mettere a parte di tutti i tuoi pensieri e di tutte le tue preoccupazio­ ni. Credi alla sua fedeltà: te lo renderai fedele. Alcuni, infatti, con la loro continua paura di essere traditi, invitano al tradimento: essi, con il loro atteggiamento sospettoso, creano quasi una giustificazione al peccato. Perché non dovrei dire tutto quello che penso in pre­ senza dell’amico? Perché davanti a lui non dovrei sentir­ mi a mio agio, come quando sono solo? C’è chi suole narrare al primo che incontra ciò che si può confidare solo all’amico, e riversa in qualunque orecchio il peso dei suoi affanni. C’è chi, al contrario, ha paura che anche la persona più cara venga a conoscenza dei suoi 65

sibi quidem credituri interius premunt omne secretum. Neutrum faciendum est; utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli, sed alterum honestius dixerim 5 vitium, alterum tutius. Sic utrosque reprehendas, et eos qui semper inquieti sunt, et eos qui semper quiescunt. Nam illa tumultu gaudens non est industria sed exagitatae mentis concursatio, et haec non est quies quae motum omnem 6 molestiam iudicat, sed dissolutio et languor. Itaque hoc quod apud Pomponium legi animo mandabitur: ‘quidam adeo in latebras refugerunt ut putent in turbido esse quidquid in luce est’. Inter se ista miscenda sunt: et quiescenti agendum et agenti quiescendum est. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Persevera ut coepisti et quantum potes propera, quo diutius fruì emendato animo et composito possis. Frueris quidem etiam dum emendas, etiam dum componis: alia tamen illa voluptas est quae percipitur ex contemplatione mentis ab 2 omni labe purae et splendidae. Tenes utique memoria quantum senseris gaudium cum praetexta posita sumpsisti virilem togam et in forum deductus es: maius expecta cum puerilem animum deposueris et te in viros philosophia transscripserit. Adhuc enim non pueritia sed, quod est gravius,

segreti e li soffoca nel suo intimo, per tenerli nascosti, se fosse possibile, anche a se stesso. Bisogna evitare l’uno e l’altro eccesso: è male sia il fidarsi di tutti, sia di nessuno; ma direi che il primo difetto è più onesto, il secondo più sicuro. Sono ugualmente da biasimare e quelli che sono sempre inquieti e quelli che sempre rimangono apatici. Infatti il continuo agitarsi di una vita tumultuosa non è sana operosità, ma irrequietezza di una mente esaltata; e il considerare molesta ogni attività non è vera quiete, ma sintomo di inettitudine. Tu terrai, dunque, bene in mente questo pensiero di Pomponio: «V’è chi vive così chiuso nel suo guscio, da vedere un oscuro pericolo in tutto ciò che sta alla luce del sole». Occorre saper conciliare le due condizioni di vita: l’uomo che vive nella quiete sia più operoso, e l’uomo d azione trovi il tempo per riposare. Tu segui l’esempio che ti dà madre natura: essa ha fatto sia il giorno che la notte. Addio.

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lettera 4

Il saggio non teme la morte Continua come hai cominciato, anzi affretta il passo, perché tu possa godere più a lungo di un animo ben educato e corretto. Proverai anche piacere nell’atto di correggere ed educare il tuo spirito, ma quando lo potrai contemplare limpido e puro da ogni macchia, ben altra sarà la tua gioia. Tu certo ricordi che soddisfazione hai provato il giorno in cui, deposto l’abito di fanciullo, hai indossato la toga virile e sei stato condotto nel foro: ora aspettane una maggiore quando avrai deposto anche l’animo di fanciullo e la filosofia ti avrà fatto acquistare la piena maturità spirituale1. Fino a questo momento rimane non la puerizia, ma, ciò che è più grave, la puerilità: 1 Seneca, pur rallegrandosi con Lucilio dei suoi progressi morali, è convinto che il suo discepolo sia ancora lontano dalla vera saggezza, intesa come imperturbabilità di fronte a quegli avvenimenti (e, soprat­ tutto, la morte) che fanno paura alla comune umanità. Il tema della lettera vuol essere un contributo al raggiungimento di questa piena maturità spirituale.

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puerilitas remanet; et hoc quidem peior est, quod auctoritatem habemus senum, vitia puerorum, nec puerorum tantum 3 sed infantum : illi levia, hi falsa formidant, nos utraque. Profice modo: intelleges quaedam ideo minus timenda quia multum metus adferunt. Nullum (malum) magnum quod extremum est. Mors ad te venit : timenda erat si tecum esse 4 posset: necesse est aut non perveniat aut transeat. ‘Difficile est’ inquis ‘animum perducere ad contemptionem animae.’ Non vides quam ex frivolis causis contemnatur ? Alius ante amicae fores laqueo pependit, alius se praecipitavit e tecto ne dominum stomachantem diutius audiret, alius ne reduceretur e fuga ferrum adegit in viscera : non putas virtutem hoc effecturam quod efficit himia formido? Nulli potest secura vita contingere qui de producenda nimis cogitat, qui 5 inter magna bona multos consules numerat. Hoc cotidie meditare, ut possis aequo animo vitam relinquere, quam multi sic conplectuntur et tencnt quomodo qui aqua torrente rapiuntur spinas et aspera. Plerique inter mortis metum et vitae tormenta miseri fluctuantur et vivere nolunt, mori nesciunt. 6 Fac itaque tibi iucundam vitam omnem prò illa sollicitudinem deponendo. Nullum bonum adiuvat habentem nisi ad cuius amissionem praeparatus est animus; nullius autem rei facilior amissio est quam quae desiderari amissa non potest. Ergo adversus haec quae incidere possunt etiam potentissi7 mis adhortare te et indura. D e Pompei capite pupillus et spado tulere sententiam, de Crasso crudelis et insolens Parthus ; Gaius Caesar iussit Lepidum Dextro tribuno praebere cervicem, ipse Chaereae praestitit; neminem eo fortuna provexit ut non tantum illi minaretur quantum permiserat. Noli huic tranquillitati confidere: momento mare evertitur; eodem die

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e in questo è peggiore la nostra condizione, che abbiamo Γautorità dei vecchi e i difetti dei fanciulli, anzi degli infanti. I fanciulli si spaventano per cose di poco conto, gl’infanti per vane parvenze; noi abbiamo paura delle une e delle altre. Continua nei tuoi progressi e capirai che sono meno da temere proprio quelle cose che fanno più paura. Nessun male è grande quando è definitivo. La morte viene verso di te: sarebbe da temersi se potesse rimanere con te; per necessità, o non è ancora venuta, o quando è venuta, passa oltre. «È difficile» tu dici «abituare la nostra mente al disprezzo della vita.» E non vedi per quali frivoli motivi essa viene disprezzata? C’è chi s’impicca davanti alla porta dell’amica; un servo si getta dal tetto per non sentire i rimbrotti del padrone; un altro si caccia un pugnale nel petto per non tornare a quel lavoro servile da cui era fuggito. Non pensi tu che un animo coraggioso possa giungere a quel disprezzo della vita che è spesso effetto di soverchia paura? Non può godere una vita tranquilla chi pensa troppo a prolun­ garla e annovera fra i grandi beni il vivere a lungo. Tu, invece, sii sempre pronto a lasciare con animo sereno questa vita, a cui tanti si attaccano, come chi è travolto da un vorticoso torrente tenta di aggrapparsi ad ogni arbusto. Gli uomini, in maggioranza, ondeggiano tra il timore della morte e i tormenti della vita; non hanno il coraggio di vivere, né sanno morire. Se vuoi rendere gioiosa la tua vita, lascia ogni preoccupazione per essa. Nessun bene giova a chi lo possiede, se il suo animo non è pronto a perderlo; ed è più facile accettarne la perdita se, una volta perduto, non può essere rimpianto. Perciò prepara virilmente il tuo spirito a quanto può capitare anche ai più potenti. Un fanciullo ed un eunuco decisero la morte di Pompeo; quella di Crasso fu decisa dai crudeli e barbari Parti; Caligola diede ordine che Lepido porgesse il collo al tribuno Destro, ed egli stesso dovette porgerlo a Cherea. Nessun uomo salì tanto in alto, da sottrarsi alla minaccia di tutto quel male che la sorte gli aveva permesso di fare agli altri. Non fidarti della presen­ te tranquillità: il mare si sconvolge in un attimo e le 69

8 ubi luserunt navigia sorbentur. Cogita posse et latronem et hostem admovere iugulo tuo gladium; ut potestas maior absit, nemo non servus habet in te vitae necisque arbitrium. Ita dico: quisquis vitam suam contempsit tuae dominus est. Recognosce exempla eorum qui domesticis insidiis perierunt, aut aperta vi aut dolo: intelleges non pauciores servorum ira cecidisse quam regum. Quid ad te itaque quam potens sit quem times, cum id propter quod times nemo non possiti 9 At si forte in manus hostium incideris, victor te duci iubebit— eo nempe quo duceris. Quid te ipse decipis et hoc nunc primum quod olim patiebaris intellegis ? Ita dico : ex quo natus es, duceris. Haec et eiusmodi versanda in animo sunt si volumus ultimam illam horam placidi expectare cuius metus omnes alias inquietas facit. 10 Sed ut finem epistulae inponam, accipe quod mihi hodierno die placuit—et hoc quoque ex alienis hortulis sumptum est: ‘magnae divitiae sunt lege naturae composita paupertas’. Lex autem illa naturae scis quos nobis terminos statuat? Non esurire, non sitire, non algere. U t famem sitimque depellas non est necesse superbis adsidere liminibus nec supercilium grave et contumeliosam etiam humanitatem pati, non est necesse maria temptare nec sequi castra : parabile 11 est quod natura desiderai et adpositum. Ad supervacua sudatur; illa sunt quae togam conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora inpingunt: ad manum est quod sat est. Cui cum paupertate bene convenit dives est. Vale.

barche nello stesso giorno vengono sommerse proprio là dove vagavano per diporto. Pensa che un assassino o un nemico può piantarti un pugnale nella gola; e quando non c’è un potente, c’è sempre uno schiavo che ha facoltà di vita o di morte su di te. Intendo dire: chiunque è disposto a mettere a rischio la sua vita è padrone della tua. Rammenta gli esempi di coloro che furono vittime di delitti domestici, compiuti con agguati e con violenza aperta: troverai che i caduti per odio di schiavi non sono meno numerosi di quelli che incorsero nell’ira del re. Che t’importa, dunque, quanto sia potente l’uomo che temi, se c’è sempre qualcuno che può farti ciò che temi? Se per caso cadrai nelle mani dei nemici, il vincitore ti farà condurre là appunto, dove sei già avviato. Perché dunque inganni te stesso e solo in tale momento supremo comprendi per la prima volta quel destino a cui da tempo eri soggetto? Dal momento in cui sei nato, tu sei avviato alla morte. Dobbiamo avere sempre in mente tali pensie­ ri, se vogliamo aspettare sereni quest’ultima ora, la cui paura ci rende inquiete tutte le altre. E, per concludere, eccoti la massima che ho scelto per oggi, presa, anch’essa, dai giardini altrui2: «E una grande ricchezza una povertà ordinata secondo la legge della natura». E sai quali limiti a noi stabilisca la legge di natura? Non soffrire la fame, né la sete, né il freddo. Per tenere lontane la fame e la sete, non è necessario sedersi alle soglie dei potenti e sopportarne il contegno sprezzante, o la falsa e umiliante cortesia; non occorre solcare i mari o seguire spedizioni militari. Quello che la natura esige possiamo procurarcelo facilmente. Eppu­ re ci affanniamo per il superfluo: per il superfluo ci logoriamo le vesti, diventiamo vecchi negli accampamen­ ti, ci avventuriamo in terre straniere; mentre ciò che basta ci è a portata di mano. Chi va d’accordo con la povertà è ricco. Addio.

2 Si tratta di una massima epicurea. Perciò Seneca la considera scherzosamente come un fiore colto nel giardino di un altro.

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LETTERA 5

Quod pertinaciter studes et omnibus omissis hoc unum agis, ut te meliorem cotidie facias, et probo et gaudeo, nec tantum hortor ut perseveres sed etiam rogo. Illud autem te admoneo, ne eorum more qui non proficere sed conspici cupiunt facias aliqua quae in habitu tuo aut genere vitae notabilia sint; asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evita. Satis ipsum nomen philosophiae, etiam si modeste tractetur, invidiosum est : quid si nos hominum consuetudini coeperimus excerpere ? Intus omnia dissimilia sint, frons populo nostra conveniat. Non splendeat toga, ne sordeat quidem; non habeamus argentum in quod solidi auri caelatura descenderit, sed non putemus frugalitatis indicium auro argentoque caruisse. Id agamus ut meliorem vitam sequamur quam vulgus, non ut contrariam: alioquin quos emendari volumus fugamus a nobis et avertimus; illud quoque efficimus, ut nihil imitari velini nostri, dum timent ne imitanda sint omnia. Hoc primum philosophia promittit, sensum communem, humanitatem et congregationem ; a qua professione dissimilitudo nos separabit. Videamus ne ista per quae admirationem parare volumus ridicula et odiosa sint. Nempe propositum nostrum est secundum naturam vivere: hoc contra naturam est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem adpetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis. Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriaest, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest

Invito alla semplicità

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Tu, tralasciando ogni altra preoccupazione, attendi co­ stantemente solo a renderti ogni giorno migliore; ed io ti lodo e me ne rallegro, e non solamente ti esorto, ma ti prego di perseverare. Tuttavia bada a non essere troppo stravagante nella foggia del vestire o nel modo di vivere, come fanno coloro che bramano, non di progredire spiritualmente, ma di farsi notare. Evita gli abiti rozzi, i capelli lunghi, la barba arruffata, l’odio dichiarato all’argenteria, il giaciglio posto per terra e, in genere, gli atteggiamenti di chi, per false vie, cerca di distinguersi. Il nome di filosofia, anche se usato con moderazione, è già abbastanza odioso: che avverrà se cominceremo ad estraniarci dalle comuni usanze? Nel nostro intimo tutto sia diverso dagli altri, ma nell’aspetto esteriore dobbiamo adattarci ai gusti della gente. Le vesti non siano splendenti, ma neppure sporche. Non cerchiamo vasi d’argento con cesellature d’oro massic­ cio, ma neppure dobbiamo considerare segno di frugalità la mancanza di ogni oggetto prezioso. Preoccupiamoci che la nostra vita sia, non contraria, ma migliore di quella del volgo; altrimenti respingeremo e terremo lontani da noi quelli che vogliamo correggere. E otterre­ mo anche questo risultato, che non vorranno imitare nulla di noi, dato che temono di dover imitare tutto. La filosofia, partendo dal senso comune, promette socievo­ lezza e cordialità umana: se assumeremo modi stravagan­ ti, non potremo realizzare questi propositi. Badiamo piuttosto che gli atteggiamenti attraverso i quali voglia­ mo ottenere ammirazione, non siano ridicoli e odiosi. Noi ci proponiamo di vivere secondo natura; ed è contro natura torturare il proprio corpo, odiare una normale pulizia, desiderare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo vili, ma disgustosi e ripugnanti. Come è indizio di mollezza cercare vivande delicate, così è irragionevole rifiutare quelle usuali, procurabili a poco prezzo. La filosofia esige frugalità, non sofferenza, e ci può essere 73

autem esse non incompta frugalitas. Hic mihi modus placet: temperetur vita inter bonos mores et publicos; suspiciant 6 omnes vitam nostram sed agnoscant. ‘Quid ergo ? eadem faciemus quae ceteri ? nihil inter nos et illos intererit ?’ Plurimum: dissimiles esse nos vulgo sciat qui inspexerit propius; qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram. Magnus ille est qui fictilibus sic utitur quemadmodum argento, nec ille minor est qui sic argento utitur quemadmodum fictilibus; infirmi animi est pati non posse divitias. 7 Sed ut huius quoque diei lucellum tecum communicem, apud Hecatonem nostrum inveni cupiditatum finem etiam ad timoris remedia proficere. ‘Desines’ inquit ‘timere, si sperare desieris.’ Dices, ‘quomodo ista tam diversa pariter su n ti’ Ita est, mi Lucili: cum videantur dissidere, coniuncta sunt. Quemadmodum eadem catena et custodiam et militem copulat, sic ista quae tam dissimilia sunt pariter incedunt: 8 spem metus sequitur. Nec miror ista sic ire: utrumque pendentis animi est, utrumque futuri expectatione solliciti. Maxima autem utriusque causa est quod non ad praesentia aptamur sed cogitationes in longinqua praemittimus; itaque providentia, maximum bonum condicionis humanae, in 9 malum versa est. Ferae pericula quae vident fugiunt, cum effugere, securae sunt : nos et venturo torquemur et praeterito. Multa bona nostra nobis nocent; timoris enim tormentum memoria reducit, providentia anticipati nemo tantum praesentibus miser est. Vale.

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una frugalità non priva di decoro. Ecco le regole di condotta che preferisco: la nostra vita sia ordinata secon­ do costumi onesti e accettati da tutti; tutti la ammirino, ma siano anche in grado di riconoscerne i pregi. «E allora,» mi dirai «ci comporteremo come gli altri? Non ci sarà nessuna differenza tra noi e loro?» Risponderò: anzi, grandissima. Chi ci osserverà meglio, comprenderà che noi siamo ben diversi dal volgo; ed entrando nella nostra casa, dovrà ammirare noi, e non la suppellettile. È grande colui che usa vasi d’argilla come se fossero d’argento, ma non è da meno chi usa vasi d argento come se fossero d’argilla. Un animo debole non sa sopportare la ricchezza. Ma, per farti partecipe anche del mio piccolo guada­ gno di oggi, ti dirò che presso il nostro Ecatone ho letto che il sopprimere i desideri è anche un utile rimedio contro la paura. «Non avrai più paura» egli dice «se avrai cessato di sperare.» Obietterai: «Come possono stare insieme due sentimenti così diversi?» Eppure è così, caro Lucilio: sono strettamente congiunti, anche se sembrano fra loro in contrasto. Come la stessa catena unisce il prigioniero e la guardia, così codesti sentimenti tanto dissimili vanno insieme: la paura tiene dietro alla speranza. Né ciò mi meraviglia: l’una e 1 altra tengono l’animo sospeso l’una e l’altra lo rendono ansioso nell’at­ tesa del futuro. L’una e l’altra scaturiscono dal fatto che non ci adattiamo al presente, ma proiettiamo i nostri pensieri nel futuro. Perciò la facoltà di prevedere l’avve­ nire, che è una delle più nobili doti dell’uomo, si rivolge in suo danno. Le bestie fuggono i pericoli che vedono, ma, una volta che li hanno evitati, stanno tranquille. Noi siamo in ansia sia per il futuro che per il passato. Molte nostre qualità possono nuocerci: la memoria infat­ ti ci rinnova il tormento della passata paura e ce lo anticipa la nostra attitudine a prevedere il futuro. Nessu­ no è infelice solo per il presente. Addio.

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Intellego, Lucili, non emendari .me tantum sed transfìgurari; nec hoc promitto iam aut spero, nihil in me superesse quod mutandum sit. Quidni multa habeam quae debeant colligi, quae extenuari, quae attolli ? Et hoc ipsum argumentum est in melius translati animi, quod vitia sua quae adhuc ignorabat videt; quibusdam aegris gratulatio fit cum ipsi aegros se esse senserunt. Cuperem itaque tecum communicare tam subitam mutationem mei; tunc amicitiae nostrae certiorem fiduciam habere coepissem, illius verae quam non spes, non timor, non utilitatis suae cura divellit, illius cum qua homines moriuntur, prò qua moriuntur. Multos tibi dabo qui non amico sed amicitia caruerint : hoc non potest accidere cum animos in societatem honesta cupiendi par voluntas tra­ hit. Quidni non possiti sciunt enim ipsos omnia habere communia, et quidem magis adversa. Concipere animo non potes quantum momenti adferre mihi singulos dies videam. ‘M itte’ inquis ‘et nobis ista quae tam efficacia expertus es.’ Ego vero omnia in te cupio transfundere, et in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam; nec me ulla res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. Si cum hac exceptione detur sapientia, ut illam inclusam teneam nec enuntiem, reiciam: nullius boni sine socio iucunda possessio est. Mittam itaque ipsos tibi libros, et ne multum operae inpendas dum passim profutura sectaris, inponam notas, ut ad ipsa protinus quae probo et miror accedas. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla.

LETTERA 6

Il valore dei buoni esempi nel perfezionamento spirituale Mi accorgo, caro Lucilio, che non solo mi vengo correg­ gendo, ma mi sto anche trasformando. Non che io creda o voglia far credere che in me non resti nulla da mutare. Perché non dovrei avere molti impulsi e sentimenti che debbono essere dominati, frenati o stimolati? Ma anche il vedere i difetti prima ignorati è indizio di un animo che ha fatto progressi. Ci si rallegra con certi malati, quando sono divenuti coscienti della loro malattia. Avrei perciò desiderio di renderti partecipe di questo mio improvviso mutamento: allora comincerei ad avere mag­ giore fiducia nella nostra amicizia, quella vera amicizia che né speranze, né timori, né alcuna preoccupazione del proprio interesse riescono a spezzare; quelFamicizia che non cessa con la morte e per la quale gli uomini sono disposti a morire. Potrei citarti molti ai quali non mancarono gli amici, ma mancò l’amicizia: ciò non può accadere quando gli animi sono uniti da un concorde desiderio di bene. E questo non è forse possibile? Sanno infatti di avere tutto in comune, e soprattutto le sventure. Non puoi immaginarti quali progressi spirituali io veda in me ogni giorno che passa. «Comunica» mi dirai «anche a me codesti rimedi che hai sperimentato così efficaci.» E in verità desidero trasfondere tutto me stesso in te, e godo d’imparare qualcosa, appunto per insegnarla. Né infatti potrebbe recarmi diletto alcuna cosa, per quanto eccellente e utile, se dovessi saperla per me solo. Se mi fosse concessa la saggezza, a patto di tenerla nascosta in me, senza comunicarla ad altri, la rifiuterei: nessun bene ci dà gioia, senza un compagno. Perciò ti manderò questi libri, e perché tu non faccia molta fatica a ricercare qua e là i brani più utili, apporrò dei segni, per metterti subito sott’occhio quei passi che destano in me diletto e ammirazione. Tuttavia ti recherà maggior giovamento il poter vivere e conversare insieme, che un discorso scrit­ to: è bene che tu venga qui, anzitutto perché gli uomini credono più agli occhi che agli orecchi, poi perché i progressi ottenuti per mezzo degli ammaestramenti sono lenti, quelli invece che si ottengono con gli esempi sono 77

6 Zenonem Cleanthes non expressisset, si tantummodo audisset : vitae eius interfuit, secreta perspexit, observavit illum, an ex formula sua viveret. Platon et Aristoteles et omnis in diversum itura sapientium turba plus ex moribus quam ex verbis Socratis traxit; Metrodorum et Hermarchum et Polyaenum magnos viros non schola Epicuri sed contubernium fecit. Nec in hoc te accerso tantum, ut proficias, sed ut prosis; plurimum enim alter alteri conferemus. 7 Interim quoniam diurnam tibi mercedulam debeo, quid me hodie apud Hecatonem delectaverit dicam. ‘Quaeris inquit ‘quid profecerim ? amicus esse mihi coepi.’ Multum profecit: numquam erit solus. Scito esse hunc amicum omnibus. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris f turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor inbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa inbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offensa proferantur, hoc accidit nobis 2 quorum animi ex longo morbo reficiuntur. Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt. 3 Quid me existimas dicere ? avarior redeo, ambitiosior, luxurio-

più immediati ed efficaci. Cleante non avrebbe espresso compiutamente il pensiero di Zenone se si fosse limitato ad udirne le lezioni; egli entrò nella vita del maestro, ne esaminò tutti gli aspetti più segreti, osservò se viveva in conformità della sua dottrina. Platone e Aristotele e tutta la schiera dei filosofi che avrebbero poi seguito vie diverse, trassero più vantaggio dall’esempio di vita che dalle parole di Socrate. Non la scuola di Epicuro, ma la convivenza con lui, rese grandi uomini Metrodoro, Ermarco e Polieno. E non ti faccio venire solo perché tu ne tragga profitto, ma perché tu possa essere di giovamento a me; ci daremo l’un l’altro un grandissimo aiuto. Intanto, poiché ti debbo il mio piccolo tributo giorna­ liero, ti dirò che cosa oggi mi è piaciuto in Ecatone. «Mi chiedi» egli scrive «quale è stato il mio progresso? Ho cominciato ad essere amico di me stesso.» Grande è stato il suo progresso: non rimarrà più solo. Sappi che tutti possono avere quest’amico. Addio.

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LETTERA 7

La folla e gli spettacoli immorali Mi chiedi che cosa tu debba specialmente evitare. Ri­ spondo: la folla. Non puoi ancora affidarti ad essa senza pericolo. Ti confesserò questa mia debolezza: non torno mai a casa quale ne ero uscito; qualcosa si turba di quell’ordine che avevo posto nel mio spirito, e riappare qualche difetto di cui mi ero liberato. Ciò che capita a coloro che, per essere stati a lungo ammalati, sono così deboli da non potersi più muovere senza danno, capita anche al mio spirito, che si sta rimettendo dopo una lunga malattia. La compagnia della moltitudine è danno­ sa: c’è sempre qualcuno che ci rende gradevole un vizio o, senza che ce ne accorgiamo, ce lo trasmette in tutto o in parte. Più sono le persone con cui viviamo, maggiore è il pericolo. Nulla è tanto nocivo ai buoni costumi quanto assistere oziosi a certi spettacoli. Allora, infatti, mediante le attrattive del piacere, i vizi si insinuano più facilmente. Comprendi ciò che voglio dire? Ritorno più 79

sior ? injmo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus expectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore adquiescant. Contra est : quidquid ante pugnatum est misericordia fuit; nunc omissis nugis mera homicidia sunt. Nihil habent quo tegantur; ad ictum totis corporibus ex4 positi numquam frustra manum mittunt. Hoc plerique ordinariis paribus et postulaticiis praeferunt. Quidni praeferant ? non galea, non scuto repellitur ferrum. Quo munimenta ? quo artes ? omnia ista mortis morae sunt. Mane leonibus et ursis homines, meridie spectatoribus suis obiciuntur. Interfectores interfecturis iubent obici et victorem in aliam detinent caedem; exitus pugnantium mors est. Ferro et igne res 5 geritur. Haec fiunt dum vacat harena. ‘Sed latrocinium fecit aliquis, occidit hominem.’ Quid ergo? quia occidit, ille meruit ut hoc pateretur: tu quid meruisti miser ut hoc spectes ? ‘Occide, verbera, ure ! Quare tam timide incurrit in

avaro, più ambizioso, più lascivo? Addirittura più crudele e più inumano, proprio perché sono stato in mezzo agli uomini. Capitai per caso ad uno spettacolo sul mezzogiorno1, aspettandomi qualche scenetta comica che potesse distrarre la mente e far riposare gli occhi dalla vista del sangue umano. È avvenuto proprio il contrario: le lotte precedenti erano state atti di bontà in confronto; ora non più finti combattimenti, ma veri e propri omicidi. Non hanno armi di difesa: esposti in tutto il corpo ai colpi, non ne allungano mai uno invano. E la maggior parte degli spettatori preferisce queste scene alle coppie ordinarie di gladiatori e a quelle straor­ dinarie, concesse a richiesta del pubblico. E perché non dovrebbero preferirle? Contro i colpi di spada non c’è né elmo né scudo. A che le difese? A che le schermaglie? Servono solo a ritardare la morte. Al mattino gli uomini sono dati in pasto ai leoni e agli orsi, dopo il mezzogiorno ai loro spettatori. Coloro che hanno già ucciso devono affrontare altri che li uccideranno e il vincitore viene serbato per essere ucciso a sua volta. La morte è la tragica conclusione a cui i combattenti vengono spinti col ferro e col fuoco12. E tutto ciò avviene nelPintervallo del mezzogiorno! «Ma» si dirà «costui è un brigante, un assassino.» E che perciò? Perché ha ucciso, egli ha meritato questa pena; tu, o sciagurato, quale delitto hai commesso per dover assistere a un simile spettacolo? «Uccidi, flagella, brucia! Perché quello va incontro alle 1 I giuochi del circo si iniziavano, normalmente, al mattino con le lotte fra uomini e belve. Nelle ore pomeridiane si scontravano in duello nell’arena coppie di criminali, privi di corazza e di scudo e forniti di spada. Gli spettacoli continuavano fino a notte, anche con esibizione di coppie di gladiatori, regolarmente armati ed allenati nelle apposite scuole. Seneca, entrando nell’anfiteatro nell’intervallo fra gli spettacoli del mattino e quelli del pomeriggio, quando molti spettatori si allontanava­ no per andare a mangiare, spera che, per ricreare lo scarso pubblico rimasto, ci sia un intermezzo di scene comiche o grottesche. Ma, purtroppo, la plebe romana mostra di gradire maggiormente i crudeli duelli dei malfattori, sprovvisti di armi difensive. 2 Ci si riferisce forse all’uso di spingere al combattimento i riluttanti con colpi di flagello e con ferri roventi.

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ferrum ? quare parum audacter occidit ? quare parum libenter moritur? Plagis agatur in vulnera, mutuos ictus nudis et obviis pectoribus excipiant.’ Intermissum est spcctaculum: ‘interim iugulentur homines, ne nihil agatur . Age, ne hoc quidem intellegitis, mala exempla in eos redundare qui faciunt? Agite dis immortalibus gratias quod eum docetis esse crudelem qui non potest discere. 6 Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti : facile transitur ad plures. Socrati et Catoni et Laelio excutere morem suum dissimilis multitudo potuisset: adeo nemo no­ strum, qui cum maxime concinnamus ingenium, ferre impe7 tum vitiorum tam magno comitatu venientium potest. Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit : convictor delicatus paulatim enervai et mollit, vicinus dives cupiditatem inritat, malignus Comes quamvis candido et simplici rubiginem suam adfricuit : quid tu accidere his moribus credis 8 in quos publice factus est impetus? Necesse est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt, neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent 9 discunt. Non est quod te gloria publicandi ingenii producat in medium, ut recitare istis velis aut disputare; quod facere te vellem, si haberes isti populo idoneam mercem : nemo est qui intellegere te possit. Aliquis fortasse, unus aut alter incidet, et hic ipse formandus tibi erit instituendusque ad intellectum

armi con tanta paura? Perché non ha il coraggio di uccidere? Perché non è disposto a morire volentieri? Lo si spinga al combattimento a nerbate; l’uno e l’altro espongano i petti nudi ai reciproci colpi.» Lo spettacolo è sospeso. «Intanto non si stia senza far niente, si sgozzi qualcuno!» Ma non capite che i cattivi esempi ricadono su coloro che li danno? Ringraziate gli dei immortali, se quello a cui insegnate la crudeltà non impara3. Bisogna sottrarre alla folla le anime deboli e poco salde nel bene: è facile cedere ai gusti della maggioranza. Anche Socrate, Catone e Lelio, in mezzo a un popolo di costumi corrotti, avrebbero potuto perdere la loro dirittura morale. Tanto meno noi, proprio ora che stiamo educando il nostro carattere, potremmo resistere all’as­ salto di tanti vizi. Un solo esempio di dissolutezza e di avarizia può provocare un gran male; un amico dedito ai piaceri a poco a poco ci snerva e ci rende fiacchi; la vicinanza di un ricco suscita la brama di ricchezza; un compagno cattivo attacca la sua ruggine anche all’uomo più candido e schietto. E che cosa accadrà a colui che è circondato da una moltitudine corrotta? E spinto o ad imitarla o ad odiarla. Ma occorre che tu eviti l’uno e l’altro estremo: non devi essere simile ai malvagi solo perché sono molti, né ostile ai molti perché sono dissimili da te. Raccogliti in te stesso, per quanto puoi; vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, perché gli uomini, mentre insegnano, imparano. L’ambizione di mettere in mostra il tuo ingegno non ti spinga in mezzo alla folla a fare pubbliche letture o conferenze. Te lo consiglierei se tu avessi una merce adatta ai gusti popola­ ri, ma fra questa moltitudine nessuno ti comprendereb­ be. Te ne capiterà forse qualcuno, uno o due, e tu dovrai prima formarlo ed educarlo, perché possa comprenderti.

3 Seneca si riferisce probabilmente a Nerone, che assisteva agli spettacoli. Ma, più che riferire l’espressione a una presunta clemenza dell’imperatore, è meglio spiegarla nel senso che Nerone non aveva ormai più niente da imparare per la crudeltà dei suoi delitti.

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lui. Cui ergo ista didici?’ Non est quod timeas ne operam perdideris, si tibi didicisti. 10 Sed ne soli mihi hodie didicerim, communicabo tecum quae occurrunt mihi egregie dieta circa eundem fere sensum tria, ex quibus unum haec epistula in debitum solvet, duo in antecessum accipe. Democritus ait, ‘unus mihi prò populo 11 est, et populus prò uno’. Bene et ille, quisquis fuit (ambigitur enim de auctore), cum quaereretur ab ilio quo tanta diligentia artis spectaret ad paucissimos perventurae, ‘satis sunt’ inquit ‘mihi pauci, satis est unus, satis est nullus’. Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum suorum scriberet: ‘haec’ inquit ‘ego non multis, sed tibi; satis enim 12 magnum alter alteri theatrum sumus’. Ista, mi Lucili, condenda in animum sunt, ut contemnas voluptatem ex plurium adsensione venientem. M ulti te laudanti ecquid habes cur placeas tibi, si is es quem intellegant multi ? introrsus bona tua spectent. Yale.

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‘Tu me’ inquis ‘vitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum ? ubi illa praecepta vestra quae imperant in actu mori?’ Quid? ego tibi videor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores elusi, ut prodesse pluribus possem. Nullus mihi per otium dies exit; partem noctium studiis vindico; non vaco somno sed succumbo, et oculos vigilia 2 fatigatos cadentesque in opere detineo. Secèssi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: pos-

«Ma allora» mi dirai «per chi ho appreso tutte queste cose?» Nessun timore di aver faticato invano, se le hai apprese per te. Ma perché quello che ho imparato non serva solo a me, ti metterò a parte di tre belle sentenze sullo stesso argomento, che mi sono capitate sotto gli occhi. Una di queste sentenze è il tributo che ti debbo per la lettera odierna, le altre due accettale come anticipo. Dice De­ mocrito: «Per me una persona vale come tutto un popo­ lo, e tutto un popolo come una persona». Bello è anche il motto di quest’altro, chiunque sia stato (infatti ne ignoriamo il nome). Gli era stato chiesto perché mettesse tanto impegno in una disciplina che pochissimi avrebbero compresa; ed egli rispose: «Mi bastano pochi, mi basta uno, mi basta nessuno». E acuto è questo terzo pensiero che Epicuro espresse in una lettera a un suo compagno di studi: «Ti scrivo questo non per la moltitudine, ma per te; siamo infatti l’un per l’altro un teatro abbastanza grande». Questi pensieri, o mio Lucilio, imprimili nell’a­ nimo, per disprezzare il piacere che deriva dall’approva­ zione dei molti. Molti ti lodano; che motivo hai di compiacerti di te stesso, se poni la tua soddisfazione solo nel fatto che la moltitudine riconosce i tuoi meriti? È alle intime soddisfazioni che devi aspirare. Addio. lettera 8

I veri beni dell’uomo «Tu» dici «mi inviti a star lontano dalla folla e a vivere appartato, pago della mia coscienza? E allora che signifi­ cato hanno quegl’insegnamenti stoici che comandano di essere operosi fino alla morte?» E che? Ti consiglio forse l’inerzia? Proprio per giovare a un più gran numero di uomini, io mi sono ritirato in me stesso chiudendo le porte agli altri. Nessun giorno mi va perduto nell’ozio e riserbo allo studio anche parte della notte; non mi abbandono al sonno, ma ad esso soggiaccio, e tengo fissi al lavoro gli occhi che si chiudono, stanchi per la veglia. Mi sono ritirato non solo dagli uomini, ma anche dagli affari e anzitutto dai miei affari; lavoro per i posteri;

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terorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo; salutares admonitiones,velut medicamentorum utilium compositiones, litteris mando, esse illas efficaces in meis ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere 3 desierunt. Rectum iter, quod sero cognovi et lassus errando, aliis monstro. Clamo: ‘vitate quaecumque vulgo placent, quae casus adtribuit; ad omne fortuitum bonum suspiciosi pavidique subsistite: et fera et piscis spe aliqua oblectante decipitur. Munera ista fortunae putatis? insidiae sunt. Quisquis vestrum tutam agere vitam volet, quantum plurimum potest ista viscata beneficia devitet in quibus hoc quoque miserrimi fallimur: habere nos putamus, haeremus. 4 In praecipitia cursus iste deducit ; huius eminentis vitae exitus cadere est. Deinde ne resistere quidem licei, cum coepit transversos agere felicitas, aut saltim rectis aut semel ruere : non 5 vertit fortuna sed cernulat et allidit. Hanc ergo sanam ac salubrem formam vitae tenete, ut corpori tantum indulgeatis quantum bonae valetudini satis est. Durius tractandum est ne animo male pareat: cibus famem sedet, potio sitim extinguat, vestis arceat frigus, domus munimentum sit adversus infesta temporis. Hanc utrum c'aespes erexerit an varius lapis gentis alienae, nihil interest: scitote tam bene hominem culmo quam auro tegi. Contemnite omnia quae supervacuus lab or velut ornamentum ac decus ponit ;cogitate nihil praeter 6 animum esse mirabile, cui magno nihil magnum est.’ Si haec mecum, si haec cum posterie loquor, non videor tibi plus prodesse quam cum ad vadimonium advocatus descenderem aut tabulis testamenti anulum inprimerem aut in senatu candidato vocem et manum commodarem ? Mihi crede, qui nihil agere videntur malora agunt : humana divinaque simul tractant.

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scrivo cose che possano essere utili a loro. Affido ai miei scritti consigli salutari, come ricette di medicamenti utili; e ne ho prima provato l’efficacia sulle mie piaghe, che, se non sono del tutto guarite, hanno cessato almeno di estendersi. Insegno agli altri la giusta via che ho cono­ sciuto tardi, dopo un faticoso errare. Vado gridando: «Evitate i beni che piacciono al volgo e sono dono del caso. Arrestatevi pieni di sospetto e di timore davanti ad ogni bene largito dal caso. Anche le fiere e i pesci si lasciano prendere, attratti dall’esca. Quelli che credete doni della fortuna, sono, in realtà, ingannevoli lusinghe. Chi di voi vorrà vivere al sicuro, eviti quanto più può codesti doni spalmati di vischio, dai quali noi, infelici, siamo ingannati anche in questo: crediamo di prenderli e ne restiamo presi. Questa via conduce giù al precipizio: questa vita esteriormente fortunata si conclude in una caduta. Poi, quando la prosperità comincia a spingerci fuori strada, non è più possibile resisterle: o si va dritto o si affonda. La fortuna non ci fa solo deviare, ma ci travolge e ci annienta. Seguite perciò la sana e salutare regola di vita di concedere al corpo tanto quanto basta per mantenerlo in buona salute. Bisogna trattarlo piutto­ sto duramente perché non si ribelli all’anima: si mangi e si beva solo per sfamarsi e dissetarsi, le vesti servano solo per non sentir freddo e la casa per ripararsi dalle intemperie. Se questa poi è costruita con zolle o con marmi stranieri di vari colori, non ha importanza. Sap­ piate che gli uomini possono essere coperti ugualmente bene da un tetto di paglia, come da un soffitto dorato. Disprezzate tutto ciò che richiede un lavoro superfluo di fregi o di altri abbellimenti. Pensate che non c’è niente di mirabile, eccetto l’anima; e se essa è grande, null’altro può esservi di grande». Se parlo così a me e ai posteri, non ti sembra che io sia più utile all’umanità che se mi recassi nel foro a difendere qualcuno, o ad apporre il mio sigillo sui testamenti, o a sostenere con ogni impegno un candidato al senato? Credimi, le attività più impor­ tanti le compiono quelli che sembrano non far niente: essi si occupano ad un tempo delle cose umane e divine. 87

Sed iam finis faciendus est et aliquid, ut institui, prò hac epistula dependendum. Id non de meo fiet: adhuc Epicurum compilamus, cuius hanc vocem hodierno die legi : ‘philosophiae servias oportet, ut tibi contingat vera libertas’. Non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statini circumagitur; 8 hoc enim ipsum philosophiae servire libertas est. Potest fieri ut me interroges quare ab Epicuro tam multa bene dieta referam potius quam nostrorum: quid est tamen quare tu istas Epicuri voces putes esse, non publicas ? Quam multi poetae dicunt quae philosophis aut dieta sunt aut dicenda ! Non attingam tragicos nec togatas nostras (habent enim hae quoque aliquid severitatis et sunt inter comoedias ac tragoedias mediae) : quantum disertissimorum versuum inter mimos iacet ! quam multa Publilii non excalceatis sed cotur9 natis dicenda sunt! Unum versum eius, qui ad philosophiam pertinet et ad hanc partem quae modo fuit in manibus, referam, quo negai fortuita in nostro habenda :

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alienum est omne quidquid optando evenit.

10 Hunc sensum a te dici non paulo melius et adstrictius memini : non est tuum fortuna quod fecit tuum. Illud etiamnunc melius dictum a te non praeteribo: dari bonum quod potuit auferri potest.

Ma debbo ormai concludere e pagare, come ho fatto fin dall’inizio, il mio tributo anche per questa lettera1. Non pagherò di mia borsa: attingo ancora ad Epicuro, di cui oggi ho letto questo pensiero: «Se vuoi avere la vera libertà, devi farti servo della filosofia». Chi a lei si affida completamente, non vede la propria libertà rinvia­ ta neppure di un giorno: è subito affrancato, poiché questo stesso servire la filosofia è libertà. Forse mi chiederai perché trascrivo tanti bei detti da Epicuro, anziché dai nostri filosofi stoici. Ma credi proprio che questi pensieri siano solo di Epicuro e non di dominio pubblico? In quante opere di poeti si trovano massime che hanno già detto o che dovrebbero dire i filosofi! Per non parlare dei tragici, né delle nostre commedie toga­ te - hanno anch’esse una certa gravità che le pone fra la tragedia e la commedia palliata -, quanti eloquentissimi versi si trovano nei mimi!12 Quante sentenze di Pubblio sono degne di stare non in un mimo, ma in una tragedia! Di lui trascriverò un solo verso che si riferisce alla filosofia e, in particolare, all’argomento or ora trattato. Afferma che non dobbiamo considerare nostri i beni concessi dal caso: «Tutto ciò che ci accade secondo il nostro desiderio, non ci appartiene». Ricordo che questo concetto è stato espresso anche meglio e più concisamen­ te da te: «Non è tuo ciò che la sorte ha fatto tuo». Né voglio omettere quel tuo verso ancora più bello: «Un bene che può essere dato, può anche essere tolto». Questo non servirà a soddisfazione del mio debito: è roba tua, che torna a te. Addio.

Hoc non inputo in solutum: de tuo tibi. Vale. lettera 9

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An merito reprehendat in quadam epistula Epicurus eos qui dicunt sapientem se ipso esse contentum et propter hoc

Il saggio sente profondamente gli affetti umani Epicuro, in una sua lettera, riprova chi afferma che il saggio è pago di se stesso e perciò non ha bisogno di 1 Seneca si riferisce qui alla sua consuetudine di riportare una massima di un filosofo a conclusione di ogni lettera. 2 Nella commedia palliata gli attori indossavano costumi greci; in quella togata indossavano costumi romani. Il mimo era una specie di intermezzo farsesco di carattere popolare.

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amico non indigere, desideras scire. Hoc obicitur Stilboni ab Epiciiro et iis quibus summum bonum visum est animus in,2 patiens. In ambiguitatem incidendum est, si exprimere απά θεια ν uno verbo cito voluerimus et inpatientiam dicere; poterit enim contrarium ei quod significare volumus intellegi. Nos eum volumus dicere qui respuat omnis mali sensum : accipietur is qui nullum ferre possit malum. Vide ergo, num satius sit aut invulnerabilem animum dicere aut animum extra omnem 3 patientiampositum.Hocinternosetillosinterest:nostersapiens vincit quidem incommodum omne sed sentii, illorum ne sentit quidem. Illud nobis et illis commune est, sapientem se ipso esse contentum. Sed tamen et amicum habere vult et vicinum 4 et contubernalem, quamvis sibi ipse sufficiat. Vide quam sit se contentus: aliquando sui parte contentus est. Si illi manum aut morbus aut hostis exciderit, si quis oculum vel oculos casus excusserit, reliquiae fili suae satisfacient et erit inmi­ nuto corpore et amputato tam laetus quam [in] integro fuit ; 5 sed (si) quae sibi desunt non desiderat, non deesse mavult. Ita sapiens se contentus est, non ut velit esse sine amico sed ut possit; et hoc quod dico ‘possit’ tale est: amissum aequo animo fert. Sine amico quidem numquam erit : in sua potestate habet quam cito reparet. Quomodo si perdiderit Phidias statuam protinus alteram faciet, sic hic faciendarum amici6 tiarum artifex substituet alium in locum amissi. Quaeris

amici; e tu desideri sapere se ha ragione. Epicuro fa questo rimprovero a Stilbone1 e a coloro per i quali il sommo bene consiste nella completa insensibilità dell’a­ nimo. Di necessità si cade nell’equivoco se vogliamo esprimere il vocabolo greco con una sola parola e tradu­ ciamo απάθεια con «impassibilità». Si potrà infatti inten­ dere il contrario di quello che vogliamo dire. Noi ci riferiamo a colui che non si lascia turbare dalla sensazio­ ne del male; c’è chi, invece, si riferisce a colui che non può sopportare alcun male. Conviene perciò distinguere, parlando di un animo invulnerabile oppure di un animo del tutto incapace di soffrire. Fra noi e loro c’è questa differenza: il saggio, secondo noi, sente ogni contrarietà, ma la vince; secondo loro, non la sente neppure. Noi e loro abbiamo in comune la convinzione che il saggio è pago di se stesso; ma, per quanto basti a se stesso, desidera avere amici, vicini di casa, compagni di studio. Vedi in che senso egli è pago di sé: talvolta gli basta una sola parte di sé. Se, ad esempio, a causa di una malattia o di una violenza nemica, ha perduto una mano, se per qualche disgrazia gli è stato cavato un occhio, o entrambi gli occhi, quella parte di sé che gli rimane gli basterà, e col corpo indebolito e mutilato sarà lieto come quando aveva il corpo sano e integro: ma se non rimpiange la perduta integrità fisica, ciò non significa che preferisce la sua minorazione. Così il saggio basta a se stesso, non nel senso che vuole vivere senza amici, ma che lo può. E quando dico «può», voglio intendere che il saggio sopporta serenamente la perdita di un amico; ma non sarà mai senza amici, perché è in suo potere contrarre subito una nuova amicizia. Se Fidia avesse perso una statua, subito ne avrebbe fatta un’altra; così questo artefice di amicizie, se perde un amico, lo sostituirà con un altro. Tu mi chiedi: «Come potrà subito trovare un 1 Filosofo del IV secolo a.C. che, per i suoi atteggiamenti, si può considerare un precursore dello stoicismo. Ebbe per discepolo Zenone, il fondatore dello stoicismo. Nella parte conclusiva della lettera Seneca riferisce il fiero linguaggio che Stilbone tenne di fronte a Demetrio Poliorcete, vincitore della sua patria, Megara.

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quomodo amicum cito facturus sit ? Dicam, si illud mihi tecum convenerit, ut statini tibi solvam quod debeo et quantum ad hanc epistulam paria faciamus. Hecaton ait, ‘ego tibi monstrabo amatorium sine medicamento, sine herba, sine ullius veneficae carmine: si vis amari, ama’. Habet autem non tantum usus amicitiae veteris et certae magnam voluptatem 7 sed edam initium et comparatio novae. Quod interest inter metentem agricolam et serentem, hoc inter eum qui amicum paravit et qui parat. Attalus philosophus dicere solebat iucundius esse amicum facere quam habere, ‘quomodo artifici iucundius pingere est quam pinxisse’. Illa in opere suo occupata sollicitudo ingens oblectamentum habet in ipsa occupatione: non aeque delectatur qui ab opere perfecto removit manum. Iam fructu artis suae fruitur: ipsa fruebatur arte cum pingeret. Fructuosior est adulescentia liberorum, sed infantia dulcior. 8 Nunc ad propositum revertamur. Sapiens etiam si contentus est se, tamen habere amicum vult, si nihil aliud, ut exerceat amicitiam, ne tam magna virtus iaceat, non ad hoc quod dicebat Epicurus in liac ipsa epistula, ‘ut habeat qui sibi aegro adsideat, succurrat in vincula coniecto vel inopi’, sed ut habeat aliquem cui ipse aegro adsideat, quem ipse circumventum hostili custodia liberei. Qui se spectat et propter hoc ad amicitiam venit male cogitai. Quemadmodum coepit, sic desinet : paravit amicum adversum vincla laturum 9 opem; cum primum crepuerit catena, discedet. Hae sunt ami­ citiae quas temporarias populus appellai; qui utilitatis causa adsumptus est tamdiu placebit quamdiu utilis fuerit. Hac re florentes amicorum turba circumsedet, circa eversos solitudo est, et inde amici fugiunt ubi probantur; hac re ista tot nefaria

amico?» Te lo dirò, se mi consenti di pagarti ora il mio debito; e così, per questa lettera, siamo pari. Dice Ecatone: «Ti rivelerò un filtro amoroso, senza unguenti, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere ama­ to^ ama». Perché non è soltanto la consuetudine di un’amicizia antica e sicura che dà grande piacere, ma anche il momento iniziale e l’acquisizione di un’amicizia nuova. Fra colui che ha già un amico e chi lo sta cercando passa la stessa differenza che c’è fra il mietitore e il seminatore. Il filosofo Aitalo2 soleva dire che dà più piacere farsi un amico che averlo, «come al pittore dà più soddisfazione dipingere un quadro che averlo già fatto». L’ansia e l’impegno nel lavoro procurano per se stessi un grande diletto. Non ne prova uno simile chi ha terminato di dare l’ultima mano all’opera sua: ora si gode il frutto della sua arte; quando dipingeva, si godeva la sua stessa arte. I figli già grandicelli ci sono più utili, ma quando erano ancora fanciulli ci davano gioie più pure. Ma torniamo al nostro argomento. Il saggio, anche se basta a se stesso, vuole tuttavia avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, perché una virtù così bella non sia trascurata. E non al fine, a cui mira Epicuro in questa stessa lettera, cioè «perché uno abbia chi lo assista nelle malattie o gli venga in aiuto se è prigioniero o bisognoso», ma, al contrario, perché uno abbia qualcu­ no da assistere se è malato, o da riscattare, se è stato fatto prigioniero dal nemico. Chi pensa solo a sé e a questo scopo stringe amicizia è in grave errore. Come fu l’inizio, tale sarà la fine: si è fatto un amico che lo soccorresse nella prigionia, ma questi lo abbandonerà al primo rumore di catene. Sono queste le amicizie dette comunemente di circostanza: le amicizie fatte per oppor­ tunismo saranno gradite finché saranno utili. Una folla di amici ti circonda nella buona fortuna; ma, se cadi in disgrazia, rimani solo, poiché tutti son fuggiti nell’ora della prova. Così vediamo tanti esempi di uomini scelle2 Filosofo stoico, vissuto sotto Tiberio, e di cui fu discepolo lo stesso Seneca, che lo ricorda particolarmente nella lettera 108.

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exempla sunt aliorum metu relinquentium, aliorum metu prodentium. Necesse est initia inter se et exitus congruant: qui amicus esse coepit quia expedit (et desinet quia expedit), placebit aliquod pretium contra amicitiam, si ullum in ìlla 10 placet praeter ipsam. ‘In quid amicum parasi U t habeam prò quo mori possim, ut habeam quem in exilium sequar, cuius me morti et opponam et inpendam: ista quam tu describis negotiatio est, non amicitia, quae ad commodum acce11 dit, quae quid consecutura sit spectat. Non dubie habet aliquid simile amicitiae adfectus amantium ; possis dicere illam esse insanam amicitiam. Numquid ergo quisquam amat lucri causa? numquid ambitionis aut gloriae? Ipse per se amor, omnium aliarum rerum neglegens, animos in cupiditatem formae non sine spe mutuae caritatis accendit. Quid ergo ? 12 ex honestiore causa coit turpis adfectus ? ‘Non agitur’ inquis ‘nunc de hoc, an amicitia propter se ipsam adpetenda sit.’ Immo vero nihil magis probandum est; nam si propter se ipsam expetenda est, potest ad illam accedere qui se ipso contentus est. ‘Quomodo ergo ad illam accediti’ Quomodo ad rem pulcherrimam, non lucro captus nec varietate fortunae perterritus; detrahit amicitiae maiestatem suam qui illam parat ad bonos casus. 13 ‘Se contentus est sapiens.’ Hoc, mi Lucili, pleriqueperperam interpretantur : sapientem undique submovent et intra cutem suam cogunt. Distinguendum autem est quid et quatenus vox ista promittat: se contentus est sapiens ad beate vivendum, non ad vivendum; ad hoc enim multis illi rebus opus est, ad illud tantum animo sano et erecto et despiciente 14 fortunam. Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem in­ dicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: ‘contra stulto nulla re opus est (nulla enim re uti scit) sed omnibus eget’. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla

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rati che per paura abbandonano l’amico, di altri che per paura lo tradiscono. Necessariamente l’amicizia finisce come è cominciata. Chi ha stretto un rapporto di amicizia per interesse, lo romperà per lo stesso motivo: farà il suo interesse anche contro l’amicizia, se in essa vede solo l’aspetto utilitario. «A qual fine ti fai un amico?» Per avere una persona per cui io possa morire, che io possa seguire nell’esilio e salvare dalla morte, a prezzo di qualunque sacrificio. Invece codesta che tu mi descrivi non è amicizia, ma un affare che mira solo all’utile da conseguire. Certo qualcosa di simile all’amicizia è nell’amore, che si potrebbe chiamare una folle amicizia. È mai possibile amare per averne un guadagno, per ambizione o per la gloria? L’amore, per sua natura, trascurando tutti gli altri interessi, accende nei cuori una brama di bellezza e, ad un tempo, la speranza di un vicendevole affetto. Forse che una biasimevole passione può sorgere da un motivo più nobile? «Ora non si tratta» mi dirai «di vedere se si debba cercare l’amicizia per se stessa.» Anzi, proprio questo deve essere dimostrato. Se, infatti, bisogna cercare l’amicizia per sé, senza secon­ di fini, può tendere ad essa chi basta a se stesso. «E come la cercherà?» Come la cosa più bella, non per desiderio di ricchezza, né per timore di mutamenti di fortuna. Toglie all’amicizia ogni dignità chi la ricerca per conseguire vantaggi materiali. «Il saggio basta a se stesso.» Ma, o mio Lucilio, i più intendono male quest’espressione e tengono il saggio lontano da ogni attività, imprigionandolo entro la sua pelle. Bisogna dunque spiegare il significato e l’estensio­ ne di queste parole: il saggio basta a se stesso per vivere felice, non per vivere. Per vivere, infatti, ha bisogno di molte cose; per la felicità solo di un animo retto, corag­ gioso e noncurante della fortuna. Voglio anche riferirti la distinzione che fa Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di nulla, e tuttavia ha bisogno di molte cose, «mentre lo stolto non ha bisogno di nulla (perché di nulla sa far uso) ma manca di tutto». Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose necessarie alla vita di ogni giorno, ma di nessuna soffre 95

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re; egere enim nece'ssitatis est, nihil necesse sapienti est. Ergo quamvis se ipso contentus sit, amicis illi opus est; hos cupit habere quam plurimos, non ut beate vivat; vivet enim etiam sine amicis beate. Summum bonum extrinsecus instru­ menta non quaerit; domi colitur, ex se totum est; incipit fortunae esse subiectum si quam partem sui foris quaerit. ‘Qualis tamen futura est vita sapientis, si sine amicis relinquatur in custodiam coniectus vel in aliqua gente aliena destitutus vel in navigatione longa retentus aut in desertum litus eiectus?’ Qualis est Iovis, cum resoluto mundo et dis in unum confusis paulisper cessante natura adquiescit sibi cogitationibus suis traditus. Tale quiddam sapiens facit: in se reconditur, secum est. Quamdiu quidem illi licet suo arbitrio res suas ordinare, se contentus est et ducit uxorem; se contentus (est) et liberos tollit; se contentus est et tamen non viveret si foret sine homine victurus. Ad amicitiam fert illum nulla utilitas sua, sed naturalis inritatio; nam ut aliarum nobis rerum innata dulcedo est, sic amicitiae. Quomodo solitudinis odium est et adpetitio societatis, quomodo hominem homini natura conciliar, sic inest buie quoque rei stimulus qui nos amicitiarum adpetentes faciat. Nihilominus cum sit amicorum amantissimus, cum illos sibi comparet, saepe praeferat, omne intra se bonum terminabit et dicet quod Stilbon ille dixit, Stilbon quem Epicuri epistula insequitur. Hic enim capta patria, amissis liberis, amissa uxore, cum ex incendio publico solus et tamen beatus exiret, interroganti Demetrio, cui cognomen ab exitio urbium Poliorcetes fuit, num quid perdidisset, ‘omnia’ inquit ‘bona mea mecum sunt’. Ecce vir fortis ac strenuus ! ipsam hostis sui victoriam vicit.

la mancanza: infatti soffrire la privazione di qualcosa implica una necessità, mentre per il saggio niente costi­ tuisce una necessità assoluta. Quantunque egli basti a se stesso, ha bisogno di amici, e desidera averne il maggior numero possibile. Tuttavia non li cerca per vivere felice; anche senza amici, egli è felice. La felicità, sommo bene, non cerca fuori di sé i mezzi per realizzarsi: è cosa intima, che sboccia da se stessa. Comincia a essere in balìa della fortuna se va a cercare anche una parte di sé fuori della propria interiorità. «Ma quale sarebbe la vita del saggio se, rimasto senza amici, venisse gettato in una prigione, o relegato in mezzo a genti straniere, o trattenuto in una lunga navigazione, o sbalestrato su una spiaggia deserta?» Sarebbe come la vita di Giove quando, cessando ogni forma di vita e scomparendo gli stessi dèi nella dissoluzione universale, egli si riposi, di sé solo pago, tutto preso dai suoi pensieri. Il saggio fa qualcosa di simile: si raccoglie in sé, vive in compagnia di se stesso. Purché gli sia consentito di regolare le sue cose a suo arbitrio, basta a se stesso e prende moglie; basta a se stesso e educa dei figli; basta a sé stesso e tuttavia rinunzierebbe alla vita se fosse costretto a stare isolato da tutti. Nessun motivo d’interesse lo spinge all’amicizia, ma un impulso naturale; come per altri beni spirituali, anche per l’amicizia sentiamo un’attrazione istintiva. Come si odia la solitudine e si desidera la compagnia, come l’istinto naturale avvicina l’uomo al­ l’uomo, così un intimo stimolo ci fa desiderare gli amici. Tuttavia il saggio, anche se ha un grande affetto per gli amici e li ama come e più di se stesso, porrà sempre dentro di sé il termine di ogni bene e ripeterà ciò che disse Stilbone, quello Stilbone che Epicuro rimprovera nella sua lettera. La sua città natale era stata presa; egli aveva perduto la moglie e i figli. Mentre, solo e tuttavia felice, usciva fuori dalla città incendiata, gli fu chiesto da Demetrio, che fu chiamato Poliorcete per le città espugnate, se avesse perduto qualcosa. «Tutti i miei beni» rispose «sono con me.» Ecco un uomo forte e coraggioso che vinse il suo stesso vincitore. «Non ho 97

‘Nihil’ inquit ‘perdidi’ : dubitare illum coegit an vicisset. ‘Omnia mea mecum sunt’ : iustitia, virtus, prudentia, hoc ipsum, nihil bonum putare quod eripi possit. Miramur animalia quaedam quae per medios ignes sine noxa corporum transeunt : quanto hic mirabilior vir qui per ferrum et ruinas et ignes inlaesus et indemnis evasit ! Vides quanto facilius sit totam gentem quam unum virum vincere? Haec vox illi communis est cum Stoico: aeque et hic intacta bona per concrematas urbes fert; se enim ipse contentus est; hoc 20 felicitatem suam fine designai. Ne existimes nos solos generosa verba iactare, et ipse Stilbonis obiurgator Epicurus similem illi vocem emisit, quam tu boni consule, etiam si hunc diem iam expunxi. ‘Si cui’ inquit ‘sua non videntur amplissima, licet totius mundi dominus sit, tamen miser est.’ Vel si hoc modo tibi melius enuntiari videtur (id enim agendum est ut non verbis serviamus sed sensibus), ‘miser est qui se non 2X beatissimum iudicat, licet imperet mundo’. U t scias autem hos sensus esse communes, natura scilicet dictante, apud poetam comicum invenies : non est beatus, esse se qui non putat. Quid enim refert qualis status tuus sit, si tibi videtur malus ? 22 ‘Quid ergo ?’ inquis ‘si beatum se dixerit illè turpiter dives et ille multorum dominus sed plurium servus, beatus sua sententia fiet?’ Non quid dicat sed quid sentiat refert, nec quid uno die sentiat, sed quid adsidue. Non est autem quod verearis ne ad indignum res tanta perveniat : nisi sapienti sua non placent; omnis stultitia laborat fastidio sui. Vale.

perduto nulla» egli disse, e costrinse l’altro a dubitare se avesse veramente vinto. «Tutti i miei beni sono con me»; la giustizia, la virtù, la prudenza e soprattutto il giusto criterio di non considerare mai un bene ciò che può essere tolto. Noi ci stupiamo di certi animali che passano in mezzo al fuoco col corpo illeso; quanto più ammirevole quest’uomo, uscito attraverso le armi, le rovine e il fuoco con lo spirito integro. Come vedi, è più facile vincere tutto un popolo che un uomo solo. Il linguaggio di Stilbone è quello stesso degli stoici, anche gli stoici sanno portare via intatti i loro beni attraverso la città in fiamme. Infatti essi bastano a se stessi, e in questo limite sta la loro felicità. Ma non credere che solo noi stoici sappiamo esprimere belle massime: anche Epicuro, quello stesso che biasima Stilbone, ha fatto un’affermazione analoga: e tu accettala benignamente, anche se ho già pagato il debito di oggi. Egli dice: «Colui a cui non sembra già troppo quello che ha, fosse anche padrone del mondo, è un infelice». O, se preferisci (ma bisogna dare importanza al significato concreto, piu che alle parole): «È misero, anche se è padrone del mondo, chi non è contento di sé». E, perché tu sappia che sono concetti comuni, dettati dalla stessa natura, troverai in un poeta comico queste parole: «Non è felice chi non crede di esserlo». Che importa quale sia la tua condizio­ ne, se a te sembra cattiva? «Ma» mi dirai «se il ricco perverso si dichiara felice, e così pure colui che è padrone di molti servi, ma è servo di un numero maggiore di padroni, forse che diventerà felice per la sua affermazio­ ne?» Non ciò che dice importa, ma ciò che sente, e non ciò che sente occasionalmente, ma sempre. In ogni caso, non c’è da temere che un bene così grande capiti a chi non ne sia degno: solo il saggio è soddisfatto delle sue cose. Ogni stoltezza è angustiata dalla nausea di se. Addio.

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S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum. Non habeo cum quo te communicatum velim. Et vide quod iudicium meum habeas: audeo te tibi credere. Crates, ut aiunt, huius ipsius Stilbonis auditor, cuius mentionem priore epistula feci, cum vidisset adulescentulum secreto ambulantem, interrogavit quid illic solus faceret. ‘Mecum’ inquit ‘loquor.’ Cui Crates ‘cave’ inquit ‘rogo et diligenter adtende : cum homine malo loque2 ris’. Lugentem timentemque custodire solemus, ne solitudine male utatur. Nemo est ex inprtidentibus qui relinqui sibi debeat; tunc mala consilia agitant, tunc aut aliis aut ipsis futura pericula struunt, tunc cupiditates inprobas-ordinant; tunc quidquid aut metu aut pudore celabat animus expcnit, tunc audaciam acuit, libidinem inritat, iracundiam instigat. Denique quod unum solitudo habet commodum, nihil ulli committere, non timere indicem, perìt stulto: ipse se prodit. Vide itaque quid de te sperem, immo quid spondeam mihi (spes enim incerti boni nomen est) : non inverno cum quo te 3 malim esse quam tecum. Repeto memoria quam magno animo quaedam verba proieceris, quanti roboris piena : gratulatus sum protinus mihi et dixi, ‘non a summis labris ista venerunt, habent hae voces fundamentum; iste homo 4 non est unus e populo, ad salutem spectat’. Sic loquere, sic vive; vide ne te ulla res deprimat. Votorum tuorum veterum licet deis gratiam facias, alia de integro suscipe: roga bonam mentem, bonam valetudinem animi, deinde tunc corporis. Quidni tu ista vota saepe facias? Audacter deum roga: nihil illum de alieno rogaturus es.

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LETTERA IO

Il saggio e la solitudine È così, né intendo cambiare il mio parere: devi fuggire i molti, i pochi, perfino il singolo. Non c’è nessuno con cui vorrei che tu avessi relazioni amichevoli. Vedi che alto concetto ho di te: oso affidarti a te stesso. Dicono che Cratete, discepolo di quello Stilbone, da me menzio­ nato nella precedente lettera, avendo visto un giovincello passeggiare in un luogo isolato, gli domandò che facesse lì solo. «Parlo con me» fu la risposta. E di rimando Cratete: «Sta’ bene attento, te ne prego; tu parli con un cattivo soggetto». Noi siamo soliti tenere sotto controllo chi è in preda al dolore e alla paura, perché isolandosi non compia atti inconsulti. Chi è privo della saggezza non deve essere lasciato in balìa di se stesso, perché ora ha cattivi pensieri e medita azioni pericolose per sé e per gli altri, ora si abbandona alle sue passioni disoneste, ora il suo animo manifesta apertamente tutto quello che celava per paura o per pudore: la sfrontatezza, l’ira, i bassi istinti. Infine per lo stolto non c’è neppure quell’u­ nico vantaggio che deriva dalla solitudine, ossia il non confidare nulla a nessuno e non temere delatori: egli si tradisce da sé. Vedi, dunque, quali speranze mi fai concepire; o, meglio - poiché la speranza è una parola che indica un bene incerto - , vedi che cosa da te mi riprometto. Non trovo nessun altro con cui desidero che tu viva, se non te stesso. Ricordo sempre certi tuoi pensieri, così pieni di nobiltà e di vigore. Me ne sono subito rallegrato con me stesso e ho detto: «Sono parole che non vengono dalle labbra, ma dal profondo dell’anima; è un uomo che si distingue dalla folla ed ha alti ideali». Così devi parlare, così devi vivere, senza lasciarti abbattere da alcuna contrarietà. Ringrazia pure gli dèi per aver esau­ dito le tue precedenti preghiere, ma fanne altre del tutto nuove; chiedi mente sana e buona salute per l’anima, e poi anche per il corpo. Perché non dovresti fare spesso queste preghiere? Prega dio senza timore: tu non intendi domandargli niente che appartenga agli altri. 101

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Sed ut more meo cum aliquo munusculo epistulam mittam, verum est quod apud Athenodorum inverni ‘tunc scito esse te omnibus cupiditatibus solutum, cum eo perveneris ut nihil deum roges nisi quod rogare possis palam’. Nunc enim quanta dementia est hominum! turpissima vota dis insusurrant; si quis admoverit aurem, conticiscent, et quod scire hominem nolunt deo narrant. Vide ergo ne hoc praecipi salubriter possit: sic vive cum hominibus tamquam deus videat, sic loquere cum deo tamquam homines audiant. Vale.

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SENECA LVCI LI O SVO S ALVTEM

Locutus est mecum amicus tuus bonae indolis, in quo quantum esset animi, quantum ingenii, quantum iam etiam profectus, sermo primus ostendit. D edit nobis gustum, ad quem respondebit; non enim ex praeparato locutus est, sed subito deprehensus. U bi se colligebat, verecundiam, bonum in adulescente signum, vix potuit excutere; adeo illi ex alto suffusus est rubor. Hic illum, quantum suspicor, etiam cum se confirmaverit et omnibus vitiis exuerit, sapientem quoque sequetur. Nulla enim sapientia naturalia corporis aut animi vitia ponuntur: quidquid infixum et ingenitum est lenitur 2 arte, non vincitur. Quibusdam etiam constantissimis in conspectu populi sudor erumpit non aliter quam fatigatis et aestuantibus solet, quibusdam tremunt genua dicturis, quorundam dentes colliduntur, lingua titubat, labra concurrunt: haec nec disciplina nec usus umquam excutit, sed natura vim suam exercet et ilio vitio sui etiam robustissimos 3 admonet. Inter haec esse et ruborem scio, qui gravissimis

Ma, per concludere, com’è mia abitudine, con un piccolo dono, eccoti una verità che ho trovato in Atenodoro: «Sappi che sarai libero da ogni passione quando giungerai al punto di pregare dio solo per chiedere ciò che puoi chiedere pubblicamente». E invece, quanto sono insensati gli uomini! Confidano a bassa voce agli dèi i desideri più turpi, ma tacciono se qualcuno accosta l’orecchio, e dicono a dio quello che non vogliono far sapere all’uomo. Vedi, dunque, se è giusto e salutare questo precetto: «Vivi con gli uomini, come se dio ti vedesse; parla con dio, come se gli uomini ti udissero». Addio. LETTERA I I

Il senso del pudore È stato a parlare con me il tuo amico, giovane di buona indole, e fin dalle prime parole mi ha manifestato la nobiltà del suo animo, la grandezza del suo ingegno e ι progressi spirituali che ha già fatto. Ci ha dato un saggio delle sue attitudini, che formeranno la sua personalità: infatti non s’era preparato a parlare, ma è stato preso alla sprovvista. Nel raccogliersi in sé, non è riuscito a vincere del tutto queirintimo turbamento che in un giovane è un buon segno, e un’ondata di rossore gli è salita al viso. Penso che questo rossore lo seguirà anche quando, affrancatosi da ogni difetto e consolidatosi nella virtù, sarà divenuto un uomo saggio. Infatti la sapienza non può estirpare completamente le naturali inclinazioni del corpo o dell’animo: tutto ciò che è radicato e congeni­ to, può essere attenuato dall’educazione, non vinto. Ci sono uomini, anche di animo saldo, che, di fronte a una moltitudine, si sciolgono in sudore, proprio come se fossero affaticati o avessero caldo; ad altri, quando stanno per iniziare un discorso, tremano le ginocchia; altri battono i denti e hanno la lingua impacciata e le labbra appiccicate. Questi difetti non si riesce a eliminarli né con la disciplina, né con l’abitudine, ma la natura fa sentire la sua forza e costringe anche gli uomini più robusti a ricordarsi di essa a causa di quel difetto. Fra queste c’è il rossore che sale d’un tratto al volto anche 103

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quoque viris subitus adfunditur. Magis quidem in iuvenibus apparet, quibus et plus caloris est et tenera frons; nihilominus et veteranos et senes tangit. Quidam numquam magis quam cum erubuerint timendi sunt, quasi omnem verecundiam effuderint; Sulla tunc erat violentissimus cum faciem eius sanguis invaserai. Nihil erat mollius ore Pompei; numquam non coram pluribus rubuit, utique in contionibus. Fabianum, cum in senatum testis esset inductus, erubuisse memini, et hic illum mire pudor decuit. Non accidit hoc ab infirmitate mentis sed a novitate rei, quae inexercitatos, etiam si non concutit, movet naturali in hoc facilitate corporis pronos; nam ut quidam boni sanguinis sunt, ita quidam incitati et mobilis et cito in os prodeuntis. Haec, ut dixi, nulla sapientia abigit: alioquin haberet rerum naturam sub imperio, si omnia eraderet vitia. Quaecumque adtribuit condicio nascendi et corporis temperatura, cum multum se diuque animus composuerit, haerebunt; nihil horum vetari potest, non magis quam accersi. Artifices scaenici, qui imitantur adfectus, qui metum et trepidationem exprimunt, qui tristitiam repraesentant, hoc indicio imitantur verecundiam. Deiciunt enim vultum, verba summittunt, figunt in terram oculos et deprimunt: ruborem sibi exprimere non possunt; nec prohibetur hic nec adducitur. Nihil adversus haec sapientia promittit, nihil proficit: sui iuris sunt, iniussa veniunt, iniussa discedunt. Iam clausulam epistula poscit. Accipe, et quidem utilem ac salutarem, quam te adfigere animo volo : ‘aliquis vir bonus nobis diligendus est ac semper ante oculos habendus, ut sic tamquam ilio spectante vivamus et omnia tamquam ilio vidente faciamus’. Hoc, mi Lucili, Epicurus praecepit;

di uomini autorevoli. Certo esso appare più spesso nei giovani che hanno il sangue più caldo e il volto più delicato; tuttavia capita anche agli anziani e ai vecchi. Ci sono poi alcuni che sono da temere in modo particolare quando si fanno rossi in viso, come se avessero cacciato via da sé ogni ritegno. Siila era particolarmente violento quando il sangue gli saliva alla faccia. Pompeo aveva un aspetto mite, ma davanti a una moltitudine arrossiva sempre, specie se doveva fare un discorso. Ricordo che Fabiano1, chiamato come testimonio in senato, arrossì, e questa forma di pudore accrebbe la dignità del suo aspetto. Ciò non deriva da debolezza di spirito, ma dalla novità di un avvenimento che, se anche non spaventa, turba chi non è abituato a dominarsi ed ha una naturale inclinazione a questo difetto: infatti, mentre alcuni sono di sangue calmo, altri sono di sangue eccitabile che sale rapidamente al viso. Come ho detto, la saggezza non può eliminare questi difetti: per estirparli tutti, dovrebbe ottenere il completo dominio sulla natura. Anche se abbiamo cercato a lungo di correggerci, ci sono delle inclinazioni derivanti dalle condizioni della nascita e dalla complessione del corpo, che finiscono con l’aderire alla nostra persona: non si possono più sradicare, come non è possibile acquistarle di proposito. Gli attori, che riproducono con parole e gesti adeguati i vari sentimenti umani, come il timore, la trepidazione, la tristezza, cercano di imitare la verecondia abbassando il volto e la voce e tenendo gli occhi fissi a terra, ma non hanno la capacità di provocare il rossore: esso non può essere né dominato, né provocato. Sono fenomeni indipendenti dalla volontà, che si manifestano da sé e da sé scompaio­ no; e nessuna umana saggezza può impedirli o favorirli. Ma ormai la lettera esige una conclusione. Eccone una, utile e salutare, che voglio imprimerti nell’animo: «Dobbiamo rivolgere tutta la nostra stima e il nostro affetto verso un uomo onesto e averlo sempre avanti agli occhi, in modo che possiamo vivere e operare sem­ pre come se quello stesse a guardarci». Questo, o mio Lucilio, è un insegnamento di Epicuro: egli ci ha voluto 1 Papirio Fabiano (I secolo d.C.), uno dei maestri di Seneca.

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custodem nobis et paedagogum dedit, nec inmerito: magna pars peccatorum tollitur, si peccaturis testis adsistit. Aliquerq habeat animus quem vereatur, cuius auctoritate etiam secretum suum sanctius faciat. O felicem illum qui non praesens tantum sed etiam cogitatus emendati O felicem qui sic aliquem vereri potest ut ad memoriam quoque eius se componat atque ordinet ! Qui sic aliquem vereri potest cito erit 10 verendus. Elige itaque Catonem; si hic tibi videtur nimis rigidus, elige remissioris animi virum Laelium. Elige eum cuius tibi placuit et vita et orario et ipse animum ante se ferens vultus; illum tibi semper ostende vel custodem vel exemplum. Opus est, inquam, aliquo ad quem mores nostri se ipsi exigant: nisi ad regulam prava non corriges. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Quocumque me verti, argumenta senectutis meae video. Veneram in suburbanum meum et querebar de inpensis aedificii dilabentis. Ait vilicus mihi non esse neglegentiae suae vitium, omnia se facere, sed villam veterem esse. Haec villa inter manus meas crevit : quid mihi futurum est, si tam 2 putria sunt aetatis meae saxa ? Iratus illi proximam occasionem stomachandi arripio. ‘Apparet’ inquam ‘has platanos neglegi: nullas habent frondes. Quam nodosi sunt et retorridi rami, quam tristes et squalidi trunci! Hoc non accideret si

dare una guida e un maestro, e giustamente: si evitereb­ bero molti peccati, se, quando stiamo per commetterli, fosse presente un testimone. E bene provare un senti­ mento di venerazione per una persona che, con la sua autorità, possa rendere migliori anche gli aspetti più segreti della nostra vita. Felice colui alla cui presenza, anzi al cui semplice pensiero, ci si corregge! Felice chi venera tanto un uomo, che al suo semplice ricordo riesce a migliorarsi e a emendarsi. Sarà subito oggetto di stima e di venerazione, chi prova tali sentimenti verso un altro. Scegliti, dunque, un Catone2, ma, se ti sembra troppo rigido, scegliti un Lelio3, d’indole più mite. Scegliti, cioè, un uomo di cui ti piacciono le parole, il modo di vivere e il volto stesso che riflette il suo animo. Tienlo sempre davanti a te, o come guida o come esempio. Ci occorre ripeto - una persona a cui adeguare i nostri costumi, non possiamo correggere le cattive abitudini se non ci riferiamo costantemente a una norma. Addio.

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LETTERA 12

Anche la vecchiaia ha le sue gioie Dovunque mi volgo, scorgo prove del mio invecchiare. Mi ero recato nella mia villa vicino a Roma e mi lamenta­ vo delle spese necessarie per l’edificio ormai cadente. Il fattore disse che non dipendeva dalla sua negligenza, lui faceva tutto il possibile, ma purtroppo la villa era vec­ chia. Eppure l’ho vista sorgere pietra su pietra. Che dev’essere di me, se già se ne vanno in polvere queste pietre che hanno la mia età? Irritato con lui, cplgo la prima occasione per sfogare il mio malumore. «E chia­ ro» dico «che questi platani sono trascurati; non hanno fronde. Come sono nodosi e secchi i rami, ruvidi e squallidi i tronchi! Tutto questo non accadrebbe, se ci 2 Catone l’Uticense, a cui Seneca si riferisce spesso nelle sue lettere, specialmente per la fermezza nell’affrontare la morte. 3 Lelio, amico di Scipione Emiliano, di fronte alla fierezza di Catone simboleggia la saggezza sorridente.

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quis has circumfoderet, si inrigaret.’ Iurat per genium meum se omnia facere, in nulla re cessare curam suam, sed illas vetulas esse. Quod intra nos sit, ego illas posueram, ego illarum primum videram folium. Conversus ad ianuam ‘quis est iste ?’ inquam ‘iste decrepitus et merito ad ostium admotus ? foras enim spectat. Unde istunc nanctus es ? quid te delectavit alienum mortuum tollere?’ At ille ‘non cognoscis me?’ inquit: ‘ego sum Felicio, cui solebas sigillarla adferre; ego sum Philositi vilici filius, deliciolum tuum’. ‘Perfecte’ inquam ‘iste delirati pupulus, edam delicium meum factus est? Prorsus potest fieri: dentes illi cum maxime cadunt.’ Debeo hoc suburbano meo, quod mihi senectus mea quocumque adverteram apparuit. Conplectamur illam et amemus; piena (est) voluptatis, si illa scias uti. Gratissima sunt poma cum fugiunt; pueritiae maximus in exitu decor est; deditos vino potio extrema delectat, illa quae mergit, quae ebrietati summam manum inponit; quod in se iucundissimum omnis voluptas habet in finem sui differì. Iucundissima est aetas devexa iam, non tamen praeceps, et illam quoque in extrema tegula stantem ludico habere suas voluptates; aut hoc ipsum succedit in locum voluptatium, nullis egere. Quam dulce est cupiditates fatigasse ac reliquisse! ‘Molestum est’ inquis ‘mortem ante oculos habere.’ Primum ista tam seni ante oculos debet esse quam iuveni (non enim citamur ex censu); deinde nemo tam senex est ut inprobe

fosse qualcuno a scavare un po’ intorno e ad irrigarli.» Egli giura sul mio genio tutelare che fa tutto il possibile, che continua a prodigare ai platani ogni cura, ma sono ormai vecchi. Sia detto fra noi: li avevo piantati io e ne avevo visto spuntare le prime foglie. Voltomi verso la porta, «Chi è costui?» chiedo «codesto vecchio decrepito che ben a proposito si è posto davanti alla soglia? Infatti guarda verso l’esterno1. Dove l’hai trovato? Che gusto hai avuto a portar qui il cadavere di un estraneo?» «Ma non mi riconosci?» dice il vecchio. «Sono Felicione, a cui eri solito recare in dono statuette d’argilla; sono il figlio del fattore Filosito, il tuo bimbo prediletto.» «Ma costui» dico «è davvero fuori di sé; è diventato anche il mio bimbo prediletto? Senza dubbio è così: proprio ora gli cadono i denti.» Debbo dunque questo alla mia villa suburbana: in tutte le cose a cui ho rivolto lo sguardo, ho visto chiara­ mente riflessa la mia vecchiaia. E accogliamola di buon grado e amiamola; può dare tanta gioia a chi sa goderne. Gli ultimi frutti dell’albero sono i più saporosi. E molto bella la fanciullezza, quando volge al suo termine. Ai bevitori è particolarmente gradita l’ultima coppa, quella che dà l’ultimo tocco e li sommerge nell’ebbrezza. Ogni piacere ha il suo momento culminante, quando sta per finire. È molto gradevole essere nell’età ormai declinan­ te, non ancora sull’orlo della tomba; ma penso che anche l’ultimo periodo della vita abbia i suoi piaceri, o almeno ha questo vantaggio in luogo dei piaceri: non ne sente più il bisogno. Quanto è dolce l’aver stancato le passioni ed essersele lasciate alle spalle! «È triste» tu dici «avere la morte davanti agli occhi». Anzitutto essa deve stare davanti agli occhi sia del vecchio che del giovane, perché non veniamo chiamati secondo le tavole del censimento; in secondo luogo, nessuno è tanto vecchio che non possa

1 Evidentemente si tratta del portiere, già conosciuto fin dall’infan­ zia. Seneca mostra di non riconoscerlo; anzi lo scambia con un cadavere. C’era la consuetudine, a Roma, di esporre i defunti sulla porta di casa, con la faccia rivolta verso l’esterno.

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unum diem speret. Unus autem dies gradus vitae est. Tota aetas partibus constat et orbes habet circumductos maiores minoribus: est aliqùis qui omnis conplectatur et cingat (hic pertinet a natali ad diem extremum); est alter qui annos adulescentiae excludit; est qui totam pueritiam ambitu suo adstringit; est deinde per se annus in se omnia continens tempora, quorum multiplicatione vita componitur; mensis artiore praecingitur circulo; angustissimum habet dies gyrum, 7 sed et hic ab initio ad exitum venit, ab ortu ad occasum. Ideo Heraclitus, cui cognomen fecit orationis obscuritas, ‘unus’ inquit ‘dies par omni est’. Hoc alius aliter excepit. Dixit enim * * * parem esse horis, nec mentitur; nam si dies est tempus viginti et quattuor horarum, necesse est omnes inter se dies pares esse, quia nox habet quod dies perdidit. Alius ait parem esse unum diem omnibus similitudine; nihil enim habet longissimi temporis spatium quod non et in uno die invenias, lucem et noctem, et in alternas mundi vices plura facit ista, non (alia) * * * alias contractior, alias productior. 8 Itaque sic ordinandus est dies omnis tamquam cogat agmen et consummet atque expleat vitam. Pacuvius, qui Syriam usu suam fecit, cum vino et illis funebribus epulis sibi parentaverat, sic in cubiculum ferebatur a cena ut inter plausus exoletorum hoc ad symphoniam caneretur: β ΐβ ίω τ α ι, β ΐβ ίω 9 τ α ι. Nullo non se die extulit. Hoc quod ille ex mala conscientia faciebat nos ex bona faciamus, et in somnum ituri laeti hilaresque dicamus, vìxi et quem dederat cursum fortuna peregi.

ripromettersi almeno un giorno di vita. Anche un sol giorno rappresenta un periodo della vita. Tutta la nostra esistenza è fatta di parti, è costituita, cioè, di cerchi più ampi che cingono cerchi sempre minori. Ce n’è uno che li abbraccia tutti, e si estende dal giorno della nascita a quello della morte. Ce n’è un altro che delimita gli anni dell’adolescenza; c’è quello che chiude nel suo ambito tutta la fanciullezza; e infine c’è l’anno che contiene in sé tutti i periodi più brevi che insieme compongono la vita. Il mese è chiuso da un cerchio più stretto; il giorno ha una circonferenza strettissima, ma anch’esso muove da un principio verso una fine, dal sorgere al tramonto del sole. Perciò Eraclito, che per il suo stile ebbe il soprannome di «oscuro», disse: «Un giorno è uguale a ogni altro». Questo detto chi l’ha inteso in un modo, chi in un altro... l’ha inteso nel senso che ogni giorno ha un ugual numero di ore, né ha detto cosa falsa; infatti, se è vero che il giorno è sempre di ventiquattr’ore, necessariamente tutti i giorni sono uguali fra loro, poiché la notte guadagna tutto quel tempo che perde il periodo di luce. Un altro spiega nel senso che un giorno è pari agli altri perché si somigliano tutti: tutto ciò che si trova in un giorno, si può trovare anche in un periodo di tempo lunghissimo, cioè la luce, le tenebre e sulle loro alterne variazioni influisce di più... ora più breve, ora più lunga. A ogni giornata noi dobbiamo dare un ordine, come se essa chiudesse la serie e segnasse il compimento della nostra esistenza. Pacuvio, che, col dimorarvi a lungo, fece quasi sua la Siria2, aveva l’abitudine di farsi, per così dire, le esequie durante le sue gozzoviglie. Dopo il pasto si faceva portare nella stanza da letto, mentre, fra il plauso dei suoi amasii, veniva cantato il ritornello: «Egli fu, or non è più». E non passò giorno che non si ripetessero tali esequie. Orbene questo, che egli faceva spinto dalla sua cattiva coscienza, facciamolo invece con la coscienza di aver bene operato e, andando a dormire, diciamo lieti e contenti: «Ho vissuto e ho percorso la via

2 S’acquistò, cioè, il soprannome di «Siro». Pacuvio governò a lungo la Siria sotto l’imperatore Tiberio.

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I li

Crastinum si adiecerit deus, laeti recipiamus. Ille beatissimus est et securus sui possessor qui crastinum sine sollicitudine expectat; quisquis dixit ‘vixi’ cotidie, ad lucrum surgit. 10 Sed iam debeo epistulam includere. ‘Sic’ inquis ‘sine ullo ad me peculio veniet?’ Noli timere: aliquid secum ferì. Quare aliquid dixi ? multum. Quid enim hac voce praeclarius quam illi trado ad te perferendam ? ‘Malum est in necessitate vivere, sed in necessitate vivere necessitas nulla est.’ Quidni nulla sit ? patent undique ad libertatem viae multae, breves faciles. Agamus deo gratias quod nemo in vita teneri potesti 11 calcare ipsas necessitates licei. ‘Epicurus’ inquis ‘dixit: quid tibi cum alieno?’ Quod verum est meum est; perseverabo Epicurum tibi ingerere, ut isti qui· in verba iurant nec quid dicatur aestimant, sed a quo, sciant quae optima sunt esse communia. Vale.

segnatami dalla sorte»3. Se dio ci concederà un altro giorno, accettiamolo lieti. È un uomo davvero felice e ha il pieno dominio di sé, colui che aspetta Γindomani senza trepidazione. Chiunque può dire: «Ho vissuto», s’alzerà l’indomani per guadagnare una nuova giornata. Ma ormai debbo chiudere la lettera. «Così» dirai «essa mi giungerà senza portarmi alcun dono?» Non temere: porta qualcosa con sé. Anzi, non porta solo qualcosa, ma molto. Infatti quale pensiero è più nobile di questo che affido alla lettera perché lo porti a te? «E male vivere nella necessità; ma non c’è alcun bisogno di vivere nella necessità». E sai perché? Da ogni parte si aprono molte vie, facili e brevi, verso la libertà. Ringraziamo dio per il fatto che nessuno è costretto a rimanere in vita; queste necessità possiamo anche metterle sotto i piedi. «Ma» dirai «è una sentenza di Epicuro: che hai a che fare con ciò che appartiene agli altri?» Ciò che è vero, appartiene anche a me; continuerò a proporti pensieri di Epicuro affinché chi giudica le parole non per i concetti che esprimono, ma per l’autorità di chi le ha dette, sappia che le cose belle e vere appartengono a tutti. Addio.

3 Parole che Virgilio fa pronunciare a Didone prima di morire (Eneide, IV, 653).

LIBER SECVNDVS

LIBRO SECONDO

LETTERA 13

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Multum tibi esse animi scio; nam etiam antequam instrueres te praeceptis salutaribus et dura vincentibus, satis adversus fortunam placebas tibi, et multo magis postquam cum illa manum consentisti viresque expertus es tuas, quae numquam certam dare fiduciam sui possunt nisi cum multae difficultates hinc et illinc apparuerunt, aliquando vero et propius accesserunt. Sic verus ille animus et in alienum non 2 venturus arbitrium probatur; haec eius obrussa est. Non potest athleta magnos spiritus ad certamen adferre qui numquam suggillatus est: ille qui sanguinem suum vidit, cuius dentes crepuere sub pugno, ille qui subplantatus adversarium toto tulit corpore nec proiecit animum proiectus, qui quotiens cecidit contumacior resurrexit, cum magna spe 3 descendit ad pugnam. Ergo, ut similitudinemistam prosequar, saepe iam fortuna supra te fuit, nec tamen tradidisti te, sed subsiluisti et acrior conStitisti; multum enim adicit sibi virtus lacessita. Tamen, si tibi videtur, accipe a me auxilia quibus munire 4 te possis. Plura sunt, Lucili, quae nos terreni quam quae premunì, et saepius opinione quam re laboramus. Non loquor

Il saggio non si preoccupa del futuro So che hai molto coraggio: anche prima che il tuo animo fosse rinvigorito con utili precetti contro le durezze della vita, tu eri ben saldo di fronte alla fortuna, ma lo sei diventato ancor più dopo che hai affrontato decisamente il tuo destino e hai sperimentato le tue forze. Esse, infatti, non possono dare sicuro affidamento, se non quando le avversità appaiono, e vengono quasi all’assal­ to, in gran numero e da ogni parte. Questa è la prova del fuoco per un animo veramente forte e non disposto a subire l’arbitrio altrui. Non può affrontare la lotta con grande sicurezza di sé l’atleta che ancora non abbia i lividi delle percosse: chi ha visto il suo sangue e ha sentito rompersi qualche dente sotto i pugni; chi, atterrato con uno sgambetto, ha dovuto sopportare in tutto il suo peso il corpo dell’avversario, ma non s’è perduto d’animo, anzi ogni volta si è rialzato più deciso a resistere, costui ha maggiori speranze di successo nell’affrontare il com­ battimento. Dunque, continuando la similitudine, già più volte ti è stata sopra la fortuna avversa, ma non ti sei arreso, anzi ti sei levato in piedi e con maggior fierezza hai resistito, perché l’uomo coraggioso si sente ancora più forte quando è provocato. Tuttavia, se credi, accetta questi consigli che contribui­ ranno a rinvigorirti l’animo. Sono più, o Lucilio, le cose che spaventano, che quelle che ci fanno effettivamente male; e noi siamo più spesso in angustie per le apparenze 115

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tecum Stoica lingua, sed hac summissiore; nos enim dicimus omnia ista quae gemitus mugitusque exprimunt levia esse et contemnenda. Omittamus haec magna verba, sed, di boni, vera: illud tibi praecipio, ne sis miser ante tempus, cum illa quae velut inminentia expavisti fonasse nunquam ventura sint, certe non venerint. Quaedam ergo nos magis torquent quam debent, quaedam ante torquent quam debent, quaedam torquent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecipimus aut fingimus. Primum illud, quia res in controversia est et litem contestatam habemus, in praesentia differatur. Quod ego leve dixero tu gravissimum esse contendes; scio alios inter flagella ridere, alios gemere sub colapho. Postea videbimus utrum ista suis viribus valeant an inbecillitate nostra. Illud praesta mihi, ut, quotiens circumsteterint qui tibi te miserum esse persuadeant, non quid audias sed quid sentias cogites, et cum patientia tua deliberes ac te ipse interroges, qui tua optime nosti, ‘quid est quare isti me conplorent f quid est quod trepident, quod contagium quoque mei timeant, quasi transilire calamitas possit ? est aliquid istic mali, an res ista magis infamis est quam mala?’ Ipse te interroga, ‘numquid sine causa crucior et maereo et quod non est malum facio ?’ ‘Quomodo’ inquis ‘intellegam, vana sint an vera quibus angor ?’ Accipe huius rei regulam : aut praesentibus torquemur aut futuris aut utrisque. D e praesentibus facile iudicium est : si corpus tuum liberum et sanum est, nec ullus ex iniuria dolor est, videbimus quid futurum sit: hodie nihil negotii habet. ‘At enim futurum est.’ Primum dispice an certa argumenta sint venturi mali; plerumque enim suspicionibus laboramus, et inludit nobis

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che per fatti reali. Uso con te un linguaggio più dimesso di quello stoico. Noi stoici diremmo che tutte queste contrarietà che ci strappano sospiri e gemiti sono assolu­ tamente cose inconsistenti: lasciamo pure questo lin­ guaggio troppo elevato, ma vero, vivaddio! Ti raccoman­ do di non renderti infelice prima del tempo, perché i mali che hai temuto imminenti forse non verranno mai, in ogni caso non sono venuti. Per alcune cose noi ci angustiamo più di quello che dovremmo, altre ci cruccia­ no prima del necessario, altre senza alcuna necessità. O ci aumentiamo noi stessi il dolore, o lo anticipiamo, o lo creiamo con la nostra immaginazione. Rinviamo per ora l’esame del primo punto, perché è una questione ancora dibattuta. Può darsi che tu giudi­ chi molto grave un male che per me è lieve. So bene che c’è chi ride sotto la sferza, e chi geme per uno scappellotto. Vedremo poi se questi mali sono gravi per forza propria, o ci sembrano tali solo per la nostra debolezza. Intanto accetta questo mio consiglio: ogni volta che ti vengono intorno per persuaderti che sei un infelice, non prendere in considerazione quello che hanno detto gli altri, ma quello che tu senti, esamina la tua situazione con serenità e domanda a te stesso, poiché ti conosci meglio degli altri: per quale ragione costoro mi compiangono, sono in ansia per me, e hanno persino paura di starmi vicino, come se la mia sventura potesse contagiarli? È essa un male reale o piuttosto una falsa congettura? Domàndati ancora: non c’è caso che io sia triste e crucciato senza motivo, e che mi crei un male che non esiste? «Come posso accorgermi» mi dirai «se le sventure che mi angustiano sono vere, o sono solo immaginate da me?» Eccoti la norma da seguire: noi ci crucciamo per cose presenti, o future, o per entrambe. Sulle cose presenti il giudizio è facile: se il tuo corpo è libero e sano, e se non hai alcun dolore per offese ricevute, si vedrà poi quello che accadrà: oggi non ci sono motivi per preoccuparsi. «Ma il male verrà» obietterai. Anzitutto considera bene se ci siano chiari indizi di questo male futuro: spesso infatti noi ci affannia­ mo per semplici sospetti, e ci lasciamo trarre in inganno 117

illa quae conficere bellum solet fama, multo autem magis singulos confidi. Ita est, mi Lucili: cito accedimi» opinioni; non coarguimus illa quae nos in metum adducunt nec excutimus, sed trepidamus et sic vertimus terga quemadmodum illi quos pulvis motus fuga pecorum exuit castris aut quos 9 aliqua fabula sine auctore sparsa conterruit. Nescio quomodo magis vana perturbant; vera enim modum suum habent: quidquid ex incerto venit coniecturae et paventis animi licentiae traditur. Nulli itaque tam perniciosi, tam inrevocabiles quam lymphatici metus sunt; ceteri enim sine ratione, 10 hi sine mente sunt. Inquiramus itaque in rem diligenter. Verisimile est aliquid futurum mali: non statim verum est. Quam multa non expectata venerunt ! quam multa expectata nusquam conparuerunt ! Etiam si futurum est, quid iuvat dolori suo occurrere ? satis cito dolebis cum venerit : interim 11 tibi meliora promitte. Quid facies lucri? tcmpus. Multa intervenient quibus vicinum periculum vel prope admotum aut subsistat aut desinat aut in alienum caput transeat: incendium ad fugam patuit ; quosdam molli ter ruina deposuit ; aliquando gladius ab ipsa cervice revocatus est; aliquis carnifici suo superstes fuit. Habet etiam mala fortuna levitatem. Fortasse erit, fortasse non erit: interim non est; meliora 12 propone. Nonnumquam, nullis apparentibus signis quae mali aliquid praenuntient, animus sibi falsas imagines fingit : aut verbum aliquod dubiae significationis detorquet in peius aut maiorem sibi offensam proponit alicuius quam est, et cogitai non quam iratus ille sit, sed quantum liceat irato. Nulla autem causa vitae est, nullus miseriarum modus, si timetur quantum potest. Hic prudentia prosit, hic robore animi

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da quelle dicerie che, come hanno la forza di mandare in rovina gli eserciti, tanto più possono abbattere i singoli. È così, o mio Lucilio; con troppa fretta accettia­ mo per vere le opinioni; e non cerchiamo di veder chiaro nei nostri timori, né abbiamo il coraggio di scacciarli, ma voltiamo le spalle trepidanti, come chi fugge dal campo solo per aver visto la polvere sollevata da un branco di pecore, o come chi si spaventa al racconto di cose leggendarie e irreali, di cui non si conosce neppure l’autore. Non so perché, ma le cose immaginarie turbano di più. Le cose vere hanno i contorni ben definiti, mentre tutto ciò di cui non si ha certezza è in balìa dei giudizi arbitrari e fallaci di un animo atterrito. Niente porta conseguenze così dannose e irreparabili, come il timor panico: se le altre forme di paura sono irragionevoli, questa è dissennata. Indaghiamo dunque con cura. E verosimile che qualche male possa accadere, ma non e senz’altro certo. Quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante, che erano aspettate, non sono avvenute! E anche se un male deve venire, che vantaggio c’è ad andargli incontro? Sarai in tempo a dolertene, quando verrà; intanto augurati cose migliori; guadagne­ rai tempo. Potranno capitare tante circostanze per cui il pericolo, già vicino o imminente, può arrestarsi, o cessa­ re, o colpire un altro; è capitato a qualcuno di aprirsi la via alla fuga durante un incendio; ad un altro di rimanere incolume sotto le rovine di un edificio; talvolta il pugnale è stato deviato proprio dalla testa della vittima; e c è stato chi è sopravvissuto al suo carnefice. Anche la sorte avversa è volubile: forse ci sarà, forse non ci sarà; e tu, fin tanto che non c’è, ripromettiti il meglio. Talvolta, pur non essendoci alcun sintomo evidente, che lo prean­ nunzi, l’animo si crea mali immaginari; o interpreta nel modo peggiore una parola di dubbio significato, o considera l’offesa ricevuta più grave di quanto' è stata in realtà e, anziché preoccuparsi del proprio stato di irritazione, pensa già al male che potrà fare nell ira. Se si è presi dal timore di tutto quello che può capitare, non c’è più un limite alle miserie umane e cessa ogni ragione di vita. Qui ti sia d’aiuto la saggezza, respingi 119

evidentem quoque metum respue; si minus, vitio vitium repelle, spe metum tempera. Nihil tam certum est ex his quae timentur ut non certius sit et formidata subsidere et 13 sperata decipere. Ergo spem ac metum examina, et quotiens incerta erunt omnia, tibi fave: crede quod mavis. Si plures habebit sententias metus, nihilominus in hanc partem potius inclina et perturbare te desine ac subinde hoc in animo volve, maiorem partem mortalium, cum illi nec sit quicquam mali nec prò certo futurum sit, aestuare ac discurrere. Nemo enim resistit sibi, cum coepit inpelli, nec timorem suum redigit ad verum; nemo dicit ‘vanus auctor est, vanus [est]: aut finxit aut credidit’. Damus nos aurae ferendos; expavescimus dubia prò certis; non servamus modum rerum, statim in timorem venit scrupulus. 14 Pudet me "fibif sic tecum loqui et tam lenibus te remediis focilare. Alius dicat ‘fonasse non veniet’: tu die ‘quid porro, si veniet? videbimus uter vincat; fortasse prò me venit, et mors ista vitam honestabit’. Cicuta magnum Socratem fecit. Catoni gladium adsertorem libertatis extorque : magnam par15 tem detraxeris gloriae. Nimium diu te cohortor, cum tibi admonitione magis quam exhortatione opus sit. Non in diversum te a natura tua ducimus: natus es ad ista quae dicimus; eo magis bonum tuum auge et exorna. 16 Sed iam finem epistulae faciam, si illi signum suum inpressero, id est aliquam magnifìcam vocem perferendam ad te mandavero. ‘Inter cetera mala hoc quoque habet stultitia: semper incipit vivere.’ Considera quid vox ista significet, Lucili virorum optime, et intelleges quam foeda sit hominum levitas cotidie nova vitae fundamenta ponentium, novas spes

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con la forza dell’animo la paura, anche quando è giustifi­ cata; o, almeno, cerca di mitigarla con la speranza, sostituendo un difetto con un altro. Proprio le cose più temute non si realizzano, e quelle sperate deludono: non c’è realtà più certa di questa fra tutte quelle che possiamo temere. Metti dunque a confronto speranza e timore e, quando tutto appare incerto, indulgi a te stesso e credi ciò che ti fa più piacere. Orièntati in questo senso, anche se prevalgono i motivi di timore, e cessa di angustiarti. Pensa che la maggior parte dei mortali si affanna e si agita senza avere alcun male e pur non avendo la certezza che qualche male venga in avvenire. Nessuno sa più resistere a se stesso, una volta che ha incominciato ad agitarsi, né sa ridurre il suo timore nei limiti della verità. Nessuno dice: «Non è una persona seria chi mi ha riferito questa notizia, non lo è: o se l’è inventata, o ha prestato fede a una diceria». Ci lasciamo trasportare da ogni soffio di vento; paventiamo il dubbio come certezza; non abbiamo il senso della misura nel valutare i fatti, e subito il dubbio si volge in paura. Mi vergogno a dirti queste cose, per poi confortarti con rimedi così lievi. Qualcuno dirà: «Forse il male non viene». Tu di’ invece: «E che sarà poi, se anche viene? Vedremo chi vincerà. Forse sarà meglio per me, e una morte onorata concluderà degnamente la mia vita». La cicuta rese grande Socrate. Strappa a Catone il pugnale assertore di libertà e gli toglierai gran parte della gloria. Ma ormai mi son troppo dilungato ad esortarti, mentre tu, più che di esortazioni, hai bisogno di un semplice ammonimento. Non ti conduco in un campo diverso dalla tua indole: tu hai naturali disposizioni al bene; tanto più, dunque, devi ordinarle e svilupparle. Sto per concludere, ma prima debbo apporre alla lettera il suo suggello, cioè affidarle qualche bel pensiero da portarti in dono. «L’uomo stolto, fra gli altri mali, ha anche questo: vuol sempre ricominciare a vivere». Considera il significato di questa massima, o mio ottimo Lucilio, e capirai come sia stolta*la leggerezza di quegli uomini che ogni giorno vogliono gettare nuove fonda­ menta alla vita e si creano nuove speranze, anche quando 121

17 etiam in exitu inchoantium. Circumspice tecum singulos:

occurrent tibi senes qui se cum maxime ad ambitionem, ad peregrinationes, ad negotiandum parent. Quid est autem turpius quam senex vivere incipiens ? Non adicerem auctorem huic voci, nisi esset secretior nec inter vulgata Epicuri dieta, quae mihi et laudare et adoptare permisi. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Fateor insitam esse nobis corporis nostri caritatem; fateor nos huius gerere tutelam. Non nego indulgendum illi, serviendum nego; multis enim serviet qui corpori servit, qui 2 prò ilio nimium timet, qui ad illud omnia refert. Sic gerere nos debemus, non tamquam propter corpus vivere debeamus, sed tamquam non possimus sine corpore; huius nos nimius amor timoribus inquietai, sollicitudinibus onerai, contumeliis obicit; honestum ei vile est cui corpus nimis carum est. Agatur eius diligentissime cura, ita tamen ut, cum exiget ratio, cum dignitas, cum fides, mittendum in ignes sit. 3 Nihilominus quantum possumus evitemus incommoda quo­ que, non tantum pericula, et in tutum nos reducamus, exeogitantes subinde quibus possint timenda depelli. Quorum tria, nisi fallor, genera sunt : timetur inopia, timeritur morbi, 4 timentur quae per vim potentioris eveniunt. Ex his omnibus nihil nos magis concutit quam quod ex aliena potentia inpendet; magno enim strepitu et tumultu venit. Naturalia mala quae rettuli, inopia atque morbus, silentio subeunt nec oculis nec auribus quicquam terroris inctitiunt: ingens alterius mali pompa est; ferrum circa se et ignes habet et catenas et turbam

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sono ormai alla fine. Osservali ad uno ad uno. troverai vecchi che ancora brigano per ottenere cariche politiche, o iniziano lunghi viaggi, o intraprendono nuovi affari. Che c’è di più brutto di un vecchio che vuol ricominciare a vivere? Non vorrei far seguire a questa massima il nome dell’autore, se non fosse, fra le più famose senten­ ze di Epicuro che finora mi sono permesso di scegliere e di lodare, una di quelle che ha avuto minore divulgazio­ ne. Addio. lettera 1 4

Non dobbiamo essere schiavi del corpo Confesso che noi amiamo istintivamente il nòstro corpo e lo proteggiamo con ogni cura. Ammetto che si debba avere per esso una certa indulgenza, purché non se ne divenga schiavi. Chi è schiavo del corpo, chi si preoccupa troppo per esso e lo pone al centro dei suoi interessi, diventa schiavo di molte cose. Nella nostra condotta dobbiamo essere convinti, non già di dover vivere per il corpo, ma di non poter vivere senza il corpo. L’amore eccessivo per esso ci angustia con timori, ci riempie di preoccupazioni e può esporci anche ad offese. L uomo a cui il corpo sta troppo a cuore, è portato a trascurare i valori spirituali. Dobbiamo avere ogni riguardo e ogni cura per il corpo, purché siamo pronti a gettarlo nel fuoco, appena lo esigano la ragione, la dignità, la fedeltà. Tuttavia evitiamo, per quanto è possibile, non solo ι pericoli, ma anche i disagi, e cerchiamo di metterci al sicuro, pensando al modo con cui ci sia possibile tener lontani da noi i mali più temibili. Questi sono, se non erro, di tre specie: la miseria, le malattie e la violenza dei potenti. Di essi, nessuno ci atterrisce tanto quanto quello che ci è minacciato dalla prepotenza altrui, perche ci assale con grande strepito e clamore. I mali naturali di cui ho parlato, la miseria e la malattia ci arrivano silenziosamente, e non incutono terrore né agli occhi, né agli orecchi; mentre il male che ci viene fatto dagli altri porta con sé un grande apparato: ferro, fuoco, 123

ferarum quam in viscera inmittat humana. Cogita hoc loco carcerem et cruces et eculeos et uncum et adactum per medium hominem qui per os emergerei stipitem et distracta in diversum actis curribus membra, illam tunicam alimentis ignium et inlitam et textam, et quidquid aliud praeter haec 6 commenta saevitia est. Non est itaque mirum, si maximus huius rei timor est cuius et varietas magna et apparatus terribilis est. Nam quemadmodum plus agit tortor quo plura instrumenta doloris exposuit (specie enim vincuntur qui patientiae restitissent), ita ex iis quae animos nostros subigunt et domant plus proficiunt quae habent quod ostendant. Illae pestes non minus graves sunt—famem dico et sitim et praecordiorum suppurationes et febrem viscera ipsa. torrentem— sed latent, nihil habent quod intentent, quod praeferant: haec ut magna bella aspectu paratuque vicerunt. 7 Demus itaque operam, abstineamus offensis. Interdum populus est quem timere debeamus; interdum, si ea civitatis disciplina est ut plurima per senatum transigantur, gratiosi in eo viri; interdum singuli quibus potestas populi et in populum data est. Hos omnes amicos habere operosum est, satis est inimicos non habere. Itaque sapiens numquam potentium iras provocabit, immo [nec] declinabit, non aliter quam in 8 navigando procellam. Cum peteres Siciliani, traiecisti fretum. Temerarius gubernator contempsit austri minas (ille est enim qui Siculum pelagus exasperet et in vertices cogat); non sinistrum petit litus sed id a quo propior Charybdis maria convolvit. At ille cautior peritos locorum rogat quis aestus sit, quae signa dent nubes; longe ab illa regione verticibus infami cursum tenet. Idem facit sapiens: nocituram potentiam vitat, hoc primum cavens, ne vi tare videatur; pars 5

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catene e torme di fiere con cui straziare il corpo umano. Pensa al carcere, alla croce, al cavalletto, al palo cacciato attraverso il corpo così che spunti fuori dalla bocca; alle membra strappate da carri spinti in diverse direzioni, alla tunica impregnata di sostanze infiammabili, e a ogni altro supplizio che ha inventato la crudeltà umana. Non c’è quindi da stupirsi, se è tanto grande il terrore di un male che si presenta con una così terribile varietà di apparati. L’azione del carnefice ha tanto più effetto quanti più sono gli strumenti di tortura che può mettere in mostra, poiché alla loro vista cade vinto anche chi avrebbe potuto sopportare il dolore. E così noi siamo abbattuti e sopraffatti, soprattutto da quei mali che ci si presentano con ostentazione di mezzi esteriori. Vi sono calamità non meno gravi, come la fame, la sete, le suppurazioni viscerali e la febbre che brucia le viscere stesse; ma stanno nell’ombra, non ci si presentano con forme appariscenti, come i mali di cui si è parlato: questi vincono l’animo, come si vincono le grandi guerre, con lo spiegamento dei mezzi bellici. Perciò badiamo a star lontani da queste avversità. Talora è il popolo che dobbiamo temere; talora, se per l’ordinamento di una città i pubblici affari sono trattati dal senato, dobbiamo temere i senatori di maggior presti­ gio; altre volte bisogna temere quell’uomo che dal popo­ lo ha ricevuto il potere per esercitarlo sul popolo stesso. Sarebbe troppo faticoso tenersi amici tutti costoro, basta non averli nemici. Pertanto il saggio non provocherà mai le ire dei potenti, cercherà anzi di schivarle, come in mare si evitano le tempeste. Andando in Sicilia, hai attraversato lo stretto. Il marinaio temerario non si cura delle minacce dell’austro che agita il mare siciliano e suscita i vortici, e non si dirige verso la parte sinistra della costa, ma passa vicino a quel tratto costiero da cui Cariddi sconvolge il mare. Il marinaio più cauto, invece, chiede a chi conosce i luoghi quali correnti ci siano e quali indizi si possano trarre dalle nubi, e tiene la rotta ben lungi da quella zona malfamata per i suoi gorghi. La stessa cosa fa il sapiente: evita il potente che gli può nuocere, ma anzitutto si guarda bene dal manifestare 125

enim securitatis et in hoc est, non ex professo eam petere, 9 quia quae quis fugit damnat. Circumspiciendum ergo nobis est quomodo a vulgo tuti esse possimus. Priinuin nihil idem concupiscamus: rixa est inter competitores. Deinde nihil habeamus quod cum magno emolumento insidiantis eripi possit; quam minimum sit in corpore tuo spoliorum. Nemo ad humanum sanguinem propter ipsum venit, aut admodum pauci; plures conputant quam oderunt. Nudum latro trans10 mittit; etiam in obsessa via pauperi pax est. Tria deinde ex praecepto veteri praestanda sunt ut vitentur: odium, invidia, contemptus. Quomodo hoc fiat sapientia sola monstrabit; difficile enim temperamentum est, verendumque ne in contemptum nos invidiae timor transferat, ne dum calcare nolumus videamur posse calcari. Multis timendi attulit causas timeri posse. Undique nos reducamus: non minus 11 contemni quam suspici nocet. Ad philosophiam ergo confugiendum est; hae litterae, non dico apud bonos sed apud mediocriter malos infularum loco sunt. Nam forensis eloquentia et quaecumque alia populum movet adversarios habet: haec quieta et sui negotii contemni non potest, cui ab omni­ bus artibus etiam apud pessimo^ honor est. Numquam in tantum convalescet nequitia, numquam sic contra virtutes coniurabitur, ut non philosophiae nomen venerabile et sacrum maneat. Ceterum philosophia ipsa tranquille modesteque tractanda est. 12 ‘Quid ergo ?’ inquis ‘videtur tibi M. Cato modeste philosophari, qui bellum civile sententia reprimit ? qui furentium principum armis medius intervenit ? qui aliis Pompeium 1 3 offendentibus, aliis Caesarem, simul lacessit duos f ’ Potest

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questo suo desiderio di evitarlo. Una parte della sicurez­ za sta nel non cercarla apertamente, poiché, se uno mostra di fuggire una cosa, la condanna. Vediamo ora come si possa essere sicuri dal volgo. Anzitutto astenia­ moci dal bramare ciò che esso brama: fra coloro che aspirano agli stessi beni c’è sempre una guerra. Poi non dobbiamo avere con noi cose di valore, perché qualcuno che voglia arricchirsi non sia tentato di togliercele. Abbi perciò addosso il minor numero possibile di quegli ogget­ ti che sono quasi un invito alla rapina. Non c’è nessuno (o, almeno, sono pochissimi) che uccide solo per uccide­ re. La maggior parte dei grassatori agisce per realizzare un guadagno, non per odio; e il viandante povero non viene molestato e può andare tranquillo anche in una strada infestata dai banditi. Inoltre, secondo un antico precetto, è bene evitare tre cose: l’odio, l’invidia e il disprezzo. Solo la sapienza ci mostra come ciò sia possibi­ le. È, infatti, difficile tenere il giusto mezzo e bisogna evitare che, per paura dell’invidia, si giunga ad essere disprezzati, e mentre ci si vuole astenere dal fare soprusi, si dia l’impressione di essere disposti a subirli. Molti sono passati dalla condizione di essere temuti a quella di avere paura degli altri. Ritiriamoci da queste posizioni sbagliate: l’altrui disprezzo nuoce non meno che l’ecces­ siva considerazione. Dunque, rifugiamoci nella filosofia: questa disciplina ispira un rispetto quasi sacro, non dico ai buoni, ma anche agli uomini non del tutto cattivi. L’eloquenza forense, come ogni altra forma di arte rivolta a convincere il popolo, ha i suoi avversari: la filosofia, invece, tutta dedita al suo tranquillo compito, non può avere nemici; anzi, è onorata in ogni professio­ ne, anche dagli uomini peggiori. Per quanto la malvagità umana possa crescere e insidiare la virtù, il nome della filosofia rimarrà sempre sacro e venerabile. D’altronde ci si deve avvicinare ad essa con serenità e moderazione. «Ma» mi dirai «ti sembra che sia stato misurato nel suo atteggiamento filosofico Catone? Dopo aver condan­ nato la guerra civile a parole ed essersi interposto fra le armi dei due capi furenti, mentre gli uni attaccavano Pompeo e gli altri Cesare egli li attaccò entrambi insie127

aliquis disputare an ilio tempore capessenda fuerit sapienti res publica. Quid tibi vis, Marce Cato ? iam non agitur de liberiate : olim pessum data est. Qugeritur utrum Caesar an Pompeius possideat rem publicam: quid tibi cum ista contentione? nullae partes tuae sunt. Dominus eligitur: quid tua, uter vincat ? potest melior vincere, non potest non peior esse qui vicerit. Ultimas partes attigi Catonis; sed ne priores quidem anni fuerunt qui sapientem in illam rapinam rei publicae admitterent. Quid aliud quam vociferatus èst Cato et misit inritas voces, cum modo per populi levatus manus et obrutus sputis exportandus extra forum traheretur, modo e senatu in carcerem duceretur ? 14 Sed postea videbimus an sapienti opera rei publicae danda sit: interim ad hos te Stoicos voco qui a re publica exclusi secesserunt ad colendam vitam et humano generi iura condenda sine ulla potentioris offensa. Non conturbabit sapiens publicos mores nec populum in se vitae novitate convertet. 15 ‘Quid ergo ? utique erit tutus qui hoc propositum sequetur ?’ Promittere tibi hoc non magis possum quam in homine temperanti bonam valetudinem, et tamen facit temperantia bonam valetudinem. Perit aliqua navis in portu: sed quid tu accidere in medio mari credis ? Quanto huic periculum paratius foret multa agenti molientique, cui ne otium quidem tutum est ? Pereunt aliquando innocentes (quis negati), nocentes tamen saepius. Ars ei constat qui per ornamenta percus16 sus est. Denique consilium rerum omnium sapiens, non exitum spectat; initia in potestate nostra sunt, de eventu fortuna iudicat, cui de me sententiam non do. ‘A t aliquid vexationis

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me.» Effettivamente si potrebbe discutere se in quella occasione il saggio avrebbe dovuto prendere parte alla vita politica, e si potrebbe affermare: «Ma cosa vuoi, o Marco Catone? Ormai non si tratta più di lottare per la libertà, da tempo caduta. Si tratta di sapere se dovrà comandare Cesare o Pompeo. Che hai a che fare con questo contrasto? Niente, poiché in entrambi i casi si deve scegliere un padrone. Che t’importa quale dei due vinca? Ammettiamo pure che vinca il migliore: una volta che ha vinto, non può che essere il peggiore». Ho fatto cenno alle ultime vicende politiche di Catone; ma anche negli anni precedenti il disordine dello stato fu tale, che non consentiva al saggio di partecipare alla vita politi­ ca. Che altro poteva fare Catone, se non agitarsi ed alza­ re inutilmente la voce, mentre, afferrato dal popolo e coperto di sputi, ora veniva trascinato via dal foro, ora veniva cacciato dall’aula del senato e gettato in carcere? Ma vedremo poi se il saggio debba impegnarsi nella vita politica. Per ora richiamo al tuo pensiero i nostri stoici che, esclusi dalla vita politica, si ritirarono nella loro solitudine, per praticare una più nobile forma di vita, e stabilire le leggi degne del genere umano, non sottoposte all’arbitrio dei potenti. Il saggio non turberà i costumi del popolo, né cercherà di attirarsene l’atten­ zione con maniere originali di vita. «Dunque, sarà del tutto sicuro chi seguirà un tale sistema di vita?» Non posso garantirtelo in senso assoluto, come non garantisco la salute ad un uomo temperante, sebbene la temperanza contribuisca al benessere fisico. Una nave può affondare anche nel porto; pensa tu che cosa avverrà in alto mare. Se nemmeno la vita ritirata è del tutto sicura, quanto più grave sarebbe il pericolo, se uno fosse molto attivo e intraprendente? Capita anche agli innocenti di essere tratti a morte: chi lo nega? Ma capita più spesso ai colpevoli. Non è privo di abilità uno che riceve un colpo attraverso l’armatura. Infine il saggio, in tutte le cose, guarda non al risultato, ma alla bontà della decisione presa. Questa è in suo potere, l’esito è in balìa della fortuna, alla quale non dò il diritto di giudicarmi. «Ma 129

adferet, aliquid adversi.’ Non damnat latro cum occidit. 17 Nunc ad cotidianam stipem manum porrigis. Aurea te stipe implebo, et quia facta est auri mentio, acGÌpe quemadmodum usus fructusque eius tibi esse gratior possit. ‘ Is maxi­ me divitiis fruitur qui minime divitiis indiget.’ ‘Ede’ inquis ‘auctorem.’ U t scias quam benigni simus, propositum est aliena laudare: Epicuri est aut Metrodori aut alicuius ex illa 18 officina. E t quid interest quis dixerit? omnibus dixit. Qui eget divitiis timet prò illis; nemo autem sollicito bono fruitur. Adicere illis aliquid studet; dum de incremento cogitai, oblitus est usus. Rationes accipit, forum conterit, kalendarium versat: fit ex domino procurator. Vale.

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Mos antiquis fuit, usque ad meam servatus aetatem, primis epistulae verbis adicere ‘si vales bene est, ego valeo’ . Recte nos dicimus ‘si philosopharis, bene est’. Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus; corpus quoque, etiam si magnas habet vires, non aliter quam furiosi aut frenetici 2 validum est. Ergo hanc praecipue valetudinem cura, deinde et illam secundam; quae non magno tibi constabit, si volueris bene valere. Stulta est enim, mi Lucili, et minime conveniens litterato viro occupatio exercendi lacertos et dilatandi cervicem ac latera firmandi; cum tibi feliciter sagina cesserit et tori creverint, nec vires umquam opimi bovis nec pondus

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essa ti creerà delle noie, delle contrarietà.» In ogni caso, chi fa il male non ha il diritto di condannare. Ed ora porgi la mano, per il dono di ogni giorno. Sarà una moneta d’oro, e poiché si parla di oro, sappi come puoi goderne e trarne frutto nel modo migliore. «Gode maggiormente delle ricchezze chi meno ne sente il biso- + gno.» «Fuori» dirai «il nome dell’autore.» Vedi come sono generoso? Mi sono proposto di lodare le massime altrui: questa può essere di Epicuro o Metrodoro o di qualcun altro di quella scuola. Che importa chi l’ha detta? Egli l’ha detta per tutti. Chi sente il bisogno delle ricchezze è sempre in timore per esse. Nessuno può godere di un bene che lo rende inquieto: piuttosto si studia di aggiungere altre ricchezze a quelle che ha; e, mentre pensa ai modi per accrescerle, dimentica di usarle; fa calcoli, frequenta il foro, consulta i libri conta­ bili: insomma, da padrone diventa amministratore. Ad­ dio. lettera

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Bisogna esercitare lo spirito, più che il corpo Era usanza degli antichi, rimasta fino ai miei tempi, di far seguire all’intestazione delle lettere questa formula: «Se stai bene, ne ho piacere; io sto bene». E noi possia­ mo intenderla rettamente in questo senso: «Se ti dedichi alla filosofia, ne sono contento». In ultima analisi, star bene non è altro che questo filosofare, e, senza di esso, l’animo è ammalato. Senza questo filosofare, anche il . corpo, sebbene abbia un grande vigore, è in buona salute t come può esserlo quello di un pazzo 0 di un delirante. Perciò, se vorrai stare veramente bene, preoccupati anzitutto della salute dello spirito, poi anche dell’altra, che non ti costerà molta fatica. Sarebbe, o mio Lucilio, stolto e sconveniente per un intellettuale occuparsi solo ad esercitare i muscoli, a ingrossare il collo e a rinforzare i fianchi: quand’anche questa cura avesse buon esito e ti si sviluppassero bene i muscoli, non riuscirai certo ad eguagliare la forza e il peso di un bue. Aggiungi poi che, 131

aequabis. Adice nunc quod maiore corporis sarcina animus eliditur et minus agilis est. Itaque quantum potes circum3 scribe corpus tuum et animo locum laxa. M ulta sequuntur incommoda huic deditos curae: primum exercitationes, quarum labor spiritum exhaurit et inhabilem intentioni ac studiis acrioribus reddit; deinde copia ciborum subtilitas inpeditur. Accedunt pessimae notae mancipia in magisterium recepta, homines inter oleum et vinum occupati, quibus ad votum dies actus est si bene desudaverunt, si in locum eius quod effluxit multum potionis altius in ieiuno iturae regesse4 runt. Bibere et sudare vita cardiaci est. Sunt exercitationes et faciles et breves, quae corpus et sine mora lassent et tempori parcant, cuius praecipua ratio habenda est: cursus et cum aliquo pondere manus motae et saltus vel ille qui corpus in altum levat vel ille qui in longum m ittit vel ille, ut ita dicam, saliaris aut, ut contumeliosius dicam, fullonius: quoslibet ex 5 his elige tusum rude facilet. Quidquid facies, cito redi a corpore ad animum; illum noctibus ac diebus exerce. Labore modico alitur ille; hanc exercitationem non frigus, non aestus inpediet, ne senectus quidem. Id bonum cura quod vetustate 6 fit melius. Neque ego te iubeo semper inminere libro aut pugillaribus: dandum est aliquod intervallum animo, ita tamen ut non resolvatur, sed remittatur. Gestatio et corpus concutit et studio non officit: possis legere, possis dictare, possis loqui, possis audire, quorum nihil ne ambulatio quidem 7 vetat fieri. Nec tu intentionem vocis contempseris, quam veto te per gradus et certos modos extollere, deinde depri­ mere. Quid si velis deinde quemadmodum ambules discere ? Admitte istos quos nova artificia docu'it fames : erit qui gradus

aggravato da un corpo più pesante, Tanimo perde di agilità. Perciò limita, per quanto ti è possibile, la tua cura per il corpo, e riserva più tempo per le attività dello spirito. Chi si dedica troppo al corpo va incontro a molti svantaggi: anzitutto la fatica delle esercitazioni fisiche spossa lo spirito e lo rende incapace all’applicazione mentale e agli studi più impegnativi; poi l’abbondanza del cibo ottunde ogni finezza d’ingegno. Aggiungi ancora che vengono spesso scelti, come istruttori, schiavi di cattiva fama, uomini che passano il loro tempo ad ungere il corpo con l’olio e a bere, e che si considerano soddisfat­ ti della loro giornata se hanno ben sudato e se, per compensare il sudore, hanno bevuto molto vino, che, a digiuno, va più a fondo. Bere e sudare è il regime dei sofferenti di stomaco. Ma ci sono ancora esercizi facili e brevi, che sciolgono subito le membra e non fanno perdere quel tempo, del quale bisogna tenere il maggior conto possibile: la corsa, il sollevare qualche peso con le braccia, il salto in alto, in lungo, quel salto che fa pensare alla danza dei Salii1, o, per dirla con espressione meno riguardosa, il «salto dei lavandai». Scegli fra questi quelli che vuoi... In ogni caso, però, torna presto dal corpo all’animo e tienilo in allenamento notte e giorno; per il corpo basta un’attività moderata. Né il freddo, né il caldo, e neppure la vecchiaia, potrà impedire di esercitare le forze dell’animo: cura dunque questo bene, che diventa migliore col passare degli anni. Non ti dico di stare sempre curvo sui libri, o sulle tavolette: bisogna concedere un po’ di riposo alla mente, perché possa rilassarsi, senza esaurirsi. Il moto, ad esempio, stimola le funzioni del corpo e non ostacola lo studio: non t’impedisce di leggere e dettare, di parlare e ascoltare; tutte attività che potrai fare anche camminando. Cerca anche di irrobustire la voce; ma non devi alzarla e abbassarla, studiatamente, a intervalli calcolati. Se poi tu volessi apprendere come si deve passeggiare, assumi come istruttore uno di costoro, a cui la fame ha insegnato 1 I Salii erano sacerdoti addetti al culto di Marte, che danzavano battendo dei piccoli scudi e sollevando alternativamente i piedi.

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tuos temperet et buccas edentis observet et in tantum procedat in quantum audaciam eius patientia et credulitate produxeris. Quid ergo ? a clamore protinus et a summa contentione vox tua incipiet ? usque eo naturale est paulatim incitari ut litigante's quoque a sermone incipiant, ad vociferationem transeant ; nemo statim Quiritium fidem implorai. 8 Ergo utcumque tibi impetus animi suaserit, modo vehementius fac vitiis convicium, modo lentius, prout vox te quoque hortabitur fin id latust ; modesta, cum recipies illam revocarisque, descendat, non decidat; tmediatorisui habèat et hoct indocto et rustico more desaeviat. Non enim id agimus ut exerceatur vox, sed ut exerceat. 9 Detraxi tibi non pusillum negotii: una mercedula et tunum graecum f ad haec beneficia accedet. Ecce insigne praeceptum : ‘stulta vita ingrata est, trepida ; tota in futurum fertur’ . ‘Quis hoc’ inquis ‘dicit ?’ idem qui supra. Quam tu nunc vitam dici existimas stultam ? Babae et Isionis ? Non ita est : nostra dicitur, quos caeca cupiditas in nocitura, certe numquam satiatura praecipitat, quibus si quid satis esse posset, fuisset, qui non cogitamus quam iucundum sit nihil poscere, quam magnificum sit plenum esse nec ex fortuna 10 pendere. Subinde itaque, Lucili, quam multa sis consecutus recordare; cum aspexeris quot te antecedant, cogita quot sequantur. Si vis gratus esse adversus deos et adversus vitam

questo nuovo mestiere: ci sarà quello che vorrà regolare i passi ed anche i movimenti della bocca quando mangi, ed andrà avanti nella sua sciocca presunzione finché tu glielo consentirai con la tua dabbenaggine e con la tua credulità. Dovrai, forse, iniziare un discorso gridando ed elevando al massimo il volume della voce? E più naturale che la voce acquisti vigore a poco a poco, come avviene in tribunale: i litiganti cominciano a parlare con tono dimesso e pacato, poi passano a gridare concitata­ mente: nessuno alza subito la voce per la perorazione finale. Perciò, secondo l’impulso dell’animo, parla con veemenza quando devi rimproverare i vizi, sii più mode­ rato in altri casi, usando quel tono che la voce ti porta... E, quando avrai riportato la voce a un tono normale, bada che essa non cada, ma scenda moderatamente; ... con quella furia che è costume dei rustici ignoranti. Noi non dobbiamo avere come scopo che la voce sia educata, ma che educhi. Ti ho liberato da un fastidio non lieve: un unico piccolo onorario e ... si aggiungerà a questo servizio. Eccoti un precetto insigne: «La vita dello stolto è spiace­ vole, piena di ansie, tutta rivolta verso il futuro». Chiede­ rai: «Chi l’ha detto?» Lo stesso che ho già citato2. Quale vita pensi che possa dirsi stolta? Quella di Baba e lesione3? No, è la nostra: una cieca cupidigia ci spinge verso cose che ci nuoceranno e, in ogni caso, non ci appagheranno mai. E non comprendiamo che, se qual­ che cosa avesse la capacità di appagarci, già l’avremmo trovata; né pensiamo quanto sia meglio non chiedere niente, quale segno di superiorità sia dichiararsi soddi­ sfatti e non dipendere dalla fortuna. Pertanto, caro Lucilio, ricorda sempre quanti benefici hai conseguito: quando consideri il numero di uomini che sono davanti a te, pensa a quanti ti seguono. Se vuoi essere grato agli dèi e alla tua stessa vita, pensa quanti uomini hai 2 Epicuro. . 3 Personaggi a noi sconosciuti. Probabilmente si tratta di nomi che

in quel tempo erano proverbiali come sinonimi di persone sciocche.

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tuam, cogita quam multos antecesseris. Quid tibi cum ceteris ? te ipse antecessisti. Finem constitue quem transire ne possis quidem si velis; discedant aliquando ista insidiosa bona et sperantibus meliora quam adsecutis. Si quid in illis esset solidi, aliquando et implerent : nunc haurientium sitim concitant. M ittantur speciosi apparatus; et quod futuri temporis incerta sors volvit, quare potius a fortuna inpetrem ut det, quam a me ne petam ? Quare autem petam ? oblitus fragilitatis humanae congeram ? in quid laborem ? Ecce hic dies ultimus est; ut non sit, prope ab ultimo est. Vale.

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Liquere hoc tibi, Lucili, scio, neminem posse beate vivere, ne tolerabiliter quidem, sine sapientiae studio, et beatam vitam perfecta sapientia effici, ceterum tolerabilem edam inchoata. Sed hoc quod liquet firmandum et altius cotidiana meditatione figendum est : plus operis est in eo ut proposita custodias quam ut honesta proponas. Perseverandum est et adsiduo studio robur addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est. 2 Itaque (non opus est) tibi apud me pluribus verbis aut adfirmatione tam longa : intellego multum te profecisse. Quae scribis unde veniant scio; non sunt ficta nec colorata. Dicam tamen quid sentiam : iam de te spem habeo, nondum fiduciam. T u quoque idem facias volo: non est quod tibi cito et facile credas. Excute te et varie scrutare et observa; illud ante

sorpassato. Ma poi, che t’importa degli altri? L’impor­ tante è che hai fatto progressi su te stesso. Stabilisci alle tue aspirazioni un limite che tu non possa oltrepassare nemmeno se lo volessi, e metti da parte una buona volta questi beni insidiosi che sono migliori nel desiderio che nella realtà. Se in essi vi fosse qualcosa di consistente, finirebbero per appagare: intanto eccitano la sete in chi beve. Mettiamo da parte le belle apparenze, e, riguardo a quel bene futuro che la sorte volubile ci prepara, perché dovremmo supplicare la fortuna che ce lo conce­ da? Piuttosto persuadiamoci a non chiederlo. Perché chiedere sempre? Perché affaticarsi tanto, in questo desiderio di accumulare, dimenticando la caducità uma­ na? Ecco: questo è l’ultimo giorno. In ogni caso, l’ultimo giorno è vicino. Addio.

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La nostra vita deve essere regolata dalla filosofia Tu - lo so bene, caro Lucilio - vedi chiaramente che nessuno può avere una vita felice e neppure tollerabile senza l’amore della sapienza. Una perfetta sapienza ci dà una vita felice, ma a rèndere la vita tollerabile bastano anche i primi rudimenti della sapienza. Ora noi voglia­ mo, con la quotidiana meditazione, radicarli e scolpirli profondamente nell’animo, poiché si richiede maggiore sforzo a metterli in pratica che a proporseli. Bisogna essere perseveranti e, con un continuo impegno, accre­ scere vigore alle nostre forze spirituali, finché l’inclina­ zione al bene si trasformi nella virtù operante. Tu non hai bisogno di usare con me molte parole, né di fare ùna lunga professione di fede: ho già capito che hai fatto grandi progressi. So che tu senti profondamente quello che scrivi: non ci sono né falsità, né esagerazioni. Ti dirò tuttavia francamente quello che penso: ho viva speranza in te, ma non ancora piena fiducia. Vorrei che anche tu pensassi così: non c’è ragione che tu abbia a prestar fede a te stesso troppo presto. Piuttosto, fruga dentro di te, scrùtati da varie parti, ossèrvati con cura 137

omnia vide, utrum in philosophia an in ipsa vita profeceris. 3 Non est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum; non in verbis sed in rebus est. Nec in hoc adhibetur, ut cum aliqua oblectatione consumatur dies, ut dematur otio nausia: animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum. Sine hac nemo intrepide potest vivere, nemo secure; innumerabilia accidunt singulis horis quae consilium exigant, quod ab hac 4 petendum est. Dicet aliquis, ‘quid mihi prodest philosophia, si fatum est ? quid prodest, si deus rector est ? quid prodest, si casus im perati Nam et mutari certa non possunt et nihil praeparari potest adversus incerta, sed aut consilium meum occupavit deus decrevitque quid facerem, aut consilio meo 5 nihil fortuna perm ittit.’ Quidquid est ex his, Lucili, vel si omnia haec sunt, philosophandum est; sive nos inexorabili lege fata constringunt, sive arbiter deus universi cuncta disposuit, sive casus res humanas sine ordine inpellit et iactat, philosophia nos tueri debet. Haec adhortabitur ut deolibenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec docebit ut deum 6 sequaris, feras casum. Sed non est nunc in hanc disputationem transeundum, quid sit iuris nostri si providentia in imperio est, aut si fatorum series inligatos trahit, aut si repentina ac subita dominantur: ilio nunc revertor, ut te moneam et exhorter ne patiaris impetum animi tui delabi et refrigescere. Contine illum et constitue, ut habitus animi fiat quod est impetus.

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Iam ab initio, si te bene novi, circ'umspicies quid haec epistula munusculi adtulerit: excute illam, et invenies. Non

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e, soprattutto, vedi se hai fatto progressi solo nello studio della filosofia, o anche nella vita. La filosofia non è un’arte che serve a far mostra di sé di fronte alla gente: non consiste nelle parole, ma nelle azioni. Né ad esse ricorriamo per passare la giornata con qualche diletto, o per sottrarci alla noia prodotta dall’ozio. La filosofia forma e plasma l’animo, dà ordine alla vita, dirige le azioni, mostra le cose che si debbono e quelle che non si debbono fare, siede al timone e regola la rotta attraverso i pericoli di un mare in tempesta. Senza di lei nessuno può vivere sereno e sicuro. Ogni momento i più vari eventi richiedono consigli che solo lei può darci. Qualcuno dirà: «Che mi giova la filosofia, se c’è un destino immutabile? Che giova, se c’è un dio che ci governa? Che giova, se è il caso che ci comanda? Ciò che è stato preordinato non può essere mutato e niente si può fare contro gli eventi fortuiti. O c’è un dio che ha prevenuto ogni mia decisione e ha stabilito che cosa debbo fare, oppure c’è la fortuna che nulla concede alle mie decisioni». Esista una sola di queste potenze, o coesistano tutte insieme, caro Lucilio, bisogna dedicarsi alla filosofia. Sia che il destino ci incateni con la sua legge inesorabile, sia che un dio, signore dell’universo, abbia predisposto tutte le cose, sia che il caso spinga e agiti confusamente gli umani eventi, nella filosofia noi dobbiamo cercare la nostra difesa. Essa ci esorterà ad ubbidire volenterosi a dio, renitenti alla fortuna; c’inse­ gnerà a seguire la volontà di dio e a sopportare i capricci del caso. Ma non è questo il momento di discutere quanto si estenda il libero arbitrio dell’uomo, se c’è una Provvidenza che ci governa o se siamo prigionieri di una serie di avvenimenti fatalmente determinati, oppure se siamo in balìa di eventi casuali e improvvisi. Torno invece ad ammonirti e ad esortarti di non lasciar cadere e raffreddarsi lo slancio dell’animo tuo. Sappilo regolare e rinvigorire, affinché quello che ora è solo un nobile impulso divenga una costante disposizione dell’animo. Tu - se ben ti conosco - , appena aperta questa lettera, cercherai quale sia il piccolo dono che essa reca con sé: esaminala attentamente e lo troverai. Non meravigliarti 139

est quod mireris animum meum: adhuc de alieno liberalis sum. Quare autem alienum dixi ? quidquid bene dictum est ab ullo meum est. Istuc quoque ab Epicuro dictum est: ‘si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, 8 numquam eris dives’ . Exiguum natura desiderai, opinio immensum. Congeratur in te quidquid multi locupletes possederant; ultra privatum pecuniae modum fortuna te provehat, auro tegat, purpura vestiat, eo deliciarum opumque perducat ut terram marmoribus abscondas; non tantum habere tibi liceat sed calcare divitias; accedant statuae et picturae et quidquid ars ulla luxuriae elaboravit: maiora 9 cupere ab his disces. Naturalia desideria finita sunt: ex falsa opinione nascentia ubi desinant non habent; nullus enim terminus falso est. Via eunti aliquid extremum est: errar immensus est. Retrahe ergo te a vanis, et cum voles scire quod petes, utrum naturalem habeat an caecam cupiditatem, considera num possit alicubi consistere: si longe progresso semper aliquid longius restai, scito id naturale non esse. Vale.

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Proice omnia ista, si sapis, immo ut sapias, et ad bonam mentem magno cursu ac totis viribus tende; si quid est quo teneris, aut expedi aut incide. ‘M oratur’ inquis ‘ me res familiaris; sic illam disponere volo ut sufficere nihil agenti 2 possit, ne aut paupertas mihi oneri sit aut ego alicui.’ Cum

della mia liberalità: anche questa volta ti dono un bene di un altro. Ma perché ho detto: «di un altro?». Ogni giusta affermazione, da chiunque espressa, è mia. È un pensiero di Epicuro anche questo che segue: «Se vivrai secondo natura, non sarai mai povero; se, invece, vorrai seguire il variare delle opinioni umane, non sarai mai ricco». La natura richiede poco; ma ha smisurate esigen­ ze chi vuol seguire le opinioni umane. Si accumuli pure nelle tue mani tutto ciò che è stato il possesso di molti ricchi, e la fortuna ti dia denaro oltre la misura concessa a qualsiasi privato, ti copra di oro, ti vesta di porpora, ti porti a tal grado di ricchezza e di fasto che tu possa nascondere la terra sotto i marmi; e ti sia dato, non solo di possedere le ricchezze, ma di calpestarle; si aggiungano pure statue, quadri e tutto ciò che le varie arti hanno creato per il lusso: da tutte queste ricchezze imparerai solo ad accrescere le tue brame. I desideri che nascono dalla natura hanno un limite; quelli, invece, che derivano da falsa opinione sono senza fine: non c’è nessun termine per l’errore. Chi segue la sua strada ha sempre una meta da raggiungere, ma chi ha smarrito la retta via, va errando all’infinito. Abbandona, quindi, le vanità e, quando vorrai sapere se i tuoi desideri sono secondo natura oppure ciechi, considera se hanno un termine dove arrestarsi: se, andando avanti nel soddisfa­ re un desiderio, senti sempre più lontano il suo appaga­ mento, sappi che non è un desiderio naturale. Addio.

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La filosofia giova in ogni circostanza della vita Manda alla malora tutti questi affari, se sei saggio, anzi, per esser saggio; e cerca di sviluppare in te, al più presto e con tutte le tue forze, una retta coscienza: se trovi qualche impaccio, sciogliti dai suoi lacci, o spezzali. «Mi trattiene» tu dici «l’amministrazione dei miei beni; vorrei disporne in maniera che essi possano bastarmi anche senza far niente, affinché la povertà non sia di peso a 140

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hoc dicis, non videris vim ac potentiam eius de quo cogitas boni nosse; et summam quidem rei pervides, quantum philosophia prosit, partes autem nondum satis subtiliter dispicis, necdum scis quantum ubique nos adiuvet, quemadmodum et in maximis, ut Ciceronis utar verbo, ‘opituletur’ (et) in minima descendat. M ihi crede, advoca illam in consilium: 3 suadebit tibi ne ad calculos sedeas. Nempe hoc quaeris et hoc ista dilatione vis consequi, ne tibi paupertas timenda sit: quid si adpetenda est ? M ultis ad philosophandum obstitere divitiae: paupertas expedita est, secura est. Cum classicum cecinit, scit non se peti; cum aqua conclamata est, quomodo exeat, non quid efferat, quaerit ; [ut] si navigandum est, non strepunt portus nec unius comitatu inquieta sunt litora; non circumstat illam turba servorum, ad quos pascendos trans4 marinarum regionum est optanda fertilitas. Facile est pascere paucos ventres et bene institutos et nihil aliud desiderantes quam impleri: parvo fames constat, magno fastidium. Pauper­ tas contenta est desideriis instantibus satis facere: quid est ergo quare hanc recuses contubernalem cuius mores sanus 5 dives imitatur ? Si vis vacare animo, aut pauper sis oportet aut pauperi similis. Non potest studium salutare fieri sine frugalitatis cura; frugalitas autem paupertas voluntaria est. T olle itaque istas excusationes : ‘nondum habeo quantum sat est; si ad illam summam pervenero, trine me totum philosophiae dabo’. Atqui nihil prius quam hoc parandum est quod tu differs et post cetera paras; ab hoc incipiendum est. ‘Parare’ inquis ‘ unde vivam volo.’ Simul et parare (te) disce : 6 si quid te vetat bene vivere, bene mori non vetat. Non est quod nos paupertas a philosophia revocet, ne egestas quidem.

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me, né io agli altri.» Quando parli così, mostri di non conoscere l’importanza e il valore di quel bene a cui aspiri. Tu comprendi, in generale, quanto giovi la filoso­ fia, ma non ne discerni con sufficiente acume gli aspetti particolari, cioè non sai di quanto aiuto essa ci sia in ogni circostanza e, per dirla con Cicerone, come essa ci «soccorra» nelle situazioni più gravi e ci venga incontro anche nelle più piccole questioni. Credimi, devi chie­ derle consiglio, ed ella ti persuaderà a non perdere tempo nel computo dei tuoi beni. Certo, con i tuoi indugi tu vorresti liberarti dal timore della povertà. E che dirai se devi invece desiderarla? Molti trovano nelle ricchezze un ostacolo per dedicarsi alla filosofia. Il povero, al contrario, è libero da impacci e da preoccupazioni: quando squilla la tromba di guerra, non teme per i suoi beni; se c’è l’allarme per un’inondazione, cerca di venirne fuori, ma non ha cose da mettere in salvo; se deve fare un viaggio per mare, non mette in fermento i porti e i lidi per il suo equipaggio: non ha bisogno di circondarsi di una folla di schiavi, al cui alimento si richiede la fertilità delle terre d’oltremare. E facile ali­ mentare pochi ventri, avvezzi alla sobrietà, che non chiedono altro se non di essere riempiti: la fame costa poco; è la sazietà che costa assai. Alla povertà basta soddisfare i bisogni immediati. Perché, dunque, rifiute­ rai questa compagna, di cui anche il ricco, se ha sana la mente, imita ι costumi? Se vuoi attendere alle cure deH’anima, devi essere povero o simile al povero. Lo studio non può diventare salutare, se non cerchi di essere sobrio; e la sobrietà è una povertà volontaria. Dunque, metti da parte questa scusa: «Non ho ancora quanto mi basta per vivere; se arriverò ad averlo, mi dedicherò tutto alla filosofia». Ma non c’è niente che occorre procurarsi prima della filosofia, mentre tu vuoi procurar­ tela dopo tutto il resto, rinviandone l’acquisto: devi, al contrario, cominciare da essa. «Voglio» tu dici «prepa­ rarmi il necessario per vivere.» Impara a preparare nello stesso tempo anche te: se qualcosa t’impedisce di viver bene, non t’impedisce di ben morire. Non vedo perché la povertà, o anche la miseria, debba tenerci lontani dalla filosofia. Chi ha fretta di possedere questo bene, 143

Toleranda est enim ad hoc properan-tibus vel fames; quam toleravere quidam in obsidionibus, et quod aliud erat illius patientiae praeniium quam in arbitrium non cadere victoris ? Quanto hoc maius est quod promittitur: perpetua libertas, nullius nec hominis nec dei timor. Ecquid vel esurienti ad ista 7 veniendum est ? Perpessi sunt exercitus inopiam omnium rerum, vixerunt herbarum radicibus et dictu foedis tulerunt famem ; haec omnia passi sunt prò regno, quo magis mireris, alieno: dubitabit aliquis ferre paupertatem ut animum furoribus liberei? Non est ergo prius adquirendum: licet ad 8 philosophiam etiam sine viatico pervenire. Ita est ? cum omnia habueris, tunc habere et sapientiam voles ? haec erit ultimum vitae instrumentum et, ut ita dicam, additamentum ? T u vero, sive aliquid habes, iam philosophare (unde enim scis an iam nimis habeas ?), sive nihil, hoc prius quaere quam 9 quicquam. ‘A t necessaria deerunt.’ Primum deesse non poterunt, quia natura minimum petit, naturae autem se sapiens accommodat. Sed si necessitates ultimae incidermi, iamdudum exibit e vita et molestus sibi esse desinet. Si vero exiguum erit et angustum quo possit vita produci, id boni consulet nec ultra necessaria sollicitus aut anxius ventri et scapulis suum reddet et occupationes divitum concursationesque ad divitias 10 euntium securus laetusque ridebit ac dicet, ‘quid in longum ipse te differs ? expectabisne fenoris quaestum aut ex merce conpendium aut tabulas beati senis, cum fieri possis statim dives ? Repraesentat opes sapientia, quas cuicumque fecit supervacuas dedit.’ Haec ad alios pertinent : tu locupletibus

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deve saper sopportare anche la fame. Ci furono uomini che sopportarono la fame negli assedi; e quale altro premio potevano sperare per i loro patimenti aH’infuori di quello di non cadere nelle mani del vincitore? Ma quanto è maggiore il premio che promette la filosofia: una libertà ben più duratura, senza più timore di alcun uomo o di alcun dio! Non deve poter giungere a questi beni anche chi ha fame? Gli eserciti talvolta patiscono la mancanza di tutto, vivono di radici e tentano di sfamarsi con cose schifose solo a parlarne. E sopportano tutto questo per difendere un regno che - ti sorprenderà doverlo ammettere - appartiene ad altri. Esiterà, dun­ que, qualcuno a sopportare la povertà per liberare la propria anima dalle folli passioni? Non occorre fare prima altri acquisti: si può giungere alla filosofia anche senza provviste per il viaggio. Ma come? Tu vorrai avere la sapienza solo quando già possiederai tutto il resto? Sarà essa, forse, il più trascurabile mezzo per vivere, e, direi quasi, un’insignificante appendice? Se tu possiedi qualcosa, datti alla filosofia; infatti da chi, se non da essa, puoi sapere se sei già troppo ricco? Se poi non possiedi niente, cercala prima di ogni altra cosa. «Ma» dirai «mi mancherà il necessario.» Anzitutto non potrà mancarti, perché le esigenze naturali sono minime, ed il saggio sa adattarsi alla natura. Tuttavia, anche se egli dovesse imbattersi nelle peggiori necessità, non esiterà un minuto a lasciare la vita, e cesserà così di essere molesto a se stesso. Se poi saranno scarsi i mezzi per tirare avanti la vita, accetterà di buon grado la sua condizione e, senza angosciarsi più del necessario, darà al suo ventre e al suo corpo l’indispensabile per nutrirsi e per coprirsi. E, osservando con un sorriso benevolo la vita affannosa dei ricchi e il correre qua e là di coloro che inseguono le ricchezze, dirà a se stesso: «Perché indugi tanto? Aspetterai anche tu i guadagni dell’usura e del commercio, o il testamento di un vecchio benestante, mentre puoi diventare ricco immediatamente? La sag­ gezza sborsa, senza dilazione, tutte queste ricchezze: rendendole inutili, essa le dona». Ma queste parole non ti riguardano: tu sei più vicino ai ricchi. Passeranno gli 145

propior es. Saeculum muta, nimis habes; idem est autem omni saeculo quod sat est. 11 Poteram hoc loco epistulam daudere, nisi te male instituissem. Reges Parthos non potest quisquam salutare sine munere; tibi valedicere non licei gratis. Quid istic? ab Epicuro mutuum sumam: ‘multis parasse divitias non finis 12 miseriarum fuit sed mutatio’ . N ec hoc miror; non est enim in rebus vitium sed in ipso animo. Illud quod paupertatem nobis gravem fecerat et divitias graves fecit. Quemadmodum nihil refert utrum aegrum in ligneo lecto an in aureo conloces (quocumque illum transtuleris, morbum secum suum transferet), sic nihil refert utrum aeger animus in divitiis an in paupertate ponatur: malum illum suum sequitur. Vale.

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S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

December est mensis: cum maxime civitas sudat. Ius luxuriae publice datum est; ingenti apparatu sonant omnia, tamquam quicquam inter Saturnalia intersit et dies rerum agendarum; adeo nihil interest ut (non) videatur mihi errasse 2 qui dixit olim mensem Decembrem fuisse, nunc annum. Si te hic haberem, libenter tecum conferrem quid existimares esse faciendum, utrum nihil ex cotidiana consuetudine movendum an, ne dissidere videremur cum publicis moribus, et hilarius cenandum et exuendam togam. Nam quod fieri nisi in tumultu et tristi tempore civitatis non solebat, voluptatis 3 causa ac festorum dierum vestem mutavimus. Si te bene novi, arbitri partibus functus nec per omnia nos similes esse

anni, e tu avrai sempre troppo. Ciò che basta alla vita è identico in ogni tempo. Potrei a questo punto chiudere la lettera, se non ti avessi abituato male. Non si possono salutare i re Parti senza un dono: così io non posso dirti addio senza un pagamento. Che ti darò questa volta? Chiederò in prestito a Epicuro questa massima: «Per molti le ricchez­ ze acquistate non hanno rappresentato la fine, ma solo un mutamento delle loro miserie». Né di ciò mi meravi­ glio, poiché quel male che aveva reso penosa la povertà, e che rende altrettanto penosa la ricchezza, non sta nelle cose, ma nell’animo stesso. Non ha alcuna importanza se poni a giacere un malato su un letto di legno o d’oro; dovunque lo porrai, porterà con sé il suo male. Così non importa se un animo malato sia posto fra le ricchezze o nella povertà: lo seguirà sempre il suo male. Addio. lettera

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Elogio della povertà È dicembre1, il mese in cui la vita è più intensa che mai in città. È stato concesso ufficialmente ogni diritto alla dissolutezza. Ogni angolo risuona dei chiassosi prepara­ tivi per la festa, come se ci fosse qualche differenza fra i giorni dei Saturnali e i giorni di lavoro. Ormai si assomigliano tanto, che non deve aver sbagliato chi disse che una volta dicembre era un mese, ed ora è tutto l’anno. Se tu fossi qui con me, vorrei chiederti che cosa dovremmo fare: lasciare immutate le nostre abitudini di ogni giorno o, per non dare l’impressione di volerci distinguere dagli altri, banchettare allegramente e to­ glierci la toga. Un tempo ce la toglievamo solo durante i tumulti e in altre tristi circostanze cittadine; ora cambia­ mo vestito anche per divertirci nei giorni di festa. Se ben ti conosco, tu avresti assunto un atteggiamento intermedio: né del tutto simile a quello della folla imber1 È il mese dei Saturnali. (Cfr. Repertorio dei nomi.).

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pilleatae turbae voluisses nec per omnia dissimiles; nisi forte his maxime diebus animo imperandum est, ut tunc voluptatibus solus abstineat cum in àlias omnis turba procubuit; certissimum enim argumentum firmitatis suae capii, si ad blanda et in luxuriam trahentia nec it nec abducitur. Hoc multo fortius est, ebrio ac vomitante populo siccum ac sobrium esse, illud temperantius, non excerpere se nec insignire nec misceri omnibus et eadem sed non eodem modo facere; licet enim sine luxuria agere festum diem. Ceterum adeo mihi placet temptare animi tui firmitatem ut ex praecepto magnorum virorum tibi quoque praecipiam : interponas aliquot dies quibus contentus minimo ac vilissimo cibo, dura atque horrida veste, dicas tibi ‘hoc est quod timebatur?’ In ipsa securitate animus ad difficilia se praeparet et contra iniurias fortunae inter beneficia firmetur. Miles in media pace decurrit, sine ullo hoste valium iacit, et super­ vacuo labore lassatur ut sufficere necessario possit; quem in ipsa re trepidare nolueris, ante rem exerceas. Hoc secuti sunt qui omnibus mensibus paupertatèm imitati prope ad inopiam accesserunt, ne umquam expavescerent quod saepe didicissent. Non est nunc quod existimes me dicere Timoneas cenas et pauperum cellas et quidquid aliud est per quod luxuria divitiarum taedio ludit: grabattus file verus sit et sagum et panis durus ac sordidus. Hoc triduo et quatriduo fer, interdum pluribus diebus, ut non lusus sit sed experimentum: tunc, mihi crede, Lucili, exultabis dipondio satur et intelleges

rettata2, né del tutto dissimile. Ma forse, specialmente in questi giorni in cui tutti si gettano perdutamente nei piaceri, dovremmo esigere dall’animo nostro che sia l’unico ad astenersene. Non correre, né lasciarsi trascina­ re verso le seduzioni e gli incentivi della dissolutezza è un chiarissimo segno di fermezza. Chi si astiene dal bere e rimane sobrio in mezzo ad una moltitudine che si ubriaca fino al vomito, ha una maggiore forza d’animo; ma dimostra maggiore equilibrio chi non si tiene lontano dagli altri, non cerca di distinguersi e neppure si confon­ de con la folla; e fa le stesse cose, ma non nello stesso modo. E, dunque, possibile partecipare alle feste di questi giorni senza abbandonarsi alle intemperanze. Del resto, desidero tanto mettere alla prova la fermez­ za del tuo animo, che voglio dare anche a te il consiglio trasmessoci dai grandi uomini: trascorri qualche giorno contentandoti di cibo scarso e cattivo, mettiti una ruvida veste e poi chiediti: «Ma è proprio questo che faceva tanta paura?» Nei periodi di tranquillità l’animo si prepa­ ri ad affrontare le situazioni difficili e si tempri contro le avversità della fortuna, finché essa è benevola. Il soldato fa le manovre in tempo di pace, costruisce trincee senza aver di fronte nessun nemico e si stanca in fatiche in quel momento inutili, per essere pronto quando c’è necessità. Se non vuoi che uno si affanni e sia preso dal panico di fronte ad una triste realtà, fallo esercitare prima che essa si presenti. Segue questo metodo chi, almeno una volta al mese, si priva di tutto, così che non avrà più motivo di temere quella povertà che ha più volte conosciuto. Non devi pensare che io ora mi riferisca alle cene di Timone o alle soffitte, o ad altre fantasie con cui i ricchi si illudono di ingannare la noia prodotta dalle loro dissipazioni. Avrai veramente un pagliericcio, un saio, pane duro e cattivo. E questo, fallo tre o quattro giorni, talvolta di più, perché deve essere un’esperienza, non uno scherzo. Allora, credimi, caro Lucilio, sarai

2 Nei giorni di allegria i Romani usavano portare sul capo un berretto di feltro rotondo.

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ad securitatem non opus esse fortuna; hoc enim quod necessi8 tati sat est dabit et irata. N on est tamen quare tu multum tibi facere videaris (facies enim quod multa milia servorum, multa milia pauperum faciunt) : ilio nomine te suspice, quod facies non coactus, quod tam facile erit tibi illud pati semper quam aliquando experiri. Exerceamur ad palum, et ne inparatos fortuna deprehendat>fiat nobis paupertas familiaris; securius divites erimus si scierimus quam non sit grave pau9 peres esse. Certos habebat dies ille magister voluptatis Epicurus quibus maligne famem extingueret, visurus an aliquid deesset ex piena et consummata voluptate, vel quantum deesset, et an dignum quod quis magno labore pensaret. Hoc certe in iis epistulis ait quas scripsit Charino magistratu ad Polyaenum ; et quidem gloriatur non toto asse (se) pasci, 10 Metrodorum, qui nondum tantum profecerit, toto. In hoc tu victu saturitatem putas esse? E t voluptas est; voluptas autem non illa levis et fugax et subinde reficienda, sed stabilis et certa. Non enim iucunda res est aqua et polenta aut frustum hordeacii pams, sed summa voluptas est posse capere edam ex his voluptatem et ad id se deduxisse quod eripere 11 nulla fortunae iniquitas possit. Liberaliora alimenta sunt carceris, sepositos ad capitale supplicium non tam anguste qui occisurus est pascit: quanta est animi magnitudo ad id sua sponte descendere quod n e ad extrema quidem decretis

lieto di esserti saziato con la spesa di due assi34e capirai che, per essere lieto, non c’è bisogno della fortuna benigna. Anche quando essa è adirata, ti darà tutto ciò che basta alle vere esigenze della vita. Tuttavia non devi credere d’aver fatto con questo grandi cose, poiché migliaia di schiavi e di poveri fanno lo stesso. Potrai compiacerti con te solo, perché farai tutto questo senza esservi costretto, per dimostrare a te stesso che sei capace di affrontare per tutta la vita quei mali che avrai sperimentato qualche volta. Esercitiamoci al palo e prendiamo confidenza con la povertà, in modo che la fortuna non ci colga impreparati. Godremo più sereni le ricchezze, se sapremo che lo stato di povertà non è poi un male tanto grave. C’erano dei giorni in cui Epicuro, il gran maestro del piacere, si sfamava a mala­ pena, per vedere se sentisse venir meno il completo appagamento del piacere, quanto fosse grande questo senso di mancanza, e se meritasse la fatica necessaria per compensarlo. Questo ci risulta dalle lettere che egli scrisse a Polieno, sotto l’arcontato di Carino. Egli si vanta di spendere per il vitto meno di un asse, mentre Metrodoro, che non aveva fatto i progressi di Epicuro, spendeva un asse intero. Pensi che un cibo così scarso possa saziare? Certo. E può dare anche piacere: non quel piacere inconsistente e fugace che ha bisogno sempre di nuovi incentivi, ma un piacere durevole e sicuro. L ac­ qua, la polenta, un pezzo di pane d’orzo, non sono cibi in sé gradevoli; ma la più grande soddisfazione si ha nella capacità di gustare anche questi cibi e nella coscienza di essere giunti a tal punto che l’iniquità della fortuna non può toglierci più nulla. Cibo più abbondante si dà ai carcerati. Coloro che sono in attesa della pena capitale ricevono un vitto più abbondante dai loro carnefici. Quale grandezza d’animo dimostra, dunque, chi volonta­ riamente arriva ad accettare tali privazioni, che non debbono temere neppure i condannati a morte! Questo 3 Moneta romana di basso valore. 4 Figura di legno contro cui i soldati rivolgevano i loro assalti, per

allenarsi al combattimento.

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12 timendum sit! hoc est preoccupare tela fortunae. Incipe ergo, mi Lucili, sequi horum consuetudinem et aliquos dies destina quibus secedas a tuis reb'us minimoque te facias familiarem; incipe cum paupertate habere commercium; aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum finge deo. 13 Nemo alius est deo dignus quam qui opes contempsit; quarum

possessionem tibi non interdico, sed efficere volo ut illas in­ trepide possideas; quod uno consequeris modo, si te etiam sine illis beate victurum persuaseris tibi, si illas tamquam exituras semper aspexeris. 14 Sed ìam incipiamus epistulam complicare. ‘Prius’ inquis ‘redde quod debes.’ Delegabo te ad Epicurum, ab ilio fiet numeratio: ‘inmodica ira gignit insaniam’ . Hoc quam verum 15 sit necesse est scias, cum habueris et servum et inimicum. In omnes personas hic exardescit adfectus ; tam ex amore nascitur quam ex odio, non minus inter seria quam interlusus et iocos; nec interest ex quam magna causa nascatur sed in qualem perveniat animum. Sic ignis non refert quam magnus sed quo incidat; nam etiam maximum solida non receperunt, rursus arida et corripi facilia scintillam quoque fovent usque in incendium. Ita est, mi Lucili: ingentis irae exitus furor est, et ideo ira vitanda est non moderationis causa sed sanitatis. Vale.

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vuol dire premunirsi contro i dardi della fortuna. Comin­ cia, perciò, caro Lucilio, a seguire le abitudini di costoro, e stabilisci alcuni giorni in cui tu possa lasciare le tue normali occupazioni ed acquistare familiarità col poco; comincia a farti amico della povertà. «Sappi disprezzare le ricchezze, o ospite, e renditi degno di dio5.» Nessuno è così degno di dio come chi sa disprezzare le ricchezze. Non ti dico che tu non debba possederle, ma vorrei che le possedessi serenamente; e otterrai ciò solo se ti convincerai di poter vivere felice anche senza di esse; se guarderai ad esse come a cose effimere. E ormai ora di chiudere la lettera. «Ma prima» dirai «pagami il tuo debito.» Darò l’incarico di pagarti ad Epicuro: «Un’ira smodata genera follia». Quanto ciò sia vero lo saprai necessariamente quando avrai un servo o un nemico. Questa passione può divampare contro chiunque; può nascere sia dall’amore, sia dall’odio; e non solo in gravi situazioni, ma tra giochi e scherzi. Non c’interessa la gravità dei motivi, ma l’animo in cui la passione si accende; come non interessa tanto la vastità dell’incendio, quanto sapere su quale oggetto ha fatto presa. Per quanto sia grande, la fiamma difficilmente trova alimento nelle sostanze più compatte; mentre quel­ le aride e infiammabili covano anche una scintilla, finché si sviluppa l’incendio. È così, o mio Lucilio: un’ira smisurata sfocia nella follia; perciò, evita l’ira, per con­ servare non solo il dominio di te, ma la tua stessa salute. Addio.

S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M LETTERA 19

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Exulto quotiens epistulas tuas accipio; implent enim me bona spe, et iam non promittunt de te sed spondent. Ita fac,

La vita tranquilla e i suoi vantaggi E sempre per me una gioia ricevere le tue lettere: esse mi riempiono di buone speranze sul tuo conto e non mi danno solo promesse generiche, ma vere e proprie garanzie. Continua così, te ne scongiuro. Che potrei 5 Virgilio, E n e id e , V ili, 364-65.

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oro atque obsecro— quid enim habeo melius quod amicum rogem quam quod prò ipso rogaturus suiti ? si potes, subduc te istis occupationibus ; si minus, eripe. Satis multum tem2 poris sparsimus : incipiamus vasa in senectute colligere. Numquid invidiosum est ? in freto viximus, moriamur in portu. Neque ego suaserim tibi nomen ex otio petere, quod nec iactare debes nec abscondere; numquam enim usque eo te abigam generis humani furore damnato ut latebram tibi aliquam parari et oblivionem velim: id age ut otium tuum 3 non emineat sed appareat. Deinde videbunt de isto quibus integra sunt et prima consilia an velini vitam per obscurum transmittere : tibi liberum non est. In medium te protulit ingenii vigor, scriptorum elegantia, clarae et nobiles amicitiae ; iam notitia te invasit; ut in extrema mergaris ac penitus 4 recondaris, tamen priora monstrabunt. Tenebras habere non potes; sequetur quocumque fugeris multum pristinae lucis: quietem potes vindicare sine ullius odio, sine desiderio aut morsu animi tui. Quid enim relinques quod invitus relictum a te possis cogitare ? Clientes ? quorum nemo te ipsum sequitur, sed aliquid ex te; amicitia olim petebatur, nunc praeda; mutabunt testamenta destituii senes, migrabit ad aliud limen salutator. Non potest parvo res magna constare: 5 aestima utrum te relinquere an aliquid ex tuis malis. Utinam quidem tibi senescere contigisset intra natalium tuorum modum, nec te in altum fortuna misisset! T u lit te longe a conspectu vitae salubris rapida felicitas, provincia et pro­ cu rata et quidquid ab istis prom ittitur; maiora deinde officia 6 te excipient et ex aliis alia: quis exitus erit ? quid expectas donec desinas habere quod cupias ? numquam erit tempus.

chiedere di meglio a un amico, se non ciò che può giovare a lui stesso? Se ti è possibile, sfuggi a codeste occupazioni; altrimenti, lasciale una volta per sempre. Abbiamo già perso troppo tempo: è giunta ormai l’ora di raccogliere i bagagli. Non è per noi disonorevole se, dopo essere vissuti fra i rischi del mare aperto, ora vogliamo morire in porto. Io non ti consiglio di cercare notorietà con una vita ritirata, di cui non ci si deve né vantare né vergognare. Infatti, pur biasimando la follia degli uomini, non giungerei mai a desiderare che tu ti ritirassi nell’ombra e nell’oblio. Nel tuo modo di vivere non devi distinguerti troppo dagli altri, ma neppure devi rimanere nella completa oscurità. Potranno decidere di passare la vita nell’oscurità coloro che, trovandosi ai primi passi della vita, hanno piena facoltà di scelta. Tu questa libertà non l’hai. La forza del tuo ingegno, l’eleganza degli scritti, l’amicizia di illustri personaggi ti hanno messo in evidenza, e ormai la tua notorietà è tale che, anche se vai a nasconderti negli angoli più riposti, il tuo passato ti farà da spia. Non puoi vivere nell’oscurità: dovunque vorrai rifugiarti, ti seguirà gran parte dell’anti­ ca luce; ma puoi pretendere una vita più tranquilla: nessuno ti biasimerà, né il tuo animo avrà rimpianti o rimorsi. Che cosa dovresti lasciare malvolentieri? I clien­ ti? Nessuno di essi cerca te, ma qualche vantaggio da te. Un tempo si cercava l’amicizia, oggi si mira all’inte­ resse. Il vecchio, sentendosi abbandonato, cambierà te­ stamento; il cliente passa facilmente da·una soglia ad altre soglie. Non può comprarsi a poco prezzo ciò che ha il massimo valore: decidi tu, se preferisci perdere te stesso, o qualcuna delle tue cose. Quanto sarebbe stato meglio per te se fossi giunto alla vecchiaia nelle condizio­ ni in cui nascesti, e se la fortuna non ti avesse portato tanto in alto. Ma il successo rapidamente conseguito, il governo della provincia e i vantaggi ad esso collegati ti hanno allontanato dalla visione di una vita salubre: di grado in grado, salirai a più alte cariche. E quale sarà la conclusione? Quando verrà per te l’ora di abbandona­ re una vita in cui non si cessa mai di avere nuovi desideri? Quest’ora non verrà mai, finché ti abbandoni a questi 155

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Qualem dicimus seriem esse causarum ex quibus nectitur fatum, talem esse * * * cupiditatum: altera ex fine alterius nascitur. In eam demissus es vitam quae numquam tibi terminum miseriarum ac servitutis ipsa factura sit: subduc cervicem iugo tritam ; semel illam incidi quam semper premi satius est. Si te ad privata rettuleris, minora erunt omnia, sed adfatim implebunt : at mine plurima et undique ingesta non satiant. Utrum autem mavis ex inopia saturitatem an in copia famem? Et avida felicitas est et alienae aviditati exposita; quamdiu tibi satis nihil fuerit, ipse aliis non eris. ‘Quomodo’ inquis ‘exibo?’ Utcumque. Cogita quam multa temere prò pecunia, quam multa laboriose prò honore temptaveris: aliquid et prò otio audendum est, aut in ista sollicitudine procurationum et deinde urbanorum officiorum senescendum, in tumultu ac semper novis fluctibus quos effugere nulla modestia, nulla vitae quiete contingit. Quid enim ad rem pertinet an tu quiescere velis ? fortuna tua non vult. Quid si illi etiam nunc permiseris crescere ? quantum ad successus accesserit accedei ad metus. Volo tibi hoc loco referre dictum Maecenatis vera in ipso eculeo elocuti: ‘ipsa enim altitudo attonat summa’ . Si quaeris in quo libro dixerit, in eo qui Prometheu? inscribitur. Hoc voluit dicere, attonita habet summa. Est ergo tanti ulla potentia ut sit tibi tam ebrius sermo ? Ingeniosus ille vir fuit, magnum exemplum Romanae eloquentiae daturus nisi illum enervasset felicitas, immo castrasset. Hic te exitus manet nisi iam contrahes vela, nisi, quod ille sero voluit, terram leges. Poteram tecum hac Maecenatis sententia parem facere

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desideri: con la stessa connessione con cui si succedono le cause che formano il destino, così anche ... dei piaceri. La condizione di vita in cui ti sei immerso non potrà mai, da se stessa, porre fine alle tue miserie e alla tua schiavitù. Devi essere tu a sottrarre al giogo il collo ormai logoro: meglio tagliarlo una volta per sempre, piuttosto che lasciarlo sotto una continua oppressione. Se ti ritirerai a vita privata, i beni di cui potrai disporre saranno minori, ma ti basteranno; mentre ora non basta­ no a soddisfarti le grandi ricchezze accumulate da ogni parte. Preferisci sentirti pago nell’indigenza, o avere fame nell’abbondanza? Chi vive nella prosperità è avido dei beni altrui, ed è esposto all’altrui avidità. Finché niente basta a te, tu non basterai agli altri. «E come» dirai «riuscirò a trarmi fuori da questo genere di vita?» Come potrai. Pensa a tutti i rischi e a tutte le fatiche che hai affrontato per arricchire e progredire nella carriera; anche per conquistarti la tranquillità devi fare qualcosa se non vuoi rassegnarti a invecchiare fra i fastidi del governo di codesta provincia, e poi nella tumultuosa vita pubblica di Roma, in mezzo a difficoltà sempre nuove, a cui non è possibile sfuggire né con la moderazione né con la calma. Che importa se tu vuoi vivere in pace? Non lo vuole la tua fortuna. E che avverrà, se le permet­ terai di crescere ancora? Quanto maggiore sarà la pro­ sperità conseguita, tanto più aumenteranno per te i motivi di timore. A questo proposito, voglio riferirti una massima di Mecenate, che, pur in mezzo al travaglio della politica, ha saputo dire molte verità: «L’altezza, per sua stessa natura, espone le vette ai fulmini». Se vuoi saperlo, questa sentenza si trova nel libro intitolato Prometeo e significa che chi sta in alto è naturalmente esposto ai più gravi rischi. Stimi dunque tanto l’umana potenza da non prendere sul serio queste parole di Mecenate? Egli fu uomo d’ingegno, e avrebbe dato un magnifico esempio di eloquenza romana se il successo politico non lo avesse snervato e svirilizzato. Ti aspetta questa fine, se non calerai a tempo le vele; e se, ciò che egli fece troppo tardi, non ti avvicinerai alla costa. Con questa massima avrei potuto pagare il mio debito: 157

rationem, sed movebis mihi controversiam, si novi te, nec voles quod debeo (nisi) in aspero et probo accipere. U t se res habet, ab Epicuro versura facienda est. ‘A nte’ inquit ‘circumspiciendum est cum quibus edas et bibas quam quid edas et 11 bibas; nani sine amico visceratio leonis ac lupi vita est.’ Hoc non continget tibi nisi secesseris: alioquin habebis convivas quos ex turba salutantium nomenclator digesserit; errai autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat. Nullum habet maius malum occupatus homo et bonis suis obsessus quam quod amicos sibi putat quibus ipse non est, quod beneficia sua efficacia iudicat ad conciliandos animos, cum quidam quo plus debent magis oderint : leve aes alienum 12 debitorem facit, grave inimicum. ‘Quid ergo? beneficia non parant amicitias?’ Parant, si accepturos licuit eligere, si conlocata, non sparsa sunt. Itaque dum incipis esse mentis tuae, interim hoc consilio sapientium utere, ut magis ad rem existimes pertinere quis quam quid acceperit. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Si vales et te dignum putas qui aliquando fias tuus, gaudeo ; mea enim gloria erit, si te istinc ubi sine spe exeundi fluctuaris extraxero. Illud autem te, mi Lucili, rogo atque hortor, ut

ma, se ben ti conosco, tu attaccherai briga e vorrai ricevere il pagamento in moneta nuova e pregiata. Stan­ do così le cose, chiederò ancora un prestito a Epicuro: «Prima ancora di vedere che cosa stai mangiando o bevendo» egli dice «devi volgerti intorno per vedere con chi mangi e con chi bevi, perché chi non mangia in compagnia si comporta come un leone o un lupo». Non potrai conoscere intimamente i tuoi commensali se non in una vita tranquilla e appartata. Altrimenti dovrai accettare i convitati che il servo incaricato dei nomi sceglierà tra la turba dei corteggiatori. Ma sbaglia chi va a cercare gli amici fra i clienti che aspettano nell’atrio, e li prova alla mensa1. All’uomo tutto occupato nelle faccende mondane e nell’amministrazione dei suoi beni, non può capitare male maggiore che quello di considera­ re suoi amici degli estranei; e di pensare che, facendo del bene, possa ottenere la gratitudine dei beneficati. Alcuni, quanto più sono debitori, tanto più odiano il benefattore. Poco danaro dato in prestito crea un debito­ re, una grossa somma crea un nemico. «Dunque, col far del bene, uno non può procurarsi amicizie?» Se le procu­ ra se ha saputo scegliere le persone; e se i benefici sono stati giustamente collocati, non sparsi alla cieca. Pertanto, ora che sei in grado di giudicare da te, metti in pratica quest’insegnamento dei saggi: «Pensa che è importante sapere chi sia il beneficato, non quale sia l’entità del beneficio». Addio. LETTERA 2 0

I fatti devono andare d’accordo con le parole Se ti senti capace di acquistare un giorno il completo dominio di te stesso, me ne rallegro. Sarà mio vanto se riuscirò a strapparti da codesta vita tumultuosa in cui ti dibatti, senza sperare di venirne fuori. Di una cosa, però, caro Lucilio, ti prego vivamente: imprimiti bene 1 Secondo la ben nota massima che gli amici si provano nelle avversità.

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philosophiam in praecordia ima demittas et experimentum profectus tui capias non oratione nec scripto, sed animi 2 firmitate, cupiditatum deminutione: verba rebus proba. Aliud propositum est declamantibus et adsensionem coronae captantibus, aliud his qui iuvenum et otiosorum aures disputatione varia aut volubili detinent: facere docet philosophia, non dicere, et hoc exigit, ut ad legem suam quisque vivat, ne orationi vitadissentiat velipsainter se vita; (ut)unus sit omnium actio[dissentio]num color [sit]. Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut ipse ubique par sibi idemque sit. ‘Quis hoc praestabit?’ Pauci, aliqui tamen. Est enim difficile [hoc]; nec hoc dico, sapientem 3 uno semper ituriun gradu, sed una via. Observa te itaque, numquid vestis tua domusque dissentiant, numquid in te liberalis sis, in tuos sordidus, numquid cenes frugaliter, aedifices luxuriose; unam semel ad quam vivas regulam prende et ad hanc omnem vitam tuam exaequa. Quidam se domi contrahunt, dilatant foris et extendunt: vitium est haec diversitas et signum vacillantis animi ac nondum habentis 4 tenorem suum. Etiamnunc dicam unde sit ista inconstantia et dissimilitudo rerum consiliorumque : nemo proponit sibi quid velit, nec si proposuit perseverai in eo, sed transilit ; nec tantum mutat sed redit et in ea quae deseruit ac damnavit 5 revolvitur. Itaque ut relinquam definitiones sapientiae veteres et totum conplectar human ae vitae modum, hoc possum contentus esse : quid est sapientia ? semper idem velie atque idem nolle. Licet illam exceptiunculam non adicias, ut rectum sit quod velis; non potest enim cuiquam idem semper piacere 6 nisi rectum. Nesciunt ergo homines quid velint nisi ilio mo­ mento quo volunt; in totum nulli velie aut nolle decretum

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nell’animo le verità filosofiche; e misura i tuoi progressi, non in relazione a ciò che dici o scrivi, ma alla fermezza del tuo animo nel dominare le passioni. I fatti debbono provare la bontà delle parole. Ben altro si propongono coloro che declamano per ottenere l’applauso degli udi­ tori, e, passando da un argomento all’altro, cercano di attrarre l’attenzione dei giovani e degli oziosi. La filoso­ fia insegna ad agire, non a parlare; ed esige che si viva secondo le sue norme, così che le parole non siano in contraddizione con la vita, né questa con se stessa, e ci sia piena coerenza in tutto il nostro operare. Il segno che distingue la saggezza e il suo principale compito è quello di mettere d’accordo i fatti con le parole, in modo che l’uomo in ogni momento sia uguale e coerente a se stesso. «C’è qualcuno che vive con tale coerenza?» Po­ chi, ma ci sono; poiché non è cosa facile. Non dico che il saggio andrà sempre con lo stesso passo; dico che seguirà sempre la stessa strada. Pertanto esamina bene te stesso: vedi se il tuo modo di vestire contrasta con la tua abitazione; se, generoso con te, ti mostri gretto con i tuoi; se sei frugale nei cibi, ma hai lussuosi palazzi. Stabilisci una norma valida per sempre e adegua ad essa tutta la tua vita. Alcuni in casa vivono modestamente ma fuori ostentano un lusso sfarzoso: questa diversità è un difetto, un indizio di un animo vacillante, che non ha ancora trovato la sua via. Ti dirò anche da che deriva quest’incoerenza e questo contrasto di azioni e di propositi: nessuno mette innanzi a sé una meta precisa; e se anche lo fa, non è costante, ma cambia strada; e non soltanto la cambia, ma torna indietro e rivolge i suoi passi a ciò che aveva abbandonato e condannato. Perciò, lasciando da parte le vecchie definizioni della saggezza, e abbracciando ogni aspetto della vita umana, mi basta dire che la saggezza consiste nel volere sempre, o nel non volere mai, la stessa cosa. Non è necessario aggiungere la precisazione che bisogna volere ciò che è onesto, poiché a nessuno può piacere sempre la stessa cosa, se non è onesta. Purtroppo gli uomini sanno quello che vogliono solo nel momento in cui lo vogliono: nessu­ no ha stabilito una volta per sempre il suo volere e il 161

est; variatur cotidie iudicium et in contrarium vertitur ac plerisque agitur vita per lusum. Preme ergo quod coepisti, et fortasse perduceris aut ad summum aut eo quod summum nondum esse solus intellegas. 7 ‘Quid fìet’ inquis ‘huic turbae familiarium sine re familiari ?’ Turba ista cum a te pasci desierit, ipsa se pascet, aut quod tu beneficio tuo non potes scire, paupertatis scies: illa veros certosque amicos retinebit, discedet quisquis non te sed aliud sequebatur. Non est autem vel ob hoc unum amanda paupertas, quod a quibus ameris ostendet? O quando ille 8 veniet dies quo nemo in honorem tuum mentiatur ! H uc ergo cogitationes tuae tendant, hoc cura, hoc opta, omnia alia vota deo remissurus, ut contentus sis temet ipso et ex te nascentibus bonis. Quae potest esse felicitas propior ? Redige te ad parva ex quibus cadere non possis, idque ut libentius facias, ad hoc pertinebit tributum huius epistulae, quod statim conferam. 9 Invideas licei, etiam nunc libenter prò me dependet Epicurus. ‘Magnificentior, mihi crede, sermo tuus in grabatto videbitur et in panno; non enim dicentur tantum illa sed probabuntur.’ Ego certe aliter audio quae dicit Demetrius noster, cum illum vidi nudum, quanto minus quam [in] stramentis incubantem: non praeceptor veri sed testis est. 10 ‘ Quid ergo ? non licet divitias in sinu positas contemnere ?’ Quidni liceat ? E t ille ingentis animi est qui illas circumfusas sibi, multum diuque miratus quod ad se venerint, ridet suasque audit magis esse quam sentit. M ultum est non corrumpi divitiarum contubernio; magnus ille qui in divitis 11 pauper est. ‘Nescio’ inquis ‘ quomodo paupertatem iste laturus sit, si in illam inciderit.’ Nec ego, Epicure, an tgu lu st [si]

suo non-volere. Ogni giorno si cambia la propria opinio­ ne per seguire quella opposta, e i più prendono la vita come un gioco. Insisti, dunque, nei tuoi iniziali propositi, e forse giungerai alla vetta, o, almeno, più su del punto raggiunto da qualunque altro. . . . , «Ma che cosa avverrà» dirai «di tutti coloro che sono stati al mio servizio, quando non potrò più mantenerli. ». Troveranno il modo di mantenersi da soli, e quello che non puoi sapere finché sei nella posizione di benefattore, lo saprai grazie alla povertà: rimarranno gli amici veri e sicuri, e se ne andrà chi seguiva te per cercare altra cosa. La povertà ti mostrerà da chi sei amato veramente: non basta questo solo motivo perché tu debba amarla? Quel giorno, finalmente, nessuno dirà più menzogne, per un riguardo dovuto a te. Dunque, tutti i tuoi pensieri tenda­ no a questa meta; cerca di raggiungerla anche a costo di rinunziare a tutti gli altri desideri, purché tu possa essere contento di te e dei beni che in te hanno origine. Quale felicità può esserti più vicina? Scendi a questa umile condizione di vita, da cui è impossibile cadere, imparerai a farlo volentieri, se seguirai l’insegnamento che sto per darti, come consueto tributo, anche in questa lettera Non avertela a male: sarà ancora Epicuro a pagare per me: «Credimi, farai un discorso più eloquente da un misero letto avvolto in rozzi panni, poiché non dirai solo parole, ma le proverai coi fatti». Certo, e con un altra disposizione d’animo che ascolto le lezioni del nostro Demetrio dopo che l’ho visto in semplice tunica, sdraiato su qualcosa di peggio che un pagliericcio: non precettore, ma testimone della verità. «E allora» dirai «non e possi­ bile disprezzare le ricchezze, pur conservandone il pos­ sesso?» E perché no? Mostra animo grande anche chi, quasi meravigliandosi di tanti beni da cui e circondato, se ne ride e non sente quei beni come propri se non in quanto lo affermano gli altri. È già molto non lasciarsi corrompere dal contatto con le ricchezze. E perciò gran­ de chi sa essere povero nella ricchezza. «Ma» tu dirai «non so come il ricco di cui parli sopporterà la povertà, se vi dovesse effettivamente cadere». E nemmeno io, o Epicuro, se... il povero che mi esalti sara capace di 163

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iste pauper contempturus sit divitias, si in àlias inciderli; itaque in utroque mens aestimanda est inspiciendumque an ille paupertati indulgeat, an hic divitiis non indulgeat. Alioquin leve argumentum est bonae voluntatis grabattus aut pannus, nisi apparuit aliquem illa non necessitate pati sed 12 malie. Ceterum magnae indolis est ad ista non properare tamquam meliora, sed praeparari tamquam ad facilia. Et sunt, Lucili, facilia; cum vero multum ante meditatus accesseris, iucunda quoque; inest enim illis, sine qua nihil est iucundum, 13 securitas. Necessarium ergo iudico id quod tibi scripsi magnos viros saepe fecisse, aliquos dies’ interponere quibus nos imaginaria paupertate exerceamus ad veram; quod eo magis faciendum est quod deliciis permaduimus et omnia dura ac diffidila iudicamus. Potius excitandus e somno et vellicandus est animus admonendusque naturam nobis minimum constituisse. Nemo nascitur dives; quisquis exit in lucem iussus est lacte et panno esse contentus : ab his initiis nos regna non capiunt. Vale.

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S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Cum istis tibi esse negotium iudicas de quibus scripseras ? Maximum negotium tecum habes, tu tibi molestus es. Quid velis nescis, melius probas honesta quam sequeris, vides ubi sit posita felicitas sed ad illam pervenire non audes. Quid sit autem quod te inpediat, quia parum ipse dispicis, dicami magna esse haec existimas quae relicturus es, et cum proposuisti tibi illam securitatem ad quam transiturus es, retinet

disprezzare le ricchezze, nel caso che gli capitassero. Nell’uno e nell’altro caso bisogna giudicare la disposizio­ ne d’animo; vedere cioè se, al verificarsi dei fatti, il ricco accetterà volentieri la povertà e il povero saprà resistere al compiacimento per le ricchezze. Certo, il lettuccio e i panni rozzi non sono una prova sufficiente per dimo­ strare la buona disposizione d’animo, se non risulta chiaro che la povertà è stata scelta liberamente, non già tollerata per necessità. È indizio di animo grande non affrettarsi ad abbracciarla come la migliore condizione di vita, ma prepararsi a viverla come cosa facile a soppor­ tarsi. E sarà non solo facile, caro Lucilio, ma anche dilettevole, se ci avviciniamo a lei dopo aver a lungo meditato, perché c’è in questa condizione di vita un senso di tranquillità senza il quale non ci può essere alcun diletto. Perciò ritengo necessario quello che, come ti ho scritto, hanno fatto spesso i grandi uomini; sceglia­ mo alcuni giorni in cui esercitarci, con una finzione di povertà, a tollerare la vera povertà. Ciò è tanto più necessario in quanto ci siamo snervati nei piaceri e ormai giudichiamo tutto duro e difficile. Bisogna, invece, scuotere l’animo dal torpore, stimolarlo e ricordargli che la natura ci ha dato ben poche esigenze. Nessuno nasce ricco: appena viene alla luce, ogni essere umano deve appagarsi del latte e di un panno; ma, dopo questi inizi, neppure un regno basta a saziare i suoi desideri. Addio. LETTERA 21

La vera gloria Credi di aver briga con quelle persone di cui mi hai scritto? In realtà ti danno più da fare i crucci che ti procuri da te stesso. Non sai con chiarezza quello che vuoi; ti è più facile lodare la virtù che seguirla; vedi dove sta la felicità, ma non osi raggiungerla. E poiché non riesci da solo a distinguere ciò che t’impedisce di progre­ dire, te lo dirò io. Tu dai troppa importanza a quello che devi lasciare, e dopo aver vagheggiato la tranquillità che ti proponi di raggiungere, non sai distaccarti dal

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te huius vitae a qua recessurus es fulgor tamquam in sordida 2 et obscura casurum. Erras, Lucili: ex hac vita ad illam ascen­ d i t i . Quod interest inter splendorem et lucem, cum haec certam originem habeat ac suam, ille niteat alieno, hoc inter hanc vitam et illam : haec fulgore extrinsecus veniente percussa est, crassam illi statini umbram faciet quisquis obstiterit. illa suo lumine inlustris est. Studia te tua clarum et nobilem 3 efficient. Exemplum Epicuri referam. Cum Idomeneo scriberet et illum a vita speciosa ad fidelem stabilemque gloriam revocaret, regiae tunc potentiae ministrum et magna tractantem, ‘si gloria’ inquit ‘tangeris, notiorem te epistulae meae facient quam omnia ista quae colis et propter quae coleris’ . 4 Numquid ergo mentitus est ? quis Idomenea nosset nisi Epicurus illum litteris suis incidisset ? Omnes illos megistanas et satrapas et regem ipsum ex quo Idomenei titulus. petebatur oblivio alta suppressit. Nomen A ttici perire Ciceronis epistulae non sinunt. Nihil illi profuisset gener Agrippa et Tiberius progener et Drusus Caesar pronepos; inter tam magna nomina taceretur nisi (sibi) Cicero illum adplicuisset. 5 Profunda super nos altitudo temporis veniet, pauca ingenia caput exerent et in idem quandoque silentium abitura obli­ vioni resistent ac se diu vindicabunt. Quod Epicurus amico suo potuit promittere, hoc tibi promitto, Lucili: habebo apud posteros gratiam, possum mecum duratura nomina educere. Vergilius noster duobus memoriam aeternam promisit et praestat: fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit.

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falso splendore di questa tua vita; come se poi dovessi cadere in una vita bassa e oscura. Sbagli, caro Lucilio: dalla tua vita presente a quell’altra si sale. Fra le due condizioni di vita passa la stessa differenza che c è fra una cosa che brilla di luce riflessa e un’altra che ha in sé la sua fonte luminosa. La prima riflette una luce che viene dall’esterno, e chiunque s’interpone subito proietta una fitta ombra; la seconda è illuminata dalla sua viva luce. Il culto della filosofia ti farà risplendere di questa luce. Ti porterò l’esempio di Epicuro. Scrivendo a Idomeneo per volgerlo da una vita appariscente (era un uomo di potenza regale, che trattava importanti affari pubblici) a una gloria sicura e durevole, gli dice: «Se brami la gloria, ti daranno maggiore fama queste mie lettere che tutte codeste brighe che ti tengono occupato e per le quali godi un prestigio così effimero». Aveva forse torto? Chi avrebbe ora notizia di Idomeneo, se Epicuro non ne avesse scolpito il nome nelle sue lettere? Tutti questi magnati e satrapi, e lo stesso re da cui proveniva a Idomeneo ogni titolo di grandezza, sono sprofondati nell’oblio. Allo stesso modo le lettere di Cicerone han fatto sì che non perisse il nome di Attico. Non avrebbe giovato alla sua fama né il genero Agrippa, né Tiberio, marito della sua nipote, né il pronipote Druso Cesare; fra questi grandi nomi, il suo sarebbe ignorato, se Cicerone non lo avesse legato a sé. Il tempo sommerge gli uomini nelle sue acque profonde, solo pochi ingegni eletti sollevano il capo; sebbene siano anch’essi destinati a scomparire prima o poi nel silenzio, resistono a lungo alla dimenticanza e fanno valere il loro diritto alla fama. Ciò che Epicuro ha potuto promettere al suo amico, io lo prometto a te, o Lucilio, io troverò favore presso i posteri, e posso trarre con me dall ombra nomi di amici che vivranno a lungo. Il nostro Virgilio promise eterno ricordo a due fanciulli, e mantenne la promessa: «Oh, fortunati entrambi! Se il mio poema ha qualche valore, non sarete più sottratti alla memoria delle future età, finché la stirpe di Enea avrà sede accanto alla salda rupe del Campidoglio e il popolo 167

6 Quoscumque in medium fortuna protulit, quicumque mem­ bra ac partes alienae potentiae fuerant, horum gratia viguit, domus frequentata est, dum ipsi steterunt: post ipsos cito memoria defecit. Ingeniorum crescit dignatio nec ipsis tan­ tum honor habetur, sed quidquid illorum memoriae adhaesit excipitur. 7

Ne gratis Idomeneus in epistulam meam venerit, ipse eam de suo redimet. A d hunc Epicurus illam nobilem sententiam scripsit qua hortatur ut Pythoclea locupletem non publica nec ancipiti via faciat. ‘ Si vis’ inquit ‘Pythoclea divitem facere, non pecuniae adiciendum sed cupiditati detrahendum est.’ 8 Et apertior ista sententia est quam (ut) interpretanda sit, et disertior quam ut adiuvanda. Hoc unum te admoneo, ne istud tantum existimes de divitìs dictum : quocumque transtuleris, idem poterit. Si vis Pythoclea honestum facere, non honoribus adiciendum est sed cupiditatibus detrahendum; si vis Pythoclea esse in perpetua voluptate, non voluptatibus adiciendum est sed cupiditatibus detrahendum; si vis Pytho­ clea senem facere et implere vitam, non annis adiciendum 9 est sed cupiditatibus detrahendum. Has voces non est quod Epicuri esse iudices : publicae sunt. Quod fieri in senatu solet faciendum ego in philosophia quoque existimo : cum censuit aliquis quod ex parte mihi placeat, iubeo illum dividere sententiam et sequor quod probo. Eo libentius Epicuri egregia dieta commemoro, ut istis qui ad illum confugiunt spe mala inducti, qui velamentum ipsos vitiorum suorum habituros existimant, probent quo­ to cumque ierint honeste esse vivendum. Cum adieris eius

romano conserverà l’impero»1. Coloro a cui la sorte permise di farsi avanti nella vita, o che ebbero parte nella potenza altrui, finché vissero godettero il favore popolare ed ebbero la casa frequentata; ma subito dopo il loro ricordo si è spento. La gloria degli spiriti eletti cresce col passare del tempo, e non soltanto essi vengono onorati, ma è sottratto all’oblio tutto ciò che è collegato alle loro persone. Ora, perché non avvenga che Idomeneo sia stato citato nella mia lettera gratuitamente, sarà lui a pagare di sua tasca il mio debito. A lui Epicuro indirizzò quella nobile massima in cui lo esorta ad arricchire Pitocle, ma non con i mezzi comuni, che sono malsicuri. «Se vuoi far ricco Pitocle,» egli dice «non aumentare il suo dana­ ro, ma riduci i suoi desideri.» E una massima troppo chiara ed eloquente per aver bisogno di spiegazioni. Tuttavia, non pensare che la massima valga solo per le ricchezze; a qualunque argomento tu la riferisca, avrà lo stesso valore. Se vuoi rendere Pitocle veramente onorato, non procurargli altri onori pubblici, ma riduci i suoi desideri; se vuoi che Pitocle abbia piaceri durevoli, non dargli altri piaceri, ma riduci i suoi desideri; se vuoi procurargli una lunga vita piena di soddisfazioni, non aumentare il numero dei suoi anni, ma riduci i suoi desideri. Non credere che questi precetti siano solo di Epicuro; essi sono ormai accettati da ogni uomo saggio. Penso che anche con i filosofi si debba applicare il metodo usato in senato. Se uno esprime una dottrina che io approvo solo parzialmente, lo invito a dividere il suo pensiero in parti, ed io seguirò solo le massime che approvo. Cito più volentieri Epicuro perché a tutti coloro che in lui si rifugiano, tratti dalla fallace speranza di coprire con un velo i propri vizi, voglio ricordare con le sue stesse parole che devono anzitutto vivere onestamente, qualunque sia la conclusione a cui giungono. Quando ti

1 E n eid e, IX , 446 segg. C elebre passo in cui Virgilio esalta la m em oria dei due giovani eroi troiani E urialo e Niso.

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hortulòs +et inscriptum hortulist ‘ hospf.s, h ic bene manebis , h ic svmmvm bonvm vo lvptas est’ , paratus erit istius domicilii custos hospitalis, humanus, et te polenta excipiet et aquam quoque large ministrabit et dicet, ‘ecquid bene acceptus es ?’ ‘Non inritant’ inquit ‘hi hortuli famem sed extinguunt, nec maiorem ipsis potionibus sitim faciunt, sed naturali 11 et gratuito remedio sedani; in hac voluptate consenui.’ De his tecum desideriis loquor quae consolationem non recipiunt, quibus dandum est aliquid ut desinant. Nam de illis extraordinariis quae licet differre, licet castigare et opprimere, hoc unum commonefaciam : ista voluptas naturalis est, non necessaria. Huic nihil debes; si quid inpendis, voluntarium est. Venter praecepta non audit: poscit, appellat. Non est tamen molestus creditor: parvo dimittitur, si modo das illi quod debes, non quod potes. Vale.

avvicini ai bei giardini di Epicuro2*... «Ospite, qui starai molto bene; qui il sommo bene è il piacere». E pronta­ mente ti verrà incontro il custode della casa, un vecchio ospitale e cortese; egli ti metterà innanzi un bel piatto di polenta e ti mescerà anche acqua in abbondanza; ti chiederà: «Sei soddisfatto dell7accoglienza? In questi giardini gli stimoli della fame non si eccitano, ma si estinguono; né la sete aumenta col bere, ma è sedata da un rimedio naturale e gratuito. Nel godimento di questi piaceri sono giunto alla vecchiaia». Parlo di quei desideri che non si possono estinguere con belle parole, ma richiedono qualcosa per farli cessare. Riguardo a quelli che non sono desideri ordinari e che si possono differire, tenere a freno e correggere, ti do solo questo avvertimen­ to: è naturale che tu cerchi di soddisfarli, ma non e necessario. Non hai nessun obbligo verso di essi, e se spendi qualcosa per il loro appagamento lo fai di tua volontà. Il ventre è sordo agli ammonimenti: esige e reclama. Ma non è un creditore molesto: si contenta di poco, purché tu gli dia appena il necessario e non tutto quanto potresti dargli. Addio.

2 Giardini situati virino ad Atene, dove Epicuro visse con gli amici e i discepoli della sua scuola filosofica.

LIBER TERTIVS

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S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Iam intellegis educendum esse te ex istis occupationibus speciosis et malis, sed quomodo id consequi possis quaeris. Quaedam non nisi a praesente monstrantur; non potest medicus per epistulas cibi aut balinei tempus eligere: vena tangenda est. Vetus proverbium est gladiatorem in harena capere consilium: aliquid adversarii vultus, aliquid manus 2 mota, aliquid ipsa inclinatio corporis intuentem monet. Quid fieri soleat, quid oporteat, in universum et mandari potest et scribi; tale consilium non tantum absentibus, etiam posterie datur: illud alterum, quando fieri debeat aut quemadmodum, ex longinquo nemo suadebit, cum rebus ipsis deliberandum 3 est. Non tantum praesentis sed vigilantis est occasionem observare properantem; itaque hanc circumspice, hanc si videris prende, et toto impetu, totis viribus, id age ut te istis officiis exuas. Et quidem quam sententiam feram adtende: censeo aut ex ista vita tibi aut e vita exeundum. Sed idem illud existimo, leni eundum via, ut quod male inplicuisti solvas potius quam abrumpas, dummodo, si alia solvendi ratio non erit, vel abrumpas. Nemo tam timidus est ut malit sem4 per pendere quam semel cadere. Interim, quod primum est,

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LIB R O T E R Z O

LETTERA 2 2

Occorre abbandonare la vita pubblica al momento giusto Hai già capito che devi trarti fuori da codeste occupazioni esteriori e dannose, ma domandi come tu possa riuscirvi. Ci sono dei consigli che non si possono dare da lontano. Non può il medico stabilire per lettera l’ora del cibo o del bagno; deve tastare il polso. Dice un vecchio prover­ bio che il gladiatore determina le sue mosse nell’arena stessa, osservando sia il volto dell’avversario, sia i movi­ menti delle braccia, sia la posizione del corpo. Si possono dare consigli in generale, anche per iscritto, sugli usi e sui principi che regolano un comportamento, e non solo agli assenti, ma anche ai posteri. Ma nessuno può consigliare a distanza, in un caso particolare, quando e come bisogna agire; le decisioni concrete devono essere prese sul posto. Bisogna essere non solo presenti, ma star bene attenti, per cogliere il momento giusto. Perciò guàrdati intorno e, appena troverai l’occasione propizia, coglila subito, e con tutto il tuo ardore e con tutte le tue forze cerca di liberarti da codesti tuoi impegni. Ascolta il mio parere: o riesci a lasciare codesta tua vita, o devi lasciare, addirittura, la vita. Certo, devi agire con calma, in modo che tu possa sciogliere, anziché spezzare, i legami in cui ti sei malamente impigliato; purché, se non sarai capace di scioglierli, ti decida anche a spezzarli. Nessuno, per quanto pavido, preferisce stare sempre penzoloni, piuttosto che cadere una volta per tutte. Intanto, come prima cosa, non crearti altri impacci: ti 173

inpedire te noli; contentus esto negotiis in quae descendisti, vel, quod videri mavis, incidisti. Non est quod ad ulteriora nitaris, aut perdes excusationem et apparebit te non incidisse. Ista enim quae dici solent falsa sunt: ‘non potui aliter. Quid si nollem? necesse erat.’ Nulli necesse est felicitatem cursu sequi: est aliquid, etiàm si non repugnare, subsistere nec instare fortunae ferenti. 5 Numquid offenderle si in consilium non venio tantum sed advoco, et quidem prudentiores quam ipse sum, ad quos soleo deferre si quid delibero? Epicuri epistulam ad hanc rem pertinentem lege, Idomeneo quae inscribitur, quem rogai ut quantum potest fugiat et properet, antequam aliqua 6 vis maior interveniat et auferat libertatem recedendi. Idem tamen subicit nihil esse temptandum nisi cum apte poterit tempestiveque temptari; sed cum illud tempus captatum diu venerit, exiliendum ait. Dormitare de fuga cogitantem vetat et sperai salutarem etiam ex difficillimis exitum, si nec 7 properemus ante tempus nec cessemus in tempore. Puto, nunc et Stoicam sententiam quaeris. Non est quod quisquam illos apud te temeritatis infamet: cautiores quam fortiores sunt. Expectas forsitan ut tibi haec dicant: ‘turpe est cedere oneri; luctare cum officio quod semel recepisti. Non est vir fortis ac strenuus qui laborem fugit, nisi crescit illi animus 8 ipsa rerum difficultate.’ Dicentur tibi ista, si operae pretium habebit perseverantia, si nihil indignum bono viro faciendum patiendumve erit; alioqui sordido se et contumelioso labore non conterei nec in negotiis erit negotii causa. N e illud quidem quod existimas facturum eum faciet, ut ambitiosis rebus inplicitus semper aestus earum ferat; sed cum viderit gravia in quibus volutatur, incerta, ancipitia, referet pedem,

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bastino gli affari in cui ti sei cacciato, o, come vorresti far apparire, in cui sei cascato. Non c’è ragione che tu cerchi ancora altri impegni, o la tua scusa non sarà più valida, e sarà chiaro che non ci sei cascato. Sono false, anche se si ripetono spesso, le scuse di questo genere: «Non avrei potuto fare diversamente: che sarebbe acca­ duto se non avessi accettato? era assolutamente necessa­ rio». Nessuno è obbligato a correre sulla via del successo ; ma, se proprio non vogliamo andare contro corrente, è già qualcosa se restiamo fermi e non invitiamo la fortuna a portarci avanti. Non ti offendere se non vengo io solo a consigliarti, ma chiamo altri più esperti di me, ai quali soglio ricorrere prima di prendere qualche decisione. Leggi la lettera scritta da Epicuro e Idomeneo, riguardante questo stesso argomento. Lo prega di fuggire più in fretta che può, prima che qualche forza maggiore intervenga e gli tolga la libertà di ritirarsi. Aggiunge tuttavia che, qualunque tentativo egli faccia, scelga i modi più adatti e le occasioni più opportune e, una volta venuto il momento tanto atteso, sia pronto a balzare in piedi. Egli non ammette che dorma chi pensa alla fuga e spera che anche le situazioni più difficili si risolvano felicemente, se non ci affrettiamo prima del tempo, né lasciamo passare il momento giusto. Ora, penso, chiederai anche il parere degli stoici. Nessuno potrebbe tacciarli di temerità: sono più cauti che forti. Ti aspetti, forse, che ti dicano: «Sei un vile se cedi; sforzati, piuttosto, di mantenere gli impegni che ti sei preso. Non è un uomo valoroso e forte colui che fugge la fatica e che non sente crescere il coraggio quanto più la situazione è difficile». Ti verrà detto tutto questo, nel caso che valga la pena di perseve­ rare e non ci sia da fare o da subire nessuna cosa indegna di un uomo onesto. Altrimenti egli non si logorerà in una fatica ignobile e umiliante e non vorrà rimanere in un’occupazione solo per essere occupato. Né, tutto preso nelle ambizioni della vita pubblica, vorrà sopportarne sempre le tempeste, come tu pensi; ma, quando si sarà accorto della situazione grave, incerta ed equivoca in cui si dibatte, comincerà ad indietreggiare e, senza volgere le 175

9 non vertet terga, sed sensim recedei in tutum. Facile est autem, mi Lucili, occupationes evadere, si occupationum pretia contempseris; illa sunt quae nos morantur et detinent. ‘Quid ergo ? tam magnas spes relinquam ? ab ipsa messe discedam? nudum erit latus, incomitata lectica, atrium vacuum ?’ Ab his ergo inviti homines recedunt et mercedem 10 miseriarum amant, ipsas execrantur. Sic de ambitione quomodo de amica queruntur, id est, si verum adfectum eorum inspicias, non oderunt sed litigant. Excute istos qui quae cupiere deplorant et de earum rerum loquuntur fuga quibus carere non possunt; videbis voluntariam esse illis in eo 11 moram quod aegre ferre ipsos et misere loquuntur. Ita est, Lucili: paucos servitus, plures servitutem tenent. Sed si deponere illam in animo est et libertas bona fide placuit, in hoc autem unum advocationem petis, ut sine perpetua sollicitudine id tibi facere contingat, quidni tota te cohors Stoicorum probatura sit ? omnes Zenones et Chrysippi 12 moderata, honesta, tua suadebunt. Sed si propter hoc tergiversaris, ut circumaspicias quantum feras tecum et quam magna pecunia instruas otium, numquam exitum invenies: nemo cum sarcinis enatat. Emerge ad meliorem vitam propitiis diis, sed non sic quomodo istis propitii sunt quibus bono ac benigno vultu mala magnifica tribuerunt, ob hoc unum excusati, quod ista quae urunt, quae excruciant, optantibus data sunt. 13 Iam inprimebam epistulae signum: resolvenda est, ut cum sollemni ad te munusculo veniat et aliquam magnificam vocem ferat secum; et occurrit mihi ecce nescio utrum verior an eloquentior. ‘Cuius?’ inquis. Epicuri; adhuc enim alienas 14 tsarcinas adorot: ‘nemo non ita exit e vita tamquam modo

spalle, a poco a poco si metterà al sicuro. È facile, caro Lucilio, liberarci dalle occupazioni, quando non ne speriamo alcun frutto. Ecco, invece, i pensieri che ci fanno indugiare e ci trattengono: «Rinuncerò a tante speranze? Me ne andrò proprio sul più bello? Non più clienti al mio fianco, la mia lettiga senza scorta, Fatrio di casa deserto?». Sono cose cui gli uomini rinunciano a malincuore: essi amano le meschine soddisfazioni di quelle vanità che sono pronti a condannare. Si lagnano dell’ambizione come dell’amante: ma se penetri i loro veri sentimenti, ti accorgi che si lamentano non per odio, ma tanto per questionare. Scruta bene nell’animo di costoro che deplorano la sorte che hanno desiderato e parlano di voler fuggire da quei beni di cui non sono capaci di privarsi: vedrai che rimangono volentieri in una situazione che dicono di sopportare a malincuore. È così, o Lucilio: pochi sono schiavi per necessità; i più lo sono volontariamente. Se tu hai proprio deciso di abbandonare codesta condizione di vita, e aspiri vera­ mente alla libertà, e chiedi una dilazione solo perché tu possa compiere serenamente questo passo, sappi che avrai l’approvazione di tutta la famiglia degli stoici; e Zenoni e Crisippi ti diranno di agire con onestà e moderazione. Ma se tergiversi per calcolare tutto quello che puoi portare con te e quanto denaro occorre per rendere sicuro il tuo riposo, non troverai mai la via d’uscita: non è possibile salvarsi a nuoto con i bagagli sul dorso. Emergi a una vita migliore, con l’aiuto degli dèi (non quell’aiuto che gli dèi danno a coloro cui largiscono benevolmente splendidi mali1. Ma è pur vero che concedono codesti mali che scottano e crucciano dopo insistenti preghiere). Avevo già messo il sigillo alla lettera; ma debbo riaprirla perché essa possa giungerti col solito dono: è un bel pensiero che mi si presenta proprio ora, non so se più vero o più eloquente: «Di chi è?» chiederai. Di Epicuro. Ancora una volta ... altrui. «Non c’è persona che non esca dalla vita come se vi fosse entrata poco 1 Cioè, i beni materiali.

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intraverit’ . Quemcumque vis occupa, adulescentem, senem, medium : invenies aeque timidum mortis, aeque inscium vitae. Nemo quicquam habet facti; in futurum enim nostra distulimus. Nihil me magis in ista voce delectat quam quod 15 exprobratur senibus infantia. ‘Nemo’ inquit ‘aliter quam quomodo natus est exit e vita.’ Falsum est: peiores morimur quam nascimur. Nostrum istud, non naturae vitium est. Illa nobiscum queri debet et dicere, ‘ quid hoc est ? sine cupiditatibus vos genui, sine timoribus, sine superstitione, sine per16 fidia ceterisque pestibus: quales intrastis exite’ . Percepit sapientiam, si quis tam securus moritur quam nascitur; nunc vero trepidamus cum periculum accessit, non animus nobis, non color constai, lacrimae nihil profuturae cadunt. Quid est 17 turpius quam in ipso limine securitatis esse sollicitum ? Causa autem haec est, quod inanes omnium bonorum sumus, vitae (iactura) laboramus. Non enim apud nos pars eius ulla subsedit : transmissa est et effluxit. Nemo quam bene vivat sed quam diu curat, cum omnibus possit contingere ut bene vivant, ut diu nulli. Vale.

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prima.» Considera chi vuoi; giovani, uomini di mezza età vecchi: li troverai ugualmente timorosi della morte, ugualmente ignari della vita. Nessuno di noi ha portato a termine un affare; rinviamo tutto al futuro. «Nessuno esce dalla vita intimamente diverso da chi e appena nato.» Ciò che più apprezzo in questa massima e che si rimprovera ai vecchi la loro fanciullaggine, o con più esattezza, che moriamo peggiori di quello che eravamo nascendo. La colpa è tutta nostra, non della natura. Essa potrebbe lagnarsi con noi e dire. «Che e ciò? Io vi ho generato senza desideri, senza timori, senza superstizioni, senza perfidie e senza tutti gli altri vizi; quali siete entrati nella vita, tali uscitene!». Ha raggiunto la saggezza chi può morire serenamente, come e nato. Noi invece, all’avvicinarsi di un pericolo, siamo presi dallo smarrimento, perdiamo ogni coraggio, cambiamo colore e versiamo inutili lacrime. Niente e piu vile che preoccuparsi proprio sulla soglia della vera pace. Ci sentiamo privati di tutti i beni e soffriamo nel lasciare quella vita di cui non ci rimane neppure una piccola parte: passa e scompare. Nessuno si preoccupa di una vita virtuosa, ma pensa solo a quanto tempo potrà vivere. Tuttavia tutti possono vivere bene, nessuno na il potere di vivere a lungo. Addio.

SENECA L VC I L I O SVO S ALVTEM

Putas me tibi scripturum quam humane nobiscum hiemps egerit, quae et remissa fuit et brevis, quam malignum ver sit, quam praeposterum frigus, et alias ineptias verba quaerentium ? Ego vero aliquid quod et mihi et tibi prodesse possit scribam. Quid autem id erit nisi ut te exhorter ad bonam mentem ? Huius fundamentum quod sit quaeris ? ne gaudeas 2 vanis. Fundamentum hoc esse dixi: culmen est. A d summa pervenit qui scit quo gaudeat, qui felicitatem suam in aliena potestate non posuit; sollicitus est et incertus sui quem spes

lettera

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La vera gioia Pensi, forse, che io ti scriva come si è comportato bene con noi l’inverno, che è stato mite e breve; come e cattiva la primavera, col freddo giunto in ritardo, ed altre inezie proprie di chi non sa che cosa dire. 1 , invece, scriverò solo cose che possano giovare, sia a me, che a te: ti esorterò alla saggezza. Mi chiedi quale ne sia la base? È il non compiacersi delle vanita. Ho detto «la base», ma è piuttosto la sommità. Raggiunge U culmine della sapienza chi sa di che cosa debba gioire e non pone la propria felicità in potere altrui. E preoccupa­ to e incerto chi è sempre nell’ansiosa attesa di qualche 179

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aliqua proritat, licei ad manum sit, licei non ex difficili 3 petatur, licei numquam illum Sperata deceperint. Hoc ante

omnia fac, mi Lucili: disce gaudere. Existimas nunc me detrahere tibi multas voluptates qui fortuita summoveo, qui spes, dulcissima oblectamenta, devitandas existimo ? immo contra nolo tibi umquam deesse laetitiam. Volo illam tibi domi nasci: nascitur si modo intra te ipsum fit. Ceterae hilaritates non implent pectus; frontem remittunt,]eves sunt, nisi forte tu iudicas eum gaudere qui ridet : animus esse debet 4 alacer et fidens et supra omnia erectus. Mihi crede, verum gaudium res severa est. An tu existimas quemquam soluto vultu et, ut isti delicati loquuntur, hilariculo morfem contemnere, paupertati domum aperire, voluptates tenere sub freno, meditari dolorum patientiam ? Haec qui apud se versat in magno gaudio est, sed parum blando. In huius gaudii possessione esse te volo : numquam deficiet, cum semel 5 unde petatur inveneris. Levium metallorum fructus in summo est : illa opulentissima sunt quorum in alto latet vena adsidue plenius responsura fodienti. Haec quibus delectatur vulgus tenuem habent ac perfusoriam voluptatem, et quodcumque invecticium gaudium est fundamento caret: hoc de quo loquor, ad quod te conor perducere, solidum est et quod 6 plus pateat introrsus. Fac, oro te, Lucili carissime, quod unum potest praestare felicem: dissice et conculca ista quae extrinsecus splendent, quae tibi promittuntur ab alio vel ex alio; ad verum bonum specta et de tuo gaude. Quid est autem hoc ‘de tuo’ ? te ipso et tui optima parte. Corpusculum quoque, etiam si nihil fieri sine ilio potest, magis necessariam rem crede quam magnam; vanas suggerit voluptates, breves, paenitendas ac, nisi magna moderatione temperentur, in contrarium abituras. Ita dico: in praecipiti voluptas (stat),

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cosa, anche se l’ha a portata di mano, anche se non è difficile ottenerla, anche se le sue speranze non sono state mai deluse. Prima di tutto, caro Lucilio, impara a godere. Tu credi proprio che io ti voglia togliere molti piaceri solo perché voglio tenere lontano da te i beni largiti dal caso, e perché penso che tu debba sottrarti ai dolci allettamenti della speranza? Al contrario, desidero che non ti manchi mai la gioia, anzi che ti nasca in casa; e nascerà, purché essa sia dentro a te stesso. Le altre forme di contentezza non riempiono il cuore, sono este­ riori e vane; a meno che tu non creda che uno sia allegro sol perché ride. È lo spirito che deve essere allegro ed ergersi pieno di fiducia al di sopra di ogni evento. Credimi, la vera gioia è austera. Pensi, forse, che qualcu­ no possa, con volto gioviale e - come dicono codesti sdolcinati - spensierato, disprezzare la morte, aprire la porta alla povertà, tenere a freno le passioni, esercitarsi a sopportare il dolore? Chi medita su queste cose, sente nell’intimo una gioia grande, anche se poco appariscen­ te. Vorrei che anche tu possedessi questa gioia: essa non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente. I metalli di scarso valore si trovano a fior di terra; quelli preziosi si nascondono nelle profondità del sottosuolo, ma daranno una soddisfazione più piena alla tenacia di chi riesce ad estrarli. Le cose di cui si diletta il volgo danno un piacere effimero e a fior di pelle; e qualunque gioia che viene dall’esterno è inconsistente. Questa di cui parlo e a cui tento di condurti è una gioia duratura, che nasce e si espande dal di dentro. Ti scongiuro, carissimo Lucilio, fa’ la sola cosa che può darti la felicità: disprezza e calpesta codesti beni che vengono dal di fuori, che ti sono promessi da questo o che speri da quello; mira al vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene. Mi domandi che cosa ti appartiene? Sei tu stesso e la parte migliore di te. Anche questo nostro povero corpo, senza il quale non possiamo far niente, consideralo una cosa piuttosto necessaria che importante. Esso tende a piaceri vani e passeggeri, seguiti poi dal pentimento e destinati, se manca il freno di una grande moderazione, a passare al loro contrario: 181

ad dolorem vergit nisi modum tenuit; modum autem tenere in eo difficile est quod bonum esse credideris: veri boni 7 aviditas tuta est. Quod sit istud interrogas, aut unde subeat ? Dicam : ex bona conscientia, ex honestis consiliis, ex rectis actionibus, ex contemptu fortuitorum, ex placido vitae et continuo tenore unam prementis viam. Nam illi qui ex aliis propositis in alia transiliunt aut ne transiliunt quidem sed casu quodam transmittuntur, quomodo habere quicquam 8 certum mansurumve possunt suspensi et vagì ? Pauci sunt qui consilio se suaque disponant: ceteri, eorurti more quae fluminibus innatant, non eunt sed feruntur; ex quibus alia lenior unda detinuit ac mollius vexit, alia vehementior rapuit, alia proxima ripae cursu languescente deposuit, alia torrens impetus in mare eiecit. Ideo constituendum est quid velimus et in eo perseverandum. 9 H ic est locus solvendi aeris alieni. Possum enim tibi vocem Epicuri tui reddere et hanc epistulam liberare: ‘molestum est semper vitam inchoare’ ; aut si hoc modo magis sensus potest 10 exprimi, ‘male vivunt qui semper vivere incipiunt’ . ‘Quare ?’ inquis; desiderai enim explanationem ista vox. Quia semper illis inperfecta vita est; non potest autem stare paratus ad mortem qui modo incipit vivere. Id agendum est ut satis vixerimus : nemo hoc praestat qui orditur cum maxime vitam. 11 Non est quod existimes paucos.esse hos : .propemodum omnes sunt. Quidam vero tunc incipiunt cum desinendum est. Si hoc iudicas mirum, adiciam quod magis admireris: quidam ante vivere desierunt quam inciperent. Vale.

intendo dire che il piacere sta in bilico, e se non ha misura si volge in dolore. Ma è difficile avere il senso della misura riguardo a ciò che si crede un bene. Solo il desiderio del vero bene, per quanto grande, è senza pericoli. Mi chiedi che cos’è questo vero bene, e donde ha origine? Te lo dirò: nasce dalla buona coscienza, dai pensieri onesti e dal retto operare, dal disprezzo degli avvenimenti fortuiti, dal sereno e costante sviluppo di un’esistenza che batte sempre la stessa via. Infatti coloro che saltano da un proposito all’altro o, peggio, si fanno trascinare da una qualunque circostanza, sempre incerti e vaganti, come possono avere una condotta sicura e stabile? Sono pochi quelli che decidono saggiamente su se stessi e sulle proprie cose. Tutti gli altri, a somiglianza degli oggetti che galleggiano nei fiumi, non vanno da se, ma sono trasportati. Alcuni, dove la corrente è più lenta, sono spinti mollemente; altri sono travolti dalla corrente più rapida; altri sono depositati vicino alla riva, dove la corrente si affievolisce; altri infine sono scagliati in mare con moto impetuoso. Dunque, dobbiamo stabilire ciò che vogliamo ed essere perseveranti nella decisione pre­ È giunto il momento che io saldi il mio debito. Posso pagarti con un motto del tuo Epicuro e chiudere cosi questa lettera: «È triste incominciare sempre la vita» o, se così può esprimersi meglio il concetto, «Vivono male coloro che sempre ricominciano a vivere». «Perche. » mi chiederai. La massima, infatti, richiede un chianmento. Perché alla completezza della loro vita manca sempre qualcosa; e non può essere preparato alla morte chi comincia a vivere proprio in quel momento. Facciamo in modo di essere vissuti abbastanza: non si comporta così chi è, proprio in quel punto, intento a preparare la trama della sua vita. E non credere che ce ne siano pochi: è quasi la totalità degli uomini. Alcuni cominciano proprio quando dovrebbero finire. Se ciò ti sembra strano, aggiungerò una cosa che aumenterà ancor piu la tua meraviglia: alcuni cessano di vivere prima di cominciare. Addio. 183

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SENECA L V C IL IO

SVO S A L V T E M

Sollicitum esse te scribis de iudicì eventu quod tibi furor inimici denuntiat; existimas me suasurum ut meliora tibi ipse proponas et adquiescas spei blandae. Quid enim necesse est mala accersere, satis cito patienda cum venerint p r e ­ sumere, ac praesens tempus futuri metu perdere f Est sine dubio stultum, quia quandoque sis futurus miser, esse iam 2 miserum. Sed ego alia te ad securitatem via ducam: si vis omnem sollicitudinem exuere, quidquid vereris ne eveniat eventurum utique propone, et quodcumque est illud malum, tecum ipse metire ac timorem tuum taxa : intelleges profecto 3 aut non magnum aut non longum esse quod metuis. Nec diu exempla quibus confirmeris colligenda sunt : omnis illa aetas tulit. In quamcumque partem rerum vel civilium vel externarum memoriam miseris, occurrent tibi ingenia aut profectus aut impetus magni. Numquid accidere tibi, si damnaris, potest durius quam ut mittaris in exilium, ut ducaris in carcerem ? Numquid ultra quicquam ulli timendum est quam ut uratur, quam ut pereat ? Singula ista constitue et contemptores eorum cita, qui non quaerendi sed eligendi sunt. 4 Damnationem suam Rutilius sic tulit tamquam nihil illi molestum aliud esset quam quod male iudicaretur. Exilium Metellus fortiter tulit, Rutilius etiam libenter; alter ut rediret rei publicae praestitit, alter reditum suum Sullae negavit, cui nihil tunc negabatur. In carcere Socrates dispu­ t a v i et exire, cum essent qui promitterent fugam, noluit remansitque, ut duarum rerum gravissimarum hominibus 5 metum demeret, mortis et carceris. Mucius ignibus manum

LETTERA 2 4

Come si deve affrontare la morte Mi scrivi di essere preoccupato sull’esito del processo che devi subire per l’ira di un tuo nemico. Immagini che io ti consigli di pensare al meglio e di cercare conforto in vaghe speranze. Che bisogno c’è, infatti, di chiamare i malanni, di prevenirli, se, una volta venuti, potranno sopportarsi abbastanza bene? Che bisogno c’è di guastar­ si il presente col timore del futuro? È senza dubbio poco saggio che tu sia infelice oggi solo perché potrai essere infelice domani. Ma io voglio guidarti alla serenità per un’altra via. Se vuoi liberarti da ogni preoccupazione, tieni per certo che dovrà avvenire quello che temi e, qualunque sia questo male, considerane attentamente l’entità, e adegua ad esso il tuo timore: capirai di certo che il male temuto o non ha grande importanza, o non durerà a lungo. Né ci vuole fatica a raccogliere esempi che ti diano coraggio: ce ne sono in ogni epoca. A qualunque epoca della storia di Roma, o di altri popoli, tu rivolga la memoria, ti si presenteranno spiriti insigni o per la maturità filosofica raggiunta, o per la spontaneità dei loro slanci generosi. Se sarai condannato, potrà forse capitarti qualcosa di più duro a tollerarsi dell’esilio o del carcere? o qualcosa di più spaventevole delle torture o della morte? Esamina, uno per uno, tutti questi mali e rammenta coloro che li seppero disprezzare. Questi uomini non c’è bisogno di cercarli, basta sceglierli fra tanti. Rutilio1 sopportò la sua condanna come se niente altro lo rattristasse tranne che l’essere ingiustamente giudicato. Metello12 tollerò con coraggio l’esilio, Rutilio lo accolse addirittura volentieri: il primo concesse alla patria il suo ritorno; il secondo non accettò il richiamo da parte di Siila, cui allora nulla veniva negato. Socrate discuteva di filosofia in carcere, e, pur essendoci chi gli avrebbe permesso di fuggire, si rifiutò, per liberare gli uomini dalla paura dei due mali più temuti: la morte e 1 Rutilio Rufo. (Cfr. Repertorio dei nomi.) 2 Cecilio Metello Numidico. (Cfr. Repertorio dei nomi.)

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inposuit. Acefbum est uri: quanto acerbius si id te faciente patiaris! Vides hominem non eruditum nec ullis praeceptis contra mortem aut dolorem subornatum, militari tantum robore instructum, poenas a se inriti conatus exigentem; spectator destillantis in hostili foculo dexterae stetit nec ante removit nudis ossibus fluentem manum quam ignis illi ab hoste subductus est. Facere aliquid in illis castris felicius potuit, nihil fortius. Vide quanto acrior sit ad occupanda pericula virtus quam crudelitas ad inroganda: facilius Porsina Mucio ignovit quod voluerat occidere quam sibi Mucius quod non occiderat. 6 ‘Decantatae’ inquis ‘in omnibus scholis fabulae istae sunt; iam mihi, cum ad contemnendam mortem ventum fuerit, Catonem narrabis.’ Quidni ego narrem ultima illa nocte Platonis librum legentem posito ad caput gladio f Duo haec in rebus extremis instrumenta prospexerat, alterum ut vellet mori, alterum ut posset. Compositis ergo rebus, utcumque componi fractae atque ultimae poterant, id agendum existimavit ne cui Catonem aut occidere liceret aut servare 7 contingeret; et stricto gladio quem usque in illum diem ab omni caede purum servaverat, ‘nihil’ inquit ‘egisti, fortuna, omnibus conatibus meis obstando. Non prò mea adhuc sed prò patriae liberiate pugnavi, nec agebam tanta pèrtinacia ut liber, sed ut inter liberos, viverem: nunc quoniam deploratae sunt res generis humani, Cato deducatur in tutum .’ 8 Inpressit deinde mortiferum corpori vulnus; quo obligato

il carcere. Muzio3 pose la mano sul fuoco. E doloroso essere bruciato, ma quanto è più doloroso sottoporsi volontariamente al fuoco! Tu hai davanti a te un uomo incolto, che non ha ricevuto insegnamenti per affrontare la morte e il dolore, ma è sostenuto solo dal suo coraggio di soldato. Egli impose a se stesso la pena per il tentativo andato a vuoto. Stette fermo a guardare la sua mano bruciare sul braciere nemico e, per quanto fosse ormai consumata fino all’osso, non la ritirò, finche il nemico non portò via il fuoco. Il suo tentativo nel campo nemico poteva essere più fortunato, non più coraggioso. Vedi come sia più decisa la virtù ad affrontare terribili prove, che la crudeltà ad irrogarle: fu più facile a Porsenna perdonare Muzio perché aveva tentato di ucciderlo, che a Muzio perdonare se stesso perché non aveva ucciso. «Codeste» dirai «son favole cantate e ricantate in tutte le scuole. Ora, quando si verrà a parlare del disprezzo della morte, mi ripeterai certamente la storia di Cato­ ne45.» E perché non dovrei ricordarlo m quella famosa ultima notte, mentre leggeva il libro di Platone con la spada poggiata vicino al capo? Si era provveduto, per quel supremo momento, di due strumenti: un libro che lo confermasse nella sua volontà di morire e la spada che gliene desse la possibilità. Dopo aver dato quelle disposizioni che la realtà tragica e disperata gli consenti­ va pensò di agire in modo che nessuno avesse la liberta di uccidere Catone, né l’onore di salvarlo. E stretta la spada, che aveva conservata incontaminata dal sangue fino a quel giorno: «A nulla» disse «sei riuscita, o Fortuna, opponendoti a tutti i miei sforzi. Finora ho combattuto non per la mia libertà, ma per la liberta della patria; ho agito con tanta ostinatezza non per vivere libero, ma per vivere fra uomini liberi: siccome ormai non c’è che da compiangere le sorti del genere umano, sia consentito a Catone di mettersi al sicuro». Poi vibrò il colpo mortale. I medici avevano tentato di 3 Muzio Scevola. 4 Catone l’Uticense.

5 II Fedone. 187 186

a medicis cum minus sanguinis haberet, minus virium, animi idem, iam non tantum Caesari sed sibi iratus nudas in vulnus manus egit et generosum illum contemptoremque omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit. 9

Non in hoc exempla nunc congero ut ingenium exerceam, sed ut te adversus id quod maxime terribile videtur exhorter; facilius autem exhortabor, si ostendero non fortes tantum viros hoc momentum efflandae animae contempsisse sed quosdam ad alia ignavos in hac re acquasse animum fortissimorum, sicut illum Cn. Pompei socerum Scipionem, qui contrario in Africam vento relatus cum teneri navem suam vidisset ab hostibus, ferro se transverberavit et quaerentibus

10 ubi imperator esset, ‘imperator’ inquit ‘se bene habet’. Vox haec illum parem maioribus fecit et fatalem Scipionibus in Africa gloriam non est interrumpi passa. Multum fuit Carthaginem vincere, sed amplius mortem. ‘Imperator’ inquit ‘se bene habet’ : an aliter debebat imperator, et quidem 11 Catonis, mori? Non revoco te ad historias nec ex omnibus saeculis contemptores mortis, qui sunt plurimi, colligo; respice ad haec nostra tempora, de quorum languore ac delicis querimur: omnis ordinis homines suggerent, omnis fortunae, omnis aetatis, qui mala sua morte praeciderint. M ihi crede, Lucili, adeo mors timenda non est ut beneficio 12 eius nihil timendum sit. Securus itaque inimici minas audi; et quamvis conscientia tibi tua fiduciam faciat, tamen, quia multa extra causam valent, et quod aequissimum est spera et ad id te quod est iniquissimum compara. Illud autem ante omnia memento, demere rebus tumultum ac videre quid in

chiudere la ferita. Egli, pur dissanguato e indebolito nel corpo, non già nello spirito; irritato, più che contro Cesare, contro se stesso, cacciò le nude mani nella piaga, ed esalò, o piuttosto scagliò via, quella sua anima generosa, sprezzante di ogni potenza. Non faccio una raccolta di esempi per esercitazione retorica, ma per darti conforto contro quello che appare il male più terribile. E le mie parole saranno più efficaci quando ti avrò mostrato che non solo gli uomini forti hanno saputo disprezzare il momento della morte, ma uomini ignavi in altre circostanze in questa hanno egua­ gliato per coraggio i più forti. Cito ad esempio Scipione, suocero di Pompeo . Costui era stato respinto da un vento contrario verso l’Africa: vedendo la sua nave ormai catturata, si trafisse col pugnale, e ai nemici che chiedevano dove fosse il comandante, rispose: «Il comandante sta bene». Questa risposta lo ha reso degno dei suoi antenati e non ha permesso che si interrompesse la tradizione di gloria legata al nome degli Scipioni in Africa. Gran cosa fu vincere Cartagine, ma più grande vincere la morte. «Il comandante sta bene.» Poteva morire diversamente un comandante e, per di più, il comandante di Catone? Non voglio richiamare alla tua memoria le vicende del passato per rievocare da tutte le epoche i numerosissimi uomini che hanno disprezzato la morte. Rivolgiti pure ai nostri tempi, di cui condanniamo la fiacchezza e la sensualità: ti si presenteranno uomini di ogni categoria, di ogni condizione economica, di ogni età, che con la morte hanno posto fine ai propri mali. Credimi, caro Lucilio, non solo non c’è da temere la morte, ma la sua meditazione ci consente di non temere più niente. Perciò ascolta pure senza paura le minacce del tuo nemico; la tua coscienza ti dà fiducia nell’avveni­ re. Tuttavia, poiché spesso prevalgono considerazioni estranee alla causa, aspèttati che ti sia resa piena giusti­ zia, ma sii anche preparato alla peggiore ingiustizia. Ricordati, anzitutto, di vedere tutte le cose nella loro semplice realtà, senza esterne deformazioni: ti renderai 6 Cecilio Metello Scipione. (Cfr. Repertorio dei nomi.)

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quaque re sit : scies nihil esse in istis terribile nisi ipsum 13 timorem. Quod vides accidere pueris, hoc nobis quoque maiusculis pueris evenit : illi quos amant, quibus adsueverunt, cum quibus ludunt, si personatos vident, expavescunt : non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et red14 denda facies sua. Quid mihi gladios et ignes ostendis et turbam carnificum circa te frementem ? Tolle istam pompam sub qua lates et stultos territas : mors es, quam nuper servus meus, quam anelila contempsit. Quid tu rursus mihi flagella et eculeos magno apparatu explicas ? quid singulis articulis singula machinamenta quibus extorqueantur aptata et mille alia instrumenta excarnificandi particulatim hominis? Pone ista quae nos obstupefaciunt; iube conticiscere gemitus et exclamationes et vocum inter lacerationem elisarum acerbitatem : nempe dolor es, quem podagricus ille contemnit, quem stomachicus ille in ipsis delicis perfert, quem in puerperio puella perpetitur. Levis es si ferre possum; brevis es si ferre non possum. Haec in animo voluta, quae saepe audisti, saepe dixisti; sed an vere audieris, an vere dixeris, effectu proba; hoc enim turpissimum est quod nobis obici solet, verba nos philosophiae, non opera tractare. Quid? tu nunc primum tibi mortem inminere scisti, nunc exilium, nunc dolorem ? in haec natus es; quidquid fieri potest quasi futurum cogitemus. 16 Quod facere te moneo scio certe fecisse: nunc admoneo ut animum tuum non mergas in istam sollicitudinem; hebetabitur enim et minus habebit vigoris cum exsurgendum erit. Abduc illum a privata causa ad publicam; die mortale tibi et fragile corpusculum esse, cui non ex iniuria tantum aut ex potentioribus viribus denuntiabitur dolor: ipsae voluptates in tormenta vertuntur, epulae cruditatem adferunt, ebrietates nervorum torporem tremoremque, libidines pedum,

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conto che in ogni avvenimento non c’è niente che debba far paura, se non la stessa paura. Capita anche a noi, grossi fanciulli, quello che capita ai fanciulli: essi si spaventano se vedono mascherati i loro stessi amici, con i quali hanno consuetudine di giochi e di vita. Bisogna togliere la maschera non solo alle persone, ma anche alle cose, e restituire loro il vero volto. Perché mi fai codesta mostra di spade, di fuochi e di una turba di carnefici che freme intorno a me? Togli via tutta questa pompa sotto la quale ti nascondi e atterrisci gli stolti: tu sei la morte, che pur ora un mio schiavo, ed anche una mia schiava, hanno saputo disprezzare. Perché mi metti ancora avanti agli occhi, con grande apparato, ι flagelli e i cavalletti? Perché mi presenti i singoli strumenti apprestati per torturare le articolazioni, e mille altri ordigni per scarnificare un uomo brano a brano? Depom tutti codesti spauracchi, fa’ tacere i gemiti, le grida, gli urli emessi fra le lacerazioni delle membra: tu sei quel dolore che il gottoso disprezza, che il sofferente di stomaco riesce a tollerare fra i piaceri della mensa, e la giovane donna durante il parto. Se ti posso sopportare, vuol dire che sei lieve; se no, sarai breve. Medita su tutte queste cose, che tanto spesso hai ascoltate e dette: ma devi provare coi fatti che le hai ascoltate e dette con sincerità. Infatti è una cosa vergo­ gnosa, e ci viene spesso rimproverata, che noi usiamo il linguaggio della filosofia, ma non la mettiamo in pratica. Hai forse saputo solo ora che ti minaccia la morte, l’esilio, il dolore? È la legge della tua esistenza: ogni cosa che può accadere, pensiamola come cosa che debba accadere. Ma so di certo che tu hai già seguito tali regole di condotta. Ora però t’invito a non immergerti in coteste preoccupazioni; il tuo spirito potrebbe intorpidirsi e avere minor vigore quando occorrerà che sia ben desto. Volgilo a considerazioni che superino il tuo caso partico­ lare. Pensa che tu hai un corpo fragile e misero, a cui non solo le offese e le violenze dei potenti apportano dolore; gli stessi piaceri si trasformano in tormenti per il corpo, i banchetti gli producono indigestione, l’ubria­ chezza dà torpori e tremiti ai suoi nervi, la dissolutezza 191

manuum, articulorum omnium depravationes. Pauper fiam: inter plures ero. Exul fiam: ibi me natum putabo quo mittar. Alligabor: quid enim ? nunc solutus sum ? ad hoc me natura grave corporis mei pondus adstrinxit. Moriar: hoc dicis, desinam aegrotare posse, desinam alligari posse, desinam mori posse. 18 Non sum tam ineptus ut Epicuream cantilenam hoc loco persequar et dicam vanos esse inferorum metus, nec Ixionem rota volvi nec saxum umeris Sisyphi trudi in adversum nec ullius viscera et renasci posse cotidie et carpi: nemo tam puer est ut Cerberum timeat et tenebras et larvalem habitum nudis ossibus cohaerentium. Mors aos aut consumit aut exuit; emissis meliora restant onere detracto, consumptis nihil 19 restai, bona pariter malaque summota sunt. Permitte mihi hoc loco referre versum tuum, si prius admonuero ut te iudices non aliis scripsisse ista sed etiam tibi. Turpe est aliud loqui, aliud sentire: quanto turpius aliud scribere, aliud sentire! Memini te illuni locum aliquando tractasse, non repente nos in mortem incidere sed minutatim procedere. 20 Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit. Infantiam amisimus, deinde pueritiam, deinde adulescentiam. Usque ad hesternum quidquid transit temporis perìt; hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus. Quemadmodum clepsydram non extremum stilicidium exhaurit sed quidquid ante defluxit, sic ultima hora qua esse desinimus non sola mortem facit sed sola consummat; tunc ad illam pervenimus, 21 sed diu venimus. Haec cum descripsisses quo soles ore, semper quidem magnus, numquam tamen acrior quam ubi veritati commodas verba, dixisti, 17

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può deformargli i piedi, le mani e tutte le articolazioni. Diverrò povero? Sarò con la maggioranza degli uomini. Andrò in esilio? Penserò di essere nato là, dove mi manderanno. Sarò messo in catene? E che? sono forse ora veramente libero? La natura mi ha già legato a questo grave peso del corpo. Morirò? Porrò così fine dirai tu - alla possibilità di cadere ammalato, di esser messo in catene, di morire. Non sono tanto sciocco da ripetere, punto per punto, la vecchia canzone degli epicurei sull’inesistenza di tutte le paurose fantasie d’oltretomba: né Issione è legato a una ruota in continuo movimento, né Sisifo spinge con le spalle un macigno verso il monte, né le viscere di alcuno possono ogni giorno essere strappate e rinascere. Nessuno è così fanciullo da temere Cerbero e le tenebre e le ombre dei morti prive di consistenza corporea. La morte o ci consuma, o ci spoglia: se siamo liberati dal peso del corpo, resta di noi la parte migliore; se, invece, la morte ci consuma, non resta più niente di noi: scom­ paiono ugualmente i beni e i mali. Permettimi ora di trascriverti un tuo verso; ma prima rammenta che tu l’hai scritto non solo per gli altri, ma anche per te. Non è onesto dire una cosa diversa da quella che si pensa, ma quanto sarebbe più disonesto scrivere una cosa e pensarne un’altra. Ricordo che tu una volta hai trattato quest’argomento, che, cioè, noi non incappiamo all’im­ provviso nella morte, ma ci avviamo a poco a poco verso di lei. Moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita; anche quando il nostro organismo cresce, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la gioventù. Tutto il tempo passato fino a ieri è morto per noi: questo stesso giorno che stiamo vivendo lo dividiamo con la morte. Come non vuota la clessidra l’ultima goccia, ma tutte quelle che sono già cadute, così l’ultima ora in cui cessiamo di esistere non produce, da sola, la morte, ma la compie; allora noi giungiamo al termine, ma da tempo vi siamo avviati. Dopo aver espresso questi concetti col linguaggio tuo consueto, sempre elevato, ma più efficace che mai nei punti in cui tu metti le tue parole al servizio della 193

mors non una venit, sed quae rapit ultima mors est.

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Malo te legas quam epistulam meam; apparebit enim tibi hanc quam timemus mortem extremam esse, non solam. Video quo spectes : quaeris quid huic epistulae infulserim, quod dictum alicuius animosum, quod praeceptum utile. Ex hac ipsa materia quae in manibus fuit mittetur aliquid. Obiurgat Epicurus non minus eos qui mortem concupiscunt quam eos qui timent, et ait : ‘ridiculum est currere ad mor­ tem taedio vitae, cum genere vitae ut currendum ad mortem esset effeceris’. Item alio loco dicit: ‘quid tam ridiculum quam adpetere mortem, cum vitam inquietam tibi feceris metu mortis ?’ His adicias et illud eiusdem notae licet, tantam hominum inprudentiam esse, immo dementiam, ut quidam timore mortis cogantur ad mortem. Quidquid horum tractaveris, confirmabis animum vel ad mortis vel ad vitae patientiam; [at] in utrumque enim monendi ac firmandi sumus, et ne nimis amemus vitam et ne nimis oderimus. Etiam cum ratio suadet finire se, non temere nec cum procursu capiendus est impetus. Vir fortis ac sapiens non fugere debet e vita sed exire; et ante omnia ille quoque vitetur adfectus qui multos occupavit, libido moriendi. Est enim, mi Lucili, ut ad alia, sic etiam ad moriendum inconsulta animi inclinatio, quae saepe generosos atque acerrimae indolis viros corripit, saepe ignavos iacentesque: illi contemnunt vitam, hi gravantur. Quosdam subit eadem faciendi videndique satietas et vitae non odium sed fastidium, in quod prolabimur ipsa inpellente philosophia, dum dicimus ‘quousque eadem? nempe expergiscar dormiam, (edam) esuriam, algebo aestuabo. Nullius rei finis est, sed in orbem nexa sunt omnia, fugiunt ac sequun-

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verità, hai detto: «Non viene una sola volta la morte; quella che ci rapisce è solo l’ultima morte». Preferirei che tu leggessi te stesso, piuttosto che la mia lettera: ti apparirà che questa morte che tanto temiamo è l’ultima, non la sola. , Vedo dove si volge la tua attenzione: tu cerchi se ho messo in questa lettera un detto coraggioso, o un precet­ to utile di qualche scrittore. Ti manderò un pensiero, sempre su questo argomento che abbiamo trattato. Epi­ curo biasima quelli che bramano la morte non meno di quelli che la temono, e dice: «E ridicolo che tu corra incontro alla morte per disgusto della vita, quando è il tuo genere di vita che ti fa correre incontro alla morte». Similmente dice in un altro punto: «Che c’è di più ridicolo che desiderare la morte, quando ti sei reso la vita affannosa per timore della morte?» Possiamo aggiungere a questi un pensiero analogo: la sciocchezza, anzi la follia umana, è così grande, che alcuni sono spinti alla morte proprio dal timore della morte. Medita su qualcuno di questi pensieri e il tuo animo sarà più forte nel tollerare sia la vita che la morte. Noi abbiamo bisogno di consigli e di incoraggiamenti per evitare i due eccessi: non dobbiamo né odiare, né amare troppo la vita. E anche quando la ragione ci consigliasse di por fine ai nostri giorni, non dobbiamo prendere una decisione precipitosa e sconsiderata. L’uomo forte e saggio non deve fuggire dalla vita, ma uscirne. Soprattutto eviti quella passione da cui molti si lasciano prendere, la brama di morire. Infatti, caro Lucilio, anche per la morte, come per altri oggetti, può nascere una sconside­ rata inclinazione, che spesso prende uomini d indole generosa e gagliarda, spesso uomini vili e fiacchi, gli uni disprezzano la vita, gli altri se ne sentono gravati. Alcuni sono presi dalla sazietà di fare e di vedere sempre le stesse cose, e, più che dall’odio, dal fastidio della vita. Possiamo scivolare in questo stato d’animo spinti dalla stessa filosofia, e allora ci diciamo: «Fino a quando sempre le stesse cose? svegliarsi e andare a dormire, mangiare ed aver fame, aver freddo e soffrire il caldo? Nessuna cosa finisce, ma tutte sono collegate in uno 195

tur; diem nox premit, dies noctem, aestas in autumnum desinit, autumno hiemps instai, quae vere conpescitur; omnia sic transeunt ut revertantur. .Nihil novi facio, nihil novi video: fit aliquando et huius rei nausia.’ M ulti sunt qui non acerbum iudicent vivere sed supervacuum. Vale.

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S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Quod ad duos amicos nostros pertinet, diversa via eundum est; alterius enim vitia emendanda, alterius frangenda sunt. Utar liberiate tota: non amo illuni nisi offendo. ‘Quid ergo ?’ inquis ‘quadragenarium pupillum cogitas sub tutela tua continere ? Respice aetatem eius iam duram et intractabilem : 2 non potest reformari; tenera finguntur.’ An profecturus sim nescio: malo successum mihi quam fidem deesse. Nec desperaveris etiam diutinos aegros posse sanari, si contra intemperantiam steteris, si multa invitos et facere coegeris et pati. Ne de altero quidem satis fiduciae habeo, excepto eo quod adhuc peccare erubescit; nutriendus est hic pudor, qui quamdiu in animo eius duraverit, aliquis erit bonae spei locus. Cum hoc veterano parcius agendum puto, ne in desperatio3 nem sui veniat; nec ullum tempus adgrediendi fuit melius quam hoc, dum interquiescit, dum emendato similis est. Aliis haec intermissio eius inposuit, mihi verba non dat : expecto cum magno fenore vitia reditura, quae nunc scio cessare, non deesse. Inpendam huic rei dies et utrum possit aliquid agi an non possit experiar. 4 Tu nobis te, ut facis, fortem praesta et sarcinas contrahe;

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stesso giro: si fuggono e si inseguono. Il giorno è cacciato dalla notte, la notte dal giorno; l’estate ha fine con l’autunno, questo è incalzato dall’inverno, che a sua volta è chiuso dalla primavera: così tutto passa per tornare. Non faccio né vedo mai niente di nuovo. Ad un certo punto, di tutto questo si prova la nausea». Per molti la vita non è una cosa penosa, ma inutile. Addio. LETTERA 2 5

Diversi modi di educazione Per quanto si riferisce ai nostri due amici, bisogna seguire vie diverse: occorre correggere i difetti del primo, spez­ zare l’abitudine viziosa del secondo. Parlerò con tutta franchezza: non amerei quest’ultimo, se non fossi rude con lui. «E che?» tu dirai «pensi di tenere sotto la tutela un pupillo di quarant’anni? Considera la sua età; la sua natura non più malleabile non può essere riformata; si possono plasmare solo le cose tenere.» Non so se ci riuscirò, ma preferisco che manchi il successo, piuttosto che venga meno il mio impegno verso l’amico. Né devi disperare della possibilità che ha un malato cronico di guarire, se sarai fermo contro le sue intemperanze, se lo costringerai a fare e a soffrire molte cose contro voglia. Quanto all’altro, neppure lui mi dà molta fiducia, salvo su un punto: arrossisce ancora dei suoi peccati. Bisogna alimentare questo senso di pudore; finché rimar­ rà nel suo animo, ci sarà qualche motivo di speranza. Col peccatore inveterato penso che bisogni agire con un certo tatto, perché non giunga a disperare di se stesso; e nessuna occasione per affrontarlo è migliore di quegli intervalli di quiete in cui si presenta simile a uno che s’è corretto. Certo, quest’intervallo che inganna gli altri non può trarre in inganno me. Mi aspetto che questi difetti tornino, con l’aggiunta dei frutti. Per ora sembrano scomparsi, ma so, purtroppo, che ci sono sempre. Dedi­ cherò qualche giorno a questo caso, e vedrò se si può o no fare qualcosa. Quanto a te, mostrati forte, come stai facendo, e riduci 197

nihil ex his quae habemus necessarium est. Ad legem naturae revertamur; divitiae paratae sunt. Aut gratuitum est quo egemus, aut vile: panem et aquam natura desiderai. Nemo ad haec pauper est, intra quae quisquis desiderium suum clusit cum ipso love de felicitate contendat, ut ait Epicurus, 5 cuius aliquam vocem huic epistulae involvam. ‘Sic fac’ inquit ‘omnia tamquam spectet Epicurus.’ Prodest sine dubio custodem sibi inposuisse et habere quem respicias, quem interesse cogitationibus tuis iudices. Hoc quidem longe magnificentius est, sic vivere tamquam sub alicuius boni viri ac semper praesentis oculis, sed ego etiam hoc contentus sum, ut sic facias quaecumque facies tamquam spectet aliquis: 6 omnia nobis mala solitudo persuadet. Cum iam profeceris tantum ut sit tibi etiam tui reverentia, licebit dimittas paedagogum : interim aliquorum te auctoritate custodi—aut Cato ille sit aut Scipio aut Laelius aut alius cuius interventu perditi quoque homines vitia supprimerent, dum te efficis eum cum quo peccare non audeas. Cum hoc effeceris et aliqua coeperit apud te tui esse dignatio, incipiam tibi permittere quod idem suadet Epicurus: ‘tunc praecipue in te ipse secede 7 cum esse cogeris in turba’. Dissimilem te fieri multis oportet, dum tibi tutum [non] sit ad te recedere. Circumspice singulos : nemo est cui non satius sit cum quolibet esse quam secum. ‘Tunc praecipue in te ipse secede cum esse cogeris in turba’—si bonus vir (es), si quietus, si temperans. Alioquin in turbam tibi a te recedendum est: istic malo viro propius es. Vale.

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i tuoi bagagli. Niente di ciò che abbiamo è strettamente necessario: torniamo, dunque, alla legge di natura. La ricchezza ci è a portata di mano: ciò di cui abbiamo bisogno o ci è largito gratis o a poco prezzo. La nostra natura non richiede che pane e acqua. Nessuno è povero di queste cose e chi contiene il suo desiderio entro questi limiti può competere in felicità con lo stesso Giove, come dice Epicuro. Di lui voglio inserire una massima anche in questa lettera. «Fa’ tutto» egli dice «come se Epicuro ti osservasse.» È utile, senza dubbio, imporsi un custode; avere qualcuno a cui possiamo rivolgersi e che sia testimone, in qualche modo, anche dei nostri pensieri. È più bello vivere come se si fosse alla continua presenza di un uomo virtuoso; ma io mi accontento che tu faccia tutto quello che devi fare come se fossi sotto lo sguardo di un uomo qualunque. Infatti la solitudine consiglia sempre il male. Quando avrai fatto già tale progresso, da avere un senso di riverenza anche per te, potrai licenziare il pedagogo. Nel frattempo, accetta la protezione di qualcuno, sia esso il grande Catone, o Scipione, o Lelio, o un’altra persona autorevole alla cui presenza anche uomini malvagi cercano di reprimere ι loro vizi, finché ti renderai tale che non oserai peccare neppure in tua presenza. Quando otterrai questo e comincerai ad avere stima di te stesso, potrò permetterti ciò che consiglia lo stesso Epicuro: «Quando sei costretto a stare in mezzo alla folla, specialmente allora raccogliti in te stesso». Occorre che tu divenga diverso dagli altri perché tu possa, senza rischio, ritirarti in te. Guardali uno per uno; non c’è nessuno che non preferisca stare con chiunque, piuttosto che con sé. «Quando sei costret­ to a stare in mezzo alla folla, specialmente allora racco­ gliti in te stesso.» Sì, se sei un uomo onesto, tranquillo, temperante. Altrimenti, dovrai ritirarti da te e immer­ gerti nella folla. Nella tua presente situazione sei piu vicino al disonesto. Addio.

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SENECA LV CILIO

LETTERA 2 6

SVO S A L V T E M

Modo dicebam tibi in conspectu esse me senectutis: iam vereor ne senectutem post me reliquerim. Aliud iam his annis, certe huic corpori, vocabulum convenit, quoniam quidem senectus lassae aetatis, non fractae nomen est: inter decrepitos 2 me numera et extrema tangentis. Gratias tamen mihi apud te ago: non sentio in animo aetatis iniuriam, cum sentiam in corpore. Tantum vitia et vitiorum ministeria senuerunt: viget animus et gaudet non multum sibi esse cum corpore; magnam partem oneris sui posuit. Exultat et mihi facit controversiam de senectute: hunc ait esse florem suum. Credamus illi: bono 3 suo utatur. Ire in cogitationem iubet et dispicere quid ex hac tranquillitate ac modestia morum sapientiae debeam, quid aetati, et diligenter excutere quae non possim facere, quae nolim, proinde habiturus atque si nolim quidquid non posse me gaudeo: quae enim querela est, quod incommodum, si 4 quidquid debebat desinere defecit ? ‘Incommodum summum est’ inquis ‘minui et deperire et, ut proprie dicam, liquescere. Non enim subito inpulsi ac prostrati sumus : carpimur, singuli dies aliquid subtrahunt viribus.’ Ecquis exitus est melior quam in finem suum natura solvente dilabi ? non quia aliquid mali ictus (est) et e vita repentinus excessus, sed quia lenis haec est via, subduci. Ego certe, velut adpropinquet experimentum et ille laturus sententiam de omnibus annis meis dies venerit, 5 ita me observo et adloquor : ‘nihil est’ inquam ‘adhuc quod aut rebus aut verbis exhibuimus; levia sunt ista et fallacia pignora animi multisque involuta lenociniis : quid profecerim morti crediturus sum. Non timide itaque componor ad illum diem quo remotis strophis ac fucis de me iudicaturus sum,

Ti giudicherà la morte

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Poco fa ti dicevo che ero in vista della vecchiaia1; ormai temo di essermela lasciata indietro. Infatti ormai ai miei anni e alle mie condizioni fisiche si adatta un’altra parola, poiché la vecchiaia indica un’età in cui si è stanchi, non stremati di forze. Devi annoverarmi tra i decrepiti, che sono sull’orlo della tomba. Tuttavia mi rallegro con me stesso: non sento nel mio spirito l’offesa degli anni, sebbene la senta nel corpo. Sono invecchiati solo i vizi e gli strumenti dei vizi. Ma Γanimo è vigoroso e gode di non aver molto in comune col corpo; ha deposto gran parte del peso corporeo. È baldanzoso e discute volentie­ ri con me sulla vecchiaia: dice che proprio ora egli fiorisce. Crediamogli e lasciamolo godere del suo bene. Esso mi invita a ragionare e a distinguere quanta parte di questa tranquillità e moderazione di costumi io debba alla saggezza, quanta all’età; e ad esaminare poi con cura quello che non posso e quello che non voglio fare. Mi compiaccio di considerare quello che non posso fare come se non lo volessi. Infatti, quale motivo di lamentarsi, o quale male può esserci, se tutto ciò che doveva cessare è venuto meno? «Ma è un gravissimo male» tu dirai «indebolirsi, deperire, o più esattamente rammollire, poiché non siamo colpiti e prostrati subito; ci consumiamo a poco a poco; ogni giorno sottrae qualco­ sa alle nostre forze.» E quale conclusione migliore che scivolare verso la propria fine per naturale dissolvimen­ to? Non che sia male lasciare improvvisamente la vita, ma è più lieve questo modo di andarsene poco alla volta. Io mi osservo attentamente, come se si avvicinasse la prova e fosse giunto quel giorno che dovrà giudicare tutta la mia vita, e dico a me stesso: «Tutto ciò che finora abbiamo fatto o detto non è nulla. Sono pegni dell’anima inconsistenti e fallaci, avvolti in artificiosi abbellimenti. Per conoscere i miei veri progressi mi affiderò alla morte. Perciò mi preparo senza timore a quel giorno in cui, tolti di mezzo raggiri e finzioni, potrò 1 Cfr. Lettera 12.

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utrum loquar fortia an sentiam, numquid simulatio fuerit et mimus quidquid contra fortunam iactavi verborum con6 tumacium. Remove existimationem hominum : dubia semper est et in partem utramque dividitur. Remove studia tota vita tractata : mors de te pronuntiatura est. Ita dico : disputationes et litterata colloquia et ex praeceptis sapientium verba collecta et eruditus sermo non ostendunt verum robur animi; est enim oratio etiam timidissimis audax. Quid egeris tunc apparebit cum animam ages. Accipio condicionem, non 7 reformido iudicium.’ Haec mecum loquor, sed tecum quoque me locutum puta. Iuvenior es : quid refert ? non dinumerantur anni. Incerium est quo loco te mors expectet; itaque tu illam omni loco expecta. 8 Desinere iam volebam et manus spectabat ad clausulam, sed conficienda sunt aera et huic epistulae viaticum dandum est. Puta me non dicere unde sumpturus sim mutuum: scis cuius arca utar. Expecta me pusillum, et de domo fiet numeratio; interim commodabit Epicurus, qui ait ‘meditare mortem’, vel si commodius sic transire ad nos hic potest 9 sensus: ‘egregia res est mortem condiscere’. Supervacuum forsitan putas id discere quod semel utendum est. Hoc est ipsum quare meditari debeamus : semper discendum est quod 10 an sciamus experiri non possumus. ‘Meditare mortem’ : qui hoc dicit meditari libertatem iubet. Qui mori didicit servire dedidicit; supra omnem potentiam est, certe extra omnem. Quid ad illum career et custodia et claustra ? liberum ostium habet. Una est catena quae nos alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus est, ut si quando res exiget, nihil nos detineat nec inpediat quominus parati simus quod quandoque faciendum est statim facere. Vale.

giudicare se la virtù è da me sentita nell’intimo, o se l’ho solo sulle labbra, e se tutte quelle parole superbe che ho scagliato contro la fortuna sono state solo falsità e commedia. Non tener conto dei giudizi umani: sono sempre incerti e ambivalenti. Metti da parte gli studi di cui ti sei occupato per tutta la vita: sarà la morte a pronunciarsi sul tuo conto. Lo ripeto: le dispute, i collo­ qui letterari, le belle parole raccolte dagli insegnamenti dei saggi e le conversazioni erudite non mostrano la vera forza dell’animo: anche i più vili sono audaci a parole. Apparirà ciò che hai fatto nella vita solo quando esalerai l’ultimo respiro. Accetto la condizione e non temo il giudizio». Quello che dico a me stesso prendilo come se l’avessi detto anche per te. Sei più giovane; ma che importa? La morte non tiene conto degli anni. Non sai in quale momento essa ti aspetti; perciò aspettala in ogni momento. . . . Stavo per concludere con i saluti; ma bisogna mettere insieme il denaro e versarlo come viatico per questa lettera: non occorre che ti dica dove prenderò il prestito, sai già a quale cassa attingo. Aspetta ancora un po e potrò pagarti con i miei beni: frattanto mi farà il prestito Epicuro. Egli dice: «Abituati al pensiero della morte», o, se questo senso si adatta meglio a noi, «egregia cosa è imparare a morire». Forse pensi che sia superfluo apprendere una cosa che càpita una volta sola. Proprio per questo dobbiamo pensarci: bisogna sempre imparare quella cosa che non possiamo prima provare, e che perciò non siamo certi di conoscere bene. «Abituati a pensare alla morte.» Chi dice questo invita a pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire: è al disopra e, in ogni caso, al di fuori di ogni umana potenza. Che sono per lui carcere, guardiani, catenacci? Egli ha sempre l’uscita libera. Una sola è la catena che ci avvince: l’amore alla vita. Non dobbiamo reprimerlo, ma temperarlo in modo che, quando le circostanze lo richiedessero, nulla ci impedisca d essere pronti a far subito ciò che, prima o poi, bisogna fare. Addio. 203

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SVO S A L V T E M

‘Tu me’ inquis ‘mones ? iam enim te ipse monuisti, iam correxisti? ideo aliorum emendationi vacasi’ Non sum tam inprobus ut curationes aeger obeam, sed, tamquam in eodem valetudinario iaceam, de communi tecum malo conloquor et remedia communico. Sic itaque me audi tamquam mecum loquar; in secretum te meum admitto et te adhibito mecum exigo. Clamo mihi ipse, ‘numera annos tuos, et pudebit eadem velie quae volueras puer, eadem parare. Hoc denique tibi circa mortis diem praesta : moriantur ante te vitia. Dimitte istas voluptates turbidas, magno luendas : non venturae tan­ tum sed praeteritae nocent. Quemadmodum sedera etiam si non sunt deprehensa cum fierent, sollicitudo non cum ipsis abit, ita inprobarum voluptatum etiam post ipsas paenitentia est. Non sunt solidae, non sunt fideles; etiam si non nocent, fugiunt. Aliquod potius bonum mansurum circumspice; nullum autem est nisi quod animus ex se sibi inverni. Sola virtus praestat gaudium perpetuum, securum; etiam si quid obstat, nubium modo intervenit, quae infra feruntur nec umquam diem vincunt.’ Quando ad hoc gaudium pervenire continget ? non quidem cessatur adhuc, sed festinetur. Multum restai operis, in quod ipse necesse est vigiliam, ipse laborem tuum inpendas, si effici cupis; delegationem res ista non recipit. Aliud litterarum genus adiutorium admittit. Calvisius Sabinus memoria nostra fuit dives; et patrimonium habebat libertini et ingenium; numquam vidi hominem beatum indecentius. Huic memoria tam mala erat ut illi nomen modo Ulixis excideret, modo Achillis, modo Priami, quos tam bene noverai quam paedagogos nostros novimus.

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LETTERA 2 7

La virtù è fonte di felicità «Perché mi dai consigli?» chiederai. «Forse li avrai già dati a te stesso, ti sei corretto, e perciò hai tempo per correggere gli altri.» Non sono così disonesto da pretendere di curare gli altri, essendo io stesso malato; ma, come se stessimo in un unico ospedale, parlo con te della comune malattia e metto in comune le medicine. Perciò ascoltami come se io parlassi a me stesso; ti ammetto nel mio segreto e mi esamino in tua presenza. Grido a me stesso: «Considera il tuo passato e ti vergo­ gnerai di volere e cercare ancora le stesse cose che volevi e cercavi da fanciullo. Ora, avvicinandosi l’ultimo tuo giorno, cerca almeno di conseguire questo fine: i tuoi vizi muoiano prima di te. Lascia codesti torbidi piaceri, che dovrai pagare a caro prezzo. Non nuocciono solo quando si è in attesa di soddisfarli, ma anche quando sono passati. Come resta il rimorso dopo un delitto, anche se non si è colti sul fatto, così anche dopo i cattivi piaceri rimane il turbamento prodotto da essi. Non sono duraturi né sicuri; anche se non nuocciono, sono fuggevoli. Piuttosto cerca intorno a te qualche bene che possa durare; i beni che l’animo non trova in se stesso sono inconsistenti. Solo la virtù procura una gioia sicura e costante; anche se c’è qualche difficoltà, questa agisce come una nube che si frappone alla luce del giorno, ma non la vince.» Quando potremo giungere a questa gioia? Noi non ci riposiamo ancora, ma dobbiamo affrettarci. Resta ancora molto lavoro a cui tu, di persona, devi dedicare le tue veglie, le tue fatiche, se desideri che sia portato a compimento. A differenza di altri generi di lavoro, questo non ammette deleghe o aiuti. Viveva, ai miei tempi, Calvisio Sabino, un ricco che aveva il patrimonio e l’indole dello schiavo affrancato. Non ho mai visto un uomo più sfacciatamente felice. Aveva una memoria così cattiva che dimenticava ora il nome di Ulisse, ora di Achille, ora di Priamo: personaggi che tutti conoscono come il volto del proprio pedagogo. 205

Nemo vetulus nomenclator, qui nomina non reddit sed inponit, tam perperam tribus quam ille Troianos et Achivos 6 persalutabat. Nihilominus eruditus volebat videri. Hanc itaque compendiariam excogitavit: magna summa emit servos, unum qui Homerum teneret, alterum qui Hesiodum; novem praeterea lyricis singulos adsignavit. Magno emisse illum non est quod mireris : non invenerat, faciendos locavit. Postquam haec familia illi comparata est, coepit convivas suos inquietare. Habebat ad pedes hos, a quibus subinde cum peteret versus quos referret, saepe in medio verbo excidebat. 7 Suasit illi Satellius Quadratus, stultorum divitum adrosor et, quod sequitur, adrisor, et, quod duobus his adiunctum est, derisor, ut grammaticos haberet analectas. Cum dixisset Sabinus centenis millibus sibi constare singulos servos, ‘minoris’ inquit ‘totidem scrinia emisses’. Ille tamen in ea opinione erat ut putaret se scire quod quisquam in domo sua sciret. 8 Idem Satellius illum hortari coepit ut luctaretur, hominem aegrum, pallidum, gracilem. Cum Sabinus respondisset, ‘et quomodo possum ? vix vivo’, ‘noli, obsecro te’ inquit ‘istuc dicere: non vides quam multos servos valentissimos habeas?’ Bona mens nec commodatur nec emitur; et puto, si venalis esset, non haberet emptorem: at mala cotidie emitur. 9 Sed accipe iam quod debeo et vale. ‘Divitiae sunt ad legem naturae composita paupertas.’ Hoc saepe dicit Epicurus aliter atque aliter, sed numquam nimis dicitur quod num-

Nessun rimbambito di nomenclatore1 che, anziché indi­ care i nomi esatti, li inventi, ha fatto tanta confusione di nomi nel salutare i cittadini, come faceva lui con i Troiani e gli Achivi. Tuttavia voleva sembrare erudito. Perciò ricorse a questo espediente: si procurò con molta spesa degli schiavi. Uno doveva tenere a mente Omero, l’altro Esiodo; inoltre assegnò uno schiavo a ciascuno dei nove lirici2. Non c’è da meravigliarsi che gli fossero costati molto: non era riuscito a trovarli già preparati e aveva dovuto farli istruire. Dopo che si fu procurato tale servitù incominciò a infastidire i suoi convitati. Teneva ai suoi piedi questi schiavi, ai quali chiedeva che gli suggerissero i versi, ma spesso, nel ripeterli, si fermava a metà di una parola. Satellio Quadrato, parassita del ricco imbecille, e, come logica conseguenza, anche adu­ latore e beffeggiatore, lo consigliò di assumere dei lette­ rati per il servizio della mensa. Avendogli Sabino confi­ dato che ognuno di costoro gli costava centomila sesterzi, «A minor prezzo» disse «avresti potuto acquistare altret­ tanti scaffali di libri». Tuttavia era convinto di sapere lui tutto quanto in casa sua ognuno sapeva. Lo stesso Satellio cominciò anche a consigliargli, a lui malaticcio, pallido e gracile, di esercitarsi nella lotta. «Ma come potrei?» rispose Sabino. «Sto in piedi per miracolo!» «Non dire così, te ne prego» replicò Satellio; «non vedi quanti servi robusti hai?» La virtù e la saggezza non si possono né prendere in prestito, né comprare, ma scommetto che, se fossero in vendita, non troverebbero il compratore, mentre giornalmente si spende tanto per i vizi. . Ma eccoti ora la tassa che ti debbo, e addio! «Vera ricchezza è una povertà regolata secondo la legge della natura.» È ciò che dice spesso Epicuro, ora in una forma, ora in un’altra. Ma non si ripeterà mai abbastanza ciò che non s’impara mai abbastanza. A qualcuno basta 1 Schiavo che accompagnava il padrone per indicargli il nome delle persone che incontrava. . 2 Secondo i grammatici alessandrini i principali lirici della poesia greca erano nove: Alcmane, Alceo, Ibico, Stesicoro, Anacreonte, Saffo, Simonide, Bacchilide e Pindaro.

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quam satis discitur; quisbusdam remedia monstranda, quibusdam inculcanda sunt. Vale.

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presentare la mediana; altri, invece, hanno bisogno di essere imboccali. .Addio. LETTERA 28

S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licei, ut ait Vergilius noster, terraeque urbesque recedant,

2 sequentur te quocumque perveneris vitia. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, ‘quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas ? premit te eadem causa quae expulit’. Quid terrarum iuvare novitas potest ? quid cognitio urbium aut locorum ? in inritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis. Onus animi 3 deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. Talem nunc esse habitum tuum cogita qualem Vergilius noster vatis inducit iam concitatae et instigatae multumque habentis in se spiritus non sui: bacchatur vates, magnum si pectore possit excussisse deum. Vadis huc illue ut excutias insidens pondus quod ipsa iactatione incommodius fìt, sicut in navi onera inmota minus urgent, inaequaliter convoluta citius eam partem in quam incubuere demergunt. Quidquid facis, contra te facis et motu 4 ipso noces tibi; aegrum enim concutis. At cum istuc exemeris malum, omnis mutatio loci iucunda fiet; in ultimas expellaris terras licebit, in quolibet barbarne angulo conloceris, ho-12

È l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi Tu credi che sia capitato solo a te, e ti meravigli come di un fatto strano di non esser riuscito a liberarti della tristezza e della noia, malgrado i lunghi viaggi e la varietà dei luoghi visitati. Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi. Anche se attraversi il vasto oceano; anche se, come dice il nostro Virgilio, «ti lasci dietro terre e città»1, dovunque andrai ti seguiranno i tuoi vizi. Disse Socrate ad uno che si lamentava per lo stesso motivo; «Perché ti meravigli che non ti giovino i viaggi? Tu porti in ogni luogo te stesso; t’incalza cioè sempre lo stesso male che t’ha spinto fuori». Che giovamento può darti la varietà dei paesaggi o la conoscenza di città e luoghi nuovi? Tale sballottamento non serve a nulla. Chiedi perché tu non trovi sollievo nella fuga? Perché tu fuggi sempre in compagnia di te stesso. Nessun luogo ti piacerà finché non avrai abbandonato il peso che hai nell’animo. Pensa che il tuo stato corrisponde a quello che il nostro Virgilio attribuisce alla profetessa invasata dal nume1, traboccante di un’ispirazione che non procede da lei: «La profetessa si dibatte furiosa, nello sforzo di scuotere da sé l’azione del dio». Tu corri qua e là per cacciare via il peso che ti opprime e che diventa più gravoso col tuo stesso agitarti. Similmente sulla nave il carico esercita minore pressione se è ben fissato, mentre, se si sposta disordinatamente, fa sommergere il fianco su cui viene a gravare. Qualunque cosa tu faccia, la fai a tuo danno; e con lo stesso movimento ti danneggi, perché scuoti un ammalato. Ma quando tu riuscissi ad estirpare codesto male, ogni cambiamento di luogo ti sarà piacevole. Potrai anche essere cacciato nelle terre più lontane e più barbare: ogni luogo, qualunque esso sia, sarà per te 1 E n eid e, III, 72. 2 E n eid e, V I, 78-79.

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spitalis tibi illa qualiscumque sedes erit. Magis quis veneris quam quo interest, et ideo nulli loco addicere debemus animum. Cum hac persuasione vivendum est: ‘non sum uni 5 angulo natus, patria mea totus hic mundus est’. Quod si liqueret tibi, non admirareris nil adiuvari te regionum varietatibus in quas subinde priorum taedio migras; prima enim quaeque placuisset si omnem tuam crederes. Nunc (non) peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum 6 illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum sit. Num quid tam turbidum fieri potest quam forum ? ibi quoque licet quiete vivere, si necesse sit. Sed si liceat disponere se, conspectum quoque et viciniam fori procul fugiam; nam ut loca gravia etiam firmissimam valetudinem temptant, ita bonae quoque menti necdum adhuc perfectae et convalescenti 7 sunt aliqua parum salubria. Dissentio ab his qui in fluctus medios eunt et tumultuosam probantes vitam cotidie cum difficultatibus rerum magno animo conluctantur. Sapiens feret ista, non eliget, et malet in pace esse quam in pugna ; non multum prodest vitia sua proiecisse, si cum alienis rixan8 dum est. ‘Triginta’ inquit ‘tyranni Socraten circumsteterunt nec potuerunt animum eius infringere.’ Quid interest quot domini sint ? servitus una est; hanc qui contempsit in quantalibet turba dominantium liber est. 9 Tempus est desinere, sed si prius portorium solvero. ‘Initium est salutis notitia peccati.’ Egregie mihi hoc dixisse videtur Epicurus ; nam qui peccare se nescit corrigi non vult ; 10 deprehendas te oportet antequam emendes. Quidam vitiis gloriantur : tu existimas aliquid de remedio cogitare qui mala sua virtutum loco numerant ? Ideo quantum potes te ipse coargue, inquire in te; accusatoris primum partibus fungere,

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ospitale. L’importante è sapere con quale spirito arrivi, non dove arrivi; perciò non dobbiamo legare 1 animo a nessun luogo. Bisogna vivere con questa persuasione: «Non sono nato per attaccarmi a un posto. La mia patria è l’universo intero». Se la cosa fosse chiara alla tua mente, non ti meraviglieresti che non ci dia giovamento la varietà delle regioni in cui ti sposti, sempre annoiato delle precedenti. Ti sarebbe piaciuta la prima in cui fossi capitato, se ogni regione la considerassi tua. Ora tu non viaggi, ma vai errando e sei spinto a passare da un luogo a un altro, mentre quello che cerchi, la felicità, si trova in ogni luogo. Qual luogo può esser più turbolento del foro? Eppure anche lì si può trovare il modo di vivere tranquilli. Ma se mi fosse consentito di disporre di me liberamente, fuggirei lontano anche dalla vista e dalle vicinanze del foro. Come i luoghi malsani minacciano anche la salute più solida, così anche per un animo buono, ma non ancora maturo e saldo, alcuni posti sono poco salubri. Non approvo coloro che si gettano in mezzo ai flutti e preferiscono una vita tumultuosa, e perciò lottano coraggiosamente con le difficoltà di ogni giorno. Il saggio le saprà tollerare, ma non le cercherà, e vorrà vivere in pace piuttosto che nei contrasti. Non giova molto essersi liberato dai propri vizi, se bisogna poi combattere con quelli degli altri. Tu dirai: «Trenta tiranni vissero intorno a Socrate, ma non riuscirono a fiaccarne l’animo». Che conta quanti siano i tiranni? La schiavitù è una e chi l’ha disprezzata è libero, qualunque sia il numero dei padroni. Devo ormai concludere, ma non senza aver pagato la mia tassa. «La conoscenza dei propri difetti è 1 inizio della guarigione.» Mi sembra che questo motto di Epicu­ ro sia molto giusto. Chi non sa di peccare non può correggersi. Prima di emendarsi, occorre essersi accorti del fallo. Alcuni si gloriano dei vizi; ma, se li annoverano fra le virtù, come possono pensare alla guarigione. Perciò, per quanto puoi, accùsati da te, esamina le tue colpe. Prima esercita la funzione di accusatore, poi quella di giudice; e in ultimo quella di avvocato difenso211

deinde iudicis, novissime deprecatoris; aliquando te offende. Vale.

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SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

De Marcellino nostro quaeris et vis scire quid agat. Raro ad nos venit, non ulla alia ex causa quam quod audire verum timet, a quo periculo iam abest; nulli enim nisi audituro dicendum est. Ideo de Diogene nec minus de aliis Cynicis qui liberiate promiscua usi sunt et obvios (quosque) monuerunt dubitari solet an hoc facere debuerint. Quid enim, si quis surdos obiurget aut natura morbove mutos? ‘Quare’ inquis ‘verbis parcam ? gratuita sunt. Non possum scire an ei profuturus sim quem admoneo: illud scio, alicui me profuturum, si multos admonuero. Spargenda manus est: non potest fieri ut non aliquando succedat multa temptanti.’ Hòc, mi Lucili, non existimo magno viro faciendum: diluitur eius auctoritas nec habet apud eos satis ponderis quos posset minus obsolefacta corrigere. Sagittarius non aliquando ferire debet, sed aliquando deerrare; non est ars quae ad effectum casu venit. Sapientia ars est: certum petat, eligat profecturos, ab iis quos desperavit recedat, non tamen cito relinquat et in ipsa desperatione extrema remedia temptet. Marcellinum nostrum ego nondum despero; etiamnunc servari potest, sed si cito illi manus porrigitur. Est quidem periculum ne porrigentem trahat; magna in ilio ingeni vis est, sed iam tendentis in pravum. Nihilominus adibo hoc periculum et audebo illi mala sua ostendere. Faciet quod solet :

re. All’occorrenza, sappi anche infliggerti una condanna. Addio. LETTERA 29

Bisogna consigliare a tempo utile Mi chiedi notizie del nostro Marcellino1 e vuoi sapere che fa. Viene raramente da me, per il semplice motivo che teme di sentirsi dire la verità. Ma per lui non c’è questo pericolo: la verità bisogna dirla solo a chi è disposto ad intenderla. Perciò è lecito dubitare se abbia­ no fatto bene Diogene e gli altri cinici, i quali con eccessiva franchezza davano consigli indistintamente a tutti quelli che incontravano. Che utilità c’è a rimprove­ rare i sordi o i muti per natura o per malattia? «E perché dovrei risparmiare le parole?» dirai. «Esse non costano niente. Non posso sapere se sarò utile a colui a cui dò un consiglio; ma so che, se darò consigli a molti, a qualcuno finirò per giovare. Porgiamo sempre la mano: è impossibile che tanti tentativi, prima o poi non abbiano successo.» Non penso, caro Lucilio, che il saggio debba agire così. Egli ci perde di autorità e non avrà più abbastanza prestigio presso coloro che avrebbe potuto correggere se non si fosse avvilito. L’arciere non deve colpire nel segno solo qualche volta; solo qualche volta egli può sbagliare il colpo. Non è un’arte quella che ottiene risultati solo casuali. La saggezza è un’arte: abbia perciò mete ben definite; scelga coloro che ne potranno trarre profitto; si ritiri da quelli di cui dispera, ma non li abbandoni troppo presto, e anche in questi casi disperati tenti gli estremi rimedi. Io non dispero ancora del nostro Marcellino: può ancora salvarsi, ma se gli si porge subito la mano. C’è, invero, per chi gliela porge, il pericolo di essere trascinato nella caduta. Ha ingegno vivace, ma s’è già avviato sulla china del male. Tuttavia affronterò questo pericolo, e avrò il coraggio di mostrargli i suoi mali. Farà come il solito: chiamerà in suo aiuto quelle sue 1 Tullio Marcellino. (Cfr. Repertorio dei nomi).

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advocabit illas facetias quae risum evocare lugentibus possunt, et in se primum, deinde in nos iocabitur; omnia quae dicturus sum occupabit. Scrutabitur scholas nostras et obiciet phikw 6 sophis congiaria, amicas, gulam; ostendet mihi alium in adulterio, alium in popina, alium in aula; ostendet mihi lepidum philosophum Aristonem, qui in gestatione disserebat— hoc enim ad edendas operas tempus exceperat. D e cuius secta cum quaereretur, Scaurus ait ‘ utique Peripateticus non est’ . De eodem cum consuleretur Iulius Graecinus, vir egregius, quid sentiret, ‘non possum’ inquit ‘ tibi dicere ; nescio enim quid de gradu faciat’, tamquam de essedario interroga7 retur. Hos mihi circulatores qui philosophiam honestius neglexissent quam vendunt in faciem ingeret. Constitui tamen contumelias perpeti: moveat ille mihi risum, ego fortasse illi lacrimas movebo, aut si ridere perseverabit, gaudebo tamquam in malis quod illi genus insaniae hilare contigerit. Sed non est ista hilaritas longa: observa, videbis eosdem intra exiguum tempus acerrime ridere et acerrime 8 rabere. Propositum est adgredi illum et ostendere quanto pluris fuerit cum multis minoris videretur. Vitia eius etiam si non excidero, inhibebo; non desinent, sed intermittent; fortasse autem et desinent, si intermittendi consuetudinem fecerint. Non est hoc ipsum fastidiendum, quoniam quidem graviter adfectis sanitatis loco est bona remissio. 9 Dum me illi paro, tu interim, qui potes, qui intellegis unde quo evaseris et ex eo suspicaris quousque sis evasurus, com­ pone mores tuos, attolle animum, adversus formidata consiste; numerare eos noli qui tibi metum faciunt. Nonne videatur

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facezie che riescono a suscitare il riso anche in eh piange, e si prenderà gioco prima di se st®®s0’ P01J* noi. Dirà in anticipo, a modo suo, tutto quello che; saro per dirgli. Andrà rovistando nel comportamento dei nostri filosofi, per rinfacciare loro ι doni ricevuti e donne, i piaceri della gola. Uno me lo sorprenderà in adulterio, un altro nella taverna, un terzo al servizio di un potente. Mi mostrerà Arisione, quel simpatico filoso­ fo che professava la filosofia andando in carrozza; aveva, infatti, scelto l’ora del passeggio per svolere il suo mestiere. A chi chiedeva di quale setta fosse Scauro rispose: «In ogni caso non è un peripatetico». Sullo stesso filosofo fu chiesto il parere di Giulio Grecino, uomo insigne. Egli rispose: «Non saprei dire’ no" . visto infatti, come si regga sulle gambe», come se s trattasse di un gladiatore. Il nostro Marcellino mi mette­ rà davanti tali ciarlatani, che sarebbero stati piu onesti se si fossero tenuti lontani da quella filosofia di cui fann mercato. Tuttavia ho deciso di sopportare le m g^ne. Cerchi pure di muovermi al riso; io forse lo faro PiaaS ' re Se, al contrario, continuerà a ridere, mi rallegrerò per quanto è consentito rallegrarsi dei mali, pensando qgli è capitata una forma piacevole d, p e i j * codesta sua contentezza non Sara lunga: osserva atteni mente e vedrai che le stesse persone passano in brevissi­ mo tempo dal riso smodato alla rabbia piu violenta. Ho intenzione di avvicinarlo e di mostrargli come egli varrebbe di più se valesse di meno nella stoma d®Pa f°llaSe non riuscirò a stroncarne i vizi, oercherod.frenarln Non verranno meno, ma avranno periodi di stasi e forse alla fine cesseranno, se queste interruzioni diventeranno una abitudine. Sarebbe un risultato non disprezzabile perché per gli ammalati gravi una stasi del male e quasi una guarigione. . . . Mentre io mi preparo ad occuparmi di lui, tu, che comprendi da quale situazione sei uscito e perciò puoi prevedere a quale traguardo speri di giungere, nordina la tua vita, solleva lo spirito, e sta ben fermo contro ogni paura: non devi considerare quanti sono fi^elli che vorrebbero incuterti terrore. Non ti sembrerebbe stolto

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stultus, si quis multitudinem eo loco timeat per quem transitus singulis est ? aeque ad tuam mortem multis aditus non est, licet illam multi minentur. Sic istuc natura disposuit: spiritum tibi tam unus eripiet quam unus dedit. 10 Si pudorem haberes, ultimam mihi pensionem remisisses; sed ne ego quidem me sordide geram in finem aeris alieni et tibi quod debeo inpingam. ‘Numquam volui populo piacere; nam quae ego scio non probat populus, quae probat populus 11 ego nescio.’ ‘Quis hoc ?’ inquis, tamquam nescias cui imperem. Epicurus; sed idem hoc omnes tibi ex omni domo conclamabunt, Peripatetici, Academici, Stoici, Cynici. Quis enim piacere populo potest cui placet virtus? malis'artibus popularis favor quaeritur. Similem te illis facies oportet : non probabunt nisi agnoverint. M ulto autem ad rem magis pertinet qualis tibi videaris quam aliis; conciliari nisi turpi ratione 12 amor turpium non potest. Quid ergo illa laudata et omnibus praeferenda artibus rebusque philosophia praestabit ? scilicet ut malis tibi piacere quam populo, ut aestimes iudicia, non numeres, ut sine metu deorum hominumque vivas, ut aut vincas mala autfinias. Ceterum, si te videro celebrem secundis vocibus vulgi, si intrante te clamor et plausus, pantomimica ornamenta, obstrepuerint, si tota civitate te feminae puerique laudaverint, quidni ego tui miserear, cum sciam quae via ad istum favorem ferat ? Vale.

chi temesse molte persone in un posto dove non possono passare che una alla volta? Similmente, se sono in molti a minacciarti la morte, non possono essere molti a darti il colpo mortale. Così ha disposto la natura: uno solo potrà toglierti la vita, come è stato uno solo a dartela. Se tu avessi un po’ di riguardo, mi avresti dispensato dall’ultimo versamento; ma neppure io voglio fare il tirchio nel pagare la rata finale2, perciò ti invierò quanto ti debbo. «Non ho mai cercato di piacere alla folla, poiché la folla non gradisce ciò che so, né io so ciò che la folla gradisce.» «Chi ha detto questo?» chiederai; come se ti fosse ignota la persona a cui ordino di pagare: Epicuro. La stessa cosa ti diranno a gran voce tutti i filosofi di ogni scuola, peripatetici, accademici, stoici, cinici. Come, infatti, può piacere alla folla chi ama la virtù? Per acquistare il favore della folla si richiedono mezzi disonesti. Devi farti simile ad essa. Non ti approve­ rà se non ti riconoscerà uno dei suoi. Ma è molto più importante della stima altrui quella che tu hai di te stesso; l’amore dei disonesti può ottenersi solo con mezzi disonesti. Che vantaggio, dunque, ti darà quella filosofia tanto lodata e preferita a tutte le arti e a tutti i beni terreni? Ti insegnerà ad anteporre la tua stima a quella che di te ha la gente; a considerare i giudizi nel loro valore e non nel loro numero; a vivere senza paura degli dèi e degli uomini; a vincere i tuoi mali, o a porre loro un termine. D ’altra parte, se ti vedrò celebre per favore popolare, se al tuo ingresso si sentirà lo strepito e il plauso e simili onoranze da pantomimi, se per tutta la città ti loderanno donne e bambini, perché non dovrei provare un senso di compassione per te, sapendo quale via porti a tale popolarità? Addio.

2 Seneca vuol dire che questa è l’ultima lettera che si conclude con la citazione di una massima edificante. Tale cambiamento di metodo sarà spiegato nella Lettera 33.

LIBRO QUARTO

LIBER QVARTVS

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SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

Bassum Aufidium, virum optimum, vidi quassum, aetati obluctantem. Sed iam plus illum degravat quam quod possit attolli; magno senectus et universo pondere incubuit. Scis illum semper infirmi corporis et exsucti fuisse; diu illud continuit et, ut verius dicam, concinnavit: subito defecit. 2 Quemadmodum in nave quae sentinam trahit uni rimae aut alteri obsistitur, ubi plurimis locis laxari coepit et cedere, succurri non potest navigio dehiscenti, ita in senili corpore aliquatenus inbecillitas sustineri et fulciri potest. U bi tamquam in putrì aedificio omnis iunctura diducitur, et dum alia excipitur, alia discinditur, circumspiciendum est quomodo 3 exeas. Bassus tamen noster alacer animo est : hoc philosophia praestat, in conspectu mortis hilarem (esse) et in quocumque corporis habitu fortem laetumque nec deficientem quamvis deficiatur. .Magnus gubernator et scisso navigai velo et, si exarmavit, tamen reliquias navigli aptat ad cursum. Hoc facit Bassus noster et eo animo vultuque finem suum spectat quo 4 alienum spedare nimis securi putares. Magna res est, Lucili,

Come Aufidio Basso si prepara alla morte Ho visto Aufidio Basso1, un uomo veramente saggio; è malandato e lotta con l’età, ma ormai questa grava troppo su di lui perché egli possa riaversi. La vecchiaia gli è addosso con tutto il suo gran peso. Tu sai come egli sia sempre stato di corpo gracile e magro; l’ha tenuto insieme, o meglio l’ha raggiustato, per quanto ha potuto, d’un tratto è crollato. In una nave che fa acqua si cerca di riparare ora l’una ora l’altra falla. Ma quando comincia a cedere in più parti, non è più possibile porre riparo e impedire che lo scafo si sfasci. Così la debolezza di un corpo senile può essere sostenuta e puntellata fino a un certo punto; quando, come in un edificio cadente, cede ogni giuntura, e mentre una viene aggiustata un al­ tra si stacca, non resta che cercare il modo di uscirne fuori. Tuttavia il nostro Basso è di spirito vivace. La filosofia dà questo vantaggio: l’animo si mantiene sereno anche al cospetto della morte, e qualunque sia la condi­ zione del corpo, è forte, lieto e non si lascia fiaccare, anche se si fiaccano le forze fisiche. Un pilota di valore continua a navigare anche con la vela a brandelli; e, se ha perduto il sartiame, riesce a mantenere la rotta anche con la carcassa della nave. Questo fa il nostro Basso e guarda la sua fine con l’animo e il volto più sereni che se assistesse alla fine di un altro. È cosa grande, o 1 Cfr. Repertorio dei nomi.

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haec et diu discenda, cum adventat hora illa inevitabilis, aequo animo abire. Alia genera mortis spei mixta sunt: desinit morbus, incendium extinguitur, ruinà quos videbatur oppressura deposuit; mare quos hauserat eadem vi qua sorbebat eiecit incolumes; gladium miles ab ipsa perituri cervice re­ v o ca vi : nil habet quod speret quem senectus ducit ad mortem; huic uni intercedi non potest. Nullo genere homines mollius moriuntur sed nec diutius. Bassus noster videbatur mihi prosequi se et componere et vivere tamquam superstes sibi et sapienter ferre desiderium sui. Nam de morte multa loquitur et id agit sedulo ut nobis persuadeat, si quid incommodi aut metus in hoc negotio est, morientis vitium esse, non mortis; non magis in ipsa quicquam esse molestiae quam post ipsam. Tarn demens autem est qui timet quod non est passurus quam qui timet quod non est sensurus. An quisquam hoc futurum credit, ut per quam nihil sentiatur, ea sentiatur? ‘Ergo’ inquit ‘ mors adeo extra omne malum est ut sit extra omnem malorum metum.’ Haec ego scio et saepe dieta et saepe dicenda, sed neque cum legerem aeque mihi profuerunt neque cum audirem iis dicentibus qui negabant timenda a quorum metu aberant: hic vero plurimum apud me auctoritatis habuit, cum loqueretur de morte vicina. Dicam enim quid sentiam: puto fortiorem esse eum qui in ipsa morte est quam qui circa mortem. Mors enim admota etiam inperitis animum dedit non vitandi inevitabilia; sic gladiator tota pugna timidissimus iugulum adversario praestat et errantem gladium sibi adtemperat. A t illa quae in pro­ pinquo est utique ventura desiderai lentam animi firmitatem, quae est rarior nec potest nisi a sapiente praestari. Liben-

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Lucilio, e degna di essere appresa con lungo studio, l’andarsene serenamente quando s’avvicina quell’ora inevitabile. Altri pericoli di morte lasciano qualche spe­ ranza: si può guarire di una malattia e si può spegnere un incendio; è capitato che un edificio, crollando, lascias­ se illesi coloro su cui si era abbattuto; o il mare gettasse incolumi sulla riva i naufraghi, con la stessa violenza con cui li aveva inghiottiti; o il soldato ritraesse il pugnale dal capo di colui che stava per uccidere. Nessuna speran­ za resta per chi va verso la morte per vecchiaia: solo di fronte a questo genere di morte non c’è riparo. Certo, nessuna morte è più blanda, ma neppure più lenta a venire. Il nostro Basso mi ha dato l’impressione di uno che, dopo aver compiuto l’accompagnamento funebre e il seppellimento del proprio cadavere, sopravviva a se stesso, sopportando con saggezza il proprio lutto. Parla molto della morte e si adopera con ogni premura per convincerci che, se c’è qualcosa di temibile e di spiacevo­ le in quest’affare, la colpa è di chi muore, non della morte. In essa, come dopo di essa, non c’è nessuna sofferenza. È un demente chi teme ciò di cui neppure si accorgerà. O forse qualcuno crede che si possa sentire quel momento attraverso il quale si passa alla completa insensibilità? «Dunque» conclude «la morte è così fuori da ogni male da escludere ogni timore di mali ulteriori.» Io so che queste cose sono state e saranno ripetute spesso, ma, leggendole o ascoltandole da quelli che non sentivano approssimarsi il pericolo della morte, non mi avevano mai recato tanto giovamento. Basso, invece, ha acquistato su di me una grandissima autorità, perché parlava della sua morte vicina. A mio avviso, si è più coraggiosi quando si è proprio in punto di morte che quando essa è vicina. Infatti nell’imminenza della morte anche chi non vi è preparato ha la forza di accettare ciò che ormai non può essere più evitato; e il gladiatore, che ha mostrato una grande paura in tutto il combattimento, offre la gola all’avversario e va incontro al colpo di grazia che tarda a giungere. Ma quella morte che è vicina e in ogni caso dovrà venire esige una meditata fermezza d’animo che è più rara e che solo il saggio può mostrare. 221

tissime itaque illum audiebam quasi ferentem de morte sententiam et qualis esset eius natura velut propius inspectae indicantem. Plus, ut puto, fidei haberet apud te, plus ponderis, si quis revixisset et in morte nihil mali esse narraret expertus: accessus mortis quam perturbationem adferat optime tibi hi dicent qui secundum illam steterunt, qui 10 venientem et viderunt et receperunt. Inter hos Bassum licet numeres, qui nos decipi noluit. Is ait tam stultum esse qui mortem timeat quam qui senectutem; nam quemadmodum senectus adulescentiam sequitur, ita mors senectutem. Vivere noluit qui mori non vult; vita enim cum exceptione mortis data est; ad hanc itur. Quam ideo timere dementis est quia 11 certa expectantur, dubia metuuntur. Mors necessitatem habet aequam et invictam: quis queri potest in ea condicione se esse in qua nemo non est ? prima autem pars est aequitatis aequalitas. Sed nunc supervacuum est naturae causam agere, quae non aliam voluit legem nostram esse quam suam : quidquid composuit resolvit, et quidquid resolvit componit 12 iterum. Iam vero si cui contigit ut illum senectus leviter emitteret, non repente avulsum vitae sed minutatim subductum, o ne ille agere gratias diis omnibus debet quod satiatus ad requiem homini necessariam, lasso gratam perductus est. Vides quosdam optantes mortem, et quidem magis quam rogari solet vita. Nescio utros existimem maiorem nobis animum dare, qui deposcunt mortem an qui hilares eam quietique opperiuntur, quoniam illud ex rabie interdum ac repentina indignatione fit, haec ex iudicio certo tranquillitas est. Venit aliquis ad mortem iratus: mortem venientem nemo hilaris excepit nisi qui se ad illam diu composuerat. 13 Fateor ergo ad hominem mihi carum ex pluribus me causis

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Perciò ascoltavo molto volentieri Basso, come se egli desse un giudizio sulla morte e ne rivelasse la vera natura dopo averla attentamente osservata da vicino. Per te sarebbe, penso, più degna di fede la testimonianza di uno che fosse risorto e dicesse, per averlo sperimentato, che nella morte non c’è alcuna sofferenza. Ma potranno parlarti nel modo migliore del turbamento che 1 appres­ sarsi della morte produce coloro che le sono stati vicini, l’hanno vista venire e l’hanno accolta. Fra questi conside­ ra il nostro Basso, che ha voluto liberarci da ogni ingan­ no. Dice che chi teme la morte è stolto come chi teme la vecchiaia. Come infatti la vecchiaia tiene dietro all’a­ dolescenza, così la morte tiene dietro alla vecchiaia. Chi non vuole morire si rifiuta di vivere, perché la vita ci è stata data a patto di morire. La morte è il termine certo a cui siamo diretti e temerla è da insensato, poiché si aspetta ciò che è certo e solo l’incerto può essere oggetto di timore. La morte è una necessità invincibile e uguale per tutti: chi può lamentarsi di trovarsi in una condizione a cui nessuno può sottrarsi? Carattere essenziale della giustizia è l’uguaglianza. Ma è superfluo difendere la natura che ha voluto sottoporci alla sua stessa legge, essa dissolve tutto ciò che ha composto, e ricompone ciò che ha dissolto. Ora, chi ha in sorte una vecchiaia che lo abbandona lentamente, sottraendolo a poco a poco alla vita, senza strapparlo con violenza da essa, deve davvero ringraziare tutti gli dèi per averlo condotto, ormai sazio, a quel riposo che e una necessità per ogni uomo, e che è gradito per chi è stanco. C è chi desidera la morte con maggiore ardore di quello con cui, di solito, si chiede la vita. Non so se ci danno un esempio maggiore di coraggio quelli che invocano la morte o quelli che l’attendono ilari e sereni. Penso che lo stato d’animo dei primi sia causato talvolta dall’ira e da un improvvisa indignazione, e che la serenità degli altri derivi da un ben ponderato giudizio. C’è chi va incontro alla morte con animo irato; ma se è la morte a venirci incontro, non può accettarla con serenità se non chi da tempo vi è preparato. Confesso di essere andato molto spesso da Basso, a 223

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frequentius venisse, ut scirem an illum totiens eundem invenirem, numquid cum corporis viribus minueretur animi vigor; qui sic crescebat illi quomodo manifestior notari solet agitatorum laetitia cum septimo spatio palmae adpropinquant. Dicebat quidem ille Epicuri praeceptis obsequens, primum sperare se nullum dolorem esse in ilio extremo anhelitu; si tamen esset, habere aliquantum in ipsa brevitate solacii; nullum enim dolorem longum esse qui magnus est. Ceterum succursurum sibi edam in ipsa distractione animae corporisque, si cum cruciatu id fieret, post illum dolorem se dolere non posse. Non dubitare autem se quin senilis anima in primis labris esset nec magna vi distraheretur a corpore. ‘ Ignis qui alentem materiam occupavit aqua et interdum ruina extinguendus est: ille qui alimentis deficitur sua sponte subsidit.’ Libenter haec, mi Lucili, audio non tamquam nova, sed tamquam in rem praesentem perductus. Quid ergo ? non multos spedavi abrumpentes vitam ? Ego vero vidi, sed plus momenti apud me habent qui ad mortem veniunt sine odio vitae et admittunt illam, non adtrahunt. Illud quidem aiebat tormentum nostra nos sentire opera, quod tunc trepidamus cum prope a nobis esse credimus mortem: a quo enim non prope est, parata omnibus locis omnibusque momentis { ‘ Sed consideremus’ inquit ‘tunc cum aliqua causa moriendi videtur accedere, quanto aliae propiores sint quae non timentur.’ Hostis alicui mortem minabatur, hanc cruditas occupavit. Si distinguere voluerimus causas metus nostri, inveniemus alias esse, alias videri. Non mortem timemus sed cogitationem mortis; ab ipsa enim semper tantundem absumus. Ita si ti-

me caro già per tanti motivi, per vedere se egli era sempre uguale a se stesso, o se, insieme con le forze del corpo, si affievoliva il vigore del suo spirito. Ho notato che questo vigore era sempre crescente; proprio come suole crescere l’ardore degli aurighi quando si avvicinano al settimo giro, che decide della vittoria2. Egli, seguendo gli insegnamenti di Epicuro, diceva di sperare anzitutto che non ci fosse nessun dolore in quell’estremo anelito; ma, se anche dolore ci fosse stato, avrebbe trovato un sollievo nella sua stessa brevità, poiché nessun grande dolore può essere lungo. Anche nel momento del distac­ co dell’anima dal corpo, se ci fosse stata sofferenza, gli avrebbe recato conforto il pensiero che non avrebbe più potuto soffrire dopo. La forza vitale di un vecchio egli aggiungeva, è poi così fievole, che abbandona il corpo senza grande sforzo. «Il fuoco, quando si è appiccato a sostanze infiammabili, deve essere estinto con l’acqua, e talvolta abbattendo edifici; ma si estingue da sé se manca l’alimento.» Ascolto volentieri queste cose, o Lucilio, non perché mi siano nuove, ma perché mi mettono direttamente a contatto con la realtà. Forse che non ho visto molti uomini togliersi la vita? Certo che ne ho visti; ma per me è più salutare l’esempio di coloro che, senza odiare la vita, vanno verso la morte, e l’accet­ tano con serenità, ma non se la tirano addosso. Basso diceva che noi sentiamo quei tormenti per colpa nostra, proprio perché siamo presi dallo spavento quando cre­ diamo che la morte sia vicina. E chi non è vicino alla morte, che ci attende in ogni luogo e in ogni momento? «Ma» aggiungeva «quando ci sembra che si approssimi un qualche pericolo di morte, dobbiamo pensare quanto più vicino ci sono altri pericoli che noi non temiamo.» A un tale il nemico minacciava la morte, e morì prima per una volgare indigestione. Se poi vogliamo fare una distinzione fra i motivi della nostra paura, troveremo che alcuni sono reali, altri immaginari. Noi, più che la morte, temiamo il pensiero della morte. In ogni momen2 Gli aurighi dovevano far sette volte il giro del circo. Naturalmen­ te, all’avvicinarsi del traguardo, aumentava l’impegno dei concorrenti.

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menda mors est, semper timenda est : quod enim morti tempus exemptum est ? 18 Sed vereri debeo ne tam longas epistulas peius quam mortem oderis. Itaque finem faciam: tu tamen mortem ut numquam timeas semper cogita. Vale.

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to siamo ugualmente distanti dalla morte. Se essa deve essere temuta, dobbiamo temerla sempre, poiché nessun periodo della vita è esente dalla morte. ^ Ma temo che una lettera così lunga ti diventi più odiosa che la morte. Perciò concluderò; pensa sempre alla morte, se non vuoi mai temerla. Addio.

SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Agnosco Lucilium meum: incipit quem promiserat exhibere. Sequere illum impetum animi quo ad optima quaeque calcatis popularibus bonis ibas : non desidero maiorem melioremque te fieri quam moliebaris. Fundamenta tua multum loci occupaverunt : tantum effice quantum conatus es, et 2 illa quae tecum in animo tulisti tracia. A d summam sapiens eris, si cluseris aures, quibus ceram parum est obdere: firmiore spissamento opus est quam in sociis usum Ulixem ferunt. Illa vox quae timebatur erat blanda, non tamen publica: at haec quae timenda est non ex uno scopulo sed ex omni terrarum parte circumsonat. Praetervehere itaque non unum locum insidiosa voluptate suspectum, sed omnes urbes. Surdum te amantissimis tuis praesta: bono animo mala precantur. Et si esse vis felix, deos ora ne quid tibi ex his quae optantur 3 eveniat. Non sunt ista bona quae in te isti volunt congeri: unum bonum est, quod beatae vitae causa et firmamentum est, sibi fidere. Hoc autem contingere non potest, nisi contemptus est labor et in eorum numero habitus quae neque bona sunt neque mala; fieri enim non potest ut una ulla res12

lettera

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Il vero bene è strettamente congiunto alla virtù Riconosco il mio Lucilio: comincia a manifestarsi quel­ l’uomo che prometteva di essere. Prosegui in quel tuo slancio con cui ti sei avviato verso ogni forma di vero bene, calpestando i beni volgari. Non ti desidero né più grande né migliore di quanto ti sei sforzato di diventare. Le tue fondamenta poggiano su larghe basi; non ti rimane che portare a compimento i tuoi sforzi e realizza­ re i tuoi propositi. Insomma, sarai veramente saggio se avrai le orecchie ben chiuse; ma non basta la cera per turarle, c’è bisogno di tamponi più spessi di quelli che, secondo la leggenda, usò Ulisse per i suoi compagni1. Le voci che egli temeva erano carezzevoli ma isolate. Queste che dobbiamo temere noi non vengono da uno scoglio, ma risuonano tutt’intorno da ogni parte della terra. Perciò devi lasciarti dietro non solo un luogo sospetto per i suoi insidiosi piaceri, ma tutte le città. Mostrati sordo anche a quelli che ti amano di più: pur animati da buone intenzioni, di fatto desiderano il tuo male. E, se vuoi essere felice, prega gli dèi che non ti capiti niente di quello che essi ti augurano. Tutte le cose che essi vorrebbero accumulate in te non sono veri beni; l’unico bene, che è la condizione fondamenale per una vita felice, è la fiducia in se stesso. Non può aversi, questo bene, se non si è indifferenti ad ogni attività , se non si considera ogni forma di attività fra le cose che non sono né bene né male. In realtà, una medesima 1 Si riferisce al mito delle Sirene. 2 Q uest’indifferenza è chiam ata dagli stoici α δια φ ο ρ ία .

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modo mala sit, modo bona, modo levis et perferenda, modo

4 expavescenda. Labor bonum non est: quid ergo est bonum? laboris contemptio. Itaque in vanum operosos culpaverim: rursus ad honesta nitentes, quanto magis incubuerint minusque sibi vinci ac strigare permiserint, admirabor et clamabo, ‘tanto melior, surge et inspira et clivum istum uno si potes 5 spiritu exsupera’ . Generosos animos labor nutrii. Non est ergo quod ex ilio (voto) vetere parentum tuorum eligas quid contingere tibi velis, quid optes; et in totum iam per maxima acto viro turpe est etiamnunc deos fatigare. Quid votis opus est ? fac te ipse felicem ; facies autem, si intellexeris bona esse quibus admixta virtus est, turpia quibus malitia coniuncta est. Quemadmodum sine mixtura lucis nihil splendidum est, nihil atrum nisi quod tenebras habet aut aliquid in se traxit obscuri, quemadmodum sine adiutorio ignis nihil calidum est, nihil sine aere frigidum, ita honesta et turpia virtutis ac 6 malitiae societas efficit. Quid ergo est bonum ? rerum scientia. Quid malum est ? rerum imperitia. Ille prudens atque artifex prò tempore quaeque repellet aut eliget; sed nec quae repellit timet nec miratur quae eligit, si modo magnus illi et invictus animus est. Summitti te ac deprimi veto. Laborem si non 7 recuses, parum est: posce. ‘Quid ergo?’ inquis ‘labor frivolus et supervacuus et quem humiles causae evocaverunt non est malus ?’ Non magis quam ille qui pulchris rebus inpenditur, quoniam animi est ipsa tolerantia quae se ad dura et aspera hortatur ac dicit, ‘quid cessas ? non est viri timere sudorem’. 8 H uc et illud accedat, ut perfecta virtus sit, aequalitas ac tenor vitae per omnia consonans sibi, quod non potest esse nisi

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cosa non può essere ora un bene, ofa un male, ora lieve e sopportabile, ora terribile. L’attività per se stessa non è un bene. Che cosa, dunque, è il bene? L’indifferenza per ogni attività in quanto tale. Perciò condannerei coloro che sono sempre in azione, senza uno scopo preciso. Quanto a quelli che si affaticano per fini onesti, più vi si dedicano senza prendere riposo e senza lasciarsi abbattere, più li ammirerò e farò loro animo dicendo: «Su, coraggio! Aspira l’aria a pieni polmoni e supera l’erta d’un fiato». La fatica è l’alimento degli spiriti generosi. Dunque non c’è motivo che tu cerchi la formula delle tue aspirazioni e dei tuoi propositi nei voti augurali che già fecero per te i tuoi genitori. È disdicevole, per un uomo che ha esercitato le attività più nobili, continuare ad affaticare gli dèi con i voti. Che bisogno c’è di preghiere? Renditi felice da te: lo sarai se avrai capito che veri beni sono quelli cui è commista la virtù; sono mali quelli cui è congiunto il vizio. Nessuna cosa splende se non è pervasa dalla luce; nulla è in ombra, se non ciò che sta nelle tenebre o ha ricevuto la proiezio­ ne di un corpo oscuro; nulla è caldo senza l’ausilio del fuoco; nulla è freddo senza aria; così le azioni non possono essere buone o cattive se non sono in intima unione, rispettivamente, con la virtù o col vizio. Che cosa, dunque, è il bene? È la conoscenza della realtà. E il male? L’ignoranza. Il saggio, costruttore del suo destino, secondo le circostanze stabilisce quello che c’è da respingere o da scegliere; ma, se ha un animo grande e indomito, non teme quello che respinge, né è preso da ammirazione per quello che sceglie. Ed io ti dico di non lasciarti abbattere o deprimere. Sarebbe poca cosa rifiutare la fatica: devi cercarla. «Ma» obietterai «la fatica vana e superflua, che non deriva da nobili motivi, non è un male?» Non più della fatica che affrontiamo per eccelsi ideali, poiché essa rivela un animo paziente che tende verso mete difficili e impervie, e s’incoraggia dicendo: «Perché desisti? Non è cosa virile temere il sudore». Perché la virtù sia perfetta, occorre aggiungere alla fatica un comportamento sempre uguale e coerente con se stesso; ideale irraggiungibile, se non si ha la 229

rerum scientia contingit et ars per quam humana ac divina noscantur. Hoc est summum bonum; quod si occupas, incipis 9 deorum socius esse, non supplex. ‘Quomodo’ inquis ‘isto pervenitur?’ Non per Poeninum Graiumve montem nec per deserta Candaviae; nec Syrtes tibi nec Scylla aut Charybdis adeundae sunt, quae tamen omnia transisti procuratiunculae pretio: tutum iter est., iucundum est, ad quod natura te instruxit. Dedit tibi illa quae si non deserueris, par deo surges. 10 Parem autem te deo pecunia non faciet: deus nihil habet. Praetexta non faciet: deus nudus est. Fama non faciet nec ostentatio tui et in populos nominis dimissa notitia: nemo novit deum, multi de ilio male existimant, et inpune. Non turba servorum lecticam tuam per itinera urbana ac peregrina portantium: deus ille maximus potentissimusque ipse vehit omnia. N e forma quidem et vires beatum te facere possunt : 11 nihil horum patitur vetustatem. Quaerendum est quod non fiat in dies peius, cui non possit obstari. Quid hoc est ? animus, sed hic rectus, bonus, magnus. Quid aliud voces hunc quam deum in corpore humano hospitantem ? Hic animus tam in equitem Romanum quam in libertinum, quam in servum potest cadere. Quid est enim eques Romanus aut libertinus aut servus ? nomina ex ambinone aut iniuria nata. Subsilire in caelum ex angulo licet : exsurge modo et te quoque dignum finge deo. Finges autem non auro vel argento : non potest ex hac materia imago deo exprimi similis; cogita illos, cum propitii essent, fictiles fuisse. Vale.

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scienza e la conoscenza delle verità umane e divine. Questo è il sommo bene: se lo conquisterai, comincerai ad essere compagno degli dèi, e non più loro supplice. «Come» chiederai «si giunge a questa meta?» Non devi attraversare le Alpi Pennine o Graie, né i deserti di Candavia, né le Sirti, né Scilla e Cariddi, che tuttavia hai dovuto passare per ottenere il misero compenso di un governo provinciale. È una via sicura, gioiosa, che ti ha insegnato la natura. Ella ti ha dato quelle facoltà che, se tu saprai servirtene, ti renderanno pari a un dio. Non ti renderà tale il denaro: dio non possiede nulla; non la toga del magistrato: dio è nudo; non la fama, né l’ostentazione di te o la popolarità del tuo nome: nessuno conosce dio, e molti impunemente ne parlano male; non il numero degli schiavi che portano la tua lettiga attraverso la città o fuori: dio, che è somma potenza, porta lui l’universo. Né può renderti felice la bellezza o la forza del corpo: nessuno di questi beni resiste al passare del tempo. Occorre cercare qualcosa che non si deteriori col tempo, e a cui niente possa fare ostacolo. Qual è questo bene? È l’animo, ma l’animo retto, buono, grande. Non lo chiamerai altrimenti che un dio ospite di un corpo umano. Quest’animo può albergare tanto nel corpo di un cavaliere romano quanto in quello di un libero o di uno schiavo. Che cos’è, infatti, un cavaliere, o un liberto, o uno schiavo? Sono nomi derivati dall’am­ bizione o dal sopruso. Si può salire in cielo anche dal più umile recesso. Sorgi, dunque: «Rendi anche te degno di un dio».3 Ma non ti renderai tale con l’oro o con l’argento: metalli inadatti a riprodurre la vera immagine della divinità. Ricorda che gli dèi, quando ci erano propizi, erano fatti d’argilla. Addio. lettera 32

SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

Inquiro de te et ab omnibus sciscitor qui ex ista regione veniunt quid agas, ubi et cum quibus moreris. Verba dare non

Accelera i tuoi progressi spirituali Cerco di informarmi sul tuo conto e chiedo continuamen­ te a tutti quelli che giungono da codesta regione cosa 3

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Virgilio, Eneide, V ili, 364-65.

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potes: tecum sum. Sic vive tamquam quid facias auditurus sim, immo tamquam visurus. Quaeris quid me maxime ex iis quae de te audio delectet ? quod nihil audio, quod plerique 2 ex iis quos interrogo nesciunt quid agas. Hoc est salutare, non conversari dissimilibus et diversa cupientibus. Habeo quidem fiduciam non posse te detorqueri mansurumque in proposito, edam si sollicitantium turba circumeat. Quid ergo est ? non timeo ne mutent te, timeo ne inpediant. M ultum autem nocet etiam qui moratur, utique in tanta brevitate vitae, quam breviorem inconstantia facimus, aliud eius subinde atque aliud facientes initium; diducimus illam in particulas 3 ac lancinamus. Propera ergo, Lucili carissime, et cogita quantum additurus celeritati fueris, si a tergo hostis instaret, si equitem adventare suspicareris ac fugientium premere vestigia. Fit hoc, premeris: adcelera et evade, perduc te in tutum et subinde considera quam pulchra res sit consummare vitam ante mortem, deinde expectare securum reliquam temporis sui partem, nihil sibi, in possessione beatae vitae 4 positum, quae beatior non fit si longior. O quando illud videbis tempus quo scies tempus ad te non pertinere, quo tranquillus placidusque eris et crastini neglegens et in summa tui satietate! Vis scire quid sit quod faciat homines avidos futuri? nemo sibi contigit. Optaverunt itaque tibi alia parentes tui; sed ego contra omnium tibi eorum contemptum opto quorum illi copiam. Vota illorum multos compilant ut te locupletent; quidquid ad te transferunt alicui detrahen5 dum est. Opto tibi tui facultatem, ut vagis cogitationibus

fai, dove stai e con chi. Non puoi darmela ad intendere: ti seguo da vicino. Cerca, perciò, di vivere come se io potessi ascoltare, anzi, vedere, tutto quello che fai. Vuoi sapere quello che mi è caro di sentire sul tuo conto? Mi fa soprattutto piacere non sentir dire niente di te: la maggior parte di quelli che interrogo non sanno quello che fai. È un’ottima cosa non praticare uomini che hanno abitudini e aspirazioni del tutto diverse dalle nostre; e ho fiducia che tu non ti lasci sviare e che sia perseverante nei tuoi propositi, anche se ti circondasse una moltitudi­ ne d’intriganti. E allora? Non temo che riescano a cam­ biarti, temo che ti siano di ostacolo nel tuo progresso spirituale. Invero è molto dannoso anche chi fa indugia­ re, specialmente in una vita così breve, che noi abbrevia­ mo ancor più con la nostra inconstanza, ricominciando a viverla ora in un modo ora in un altro: la riduciamo a pezzetti e a brandelli. Perciò, carissimo Lucilio, affretta il passo e pensa quanto saresti più veloce se un nemico incalzasse alle tue spalle, se temessi il sopraggiungere della cavalleria sulle orme dei fuggiaschi. Avviene pro­ prio questo: sei inseguito. Perciò, fuggi veloce e, dopo esserti messo al sicuro, considera quanto sia bello porta­ re a compimento la vita prima della morte,1e poi aspetta­ re sereno il resto dei propri giorni, senza niente attendere per sé, godendo il possesso della felicità, che non aumen­ ta con la durata della vita. Oh, quando perverrai al momento in cui sentirai che il tempo non conta più per te, in cui sarai tranquillo e placido, incurante del domani e pienamente soddisfatto di te stesso! Vuoi sapere perché gli uomini sono bramosi del futuro? Nessuno ha il posses­ so di se stesso. I tuoi genitori ti hanno augurato in abbondanza tutte quelle cose che non sono il vero bene, ma io ti auguro che tu sappia disprezzarle. I loro voti augurali tendono a spogliare gli altri per arricchirti: tutto quello che desiderano attribuirti deve essere tolto agli altri. Io, invece, ti auguro il possesso di te, perché il tuo 1 Cioè, dare una completezza alla vita portando lo spirito al più alto grado di perfezione.

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agitata mens tandem resistat et certa sit, ut placeat sibi et intellectis veris bonis, quae simul intellecta sunt possidentur, aetatis adiectione non egeat. Ille demum necessitates supergressus est et exauctoratus ac liber qui vivit vita peracta. Vale.

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SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

Desideras his quoque epistulis sicut prioribus adscribi aliquas voces nostrorum procerum. Non fuerunt circa flosculos occupati : totus contextus illorum virilis est. Inaequalitatem scias esse ubi quae eminent notabilia sunt: non est admirationi una arbor ubi in eandem altitudinem tota silva 2 surrexit. Eiusmodi vocibus referta sunt carmina, refertae historiae. Itaque nolo illas Epicuri existimes esse: publicae sunt et maxime nostrae, sed (in) ilio magis adnotantur quia rarae interim interveniunt, quia inexpectatae, quia mirum est fortiter aliquid dici ab homine mollitiam professo. Ita enim plerique iudicant : apud me Epicurus est et fortis, licet manuleatus sit; fortitudo et industria et ad bellum prompta 3 mens tam in Persas quam in alte cinctos cadit. Non est ergo quod exigas excerpta et repetita : continuum est apud nostros quidquid apud alios excerpitur. Non habemus itaque ista ocliferia nec emptorem decipimus nihil inventurum cum intraverit praeter illa quae in fronte suspense sunt: ipsis 4 permittimus unde velint sumere exemplar. Iam puta nos velie singulares sententias ex turba separare : cui illas adsignabimus? Zenoni an Cleanthi an Chrysippo an Panaetio an

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spirito, tanto agitato da vani pensieri, finalmente stia saldo, sicuro e contento di sé; e, conosciuti i veri beni che, appena conosciuti, si possiedono - , non senta il bisogno di una vita più lunga. Chi vive dopo aver portato a compimento l’opera della sua vita è fuori di ogni necessità e libero da ogni vincolo. Addio. LETTERA 3 3

Devi acquistare un pensiero originale, frutto della tua esperienza Tu desideri che io inserisca anche in queste lettere, come nelle precedenti, un pensiero dei nostri maestri stoici. Essi non fecero una raccolta di belle massime, ma un valido sistema filosofico. Sappi che ci sono diseguaglian­ ze dove si notano cose che si alzano al di sopra delle altre. Un albero non si distingue in mezzo a un bosco in cui le piante hanno tutte la stessa altezza. Anche le poesie e le storie sono piene di pensieri ugualmente elevati. Perciò non devi attribuire a Epicuro quei pensie­ ri che t’ho inviato: sono di dominio pubblico, e soprattut­ to della nostra scuola. Ma in lui si fanno notare di più, poiché appaiono a lunghi intervalli e inaspettati; e fa meraviglia sentire un linguaggio virile da un uomo che fa professione di mollezza. Così, infatti, lo giudicano i più. Per me Epicuro sa essere forte anche se indossa abiti femminili. La fortezza, l’operosità e lo spirito com­ battivo si possono trovare sia nei Persiani, sia nei popoli dagli abiti succinti. Non c’è quindi motivo di esigere massime già scelte e ripetute. Presso i nostri stoici è espresso con continuità quel pensiero che presso altri filosofi è frammentario. Perciò non ostentiamo quegli ornamenti che danno nell’occhio, né vogliamo ingannare l’acquirente che, entrando nella bottega, non troverà se non gli oggetti esposti in vetrina. Noi gli permettiamo di scegliere a suo piacere i suoi modelli. Supponi che noi vogliamo isolare dalla nostra dottrina qualche motto brillante: a chi lo attribuiremo? A Zenone, o a Cleante, o a Crisippo, o a Panezio, o a Posidonio? Non siamo 235

Posidonio? Non sumus sub rege: sibi quisque se vindicat. Apud istos quidquid Hermarchus dixit, quidquid Metrodorus, ad unum refertur; omnia quae quisquam in ilio con­ tubernio locutus est unius ductu et auspiciis dieta sunt. Non possumus, inquam, licet temptemus, educere aliquid ex tanta rerum aequalium multitudine: pauperis est numerare pecus.

Quocumque miseris oculum, id tibi occurret quod eminere posset nisi inter paria legeretur. Quare depone istam spem posse te summatim degustare ingenia maximorum virorum: tota tibi inspicienda sunt, tota tractanda. (Continuando) res geritur et per lineamenta sua ingenii opus nectitur ex quo nihil subduci sine ruina potest. Nec recuso quominus singula membra, dummodo in ipso homine, consideres : non est formonsa cuius crus laudatur aut brachium, sed illa cuius 6 universa facies admirationem partibus singulis abstulit. Si tamen exegeris, non tam mendice tecum agam, sed piena manu fiet; ingens eorum turba est passim iacentium; sumenda erunt, non colligenda. Non enim excidunt sed fluunt; perpetua et in ter se contexta sunt. Nec dubito quin multum conferant rudibus adhuc et extrinsecus auscultantibus; facilius enim singula insidunt circumscripta et carminis modo 7 inclusa. Ideo pueris et sententias ediscendas damus et has quas Graeci chrias vocant, quia conplecti illas puerilis animus potest, qui plus adhuc non capit. Certi profectus viro captare flosculos turpe est et fulcire se notissimis ac paucissimis vocibus et memoria stare : sibi iam innitatur. Dicat ista, non teneat ; 5

alle dipendenze di un sovrano; ciascuno è padrone di sé. Ma in altri sistemi filosofici quello che ha detto Ermarco o Metrodoro è riferito ad uno solo; tutto ciò che fu detto da tutti i componenti di quella scuola è attribuito al pensiero di uno solo. Ma, ti ripeto, anche se lo tentassimo, noi non riusciremmo a fare una scelta in mezzo a così gran numero di pensieri ugualmente importanti. «È il pastore povero che fa la conta delle sue pecore.»1 Dovunque volgi lo sguardo, ti si presentano massime che potrebbero considerarsi notevoli se non si leggessero insieme con altre dello stesso valore. Perciò abbandona la speranza di poter gustare superficialmente l’ingegno dei sommi uomini; tu devi studiarlo e conside­ rarlo nella sua unità. Ogni suo aspetto ne richiama sempre un altro; ciascuna parte, connettendosi con l’al­ tra, dà completezza all’opera dell’ingegno umano: niente può essere tolto senza rompere l’unità del pensiero. Non dico che non si possano considerare le singole membra, purché non si prescinda dall’intero organismo. Una bella donna non è colei di cui si lodano le gambe o le braccia, ma quella il cui aspetto complessivo è di tale bellezza da togliere la possibilità di ammirare le singole parti. Se tuttavia lo vuoi, non ti tratterò miseramente, ma con molta larghezza, poiché da per tutto c’è un gran numero di massime. Non c’è che da prenderle, senza pretendere di farne una raccolta; non cadono goccia a goccia, ma scorrono a fiotti; c’è fra loro continuità e stretta connes­ sione. Non dubito che siano molto utili a coloro che sono ancora incolti e che prestano un’attenzione esteriore: s’imprimono più facilmente nell’animo i precetti isolati, concisi, e racchiusi nella forma di un verso. Ai fanciulli facciamo imparare le massime, e in particolare quelle che i Greci chiamano crie, poiché l’intelligenza infantile può comprenderle, mentre non ha ancora la capacità di abbracciare un pensiero più ampio e profondo. Ma per un uomo di matura esperienza è disdicevole cercare fiorellini, sostenersi con poche massime ben note e affidarsi alla memoria. È ormai tempo che uno poggi su 1 Ovidio,

Metamorfosi, XIII, 824. 237

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turpe-est enim seni aut prospicienti senectutem ex commen­ tario sapere. ‘Hoc Zenon dixit’ : tu quid ? ‘Hoc Cleanthes’: tu quid? Quousque sub alio moveris? impera et die quod 8 memoriae tradatur, aliquid et de tuo profer. Omnes itaque istos, numquam auctores, semper interpretes, sub aliena umbra latentes, nihil existimo habere generosi, numquam ausos aliquando facere quod diu didicerant. Memoriam in alienis exercuerunt; aliud autem est meminisse, aliud scire. Meminisse est rem commissam memoriae custodire; at contra scire est et sua facere quaeque nec ad exemplar pendere et 9 totiens respicere ad magistrum. ‘Hoc dixit Zenon, hoc Cleanthes.’ Aliquid inter te intersit et librum. Quousque disces ? iam et praecipe. Quid est quare audiam quod legere possum? ‘Multum’ inquit ‘viva vox facit.’ Non quidem haec quae alienis verbis commodatur et actuari vice fungitur. 10 Adice nunc quod isti qui numquam tutelae suae fiunt primum in ea re sequuntur priores in qua nemo non a priore descivit; deinde in ea re sequuntur quae adhuc quaeritur. Numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis. Praeterea qui alium sequitur nihil invenit, immo nec quaerit. 11 Quid ergo? non ibo per priorum vestigia? ego vero utar via vetere, sed si propiorem planioremque invenero, hanc muniam. Qui ante nos ista moverunt non domini nostri sed duces sunt. Patet omnibus veritas; nondum est occupata; multum ex illa etiam futuris relictum est. Vale.

se stesso, che esprima questi pensieri con parole sue e non a memoria. Ed è specialmente disdicevole per un vecchio o per uno che si affaccia alla vecchiaia una cultura basata su raccolte di esempi scolastici. «Questo l’ha detto Zenone». E tu che dici? «Questo l’ha detto Cleante.» E tu? Fino a quando ti muoverai sotto la guida di un altro? Prendi tu il comando ed esprimi anche qualcosa di tuo, che altri mandino a .memoria. Tutti costoro che non sono mai stati capaci di un’attività creativa, eterni interpreti nascosti all’ombra del pensiero altrui, non hanno, a mio avviso, nessuna generosità d’animo, poiché non hanno mai avuto il coraggio di realizzare una buona volta ciò che hanno appreso in tanto tempo. Hanno esercitato la memoria sul pensiero altrui, ma altro è ricordare, altro è sapere. Ricordare è custodire ciò che è stato affidato alla memoria, mentre sapere significa far proprie le nozioni apprese e non star sempre attaccato al modello, con lo sguardo sempre rivolto al maestro. «Questo l’ha detto Zenone, questo Cleante.» Ci sia qualche differenza fra te e il tuo libro. Fino a quando penserai ad imparare? E tempo anche di insegnare. Che ragione c’è che io senta dire da te quello che posso leggere in un libro? «Ma» mi si può obiettare «un’espressione vivace fa molto effetto.» Sì, ma non quando si prendono a prestito le parole altrui e si compie la funzione del ripetitore. Inoltre costoro che non acqui­ stano mai la propria indipendenza accettano le soluzioni dei vecchi maestri anche in quei problemi che altri hanno ormai risolto diversamente, o che sono tuttora dibattuti. Ora, come possiamo scoprire qualcosa se viviamo paghi delle cose scoperte? Chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo. Così, dunque, non dovrò seguire le orme degli antichi? Seguiamo, sì, la vecchia via, ma, se ne troviamo una più corta e più piana, cerchiamo di rendere praticabi­ le questa. Coloro che prima di noi hanno suscitato codesti problemi non sono i nostri padroni, ma le nostre guide. La verità è accessibile a tutti, non è dominio riservato di nessuno, e il campo che essa lascia ai posteri è ancora vasto. Addio. 239

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SENECA LV CILIO

SVO S A L V T E M

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Cresco et exulto et discussa senectute recalesco quotiens ex iis quae agis ac scribis intellego quantum te ipse—narri turbam olim reliqueras—superieceris. Si agricolam arbor ad fructum perducta delectat, si pastor ex fetu gregis sui capit voluptatem, si alumnum suum nemo aliter intuetur quam ut adulescentiam illius suam iudicet, quid evenire credis iis qui ingenia educaverunt et quae tenera formaverunt adulta 2 subito vident? Adsero te mihi; meum opus es. Ego cum vidissem indolem tuam, inieci manum, exhortatus sum, addidi stimulos nec lente ire passus sum sed subinde incitavi; et nunc idem facio, sed iam currentem hortor et invicem 3 hortantem. ‘Quid illudi’ inquis ‘adhuc volo.’ In hoc plurimum est, non sic quomodo principia totius operis dimidium occupare dicuntur. Ista res animo constai; itaque pars magna bonitatis est velie fieri bonum. Scis quem bonum dicami perfectum, absolutum, quem malum facere nulla 4 vis, nulla necessitas possit. Hunc te prospicio, si perseveraveris et incubueris et id egeris ut omnia facta dictaque tua inter se congruant ac respondeant sibi et una forma percussa sint. Non est huius animus in recto cuius acta discordant. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Cum te tam valde rogo ut studeas, meum negotium ago: habere amicum volo, quod contingere mihi, nisi pergis ut

LETTERA 3 4

Soddisfazione per i progressi di Lucilio Riprendo animo ed esulto, e, scrollata di dosso la vec­ chiaia, mi sento scaldare di nuovo ogni volta che m’ac­ corgo, da quello che fai e scrivi, come tu, dopo esserti lasciata dietro da tempo la moltitudine, abbia superato anche te stesso. Se l’albero che è giunto a dar frutti rallegra l’agricoltore; se il pastore trae soddisfazione dai nati del gregge; se chi vede crescere il proprio figlio considera con compiacimento quella giovinezza come propria: cosa credi che possa provare chi ha educato una coscienza e, mentre ha incominciato a formarla ancora tenera, la vede ad un tratto matura? Ti rivendico a me;1 sei opera mia. Avendo io intuito la tua indole, ti ho preso sotto la mia tutela, ti ho esortato e stimolato, né ho tollerato che tu procedessi lentamente, ma ti ho incitato senza posa. E anche ora faccio lo stesso; ma ormai ti esorto mentre tu sei in piena corsa e mi esorti a tua volta a correre. Mi dirai: «Ma come! Io finora ho solo buona volontà». E questa è la cosa più importante, e non nel senso in cui si dice che «chi ben comincia è alla metà dell’opera». Qui siamo nel campo morale e la bontà, per gran parte, consiste nella volontà d’essere buono. E sai chi chiamo buono? L’uomo perfetto, vera­ mente libero, che nessuna forza, nessuna necessità può rendere cattivo. Ti vedo già così, se sarai perseverante, se raddoppierai i tuoi sforzi, se ti comporterai in modo che tutte le tue azioni e le tue parole si trovino in reciproca armonia e siano dello stesso stampo. Non è retto l’animo dell’uomo i cui atti sono fra loro discordan­ ti. Addio. LETTERA 35

Invito alla vera amicizia Quando ti prego con tanta insistenza di dedicarti alla filosofia, faccio anche il mio interesse. Voglio avere un 1 Espressione con cui, nel mondo romano, si affermava il diritto di proprietà su una cosa. 240

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coepisti excolere te, non potest. Nunc enim amas me, amicus non es. ‘Quid ergo ? haec inter se diversa sunt ?’ immo dissimilia. Qui amicus est amat; qui amat non utique amicus est; itaque amicitia semper prodest, amor aliquando etiam 2 nocet. Si nihil aliud, ob hoc profice, ut amare discas. Festina ergo dum mihi proficis, ne istuc alteri didiceris. Ego quidem percipio iam fructum, cum mihi fingo uno nos animo futuros et quidquid aetati meae vigorie abscessit, id ad me ex tua, quamquam non multum abest, rediturum; sed tamen 3 re quoque ipsa esse laetus volo. Venit ad nos ex iis quos amamus etiam absentibus gaudium, sed id leve et evanidum. conspectus et praesentia et conversatio habet aliquid vivae voluptatis, utique si non tantum quem velis sed qualem velis videas. Adfer itaque te mihi, ingens munus, et quo magis 4 instes, cogita te mortalem esse, me senem. Propera ad me, sed ad te prius. Profice et ante omnia hoc cura, ut constes tibi. Quotiens experiri voles an aliquid actum sit, observa an eadem hòdie velis quae heri: mutatio voluntatis indicat animum natare, aliubi atque aliubi apparere, prout tulit ventus. Non vagatur quod fixum atque fundatum est: istud sapienti perfecto contingit, aliquatenus et proficienti provectoque. Quid ergo interest ? hic commovetur quidem, non tamen transit, sed suo loco nutat; ille ne commovetur qui­ dem. Vale.

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SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

Amicum tuum hortare ut istos magno animo contemnat qui illum obiurgant quod umbram et otium petierit, quod

amico, e non posso ottenere questo bene se tu non perseveri nel tuo perfezionamento, così come hai comin­ ciato. Ora tu mi ami, ma non mi sei veramente amico. «Forse che queste due cose sono diverse?» Certo, e non si somigliano affatto. Chi è amico ama; ma chi ama non è sempre un amico. L’amicizia giova sempre, 1 amore talvolta può anche nuocere. Perciò, cerca di perfezionar­ ti, se non altro per apprendere la vera amicizia. E affréttati, perché i tuoi progressi giovino a me, e non a un altro. Ne ho già i frutti, quando penso che noi saremo un’anima sola e tutto quel vigore che mi vien meno con l’età me lo restituirà la tua età, che del resto non è molto lontana dalla mia. Tuttavia voglio trarre soddisfazione anche dalla realtà presente. È vero che, anche quando si è lontani, quelli che amiamo ci danno motivo di gioia, ma essa è lieve e fugace. Invece il loro aspetto, la loro presenza, la loro conversazione danno un senso di vivo piacere, specie se vediamo non solo la persona che desideriamo, ma come la desideriamo. Perciò, fammi un grande dono: quello della tua presenza; e, per essere più sollecito, pensa che tu sei mortale ed io son vecchio. Affréttati a venire da me, ma prima sii con te stesso: perfezionati e cura anzitutto di essere coerente con te. Per conoscere i progressi fatti in questo senso, osserva se oggi vuoi le stesse cose di ieri: un mutamento della volontà è la prova che l’animo va errando e compare ora qua, ora là, come lo spinge il vento. Non può andare vagando ciò che ha un suo fermo fondamento. Questa fermezza è requisito del vero sapiente; ma, fino ad un certo grado, anche di chi fa progressi ed è già avanti nella saggezza. Che differenza c’è fra i due? Quest ulti­ mo vacilla, tuttavia non lascia la sua posizione, pur tentennando. Il saggio non vacilla neppure. Addio. LETTERA 36

Consigli per un amico di Lucilio Esorta il tuo amico a disprezzare coraggiosamente tutti coloro che lo condannano perché ha cercato una vita 242

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dignitatem suam destituerit et, cum plus consequi posset, praetulerit quietem omnibus; quam utiliter suum negotium gesserit cotidie illis ostentet. Hi quibus invidetur non desinent transire: alii elidentur, alii cadent. Res est inquieta felicitas; ipsa se exagitat. Movet cerebrum non uno genere: alios in aliud inritat, hos in inpotentiam, illos in luxuriam; hos in2 fiat, illos mollit et totos resolvit. £At bene aliquis illam fert.’ Sic, quomodo vinum. Itaque non est quod tibi isti persuadeant eum esse felicem qui a multis obsidetur: sic ad illum quemadmodum ad lacum concurritur, quem exhauriunt et turbant. ‘Nugatorium et inertem vocant.’ Scis quosdam perverse loqui et significare contraria. Felicem,vocabant: quid ergo? erat ? 3 Ne illud quidem curo, quod quibusdam nimis liorridi animi videtur et tetrici. Ariston aiebat malie se adulescentem tristem quam hilarem et amabilem turbae; vinum enim bonum fieri quod recens durum et asperum visum est; non pati aetatem quod in dolio placuit. Sine eum tristem appellent et inimicum processibus suis: bene se dabit in vetustate ipsa tristitia, perseveret modo colere virtutem, perbibere liberalia studia, non illa quibus perfundi satis est, sed haec quibus tingendus 4 est animus. Hoc est discendi tempus. ‘Quid ergo? aliquod est quo non sit discendum?’ Minime; sed quemadmodum omnibus annis studere honestum est, ita non omnibus institui. Turpis et ridicula res est elementarius senex: iuveni parandum, seni utendum est. Facies ergo rem utilissimam tibi, si illum quam optimum feceris; haec aiunt beneficia esse ex-

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ritirata, ha abbandonato la sua alta posizione sociale e, ai vantaggi che la carriera gli offriva, ha preferito la quiete. Egli, giorno per giorno, mostrerà a costoro di aver fatto veramente il suo bene. Gli uomini che sono invidiati per il loro successo presto scompaiono dalla scena; alcuni saranno abbattuti, altri cadranno. La pro­ sperità non dà mai pace, si agita da sé. Essa sconvolge il cervello in vari modi: suscita negli uomini passioni diverse: in questi il desiderio di potenza, in quelli la lussuria: gonfia gli uni di orgoglio, rammollisce e snerva completamente gli altri. «Ma» dirai «c’è qualcuno che sopporta bene la sua fortuna.» Sì, come si sopporta bene il vino. Non lasciarti convincere da costoro che sia felice chi è assediato da molti: accorrono a lui come si va ad attingere ad una fonte, finché s’inaridisce o s’intorbida. «Ma chiamano il mio amico uno sciocco e un inetto.» Tu sai che alcuni non sono sinceri e pensano il contrario di quello che dicono. Lo dicevano felice. Ma lo era veramente? Né m’importa che a qualcuno egli appaia d’animo troppo rozzo e aspro. Aristone soleva dire: «Preferisco un giovane triste ad uno allegro e caro alla folla. Il vino che, quando è nuovo, sembra forte e pungente, diventa poi buono; non resiste a lungo il vino che è buono nel tino». Lascia che lo chiamino malinconico e nemico del suo avvenire. La sua stessa malinconia gli farà bene quando sarà avanti negli anni, purché egli persista nella pratica della virtù e si dedichi agli studi liberali, non a quelli di cui è sufficiente una spruzzatina, ma a questi , in cui bisogna immergere bene l’animo. Questo è tempo d’imparare. «Dunque, c’è anche un tempo in cui non bisogna imparare?» No, certamente; è bene studiare tutta la vita, ma non andare sempre a scuola. È cosa sconveniente e ridicola che un vecchio debba apprendere l’abbiccì. Spetta al giovane procurarsi le cognizioni, al vecchio trarne profitto. Farai perciò cosa utilissima a te se renderai l’amico quanto migliore sia possibile. I benefici che vai la pena di 1

Cioè, gli studi filosofici.

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petenda tribuendaque, non dubie primae sortis, quae tam 5 dare prodest quam accipere. Denique nihil illi iam liberi est, spopondit; minus autem turpe est creditori quam spei bonae decoquere. Ad illud aes alienum solvendum opus est negotianti navigatione prospera, agrum colenti ubertate eius quam colit terrae, caeli favore: ille quod debet sola potest voluntate 6 persolvi. In mores fortuna ius non habet. Hos disponat ut quam tranquillissimus ille animus ad perfectum veniat, qui nec ablatum sibi quicquam sentit nec adiectum, sed in eodem habitu est quomodocumque res cedunt; cui sive adgeruntur vulgaria bona, supra res suas eminet, sive aliquid ex istis vel omnia casus excussit, minor non fit. 7 Si in Parthia natus esset, arcum infans statim tenderei ; si in Germania, protinus puer tenerum hastile vibraret; si avorum nostrorum temporibus fuisset, equitare et hostem comminus percutere didicisset. Haec singulis disciplina gentis 8 suae suadet atque imperai. Quid ergo huic meditandum est ? quod adversus omnia tela, quod adversus omne hostium genus bene facit, mortem contemnere, quae quin habeat aliquid in se terribile, ut et animos nostros quos in amorem sui natura formavit offendat, nemo dubitai ; nec enim opus esset in id comparari et acuì in quod instinctu quodam voluntario ire9 mus, sicut feruntur omnes ad conservationem sui. Nemo discit ut si necesse fuerit aequo animo in rosa iaceat, sed in hoc duratur, ut tormentis non summittat fidem, ut si necesse fuerit stans etiam aliquando saucius prò vallo pervigilet et ne pilo quidem incumbat, quia solet obrepere interim somnus in aliquod adminiculum reclinatis. Mors nullum habet incommodum; esse enim debet aliquid cuius sii incommodum.

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richiedere e di fare, benefici considerati del piu alto valore, sono quelli che recano giovamento sia a chi li fa sia a chi li riceve. Infine, il tuo amico non è più libero di tornare indietro: si è impegnato. Sarebbe meno diso­ norevole far bancarotta ai danni di un creditore, che deludere una bella speranza. Per pagare il suo debito il mercante ha bisogno che sia fortunato il viaggio per mare, l’agricoltore che la terra da lui coltivata dia, col favore del cielo, un abbondante raccolto. Al tuo amico, per pagare il suo debito, basta la sua volontà. La fortuna non può far valere diritti sulla vita morale. Organizzi egli la sua vita morale in modo che il suo animo possa, con tutta tranquillità, giungere a uno stato di perfezione, indifferente a ciò che gli viene tolto o dato, sempre lo stesso nel suo contegno, comunque le cose vadano a finire. Se gli aumenteranno i beni materiali, si sentirà superiore e ben distaccato da essi; se, per disgrazia, uno di questi beni o tutti gli saranno tolti, non si sentirà diminuito. . „ . ,. , ..,. , Se egli fosse nato nel territorio dei Parti, fm dall infan­ zia saprebbe tendere l’arco; in Germania, ancora fanciul­ lo brandirebbe una piccola asta. Se fosse vissuto al tempo dei nostri avi, avrebbe imparato a cavalcare e a combattere a corpo a corpo. Questi esercizi consiglia e impone a ciascuno la legge della propria gente. Che cosa, dunque, deve egli meditare? Deve meditare ciò che fa bene contro tutte le armi e contro ogni sorta di nemici: il disprezzo della morte. Nessuno dubita che essa abbia in sé qualcosa di terribile che turba ι nostri animi, disposti da natura all’amore di sé. E non c e bisogno che noi ci prepariamo e ci incoraggiamo per cose verso cui tendiamo per istinto naturale, come la conservazione di noi stessi. Non c’è bisogno d imparare a riposare placidamente, se occorre, su un letto di rose. Ma ci si esercita a non perdersi di coraggio sotto ι tormenti, a passare la notte, se occorre, in piedi, e talvolta, anche feriti, davanti alla trincea, e a non appog­ giarsi all’asta, poiché il sonno s’insinua facilmente quan­ do ci si appoggia a qualche sostegno. La morte non porta alcun danno: perché una cosa arrechi danno, 247

10 Quod si tanta cupiditas te longioris aevi tenet, cogita nihil eorum quae ab oculis abeunt et in rerum naturam, ex qua prodierunt ac mox processura sunt, reconduntur consumi: desinunt ista, non pereunt, et mors, quam pertimescimus ac recusamus, intermittit vitam, non eripit ; veniet iterum qui nos in lucem reponat dies, quem multi recusarent nisi oblitos 11 reduceret. Sed postea diligentius docebo omnia quae videntur perire mutari. Aequo animo debet rediturus exire. Observa orbem rerum in se remeantium : videbis nihil in hoc mundo extingui sed vicibus descendere ac surgere. Aestas abìt, sed alter illam annus adducet ; hiemps cecidit, referent illam sui menses; solem nox obruit, sed ipsam statim dies abigei. Stellarum iste discursus quidquid praeterit repetit; pars caeli levatur adsidue, pars mergitur. 12 Denique finem faciam, si hoc unum adiecero, nec infantes [nec] pueros nec mente lapsos timere mortem et esse turpissimum si eam securitatem nobis ratio non praestat ad quam stultitia perducit. Vale.

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SENECA L VC I L I O SVO S ALVTEM

Quod maximum vinculum est ad bonam mentem, promisisti virum bonum, sacramento rogatus es. Deridebit te, si quis tibi dixerit mollem esse.militiam et facilem. Nolo te decipi. Eadem honestissimi huius et illius turpissimi aucto2 ramenti verba sunt: ‘uri, vinciri ferroque necari’. Ab illis

occorre la presenza di un danneggiato. Se poi hai tanta brama di una vita più lunga, pensa che di tutti gli esseri che scompaiono dalla vista e ritornano in seno alla natura, donde erano usciti e donde presto emergeranno ancora, nessuno si annienta. Essi cessano di esistere, ma non periscono, e la morte, che paventiamo e cerchiamo di allontanare, interrompe la nostra esistenza, non la annulla. Verrà di nuovo il giorno che ci riporterà alla luce, giorno che molti rifiuterebbero, se non tornassero alla vita dopo aver perso ogni ricordo del passato. In seguito ti spiegherò meglio che tutto quello che sembra perire muta soltanto. L’uomo è destinato a tornare alla vita, e perciò deve uscirne serenamente. Osserva il ciclo attraverso cui le cose ritornano tutte in se stesse: vedrai che nulla in questo mondo si estingue, ma con moto alterno tramonta e risorge. Se ne va l’estate, ma per tornare l’anno successivo. Passa l’inverno, ma riapparirà nella sua stagione. La notte nasconde il sole, ma subito dopo il giorno porta via la notte. Similmente le stelle, nella loro rotazione, non fanno che tornare dove sono già passate. Continuamente una parte del cielo sorge, e una parte sprofonda sotto l’orizzonte. E concluderò aggiungendo solo questo: neppure i bimbi e i dementi temono la morte. È perciò cosa veramente vergognosa che la ragione non sia capace di darci quella serenità di spirito a cui porta la stoltezza. Addio. LETTERA 37

Il difficile esercizio della virtù Tu hai promesso di essere un uomo virtuoso, l’hai giura­ to: questo è il vincolo più forte per una buona coscienza. Si prenderebbe gioco di te chi dicesse che quello della virtù è un esercizio leggero e facile. Non lasciarti ingan­ nare. Questo, che è il più onesto dei patti, e quello che è il più infame1 hanno la stessa formula: «Sopportare il 1 II giuramento dei gladiatori.

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qui manus harenae locant et edunt ac bibunt quae per sanguinem reddant cavetur ut ista vel inviti patiantur: a te ut volens libensque patiaris. Illis licei arma summittere, misericordiam populi temptare: tu neque summittes nec vitam rogabis; recto tibi invictoque moriendum est. Quid porro prodest paucos dies aut annos lucrificare ? sine missione 3 nasciftiur. ‘Quomodo ergo’ inquis ‘me expediam?’ Effugere non potes necessitates, potes vincere. Fit via (vi);

et hanc tibi viam dabit philosophia. Ad hanc te confer si vis salvus esse, si securus, si beatus, denique si vis esse, quod est 4 maximum, liber; hoc contingere aliter non potest. Humilis res est stultitia, abiecta, sordida, servilis, multis adfectibus et saevissimis subiecta. Hos tam graves dominos, interdum alternis imperantes, interdum pariter, dimittit a te sapientia, quae sola libertas est. Una ad hanc fert via, et quidem recta; non aberrabis; vade certo gradu. Si vis omnia tibi subicere, te subice rationi; multos reges, si ratio te rexerit. Ab illa disces quid et quemadmodum adgredi debeas; non incides 5 rebus. Neminem mihi dabis qui sciai quomodo quod vult .coeperit velie : non consilio adductus ilio sed impetu inpactus est. Non minus saepe fortuna in nos incurrit quam nos in illam. Turpe est non ire sed ferri, et subito in medio turbine rerum stupentem quaerere, ‘huc ego quemadmodum veni ?’ Vale.

fuoco, le catene, la morte di spada.» Da coloro che danno a nolo al circo le braccia, e mangiano e bevono ciò che dovranno restituire col sangue, si esige l’impegno di sopportare queste prove, anche controvoglia; da te, di sopportarle volontariamente e di buon grado. A loro è lecito abbassare le armi ed implorare la misericordia della folla. Tu, né cederai le armi, né chiederai di aver salva la vita: devi morire in piedi, senza lasciarti vincere. D ’altra parte, che giova guadagnare qualche giorno o qualche anno? Siamo nati per un combattimento senza scampo. «Come, dunque,» dirai «ne potrei venir fuori?» Non puoi sfuggire a queste necessità, ma puoi vincerle. «Ci si fa strada con la forza2.» Sarà la filosofia a farti strada. Rivolgiti a lei, se vuoi essere salvo, sicuro di te, felice; infine se vuoi conseguire il massimo bene: essere libero. Non puoi ottenere tutto ciò in altro modo. La stoltezza è una cosa bassa, abietta, ignobile, servile, soggetta a una moltitudine di crudeli passioni. Può allon­ tanare da te queste così dure tiranne, che ora comandano a turno ora insieme, solo la saggezza, l’unica vera libertà. Un’unica via, e per di più diritta, ti porta a lei; non potrai sbagliare. Va’ con passo sicuro: se vuoi assoggettare ogni cosa, assoggettati alla ragione. Potrai guidare molti altri se ti guiderà la ragione. Da lei apprenderai che cosa devi fare e in che modo; non soccomberai di fronte agli eventi. Non troverai nessuno che sappia come ha incominciato a volere ciò che vuole: non vi è stato guidato dalla riflessione, ma vi è stato spinto da un impulso irrazionale. La fortuna viene incontro a noi non meno spesso di quanto noi andiamo incontro a lei. È cosa vergognosa, anziché andare verso di lei, lasciarsi trascinare e, presi in mezzo al turbine degli eventi, chiederci con stupore. «Come mai son giunto qui?» Addio.

2 Virgilio, Eneide, II, 494. 250

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SENECA LV CILIO

SVO S A L V T E M

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Merito exigis ut hoc inter nos epistularum commercium frequentemus. Plurimum proficit sermo, quia minutatim inrepit animo: disputationes praeparatae et effusae audiente populo plus habent strepitus, minus familiaritatis. Philosophia bonum consilium est: consilium nemo dare dat. Aliquando utendum est et illis, ut ita dicam, contionibus, ubi qui dubitai inpellendus est; ubi véro non hoc agendum est, ut velit discere, sed ut discat, ad haec submissiora verba veniendum est. Facilius intrant et haerent; nec enim multis 2 opus est sed efficacibus. Seminis modo spargenda sunt, quod quamvis sit exiguum, cum occupavit idoneum locum, vires suas explicat et ex minimo in maximos auctus diffunditur. Idem facit ratio: non late patet, si aspicias; in opere crescit. Pauca sunt quae dicuntur, sed si illa animus bene excepit, convalescunt et exsurgunt. Eadem est, inquam, praeceptorum condicio quae seminum: multum efficiunt, et angusta sunt. Tantum, ut dixi, idonea mens rapiat illa et in se trahat; multa invicem et ipsa generabit et plus reddet quam acceperit. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO S ALVTEM

Commentarios quos desideras, diligenter ordinatos et in angustum coactos, ego vero componam; sed vide ne plus profutura sit ratio ordinaria quam haec quae nunc vulgo breviarium dicitur, olim cum latine loqueremursummarium vocabatur. Illa res discenti magis necessaria est, haec scienti;

LETTERA

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Vantaggi della conversazione familiare Tu hai ragione di esigere che noi intensifichiamo questa nostra corrispondenza epistolare. È di grande giovamen­ to una conversazione alla buona; perché s’insinua nell’a­ nimo a poco a poco. I discorsi già preparati e pronunciati a gran voce davanti al pubblico degli ascoltatori hanno maggior risonanza, ma meno familiarità. La filosofia non è altro che un buon consiglio, ma nessuno dà un consiglio ad alta voce. Ci sono dei casi in cui dobbiamo fare dei grandi discorsi, quando l’ascoltatore è esitante e ha bisogno di essere stimolato. Quando, invece, non si tratta di infondergli la volontà di istruirsi, ma solo di istruirlo, è bene scendere a queste conversazioni più dimesse. Penetrano neH’animo e vi rimangono impresse meglio: non c’è, infatti, bisogno di molte parole, purché esse siano efficaci. Dobbiamo gettarle come si getta il seme, che, anche se piccolo, trovando il terreno adatto, spiega le sue energie e si diffonde in ampi sviluppi. Lo stesso può dirsi di uii ragionamento: non è gran cosa a prima vista, ma si espande nei suoi effetti. Non sono molte le verità che vengono dette, ma se le riceve un animo ben disposto, esse si rafforzano e il germe si sviluppa. Sì, i precetti agiscono come dei semi: hanno capacità di grandi effetti, eppure sono piccola cosa. Ma occorre, come ho detto, che li tragga a sé e li assimili uno spirito ben preparato. A sua volta, anch’esso pro­ durrà molti frutti e renderà più di quello che ha ricevuto. Addio. lettera 39

Bisogna dominare le passioni Tu mi chiedi un compendio di filosofia ordinato e conci­ so, ed io te lo comporrò; vedi, tuttavia, se non ti sia più utile la comune forma di esposizione, piuttosto che questa, ora generalmente chiamata breviario e che un tempo chiamavano più propriamente sommario. La pri­ ma forma di esposizione serve soprattutto a chi deve 252

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illa enim docet, haec admonet. Sed utriusque rei tibi copiarti faciam. Tu a me non est quod illum aut illuni exigas: qui notorem dat ignotus est. Scribam ergo quod vis, sed meo more; interim multos habes quorum scripta nescio an satis ordinentur. Sume in manus indicem philosophorum : haec ipsa res expergisci te coget, si videris quam multi tibi laboraverint. Concupisces et ipse ex illis unus esse; habet enim hoc optimum in se generosus animus, quod concitatur ad honesta. Neminem excelsi ingenii virum humilia delectant et sordida: magnarum rerum species ad se vocat et extollit. Quemadmodum fiamma surgit in rectum, lacere ac deprimi non potest, non magis quam quiescere, ita noster animus in motu est, eo mobilior et actuosior quo vehementior fuerit. Sed felix qui ad meliora hunc impetum dedit : ponet se extra ius dicionemque fortunae; secunda temperabit, adversa comminuet et aliis admiranda despiciet. Magni animi est magna contemnere ac mediocria malie quam nimia; illa enim utilia vitaliaque sunt, at haec eo quod superfluunt nocent. Sic segetem nimia sternit ubertas, sic rami onere franguntur, sic ad maturitatem non pervenit nimia fecunditas. Idem animis quoque evenit quos immoderata felicitas rumpit, qua non tantum in aliorum iniuriam sed etiam in suam utuntur. Qui hostis in quemquam tam contumeliosus fuit quam in quosdam voluptates suae sunt? quorum inpotentiae atque insanae libidini ob hoc unum possis ignoscere, quod quae fecere patiuntur. Nec inmerito hic illos furor vexat; necesse est enim in immensum exeat cupiditas quae naturalem modum transilit. Ille enim

imparare; la seconda a chi sa già; quella serve per apprendere, questa per ricordare le nozioni apprese. Ma io ti farò pervenire l’una e l’altra. Non c’è motivo che tu pretenda da me la garanzia di questo o di quell’auto­ re1; solo chi è ignoto deve presentare un garante. Dun­ que scriverò quello che desideri, ma secondo il mio metodo. Intanto non ti mancano opere di molti autori, ma non so se il loro ordine sia perfetto. Prendi in mano il catalogo dei filosofi. Tale lettura sarà per te un incitamento: vedrai quante persone hanno lavorato per te e bramerai di essere anche tu uno di loro. Infatti la più bella virtù di un animo generoso è l’impulso che lo spinge al bene. Un uomo di nobili sentimenti non può trovare piacere nelle cose basse e ignobili: la bellezza delle cose grandi, invece, lo attira e lo esalta. La fiamma si solleva diritta e non può rimanere a terra o abbassarsi, così come non può restare ferma; allo stesso modo il nostro animo è in continuo movimento, ed è tanto più agile e attivo quanto più sarà pieno di ardore. Ma felice colui che rivolge questo slancio verso nobili scopi: si sottrarrà così all’arbitrio della fortuna. Egli sarà modera­ to di fronte al successo, smorzerà i colpi delle sciagure e si mostrerà distaccato da tutto ciò che per gli altri è oggetto di ammirazione. È proprio di un animo grande disprezzare il desiderio di grandezza e preferire la mode­ razione agli eccessi. L’una è utile alle esigenze della vita, gli altri sono nocivi per la loro sovrabbondanza. La produzione troppo ricca prostra le messi; i rami troppo carichi si spezzano, e l’eccessiva fecondità non fa giunge­ re a maturazione i frutti. La stessa cosa avviene anche agli animi: una smodata prosperità li fiacca e si rivolge non solo contro gli altri, ma a loro stesso danno. Nessun nemico ha portato tanta offesa agli uomini quanto le loro passioni. Questa sfrenata e pazza sete di piaceri sarebbe imperdonabile se gli stessi colpevoli non soffris­ sero le conseguenze delle loro azioni. E a buon diritto questa loro sfrenatezza li tormenta: infatti ogni passione che oltrepassa i limiti stabiliti dalla natura diventa fatal1

Seneca rivendica l’indipendenza del suo pensiero. 255

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habet suum finem, mania et ex libidine orta sine termino 6 sunt. Necessaria metitur utilitas: supervacua quo redigisi Voluptatibus itaque se mergunt quibus in consuetudinem adductis carere non possunt, et ob hoc miserrimi sunt, quod eo pervenerunt ut illis quae supervacua fuerant facta sint necessaria. Serviunt itaque voluptatibus, non fruuntur, et mala sua, quod malorum ultimum est, et amant; tunc autem est consummata infelicitas, ubi turpia non solum delectant sed etiam placent, et desinit esse remedio locus ubi quae fuerant vitia mores sunt. Vale.

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Quod frequenter mihi scribis gratias ago; nam quo uno modo potes te mihi ostendis. Numquam epistulam tuam accipio ut non protinus una simus. Si imagines nobis amicorum absentium iucundae sunt, quae memoriam renovant et desiderium [absentiae] falso atque inani solacio levant, quanto iucundiores sunt litterae, quae vera amici absentis vestigia, veras notas adferunt ? Nam quod in conspectu dulcissimum est, id amici manus epistulae inpressa praestat, agnoscere. 2 Audisse te scribis Serapionem philosophum, cum istuc adplicuisset : ‘solet magno cursu verba convellere, quae non effundit tim af sed premit et urguet; plura enim veniunt quam quibus vox una sufficiat’. Hoc non probo in philosopho, cuius pronuntiatio quoque, sicut vita, debet esse composita; nihil autem ordinatum est quod praecipitatur et properat.

mente smisurata e incontrollabile. L’uomo moderato trova nella natura il suo limite, mentre le vuote fantasie che nascono dalle passioni sono sconfinate. Il necessario ha come sua misura l’utile che reca; ma con quale criterio si può misurare il superfluo? Perciò gli uomini si immergono nelle passioni e, una volta che ne hanno fatto un’abitudine, non possono più farne a meno; e sono veramente infelici, poiché giungono a sentire come necessarie le cose prima superflue. Non godono dei piaceri, ma ne rimangono schiavi e, quella che è la peggiore disgrazia, amano anche il proprio male. Si raggiunge il colmo dell’infelicità quando le cose turpi non solo sono gradite, ma procurano un intimo compiaci­ mento; e non c’è rimedio quando quelli che erano sentiti come vizi diventano abitudine quotidiana. Addio.

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LETTERA 4 0

11 linguaggio del sapiente Tu mi scrivi spesso ed io te ne sono grato, poiché così ti manifesti a me nell’unico modo a te possibile. Appena ricevo una tua lettera, sento immediatamente di stare con te. Se ci sono cari i ritratti degli amici lontani, che rinnovano il ricordo e alleviano il rimpianto con un’ingannevole e fittizia consolazione, quanto più cara è per noi una lettera, che ci porta i loro veri segni e i loro autentici caratteri? Ciò che è più dolce nella presenza di un amico, la lettera lo porta impresso con la mano stessa di lui: essa è l’espressione vivente della sua personalità. Mi scrivi che hai ascoltato il filosofo Serapione, quan­ do è sbarcato in Sicilia. «Ha l’abitudine di convogliare le. parole come in un torrente impetuoso e non le espri­ me... ma esse si travolgono e si incalzano. Gliene vengo­ no alla bocca troppe, perché il fiato gli basti per pronun­ ciarle chiaramente.» Questo io non posso approvare in un filosofo, che nel modo di parlare, come nella vita, deve essere ordinato e corretto. Non ci può essere ordine in tutto ciò che è espresso in una fretta precipitosa. 257

Itaque oratio illa apud Homerum concitata et sine inter­ missione in morem nivis superveniens oratori data est, 3 lenis et melle dulcior seni profluit. Sic itaque habe: [ut] istam vim dicendi rapidam atque abundantem aptiorem esse circulanti quam agenti rem magnam ac seriam docentique. Aeque stillare illum nolo quam currere; nec extendat aures nec obruat. Nam illa quoque inopia et exilitas minus intentum auditorem habet taedio interruptae tarditatis; facibus tamen insidit quod expectatur quam quod praetervolat. Denique tradere homines discipulis praecepta dicuntur: non 4 traditur quod fugit. Adice nunc quod quae ventati operam dat oratio incomposita esse debet et simplex: haec popularis nihil habet veri. Movere vult turbam et inconsultas aures impetu rapere, tractandam se non praebet, aufertur: quomodo autem regere potest quae regi non potesti Quid quod haec oratio quae sanandis mentibus adhibetur descendere in nos debet ? remedia non prosunt 5 nisi inmorantur. Multum praeterea habet inanitatis et vani, plus sonat quam valet. Lenienda sunt quae me exterrent, conpescenda quae inritant, discutienda quae fallunt, inhibenda luxuria, corripienda avaritia: quid horum raptim potest fieri? quis medicus aegros in transitu curati Quid quod ne voluptatem quidem ullam habet talis verborum 6 sine dilectu ruentium strepitus ? Sed ut pleraque quae fieri posse non crederes cognovisse satis est, ita istos qui verba exercuerunt abunde est semel audisse. Quid enim quis di­ scere, quid imitari velit ? quid de eorum animo iudicet quo­ rum oratio perturbata et inmissa est nec potest reprimi? 7 Quemadmodum per proclive currentium non ubi visum est gradus sistitur, sed incitato corporis ponderi servii ac

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Perciò Omero attribuisce all’oratore quel linguaggio con­ citato che scende senza interruzione, come neve; e al vecchio un eloquio che sgorga pacato e più dolce del miele. Sappi, perciò, che codesta foga oratoria, impetuo­ sa e abbondante, è più adatta a un ciarlatano che a chi tratta e insegna argomenti seri e importanti. Condanno ugualmente sia chi fa cadere le parole a goccia a goccia, sia chi parla di corsa. L’oratore non deve né costringere l’uditorio a tendere le orecchie, né stordirlo. Anche la povertà e la magrezza dello stile tengono l’ascoltatore meno attento, per il fastidio di un discorso lento e con frequenti interruzioni; tuttavia quell’oratoria che si fa attendere s’imprime nella memoria più facilmente di quella che passa via di volo. Inoltre, se è vero che, come si dice, i maestri devono trasmettere i loro insegnamenti, non può essere trasmesso ciò che fugge via. Aggiungi che un discorso, per tendere alla verità, dev essere privo di artifizi e semplice. Non ha nulla di vero 1eloquenza che cerca il favore popolare: essa vuol commuovere la folla e trascinare col suo impeto ascoltatori impreparati, non si offre a un ponderato giudizio, ma vi si sottrae. Come può dar norma agli altri, se essa stessa non si sottopone a una regola? Se è vero che l’oratoria serve a sanare gli animi, deve anzitutto scendere dentro di noi. Non giovano i rimedi, se non rimangono a lungo nell’organismo. Una tale oratoria è del tutto inefficace e vacua: risuona a vuoto. Bisogna calmare i territori, frenare gli impulsi, dissipare gli errori, reprimere la lussuria, estirpare l’avarizia. Quale, di questi scopi, può raggiungersi in fretta? Quale medico cura i malati di corsa? Poi un tale strepito di parole che vengono fuori in modo precipitoso e confuso non provoca il minimo piacere. Ma come ci basta farci un’idea sommaria dello spettacolo di un saltimbanco, così ci sembra già troppo aver ascoltato una volta questi giocolieri di parole. Che cosa uno vorrà imparare o imitare da costoro? Che giudizio vorrà dare del loro animo, se il loro discorso, disordinato e abbandonato a se stesso, sfugge a ogni regola? Chi corre per un ripido pendio non può fermare il passo dove ha stabilito, ma, spinto dal peso del corpo, 259

longius quam voluit effertur, sic ista dicendi celeritas nec in sua potestate est nec satis decora philosophiae, quae ponere debet verba, non proicere, et pedetemptim pro8 cedere. ‘Quid ergo? non aliquando et insurget?’ Quidni? sed salva dignitate morum, quam violenta ista et nimia vis exuit. Habeat vires magnas, moderatas tamen; perennis sit unda, non torrens. Vix oratori permiserim talem dicendi velocitatem inrevocabilem ac sine lege vadentem : quemadmodum enim iudex subsequi poterit aliquando etiam inperitus et rudis? Tum quoque, cum illum aut ostentatio abstulerit aut adfectus inpotens sui, tantum festinet atque ingerat quantum aures pati possunt. 9 Recte ergo facies si non audieris istos qui quantum dicant, non quemadmodum quaerunt, et ipse malueris, si necesse est, tvel P. Vinicium dicere qui itaquef. Cum quaereretur quomodo P. Vinicius diceret, Asellius ait ‘tractim’. Narri Geminus Varius ait, ‘quomodo istum disertum dicatis nescio: tria verba non potest iungere’. Quidni malis tu sic dicere 10 quomodo Vinicius? Aliquis tam insulsus intervenerit quam qui illi singula verba vellenti, tamquam dictaret, non di­ ceret, ait die, 1 numquam dicasf?’ Nam Q. Hateri cursum, suis temporibus oratoris celeberrimi, longe abesse ab homine sano volo: numquam dubitavit, numquam intermisit; semel incipiebat, semel desinebat. 11 Quaedam tamen et nationibus puto magis aut minus convenire. In Graecis hanc licentiam tuleris: nos etiam cum scribimus interpungere adsuevimus. Cicero quoque noster, a quo Romana eloquentia exiluit, gradarius fuit. Romanus sermo magis se circumspicit et aestimat praebetque aesti-

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è trascinato assai più del previsto. Così codesta velocità oratoria non è più in grado di padroneggiarsi, né essa si addice alla filosofia, che deve porre in ordine le parole, non gettarle alla rinfusa, e deve procedere passo passo. «Dunque l’oratore non potrà talvolta innalzare il tono?» E perché no? Purché salvi la sua dignità morale, che è incompatibile con codesta foga violenta ed eccessiva. Ci sia nello stile filosofico un grande vigore, ma anche moderazione: sia un fluire abbondante e continuo di acque, non un torrente impetuoso. Tale velocità orato­ ria, che procede senza soste e senza ordine, si potrebbe appena tollerare in un oratore. Infatti come potrebbe tenergli dietro il giudice, che talvolta è anche inesperto e rozzo? Anche se è spinto dal desiderio di far bella figura o da un esagerato amor proprio, l’oratore non deve affrettarsi troppo, né accumulare più parole di quante gli orecchi degli ascoltatori possano ricevere. Tu farai bene a non prendere in considerazione costo­ ro che badano, nei loro discorsi, alla quantità, e non alla qualità delle cose dette. Preferirai, all’occorrenza, ...Si discuteva un giorno su come Vinicio parlasse. «A strattoni» disse Asellio. E Gemino Vario se ne uscì con questa frase: «Non so come potete chiamarlo eloquente; non è capace di mettere insieme tre parole». E perché non dovresti preferire di parlare come Vinicio? Forse potrebbe interromperti qualche sciocco, come quello che, mentre Vinicio cavava fuori ad una ad una le parole, quasi che, più che parlare, dettasse, gli gridò: «Dillo...» Vorrei che l’uomo saggio si tenesse lontano dall’eloquen­ za di Aterio, oratore celeberrimo ai suoi tempi: non aveva mai incertezze, né faceva mai una pausa; una volta che aveva cominciato, andava diritto fino alla fine. Tuttavia penso che uno stile possa essere più o meno conveniente, secondo l’indole dei popoli. Potresti tolle­ rare questi abusi nei Greci. Noi, invece, anche quando scriviamo, siamo soliti segnare le pause. Anche il nostro Cicerone, che fece salire l’eloquenza romana a tanta altezza, andava al passo. L’eloquio romano procede con molta circospezione e ponderatezza, e permette 261

12 mandum. Fabianus, vir egregius et vita et scientia et, quod post ista est, eloquentia quoque, disputabat expedite magis quam concitate, ut posses dicere facilitatem esse illam, non celeritatem. Hanc ego in viro sapiente recipio, non exigo; ut oratio eius sine inpédimento exeat, proferatur tamen malo 13 quam profluat. Eo autem magis te deterreo ab isto morbo quod non potest tibi ista res contingere aliter quam si te pudere desierit: perfrices frontem oportet et te ipse non audias; multa enim inobservatus ille cursus feret quae repren14 dere velis. Non potest, inquam, tibi contingere res ista salva verecundia. Praeterea exercitatione opus est cotidiana et a rebus studium transferendum est ad verba. Haec autem etiam si aderunt et poterunt sine ullo tuo labore decurrere, tamen temperanda sunt; nam quemadmodum sapienti viro incessus modestior convenit, ita oratio pressa, non audax. Summa ergo summarum haec erit: tardilocum esse te iubeo. Vale.

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Facis rem optimam et tibi salutarem si, ut scribis, perseveras ire ad bonam mentem, quam stultum est optare cum possis a te inpetrare. Non sunt ad caelum elevandae manus nec exorandus aedituus ut nos ad aurem simulacri, quasi magis exaudiri possimus, admittat: prope est a te deus, 2 tecum est, intus est. Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedei, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat.

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all’ascoltatore di valutare bene le parole. Fabiano1 fu uomo eminente per la sua vita, per la sua cultura e anche per un merito minore: l’eloquenza. Egli parlava in modo scorrevole, anziché con foga; tanto che possiamo affer­ mare che avesse facilità, non celerità, di eloquio. Io ammetto questa speditezza nell’uomo saggio, ma non la ritengo essenziale. Purché il suo discorso si sviluppi senza intoppi, preferisco che proceda con moderazione, e non che venga fuori con impeto. E tanto più desidero tenerti lontano da questo vizio, in quanto non puoi cadervi senza perdere il senso della dignità; dovrai de­ porre ogni pudore e non capire più il significato di quello che dici. Infatti questa dizione incontrollata porterà con sé molti difetti che tu vorresti evitare. E questo, lo ripeto, non ti potrà accadere che a spese della tua dignità. Inoltre c’è bisogno di un esercizio giornaliero e di un’attenzione che va rivolta prima alla sostanza del pensiero, poi alle parole. Anche se queste verranno da sé e potranno scorrere senza fatica, tuttavia devi saperle moderare: infatti, come all’uomo saggio si addice un incedere misurato, così il suo modo di esporre sia conte­ nuto, e non avventato. Insomma, ti consiglio di parlare con ponderazione. Addio. lettera

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La presenza di dio in noi e nella natura Fai cosa ottima e per te salutare se, come scrivi, continui a procedere verso quella saggezza che è stolto implorare con preghiere se puoi ottenerla da te. Non occorre sollevare le mani al cielo, né raccomandarsi al custode del tempio perché ci permetta di avvicinarci agli orecchi della statua, quasi che così sia possibile essere meglio ascoltati. Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Sì, o Lucilio,-in noi c’è uno spirito divino che osserva e controlla il male e il bene delle nostre azioni; e, come noi lo trattiamo, egli ci tratta. Non c’è nessuno che 1 Papirio Fabiano, uno dei m aestri di Seneca.

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Bonus vero vir sine deo nemo est: an potest aliquis supra fortunam nisi ab ilio adiutus exsurgere? Ille dat consilia magnifica et erecta. In unoquoque virorum bonorum (quis deus incertum est) habitat deus. 3 Si tibi occurrerit vetustis arboribus et solitam altitudinem egressis frequens lucus et conspectum caeli (densitate) ramorum aliorum alios protegentium summovens, illa proceritas silvae et secretum loci et admiratio umbrae in aperto tam densae atque continuae fidem tibi numinis faciet. Si quis specus saxis penitus exesis montem suspenderit, non manu factus, sed naturalibus causis in tantam laxitatem excavatus, animum tuum quadam religionis suspicione percutiet. Magnorum fluminum capita veneramur; subita ex abdito vasti amnis eruptio aras habet; coluntur aquarum calentium fontes, et stagna quaedam vel opacitas vel immensa 4 altitudo sacravit. Si hominem videris interritum periculis, intactum cupiditatibus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, ex superiore loco homines videntem, ex aequo deos, non subibit te veneratio eius ? non dices, ‘ista res maior est altiorque quam ut credi similis huic in quo est 5 corpusculo possit’ ? Vis isto divina descendit; animum excellentem, moderatum, omnia tamquam minora transeuntem, quidquid timemus optamusque ridentem, caelestis potentia agitai. Non potest res tanta sine adminiculo numinis stare; itaque maiore sui parte illic est unde descendit. Quemadmodum radii solis contingunt quidem terram sed ibi sunt unde mittuntur, sic animus magnus ac sacer et in hoc demissus, ut propius [quidem] divina nossemus, conversatur quidem nobisctim sed haeret origini suae; illinc pendei, illue

sia uomo retto senza l’assistenza di dio. Chi potrebbe sottrarsi al dominio della fortuna, senza il suo aiuto? E lui che ci ispira le decisioni magnanime ed eroiche. In ciascun uomo retto «abita un dio; non sappiamo quale, ma si tratta di un dio»1. Se si presenterà al tuo sguardo un bosco folto di vecchi alberi, più alti dell’ordinario, i cui fitti rami, coll’intrecciarsi gli uni agli altri, tolgono la vista del cielo, l’altezza di quella foresta, il mistero del luogo, lo spettacolo impressionante dell’ombra così densa e continua in mezzo alla libera campagna, ti assicureranno della presenza di un dio. E se un antro, aprendosi in rocce profondamente corrose, tiene quasi sospeso un monte - un antro non scavato da mani umane, ma formato nella profondità dei suoi recessi da cause naturali - , un senso di religiosa trepidazione colpi­ rà il tuo animo. Noi veneriamo le sorgenti dei fiumi: dove l’acqua erompe dal profondo, s’innalzano altari; sono oggetto di culto le fonti di acque termali, ed alcuni laghi sono considerati sacri o per il loro colore cupo, o per la smisurata profondità. Se vedi un uomo impavido di fronte ai pericoli, libero dalle passioni, felice fra le avversità, sereno in mezzo alle tempeste, che guarda gli altri uomini dall’alto e gli dèi da pari a pari, non sarai preso da un senso di venerazione per lui? E non dirai: «C’è in lui qualcosa di troppo grande e di troppo sublime perché la si possa confondere con questo misero corpo in cui è imprigionata»? Una forza divina vi è discesa: una potenza celeste vivifica la sua anima eccellente, moderata, che considera tutte le cose al di sotto di sé e passa oltre, che ride di tutto ciò che noi temiamo o bramiamo. Un essere tanto grande non può esistere senza un sostegno divino: perciò la maggior parte di lui è là donde è discesa. Come i raggi del sole toccano la terra, ma hanno la loro fonte nell’astro da cui sono emessi, così l’anima grande e santa è stata mandata quaggiù perché potessimo conoscere qualcosa di divino. Essa ha rapporto con noi, ma rimane congiunta alla sua origine, da cui deriva e a cui volge sguardo e aspirazioni: 1 Virgilio, Eneide, V ili, 352.

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6 spectat ac nititur, nostris tamquam melior interest. Quis est ergo hic animus ? qui nullo bono nisi suo nitet. Quid enim est stultius quam in homine aliena laudare ? quid eo dementius qui ea miratur quae ad alium transferri protinus possunt ? Non faciunt meliorem equum aurei freni. Aliter leo aurata iuba mittitur, dum contractatur et ad patientiam recipiendi ornamenti cogitur fatigatus, aliter incultus, integri spiritus : hic scificet impetu acer, qualem illum natura esse voluit, speciosus ex horrido, cuius hic decor est, non sine timore 7 aspici, praefertur illi languido et bratteato. Nemo gloriari nisi suo debet. Vitem laudamus si fructu palmites onerat, si ipsa pondere [ad terram] eorum quae tulit adminicula deducit : num quis huic illam praeferret vitem cui aureae uvae, aurea folia dependent? Propria virtus est in vite fertilitas; in homine quoque id laudandum est quod ipsius est. Familiam formonsam habet et domum pulchram, multum serit, multum fenerat: nihil horum in ipso est sed circa ipsum. 8 Lauda in ilio quod nec eripi potest nec dari, quod proprium hominis est. Quaeris quid sit ? animus et ratio in animo perfecta. Rationale enim animai est homo; consummatur itaque bonum eius, si id inplevit cui nascitur. Quid est autem quod ab ilio ratio haec exigat ? rem facillimam, secundum naturam suam vivere. Sed hanc difficilem facit communis insania: in vitia alter alterum trudimus. Quomodo autem revocari ad salutem possunt quos nemo retinet, populus inpellit ? Vale.

e partecipa alla nostra vita come un essere superiore. Dunque, che cos’è quest’anima? E un principio spirituale che non risplende se non della sua luce. Niente, perciò, è più stolto che lodare nell’uomo ciò che non gli e proprio. Nessuno è più pazzo di colui che ammira tutte quelle cose che possono trasferirsi in un altro. 1 treni d’oro non fanno migliore il cavallo. Un leone dalla criniera dorata, che è stato affaticato per costringerlo a tollerare paziente gli ornamenti, non scenderà nell arena con lo stesso slancio di un leone selvaggio, che conserva l’integrità degli istinti. Questo, fiero come lo vuole a natura, bello per la terribilità del suo aspetto, perche la sua bellezza sta appunto nel non poter essere guardato senza terrore, sarà preferito a quello, infiacchito e ador­ no d’oro. Nessuno deve gloriarsi se non di ciò che e suo. Noi lodiamo una vite se i tralci sono carichi di frutti; se, per il peso dei grappoli, gli stessi sostegni si piegano. Forse c’è qualcuno che le preferirebbe una vite da cui pendessero grappoli e pampini d’oro? La virtù propria della vite è la fecondità. E anche nell uomo bisogna lodare ciò che gli è proprio. C’è chi ha schiavi prestanti, una bella casa, vasti campi coltivati, capitali molto reddi­ tizi: nessuno di questi beni è dentro di lui, ma intorno a lui. Potrai lodare in lui ciò che non potrà ne essergli tolto né essergli dato, ciò che è proprio dell uomo. Mi chiedi cos’è? È l’anima, e nell’anima, una ragione perfetta. L’uomo è un animale fornito di ragione: pertan­ to realizza pienamente il suo bene se assolve il compito per cui è nato. E che cosa esige da lui questa ragione. Una cosa molto facile: che egli viva secondo la natura che gli è propria. Ma la comune pazzia rende questo molto difficile: noi ci spingiamo a vicenda nei vizi. Ora, com’è possibile richiamare sulla via della salvezza coloro che non sono trattenuti da nessuno, anzi sono aizzati dalla folla? Addio.

LIBER QVINTVS

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LIB R O Q U IN TO

S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M

LETTERA 42

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lam tibi iste persuasit virum se bonum esse? Atqui vir bonus tam cito nec fieri potest nec intellegi. Scis quem nunc virum bonum dicami hunc secundae notae; nam ille alter fortasse tamquam phoenix semel anno quingentesimo nascitur. Nec est mirum ex intervallo magna generari: mediocria et in turbam nascentia saepe fortuna producit, eximia vero 2 ipsa raritate commendai. Sed iste multum adhuc abest ab eo quod profitetur; et si sciret quid esset vir bonus, nondum esse se crederei, fortasse etiam fieri posse desperaret. ‘At male existimat de malis.’ Hoc etiam mali faciunt, nec ulla maior poena nequitiaest quam quod sibi ac suis displicet. 3 At odit eos qui subita et magna potentia inpotenter utuntur.’ Idem faciet cum idem potuerit. Multorum quia inbecilla sunt latent vitia, non minus ausura cum illis vires suae placuerint quam illa quae iam felicitas aperuit. Instru4 menta illis explicandae nequitiae desunt. Sic tuto serpens etiam pestifera tractatur dum riget frigore: non desunt tunc illi venena sed torpent. Multorum crudelitas et ambitio et

La disonestà rimane talvolta nascosta Costui ti ha già persuaso ch’egli è un uomo virtuoso? Non si diventa così presto un uomo virtuoso, né così presto si può giudicarlo. E sai a quale uomo virtuoso mi riferisco? A quello di seconda qualità. Infatti, di uomini virtuosi in senso assoluto, forse, come la Fenice, ne nasce uno ogni cinquecento anni. Né c’è da meravigliarsi che le grandi cose siano generate dopo un lungo interval­ lo. La fortuna produce spesso per la folla le cose medio­ cri, ma raccomanda quelle eccellenti con la loro stessa rarità. Costui è ancora molto lontano da quello che egli dichiara di essere. E , se sapesse che significa uomo buono, non crederebbe di esserlo già; anzi, forse non spererebbe di poterlo diventare. «Ma egli ha una cattiva opinione dei malvagi.» Questo lo pensano anche i malva­ gi; e la maggior pena per un disonesto sta nel dispiacere a sé e ai suoi. «Ma odia coloro che, saliti ad un tratto a grande potenza, ne abusano.» E si comporterà allo stesso modo quando avrà raggiunto la stessa potenza. I vizi di molti rimangono nascosti perché sono ancora deboli, ma, quando acquistano forza, non hanno meno audacia di quelli che le circostanze favorevoli hanno già reso palesi. A tali individui manca solo l’occasione per manifestare la loro disonestà. Così un serpente, anche se è velenoso, può essere maneggiato senza pericolo finché è in letargo per il freddo: non gli mancano i veleni, ma sono intorpiditi. A molti manca solo il favore

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luxuria, ut paria pessimis audeat, fortunae favore deficitur. Eadem velie [subaudi si] cognosces : da posse quantum volunt. Meministi, cum quendam adfirmares esse in tua potestate, dixisse me volaticum esse ac levem et te non pedem eius tenere sed pinnam ? Mentitus sum : piuma tenebatur, quam remisit et fugit. Scis quos postea tibi exhibuerit ludos, quam multa in caput suum casura temptaverit. Non videbat se per aliorum pericula in suum ruere; non cogitabat quam onerosa essent quae petebat, etiam si supervacua non essent. Hoc itaque in his quae adfectamus, ad quae labore magno contendimus, inspicere debemus, aut nihil in illis commodi esse aut plus incommodi: quaedam supervacua sunt, quaedam tanti non sunt. Sed hoc non pervidemus et gratuita nobis videntur quae carissime Constant. Ex eo licet stupor noster appareat, quod ea sola putamus emi prò quibus pecuniam solvimus, ea gratuita vocamus prò quibus nos ipsos inpendimus. Quae emere nollemus si domus nobis nostra prò illis esset danda, si amoenum aliquod fructuosumve praedium, ad ea paratissimi sumus pervenire cum sollicitudine, cum periculo, cum iactura pudoris et libertatis et temporis; adeo nihil est cuique se vilius. Idem itaque in omnibus consiliis rebusque faciamus quod solemus facere quo,tiens ad institorem alicuius mercis accessimus: videamus hoc quod concupiscimus quanti deferatur. Saepe maximum pretium est prò quo nullum datur. Multa possum tibi ostendere quae adquisita acceptaque libertatem nobis extorserint; nostri essemus, si ista nostra non essent. Haec ergo tecum ipse versa, non solum ubi de incremento agetur, sed etiam ubi de iactura. ‘Hoc periturum est.’ Nempe adventicium fuit; tam facile sine isto vives quam vixisti. Si diu illud

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della fortuna perché siano capaci di uguagliare per cru­ deltà, ambizione e scostumatezza i peggiori. Permetti loro solo di realizzare i loro desideri, e ti accorgerai che essi hanno le stesse perverse tendenze. Ti ricordi di quel tale che affermavi di avere in tuo potere? Io ti dissi che era un uomo volubile e leggero, e che tu non lo tenevi stretto per un piede, ma per un’ala. Ho mentito: lo tenevi per una piuma; te l’ha lasciata ed è fuggito. Sai i tiri che t’ha giocato in seguito; e quante ne ha fatte, che poi dovevano ricadérgli sul capo. Non vedeva che, mettendo gli altri in pericolo, ci si precipitava lui stesso: non immaginava quanto fossero gravose le imprese a cui si accingeva, anche se non erano infruttuose. Pertanto, riguardo a molte cose a cui aspiriamo e a cui rivolgiamo le nostre fatiche, dobbiamo capire che in esse non c’è nessun vantaggio o che gli aspetti sfavorevoli superano quelli favorevoli: alcune sono inutili, altre non valgono la fatica. Ma noi non sappiamo fare quest’inda­ gine e ci sembra di acquistare gratuitamente cose che, invece, ci costano molto. La nostra stupidità appare da questo fatto: crediamo di spendere solo per quegli ogget­ ti che paghiamo col denaro, mentre consideriamo gratui­ ti quelli che paghiamo a spese della nostra stessa perso­ na. Non vorremmo comprarli se, per acquistarli, dovessi­ mo dare in cambio la nostra casa, o un ameno e fertile terreno; ma siamo prontissimi a ottenerli a prezzo di ansietà e pericoli, e perdendo tempo, libertà e dignità: niente noi teniamo così a vile come noi stessi. Nel decidere ogni nostra azione comportiamoci come quan­ do andiamo da un commerciante. Se desideriamo un oggetto, chiediamone il prezzo. Spesso una cosa per cui non abbiamo pagato niente, in realtà ci è costata carissima. Ti potrei mostrare molti esempi di cose che, ricevute come vantaggiose e gratuite, ci hanno tolto la libertà. Saremmo ancora padroni di noi, se codeste cose non fossero diventate nostre. Queste considerazioni devi farle non solo per quanto riguarda gli acquisti, ma anche le perdite. «Perderò questo bene.» Sia pure, ma è un bene che viene dal di fuori; potrai vivere senza di esso, come hai già vissuto. Se lo hai posseduto a lungo, lo 271

Imbuisti, perdi, postquam satiatus es; si non diu, perdis antequam adsuescas. ‘Pecuniam minore™ habebis.’ N empe 0 et molestiam. Gratiam minorem.’ Nempe et invidiam Cir cumspice asta quae nos agunt in insania™, quae cum p l u Ì ™ s ™ popmionem i n mittlmUt: ^ “Nomo damnUm in iis sentir ™ l« t u m esse, sed damm. illa perisse

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