309 111 1MB
Italian Pages 196 [184] Year 2004
Letteratura e riviste
Giorgio Baroni
LETTERATURA E RIVISTE A cura di Giorgio Baroni
MMIV
GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA
BIBLIOTECA DELLA « RI V I S T A D I L E T T E R A T U R A I T A L I A N A » diretta da Giorgio Baroni * .
La pubblicazione di questo volume ha ricevuto il contributo finanziario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sulla base di una valutazione dei risultati della ricerca in essa espressi. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Giardini Editori e Stampatori in Pisa, un marchio della Accademia Editoriale, Pisa ⋅ Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata ⋅ All rights reserved Copyright by Giardini Editori e Stampatori in Pisa, un marchio della Accademia Editoriale, Pisa ⋅ Roma http://www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Giosuè Carducci ⋅ i Ghezzano ⋅ La Fontina (Pisa) Tel. + ( linee r.a.) ⋅ Fax + E-mail: [email protected] Stampato in Italia ⋅ Printed in Italy i s b n ---
SOMMARIO Giorgio Baroni, Il Novecento in rivista (Introduzione) Maria Cristina Albonico, Il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana Paola Baioni, La poesia in «Primato » Anna Bellio, Bigiaretti e «Augustea » Loreto Busquets, Fortuna e sfortuna di Ramón Gómez de la Serna in Italia Alberto Frattini, Per un bilancio critico di «Poesia Nuova» Cecilia Gibellini, La bella scuola: «L’Eroica » e la xilografia Enrica Mezzetta, Benedetta scrittrice futurista Federica Millefiorini, Fortunato Depero e le riviste Paola Ponti, Crémieux al rovescio. Le sorti d’un critico transalpino sulle riviste italiane del ventennio Giovanna Romanelli, « I Libri del Giorno» tra informazione e formazione Andrea Rondini, Pericolo giallo? Avventura e mistero nelle riviste letterarie del ventennio Paolo Senna, Il volto affabile delle parole. Le collaborazioni di Angelo Barile a «Persona »
Giorgio Baroni IL NOVECENTO IN RIVISTA
P
E R C H É mai la letteratura dovrebbe andar d’accordo con il periodico? Apparentemente l’aspirazione a durare nel tempo, tipica di ogni arte, non ha molto in comune con un tipo di pubblicazione destinata dalla propria periodicità a diventare in un tempo prefissato “vecchia” e quindi superata, così da essere accantonata o scartata del tutto. Ma se un’ancorché interessante teoria non corrisponde alla realtà, su questa bisogna basarsi e il macero tocca alla teoria. Di fatto da quando esistono gazzette, accanto ad altri contenuti, compare frequentemente la letteratura in ogni suo aspetto, al punto che si può registrare l’esistenza di periodici letterari (in quanto interamente o quasi dedicati alle lettere) accanto ad altri che alla letteratura riservano soltanto una o più rubriche. Ma le differenze all’interno dei due gruppi sono innumerevoli e questo giustifica la prolificazione di tutta una varietà di testate che riescono a coesistere, grazie alle differenze. Per esempio persino con il termine “rivista letteraria” si intendono comunemente almeno due cose piuttosto distanti: una rivista che pubblica creazioni letterarie in versi o in prosa oppure una rivista di critica letteraria; e anche qui le vie di mezzo e le specializzazioni sono infinite. Del resto i periodici non specificamente letterari ospitano letteratura o critica letteraria coerenti con l’impostazione di fondo : per esempio in un giornale femminile si troveranno facilmente testi narrativi o recensioni di libri ritenuti adatti alle lettrici. Quanto al rischio dell’effimero, questo è compensato per gli scrittori dal vantaggio di un pubblico già selezionato e predisposto a leggere; forse nessuno dei molti scrittori che manda fuori in rivista qualche poesia pensa di aver fissato una forma per sempre. Al periodico si dà qualcosa che può avere nel bene e nel male il sapore dell’anteprima; alla successiva raccolta di versi, di novelle e persino di saggi il compito di consegnare al giudizio del tempo un’ editio ne varietur (salvo ripensamenti). Durante il diciannovesimo secolo in Italia alcuni periodici diedero agli scrittori soddisfazioni anche venali non indifferenti grazie soprattutto al romanzo d’appendice che rendeva subito e per giunta trascinava i libri successivi: un po’ come è avvenuto poi col cinema e oggi ancor più con la televisione, per cui il romanzo ridotto a film gode spesso di un’impennata nelle tirature. Nel ventesimo secolo l’accelerazione data dalla tecnica a ogni aspetto dell’esistenza e inevitabilmente pure al mondo dell’arte (come fu felicemente intuito da Filippo Tommaso Marinetti) spinse più che nel passato gli scrittori a cercare il contatto immediato con il pubblico e la rivista ha offerto mille possibilità: fu il luogo per presentare il nuovo autore o il nuovo libro, per pubblicare manifesti e polemiche, per esaltare o stroncare; alcune riviste sono l’organo di una corrente, altre la madre o l’ostetrica di un movimento; possono essere libera palestra di incontro di opinioni diverse o pretendere di indirizzare la letteratura e la cultura in una certa direzione politica, salvo essere rilette, poi, come vivaio di dissenso e di fermenti di diverso segno. I momenti storici nodali divengono occasioni per fioriture eccezionali: così per esempio nei primi anni del secondo dopoguerra, accanto a testate che muoiono o cambiano pelle, innumerevoli sono le iniziative entusiastiche che portano alla nascita di periodici nuovi, in maggioranza inevitabilmente di breve durata. Per gli scrittori del Novecento, specialmente nei primi cinquant’anni, la rivista è luogo di incontro e di confronto: quel che si faceva nel passato inviando copie manoscritte di testi in fieri ad amici e colleghi per ottenere pareri, incoraggiamenti e proficue osservazioni, avviene attraverso la diffusione spesso altrettanto limitata di abbozzi e prime stesure su periodici diretti da amici ed estimatori; una cerchia aperta e disponibile a cooptare nuovi collaboratori e auspicabilmente abbonati. Stretto è spesso pure il legame fra editori di libri e di periodici, medesimi i direttori di collana e di rivista.
giorgio baroni
Anche per questo chi vuol ricostruire il mondo letterario della prima metà del Novecento finisce col dover lavorare sulle riviste, alla ricerca delle prime tracce di un’opera in gestazione, di amicizie e contatti, di influenze, aiuti e dispetti, di incomprensioni e liti, di nuovi incontri e accordi. Sfogliando le riviste, magari mettendone sul tavolo più d’una dello stesso anno, con vicino le opere uscite e, là dove disponibili, i carteggi, si va veramente a fondo e si scoprono particolari alla fine determinanti per la corretta lettura delle opere (operazione questa che unica giustifica l’indagine critico-letteraria). Con lo scopo di agevolare l’incontro di dati provenienti da testate diverse, raccolte e conservate in luoghi disparati (e ormai con supporti vari: dall’originale carta alla pellicola variamente organizzata sino ai più recenti supporti informatici) una quindicina d’anni fa un gruppo di studiosi dell’Università Cattolica di Milano, collegati con altri atenei, con la collaborazione di alcuni laureandi, iniziò a dedicarsi allo spoglio di alcune riviste e all’allestimento dei dati così ricavati. Creata un po’ alla volta una convenzione di raccordo, si passò alla nascita di un apposito magazzino informatico dotato di motore di ricerca, sino all’attuale situazione che in questi giorni vedrà il battesimo di Iride, il sito in cui chiunque potrà liberamente consultare l’indice cumulativo delle riviste già caricate. L’avvenimento coinciderà con un convegno internazionale promosso con lo scopo di dare una spinta decisiva a questi studi, sia dibattendone gli aspetti teorici e statutari, sia organizzando forme di collaborazione per arrivare a strumenti sempre più completi ed efficaci. Nel gruppo che ha portato alla nascita di Iride c’è stato negli anni un ricambio di persone e un avvicendarsi nelle funzioni; intanto coloro che hanno lavorato al progetto ne hanno tratto materia per proprie ricerche. Alcune di queste appaiono qui riunite in volume: si possono considerare piccoli esempi della varietà di angolazioni cui si presta un esame sistematico delle riviste culturali e letterarie. Gli autori, alcuni molto giovani, sono tutti del gruppo salvo Alberto Frattini, accolto calorosamente per affinità di interessi e contiguità di percorsi. Le riviste in questi studi appaiono il punto di osservazione privilegiata per verificare nell’Italia del ventesimo secolo la ricezione di particolari aspetti di letteratura straniera moderna e di quella latina antica, per studiare lo sviluppo di un movimento o di un genere oppure i rapporti fra autori e riviste, con sconfinamenti in altre arti e discipline. Questi saggi non segnano certamente un punto di arrivo, data la vastità della materia e la limitatezza di questi assaggi; si possono tuttavia considerare un aperitivo per il dibattito che si terrà all’annunciato convegno che non a caso reca lo stesso titolo Letteratura e riviste.
Maria Cristina Albonico IL BIMILLENARIO VIRGILIANO NELLE RIVISTE DI LETTERATURA ITALIANA
N egli anni intorno al vi fu un notevole addensarsi di studi, traduzioni, commenti
delle opere del poeta latino Publio Virgilio Marone; nel ricorreva infatti il bimillenario della sua nascita (avvenuta appunto nel a. C.) e tale evento ebbe risonanza anche nelle riviste di studi di italianistica, dunque non specificamente di filologia e letterature classiche. Ciò si comprende se si pensa alle vaste proporzioni dell’iniziativa celebrativa voluta per tale occasione dal regime fascista: le opere virgiliane proponevano in effetti quei valori e quei miti romani fatti propri dal fascismo, come l’esaltazione della vita rurale, l’imperialismo, la supremazia dell’Occidente sull’Oriente. Inoltre, la politica culturale del fascismo si ispirava al rapporto creatosi fra Augusto e i poeti appartenenti alla cerchia di Mecenate, poiché questo modello di relazione tra potere politico e intellettuali costituiva un esempio significativo per l’impegno che la moderna èlite culturale avrebbe dovuto prendere nei confronti del fascismo. Osserva infatti Luciano Canfora che la celebrazione del bimillenario virgiliano (a cui sarebbe seguita sette anni dopo quella del bimillenario augusteo, più aggressiva e imperialista) fu un’occasione fondamentale nella politica culturale fascista: «non solo in quanto primo esperimento di celebrazione culturale di massa sorretta da espliciti intenti politici [...] ma anche per il momento politico in cui si colloca. È il momento di massima stabilizzazione e di consenso intorno al regime, all’indomani della Conciliazione e del plebiscito. In particolare al principio del il regime è reduce dalla discreta riuscita della cosiddetta “battaglia del grano”; anche la campagna per le bonifiche registra risultati positivi che vanno in direzione di un potenziamento dell’agricoltura ». Così, con la sua politica rurale e la valorizzazione delle attività agricole, l’Italia riesce a fronteggiare la grande crisi economica che grava in quegli anni sui Paesi occidentali; Virgilio, il poeta delle Georgiche, è il simbolo del superamento della crisi. Naturalmente, non sempre gli studi virgiliani subirono influssi o condizionamenti di origine politica; in ogni caso, già gli anni immediatamente precedenti le celebrazioni videro il fiorire di recensioni, interventi e saggi critici sul poeta, anche su riviste non prettamente dedicate agli studi classici. Un esempio di studio scevro da finalità estranee alla critica letteraria è il saggio di Tommaso Fiore La IVa Egloga di Virgilio, pubblicato su «Il Baretti», mensile torinese fondato da Piero Gobetti; questo saggio, come specifica il sottotitolo, anticipa il volume La poesia di Virgilio (che verrà pubblicato due anni dopo, proprio nel ). Prescindendo da interpretazioni forzate e da una lettura pre-cristianeggiante dello scrittore latino, Fiore mette in luce lo sgomento del poeta per la «fatale impotenza» dell’umanità e « per la sua effimera fragilità dinanzi al tempo» ; contro il male e la morte, Virgilio si appella all’avvenire: il valore del suo inno di gioia consiste nella esaltazione di una vita futura moralmente migliore. Questa concezione spiega la lettura cristiana che è stata data di questa egloga; Fiore respinge però l’idea di una interpretazione che . Luciano Canfora, Fascismo, in Enciclopedia Virgiliana, Roma, Treccani, , vol. ii, p. . . Tommaso Fiore, La IVa Egloga di Virgilio, «Il Baretti», Torino, settembre , pp. -.
maria cristina albonico
veda nel poeta influssi di messianismo orientale, che su Virgilio avrebbero avuto ben più profonda incidenza. Il centro ideale del rinnovamento è sempre il canto, la poesia bucolica : secondo il critico, il poeta non vuole abbandonare la «poesia dei boschi», ma vuole affermare che essa è una suprema interpretazione della storia e della vita. Nella visione di Fiore il mondo rinnovato, secondo Virgilio, si dovrà realizzare subito e nel mondo romano: «ogni uomo si aspetta di veder realizzata la sua utopia durante la sua vita ; e i poeti poi anche in queste universalizzazioni non sanno distaccarsi da un piccolo punto nel globo, in cui si accentra la loro vita spirituale, Roma, per Virgilio, come anche per Dante». Per questo Tommaso Fiore scrive che il puer di cui si parla nell’egloga è il figlio di Asinio Pollione, nobile spirito e uomo d’azione, amico di Virgilio: raggiunto nella repubblica il supremo potere, indirizza la sua politica alla pace; la sua opera sarà continuata dal figlio e si realizzerà così una nuova età dell’oro. Fiore conclude con una serie di domande e di esclamazioni sul destino del mondo e sull’avvenire dei fanciulli, soffermandosi sugli ultimi versi del componimento: «l’inno al neonato raccoglie inaspettatamente le sue ali in un breve punto; poche note, staccate, ripetute, grande sospensione e concentrazione di affetti intimi, casalinghi, la cui delicatezza è tale che non è consentito dubitare del significato schiettamente umano di questa egloga travagliatissima». Interventi più brevi ma interessanti si trovano nel settimanale di lettere, scienze ed arti «La Fiera letteraria» : vi si può leggere ad esempio l’autorevole giudizio di Bruno Nardi sulla dibattuta questione intorno al luogo di nascita di Virgilio: Dove nacque Virgilio ?. La tradizione lo colloca ad Andes, l’odierna Pietole, vicino a Mantova; ciò è stato messo in discussione da critici tedeschi ma Nardi, con asserzioni serie e attente, pone fine al dibattito : l’errore che ha indotto alcuni studiosi a ritenere Virgilio bresciano o veronese deriva dal credito dato a erronei codici tardi (mentre i più antichi indicano Andes distante da Mantova solo milia passum III, e non XXX). Nella stessa rivista si trova una riflessione di Giosuè Carducci tratta dai Discorsi letterari e storici, intitolata significativamente Virgilio Poeta Imperiale: «Il voto del mondo romano all’uscire dalle guerre civili, la pace nella grandezza, prese forma epica nel più bel poema letterario delle genti latine». Secondo Carducci, Virgilio fa rifulgere la virtù dell’intelletto politico, che d’ora in poi distingue la poesia latina dalla greca; nella sua lirica, inoltre, sembrano risorgere le rovine delle città sparite e dei popoli perduti: le diverse popolazioni italiche, dopo le lotte iniziali, confluiscono nella gloria di Roma. L’accento sull’italianità emerge anche da una recensione di Augusto Vicinelli a L’Eneide, tradotta da Francesco Vivona: il pregio intrinseco di questa versione, infatti, è quello «di essere poesia italiana» ; a ciò si aggiungono la chiarezza e precisione delle note erudite e la finezza di quelle estetiche. Di maggior impegno sono i contributi della rivista «Pègaso », rassegna di lettere e arti, diretta da Ugo Ojetti; nel numero del novembre , il noto traduttore e commentatore di Virgilio, Giuseppe Albini, riprende la questione sul luogo di nascita del poeta latino: La villa mantovana di Virgilio. Come aveva fatto Bruno Nardi nel contributo sopra citato, Albini confuta le tesi degli studiosi, tra cui il Conway, che sostenevano che il luogo d’origine virgiliano era situato nel bresciano: citando lo stesso Nardi, Albini sostiene la tesi tradizionale, anche secondo quanto avevano scritto Ovidio, Mar. Bruno Nardi, Dove nacque Virgilio?, «La Fiera letteraria», Milano, dicembre , p. . . Giosuè Carducci, Virgilio Poeta Imperiale, «La Fiera letteraria», Milano, aprile , p. . . Augusto Vicinelli, L’Eneide, «La Fiera letteraria», Milano, ottobre , p. . . Giuseppe Albini, La villa mantovana di Virgilio, «Pègaso », Firenze, novembre , pp. -.
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
ziale, Silio Italico ; Mantova, vera città natale, è inoltre l’unica della regione ad essere nominata in tutti i suoi poemi. Comunque, il critico sottolinea come la città di Mantova nelle Bucoliche sia accostata a Roma, che si innalza sulle altre come i cipressi tra i viburni : « c’è la felice meraviglia di trovar subito nella prima pagina virgiliana impresso e fulgente il nome di Roma con la sua visione trionfale all’orizzonte, e di sentire insieme la placida consuetudine della piccola città nativa». Direttamente attinente alle celebrazioni per il bimillenario è il contributo di Concetto Marchesi, Virgilio, pubblicato nel su «Pègaso » ; coerentemente ai suoi presupposti, per cui negava alle opere virgiliane finalità propagandistiche estranee alla poeticità, Marchesi rinnega l’utilità di pubbliche celebrazioni: «Che si ricorderà di Virgilio quest’anno? Quello, naturalmente, che fa comodo ai più, per officiosità e consuetudine. Sarà celebrato il poeta dell’agricoltura e dell’impero, della terra nutrice degli uomini e di Roma nutrice delle genti». Inoltre Marchesi ribadisce il suo interesse per la “poesia” virgiliana, piuttosto che per la “non poesia”, sottolineando il carattere umano, quindi anti-romano, della tragedia di Didone ; se è vero che dal poema traspare tutta la storia di Roma, dall’episodio dell’abbandono di Didone da parte di Enea traspare «l’anima fenicia di Virgilio» : alla morte della regina cartaginese nasce «nell’animo del lettore una pietà senza patria che vuole e aspetta il vendicatore : Annibale sarà quel vendicatore. In questa parte del poema in cui si svolge la tragedia dell’amore, ch’è la più personale e perciò la più universale delle tragedie, Virgilio non si accorge di perdere la sua romanità». Quest’ultima asserzione era chiaramente provocatoria nei confronti di chi voleva strumentalizzare l’opera virgiliana a fini propagandistici, ma il critico non si limitò a questo: ben lontano dall’esaltare l’epicità dell’Eneide, sostenne la tesi di un Virgilio poeta dei vinti, sia i personaggi bucolici, perché scacciati dai loro campi, sia i personaggi epici, allontanati da Troia: « Tutti “victi”, tutti sconfitti in questo mondo virgiliano dominato dal dolore». Anche il protagonista non è visto come il tradizionale eroe epico: Enea infatti «è posto contro il proprio destino, l’uomo è posto contro l’eroe», e il volere divino che gli impone di partire per l’Italia abbandonando Didone è per lui un peso fatale. Inoltre, Marchesi definisce Virgilio « poeta della passione infelice» e «poeta triste», che resta attraverso il fluire del tempo poiché sa che gli uomini sono uniti dal dolore: «In questa intima simpatia dolorosa è la universalità perenne del suo sentimento, come nella pienezza espressiva della parola e nella musica del verso è la vitalità perenne della sua poesia». Il critico conclude il suo intervento in tono ancora polemico: se la poesia è una voce che non passa, se è un’eco eterna che risponde allo spirito dell’uomo e ai suoi richiami, allora è «poesia vera quando si è svincolata da ogni coerenza episodica per aderire a tutta la vita». Nel numero successivo di «Pègaso », si trova poi una interessante recensione di Gennaro Perrotta al fondamentale studio di Tommaso Fiore La poesia di Virgilio, in cui l’umanista cerca di considerare l’opera virgiliana secondo i criteri estetici crociani; ciò aveva naturalmente un significato politico implicito e, per questo, Fiore era accomunato a Marchesi dalla condanna del rappresentante del classicismo fascista Ettore Romagnoli. Nel suo libro in effetti Fiore sottolinea il lato intimistico di Virgilio, lasciando . Concetto Marchesi, Virgilio, «Pègaso », Firenze, agosto , pp. -. Questo saggio uscì contemporaneamente in versione tedesca col titolo Die Welt der virgilischen Dichtung sulla rivista «Neue Schweizer Rundschau » (, , pp. -) e fu poi ristampato in Voci di antichi, Roma, , pp. -. Sul pensiero del critico si veda Piero Treves, Marchesi, Concetto, in Enciclopedia Virgiliana, cit., , vol. iii, pp. -. . In seguito a ciò, Ojetti rinunciò alla collaborazione di Marchesi che, comunque, ribadì le proprie opinioni anche in occasione del successivo bimillenario augusteo. . Tommaso Fiore, La poesia di Virgilio, Bari, Laterza, . La recensione di gennaro Perrotta è in«Pègaso », Firenze, settembre , pp. -.
maria cristina albonico
in secondo piano l’aspetto storico, che comprendeva l’accettazione del regime augusteo. Nella recensione, Perrotta evidenzia proprio la fisionomia particolare del testo di Fiore, basato su un’idea centrale: il contrasto perenne tra Arcadia (cioè l’ideale di una sana vita rustica, dell’ingenuità e della grazia) e Antiarcadia (senso della storia come lotta, senso dell’amore come dramma, e dell’uomo come infelicità irrimediabile). Il recensore scrive che «Arcadia e Antiarcadia sarebbero il polo positivo e il polo negativo dai quali folgorerebbe, divina scintilla, l’arte di Virgilio» ; tuttavia sottolinea anche come questa distinzione abbia il grave difetto di non definire Virgilio; si sarebbe magari adattata ad altri, ad esempio Lucrezio o Leopardi, ma nel testo di Fiore non è convincente. Perrotta comunque sottolinea che il libro non si riduce ad una formula, anzi molte osservazioni del Fiore sono acute e preziose, soprattutto quando mostra come Virgilio sia lo stesso poeta dalle Bucoliche all’Eneide: in questo senso Perrotta nota che «contro la critica tradizionale il Fiore ha molto coraggio». Inoltre, se anche Fiore ha manifestato una certa incapacità nella comprensione delle Bucoliche (poiché opera di stampo alessandrino, per cui lo studioso non ha simpatia), ha scritto però pagine valide sulle Georgiche e sull’Eneide: Giustamente egli nega all’opera sulla coltivazione dei campi ogni valore scientifico ; giustamente dà poca importanza ai fini sociali e politici del poema, e soltanto vuol metterne in luce la poesia [...] il critico ha mille ragioni di reagire all’interpretazione tradizionale di Virgilio poeta civile e patriottico : la gloria di Virgilio è altrove.
Ne sono un esempio le analisi dei personaggi di Enea, indagato nella sua complessità psicologica, e di Didone, di cui Fiore evidenzia la serietà spirituale e la moralità. Certo, secondo Perrotta non mancano dei difetti; per il recensore, una delle parti meno riuscite è quella in cui Fiore si era proposto di indicare «le fiacchezze e gli oscuramenti dell’arte virgiliana », per cui, ad esempio, critica con severità le parti dedicate agli dèi e ai loro discorsi, giudicati troppo prolissi; a questo proposito Perrotta sostiene che espressioni come «comari del cielo» siano sconvenienti oltre che inopportune. Il recensore, inoltre, nota che se Fiore fosse stato maggiormente filologo, avrebbe evitato alcuni errori di interpretazione del testo e osservazioni estetiche fuori luogo; in questo senso Perrotta scrive che «non è vero che la filologia nuoccia poi proprio sempre alla critica estetica; qualche volta, pare impossibile, le giova». L’intervento di Perrotta si conclude con osservazioni perentorie circa lo stile del Fiore, talora sciatto e scorretto, tanto che osserva: «il libro potrebbe essere scritto meglio » ; il suo «tono predicatorio un po’ secentesco» risulta certo originale rispetto a tanta parte della critica, ma si sarebbe preferito uno stile più asciutto. Sono invece di diverso genere i contributi agli studi virgiliani pubblicati sul mensile romano «Il Giornale di politica e di letteratura» ; nel numero di aprile del si trova il saggio di Augusto Garsia, intitolato Virgilio, che mette in luce i motivi del fascino della poesia virgiliana. Innanzi tutto, l’ammirazione da parte degli italiani si spiega col fatto che essa contiene, in embrione, quella che sarà la poesia italiana, da Dante a Leopardi; inoltre, secondo l’autore Virgilio è «glorificatore dell’Impero [...] mago [...] profeta e precursore del Cristianesimo » : attraverso Dante, in Virgilio si conciliano la religione pagana e quella cristiana. Ma in questo poeta latino, secondo Garsia, c’è soprattutto l’attrattiva di una poesia che corrisponde perfettamente al modo contemporaneo di percepirla : « noi oggi cerchiamo nella poesia, più che un’esteriorità e appariscenza formale, un contenuto vivo [...] attorniato da un aleggiare di vita circostante». Secondo il critico, in Virgilio come nei più grandi poeti, le parole formano un’unica realtà con i . Augusto Garsia, Virgilio, «Il Giornale di politica e di letteratura», Roma, aprile , pp. -.
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
sentimenti che esprimono : se l’espressione coincide con la vibrazione dell’animo, allora «esiste un’atmosfera – intorno ai definiti loro versi – dove la poesia continua a vibrare ». I poeti capaci di questo sono pochi e il più antico è Virgilio, che si distingue dai poeti suoi contemporanei per l’ansia che gli viene da «l’insolubile mistero». Questo mistero è origine della sua superiorità, che emerge dal raffronto con Lucrezio e Ovidio; Garsia sceglie infatti di confrontare le descrizioni di una pestilenza nei tre autori citati: in Lucrezio prevale l’oggettività, in Ovidio la proliferazione delle immagini, mentre Virgilio si distingue per la sobrietà e la pietà espressa dal suo animo: «l’arte virgiliana, raccolta e sobria nell’unità delle linee, fresca e spontanea per evidente naturalezza, si rivela anche qui tutta intima e lascia intendere più che non dica». Così, altrettanto mirabile è la scelta delle parole per creare effetti sonori, e qui il critico cita con finezza l’invocazione di Didone «Anna soror? », ove la ripetizione delle vocali crea un senso di accoramento e di compianto: «un suono come un sospiro» ; davvero in Virgilio la parola, nella scelta e nei suoi rapporti di corrispondenza con le altre, ha «una vitalità luminosa e musicale». Secondo Garsia questa particolarità della lirica virgiliana, che va oltre il senso letterale, fa sì che sia in effetti intraducibile; tuttavia, rimanda il problema della traduzione, per occuparsi di alcuni recenti studi di carattere critico : a questo argomento è dedicata la parte conclusiva del saggio. La premessa è che in Italia non vi sono opere importanti di critica virgiliana, probabilmente per la «compenetrazione » che gli studiosi italiani provano di fronte a Virgilio; Garsia quindi riporta i giudizi di alcuni critici, come Carducci, per il quale la poesia di Virgilio emana « un fascino di mollezza e d’abbandono quasi religioso» ; del Turolla, che sottolinea l’impressione di «triste dolcezza» del canto virgiliano. Turolla inoltre, esaminando l’Eneide, sottolinea l’interpretazione finalistica della storia romana; essa è grande, ma tragica e sopra Virgilio si adunano dolore e sofferenza : proprio dal senso del dolore e della caducità derivano la malinconia e la sentimentalità che sono «il fondo, meglio, il dato ultimo dell’emotività lirica virgiliana». Infine, Garsia osserva che non esiste uno studio su Virgilio di pura analisi estetica e che sarebbero utili opere riassuntive di critica storica; particolare la conclusione del saggio : Ma credo – mi sbaglio? – che in occasione del secondo millenario virgiliano la prima cosa da farsi debba essere una compiuta edizione critica nostra del nostro più antico e massimo poeta. E ci sarebbe anche da augurarsi l’anima di Virgilio tornasse ancora una volta a brillare in una splendida poesia latina d’un qualche nostro contemporaneo... at nunc post vergilianum vatem johannem pascoli, cui carminum lampada committamus?
Proprio nel dicembre , sempre sul «Giornale di politica e di letteratura», viene pubblicato un ampio contributo di Augusto Mancini, professore della Regia Università di Pisa, intitolato Virgilio. Il saggio si propone di mettere in luce l’italianità e l’umanità del poeta latino, facendo costante riferimento alle opere, con numerose citazioni di passi significativi ; Mancini chiarisce che le Egloghe, pur ispirandosi all’opera di Teocrito, già mostrano un poeta tecnicamente esperto, che dà spazio a motivi realistici e dove affiora quella nota di dolcezza e malinconia che resterà tipica della produzione virgiliana. Se le Egloghe sono definite come il poema della vita di Virgilio, le Georgiche sono il poema della sua anima: «se prima egli sentì il suo dolore, ora egli esprime il dolore di tutti » ; da quest’opera emerge che la vita è una lotta, dove le armi sono la zappa e l’ara. Corsivo e maiuscolo sono nel testo da cui si cita. . Augusto Mancini, Virgilio, «Il Giornale di politica e letteratura», Roma, dicembre , pp. -.
maria cristina albonico
tro, e l’agricoltore è il simbolo dell’umanità che costruisce la propria fortuna col lavoro ; inoltre, osserva Mancini, Virgilio nelle Georgiche è il cantore del programma di restaurazione economica e sociale di Augusto, perché non ha soltanto il senso della natura ma anche «della realtà politica e sociale del suo tempo e delle più nobili aspirazioni dell’anima umana». Rispetto alla prima opera, l’ammirazione del poeta mantovano per Roma è diventata più profonda e consapevole: nella sua storia e nella sua potenza, Roma è il simbolo di ogni virtù civile e Ottaviano è il restitutor pacis: le Georgiche sono dunque per Mancini un poema nazionale poiché vi si trova già «la più potente glorificazione d’Italia che mai sia stata scritta». Per quanto riguarda l’Eneide, lo studioso sottolinea che, nella prima parte, l’opera è pervasa da una «lunga ombra di pianto» ; quando il destino infatti prevale sul sentimento, infrangendo sogni e speranze, Virgilio si sofferma sui caduti, non sui vittoriosi; in ogni caso, glorificando Roma, Virgilio ha dato valore morale al trionfo della volontà del fato; nella prospettiva politica, Mancini scrive: Se Virgilio è il cantore dell’alta opera, artefici ne sono prima il popolo di Roma, il popolo di Italia con le sue virtù e coi suoi eroi, poi Augusto, che ad Azio, come nello scudo di Enea, vince in Antonio non un competitore personale, ma l’insano tentativo di sovrapporre a Roma la barbarie orientale [...] non Augusto si sovrappone a Roma, ma si identifica con lei.
Particolarmente significativa la conclusione del saggio: il fascino ideale che emana dall’opera di Virgilio dischiude la via ad ogni maggiore gloria italica ed accresce insieme la fede nei più alti destini dello spirito umano.
Nello stesso numero della rivista si trova una breve recensione di Augusto Lacchè al volume di Giuseppe Fanciulli Virgilio. La vita e le opere; il recensore sottolinea che, nell’occasione del bimillenario, hanno valore anche le opere che, come quella di Fanciulli, si propongono il «modesto compito della divulgazione», anche perché evitano « le sottigliezze e le astruserie esegetiche». Il libro di Fanciulli è valido anche perché l’autore «sente profondamente tutte le delicatezze della lirica virgiliana e la tonalità sinfonica della immortale epopea», dandone una interpretazione sapiente e sensibile; la sua opera è inoltre molto utile soprattutto se si ammette, osserva il Lacchè, che bisogna rieducare gli animi degli italiani per dirigerli verso una meta «degna della nostra razza e del grande rinnovamento morale al quale è stata condotta dall’origine nobilissima, dall’insegnamento cristiano e, aggiungo, dalla ridesta coscienza dei doveri che è chiamata ad assolvere per le sue fortune avvenire». Sempre sul « Giornale di politica e di letteratura» si trovano anche contributi particolari, come composizioni poetiche; ne è un esempio la lirica Virgilio di Ugo Ghiron, da I canti dell’al di là. In trentaquattro versi sciolti, di vario metro, l’autore immagina di incontrare il poeta latino e di riconoscersi «piccoli a un tratto e coetanei / nell’oceano senza riva dei secoli» (vv. -). Virgilio è inoltre definito «il cantore grande di Enea, / il compagno soave / della cara e amara mia giovinezza» (vv. -). Inoltre, nel viene pubblicato un sonetto di Vincenzo Frendo Azopardi, intitolato Virgilio; lo schema metrico è abab baba cde cde: Divina a fior del mar scioglie la chioma . Giuseppe Fanciulli, Virgilio. La vita e le opere, Milano, Agnelli, ; la recensione di Augusto Lacchè si trova nella rivista «Il Giornale di politica e di letteratura», Roma, dicembre , pp. -. . Ugo Ghiron, I canti dell’al di là, «Il Giornale di politica e di letteratura», Roma, giugno-luglio , pp. -. . Vincenzo Frendo Azopardi, Virgilio, «Il Giornale di politica e di letteratura», Roma, luglio-agosto , p. .
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
Napoli bella, e con romana pace Mentre alta imperi su le genti, o Roma, Canta Virgilio e il mare ascolta e tace. Ma poi che l’ansia ed il terror tenace La luce han spenta e ogni tua forza han doma, Barbara notte accende unica face, Vate Virgilio e il sacro tuo idïoma. Rispunta quindi sulle stanche genti Fulgido il sole. Amor canta il Pontano, E vate ei no, ma il tuo cantore appare Allor Virgilio, o Roma. Alto sui venti Rivola il canto del tuo mantovano, E Capri risorride in mezzo al mare.
Nello stesso numero, Ugo Ghiron recensisce l’opera di Eurialo De Michelis Le egloghe di Virgilio; come Ghiron ricorda, De Michelis è egli stesso poeta, e come tale si è accinto alla traduzione dell’opera virgiliana e «per quel naturale languido senso di abbandono ch’è forse in lui uomo, certo in lui artista, ha sentito ciò che di soavemente languido è nel Virgilio pastorale e lo ha reso egregiamente». Inoltre secondo Ghiron, molto felice è stata la scelta di rendere l’esametro latino con l’endecasillabo, il più adatto a rendere l’esapodia antica. Sulla stessa rivista è stato pubblicato un contributo, che è interessante almeno ricordare, anche se a qualche anno di distanza dal bimillenario: La prima egloga di Virgilio in dialetto Nizzardo. Títiru e Melibèhu, di P. Isnard. Appare poi importante soffermarsi su «L’Italia che scrive», rivista che ha dato spazio a numerosi contributi agli studi virgiliani, soprattutto nel periodo che va dal al . Nel numero del giugno si trova la lirica A Virgilio, di Mercede Múndula; è una poesia di trentasei strofe di quattro novenari, composta sullo stile di una laus Italiae: l’Italia viene infatti cantata come perenne figlia di Roma, amata per primo da Virgilio. Tuttavia, in questa rivista, prevalgono le recensioni di traduzioni e studi, nella rubrica delle notizie bibliografiche. Ne è un significativo esempio l’intervento di Enrico Turolla sulla versione poetica dell’Eneide di Guido Vitali; prima di occuparsi del testo in questione, Turolla si sofferma sul problema della traduzione, ricordando che, di fronte ad un originale da trasporre in un’altra lingua, ci sono due vie: si può fare opera di interpretazione, di aiuto alla lettura, rimanendo vicino all’originale, senza che il traduttore si sostituisca all’autore; oppure, si può «cantare » in una lingua diversa il canto antico. Se si segue questa seconda via, si avverte il fascino e l’eterna vitalità del poema virgiliano, dando vita a un’opera originale, che richiede determinate qualità artistiche. La traduzione di Guido Vitali segue questa seconda strada; la sua versione, secondo Turolla, ha i pregi di quella del Caro, senza averne i difetti: si legge con piacere, lo stile è scorrevole, moderno e «francamente personale». Nel numero del gennaio vi è poi un’unica recensione di Tommaso Sorbelli a tre volumi : quello di Anacleto Trazzi Vergilius redux, di Cesare De Titta Cantus et Flores, e . Ugo Ghiron, presenta il volume di Eurialo De Michelis, Le Egloghe di Virgilio, Vicenza, Jacchìa, , ivi, pp. -. . P. Isnard, La prima egloga di Virgilio in dialetto Nizzardo. Títiru e Melibèhu, «Il Giornale di politica e di letteratura », Roma, marzo-aprile , pp. -. . Mercede Múndula, A Virgilio, «L’Italia che scrive», Roma, giugno , p. . . La recensione di Enrico Turolla a Virgilio, Eneide, versione poetica di Guido Vitali, Varese, Istituto Editoriale, si trova in «L’Italia che scrive», Roma, settembre , p. .
maria cristina albonico
di Alafridus Bartoli Ad Vergilium. Secondo Sorbelli, Giovanni Pascoli aveva saputo creare una figura nuova e originale di Virgilio, facendolo rivivere «in una serie di carmi, freschi di ispirazione, elevati di dizione» ; così ha fatto la schiera dei neoumanisti tra cui Bartoli. Da questa concezione poetica si distacca invece Trazzi, con il suo poemetto in quattro libri, in cui «si ha in parte un ritorno all’antico nel raffigurare il cantare latino quale un’ombra». Il recensore sottolinea la necessità di una maggior concisione e nerbo nelle sue parole : difetto del Trazzi è infatti la prolissità. De Titta ha invece scritto tre componimenti ispirati a Virgilio georgico, mentre l’ode del Bartoli suona come un inno di gloria al poeta e augurio per l’Italia e per Roma: «Surgat Roma tibi potens / armis, Roma suo iure potentior». Nello stesso numero si trova anche una interessante recensione di Enzo Palmieri al volume di Angelo Conti Virgilio dolcissimo padre; in questo libro, secondo Palmieri, si effonde «la sensibilità mistica e dolce» dell’autore. Significativa la polemica del recensore con la letteratura virgiliana che, sullo scorcio del bimillenario, si è appesantita di retorica insincera; invece Conti è un «nobile spirito», in cui si è avverato una sorta di « misticismo estetico ». Inevitabile naturalmente il riferimento al noto studio di Tommaso Fiore La poesia di Virgilio, cui Augusto Romanelli dedica un ampio spazio; molto chiara la posizione del recensore, secondo il quale fra le tante pubblicazioni del bimillenario, questa occupa un posto speciale poiché non è dettata da altro se non dal proposito di descrivere criticamente la natura e i limiti della poesia di Virgilio, liberando il concetto di “poesia” da tutte le confusioni e da tutte le immistioni eterogenee, a cui comunemente si cede e a cui si è ceduto soprattutto in un’occasione come questa, a scopo commemorativo.
Secondo Romanelli, Fiore pone il problema critico in modo netto: la sua trattazione è utile, anche se talvolta troppo ligia a determinate formulazioni estetiche, tanto da rinchiudere la poesia virgiliana in schemi fissi. Fiore, per reagire a chi troppo ha badato agli elementi storici e culturali, ha presentato un Virgilio assolutamente isolato, astratto dalle correnti spirituali e dal processo vivo dei tempi; comunque La trattazione è animata da una squisita dote di sensibilità, che si esprime in pagine belle e suggestive, per quanto talora un po’ ridondanti. Particolarmente pregevole è l’analisi delle Georgiche: di cui il Fiore fa sentire le voci più misteriose e profonde, cogliendo, al di là dell’apparenza frammentaria ed episodica del poema, il filo dell’unità interiore. Ma si può dire che in ogni parte vi sono osservazioni fini o comunque degne di essere discusse.
Sempre sulla rivista «L’Italia che scrive», nel numero di marzo si legge la recensione di Enzo Palmieri alla traduzione in versi dell’Eneide a cura di Emilio Pratellesi. Palmieri ricorda i famosi studi di Comparetti e Zabughin, le traduzioni di Lipparini e Giuseppe Albini (considerata quest’ultima un capolavoro). Secondo il recensore, Pratellesi, che pure ha usato un endecasillabo vario, duttile e fluente, tipico di una vena poetica naturale, si è mantenuto nella sua versione a un tono tradizionale, quasi accade. Tommaso Sorbelli ne «L’Italia che scrive», Roma, gennaio , p. , recensisce: Anacleto Trazzi, Vergilius redux, Asulis, ; Cesare De Titta, Cantus et Flores, Lanciano, Carabba, ; Alafridus Bartoli, Ad Vergilium, Polystenae, . . Enzo Palmieri, presenta il libro di Angelo Conti, Virgilio dolcissimo padre, Napoli, Ricciardi, , ivi, pp. -. . Augusto Romanelli ne «L’Italia che scrive», Roma, febbraio , p. recensisce Tommaso Fiore, La poesia di Virgilio, Bari, Laterza, . . Enzo Palmieri, ne «L’Italia che scrive», Roma, marzo , pp. - presenta il volume Virgilio, Eneide, nuova traduzione in versi di Emilio Pratellesi, Firenze, Le Monnier, .
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
mico : « le risonanze e gli echeggiamenti alieni al Virgilio originale gli fiorettano il verso, gli rendono mediata e come di rimbalzo la percezione del senso letterale e la rielaborazione in lingua nostra». Lo stesso Palmieri successivamente presenta Le Egloghe, tradotte da Eurialo De Michelis, precisando che «Virgilio non è così alla mano, come si crede in generale. Ha sfumature di stile, segreti d’arte, che a scoprirli occorre talvolta fatica; a renderli in lingua nostra ci vuole molto studio». Tuttavia, la versione di De Michelis è magistralmente compiuta « con aderenza e fedeltà espressiva all’originale, ma anche con rivissuta gioia di certe indicibili bellezze virgiliane» ; perfetta la scelta dell’endecasillabo e utili la premessa e il commento ad ogni egloga, perché «agevolano la lettura e l’intelligenza del poeta». Nel numero del gennaio si trova poi la recensione di Nicola Turchi al libro Studi Virgiliani, con prefazione di Luigi Federzoni; il volume, edito in cinquecento esemplari numerati con firma autografa di Federzoni, raccoglie parte delle conferenze promosse dall’Istituto di Studi Romani in celebrazione del secondo millenario virgiliano. Se alcuni interventi, nota il recensore, sono di carattere occasionale, altri apportano un reale contributo alla conoscenza della storia antica in relazione a Virgilio; è il caso delle conferenze di Amedeo Maiuri (Monumenti e luoghi della Campania nell’Epopea Virgiliana) e di Giuseppe Bottai (L’esaltazione del lavoro nell’opera di Virgilio). Nell’anno successivo, nel , gli interventi sulla rivista «L’Italia che scrive» sono assai numerosi: nel numero di gennaio, Enzo Palmieri presenta Le Ecloghe, nella versione di Mevio Gabellini ; il recensore sottolinea che Gabellini non ha indicato il metodo scelto per tradurre : dopo essersi soffermato sui diversi problemi di una traduzione, Palmieri scrive che il suo tentativo è soddisfacente. Gabellini ha usato infatti un verso lungo che rende al meglio l’esametro latino, permettendo in pratica di seguire il carme parola per parola. Nel numero di maggio, vi è un’unica recensione di Tommaso Sorbelli a diversi volumi su Virgilio : della Real Accademia Virgiliana di Mantova Studi Virgiliani e Atti e Memorie. N. S. vol. XXII. Celebrazioni bimillenarie Virgiliane; di Attilio Dal Zotto Vicus Andicus e di Alessandro Mingarelli De Morte Vergilii Carmen. Circa le celebrazioni mantovane del bimillenario, Sorbelli scrive che il contributo recato da questi studi è notevole; sottolinea in particolare il valore del contributo di Dal Zotto, che non solo giunge a precisare la località in cui sorgeva Andes (luogo natale di Virgilio), ma dà anche modo di comprendere passi prima controversi delle Bucoliche. I volumi miscellanei contengono inoltre componimenti latini in versi, spesso validi, da cui comunque si distacca il poemetto di Alessandro Mingarelli, perché «alata celebrazione dello spirito magno di Virgilio attraverso la sua opera e il suo amore per Roma». Ancora di Sorbelli, sul numero di giugno si può leggere la recensione al volume di Francesco Arnaldi L’Eneide e la poesia di Virgilio; secondo Sorbelli, il saggio di Arnaldi . Enzo Palmieri, ne «L’Italia che scrive», Roma, agosto , p. recensisce De Michelis, Le Egloghe..., cit.
. Nicola Turchi presenta il volume Studi Virgiliani, con prefazione di Luigi Federzoni, Roma, Sapientia, s. d. nella rivista «L’ Italia che scrive», Roma, gennaio , p. . . Enzo Palmieri recensisce Virgilio, Le Ecloghe, versione di Mevio Gabellini ne «L’Italia che scrive», Roma, gennaio , p. . . Tommaso Sorbelli ne «L’Italia che scrive», Roma, maggio , p. , presenta i seguenti studi: Real Accademia Virgiliana di Mantova, Studi Virgiliani, Mantova, , e Atti e Memorie. N. S. vol. XXII. Celebrazioni bimillenarie Virgiliane, Mantova, ; Attilio Dal Zotto, Vicus Andicus, Mantova, ; Alessandro Mingarelli, De Morte Vergilii Carmen, Modena, Vincenti, . . Francesco Arnaldi, L’Eneide e la poesia di Virgilio, Napoli, Loffredo, , recensito da Tommaso Sorbelli ne «L’Italia che scrive», Roma, giugno , p. .
maria cristina albonico
è «una onesta fatica di valorizzare e fare conoscere il mondo poetico di Virgilio» e di esaltarne il linguaggio, «miracolo di duttilità e fusione», che rivela l’arricchimento del suo mondo fantastico dalle prime opere al poema epico. Il difetto della trattazione di Arnaldi, secondo il recensore, è quello di avere fissato uno schema secondo i criteri della scuola estetica del xx secolo e di aver valutato Virgilio alla loro luce; ciò accade ad esempio quando Lavinia, futura sposa di Enea, è descritta come più simile alla Lucia manzoniana che all’Elena di Omero. Risulta molto interessante, nel numero di novembre, ancora del , la presentazione di Alfonso Lanza al volume Il Libro IV dell’Eneide, con introduzione e commento di Aldo Pasoli; Lanza mette in rilievo che il commento di Pasoli è condotto con criteri prevalentemente estetici. L’introduzione è un notevole saggio di analisi, che mette in luce il dramma interiore di Enea e di Didone, indagandone lo sviluppo «con preparazione erudita e sentimenti d’artista». Lo studio dei singoli particolari è demandato alle note, che completano l’interpretazione generale e fanno emergere il punto di vista personale di Pasoli. La sua sensibilità artistica si rivela poi anche nelle traduzioni suggerite e nel suo giudizio circa il rapporto tra Virgilio e Omero. Secondo Lanza, quello di Pasoli è dunque un lavoro ottimo, rispondente allo spirito della scuola italiana e, per gli studiosi, «guida geniale a penetrare i secreti dell’arte virgiliana, nel canto che è più vicino alla nostra umanità». Ancora per il bimillenario se pure a qualche anno di distanza, nel giugno , Oreste Trebbi presenta il volume Virgilio e il Friuli. Primo supplemento agli studi goriziani, a cura della Biblioteca Governativa di Gorizia. Questo volume, infatti, doveva essere pubblicato per il bimillenario: è il contributo del Friuli alla memoria di Virgilio; contiene la ristampa di una versione in dialetto friulano delle Georgiche del goriziano Mons. Gian Giuseppe Bosizio (-). Questa traduzione, che appartiene all’epoca in cui era di moda volgere i capolavori classici in vernacolo, è un documento della virtuosità dell’autore, che possiede un vivo senso della natura: per questo riesce a esprimere direttamente l’opera di Virgilio. Inoltre, Bosizio ha il merito di aver saputo piegare «il suo rude dialetto a più alta espressione e di avere a volte composte le sue ottave con una eleganza di forma che testimonia della sua cultura e del suo buon gusto». Tra i contributi della medesima rivista, «L’Italia che scrive», si ricordano infine quelli dell’anno , fra cui la breve recensione di Enrico Turolla al volume Le Bucoliche di Virgilio. Versione, di Giuseppe Crepet; Turolla riporta una premessa al libro scritta da Augusto Serena, a cui ritiene di non dover aggiungere nulla: la versione in esametri di Crepet risulta cioè non sfigurare a confronto di altre ed è dotata di «semplicità pastorale ». Assai più ampio l’intervento di Piero Treves sull’opera di Cesare Bione Orazio e Virgilio. Un ventennio di vita spirituale nella Roma Augustea (- av. Cr.). Saggio di storia e di letteratura. Secondo Treves, l’autore sembra aver voluto raccogliere le sue impressioni di «lettore addottrinato e simpatetico» ; per questo ha superato i limiti cronologici dello schema ventennale, soffermandosi anche sulla giovinezza e sulle prime opere dei poeti. . Publio Virgilio Marone, Il Libro IV dell’Eneide, con introduzione e commento di Aldo Pasoli, Firenze, Le Monnier, ; viene recensito da Alfonso Lanza ne «L’Italia che scrive», Roma, novembre , p. . . Il libro Virgilio e il Friuli. Primo supplemento agli studi goriziani, a cura della Biblioteca Governativa di Gorizia, Gorizia, Tipografia Sociale, è presentato da Oreste Trebbi ne «L’Italia che scrive», Roma, giugno , p. . . Enrico Turolla ne «L’Italia che scrive», Roma, marzo , pp. -, presenta sinteticamente Giuseppe Crepet, Le Bucoliche di Virgilio. Versione, Treviso, Longo e Coppelli, . . Cesare Bione, Orazio e Virgilio. Un ventennio di vita spirituale nella Roma Augustea (- av. Cr.). Saggio di storia e di letteratura, Firenze, La Nuova Italia, ; il volume è recensito da Piero Treves ne «L’Italia che scrive », Roma, dicembre , p. .
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
Tuttavia, le trattazioni sui due eccelsi poeti non sempre si compenetrano, restando spesso giustapposte, parallele. Ciò è dovuto agli ondeggiamenti del metodo critico di Bione : infatti talvolta è incline alla storia della poesia, talaltra alla storia della cultura; se trapassa da una all’altra, viene meno la chiarezza di entrambe. Inoltre, Bione «non rivela il particolare carattere etico-religioso dell’apoteosi augustea, quale si dispiega e in Orazio e in Virgilio» ; pertanto «questo squilibrio metodico, e, a dirla schietta, questa sostanziale scarsezza di originalità nelle premesse come nei resultati spiegano il tono e lo stile del libro, troppo di frequente inadeguati alla dignità e alla grandezza del soggetto ». Di genere diverso sono poi gli ampli saggi pubblicati sul mensile «La Rassegna italiana » ; si tratta infatti di studi su argomenti impegnativi, anche se non mancano recensioni : ad esempio, nella rubrica delle notizie bibliografiche del marzo , si trova quella di Olindo Giacobbe al volume di Giuseppe Lipparini Virgilio; secondo Giacobbe, si tratta del primo studio italiano vasto e organico del grande poeta che Dante scelse come suo maestro, perenne sorgente di ispirazione per artisti e poeti. Quello di Lipparini è un libro che non pretende di insegnare cose nuove a dotti o a filologi (per questo, maestro insuperabile rimane Domenico Comparetti); l’autore infatti ha voluto avvicinare lo spirito di Virgilio a un pubblico che non può approfondire, il cui temperamento è artistico : senza perdersi in minuziosi dettagli, ha scritto un libro in cui la figura di Virgilio è ricostruita nella sua epoca e nel suo ambiente, e la sua opera è presentata non con freddezza critica, bensì «con caldo sentimento d’artista». In questa rivista prevalgono tuttavia i saggi, come quello di Amedeo Tosti L’Italia in Virgilio. Tosti, con frequenti e precisi riferimenti alle opere virgiliane mette in luce il sentimento del poeta per la terra italica, sottolineando in particolare il carattere «nazionale » del poema epico: il viaggio di Enea e dei Troiani alla ricerca di una nuova patria è un nostos, un ritorno: Così Virgilio, immaginando un’origine italica di Dardano, toglierà quel che poteva aver di ingrato per i Romani il sapersi discendenti di Frigi, di un popolo barbaro, cioè, famoso per la sua mollezza. D’altra parte, le prime incertezze e poi gli ostacoli che allontanarono i Troiani dalla terra promessa e la distanza stessa dei luoghi e l’età tanto remota contribuiscono a dare a quella parola Italia un non so che di misterioso, di sacro, che per noi è una delle seduzioni maggiori dell’Eneide.
Per l’autore del saggio, anche l’episodio di Didone ha un significato «profondamente nazionale », e ancor più il vi libro in cui Virgilio, pur imitando Omero con la discesa agli Inferi, riesce originale, esprimendo con la rassegna dei futuri grandi uomini di Roma l’eterna missione civilizzatrice della città e della stirpe italica. Tosti, inoltre, sottolinea che l’amore per l’Italia fu comune a Virgilio e a Dante, entrambi esuli, e che si può parlare, oltre che di sentimento patriottico, di «amore geografico » : Virgilio, infatti, ammira ed ama l’Italia non solo per ciò ch’ella fu politicamente, per quello che rappresentò nella storia del mondo, ma anche per la bellezza dei suoi cieli, dei suoi laghi, dei suoi mari, dei suoi monti, per le sue terre ubertose, per i fiumi che la solcano, per le cento città che la ingemmano. In questo non v’è poeta che lo eguagli, tranne uno, che anzi lo supera: Dante.
Tosti conclude osservando che, con la rassegna degli eserciti del libro vii dell’Eneide, ma anche con infiniti altri riferimenti, «è tutta la penisola che Virgilio abbraccia in un gran palpito solo d’amore» ; il suo inno Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus . Giuseppe Lipparini, Virgilio, Firenze, Barbera, -, presentato da Olindo Giacobbe nella rivista «La Rassegna italiana», Roma, marzo , p. . . Amedeo Tosti, L’Italia in Virgilio, «La Rassegna italiana», Roma, settembre , pp. -.
maria cristina albonico
è «il grido stesso che tutti i poeti italici levarono dopo Virgilio nei secoli, da Dante al Leopardi, dal Petrarca al Carducci». Sulla stessa rivista, assume particolare rilevanza il saggio scritto da Giuseppe Bottai nell’anno del bimillenario : L’esaltazione del lavoro nell’opera di Virgilio. L’argomento, infatti, si presta a molteplici interpretazioni; secondo l’autore, Virgilio supera la visione classica del lavoro, inteso cioè come labor, come una situazione a cui gli uomini sono stati condannati dal volere degli dèi: anticipando i valori cristiani, il poeta considera il lavoro come un’attività meritoria: Virgilio è figlio del suo tempo; ma già in lui l’idea di lavoro si libera dalle distrette della pena oscura, del pauroso castigo, della vendetta divina, della legge cieca, misteriosa, incomprensibile, per tramutarsi nella condizione necessaria di una vita piena e degna, senza la quale l’uomo non sarebbe uomo.
Secondo Bottai, in Virgilio il lavoro è un arricchimento per l’uomo perché è visto «attraverso il luminoso prisma di una concezione mistica, ma volontaristica ed eroica». Inoltre Bottai, citando lo studioso Gaston Boissier, osserva che nessun altro scrittore ha sostenuto con maggiore adesione e sincerità i disegni di Augusto: la sua opera di creazione artistica è assolutamente congeniale all’opera di ricostruzione politica e sociale voluta dall’imperatore; per questo «Virgilio ci appare come l’ultimo dei Poeti romani e il primo degli italiani, già distaccato dalla storia romana dell’Italia e prèsago della storia italiana di Roma e della sua nuova missione religiosa nel mondo». Risulta poi particolare la lettura in chiave moderna data da Bottai all’opera virgiliana: il poeta latino viene indicato come modello in un momento di ineluttabile crisi del capitalismo, poiché ha dato al lavoro il giusto posto nella gerarchia dei valori: Virgilio è per il lavoratore libero, contro lo schiavismo, con la stessa mentalità, con cui noi oggi siamo contro la piatta standardizzazione americana, contro i metodi socialistici, contro gli eccessi del taylorismo, contro la cosiddetta politica della fabbrica [...] Virgilio vaticinava un’economia solidaristica e lanciava nello sconvolto mondo il lievito di una nuova energia produttiva: il lavoro dell’individuo, espanso oltre la cerchia del particolare interesse, ricondotto in un mondo riconciliato alla sua funzione nazionale e sociale.
Ha invece un carattere prettamente critico-filologico, senza riferimenti all’attualità politica, il saggio di Pietro Parducci Virgilio minore. L’Appendice Virgiliana, pubblicato sulla « Rassegna italiana » nello stesso anno delle celebrazioni; l’autore infatti, con precisi riferimenti alle opere di latinisti, sia italiani sia stranieri, si propone esclusivamente di sostenere la validità della sua tesi, cioè che facciano parte della cosiddetta Appendix Vergiliana almeno cinque poemetti: secondo Parducci sono quelli noti con i nomi di Copa, Moretum, Ciris, Culex, Dirae. Per «La Rassegna italiana» si ricordano infine due studi distanti, in effetti, dall’occasione del bimillenario virgiliano, ma interessanti poiché indicano un successivo atteggiamento maggiormente “nazionalistico” : questi saggi furono pubblicati nel , cioè l’anno dopo le celebrazioni per il bimillenario della nascita di Augusto, primo imperatore. Il primo è di Matteo Cerini e il titolo è già indicativo: L’Impero di Augusto nella poesia di Virgilio e di Orazio; l’autore sostiene la tesi che una «idea messianica» guidò e sostenne l’operato di Augusto, destinato dal fato a un’opera «di rinnovamento politico e . Giuseppe Bottai, L’esaltazione del lavoro nell’opera di Virgilio, «La Rassegna italiana», Roma, gennaio , pp. -. . Pietro Parducci, Virgilio minore. L’Appendice Virgiliana, «La Rassegna italiana», Roma, luglio , pp. -. . Matteo Cerini, L’Impero di Augusto nella poesia di Virgilio e di Orazio, «La Rassegna italiana», Roma, gennaio , pp. -.
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
di risanamento morale », per cui, in una visione splendente della storia di Roma, «anche il mite Virgilio trovava la giustificazione delle guerre di Augusto, perché dal sangue doveva nascere un mondo rigenerato». Secondo Cerini, Virgilio capì che solo una monarchia universale avrebbe garantito pace e giustizia; nell’esaltazione di Enea, il capostipite, esaltava le gesta di Augusto: Virgilio cantava le origini di Roma imperiale e celebrava l’impero come conclusione fatale della storia, della titanica ascesa di Roma [...] Enea era strumento del fato: ma è proprio questo che ingigantisce la sua impresa, che la fa apparire una missione che nessuna forza poteva impedire.
Questa lettura si poteva così agevolmente trasferire all’epoca contemporanea; ciò emerge in particolare dal secondo saggio, La mostra augustea della romanità, di Alberto Neppi, di cui si cita il passo iniziale per le sue esplicite affermazioni : Nei confronti dell’antica civiltà quirite, orgoglio gentilizio della nostra stirpe, non mai del tutto affievolito, quello che era un solido apparato culturale, letterario, archeologico, è divenuto, per merito del Fascismo operante, una spontanea assimilazione spirituale, che sembra abbia la virtù di accorciare le distanze incolmabili dei millenni. Anche il più umile ed incolto dei legionari di Mussolini, che effettuarono al modo cesareo la conquista dell’Impero Etiopico, possiede una sua viva coscienza della romanità ed ha il senso preciso del legame storico fra l’odierna rinascita dei valori nazionali e il multisecolare dominio, imposto da Roma al vecchio continente, e non con la sola forza delle armi.
Tra i diversi periodici, si considera infine la rivista romana «Leonardo », rassegna mensile di cultura, diretta da Luigi Russo, i cui contributi sono di genere assai vario. Ad esempio, nella rubrica delle recensioni si trova l’ampio intervento di Gaspare Campagna sul volume di Nicola Terzaghi Virgilio ed Enea: il recensore mette in rilievo che sul protagonista del poema c’è una questione aperta, poiché spesso considerato personaggio poco riuscito. Terzaghi ammette ciò a priori, tuttavia condannare gli smarrimenti e le titubanze di Enea equivarrebbe a distruggerne l’umanità; lo studioso esamina con sottigliezza numerosi passi dell’Eneide, dando inevitabilmente particolare risalto all’episodio dell’abbandono di Didone da parte dell’eroe, giustificando a questo proposito Virgilio, che «si dovette sentire imbarazzato nel dover far agire il suo eroe in modo che un galantuomo non doveva agire». Interrompendo la presentazione del libro di Terzaghi, poi, Campagna interviene direttamente, esponendo la sua opinione, cioè che «Virgilio è un poeta essenzialmente lirico», portato dunque alla meditazione sui problemi dell’esistenza e, dunque, «poeta universale» ; il recensore continua, sostenendo che Virgilio era nella necessità, per l’episodio di Didone, di «sospendere la trama e di abbandonarsi» : Quello che a me preme mostrare è che non ha ragione di essere la pregiudiziale della figura morale di Enea. Il poeta nell’elaborare questo dramma d’amore doveva necessariamente sacrificare il suo eroe, nuovamente attratto da uno dei tormenti fondamentali della sua vita di poeta. E la ragione intima, dovuta alla necessità spirituale del poeta, della sua assenza al protagonista del poema è per me chiara. Il libro quarto si deve solo considerare come espressione del lirismo virgiliano di fronte all’amore ; ed è necessariamente il canto di Didone: l’unica figura concreta che Virgilio persegue, per il cui esclusivo rilievo agiscono Anna ed Enea [...] Il racconto della distruzione di Troia e dei patimenti di Enea, così intensi di vita poetica, appaiono quasi una vasta parentesi, una sosta della sventura che sovrasta alla regina: infelix Dido. . Augusto Neppi, La mostra augustea della romanità, ivi, pp. -. . Nicola Terzaghi, Virgilio ed Enea, Palermo, Sandron, ; il libro è recensito da Gaspare Campagna in « Leonardo », Roma, febbraio-marzo , pp. -.
maria cristina albonico
La recensione si conclude con una critica decisamente negativa sul lavoro di Terzaghi: secondo lo studioso, Enea è pius per motivazioni politiche e, se vi sono contraddizioni nel personaggio (come nell’episodio del iv libro), ciò è dovuto a influenze esterne; Campagna afferma chiaramente che l’analisi di Terzaghi è «fallita » e che la sua tesi di cercare in influenze esteriori la mancata realizzazione poetica è errata. Infine, il recensore contrappone la sua interpretazione a quella di Terzaghi, che raffigura Enea come pius perché doveva prefigurare Augusto: L’Eneide sarebbe una specie di ampliamento poetico del Monumento ancirano. E così sarebbe spiegata la duplicità che c’è nel carattere di Enea: pio e guerriero ad un tempo, spiegato l’ibridismo che ne nasce e che Virgilio comprese, ma non potè evitare. Questa la conclusione del libro. Brevemente concluderò anch’io [...] La contraddizione e la debolezza di Enea sono la nota viva ed originale dell’eroe: la grandezza di Enea sta appunto nella rassegnazione del viaggio impostogli dal destino e in quella stanchezza dell’andare e negli smarrimenti e nel dubbio angoscioso di non giungere, lui che è un perduto e conduce una gente perduta.
Successivamente la rivista, mantenendo il nome «Leonardo », viene diretta da Federico Gentile, con la specificazione di “rassegna bibliografica” ; sono numerose infatti le recensioni, ma anche i saggi critici. Nel giugno il noto studioso Manara Valgimigli presenta L’Eneide tradotta da Luciano Vischi; in poche righe, il recensore osserva che questa traduzione non è stata motivata dal bimillenario ed è «cosa severa e nobilissima » ; infatti Vischi, persona assai dotta ed erudita, ha il merito di non avere fretta e di voler accontentare sé prima che gli altri: «il verso ogni poeta, se è poeta, lo sente e lo fa a modo suo, che è sempre, per lui, il suo modo migliore. Ora il Vischi non è solo buon teorizzatore, ma anche buon fabbro di esametri». È poi importante l’ampia recensione di Giulio Cogni alla fondamentale opera di Gino Funaioli Esegesi virgiliana antica. Prolegomeni alla II edizione del Commento di Giunio Filargirio e di Tito Gallo; incaricato dal Governo Nazionale di preparare l’edizione critica di tale commento, Funaioli pubblica i risultati di lunghi anni di studi su codici e manoscritti, sparsi per le più importanti biblioteche d’Europa. Cogni sottolinea la mole del lavoro di Funaioli, che ha collazionato direttamente i manoscritti, spesso scoperti da lui stesso ; questo lavoro sulle fonti ha permesso di conoscere ciò che si pensava di Virgilio nel v e vi secolo, periodo spesso ritenuto oscuro; il volume di Funaioli , mediante una attenta ricostruzione erudita, riesce a far emergere l’anima di un’epoca considerata ignorante e « risentirne, attraverso l’eco che il verso di Virgilio ancora aveva in cuori così lontani apparentemente da lui, tutto il diapason e la particolare vita spirituale». Significativa la conclusione del recensore: «Il ciclopico lavoro è di quelli che ben rari si vedono in Italia : una pietra miliare negli studi virgiliani, e che fa alto onore a tutta la filologia italiana». Nel dicembre vengono presentati da Enrico Turolla due volumi, in un’unica recensione ; il primo è composto dalle Conferenze virgiliane, tenute alla Università Cattolica del Sacro Cuore in commemorazione del bimillenario virgiliano, il secondo dagli Studi virgiliani. Turolla osserva che si tratta di scritti diversi, avvicinati per affinità di argomento «ma lontani fra loro per tendenze, per caratteristiche, per tono» ; del primo . Publio Virgilio Marone, L’Eneide, nella versione di Luciano Vischi, Milano-Napoli, Società An. Dante Alighieri, ; la recensione è di Manara Valgimigli in «Leonardo », Milano-Roma, giugno , p. . . Giulio Cogni in «Leonardo », Milano-Roma, novembre , pp. - presenta Gino Funaioli, Esegesi virgiliana antica. Prolegomeni alla II edizione del Commento di Giunio Filargirio e di Tito Gallo, Milano, Vita e
Pensiero, .
. Enrico Turolla in «Leonardo », Milano-Roma, dicembre , pp. -, recensisce le Conferenze virgi-
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
volume, il recensore critica il tono oratorio, adatto alle conferenze ma non alla lettura: « difficilmente crederemo sia critica un seguito di punti esclamativi e un costante ammirare senza una linea e un principio generale che raccolga le varie osservazioni e che legittimi quella ammirazione ». Emerge comunque l’intervento di Gino Funaioli Virgilio poeta della pace, il cui svolgimento è perseguito dallo studioso con finezza e con intelligenza critica; Funaioli ha infatti evidenziato che uno è il centro ideale del canto poetico di Virgilio: Affermare l’unità del mondo poetico di Virgilio significa affermare la dignità e la grandezza della sua poesia [...] Tutta la poesia di Virgilio trema dell’oscuro presentimento del fatto memorabile, e l’idea messianica, d’un Messia prima atteso e invocato nelle opere giovanili e poi salutato, presente datore di pace al mondo, nella persona di Augusto, questa idea forma la chiave di volta di tutto il mondo poetico virgiliano.
Nello stesso numero di «Leonardo » si può leggere la recensione di Mario Marcazzan al libro di Tenney Frank Virgilio. L’uomo e il poeta; l’autore viene definito «insigne filologo americano» e il recensore sottolinea la sua obiettività: Il libro potrà sembrare ad alcuni troppo lontano dal nostro gusto latino; a me par degno della massima considerazione proprio per questo suo distacco dal soggetto, che si riassume, in fondo, nell’ignorare i luoghi comuni della nostra tradizione critica ed erudita; vantaggio – se tale dobbiamo considerarlo – che gli permette di trattare i problemi con fredda indagine e con spirito d’osservazione caratteristicamente scientifico.
Tuttavia Marcazzan osserva che il libro risulta infine «arido », poiché Frank si è accostato alla poesia con preconcetti troppo razionalistici; inoltre i presupposti su cui lo studioso si basa, cioè l’autenticità di tutte le composizioni dell’Appendix e l’appartenenza di Virgilio alla scuola epicurea napoletana, non sono provati da reali dimostrazioni. Particolarmente interessante, poi, il saggio di Aldo Ferrabino Livio, Virgilio, Augusto, sempre su « Leonardo » ; lo studioso, in riferimento alle celebrazioni appena trascorse, si propone di introdurre un’interpretazione «italica » dei due autori latini e non pure dell’uno e dell’altro, ma proprio dell’uno con l’altro, dell’uno per l’altro, e di tutt’e due per noi; per noi italiani viventi e chiamati dalla realtà a conformarci idealmente e praticamente al genio di quella storia dell’Italia romana e de’ suoi più netti interpreti.
Ferrabino, per le qualità poetiche di Virgilio, parla di «magia virgiliana», che ben si accompagnava all’ideale augusteo di rinnovamento; paradossalmente, nel poeta c’è « un’umiltà sorretta dall’orgoglio. Un orgoglio totale del nome romano [...] un orgoglio totale che nel mondo intero non vede “cosa più bella di Roma”». La concordia civile dovuta all’opera di Augusto si riflette nella concezione, che emerge dalle opere virgiliane, che esiste una giustizia infallibile, suprema e universale: «ciò che fu doveva essere » ; così è non soltanto nel poema epico, ma anche nelle Georgiche, in cui il fortunatus agricola combatte allo stesso modo degli eroi ed è significativa l’opinione espressa da Ferrabino circa le intenzioni di Virgilio: Il suo sguardo, ecco, scorre su tutte le classi e i ceti dell’Italia; e non trova soggetto di celebrazione poetica che nel vertice, dov’è Augusto, e nella base, dov’è il plebeo che lavora [...] Là in alto è il principe della pace romana, là in basso sono gli artefici della produzione e della floridezza italica. liane, Milano, Vita e Pensiero, e gli Studi virgiliani, Mantova, Pubblicazioni della Reale Accademia Virgiliana di Mantova, . . Tenney Frank, Virgilio. L’uomo e il poeta, traduzione di Edgardo Mercanti, Lanciano, Carabba, ; il volume è presentato da Mario Marcazzan in «Leonardo », Milano-Roma, dicembre , pp. -. . Aldo Ferrabino, Livio, Virgilio, Augusto, «Leonardo », Milano-Roma, gennaio , pp. -.
maria cristina albonico
Così, anche l’opera storica di Livio ha per protagonista il popolo romano, sempre guidato da un «genio divino», secondo l’istinto religioso che ispira l’obiettività liviana; come il poeta, anche lo storico prende a modello della Roma moderna e augustea la Roma degli antichi: Virgilio e Livio dimostrano in che cosa e per che arte la storia e l’epica siano fraterne dalle origini, fraterne nel fine ultimo [...] L’uno e l’altro, Livio e Virgilio, grazie alla differenza delle tecniche, si pareggiarono senza confondersi. Ma nelle opere loro c’è un medesimo afflato : c’è l’universalità, tutta la nazione accolta nella coscienza d’un solo.
Per quanto riguarda l’interpretazione di Ferrabino, anche in rapporto con le celebrazioni del bimillenario, lo studioso osserva che la storia e l’epica ebbero da Livio e da Virgilio la loro perfezione «perché modellate sopra un sistema politico, quello che ricevé statuto da Augusto, ma che aveva origine e freno dalla ragione socievole ossia dalla potenza civile». Per l’interpretazione della poesia virgiliana risulta interessante la recensione di Enrico Turolla pubblicata su «Leonardo », nel febbraio , al volume di Alberto Mocchino Vergilio. Turolla sottolinea infatti che Mocchino merita un posto a sé nella letteratura su Virgilio degli ultimi anni perché, reagendo alle tendenze critiche contemporanee, che hanno attribuito al poeta latino una sensibilità troppo moderna, afferma che l’unica passione del poeta latino era quella di scrivere versi: non v’è tragedia nelle sue opere e « la realtà storica presente non sta a fondamento della sua coscienza, né in alcun momento è l’anima della sua poesia». In questo modo, però, secondo il recensore, viene negata la natura stessa della poesia di Virgilio: così, «per reagire a una tendenza da lui creduta errata, il Mocchino è caduto in un eccesso che ha la conseguenza di snaturare molto più profondamente l’essenza della poesia virgiliana». Turolla sostiene con vigore che la freddezza e la superficialità non appartengono alla lirica del grande poeta, la cui opera vibra di accenti profondi, sofferti, e che è sorretta da una visione unitaria; secondo il critico, l’idea centrale può essere definita «idea messianica», ma Mocchino, pur dotato di fini capacità di analisi, non l’ha saputa cogliere: Virgilio al canto di quella pace che le Georgiche mostravano quasi sogno d’una umanità migliore, fa seguire il canto della guerra nell’Eneide perché gli parve che l’impero dell’Augusto avrebbe posato termine alle guerre attuando finalmente il sogno d’un’umanità migliore.
Si citano infine tre contributi, pubblicati sempre su «Leonardo », ormai lontani dal bimillenario, ma affini per argomento; il primo è la recensione di Manara Valgimigli alla nuova edizione del monumentale studio di Domenico Comparetti Virgilio nel Medio Evo. Ricordando l’opinione di Giorgio Pasquali, per cui il volume di Comparetti fu il primo ed unico studio italiano di filologia classica del secolo xix, Valgimigli osserva che l’autore «tratta degli elementi classici e della tradizione romana nelle letterature medioevali, disegna, cioè, in breve, una storia di tutta la cultura occidentale dall’età augustea sino a Dante», mettendo in luce che Virgilio in epoca medioevale era divenuto «il rappresentante più eccelso di quella più alta cultura pagana che era destinata dal Cielo a preparare il Cristianesimo». Si intitola Virgilio nel Medio Evo anche il saggio di Giorgio Pasquali, in cui l’insigne
. Alberto Mocchino, Vergilio, Milano, Alpes, ; la recensione di Enrico Turolla è in «Leonardo », Milano-Roma, febbraio , pp. -. . Domenico Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, Firenze, La Nuova Italia, ; la recensione di Manara Valgimigli è in «Leonardo », Milano-Roma, aprile , pp. -.
il bimillenario virgiliano nelle riviste di letteratura italiana
filologo ripercorre con precisione gli studi sulla fortuna di Virgilio nel Medioevo, riferendosi al volume miscellaneo di Studi medievali. Si ricorda infine il contributo di Giulio Natali Alessandro Manzoni cittadino romano, pubblicato nel ; in contrasto con chi vorrebbe fare del grande scrittore «il campione dell’antiromanità», l’autore sottolinea che Manzoni nudrito di cultura classica, predilesse fra tutti i poeti Virgilio, il cui poema esaltò in pagine immortali, fu profondo conoscitore di tutta la letteratura latina, scrisse ne’ suoi tardi anni squisiti versi latini ; non amò la Roma capitale dello Stato Pontificio, ma Roma italiana, come mèta del corso storico d’Italia, fu il sospiro e il voto dell’intera sua vita.
Ormai senza pericolo di forzate interpretazioni politiche attualizzanti, Natali può così concludere il suo saggio: «Sempre profondamente cattolico, e sempre profondamente italiano e romano, il Manzoni». Per il bimillenario virgiliano gli studi dedicati al grande poeta furono dunque numerosi e di varia natura: da quelli brevi della rivista «La Fiera letteraria» a quelli più impegnativi di «Pègaso » e «Il Giornale di politica e letteratura» ; dalle numerose recensioni della rivista « L’Italia che scrive» ai saggi del mensile «La Rassegna italiana» e agli eterogenei interventi pubblicati su «Leonardo ». Certamente molti studi furono scritti proprio per l’occasione e alcuni non hanno lasciato una traccia significativa : è il caso dei contributi che considerarono Virgilio esclusivamente come un poeta augusteo, fautore della politica del princeps; questa forzata lettura in chiave ideologica assecondava l’imperante interpretazione dei classici come precursori della grandezza italica, che doveva raggiungere il suo culmine sotto la guida del governo fascista. Tuttavia non mancarono studiosi, come Tommaso Fiore e Concetto Marchesi, che si segnalarono per la loro indipendenza di pensiero, e numerosi studi fiorirono a prescindere da motivazioni politiche: in questo senso, il bimillenario virgiliano risultò essere un’occasione per ricerche finalizzate alla conoscenza sempre più approfondita di un poeta assolutamente irriducibile a interpretazioni univoche. In effetti, i diversi interventi furono caratterizzati da una grande varietà di punti di vista, il che testimonia come l’occasione celebrativa sia stata lo spunto per significative riletture della poesia di Virgilio. In questa ricca attività di ricerca spiccano gli studi filologici, come l’edizione dell’opera virgiliana curata da Remigio Sabbadini e le accurate indagini di Gino Funaioli; ma è da evidenziare soprattutto il fervore di studi che, a diversi livelli, fu indotto dal bimillenario. Vi fu spazio, infatti, per letture pre-cristianeggianti di Virgilio, per letture politiche e celebrative, come per seri studi storici e filologici, aperti anche a influssi di contributi stranieri, e polemici nei confronti di interpretazioni riduttive ; tale fu il numero dei contributi che, a proposito del volume di Fiore, Antonio La Penna ha osservato che «anche un buon libro correva il rischio di restare nascosto e soffocato nella selva di quella letteratura» e che tale saggio aveva visto la luce «in un’occasione particolarmente infausta: il bimillenario del poeta». Nonostante il tema dominante fosse la celebrazione di Virgilio quale vate del pro. Giorgio Pasquali, Virgilio nel Medio Evo, «Leonardo », Milano-Roma, settembre , pp. -; il libro di cui lo studioso si occupa è la raccolta Studi medievali, nuova serie, vol. v: Virgilio nel Medio Evo, Torino, Chiantore, (ma pubblicato nel ). . Giulio Natali, Alessandro Manzoni cittadino romano, «Leonardo », Milano-Roma, ottobre-dicembre , pp. -. . Antonio La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo. Con un saggio su Tommaso Fiore, Firenze, La Nuova Italia, , p. . . Ivi, p. .
maria cristina albonico
gramma imperiale di Augusto, non mancarono interpretazioni originali del poeta e La Penna ha così evidenziato questo fatto: Se il bimillenario fu l’occasione, vuol dire che talvolta è vero anche per la critica letteraria ciò che Goethe diceva della poesia, cioè che la poesia vera è occasionale, non nasce per programma.
In tal senso, particolare risalto assumono quegli studi che, tra i personaggi dell’Eneide, evidenziano i vinti, gli sconfitti che devono soccombere immeritatamente di fronte al Fato, che vuole Enea vittorioso fondatore del futuro impero romano (e italico). Su questa strada proseguirà negli anni successivi buona parte degli studi virgiliani, dopo aver messo in luce lo iato esistente tra potere politico e poesia. In ogni caso, non si deve arrivare a una generica condanna di quanto scritto per il bimillenario, anche se formulato esclusivamente per tale evento; occorre infatti ricordare la particolare situazione storico-politica di quel tempo: Le celebrazioni per il bimillenario della nascita di Virgilio, nel , caddero in un periodo di estrema ansia morale e di gravi preoccupazioni proprio per l’idea di Europa, di spiritualità occidentale, del cui valore Virgilio doveva essere immagine e garanzia.
In questo senso, il valore degli studi virgiliani, di qualunque filone interpretativo, è stato quello di aver voluto attingere da un poeta del passato, sentito come poeta nazionale, coraggio per il presente e speranza per il futuro.
. Ivi, pp. -. . Il punto su Virgilio, a cura di Franco Serpa, Roma-Bari, Laterza, , p. .
Paola Baioni L A P O E S I A I N « PR I M A T O »
L a rivista « Primato », quindicinale di «Lettere e arti d’Italia», inizia le sue pubblica-
zioni il o marzo , dopo una lunga gestazione, sotto la direzione di Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti. I direttori sono due, ma, di fatto, si ritrova quasi esclusivamente il nome del primo, che in alcuni casi non si firma, anche se gli interventi sono a lui riconducibili. Vecchietti, letterato colto, probabilmente sceglie quali contributi pubblicare, aiutato da Domenico Lombrassa, con il quale ha già compilato alcune antologie per la scuola media e professionale. Fin dall’inizio Bottai si batte perché gli intellettuali italiani siano i diretti protagonisti della cultura e possano esportare, questo è lo scopo dichiarato della rivista, la cultura italiana e fascista, da lui ritenuta né inferiore, né da sottomettere a quella nazista. Ciò emerge in modo cospicuo dalle pagine di «Primato ». Nel primo numero, in un articolo senza firma, a lui attribuito, leggiamo: « Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra Nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, e assumerete il coraggio della concordia.» Il coraggio della concordia: risultante di quel nutrito amore all’arte e alla Patria, e mezzo indispensabile per imporre il primato spirituale degli Italiani di Mussolini.
Nello stesso fascicolo in un’intervista al Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano esprime l’impossibilità di sostituire il lavoro intellettuale con quello propagandistico, quindi lascia intravvedere una certa libertà di azione, non vincolata allo stretto programma del regime : Nel campo della cultura le sole cose che contano sono le cose serie. Non esiste una propaganda che possa sostituire il valore intrinseco del lavoro intellettuale. Se anche esistesse io la scoraggerei perché all’interno essa sarebbe dannosa alla disciplina morale ed intellettuale della gioventù, all’estero al nostro prestigio.
Quando l’intervento dell’Italia in guerra è praticamente sicuro, Bottai si sente in dovere di precisare che il partito non vuole sottomettere la cultura, ma servirsene positivamente, per una nuova spinta propulsiva: Tra tutti gli uomini del mondo, [...] l’italiano è il più naturaliter oboediens. Non s’appaga, in quest’ora, l’uomo di cultura italiano, di cotesta naturale obbedienza [...] Non tanto c’importa d’ottener dalla cultura un sottomettersi disciplinato agli eventi, quanto un parteciparvi, un penetrarli, un comprenderli per dominarli. Quindi, un intervento deciso dell’intelligenza nel mezzo delle cose e nel vivo dei problemi: questo ci debbono dare gli uomini della cultura: E il loro sarà il più prezioso e necessario degl’interventismi. [...] Il vaticinio di Mussolini si compie: l’Europa combatte oggi la guerra preparata dal Fascismo, dalla sua critica demolitrice e ricostruttrice, dalla sua audace polemica, che ebbe già in Affrica e in Ispagna i suoi primi collaudi. Qui deve puntare la cultura. Abbandonare il miserabile dibattito delle filìe e delle fobie, degno di servi, e inseguire le idee nuove nel vasto raggio dell’azione, enunciarle con chiarezza sempre più perspicua alle genti di tutto il mondo, disporle in sistema, farne mòduli di nuovi reggimenti politici, di nuovo pensiero, di nuova poesìa, di nuova arte. [...] . Il primo annuncio del costituendo periodico si trova su «Critica fascista», Roma, agosto , p. . . Il coraggio della concordia, «Primato », Roma, marzo , p. . . La cultura italiana nel mondo, ivi, p. .
paola baioni
Ecco l’interventismo della cultura, l’interventismo che è suo e solo suo, inconfondibile e insostituibile. Il nuovo tempo, che si prepara, esige un adattamento nuovo degli spiriti e delle intelligenze a nuove condizioni d’esistenza. [...] E questo possono farlo solo gli uomini di cultura col loro tempestivo intervento.
Nel numero , la redazione della rivista, assume le responsabilità imposte dalla guerra e non perde occasione per riaffermare l’inscindibilità del binomio politica-cultura e il ruolo dell’Italia: Oggi l’Italia si appresta a diventare veramente Grande Potenza, [...] essa dunque si proietta fuori dall’Europa e dà un senso non puramente letterario, ma concreto perché anche politico e sociale, alla sua opera di civiltà e di cultura: occorre adeguare il «primato » dell’intelligenza a questi nuovi compiti storici e costruttivi.
Con l’incalzare degli eventi, la rivista si adegua sempre più alla politica del partito, subisce numerosi contraccolpi legati all’andamento della guerra e del regime, fino alla cessazione avvenuta il luglio , alla vigilia del crollo del fascismo: essendo un quindicinale infatti, il numero successivo avrebbe dovuto uscire il o agosto. Da questa breve premessa, si evince l’attenzione e l’interesse dimostrati dalla dirigenza nei confronti della cultura. Bottai fino all’ultimo profondamente crede in questa grande risorsa e in questo valore, e come Ministro dell’Educazione Nazionale, ritiene fondamentale educare. Ogni anno « Primato » propone un’inchiesta su argomenti di particolare rilievo letterario, artistico e filosofico : il primo anno sull’Ermetismo, il secondo sulle università e la cultura, il terzo sulla legge per gli artisti, il quarto sull’esistenzialismo in Italia; partecipano al dibattito insigni protagonisti del tempo. Il fascicolo numero lancia l’indagine sull’Ermetismo, visto con una certa preoccupazione perché comprensibile dagli iniziati, ma non alla portata di tutti, non ad hoc, quindi, per essere esportato. Questo è il vero motivo che spinge a interpellare poeti e critici per cercare di fare chiarezza. Lo scopo dichiarato è quello di mettere in discussione il fenomeno, per illuminare e dare vitalità ad esso, alle lettere, all’arte. Nell’introduzione all’inchiesta, infatti, si legge: Resta fermo che noi possiamo ritenere la maggiore chiarezza e comunicabilità dell’opera d’arte non solo augurabile, ma punto estremamente alto e difficile al quale tendere nel nostro lavoro di scrittori. Senonché una discussione in questo senso effettivamente esula dal nostro presente scopo, il quale, come abbiamo indicato nel chiedere la collaborazione ai vari scrittori, rientra semplicemente nel più generale proposito della nostra rivista di “mettere chiaramente in discussione ogni atteggiamento della cultura, del gusto, del costume artistico e letterario in Italia per individuarne i caratteri ed illuminarne la eventuale necessità e vitalità”.
L’inchiesta prosegue nei due fascicoli successivi, ma viene poi chiusa senza un parola di commento da parte della redazione. Nell’introduzione, sul numero , è scritto: . Giuseppe Bottai, Interventismo della cultura, «Primato », Roma, giugno , p. . . Gerarchia di popoli, «Primato », Roma, agosto , p. . . Per i nomi degli intervenuti, cfr. Luisa Mangoni, « Primato » -. Antologia, Bari, De Donato, , pp. -. . Parliamo dell’Ermetismo, «Primato », Roma, giugno , p. . . Il fascicolo numero annuncia i contributi di Alvaro, Angelini, Angioletti, Baldini, Bocelli, Bontempelli, Cecchi, De Robertis, Gargiulo, Pellizzi, Solmi; il numero avverte di quelli di Angioletti, Baldini, Bartoletti, Bocelli, Gargiulo, Quasimodo, Solmi. In effetti intervengono Montale, Benco, Pavolini, Flora, Linati, Bernardelli, Contini sul numero , De Robertis, Alvaro, Angelini, Bontempelli, Pellizzi, Cecchi sul numero , sul numero si trovano solo le risposte di Bartoletti, Bocelli e Titta Rosa (del quale non si ha anticipazione), dopo di che non se ne fa più parola. Le risposte di Angioletti, Baldini, Gargiulo, Quasimodo e Solmi non compaiono.
l a p o e s i a i n « pr i m a t o »
Pubblichiamo un terzo gruppo di risposte alla nostra inchiesta sull’ermetismo: gruppo che non esaurisce la serie. [Invece la esaurisce!] [...] Ci siamo sforzati d’ascoltare, come suol dirsi, molte campane diverse: ma in certo modo la posizione affermativa o dissenziente, il disgustato diniego o la vivace e quasi impermalita difesa hanno, da un punto di vista ampiamente obiettivo, un significato analogo: inducono cioè a sperare, con sempre maggior fondamento, che intorno alle questioni letterarie si determini quel bisogno di coscienziosa chiarezza, di esame spregiudicato ed estremista che garantiscono come, nella vita dello spirito, la letteratura abbia un suo largo e necessario posto.
A conferma del fatto che la rivista vuole fare chiarezza sul fenomeno, si trova: Ed aggiungeremo che un bisogno di chiarezza, di definizione, di coscienza è tanto più importante in un’epoca di grandi rivolgimenti spirituali, un’epoca nella quale responsabilità particolarmente alte si preparano per coloro che più direttamente fanno professione di difendere i valori dello spirito e della cultura.
Montale risponde che non ha mai cercato volutamente di rendere oscuri i suoi componimenti. Il poeta definito oscuro, spesso trae l’ispirazione dall’autocoscienza della poesia stessa, «accumulandovi d’istinto sensi e soprasensi, conciliandovi dentro gl’inconciliabili, fino a farne il più fermo, il più irripetibile, il più definito correlativo della propria esperienza interiore». Pavolini, in linea con Montale, mette in guardia i lettori affinché non scambino «per un difetto di cultura quella che è un’ambizione d’anima» e cita come esempio di lirica sostanzialmente ermetica l’Infinito di Leopardi, all’apparenza limpidissimo, perché il suo vero ermetismo è racchiuso nel mistero della sua semplicità. Anche Contini giustifica il movimento, così pure De Robertis sostiene che ogni poesia veramente originale è ermetica e presenta difficoltà di comprensione. Angelini definisce oscuri i versi che richiedono una collaborazione attiva del lettore per intendere quello che l’autore ha eliminato, «colmare i silenzi, creare i ponti, ritrovare i nessi. Indovinare. Rifare il processo che il poeta va significando attraverso le sue accensioni liriche, i suoi folgoramenti». Bontempelli riferisce di essere stato “aggredito” da alcuni colleghi per avere affermato che tutta l’arte è ermetica, ma che in effetti è così; egli aggiunge che «Il torto e la disgrazia dell’ermetismo è di accentuare il dissidio tra arte per un pubblico e arte per iniziatissimi». Al contrario pensa Silvio Benco: all’arte questo [movimento] non può fare né bene né male. [...] può darsi che dal seno dell’ermetismo, [...] esca e si manifesti taluno che metterà la poesia per altra strada. [...] Dobbiamo aspettarla, ma non già credere che essa possa venire per altre sollecitazioni che non siano la forza naturale dell’ingegno. Nemmeno oggi del resto tutti i giovani poeti italiani di valore sono di necessità ermetici.
Ancora più oscura e alquanto noiosa egli considera la critica afferente a questo movimento. Linati addirittura ritiene che la forza e l’onestà di uno scrittore servono per chiarire le cose oscure, non per complicarle ulteriormente e aggiunge che «nessuna
. L’ermetismo e gli ermetici, «Primato », Roma, luglio , p. . . Ibid. . Eugenio Montale, «Primato », Roma, giugno , p. . . Corrado Pavolini, ivi, p. . . Cesare Angelini, «Primato », Roma, giugno , p. . . Massimo Bontempelli, ivi, p. . . Silvio Benco, «Primato », Roma, giugno , p. .
paola baioni
pagina di vera e umana poesia s’è mai vista uscire dalle loro mani, e tutta quest’oscurità è asfissiante ». Si comprende dai “corsivi” introduttivi (cfr. nota numero ) che la rivista fa sue le posizioni di Contini, De Robertis e Montale, sebbene non si trovi un intervento che tiri le fila della discussione. Dal mondo letterario pervengono risposte inequivocabilmente refrattarie a ogni proposta di impegno civile. Secondo Giuseppe Langella l’appello di «Primato » è scarsamente esaudito proprio nella «“repubblica delle lettere” in cui aveva riposto le sue attese maggiori, se non le maggiori speranze». Lo scollamento da lui rilevato tra la cultura e la dittatura riguarda in particolare la poesia, la quale meno si presta ad essere “indottrinata”.
. Carlo Linati, ivi, p. . . Giuseppe Langella, Il secolo delle riviste. Lo statuto letterario dal «Baretti » a «Primato », Milano, Vita e Pensiero, , pp. -. . Su «Primato » escono le seguenti poesie, qui ordinate alfabeticamente per autore: i - Sibilla Aleramo, Tutto di rapina l’iddio, Mattino di Delfo, O misteriosa sovra tutte le cose, dicembre , p. ; ii - Riccardo Bacchelli, Sogno nero, Virtù dell’amore, Gelosia, dicembre , p. ; iii - Antonio Barolini, La finestra dei malati, La casa dell’amico, gennaio , p. ; iv - Arnaldo Beccaria, Or tu ci accogli o notte, agosto , p. ; v - Giuseppe Gioacchino Belli, Le catacómme, ottobre , p. ; L’allèvo, Er peggno in campaggna, ottobre , p. ; vi - Carlo Betocchi, [Noi siamo forse come chi consente], [Le mani che si posano sul marmo], settembre , p. ; Memoria e amore, Inizio per un “canto di montagna”, marzo , p. ; A se stesso malato, Alla sera, novembre , p. ; Poeta in Firenze, marzo , p. ; vii - Dino Campana, Tre giovani fiorentine camminano, Oscar Wilde a S. Miniato, Firenze cicisbea, Firenze vecchia, settembre , p. ; Boboli, “Umanità fervente sullo sprone”, Marradi, “Quando gioconda trasvolò la vita”, settembre , p. ; “Lontane passan le navi”, “Parti battello sul mar redimito”, “Spiaggia, spiaggia”, settembre , p. ; viii - Vincenzo Cardarelli, Marzo, giugno , p. ; ix - Beniamino Dal Fabbro, Elegia di San Miniato, luglio , p. ; x - Libero De Libero, Epigrammi i-ix, gennaio , p. ; xi - Filippo De Pisis, Le foglie secche, Giardino autunnale, marzo , p. ; xii - Alfonso Gatto, Elegia notturna, Versi d’un giorno lungo, settembre , p. ; Forse mi lascerà del tuo bel volto, Lelio, maggio , p. ; Dorma col suo sorriso, Io non ricordo il volto, E’ l’alba e il freddo bacia, Scherzo, luglio , p. ; Ilaria, gennaio , p. ; Col dolce vento delle notti, aprile , p. ; L’allodola, ottobre , p. ; Pioggia a lieto colle, Vento sulla Giudecca, giugno , p. ; xiii - Adriano Grande, Zingaresca, Cornacchie, luglio , p. ; Strada al mare, aprile , p. ; xiv - Renzo Laurano, Di una età indefinita, dicembre , p. ; Frammento, agosto , p. ; xv - Mario Luzi, Esperide, Un limbo, maggio , p. ; Rada, Passaggio, dicembre , p. ; Palma, Alla madre, giugno , p. ; Voce di sentiero, Viaggio, gennaio , p. ; xvi - Eugenio Montale, Su una lettera non scritta, Nel sonno, agosto , p. ; Il giglio rosso, Il ventaglio, agosto , p. ; Due nel crepuscolo, maggio , p. ; xvii - Renato Mucci, Amara terra, settembre , p. ; xviii - Ada Negri, Nulla, Signore, io sono, maggio , p. ; xix - Enrico Pea, “Palla bambina”, novembre , p. ; xx - Sandro Penna, [Il liquido, pungente,], [Se passa una bellezza che va in fretta], [Nel buio della stanza in me risplende], [Fu in un dolce paese – ove estatica e verde], febbraio , p. ; [A un sole scolorito], [Un monotono vento di veicoli], [Indi salito in alto riposavo], [Disegnavano in me nel caldo letto], [Fra l’alba incerta e la nebbia leggera], giugno , p. ; [Il mio amore è furtivo], [Ma se ognuno dormiva il treno e io,], aprile , p. ; Mattino, La sera, Il sogno, settembre , p. ; [E’ dolce piangere quando il cielo è sereno], [Ma perché non comprare il bene e il male], [Vidi arrossire un giorno in un giardino], [Al primo soffio dell’autunno il treno], [Piove nel sonno mio. Piove sul fiume], luglio , p. ; xxi - Salvatore Quasimodo, La dolce collina, giugno , p. ; Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto, febbraio , p. ; Tu sai che appare un giorno, Di un altro Lazzaro, febbraio , p. ; Presso l’Adda, agosto , p. ; xxii - Ezio Saini, Elegia, Idilli, agosto , p. ; xxiii - Leonardo Sinisgalli, [Muore il ragazzo un poco], [Da quanti anni, da sempre], ottobre , p. ; Tre imma-
l a p o e s i a i n « pr i m a t o »
Un discorso a parte merita la rubrica Quaderno del traduttore. Le traduzioni sono effettuate o dai classici greci (per lo più) e latini, o da autori stranieri contemporanei. La rubrica è ben nutrita nel corso del primo anno e per buona parte del secondo, mentre nel e gli interventi diminuiscono drasticamente e riguardano solo i classici, con l’eccezione della versione di due poesie di Carossa. Unici testi in prosa (all’interno della rubrica) sono quelli di Novalis e Grillparzer, dei quali sono pubblicate delle favole romantiche e la traduzione di una lettera di Rilke indirizzata a Franz Xaver Kappus. Due traduttori si occupano di lirici greci (Quasimodo traduce Saffo, Valgimigli traduce brevi versi di Saffo e Archiloco, nonché epigrammi di Asclepiade e una canzone popolare cantata a Rodi), due di latini (Quasimodo si occupa di Virgilio, Muscetta di Petronio nonché di poesie di Sannazzaro e Pascoli in latino). Sono altresì tradotti Hofmannsthal, Benn, Gezelle, Rodenbach, Darío, Hölderlin, Blunck, Rilke, Trakl, Góngora, Carossa, Goethe. Tra i traduttori, Bacchelli, Dal Fabbro, Mucci e Quasimodo pubblicano anche delle liriche loro; compare inoltre una donna, Romana Guarnieri, che si occupa di Gezelle, (tra i poeti due donne, Sibilla Aleramo e Ada Negri). Il canto A Roosevelt di Darío (trad. Costantino Nigro) apostrofa il Presidente americano con un tono piuttosto forte e lo mette in guardia: [l’] America [...] sogna. E ama e vibra; ed è la figlia del sole. / State attenti. Vive l’America spagnuola ! / Bisognerebbe, Roosevelt, essere, per Dio stesso, / il tiratore terribile [...] / per poterci tenere nei vostri artigli di ferro. / E mentre contate su tutto, una cosa vi manca: Iddio!
Tra i traduttori spicca il nome di Giaime Pintor, che si occupa, in questa sede, di Rainer Maria Rilke. Lorenzo Polato sostiene che Non si capirebbero le ragioni e le vie tentate da Pintor, nello sforzo di uscire in qualche modo dal tunnel dell’ideologia fascista e, con esse, le resistenze e gli ostacoli senza la sua esperienza di critico e traduttore della letteratura e del teatro tedesco. [...] tra le traduzioni di quel tempo (di Errante, Traverso, Paoli, Zampa), quelle di Pintor appaiono le più schiette e quelle che con maggiore fortuna artistica testimoniano dell’incontro e dell’influenza di Rilke sulla nostra poesia.
Pintor si occupa altresì di Goethe, Kleist, Trakl, Hesse, Hofmannsthal. Nella rivista a gini dell’isola, maggio , p. ; La rosa non ti somiglia, novembre , p. ; Il tuo riso come un’ala fuggiasca, Rosei del rosa dolce delle case, agosto , p. ; xxiv - Sergio Solmi, Imitazione, Coglier sapessi..., dicembre , p. ; xxv - Giannina Tamburini, Sensazione, dicembre , p. ; xxvi - Giuseppe Ungaretti, Diario VI, X, XVII, XXIX, ottobre , p. . . Numerose e ben articolate sono anche le rubriche letterarie e quelle artistiche, oltre all’ampio spazio dedicato al cinema, al teatro, alla musica. . Traduttori (ordinati alfabeticamente). Tra parentesi quadrata compare il nome dell’autore tradotto: Riccardo Bacchelli, Da Goethe, aprile , p. ; Gianfranco Contini, Inno alla perfezione [di Hölderlin], aprile , p. ; Beniamino Dal Fabbro, Il cuore dell’acqua [di Rodenbach], novembre , p. ; Romana Guarnieri, Un poeta fiammingo [di Gezelle], settembre , p. ; Giuseppe Isani, Lettera a un giovane poeta [di Rilke], luglio , p. ; Id., Lettera su due temi [di Rilke], ottobre , p. ; Renato Mucci, Un testo ermetico di Mallarmé, marzo , p. ; Carlo Muscetta, Autunno [di Petronio]; A sè stesso [di Sannazzaro]; Mamma [di Pascoli], febbraio , p. ; Costantino Nigro, A Roosevelt [di Darío], febbraio , p. ; Rodolfo Paoli, Lamento; L’oro dei giorni è svanito; Di notte [di Trakl], settembre , p. ; Id., Favole romantiche [di Novalis e Grillparzer], aprile , p. ; Giaime Pintor, Da Rainer Maria Rilke, giugno , p. ; Raffaello Prati, Ad una signora [di Hofmannsthal], marzo , p. ; Id., Due poesie di Hans Carossa, maggio , p. ; Salvatore Quasimodo, Da Saffo, marzo , p. ; Id., Da Virgilio, settembre , p. ; Salvatore Francesco Romano, Mia madre; C’è un’isola Ilghenò [di Blunck], maggio , p. ; Mario Socrate, Guardando la sua donna cogliere fiori [di Góngora], dicembre , p. ; Leone Traverso, La danese [di Benn], maggio , p. ; Manara Valgimigli, Lirici greci, agosto , p. ; Id., Come calici di rosa; Verginità; Dalle corde rosse degli archi [di Asclepiade]; La canzone della rondine [di Autore Anonimo], giugno , p. . . Rubén Darío [Félix Rubén Garcia Y Sarmiento], A Roosevelt, trad. Costantino Nigro, «Primato », Roma, febbraio , p. . . Lorenzo Polato, a cura di, Prospettive. Primato, Treviso, Canova, , p. .
paola baioni
lui è riservato ampio spazio anche come critico. Interviene inoltre nelle inchieste sull’università e la cultura e sul dibattito relativo al nuovo Romanticismo. Di rilevante importanza è il suo testo Commento a un soldato tedesco per il tentativo, seppure in nuce, di scardinamento del binomio, praticamente inscindibile, cultura-guerra. Nella conclusione del suo scritto egli dice: Ma finché il successo accompagnerà le grige armate del Reich, e sulle città conquistate sventolerà la bandiera bianca e rossa, non vi sarà posto in Europa per altri uomini e per un’idea contrastante.
« Primato » si occupa anche di liriche slovene, al di fuori della rubrica Quaderno del traduttore. Tra il e il , il periodico sloveno «L’Ape » e quello tedesco «Illyrisches Blatt » pubblicano una serie di poesie di Francè Presˇeren, che sanciscono la nascita della lirica slovena. I primi ad intendere Presˇeren sono Fran Levstik e, alcuni anni più tardi, Josip Stritar; tra i più grandi talenti della seconda metà del secolo, si trovano Simon Jenko e Simon Gregorcˇ icˇ . Meno fortuna ha la poesia epica di Anton Asˇkerc. Contro questo fallimento e l’arenarsi della prosa in un angusto provincialismo, si levano le voci di quattro giovani coetanei prodighi nel far rinascere, in un certo senso, i bei tempi di Presˇeren : Ivan Cankar, Dragotin Kette, Josip Murn Aleksandrov, Otto Zˇ upancˇ icˇ . Nel campo della lirica, il xx secolo non dimostra segni di cedimento, anche se non è facile per i giovani, mantenersi a livello di Kette o di Zˇ upancˇ icˇ . Luigi Salvini, nel , cura la versione italiana di molte liriche slovene moderne, di cui la rivista pubblica: Camminava per la selva di Dragotin Kette, Zampognari di Josip Murn Aleksandrov, Seguidille di Otto Zˇ upancˇ icˇ (trad. Silvestro Skerl), Dolce e quieta... di Otto Zˇ upancˇ icˇ , La mia vita di Alojz Gradnik (trad. Mario De Tuoni). Giuseppe Vidossi, poco tempo dopo, si occupa di canti popolari degli Illirici e pubblica La sposa di Assano Agà (trad. G. Kasandric), L’impero celeste e il terreno (trad. Niccolò Tommaseo), Il testamento di un eroe (trad. Giacomo Chiudina), Ciò che vide il falco (trad. G. Kasandric). Paolo Toschi si interessa di canti popolari dalmati e fa notare quanto il canto popolare italiano, nel suo caratteristico nucleo tradizionale e nella varietà delle sue principali forme (dallo strambotto alla canzone epico-lirica, alla ninna nanna, dai canti di questua alle canzoni dei “bevitori”), si sia diffuso in Dalmazia, soprattutto sulle isole e sulla costa. La villotta veneta è un esempio di poesia popolare importata in Dalmazia, la quale, da parte sua, certamente contribuisce ad arricchire il nostro patrimonio canoro popolare. Soprattutto il ritornello delle canzoni subisce il processo di adattamento che contraddistingue questo genere di poesia. Se ne trova un esempio in El sì di Sabalich, ripreso e adattato nelle rime alle varianti locali per le città di Spalato, Sebenico, Zara e Trieste. « Primato » dedica altri studi alla Dalmazia e alla Slovenia, in quanto il aprile la Jugoslavia capitola e viene smembrata con l’annessione di Lubiana al territorio . Giaime Pintor, Commento a un soldato tedesco, «Primato », Roma, febbraio , pp. -. . Ivi., p. . . Giovanni Maver, Un secolo di lirica slovena, «Primato », Roma, agosto , pp. -. . Giuseppe Vidossi, I canti popolari degli Illirici, «Primato », Roma, novembre , pp. -. . Paolo Toschi, Canti popolari dalmati, «Primato », Roma, giugno , pp. -. . Cfr. Alfredo Schiaffini, L’italianità linguistica della Dalmazia, giugno , p. ; Fabio Cusin, Alba della Slovenia, agosto , pp. -; Corrado Corazza, Passeggiata per l’arte slovena, agosto , pp. -; Giuseppe Praga, Cultura della Dalmazia, novembre , p. ; Arturo Cronia, Dalmazia letteraria, novembre , pp. ; Domenico Lombrassa, Amicizia con due isole, novembre , pp. -; Matteo Bartoli, Una repubblica italoslava, novembre , pp. -; Luigi Crema, L’arte italiana in Dalmazia, novembre , pp. -.
l a p o e s i a i n « pr i m a t o »
italiano ( maggio) e la creazione dello stato della Croazia, posto sotto il governo di Ante Pavelic´ . Aumenta quindi la popolazione italiana di lingua slovena. Ai collaboratori è dedicato uno spazio critico, segno di interessamento, oltre che di stima da parte della rivista. Sergio Solmi commenta la poesia di Montale che ritiene una delle più fraterne tra le voci di quegli anni non facili. Viene elogiata la traduzione montaliana del testo La battaglia di Steinbech; Giansiro Ferrata recensisce così la ristampa degli Ossi di seppia presso Einaudi: Nuove impressioni critiche non potranno prodursi col medesimo distacco di una ristampa, da un libro che non s’è mai cessato di leggere. E la poesia di Montale attende, se mai, un’attenzione che la segua da capo per tutta la sua durata, senza limiti di cronaca tra gli Ossi e le Occasioni.
Cesare Angelini commenta brevemente le opere di Ada Negri, donna cresciuta accanto a grandi autori (D’Annunzio, Pascoli, Carducci), ma non ascrivibile alla scuola letteraria dei maggiori. I critici, alla fine dell’Ottocento, non riuscendo a “classificarla”, la definiscono, troppo frettolosamente, “indipendente”. I testi degli ultimi anni si arricchiscono di esperienza religiosa, che diventa ardore di carità, sensibilità per gli umili e i sofferenti, intima preghiera, come si può notare anche nella lirica pubblicata sulla rivista. Angelini sottolinea che «la simpatia verso il povero dei suoi tempi socialisti, ha avuto il suo coronamento nella raggiunta carità di Cristo». Numerosi gli interventi di Bacchelli non solo come poeta ma anche come narratore e critico : ampio lo spazio a lui dedicato. Mario Alicata si occupa del suo romanzo, (al quale non risparmia qualche appunto, anche se ne riconosce il valore), Giansiro Ferrata delle sue novelle e favole, Giancarlo Vigorelli recensisce positivamente Il fiore della Mirabilis. Giorgio Vigolo, in uno studio sul linguaggio e la personalità di Giuseppe Gioacchino Belli, illustra la parabola evolutiva della sua opera, che, dai primi versi italiani, ai più di duemila sonetti in romanesco, trova la sua legittima giustificazione nel modo in cui egli riesce, di volta in volta, a risolvere il rapporto del suo personale linguaggio con la lingua illustre da un lato e con il romanesco dall’altro. A Dino Campana è riservato non solo omaggio, ma un certo nostalgico ricordo, anche affettivo, quasi un voler rendere giustizia al poeta, per la sua fine infelice. Il fascicolo numero del , gli dedica due interventi, uno di Vasco Pratolini e Giansiro Ferrata e un altro di Testadoro (pseudonimo di Giorgio Cabella). Di nuovo viene ricordato in occasione della recensione al testo di Ravagli da parte di Enrico Falqui, il quale più volte, successivamente, ritorna a parlare di lui. Cardarelli oltre alla poesia Marzo, pubblica un articolo sul Leopardi e uno sull’importanza della libertà di giudizio in ambito editoriale e giornalistico; Sergio Solmi dedica uno spazio alla sua opera poetica, che assume, egli ritiene, un ritmo di pensiero prosastico e discorsivo, da cui procede il tono particolare di recitativo della sua lirica. Numerosi gli interventi di Beniamino Dal Fabbro, come poeta, traduttore, autore di rubriche ; di rilevante importanza la pubblicazione da parte sua di scritti inediti di Carlo Dossi. Ampio spazio è dedicato a De Pisis pittore e artista; viene recensito il suo testo Poesie, ed egli interviene, oltre che come poeta, anche nell’inchiesta sulla legge per gli artisti. Di Alfonso Gatto, Muscetta in uno studio incentratro sulla silloge l’Isola, sostiene che L’autore è stato detto un ermetico, ha il suo nome affidato a polemiche che non lo interessano: . Giansiro Ferrata, La ristampa degli «Ossi di seppia», «Primato », Roma settembre , p. . . Cesare Angelini, Ada Negri, «Primato », Roma dicembre , p. .
paola baioni
nessuno sa come egli sia chiaro in se stesso e come il suo mistero protegga eternamente un’immagine, una persona invocata, affinché gli uomini non la sciupino e nel tempo sia, essa sola, l’amore. [...] A Gatto auguriamo molti e riconoscenti lettori in buona fede e cioè di buona volontà: che lo scampino, nel proprio affetto, dagli eventuali critici di mala fama, complicanti e calamitosi.
Enrico Pea, oltre alla poesia “Palla bambina”, scrive sulla Baracca Rossa e Ungaretti, ricordi di gioventù, Nino Badano gli recensisce L’anello del parente folle, Alfonso Gatto si occupa di Solaio, un corsivo privo di firma informa della sua vincita del primo premio bandito dal « Giornale d’Italia » con il romanzo Rosalia, Enrico Squarcia fa alcune considerazioni sulle sue opere. Quasimodo pubblica poesie, traduce i classici greci e latini, Giancarlo Vigorelli commenta positivamente la sua opera poetica. Diversi interventi sono dedicati a Sinisgalli, Solmi, Ungaretti, commentato da Gianfranco Contini; uno spazio è riservato anche a Luzi, De Libero, Laurano. Dopo quattro anni di serio e costante impegno, con la caduta del regime, «Primato », strettamente legata all’andamento della guerra, è costretta a chiudere i battenti. La cura che Bottai ha dedicato alla rivista, è ben sintetizzata da Vecchietti: Perfino i « camerati » più sprovveduti, del resto, non ignoravano che l’«intellettualismo » di Bottai rappresentava, secondo il linguaggio elementare dei gerarchi più grossolani, qualcosa di inquieto e di pericoloso da cui bisognava difendersi. Gli invitati [alle riunioni di «Primato »] capirono che Bottai, mettendosi a capo di quel gruppo di letterati e di artisti, nella redazione di una rassegna dai propositi ambiziosi, dalla «scrittura » più trasparente possibile, andava incontro a nuove amarezze, si esponeva agli assalti dei nemici senza riuscire, forse, a persuadere le schiere sospettose degli amici. E per questo gli vollero bene, lo seguirono con simpatia trepida e umana quale direttore di giornale non ebbe mai. [...] Nobiltà: ecco la parola che viene spontanea quando si voglia sintetizzare la vita e l’opera di Giuseppe Bottai.
L’amarezza di Bottai per l’epilogo della situazione generale come anche per quello della rivista a cui tanto si è dedicato, si evince già dal titolo del suo testo Vent’anni e un giorno, dove fa praticamente la cronaca degli anni della dittatura e, ampio spazio dedica alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo nella notte in cui esso è caduto. Notizie molto importanti riguardo alla poesia in «Primato » sono state fornite dalla viva voce del prof. Mario Luzi, durante intervista telefonica, che qui si riporta: Chi l’ha introdotta a «Primato » ? Suppongo, cioè non ho un ricordo preciso, che un invito sia stato diramato agli scrittori del momento, inclusi i giovani. Della direzione io conoscevo Vecchietti. Chi sceglieva le poesie da pubblicare sulla rivista «Primato » ? Era Vecchietti, credo. Era un letterato, uomo colto. Nell’«Orto » si faceva aiutare da Poggeschi, che era un pittore, il quale aveva una vena anche letteraria e poi da Marescalchi. C’erano altre riviste prestigiose in quegli anni, per esempio «Letteratura », « La Ruota ». Perché pubblicava su «Primato », insieme con altri insigni poeti come Montale, Quasimodo, Gatto, Sinisgalli ? Perché «Primato » era una rivista prestigiosa, era una sorta di vetrina per i poeti e sapeva selezionarli con apprezzabile competenza. Non è stato quindi un ripiego perché, per esempio, «Il Frontespizio» e «Campo di Marte» avevano chiuso i battenti? No. Si pubblicava su «Primato » perché era una rivista prestigiosa, solida. . Carlo Muscetta, Per un libro di poesie, «Primato », Roma gennaio , p. . . Giorgio Vecchietti, Le riunioni di «Primato », «Abc », Roma, marzo , pp. -.
l a p o e s i a i n « pr i m a t o »
La rivista aveva un’impostazione eclettica, è vero? Sì, senz’altro, ospitava tutti: fascisti, antifascisti, afascisti. Lo scopo era quello di catturare l’intellettualità al fascismo. Bottai, che era Ministro dell’Educazione, forse non solo per calcolo, calò e manovrò quella rete. La rivista, a pochi mesi dalla fondazione, lancia un’inchiesta sull’Ermetismo. I direttori, o forse solo Bottai, ritenevano che l’Ermetismo fosse una poesia per iniziati e quindi non rispondente alle esigenze di esportazione della cultura? Infatti l’inchiesta viene poi chiusa frettolosamente, senza commenti. L’Ermetismo rientra in questa caratteristica della rivista di trattare tutti i temi di attualità, fossero pure ingrati – fino a un certo punto, naturalmente. « Primato » pagava i poeti? Sì, era una rivista solida, seria, io ora non ricordo, non so quantificare, comunque pagava i poeti – modestamente – come ogni altro collaboratore. Pur non avendo un manifesto programmatico preciso, si può parlare di poesia di «Primato » ? « Primato » ha avuto una sua poesia? Non scherziamo. Ha avuto un intendimento, quello di «Esportare la cultura», come diceva Bottai. Le poesie che la rivista ha pubblicato erano, sono, di altissimo livello, tutte anteriori alle stampe, pubblicate lì per la prima volta, è vero? Il livello non sarà stato sempre altissimo, ma la rivista era prestigiosa e pagava per avere poesie inedite. Nella sua poesia Alla madre notiamo un calco ungarettiano piuttosto marcato. Lo conferma ? Se sì, lo può motivare? Scorgiamo un calco ungarettiano già a partire dal titolo. Ungaretti pubblica nel su «L’Italia letteraria» La madre, scritta in occasione del suo inscontro con la mamma, venuta a Roma nel per il Giubileo Sacerdotale di Pio XI. Ecco i testi a confronto: Scrive Ungaretti: vv. - Quando d’un ultimo battito il cuore avrà aperto il portone d’ombra, Madre, mi condurrai per mano come una volta, davanti al Signore. vv. -
Scrive Luzi: vv. - Forse, infranto il mistero, nel chiarore del mio ricordo un’ombra apparirai, un nonnulla vestito di dolore. Tu, non diversa, tu come non mai: vv. -
. Si nota subito la medesima rima in –ore impiegata dai due poeti nel primo verso, e il termine identico ombra nel secondo. «aperto il portone d’ombra» cioè quando il mistero è infranto. Ungaretti impiega l’immagine dell’ombra per dare un valore semantico più pregnante al mistero e poi pensa di vedere la madre così come era in vita. Luzi, penetrato il mistero, applica l’immagine dell’ombra alla mamma, ancora forse un po’ avvolta nella “verità nascosta”. La genitrice però è sempre la stessa: «Madre, [...] / come una volta / [...] In ginocchio, decisa, / Sarai una statua davanti all’Eterno / Come già ti vedeva / Quando eri ancora in vita» in Ungaretti, «Tu, non diversa, tu come non mai: / solo il paesaggio muterà colore. / [...] identica, ma prossima al candore / del cielo passerai senza parole. Io ti vedrò sussistere nel vago / degli sguardi serali» in Luzi, con la precisazione, per quest’ultimo, che ella è la stessa, ma contemporaneamente ha qualcosa di diverso, è entrata in una dimensione che ancora non ci appartiene. In Ungaretti, però, è già stata perdonata da Dio, gode pienamente la luce del suo volto e aspetta che Egli perdoni il figlio perché le venga desiderio di guardarlo, chiara caratteristica delle anime del paradiso, che guardano con gli occhi stessi del Padre e quindi non possono volgersi a qualcuno che ancora non è purificato, mentre in Luzi (la madre) è prossima al candore del cielo, ma non sembra ancora goderne pienamente. Il primo la immagina con un rapido sospiro negli occhi, l’altro trasferisce il dinamismo insito nella rapidità, nello sguardo tremante. . Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, I Meridiani, 4, pp. , . . Giuseppe Ungaretti, La madre, «L’Italia letteraria», Roma, , giugno , manu scripta. Cfr. Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, I Meridiani, 15, pp. , -.
paola baioni
In ginocchio, decisa, Sarai una statua davanti all’Eterno, Come già ti vedeva Quando eri ancora in vita.
solo il paesaggio muterà colore. in un nembo di cenere e di sole identica, ma prossima al candore del cielo passerai senza parole.
[...] vv. - E solo quando m’avrà perdonato, Ti verrà desiderio di guardarmi. v.
vv. -
[...] E avrai negli occhi un rapido sospiro. Io ti vedrò sussistere nel vago degli sguardi serali, nel ritardo dei fuochi che si spengono in un ago di luce rossa a cui trema lo sguardo. Sinceramente – mi pare ci voglia una buona dose di “presuggestione scolastica” per ravvisare un calco ungarettiano. Si potrà parlare di una venerazione materna affine (anche in altri autori, però). Mi sembrano, se mai, significative le differenze. È possibile che Vecchietti, nella scelta delle poesie si facesse consigliare da Domenico Lombrassa, con il quale aveva già pubblicato alcune antologie per la Scuola Media e la Scuola Superiore per avviamento professionale? Lombrassa era collaboratore di «Primato ». È possibile. Lei è a conoscenza del fatto che il suo testo L’opera poetica dei Meridiani, Mondadori, curato da Stefano Verdino, non riporta che le sue poesie Esperide (che poi cambia titolo in Vista) e Un limbo (che poi cambia titolo in Già goccia la grigia rosa il suo fuoco) siano state pubblicate su «Primato » ? (Si trovano in «Primato », maggio , p. ). Non ho fatto verifiche sulla bibliografia di Verdino – non ho notato quella omissione. Perché, cortesemente, non inoltra lei allo stesso curatore la sua precisa informazione?
. Cfr. ivi, p. . . Cfr. ibid. . Cfr. ibid.
Anna Bellio BIGIARETTI E « AUGUSTEA »
L a firma di Libero Bigiaretti si legge su una rivista romana, quindicinale di attualità
politica, culturale e letteraria. «Augustea » è il nome della testata sulla quale il Bigiaretti scrive, soprattutto come recensore di opere letterarie, dal al , con un’interruzione di due anni ( e ). Nel la rivista, nata nel ‘, cessa le pubblicazioni. Sul suo destino influiscono le sorti del regime fascista, del quale era fedele organo politico e culturale. L’ultimo fascicolo pubblicato è il numero doppio - dell’ agosto ; « Augustea » s’ interrompe improvvisamente, senza alcuna spiegazione, dopo l’arresto di Mussolini avvenuto, come noto, nel luglio . Il direttore e fondatore, Franco Ciarlantini, deputato parlamentare, presidente della Federazione nazionale fascista dell’industria editoriale, cura la nascita e la vita della rivista con esplicito impegno di propaganda fino al , anno della sua morte. Egli segue in spirito di devota fedeltà le indicazioni di programma che lo stesso Mussolini suggerisce con l’ambizione di celebrare i valori nazionali e di favorirne la diffusione nel mondo. Le rubriche di «Augustea » spaziano dalla letteratura all’arte e alla cultura, dalla politica alla scienza e all’economia. La fisionomia del periodico è contemporaneista, ma non si trascura il culto dei classici. Particolare riguardo è riservato all’informazione letteraria, soprattutto attraverso la segnalazione delle novità librarie, che vengono recensite nella rubrica Bilancia libraria, poi Letture, dal gennaio , infine Autori e libri nel gennaio . Tra i curatori della sezione, Libero Bigiaretti ha come compagni Umbro Apollonio, Siro Angeli e Giorgio Caproni, amico degli anni del suo soggiorno romano. Il giornalista di Matelica è giovane, ha appena pubblicato il suo primo volume di poesie, Ore e stagioni, accolto con interesse dalla critica contemporanea; nel esce, seconda raccolta, Care ombre, prima che la sua vocazione si chiarisca decisamente in direzione della narrativa e della saggistica. Chi conosce la sua prosa ritrova nell’attività recensoria le principali qualità che la distinguono : di stampo classico è, innanzi tutto, la piena aderenza della lingua ai temi prescelti o ai pensieri e sentimenti da esprimere, vi è poi la estrema chiarezza, un nitore fatto di onestà intellettuale, impreziosito, non da orpelli retorici, ma dalla curiosità e dalla perspicacia di un ingegno ben dotato. Si coglie, infine, la concentrazione di uno stile denso, carico di osservazioni, emozioni, descrizioni e rappresentazioni del reale umano, sociale storico e politico. L’atteggiamento mentale, sentimentale e critico del Bigiaretti è positivo, per lo più di adesione. Appare portato allo scherzo e desideroso, a volte, di sdrammatizzare persino senso ed esiti dell’esperienza artistica. Una vena di sottile ironia attraversa infatti alcuni giudizi espressi nelle recensioni sui giovani autori a lui contemporanei. Per lo più manca l’amarezza di certe pagine del saggista maturo; l’incarico a lui affidato nemmeno gli darebbe modo di esprimerla. Sono sicuri comunque il suo spirito d’indipendenza e certa inclinazione alla polemica. Sopra tutto allo scrittore marchigiano preme dichiarare la forza della dignità umana che si esprime attraverso la forma artistica e che egli sente celebrata, ad esempio, nella « prosa illustre e familiare» dello Zibaldone leopardiano : Noi sappiamo soltanto che difficilmente altre letture oltre ai Canti possono, più dello Zibaldone, sollevare l’animo nostro, e che nella splendida fermezza di quella prosa illustre e familiare, ci
anna bellio
è dato ritrovare la vivificante consolazione di vedere affermata la dignità umana più forte della sventura.
Nel saggio sul recanatese il Bigiaretti insegue, attraverso l’analisi letteraria dello Zibaldone, la lezione, che da esso emana, dell’«alta coscienza morale e critica di Leopardi, senza la quale non pare concepibile la sublimità lirica degli Idilli». Al critico non sta a cuore solo il grande artista, ma l’uomo nella quotidianità del suo sentire, amare, progettare o soffrire. Le pagine dello Zibaldone, egli scrive, ci rivelano, attraverso le confessioni quasi quotidiane dei suoi progetti, dei suoi dolori, dei suoi slanci, la immensa ricchezza dell’animo suo. La lunga abitudine al meditare, il fuoco della sua inquietudine interiore, che equilibra e contrasta l’algido e tormentoso svolgersi della sua vita d’uomo; quell’indagare, ardendo, ogni momento dell’anima per dimenticare la dolorosa presenza del corpo, hanno portato il motivo personale del dolore a significazioni cosmiche e universali. Questo che è stato avvertito da ogni commentatore dei Canti, bisognerà ripetere a proposito dello Zibaldone. [...] Abbiamo detto che vorremmo ricavare dai soliloqui Leopardiani, da quel profondo e vario asserire e domandare, una immagine dello spirito del poeta, un suo ritratto, piuttosto che sbalordirci con l’esame della straordinaria molteplicità della sua erudizione. E conviene perciò esaminare, appoggiandoci ai pensieri dello Zibaldone, l’aspetto più generalmente noto del suo carattere. Vogliamo dire del suo scetticismo e pessimismo. Scetticismo e pessimismo innegabili perchè variamente affermati dal Poeta, ma, secondo noi, non volti alla negazione della vita, delle sue manifestazioni. Se negazione c’era, in Leopardi, essa riguardava piuttosto la facoltà degli uomini di intendere quelle ragioni e quelle manifestazioni. Si veda come, anche negli «Idilli », il Leopardi non cessi di domandarsi angosciosamente il perchè di tanta pochezza e imperfezione della ragione umana e della sua debolezza verso gli inganni e gli agguati della natura. La quale natura, non che negata è stata, nonostante certe accorate invettive, amata dal Poeta, che soltanto si doleva della sproporzionata inferiorità della creatura umana. Un innamorato sfiduciato e disilluso, dunque Leopardi; non un negatore sistematico, alla Schopenhauer [...] Al contrario, egli scorgeva nel vacillamento di ogni supposta ragione della vita e nei suoi urti dolorosi, motivo di affermarne l’insopprimibile necessità; e, quanto alla inimicizia della natura, si veda come, tanto nell’effusione della lrica, quanto nel calmo ragionare, egli sia preso, nel suo continuo appoggiarsi alla memoria e alla rimebranza, dalla nostalgia del tempo della fanciullezza ; cioè di quell’età, secondo il Leopardi, che è più vicina alla natura e meglio può intenderla e goderla. Sicchè il suo rimprovero sempre si colora di amore e, quanto più il presente gli si mostra ogni giorno triste e nemico, fugando ogni lusinga dell’avvenire, il Leopardi si rifugia nell’illusione di una sua passata felicità, cui anche la Natura concorse con le mille lusinghe dei suoi aspetti più benigni.
Il Bigiaretti, convinto dal suo autore che la ragione è imperfetta e limitata, si accosta quindi, con rispettosa discrezione, alle ragioni del cuore; egli sente che quello leopardiano è speciale : « mai, anche se maledice e impreca e ironizza, s’inaridisce» e sempre è aperto alla dolcezza del ricordo e della speranza. La dimensione lirica della poesia del recanatese, soprattutto nella veste di nostalgia per l’infanzia felice e di tenerezza per la campagna, è congeniale all’ispirazione poetica del recensore marchigiano di questi anni. In Ore e stagioni la critica ha rilevato le affinità con il Leopardi. Scrive Alfredo Luzi, a proposito di alcune peculiarità tematiche e lessicali della raccolta bigiarettiana, sono leopardiane, al di là di suggestioni formali, la sua poesia dei suoni, amplificati dal silenzio . Libero Bigiaretti, Lo «Zibaldone » di Leopardi, «Augustea », Roma, settembre , p. . . Ivi, p. . . Ivi, pp. -. . Ivi, p. .
bigiaretti e « augustea »
campestre, questa sua nostalgia della giovinezza come felice stato esistenziale irripetibile in cui desiderio e sogno trovano una loro completa adesione al mondo esterno.
Io stessa, in un mio saggio su Lungodora, silloge del Bigiaretti maturo, parlo di tracce leopardiane nella scrittura poetica della raccolta che, alla brevità e intensità delle illuminazioni ermetiche, predilige, entro sezioni di endecasillabo, endecasillabi e settenari alternati, la parola disposta entro il ritmo di una sintassi regolare [..] in una struttura fondamentalmente logica e descrittiva di quadretto paesano: Certi giorni d’inverno, per i poveri, lo stanco sole si rinfocola, e ritrova benevolo per loro un’ora di vigore. Allora dalle case nere i poveri traggono le sedie, invitandosi lieti come a festa, e si confortano al suo calore. [...] Lavorano ciarlando le donnette sorvegliando la strada; e, di luce esaltati, i ragazzetti inseguono correndo i loro gridi.
La pagina critica del Bigiaretti attrae subito per la linearità del tracciato, dal quale si è sospinti verso una lettura piana che garbatamente si apre poi a notizie e osservazioni sulla vita intellettuale, artistica e spirituale. Il recensore di «Augustea » è fecondo nonostante e, forse, grazie alla sua semplicità espressiva fatta di chiarezza di pensiero. Vi è in lui il piacere schietto di vivere a contatto con le manifestazioni artistiche. Non aveva forse fin da bambino, come più volte confessato, una vocazione che si esprimeva soprattutto negli schizzi e nel disegno? Vi è anche il senso eletto, nobile della letteratura come dimensione dello spirito che richiede «preparazione e ingegno e cultura» e che solleva chi la compie verso atti memorabili. È vivo il bisogno di cogliere e interpretare, per suo tramite, lo spirito del tempo. Evita, l’ estensore dei giudizi, «il comodo linguaggio “tecnico” delle recensioni» perché dichiara che sarebbe goffaggine applicare alle «sensazioni » della lettura quegli aggettivi venuti di moda in questi ultimi anni – e di cui anche noi talvolta abbiamo indegnamente approfittato – che servono tanto bene per darsi l’aria di misurare gli scrittori delle più diverse corporature. Goffi altrettanto saremmo se, armati di fortissime lenti e bilancette di precisione, ci mettessimo a soppesare le pagine, i periodi, le virgole e fin gli spazi bianchi – come pure è d’uso – di Baldini. Ci sia dunque perdonato il discorsetto alla buona, e all’illustre autore non sia sgradita la confidenza che ci prendiamo.
Sia un caso o un consapevole gesto di compiacenza, fatto è che il Bigiaretti, al Baldini, tanto distacco dalla moda dell’articolo critico, glielo doveva. Si legga infatti, proprio sulle recensioni, il divertente scritto di Antonio Baldini, pubblicato il luglio nei . Alfredo Luzi, La memoria, il tempo, la differenza, in Libero Bigiaretti la storia, le storie, la scrittura, a cura di Alfredo Luzi, Fossombrone, Metauro Edizioni, , p. . . Anna Bellio, «Col gesto inverto d’un cieco» : la lirica di Libero Bigiaretti, in Libero Bigiaretti... cit., pp. -. . Libero Bigiaretti, Cecchi, «Augustea », Roma, febbraio , p. . . Libero Bigiaretti, Le mille e una donna, «Augustea », Roma, marzo, p. .
anna bellio
« Libri del giorno». Il romanziere romano canzona, con il suo solito garbo, la dipendenza dello scrittore dal giudizio che compare sulla stampa: Pensate : a uno scrittore fresco di stampa la Befana può capitare d’ogni giorno, da un momento all’altro, la Gloria gli sta sempre sospesa fra capo e collo; [...] Lo scrittore sogna pubbliche soddisfazioni. E s’egli si può trovare in piazza nell’ora che esce il giornale con dentro un articolone a suo conto, [...] in quel momento per lui può essere davvero « perfetta letizia ». [...] Che se poi quel signor letterato si tenesse pago a questa prima dolcezza e si ritenesse dal leggere quant’è scritto nel foglio, ivi sarebbe anche più perfetta saggezza: perché, oltre quel punto, ben volentieri cominciano i dolori. [...] Bisogna sopratutto andar cauti nella lettura d’una recensione che ci riguardi. Si sa come si comincia ma non si sa come si può finire. Bisogna avere i nervi a posto e l’occhio fra le righe. A scrivere una recensione tutti son buoni: ma a leggerla, qui ti ci voglio.
Nel suo articolo sul baldiniano Beato fra le donne, il Bigiaretti cede al piacere di certa libertà polemica che addolcisce con il diminutivo «discorsetto », usato accortamente per ridurre il peso delle proprie osservazioni critiche, delle quali, in realtà, egli è primo consapevole estimatore. Infatti l’analisi dell’opera recensita procede sempre con sicurezza di giudizio inoltrandosi nei misteri delle scelte linguistiche dei singoli autori, scovandone le inflessioni personali, abbandonate un attimo per leggere nell’indole e nella cultura dell’artista e del tempo, ma riprese più convincenti con la conclusiva illuminazione critica. Dotato di buon discernimento, il commentatore rivela tale qualità nella recensione ai Ritratti nel bosco di Enrico Morovich, lo scrittore fiumano dalla penna singolarissima, da esiti narrativi al confine tra autobiografia, surrealismo, realismo e sogno. Ne riconosce accenti e destini. Nel Morovich è agli inizi della sua carriera di narratore eppure il Bigiaretti ne scopre la predisposizione verso un’infermità narrativa che è poi realmente scoppiata nella scrittura del friulano. Non è da escludersi che l’insistenza dei temi prediletti in questi brevi componimenti (la personalizzazione della morte, tanto cordiale e acuta) possa portare il Morovich ad un meccanicizzarsi della sua ispirazione e dei suoi procedimenti narrativi, ma, per ora, ci sembra che ad essi sia consegnato il più valido carattere distintivo dell’arte singolare di questo giovane scrittore.
Il rischio temuto si è avverato in alcune pagine del prosatore che, fecondo e vario nelle fantasie bizzarre, nei colpi di scena o nelle assurdità di certe metamorfosi, come pure nelle molteplici presenze sovrannaturali, piega tanta varietà a un grumo di temi ricorrenti che imbrigliano l’ordine narrativo entro scarse scelte novatrici di linguaggio o di stile. Anche le pagine su Gabriele D’Annunzio, pubblicate in «Augustea » del , in occasione della scomparsa del poeta abruzzese, rivelano sottigliezza di mente. Inoltre la condivisione con i contemporanei di certe valutazioni sull’arte dannunziana, non impedisce che le dichiarazioni bigiarettiane acquistino un tono quasi profetico: Certe previsioni è meglio non azzardarle, ma il libro dell’Alcione, La figlia di Jorio, le pagine della Contemplazione della morte, e della Leda senza cigno, rimarranno, finchè vivrà la cultura degli uomini, a testimoniare l’altezza del geno lirico di Gabriele D’Annunzio; e saranno le sole a illuminare un lungo periodo della storia letteraria d’Italia.
Di fronte alla personalità del D’Annunzio, tanto combattuta quanto ammirata, il Bigia. Antonio Baldini, Le scale di servizio, a cura di Nello Vian, Pesaro, Metauro Edizioni, , pp. -. . Libero Bigiaretti, Morovich, «Augustea », Roma, gennaio , p. . . Libero Bigiaretti, Il poeta scomparso. D’Annunzio nel tempo, «Augustea », Roma, febbraio , p. .
bigiaretti e « augustea »
retti evita di proporsi come uno in più tra i moltissimi giudici di meriti o difetti dell’artista abruzzese; gli sembra peraltro ancora presto per tirare le fila di tanti studi sull’uomo e sul poeta. Piuttosto gli preme di risolvere alcune polemiche entro il senso e il valore della storia collettiva: Qualcuno si domanda : senza le circostanze d’un periodo storico eccezionale, senza la guerra, senza il favoloso svolgimento della sua esistenza, l’arte letteraria e la personalità umana di Gabriele D’Annunzio avrebbero potuto giustificare le presenti esaltazioni? Vana domanda, ci pare, chè ogni uomo non soltanto vale per la somma dei valori che riassume ed esprime, ma anche in funzione dei suoi rapporti con la storia del suo tempo. E la storia, degli uomini come dei popoli, è sempre fatta di misteriose casualità, di sorprendenti accostamenti.
Ne inquadra altre entro il significato complessivo della vicenda umana del problematico artista: Ma, ci domandiamo, è possibile privare d’ogni valore umano quella perpetua aspirazione del Poeta verso un’arte e una vita superiori? È possibile ridurre tutta l’opera sua – così meditata, così sofferta in tante pagine di sincero anelito eroico – ad un brivido sensualeggiante, ad un artificioso atteggiamento, ad un mero tecnicismo? No certamente, chè nessuno seppe votarsi al proprio ideale d’arte e di vita con volontà, con dedizione, con consapevolezza e perfino con umiltà, pari alla sua.
Dalle risposte ai quesiti è evidente che nel Bigiaretti, fin da questa esperienza giornalistica, hanno un grande peso, nella vita dell’arte, gli avvenimenti reali o mancati della storia. Al ruolo dell’artista e dell’intellettuale entro di essa egli dedicherà continue riflessioni e confessioni, sia narrative sia saggistiche, riconoscendo a entrambi il compito fondamentale di testimone. Se, per vari motivi, non si sente costretto nella veste di critico letterario egli, contento di librarsi sopra gli schemi della «recensione », divaga tra le pieghe del lirismo autobiografico o della testimonianza storica e moralistica, come avviene nelle pagine dedicate alle Lettere di Dino Garrone sul numero del (« Dio ci allontani dal pericolo di scrivere, per questo libro, una “recensione”»). È comunque sempre puntuale e attento quando deve tratteggiare i percorsi della scrittura in versi o in prosa di giovani artisti, che legge scrupolosamente, con curiosità e pronto senso storico della letteratura contemporanea. Del resto i giovani scrittori sono, per « Augustea », un importante patrimonio di ingegni da incoraggiare e il recensore li offre ai lettori della rivista dopo una coscienziosa disamina. Non abbiamo nessuna simpatia per certo giovanismo di cui si abusa, né pensiamo che l’esser giovane costituisca senz’altro un titolo letterario e artistico, ma stimiamo d’altra parte che i giovani sono fatalmente (cioè per la fatalità che muove le epoche) destinati ad aver ragione rispetto a coloro che immediatamente li precedono, e che negli apparenti errori dei giovani c’è sempre il germe di verità che si affermeranno più tardi.
Così scrive Libero Bigiaretti, recensendo, nel ’, Figure umane, libro, appena pubblicato, di Giovanni Papini. La difesa dell’ultima generazione di scrittori s’ impone come premessa all’articolo, per scongiurare, avverte l’estensore, inimicizie possibili per il semplice fatto di interessarsi del polemico Papini, spesso «ingiusto » verso i giovani. Fonte di discordie, dunque, il famoso scrittore e il giornalista ricorda questa situazione solo per affermare che . Ibid. . Ibid. . Libero Bigiaretti, Papini, «Augustea », Roma, maggio , p..
anna bellio
Gli atteggiamenti ultimi di Papini non ci interessano; tanto meno ci convincono. Ci interessa ancora, invece, la sua opera e perciò, giudicando questa, dimentichiamo completamente quelli.
Egli è preoccupato della eccessiva «compiaciuta avidità» con la quale il pubblico «si butta » sui libri stranieri mentre nuovi poeti e narratori italiani «non hanno proprio nulla da invidiare» a quelli d’oltralpe. Tra i poeti e i narratori di fresca data è da mettere lui stesso, artista che affiora dalle recensioni nelle quali si riconoscono tratti della sua arte e della sua poetica. Entrambe sono conquistate, per esempio, dalla vita di provincia ed ecco che in un articolo di «Augustea » si trova l’affetto del Bigiaretti per i piccoli centri e la certezza degli stimoli all’ispirazione che se ne possono trarre: La provincia è sempre, letterariamente, un mondo pieno di risorse, per chi sappia vederla con freschezza e dipingerla con intelligente discrezione. Quel tanto di umorismo che è nello sforzo provinciale di dilatar la cronaca per farne storia; quell’affettuosa immaginazione che dà parvenza di verità alle finzioni di una vita che aspira a mostrarsi diversa da quello che è; quel conoscersi, l’uno con l’altro, della gente di paese; quel sorvegliarsi, infine, con tanta gelosa curiosità – che è poi un riflesso della noia –; sono temi, codesti, che per quanto sfruttati restano sempre capaci di offrire una loro poesia.
In questo passo, manzonianamente cadenzato nella sospensione di tante affermazioni tese a una verità conclusiva, si avverte la simpatia per Matelica, profusa dall’artista in tante sue pagine felici. Il piacere, frequentissimo nelle recensioni, d’indugiare a dire o a riflettere, prima e oltre il compito professionale affidatogli dalla testata, testimonia della necessità del Bigiaretti di raccontare per capire e per trovare una propria strada espressiva. Egli, proprio in questi anni, abbandona la prove liriche per dedicarsi al romanzo. In questa luce gli scritti su «Augustea » appaiono un buon addestramento per il futuro romanziere.
. Libero Bigiaretti, Tre narratori: Vittorio G. Rossi, Paolo Cesarini, Romano Bilenchi, «Augustea », Roma, agosto, , p.. . Ivi, p. .
Loreto Busquets F O R T U N A E SF O R T U N A D I R A M Ó N G Ó M E Z D E L A S E R N A I N I T A L I A
La Greguería es una mirada fructífera que, después de enterrarla en la carne, ha dado su espiga de palabras y realidades. Ramón Gómez de la Serna
I
n un o scritto del Mario Puccini afferma di essere stato il primo, nel , a far conoscere lo scrittore Ramón Gómez de la Serna in Italia: «noi che amiamo questo scrittore da dieci anni e lo abbiamo per primi fatto conoscere agli italiani». Con maggiore obiettività e modestia, tutti gli altri osservatori, da Carlo Bo a Eugenio Montale passando per Orio Vergani, primo grande entusiasta e divulgatore dello Spagnolo, concordano nel fissare negli anni e il momento in cui il nome di Gómez de la Serna incomincia a circolare in Italia in seguito alla scoperta e al fervore di Valery Larbaud, il quale, come ricorda Bo nel , «per primo l’ha predicato all’Europa e alla gioia del mondo ». Nel Enrico Caprile, nel recensire alcune opere appena tradotte del Nostro, riconosceva alla Francia il merito di averlo scoperto e a Orio Vergani quello di averlo reso noto agli italiani : « Parigi, che è ancora purtroppo, il vaglio attraverso al quale passano tutti gli scrittori stranieri, prima di essere accettati da noi, ha contribuito a darci anche questo caotico spagnolo, che fu presentato tempo fa al pubblico italiano dall’entusiasta Orio Vergani». Dal canto suo lo stesso Vergani, nel , nella sua prefazione a Seni pubblicato l’anno successivo, ricordava il pioniere Valery Larbaud, il quale aveva tradotto diversi brani di Variaciones e di Senos nonché alcune greguerías apparse «sei anni fa» (quindi nel ), a cui seguirono entusiasti la Germania, l’Inghilterra e subito dopo anche l’Italia. Nel , in occasione della morte di Gómez de la Serna, Montale conferma che «a partire dal ’ egli ebbe una larga notorietà in Francia e in Italia» e indica nella persona di Vergani il maggiore estimatore e divulgatore della sua produzione letteraria. Tutto sembra quindi indicare che in Italia Gómez de la Serna viene introdotto alcuni anni dopo la Francia, quanto mai tempestiva nel riconoscere il talento e la novità di «sa méthode », come ebbe a dire Jean Cassou nella sua prefazione a Le docteur invraisemblable: «Ramón, qui débuta vers par quelques livres étranges et cahotiques, a fixé sa méthode [...] en inventant ce qu’il appelle la gregueria [...] dont M. Valery Larbaud, dans sa préface à Échantillons a donné les plus heureuses définitions et dont les premières greguerias remontent à ». Occorre tuttavia rendere giustizia a un altro pioniere italiano dell’opera ramoniana . Ramón Gómez de la Serna, Prólogo, in Total de greguerías, Madrid, Aguilar, , p. . . « Il Giornale di politica e di letteratura», Pisa, Roma, marzo , n. , pp. -. Il presente lavoro è stato grandemente facilitato dalla consultazione del Indice cumulativo delle riviste italiane del Novecento esistente presso l’Istituto di Italianistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. . Carlo Bo, Carte spagnole, Firenze, Marzocco, , p. . . Il casino delle rose. Circo. Campionario, «L’Italia che scrive», Roma, febbraio , n. , p. . . Orio Vergani, Prefazione, in Ramón Gómez de la Serna, Seni, Milano, Corbaccio, . . Eugenio Montale, Ramón Gómez de la Serna è morto a Buenos Aires, «Corriere della Sera», Milano, gennaio . Per le opinioni di Montale su questo autore e in genere sulla letteratura e la cultura spagnola, si veda il mio Eugenio Montale y la cultura hispánica, Roma, Bulzoni, . . Ramón Gómez de la Serna, Le docteur invraisemblable, Paris, Editions du Sagittaire, Simon Kra, .
loreto busquets
per quanto la sua personalità risulti sbiadita nei confronti di quella di Vergani e anche di Giovanni Artieri: si tratta di Ettore De Zuani, figura di secondo piano, ma interessante per i suoi stretti rapporti con la Spagna, dove visse per lunghi periodi (nel si trovava a Barcellona), e con il mondo letterario spagnolo, compreso quello catalano, di cui fu buon conoscitore e assiduo divulgatore. Nel Carlo Boselli ci ricorda che prima di questa data De Zuani aveva pubblicato nel «Resto del Carlino» qualche greguería col titolo Cappricci e fantasie, ma in un suo articolo intitolato Poesia spagnola, parla di Salvador Rueda, Rubén Darío, Amado Nervo, Fernando Maristany e J.R. Jiménez, ma non menziona neppure il nostro autore. A lui dobbiamo la traduzione puntuale e discreta di diversi testi di Gómez de la Serna. È solo a partire dal che vengono pubblicate in numero consistente le traduzioni dello Spagnolo e i giudizi sulla sua opera in un crescendo che andrà scemando negli anni Trenta. Sono dieci anni durante i quali gli editori fanno a gara per pubblicare i titoli appena sfornati dal prolifico scrittore, al punto che la casa editrice Corbaccio di Milano medita di stampare la sua opera completa, d’una vastità insolita e stupefacente. Anche i periodici culturali e letterari italiani pubblicano dei campioni delle sue oramai popolari greguerías e, in qualche caso, a puntate, interi suoi romanzi e novelle. Uno dei primi giudizi critici su Serna compare nel , in un lungo articolo firmato da Carlo Boselli : La letteratura spagnola contemporanea. Sorprende che, nonostante Valery Larbaud già nel avesse rilevato «l’assoluta originalità su di un piano europeo» della sua singolare creazione artistica, Boselli lo includa timidamente nella «giovine scuola » del modernismo letterario e lo affianchi a Valle-Inclán, da lui definito poeta romantico imbevuto di simbolisti francesi, affermandone poi il carattere avanguardista e rilevando analogie non meglio definite «col nostro marinettismo». In modo alquanto disgregato, di fronte ad una produzione che gli appare «diversa » ed evidentemente sconcertante, Boselli enumera delle caratteristiche formali di cui mostra, però, di non capire l’organicità e il senso. Osserva da un lato il linguaggio «inverosimile » teso a deformare la realtà, la predilezione tematica per «le cose banali» trattate con quell’ironia e quell’umorismo che porta l’oggetto artistico al limite della boutade senza con questo perdere nulla della sua poeticità; e parla di «arte frammentaria», nonché di pensiero filosofico, senza definirne il contenuto. Boselli è uno dei primi a mettere in circolazione l’immagine del poeta funambolo e prestigiatore che la critica ripeterà ad nauseam: «Gómez de la Serna fa con le parole ciò che i giocolieri da circo fanno con piatti, pialle e fiaccole ardenti». Vale a dire: è un demiurgo che gioca e si diverte costruendo uno spettacolo brillante ed effimero, come i giochi d’acqua e i fuochi d’artificio della evanescente architettura barocca dello svago e del divertimento. Incapace di riconoscere l’innovazione radicale di Gómez de la Serna, nonostante la presenza di elementi che gli ricordano la « rottura futurista », Boselli non vede che un simbolismo di cui egli non sembra . « Il contemporaneo », Torino, agosto-settembre , n. -, p. . . « Poesia », Milano, aprile , pp. -. . Lo afferma Mario Puccini in «Il Giornale di politica e di letteratura», Pisa, Roma, marzo , n. , pp. -. . Per esempio: «Le Grandi firme », Roma : Campioni (, n. , non si indica il traduttore), Seni (, n. , non si indica il traduttore), segue Seni (, nn. , y ) ; Lettere da tavolo a tavolo, trad. di Piero Pillepich (, n. ) ; La casa senza finestre (, n. ) ; Greguerías, trad. di Giovanni Artieri (, n. ). «», Roma: Fantasmagories, Gregueries, trad. di Mario da Silva (, n. ). «La Fiera letteraria», Roma: Greguerias e Cinelandia, trad. di Ettore De Zuani (, n. ) ; segue Cinelandia (, nn. , , , y ) ; La casa senza finestre, trad. di A. R. Ferrarin (, n. ) ; Due Capricci e Greguerías (, n. ). «Due lire di novelle» : Circo equestre, trad. di Vittorio Guerriero (, n. ) ; L’uomo della galleria, trad. di A.R. Ferrarin (, n. ), Lei raccoglie bastoni? (, n. ). Negli anni ’ anche «Il Mezzogiorno» di Napoli pubblicò suoi romanzi a puntate. . In «Il contemporaneo», Torino, agosto-settembre , n. -. . Lo ricorda Martini in «La Fiera letteraria», Roma, gennaio .
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
cogliere il significato profondo se può affiancarlo a Ramón del Valle-Inclán e a Gabriele D’Annunzio. Appare chiaro in quegli anni che, dinanzi alla produzione dello Spagnolo, il pubblico e i critici italiani si trovino divisi in due schieramenti opposti: ci sono gli entusiasti alla Vergani, coerentemente rappresentati dal movimento novecentista presieduto da Massimo Bontempelli – diciamo gli europeisti e i fautori dell’arte nuova, e cioè di quell’arte “disumanizzata” di cui Ortega y Gasset ha saputo definire l’essenza – e ci sono i detrattori di solito accaniti, i borghesi nazionalisti che finiranno col coagularsi intorno a Curzio Malaparte. Come scrive Montale nell’articolo precedentemente citato (), era in qualche modo «inevitabile » che Gómez de la Serna venisse inteso ed assorbito dal novecentismo italiano. Già nel primo numero di «» vengono pubblicati in francese alcune Fantasmagories e Gregueries nella traduzione di Mario da Silva. Il movimento novecentista fa subito suo l’insolito e rivoluzionario scrittore spagnolo: li accomunano i trascorsi futuristi da cui entrambi, in queste date, si stanno progressivamente allontanando ; ma li unisce, in particolare, la concezione di una estetica nuova. Non è certamente un caso che, dopo lo scambio di idee e di entusiasmi tra Marinetti e Gómez de la Serna, si verifichi, in un secondo momento, uno scambio altrettanto fecondo tra questi e Bontempelli. Come è noto, Gómez de la Serna farà parte del comitato direttivo di «» (nonché di «La Fiera letteraria»), edito nel e redatto, significativamente, in lingua francese (ad indicare l’europeismo, o il cosmopolitismo, di questi intellettuali, la cui capitale è Parigi) accanto a Pierre McOrlan, Georg Kaiser, Iljà Ehrenburg e James Joyce, cui Ortega y Gasset aveva già accostato il nome di Gómez de la Serna. Se, come ricorda Giorgio Luti, «Novecento » rappresenta la «convergenza del postfuturismo, dell’attivismo confusamente rivoluzionario, non placato, disordinato [...] con istanze di carattere estetico indipendenti dal crocianesimo e da ogni profondo ripensamento ideologico », non vi è dubbio che la posizione estetica, vagamente ideologica, dello stesso Gómez de la Serna presenti con essa delle forti analogie, a patto di escludere la problematica connessa all’ideologia fascista, la quale diede al movimento novecentista una tonalità nazionalistica estranea al radicale cosmopolitismo, direi anche astoricismo, dello Spagnolo. Al di là delle affermazioni bontempelliane, del tipo «novecentismo è soprattutto storia del costume. Dirò meglio, creazione e favorimento di storia del costume. Di un costume italianissimo e modernissimo», le affinità e i punti di contatto sono evidenti non appena si esaminino le intenzioni programmatiche del Bontempelli espresse, tra l’altro, in quella che Luti definisce «faticosa e confusa distinzione tra novecentismo e futurismo », di cui occorre tener conto se si vogliono capire meglio le intenzioni estetiche di Gómez de la Serna. Eccone qualche estratto: Mi hanno domandato se per caso novecentismo non sia sostanzialmente la stessa cosa che futurismo. Noi professiamo una grande ammirazione per il futurismo, che nettamente e senza riguardi ha tagliato i ponti tra Ottocento e Novecento. Senza i suoi principi e le sue audacie, lo spirito del vecchio secolo, che prolungò la propria agonia fino allo scoppio della guerra, ancora oggi c’ingombrerebbe : nessuno di noi novecentisti, se non fosse passato traverso le persuasioni e le passioni del futurismo, potrebbe oggi dire le parole che aprono il nuovo secolo... . «», Roma, n. , Cahier d’automne, , rispettivamente nelle pagine - e -. . Tutti i riferimenti a Ortega y Gasset fanno capo al testo La deshumanización del arte, Madrid, Revista de Occidente en Alianza Editorial, ; le citazioni sono tratte da questa edizione. . Giorgio Luti, Cronache letterarie tra le due guerre -, Bari, Laterza, .
loreto busquets
Ciò posto, le più interessanti differenze tra novecentismo e futurismo sono le seguenti: ) Il futurismo è soprattutto lirico e ultrasoggettivo. Noi ripugniamo dall’atteggiamento lirico, propugniamo la creazione di opere che si stacchino al possibile dai loro creatori, diventino un oggetto della natura... ) Di qui il nostro atteggiamento antistilistico: noi cerchiamo l’arte d’inventare le favole e persone talmente nuove e forti [...] ) [il novecentismo] è lontano al possibile da quello che si chiama “scuola”... ) Il futurismo fu –ed era necessario– avanguardista e aristocratico. L’arte novecentista deve tendere a farsi “popolare”, ad avvincere il “pubblico”... ) Ci hanno accusato di “americanismo”... l’americanismo dei futuristi era soprattutto ammirazione per il grande sviluppo che l’America ha dato alla civiltà meccanica, mentre a noi questo non interessa affatto e crediamo che ognuno di noi possa trovare il proprio “mistero” tanto in una macchina quanto in una pianta...
Alla luce di queste sole parole vengono vanificate molte delle considerazioni espresse dalla critica italiana nel cercare di comprendere l’arte “insolita” e “personale” di Gómez de la Serna (ricordiamo: «il novecentismo è lontano da quello che si chiama ‘scuola’ ») e vengono indirettamente chiariti alcuni tratti essenziali della sua poetica. Vediamo quali: ) l’arte di Gómez de la Serna non ha nulla a che fare col “marinettismo”, cui accennava Boselli, per le stesse ragioni esposte da Bontempelli; ) la deformazione della realtà e il linguaggio inverosimile, nonché la predilezione per « le cose banali» (stando ancora al commento di Boselli), mira a creare una realtà altra e ultrasoggettiva, come spiega ulteriormente lo stesso Bontempelli: «Il compito primo e fondamentale del poeta è inventare miti, favole, storie che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua penna, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura». In «» : « une façon de nous eloigner du contingent, de nous délivrer d’un contact trop adhérent avec la surface des choses». ) l’attività dell’artista è concepita come un divertissement in cui vi è spazio per l’ironia e l’umorismo : un gioco superfluo che pure costituisce la sola e vera realtà estetica, ciò che Ortega chiama las res poetica. Cosa distaccata da ogni realtà altra, come spiega ancora il Bontempelli in perfetta sintonia con i principi estetici, avanguardistici e non, manifestati Oltralpe all’insegna dell’antipositivismo, dove echeggiano le riflessioni di Ortega : « Vorrà dire farla finita con tutti gli avanzi della grande arte dell’, i rimasugli nei quali da anni stiamo ancora razzolando qualche ossicino da succhiare disperatamente : relitti voluminosi del psicologismo, del naturalismo, dell’estetismo, del gusto piccolo borghese, del sentimentalismo maledettissimo e fraudolento che da a intendere di essere “l’arte umana, signori”. Vorrà dire scrivere divertente anche quando ciò che scrivete ha le sue radici nel dolore [...] Quello che chiamate stramberia, è realtà esagerata ». ) questa cosa altra non è riproduzione ma invenzione che si aggiunge alle cose del mondo : « un nouveau monde solide», scrive il Bontempelli in Justification, il quale « viendra sans cesse féconder et enrichir le monde réel» ; architettura, ribadisce nei Fondements del n. di «» e nella sua retrospettiva Avventura novecentesca (« lo scrivere come invenzione: architettura, modificare il mondo abitato»), in un calco certamente non involontario alla famosa architecture di Paul Valéry, che riprenderà unanime tutta la lirica e tutta l’arte moderna. In collisione con il gruppo novecentista, che accoglie lo Spagnolo come emblema della lirica moderna (utilizzo questo termine nel senso usato da Hugo Friedrich), vi è il . «», Roma, n. , Cahier d’hiver -, p. . . «», Roma, n. , Cahier d’automne, , p. . . Hugo Friedrich, Die Struktur der modernen Lyrik, Hamburg, Rowohlt, .
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
gruppo che fa capo a Curzio Malaparte. La sua posizione apparentemente moderata e il tentativo di conciliare l’inconciliabile, tradizione e modernità europeistica, si rivela alquanto ottusa di fronte ai segni di poetica, e quindi anche stilistici, del mondo contemporaneo. Si direbbe che egli rifiuti ciò che non capisce, in ciò rappresentando quella mentalità piccolo-borghese di cui egli incolpa i novecentisti, quei «letterati stracittadini e questi borghesissimi ammiratori della letteratura di Stracittà». Nel sentire la voce adirata di Malaparte alle prese con il «letterato alla moda, sempre al corrente delle novità di Parigi, di Londra e di New York» e naturalmente con Joyce e il nostro Ramón Gómez, come egli lo chiama, e con la nuova borghesia bisognosa di «una propria letteratura moderna, da sfoderare come un ombrello nuovo nelle grandi occasioni, per non aver l’aria di codini», sembra di vedere incarnata quella figura di borghese «privo di sacramenti artistici» di cui parla Ortega y Gasset ne La deshumanización del arte: «buen burgués, ente incapaz de sacramentos artísticos, ciego y sordo a toda belleza pura». Un essere incapace di capire il significato di un’arte, l’arte moderna appunto, che è puro « arte artístico » e che, come tale, opera un taglio netto tra il piano della realtà oggettiva (la realtà “umana”) e quello della realtà estetica, la quale, a sua volta, richiede dal fruitore una “sensibilità artistica” del tutto distinta dalla “sensibilità umana”. Proprio perché al buon borghese quest’arte non solo non piace ma non la capisce, lo irrita e lo indispettisce. Per ciò, prosegue, tutta l’arte moderna è diretta «a una minoría especialmente dotada» : « Cuando a uno no le gusta una obra de arte, pero la ha comprendido, se siente superior a ella y no ha lugar a la irritación. Mas cuando el disgusto que la obra causa nace de que no se la ha entendido, queda el hombre como humillado, con una oscura conciencia de su inferioridad que necesita compensar mediante la indignada afirmación de sí mismo frente a la obra». Questo misto d’indignazione e di affermazione di sè e ciò che caratterizza anche in Italia l’avversione di Malaparte e dei vari detrattori della produzione ramoniana. Nel Leopoldo Berni, nel recensire in due tempi diversi due opere dello Spagnolo appena pubblicate, Seni e Gustavo l’incongruente, si pone in aperta polemica contro Orio Vergani stroncando entrambi i libri con epiteti offensivi che, aldilà di ogni gusto personale, denotano la totale incomprensione dell’oggetto che si trova a commentare. Egli parla di senso di noia e addirittura di nausea, di estetismo pornografico (visto che di seni si parla), di prolissità snervante. A proposito di Gustavo l’incongruente, nel cercare ostinatamente l’organicità del romanzo tradizionale, trova solo abbozzi e spezzettamenti che lo indispongono e lo stancano, incapace quindi di cogliere il senso di quella azione demolitrice delle forme tradizionali che si pone come obiettivo l’arte moderna non solo per abbattere la detestata “littérature” o “reportage”, ma anche per plasmare la sistematica dissoluzione delle certezze del passato avvenuta ad opera soprattutto della psicoanalisi, della filosofia intuitiva di Bergson e del relativismo di Einstein. Lo avvertiva lo stesso Gómez de la Serna: «Reaccionar contra lo fragmentario es absurdo porque la constitución del mundo es fragmentaria, su fondo es atómico, su verdad es disolvencia ». La recensione di Berni è una esplicita e astiosa risposta agli “entusiasmi” che Vergani esprimeva nella prefazione di Seni, dove egli ricordava il passato futurista di Gómez de la Serna e i suoi manifesti contro il chiaro di luna; che è ciò che rimane del futurismo nella lirica ramoniana e ciò che unifica tutti gli ismi della modernità: che l’arte non è ri. Citato in Luti, Cronache letterarie..., cit., p. . . Citato in Id., pp. -. . « Il Giornale di politica e di letteratura », Pisa, Roma, rispettivamente giugno , n. e settembre , n. . . Gómez de la Serna, Prólogo, cit., p. .
loreto busquets
produzione o mimesi della luna (o di qualunque altra realtà “umana”) ma oggetto a sé stante, e che non esiste una realtà o una lingua poetica o poeticissima (come direbbe il Leopardi) perché la poeticità non appartiene alla cosa ma alla Parola in cui essa viene ad approdare. Lo ribadiva Bontempelli in Fondements: «La maladie dont nous étions grangrenés était la beauté, la Beauté». Ma Vergani dice di più quando, sin dal titolo della sua prefazione, parla di «miracolo profano » e di «un topolino che partorisce una montagna di immagini». Immagini ardite, al tempo futili e divertenti, ottenute mediante gli «accostamenti più impreveduti» eseguiti da un «matematico del paragone e dell’analogia». Vergani vede bene che si tratta di un miracolo artistico (cosa non “umana”) costruito (architettura) da una mente fervida che vede analogie tra tutte le cose del creato (e del creato umano che sono le cose-strumenti dall’uomo stesso costruite) secondo regole che appartengono alla struttura mentale umana (matematico): «La poesía es hoy el álgebra de las metáforas», scrive Ortega. La res poetica così prodotta appare come un miracolo sì (opera di un demiurgo), ma un miracolo profano. Con ciò egli asserisce che le categorie del simbolismo o del futurismo vengono in qualche modo superate, o unificate, nella concezione di un oggetto artistico estraneo sia ai trascendentalismi platonici di certo simbolismo, sia al trascendentalismo psichico dei surrealisti. Non rimane – restando nella scia di Mallarmé e di Valéry – che la sola metafora assolutamente autonoma e intransitiva, la materia poetica del tessuto analogico, perché le cose che Gómez de la Serna ha pure osservato e che hanno provocato l’illazione, l’analogia o la libera associazione, restano tagliate fuori. Lo dice anche García Lorca nel cercare di definire la propria poetica: «La sola voz humana [...] desligada de paisajes que matan. La voz debe desligarse de las armonías de las cosas y del concierto de la naturaleza para fluir su sola nota. La poesía es otro mundo. [...] hay que encerrarse con ella. Y allí dejar la voz divina y pobre, mientras cegamos el surtidor. El surtidor, no». Nel Carlo Boselli, in un articolo intitolato Il centenario di Góngora apparso nella rivista «Augustea », ricollega il «funambulismo » del nostro autore al gongorismo, di cui egli ha una visione scontata e superficiale che gli permette di mettere sotto il segno di Góngora, autori eterogeni come Campoamor e Darío, Gómez de la Serna e Muñoz Seca (!). Nello stesso Giovanni Artieri, appartenente al gruppo di Bontempelli, traduce Campionario, facendolo precedere da una sua sostanziosa introduzione. Coincide con Vergani nel ritenere che la sovrabbondanza produttiva del prolifico spagnolo stia dando luogo a una produzione mista e disuguale in cui occorre operare una scelta. Vergani parla di gemme incastonate nel piombo, Artieri di gemme che non senza fatica si scorgono tra i molti trucioli. Entrambi parlano di pietra, di cosa solida, palpabile: l’opera d’arte è materia, struttura assolutamente non ornamentale. Così dicendo essi connettono l’arte ramoniana alle altre arti, dall’impressionismo pittorico e musicale al cubismo e al surrealismo, le quali esaltano ciò che è tettonico, avvicinandosi così al costruttivismo coevo. Artieri da un lato avverte aromi e sapori che sembrano emanare dalla realtà poetica dello Spagnolo e dall’altro percepisce un’arte «un po’ frigida», indifferente alla ricerca sensitiva, qualitativa. Stupisce che queste sue impressioni non gli facciano pensare al . «», Roma, n. , Cahier d’hiver -, p. . . In Jorge Guillén, Prólogo alle Obras completas di Federico García Lorca, Madrid, Aguilar, , p. lix. . “Augustea”, Roma, giugno , pp. -. . Ramón Gómez de la Serna, Campionario, traduzione e Imbonitura di Giovanni Artieri, Milano, Corbaccio, , pp. -.
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
cubismo o comunque all’aspirazione dell’arte moderna di essere, come dice Ortega, « claridad, mediodía de intelección» : « El llanto y la risa son estéticamente fraudes. El gesto de la belleza no pasa nunca de la melancolía o la sonrisa. Y mejor aún si no llega. Toute maîtrise jette le froid (Mallarmé) ». Per contro l’attenzione posta sulle cose più eterogenee e banali gli ricorda il futurismo, cui accenna esplicitamente dando per scontato la filiazione dell’artista spagnolo con il movimento che lo invaghì nella sua giovinezza. Ad ogni modo è, credo, evidente che quando Artieri parla dei «milioni di modulazioni» in cui di fatto consiste la proliferazione metaforica di Gómez de la Serna – reiterazione e modulazioni che esasperavano un Berti– egli stia pensando a Valéry, quando asserisce che la poesia consiste nel creare innumerevoli variazioni su uno stesso tema, mentre il giocare a dadi con le immagini che egli attribuisce all’illusionista Ramón, è un esplicito riferimento al famoso coup de dés mallarmeano con cui il poeta francese fa brillare la luce del linguaggio nel cielo oscuro della realtà fenomenica. Accenni e rimandi che indicano fino a che punto egli stia inserendo l’arte ramoniana nel tessuto della moderna lirica europea, nonostante in Italia sia il primo ad osservare le somiglianze ed analogie delle greguerías con la poesia giapponese (il kaikai), del resto indicate dallo stesso Gómez de la Serna in uno dei suoi scritti più diffusi. Gli anni dal al rappresentano l’apice della accoglienza per lo più favorevole di Gómez de la Serna in Italia. Nel escono i romanzi La vedova bianca e nera e II dottore inverosimile, quest’ultimo tradotto in Francia due anni prima da Jean Cassou. Giansiro Ferrata scrive per «Solaria » una recensione del primo libro in cui per la prima volta il nostro autore viene definito «secentista » e le sue «preziose e sprizza-scintille» immagini barocche. Nonostante l’anno prima i rappresentanti della poesia moderna in Spagna abbiano celebrato nella figura di Luis de Góngora quello che essi ritengono un momento costitutivo dell’estetica moderna, seguendo le indicazioni di Paul Verlaine, egli non stabilisce alcun rapporto di poetica comune tra il barocco e l’età moderna. Come, del resto, pur osservando che il testo recensito sfiora solo la struttura del romanzo tradizionale e che l’ironia e lo humour dettano i «giochi e folleggiamenti» della sua prosa poetica, egli non sembra avvertire la volontà di distruggere il concetto stesso di mimesi che ha presieduto l’arte tradizionale, né quella di staccarsi dalla sua consueta serietà e gravità per liberare l’arte, come dice Ortega, da ogni patetismo. L’artista odierno, sostiene il filosofo spagnolo, ci invita a contemplare un’arte che è uno scherzo, che è essenzialmente la burla di sé stesso: «el arte nuevo ridiculiza el arte». E conclude : « Nunca demuestra el arte mejor su mágico don como en esta burla de sí mismo. Porque al hacer el ademán de aniquilarse a sí propio sigue siendo arte, y por una maravillosa dialéctica, su negación es su conservación y triunfo». Nella Interpretazione che precede la traduzione italiana di El doctor inverosímil, Giovanni Artieri coglie con precisione ciò che lega l’opera di Gómez de la Serna all’estetica e al pensiero della modernità e ciò che la rende attuale e determinante nella storia del suo sviluppo: «È uno dei cinque o sei artisti più importanti dell’Europa contemporanea », egli scrive. Vede con chiarezza che si tratta di un «creazionismo inedito e asso. Il Prólogo citato. . « Solaria », Firenze, iii, n. , marzo , pp. -. . Antonio Radames Ferrarin, traduttore di alcune opere di Gómez de la Serna, in un articolo dal titolo Poesia spagnola non cita nemmeno Gómez de la Serna tra i poeti spagnoli «sotto il segno di Góngora» («Augustea », Roma, novembre , n. ). . Ivi, pp. -. . Ramón Gómez de la Serna, Il dottore inverosimile, traduzione di Giovanni Artieri (Con una Interpretazione e sette illustrazioni), Milano, Corbaccio, , a ed. (Esistono infatti due edizioni precedenti, una delle quali del ).
loreto busquets
luto, che parte da se stesso e si estingue in se stesso». Avverte che Gómez de la Serna, lungi dall’essere un eccentrico, capta, come un polo magnetico, la visione del mondo, poliedrica, relativa e contraddittoria che offre la scienza contemporanea. Forse senza rendersene pienamente conto, egli enumera alcuni tratti dell’arte ramoniana che dovutamente articolati potrebbero dare una idea assai precisa della sua particolare poetica. Sottolinea il carattere affollato e caotico, in «miliardi d’immagini», del mondo rappresentato e parla di occhio simile a una lente e di occhi come raggi Röntgen con cui il poeta «trapassa tutte le infinitesime sensazioni delle cose e svela invisibili più trasparenti e lirici della vita». Egli accenna a come «le concezioni organiche, architettoniche» frantumano «nel cervello del creatore», per concludere che questa nuova poesia ha il fascino «preciso, lucido, chirurgico della nostra età dell’acciaio». Ora, Artieri non dice ciò che, a partire da quelle che a me sembrano intuizioni isolate, si potrebbe così ricostruire : l’occhio estetico del poeta scompone la realtà fenomenica di per sé affollata e caotica in miriadi di particolari che, estrinsecati nella parola, vengono a costituire un oggetto nuovo. L’occhio artistico, diverso dall’occhio fisiologico, invia comunque le sue “impressioni” nel cervello umano che le ricompone secondo un ordine (una armonia) puramente estetico che si fa oggetto nel momento di essere detto. Orbene, tutto ciò lo avevano detto gli impressionisti quando affermavano che la sensazione visiva non è mai un fenomeno di superficie ma una struttura del pensiero. Non a caso lo ripete Lorca in quello che Friedrich ritiene, a ragione, un manifesto della lirica moderna: «Todas las imágenes [de Góngora] se abren en el campo visual [...] Góngora no crea sus imágenes sobre la misma Naturaleza, sino que lleva el objeto, cosa o acto a la cámara oscura de su cerebro y de allí salen transformados para dar el gran salto sobre el otro mundo ». Del resto, il richiamo dell’arte moderna all’arte primitiva non è un vezzo arbitrario poiché, come ricorda ancora Ortega, «la palabra es para el hombre primitivo un poco la cosa misma nombrada». Questo essere di linguaggio («irreal continente», lo chiama Ortega) con cui l’uomo incrementa il mondo (auctor, colui che aumenta), non è né arbitrario, né strettamente individuale o personale, come vorrebbero coloro che vedono nel “genio” un essere distaccato da ogni condizionamento storico, ma è legato e condizionato non solo dalla realtà “umana” («una poesía donde no quedase resto alguno de las formas vividas serían ininteligibles», sentenzia Ortega,) ma anche dalla storia, in questo caso, «la nostra età dell’acciaio», di cui il poeta si fa in qualche modo portavoce. Lo affermava il Nostro, ma anche Bontempelli nel : «chaque siècle correspond à un mouvement et à un caractère de l’histoire». Nel viene pubblicato Il casino delle rose nella traduzione di Giulio De Medici e l’anno dopo il “romanzo galante” Grand Hôtel, entrambi nei tipi della Corbaccio milanese. Se ne occupa ancora una volta «Il Giornale di politica e di letteratura» con le solite stroncature. Berni cerca tuttora invano, nel primo dei romanzi citati, originalità «d’intreccio », « drammaticità di situazioni» e «vivacità di narrazione», il che vuol dire che, al di là dei suoi legittimi gusti personali, nulla ha capito della nuova estetica cui lo Spagnolo aderisce. Sulla stessa rivista, Augusto Lacchè recensisce l’altro libro, in cui scorge « pennellate a volte efficaci » che però gli producono un grande senso di vuoto e addirittura di disgusto. Nel frattempo «La Fiera letteraria» traduce un paio di “caprichos” . Federico García Lorca, La imagen poética de don Luis de Góngora, in Id., Obras completas, Madrid, Aguilar, , pp. -. . Justification, «», Roma, n. . Cahier d’automne, , p. . . « Il Giornale di politica e di letteratura», Pisa, Roma, rispettivamente settembre e ottobre-novembre , pp. e .
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
tratti dall’argentina « Síntesis ». Dal canto suo Lucio Ambruzzi pubblica in «Convivium » un lungo articolo, dove si sofferma su questi “caprichos”, varianti delle più famose greguerías, che si appellano direttamente all’arte di Goya, anche se il recensore non riesce a dire nulla di rilevante su un accostamento che in altri mani poteva offrire degli spunti fecondi. Nel « L’Italia letteraria », seguendo il supplemento letterario de «La Nación» argentina, pubblica nella rubrica «Nord-Sud » alcune Absurdeces e greguerías, riportando alcune teorie ramoniane sul romanzo apparse nella rivista «Síntesis ». A sua volta «L’Italia che scrive» recensisce tre opere recentemente pubblicate o ristampate: Il casino delle rose, Circo e Campionario. Scrive Enrico Caprile, il quale testimonia dell’interesse sempre fortemente contrastato che suscita ancora l’opera dello Spagnolo e propone una valutazione meno estremistica e più equilibrata. Mette il dito nella piaga quando afferma che « l’arte eccezionale del prolifico Ramón non è adatta per tutte le sensibilità », con cui forse involontariamente viene incontro a Ortega quando sostiene che «el arte nuevo tiene a la masa en contra suya y la tendrá siempre. Es impopular por esencia; más aún, es antipopular» per il semplice motivo che la massa (= «el buen burgués, ente incapaz de sacramentos artísticos») non la capisce, venendosi così a creare due categorie di uomini : coloro che la capiscono e coloro che non la capiscono, il che comporta che «los unos poseen un órgano de comprensión negado, por tanto, a los otros; que son dos variedades distintas de la especie humana». Che è ciò che ribadisce Caprile quando afferma che se il buon borghese non è «in grado di seguirlo sul filo sottilissimo della sua fantasia » non ha «le possibilità per avventurarsi» e per poter «capire il giuoco». Come avviene di regola : egli non vede il gioco, né il senso delle «inutili ma mirabili acrobazie », ma vede solo «il vuoto sul quale l’autore si libra senza mai cadere». Dopo un decennio di ramonismo più o meno combattutto (siamo nel ) si produce una visibile stanchezza, se Luigi Tonelli, sulle pagine di «Marzocco », afferma che « l’umorismo di Ramon meritava d’essere conosciuto anche in Italia ma, ora che lo conosciamo, francamente ne abbiamo abbastanza». Egli si riferisce ancora ai vecchi Campionario, Circo, Gustavo l’incongruente e Il casino delle rose. Mostra di aver capito ben poco quando cerca tra le rare «gemme » nascoste uno «stile succoso e cristallino, alla Rochefoucault, come lo vorremmo» e nei suoi romanzi, dei «veri e propri personaggi ». Nel « L’Italia letteraria » segue un po’ stancamente le pagine bibliografiche de « La Nación » e della «Revista de Occidente», dove Benjamín Jarnés continua a sviscerare la produzione sempre in atto del prolifico scrittore. I dialoghi senza logica apparente di Policefalo e signora nonché la frammentarietà e l’incompiutezza del romanzo stesso sembrano non stupire più di tanto, ora che si è capito che la letteratura “imita” (ahime!) l’incertezza epistemologica ed il relativismo che sono propri del Novecento. «La ragione [...] non ha quasi base ferma su cui edificare una personalità», scrive il recensore di Policefalo mentre quello di Chao osserva, seguendo Vossler, che l’uomo ramoniano, smarritosi nel labirinto di una ragione incerta, può solo salvarsi aggrappandosi al suo corpo, alla sua realtà animalesca, al suo “umano, troppo umano”, che non a caso viene più volte citato da Ortega ne La deshumanización del arte, con un rimando a Nietzsche di cui Gómez de la Serna è appassionato lettore. . « La Fiera letteraria», Roma, marzo , n. . . Lucio Ambruzzi, Da «Don Ramón» a «Ramón », «Convivium », Torino, gennaio-febbraio , n. , pp. -. . « L’Italia letteraria », Roma, gennaio . . « L’Italia che scrive», Roma, febbraio , n. , p. . . Luigi Tonelli, Umorismo spagnolo. R. Perez de Ayala-R. Gomez de la Serna, «Marzocco », Firenze, xxxvi, , n. , p. . . « L’Italia letteraria », Roma, dicembre .
loreto busquets
Negli anni ’ arrivano già i bilanci sulla produzione dello Spagnolo. Nel Carlo Bo scrive un articolo, Rileggendo Ramón, che verrà inserito in Carte spagnole del . « Che cosa resterà precisamente dell’enorme lavoro di Ramón Gómez de la Serna? », si chiede. «Molti avranno dimenticato quasi il suo nome», aggiunge. Incerto, prova a darsi delle risposte per la verità assai deludenti. Sorprende che egli lo veda come «un fenomeno particolarissimo e eccezionale del periodo letterario europeo che va dalla prima grande guerra agli anni intorno al ‘» quando, da quello finora esposto, egli ne è autore emblematico e rappresentativo. Della sua opera ritiene che resterà solo «una forma di fantasia e una meccanica delle soluzioni letterarie», che, a dir il vero, è una meccanica universale che lo stesso Gómez de la Serna ha illustrato mostrando come la greguería, o, se vogliamo, la “meccanica” che è propria delle sue greguerías, è riscontrabile in ogni luogo e tempo, tanto essa fa parte della struttura creatrice della mente umana : « La metáfora es probablemente la potencia más fértil que el hombre posee», scrive Ortega. Bo apprezza dello Spagnolo «la brillante parola» che trova saltuariamente nella sua opera, ma ritiene vi sia assenza di stile quando è proprio il suo stile personalissimo ciò che rende la «meccanica universale», nelle sue mani, diversa e “particolarissima”. Non vi è dubbio che «molte pagine tradiscono un meccanismo comune d’esecuzione” e che molti libri «ripetono lo stesso gesto», ma ciò si potrebbe dire di tutti i più grandi artisti, letterati e non. Che poi la proverbiale finestra illuminata di Ramón fosse «quasi un simbolo, l’appuntamento ideale di tutti quelli che credevano nello “spirito” e nella vita stessa della fantasia» mi sembra un’affermazione un po’ sospetta che sembra indirizzare la produzione di Gómez de la Serna verso certo simbolismo trascendente invece di collegarla all’intellettualismo cubista a cui egli sottopone le sue intuizioni analogiche. Sarà tuttavia lo stesso Bo a voler includere nell’antologia Narratori spagnoli da lui curata una scelta dei Disparates, intitolata Frottole, la cui traduzione venne affidata a Montale. Non ritengo superfluo segnalare che in questo stesso anno () il compositore Carlo Jachino, autore di un Tecnica dodecafonica (), compone delle Variazioni per orchestra sul noto e diffuso Senos di Gómez de la Serna a conferma della fusione delle arti propria di questo momento storico nonché della «unità strutturale di tutta l’arte moderna» segnalata da Friedrich. Nel Giovanni Papini segue divertito, in un suo viaggio in Spagna, il Gómez de la Serna che si esibisce quotidianamente nel proverbiale caffè del Pombo madrileno. Egli assiste a una delle innumerevoli perfomances che lo Spagnolo ha mille volte eseguito di fronte al pubblico europeo curioso della nuova arte. Nel suo scritto Ramon e i minerali, Papini ricorda come egli dissertasse sulla sua perenne osservazione «dell’anima degli oggetti inanimati» e di come percepisse la sofferenza per esempio dei minerali, ed «altre stupende rivelazioni che s’è divertito a comunicarmi ». Lo scrittore italiano non fa commenti, ma dal tono si direbbe che ha ben compreso quanto le performances ramoniane facciano parte della sua concezione dell’arte, che abbiamo visto si offre in forma di spettacolo effimero e perciò stesso eterno; anche l’artista infatti si da al mondo come spettacolo non meno effimero in quella identificazione vita=arte che, con tonalità diverse, si produce ininterrottamente con l’avvento dell’arte moderna. Si direbbe in effetti che Gómez de la Serna, di cui è stata enfa. BO, Carte spagnole, cit., pp. -. . Narratori spagnoli, Milano, Bompiani, , pp. -. Su questa traduzione si veda il mio Eugenio Montale y la cultura hispánica citato, pp. -. Questa antologia venne recensita da «La Parola e il libro» (Roma, , n. ) e da «Rassegna italiana» (Roma, luglio , n. ) ; in quest’ultima il nome di Gómez de la Serna viene accostato indiscriminatamente a quelli di Pío Baroja e Pérez de Ayala (pp. -). . Carlo Jachino, Pagine di Ramón (Senos). Variazioni per orchestra, Milano, G. Ricordi & C., . . Giovanni Papini, Gog, Firenze, Vallecchi Editore, , pp. -.
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
tizzata la dedizione assoluta ed esclusiva alla scrittura e il suo distacco dalle vicissitudini storiche, non solo abbia creduto all’arte “pura” come cosa distinta dalla storia, ma anche all’artista “puro”, demiurgo situato in uno spazio extraterrestre, asettico, fuori dal divenire storico, e che a questa immagine abbia conformato il suo personale vivere nella storia. Il saggio su Picasso che nel apparve in «Revista de Occidente» con il titolo Completa y verídica historia de Picasso y el cubismo, e nel vide addirittura due traduzioni italiane, apre una nuova prospettiva al tradizionale approccio all’arte ramoniana. Solo ora s’intravede l’opportunità di avvicinarla al cubismo e di spostare il fuoco dell’attenzione dalla tanto decantata fantasia all’intelletto. Non sembra tuttavia si comprenda pienamente che non solo il cubismo guarda la realtà con l’occhio della mente, ma che tutta l’arte contemporanea compie la medesima operazione. Ad ogni modo, il Gómez de la Serna che oramai suscita interesse è quello delle biografie di artisti e quindi delle sue riflessioni sull’arte, che è sempre l’arte moderna o quella antica che in qualche modo preannuncia e anticipa concezioni artistiche da essa assunte. I nomi parlano da soli e dovrebbero bastare per unificare ciò che si continua a separare correndo dietro ai molteplici ismi che si sono succeduti a cavallo dei due secoli e nella prima metà del Novecento : El Greco, Goya, Lautréamont, Nerval, Baudelaire, Picasso. Già il fatto che nel solo anno appaiano ben due edizioni della Completa y verídica historia de Picasso y el cubismo, una a Torino e l’altra a Roma, si direbbe all’insaputa l’una dell’altra, secondo quanto ipotizza l’autore di un breve articolo apparso nel , dimostra che l’interesse per lo Spagnolo ha preso una nuova piega. L’edizione torinese (Chiantore), che verrà ristampata nel dalla Sellerio di Palermo, fu tradotta da Giovanni Maria Bertini mentre sarà Mario Puccini a tradurre l’edizione romana, facendola precedere di una sua introduzione alquanto superficiale, che comunque denota come in Italia il Gómez de la Serna degli anni ’ appartenga oramai alla storia e come a suscitare interesse sia lo storico e critico d’arte, per quanto aneddotico e asistematico. Puccini ricorda il successo riscosso in passato dai romanzi, specie di La vedova bianca e nera, che oggi gli appaiono quanto mai sbiaditi, a suo parere inferiore a quello delle greguerías. Egli ribadisce una ovvietà quando afferma che per Gómez de la Serna tutte le cose sono trasfigurabili (ma non è certo il solo a scoprire la metafora!), ma perlomeno parla di un occhio che non è quello di tutti, con cui forse involontariamente fa una allusione all’estetica impressionista. Ripete pedissequamente Carlo Bo quando dice che «lo stile non è stile » e osserva, senza trarne alcuna conseguenza, che «lo attirano i fatti abnormi, strani, ossessionanti», preferenza che comunque andrebbe messa accanto alla predilezione per le cose banali e insignificanti. Eppure Ortega, tante volte citato dagli intellettuali italiani e forse mai letto, aveva già fatto notare come oltre alla metafora esiste uno strumento oltremodo efficace di «disumanizzare l’arte» che consiste nel cambiare «la perspectiva habitual» e nello sconvolgere la gerarchia che le cose hanno nella realtà « umana ». Mettere la lente d’ingradimento sulle cose minime e insignificanti è efficace quanto fermarsi sui «fatti abnormi e strani». In entrambi i casi si tratta di «hacer protagonistas del drama vital los barrios bajos de la atención, lo que de ordinario desatendemos ». La comparsa nel de Il Greco, visionario illuminato, nella sola traduzione autorizzata dall’autore, quella di Enrico Miglioli, denota il persistere della tendenza appena . D.P., Completa e veridica istoria di Picasso e il cubismo, «L’Indice dei libri del mese», Roma, dicembre , n. , p. . . Picasso e il picassismo, Roma, Corso, . . Ramón Gómez de la Serna, Il Greco, visionario illuminato, Milano, A. Martello, .
loreto busquets
accennata. Negli anni ’ si ristampa qualche vecchio romanzo, come Il dottore inverosimile tradotto da Giovanni Artieri, che giunge così alla sua quinta edizione e viene inserito un suo racconto nell’antologia curata da Cesco Vian dal titolo Carosello di narratori spagnoli. In realtà occorre attendere il , anno della morte di Gómez de la Serna, per sentire riparlare della sua opera e vedere ricomparire sui giornali alcune delle sue inossidabili greguerías. Montale gli dedica un necrologio sul «Corriere della sera » in cui accosta la «schidionata di metafore» ramoniane al tessuto cellulare che vengono ad intessere le piastrelle multicolori di Antoni Gaudí. Un approccio significativo perché colloca su un comune denominatore il creazionismo, il cubismo e quell’arte liberty in cui l’ornato, lungi dall’essere ornato, cioè rivestimento, si costituisce in struttura tettonica. Tuttavia egli attribuisce un valore scarso all’arte dello Spagnolo come denota il confronto che stabilisce con Persall Smith nettamente a favore di quest’ultimo. Poco aggiunge a quanto si è detto il necrologio che Carlo Martini scrive per «La Fiera letteraria », dove egli afferma che con le greguerías Gómez de la Serna inventò «un nuovo modo di esprimere, di vedere, di comunicare». Egli parla di una «prosa dorata, imprevedibile, ironica, scintillante, attenta ai minimi brividi delle cose». Trovo solo interessante che egli attribuisca alle greguerías qualità metalliche, il che vuol dire che lo scrittore spagnolo riuscì a dare alle sue cose poetiche quella consistenza materica a cui aspirano unanimemente tutte le arti dell’epoca moderna, ad incominciare dal parnassianesimo. Nell’ambito della critica accademica, Gómez de la Serna appare tra gli scrittori spagnoli meno studiati. Il suo disimpegno politico e sociale e la sua concezione dell’art pour l’art, anch’essa propria dell’arte moderna, non hanno certo aiutato a prendere in considerazione, in anni (’ e ’) in cui si chiedeva all’artista una presa di posizione politico-ideologica, una produzione che mostrava di disinteressarsi delle vicende storiche. In Italia questa esigenza, come è noto, fu particolarmente sentita e basterebbe gettare uno sguardo sugli autori più assiduamente studiati in questo periodo per averne la conferma. Ad ogni modo, sempre nel , apparve presso Einaudi I poeti surrealisti spagnoli, una antologia curata da Vittorio Bodini preceduta da un suo Saggio introduttivo. In esso l’autore dedica una pagina abbondante a questo poeta in prosa «sui generis», seguendo il criterio di Luis Cernuda, il quale aveva incluso il suo nome in un suo studio sulla poesia spagnola contemporanea (si tenga presente che sia Ettore De Zuani nel , sia Antonio Radames Ferrarin nel suo scritto intitolato Poesia spagnola del , non lo citavano neppure probabilmente perché, essendo scrittore in prosa, non lo ritenevano un poeta). Nel cercare di definire la greguería, Bodini parla di «smontare la sperienza», mentre dopo sembra far sua l’opinione di Cernuda, che definisce Gómez de la Serna realista nel senso che «il mondo in cui la sua fantasia si muove è quello della realtà materiale e immediata ». Ora, sembra poco probabile che possa essere “realista” un autore che è il campione di una poetica che ritiene essere «l’oggetto artistico solo artistico . Milano, Dall’Oglio, . . Milano, Aldo Martello, . Vi fu incluso La donna di Kikir (La fúnebre) da Seis falsas novelas (rusa, china, tártara, negra, alemana, americana). Gli altri scrittori antologizzati sono Tomás Borrás, Edgar Neville, Noel Clarasó, Carmen Laforet, Samuel Ros, Miguel Delibes, Ignacio Aldecoa, Jorge Campos, J. Antonio de Zunzunegui, Francisco José Alcántara e J.A. Giménez Arnau. . Eugenio Montale, Ramón Gómez de la Serna è morto a Buenos Aires, “Corriere della Sera”, Milano, gennaio . . gennaio . . Antonio Radames Ferrarin, “Augustea”, Roma, novembre , p. . Per l’articolo di De Zuani si veda qui la nota .
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
nella misura in cui non è reale». Che realismo è mai questo che si compiace nel mettere a fuoco la realtà per allontanarla e negarla, per usarla come trampolino verso una nuova realtà srealizzata che si estrinseca solo nella sostanza della Parola? Nel appare La vergine dipinta di rosso a cura di Danilo Manera nella traduzione di Paolo Gimmelli nonché la ristampa del vecchio Seni. Per quanto riguarda gli studi critici, nel viene pubblicato Da Unamuno a Lorca, una raccolta di saggi dove la Rossi dedica alcune pagine a generiche considerazioni sull’avanguardia in Spagna e poche altre al nostro scrittore. È un libro significativo del clima intellettuale di quegli anni e di certa pervadente mediocrità accademica. Con i movimenti di avanguadia l’autrice procede con le solite frammentazioni che nulla risolvono poiché i particolari impediscono di vedere il denominatore comune delle varie correnti e scuole. Forse seguendo Ortega, che essa effettivamente ha letto, ritiene che in Spagna non esiste una vera avanguardia perché non esiste una borghesia (!) e semmai c’è solo l’ultraismo, che per Ortega (pensando proprio agli ultraoggetti di Gómez de la Serna) riassume giustamente tutte le avanguardie o quella che egli chiama «la nueva sensibilidad». Nonostante essa accenni ai primi contatti dello Spagnolo con il futurismo e assuma ciò che oramai sta diventando un luogo comune, e cioè che la sua arte è strettamente imparentata con il cubismo, lo definisce scrittore «a parte» ed eclettico (di che? delle avanguardie ?), « estraneo anche alla storia delle avanguardie in Spagna». Una affermazione quanto mai sorprendente perché se qualcosa oramai sembrava fosse chiaro è che l’avanguardismo in Spagna inizia intorno al per opera, soprattutto, di Gómez de la Serna per il fatto di aver introdotto «una nueva visión de la realidad», come ebbe a dire Luis Cernuda. Ciò che stupisce è che malgrado l’autrice abbia parlato, a proposito del cubismo, di oggetto mentale e di arte non mimetica ma creativa, e abbia pure accennato al barocco come momento costitutivo dell’estetica moderna, essa non veda che le greguerías altro non sono che quegli stessi oggetti mentali, creati e non “copiati”, e riduca il significato del barocco nell’opera ramoniana al «teschio di donna» cui accenna in un momento del suo scritto. Negli anni ’ e ’ si può dire che di Gómez de la Serna non si sente più parlare. Nel « L’indice dei libri» recensisce la Completa e veridica istoria di Picasso e il cubismo cui ho accennato prima. L’autore ricorda che fino al furono le opere di Gómez de la Serna tradotte in Italia «anche se in Italia pochissimo note». Definisce il «remoto » scrittore «divulgatore mimetizzato di tutte le avanguardie» (altro che divulgatore!) e afferma che egli «anticipa di almeno cinquant’anni il Viaggiatore d’inverno di Calvino». Tutto da vedere e da studiare. È evidente che ormai interessano i suoi studi teorici, se così si possono chiamare, che servono a illuminare quest’arte moderna di cui egli è stato indiscusso protagonista. Le diverse edizioni di Dalí che si succedono a partire dal sono al riguardo significative. Il centenario della nascita di Ramón Gómez de la Serna è di nuovo una occasione per rioccuparsi dello scrittore “remoto”. Nel il professore Giovanni Allegra pubblica su «Il Giornale» un articolo intitolato L’ultimo eccentrico del modernismo insieme a una decina di greguerías, a indicare quanto esse rappresentino ancora l’essenziale della sua arte. Pur sottolineando il carattere unipersonale ed inclassificabile della sua opera, Allegra ammette che egli precorre le avanguardie. Che sia per lui “inclassificabile” lo si vede dal vano tentativo di collocarlo ora tra i modernisti, ora tra i surrealisti, ora tra i simbolisti, tirando in ballo la irrazionalità (il pensiero selvaggio) che Gómez de la Serna affermerebbe di fronte alla razionalità del mondo istituzionalizzato. Un vero guazzabu. Rosa Rossi, Da Unamuno a Lorca, Catania, Giannotta, . . Luis Cernuda, Estudios sobre poesía española contemporánea, Madrid, Guadarrama, , p. .
loreto busquets
glio a partire dal quale tuttavia, e con qualche idea chiara, si può raggiungere una sintesi : Gómez de la Serna, come tutti i lirici moderni, oppone alle istituzioni, che intendono regolamentare l’arte (la detestabile littérature o reportage), il pensiero libero o selvaggio, che pretende determinare autonomamente e con criteri puramente estetici ciò che è vera arte, ossia, arte pura. Quest’arte aspira, come afferma Valéry, «à reprendre à la Musique leur bien», vale a dire, ad assumere la condizione e le peculiarità dell’arte musicale, e questo nel senso che essa è l’arte che, per definizione, non trascrive o riproduce qualcosa che non sia sé stessa e di conseguenza è l’arte per eccellenza dell’ambiguità, della pluralità di sensi. Ad esse aspira anche la poesia («La poésie coinsiderée comme une opération inverse de celle qui a conduit au langage univoque et uniforme ») per cui era inevitabile attingere alla metafora, realtà autonoma con appunto pluralità di sensi (tranne che non venga ridotta a una trascrizione «univoque », come ha fatto Dámaso Alonso con Góngora e come fecero già a suo tempo i famosi e famigerati commentatori del poeta barocco). L’arditezza delle immagini, la sua stessa inusualità rispetto alla realtà naturale (=umana, nel linguaggio di Ortega) la sostanziava ulteriormente como realtà nuova e altra. Che la metafora poi provenisse dall’analogia o dal vissuto onirico non modificava la sua condizione di cosa mentale, ritenuta da tutti, da Proust a Lorca, l’essenza stessa della poesia “pura”: «sólo la metáfora puede dar una suerte de eternidad al estilo». Del resto, il nonsense non appartiene tanto al linguaggio onirico quanto al linguaggio della poesia moderna, determinato da quella dissoluzione ontologica che permea il pensiero novecentesco. Una “dipendenza” storica inevitabile per i motivi già segnalati da Ortega, ma anche perché il poeta davvero significativo sintetizza in una Forma astorica la realtà e la verità del momento storico in cui gli è toccato vivere. Lo confermava lo stesso Gómez de la Serna all’autrice di Ramón e Venezia quando asseriva che lo scrittore è il testimone e il “salvatore” del suo tempo. Ma lo aveva già detto nel lontano : «La metáfora es, después de todo, la expresión de la relatividad. El hombre moderno es más oscilante que el de ningún otro siglo, y por eso más metafórico. Debe poner una cosa bajo la luz de otra. Lo ve todo reunido, y yuxtapuesto, asociado». Nel Carlo Bo ritorna sul nostro autore nell’articolo Il saltimbanco Ramón nel cerchio del genio. La risposta alla domanda postasi qualche anno prima su cosa sarebbe restato di Ramón Gómez de la Serna, sembra dargliela Octavio Paz, di cui trascrive l’asserzione che egli è «il più grande scrittore spagnolo del Novecento». E da Paz assume il concetto che lo Spagnolo rappresenta l’identificazione con la Scrittura in termini non dissimili a quelli che ho adoperato poc’anzi nel descrivere l’omologazione avvenuta tra vita e arte. Superficiali risultano invece gli accenni al barocco, sia perché Bo lo riconduce all’allegoria – che in Gómez de la Serna non è mai, come invece in Calderón, ma è sempre metafora costruente, come in Góngora – sia perché vede il barocco come tratto tipicamente e specificamente ispanico, quando poi è tutta l’arte europea a rivolgersi a Góngora e al barocco come momento in cui l’arte prende coscienza della sua autonomia e autoreferenzialità. Nel medesimo appare un lavoro di Maria Vittoria Calvi che possiamo definire . Paul Valéry, Oeuvres, Paris, Gallimard, , i, p. . . Paul Valéry, Cahiers, Paris, Gallimard, , ii, p. . . Federico García Lorca, La imagen poética de don Luis de Góngora, cit. . A. Mariutti de Sánchez Rivero, Ramón e Venezia, «Ateneo Veneto», Venezia, , n. , pp. -. . Ramón Gómez de la Serna, Los muertos y las muertas, Madrid, Espasa Calpe, , p. . . “Corriere della Sera”, Milano, settembre .
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
divulgativo. Essa ripete ciò che oramai è un luogo comune, e cioè che sia l’arte di Picasso che quella di Gómez de la Serna rappresentano l’«essenza dell’arte attuale» senza però offrire alcuna nuova riflessione su ciò che costituisce tale “essenza”. Ribadisce inoltre che la «sua visione è molto personale», come se così non fosse quando ci si trova di fronte ad un vero artista, ricollegando tale originalità al fatto di non appartenere l’autore a nessun gruppo o scuola. Nell’affrontare la greguería, essa accenna al «suo amore per le cose e la tensione per scoprirne i significati reconditi», all’«essenza occulta del reale » e «all’umorismo per penetrare le cose», rifacendosi evidentemente a una delle tente definizioni che ha dato del suo personalissimo genere lo stesso Gómez de la Serna e che ha dato origini a grossi e ripetuti malintesi: «ciò che gridano le cose». Una facezia che molti, ma non Papini ad esempio, hanno preso sul serio. Già nel , l’autrice dell’articolo Ramón e Venezia menzionato poc’anzi, parlava dei «minimi brividi delle cose ». Ora, è vero che l’arte contemporanea ha privilegiato “le cose” onde allontanarsi dai contenuti “troppo umani” dell’arte tradizionale specialmente ottocentesca (basti pensare agli oggetti di Man Ray, di Dalí, di Magritte, ecc. ecc.). Questa predilezione, che si riscontra anche in un Juan Ramón Jiménez, venne definita da Antonio Machado « feticismo delle cose» facendo così pensare che questi artisti avevano solo spostato il fuoco dell’attenzione su un referente diverso ma comunque sempre umano (e cioè la realtà fenomenica, compreso l’essere umano posto come oggetto fuori di sé). Ma già lo stesso Jiménez ebbe a chiarire che «lo que siempre me tienta es la sensación que un fenómeno produce», che è esattamente quanto aveva detto Mallarmé circa il «peindre, non la chose, mais l’effet qu’elle produit». Non è la realtà che interessa nè ciò che essa possa avere di misterioso e quindi di trascendente, ma ciò che l’occhio dell’artista vede nella realtà stessa. Se c’è feticismo non è delle cose ma della visione delle cose. Lo comprese molto chiaramente lo stesso Gómez de la Serna quando, a proposito di Juan Ramón Jiménez, scriveva che il suo era «un ojo prismático [...] cubista, arlequinesco, kaleidoscópico, polifacético, multicolor y cromático». Si direbbe che egli stia parlando del “suo” occhio, cosa in un certo senso vera se si tiene conto che l’artista non può non guardare il mondo con l’occhio del suo tempo. Insomma, le cose non gridano un bel niente. È l’uomo che le fa sue incorporandole nel suo mondo attraverso il proprio corpo, occhio e mente, e imprestando loro le sue parole. Con esso rende umano il mondo fenomenico assolutamente indifferente alle cose umane popolandolo di oggetti a lui affini e quindi a lui familiari. L’uomo, destinato alla morte, crea così un «irreal continente» che si aggiunge alla Natura, rispetto a lui, eterna. Forse una delle definizioni della greguería date da Gómez de la Serna che Bodini ricorda come una delle sue tante facezie, andrebbe invece presa sul serio: «La greguería, per la sua forma, per la sua capacità, è la piccola urna cineraria di cui io avevo bisogno per le mie ceneri quotidiane». Nel l’Associazione degli Ispanisti Italiani celebra un convegno a Palermo dal titolo Dai modernismi alle avanguardie, i cui atti vengono pubblicati l’anno dopo presso l’editore Flaccovio di Palermo. Qui compaiono due saggi dedicati al Nostro: Ramón Gómez de la Serna: El Rastro o le novità del rigattiere, di Elide Pittarello e Il dizionario umoristico di Gómez de la Serna, di Laura Silvestri. Il primo è un lavoro serio e documentato che analizza il testo indicato nel titolo ma che soprattutto coglie il nocciolo della poe. Maria Vittoria Calvi, Ramón Gómez de la Serna, promotore e anticipatore dell’arte d’avanguardia, in Trent’anni di avanguardia spagnola, a cura di Gabriele Morelli, Milano, Jaka Book, , pp. -. . Citato in G. Picon, La poésie au XIX siècle, in Histoire des littératures, Paris, Gallimard, , iii, p. . . El ojo de Juan Ramón, in A. de Albornoz (a cura di), Juan Ramón Jiménez, Madrid, Taurus, , p. . . Bodini, Saggio introduttivo, cit., p. lii.
loreto busquets
tica ramoniana come qui descritta. Esso parla infatti di «pensiero visionario», forse seguendo le riflessioni di Caprettini sul fatto che «ogni rappresentazione implica una costruzione concettuale», e di un animismo antropomorfico che sposta l’accento dall’oggetto osservato al soggetto che guarda. Ecco quello che per l’autrice costituisce il «nocciolo del problema » : « da un lato la collocazione canonica e autoritaria del logos che vanifica il suo potenziale euristico non appena si stacca dalla realtà per costituirsi in libro; dall’altro il mito di un mondo in fermento che prima di dissolversi cerca continuamente il discorso del suo autentico portavoce, del suo affidabile cantore. Non del suo interprete, dato che la funzione rappresentativa del linguaggio, la natura segnica e non materiale del rapporto esistente fra le parole e le cose, viene non solo rinnegata in teoria, ma anche combattuta nella pratica». Irrilevante appare invece il lavoro della Silvestri, che riprende, a suo dire, un articolo precedente citato in nota a p. . Essa accenna all’umorismo come «l’unico concetto stabile della indefinibile estetica di Gómez de la Serna» (!) e come nota costituente di tutte le avanguardie, e attribuisce al surrealismo l’aver «istituzionalizzato il ruolo del comico ». Ma noi sappiamo – ce lo ricorda Ortega – che all’inizio dell’Ottocento «un grupo de románticos alemanes dirigido por los Schlegel proclamó la ironía como la máxima categoría estética y por razones que coinciden con la nueva intención del arte. [...] Su misión es suscitar un irreal horizonte. Para lograr esto no hay otro medio que negar nuestra realidad, colocándonos por este acto encima de ella. Ser artista es no tomar en serio al hombre tan serio que somos cuando no somos artistas». Dopo tanta inutile e mal assimilata erudizione cui ci ha abituati la critica accademica, si legge volentieri l’articolo del pioniere Giovanni Artieri, sempre entusiasta di colui che egli ritiene «tra i più geniali e fecondi scrittori del continente». È un articolo riassuntivo dei motivi conduttori della «rivoluzione letteraria europea» di cui Gómez de la Serna è indiscusso protagonista. Segnala giustamente come la sua opera proiettò la Spagna nel mondo e l’aiutò a sprovincializzarsi e ad affermare la sua autorevolezza culturale. Egli ritiene che la sua opera migliore rimane El doctor inverosímil senza però purtroppo spiegarne le ragioni. Parole di lode per le biografie e per Ismos. Nel appaiono ancora, qua e là, delle recensioni sulle sue opere, tra cui una su Gustavo l’incongruente apparsa ne «Il Giornale» ( marzo ). Nel , invece, una ristampa delle greguerías col titolo Mille e una greguería a cura di Danilo Manera, che ne scrive una postfazione dal titolo Capriole, conterie e rivelazioni di Ramón, l’uomo spugna. La «spugna » del titolo si riferisce ai «mille occhi aperti» del poeta sulle cose, ma il fatto che egli parli di visione «neutrale » e di un’opera «essenzialmente plastica e per nulla incline al procedere astratto o densamente strutturato» rivela quanto sfugga al divulgatore il nocciolo dell’arte ramoniana. Nulla aggiunge di particolare nella Introduzione che egli scrive per Donne, libri, astri e animali, un’altra raccolta pubblicata nel medesimo anno per la Serie rossa dello stesso Vascello. Sempre nel la rivista «Cinema e Cinema» accoglie un articolo di Ottavio Di Brizzi che immette nel clima stantio della critica ramoniana un po’ di aria fresca. Due sono i punti fermi e in qualche modo nuovi del suo lavoro: la scrittura di Gómez de la Serna come manifestazione dell’esperienza metropolitana in relazione con la «scoperta convulsa della città moderna» da parte della modernità, e la sua scrittura «chiaramente . « Il Giornale », Milano, aprile . . Roma, Biblioteca del Vascello, . . Ivi, pp. -. . Ottavio Di Brizzi, La città dello stupore. Ramón Gómez de la Serna (-) e Cinelandia (), «Cinema e Cinema », gennaio-aprile , n. , pp. -.
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
influenzata dalla logica cinematografica ». È un testo interessante perché tocca aspetti strutturali della scrittura del Nostro e perché si sofferma sulla condizione materica della sua visione del mondo ponendola in relazione con altre arti visive, pittura e cinema. Dalle parole di Di Brizzi si capisce come la città del cinema, la città dei sogni, di Ramón, urbe senza tempo né storia, come pure la pellicola, fungano da metafora dell’opera d’arte come « irreal continente » (« le monde est fait pour aboutir à un beau livre», scrive Mallarmé) e come lo stesso film, in quanto pura proiezioni d’immagini, altro non sia che pensiero visionario proiettato sulla realtà del mondo da esso stesso cancellata: « tuer le monde avec les mots», per dirla ancora con Mallarmé. Chiusa e abbandonata, la città muore come muore per l’uomo ogni realtà che non sia quella dell’arte che egli proietta sulla realtà fenomenica. Nel viene ancora ripubblicato La vergine dipinta di rosso, preceduto da una prefazione del già citato Danilo Manera, il quale attesta che, dopo il successo conosciuto in Italia e in Europa negli anni ’ e ’, Gómez de la Serna «viene riscoperto in questa fine secolo sia in patria che all’estero». L’anno dopo infatti ricompare una ennesima scelta di greguerías con il titolo Sghiribizzi, questa volta curata da Gesualdo Bufalino e accompagnata da una sua Nota introduttiva del . Bufalino acccosta le greguerías sia al cubismo sia alle tele di Mirò forse pensando alla loro aspirazione ad essere arte primitiva che finge di sgorgare senza mediazioni dalle origini dell’uomo e della civiltà invitando ad essere guardata con occhi ingenui e virginali, liberi anch’essi dalla stratificazione culturale che ne impedisce l’incontaminato possesso. Con Miró egli probabilmente intende alludere all’essere dell’inconscio nella sua irruenza pulsionale che pure non ne cancella l’alterità, l’essere cioè ordine simbolico-linguistico, come sembrano voler dire queste «mille iridiscenti bolle di sapone di cui egli [Gómez de la Serna] popola, fino a nasconderlo, il cielo », che evidentemente è una replica della costellazione mallarmeana sòrta nell’oscurità del cielo notturno. Lo sguardo retrospettivo di Bufalino gli consente infine di stabilire contatti ed eventuali influssi che qui riporto come suggerimenti che potranno verificare italianisti desiderosi di scoprire dei nessi significativi non solo tra Gómez de la Serna e l’Italia ma anche in quella che Friedrich chiama «l’unità strutturale di tutta l’arte moderna in generale» : « Per discorrere solo dell’Italia, appaiono abbastanza lontane, oggi, le glorie degli anni Trenta, quando Ramón non solo insegnò qualcosa ai giovani umoristi bertoldeschi e non (da Zavattini a Marotta, da Mosca a Campanile...) ». A questo proposito aggiungo che tracce di “ramonismo” sono state individuate non solo naturalmente in Bontempelli ed Orio Vergani, ma anche in Giuseppe Marotta, Riccardo Marchi e addirittura in Carlo Emilio Gadda. Come si deduce dalle parole di Danilo Manera nella sua introduzione a La vergine dipinta di rosso l’interesse crescente per Gómez de la Serna nell’ultimo decennio del Novecento risponde alla curiosità suscitata da un momento storico tramontato da un pezzo. L’attrazione per «il paradiso primordiale degli istinti» spennellato di «jazz, sport e cabaret» parla di evasione e di nostalgia in anni dove l’indifferenza ideologica e l’ottundimento dei sensi operato da un consumismo beota, fa rimpiangere una visione del . Citato in Picon, cit., p. . . Ramón Gómez de la Serna, Sghiribizzi, scelta e trad. di Gesualdo Bufalino, Milano, Bompiani, . . « L’elegia [di Marotta] si condensa in gregueria. De Amicis cede il passo a Ramón Gómez de la Serna» (Enrico Falqui, Novecento letterario, Firenze, Vallecchi Editore, , iv, p. ). . Luigi Tonelli trova tracce di Circo di Gómez de la Serna in Circo equestre di Riccardo Marchi (Umorismo spagnolo, cit.). . Secondo Emilio Cecchi L’incendio di via Klepero di Novelle dal Ducato in fiamme () trova ne L’incendio della casa di malaffare di Gómez de la Serna un «anticipo scialbo» (Prosatori e narratori, in Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi – Natalino Sapegno, Novecento, II, Milano, Garzanti, p. ).
loreto busquets
mondo che era forse spensierata ma insieme vitalistica ed essenziale. Lo attestano le parole con cui il libro, illustrato da Stefano Fabbri, viene reclamizzato: «Un’esultante e ansiosa caccia erotica nella foresta africana, narrata col brio fantasioso e stilizzato degli anni Venti». Non è quindi un caso che uno degli ultimi accenni che trovo di Gómez de la Serna, questa volta sulle pagine di Internet, rappresenti una esaltazione dello scrittore erotico che negli anni ’ fece gridare i benpensanti allo scandalo tacciandolo di essere scrittore pornografico. Alla fine del Novecento viene significativamente recuperato proprio Senos, il libro che suscitò l’ira dei guardiani del comune senso del pudore e che Ortega menzionava come emblema di quell’arte disumanizzata che «consiste en hacer protagonistas del drama vital [...] lo que de ordinario desatendemos». Incurante delle disquisizioni estetiche che hanno dettato la poetica dell’arte contemporanea e disdegnoso di un’arte difficile destinata a pochi eletti, il Novecento postmoderno propone in questo libro il miscuglio e l’amalgama d’ingredienti artistici di ogni sorta e livello culturale, e punta sui contenuti con l’intento di farne un’opera impura e contaminata che sia di nuovo provocatoria e liberatoria di una società repressa, repressiva ed ipocrita. È significativo che nonostante il potenziale liberatorio insito nell’erotismo, gli anni ’ siano stati del tutto indifferenti alla produzione di Gómez de la Serna. Non è solo quindi il disimpegno politico e sociale del suo autore ma anche, come accenna Mughini, il bigottismo proprio anche delle sinistre, a rendere incompatibile l’erotismo e la cultura, per dirla con le parole di Norberto Bobbio da lui riportate. Mughini non ha tutti i torti quando asserisce che «la tenaglia rappresentata dalle due grandi culture egemoni in Italia, quella comunistica e quella cattolica, ha eretto una barriera contro ogni curiosità e libertà in fatto di ricerca dei materiali erotici della letteratura e nell’iconografia ». Sembra uno strano e felice destino che i nostri tempi, nella ricerca della «verità vera» dell’uomo, come scrive Mughini, ritornino non al Gómez de la Serna dell’ordine significante, dell’anima formale linguistico-simbolica, immateriale ed apollinea, ma a quello dell’anima irrazionale e viscerale, corporea e dionisiaca. Ritrovino insomma il Nietzsche che soggiace alla produzione ramoniana e il Gómez de la Serna della giovinezza, innamorato «dell’ultimo discepolo del filosofo Dioniso». Contributo per una bibliografia delle opere di Ramón Gómez de la Serna in lingua italiana (Tra parentesi quadre la data della prima edizione degli originali spagnoli) La vedova bianca e nera, L’Aquila, Vecchioni [La viuda blanca y negra: ] Il dottore inverosimile, trad. di Giovanni Artieri, Milano, Corbaccio [El doctor inverosímil: ] Gustavo l’incongruente, trad. di Gilberto Beccari, Milano, Corbaccio [El incongruente: ] Seni, trad. di Mario Da Silva, pref. di Orio Vergani, Milano, Corbaccio, a ed. [Senos: ] Circo, trad. di C. Candida e A.R. Ferrarin, Milano, Corbaccio [El circo: ] Campionario, trad. e pref. di Giovanni Artieri, Milano, Corbaccio [Muestrario: ] Il casino delle rose, trad. di Giulio De Medici, Milano, Corbaccio [El chalet de las rosas: ] Il dottore inverosimile, trad. di Giovanni Artieri, Milano, Corbaccio, a ed. La vedova bianca e nera, trad. e pref. di Giulio De Medicis, L’Aquila, Vecchioni Grand Hôtel, trad. di Rodolfo Mosca, Milano, Corbaccio [El gran hotel: ] [] La vedova bianca e nera, Perugia, Novissima, s.d. Il dottore inverosimile, Milano, Corbaccio, a ed. . In www.besaeditrice.it . L’Arengario, Studio bibliografico. Libri per un libertino moderno, Introduzione di Giampiero Mughini (www.arengario.it). . Così si definisce Nietzsche nel Crepusculo degli idoli, Milano, Adelphi, .
f o r t u n a e sf o r t u n a d i r a m ó n g ó m e z d e l a s e r n a i n i t a l i a
Grand Hôtel, Milano, Corbaccio Carlo Jachino, Pagine di Ramón (Senos). Variazioni per orchestra, Milano, G. Ricordi & C. Frottole, in Narratori spagnoli, a cura di Carlo Bo, Milano, Bompiani [Disparates: ] Completa e veridica istoria di Picasso e del cubismo, trad. di Giovanni Maria Bertini, Torino, Chiantore [Completa y verídica historia de Picasso y el cubismo: ] Picasso e il picassismo, trad.e pref. di Mario Puccini, Roma, Corso [Completa y verídica historia de Picasso y el cubismo: ] Completa e veridica istoria di Picasso e del cubismo, trad. di Giovanni Maria Bertini, Torino, Chiantore [Completa y verídica historia de Picasso y el cubismo: ] Seni, Milano, Dall’Oglio Circo, Milano, Dall’Oglio Il dottore inverosimile, trad. e pref. di Giovanni Artieri, Milano, Dall’Oglio, a ed. Seni, pref. di Orio Vergani, Milano, Dall’Oglio, a ed. Il Greco, visionario illuminato, trad. di Enrico Miglioli, Milano, Aldo Martello [El Greco: el visionario de la pintura: ] La donna di Kikir in Carosello di narratori spagnoli, a cura di Cesco Vian, Milano, Aldo Martello [La fúnebre (falsa novela tártara): ] Seni, Milano, Dall’Oglio, a ed. Il dottore inverosimile, Milano, Dall’Oglio Circo, trad. di C. Candida e A.R. Ferrarin, Milano, Dall’Oglio Seni, trad. di Mario Da Silva, pref. di Orio Vergani, Milano, Dall’Oglio Seni, Milano, Dall’Oglio La vergine dipinta di rosso, trad. di Paolo Gimmelli, a cura di Danilo Manera, Lecce, Besa [La virgen pintada de rojo: ] Circo, Milano, Dall’Oglio Il circo, Milano, Dall’Oglio Dalí, trad. di Sebastiano Grasso, Milano, Mondadori Seni, pref. di Orio Vergani, Milano, Dall’Oglio Dalí, Milano, Mondadori, a ed. Dalí, Milano, Mondadori Completa e veridica istoria di Picasso e del cubismo, Palermo, Sellerio Dalí, Milano, Mondadori Le tre Grazie: romanzo madrileno d’inverno, trad. e pref. di Lucrezia Panunzio Cipriani, Palermo, Sellerio [Las tres Gracias: ] L’incongruente, a cura di Lucio D’arcangelo, Roma, Lucarini Seni, Milano, e s Donne, libri, astri e animali. Un tesoro di battute a soggetto, a cura di Danilo Manera, Roma, Biblioteca del Vascello Donne, libri, astri e animali. Un tesoro di battute a soggetto, Roma, Biblioteca del Vascello Mille e una gregueria, a cura di Danilo Manera, Roma, Biblioteca del Vascello La vergine dipinta di rosso, trad. di Paolo Gimmelli, a cura di Danilo Manera, Nardò (Lecce), Besa La vergine dipinta di rosso, trad. di Paolo Gimmelli, a cura di Danilo Manera, Nardò (Lecce), Besa Sghiribizzi, trad. di Gesualdo Bufalino, Milano, Bompiani (Greguerías) Seni, a cura di Elena Carpi Schirone, Milano, e s La vergine dipinta di rosso, trad. di Paolo Gimmelli, a cura di Danilo Manera, Nardò (Lecce), Besa Dalí, Milano, Abscondita Mille e una gregueria, Roma, Biblioteca del Vascello Altre traduzioni di cui si hanno notizie parziali, non materialmente riscontrate: Capricci, Napoli, Tirrena [Caprichos: ] Ramonismo, Milano, Corbaccio [Ramonismo: ] Il romanziere, Milano, Corbaccio [El novelista: ] Il segreto dell’acquedotto [El secreto del acueducto: ]
loreto busquets
La donna d’ambra [La mujer de ámbar: ] Il signore dal cappello grigio [El caballero del hongo gris: ] Policefalo e signora [Policéfalo y señora: ]
Alberto Frattini P E R U N B I L A N C I O C R I T I C O D I « PO E S I A N U O V A »
N
o n c e r t o è sfuggita ai critici ed agli storici della nostra letteratura del dopoguerra l’importanza dei contributi offerti dai periodici, anche se per quanto riguarda, in particolare, la poesia, i lavori di verifica documentaria debbono ancora essere sistematicamente estesi ed approfonditi. Non sarà pertanto inutile qualche chiarimento su una rivista degli anni Cinquanta, «Poesia Nuova» (Alcamo-Roma) della quale chi scrive fu cofondatore e condirettore: essa si trovò ad operare in un periodo – il quinquennio - – in cui alle forti sollecitazioni innovative del dibattito socioculturale e ideologico del tempo solo di rado corrispondono, sul terreno della nuova poesia, soluzioni linguistiche e stilistiche vitali e persuasive. La nascita di «Poesia Nuova» chiama in causa un’altra rivista romana «Il Fuoco» (Roma), alla quale va anche il merito di avere promosso e realizato, nel , ad Andalo, il primo convegno della giovane poesia italiana del dopoguerra. Tale incontro concorse validamente a dimostrare, attraverso i contributi e le testimonianze dei giovani poeti e dei critici intervenuti, la concreta presenza di una poesia nuova maturatasi, pur fra incertezze, carenze ed equivoci, nel primo quinquennio postbellico, e mirante ad affrancarsi dalla gravosa ipoteca dell’epigonismo ermetico affermando, in una rinnovata coscienza dei valori umani, l’istanza di una apertura all’alterità, che forzasse l’attrazione intellettualistica, e rifiutasse l’introiezione solipsistica risolta nell’analogismo oniricamente sfrenato: ormai un gioco a freddo della tecnica, una finzione senza radici di verità. Concordando sulle considerazioni sopra accennate, un giovane studioso, Pietro Calandra, venuto dalla Sicilia sulle Dolomiti per seguire i lavori del suddetto convegno, pensò di far sorgere nella nativa Alcamo una rivista di poesia e mi invitò a condirigerla ed a preparare con lui il piano di lavoro. Il quale fu considerato in una breve premessa del primo fascicolo, datato gennaio-febbraio : non intendevano avviare una rivista di movimento ma «nemmeno di semplice documento o di confusa antologia» ; non avevamo poetiche di corrente da proporre nè da sostenere o rilanciare; avremmo scartato le polemiche faziose, poichè ci stava soprattutto a cuore suscitare un dibattito aperto sulla poesia contemporanea, e in particolare della nostra, approfondendone il senso, le implicazioni, gli strumenti, convinti com’eravamo che in tale scavo dovessero illuminarsi e chiarirsi gli orientamenti, gli aspetti, le stesse contraddizioni della realtà – culturale, morale, artistica – del nostro paese. Il nostro antiprogrammismo riguardava dunque le poetiche prefabbricate, il nostro antologismo non significava indiscriminata disponibilità. Anche l’operazione antologica è realizzabile a vari livelli, e con diversi criteri : se attuata con rigore si fa scelta critica. Per questo, come osservava Sergio Pautasso «Poesia Nuova» «ha contribuito indubbiamente a chiarire, per la sua parte, l’idea di poesia che si è venuta definendo in questi anni» : senza chiudersi entro le linee definite di una poetica o di una ideologia ma anche senza rinunciare a precise scelte. A portare avanti un’analisi storico-critica della rivista gioverebbe, preliminarmente, un esame ragionato dei poeti (una sessantina) accolti nei fascicoli del quinquennio: da Margherita Guidacci a Pier Paolo Pasolini, da Edoardo Cacciatore a Maria Luisa Spaziani, da Francesco Tentori a Enzo Mazza, da Roversi a David Maria Turoldo, da Francesco Leonetti a Marcello Landi, da Lamberto Pignotti a Raffaele Crovi. Si può dire che . Le riviste di poesia del dopoguerra, «Aut-Aut », Milano, gennaio-marzo , p. .
alberto frattini
quasi tutti i poeti giovani più significativi degni anni Cinquanta siano qui presenti, a delineare per un verso una sorta di mappa interregionale della nostra poesia, dall’altro una sinossi dei campi di tensione, in essa attivi (non di rado con positive interferenze) sia nel senso dell’istanza realistico-sociale o di quella più propriamente etico-religiosa, sia nell’ambito di una ricerca più specificamente concentrata sull’innovazionismo eidolinguistico e dunque a livello socioculturale non meno che tecnico-sperimentale (non si dimentichi che la fondamentale esperienza di «Officina » si matura in un periodo coevo : -). Si potrebbe osservare, in questa ricognizione sulle presenze, che un nucleo abbastanza consistente di esse richiama a quella «scuola romana» che spontaneamente si raccolse intorno al gruppo del Canzoniere di Accrocca e Vivaldi: dallo stesso Accrocca a Giovanni Giudici, dal sottoscritto a Ugo Reale, da Franco Simongini a Marino Piazzolla a Giuseppe Zagarrio. Ma altri poeti operanti in quest’area romano-laziale, debbono ricordarsi : da Francesco Carchedi a Romano Romani, da Carlo Martini a Francesco Nicosia, da Luciano Luisi a Lamberto Santilli, da Biagia Marniti a Giuseppe Selvaggi. Per tornare al lavoro svolto da «Poesia Nuova» la rivista, coerente con i propri intenti, avviò con il secondo fascicolo (marzo-giugno ) un’inchiesta sulla «poesia italiana d’oggi» (dove «oggi », chiaramente limitava l’indagine alla situazione degli anni Cinquanta). L’inchiesta mirava, da un lato, a far venire allo scoperto i più qualificati addetti ai lavori, affinchè si pronunciassero non ambiguamente sulla nostra poesia, in particolare quella giovane, del decennio -; dall’altro ad impostare un approfondimento del rapporto dialettico tra poesia fra le due guerre e poesia del dopoguerra, sollecitando anche l’intervento degli autori e dei loro interpreti delle due stagioni. I risultati dell’iniziativa furono decisamente positivi proprio per la varietà delle prospettive in cui vennero a collocarsi i singoli interventi; dai poeti meno giovani, di diversa estrazione e tendenza (Bartolini, Villaroel, Laurano) al critico più autorevole dei «Lirici nuovi» (Anceschi), ai poeti ed ai critici più seriamente impegnati delle giovani generazioni (dalla Guidacci a Erba, da Assunto a Bàrberi Squarotti, da Zagarrio a Petrucciani, a Pautasso). Le contrastanti posizioni assunte in quel dibattito in rapporto sia alla tradizione sia ai possibili svilupi della nostra poesia offriranno sollecitanti spunti ad una ricognizione organica, su « Poesia nuova ». Dalla quale altre direzioni d’interesse e di ricerca dovranno considerarsi: a cominciare da quell’apertura internazionale che si concretò, a partire dal primo fascicolo del secondo anno, nella sezione «Orizzonte europeo» ; ove apparvero, talora con sapore di primizia, ricognizioni antologiche e saggistiche relative a vari paesi : dalla Romania all’Olanda, dalla Germania alla Francia, dal Belgio all’Inghilterra alla Grecia. Un altro aspetto forse non meno importante della rivista fu quello di aver avviato una revisione critica della nostra tradizione poetica recente con l’intento di reagire a certe impostazioni che nel quadro della nostra storia novecentesca privilegiavano la linea cosiddetta ermetica sino a ridurre poeti anche importanti ma ad essa non riconducibili ad un preciso ruolo di minori; presenze laterali se non proprio marginali. Mentre – come bene intese un valoroso italianistica francese, Georges Mounin – una verifica della vitalità, della originalità, dell’autenticità deve anche e forse soprattutto effettuarsi sul terreno meno direttamente battuto dalle suggetioni del simbolismo e del surrealismo. Non è dunque un caso se, in questo quadro interpretativo della poesia italiana fra le due guerre alcune riletture riguardino poeti come Umberto Saba, Carlo Betocchi, Camillo Sbarbaro, Adriano Grande, Giorgio Caproni. Henri Bedarida, che presiedette il Convegno di Andalo, poteva, come osservatore straniero, formulare per la poesia italiana un augurio : che si orientasse cioè più decisamente «verso un umanesimo che, per essere
p e r u n b i l a n c i o c r i t i c o d i « po e s i a n u o v a »
concreto, generoso e libero, escluda nel campo tecnico ogni acrobatico artificio, nel campo ideologico un impegno troppo assoluto e troppo direttamente politico, nell’ordine del pensiero gli eccessi dell’intellettualismo». Sebbene, nei confronti degli anni Cinquanta, anche la situazione della poesia sia assai mutata, e non solo in Italia, non riteniamo che quell’auspicio e quelle prospettive risultino da respingere, almeno per chi non rinneghi i fondamenti su cui, attraverso i secoli, la nozione stessa di poesia si è maturata.
Cecilia Gibellini L A B E L L A S C U O L A : « L ’ E R O I C A » E LA XI L O G R A F I A
L
a ri v i s t a mensile «L’Eroica », fondata nel a La Spezia da Ettore Cozzani e Franco Oliva, stampata nella città ligure fino al con il sottotitolo «Rassegna d’ogni poesia », e quindi a Milano, dal al , con la nuova dicitura «Rassegna Italiana di Ettore Cozzani», per un totale di fascicoli, deve gran parte della sua fortuna al fatto di avere promosso, con eccezionale fervore e successo, la xilografia nell’Italia della prima metà del Novecento. Lo stesso Cozzani, rievocando a distanza di molti anni (nei suoi Ricordi pubblicati postumi nel ) il clima in cui aveva fondato «L’Eroica » con il proposito di «annunciare, propagare, esaltare la poesia, comunque e dovunque nobilmente essa si manifesti: in ciascuna arte e nella vita», sottolineava con orgoglio il ruolo determinante giocato dalla sua rivista nella battaglia che fece rinascere in Italia l’arte dell’incisione su legno: [« L’Eroica »] Sorse con tre scopi principali: suscitare la passione degli italiani per la Poesia in tutte le espressioni dell’arte e nella vita – che è l’arte più difficile – esaltando i valori creativi sopra quelli critici ; ricondurre la giovane generazione al rispetto dei Maestri che per l’Arte più avevano fatto e patito – e che invece erano insultati dalla gazzarra dei giovincelli che si pretendevano innovatori – scovare fra i giovani le forze nuove preparate da studi severi e sorrette da nobili intenzioni, e mettere in luce la loro opera. E poiché la poesia doveva avere una veste degna – e una delle forme più ammirate della tradizione italiana è sempre stata l’arte grafica – ricondurre quest’arte all’altezza degli esempi cinquecenteschi, valendosi in modo particolare dell’incisione in legno, che è la forma grafica più adatta al libro e quasi connaturata con esso. Di questi scopi, il terzo è stato raggiunto quasi subito con una evidenza che non è sfuggita ad alcuno e che divenne nota con l’espressione di Plinio Nomellini: «la vittoria di legnano...» e quella di Efisio Oppo: «l’epidemia degli xilografi... » – epidemia benedetta se da allora il libro ha fatto grandi passi nel senso della sua bellezza grafica, e se insieme con la xilografia sono sbocciate a vitalità nuova, anche le altre arti grafiche.
Da queste righe emerge con molta chiarezza lo spirito vitalistico e idealistico della rivista, che tuttavia opponeva agli eccessi avanguardistici un richiamo alla solida tradizione ; nella xilografia, ponte fra mondo figurativo e realtà del libro, Cozzani vedeva il luogo ideale di sintesi della doppia vocazione artistica e letteraria del periodico: è appena il caso di ricordare che alla testata di Cozzani collaborarono scrittori del calibro di Sem Benelli, Benedetto Croce, Gabriele D’Annunzio, Grazia Deledda, Ada Negri, Angiolo Silvio Novaro, Federigo Tozzi, Diego Valeri, Manara Valgimigli, ed artisti quali Duilio Cambellotti, Felice Casorati, Adolfo De Carolis, Arturo Martini, Guido Marussig, Enrico Prampolini, Giulio Aristide Sartorio, Lorenzo Viani e Adolfo Wildt. Nonostante il trionfalismo delle rivendicazioni di Cozzani, va precisato che la “battaglia” editoriale e culturale dell’«Eroica » fu difficile ed avventurosa: la rivista incontrò problemi soprattutto di natura economica, come del resto testimoniano l’irregolarità
. Ettore Cozzani, Franco Oliva, [Presentazione], «L’Eroica », La Spezia, luglio , p. . . È, questa, con ogni probabilità, una stoccata contro i futuristi: poco prima, infatti, Cozzani ricordava come, nella «condizione di depressione spirituale» in cui versava l’Italia nel , tra «le correnti rappresentative del tempo» il futurismo «aveva già superati i suoi scopi di liberazione dall’accademismo – e quindi andava a perdersi nel vuoto». . Ettore Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, Pisa, Giardini, , ed. f. c.
cecilia gibellini
nell’uscita dei fascicoli, talvolta doppi, tripli, multipli, spesso pubblicati in ritardo, i continui cambiamenti di recapiti, di tipografi e di prezzi, nonché l’avvicendarsi di redattori intorno a Cozzani, unico vero animatore dell’impresa. Nel , ad esempio, per la prima volta compare, accanto ai due direttori Cozzani e Oliva, un comitato di direzione (composto da Gino Barbieri, Mario Chini, Eugenio Coselschi, Antonio Discovolo, Domenico Giuliotti, Mario Labò, Ferdinando Paolieri e Federigo Tozzi), portato nello stesso anno da otto a quattordici membri (tra i quali Adolfo De Carolis), e quindi, nel fascicolo successivo uscito sempre nel , assottigliato a soli cinque. L’anno seguente l’architetto Franco Oliva abbandona la rivista, lasciando come unico direttore Cozzani, e viene definitivamente sciolto anche il comitato di redazione. Nonostante l’instabilità, aumentata poi dall’entrata in guerra dell’Italia, con la partenza per il fronte e la morte di alcuni collaboratori, « L’Eroica » continua le sue pubblicazioni per tutto il e parte del , quando, con un fascicolo multiplo dedicato alla Polonia, conclude la sua prima fase di attività. La seconda, che va dal fino al giugno del , si svolgerà interamente a Milano, dove Cozzani si trasferisce dal , con fascicoli, ora chiamati Quaderni, di formato maggiore rispetto a quelli del periodo spezzino, spesso riuniti in numeri multipli. « L’ E r o i c a » e la xi l o g r a f i a È però nel primo periodo di vita, quello spezzino, che «L’Eroica » punta con decisione sulla tecnica xilografica, facendo della presenza di incisioni originali su legno, stampate sia sulle pagine dei fascicoli sia su cartoncini inseriti tra le pagine e protetti da veline, il proprio elemento caratterizzante, quello che le farà guadagnare, nel giro di pochi anni, una notorietà anche internazionale. L’impegno della rivista per la promozione della xilografia culmina nel , secondo anno di vita della rassegna, quando essa organizza a Levanto la Prima Esposizione Internazionale di Xilografia (agosto-settembre), annunciata e poi elogiata con entusiasmo nelle sue pagine, e promuove la nascita della Corporazione (o Società) Italiana degli Xilografi, capitanati da Adolfo De Carolis. In più sedi, come già si è accennato, Cozzani afferma di avere svolto, con «L’Eroica », un ruolo determinante nella rinascita della tecnica xilografica in Italia, dove questa pratica incisoria sarebbe stata, prima della sua battaglia, assai poco diffusa. Sulla veridicità e sulla fondatezza delle rivendicazioni di Cozzani si sofferma Rossana Bossaglia nella nota introduttiva al catalogo della mostra « L’Eroica » e la xilografia (promossa alla Biblioteca nazionale braidense nel , a dieci anni dalla morte di Cozzani), nella quale la studiosa analizza l’impresa editoriale dell’«Eroica » nel suo rapporto con la crisi del Modernismo e dell’Art Nouveau degli anni successivi al , e con la trasformazione generale del gusto e della mentalità connessa a quel fenomeno. . In origine era previsto che la rivista pubblicasse dieci fascicoli all’anno, con uscita mensile (e sospensione nei mesi di luglio e agosto); ma già alla fine del primo anno di vita, nel numero doppio (fascicoli -, novembre -febbraio ) dedicato alla “Bella scuola” degli xilografi italiani, i direttori si scusano per i notevoli ritardi dovuti a « immense e innumerevoli difficoltà ». Va inoltre segnalato che i fascicoli della rivista non sempre recano la data di pubblicazione; anche la loro numerazione, inizialmente espressa in volumi e fascicoli e in cifre romane, poi in cifre arabe, è piuttosto confusa, e lo stesso vale per la numerazione della pagine, dapprima progressiva per volume, poi per fascicolo. Cfr. Biancamaria Zetti Ugolotti, « L’Eroica » rassegna di ogni poesia, in « L’Eroica » e la xilografia, catalogo della mostra, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, , pp. -. . Cozzani li ricorda nel primo numero della rivista uscito dopo la guerra, nel (n. ) : sono Vittorio Locchi, Gino Barbieri, Giovanni Costanzi, Rodolfo Fumagalli ed Emilio Mantelli. . Si passa infatti dal formato di mm. x a quello di mm. x . . « L’Eroica » ottenne numerosi diplomi e medaglie nelle Esposizioni del Libro internazionali, a partire da quella di Lipsia del ; cfr. Zetti Ugolotti, « L’Eroica » rassegna di ogni poesia, cit., p. .
l a b e l l a s c u o l a : « l ’ e r o i c a » e la xi l o g r a f i a
« L’ E r o i c a » e il mo d e r n i s m o I rapporti di Cozzani e dell’«Eroica » con l’Art Nouveau sono infatti complessi. A prima vista, la rassegna spezzina si connota per una forte componente anti-modernista, come testimonia l’importanza che vi ebbe Sem Benelli, indicato da Cozzani nei suoi Ricordi come il patrono ideale dell’impresa editoriale. L’autore della Cena delle beffe, stabilitosi in quegli anni definitivamente a Zoagli, collaborò infatti alla rivista sin dalla fondazione e le sue idee, tese già dai primi anni del secolo a un recupero dei valori della tradizione italiana contro il cosmopolitismo modernista, esercitarono un indubbio influsso sul pensiero di Cozzani, che all’«Eroica » diede fin dal principio un indirizzo fortemente nazionalista. Tuttavia, il patriottismo di Cozzani non significò mai chiusura nei confronti dell’arte straniera, cui anzi la rivista guardò sempre con attenzione (in particolare, vi fu dato grande spazio agli artisti della Secessione viennese e vennero dedicati numeri monografici a specifiche scuole straniere e a singoli artisti di rilievo). Al di là del rifiuto ideologico del modernismo, inoltre, «L’Eroica » mutua dall’estetica dell’Art Nouveau i princìpi generali, l’idea di libro e di grafica che stanno alla base della sua eccezionale accuratezza tipografica e della scelta di stampare incisioni originali. Infatti, era stata proprio la cultura internazionale modernista che, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, aveva affermato e diffuso l’idea che la parola dovesse essere veicolata da forme grafiche aderenti alle sue qualità espressive, e che l’opera stampata dovesse comunicare dei messaggi, prima ancora che attraverso i contenuti letterari, mediante la bellezza dell’immagine. Per quanto riguarda poi la tecnica xilografica in particolare, dalla fine dell’Ottocento essa era stata praticata da alcuni gruppi di modernisti, attivi specialmente in Belgio, in Austria (dove i Secessionisti di «Ver Sacrum» si dedicarono all’incisione su legno), nei paesi slavi e, naturalmente, in Germania, dove gli espressionisti della Brücke raggiunsero attraverso di essa esiti del tutto originali in termini di carica drammatica. Tuttavia, per l’Art Nouveau la xilografia non rappresentava che una delle innumerevoli possibilità utilizzabili per diffondere il suo credo estetico, da affiancare, nel clima di assoluta libertà espressiva e di «tripudio dell’immagine grafica » (Bossaglia) che percorre l’Europa a cavallo del nuovo secolo, ad altre tecniche, anche a quelle meno nobili e di recente acquisizione (come la cromolitografia). Ebbene, sono proprio questa libertà espressiva e questa disponibilità a servirsi dei mezzi più disparati, che vengono rifiutate da Cozzani in nome della predilezione assoluta per una tecnica, quella xilografica, antica, difficile, artigianale e preziosa al tempo stesso. Nella scelta, all’interno della gamma di possibilità offerte e praticate dal Liberty, dell’incisione su legno, è possibile individuare anche la differenza che separa nettamente «L’Eroica » da una pubblicazione spesso indicata come sua precorritrice, e cioè « Novissima », l’albo annuale stampato (prima a Milano, poi a Roma) dal al , che volle trasportare in Italia la formula austriaca di «Ver Sacrum» (la rivista cui anche « L’Eroica », come si è detto, guardò sempre con particolare attenzione). In «Novissima » avevano infatti trovato spazio, in sintonia con il clima liberty, le tecniche incisorie e di riproduzione più svariate; e questo forse spiega perché Cozzani, dovendo indicare le pubblicazioni che, pur in modo parziale, anticiparono la battaglia xilografica
. Basti pensare ai numeri dedicati agli xilografi del Belgio (aprile-maggio ), alla Serbia (), all’Armenia (-), alla Polonia (), alla Romania (-), all’Inghilterra (), o ai sessanta legni originali inviati alla rivista per il numero doppio - () dall’incisore anglo-fiammingo Frank Brangwin.
cecilia gibellini
dell’« Eroica », non citi l’albo milanese, ma le riviste fiorentine «Leonardo » ed «Ermes », oltre all’«Ebe » di Chiavari. La scelta della xilografia « L’Eroica », dunque, recupera e dà nuova vitalità alla fiducia modernista nell’efficacia del segno grafico, ma seleziona con decisione una tecnica e un linguaggio preciso, quello della xilografia. Le ragioni di questa scelta sono numerose e di diversa matrice, prima di tutto quelle ideologiche ed estetiche: ad esempio, lo stile neocinquecentesco di De Carolis e dei suoi allievi, intenti a recuperare la lezione formale e la monumentalità michelangiolesca e classicistica, rispondeva appieno all’ideologia nazionalistica di Cozzani. Questi, nel saggio intitolato La Bella scuola, un penetrante studio sulla xilografia considerata nella sua evoluzione storica, negli aspetti tecnici e nel suo rapporto con le riviste italiane di inizio Novecento (in primis, naturalmente, «L’Eroica »), insiste sul legame dell’incisione su legno con la storia e la tradizione italiane. Proprio in Italia sarebbe nata quest’arte nel Medio Evo («Nata essa forse con gioia in questo nostro stesso Paese, semenzaio di sogni e d’imprese»), e persino i grandi xilografi nordici del Rinascimento, «Durer, Holbein, Lucas [Cranach], Rembrant» vi sono detti «non italiani di nome e di nazione, ma pur anch’essi, come tutti i genii di quelle età portentose, alunni dell’unica Italia». La scelta di una tecnica antica e di forte carattere “artigianale” come quella xilografica, inoltre, aveva come portato il recupero del concetto (già ottocentesco) di arte aristocratica ; significava cioè reazione, per la sua difficoltà e disciplina, all’appiattimento e all’involgarimento del gusto nella società del progresso tecnologico e industriale. Ecco come Cozzani descrive efficacemente il recente declino della xilografia, travolta dai ritmi frenetici della società moderna: troppo terribile iddio la stampa! L’età nostra la sente come una febbre che d’anno in anno ingagliardisce e diventa ossessione: par che una tempesta travolga le boscaglie: le digruma e maciulla, e ne fa carta; e di carta sovvolge e spande per la terra infrenate maree. La xilografia all’urto non regge : tecnica paziente e fine, bellezza delicata e meditabonda, come può essa abbandonarsi alla presa della macchina rotativa, che in un folle impeto trascina, su fiumane di fogli, i suoi rulli di caratteri e di fotoincisioni fuse in una sola làmina di metallo? [...] Ed eccola quindi deperire un’altra volta, sfibrarsi, smarrirsi, imbastardire...
Declino a cui, tuttavia, seguirà la sua rinascita come arte elitaria: Ma questo è bello nel suo destino ormai segnato per sempre: che essa è morta come arte necessaria al comune commercio degli uomini, e rinasce come arte necessaria alla contemplativa comunione degli spiriti iniziati: è morta come ancella e qualche volta cortigiana; rinasce come signora...
Da un punto di vista stilistico, xilografia significava esercizio di quel controllo formale . « [Nel ] Il libro riproduceva molto bene questa condizione di spiriti nell’assenza più elementare del buon gusto. C’era una sola eccezione; quella costituita dai tentativi dannunziani a cui aveva dato espressione grafica la genialità di Adolfo De Carolis, e alcune Rassegne fiorentine – “Leonardo”, “Ermes”, alle quali si aggiunse “Ebe” di Chiavari. – Queste rassegne avevano inaugurato il sistema degli ornamenti xilografici, ma il fatto che presto si estinsero e che la ripresa xilografica non ebbe alcun seguito, dimostra che il tentativo fu vano, perché mancò ad esso lo spirito di sacrificio e di ostinatezza e il senso della missione» (Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, cit.). . Il testo fu pubblicato nel fascicolo doppio - (novembre -febbraio ) e accompagnato da xilografie originali, realizzate da Barbieri, De Carolis, Doudelet, Luperini, Mantelli, Monnet, Nincheri, Nonni, Porcella, Reviglione, Turina e Viner. . Ettore Cozzani, La Bella Scuola, «L’Eroica », La Spezia, novembre -febbraio , p. . . Ivi, p. .
l a b e l l a s c u o l a : « l ’ e r o i c a » e la xi l o g r a f i a
che era stato negato dai liberi svolazzi della grafica liberty, dal facile decorativismo, dai compiti di mera riproduzione e dalla superficiale seduzione cromatica delle litografie e cromolitografie : In un tempo in cui i metodi della riproduzione fotomeccanica son diventati così ricchi e facili, che non nasce umile ed effimera rassegna o gazzetta che non s’allieti di innumerevoli zinchi [...]; in un tempo in cui la possibilità di goder pubblicate in chiaroscuro, in bicromia, tricromia, quattricromia le opere più apprezzate della scultura e della pittura di tutte le età, ci ha impigrito e smussato il senso estetico, disabituando talmente dalla diretta contemplazione dell’opera, che noi andiamo lenti smarrendo la intima miracolosa sensibilità alle più squisite sfumature della bellezza [...], e l’opera va perdendo quindi per noi troppo rapidamente quell’incomprensibile e divino potere di seduzione, che par proprio derivi da ciò che nell’opera è più carnalmente effetto della mano che alla materia ha comunicato il brivido, il lampo, il sussurro; – è quasi un sacramento di natura che torni in onore e in amore presso gli uomini colti quest’arte, nata in età meno civili della nostra, ma della nostra meno artifiziose e false, la quale tanto religiosamente raccoglie lo spirito dell’artista, e tanto religiosamente lo propaga ai fratelli.
Nei suoi scritti, inoltre, Cozzani mostra di percepire con grande chiarezza il legame tra gli aspetti tecnici e quelli estetici nella realizzazione dell’opera d’arte. Da un lato, il recupero della dimensione artigianale risponde a certe tendenze ideologiche proprie dell’epoca : si pensi a quanto questa conti per i Preraffaelliti inglesi, o per gli espressionisti tedeschi della Brücke, che si interessarono alla xilografia per richiamarsi al Medioevo delle corporazioni delle arti e dei mestieri. Dall’altro lato, il ritorno all’artigianato nel suo senso più nobile si riverbera sul piano estetico, nella raffinatezza e nella purezza dell’opera d’arte. Nella Bella scuola, Cozzani dedica intere pagine alla descrizione minuziosa degli aspetti tecnici dell’arte xilografica : elenca i legni più adatti per le matrici, specificando le differenze tra legno di filo (cioè tagliato nel senso della fibra) e di testa (tagliato trasversalmente); passa in rassegna gli strumenti necessari per l’incisione (bulini, sfere, stecche di osso); descrive con efficacia lo xilografo al lavoro; segnala gli errori e le difficoltà più comuni; consiglia i migliori tipi di carta ed inchiostro, giungendo a concludere: Tutte queste difficoltà (sia perché costringon l’incisore a rimeditar le molte volte, prima d’affrontar la materia che non vuol pentimenti e ritorni, la sua concezione, la quale ne diventa più matura più certa e compiuta; sia perché provocano, in lui, come nel poeta le più costrette e inflessibili forme metriche, improvvisi scatti e baleni d’entusiasmo e d’inspirazione; sia infine perché lo arricchiscono d’una personale diretta esperienza, e fan della sua mano dei bulini del legno un solo strano e vario e indefinibile istrumento di precisione e di penitenza, provocando fatalmente la varietà e originalità delle tecniche) rendono preziosa e rara la xilografia come un gioiello.
X i l o g r a f i e e xi l o g r a f i d e l l ’ « E r o i c a » Artisti assai diversi per provenienza, indirizzi estetici e scelte stilistiche, realizzarono xilografie per « L’Eroica ». La pubblicazione, del resto, era stata programmaticamente pensata non come una rivista di tendenza, ma come «una rassegna d’ogni poesia e dunque anche poesia figurativa, purché valida o ritenuta come tale». Tuttavia, tale pluralità di voci non conferisce un carattere eclettico alla rivista, la cui omogeneità è garantita da una tendenza di fondo unitaria, e cioè dall’impostazione anti-avanguardistica. In tal senso va interpretata la predilezione non solo per l’arte figurativa, ma anche per quegli artisti che si riallacciavano esplicitamente alla tradizione italiana: tra questi, un po. Ivi, pp. -. . Ivi, p. . . Zetti Ugolotti, « L’Eroica » rassegna d’ogni poesia, cit., p. .
cecilia gibellini
sto di assoluta preminenza è occupato, nei primi anni dell’«Eroica », da Adolfo De Carolis e dai suoi allievi. De Carolis viene salutato da Cozzani come « primo [...] Maestro ed Augure, [...] incontrastato e magnifico signore in Italia d’ogni più ricca e varia espressione e maniera dell’incisione in legno», nelle pagine della Bella scuola. Nello stesso scritto, tutti gli xilografi passati in rassegna sono in qualche modo accreditati da Cozzani in base alla relazione e al debito che hanno nei confronti del maestro. L’illustratore delle opere di D’Annunzio (La figlia di Iorio, Francesca da Rimini, Notturno) aderì con entusiasmo all’« Eroica », e tra il e il pensò addirittura di poter «governare la pubblicazione a suo modo, facendone un veicolo di squisitezze classicheggianti». Fu De Carolis a fondare, sotto gli auspici della rivista, la Corporazione Italiana degli Xilografi, che intendeva ripristinare le gilde di artisti di memoria preraffaellita, declinando però in chiave puramente estetica e idealizzante le tensioni etico-sociali che avevano animato i circoli dei precursori inglesi. La collaborazione di De Carolis con la rassegna si interruppe bruscamente nell’agosto , dopo che negli ultimi sei numeri egli aveva realizzato sempre le copertine; le ragioni della rottura con Cozzani sono individuabili, al di là delle piccole contingenze, nell’insofferenza dell’artista « verso linee espressive diversamente impostate rispetto alle sue; ispirate per la gran parte a una tecnica sommaria che, se ai nostri occhi appare in più casi ricca di suggestione, non poteva non apparire irritante al suo gusto raffinato ». È evidente, dunque, come la rassegna cozzaniana fosse contrassegnata proprio dalla varietà di voci e dal rifiuto di identificarsi esclusivamente con un solo indirizzo figurativo : le xilografie dell’«Eroica » presentano una gamma ampia e variegata di orientamenti estetici e di scelte formali, dal florealismo residuale dei primi anni al neocinquecentismo decarolisiano; dalle pacate rappresentazioni ascrivibili al filone regionale-folclorico (Pandolfi, Delitala, Dessy) alle immagini ispirate all’affermarsi dello stile déco (De Witt, Baldinelli, Patocchi). Alla rivista collaborarono artisti di primissimo piano nel panorama italiano, dalle fisionomie più svariate: basti pensare al “simbolismo” di Arturo Martini, alla fusione di suggestioni plastiche e ricordi liberty operata da Adolfo Wildt, all’espressionismo di Lorenzo Viani, alle eleganze di Giulio Aristide Sartorio, al linguaggio futurista-astratteggiante di Enrico Prampolini. L a f a s e m i l a n e s e : la xi l o g r a f i a i n s e c o n d o p i a n o Nella seconda fase di vita dell’«Eroica », quella milanese (-), il ruolo di assoluta preminenza precedentemente occupato dalla xilografia viene meno. È vero che l’incisione su legno rimane «la prediletta delle Muse» per Cozzani, che continua a segnalare puntualmente sulle pagine della rivista l’apertura di mostre d’incisione e la pubblicazione di libri illustrati o manuali di tecnica xilografica, e talvolta rievoca i vecchi tempi della Corporazione degli Xilografi e dell’Esposizione di Levanto. Nel n. , del gennaio , si offre di «aiutare gli incisori nella ricerca, spesso faticosa e vana, delle tavole da incidere » offrendosi come intermediario tra gli artisti e i produttori di legno. Tuttavia, il numero di xilografie originali inserite nella rivista cala in misura consistente, fino a che queste non vengono riservate quasi esclusivamente alle copertine; a esse si sostituiscono i clichés in zinco, e talvolta le stesse tavole xilografiche non vengono stampate dai legni originali, ma con mezzi fotomeccanici (cosa che Cozzani correttamente segnala, . Cfr. in proposito Adolfo de Carolis xilografo e illustratore, a cura di Guido Tucci, con un saggio di Rossana Bossaglia e la ristampa anastatica de La xilografia di Adolfo de Carolis, Bologna, Sintesi, . . Bossaglia, in Adolfo de Carolis xilografo e illustratore, cit., p. . . Ivi, p. .
l a b e l l a s c u o l a : « l ’ e r o i c a » e la xi l o g r a f i a
chiamando le une «xilografie originali», le altre semplicemente «xilografie » o «tavole »). Le ragioni di questo mutamento sono diverse, anche d’ordine economico, ma risiedono soprattutto nell’ampliamento di orizzonti auspicato da Cozzani per la rassegna (che dal ‘ conta numerosi nuovi collaboratori), e, di conseguenza, nella maggiore attenzione prestata alla pittura e alla scultura. Tuttavia, il motivo principale del ridimensionamento della xilografia nella seconda fase dell’«Eroica » viene indicato dallo stesso Cozzani nel n. della rivista (), laddove egli afferma con orgoglio di non avere più bisogno di combattere per il trionfo di quest’arte, dal momento che la sua battaglia è stata definitivamente vinta: Da quasi un decennio «L’Eroica » dà agli xilografi un quaderno ogni dieci, consacrando gli altri a tutte le arti ; e [...] da molti anni le edizioni de «L’Eroica » sono rarissimamente o quasi mai ornate di incisioni in legno: e questo non perché io mi sia disamorato della xilografia, o non creda più alla sua aderenza ai tempi, ma perché a me piace combattere fino alla vittoria; e non c’è nel campo nell’arte italiana recente una vittoria più definitiva di quella della xilografia : perciò adesso non devo combattere più.
. Ettore Cozzani, «L’Eroica », Milano, , p. .
Enrica Mezzetta BENEDETTA SCRITTRICE FUTURISTA
U no degli scopi principali del lavoro di indicizzazione compiuto sulle riviste lettera-
rie del Novecento è quello di analizzare e valutare correttamente, ad alcuni decenni di distanza, non solo i vari ambiti di attività di cui i singoli scrittori si sono occupati, ma anche l’effettiva diffusione delle loro opere e la loro fortuna presso il pubblico. Infatti la presenza più o meno consistente e ripetuta di alcuni nomi, siano essi gli autori di articoli e scritti di vario genere o gli oggetti di riflessioni altrui, consente di indagare il loro grado di notorietà e l’interesse riservato da parte dei critici nei loro confronti. Ciò risulta particolarmente significativo se riferito alla cosiddetta produzione minore di letterati famosi, soprattutto se relativa ad ambiti disciplinari e generi di norma poco frequentati, oppure, per altro verso, ai testi di autori meno noti e che, per motivazioni non sempre legate al loro effettivo valore artistico, a tutt’oggi non occupano un posto di primo piano nel panorama culturale italiano. Su questa linea è possibile prendere in considerazione un filone particolare della letteratura primonovecentesca, che non ha sempre raccolto unanimi favori tanto da parte dei lettori che della critica militante e che ha vissuto alterne vicende a livello di diffusione e fortuna, ossia quello occupato dalle donne scrittrici, che a loro volta si rivolgono a un pubblico femminile. E restringendo ulteriormente questo ambito d’indagine ci si può concentrare su uno dei tanti percorsi intrapresi dalla questo genere di letteratura nel corso del , ossia quello rappresentato dall’esperienza futurista ed esemplarmente incarnato dalla figura di Benedetta Marinetti, moglie del ben più celebre Filippo Tommaso, facendone emergere la profondità della sua dimensione interiore e recuperando il ruolo da essa svolto all’interno del movimento. La presenza femminile nel gruppo d’avanguardia non fu mai considerevole né dal punto di vista numerico, né da quello della rilevanza artistica dei risultati prodotti, entrambi unanimemente giudicati di scarso valore da parte della critica, tanto da confinare questa particolare tipologia di letteratura muliebre tra le “curiosità” e contribuendo così alla sua mancata diffusione presso il pubblico. È bene però precisare che le radici di un tale atteggiamento non sono in toto attribuibili allo specifico ambito della ricezione, ma riguardano più in generale l’atteggiamento con cui la cultura futurista si espresse in merito al “problema” della donna, dal punto di vista dell’elaborazione teorica prima ancora che da quello della prassi creativa. Tra tutti i movimenti avanguardisti italiani, infatti, quello marinettiano fu il meno femminista e addirittura per molti aspetti il più misogino, improntato com’era alla glorificazione di un modello ideologico e di vita espressamente maschile, i cui emblemi erano il vitalismo esasperato, l’aggressività ottimista, la violenza generalizzata, il dinamismo propulsivo e la simultaneità. A ciò va aggiunto il fatto che fin dai suoi primissimi esordi il futurismo si era fatto portavoce di una concezione dell’esistenza e dell’arte di carattere espressamente totalizzante, per cui alla proposta di teorie e valori di carattere esistenziale, estetico e politico, doveva corrispondere una rivisitazione tanto dell’aspetto pubblico dell’agire umano, quanto di quello più intimo e privato. La proposta di un diverso rapporto degli intellettuali con la società doveva avere come corrispettivo la creazione di un nuovo codice di comportamento e di nuovi rapporti interpersonali, dato questo che coinvolgeva espressamente la concezione della famiglia e in particolare del ruolo da riservare in essa alla donna. E proprio in questa prospettiva di stretta interdipendenza tra il momento politico-culturale e l’attuazione di una rivoluzione del privato vanno considerati
enrica mezzetta
i vari interventi di Marinetti e degli altri esponenti del gruppo in merito all’elaborazione di un modello femminile di riferimento, a cui in definitiva aderirono anche tutte le scrittrici appartenenti al futurismo, al di là delle necessarie differenze a livello di soluzioni tecniche adottate e di esiti stilistici. Nata dal dibattito aperto nel triennio - tra il fondatore del movimento d’avanguardia e Valentine de Saint Point, autrice del Manifesto della donna futurista del marzo , la questione muliebre a poco a poco si trovò a modificare profondamente i suoi connotati: la problematica di carattere prettamente teorico, così come in principio si era venuta delineando, con il secondo futurismo passò sul terreno dell’effettiva produzione testuale affidata alle narratrici-donne. Esse, infatti, attraverso le loro opere, testimoniarono un’incondizionata adesione nei confronti delle posizioni marinettiane e si assunsero altresì l’onere di divulgare l’archetipo femminile nato nell’alveo dell’ideologia ufficiale e pienamente rispondente alla rinnovata concezione del mondo e della società. Ma un tale intento didascalico poté trovare precisa e coerente attuazione solo nel secondo tempo della storia dell’avanguardia, quando ormai l’iniziale spinta anticonformista e rivoluzionaria aveva lasciato il posto a una dimensione ricostruttiva e a un vero e proprio ritorno all’ordine, tanto nelle scelte espressive, quanto nelle azioni pubbliche e nella dimensione del privato. In questo periodo, dunque, si situano i romanzi di tutte le narratrici futuriste, le quali, pur essendo incerte tra «l’idolatria di un universo fallocentrico e la denuncia cosciente e responsabile contro le strutture coercitive della libertà femminile», nella pratica artistica testimoniano l’essenza elitaria e antifemminista del movimento cui appartengono. I temi che si possono ritrovare all’interno della loro produzione sono dunque: la celebrazione dell’energia maschile e la conseguente volontà di identificazione della donna con l’immagine virile e con i suoi schemi di comportamento ; l’attestazione dell’inferiorità femminile e la sua reificazione ; la demistificazione e il rifiuto degli stereotipi languidi e sentimentali tipici della concezione muliebre di stampo romantico-decadente; l’esaltazione del ruolo materno quale destinazione naturale della donna. E così, al di là dell’ambito prettamente teorico, nella loro produzione creativa le scrittrici futuriste non si occupano di proporre ideali di uguaglianza tra i sessi, di indagare i reali problemi delle donne e i loro rapporti con gli uomini, di promuovere una nuova concezione della maternità non più assimilata alla sua mera funzione riproduttiva, ma ricadono quasi sempre nell’ossequio ai miti dell’ortodossia marinettiana. Questa vocazione profondamente antifemminista, che con il passare degli anni e l’aggravarsi della “crisi” che aveva ormai investito il futurismo si fa sempre più radicata, trova riscontro nelle tipologie di protagoniste di questo genere di romanzi, di cui Anna Nozzoli fornisce una puntuale esemplificazione : « la madre e l’oscuro oggetto di piacere, la donna-genio attratta nell’orbita del fallocentrismo futurista e la creatura passionale atta ad esercitare l’aggressività erotica maschile». In quest’ottica di adesione incondizionata ai dettami del movimento ciò che davvero differenzia le autrici è esclusivamente inerente alle loro scelte espressive, che si articolano attorno a due poli principali, ossia il realismo da una parte e l’allusione dall’altra, il piano dell’oggettività di fronte a quello metaforico. Dunque, al di là dell’effettivo valore estetico delle scrittrici futuriste e dei confronti tematici o stilistici che si possono istituire con i loro colleghi uomini, ben più noti e artisticamente apprezzati, esse subirono senz’altro in prima persona le conseguenze di quella ideologia misogina che loro stesse contribuivano a mantenere viva e vitale attra. Anna Nozzoli, « Le donne del posdomani» : scrittrici e avanguardia, in Id., Tabù e coscienza. La condizione femminile nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, , p. . . Ivi, p. .
benedetta scrittrice futurista
verso i romanzi e le eroine in essi ritratte. E così le donne dell’avanguardia furono sempre poche e ancora meno quelle che si dedicarono attivamente alla scrittura, soprattutto dopo il , quando ormai Marinetti era divenuto Accademico d’Italia e le compromissioni del movimento con il fascismo di Mussolini si facevano sempre più profonde, fino al punto di far convergere i due modelli di vita. L’appello alla maternità e la rivalutazione della funzione riproduttrice che serpeggia lungo le pagine della narrativa tardo-futurista, trova infatti, almeno a partire dal , reale rispondenza nel tessuto sociale del paese, nella crisi economica postbellica che determina l’espulsione di manodopera femminile dalle fabbriche, coincidendo negli intenti con il parallelo imporsi dei miti fascisti della fecondità, della stirpe, del lavoro casalingo della donna, della ruralità come fattore di equilibrio sociale.
In un tale stato di cose la maggior parte delle scrittrici futuriste non poté godere né di un’ampia notorietà presso il pubblico, né dell’interesse dei critici, dato, questo, che viene confermato con l’analisi degli indici delle riviste letterarie del Novecento, nelle quali la loro presenza in qualità di autrici di articoli o come oggetto di interventi altrui è sempre molto limitata e per lo più riscontrabile in periodici di stampo dichiaratamente futurista. I nomi che vi compaiono sono Benedetta Marinetti, Leatitia Boschi Huber, Nenè Centonze, Maria Ginnani, Adele Gloria, Laura Serra, ma tra questi quello dotato di maggiore rilevanza numerica e contenutistica è senz’altro quello di Benedetta. Costei, infatti, oltre a intervenire direttamente con suoi contributi originali nel panorama giornalistico italiano dell’epoca, ha a più riprese catalizzato l’attenzione di diversi autori, che ne hanno messo in luce di volta in volta uno dei multiformi aspetti della personalità artistica, attraverso scritti divulgati nei periodici «La Fiera letteraria», «L’Italia letteraria », « Futurismo », « Nuovo futurismo » e «Stile futurista». Tralasciando di prendere in considerazione gli interventi più brevi e di carattere informativo, ma anche i testi di argomento prettamente artistico e quelli dedicati alle capacità pittoriche della prima donna dell’avanguardia, in questa sede importa soprattutto fare riferimento all’ambito propriamente letterario, e quindi analizzare sia i suoi articoli in proposito, sia quelli che altri autori hanno dedicato alle sue qualità di scrittrice, per poi valutare la diffusione del suo nome e delle sue opere. È possibile suddividere questo grande corpus in almeno tre filoni : il primo riguarda il manifesto di Benedetta intitolato Progetto futurista di reclutamento per la prossima guerra; il secondo è occupato da alcuni contributi altrui a commento e analisi dei suoi romanzi Le forze umane, Viaggio di Gararà, Astra e il sottomarino; mentre l’ultimo concerne un suo intervento a proposito del ruolo delle donne in Italia, che per altro ha riscosso tanto interesse da venire riproposto e commentato in più di un giornale. È appena il caso di aggiungere a quanto detto che, a latere di questi tre ambiti tematici, la signora Marinetti compare nei periodici indicizzati anche con alcuni interventi ascrivibili all’ambito della critica letteraria o artistica. In tal senso la sua attenzione si è rivolta in particolare alla valutazione delle molteplici attività di Enrico . Ivi, p. . . Moglie del fondatore del Futurismo, Benedetta Cappa Marinetti firmò sempre le sue opere letterarie e pittoriche con il solo nome di battesimo, «come se per innata modestia avesse voluto schivare a priori il cognome troppo famoso del marito nonché molto noto allora dello zio Innocenzo» (Bruno Sanzin, Omaggio a Benedetta Marinetti, «Il Ragguaglio librario», Milano, dicembre , p. ). . Si fa riferimento all’articolo anonimo intitolato Una mostra futurista a Bologna (« La Fiera letteraria», Milano, gennaio , p. ), in cui Benedetta viene nominata insieme agli altri artisti che espongono le loro opere. . Gli scritti in questione sono: Filippo Tommaso Marinetti, Benedetta e l’aeropittura geografica, «Stile futurista », Torino, , , p. ; Eva Rossi, Femminismo = Potenza, «Nuovo futurismo», Milano, , , p. ; A., Benedetta ; Fillia, «Nuovo futurismo», Milano, , , p. ; Nenè Centonze, La pittrice futurista Benedetta, «Stile futurista », Torino, , , p. .
enrica mezzetta
Prampolini, pittore, scultore e scenografo futurista, ma soprattutto all’analisi dei romanzi e del teatro del marito, argomenti entrambi che però, oltre a non essere corredati da un numero consistente di articoli in proposito, non risultano rilevanti ai fini della valutazione della ricettività della scrittrice da parte del pubblico e della critica. i. Articoli relativi al manifesto di Benedetta
PROGETTO FUTURISTA DI RECLUTAMENTO PER LA PROSSIMA GUERRA Il primo gruppo di scritti preso in considerazione riguarda, come già accennato, il manifesto che Benedetta pubblicò il ottobre sulla rivista «Futurismo » con il titolo Progetto futurista di reclutamento per la prossima guerra, provocando un tale interesse da parte della stampa e dei lettori, da spingere la redazione del periodico a indire una vera e propria inchiesta “a puntate”, aperta a chiunque volesse esprimere il suo parere in merito alla rivoluzionaria proposta. Ma già alcuni anni prima che il proclama in questione generasse tali e tante polemiche e dividesse gli intellettuali tra favorevoli e contrari al progetto, occupando le pagine della testata per ben fascicoli, il marzo Filippo Tommaso Marinetti aveva diffuso e apertamente sostenuto su «La Fiera letteraria » l’« idea geniale » della consorte. Pubblicando lo scritto in questione su un periodico di grande prestigio nazionale, ma soprattutto di area non futurista e quindi non sospetto di faziosità, egli voleva far conoscere al maggior numero di lettori possibile il nome e le idee di Benedetta. E per fare ciò scelse una modalità confacente al suo spirito e all’ideologia propria del movimento d’avanguardia, ossia quella di cogliere di sorpresa il pubblico, di provocarne apertamente lo sgomento, la reazione ironica e addirittura lo sdegno attraverso la proposta di concetti assolutamente rivoluzionari, quando addirittura non offensivi rispetto alla morale comune. E così per la prima volta in quella occasione egli rese nota la proposta che poi la moglie, a distanza di circa anni da quella data, avrebbe fatto autonomamente circolare per mezzo di uno degli strumenti preferiti da parte del fondatore del futurismo, ossia il manifesto, senza per altro apportare sul testo alcuna variazione di rilievo. Tutto lo scritto si articola attorno al progetto di rovesciare completamente il sistema della leva militare, facendola partire dalle classi sessantenni e cinquantenni, per poi passare ai quarantenni e ai trentenni e giungere gradatamente ai diciottenni. L’autrice del proclama corrobora la sua proposta con l’analisi dei vantaggi pratici che essa porterebbe con sé, ossia: la diminuzione della mortalità dei giovani durante le guerre e la conseguente loro presenza in tempo di pace al servizio della patria; la valorizzazione dei vecchi attraverso l’offerta di una morte utile e gloriosa sul campo di battaglia, tenendo anche conto del fatto che «la guerra futura areoplanica chimica e automobilistica non esigerà gli sforzi muscolari delle marce e degli assalti, mentre esigerà il coraggio cosciente dell’uomo vissuto» ; la preservazione delle classi giovanili per gli scontri finali e definitivi ; l’eliminazione del problema della gelosia dei giovani al fronte e, parimenti, quello delle loro donne insidiate da quarantenni e cinquantenni rimasti in città. Fatte queste considerazioni, lo scritto si conclude con l’auspicio che un tale progetto patriottico sia oggetto di discussione, per quanto esso possa subire la stessa sorte di molte altre originalissime idee futuriste, ossia quella di incontrare prima la derisione dei più e poi di essere lodato. . Si tratta di Benedetta, E. Prampolini, «Futurismo », Milano, , , p. . . Cfr. Benedetta, « Gli Indomabili » di F. T. Marinetti, «Futurismo », Milano, , , p. ; e Benedetta, Il teatro di Marinetti, «Futurismo », Milano, , , p. . . Filippo Tommaso Marinetti, Progetto di leva militare per la guerra futura, «La Fiera letteraria», Milano, marzo , p. . . Ibid.
benedetta scrittrice futurista
Ma il desiderio di Benedetta dovette aspettare alcuni anni per essere soddisfatto. Infatti, come già accennato, la vera e propria pubblicazione del manifesto, avvenuta nel sul numero della rivista «Futurismo », rappresentò l’occasione di far scaturire un vero e proprio dibattito sull’argomento, a cui presero parte molti letterati e artisti prevalentemente di area avanguardista. Il vero e proprio atto di nascita di tale inchiesta risale al fascicolo del della stessa rivista ed è rappresentato dall’articolo, presumibilmente scritto dal direttore Mino Somenzi, intitolato Futurismo : la leva militare rovesciata (inchiesta sul progetto “Benedetta”), in cui, alla ripubblicazione del proclama in questione fanno seguito alcune riflessioni circa le modalità con cui esso è stato accolto dalla stampa e sulle reazioni che ha suscitato. In particolare viene testimoniato che, al di là di « battute di spirito, approvazioni, consigli e giudizi stupidi o originali», la proposta di rovesciare i criteri di partecipazione alla leva militare ha suscitato moltissimo interesse nei lettori, a giudicare dalla mole di corrispondenza sull’argomento arrivata in redazione. È nata quindi l’idea di dar vita a un dibattito in merito, aperto a chiunque voglia esprimere il proprio parere e da condurre sulle pagine del periodico: Riporteremo quindi direttamente ciò che ognuno ha detto o vuol dire in proposito pro o contro. A ciascuno risponderemo si intende ribattendo i concetti esposti se contrari o sottolineandoli se favorevoli.
A suggello di tali considerazioni e come incipit dell’inchiesta, viene riportato un comunicato dell’Agenzia Ala, che, oltre a ribadire il concetto fondamentale attorno al quale ruota tutto l’originale progetto ideato da Benedetta Marinetti, conferma la diversità delle opinioni della stampa in proposito: alcuni giornali lo deridono; altri lo approvano ; altri ancora, tra cui «Il Regime fascista», fanno commenti ironici («alludono ironicamente alla necessità di accompagnare i cinquantenni con molti infermieri e callisti » ; mentre il direttore di «Futurismo », appositamente intervistato, tende a mettere in luce il valore delle classi di combattenti più vecchie, rifacendosi al manifesto e precisamente al secondo punto dell’enumerazione dei vantaggi della lega rovesciata («nell’ultima guerra i territoriali cinquantenni furono spesso meravigliosi al fuoco e [...] in una guerra prevalentemente motorizzata e senza obbligo di marce e di zaini gli uomini vissuti possono avere una efficacia combattività straordinaria»). Il dibattito prosegue quindi sui numeri , e , sempre del , e ha il suo momento conclusivo in un articolo di Benedetta apparso sul fascicolo . Le opinioni riportate nella prima puntata dell’inchiesta sono in linea di massima tutte favorevoli al progetto di leva militare rovesciata. Giacomo Balla lo definisce «supermagnifico » e sottoscrive in particolare la proposta di offrire ai vecchi una morte eroica sul campo di battaglia. Anche Gerardo Dottori, per quanto non creda alla possibilità di una guerra imminente, si mostra entusiasta per lo stesso motivo, e sottolinea che si tratta di «una magnifica occasione per salvarsi da una ingloriosa fine in poltrona o dagli eventuali acciacchi della vecchiaia». Carlo Roggero esprime la sua approvazione incondizionata e aggiunge che si tratta di un’idea nuova, geniale e pratica, grazie alla quale i giovani si potranno dedicare prima alle loro due funzioni primarie e importantissime, ossia quella generativa e quella economicamente produttiva, per poi rischiare la vita con entusiasmo nelle battaglie conclusive del conflitto : . [Mino Somenzi] Futurismo : la leva militare rovesciata (inchiesta sul progetto “Benedetta”), «Futurismo », Roma, , , p. . . Ibid. . Ibid. . Ibid. . L’inchiesta sul” progetto Benedetta” per una leva militare rovesciata, «Futurismo », Roma, , , p. . . Ibid.
enrica mezzetta
Quando alla guerra succederà la pace, noi, logicamente, risentiremo meno la crisi inevitabile del dopoguerra, perché avremo una patria ancora popolata ed economicamente fiorente. [...] La prossima guerra sarà principalmente meccanica, e non abbisognerà di forza muscolare e di resistenza fisica. Per distruggere una fortezza sarà sufficiente schiacciare un bottone. La forza sarà invece indispensabile per costruire le macchine belliche e i proiettili. Di conseguenza i giovani saranno più utili negli stabilimenti che non al fronte.
Walter Bartoli loda la proposta, anche se la considera di difficile attuazione per quattro ordini di ragioni : la guerra motorizzata non è un’ipotesi plausibile, ma solo un’utopia; i giovani sono più esperti in fatto di metodi tattici e mezzi aggressivi chimici e balistici; il numero degli effettivi alle varie classi diminuisce con il crescere dell’età e quello degli inabili è molto più alto tra i vecchi, ragion per cui si giungerà alla mobilitazione contemporanea di o classi ; i giovani non hanno in genere famiglia o figli da mantenere e sono quindi più facilmente impiegabili in guerra. Enzo Ballerini, pur sottoponendo il problema della possibile gelosia dei quarantenni e dei cinquantenni al fronte per le loro donne insidiate dai giovani rimasti in città, apre il suo intervento con un’affermazione che fa chiaramente riferimento al nome dell’autrice del progetto e a quello delle figlie da lei avute con Marinetti: «Che sia benedetta la proposta di Benedetta! Proposta piena di “luce” e di “vittoria” futurista nel cielo, con “ala” italiana». Anche il numero di «Futurismo » raccoglie diversi interventi elogiativi circa la proposta di leva militare rovesciata. Il primo è quello di Bruno Sanzin, che, pur ribadendo la genialità dell’idea per quanto riguarda la difesa demografica, la selettività della razza e l’offerta di una morte utile ed eroica agli anziani, la ritiene del tutto inattuabile perché trascura l’elemento fondamentale per la vittoria di una guerra, ossia l’entusiasmo, dote che solo i giovani hanno e che i vecchi considerano come esuberanza incosciente: «La guerra non potrà esser mai uno scontro di sole macchine e cervelli». E così, rimanendo su questa linea, dopo essersi interrogato su chi potrebbe decidere quale sia il momento adatto per far intervenire le classi più nuove, e dopo aver affermato che a suo parere la guerra futura si deciderà completamente in cielo, con la partecipazione di poche migliaia dei più audaci giovani di tutte le nazioni, conclude la sua riflessione con la proposta di arruolamento volontario anche per le zitelle quarantenni e cinquantenni, che darebbero così uno scopo alla loro esistenza. Mario Jappelli, invece, esula dal problema e mette in luce il rischio che nelle guerre future intervengano nuovi fattori e scoperte di altre scienze, per la qual cosa bisogna essere preparati, dedicandosi alla costruzione di macchine difensive ed offensive. In questo coro unanime di plausi nei confronti di Benedetta la prima voce apertamente dissidente è quella di Peppo Sissa. Egli infatti nota una profonda incongruenza tra il progetto di leva rovesciata e i canoni fondamentali della dottrina futurista, incarnata dal conflitto totale e permanente, dove si possono manifestare il coraggio e l’audacia, lo schiaffo e il pugno, la temerarietà e l’insonnia febbrile : La guerra è dunque il miglior bagno nel quale le attività del futurista trovano quelle condizioni di vita necessarie e sufficienti a permettere una continua esplicazione ed un progressivo sviluppo. E chi soltanto può dedicarsi alle suddette dinamiche attività? Soltanto i giovani.
Silvi Antonini si preoccupa, invece, di proporre alcune integrazioni all’idea geniale e rivoluzionaria. Nello specifico le sue ipotesi sono tre: riservare il comando ai più giovani tra gli anziani; non escludere completamente i giovanissimi, ma mandarne in guerra . Ibid. . Ibid. . Inchiesta futurista sul progetto “Benedetta”, «Futurismo », Roma, , , p. . . Ibid.
benedetta scrittrice futurista
una classe ogni due di vecchi; mobilitare anche coloro che hanno più di anni, organizzandoli però in modo che restino adibiti alle loro consuete occupazioni. I contributi sulla proposta di leva militare rovesciata inseriti nel fascicolo di «Futurismo », introdotti da una breve comunicazione di Benedetta, che promette di concludere «futuristicamente » l’inchiesta nel numero successivo, sono quelli di Mario Del Bello, Aldo Peroni e Fernando Cervelli. Il primo autore si pone in una posizione dichiaratamente ironica. Egli critica il progetto di Benedetta, che a suo parere nasce da una preoccupazione di indole estetica, ossia quello di eliminare i vecchi dalla società e selezionare la razza: I giovani leggeranno i giornali, feconderanno le spose, faranno funerali dei loro cari genitori... salvo a momento opportuno, fare la seconda ondata... di che si comprende.
Ma per ottenere questo scopo, commenta Del Bello, non è necessario aspettare la guerra, ma basterebbe emanare un decreto-legge in base al quale la vita non può durare oltre il quarantesimo anno di età. Aldo Peroni, invece, ha un’opinione diametralmente opposta e in merito al progetto di leva rovesciata, che giudica geniale, compie alcune osservazioni che coinvolgono anche più in generale le modalità con cui fare la guerra: gli anziani serviranno finché sarà loro possibile, mentre i giovani saranno tutti volontari ; la guerra futura si deciderà d’impeto, data la velocità impressale dalla motorizzazione degli strumenti ; l’azione bellica risulterà perfettamente divisa tra vecchi e giovani in base alle rispettive potenzialità, per cui i primi la prepareranno e i secondi la compiranno effettivamente, senza alcuna gelosia dei rispettivi ruoli; la guerra, oltre a dare un senso nuovo e mistico all’azione, in quanto pone gli uomini direttamente contro il pericolo e l’immensità, compie anche una maturazione individuale nei singoli, poiché «è il superamento di se stessi nella tenacia dell’aspettativa e nella febbre-passione dell’agire». Questa puntata dell’inchiesta si conclude con un’ennesima testimonianza di plauso nei confronti del progetto, dovuta a Fernando Cervelli, che ne evidenzia il carattere geniale e pratico: «si devono battere le mani a Benedetta per avere proposto un autentico “controdolore” futurista ai neri acciacchi disperati della vecchiaia pessimista ». E così, dopo avere riportato le opinioni di molti autori, che si sono voluti esprimere in merito al dibattito accesosi con la pubblicazione del manifesto sulla leva rovesciata, avvenuta nel numero del della rivista «Futurismo », il periodico lascia la parola alla stessa autrice del proclama, che pubblica sul fascicolo dello stesso anno l’articolo La leva rovesciata, corredato dal sottotitolo Risposta conclusiva di Benedetta all’inchiesta del nostro giornale sul progetto futurista per una prossima leva militare rovesciata. La signora Marinetti esordisce rallegrandosi del fatto che i veri spiriti futuristi hanno saputo sottolineare e sviluppare i punti essenziali del suo progetto e dichiarando di non voler rispondere alla facile ironia di alcuni, che giudica essere una forza disgregatrice, incapace tanto di distruggere, quanto di creare. Si concentra, al contrario, sulle obiezioni di carattere militare e morale. In primo luogo prende in considerazione l’accusa rivoltale per cui la mancanza di entusiasmo potrebbe nuocere alle sorti della guerra, controbattendo che non si devono tacciare di rinunciatarismo o scarsa passionalità gli italiani di - anni. Infatti Benedetta mira ad esaltare quel tipo di eroismo che consiste nel sa. L’inchiesta sul progetto Futurista “Benedetta”, «Futurismo », Roma, , , p. . . Ibid. . Ibid. . Ibid. . Il riferimento è alle affermazioni di Bruno Sanzin, precedentemente citate.
enrica mezzetta
per disciplinare e contenere i propri entusiasmi, tipico degli animi più maturi. E aggiunge inoltre che poiché la guerra futura non sarà circoscritta solo alle linee del fronte, occupate secondo il suo progetto in prima istanza dai più vecchi, ma metterà in egual pericolo sia i soldati che gli abitanti delle città, il compito dei giovani non arruolati sarà quello di creare nel paese un’atmosfera carica di ottimismo, di allegra resistenza e di intenso lavoro: vi è l’eroismo del quotidiano massacrante coi suoi lenti doveri, coi suoi piccoli e numerosi sacrifici, colla sua legge di cosa dovuta e ignorata, compiuta senza ebbrezza e senza ritmi colorati e ampi.
Secondariamente la scrittrice risponde alla critica per cui con la leva rovesciata ogni classe si troverebbe per forza di cose a fornire una sempre minor quantità di uomini, dal momento che il numero di effettivi diminuisce con il crescere dell’età e tra i vecchi sono molti gli inabili , affermando che ne darebbe lo stesso quantitativo chiamandoli alla fine della guerra. E dopo aver criticato le parole di pietà riservate agli anziani al fronte, ma non ai giovani, quasi che la morte e le ferite fossero privilegi esclusivi di questi ultimi, conclude con un riferimento alla possibilità di partecipazione femminile all’esercito : sono lieta di credere che tutte le donne saranno fiere di collaborare in guerra come collaborano in pace (nella famiglia e nella società) alla grandezza della Patria. Forse allora la mia piccola Luce sarà grande e potrò far parte della prima classe chiamata secondo il progetto della leva rovesciata.
ii. Articoli relativi ai romanzi di Benedetta Un altro gruppo di scritti di fondamentale importanza per indagare la diffusione del nome e delle opere di Benedetta presso il pubblico e la critica è costituito da tutti quegli articoli che, pubblicati nelle riviste letterarie del Novecento, riguardano propriamente le opere creative della scrittrice, ovvero i suoi tre romanzi intitolati Le forze umane, Viaggio di Gararà e Astra e il sottomarino, ai quali essa deve la sua maggiore notorietà e che rappresentano un importante esempio di recupero e riproposta degli ideali futuristi in chiave mistico-spiritualista, come già molti studiosi hanno avuto modo di affermare e come si deduce anche dai contributi critici pubblicati sull’argomento in diversi periodici. Usciti rispettivamente nel , nel e nel , i tre scritti in questione, oltre a segnare una tappa fondamentale nel percorso letterario dell’autrice, sempre in continua evoluzione progettuale e propositiva, ne ampliano anche le prospettive, in quanto presentano al grande pubblico una personalità a tutto tondo e versatile, in grado di passare dalla scrittura di un manifesto all’elaborazione di veri e propri romanzi, toccando contemporaneamente sempre nuove sperimentazioni artistiche. La sua notorietà comincia ad ampliarsi e con essa diventano numericamente sempre più consistenti e contenutisticamente rilevanti gli articoli su di lei, che vogliono mettere in luce i vari aspetti della sua concezione estetica e che contribuiscono altresì a pubblicizzarne le opere. Tutto ciò è evidentemente riscontrabile attraverso la consultazione degli indici delle riviste letterarie del Novecento e si deduce in particolare da un’attenta analisi dei contributi in esse presenti. Nello specifico si tratta di interventi di scrittori e critici finalizzati a commentare e a valutare le tre grandi opere creative della moglie di Marinetti, la quale . Benedetta, La leva rovesciata, « Futurismo », Roma, , , p. . . Si accenna a quanto affermato da Walter Bartoli nel numero di «Futurismo ». . Tra gli autori partecipanti all’inchiesta avevano sostenuto la proposta Bruno Sanzin e Mario Jappelli. . Benedetta, La leva rovesciata, cit.
benedetta scrittrice futurista
però, dal canto suo, diversamente da quanto avvenuto in merito alla pubblicazione del suo manifesto sulla leva rovesciata e all’inchiesta originatasi in quell’occasione, non appare come firmataria di nessun brano, né di autodifesa, né di esaltazione o commento del suo operato artistico. I motivi di un tale silenzio possono essere molteplici e senz’altro di difficile e non univoca individuazione; si potrebbe forse ipotizzare una differenza di intenti e finalità tra Benedetta autrice di manifesti e Benedetta romanziera. Seguendo questa linea interpretativa, che per altro non risulta confermata da nessuna esplicita dichiarazione di intenti, nel primo caso la scrittrice mostrerebbe di voler concretamente partecipare alla propaganda futurista sulla guerra, diffondendo una proposta rivoluzionaria e perfettamente aderente all’ideologia del movimento, accogliendo poi favorevolmente tutte le polemiche scaturite dalle sue affermazioni e rendendole infine oggetto di riflessioni successive e di esplicite prese di posizione. Al contrario, nel secondo caso essa sembrerebbe restia ad aggiungere qualcosa a quanto già da lei perfettamente espresso e manifestato attraverso le sue opere creative, i personaggi in esse presenti, il messaggio da esse veicolato e l’ideologia ad esse sottesa, come se qualsiasi altro intervento di carattere interpretativo o anche solo a difesa del proprio lavoro contro le critiche altrui potesse in qualche modo inficiarne le tematiche e violarne l’atmosfera costitutiva. Tuttavia, senza ipotizzare l’esistenza di una sorta di iato incolmabile tra questi due settori di attività, e tanto meno senza istituire confronti di valore, in questa sede interessa solo prendere atto della reale presenza del nome di Benedetta nei periodici novecenteschi come oggetto della riflessione critica di molti altri studiosi, per poi giudicarne la reale diffusione. Il primo articolo su di lei rinvenuto nelle riviste indicizzate è di Raoul Maria De Angelis, risale al numero del de «L’Italia letteraria» ed è intitolato Pericolo giallo. Prendendo spunto da una notizia riportata da alcuni giornali, in base alla quale il numero delle scrittrici cinesi ammonterebbe a più di , l’autore propone una panoramica delle ultime opere edite in Italia con firma femminile, ossia il Viaggio di Gararà di Benedetta, Due uomini, due bimbi... di Daisy di Carpenetto, Innamorata di Marcella Albani, Vergine Anna e Fuffy, peso piuma di Lucilla Antonelli e Dopo la bufera di Vera Balck, dei quali fornisce una sua valutazione critica. In merito al primo di questi romanzi, egli innanzi tutto ripercorre brevemente la trama e descrive la protagonista Gararà come una vecchina metafisica, intenta a viaggiare giorno e notte, con accompagnamenti orchestrali e cori di ranocchi ammaestrati, verso un paese di origine mitica o addirittura divina, in cui si incontrano meraviglie meccaniche, pesci parlanti, alberi mobili e raggi ultravioletti. Mentre essa divora strade e distanze e vive avventure scenografiche e multicolori, gli dei del fuoco bruciano d’amore e risalgono le vie del cielo tranquillo, le struggenti disperazioni degli uomini non sono che lucidi motivi di sacre tragedie e di misteri da rappresentare nelle oscure viscere della antichissima terra.
De Angelis si domanda a questo punto che cosa sia il fine ultimo della spasmodica ricerca della vecchia nana, la quale lungo tutto il romanzo è solita annunciarsi per mezzo di una litania ritmica e insistita, che a sua volta viene echeggiata dai ranocchi con modalità stancamente ripetitive : « Ga – ra – rà / tro – ve – rà / Ga – ra – rà / toc – che – rà / Ga – ra – rà / sa – ne – rà / Ga – ra – rà / a – pri – rà». E, senza giungere a una conclusione definitiva, egli propone la sua valutazione critica dell’opera di Benedetta, che non giu. Raoul Maria De Angelis, Pericolo giallo, «L’Italia letteraria», Roma, agosto , p. . . Benedetta, Viaggio di Gararà, in Id., Le forze umane, Viaggio di Gararà, Astra e il sottomarino, prefazione di Simona Cigliana, Roma, Edizioni dell’Altana, , p. .
enrica mezzetta
dica rispetto alle sue qualità artistiche, ma della quale apprezza e mette in risalto soprattutto la carica fortemente innovativa. Nonostante il fatto che nel libro in questione possa non trovarsi nulla di più di quanto da lui precedentemente esposto a livello contenutistico, a suo parere l’idea dell’autrice è assolutamente apprezzabile, soprattutto per le potenzialità intrinseche e per le sperimentazioni cui può dar vita, quali la sostituzione dei “tipi” presenti nelle vecchie favole con personaggi surrealisti, o addirittura l’inserimento di veri e propri cartoni animati in un racconto «misterioso e ferrigno, mascherato da veli rugginosi e inversioni di mirabili fantasie». Molto più precisa è la ricostruzione che Bruno Sanzin fa delle varie parti costitutive del Viaggio di Gararà in un omonimo articolo, apparso sul numero del della rivista «Futurismo », e molto più articolata è la sua riflessione critica in merito, che fa emergere il crescendo evolutivo del romanzo, esplicitando le numerose simbologie in esso presenti e svelando di volta in volta il significato “altro” cui rimanda ogni figura o immagine. Pur consegnando esplicitamente alla parte conclusiva del testo il suo giudizio positivo nei confronti dell’opera e dell’autrice stessa, Sanzin mostra fin dal primissimo esordio dello scritto di aderire pienamente a quanto affermato da Marinetti nella prefazione del romanzo : « Ammiro il genio di Benedetta, mia eguale non discepola». Ma a parte il brevissimo commento per cui un marito scrittore già noto che presenta al pubblico la propria moglie scrittrice costituisce un vero e proprio unicum nella storia letteraria, l’articolo prosegue con una descrizione dei tre tempi costitutivi del Viaggio di Gararà, ossia il regno della materia dinamica, quello delle Volontà-Tensioni e quello delle libertà creatrici. Di ciascuno dei essi e delle avventure cui va incontro la vecchia nana protagonista viene fornita una puntuale interpretazione, che riprende e approfondisce quella proposta dal fondatore del futurismo nella prefazione all’opera, senza però che ciascuna partizione del testo risulti a sé stante e del tutto irrelata rispetto alle altre. L’autore è infatti sempre molto attento allo spirito che anima questo «romanzo cosmico per Teatro » e ai concetti che nel corso di esso trovano uno sviluppo coerente e armonico, in un crescendo evolutivo che ha il suo apice nel dialogo finale tra Fuoco e Luce, ossia le rappresentazioni emblematiche rispettivamente della materia e dell’anima. Il punto di partenza dell’analisi condotta da Sanzin è proprio la figura di Gararà, a proposito della quale egli si trova a confermare e precisare ulteriormente la simbologia svelata nella prefazione marinettiana. Essa, infatti, è una vecchia nana deforme che ha aguzzi compassi al posto delle gambe e rappresenta la logica misuratrice, che si sforza inutilmente di sottoporre ogni aspetto della vita al suo continuo, indefesso e pedante ragionamento, intromettendosi ovunque per analizzare e spiegare. Ma la sua sconfitta è inesorabile, poiché la vita è essenzialmente a-logica e non accetta in nessun modo di essere interpretata o catalogata in schemi già precostituiti: «la vita si spegne sotto l’analisi e si lascia sorprendere da uno sguardo sintetizzatore». E così quando la protagonista del romanzo si arrampica sul corpo del gigante Mata per esplorarlo e misurarlo, subito « s’accorge ch’esso è pietra, che ridiventerà carne appena Gararà si sarà allontanata». . De Angelis, Pericolo giallo, cit. . Gran parte del testo, con le opportune aggiunte e modificazioni, divenne poi parte integrante dell’articolo, sempre di Bruno Sanzin, intitolato Omaggio a Benedetta Marinetti, pubblicato sul numero di dicembre de «Il Ragguaglio librario» pochi mesi dopo la scomparsa della scrittrice. . Filippo Tommaso Marinetti, Prefazione a Viaggio di Gararà, in Benedetta, Le forze umane, Viaggio di Gararà, Astra e il sottomarino, cit., p. . . Per la precisione si tratta del sottotitolo dell’opera. . Benedetta, Viaggio di Gararà, cit., p. . . Bruno Sanzin, Viaggio di Gararà, «Futurismo », Roma, , , p. .
benedetta scrittrice futurista
Mata, invece, nella concezione dell’autore dell’articolo, che a sua volta si rifà a quanto espresso in proposito dallo stesso Marinetti, è il simbolo della materia bruta, nutrita dal dinamismo incosciente di piccoli esseri nero-ebano, sottilissimi e acefali, quindi privi di capacità di pensiero, i Dinici, il cui unico compito è quello di pescare dal lago in cui il gigante è immerso il nutrimento per quel corpo insaziabile, immondo e divoratore. Il tutto si svolge su uno sfondo nebuloso, che circonda l’acqua da ogni parte con una cappa scura, densa e opprimente, simile a un paesaggio primordiale e in quanto tale in perfetta sintonia con la primitività della vita che in esso si svolge. Qui Gararà cerca in tutti i modi di liberare i Dinici dalla schiavitù obbligata nei confronti dell’ambiente in cui si trovano, per toglierli dalla paura dell’ignoto e spingerli verso la conoscenza razionale e completa di tutte le cose. Ma dimentica che essi non hanno alcuna speranza di vita fuori dal lago, che la loro ragione di esistenza è legata a Mata, il quale a sua volta può sopravvivere solo grazie a loro, in un ciclo continuo e inesorabile per cui il lago nutre il gigante e il gigante nutre il lago. Fuor di metafora, secondo Sanzin qui si assiste alla conferma del fatto che la logica con tutti i suoi ragionamenti sfida inutilmente la vita, poiché quest’ultima è essenzialmente irrazionale e non soggetta a subire alcuna interpretazione. Ma Gararà non accetta la sconfitta ricevuta nel regno della materia dinamica e prosegue le sue peregrinazioni, ogni volta annunciando il suo arrivo per mezzo del ritornello ritmico e ripetitivo che, con il gioco di suoni che si viene a creare (trovare, toccare, aprire per sanare), esprime pienamente il suo istinto logico e analitico. Il secondo regno da lei visitato è quello delle Volontà-Tensioni, che nell’articolo viene ampiamente descritto nei suoi caratteri specifici e nella sua essenza costitutiva, considerata sempre in relazione al significato metaforico del testo e al suo messaggio profondo. Qui, dunque, l’atmosfera risulta divisa in tre zone chiare, ossia il grigio perla in basso, il rosa carne al centro e il giallo sole in alto, a ciascuna delle quali corrispondono rispettivamente il pessimismo, il neutralismo e l’ottimismo. Le Volontà-Tensioni che vi si ritrovano hanno l’aspetto di piante fantastiche, di altezza differente, disposte irregolarmente come in un bosco e «hanno per forma e colore la materializzazione della loro ragione di vita»: non ci sono pini, salici o palme, ma Voluit, Saôa, Convol, Tebii, Illiri, Acri, ciascuno dei quali ha una precisa aspirazione e, quando parla, vibra della sua luce particolare, che si spegne solo all’arrivo di Gararà. La vecchia nana anche in questa circostanza dà prova del suo istinto di persuasione: in primo luogo cerca di convincere le Volontà-Tensioni a sciogliere definitivamente il loro legame con la terra per essere finalmente arbitre del loro movimento; secondariamente mira a sconvolgere le atmosfere con il suo compasso uncinato, rompendo la loro monotona staticità. Ma di nuovo i suoi tentativi non ottengono l’effetto sperato. Ora, secondo l’interpretazione fornita da Sanzin, esiste una spiegazione sottesa a questa duplice sconfitta : mentre la prima circostanza dimostra come «la logica non può sviare da una ragione di vita», la seconda, che si conclude con l’immagine dell’ombra nera di un invisibile essere volante che riesce a fare ciò in cui Gararà ha fallito e insudicia di pessimismo le due chiare zone superiori, chiarisce emblematicamente come l’unica potenza in grado di vincere la luce non sia la chiarezza logica, ma il suo opposto, l’oscurità priva di alcun connotato razionale. . Sempre nell’articolo in questione Bruno Sanzin ricorda che Benedetta, nel corso dell’ultima mostra futurista, aveva presentato un quadro intitolato Le forze in un bosco. Esso aveva sconcertato gli spettatori per la mancata aderenza tra le forme dipinte e la flora reale, ma in realtà non era altro che la rappresentazione del concetto astratto delle Volontà-Tensioni descritte nel Viaggio di Gararà. . Benedetta, Viaggio di Gararà, cit., p. . . Sanzin, Viaggio di Gararà, cit.
enrica mezzetta
Seguendo il crescendo evolutivo del romanzo, l’autore dell’articolo si occupa dell’ultima tappa del viaggio dalla protagonista. Questa, infatti, dopo aver attraversato il regno della materia dinamica, dove le vita è primordiale e inferiore, e quello delle Volontà-Tensioni, in cui si ritrovano «le potenze concretate in forme fantastiche, la luminosità vitale», giunge finalmente nel regno delle libertà creatrici. In questa sorta di paradiso, in cui «l’atmosfera è festosa di azzurro, gioiosa di luce, e il suolo verde è ondulato armonicamente», vivono i Piccoli Allegri, esseri che hanno al posto della testa un globo luminoso, ciascuno di colore differente e nei quali già Marinetti aveva visto « l’immortalità dell’Arte, essenza infantile dell’Universo». Essi danzano, parlano, gridano e con le sfere colorate costruiscono una specie di cono luminoso, che ha all’apice quella di colore bianco e che, non appena è completo, comincia a girare sul proprio centro, quasi per raggiungere l’alta luce del cielo. Anche in questo caso l’arrivo di Gararà rappresenta l’elemento disturbante: essa vuole toccare il cono, ma viene proiettata a terra dal suo moto rotatorio, poiché, come afferma Sanzin, la logica è analisi, mentre il dinamismo è «la sintesi dell’eternità del divenire, e come tale in antitesi con la prima ch’è statica e frammentaria». Ma da quel punto di osservazione la vecchia nana riesce ad assistere all’azione di Fuoco e Luce, in cui, secondo quanto rilevato dall’autore dell’articolo, l’opera di Benedetta raggiunge il diapason. Egli, infatti, precisando anche in questo caso le affermazioni marinettiane in proposito, chiarisce che, fuor di metafora, Fuoco è il simbolo della materia, della passione travolgente, del creatore, mentre Luce è l’emblema dell’anima che splende, della forza trascendentale, della creazione: il primo muore e la seconda si propaga all’infinito con il ritmo ondulatorio impressole alla nascita, vibrando di luminosità e di fede ottimistica. E così, in base a tale interpretazione, questo dialogo coreografico, oltre a chiudere il romanzo, ne rappresenta la vera e propria essenza, la morale costitutiva. Terminata l’analisi delle figure e delle immagini che compaiono all’interno dell’opera di Benedetta, Sanzin conclude lo scritto con un vero e proprio atto celebrativo del talento e delle qualità artistiche della scrittrice, che egli ritiene di primissimo ordine e una tra i pochi migliori autori futuristi italiani, ma comunque insuperata dalle altre donne che si dedicano alla letteratura. Il suo unico appunto critico è limitato all’eccessivo cerebralismo che talvolta affiora dalle sue opere, rischiando di frenarne il volo lirico. Quest’ultimo, però, «allorquando si libra non è vacuo, ma denso di una sensibilità superiore che avvince ». Ecco dunque il motivo per cui egli considera il Viaggio di Gararà uno dei migliori libri degli ultimi anni. Risale sempre al un altro articolo apparso sulla rivista «Futurismo » a proposito dei romanzi di Benedetta e uscito sul numero del periodico. Si tratta della pubblicazione di alcuni brani stralciati da Le forze umane e dal Viaggio di Gararà, che non apportano alcun contributo alle valutazioni di autori e di critici sull’autrice, sulle tematiche da lei affrontate o sulle sue modalità espressive, ma che vale la pena rilevare anche solo a dimostrazione della diffusione delle opere della prima donna dell’avanguardia presso il grande pubblico. Tralasciando quindi di analizzare lo scritto in questione, occupato in . Ibid. . Ibid. . Marinetti, Prefazione a Viaggio di Gararà, cit., p. . . Sanzin, Viaggio di Gararà, cit. . Cfr. Marinetti, Prefazione a Viaggio di Gararà, cit., p. : «Fuoco è il peccato diabolico distrutto da Luce. Luce è la preghiera misteriosa imprecisa di Fuoco preciso e spudorato. Fuoco è la densa sanzione criminale di Luce impeccabile leggera trasparente. Fuoco è la massa-folla dei terrori torbidi convulsi che l’appassionato eroismo di Luce sveglia e scolpisce in infiniti cerchi eccentrici. La sconfitta di Gararà cenere segna la vittoria di Luce e dell’Autrice». . Sanzin, Viaggio di Gararà, cit.
benedetta scrittrice futurista
toto dalla scelta di passi tratti dai due romanzi, è opportuno rilevare il fatto che esso è introdotto da un breve presentazione anonima, in cui la scrittrice e pittrice viene elogiata, non solo per le sue spiccate qualità artistiche, ma anche per la sua spiritualità e sensibilità, entrambe profonde e complesse. Benedetta viene dantescamente descritta come una scrittrice che «fa parte per se stessa» nel campo futurista: la sua originalità non ha confini, come è illimitata la sua possibilità di concretizzarla, in virtù del fatto che lo strumento della sua arte, sia esso la penna o il pennello, nelle sue mani diviene malleabile. Non c’è sfumatura di colore o profondità abissale di pensiero che rimangano intraducibili per lei, le più alte concezioni filosofiche morali e sociali non la spaventano, anzi par quasi che in esse ella maggiormente si diletti.
E così in lei è impossibile trovare qualsivoglia influenza o reminescenza di altri artisti o di altre opere, poiché essa è una creatrice nel più vero e più ampio significato della parola e come tale deve essere considerata alla stregua dei più grandi maestri. Altri articoli di commento e valutazione critica dei romanzi della moglie di Marinetti appartengono tutti all’annata del periodico «Stile futurista». Si tratta di due contributi di Vittorio Orazi, pubblicati rispettivamente nei numeri - e -, e di uno a firma di Giuseppe Lipparini, comparso anch’esso nel fascicolo -. Il primo scritto in questione è intitolato Benedetta scrittrice futurista e vi si trova un’attenta valutazione critica di Le Forze Umane e del Viaggio di Gararà, con cui, secondo l’autore dell’articolo, la scrittrice si è fatta conoscere e ha mostrato il suo indiscusso valore nel campo della produzione letteraria avanguardista. La prima di queste opere viene definita da Vittorio Orazi «un romanzo vissuto», in cui trovano un’intensa celebrazione e una partecipazione armonica tanto gli eterni poli della vita umana, ossia l’amore e la morte, quanto il pensiero e la sensibilità. Infatti a suo parere le vicende autobiografiche dell’esistenza di Benedetta vengono narrate con il particolare procedimento della deformazione lirica e si trasformano così in «una visione densa di interiorità ». Tale interpretazione trova precisa e puntuale conferma analizzando il piano compositivo dell’intero lavoro, per cui da zone cupe e profonde di dolore, dovute alla contingenza della morte del padre e ad un generale stato d’animo di disagio affettivo e spirituale, si assurge prima alla nascita dell’amore e poi alla perfetta consonanza tra le due individualità coinvolte, divenute capaci di corrispondersi attraverso un «dominio pandemico », di cui sono compartecipi la spiritualità e il sentimento. Ora, è importante rilevare, come precisa l’autore dell’articolo, che ciascuno dei momenti in cui si trova idealmente articolato il romanzo ruota attorno alla problematica dello scontro, che in un caso si dirige verso l’esterno, mentre nell’altro coinvolge totalmente l’interiorità della protagonista, ma che sempre assume i connotati di forza stimolante, propulsiva e conoscitiva. Così, dopo la lotta col dolore e l’accettazione dell’irreparabile, si inizia per la protagonista un’altra lotta, intima ed aspra: la lotta degli elementi spirituali, che vogliono difendere la loro omogeneità ed autonomia, contro le forze dell’istinto, le quali spingono la protagonista ad una evasione da sé stessa, ad una trasfusione della sua individualità in un’altra. . Benedetta, «Futurismo », Roma, , , p. . . Ibid. . Vittorio Orazi, Benedetta scrittrice futurista, «Stile futurista», Torino, -, , p. . . Ibid. . Ibid. . Ibid.
enrica mezzetta
In altri termini, nella protagonista de Le Forze Umane si ritrova pienamente incarnato lo scontro perenne e assoluto tra istinto e volontà, tra la gelosa conservazione dell’assoluta unità e individualità psichica e il contemporaneo e profondissimo desiderio di unirsi all’altro nel vincolo d’amore, in una totale armonia di spirito e sensi, per cui l’Io può davvero astrarsi da se stesso e fondersi completamente con quello altrui. Ecco dunque perché in tale antitesi si può agevolmente riconoscere, su un piano prettamente esteriore, l’incontro-scontro « fra il nucleo femminile – preoccupato della compattezza del proprio cosmos – e il nucleo maschile – sicuro di vincere e di dominare ed animato da una forza centripeta ». E l’unica cosa in grado di superare ogni ostacolo spirituale e concettuale che separa i due universi contrapposti è proprio quella vibrazione armoniosa prodotta dal sentimento d’amore, la sola attraverso la quale si può generare il miracolo della piena e assoluta fusione delle due individualità. A conclusione della sua analisi sul testo, sui suoi significati profondi e sulla spiritualità e il sentimento che lo animano, Vittorio Orazi rileva l’enorme distanza che separa Le Forze Umane da ogni altra tipologia di romanzo scritto dalle donne e aggiunge che la grande importanza di quest’opera consiste anche nell’aver reso note le straordinarie qualità creative di Benedetta e l’acume della sua capacità di analisi. Oltre a ciò, a suo parere il lavoro è arricchito da efficacia rappresentativa e agilità stilistica, non sempre facilmente raggiungibili, soprattutto quando, come in questo caso, le tematiche affrontate tendono all’astrazione e all’incorporeità. Proseguendo l’analisi del percorso artistico della scrittrice, l’autore dell’articolo ne riconosce il fondamentale momento evolutivo proprio nel passaggio dal primo al secondo libro. Infatti, se con Le Forze Umane essa è stata in grado di abbandonare definitivamente le posizioni romantiche e sentimentali che hanno sempre infestato la letteratura e contro le quali il futurismo si è scagliato fin dai suoi primissimi manifesti, con il Viaggio di Gararà è addirittura giunta al vero e proprio superamento dell’autobiografismo. Con questo testo essa si avventura arditamente nella zona della pura creazione, della invenzione poetica, che astrae dal contingente e dal razionale, per immedesimarsi nella essenza delle cose e scoprirne gli occulti rapporti, quei rapporti maggiormente ricchi di imprevisto lirico.
E proprio per tale intrinseca qualità lirica Vittorio Orazi definisce il romanzo in questione come un poema, non destinato ad essere rappresentato sulle scene, come invece era stato espressamente indicato dall’autrice, ma ad essere letto ritmicamente ad alta voce e con l’accompagnamento di musiche che contribuiscano alla creazione dell’atmosfera poetica. Dopo avere compiuto queste considerazioni di carattere introduttivo, egli propone un preciso riassunto dei tre momenti in cui, come già accennato, è articolata l’opera, rimandando comunque i lettori alla presentazione che Marinetti ha premesso al lavoro della moglie. Senza soffermarsi sui singoli contenuti, già per altro messi in luce da Bruno Sanzin nell’articolo analizzato in precedenza, quel che in questa sede interessa rilevare è la valutazione critica che l’autore offre in proposito. A suo parere, infatti, nel primo tempo del poema il predominio dalla materia informe, feconda, ingorda e distruttrice è reso con efficacia plastica e grande forza evocativa; nel secondo l’astrazione raggiunge momenti di vivo lirismo che, senza perdere il suo precipuo connotato immateriale, «si veste di immagini soffuse di mistico ardore» ; e nell’ultimo si assiste alla de. Ibid. . Ibid. . Ibid.
benedetta scrittrice futurista
finitiva sconfitta di ragionamenti, sillogismi, distinzioni e definizioni di fronte al potere dell’intuizione, che vede e comprende tutto in modo irrazionale e immediato. Tralasciando l’analisi della simbologia presente nel romanzo, cui invece Sanzin aveva dedicato gran parte della sua riflessione, e rimandando esplicitamente a quanto affermato in proposito dallo stesso Marinetti nella prefazione al testo, Vittorio Orazi conclude il suo articolo evidenziando la finalità espressamente moralistica che egli vede sottesa a tutta l’opera e attraverso la quale Benedetta vuole celebrare il trionfo del bene, delle forze positive e creatrici, della luce sulle tenebre cineree della logica. E in ultima analisi plaude all’originalità di invenzione del romanzo-poema e alla spiritualità che lo pervade, nonostante egli rilevi allo stesso tempo la mancanza di una architettura omogenea, che, con la riduzione della parte didascalica, avrebbe senz’altro giovato allo svolgimento di quella più propriamente lirica. Quanto qui affermato da Vittorio Orazi viene da lui stesso puntualmente ripreso e precisato nel suo contributo intitolato « Astra e il sottomarino» di Benedetta, apparso sul fascicolo - del , sempre della rivista «Stile futurista». Fin dalle prime battute di questo scritto, dedicato espressamente ad analizzare i caratteri costitutivi del terzo romanzo della scrittrice futurista, egli vuole espressamente rilevare la continuità esistente tra Le Forze Umane, il Viaggio di Gararà e Astra e il sottomarino, tale per cui i primi due libri sarebbero il preludio spirituale del terzo, che a sua volta verrebbe ad essere il momento di sintesi lirica assoluta. Infatti, a suo parere, tutti quegli elementi in virtù dei quali si è potuta riconoscere nell’opera di Benedetta una singolarità di atteggiamento spirituale e artistico, conferendo così all’autrice un posto a parte nel panorama letterario femminile, si ritrovano nell’ultima sua creazione «approfonditi arditamente, più ricchi d’anima e di pathos ed espressi artisticamente con maggiore sagacia, organicità e dovizia lirica». E così in quest’opera, il cui sottotitolo è emblematicamente Vita trasognata, si ritrovano ancora il tema dell’amore e della morte, la lotta del razionale con l’irrazionale, la celebrazione di una tipologia di conoscenza a-logica e intuitiva, la preminenza del pensiero sulla pura sensibilità. Ma ora, come precisa l’autore dell’articolo, ci si trova nel regno del sub-cosciente, «ove le grandi forze che regolano la vita superiore dei singoli agiscono con tutto il meraviglioso fantasioso illogico e prepotente impulso da cui sono misteriosamente animate», dove nascono i sogni e dove regna la Poesia. In questa sorta di universo parallelo non esistono più linee di confine tra il macrocosmo e il microcosmo-uomo : nessun essere è più chiuso nei limiti del proprio corpo e tutto l’universo è aperto a innumerevoli e misteriose possibilità. E così i due protagonisti della vicenda sono contemporaneamente esseri reali, che vivono fisicamente tutti i loro desideri, le ansie, gli amori, le speranze, le ambizioni, ma sono anche dotati di una seconda vita, in cui si palesano le occulte verità che ai più sfuggono. L’autore dello scritto li definisce due nature spiritualmente privilegiate che – pur vivendo ed ardendo nel loro involucro corporale – compiono la breve parabola della loro vita entro l’alone di un interiore lirico afflato che più spesso si estrinseca nel sogno premonitore, mentre una più alta e trascendente ragione sembra regolare gli eventi esteriori ed interiori che loro accadono: qualcosa del fato antico alita tra queste pagine.
Ma proprio la particolare ipersensibilità e la duplice vista quasi ultraumana di cui sono dotati Astra ed Emilio li fa spesso esprimere, secondo quanto affermato da Vittorio . Vittorio Orazi, « Astra e il sottomarino» di Benedetta, «Stile futurista», Torino, -, , p. . . Ibid. . Ibid.
enrica mezzetta
Orazi, con modalità piuttosto oscure e attraverso un linguaggio ellittico che sottintende un muto dialogo, da cui emergono solo alcuni accenni, necessari a comprendere il loro stato d’animo e lo svolgersi degli eventi. Ciò a suo parere comporta un certo ermetismo nella scrittura di Benedetta, a cui resta comunque il grande merito di saper « far vibrare questo mondo della interiorità e del mistero psichico e cosmico con musicalità suggestiva». Ora, entrando maggiormente nel merito dell’opera, l’autore dell’articolo rileva la fondamentale importanza che in essa assumono i simboli, strumento indispensabile per presentare, all’interno di un romanzo lirico basato essenzialmente sul pensiero, il mondo misterioso che si trova al di là della coscienza umana. E così, senza entrare specificamente nel merito di tutta la simbologia adottata e dei significati cui rimandano le singole immagini, egli propone, come aveva già fatto in occasione dell’analisi del Viaggio di Gararà, un’interpretazione delle figure dei due protagonisti, che dà ragione della loro esistenza e della loro fine. Emilio Vidali è il vincitore, perché ha saputo carpire un segreto alla Natura, ma in quanto tale egli soccombe, punito per il suo atto sacrilego, proprio come avveniva agli eroi greci che osavano sfidare gli dei, e sprofonda negli abissi marini; Astra, al contrario, è torturata da oscure forze ostili e, pur sopravvivendo, si perde in un sogno folle e incomprensibile. Con tali considerazioni Vittorio Orazi conclude la sua riflessione, nelle cui battute terminali ribadisce la singolarità del libro di Benedetta, a cui per altro tributa il merito di essere in grado di far pensare i lettori, distogliendoli dalla vita sensibile per trasportarli nel regno dell’ultrasensibile, e scegliendo espressamente di non percorrere «le stanche vie che sogliono seguire – nessuno escluso – tutti i libri della migliore letteratura femminile». L’ultimo articolo dedicato all’analisi critica delle opere creative della moglie di Marinetti rinvenuto negli indici dei periodici letterari novecenteschi è quello di Giuseppe Lipparini, intitolato Futurismo femminile e uscito sempre sul numero - di «Stile futurista ». Anche l’autore di questo testo si occupa, come già Vittorio Orazi aveva fatto sullo stesso fascicolo della rivista in questione, del romanzo Astra e il sottomarino, mettendone in luce le tematiche e le caratteristiche strutturali. Egli, entrando subito in medias res, ripropone in apertura del suo scritto il dialogo metafisico grazie al quale nasce, durante un viaggio notturno in treno, la storia d’amore tra i due protagonisti dell’opera. Ma si affretta a precisare che con questo libro Benedetta ha saputo rinnovare completamente un motivo vecchio e spesso abusato nella letteratura, non tanto attraverso le frasi insolite che si scambiano Astra ed Emilio, quanto con l’afflato poetico che anima la scena. Infatti egli concorda con l’autrice nel definire quest’opera come essenzialmente futurista, in quanto è carica di poesia ed è immersa in quell’atmosfera in cui i confini della vita si fondono con quelli del sogno. La protagonista femminile è l’eroina del subcosciente e in quanto tale non si ritrovano né in lei, né in tutto lo svolgimento della sua storia, i temi consueti e le modalità stereotipate che affliggono le più canoniche avventure amorose: Che quei due si siano baciati, è quasi una cosa che ci fa un poco stupire. Preferiamo concepirli come due accumulatori saturi, che si scambiano da lontano scariche invisibili. Astra, dalla terrazza della villa sul mare; Emilio, dal suo scafo metallico sotto le onde marine
Del resto la vita della donna, soprattutto dopo il mese di amore reale, si svolge preva. Ibid. . Ibid. . La prima pubblicazione di quest’articolo di Giuseppe Lipparini risale al luglio sul «Corriere della Sera ». . Giuseppe Lipparini, Futurismo femminile, «Stile futurista», Torino, -, , p. .
benedetta scrittrice futurista
lentemente nel sogno, in cui le appaiono, più veri della stessa realtà, anche i presentimenti del futuro. E proprio con un atto onirico di Astra, successivo alla notizia dell’affondamento del sottomarino capitanato da Emilio, si conclude il romanzo, caricandola implicitamente della responsabilità di un suo tradimento spirituale che ha poi in qualche modo determinato la fine del suo uomo. Ma secondo Giuseppe Lipparini le peculiarità di quest’opera non si limitano all’atmosfera misteriosa e subcosciente di cui è pervasa, poiché coinvolgono anche l’ambito più propriamente espressivo: «il romanzo di Astra si apre, si svolge, si conchiude, per mezzo di sintesi e di allegorie la cui chiarezza e la cui logica non sono sempre eguali». Ciò è dovuto ancora una volta, nella concezione dell’autore, al futurismo del tutto particolare di Benedetta, a tratti un po’ timido, scevro dalle audacie puramente esteriori, che non ignora la sintassi e non disdegna certe eleganze di cui si serve la poesia. E proprio per questo egli riserva a lei il suo incondizionato apprezzamento critico, per la sua capacità, unica fra tutte le donne, di non esagerare nella ricerca della novità: «Dobbiamo anzi esserle grati così del suo sottinteso amore come del suo pudico riserbo». iii. Articoli relativi ad altri scritti teorici di Benedetta Fa parte di quest’ultimo gruppo di scritti solo un testo anonimo, dal titolo Donne italiane “in piedi” e pubblicato sul numero - del della rivista «Stile futurista». Pur trattandosi di un materiale quantitativamente di scarso rilievo, soprattutto se paragonato a quello raccolto a proposito del manifesto sulla lega rovesciata e dei tre romanzi, è parso comunque opportuno prendere in considerazione questo articolo in merito all’indagine sulla diffusione del nome e delle opere di Benedetta presso il pubblico e la critica, per tre ordini di ragioni. In primo luogo per rispettare in toto, senza esclusioni di sorta, le diverse tipologie di testi rinvenuti in occasione dello studio degli indici delle riviste letterarie del Novecento; in seconda istanza per fornire in questo modo un panorama il più possibile completo della pluralità di ambiti in cui si espresse la signora Marinetti e in cui ebbe modo di stimolare dibattiti e riflessioni critiche altrui; in ultima analisi per dare ragione della rilevanza contenutistica dello scritto in questione, che a sua volta è una riproposta e un commento di un altro intervento della scrittrice. Donne italiane “in piedi” è dunque un testo in cui vengono sostanzialmente riportati alcuni brani di un articolo sulla Spiritualità della donna italiana che Benedetta aveva scritto per « Il Giornale d’Italia». La tematica di fondo riguarda il vasto programma di coordinamento dell’attività della donna che la scrittrice aveva ideato già da qualche anno, che successivamente aveva sottoposto a S. E. Starace e che fu poi accolto con grande simpatia quando venne presentato a una riunione di Dirigenti femminili indetta dal Segretario del Partito fascista. Ora, secondo quanto affermato nello scritto anonimo, tale programma si sta avviando verso la sua realizzazione pratica. Terminata la breve introduzione esplicativa circa la storia della proposta in questione, l’articolo prosegue entrando nel vivo delle tematiche affrontate da Benedetta in occasione del suo intervento pubblicato su «Il Giornale d’Italia», talvolta riassumendone i concetti principali, talaltra riportando la citazione diretta di alcuni brani stralciati dal testo originale. Nello specifico, il programma di coordinamento dell’attività della donna italiana mira ad esaltarne le virtù tradizionali e la capacità di continuare ad essere madre e moglie, «tutta compresa nell’altissima missione a lei conferitagli [sic] da . Ibid. . Ibid.
enrica mezzetta
Dio e dagli uomini», pur vivendo con coraggio e fermezza i momenti più critici della patria. Essa, nella concezione di Benedetta, non è e non sarà mai una concorrente dell’uomo, perché nella sua essenza più profonda essa è madre, ossia generatrice di uomini, di sentimenti, di passioni, di idee. La signora Marinetti prosegue la sua esposizione facendo esplicitamente riferimento alle posizioni ufficiali espresse dal Fascismo in merito alla stessa tematica, alle quali la lega un’indiscussa consonanza ideologica e che quindi approva in ogni loro assunto. In particolare essa apprezza il fatto che il regime ha saputo sottolineare senza violenza e con delicatezza la poesia che ogni offerta della vita porta con sé, mostrando apertamente di agire nel tentativo di procurare figli per la patria, proteggere le madri, costruire la famiglia e tutelare e favorire il lavoro della donna, anche quelli di carattere artistico. E dopo aver ricordato un passo del discorso per il voto femminile pronunciato dal Duce il maggio , Benedetta nel suo contributo enumera «l’offerta della donna italiana in quest’ora solenne». Essa dovrà quindi donare: dolcezza e serenità per vincere la disperazione della partenza; sicurezza fedele delle lontananze; braccia e cervello per riempire i vuoti nei lavori delle campagne e delle città; rigida disciplina economica ; austera semplicità; assistenza quotidiana ai deboli e ai malati; nuove maternità ottimiste ; fede e certezza della vittoria. Al fondo di ciò c’è la profonda certezza che le guerre non si vincono solo con le armi, ma anche con la volontà e con il cuore e che nessun sacrificio è impossibile e nessuna rinuncia troppo dura per il raggiungimento di un tale fine. L’analisi condotta sulle varie tipologie di articoli di cui la prima donna del futurismo risulta essere l’autrice o nei quali diviene l’oggetto di riflessioni altrui consente, come già accennato, non solo di ricostruire l’iter culturale della scrittrice, ma anche di valutarne il grado di notorietà e la diffusione del suo nome e delle sue opere presso il pubblico e la critica. La rilevanza numerica e contenutistica degli scritti di e su Benedetta comparsi nelle riviste novecentesche è una riprova della carica assolutamente innovativa del messaggio da lei trasmesso e delle scelte espressive adottate, soprattutto in rapporto con quanto contemporaneamente elaborato e diffuso dalle altre esponenti femminili dell’avanguardia. Pur non potendo assurgere alla notorietà di cui allora godevano i suoi colleghi scrittori, la sua posizione risulta del tutto particolare nell’ambito della letteratura muliebre futurista, non solo in virtù dei numerosi ambiti di attività a cui si è dedicata, riscuotendo sempre un discreto consenso e riuscendo in ogni caso a far parlare di sé, ma anche in relazione al messaggio da lei trasmesso. I testi tratti dai periodici analizzati in questa sede in primo luogo mostrano come essa fosse ben più conosciuta e apprezzata di qualsiasi altra autrice del movimento fondato da Marinetti, sia per i suoi articoli-proclami, che per i suoi romanzi, e in secondo luogo rilevano la tematica di fondo che si può ritrovare in ogni suo lavoro. Infatti nel Progetto futurista di reclutamento per la prossima guerra, ne Le Forze Umane, nel Viaggio di Gararà, in Astra e il sottomarino e infine nell’articolo dedicato alla Spiritualità della donna italiana si può riconoscere il comune problema del ruolo femminile all’interno della società, risolto con modalità differenti in base ai generi sperimentati, ma comunque affrontato nell’ottica dell’adesione totale e incondizionata ai dettami ideologici marinettiani. Sia nella sua scrittura impegnata, che in quella di stampo più mistico-spiritualista, tutta la sua poetica si concentra attorno al motivo centrale della Donna Creatrice, della femminilità intesa come polo vitale da cui traggono origine uomini, idee, passioni. L’antagonismo tra sentimento e ra. Le donne italiane “in piedi”, «Stile futurista», Torino -, , p. . . Ibid.
benedetta scrittrice futurista
zionalità, istinto e cervello, amore e realizzazione personale appare superato e risolto all’interno della sua opera «nell’esaltazione dell’Arte come volontà di creazione, come atto assoluto in cui si placano e si sublimano i conflitti esistenziali». Ma, all’interno del sistema ideologico di Benedetta, l’Arte come principio di generazione finisce per coincidere con la maternità, nella quale la donna trova la sua più profonda ragione di esistenza, concetto, questo, che rimanda irrimediabilmente, sia a livello teorico che di scelte pratiche, alla separazione dei ruoli e alla segregazione femminile dalla realtà sociale. E così la scrittrice partecipa attivamente con le sue opere ad attribuire un ruolo di primo piano alla letteratura muliebre, pur nel rispetto della sua posizione gregaria rispetto a quella maschile, in virtù della sua influenza pedagogico-didascalica sulla tipologia di pubblico cui è rivolta. Ciò viene amplificato soprattutto nel periodo in cui erano più forti le contaminazioni tra ideologia avanguardista e regime fascista in ogni ambito, ivi compreso quello relativo alla problematica del ruolo da assegnare alla donna e della concezione di essa come madre per eccellenza.
. Nozzoli, « Le donne del posdomani»..., cit., p. .
Federica Millefiorini F O R T U N A T O D E P E R O E LE RI V I S T E
F ortunato Depero (Fondo, Trento, – Rovereto, Trento, ), ben noto per la
sua operosità di artista, disegnatore, pubblicitario e ideatore di oggetti d’arte, è forse meno conosciuto per l’attività pubblicistica, che affiancò ai dominanti interessi creativi. Le note bibliografiche incluse in testi monografici a lui dedicati elencano naturalmente i contributi di e su Depero apparsi sulla stampa, ma sono destinate ad una continua revisione, man mano che si procede allo spoglio di riviste italiane e straniere o almeno se ne approfondiscono le conoscenze. A tale aggiornamento contribuisce, tra l’altro, l’indice cumulativo di periodici italiani della prima metà del Novecento, frutto del lavoro condotto all’interno dell’Istituto di Italianistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, utilizzato come strumento fondamentale in tutti i contributi raccolti nel presente volume, e presto consultabile via Internet. Dalla interrogazione del catalogo informatizzato emergono alcuni articoli già noti, ma anche qualche testo rimasto oscuro. In ogni caso, per quasi tutti questi interventi giornalistici del e sull’autore trentino, manca un’analisi critica. Il primo pezzo che tratta di Depero, tra quelli schedati e riversati nello spoglio cumulativo, è un giudizio apparso nel sulla «Rivista di Milano», che non è stato abitualmente segnalato nelle bibliografie sull’artista. Il quindicinale, diretto da Aristide Raimondi, fondato nel , col sottotitolo «... è un focolare di acerrima fede», poi mutato in «Politica e lettere», conteneva, dopo le pagine di politica, una sezione di rubriche riguardanti le varie arti. In quella dedicata all’arte figurativa pubblicata sul tredicesimo fascicolo della seconda annata, curata da Enrico Castello, viene analizzata in modo dettagliato l’Esposizione futurista di Milano e una valutazione positiva viene espressa in particolare su Depero, oltre che su Dudreville e Funi. Il critico, che dice di comprendere ed apprezzare le ragioni dei futuristi, ma lamenta la banalità, il dilettantismo e la monotonia delle realizzazioni, segnala come esempi positivi le opere dei tre artisti, che egli non giudica futuristi, «nel senso marinettiano della parola». L’autore sostiene che tutte le opere esposte, ad esclusione di quelle dei suddetti pittori, siano rifacimenti o ricopiature di quadri di Boccioni e Carrà; Depero viene invece giudicato un caso isolato, perché è « un gaio tappezziere bambinesco, imbaldanzito nella festa delle stoffe colorate ». Nell’attività del futurista di Fondo viene sottolineata in particolare la fantasia, l’ingegnosità e l’umorismo, che – si dice – «odora di russo ma è composto di ingenuità fresca e onesta ». La componente fiabesca, infantile, ludica differenzia in effetti la sua produzione da quella di altri esponenti del movimento: L’allegria delle sue composizioni cromatiche è schietta come il riso dei bimbi. Depero non è certo un passatista ma le dottrine futuriste non contemplano il caso Depero. È un disegnatore
. Si vedano in particolare Fortunato Depero pittore, in Luigi Ratini pittore e illustratore, Oddone Tomasi pittore, Gustavo Borzaga e Silvio Clerico pittori, Fortunato Depero pittore, Roberto Iras Baldessari pittore e incisore, Umberto Maganzini pittore e poeta (volume ix della Collana di artisti trentini curata da Riccardo Maroni), presentaz. di Riccardo Maroni, Trento, Arti grafiche Saturnia, (la ricca bibliografia si trova alle pp. -), e la monografia di Bruno Passamani, Fortunato Depero, Rovereto, Comune di Rovereto, Musei Civici, Galleria Museo Depero, , corredata da puntuali e dettagliati regesto e bibliografia. . Enrico Castello, Arte, «Rivista di Milano», Milano, , , p. .
federica millefiorini
di belle stoffe, dai giroglifici [sic] significativi, chiariti da un titolo. Un geniale fabbricatore di marionette divertenti, trattate con moderno buon gusto.
Tuttavia è errato dire, come fa Castello, che le creazioni deperiane non siano futuriste o non possano essere comprese alla luce delle teorie marinettiane, perché le sue opere, punteggiate di elementi astrattisti, trovano piena giustificazione e ragion d’essere nel manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, firmato nel da Depero stesso e dal suo maestro Balla, che proponeva di «ricostruire l’universo rallegrandolo», individuando degli «equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi», da combinare secondo i capricci dell’ispirazione. Il giudizio del collaboratore della testata milanese comunque illumina alcune delle principali caratteristiche dell’arte deperiana e, nonostante sia piuttosto precoce rispetto al percorso del pittore, lo colloca già tra i più importanti esponenti del movimento. In quel periodo si assiste ad una fioritura di recensioni su opere e mostre dell’artista, in generale nella stampa nazionale e in particolare su quella trentina, ma anche su alcuni importanti fogli stranieri. Un altro intervento rimasto ignoto risale invece a qualche anno più tardi, ossia al , quando la milanese e futurista rivista «I Giovani», diretta da Totò Rosanigo e Celeste Ravelli, pubblica un pezzo su L’inaugurazione della Mostra Futurista a Torino, dovuto alla penna di Carlo Pizzi, il quale è entusiasta della mostra svoltasi a Palazzo Madama, che segnerebbe un notevole passo avanti dell’arte futurista e che è stata accolta con interesse dal pubblico. L’autore «constata con amarezza il lento sviluppo del Futurismo nella patria dov’è nato, mentre all’estero corre veloce su motivi e su esplicazioni italiane », ma nota anche che il movimento sta subendo, in quel torno di anni, una evoluzione verso forme più mature, sicure e razionali. Tra i protagonisti di tale positiva trasformazione l’autore pone anche Depero, che spicca tra gli espositori della mostra torinese per la sua arte coloristica, e di cui Pizzi segnala per genialità le opere Maschere, Animali strani e Intreccio uccelli, farfalle, topi. Negli anni successivi, mentre prosegue la pubblicazione di interventi critici sull’artista e le sue iniziative (menzionati in gran numero da Maroni nelle note bibliografiche incluse nel volume della Collana di artisti trentini, del , note che si riferiscono al periodo dal al ), si moltiplicano, da quanto si ricava dall’indice informatizzato, i contributi di Depero stesso, che collabora con varie testate. Tra gli articoli già noti, ne vanno ricordati due, usciti sulla «Fiera letteraria» nel e nel , riguardanti rispettivamente il teatro e i complessi plastici. Il primo, intitolato Il teatro deve interpretare la vita, contiene le risposte di Depero, di Franco Liberati e di Corrado Alvaro ad un’inchiesta sull’arte drammatica. La questione della crisi del teatro era di stretta attualità in quel periodo, e sarà al centro di ampi dibattiti anche negli anni successivi, soprattutto su testate futuriste o vicine al movimento, dato che i seguaci di Marinetti attribuivano un posto di rilievo a tale forma d’arte e intendevano rinnovarla profondamente, facendone un’interprete della vita contemporanea e un “luogo” in grado di stimolare tutti i sensi dello spettatore. Depero, nel suo breve intervento, afferma che il teatro di prosa è «cretino » perché « non interpreta affatto la vita di oggi» e considera il cinema molto più adatto al mondo contemporaneo e quindi responsabile della morte del teatro: . Ivi, pp. -. . Si cita il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo da Filippo Tommaso Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, , p. . . Si vedano le bibliografie citate nella prima nota. . Carlo Pizzi [C. P.], L’inaugurazione della Mostra Futurista a Torino, «I Giovani», Milano, -, , p. .
f o r t u n a t o d e p e r o e le ri v i s t e
Il cinematografo ha ucciso il teatro di prosa per le sue possibilità multiple di espressione, per le sue infinite varianti, contrastanti sorprese teatrali, tenendo stretta in tal modo continuo la curiosità e l’interesse del pubblico, con un accelerato ritmo di emozione, con un risultato di continuo successo.
L’unica soluzione a suo dire è quella di far nascere un teatro nuovo, che sarà naturalmente il teatro futurista, sintetico, plastico, dotato delle scenografie ideate da Prampolini, e capace di «rivelare ed esaltare il luminosissimo mondo Magico della Macchina, che svelerà un intiero universo inesplorato». Considerazioni simili si possono leggere anche su un giornale come «La Città futurista », del , dove vari critici annoverano la crescita del cinematografo tra le concause della crisi dell’arte drammatica; mentre un’analisi completamente differente viene formulata, in risposta all’inchiesta del periodico milanese, da Alvaro, che osserva come, in molti paesi dove la cinematografia è in pieno sviluppo, il teatro non sia affatto in crisi. Egli ritiene piuttosto che l’espressione teatrale debba essere un fatto nazionale, capace di rispecchiare «passioni, pensieri, gusti, sentimenti popolari, diffusi, corali», ritrovando «quell’efficacia panica dei minimi antichi». In sostanza l’autore, che in Gente in Aspromonte avrebbe raffigurato il mondo delle origini e dell’infanzia, propone di riportare il teatro alla sua origine e alla sua funzione primaria: quella di aiutare l’umanità a vivere, e afferma che non si può confondere il teatro con il cinema, ma si deve «imparare [...] dal cinematografo questo: che i temi dell’umanità sono sempre quelli, e per quelli si muovono le folle. [...] Solo ogni secolo ha il suo modo di sentire questi grandi temi. Basta solo essere poeti. Da noi il teatro che va per la maggiore è un teatro di cronisti ». L’approccio dello scrittore calabrese è, come si vede, ben diverso da quello di Depero, il quale, anche su periodici non futuristi, si fa sempre portavoce delle teorie marinettiane. Sulla « Fiera letteraria », oltre a propugnare l’avvento della rivoluzione teatrale futurista, egli pubblicizza, nel contributo uscito nel , i suoi complessi plastici, rivendicandone la paternità e precisando i suoi intendimenti: Con i miei complessi motorumoristici voglio rendere l’opera d’arte: Agitata, ruotante, parlante, suonante, fumante, ronzante, urlante, scoppiante, dolorante, rallegrante, odorosa, appetitosa. La mia opera sarà così animata da una vita propria autonoma, quanto la natura, l’uomo, l’animale, e tutti i fenomeni atmosferici, tellurici, meccanici, dai quali fu suggerita. Tutte le emozioni pittoriche, tutte le emozioni plastiche, sono percepite da noi in velocità. Il fissarle su di un piano, od il plasmarle in una materia statica, vuol dire togliere all’opera d’arte la magica vibrazione ed il divino fascino del moto.
Il pittore trentino tra l’altro si rammarica che tali audaci invenzioni trovino ancora delle «ostilità passatiste che bisogna quotidianamente combattere», mentre vengono immediatamente copiate all’estero. Al di là di questi interventi isolati, è interessante prendere in considerazione soprattutto alcune collaborazioni più continuative, come quella con «La Città futurista», giornale fondato e diretto da Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo) e pubblicato a Torino. La rivista, preceduta da un numero unico del febbraio che recava il sottotitolo «Movimento futurista italiano diretto da F. T. Marinetti», inizia in realtà le pubblicazioni l’anno seguente, quando vedono la luce tre fascicoli, nell’aprile, nel maggio e nel giugno del , chiudendo pertanto la sua breve vita nel giro di tre mesi. Nono. Fortunato Depero, Il teatro deve interpretare la vita, «La Fiera letteraria », Milano, novembre , p. . . Corrado Alvaro, Il teatro deve interpretare la vita, ivi, p. . . Fortunato Depero, Primo complesso plastico motorumorista, «La Fiera letteraria », Milano, marzo , p. .
federica millefiorini
stante la brevità, il periodico è tutt’altro che secondario nel panorama del futurismo italiano ed ha anzi un ruolo significativo a livello europeo, perché recepisce le novità provenienti dall’estero ed ospita protagonisti delle varie arti di caratura internazionale. Il giornale torinese è particolarmente interessante per i suoi contributi in campo architettonico, nel settore della pubblicità, per gli interventi di letteratura, di critica e di teatro. Ad esso Depero collabora con quattro articoli, pubblicati sul secondo e sul terzo fascicolo. Il primo pezzo, intitolato Depero futurista, contiene il racconto di alcune esperienze dell’artista, confidenze sulla sua vita privata (con elogi all’amata moglie Rosetta), aneddoti riguardanti i suoi quadri, proclami sui gusti pittorici e al tempo stesso una pubblicità al suo libro illustrato, rilegato con due bulloni metallici, dal titolo Depero futurista (pubblicato nel dall’editore Dinamo-Azari e ripubblicato in edizione facsimilare, con presentazione di Luciano Caruso, Firenze, Studio per Edizioni Scelte-Libreria Salimbeni, ). L’autore inoltre non si vergogna di mostrare quanto gli stia a cuore il guadagno: Generalmente gli artisti disprezzano il denaro. Per me è essenziale. È la materia prima per l’opera d’arte. Denaro = marmo Denaro = colori Denaro = tele e stoffe Denaro = tranquillità dell’animo e della pancia. Elementi tutti capitali per la creazione.
Il pittore ha dunque una visione molto moderna dell’attività artistica: non considera l’opera romanticamente, come qualcosa di etereo, quasi ispirato da una divinità superiore, ma la vede in tutta la sua concretezza. Egli rivaluta cioè la materia e la fatica necessarie per creare una qualsiasi forma d’arte, e rivendica il diritto di ricavare un guadagno dalla sua attività, coerentemente con ciò che Corra e Settimelli avevano dichiarato nel manifesto dell’ marzo , Pesi, Misure e Prezzi del Genio Artistico, dove avevano sottolineato che il misuratore, cioè il critico, dovrebbe determinare la quantità di energia occorsa a produrre un’opera e di conseguenza fissarne il prezzo. Analogo a questo contributo e ad esso collegato è Sensazioni futuriste, uscito sul terzo numero, che raccoglie anch’esso dei passi autobiografici e pubblicizza il medesimo volume deperiano. D’argomento autobiografico sono pure le parole in libertà, pubblicate sempre nel giugno del , intitolate Stati d’animo, composizione ricca di onomatopee e di reiterazioni di parole e suoni, che raffigura gli stati d’animo, poi spiegati nella parte conclusiva, stilisticamente più tradizionale e prosastica, dove l’autore scrive: La pazienza, la tenacia, la fede, l’allegria mi seguono inquadrate ed obbedienti. Milionario di giocondità, brindo sempre ad un grande tavolo, imbanditissimo di ottimismo. Ottimismo allo spiedo Ottimismo in padella Ottimismo in tutte le salse. Cameriere, ancora una bottiglia di ottimismo!
Come si nota, viene impiegata una metafora culinaria, che era presente anche nella . Fortunato Depero, Depero futurista, «La Città futurista», Torino, maggio , p. . . Su tale manifesto si veda Giorgio Baroni, Manifesti, misurazioni e collaudi: teoria e critica futuriste, in Storia della critica letteraria in Italia, a cura di Giorgio Baroni, Torino, Utet, , pp. -. . Fortunato Depero, Sensazioni futuriste, «La Città futurista», Torino, giugno , p. . . Fortunato Depero, Stati d’animo, ivi, p. .
f o r t u n a t o d e p e r o e le ri v i s t e
parte precedente della composizione, insieme ad altre (tra l’altro una tessile, una riguardante il volo, un’altra sulla navigazione e una agricola), che si sovrappongono e “slittano” una nell’altra senza soluzione di continuità, tutte improntate ad una grande allegria, ad un gioco infantile, che è il tono abituale di Depero, quello che più si confà alla sua indole: Tarà Tarà Tatum Taa Trrr che gioia, che forza – sale – pepe – aceto – cipolla in bocca – Il cuore frigge – l’anima bolle nel mio pentolone di ghisa – lunghi fiischi – l’ancora è tolta – Viaaa Viiaaaa Viiiiaa per solchi di madreperla con il mio aratro di fantasia.
Il quarto contributo pubblicato sulla testata torinese dal pittore trentino è invece di carattere ben diverso, poiché si tratta di un proclama teorico riguardante la pubblicità. Su « La Città futurista» in effetti la pubblicità si guadagna uno spazio consistente, non solo perché una pagina per ogni numero è occupata da pubblicità, ma soprattutto in quanto vengono pubblicati svariati articoli nei quali i futuristi si “fanno avanti” come professionisti del settore e propongono uno svecchiamento delle forme pubblicitarie e varie novità, che le trasformino in forme non solo commercialmente efficaci, ma anche esteticamente valide. Proprio sulla componente estetica della reclame e il suo legame con l’arte, si sofferma il contributo di Depero, dal titolo L’arte dell’avvenire, il quale esordisce affermando che «L’arte dell’avvenire sarà pubblicitaria». L’autore dice di aver appreso questo « eretico insegnamento » « dalle grandi opere del passato», che erano tutte improntate all’esaltazione di un personaggio, o di un evento guerresco, o di una fede religiosa. In un’ottica originale e interessante, Depero considera cioè le architetture, i dipinti, gli stemmi, i drappi... come vere e proprie forme di glorificazione di un mecenate e quindi di pubblicità, e coerentemente constata che: anche oggi abbiamo: I Re dei Pneumatici – I Principi delle Automobili – I Re dei Magneti – I Duchi dei Ventilatori – Gli Imperatori dei Motori.
Le conclusioni che egli trae da tali considerazioni storiche e le prescrizioni per la futura arte pubblicitaria, che non deve essere oggettiva, ma allusiva, sono le seguenti: l’arte pubblicitaria è libera da ogni freno accademico – è giocondamente spavalda, esilarante, igienica ed ottimista. È un’arte di difficile sintesi dove l’artista è alle prese con la creazione autentica e con la modernità ad ogni costo: È fatalmente necessaria – È fatalmente audace – È fatalmente nuova – È fatalmente pagata – È fatalmente vissuta. Molti industriali hanno l’errata opinione che il cartello reclame ed in genere ogni grafico pubblicitario debba avere un carattere oggettivo, fedelmente o quasi, fotografico, di facile comprensione al pubblico. errore errore errore Ogni creazione pubblicitaria deve deve deve essere originale, inventata, rara, audace, cazzot-
. Fortunato Depero, L’arte dell’avvenire, «La Città futurista», Torino, maggio , p. . Questo brano, che fa parte del Manifesto dell’Arte Pubblicitaria, si può leggere tra i testi e documenti raccolti nel volume Depero futurista & New York. Il futurismo e l’arte pubblicitaria, a cura di Maurizio Scudiero e David Leibner, introd. di Enrico Crispolti, Rovereto, Longo, , pp. -, dove viene riprodotto il manoscritto dell’Abbozzo del Manifesto.
federica millefiorini
tatrice, sorprendente. Deve agganciare, fulminare magari il passante distratto e frettoloso, deve essere improvvisa ed imprevista.
È evidente che per i futuristi la pubblicità assume un peso fondamentale tra le arti, proprio per la sua capacità di parlare alla gente, e che essa ha un ruolo di primo piano (specie negli anni dal al ) tra le attività di Depero, il quale in effetti collabora come pubblicitario con importanti ditte, fra cui spicca la Campari, e durante il suo primo soggiorno a New York () lavora nei settori della pubblicità e dell’illustrazione. Successivamente e parallelamente a queste esperienze si colloca, tra le numerose iniziative intraprese dall’attivissimo artista trentino, la nascita della rivista «Dinamo futurista », fondata da Depero stesso nel e pubblicata a Rovereto. Il mensile vede la luce nel febbraio , fa uscire il secondo fascicolo a marzo, per poi concludere la sua breve vita nel mese di giugno, con un numero triplo, interamente dedicato alla celebrazione di Umberto Boccioni. Nonostante la brevità della pubblicazione, essa si rivela interessante come testimonianza della diffusione del futurismo nei centri di provincia e perché consente di valutare l’impatto del movimento in una piccola realtà. Il ruolo di Depero è naturalmente primario, poiché si occupa di tracciare la linea editoriale, cura la grafica e pubblica vari articoli, oltre ad essere egli stesso oggetto di taluni contributi. Nell’editoriale dal titolo Ringrazio, che apre il primo numero del mensile, Depero si dichiara intenzionato a celebrare le conquiste del futurismo ed incita a progredire sulla strada del rinnovamento, al fine di rendere onore all’Italia fascista. Scrive infatti: «Dinamo Futurista» fissa, documenta e illustra con ordine e chiarezza la vasta opera del Futurismo di ieri, di oggi e di domani: dai grandi maestri ai giovani e giovanissimi; dal Brennero alla Sicilia, e incita questo dinamismo artistico, che ha insegnato a tutto il mondo e rivelato verità e bellezze inesplorate, verso la conquista di mete sempre più splendenti di stile e di genio nuovo, onde arricchire di luce e di saldezza metallica la nostra presente e futura immensa Italia di Mussolini. Fare, costruire, creare all’infinito, con orgoglio, tenacia e giocondità fascista e futurista. “Marciare e non marcire” con ritmo ininterrotto.
Egli precisa anzi, nel contributo seguente, intitolato Coraggiosamente, che elemento caratterizzante l’avanguardia marinettiana è la diffusione territoriale e che «Dinamo futurista » vuole documentare l’attività dei gruppi futuristi disseminati nella penisola. Egli propone, in Trentino, un’attività di fiancheggiamento al gruppo romano, facente capo alla testata « Futurismo », diretta da Mino Somenzi, con un foglio che dia voce e stimolo ai giovani, un «megafono ricevente e trasmittente» capace di recepire le novità del futurismo italiano e di diffonderle nella provincia, ma anche di inviare nel resto d’Italia informazioni e aggiornamenti sulle realtà culturali locali. La rivista in effetti nasceva con la “benedizione” di Marinetti, che, in Il saluto e l’alto patronato di S. E. Marinetti, affermava che «Dinamo futurista» «gareggerà in valore futurista con “Città Nuova” di Fillìa e “Futurismo” di Somenzi», in tal modo attribuendole un ruolo importante a livello nazionale. Sempre sul primo numero vengono poi pubblicate tre lettere, inviate a Depero per fargli gli auguri per la nuova testata; si tratta di brevissime missive di Umberto Notari, Giorgio Nicodemi e Carlo Guido Stoffella, i quali salutano l’artista di Rovereto ed . Fortunato Depero, Ringrazio, «Dinamo futurista», Rovereto, febbraio , p. . . Fortunato Depero, Coraggiosamente, ibid. . Filippo Tommaso Marinetti, Il saluto e l’alto patronato di S. E. Marinetti, ibid.
f o r t u n a t o d e p e r o e le ri v i s t e
esprimono la loro fiducia nelle sue capacità e nella neonata impresa editoriale. Lo stesso intento hanno anche le epistole di Manlio Morgagni e Paolo Buzzi: il primo afferma, con entusiasmo, che l’annuncio della nascita di «Dinamo futurista» è giunto « come squillo di diana incitatrice nei grigi crepuscoli del sedentarismo dilagante» e dà il benvenuto alla pubblicazione, che sarà in grado di alimentare nuove attività culturali. La lettera si risolve poi in una serie di elogi a Depero: Tu hai ingegno, coraggio ed ardimento. Sai quello che vuoi e quello che fai. Agisci con passione e rettitudine fascista in omaggio ad una fede e ad una dottrina che, dopo aver salvata l’Italia, sono in cammino per la conquista del mondo.
Lodi incondizionate per «il genio lirico novatore di Fortunato Depero» vengono espresse anche da Buzzi, che dice di avere costantemente nella memoria le impressioni nord-americane dell’amico futurista: Depero ha, veramente, segnato un traguardo, nel campo dell’architettonico, del pittoresco, dello scultoreo e del musicale espressi in una sintesi ottico-acustica meravigliosa. [...] Depero ha creato fonetiche d’insieme e formule singole nuove arricchendo i giri dell’alfabeto e dell’orchestra.
Era del resto inevitabile e pienamente rispondente allo stile futurista che il foglio diretto da Depero ospitasse elogi e parole di stima per il direttore; ciò è comunque indicativo del prestigio nazionale e internazionale raggiunto da questa personalità. Ciò che colpisce poi nella sua esperienza è la curiosa circostanza che egli sia un interprete del futurismo legato alle tradizioni locali, capace di ricreare nelle sue opere modernissime il folclore di una cittadina come Rovereto, e contemporaneamente collabori con numerosi artisti stranieri e sia uno dei pochi esponenti del gruppo marinettiano ad aver sperimentato a lungo la vita della metropoli americana. L’interesse per la realtà locale, che deve essere liberata dal morbo del provincialismo, secondo le intenzioni di «Dinamo futurista», è evidente anche in un articolo come Le grandi realizzazioni del regime. La Gardesana “in velocità”, in cui Depero fa una descrizione del paesaggio del Lago di Garda in termini molto poetici. È palese da un lato la volontà di elogiare il regime che aveva fatto costruire quella strada, e dall’altro l’attenzione per l’ambiente della zona vicina alla sede della rivista. Un intento e un tono analogo caratterizzano A metri in funivia. Cima Paganella e rifugio C. Battisti, pubblicato sul secondo fascicolo, che racconta in termini letterari una escursione in montagna ed elogia le bellezze del Trentino, rivolgendosi evidentemente ad un pubblico di lettori geograficamente connotati. Ben diverso da tali articoli, che hanno anche la funzione di pubblicizzare il paesaggio trentino e che si affiancano ad altri contributi, destinati a far conoscere in Italia le attività dei futuristi del Triveneto, è il testo deperiano che apre il secondo fascicolo, intitolato Aver fede. Si tratta di un insistito incitamento all’ottimismo, tipicamente futurista, . Umberto Notari, Lettera di Umberto Notari, ivi, p. , Giorgio Nicodemi, Lettera del gr. Uff. Giorgio Nicodemi sovrintendente dei musei e gallerie d’arte di Milano, ibid. e Carlo Guido Stoffella, Lettera del cav. Guido Stoffella presidente del Sindacato artisti e professionisti trentini, ibid. . Manlio Morgagni, Lettera del gr. Uff. Morgagni presidente della “Stefani”, ivi, p. . . Paolo Buzzi, Lettera del poeta Paolo Buzzi segretario generale della provincia di Milano, ibid. . La figura di Depero viene esaltata anche in Serata-conferenza di Fortunato Depero a Cremona – Salone Olimpia, rendiconto, steso da un autore che si firma Etajè, della serata Depero organizzata dal gruppo futurista cremonese («Dinamo futurista», Rovereto, marzo , p. ). . Fortunato Depero, Le grandi realizzazioni del regime. La Gardesana “in velocità”, «Dinamo futurista», Rovereto, febbraio , p. . . Fortunato Depero, A metri in funivia. Cima Paganella e rifugio C. Battisti, «Dinamo futurista», Rovereto, marzo , p. .
federica millefiorini
che vuole indurre a credere nelle capacità umane, nella possibilità per l’uomo di cambiare il mondo, perché «Aver fede vuol dire forza di trasformare l’acqua in vino, il dolore in gioia» : Con tale sensibilità ardente si comunica con l’universo; si può trasformarlo, ricostruirlo. Anche il problema della morte è facilmente solubile. Con la fede non si muore e il miracolo è attuabile. Noi futuristi siamo milionari di fede.
L’editoriale adempie in tal modo ad una delle funzioni del mensile di Rovereto, che è quella di fungere da sprone al futurismo, perché prosegua la sua opera di svecchiamento del paese. Nell’ambito della glorificazione del movimento si inserisce pure l’omaggio ai maestri del futurismo, in particolare Balla e Boccioni. A Balla, nel cui studio romano Depero aveva compiuto il suo apprendistato pittorico, l’allievo trentino dedica una commemorazione, nella quale traccia un profilo fisico e artistico di una delle personalità di maggior rilievo del futurismo, proponendo che Roma, «città nella quale visse tutta la sua vita artistica, esuberante, eroica e feconda, raccolga e acquisti l’opera di questo inconfondibile maestro rivelatore». L’elogio di Boccioni (divenuto, dopo la sua prematura morte in guerra, una figura eroica e oggetto di venerazione), che ha inizio sin dal primo numero, con un profilo anonimo, avrà poi un’ampia prosecuzione nell’ultimo fascicolo della rivista, che è un numero triplo speciale, interamente dedicato alle Onoranze nazionali a Boccioni. Quel numero si apre con un pezzo firmato da Depero, il quale annuncia che il Duce ha concesso il suo patronato alle onoranze per Boccioni, da celebrare a Milano, dove il maestro futurista era vissuto, e che «Dinamo futurista» ha avuto l’incarico di comporre per la circostanza il numero speciale «dedicato all’opera e alla vita del grande maestro scomparso ». Il direttore coglie l’occasione per lamentare il fatto che il futurismo sia ancora ostacolato e scarsamente valorizzato e poco nota sia anche l’opera rivoluzionaria di Umberto Boccioni: L’Italia, è bene ripeterlo per l’ennesima volta, per mezzo del Futurismo ha riconquistato il primato mondiale nel campo delle arti. Il dinamismo plastico di Boccioni ha risvegliato e indirizzato le aspirazioni di infiniti movimenti artistici esteri. Però l’opera di Boccioni non è ancora sufficientemente conosciuta e degnamente valorizzata.
In effetti queste affermazioni, rispondenti per molti aspetti a verità, sono influenzate anche dall’atteggiamento tipico degli anni Trenta, caratterizzati dalla tendenza alla glorificazione di personalità di spicco del primo futurismo (soprattutto Boccioni e Sant’Elia) : la propensione all’elogio dei traguardi raggiunti dal movimento e dai suoi maggiori esponenti è presente infatti nella rivista roveretana, come in molte testate coeve. Conclusa la breve ma intensa esperienza di «Dinamo futurista», Fortunato Depero prosegue la collaborazione con importanti giornali italiani e stranieri: la più nota è quella con « La Sera » di Milano, collaborazione iniziata nel e portata avanti negli anni seguenti, pubblicando quasi esclusivamente ricordi dell’esperienza americana,
. Fortunato Depero, Aver fede, ivi, p. . . Fortunato Depero, Giacomo Balla, ivi, p. . . Fortunato Depero, Onoranze a Umberto Boccioni, «Dinamo futurista», Rovereto, giugno , p. .
f o r t u n a t o d e p e r o e le ri v i s t e
brani riguardanti i viaggi per e da New-York e racconti della vita artistica della “Grande Mela”. Molto meno nota è la partecipazione di Depero, dopo la «Città futurista», a un’alra creatura di Fillìa, ossia alla torinese «Stile futurista». Su tale mensile egli interviene una prima volta nel dicembre del con un articolo dal titolo Stile di acciaio, che glorifica la macchina, simbolo della potenza e dello stile futurista e fascista, e una seconda volta l’anno seguente, con New York nuova Babele. Questo contributo raccoglie alcuni passi che raccontano la vita di Depero a New York, già conosciuti perché antologizzati nel volume Fortunato Depero nelle opere e nella vita e interessanti in quanto riguardano il teatro americano e la concezione deperiana di spettacolo teatrale, il quale dovrebbe assomigliare ad uno spettacolo di varietà. Il primo intervento è invece di carattere teorico e propagandistico, poiché in esso l’autore sostiene che ogni epoca ha avuto il proprio stile e il xx secolo, secolo di profondi cambiamenti industriali e sociali, non potrà che adottare lo stile della velocità, ossia lo stile futurista, di cui si faceva alfiere, sin dal titolo, la testata torinese: Uno stile potente, inevitabile, per grazia della macchina lo avremo anche noi, bianchi del xx secolo : secolo della velocità e dell’acciaio, secolo del fascismo e del futurismo. Il nostro stile sarà quello dell’acciaio tricolore. [...] Lo stile dell’acciaio ha invaso il nostro cielo, la nostra terra e il nostro mare; ma è anche penetrato nella nostra persona, nel nostro cuore, nel nostro cervello. Perciò il linguaggio nostro di oggi è tagliente e saldo. [...] Eccovi, care macchine, con quale chiarezza, con quale fede, con quale potente convinzione vi dichiaro e vi predico la vittoria del vostro stile, inconfondibilmente originale ; stile che il Futurismo ha scoperto e i futuristi hanno realizzato e che nel nome del nostro onnipresente duce e del nostro amato capo Marinetti, porteranno alle più alte realizzazioni.
Va aggiunto infine che in questi anni, dopo il Trenta, prosegue la pubblicazione di contributi o brevi giudizi su Depero, alcuni più noti, altri meno. Dalla consultazione dell’indice informatizzato approntato all’interno dell’Università Cattolica, emergono articoli come Maschere del tempo, pubblicato nel su «L’Italia letteraria», recante la firma di Brighella, il quale, oltre a fare osservazioni su vari personaggi del periodo, usa parole fortemente ironiche contro Depero, che si fa chiamare Cavaliere e parla di Marinetti come di un profeta. Se in riviste non allineate con le posizioni del futurismo il giudizio sull’artista trentino è negativo, sui fogli futuristi, il parere non può che essere entusiasta : così «Nuovo futurismo» (diretta a Milano da Lino Cappuccio), nel pezzo intitolato Impressioni della mostra di Genova, elogia le decorazioni per edifici pubblici realizzate da Depero, che illustrano «le fasi più significative della rivoluzione fascista» e ne interpretano «con signorilità di effetti l’atmosfera dinamica e la potenza solenne, giungendo al punto di metallizzare persino la figura umana» ; e «Stile futurista», attraverso la penna di Marinetti, manifesta ammirazione per i grandi arazzi deperiani, in un arti. Si omette di parlare della collaborazione di Depero a «Futurismo » (-), diretta a Roma da Mino Somenzi, perché attualmente la rivista non è ancora stata inserita nell’indice cumulativo informatizzato, in quanto lo spoglio è in preparazione. I due contributi più importanti pubblicati dall’artista di Rovereto sul foglio romano sono comunque il manifesto Arte pubblicitaria futurista, uscito sul secondo numero del , e Cucina futurista per il , stampato sul primo fascicolo del . Su quel giornale sono presenti anche alcuni interventi critici sul pittore di Fondo. . Fortunato Depero, New York nuova Babele, «Stile futurista», Torino, marzo , pp. -. . Fortunato Depero, Fortunato Depero nelle opere e nella vita, Trento, Legione Trentina, . I brani in questione sono intitolati Il teatro di varietà, Al teatro Roxy, Salone sperimentale di danze e Millepiedi umano e nel volume autobiografico si trovano alle pp. -. . Fortunato Depero, Stile di acciaio, «Stile futurista», Torino, dicembre , p. . . Brighella, Maschere del tempo, «L’Italia letteraria», Roma, luglio , p. . . A. Emme, Impressioni della mostra di Genova, «Nuovo futurismo», Milano, -, , p. .
federica millefiorini
colo in cui si fa un rendiconto del dibattito sul tema Quale sarà l’arte di domani?, svoltosi a Parigi su iniziativa del capo del futurismo italiano. Nel complesso quindi il materiale di e su Depero, spesso scarsamente considerato, non è poco e particolarmente interessanti si rivelano gli articoli firmati dall’autore trentino, poiché consentono di conoscere meglio la sua attività pubblicistica, di tracciare una storia della sua lunga e multiforme carriera giornalistica ed anche di rileggere la sua opera artistica alla luce delle dichiarazioni e delle prese di posizione manifestate in rivista.
. Filippo Tommaso Marinetti, Quale sarà l’arte di domani?, «Stile futurista», Torino, maggio , pp. -.
Paola Ponti CRÉMIEUX AL ROVESCIO Le sorti d’un critico transalpino sulle riviste italiane del ventennio
U
n me d i a t o r e culturale è in genere apprezzato per la capacità di diffondere la conoscenza di opere straniere nel proprio paese. Non sorprende quindi che gli studiosi di Crémieux si siano per lo più interessati al punto di vista dell’italianisant sui nostri autori contemporanei. La sua attività di critico militante si è però molto spesso imbattuta nelle vivaci reazioni del pubblico, che se in Francia mostra di apprezzare le sue iniziative, da noi le accoglie spesso tra molte contrarietà. Si è voluto così rovesciare la prospettiva più comune degli approfondimenti riservati a Crémieux, concentrati sulle valutazioni del critico, per ricostruire alcuni episodi della sua controversa fortuna italiana. Si delinea nel complesso un andamento sinusoidale, che negli anni Venti alterna furori polemici ad atteggiamenti più cauti e costruttivi, fino a presentare nuovamente profonde riserve nel decennio successivo, quando alle polemiche letterarie si intrecciano talvolta quelle ideologiche e politiche. In realtà, l’attenzione riservata a Benjamin Crémieux negli ultimi quarant’anni non è molto più florida di quella che ha contraddistinto i suoi esordi. Il nome di Crémieux ricorre sì d’obbligo in tutti i profili (anche scolastici) dedicati a Svevo ed è legato alla fortuna del teatro pirandelliano in Francia; solo nel , tuttavia, esce un volume monografico ampio e dettagliato di Francesca Petrocchi, che rende giusto merito all’impegno profuso dallo studioso francese per diffondere le nostre lettere oltralpe. A voler estendere la ricognizione al di fuori dei i confini nazionali, può essere utile segnalare la lodevole tesi di dottorato di Elmo Giordanetti che, all’acume critico e alla chiarezza dell’impostazione, unisce un’apprezzabile precisione nel ricostruire la vita, le relazioni personali e la bibliografia di Crémieux. Mentre il lavoro della Petrocchi ha avuto una discreta circolazione, tanto che nel ne è stata pubblicata una seconda edizione riveduta, quello di Giordanetti rimane introvabile in Europa e per questo ha contribuito in modo assai marginale ad attrarre l’attenzione degli addetti ai lavori sul letterato di Narbona. Una delle etichette più fortunate, anche se non prive di rischi, applicate a Crémieux, fu quella datagli da Maurice Rouzard in un’intervista del , che utilizzò l’aggettivo « présentiste » per indicare un’attenzione rivolta esclusivamente alla produzione arti. Per il reperimento del materiale tratto dai periodici italiani, si è ricorsi al Catalogo Italiano dei Periodici del Novecento (Iride ), elaborato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore sotto la direzione del Prof. Giorgio Baroni. . Francesca Petrocchi, Profili di italianisants. Benjamin Crémieux e Louis Chadourne, Napoli, Esi, . Tra gli studi più significativi riservati a Crémieux, si segnalano: Maurice Martin Du Gard, Benjamin Crémieux, «Les Nouvelles littéraires», Parigi, o novembre , poi in Id., Feux tournants, nouveaux portraits contemporains, Paris, Bloch, , pp. -; Alven Allen Eustis, Marcel Arland, Benjamin Crémieux, Roman Fernandez, trois critiques de la «Nouvelle revue française», Paris, Debresse, (sul metodo critico); Francesco Luigi Oddo, I grandi scrittori meridionali nel pensiero critico di Benjamin Crémieux, « Nuovi quaderni del meridione», Palermo, luglio-settembre , pp. -; Mohammad Hossein Karimi, Benjamin Crémieux critique littéraire et témoin de son temps, Paris, Nanterre, (tesi di dottorato sull’attività di critico dedicata ad autori francesi); Alberto Cavaglion, Mon frère le Carso: Benjamin Crémieux traduttore di Slataper, «Novecento », Grenoble, luglio , pp. -; Roberta Trice, Benjamin Crémieux e l’Italia: «il paese dei vent’anni», « Nuova antologia », Firenze, luglio-settembre , pp. -. . Elmo Giordanetti, Benjamin Crémieux, a franch critic of italian literature, Princeton, Phd, . . Maurice Rouzard, Où va la critique (Benjamin Crémieux), «Les Nouvelles littéraires», Parigi, ottobre , p. .
paola ponti
stica contemporanea, spesso a quella recentissima. Si è tuttavia tentati di utilizzare questa definizione in un modo improprio, ma pertinente al punto di vista adottato in questo articolo: présentiste, infatti, è adatto anche ad un nome che ricorre in articoli, saggi e carteggi, talora come portavoce di una visione miope e poco sensibile alla tradizione letteraria italiana, talaltra come inesausto promotore della conoscenza dei nostri autori in Francia o, infine, come sostenitore del romanzo d’analisi. Présentiste, dunque, perché presente spesso e in modi assai vari nella pubblicistica del ventennio (soprattutto degli anni Venti). A considerare anche sommariamente gli interventi pubblicati da Crémieux in questo periodo, appare chiaro che la sua attività di critico e di mediatore culturale – nata a Firenze sotto gli auspici di Julien Luchaire e proficuamente alimentata dai fitti contatti con esponenti della «Voce », quali Prezzolini, Soffici, Papini, Cecchi – si radica definitivamente a Parigi. A partire dal saranno infatti le riviste francesi, la «Nouvelle revue française» in primis, «Les Nouvelles littéraires» e la «Revue de France», ad ospitare i comptes-rendus sugli autori italiani più rappresentativi e le vedute panoramiche che tanto scandalo suscitarono da noi. Tuttavia, a dispetto di un lavoro svolto lontano dai periodici letterari italiani e di un’ottica che spesso risultò mal accetta agli interessati, le opere e le opinioni di Crémieux godono di un’accoglienza non trascurabile in Italia, seppure, come si è detto, non sempre benevola. Si può senz’altro affermare che i suoi lavori più cospicui, persino il suo unico romanzo ed alcune traduzioni, vengano segnalati sulle maggiori testate letterarie, «La Ronda» e «Il Convegno» nei primi anni Venti, « Solaria » e «La Fiera letteraria» in quelli immediatamente successivi, «Pegaso », « Il Saggiatore » e soprattutto «L’Italia letteraria» nel decennio a seguire. Si tratta per lo più di interventi brevi, in forma di recensione, la cui storia cronologica viene singolarmente aperta e chiusa da due polemiche, l’una con «La Ronda», l’altra con «Frontespizio ». . I pr i m i a n n i d e l d o p o g u e r r a e l’ i m m a g i n e d e l l ’ i t a l i a n i s t a i n t e m p e s t i v o Nel riconsiderare il primo intervento postbellico che Crémieux dedica alla letteratura italiana, sembra inevitabile porsi una domanda preliminare: perché un critico, che ha vissuto lungamente a Firenze nel clima dell’avanguardia vociana e ha intessuto rapporti personali di amicizia con molti italiani, decide di pubblicare un articolo così drasticamente polemico, per giunta sulla maggiore rivista letteraria francese, la «Nouvelle revue française» ? Quale scopo voleva raggiungere, a quale lettore (implicito) intendeva rivolgersi? Che sia stata solo ingenuità o scarsa esperienza, è difficile credere dato che l’esordio sull’illustre mensile parigino avrebbe dovuto, plausibilmente, indurre alla prudenza, se non altro a formulare le medesime considerazioni in forma più sfumata. Crémieux comincia invece con questo attacco perentorio: Dans la vie intellectuelle de l’Europe, la littérature italienne d’aujourd’hui ne joue aucun rôle actif et fécondant. Elle n’est plus qu’une succursale des littératures étrangères, française et anglaise en particulier.
E se fin qui, siamo ancora nel campo delle affermazioni generali, quindi passibili di un correttivo e di una messa a fuoco, poco sotto specifica meglio a chi intende riferirsi: D’Annunzio excepté, l’Italie n’a aucun grand écrivain vivant à exporter. Les meilleurs des Futuristes (Palazzeschi, Govoni, Cavacchioli), les écrivains du groupe si sympathique de la Voce (Papini, Jahier, Soffici, Rébora), tout audacieux et entreprenants qu’ils soient, n’ont encore à leur actif que . Benjamin Crémieux, Sur la condition présente des lettres italiennes, «Nouvelle revue française», Parigi, ottobre , p. .
crémieux al rovescio
des demi-réussites. Ce n’est pourtant ni la culture, ni l’imagination, ni les dons lyriques, ni, pour tout dire d’un mot, le talent qui leur manquent. Et le plus triste, c’est qu’une réussite complète de l’un d’eux ne nous apporterait, a nous Français, aucun enseignement original.
Crémieux non intende porre in primo piano gli aspetti distintivi della produzione letteraria italiana in modo neutrale, ma conferisce allo studio un taglio comparatistico, che mira a mettere in evidenza ciò che all’Italia manca per essere davvero al passo con l’Europa (un romanticismo che non sia di stampo politico e patriottico e una lingua slegata dai canoni del classicismo, in grado di esprimere «le lyrisme personel»). Emulo di M.me di Staël, il critico della «Nouvelle revue française» suscita la polemica, facendo leva sui giudizi di molti francesi, talora perfino su alcuni luoghi comuni. Egli ottiene in questo modo un duplice effetto : far parlare oltralpe gli interessati, stuzzicando la loro sensibilità letteraria, e accattivarsi l’avallo preliminare dei colleghi parigini, riproponendo una versione aggiornata della classica superiorità della Francia sull’Italia. La sua severità si spiega quindi in due modi: da una parte sceglie di estremizzare le proprie affermazioni, semplificando questioni delicate e complesse come la natura del romanticismo italiano, a vantaggio di un quadro sintetico e d’effetto ; dall’altra rivela la sua ottica di mediatore culturale, nella quale si assommano l’esperienza del critico e quella del traduttore. In un certo senso, sotteso alla sua analisi, c’è il desiderio di rispondere all’ipotetica domanda di uno straniero: che libro italiano potrebbe appassionarmi o interessarmi o arricchirmi culturalmente? La risposta di Crémieux, a tutta prima, è: nessuno. È vero che a questa puntata, ne seguì una seconda, in notevole ritardo, più morbida e ossequiosa soprattutto verso i membri di quelle riviste – si vedano la «Ronda » e « Il Convegno » – che risposero risentite al suo iniziale intervento; la fortuna di Crémieux, tuttavia, rimase legata ai giudizi espressi nell’esordio, ritenuti severi e intempestivi, quegli stessi che suscitarono le polemiche di Bacchelli, Cecchi e di Ungaretti puntualmente ricostruite da Francesca Petrocchi. E se la studiosa si concentra soprattutto sulla reazione degli italiani, a partire da quella ungarettiana che capovolge la diagnosi pubblicata sulla « Nouvelle revue française», Giordanetti non si spiega la mancanza di tatto riscontrabile nei toni e nell’impostazione dell’articolo. In esso, tra l’altro, viene deliberatamente tralasciato ogni riferimento a Pirandello, la cui fama internazionale avrebbe potuto fungere da correttivo alla pessimistica visione panoramica di Crémieux. It is difficult to understand the tone and manner of this particular article. Crémieux seems determinated here to be severe toward Italian literature at all costs, to the point of consciously omitting an important and superior author [Pirandello], and even to the point to misrepresenting some of his own opinions [quelle positive già espresse su Papini e Soffici], perhaps with the thought that by not mentioning a single specific work, an author’s name might be overlooked among the others. Perhaps this is simply the result of a young critic’s being overly serious in his first important critical article.
Sebbene l’impostazione del saggio sia deliberata e non possa a nostro avviso essere imputata all’inesperienza di un critico, che in fondo nel aveva anni e una (minima) . Ivi, p. . . Benjamin Crémieux, Sur la condition présente des lettres italiennes, «Nouvelle revue française», Parigi, maggio , pp. -. . Petrocchi, Due profili... cit., pp. -. Si vedano in particolare le reazioni di Bacchelli sulla «Ronda » nel numero di ottobre-novembre , pp. - e quelle di Cecchi, espresse a margine di una recensione al volume dannunziano di C.H Herford e pubblicate sempre sulla «Ronda » nell’agosto-settembre , p. . Per le riflessioni ungarettiane, cfr. invece Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, , pp. -. . Giordanetti, Benjamin Crémieux..., cit., p. .
paola ponti
bibliografia all’attivo, è pur vero che Crémieux si trovò a mal partito nel mediare tra la défiance francese e la permalosità italiana. Se riuscì a gratificare l’una, certamente urtò in modo quasi irreparabile l’altra. Del resto, egli era consapevole dei rischi a cui andava incontro, stando a quanto scriveva a Prezzolini nel maggio del : J’ai donné à la Nouvelle revue française ma première chronique littéraire italienne qui passera en juillet, sauf imprévu. J’y fais une série de considérations générales un peu sévères sur la production italienne contemporaine et j’ai peur de faire de la peine aux Italiens qui me liront. Mais je compte dans la suite rentrer en grâce par l’attention que j’accorderai à toute tentative intéressante. Vous me parlez de la valeur du style de certains Italiens d’aujourd’hui. Croyez que je la sens trés vivement : lire du Soffici ou du Panzini est une délice pour moi (bien que je trouve Panzini ennuyeux). Mais même le style le meilleur n’a d’originalité assez forte pour avoir une influence sur nos moyens d’expression, a nous Français, influence que le style des Anglais, des Russes, des Scandinaves a eue. Je déplore que la littérature italienne n’ait plus depuis longtemps une valeur européenne.
Da questo episodio cominciano a delinearsi i tratti distintivi della ricezione di Crémieux in Italia. Sebbene non manchino eccezioni significative, la sua figura viene collegata assai più al tono provocatorio sotteso a certe semplificazioni, che alla sensibile attenzione riservata altrove a molti letterati italiani, si pensi a Papini, Soffici, Ungaretti e Cecchi, per citare solo alcuni di coloro che vennero direttamente interessati nella polemica. Fin d’ora, inoltre, emerge una sorta di dicotomia tra la fortuna riscontrata presso i francesi, spesso solidali e interessati alle rubriche di mediatore culturale e ai suoi saggi di letteratura italiana, e quella spesso poco rosea che si delinea da noi, sia prima sia dopo l’avvento del fascismo. In questo articolo si è inteso ripercorrere alcuni episodi meno noti della ricezione italiana di Crémieux. Sarà per questo utile anticipare brevemente un altro momento topico delle sue sorti, quello legato alla scoperta di Svevo. Il “caso” che riguarda l’opera del triestino, già ricostruito da Enrico Ghidetti con dovizia di particolari, interessa qui, prima ancora che per i risvolti critici, perché contribuisce a confermare la diffidenza degli italiani verso Crémieux. Egli indica infatti, come unica eccezione significativa nel triste panorama della narrativa italiana, un autore poco noto, «dilettante », per nulla ossequioso verso la tradizione letteraria. Ormai scottato dalle aspre reazioni al suo saggio Sur la condition présente des lettres italiennes, Crémieux avrebbe potuto segnalare le doti narrative di Svevo con maggior prudenza, tenendo presente la suscettibilità di chi si era già ampiamente risentito nei suoi confronti. Ma non è alla permalosità italiana che guarda, bensì alle qualità dell’autore della Coscienza di Zeno, che sceglie di porre all’attenzione degli addetti ai lavori in modo più plateale di quello di Montale: se questi si limita ad una recensione – pubblicata sull’«Esame » e passata poi alla storia –, Crémieux decide di agire su due fronti, «Le Navire d’argent» e «La Fiera letteraria», definendo in entrambi i casi l’autore triestino l’unico romanziere d’analisi italiano. Non c’è dubbio che all’entusiasmo della scoperta e del “lancio”, il cui esito si deve anche al contributo di Larbaud, si aggiunga una precisa strategia, nella quale le reazioni risentite (e prevedibili) della parte offesa sono elementi di un copione e contribuiscono ad aumentare la notorietà dell’oggetto del contendere. Si può discutere degli effetti che tale . Lettera di Benjamin Crémieux a Giuseppe Prezzolini, inviata da Parigi, il maggio . La missiva fa parte di un carteggio di manoscritti custodito presso l’Archivio Prezzolini di Lugano. . Enrico Ghidetti, Il caso Svevo. Guida storica e critica, Bari, Laterza, . . Benjamin Crémieux, Italo Svevo, «Le Navire d’argent», Parigi, o febbraio , pp. -; Id., Uno scrittore italiano scoperto in Francia, «La Fiera letteraria», Milano, febbraio , p. .
crémieux al rovescio
scelta ebbe sulla fortuna sveviana, ma pare difficile negare che essi fossero inattesi. Crémieux quindi non fu solo vittima ma anche, in parte, artefice della prospettiva diffidente di chi si peritò di stroncarne l’opera. Nel pubblicare questo articolo di Beniamino Crémieux, noi vogliamo rendere omaggio alla sua buona fede di fervente italianisant piuttosto che aderire al suo giudizio su Italo Svevo e partecipare al suo entusiasmo per questo scrittore. [...] Ma dove più ci distacchiamo dal Crémieux è appunto nel considerare che cotesta arte analista, vera o presunta tale, sia la sola degna oggi di vivere in un clima europeo e d’essere quindi esportata. È ben certo che i pescatori del Verga non possano inserirsi nella letteratura europea quanto i servi della gleba del Dostoievki?
I giudizi espressi dalla redazione della «Fiera letteraria» in calce all’articolo del sono quindi esemplari di un atteggiamento ancipite, frequente sul periodico, che ospita il contributo in prima pagina, riservandosi subito dopo di prendere nettamente le distanze da quanto vi è sostenuto. Il riferimento a Manzoni può essere letto in due modi: è certamente una visione retrospettiva, che trascura la novità rappresentata dalla Coscienza; tuttavia indica l’esigenza di opporre alla mediazione culturale europeista di Crémieux un’identità più profonda della letteratura italiana, nella quale i giovani autori potessero meglio riconoscere se stessi e la propria formazione. Cioè a dire che l’Italia poteva ben figurare negli altri paesi, mantenendosi fedele all’esempio dei Promessi sposi. Sarà proprio Crémieux a ricorrere alle parole della Lettre a M. Chauvet per rispondere all’ennesimo attacco italiano, proveniente questa volta dalle pagine di «Frontespizio ». Nel , infatti, su «Frontespizio » esce un articolo singolare dedicato a Crémieux: si tratta della citazione di un passo di Vincenzo Gioberti, nel quale si guarda con sospetto alle critiche provenienti da Parigi: Uno dei contrasti esteriori, al quale è difficile che sfugga lo scrittore italiano, ricordevole del suo debito verso il vero e verso la patria, è l’animosità degli stranieri. [...] E quando dico stranieri in questo proposito, intendo parlar dei Francesi; i quali fra tutti gli oltramontani sono, si può dire, i soli, che arruffino il pelo e facciano il viso dell’arme, allorché gli altri popoli non consentono di riconoscersi moralmente loro vassalli [...]. Chi scrive dunque in sulle sponde del Po e dell’Arno non si dia fastidio né affanno, se non garba ai censori della Senna: si guardi solo che quei lontani romori lo facciano sostare o torcere dal buon cammino. Né abbia paura che le critiche mordaci, le invettive acerbe possano nuocere alla sua reputazione e a quella dei propri libri in Italia o fuori; perché passato è il tempo, che gl’Italiani aspettavano i brevi o le bolle dei giornalisti di Parigi per saper che giudizio far si dovesse dei patrii ingegni e delle loro opere.
Come nota Giordanetti, la pubblicazione di questo passo è una risposta irritata alle affermazioni di Crémieux sull’Uomo è forte di Corrado Alvaro, che contenevano accenni polemici sulla politica culturale italiana del tempo. All’articolo di «Frontespizio », Crémieux rispose sulla «Nouvelle revue française» nel , citando la Lettre a M. Chau. Cfr. quanto afferma Bruno Maier: «quella tendenza propria degli “scopritori” francesi dello Svevo a presentare lo scrittore triestino come il “Proust italiano” e ad elogiarlo come il più grande narratore analitico italiano del Novecento doveva fatalmente urtare parecchi letterati del nostro paese, colpendo la loro suscettibilità nazionale ed estetica e inducendoli ad esaminare il “caso Svevo” con una severità o per lo meno con una prudenza maggiore di quanto non fosse desiderabile ai fini d’un equa valutazione» (Introduzione a Italo Svevo, Opera omnia. Romanzi, a cura di Bruno Maier, Milano, Dall’Oglio, , pp. -). . Dal corsivo pubblicato in calce all’articolo di Crémieux dal titolo Uno scrittore italiano scoperto in Francia...cit., p. . . Una pagina di Vincenzo Gioberti dedicata a Benjamin Crémieux, «Il Frontespizio», Firenze, febbraio , p. . . Benjamin Crémieux, recensione a Corrado Alvaro, L’uomo è forte, «Nouvelle revue française», Parigi, o novembre , pp. -.
paola ponti
vet di Manzoni per ribadire l’universalità della letteratura e l’imparzialità del giudizio. I dissapori di carattere ideologico intervenuti negli anni Trenta, tuttavia, non fanno che approfondire uno iato già in atto da quasi due decenni, che non interessa solo le valutazioni dell’italianisant in quanto critico militante, ma anche la sua opera creativa e traduttoria. È anzi in questi ambiti che la sua figura appare più fragile e meglio presta il fianco alle obiezioni dei letteratissimi italiani, i cui demeriti erano a suo avviso innegabili «sous l’angle européen». . C r é m i e u x r o m a n z i e r e e i gi u d i z i d e l l a « Ro n d a » Già nel Crémieux aveva dedicato a romanzo italiano uno studio di una certa ampiezza, uscito sulla «Revue de sinthèse historique». Nel avrebbe rivelato l’originalità di Svevo al pubblico del suo e del nostro paese (fatta salva, s’intende, la priorità cronologica montaliana). Non sorprende che la sua unica opera creativa, Le premier de la classe, che ottenne il premio Blumenthal nel per la volontà di una giuria in cui figurava nientemeno che Marcel Proust, abbia avuto una certa risonanza anche in Italia. Risonanza di critica, perché il romanzo non fu mai tradotto e circolò in misura limitatissima anche in edizione originale. Scrive Crémieux a Soffici nel : J’ai eu une critique excellente, unanime. Et il y a huit jours, j’ai eu la bonne surprise de me voir attribuer un prix de . francs, le prix Blumenthal, fondé par un group d’Americains, par une jury composé de Gide, Proust, Paul Valéry, Comtesse de Noailles, Bergson, Henry de Réigner, René Boylesve, Edmond Jaloux, Gaston Riou et Robert de Flers. Cela me classe et va pousser la vente du livre. Ce prix Blumenthal est attribué tous les deux ans; il y a deux ans c’était Jacques Rivière qu’il avait eu.
Queste affermazioni trovano conferma anche presso la critica ufficiale. Nel dicembre , infatti, Louis Martin-Chauffier aveva pubblicato sulla «Nouvelle revue française» una recensione positiva sul romanzo di Crémieux, che interessa non solo per l’assenza di riserve, ma soprattutto per il taglio degli apprezzamenti, rivolti quasi interamente all’efficace caratterizzazione del protagonista, alla sobrietà dell’analisi psicologica e, infine, alla capacità di esprimerne gli slanci ideali senza eccessi retorici. Parvenir, sans effets de style, sans emphase, sans que nul élément étranger s’y ajoute, et simplement par des mots ordinaires, par une analyse étonnamment subtile et exactement déroulée, par la verité, pour tout dire, mais une vérité saisie par un esprit qui n’en laisse rien échapper, et cependent sait y choisir précisément et n’en garder que l’essentiel, à créer une émotion qui rien n’étonne, ni n’afflige, ni ne détourne, en dehors de la question posée, c’est une réussite assez remarquable. Mais le plus difficile était sans doute ailleurs, je veut dire de nous conduire à admetre qu’un enfant de treize ans puisse vouloir se donner la mort pour la défance d’une idèe qu’il a conçue, sans nous paraître, ou bien une sort de monomane qui relève plutôt de la médecine mentale que de l’art du roman, ou bien, tout simplement, un type exagéré, qui cesse d’intéresser, dans la . Benjamin Crémieux, France-Italie, « Nouvelle revue française», Parigi, aprile , p. : «Il n’y a pas longtemps encore que juger avec impartialité les génie étrangers attirait le reproche de manquer de patriotisme; comme si ce noble sentiment pouvait être fondé sur la supposition absurde d’une perfection exclusive, et obliger, par conséquent, quelqu’un à prendre une jalousie stupide pour base de ses jugements; comme si le coeur humain était si resserré pour les affections sympathiques qu’il ne pût fortement aimer sans haïr; comme si les mêmes douleurs et la même expérance, le sentiment de la même dignité et de la même faiblesse, le lien universel de la verité, ne devaient pas plus rapprocher les hommes, même sous les rapports littéraires, que ne peuvent les séparer la différance de language et quelques degrés de latitude». . Benjamin Crémieux, Le roman italien contemporain, «Revue de sinthèse historique», Parigi, agosto-dicembre , pp. -. . Lettera di Benjamin Crémieux ad Ardengo Soffici, del giugno , citata da Giordanetti, Benjamin Crémieux..., cit., p. .
crémieux al rovescio
mesure où il cesse de sembler véridique. Mais M. Crémieux a su peindre une âme singulière, supérieure, et pourtant enfantine, qui nous surprend, parce qu’elle est rare, mais ne nous choque pas, parce qu’elle est parée des couleurs de la vie. Tous les éléments de cette âme sont des éléments naturels, seulments très développés; leur réunion, leurs jeux, leurs rapports, pour être rares n’en sont pas moins logiques. Rigaud est un esprit exceptionnel, mais normalement constitué.
Queste considerazioni della «Nouvelle revue française» testimoniano un giudizio ampiamente positivo, tanto più rilevante in quanto si tratta della rivista letteraria francese più nota e influente da noi. Quand’anche si volesse ipotizzare un pizzico di partigianeria nel recensore, dato che Crémieux era un collega, ciò non toglie che il romanzo ebbe un’accoglienza assai notevole. Il pubblico italiano fu in genere meno generoso. Piuttosto duro è infatti il giudizio di Alberto Savinio sulla «Ronda », rivolto all’insieme del romanzo e alla sua coesione complessiva, e caratterizzato da un tono ironico, che ben traduce il senso di scarsa adesione a quanto risultava imputabile allo stile di Crémieux. I difetti di Le premier de la classe risiedono in un’attitudine realistica e descrittiva troppo meticolosa, di matrice «ebraica », spesso sensibile agli aspetti meno allettanti della realtà. A tale tendenza si giustappongono momenti di evasione fantastica, il cui lirismo diviene sgradevole e sentimentale. Le qualità che spiccano nel romanzo del signor Crémieux sono di carattere prettamente ebraico. Tale giudizio, in cui non entra ombra di malizia, invitiamo l’autore ad accettarlo quale una lode. Ma i difetti di questo racconto, non sono meno ebraici delle sue qualità. Nel Premier de la classe abbiamo riconosciuto uno strano dualismo. Si pensa a un miope che guardi il mondo quando col sussidio delle lenti, e quando senza. Difetti e qualità si bilanciano in questo romanzo con equilibrio presso che perfetto. Ciò ritorna, ben inteso, a danno della narrazione, la quale riesce frantumata, e si direbbe scritta da due autori, diversi pure di natura.
Savinio riserva un giudizio più favorevole alle parti del romanzo che si svolgono a scuola o in famiglia. Anche in questo caso, però, l’apertura ad una valutazione benevola è più apparente che reale, perché le vicende scolastiche di Jean Rigaud vengono avvicinate a quelle narrate in Cuore da Edomondo De Amicis, al quale Savinio non riconosce « nessuna qualità di scrittore». Crémieux, che si dimostra abile nel tracciare i rapporti familiari del protagonista con il padre, avrebbe dovuto avvedersi, da «critico esperto» quale era, della sproporzione del libro: «Allora perché non averci posto rimedio?... – si domanda il recensore – Mistero: mistero della paternità. Né spetta a noi di certo penetrare tali ascosi sentimenti». Savinio certamente ridimensiona i meriti del romanzo. Si potrebbe anzi presumere lo prenda a pretesto per esprimere le proprie riserve verso l’ennesima declinazione dello spirito analitico francese di stampo proustiano. Tanto più che l’autore del libro era quel «critico esperto» che in Italia non vedeva altro se non « demi-réussites ». Da quanto emerge in una missiva di Crémieux ad Ardengo Soffici, il parere di quest’ultimo doveva essere ben più favorevole. Seppure si tratti di una valutazione espressa in privato, di poco successiva ad un articolo pubblicato da Crémieux sulla «Re. Louis Martin-Chauffier, recensione a Benjamin Crémieux, Le premier de la classe, «Nouvelle revue française », Parigi, dicembre , pp. -. . Cfr. La nouvelle revue française. Antologia critica, scelta e note a cura di Marco Fini e Mario Fusco, prefazione di Carlo Bo, Milano, Lerici, . . Alberto Savinio, recensione a Benjamin Crémieux, Le premier de la classe, «La Ronda», Roma, novembredicembre , pp. -. . Ivi, p. . . Ivi, p. .
paola ponti
vue de France », non pare privo di significato quanto l’italianista francese scrive all’amico fiorentino nel dicembre : Cher ami, je suis content que mon livre ne vous ait pas déplu et je vous remercie de tout ce que vous m’en dites d’aimable. Comme je vous sais sincère je prend pour argent comptant vos compliments. Quant aux critiques que vous ne me faites pas par générosité, personne ne se les adresse avec plus de férocité que moi-même. J’ai voulu mettre trop de choses dans ce premier livre pour avori réussi à les bien fondre ensemble. Compter sur vos doigts: peindre mon pays Narbonne que j’ai camoufflé en Auzargues, peindre les boutiques et une petite ville, peindre un enfant, évoquer tout le passé albigeois de mon Bas-Languedoc et sourtout montrer... comment on peut faire éclore une aventure d’une âme.
In generale, le lettere del agli amici italiani contengono sempre riferimenti al romanzo. Crémieux in diversi casi cerca di spiegarne la genesi, per esempio a Cecchi dice : « Lei avrà già ricevuto o riceverà fra giorni il mio primo romanzo: Le premier de la classe, nel quale mi sono provato a far sbocciare un “roman d’aventures” da un romanzo schiettamente psicologico. La fusione dei due generi era difficile. Ma ho sempre avuto in orrore tutto quel che sa di faciloneria». Attraverso la corrispondenza epistolare con Cecchi, Soffici, Puccini è possibile appurare che le informazioni sull’opera sono quasi sempre le medesime, e riguardano il premio, la giuria che l’ha conferito, gli intenti sottesi alla costruzione della vicenda, l’insoddisfazione sul risultato, il proposito di migliorare nel prossimo volume. Crémieux come critico afferma spesso di scrivere per il pubblico straniero, ma in questo caso dimostra di cercare riscontro anche presso i lettori italiani, che una volta di più non gli danno le soddisfazioni sperate. Cecchi infatti gli annuncia una recensione, che non vedrà la luce. Equilibrate e disinteressate appaiono invece le due segnalazioni apparse sul «Convegno ». Anche la rivista di Ferrieri aveva reagito e contraddetto le affermazioni di Crémieux dell’ottobre , ma non per questo sembra nutrire riserve verso lo studioso narbonese. La breve nota di Linati si limita a mettere in evidenza la gradevolezza del libro, paragonandone lo stile a quello delle Nourritures terrestres di Gide, mentre Prezzolini lo cita insieme a L’inquiète adolescence di Chadourne in una nutrita rassegna di narrativa francese. Le premier de la classe è un esempio eloquente di «letteratura biografica » che «risponde a un bisogno di realtà psicologica» ed esprime una forma di prosa lontana da tentazioni calligrafiche. Crémieux e Chadourne hanno grandi qualità. Ricordi evidenti; chiaroscuri di psicologia; finezza (sulla finezza si incardina gran parte dell’arte francese). [...] Questa letteratura biografica risponde ad un bisogno di realtà psicologica: Crémieux e Chadourne non si voglion lanciare nella letteratura pura, in opera di stile; sentono il bisogno di avere una materia di vita: in Crémieux ciò è più riflesso e più critico, in Chadourne più spontaneo e naturale; ma per l’uno come
. Benjamin Crémieux, Ardengo Soffici, «Revue de France», Parigi, o ottobre , pp. -. . Da una lettera di Benjamin Crémieux ad Ardengo Soffici del dicembre , citata da Giordanetti, Benjamin Crémieux. ..., cit., p. . . Lettera di Benjamin Crémieux ad Emilio Cecchi, dal dicembre , custodita presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti. . Eugenio Levi, La luna ripresa sul serio, «Il Convegno», Milano, -, , pp. -. . Carlo Linati, recensione a Benjamin Crémieux, Le premier de la classe, «Il Convegno», Milano, gennaiofebbraio , p. : «Libro piacevole per chi ama le chiare scritture variegate d’un’ironia fine e giornaliera, le feste dell’adolescenza e la fresca e pacata dolcezza della vita provinciale» ; Giuseppe Prezzolini, recensione a Benjamin Crémieux, Le premier de la classe, «Il Convegno», Milano, gennaio-febbraio , p. (la parte riservata a Crémieux si inserisce in un articolo miscellaneo che include anche opere di Jules Romains, Jean Giraudoux, Louis Aragon e altri).
crémieux al rovescio
per l’altro si può dire che han fatto del meglio, e senza oltrepassare gli scopi che si erano posti non ne son neppure rimasti lontani.
Più pacato e neutrale rispetto a Savinio, Prezzolini adotta in questa rassegna un’impostazione familiare anche a Crémieux, selezionando le opere francesi più rappresentative, anche quando non siano dei capolavori. In questo caso, recupera volutamente gli esempi di Crémieux e Chadourne – peraltro non recentissimi dato che risalivano a due anni prima –, perché funzionali ad esemplificare il gusto per la ricostruzione biografica e l’introspezione analitica tipico di molti romanzi d’oltralpe. Prezzolini aveva solidarizzato con il collega parigino anche all’epoca della polemica suscitata dal primo articolo della «Nouvelle revue française», se dobbiamo dare credito a quanto l’italianista gli risponde in una lettera del giugno : «Mon cher Prezzolini, je suis tout à fait de votre avis. L’importance qu’on a accordé a ma note de n.r.f. est déconcertante. Il faut vraiment que les letterati italiens soient désoeuvrés pour en parler encore après trois mois. Je sens d’ailleurs très bien que la chose a dégéneré en querelles personelles entre tel et tel et que je ne suis plus qu’un prétexte. Lasciamo stare...». . B r e v i a p p u n t i s u C r é m i e u x t r a d u t t o r e d i V e r g a , S v e v o e Le o p a r d i La stroncatura di Raffaello Franchi rivolta alle versioni leopardiane di Crémieux è un episodio trascurato dalla critica, anche se pone in evidenza alcune carenze del letterato di Narbona e inaugura l’attenzione riservata da «Solaria » alla sua attività. Prima di prendere in considerazione quanto scritto da Franchi, appare tuttavia opportuna una digressione sul Crémieux traduttore e teorico. È noto che la sua riflessione teorica è piuttosto povera. Rilasciando alcune dichiarazioni a proposito della critica, lo studioso narbonese la presenta come un terreno magmatico, in cui è assai rischioso fissare i termini di un metodo applicabile meccanicamente ad ogni circostanza. Per Crémieux il critico è libero di esprimere una propria estetica solo a posteriori, cioè in fase consuntiva. Le ragioni di questo atteggiamento non sono puramente cautelative, ma vanno individuate in un approccio che mira ad istituire un rapporto di immedesimazione con l’autore. Avendo accertato nell’opera l’esistenza di almeno un «minimum d’originalité», si tratta di «recommencer la création avec un autre métronome», cioè di percorrere a ritroso il lungo travaglio creativo dall’intenzione alla realizzazione concreta. Proprio per la necessità di giungere ad immedesimarsi intimamente con la personalità che emerge dall’opera dello scrittore, Crémieux insiste nel sottolineare l’importanza della “contemporaneità” nell’economia del giudizio. Egli infatti ritiene che solo avendo in comune con l’autore studiato un certo numero di fattori – «le moment et la tradition littéraire, souvent le milieu et la race»–, ci si trova nelle condizioni ideali per comprenderne «le témperament » e per definire in che modo egli abbia dato origine ad una «création strictement individuelle et autonome», partendo dal contesto storico-culturale del tempo. Dei quattro fattori sopra elencati, tuttavia, Crémieux sottolinea in modo particolare
. Prezzolini, recensione a Crémieux, Le premier..., cit., p. . . Lettera di Benjamin Crémieux a Giuseppe Prezzolini, inviata da Parigi il gennaio e custodita presso l’Archivio Prezzolini di Lugano. . Dai Canti Crémieux tradusse L’infinito, Il sabato del villaggio, Il tramonto della luna e A me stesso (« Commerce », Parigi, primavera , pp. -).
paola ponti
l’importanza del primo, del moment, convinto che la «critique ne peut bien interpreter et bien juger que des ouvrages contemporaines». Benché la figura di Crémieux si leghi da sempre anche alle versioni di grandi autori (per esempio Pirandello, Svevo, Slataper, Cecchi, etc.), in generale non è stata messa adeguatamente in rilievo la stretta relazione tra metodo critico, mediazione culturale e attività traduttoria, tre ambiti ai quali Crémieux riconobbe senza dubbio tratti specifici, ma tra i quali è possibile ravvisare significativi elementi di raccordo. La traduzione, in particolare, si pone a metà strada tra critica e mediazione culturale, in quanto dall’una mutua la necessità di rispettare le peculiarità stilistiche dell’autore, dall’altra invece il bisogno, irrinunciabile nell’italianisant, di rendere fruibile l’opera al pubblico straniero. Questi due aspetti, che dovrebbero procedere parallelamente, non di rado subiscono una sorta di sbilanciamento: sia per la difficoltà di tradurre un classico in poesia, sia per il bisogno di non renderlo troppo desueto alle orecchie degli addetti ai lavori d’oltralpe, la volontà di proporre al pubblico francese il testo italiano prevale non di rado sull’impegno a tradurlo in modo rispettoso. In una nota pubblicata su «Candide » nel , Crémieux distingue due diversi generi di traduzione, le «miroirs » e le «dépaysements » : le prime, tipiche dei secoli xvi, xvii e xviii tendono a livellare l’opera sui gusti e le aspettative del lettore del tempo, espungendo tutti i particolari che potevano risultare estranei e incomprensibili al destinatario. Si tratta quindi di riformulare l’opera rendendola accessibile e gradevole, senza chiedere al fruitore un eccessivo sforzo di adattamento e di comprensione. In questo modo, però, si annulla in parte l’utilità dell’immissione di un’opera nel circuito librario di un paese straniero, poiché viene privata in buona parte dei suoi tratti distintivi, al di là del livello contenutistico. Nell’Ottocento, invece, la tendenza si inverte e si approfondisce in senso opposto, per cui le peculiarità del testo non solo vengono valorizzate, ma sono accentuate soprattutto nei risvolti cromatici e sonori. Si pone quindi la difficile questione di definire in che termini la traduzione possa essere considerata fedele: se lo sia a livello linguistico ed espressivo a scapito di una fluida ricezione o se debba curare più gli effetti sul pubblico trascurando il rispetto letterale del testo. Crémieux quindi istituisce come premesse fondamentali della traduzione il giudizio del critico e del mediatore culturale: l’uno rivolto alle qualità dell’opera, alla sua originalità, alla sua capacità di rispecchiare un aspetto significativo della produzione letteraria di un paese straniero o, nel migliore dei casi, di assurgere ad esemplare universale dello spirito umano contemporaneo ; l’altro attento alla necessità di renderne accessibili ai lettori francesi le modalità espressive. È evidente quindi che il rispetto del testo in sé, del delicato rapporto fra forma e contenuto, è solo una delle variabili (e neppure la più importante) di cui tenere conto. Se consideriamo brevemente le osservazioni espresse da Crémieux riguardo a Verga e a Svevo, vedremo come, sull’apprezzamento estetico, intervenga poi quello censorio del comparatista a decretare la non esportabilità del primo e l’universalità del secondo. Sono soprattutto le lettere, più confidenziali, a testimoniare come gli scogli fossero spesso di carattere linguistico. Fin dal suo primo saggio del dedicato al Roman italien contemporain, Crémieux attribuisce attenzione al verismo e all’autore del Mastro Don Gesualdo, ch’egli considera il capolavoro di Verga. Quasi vent’anni dopo, egli approfondisce i suoi giudizi nel Pano. Benjamin Crémieux, D’une technique critique, «Les Nouvelles littéraires», Parigi, aprile , articolo riportato in Karimi, Benjamin Crémieux..., cit., pp. - dell’Appendice I. . Cfr. Benjamin Crémieux, De l’art de traduire, «Candide », Parigi, giugno , p. . . Cfr. Oddo, I grandi scrittori meridionali..., cit.
crémieux al rovescio
rama de la littérature italienne contemporaine, ribadendo il grande valore artistico dello scrittore siciliano e la profonda opera di svecchiamento svolta in Italia dal movimento verista. Se, da una parte, considera il verismo «moderniste » e «européen », dall’altra, vi ravvisa un aspetto regionale e insulare che gli impedisce di essere proficuamente fruito dal pubblico straniero. –Si Madame Bovary, c’est Flaubert, on peut dire que la Sicile de Verga, c’est Verga lui-même, nel mezzo del cammin..., se retournant vers son enfance et vers sa race et s’abbandonant à son insularisme natif, à cette sauvagerie barbare qu’il avait rejeté a vingt ans pour s’italianiser et s’européiser, mais qui n’avait jamais cessé de dresser sa barrière entre le plus intime de lui-même et la civilisation moderne.
La Petrocchi richiama le ragioni addotte da Crémieux per motivare la scarsa circolazione dei romanzi verghiani in Europa: il «particolarismo regionale» e la «complessa problematica e dinamica sociale» difficilmente «accessibile ad un pubblico internazionale ». Un peso non trascurabile, però, deve essere conferito anche alle limitazioni di carattere tecnico di un’«expression trop sobre, trop condensée, trop dédaigneuse de l’effet, trop classique», che scoraggiava una possibile traduzione, limitando così «le rayonnement de l’oeuvre di Verga». Lo stesso Crémieux, del resto, pur confessando a Cecchi la sua ammirazione per lo «style plein et sobre et lyrique» dell’autore siciliano, ammette di avere sconsigliato la riedizione dei Malavoglia in Francia. N’oubliez jamais en lisant ce que je puis écrire sur l’Italie que je cherche ce qui peut intéresser les Français et que je n’écris pas pour les Italiens. Vous verriez dans ma prochaine cronique ce que je dis de Verga. Verga n’a rien à nous apprendre à nous Français, Slataper si, Pirandello si. Et pourtant, je mets Verga bien au-dessus des deux-autres. N’empêche que j’ai déconseillé à Boutelleau de rééditer la traduction des Malavoglia (en lui disant de donner plutôt un choix de nouvelles) e que j’ai traduit moi-même Sei personaggi in cerca d’autore que Pitoëff donnera la saison prochaine.
Se volessimo considerare l’autore di narrativa più “sponsorizzato” da Crémieux, Italo Svevo, non sarà difficile ravvisare in lui una perfetta rispondenza ai canoni del critico, del mediatore culturale e del traduttore: Crémieux ne coglie innanzitutto l’eccentricità rispetto agli ambienti letterari italiani e l’affinità con Proust. Si tratta di un parallelo che in seguito verrà sfumato e specificato, utile per avvicinare Svevo al pubblico d’oltralpe, ascrivendolo all’ambito della letteratura d’analisi. L’autonomia rispetto alla nostra tradizione letteraria italiana diviene per Crémieux premessa dell’originalità dell’opera, soprattutto dal punto di vista formale. Sebbene nell’articolo pubblicato sulla «Fiera letteraria », Crémieux sottolinei i limiti di uno stile che «manca di purezza e di nitore» e che talvolta scardina anche la sintassi, queste affermazioni sono volte a prevenire le obiezioni dei letterati italiani; in realtà egli riconosce alla prosa sveviana il merito di es. Benjamin Crémieux, Panorama de la littérature italienne contemporaine, Paris, Kra, , p. . . Petrocchi, Profili..., cit., p. . . Crémieux, Panorama..., cit., p. . Elmo Giordanetti nota giustamente come il giudizio critico sul verismo si approfondisca col maturare dell’esperienza di Crémieux. Se nel il giovane studioso lo aveva definito una « crisi passeggera », seppure ricca di importanti risvolti per il futuro letterario italiano, nel Panorama gli attribuisce addirittura «l’émancipation définitive de la littératura italienne» (Crémieux, Panorama...cit., p. ). Scrive a questo proposito Giordanetti : « It was the rôle of verism to completely emancipate the litterature of Italy, to free it for the uninhibited reception of new ideas and new influences. The evolution of the new literature from the old is now complete ; Italy has its own literature that is completely modern in all respects» (Giordanetti, Benjamin Crémieux..., cit., p. ). . Da una lettera di Crémieux a Emilio Cecchi, datata luglio e custodita presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti. . Crémieux, Uno scrittore..., cit., p. .
paola ponti
sere priva di retorica, di evitare espressioni troppo ricercate, di plasmarsi perfettamente sulla materia trattata. La compattezza e la linearità reggono sorprendentemente al passaggio in lingua francese: Uno dei miei stupori di traduttore è spesso stato quello di vedere sgretolarsi, sfarinarsi sotto la mia penna alcune frasi italiane che alla lettura avevano lo splendore e la durezza del diamante. Tutta la prosa di Svevo è d’una stoffa solida che non si lacera traducendola, d’una polpa che conserva intatto il suo sapore valicando le frontiere.
Fatte queste premesse, proviamo ad accostarci alle versioni leopardiane: da una parte, possiamo azzardare alcune ipotesi sulle valutazioni che spinsero Crémieux ad intraprendere un’impresa indubbiamente ardua, lontana dalla sua competenza; dall’altra, riconoscere l’attendibilità del recensore solariano, le cui osservazioni non sono questa volta imputabili alla solita animosità di parte. Leopardi otteneva in «Commerce » una collocazione davvero speciale, europea, in una serie di quaderni che raccoglievano pagine insigni e traduttori non meno valenti. Il giudizio espresso in merito da Ungaretti può fare fede: « Commerce » è di certo l’antologia internazionale meglio portata a compimento dalla letteratura del primo cinquantennio del Novecento. [...] Si esigeva in «Commerce » rigore di forma da parte di chi era chiamato a collaborarvi, anche da parte di chi traduceva, e Eliot vi fu tradotto da Perse, e il Woyzeck di Georg Büchner da Jeanne Bucher, Groethuysen e Paulhan, Lorca da Superveille, Thomas Hardy e frammenti dei Marginalia di Poe da Valéry, Kierkegaard da Jean Gateau, Barilli, Bacchelli, Cecchi, Alfonso Reyes, Joyce, e tanti altri da Valery Larbaud, Cardarelli da Joseph Baruzi, Crémieux vi tradusse alcuni Canti di Leopardi ed io, e fu la loro prima traduzione fuori d’Italia, alcuni pensieri dello Zibaldone.
Tentando di giustificare la scelta di Leopardi al di là di una semplice committenza esterna, pure probabile, possiamo immaginare rappresenti un romanticismo svincolato da tematiche patriottiche. Sappiamo bene che per Crémieux proprio al romanticismo più legato all’idea della nazione italiana andava imputata la mancanza di strumenti adeguati a procedere in direzione di un’analisi in interiore homine. Ed è inoltre plausibile che, pur nutrendo qualche dubbio sulla resa francese dei testi, Crémieux ne cogliesse tanto il valore «universel », quanto quello più contingente, intertestuale e culturale, utile a conoscere un autore che tanto aveva contato per i rondisti e per Ungaretti. Leopardi francese, dunque, a dispetto dei rischi che la traduzione di capolavori come L’infinito o Il sabato del villaggio poteva comportare. . « I C a n t i » di Cr é m i e u x e la st r o n c a t u r a d i « So l a r i a » Si è già detto che Crémieux tradusse su «Commerce » quattro liriche di Leopardi. Rimandiamo ad altra occasione un’analisi puntuale dei versi. Se ne riporta in nota il più celebre, L’infinito, per dare un’idea della versione francese. Ci limitiamo a notare quanto si rileva da una prima lettura: si tratta di una traduzione che smarrisce completamente il ritmo dell’originale. L’infinito di Crémieux è descrittivo e, laddove Leopardi universalizza, tende all’indefinitezza, il traduttore determina e descrive. Ne deriva un . Ivi, p. . . Ungaretti, Vita d’un uomo. ... cit., pp. e . . Toujours j’amai ce coteau solitaire / Et cette haie qui ferme à mon regard / Tout un côté de l’horizon lointain. /Mais je m’assieds et je regarde: les espaces / Sans limite qui naissent là, les surhumains /Silences et le calme le plus profond, / Mon esprit imagine tout et l’épouvante / Approche de mon coeur. Et si j’écoute / Le vent gémir parmi les arbres, je compare /Le silence de l’infini à cette voix et l’éternel /Vient me hanter, et les années qui ne sont plus, / Et cette année qui vit, le son de cette année...Alors / Dans cette immensité tout mon esprit naufrage / Et me noyer dans cette mer m’est doux.
crémieux al rovescio
effetto complessivo di banalizzazione, accentuato dalla scelta di attualizzare molte espressioni volutamente desuete – per esempio «ermo » diviene «solitaire », « ultimo » « lointain », « mi sovvien » « vient me hanter» –, e appesantito dalla resa perifrastica di alcune espressioni, alle quali si lega l’idea di lontananza, di antichità o di vastità (per esempio «interminati /spazi di là da quella» diviene «les espaces /sans limite qui naissent là», oppure «le morte stagioni», «les années qui ne sont plus»). Discutibili risultano inoltre alcune scelte lessicali e grammaticali: «Sedendo e mirando» è reso con «je m’assieds et je regarde», dove si perde tanto il valore modale del gerundio, che conferisce atemporalità all’esperienza descritta, quanto la radice del verbo mirare che contiene, oltre all’elemento dell’osservazione, quello dello stupore, assente nella versione di Crémieux. Procedimenti analoghi si riscontrano anche altrove, per esempio nel Tramonto della luna ai vv. -: l’immagine del viandante che «confuso » cerca la meta del cammino ancora da percorrere perde ogni alone di incertezza, di precarietà perché all’indicativo « Cerca il confuso viatore invano / Del cammin lungo che avanzar si sente / Meta o ragione ; » si sostituisce l’imperativo (e quindi il passaggio dalla terza alla seconda persona) «Regards, / voyageur égaré, tu chercheras en vain / le but ou la raison», che conferisce ai versi un’assertività eccessiva e arbitraria. In altri casi Crémieux, consapevole di smarrire nelle maglie della traduzione alcuni aspetti distintivi dell’originale, tenta di recuperali attraverso giochi fonici di allitterazione, che sono accentuati anche dall’inserimento di parole assenti nel testo leopardiano: nell’Infinito la tripla ripetizione della parola «année » (per stagione) crea un’iterazione del sostantivo e, attraverso quello, insiste sul raccordo fonico della nasale. Sono forse queste operazioni che piacquero più ad Ungaretti e possono giustificare la menzione dei Canti di Crémieux nell’articolo dedicato a «Commerce » nel . Le considerazioni di Franchi su «Solaria » testimoniano una visione poco propensa ad accreditare validità ad esperimenti di mediazione, che non siano sostanziati da un rigoroso rispetto dell’originale. Le sue riserve, quindi, non hanno una genesi ad personam, ma nascono dal vedere travisato in modo quasi irriconoscibile un classico, tanto più su una rivista illustre come «Commerce ». È infatti soprattutto verso l’illustre periodico che Franchi esprime le sue rimostranze, non spiegandosi una tale caduta di stile: I fascicoli di Valéry, che si annunciano con la data di una stagione, hanno veramente l’aria di frutti regali e maturi ; quello che in essi compare reca un natural marchio di squisitezza, e dunque anche questo Infinito che spoglio del nativo ritmo poetico, costringe il pubblico all’ammirazione d’una bellezza non più palese, ma enimmatica e fatta innegabile solo dal prestigio e dal pregiudizio dell’edizione.
A Crémieux egli rimprovera di non aver saputo commisurare le proprie potenzialità ad una resa letterale, fedele, che avrebbe potuto almeno far sentire l’eco di «una musica perduta », di un ritmo poetico e di un metro ancora percepibili. Al contrario, egli si cimenta con una reinvenzione che travisa l’originale «in deformazioni che poesia non diventano ». Su «Solaria », lo studioso narbonese ebbe certamente più fortuna come critico di narrativa, grazie soprattutto alla passione per Svevo. Quando la rivista fiorentina dedicò un numero unico al triestino, Crémieux vi contribuì con un intervento. Nel , invece, il mensile tornò a stroncare un suo intervento su Ungaretti, in un redazio. Raffaello Franchi, Leopardi francese, « Solaria », Firenze, aprile , pp. -. . Ivi, p. . . Benjamin Crémieux, Italo Svevo, «Solaria », Firenze, marzo-aprile , pp. -.
paola ponti
nale dal titolo Senso della misura. L’articolo ungarettiano, pubblicato sulla «Nouvelle revue française», desta riserve ascrivibili ad un problema di attendibilità: qui non è più la filologia traduttoria ad essere chiamata in causa, ma il travisamento del ritratto di un autore ad uso e consumo del pubblico parigino. Crémieux, infatti, conferisce troppa importanza alle polemiche di carattere ideologico sulla scarsa eticità della lirica del poeta, riducendo l’immagine della critica italiana ad un botta e risposta di carattere extra-letterario. Sono proprio i solariani a dire «est modus in rebus» e a difendere la critica italiana « onesta », che non prescinde né sorvola sui meriti indiscussi di un grande poeta. Ad essere messa all’indice, quindi, è la parzialità delle informazioni di Crémieux, che ancora una volta sembra cedere alla tentazione di fornire un’immagine sintetica al suo pubblico, aderente agli stereotipi più noti. Come nel caso di «Frontespizio », gli interventi di Crémieux rivelano agli italiani un aspetto a loro noto dell’arte del proprio paese, ma sotto una luce che ne altera le proporzioni fino a renderlo irriconoscibile. Per esempio, il frequente ricorso a paragoni tra il Sentimento del tempo e la poesia di Verlaine, Valéry, Moreas ed altri si riduce a «raccostamenti speciosi», perché manca la capacità di porre in rilievo il quid eterno che rende universale la poesia di Ungaretti per tutti i possibili fruitori. Si delineano in pochi tratti due posizioni diametralmente opposte, l’una che calca sui chiaroscuri e cerca di rendere il proprio quadro rappresentativo di un paese poco conosciuto, l’altra, invece, che esige una fedeltà integrale, e in assenza di questa predilige di gran lunga il silenzio. . U n p a n o r a m a « en ob l i q u e » La prima rivista italiana a dare spazio al Panorama de la littérature italienne è «La Fiera letteraria », che ne anticipa le pagine introduttive nel dicembre . « La Fiera » non era nuova a concedere spazi antologici al critico francese, salvo poi commentarli con redazionali che ne evidenziavano l’eccesso di forestierismo. Nel caso di Svevo, com’è noto, l’articolo di Crémieux era seguito da poche righe, ove si prendevano decisamente le distanze dalle lodi per l’autore della Coscienza di Zeno e si rivendicava Manzoni come esempio italiano di letteratura d’analisi. Posizione, questa, piuttosto diffusa, se si vuol dar credito a quanto scrive Titta Rosa sul «Convegno » nell’articolo filomanzoniano La psicologia in arte, dove al termine di un confronto tra i Promessi Sposi e la Recherche vengono chiamati in causa Crémieux e la sua passione per i romanzi di Svevo. Ma se con Zeno Cosini siamo ancora nell’ambito della polemica, in occasione dell’uscita del Panorama i toni appaiono più equilibrati e preannunciano la dosata sequela di riconoscimenti e riserve che dopo qualche mese sarebbe uscita sulla prima pagina della «Fiera », in un intervento di Umberto Fracchia. Il Panorama è l’opera più ambiziosa di Crémieux italianista. Nato per essere discusso come baccalauréat, presenta una struttura accademica e un’articolazione sistematica che interessa l’arco temporale compreso tra il e l’anno di pubblicazione, il . Crémieux non smentisce l’etichetta di présentiste conferitagli da Rouzard; il suo lavoro però appare percorso da una certa prudenza nei giudizi e da una volontà di coesione storico-letteraria più scoperta che altrove. . Tristano, Senso della misura, «Solaria », Firenze, agosto-ottobre , pp. -. . Si confronti per esempio la stroncatura del «Saggiatore » dal titolo Ungaretti o della non poesia, «Il Saggiatore », Roma, aprile , pp. -. . Benjamin Crémieux, Da Manzoni a Pirandello, mezzo secolo di letteratura italiana, (traduzione di Umberto Fracchia), « La Fiera letteraria», Milano, dicembre , p. . . Sulle posizioni di Titta Rosa in merito al caso Svevo e al lancio di Crémieux, si veda Paola Ponti, Critici e narratori a “Convegno”. Vent’anni di romanzo e prosa d’arte sul mensile di Enzo Ferrieri, Milano, I.S.U. Università Cattolica, , pp. -.
crémieux al rovescio
Gli interventi dedicati al Panorama segnano il riconoscimento unanime dei meriti, sempre discussi, del critico francese. Pur non essendoci piena adesione al suo taglio interpretativo, il libro non viene liquidato come un esperimento trascurabile. In fondo era un modo di valorizzare la letteratura italiana e un mezzo per farne conoscere gli autori, anche minori, all’estero. Già nella breve introduzione alle pagine antologiche pubblicate sulla « Fiera » nel , si delinea l’ossatura della ricezione italiana del volume: Crémieux vi è indicato come uno studioso valente delle nostre lettere e come uno «spirito autonomo» nel giudizio. Al libro si riconosce inoltre «un’osservazione acuta e originale », dalla quale anche i letterati italiani avrebbero potuto trarre spunti di riflessione. Viene quindi apertamente riconosciuta la funzione di stimolo e di utilità di un punto di vista straniero, anche se le forzature e le semplificazioni non sono passate sotto silenzio la necessità di sorvolare i particolari, di non approfondire l’analisi, di raggruppare nomi, tendenze e opinioni, produce inevitabili incontri, o confronti, o squilibri, o arbitrii di prospettive che possono sembrare a prima vista errori di giudizio o di valutazione. Ma [...] non si può negare che nelle sue linee generali la visione di Benjamin Crémieux risponda al vero e che possa suggerire a noi stessi qualche considerazione impensata o suscitare qualche dubbio su alcuni caratteri della nostra letteratura degli ultimi cinquant’anni.
I medesimi punti accennati nel redazionale vengono sviluppati in modo più cauto e a tratti polemico, nella recensione di Umberto Fracchia all’intero saggio, uscita sulla « Fiera » nel luglio del : riaffiora qui la sottile diffidenza già maturata ai tempi del “caso Svevo” come se, presentate positivamente al pubblico alcune pagine del Panorama, ci si riservasse di tornare sulla valutazione complessiva, ampliando la proprie riserve. L’autonomia di giudizio che nel corsivo prima citato è vista come un aspetto positivo, qui invece diviene il tratto distintivo di un critico sostanzialmente estraneo alla nostra tradizione: «Come straniero egli ci guarda da lontano, per non dire dall’alto, usufruendo appunto di quella libertà di spirito e di giudizio che se non piacerebbero ai morti, piacciono ancora meno ai vivi». È pur vero che poco dopo Fracchia loda l’attività pionieristica e inesausta di Crémieux e si propone, nel valutarne l’opera, di prendere le distanze dalla materia in discussione, cercando di insistere non sui dettagli non condivisibili, bensì sulla tenuta dell’insieme. Si tratta però di un proposito retorico, perché nell’esprimerlo il recensore non manca di sottolineare la presenza di alcune imprecisioni – salvo poi dire che si possono correggere facilmente –, né rinuncia a chiamare in causa la scarsa «esattezza di giudizio » ravvisabile in più di un’occasione. Solo dopo queste premesse, si entra nel merito del giudizio vero e proprio, ma già dall’introduzione si delinea una strategia ben chiara nell’orientare il lettore verso un atteggiamento cauto e guardingo. Il difetto strutturale del Panorama è, paradossalmente, quello di essere “panoramico”, cioè di proporre la sintesi di un complesso che male si presta a rigide classificazioni. Si illude quindi Crémieux ritenendo di poter opportunamente dividere l’insieme della letteratura italiana contemporanea : le principali direttrici del suo lavoro, l’una che vede una tendenza smaccatamente « individualista » in cui l’arte non è asservita ad alcun «fine utilitario » e l’altra, invece, nata a sostegno dell’«idea italiana», sono destinate a sovrapporsi costantemente, come nel caso di Carducci e D’Annunzio e di innumerevoli altri autori. Man mano che si procede verso il xx secolo, i giudizi sui contemporanei ap. Crémieux, Da Manzoni...cit., p. (dal redazionale che introduce l’articolo). . Umberto Fracchia, Il panorama di Crémieux, «La Fiera letteraria», Milano, o luglio , p. . . Ibid.
paola ponti
paiono più importanti perché toccano personalità di rilievo e soprattutto le mettono l’una a fianco dell’altra. Fracchia riconosce la riservatezza di Crémieux, che pure non gli impedisce di «cadere in errore», ammette che in molti casi i suoi pareri sono fondati e rispettabili, ma subito gli contesta di aver dato troppo peso a Cecchi, determinando in questo modo il risentimento degli altri addetti ai lavori. Resta, comunque, a caratterizzare questo intervento la convinzione che il gusto di un critico francese sia irrimediabilmente estraneo al nostro e divenga un ostacolo ad una corretta comprensione: Ma qui entra in campo, come elemento decisivo, l’educazione estetica o anche soltanto il gusto del critico, che è naturalmente francese, e per ciò abbastanza lontano da noi e spesso condannato ad un’incomprensione assoluta dell’opera d’arte italiana.
Accanto a questo della «Fiera », su «Solaria » esce un analogo articolo firmato da Giansiro Ferrata. Varrà la pena di citarne subito l’esordio, perché appare evidente come il riferimento d’obbligo alla provenienza parigina assuma qui un accento di merito: In un volume di trecento pagine Benjamin Crémieux ha compiuto, felicemente, lo schizzo degli ultimi sessant’anni di letteratura italiana. Buon senso, vedute chiare, qualche principio generale basato sul solido e infine – notevolissimo fatto dato l’«handicap » d’ogni giudizio di straniero – pochi sviste, sperdute fra considerazioni e ritratti più d’una volta originali, efficaci quasi sempre.
Il primo dei due difetti ravvisati da Ferrata è certamente inusuale: si rimprovera a Crémieux, di solito tacciato di essere troppo diretto, un’eccessiva timidezza e uno scrupolo di oggettività eccessivo, che soppianta anche quel tanto di partigianeria necessaria a conferire originalità e utilità al lavoro letterario. Ferrata non amava gli eclettismi e tre anni dopo, polemizzando con «Il Convegno», avrebbe sostenuto la necessità di prendere posizione nell’esercizio critico, superando il comodo rifugio dell’«equanimità ». Diversi gli autori a cui Crémieux non dà sufficiente importanza, tutti ascrivibili alle predilezioni solariane: il rilievo dato alla «Ronda », per esempio, non è bilanciato da un adeguato spazio a «forme d’arte egualmente “alte” ma più libere e sanguigne», e qui la penna del recensore punta in direzione dei binomi Boine-Tozzi, Svevo-Saba, segnalando anche l’omissione di Tecchi e Debenedetti. Nel complesso, le due paginette riservate al Panorama restituiscono onestamente il punto di osservazione della rivista fiorentina, che di lì a poco avrebbe recensito positivamente un altro libro di Crémieux sulla contessa Belgioioso. Anche la chiusura dell’articolo appare in linea con l’esordio, tesa quindi a riconoscere il valore strumentale del volume e, in quest’ottica, a non lesinare sui suoi meriti: «Bisogna prenderlo com’è, come non poteva non essere: un’ottima introduzione, non solo per i francesi ma anche per qualche italiano, a un’analisi interiore di questa bimba molto povera, molto timida, ma ricca di buon sangue vivo ch’è la giovane nostra letteratura». Gli interventi su « Solaria » entrano sempre nel merito dell’oggetto trattato, siano esse le traduzioni di Leopardi, il saggio storico-letterario o l’articolo e non mostrano una prevenzione ad personam verso l’italianisant. Piuttosto prendono le distanze dalle sue generalizzazioni, che pur essendo istruttive per i lettori francesi, ai diretti interessati risultano parziali (e non di rado sfavorevoli) nel tratteggiare l’immagine della nostra letteratura all’estero. . Ivi, p. . . Giansiro Ferrata, recensione a Benjamin Crémieux, Panorama de la littérature italienne, «Solaria », luglioagosto , p. . . Giansiro Ferrata, A proposito di tendenze, «Solaria », Firenze, luglio-agosto , p. . . Leo Ferrero, recensione a Benjamin Crémieux, Une conspiratrice en , ou le souper sans la Belgioioso, «Solaria », maggio , pp. -. La recensione consiste in un riassunto del volume, al termine del quale si ringrazia Crémieux di aver reso così efficacemente il fascino della contessa Cristina. . Ferrata, recensione a Crémieux, Panorama ..., cit., p. .
crémieux al rovescio
Crémieux ebbe la soddisfazione di veder recensito il suo volume da Eugenio Montale. Scrivendo a Enzo Ferrieri il poeta confessava, proprio l’anno prima, l’intenso lavoro di cernita e di valutazione richiesto a chi volesse «chicaner » quanto di meglio veniva prodotto in Francia. Perché dunque parlare del Panorama? Montale è forse l’unico che ne coglie la logica interna e ne valorizza il filo conduttore, collegandone i limiti ad un’ottica inevitabilmente francese. Il punto di discontinuità non è tanto in una generica questione di provenienza, ma nel tipo di approccio, che gli italiani richiedono sia «severamente formale» e che nel caso di Crémieux si sposta spesso al criterio più estrinseco della rappresentatività. Inoltre il recensore pone in rilievo la chiarezza con cui sono dichiarate le linee portanti del Panorama, nel quale si distinguono «i valori di interesse generale», cioè gli «autori e i libri viables», dai «valori tipicamente nazionali, di scarsa risonanza e difficile accesso ad altri Paesi». Si delineano così, in sede preliminare, i tratti distintivi del libro assunti qui come dati di partenza, come direttrici di un lavoro che viene inquadrato nel rispetto dei suoi presupposti: Le simpatie del Crémieux non sono dubbie in questo senso, tanto più ch’egli è convinto come ci possa sempre essere per l’artista vero conciliazione fra ragioni locali e ragioni universali; ma la sua obiettività e la sua comprensione anche degli artisti meno alienabili fa buona prova nel suo libro. E si tratta, diciamolo fin d’ora, nonostante le inevitabili mende accennate, di un libro riuscito, che fa onore al Crémieux e ai buoni studi francesi.
Anche Montale, come Ferrata, rileva alcuni «squilibri », che risultano evidenti considerando lo spazio riservato ad autori dal peso diverso: a Papini sono dedicate le stesse pagine che a D’Annunzio, a Saba una riga, a Soffici un intero paragrafo, a Pea un breve cenno. Chi conosce la corrispondenza inedita di Crémieux, può facilmente verificare che i suoi amici fiorentini sono spesso trattati con un riguardo non trascurabile. Tre aspetti vengono ancora rilevati in conclusione: l’autonomia apprezzabile dell’ultima parte del libro, sulla quale Crémieux non aveva fonti significative e che è quindi “opera di prima mano”; la forza di auto-imposizione del volume, che può essere oggetto di riserve ma non passare nel dimenticatoio e infine l’ostinata fedeltà dell’italianisant alla causa italiana, a dispetto dei furori polemici degli interessati. Il Panorama rappresenta una editio maior dell’articolo Sur la condition présente des lettres italiennes, nel senso che l’attività di Crémieux si articola (e matura) tra i due esperimenti, fedele al medesimo intento di interpretazione d’insieme ad uso del pubblico straniero e di valutazione del singolo autore, alla ricerca delle opere «assimilables et fertilisantes ». L’accoglienza riservata ai due episodi permette di valutare le costanti della sua (s)fortuna, ma anche i riconoscimenti indubbi che la sua opera raccolse. Non è difficile ravvisare una sostanziale omogeneità nelle considerazioni di Fracchia, Ferrata e Montale, dato che gli aspetti toccati sono spesso i medesimi: la plausibilità di un taglio sintetico, la credibilità di un critico transalpino, l’utilità di un simile lavoro. Tuttavia i tre articoli non sono l’uno la replica del precedente, ma offrono un punto di vista complementare sulla fortuna del volume e del suo autore, una sorta di gradatio da un accentuato tasso di sospetto ad un’apertura più proficua al punto di vista d’oltralpe. Anche sull’«Italia letteraria» Crémieux ebbe un suo momento di gloria. Si accenna qui a un tipo di fortuna che meriterebbe un approfondimento specifico, cioè al successo . Eugenio Montale, Un panorama letterario (), in Id., Il secondo mestiere. Prose -, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, , t. i, p. . . Da una lettera del o marzo , pubblicata da Maria Antonietta Grignani, La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento, Novara, Interlinea, , pp. -. . Montale, Un panorama letterario..., cit., p. . . Cfr. l’inchiesta sulla traduzione pubblicata da «Les Cahiers du Sud», Parigi-Marsiglia, aprile , p. .
paola ponti
che il Panorama riscontrò in seguito alla sua pubblicazione all’interno di studi altrui. Il caso preso in esame interessa non solo perché a scrivere è Alfredo Gargiulo, ma perché sembra chiudere positivamente la partita con i rondiani che, come ben ricostruisce la Petrocchi, si era aperta burrascosamente al tempo dell’articolo Sur la condition présente des lettres italiennes. Inutile precisare che anche in questo caso non mancano le riserve d’obbligo sulle incertezze e le imprecisioni del volume; resta però il fatto che il Panorama è citato come auctoritas a dimostrazione dell’importanza assunta in Francia dalla prosa rondiana. Il giudizio di Crémieux coglie correttamente «l’intelligenza critica del reale » che sottende le prove calligrafiche, ne evidenzia la raffinatezza intellettuale non priva di un’apertura europea, si spinge addirittura a prediligerne i meriti rispetto ad un « realismo diretto ». . I n q u i e t u d i n i l e t t e r a r i e e di s t o r s i o n i n a r r a t i v e Dopo il Panorama, altre opere di Crémieux vengono recensite prima che la sua attenzione verso le lettere italiane diventi episodica. Nel , il critico pubblica due volumi: il primo, dal titolo Inventaires. Inquiétude et recostruction (Paris, Corréa), parla dei sintomi della crisi postbellica e delle avvisaglie di ripresa; il secondo, Les romanciers italiens, raccoglie una serie di novelle tradotte in francese. Si tratta di una scelta articolata di nomi molto noti ed eterogenei – D’Annunzio, Borgese, Deledda, Fogazzaro, Moretti, Pirandello, Papini, Panzini, Svevo, Soffici, Verga –, i cui racconti sono preceduti da una breve introduzione sull’autore. Le recensioni riservate a questi due libri confermano ulteriormente quanto emerso finora. Non senza qualche significativa eccezione, che testimonia come i recensori più aperti all’Europa siano in genere meno severi e prevenuti nei confronti dell’italianista francese. Emblematica a questo proposito appare la diversa valutazione espressa da Ugo Ojetti e da Luigi De Crecchio in merito a Inquiétude et reconstruction. Ojetti sul «Corriere della sera» sintetizza in breve l’impostazione del saggio, mettendo in evidenza le caratteristiche relative al periodo di travaglio seguente il conflitto fino al (assenza di qualsiasi credo universale, rifiuto del reale, fallimento dell’io) e gli elementi addotti da Crémieux per parlare di una recente ripresa (prevalere della misura, del classicismo, del rispetto della tradizione sul canone assoluto dell’originalità, rinnovato senso della collettività di contro all’individualismo esasperato, etc.). Per il recensore del «Corriere » queste riflessioni di Crémieux non sono il frutto di un paziente lavoro di cernita, ma auspici ottimistici, frutto della consueta grandeur parigina. Ojetti non crede si possa parlare di un dopoguerra nel , perché lo stato d’animo nato dal conflitto, al quale si legano le «confessioni », le «effusioni », le « introspezioni » di molti autori contemporanei, gli appare tuttora in pieno vigore. Ne consegue che i sintomi di cambiamento addotti da Crémieux per giustificare la sua periodizzazione diventino inconsistenti. Quel che più conta, però, è la conclusione di Ojetti, perché rispecchia le considerazioni espresse da Fracchia a proposito del Panorama e conferma il permanere di una visione piuttosto preconcetta verso le voci d’oltralpe : Diceva il Manzoni : « Fare bisogna : ma anco il ragionarci sopra è un modo di fare». Il male è che Crémieux traccia i suoi ragionamenti da Parigi, con l’illusione che la Francia sia il mondo: e
. Alfredo Gargiulo, « Frammento » e «saggio », «L’Italia letteraria», Roma, maggio , p. ; Id., Sguardo generale. La nuova letteratura, «L’Italia letteraria», Roma, giugno , pp. -.
crémieux al rovescio
non lo è. Non v’è ancora sincronismo tra i popoli, né in politica, né in economia, né in letteratura. In Italia, per esempio...
Se questo è il punto di vista più frequente, almeno stando ai dati quantitativi, non mancano eccezioni di rilievo. Su una rivista giovanile fascista, «Il Saggiatore», Luigi De Crecchio pubblica un apprezzamento degno di nota. Egli infatti definisce «quanto mai interessante» il volume di Crémieux e accoglie alcune delle diagnosi ivi proposte. In particolar modo De Crecchio condivide la distinzione di Crémieux tra la tendenza introspettiva ottocentesca, stendhaliana, che riguarda gli interrogativi sul «comment agir », e quella attuale, rivolta invece all’essere in quanto tale. Anche De Crecchio si era mosso in questa direzione fin dal primo numero del «Saggiatore » e aveva definito «relativa » l’introspezione di Julien Sorel, e «assoluta » quella di Rubé. L’una «si esercita sui moti dell’animo», lasciando intatta la credibilità dei sogni e delle aspirazioni, l’altra «induce al dubbio del proprio io quale è, più al dubbio del proprio io quale lo raffigura ». Del libro di Crémieux non viene analizzata puntualmente la valutazione dei segni di recontruction, ma si concorda in modo più generale sulla presenza diffusa di una tensione all’equilibrio. Questo tentativo di raggiungere un assetto armonico non pare a De Crecchio appannaggio esclusivamente francese, anzi si sposa con la diagnosi di un neoromanticismo italiano proposta da Attilio Riccio sul «Saggiatore ». Non sorprende allora che la recensione si chiuda con queste parole: Ci fa piacere per tanto tale comunanza di esigenze e di vedute fra lo spirito di questa rivista e quello di un rappresentante della critica francese.
È infine doveroso segnalare la nota di Guido Piovene su «Pegaso », perché si pone idealmente a metà strada tra le posizioni di Ojetti e quelle di De Crecchio. Piovene segnala positivamente il volume di Crémieux, ne condivide l’impostazione e ne riconosce l’utilità e l’acutezza. Tuttavia non manca di segnalare alcuni passaggi poco stringenti e soprattutto di contestare l’eccessivo peso conferito ad alcune espressioni dell’inquitudine post-bellica come il dadaismo, i cui «vizii [...] meritano pietà e comprensione, non dignità di storia». Il libro di Crémieux è in realtà l’occasione per esprimere il proprio punto di vista sull’arte contemporanea, in particolare sul romanzo e, nella seconda parte della recensione, diviene il pretesto per considerazioni autonome. È significativo tuttavia che Piovene, in quegli anni tutt’altro che benevolo verso la letteratura francese, abbia voluto esprimere un giudizio di merito verso il libro di un critico d’oltralpe. Non sorprende che la pubblicazione dei Romanciers italiens chiami in causa gli interessati, così come era accaduto per il Panorama. Il libro, a cui Crémieux collabora insieme ad altri, non suscita prese di posizione particolarmente accese, anche se l’accenno al romanzo italiano tocca una questione assai dibattuta in quegli anni. Le recensioni riservate al volume, più che risentire della polemica tra calligrafi e contenutisti, esprimono giudizi piuttosto simili ai casi precedenti, in particolare al Panorama e a Inquiétude et reconstruction. Un tratto comune agli interventi è la riflessione sul titolo, che appare inap. Ugo Ojetti, Le fine del dopoguerra?, «Corriere della sera», Milano, settembre . . Luigi De Crecchio, recensione a Benjamin Crémieux, Inquiétude et reconstruction, «Il Saggiatore», Roma, novembre , pp. -. . Luigi De Crecchio, Giuliano Sorel e Filippo Rubé: gli esclusi, «Il Saggiatore», Roma, aprile , pp. -. . Attilio Riccio, Sull’odierno romanticismo, «Il Saggiatore», Roma, marzo , pp. -. . De Crecchio, recensione a Crémieux, Inquiétude..., cit., p. . . Guido Piovene, recensione a Benjamin Crémieux, Inquiétude et reconstruction, «Pegaso », Firenze, dicembre , pp. -.
paola ponti
propriato perché non si lega in modo stringente alle scelte antologiche proposte; inoltre si discute della selezione degli autori, che non paiono riflettere in modo attendibile la migliore produzione italiana. Tra il giudizio espresso da Titta Rosa su «La Cultura», che pur riservando a Crémieux apprezzamenti significativi pone un’ipoteca sul valore del libro, e le parole favorevoli di Montale, sempre attento ad accogliere nella giusta luce le iniziative rivolte alla nostra letteratura, si colloca l’intervento di Enrico Falqui sull’« Italia Letteraria ». Si conferma così una triangolazione di punti di vista: alla base c’è un sostanziale riserbo, per cui dare visibilità ai Romanciers è un pretesto per evidenziare la scarsa padronanza che i francesi hanno della nostra letteratura; al vertice, invece, si pone l’utilità di queste iniziative a dispetto dei loro limiti congeniti. Da una parte, Titta Rosa e Falqui, dall’altra Montale. In realtà si tratta di un libro poco riuscito ed è per questo che il diverso modo di modulare la stroncatura diviene emblematico dello sguardo che si riserva alle cose d’oltralpe. La diversa prospettiva offerta da Falqui e Montale può quindi chiudere questa rassegna. Si è già detto che cronologicamente seguiranno gli interventi di «Solaria » e del «Frontespizio », importanti, ma frutto di iniziative isolate, che non coinvolgono il mondo degli addetti ai lavori nel suo insieme. Più emblematico della fortuna di Crémieux in Italia appare invece quanto scritto a proposito della sua ultima consistente fatica dedicata alle nostre lettere. L’articolo di Falqui, anch’egli curatore di una celebre antologia, è sovrapponibile a quelli che lo hanno preceduto sulla «Fiera » e sull’«Italia letteraria ». Per il recensore l’iniziativa degli italianisants non può essere accolta come « un caval donato», ma va vagliata opportunamente proprio perché potrebbe fare le veci di un «cavallo di Troia». Così i Romanciers, che ambiscono a dare voce ad un giudizio equo, simile a quello ipotetico dei posteri, smentiscono ogni aderenza ad un criterio cronologico e di genere. Tra Verga e Moretti includono infatti autori come Fogazzaro, Svevo, D’Annunzio, la Deledda, Bontempelli, Soffici, Papini e Borgese, ma ne trascurano altri, la Aleramo, la Vivanti, Cicognani, Beltramelli, Chiesa etc. Una simile cernita delle inclusioni e delle esclusioni diviene fuorviante per i fruitori del libro, non essendo frutto né di un criterio oggettivo ed esatto, né un taglio dichiaratamente di parte: «per gli sprovveduti: confusione sicura, idee sbagliate sulla nostra povertà di scrittori che si dedichino al romanzo ». Falqui, infine, trova discutibile la scelta di un titolo che promette ciò che non può mantenere: una selezione di romanzieri di cui sono proposti solo racconti. Anche Montale avanza perplessità analoghe, in modo tale, però, da non inficiare il valore complessivo del volume: sarebbe stato meglio un’indicazione diversa, per esempio «morceaux choisis di prosatori italiani», come sarebbe stato interessante veder antologizzanti veri romanzieri, per esempio Oriani, De Marchi, la Serao, Pea, Cicognani, Benco, Bacchelli, Moravia. Il recensore adombra così, in modo più sfumato, un’oggettiva carenza dell’antologia, che promette al pubblico francese ciò che non si . Giovanni Titta Rosa, recensione a Les romanciers italiens, «La Cultura», Roma, gennaio-marzo , pp. -; Eugenio Montale, recensione a Les romanciers italiens, «Pegaso », Firenze, gennaio , pp. -; Enrico Falqui, “Romanzieri” italiani in Francia, «L’Italia Letteraria», Roma, dicembre , p. . . Falqui, “Romanzieri” italiani in Francia..., cit., p. . . Ibid. : « Bisognava evitare il controsenso di un’antologia di romanzieri in cui ciascuno è rappresentato con dei racconti. Impedimenti di ordine estetico? Difficoltà materiali insite nella maggiore ampiezza che avrebbe assunto la mole del libro? Son tutte ragioni che non riguardano il lettore e che non convincono il critico. So per esperienza le difficoltà grandissime che si presentano a chi debba accudire ad un lavoro antologico [...]. Ma ho sempre immaginato che uno straniero beneficiasse naturalmente di condizioni ideali per scegliere e rifiutare con massima libertà, senza dar conto a nessuno, se non alla propria coscienza ed al proprio acume. Com’è appunto la funzione del postero. E basterà che le necessità storiche e critiche delle esclusioni sieno palesi, e in certo senso convincano. Diversamente si tramuteranno in dimenticanze, le quali non sono ammissibili».
crémieux al rovescio
impegna a mantenere. Il tono è quello di chi, pur non potendo passarli sotto silenzio, non vuole limitarsi a rilievi solo negativi. Per questo, si insiste sui meriti dei curatori, sulla passione sincera che li ha animati e sulla «cura minuziosa» delle traduzioni. Pare quindi che, data la serietà degli intenti, se ne debbano tenere in considerazione gli esiti, anche laddove non siano impeccabili. Crémieux, ancora una volta, è protagonista di un’iniziativa discussa e discutibile. Solo Montale gli riserva un giudizio positivo, che per una volta non squalifica la sua origine francese come estranea alla nostra letteratura : « [Crémieux è] l’uomo che ha tanto lavorato per la nostra letteratura e al quale non ci siamo ancora decisi (ma ci decideremo un giorno) ad essere riconoscenti. Troppo gli hanno rimproverato di aver visto con occhi di francese i fatti di casa nostra; come se un critico potesse deporre in anticamera, col soprabito, la propria formazione, i propri modi di essere, di comprendere e di reagire. [...] Ma il distacco, l’indipendenza e l’equilibrio del Crémieux hanno lasciato nella prima parte di quel suo libro [il Panorama] tracce delle quali un giorno terremo conto anche noi». L’augurio del poeta ligure dovrà attendere molto prima di essere accolto dai posteri.
. Montale, recensione a Les romanciers..., cit., p. .
Giovanna Romanelli « I L I B R I D E L G I O R N O » TR A I N F O R M A Z I O N E E FO R M A Z I O N E
L
a ri v i s t a « I Libri del Giorno» è una rassegna mensile internazionale edita dai fratelli Treves a Milano nell’aprile del , il medesimo anno in cui nasce un altro importante periodico bibliografico, «L’Italia che scrive». Fondatore della Rassegna fu Giovanni Beltrami, redattore capo Alfredo Comandini e, successivamente, Valentino Piccoli. Dopo la morte di Beltrami la direzione passò per breve intervallo nelle mani di Guido Treves, poi in quelle di Valentino Piccoli. Da quel momento «I libri del Giorno» assumono un carattere non solo bibliografico, ma più ampiamente letterario. Dal la rivista si fonde con «Leonardo », sotto la direzione di Federico Gentile, e assorbe anche la parte bibliografica della «Nuova Antologia». « I Libri del Giorno» sono una rassegna bibliografica, che nel primo numero esplicita in modo sintetico la propria linea programmatica con un articolo redazionale intitolato Due parole: Far conoscere il pensiero degli scrittori contemporanei su argomenti letterari e di coltura; dare notizie abbondanti, sicure, oggettive e curiose, che permettano di seguire il movimento intellettuale in Italia e negli altri paesi; offrire ai lettori una guida imparziale per le ricerche e la scelta in mezzo all’infinito numero di libri che si pubblicano, e un indicatore sempre pronto a rispondere ad ogni consultazione; facilitare gli scambi intellettuali tra autori, editori e librai tra di loro e col pubblico; rendere insomma più frequenti e più stretti i rapporti tra chi domanda il libro e chi lo produce; ecco quel che ci proponiamo. E poiché le comunicazioni internazionali sono attualmente così difficili e riesce pressoché impossibile agli studiosi di tener dietro a ciò che si pubblica fuori d’Italia, ci è sembrato che questa Rassegna dovesse avere carattere di internazionalità perché mai come ora è stato necessario di rendere più intime le relazioni coi popoli nostri alleati e coi neutrali, anche nel campo delle idee e del sapere.
La Rivista si presenta, dunque, come uno strumento di diffusione e di mediazione culturale ad ampio respiro, con l’intento ambizioso di agevolare lo scambio di idee e saperi attraverso la conoscenza di opere straniere, in particolare quelle dei “popoli alleati” e dei “neutrali”. Questa esigenza del resto è sentita viva in quegli anni poiché, anche se l’Italia era entrata nell’età giolittiana a far parte dei paesi industrializzati, restava sul piano culturale comunque una provincia, aperta alle suggestioni provenienti dall’estero. Si pensi all’influenza esercitata dalla letteratura francese sulla «Voce », che si ispira ai « Cahiers de la Quinzaine», di Charles Péguy, a quella della Germania e dell’Austria sugli scrittori triestini e giuliani. La Grande Guerra produce un radicale mutamento nell’Italia dopo il , dilaniata dalle polemiche su Caporetto, divisa dall’ambiguità della “vittoria mutilata”. Si riapre allora una crisi morale e politica che sembra dissolvere lo Stato. La difficoltà di tale momento storico è sottolineata in un interessante articolo di Antonio Baldini, uno dei più rappresentativi scrittori della «Ronda », stimato collaboratore del Periodico, in occasione del decimo anniversario della Rivista: . « Leonardo », fondata da Prezzolini nel a Roma, fu rilevata nel da Luigi Russo. Nel il nome di « Leonardo » passa ad una nuova rassegna bibliografica diretta da Federico Gentile – lodata per la sua completezza da Gramsci –, mentre il «Leonardo » di Luigi Russo contemporaneamente diviene «La Nuova Italia», mensile dell’omonima casa editrice, conservando in un primo tempo la direzione di Luigi Russo e passando in seguito a un comitato composto da Ernesto Codignola, Carlo Pellegrini, Natalino Sapegno. . Due Parole, «I Libri del Giorno», Milano, aprile , p. . Corsivo del testo. . Si pensi all’articolo di Giovanni Gentile, La crisi morale, Dopo la vittoria: nuovi frammenti politici, «La Voce », Roma, , pp. -.
giovanna romanelli
Per dire la verità, momento peggiore non poteva essere scelto [per la fondazione della Rivista]. Erano i tempi fitti della guerra, erano i giorni neri del cannone misterioso che tirava su Parigi e di quell’ultima tremenda offensiva tedesca sul fronte franco-inglese. Tutti i cuori stavano sospesi nell’attesa di quello che sarebbe avvenuto e nell’immaginazione dei popoli le cattedrali di Reims, di Soissons, di San Quintino ardevano come torce notte e giorno. Venezia coi suoi marmi e Padova con le sue cupole tremavano sotto la minaccia perpetua delle incursioni aeree. Rotti i legami internazionali, dotti e studiosi si lamentavano di non potere più tener dietro a quanto si pubblicava fuori d’Italia e, dato il vuoto assoluto di pubblicazioni tedesche, molti di loro si sentivano addirittura mancare il terreno sotto i piedi, e soffiavano : dove si va a finire ? Già levavano il capo quei profeti di sciagura, che dovevano giganteggiare negli anni dell’immediato dopoguerra, a insinuare che l’Europa si trovava già, “del colpo non accorta”, dentr’un nuovo Medio Evo. In questo mondo tutto intronato, diviso e squinternato uscì il primo smilzo e ben poco adorno fascicoletto dei “Libri del Giorno”.
L’intellettuale umanista è dunque in crisi, difficoltosa e problematica risulta l’organizzazione della cultura per la mancanza di assetto politico e organizzativo statuale, mentre la classe dirigente liberale e giolittiana trova difficoltà a controllare da un lato le forze socialiste, dall’altro i fasci di combattimento e il nuovo partito fascista. Si affermano in quegli anni due riviste “d’ordine”, «Valori plastici» (-) e «La Ronda» (-), che propugnano una difesa dell’arte e della letteratura in senso antimoderno, antisocialista e antisperimentale. Difendono i canoni della tradizione, riaffermano l’individualismo creativo, professano lo stile come «solitario artigianato e specialistica perfezione di mestiere», separando così la politica dalle lettere. All’opposto, gli intellettuali più sensibili e acuti, più che portare l’Italia in Europa , si preoccupano di filtrare l’Europa in Italia: è, ad esempio, il caso di Massimo Bontempelli con «», rivista trimestrale, i cui primi cinque numeri erano redatti in lingua francese col sottotitolo « Cahiers d’Italie et d’Europe», destinata ad una diffusione internazionale. Nel comitato di redazione apparivano nomi come quello di Georg Kaiser e James Joyce, che veniva presentato alla cultura italiana direttamente, attraverso un passo decisivo dell’Ulisse, quello dell’apparizione di Leopold Bloom. Si pensi inoltre a «Energie Nove » (-), a «Ordine Nuovo» (-), a «La Rivoluzione Liberale», a «Il Baretti » (-) di Piero Gobetti, che al provincialismo e alle frontiere delle «piccole patrie » oppongono la ricerca di uno «stile europeo», all’anarchia culturale le responsabilità etiche e civili della letteratura. In questo contesto culturale e storico, «I Libri del Giorno», pur essendo una rassegna bibliografica tesa ad orientare i lettori nell’ampio mercato librario e perciò lontana dal dibattito teorico proprio delle più note riviste, svolgono, a nostro avviso, un ruolo assai importante di mediazione culturale. Infatti la Rivista ci parla di quella microstoria indispensabile per conoscere le idee, la mentalità di un’epoca, di un popolo, ma anche il pubblico di fruitori al quale si rivolge che, a sua volta, ne condiziona contenuto e forma dal momento che la parola è sempre «parola-a-qualcuno ». I destinatari della Rivista sono da un lato, per esplicita dichiarazione della direzione, gli autori stessi, gli editori, i librai, per così dire gli “specialisti” della cultura, dall’altro il pubblico di lettori, la piccola e media borghesia intellettuale, che assume sempre più caratteristiche di massa. L’editoria e il giornalismo variano i loro prodotti per raggiungere tale nuovo pubblico e rispondere alle esigenze di elevazione culturale degli Italiani. Mettere in contatto gli uni e gli altri significa diffondere il sapere, far circolare le idee, attivare la comunicazione tra vari popoli in un momento storico in cui le «comunicazioni internazionali» . Antonio Baldini, Pare Ieri e son Dieci Anni, «I Libri del Giorno», Milano, gennaio , p. . . Maurice – Merleau-Ponty, Humanisme et terreur: essai sur le problème communiste, Paris, Gallimard, , p. xlii.
« i l i b r i d e l g i o r n o » tr a i n f o r m a z i o n e e fo r m a z i o n e
sono davvero difficili e gli studiosi non possono «tener dietro a ciò che si pubblica fuori d’Italia ». Ma «I Libri del Giorno» non sono solo un mezzo d’informazione, sono anche uno strumento formativo, poiché veicolano idee, suscitano curiosità con l’impostazione multidisciplinare e il carattere di internazionalità. Infatti assai ricco risulta il campo d’indagine, come si può osservare già dal Bollettino Bibliografico del , suddiviso in Antichità e Belle Arti, Agricoltura-Industria Commercio, Bibliografia, EducazioneIstruzione, Filologia, Filosofia, Geografia-Viaggi, Guerra Mondiale (-), Letteratura (a sua volta suddivisa in Classici, Critica, Poesia, Romanzi-Novelle, Storia della letteratura, Teatro), Musica, Periodici, Religioni-Teologia, Scienze Occulte, Scienze (Fisiche-Matematiche-Naturali, Giuridiche, Politiche-Sociali), Medicina Chirurgia, Storia-Biografia, Varia. Fin dall’esordio, la Rassegna, pur nella sua modesta veste editoriale, esercitava una funzione di guida in quel periodo del dopoguerra caotico sotto ogni aspetto, compreso quello della produzione libraria. Orientare i lettori, educarne i gusti, suscitare interesse alla lettura in modo organico e mirato è uno degli scopi primari del Periodico, che sul tema del libro e della sua diffusione ritorna costantemente e con assidua frequenza per mezzo di articoli affidati alle firme più prestigiose. Ugo Ojetti, ad esempio, sostiene in un suo intervento che la guerra ha in parte guarito gli italiani dall’abitudine di non leggere libri, costretti dall’ozio delle trincee e dalla mancanza di svaghi. Queste circostanze «hanno messo di moda tra i soldati il libro: più spesso, s’intende, il libro a poco prezzo e il libro di prosa narrativa. Distrarsi con poca spesa». Perciò, constatato questo inatteso aumento di lettori, l’autore suggerisce agli editori due proposte: iniziare, appena il prezzo della carta, degl’inchiostri, dello spago, dei trasporti ecc. torni a permetterlo, molte collezioni di libri italiani di prosa narrativa, a bassissimo prezzo come si usa da anni in Francia e in Inghilterra e in America, stampati bene e magari illustrati: il computo del guadagno basato sulle grandi tirature, come si fa pei giornali e pei magazines. La seconda cosa da fare – e per questo non è necessario aspettare la pace – è mettersi, gli editori per bene, a capo di un ordinato ma energico movimento per ottenere una nuova legge sulla proprietà letteraria.
La Rivista non si accontenta di acquisire proseliti alla lettura, vuole principalmente educare i lettori ed elevarne il livello culturale: A guerra finita si torna ai nostri libri. Non voglio dire che durante la guerra si sia vissuto senza libri ; anzi, in questi anni l’esercito ha letto appassionatamente, copiosamente. Ma chi ha l’amore, la malattia dei libri sa che la delizia non sta solo nel volume che si divora, ma in tutti gli altri che circondano di tentazioni questa lettura, nei grandi scaffali dove si allineano le opere che si son lette, che domandano con certe loro segrete seduzioni d’essere rilette. [,..] La dritta strada degli studi utili è perduta. Si ritorna ai libri come si va in vacanza, con la stessa voglia di sorprese e di novità. Si erra tra l’uno e l’altro secolo, tra l’uno e l’altro paese, tra l’uno e l’altro gruppo di idee. [...] Noi siamo forestieri entro la nostra biblioteca; touristes superficiali che hanno paura di non giungere in tempo a veder tutto.[...] È necessario uscire presto da questa convulsione. Bisogna tornar tanto pacati e tanto saggi da poter stringere una relazione salda e duratura con un libro alla volta. La poligamia in questo genere di legami è dannosa: bisogna amar bene un’opera alla volta. . « I Libri del Giorno», Milano, aprile , p. . . I fascicoli avevano l’aspetto di bollettino ed erano privi di copertina che, a colori, viene adottata a partire dal numero di gennaio (disegno liberty rosso, scritte in nero; dal mese di gennaio la copertina diventa grigio-azzurra con scritte in nero; un nuovo cambiamento si registra dal ). . Ugo Ojetti, Lettori di guerra, «I Libri del Giorno», Milano, maggio , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, p. . . Renato Simoni, Il ritorno ai libri, «I Libri del Giorno», Milano, marzo , pp . -.
giovanna romanelli
Un altro aspetto caratterizzante «I Libri del Giorno», dicevamo, è la dimensione internazionale dell’informazione (come ricorda del resto il sottotitolo Rassegna internazionale), che raggiunge non solo i paesi europei più vicini culturalmente all’Italia, ma anche quelli più lontani, e non solo geograficamente. Il Periodico è particolarmente attento, anche rispetto al numero di articoli pubblicati, alla produzione libraria di Russia, Grecia, Polonia, Africa, India (con particolare riguardo alla religione e alla filosofia), Cina, Giappone, Svezia, Norvegia, Lituania, Stati Uniti, America latina, solo per fare qualche esempio. Tuttavia ciò che lo distingue è l’ottica comparatista degli studi, siano essi presentazione di libri italiani su altri Paesi o viceversa. Rilevante è poi l’interesse per la letteratura prevalentemente inglese e irlandese, tanto che lo spoglio dei singoli articoli delle diverse annate permette di affermare che anche sul piano numerico l’attenzione per la cultura e la letteratura inglese è superiore non solo a quella francese, ma anche a quella tedesca e spagnola. Questa constatazione va oggettivamente a correggere, almeno in parte, l’opinione diffusa secondo cui l’influenza anglosassone e americana fu secondaria rispetto a quella esercitata sul nostro Paese da Francia, Germania e Austria e comunque successiva agli anni della Rassegna. A conferma di tale tesi ricordiamo, la recensione decisamente positiva all’Ulisse di Joyce ad opera di Piero Rebora che, parlando dello scarso interesse suscitato dal romanzo presso i critici e presso il pubblico afferma : « È impossibile non riconoscere nel Joyce un talento originale, una capacità singolare d’indagine psicologica, molto ingegno insomma», l’articolo di Ferruccio Foà, intitolato Joyce e le leggi americane, sulla pubblicazione in America dell’Ulisse, senza l’autorizzazione dell’autore, la recensione di Piero Rebora al lavoro di John Murray Middleton, Journal of Catherine Mansfield, scrittrice di origine neozelandese, trasferitasi in Europa dal . E questi non sono che pochi esempi del costante interesse alla produzione letteraria, soprattutto contemporanea, di lingua inglese. Né si può ignorare il grande contributo dato dalla casa editrice Treves con iniziative come la Treves Collection of British and Americans Authors, di quegli stessi anni, costituita da volumi di circa trecento pagine contenenti anche il ritratto e la biografia dell’autore. Tra questi ricordiamo qualche titolo: The Classic Plays of Shakespeare, Dickens’s “Hard Times”, Selected Poems of William Wordsworth, Paradise Lost by John Milton. Altro elemento che distingue e connota la Rassegna è la particolare attenzione riservata alla conoscenza della storia e della letteratura serbo-croata e slovena, come attestano i lavori qui di seguito riportati: Originalità e imitazione nella poesia croata contemporanea (-) ; Alcuni drammi croati; Traduzioni dallo sloveno e dal croato. Poeti serbi, croati e sloveni, Il mondo slavo e la recensione al romanzo di Stankovic Borisav, Sangue impuro, tradotto dal serbo da Umberto Urbani del quale si elogia la traduzione per le difficoltà del linguaggio regionale. Dall’esame degli articoli del Periodico si evince inoltre un accurato interesse per le . Citiamo qualche recensione : Carlo Boselli, Libri italiani sulla Spagna, «I Libri del Giorno», Milano, luglio , p. ; Paolo Revelli, L’America di fronte all’Europa. Rapporti politici fra l’America e Europa negli anni Venti, «I Libri del Giorno », Milano, ottobre , pp. -; Vittorio Giglio, L’azione militare italiana nella guerra mondiale, esame critico dei giudizi stranieri, «I Libri del Giorno», Milano, gennaio , pp. -; Piero Rebora, Rassegna di libri inglesi sull’Italia, «I Libri del Giorno», Milano, agosto , pp. -, ove sono citati una serie di libri di Edward Hutton scritti in un inglese accessibile: Milan and Lombardy, The Cities of Umbria, A wayfarer in unknown Tuscany, Venice and Venetia. . « I Libri del Giorno», Milano, maggio , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, marzo , pp. -. . « I Libri del Giorno», Milano, novembre , p. . . Si vedano gli articolo di Giovanni Maver pubblicati sui seguenti numeri: «I Libri del Giorno», Milano, gennaio , pp. -; «I Libri del Giorno», Milano, marzo , pp. -; «I Libri del Giorno», Milano, giugno , pp. -; «I Libri del Giorno», Milano, novembre , pp. -; «I Libri del Giorno», Milano, ottobre , pp. -; «I Libri del Giorno», Milano, settembre , p. .
« i l i b r i d e l g i o r n o » tr a i n f o r m a z i o n e e fo r m a z i o n e
traduzioni di opere straniere per l’Italia e di opere italiane per l’estero: ricordiamo quella di Antonio Borgese de L’uomo senz’ombra dello scrittore romantico inglese A. Chamisso e alcune traduzioni di opere di G. Papini in lingua danese dal titolo Papini in Danimarca. Inoltre è mantenuta fede al proposito di offrire ai lettori “notizie curiose”, cioè capaci di suscitare interesse e curiosità appunto. In tal senso ricordiamo la recensione di Egisto Roggero al libro di Arnold Lorand dal suggestivo titolo, Ringiovanire !, sulla possibilità di ringiovanimento degli uomini, e quella di Mario Buzzichini al lavoro di William Makepeace Thackeray, Il libro degli snob, opera dal forte registro satirico; e ancora Magri, secchi e spilungoni nell’arte, nella storia e nella letteratura, volume ricco di aneddoti e osservazioni da bibliofilo erudito e appassionato. Tra le curiosità è anche da segnalare l’articolo redazionale La medichessa dei volumi malati col quale si informano i lettori che la dottoressa Janet C. Lewis di New York è « L’unica medichessa di libri, in tutto il mondo. Fa la diagnosi delle malattie dei volumi, e le cura. Se fra centinaia di anni, gli studiosi potranno ancora ammirare certi gioielli dei rilegatori artisti del passato, lo dovranno alla scienza della signorina Lewis che, ogni giorno, ha in cura dei libri valutati decine di migliaia di lire, manoscritti rarissimi e inestimabili rotoli di pergamena ». Tra le recensioni segnaliamo quella di Piero Rebora al lavoro di Bertand Russel On Education: especially in early Childhood, memorie del filosofo sulla sua esperienza di padre, e quella di Valentino Piccoli a Il libro ascetico della giovane Italia, un volumetto di Gabriele D’Annunzio di interesse estetico e politico, contenente pagine già note, come quelle sul famoso discorso tenuto a Milano dal balcone di Palazzo Marino nell’estate del ed altre nuove dedicate ai sostenitori delle sue più aspre lotte nazionali. E ancora, sul rapporto tra cinematografo e diffusione dei libri l’articolo di Cesare Meano, Libro e cinematografo, sulla pubblicità la recensione al testo Di Arturo Gazzoni, Vendere, vendere, vendere. Alla pubblicità del libro è invero molto sensibile la Rassegna, che riserva ampi spazi di propaganda ai lavori appena pubblicati dai Fratelli Treves Editori o in preparazione: ad esempio un’intera pagina è dedicata alla presentazione del volume di Gabriele D’Annunzio Le Faville del Maglio (tomo primo), mentre uno spazio più ridotto è riservato al volume appena edito di Rosso di San Secondo, Il minuetto dell’anima nostra. Segnaliamo infine un intero numero de «I Libri del Giorno » redatto da giovani autori di età inferiore ai ventisei anni allo scopo di permettere loro di manifestare il proprio talento. Tra essi compaiono i nomi di Annibale Carena, Guido Piovene, Franco Valsecchi. L’impostazione e gli argomenti trattati sottolineano un’attenzione preminente della rivista agli aspetti contemporanei della lingua e della cultura, italiana e/o straniera, alle novità letterarie spesso accolte in modo ostico o semplicemente con indifferenza dalla critica e dal pubblico. A Svevo, più apprezzato all’estero che in Italia, ove la sua affermazione sarà postuma, la Rassegna dedica un articolo a cura di Giuseppe Ravegnani, Da . « I Libri del Giorno», Milano, luglio , p. ; «I Libri del Giorno», Milano, marzo , p. . È citata la traduzione della Vita di Cristo, di Un uomo finito e Il pilota cieco a cura di Knud Ferlov. . « I Libri del Giorno», Milano, gennaio , p. -. . Giannetto Bongiovanni, «I Libri del Giorno», Milano, gennaio , p. -. . « I Libri del Giorno», Milano, ottobre , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, luglio , p.. . « I Libri del Giorno», Milano, maggio , p. -. . « I Libri del Giorno», Milano, luglio , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, dicembre , p. -. . « I Libri del Giorno», Milano, marzo , p. -. . « I Libri del Giorno», Milano, aprile , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, giugno , p. .
giovanna romanelli
Freud a Svevo, contenente un’analisi sui romanzi dello scrittore triestino. Tale scelta, per altro tempestiva, rivela attenzione alle novità letterarie, sensibilità estetica, capacità di selezione, irrinunciabile ad ogni strumento divulgativo e formativo, anche se il tono complessivo dell’articolo non è elogiativo. Alla fine del primo anno di vita la Rassegna ripercorre sinteticamente il proprio itinerario e traccia un primo bilancio della propria attività: Quando lo scorso Aprile, iniziammo la pubblicazione di questa nostra Rassegna, il momento potè sembrare mal scelto. La soverchiante preoccupazione della guerra teneva gli animi tutti sospesi, nell’aspettazione tormentosa di quel che sarebbe avvenuto. La prova che il Paese aveva fatto di sé nell’ora sinistra, e che si rivelerà più grande che adesso non appaia, quando il tempo le avrà assegnato il suo piano nella prospettiva degli avvenimenti, faceva pensare ad una concentrazione degli spiriti intorno al solo argomento che allora premesse, così da non lasciar posto ad altra cura; e men che mai alla cura dei libri che, per tradizionale esperienza, credevamo bisognosi di una tutt’altra atmosfera che quella agitata e fragorosa della guerra. Ma noi, intanto, dal nostro osservatorio di editori, avevamo potuto rilevare un fatto singolarissimo e veramente impreveduto. Ed è che la richiesta dei libri, invece che diminuire durante la guerra, aveva avuto un notevole aumento, e diventava sempre maggiore. Noi non sappiamo ancora esattamente quel che sia accaduto negli altri paesi; se lo stesso fatto si sia verificato anche là, o se sia stato un singolare privilegio nostro; certo è che mai in Italia si era letto tanto come da che il cannone aveva cominciato giorno e notte a tuonare. E non solo libri di guerra, come facilmente si potrebbe pensare, non solo libri di amena lettura, da essere presi come un antidoto alla tristezza incombente, ma libri di scienza, di storia, libri di varia e severa coltura. Fu una delle non poche e grandi sorprese che la guerra doveva darci. Perciò pensammo che in mezzo alla nuova moltitudine di lettori, tanti dei quali relegati dalla guerra lontani da ogni diretto contatto col mondo intellettuale, potesse tornare veramente utile una pubblicazione che ordinatamente e imparzialmente rendesse conto delle opere che vedrebbero la luce, e potesse così servire d’informazione e di guida nella loro scelta. Così nacquero «I libri del Giorno» che volemmo registrassero oltre il movimento bibliografico italiano, anche quello degli altri paesi, in ciò che aveva di più significativo, perché difficile riuscirebbe oggi disgiungere il concetto delle colture da quello dell’universalità, e perché la guerra ha troppo bene dimostrato quanto sia utile conoscere il pensiero degli amici e quanto sia pericoloso non conoscere quello dei nemici. Il favore, la simpatia con cui la nuova Rassegna fu accolta dal pubblico andò al di là di ogni nostra più fiduciosa aspettativa e ci dimostrò che non ci eravamo ingannati nell’idearne la pubblicazione. Il dubbio che qualche nostro collega poteva avere che essa non dovesse riuscire che un organo di diffusione a speciale servizio della nostra Casa Editrice, fu subito superato e vinto dall’esperienza. Ogni editore poté vedere i propri libri annunziati e recensiti con assoluta oggettività nella nostra Rassegna, perché lo scopo che essa si prefigge è di attirare l’attenzione del pubblico su ogni libro che meriti attenzione; e se il nome della Casa Treves ricorre più frequente di altri nelle pagine de I Libri del giorno, ciò non è dovuto ad altro che al numero grande di volumi che andiamo pubblicando. Basterà dire che nello scorso anno, malgrado le difficoltà eccezionali che tutti sanno, create dalla guerra alla nostra industria noi abbiamo messo fuori fra opere nuove e ristampate non meno di trecentotrentaquattro volumi, vale a dire, se si tien conto dei giorni non lavorativi, più di un volume al giorno. Ma oramai tutti i nostri colleghi, anche i più scontrosi, sanno di essere ospiti graditi nella nostra Rassegna e di poterne disporre come di un organo proprio per tutte le comunicazioni, gli annunzi, le notizie che possono interessare al pubblico. Detto ciò, è inutile aggiungere che la pubblicazione sarà continuata; noi seguiteremo a dedicarle tutte le nostre cure e vi introdurremo tutti i miglioramenti che l’esperienza di questi nove mesi di vita ci avrà suggerito, e quelli che i nostri lettori stessi vorranno suggerirci. Già dal secondo fascicolo, malgrado la scarsezza e l’alto prezzo della carta, abbiamo dovuto, per l’abbondanza della materia, aumentare il numero delle pagine, che era stato dapprima fissato a e che venne portato a . Non appena le condizioni dell’industria siano diventate meno proibitive, noi confidiamo di poter dare alla Rassegna uno sviluppo ancora maggiore; intanto la cessazione della guerra, col facilitare i . « I Libri del Giorno», Milano, maggio , pp. -.
« i l i b r i d e l g i o r n o » tr a i n f o r m a z i o n e e fo r m a z i o n e
rapporti e gli scambi nel paese e con l’estero, ci permetterà di avere una redazione sempre più larga e più varia, informazioni più pronte e più diffuse specialmente intorno a ciò che si pubblica fuori d’Italia; saranno introdotte nuove Rubriche per le quali già ci siamo assicurata la collaborazione di scrittori competenti ; insomma nulla trascureremo perché questa nostra Rassegna diventi sempre più utile ed attraente. Molti ci domandano perché, dato il buon successo dell’esperimento di questi mesi, non ne facciamo addirittura una grande Rivista; ma noi preferiamo di fare un passo alla volta. I Libri del Giorno cresceranno col crescere della cultura generale, a cui essi stessi avranno contribuito, e potranno diventare quello che i lettori impazienti vorrebbero che fossero già fin d’ora. Per il momento non ci dispiace che continuino ad essere il fascicoletto mensile snello, alla mano nel suo aspetto esteriore, e sostanzioso, utile e piacevole nel suo contenuto, con la sua fisionomia speciale che, appunto perché diversa da quella delle numerose altre riviste, è subito entrata nel gusto del pubblico, ed è stata forse una delle ragioni della fortuna che I Libri del Giorno hanno incontrato.
La Rassegna ha svolto nei primi anni di attività un ruolo pionieristico nel campo culturale, ma col passare degli anni e con la fioritura diffusa di nuovi periodici bibliografici ha sentito l’esigenza di rinnovarsi, non tanto per differenziarsi dagli altri periodici, quanto piuttosto per assolvere un compito diverso e più specifico. Perciò vengono introdotti gli articoli che costituiscono la prima parte della Rivista e sono potenziate le rassegne estere mentre, quando viene inviata in omaggio agli abbonati dell’«Illustrazione Italiana », assume un tono più giornalistico per raggiungere anche «quei cosiddetti “lettori profani” che non si interessano al libro se non in quanto trovano in esso una fonte immediata di diletto o di conforto». A tale scopo sono potenziate anche le rubriche speciali, in particolare quella affidata a Chichibio (alias Giuseppe Fanciulli), intitolata Chiacchiere, che affronta con stile vivace e arguto temi di attualità.Viene inoltre istituita la rubrica Tra il libro e la vita per infrangere la barriera che separa chi scrive da chi legge: È necessario che la gente si abitui a considerare il libro moderno come qualche cosa che è “nella vita”, che vibri e pulsi col ritmo perenne, sempre nuovo, molteplice intenso, di questa nostra vita contemporanea, febbrile, sì, ma entusiasta: dominata sì dall’azione, ma tendente ad una realtà vitale in cui sia veramente superata la vecchia antitesi fra il pensiero e l’azione, tra la fredda pagina stampata e la vera esperienza, fra le retoriche di tutte le arcadie e l’assillo generoso di una grande civiltà che si rinnova.
La Rivista, che aveva sospeso il bollettino bibliografico, per tutto il , si presenta rinnovata nel , avendo aumentato il numero delle pagine e avendo ripreso detto bollettino in un’ottica più moderna. Le materie sono così ripartite: Arte (Archeologia e Numismatica ; Arti Figurative; Arti Minori; Musica); Bibliografia (Biblioteche e Cataloghi ; Studi Bibliografici) ; Enciclopedie; Filologia; Filosofia (Filosofia Teoretica e Morale; Psicologia, Pedagogia, Estetica ; Storia della Filosofia) ; Istituzioni di Coltura e opere sociali; Letteratura (Classici ; Critica e Storia Letteraria; Folk-Lore; Letteratura Narrativa; Letteratura per l’Infanzia ; Lirica ; Teatro ; Varia) ; Periodici; Religione (Cristianesimo ; Storia delle Religioni); Scienza (Astronomia, Geografia e Scienza Affini ; Fisica, Chimica e Scienze Naturali; Matematica; Medicina e Chirurgia; Scienze Applicate; Scienze Economiche, Politiche e Sociali; Scienze Giuridiche; Scienze Militari; Marina; Aeronautica ; Ginnastica e Diporti Scienze occulte); Storia (Biografia ; Storia Civile e Politica ; Storia della Guerra Mondiale); Varia. Stupisce l’impostazione aperta, dinamica della Rivista, che non appare condizionata dalla politica culturale autarchica, soprattutto negli anni in cui il fascismo si consolida come regime. Con esso deve tuttavia confrontarsi, in particolare con la cultura ufficiale . « I Libri del Giorno», Milano, Fra amici, dicembre , pp. -. Corsivo del testo. . « I Libri del Giorno», Milano, “I Libri del giorno” dal al , gennaio , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, gennaio , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, gennaio , p. .
giovanna romanelli
di propaganda. Ad uno spoglio complessivo della Rassegna pochi risultano gli studi presi in considerazione sull’argomento, ma importanti per comprendere il clima storico generale. Ci sembra opportuno segnalare, oltre agli scritti di maggiore rilevanza di Prezzolini e Gentile, altre opere che citiamo a titolo esemplificativo : di Ezio Maria Gray, Il pensiero di Benito Mussolini ; di Paolo Orano, Mussolini da vicino; di Sandro Giuliani, Le province create dal Duce; di Alberto Vallini, Legislazione fascista; di Herbert Wallace Schneider, Making the Fascist State; Discorsi del di Benito Mussolini; di Filippo Tommaso Martinetti, Futurismo e Fascismo, ai quali va aggiunta una scelta di testimonianze su Mussolini, raccolte fra gli alunni delle scuole elementari, intitolata Mussolini visto dai ragazzi, dove il tono elogiativo e lo stile oleografico sono evidenti. È inoltre opportuno sottolineare che, al di là dei singoli scritti, negli anni decisivi del regime si avverte un tono generale di tacito assenso all’ideologia fascista, velato da un’implicita considerazione della neutralità delle arti e delle scienze. La Rassegna, dunque, mantiene una sua relativa autonomia, ma non si sottrae – è opportuno ricordarlo – al clima generale: l’adesione ai valori imposti dal regime non fu mai totale e il fascismo conquistò ampio consenso tra i ceti borghesi e piccolo-borghesi, proprio grazie ad una politica culturale che, pur repressiva e totalitaria, permetteva comunque momenti di distacco, possibili distinzioni e riserve. È il caso di Eugenio Rignano che nel Volume Democrazia e fascismo rivendica i benefici della democrazia e invita il fascismo a non irrigidirsi nell’intransigenza antidemocratica e antiliberale. Si pensi che nel nasceva “Solaria”, la rivista che nelle sue pagine ospitò i nomi migliori della cultura italiana, ad un solo anno di distanza dal trionfo del fascismo, quasi ai limiti delle leggi repressive sulla stampa. In tale periodo storico la cultura sceglie degli spazi neutri ed apparentemente asettici; in particolare il campo letterario risulta il più adatto ad assumere dimensioni metastoriche e metadisciplinari, capace di smussare i contrasti. Si comprende allora perché negli ultimi anni di vita autonoma la Rassegna abbia concesso attenzione al regime e qualche blandimento nel tentativo di legare fascismo e cultura come forme di vita conciliabili e armoniche. Significative sono in tal . Giuseppe Prezzolini, Le Fascisme, «I Libri del Giorno», Milano, giugno , p. . Il libro esce prima nella sua traduzione francese che nell’originale; Giovanni Gentile, Il fascismo e le sue fasi, «I Libri del Giorno», Milano, ottobre , pp. -. . « I Libri del Giorno», Milano, settembre , pp. -. . « I Libri del Giorno», Milano, giugno , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, agosto , pp. -. . « I Libri del Giorno», Milano, agosto , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, aprile , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, settembre , pp. -. . « I Libri del Giorno», Milano, ottobre , pp. -. L’autore «accanto alle origini sindacaliste, liberali, dannunziane e nazionaliste del fascismo, rileva anche quelle futuriste». . « I Libri del Giorno», Milano, marzo , p. -. . Si pensi al dibattito suscitato nel da Prezzolini, il fondatore e direttore della «Voce », che inviò a Piero Gobetti una lettera aperta con la proposta di una «Congregazione degli Apoti» : « di coloro che non la bevono: la teorizzazione di un letterato che non si sporca le mani con la lotta politica, al contatto, diceva Vico, con la feccia di Romolo, eppure non si estranea dalle necessità della vita sociale ma le contrappone quelle della vita della intelligenza, e fa storia e non politica, disprezzando le masse e i partiti (“Da questo lato fascisti e comunisti, liberali e socialisti, popolari e democratici, appartengono ad un solo massimo comune denominatore”), per esaltare una propria elitaria scontrosa dignità. Ma Gobetti rispose con poche gentili ferme parole: l’indifferenza quasi scientifica l’intellettuale non la può avere, per operare nel mondo sono necessarie scelte precise, e l’alleanza con la sola forza con cui “si possa operare per la conquista della nuova civiltà: il movimento operaio», Giuseppe Petronio, Racconto del Novecento letterario in Italia, Milano, Oscar Mondadori, , vol. i, p. . . « I libri del Giorno», Milano, maggio , p. . . A tale proposito si legga la recensione a Libro e moschetto, una raccolta di discorsi pronunciati alla Regia Università di Roma, a cura della Federazione Fascista dell’Urbe per la libreria del Littorio, «I Libri del Giorno », novembre , pp. -.
« i l i b r i d e l g i o r n o » tr a i n f o r m a z i o n e e fo r m a z i o n e
senso anche le parole di congedo rivolte dalla redazione ai lettori, quando a proposito della battaglia condotta dalla rivista per la diffusione del libro, si dice: Essi [«I Libri del Giorno»] hanno quindi, in atto, combattuto la loro buona battaglia per quella diffusione del libro che è oggi una delle necessità più vitali della rinnovata cultura: battaglia che si può combattere solo quando non si veda la cultura come semplice informazione indifferente, ma la si senta nel ritmo unitario della nuova civiltà, creata di giorno in giorno, dal Fascismo. L’opera d’informazione e di propaganda non può infatti essere vitale se non si ispira, prima di tutto, a una fede.
Al termine del dodicesimo anno di attività, «I Libri del Giorno» prendono congedo dai lettori, ma non si tratta di un congedo definitivo, perché il periodico lascia il posto ad un’iniziativa più vasta e organica. Come già ricordato, la Rassegna confluisce dal nel nuovo « Leonardo » al fine di evitare sdoppiamenti di attività parallele, dal momento che nel nostro Paese si assisteva ormai ad una fioritura alquanto vasta e disorganica di periodici bibliografici tanto da sembrare che la bibliografia avesse assunto la prevalenza sulla stessa attività di scrittura. Il nuovo «Leonardo » veniva così ad unificare quello di Luigi Russo, che si occupava soprattutto della cultura italiana e della sua diffusione nel mondo, escludendo di proposito dal suo campo le letterature straniere, e «I Libri del Giorno » di Valentino Piccoli, molto informati sui movimenti letterari e culturali contemporanei, che tralasciavano però, per il pubblico cui intendevano rivolgersi, le discussioni teoriche e critiche. La nuova rivista avrebbe dunque assolto un compito organico e compiuto nell’uno e nell’altro campo. Al termine di questa breve disamina sulla Rassegna ci sembra di poter affermare che essa è un documento assai importante di mediazione non tra ceti sociali diversi, ma tra momenti storici diversi, perciò indispensabile a quanti desiderino studiare lo svolgersi della cultura e della produzione libraria in Italia e all’estero nel fervido, complesso e tormentato decennio del dopoguerra. Anche i mutamenti tipografici riflettono il corso dei tempi e le nuove esigenze dei lettori: infatti, se in un primo tempo la Rivista presentava un carattere di mera, oggettiva informazione, successivamente si preoccupò di dare più respiro ai testi stessi e di renderne più agevole la lettura, di arricchire le rassegne offerte al fine di raggiungere un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Perciò «I Libri del Giorno » sostituirono all’iniziale carattere di bollettino bibliografico, una dimensione più ampiamente letteraria e di riflessione sui maggiori temi contemporanei allo scopo di tendere «a quella forma di elegante propaganda letteraria, che – attraverso l’articolo piacevole, attraverso la nota originale e soggettiva, o lo scritto di critica che presenti i caratteri di una viva personalità – giunge ad accostare piacevolmente il grande pubblico alla vita del libro». La grande diffusione raggiunta dal periodico, sia in Italia che all’estero, consente di poter affermare che l’intento fu raggiunto, forse grazie anche a quello spirito sereno e obiettivo che appare caratterizzarne l’impostazione generale; infatti le parole conclusive del «congedo » con cui la Rivista si accomiata dai lettori affermano : Non abbiamo mai ammesso né la lode stolidamente esaltatrice, di cui talora, a loro danno, si compiacciono certi autori ; né la stroncatura dissolvente e spietata cui si abbandonano, con facile leggerezza, certi critici. Abbiamo insegnato con l’esempio che è necessario avere grande rispetto per l’opera del pensiero e della fantasia; abbiamo insegnato che la dignità della cultura impone un tono di signorile e romana gravità alle opere che si occupano di essa; né si addice alla critica la frase scorretta o l’insi. « I Libri del Giorno», Milano, dicembre , p. . . « I Libri del Giorno», Milano, dicembre , p. .
giovanna romanelli
nuazione ingiuriosa. In questo, la direzione ha dato sempre al periodico un tono organico e unitario, e sa di lasciare, a chi continuerà l’opera sua, un retaggio di serenità e di simpatia che è destinato a non spegnersi.
Queste parole ci affidano un messaggio di grande dignità, di grande rispetto per la cultura, che sembra ormai perduto in un’indistinta e informe omologazione sempre più bassa e avvilente. Cogliere il messaggio di questa lezione del passato, su di essa riflettere non è solo occasione di rilettura e scoperta di nuove prospettive, è soprattutto investimento per la costruzione di un futuro migliore, che non può prescindere dalla consapevolezza e dalla conoscenza del passato.
. « I Libri del Giorno», Milano, dicembre , p. .
Andrea Rondini P E R I C O L O G I A L L O ? AV V E N T U R A E MI S T E R O NELLE RIVISTE LETTERARIE DEL VENTENNIO
D i f f u s i o n e e su c c e s s o d e l g i a l l o
A fronte di ricostruzioni storiche del giallo italiano
e di analisi complessive di singoli momenti, è mancata fino a ora una analisi completa del dibattito sviluppate dalle riviste, pur considerando che spesso il riferimento ad esse non è ovviamente mancato ; tra l’altro proprio la rivista era la sede privilegiata delle storie gialle che, fin dalle origini, hanno trovato nella misura breve, ancora più che nel romanzo, una propria forma specifica. Del resto in anni recenti è stato affermato che risulta ancora tutto «da tracciare il profilo della critica italiana alla letteratura poliziesca: prima forma embrionale di quello che sarebbe stato, negli anni ’, il dibattito sulla paraletteratura». Il presente contributo si propone allora di costituire non tanto una mappatura totale – lavoro che necessiterebbe dello spazio di un vero e proprio libro – quanto di recuperare nuove voci della discussione sul giallo degli anni Trenta e rintracciarne alcune linee di tendenza, anche sulla base dei risultati fin qui raggiunti dalla ricerca critica. È opportuno ricordare che, mentre negli anni Venti, grazie a periodici quali la «Domenica del Corriere », è il giallo straniero ad essere abbastanza noto al pubblico, negli anni Trenta la narrativa poliziesca italiana conosce un maggior sviluppo, principalmente come causa diretta di alcune direttive culturali stabilite dal regime, volte a promuovere gli autori nazionali. Particolarmente famosa la collana di gialli Mondadori, editi a partire dal settembre e spesso abbinati allo slogan, più volte ricordato negli interventi qui presentati, «Questo libro non vi lascerà dormire! ». Proprio in questo decennio viene tra l’altro stampata la più importante rivista italiana di settore di quel periodo, dedicata solo al genere poliziesco, il «Cerchio verde», pubblicata dal al . Certo non mancavano, ovviamente, perplessità sulle possibilità di un giallo italiano, visto che il genere poliziesco era – certo con ottimi motivi – considerato una pe-
. Loris Rambelli, Storia del giallo italiano, Milano, Garzanti, ; Luca Crovi, Tutti i colori del giallo, Padova, Marsilio, . Vedi anche Elvio Guagnini, L’importazione di un genere: il “giallo” italiano tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta. Appunti e problemi, in « Trivialliteratur ? ». Letteratura di massa e di consumo, a cura di Giuseppe Petronio e Ulrich Schulz-Buschhaus, Trieste, Lint, , pp. -. Per una ricognizione storico-bibliografica si veda il sito Catalogo giallo www.dipmat.unipg.it . Vedi Il giallo degli anni Trenta, a cura di Giuseppe Petronio, Trieste, Lint, . . Una prima ricognizione in Loris Rambelli, Acculturazione di un genere letterario: il detective, l’analista italiano, «Lingua e stile», Bologna, , pp. -. . Benedetta Bini, Il poliziesco, in Letteratura italiana. Storia e geografia, iii, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, , p. . Per un panorama delle teorie europee del giallo nel Novecento vedi Andrea Rondini, Sociologia della letteratura. Profilo storico, Milano, Bruno Mondadori, . . Il reperimento delle fonti si è principalmente avvalso del Catalogo dei Periodici del Novecento, archivio elettronico in fase di costruzione definitiva, esito di un progetto diretto del Prof. Giorgio Baroni, dell’Università Cattolica di Milano. . Roberta Pagetto, « La Domenica del Corriere» e il giallo -, «Problemi », Palermo, gennaio-agosto , pp. -. Della fine degli anni Venti sono le riflessioni di Carlo Emilio Gadda, Novella seconda (), Milano, Garzanti, . . « A partire dal le case editrici italiane vengono obbligate dal regime fascista a pubblicare nelle loro collane almeno il per cento di opere di autori italiani. Avviene quindi un vero e proprio reclutamento dei giallisti italiani che devono tenere alto il tricolore di fronte alla superproduzione poliziesca estera» ; Crovi, Tutti i colori del giallo, cit., p. . . L’almanacco del delitto. I racconti polizieschi del «Cerchio Verde», a cura di Gisella Padovani e Rita Verdirame, Palermo, (i ed. ).
andrea rondini
culiarità culturale anglosassone, e comunque poco consono al mondo latino e italiano (e in fondo lo stesso regime nutriva qualche perplessità, di marca più ideologica che letteraria, sul giallo come genere); non a caso, nonostante alla produzione nazionale venga dato spazio, la forza della tradizione poliziesca straniera è ben ravvisabile e molti sono gli autori esteri recensiti e studiati. Occorre altresì dire che, almeno per le ricerche da noi effettuate, dalle riviste letterarie italiane del periodo affiora un interesse più o meno cauto, una valutazione più o meno simpatetica, ma non emerge quasi mai una situazione di rigetto integrale e aprioristico delle serie poliziesche. Prima di addentrarsi nei molteplici nodi tematici è opportuno ricordare che le riviste offrono un documento della diffusione e del successo della narrativa gialla; sul «Pensiero » si nota che «Milano è assediata, permeata, invasa di libri gialli: occhieggiano dalle edicole, richiamano dalle vetrine, appaiono sui banchi dei giornalai, accolgono il viaggiatore in stazione sia che parta sia che arrivi; si trovano in tram elettrico tra le mani di una signorina, di un giovanotto, nelle sale di lettura degli alberghi, delle famiglie. Tutto giallo ». Da notare come la narrativa gialla sia associata, secondo consuetudine, a luoghi di passaggio e di transito, a un pubblico giovane, ma sia anche collegata, cosa per nulla scontata, all’ambito famigliare, spazio evidentemente non impermeabile a quelle « migliaia e migliaia di copie che vengono scaraventate in pasto al pubblico ». Testimonia la larga diffusione – ma rimanda nel contempo pure al dibattito circa l’essenza “enigmistica” del giallo – anche la strategia editoriale di Mondadori di inserire a bella posta nei romanzi alcuni refusi tipografici, “errori” che il lettore deve scoprire in un concorso a premi, per cui l’attenzione e la curiosità si sdoppiano: ricerca del colpevole e ricerca del refuso (magari più alla portata): «Confessiamo candidamente che non siamo riusciti nei quattro volumi a trovare neppure uno dei quattro errori tipografici che sono stati dispersi ad arte: abbiamo quindi rinunziato a malincuore alle lire che l’Editore ha promesso [...] al fortunato vincitore di questa nuova “caccia agli errori” ». Non può stupire allora che anche il settore commerciale fosse interessato ai gialli, tanto che la ditta Arrigoni (marmellate, antipasti, condimenti) regalava i gialli Mondadori ai propri clienti. Le case editrici applicavano poi alcune peculiarità paratestuali, soprattutto il colore, appunto giallo, delle copertine, anche a testi non polizieschi, evidentemente per sfruttarne il richiamo cromatico. Il fenomeno, secondo «L’Italia che scrive», si presenta come una vera e propria «questione giudiziaria», vertente «sulla liceità o meno di pubblicare o meno libri con copertina o involucro avente l’identico colore di libri che già hanno avuta una notevole diffusione » ; oltre a descrivere tale situazione, la rivista non manca di prendere una posizione netta, difendendo la «precedenza dell’uso» delle ambite copertine da parte della letteratura poliziesca e quindi respingendo le motivazioni . Note sono le affermazioni di Alberto Savinio: «Il romanzo poliziesco è essenzialmente anglosassone. La metropoli inglese o americana, con i suoi bassifondi sinistri e popolati come gli abissi marini di mostri ciechi, le sue squadre di delinquenti disciplinati e militarizzati, le sue folle nere come l’acqua delle fogne, l’aspetto spettrale delle sue architetture, offre il quadro più favorevole, la messinscena più adatta al quadro del delitto. S’immagina male un romanzo poliziesco dentro la cinta daziaria di Valenza o di Mantova, di Avignone o di Reggio Emilia » ; Alberto Savinio, Romanzo poliziesco (), in Id., Souvenirs, Palermo, Sellerio, (i ed. ), p. . Che il giallo fosse tipicamente inglese era opinione anche di Saba: vedi Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, Genova, Il Melangolo, , pp. -. . Pagetto, « La Domenica del Corriere» e il giallo, cit., p. . . Giannetto Bongiovanni, Lettere da Milano, «Il Pensiero», Milano, agosto , p. . . Giannetto Bongiovanni, Parliamo del libro giallo, «Il Pensiero», Milano, ottobre-novembre , p. . . Leonardo Sinisgalli, Romanzi gialli, «L’Italia letteraria», Roma, , , p. . I salumieri e i libri gialli, «Il Bargello» e «L’Orto », Firenze, marzo-aprile . . Ettore Valerio, I libri gialli...e la contraffazione del colore, «L’Italia che scrive », Milano-Roma, , , p. .
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
addotte dagli editori sotto accusa, unicamente finalizzate a «trarre profitto dal lavoro e genialità altrui». Oltre alle dinamiche di diffusione è dato rintracciare sui periodici letterari del periodo anche una valutazione sulle motivazioni di tale successo. Antonio Breuers, dalle colonne dell’«Italia che scrive», rivendica alle storie poliziesche il potere di proporsi come vere narrazioni, come genere che mette il racconto in sé al primo posto, visto che il romanzo, l’arte narrativa (non gialla) si è sempre più mescidata con le speculazioni filosofico-psicanalitiche e con l’andamento saggistico: il romanzo «si è gonfiato e ramificato ristagnando nelle paludi e nelle maremme della filosofia, e della psicologia più o meno scientifica. [...] Il successo del romanzo poliziesco, considerato come una reazione, da parte del pubblico, alle zeppe dell’elucubrazione, costituisce un richiamo, per gli scrittori narrativi, alla legge fondamentale e naturale del loro genere : raccontare, e raccontare con semplicità». Il romanzo non deve tanto rigettare in toto l’apporto delle altre discipline quanto fonderlo nelle proprie strutture e nel proprio linguaggio ed evitare così che le digressioni speculative rendano i romanzi pesanti, anzi degli autentici mattoni: il giallo allora avrà vita facile ad imporsi nella struggle for life che così si preannuncia: «Da un secolo in qua l’arte, specialmente quella teatrale e narrativa, tende al mattone; bisogna alleggerirne le forme e le dimensioni. Se gli scrittori non sapranno decidersi ad affrontare questa grande riforma, il pubblico si getterà, disperatamente, alla lettura del genere poliziesco ed affine, mandando a farsi benedire gli artisti, i quali, specialmente nel secolo del velivolo e della radio, non hanno il diritto di essere noiosi». Non sono, queste, posizioni isolate se si pensa che Guido Piovene, giudicando molti romanzi appartenenti letteratura “alta” degli autentici « pozzi di noia» stereotipati e vecchi, rivendica proprio alla narrativa gialla la capacità di sondare e perlustrare nuove dimensioni della sensibilità moderna, soprattutto quelle legate alle zone del morboso e del patologico, affrancando in tal modo le vicende criminali dalla semplice e compiaciuta descrizione di scene sanguinarie o dall’offerta di rompicapi sofistici ed enigmistici. La vicinanza di salute e patologia, di normalità e anormalità, l’idea che le componenti deviate dell’esistenza non siano proprie solo di alcuni “mostri” bensì siano componenti ritrovabili nel quotidiano sono le marche distintive del giallo, capaci di porre le storie di assassini e detectives sulla linea proficua delle più avanzate ricerche epistemologiche : « L’arte moderna più valida è tutta, e sarà per un pezzo, nello studio dell’eccezionale e del morboso: e tale studio è la sola scoperta, il solo acquisto fondamentale della psicologia moderna: un acquisto tra quelli che improntano un’epoca intera, e non si possono liquidare per libito o per capriccio. Opera fondamentale della psicologia moderna è la disintossicazione del morboso e dell’eccezionale, che è stato spogliato di ogni aspetto diabolico e buio, di cui, per così dire, s’è di. « Il dire che il colore della copertina di un libro non può creare confondibilità, è un affermare cosa non del tutto esatta, perché una data raccolta di libri, una determinata collezione di opere giuridiche, economiche, letterarie aventi una propria finalità, vengono contrassegnate, tra l’altro, anche dal colore della copertina [...], ora il costituire e riprodurre una identica collezione di opere letterarie pur con differenti titoli, specie di quelle opere che vanno per le mani di un pubblico vario, è creare quella confusione di appartenenza che la morale condanna e la legge deve reprimere. Se è vero che il colore non può diventare il monopolio di un commerciante è altrettanto giusto che un determinato colore, adoperato per l’involucro di una merce, non può essere usato da un altro commerciante, per contraddistinguere merci analoghe. Se è limitata la scala dei colori, vi sono tante variazioni, che ogni commerciante potrebbe battere la propria via, senza bisogno di nuocere ad altri» ; ibid. . Antonio Breuers, L’insegnamento dei romanzi polizieschi, «L’Italia che scrive», Milano-Roma, , , p. (poi in Id., Problemi della letteratura italiana, Bologna, Zanichelli, ). . Ibid. . Per Piovene è infatti una «volgarità che la fortuna del romanzo poliziesco dipenda da una certa tendenza al sanguinario e al morboso, o al freddamente cerebrale, diffusasi nel dopoguerra» ; Guido Piovene, Difesa dei gialli, «L’Ambrosiano », Milano, agosto , p. .
andrea rondini
mostrata la normalità ». La posizione fin qui delineata riceve ancora maggiore evidenza dalle problematiche del tutto simili sollevate anche da una rivista come «Solaria », che sottolinea ancora una volta come la grande narrativa borghese (quella originata dal gotha della letteratura secondo-ottocentesca, da Flaubert a Maupassant, da Tolstoj a Zola) sia «molto logora», anzi così logora che «per rinsanguarla» non occorrerebbe un genio bensì «un periodo di riposo». Non ci si può stupire allora, argomenta Capasso, se opere «veramente attuali e insieme poetiche» debbano essere ricercate « nel gruppo folto della letteratura poliziesca», magari in scrittori come Mac Orlan e Simenon. Su una linea simile, anche se più dubitativa, anche Aldo Sorani, si chiede se il successo del giallo possa essere interpretato come reazione «alla soverchia letteratura soggettiva e introspettiva che ha raggiunto i limiti insopportabili della noia». Si possono probabilmente stabilire dei collegamenti tra questa insofferenza verso la letteratura istituzionale e quella idea dello «scongelamento » dei classici proposta non casualmente proprio in questo periodo e non casualmente da uno dei protagonisti del dibattito sul giallo (e più in generale con le note tesi gramsciane circa il carattere elitario della letteratura italiana). Anche Corrado Pavolini prende le mosse dalla critica verso la cosiddetta «buona letteratura », spesso stanca e vuota ripetizione di ricette già consumate, calibrata e noiosa combinazione di motivi, per arrivare a una definizione del giallo come racconto «brutale », magari dalla «chiarezza idiota e senza scampo», tuttavia capace di darsi valore proprio a partire dalla sua oltranza; inoltre il giallo – con attenzione specifica da parte di Pavolini al giallo teatrale – si configura come una autentica grammatica mitologica, una voce non banale contraria alla stanchezza, al «positivismo » della modernità: Pavolini al proposito si chiede se i critici teatrali o letterari abbiano mai tenuto nel debito conto una qualità eccezionale dei “gialli”, che li innalza molto sopra ogni altro prodotto letterario, artistico o cinematografico di questa nostra epoca positivista e disillusa; essi fanno inclinar l’animo di chi legge, o ascolta, o vede, verso una concezione mitica dell’esistenza. Quello che a me sembra più umiliante nel teatro borghese d’oggi (come, d’altronde, anche nel cinema e nella narrativa) è il fatto che i personaggi non possono subirvi metamorfosi, trasfigurazioni di nessun genere. [...] Queste figure rigide, immodificabili, stupidamente testarde come dati di fatto, sono la principale causa della scarsa o nulla attrazione degli spettacoli contemporanei.
Il giallo, invece, ha la sostanza del mito, portatore di trasformazione e di fantasia, di una dimensione in cui «l’umanità cangia senza posa aspetto e carattere, proprio come nei più accaldati e lirici sogni della mitologia, senza che in realtà cangi di un ette né carattere né natura : impassibile, trascolorante, beffarda e divina essa si presta solo, compia. Ibid. . Aldo Capasso, Pierre Mac Orlan e il romanzo poliziesco, «Solaria », Firenze, novembre , p. . . Ibid. . Aldo Sorani, Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, «Pegaso », Firenze, , , p. . Sorani cita al proposito un saggio di Marjorie Nicolson, Il professore e il detective. In fondo lo stesso Bontempelli, come noto, scriveva nel luglio del : «è più facile che il romanzo nuovo nasca magari dal romanzo giallo che non da Stendhal o da Dostoiewski» ; Massimo Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura di Ruggero Jacobbi, Firenze, Vallecchi, , p. . . Aldo Sorani, Il libro italiano, Milano, Bertieri e Vanzetti, . . « Impossibile ormai mandar giù la “buona letteratura”, né ermetica né trasparente, messa insieme con quel po’ di complicazioni sentimentali, quel pizzico di poeticismo e di verismo, tanta logica e tanta fantasia, tanto dialogo e tante riflessioni, tristezza e sorriso ben dosati, eccellenza di scrittura che non sa toccare il sublime e non vuole arrendersi alla cronaca: “buona letteratura”, esasperante e pretenziosa come tutte le vie di mezzo» ; Corrado Pavolini, Giallo cromo, «Scenario », Milano-Roma, settembre , p. . . Ibid. . Ivi, pp. -.
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
cente e maliziosa ed enigmatica, al nostro innato bisogno di simboli e prodigi». Come nel racconto mitico agiscono potenze, misteri, azioni torbide o grandiose, così «pullula d’inconoscibili cose il “giallo”; agguati son dietro a ogni quinta, a ogni voltar di pagina, a ogni fotogramma [...]; e quel mito fra tutti stupendissimo di Dafne risorge in altra forma tra questa incredibile folla di camuffati, tra parrucche di ogni specie, occhiali neri, baffi finti, mentite spoglie, trabocchetti, porte girevoli». In questa prospettiva la natura antiartistica e dozzinale dei gialli («tirati giù come viene viene, senza studio di caratteri, luce d’arte, garbo di stile») diviene in un certo senso una forza, si trasforma nella possibilità di attingere e descrivere «la parte più fonda e buia della civiltà moderna », meno sofisticata ma alla fine più interessante – pur nella barbara semplicità, nella bellezza « massiccia e bruta» – delle «morbide false raffinatezze del teatro solito, della solita romanzeria e del cinema corrente». Il gusto egemone rifiuta evidentemente la componente problematica della narrativa gialla: dotati di una sintassi “mitica”, i polizieschi consegnano nondimeno al lettore una visione negativa dell’uomo, ridotto a macchina istintuale e libidica: «un mondo simile [quello del crimine], questo mondo al quale l’individuo bennato vorrebbe rifiutarsi di credere, esiste tuttavia intorno a ciascuno di noi; così bestialmente attivo, così rudimentalmente schiavo di impulsi materiali, da pretendere come sua sola possibile rappresentazione “artistica” una trascrizione del tutto balorda. Il “giallo” ha, se non altro, valore formidabile di documento ; rovescio nero di una medaglia lucente, resterà come uno spietato atto d’accusa ». Ma evidentemente il giallo rispondeva anche ad altri bisogni, non solo a quelli di fuoriuscire dalle formule ripetitive delle letteratura istituzionalizzata. Sorani infatti, al di là di una presa di posizione univoca e del giudizio morale, si sofferma sociologicamente sugli effetti della produzione gialla su differenti tipologie di pubblico: «La letteratura poliziesca risponde evidentemente ai bisogni di un pubblico molto composito, che vi ricerca soddisfazioni e sensazioni diverse. Ad una certa classe di lettori, offre il suo mero contenuto sensazionale e romanzesco, la voluttà del mistero e delle avventure, il brivido e il raccapriccio. Ad un’altra classe di lettori offre il semplice sfogo di curiosità ch’offrono i complicati fatti di cronaca e i resoconti dei tribunali. Ad una classe più elevata di lettori fornisce il divertimento del problema da risolvere, la gara aperta delle induzioni e delle deduzioni, il calcolo eccitante delle probabilità e delle possibilità, la gioia degli inseguitori di tracce e una specie d’igienica ginnastica mentale». Quello che però il giallo offre a tutti i fruitori, e qui il discorso passa a un piano più “ideologico”, è la possibilità di evasione, il senso e l’illusione della fuga per «un’umanità affan. Ivi, p. ; nel giallo, per esempio, «la mite signora Baletti, vedova sessantenne d’un generale a riposo, si trasforma di minuto in minuto, sotto l’impulso dei mutevoli sospetti del pubblico, in una bionda avventuriera truccata da rispettabile vecchia; in una belva sanguinaria; in un cinese travestito da donna» ; ibid. . Ibid. Così il detective Gaston «piomba ormai sulla ninfa, l’afferra, “la colpevole! la colpevole! – esclamando – fermatela ! » ma non gli resta in mano che un lembo di velo, già ella in un baleno s’è ricoperta di rugosa scorza : oh stupore, e agli occhi degli astanti chi appare? [...] il rivale in persona del celebre detective», travestitosi da «angelica fanciulla per lavorare indisturbato proprio sotto al naso di Apollo-Gaston» ; ibid. . Ivi, p. . . Ibid. . Ibid. . « Per i pessimisti, essa [la letteratura gialla] non è che il frutto d’una progressiva perversione del gusto e d’una decadenza della cultura; per gli ottimisti, è il segno naturale d’un bisogno di diversione e di svago. Per alcuni è l’attrattiva del delitto che si fa sempre più pericolosa e inquietante; per altri, al contrario, è la volontà di veder punito il delitto e trionfante la giustizia che si fa sempre più difusa e imperiosa» ; Sorani, Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, cit., p. . Di Sorani si veda anche Effetti del romanzo poliziesco, «La Nazione», Firenze, , , p. . . Sorani, Conan Doyle..., cit., p. .
andrea rondini
nosa e senza riposo e insieme standardizzata e meccanizzata» ; questa folla d’uomini « sente sempre più il bisogno di uscire dalla trita e inflessibile regola che la costringe e la macina » e desidera «trovare nella lettura una qualche irrealtà riposante, in cui distrarsi e dimenticarsi, in un’ora di sosta». Del resto che cosa ha fatto Edgar Wallace, se non adattare «il romanzo e il dramma a certi bisogni e a certe inclinazioni del nuovo pubblico e [...] non solo di quello speciale pubblico che si diletta e si nutre di letture raccapriccianti e di spettacolo orripilanti, ma di tutto il pubblico, anche di quello più coronato, addottorato e sofisticato ». La ricetta dello scrittore è stata quella di levare dalla narrazione ogni cadenza di pensiero, ogni riferimento sociale, ogni referente culturale e addirittura la stessa componente sentimentale, privilegiando la mera dimensione fattuale, lo svolgersi velocissimo degli accadimenti : « Egli ha decisamente spogliato questo romanzo dei suoi orpelli tradizionali e ormai inutili, della veste sentimentale o magari sociale e filosofica di cui i maggiori rappresentanti del genere lo avevano ammantato, illudendosi di elevarlo di tono [...] Egli ha tolto al romanzo popolare il sentimentalismo lacrimogeno, l’elucubrazione untuosa o profetica, e perfino l’amore, per non lasciargli che il fatto nudo e scattante, il colpo di scena a infinita ripetizione, narrato con uno stile che è stato giustamente definito “a scarica di mitragliatrice” ». Tale operazione risultava funzionale all’orizzonte d’attesa dei « lettori d’ogni ceto, aborrente delle fatiche del pensiero e dello pseudo-pensiero, curiosa di fatti e non d’idee, ansiosa d’evadere dalle preoccupazioni quotidiane senza venir costretta per questo a pascolare nelle zeppe dei romanzieri, contenta di trovare il cinema anche nel libro, come nel giornale». Si potrebbe definire come estrema la posizione di Wallace, che opera uno scarto perfino nei confronti dello stesso genere giallo, ritenuto nella sua formulazione classica eccessivamente intellettualistico: «Questo carattere di Edgar Wallace spiega anche perché, regnando da despota nel campo del romanzo popolare a base d’intrighi criminali e di grovigli polizieschi, egli non si lasciasse permanentemente sedurre dal romanzo poliziesco problema ed enigma, sollecitante la perizia intuitiva dei pazienti amatori di rompicapi. I suoi poliziotti dilettanti o professionali non sono armati di scienza sottile e dotati di prestigiose virtù soprannaturali, ma di buon senso». Certo è che, per Sorani, alla fine il giallo indica un decadimento delle lettere (o comunque un fenomeno molto vicino) che nel contempo evidenzia un restringimento dell’orizzonte d’attesa, sempre meno calibrato su libri “difficili” e stimolanti: la fortuna del poliziesco è dovuta, «presso molto pubblico, a troppo scarse e volgari esigenze letterarie. La media dei lettori scansa, oggi più che mai, la fatica delle letture ardue, evita la meditazione anche se si sofferma volentieri a risolvere puzzles, non sente un bisogno intellettuale d’alto interessamento e ricorre a chi sappia afferrarne e trattenerne l’attenzione, sia pure coi mezzi più grossolani. La letteratura poliziesca è, in parte, anche letteratura di stanchezza, di debolezza, di affievolimento della volontà. Molti uomini di pensiero leggono romanzi polizieschi per distrarre il loro pensiero, ma una grande . Ibid. L’articolo di Sorani era noto ad Antonio Gramsci, che lo reputava «indispensabile per una futura ricerca più organica » sul giallo. Gramsci solleva, soprattutto in merito alla fortuna del giallo come reazione alla meccanizzazione della vita qualche perplessità: «Ma questa spiegazione si può applicare a tutte le forme della letteratura, popolare o d’arte: dal poema cavalleresco [...] al romanzo d’appendice di vario genere. Tutta la letteratura e la poesia sarebbe dunque uno stupefacente contro la banalità quotidiana? » ; Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, , p. . . Aldo Sorani, Edgar Wallace, «Pegaso », Firenze, marzo , p. . . Ibid. . Ibid. Ancora: «il romanzo poliziesco» secondo Wallace «deve dare l’impressione della realtà, deve essere accettato dal lettore come viene accettato un resoconto di giornale» ; ivi, p. . . Ivi, p. . Sulla ricezione italiana di Wallace vedi Bini, Il poliziesco, cit., p. .
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
maggioranza legge romanzi polizieschi perché non ha la voglia, né la forza di pensare ». Il discorso di Sorani trova alcuni punti di contatto in alcune riflessioni coeve; Vinicio Paladini ritiene che il pubblico veda nel giallo una fuoriuscita dalla piattezza della vita ordinaria : la narrativa poliziesca ha una doppia anima romantico-algebrica perché veicola sia la fascinazione per il crimine sia l’attrazione per lo scioglimento di un rompicapo quasi “matematico” ; al critico comunque preme maggiormente individuare il fenomeno piuttosto che esprimere un giudizio, tanto che quella la sua risulta alla fine essere in sostanza una definizione di giallo, genere che ibrida logos e pathos. Il Leitmotiv del «sogno » di una vita «meno abitudinaria» si ritrova in altri interventi che ravvedono soprattutto – e un po’ semplicisticamente – nella curiosità la molla che fa scattare l’interesse del lettore per il giallo, in questo assimilato alle biografie romanzate: «Punto di attrattiva, dunque, è nella storia romanzata il nome del personaggio illustre; nel libro giallo, l’intrigo divenuto fine a sé stesso. Ed è per questo che tali libri vanno a ruba». Certo è che quella «curiosità » è alimentata, oltre che dalla suggestione della trama, ancora una volta dalla stanchezza della letteratura “alta”, piattamente istituzionalizzata, di fronte alla quale il giallo ha buon gioco almeno sul versante di una rappresentazione più moderna e attuale della vita contemporanea. Non stupisce infine trovare recensioni se non entusiaste – il giallo è pur sempre una « sottospecie » letteraria – certo simpatetiche e che si trasformano in piccole apologie, come le righe su Dalle nove alle dieci della Christie, emblematiche dell’intero discorso perché in esse la valutazione della non piena artisticità non ledeva il riconoscimento del successo e il piacere della lettura: «La moda di questo “genere” in Italia è, si sa, relativamente recente e d’importazione straniera, ma a giudicare dal successo che esso genere ha avuto anche da noi, si deve riconoscere, cosa che è verissima, che anche in questa sottospecie di letteratura c’è del buono. [...] Ed ora la recensione? No. Raccontare la trama di questi lavori come il soggetto di certe commedie è un peccato. Ci limitiamo a garantire che esso è interessantissimo, ottimamente congegnato, con dei protagonisti vivissimi e che ha uno scioglimento veramente originale, una soluzione senza dubbio inaspettata. Ne raccomandiamo perciò senza meno la lettura». In fondo, già per Sinisgalli, sul finire degli anni Venti la narrativa poliziesca è «una poesia di essenza puerile» – anche se pur sempre «poesia » – sintomo di un «“ritorno” infantile nella storia spirituale del tempo presente» e che ingloba anche altre manifestazioni culturali (il cinema). Tuttavia nel parlare di alcuni gialli coevi o di alcuni pre. Sorani, Conan Doyle e la fortuna..., cit., p. . . Vinicio Paladini, Giallo, «Quadrivio », Milano, o aprile , p. . . « Gli uomini di oggi hanno bisogno di un mondo nel quale l’imprevisto, il passionale, il sorprendente, il fosco, il drammatico, abbiano buon gioco, elementi romantici che compongono il fondo di ogni buon libro giallo. Di qui l’interesse per i paesaggi nebbiosi, fumosi di Simenon [...]. Un altro elemento caratteristico [...] è lo sviluppo di uno schema puramente matematico. Equazioni con incognite da risolvere, e credo che solo oggi gli uomini abbiano scoperto il piacere del porsi così astratti problemi. Anche questa un’altra forma di evadere dall’aridità della vita attuale, l’indirizzare il pensiero unicamente alla risoluzione di un problema» ; ibid. . « È tutto questo un bene o un male? A mio parere la questione è oziosa. I fenomeni non si discutono. Si possono spiegare, analizzare, ma è è assurda ogni loro condanna o esaltazione» ; ibid. . Luigi De Crecchio Parladore, Fortuna delle storie romanzate e dei libri gialli, «Il Saggiatore», Roma, marzo , pp. -. . Ivi, p. . . Ibid. . Recensione a Agatha Christie, Dalle nove alle dieci, «L’Italia che scrive», Milano-Roma, , , p. . . Leonardo Sinisgalli, “Romanzi gialli”, «L’Italia letteraria», , , p. : «C’è un “ritorno” infantile nella storia spirituale del tempo presente (delitti morbosi – narcisismo – cinema – macchina giocattolo): la favola trova il suo clima adatto col suo mondo a quattro dimensioni dove i personaggi s’affacciano tra i muri, scendono
andrea rondini
cursori del genere il giudizio è tutt’altro negativo; si considerino per esempio le parole spese per uno dei classici di tutta la narrativa gialla, La strana morte del signor Benson di S.S. Van Dine : « Un romanzo poliziesco in cui la sottigliezza del ragionamento, la genialità dell’invenzione e dell’intreccio non lasciano languire per un attimo solo l’attenzione del lettore condotto con bravura di sorpresa in sorpresa». A r t e o sp o r t ? Una delle posizioni più negative riguardo al giallo è quella espressa sull’«Illustrazione italiana » da Francesco Flora, per il quale i romanzi polizieschi «oggi son di voga e son portati ai sette cieli da amici nostri cari e illustri e da bellissime donne che non si vorrebbero contraddire [...]. Dicono sia una lettura elegante perché antiletteraria e divertente ; mentre io la credo un’estrema malattia letteraria, e per la noia ci dormo su [...]. Per freddure che si possan dire, per arguzia di paradossi e di ostentazioni su questa debolezza dell’umano ingegno, che è la lode del genere poliziesco, la mia idea non muta: la lettura di tali romanzi di polizia è la malattia letteraria meno squisita e meno spiritosa del nostro tempo ». La metafora della malattia usata da Flora – critico di solito chiuso verso la modernità – in fondo è l’unica voce veramente negativa (a parte qualche accento de « La Parola e il Libro»), risultato ancora più interessante se si pensa che l’Italia, certo con buone ragioni, è sempre stata considerata paese poco incline alla letteratura di massa. Anche la «Rivista di letture», ma ad una data sicuramente tarda, quando insomma la partita era in qualche modo già giocata, stronca i racconti del crimine, una vera e propria «forma deteriore di romanticismo esasperato e fuor d’ogni limite, che abituò gli spiriti alle sensazioni violente e strane, onde nacque il desiderio e la ricerca di fremiti, di brividi, di commozioni inconsulte e inutili». A parte l’oltranza di tali giudizi, i temi del dibattito riguardano alcune questioni principali : l’appartenenza del giallo al dominio dell’arte, la sua carica etica, il progresso e il futuro di questo genere, il suo rapporto con la letteratura alta e con il cinema, la prima individuazione delle tecniche specifiche di racconto. La discussione testimonia anche il fatto che ormai il giallo possiede una riconoscibilità e una tradizione accertata, tanto che si può parlare dell’esistenza di un vero e proprio canone di autori: da Poe a Simenon, passando per Conan Doyle, Van Dine e Wallace è possibile affermare che un primo processo di sistemazione e di storicizzazione è sostanzialmente condiviso da tutte le testate. Una delle questioni più ampiamente documentate riguarda l’ammissibilità delle storie criminali nel dominio della Letteratura. Secondo Corrado Pavolini il poliziesco non appartiene alla sfera estetico-letteraria in quanto la sua finalità principale è il divertimento del lettore: tra la letteratura e il giallo, infatti, «non può esservi saldatura e nemmen contatto [...]. Bene benissimo che i Libri Gialli sieno spassosi ; male malissimo se spassosa diventa la letteratura propriamente intesa. Tutti i libri di reale valore sono atrocemente “noiosi”, in Italia, grazie al cielo, più che dovunque; quella della letteratura “divertente” essendo una mediocre invenzione dai soffitti, traforano i sotterranei con la rapidità folletta con cui i raggi X attraversano i cuori, le scatole craniche e i reticolati dei cristalli». . Ibid. Gli altri romanzi sono Anna Katharine Green, Il mistero delle due cugine; Edgard Wallace, L’uomo dai due corpi; Robert Louis Stevenson, Il club dei suicidi. . Francesco Flora, Un romanzo poliziesco, «L’Illustrazione italiana», Milano, settembre . . Per il suo rifiuto della psicanalisi e del suo uso in letteratura si sofferma tra l’altro Andrea Rondini, Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura, Pisa-Roma, Iepi, , pp. -. . Magister Flavus, Osservazioni e rilievi, «Rivista di letture», Milano, gennaio , p. .
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
mercantile dei francesi, ai quali sarà cosa santa lasciarne senza invidia il beneficio dello sfruttamento. Il libro italiano è illeggibile. È la sua gloria. Ad altri quella delle grandi tirature ». Chiarita la non artisticità del poliziesco – il cui regno è semmai lo «spasso », il mercato – Pavolini ne enuclea tuttavia una sorta di fenomenologia (forse bisognosa di un più ampio dispiegamento) che riconosce al giallo la capacità di un «effetto esteticamente ragguardevole», come dimostrava anche l’operazione condotta da André Gide di ripubblicare « fattacci » del passato: nel giallo «come in quei documenti, è enorme benché inspiegabile, la suggestione di certi nomi di personaggi, o di località, metafisica la consistenza d’individui “dai capelli rossi” o “dalla mano destra con un dito tagliato”, sui quali l’alone del sospetto inevitabile getta una luce tutta speciale d’artificio, in modo che l’intera narrazione ne risulta trasferita in un clima d’eccezione, allucinatorio, che potrebbe essere definito come la forma più elementare di “novecentismo”. Si pensi alla stranezza ambigua di questo mondo, dove nessuno vale in definitiva per i suoi sentimenti, ma per il fatto di portare o meno “un paio di occhiali neri”». L’ingresso nella sfera dell’arte – o almeno in quello della leggibilità – era negato anche considerando la descrittività d’ambiente, il senso d’umanità della vicenda e dei personaggi, viste in contrapposizione al rompicapo, alla soluzione intellettualistica; da tale punto di vista nel romanzo poliziesco, si ricercava invano, un «movente spirituale », quella componente «per cui, in ogni libro, il lettore vuole fermata la sua esistenza con i suoi dolori, con le sue gioie, con le sue aspirazioni e con le sue rinunzie. In questo processo di chiarificazione appunto consiste l’arte. Tanto, però, manca nelle storie romanzate e nei libri gialli, costruiti ambedue come sono su formule rigide e chiuse, vere e proprie strettoie in cui si frantuma e si annulla il dramma umano». Il giallo fuoriesce dal perimetro estetico anche laddove, secondo Aldo Capasso, esso diventa puro gioco intellettualistico, mera costruzione logica, come nei gialli di S.S. Van Dine. Ma non è solo la «minuziosa sciarada» a minacciare il giallo bensì anche, proprio per la sua propensione a trattare i temi del crimine, della devianza – e comunque di una passionalità anche amorosa innaturale, abnorme o sadica – il pericolo di « una sensualità non padroneggiata». La narrativa poliziesca può, crocianamente, rientrare in una dimensione estetica laddove sappia invece da un lato “superare” gli aspetti materiali e naturalistici del reale, dall’altro evitare una trama basata su dettagli convenzionali e cliché; occorre cioè, per dirla con Capasso, «stabilire fino a che punto la sensualità è serenata» e «se c’è convenzionalità nei “dettagli”». La letteratura gialla può ambire a una qualità estetica, a un «sentimento lirico» (come la possiede Quartier Réservé di Mac Orlan) incrociando appunto «sensualità padroneggiata» e «rappresenta. Corrado Pavolini, Non vi lascerà dormire, «L’Italia letteraria», Roma, ottobre , p. . . Ibid. . De Crecchio Parladore, Fortuna delle storie romanzate e dei libri gialli, cit., p. . . « Il primo e grande pericolo del genere poliziesco, ci è rivelato, come in comodi schemi, da quegli istruttivi iloti che sono gli americani (tipo Van Dine): creare una minuziosissima trama d’origine nettamente logica» ; Capasso, Pierre Mac Orlan e il romanzo poliziesco, cit., p. . . Ivi, p. . . Per Croce i gialli fanno parte dell’«espressione oratoria» ; Benedetto Croce, La Poesia (), Milano, Adelphi, , p. . . « Lo scrittore cerca, sì, situazioni e ambienti bizzarri; ma poi non si preoccupa (altrimenti entrerebbe nell’arte) di riprodurre questa bizzarria al microscopio, in modo che ogni frazioncella del quadro resti, se considerata in sé, bizzarra», con il risultato di un testo «decorativo e portatile» ; Capasso, Perre Mac Orlan e il romanzo poliziesco, cit., p. . . Ibid. . Ivi, p. .
andrea rondini
zione non convenzionale » (altra questione è ovviamente quella della personalità poetica di ogni singolo giallista). Non a caso quindi Capasso rinviene nel romanzo francese alcune note di armonia, affrancamento dall’istintualità diretta, uno «stato d’animo », caratterizzato da una «distanza » e da un’osservazione ideale nei confronti dei fatti narrati senza che essa diventi peraltro «apparato logico» ; la passione criminale e la astrattezza logica sono infatti due eccessi da evitare, le facce della stessa medaglia; nel testo di Mac Orlan c’è, in sostanza, un sentimento psicologico universale, vale a dire « quell’indulgenza, quella comprensione delle bellezze umane che non sembra abbassare colui che comprende; e quella particolare pietà che la “distanza” permette: una pietà che tiene del cosmico, oltre che nel senso generico dell’arte, anche perché sembra che la povertà d’ogni creatura incontrata [...] richiami tutta la categoria delle creature consimili, tutta l’incomprensibilità del destino umano. Infine, sopra ciò, un senso d’inquietudine » e il senso della «complessità della vita». La matrice crociana dell’intervento si conferma anche nella discussione circa il rapporto, per Capasso riuscito, tra « stato lirico » e «intreccio », tra poesia e azione potremmo dire, per cui il romanzo di Mac Orlan non entra nel novero di quelle opere «dove un autentico lirismo aleggia, ma resta confinato nei punti dove il racconto è meno attivo; i colpi di azione, le risorse più propriamente romanzesche, non riescono a essere permeati interamente del liquore lirico ». Vista la problematica annessione al perimetro strettamente letterario non stupisce trovare la narrativa poliziesca associata ad altre categorie e attività meno “nobili”. Il nesso con lo sport è infatti presente sulle pagine dell’«Italia letteraria» : il romanzo giallo (nello specifico quelli di Wallace) fa parte degli sport moderni, essendo ogni romanzo poliziesco « un avvenimento sportivo che invece di svolgersi tra atleti viventi entro un campo o una pista, si svolge tra atleti immaginari nella palestra chiusa di duecentocinquanta paginette incopertinate di giallo. Pagine sono, è vero, e pagine piene di parole, ma tolto questo particolare che riconduce l’opera di Edgar Wallace alla letteratura, tutto il resto la riconduce allo sport. Edgar Wallace ci apparve nella sua esistenza, più che uno scrittore, un glorioso team sportivo, un team che aveva persino i suoi bravi colori : cerchio rosso in campo giallo; e i suoi ammiratori, più che lettori ci sono sempre apparsi e ci appaiono “tifosi”». Anche per Lanocita il giallo non fa parte della “vera” letteratura, semmai è una sorta di arte combinatoria, più vicina agli scacchi o allo sport che all’arte, e per questo capace di stabilire un più diretto contatto tra autore e lettore: «Occorre abilità da giocatore di scacchi, piuttosto che di scrittore: pedine sono i personaggi, scacchiera il libro, posta il mistero. Da una parte del tavolo sta l’autore, dall’altra il lettore: si fa a chi arriva più presto alla soluzione, se chi scrive o chi legge. [...] Duello d’astuzie [...] fra criminale e poliziotto, ma in realtà fra scrittore e lettore ». Anche se non è arte non è comunque detto che pur in tale ambito ristretto il giallo . Ivi, p. . . Nel romanzo di Mac Orlan, pur con i pregi individuati, «non si distinguono a pieno i motivi» dello scrittore rispetto a «quelli di altri “poeti”» ; ibid. . Ivi, p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. . Merito di Mac Orlan è quindi quello di «avere trovato l’intreccio della sua poesia» ; ibid. . A. F. Ferrarin, Wallace umanitario, «L’Italia letteraria», Roma, febbraio , p. . . Arturo Lanocita, I segreti del romanzo giallo, «La lettura», Milano, o settembre , pp. -. Vedi anche p. : «In quanto alle narrazioni poliziesche, inutile lambiccarsi il cervello per inserirle nelle caselle della storia letteraria, dove debbano stare e come. Tanto, non chiedono d’entrare nella storia, nemmeno nella letteratura ». Lanocita fu anche autore di gialli: Quaranta milioni (), Quella maledettissima sera (), Otto giorni d’angoscia ().
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
possa vivere senza problemi: infatti agli occhi di Sorani esso è minacciato dalla sua natura ripetitiva che mina le possibilità e il futuro del genere. Il romanzo o il racconto poliziesco «potrà variare sin che si vuole il tipo dell’eroe detective, e aggrovigliare a beneplacito gli elementi dell’intreccio, ma è costretto ad obbedire a poche formule impostative, ormai abitudinarie, e a rientrare in pochi schemi d’investigazione abusati. Il romanzo poliziesco è condannato a ripetersi, così che, anche nel proporre il più misterioso e arruffato enigma, minaccia di essere ormai tutt’altro che enigmatico». Vi è spesso la ricerca di un sostrato ideale che possa riscattare il genere poliziesco da semplice prolungamento della cronaca nera. Alberto Consiglio ritrova questo sostrato nella disposizione analitico-logica del poliziesco, iniziata da Edgar Allan Poe: lo scrittore americano « vedeva, in pieno secolo romantico, per quale diritta e legittima via l’uomo poteva osare di contrapporsi a Dio. Della scienza lo colpiva non tanto il risultato pratico quanto il metodo d’indagine. E non tanto lo sperimentalismo, quanto le conclusioni dedotte dalla istituzione di rapporti. Quindi lo colpiva la matematica pura, l’astronomia, lo studio rigoroso dei problemi astratti. Ed è questo, in fondo, lo stato d’animo ispiratore di tutta la buona letteratura poliziesca, di quella, cioè, che si eleva su di un piano d’arte. [...] L’essenza della poesia va naturalmente ricercata non tanto nel fatto in sé, quanto nella precisione del procedimento d’indagine attraverso il quale, da alcuni fattori eterogenei, si giunge alla conoscenza di una incognita. È la mentalità del matematico che si trasferisce sul piano della vita reale, sul piano dell’azione». Autori come Poe, Chesterton, Van Dine hanno intuito che «nel fondo del durissimo rigorismo metodologico della matematica pura domina la fantasia». In tal modo il giallo risponde, ed anzi contribuisce a codificare, all’estetica impersonale novecentesca, dove centrale non è la personalità dell’autore bensì la costruzione concatenata del racconto (e in questo si dimostra simile al film). L a v i a i t a l i a n a a l g i a l l o : um a n i t à e mo r a l e Se del crimine da intrattenimento risulta incerta l’appartenenza all’arte nondimeno di tale produzione se ne può apprezzare l’eventuale patente di moralità, anch’essa una via di ammissione indiretta nel campo artistico e una giustificazione della loro ricezione. Se i gialli non sono arte, almeno che siano ricchi di “umanità”. Non a caso «L’Italia che scrive» ritiene che «nella quasi totalità delle opere [gialle], questa produzione non è immorale; anzi rappresenta la lotta del bene contro il male col finale trionfo dell’innocente e la cattura del colpevole» : alle spalle vi è la tradizione letteraria iniziata coi paladini e cavalieri erranti medievali difensori della giustizia, proseguita con l’Orlando Furioso e arrivata fino alla cultura otto-novecentesca: nel «secondo cinquantennio del secolo xix, cambiata la struttura della civiltà, il romanzo d’avventura fu essenzialmente sociale e gli Artù, gli Orlandi, i Lancillotti si chiamarono Valjean e magari Rocambole. Oggi si chiamano Sherlock Holmes, Vance e Padre Brown. Chi preferisce Orlando, eroico, innamorato o furioso, a Vance, poliziotto dilet. Sorani, Conan Doyle e la fortuna..., cit., p. . . Alberto Consiglio, Cauto elogio del giallo, «L’Italia letteraria», Roma, novembre , p. . . Ibid. . « Ogni lettore sensibile si sarà avveduto che l’opera d’arte narrativa tende, ai giorni nostri, a fingere una forma sempre più distaccata dalla personalità dell’autore. Il romanzo moderno preferisce sovente una esteriore veste documentaria che gli dia l’apparenza di una cronaca, in luogo di quella specie di evidente prolungamento della personalità pratica dell’autore, che era il romanzo del vecchio romanticismo. E quale opera moderna è meno legata al suo autore d’un film ? La presenza dell’autore in esso è tanto poco ingombrante che taluni durano fatica a individuarne la paternità» ; ibid. . Breuers, L’insegnamento dei romanzi polizieschi, cit., p. .
andrea rondini
tante, signore, artista e psicologo, è pregato di processare non l’autore Van Dine, ma la presente civiltà». La ricerca d’umanità si può riscontrare pure ne «Il Pensiero», il cui modello negativo è il giallo “a chiave” alla Edgar Wallace, rappresentante di una letteratura anglosassone lontana dallo «spirito latino», spirito «sensibile », « solidale, che abborre dalle fredde geometriche dello spirito » ; a Wallace viene così preferito l’”umano” Simenon, nei cui romanzi quello che impressiona è l’ambiente, interpretato con rara potenza emotiva [...]. La figura del Commissario rompe quella del solito fantoccio rigido, intelligente meccanico e non umano che campeggia, ad esempio, nei romanzi del Wallace. Maigret sente profondamente la tristezza e la miseria della vita degli uomini; sa che quasi sempre il delitto è frutto dell’ambiente; conosce quante vite oscure vegetino sotto il sole, penetra nei substrati della società, dove le vite scialbe vengono portate da forze quasi ineluttabili, al male. Talvolta accade nei romanzi del Simenon quello che un magistrato inglese – o uno scrittore inglese – non saprebbe neppure concepire. Il Commissario, che rappresenta la legge, trovato il reo, quando sente che il dolore è stata già la pena del peccato e in un certo senso l’equilibrio s’è ristabilito e la colpa ha avuto la sua punizione, lascia che il colpevole se ne vada, perché una giustizia superiore ha pareggiato i conti e ha già portato l’espiazione.
Sulla scia di Simenon si pone Augusto de Angelis, un altro campione – ma questa volta italiano – del giallo “dal volto umano”; la certificazione d’opera d’arte che viene data alla sua produzione poliziesca risponde proprio ai criteri estetici già applicati per Simenon : spunti e congegni narrativi «modellati dal vero», personaggi delineati nitidamente, «profonda umanità» anche per i tipi «d’eccezione, strani, fantomatici, allucinati, misteriosi», l’interesse per il «tragico quotidiano». Sulla materia narrativa, sull’intreccio si stende quindi il «senso di umanità accorata e dolente» che conferma l’idea per cui il giallo italiano, libero dalle «astrazioni geometriche angloamericane», entra nella vita « con palpiti di passione» ma – ciò che più conta – «verso la pietà, la bontà e la giustizia ». Non più un poliziesco quindi, ma, ormai, un racconto edificante. È questo un discorso che accomuna più testate, magari capovolgendo l’interpretazione dei medesimi referenti. Infatti se Wallace nel «Pensiero » è perdente nei confronti di Simenon, sull’« Italia letteraria » viene invece preso come esempio d’umanità, e in tale veste contrapposto alla speculazione intellettualistica della linea Poe – Conan Doyle – Van Dine, i cui detective sono raffinati campioni del raziocinio, dandys ipercolti e lontani dalla quotidianità ; Wallace diventa addirittura il povero divenuto milionario nello scrivere storie per il “popolo”: Edgar Wallace ha introdotto nel detectivage un elemento che io chiamerei il possibilismo; egli ha umanizzato il poliziotto e ha reso la decifrazione dei misteri criminali uno sport relativamente alla portata di tutti gli intelletti, un problema che si risolve con un po’ di diligenza e con un po’ di applicazione. [...] In questo democratizzarsi del romanzo poliziesco, nato dall’aristocratica speculazione del Poe e sviluppatosi nel clima aristocratico dell’impronta digitale, del calcolo delle probabilità e dello psicologismo più raffinato, è l’anima stessa del povero Wallace, popolano autodidatta . Ibid. . Giannetto Bongiovanni, Parliamo del libro giallo, «Il Pensiero», Milano, ottobre-novembre , p. . . Ibid. Concetti espressi da Bongiovanni anche in un altro intervento: con i gialli di Simenon «siamo veramente nel campo dell’arte, e non solo della “letteratura” gialla. Simenon, vi sia o no in scena l’impareggiabile ispettore Maigret, è uno scrittore che rende con una evidenza piena di rilievo certi ambienti, crea l’atmosfera ai suoi drammi, delinea i personaggi con mano maestra, tiene sempre avvinta l’attenzione del lettore» ; Giannetto Bongiovanni, Lettere da Milano, «Il Pensiero», Milano, agosto , p. . Come si vede era già chiaro il valore del Simenon senza Maigret, oggi, come noto, tornato d’attualità con le edizioni Adelphi. . Bongiovanni, Parliamo del libro giallo, cit., p. . . Ivi, p. .
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
diventato milionario a forza di scrivere, è il suo candido omaggio al popolo da cui era partito e alla borghesia a cui era arrivato.
Non poteva non rientrare in queste riflessioni uno degli schemi di base della narrativa seriale, colpa – punizione della colpa. Infatti per Lanocita il giallo, vero e proprio «sollazzo », è genere morale, anzi «più morale di tanti altri se [...] conclude sempre con l’esemplare punizione del colpevole». In fondo lo statuto che meglio riassume l’identità del poliziesco è quello di una moderna fiaba, come questa «fuori della vita», eppure dotata di una morale e di un (unico) insegnamento. Non è un caso che la predilezione di Lanocita vada allora all’”umanissimo” Poe e al giallo d’analisi con parallelo rigetto dei testi francesi (con le macabre storie di Lupin e Fantomas): «La maniera cruenta, basata sull’orripilazione a freddo e sulla truculenza inutile, ingloriosamente tramontò presto; e ci si avviò verso il romanzo più raffinato, senza incubo obbligatorio, che riportava, con mezzi nuovi e più variati, all’analisi» ; non è allora privo di significato che i nuovi autori di storie poliziesche (da Simenon alla Christie, da Milne a Van Dine) prediligano non criminali di professione bensì «occasionali traviati, che spesso hanno speciali abilità in altri campi e sfruttano le possibilità del loro ingegno in macchinosi tentativi per eludere le indagini » (come a dire che il vero regno del giallo è la normalità, secondo un concetto più volte applicato e ribadito anche recentemente). Almeno in questo ambito etico la letteratura e il cinema gialli hanno addirittura conosciuto uno sviluppo, hanno avuto la loro «brava evoluzione, passando dalla dispensa di pochi centesimi per studenti ginnasiali alla collana gialla, o rossa, o azzurra, o nera, o al film di Fritz Lang. Strada ne ha fatta. E cammin facendo, se non più umano, è divenuto meno truce ». Il riconoscimento di una evoluzione non è del tutto irrilevante, certo eleva, almeno in parte, questo tipo di scrittura, non confinata quindi in una completamente ottusa e fissa ripetizione di schemi e situazioni (e suscettibile di essere rielaborata da altri media, come dimostra tra l’altro il riferimento al regista Fritz Lang, una delle figure più importanti della storia del cinema). Un’“estetica” morale rappresenta una modalità di lettura caratterizzante in modo specifico alcune riviste. Su «La Parola e il libro» l’atteggiamento verso la narrativa gialla è ambivalente ; da un lato essa viene guardata con aperto sospetto dall’altra comunque recensita con continuità, seppure secondo linee interpretative volte a “nobilitare” il genere. Un aspetto di questa dicotomia, quello destruens, è rilevabile in alcuni interventi stroncatori : In una città della California la polizia ha messo le mani su una vasta associazione a delinquere che agiva su larga scala perpetrando quotidianamente piccoli ricatti all’interno delle librerie. Vittime di queste imprese criminose rimanevano i più appassionati lettori di romanzi gialli. Essi venivano affrontati da uno o più affiliati alla banda, quando uscivano dalla libreria con l’ultima novità sensazionale fra le mani, e posti, senza preamboli, davanti al perentorio dilemma: «O cinque dollari o voi saprete immediatamente che è l’assassino». Nel novantanove per cento dei casi, la vittima versava la somma richiesta senza esitazioni o riluttanze di sorta.
Le vittime dei giovani delinquenti sono quelle persone «dall’apparenza più seria e più . Ferrarin, Wallace l’umanitario, cit., p. . . Lanocita, I segreti..., cit., pp. -. . Ivi, p. . . Ivi, p. . . Carlo Fruttero-Franco Lucentini, I ferri del mestiere, Torino, Einaudi, . . Lanocita, I segreti..., cit., p. . . Tala, Crociata contro il giallo?, «La Parola e il libro», Milano, -, , p. .
andrea rondini
grave, dal comportamento più dignitoso», vale a dire la parte più cospicua dei lettori di gialli, formati appunto da «uomini seri gravi dignitosi ingolfati negli affari, ovunque rispettati e stimati. [...] La strana avventura davanti alla libreria doveva rimanere un muto segreto nella coscienza della vittima. Nessuno degli infortunati avrebbe mai avuto il coraggio di portare sulla piazza lo strascico di un attimo di debolezza inconcepibile e imperdonabile in uomini abituati a lottare con tutte le avversità della vita». Si può allora ipotizzare che gli autori di questi crimini libreschi saranno, forse, un giorno esaltati come antesignani e precursori. Essi per primi, si dirà, osarono scendere sulla piazza per affrontare il nemico a viso aperto, ricorrendo necessariamente all’unico mezzo suscettibile di qualche successo: quello di far pagare a caro prezzo uno sciocco e depravato divertimento, imponendo una specie di dogana per cui venisse a costare almeno venti volte più del previsto. Quando il giallo sarà soltanto uno scialbo ricordo, di tanto in tanto ravvivato da qualche anacronistica vignetta di giornale umoristico, forse si penserà sorridendo e con una certa gratitudine ai gangsters [...] che [...] facevano, a modo loro, giustizia della infinita sciocchezza umana.
L’articolo presenta uno spaccato del tipo di lettori gialli ma soprattutto ritiene il genere poliziesco un divertimento (quindi non-arte) immorale, da consumare in privato e di nascosto, una sorta di peccato, per di più in grado di distogliere dall’impegno lavorativo e dalla lotta per la vita, quindi antieroico, antisociale e femminilizzante. Più che un giudizio (peraltro, col senno di poi, sbagliato), l’assenza di futuro preventivata per il giallo sembra un augurio, cui si associa un non celato antiamericanismo. Non stupisce che tale atteggiamento sia riproposto in riferimento a specifici fruitori, i ragazzi. Particolarmente significativo, anche perché è emblematico della considerazione e percezione del giallo in sé e non solo di quello rivolto al pubblico giovanile, un inserto pubblicitario che reclamizza alcuni volumi della collana di Antonio Vallardi «Il giallo dei ragazzi. Collana di romanzi polizieschi e d’avventure moderne», ispirata ai valori dello «spirito d’iniziativa», del «coraggio » e dell’«intelligenza » : La vera caratteristica d’un romanzo giallo non è già quella di svolgere trame delittuose e truculenti. Il reato iniziale è solo un punto di partenza, un dato di fatto, intorno a cui si esercita l’acume di chi è chiamato a scoprirne l’autore. Lo scopo è quello di assicurare alla giustizia il colpevole e difendere l’innocente: scopo moralissimo, che sviluppa nei giovanetti il senso del civismo, il culto della giustizia e della virtù, la conoscenza della vita moderna e dei suoi doveri, un sano e virile realismo. È quindi la migliore lettura per ragazzi d’oggi, che si apprestano ad essere i futuri combattenti della Patria.
La specificità di genere (il reato, l’indagine, la scoperta dell’assassino) è superata e in un certo senso neutralizzata, azzerata dal carico di valori che devono giustificare l’esistenza della narrativa gialla (moralità, civismo, giustizia, virtù, conoscenza della vita moderna, i doveri, sano e virile realismo) e addirittura preparare – e qui davvero il giallo non esiste più – alla difesa della Patria. Si ricordi tra l’altro quanto nei polizieschi vi sia di fascinoso (il male) e di solitario (il detective, spesso un outsider sociale, snob, dandy, dotato di qualità e vizi non sempre comuni). Tuttavia la larga diffusione della narrativa poliziesca induce «La Parola e il libro», che certo conosce tipologie librarie e gusti del pubblico, a interessarsi con continuità a . Ibid. . Ibid. . « La Parola e il libro», Milano, , , p. . . Si veda quanto scrive la rivista a proposito di Il romanzo di Abbazia di Lucio D’Ambra: «Un bel romanzo in cui c’è tutto quello che piace al lettore estivo che “vuole divertirsi” e non vuole “pensare”» ; « La Parola e il libro », , , p. .
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
tale produzione, secondo ovviamente una linea conciliativa, moralizzante, volta, se così si può dire, a salvare il salvabile; di qui la forte valorizzazione delle descrizioni d’ambiente, di verosimiglianza di costruzione narrativa e credibilità psicologica dei personaggi. Non a caso Simenon viene apprezzato «per la semplicità e l’accuratezza dello stile, per la verosimiglianza dei fatti, per l’umanità dei personaggi e soprattutto per l’assenza di colpi di scena» ; allo stesso modo un giallo di Oppenheim rivela un «intreccio ben congegnato » e «chiaro nel senso logico», si dimostra accurato nella «descrizione dell’ambiente » e, soprattutto, costituisce una lettura «non immorale», anzi «piacevole » e « interessante ». Su questa linea, anche se più generico, il giudizio su Il fatto di via delle Argonne di D’Errico, romanzo «intessuto con abilità», dalle «trovate piacevoli» e nel quale l’autore « ha saputo dar vita ai vari personaggi, specialmente al Commissario Richard, in modo da acuire l’attezione del lettore». Altri volumi, come quelli di Gaston Leroux, pur, « senza scrupolo del verosimile», garantiscono almeno di non offendere la morale. Ad alcuni gialli viene addirittura riconosciuta dalla «Parola e il libro» una «certa cura letteraria », unita naturalmente a «un acuto spirito di osservazione» e a un «senso esatto del mistero e del terrore» ; volumi come Lo smemorato di Colonia di Wentworth toccano poi tematiche di sapore pirandelliano mentre Oro sommerso di Philippot e Bennet si caratterizza per «spunti tutt’altro che banali di umorismo» e vicini alla parodia di genere (e al suo esaurimento, così almeno crede il recensore). Sono questi i risultati di una spinta innovativa interna al genere, non più bloccato nell’imitazione esclusiva dei modelli fondatori (Conan Doyle), rispetto ai quali, invece, «si tenta di creare qualcosa di diverso se non sempre di originale». Il tono simpatetico dell’intervento si risolve in un giudizio equidistante, basato sulla certificazione e sulla presa d’atto del successo di tale narrativa, sulla riuscita nei suoi intenti (di svago e di mistero), correlati a quella voglia di evasione del pubblico che il giallo solletica e soddisfa. Una posizione quindi conciliativa, soft, che si ibrida con quella più negativa già considerata in una sorta di aurea mediocritas, di insofferenza unita a simpatia, di critica unita a disponibilità, molto vicina comunque, a nostro avviso, alla difficoltà di una riflessione articolata e di una presa di coscienza definita : « La verità è che noi cerchiamo, qualche volta con smania, di smuovere gli stati sedentari e pacifici dello spirito, di frustare una pelle che va di giorno in giorno indurendosi, di commuovere una impassibilità, che, nostro malgrado, ci si va adattando cogli anni come un abito su misura che a furia di portarlo – e di abituarcisi – può sembrare fatto sulla persona. E allora non ci dispiacciono i racconti fantastici di delitti i cui autori si nascondono nel mistero e più stentano a rivelarsi e l’Ignoto agisce nell’ombra, più ci incutono il brivido che temiamo e cerchiamo [...], più ci sentiamo attratti e accontentati, magari per un’ora sola. [...] È bene, è male solleticare queste . Recensione a Georges Simenon, I Pitard, «La Parola e il libro», Milano, , , p. . Recensione a Filippo [ma Edward Phillips] Oppenheim, Il direttore di Banca, «La Parola e il libro», Milano, -, , p. . . Recensione a Ezio D’Errico, Il fatto di via delle Argonne, «La Parola e il libro», Milano, -, , p. . . Recensione a Gaston Leroux, Il delitto di Rouletabille, «La Parola e il libro», Milano, , , p. . . A.F., I libri del mistero e dello spavento, «La Parola e il libro», Milano, settembre-ottobre , p. . L’intervento si riferisce a Eden Phillpotts Arnold Bennet, Oro sommerso, Edgar Wallace, L’arciere fantasma e L’inafferrabile; Freeman Wills Crofts, I tre segugi, Patricia Wentworth, Lo smemorato di Colonia. . A.F., I libri del mistero e dello spavento, cit., p. . . Ibid. . Ibid.
andrea rondini
tendenze, non indaghiamo né vogliamo, per ora, qui ricercare. L’editore fa il suo mestiere ». Una interpretazione morale e moralistica del fenomeno giallo è data, sul fronte cattolico, dalla « Rivista di letture», attenta, fin dagli anni Dieci e Venti, a filtrare e selezionare i polizieschi alla luce di una estetica moderata, eticamente orientata – ma non di principio ostile – ispirata appunto ai dettami cristiani. Tale attività fiancheggia la Federazione delle Biblioteche cattoliche milanesi, di cui appunto la rivista era organo ed emanazione e che per questo mostra una specifica attenzione verso il pubblico adolescenziale e giovanile, pur considerando anche il fruitore adulto. Oltre a perplessità circa il contenuto educativo dei gialli che si riscontra in molte recensioni, occorre notare subito che non è solo la presenza di vicende criminali a essere valutata bensì anche, forse in misura maggiore, la presenza di storie d’amore eccessivo e morboso (o almeno così considerato dalla rivista) e di ambienti “sconvenienti”; l’amore-passione, si potrebbe dire, veniva ritenuto quasi più sanzionabile rispetto ai veri e propri reati. Si pensi che in alcuni romanzi di Gaston Leroux «non vi sarebbe nulla di male» finché descrivono «gli orrori dei castelli turchi» mentre presentano contenuti da ostracizzare nei « casi d’amore anche violenti», nelle «scene dell’harem troppo minutamente descritte fra delitti di passioni d’amore» ; allo stesso modo valutata negativamente la relazione extraconiugale della protagonista di Se morisse mio marito di Agatha Christie. Del resto l’ambientazione stessa del giallo può risultare “sospetta” agli occhi della rivista, come, per esempio, « la mondanità frivola» di Le scarpette rosse di Varaldo. La rappresentazione dello spionaggio internazionale, tra donne del bel mondo, criminali in guanti bianchi e giocatori d’azzardo è dalla «Rivista di letture» sempre pensata per il fruitore maturo, come ben si può vedere dalle recensioni ai volumi di Edward Phillips Oppenheim. Significativo è che proprio sulla base della descrizione dei luoghi e dell’ambientazione viene recepito – negativamente – uno degli autori più apprezzati dalle riviste letterarie italiane, vale a dire Simenon, che troppo indulge sulla «vita di bettole, di ubbriacature, di intrighi e tresche» della «bassa gente fluviale » che anima Il carrettiere della “Provvidenza”; similmente, si esprime riprovazione per l’«ambientaccio di tresche del basso popolino» in cui si svolge Al convegno dei Terranova. Se poi il luogo principale della trama criminale è una chiesa, la rivista non può che, a maggior ragione, raccomandare «assai cautela» nell’affrontarne la lettura. Gli stessi metodi d’indagine del detective sono oggetto di riflessione, come nel caso dei romanzi di Ventura Almanzi, il cui poliziotto – l’americano Ben Wilson – usa, nella ricerca del colpevole, mezzi «non sempre leciti ed onesti». Al di là di una certa limitatezza d’analisi, quel che più importa sottolineare è la meto. Ibid. . Per esempio, a proposito di Le medaillon della Green il recensore nota che si tratta di romanzo «ben condotto ed assai interessante», tuttavia «per nulla educativo» ; « Rivista di letture», Milano, gennaio , p. . . « Rivista di letture», Milano, agosto , p. . Ci si riferisce a Il castello nero e a Le strane nozze di Rouletabille. Sconsigliate anche le «scene di passione» de Il segreto dell’altra di Antonio Sorelli; «Rivista di letture», Milano, ottobre , p. . . « Rivista di letture», Milano, ottobre , p. . . « Rivista di letture», Milano, luglio , p. . Oppure ancora la «mondanità » di «teatro e ballerine» in L’uomo vestito di marrone della Christie, romanzo comunque «passabile » per un pubblico adulto; «Rivista di letture » Milano, ottobre , p. . . Vedi «Rivista di letture», Milano, settembre , p. (su Il corriere scomparso) ; gennaio , p. (su L’uomo venuto dal cielo) ; marzo , p. (su I sette enigmi). . « Rivista di letture», Milano, ottobre , p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. (su L’affare Saint-Fiacre). . « Rivista di letture», Milano, luglio , p. .
a v v e n t u r a e mi s t e r o n e l l e r i v i s t e l e t t e r a r i e d e l v e n t e n n i o
dologia d’approccio, centrata sul censimento degli ambienti, sull’uso della lente etica, perdente in partenza di fronte a storie comunque di crimini e che conduce peraltro a una sorta di paradosso: verrebbe quasi da dire che se commesso in un ambiente non mondano o triviale il delitto sarebbe per la rivista più accettabile. Entro queste coordinate si comprendono le preferenze della «Rivista di letture» verso un autore come Alessandro Varaldo, apprezzato per il suo senso della verosimiglianza e della moderazione («Il Varaldo racconta sempre con molta misura: e parecchi aspetti della letteratura gialla che si lamentano come nocivi se non privi di senso comune, qui non esistono. Va suggerita cautela, in considerazione di scene ed episodi (per quanto pochi) che potrebbero adombrare la serenità spirituale di un lettore giovine ») e naturalmente per Chesterton, nei cui romanzi il crimine è spiegato dalle leggi della metafisica.
. « Rivista di letture», Milano, aprile , p. . . « Rivista di letture», Milano, settembre , p. .
Paolo Senna IL VOLTO AFFABILE DELLE PAROLE LE COLLABORAZIONI DI ANGELO BARILE A « PERSONA »
Indici mobili dei nostri sentimenti e costumi, talora dei nostri vizi mentali, ombre sensibili delle nostre avversioni o antipatie, le parole ci raccontano nella loro vicenda una storia sincera dell’uomo. Angelo Barile, Fortuna delle parole
L
« a sc e l t a è caduta sul termine “persona” perché, nonostante i difetti di pedanteria, ovvietà, gusto teologizzante che gli sono stati imputati, ci sembra suggellare con esattezza i valori che ci stanno più a cuore e custodire l’immagine a cui vorremmo essere fedeli : l’uomo, cioè, sottratto alla duplice tentazione, in lui sempre presente, di elevarsi a categoria con la sua singolarità contrapposta orgogliosamente agli “altri”; e di confondersi irrazionalmente nelle categorie che lo superano, quasi a ritrovare in esse gli aiuti e le ispirazioni che non riesce a desumere dalla propria solitudine: l’individuo autosufficiente e l’uomo-massa ». Con queste parole si apriva nel marzo del il primo fascicolo di « Persona », incastonate all’interno di un ampio articolo editoriale che, come sarà poi consuetudine, appariva non firmato, ma dietro al quale dobbiamo riconoscere la mente e la penna di Marcello Camilucci e la tessitura di quell’attivissimo catalizzatore di cultura che fu Adriano Grande. La rivista, diretta dagli stessi Grande e Camilucci, ospiterà nel corso della sua storia un numero consistente di contributi, recensioni, cronache e scritti creativi in prosa e in verso. Di chiara e fondante ispirazione cattolica, «Persona » non si limitò alla sola letteratura, ma si aprì all’intero campo delle esperienze artistiche: cinema, musica, arti figurative, teatro, nella ossequiosa fedeltà al sottotitolo che, apparso dal , recitava Mensile di Letteratura, Arte e Costume. Nel programma della rivista è evidente l’intenzione di porsi come baluardo contro la mercificazione dell’arte e i suoi «sottoprodotti » espressi in nome di un’ostentazione di libertà produttiva e ispirativa, optando per una soluzione non pretestuosamente censo. Si veda Intenzioni, «Persona », Roma, i, n , marzo , pp. -, qui a p. . «So che a Roma Marcello Camilucci e Adriano Grande pensano a fondare una rivista, anzi un semplice foglio prevalentemente, ma non esclusivamente, letterario. Se uscirà, te ne terrò avvertito; e potrai, volendo, collaborarvi» (lettera di Barile ad Antonio Pinghelli del novembre in Bruno Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, Savona, Sabatelli, , p. ). La rivista ebbe cadenza inizialmente quindicinale, poi mensile ed infine uscì con fascicoli monografici. Essa espresse in modo chiaro il proprio indirizzo, tant’è che è anche stata giudicata «di spiccato orientamento cattolico-intransigente e di gusto letterario un poco stantio» ; tuttavia tra i collaboratori si segnalano personalità attive non solo nell’ambito cattolico, ma più largamente presenti nel panorama culturale italiano. Oltre a Camilucci e Grande si trovano, per citare qualche nome: Evandro Agazzi, Renato Bertacchini, Carlo Betocchi, Vittore Branca, Giovanni Cristini, Gina Lagorio, Igor Man, Ettore Serra, oltre, chiaramente, ad Angelo Barile. Il comitato redazionale era composto da Carlo Alianello, Angelo Barile, Carlo Betocchi, Francesco Grisi, Raffaello Prati, Bonaventura Tecchi, Adriana Zarri. Per la citazione, si veda Adriano Grande, Avventure, a cura di Paolo Zublena, Genova, De Ferrari, , p. . . Sulle pagine del periodico infatti si trovano gemme iconografiche con riproduzioni di opere di grandi artisti, come Campigli, Carrà, De Chirico, De Pisis, Manzù, Picasso, accanto alle quali hanno spazio gli inconfondibili schizzi di Eugenio Dragutescu che, fin dal primo numero, ritraggono i protagonisti della vita culturale di cui via via si tratta. Grande ebbe inoltre la carica di direttore responsabile di «Persona » fino alla morte sopraggiunta nel febbraio del . Su Eugenio Dragutescu, pittore appartenenete al Gruppo dei Romanisti spentosi nel , si possono vedere Eugenio Dragutescu, Le prime giornate italiane di un romeno divenuto romano, «Strenna dei Romanisti », Roma, xlii, , pp. -, e il ricordo apparso in occasione della morte, ivi, liv, , pp. -.
paolo senna
ria, ma critica, nell’intento di restaurare la qualità profonda della persona: la dignità dell’uomo che si basa sui «valori » e sul senso del «divino ». Angelo Barile venne chiamato a collaborare al periodico in modo attivo. Nonostante l’età ormai provetta (era nato nel ), fece parte del comitato redazionale e, sebbene la sua produzione per la rivista non sia stata copiosa, agì, come aveva già fatto molti anni prima per l’esperienza di «Circoli », da illuminante punto di riferimento, capace come fu di tessere rapporti personali e di incoraggiare con i suoi consigli molti scrittori e poeti : i suoi carteggi, le sue introduzioni o recensioni alle prime opere dei giovani costituivano parte fondamentale della sua attività letteraria, che può essere considerata al di là di ogni equivoco chiaramente educativa, poiché tesa ad indicare, da poeta e da lettore di versi e non da critico in senso restrittivamente tecnico, le vie da seguire, i sentieri da percorrere per giungere all’espressione della poesia, che egli considerava, prima di ogni cosa, una «voce di gioia». Si ricordino, infatti, i legami stretti in quegli anni con Giovanni Cristini, Adriano Sansa, Silvio Riolfo, Enrico Bonino, collaboratori tutti di «Persona » : per Sansa e Riolfo stilò una nota prefatoria alle loro sillogi poetiche uscite per la casa Sabatelli di Savona. Una tensione dialogante (quasi una . Angelo Barile nacque ad Albisola Marina il giugno . Frequentò il liceo-ginnasio «Gabriello Chiabrera » di Savona, dove conobbe Camillo Sbarbaro. Intraprese gli studi giuridici all’Università di Genova e frequentò i corsi di Lettere a Torino. In questi anni si legò all’ambiente modernista e strinse amicizia con Padre Semeria, docente a Genova, dalla cui personalità trasse elementi che rimasero al fondo della sua produzione poetica e del quale curò una raccolta di lettere. Lavorò per tutta la vita nella fabbrica familiare di ceramiche, la Casa dell’Arte di Albisola Capo, la cui réclame si può vedere ancora oggi, ospitata nelle pagine pubblicitarie in chiusura a «Circoli ». Partecipò in qualità di ufficiale di fanteria alla Grande guerra, dalla quale riportò due ferite. Conclusa la stagione bellica, gli anni Venti e Trenta lo videro impegnato in collaborazioni a riviste letterarie, quali «Solaria », « Circoli » (di cui è fondatore con Adriano Grande), «L’Italia letteraria», «Maestrale » e «Frontespizio ». Negli anni seguenti, firmò contributi anche su «Il Gallo», «La Fiera letteraria», «Letteratura », « Il Fuoco », « Liguria » e « Persona ». Durante il secondo conflitto mondiale venne imprigionato in quanto partecipante al c . l . n ., e si salvò dalla fucilazione in modo davvero fortunoso, grazie all’impegno del fratello Giulio, che riuscì a ottenere la sua scarcerazione prima che i tedeschi decidessero di condannare alcuni prigionieri. Aderì in giovinezza per breve tempo alla prima Democrazia Cristiana di Romolo Murri e si iscrisse nuovamente al partito nel . Nel dopoguerra svolse un’importante attività di amministratore pubblico, come consigliere comunale e provinciale, senza tralasciare i suoi più intimi interessi letterari, ma rifiutò la candidatura al Senato, preferendo occuparsi della famiglia. Si sposò nel con Pina Garaventa. Le sue raccolte di poesie sono: Primasera (), Quasi sereno (, che ottenne il Premio Cittadella) e il volume delle Poesie, apparso nel per i tipi di Scheiwiller, che vinse il Premio Fiuggi. Si spense il maggio ad Albisola Capo. Per la collaborazione al periodico si ricordi la nota di Marcello Camilucci, nel Ritratto a più voci di Angelo Barile. Tavola rotonda a cura di Bruno Rombi, in Omaggio ad Angelo Barile, Atti del convegno di studi, «Resine », Savona, n , , p. : «Quanto alle caratteristiche della collaborazione di Angelo Barile a “Persona”, essa conservò per tutta la durata il carattere della più assoluta libertà e spontaneità. Egli stesso si dichiarò schivo a conferirle una periodicità rigorosa e sapeva che ogni scelta dipendeva da lui, considerata l’omogeneità della visione (spirituale e letteraria) che ci contraddistingueva. Data la sua peculiare discrezione, Angelo Barile non fu mai un collaboratore da arginare ma, anzi, da sollecitare. Quando non condivideva la stima su una persona o un’opera, la rendeva palese con estrema naturalezza senza fare mai motivo di polemica. Ciò cui risultava costantemente più interessato era il coglimento del nesso fra l’opera e l’autore e la sua anima naturaliter christiana e provava profonda gioia ogni volta che poteva cogliere motivi di affinità e ragioni di consenso in terreni diversi». . Si vedano gli interventi La “Colombera” di Rilofo e Vigilia, apparsi su «Persona », Roma, rispettivamente vii, n. , febbraio , pp. - e viii, n. --, luglio-agosto-settembre , p. (fascicolo dedicato a Barile) e pubblicati in calce a questo saggio. Un articolo che rende merito alla capacità di ascolto di Barile – e che insieme ne propone un ritratto squisitamente umano – è Silvio Riolfo, Aveva dietro di sé molti giovani (« Persona », Roma, viii, n. --, luglio-agosto-settembre , p. ) : « Possedeva una qualità che è la luce dell’anima, ma spesso è inosservata dalla egoistica disinvoltura dei più: la simpatia verso gli altri, appena ne immaginava una rispondenza. [...] Sempre pronto a scusare una dimenticanza, ad alleviare un giudizio un po’ troppo severo, senza però rinunciare alla schiettezza, e persino alla perentorietà. Soprattutto con i giovani, verso i quali riusciva spontaneamente a cancellare le differenze di abitudini e di idee. [...] Il suo amore fedele alla vita toccava il senso degli anni lontani, di una giovinezza viva e pensosa. Era proprio così; viveva di gioventù e in tutti riaccendeva quel lume. Perché credeva che la letteratura è sempre giovane, che le parole dette nella giovinezza dello spirito sono le più vere. Questa era la sua fede mai oscurata. Ecco perché, pur vivendo in provincia, era forse uno degli scrittori che aveva dietro di sé il maggior numero di giovani». Si ricordino le parole dell’intevista rilasciata da Dome-
il volto affabile delle parole
propria vocazione) di cui fu espressione negli anni della giovinezza l’amicizia, insieme letteraria ed umana, con Camillo Sbarbaro. La scoperta della poesia dell’«estroso fanciullo » avvenne – com’è noto – sui banchi di liceo, sui foglietti stropicciati che raccoglievano la compiacenza e incontravano il gusto dei compagni di classe e del professore, Adelchi Baratono, il cui magistero si svolse nel segno di una apertura intellettuale che non rimase priva di frutto nella matura capacità di accostamento ai testi degli allievi. « Giudice segreto », secondo la felice espressione di Bo, fu guida anche per un italianista d’eccezione qual è Vittore Branca: A me, futuro coltivatore quasi esclusivamente della narrativa – dal Boccaccio al Nievo e poi al De Marchi e al realismo meditativo – proprio Angelo Barile svelava e interpretava e imponeva le voci nuove della nostra lirica. Erano le più significative voci della nostra civiltà, al di là di orge retoriche nazionalistiche e di cedimenti narrativi. E mi guidava anche nelle mie adolescenziali esperienze – o meglio inesperienze – poetiche (per fortuna tutte e solo manoscritte e presto distrutte): erano librate sulle ali specialmente di Sbarbaro.
Le collaborazioni di Barile a «Persona » costituiscono uno specchio dell’attività dell’autore e restituiscono un’immagine viva e organica della figura del poeta, mostrando i diversi generi della sua produzione scrittoria: sono presenti infatti la poesia, la prosa creativa e quella critica. Non deve invece stupire la loro esiguità in termini strettamente nico Astengo nel vol. Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, cit., a p. : «Fu Angelo Barile a presentarmi come poeta sulle pagine della “Fiera letteraria” e poi a scrivere l’introduzione al mio Vigilia di festa. Frequentando Barile, mi resi conto di che cosa significhi per un giovane avere vicino un maestro che consigli senza “dare lezioni”, facendo prevalere, sempre, le ragioni dell’affetto, dell’assoluto dono di sé». Si vedano anche i riferimenti sparsi negli epistolari Salvatore Quasimodo, Carteggi con Angelo Barile, Adriano Grande, Angiolo Silvio Novaro. -, a cura di Giovanna Musolino, prefazione di Gilberto Finzi, Milano, Archinto, e Eugenio Montale, Giorni di libeccio. Lettere ad Angelo Barile, a cura di Domenico Astengo e Giampiero Costa, Milano, Archinto, . La casa editrice Sabatelli dal avrebbe anche potuto dare i propri tipi alla rivista: si veda al proposito la testimonianza di Enrico Bonino in Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, cit., pp. -, qui a p. : «Si ragionava sul proposito (l’idea era stata di Adriano Grande) di trasferire la rivista «Persona » in Liguria, a Savona, presso gli Editori Sabatelli, affidandone la redazione a noi “giovani”. Grande era stanco, quel lavoro lo affaticava oltre misura. Avvertiva l’approssimarsi del “capolinea” e di conseguenza anche la fine della “sua” rivista della quale aveva condiviso con Camilucci la direzione e che già rappresentò nel non ricco panorama delle riviste letterarie nazionali una bandiera isolata ma serenamente e strenuamente coraggiosa. A Barile l’iniziativa andava a genio. Ma non era responsabilità da poco ». Sulla capacità di Barile di dare l’indirizzo di «Circoli » si vedano Stefano Verdino, L’evoluzione di « Circoli », «La rassegna della letteratura italiana», Firenze, xcii, n. -, maggio-dicembre , pp. -; Edoardo Villa, « Circoli » o di una condizione poetica, in La poesia di Angelo Barile, Atti del Convegno di studi (Albisola, - maggio ), Genova, Resine – Quaderni liguri di cultura, , pp. -. . Si ricordi la memoria di Carlo Bo, in Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, cit., alle pp. -: «Senza tema di esagerazione si può dire che se non ci fosse stato Barile Sbarbaro non avrebbe potuto essere quel poeta che è diventato, perché Barile lo assisteva, lo confortava, ne comprendeva gli umori, le ritrosie». Una testimonianza di prima mano è in Angelo Barile, Confidenziale, «Persona », Roma, viii, n. , novembre , pp. -. Sull’argomento si vedano inoltre anche i seguenti volumi e contributi: Camillo Sbarbaro, Cartoline in franchigia, Firenze, Vallecchi, ; Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, La trama delle lucciole. Lettere -, a cura di Domenico Astengo e Franco Contorbia, Genova, San Marco dei Giustiniani, ; Eugenio Montale, Ad Angelo Barile con fedele amicizia, a cura di Giovanni Farris, Savona, Sabatelli, ; Cose di ginnasio e di liceo, a cura di Giovanni Farris, Savona, Sabatelli, ; Lucia Rodocanachi, Amici poeti degli anni Trenta, in La poesia di Angelo Barile, cit., pp. -. . Fu Barile a scegliere il titolo della raccolta Resine () e a presentarlo con una recensione; e poi ancora ad assaggiare i testi di Pianissimo, segnati dal sentimento della perdita del padre e a creare un ponte per la pubblicazione con il gruppo della «Voce » (), grazie all’intervento di Giuseppe Agnino. Su Adelchi Baratono si veda il fascicolo a lui dedicato dal periodico «La Riviera Ligure», Genova, viii, n. -, settembre – aprile , e la bibliografia citata. . Carlo Bo, Un giudice segreto, «Persona », Roma, viii, n. --, luglio-agosto-settembre , p. , testo precedentemente apparso su «L’Europeo » nel giugno del . . Vittore Branca, Appuntamenti per la vita, «Il Sole ore », Milano, novembre , p. . Si ricordi che fu proprio Barile a presentare Branca a Montale (vd. Id., Tre “occasioni” da rivivere con Montale, ivi, ottobre , p. ). . Le collaborazioni bariliane sono state suddivise in tre gruppi a seconda del genere cui appartengono. Tut-
paolo senna
quantitativi : Barile scriveva per necessità, preferendo distillare anziché profondere, per obbedire «a un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell’intima trasparenza». Alla base della propria esperienza letteraria si poneva una ferma consapevolezza della moralità della letteratura (e più strettamente della poesia): sostanza etica non limitata esclusivamente alla scelta dei contenuti da veicolare, ma intesa nel senso più ampio di un profondo e maturo rispetto che investe lo scrittore e in ultima analisi l’uomo. La produzione bariliana infatti non tende all’ispirazione ma attende in qualche modo di esserne visitata. Si tratta di un sentimento quasi religioso: «Come nella vita religiosa, la più vicina alla nostra il riposo è raccomandato per il bene dell’anima [...], così per arrivare alla poesia quel che più giova è la pausa, il vivo silenzio» ; questo sentire si coagula nella necessità dell’attesa («Il meglio è dunque [...] di lasciar maturare le nespole»), che non sconfina nel regno vuoto dell’accidia ma anzi, riprendendo la tradizionale concezione dell’attività letteraria come otium, rende possibile lo sbocciare della poesia come un «fiore di gioia» e ne risolve l’equilibrio tensivo in «lievità fantastica e pienezza di vita, grazia di distacco e senso e impregnatura di reale». Poesia e, più in generale, scrittura non sono artificio ma ricerca di naturalezza e, per usare un termine caro al poeta di Albisola, consistenza. . Poesie Negli anni ’ Barile, dopo l’edizione di Quasi sereno nel , attendeva alla sistemazione delle sue liriche, sfociata nell’edizione milanese del delle Poesie, attraverso un continuato e instancabile processo di rilettura e revisione, teso a cogliere l’essenza autentica della propria arte. Nella concezione dell’autore, la vera poesia affiora dalle corde più intime che solo raramente l’uomo è in grado di esprimere, per un dono di grazia. Questa visione – s’è detto – profondamente etica dell’agire e del fare poetico si concretizza nella costruzione di un sistema ove ogni parola, ogni suono e – da essi veicolato – ogni contenuto abbia un posto specifico e definito. Barile pubblica su «Persona » quattro poesie, fra gli ultimi risultati di un’opera continua, che appariranno con qualche modifica (di cui si darà specifico rilievo) nel volume che raccoglie tutte le sue liriche. Nonostante l’esiguo numero, i testi appaiono rappresentativi delle linee portanti della poetica dell’autore. Mario Razetti, in un contributo al convegno del , delineò il percorso della poesia bariliana e ne mostrò lo sviluppo, sottolineando da una parte l’inesausto labor limae operato sui testi pregressi e dall’altra, per quelli cronologicamente a noi più vicini, l’opzione per la chiarezza comunicativa e la scelta di non celare le occasioni ispirative: la vena religiosa appare dunque aperta e tavia il carattere libero e ibrido di alcuni testi potrebbe rendere discutibile l’appartenenza all’una o all’altra etichetta. La rubricatura si intenda quindi come meramente indicativa per agevolare l’esposizione del presente lavoro nei prossimi paragrafi. . Vd. Angelo Barile, Postilla, in Id., Poesie, introduzione di Domenico Astengo, Milano, Scheiwiller, , pp. -, cit., a p. e Silvio Riolfo Marengo, Angelo Barile. Dal suo minimondo ogni cosa era eterna, «Il sole ore », Milano, marzo , p. . «Poeta assai parsimonioso» lo disse Montale in una sua recensione scritta per il «Corriere della sera» ma non pubblicata in quella sede (si veda Eugenio Montale, Barile, in La poesia di Angelo Barile, cit., pp. -, a p. ). . Angelo Barile, Risonanze (-), a cura di Simona Morando, Milano, Scheiwiller, , p. . Discute il rapporto fantasia-accidia Marziano Guglielminetti, Le varianti di «Primasera » e il leopardismo di Barile, in La poesia di Angelo Barile, cit., pp. -, a p. . . Barile, Risonanze, cit., p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. . . Si veda Poesia consistente, ivi, pp. -. . Mario Razetti, « L’attardata / creatura dei margini», in La poesia di Angelo Barile, cit., pp. -. La maggior
il volto affabile delle parole
dichiarata in modo ancor più esplicito rispetto alle precedenti liriche ed anzi ne viene a costituire il carattere fondante. Delle quattro poesie, due (A tarda sera e Navi alla fonda) appaiono in maniera diretta legate ai temi della morte e del colloquio con i defunti, particolarmente cari a Barile come attestano altre numerose prove innestate su questi argomenti (Un morto viene, A filo di cielo, A mio padre, Corona di morti, Sei tu mio cielo, A sole breve). Posta in posizione finale alla raccolta Poesie, A tarda sera costituisce un esito estremamente significativo. La lirica è formata da tre strofe più un distico conclusivo, con un impianto versale tradizionale. L’adozione di suoni liquidi e soprattutto nasali, specialmente nella prima parte, tende a conferire un tono meditativo, coerente con il giungere della tarda sera. Proprio in questa che è l’ora del raccoglimento e del sonno, che una metafora antica e vulgata dice simile alla morte, il poeta «prega pace» e chiama per nome le anime dei trapassati nei quali «ripalpita » ancora la vita («sensibili »). Il cuore del poeta però è maggiormente commosso per coloro «che ieri appena spezzavano il pane / con noi sotto la lampada», stanno «ancora fermi» al di là della «porta non richiusa » e lo invitano a seguirlo. Anche in Navi alla fonda, ove l’immediatezza icastica del paesaggio è sostenuta dalla tessitura fonica (si veda esemplarmente l’accumulo di toniche chiuse e di consonanti liquide: «Posano calme nella notte estiva / sul cupo illune velluto dell’acque »), il poeta nell’immagine di alcune navi ferme nel porto «di fronte al mio balcone» coglie i «cenni » e i «richiami » dell’« altra riva » ; questa visione è poi trasfigurata in allegoria: sfruttando la dinamica degli opposti (notte-luce, mareisola, realtà terrestre-realtà ultraterrena), la notte lascerà il posto a «isole chiare» cirparte degli interventi critici sulla figura di Barile riguardano la sua poesia. Si vedano, oltre al contributo di Razetti, almeno: Giorgio Caproni, « Un’urgenza affettuosa mi preme», «La Fiera letteraria», Roma, xxxii, n. , marzo , p. ; Valerio Volpini, Esperienza e umiltà, «La Fiera letteraria», Roma, xxxii, n. , novembre , pp. ; Id., Una poesia senza tempo, «La Fiera letteraria», Roma, xl, n. , novembre , pp. -; Giorgio Barberi Squarotti, Stile ed esperienza religiosa, in La poesia di Angelo Barile, cit., pp. -; Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, cit., pp. -; il citato fascicolo di «Persona » dedicato a Barile (specialmente i saggi di Carlo Betocchi, Ettore Serra, Nazareno Fabbretti, Domenico Astengo, Francesco Bruno e Giovanni Cristini); Omaggio ad Angelo Barile, cit. (i saggi di Giorgio Barberi Squarotti, Alberto Frattini, Francesco De Nicola). . Si leggano i seguenti passaggi di un’intervista rilasciata dal poeta: «Le mie simpatie e preferenze sono per una poesia umana, e modernamente viva, ma non cifrata, non ingrata, anzi di modi aperti e di valori cordiali: una poesia quant’è possibile chiara, ma la cui chiarezza non pregiudichi, come spesso avviene, l’intensità lirica, che è virtù necessaria al canto. Intensità e chiarezza non vanno sempre d’accordo, la loro unione è un’unione difficile, perché l’intensità ha un moto verticale e la chiarezza tende agli andamenti piani, discorsivi, orizzontali. Però quando le due qualità si sposano allora la poesia è una benedizione di Dio» ; « Adesso questa voce religiosa mi si è fatta, con gli anni, più distinta e vorrei dire più vivamente sensibile, più direttamente partecipe del messaggio cristiano. Così il pensiero – non astratto – della morte, ma propriamente il pensiero dei Morti, dei nostri Morti, della loro spirituale presenza, del durevole vincolo che abbiamo con loro, del non interrotto colloquio ch’essi continuano con noi – quello che la Chiesa chiama Comunione dei Santi – è uno dei motivi più cari alla mia poesia. È per es. mia Madre che prega per i suoi Morti, e un’anima viene, una sera, chissà da quali lontananze, a invocare il suo requiem... (Un morto viene). Vedi anche Corona dei Morti». Vd. Angelo Barile, Confessione, in Gina Lagorio, Angelo Barile e la poesia dell’intima trasparenza, Capua, Centro d’arte e di cultura “L’Airone”, , pp. -. . Si tratta di endecasillabi (; a maiore e a minore), settenari () e due quinari. . Si noti la stessa memoria serale di un defunto nei versi «Un morto viene furtivo, una sera, / a te che preghi, / a distanze di cenere, raccolto / in un lampo del tuo ricordo» (Un morto viene, in Poesie, cit., p. ). Sul tema dei morti nella poesia bariliana si veda Giorgio Cavallini, Barile e il colloquio con i morti, in Id., Strutture tendenze esempi della poesia italiana del Novecento, Roma, Bulzoni, , pp. -. . È lo stesso balcone-soglia di Pupille (Poesie, cit., p. ), ove un moribondo «Sente giunta la notte ai suoi balconi / e intorno vuole accesa d’occhi vivi / una corona». . Sulla questione si veda il precoce intervento di Raffaello Ramat, « Primasera », «L’Italia letteraria», Roma, xii, n. , aprile , p. : «Una simile posizione religiosa di fronte alla propria poesia, in cui con la forza delle cose fatali domina il sentimento della sincerità assoluta – nessuna ironia, nessun giuoco, nessuna cosciente deformazione – e che, d’altra parte, appunto perché è poesia deve essere confessione ed altro, verità ed altro; una simile posizione può portare ad indugiare in un modo allegorizzante. Dunque, si badi, l’allegoria in Primasera, ove c’è non è letteratura, giuoco ingegnoso e tanto meno mezzo per giungere a fini pedagogici, o sterile amore per il vago dell’oscurità; ma – cosa profondamente seria – è una forma di pudore».
paolo senna
confuse di luce, in un viaggio che conduce «oltre i sensi». L’esperienza umana non è una waste land dove l’uomo constata drammaticamente l’abbandono e la tragedia del non senso. È invece una «riva » che prima o poi dovrà essere lasciata per raggiungere spiagge «altre », che ne costituiscono il completamento e la pienezza (l’«altra riva / a cui naviga l’anima »). La realtà e il mondo «altro » non formano due entità separate: il poeta infatti non li scinde e la «porta » rimane «non richiusa» ; anzi, questi versi, ma più ampiamente tutta la poesia bariliana (e in special modo quella dell’ultimo periodo), sembrano indicare come l’intero arco dell’esperienza umana – amore, gioia, dolore – non sia mai condotto in solitudine: è la scoperta della valenza “orizzontale” della fede, che infatti «cammina leggera al mio fianco / non vista, e non fa parola, / a tempo giusto riannoda / il filo spezzato del canto». Il cammino umano si svolge nel segno di quella comunione fra gli uomini che Barile esprime come esperita coralità e che ricorda per intensità emotiva e poetica gli accenti danteschi e i movimenti delle anime del Purgatorio. E forse in quel “sorriso lontano”, risposta a un’evocazione («chiamo per nome i miei morti») che non è solo memorativa ma è certezza della viva presenza dei defunti, si può esemplarmente misurare la distanza da altri esiti della poesia italiana: corre alla mente lo “sbigottimento” del padre nell’abbandonare le rive dove è cresciuto e il timore che la memoria di lui nei suoi figli svanisca in Voce giunta con le folaghe di Montale. La realtà messa in scena da Barile è dunque “visitata” dal cielo, come documentano del resto le altre due poesie (I chierichetti della “Stella Maris” e Il canto smarrito) : nella comune quotidianità la vita del cristiano è scandita da attimi che la riconducono al piano divino e la investono di luce «altra ». È stato notato come proprio in questi momenti la poesia bariliana giunga «al confine tra la terra e il cielo», sfiorando il misticismo : poesia e religiosità vanno di comune accordo in Barile ed anzi la poesia può essere espressione e canto dell’anima solo in quanto il sentimento poetico della vita si fonda sul sentimento religioso dell’esistenza. . Prose creative In quegli anni, Barile era intento a recuperare alcuni suoi scritti di prosa pubblicati al tempo di « Circoli » nella rubrica delle Risonanze. L’idea, che giaceva nella mente del poeta già da tempo, si concretizza quando, nel , Grande lo stimolò a raccogliere i . Sulla presenza simbolica della «riva » si ricordino i versi «Dal lavacro del sonno / ti risvegliavi, eri sull’altra riva » (Risveglio sull’altra riva, in Poesie, cit., p. ) e «Ora canti sull’altra riva» (Lamento per la figlia del pescatore, ivi, p. ). . A sole breve, ivi, p. . . « L’altro sbigottisce e teme che / la larva di memoria in cui si scalda / ai suoi figli si spenga al nuovo balzo» (Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, , p. ), mentre nella bariliana A mio padre è il riconoscimento di una fraternità a essere espresso: «Torna / con quel tuo accento, sale / dal mio profondo trafitta preghiera, / ora che da una sponda / che s’abbandona al tuo cielo ti parlo / non come parla più un figlio. Son prono / anch’io al limine: un uomo / grave di nembo: eguale / come un fratello al suo padre canuto » (vd. Poesie, cit., p. ). . Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, cit., p. . Vd. sulla questione recentemente Giandomenico Mucci S.I., Mistica. Ossia l’interpretazione arbitraria di una parola, «La Civiltà cattolica», Roma, anno , vol. iii, quad. , luglio , pp. -. . Alberto Frattini segnala il testo di una lettera di Barile del agosto , seguente alla recensione da lui prodotta per il volume Quasi sereno, apparsa sul «Messaggero » del giugno : « Io vorrei, se Dio mi dà grazia, riunire in volume alcune mie prose (ricordi, moralità letterarie, ritratti ecc.); ma nulla ancora di definito e di concreto ». Si veda Alberto Frattini, Osservazioni sulla prosa di Angelo Barile, in La poesia di Angelo Barile, cit., p. . E anche l’intervista di Cibotto a Barile (apparsa col titolo Barile e il cenacolo ligure sulla «Fiera letteraria», Roma, xl, n. , novembre , alle pp. -, cit. alla p. ) : « Non è esatto che dopo le mie note apparse su «Circoli » io non abbia scritto altre prose. Ma le più sono uscite qua e là, saltuariamente e non hanno avuto rilievo. Alcuni miei amici vogliono ora farne una scelta. Sono in genere prose morali, o critiche, o evocative. Non c’è invece
il volto affabile delle parole
suoi antichi interventi nel primo volume dei «Quaderni di “Persona”». È bene riproporre integralmente la Noterella editoriale di Adriano Grande alla prima edizione delle Risonanze: Siamo lieti di poter iniziare questi Quaderni di «Persona » con un libro che non ha proprio nulla dell’inamidata gravità né del linguaggio da specialisti cui a volte si appoggiano, per ottenere considerazione, gli scritti di letteratura. Qualcuno può osservare che, in realtà, questo non è un volume di studi, ma semplicemente una raccolta di massime e di osservazioni marginali, la quale non può certo vantare pretese storicistiche. Giusto, ma solo in parte; giacché, per quanto propriamente riguarda la storia, riteniamo che il colore di un’epoca letteraria, la nostra, del convulso Novecento non ancora concluso, e taluni aspetti del suo costume, più che in certi poderosi tomi di critici professionisti e sistematizzanti siano ritratti in queste sàpide e garbate noterelle e considerazioni. Nel suo tranquillo angolo di provincia, lontano dallo sforzato impegno di coloro che sono immersi nel soffio temporalesco del commercio letterario, Angelo Barile – che è soprattutto poeta di sicura, elegiaca e filtratissima vena – è andato man mano scrivendo questi suoi pensieri e ammonimenti dal al per la rivista genovese «Circoli » alla quale venivano a dare anche un tono autocritico che meglio inquadrava, appuntandone i difetti di clima e di gusto, gli stessi tentativi d’arte poetica che la rivista divulgava. -: anni che alla nostra attuale isteria possono sembrare già lontanissimi, d’un mondo irripetibile. Ma lo strano di queste note è invece la loro frequente rispondenza a stati d’animo, vizi, abitudini e storture del costume letterario d’oggidì, i quali son forse perenni, fatalmente connaturati al medesimo esercizio delle lettere e alle sue presunzioni. Quel che ci preme, però, soprattutto mettere in rilievo, oltre al filo, implicito, d’un umanesimo e d’una eticità che lega l’una all’altra le annotazioni di Angelo Barile, è il garbo e la signorilità del suo ognora icastico discorso: una civiltà di modi e di sentimento che si va perdendo e dalla quale tutti avrebbero qualcosa da guadagnare, sforzandosi di salvarla in sé e negli altri.
Il volume presentato si mostra con tutti i caratteri della distinzione. In primo luogo, nel senso che esso è strutturalmente lontano dall’essere uno studio sistematico sulla letteratura italiana contemporanea : non ha dunque pretese di completezza o esaustività; inoltre, Grande sottolinea come il fatto che tali prose siano state prodotte in un clima culturale e in un contesto diverso da quello coevo, e ad esso primariamente siano state riferite, non costituisca un valore limitante: piuttosto, l’aver individuato alcuni elementi negativi nell’esercizio delle lettere, funge da mònito per quei vizi, e vezzi, che fanno parte della natura di chi fa letteratura. Proprio il fatto di non obbedire a canoni critici precostituiti, quindi, sembra essere per Grande un vaglio d’eccezione, tale da garantire una validità universale all’opera di Barile. Infine, un ultimo elemento della particolarità di questa opera è il tono civile e, per usare un termine caro a Barile, “affabile” della sua prosa, lontano dalla perentorietà con cui sono solite svolgersi le schermaglie letterarie. nessun racconto. Non ha mai neppure tentato di scriverne, sentendomi negato, fin da quando ero giovane, alla forma narrativa». . Angelo Barile, Risonanze (-), Roma, Società Edizioni Nuove, (Quaderni di «Persona », ). Della stessa collana fecero parte, nel tempo, Fra lacrime e preghiere di Girolamo Comi, Adriano Grande, pittore candido di Barile, Carlo Belli e Camilucci, Saluto ai paesi di Raffaello Prati, Tardi di Renato Pollitzer, Meraviglia di Giuseppina Sperandeo Cosco. . Lo stesso Barile nell’intervista citata edita su «La Fiera letteraria», a proposito delle sue prose apparse su « Circoli », disse : « Qual è stata la mia partecipazione a «Circoli » ? Chiamato a far parte del primo Comitato di redazione, vi collaborai attivamente con non poche poesie riunite poi in Primasera (). Ed erano miei, benché non firmati, quasi tutti i corsivi, le cosiddette Risonanze che davano un certo sapore, un certo sorriso a ogni nostro fascicolo. Pensieri sulla poesia note di costume letterario, spunti polemici, divertimenti, ironie: con l’intenzione, sempre più scoperta, di far valere in pieno ermetismo le ragioni di una vigilata chiarezza e di un’apertura, una gioia di canto fra le tante voci desolate» (cit. da p. ). . Vd. Barile, Risonanze, cit., pp. -.
paolo senna
Per approntare la nuova edizione, Barile attese con lunga lena al testo delle sue prose, già apparse su «Circoli » e sul «Gallo ». Simona Morando afferma come il lavoro del poeta fosse rivolto non solo alla forma dei singoli testi, ma soprattutto alla quantità degli scritti da pubblicare, optando per una drastica selezione di indirizzo decontestualizzante, scartando quegli esiti che erano percepiti con troppa attinenza all’ambiente culturale degli anni Trenta. I due testi apparsi su «Persona » col titolo di Minuterie e di Risonanze (rispettivamente il o aprile e il settembre ) continuano l’abitudine bariliana di redigere brevi pensieri incisivi e stimolanti la riflessione sui costumi letterari italiani in modo critico e puntuale. Nel primo, Barile prende le mosse da un assunto generale e da frasi autorevoli e perciò agevolmente condivisibili. Il procedimento seguito, al di là della scansione editoriale dei paragrafi (sempre presente e comunque funzionale a creare una pausa di silenzio per la meditazione), tende ad uno svolgimento lineare del pensiero dell’autore. Avendo guadagnato sulla scorta di Pascal e Leopardi il pensiero sulla fragilità e la piccolezza dell’uomo, Barile sposta il fuoco sulla doverosa integrazione di libertà e necessità, per poi guidare l’attenzione del lettore sulla questione dei quotidiani, sfruttando un passaggio di Joubert. Da qui l’interesse dell’autore si dirige alla deprecabile abitudine dei giornali di esaltare apparentemente la nobiltà dell’uomo e il rispetto della persona (riassumendo in tal modo le premesse teoriche inizialmente esposte), ma nella pratica di sfornare « notizie orripilanti» senza mai segnalare un «fatto gentile». Le Risonanze apparse nel numero di settembre invece lamentano la pioggia di carta stampata che viene donata a qualsiasi poeta affermato e specialmente al critico per lo più con l’invito di recensione. Esse si dirigono contro l’eccessiva quantità della produzione in versi che in modo preoccupante spuntano come «funghi » nelle nostre Lettere. Lo scritto si accomuna per i temi trattati a molte delle Risonanze apparse in volume e documenta l’interesse di Barile per la produzione e la circolazione dei testi, ossia per quella che oggi chiameremmo sociologia della letteratura. Questi due testi, di numero contenuto ma perfettamente sovrapponibili agli altri usciti in volume, sono esemplari dello stile delle Risonanze. Si tratta di una prosa compassata che alterna argomentazioni ed espressioni gnomiche. La preferenza accordata al nesso coordinante (specialmente le congiunzioni e e ma) e la presenza di elementi ripetuti («pure... pure» ; « una pagina, almeno una pagina» ; « forse una scoperta; forse, chissà, un’amicizia» ; « l’omaggio, l’unico omaggio») producono un andamento ritmato che anima la scrittura assieme alla ricorrenza di sostantivi alterati («raccoltine, libriccini di versi » ; « chiacchiericci ») e di metafore e similitudini: la «libertà e responsabilità» sono come «il canto e l’accompagnamento della pagina musicale» ; la «notizia orripilante » e le «stupidaggini » dei giornali diventano «l’amaro caffè [...] inzuccherato oltre misura » ; gli «atti di spontanea bontà o di consapevole coraggio [...] rinnovano e profumano l’aria come la luce del mattino nella stanza che sa di sonno e di fantasmi» ; versi che sono come «funghi » di un «sottobosco » letterario ; in un caso la figura retorica è anche protratta: «gli omaggi che piovono addosso» si mutano drammaticamente in un « diluvio di versi». Il lessico è sempre sorvegliato e l’aggettivazione precisa («riferimento compiaciuto, indugiante »). Su tutto aleggia un tono garbato che colora di sottile ironia l’aneddoto narrato aprendo la mente alla riflessione. Barile non rinuncia a espri. Simona Morando, In nome della poesia, ivi, pp. -, a p. . . Autore citato anche ivi p. e che che sembra essere particolarmente gradito al gruppo di «Persona » : lo ritroviamo per esempio nella rubrica Controluce (i, n. , luglio , p. ) firmata da Cam[ilucci] e nell’anonimo estensore del riquadro Spartivento (i, n. , o luglio , p. ). . Si vedano Troppi versi (Barile, Risonanze, cit., pp. -), Amori segreti (ivi, pp. -), Poesia a getto continuo (ivi, pp. -), Troppa gente in cortile (ivi, pp. -).
il volto affabile delle parole
mere giudizi netti («la disgrazia di essere critico» ; « il mondo della noia» ; le recensioni di poesia come «chiacchiericci a mezz’aria») senza però mai scadere nella polemica o nel grottesco, anzi quasi lasciandoli en passant, pronti affinché il lettore li possa cogliere. Accostabile alla scrittura delle Risonanze è la prosa Peccato d’omissione, non tanto per la struttura formale, quanto per l’intento comune di presentare una riflessione di indirizzo morale. Il testo nasce dalla lettura della memoria profusa sulla figura scomparsa di Vieri Nannetti, scrittore convertito, da Mario Gozzini, esponente della rivista fiorentina cattolica «L’Ultima », che esprime il proprio rammarico per non aver saputo « aprirsi con lui a una fraternità vera». Barile legge nella confessata diffidenza di Gozzini ad apprezzare appieno un parvenu della fede la tendenza più latamente cattolica alle contrapposizioni e alle antitesi, mirando a preferire («quando per timidità, quando per povertà di cuore») i propri simili, trascurando «l’intimità di ognuno, la sua propria favilla di luce». Gentile miracolo narra la vicenda dell’immagine quattrocentesca della Madonna delle Grazie che, durante i lavori di costruzione della cattedrale savonese all’inizio del Seicento, si staccò autonomamente dalla colonna sulla quale venne dipinta, che sarebbe stata demolita. Il testo, accolto postumamente nell’antologia Al paese dei vasai, è importante per saggiare il tema che parte della critica ha definito come mistico. Il tempo e lo spazio sono infatti visitati dal divino: «costruire una cattedrale con le nostre mani, lavorare lo spazio a gloria di Dio», «il miracolo accade nell’ora del mezzodì, che è un’ora sacra », fino a concludersi con l’aforisma finale con il quale l’autore manifesta il desiderio della «dolce Madonna che ha voluto restare con noi». Un passaggio è poi rilevante e rappresenta la chiave interpretativa dello scritto: Quanta parte della nostra storia, e la più cara, è iscritta nelle vecchie pietre delle nostre cattedrali e ascende su per le loro cupole o in vetta ai loro pinnacoli. Di fronte a quei muri anche i palazzi gentilizi perdono di alterezza e le case dei poveri consolano alla loro ombra le proprie pene e fatiche.
La coralità degli uomini sorta dal senso di un’appartenenza comune a un progetto che non è solo umano porta “consolazione”. Il cielo cala sulla terra e proprio per questo motivo la « fatica » dell’uomo è «convertita in letizia». Inoltre, la prosa che si declina nel senso di una chiarezza comunicativa non è priva di elementi retorici: tessere abbastanza tipiche del parlato («anonimo sboccio dal cuore di un popolo», «il fiore della sua arte », « ride il cielo di marzo»), si accompagnano a strutture più ricercate: «Tanto è lo stupore che non li lascia parlare, poi trabocca in letizia di abbracciamenti e preghiere e straripa nell’esultazione di tutto il popolo accorso». Il lessico è sempre seletto e sono le coppie sostantivo-aggettivo e verbo-avverbio ad essere usate in modo sorvegliato ed efficace : « rilevarsi animosamente », « gentile miracolo », « involontaria poesia », « ingegno meravigliosamente testardo », « membra docili e lievi». All’apparenza essenziale tanto da sembrare quasi semplice, Gentile miracolo si rivela essere un testo assai significativo, non solo per l’adozione di alcuni tratti stilistici che qui vengono attivati, ma anche per i rilievi contenutistici che si situano alla base della poetica bariliana. . Prose critiche Sotto questa etichetta sono stati catalogati quegli scritti – presentazioni, memorie, letture – di stampo non creativo che fanno riferimento a esponenti della letteratura, e in . Il corsivo è di chi scrive.
paolo senna
un caso dell’arte, italiana, con l’intento di fornire elementi di natura critica. Si è preferito suddividerli in base ai soggetti trattati. a) Saba. La lettura bariliana della poesia dello scrittore triestino costituisce un capitolo di indubbio valore nell’ermeneutica e nella fortuna sabiana. All’origine del sodalizio sta un’antologia degli scritti del poeta aparsa su «Circoli » nel numero di marzoaprile del , cui venne premessa un’introduzione di Barile dal titolo Lo sguardo di Saba: essa si inseriva nel contesto di un percorso rivalutativo della poesia sabiana organizzato a cavallo degli anni Trenta in maniera esemplare prima da «Solaria » e in seguito dalla rivista ligure. In quel testo veniva rilevata la caratteristica sensibilità dello sguardo sabiano, capace di cogliere le «care cose» con «stupefazione e candore». Auspice questo scritto l’amicizia fra i due poeti sboccia cordiale e Come ho conosciuto Umberto Saba è un testo di natura memoriale che documenta l’incontro milanese nel giugno del fortemente voluto da Saba e i successivi rapporti epistolari nei quali si prolungava il dialogo sulla poesia: Barile sottolinea l’interesse dell’autore del Canzoniere per le sue poesie e l’acutezza di «penetrante lettore di poesia». Una poesia natalizia di Umberto Saba invece commenta il raro sonetto giovanile Nella notte di Natale. La lettura di Barile è tesa a contestualizzare questo esito, significativo ancorché acerbo (scritto appena a anni), all’interno della produzione sabiana, sottolineando la capacità di ricondurre a unità le «care voci discordi» insite nel suo sangue, nelle «due vite» donate dai « parenti », quella cristiana e quella ebraica. L’elemento che Barile dimostra di apprezzare maggiormente è il «modo » con cui Saba parla della poesia e che costituisce il riflesso del modo di incarnarsi sulla pagina della lirica sabiana: «semplice e sincero» come di chi non ama le parole, ma le «adopera » come «segni di una scrittura del cuore ». b) D’Annunzio. Apparso su «Letteratura » nel marzo del e poi riproposto su «Persona » nel fascicolo dedicato integralmente al poeta abruzzese, Come ho letto D’Annunzio esprime fin dalle prime battute non solo l’impossibilità per Barile di aderire ma anche la difficoltà di apprezzare pienamente la poesia del Vate. La denunciata «mancanza di riposo » contrasta vivamente con la concezione – cui si è fatto cenno – “religiosa” che il poeta di Albisola perseguiva, che anzi esige silenzio e attesa. Barile riconosce «con quello della parola, il dono di luce che egli ci ha fatto», ma contrappone la necessità della ricerca dell’«ombra amica al cuore dell’uomo», quasi un rifugio sub tegmine fagi, contro il luminescente fulgore del mezzogiorno dannunziano. Ancora: il pro. Forse mai considerato col giusto peso dalla critica se non dallo stesso Saba. Si veda Umberto Saba, Storia e cronistoria del « Canzoniere », in Id., Tutte le prose, Milano, Mondadori, (I Meridiani), p. . Sugli interventi bariliani tace anche Francesco Muzzioli, Saba e la sua “fortuna”, in Il punto su Saba, atti del Convegno internazionale (Trieste, - marzo ), Trieste, Lint, , pp. -. . Angelo Barile, Lo sguardo di Saba, «Circoli », Genova, iii, n. , marzo-aprile , pp. -4. Il fascicolo ospitò la raccolta di una ventina di poesie di Saba cui egli stesso appose il titolo di Piccola antologia. Per l’interesse solariano si veda : Omaggio a Saba, «Solaria », Firenze, iii, n. , maggio . Barile scrisse negli anni altri contributi sulla poesia di Saba: Un poeta e un libro, «Il Lavoro», Genova, gennaio ; Letizia di Saba, «Circoli », Roma, v, n. , maggio , pp. -; Saba, poeta triestino, in Id., Incontri con gli amici, Savona, Sabatelli, , pp. -; Il gioco del calcio nella poesia sabiana, «Il Giornale d’Italia», Roma, marzo ; Una poesia natalizia di Umberto Saba, «Il Letimbro», Savona, dicembre , poi in «Persona », viii, n. -, gennaio-febbraio , p. , che qui viene pubblicato. Si veda infine l’epistolario Saba-Barile edito nel volume La poesia di Angelo Barile, cit., pp. -. . Barile, Letizia di Saba, cit., p. . . « Persona », Roma, iv, n. , dicembre . L’articolo di Barile apre il fascicolo. . Angelo Barile, Come ho letto D’Annunzio, in Omaggio a D’Annunzio a cura di Giuseppe de Robertis e Enrico Falqui, pp. -, fascicolo fuori serie di «Letteratura » del marzo , che riporta le risposte al questionario proposto dalla redazione della rivista su D’Annunzio. Per il rapporto con la poesia del Vate si può vedere Claudio Marchiori, Angelo Barile: due giudizi su D’Annunzio, in Omaggio ad Angelo Barile, cit., pp. -. . Barile, Risonanze, cit., p. .
il volto affabile delle parole
dotto poetico di D’Annunzio «passa subito in canto» e si arresta alla superficie poiché « incapace di eliminazione» – mentre Barile ha sempre agito nell’indirizzo della forza comunicativa delle parole, ritornando più volte sui medesimi testi. La mancanza di « quella seconda navigazione platonica che avevo sentito, calmo, nei grandi poeti» impone che la poesia dannunziana si limiti a una voracità istintiva, impedendogli di raggiungere «l’intima trasparenza». L’autore passa in rassegna in seguito alcuni momenti della poesia di D’Annunzio dove «l’attenuarsi della sua ferinità» lascia trasparire esiti armonici e a Barile particolarmente graditi, tanto da riconoscerglisi quasi prossimo. La consapevolezza della presenza attiva ed operante del Vate nella lirica italiana porta ogni autore che lo segue a rapportarsi inevitabilmente a lui: La liberazione dal suo dominio fu nelle nostre lettere una specie di passaggio del Mar Rosso. Si apersero le acque e più di una generazione vi andò sommersa: gli altri, quelli decisi a guadagnare la libertà, non si salvarono da D’Annunzio se non fuggendo e approdando a queste magre argille della nostra poesia, dove si erra e cammina verso la terra promessa senza nessun Mosè che ci guidi, ma solo la spinta del cuore e forse il profumo della ginestra.
Al di là del richiamo alla ginestra, appare rilevante il riferimento al cuore: Barile conosceva il « pensiero di Leopardi ove è detto dell’influsso del cuore nella poesia come di un soavissimo olio che le infonde pastosità e morbidezza» ; forse con l’intento di additare significativamente in conclusione del proprio intervento alla densità pensosa unita alla leggerezza espressiva del poeta recanatese come al saldo porto cui tornare per divincolarsi dalle turbinose acque dannunziane. c) Sbarbaro. Pubblicato nuovamente a cura della redazione della rivista in occasione della morte del poeta di Resine, seguita a pochi mesi a quella di Barile, Confidenziale è un omaggio che quest’ultimo stilò per la ristampa di Pianissimo, presso Neri Pozza, nel . Barile ripercorre gli albori dell’amicizia con Sbarbaro, le mutue letture dei testi poetici e fornisce alcuni tratti della biografia del poeta di Spotorno. Alcuni elementi devono essere rimarcati: innanzitutto la fedeltà di Sbarbaro alla poesia («ha ubbidito alla sua vocazione di poeta come all’unica legge»), che lo ha portato a svincolarsi totalmente dal mondo e dai commerci letterari; in secondo luogo, l’individuazione del nucleo ispirativo di Pianissimo nella figura del padre. Infine, Barile avverte come, nonostante Sarbaro l’abbia rinnegato in più modi, si possa leggere «il segno [...] della tua carità », che nasce come fiore dalle macerie. d) Altri testi. La messa di don Clemente è un ricordo del breve incontro avuto con Rebora già malato a Stresa nell’ottobre del . Barile sottolinea come poesia e umanità in lui « scaturiscano insieme », e la figura del sacerdote Rebora diventa esemplare di quella vita che unifica preghiera e poesia come espressione dell’amore divino e insieme pienamente umano. Specchio dell’anima, la pittura di Berzoini presenta la pittura dell’artista come «bisogno ingenuo, e commovente di poesia», il cui colore è «d’anima e d’innocenza». Anche in questo testo appare la vena aforistica che tende a riassumere in modo sintetico un con. Angelo Barile, Poesia affabile, «Circoli », Genova, ii, novembre-dicembre , n. , pp. -, a p. . Sul tema del cuore in Leopardi si può consultare il volume di Michele Dell’Aquila, Le fondazioni del cuore. Studi su Leopardi, Fasano, Schena, . Per la presenza di Leopardi in Barile si veda Guglielminetti, Le varianti di «Primasera » e il leopardismo di Barile, cit., pp. -. Barile inoltre cita spesso Leopardi sia nelle Risonanze – tanto in quelle raccolte in volume quanto in quelle pubblicate esclusivamente su rivista – che negli altri scritti di stampo critico. La ripresa di Leopardi è però una consapevolezza comune e radicata in molti degli intellettuali del tempo. Si vedano a titolo esemplare alcuni interventi di Vittorini: Scarico di coscienza, «L’Italia letteraria», Roma, v, n , ottobre , p. (ora in Id., Letteratura, arte, società. Articoli e interventi -, Torino, Einaudi, , pp. -) ; Arsenio, «Circoli », Genova, i, novembre-dicembre , pp. - (ivi, pp. -). . Angelo Barile, Confidenziale, «La Fiera letteraria», Roma, xxxix, n. , novembre , p. .
paolo senna
cetto ritenuto rilevante dall’autore: così in quel «anche il sonno lavora» è possibile riconoscere non solo un contenuto già presente in altri luoghi, ma anche stilisticamente la capacità suntiva che racchiude la riflessione. Il pensiero viene enunciato, ma Barile lo pulisce e lo scrosta dalla catena del ragionamento che lo ha ispirato, in modo da produrre incisività e chiarezza, semmai accostando un’aggiunta esegetica espressa con vena icastica e spesso sostenuta da metafore e similutudini. Si vorrebbero segnalare taluni esempi: Anche il sonno lavora, e un principio attivo di arte o di poesia, chi lo ha dentro di sé, gli germoglia inavvertito come il seme nella zolla (Specchio dell’anima, la pittura di Berzoini). Gentile miracolo. Così discreto, così silenzioso che ci prende incantevolmente il cuore (Gentile miracolo). Vero è che i poeti crescono anche all’asciutto, come ogni giorno si vede. Nel nostro sottobosco i funghi nascono fitti anche quando non piove (Risonanze). Un vortice, se posso dire, orizzontale: una di quelle raffiche che passano sul mare e non si fa in tempo a seguirle, a vedere dove muoiono e come riprendono, vere figure dell’inquietudine (Come ho letto D’Annunzio). Fatica senza fatica. L’impegno, lo scrupolo che [Sbarbaro] vi mette è solo eguagliato dal piacere che prova e che partecipa vivamente ai suoi allievi (Confidenziale). Musica in te sciolta, li assumi nel cielo della tua anima [...]. Allineati nella tua libreria, ne leggi talora per costola il nome, il titolo e l’anno: è un epitaffio : guarda che vita breve, che monca esistenza (Lettura di poesia). La poesia non soffre attributi. Se è nuova, è al modo delle foglie di primavera che non si può immaginare freschezza più antica – e diversa (Minuterie).
Questa tendenza sintetica e, abbiamo detto, aforistica è parte costitutiva e sempre attiva dello stile bariliano, in modo speciale presente nelle Risonanze. Anche quando l’autore esprime e sviluppa il proprio pensiero in modo esteso, non rinuncia a darne un conto suntivo con un giro brevissimo di parole. “La Colombera” di Riolfo e “Vigilia” sono le prefazioni delle edizioni delle poesie rispettivamente di Silvio Riolfo e di Adriano Sansa. Questi testi documentano l’attenzione di Barile nel seguire i giovani poeti, attività che egli svolgeva non come «un critico », ma come «un vecchio poeta che scambia l’abbraccio di rito, e di cuore, con un fratello novizio». Proprio in queste brevi parole stanno molte delle linee portanti della poetica dello scrittore di Albisola: la poesia come esperienza pienamente umana e quasi religiosa (qui palesata dalla similitudine); la rinuncia all’appellativo ingombrante di critico letterario per guadagnare invece l’«affabilità » dell’abbraccio fraterno; la consapevolezza di come l’esperienza poetica, al pari di quella umana, sia condotta coralmente e non in solitudine. Ti esorto a coltivare più la prosa che la poesia, giacché è sempre meglio essere un ottimo prosatore che un mediocre poeta. Potresti però venire un critico sì letterario che artistico di vaglia; giacché per la critica sei nato quasi apposta. . Barile, Risonanze, cit., p. . Le citazioni precedenti sono tratte dai brani pubblicati su «Persona », presentati in calce a questo articolo. . Ivi, p. . . Lettera di Carlo M. Invrea a Barile del maggio (Angelo Barile, Quaderno primo, a cura di Giovanni Farris, Savona, Sabatelli, , p. ). Invrea in breve tempo parve parzialmente mutare opinione sulle doti poetiche dell’allievo, ma consigliò sempre la necessità di coltivare l’esercizio critico: «La tua trilogia mi ha fatto mu-
il volto affabile delle parole
Con queste parole Carlo M. Invrea, docente al Seminario Vescovile di Savona dove il giovane Barile frequentò il ginnasio, aveva forse precocemente compreso la promettente capacità di accostamento ai testi del suo allievo. L’intelligenza critica di Barile appariva già evidente, al di là dei futuri validi esiti poetici che Invrea non poteva immaginare, sfociati in Primasera, Quasi sereno, A sole breve: titoli ariosi che sembrano denunciare un tempo breve, in divenire, e insieme un limite. Forse a ricordare che la poesia, come la vita, non è un plenum: qui, in queste plaghe di creta e di mondiglia, è solo parziale. Si pubblicano i contributi di Angelo Barile apparsi su «Persona » dal a . Si mantengono le peculiarità grafiche dell’originale; quando ci si discosti, appare indicato in nota. Gli interventi editoriali sono minimi: sono stati corretti i refusi ed è stata normalizzata l’accentazione, sia per le parole italiane che per quelle straniere. Tra parentesi quadre sono aggiunte le integrazioni. Tre testi sono firmati «Figulo » : questo è il nom de plume col quale Barile – proprietario di un’azienda familiare di ceramiche (la «Casa dell’Arte » di Albisola) – siglava alcuni interventi fin dai tempi di «Circoli ». . « Persona », Roma, i, n. , aprile , p. Minuterie Che la grandezza dell’uomo sia avvalorata dalla coscienza e dal sentimento ch’egli ha della sua fragilità e piccolezza è pensiero comune ad alcuni dei maggiori scrittori. Almeno in partenza, lo troviamo eguale in Pascal e in Leopardi. Dice Pascal: «L’homme est si grand que sa grandeur paraît même en ce qu’il connait misérable». E non diversamente il Leopardi: «Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e la nobiltà dell’uomo, che il poter dell’uomo di conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza ». Coincidenze come queste certificano al massimo la verità di un pensiero. Libertà e responsabilità sono come il canto e l’accompagnamento in una pagina musicale: devono armoniosamente integrarsi. Ha scritto Joubert che quasi sempre l’opinione del giornale è un’opinione da un soldo. Può essere vero; ma moltiplicato per il numero dei lettori e dei giorni quello spregevole soldo acquista un valore pauroso. Apri un giornale qualunque e vicino all’articolo che forse esalta la nobiltà dell’uomo e predica il ritare in certo qual modo opinione, giacché mi è ora nata la speranza che oltre che buon prosatore e critico possa tu divenire anche buon poeta, mi rimane però sempre la convinzione che tu riesca meglio nel campo della prosa e della critica che non in quello della poesia. [...] Sì, te lo ripeto, hai pensieri splendidi, ma la tua poesia non mi piace. [...] A parer mio tu dovresti dedicarti più alla prosa che alla poesia» ; « Insomma questa volta non c’è male e sono ora convinto che nella poesia come nella critica puoi farti onore» (lettere di Invrea a Barile ripettivamente del maggio e del luglio , ivi, pp. -). . In una Risonanza l’autore stesso sovrappone il lavoro del ceramista e il mestiere del poeta. Vd. Piccola allegoria del figulo, in Barile, Risonanze, cit., pp. -. . Testo non presente nell’edizione delle Risonanze. . Blaise Pascal, Pensées, introduction et notes par Charles-Marc Des Granges, Paris, Éditions Garnier Frères, , Article sixième, vi, , p. . . Giacomo Leopardi, Zibaldone, Milano, Mondadori, (I Meridiani), , agosto , vol. , p. . . Non mi è stato possibile rintracciare il passo preciso cui fa riferimento Barile, nonostante le diverse edizioni, in lingua e in traduzione, consultate. Joubert nei suoi Carnets si riferisce in talune occasioni allo stile e alla scrittura dei journaux. Se ne ripropongono alcuni assaggi: «Journaux. “D’un divertissement on fait une fatigue.” Se lisent vite ; ne doivent contenir que des pensées qui ne puissent pas arrêter l’esprit du lecteur. Un journaliste, pour être bon, ne doit pas être trop supérieur au public, mais un primus inter pares» ; « Personne ne peut aussi bien faire un journal qu’un homme d’esprit qui n’est pas capable de faire mieux» ; « Merchands de bruits, et qui les vendent : journalistes, nouvellistes, etc.». Vd. Joseph Joubert, Pensées et lettres, présentés par Raymond Dumay, Paris, Bernard Grasset, , p. .
paolo senna
spetto della persona ti prende gli occhi la notizia orripilante, più spaventosa di quella di ieri, ma non più orrenda di quella che vi leggerai domani. Però fa coraggio e va avanti, che subito dopo ti aspetta, affiancato al fattaccio, il riferimento compiaciuto, indugiante, delle mezze sudicerie e delle stupidaggini intere in cui si avvoltola il mondo della noia. È l’amaro caffè che il giornale ti porge ogni mattina, però te lo serve inzuccherato oltre misura: accanto alla cronaca nera la cronaca fatua, la quale non è meno triste dell’altra e le fa da concime. Possibile che non vi sia mai da rilevare un fatto generoso, gentile? Da cogliere uno di quegli atti di spontanea bontà o di consapevole coraggio, a volte bellissimi, che rinnovano e profumano l’aria come la luce del mattino nella stanza che sa di sonno e di fantasmi? È vero che la schietta virtù sta nascosta ; ma perché non tentare almeno un principio di cronaca bianca? O vogliamo, codesti atti che confortano la nostra speranza, riservarli soltanto per il premio della notte di Natale? Il Figulo . « Persona », Roma, i, n. , luglio , p. Peccato d’omissione Gli amici fiorentini de «L’Ultima » han dedicato un recente quaderno della loro rivista alla memoria di Vieri Nannetti, del quale hanno illuminato con gentile pietà e penetrante finezza la singolare figura. Tra le varie testimonianze rese all’uomo e al poeta una ci è sembrata particolarmente accorata : la «confessione » con cui Mario Gozzini esprime il suo pungente rammarico di non aver saputo, in una vicinanza durata negli anni, aprirsi con lui a una fraternità vera. « Troppa diversità di partenza, mi sembrava, tra le sue esperienze letterarie, il suo giuoco intelligente e divertito, e la ricerca nostra, che, sia pure in forme diverse e magari confuse, era sempre stata fin dagli inizi consapevolmente religiosa». Ed ecco invece, anche se tardivo, il giusto riconoscimento di una profonda sostanziale convergenza, di un medesimo itinerario religioso, nel quale, anzi, Nannetti col suo passo spedito di poeta ha avanzato i suoi compagni di viaggio. «Partito – scrive Gozzini – dalle Giubbe Rosse, della letteratura-divertimento, era approdato a quelle sponde dove la poesia si fa contatto diretto con un Assoluto che ha le sembianze non più vaghe, non più astratte, del Dio Persona... venuto sulla nostra strada medesima, era andato ben più avanti di noi». È una confessione che fa onore al poeta morto e all’amico che lo rimemora per un bisogno d’ammenda. E come ogni confessione sincera essa ha un suo dolore di pentimento, e in quel dolore trova una luce, più larga, che rischiara il cammino anche degli altri. Dice Gozzini: «Le omissioni : in fondo, ecco il nostro peccato quotidiano, la trama segreta della nostra vita». Parole di verità, che toccano una zona d’ombra della nostra coscienza e vi scoprono un vuoto, un difetto, che si riflette nel nostro costume quanto è più nascosto e inconfessato a noi stessi. Difetto di attenzione e fiducia, difetto di avvicinamento umano, dunque di amore verso i fratelli. I quali tante volte noi consideriamo lontani, o diversi, sol perché «in partenza» sono fuori della nostra cittadella in cui ci teniamo se non proprio chiusi, per lo più con l’animo degli isolati – o degli assediati. Perché questo? Per quello spirito di famiglia, per quel gusto per le affinità elettive che se vale per le élites, non può certo valere per l’anima cristiana? Non crediamo che la ragione sia questa. Né quel distacco avviene sempre per una vera necessità di difesa, per la giusta preoccupazione di non confondere e contaminare le acque. Quando per es. Gozzini, in quella sua confessione, rivendica il carattere in qualche modo sacro della poesia e la posizione presa dagli Ultimi (ma non soltanto dagli Ultimi) contro una certa letteratura-divertimento «troppo frettolosamente e baldanzosamente imbarcatasi a parlare di Dio, cedendo alle suggestioni della moda più che a un’intima necessità e vocazione di fondo», quando ricorda queste cose santissime, chi potrebbe e vorrebbe mai contraddirlo? C’è da credere che i primi a consentire, a batter le mani saranno stati di certo, già in quel periodo, i poeti e scrittori seri anche dell’altra sponda, anche delle Giubbe Rosse (ammesso il riferimento alle Giubbe Rosse solo per comodità di discorso, per amor fiorentino di contrasto, ché diversamente non sarebbe accettabile tanto è indiscriminato e generico). Ma detto questo vorremmo anche aggiungere, con tutta . Mario Gozzini, Confessione necessaria, «L’Ultima », Firenze, xiv, vol. ix, n. -, pp. -. Il fascicolo è interamente dedicato a Vieri Nannetti.
il volto affabile delle parole
la stima che abbiamo di un uomo e di uno scrittore come Gozzini, che quello stacco così netto, così scavato, tra le sponde, può colpire – ferire – un’anima semplicemente ma genuinamente cristiana : finisce, cioè coll’apparire esso stesso un peccato d’omissione, e questa volta più esteso, a catena, non più soltanto verso un amico. Per grazia di Dio è sempre avvenuto e avverrà sempre che «l’uomo si avvia per una strada e frequentemente torna per un’altra». Vorremmo proprio aspettare che sia lui a mettersi al nostro fianco, a inserirsi con noi in una esatta dimensione cattolica ? E se provassimo a muovergli incontro? A parte lo spunto fiorentino, troppe esperienze anche recenti ci dicono che all’origine dei nostri peccati di omissione sta soprattutto una mancanza di coraggio e di amore. «Ama e fa quel che vuoi ». Invece si direbbe che noi cattolici più che alle distinzioni – necessarie – siamo portati alle contrapposizioni, alle antitesi, le quali esprimono un po’ sempre uno stato ancora grezzo dell’animo ; e tuttavia ne usiamo più del bisogno, quando per timidità, quando per povertà di cuore. Per cui avviene talvolta che dalle contrapposizioni dalle idee siamo indotti quasi inavvertitamente a contrapporre anche gli uomini, a giudicarli in blocco, a trascurare l’intima verità di ognuno, la sua propria favilla di luce. Nessuna confusione di principi, ma neanche questo allontanamento e distacco dagli altri. Ad aver più fiducia, a mescolarci più che non facciamo alla gente diversa da noi, a sentirci non su una sponda ma nel vivo della corrente, ci ha tutto da guadagnare il nostro bisogno di carità. Figulo . « Persona », Roma, I, n. , luglio , p. Gentile miracolo Il miracolo di Nostra Signora della Colonna è così bello che va raccontato. Siamo a Savona all’alba del Seicento, quando la città comincia a rilevarsi animosamente dalle rovine e dai lutti della guerra con Genova: mozzate le torri, il porto interrato e, sull’acropoli del Priamar, abbattuta persino l’antichissima Cattedrale intitolata all’Assunta. Ora un’altra ne sta sorgendo, non più sulla rocca marina ma nel cuore vivo della città, e le prima luce del secolo ne illumina già le alte strutture. Costruire una cattedrale con le nostre mani lavorare lo spazio a gloria di Dio... Viene in mente l’umile scalpellino che canta allegro sul suo mazzuolo e al forestiero che si meraviglia di quella sua fatica convertita in letizia risponde con due parole: costruisco la Cattedrale. Prima che una grande opera è sempre un mirabile fatto, questo anonimo sboccio dal cuore di un popolo. Altare di Dio e Cattedra del Vescovo; ma è anche il massimo decoro della Città, il fiore della sua arte e il fastigio della sua potenza. Quanta parte della nostra storia, e la più cara, è iscritta nelle vecchie pietre delle nostre cattedrali e ascende su per le loro cupole o in vetta ai loro pinnacoli. Di fronte a quei muri anche i palazzi gentilizi perdono di alterezza e le case dei poveri consolano alla loro ombra le proprie pene e fatiche. Ma veniamo a Savona. Venerata sotto vari titoli (la Misericordia, l’Assunta...), nella Cattedrale savonese, la Vergine lo è anche per questa sua Immagine antica che “si spiccò e calò da sé giù per la colonna”. Gentile miracolo. Così discreto, così silenzioso che ci prende incantevolmente il cuore. A leggere le grezze parole che testimoniano il fatto è impossibile non sentirne la verità, la vivezza e l’involontaria poesia. Il miracolo accade nell’ora del mezzodì, che è un’ora sacra. Forse l’Angelus è già suonato, e nell’immenso cantiere, frammezzo alle opere interrotte e alle impalcature giganti su cui ride il cielo di marzo, son rimasti cinque uomini, sei col curato della cattedrale che vi fa il suo solito giro: un fabbro, un fornaio, un cassaro, una mastro muratore, un cimatore di panni: gente tutta di popolo, artigiani che han la vista buona e la parola sincera. Qualcuno forse di essi, non addetto ai lavori, ha profittato dell’ora per venire a darvi un’occhiata e misurarne, come ogni tanto fa, l’andamento. In tre, in quattro fan crocchio e commentano crucciati il recente responso dell’architetto . S. Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, Omelia , (vd. ed. Roma, Città nuova, , p. ). . Il testo è apparso in Angelo Barile, Al paese dei vasai. Santi, artisti, scrittori, paesi di Liguria, Savona, Sabatelli, , pp. -.
paolo senna
della fabbrica, Battista Sormano, il quale, dopo aver saggiato a lungo l’intonaco con le nocche e “con la picchetta”, ha pronunciato non potersi levare intiera l’immagine della Madonna delle Grazie dall’antica colonna in cui è incorporata e che andrà demolita. Se ne angustiano i nostri uomini, e come non sanno rassegnarsi a tanta perdita, obiettano e si arrovellano con quell’ingegno meravigliosamente testardo ch’è dei bravi artigiani. E continuando a discutere eccoli già avviati alla colonna per quivi ragionarne de visu, quando un grido alto e improvviso del curato Lamberti ve li fa correre a precipizio, giusto il tempo per vedere e sostenere la santa Immagine “che cala giuso pian piano”. Tanto è lo stupore che non li lascia parlare, poi trabocca in letizia di abbracciamenti e preghiere e straripa nell’esultazione di tutto il popolo accorso. Se gentile è il miracolo, non è meno gentile l’immagine di questa mite Madonna quattrocentesca che regge appena e sembra porgerci il Bimbo: tutta pura nel giovanissimo viso allargato dalla mestizia degli occhi, il capo un poco inclinato sotto il peso a lei troppo grave della corona, le membra docili e lievi quasi linee figurative dell’anima. È la dolce Madonna che ha voluto restare con noi. Angelo Barile . « Persona », Roma, I, n. -, settembre , p. Risonanze Per poco nome che uno abbia nel campo cintato della poesia (e non diciamo se è un critico), non si contano gli omaggi che gli piovono addosso. Fossero omaggi di vive e gustose primizie! Ma è carta stampata: raccoltine, libriccini di versi, ognuno con la brava sua dedica. Può persino capitare che l’omaggio sia doppio: che la plaquette gli rechi, per farglielo conoscere meglio, anche la fotografia dell’autore; che in questo caso sarà piuttosto un’autrice, magari avvenente e invitante più dei suoi versi. * A dire la verità non ci vorrebbe molta fatica a scorrere questi libretti, chi sapesse vincere l’uggia che gli mettono in corpo. Ma sono mai tanti che, a volerli soltanto «passare », nonché il tempo e l’allegria uno ci lascerebbe la vista. Perciò chi li riceve, non avendo l’animo di avviarli senz’altro al loro destino, o forse nell’illusoria speranza di affrontarli in un momento di deciso coraggio, li colloca vergini – e impregiudicati – in un angolo dello scaffale, sul quale, anche se così striminziti, fanno tutti insieme un peso eccellente. * Pure... Pure, nell’atto stesso di metterli in disparte, un pensiero punge come uno spillo. In tanto folto ci sarà bene una luce. Una pagina, almeno una pagina onestamente bella, in tutto quel cumulo di carta stampata ci sarà di sicuro. Forse una scoperta; forse, chissà, un’amicizia... Allora sopravviene il timore di non porgere la mano a chi offre timidamente la sua, di passare vicino a un’anima senza vederla : che è sempre un peccato di trascuranza e di disamore. Una punta di rammarico lo accompagna anche quando ha già dimenticato il nome dell’autore e il titolo del libro; e questo rammarico è ancora l’omaggio, l’unico omaggio che in tanto diluvio di versi il mancato lettore può rendere al «poeta ignoto» fra i mille che scrivono versi. * Naturalmente l’omaggio che ricevi sottintende un invito: che tu ti pronunci. Ve lo leggi in trasparenza come una preghiera non detta; ma qualche volta l’invito è dichiarato, e perentorio. «Per recensione ». L’autore o l’editore, o tutt’e due insieme, ti chiedono la contropartita. Oh gli incauti. A chi non ha la disgrazia di essere critico di professione basta per lo più una richiesta siffatta per fargli cadere il libro dalle mani nello stesso momento in cui l’apre. * A parte i saggi critici che vogliono tempo e attenzione, le solite recensioni di poesia – questi chiac. Non pubblicato in Barile, Risonanze, cit.
il volto affabile delle parole
chiericci a mezz’aria – bisognerebbe davvero abolirle, come han già fatto, del resto, i grandi giornali, che un tempo avevano le lor cronache regolari di poesia, i loro ragguagli di Parnaso, e ora delle raccolte di versi neanche dànno notizia tra i «libri ricevuti». Come si potrebbe disapprovarli? Il silenzio in questo caso è una difesa, e può forse indirizzare chi scrive, se ha vocazione e ingegno, a fatiche più meritorie. * Vero è che i poeti crescono anche all’asciutto, come ogni giorno si vede. Nel nostro sottobosco i funghi nascono fitti anche quando non piove. Ricusati dal mercato, non c’è altro modo di smaltirli che di mandarli in omaggio. Chi ne vuole? * A Bino Rebellato Editore in Padova e ai suoi poeti: Claudite iam rivos, pueri, sat prata bibere. Figulo . « Persona », Roma, iii, n. -, gennaio , p. A tarda sera A tarda sera quando prego pace ai miei morti, ad una ad una vi chiamo per nome, mie sensibili anime. In un lampo a ciascun nome mi risponde il viso desiderato, e il sangue vi ripalpita vi segna i suoi segreti. Odono il mio sussurro anche gli anziani che in grembo alla memoria già posano quieti e forse ancora anelano in cammino per i valichi estremi al loro Cielo. Un poco, andando, si volgono e alcuno lontanamente sorride... Ma questi, al mio cuore più mesti, che ieri appena spezzavano il pane con noi sotto la lampada e nell’ombra son passati tenendosi per mano, lo sguardo al focolare: questi quando la sera chiamo per nome i miei morti, li vedo ancora fermi, ancora trepidi e tesi di là dalla porta non richiusa, che geme. Ecco mi fate cenno, anime care, d’incamminarci insieme. Angelo Barile . Virgilio, Bucoliche, iii, (edizione a cura di Marina Cavalli, Milano, Mondadori, , p. : la lezione vulgata dà biberunt, probabilmente bibe¯ re nel testo che conosceva Barile). . Barile, Poesie, cit., pp. -. La lezione delle liriche apparsa su «Persona » (“Pers”) è stata collazionata con l’edizione milanese delle Poesie, cit. (“P”). Si dà notizia delle varianti, quando esse occorrano, nelle note ai singoli testi.
paolo senna
. « Persona », Roma, iii, n. -, giugno , p. I chierichetti della Stella maris I miei poveri occhi si ravvivano se vi passa un’immagine giuliva di fanciullezza. Vi sostano un poco oggi ch’è festa, alla Messa cantata nella mia chiesa, i chierichetti della Stella Maris rossovestiti : spiccano più degli angeli d’oro che li guardan dai corni dell’Altare. Angeli anch’essi, ma sbozzati appena, i tratti un po’ composti un po’ vaganti... Le loro voci, i gesti, m’aprono in petto pensieri ridenti. E in cima – come un fiore – il loro atto più amabile: quando poco avanti la Mensa l’uno dà all’altro la Pace. L’abbraccio di fratello a fratello scende per i gradini dell’Altare, dal celebrante giunge sino a loro, e il più piccolo s’alza leggero in punta di piedi, le mani gracili tese come ali d’uccello, il viso serio; ma tra i cigli guizza ilare lampo... Restatemi ancora, cari fanciulli vestiti di fiamma oh restatemi ancora fermi in quest’atto – e beati. Lì sopra dagli azzurri marini del suo trono la Madonna sorride quasi giovane mamma innamorata dei suoi bambini. Angelo Barile . « Persona », Roma, iv, n. , dicembre , pp. - Come ho letto D’Annunzio Quell’ardore di D’Annunzio, quel suo destino d’insonnia mi colpì ancora giovane, non come un segno di privilegio, anzi piuttosto come un castigo. Sentivo che la sua mancanza di riposo, che pareva dettata da un principio eroico, era incapacità, assenza originaria di pace. Come poteva la poesia ricusare il raccoglimento, il silenzio? Più tardi mi capitò di leggere che è proprio questo il rim. Barile, Poesie, cit., pp. -. . di fanciullezza. / Vi] Pers di fanciullezza. Vi] P . dell’Altare] Pers dell’altare] P . dell’Altare] Pers dell’altare] P . Testo già apparso sul numero fuori serie di «Letteratura », marzo , pp. -. Poi anche in Barile, Incontri con gli amici, cit., pp. -.
il volto affabile delle parole
provero che Dio per bocca di un profeta fa al suo popolo: «Voi avete detto: Io non riposerò». Era la stessa parola che D’Annunzio aveva scelta per sé e chiusa fra i lauri. «Per non dormire». Più che superba, mi pareva carica di tristezza. Mi indirizzavo alla poesia col verso del Petrarca alla Vergine: «O refrigerio al cieco ardor che avvampa ». Cercavo, secondo il mio bisogno e il mio gusto, l’ombra amica al cuore dell’uomo, cara agli antichi anche prima di Cristo: senso e struggimento dell’ora, senso del nostro passaggio. E D’Annunzio mi ricacciava nel sole di mezzodì. Poi, anche la sua attenzione, il suo sguardo, cosa stupenda, diveniva a tratti spaventoso come l’occhio della sua Sibilla: L’occhio tuo fisso non sogna né pensa, ma vede come nessun altro mai vide. Non lacrima né sorride: vede meravigliosamente. Altre volte, e più spesso, la sua attenzione era piena di fulgore, era lampo dell’istinto, attività dell’essere rapito alla finestra dei sensi; e fu uno dei segni maggiori della sua potenza; con quello della parola, il dono di luce ch’egli ci ha fatto. Però quello sguardo come rimaneva crudele. Privo delle ombreggiature e clemenze che cercava il mio bisogno di carità. (Quando poi nel Notturno e nella Contemplazione della morte ci diede a suo modo anche queste – penso al poeta chino sulla stanchezza di Renata, al suo sguardo presso al letto di Adolfo Bremond –, anche in me la sorpresa fu maggiore della gioia, un po’ la impedì, non la lasciò sorgere intatta). Via via mi pareva di toccare con mano come quella sua attenzione, così mirabile nella sua prima movenza, e capace in ciascun momento di una resa perfetta, riuscisse poi all’esito opposto: a disintegrare il mondo e disperdervi l’anima. Diramava a una varietà infinita di cose, anzi le catturava tutte, con un’avidità che aveva, come fu detto della sua cultura, un che di utilitario. Incapace di eliminazione, le rapiva nel suo istinto lirico «vorace » come il suo senso: un senso più grande esso stesso, che riuniva in sé gli altri cinque. E tutto si accendeva sulla pagina, passava subito in canto. Il mio orecchio, il mio cuore cercavano invano il segno di quel secondo viaggio, di quella seconda navigazione platonica che avevo sentito, calmo remo, nei grandi poeti. Nel Petrarca, in Leopardi: e a momenti, aiutando forse l’affetto, in qualcuna delle stesse voci del mio tempo: voci povere, avare ma che tornavano in qualche modo a essere spiccate dalle soste e maturazione dell’anima. Così, a sviarmi da D’Annunzio, era sempre in fondo quella sua foga e mancanza di riposo. «Innamoratamente congiunta» alla sua vita, anche la sua poesia mi dava alla fine la sensazione e sofferenza di un vortice: un vortice, se posso dire, orizzontale: una di quelle raffiche che passano sul mare e non si fa in tempo a seguirle, a vedere dove muoiono e come riprendono, vere figure dell’inquietudine. Scrutatore accorto di se stesso e nelle cose maggiori sincero (ma talora si pensa non gli siano rimaste estranee certe indicazioni e scoperte della critica e se ne sia valso «a chiarezza di sé»[)], D’Annunzio vide poi bene che cosa gli era negato: il raggiungimento dell’intima trasparenza, il premio classico della vera armonia e quello cristiano della pace. Era l’ultima fronda: la più diffice e pura – e non poteva toccarla. «Non pace ma ansietà; non fermezza ma ebrezza; non silenzio ma clamore... Si pecca per troppo ardore anche incontro alla morte. Non si può dire che vi sia silenzio in quello spirito che il levame lirico solleva e infervora di continuo. È necessaria una certa nudità interiore, l’assenza delle immagini e delle melodie perché l’anima imiti quella trasparenza dell’alba dove il giorno e la notte si confondono». Ecco la poesia additata dal poeta stesso come un impedimento allo spirito. Che poesia è questa? E in che punto siamo della perdizione romantica? Quando egli dice di sé: «Sopraffatto dall’abbondanza della vita... », io mi sento ferito da questa parola – ma l’ultimo D’Annunzio è pieno di questi ferimenti – perché so che non intende soltanto la molteplicità e ricchezza, né il fasto o la gloria della sua vita, ma la densità e cupidigia dell’intero suo sangue, intende la violenza anche lirica del suo polso. Oh non è vero che Apollo abbia sempre l’ultima parola: in D’Annunzio è sopraffatto da Dioniso. E tuttavia, dove quella violenza cede e l’onda si attenua, i sereni arcipelaghi della sua poesia! Sono tregue del sangue, armonie. Ad esse mi accosto con animo aperto, so che non contraddicono al mio sentimento e spesso m’incantano. La tregua sulla spiaggia pisana, in grembo alla natura e all’estate, dura meno del libro... Come si trovano momenti alcionici disseminati ovunque in D’Annunzio, così non è tutto alcionico il libro
paolo senna
di Alcyone. Vi son troppe pagine (non i soli Ditirambi) nate sotto l’influsso ancora irruente di Maia. Volentieri le addebito alla Laus trasferendo invece da questa all’ideale libro di Alcyone quei gruppi di strofe che respirano la stessa freschezza. Non sono molti, e forse li sappiamo ancora a memoria : Le Armonie, Ver Blandum, Felicità... e se poi devo indicare in Alcyone le mie preferenze, per me vado a scegliere dove si sente un po’ meno il rombo della luce e la folle cicala. A qualche distanza, ma della stessa famiglia di Undulna, e Versilia, del Fanciullo e dell’Oleandro e delle altre che han quella purezza, vorrei mettere alcuni Madrigali dell’Estate. Tra le cose più umili e lievi di D’Annunzio : quasi le sue myricae; un po’ asciutte, concise, di aria tutta toscana. Implorazione, La sabbia del Tempo, L’Orma, Il vento scrive... Su la docile sabbia il vento scrive con la penna dell’ala, e in sua favella parlano i segni per le bianche rive. Mi danno il senso, che a me piace, della felicità già pericolante, quasi prossima a sfarsi – Estate, estate mia, non declinare –, e il primo appena avvertito presagio dell’ombra. Ma anche Alcyone ora mi parla già meno come, a un certo punto della vita, la perfezione che ha poco fondo. Mi attrae l’altra sua tregua, la tregua meditativa incominciata nella Landa, interrotta, riaperta nel Notturno e in qualche sua pagina casta. È la tregua, o l’attenuazione, della sua ferinità. L’estate alcionia era caduta «con non so che dolcigna afa [di] morte». Ora viene a visitarlo se non proprio il pensiero della morte, l’orrore della «laida vecchiezza» e delle «charogne infecte». L’eclisse solare di cui discorre la Contemplazione. La luce non sfolgora più come prima, vi è qualche indulgenza, un principio di cordialità, a volte persino di tenerezza, forse è intorno a questo D’Annunzio, a questa sua immagine dolorosa, che può sorgere un’alta pietà, un sentimento di comprensione e di vicinanza. Non per nulla proprio queste sono le pagine che più delle altre sue – anche più dello stesso Alcyone – noi abbiamo cercato dopo la sua scomparsa non soltanto fisica. Si è detto che tutti gli dobbiamo qualche cosa. Il dono del suo canto è quello della fontana a cui tutti possono bere, un sorso di più o un sorso di meno. Ma la sua costanza, la sua osservanza dell’arte la sua intelligenza e intimità delle parole, quella sua facoltà di farle nascere e gioire a fiore dei sensi, di farcene apprendere non la proprietà soltanto, né solamente il numero, ma la virtù, la potenza il primo sgorgo e sorriso, questo è bene il regalo che egli ci ha fatto. Alleggerita dal tempo, filtrata dalle altrui esperienze, la linfa verbale di D’Annunzio circolò per anni, ormai segreta, in tanti autori anche lontani da lui. E non restò inoperante nemmeno quando eran già scomparsi dalla nostra pagina i segni e i vizi della sua prepotenza. Se a volte vi apparivano ancora, ognuno si affrettava a scancellarli, ma sotto l’inchiostro riaffioravano tenaci, tanto la sua impronta era dura a morire... Però mi par giusto coloro che hanno aiutato il tempo a svincolarci da lui. La liberazione dal suo dominio fu nelle nostre lettere una specie di passaggio del Mar Rosso. Si apersero le acque e più di una generazione vi andò sommersa: gli altri, quelli decisi a guadagnare la libertà, non si salvarono da D’Annunzio se non fuggendo e approdando a queste magre argille della nostra poesia, dove si erra e cammina verso la terra promessa senza nessun Mosè che ci guidi, ma solo la spinta del cuore e forse il profumo della ginestra. Angelo Barile . « Persona », Roma, v, n. -, agosto - novembre , p. Navi alla fonda Di fronte al mio balcone navi alla fonda posano calme nella notte estiva sul cupo illune velluto dell’acque. Isole chiare, arcipelago d’oro... . Barile, Poesie, cit., p. . . Di fronte al mio balcone / navi alla fonda] Pers Navi alla fonda] P . dell’acque] Pers delle acque] P
il volto affabile delle parole
A un braccio dalla riva luci quasi lontane, luci nude a segno degli scafi che scoprirà pudicamente l’alba. In quest’alto silenzio in questa pace oltre i sensi m’irraggiano pensieri, quasi cenni, richiami dell’altra riva a cui naviga l’anima – e ne trema più si avvicina. Domani alla banchina un nero peso una nera fatica traboccherà dalla stiva. (agosto ) Angelo Barile . « Persona », Roma, vi, n. , aprile , p. Il canto smarrito Ora che la ginestra intenerisce anche le scabre rupi sul nostro mare, ora vengono i giorni grandi, d’argento: li apre a prim’estate questo favillìo di campane che c’invita domani ai canti del Corpus Domini. Domani andremo pei campi a far bracciate di rami a riempir d’oro canestre, paveseremo le finestre, rallegreremo di frasche le vecchie vie dove le case si tengono strette abbracciate in una fuga d’archi – e laggiù palpita un riso di mare. Forse domani le anziane donne apprenderanno alle spose in processione con loro la laude che non cantano più da tanto tempo; e questo era il suo giorno. Saliva all’allegrezza della fede un coro d’anime in festa. . l’anima – e ne trema] Pers l’anima e ne trema] P . Barile, Poesie, cit., pp. -. . d’argento : li] Pers d’argento. Li] P . favillìo] Pers favellìo] P . pei campi] Pers per campi] P . canestre,] Pers canestre;] P . tempo ; e questo / era il suo giorno] Pers tempo: e questi / erano i giorni] P
paolo senna Oh, ritorna, ravvivaci ancora, nostra laude disimparata, canto di gioia smarrito nella penosa memoria irta di sterpi... Domani forse domani t’udremo ritremare sgorgare vivo quando passa Gesù.
(dal volume Poesie d’imminente pubblicazione nelle Edizioni Scheiwiller) Angelo Barile . « Persona », Roma, vii, n. , gennaio , pp. - Specchio dell’anima, la pittura di Berzoini Di Berzoini ho in casa due quadri che ormai non parlano soltanto allo sguardo. Dalla parete ove sono appesi, le loro immagini mi son passate nel cuore; come non accade sempre anche di una buona pittura se non viene incontro a un’intima simpatia. Son due quadri forse minori, e tuttavia espressivi per il loro stesso contrasto. Un viluppo di foglie e di poche stanche peonie in un vaso verdazzurro leggero, vicino al quale è posata distrattamente non so che carta da giuoco. I colori son tenui, di una soavità che li stempra. Ma l’altro quadro, di paese, è tutto vivo e vibrato, a tocchi rapidi, a pennellate volanti: un’esplosione, un’esultanza di giovane verde intorno a una casa biancorosa che ne è illuminata come in un assalto di luce. Due momenti pittorici, ma anche, essenzialmente, due inclinazioni che si alternano nell’anima e nell’arte di Berzoini. Dalla malinconia del suo fondo sale e balena, come è proprio dei malinconici, una vivacità festosa che nella gioia del colore fa cantare il quadro. Accensioni improvvise, e di contro una sfumata, vaporante mestizia. È uno degli aspetti singolari di questa pittura. La quale è tutta spontanea, di getto, ma non per questo è pittura di superficie, di mera impressione. Figura o paesaggio, le cose che gli son care – Venezia e le Langhe, o la facciata di certe chiese, o un cespo di fiori di campo – Berzoini le ritrae sì in quel momento, in quella luce istantanea, però chi può dire se le immagini amate non gli han soggiornato nei ripostigli del cuore? Anche il sonno lavora, e un principio attivo di arte o di poesia, chi lo ha dentro di sé, gli germoglia inavvertito come il seme di sotto alla zolla. Negato, vorrei dire organicamente, alle norme di qualunque scuola come alla mediazioni (o alle trappole) della cultura, Berzoini esprime nella sua arte un bisogno ingenuo, e commovente, di poesia. Nei suoi quadri c’è sempre un colore che non esiste sulla tavolozza: quel colore d’anima, e d’innocenza, che unifica gli altri e veramente li avviva. Guglielmo Bozzano ha scritto – e scritto bene – che Berzoini rimane un isolato, «in una seconda luce austera e discreta». Però io direi che è la luce sua propria: se non dell’artista, propria almeno dell’uomo. Quando incontro Berzoini con quella sua figura di uomo antico, che pare tolta a un vecchio affresco illanguidito dal tempo – il volto pallido e scabro, l’andatura dinoccolata, e in fondo all’abbandono delle braccia quelle sue mani famose, assolutamente spropositate, – a vederlo in mezzo alla gente così disarmato e un po’ sperso, mi vien da pensare al fanciullo che è in lui: non visto; ma ogni tanto gli traluce in una frase smozzicata o in un principio di sorriso che si smarrisce nella serietà del suo volto. L’uomo e il fanciullo si accompagnano per via (ma preferiscono andare pei campi) e forse non si scambiano che rade parole. Ma nell’atto stesso in cui gli occhi vergini e vivi colgono il fiore delle cose che amano, il vecchio pittore lo riceve e trapianta nel suo recinto e lo fa poi risorgere in una luce cordiale che non lo lascia avvizzire. Se Berzoini avesse mai da scegliersi un motto, gli suggerirei il verso di Saba: I miei occhi mi bastano e il mio cuore. Angelo Barile . Oh, ritorna, ravvivaci] Pers Oh, ravvivaci] P . Umberto Saba, La solitudine, in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori, (I Meridiani), p. .
il volto affabile delle parole
. « Persona », Roma, vii, n. , febbraio , pp. - La Colombera di Riolfo È uscito presso Sabatelli Editore, Savona, in una collana diretta da Federico Marzot, il volumetto di versi La Colombera di Silvio Riolfo, illustrato con bei disegni di artisti liguri. Pubblichiamo con piacere la prefazione che vi ha premesso Angelo Barile. Non è solo per amicizia che saluto con gioia questo primo mannello di versi che tra gli altri suoi inediti Riolfo ci offre. Accanto agli artisti – fra i più cari della nostra Liguria – che in segno di simpatia hanno arricchito dei loro disegni questa bella plaquette nitidamente stampata da Sabatelli, forse non disdice che in limine trovi posto una mia parola. Non quella di un critico, ma la parola di un vecchio poeta che scambia l’abbraccio di rito (e di cuore) con un confratello novizio. Conosco e seguo con attenzione Silvio Riolfo sin da quando era studente di liceo, agli Scolopi, e già rivelava in quelle sue primissime prove una seria vocazione alla poesia. Mi sia permesso di dire che da allora ho sempre guardato a lui con una fiduciosa speranza che non è andata delusa. Se posso valermi di una sua stessa immagine, vorrei assomigliare la poesia di Riolfo a quel primo fiotto di colombi «che nel vento rompeva alla sua casa» : alla casa antica e deserta della sua gente, lassù a Castelvecchio di Rocca Barbena. Il suo canto trepido e chiaro vola anch’esso in un vento affettuoso di ricordi: vola incontro a quel puro paese dell’adolescenza che è rimasto il suo spirituale paese. È lì che il poeta ritrova le care anime, i cari volti scomparsi; ripercorre le sue bianche strade di ragazzo; v’incontra i vecchi curvi e rotti dalla fatica o le allegre scorribande dei compagni alla vendemmie d’ottobre... Risale, per la festa d’ogni anno, al Santuario e vi rivede sua madre giovane che prega, riascolta la meraviglia del suo canto «che da solo ferma i monelli». O risaluta le balenanti fanciulle rimaste illese nella sua memoria: quella che beve inginocchiata alla fontana e l’altra – incantevole – che nel magazzino della frutta acerba, tra scrosci temporaleschi, sente già il sussulto della corriera che sotto la pioggia la ricondurrà a casa... Un mondo fresco, innocente, rigato di rimpianti, pervaso di mestizia, ma sentito ed espresso con una pungente vivezza di riferimenti concreti, di richiami alle cose, che ricreano davvero quell’ambiente, quel tempo, e gli dànno risalto e carattere. Sono tanti e così propri, così precisi, quei richiami a una realtà fisica tutta impregnata di anima che l’elegia o l’idillio del fondo poetico di Riolfo non divengono mai abbandono, languore, sterilità di lamento, anzi ne avvivano la virtù lirica. Dirà forse qualcuno che in questa poesia di un giovanissimo c’è, nondimeno, ancora troppa malinconia, troppa tristezza ? A chi volesse fargliene rimprovero si potrebbe rispondere con una parola di Benedetto Croce: «Che un velo di mestizia pare che avvolga la Bellezza, e non è velo, ma il volto stesso della Bellezza». Un certo colore di malinconia è misteriosamente inseparabile dalle più felici manifestazioni dell’arte e della poesia. A differenza degli altri poeti liguri che traggono, benché in modo diverso, ispirazione quasi soltanto dal mare, Silvio Riolfo non è propriamente un poeta marino. La sua Liguria è un’altra, quella ignorata e bellissima del nostro entroterra, chiusa nella limpida cerchia dei monti. Non già che il mare sia estraneo alla sua poesia, anch’egli ne sente il richiamo potente, «il canto lento e feroce » (Marea, Il fragile corallo del ricordo, Ulisse). Ma è un mare, quello di Riolfo, sentito, vorrei dire, in contrappunto. Il suo cuore rimane lassù, affacciato dall’alto balcone di Castelvecchio sulla sua terra arida e magra «ricca solo di pietre e di torrenti / dal greto asciutto...» Nome che più che al lido riconosco a quei monti sereni dove nacqui, ai quali tornerò coi morti antichi che mi fecero figlio del tuo cielo. Mite e casta poesia, felicemente evocativa, sensibilmente fedele alle memorie, alle figure, alle costumanze di un tempo – e tuttavia di un gusto tutto moderno per la nettezza del disegno, l’incisività delle immagini, la vigilata armonia della voce. Riolfo crede ancora nei valori fonici usati con sobrietà e discrezione. Oggi non sono molti i poeti giovani rimasti come lui totalmente immuni . Nota della redazione di «Persona ». Vd. Silvio Riolfo, La Colombera, Savona, Sabatelli, . . Benedetto Croce, La poesia, Bari, Laterza, , p. .
paolo senna
dal detestabile contagio dei mezzi-versi, dei quasi-versi che da ogni parte tediosamente dilagano. Il suo verso è per lo più l’endecasillabo, che è il naturale respiro della poesia italiana. Quando e dove se ne discosta è per dare alla sua voce rapidità di tono e non so che nervosa movenza. Moderna ma non malata di novità, la sua poesia è chiara d’intime luci e di modi espressivi, essenzialmente serena (o rasserenata) per equilibrio e misura. Rari i momenti di turbata armonia. Come quando « una sera d’inverno ch’era il treno / fermo in stazione sotto un’aspra pioggia» il poeta soffre improvvisamente l’urto delle cose avverse e sentendosi a un tratto svuotato di pensieri, fermato per sempre in un buio d’inerzia, conosce e prova in se stesso «la trafittura orribile che fissa / la farfalla alla pagina...». Uno smarrimento, un principio di angoscia, che per l’efficacia con cui viene espresso si comunica in qualche modo anche a noi. Allora, se è così, andremo a rileggerci per sollevarci il cuore La canzonetta della mela piccola, una poesia che sta a sé, diversa da tutte le altre della raccolta. In tono discorsivo un vero e proprio racconto. Umile racconto, umili versi, ma intessuti di amabile grazia. Il ricordo della nonna, del bimbo e della Messa mattutina nella chiesa del paese rivive e s’innesta con commozione nell’episodio ilare e giocoso della mela piccola nella cappella del collegio. Forse per la prima volta il cuore della «matricola sperduta» è ferito, e gliene viene un pianto che ha colore d’aurora. Così Riolfo conduce anche noi, con mano leggera, ai perduti paradisi dell’innocenza. Angelo Barile . « Persona », Roma, viii, n. -, gennaio – febbraio , p. Come ho conosciuto Umberto Saba Nel numero di marzo-aprile di «Circoli » comparve una singolare antologia: non più che una ventina di poesie che Saba aveva trascelte dalle sue varie raccolte, quasi per darci di ogni suo periodo poetico il motivo dominante. Alla «piccola antologia», come egli l’aveva intitolata, la rivista volle premettere un mio scritto: Lo sguardo di Saba, nel quale io cercavo di scrutare una delle sue virtù liriche più affascinanti : quel suo modo incantato di aprire gli occhi sul mondo e di acquisirne taluni aspetti ingenui e vivi incorporandoli intatti al proprio fondo meditativo. Per le cose che diceva, quel mio studio, che non era soltanto una testimonianza affettuosa, piacque a Saba più di quanto io potessi pensare e mi valse la sua amicizia. «Cerchi di fare in modo che ci possiamo conoscere » – mi scrisse dopo lette quelle mie pagine. Non occorre dire come quel suo invito, che mi ripeté di lì a poco, veniva incontro al mio desiderio. Fu così che nel giugno di quell’anno ci conoscemmo a Milano. Avvisato che vi era di passaggio, mi precipitai a raggiungerlo, con quella impazienza un po’ timorosa che ci prende la prima volta che ci avviciniamo di persona a un artista, un poeta lungamente amato. Ma ogni titubanza scomparve tanto la sua accoglienza fu aperta, cordiale; e la nostra conversazione trovò subito il suo tono giusto e spontaneo, quasi di naturale confidenza. Nel ringraziarmi poi da Trieste di essere andato da lui a Milano, Saba si rammaricava che io l’avessi trovato « in un periodo piuttosto depresso». Ma in verità io non ebbi quell’impressione, anzi il poeta mi era parso inaspettatamente sereno, né credo lo fosse per ragioni di cortesia. L’altro Saba – quello doloroso, inquieto, costantemente travagliato in se stesso – dovevo poi conscerlo qualche anno più tardi, quando fui per alcuni giorni a Trieste, e già incombeva il pensiero della guerra che veniva ad accrescere il suo intimo tormento e la sua amarezza. Ma quella sera, a Milano, non appariva turbato. Si cenò insieme (c’era anche Linuccia), e usciti a fare due passi noi due ci ancorammo a un caffè all’aperto, indugiando in uno di quei colloqui che in realtà non hanno mai termine. Naturalmente era lui che guidava il discorso e io lo seguivo con un’attenzione che non si fermava alle parole. Se ora risalgo così indietro nel tempo a quel mio primo incontro con Saba mi resta soprattutto il ricordo del modo con cui mi parlò di poesia. Un modo vivo, chiaro, diretto, senza mai astrattezze, con pochi e pronti giudizi che riflettevano nel discorso le luci e le ombre, le simpatie e le ri. Vd. Barile, Incontri con gli amici, cit., pp. -. . Barile, Lo sguardo di Saba, cit. . Si veda l’epistolario Saba-Barile in La poesia di Angelo Barile, cit., p. (lettera dell’ maggio ). . Ivi, p. (lettera del giugno ).
il volto affabile delle parole
pulse del suo essere profondo. E se una poesia rispondeva al suo intimo gusto avveniva anche che ne citasse dei versi a memoria. Rammento con che animazione e trasporto mi recitò quella sera L’acero antico di Jessenin. Mi pare di sentirlo: Ho lasciato la mia casa di fanciullo ho lasciato la Russia celeste. Come tre stelle riscaldan le betulle il cuore di mia madre mesta. Poi, su mia preghiera, mi disse una delle sue ultime poesie di quel tempo: Ceneri. A distanza di tanti anni, se mi capita di rileggerla, è come se riudissi ancora la sua voce viva, quella voce cantilenosa, lagnosa, invariabilmente monotona, che a me piaceva perché la sentivo connaturata al suo canto, gemito vero della sua intima pena. Impossibile dimenticarla tanto gli veniva su de profundis. Volle anche, a un certo punto, che io gli dicessi qualcosa di mio, e facendomi coraggio gli dissi Tu che non canti, un sonetto d’amore di strettissima forma, chiuso nel giro corto dei suoi settenari. Mi pregò di ridirglielo; e andava fra sé ripetendo due versi che gli restarono a lungo nella memoria : Lacrima che s’indora / nel verso che la beve... Non so se mi è lecito aggiungere che da Trieste mi chiese quella mia lirichetta («Desidero leggerla in pace e farla leggere a qualche amico»), e quando mi scrisse non fu soltanto per dirmi che gli piaceva ma per segnarmi i punti, anche minimi, che gli parevano deboli. Desideroso di farla migliore, mi suggerì persino le possibili (o impossibili) varianti... Dopo di allora Saba divenne per qualche anno il mio primo lettore – il più desiderato, il più ambito. Mi sollecitava ogni tanto a mandargli le mie nuove (e poche) poesie, che leggeva attentissimo, e il giudizio che me ne dava non era mai vago, anzi preciso e aderente alla pagina. Così attraverso le sue lettere Saba proseguiva con me il discorso che avevamo cominciato quella lontana sera a Milano ; e il modo era ancora lo stesso: semplice e sincero, senza elucubrazioni, senza giri di parole, animato da una partecipazione attiva che mi dava ogni volta il senso vivo della sua straordinaria virtù non pure di poeta ma di libero e penetrante lettore di poesia. Angelo Barile . « Persona », Roma, viii, n. -, gennaio – febbraio , p. Una poesia natalizia di Umberto Saba Pochi anni prima della morte Umberto Saba accettò d’incidere, con quella voce un po’ cantilenosa che gli era caratteristica, un piccolo disco «Cetra » con otto poesie dei diversi periodi della sua vita: dell’adolescenza, della giovinezza, della maturità e della vecchiaia. Fra le altre un sonetto: Nella notte di Natale, scritto a anni e pubblicato una sola volta, nell’edizione ormai introvabile del primo Canzoniere limitata a poche centinaia di copie; onde quel sonetto poteva e può ritenersi pressoché inedito e certamente ignoto ai più dei lettori. Eccolo qui riportato: Nella notte di Natale Io scrivo nella mia dolce stanzetta d’una candela al tenue chiarore ed una forza indomita d’amore muove la stanca mano che si affretta. Come debole e dolce il suon dell’ore! Forse il bene invocato oggi m’aspetta. Una serenità quasi perfetta calma i battiti ardenti del mio cuore. . Ibid. . Si veda, per esempio, ivi, pp. , , , . . Testo già pubblicato su «Il Letimbro», Savona, dicembre , poi confluito in Barile, Incontri con gli amici, cit., pp. -.
paolo senna Notte fredda e stellata di Natale sai tu dirmi la fonte onde zampilla improvvisa la mia speranza buona? È forse il sogno di Gesù che brilla all’anima, che pensa sé immortale, del giovane che ama e che perdona?
È una poesia candida, ingenua, formalmente intessuta di quelle facili rime che Saba amava e dei modi espressivi più semplici, usuali; la quale denuncia subito, a prima lettura l’età giovanissima dell’autore. Ma non per questo è meno interessante per il motivo che la ispira, per i sentimenti che esprime, e per il significato che assume nella biografia – e nello spirito – del poeta triestino. Sotto questo riguardo quel sonetto merita rilievo, almeno per chi conosca la particolare complessità della vita e dell’anima di Saba. Nato di padre cristiano e di madre ebrea, ma allevato nella famiglia materna (il padre aveva abbandonato la moglie e il figlio ancora bambino e se ne era andato ramingo per il mondo), Umberto Saba ha sempre avuto un’estrema, pungente coscienza di questa duplicità del suo sangue, ha sempre sentito questo coesistere in sé di due anime come una discordia che andava composta. Ora l’una ora l’altra delle due anime ispira e guida il suo canto; ma la vera anima genitrice della sua dote e qualità di poeta è quella che gli viene dal padre cristiano come egli apertamente riconosce in un sonetto della sua Autobiografia. Mio padre è stato per me «l’assassino » fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. Allora ho visto ch’egli era un bambino e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto. È «l’altra metà» di Saba, l’anima nuova e leggera, capace di sfuggire «come un pallone» di mano alla tristezza, a quella millenaria desolazione del sangue sulla quale, a mio avviso, la critica ha troppo insistito a scapito della capacità di consolazione e di gioia, di comunione e d’amore che certamente era in lui. Trasferite in canto, le anime di Saba divengono le due voci – la serena e l’ansiosa – che senza fine si rincorrono e si contrappongono nella sua opera: le «care voci discordi» che il poeta concilia in un sentimento di volta in volta più puro, in un accordo grado a grado più alto. Come i parenti mi han dato due vite, e di fonderle in una io ne fui capace, in pace vi componete negli estremi accordi, voci invano discordi. Ancora nessun segno di quel sofferto dissidio nel sonetto natalizio del poeta diciassettenne; ma vi è già il preannuncio di quella voce serena e suasiva, fiduciosa e ottimista che diverrà poi una delle due voci dialoganti delle sua poesia. E non per il diretto richiamo a Gesù, ma per i pensieri di «speranza buona» che la Santa Notte suscita nell’anima «del giovane che ama e che perdona», onde egli gusta quell’agognata serenità («Una serenità quasi perfetta...») verso la quale Saba guarderà poi sempre, nell’ulteriore sviluppo della sua opera, come al premio più ambito e più raro. Forse non è senza significato che il poeta, ormai vecchio, quasi al termine della vita, abbia voluto farci conoscere quei versi, d’ispirazione chiaramente cristiana, della sua remota adolescenza. Anche per questo, senza volerne estendere ed accrescere la portata, mi è parso giusto additarli ai buoni amici della poesia. Angelo Barile
. « Persona », Roma, viii, n. --, luglio – agosto – settembre , p. Vigilia
il volto affabile delle parole
Questa prefazione al volumetto di versi Vigilia di Adriano Sansa è uno degli ultimi scritti, forse l’ultimo, di Angelo Barile. Prima che all’autore io vorrei, se è permesso, fare i miei complimenti agli editori di questo volumetto di versi. Non solo per la chiara eleganza della veste alla quale accrescono pregio e attraenza i vividi disegni di quel suasivo pittore-poeta che è Guglielmo Bozzano. Non solo per questo, ma per la sostanziale validità della scelta. Quando i Sabatelli un anno fa diedero avvio con La Colombera di Silvio Riolfo a questa loro collana che riservata ai giovani s’intitola appunto «Opera prima », c’era da chiedersi come avrebbero potuto poi proseguirla senza venir meno troppo palesemente a quel felicissimo inizio. Il libro di Riolfo poneva già un limite, segnava un’esigenza di serietà e valore cui non sarebbe stato facile in qualche modo adeguarsi. Ecco ora invece la breve raccolta di un altro giovane che prende degnamente posto in questa collana necessariamente rara e severa. Nato a Pola di famiglia istriana, ma ligure ormai di elezione e di vita, Adriano Sansa è uno di quei giovani (per fortuna ce n’è ancora) i quali si muovono in un clima d’intelligenza umana e di nobiltà morale: radicati nella loro fede religiosa, attenti alle cose dello spirito, sensibili ai richiami di una coltura che non contraddice le ragioni del cuore. A questa disposizione naturale Sansa aggiunge non so che vivezza e singolarità del carattere, una certa autonomia di giudizio e di gusto che lo distingue tra gli stessi suoi coetanei. Pure scrivendo versi non è un letterato; e anche per questo son lieto di porgere al suo libretto il mio benvenuto. Lo faccio tanto più volentieri in quanto queste poesie le ho viste, posso dire, nascere sotto i miei occhi, quando il giovane amico me le faceva leggere su quei fogli volanti ancora freschi d’inchiostro... E ogni volta mi pareva che venissero via via a comporsi nella coerente unità di un diario : nell’intimo, poetico diario dei suoi affetti familiari, dei suoi pensieri d’amore, e di certi trasalimenti, di certi sussulti della sua sensibilità e partecipazione umana. Vi sentivo, cioè, prima e più ancora che un interesse estetico, un valore di vita, un valore di anima, la confessione genuina di un giovane che scopre e illumina a se stesso il suo mondo interiore. Perché, a essere schietto, nei versi di Sansa raramente trovavo particolari pregi espressivi: non il rigore della parola, né l’individualità di un accento, né la sommessa persuasione di un canto. Il suo discorso poetico è per lo più corrente, tenuto su toni bassi, conversativi, come del resto è nel gusto di quasi tutti coloro che oggi scrivono versi. E tuttavia nelle sue poesie trovavo, a compenso, altre qualità, altre doti capaci di dare luce e rilievo alla pagina: la novità dell’ispirazione, l’originalità dei motivi e quella ricca vena inventiva che si direbbe connaturata al suo ingegno tanto gli è propria. C’è qualche volta in lui un moto impreparato, uno scatto che sorprende il lettore e che piace. Se la fantasia è l’apparizione improvvisa e spontanea di un pensiero o di un sentimento e rivela per ciò stesso una nascosta energia, è veramente sotto il suo segno che il giovane Sansa ha posto la sua poetica. Ma non è, si badi, una fantasia di aspetti e figurazioni esterne; al contrario essa è volta a chiarire quei moti e baleni che talora sommuovono il misterioso fondo dell’animo. Vogliamo dar qualche esempio? Nella penombra dell’ospedale, una sera estiva di pioggia, accanto al suo vicino di letto che aspetta di morire, il poeta invoca per lui dal Signore una tenerezza d’erba e di puri lavacri, così che «il poveretto / si senta scivolare lungo il prato, / disperdere nei rivi d’acqua fresca / sotto gli abeti, e a sera si raccolga / in un angolo quieto al cimitero» (Il mio vicino). Un’altra volta, mentre finge tra la gente di aspettare anche lui la corriera, appena rimasto solo scavalca lì «presso il muretto dell’aiuola e / a piene mani come quando andava / in giro coi compagni a rubar mele, / afferra fiori a ciuffi e fugge via» (Ladro). Sia detto di passaggio: avviene anche, qualche volta, che l’estrosa impennata sconfini, per eccesso, nella bizzarria ; così in Tre di notte, allorché bussa alla porta dell’arciprete per chiedere le chiavi della chiesa : vuol suonare «il vecchio organo addormentato» e dare a tutti l’annuncio che nella valle è tornata l’estate, sì che tutti accorrano e cantino gioiosamente insieme. Le più belle poesie qui raccolte – tutte rapide e brevi – sono poesie d’amore: di un amore al suo sboccio : limpido, fresco e gentile, che ha le trepidazioni e le iridescenze delle cose di primavera. È stato detto che la poesia viene messa accanto all’amore quasi sorella e con l’amore congiunta e . Nota della redazione di «Persona ». Vd. Adriano Sansa, Vigilia, Savona, Sabatelli, .
paolo senna
fusa in un’unica creatura, ma solitamente la poesia d’amore o è ancora accensione di sensi o è già rimpianto nostalgico. Né l’uno né l’altro di questi due estremi momenti nei versi di Sansa. Il suo amore è giovane, è vivo, e sono giovani e vive le stesse fugaci malinconie che talora lo screziano appena. Vi si esprime, anzi, una certa animazione e allegria. Così quando, a sera, lasciato il suo amore, il poeta si sente solo e immalinconito «alla squallida mensa in trattoria», poco gli basta a vincere quel suo gentile sconforto: «Ma appena mi rallegrano i colori / del canestro di frutta, prendo in mano / l’arancia più vivace e nella scorza / furtivamente incido il caro nome» (L’Arancia). A differenza di tanti, di troppi giovani che quando «fanno poesia» si ammantano di una cupa e quasi irrimediabile tristezza, Adriano Sansa ricusa quell’abito e rifugge dalla desolazione – o dalla moda – dell’angoscia. Non è piccolo merito, se è vero ciò che scrive il Leopardi che la poesia consiste essenzialmente in un impeto e deve accrescere e rinfrescare la nostra vitalità. Ma io non vorrei, prima di chiudere quest’esile libro, additare soltanto la delicata trama dei versi d’amore del giovane Sansa. Altri ve ne sono, ricchi di palpito, che forse segnano i suoi veri momenti di grazia. Il buon lettore di poesia cerchi le pagine che s’intitolano Istria – Voi due, soli – Il figlio. Pagine propriamente liriche, le quali sono anch’esse una testimonianza d’amore: alla propria terra perduta, alla famiglia lontana, alla virtù rinnovatrice della preghiera, chi le ha scritte ha forse toccato con semplicità e immediatezza il difficile, misterioso approdo della poesia. Angelo Barile . « Persona », Roma, viii, n. , novembre , pp. - Confidenziale Studente di liceo con Sbarbaro, furono le sue poesie che mi avvicinarono a lui nel gruppo dei condiscepoli che poi si fecero editori di Resine. Fu la nostra scoperta: una cosa di primavera. Il compagno forse più inosservato, certo il più silenzioso e il più schivo, fu subito al centro della nostra attenzione. Un’ingenua compiacenza come se le sue poesie fossero in qualche modo anche nostre accresceva ogni volta il nostro stupore e trasporto. Chiuse nel loro giusto vestito di rime, passavano ammirate in mezzo a noi, più adulte di noi, e da un banco all’altro andavano a sfiorare la cattedra. Dalla cattedra assentiva, incoraggiava discreto Adelchi Baratono, giovane e amico dei giovani, ornato, elegante, che in luogo della poca o nessuna filosofia che ci andava insegnando, forse ci apriva a un certo gusto dell’arte. Il libretto uscì più tardi e ci parve anche per la veste una meraviglia. Ma la mia recensione a puntate, che Sbarbaro ha ricordata, fu naturalmente severa, con caute lodi alternate a riserve: un modo giovanile di darmi importanza e non toglierne al libro. Vedo ancora sulla copertina di Resine (fui io a volere quel titolo) il pino nel vento piangere dalle sue ferite: immagine forse non impropria a quella che doveva poi essere la vera poesia di Sbarbaro. Quando venne Pianissimo e seguirono i primi Trucioli, credo di essere stato il lettore «di assaggio », l’amico a portata di mano al quale l’autore passa la pagina ancora fresca d’inchiostro per leggergli in viso la prima impressione. Cose remote, che valgono solo per me; e farei meglio a lasciarle. Un’amicizia che ha l’età della nostra teme il pericolo dei ricordi: dei ricordi che a un certo punto fan ressa e prendono il posto dei pensieri. Vorrei che non fosse ancora il momento. Ma forse ci salva il sentimento che abbiamo della nostra diversità che l’amicizia non ci ha mai nascosta. Così se parlo di Sbarbaro e della sua vita è come se parlassi – in contrappunto – anche a me stesso; che è un modo onesto di essere amici. Da alcuni anni Sbarbaro si è ritirato con la sorella, nella casetta dei suoi vecchi a Spotorno, in . Leopardi, Zibaldone, cit., , vol. , p. : «Che può avere a che fare colla poesia un lavoro che domanda più e più anni di esecuzione. La poesia sta essenzialmente in un impeto [...]. I lavori di poesia vogliono per natura esser corti». . Testo precedentemente apparso su «La Fiera letteraria», Roma, xxxix, n. , novembre , p. , poi in « Il giornale d’Italia», Roma, - luglio , infine col titolo Testimonianza per Camillo Sbarbaro, in Barile, Incontri con gli amici, cit., pp. -. . Vd. Angelo Barile, Resine di Camillo Sbarbaro, «Il Cittadino», Savona, xlii, , luglio , p. ; , luglio , pp. -; , luglio, , pp. -. Anche con una nota di Domenico Astengo, «Resine », Savona, n. , ottobre-dicembre , pp. -.
il volto affabile delle parole
quella parte, su in alto, dove il paese si fa povero e, stretto alla terra, dimentica il mare: uno dei « pezzi » ancora illesi e più schietti della nostra adorabile Liguria. «Forse un giorno, sorella, noi potremo / ritirarci sui monti, in una casa / dove passare il resto della vita». In quella povertà e quiete temo che Sbarbaro ora guardi alla vita con l’animo di chi se ne sente già fuori. Ma la ringrazia di quanto gli ha dato. Con lui che l’invocava smarrito, disperato di esserne escluso, la vita è poi stata amica, poco gli ha fatto mancare. «Giovinezza tardi venuta, come mi piaci! ». Infatti a un certo punto, perduto un po’ del suo torbido, la vita di Sbarbaro si addolcì in una stagione serena, che sembrò quasi ridente : aperta agli incontri, alle accoglienze sincere, alle colorate vacanze; ma specialmente viva di attente amicizie. Sbarbaro sa il numero e il pregio di questi doni. E il più caro di tutti, quello che a lui era sempre parso vietato. «Ma c’è un paese dove non potrò andar mai. Interrogo quelli che vi furono col mio più ansioso silenzio». Con mano leggera la vita ve lo ha accompagnato. Forse il poeta integro e puro restava ancor là, sulle soglie deserte che la vita aveva ormai oltrepassato. Ma se la poesia è il dono di Dio che non va messo in questo conto, va detto che Sbarbaro alla poesia è rimasto sempre fedele, ha ubbidito alla sua vocazione di poeta come all’unica legge: senza sbandamenti, senza contaminazioni di piccoli commerci letterari. In questo, egli che è l’uomo più svincolato del mondo, è stato di un’esemplare osservanza, di un’intransigenza così vigorosa da parere crudele. «A nulla ancorato» – e legatissimo al suo interno comando. Anche di questo è grato alla vita: di aver potuto fare, non importa a che prezzo, ciò che gli è proprio e più spontaneo, il lavoro scelto a se stesso come il più vicino al suo gusto ed ingegno: il traduttore, l’insegnante, il botanico, il giramondo, o che altro. Soltanto due cose confessa di aver fatto forzatamente: il servizio militare (ma nella prima guerra portò onestamente il suo zaino) e la vita d’ufficio quando fu per qualche tempo impiegato: il giorno che la ditta si trasferì da Genova a Roma Sbarbaro non accettò di seguirla e fu per lui, nel vero senso della parola, un giorno di festa. Ma straordinario il modo in cui già prima aveva preso un altro congedo, si era autolicenziato dalla scuola. Andato, o mandato, giovanissimo a Firenze per concorrere a non so quale borsa di studio, la mattina che s’incammina all’esame, Sbarbaro incontra per la sua strada un allegro corteo con musica in testa, e lui dietro, smemorato, preso nella corrente... Non gli restò che di venirsene a casa libero come un uccello. Alla scuola, quando poi vi tornò per insegnare seriamente ciò che aveva seriamente imparato da sé, a tu per tu con i testi: senz’altro titolo che la conoscenza e l’amore per la materia. Sbarbaro si è aiutato a vivere traducendo e dando lezioni di latino e di greco. Non so il lavoro di traduttore, ma quello delle lezioni non è propriamente un lavoro, tanto lo fa di suo genio. Fatica senza fatica. L’impegno, lo scrupolo che vi mette è solo eguagliato dal piacere che prova e che partecipa vivamente ai suoi allievi. Non ho mai assistito a una lezione di Sbarbaro e non so come avviene questo mezzo miracolo d’incantare i ragazzi insegnando grammatica. Ma certo vi ha parte quella umana intelligenza e bontà che pure nella sua poesia è così inconfessata. Ristampato Pianissimo, ora Sbarbaro ha già licenziato le sue Rimanenze e tra poco metterà fuori anche gli ultimi Spiccioli (sempre quei titoli). Siamo dunque al congedo. Il poeta si accomiata con brevi parole, con brevi saluti, poiché il discorso importante è già fatto da tempo. Caro Camillo, chi ha sempre posto Pianissimo in cima alla tua poesia ha visto con soddisfazione riaffermata da altri quella sua preferenza che a lui veniva forse dal cuore. Ma gli è piaciuto più di tutto che in quelle due pagine premesse alla ristampa tu abbia rilevato così nettamente il centro ispirativo del tuo poema, isolandone il motivo dominante – la parola è tua – nel pensiero della morte di tuo padre. «Padre che muori tutti i giorni un poco...». L’interpretazione autentica che ce ne hai dato mi dice qualche cosa della tua anima vera, convalida l’essenziale innocenza e purità di quel canto. (Per questo, Camillo, quando tuo padre morì, hai potuto – e forse fui il solo a vederti in quell’attimo – mettere nascostamente sotto il suo capo, nella bara, il manoscritto ancora ignoto di Pianissimo; e perdonami se non so trattenere il ricordo). In premio, la ristampa ti ha ora portato alcune testimonianze di un’estrema attenzione e ade. Camillo Sbarbaro, Pianissimo, Venezia, Neri Pozza, ; Id., Rimanenze, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, ; Spiccioli è il titolo col quale vennero pubblicati singoli scritti su «La Chimera», «La Fiera letteraria», « Botteghe Oscure », « Officina », « Letteratura », e in seguito non adottato per la loro pubblicazione collettiva. Si veda Carla Angeleri e Giampiero Costa, Bibliografia degli scritti di Camillo Sbarbaro, presentazione di Dante Isella, Milano, All’Insegna del pesce d’Oro, , pp. -. . La porzione di testo fra parentesi, presente nella versione pubblicata sulla «Fiera letteraria», venne
paolo senna
renza ; e la più perspicace ti pone tra i precursori della moderna poesia dell’angoscia, nel panorama della maggiore lirica del nostro tempo. Nessuno è più lieto del tuo vecchio amico di questi e simili giudizi che allargano di tanto il significato della tua opera. Ma con altro animo egli scruta le pagine che dopo tanti anni non ha ancora finito di leggere : per trovarvi – negato da te in tanti modi, contraddetto da tante tue parole crudeli – il segno, che non vi manca, della tua carità. È il fiore che spunta tra le pietre della tua solitudine, nascosto nella tristezza delle tue macìe. So dove trovarlo. Anche per questo mi è caro che il tuo commiato dalla poesia sia quella tua lagrima per Benedetta. Angelo Barile . « Persona », Roma, xii, n. -, gennaio – febbraio , p. La messa di don Clemente Di Clemente Rebora ho un ricordo che vale molto per me, ma che forse può dire qualcosa anche ad altri. Un ricordo non del poeta, ma dell’uomo, anzi del sacerdote all’altare. Dopo la sua morte, avvenuta il giorno dei Santi del ’, chi ha parlato di lui, non meno che al poeta ha guardato all’uomo, tanto la sua umanità e la sua poesia scaturiscono insieme. Lo aveva già sentito appassionatamente Boine all’apparire dei Frammenti lirici al tempo della «Voce » (« ...qui c’è una fonte viva; qui c’è un’anima e un uomo...») ; e tanti altri dopo di lui. Ma la vita di Rebora, uscendo dal mondo, impoverendosi al mondo, si è poi arricchita della luce di Dio: in umiltà vera, in ardore di silenzio e di sacrificio. Approdato alla fede a quarantaquattro anni, entrato novizio nell’Istituto rosminiano della Carità a quarantasei, a cinquantuno sacerdote per obbedienza ai superiori. Sono i dati grezzi, e parziali, di una biografia che ci è stata illuminata di una luce di santità dalle ultime liriche religiose che Vann[i] Scheiwiller riuscì a strappare amorosamente a Rebora sul suo letto d’infermità. Il libro che le vide raccolte con altre minori uscì pochi giorni prima della sua morte e non si poté aprire senza un tremito di commozione. È il grido di un’anima nell’ultimo terreno colloquio con Dio. « La misericordiosa bontà di Gesù Cristo mi tiene ancor sempre sacerdote attivo: non potendo più celebrare il Sacrificio dell’Altare, mi fa celebrare il sacrificio della Croce». È il primo di alcuni pensieri premessi ai Canti dell’infermità. La data è del novembre . Quando io ebbi la fortuna di conoscere Rebora – in un incontro del tutto impreveduto ma che penso non casuale, anzi provvidenziale – don Clemente poteva ancora celebrare, e fu l’ultimo tempo, prima della lunga agonia che pare non lo lasciasse morire («Il mio pregare è divenuto una invocazione muta, interna, di ogni momento») e quell’altra forma di accesa preghiera ch’era per lui la poesia («Far poesia è diventato per me, più che mai, modo concreto di amar Dio e i fratelli»). Ero di passaggio a Stresa nell’ottobre del ’ e non pensavo per nulla a Rebora, che credevo al Calvario di Domodossola o in un’altra casa dell’Istituto. Pensavo a Rosmini. E una mattina, un po’ tardi, mi avviai al Collegio, su in alto, per rivederne dopo tanti anni la tomba. Mi accompagnava un vecchio amico estraneo al mondo delle lettere. Un inserviente ci guidò per anditi e stanze della espunta quando apparì sul «Giornale d’Italia» e fu in seguito ripresa per la pubblicazione su «Persona », i cui redattori con tutta probabilità trascrivono il testo dalla redazione della medesima «Fiera letteraria». . Testo più volte pubblicato e modificato : « Il gallo », Genova, dicembre , «Il giornale d’Italia», Roma, - marzo e, successivamente, in Barile, Incontri con gli amici, cit., -, con il titolo La messa di don Clemente Rebora; infine in Angelo Barile e Margherita Marchione, Ricordo di Rebora, Vicenza, La locusta, . «Mi ha addolorato la morte di Clemente Rebora, anche se si sapeva da tempo che agonizzava e soffriva di “non poter morire”. Mi pare di averti raccontato, quando tu sei stato qui, come l’ho conosciuto, qualche anno fa, a Stresa, nel collegio rosminiano ; nel modo più impreveduto: mentre diceva Messa nella chiesetta dove è sepolto Rosmini. Era un santo. La sua vita era una cosa sola con la sua poesia, e valeva anche di più» (lettera a Antonio Pinghelli da Albisola del novembre , in Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, cit., p. ). . Giovanni Boine, Plausi e botte, a cura di Mario Novaro, Modena, Guanda, 3, pp. -, a p. . . Clemente Rebora, Le poesie (-), a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller, Milano, Garzanti, , p. . . Ibid. . Ibid.
il volto affabile delle parole
Chiesa del SS. Crocifisso. Vi entrammo dalla parte dell’altare. All’altare celebrava un vecchio prete assistito da un giovane. Non c’era nessun altro a quell’ora, e la chiesa pareva più vasta e più nuda. La Messa era appena al principio e ci fermammo a sentirla nella prima fila dei banchi. Il sacerdote celebrava lento, con assorto fervore, con intensa partecipazione, pronunciando bene le parole che in quel silenzio, in quella pace, meglio che chiare giungevano vive, animate. Ma nell’inginocchiarsi, nel passare da un lato all’altro dell’altare piegava un po’ da una parte, i suoi movimenti erano visibilmente impediti[: si sarebbe detto che avesse ai fianchi il cilizio]. E quando si voltava verso noi anche il suo viso – un viso nobile, illuminato dagli occhi – era di sofferente. Al Domine non sum dignus io sentii distintamente i tre colpi risuonare sul suo petto. Finita la Messa, e tornato il ragazzo presso l’altare, mi avvicinai per chiedergli della tomba di Rosmini e non potei trattenermi dal dirgli: ma quel povero sacerdote è malato. Mi rispose che soffriva da circa un anno per una paresi; poi quasi esitando, con timida grazia: «Eppure quel Padre è stato un poeta dei più noti d’Italia». Non aggiunse il nome e non era ormai necessario. Mi precipitai a cercare don Clemente, a baciargli la mano, mentre era ancora in preghiera dietro l’altare. Usciti di chiesa non so bene che cosa gli dissi: credo soltanto che ero venuto lì per Rosmini. Egli ne fu contento, s’illuminò di un sorriso nel volto emaciato, prese a parlarmi del suo santo Fondatore e delle onoranze centenarie che proprio allora si stavano preparando. Non ci dicemmo forse altro. E non mi venne neppure il pensiero di toccare altri argomenti. Impossibile, assolutamente impossibile dopo quella Messa. Fu ancora così quando da casa gli scrissi e lui mi rispose soltanto come sacerdote. Fino alle ultime scarne parole di benedizione, dettate, ma non più vergate da don Clemente: «Stresa, ottobre ’. Grazie per le intime e tanto affettuose parole: le serbo anche se dal letto della mia infermità, sfinito. Assai ti benedico, don Clemente Maria Rebora». La sua benedizione è molto più che un ricordo: viva, nel cuore, da quel giorno che levò la mano a benedirmi, nella chiesa deserta, il vecchio sacerdote ancora a me ignoto. Angelo Barile Aggiornamento bibliografico In questo spazio si è tentato di recuperare gli scritti di e su Barile apparsi nell’ultima quindicina d’anni, tenendo anche conto delle più o meno distese trattazioni comparse in antologie o in storie della letteratura. Per i contributi anteriori al , eccezione fatta per le integrazioni, si vedano i circostanziati regesti éditi in Bibliografia degli scritti su Angelo Barile, a cura di Pino Boero e Stefania Silvestri, in La poesia di Angelo Barile, Atti del Convegno di studi (Albisola, - maggio ), Genova, «Resine », , pp. - e in Bruno Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, Savona, Sabatelli, , pp. -, nonché la Notizia bio-bibliografica in Angelo Barile, Risonanze (-), a cura di Simona Morando, Milano, Scheiwiller, , alle pp. -. Le pubblicazioni sono date in sequenza cronologica. Per le opere uscite nello stesso anno si è seguito l’ordine alfabetico. . Domenico Astengo, Angelo Barile prima della poesia, «Il Ragguaglio librario», Milano, lv, n. -, luglio-agosto , pp. -. . Angelo Barile, Leggere poesia, con una nota di Giovanni Farris, «Sabazia », Savona, , n. , pp. - . Aurelio Benevento, Saggi su Barile, Napoli, Loffredo, . Enrico Bonino, Come conobbi Angelo Barile, «Il Ragguaglio librario», cit., pp. -. . Giorgio Cavallini, Strutture tendenze esempi della poesia italiana del Novecento, Roma, Bulzoni, (il capitolo Barile e il colloquio con i morti, pp. -) . « ...Il poeta Angelo Barile...» [interviste a Carlo Bo e Gina Lagorio], a cura di Bruno Rombi, «Il Ragguaglio librario», cit., pp. -. . La letteratura ligure, vol. : Il Novecento, parte ii, Genova, Costa & Nolan, , pp. - e -. . Fausto Montanari, Angelo Barile, «Il Ragguaglio librario», cit., pp. -. . Bruno Rombi, L’amico Angelo Barile attraverso due documenti epistolari, «Il Ragguaglio librario», Milano, lv, n. , pp. -. . La porzione testuale indicata tra parentesi quadrate appare in Barile, Incontri con gli amici, cit., p. .
paolo senna
. Umberto Silva, Barile, tra vita e poesia, «Il Lavoro», Genova, novembre . Stefano Verdino, Un lettore generoso con l’opera altrui, ibid. . Angelo Barile e Margherita Marchione, Ricordo di Rebora, Vicenza, La locusta, . . Angelo Barile, Ritagli di giornale, a cura di Giovanni Farris, Savona, Sabatelli, . Enrico Bonino, Ricordando Angelo Barile a cento anni dalla nascita, «Liguria », Genova, lvi, , n. , pp. - . Francesco De Nicola, Un Barile di poesia, «Il Lavoro», Genova, ottobre . Omaggio ad Angelo Barile, Atti del Convegno di studi, «Resine », Savona, n. , (contiene i saggi : Giorgio Barberi Squarotti, Angelo Barile e la poesia italiana del ’. Stile ed esperienza religiosa; Alberto Frattini, Angelo Barile: una voce ligure inconfondibile nella poesia italiana del nostro secolo; Giovanni Farris, Ideali e formazione civile in Angelo Barile; Giuseppe Amasio, Angelo Barile uomo e amministratore; Carlo Russo, Impegno civile di Angelo Barile; Enrico Bonino, Per Angelo Barile; Ritratto a più voci, condotto da Bruno Rombi; Francesco De Nicola, L’itinerario poetico di Angelo Barile; Domenico Astengo, Gli artisti di «Circoli »; Marcello Camilucci, Angelo Barile o dell’amicizia; Edoardo Villa, Angelo Barile, linee di una poesia; Giorgio Cavallini, Barile, il poeta che parla con le “anime care” dei defunti; Luigi Peirone, Alla ricerca dell’essenzialità lirica tra le varianti di Barile; Claudio Marchiori, Angelo Barile: due giudizi su D’Annunzio; Francesco De Nicola, « Primavera a Nervi», poesia inedita di Angelo Barile) . Bruno Rombi, Angelo Barile, l’ospite discreto, Savona, Sabatelli, (con testimonianze di: Minnie Alzona, Domenico Astengo, Emanuele Barile, Carlo Bo, Enrico Bonino, Giovanni Cristini, Vico Faggi, Giovanni Farris, Gina Lagorio, Antonio Pinghelli, Silvio Riolfo Marengo, Aldo G.B. Rossi, Adriano Sansa) . Bruno Rombi, Poesia come confessione, «Renovatio », Genova, xxiv, , n. , pp. - . Angelo Barile, Il genio di due popoli in guerra. Alcune lettere dal fronte, Savona, Sabatelli, . Elio Andriuoli, Il sentimento cristiano della vita in Angelo Barile, «Cristallo. Rassegna di varia umanità », Bolzano, xxxiii, n , , pp. -. . « Io sono un trovatore» [una lettera di Montale a Barile], con una nota di Domenico Astengo, «La Repubblica », Roma, settembre , pp. -. . Domenco Astengo, Il giudice segreto: Angelo Barile amico e lettore di poeti, in Archivi degli scrittori. Le carte di alcuni autori del Novecento. Indagini e proposte, Treviso, Premio Comisso, , pp. - . Francesco De Nicola, Angelo Barile: il dono della poesia, in Dal best seller all’oblio. Scrittori liguri nella letteratura italiana, Genova, Marietti, , pp. - . Bruno Rombi, Il mare Mediterraneo nella letteratura europea, «Journal of maltese studies», Malta, n. -, -, pp. - . Angelo Barile, « Circoli » anno primo, Savona, Sabatelli, . Angelo Barile, Agli eroi della guerra - (Discorsi). Ai sacerdoti defunti della mia parrocchia, Savona, Sabatelli, . Angelo Barile, La ragnatela delle parole. Epistolario Zingara-Barile, a cura di Giovanni Farris, Savona, Sabatelli, . Silvio Guarnieri, La linea ligustica, in Studi in onore di Antonio Piromalli, a cura di Toni Iermano e Tommaso Scappaticci, voll., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, , vol. , pp. - . « Nel sole breve». Il carteggio Angelo Barile – Anita Pittoni (-), «Resine », Savona, n , , pp. - . Domenico Astengo, Lettera di Natale: Camillo Sbarbaro, «Leggere », Milano, n , , pp. - [Una lettera di Sbarbaro a Barile] . Giorgio Cavallini, Barile e le «anime care» dei defunti, in Id., Parole d’autore. Usi stilistici da Boccaccio a oggi, Roma, Bulzoni, , pp. - . Domenico Astengo, « In un’istantanea ingiallita» : gli amici Barile, Grande, Sbarbaro, in La Liguria di Montale, a cura di Franco Contorbia e Luigi Surdich, Savona, Sabatelli, , pp. - . Una dolcezza inquieta. L’universo poetico di Eugenio Montale [ lettere e cartoline di Montale a Barile e una lettera di Sergio Solmi a Barile], Catalogo della mostra a cura di Giuseppe Marcenaro e Piero Boragina, Milano, Electa, , pp. - . Angelo Barile, Risonanze (-), a cura di Simona Morando, Milano, Scheiwiller, . Giuditta Capella, Angelo Barile: poesia del margine, «Resine », Savona, n -, , pp. - [fascicolo dedicato a Barile, Sbarbaro e Grande] . Luigi Fenga, Quella che danza fuori musica e sola, ivi, pp. -
il volto affabile delle parole
. Simona Morando, In nome della poesia, in Barile, Risonanze, cit., pp. - . Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna, a cura di Roberto Deidier, Milano, Archinto, [alcune lettere dal carteggio Barile-Saba, pp. -] . Simona Morando, Il mondo senza sirene. I poeti liguri del primo Novecento di fronte a D’Annunzio, in Terre, città e paesi nella vita e nell’arte di Gabriele D’Annunzio, vol. v: Sogni di terre lontane: dall’ « Adria velivolo » al «Benaco marino», Pescara, Ediart, , pp. - . Salvatore Quasimodo, Carteggi con Angelo Barile, Adriano Grande, Angiolo Silvio Novaro. , a cura di Giovanna Musolino, prefazione di Gilberto Finzi, Milano, Archinto, . Rosalba Currò, Incontri e sodalizi in terra ligure: Barile, Quasimodo e Natoli, «Resine », Savona, n. , , pp. - . Vico Faggi, Da Montale a Barile, «Resine », Savona, n , , pp. - . Eugenio Montale, Giorni di libeccio. Lettere ad Angelo Barile, a cura di Domenico Astengo e Giampiero Costa, Milano, Archinto, . Bilancio della Letteratura del Novecento in Liguria (Atti del Convegno, Genova, - maggio ) a cura di Giovanni Ponte, Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, (le pp. - e -)
composto in carattere dante monotype, i m p r e s s o e ri l e g a t o i n i t a l i a , d a l l a a c c a d e m i a e d i t o r i a l e , pi s a ⋅ r o m a , * Marzo (CZ/FG)
Tutte le riviste Online e le pubblicazioni delle nostre case editrici (riviste, collane, varia, ecc.) possono essere ricercate bibliograficamente e richieste (sottoscrizioni di abbonamenti, ordini di volumi, ecc.) presso il sito Internet:
www.libraweb.net Per ricevere, tramite E-mail, periodicamente, la nostra newsletter⁄alert con l’elenco delle novità e delle opere in preparazione, Vi invitiamo a sottoscriverla presso il nostro sito Internet o a trasmettere i Vostri dati (Nominativo e indirizzo E-mail) all’indirizzo:
[email protected] * Computerized search operations allow bibliographical retrieval of the Publishers’ works (Online journals, journals subscriptions, orders for individual issues, series, books, etc.) through the Internet website:
www.libraweb.net If you wish to receive, by E-mail, our newsletter⁄alert with periodic information on the list of new and forthcoming publications, you are kindly invited to subscribe it at our web-site or to send your details (Name and E-mail address) to the following address:
[email protected]
BIBLIOTECA DELLA « RIVISTA DI LETTERATURA ITALIANA» Diretta da Giorgio Baroni * . Villa Angela Ida, Sergio Corazzini. Opere. Poesie e prose, , pp. . . Frare Pierantonio, Per istraforo di perspettiva. Studi sul Cannocchiale aristotelico e sulla poesia del Seicento, , pp. . . Rondini Andrea, Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura, , pp. . . Mazza Antonia, Fortuna critica e successo di Pier Paolo Pasolini, , pp. . . Riccobono Maria Gabriella, Dai suoni al simbolo. Memoria poetica, relazioni analogiche, fonosimbolismo in Giovanni Verga dalle opere ultra–romantiche a quelle veriste, , pp. . . Letteratura e riviste, a cura di Giorgio Baroni, , pp. .