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Italian Pages 209 [208] Year 2008
Gian Mario Anselmi
L'età dell'Umanesimo e del Rinascimento le radici italiane dell'Europa moderna
Carocci
LINGUE E LETTERATURE CAROCCI
/
90
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L'età dell'Umanesimo e del Rinascimento Le radici italiane dell'Europa moderna
Carocci editore
© copyright
3a ristampa, giugno 1015 la edizione, giugno 1008 2008 by Carocci edicore S.p.A.,
Roma
Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari ISBN
978-8 8-430-470J - I
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art.
171
della legge
22 aprile 1 9 4 1 ,
n.
633)
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lo dice
I.
Avvertenza
9
Introduzione. Le ombre e i volti: la dignità del Rinascimento
II
Conoscenza storica, ermeneutica letteraria e apprendistato politico tra Uma nesimo e Rinascimento
17
Bibliografia
2)
2.
Dante e l'interpretazione della storia
J.
l: eredità di Petrarca
4·
Petrarca e Cola di Rienzo tra lettere disperse e scenari romani
5·
Gli umanisti e la storia
p.
p.
Valla e la storiografia L: ideologia storiografica di Bruni
6.
Galeotto Marzio fra Umanesimo bolognese ed europeo
6.1. 6. 2.
L:umanesimo di Galeotto Il De homin e Bibliografia
7·
Una sponda adriatica deii'Umanesimo: la Romagna delle corti
8.
Impeto della fortuna e virtù degli uomini tra Alberti e Machiavelli
JI
57 57 66 100
II2
L' ETA DELL'UMANESIMO E DEL RINASCIM ENTO
9·
La sfida di Machiavelli
Ili
9.1. 9.1. 9·3· 9+ 9· 5· 9.6. 9·7·
Per leggere Il Prin cipe Le pagine proemiali dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio Guerra e conflitti in Machiavelli: per una lettura dell 'Arte della guerra Machiavelli, i Borgia e le Romagne Machiavelli, gli Orti Oricellari e la forza della giovinezza Machiavelli tra ferinità, polemica e sarcasmo: La Ma ndragola e non solo Machiavelli storico e l'insurrezione di Prato: tra narrativa e storiografia Bibliografia
Ili IJ4 I37 I4I I46 I5I I6I I66
Francesco Guicciardini: riflessione politica, esperienza vissuta e memoria storica
I68
II.
Letteratura ed editoria nel Cinquecento: spunti per qualche riflessione
I73
Il.
Letteratura e Mediterraneo: il caso esemplare della Liberata di Tasso
I77
I J.
Tasso, i classici e l'Umanesimo padano
10.
I Dialoghi di Tasso fra tensione etica e realismo politico
'5·
U lungo Rinascimento: letteratura e istituzioni nell'età barocca
I95
Indice dei nomi
lO!
Avvertenza
In questo libro ho fatto confluire in parte pagine già edite ma qui profondamente rielaborare e pa gine totalmente inedite, nell'intenzione, forse illusoria, di delineare un percorso coerente di in terpretazione e di lettura di Umanesimo e Rinascimento, seppure attraverso scandagli parziali ma che mi sono parsi significativi. L'idea prima di questo progetto e il lavoro di ricerca che vi è sol teso presero forma durante un proficuo periodo di soggiorno e di studi presso la Herzog-August Bibliothek di Wolfenbiittel nell'estate 2005 . Ho abbondato in note e bibliografia quando preteso da temi e personaggi non sempre frequentati (il caso di Galeotto Marzio); le ho diradate o esclu se quando era preminente la snellezza dell'assetto espositivo e ben noti i referenti.
Il libro è dedicato al ricordo di tutti coloro cui ho voluto bene e che non ci sono più: ombre e volti che abitano ogni giorno la mia mente e il mio cuore.
Bologna, maggio 2008
Introduzione Le ombre e i volti: la dignità del Rinascimento
I profili inconfondibili delle figure di don Chisciotte e di Sancho Panza fanno così parte del nostro immaginario, fin dall'infanzia, che è difficile parlarne con distacco: ogni epoca, e già dalle prime edizioni del r6o4 e del r6o5, ha riletto con passione e gusto quel romanzo e quelle storie, accen tuandone ora l'aspetto comico e carnevalesco ora quello drammatico ora quello utopistico e senti mentale. Più nettamente la critica novecentesca ha additato senza esitazioni il Chisciotte di fatto co me il primo, grande romanzo moderno: e in esso infatti convergono quella rapsodia irriverente de gli schemi, quelle contaminazioni, quel girovagare awenturoso (già evidente nei cinquecenteschi romanzi picareschi), quella "metanarratività" che diverranno rapidamente cifre precipue del ro manzo come noi lo conosciamo. Né va dimenticato che Cervantes giunge a comporre il suo capo lavoro già sessantenne e dopo una vita awenturosa e drammatica, durante la quale conobbe la guer ra, la schiavitù fra i musulmani ad Algeri, fughe rocambolesche, stenti, prigionia e solo tardivamente un po' di quiete e di fama. Apprendiamo, al cap. IX, che tale romanzo (che lunga storia prima di Manzoni ! ) l'avrebbe tratto da un manoscritto arabo comprato a Toledo e poi fatto tradurre da un moro che avrebbe alloggiato in casa sua per tale adempimento: così il romanzo che sta all'origine di tutti i romanzi occidentali moderni mostra già una natura rapsodica e inquieta se in piena età del dopo-Lepanto la sua struttura metanarrativa evoca, addirittura nella cristianissima Spagna, una pa ternità araba, dall'originario autore fino al traduttore ! E del resto proprio Toledo era stata nel Me dioevo un incubatoio brulicante di tradizione dei classici latini, traduzioni, biblioteche, libri, al l'incrocio di culture e religioni, cristiana, ebrea, musulmana. Cervantes perciò è figlio di quella com plessa storia spagnola e al tempo stesso nutrito di molte letture e di piena conoscenza della cultu ra rinascimentale italiana (basti pensare ai famosi poemi cavallereschi cari a don Chisciotte): uomo "mediterraneo" che conobbe, per esperienza diretta, il Mediterraneo degli scontri epocali dell'età di Lepanto, Cervantes incarnò nella sua stessa biografia il duro confronto con la realtà delle cose per un verso e per l'altro con la "fuga" da essa attraverso la passione intellettuale e letteraria (egli è scrittore infatti anche di novelle straordinarie e significativi testi teatrali) fino alla critica, anch'essa risalente alla cultura italiana owero all'antipedantismo cinquecentesco, della letterarietà come esangue esasperazione libresca. Don Chisciotte è un povero sognatore o un grande utopista? La potenza della immaginazione letteraria che lo spinge alla follia ha valore o è un danno? I perso naggi, a cominciare da Sancho Panza, che ne rappresentano il controcanto realistico e popolare, lo amano o ne hanno solo pietà? In realtà già Cervantes, nella seconda parte del romanzo (edita nel r6r5) e consapevole della fama della prima parte, gioca con lettori e personaggi, costruendo uno dei più memorabili tasselli di "metanarratività" di ogni tempo e fornendoci chiavi di accesso per leg gere il suo testo ma anche per dirci che ognuno, come fanno i suoi stessi personaggi con lui (e Chi sciatte per primo) , può smentirlo e awiarsi verso proprie strade. Owero: Chisciotte che muore "saggio" e rinsavito in realtà ammicca all'autore e a noi fino alla fine, lasciando in sospeso il senso della sua stessa esistenza. La sua saggezza è persino un po' erasmiana, owiamente dell'Erasmo del l' Elogio della follia o del Leon Battista Alberti del Momus e delle Intercenales (siamo, con Cervan-
12
L' ETA DELL' UMANESIMO E D E L RINASCIMENTO
tes, e non è casuale, in Italia e a Bologna e dintorni, proprio negli anni di Giulio Cesare Croce e del suo Bertoldo o di Pompeo Vizzani primo volgarizzatore nostrano del Lawrillo con la figura di Bar tolino o poco più avanti della gustosissima Cicceide legitima di Giovanni Francesco Lazzarelli, al trettanto ammiccanti, spiazzanti e carnevaleschi nel parlarci): tale forma di saggezza è il frutto dei "mulini a vento " e la piccola Mancia è territorio del mondo. Così le silhouettes, le ombre di Chisciotte e Sancho Panza hanno intrigato filosofi e scrittori, bambini e teatranti, carnevali (il travestimento alla "Chisciotte e Sancho Panza" era comune nei carnevali spagnoli e sudamericani fin dal Seicento) e pulpiti. L'uomo moderno ha colto in quella straordinaria opera la sua stessa cifra, irresoluta al confine tra utopia e disincanto, favola e realtà, rappresentazione mimetica e rottura di ogni figuralità normativa, ragione e sana follia (il Chisciot te è un ossimoro fin dalla prima pagina), saggezza e vertigine tragica sul male del mondo. Di qui il tracimare della grande opera di Cervantes verso infiniti altri percorsi e linguaggi oltre quelli stret tamente letterari o filosofici: la grafica, l'illustrazione di testi, la pittura, la scultura (straordinari certi Chisciotte moderni di molti scultori, da Rodin a Brancusi) e owiamente il cinema. Più o meno in quegli stessi anni un altro testo fondativo della modernità si affolla di ombre e di spettri e ci interroga sull'incomprensibile tragitto del nostro esistere, Amleto di Shakespeare. Già Borges in una pagina famosa aveva notato il gioco di sottili ambiguità che accomuna le strut ture delle due opere, narrativa e metanarrativa l'una, teatrale e metateatrale l'altra, capaci entram be di attrarre il lettore e di spaesarlo, dissolvendo ogni pretesa di certezze inossidabili proprio nel farsi di pagine brillanti, altissime, dove la luminosa potenza affabulatrice della letteratura e del l'arte sembra non avere eguali eppure contestualmente dice della fragile consistenza del tutto. E di lì a non molto uno dei massimi pittori di tutti i tempi, Rembrandt, attraverso una serie stra ordinaria di ritratti e autoritratti ci porge l'uomo, l'individuo come apparizione folgorante nelle te nebre, come attimo luminoso che dal nulla si inoltra verso il nulla. La particolare luce dei suoi ri tratti è in un certo senso pura frlosofia, non ha nulla di bozzettistico né si nutre del realismo fiam mingo del quotidiano o di quello tragico e dolente di matrice caravaggesca: egli va come oltre dan do la pittura del noi come parvenza, come evanescere, come luce folgorante dell'esserci fra le tene bre da cui improwisamente emergiamo e che ci attendono nello sfondo che circonda i volti prima di tornare a essere ombre. Ma tutto sommato la squillante luce dei corpi di Rubens non ha come sottinteso una titanica lotta con le tenebre che li presuppone? O in Velazquez l'irruzione del rega le e del sacro nell'effimero del quotidiano e viceversa attraverso un inedito e continuo gioco dei "fuochi" ottici e dei punti di vista non ci racconta simile percezione del vivere? Si dirà: è la natura propria della stagione barocca; e di quella grandiosa stagione europea si sono citati alcuni dei mas simi protagonisti. Eppure, nel tardo Cinquecento, un testo difficilmente classificabile quanto al ge nere ma sicuramente viatico di saggezza ineguagliabile e di gusto narrativo senza pari, gli Essais di Montaigne, aveva raccontato, fra le macerie delle guerre di religione in Francia e in Europa, di sa peri tolleranti, di curiosità per uomini colti nella loro fragilità e nella loro follia ora benevola ora di struttrice, di consapevole dignità del conoscere come racconto di contraddizioni, come introspe zione nell'uomo assunto nella luminosità che può appunto farsi rapidamente ombra; il tutto senza squilli né fanfare, con il solo ausilio di un sapere antico e moderno al tempo stesso, quello che il con temporaneo Tasso gli aveva insegnato, quello dell'Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento. In sostanza, in pochi decenni, tra Cinque e Seicento intere generazioni di artisti, fra i maggio ri cui guardi la modernità per investigare le sue radici, dialogavano in tutta Europa con la straor dinaria eredità del sapere umanistico e della sua cifra letteraria e artistica. Rembrandt è anche fi glio infatti del Tiziano che aveva allogato la sua lezione nel Settentrione d'Europa, come il Vero nese del resto (e che avrà lunga vita fino a Tiepolo); e così la trafila letteraria che arriva a Ronsard, a Du Bellay, a Montaigne e a Shakespeare si situa in una storia antica, di Dante in serrata compe tizione con i saperi che giungono da Parigi, di Petrarca toscano e italico e europeo tra Avignone e
INTRODUZIONE
Praga con i suoi corrispondenti tra Baltico e Mediterraneo. La cifra mediterranea e araba d'Italia e di Spagna (così peculiare in Cervantes) è al tempo stesso nell'Umanesimo e nel pieno Rinasci mento in costante, imprescindibile scambio con l'Europa del Nord. Né sarà casuale del resto che il Rinascimento che oggi frequentiamo è stato come risillabato e riportato a noi in età moderna, a cominciare da Goethe e poi fino a Burckhardt e oltre, dalla grande cultura tedesca dell'Ottocen to. Come a dire che la moderna civiltà europea si dispone su un fertilissimo pendolarismo tra Me diterraneo e Borgogna, Fiandre fino al Baltico non disgiunto da un altro asse che si snoda dal l'Occidente atlantico all'Adriatico e che guarda all'Oriente. È così che possiamo forse meglio com prendere le grandi capitali rinascimentali italiane, collocandole all'interno di questi tragitti cultu rali, artistici, antropologici, Firenze e Venezia innanzitutto e owiamente le corti padane accanto a Roma e Napoli. ll crogiuolo e l'impasto che il tardo impero romano aveva lasciato, e come bene ci hanno insegnato, con i loro scavi sulle "lunghe durate" in letteratura, Auerbach e Curtius, pur at traverso grandi fratture e aperture di nuove faglie da nord (dai longobardi ai normanni) a sud (l'im ponente dominio arabo) , stanno ai primordi della geografia culturale che qui esaminiamo e che co sì potentemente ha segnato l'età rinascimentale (e proprio Tasso fu tra i più geniali interpreti di questa geografia e delle sue cifre emblematiche). Non è stato così improprio allora partire dalla stagione barocca per presentarci al cuore dell'Umanesimo (e nel libro percorreremo invece nella direzione opposta e più tradizionale il tragitto): occorreva mettere infatti a fuoco alcuni punti del la moderna riflessione per farne meglio sbalzare i contorni che calcano l'originaria loro dignità (e in senso proprio e in senso vichiano) rinascimentale. È una dignità che si nutre certo della profonda rivisitazione della tradizione classica antica ma, come già in molti hanno autorevolmente argomentato, non è affatto nell'unica cifra classicista che si chiude la fisionomia di quella stagione: Umanesimo e Rinascimento vanno declinati al plurale, e per le mappe del loro articolarsi nelle varie città e per la rete intricata e intrecciata dei saperi mes si in gioco. Che è poi appunto peculiarità cui oggi ci richiama George Steiner per sfidare il mon do contemporaneo all'edificazione di un nuovo Umanesimo. Così, proprio in quella temperie italiana tre-cinquecentesca, e in particolare a cominciare dal la lezione del Petrarca latino, per secoli maestro di riferimento come pensatore non meno che co me poeta, si dipana una riflessione tra le più grandi nella storia della filosofia morale di tutti i tem pi intorno alla caducità umana, alla sua fragilità di fronte alla storia nel suo ambiguo intreccio di conquiste e di ferocie, fragilità di fronte alla natura e alla fortuna (Leopardi fu lettore espertissimo di quella letteratura come poi Nietzsche), coniugata però con una fiera consapevolezza di poten zialità irriducibili date all'uomo: l'approdo a Machiavelli è significativo e la scoperta del terreno peculiare della politica e della prassi è cadenzata da tappe di pensatori vigorosi e caparbi, allogati su una tavolozza variegata di posizioni che ritroveremo poi al sorgere, nel Settecento, delle mo derne istanze delle comunità in Occidente, tra Francia, Stati Uniti, Inghilterra ( il ). L'entusiasmo civile, radicato in una originale perizia storiografica, di Coluccia Sa lutati e di Leonardo Bruni si intreccia con la potente lezione di ermeneutica filologica di Valla: ma lo stesso disincanto politico e morale di Leon Battista Alberti non ci deve far dimenticare il suo co stante, appassionato impegno di "edificatore" di opere architettoniche come di modelli antropo logici ( da I libri della famiglia al De iciarchia) in agone con i marosi interni ed esterni propri del l'esistere, le tempeste in cui sempre l'uomo rischia di soccombere. Si fa strada, fino al culmine leo nardesco e machiavelliano, un progetto di morale ispirato alla romanitas (e quanto peso, anche per ciò, assunse la grande ricerca di un archeologo militante come Flavio Biondo ! ) , di sfida luminosa seppure temporanea dell'uomo e del suo volto più coraggioso al mondo delle ombre, a partire per sino dalla sua stessa consustanziale natura ferina piena di vitalismo e di baldanza ma anche di fe rocia e di aggressività. Ombre che spesso già offuscano il dipanarsi della società civile, sgretolan done gli statuti antropologici elementari: da Alberti a Machiavelli a Guicciardini a Erasmo quan-
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L' ETA DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO
te pagine evocano la corruzione, la violenza fratricida e insensata delle fazioni e delle tirannidi, il degrado delle istituzioni e della stessa Chiesa, l'invidia che prende un volto emblematico con la de nigrazione gratuita dell'awersario, con il " dir male" come cifra di lotta spietata per il potere per sonale (si pensi all'esito geniale di tutto ciò nello lago shakespeariano). L'antidoto che la riflessio ne morale laica rinascimentale vi appronta è proprio quello della figura del politico realista ma ma gnanimo, della giusta ambizione in grado di salvaguardare la respublica, della lezione della storia con i suoi eroi positivi come Scipione, del disciplinamento come apprendistato di armi e di lette re, di forza e di leggi: Machiavelli in sostanza, con il suo realismo talora spietato (il suo Scipione moderno è a un certo punto per lui il feroce Valentino) non certo disgiunto dall'utopia di un go verno nuovo delle cose e degli Stati. Ma tutto ciò esige un apprendistato di saggezza di formidabile complessità. Ed è qui che si inarca un'altra grande lezione dell'Umanesimo: la complessità del mondo e del vivere è discorri bile solo attraverso saperi plurali, affabili, antidogmatici, dialogici owero esperibile in primo luo go attraverso la letteratura, la tradizione delle antiche e rinate humanae litterae greche e latine. La letteratura (e per tutti già Dante aveva drasticamente in questi termini awiato le procedure) è luo go precipuo di conoscenza al pari delle altre discipline, quando non superiore, è fonte di sapere essenziale per raccontare la complessità del mondo e dell'esistere, la loro irriducibilità a formule stereotipe, è appunto il luogo, insieme alle arti figurative in primis, che dà conto dell'ombra e del la luce (e appunto si giunge a Rembrandt), come si va dispiegando ad esempio nella pagina lieve e sublime di Ariosto o in quella drammatica e sofferta di Tasso, maestri indiscussi dell'intera intel lettualità europea fra Sei e Settecento. Ma può essere anche il luogo dell'inganno se l'apprendista to diviene libresco e vanitoso, superfluo e illusorio: la stagione umanistica elabora un raffinato con trocanto dissonante capace di bilanciare i suoi stessi presupposti con la critica dei loro eccessi ( con approdo in questo caso a Guicciardini e magari a un certo Chisciotte) . Straordinaria in questo sen so l'esperienza dell'Umanesimo bolognese di Galeotto Marzio, di Beroaldo, di Codro, straordina ria proprio perché insediata nel cuore dello Studio universitario più antico e illustre, nel cuore cioè dei saperi "forti " e in particolare di quegli studi di diritto cui, passando per Bologna, si alimenta rono per secoli le élites di tutta Europa. Così come straordinaria in questo e in altri sensi fu l' espe rienza che da Venezia e dall'Aretino e dalla comunità degli antipedanteschi e fino a Giordano Bru no si dilatò ovunque giocando a molteplici livelli l'enorme portata della stampa: veicolo per circo li ampi di fruitori e lettori di tutta la tradizione letteraria classica e moderna e al tempo stesso stru mento di battaglia culturale e polemistica di efficacia micidiale ( come ben si sperimenterà in Eu ropa, per altri versi, con Lutero). La stessa duplicità di codici comunicativi messa in campo, il la tino e i volgari, le traduzioni dei classici o le invenzioni ad essi ispirate, !ungi dall'essere confina bile in un dibattito di nicchia sulla questione della lingua, è in realtà il segno tangibile di un plu rale che non può ridursi a codici unici e singoli ma ne pretende una tavolozza più compiuta e va riata (ivi comprese le pagine raffinate in neogreco umanistico o le contaminazioni macaroniche che transitano tra Folengo e Rabelais) così come è evidente anche nelle arti figurative. E il latino clas sico rivisitato dal magistero dei Valla o dei Bracciolini resta a lungo codice vivissimo che scambia le sue linfe con l'opera di volgarizzatori e traduttori, di poeti e di trattatisti, vera forma moderna del comunicare scientifico e letterario, fùosofico e pragmatico. ll moderno disciplinamento con le sue procedure (perfino con la Ratio dei gesuiti) ha le sue radici perciò nel Rinascimento italiano e nelle humanae litterae che l'hanno forgiato, nella pratica di straordinario impatto poetico non meno che antropologico rappresentata dalla lunga stagione del petrarchismo europeo con epicentro nella Pléiade, nella lezione laica della conversazione cara a Castiglione e Della Casa, a Guazzo come al Tasso dei Dialoghi; nella consuetudine di una lette ratura in dialogo con i saperi e le arti tutte, in bilico tra lezione dei classici e aperture audaci sulle frontiere vertiginose della modernità, come si vedrà con Galilei, o degli abissi irredimibili del cuo-
INTRODUZIONE
15
r e interrogati d a Pasca! (entrambi contemporanei degli altri protagonisti della stagione barocca con cui abbiamo awiato il discorso). Tra questi campi di forze si dipana la stagione rinascimentale, una stagione dawero di "lunga durata " e, come altrove sostenni e in altri capitoli qui ribadisco, una lunga durata che assegna al la letteratura in Italia e in Europa per secoli la dignità piena della saggezza. Da questa tensione non sopita essa trae appunto la sua dignità, anche nell'accezione assiomatica ed ermeneutica cara a Vi co: che non a caso è tra i più felici interpreti di quell'eredità, commista di saperi retorici e lettera ri come di affabulazioni mitologiche di marca ovidiana a forte valenza ermeneutica, pur in piena stagione illuministica (e torna opportunamente qui ancora rammentare Giambattista Tiepolo) . Eppure proprio il nome di Vico c i fa approdare a un altro campo decisivo dissodato d a Uma nesimo e Rinascimento: la centralità della pratica storiografica e della connessa conoscenza e con sapevolezza storica, in quell'epoca ritrovate nell'eredità classica e rilanciate verso il futuro. Non a caso in più di una pagina che segue si troverà il richiamo a una ineludibile rivisitazione della sto ria della storiografia umanistica e rinascimentale. Fin da Dante, Petrarca, Bruni, Valla la pratica del sapere storico diviene centrale per l'apprendistato della realtà e per le procedure della sua co noscenza: owiamente con la riscoperta o talora nuova scoperta di raffinati strumenti ermeneutici, di innovative esegesi delle fonti, di consumate procedure retoriche del narrare, di sperimentazio ne di generi storiografici fra i più disparati, il tutto spesso in aperta polemica con le vecchie prati che storiografiche medievali e in ambiziosa gara con i grandi modelli classici; e spesso incrocian do narrazione storica con osservazioni di viaggio, con note di costume, con antiquaria e geografia, in una già moderna connessione tra memorie e identità presenti di città, corti, regioni e paesi in teri Oa linea emiliana dei Sigonio o dei Leandro Alberti, ad esempio, come di altre verso cui ci gui dano i tanti studi di Domenico Defilippis e Isabella Nuovo). La storiografia umanistica e rinasci mentale, troppo spesso snobbata dalle moderne scuole storiche positivistiche o neopositivistiche, è in realtà terreno privilegiato per sperimentare nodi epistemici che diverranno cruciali nella mo dernità: owero quale nesso tra verità e discorso, quale statuto per il narrare storiografico, quali procedure di dimostrazione e di prova per certificare la veridicità di quanto narrato, quali appa rentamenti e quali distanze con le altre forme narrative e infine, ma non per ultima, quale esem plarità possibile per la storia degli eventi come per le vite dei loro protagonisti; con la consapevo lezza, già piena in Guicciardini e che Vico farà perno della sua stessa filosofia, che l'uomo può in nanzitutto conoscere ciò che ha fatto, cioè la sua storia. E la storia, accanto alla letteratura, talvol ta come in Valla ancor più di ogni altro sapere e arte, acquista allora il primato per delineare la sag gezza accessibile all'uomo, viatico ineludibile per la sua formazione anche di politico, di cittadino, di cortigiano, di pensatore. Eredità decisiva che la dignità del Rinascimento ci ha consegnato e che però è ben !ungi dal potersi circoscrivere all'interno della pratica storiografica in quanto tale. Non va dimenticato infatti che il moderno romanzo storico dell'Ottocento romantico, cuore e motore della forma per eccellenza moderna del narrare, si ricollega esplicitamente a quelle prove storie grafiche rinascimentali, alle loro procedure narrative, alle loro raffinate tecniche di dispositio e di intreccio. In Italia poi il nesso tra romanzo storico ottocentesco e tradizione dei testi storiografici umanistici e rinascimentali (favorito fra l'altro dalla grande lezione settecentesca di Vico certo ma anche e soprattutto del Muratori editore, nei Rerum Ita!icarum scriptores, di molti di quei testi) è clamoroso tanto da poter dire che l'assillo, così tipicamente italico e manzoniano, dei narratori per il verosimile e per il giusto equilibrio tra veritas e sermo non potrebbe intendersi senza questo ra dicamento nelle pratiche storiografiche quattro-cinquecentesche: e del resto già in pieno Cinque cento non era forse questo il rovello che dava impulso e dilemmaticità alle poetiche di narratori e lettori di storiografia come Bandello e poi dello stesso Tasso in bilico tra Liberata e Conquistata? L'assillo manzoniano del vero ha molti antenati illustri e non pochi nella nostra tradizione storie grafica, molto oltre la sempre citata filosofia rosminiana.
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L' ETÀ DELL'UMANESIMO E D E L RINASCIMENTO
Ma la lezione di quelle pratiche storiografiche era appunto uno spartito multiplo: la curiosità aneddotica, la sapienza nel costruire piani narrativi a diverso scorrimento temporale (grande mae stro in ciò Machiavelli) , il gusto della biografia eroica e titanica e dell'avventuroso che spesso vi era intrecciato, il dialogo vivace e attualizzante con le fonti divengono ingredienti essenziali del moder no romanzo storico europeo e quella voce rinascimentale rintracciamo in tutta Europa, da Mary Shelley a Stendhal a Goethe e si dilata fino ai nostri giorni, in cui assistiamo a una potente rinasci ta, nel bricolage postmoderno, del romanzo storico e più in generale della passione narrativa con nessa alla storia, dai film alle più disparate forme del narrare multimediale. Senza forzature allora si può affermare che la dignità del nostro Rinascimento traguarda la mo dernità persino in una delle sue forme più esclusive e peculiari, il romanzo. Oggi la centralità dell'Occidente è tramontata e le culture e letterature postcoloniali come s'usa ormai dire affermano altre identità anche in contrasto talora con le radici di cui qui si parla. Eppure ovunque la parola Rinascimento evoca suggestioni intramontabili (non si studia forse a Calcutta il cosiddetto Rinascimento bengalese? ) ; lo stesso Said nelle sue ultime lezioni ha fatto ri ferimento, seppure con una sua peculiare accezione, all'Umanesimo; Salman Rushdie, nel suo più recente romanzo, The Enchantress o/ Florence, ci conduce dall'Oriente fin nel cuore del Rinasci mento italiano e dei suoi protagonisti: così la tradizione del nostro Umanesimo sembra ancora ave re parole per dire della complessità spesso tragica e dolente, solo di rado luminosa, di un mondo di ombre e di volti cui vorremmo non essere estranei.
I riferimenti bibliografici di questa Introduzione sono materia di tutti i capitoli ma in panicolare presenti nel la bibliografia in calce al CAP. 1, che all'Introduzùme appumo va menameme corrdato.
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Conoscenza storica, ermeneutica letteraria e apprendistato politico tra Umanesimo e Rinascimento
Con Petrarca si apre una stagione di grande rilevanza ermeneutica per la storiografia: il rovello in fatti che porta il grande umanista a interrogarsi sulle storie liviane e in particolare su Scipione im plica una profonda riflessione sulla possibilità di conoscere e imitare il passato nonché sulla ne cessità di proporre, attraverso la storia, l'esempio di un modello magnanimo di eroe dotato della giusta ambizione, owero di quella che pertiene al bene della respublica e non alla gloria del singo lo. Tema che a lungo affatica il Petrarca fin dal Secretum e in molte altre opere. Non a caso, nel suo sodalizio con Cola, almeno finché durò, con grande determinazione, e sulla scorta del modello ro mano, Petrarca suggerì di ripristinare l'istituzione del tribunato come decisivo passo per dare cor po alle mosse insurrezionali di Cola e per consolidarne l'identità di rappresentanza e di governo. Audacissima e originale mossa, quella ideata tra Petrarca e Cola, al tempo stesso testimonianza di un approccio vitale e non frigido alla storia. Non è un caso se Machiavelli, in chiusura del Princi pe, citi proprio una canzone politica del Petrarca e a lui in parte si ispiri per quella lettura forte del la lezione degli antichi che è precipua di gran parte dei suoi testi. Ma con la storiografia umanisti ca, così come si apre con Petrarca e prosegue con Bruni e Valla, si pone un altro pilastro erme neutico e letterario al tempo stesso: owero quanto le procedure narrative della storiografia siano consustanziali alla sua stessa funzione conoscitiva. Vi è infatti una "retorica della verità " , così co me soprattutto Valla seppe declinare, che pertiene alla natura dell'introspezione storica e che è ap punto anche narrazione, dislocazione dei punti di vista, tecnica espostiva owero maestria partico lare nel maneggiare l'arte della dispositio. È da questi snodi fondativi della storiografia umanistica e poi rinascimentale, a partire da Machiavelli owiamente, che si inarca la lunga durata del narra re storiografico, del dibattito sul verosimile e sulla veritas di ogni narrazione fino, in Italia, a un certo tipo di approdo del romanzo storico, con Manzoni, che è così diverso da altri modelli euro pei proprio perché così legato a questa potente tradizione storiografica di matrice umanistica. Ma naturalmente tutta la nascita, in Europa, del romanzo storico andrebbe comunque riletta alla luce della parallela e contigua storia della storiografia, in particolare rinascimentale ( come non pensa re, fra tanti esempi possibili, al Valperga di Mary Shelley? ) e attraverso lo snodo decisivo della le zione di Vico. Owero il dibattito storiografico umanistico e rinascimentale sul fare storia (e si pen si ad esempio a quel grande narratore storico che fu il Giovio) con la geniale rielaborazione che appunto Vico vi apportò ci conducono dritti al cuore della modernità, al centro dei nuclei fonda tivi e del genere nuovo per eccellenza, il romanzo, e del dibattito modernissimo sulla legittimità narrativa delle procedure storiografiche. La letteratura insomma, con le sue procedure e le sue specificità, si propone, nella grande cul tura italiana umanistica e rinascimentale, e a partire dalla stessa ars historica, come veicolo prima rio di conoscenza, di " dignità " e di "saggezza " : tale cifra (una letteratura in grado di gareggiare con fùosofia e teologia) caratterizza e fonda si potrebbe dire, da Dante in poi, secoli interi delle nostra tradizione, inarcandosi appunto tra Umanesimo e Rinascimento e Settecento vichiano; per dilagare poi in tutta Europa fino alla stagione romantica, e in Italia, almeno nei termini propri del-
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la cultura umanistica, fino a Foscolo, grande spartiacque nella storia della nostra letteratura. Non è un azzardo quindi proporre una periodizzazione che da Dante giunga fino a Foscolo o, per la na scita del romanzo storico, come si diceva, a Manzoni, l'epoca della "saggezza" , la "saggezza del Ri nascimento " , la lunga durata del nostro Umanesimo. La centralità che la tradizione umanistica e il Rinascimento hanno assegnato alla letteratura e alla lettura dei classici, alla mitopoiesi (si pensi alla esemplare pagina di poetica che già conclude il Genealogia deorum gentilium di Boccaccio) se per un verso definisce l'identità stessa della storia italiana (De Sanctis e poi Croce e Gramsci lo col sero benissimo) peraltro segna una indiscutible e più generale ricollocazione dei saperi, affidando in Italia all'ermeneutica il ruolo di viatico essenziale per le ipotesi più motivate di paideia insieme alla retorica e alla scienza del linguaggio. Se si guarda a certo pensiero moderno, a Nietzsche e poi a Heidegger e Gadamer ad esempio, non è impossibile verificare la vastità di un fiume carsico a matrice umanistica che, lungi dall'es sere spezzato dalla filosofia europea sei-settecentesca, in realtà emerge tumultuosamente e in for me molteplici lungo l'epoca romantica e oltre. Non a caso oggi, alle soglie del terzo millennio, e di là da ogni possibile destino della letteratura, si guarda alle procedure ermeneutiche, all'ascolto del testo, all'investigazione del lettore, alle prospettive di un nuovo Umanesimo (esemplari le rifles sioni di Steiner) come a procedure essenziali di sapere, procedure che, appunto, hanno nella let teratura e nelle modalità che l'hanno delineata in determinate stagioni della sua storia, specie ita liana, radici inequivoche. In altre parole non so se si possa parlare di saggezza oggi ancora come di una parola proficua per il nostro dibattito: ma se la evochiamo, con tutto il portato utopico, let terario e paideutico che essa impone, noi evochiamo innanzitutto la saggezza umanistica e rinasci mentale. Una saggezza, proprio perché prioritariamente attinente ai saperi letterari, tutt'altro che frigida o astrattamente normativa ma inquieta, complessa, "curiosa " , ribelle, perfino scandalosa (Alberti, Valla, Machiavelli e Guicciardini, Aretino e così via) , più vicina di quanto a prima vista non paia, e lo si diceva, alla modernità. Così, da questo punto di vista, si potrebbe giungere fino a figure come Goethe, Foscolo e Shelley che fanno da spartiacque tra epoche rli lunga durata, almeno per ciò che attiene al nostro assunto. Ma per cominciare occorre, come sempre in molte occasioni, rileggere Dante e più in parti colare il Paradiso. Nel Paradiso Dante, infatti, va sillabando l'utopia di una possibile convivenza civile e di una pacificazione universale fondate sulla saggezza, sulla ricerca della verità anche da punti di vista conflittuali, ed esaltate da quella grande tensione letteraria intesa come vero e proprio apprendi stato sapienziale che egli in tutta la Commedia era andato delineando. Se l'viii e il IX canto del Paradiso infatti propongono l'ideale Regno dei Cieli contrapposto al malgoverno delle cose terrene, in X si evoca l'approdo alla convivenza possibile, alla civitas dei sag gi (già prefigurata in Inferno, IV, dai saggi antichi nel Limbo) come civitas di spiriti magnanimi ca paci di indicare l'apprendistato del buon governo di sé e del mondo: l'utopia possibile, insomma ( come Dante indica nella stessa Monarchia ) . L a consapevole scelta del proprio destino ( che comporta premio e condanna) awicina l'uomo a Dio, permette all'uomo di giocare, se vuole, tutta la sua grandezza magnanima, comunque sia collocato nella scala mondana (sia come suddito sia come signore). E l'apprendistato del magna nimo, come tutta la Commedia mostra, è apprendistato di saggezza, imbandito dalla letteratura e dalla sua stessa natura mitopoietica. Sicché alla fine di questo apprendere, di questo snodo centrale di canti (dall'viii al XVII) che sono un vero banchetto di saggezza ordito dalla grandissima tessitura letteraria (secondo i detta mi stessi del Convivio ) , il Dante pellegrino, il viator che raduna in sé l'umanità intera, in XVIII può essere additato come esempio di magnanimità capace di superare ogni contingenza, ogni deriva della brutalità quotidiana delle cose mal governate (e si torna in XXII e xxv su ciò).
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E se Dante "può", in virtù della libertà, tutti "possono " : la magnanimità è statuto "possibile " dell'umanità (è il grande tema che Boccaccio rivisiterà con straordinaria efficacia nell'ultima gior nata del Decameron). E infatti nella triade di canti dal XVIII al XX l'umana saggezza è sillabata sul parametro della giustizia, sia essa propria della civitas romana (da Traiano fino all'oscuro Rifeo), di quella ebraica o di quella legata alla comunità dei grandi eroi medievali: il tutto accentuato, in XXI, dal non ca suale richiamo al ricordo del regno di Saturno, al mito classico per eccellenza dell'età dell'oro e della saggezza; e dal XXIII in poi al ricordo dei beati "magnanimi" , " mediatori" tra Dio e governo delle cose umane, come già Salomone. E più Dante si awicina al termine del suo viaggio, più la visione mistica si accampa nei suoi versi, più dal Paradiso riverbera l'esortazione a guardare al mondo, a insediarvi il regno della sag gezza nuova e della pace. L'attesa del "riformatore" dà tono infatti allo sdegno di Pietro in XXVII così come in XXX assume emblematica valenza l'evocazione del seggio celeste predisposto per Ar rigo VII: dalle soglie del Cielo il percorso dell'utopia imperiale giunge fin nell'Empireo. Così, tra XXXII e XXXIII, l'utopia dantesca e il suo apprendistato di saggezza, quello del saggio pellegrino, quello dell'auctor con la sua letteratura trovano la definitiva legittimazione (il primato di arte e letteratura, vertici dei sa peri mondani, si era accampato in XXV) : il radicamento è nella fi nale visione di Dio che è anche rivelazione dell'uomo e della sua storia, della sua vera libertà. Il viaggio dall"'infima lacuna " dell'Universo a Dio (dal massimo di "lontananza " al massimo di "vi cinanza " ) è fino in fondo viaggio di mitopoiesi (il richiamo in XXIII a Nettuno e agli Argonauti), è il viaggio della parola letteraria che è parola dell'indicibile, del Dio "nascosto" ma è al tempo stes so radice finale, fondamento ultimo della saggezza magnanima e della sua utopia, parola che si esprime in Amore. Amore apriva, sconosciuto a Dante, il poema lucreziano, amore come cifra universale di una civitas rinnovata, come punto di approdo di un viaggio che non esclude l'inferno del mondo ma spera di edificarne il paradiso possibile, chiuderà altri testi di epoche successive e che hanno in Dante, nel viaggio del suo poema, l'origine fondante, l'apertura di uno spartito che tanti e talora grandi si applicheranno a modulare con tonalità decisive per il pensiero moderno. Da qui comincia il viaggio che Petrarca e gli umanisti condurranno nel tentativo di coniugare esperienza letteraria e apprendistato di saggezza. Tutto il Petrarca latino, la grande lezione filologica di Valla, la coraggiosa e rivoluzionaria esperienza di Alberti uniti all'insieme molteplice e decisivo del la rinnovata storiografia con le sue procedure narrative vanno in tale direzione, che nel Cinquecen to e nel pieno Rinascimento portano a gettare le fondamenta dei saperi della modernità stessa. È ben noto infatti come i primi decenni del Cinquecento rappresentino un periodo di svolta epocale nella storia del pensiero politico: è owio rammentare, in questo senso, i nomi di Machia velli, Guicciardini, Castiglione che, a partire dalla crisi profonda che aveva investito gli Stati italia ni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e la discesa in Italia di Carlo VIII fino alla sanguinosa e tra gica pagina del Sacco di Roma, avevano awiato una riflessione senza precedenti per originalità e ra dicalità sul senso stesso del fare politica, del reggere gli Stati, della formazione dei ceti dirigenti. Tale riflessione aveva rimesso in gioco non solo gli statuti fondanti di una antica tradizione fi losofico-politica più generale ma - cosa non sempre sottolineata a sufficienza - aveva di fatto im posto un nuovo percorso disciplinare, un nuovo apprendistato, una nuova mappa educativa volti alla edificazione di un modello di saggezza del tutto funzionale al politico, a chi fosse radicato, con pienezza di ruoli istituzionali, nelle città-Stato o nelle corti. Il disciplinamento, infatti, che si era andato rigorosamente definendo, tra Medioevo e primo Umanesimo, nei monasteri, nelle scuole ecclesiastiche come nelle università (e di là dalle rispetti ve e ben diversificate peculiarità) appariva del tutto inadeguato ai compiti inediti che attendeva no, al varco di anni terribili e impietosi, il politico. Si badi: non che fosse mancata una costante esi-
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genza di verificare le marche epistemiche di quei saperi. Tra Trecento e Cinquecento, ad esempio, il diffusissimo "genere " della disputa circa il primato di questa o quella disciplina sulle altre, di que sta o quell'arte, di questo o quel mestiere faceva in realtà trapelare, di là da topoi retorici pretesi appunto da un genere antico, l'ansiosa ricerca di un costante aggiustamernto dei parametri cono scitivi funzionali e al governo di sé e al controllo del mondo circostante, naturale, politico, socia le. Di qui, fra gli umanisti del Quattrocento, la premura nel sostenere con forza il primato dei nuo vi saperi retorico-letterari su quelli tradizionalmente egemoni nel campo accademico, dal diritto alla medicina alla filosofia; e vi era in ciò appunto l'istanza di ricollocarsi fuori da disciplinamenti ormai awertiti come ossificati e parziali. Di qui ancora, fra Quattro e Cinquecento, l'infinita serie di dispute sul primato fra lettere e armi, sintomo del disagio profondo del ceto intellettuale nel rap portare le proprie radici e la propria formazione al nocciolo duro delle lotte in corso tra vari po teri e potenze, owero quello politico-militare. Eppure l'insieme di questa produzione, per quanto di grande interesse e di non piccola fortu na, non giungeva ad aggredire il cuore del problema: la natura degli Stati, il ruolo dei soggetti nel l'oggettivo e imprevedibile dipanarsi della realtà, la sostanza profonda del potere e delle sue dina miche, la formazione non astratta e non idealizzata ma vera e possibile dei nuovi ceti dirigenti pre tesa dal nuovo sistema degli Stati. E questi sono proprio i punti sui quali invece i testi di Machiavelli, di Guicciardini, di Castiglio ne, scompaginando vecchi statuti e di fatto travolgendo le tradizionali " dispute" , con radicale spre giudicatezza, e ciascuno secondo le proprie peculiarità, fanno una salutare e travolgente irruzione. Se uno degli snodi essenziali in politica consisteva, da sempre, nell'adeguata formazione dei ceti dirigenti, di una vera e propria leadership , i nostri autori lo affrontano legando in modo indis solubile la questione della formazione politica e militare con quella - già cara a Seneca seppure con altre tonalità riprese poi da Petrarca - di un rigoroso apprendistato di "saggezza " . Solo il "savio " può dirigere città, Stati, eserciti ma la sua "saviezza " , lungi dal costituirsi come sommatoria di astratte e impraticabili virtù morali (magari sul modello del filosofo-governante caro a Platone) o di ossificate discipline accademiche o di rigorosi esercizi di ascendenza monastica, si deve defini re per un verso nel fuoco dell'esperienza, del concreto rapportarsi alla realtà per come essa è e per l'altro si deve nutrire di competenze specifiche pretese dalla politica in senso stretto. Si vanno co stituendo, così, un apprendistato e un protocollo disciplinare propri per il politico, owero per il Sovrano ma anche per il suddito, per il condottiero militare come per ogni soggetto che svolga fun zioni di ceto dirigente negli Stati, nelle corti, nelle città. Il disciplinamento viene a configurarsi co me concreto articolarsi di una specifica e fondante "saggezza " che è poi una sorta di nuova disci plina essa stessa, al crinale di una modernissima scienza politica e del governo. Il Principe e i Discorsi di Machiavelli, i Ricordi di Guicciardini sono, ciascuno a loro modo, te sti insieme rivoluzionari ed emblematici di queste procedure e perciò ancora oggi viatici fonda mentali per chi voglia indagare le radici stesse della nostra identità. La cosa che qui ora preme sottolineare è che la natura di tale nuovo apprendistato è volta a un fine sia antropologico che istituzionale: l'uno fondato sulla possibile liberazione dell'uomo dai lac ci e lacciuoli che lo condizionano per tentare di farne un soggetto attivo sulla scena del mondo, un vero protagonista politico insomma; l'altro volto alla delineazione di uno Stato in cui le leggi e la giustizia, il buon governo sorretto da un efficiente ceto dirigente e da un sovrano abile e non sprov veduto consentano un equilibrato procedere della vita civile e delle sue componenti, non più affi date a regimi in cui finiscano per prevalere arbitri, corruzioni, improwisazioni, soprusi sanguina ri. La condanna senza remissione che Machiavelli, Guicciardini e Castiglione pronunciano sempre verso ogni tipo di tirannide discende proprio da tali consapevolezze. Un'idea, quindi, moderna e laica di etica, "romana " nelle radici (e ben ne seppe argomentare lsaiah Berlin a proposito di Machiavelli) è fortemente sottesa al progetto di questi nostri, per an-
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tonomasia, spregiudicati pensatori: il loro stesso disegno politico prende pieno vigore se lo co gliamo strettamente ancorato a quel fine antropologico e istituzionale, in ultima istanza etico, di cui dicevamo. L'apprendistato del politico è perciò anche un "viaggio " , una sorta di percorso verso un pos sibile "mondo dei fini" ed è al tempo stesso un percorso di disciplinamento che dal buon governo di sé deve portare al buon governo dei sudditi (se tale tragitto è esemplare nel Cortegiano di Ca stiglione non meno lo è, a osservare bene, anche in Machiavelli e Guicciardini, in alcuni testi in particolare). Questo tipo di disciplinamento, che è di fatto un viaggio nelle radici di sé e del mondo, si ma teria di saggezza in primo luogo storica e letteraria, owero di fruizione del passato e dei testi che ce lo trasmettono come fondamenti costitutivi della conoscenza dello stesso presente. Si articola, poi, nella raffinata e umanistica dote dell'urbanitas, owero della precipua capacità di distillare la propria identità di cittadini ( tipicamente italica e rinascimentale) come paradigma atto a costitui re una sofisticata trama di controllo e governo della realtà che si contrapponga alla rusticitas, vis suta emblematicamente come " stato di natura" al negativo, come campo di tensioni primitive in cui l'uomo, in quanto soggetto attivo e criticamente consapevole, non ha spazio. Urbanitas è in terfaccia di civilitas, perciò, di civiltà e costume del buon governo: l'apprendistato verso l'urbani las, verso il governo di sé, verso l'equilibrato contemperarsi di ciò che nell'uomo è razionale con ciò che è animale, ferino e istintivamente distruttivo (il di Machiavelli) è molto duro e un ruolo positivo vi assume la "retorica " , owero l'educazione letteraria in senso lato come pa rola che "regola" il mondo e ne fonda una sorta di tassonomica, precipua della civilitas urbana e delle sue forme razionali di " controllo" individuale, politico, sociale (Pontano, il grande umanista, delinea proprio nel De sermone alcuni fondamenti dell' urbanitas e il condottiero dell'Arte della guerra di Machiavelli è innanzitutto un " uomo di lettere " ) . Petrarca, fra i padri fondatori della no stra civiltà letteraria, aveva, del resto, in dialogo costante con Cicerone e Seneca, non a caso ben riallogato al centro dei sa peri e della loro fruizione civilizzatrice l'arte della parola. L'urbanitas e la civilitas presuppongono, a loro volta, una inesausta curiositas, quale il più spre giudicato pensiero umanistico aveva insegnato a praticare: è appunto la curiositas, induttiva e lai ca, tracimata da imprevedibili sentieri di certo averroismo radicale come dalla pratica erudita e in faticabile dell'ermeneutica commentaria e glossatoria di tanti umanisti padani, che varca le colon ne d'Ercole delle vecchie partizioni disciplinari, ne supera i confini, ne ridelinea gli statuti, con una attenzione del tutto nuova, nelle forme e nei modi, alla realtà. n governo delle cose passa per una costante curiosità verso la loro stessa natura, colta senza pretese di finali soluzioni metafisiche. n "mondo dei fini" cui accennavamo è infatti l'istanza di una etica del governo e dello Stato possibi li ( con una indubbia valenza utopica) piuttosto che di un ben determinato altrove che fondi, di quell'etica, la fisionomia, postulandone già tutta per intero, ab initio, la positura nel mondo: il che presupporrebbe, fra l'altro, un di più di ferreo deduttivismo anziché curiositas mobile e disinibi ta. Se queste tappe sono perciò essenziali nell'apprendistato del politico, nel suo viaggio verso la saggezza che gli deve essere peculiare, una sorta di approdo non può che allogarsi nella pratica del la magnanimità: non si tornerà mai abbastanza sull'importanza di questa essenziale categoria ( di antica ascendenza aristotelica) per la storia della nostra cultura. Questo termine, infatti, nell'acce zione politica dantesca e poi rinascimentale, non contempla solo la tradizionale capacità di essere al tempo stesso grandi e generosi (la romana clementia), forti e virtuosi, attenti a sé ma ancora di più al bene altrui ( che era dote tradizionalmente indicata come propria del sovrano ideale) , ma sil laba un'accezione, se si vuole, ancor più complessa e sofisticata: magnanimo è chi sa guardare, dia lettizzandole, alle ragioni dell'altro, chi sa che la stessa lotta politica, fondata su interessi di parte che giungono al conflitto, deve poter tollerare le dinamiche del vinto accanto a quelle del vincito re o ancora le dinamiche del governato con quelle del governante. Se ben si osserva, la condizio-
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ne del conflitto sociale come motore positivo della storia in Machiavelli oppure la responsabile prudenza pretesa da Guicciardini per i suoi "ottimati" al governo oppure la dote dell ' " ascoltare " delineata come essenziale per il sovrano nel libro IV del Cortegiano sono tutte interfacce dell'em brionale consapevolezza di un problema modernissimo: owero la in evitabilità di un rapporto dia lettico con le ragioni dell'altro, noi oggi diremmo l'accettazione di un'equilibrata dinamica tra mag gioranza e opposizioni, tra ceti dirigenti e ceti subalterni. Tutto ciò non tanto nel nome di una ire nica e astratta ricomposizione dei conflitti (utopia cara a molta speculazione classica e medievale) quanto nella realistica presa d'atto piuttosto della ineliminabilità, sullo scenario umano e politico, del con/ligere e nella messa in campo di ciò che può invece consentirne, negli Stati, un dipanarsi equilibrato e non distruttivo. n principe magnanimo caro ai nostri pensatori rinascimentali più ra dicali non è tanto "buono" quanto forte e coraggioso leader di stampo augusteo, in grado, proprio per la consapevolezza della sua forza, di non temere (anzi, fin dove possibile, di tenere in conto) le ragioni degli altri, degli awersari come dei subalterni. In questa complessa e grandiosa elabora zione, che assume toni a volte originalissimi e impressionanti per lucidità in Machiavelli, in Guic ciardini e Castiglione, non è chi non veda sia la capacità di modulare e riattualizzare su accenti ine diti i fondamentali concetti romani di auctoritas e di potestas sia la sbalorditiva messa in campo, in nuce, come si diceva, del moderno dibattito sul rapporto tra maggioranza e opposizioni, tra go vernanti e governati, owero, oggi, su uno dei temi fondanti della democrazia in quanto tale. Tanto lontano ci porta la riflessione sulla magnanimità! Del resto già Dante vi aveva operato un investimento di amplissima portata se solo si pensi come il tema del " magnanimo" sia centrale nel "viaggio" della Commedia, dai significativi esordi del Limbo, ai severi incontri di principi e spi riti grandi nel Purgatorio , fino al Paradiso, dove la magnanimità, e già lo si diceva, come capacità di coesistenza di sé e dell'altro raggiunge vertici di audacia proprio nei canti degli spiriti "sapien ti " , nei canti dove san Tommaso può convivere con Sigieri di Brabante, modello utopico eppure possibile di un modo nuovo di governarsi e governare, ribadito nei canti politici della Commedia come nel Convivio e nella Monarchia, a testimonianza di un apprendistato che è al tempo stesso di magnanimità e, appunto, di "saggezza " . Così come occorre tenere a mente il lessico magnanimo e politico-storico che Petrarca in tanti suoi testi assegna a Scipione e ai grandi romani secondo un percorso che fortemente inciderà sul pensiero occidentale. Ed è un altro capitale testo letterario, a vastissima diffusione, mai a sufficienza valutato dalla critica in chiave di utopia politica, il Decameron di Boccaccio, a consolidare (Boccaccio non a ca so è il grande "lettore" per eccellenza di Dante, l'unico capace di riscrivere, a suo modo, una Com media e proprio con il Decameron) la delineazione della magnanimità come dote primaria del mo dello ideale di civilitas; il "viaggio" del Decameron , infatti, procede per gradi verso l'approdo del la decima giornata, che contiene alcune fra le più belle pagine della letteratura d'utopia di tutti i tempi: la magnanimità vi è squadernata come essenza per un verso di dedizione e generosità asso lute e per l'altro come nucleo di un possibile, altro modo di governare e conclude, vero Paradiso del viaggio tutto terreno di Boccaccio, non a caso il memorabile "novellare" del Decameron. n tema dantesco, petrarchesco e boccacciano della magnanimità (già coniugato con una forte rivisitazione dell'idea di clementia, di auctoritas e di saggezza) penetra nella cultura umanistica, smussato, in alcuni casi, delle punte più nettamente utopiche che vi erano connesse, e perfeziona to piuttosto con il modello di urbanitas di un Pontano o di un Tebaldeo. E del resto la stessa criti ca irridente e cinico-scettica che attraversa le pagine "lucianesche" di tanti umanisti, intenti a cor rodere e demistificare le "maschere " del potere e dei potenti ( da Alberti a Galeotto Marzio fino a Codro ma anche fino a Erasmo) sono debitrici, proprio alla radice, di tale riflessione: lo sdegno per una magnanimità tanto conclamata quanto tradita e vilipesa, negli egoismi e soprusi quotidia ni, genera pagine di grande efficacia polemica e politica. Il modello positivo di riferimento è quel lo del sogno di un'umanità tollerante, dialogica e dialogante (val sempre la pena di insistere, ri-
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tengo, su questa natura essenzialmente " dialogica" di tanta cultura umanistica e rinascimentale), magnanima e saggia in ultima istanza. Un percorso, come si può notare, del tutto laico, un disciplinamento che impone al politico apprendistati ben diversi da quelli scolastici, monastici e accademici e di cui non a caso testi per eccellenza letterari hanno gettato le fondamenta: un viaggio fatto di incontri e di " dialoghi" (il dia logo non a caso si afferma come genere fondamentale tra Umanesimo e Rinascimento), la cui ma gnanima meta ideale non è data a priori ma è frutto di un doloroso, realistico, curioso trascorrere nell ' "inferno" della realtà colta senza infingimenti. È questo il passo che Machiavelli, e con lui Guicciardini e Castiglione, porteranno alle estreme conseguenze e che si era già ben awiato fin dal primo Cinquecento se nel 1510 (vari anni prima che Machiavelli stenda Il Princtpe ! ) Cortesi può delineare nel suo De cardinalatu un modello di uomo di Chiesa che è, per le sue caratteristiche, per la laicità assoluta con cui se ne tratteggiano sermo, ur banitas, civi!itas, prudenza magnanima e realismo politico, il ritratto in realtà di un governante tout court, di una nuova tipologia di ceto dirigente: il suo apprendistato sapienziale, infatti, benché rife rito a un possibile cardinale, è direttamente collegato con i percorsi disciplinari che qui abbiamo ri chiamato più volte e modellati sulla nuova identità pretesa dalla politica del tempo (gli uomini che guidano la Chiesa devono quindi anch'essi innanzitutto sapere "laicamente " di politica) e non più su quelli di certo regolismo monastico o di certo disciplinamento universitario tradizionale. Questi ultimi percorsi ebbero certo un peso rilevante nell'affinarsi di molteplici procedure di sciplinari, sia prima che dopo la Controriforma e molto dovettero influire sull'apprendistato di non pochi dei nostri umanisti ( da Salutati a Bruni al Galateo fino a Erasmo, ad esempio). Con esiti non irrilevanti in quel tragitto che produsse nel Cinquecento l'irruzione sulla scena politica di posizio ni ( con le nuovissime procedure formative connesse) fra le più radicali e innovative. Ma le cui ra dici ci sembra di aver preferito cogliere semmai in altri versanti, collocati al crinale tra ermeneuti ca, curiosità sapienziale del mondo e tensioni utopiche a forte valenza politica proprie del nostro Umanesimo laico e letterario: e non è un caso che i pensatori più rivoluzionari del nostro Rinasci mento siano anche grandissimi scrittori, spesso in eguagliati classici nella nostra tradizione. Proprio nella letteratura e nella letterarietà, infatti, è possibile percorrere appieno quei delicati e decisivi crinali che richiamavamo. Del resto questa è tradizione già latina e in seguito tipicamente italica, è il segno peculiare di ogni Umanesimo: da Dante, che fonda per tanti versi la nostra identità, in poi la letteratura è in Italia il luogo per eccellenza deputato a raccogliere e rilanciare i passaggi episte mici più rilevanti, i dibattiti decisivi sul futuro di molte discipline, è insomma la disciplina che, in un certo senso, quasi sostituendosi e mescolandosi alla filosofia, si colloca al centro rispetto ai pro tocolli formativi, come vero e proprio preliminare a ogni disciplinamento, fulcro stesso delle di namiche umanistiche. I nostri pensatori politici rinascimentali, e poi Galilei, Vico, Muratori, Leo pardi, Croce, Gramsci e i grandi attori del dibattito sulla modernità, da Gadda a Calvino a Faso lini, e solo a fare alcuni nomi emblematici, sono lì a mostrarlo con evidenza. Questo è il senso del l'Umanesimo che oggi ci intriga e che maggiormente ci consente di affrontare il dibattito affanno so sulla stessa dimensione contemporanea dei nostri saperi e della nostra identità. Bibliografia ANSELMI G. M . , Ricerche sul Machiavelli storico,
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Dante e l'interpretazione della storia
Vi sono tanti modi di riaccostarsi oggi a Dante e alla sua Commedia. Certo, tra i meno frequenta ti (alcune suggestioni ancora validissime risalgono a studi di Ovidio Capitani di vari anni addietro o a più recenti monografie di Emilio Pasquini), vi è il nesso di Dante con il "fare storia " , con le procedure storiografiche. Si impone così la necessità di rileggere Dante in modo forte anche in re lazione alla nascita della moderna storiografia. Dante è indiscusso maestro, infatti, nella Comme dia, di scorci storiografici "verticali " e vertiginosi (basti pensare alle terzine sul regno di Francia, su varie epoche di Firenze come di altre città italiane, sull'impero romano e così via) che rompo no, più di ogni altro testo, in modo sconvolgente e traumatico, con il narrare "ondulato " e oriz zontale di molta cronachistica medievale: tanto che, forse, l'antica querelle sulle fonti storiografi che di Dante andrebbe, per una volta, ribaltata per cominciare piuttosto a comprendere quanto egli abbia influito sulla formazione della coscienza storica successiva. Del resto non c'è personaggio illustre della storia italiana toccato da Dante, da Farinata a Bo nifacio VIII che, nella storiografia posteriore, anche in quella umanistica e rinascimentale, non " tor ni" poi, più o meno, con i caratteri che Dante stesso ha impresso loro. Dante ha segnato così a fondo certi personaggi che gli storici in seguito non potranno fare a meno di scriverne a partire non tanto dal ritratto che le cronache o le fonti del tempo ne avevano dato ma dal modello fornito dalla Commedia. Lo stesso Leonardo Bruni, quando parla di Farinata, si muove in sostanza a partire dal ritrat to psicologico e politico che Dante ne delinea nella Commedia, ad esempio. Vi sono alcuni canti emblematici per tentare di comprendere come Dante leggesse la storia, la attraversasse con «verticalizzazioni» improvvise, con un senso del presente tale da far rivivere un certo tipo di passato e nello stesso tempo atto a guardare al futuro, attraverso un empito profeti co che coniugasse tutto il poema e in particolare il Paradiso. L'interpretazione del passato si lega infatti in Dante a una > delle cose umane ma non alla loro casualità: tanto che subito dopo si tentano spiegazio ni tutte razionali di quei mutamenti sociopolitici '6; di qui il rifiuto del leggendario e del favoloso, caro alla vecchia cronachistica. Del resto studi approfonditi hanno già da tempo mostrato l'ampiezza di documentazione di cui Bruni si è giovato per impostare il suo discorso storico " e come quindi, in lui, l'individua zione delle cause profonde che agiscono nella storia, quale l'esigenza delle libertà, non derivi più da un esclusivo apriorismo ideologico ma da un'effettiva operazione di conoscenza: il presente, l'impegno politico non sono affatto scomparsi in lui (anzi sono l'anima dei suoi studi ) , ma anzi ché sovrapporsi esterni alla indagine storica gli hanno fornito alcune premesse per comprendere le rationes dell'intero passato fiorentino. Rispetto alla Laudatio i! mutamento è evidentissimo. Cer to alcune cose non sono chiare neppure nelle Storie e non in tutte le parti dell'opera gli intrecci dell'ideologia con la storia sono facilmente dipanabili: infatti il non voler (o il non poter) mettere in discussione i fondamenti dell'ordine sociale costituito comporta inevitabilmente, anche in Bru ni, limitazioni e forzature interpretative molteplici, specie nell'analisi delle lotte di classe fiorenti ne. Proprio su questo punto Machiavelli porterà le sue note critiche a Bruni. Qui basti aver mes so in evidenza il significato in ultima istanza innovatore dell'opera storica di Bruni: il passato fio rentino diventa, nelle sue pagine, un passato dinamico, tutto giocato sulla dialettica delle lotte in terne ed esterne a Firenze e sullo scontro fra il continuo pericolo di una decadenza e lo sforzo, al la fine sempre vincente, nella città, di costruire una crescita di potenza e di libertà: Diuturna mihi cogitatio fuit, et saepe in alterutrarn partem sententia pronior, faciundum ne foret, ut res ge stas Fiorentini Populi, forisque et domi contentiones habitas, et vel pace vel bello inclita facta mandare lite cis aggrederer. Excitabat quippe me ipsarum magnitudo rerum, quibus hic populus primo imer se civili va rioque discidio, deinde adversus finitimos egregie gestis, tandem nostra aetate potenti a immodice adauctus, et cum Mediolanensium potentissimo duce et cum Ladislao bellicosissimo rege ita contendit, ut ab Alpibus in Apuliam, quantum Italiae longitudo protenditur, cuncta armorum strepitu quateret, ac transalpinos insu-
5. GLI UMAN ISTI E LA STORIA
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per reges magnosque exercitus ex Gallia et Germania commoveret. Accedunt ad haec Pisae captae; guam ego urbem, vel diversitate animo rum, vel aemulatione potentiae, vel exitu belli, recte alteram Carthaginem, ut mi hi videor, appellarim '8•
Le analisi storiche di Bruni hanno, ed è un altro elemento da tenere in conto, un preciso corri spettivo retorico: come ben ha mostrato Nancy S. Struever '' la dinamica della storia è da Bruni magistralmente resa con l'uso appropriato delle antilogie e dei discorsi contrapposti; così come nelle varie azioni politiche e militari il contrasto tra intenzione iniziale ed effetto negativo conse guente è abilmente costruito sull'ironia; inoltre la psicologia dei caratteri, la verosimilitudine nel l'esposizione, il mantenimento di una unitaria linea narrativa, la riproposizione esemplare di certi "modelli" sono ottenuti attraverso un complessivo "abito" retorico di schietta impronta classica e del tutto sconosciuto ai cronisti trecenteschi. L"' ordine" della storia deve, come dicevamo, dive nire innanzitutto, sulla pagina, un "ordine" retorico, essendo condizione indispensabile il secon do per la vera comprensione del primo. Da tutto ciò si evince la continua familiarità di Bruni coi classici; con Tucidide e Sallustio per questa concezione dinamica e oppositiva della storia, anche nei suoi aspetti retorici 30• Ma essa vale naturalmente anche per Cicerone, Livio, Tacito. Né è da escludere, nella maturazione teorica sulla storia e sui suoi nessi profondi, l'influsso di Platone, del quale comunque non accolse la visione ciclica del processo storico. Va in ultima istanza ribadito che questa visione ideologica e fortemente interpretativa della storia porta Bruni a una intensa drammatizzazione del narrare storiografico che ha come conse guenza la fondazione di una periodizzazione che diverrà canonica nella tradizione fiorentina ed europea: la scansione in fasi storiche produce infatti una forte lettura verticale della storia che si differenzia profondamente da quel narrare "orizzontale " e accumulativo di tanta cronachistica e memorialistica medievale (ma che già Dante nei suoi fulminanti excursus storici in grado di at traversare personaggi, epoche, periodi con poche terzine aveva di fatto messo in discussione, sic ché bisognerebbe studiare piuttosto l'influsso di Dante sulla storiografia successiva che le sue fon ti cronachistiche) ''· La fortuna dell'opera di Bruni fu enorme a Firenze e in Italia (basti pensare al volgarizzamen to di Acciaiuoli e all'influsso esercitato su tutti gli storici italiani ed europei alle prese con il pro blema delle "origini"): i canoni retorici classici da lui per primo ripresi in una narrazione storica in contrasto con gli usi della cronachistica divennero i canoni di chiunque si accingesse alla sto riografia. Ma i canoni retorici erano in qualche modo inscindibili dai canoni interpretativi: il rifiu to del leggendario, la ricerca delle cause profonde, la documentazione critica, i nessi tra presente e passato divennero anch'essi punti di riferimento obbligati. Naturalmente il discorso di Bruni ven ne ripreso in modo diverso a seconda delle varie sedi geografico-politiche: nel Regno di Napoli il privilegio sarà accordato all'ideologico mentre un Valla e un Biondo porranno maggiormente l' ac cento sull'aspetto della verifica oggettiva e documentaria. Ma per tutti comunque il confronto con Leonardo Bruni fu d'obbligo ''· Certo Bruni aveva avuto la sorte di vivere in un momento particolare della storia di Firenze, dalla gloriosa lotta con Milano al primo consolidarsi di quel potere mediceo che appariva agli in tellettuali fiorentini del tutto funzionale agli equilibri interni della città, anche perché ancora non sembrava porsi in reale alternativa allo sviluppo democratico e repubblicano di Firenze. Da ciò na sceva l'impronta dinamica e "dialettica " , politicamente ottimistica, degli assunti storiografici bru niani. Ma, pochi anni dopo la morte di Bruni, a Firenze in un clima di irrigidimento istituzionale del potere di Cosimo, e in Italia in un rafforzamento complessivo dei regimi signorili, tale impronta non era più presente, quanto meno in quei termini, nell'opera del Bracciolini, ad esempio. Bracciolini, nelle sue Ht5tortae de varietate /ortunae, prendendo spunto dalla situazione rovi nosa in cui versavano i resti dell'antica Roma, apre un dibattito teorico sui nessi crescita-decaden za propri della storia umana e in termini quasi sallustiani e tacitiani propende a dare peso rilevan-
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L' ETA DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO
te al ruolo della fortuna e del caso nel processo storico, accentuando i toni pessimistici e sostan zialmente guardando, in tale processo, al polo " decadenza " "· Tale concezione andrà prendendo contorni ancora più precisi e definiti nei suoi tardi Historiarum Fiorentini populi libri VI//, dove non c'è quasi più traccia della visione dinamica e razionalistica di Bruni e la dialettica diviene tut ta astratta e fondata sul contrasto, anch 'esso moralistico e aprioristico, tra iustitia e iniustitia o tra stabilitas e labilitas''; tanto da derivarne una visione immobilistica, di fatto, della storia e pessimi stica, nella quale la vera dialettica individuata da Bruni e da lui incentrata intorno ai problemi del la libertas lascia il posto a una dialettica fittizia e tutta ideologica, segno di una profonda resa po litica di fronte ai mutamenti cui stavano andando soggette Firenze e l'Italia. E infatti, nella seconda metà del Quattrocento, con l'ascesa dei Medici sempre più inarresta bile e con il primato di Lorenzo, anche nella storiografia fiorentina l'aspetto ideologico-signorile va prendendo un rilievo preminente: anche Firenze conosce la sua storiografia " di corte" che, pur sfruttando le grandi indicazioni metodiche e documentarie fornite da Bruni, in realtà si avvia su un terreno sempre più vicino alle teorizzazioni pontaniane. li Poliziano, Rucellai, Fonzio, Valori, Scala bastano da soli a indicare questa linea di tendenza: e anche umanisti come Fonzio e Rucellai si fanno portavoce in Firenze delle teorie storiografiche napoletane e queste finiscono col trovare un grande successo. Soprattutto va ampiamente diffondendosi il gusto per la "biografia esempla re " , legata all'archetipo plutarcheo e del tutto funzionale a un modello storiografico sempre più imbevuto dell'ideologia signorile medicea 35• Una cosa va però detta, che si configura come peculiare dell'ambiente fiorentino: egemone negli ambienti medicei, tale linea di tendenza storiografica, non riassume però tutta la produzio ne storica di tutti gli ambienti cittadini. Accanto al filone "ufficiale" gode ancora grandissima for tuna e prestigio, infatti, il vecchio filone della memorialistica e dell'annalistica di tipo cronachi stico, per gran parte in volgare e profondamente radicato negli umori più vivi e spregiudicati del la città, non sempre conformistici e non sempre filomedicei. Il permanere di inestinguibili fer menti repubblicani, costante di tutta la storia fiorentina medicea dall'ascesa di Cosimo il Vecchio fin oltre il fatale 1 530 , costante cioè per più di un secolo, è testimoniato anche, fra l'altro, da tut ta una produzione storiografico-memorialistica non "ortodossa" che da Cavalcanti giunge fino a Rinuccini. Ma, in questo ambito memorialistico-cronachistico, anche la produzione più " allineata" e me no eversiva, quella, per intenderei, di un Capponi, di un Sozomeno, di un Buoninsegni, di un Gio vanni di Carlo, di un Allegretti, di un Dei non appare condizionata da opzioni ideologiche troppo soffocanti ed è piena di un gusto realmente conoscitivo per la storia, della quale forse non è in gra do di ricostruire rationes unitarie ma della quale riproduce, a volte anche fedelmente, la sostan ziale mobilità e la stretta connotazione in senso politico delle sue vicende; in questo certo aderen te alla ricca tradizione cronachistica trecentesca36• Con un successo di pubblico notevolissimo e le gato a vari ceti di popolazione: lo testimonia, per tutte, la diffusione ampia e a più livelli di un'ope ra come quella di Buoninsegni "· Del resto la grande lezione metodica bruniana finì per fruttificare anche in questo filone sto riografico se, a cavallo tra XV e XVI secolo, poterono nascere "storie " come quelle di Parenti o di Cerretani o del giovane Guicciardini, delle quali molti hanno già messo in luce la notevole matu rità critica ed epistemica nonché la specifica capacità di riflessione sui nessi storia-politica '8. Alle soglie del XVI secolo la storiografia fiorentina presenta, perciò, una ricchezza e un fer mento di indirizzi, a volte tra loro antagonistici, dawero impressionanti. Mentre la città conosce, con Savonarola prima e con Soderini poi, una breve stagione repubblicana piena di contraddizio ni ma anche, certo, di grandi speranze, di grandi proiezioni progettuali sul futuro. Proprio a que sta ricca humus attingerà la sua formazione Machiavelli: con questi modelli storiografici, fiorenti ni e italiani, egli dovrà confrontarsi e rispetto a questi ambirà, in tutto o in parte, distinguersi.
5· GLI UMANISTI E LA STORIA
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Note I. C. Ginzburg, Rapporti diforz.a. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000. 2. G. M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pacini, Pisa 1979; G. M. Anselmi, P. Ferratini, Letteratura italiana. Secoli ed epoche, Carocci, Roma 2om, cap. 5· Tali questioni sono ben presenti nell'edizione critica, per l'Edizione naziona le delle opere di Niccolò Machiavelli, delle !storie fiorentine, per la cura di Gian Mario Anselmi, Alessandro Montevecchi e Carlo Varotti (Salerno, Roma, in corso di stampa). Cfr. infine B. Stasi, Apologie umanistiche della "historia", CLUEB, Bolo gna 2004. 3· Si veda in questo senso come in modo fortemente innovativo affronti tali questioni la nuova rivista "Ecdotica" (Ca rocci editore), di cui sono usciti i primi quattro numeri. 4· Sempre fondamentali studi ed edizioni di Salvatore l Camporeale. Poi cfr. O. Besomi, M. Regoliosi (a cura di), Lo renzo Valla e l'Umanesimo italiano. Atti del Convegno internazionale di studi umanistid· Parma, 18-19 ottobre 1984, Anteno re, Padova 1986; G. Antonazzi, Lorenzo Volla e la polemica sulla donazione di Costantino, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma I985; L. Valla, Antidotum in Facium, edidit M. Regoliosi, in aedibus Antenoreis, Patavii 1981; D. Maffei, Gli inizi del l'umanesimo giun'dico, Giuffrè, Milano I956'. 5· L. Valla, Gesta Ferdinandi regis Aragonum, edidit O. Besomi, in aedibus Antenoreis, Patavii I973· Inoltre un ottimo punto di riferimento critico sono gli Atti del Convegno "La storiogra/ia umanistica", 2 voli., Sicania, Messina 1992, vol. I, t. 2, pp. 501-760. Infine cfr. nota precedente. 6. G. Albanese (a cura di), Studi su Bartolomeo FactO, ETS, Pisa 2ooo; G. Ferraù, Il tessitore di Antequera. StorzOgra/ia umanistica meridionale, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 2001; B. Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri, a cura di D. Pietragalla, Edizioni dell'Orso, Alessandria 2004. 7· Cfr. nota 2; P. Viti (a cura di), TradizzOnigrammaticali e linguistiche nell'Umanesimo meridionale, Conte, Lecce 2006. 8. J.·J. Marchand, }.-C. Zancarini (a cura di), Storiogra/ia repubblicana fiorentina, 1494-1570, Cesati, Firenze 2003. 9· G. M. Anselmi, Umanisti ston'ci e traduttori, CLUEB, Bologna, 1981; cfr. , anche per ciò che si argomenterà in segui to, A. M. Cabrini, Un'idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Bulzoni, Roma 2001. 10. G. Scaramella (a cura di), Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, "Rerum ltalicarum Scriptores", r8.3, Zani chelli, Bologna 1917-34· Fra i contributi più documentati in merito, seppure profondamente diversi fra loro nella valuta zione complessiva, G. A. Brucker, Firenze nel Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1980; V. l Rutenburg, Popolo e mo vimentipopolan' nell'Italia del '3oo e '400, Il Mulino, Bologna 1971. 11. C. Bec, Au début du XV" siècle: mentalité et vocabulaire des marchands/lorentins, in " Annales", XXII, 1967, pp. 120626; Id., Recherches sur la culture à Florence au XV" siècle, in "Revue des Études italiennes", 1968, 3, pp. 211-45; A. Tenenti, Les marchands et la culture à Florence, in " Annales", XXIII, 1968, pp. 13I9-29; L. Green, Chronicle into History. An Essay on the Interpretatz'on o/History in Fiorentine Fourteenth-Century Chronicles, Cambridge Universiry Press, Cambridge 1972. I2. Anselmi, Ferratini, Letteratura italiana, cit. I3. Ovvio il riferimento agli studi di Baron. I4. M. B. Becker, Towards a Renaissance Historiography in Florence, in A. Molho,J. A. Tedeschi (eds.) , Renaissance. Studies in Honor o/Hans Baron, Sansoni, Florence I970, pp. I4I-71; C. Varese, Storia e politica nella prosa del Quattrocento, Einaudi, Torino 1961. I5. Su queste problematiche cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, 2 voli., Il Mulino, Bologna I989; Id., La libertà prima delliberalismo, Einaudi, Torino 2001; C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento. Da Pe trarca a Machiavelli, Bruno Mondadori, Milano I998. I6. L. Bruni, Panegirico della città di Firenze. Presentazione di G. De Toffol, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 44, nel quale viene riportato il testo a suo tempo edito da Baron, ai cui studi rinviamo anche per la Laudatt'o. I?. lvi, pp. 52-4. 18. Un certo peso può aver giocato il mito della translatio, ancora profondamente avvertito in epoca umanistica, seb bene declinato da Bruni in chiave repubblicana quasi rovesciando quello imperiale (J. Le Goff, in Storia d'Italia, vol. II, Dal la caduta dell'Impero romano al secolo XVI1l, t. 2, Einaudi, Torino 1974, pp. 1964 ss.). 19. Bruni, Panegin'co, cit., p. 6o. 20. Su sorgere e svilupparsi di questa ideologia cfr. ]. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano. 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L' ETÀ DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO binstein. Cfr. infine C. Vasoli, Brunz: Leonardo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XIV, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1972, pp. 618·33. 24. Varotti, Gloria e ambiZione, cit.; A. Quondam, Introduzione, in F. Calitti (a cura di), L'arte della conversazione nel le corti del Rinascimento, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2003. 25. «Nam libellum quidem, aut epistolam, si paulo coneris, faciliter transigas. Historiam vero, in qua tot simul rerum longa et continuata ratio sit habenda, causaeque factorum omnium singulatim explicandae, et de quaque re iudicium in me dio proferendum, eam quidem velut infinita mole calamum obruente, tam profiteri periculosum est, quam praestare diffi cile. lta dum quisque vel quieti suae indulger, vel existimationi consulit, publica utilitas neglecta est, et praestantissimorum virorum rerumque maximarum memoria pene obliterata (Bruni, Historiarum Florentinipopuli, ci t., pp. 3·4, corsivo mio). 26. «Floremiae igitur admodum vetusta atque, ut ita dixerim, primaeva videtur nobilitatem inter plebemque conten tio. Fuit haec eadem, credo, aliis civitatibus: sed hic nescio, quomodo robustiores vigentioresque familiarum stirpes, tam· quam facundissimo in agro satae, altius increverunt; et plebs animis erecta potentioribusque infensa id unum habuit con· cordiae vinculum, nobilitatis metum. Cum enim inferioris potentiae homines magnitudini illorum pares esse non possent, ac saepe iniuriae contumeliaeque imbecillioribus inferrentur, unica prospecta est resistendi via, si populus una sentiret, ne minis iniuriam pateretur, privatim inflictas contumelias publice vindicaret. Studia reipublicae capessendae hinc nimirum sum populo coorra; hinc: nobilitatis depressio [. .. ]. Hoc certamen diu incerto exitu conflietavit civitatem: utque est hu manarum vicissitudo rerum, hi modo, illi quandoque praevalebant [. . . ]. Iuri autem dicundo in civitate duo praeerant ma· gistratus: alter cum potestate legitima ad causas et iudicia, alter populi defensor. Quia vero contigebat maleficia per nobi litatem committi, ad quorum punitionem magistratus accedere non audebat, quoniam stipati catervis suorum nobiles ab ipso quoque magistratu formidabantur, et vexati pulsatique apparitores frequenter redibant, sicque iustitia impediebatur: ad eam rem, tollendam corrigendamque, vexilliferum iustitiae creare placuit» (ivi, pp. 78-9). 27. E. Santini, Leonardo Bruni Aretino e i suoi "Historiarum Fiorentini populi libri xrl'', in "Annali della R Scuola Nor· male Superiore di Pisa " , XXII, 1910, pp. H73; B. L. Ullman, Leonardo Bruni and Humanistic Historiography, in Id., Studies in the Italian Renaissance, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1955, pp. 321-44. Sempre da ricordare in proposito gli im portanti studi di Anna Maria Cabrini dedicati al Machiavelli storico e alla storiografia che lo ha preceduto. 28. Bruni, Historiarum Florentinipopuli, cit., p. 3· 29. Ma cfr. anche i lavori di Gilbert e Garin. 30. Per qualche utile indicazione cfr. A. La Penna, Appendice, in Id., Sallustio e la "rivoluzione" romana, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 409·3r. 31. Anselmi, Ferratini, Letteratura italiana, cit.; F. Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciar dini, Il Mulino, Bologna 2003. 32. E. Santini, La fortuna della "Storia Fiorentina" di Leonardo Bruni nel Rinascimento, in "Studi storici" , XX, 1911, pp. 177-95; D.J. Wilcox, Matteo Palmieriand the "De captivitate Pisarum ltber", in Molho, Tedeschi (eds.) , Renaissance, cit., pp. 265-81, sull'immediata fortuna del modello bruniano presso gli storici fiorentini. 33· Ma è forse bene pensare anche a influssi agostiniani: nella crisi morale delle istituzioni laiche e della Chiesa trovava sempre più spazio, infatti, un ritorno a temi cari a certa patristica e a Agostino particolarmente. 34· Cfr. note 16-17. 3S· Esemplari in questo senso sono le prove storiografiche di Poliziano, Valori, Vespasiano da Bisticci. 36. Ricordiamo i tanti studi di Alberto Tenenti. 37· Su Buoninsegni cfr. A. Molho, Buoninsegnz; Domenico, in Dizionario biografiCo degli Italiani, vol. XV, Istituto del la Enciclopedia italiana, Roma 1972, pp. 251·2; Id., Domenz'co di Leonardo Buoninsegni's "!storia Fiorentina", in "Renaissance Quarterly", 23 , 1970, pp. 255-66; G. M. Anselmi, Machiavelli e !"'!storia Fiorentina" di Domenico di Leonardo Buoninsegni, in "Studi e Problemi di Critica testuale", IX, 1974, pp. II9·J2. 38. G. Pampaloni, Piero di Marco Parenti e la sua "Historiafiorentina", in "Archivio storico italiano", CXVII, 1959, pp. 147·53. Su Parenti sempre rilevanti gli studi e le edizioni a cura di Andrea Matucci. Inutile, poi, qui, rinviare ai moltissimi contributi su Guicciardini che, direttamente o indirettamente, affrontano la problematica della sua giovanile formazione politica e storica. Si pensi, inoltre, al successo di cui godrà in Firenze il volgarizzamento delle Storie bruniane curato da Ac ciaiuoli, che quasi soppiantò, nell'interesse dei lettori, il testo originale. Su Machiavelli e la ricezione della storiografia uma nistica nella tradizione rinascimentale e moderna cfr. G. M. Anselmi, Il tempo ritrovato. Padania e Umanesimo tra erudi zione e storiografia, Mucchi, Modena 1992. Per approfondire la tradizione storiografica umanistica è sempre bene accede re ai tanti studi di G. Resta e G. Albanese.
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Galeotto Marzio fra Umanesimo bolognese ed europeo 1'
6.1
Vumanesimo di Galeotto
Un'erudizione sterminata, una personalità vulcanica e accattivante, i mille interessi, una schiet tezza spesso incontenibile e un gusto tutto particolare per la battuta arguta resero l'umanista nar nense Galeotto Marzio ' un personaggio di grandissima notorietà, conteso dapprima fra le univer sità italiane e successivamente fra le corti europee '. Questa popolarità, viva già durante la sua esi stenza e protrattasi per lunga parte del XVI secolo ', non è stata, però, in tutto e per tutto positiva: essa infatti ha portato scrittori coevi o posteriori a fare di Galeotto un "personaggio " , esaltando certi tratti singolari della sua vita e della sua personalità a scapito di altri 5• Un primo riconoscimento del ruolo di questo autore nel panorama scientifico e letterario del l'Umanesimo avvenne solo nel nostro secolo quando Liszl6 Juhasz pubblicò alcune sue opere mi nori in edizione critica ', Tibor Kardos mise l'accento sul ruolo svolto da Galeotto nel promuove re e curare la splendida biblioteca alla corte di Buda e sul grande valore dei suoi studi scientifici 7 e l'americano Lynn Thorndike fu autore di un importante saggio sull'attività scientifica marziana commentando il De incognitis vulgo e il De doctrina promiscua '. Nel secondo dopoguerra si aprì la stagione degli studi contemporanei grazie all'opera di Ma rio Prezza che partendo dal De incognitis vulgo approfondì ben presto opere e !ematiche marzia ne con particolare riguardo al campo religioso, filosofico e scientifico '. Era finalmente riaccesa l'at tenzione della critica su questa figura che successivamente venne avvicinata da vari studiosi in campo medico w e filosofico " , i quali finirono, però, per estrapolare le caratteristiche e il pensiero dell'autore in questione dal suo tempo e dal suo contesto culturale inserendolo in filoni culturali " che si delineavano al di fuori della concretezza del momento storico '' e portavano a fraintendi menti e astrazioni che non aiutavano a sciogliere le problematiche effettivamente in campo '4. li momento più alto nella consapevolezza dell'importanza della vicenda di Galeotto Marzio e parimenti nella coscienza dei limiti dei risultati raggiunti dagli studi su questo argomento è rap presentato dal Convegno Galeotto Marzio e l'Umanesimo italiano ed europeo tenutosi a Narni fra 1'8 e l'u novembre 1975 sotto il patrocinio del Centro di Studi Storici di Narni''· Questa occasione si rivelò particolarmente importante perché si incontrarono studiosi di na zionalità ungherese e italiana che poterono confrontare due diverse esperienze nella riflessione sul l'umanista narnense e che fin allora avevano lavorato in modo autonomo, pur nella conoscenza del le rispettive posizioni. Più che sviluppare un tema preciso o un settore particolare il convegno del 1975 cercò di sondare tutti i campi su cui si erano orientate le ricerche su Marzio e di fornire un quadro più ampio e sistematico possibile dei risultati raggiunti in materia '6. Uno spazio particola re ebbero due opere: il De ho mine e il De egregie, sapienter, iocose dictis ac /actis regis Mathiae ad ducem Iohannem eiusfilium liber. 1.
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Questo capitolo è stato elaborato in stretta collaborazione con Elisa Boldrini che desidero ringraziare.
L' ETÀ DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO
Al di là delle singole precisazioni e dei singoli argomenti approfonditi, ci sembra che un risul tato rilevante dei quattro giorni di studi narnensi sia quello di aver indicato con chiarezza le nuove piste su cui avrebbe dovuto muoversi nel futuro la ricerca su Marzio. Per colmare le lacune biogra fiche esistenti si indicò la necessità di approfondire le ricerche di carattere documentario che erano ancora in fase embrionale''; per definire con più chiarezza il pensiero di Galeotto l'impegno avreb be dovuto orientarsi, da un lato, verso la preparazione di edizioni critiche integrali delle opere ine dite o pubblicate in edizioni antologiche'', dall'altro verso un più approfondito studio degli am bienti culturali in cui l'autore visse'' o con cui ebbe contatti '". Ugualmente significativo, poi, ci ap pare lo sforzo, comune a tutti gli studiosi intervenuti a Narni, di ricollocare innanzitutto Galeotto Marzio entro i confini culturali del suo tempo per capirne a pieno la portata della riflessione. In piena sintonia con le linee tracciate dal convegno sono altri due interventi nel panorama della critica galeottiana. Si tratta di un saggio pubblicato nel 1980 da Cesare Vasoli " dedicato in particolare alla formazione del nostro umanista negli ambienti ferrarese e padovan o " e alla sua ri flessione in campo religioso e scientifico'' e di una minuziosa ricostruzione della vicenda biogra fica di Marzio pubblicata nel 1992 da Gabriella Miggiano sulla rivista " Il Bibliotecario" ''· 2. Nonostante l'acutezza e l'efficacia di queste ultime ricerche è evidente il fatto che Galeotto Marzio non gode ancora dell'attenzione e del rilievo che meriterebbe: egli sembra collocarsi in una posizione sostanzialmente eccentrica rispetto all'Umanesimo italiano e alle ricerche che riguarda no questo periodo. Al fine di individuare le ragioni di questa situazione ci sembra particolarmente significativo il giudizio espresso da Manlio Pastore Stacchi nel corso del suo intervento al convegno tenutosi a Narni nel 1975 dal titolo Pro/ilo di Galeotto Marzio umanista eretico. In queste prime battute il re latore riassumeva la tesi del suo studio:
vorrei anticipare nel titolo, sul filo di una metafora, la definizione del rapporto di estraniamento e di emargi nazione in cui si pone l'attività specificamente letteraria di Galeotto rispetto agli interessi e alle tendenze me todologiche dell'Umanesimo italiano nella seconda metà del Quattrocento, configurandosi per certi caratte· ri quasi come una sorta di eterodossia professionale, isolata e colpita con il bando scientifico dalla comunità dei letterati di formazione più rigorosa o semplicemente più in sintonia con gli indirizzi della ricerca filologi co-antiquaria emergenti nei tre decenni conclusivi del secolo 11•
Galeotto, dunque, coltivò interessi, prese posizioni, scrisse testi che lo resero eccentrico rispetto alle tendenze maggiori del suo secolo e fecero di lui una sorta di '', che non seppe > 77 e lascia molti dubbi sul fatto che Marzio ab bia fino in fondo riflettuto sulle implicazioni delle sue affermazioni. 5· Prima di esaminare nei suoi tratti essenziali il pensiero filosofico di Galeotto Marzio ci sem bra opportuno fare una precisazione: il nostro autore non compie una riflessione organica 78, non si preoccupa sempre di legare rigorosamente le idee, la sua prosa spesso 79• Questo ha fatto sì che nei suoi scritti fossero presentate posizioni diverse tanto che i com mentatori non sono sempre stati concordi sulla sua appartenenza a una corrente di pensiero piut tosto che a un'altra. Esiste, in particolare da parte della critica ungherese meno recente, la tendenza a situarlo nell'ambito del clima platonizzante della corte di Mattia Corvino80 in virtù soprattutto della copia del De incognitis vulgo che nel 1478 Galeotto donò al re e che portava i segni della re visione conseguente al processo per eresia. Su questa interpretazione del pensiero marziano tor neremo più avanti, laddove ricostruiremo gli aspetti salienti della vita nelle corti ungheresi presso le quali Marzio visse per molti anni. l commentatori più recenti 81 evidenziano invece come, pur senza professare apertamente l'ap partenenza a una certa corrente filosofica piuttosto che a un'altra, Galeotto formuli critiche al pla tonismo e assuma posizioni in sintonia con la tradizione aristotelica con la quale venne a contatto probabilmente durante la sua permanenza a Padova. Il concetto di uomo, ad esempio, sotteso da un testo come il De homine e apertamente espresso nel De doctrina promiscua in questi termini: 8', è inconciliabile con le posizioni neoplatoniche. Per Marzio, infatti, l'uomo è solidamente ancorato alla sua matrice corporea e biologica 83, la sua vita è «consistentia per alimentum» 8\ per tanto i filosofi platonici e coloro che si dedicano alla contemplazione sono estranei alle cose uma ne e di conseguenza sono come morti 8S. La critica a quelli che Marzio considera eccessi dello spiritualismo umanistico e platonico si sviluppa con grande chiarezza nel cap. XX del De doctrina promiscua 86• Queste le sue parole: Philosophos autem huiusmodi esse statim patebit. Eos non uri corpore facillimum est cognitu. Is enim cor pore utitur qui ea efficit quae moles corporea affert. Moles autem corporis voluptates, affectus, tarditatem, hebetudinemque animi praestat 87;
i filosofi, cioè, tengono lontano da se stessi speranze, desideri, brame, gioie, dolori 88, sentimenti che non si possono scacciare senza rinnegare la loro fonte che è appunto il corpo''· Marzio, in-
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L' ETÀ DELL' UMANESIMO E D E L RINASCIMENTO
somma, considera inconciliabili con l'esistenza umana, legata indissolubilmente alla sua matrice fi sica, le virtù che umanisti come Pico o Ficino ponevano ai vertici della loro esaltazione dell'uomo. Egli ammette che il pensiero e la contemplazione awicinano a Dio, rendono l'uomo simile a Dio90, ma aggiunge: > '70• In questo modo, in quella struttura perfettamente unitaria che è l'universo, l'anima umana ha una sua collocazione precisa e nello stesso tempo, per le sue qualità, può aspirare a divenire simile a Dio''' e può dominare sugli altri elementi e animali '7'. Alla luce di tutto ciò appare con grande chiarezza che l'essere umano acquista valore soprat tutto grazie all'anima, con una conseguente svalutazione della sua corporeità "'· In questo senso la posizione ficiniana è decisamente lontana da quella che Marzio esprime nel
De homine. Un'opera scritta qualche anno più tardi, però, ci mostra che Marsilio Ficino si interessò anche al corpo umano, e lo fece con un intento preciso: «medicus esse volo» 274; si tratta del De vita, un testo composto da tre trattati il cui assemblaggio awenne nell'estate 1489 "'· Nel proemio all'opera, dedicata a Lorenzo de' Medici, l'autore dice che, dopo aver praticato '76 interpretando gli scritti di Platone e scrivendo "', vuole seguire le orme pater ne e dedicarsi alla medicina dei corpi'''· Sarebbe certo un errore pensare a un cambiamento completo degli interessi dell'autore tosca no; così «questo libro sul corpo è in realtà, eminentemente, un libro sull'anima: e precisamente sui modi per liberare l'anima dalle pressioni, dalle angustie, che le pervengono per la mediazione del corpo>> '"; è tuttavia innegabile che la sfera corporea è centrale in esso. Infatti se l'attività intellet tuale dell'anima resta '80, occorre che questo valore sia pro tetto curando il corpo da cui esso emerge e che lo mette in rapporto con la natura, col cielo, con l'universo 281• L'uomo, cioè, immerso in un cosmo che per Ficino è di tipo tolemaico 28\ non è a sé stante ma in continuo rapporto e sotto l'influsso di tutti gli altri elementi di esso. In quest'ottica assume particolare rilievo il tema astrologico trattato soprattutto nel libro III dell'opera. Al di là delle !ematiche fin qui enunciate il De vita comprende vari argomenti anche molto di versi fra loro: vi si trovano ricette mediche basate sul principio che le sostanze introdotte nel cor po siano tramite fra l'uomo e l'energia dell'universo; sono descritte malattie, medicamenti e rime di contro disturbi quali insonnia, stordimento e perdita di memoria '83; ci sono lunghe dissertazio ni sull'influsso degli astri nei vari momenti della vita '84 e sono illustrate le tecniche per costruire i talismani che permettono all'uomo di trarre a sé l'energia dei cieli '''· Nel De vita c'è inoltre la fi ducia nella magia, cioè nella potenza ed efficacia operativa del linguaggio sulla realtà '86• Un ulti mo concetto ci sembra importante per capire il pensiero ficiniano sull'uomo e il De vita in parti colare: si tratta dello spiritus, cioè di quel qualcosa '87• Lo spiritus co stituisce pertanto un termine di mediazione fra anima e corpo, esso riceve sensazioni che elabora in simulacri e comunica all'anima 288• Guardando alla concezione dell'uomo di un altro grande neoplatonico quattrocentesco, Pico della Mirandola, troviamo alcune consonanze con la visione di Ficino: anche in questo caso l'es sere umano è inserito in un universo unitario ed è in relazione con gli altri esseri. Questo tema si
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sviluppa soprattutto nella cosiddetta Orazione sulla dignità dell'uomo, il De hominis dignitate, scrit ta nel r486 '89. Nella parte iniziale del discorso, prima della giustificazione delle sue posizioni filosofiche, te ma cardine del testo, Pico illustra in che cosa consista la grandezza dell'uomo. Sono pagine alta mente suggestive nelle quali la superiorità dell'essere umano non è imputata né alla sua posizione di privilegio, né a particolari qualità '90, ma alla sua assoluta libertà ''' che gli deriva dal fatto che il creatore ha posto in lui «i germi di ogni sorta di vita» �9�. La dignità dell'uomo, perciò, sta nella sua libertà di scelta che è illimitata anche se non tutte le opzioni sono poi riconosciute da Pico ugualmente valide e capaci di portare l'uomo alla sua più alta realizzazione '93. In quest'ottica di libertà va letta anche l' awersione che Pico manifesta verso l'astro logia e la magia che sostenendo gli influssi di elementi esterni sull'uomo ne limitano l'autonomia '"· Simile per vari tratti a quella dell'Orazione di Pico è la visione dell'essere umano contenuta nel Picatrix, dove in un macrocosmo in tessuto di relazioni fra i vari esseri «la condizione eccezionale dell'uomo è di costituire, più che un ente fra gli enti, una realtà a parte: una possibilità aperta a tut ti i gradi dell'essere»'"· A differenza di quanto awiene nell'opera pichiana l'uomo del Picatrix rea lizza le sue possibilità tramite una forma di scienza che è la magia cioè «conoscenza del cielo e del le sue forme aperte ed occulte, su tutti i piani della realtà, e, insieme, dominio delle tecniche - dal le formule ai talismani - con cui agire sulle forze del mondo>> '96. Un ultimo testo reputiamo opportuno prendere in esame per completare il quadro tracciato: il Liber de homine di Girolamo Manfredi pubblicato a Bologna nel 1474 '97, cioè solo due anni do po la prima edizione del De homine di Marzio. Quest'opera non appartiene alla "linea " della "let teratura sull'uomo" lungo la quale abbiamo fin qui sviluppato il nostro discorso, tuttavia essa è particolarmente significativa per le consonanze che presenta col testo marziano. Innanzitutto il modo in cui il tema è affrontato awicina i due trattati; entrambi, infatti, privi legiano nella descrizione dell'essere umano l'aspetto fisiologico e medico con grande attenzione al la medicina astrologica. Molto in comune hanno anche i due autori: la frequentazione dell' am biente ferrarese 298, l 'insegnamento a Bologna �99, la pratica medica }OO, l'attività di astrologo 30\ l'adesione alla scuola filosofica aristotelica '0'. n Liber de homine è in realtà un vero e proprio '0', la sua impostazione è di tipo enciclopedico e i problemi sono posti sotto forma di quesiti (in tutto 565) secondo l'esempio dei Problemata physica di Aristotele o delle Natura/es quaestiones di Seneca. Fra le fonti del testo certamente l'appena citato Aristotele è di capitale importanza '04, ma so no soprattutto le esperienze di medico e le conoscenze che Manfredi desumeva dalla mentalità co mune del suo tempo a prevalere '05• Il trattato, scritto in volgare, è diviso in due parti chiamate li bri: la prima illustra i mezzi per conservare la salute'06, la seconda sviluppa le caratteristiche delle varie parti del corpo umano '0' e svolge, pertanto, la stessa materia del De homine marziano. In questa descrizione dell'uomo Manfredi sembra muoversi soprattutto alla luce di due prospet tive, e cioè quella della '08 per il quale le passioni e le tendenze individuali dipendono dagli influssi astrali e dalla matrice fisica dell'uomo'"'; e quella di un riaffermato valore della medicina che analizza la morfologia dell'individuo ma anche aspetti com portamentali e sociali quali l'alimentazione, l'ambiente, le abitudini di vita e quelle sessuali. Fatta eccezione per il Liber de homine di Girolamo Manfredi i trattati, o più genericamente le concezioni dell'essere umano sin qui esaminate hanno un dato comune: in esse l'uomo, posto da Dio nel mondo, agisce come essere ragionevole sulla irrazionalità degli altri esseri terreni e grazie alla ragione trova la forza e i motivi del suo dominio universale. Non così per Galeotto Marzio che, almeno nel De homine, > "0• La propensione di Marzio per questo indiriz zo filosofico trovò profonde motivazioni nella città patavina. Marzio giunse a Bologna nel 1463, cioè nel momento in cui le riforme del legato papale Bessa rione volte al riordino della città e dell'Ateneo bolognese dopo la crisi della prima metà del xv se colo erano già in attuazione e lo Studio viveva la sua grande rinascita "'· Egli si inserì perfettamen te nel clima della città petroniana, e dell'ambiente universitario in particolare, come dimostrano le invettive che egli non ebbe ritegno a scagliare contro due grossi personaggi quali Francesco Filel fo e Giorgio Merula "' e la sua collaborazione all'edizione della Cosmografia tolemaica nel 1476 as sieme a Girolamo Manfredi, Pietrobono Avogaro, Cola Montano e Filippo Beroaldo Seniore. Pur avendo alle spalle le esperienze vissute e gli studi fatti a Ferrara, Padova e Bologna, Mar zio compose il De homine in Ungheria, lo dedicò a un primate magiaro e diede, con quest'opera, il suo contributo agli interessi e ai temi che venivano dibattuti nel secolo xv in quella nazione. Ci sembra pertanto di particolare importanza e interesse delineare i tratti essenziali dell'am biente ungherese nel quale Galeotto visse, frequentando le corti di Strigonia e Buda, in diversi pe riodi fra il 1461 e il 148 6 "' . I rapporti fra la nazione italiana e quella ungherese crebbero, già n e l Medioevo "', i n paralle lo all'espansione dei turchi che minacciavano in modo sempre più pressante il mondo occidenta le. L'Ungheria per la sua posizione geografica costituiva, assieme a Venezia, >"' e (C. Calcaterra, Alma mater studiorum. Università di Bologna nella stonO della cul tura e della civiltà, Zanichelli, Bologna 1948, p. 144), awertiva la possibilità di nuove posizioni gnoseologiche le cui ragioni erano umane e non più ultraterrene (ivi, p. 147), apriva la strada dell'interesse per la filosofia della natura e per la medici na (ivi, p. 16o). Secondo Ezio Raimondi, Marzio con la sua solida preparazione (E. Raimondi, Codro e I'Umanesimo a Bo logna, Il Mulino, Bologna 1987\ p. 19, nota 22), la sua «indipendenza grammaticale e teologica» (ivi, p. 53), il successo in discutibile ottenuto (tbid. ) fu proprio fra i «nuovi maestri di umanità» (ivi, p. 38) che portarono nello Studio del XV secolo un nuovo amore per il mondo antico tentando di armonizzarlo con la tradizione speculativa bolognese. 10. Ricordiamo che l'attività medica era una componente di rilievo nella vicenda di Galeotto tanto che già nei secoli XVIII-XIX due opere di storia della medicina lo citano nelle loro pagine: A. von Haller, Bibliotheca anatomica, vol. I, apud Orell, Gessner, Fuessli, et Socc., Tiguri 1774, p. 165; S. De Renzi, StonO della medicina in ItaltO, 5 voli . , dalla tipografia del Filiatre-Sebezio, Napoli 1845·48, vol. II, p. 384; vol. III, p. 288. Contributi moderni allo studio di Galeotto-medico sono V. Busacchi, Galeotto Marz.io e il "De homine", in "Rivista di Storia critica delle Scienze mediche e naturali" , II, 1952, pp. 23542; L. Mi.inster, Medici italiani nei loro rapporti professionali e culturali con l'Ungheria, in "Corvina. Bollettino della Socie tà Mattia Corvino", s. 3, II, 1953, pp. 105-32; L. Premuda, Contributo alla conoscenza di Galeotto Marz.io medico, in Centro di studi storici di Narni (a cura di), Galeotto Marz.io e I'Umanesimo italiano ed europeo. Atti de/ m Convegno di studio: Narm; 8-II novembre 1975, Centenari, Roma 1983, pp. 51-67. u . A. Chastel, Marsi/e Ficin et l'art, Droz, Genève 1975; E. R. Briggs, Un pionnier de la pensée libre au XV" siècle: Ga leotto Marz.io da Narni (142J?·1497?), in AA.W., Aspects du libertini'sme au XVF siècle. Actes du Colloque internatt"onal de Som mières, Vrin, Paris 1974, pp. 75-84. Nel primo testo, dedicato alla nascita e allo sviluppo del movimento culturale dell'Ac cademia fiorentina, André Chastel giudicava l'opera di Marzio sostanzialmente mediocre, ma importante come segno di protesta contro lo spiritualismo neoplatonico. Briggs analizza, invece, il problema religioso in Marzio con grande atten· zione per temi quali la tolleranza religiosa, l'immortalità dell'anima, la salvezza dei pagani, la predestinazione, la necessità del battesimo ai fmi della salvezza e legge nel pensiero di Galeotto in proposito l'impronta delle condizioni politiche e so· ciali ungheresi nel XV secolo. Il punto debole della riflessione di Briggs sta, a parer nostro, nel fatto che egli sulla base dei dati ricavati dalla sua analisi faccia del narnense un precursore di Copernico, Bruno, Cartesio e degli illuministi.
6. GALEOTTO MARZIO FRA UMANESIMO BOLOGNESE ED EUROPEO
12. È ciò che accade nel saggio di Briggs che fa di Marzio un precursore di correnti di pensiero che si spingono sino al XVIII secolo (cfr. nota II). 13. Ci sembra che la stessa cosa faccia Chastel, Marsi/e Ficin, cit., p. 140 quando, a proposito del De doctrina promi scua, afferma: «cet ouvrage pourrait trouver piace, en raison de sa date e de sa virulence, parmi les courants anti-classiques du xv� siède et du XVI�, étudiés par H. Haydn». 14. Questo è il giudizio che due autori come Cesare Vasoli e Manlio Pastore Stacchi esprimono sul saggio di Briggs (C. Vasoli, Note su Galeotto Marzio, in Id., La cultura delle corti, Cappelli, Bologna 1980, pp. 38-63, pp. 39-40; M. Pastore Stacchi, Profilo di Galeotto Marzio umanista eretico, in Centro di studi storici di Narni, a cura di, Galeotto Marzio, cit., pp. l5·50, p. 4J). 15. Centro di studi storici di Narni (a cura di), Galeotto Marzio, cit. 16. Si svilupparono così tematiche di tipo biografico, altre concernenti gli ambienti in cui l'umanista operò e altre più squisitamente Hlologiche o Hlosofiche. 17. Cfr. ivi, p. 221. 18. Cfr. ivi, p. 223. 19. Cfr. ivi, pp. 222, 226, 229, 23320, Ci si riferisce in particolare alla Firenze medicea e al Vaticano (ivi, pp. 221-Ù 21. Cfr. nota 14. L'attenzione di Vasoli si sofferma precipuamente sull'analisi della formazione di Marzio attraverso la scuola di Guarino Veronese e i contatti con l'aristotelismo padovano (Vasoli, Note, cit., pp. 40-r), Segue un ampio studio delle tematiche della riflessione marziana con particolare attenzione al problema religioso (ivi, pp. 47-57) e a quello del rap porto fra «sdentia» e «auctoritates» (ivi, pp. s8-6o). 22. Cfr. ivi, pp. 40·1. 23. Cfr. ivi, pp. 47-57, 6o. 24. Miggiano, Galeotto Marzio da Narni, cit. 25. Pastore Stacchi, Profilo, cit., p. 15. 26. lbtd. 27. lvi, p. 16. 28. Cfr. ivi, pp. 16-9. 29. Martius, Epistolae, cit. 30. Per quanto riguarda i manoscritti e le edizioni del De homine cfr. Z. Nagy, Ilfenomeno umano nel "De homine li bri duo" e nella "Refutatio" a G. Merula di Galeotto Marzio, in Centro di studi storici di Narni (a cura di), Galeotto Marzio, cit., pp. 109·52, pp. 128-9; Frezza, Studi, ci t., p. 7, nota 1. A proposito della composizione e diffusione delle altre opere mag giori marziane cfr. Marzio, Quel che i più non sanno, cit., p. XXVIII; Id., Varia dottrina, cit., pp. XIX-XXI; Id., Chiromanz.ia, cit., pp. LVI-LVIII. 31. Solo incidentalmente Marzio stesso, polemizzando con Merula, ci dice di aver tenuto lezioni sulle Georgiche di Vir gilio nel 1450 (Martius, Refutatio, cit., c. CXVIIIr) . 32. Pastore Stacchi, Profilo, cit., p. 17. 33· Cfr. Z. Nagy, Ricerche cosmologiche alla corte umant"stica di Giovanni Vitéz., in T. Klaniczay (a cura di), Rapporti ve neto-ungheresi all'epoca del Rinascimento. Atti de/11 Convegno di studi itala-ungheresi: Budapest, 2�23 giugno 1973, Akadé miai Kiad6, Budapest 1975, pp. 65-93, pp. 77-8. 34· Questa posizione eccentrica a noi non sembra riguardare, come sostiene Manlio Pastore Stacchi, solo gli aspetti Hlologico-antiquari della produzione di Marzio, ma la globalità della sua riflessione. 35· Pastore Stacchi, Profilo, cit., pp. 19-22, esclude motivazioni legate o alla sua attività di medico, perché la polemica petrarchesca contro questa categoria era ormai esaurita, o alla violenza dei toni delle sue invettive, comune, allora, fra gli umanisti. 36. Così Mario Frezza descrive le attitudini di Marzio: «La sua opera è, come la sua vita, una continua ricerca di no vità, varia, incostante: egli non sa persistere in un argomento, come non riesce a star fermo troppo a lungo in un medesi mo posto. Quindi, l'originalità è la sua naturale forma mentis» (Prezza, Studi, cit., p. 35). 37· Pastore Stacchi, Profilo, cit., p. 42. 38. Cfr. ivi, pp. 22-8. Galeotto stesso, del resto, sostiene in più punti l'inutilità del greco, ad esempio: «Non sum nunc illa tempera, non indigemus Graecorum auxiliotempestate nostra» (Martius, Invectivae, cit., p. 33 ) ; «non enim debet Grae cus in rerum testimonio comparari ubique enim mendaces dicuntur Graeci [ ... ] mendaciorum Graecanicorum piena sunt omnia» (Id., Re/utatio, cit., c. CVIIr) . 39· F. Philelphus, Epistolarum familiarium libri XXXVII, ex aedibus Ioannis et Gregorii de Gregoriis fratres, Venetiis 1502, C. I64V. 40. Galeotto parlando, infatti, della sua esperienza ferrarese afferma che grazie all'amico Giano Pannonio si dedicò allo studio della lingua greca: «nam sub Guarino praeceptore meo et unico linguae Latinae dottore itemque sub lano Fan nonio poeta excellentissimo nunc autem sommo principe et Quinguecclesiensi episcopo litteris Graecis dedimus operam indeque fructum cepi maximum» (Martius, Invectivae, cit., p. 32) . 41. Significativo a questo proposito ci sembra il giudizio che Carlo Calcaterra formula sui toni delle dispute che si svol gevano fra gli umanisti nei secoli XV-XVI: «Asprissime furono spesso le polemiche e giunsero a invettive, ingiurie, dispregi, che oggi, a chi le riguardi, hanno dell'incredibile» (Calcaterra, Alma mater, ci t., p. 150).
L' ETÀ DELL'UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO 42. «Postremo suades, ut libros mittam. An nondum etiam satin misisse videor? Graeci mihi soli restant. Latinos iam omnes abstulistis. Di melius, quod nemo vestrum Graece scit! Puto et ex Graecis nullum mihi faceretis reliquum» (Mar tius, Episfolae, cit., pp. 7-8). 43· E di questo avviso Pastore Stacchi, Profilo, cit., p. 24, riferendosi in particolare al De homine, mentre a proposito della Refutatio in Merulam afferma che il più delle volte Marzio riutilizza le citazioni fatte da Merula stesso nell'operetta di critica al De homine. 44- Ibzd. 45· È bene precisare che non tutti i commentatori accettano questa lacuna in Marzio, anzi alcuni, come Eroli o Mala gola, sostengono l'esatto contrario (Eroli, Notizie, cit., p. 10; C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro. Studi e ricerche, Fava e Garagnani, Bologna 1878, pp. 63-4). 46. «Si quis enim in litteris Latinis vult recte proficere, ea discat, quae a Latinis posita sunt. Nam A. Gellius, Macro bius, Priscianus, Nonius Festus, Asconius, Lactantius, Valerius Probus, Donatus et alii paene infmiti ita exponunt, quae linguae Latinae conducunt, ut non sit opus a Graecis mendicare. In libris enim nostris sunt, quae usui nostro conveniunt» (Martius, Invectivae, cit., p. 33). 47· Cfr. ivi, pp. 33-4. Sempre in queste pagine la disistima di Galeotto per il greco sfocia in un'interessante afferma zione: a coloro che vogliono imparare la lingua ellenica in fmzione del latino l'autore consiglia piuttosto di studiare il fran cese, il tedesco e l'inglese perché «nulla enim lingua est in qua discere non possumus». 48. Id., Refutatio, cit., c. CVIIr. 49· lvi, cc. CXXIIIv-CXXIIIIr. In queste pagine Galeotto sostiene che la lingua latina è debitrice verso la greca non per le parole e il loro senso («significatio»), ma per le cognizioni teoriche legate alla lingua («ars»). so. Emblematica a questo proposito ci sembra l'esaltazione della lingua latina e della sua diffusione dal tempo del l'impero romano in poi che Lorenzo Valla compie nel quarto decennio del XV secolo nella prefazione alle Elegantiae /in guae latine (L. Valla, Le eleganze, in E. Garin, a cura di, Prosatori latini del Quattrocento, Ricciardi, Milano-Napoli 1952, pp. 593-631, pp. 594-601). 51. Cfr. R Sabbadini, La scuola e gli studi di Guarino Guarirli Veronese, Galati, Catania 1896, pp. 10-2, 26 (dedicate agli studi di Guarino presso il Crisolora). 52. Così scrive Sabbadini a proposito dell'insegnamento del greco che si teneva nella scuola di Guarino nel secondo corso, il grammaticale: «Nella sezione I o metodica si spiegavano le regole generali della costruzione dei verbi e si tratta vano di pari passo le parti irregolari della flessione, si insegnavano i principii di prosodia e di metrica e gli elementi del gre co» (ivi, pp. 35-6). «< manuali qui prescritti sono: per la sintassi le Regulae di Guarino, per la flessione irregolare il Doctri nale di Alexander de Villa-Dei; per la prosodia e la metrica parimenti il Doctrinale; per un corso superiore di grammatica, quando i giovani avevano appresi gli elementi del greco, si adoperava Prisciano; pel greco gli Erotemata del Crisolora o il compendio fattone da Guarino» (ivi, p. 36). 53· Basti ricordare l'esempio di Giano Pannonio. 54· L. SzOrényi, Le fonti antiche dei trattatifilosofici di Galeotto, in Centro di studi storici di Narni (a cura di) , Galeotto Marzio, ci t., pp. 153-63, p. 156. 55· Martius, lnvectivae, cit., pp. 33-4. s6. Cfr. ivi, p. 33· 57· Ibid. s8. «Nam deficeret me dies, si singulos percurrerem, iam tot philosophorum, theologorum, oratorum ac poetarum ca tervae sese mihi offerunt, ut non modo inveniri apud Graecos, sed ne fingi quidem possint his pares aut similes» (ivi, p. 34). 59· Questa espressione venne usata da Raoul Manselli nel corso della tavola rotonda che concludeva il convegno su Galeotto Marzio nel 1975 a Narni (Centro di studi storici di Narni, a cura di, Galeotto Marzio, cit., p. 22o). 6o. Ibid. 61. Prezza, Studi, cit., p. 36. 62. «Plerosque miraturos arbitrar, nisi catione factum appareat, me nonnulla ex libris Avicennae et aliorum excerpisse et punice dieta quandoque adduxisse» (Marzio, Varia dottrina, cit., p. 79). Precisiamo che in tutto il capitolo in questione Marzio confonde i termini «punico» e «arabo» dando di volta in volta il significato di arabo o cartaginese all'uno e all'altro. 63. «Cum apud idoneos et maxime nostrates, non nisi Graecitas cum Latinitate testimoniorum integritatem in verbis exhibeat: id enim recte dictum ac bene perpensum putatur quod ab altera duarum linguarum defluxit» (zhid. ). 64. «Sed hi male sentiunt qui disciplinarum principatum, multis iam annis elapsis. Graeciae aut ltaliae tribuunt. Nam in lingua punica tot tamque excellentes disciplinarum scriptores superioribus annis eluxere, ut, non modo veteri Graeciae et antiquae et novae Italiae, sed Aegypto conferii ac comparaci possint» (zhzd. ). 65. Cfc. ibzd. 66. Cfr. Prezza, Studi, cit., pp. 39-40. 67. Cfr. Marzio, Varia dottrina, cit., pp. 80-3. Si tratta di un'esposizione che pullula di credenze popolari, di citazioni di «auctores» e di luoghi comuni. 68. «Cui igitur vitio dabitur si ab hac praeclarissima lingua, a gente nobilissima, armis, litteris, navigationibus astri sque insigni, aliquid praeclarum mutuabitur exemplo Romanorum qui, Carthagine capta, cum bibliothecas regulis Africae donassent, duodetriginta volumina eruditissimi Magonis sibi senatus reservavit mandavitque in linguam nostram transfer ri?» (ivi, p. 83). 69. Ibid.
6. GALEOTTO MARZIO FRA UMANESIMO BOLOGNESE ED EUROPEO
70. Cfr. ivi, pp. S5·6. 71. «Nam in libro nostro, Magnifice Laurenti, punicum aliquando verbum inseremus, ut ad rectam normam reduca mus, et, cum familiae tuae nomen Medici fataliter inhaereat, merito causam praestabit ut aegrotantem Latinitatem, et ma xime in medicina, sanitari restituemus, ubi efficax remedium interveniet. Sed cura desperabitur, quoquo modo nequitiam morbi mitigabimus» (ivi, p. 8s). 72. «Sed gravitas et sapientia Romanorum et doctissimorum hominum natura mosque fuit celeriter arripere quod uti le honestumque foret, undecumque veniret» (ivi, p. 86). 73· lvi, p. XXXIV. Ricordiamo che nella seconda invettiva contro Filelfo Marzio aveva affermato l'utilità di studiare anche lingue moderne quali inglese, tedesco e francese (cfr. nota 47). 74· lvi, p. XXXV. 75· lbid. 76. Mario Prezza avvicina su questo argomento le intenzioni di Marzio a quelle di Pico della Mirandola che, nella let· tera a Ermolao Barbaro, difende il sapere e la cultura di tutti i tempi (Martius, Varia dottrina, ci t., p. XXXIV; Prezza, Studi, cit. , p. 36). 77. Martius, Varia dottrina, cit., p. XXXVI . 7S. Così Mario Prezza descrive l'atteggiamento filosofico di Galeotto: «Il Marzio non era un temperamemo filosofi co, e tra i problemi dell'anima, della fede, della predestinazione, finisce per restare impigliato come in una inestricabile re te, e non riesce a coordinarli, giungendo a conclusioni spesso contrastanti» (Prezza, Studi, cit., pp. 2S-9). 79· lvi, p. 29. So. Cfr. J. Hustzi, Tendenze platoniz.z.anti alla corte di Mattia Corvino, in "Giornale critico della Filosofia italiana n, XL, 1930, pp. 1-37, 135-62, 220-36, 272-87; Kardos, Mattia Corvino, cit. SI. Ci riferiamo soprattutto a Giuseppe Saitta, Mario Prezza e Cesare Vasoli. S2. Marzio, Varia dottrina, cit., p. 105. S3. Il cap. XIX del De doctrina promiscua, in particolare, ci sembra possa chiarire l'atteggiamento di Galeotto in pro posito. Materia di questa sezione è il coito; dopo aver ricostruito le ragioni che avevano spinto gli antichi a non nominare nemmeno l'argomento e dopo aver precisato «Nos vero inpraesentiarum honesto vocabulo coitum usurpabimus», Marzio compie un'analisi medica e scientifica di questo tema, pur restando legato, come suo solito, agli autori classici (G. Martius, De doctrina promiscua liber, Laurentius Torrentinus, Florentiae 1548, pp. 169·73 - ci serviremo di questa edizione cinque centesca dell'opera marziana per i brani non contenuti nell'antologia curata da Mario Prezza). S4. lvi, p. 101. S5. Queste le parole esatte usate da Galeotto: «ea quae de philosophis dieta sum hortantur ut ostendamus philoso· phantes et vitae inspectivae deditos humanarum rerum exortes et, ut consequens est, mortuos esse» (ibid. ). S6. In queste pagine Marzio indica con il termine «philosophi» i filosofi di ispirazione platonica e in particolare quel li suoi contemporanei. Cfr. il parere di Mario Frezza in proposito in Marzio, Varùt dottrina, ci t., p. XXIX. S7, lvi, pp. IOI·2. SS, «Sed philosophus nihil concupiscit, nihil formidat, nihil sperat, nullo gaudio agitatur, nullo dolore torquetur; om· nia enim illa, unde haec manant et pullulant, conculcat et obterit et clipeo tandem rationis a se abicit» (ivi, p. 102). S9. «Haec autem corpori annexa sunt. Sed nemo huiusmodi affectus reicit, nisi fontem eorum aut siccet aut fugiat. Fons autem est corpus, ut iam dictum est, et qui siccat aut fugit corpus moritur: mortuus ergo philosophus est» (ibid. ). 90. «Philosophus igitur, mortuus sine corpore, dei est amicus, ut ait Plato ab Agostino alligatus. Sed amicitia non ni si ex similitudine nascitur, est ergo philosophus deo similis et omnium possessor, nam omnia sum dei et amicorum com· munia omnia» (ibid. ). 91. lvi, pp. 102-3. 92. «Praeterea in hoc animae corporisque nexu, qui vita dicitur, superbia viget, avaritia grassatur, ira dominatur, invi dia torquet, spurcitia ganeaque oblectant, desidia illaqueat, ita ut haec, ab illis superioribus orta, ut maxima ab illa tabida corporis contagiane proveniunt, et qui corpore utitur his omnibus est obnoxius, nisi, aut affligendo aut conterendo cor· pore, sese e carcere eximat. Qui enim huiusmodi est ut corporeo carcere non includatur mortuus est» (ivi, p. 102). 93· « tam grande malum putatur a sapientibus, teste Cicerone, ut omnibus et corporis et fortunae in commodis anteferatur» (Id . , De doctrina promi'scua liber, ci t., p. 247). 94· «In libro secundo Politicorum hominem sine disciplina anima! truculentissimum, sylvestre, efferum, omnium pes simum: disciplina autern excultum, cunctorum excellentissimum philosophus esse asserit» (ivi, p. 24S), 95· «Disciplina igitur hominem perficit, cum de natura sui ad omne flagitium pronus proclivisque fit. Hinc igitur na scitur quod ignorans, hoc est sine disciplina sit malus, itidemque malus ignorans» (ibtd. ). Nelle pagine successive Galeot· to spiega che l'ignoranza deve essere considerata peccato perché e frutto del rifiuto volontario dell'educazione. 96. Cfr. Id., Varia dottrina, ci t., p. IIO. 97· «Et tale sciemiae nomen, cum latissime pateat, ad omnes fere actus etiam turpissimos atque levissimos relegatur, in quibus nec ratio nec causa reddi possum» (ibid. ). 98. Ibid. 99· «Primum siquidem ut sit cognitio certa, sine cavillatione et haesitatione aliqua» (ibid. ). 100. «Secundum est ut quae cognoscuntur sint necessaria» (tbid. ). 101. «Tertium, ut causae quae cognitionem praestant sint evidentes pateantque intellectibus» (ibtd. ).
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L' ETÀ DELL'UMANESIMO E D E L RINASCIMENTO
102. «Quartum quod amplissimum putatur, est ut collectionibus, idest, ut graece loquamur, syllogismis, quod cognitum est comprobetur» (zhzd. ). 103. «Cum igitur aliquid horum defuerit scientiae exactissimae nomen amittit» (ibid. ). 104. Cfr. ivi, p. m. ros. lhid. ro6. lvi, p. n2. 107. Cfr. ivi, pp. n2-3. ro8. Cfr. ivi, pp. II3-4· 109. Cfr. ivi, p. 114. In questo brano Marzio invita chi volesse approfondire il tema delle cause naturali della beatitu dine a rivolgersi a Averroè o al Caietano, vale a dire Tommaso de Via (r468-rs34), autore di un commento al De anima di Aristotele. La citazione di Galeotto è di particolare rilievo perché permette di collocare tale commento intorno al 1489-90 e di individuare nel Caietano uno degli esponenti del movimento averroistico padovano che preparò la strada a Pompo nazzi. Sempre in questo passo De Vio, apostrofato «familiaris noster», appare come allievo, o perlomeno in stretti rappor ti con Marzio conferendo a quest'ultimo un ruolo non secondario nel quadro dell'aristotelismo padovano fra XV e XVI se colo (ivi, pp. 68-9; allegato, pp. 2-3). no. Id., Della varia dottrina, cit., p. 266. m. Cfr. Id., VartO dottrina, cit., pp. n 5-6. n2. Vasoli, La cultura, cit., p. 42. II}. In particolare dal cap. IV. n4. Così Marzio riassume queste posizioni nell' inczjn! del cap. IV: «Animam nostram omnis fere antiquitas et erudi torum et imperitorum asserit immortalem perpetuamque fore. Nam deorum cultus, mentio inferni et felicitatis aeternae commemoratio non oh aliam videntur esse causam, nisi immortalitate eredita animarum. Sed rationibus plurimi philoso phorum et maxime Plato et Aristoteles hanc immortalitatem nixi sunt approbare. Attamen nihil effecerunt» (ricaviamo questa citazione che proviene dal manoscritto torinese del De incognz!is vulgo da E. Garin, Noterei/a su Galeotto Marzio, in "Rivista critica di Storia della Filosofia", XXVII, 1972, p. 229). n5. Marzio, Quel che i più non sanno, cit., p. 67. n6. Ibzd. II?. Cfr. ivi, pp. 67-8. In queste pagine, fra l'altro, Marzio per sottolineare il valore delle facoltà dono di natura parla della capacità naturale e istintiva di veggenza dei profeti. nS. lvi, p. 68. II9. Jbid. 120. «Et huic rei ars magica non parvum praestat adiumentum, quandoquidem animas sae pe ab inferis excitavit et excitat multaque sine corpore vivere demonstravit» (zbid. ). 121. «Sola fidei et nostrae et antiquorum auctoritate firmatur» (ivi, p. 69). Il tema dell'immortalità dell'anima ha per messo di awicinare Marzio a un altro importante personaggio altrettanto singolare nel panorama culturale italiano e cer tamente meno trascurato: Pietro Pomponazzi (1462-1524). Mario Frezza rileva tratti comuni nelle posizioni dei due Hloso fi: Pomponazzi risolve il problema in questione facendo propria la teoria averroistica e dice che l'anima, per la sua parti colare posizione a metà fra le cose mortali e quelle immortali, muore in senso assoluto e soprawive nel senso relativo. Egli salva in questo modo l'eternità della ragione umana e soltanto i suoi allievi (in particolare Simone Porzio) arriveranno a to gliere quest'ultimo privilegio alla specie umana. Marzio, lo abbiamo visto poc'anzi, porta invece il ragionamento alle con seguenze estreme e mette sullo stesso piano gli esseri umani e gli animali, tanto che per salvare l'anima dell'uomo non ha altra possibilità che la predestinazione divina. Oltre a questo tema altri, come la posizione verso la storia e l'astrologia, la considerazione delle religioni positive e il valore dei miracoli, permettono a Frezza di vedere in Marzio non tanto una fon te certa di Pomponazzi, quanto piuttosto una spia di un fertile terreno culturale nel quale il Hlosofo si formò, ma che i cri tici non hanno finora degnato di particolare attenzione. 122. lvi, p. 70. 123. Cfr. ivi, pp. 70-r. Galeotto ribadisce che unico fondamento della fede è la parola della divinità anche più avanti, alle pp. 75-6, dove nega la validità in proposito della testimonianza di uomini autorevoli e dei miracoli. 124. Cfr. ivi, p. 71. 125. Cfr. ivi, pp. 72-5. Galeotto riconosce l'intolleranza in tutte le grandi religioni: nel giudaismo, nel paganesimo antico, nel cristianesimo e nel manicheismo. 126. Cfr. ivi, pp. 76-7. 127. lvi, p. 81. 128. Cfr. ivi, pp. Sr-2. Marzio giunge persino a giustificare i musulmani in un'epoca in cui il papato premeva decisa mente sull'idea di un nuova crociata contro gli infedeli. 129. «Unde turchus, iudaeus, haereticus, gentilis sine fide ex sententia salvatoris et non sine aquae tinctura perpetuis traduntur cruciatibus» (ivi, p. 82). 130. «Unde condudendum est ex quacumque fide, quacumque relligione bene recteque viventes praeceptaque illius quem deum opinantur servantes, divinam maiestatem respicientes, ex signis beatitudinem adipisci» (ibid. ). 131. Id., Quel che i più non sanno, cit., p. 83. Il tema della predestinazione in Galeotto è stato interpretato diversamente da due critici come Mario Frezza e Cesare Vasoli. Il primo nella premessa alla sua edizione del De incognlis vulgo soprac-
6. GALEOTTO MARZIO FRA UMANESIMO BOLOGNESE ED EUROPEO
citata (p. XXXI I) sostiene che l'autore narnense ha anticipato temi luterani, mentre secondo Vasoli Marzio constata soltan· to che le dottrine religiose identificano sempre «fides» e «salus». Cfr. Vasoli, La cultura, ci t., p. 47· 132, «Non enim hic plebeiae ecclesiae communis loquendi modus considerabitur, sed eorum quorum doctrina et dei inspiratione et humanis laboribus enitescib) (Marzio, Quel che i più non sanno, ci t., p. 84), L'interpretazione dei testi di san Paolo e sant'Agostino è ivi, pp. 84-5. 133. «Unde ex quacumque fide, ex quocumque loco deus potuit praedestinare et hoc modo salvare. Nam non bapti sma, non rectae actiones, non probitas, non integritas in vitam traducunt aeternam sed dei praedestinatio)) (ivi, p. 86). «Om nes enim boni quacumque in fide sin t ad deum pertinent. Bonitas namque, ut supra vidimus, non causa sed signum est bea titudinis. Ea enim est ab electione divina» (zbid. ). Il tema della predestinazione sembra portare Marzio fuori dai binari del la razionalità che aveva scelto di percorrere in materia filosofica e religiosa. Prezza cerca di risolvere questa apparente in congruenza senza invocare lo spirito spesso contraddittorio di Galeotto. Secondo questo critico il nostro autore cerca di salvare le istanze del problema religioso della salvezza senza abbandonare l'habitus razionalistico che gli è congeniale: ec co allora che l'analisi dei testi sacri alla luce della ragione «non poteva sfociare se non tra i flutti tempestosi del libero ar bitrio: e negarlo, naturalmente» (Frezza, Studi, cit., p. 28). 134. Marzio fu improvvisamente arrestato nell'autunno 1477 dall'Inquisizione di Venezia «per processarlo intorno a quelle supposte eresie sparse nel libro de incognitis vulgo» (Eroli, Notizie, ci t., p. n). Sul processo a Marzio cfr. Martius, De egregie, cit., cap. 27, p. 26;}ovius, Elogia, ci t., c. 29r, Sanudo, Vitae ducum, ci t., pp. 1206-7. Giovanni Cecchini, interve nendo alla tavola rotonda tenutasi in conclusione del Convegno su Galeotto Marzio e t'Umanesimo italiano ed europeo del 1975, ha comunicato che del processo e della carcerazione successiva non esistono tracce documentarie «a Venezia nel l'Archivio di Stato, nell'Archivio del Patriarcato e della Curia e nell'Archivio Segreto Vaticano)) (Centro di studi storici di Narni, a cura di, Galeotto Marzio, cit., p. 22rl. 135. Cfr. Briggs, Un pionnier, cit., p. Bo e il parere di Mario Prezza in Marzio, Quel che i più non sanno, cit., pp. XXXVIII - XXX . 136, Cfr. F. Gabotto, L'astrologia nel Quattrocento in rapporto colla civiltà: osservazioni e documenti storici, in "Rivista di Filosofia scientifica", VIII, r889, pp. 381-94, p. 394· 137. Pastore Stacchi, Profilo, cit., pp. 43-50. 138. «Scripsit etiam, et malo quidem infortunio, quaedam in sacra moralique philosophia: nam ex ea lectione, quum omnibus gentibus integre et puriter veluti ex iusta naturae lege viventibus aeternos coelestis aurae fructus paratos diceret, a cucullatis sacerdotibus accusatus damnatusque esb) Qovius, Elogia, cit., c. 29r). 139. Critici e biografi che si sono occupati di quest'opera hanno accettato il 1477 come data della prima redazione (Abel, Galeotto Marzio, cit., p. 36, addirittura parla con grande precisione di un periodo fra la prima metà del febbraio 1476 e i1 26 aprile 1478); non esiste però nessun dato sicuro in proposito tantoché Prezza ha ritenuto più verosimile anticipare la data al 1476. Cfr. Marzio, Quel che i più non sanno, cit., p. XXVIII. Sempre Prezza ritiene giusto supporre l'esistenza di due diverse redazioni dell'opera: una causa del processo che Marzio subì in quegli anni è conservata nel codice E IV I I della Bi blioteca Nazionale di Torino e costituisce la base per l'antologia di Prezza sopra citata; la seconda posteriore ed emendata dagli elementi eretici è stata oggetto degli studi del critico ungherese Abel. Cfr. Prezza, Vita, cit., p. 24, nota r. 140, Cfr. Pastore Stacchi, Profilo, ci t., p. 44· 141. lvi, p. 44 e nota 75· 142. Cfr. ivi, p. 45, nota 77· 143. Si tratta del codice miscellaneo Vaticano latino 8865 (ivi, p. 45). 144, lbid. 145. Si trana di un brano del cap. Xlii (Marzio, Quel che i più non sanno, cit., p. 87) e un altro al cap. XXV (ivi, p. 96). 146. Questo testo è riportato in Pastore Stacchi, Pro/ilo, cit., p. 49· 147. lvi, p. 50. 148. Di questo stesso avviso Liszl6 SzOrényi: «E non possiamo nemmeno illuderci, che la conciliazione dei miti e cul ti antichi con la fede cristiana [. . . ] sia solo il risultato e conseguenza di un certo atteggiamento pan-astrologico appoggiato alla Bibbia. Certamente in fondo alla sua logica si trova pure questo elemento, ma nella sua concezione del mondo le teo· logie pagane e cristiane assumono la vera parità, e l'orizzonte culturale si spalanca infinitamente, la storia umana ormai non si divide in due parti con la nascita del Redentore)) (SzOrényi, Le fonti, cit., pp. rsB-9), 149. Marzio, Quel che i più non sanno, cit., pp. XXXI - 3ooCu. 150. Cfr. Briggs, Un pionnier, cit., p. 78. 151. Pastore Stacchi, Pro/t'lo, cit., p. so. 152. Esistevano vari personaggi che nel XV secolo si occupavano, in modo diverso, di astrologia; Marianna D. Birn baum, nella sua biografia di Giano Pannonio, individua, mutuandole dal critico ungherese Huszti, tre tipologie di uomi ni che coltivavano questo interesse: «To the first belonged Vitéz and Janus, who knew very little or nothing about rhe dis cipline but "used" its fmdings. Huszti placed Ficino, Galeotto, and Ilkusch in the second set, among those whose ultimate goal was the developing of a "doctrine" (i. e. a rotai system and its defense. According to Huszti, genuine scientists like the astronomer Regiomontanus belonged to the third, most professional group: they were the ones who knew the limitations of their trade» (M. D. Birnbaum, ]anus Pannonius: Poet an d Politician, Jugoslavenska akademija znanosti i umjetnosti, Zagreb 1981, p. 170). 153. Questo ruolo fu rivestito da Marzio soprattutto in Ungheria. Cfr. Prezza, Vita, cit., p. 20. Eroli, inoltre, sostiene, basandosi su un romanzo di Walter Scott, che Marzio, allettato da splendide promesse, si trovasse nel 1468 in Francia alla
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corte di Luigi XI come astrologo (Eroli, Notizie, cit., pp. 19-22; W. Scott, Quentin Durward, Adam & Charles Black, Lon don 1892, pp. 70-2, 128, 140-4). Gli altri biografi non riportano questa notizia fatta eccezione per Abel che, però, la riferisce come testimonianza di Eroli (Abel, Galeotto Marzio, cit., p. 34). 154- «Nam astrologiam longe melius, quam Servius, tenemus et in aliis non sumus inferiores)) (Martius, lnvectivae, cit. , p. 15). 155. Id., De doctrina promiscua liber, cit., pp. 253-4. 156. Che questa fosse la mentalità degli uomini del Quattrocento è dimostrato ad esempio dalla figura di san Bernar dino da Siena, uomo devoto ma pronto a riconoscere il valore degli influssi degli astri. Per salvare astrologia e libero arbi trio egli limita le influenze delle stelle e dei pianeti alla sfera fisica dell'uomo. Cfr. E. Garin, Lo zodiaco della vita. La pole mica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 36, 136, nota 3· 157. lvi, p. 35- La ribellione contro l'astrologia e il suo determinismo che toglie libertà all'uomo comincia già nel Tre cento con Petrarca. Egli non accetta che la libertà dell'uomo sia limitata dalle necessità dell'influsso degli astri, non accet· ta una concezione del mondo in cui l'essere umano non può nulla di fronte all'eterna immutabilità fisica (ivi, pp. 34-5). 158. lvi, p. 37159. Così scrive Garin a questo proposito: «Senonché il nodo più complicato di questioni emerge là dove il momento teorico del conoscere la sorte sembra scontrarsi proprio con l'ipotesi di tecniche atte a sfuggire la sorte. O quando, prima ancora, sembra apparire quale elemento fondamentale della tecnica del prevedere, non solamente la situazione del cielo, ma anche il giuoco profondo dei sentimenti e dei moti dell'animo umano» (ivi, pp. 38-9). 160. Il nesso fra momento teorico e pratico, fra astrologia e magia, è oggetto di discussioni nel XIV secolo. In questo dibattito si inserisce, con una posizione a nostro parere di particolare rilievo. Pico della Mirandola che, pur nello sforzo di distinguere le conoscenze "scientifiche" dell'astrologia dalle applicazioni pratiche della magia, trova nella "teoria delle im magini" un luogo di incontro delle due prospettive. E sempre in questa prospettiva va letta la riscoperta e la grande fortu na di un testo come il Picatrix, un trattato di magia arabo che nella sua versione latina (tradotta a sua volta dallo spagnolo) ebbe una grandissima diffusione nel Quattrocento e nel Cinquecento e che realizzava l'incontro fra l'eredità magico-astro logica antica e medievale e le teorie neoplatoniche. Cfr. ivi, pp. 49-53. 161. Cfr. Martius, De doctrina promiscua lzher, cit., pp. 109-16. 162. Cfr. Marzio, Varia dottrina, cit., pp. 90-1. 163. «Esse autem caelos animatos Aristoteles catione demonstrat, sed fides nostra, ubi fundamenta veritatis apparent, - immo Christus de se ipso ait: "Ego sum via, veritas et vita" - alio dicendi modo utitur» (ivi, p. 92). 164. «Alexander enim de Hales non esse caelorum animas, sed angelos volvendis orbibus attributos, sine aliqua defa tigatione rotantes, ita ut motores spiritus non animas orbium esse, dictitet» (thtd. ). Il brano prosegue con l'elenco degli an geli che muovono i singoli corpi celesti. 165. Marzio espone la teoria aristotelica secondo la quale i cieli sono animati perché non posseggono né moto natura le, né moto violento, ma moto volontario e la volontà è presente solo negli esseri animati (ivi, pp. 92-3). 166. «Haec volui dixisse, ne huius disciplinae promiscuae, lectores tanquam peregrina quae dicturi sumus excipiant: Morbos enim quosdam et horas planetarias referemus» (Martius, De doctrina promiscua liber, ci t., p. 123). 167. Cfr. ivi, pp. 123·5, 128-35. Così Marzio sottolinea, sempre nel cap. XIV, l'importanza di questo tema: «Sed haec, quae forsitan ab imperitis minima putantur, maximae sunt efficaciae et in arte magica et in medicina. Nemo enim consumma tam medicinam tenebit, nisi teneat astrologiam, quod Conciliator ratione demonstrat, quam qui intelligere cupit ad eius documenta recurrat in libro differentiarum. Mihi satis erit impraesentiarum Hippocratis et Avicennae auctoritatem atte· stari» (Id. , Varia dottrina, cit. , p. 93). 168. Id., De doctrina promiscua liber, cit., p. 223. 169. >: il modello è dato dai re di Francia con le loro vittoriose campagne di ridimensionamento dello strapotere baronale e con la forte centralizzazione statuale del regno). Che questo percorso, che il raggiungimento di questo fine realmente possano essere lastricati di sangue, violenza, inganno Machiavelli né lo nega né lo occulta: egli sem plicemente prende atto di una realtà in cui i sono destinati a soccombere e in cui i progetti che non tengono conto di ciò sono destinati a restare (come tanti trattati medievali e umanistici de principatibus) lettera morta, del tutto inefficaci rispetto al fine di modificare la sostanza profonda delle cose. Sostanza che è costituita anche da rapporti di potere e da rapporti sociali, che Machiavelli ben conosce e ben addita al suo principe: la conquista o il consolidamento dello Stato (ed è evidente che Machiavelli dedichi più passione ed enfasi al principe e cerchi di co struirsi nel duca Valentino una sorta di modello funzionale al suo disegno) passano per una redi stribuzione dei rapporti di forza e di potere. Come già si diceva, ciò può awenire innanzitutto con il coatto ridimensionamento dei luoghi eccentrici e occulti del potere stesso, degli Stati nello Stato, dei vecchi privilegi feudali, in una dialettica su nuove alleanze, capace di collocare il in una posizione nuova e centrale, da semplice «dominato» o «possesso» a «governato», a soggetto an che attivo nel rafforzamento del principe: in cambio di una legalità che lo tuteli dai soprusi dei mil le signorotti locali e di cui esso stesso (ad esempio con la coscrizione obbligatoria e la partecipazio ne a un vero e proprio esercito di leva) può essere mallevadore e protagonista. Di qui il sospetto che sempre Machiavelli manterrà verso i modi storici con cui i Medici ten tarono di edificare il loro "regime" a Firenze: modi ambigui, sostanzialmente fondati proprio su una occupazione "privatistica " del potere e che, nel minare la vecchia compagine comunale-re pubblicana, non erano però in grado di sostituirvi una nuova forma-Stato adeguata all'evolversi dei tempi. Non a caso, solo dopo il r513 e i papati medicei, solo dopo che l'auctoritas dei Medici sembrerà potersi felicemente coniugare con profonde riforme istituzionali ( quanto lunga nei tem pi l'ombra del mito augusteo ) , Machiavelli guarderà ad essi come a credibili protagonisti di un rin novamento fiorentino e italiano, di cui appunto Il Principe vuoi essere banditore. La sostanza esemplare di tale approccio non muta certo nel Machiavelli "repubblicano" : an che nelle città-Stato i problemi di redistribuzione delle alleanze sociali e dei rapporti di forza non ché i necessari adeguamenti istituzionali dovranno venite delineati su simili idee-guida, per con durre in porto le quali necessiteranno comunque dei , dei governanti veri. La repubblica, come il principato, necessita di un 'auctoritas indiscussa e ad ampio raggio politico. Il mondo si moltiplica di facce, la realtà del Cinquecento - ci ha insegnato in pagine magistrali Fer nand Braudel - si complica: Machiavelli, fra i primi, ha colto, agli albori del mondo moderno, tut ta la vasta portata e i gravosi impegni che questa nuova complessità veniva a comportare. Egli non tende a semplificarla schematicamente o a eluderla in utopici sogni-visione o in fughe metafisiche: l'affronta di petto e, nel dipanarne gli intrecci, via via individua le risposte adeguate, senza però la pretesa che esse siano assolute di fronte a una complessità (anche soggettiva, dell'uomo in quanto tale) che resta irriducibile a ogni unificazione coatta. Di qui il " monarchico" Principe e i "repubblicani" Discorsi, la fiducia nella virtù e l'attenzio ne amara alle piene irrefrenabili della fortuna, l'ammirazione per la mente dell'uomo e il disincanto con cui guardare alle sue insopprimibili radici ferine, ai suoi bisogni tanto elementari quanto po tenti di una potenza arcana e ancestrale. Senza mai rinunciare però all'esserci nella realtà e nella lotta per la sua modificazione. Machiavelli, in questo senso, spazza via di forza gran parte dell'ideologia spicciola circolante nei ceti dirigenti fiorentini, quegli stessi ceti con cui egli era stato del resto in continuo contatto du rante il suo servizio presso il segretaria to della Repubblica e con cui - più o meno velatamente - ave va già da allora polemizzato: non si tratta solo - come già tanti segnalarono - dell'insofferenza di Machiavelli verso la /orma mentis del compromesso esasperato, dell'indecisione, della confusione
L' ETA DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO interna dei poteri e delle contraddittorie direttive politiche estere, tutte cose che in effetti la Repubblica fiorentina e Soderini. Si tratta di un dissenso più profondo: Il Principe e i Di scorsi (ma anche le !storie fiorentine) rivelano una concezione dello Stato e della politica che non può più essere compresa negli angusti ambiti del vecchio ceto dirigente fiorentino. Né degli otti mati, la cui vocazione all'occupazione oligarchica della Repubblica cozzava contro le fondamenta li intuizioni di Machiavelli; né dei popolari al governo, la cui miopia e ristrettezza di vedute - tutte ancorate alla dinamica corporativa delle frazionate lzbertates comunali medievali - mal si concilia vano con il rinnovamento profondo preteso dai tempi e dai più generali eventi su scala europea. Machiavelli, quindi, oltre le ideologie circolanti a Firenze? Certo. Machiavelli oltre l'ideologia in quanto tale è proteso a una costruzione politica volta a definire "neutralmente" la funzionalità delle forme di governo rispetto ai tempi e alle situazioni? Più difficile, qui, e più ardua la risposta: e sarebbe necessario un dibattito più puntuale di quello svoltosi finora per indicare vie sicure da percorrere. Certo, per Machiavelli, lo studio rigoroso della realtà politica per come essa è non rap presenta solo un luogo preliminare, un awio del discorso, ma il discorso, la sostanza stessa della sua analisi che come si diceva, proprio nel conoscere ambisce di dare forza alla trasformazione. Quindi non vi è dubbio alcuno che in Machiavelli operi un'istanza "scientifica " di fondo che non è per nulla omologabile al discorso ideologico in quanto tale. Questo però non vuoi neppure dire che Machiavelli rinunci a una sua "visione del mondo" e che non cerchi di esprimerla: già si è det to della sfida che egli titanicamente lancia alla fortuna, owero ai legami oggettivi che vincolano l'uomo. Se si vuole questo è un esito di Umanesimo radicale in Machiavelli: la scoperta del terre no della politica vuoi dire - nella sostanza - una scoperta di liberazione dell'uomo. L'uomo può infatti agire, modificare, trasformare la realtà (anche naturale) e non solo esserne succube, seppu re a prezzi a volte altissimi. Singolarmente proprio i due capitoli finali del "monarchico " Principe esprimono al meglio questa profonda sostanza "libertaria" di Machiavelli, che tanto sovente si è soliti inseguire in altre pagine. Ma il terreno della politica, e le potenzialità libertarie che vi sono connesse, esigono un dimensionamento istituzionale, sociale, legislativo di grande respiro e che per Machiavelli non può che attuarsi nelle forme moderne in cui gli Stati europei si vanno organiz zando e che già prima richiamavamo: attraverso processi tutt'altro che indolori e in cui la redistri buzione del potere deve correre parallela a nuove alleanze sociali. In tale clima la sconfitta delle vecchie oligarchie patrizie e aristocratiche potrebbe infine consentire un ruolo attivo nuovo all'in sieme dei "governati " , siano essi di una repubblica o di un regno. Ma - lo ribadiamo - il discorso sull"'ideologia" di Machiavelli è apertissimo ed è inevitabilmente legato alle chiavi di lettura con cui ogni epoca intende appropriarsene, ridefinendone ogni volta per intero l'approccio. Un modo, peraltro, di non misurarsi in forma troppo generica o convenzionale con questo co me con altri "nodi" del Principe e di Machiavelli è quello di affrontare il discorso delle sue «fonti>>: o meglio, dei reticoli culturali, politici, ideologici entro cui egli ambì collocarsi o rispetto ai quali differenziarsi, magari avendo cura di andare un po' oltre certe indicazioni, talora di maniera e scon tate che in questo senso sono state da tempo fornite dalla critica machiavelliana. Un fatto è certa mente in controvertibile: una distanza abissale separa Il Principe dall'analoga trattatistica medievale e dal pensiero politico che le era sotteso. E non si tratta semplicemente di una questione - di per sé già fondamentale - di radicalismo naturalistico, di adesione all'osservazione della realtà, di spre giudicatezza, introvabili, nelle accezioni machiavelliane, nei testi di un san Tommaso, di un Egidio Romano, di un Dante, per fare dei nomi illustri. Si tratta di qualcosa di più: di una concezione to talmente laica e "romana" dello Stato e delle leggi e della del principe. L'orizzonte me tafisica cristiano scompare, il non si attua nel progetto politico concreto e so prattutto l'unità della civitas (!o stesso progetto ) cui aspirava il pensiero cristiano me dievale (senza mai raggiungerla nella realtà) sparisce dalla ricerca di Machiavelli, che, già lo si è vi sto, fa delle divisioni e della complessità referenti essenziali della sua analisi nonché perni intorno
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a cui individuare i reali processi di trasformazione del mondo e la conseguente operatività politi ca del sovrano. Che un capitolo del Principe sia espressamente dedicato allo Stato della Chiesa è infatti significativo non tanto per la dissacrante disamina che lo permea, quanto per il fatto stesso che Machiavelli parli di quello come di un qualsiasi altro Stato, al di fuori di ogni aura prowiden zialistica e finalistica: così tra gli esemplari fondatori di Stati, egli enumera, in una serialità in cui la storia sacra va fondendosi con quella profana, Romolo, Ciro e Teseo, accanto a Mosè. Qualcuno ha visto comunque forti tinte prowidenzialistiche nel capitolo finale del Principe: ma occorre stare attenti a non confondere la grande carica emotiva presente in quella pagina, vol ta a sottolineare l'irripetibile occasione di un momento fortunato in cui l'ordine " divino" delle co se sembrava poter coincidere con quello umano, con un prowidenzialismo finalistico e metastori co lontanissimo dai presupposti machiavelliani. In questa distanza rispetto al pensiero medievale (che i romantici, da Fichte a Hegel a Burck hardt a De Sanctis, benissimo già colsero, comunque possano oggi essere lette e valutate le loro pa gine) influì senza dubbio quella certa antropologia machiavelliana che in precedenza si richiama va: quel guardare all'uomo nella sua interezza, razionale e ferina, senza veli o infingimenti; quel di sincanto sulla sua natura; quel pessimismo sul difficile equilibrio dei suoi istinti; eppure con la con sapevolezza, tutta laica e materialistica, che una tale natura, così come si presenta ed è nella sua «ve rità effettuale», può trasformarsi (giusta la nota argomentazione di Ezio Raimondi) in un vitalisti co e potente trampolino di audacia vincente e innovativo nell'azione politica. La natura non è né negata né sublimata: è accettata, è forgiata, è fatta parte di un progetto complessivo che, lungi dal lo svilirla la esalta anzi al centro del suo ordito, e come tale pulsa - energica e potente - nelle pagi ne del Principe. Se questo punto, più di altri forse, colloca Machiavelli fuori da certa temperie me dievale, esso è anche quello che più lo awicina a quel filone umanistico di pensiero genericamen te compreso sotto la vaga formula di >, del nuovo Valentino. Ovvero di chi con virtù, fortuna e >, il viaggio nell'uomo e nella sua «animalità>>, il sondaggio nei bassi reticoli dell'esistenza porta Machiavelli sovente a sortite in po sitivo: già in parte lo si accennava ma occorre ribadire che queste radici profonde e pulsanti sono, per lui, la condizione stessa della rigenerazione dell'uomo e delle società. È da questo fondo bio logico e animale che trae linfa e speranza la che può con ardimento cavalcare la for tuna, che può sconfiggere i fantasmi ossificati della senectute: il "giovanilismo" di Machiavelli, la sua fiducia in una rigenerazione che ha anche queste caratteristiche "biologiche " (l'appello ai gio vani del Principe, dei Discorsi, dell'Arte della guerra ma anche le saporose sconfitte dei vecchi nel le commedie) fanno appunto il paio con la consapevolezza - in lui salda - che proprio un ritorno alle ( il proemio al libro III dei Discorsi) è condizione della salvezza degli Stati e perciò stesso dell'uomo. Questo tragitto attraverso !"'altro" Machiavelli ci ha ricondotto quindi al Machiavelli " curia le" per mostrare quante intersezioni e contaminazioni corrano fra le due componenti: soprattutto è apparso evidente il suo debito nei confronti di tradizioni molteplici, anche popolari e "di piaz za " , non riducibili ai consueti canoni di fonti " dotte " . Si badi: queste ultime porgono a Machiavelli strumenti d i osservazione e valutazione essenzia li nell'accostarsi alla umanità nella sua dimensione naturale-animale. E se già a lungo la critica ha ar gomentato dei riscontri con i commediografi antichi come Aristofane, Terenzio e Plauto, va valo rizzato anche il debito nei confronti del mondo metamorfico ed erotico di Ovidio, della natura-tea tro di Plinio e owiamente dell'Apuleio splendidamente chiosato da Beroaldo. Senza contare gli echi di certo Dante, di certa novellistica e favolistica medievale fino a Boccaccio, fino alle parodiche zoomorfe di un Pulci o di un Burchiello. Né è da dimenticare che neppure il Pontano di sdegnò la specola, straniante e vivace, del mondo ferino e inferino, nell'Asinus e nel Charon. Ma ta le frettoloso "catalogo" , seppure per un verso mostri l'importanza di certi debiti classici e tre-quat trocenteschi, per l'altro mette anche in luce l'impossibilità di chiudere le complesse creazioni ma chiavelliane, la loro corposa e tormentata dentro un orizzonte esclusivamente " curiale" e non esteso a sufficienza alla variegata e brulicante tradizione popolare e carnevalesca. n doppio del "vissuto quotidiano" e della storia, infatti, si articola in continuazione nell'ope ra di Machiavelli: testimonianza esemplare è, fra l'altro, lo stesso splendido epistolario, dove alle letture austere, piene di osservazioni e investigazioni sulla realtà politica, si alternano quelle mate riale di burle, di ricordi di beffe e di amori, a volte con i medesimi corrispondenti (emblematiche, da questo punto di vista, le serie di missive con Vettori o con Guicciardini). Nel disegno machiavelliano dell'homo politicus e della sua sagacia, del resto, linearità "solare " e tortuosità "notturna " non si contraddicono ma si intersecano e si complicano, fondendosi in un grande universo di referenti che spesso richiama il mondo "ferino" dei predatori forti e astuti, an-
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che nel lessico. L a metis ferina non è d a sola bastevole m a è comunque dote necessaria per muo versi nel "profondo" dell'uomo, delle sue azioni, dei suoi istinti: richiami in questo senso, prima ancora che nelle opere più famose, sono rintracciabili nei cosiddetti scritti politici minori. Proprio per tutto ciò occorre una verifica più articolata e non convenzionale del «naturali smo» machiavelliano: già Gennaro Sasso del resto poneva tale problema nell'analizzare alcuni passi delle !storie e rifiutandosi di definirne le coordinate entro schemi rigidi e meccanicistici. Li vello naturale e livello sociale della storia umana e dei suoi cicli sembrano infatti, in Machiavelli, disporsi su piani di scorrimento non propriamente combacianti ma pur continuamente interse cantesi in una contraddittoria dialettica, in una dinamica drammatica che coinvolge e determina la vita delle nazioni e dei popoli. Altrettanto sembrerebbe potersi dire per le singole individuali tà umane, laddove la sfera più propriamente legata al regno della natura, degli istinti, della "feri nità " interferisce e collide con la sfera " curiale " e raziocinante, dando vita a un impasto che può rivelarsi, quando guidato e sagacemente manovrato, punto di grandissima forza per l'uomo, e per l'uomo politico specialmente. Di qui il ritratto machiavelliano del principe come "rovescio" dei principi ideali via via im maginati dalla tradizione medievale e umanistica: "rovescio" però che non ha più nulla del riso car nevalesco, desacralizzante e liberatore. La maschera resta tragica, ambivalente in un altro senso: nell'essere protesa a saldare il "fondo" dell'uomo con la sua più elevata tensione morale, in un pro getto politico che sconta - in durezza e "sangue " - l'ampiezza di tale "incolmabile" scarto indivi duale e sociale. Ecco perciò, in questo tragico Carnevale, l'attenzione prestata da Machiavelli com plessivamente al "basso " sociale e alle sue tensioni: per squarci e lampi nelle opere letterarie, con ampie esplorazioni nelle opere politiche e storiche. Come dimenticare infatti il tragico, violento sermone fatto tenere nelle !storie all'anonimo Ciompo? Vi è in quel discorso tutta la drammatici tà di un'umanità negata socialmente e in grado di ritrovare la propria identità solo a partire dal pri migenio, egualitario stato di natura: né dinastie né blasoni né ricordi gloriosi possono plasmare l'orgoglio di un Ciompo, la sua collocazione civile da sempre schiacciata, bensì l'affermazione si cura e perentoria del radicamento ai bisogni primordiali, a una natura egualitaria e livellatrice, che è di per sé garanzia di un'identità ritrovata. Non a caso, in queste peregrinazioni "basse" , raramente la prospettiva, come già si notava al l'inizio, si sposta dalla scena cittadina, da Firenze: giacché a Machiavelli non interessa tanto una ri flessione antropologica e naturalistica astratta e fine a se stessa quanto una verifica dell'uomo nel fuoco delle contraddizioni sociali e dei conflitti individuali propri della realtà più avanzata, che non poteva non essere, allora, che quella cittadina, e fiorentina in particolare. In queste terribili la cerazioni ma anche nei positivi slanci che la «naturalità», la "ferinità" comportano per l'uomo, Ma chiavelli individua uno dei punti più delicati e decisivi per fondare e la sua scienza politica e la sua speranza progettuale: pervenendovi non solo attraverso il via ti co "curiale" e solenne dei classici ma anche attraverso vie più torte e sotterranee, inquietanti sempre, certo, eppure ricche di fertili umori, aperte su una realtà impudicamente esibita senza veli; ma nella quale già può scorgersi, tra gico e insieme grandioso, il cammino del mondo moderno. Ebbene questo Machiavelli "luciferino" e imperterrito fustigatore dei limiti e della corruzio ne dei signori italiani, in realtà usa con grande parsimonia l'arma dell'invettiva propriamente det ta. In lui prevalgono, come si diceva, piuttosto sarcasmo, senso della polemica, uso irridente del paradosso. In questo, di là dalle tante fonti classiche già citate, gli è stato sicuramente maestro il grande Leo n Battista Alberti del Momus e delle lntercenales, veri e propri capolavori di provocatorio to no sarcastico, di umorismo corrosivo, di radicale messa in gioco polemica di tutte le pigre, ac quiescenti dimensioni della sfera pubblica come di quella privata, al centro di un percorso che da Dante a Petrarca giunge a Erasmo e che Machiavelli fa proprio in modo originale e peculiare.
L' ETA DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO A Machiavelli, del resto, non si addice l'attacco sul piano personale: la sua polemica e il suo sarcasmo vanno alle istituzioni, alla grande storia, ai ceti sociali, da cui, di tanto in tanto, fa emer gere un personaggio emblematico da porre a bersaglio emblematico. Ben noti i temi e i motivi del pensiero critico machiavelliano: l'attacco al potere temporale del la Chiesa e al ruolo del papato; la dura polemica con l'uso delle truppe mercenarie; le dense argo mentazioni sul potere "privato e civile", del tutto anomalo rispetto agli scenari istituzionali, dei Medici a Firenze; l'irresolutezza dei ceti dirigenti troppo inclini al compromesso ( Soderini); il te ma della e delle libertà nella dialettica tra governati e governanti che ha un punto di alto sapore paradossale e sarcastico nel celebre discorso del Ciompo anonimo in [storie fiorentine III, 1 3 36• Tali riflessioni campeggiano con forza, accanto all'altro grande tema a ricche venature pole miche del rapporto tra romani e moderni, in tutte le opere maggiori ma è ben presente anche nel l'epistolario come nella produzione in versi ". Forse un po' meno noto, ma rilevante nella produ zione politica e letteraria di Machiavelli è il tema della riflessione sul " dir male " e sull"'invidia " ov vero proprio sul senso della critica corrosiva a livello pubblico e privato. In questo senso è esem plare il Prologo a La Mandragola: né va dimenticato che l'esperienza teatrale di Machiavelli, così incisiva nell'indagare con perizia letteraria di altissima fattura i nessi fra ipocrisia pubblica e vizi privati, attinge a una riflessione di originale portata, filologica, linguistica non meno che concet tuale, che la grande stagione umanistica aveva attivato sul teatro classico, su Plauto e Terenzio in particolare. Né va mai neppure dimenticato il richiamo che, proprio in riferimento al Machiavelli uomo di teatro, Ezio Raimondi fece a suo tempo circa la rivisitazione rinascimentale di Aristofa ne ''· In questo senso è opportuno condurre ora una disamina articolata della partitura della Man dragola, tale che ci consenta di sviluppare ulteriormente il nostro ragionamento. Nei primi due atti della grande commedia si pongono le premesse della clamorosa beffa ai dan ni di messer Nicia. ll cruciale e centrale atto III vede disporsi in campo la condizione necessaria per la sua riuscita ( come persuadere Lucrezia a fare all'amore con un giovane sconosciuto). Negli ul timi due atti la beffa si compie effettivamente. r. Prologo. Gli spettatori sono già informati delle vicende e dei protagonisti della commedia gra zie al Prologo in versi che li introduce nel vivo della storia e nel quale Machiavelli rivendica a sé (appunto sul modello del grande commediografo greco Aristofane) il diritto di " dir male " , di af fondare cioè la sua lama satirica e sarcastica nelle pieghe della vita quotidiana dei suoi concittadi ni. Piena libertà di " dir male " che è anche piena libertà di sprigionare, com'era in uso nella stessa commedia antica, la propria vena comica, senza rispetto per nessuno e per nessuna istituzione. E infatti, nella Mandragola, nessuno scampa alle frecciate corrosive dell'autore.
2. Atto I. La scena I dell'atto I è occupata dal dialogo fra Callimaco e il fido servitore Siro: que st'ultimo, con le sue brevi domande, da vera e propria "spalla " , consente a Callimaco di esporre la natura del suo innamoramento, gli ostacoli alla realizzazione del suo amore, la necessità di dover contare sull'aiuto dell'astuto Liguria. Cosicché, prima ancora che compaiano in scena, nelle paro le di Callimaco vediamo già presentati i due opposti protagonisti della commedia: lo sciocco mes ser Nicia, il beffato per eccellenza, e lo scaltro Liguria, che con lucida intelligenza lo befferà, ri solvendo ogni problema a Callimaco. Proprio dall'incontro tra la dabbenaggine di messer Nicia e i piani apprestati da Liguria nasceranno alcuni dei più efficaci effetti comici dell'azione teatrale. Non a caso, nella scena II, tanto breve quanto esemplare per comicità, si presentano, in un dia logato che mette subito in evidenza la peculiarità dei due, proprio Nicia e Liguria. La scena è tut ta costruita su rapide battute di botta e risposta, tipiche del tradizionale dialogato comico: messer Nicia appare presuntuoso, saccente, pieno di vanteria; parla con frasi fatte e proverbiali, di gergo, credendo di mostrarsi uomo di mondo ed esperto; Liguria si finge l'opposto di quello che è: fa il
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credulone, esclama ammirazione per i "grandi" viaggi (Pisa e Livorno ! ) di messer Nicia e, così agendo, porta alla luce di fatto il punto debole di Nicia: l'essere sciocco credendo di essere saggio. E proprio questa debolezza condurrà Nicia a essere beffato da Liguria, che appare mosso, più an cora che dall'interesse, da un gusto inguaribile per il beffare, per il dissacrare, per il vedere trion fare la propria astuzia dissacrante. L'ultima scena dell'atto I vede in campo Liguria e Callimaco. Machiavelli, da sapiente tessito re dell'azione teatrale, muta il tono e la durata delle battute rispetto alla scena precedente: all'in tercalare rapido e incalzante delle battute subentrano le riflessioni e le argomentazioni dell'inna morato e del suo consigliere. Deve essere attuato un piano: ogni mossa va studiata e valutata. Trion fa il ragionare lucido e spietato di Liguria rispetto all'ansia passionale e impulsiva di Callimaco. Non è con l'ansia e la passione che si potrà aggirare Nicia e introdursi nelle camere di Lucrezia: solo l'inganno, il raggiro e l'astuzia Oe doti della "volpe" , come si dice nel Principe) saranno in gra do di far vincere l'amore di Callimaco, che non può far altro che abbandonarsi del tutto alla gui da di Liguria. La canzone che chiude l'atto celebra la potenza invincibile di Amore ( con toni che richiamano moduli cari a tanti poeti latini, a Petrarca, a Baiardo, al Poliziano ) , eppure Machiavel li, beffardo e coerente con la maschera di dissacratore che ha esibito nel Prologo, mostra in realtà che, senza l'astuzia fredda e calcolatrice di Liguria, l'amore di Callimaco non trionferebbe affatto. Come appare vicino (anche se qui si parla di amore e di beffe) il cap. XVIII del Principe! Persino il "leone " , se non è al tempo stesso "volpe " , può soccombere. Callimaco-leone e Liguria-volpe, uni ti insieme, vinceranno in questa che è una specie di battaglia e al tempo stesso una celebrazione di quegli aspetti dell'uomo che una certa tradizione moralistica cristiana aveva sempre condannato: ovvero la pulsione irrefrenabile dell'eros e l'intelligenza astuta e calcolatrice. Ciò che altri con dannava (si pensi a Dante, nell'Inferno, a Paolo e Francesca, a Ulisse, a Guido da Montefeltro) , per Machiavelli è dote vincente, è il senso stesso di una gioiosa e liberatrice immersione, attraverso il riso della commedia, nell'autentica natura dell'uomo. Un'immersione che, del resto, già Boccac cio, nel suo Decameron, aveva ampiamente insegnato a praticare. 3· Atto 1/. n piano tessuto sapientemente da Liguria nell'atto I comincia ad attuarsi nel II: Callima co, come finto medico, suggerisce il consiglio fatale (in tutti i sensi) a messer Nicia: la pozione di man dragola. L'atto è quasi tutto costruito su battute rapide con epicentro comico nella scena conclusiva, dove la finta scienza medica di Callimaco sbaraglia la presuntuosa ignoranza di Nicia, pronto a farsi consigliare dal famoso dottore. n discorso di Callimaco è costellato di paroloni latini: così farà nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni il dottor Azzeccagarbugli per abbindolare Renzo, condendo le sue frasi di espressioni tratte da formule giuridiche latine; latino che, appunto, per secoli (e lo te stimoniano opere così distanti fra loro come La Mandragola e I Promessi sposi) costituisce una spe cie di discriminante fra chi è colto (o vuoi dar da bere di esserlo ai più sempliciotti) e chi non lo è. Questo atto, infine, introduce interessanti spaccati di vita quotidiana del tempo, che tuttavia restano sempre attuali: il prestigio enorme, spesso immeritato, di cui godono certi detentori uffi ciali del sapere, la creduloneria di un ceto ricco ma in soggezione rispetto alla scienza ufficiale tan to da non distinguerne il valore vero dal falso, le ipocrisie e gli egoismi dei rapporti tra gli uomini. Non dimentichiamo che Nicia non sa di essere ingannato: crede davvero che sia necessario far mo rire qualcuno a causa della mandragola per poter poi tranquillamente godersi la moglie e final mente metterla incinta. Il suo egoismo è presentato come cinico e assoluto: che cosa c'è di male che un giovane, un "garzonaccio " , un perditempo muoia per far sì che Nicia abbia un figlio? Ni cia, allora, personaggio comico per eccellenza, si colora di tinte sinistre, di ombre imprevedibili che si dilatano sull'apparente, tranquilla quotidianità di tante buone famiglie, di cui Machiavelli mostra, seppur attraverso un intreccio comico, il lato duro e spietato. Più avanti, un frate, per in teresse, si renderà disponibile ad assolvere e giustificare un aborto (atto III, scena IV). La morte si
L' ETA DELL' UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO nasconde dietro il riso, la dissacrante maldicenza di Machiavelli dice quello che tutti sanno ma che nessuno, per perbenismo, oserebbe ammettere della propria vita quotidiana. li comico si fa cioè grottesco, quasi in modo inquietante. Emerge qui una delle doti più grandi di Machiavelli autore di teatro (e che lo apparenta agli altri massimi autori teatrali): portare in scena personaggi che non si muovono meccanicamente come burattini o maschere ma attingono a una grande complessità psicologica e mentre fanno ridere fanno anche riflettere amaramente sul mondo e sugli uomini.
Atto 11/. Centrale, è l'atto in cui tutti cospirano per aggirare l'ostacolo forse più difficile: per suadere la virtuosa Lucrezia a giacere con uno sconosciuto pur di poter avere un figlio. Tutti, e ognuno in realtà con intenti e motivazioni diversi, entrano in azione: Liguria e fra' Timoteo, Ni cia, la madre stessa di Lucrezia, Sostrata. Ognuno con un proprio disegno (chi per avidità, chi per egoismo, chi per gusto del calcolo e della beffa) spinge Lucrezia al tradimento (e Lucrezia, alla fi ne, capirà e lo ricorderà, nell'ultimo atto). Tutti sono in scena tranne proprio l'innamorato, Calli maco. L'amore deve cedere il campo alle astuzie, ai calcoli: non è il tempo della passione e della se duzione, bensì quello della tessitura della rete per intrappolare Lucrezia. Quando Callimaco sarà finalmente solo con lei potrà giocare, se ne sarà capace, tutte le sue carte amorose: per ora bisogna creare le condizioni perché quell'incontro awenga. Perciò nell'atto III Callimaco non compare: è l'atto in cui si va dispiegando pienamente l'astuzia lucida e beffarda di Liguria. Ma accanto a Li guria ecco presentarsi (in toni dimessi e viscidi ma già tali da esibire da subito il personaggio per intero, così com'è, fin nella scena III) fra' Timoteo: è lui che, astutamente corrotto e persuaso da Liguria, dovrà, in realtà, compiere l'opera più delicata: convincere Lucrezia, in virtù dell'autorità che gli deriva dall'esserne il frate confessore. Era consueto già in molta della letteratura comica medievale, specie novellistica (basti pensa re, per tutti, al Decameron di Boccaccio), fare oggetto dei propri strali figure di frati o di monache corrotti o sciocchi o ipocriti nel predicare bene il messaggio evangelico e poi nel razzolare male (an che nel Quattrocento, per esempio, un novellatore singolare come Masuccio Salernitano era stato ferocemente sarcastico nei confronti dei religiosi corrotti). Machiavelli costruisce, pur servendosi di tutti questi spunti, una figura più complessa e ori ginale: fra' Timoteo è sì un religioso corrotto e ipocrita ma è anche un astuto calcolatore e un abi le conoscitore della psicologia umana, capace di valorizzare per il proprio tornaconto tutta la sua esperienza di confessore. È l'unico a capire da subito i veri propositi di Liguria e la totale dabbe naggine di Nicia: esemplare è infatti il monologo fattogli pronunciare nella scena IX, preceduto, nelle scene precedenti, da un vero e proprio fuoco di fila di battute a botta e risposta (splendido per comicità e per tempismo teatrale) tra Liguria, Nicia e fra' Timoteo stesso. E sarà infatti nelle scene finali di questo atto III che fra' Timoteo dispiegherà tutta la sua abilità psicologica, la sua vi scida ma efficacissima capacità di "persuasore" , riuscendo nell'impresa decisiva (senza la quale la beffa ordita da Callimaco e Liguria non potrebbe realizzarsi) di convincere Lucrezia: il "male " , nell'abile retorica d i fra' Timoteo, si tramuta i n vero "bene " , con l'uso di citazioni tipiche dei pre dicatori del tempo (persino la Bibbia, con l'episodio delle figlie di Lot, nella scena XI, viene in soc corso al discorso persuasivo del frate). Insomma, in questo atto campeggia la figura di fra' Timoteo, vero corrispettivo religioso del laico Liguria, entrambi incarnazione originalissima di quell'intelligenza astuta e volpina di cui si è già detto. In mezzo ai due, vittima predestinata, owiamente messer Nicia: se negli atti precedenti, infatti, i dialoghi erano soprattutto a due voci, qui il nucleo centrale dell'atto, non a caso il terzo, è a tre voci (Timoteo, Liguria e Nicia) , quasi a rimarcare ancor più la singolare " triade" costituita dal beffato e dai due impareggiabili beffatori (uno schema ternario caro anche al Boccaccio delle fa mose novelle di Calandrino). Ne consegue un crescendo irresistibile di comicità che vede Nicia preso, senza che se ne aweda, tra due fuochi. 4-
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Anche in questo atto allo spettatore viene esibito un intero spaccato di quotidiana vita citta dina: una religiosità diffusa e popolare ma piena ancora di superstizioni, un uso della fede a fini di comodo e di interesse da parte un po' di tutti, una moralità apparentemente rigida ma in realtà ela stica e pronta ad adattarsi all'infinita casistica di tutti i giorni. C'è infatti un fra' Timoteo sempre pronto a trovare una giustificazione e una soluzione per ogni problema (le tentazioni e le insidie erotiche, l'aborto riparatore, la necessità di avere un figlio a qualunque costo e così via) . Con fare beffardo e dissacratore Machiavelli dispone sulla scena i vizi privati, le private bassezze di un mon do da sempre abituato a glorificare in pubblico le proprie virtù: anche qui come non pensare al Principe e ai Discorsi, laddove Machiavelli invita a guardare alla politica, agli Stati, agli uomini per quello che sono veramente piuttosto che per quello che fingiamo che siano o che speriamo do vrebbero essere? Nella Mandragola i "buoni" fiorentini del suo tempo (ma il discorso potrebbe va lere per gli spettatori di ogni tempo) sono messi come di fronte a uno specchio in cui possono os servarsi per come davvero sono, o per come davvero agiscono, secondo quali norme etiche (mol to, molto più elastiche di quanto in pubblico si proclami) si comportano nella vita di tutti i giorni. Gli ultimi due atti vedono compiersi il piano della beffa e trionfare tanto la passione di Callimaco quanto l'intelligenza lucida e calcolatrice, capace di prevedere e aggirare ogni imprevisto, di Li guria, con la degna collaborazione di fra' Timoteo.
5· Atto IV. Qui Machiavelli si diverte a usare alcuni espedienti tipici del repertorio teatrale co mico: travestimenti, colpi di scena, doppi sensi, in un crescendo di azioni che permettono a Calli maco, abilmente camuffato, di pervenire finalmente nella camera di Lucrezia. L'atto si conclude proprio sulla soglia della camera, e gli spettatori sono congedati da fra' Timoteo (scena X) con una maliziosa battuta su Callimaco e Lucrezia (in procinto di darsi ai piaceri amorosi) ribadita nella canzone di chiusura dell'atto stesso. Non a caso l'atto finale, il V, si apre con un altro monologo di fra' Timoteo che, all'alba del nuovo giorno, finita la turbolenta notte degli inganni, si incarica di incarnare la curiosità degli spettatori e si appresta ad appurare come si sia davvero conclusa l' av ventura amorosa. L'atto IV si era invece aperto con un lungo monologo di Callimaco, perfettamente funzionale a esprimere l'ansia, i timori, i turbamenti dell'amante che sta per giocarsi l'occasione della sua vi ta. Dopo questo monologo il ritmo cambia radicalmente: si sussegue una girandola di situazioni, battute, colpi a effetto, durante i quali ancora Nicia, beffato e sul punto di divenire cornuto (si ve da, nella scena IX, la splendida battuta di Liguria su san Cuccù) occupa per intero lo spazio comi co della situazione. Tutto ciò mostra come Machiavelli sappia, con consumata perizia, cimentarsi con le più tipi che dinamiche teatrali, dosando al punto giusto gli "ingressi " dei protagonisti, miscelando le pau se dell'azione con repentini mutamenti di ritmo, usando ogni espediente ( comico, innanzitutto, ma non solo) per tener desta la curiosità dello spettatore. E questo appare davvero un fatto straordinario: sebbene Machiavelli abbia scritto La Man dragola in un tempo in cui da poco i generi teatrali avevano ripreso vigore e di conseguenza anche il pubblico come tale era ancora ristretto e neppure del tutto avvezzo a questo nuovo tipo di spet tacolo, noi abbiamo la netta percezione che egli non dimentichi mai ( cosa essenziale per un auto re teatrale) proprio il pubblico, i possibili spettatori, i loro desideri, le loro curiosità più o meno morbose, il loro senso del comico e del " dir male" . Il " dialogo" con il pubblico (esplicito nel Pro logo e nelle canzoni) è di fatto costante e costituisce certo una delle ragioni della persistente at tualità di questa commedia: l'atto IV ( come del resto gli altri) è perfetto da questo punto di vista. 6. Atto V. L'ultimo atto è quello in cui si svela la conclusione della vicenda, con Liguria e fra' Ti moteo spettatori compiaciuti della riuscita dei loro piani. La scena decisiva è la quarta, in cui Cal limaco narra la conclusione felice dell'incontro con Lucrezia e soprattutto espone con quali abili
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(più che passionali) ragionamenti la donna abbia deciso di cedere ai desideri del giovane, portata a quel punto dal convergente dispiegarsi di interessi, egoismi, calcoli di tanti, alle sue spalle. Sicché nella scena finale tutti i protagonisti appaiono felici sulla scena, ognuno per propri mo tivi: persino messer Nicia, il grande beffato, è felice, convinto di essersi preso gioco di tutti e di po ter presto divenire padre. Messer Nicia è sconfitto da un giovane, la cui baldanza viene ben su p portata dai calcoli di Liguria. Anche questo è un tema caro a Machiavelli: i giovani, capaci di es sere spregiudicati e awenturosi, alla fine prevalgono, tanto in politica quanto in amore (si pensi al la chiusa del cap. xxv del Principe, alla "fortuna" vista come una donna che può essere vinta solo dall'impeto e dall'audacia di un giovane). Questo tema tornerà anche in una commedia più tarda di Machiavelli, la Clizia, dove l'anziano protagonista, Nicomaco, deve soccombere, in amore, alle ragioni dei più giovani; e lì il tono si colorirà più di malinconia, la comicità del vecchio sconfitto ( quasi autobiografica) si mescolerà a una vena di triste rassegnazione di fronte alle inesorabili leg gi della natura. Nella Mandragola il finale è invece pervaso di quell'irriverente, sarcastico e dissacrante tono che la caratterizza fin dalle prime battute, quando Machiavelli si proclama senza ritegno, anzi con piena legittimazione, maestro in maldicenza. Non a caso la battuta finale della commedia è affida ta proprio a fra' Timoteo, la cui benedizione e il cui saluto a protagonisti e spettatori non possono che suonare ammiccanti e complici, implicitamente polemici verso il vuoto perbenismo dei ceti di rigenti fiorentini. La beffa è consumata, la tresca amorosa è felicemente awiata, tutti (compreso Nicia) sono felici, l'egoismo di ogni singolo col suo fardello di calcoli e astuzie alla fine trionfa: che singolare e spregiudicato lieto fine ! E nessuno meglio di quel frate, quasi strizzando l'occhio agli spettatori consapevolmente "ipocriti" ( diremmo oggi con Baudelaire) poteva dare il degno con gedo a tutta la storia. Owero la declinazione del male dicere tocca, così, punti alti in Machiavelli nella Mandragola, quasi provocato dal percorso pungente e decisivo della commedia antica, da poco pienamente riscoperta e indagata ( come non pensare al Pontano o al Beroaldo in pieno esercizio ermeneutico su Plauto? ) "· E Machiavelli infatti tanto nelle opere letterarie quanto in quelle politiche si misura con tutte le pos sibili latitudini dell"'invettiva" nella sua accezione non superficiale del "dir male" owero dell'eser cizio del pensiero critico, che è in realtà tema strategico per il pensiero democratico moderno. In Discorsi I, 7 troviamo una risposta di grande rilevanza da parte di Machiavelli alla questio ne: il " dir male" se è "pubblico " owero se è esercizio fondato della critica in un contesto di liber tas e di respublica è necessario a mantenere la libertà owero è politico e positivo ( come poi più avanti ben saprà argomentare Montaigne). E non a caso Machiavelli stesso esercita questa pratica anche nei Decennali, nei Capitoli e nell'Asino (opera che molto deve appunto all'Alberti, specie qualora si legga da vicino la famosa "requisitoria " finale del porco) 40: l'uso a fini pubblici della cri tica, della polemica, del sarcasmo fino all'invettiva ( con radici nella polemistica e controversistica classica e poi patristica) si unisce in Machiavelli sempre all'esercizio del progetto anche utopisti co, all'investimento sul futuro, alla fiducia nel potere dirompente delle nuove generazioni 4'. Fra queste due polarità, in definitiva, si organizza il grande pensiero politico machiavelliano e di lì at tinge la sua inimitabile forza (l'esperienza degli Orti Oricellari, i capitoli finali del Principe, la par titura stessa dei Discorsi e la figura del Colonna nell'A rte della guerra). Potremmo dire che Ma chiavelli individua un punto che diverrà cruciale nelle moderne democrazie: e non a caso il pen siero anglosassone recente tanto si è volto al «momento machiavelliano>> come costitutivo per i fon damenti stessi del repubblicanesimo americano''· Ma, accanto a questo " dir male " a forte valenza politica e democratica, Machiavelli individua un " dir male" corrosivo e devastante per Stati e comunità. Questo controcanto è sviluppato con grande efficacia, a partire da La Mandragola, in tutte le opere letterarie di Machiavelli: è il " dir ma-
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l e privato " , infondato, volto alla distruzione dell'awersario nel cicaleccio organizzato del disprez zo e della calunnia sorretto dall'altra grande piaga, quella dell' " invidia " , la terribile peste che ac ceca e che sta al centro di amare riflessioni in Dante, Petrarca, Alberti e in tanti umanisti, topos classico che giunge a giganteggiare poi in certe figure del male della letteratura inglese (lago, il Sa tana di Milton e così via). Invidia, come egoistico e pusillanime desiderio di possesso e prevaricazione, come rifiuto del l'altrui forza e dignità, si oppone all'ideale magnanimo di vita e di azione ", si arma della maldi cenza, della calunnia, dell'infamia, distorce l'invettiva dalla sua potenziale valenza critica positiva dei costumi volgendosi a bassa diffamazione, rendendo ipocrite le dichiarazioni formali e sostan zialmente corrodendo il tessuto civile e legale di privati e istituzioni. È straordinario l'attacco che Machiavelli porta a questa corruzione dei costumi nella vita civile proprio per la consapevolezza che in lui è ben netta sui nessi tra forma e sostanza dell'agire politi co: il Machiavelli che invita il principe a > (XII, 64 ) , solo allora, nel terribile silenzio che precede la morte, in una sospensione di melodramma a fortissima presa emo tiva, solo allora giunge direttamente al cuore di Tancredi la parola di Clorinda, solo allora c'è spa zio per il "riconoscimento" , nel segno di un "oltre " non di sangue, non di guerra, non di odio, ma di solidale comprensione, di rispetto, di possibile "parola " . Così infatti, e in tale contesto, può es sere letta una delle ottave memorabili della Liberata (XII, 66): - Amico, hai vinto: io ti perdon . . . perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, all'alma sì; deh ! per lei prega e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
Ottava "tridentina " , certo, costruita sul modello della conversione esemplare, ma la cui forza sta ben di là da frigidi intenti pedagogici: ed è tutta nel terribile spasimo d'amore di Tancredi, nella ras serenante parola di pace ( che è un "inizio" vero: di qui l'esplicito richiamo al battesimo, il sacra mento per eccellenza del "rinascere" , dell'inizio) di Clorinda. ll con/ligere è devastante di ogni co sa: non a caso il dolore e la disperazione dilaniano Tancredi (e in ciò tutto il finale del canto XII è
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pienamente funzionale). Pure, se le armi tacciono, se il cuore ritrova vie inusitate, se il fragore vie ne tenuto lontano, ci si può ascoltare e ogni maleficio perde immediatamente vigore: così, nel fina le del canto XIII, così, tra il XVII e il XVIII, nell'alba silente e di raccoglimento sul monte Uliveto di un altro eroe che "rinasce " , Rinaldo, appunto, la cui preghiera, il cui ascoltarsi come uomo "nuo vo " entro sé sono gli elementi che producono lo sciogliersi di ogni incantesimo, preparano la via al la vittoriosa conquista di Gerusalemme, ma soprattutto al finale "ritrovarsi " , totalmente nuovo e pur sempre ardente, con Armida. Solo quando la guerra è conclusa, solo allora, anche Rinaldo e Ar mida possono riprendere il loro intenso dialogato d'amore, solo allora la parola ha luogo, nell'atti mo in cui Armida ha ormai deciso di darsi la morte, appartata, ormai fuori dai fragori del mondo. A Rinaldo che si proclama suo Armida risponde con la frase evangelica di Maria: