L'eroe delle donne 8879070592, 9788879070591

I racconti che compongono "L'eroe delle donne sono", in un modo o nell'altro, storie di persone che

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Italian Pages 189 [193] Year 2009

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L'eroe delle donne
 8879070592, 9788879070591

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cavallo di ferro

Con una scrittura elegante e un’immaginazione singolare, in L’eroe delle donne Adolfo Bioy Casares ha creato una galleria di personaggi indimenticabili. Adesso, per la prima volta, i loro racconti pubblicati in italiano.

cavallo di ferro

I racconti che compongono L’eroe delle donne sono, in un modo o nell’altro, storie di persone che si sentono poco a proprio agio con il destino che è toccato loro in sorte: uno studente che deve pre­ pararsi per un esame incontra un enig­ matico e avventuriero contrabbandiere, un impiegato di un sanatorio perso nella pampa scopre che il dolore dei pazienti può essere usato per produrre energia elettrica, un giovane campagnolo che ha sempre sognato di vedere una grande città da vicino o un uomo che sfugge al suicidio imminente perché accetta la proposta di dormire per cent’anni.

Adolfo Bioy Casares (1914-1999) è uno dei più influenti scrittori del xx secolo. Fu amico e assiduo collaboratore di Jorge Luis Borges, che lo considerava «inventore di trame perfette».Tra le sue opere spic­ cano L’invenzione di Morel, Piano d’eva­ sione e Lii trama celeste. Ha vinto nume­ rosissimi premi, tra i quali il Cervantes alla carriera.

Progetto Grafico di Miss Sushie

Dello stesso autore per Cavallo di Ferro: Diario della guerra al maiale (romanzo) Piano d’evasione (romanzo)

L'eroe delle donne

Impaginazione di Serena Vischi Stampato per conto della Cavallo di Ferro editore presso Grafiche del Liri, srl (Fr) nel mese di giugno 2009

Dello

stesso autore nelle edizioni

Cavallo di Ferro:

Diario della guerra al maiale Piano d'evasione

Titolo originale El héroe de las mujeres

® Heirs of Adolfo Bioy Casares, 1978 ® 2009, Cavallo di Ferro, srl, Roma www.cavallodiferro.it

prima edizione, giugno 2009 ISBN: 978-88-7907-059-1

Adolfo Bioy Casares

L'eroe delle donne traduzione di

Daniela Ruggiu

cavallo di ferro

7'ΐ

Questo volume raccoglie i racconti e i romanzi brevi che ho scritto dopo El gran Serafin (1967). Tre di questi, Una porta si apre, La passeggera di prima classe e II giardino dei sogni, sono apparsi nelle raccolte Con e sen­ za amore e II lato dell’ombra e altre storie fantastiche. A.B.C.

Un lunedì notte, agli inizi d’autunno dell’anno ’51, il gio­ vane Correa, che molti chiamavano il Geografo, si trova­ va su uno dei moli del Tigre in attesa della lancia che do­ veva portarlo sull’isola del suo amico Mercader, dove si sarebbe ritirato a preparare gli esami in arretrato del pri­ mo anno di Legge. Naturalmente, l’isola in questione non era che una macchia soggetta a inondazioni, con un ca­ sotto su palafitte; un luogo indecifrabile nel labirinto di ruscelli e salici dell’enorme delta. Mercader lo aveva mes­ so sull’avviso: «Sperduto nel nulla, con la sola compa­ gnia delle zanzare, cos’altro potrai fare se non buttarti a capofitto nello studio? Quando verrà il momento, sarai diventato un campione». Lo stesso dottor Guzman, un vecchio amico di famiglia che dietro richiesta di quest’ultima vigilava benevolmente sui movimenti di Correa nel­ la capitale, ne approvò il breve esilio, reputandolo deci­ samente opportuno, se non indispensabile. Ma dopo tre giorni da isolano, Correa non era riuscito a leggere il nu­ mero di pagine che aveva previsto. Perse il sabato a pre­ parare la brace per l’arrosto e a bere mate, e la domenica a vedere la partita tra Excursionistas e Huracàn: franca­ mente, non aveva nessuna voglia di aprire libro. Aveva

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affrontato le prime due notti con la ferma intenzione di lavorare, ma il sonno ben presto lo aveva vinto. Le ricor­ dava come se fossero state molte più di due, sommando­ vi l’amarezza dello sforzo inutile e il rimorso che ne sca­ turiva. Il lunedì si recò a Buenos Aires, dove pranzò con il dottor Guzman e mantenne l’impegno di andare a ve­ dere lo spettacolo pomeridiano del teatro Maipo insieme a un gruppo di conterranei. Di nuovo sul molo del Tigre, mentre aspettava la lancia, che viaggiava con singolare ritardo, pensò che stavolta non era sua la colpa di que­ st’ultimo contrattempo, ma che da allora in avanti era suo dovere sfruttare ogni singolo minuto: la data del­ l’esame si stava avvicinando. Inquieto, passò da una preoccupazione all’altra. «Che faccio» si domandò, «se il conducente della lancia non sa qual è l’isola di Mercader?» (quello che ce lo aveva por­ tato di domenica lo sapeva). «Non sono più sicuro di ri­ conoscerla». La gente iniziò a conversare. Lontano dal gruppo, ap­ poggiato al parapetto, Correa era intento a guardare la boscaglia della riva opposta, che la notte avvolgeva nel­ la nebbia. In realtà, a lui nemmeno in pieno giorno sareb­ be parsa meno fosca, perché in quella regione ci era ap­ pena arrivato, e non somigliava a niente di quanto ave­ va visto prima; semmai somigliava, questo sì, a un pae­ saggio molte volte immaginato e sognato: l’arcipelago malese, come glielo avevano rivelato, nelle aule di scuo­ la della provincia natale, diversi volumi di Salgari, rive­ stiti di carta marroncina perché i preti li credessero dei li­ bri di testo.

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Quando cominciò a piovere andò a rifugiarsi sotto una pensilina, vicino alle persone che conversavano. Non tardò a scoprire che non costituivano un unico gruppo, come aveva supposto, ma tre; perlomeno tre. Una ragaz­ za, stretta tra le braccia di un uomo, si lamentava: «Allo­ ra, non capisci quello che sento». La risposta dell’uomo si perse dietro una voce tremula, che affermava: «Il proget­ to, che adesso appare così semplice, ha trovato grandi re­ sistenze a causa delle errate nozioni che si avevano sui continenti». Dopo un attimo di silenzio, la stessa voce (forse cilena) proseguì, con il tono di chi dà una buona notizia: «Per fortuna, Carlos ha accordato a Magellano la sua deliberata protezione». A Correa non sarebbe dispia­ ciuto poter seguire il dialogo della coppia, ma una terza conversazione, incentrata sui contrabbandieri, prese il sopravvento sulle altre, riportandogli alla memoria un li­ bro su certi contrabbandieri, o forse pirati, che non ave­ va mai letto: zeppo com’era di illustrazioni raffiguranti personaggi di un’epoca lontana, che indossavano braghe da gaucho, gonnelloni e camicie troppo ampie, lo trova­ va noioso soltanto a sfogliarlo. Si disse che raggiunta l’isola avrebbe cominciato a stu­ diare, immediatamente. Poi rifletté sul fatto che era mol­ to stanco, che non riusciva a concentrarsi, che avrebbe finito per addormentarsi sul libro. La scelta più saggia era quella di mettere la sveglia alle tre, schiacciare un pisoli­ no - ma sì, bello comodo sulla branda - e poi, a mente fresca, cominciare a studiare. Se ne prefigurò malinconi­ camente il suono, l’ora ingrata. «Non è certo il caso di scoraggiarsi» pensò, «visto che sull’isola non potrò che

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studiare. Quando mi presenterò all’esame sarò diventato un campione. Qualcuno gli domandò: - Lei cosa ne pensa? — Di cosa? — Del contrabbando. A questo punto (ma solo ora che conosciamo gli avve­ nimenti) riteniamo che la scelta più saggia sarebbe stata quella di starsene sulle sue con una risposta non compro­ mettente. Ma si fece trasportare dalla discussione e pri­ ma ancora di rifletterci aveva già dichiarato: - Per me il contrabbando non è un delitto. — A-ah! — commentò l’altro. — E si può sapere cos’è? — Per me — insisté Correa, — è una banale violazione. - Che opinione interessante - dichiarò un signore al­ to, dai baffi bianchi e gli occhiali. - Le faccio notare - gridò qualcuno - che quella vio­ lazione miete parecchie vittime. — Anche il calcio ha i suoi martiri — protestò un colos­ so che apparentemente indossava un berretto, ma in re­ altà aveva solo i capelli crespi. - E non è un crimine, che io sappia - disse quello dai baffi bianchi e gli occhiali. — In ambito calcistico si di­ stingue tra dilettanti e professionisti. In quello del con­ trabbando, il signore come si reputa: professionista, di­ lettante o cos’altro? La questione mi interessa. — Dirò di più — insisté Correa. — Ritengo che il con­ trabbando sia l’inevitabile violazione di un’ordinanza ar­ bitraria. Arbitraria come tutto ciò che fa lo Stato. — Certo che con delle opinioni così personali — osser­

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vò qualcuno, — il signore finisce col rivelarsi un anarchi­ co convinto. Quelle opinioni così personali erano in realtà del dot­ tor Guzmàn. Per formularle adesso, Correa aveva repli­ cato fedelmente le frasi di Guzmàn, ne aveva persino imitato la voce. Dall’altra estremità del gruppo, un uomo panciuto e az­ zimato - «un professionista» pensò Correa, «senz’altro un dentista» - gli sorrise come se gli stesse facendo le congra­ tulazioni. Gli altri invece smisero di parlargli; ma comin­ ciarono a parlare di lui, probabilmente con disprezzo. La lancia arrivò poco dopo. Correa non era certo di ri­ cordare come si chiamasse. «La Victoria non so cosa...» disse. In ogni caso, era una specie di autobus fluviale a lunga percorrenza per il delta. Salito a bordo in balìa delle spinte, finì col ritrovarsi vicino all’uomo panciuto, che sorridendo gli domandò: — Lei ha mai visto un contrabbandiere? — Che io sappia, mai. L’altro portò le mani al bavero della giacca, buttò fuo­ ri il petto e dichiarò: — Ce l’ha davanti. — Non mi dica. — Glielo dico invece. Può chiamarmi Marcelo. — Dentista? — Esatto: odontoiatra. — E a tempo perso contrabbandiere. — Sono certo (mi rifaccio alle ragioni da lei ammire­ volmente esposte) che in questa veste non faccio male a nessuno. A nessuno, se escludiamo i commercianti e il fi-

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sco, la qual cosa non mi toglie certo il sonno, mi creda. Guadagno qualche soldo, quasi quanto in ambulatorio, ma in un modo che al momento mi diverte di più perché sconfina nell’avventura, che è qualcosa di inedito per un uomo come me. 0 come lei, ci scommetto. — Il dottore mi conosce? — Mi baso sul suo aspetto, e lei sembra un bravo ra­ gazzo, un po’ timido ma di pasta buona. Voialtri, quelli deH’interno, siete migliori, quando non siete peggiori... Anche se oggigiorno la gioventù, chi lo sa'? - Non ha fiducia nei giovani? È sbagliato credere che solo perché uno è giovane fa tutte le fesserie e le stupi­ daggini che gli saltano in mente. — Io non lo credo, affatto. Sennò non le avrei detto quello che le ho detto. - Non vorrà mica pentirsene? Non penserà che voglia denunciarla ai militari? — Neanche per sogno. Solo che le ho parlato come se la conoscessi, quando in realtà non la conosco. Per tranquillizzarlo, Correa gli disse chi era. Studiava Legge; doveva preparare qualche esame del secondo an­ no; si sarebbe trattenuto una quindicina di giorni sul­ l’isola del suo amico Mercader; era nuovo della zona. — Tutto quello che so è che dopo un’area ricreativa che si chiama La Encarnacion devo scendere. Ho paura di non riconoscere il posto e di tirare dritto. E se dovessi arriva­ re a destinazione, mi aspetterebbe un annoso dilemma: studiare o dormire? 1 In italiano nel testo [n.d.t.].

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- Bene - esclamò il dentista alquanto soddisfatto. Lei mi ha offerto spontaneamente, mi ascolti bene, la mi­ glior prova della sua sincerità. - Perché non avrei dovuto dargliela, se ho voglia di dor­ mire? Veda lei: voglio studiare e invece crollo dal sonno. - Vuole studiare? Ne è certo? - Certo che sì. - Mi ascolti bene: non le sto chiedendo se vuole studia­ re in generale. Le sto chiedendo se vuole studiare stanotte. Correa lo reputò un dentista intelligente. Disse: - A dire il vero stanotte mi manca quella che si chia­ ma voglia. - E allora dorma. La cosa migliore è che dorma. A me­ no che... - A meno che? - Niente, niente, giusto un’idea su cui devo meditare. Come stesse parlando da solo, Correa mormorò: — Questa cosa di cominciare una frase... — Badi a come parla. Si ricordi che ha davanti un pro­ fessionista. Un universitario. — Non volevo offenderla. - A volte mi domando se la gente non andrebbe edu­ cata a pedate. — Non faccia così. — Faccio come mi pare. Lei mi ha irritato, proprio quan­ do stavo per proporle una cosa con le migliori intenzioni... Quasi tutti quelli che poco prima discutevano di con­ trabbando, scesero tumultuosamente al molo di La En­ carnacion. Correa domandò: - Cos’è che voleva propormi?

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— Una terza alternativa al suo annoso dilemma. - Chiedo scusa, signore, ma non la seguo. Quale di­ lemma? - Dormire o studiare. E lei, giovanotto, perfino nel sonno mi deve chiamare dottore. Correa pensò, o semplicemente sentì, che una propo­ sta in grado di sottrarlo all’alternativa tra dormire o stu­ diare era allettante. Era già pronto ad accettare, quando ripensò a quali attività fosse dedito il dottore. — Prima di accettare la sua proposta, devo chiederle un chiarimento. Ma le chiedo anche, per favore, che mi risponda in tutta franchezza. — Sta forse insinuando che non sono sincero? — In nessun modo. — Chieda, chieda. - Non è per paura, mi creda, ma mettiamo che mi suc­ ceda qualcosa e che non possa studiare, o non possa pre­ sentarmi all’esame! Sarebbe un vero disastro. Sto per cor­ rere qualche rischio? Potrei essere in pericolo? - L’inatteso è sempre in agguato, e al codardo si può consigliare solo una cosa: la cuccia. Che non esca dalla cuccia. Ma in questo momento lei sta viaggiando come una testa coronata, in incognito, e pertanto non corre al­ cun pericolo. Ancora prima che accettasse, il dottore lo considera­ va già un collega e aveva cominciato a martellarlo con delle spiegazioni, che, secondo Correa, non facevano al caso. Il dottore gli raccontò che viveva su un’Ìsola con la sua signora; che un banditore d’asta particolarmente lo­ quace gli aveva proposto un affare, l’acquisto di un’altra

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isola non distante dalla sua; che lui l’aveva lasciato par­ lare, nonostante non avesse intenzione di comprarla, perché niente lo contrariava quanto separarsi dai soldi, anche quando si trattava di un buon investimento. Il giorno in cui la sua signora era venuta a conoscenza del­ la proposta, era anche finita la pace. - La mia signora ribolle di vita interiore - spiegò. Non ci crederà, ma dentro è alimentata da un bel moto­ re, e sin dall’inizio ha sostenuto fanaticamente l’acquisto dell’isola. Ha cominciato a dirmi: «Bisogna sempre in­ grandirsi. L’isola è un primo gradino». A modo mio an­ ch’io so essere cocciuto, sicché l’ho lasciata parlare ma non ho ceduto di un passo, perlomeno fino all’ultima do­ menica del mese scorso, quando a casa nostra sono capi­ tate delle amiche della mia signora, e mi son detto: «Qua­ si quasi faccio un salto sull’isola a dargli un’occhiata». Me la sono squagliata sulla mia lancia privata. Quando sono arrivato, il guardiano, che stava ascoltando una par­ tita, mi ha chiesto per cortesia di perlustrarla da solo, an­ che se non c’era molto da vedere. A questo punto del racconto il dottore fece una pausa, per aggiungere poi con aria di mistero: - Il guardiano si sbagliava. Se un mistero c’era, Correa non volle crederci. Tutta­ via, sospettò che il dottore stesse parlando al solo scopo di distrarlo: voleva evitare che, guardando la riva, ricor­ dasse o fosse in grado di riconoscere i luoghi che attra­ versarono lungo il tragitto. In realtà, per quanto li guardasse, quei paraggi scono­ sciuti che, troppo simili fra loro, gli sfilavano davanti uno

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dietro l’altro, gli si confondevano irrimediabilmente co­ me parti di un sogno. - E perché il guardiano si sbagliava? — Lo capirà presto. Mio nonno, che in Polonia mise insieme una cospicua fortuna, ma che dopo dovette emi­ grare, amava dire: «Chi cerca trova. Anche dove non c’è niente, se uno s’impegna a cercare, trova quello che vuo­ le». Diceva anche: «I posti migliori in cui cercare sono so­ pra i soppalchi e sotto i giardini». Quest’isola non sarà un giardino, ma... — Ma cosa? — Adesso scendiamo — disse il dottore, per gridare su­ bito dopo: — Conducente, attracchi per favore. Il molo, di legno marcio, era piccolo e decisamente malfermo. Correa lo guardò con apprensione. — Sto sbagliando — gemette. — Io, signore, in questo momento dovrei essere impegnato a studiare. — Ci risiamo col signore. Lo sa meglio di me che sta­ notte non avrebbe studiato. Bando alle stupidaggini, ab­ bia la bontà di seguirmi. Cammini dietro di me. Lo vede il casotto che spunta tra i salici? Là ci vive il guardiano. Non abbia paura. Non ci sono cani. — Mi dà la sua parola? - Ma certo. Quell’uomo non ha altri amici al di fuori dell’apparecchio radiofonico. Qua sopra, sull’isola, con­ tinui a camminare dietro di me. Bisogna calpestare il terreno asciutto, per non lasciare tracce. Ci scommette­ rei che se non le dico niente, lei se ne va in mezzo al fan­ go, come i maiali.

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Il dottore, con le braccia in alto, apriva la strada spo­ stando le frasche. A Correa parve di scendere lungo un de­ clivio in penombra. Una penombra che gradualmente di­ venne buio, quasi fossero sottoterra, in un tunnel. Capì che era proprio un tunnel quello che stavano percorrendo, un angusto e lungo tunnel ricoperto di fogliame: il pavimen­ to era ricoperto di foglie, anche sulle pareti e lungo il tet­ to c’erano foglie e rami, salvo nella parte più profonda, davvero sotterranea, dove l’oscurità era assoluta. Trovò sgradevole quel posto, soprattutto perché strano e inatte­ so. Si domandò perché mai avesse permesso che qualcu­ no lo distogliesse dal suo dovere. Chi era il suo accompa­ gnatore? Un contrabbandiere, un delinquente di cui nes­ sun sano di mente si sarebbe fidato. La cosa peggiore era che dipendeva proprio da lui; o perlomeno, se l’altro l’avesse lasciato solo, non si riteneva capace di ritrovare l’uscita. Gli balenò un’altra idea irrazionale, che tuttavia gli parve evidente: in entrambe le direzioni il tunnel era infinito. Quando si ritrovò all’estemo cominciava a esse­ re molto agitato. L’attraversamento non era durato più di tre o quattro minuti; a cielo aperto sarebbe stata questio­ ne di secondi. Si ritrovarono in un posto completamente diverso da quello che avevano lasciato all’altra imbocca­ tura del tunnel. Correa lo descrisse come una «città giardi­ no», espressione che aveva sentito più di una volta, ma di cui ignorava l’esatto significato. Percorsero una strada tortuosa, fra giardini e ville di campagna, case bianche dal tetto rosso. Il dottore, con tono di rimprovero, gli chiese: — Ha portato con sé solo pesos argentini? L’avevo im­ maginato, l’avevo proprio immaginato. Potrà cambiarli

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ovunque, ma non si lasci infinocchiare. Io so dove il cam­ bio è vantaggioso e dove si può comprare della merce da piazzare sul mercato di Buenos Aires ottenendone buoni profitti. Informazioni come queste però, sono certo che capirà, hanno il loro prezzo, e non intendo fornirgliele gratuitamente, così, di punto in bianco. Un giorno, chi lo sa, si può anche diventare soci. Ma per il momento ognu­ no si arrangia da solo. Lo vede quel cartello? - Quello con la scritta Fermata 14? - Quello. Ci ritroveremo lì sotto domattina all’alba, al­ le cinque in punto. Correa protestò. Non erano quelli i patti. Lui si era ras­ segnato a perdere una notte, così invece avrebbe perso due notti e un giorno. Il dottore retrocesse di un passo, come se volesse guar­ darlo meglio. - Ponderi la sua proposta. Vorrebbe che tornassimo di giorno, in piena luce, svelando così a chiunque il nostro segreto. Lo sa che se non sto attento finisce che lei mi co­ sta caro? Adesso, mi dica, cosa ci fa all’estero senza la mia protezione? Si mette a piangere? Chiede al console di essere rimpatriato dentro un baule? Correa capì di essere alla mercé del dottore, era prefe­ ribile non irritarlo. — A domani — disse. - A domani - rispose il dottore, poi guardò l’orologio, - alle cinque in punto, così di tempo ne abbiamo da ven­ dere, visto che albeggia alle sei. Non mi piace andare di fretta. Io vado di qua, lei di là. E non provi a seguirmi, perché le spacco la faccia.

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Correa camminava da un po’ quando pensò che se il dottore avesse mancato l’appuntamento, lui si sarebbe trovato in una brutta situazione. Con sé aveva pochi sol­ di e, indubbiamente, poche speranze di ritrovare rimboc­ co del tunnel. La cosa più saggia era cercarlo prima che la memoria gli si appannasse. Cercò di ripercorrere il tra­ gitto, ma ben presto quelle strade tortuose lo disorienta­ rono. E poi c’era un dettaglio che, per non fare la figura dello stupido, aveva evitato di chiarire: dove si trovava­ no? Sentì che gli girava la testa e pensò che, stanco co­ m’era, era meglio smetterla di vagare in tondo per strade che ignoravano i rudimenti della pianta a scacchiera. Realizzò anche che aveva urgente bisogno di dormire un po’. Solo dopo avrebbe affrontato la situazione. - Mi stendo a dormire dove capita — disse a voce alta, e ag­ giunse: — Basta che non ci capiti un cane —. Detto fatto iniziarono i problemi, perché in quella città c’era un ca­ ne in ogni giardino, se non due. Fu forse per mettere a ta­ cere la sua coscienza sporca che rifletté sul fatto che se invece di commettere l’idiozia di ascoltare il dottore fos­ se rientrato, come qualsiasi individuo con un po’ di sen­ no, sull’isola di Mercader, con una stanchezza del gene­ re non sarebbe riuscito a studiare. Se non avesse trovato al più presto un giardino senza cane, avrebbe dormito per strada. Alquanto spaventato, imboccò l’ingresso di una villa attraversando un pergolato d’alloro che alla luce dell’alba risultava fantasmagorico. Poiché nessun cane abbaiò, si mise a dormire. Quando si svegliò, il sole gli stava battendo sugli oc­ chi; trasal ì nell’avvertire che qualcuno lo stava osservan­

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do da vicino. Era una donna giovane, non sembrava brutta e aveva forse il volto arrossato. Siccome era ner­ voso, in preda alla confusione decise che doveva tran­ quillizzarla. — Mi scusi se sono entrato — disse. — Avevo così tan­ to sonno che mi sono addormentato. Non abbia paura, non sono un ladro. - Qualunque cosa sia non m’importa - replicò la don­ na. — Vuole qualcosa da bere? Dev’essere affamato, vista l’ora, ma dovrà accontentarsi di una colazione. Oggi non ho preparato niente. S’inoltrarono nel prato, fra le piante, finché non com­ parve la casa: bianca, con il tetto di tegole, era circonda­ ta da un portico pavimentato di mattonelle rosse. All’in­ terno era ombreggiata e fresca. — Mi chiamo Correa - disse. La donna rispose che si chiamava Cecilia e aggiunse un cognome, che suonò forse come Vifìas, ma in un’altra lingua. All’apparenza, in casa erano soli. - Si sieda — disse la donna. - Vado a preparare la co­ lazione. Correa pensò a quello strano tunnel, molto corto in definitiva, ma che a quanto pareva lo aveva portato mol­ to lontano, e si domandò dove fosse. Si alzò, imboccò un corridoio e raggiunse la cucina. Cecilia era di spalle, in­ tenta a scaldare l’acqua e tostare il pane, e non si voltò subito. Con un movimento rapido si passò la mano sul volto.

— Le farò una domanda — annunciò Correa; poi tac­ que, e infine disse: — Cosa sta succedendo?

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- Mio marito mi ha lasciata — spiegò Cecilia in lacri­ me. - Come vede, niente di straordinario. Di fronte alla necessità di consolare la donna riman­ dò nuovamente la domanda, ma dovette affrontare cre­ scenti difficoltà man mano che veniva a conoscenza del­ la situazione. Cecilia amava suo marito, che l’aveva la­ sciata per un’altra donna, più bella e più giovane. - Adesso so che mi ha sempre ingannata, e così del mio grande amore non ho nemmeno un bel ricordo. Poiché Cecilia non smetteva di piangere, Correa si dis­ se che probabilmente era inopportuno farle presente che l’acqua stava bollendo. All’odore del pane bruciato, lei sorrise tra le lacrime. A Correa quel sorriso piacque, an­ che perché prese il posto del pianto. Che, disgraziatamen­ te, non tardò a ricominciare; fu così che Correa l’accarez­ zò, a corto di argomenti di consolazione, e scoprì che le lacrime erano di stimolo alle carezze, che Cecilia contrac­ cambiò senza smettere di piangere. Riuscì a rincuorarla un po’, finché una qualche imprevedibile parola dovette evocare dei ricordi che fecero temere una ricaduta. - È venuta fame anche a me. Vado a cucinare qual­

cosa. «Le lacrime non le mancano, ma ha anche buona di­ sposizione d’animo» pensò Correa. Dopo mangiato si con­ cessero un riposino pomeridiano. Sembrava ci fosse tem­ po per tutto. La prima volta che si ricordò del dottor Mar­ celo pensò: «Non è proprio il caso che manchi all’appun­ tamento». Poi temette che l’ora di andar via arrivasse troppo presto e ritenne che la sua riflessione sul fatto che Cecilia accettasse le sue carezze non era solo cinica, ma

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anche grossolana e stupida. «Proprio perché soffre va con­ solata» pensò. «Le carezze, come dimostrano i bambini che piangono, sono una consolazione universale». Di­ menticò il dottore, dimenticò gli esami. Scoprì che Ceci­ lia gli piaceva molto. Quel lungo giorno gli offrì un sacco di cose, compresa l’occasione di formulare la domanda: — Dove siamo? Cecilia rispose: — In che senso? — In che parte del mondo siamo? - In Uruguay, ovvio. A Punta dell’Est. A Correa fu necessario un po’ di tempo per capire la ri­ sposta. Poi domandò: — Che distanza c’è da Punta dell’Est a Buenos Aires? — La stessa che c’è da Mar del Piata. In aereo s’impie­ ga più o meno lo stesso tempo. - Quanti chilometri saranno? — All’incirca 400. Correa constatò che Cecilia sapeva tante cose, ma ce n’era una che forse non sapeva, e lui gliel’avrebbe rive­ lata. Continuò: - Scommetto che non sai dell’esistenza di un tunnel che ti ci fa arrivare camminando con la massima tran­ quillità, senza nessunissima fretta, in cinque minuti. — Da dove? — Dal Tigre, ovvio. Direttamente dal delta. Non mi cre­ di, eh? Ieri notte, con un dottore di nome Marcelo, siamo partiti dal Tigre e abbiamo navigato per un po’, finché non abbiamo raggiunto un’isola coperta di pioppi e di

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sterpi, come tante altre. Lì, ben nascosta, si trova rimboc­ co del tunnel. Ci siamo infilati dentro e in meno di cinque minuti (anche se sottoterra mi è sembrata un’eternità) ci siamo ritrovati tra giardini e parchi, in un quartiere resi­ denziale, una città giardino. - Punta dell’Est? - Esattamente. Va detto però che il tunnel è un segre­ to per tutti, eccetto il dottore, me e te. Ti chiedo di non raccontarlo a nessuno. Concentrato sulle sue spiegazioni, non si rese conto che Cecilia si era intristita nuovamente. — Non lo racconterò a nessuno — assicurò Cecilia; poi, cambiando tono, osservò: - Per quanta compagnia pos­ sa farti, un bugiardo ti lascia sola. Correa esclamò con sincerità: - Com’è possibile che a qualcuno possa essere venu­ ta voglia di mentirti? D’improvviso e senza una ragione, lo assalì l’intol­ lerabile timore che Cecilia potesse ritenere quella del tunnel una bugia. Ricominciò a raccontare la storia, con maggiori dettagli, caso mai occorressero, del viag­ gio di quella notte, dall’incontro con il dottor Marcelo fino al congedo in prossimità della Fermata 14. Con en­ fasi precisò: - Proprio a quella fermata domani, alle cinque in punto, mi aspetta il dottore, per riportarmi indietro. — Attraverso il tunnel? — chiese Cecilia, prossima al pianto. — Devo studiare. Mancano pochi giorni agli esami. Studio Legge, secondo anno.

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— Ma che razza di favola mi vieni a raccontare? Mi ci abituerò al fatto di essere lasciata. — Non è una favola. Al contrario: ti ho offerto sponta­ neamente la miglior prova della mia sincerità. Se il dot­ tor Marcelo lo viene a sapere, mi uccide. — Ma fammi il favore, è come se ti dicessi che attra­ versando un tunnel sono tornata dall’Europa in cinque minuti. - È diverso. Ascoltami bene: tra noi e l’Europa ci so­ no molti chilometri e un sacco d’acqua. Se ancora non mi credi, chiederò al dottor Marcelo che mi chiarisca la fac­ cenda, così la settimana prossima, al mio ritorno, ti spie­ gherò tutto. Cecilia disse, come parlando tra sé e sé: — Al tuo ritorno. Per guadagnare tempo fino a che non avesse trovato una risposta definitiva, la strinse tra le braccia. La parte migliore di quel giorno fu molto piacevole e durò a lun­ go; più del giorno stesso, o almeno così gli parve. Mal­ grado sul comodino incalzasse la sveglia, riuscirono a il­ ludersi che il tempo non sarebbe finito; poi, d’improvvi­ so la casa fu invasa dall’oscurità, Correa andò alla fine­ stra e, senza conoscerne il motivo, alla vista del crepu­ scolo s’intristì. La notte serbò loro ulteriori piaceri. Mangiarono qual­ cosa (lo ricordò poi come un banchetto), tornarono a let­ to e per l’ennesima volta gli sembrò che il tempo si dila­ tasse. Quando gli tornò la fame Cecilia andò in cucina e Correa puntò la sveglia alle quattro e mezza. Mangiaro­ no frutta, conversarono, si abbracciarono, ricominciaro­

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no a conversare e probabilmente si riaddormentarono, perché la sveglia li fece sobbalzare. — Che succede? — domandò lei. — Per quale motivo... - Sono stato io a mettere la sveglia. Mi aspettano, ri­

cordi? Cecilia tardò a rispondere: - È vero, alle cinque in punto. Correa si vestì. L’abbracciò e, per riuscire a guardarla negli occhi, la allontanò un po'. Promise: — Torno la settimana prossima —. Nonostante fosse certo di tornare, i dubbi di Cecilia, che apparentemente non credeva né al tunnel né alle sue promesse, lo aveva­ no contrariato. - Mi piacerebbe che mi accompagnassi alla Fermata 14, per vedere con i tuoi occhi che il dottor Marcelo non è un’invenzione. Ma visto che non vieni, in­ dicami la strada per favore. Cecilia si impegnò di più ad abbracciarlo che a dargli le indicazioni. Infine, Correa se ne andò. Nonostante più di una vol­ ta avesse temuto di essersi smarrito, riuscì a raggiungere il luogo dell’appuntamento. Ad attenderlo non c’era nes­ suno. «Che disastro se il dottore se n’è già andato» pensò. «Che disastro se non mi presento agli esami». Avrebbe provato non poca vergogna a ripresentarsi a casa di Cecilia annunciandole che aveva pochi soldi e che, finché non avesse trovato un lavoro, non poteva dare il proprio contributo alle spese comuni. Siccome lo­ ro due si amavano, probabilmente quell’annuncio era solo una formalità, ma era una formalità sgradevole per uno che si era già conquistato la fama di impostore. Am­

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mise, tuttavia, che la situazione non era poi così grave. Cecilia sarebbe stata felice di rivederlo e, se fossero vis­ suti insieme, i malintesi si sarebbero presto dissolti. Im­ merso nelle sue fantasie vide, senza prestargli grande at­ tenzione, un uomo che avanzava verso di lui. Gli si av­ vicinava lentamente, trascinando faticosamente due grandi sacchi. — Perché diavolo non mi aiuta? — gridò l’uomo. Sorpreso, Correa si scusò: — Non l’avevo vista. Il dottore si passò un fazzoletto sulla fronte e sospirò. Poi disse: — Non ha comprato niente? Me lo sentivo, mi creda. Non aveva soldi con sé, il che è un male, e non mi ha chiesto un prestito, il che è un bene, un gran bene. Già a partire dal prossimo viaggio comincerà a guadagnare. Adesso mi aiuti a trasportarli. Correa si caricò in spalla come potè i due sacchi, che erano piuttosto pesanti. Per non inciampare, concentrò la propria attenzione sulla strada, più precisamente su dove metteva i piedi. — Ho temuto che non venisse — affermò. A malapena riusciva a parlare. Ansimava. Il dottore gli rispose: — Sono io ad aver temuto che lei non venisse. Sa quan­ to pesano quei sacchi? Adesso mi sembra di avere le ali, mi creda. Cammino che è un piacere. Continuiamo. In mezzo al tunnel Correa fece un’altra breve sosta per riposare e commentò: — Quello che non capisco è in che modo, attraverso

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questo semplice tunnel, Punta dell’Est e il Tigre siano co­ sì vicini. — Non il Tigre - puntualizzò il dottore, - ma l’isola che comprerò con i miei risparmi. — È praticamente lo stesso. Se da Punta dell’Est a Bue­ nos Aires un aereo impiega un’ora... — Glielo dico chiaro e tondo: l’aereo non mi convince. Attraversando il tunnel arrivo immediatamente e senza spendere un centesimo, non so se mi spiego. — È proprio questo che non capisco. Se partiamo dal­ la premessa che la terra è rotonda... — Ma quale premessa e premessa. Lei dice che è roton­ da perché gliel’hanno raccontato, ma in realtà non sa se è rotonda, quadrata o come la sua faccia. L’avverto: se è il dettaglio geografico ad appassionarla, non conti su di me. Alla mia età non ho pazienza per le stupidaggini. Mi domando se accettarla come socio non sia stato un erro­ re fatale. Un uomo come lei, totalmente fuori dalla real­ tà, potrebbe anche sbandierare la storia del mio tunnel con delle donne o degli estranei. — Come le salta in mente che possa sbandierare una cosa del genere? Con degli estranei, poi, men che meno. — Con nessuno — sottolineò il dottore, guardandolo con aria inquisitrice. — Con nessuno. Sbucati nell’isola rivide il cielo. Correa avvertì un ter­ reno fangoso sotto i piedi; camminarono tra i salici, poi s’immersero in un prolifico pioppeto. A malapena riusci­ vano ad avanzare.

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— Ci tiene proprio a farmi passare dove la boscaglia è più fitta? — Non ha ancora capito che stiamo cercando un posto in cui nascondere i sacchi? 0 preferirebbe che li caricas­ si, in bella vista, su una lancia collettiva? Alla fine, raggiunsero un canneto che il dottore riten­ ne adeguato. — Qui nemmeno Dio in persona li trova — asseverò Correa. — Non ho chiesto la sua opinione. Sorvolò suH’impertinenza e domandò: — Fino a quando ce li lascia? — Tomo stanotte stessa con la mia lancia privata e me li porto via. Ma lei è diventato molto curioso. Non le sta­ rà saltando in mente di fregarmeli? Correa replicò infuriato: — Per chi mi ha preso? L’altro, rasserenato, si scusò: - Era una battuta. Una banale battuta. Speriamo che la lancia arrivi al più presto. Le confesso che immerso nel fango non mi sento a mio agio, proprio per niente. E poi non vorrei che ci vedessero. Da un momento all’altro si fa­ rà giorno e il primo curioso di turno potrebbe scoprirci. Le comunico invece che sto per dare ragione alla mia signo­ ra: devo comprare l’isola. Prima possibile, perché quando meno te l’aspetti qualche sfaccendato che non ha di me­ glio da fare comincia a chiedersi cosa starà combinando quel signore lì, che due volte la settimana va su un’isola che non gli appartiene. Non sono uno a cui piace buttar via i soldi, ma per questa volta chiudo un occhio e compro.

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- Fa bene — osservò Correa. — Meglio evitare che pos­ sa succederci qualcosa di spiacevole. Quando videro arrivare la lancia, la chiamarono. Il dottore pagò i biglietti e non si erano ancora seduti che stava già reclamando: - Sto aspettando che saldi il suo debito. Non ti puoi distrarre un attimo che ti mangiano vivo. Correa gli diede un biglietto da dieci pesos. In quegli anni erano soldi. Disse: - Mi dia il resto. - Ma così si porta via tutto il mio cambio! - Non ho altro. Il dottore non dissimulò la propria irritazione. Poi die­ de due colpetti sulla tasca e con improvvisa allegria di­ chiarò: — Qui sì che staranno al sicuro. Il resto glielo darò la prossima volta. — Quando torniamo? Non ottenne risposta né osò ripetere la domanda. Per un po’ restarono in silenzio. — Se scende a casa di Mercader — disse infine il dotto­ re — sarà meglio che si avvicini al parapetto, perché i conducenti non hanno tempo da perdere. Correa obbedì e domandò: — Allora, non ci torniamo? Il dottore lo spinse villanamente. — È proprio incorreggibile — protestò. — Parli a bas­ sa voce, se non vuole farsi sentire da mezzo mondo. Ci rivediamo giovedì, alla stessa ora, nello stesso posto. D’accordo?

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Correa faticò a contenere la gioia. Cominciò a intrave­ dere prospettive più rosee. Cecilia lo aspettava per la set­ timana successiva, ma avrebbe anticipato Varrivo all’al­ ba di venerdì, facendole una sorpresa che non esitò a de­ finire straordinaria. Stava già per saltare a terra, quando si domandò se non ci fosse ancora qualche punto da chia­ rire. La possibilità che non riuscissero a incontrarsi lo spaventava. Mormorò: — Alle undici e mezza? — Esattamente. — Sul Tigre? — Se io e lei siamo già d’accordo — lo interruppe il dot­ tore, tremante di rabbia, - perché dovremmo informare gli altri? Scenda, mi faccia il favore, scenda. Dalla riva guardò la lancia che si allontanava. Poi si diresse verso il casotto, ne salì ad ampie falcate i gradini, aprì la porta e si bloccò: doveva armarsi di valore, perché una volta entrato in quella stanza sarebbe cominciata l’attesa. L’impaziente, lunga attesa di un secondo viaggio in Uruguay. Commentò a gran voce: — Non so cos’ho. Sono nervoso —. Ciò che evidentemente non aveva era voglia di studiare. Per non perdere tempo - fino al gior­ no dell’esame ogni singolo minuto era prezioso - la cosa migliore era dormire un po’. Una volta che si fosse calma­ to e riposato, si sarebbe consacrato allo studio. Non appena si stese sulla branda, scoprì che non ave­ va nemmeno voglia di dormire. Si disse che a giovedì mancava ancora una vita, e a venerdì, quando avrebbe rivisto Cecilia, svariati secoli: frattanto potevano acca­ dere cose che non voleva nemmeno immaginare. Pensò

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all’appuntamento sul Tigre; alla possibilità che il dotto­ re, per un qualsiasi inconveniente, non si facesse trova­ re. Con i dati di cui era in possesso non sarebbe stato fa­ cile rintracciarlo. Ne ignorava persino il cognome. Se il dottore non si fosse presentato, non c’era altra alternati­ va che trascorrere giorni e giorni di vedetta all’imbarca­ dero, finché non fosse ricomparso. E se il dottore non fos­ se più tornato sul Tigre? Se da allora in avanti avesse rag­ giunto l’isola del tunnel direttamente da casa sua? Cor­ rea pensò che era più sensato andare ad aspettarlo vici­ no ai sacchi quel pomeriggio stesso. Così perlomeno era certo di vederlo, visto che l’uomo sarebbe andato a ri­ prenderli sul calare della notte. Non era certo di riuscire a riconoscere l’isola ripercorrendo quella costa scono­ sciuta, dove una casa, un imbarcadero, ogni cosa si con­ fondeva, perdendosi nelfinvariabile susseguirsi di albe­ ri. Di sicuro, se fosse tornato immediatamente, le proba­ bilità di identificarla sarebbero state maggiori. Trovò la banconota che aveva conservato tra le pagi­ ne di Economia politica di Gide. Nel tenersi il resto il dot­ tore non solo gli aveva sottratto dei soldi, che servono sempre, ma anche la possibilità di conoscere l’importo del viaggio per l’isola, che gli avrebbe fornito un primo punto di riferimento per trovarla. Adesso, non sapeva co­ sa dire quando avesse comprato il biglietto. Non poteva chiedere un biglietto di un certo ammontare, né un bi­ glietto per quel posto o per quell’altro. Erano poche le lo­ calità sul delta di cui conosceva il nome. Meditò sul viaggio che aveva pianificato. Bisognava scegliere il momento giusto, perché se fosse arrivato sul­

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l’isola con la luce avrebbero potuto vederlo, e se ci fosse arrivato all’imbrunire probabilmente non l’avrebbe rico­ nosciuta. Con il trascorrere delle ore si figurava sempre più vividamente quali ansie lo attendevano. Chissà quan­ to tempo avrebbe dovuto aspettare nascosto vicino ai sacchi, fra nugoli di zanzare, in quel pantano pieno di er­ bacce... E per cosa? Neanche così si sarebbe liberato dal timore di mancare rincontro. Al contrario: c’era motivo di credere che il timore, dopo l’abboccamento, sarebbe aumentato. Fino a quel momento non aveva dato al dot­ tore motivo di lamentarsi; si era reso utile, gli era stato d’aiuto caricandosi i suoi sacchi; ma se il dottore se lo fosse inaspettatamente ritrovato davanti, sull’isola, chi gli avrebbe tolto dalla testa che era lì con l’intenzione di derubarlo? 0 che, essendo al corrente dell’esistenza del tunnel, voleva approfittarne per mettersi a lavorare in proprio? Viceversa, se non l’avesse irritato con apparizioni in­ tempestive, perché mai il dottore sarebbe dovuto manca­ re all’appuntamento? Per fregargli i soldi del biglietto? Non era credibile. L’unica scelta intelligente era quella di attenersi a quanto avevano convenuto. Pertanto, sarebbe rimasto lì fino a giovedì, in tutta tranquillità, a studiare come dio comanda. Una volta presa questa decisione, cadde nel più pro­ fondo sconforto. Rinunciava all’azione immediata, si dis­ se, perché era vile, sfaticato e codardo. Trascorse il mer­ coledì immerso in ragionamenti e propositi contraddit­ tori. Siccome non riusciva a studiare, cercava di dormi­

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re; siccome non riusciva a dormire, cercava di studiare. All’alba di giovedì si addormentò. Quando si svegliò man­ cava poco all’appuntamento con il dottore. Si lavò, si sbarbò con l’acqua fredda, indossò una camicia pulita, si vestì rapidamente e corse ad aspettare la lancia che lo avrebbe portato al Tigre. Tutto fdò liscio. Alle undici e mezza in punto, secondo gli accordi, si disponeva ad at­ tendere nell’imbarcadero. Di lì a poco si disse che, per fa­ re le cose in tranquillità, sarebbe dovuto arrivare alle un­ dici, al più tardi alle undici e un quarto. Ovvio però che se il dottore voleva evitarlo, a nulla valeva arrivare in an­ ticipo; e se non voleva evitarlo, non sarebbe certo anda­ to via prima del tempo. «A meno che il mio orologio non sia indietro», pensò Correa, e lo confrontò con quello di un uomo che aspettava la lancia. Non era indietro. Arrivò la lancia. Chiese se era l’ultima. Ce n’era un’altra. Se il dottore non fosse arrivato, avrebbe preso l’ultima lancia e non avrebbe staccato gli occhi dalla costa, con­ centrando tutta la sua attenzione nell’individuare l’isola. Una volta sull’isola, avrebbe facilmente ritrovato l’im­ boccatura del tunnel. In compagnia del dottore le cose sarebbero state più semplici, ma, pur di arrivare in tem­ po a casa di Cecilia, se la sarebbe cavata anche da solo. Il dottore non arrivava e Correa cedette alle supersti­ zioni: all’idea che, finché non fossero passate tre imbar­ cazioni a monte del fiume e un’imbarcazione a valle, non sarebbe apparso... Passarono le tre imbarcazioni. Arrivò la lancia. Era deciso a imbarcarsi, ma con quale intensità desiderò l’arrivo del dottore! Stava giusto per saltare den­ tro la lancia, quando vide un uomo che attraversava la

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strada diretto all’imbarcadero. Aveva agitato una mano e forse gridato qualcosa. Solo una volta che l’uomo ebbe raggiunto l’imbarcadero, sotto la luce della lampada, Cor­ rea capì che non era il dottore, che nemmeno gli somi­ gliava, anche se entrambi erano bassi e piuttosto grassi. Incredibilmente, lo sconosciuto gli rivolse la parola. — Lei sta aspettando qualcuno, giusto? — domandò. — Esatto. — Un dottore? — Il dottor Marcelo. — Non è potuto venire. Mi segua. Dopo qualche esitazione seguì lo sconosciuto. Costeg­ giarono il fiume e svoltarono a sinistra. Correa potè leg­ gere sulla targa della via il nome Tedin. Un po’ di gente si tratteneva ancora sull’uscio delle case. - Manca molto? — Non mi dica che è già stanco — rispose l’uomo; era meno azzimato del dottore e più robusto. — Attraversia­ mo il ponte della Reconquista e siamo arrivati. Costeggiarono il muro di cinta del Club Gas del Estado. Contro il muro, più avanti, c’era un uomo enorme. Correa si fermò un attimo e disse: - Quello non è il dottore. — Neanche per sogno ! Non vorrà dirmi che non si fida? — Mi fido, ma... - Non c’è ma che tenga. Se non si fida, avrà le sue ra­ gioni... mi segue o la devo spingere? Prima di seguirlo, Correa si guardò rapidamente in­ torno. — È inutile che guardi, non c’è nessuno nei paraggi.

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— Non capisco. - Sì che capisce. E le dirò di più: a me e al signore, che è un amico, il fatto che lei non si fidi ci dà da pensare. L’omaccione lo guardò impavido. La sua testa, note­ vole per rotondità, era coperta di capelli neri e corti. Cor­ rea pensò che doveva averlo già visto. — Non avrete intenzione di rapinarmi? — Per chi ci ha preso? Per dei tipi che si sporcano le ma­ ni per due o tre robette come quella che ha addosso? Non mi faccia ridere. Mi dica piuttosto se non siamo della bra­ va gente ad averla portata fin qui solo per darle un consi­ glio. Stia ben attento: il socio al quale si è affiliato se lo de­ ve dimenticare. Dimenticare del tutto. Per il suo bene, sa? Quel signore lì può com-pro-met-ter-la. È chiaro? - Il dottore? — Sì, il dottore, o come diavolo lo vuol chiamare. Non faccia il finto tonto, perché se l’amico mi si innervosisce a lei potrebbe succedere qualunque cosa. Lei sa di chi stiamo parlando: di un panzone piuttosto piccoletto. L’omaccione, che aveva una voce inaspettatamente cortese, disse: - Ci faccia il favore di dimenticarsi di tutto quello che sa, noi compresi, e di stare alla larga dai posti in cui l’han­ no vista con il dottore in questione. D’accordo? - Sì... come no? D’accordo - disse Correa. Quando capì che il pericolo si era fatto meno incom­ bente, ripensò a Cecilia e si disse che non sarebbe stata la sua codardia a fargliela lasciare. Non doveva aver paura di parlare, perché la sua era una situazione piuttosto co­ mune, che poteva capitare a chiunque. Domandò:

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— Posso confidarle una cosa? - Prego, prego - rispose l’uomo alto. - Sempre che non le porti via troppo tempo. — Quello che le dirò è molto semplice. Io non cerco il dottore per interesse. Sa perché lo cerco? Perché mi por­ ti dall’altra Parte, a vedere una persona che mi aspetta lì. Indicandolo, l’omaccione commentò: - Il signore, insomma, è disinteressato. - E anche fortunato. Ha una persona dall’altra Parte. — E soffre se non la vede. Il signore crede che tu e io siamo stupidi. - Lo credeva anche il dottore, che riposi in pace. - È che il dottore credeva di saperla lunga. Voleva di­ strarci con un po’ di chiacchiere. — Delle trovate, come quella della persona che il si­ gnore ha dall’altra Parte. Correa protestò rabbiosamente, innanzitutto per le co­ se che gli stavano dicendo, poi perché lo stavano toccan­ do, infine tacque e riuscì solo a intuire di doversi proteg­ gere la testa con le mani perché stavano cominciando a dargliene di santa ragione. A un certo punto - molto più tardi, come potè verificare - lo risvegliò un uomo che con insistenza e affabilità gli domandava: — Cosa c’è? Non sta bene? Aiutato dallo sconosciuto, un signore alto, dai baffi bianchi e gli occhiali, Correa si alzò in piedi con enorme difficoltà. Gli doleva tutto il corpo. Tristemente osservò: — Credo che me le abbiano suonate. — Ci ha pensato a sporgere denuncia? La accompagno in commissariato, se vuole. Il commissario è un amico.

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— Mi sa che non ho voglia di infilarmi in un commis­ sariato. Per stanotte mi basta averle prese. — È nei suoi diritti. Venga fino a casa mia, e vediamo se riesco a pulirle queste ferite. Camminando a fatica, Correa si lasciò condurre. Gli parve una casa molto decorosa, con inferriate e lampa­ dari di ferro battuto e sedie fratine. — Perdoni il disturbo. - Qui c’è un po’ di luce per curarla. È comodo? È la co­ sa più importante. Lo fece sedere in un angolo della sala, vicino a una lampada a stelo in ferro battuto. Con gratitudine e rispet­ to, Correa pensò: «Sono nella sala da pranzo, quella riser­ vata alle grandi occasioni». Al centro c’era un lungo ta­ volo di legno laccato di nero. Il signore gli disinfettò le ferite con acqua ossigenata e gli soffiò sul viso con delicatezza. - Brucia - disse Correa. — Non è niente — assicurò il signore. — Solo perché brucia a me, non a lei. - Questo non lo discuto. Dovrà convenirne, tuttavia, sul fatto che l’è andata bene, se considera quel che è suc­ cesso all’altro, mi segue? E non creda che quei ragazzi siano cattivi. - Li conosce? — chiese Correa sorpreso. Il signore sor­ rise affabilmente. - Qui ci si conosce tutti — spiegò. — Quei ragazzi, co­ me le dicevo, non sono cattivi; sono un po’ nervosi, com’è tipico della gioventù. Non avrebbe dovuto mentire a quella gente.

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— Non l’ho fatto. - Il viaggio dall’altra Parte per vedere una donna è una vecchia storia. — Ma non è una bugia. — Mio caro signore, devo farle notare che se lei si tro­ va in mezzo a una discussione con della gente seria, le conviene non uscirsene con una scemata del genere. È naturale, è umano che i nostri amici si siano alterati. E poi, per andare a trovare una donna, che bisogno c’era di avere il dottore al suo fianco? — Il dottore conosce l’isola, lì c’è un tunnel. A questo punto, la scena subì un’accelerata. - Intende una grotta, una grotta per custodire della merce? Mi aspetta un attimo? - Io me ne vado. — Mi aspetti un attimo. Nell’uscire mosse adagio una mano, come a ribadire che lo aspettasse, e chiuse la porta a chiave. Il solo fatto di essere rinchiuso lo spaventò più della discussione che aveva avuto poco prima con quei brutti ceffi (se la spie­ gò così: «Allora i colpi sono piombati all’improvviso»). Riuscì a capire, anche se non distingueva le parole, che il signore stava parlando al telefono nella stanza di fianco. «Non mi fregano» pensò. «Esco dalla finestra». La finestra dava su un giardino buio ed era protetta con delle infer­ riate dalle sbarre molto ravvicinate. Gli restava la possi­ bilità di chiedere aiuto, ma anche il rischio che ne conse­ guiva, cioè che il signore lo sentisse prima di chiunque altro e... Era meglio non pensarci. L’«attimo» del signore durò una buona mezz’ora. Poi

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Correa sentì la chiave girare nella serratura, la porta aprirsi e il signore entrare, seguito dai due ceffi. Le pau­ re, quella notte, sembravano destinate a non finire mai. - Rieccoci insieme, di nuovo - disse il più basso. Per il bene di tutti, voglio credere. - In quella sua grotta la merce abbonda, eh? - do­ mandò con sincero interesse l’omaccione. — Non è una grotta e non c’è assolutamente niente. Il signore gli consigliò: — Misuri le parole. — Cosa vuole che faccia? Che inventi? Il signore disse: - Non costa niente andare a vedere. — Solo una cosa — preannuncio a Correa il più basso dei due. — Per la sua integrità personale le converrebbe che trovassimo la grotta bella piena. - E chi ci andrà a cercarla? - domandò Correa impa­ vido. — Lei. La piazziamo su una barca e la nominiamo ca­ pitano - affermò allegramente l’omaccione. — Non sono certo di riuscire a trovarla. - E questa novità da dove salta fuori? — Il dottore mi ci ha portato una volta sola. Sono nuo­ vo della zona. La costa mi sembra tutta uguale. - Non ci perdiamo niente a provare - disse il signore. — Ma voialtri non me lo dovete confondere. Con queste bravate non andiamo da nessuna parte. Se non fossi in­ tervenuto io, cosa avremmo saputo della grotta? Lo fecero accomodare sul sedile posteriore di un’auto­ mobile. Era seduto in mezzo tra l’omaccione e il suo ami-

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co grasso. Al volante c’era il signore dai baffi bianchi. Quando raggiunsero la costa albeggiava. Correa era pre­ occupato e, non riuscendo a trattenersi, disse: — Sono sicuro che non riuscirò a riconoscere l’isola e che mi ucciderete. Preferisco che mi uccidiate subito. Alle sue parole i due ceffi se la risero. Allora il signore spiegò loro: — Per lui non c’è niente da ridere. Viene dall’intemo e non gli piace l’idea di finire in acqua. S’imbarcarono. L’uomo grasso era al timone e conver­ sava con l’omaccione; Correa e l’altro signore sedettero più indietro. Correa era alquanto spaventato, alquanto triste e intirizzito dal freddo. Le ferite sul volto gli brucia­ vano e il corpo gli doleva. Senza un motivo, si concentrò sulla barchetta che portavano a rimorchio e sui due remi adagiati sulla tolda dell’imbarcazione. Quando raggiun­ sero il piccolo molo di La Encarnacion, il signore disse: — Noi siamo scesi qui. Con sorprendente agilità Correa balzò in piedi. Gli al­ tri scoppiarono a ridere. L’uomo grasso disse: - Non si faccia illusioni, dobbiamo navigare ancora un po’. Il signore ci stava solo ricordando che siamo sce­ si qui, la notte in cui lei ha proseguito il viaggio con il dottore suo complice. Il signore si rivolse all’omaccione: — Tu ti sei addormentato subito? — Non perché lo volessi. — Non è questo il punto. Rispondi a quello che ti ho chiesto. - All’incirca fino a metà del tragitto di oggi sono ri-

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masto sveglio, ma già cominciavo a lottare contro il son­ no, che è una bella seccatura. -1 miei complimenti! - guardò Correa dritto negli oc­ chi e gli domandò: — A un certo punto avete preso un’al­ tra lancia? - No, perché? - Per quanto tempo avete navigato prima di approda­ re sull’isola? — All’incirca venti minuti. Forse mezz’ora, che ne so? L’isola rimane sulla destra. - Guardi con attenzione, con fiducia e vedrà che la troverà. Correa affermò: - Ho sempre creduto che se uno ci s’impegna a cerca­ re, trova quello che vuole. Si domandò se non avesse detto qualcosa di sba­ gliato. — Così mi piace — esclamò il signore dandogli una pacca sulla spalla. Correa rifletté sul fatto che il destino probabilmente gli stava offrendo un’ottima opportunità. Pareva poco probabile che da solo potesse trovare l’isola, e all’appa­ renza sul dottore non doveva più contare. Ora questi uo­ mini lo stavano costringendo a trovarla. Π tunnel lo avreb­ be condotto in un batter d’occhio a Punta dell’Est, e lì avrebbe approfittato dello stupore generale per darsela a gambe. Non c’era forza al mondo capace di impedire il suo ricongiungimento con Cecilia. Si disse che forse non aveva mantenuto alla lettera il segreto del tunnel, come aveva promesso; ma lo aveva

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fatto dietro minaccia di morte e solo perché, ormai, al dottore non avrebbe più potuto recare alcun danno. Nella calma di quella navigazione agile e senza novi­ tà, Correa si appisolò finché il fiume non si aprì su un ra­ mo aperto, più vasto e dalle acque più chiare; sul margi­ ne sinistro c’era una segheria e su quello destro una pian­ tagione di pioppi in file interminabili. Allora (ma non im­ mediatamente) Correa ebbe un sobbalzo. Nonostante non fosse in grado di riconoscere nessuna delle località sulla costa, era certo che quel posto non l’aveva mai visto. Spaventato, mormorò: - Mi sa che l’abbiamo superato. L’omaccione si alzò, concluse senza fretta la conver­ sazione con l’uomo grasso, poi si diresse verso Correa e gli mollò due ceffoni. — Basta — ordinò il signore. — Torniamo indietro —. Si rivolse a Correa e gli disse: - Lei continui a guardare. Il viso gli bruciava e si domandò se non fosse il caso di dire a quei due ciò che pensava, quali che fossero le con­ seguenze. Quando infine parlò, se ne uscì con una frase lamentosa che suonò come quella di un poppante alle sue stesse orecchie: — Se navighiamo in senso contrario, mi disoriento del tutto. - Con lei ci vuole una pazienza! - commentò il signore. Più tardi, era passata una buona mezz’ora, ormai ras­ serenato rispose: — Vorrei vedere lei al posto mio, se per giunta la mi­ nacciassero di dargliele un’altra volta. Devo essere com­ pletamente stordito, sennò l’isola l’avrei già trovata. Mi

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ascolti: mentre navigavamo, rimaneva sulla sponda si­ nistra; ha un imbarcadero di legno marcio, che un tempo doveva essere dipinto di verde... - Stavo riflettendo sulla sua avventura in nostra com­ pagnia. Siccome a questo mondo chiunque mente, siamo abituati a non credere più a niente, e se arriva uno che di­ ce la verità lo bastoniamo. Io le credo. Correa continuò con la sua spiegazione: - Se dall’imbarcadero guarda in linea retta in fondo all’isola scorgerà, seminascosto dagli alberi, un casot­ to di legno. Se cammina per una cinquantina di metri a sinistra e s’infila nella zona in cui l’intrico di alberi e cespugli si fa più fitto, trova l’imbocco del tunnel. Si ri­ cordi quello che le sto dicendo: non è una grotta, è un tunnel. Rivolgendosi ai due ceffi, il signore disse: — Adesso questo giovane lo riportiamo a casa sua, de­ ve averne già abbastanza. — Prima ci deve portare alla grotta. Il signore gli ricordò: - Non ho chiesto la tua opinione -. A Correa disse: La lasciamo tranquillo, ma vorremmo poter contare sulla sua discrezione; o pensa di andare a raccontarlo in giro? — Non ne ho la benché minima intenzione. Sapevano dove andare: lo portarono sull’isola di Mercader. Per attraccare, l’omaccione fece leva sul fondale del fiume con un remo. Ancora incredulo che lo lascias­ sero andare, Correa saltò sull’imbarcadero. In quel mo­ mento, vergognandosi all’istante di se stesso, si ricordò di Cecilia e pensò di dire al signore che avrebbe continua-

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to il viaggio con loro, che li avrebbe aiutati a trovare il tunnel. Stava giusto per parlare quando scorse un sorri­ so sul volto del signore e molto vicino, bagnato, splen­ dente ed enorme, il remo. L’inclemenza del colpo fu tutt’uno con la caduta sull’erba melmosa. La legnata era sta­ ta molto forte ma non terribile, perché vedendosela piom­ bare addosso si era buttato indietro. Non aveva perso co­ noscenza, ma ad ogni buon conto era rimasto immobile. Quando non sentì più il rumore del motore della barca, aprì gli occhi. Si alzò, entrò nel casotto, mise insieme le sue cose, prese la prima lancia per Tigre e il primo treno per Buenos Aires. Avrebbe voluto continuare il viaggio fino alla provincia natale, per sentirsi protetto tra le mu­ ra di casa, ma rimase a Buenos Aires con l’intenzione di tornare in Uruguay non appena avesse racimolato i sol­ di per il biglietto, perché era davvero convinto di non po­ ter vivere senza Cecilia. Mercader, al quale chiese un pre­ stito, gli disse: — Dimentichi che il governo ha proibito i viaggi in Uruguay. Magari potremmo andare a Tigre e parlare con uno di quei conducenti di lance che fanno entrare clan­ destinamente gli emigrati, o con un contrabbandiere. Correa disse: - Meglio di no -. E nemmeno ci provò a cercare il tunnel. Per sapere che esisteva non aveva biso­ gno di vederlo. Né pensò mai di raccontare agli altri ciò che sapeva, gli sembrò uno sforzo inutile. A tempo debi­ to si laureò in Legge e, poiché c’è un tempo per tutto, an­ dò in pensione da impiegato pubblico. Uomo poco av­ vezzo all’avventura, di carattere piatto ma tendente al malinconico, si lasciava coinvolgere, stando agli amici,

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solo dalle conversazioni incentrate su temi geografici. In quelle occasioni Correa si era mostrato, più di una volta,

irritabile e superbo.

Non ce n’è una che mi vada bene. Mentre la gente va a Buenos Aires, a cercare lavoro, io mi ritiro in questo Sa­ natorio del Dolore, una villa sperduta nel mezzo della campagna. Le concedo che a Puente Ezcurra, in auto, lei ci arriva in pochi minuti; io no, perché un’auto non ce l’ho e perché gli autobus fin qui non ci arrivano. Se vo­ glio farmi un goccio nella rivendita devo scarpinare per tre chilometri di terra o di fango, al sole o sotto la piog­ gia, secondo i capricci del nostro clima. Questo in passato. Adesso non mi affaccio nemmeno sul patio. L’impiego mi piacque per il suo carattere umanitario. Devo subito aggiungere che non nutro particolare am­ mirazione per il genere umano. Preferisco gli animali, per esempio, le vacche e i cavalli, che pascolano ai bordi della strada. Se sollevano la testa, quando passo, resti­ tuisco loro il saluto. Per la carità sì che ho rispetto, per­ ché so che la gente non è stata consultata prima di esse­ re messa in un mondo dove l’unica certezza è il dolore; ma soccorrere coloro che soffrono non è sempre facile. Mi hanno raccontato che questa era la villa padrona­ le di una tenuta agricola dei tempi della colonia. Il sa-

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natorio occupa un intero caseggiato con il suo patio in­ terno di mattonelle rosse, e sul caseggiato si affacciano tre padiglioni. I malati sono distribuiti in base all’inten­ sità del dolore. Quelli che soffrono meno occupano il padiglione numero 1 ; quelli dal dolore intenso occupa­ no il 2 e quelli che gridano di dolore il 3. Ci sono, inol­ tre, alcuni capannoni che ospitano degli uffici ancora in funzione. Fino a poco tempo fa, la nostra principale fon­ te di energia era il vento; ovvero, un vecchio mulino Hércules, che si lamenta come se lavorare gli facesse ma­ le e che è stato superato, in altezza, dagli eucalipti e dal­ le casuarine. Un recinto di rete metallica circonda il bo­ sco, eccetto sul lato sud, dove il fiume Matanza scorre incastonato fra burroni a picco. - Matanza2, che nome maledetto - ricordo di aver commentato con finfermiera caporeparto, la signorina Noemi, il giorno del mio arrivo. - È il fiume ad essere maledetto — rispose. - Un in­ fermiere, che si era tuffato a nuotare, se l’è risucchiato un gorgo. Nonostante nelle ore libere nessuno ci impedisca di uscire, il personale lamenta il fatto di vivere come in una prigione. Per me, la colpa del nostro malessere è dei cagnacci neri che il vicedirettore, sul calare della sera, libera nel bosco. La scorsa notte, un collega, un umile infermiere come me, lo Smilzo Santulli, mi ha assicura­ to che qualsiasi cane - e qualsiasi essere vivente - inti­ mamente è codardo, ma che l’uomo, vergognandosene, 2 In italiano, evidentemente, «mattanza» [n.d.t.].

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non lo dimostra. Al momento mi è venuta voglia di soc­ chiudere il portone e, senza correre troppi rischi, mette­ re alla prova il coraggio dei cani. In quel mentre è ap­ parsa la caporeparto, che mi ha avvisato: - Sono pericolosi. La signorina Noemi, con ponderabile deferenza, mi ha invitato ad andare in cucina a bere un caffè. Senza prestare orecchio al doloroso ululato dei malati - una cosa tanto ordinaria, in questa casa, quanto sulla spiag­ gia il rumore del mare -, ce lo siamo gustato accomoda­ ti su dei semplici sgabelli di pino. Ritornati sul tema dei cani, la signorina ha ammesso che il mastino costitui­ sce, oggi come oggi, l’unica passione del vicedirettore a noi nota. Fino a questo punto ha parlato con misura, ma nel fare riferimento al direttore mi è parso che l’elo­ quenza la trasfigurasse. Ha alzato appena la voce, per affermare in un sussurro: - È il genio universale. Genio della medicina, della compassione e delle invenzioni inaudite. — Soprattutto, il genio dell’economia domestica — ho risposto. Ricordavo di certo le ristrettezze sofferte ai tempi in cui era il mulino a caricare gli accumulatori. Non solo mi si irritavano gli occhi, quando leggevo un quotidia­ no alla luce, o alla penombra di una lampada, ma rischia­ vo la vita quando mangiavo qualche alimento conser­ vato in un frigorifero che non raffreddava. - Chiaro, non ha comprato rimpianto, come voi vo­ levate. Ha evitato un aumento delle spese, che si sareb­ be ripercosso sul conto che pagano i malati. Soprattut-

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to, ha evitato una cosa che lo fa infuriare: una mezza soluzione. Ho cercato di trattenermi. - Frattanto - ho detto, - stringiamo la cinghia. — Frattanto — ha risposto, — il direttore ha trovato il modo di produrre energia a basso costo. Manca la cor­ rente oggi? -No. — Eppure le malignità persistono. Ha parlato con un’amarezza così profonda che le ho promesso: — Dalla mia bocca non ne sentirà. — Grazie — ha detto. L’eco di questa conversazione con la caporeparto fer­ mentava nella mia mente come uno spumante che, se non viene stappato, scoppia. Per tranquillizzarmi e con­ ciliare infine il sonno, sono sceso dal letto a castello per commentare la faccenda con Pablo De Martino, che si occupa delle pulizie. Se avesse visto come si è arrabbia­ to. Le faccio presente che De Martino è un ragazzo inse­ rito nel giro di quelli che contano, che viene da Gonzalez Catàn, nella zona di Ranchos, dove non gli è mancata l’occasione di bazzicare personaggi che ben presto si so­ no fatti strada in politica; per fare un nome, il dottor So­ limano, attuale sindaco di Puente Ezcurra. - Do ragione alla caporeparto - ha dichiarato. - Lavo­ rare agli ordini di un saggio come lui è un onore che non tutti meritiamo. Chi sei tu per negargli i tuoi omaggi? Non ha voluto ascoltare le mie scuse e ha decantato il significato sociale del nostro sanatorio, opera sublime di

un’altra speranza

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un uomo che io disprezzavo in modo gratuito. Niente è più atroce, mi ha assicurato, del dolore fisico. Fino a ie­ ri, la medicina, per alleviare i dolori causati da una ma­ lattia, ricorreva a dei rimedi che, senza placarli del tutto, causavano ulteriori malattie. È arrivato dunque il nostro saggio e ha eretto questo Sanatorio del Dolore. L’istitu­ zione non si è imposta dall’oggi al domani. Inizialmen­ te, lei poteva anche soffrire di un dolore di scarsa entità, entrava comunque senza problemi e, tempo una settima­ na tornava, felicissimo, a casa sua. Oggi la massa si ac­ calca alla nostra porta, diciamo così, e il direttore si ve­ de obbligato a selezionare chi accogliere e chi no. Di cer­ to apre la strada unicamente a quelli qualificati come Grandi Dolori. La permanenza abituale nella nostra cli­ nica è passata da una a quattro settimane, a cinque solo occasionalmente. Se il direttore pensasse al guadagno, dopo pochi giorni farebbe sgomberare, manu militari, i letti, per incamerare nuove rimesse. Quando Pablo De Martino ha concluso la sua tirata, ho contenuto a fatica la rabbia. Gli ho chiesto perdono, gli ho chiesto che mi desse un’opportunità per provare la devota gratitudine che da allora in avanti avrei pro­ fessato per il direttore. All’apice dell’esaltazione devo aver battuto le mani, perché De Martino mi ha lanciato un’occhiata di biasimo e lo Smilzo Santulli è sceso dal suo letto per raggiungerci, strisciando come un verme. - Qual è il problema? - ha chiesto. L’ho informato nei dettagli della conversazione con De Martino e, precedentemente, con la caporeparto. De Martino mi ha lanciato una seconda occhiata di rimpro-

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vero, mentre lo Smilzo risvegliava la nostra curiosità di­ chiarando: - C’è di più. — Cioè? — Il vicedirettore ha capito che questa è una miniera d’oro e sta preparando un colpo di Stato. Sarà la tipica sollevazione di palazzo.

Abbiamo esclamato: «Non è possibile!» ma un istante dopo abbiamo ammesso la verosimiglianza della noti­ zia. In realtà tutti, nel sanatorio, incolpano delle caren­ ze il vicedirettore, che è in prima linea e ci mette la fac­ cia, esimendo dalle sue responsabilità il direttore, che vive recluso nel suo laboratorio. - L’eterna invidia del subordinato - ha sentenziato De Martino. - L’incomprensione dell’inferiore — ha confermato lo Smilzo.

Ho aggiunto, come se apportassi una prova irrefu­ tabile: — A qualcosa dovranno pur servire quei cagnacci. Come sempre la mattina è iniziata con la vibrante cam­ panella e il precipitoso sparpagliarsi del personale, che senza fiato passa dal sonno all’acqua gelata, al tepore dei vestiti, al calore del mate coeido3 e al sudore del lavoro. Nel refettorio, durante il pranzo, De Martino, lo Smil­ zo e io, abbiamo fatto crocchio e non abbiamo smesso di parlare. Sembravamo tre cospiratori. De Martino ha affermato che l’annuncio dello Smilzo lo aveva eccita3 È l'infusione di erba mate preparata allo stesso modo di un comune tè in bustina [n.d.t.].

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to al punto che quello stesso giorno, all’imbrunire, quan­ do il vicedirettore avesse liberato i suoi cani e iniziato l’immancabile visita nei padiglioni, lui si sarebbe pre­ sentato in Direzione. - A che scopo? - gli ho chiesto, disorientato. - Mi gioco il tutto per tutto - ha affermato. - Metto al corrente il direttore. Indubbiamente, la rivelazione del piano mi ha ecci­ tato. Quando la caporeparto, in visita di ispezione, mi ha rivolto un distaccato «Come le va?», ho risposto al­

l’istante: — Come vuole che vada? Meglio che mai. — Mi fa piacere. Siccome so che la curiosità è donna, le ho buttato lì: — Non vuol sapere perché? Lo saprà, lo saprà! Sta­ notte pioveranno le buone notizie! L’ho guardata con aria misteriosa e mi sono concen­ trato sul lavoro. All’ora di pranzo un fatto inspiegabile, ovvero l’assen­ za di Pablo De Martino, mi ha allarmato. Anche lo Smil­ zo mi è parso preoccupato; o meglio, assorto e schivo. - Dove sarà? - gli ho chiesto. Mi ha immediatamente risposto: - Preferirei non parlare di questo argomento. Dal tono che ha usato, dal modo in cui si è voltato, dandomi le spalle, ho interpretato la sua preghiera come un risoluto «Preferirei non parlare». Da principio non ho capito, né ho potuto perdonare un cambiamento d’umo­ re così inatteso in un collega che poco prima avevo con­ siderato, in qualche modo, mio complice.

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Afflitto, sono andato a dormire. Un timore vago, ma crescente, mi metteva in agitazione. Perché De Martino non tornava? Che fosse caduto in una trappola? C’era il rischio che parlasse sotto tortura? Noialtri congiurati correvamo qualche pericolo? Nonostante avessi realiz­ zato che eravamo in un sanatorio, e non nel corpo spe­ ciale di polizia, mi sono rigirato sul materasso finché non è tornato De Martino, quando ormai la stanchezza mi stava chiudendo gli occhi. — Sono sfatto — ha annunciato. — Basti dire che non ho, come si dice, nessuna voglia di parlare della faccenda. Ho ascoltato le sue parole con segreta soddisfazione, perché il sonno stava avendo la meglio persino sulla cu­ riosità. Con una vocina che mi è suonata ipocrita gli ho detto: — Promettimi che domani mi racconti tutto. — Assolutamente. Non intendo venir meno al mio do­ vere di tenerti informato. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Ho protestato: - Hai detto che non avevi voglia di parlare. — Quello che ho detto non ha importanza. Questa mis­ sione ci vuole uniti, dall’inizio alla fine. Succeda quel che deve succedere. Credo abbia detto «Succeda quel che ci deve succede­ re». Ho risposto: — Bene. Non so perché, ma mi sono ridestato. Di fatto la sua spiegazione ha rivoltato l’idea che mi ero fatto delle co­ se. L’ha rivoltata come un guanto. Mi ha detto: — Non sono arrivato alla direzione, perché il vicedi­

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rettore mi ha fermato mentre ci stavo andando. Puoi immaginare la mia faccia. Gli ho chiesto: - Sospetta qualcosa? - Come no? - E tu cosa hai fatto? - Sono un impulsivo. Non sono riuscito a trattener­ mi. Gli ho spiattellato tutto. Ho sentito freddo fin nel midollo, come se le mie len­ zuola fossero diventate un sudario. — Tutto? - Praticamente. Mi sono inventato la storia che ab­ biamo avuto un presentimento. — Un presentimento? — Sì, di qualcosa di spaventoso. — E ti ha creduto? - Ha detto che ci abbiamo preso. Senti qua: si è con­ fidato. Mi ha raccontato che il direttore è un personag­ gio diabolico. - Gli hai creduto? - Alcuni dettagli, che ti risparmio, mi hanno convin­ to. Per dirne una, i cani. — Io credevo che i cani... — È lui a occuparsene, ma viene obbligato dal diret­ tore, che tiene tutti in pugno. È un mostro, se non riesce a fregarti, ti mette in ginocchio. — Per quanto mostruoso possa essere, non vedo per­ ché dovrebbe mettermi in ginocchio. — Per fregarti i pochi soldi che hai. Mi hanno assicu­ rato che è un mostro di quelli avidi. Con il dolore dei ma-

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lati si è costruito una bella casetta a Pocitos, per andar­ ci con la sua concubina. - Con chi? — Con la sua concubina, la caporeparto. Con franchezza ho ammesso: — Questa storia non mi piace. — Perché dovrebbe piacerti? — Fuggiamo? — gli ho chiesto mentre scendevo dal letto. — Hanno liberato i cani. Ho insistito: — Questa storia non mi piace. La mia voce suonava come un gemito. - Non bisogna perdere le speranze - ha detto. - Quan­ do ho raccontato al vicedirettore che sono amico del sindaco, mi ha stretto le mani e mi ha chiesto che sedu­ ta stante andassi a trovarlo e lo supplicassi, per favore, di intervenire. Io gli ho detto che con i cani in circola­ zione non esco. Mi ha accompagnato personalmente fi­ no al portone e mi ha promesso che per il mio ritorno, alluna in punto, li avrebbe legati per un po’. Gli ho chiesto: — E alla fine, sei riuscito a vedere il signor sindaco? — L’ho visto. Ti dirò di più: la sua contagiosa cordia­ lità mi ha ritemprato. Abbiamo discusso da pari a pari, accomodati in poltrona, fumando. Mi ha ascoltato con attenzione. Mi ha dato la sua parola d’onore che doma­ ni stesso si presenterà in sanatorio di persona. Erano notizie così buone che il mio sistema nervo­ so doveva essersi rilassato, perché sono riuscito a

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dormire. Nel sonno sentivo De Martino, che parlava e parlava. Abbiamo salutato il nuovo giorno assaliti dall’ansia. — Credi che verrà? — gli chiedevo, quando ci incro­ ciavamo. AH’inizio De Martino rispondeva «Come ti viene in mente che possa non farlo?». Poi, «Ha dato la sua paro­ la». Infine, «Se viene è una vittoria». — E se non viene? È impallidito e mi ha detto: — Non voglio nemmeno pensarci. Eravamo a tavola quando abbiamo sentito le moto­ ciclette della scorta. Pur essendoci precipitati alla fine­ stra, siamo riusciti a distinguere a malapena la corpu­ lenta sagoma di Solimano nel preciso istante in cui en­ trava in sanatorio. De Martino ha commentato: - Non perde tempo. - Hurrà — ho gridato. - Oste, tre bottiglie di vino! Pago io! Non ci potevo credere: De Martino e lo Smilzo non mostravano lo stesso entusiasmo. Tuttavia sono riusci­ to a convincerli. Eravamo nel bel mezzo della nostra be­ vuta quando l’amplificatore ci ha assordato con la ri­ chiesta che la caporeparto si presentasse in direzione. Dopo averle fatto l’occhiolino, mi sono avvicinato alla signorina per dirle: — Non vorrà snobbare tre umili colleghi. — Non sia mai — ha risposto. — Vuole unirsi al nostro brindisi?

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Ha sollevato il bicchiere e ha chiesto: - A chi brindiamo? - A lei, signorina, al signor De Martino, al signor Santulli e a me, per servirla — con il dito ho indicato ognuno di noi tre. — A noi tre, a lei, signorina. Ha bevuto ed è andata via. Credo che in quel momen­ to De Martino abbia detto a Santulli: — Meno male che non ha tirato in ballo il vicedirettore. Io non capivo. Dobbiamo aver brindato più del dovu­ to, perché non ricordo di aver lavorato tra l’ora di pran­ zo e le dieci di notte, quando mi sono risvegliato nel mio letto a castello. D’istinto, ho guardato la branda di De Martino. Lui non c’era. Mi son detto che doveva esser­ sela filata per Puente Ezcurra, a definire gli ultimi det­ tagli. Probabilmente in quello stesso momento lo stava­ no nominando ispettore del sanatorio. Le ore passava­ no e, preoccupato com’ero, ho avuto un incubo. Ora che ci penso, quello che mi è successo è piuttosto strano. In sogno ho ricordato tutto quello che De Martino mi ave­ va detto la notte prima, quando ormai dormivo. Riassu­ mendo, era questo: a un certo punto il direttore ha co­ minciato a dubitare della bontà della sua opera, per la quale nutriva grandi aspettative. I mezzi per alleviare il dolore, alla lunga, fallivano, e lui aveva cominciato a chiedersi se il sanatorio non fosse, in definitiva, un mo­ numento alla propria inettitudine. Una sera, quando era ai limiti della disperazione, gli è capitato di passare vi­ cino al letto di un malato che gli ha detto: - È da non credersi che un corpo così fragile come il mio possa produrre un dolore così forte.

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Da lì a vedere il dolore come energia sprecata man­ cava un solo passo - il passo di un genio, evidentemen­ te - che andava integrato con un altro, più difficile an­ cora: quello di trovare il modo di raccoglierla e di utiliz­ zarla. Al momento, per filluminazione e per le macchi­ ne del sanatorio - dal semplice aspirapolvere ai grandi macchinari di elettroterapia - viene impiegata unica­ mente l’energia generata, sotto forma di dolore, dal cor­ po dei malati. Per quest’opera di pubblica utilità era stato necessa­ rio prolungare moderatamente le cure, ma non modifi­ care la prescrizione dei farmaci né variarne le dosi. Mi si conceda di sottolineare il valore umano di que­ sta grande conquista del progresso, che dà un senso, un’utilità al dolore. Di fatto per i malati, e anche per i medici, fino ad oggi esistevano troppi dolori inutili, che ci hanno messo in allarme circa i mali incurabili per la scienza contemporanea. Pertanto, sapere che il nostro dolore serve non costituisce la più bella delle consolazioni? Di mattina la campanella ha interrotto il mio sogno che, come ho già detto, in virtù di un qualche misterio­ so dispositivo della memoria, non era che la riproduzio­ ne di quanto mi aveva spiegato De Martino. Anche se so perfettamente che dopo la campanella non bisogna per­ der tempo, ho pensato di raccontare al mio collega lo stra­ no fenomeno che si era verificato. Il suo letto era vuoto, le coperte in ordine. Con apprensione ancora maggiore ho pensato: lì non ci ha dormito nessuno. Più tardi, mentre lavoravo, senza farmi accorgere ho

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guardato dappertutto, sperando di trovarlo. Non ho in­ crociato nemmeno Santulli. A mezzogiorno è arrivata una squadra di operai mu­ nicipali che, secondo i miei informatori, getterà le fon­ damenta ed estenderà i cavi tra il sanatorio e Puente Ezcurra. Le stesse fonti hanno dichiarato che, durante la riunione del giorno prima, Solimano e il nostro diretto­ re si erano trovati completamente d’accordo circa l’op­ portunità di portare in sanatorio l’energia elettrica dal­ la città. Mi sono permesso di mettere in dubbio questa notizia, perché è notoria la scarsità di energia che afflig­ ge Puente Ezcurra e tutta la zona ovest. Ho lavorato benissimo quel pomeriggio, senza av­ vertire il benché minimo malessere, ma preoccupato per l’assenza dei miei amici De Martino e Santulli. Infine, mi sono ritrovato da solo con la caporeparto. Non ho sapu­ to trattenermi e le ho detto: - Mi hanno raccontato che porteranno l’elettricità da Puente Ezcurra. — Così sembra — ha risposto. — Sa una cosa? — le ho detto. — Io credo che gliela porteremo noi dal sanatorio. - Molto interessante - mi ha risposto. - Adesso an­ ch’io le racconterò una cosa. — Sentiamo - le ho detto. - Ieri notte i suoi amici De Martino e Santulli si sono ammalati. E anche il vicedirettore. Ho protestato, atterrito: — Non può essere! — Come sarebbe non può essere? — mi ha chiesto, co-

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me se la infastidisse che non volessi credere alle sue pa­ role. - Vuole vederli? — No, no — le ho detto. — Perché se vuole, la porto io — ha insistito. — Si tro­ vano nella sala dei Grandi Dolori. Nel refettorio, quella notte, il cantiniere mi ha con­ fermato, punto per punto, le informazioni che mi aveva dato la caporeparto. Io l’ho ascoltato a fatica, perché un’incomprensibile sonnolenza mi aveva intorpidito. Il mattino seguente il dolore mi ha svegliato. La signorina Noemi, che era vicina al mio letto, ha voluto consolar­ mi con parole che non dimenticherò. Mi ha spiegato che per il momento venivo assistito nella sala numero 1, ri­ servata a quelli che patiscono dolori relativamente sop­ portabili, e mi ha assicurato che se mi fossi comportato bene non avrei corso nessun pericolo di essere portato nella sala 3, dove i miei amici mi reclamavano. Mi ha chiesto che le dicessi in buona fede se il mio dolore era sopportabile oppure no. Quando le ho detto di sì, mi ha promesso che entro quattro settimane al massimo sarei stato reintegrato nelle mie mansioni e mi ha consiglia­ to di non parlare, perché non tutti oggi sono in grado di capire la medicina sociale. Casomai possa servire, le mando questo veridico re­ soconto dei fatti.

Con mia moglie parlavamo di tutto. Anche se al suo fian­ co ero abbastanza felice, la lasciai per Diana, nel cui ca­ rattere avevo intuito una combinazione di instabilità e fermezza che mi attrasse. Per anni vissi con Diana, parlando di tutto (perché l’intimità non consiste unicamente nello spogliarsi e nelΓabbracciarsi, come le persone ingenue s’immaginano, ma nel commentare il mondo). Un pomeriggio, al cine­ ma, Diana ha menzionato le dune. Le ha menzionate co­ sì di sfuggita che adesso non posso non chiedermi per­ ché mi sia rimasto impresso quel momento. Non chiari­ rei nulla asserendo che l’argomento era insolito, perché l’insolito e l’inopinato senza difficoltà si associavano a Diana. Lei si vedeva come una peccatrice decente, pro­ pensa alle cadute, e notte dopo notte piangeva sul mio petto la colpa di avere un amante e di ingannarlo. Inco­ minciavo a stancarmi di quella sequela di pianti e di ca­ dute, quando ad aggravare la situazione intervenne un tecnico esperto nella fissazione delle dune. Diana, che lo aveva conosciuto non so dove, divenne all’istante una sua fervorosa allieva e, con la buona fede tipica del­ le donne, che ci sconcerta sempre un po’, s’impegnò a

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farci fare gruppo. In quel periodo la rassegnazione era la mia seconda natura, sicché mi accomodai a quanto mi era stato chiesto, e accettai anche di complicare le cose con un progetto di viaggio nella zona atlantica, perché procedessimo a un esame critico, sul campo, dei lavori di fissazione delle dune intrapresi, con serietà molto re­ lativa, dal governo della provincia. Conversavo di que­ sti argomenti come se mi interessassero. Mancava una settimana alla partenza quando co­ nobbi Maddalena. Certo che mi avrebbe tirato fuori dal­ la palude in cui stavo sprofondando, ritenni fosse stata predestinata a salvarmi. Due qualità la rendevano par­ ticolarmente adatta a questa missione: la bellezza (do­ rata, rosea) e la gioventù. Al suo fianco, parlando di tut­ to, vissi con spensieratezza fino alla notte in cui mi dis­ se che si era iscritta a un corso. Cercai, per qualche tem­ po, di non capire. In occasione del suo compleanno, pianse di gratitudi­ ne nel ricevere il mio regalo e ponderò l’impossibilità di ringraziarmi debitamente del mio amore, giacché solo per amore potevo indovinare i suoi desideri più intimi. Aggiunse che se volevo farle il regalo che nel profondo del suo intimo desiderava di più, dovevo iscrivermi a quel corso. Lo confesso con tristezza: il suo desiderio non venne esaudito. Mi adattai, però, a dibattere sui vantag­ gi e gli svantaggi della fissazione tramite il tamarindo o la parkinsonia aculeata; la piantagione di conifere o an­ che di alberi di altre specie; la necessità di palizzate; il come e il quando delle palizzate temporanee... Discutem­ mo anche, con ossequio, sulla personalità di Brémontier

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e analizzammo brevemente il merito di alcuni suoi di­ scepoli, come Billandel, senza lesinare elogi ai suoi fede­ li, né disapprovazione agli eretici o ai rinnegati. Quando comparve Mercedes la paragonai a una con­ tadina e a un’odalisca. La credetti esente (come la prima) da certe profondità dell’anima e mi si rivelò tentatrice (come la seconda) per il bianco della sua pelle e il fulgo­ re scuro dei capelli e degli occhi. Se non ricordo male, azzardando una metafora che allora mi era parsa affa­ scinante, riflettei: «La semplicità della sua indole mi proteggerà, come una palizzata, dai venti malsani che già si levano...». Non indagai sulla solidità di tale prote­ zione, perché mi ricordai di Don Chisciotte e del suo el­ mo e mi dissi che le apparenze ingannano, che le stesse cordigliere, alla lunga, si muovono come semplici dune. Pensai anche che il cambiamento - per il fatto stesso di essere un cambiamento - costituisse un vantaggio suf­ ficiente. AH’inizio ho vissuto piacevolmente con Mercedes, perché ogni persona è un mondo e perché a me ha sem­ pre divertito la lenta esplorazione di quella particolare specie di mondi che sono le ragazze. Un aspetto del ca­ rattere di Mercedes mi sorprese, non solo, mi divertì: il culto degli antenati, le cui deprimenti fotografie, testi­ monianza di mortalità, abbondano nella nostra camera da letto. Presiedendo il letto, dall’alto della lunga spal­ liera, ci contemplava, incorniciato in un ovale di moga­ no, un signore dall’aria rispettabile e antica. Naturalmente, arrivò il giorno in cui venni a sapere che la fanciulla si era iscritta a un corso di fissazione

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delle dune. Siccome la poverina non brillava per curio­ sità intellettuale, tardava a interiorizzare la sottile com­ plessità del sistema e frequentemente commetteva degli errori, che io mi affrettavo a correggere. «No» la zittivo cercando di occultare la superbia. «Per favore, non con­ fondere la palizzata temporanea con le dune di difesa, dette anche litoranee. Non dimenticare il principio fon­ damentale: per nessun motivo la piantagione dovrà es­ sere esposta a venti che soffiano su un’area sabbiosa non ancora stabilizzata». Fintanto che svolgevo il ruolo di maestro, quelle lun­ ghe disquisizioni mi divertivano; in quello di alunno (Mercedes, con le sue tre lezioni a settimana, alla fine fe­ ce progressi) non le tolleravo. A peggiorare le cose, sco­ prii che il personaggio ritratto nell’ovale, sulla testiera del letto, non era un suo parente. Senza dubbio, la re­ sponsabilità di quell’errore era mia, ma mi ritenni vitti­ ma di un suo raggiro. — Quindi non è tuo nonno? — do­ mandai, addolorato. — È molto più di un nonno — repli­ cò. - E il padre della fissazione delle dune -. - Brémontier? — indagai in un sussurro. — Brémontier — rispose. Le voltai le spalle. Nella solitudine della mia scrivania, pensavo: «Evi­ dentemente, il caso ha voluto gettarmi nel bel mezzo di una tempesta... bisogna aspettare che passi. 0 forse, cambiando tanta mujer4, come dice quel tango, sono in­ vecchiato». Invecchiare e distrarsi (si sa) sono la stessa cosa. Mentre ero distratto il mondo è cambiato, si è 4 «Cambiando tante donne»: è un verso del tango Pero yo sé, di Angel Vargas [n.d.t.].

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riempito di fissatrici di dune e, per quanto a Mercedes possa fare buon viso, quell’argomento mi annoia. Non solo mi annoia; mi irrita. Se tutte le donne si mettono a fissare dune, la varietà di donne diminuisce (non mi sembra manchino i precedenti: i filosofi, nel classificare la realtà, non l’hanno forse impoverita?). In ogni ca­ so, la storia ha conosciuto molte ossessioni non meno universali. Io non volevo farmi prendere dall’impazienza, ma fi­ nivo sempre per concludere che non si guadagna nien­ te a fingere di essere un’altra persona... Non appaiono patetici e ridicoli quei vecchi che si travestono da gio­ vani? La conclusione della mia conclusione era eviden­ te: se ero contrariato dall’argomento della fissazione del­ le dune, mi restava l’alternativa di rompere con Merce­ des e tornare con mia moglie. Pensai, per farmi coraggio: «L’ho lasciata per delle pazze. Lei, così signora!». Mia moglie mi accolse molto bene, mi servì il tè, nel bar dove le avevo dato appunta­ mento, ma non tardò a farmi sapere: «Non possiamo an­ dare a vivere nella nostra vecchia casa perché l’ho ven­ duta. Peraltro, qual è la persona sana di mente che oggi vivrebbe a Buenos Aires?». Aggiunse che aveva com­ prato una casa di fronte al mare, fra le dune, che ci sa­ remmo impegnati a fissare non appena ci fossimo anda­ ti. Per rimediare alla solitudine nella quale l’avevo la­ sciata, seguiva, di pomeriggio, un corso diretto da un tecnico amico di Diana. Allarmato gli chiesi da quanto tempo lo frequentasse. Lei e Diana si erano sentite uni­ te come se avessero qualcosa in comune. — Sappi che ti

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conosce alla perfezione - dichiarò. - Ti ama, ma ti de­ finisce nevrotico. Peggio ancora: psicopatico. Ti accusa di essere incapace di amare. Ha detto anche una frase molto strana, molto spiritosa e, sicuramente, molto in­ giusta. Ha detto che se vedevi un tecnico della fissazio­ ne delle dune, te la davi a gambe —. Visto che non vole­ vo disilluderla troppo presto, trattenni qualsiasi obie­ zione e mi conformai ai suoi programmi.

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Luisito Coria, che lavorava con i suoi fratelli nella fat­ toria materna, era sempre stato attratto dalla città di Ro­ sario; tuttavia, poiché sembrava fuori dalla sua portata sia per la lontananza che per le dimensioni, Luisito so­ gnava un paese della sua zona, che era sufficientemen­ te grande da superare in importanza La California (sen­ za arrivare a Casilda) e sufficientemente sconosciuto e prestigioso, perché la vigilanza protettiva esercitata da sua madre trasformava quattro leghe di strada in un ostacolo difficile da schivare. Quando compì ventun anni, nel febbraio del 1930, sua madre, con la formalità dettata dall’occasione, gli disse: — Da oggi sei un uomo. Se la tua volontà è quella di andare in paese, non ti ostacolerò. Una cosa posso fare: darti la mia benedizione, un consiglio e una lettera per don Leopoldo. Redatta per lo più dalla maggiore delle ragazze, che aveva studiato da maestra di scuola, la lettera era indi­ rizzata al consegnatario don Leopoldo Medina, che chia­ mava «mio compare», e conteneva la richiesta di «assu­ mere mio figlio Luis, portatore della presente, nella sua

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prestigiosa azienda per l’esposizione e la vendita all’asta di bestiame». Luisito chiese: — E il consiglio? — Sii prudente, figlio mio. In paese i mascalzoni ab­ bondano. Partì l’indomani, all’alba, in groppa insieme a uno dei fratelli che doveva riportare indietro il cavallo. Arriva­ rono di buon’ora. Siccome la casa era ancora chiusa, at­ tesero per qualche tempo appoggiati a una rete metalli­ ca. Luisito trovò conferma di quanto già sapeva: i ca­ pannoni erano situati alla periferia del paese. Avrebbe preferito diversamente. Finalmente arrivò un signore, che aprì la porta; dopo pochi minuti entrò una signorina grassa e, infine, su un’automobile double phaeton, don Leopoldo, il pro­ prietario. Era un vecchio di bassa statura, dall’incedere vivace, molto colorato, con giacca di broccato, pantalo­ ni al ginocchio, ghette di cuoio giallo. Don Leopoldo lo ricevette nell’ufficio e gli chiese di sua madre, alla quale alternativamente si riferiva come «la sua signora madre» o «la mia comare Filomena». Se­ duto sulla poltrona presidenziale, sotto il ritratto d’un signore d’altri tempi, barbuto, che gli somigliava, lesse la lettera. Si preparò una sigaretta, la accese, senza fret­ ta tirò una o due boccate e dichiarò: — Una richiesta della mia comare è un ordine per me. Comincerai come peone, per venticinque pesos al mese. Sistemati nella fattoria che si trova dietro le ultime stal­ le. Lì incontrerai i tuoi compagni d’ozio, Rafael e un cor-

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dovano che si chiama Flores. La domenica, se non c’è nessuna fiera in programma, sarà il tuo giorno libero. Luisito si congedò da suo fratello e gli disse: - Agli altri racconta che praticamente sto vivendo in paese. Ragazzi straordinari, per lui Rafael e il cordovano Flores diventarono ben presto dei vecchi amici. Rafael gli disse: - Peccato che non sia arrivato la settimana scorsa. Nel salone della Patria degli Italiani hanno rappresenta­ to una pantomima acquatica. C’era da morir dal ridere. Il cordovano aggiunse: - Sulla cisterna d’acqua della pantomima avevano sistemato dei ponteggi per passare da una parte all’al­ tra. Poi è arrivato un mago e ha chiesto un volontario. È salito uno dalla platea; gli hanno bendato gli occhi e l’hanno fatto ruotare come una trottola, fino a fargli ve­ nire il capogiro. Allora il mago, senza dire una parola e, così diceva lui, con la sola forza del pensiero, l’ha man­ dato da una parte all’altra del ponteggio. Quando il vo­ lontario stava per cadere e la platea gridava e applaudi­ va il tuffo, il mago lo tratteneva e lo raddrizzava, come se lo tirasse su per le redini, ma non ce n’erano di redi­ ni, era solo la forza del pensiero, niente di più. Da Rafael imparò a montare sul cavallo in un balzo, senza prendere la rincorsa o piegare le gambe. Di Flores, che aveva studiato, imitò l’abitudine di leggere il quoti­ diano. Sin dall’inizio si interessò in special modo alle notizie di cronaca e alle pagine sportive. Lavorava a cavallo, separava gli animali e li riparti-

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va nelle stalle. Se aveva la domenica libera, passeggia­ va per il paese, da solo o con uno dei suoi colleghi. Tut­ to destava la sua meraviglia, tanto la gravità architetto­ nica della chiesa e del Banco de la Nación, quanto la no­ tevole animazione della calle San Martin, della piazza e del bar. Ai biliardi di quest’ultimo, visibili anche dal mar­ ciapiede, si muoveva pomposamente un personaggio degno d’ammirazione: il grande Bilardo, che si distin­ gueva per sciccheria, per la fama di pagare da bere a mezzo mondo e per una certa classe, propria di un uo­ mo sicuro del suo potere. Con Flores, fecero le ore pic­ cole più di una volta per riuscire a vederlo quando usci­ va. E così, lo videro impugnare il volante di un’intermi­ nabile automobile, che si allontanò come se fluttuasse sul lussuoso arabesco delle sue gomme dai cerchioni di ferro color arancione. Ai due ragazzi venne spontaneo imitare il fragore e gli scoppiettìi del tubo di scappa­ mento.

- Da dove li tirerà fuori i soldi? - chiese un irriveren­ te, liberando una risata omerica. Sinceramente interessato, Coria volse la domanda al suo amico. Questi, che dovendo portare il vassoio del mate aveva occasione di circolare nell’ufficio della dit­ ta, aveva sentito dalle labbra della stessa Maria Carmen, la signorina grassa che lavorava lì, la storia secondo cui Bilardo, in quella zona, era a capo di una società, o ac­ comandita, di mutuo soccorso, con tentacoli nella pro­ vincia e nell’intera Repubblica. Circa i suddetti tentaco­ li, lo stesso cordovano aveva sentito una conversazione piuttosto animata fra don Leopoldo e un certo Galiffi, o

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Galtieri, importante commissionario di cereali per una ditta di Rosario. Un po’ più tardi, quando si stese in mezzo ai finimen­ ti da cavalcatura, finalmente solo con se stesso, Luisito passò in rassegna le novità della settimana, la più tu­ multuosa che ricordasse, e giunse immediatamente a una conclusione: avendo soldi a palate chiunque pote­ va vivere nel lusso e nell’agiatezza. Allora prese una de­ cisione: alla prima occasione si sarebbe presentato a Bi­ lardo. Questi pensieri produssero in lui un’allegria inu­ sitata e si addormentò soddisfatto. Pieno di fiducia attese l’occasione, che si presentò la domenica, poco prima che iniziasse la vendita all’asta, quando Bilardo (in abito nero così fiammante che in un primo momento si domandò se non fosse il caso di far­ gli le condoglianze per fare bella figura) stava esami­ nando un lotto di cavalli da corsa, provenienti da una tenuta agricola. Era l’occasione giusta: il pubblico era ammassato contro le stalle del bestiame, sicché lui e Bilardo, in quell’area dei capannoni, erano soli. Sicco­ me non voleva che qualcuno lo vedesse e potesse pen­ sare che stava cercando una raccomandazione, si af­ frettò a dire: — Signor Bilardo, mi permetta. — Dimmi. — Volevo chiederle se posso dare una mano nella sua accomandita. — Non so nemmeno di cosa stai parlando. — Ma, signore, della società di mutuo soccorso. - Quantomeno mi sembri discreto.

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Luisito lo guardò senza capire, ma recuperò pronta­ mente una certa disinvoltura e disse: - Sono qui per servirla. — Com’è che ti chiami? Ti avviso, noi non perdonia­ mo chi sbaglia.

- E perché dovrei sbagliare? - domandò molto serio. L’altro sorrise, o semplicemente mosse le labbra per dire: — D’accordo, se c’è qualcosa per te ti avviso. Nonostante i giorni passassero non perse la calma. Finalmente, a una grande fiera di bestiame di prima marcatura, comparve Bilardo e gli ordinò che gli portas­ se una bottiglia di Bilz. Era un pretesto per parlargli. — Voglio metterti alla prova — gli disse. — Comandi. — Ce l’hai una doppietta? Luisito balbettò un no. - Compratene una.

Probabilmente non aveva abbastanza soldi, ma non era un problema, sicché rispose: — D’accordo. - Com’è che ti chiami? Dovrai occuparti del vecchio. Ovviamente è meglio andarci coi piedi di piombo. Mi stai seguendo? - La seguo. — Il vecchio ce l’ha una doppietta? - Quale vecchio? - Apprezzo la discrezione, ma sappilo: potrei stufar­ mi in qualsiasi momento. Medina ce l’ha o no una dop­ pietta?

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— Credo di sì. In gioventù, a quello che mi hanno rac­ contato, era appassionato di caccia. — Allora non sarebbe male farlo fuori proprio con la sua doppietta. Come ti trovi con il vecchio? — Benissimo, perché? — Meglio così, meglio così. Com’è che ti chiami? To­ glilo di mezzo come ti pare. Mi stai seguendo? Con la doppietta, perché sappiano che è stata la società: con­ viene che ci temano; ma con la doppietta di don Leopol­ do, non con la tua, così non sanno che sei stato tu e non ti beccano immediatamente. Hai capito? Stava per chiedergli se aveva capito bene, ma decise che era meglio non dire niente. Quando fosse stato solo, si sarebbe fatto un’idea della situazione. — Alla perfezione. — Se per disgrazia ti beccassero, confida nel nostro aiuto, senza coinvolgerci però, perché nel caso lo sai già cosa ti succede. Sempre che non ti becchino, e anche se questo è solo l’inizio, per il tuo lavoretto riceverai una ricompensa. Di quelle che ti tirano fuori dalla miseria, per intenderci! E adesso sparisci come un fulmine, pri­ ma che ci vedano insieme. Quella notte non ebbe modo di rifletterci. Era stata una giornata così faticosa che nell’oscurità della sua ca­ sa, all’ora di cena, gli si chiudevano gli occhi e arrivò a sognare Bilardo e don Leopoldo. Poiché sapeva cosa do­ veva fare, non se ne preoccupò: bastava solo trovare il modo migliore e, per questo, la notte successiva avreb­ be riesaminato a fondo l’intera faccenda. Presa questa decisione, si mise a dormire beato su un soprasella.

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Anche il giorno successivo ebbe il suo bel da fare e di sera, mentre si stava lavando nel catino mani, piedi e nu­ ca (la madre gli aveva sempre raccomandato di farlo pri­ ma di mangiare), don Leopoldo lo mandò a chiamare. - Sto per andare alla tenuta di Edina, da Miles - gli spiegò mentre preparava una sigaretta con un’abilità che a Luisito parve ammirevole. - Ho bisogno di un vo­ lontario che mi apra i quattordici cancelli, all’andata e al ritorno. Pertanto verrai con me. — Ai suoi ordini. — Andiamo alla macchina. Hai saputo che il lestofan­ te che è venuto a trovarmi, quello che si è titolato com­ missionario, si è presentato con una Rugby identica al­ la mia? Io non le avevo tutte con me, le auto: mi sono chiesto se non me l’avesse rubata. Siediti sul sedile po­ steriore, perché se apri la portiera in serpa poi non si rie­ sce a chiuderla, e con tutti quei cancelli dovrai fare su e giù come un cucù.

Anche se non aveva capito tutte le parole, pensò: «Che brutto paragone». - Le tiro via da qui? Il sedile era coperto di chiavi inglesi e altri attrezzi. - Fa’ come ti pare. Dapprima si limitò a spostarli, ma siccome gli scos­ soni li facevano sobbalzare, li posò sul fondo. C’era la luna piena. Luisito stava osservando don Leopoldo: sulla nuca i capelli gli si diradavano e il col­ lo era attraversato da linee che in realtà sarebbero state più appropriate sul palmo di una mano. Don Leopoldo pagava bene, non lesinava il cibo e non c’era da am-

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mazzarsi di lavoro. Certo, se don Leopoldo apriva boc­ ca ne usciva un insulto, ma a chi poteva importare? Era­ no tutti uguali gli anziani con un po’ di autorità. Nella tenuta di Edina aspettò in macchina, addormen­ tato. Sognò qualcosa di molto angosciante, che non ri­ cordò. Di sicuro stupidaggini. Una volta ripartiti, il suo principale gli raccontò: — Ho voluto mettere in guardia Miles, che è una bel­ lissima persona, sul nostro amico, il commissionario, che è del giro di Bilardo. Con questo ti ho detto tutto. Un verme. Per lealtà verso la società di mutuo soccorso, Luisito si offese. «Non dovrebbe provocarmi» pensò. «Tanto più di notte e mentre mi offre la nuca, quando io ho una chiave inglese in mano». L’occasione sembrava costruita a tavolino. Nessuno sapeva che stava accompagnando il suo datore di lavo­ ro. Nessuno lo aveva visto. Non avevano incrociato ani­ ma viva lungo tutto il tragitto. Sarebbe bastato un col­ po alla nuca, e poi la fuga a piedi. Rafael e il cordovano, famosi per il sonno pesante, non sarebbe riuscito a sve­ gliarli neanche se ci si fosse impegnato. Non avrebbe la­ sciato tracce compromettenti né dato adito al minimo sospetto. Bilardo ne sarebbe stato felice. Fantasticava in questo modo perché non aveva la ben­ ché minima intenzione di avventarsi su don Leopoldo. Sua madre nutriva nei suoi confronti un rispetto straor­ dinario e lui, quando li sentiva dire «mio compare» e «mia comare», si riempiva d’orgoglio. «Se per disgrazia lo uccidessi, non sarei più capace di liberarmi del rimor-

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so. Mi basterebbe un uomo che si arrotola una sigaretta per rivedermi davanti il defunto». In quel momento il «defunto» commentò: — Se la gente per bene non fa fronte comune, i vermi prosperano. Che quel Bilardo non si presenti alla pros­ sima asta, perché se osa, a mia richiesta dovrai sbatter­ lo fuori a pedate con il cavallo. Erano giunti a destinazione. Luisito scese in prossi­ mità dei capannoni, dove il bestiame veniva esposto e venduto all’asta, e il proprietario proseguì per casa sua. La notte successiva Luisito andò in paese senza ac­ compagnatori. Attraverso le vetrate del bar intravide Bi­ lardo nel salone e facendosi coraggio entrò. Raggiunto il banco chiese un boccale di birra, che sorseggiò lentamen­ te. Poi, non essendo certo che Bilardo l’avesse visto, si do­ mandò se non fosse meglio avvicinarsi al suo tavolo. Mentre rifletteva, sentì molto vicina la voce di Bilardo che, reprimendo l’irritazione, gli ordinava di soppiatto: - Fuori, nel centro della piazza, su una panchina. Poi arrivo.

In un primo momento credette che gli avesse urlato «Fuori!» come ai cani. Poi realizzò che non era così, che Bilardo gli aveva detto semplicemente - ma con rabbia - che lo aspettasse fuori, in piazza. Pagò e uscì. Per fortuna in piazza non c’era più nes­ suno. Scelse una panchina, di fronte al busto di un gran­ d’uomo. Per ingannare l’attesa guardò le aiuole ben cu­ rate, i sentieri di rabbia, che portavano al busto, gli al­ berelli giovani. Si raggomitolò, cercando forse confor­ to nella giacca, corta e leggera, e pensò che era davvero

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tanto il freddo che si pativa a cielo aperto. Si era già as­ sopito più di una volta quando arrivò Bilardo. - Com’è che ti chiami? Mi cercavi? Voglio sperare che tu non abbia ancora liquidato il vecchio. - Sapevo che l’avrebbe presa bene. Che ci saremmo capiti senza difficoltà. - Cos’è che avrei dovuto prendere bene? - Che non l’ho liquidato. Bilardo parlò con somma lentezza: — Perché dopo averlo liquidato, sia ben chiaro, non ti farai più vedere al mio fianco -. E poi aggiunse veloce­ mente: - Quand’è che sbrighi la cosa? - Non posso ucciderlo, signore - rispose Luisito. Non posso uccidere né don Leopoldo né altri. — Non mi pare fossero questi i patti. Ti avevo avvisato. — Vede, signore, fare alcune cose non è nella nostra volontà. - Chi ti credi di essere, con questo tono? — Se io facessi quanto mi chiede, e sin d’ora le dico che non posso, lo farei maldestramente. Lei stesso mi rimprovererebbe: «Sarebbe stato meglio che non l’aves­ si fatto». - Com’è che ti chiami? — Al di là di questo, ci devono essere un sacco di la­ voretti in cui posso rendermi utile. — Com’è che ti chiami? — insistette Bilardo. — Hai parlato con qualcuno di me, della mia società o dell’incarico che ti ho affidato? - No, signore. Le ho detto per quali incarichi sono inadatto. Per gli altri, sono uno affidabile.

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— Non so ancora se ti perdoneremo. Ci penserò. - Ma se si presenta una qualche occasione, si ricor­ derà di me? - Si vedrà. Per Luisito la vita proseguì come prima: poco lavoro, salvo qualche domenica di fiera. Era sicuro che Bilardo alla fine lo avrebbe chiamato. E così fu. Un pomeriggio, per ammazzare il tempo, era salito a lubrificare il mulino. Dalla torre vide la Hudson di Bilar­ do (ormai conosceva le case automobilistiche) che arri­ vava con lo scarico chiuso, molto lentamente. Bilardo scese, si guardò intorno e gli fece cenno di avvicinarsi alla rete di ferro. - Vogliamo darti un’altra opportunità - gli disse. — Ai suoi ordini.

— Ficcatelo bene nella zucca, però: darti un’altra op­ portunità vuol dire metterti alla prova. Per chi sbaglia la seconda volta non c’è perdono. - Non sbaglierò. — Com’è che ti chiami? Non volevano ascoltarmi quan­ do ho chiesto che ti dessero una seconda opportunità. Spero non mi faccia fare una brutta figura con gli altri. La missione è molto delicata. — Non ci sarà mica da uccidere qualcuno, vero signor Bilardo? — Uccidere, uccidere. Forse che una società come la nostra non ha altri orizzonti? Ascoltami bene: quella fa­ se lì è finita. Appartiene al passato. Ti darò l’incarico di portare una lettera a Rosario. - A Rosario? — chiese in un sussurro. — Quando vuole.

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- Ascoltami bene: la lettera è di importanza tale che non vogliamo spedirla per posta. Non perderla e non fartela fregare. Per consegnarla segui per filo e per se­ gno le istruzioni che ti darò. Ci sei? - Ci sono. - Venerdì 27 marzo, alle 12.30, ti presenti in calle Jujuy, al numero 2797, nella città di Rosario, e consegni la lettera. Ti raccomando di non presentarti né un minuto prima né un minuto dopo, perché ti sparano. — Mi sparano? — Vedo che comincia già a non piacerti. — Ma no, signore... al contrario! È solo questione di

arrivare in orario. — L’hai detto: come un treno. Il nostro corrisponden­ te, in altre parole Puzo... — Non capisco, signore... — Eppure parliamo la stessa lingua. Puzo, la persona alla quale porterai la mia lettera, se la sta passando pa­ recchio male, deve stare nascosto, e se qualcuno gli bus­ sa alla porta, mi gioco quello che vuoi che gli spara, per­ ché un uomo, viva la vita!, preferisce uccidere piuttosto che essere ucciso! Non è vero? -Viva la vita! - Gli ho parlato per telefono proprio per annunciar­ gli il tuo arrivo di venerdì, alle 12.30 in punto. - Grazie. — Ringrazia piuttosto la nostra società, che ti dà un’al­ tra dimostrazione di fiducia. La prima volta non sei stato ai patti e perciò stavolta non ti pagheremo le spese. Al tuo ritorno, sempre che torni e che stia ai patti, ci sistemiamo.

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— Per me va bene. - E ci mancherebbe altro - rispose Bilardo, prima di aggiungere cerimoniosamente: - La lettera è nelle tue mani.

Luisito se la mise in una delle tasche delle sue brache da gaucho e disse: — Non si preoccupi.

Quando Bilardo andò via esaminò la busta. Per come si presentava, nessuno avrebbe creduto che provenisse da una società importante. Non si erano ricordati di scrivere il nome del destinatario e neanche quello del mittente. Né figurava la parola Rosario. Via e numero. Null’altro. An­ zi, nel chiuderla avevano messo talmente tanta colla che si era spalmata dappertutto. Sua sorella, quella che aveva studiato da maestra, avrebbe imposto loro di rifarla. «Oggi è martedì» pensò. «Ho tutto il tempo, ma è me­ glio avvertire quanto prima il principale che devo fare un viaggio». Tornò a casa e parlò con don Leopoldo. Que­ sti rispose: - Puoi andartene quando vuoi. Dopo aver avvisato donna Filomena, naturalmente. Pronunciò questa frase con lentezza, quasi stesse pen­ sando a voce alta. - D’accordo, signore. - Non bisogna essere un mago per sapere per quale motivo vai a Rosario. Luisito non aprì bocca e infine domandò: - Lei lo sa? - Il sogno di diventare ricco senza lavorare e di an­ dare a donne. Per saperlo non bisogna essere un mago.

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Mentre sarebbe utile per salvarti dai pericoli che ti aspettano lì. - Sabato, all’arrivo degli animali perla fiera, sarò già di ritorno. Il principale si infuriò. - Il signore va via da un giorno all’altro, ma io devo stare tranquillo perché sabato sarà già di ritorno. No, fi­ gliolo caaaaro. Ti sbagli di grosso. Non sei tu che co­ mandi: sono io, sai? Stanotte dormi come sempre nel capannone e domani, appena avrò aperto l’ufficio, pas­ si da me. Ricordati che se te ne vai, in mia casa non ci metterai più piede. Non avrebbe mai immaginato che don Leopoldo si sarebbe adirato in quel modo. Mangiò senza appetito e poi credette che non sarebbe più riuscito a dormire. In uno slancio di amarezza si disse: «Se la prende proprio con me, che l’ho salvato senza preoccuparmi di quello che poteva succedermi». Quando si presentò in ufficio (sarebbe andato via più volentieri senza salutarlo) don Leopoldo gli saldò l’in­ tero stipendio, come se avesse lavorato tutto il mese, e gli chiese: - Dove alloggerai a Rosario? - Sicuramente a casa di mia zia Regina. - Buona idea. Prima però passi dalla fattoria e avvi­ si la mia comare. Non dimenticartene, eh? Con un gesto gli indicò la porta. Luisito si disse: «Chi li capisce quelli che comandano?». Là fuori la signorina grassa, Maria Carmen, gli si avvicinò, lo guardò negli occhi e mormorò:

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- Spero che tomi. Era a metà strada, diretto alla fattoria, quando il pro­ prietario di un podere limitrofo gli diede un passaggio in macchina. Sicché ebbe fortuna e arrivò per pranzo. A sua madre disse: — Don Leopoldo mi ha chiesto di avvisarti che doma­ ni vado a Rosario per delle commissioni. — Hai voluto fare di testa tua. Auguri, ma ascolta be­ ne quello che ti dice tua madre: abbi cura di te. Fa’ con­ to che stai entrando dritto dritto nella tana del lupo. - Non preoccuparti. - Appena arrivato, va’ subito a casa di Regina. Lì non ti mancherà niente. Tua zia è una brava persona, ha un cuore d’oro. E una donna coi fiocchi. Ma non farti leg­ gere le carte. — Perché, la zia Regina può predirmi il futuro? — do­ mandò sorpreso.

— E fissata, da sempre, ma io non voglio che nessu­ no si metta a indagare su ciò che il futuro riserva ai miei figli. Trascorse un pomeriggio straordinario. Non si era mai divertito tanto, né si era mai trovato così bene con i suoi fratelli e le sue sorelle. Il giovedì, quando si svegliò e si ricordò che era arri­ vato il grande giorno di Rosario, sentì un’allegria im­ mensa, ma anche, non ci avrebbe mai creduto, un po’ di pena per quello che lasciava, per le persone, il borgo na­ tale. «Non è per sempre» si disse per consolarsi. La volta precedente, quando era andato in paese, nemmeno lon­ tanamente si era sentito così triste.

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Di pomeriggio, la madre gli spiegò: - Voglio che porti delle cose a Regina. Ti raccoman­ do in modo particolare quel pacchetto: sono uova. Gli consegnò anche una gallina e un pollo, e un tac­ chino vivo. — Come vuoi, madre, ma come faccio a viaggiare con tutta questa roba? — Non ti preoccupare. È venuto il turco Saladino e quando mi ha detto che va a comprare della merce a Ro­ sario, gli ho chiesto che ti ci porti. Conosciuto come il turco ladro, Saladino aveva co­ minciato da venditore ambulante, in mezzo ai campi e a piedi, con la sua cassetta di mercerie, curiosità, petti­ ni e saponi appesa al collo. Adesso, grazie all’acquisto di un camioncino Ford, aveva ampliato l’itinerario e il negozio. Il viaggio a Rosario proseguì fino a pomeriggio inol­

trato. Giusto per dire qualcosa, Luisito commentò: - Mi han­ no detto che va a Rosario ad acquistare della merce. - Signor Coria, questa bottega - il turco batté affet­ tuosamente la mano sul cruscotto — non chiude mai. E come il progresso, che avanza e continuerà ad avanza­ re. Io non mi stanco subito, come quelli nati qui. Io ho il mio motto: «Sempre pronto per qualsiasi lavoretto». Ba­ sti dire che faccio da messaggero. - Da messaggero? — Sono un grande amico delle ragazze, perché ritiro e consegno le letterine che si scrivono con i loro filari­ ni. Metta caso che lei, proprio lei, debba consegnare una

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lettera di importanza capitale. Invece che perderla in una buca o andare a consegnarla personalmente, la af­ fida al povero turco e se ne lava le mani. Luisito tastò la tasca per accertarsi che la lettera fos­ se ancora al suo posto.

Stavano entrando in città e Luisito si guardava intor­ no con trattenuto stupore. Un attimo dopo il camionci­ no si fermò di fronte a una casa. - È qui? - chiese. — Qui — disse Saladino. Gli diede l’indirizzo della pensione in cui soggiorna­ va abitualmente. - Grazie di tutto. — Per qualsiasi cosa io sono qui, ragazzo, signor Coria.

Come se non avesse la pazienza di ascoltare ulteriori raccomandazioni, Luisito replicò: — Non ho bisogno di essere accudito. - Sicuramente, però adesso stai dimenticando le uo­ va e i pennuti.

Con tutto quel carico si presentò davanti a sua zia, che gli disse: - Tu sei Luisito. L’ultima volta che ti ho visto eri alto un metro. Luisito pensò che non era mai stato in una casa così bella. La zia lo condusse in una sala ricoperta di tappe­ ti, dove c’erano un tavolino con tre gambe, delle stam­ pe di donne, pesci, arieti, leoni, una tela dipinta che ri­ produceva il cielo stellato, una palla di cristallo, un di­ pinto con delle signorine mezzo svestite, che avevano

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in mano dei legni accesi e ballavano intorno a un capro­ ne volante, che rimaneva sospeso in aria e dava l’idea di essere il Diavolo, e un altro dipinto con una signorina addormentata in mezzo a un bosco, e un’altra ancora con un cane nero che gli piacque molto. La zia gli chiese: — Cosa hai voglia di mangiare stasera? Perché rima­ ni a mangiare qui, vero? - Mia madre mi ha detto... — Me lo dirai dopo quello che ti ha detto. Cosa prefe­ risci stasera? Il pollo o la gallina? - Quello che preferisce lei. - Per festeggiare l’occasione, la gallina mi sembra più appropriata. Sabato mattina ubriaco il tacchino, di notte lo uccido e domenica a mezzogiorno ce lo man­ giamo. Ti piace Rosario? Luisito stava per dire che la domenica se ne sarebbe andato, ma l’ultima domanda catturò la sua attenzione. - Mi sono piaciuti i tram - rispose. La zia, come presa da un altro pensiero, gli disse: — Stanotte viaggerai in tram. — Perché? — chiese. - Poi ti dico. Aiutami a mettere questa pentola sul fuoco. Adesso avvicina lo sgabello che ti leggo le car­ te —. Le sparse sul tavolo della cucina e cominciò a spiegare: — Qui vedo gente che ti vuole bene e gente che ce l’ha con te. Luis confermò: - Don Leopoldo. — Vedo molte armi e un messaggero.

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— Il turco Saladino — spiegò Luisito. - Può essere, ma le carte dicono un’altra cosa. Il mes­ saggero sei tu e porti un messaggio. — Come fa a saperlo? — domandò all’istante, astuta­ mente. — Gliel’ha raccontato il signor Bilardo? — Quel signore lì lo conosco solo di fama: una bella fortuna, non ti pare? No: me lo racconta un cavallo e, quel che è peggio, un cavallo di spade. Vedo anche una ragazza grassa, bionda. Ti sposi con lei. Qui sei a capo di una società nella quale sei finito senza saperlo. - A capo no, però non so niente della società, perché dovrei negarlo? Invece, la ragazza grassa non la conosco. — Per ora non aggiungo altro, perché vedo così tante cose che se voglio dirti qualcosa che ti aiuti, ho bisogno di pensarci. — E quando ci penserà? - L’occasione arriverà. Abbiamo una lunga notte da­ vanti, sicché non preoccuparti. Quando arrivò il momento mangiarono la gallina. Dopo la zia Regina gli chiese che l’aspettasse un atti­ mo, perché doveva fare una telefonata; al ritorno, gli indicò:

— Dormirai nella farmacia di una signora mia amica. Non ti mancherà niente. — Mia madre mi ha detto di stare a casa sua. - Lì starai bene quanto lo staresti qui, ma più al sicu­ ro, sai? Il commissario è un amico (chi ti dice che non gli abbia reso omaggio del pollo che mi hai portato?), ma non si può contare su quella gente lì; forse per ricordar­ mi che sono loro quelli che comandano, quando sono

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bella tranquilla mi piombano in casa, arraffano tutto e lo portano in sezione. Dopo un po’ mi chiedono di an­ dare all’ufficio del commissario, il quale mi presenta le sue scuse per la violazione, è stato un errore. Non potrei mai perdonarmi se un figlio di Filomena finisse in car­ cere per colpa mia. Ti accompagno a prendere il tram. Il viaggio è lungo e la signora ti aspetta, sicuramente non vede l’ora di tornare a casa. - Non vive lì? - No. Ti dispiace stare da solo? - Quello che non mi piacerebbe è non svegliarmi a tempo domani mattina. La zia andò nella stanza di fianco e tornò con una sveglia. - Te la presto. - Non doveva disturbarsi. - Te la metti sul comodino, nel caso voglia sapere che ore sono. Funziona bene, anche se il campanello a volte non suona. Ma vedrai che domani suonerà. Questa affermazione della zia lo trovò d’accordo. Ri­

spose: - La metterò alle sette, ma a quell’ora sarò già sve­ glio. Mi sveglio sempre presto. Uscirono di casa e camminarono fino all’angolo. - La signora ha detto che ti sistemerà nel piano sopra la farmacia. Starai come un signore, con il tuo ingresso indipendente. Adesso prendi il tram numero 5. Basta che guardi dove c’è dipinto il numero. Fa’ attenzione a quello che ti dico: chiedi al controllore che ti avvisi quan­ do arrivate all’angolo tra Mitre e San Lorenzo. Lì seen-

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di e poi prendi il tram numero 8. Dici al controllore che ti avvisi all’altezza dell’Avenida Lucero, un isolato pri­ ma di arrivare agli stabilimenti del Frigorifico Swift. Lì scendi e trovi immediatamente la farmacia. Sarai in pie­ no Saladillo.

Non l’avrebbe mai più dimenticato quell’interminabile tragitto per Rosario. E forse perché era solo, o per­ ché non doveva fingere indifferenza (come all’arrivo, con il turco), si concesse il piacere di guardare tutte le cose nuove e straordinarie che richiamavano la sua at­ tenzione. In varie occasioni, durante quel primo viag­ gio nei tram numero 5 e numero 8, pensò: «Questo lo racconterò ai miei fratelli, e a Rafael e Flores». Passò di fronte a edifici alti e scuri, con torri sulla sommità, con parafulmini (edifici che non avrebbe rivisto, che avreb­ be ricordato come se li avesse sognati). In un certo sen­ so gli sembrò che su quei due tram, e non sul camion­ cino del turco, avesse fatto il proprio ingresso in città. Se ne stava lì seduto, come un passeggero qualsiasi, con la sveglia sulle gambe e l’ammirata convinzione di essere partecipe di fatti cruciali. Al momento di raccon­ tarli, se non fosse stato molto attento, sarebbe passato per un bugiardo. Nella farmacia lo aspettavano la padrona e sua figlia, con il soprabito già indosso. Le aiutò ad abbassare la sa­ racinesca metallica e le seguì fino alla porta di fianco, poi su per una ripida scala, fino a un deposito di merci nel piano superiore, che odorava di saponette. La padrona si scusò: - Spero non stia troppo scomodo. Ti abbiamo siste-

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maio il letto vicino alla porta, perché non debba alzarti per accendere la luce. Mezzo giro e accendi; mezzo giro e spegni. Lì c’è un bagnetto. La padrona era anziana ma robusta, bionda, rosea e molto sveglia. La figlia, pallida e allampanata, con una bella chioma, questo sì, simile a quella della padrona, gli ricordava una signorina che aveva visto non ricordava dove, probabilmente su qualche illustrazione. La ragazza disse: — Apriamo alle otto, ma non si disturbi per noi: se ha sonno, continui a dormire. La padrona spiegò: - Se domani quando ti svegli hai fame, fa’ come ti di­ co. All’uscita svolta a destra; sull’angolo svolta nuova­ mente a destra e qualche passo più avanti troverai una latteria dove servono una colazione come si deve. Ci vanno molti di quelli che lavorano alla Frigorifico Swift, e dunque puoi stare tranquillo. Le accompagnò fino alla porta che dava sulla strada. La padrona gli diede la chiave. Corse su per le scale. Non aveva mai avuto una stan­ za tutta per sé, né gli avevano mai offerto tanti lussi e tante comodità. Due o tre volte spense e accese la luce, per collaudarla e per togliersi lo sfizio. Si mise a guar­ dare quello che c’era sulle mensole e addirittura a leg­ gere, ovviamente con difficoltà, le etichette del Fibrol, dei tonici e depurativi per il sangue, della Seneguina contro la tosse, del Sargol per ingrassare, di Girolamo Paggliano, della Crema Lechuga, delle ciprie e dei pro­ fumi Chela, Ojos Negros, Dime que si, Munequita, Pri-

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mer Beso, che gli diedero da pensare; ma siccome non era il caso di starsene a dormire, l’indomani, e arrivare tardi alla consegna della lettera, non perse tempo. Cari­ cò la sveglia affinché suonasse alle sette; la sistemò su una scatola con la scritta Se prendi Sebrosol dormirai sonni tranquilli, che accostò al letto. Gli parve che la scatola emanasse uno strano odore, non era cattivo: for­ se di zuppa, ma una zuppa fatta con erbe medicinali. At­ tratto dai rumori che arrivavano dalla strada, si avvici­ nò alla finestra. — C’è un gran movimento — mormorò. — È evidente che il cittadino di notte non dorme —. Pri­ ma di spegnere la luce diede un’occhiata all’orologio: faceva le dieci e trentasette. Si sdraiò rassegnato; non aveva voglia di mettere fine a quel giorno meraviglio­ so, ma rifletté sul fatto che quello successivo non sareb­ be stato meno allettante. Si svegliò certo di aver fatto tutta una tirata. Accese la luce e, più che altro per approfittare debitamente della sveglia, guardò l’ora. Erano le undici e cinque. Aveva dormito trenta minuti appena. Non si sentiva stanco, era perfettamente pronto ad alzarsi e ad affrontare la giorna­ ta, ma siccome non aveva niente da fare, oltre che aspet­ tare che arrivassero le sette, non si rallegrò di essere così sveglio. Temette che la notte diventasse molto lunga. Dopo un po’ si addormentò per risvegliarsi quasi su­ bito. 0 perlomeno così gli era sembrato: come se il son­ no fosse durato giusto il tempo di assopirsi. «Che succe­ de stanotte?» si domandò. «Continuo a svegliarmi». Gli parve che la lancetta dei secondi si facesse sentire in modo particolarmente forte. Accese la luce. Erano le

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cinque e venti del mattino: l’assopimento era durato più di sei ore. Spense di nuovo la luce e dovette addormen­ tarsi perché vide sua zia Regina, aveva un diadema con un brillante o un cristallo a forma di stella e un vestito scuro con delle macchie colorate. La zia lo guardava molto seria, con i suoi enormi occhi neri, che erano gli stessi raffigurati sull’etichetta di una scatola di ciprie. Si piegò verso di lui e, come se volesse scusarsi, spiegò: — Avevo pensato che potessi alzarti, ma dovrai con­ tinuare a dormire. Quando si svegliò (molto dopo, o almeno così gli par­ ve) si voltò per cercare la finestra, certo di vedere attra­ verso le fessure il giorno che albeggiava. Non vide che buio e pensò: «Non conosco ancora la stanza, sono di­ sorientato». Tuttavia, tastando incappò subito nella chia­ ve e appena accese la luce trovò la finestra dove l’aveva cercata prima. Guardò la sveglia. Erano le due e trentaquattro minuti. «Allora l’ultima volta ho visto male» ri­ fletté. Per svegliarsi del tutto ed evitare altri errori andò fino in bagno. Tornò a letto alle due e trentasette. Com­ mentò: — Perlomeno adesso so che non ho sbagliato —. Non si preoccupò ulteriormente delle stravaganze della notte - non era fatto per i cavilli - e ben prestò si riad­ dormentò. Perse il conto di tutte le volte che si era alza­ to ed era andato in bagno; sapeva che erano molte e che la fiacchezza e la sete aumentavano. Al ritorno dall’ul­ timo di questi viaggi, o meglio, dal penultimo, gli ven­ ne il capogiro e cadde a terra. Quando riuscì a trascinar­ si fino al letto e ad accendere la luce, vide, come in un sogno, che le lancette della sveglia segnavano le due e

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trentaquattro. Si chiese se la sveglia, a un certo punto, si fosse fermata. In realtà, era certo che la lancetta dei secondi avesse battuto per tutta la notte. Si riaddormen­ tò, probabilmente, perché la zia Regina gli apparve nuo­ vamente e gli diede una spiegazione, che lui ricordava a malapena, sulla pietra che le brillava in fronte: era una stella. La zia sorrise e disse: - Adesso puoi alzarti. Mentre sognava stava da dio, ma quando si svegliò sentiva dolori in tutto il corpo, soprattutto nello stoma­ co, e una stanchezza straordinaria, come se fosse mala­ to, nonché molta sete. Alzarsi dal letto gli costò uno sforzo incredibile. Mentre andava in bagno cominciò a sudare freddo e gli girò la testa. Appoggiato al lavandi­ no si passò dell’acqua sul viso, bevve avidamente. Era così confuso e così stanco che, secondo quanto raccon­ tò più avanti, «il fatto che la barba fosse notevolmente cresciuta gli sembrò del tutto naturale». Si bagnò le ma­ ni, la nuca, e al primo tentativo di lavarsi i piedi vacillò, cadde, prese un colpo così forte che non potè fare a me­ no di ridere. Infine, riuscì a vestirsi e, alle otto e mezza passate, di fretta, perché aveva cominciato a capire che il mal di stomaco era fame, ma ben attento a non roto­ lare giù dalle scale, scese in strada. La farmacia era chiu­ sa. Commentò ironicamente: — Meno male che doveva­ no aprire alle otto —. Ricordò le istruzioni della farma­ cista e andò verso destra. Quasi tutti i negozi erano chiusi. Pensò: «Me lo aveva detto mia madre che i citta­ dini sono dei dormiglioni». All’angolo svoltò a destra, comprò il giornale (dopo ricordò che quando l’aveva

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preso in mano aveva pensato: «Quelli che vendono qui hanno più pagine») e chiese: - Giornalaio, è la direzione giusta per la latteria? La vide prima ancora che l’uomo gliela indicasse: era­ no di fronte alla porta. Fece come potè gli ultimi quattro o cinque metri, entrò, si lasciò cadere su una sedia, si poggiò al tavolo di marmo. Quando arrivò il cameriere, gli chiese un caffellatte completo5. Glielo portarono così caldo che dovette aspettare (persino il mate lo preferiva tiepido; sennò si bruciava). Spinto da un sorprendente languore, mangiò i francesini e i croissant; poi potè be­ re il caffellatte. Chiese, con voce più ferma: - Un altro completo, per favore. Si disse che si sarebbe dato alla bella vita, adesso che finalmente era in città, e che avrebbe atteso pla­ cidamente il suo completo, sfogliando il giornale co­ me un vero signore. Concentrò la sua attenzione sul­ la pagina dello sport e immediatamente commentò, ammirato: — Certo che il cittadino si dà proprio alla bella vita. Persino durante la settimana ci sono corse e partite di calcio! Gli servirono il secondo caffellatte. Pensò: «Perché duri, bisognerà domare la fame». Lo finì subito. Sicco­ me chiederne un terzo poteva essere eccessivo, ricomin­ ciò a leggere in attesa di capire se, dopo un po’, conti­ nuava davvero ad avere fame. Conclusa la pagina dello sport, passò alle notizie di cronaca e, quando stava per 5 In spagnolo café con leche completo, ovvero una colazione che può comprendere, ol­ tre al caffellatte, pane tostato, burro e marmellata, eventualmente un dolce, un succo di frutta o una spremuta d’arancia [n.d.t.].

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chiudere il giornale, una frase catturò la sua attenzione. Per capirla dovette sforzarsi: «Venerdì 27, alle ore 12.30, una squadra della polizia, agli ordini dell’ispettore Tempone, si è presentata nell’abitazione che porta il nume­ ro 2797 di calle Jujuy. Come se quella visita fosse atte­ sa, la porta è stata immediatamente dischiusa, lascian­ do sbucare una lunga arma che ha sparato le sue due cartucce sulle forze dell’ordine, che hanno deviato la canna con un rapido colpo di mano. Il fuoco è stato re­ spinto, uccidendo l’aggressore, che è risultato essere il noto mafioso M. Puzo, dal rigoglioso curriculum crimi­ nale e molto legato ad alcune località dell’interno della provincia, vicine a Cordova». Senza pensare, spostò lo sguardo sulla parte superio­ re della pagina e lesse, come uno che parla nel sonno: «Rosario, domenica 29 marzo 1930». Non ci stava ca­ pendo niente. Tornò alla notizia giù in basso, e nel rileg­ gere le parole «venerdì 27, 12.30», «Jujuy 2797» e il no­ me del morto, ebbe la sensazione di cadere nel vuoto. D’improvviso ci vide chiaro, capì l’inconcepibile: lì, nel quotidiano che aveva davanti agli occhi, erano impres­ si a stampa il giorno, l’ora e il luogo in cui avrebbe do­ vuto consegnare la lettera del signor Bilardo, nonché il nome del destinatario, ora defunto. Luisito pensò a vo­ ce alta: — E morto per colpa mia. Stavolta non mi salva più nessuno -. Lo percorse un brivido, ma siccome era coraggioso rifletté: «Magari la zia». Pagò e uscì. Al giornalaio chiese: — Quale tram [disse «tran»] mi porta verso Buchanan e l’Avenida Alberti?

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- L’8. Lo prende proprio lì, nell’Avenida Lucero, e scende all’incrocio tra Mitre e San Lorenzo, dove pren­ de il 5. Finite le spiegazioni, Luisito si concesse, ad ogni buon conto, una seconda domanda: - Che giorno è oggi, per favore? L’uomo strinse gli occhi e lo osservò da vicino. — Esattamente quello che è stampato su ognuna del­ le pagine di quel giornale lì. Che casualità, non trova? Luisito s’incamminò verso l’Avenida Lucero per pren­ dere l’8. Scuotendo la testa commentò: — Cose da pazzi. Ho dormito tre notti e due giorni di filato, senza man­ giare un solo boccone. Ovvio che avevo fame. Il tram non tardò ad arrivare. Luisito si accomodò su un sedile, pagò il biglietto e lesse una scritta dipinta sul soffitto: «Capacità: 38 passeggeri seduti». Pensò che lui era uno di quei passeggeri, e per quanto compromessa potesse essere la situazione, doveva godersi debitamen­ te il viaggio, perché «chissà quando ne farò un altro». Si disse anche: «Devo tornare al paese, a placare gli animi. Credo che debbano essere proprio disgustati, don Leo­ poldo perché sono andato via e don Bilardo perché non sono stato ai patti. Che furbata lasciare Rosario!». Immerso in queste riflessioni giunse a casa della zia. — Io e il tacchino ti aspettavamo. - Come ha fatto a indovinare che sarei venuto? La zia strinse le spalle. — Ci facciamo un bel banchetto — disse. Entrò in cucina. Luisito, che non la seguì, rispose con gravità:

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— La prego di perdonarmi. Non ho colpa. Dalla cucina la zia domandò: - Che succede? - Dovevo consegnare una lettera. - Il cavallo di spade.

- No no: una lettera scritta di suo pugno da un si­ gnore che me l’ha affidata. Ma non l’ho consegnata: che vergogna. Non mi sono svegliato. — Se non ti sei svegliato, vuol dire che avevi bisogno di dormire. - Lei non capisce, zia. Un uomo ha aperto la porta, perché pensava che fossi io quello che bussava, e lo han­ no ucciso. - E ti senti in colpa? Magari ti è andata bene, perché se avessi bussato tu, non sarebbe stato lui il morto. - In che senso, zia? - Cosa diceva la lettera? — Come faccio a saperlo? - Aprendo la busta e leggendola. 0 non ce l’hai più? — Ce l’ho, ma non è per me. È per l’uomo che è morto. - Senti: cosa gliene può importare a un morto se ci mettiamo a leggere la sua lettera? — Non è una brutta cosa, zia? - Strappa la busta in questo preciso istante e dimo­ strami che sai leggere. Luisito strappò la busta, aprì il foglio e rimase zitto. Alla fine disse: — Non posso. — Come sarebbe che non puoi? Non mi dirai che non sai leggere?

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— Ma no —. Entrò in cucina e le mostrò il foglio. — Non c’è scritto niente. — Mi piacerebbe che mi spiegassi perché si sono pre­ si la briga di mandarti fino a Rosario per consegnare un foglio bianco. - Anche a me piacerebbe saperlo. - Quel Bilardo lì non sarà mica un burlone? — Bilardo mi ha raccomandato di consegnare la sua lettera venerdì alle 12.30. Per me non è uno scherzo. Non so se lei oggi, nelle pagine di cronaca del giornale, ha letto di un fatto accaduto venerdì esattamente alla stessa ora. Meno male che non mi sono svegliato. — Ti ha salvato la tua buona stella. Per la prima volta in quella mattina Luisito sorrise. — È proprio il caso di crederle. Posso raccontarle una cosa? Ogni volta che volevo svegliarmi, lei mi appari­ va in sogno e mi diceva: «Devi continuare a dormire». E se non basta, le dirò anche che sulla fronte lei aveva una pietra a forma di stella. Io credo che a salvarmi sia stata lei. - La cosa più importante è che sei qui, sano e salvo. Andiamo a festeggiare con il tacchino. — Mi spiace, ma io devo andare. — Prima mi dici che ti ho salvato e adesso mi lasci af­ fogare nel cibo. Che razza di ingrato! - Zia, lei non sta capendo. Se non torno, chi glielo dice a Bilardo che non sto fuggendo da lui? — Chi non sta capendo sei tu. Anche se tornassi, non lo vedresti. Lo hanno messo dentro. Non dirmi che ti vuoi presentare in commissariato perché arrestino pure te. Per-

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ché se ti metti a cercarlo, farai sorgere il sospetto che eri coinvolto in qualcosa con quei furfanti dell’ultim’ora. - E allora, cosa devo fare? - Rimanere a Rosario. Luis meditò un momento e rispose: - Se è così, sarà un piacere farle compagnia con il tacchino. Donna Regina soleva spiegarmi che le carte non sba­ gliano: le molte armi rappresentavano il servizio milita­ re, cui Luis dovette presto adempiere, la società per la quale non era preparato era la farmacia, dove lavorò al­ quanto confuso, all’inizio, tra medicine, ricette, soldi e resto, e la ragazza grassa, come avrete intuito, la figlia della farmacista, che poco dopo essersi sposata con lui, si trasformò in una giovane matrona, graziosa e robusta.

In quella città tropicale, modesto emporio al quale giun­ gevano occasionali compratori inviati dalle compagnie del tabacco, la vita trascorreva monotona. Quando qual­ che nave attraccava in porto, il nostro console festeg­ giava l’avvenimento con un banchetto nel salone mo­ resco dell’hotel Palmas. L’ospite d’onore era sempre il capitano, al quale il negretto del consolato portava l’in­ vito a bordo, con la preghiera che lo estendesse a un gruppo, scelto da lui, di ufficiali e passeggeri. Nonostan­ te la tavola eccellesse per magnificenza, il caldo umido rendeva sgradevoli, persino sospetti, i più complicati prodotti dell’arte culinaria, sicché solo la frutta conser­ vava una certa appetibilità; o meglio, la frutta e gli al­ colici, come attestano le testimonianze di quei viaggia­ tori che non hanno dimenticato un prestigioso vino bian­ co, né l’espansività, suppostamente divertente, che sa­ peva suscitare. Durante uno di quei pranzi, il nostro con­ sole udì, direttamente dalle labbra di una turista - un’agia­ ta signora, avanti negli anni, di carattere fermo, aspet­ to disinvolto e pratico abbigliamento inglese -, la se­ guente spiegazione o storia: «Io viaggio in prima, ma ri­ conosco senza discutere che oggi tutti i vantaggi favo-

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riscono il passeggero di seconda classe. Innanzitutto, il prezzo del biglietto, che è un capitolo importante. I pa­ sti, lo sanno tutti, escono dalla stessa cucina, preparati dagli stessi cuochi, per la prima e per la seconda, ma senz’altro a causa della predilezione del personale di bordo per le classi popolari, i manicaretti più squisiti e quelli più freschi invariabilmente vengono dirottati nel­ la sala da pranzo di seconda classe. Quanto alla suddet­ ta predilezione per le classi popolari, non ci si lasci in­ gannare, non ha niente di naturale; a inculcarla sono stati scrittori e giornalisti, individui che tutti ascoltano con incredulità e sfiducia ma che, a forza di persevera­ re, alla lunga convincono. Poiché la seconda classe è sempre al completo e la prima praticamente vuota, le potrebbe accadere di non trovare un solo cameriere nel­ la prima, ed è per la stessa ragione che l’assistenza è co­ sì nettamente superiore in seconda. Vorrà credermi se le assicuro che non mi aspetto nien­ te dalla vita; ciononostante, amo la vitalità, la gente bella e giovane. E adesso le confiderò un segreto: per quanto ci si impegni a sostenere il contrario, la bellezza e la gioventù sono la stessa cosa; non per niente le vec­ chie come me, non appena entra in gioco un ragazzo, perdono la testa. I giovani - per tornare alla questione delle classi - viaggiano tutti in seconda. In prima, ai balli, sempre che ce ne siano, sembra di vedere dei ca­ daveri resuscitati che hanno indossato gli abiti migliori e l’intero portagioie per celebrare degnamente la serata. La cosa più logica sarebbe che a mezzanotte in punto ognuno facesse ritorno alla propria tomba, già mezzo

LA PASSEGGERA DI PRIMA CLASSE 113

polverizzato. Ovvio che noi possiamo assistere alle fe­ ste della seconda classe, anche se per farlo bisognereb­ be accantonare qualsiasi sensibilità, perché quelli che vivono lì sotto ci guardano come se ci credessimo delle teste coronate in visita ai quartieri poveri. Quelli di se­ conda, quando ne hanno voglia, si presentano in prima e nessuno, nessuna autorità, oppone loro alcun odioso impedimento, che la società ha unanimemente rifiutato già da diverso tempo. Queste visite della gente di secon­ da sono ben accolte da noialtri, quelli della prima, che anzi moderiamo le nostre premure e il nostro calore per­ ché quegli ospiti occasionali non scoprano di essere iden­ tificati, all’istante, come gente dell’altra classe - una classe che durante la traversata rappresenta il loro più autentico orgoglio - e possano offendersi. Ci rallegrano meno con le loro visite quando si tratta delle incursioni o irruzioni che avvengono generalmente prima dell’al­ ba, autentiche scorrerie durante le quali gli invasori si dedicano implacabilmente a cercare qualche passegge­ ro, uno qualunque di noi!, che non abbia chiuso bene la porta della sua cabina, o che si sia attardato fuori, nel bar, in biblioteca o nella sala concerti; le giuro, signore, che questi ragazzi acciuffano il malcapitato senza nes­ sun riguardo, lo conducono al ponte o promenade e lo gettano giù dal parapetto nella nera immensità del ma­ re, illuminato dall’impassibile luna, come ha detto un grande poeta, e popolato dai terrificanti mostri della no­ stra immaginazione. Tutte le mattine noi passeggeri di prima ci guardiamo con occhi che stanno apertamente commentando: “Dunque a lei non è toccato ancora”. Per

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decoro nessuno menziona gli scomparsi; per prudenza, anche, perché secondo alcune versioni, facilmente in­ fondate - c’è un piacere truculento nello spaventarsi, nel supporre che l’organizzazione dell’avversario sia perfetta - quelli di seconda classe avrebbero una rete di spie nascoste tra noi. Come le ho detto poco fa, la nostra classe ha perso tutti i suoi vantaggi, compreso lo snobi­ smo (che, come l’oro, conserva il proprio valore), ma io, per un qualche difetto, probabilmente incurabile in gen­ te della mia età, non mi adatto a diventare una passeg­ gera di seconda».

IL GIARDINO DEI SOGNI

Forse per la soavità della voce o per i diminutivi che in­ fondevano alle parole un tono di mielosa dolcezza, mi disposi ad ascoltare alcune di quelle benevole trivialità che la cortesia suole dettare. Il mio compagno di tavola - un collega abbastanza cupo, che scriveva notizie di cronaca nera, o di politica?, in una delle due edizioni se­ rali del giornale locale - mi stava mettendo in guardia su un pericolo veramente spaventoso che da lì a poche ore si sarebbe abbattuto su di me. Sospetto che per un istante persi coscienza ed ebbi l’illusione di fluttuare nell’aria. Forse mi spaventai. Non era cosa da poco. Ero arrivato la settimana pri­ ma in veste di nostro inviato speciale (un talismano pre­ stigioso che, così credevo, mi avrebbe protetto da ogni rischio), con la classica missione di scrivere una serie di articoli che giorno per giorno informassero il pubblico di Buenos Aires sulle feste per il centenario dell’indipen­ denza, figlie inequivocabili della grossolana volontà di meravigliare il mondo. Il paese aveva riversato nella ca­ pitale, insieme con le sfilate e le altre pomposità gover­ native, le sue congetturate e senza dubbio stupende ri­ serve di folclore, di superstizione e di taumaturgia: il so-

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gno pittoresco, l’incubo vivente, che chissà da quanto addormenta la selvatica montagna, mentre nella quasi urbana periferia un capoccia qualsiasi controlla tutto con occhi vispi. Quando servirono il caffè la gente si alzò dal tavolo; io e il mio collega ci affacciammo, con la tazzina che mi ballava sul piatto, a una delle vetrate. Il ristorante, il fa­ moso Panoramico, è in cima alla torre dell’hotel e, per ripetere una frase che in quell’occasione ho sentito al­ meno quattro volte, domina la città. Puntando un dito che sembrava un gancio, Orduno - così si chiamava il collega - spiegò:

— Lì ci sono il Palazzo, le strade, il campo da calcio (secondo l’antica formula di circo senza pane). Qui vici­ no il carcere e il dipartimento di polizia. Sotto, piazza Libertadores e giusto lì la spiaggia di moda, sfarzosa e animata. Di quel pranzo, vero banchetto che chiudeva il copio­ so programma di atti ufficiali, le autorità avevano offer­ to due versioni, quella selettiva, al Jockey Club, per am­ basciatori e ospiti d’onore, e quella al Panoramico, più democratica ma anche più interessante, a dire di Ordu­ no, giacché riuniva l’intelligenza, che identificai subito con noi due, e la bellezza, rappresentata da alcune assi­ stenti di volo delle linee aeree. — Cosa mai posso aver fatto per essere perseguitato? — chiesi con la voce rotta. -1 giornali di Buenos Aires sono arrivati ieri notte. — Hanno letto i miei articoli? Non vorrà dirmi che due o tre scherzi innocenti...

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- Li hanno offesi. Il nostro governo, mi creda, non apprezza Fumorismo dei suoi critici. - Chi sono io per criticarlo? Le giuro che intenzio­ nalmente non mi sono lasciato sfuggire neanche un cenno di ironia... Forse una qualche battuta, imposta, come può immaginare, dalla costruzione stessa delle frasi. - E si aspetta che questa gente capisca? Non sono fatti come noi; ciò che ci diverte li irrita. All’alba ver­ ranno a cercarvi. — Non può essere. — Si svegli, caro mio! Dalla letteratura alla realtà. Anzi, dalla letteratura al carcere. Mi venne il sospetto che il mio protettore fosse un po’ sadico, ma riflettei che, data la mia situazione, era me­ glio non indisporlo. — E se chiedo asilo nella nostra ambasciata? 0 in quella uruguaiana, che è più vicina? - Ci starà benissimo, non ne dubiti, ma metta in con­ to che per qualche anno non uscirà da lì. - Impossibile. S’immagini il dispiacere che darei al­ la mia famiglia, a Beccar. Vediamo, un’altra soluzione, per favore, mi dia un’altra idea. Mi aiuti. Abbassando confortevolmente la voce chiese, men­ tre puntava quel dito che sembrava un gancio: — Ha ammirato il panorama da qui? — Mi spinse ver­ so la vetrata opposta. — Cosa vede? Repressi la contrarietà e descrissi ciò che vedevo: il giardino dell’hotel, un muro e sull’altro lato un vasto parco circolare, con un caseggiato bianco, dal tetto in

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ardesia, che mi ricordava qualche vecchia casa di cam­ pagna di San Isidro o di Tigre; a guardarlo bene, il par­ co appariva diviso in triangoli verdi, una sorta di stella nel cui centro rifulgeva il biancore del caseggiato, che a distanza risultava minuscolo. — Dopo — continuai — vedo uno spazio aperto. — L’aerodromo. Cos’altro? — A destra, un pugno di case. - Congratulazioni. È il motel degli equipaggi. Mi aspettavo la conclusione, la spiegazione; visto che non arrivavano, dichiarai: — Non capisco. — Ma, amico! — protestò. Agitò vistosamente le mani e retrocesse. Riuscii a ge­ mere: — Non vorrà lasciarmi proprio adesso! Se l’era squagliata. Cercai di controllare i nervi per­ ché non mi restava altra alternativa che affrontare la situazione; ossia, affrontarla da solo. Paragonai il mio stato d’animo a quello di un suicida che abbia ingerito un veleno il cui effetto letale si presenterà solo qualche ora dopo. Diedi ragione a Orduno: il penoso arresto che mi minacciava probabilmente sarebbe valso a svegliar­ mi, infine, da una vita spesa a scrivere spiritosaggini sulla carta stampata. Esaltato dal rimorso e dalla pau­ ra, me la presi con me stesso. Non lasciai, tuttavia, che le considerazioni sulle mie colpe mi distraessero. Se un istante in un commissariato qualunque ci sprofonda nello sconforto, chissà quali amarezze mi avrebbe ri­ servato il domani, in un paese remoto, alla mercé di

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gendarmi appena arrivati dalla selva, dove i nativi del luogo vengono educati nella più indifferente crudeltà, attraverso sgozzamenti rituali di capretti, di galli e di persone! Non bisognava cedere allo scoraggiamento; dispone­ vo di un pomeriggio e di una notte: con molta fortuna, diligenza, volontà e lucidità, forse mi sarei salvato. An­ zitutto dovevo dominare quel tremito che ancora una volta si stava impossessando di me. Orduno aveva esposto chiaramente il problema e of­ ferto delle indicazioni perla soluzione (nessun’altra in­ terpretazione della sua condotta risultava verosimile). Non si era mostrato più esplicito affinché il piano risul­ tasse mio, di modo che se mi avessero preso e costretto a dire la verità non lo tradissi; non confessassi: mi ha detto di fare questo e quello. Incredibilmente, ero così turbato da ignorare il piano... Mi avvicinai alle assisten­ ti di volo. Qualche pedante affermerà che l’uomo rima­ ne un bambino e che nella desolazione trova la madre in ogni donna. Perché non ammettere invece la mode­ sta spiegazione che solo il fascino di una donna poteva compensare il mio dispiacere? Mi guardai intorno. Per prima cosa mi dissi che le ri­ sate celebravano sicuramente delle idiozie e poi che i gruppetti di conversatori sembravano impenetrabili. Giunsi alla conclusione che era meglio scendere nella mia stanza e lasciare qualsiasi speranza. Allora mi ricor­ dai della polizia che il mattino dopo sarebbe venuta a cercarmi e radunai il coraggio necessario ad abbordare una delle assistenti di volo lì presenti, fare appello ai

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suoi sentimenti democratici, al suo odio per il dispoti­ smo, alla sua compassione e propensione verso il pros­ simo per guadagnarmi la sua complicità e imbarcarmi sul primo aereo che lasciava il paese. Mi fermai inebetito: compresi che non potevo per­ mettermi un passo falso. Tutto il mio destino dipendeva dalla circostanza, probabilmente fortuita, che mi rivol­ gessi alla persona giusta. Se non avessi scelto una ra­ gazza temeraria e generosa, sarei stato perduto. Vicino a me circolava un’uniforme delle nostre Aerolineas. Guardai attentamente: si trattava di una ragazza alta, diritta, bionda, lentigginosa, con gli occhi rotondi, gra­ vi, vagamente turbati. Come fosse inevitabile, immagi­ nai quegli occhi fissi sui miei e mi parve di sentire la do­ manda: «Con quale diritto mi chiede di rischiare per lei?». Dovevo contenere i nervi per non finire alla mer­ cé della prima ragazzina a portata di mano. A pochi me­ tri, in fondo alla tavola, ne scoprii un’altra, dai capelli castani, di piccola statura, che mi ricordava vagamente un’attrice francese del vecchio cinema americano... Dal­ l’uniforme capii che lavorava per una compagnia euro­ pea e dall’espressione e dai modi la immaginai molto sveglia. «Capirà senza difficoltà i miei timori. Per un’eu­ ropea non ci dev’essere incubo più orribile del carcere in questi paesi, autentici recessi su cui la civiltà non ha controllo. La creola, invece, potrebbe anche uscirsene dicendo che non è il caso di esagerare, che molti entra­ no nel commissariato dietro l’angolo di casa e se mi di­ cessero che hanno visto portar fuori un morto mentireb­ bero». Pensai allora che tutti gli europei tendono al ri­

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spetto letterale di regolamenti e leggi: la possibilità di imbattermi in una stupida rigidità mi fece decidere. - La creola! La creola! — esclamai patriotticamente e mi di­ ressi verso la ragazza di Aerolineas. Le dissi: — È un sollievo, non è vero?, trovarsi di colpo tra ar­ gentini. — Dipende — rispose. — Io ho deciso di volare perché non li digerisco. — Non mi dirà che non preferisce la nostra pro­ nuncia? Stringendo le spalle, precisò: — Questione di gusti. — Lo dice lei. Il fatto di avere gusti in comune non crea forse una specie di fraternità tra gli uomini? Gardel non conta nulla? Guardai gli occhi della ragazza: solo nelle statue ho visto uno sguardo altrettanto perso. Non c’era dubbio: quegli occhi languivano d’indifferenza e di tedio; era inutile insistere; l’argomento in favore della solidarie­ tà tra compatrioti non mi avrebbe portato sulla buona strada. Mi rimaneva forse l’espediente del corteggia­ mento. Cosa mi tratteneva? Lo scrupolo dell’uomo d’o­ nore, ma soprattutto la prevedibile difficoltà di passa­ re decorosamente dal chiedere amore al chiedere aiuto. 0 la ubriacavo di parole appassionate oppure in un mo­ mento per me fatale la ragazza avrebbe scoperto che non stavo morendo per lei, ma per la sicurezza della mia persona. Dato che il tempo incalzava e non avevo scelta, mi ar­ resi: la corteggiai sfrenatamente. Questo cambio repen­

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tino nel mio comportamento, che suggeriva meno un’in­ clinazione d’animo che il meccanismo di un automa, ot­ tenne la franca approvazione della mia interlocutrice. Mi sembra di ricadere nell’umorismo satirico, al qua­ le devo tanta sventura... Sì, la calunnio: la ragazza ap­ partiene al tipo delle grandi eroine di Stendhal: donne belle, audaci e valorose, di fervida immaginazione. Da parte mia, non solo con l’eloquenza cercai di ubriacarla. Riuscii a far sì che mi accompagnasse al bar. Le chiesi: — Cosa prendiamo? — Quello che vuole lei — rispose. — Il rhum che fanno da queste parti è famoso. - Conosce il detto? Dentro le bottiglie di rhum ci so­ no sogni da pirati. Chiesi quel liquore perché ricordai dei versetti insi­ stenti che all’epoca ascoltavo a tutte le ore: Quindici uomini sulla cassa del morto quindici uomini e una bottiglia di rhum. Satana agli altri non ha fatto torto, con la bevanda li ha spediti in porto. — Parla da solo? — chiese. Confessai all’istante: - Sono disperato. - Visto che mi ama e mi adora non pretenderà che mi butti tra le sue braccia, vero? Gemetti disarticolato: — Come prevedevo — dissi, — peggio di come preve­ devo.

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Come svegliarla da quell’ubriacatura di presunzione, senza ferire il suo amor proprio? Dovevo reindirizzare quello stato d’animo con una manovra abbastanza diffi­ cile: non mi bastava che la ragazza mi perdonasse; dove­ va aiutarmi e salvarmi. Persi la testa. Confusi sicuramen­ te rincalzare del nervosismo con un salutare anelito di sincerità e senza ulteriori dilazioni chiarii la situazione. Quando parlò ogni sillaba suonava secca, come il tic­ chettio di una macchina da scrivere. — Perché dovrei immischiarmi, vuol fare il favore di spiegarmelo? Si lasci prendere e maltrattare: vedrà co­ me strilleranno i giornali; se invece sono io a marcire in carcere, nessuno si ricorderà di me. E poi, c’è un detta­ glio sul quale lei sorvola: la responsabilità non è mia, ma sua. - Che spavento! - esclamai, poi chiusi gli occhi, nau­ seato dai giri di una roulette in cui le vertiginose idee di polizia, interrogatorio, tortura sostituivano e occulta­ vano le ragioni che forse avrei potuto addurre. In quel­ l’afflizione articolai precipitosamente le prime parole che mi vennero in mente: — Non insista. La sua impla­ cabile assennatezza mi confonde. Rinuncio alla fuga! Mi affascinava perché romantica e pericolosa... Ora ca­ pisco di non averne diritto. Le ritornò il colore in viso e sorrise come se un qual­ che pensiero la divertisse. — Alle sette di sera. Nel motel. Stanza 11. Non potevo credere alle mie orecchie. D’improvviso notai che si metteva i guanti. Allarmato domandai: — Non vorrà lasciarmi proprio adesso!

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Mi parve di aver ripetuto quella frase per tutto il tempo. - Vado a far compere. Con un uomo, lo sa bene an­ che lei, diventano un martirio. — Non vada via senza dirmi come si chiama. — Luz — rispose. — Ma non deve chiedere di me. Quan­ do arriverà mi troverà. Non appena credetti di esser solo alzai le braccia e gi­ rai su me stesso, ma interruppi quel ballo quando notai che l’uomo del bar mi stava guardando. «Penserà che sono ubriaco» mi dissi. «Che importa». Saldai il conto, mi affacciai alla vetrata di fronte e con gli occhi chiusi appoggiai la testa sul vetro; non era freddo come spera­ vo. Quando aprii gli occhi, qualcosa risvegliò la mia cu­ riosità; un formicolare giù in basso, in piazza Libertadores; degli omini che continuavano a uscire da un fur­ gone della polizia. Sembravano tante bestioline: la sce­ na mi parve curiosa. In gruppo, si incamminarono ver­ so l’hotel. - Sono qui per me! - gridai nel confuso tentativo di spiegare la mia agitazione. - Sono arrivati prima del previsto! L’uomo del bar mi osservava flemmaticamente, come un esperto di ubriachi, mentre io, per non correre, cam­ minavo con eccessiva rigidità. Pensai: «Meglio che nes­ suno mi veda» e scartai l’ascensore, perché a volte lo ma­ neggiava un ascensorista; aprii la porta a spinta, mi lan­ ciai giù per le scale; ai miei piedi i gradini crescevano e si moltiplicavano; sui pianerottoli guardavo ansiosa­ mente i numeri, poiché al nono avrei raggiunto la mia camera per prendere il portafoglio e due o tre oggetti dai

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quali non mi separerei per nulla al mondo (per il loro valore sentimentale), poi però mi dissi che la mia stanza era il posto più ovvio in cui la polizia potesse aspettar­ mi e continuai a scendere. Se mi avessero bendato gli occhi, uscendo nel terraz­ zo avrei creduto di trovarmi in una serra. Per fortuna il calore metteva in fuga i turisti. Sul terrazzo non c’era nessuno. Scesi la scalinata di marmo, mi avventurai per il giardino e dopo aver percorso un centinaio di metri dovetti evitare un giardiniere, che non mi vide -, giun­ si al muro in fondo. Lo scalai affannosamente, caddi dall’altra parte, rimasi immobile, bocconi, abbattuto dalla stanchezza, dal mal di testa, dal rhum, dall’ansia della fuga e soprattutto dal colpo. - Sono in salvo — mormorai. Avevo raggiunto il lontano parco dai trian­ goli verdi, che avevo scorto dalla finestra. Riflettei: «Non sono ancora in salvo. Stando qui la prima guardia che si affaccia oltre il muro può vedermi». Come potei, mi alzai e corsi a nascondermi dietro alcune piante di alloro. A stento trattenni un grido. Per sfuggire a un per­ secutore immaginario, per poco non strattonavo un gi­ gante in uniforme verde, con il fucile in spalla. «Il sol­ dato» pensai con stupore «mi ha visto». Non solo mi ave­ va visto, mi aveva sorpreso in piena fuga; ma non mi ar­ restò; con la tranquillità più assoluta si voltò di spalle come se la mia presenza non lo riguardasse e neppure lo stupisse - e s’infilò in una casa; o meglio, di fronte a una casa, costruita lì, ipotizzai, con una qualche funzione di teatro o di cinema. Riproduceva un’osteria di stile vaga­ mente tedesco, provvista della debita insegna, pitturata

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malamente e con ingenuità, dove si leggeva (in spagno­ lo, chissà perché) El cazador verde. Mi dissi che il sup­ posto soldato era piuttosto un cacciatore, senz’altro quello dell'insegna, ma non cercai di spiegarmi i fatti. Non avevo tempo di risolvere enigmi né voglia di stu­ pirmi di niente: presentivo l’imminenza dei miei perse­ cutori. Prima di riprendere la corsa, per evitare di cade­ re su qualche altro cacciatore imboscato, esaminai il parco; tra le sue attrazioni spiccava un lago, fiancheg­ giato sulla sinistra da una montagnola di rocce artificia­ li. Guardai attentamente intorno, cominciando da de­ stra; vidi solo piante e oggetti inanimati: un’amaca pa­ raguaiana, appesa tra due palme, un campo da croquet, un dogo di bronzo, un gruppo di alberelli fioriti, un enorme vaso di porcellana azzurra, un imbarcadero, il lago, con barchette a forma di cigno, e le rocce. Mentre correvo mi chiesi: «Cosa mi aspetta dall’altra parte?». Mi abbracciai alle rocce, udii il sussurro di una cascata d’acqua, continuai, con prudenza e lentezza, a fare il gi­ ro della montagnola finché, di fronte ai miei occhi, non apparvero prima la piccola cascata e, in alto, all’ingres­ so di una grotta, come su un piedistallo di pietra, la don­ na. Era magra, molto bianca. Non so perché me la figu­ ro di profilo, con il viso rivolto in alto e una cascata di capelli neri... Temo che questa descrizione richiami alla mente un disegnino ridicolo, una vignetta di cattivo gu­ sto. Per confutarla trovo solo argomenti soggettivi: mi sembrò che mancasse l’aria, avvertii il malessere che provoca la bellezza, intuii in una brusca rivelazione che tutto il mio passato si giustificava nell’avermi condotto

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fino a quella donna, pensai che se l’avessi persa non avrei più trovato consolazione. Provai anche un attimo di felicità, come se non capissi lo scherzo del destino, che mi mostrava la donna della mia vita quando i segu­ gi mi mordevano i talloni. — Devo essere impresentabi­ le — dissi e istintivamente mi passai una mano tra i ca­ pelli, mi aggiustai la cravatta. Credo che la donna sorri­ se; in ogni caso, mi guardava senza diffidenza, addirit­ tura come se mi stesse aspettando. Udii allora una tromba da caccia e i latrati incomben­ ti della muta di cani. C’era qualcosa di così coercitivo e terrificante in quel clamore che iniziai a correre. «Pro­ prio quello che ci voleva» pensai. «Che mi inseguano con i cani». Quando mi svegliai, avevo oltrepassato il muro divisorio ed ero caduto in ginocchio sulle pietruzze del sentiero, nel secondo triangolo del parco. Non sentivo più i latrati, come se fossi arrivato molto lontano o co­ me se i cani non esistessero. Quando alzai gli occhi, mi trovai di fronte a un vecchio, era seduto su una poltro­ na di vimini, all’ombra di un baldacchino a frange gial­ le, rosse e azzurre, indossava un abito di gabardine, di quando in quando si sventagliava con un cappello di panama, sembrava malato e stanco, mi osservava. Il giardino, intorno a lui, era un posto di sogno, per meglio dire il simulacro di un sogno, costruito seguendo idee molto convenzionali, con oggetti vagamente significa­ tivi e simbolici: una gabbia a forma di pagoda cinese, dove svolazzavano due o tre uccelli di color azzurro­ verde, una locomotiva incompleta, mezzo infossata nel­ la sabbia, e, sparsi tra i cespugli, il cilindro a spirali bian-

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che e rosse di una bottega di barbiere, un medaglione dorato con una testa di cavallo, uno scudo, una torcia. La casuale scoperta che le pietruzze del terreno erano, in realtà, libri minuscoli (di vetro pieno, dipinto) mi indi­ gnò. Dimenticai i cani, dimenticai la polizia, raccolsi uno di quei libretti, feci in modo che il vecchio lo guar­ dasse, quasi gli stessi mostrando un elemento di prova davvero schiacciante e gli chiesi: - Cosa significa tutto questo? E quella porta? Era di legno scuro, con un’infinità di testine lavora­ te; aveva come battiporta una mano di bronzo ed era in­ corniciata dalla frondosa edera di un pergolato. — Garantiscono che apre unicamente a sogni ripara­ tori — rispose. Mi sembrò lugubre, tristissima e temetti portasse sfor­ tuna; per sottrarmi a quell’idea, immaginai la ragazza del lago, ma cercai istantaneamente di pensare a qualco­ s’altro, come se ciò che allora occupava la mia attenzio­ ne fosse esposto a funesti effluvi. Chiesi: - Cosa vi proponete con tutto ciò? Di farmi diventa­ re pazzo? Non fatevi illusioni. — Una buona osservazione — rispose il vecchio riden­ do come se dovesse soffocare. — La critica migliore. Ma confessi, adesso, amico mio: non sarà mica una nuova comparsa del dottor Veblen? - Una comparsa del dottor chi? — Non mi dirà che è entrato per errore? 0 è la solita storia? Un fuggiasco? La avverto che qui la polizia non la disturberà. Chiaro che se Veblen l’acciuffa... Mai e poi mai s’inimicherebbe il governo.

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— Me ne vado. - D’accordo. Bisogna sfuggire i nevrotici -. Guardò l’orologio. — Cinque e mezza passate. Ancora per poco non vengono a cercarci. Mi dissi che avevo il tempo di attraversare tutto il parco e di arrivare puntuale all’hotel (o motel), dove Luz mi aspettava. Ne ero certo? Nel complesso, il parco era enorme; potevo perdermi; né era improbabile che m’im­ battessi in qualcuno pronto a chiudermi il passo o a chiamare la polizia. Volli tornare, anche se per pochi minuti, al lago delle rocce, per parlare con la ragazza. Assillato com’ero, l’avrei forse convinta di qualcosa? Di cosa? Nel migliore dei casi, a darmi nome e indirizzo, per intrattenere un carteggio quando fossi rientrato a Buenos Aires. Valeva la pena, Dio mi perdoni, di corre­ re il rischio del carcere per giocare ai fidanzati per cor­ rispondenza? Prima di rispondere alla domanda, avevo superato il muro e mi trovavo di nuovo nel giardino del lago. «Per una sconosciuta» rimuginai «perdo tempo e rischio la vita. Mi prenderanno. Mi ci sbatteranno a cal­ ci, in carcere. Allora questo mio comportamento non avrà nessuna giustificazione». Quando mi ritrovai di fronte alla montagnola e scoprii che la ragazza non c’era più, mi angosciai, per la seconda volta in pochi istanti capii che se l’avessi persa non avrei più trovato consolazione. Dimenticai la prudenza, agitato mi lan­ ciai a cercarla. La ritrovai d’improvviso sotto un arbu­ sto dai fiori colorati, con le mani tese verso di me; la ra­ gazza coglieva dei fiori, ma per un attimo credetti che mi chiamasse; quest’errore mi confuse, mi scoraggiò, e

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quando riapparve il gigante vestito da cacciatore verde, intrapresi nuovamente la fuga, oltrepassai il muro, una successione di muri, e nei diversi giardini vidi (ormai senza curiosità) cuochi che disputavano una partita di tennis, gente mascherata da animali, la torre di una for­ tezza, con delle credenze da cui pendevano un’àncora, un coupé, un caminetto, un’arpa, una culla dorata. Mi dissi che rinunciavo alla donna della mia vita perché ero troppo triste per lottare (era vero il contrario: ero triste perché rinunciavo alla donna) e attribuii la colpa di tut­ to alla funesta fantasia di quei giardini. Alla fine, un in­ dividuo in camice da lavoro per poco non mi abbranca­ va. Scalai il muro, mi trovai in mezzo alla strada; mi ad­ dentrai (superando la stanchezza e la paura) nella città; mi persi per due volte; alla fine arrivai al motel. Luz mantenne la parola: mi stava aspettando. Riden­ do, come se mi stessero vestendo per un ballo in ma­ schera, mi travestirono da capitano o da cameriere. Be­ vemmo, arrivò l’autobus, il conducente commentò: — Oggi c’è una corsa in più —, attraversammo l’aeroporto e ci imbarcammo. Finché l’aereo non decollò, l’equipag­ gio sembrava nervoso; io pensavo alla ragazza del lago. Ormai in volo mi cambiai i vestiti e per restare solo mi rifugiai nell’ultimo posto a sedere. Credo che dopo averci servito da mangiare, Luz ci augurò la buonanot­ te e venne a sedersi con me. Ricordai alcune storie, che tutti conoscono, di quello che era successo su qualche volo, in quell’ultimo posto, mentre i passeggeri dormi­ vano. Per distrarla mi misi a parlare. — Lei crede nell’amore a prima vista?

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- È meraviglioso - rispose - e molto comune. Chiun­ que potrebbe confermarlo. Si appassionò tanto all’argomento che fu sul punto di abbracciarmi. Le chiesi: - Chi è il dottor Veblen? - Non lo sai? Chissà che paura che ti sei preso. — Quantomeno ho visto cose insolite. - Comparse prese in affitto e oggetti che trova chis­ sà dove. Li mette lì perché i ricoverati, di notte, sognino. Quel ciarlatano cura con i sogni i miliardari che si cura­ no per il gusto di pagare montagne di soldi. Come se non avesse cambiato argomento, mi chiese prontamente con chi vivevo. Quando capii, le dissi: - Con mia madre e le mie sorelle, a Beccar. — Allora non sei sposato! — gridò senza dissimulare la gioia. Pensai, come se le stessi parlando: «A patto che mi la­ sci stare per un po’, vedrai che ci sposiamo». La ragazza mi aveva salvato, somigliava probabilmente alle grandi eroine di Stendhal e a me non interessava il mio desti­ no. Mi guardò con quegli occhi gravi, che adesso cono­ sco così bene, mi disse che andava a offrire non so cosa ai passeggeri, ma che sarebbe tornata presto.

UNA PORTASI APRE

Almeyda aveva indossato il vestito azzurro come se stesse per uscire. Di fronte allo specchio annodò, con un gesto impeccabile, la cravatta delle grandi occasioni e le concesse perfino il lusso di una spilla, un ferro di caval­ lo portafortuna con pietruzze verdi, dal valore pura­ mente sentimentale. Alla luce di quel giorno d’inverno, le avvolgenti foglie d’edera della cornice dorata confe­ rivano una profondità misteriosa e triste all’ovale di cri­ stallo che lo rifletteva. — È così che apparirò - mormo­ rò - in qualche fotografia, nella stanza da letto di Car­ men. Sulla mensola, tra il suo ritratto, con lo scialle di seta a frange e la foto del nipotino nudo su un cuscino. Sentì il fruscio di un foglio di carta e vide sporgere, da sotto la porta, una lettera che qualcuno spingeva dal­ l’esterno. «Provo ancora curiosità?» si domandò mentre strappava la busta. Era il conto del sarto. - Per pagarlo - commentò - nessuno posticiperebbe il suicidio. Come se volesse darsi un’ultima opportunità, di nuo­ vo davanti allo specchio si domandò quali fossero le co­ se che per lui non avevano perso il loro incanto. Dopo un rapido inventario riscattò solo l’odore del pane to­ stato e il tango Una noehe de garufa. Due cose non gli

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bastarono; per superstizione ritenne necessario arriva­ re a tre. Rovistò nella memoria, dapprima a caso, poi con metodo; persone («Meglio stame alla larga»),'abitu­ dini di una volta («Con quelle manie chi è che non si stanca di se stesso»); teatro nell’Avenida de Mayo; bi­ liardi in centro; pasti da uomini soli, fino a tarda ora, con discorsi e racconti piccanti, di solito in un ristoran­ te sotto il porticato dell’Onee; d’estate, pennichelle nel bosco, lungo il sentiero di La Piata; letture, che in altri tempi lo divertivano, come la storia della macchina del tempo e altre vicende fantastiche come quelle di qual­ che viaggiatore che si avventurava nel futuro, un mon­ do alquanto terrificante e malinconico. Dov’erano i li­ bri? A casa di Carmen, probabilmente, o di qualche ni­ potino di Carmen, al quale lei immediatamente li passa­ va, come se le bruciassero le mani. Si era già stancato di quella inutile indagine su og­ getti più o meno affascinanti quando si ricordò del ca­ mion, a forma di orso polare, di una pellicceria, che lo aveva stupito da bambino. - Sono arrivato a tre esclamò vittorioso, per aggiungere troppo presto: — E dunque? - Guardando ancora lo specchio allungò una mano, tastoni, alla ricerca della pistola. Qualche secon­ do dopo, seguendo quel movimento con gli occhi, scor­ se il giornale, poggiato sul tavolo. 0 meglio, scorse il se­ guente annuncio (bordato di nero, come apparivano, nei giornali di provincia d’altri tempi, i necrologi): «È convinto che la vita l’abbia assediata e conquistata, che tutto le crolli addosso e che l’unica scappatoia che le ri­ manga sia il suicidio? Se non ha niente da perdere, per­

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ché non viene a trovarci?». «Sembra stiano pensando a me» si disse. «Esattamente il mio caso». Felici coloro che possono scaricare le proprie colpe sul prossimo; prima o poi si sfogano. Perché non parlava chiaramente con Carmen e non chiarivano la situazione, come gli consigliava Joaquin, il Mancino di Los 36? Chiarire la situazione! Un sollievo, un’oasi, una meta ir­ raggiungibile, un sogno che era meglio non sognare. La nostra libertà è limitata da ciò che il prossimo si aspetta da noi. Carmen, di carattere dinamico, di volontà ferma, di slanci generosi, gli aveva assicurato: «Conta su di me», per proseguire all’istante con una di quelle convincenti spiegazioni minuziose che sembravano incompatibili con la sua vivace personalità, ma che in realtà la comple­ tavano e la fortificavano. Carmen, Carmen, incessante­ mente Carmen, bella, dai tratti delicati ma nitidamente delineati, bianca, rosea, dallo sguardo scintillante, dal sorriso trionfale, dalle proporzioni così armoniose, che nessuno, mai, si sognò di chiamarla nana. Se lui apriva una porta, lei arrivava dall’altra parte, chiudendo il pas­ saggio, rapida come il movimento di un ventaglio, gra­ ziosa come la bambola, vestita da ballerina, di un caril­ lon, Carmen, dagli occhi che addormentavano la volon­ tà, dalla risata che infondeva allegria, dalla dentatura perfetta, bianca e seducente, dalle mani minuscole, con dita pallide e magre, che terminavano con unghie come uncini. Involontariamente se la figurava impegnata in frenetiche spirali, tra colpi di tacco e di tallone ai quali metteva fine, alzando le mani, con un impetuoso «Voi­ là!» «Il tempo sistema tutto» gli aveva detto, nel locale

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Los 36 biliares, Joaquin, il miglior mancino del tavolo verde, suo amico da sempre, al quale la vita girava bene per puro caso, come in un’involontaria carambola. «Io non ho né la sua fortuna né la sua abilità, ma ho Car­ men» rifletté allungando risolutamente la mano. In quel momento venne scosso da una detonazione. Ricordò poi che nella Recoleta rendevano omaggio a un militare morto. Come se l’inattesa cannonata l’avesse prevenuto da qualsiasi soprassalto, rimandò lo sparo fino a che non avesse letto una seconda volta l’annuncio. Gli diede una scorsa senza farsi illusioni, ma quando giunse al nume­ ro di telefono e all’esortazione «Ci chiami immediata­ mente», si disse: «Perché no? Sono troppo scettico per oppormi al niente», e per semplice curiosità, per vedere se in quella circostanza la vita gli stesse proponendo un’avventura, chiamò. Risposero immediatamente. — Vuole fissare un colloquio? — gli domandò una vo­ ce maschile, stanca ma serena. - Questa settimana ho tutti i giorni occupati... a meno che non venga subito. Probabilmente perché era turbato, capì che gli veni­ va offerta un’opportunità. — Potere... posso — balbettò. — Prenda nota. — Un attimo... — Avenida de Mayo — dettò la voce stanca. Almeyda annotò con cura il numero, il piano. - Fatto. - Se non vuole aspettare, non indugi, per favore. Prese l’orologio, le monete dentro il posacenere, il portachiavi che gli aveva regalato Carmen, inumidì il

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fazzoletto con l’acqua di Colonia e, nel mettere ordine sulla scrivania, vide il libretto degli assegni. «Lo porto con me» pensò. «Dopotutto, non morirò senza pagare il sarto». Visto che sarebbe andato a Callao a prendere un taxi, la sartoria era di strada. Il portinaio lo intercettò con grave deferenza. — La signorina Carmen — annunciò — le ha lasciato una busta. Vado a prenderla. - Me la darà più tardi, al ritorno. Si allontanò lungo la strada prima che il portinaio avesse il tempo di protestare. Entrò nella sartoria. Il sar­ to gli chiese: — Posso mostrarle un taglio di moda? — Non credo di aver bisogno di nuovi vestiti — rispo­ se. - Sono venuto a pagare, nulla di più. La sorprende? — Nossignore, sorprese uno ne può avere quante ne vuole. Appena uscì in strada trovò un taxi libero. Lo prese, diede Pindirizzo e commentò tra sé: «Sono fortunato. Tanto per dire come mi vanno le cose, se penso di aver fortuna solo quando riesco a prendere un taxi». Con il tassista parlò degli annunci che si leggono sui giornali. — Lei che ne pensa? — chiese Almeyda. — Sarà il ca­ so di fidarsi? - Mia moglie li legge sempre e dovrebbe vedere le occasioni che trova. Se protesto che a casa di cianfrusa­ glie non ne entra più nemmeno una, tanto ne siamo pie­ ni, mi confonde con qualche uscita inaspettata, tipo: conserva che un giorno trovi, e mi ricorda che grazie a

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un annuncio mi ha comprato il cinturone elettrico che ho indosso anche adesso. Il tassista sembrava molto concentrato su quello che diceva, perché arrivato all’Avenida de Mayo si mostrò sorpreso che per strada non ci fossero auto e solo per un pelo evitò lo scontro; un suo collega, per evitarlo, andò a schiantarsi contro un autobus. Misero fine a questa par­ te dell’episodio ferro e cristalli in strepitante successione. Quando scese dalla macchina, Almeyda si sentì le gam­ be molli; ne aveva tutte le ragioni: prima, la scarica in onore del militare morto; poi, lo scontro. Si disse che per l’apprensione causata dal rumore e dallo scossone, quel pomeriggio non avrebbe avuto la forza di premere il gril­ letto, ma che se fosse arrivato vivo fino a notte avrebbe nuovamente incontrato Carmen. Al 1200 di Avenida de Mayo, alla ricerca della porta corrispondente al numero che aveva annotato sul foglio di carta, giunse a pochi me­ tri dal teatro Avenida. — Che destino. Gli stessi posti di sempre — esclamò. — Dovrei tornarmene a casa —. Dato che era arrivato fino a lì, si disse che a quel punto tanto valeva verificare cosa volesse proporgli il truffatore del­ l’annuncio. Nella hall d’ingresso avvertì un vago odore sgradevole, come se il portinaio stesse cucinando con del­ la formalina; salì fino al quarto piano; lesse «Dottor Edmundo Scotto» su una targa di bronzo che gli parve fune­ raria; seguì una ragazza, vestita da infermiera, fino a un ambulatorio, o un ufficio, con le pareti coperte di libri, dove un vecchietto in camice, da dietro una scrivania su cui c’erano un’infinità di fogli e un vassoio con un caffel­ latte completo, gli annunciò con la bocca piena:

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— L’aspettavo. Sono il dottor Scotto. Era, soprattutto, minuscolo («Sembra fatto su misura per Carmen», si disse Almeyda), ma anche debole e dal colorito cadaverico. - Sono venuto per l’annuncio. — Mi perdonerà se non la invito — si scusò Scotto. — Bisognerebbe ordinare un vassoio per lei nella latteria dietro l’angolo, ma si fanno attendere parecchio. Sopra la testa del medico, sulla parete in fondo, era appeso un quadro molto cupo che raffigurava Caronte con un passeggero, sulla sua barca, o un gondoliere che, lungo un canale di Venezia, trasportava un malato o forse un morto. — Sono venuto per l’annuncio — ripetè Almeyda. — Mi perdona se mangio? — indagò il dottore mentre tagliava il pane e lo bagnava nel latte. — Il caffelatte freddo non glielo raccomando! Parli, per favore. Mi di­ ca tutto ciò che le succede. - Questa è bella - rispose Almeyda, con un’irritazio­ ne incomprensibile, acuita, probabilmente, dalla fragi­ lità del medico. - Lei mette un annuncio alquanto sibil­ lino, riconosciamolo, io mi prendo il disturbo di venire fino al suo ambulatorio, con la certezza di non farmi la minima illusione, e adesso lei se ne esce dicendo che so­ no io a dover dare delle spiegazioni. Il dottor Scotto si passò il fazzoletto dapprima sul baffo bagnato di caffelatte, poi sulla fronte, sospirò e quando era sul punto di parlare bagnò un croissant nel caffelatte, morse e masticò. Infine osservò: — Io sono il medico e lei è il mio malato.

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— Io non sono malato e men che meno suo. - Prima di prescrivere la cura, il medico ascolta il malato.

- Nel suo annuncio lei stesso ha descritto, con una certa esattezza, perché negarlo?, la mia situazione. Co­ s’altro dovrei aggiungere? Il dottore chiese con improvviso allarme: — Non avrà problemi di denaro? — No, non è questo. Una donna. — Una donna? — Scotto recuperò l’aplomb. — Una donna che non l’ama? La donna è mobile? Per cortesia, signore, non mi distragga con simili fesserie. — Una donna che mi ama. — Mi permetta allora di consigliarle uno psicanalista — scrisse un nome e un indirizzo sul ricettario, — affin­ ché non perda l’unica occasione di essere felice che ri­ mane a noi uomini in un mondo che volge alla fine: la formazione, il consolidamento della coppia. — Ho capito bene quello che sta cercando di dirmi? — chiese Almeyda e lentamente si alzò. - Non la prenda così -. Contratto, Scotto lo guarda­ va dal basso. — È così grave?

— Irrespirabile. Sono vivo, ma solo provvisoriamen­ te, perché ho letto il suo annuncio sul quotidiano. - Non può nascondersi, per un mese, in casa di un amico? Il tempo sistema tutto. - Ho un amico, per l’appunto, che mi ripete sempre questa frasetta; ma né lui né lei conoscete Carmen. 6 In italiano nell'originale [n.d.t.].

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— Chi? - chiese Scotto, accostando una mano tesa all’orecchio. — Non importa dottore; se non può propormi nulla, me ne tomo a casa. — Il mio sistema ha come fondamento il principio ir­ refutabile che il tempo sistema tutto. In sintesi, gentile signore, io la addormento e la congelo. Quando si risve­ glierà (dopo un sonnellino di cinquant’anni o cento) la situazione si sarà evoluta, i nemici avranno battuto la ritirata. Insisto, questo sì, sul fatto che lei sta perdendo quella che io comunemente chiamo la grande opzione della coppia. Il ricongiungimento ultimo della coppia sarà sempre il mio irrinunciabile proposito. — Va bene. Me ne torno a casa. — Non se la prenda, non insisto. Per mostrarmi colla­ borativo le segnalerò, nel mio sistema di sonno conge­ lato, un vantaggio che il suo spirito curioso saprà ap­ prezzare: l’occasione di fare turismo nel tempo, di cono­

scere il futuro. — D’accordo. Se mi congela subito, accetto il sonno di cent’anni. — Non abbia fretta. Innanzitutto, procederemo a esa­ minarla approfonditamente. Le raccomando un labora­ torio serio, in cui le praticheremo radiografie e analisi a prezzi interessanti. Devo accertarmi che il suo organi­ smo sia in grado di resistere. — Il mio organismo resisterà meglio a una pallottola? — Non lo dica neanche per scherzo. Si metta al mio posto. Che ne sarà della reputazione del dottor Scotto se lei schiatta? Inoltre, stimato signore, io ignoro di qua­

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li mezzi disponga, ma suppongo che dovrà prendere qualche provvedimento per farvi fronte. A occhio e croce calcoli: cent’anni di affitto, più le cure e la con­ servazione. - Le rilascio un assegno per l’ammontare di tutto ciò che ho in banca.

Il dottore esaminò, senza fretta, il libretto. Infine di­ chiarò: — Così mi salda un anno o, se il costo della vita non sale, massimo due. Dopo comincia a costarmi. - Non si preoccupi. Me ne torno a casa. Sono venu­ to qui per semplice curiosità, ma il mio piano è perfetta­ mente organizzato. - Per quello che mi riguarda, ho un grande difetto. Sono quello che si dice un uomo debole, che si lascia convincere dall’ultimo che parla. Però mi ascolti bene, se domani finisco i soldi, chi ne esce danneggiato è lei. Non la lascerò morire ma la sveglierò, forse prematuramente. - Non si preoccupi. Me ne torno a casa. - Quella casa, della quale continua a parlare, è di sua proprietà? Dispone di altri beni? Quanto più cospicui, tanto meglio. Chiamo il notaio, che sta nello stesso edi­ ficio, lo consultiamo e lei mi fa una delega. Portò infine a termine le pratiche legali. Pensò che se il dottor Scotto si fosse proposto di innervosirlo e sfiancar­ lo, prima del congelamento, non avrebbe potuto sceglie­ re un modo più efficace. Neppure di pomeriggio, quando aveva impugnato la pistola, era stato tanto nervoso. Un assistente del medico lo portò in una stanzetta e cominciò ad auscultarlo. Almeyda assunse un’aria di

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grande calma, quasi di prostrazione; ma il cuore gli bat­ teva in petto. «Se non mi rilasso» pensò «chissà che ma­ lattia potrà scoprirmi». Per tranquillizzarsi ricorse al suo metodo abituale di immaginare verdi praterie e alberi. L’assistente gli misurava la pressione e conversava. - Di cosa si occupa il signore? — Tengo un corso di storia presso l’Instituto Libre — rispose Almeyda. - Antica, moderna e contemporanea. - E adesso potrà aggiungere futura - disse l’uomo, forse senza rispettare il rigore logico. — Perché mi sem­ bra di aver capito che il signore sta per prendere un vo­ lo diretto per il prossimo secolo. Che gliene sembra? — Di come sarà il futuro? — chiese Almeyda con un tono che simulava indifferenza. — Non ci saranno lavoratori. Non ci saranno schiavi. Del lavoro s’incaricheranno le macchine. - Dietro la macchina ci sarà l’uomo che la maneggia. - C’è un qualcosa che mi fa diffidare della meccaniz­ zazione. Saranno gli animali a lavorare. 0 degli esseri di un altro pianeta, esseri inferiori, portati qui apposita­ mente. - Dai mercanti di schiavi... - Qualcosa di meglio, le propongo qualcosa di me­ glio: agli uomini afflitti, che non vogliono far fronte al­ le contingenze della vita, verrà infusa con qualche me­ todo scientifico la felicità, la felicità pura e semplice, a patto che lavorino. Vale a dire che schiavi felici lavore­ ranno per il resto degli uomini. — Sa una cosa? — commentò Almeyda, come se parlas­ se da solo. - Mi sa che il futuro non mi piace per niente.

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- E tuttavia, sta per andarci con un volo diretto. Lo fecero passare in un’altra stanza. Lo fecero sdraiare. Lo circondarono Scotto, l’assistente e tre infermiere. Pri­ ma di addormentarsi guardò, sulla parete di sinistra, il ca­ lendario e si disse che in quel 13 settembre del 1970 stava intraprendendo l’avventura più strana della sua vita. Sognò che scivolava lungo un burrone innevato e che proseguiva poi lungo un angusto sentiero fino alla bocca di una caverna; dall’oscurità gli giunse un rumo­ re di risate.

— Sono sveglio — affermò, come se si stesse difen­ dendo, - e non so nulla della bella addormentata. Lo circondavano due uomini e una ragazza. Subito si domandò se fossero state quelle persone a parlare della bella addormentata o se stava sognando. — Formicolio ai piedi? — disse uno degli uomini. — Le si sono addormentate le dita di una mano? disse l’altro. - Vuole una coperta? - disse la ragazza, Si piegarono per esaminarlo da vicino. Temette, per un istante, che quegli sconosciuti gli stessero occultan­ do con i loro corpi qualche strano servitore, un animale o un dispositivo. Appena cercò di alzarsi, scorse tra due teste il calendario. Desolato, si lasciò cadere sul cuscino. - Piano, piano — disse la ragazza. — Debolezza? — chiese uno degli uomini. — Nausea? Vertigini? — chiese l’altro. Per dispetto non rispose. Lo avevano sottoposto a una semplice prova o, peggio ancora, l’esperimento era falli­ to; il calendario continuava a segnare il 13 settembre.

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- Voglio parlare con Scotto — disse senza nasconde­ re il suo abbattimento. — Sono io — rispose uno degli sconosciuti. - No... - Almeyda fece per protestare, ma dovette ri­ mediare una confusa spiegazione, perché d’improvviso avvertì un dubbio. Quando si era addormentato, il ca­ lendario era alla sua destra o alla sua sinistra? Adesso era alla sua sinistra. Disse: - Voglio alzarmi. Si alzò in piedi, scostò gli sconosciuti, non senza va­ cillare mosse qualche passo in direzione della parete. Nel calendario, sotto il numero 13, lesse una data incre­ dibile. Aveva dormito cent’anni. Chiese uno specchio: si trovò pallido, con la barba un po’ lunga, ma più o meno quello di sempre. Rimaneva, di certo, la possibilità che fosse tutto uno scherzo. — Adesso mi beve la pozione — disse la ragazza, e gli mise tra le mani un enorme bicchiere di latte. - Me la beva tutta d’un sorso - disse uno degli uomini. Sembrava latte, ma non lo era; sapeva, forse, di pe­ trolio. — Ha già bevuto il primo bicchiere — disse l’altro. - Prima di bere il secondo, trascorrerà qualche istan­ te a riposo, nella sala d’attesa - disse la ragazza. — Dopo di che ci faremo due chiacchiere amichevoli — disse uno degli uomini. — Vogliamo prepararla — disse l’altro. — Vogliamo metterla al corrente — disse la ragazza — della drammatica riduzione dei suoi mezzi economici e di quello che troverà là fuori. — Non è preparato. Prima dovrà riposare un po’ e

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rafforzarsi con la seconda pozione - disse uno degli uomini. - La faremo andare in sala d’attesa - disse l’altro. La ragazza aprì la porta e dichiarò: - È occupata. — Lo so — replicò uno degli uomini, — ma sono con­ temporanei. Anche se parlano, non c’è pericolo. — Entri — gli disse l’altro. Stava per entrare ma si fermò, possibile che non si fosse ancora svegliato? Se non stava sognando, come poteva sorridergli, impalata in mezzo alla saletta?... Un attimo dopo, senza dubbio per nascondere la smorfia in cui si stava trasformando il sorriso, Carmen animosa­ mente s’agitò in spirali e colpi di tacco, alzò estatica le braccia e infine le aprì, per offrirglisi tutta, al grido di: — Voilà. Prima silente, Almeyda articolò: - Non mi aspettavo... — Vuoi forse negare la tua generosità e il tuo amore? - chiese Carmen, ormai sicura. — Ho scritto quell’orribile lettera d’impeto, in un brutto momento. Non so co­ me dirtelo: ho creduto di soffocare, di non poterne più. Ho pensato, che orrore!, al suicidio, perdonami!, e in quel momento ho visto l’annuncio del dottor Scotto, so­ no venuta a fargli visita e l’ho convinto a farmi addor­ mentare e ti ho lasciato quella lettera orribile, e tu l’hai letta, non mi hai serbato rancore, mi hai perdonato, hai voluto dormire mentre anch’io dormivo, pensiamo di aver dormito insieme, amor mio, e adesso, davvero e per sempre, conta su di me.

L'EROE DELLE DONNE

«Ahimè! L'amore delle donne! Si sa...»

Byron, Don Giovanni, il, cxcix

I fatti avvennero nel ’42 o nel ’43. Quello di cui sono certo è che l’ingegner Lartigue arrivò alla fine di mag­ gio, e anche del fatto che era stato un anno piovoso. La campagna - non la direi bassa in quella regione, ma pianeggiante - era un’unica palude che si estendeva fi­ no all’orizzonte: un mare di fango o, a voler essere più precisi, un’isola di fango. Tale era il nostro isolamento, che neanche i commessi viaggiatori ci arrivavano. Potevamo ispezionarla, ma non lavorarci (salvo nei capannoni); sicché, il tempo per pensare ci avanzava nel lungo inverno che avevamo davanti. Con prospettive così nere, le nostre riflessioni non potevano che essere tristi e, nell’affanno di interromperle, quasi tutti i gior­ ni andavamo nella rivendita, sfidando il freddo e la piog­ gia. Non so perché rincontro con amici, o conoscenti, che stavano vivendo la stessa situazione, ci rinfranca­ va. 0 forse a rinfrancarci era il gin, come insidiosamen­ te insistevano le donne. Chi è che vince sempre nella diffusione di voci calunniose e azzardate? Se qualcuno

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finiva per terra, la colpa dell’incidente non la attribui­ vano al fango, ma ai bicchieri. Sembra sia successo ieri, anche se da allora sono tra­ scorsi più di vent’anni, la qual cosa prova forse l’esat­ tezza di una - o meglio, più di una - delle affermazio­ ni dell’ingegner Lartigue. L’ingegnere, l’ingegnerino, come lo chiamavano alle sue spalle, apparve in mezzo a noi in uno di quei momenti in cui non arrivava nes­ suno, se si escludono gli uccelli di palude. Arrivava da Buenos Aires con le valigie piene di libri e con teorie as­ similate a metà, che, esposte nella rivendita di Constan­ do, un capannone di lamiera sperduto in aperta campa­ gna, di fronte a un capannello di paesani preoccupati per la pioggia, per lo stato del bestiame e per l’inverno in arrivo, o intorpiditi dal gin, apparivano stravaganti e persino fuori luogo. Una di quelle sere l’ingegnere af­ fermò :

— Il tempo non ha sempre la stessa durata. Una notte può essere più corta o più lunga rispetto a un’altra not­ te con lo stesso numero di ore. Se qualcuno di voi non mi crede, lo chieda a un farmacista che di cognome fa Coria, che vive a Rosario. E c’è di più: il presente può combinarsi, alla prima disattenzione, con il passato e, probabilmente, con il futuro. I racconti di molti visiona­ ri in buona fede non m’indurranno a mentire. Dichiarazioni come questa provocano malessere nei presenti, che non capiscono da dove vengano né sanno come prenderle. Un testimone qualificato, il vecchio Panizza, confidenzialmente mi formulò il verdetto che ri­ fletteva il sentire generale:

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- Presuntuoso il ragazzino. Tuttavia, qualche tempo dopo, un altro dei presenti a quel raduno, un uomo meritatamente rispettato, oggi or­ mai alle soglie della vecchiaia, nel commentarla confessò: — L’esperienza dimostra che se cerco di ricordare il volto di Laura, a volte mi appare appannata e molto lon­ tana, ma quando meno me l’aspetto di notte la sogno, nitida come se l’avessi vista un attimo prima e sicura­ mente molto reale. 0 non c’entra niente? Probabilmen­ te non ho capito quello che ha detto Lartigue. È innegabile che quando l’ingegnere si stabilì in zo­ na, partì con il piede sbagliato. Quella prima volta che lo vedemmo nel negozio di Constancio (o era quello di Basano?) ci propinò una disquisizione sulle donne. Nei nostri incontri quel tema propendeva per il tono festo­ so e generava racconti divertenti, qualche battuta, degli aneddoti. Perciò, un discorso prolisso e, peggio ancora, serio, sulle prime non poteva che provocare sconcerto e, alla lunga, fastidio. Credo di esprimermi anche a nome degli amici presenti in quella occasione se dico che at­ tendevamo fiduciosi una parola, un gesto che la buttas­ se sul ridere. Non venne. Lartigue assicurò che un uomo e una donna che van­ no avanti insieme su questo mondo di Dio sono separa­ ti da un abisso e che se qualche volta si trovano d’accor­ do, è perché c’è stato un malinteso, senza dubbio volon­ tario. Per concludere, disse: — Quanto più l’uomo è orgoglioso dei suoi impegni, non è strano che per la donna non vi sia ragione di al­ legria.

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Tenendo presente che gli astanti non erano persone delicate, sento di poter affermare che erano infastiditi. Credo che proprio quella volta appiopparono all’inge­ gnere il soprannome di Colibrì. Ho sempre saputo che un giorno avrei raccontato la storia che state leggendo. Persino per i narratori di rac­ conti fantastici arriva il momento di capire che il primo obbligo dello scrittore consiste nel commemorare quei pochi avvenimenti, quei pochi luoghi, e, più di ogni al­ tra cosa, quelle poche persone che il destino ha mesco­ lato definitivamente con la sua vita o anche solo con i suoi ricordi. Al diavolo le Isole del Diavolo, l’alchimia sensoriale, la macchina del tempo e i maghi prodigiosi! ci diciamo, per dedicarci con impazienza a una regione, un paesello, un amato distretto a sud di Buenos Aires. Quando si tratta di una storia vera, che lascia traspa­ rire misteri non deducibili dalle creazioni della fantasia, il nostro impulso di registrarla si fa più perentorio. D’al­ tra parte, la scoperta di una crepa nell’imperturbabile realtà ci attrae tutti quanti. Per raccontare con ordine quanto è successo devo co­ minciare da Laura, da Verona, dall’ingegnere e dalla ti­ gre. Di Laura dirò il minimo indispensabile. Se mi la­ sciassi andare, su di lei potrei scrivere un libro dimenti­ cando tutto il resto. Don Nicolas Verona - cinquantan­ ni, volto rasato, incedere tranquillo, calzoni da gaucho immacolati, mani invariabilmente pulite - era all’epoca un dirigente dell’opposizione di riconosciuta autorità, oltre che un rispettato residente del settimo dipartimen­ to di un distretto al quale ho accennato qualche para­

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grafo fa. Nonostante sapessimo che aveva affittato La Pacifica da un vanitoso signore che viveva a Parigi, per tutti noi don Nicolas era il proprietario di quella mode­ sta e decorosa tenuta (modesta per via delle case, pro­ prie di una tenuta agricola) e dei suoi considerevoli tre­ mila ettari di campagna pianeggiante ma ben popolata. Osservatori opportunamente sistemati allo scopo di ot­ tenere informazioni fededegne attribuivano alla sua pen­ na i brani oratori di non pochi prestigiosi correligiona­ ri. In ogni caso, ci risulta che Verona, uomo di cultura superiore alla media, senza prendere distanza dalle con­ vinzioni che gli aveva inculcato Civiltà o barbarie, ave­ va riunito una modesta biblioteca su Quiroga e le sue battaglie contro il generale Paz. Per completare l’imma­ gine di quest’uomo felice, manca solo l’aggiunta di un fattore intimo, quello più importante: al suo fianco c’era Laura. Quanti la conobbero e quanti, fra le nuove genera­ zioni, hanno avuto il privilegio di passare dall’archivio dell’Ottica de Filippis, nell’Avenida san Martin a Las Flores, per contemplare la sua fotografia ritoccata, man­ terranno spontaneamente viva la leggenda di questa giovane straordinaria, di nota bellezza, colta e raffina­ ta, che sembrava destinata a distinguersi non solo nella città capoluogo dell’omonimo distretto, ma anche a La Piata e a Buenos Aires, e che si adattò, senza le amarez­ ze cui sono inclini i ragazzi d’oggi, a ritirarsi nella soli­ tudine di una tenuta, insieme all’uomo autorevole che la sorte le aveva riservato. Indubbiamente, lui sua mo­ glie l’amava da morire.

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Come aveva osservato Verona, Laura non era un «fio­ re di serra». Si erano sposati da poco quando, a una fe­ sta di beneficenza per la Società di Sviluppo, lui vinse una gara di tiro al bersaglio. Dopo il trionfo, la invitò a fare qualche tiro. Laura migliorò tutti i record. Riguardo all’ingegnere, inutile negare che i nostri sentimenti erano antitetici. Nonostante provenisse da una vecchia famiglia della zona, era stato educato in città e di certo tutti noi, quelli che venivano da lì, gli au­ guravamo di cuore il fallimento. E poi, perché mentire, eravamo stanchi degli agronomi, gli ingegneri di secon­ da generazione, così li chiamavamo, che guardano l’uo­ mo di campagna dall’alto di un’arroganza che nasce dai libri, pura teoria della quale, alla lunga, si servono per vivere alle spalle di vedove o emarginati dello stesso ge­ nere, o, se sono possidenti, per sperperare l’eredità la­ sciata loro dai genitori. A peggiorare il quadro, tanto deplorevole quanto noto, era il fatto che Lartigue fosse un ragazzino nervosissimo, che non faceva che vantare letture strampalate e annoiava la gente con spiegazioni che nemmeno lui capiva, sulla relatività delle cose del mondo, su un certo libro in cui si diceva che i sogni in parte sono profetici e si dimenticano subito (che novità, non è vero?) e che per questo è meglio scriverseli appe­ na svegli, requisito che lui seguiva alla lettera, su un quaderno di marca Bachiller che vicini rispettabili vide­ ro con i loro occhi. Declamava anche la teoria di un’al­ tra dimensione, nella quale qualcuno, probabilmente un fuggiasco, si era rifugiato una volta, per tornare, passa­ to il pericolo, uguale a prima ma mancino, e altri spro­

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positi dello stesso calibro. Tra Verona e Lartigue la riva­ lità era alimentata da motivazioni particolari: l’inge­ gnere era conservatore, Verona radicale. In quegli anni tra gli uni e gli altri c’era molto risentimento, molto astio. D’altro canto, don Nicolas non poteva fare a meno di riconoscere che i Lartigue - aveva conosciuto il padre e prima ancora il nonno - erano delle bellissime perso­ ne, quella che si dice gente di buon gusto, e che il ragaz­ zo in questione era arrivato con buona volontà e le mi­ gliori intenzioni, cosa che in definitiva ha il suo peso. A questo il lettore aggiunga un’inezia che, nel corso delle conversazioni di questi due uomini così diversi, finì per diventare un vincolo d’amicizia. In effetti, non tardaro­ no a scoprire una comune passione per i film di con­ voys1, o di cow-boys, come adesso li chiamano alcuni. Don Nicolàs li aveva visti a La Piata, preferibilmente al cinema delle diagonali, intorno al ’29, Lartigue undici anni dopo, in varie sale di Buenos Aires, tra le quali ri­ cordava l’Hindu. Don Nicolàs riteneva insuperabili i film con Tom Mix e quelli con William Hart; Lartigue mostrava una chiara propensione per un film più mo­ derno, Ombre rosse. Approfondirono l’argomento e giun­ sero a un accordo da galantuomini, accordando la pre­ dilezione di entrambi ai film con William Hart rispetto a quelli con Tom Mix, che Lartigue, in realtà, non ricor­ dava o non aveva visto, e il credito, da parte di Verona, a Ombre rosse, che si impegnò formalmente a vedere non appena l’avessero dato a Las Flores o ad Azul. 7 Convoy significa «convoglio», da cui, per assonanza con cow-boy, la felice denomi­ nazione [n.d.t.].

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Non credo che la segreta propensione - sempre che sia possibile dissimulare questi sentimenti - di Lartigue per la signora Laura infastidisse don Nicolas. Di fatto, quell’uomo maturo e sicuro di sé sapeva che in molti ave­ vano desiderato, o desideravano, sua moglie; non per questo perdeva il suo aplomb. Quanto all’aspetto fisico, Lartigue non era uno della sua epoca: sembrava, piuttosto, un uomo inspiegabil­ mente sopravvissuto agli anni Quaranta del 1800, se non al 1800. Come disse un’amica comune, che conser­ vava la sua effìgie in un reliquiario: «In mezzo a quella combriccola con il taglio all’americana, lui era l’unico dal profilo romantico». Fu, dunque, nell’emporio di generi diversi di Basano, o forse nella rivendita di Constancio, che don Nicolas e l’ingegnere si incontrarono per la prima volta. Don Ni­ coläs indossava, perché era più comodo che infilarselo sul braccio, uno dei pettorali della sua coppia di cavalli. Era un modello che non si fabbricava più e lo stava por­ tando al negoziante perché cercasse di procurargliene uno uguale nella selleria di Arias, o in quella di Casimi­ ro Gómez. Vicino al bancone, di spalle alla porta d’in­ gresso, circondato a ferro di cavallo da un gruppo di clien­ ti, Lartigue si era intestardito, e voleva anche saperne di più sulla tigre che, stando alle voci o alla leggenda, va­ gabondava allora per le campagne che confinano a est con il fiume Gualicho e i distretti di Pila e di Rauch. Che voglia di parlare di tigri poteva avere quella gente, pre­ occupata solo di comprare balle di panni, di portare il be­ stiame al pascolo o di lasciarlo morire? Eppure, stettero

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ad ascoltarlo perché prevalse la buona educazione, com’è abituale nell’uomo di campagna. Basilio Jara affer­ mò che Chorén aveva visto la tigre vicino alla villa pa­ dronale, oggi un rudere, della vecchia tenuta di Bruno, e anche ai margini della laguna Grande; e che Bathis, un pomeriggio che tornava in carrozza verso i suoi possedi­ menti del Martillo, l’aveva scorsa (voleva dire scorta) da qualche parte in mezzo a quei terreni stopposi, ricchi di pernici e porcellini d’india, che si estendono per più di tre leghe fino al fiume, che lì scorre incastonato tra burroni a picco. L’ingegnere insisteva: — Non voglio contraddire nessuno. Men che meno un amico di famiglia come Basilio, del quale ho sempre sen­ tito parlare lodevolmente e con affetto. Ma non nego che la tigre ponga qualche interrogativo. Dall’alto (poiché la porta era bassa e dovette inclinar­ si leggermente per entrare), don Nicolas domandò: - Visto che il signore, pur non volendo contraddire i testimoni che l’hanno vista, non crede in questa tigre, dovrebbe favorirci la sua opinione. — Davvero non so cosa pensare — rispose in tutta na­ turalezza l’ingegnere. In controluce, con indosso il pettorale, don Nicolas si configurava come un’apparizione incomprensibile e mi­ nacciosa. La sua voce calma, adatta a fronteggiare qual­ siasi spavento, insistette con le domande: — Il signore sospetta forse che si tratti del prodotto dell’immaginazione dei compaesani? Non si può nega­ re che la storia di altre regioni racconti di miti simili a questo. Dico bene?

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— A me hanno detto che un cane pericoloso per le greggi viene ucciso immediatamente. L’ufficiale Baroffio, che riuniva nella sua persona la qualifica di capo e di truppa del nostro distaccamento di polizia, spiegò:

- Un cane del genere può diventare molto dannoso. Era grosso e biondo. La sua enorme bocca sorrideva con la soddisfazione di chi può chiarire tutto ammire­ volmente. — E una tigre? — chiese Lartigue. — Una tigre può fare un macello — concesse Baroffio. Don Nicolas sorrise affabile. — Sono certo che l’ingegnere non vuole offendere nes­ suno — assicurò, — ma in fondo deve pensare che se sul­ l’argomento non stiamo mentendo, siamo per lo meno stati bellamente presi in giro. Lartigue fece cenno di no con la testa. Poi parlò len­ tamente, in tono di scusa: — Succede semplicemente che ho sempre creduto che l’ultima tigre della quale si è avuta notizia nel Sud del­ la provincia venne uccisa nel 1882, non lontano dai li­ miti dei distretti di Olavarria, Bolivar e Tapalqueé. Quan­ do ero ragazzo vidi la pelle, inchiodata alla parete, nel­ l’ufficio del vecchio ingrosso di Sauce. Ve lo ricordate quell’ingrosso? Capirete che il fatto che sessant’anni do­ po compaia una nuova tigre risulta quasi incredibile per uno che ha sempre creduto nel progresso. Ovvio che l’uomo romantico che è dentro di me non vorrebbe che crederci. - Non c’è miglior modo per togliersi il dubbio di una

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spedizione personale. Basta accamparsi per qualche gior­ no, personalmente, in questo caso il signor... A questo punto l’ingegnere si presentò e Verona fece altrettanto, e alle presentazioni seguirono parole cor­ diali che decantavano il profondo vincolo di amicizia e di reciproca stima tra don Nicolas Verona e la famiglia Lartigue. Sembrava che questo affiorare di sentimenti genero­ si avrebbe modificato il corso degli avvenimenti; ma lo stesso Lartigue, con la sua stravagante ossessione per la tigre, indusse Verona a ricominciare la sua maliziosa tattica d’istigazione. - È molto semplice - disse. — Basta accamparsi nel­ la vecchia casa padronale di Bruno. Poi percorrere len­ tamente, a piedi, quello sterpalo e nel pomeriggio, un attimo prima che il sole tramonti, acquattarsi a terra vi­ cino alla laguna, con la speranza che la tigre compaia, indotta dalla sete. Tutta l’operazione richiederà qualche giorno. Il consiglio era malintenzionato. Evidentemente don Nicolas, l’uomo giudizioso che tutti conosciamo, in quel momento si stava lasciando trascinare dalla tentazione di burlarsi del giovane ingegnere. Chi non è attratto dal­ l’idea di prendersi gioco di colui che arriva dalla città? Verona sapeva perfettamente che l’ingegnere aspirava ad essere considerato uno di noi - era nei suoi diritti, co­ me discendente di una famiglia che da generazioni si era stabilita nella zona - e per pura malevolenza gli metteva degli ostacoli di modo che non riuscisse a rag­ giungere la meta. Se invece che cercarsi un lavoro s’in­

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tratteneva a spiare tigri più o meno leggendarie, l’inge­ gnere doveva accettare l’idea che avrebbe provocato le beffe dei compaesani. Non dimenticheremo come si scre­ ditò il maggiordomo della fattoria Quemado, un certo barone Englehart, quando corse voce che trascorreva i fine settimana a caccia di tacchini, immerso nella lagu­ na, con una tenuta impermeabile specialmente impor­ tata dalla Germania, l’acqua che gli arrivava agli ango­ li della bocca e un cespuglio di persicaria per camuffare la testa. A volte credo che l’ingegnere non fosse così sconsi­ derato da credere nel progresso. Beffe balorde, come quel­ la di incitarlo a trascorrere qualche giorno ingoiando mosche tra vecchi ruderi, che all’epoca riscuotevano l’approvazione generale, oggi verrebbero scartate in quan­ to meschine. La partecipazione di don Nicolàs, uomo generoso e buono, a uno scherzo miserabile mi imba­ razza un po’ e mi sembra, senza dubbio, che non fosse da lui. È quanto dicevo: questi scherzi non erano da lui, ma erano parte del carattere dell’epoca. Una persona che allora lo disapprovasse doveva essere davvero su­ periore, come Laura. Quanto a me, confesso che figura­ vo tra i gongolanti spettatori. Di certo la beffa, lo scherzo o che dir si voglia, si ri­ torse contro lo stesso don Nicolàs. AH’inizio in modo giocoso; poi non più. Devo ammettere che quanto alla suddetta approva­ zione generale, ci fu un’altra eccezione. In effetti, l’uffi­ ciale Baroffio disse: — Visto che in questo periodo non abbonda solo l’ac­

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qua, ma anche i ladri di bestiame, vado in campagna molto spesso per cercare di disturbare un po’ quella gen­ taglia —. Fece una pausa e, subito dopo, con tono più vi­ vace, si rivolse a Lartigue: - Uno di questi giorni mi fac­ cio un giro tra le rovine di Bruno e se vedo la tigre glie­ lo dico perché mi accompagni a sparare qualche tiro al bersaglio. Che gliene pare? Evidentemente, stava cercando di salvarlo dalla trap­ pola che gli veniva tesa. Non mancò, tuttavia, chi at­ tribuì l’intervento di Baroffio a una presunta cattiva volontà verso Verona. La verità è che anche in zone come le nostre, dove tutti sono amici, i contrasti, per non dire gli scontri, tra polizia e opposizione sono ine­ vitabili. Le vittime non si lasciano salvare. Lartigue chiese a Verona: - E per accamparsi in quella tenuta, bisognerà chie­ dere il permesso al signor Bruno? Qualcuno commentò beffardamente: - Se fosse ancora vivo, quanti anni avrebbe? — Cento, a dire poco — rispose Jara. - Come si suol dire, non gli mancava niente - osser­ vò don Nicolas. — Era imbroglione e attaccabrighe. E scomparso intorno al 1908 senza lasciare traccia. Baroffio puntualizzò: — Lasciando aperte però una serie di cause nei tribu­ nali di Azul. Non è ancora chiaro a chi appartengano le sue proprietà. — Bruno era un uomo famoso da queste parti — spie­ gò don Nicolas.

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— Sono sicuro — disse Basilio — che il signor Lartigue, a casa sua, ne ha sentito parlare. — Aveva i migliori cavalli da corsa di Pardo. E sem­ pre perfettamente strigliati - aggiunse Osàn. — Mi sembra di vederlo — disse don Nicolas. — Ele­ gante, con indosso il suo panciotto in tessuto fantasia mentre gioca con il frustino. Ogni tanto si concedeva di mettersi in mostra, perché gli piaceva che parlassero di lui. Giocatore e piantagrane, rissoso e donnaiolo, in re­ altà era un vicino fastidioso. Pochi giorni dopo questa conversazione, un pome­ riggio in cui don Nicolas stava lavorando nell’ufficio della sua tenuta, Laura socchiuse la porta per mormora­ re, con un sorriso leggermente imbarazzato: — Scommetto che non indovini chi è venuto a tro­ varci? Don Nicolas non lo indovinò. Chi era andato a tro­ varli era l’ingegnere, che molto prima di mettersi a se­ dere per degustare il liquore e i pasticcini che Laura ave­ va portato, su un vassoio d’argento, cominciò a parlare in modo molto disordinato. Continuava a battere, com’è ovvio, sul suo chiodo fisso: - Sono qui perché ho dei dubbi sulla tigre. Magari a lei sembrerà una mania, ma non mi darò pace finché non scoprirò se la tigre esiste oppure no. Sarebbe bello se esistesse. Chiaro che un uomo di formazione moder­ na, come me, tende allo scetticismo. Don Nicolas era profondamente infastidito da quella cattiva abitudine, così comune tra i giovani che arrivava­ no dalla città, e che proprio per questo avrebbero dovuto

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avere un’altra educazione, di attaccare a parlare di pun­ to in bianco. La sua risposta gli servi da ammonimento: - Perché non facciamo onore a questo vassoio prima di entrare nel vivo del nostro argomento? Gli sembrava fuori luogo accettare le finezze di sua moglie senza lodarle e accoglierle come meritavano. Il giovane Lartigue conteneva visibilmente la sua im­ pazienza, mentre lo rimpinzavano di biscottini, scirop­ pi e dolci. Infine, riuscì ad articolare una frase breve, che sconcertò il padrone di casa. Gli chiese di accompagnar­ lo all’escursione tra le rovine di Bruno! Se non si fosse fermato a riflettere, don Nicolas gli avrebbe domandato all’istante come poteva saltargli in mente che un uomo rispettato come lui potesse prestarsi alla pagliacciata di accamparsi da quelle parti in attesa di una tigre; ma capì appena in tempo che quella domanda conteneva in sé l’ammissione che lui, dal canto suo, gli aveva proposto una pagliacciata, sicché cacciò indietro le parole e, senza alcuna illazione, affermò che ci sono cose che per i giovani vanno bene e che per gli anziani vanno male, concludendo che la gioventù è temeraria. — Ma lei, signore, non crede che esista un reale peri­ colo? — Che i pericoli siano reali o meno, chi trascorre la notte da quelle parti deve armarsi di coraggio. — Pervia della tigre? - Prima di tutto della tigre, certo. Il bosco a tratti è fitto e si estende, verso la laguna, in una palude. Ci so­ no così tanti nascondigli da quelle parti, che la tigre è meglio non incontrarla. E un animale scaltro, che può

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sorprenderla in qualunque momento. In secondo luogo, bisogna armarsi di coraggio... - La sua signora mi diceva che la casa è abbandona­ ta e che di notte si sentono dei rumori. Verona lo guardò interrogativo. Poi disse: - La mia signora non le ha mentito. — Fantasmi? - Probabilmente è solo un vagabondo che chiede uni­ camente di essere lasciato in pace. Un povero fannullo­ ne che per difendere il proprio rifugio non si fa scrupo­ li a colpirla con una pala e mandarla all’altro mondo, se non sta attento. A quanto pareva, le spiegazioni riuscivano solo a ravvivare la curiosità dell’ingegnere inducendolo a pas­ sare quanto prima un fine settimana nella tenuta di Bru­ no. Dal canto suo don Nicolas, all’inizio della conversa­ zione, si stava divertendo come il gatto col topo; ma, credetemi, qualche smacco dovette incassarlo pure lui. Ognuno dei suoi rifiuti a partecipare alla spedizione si scontrava con l’insistenza dell’ingegnere, che ripeteva, con variazioni di scarsa importanza, la frase: «Ma lei, si­ gnore, mi accompagnerà». A peggiorare le cose, Laura, generalmente molto discreta, fece sobbalzare suo mari­ to con le parole: - Io e te lo accompagniamo. Avete sentito bene: lo accompagniamo. Giunto il momento di congedarsi, camminarono fino al palo cui era legato il cavallo di Lartigue. Non appena rimasero soli, don Nicolas guardò verso sud e commentò:

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— Per fortuna continuerà a piovere. - Sei proprio cattivo - disse Laura. - Pur di non an­ dare con lui, preferisci che continui a piovere. Se non volevi accompagnarlo, perché l’hai incoraggiato ad an­ darci? — Cosa vuoi che gli succeda a quel giovane? Due o tre giorni di piantone per una tigre che non esiste. — E le rispettive notti. Non hai pensato che qualche balordo, che non manca mai, può fargli prendere un col­ po? Ci manca solo che ci scappi una disgrazia. - Credo che tu stia esagerando, Laura -. Così gli sem­ brava, ma si sbagliava. — Questo scherzo è una ragazzata, Nicolas — lo ripre­ se sua moglie. - Una ragazzata un po’ indegna. Nel tragitto di ritorno dal palo alla casa, lui promise che ce l’avrebbe messa tutta, la prossima volta che aves­ se parlato con il giovane, per dissuaderlo dal fare la spe­ dizione. Dovette credere che quella promessa meritava un premio, perché disse: — E noi due, andiamo al cinema sabato pomeriggio? A Las Flores danno II vendicatore di Jess il bandito. Laura accettò benevolmente la proposta, pur non es­ sendo appassionata di film western. Un mercoledì, nonostante la pioggia, Lartigue ricom­ parve a La Pacifica. A nulla valsero le argomentazioni di don Nicolas. I tentativi di dissuasione funzionavano solo da stimolo. Dovette capirlo Laura, che dichiarò («per tagliare la testa al toro» come spiegò più tardi): — Ci andiamo tutti e tre. — Quando? — chiese Lartigue.

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Non si accordavano sul giorno. Stavolta fu don Nico­ las a tagliare la testa al toro. - Domani. - Porto la doppietta? — Come vuole. E una buona idea, una buona idea: io porterò il Winchester e una doppietta, per Laura. La aspet­ tiamo dopo la siesta.

L’ingegnere andò via all’istante, forse per non dare tempo ai coniugi Verona di pentirsene. Quando rimasero soli, don Nicolas commentò: — Vedrai che sabato saremo ancora lì. — Sicuramente. — Ma io e te avevamo un altro impegno. — Andare al cinema? Sei un bambino — rispose Lau­ ra con tenerezza. Di certo, il giorno successivo l’ingegnere si fece at­ tendere, la qual cosa motivò un’invettiva di don Nicolas contro «questa gioventù cresciuta nella bambagia». Nell’attesa andarono fino al capannone a vedere se il peone aveva legato il carro. Dopo aver guardato il cie­ lo, don Nicolas disse adirato: — La cosa più triste è che si sta aprendo. Aggiunse poi che la vera ragazzata era la spedizione che avrebbero intrapreso quel pomeriggio. Il carro, insieme ai cavalli, stazionava vicino al palo. - Se stiamo per fare una ragazzata - disse Laura, co­ me se stesse riflettendo a voce alta, - la cosa migliore è prenderla a ridere e non amareggiarsi. - Mi comporterò bene — promise Verona, sorriden­ do. - Non merito tanta fortuna.

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- Quale fortuna? Allora disse una frase che non avrebbe dimenticato: — Con te al mio fianco, che m’importa di quello che farà o non farà un ragazzino come Lartigue? Quando il ragazzino infine arrivò, don Nicolas lo aiu­ tò a caricare il carro con sedie, tavoli, brande, coperte e un certo numero di borse, alcune contenenti alimenti, altre attrezzi da cucina e stoviglie da tavola, le due dop­ piette e il Winchester. Dal momento in cui don Nicolas mise da parte la sua naturale irritazione nei confronti del giovane ingegne­ re, si divertì tantissimo e contribuì a fare in modo che anche gli altri si divertissero. I tre si accomodarono in serpa, la frusta risuonò nell’aria e lungo il sentiero ster­ rato, immersi nella campagna pianeggiante, s’incammi­ narono, quel tardo pomeriggio autunnale, verso le vec­ chie rovine della tigre, dove li aspettava l’avventura e la sciagura. Avevano attraversato i confini delle proprietà dei Perdido e uno dei poderi dei Constancio quando una vol­ pe corse via tra i cespugli. - Era una volpe o un cane? - domandò Lartigue. — Una volpe — rispose don Nicolas. — Credevo non ce ne fossero in zona. - Non ce n’erano, ma i giovani si sono trasferiti nel­ la capitale, la campagna si è spopolata e i predatori so­ no tornati. - Quali predatori? — Non si spaventi se incontra volpi, gatti selvatici e ogni tanto anche qualche viscaccia.

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— Le faccio notare che non ha menzionato la tigre. L’ingegnere aggiunse, con tono scherzoso, che a quan­ to pareva vivevano in posti tanto selvaggi e pericolosi quanto «lo erano stati quando erano noti per il deserto». Il viaggio fu lungo e diede loro il tempo di affrontare i temi più disparati. Parlarono dunque di Bruno, dei suoi ca­ valli da corsa, delle sue liti, dei suoi panciotti in tessuto fan­ tasia e della sua fama di imbroglione e di attaccabrighe. Ormai prossimi all’arrivo, Verona e Lartigue ricorda­ rono un film western che avevano visto rispettivamente nei cinema di La Piata e Buenos Aires. Avevano dimenti­ cato il titolo, ma non la scena ambientata in un bar con le porte a molla, tipiche dei saloon. Erano certi che l’eroina fuggisse con qualcuno, a cavallo, dopo una leggendaria rissa tra il barista, che indossava un gilet molto elegante, con disegni ricamati, e un cliente che nello stivale, sotto il Pantalone, nascondeva una piccola daga. - Con chi fuggì la star? - Con chi vuoi che sia fuggita? - rispose don Nico­ las. — Con l’eroe. — L’eroe delle donne — osservò Laura, — non sempre è l’eroe degli uomini. Lartigue rispose: — Una grande verità; ma non dimentichi, signora, che nei film l’eroe è uno solo. Lartigue intravide un bosco esteso. Un presentimen­ to lo portò a chiedere: -Èli? - È lì - rispose Verona.

Da vicino, il bosco rivelò, oltre ai ben noti eucaliptus,

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alle casuarine, ai pioppi, i salici e una profusa varietà di alberi da frutto, anche piante aromatiche, cespugli di bambù e distese di parkinsonia. La casa era grande, qua­ drata. Sull’esteso tetto, a una falda e poco inclinato, si vedevano delle tegole rotte. Appena si fermarono, Lartigue cominciò a scaricare il carro. Verona lo fermò: — Non abbia fretta, giovanotto. Prima di tutto dob­ biamo appurare se è possibile dormire là dentro o se è meglio filarsela. Perlustrarono la casa. Più di una volta Laura e Larti­ gue trovarono motivo di prorompere in esclamazioni di ammirazione. Verona scosse il capo e commentò: - È in cattivo stato. Praticamente non ci sono né por­ te né finestre. — Però — si affrettò a replicare Lartigue, — possiamo contare sulle pareti e sul tetto. — Per fortuna abbiamo portato diversi poncho — dis­ se Laura. In lontananza risuonò la ruota del mulino. — Si può prendere l’acqua dal mulino? — chiese Lar­ tigue. — I vicini lo riparano quando è necessario. L’acqua è molto buona. Aiutata da Lartigue, Laura si dedicò a pulire le stan­ ze. Anche se non stava facendo niente, Verona avvertì una stanchezza improvvisa e uscì fuori, come se voles­ se allontanarsi. Ricordò che uno dei giorni precedenti (ma a che proposito?) Laura gli aveva detto «Sei un bambino», e pensò: «Da bambini ci comportiamo, chi

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più chi meno. Neanche la mia Laura si salva: adesso sta giocando a sistemare la casa, con il giovane Lartigue, senza fermarsi a pensare che è un misero rudere». Perso in queste riflessioni, percorse il bosco finché d’improvviso raggiunse l’aperta campagna e poi il mar­ gine della laguna. Con rammarico si rese conto che non aveva con sé il Winchester. «Se compare la tigre non mi resta che incrociare le braccia e aspettare che se ne va­ da». Meditò: «Sembra proprio sia arrivato il mio turno nel gioco che la tigre esiste». La laguna era grande, ric­ ca di giunchi e di uccelli. Per un lungo tempo stette a guardare l’acqua, o stette lì come se la stesse guardan­ do, assorto, infelice e malinconico. Al ritorno lo aspettava una sorpresa. All’interno la casa non sembrava più la stessa. Avevano pulito il pa­ vimento e le pareti; avevano strappato le erbacce; ave­ vano appeso dei poncho per chiudere le aperture. — Questa è la sala da pranzo — disse Laura. — Ti mo­ stro le stanze da letto. — Questa è la nostra — disse Verona. - Ti piace? — Vien voglia di venirci a vivere. - Le mostro la mia. Su un tavolo di fianco alla branda Verona vide il fa­ moso quaderno Bachiller, sul quale il giovane appunta­ va i sogni. Fu la prima cosa che vide. Laura li mandò a raccogliere della legna. Quando glie­ la portarono, chiese loro che facessero un altro giro. — Non prendetevela, ma quando la donna è impe­ gnata in cucina, l’uomo è d’intralcio - spiegò.

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Preoccupati più di evitare le pozzanghere che di qua­ le direzione prendere, s’inoltrarono nel canneto, che era la zona più bassa. - Mi dica la verità - chiese l’ingegnere. - Per lei, la tigre c’è o non c’è? — Siamo qui per scoprirlo, sicché diamo tempo al tem­ po. Frattanto facciamo conto che la tigre esista. Per cau­ tela, capisce, per evitare spaventi o disgrazie. Aprendosi il passaggio con le mani, avanzavano tra le canne. L’ingegnere commentò: - In mezzo a una boscaglia come questa, una tigre potrebbe nascondersi dovunque. Una tigre in agguato. - Questo intendevo. E per giunta non ci siamo nean­ che portati un cane. — Se c’è una tigre, il cane la scopre... Don Nicolas parlò lentamente: — Molto prima di noi. L’ingegnere rise nervosamente e lo interruppe: — Noi la scopriremo quando ci azzannerà alla gola. Don Nicolas osservò: - Proprio questo intendevo. E poi un cane può difen­ derci da un’aggressione. Ma voglio che sia chiaro che in questa spedizione c’è un altro pericolo, oltre alla tigre. - Mi ha già detto che nel rudere probabilmente ci vi­ ve un vagabondo. — Però non le ho parlato del pericolo di spararci l’un l’altro. — E perché dovremmo spararci l’un l’altro? - Non saremmo i primi. Faccia conto che lei va a de­ stra e io a sinistra. D’improvviso, vedo qualcosa che si

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muove in mezzo alla palude. Prendo la mira e tiro. Non è la tigre: è lei. Disgrazie come queste sono già successe e continueranno a succedere. Per evitarle, mi permetto di ricordarle una regola molto importante: non porti l’arma con sé quando non usciamo insieme. Vogliamo fissare questa regola? - Come lei preferisce. — Non è convinto. Nessuno crede nelle disgrazie fin­ ché non succedono. — Non succederà niente, don Nicolas. — Ma siamo o no perfettamente d’accordo sul fatto che nessuno di noi due esce armato se non è in compa­ gnia dell’altro? — Siamo d’accordo. Per il momento, oggi siamo in gi­ ro insieme e non abbiamo portato le armi. — Anche questa è un’imprudenza, mi creda. Girando per il bosco si stancarono, sopportarono la fame e attesero. Più tardi, Laura li ricompensò con la ce­ na: cominciarono con una zuppa riconfortante, conti­ nuarono con una gallina, di cui dissero ogni bene, e chiusero in bellezza con il dulee de leehes. La buona ta­ vola, bagnata di vino in quantità, ravvivò la cordialità e la conversazione. Sia l’ingegnere che Laura vollero maggiori informa­ zioni sul conto di Bruno. Verona insistette sul fatto che era violento ed egoista. - Trattava con durezza i suoi stessi fratelli - spiegò. — Non diede mai mostra d’affetto per i propri congiun8 È un dolce tipico a base di latte [n.d.t.].

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ti che è cosa naturale e spontanea nel più comune dei mortali. Lo dipingerei come un individuo all’antica, mar­ catamente negato per i cambiamenti e il progresso. Lo ricordo alla perfezione: si pettinava con una brillantina al profumo di violetta, che gli manteneva i capelli luci­ di ma anche unti, dettaglio che si notava già a una pri­ ma occhiata, soprattutto nel ciuffo ondulato che gli ca­ deva sulla fronte. Aveva lunghi baffi, che secondo alcu­ ne voci la mattina lisciava con brillantina e piegabaffi. Sfoggiava inoltre una qual certa eleganza eccentrica e in paese fu il primo, per non dire l’unico, a usare pan­ ciotti in tessuto fantasia. Laura domandò: - Ma era un codardo, vero? - Ora ci arrivo: c’è stato chi, spinto da giusta indi­ gnazione, ha pensato di rimetterlo al suo posto, per sco­ prire poi con stupore che non solo era imbroglione e meschino, ma anche coraggioso e forse ancora più di­ sposto di molti altri ad arrivare a qualsiasi estremo. Da questa curiosa specie di possidente all’antica passarono a discutere di progresso, nel nostro paese e in generale, e dei relativi meriti sia del progresso che della tradizione. I due si rivelarono conversatori elo­ quenti, conoscitori del tema e persino spiritosi. Proba­ bilmente ad animarli era il segreto desiderio di farsi lu­ stro al cospetto della signora. Lartigue parlò del «mo­ derno conservatorismo» e Verona dichiarò che quella notte, in quel rudere, si dava una rappresentazione perfetta dello «spettro politico del paese», nella sua to­ talità.

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All’alba obbedirono, infine, alle richieste di Laura e andarono a dormire. Erano stanchi ma soddisfatti di se stessi, della polemica nonché del rivale che la sorte ave­ va riservato loro. Il sabato, mentre Laura preparava il pranzo, gli uo­ mini giunsero fino al margine della laguna. Entrambi ci andarono imbracciando la propria arma. - Ha sentito? - chiese Lartigue. — Cosa? — Come cosa? Un ruggito, non le sembra? Stormi di uccelli si erano levati in volo. — Starò invecchiando — commentò Verona con tono distaccato. — Il dottore dice che certi vecchi non ci sen­ tono bene. Nel corso del giorno si ripeterono le escursioni nel bosco, in cerca della tigre, le mangiate e le discussioni. Quella notte Laura era più bella che mai. Aveva cam­ biato acconciatura e indossato un abito che suo marito non conosceva, una collana e un braccialetto di coral­ lo. Quanto agli uomini, si fecero trascinare dall’elo­ quenza. Forse nel tentativo di fare sfoggio di fronte a Laura di un’impeccabile imparzialità, o semplicemente per mostrarsi generosi, giunsero a una situazione stra­ na: dopo aver discusso per un po’, ognuno dei due ave­ va abbracciato la posizione dell’altro, di modo che il conservatore riponeva le sue speranze nella trasforma­ zione della società e il radicale nello scrupoloso rispet­ to della tradizione.

Visti dalla prospettiva odierna, questi due ispirati con­ versatori di una notte persa nel passato, e nell’immen-

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sità della nostra campagna, sembrano figure romanti­ che. È già stato detto, figure d’altri tempi. Dissimulando uno sbadiglio, Laura chiese: — Perché non continuate domani? Bisogna dormire. Si diedero la buonanotte. Lartigue entrò nella sua stan­ za; Laura e don Nicolas nella loro. Lartigue si soffermò ancora un po’ a ripensare agli argomenti addotti dall’uno e dall’altro nel corso della conversazione. Alla fine si coricò e spense la candela. Pochi minuti dopo cercò i fiammiferi alla cieca, acce­ se la candela, si alzò, sistemò il fucile a portata di ma­ no e si stese sulla branda. La tigre in sé non lo preoc­ cupava affatto, ma se ci si aggiungeva la mancanza di porte e finestre, la situazione diventava meno confor­ tante. «C’è di buono che quel fantasma dei rumori non ci sta dando fastidio». Rifletté sul fatto che quel certo fantasma non lo preoccupava nel modo più assoluto; ciò che davvero non lo divertiva era la possibilità che la tigre lo svegliasse con una zampata. Sussultò e, pas­ sata la perplessità, si disse: «Non è immaginazione. Non credo sia stata immaginazione. Era un ruggito». Dove localizzarlo? «Dove non si sa, ma di sicuro da que­ ste parti». Come prima misura afferrò il fucile. Poi stet­ te fermo, per sentire meglio, e infine si alzò, con una certa premura. Uscì sotto la gronda. Alla luce della lu­ na gli alberi sembravano più grandi. Quando la luna si nascose dietro le nubi, Lartigue scrutò nervosamente l’oscurità. Si accostò vicino al poncho appeso che tap­ pava l’ingresso della stanza contigua alla propria e sussurrò:

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- Non avete sentito niente? - Ripetè la domanda: Non avete sentito niente? Don Nicolas rispose: - Non ho sentito niente. — La signora nemmeno? Sforzandosi di tenere bassa la voce e con tono secca­ to, don Nicolas rispose:

- Se lei non è ancora riuscito a svegliarla, la signora dorme.

Lartigue rinunciò a qualsiasi verifica e, di spalle alla parete, tornò alla propria stanza. Pensò dunque che ave­ va avuto ragione Verona, all’arrivo: avrebbero dovuto andarsene. «Giovedì stesso dobbiamo filarcela: la man­ canza di porte e finestre non è di nessun vantaggio. Me­ no male che mi son tolto la voglia di vedere la tigre». Non sapendo che fare, poco dopo si sdraiò sulla bran­ da. Pronosticò una lunga insonnia; perché altrimenti non poteva fare, visto che la possibilità di ritrovarsi da­ vanti la fiera quando avesse aperto gli occhi gli impedi­ va di chiuderli. Voleva evitare la sorpresa a tutti i costi. Concentrato sui rumori della notte, s’impegnava a non confondere gli uni con gli altri, per riuscire a distingue­ re quello della tigre quando si fosse avvicinata. Imma­ ginò i rumori nel loro insieme come il fogliame di un sa­ lice, e ognuno come un ramo completo di foglie. Segui­ re i rami con lo sguardo separatamente diventava diffi­ cile per via della brezza che li agitava e li intrecciava. L’ingegnere stava dormendo. Stava sognando la tigre. Chiaro che la tigre, come ac­ cade nei sogni, non era esattamente una tigre, né la ca­

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sa esattamente una casa: nel sogno poteva vedere, dal la sua stanza, la spettacolare irruzione della tigre nella stanza da letto di Verona e della sua signora. In virtù di alcuni particolari sembrava una scena da film western. D’improvviso ricordò com’era la casa nella realtà. Ne dedusse laboriosamente che quella visione, dal suo let­ to, era impossibile. Capì che stava sognando e si svegliò. Spiegò poi che quel sogno gli era sembrato importantis­ simo e, poiché annotare i sogni appena sveglio era una sua abitudine, accese la luce, cercò il quaderno e si mi­

se a scrivere. Pensò che il vento si fosse placato, perché adesso sen­ tiva solo di tanto in tanto un leggero rumore di foglie; e se non lo sentiva, non sentiva null’altro, o forse avreb­ be dovuto dire: sentiva un profondo silenzio. Il silenzio richiamò la sua attenzione in vari modi: come qualcosa di strano; come l’indizio che qualcosa di strano stava succedendo; come la manifestazione, nelle cose esterne, di un sentimento soggettivo; un presagio, forse. Tutto ciò gli procurò un certo allarme, che gli servì da prete­ sto per alzarsi: era quanto i suoi nervi gli chiedevano. Indossò l’incerata, uscì sotto la gronda, corse verso l’in­ gresso dell’altra stanza, cercando di capire cosa stesse succedendo. Formulò allora un commento un tantino assurdo; dis­ se, o pensò: «Il silenzio è là dentro». In effetti non si sen­ tiva nemmeno il sussurro del loro respiro. Ebbe una terri­ bile premonizione. «Li ha uccisi entrambi». Poi se ne ver­ gognò. «Chi verrà ucciso sarò io, da Verona, se lo sveglio con le mie idee folli». Fece ritorno nella sua stanza.

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Si mise a letto ma non spense la candela. Si disse che mancava poco all’alba e che la luce del giorno avrebbe dissolto tutte le follie che gli facevano avere i nervi a fiori di pelle. La cosa peggiore era il silenzio che regna­ va nella casa. Il giorno precedente aveva sentito così chiaramente Verona che russava da temere di non riu­ scire a prendere sonno. «Se lo sentissi adesso» pensò, «mi addormenterei con grande tranquillità». Io credo che la smania di dormire che abbiamo sia dovuta alla volontà di sfuggire alla notte. Non ha mai smesso di far­ ci paura.

Quando risuonò uno sparo (non molto lontano, nel bosco) Lartigue capì che in quella stanza non riusciva a starci. Raccolse l’incerata, uscì sotto la gronda e si affac­ ciò un’altra volta all’entrata della stanza contigua. Cer­ cò di ascoltare: vi ritrovò lo stesso silenzio. Con molta attenzione scostò un po’ il poncho; prese il coraggio a quattro mani ed entrò; gli bastò accendere un fiammi­ fero per sapere che lì non c’era nessuno. Accese una candela ed esaminò rapidamente la stanza. Mormorò: Macchie di sangue non ne hanno lasciate. E nemmeno il Winchester.

Risuonò un altro sparo. Allora si ricordò della dop­ pietta e andò a cercarla. Ricordò anche il patto di non portare il fucile se si usciva da soli. Rifletté sul fatto che lo stesso Verona non l’aveva rispettato e che uscire sen­ za fucile, in una notte come quella, sarebbe stata proba­ bilmente un’imprudenza imperdonabile. Sarebbe andato nella direzione da cui proveniva l’ul­ timo sparo. «Non ne sono certo» si disse, e dopo un atti­

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mo di esitazione esclamò: — Ha risuonato dalle parti del canneto Dapprima corse; poi proseguì più lentamen­ te. «Speriamo che non mi accolga a colpi di pallottola». D’improvviso si ritrovò in mezzo a un groviglio di pian­ te spinose, che lo ferivano. Con il volto infuocato tornò sui suoi passi, senza riuscire a trovare la casa, che cer­ cava, ma solo il canneto. Ebbe Vimpressione che per il suo disorientamento non ci fosse soluzione. Risuonò uno sparo. Felice di seguire finalmente una direzione giusta, corse, scivolò, cadde in una pozzanghera. Si al­ zò, inzuppato e fangoso, attraversò la rete metallica e le piante di parkinsonia, per ritrovarsi fuori dal bosco, nel burrone di fianco a una strada. Nonostante stesse albeg­ giando, faticò a individuare Verona, che era lì, seduto sul bordo del burrone, con il volto tra le mani. - Che succede, don Nicolas? - Quello che vede. - E sua moglie? — Se l’è portata via, amico, se l’è portata via. Quando mi sono svegliato non c’erano più. — Chi se l’è portata via? - Roba da matti: al momento non ho reagito, perché ho creduto fosse un sogno. E non riesco ancora a con­ vincermi del contrario. — Perché non mi ha chiamato? In due avremmo po­ tuto fermarlo. — Mi hanno preso alla sprovvista, sicché non potevo perder tempo; ma ho provato a chiamarla. L’ho chiama­ ta come ho potuto. Non ha sentito gli spari? In due sa­ rebbe stata un’altra cosa.

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— Andiamo a perlustrare il bosco? — E tutto inutile. A quest’ora, può starne certo, stan­ no attraversando i campi. Per sapere che direzione han­ no preso dovremmo cercare le orme, ma non c’è tempo. Devono essere già sull’altra sponda del fiume, a Rauch, a Real Audiencia, chissà dove. — Se mi aspetta, salgo sul mulino. — Vengo anch’io. La campagna, dall’alto, sembrava un disegno fatto di grandi rettangoli tratteggiati dalla rete metallica, di la­ gune come specchi, di boschi, verdastri quelli delle tenu­ te o degli allevamenti, azzurri quelli più lontani, come isole disperse nelfimmensità della pianura. Per quanto guardassero, non videro i fuggiaschi. Poco dopo avvista­ rono, all’orizzonte, un puntino in movimento. — Sono loro — gridò Lartigue eccitato. — Non credo. Chiunque sia, sta venendo qui. Lartigue chiese: - Come fa a saperlo? - Adesso anche a occhio nudo il puntino si è ingran­ dito. Subito dopo Verona affermò che si trattava di un uo­ mo a cavallo, che procedeva a passo allungato o a pic­ colo galoppo. Stava percorrendo lo stesso sentiero su cui si erano fermati a parlare qualche momento prima. Distinsero per prima l’uniforme brunastra e subito dopo capirono chi era.

- Baroffio - disse Verona. - In pattugliamento. - Come promesso - disse Lartigue. Scesero per parlare con lui.

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Verona doveva apparire piuttosto sconvolto, perché

Baroffio gli chiese immediatamente: — Che succede, don Nicolas? Esattamente la stessa domanda che gli aveva fatto Lartigue. — Si sono portati via mia moglie, Baroffio. Proprio

così. — Chi è stato? - Mi sembra di sognare. Ma è così. — Nessuno è libero da ciò che succede. Chi è stato? - La tigre, Baroffio. - Non può essere. — L’ho vista con i miei occhi. - Mi racconti com’è successo. - Stavamo dormendo. 0 perlomeno, posso assicurar­ le che io dormivo. Mi ha svegliato, chiarissimo, un rug­ gito, e ho visto la tigre che entrava dalla finestra. Prima che riuscissi a prendere il Winchester, stava trascinan­

do via mia moglie. - Io ho sentito degli spari - puntualizzò Baroffio. Li ho sentiti molto chiaramente. Lartigue rispose: — Spari in aria. - Li ho seguiti nel bosco. Li ho visti ancora una vol­ ta, in una radura. Bruno la stava trascinando per una mano — spiegò don Nicolàs. — Bruno? - Sì, Bruno. Alla luce della luna ho visto perfetta­ mente il suo panciotto in tessuto fantasia. — E non gli ha sparato?

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— Ho sparato ma non l’ho preso. - È incredibile. - Non basta. Quando ho raggiunto la radura, erano scomparsi. — Lei era solo, giusto? Lartigue rispose: - Eravamo insieme. Verona lo guardò e fu sul punto di domandargli qual­ cosa. Il poliziotto chiese:

- Vuole dirmi che voi due, nel corso dell’inseguimento, non vi siete separati neanche per un istante? - I fucili lo provano - rispose Lartigue. — Eravamo d’accordo che non avremmo preso i fucili se fossimo usciti da soli. - Perché avete sparato in aria? Fu di nuovo Lartigue a rispondere alla domanda: - Per rassicurare la donna - disse. - Per farle sapere che la stavamo cercando. Perché sapesse che non l’ave­ vamo abbandonata. - Un’ultima domanda, in realtà non molto importan­ te, comunque: perché l’ingegnere è ridotto, come dire, uno schifo e don Nicolàs non ha nemmeno uno schizzo? — Questo le mostra la differenza fra un uomo che sa quello che fa e uno che non lo sa - rispose Lartigue. - Mentre voi due chiacchierate - si lamentò Verona — la tigre si sta portando via Laura. A quest’ora posso­ no anche essere arrivati alla fine del mondo. - Avete portato dei cavalli?

- Solo quelli da traino, si rende conto? Quelli del carro. Il poliziotto annunciò: - Vado a vedere se riesco a ra­

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dunare un po’ di gente per farmi dare una mano. Tutti insieme magari... Dei fuggiaschi non si seppe niente. Una squadra di guardie proveniente da Las Flores, da Azul, o, secondo altri, da La Piata, ispezionò le rovine e setacciò il bosco senza nessun risultato se si esclude il ritrovamento, vi­ cino alla radura, di un braccialetto di corallo. Poiché le dichiarazioni di Verona erano state confermate da Lar­ tigue, il caso venne in breve archiviato. Molto prima che accadesse, Verona andò a fare visita al­ l’ingegnere; nell’ufficio della tenuta, a porte chiuse, disse: - Con il suo permesso, voglio farle una domanda che sin dalla sua conversazione con Baroffio, nel bosco vi­ cino al rudere, continua a girarmi per la testa. Non la prenda male, ma perché ha mentito a Baroffio? Lartigue rispose immediatamente: — Perché lei stava dicendo la verità e ho temuto che il poliziotto non le avrebbe creduto. — E perché non avrebbe dovuto? - Perché quanto lei diceva era piuttosto strano. — Anche a me è sembrato strano, non da subito però, ma solo dopo, quando ci ho ripensato. Quello che non capisco è perché ha pensato che stessi dicendo la verità. - Perché ha detto di aver visto la tigre che entrava dalla finestra. E che si è portata via sua moglie. — Così è stato. - E che era Bruno. E che indossava il suo panciotto. — Mentre lo raccontavo, non mi è sembrato strano che la tigre fosse il vecchio Bruno. — Lei stava raccontando ciò che ha visto.

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— Come lo sa? — Ricorda che le ho parlato di un quaderno? — Quello di marca Bachiller? Non so perché mi è ca­ duto l’occhio su quel quaderno, nell’affacciarmi nella sua stanza, la sera in cui siamo arrivati al rudere. È am­ mirevole il modo in cui Laura ha sistemato le stanze in un attimo. Che talento nel mettere in ordine una casa. - Adesso, signore, mi farà l’onore di leggere un pa­ ragrafo del quaderno. Mi aspetta un minuto? È nella stanza da letto. Alla fine, Verona lesse: «Dalla finestra si è insinuata agilmente la tigre. Quan­ do mi sono ripreso dal mio turbamento l’ho vista andar via con Laura. Se la portava via prendendola per la vi­ ta. Il suo aspetto coincideva con le descrizioni fatte da don Nicolas. Bruno era un uomo alto, dai tratti regola­ ri, con uno sguardo repellente, perché esprimeva mal­ vagità, che faceva venire in mente i cattivi dei film we­ stern. Ho notato che indossava uno di quei panciotti in tessuto fantasia, ricamato con rami d’alloro». Dopo una pausa don Nicolas chiese: — Adesso lei mi deve spiegare com’è riuscito ad assi­ stere a quanto è successo se in quella stanza non c’era. Mi risulta che non ci fosse in quella stanza. - Perché era un sogno, signore. - È qui che si sbaglia. Io ho visto tutto con i miei oc­

chi, da sveglio come lo sono in questo momento. — In un sogno, senza che un sognatore se ne meravi­ gli, una tigre in un lampo è un essere umano. - Un sogno, ingegnere, è una delle pochissime cose

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che possiamo dire nostre. Fino ad ora non avevo mai sen­ tito parlare di sogni condivisi. Non ne ho mai avuti nem­ meno con Laura, che è parte della mia vita; sicché, mi fac­ cia il favore... Chiarito questo punto le faccio un’ultima domanda, giacché è stato testimone dei fatti. La tigre, o Bruno, come se l’è portata via? Trascinandola? - In realtà no, signore. — Sia sincero. - L’ha letto sul quaderno: la prendeva per la vita. Non voglio offenderla. — Perché dovrebbe offendermi? - Non so... Lei ha detto addirittura che la trascinava. - In un primo momento, per amor proprio, perché non avevo ancora realizzato la portata del mio dolore. — Né io voglio acuirlo. — Al contrario: le sue parole mi danno speranza. Quan­ do ha mentito a Baroffio, sospettavo che lei sapesse. Adesso ne sono certo: lei sapeva che ho detto la verità. Questo prova che non ho sognato. Prova anche che non c’è stato nessun crimine e nessuna morte. Laura se n’è

andata. — Così sembra. — Così come se n’è andata, può anche tornare.

INDICE

Dell’altra forma del mondo..................................... 7

Un’altra speranza.................................................... 49 Una guerra persa...................................................... 67 L’ignoto attrae la gioventù..................................... 75

La PASSEGGERA DI PRIMA CLASSE......................................109 IL GIARDINO DEI SOGNI............................................................. 115

Una porta sì apre...................................................... 135 L’eroe delle donne...................................................... 151