Sendebar. Il Libro degli inganni delle donne
 8843022814, 9788843022816

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Sendebar Il Libro degli inganni delle donne A cura di Pietro Taravacci

Carocci editore

Volume pubblicato con il contributo del MIUR e del Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche dell’Università di Trento.

a edizione, novembre  © copyright  by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel novembre  dalle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN

---

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art.  della legge  aprile , n. ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione /  . L’ambito storico e il contesto culturale /  . Il testo /  . Temi e figure / 

Nota informativa /  . Le ipotesi sull’origine e la trasmissione del Sendebar /  . Il ramo occidentale /  . Manoscritto e storia editoriale /  . Nota alla presente edizione / 

SENDEBAR. LIBRO DE LOS ENGAÑOS DE LAS MUJERES /  SENDEBAR. IL LIBRO DEGLI INGANNI DELLE DONNE / 

Note al testo / 

Bibliografia / 



Introduzione

 L’ambito storico e il contesto culturale Nella rivoluzione culturale realizzata a metà del secolo XIII da Alfonso X di Castiglia, il volgare s’impone, in opposizione alla tradizionale prospettiva latinocentrica dell’Europa, come veicolo privilegiato di un sapere non più appannaggio della classe clericale ma prodotto e gestito dalla Corona. Al centro di un tale ambito si colloca la pratica della traduzione di testi dapprima scientifici, poi gnomici, morali e giuridici, e infine didascalici e narrativi, che trova la sua più immediata ragione d’essere nella lunga presenza della civiltà islamica nella penisola iberica, diventando una fonte di sapere di eccezionale ricchezza. Come è noto  l’attività traduttoria fu intrapresa a Toledo, sotto il patrocinio dell’arcivescovo Raimundo () , caratterizzata dalla traduzione, in lingua latina, di testi arabi scientifici, e proseguì poi in un’epoca intermedia, per arrivare infine con Alfonso el Sabio a un tale livello di perfezione e sistematicità da far riconoscere in quella intensa produttività del colegio de traductores toledanos  se non una vera e propria escuela  di traduttori, indubbiamente una realtà culturale di risonanza europea. Si è notato che una tale opportunità di affidare un ruolo culturale egemonico al castigliano, in alternativa al modo di pensare, di rappresentare e di gestire il mondo basato sulla lingua latina, deriva ad Alfonso dal semplice fatto che quel modo in Castiglia non esisteva . In realtà per spiegare la singolare operazione che porterà la Spagna a riconoscere nella prosa castigliana un precoce strumento di controllo e di misura del proprio po

tere politico e culturale, non si possono trascurare alcuni fattori che qui mi limito a enumerare. Innanzitutto si deve considerare la situazione di triglossia presente nei territori riconquistati, che determinava un ambiente sociolinguistico favorevole all’uso del volgare castigliano come lingua intermediaria fra le lingue rituali delle diverse confessioni . In tale contesto sociolinguistico, i giudei spagnoli colti, per lo più trilingui (ovvero conoscitori dell’arabo, dell’ebraico e della lingua romanza), diedero un decisivo impulso al castigliano, come testimoniano le prime traduzioni, del secolo XIII, della Bibbia en romance castellano, volute, come afferma Menéndez Pidal e confermano gli autorevoli studi successivi, proprio dai judíos spagnoli . Si spiega quindi anche che lo stesso ruolo del latino come lingua di cultura perdesse gradualmente di importanza, in una realtà linguistica così stratificata e in cui, con il pieno dominio dei reconquistadores, il dialetto iberoromanico diventava l’unica lingua franca, soppiantando il latino che i giudei spagnoli, soprattutto delle classi meno colte, avvertivano quale strumento di discriminazione della società cristiana. In una pur rapidissima ricognizione della temperie culturale in cui s’inserisce la traduzione del Sendebar in quanto opera tradotta dall’arabo, mi preme raccogliere inoltre la precisazione di chi sottolinea opportunamente che con Alfonso non si perviene alla creazione della prosa castigliana semplicemente traducendo in volgare ciò che prima si traduceva in latino; perché quel risultato d’un volgare come lingua d’arrivo è il frutto piuttosto di un decisivo cambio d’orizzonte culturale, favorito da una società urbana, di cui Toledo, l’amata città natale di Alfonso, era il simbolo più alto e realizzato da un establishment intellettuale profano, composto da moros, judíos e cristiani, e non da chierici, dunque in qualche modo unico in Europa . Nei primi anni del regno del Rey Sabio continua a dominare la traduzione di testi scientifico-naturalistici e soprattutto di interesse astronomico-astrologico, come testimoniano i titoli di opere di estrema importanza per la cultura occidenta

le, quali il Lapidario (), il Libro conplido en los judizios de las estrellas (-), il Libro de la Octava esfera (), il Picatrix o Astromagia () e il Libro de las Cruces (). Ciò conferma e rafforza il ruolo che Toledo aveva acquisito nei secoli XII e XIII in tutta l’Europa come fulcro per gli studi scientifici e naturalistici. Ma lungo l’intero regno alfonsino si assiste a un’apertura verso altri generi – storici, giuridici, didascalici e obras de entretenimiento – parallelamente a un nuovo orientamento della prospettiva culturale, che indirizzava il sapere proveniente dall’antichità e dall’Oriente islamico non più verso l’intero Occidente cristiano dominato dal latino, ma verso la Spagna. Se, infatti, nelle precedenti epoche l’attività dei traduttori toledani sembrava andare più a beneficio dei grandi centri culturali italiani ed europei in generale, si può dire che grazie alla politica di Alfonso, trovi ora un’eco più immediata nel regno di Castiglia, a beneficio di una coscienza linguistica e in qualche misura già letteraria che prima era impensabile. In tale contesto – in cui tanto il sistema produttivo quanto quello ricettivo della comunicazione letteraria e generalmente colta sono portati a sovvertimenti che la critica ha solo iniziato a studiare  – le traduzioni dall’arabo occupano dunque un posto di grande importanza e un ruolo fondamentale nella trasmissione e nel consolidamento del sapere presso l’aristocrazia spagnola, la quale nelle opere realizzate nel taller alfonsino trova una guida accessibile, una fonte di approvvigionamento morale, ma, soprattutto, come si evince sia dal Prólogo del Calila e Dimna sia da quello del Sendebar, riconosceva nel Libro lo strumento prezioso e privilegiato per rispondere all’urgente richiesta di un sapere capace di rappresentare la sua eccellenza e il suo nascente, straordinario potere. Non è dunque irrilevante considerare che in Spagna, diversamente che altrove, la dignificazione e la letterarizzazione del volgare siano passate attraverso l’esperienza istituzionalizzata della traduzione in un programma politico-culturale come quello alfonsino. A ciò si aggiunga che il passo da traduzioni di testi unicamente scientifici (che l’epoca moderna ha spesso accusato di servilismo e di tecnicismo ) a testi lettera

ri non è di poco conto e si è giustamente notato, infatti, che il grado di espressività della prosa medievale spagnola s’innalza considerevolmente proprio grazie alla versione in castigliano di testi narrativi arabi che impongono di rispettare, nel testo d’arrivo, la dinamica fra discorso diretto e indiretto . Il Sendebar castigliano, o Libro de los engaños, può essere considerato, a tale riguardo, un esempio di questa prima prova e le evidenti oscurità che ne risultano nel tessuto linguistico testimoniano le incertezze tipiche del volgarizzatore, il quale, in un rapporto “verticale” tra castigliano e arabo, simile a quello con il latino, si trova di fronte alla difficoltà di fissare in forma scritta, all’interno di un sistema linguistico in formazione, una retorica letteraria già sedimentata. Al tempo stesso le incongruità sia linguistiche sia strutturali che, come vedremo, il testo ci riserva mettono in luce la prevedibile complessità nella trasmissione e nella ricezione di un testo tradotto all’interno di una società multilingue e multiculturale, ispano-giudea e ispano-musulmana, ma comunque dominata dalla nuova cultura egemonica della Castiglia. È esattamente in una realtà come questa che si collocano le traduzioni dall’arabo al castigliano di testi gnomici ed esemplari, le quali contribuirono a fondare la prosa letteraria castigliana e a connotarla in modo singolare. Ed è più che mai vero che in quella realtà l’esperienza della traduzione si innesta nella tradizione stessa e trova una sua piena ragione all’interno del processo storico. Si è osservato che, soprattutto in seguito all’azione di riconquista di Ferdinando III, nella prima metà del secolo XIII la monarchia cristiana castigliana si trova necessariamente nelle condizioni di gestire a proprio vantaggio, soprattutto nei più prestigiosi centri dell’al-Andalús, precedentemente dominati dall’islam, un assetto sociale che sarebbe stato difficile e poco proficuo sovvertire completamente. Nel  Fadrique , fratello del re Alfonso, commissionò la traduzione del Sendebar in una Siviglia  da poco riconquistata, nella quale l’anno successivo il re avrebbe aperto, anche in ragione dell’assetto sociolinguistico e culturale, gli Estudios gene

rales de latino e de arávigo. Alla luce di quanto si è venuti osservando, si può supporre che anche Fadrique, secondogenito della famiglia reale – così come aveva fatto Alfonso stesso, peraltro con un’altra e più famosa raccolta di exempla, ossia il Calila e Dimna –, aspirasse rivolgersi alla cultura musulmana non solo per costruire il proprio prestigio sociale e culturale, ma anche per consolidare l’idea di un potere personale legato al sapere, alla conoscenza. Ebbene, se si considera che le opere commissionate da Alfonso e da Fadrique, tanto l’una quanto l’altra, si fondano sull’idea di un perfetto esercizio del potere legittimato dall’acquisizione di un sapere completo, allora si può più agevolmente capire il forte interesse della corte verso queste due raccolte, avvertite appunto come specula principis, come modello del perfetto regnante. Tanto nei libros sapienziali e gnomici quanto negli specula, ma in generale nella cultura letteraria musulmana, si era forgiata l’immagine di un sultano-sovrano che si fa garante del benessere sia politico sia spirituale di tutti i suoi sudditi, proprio in quanto il sovrano è in possesso di un sapere superiore, acquisito attraverso una formazione eccellente, tanto intellettuale che morale, impartita dai migliori sapienti nel luogo privilegiato ed esclusivissimo della corte. Questo prototipo politico-religioso, di conio islamico ma prontamente cristianizzato e nutrito nella fictio narrativa da temi e motivi antichissimi e universali, appariva dunque lo strumento ideale per promuovere e rafforzare, all’interno e all’esterno, l’immagine di una monarchia cristiana tutta strutturata e fondata su principi morali universalmente condivisibili, strumento ideale, inoltre, per proiettare nella finzione letteraria la più alta giustificazione dell’esercizio del potere del regno di Castiglia. La traduzione in castigliano di un’opera come il Calila e Dimna, che proprio nell’adattamento arabo celebra l’acquisizione del sapere come supremo bene sociale e narra un processo di formazione ideale, è di per sé, come atto culturale, una prova di maturità politica da parte del re castigliano, una prova, in qualche misura, di rivincita nei confronti del vecchio dominatore islamico. Né ci sfuggirà che la visione gerarchica del sa

pere desunta dal libro orientale, riprodotta nella lingua “nazionale”, consolida simbolicamente l’immagine del prestigio personale di Alfonso come sovrano, non a caso detto el Sabio. A partire da una relazione così diretta e suggestiva tra la politica del re castigliano e la sua identità culturale e perfino artistica, c’è chi ha tentato di individuare una diversa ratio e un diverso approccio individuale al testo arabo e quindi una particolare finalità nella traduzione del Sendebar commissionata da Fadrique, al quale era stata assegnata dal re la piazza di Siviglia, sebbene egli aspirasse, per ambizione propria e della madre, a un principato svevo nell’ampio impero germanico, di fatto mai ottenuto . Si è dunque ipotizzato che la scelta di un testo come il Sendebar da parte dell’Infante, antagonista politico ed emulo del fratello re di Castiglia, non sia affatto indifferente se messa in relazione con il contenuto dell’opera, imperniata sulle difficoltà cui ingiustamente è sottoposto un giovane, onesto e saggio principe e quindi sui rischi politici che corre una corte in cui regna un re inetto. Si è supposto inoltre che nella finzione letteraria Fadrique proiettasse la propria frustrazione derivante dall’impossibilità di accedere al trono, o comunque il desiderio di ottenere una posizione più idonea al suo rango. Forzando un po’ l’interpretazione di un dato reale, si è perfino sostenuto che Alfonso potrebbe essere responsabile della mancata fortuna del Sendebar, il cui unico manoscritto attestato è del secolo XV, in netto contrasto con l’immediata fortuna editoriale del Calila e Dimna . Pertanto, da un lato il testo del Libro de los engaños, in cui il re appare elemento moralmente (e di conseguenza politicamente) debole e in balia di forze esterne e, dall’altro, l’esecuzione di Fadrique e di suo genero per mandato del sovrano hanno contribuito a individuare nella traduzione del Sendebar un atto di ribellione nel contesto della politica familiare . È però del tutto inaccettabile spingere l’ipotesi fino al punto di riconoscere nel pericolo di morte che corre l’Infante della finzione letteraria e nella modalità dell’uccisione della matrigna una qualche sinistra premonizione delle esecuzioni di Fadrique e di suo genero (anch’egli messo al rogo come la donna del 

racconto), avvenute nel , ben  anni dopo la traduzione dell’opera. Sulla base di una documentazione storica piuttosto ricca, ma al tempo stesso accettando, come credo, l’alea di una tesi basata su mere supposizioni, Alan Deyermond conclude che Alfonso e Fadrique potrebbero essere stati vittime di un reciproco sospetto, che affonda le sue radici nell’infanzia stessa dei due fratelli, e di cui il Libro de los engaños può essere una prima e concreta manifestazione, mentre la morte per soffocamento del principe a Burgos l’atto finale. La traduzione del Libro, realizzata in un clima di gelosia letteraria e politica, è vista pertanto come prodotto e causa insieme di una relazione indiscutibilmente fatale . Un’ultima testimonianza, sebbene tarda e in odore di mistificazione leggendaria, attesterebbe un’inquietante coincidenza tra la vita dei membri della famiglia reale e le vicende dei personaggi del modello letterario: in epoca rinascimentale, Jerónimo Zurita, negli Anales de la Corona de Aragón, riferisce, prendendolo da «un antiguo escritor portugués», un episodio relativo a un vaticinio sul suo personale futuro, che Alfonso sollecitò ai suoi stimatissimi astrologi, i quali gli pronosticarono che sarebbe stato destituito e ucciso da un membro della sua famiglia; e questo bastò al re, si dice, per mandare a morte l’Infante e il genero . Se il medesimo Deyermond conclude alludendo ai rischi che si corrono quando si riscrive la storia alla luce di un modello letterario tradizionale, credo che sia opportuno sottolineare gli inconvenienti conseguenti al tentativo, non dico di interpretare, ma anche semplicemente di valutare l’entità culturale e funzionale di un’opera letteraria, modellata su un archetipo lontanissimo, basandoci su semplici, per quanto suggestive, coincidenze con le vicende personali e politiche di colui che ne incaricò la traduzione. Quindi, per parte mia una lettura funzionale che avvicini troppo la realtà politica e la scelta della fictio letteraria presenta evidenti limiti, in quanto suppone una interpretazione di tipo profetico o quasi psicoanalitico (non consona al Medioevo) del contenuto narrativo del Libro da parte di Fadrique, il quale, come committente, avrebbe individuato nell’opera una funzione politico

revanchista, immediata ma al tempo stesso indiretta, ovverosia simbolica, alquanto inusuale nei canoni teorico-letterari e nelle dinamiche ricettive dell’epoca. Anche se ci limitassimo poi a una suggestiva e impressionistica analogia fra i personaggi reali e quelli della narrazione, si deve convenire che risulta difficile sovrapporre la regalità e la sapienza di Alfonso a quella del re Alcos. In quanto poi alle colpe del re, ipoteticamente lette da Fadrique come un’indiretta accusa al Rey Sabio, non si deve dimenticare che le mancanze del sovrano sono insite nel prototipo stesso degli specula di matrice orientale e sono all’origine stessa della necessità di raccontare, se è vero, come è vero, che nella storia della genesi del Calila e Dimna, raccontata da ‘Ali ibn al-Shâh al-Farisî, il sapiente Bidpai fu messo in carcere perché aveva rinfacciato al re Dabshelim la sua ingiusta condotta ma, rientrato nelle grazie del re, a suo beneficio scrisse appunto il Calila. Fadrique, semmai, ispirandosi a quel paradigma stesso delle raccolte orientali, sembra sfruttare il tema del rapporto fondamentale ma non sempre facile tra il sultano e i suoi privados, o sapienti; infatti nel Prólogo del Sendebar si rende omaggio alle «razones de los sabios», che hanno indotto Fadrique a intraprendere la via del sapere. Mi pare di poter suggerire, infine, che nella breve pagina prologale del Sendebar, che come in molte altre opere didattiche coeve svolge una funzione inequivocabilmente illustrativa del contenuto etico-morale del testo , non c’è traccia di una intenzione meramente “politica” nella traduzione che Fadrique ha commissionato. Nel suo riferimento più consistente al tema sapienziale, il Prólogo non induce a leggere il testo in una chiave propriamente in linea con le finalità del genere dello speculum, cui il Sendebar viene ascritto, e mostra nel committente la necessità, più personalmente intellettuale che politica o pienamente morale, di legare il proprio nome all’idea di acquistare fama e di consolidare la propria identità mediante la capacità di trasmettere sapienza attraverso l’oggetto-simbolo del libro. L’avvertenza formulare che dichiara più direttamente le finalità del libro, scritto «para aperçebir a los engañados e los asayamientos de las muge

res», non è direttamente conseguente alle premesse sul saber e rinvia ex abrupto alla componente misogina, quasi con i modi più tipici della letteratura amorosa dei due secoli successivi, e con l’attitudine di chi di quell’impresa culturale coglie essenzialmente gli aspetti narrativi e ludici dell’exemplum. E anche questo dimostra che Fadrique intende sì misurarsi con Alfonso, ma più sul terreno del prestigio letterario che su quello della ragion di Stato. .. Il Sendebar e la letteratura gnomica Quando don Fadrique commissionò la traduzione del Sendebar, nella penisola iberica si era già ampiamente diffuso tra le classi colte e l’aristocrazia un tipo di letteratura gnomica o sapienziale di cui sono testimonianza certa opere quali il Libro de los buenos proverbios , i Bocados de oro , il Libro de los cien capítulos  (o Dichos de sabios), la Poridat de las poridades , i Flores de Filosofía , il trattatello Capítulo de Segundo filósofo , La doncella Teodor  e il Tratado del ynfante Phiteus (o Dichos del ynfante Epitus o Diálogo de Epicteto) , raccolte di massime e proverbi, anch’esse nella maggioranza dei casi traduzioni di originali arabi, ma anche opere ispirate a questi. È opportuno ricordare che i libros de sabiduría e le raccolte di exempla non sempre sono ascrivibili a generi letterari nettamente riconoscibili e definibili, soprattutto a causa del vario modo in cui furono prodotti, fruiti e trasmessi. A una tale incertezza di classificazione si deve, ad esempio, il fatto che nel catalogare testi come la Poridat de las poridades o il Libro de los doze sabios, o ancora il Libro del consejo y de los consejeros, due critici quali María Jesús Lacarra  e Carlos Alvar  non siano concordi, in quanto la prima li inserisce fra le raccolte di proverbi, mentre il secondo li ascrive al genere dello speculum principis, che prevede un nucleo narrativo più sviluppato e coinvolgente. L’esatto contrario avviene per opere quali il Capítulo de Segundo filósofo, La doncella Teodor e il Tratado del ynfante Phiteus. 

Ma più precisamente si deve considerare che la cultura dell’epoca non distingueva ancora in modo tassonomico le due realtà testuali, accomunate tanto dall’esigenza di rivolgersi alla retorica delle auctoritates classiche quanto da quella di raccogliere gli insegnamenti depositati in una lunga tradizione narrativa orientale, orale e scritta, sia diretta e autentica sia apocrifa, a vantaggio della società aristocratica e di corte o, più esplicitamente, in relazione a un destinatario privilegiato e ideale quale il re. La vera discriminante “generica” si stabilisce, invece, a livello puramente letterario; perciò, prescindendo da ogni velleità di definire qui i due generi letterari, direi che occorre osservare che in alcuni testi, ovvero in quelli gnomici, prevale la necessità di comunicare più direttamente e in una forma che potremmo dire più enumerativa o enciclopedica i contenuti e gli insegnamenti (senza rinunciare, però, alla presenza di una narratore che costruisce una premessa narrativa al libro stesso attraverso una sorta di racconto autobiografico); sul versante delle raccolte degli exempla, di contro, il materiale aneddotico (già articolato in cuentos e storielle di varia lunghezza) di ascendenza spesso oratoria, ma anche folklorica, è inserito in una struttura narrativa di cornice, molto più articolata e che, come nel caso del Sendebar, tende a imporsi, offrendo una qualche chiave di lettura. La diffusione della letteratura gnomica appare dunque importante in quanto rappresenta un universo di riferimento anche per i traduttori e i recopiladores delle raccolte esemplari, in virtù dei temi trattati e della funzione didascalica da esse svolta. Le raccolte di exempla – al di là delle varie tipologie di scrittura e dei diversi gradi di letterarizzazione che esse possono raggiungere – condividono indubbiamente con la letteratura gnomica l’interesse per il tema del saber, della conoscenza come un patrimonio già tutto acquisito  e perfezionato dai filosofi antichi, ad usum soprattutto dei potenti e quindi come un bene che, una volta cristianizzato, è rivolto al re, il quale per diritto divino si trova nella necessità di gestire il potere secondo giustizia. Proprio in questa prospettiva, la tematica del sapere occupa effettivamente la maggior parte 

degli spicilegi di massime e proverbi redatti in lingua castigliana in un periodo che, nonostante le incertezze documentarie, la critica colloca tra il regno di Ferdinando III e quello di Alfonso X. Come osserva María Jesús Lacarra , il problema dell’incidenza del sapere, di un saber definibile e conoscibile, sui nobili, sul re, sul principe e sulla corte, in questo contesto storico-culturale, era avvertito innanzitutto come necessità di comunicazione e di trasmissione di ciò che è già stato detto e, ancor più, fissato dalla scrittura; e nella prospettiva pragmatica che riconosciamo alla téchne artistica del Medioevo, trasmettere una siffatta forma di sapere implicava che il discente fosse facilitato mediante tematiche di portata universale e trascendente ma capaci anche di incidere nell’esistenza quotidiana. La preoccupazione di offrire una silloge sapienziale idonea a tale scopo spiega la fortuna di un sapere in grado di essere memorizzato e usato in situazioni ben determinate e riconoscibili, e giustifica pienamente l’uso del proverbio, del detto, dell’aneddoto e dell’apologo, nonché di tutto ciò che in estrema sintesi rappresentasse un’immediata ed esauriente risposta alle domande dello stesso discepolo. L’esemplarità e l’autorevolezza di quanto riportato nella letteratura gnomica giustifica il ricorso preferenziale ai filosofi antichi, dei quali nei testi sapienziali del periodo si riporta ciò che le tradizioni greca e musulmana avevano conservato e tramandato, integrandolo con materiale apocrifo che spesso era frutto di un adeguamento della esemplarità antica od orientale al contesto cristiano medievale. Così Socrate, Platone, Aristotele, le massime auctoritates dell’antichità, nei Bocados de oro ( ca.), ad esempio, compaiono dotati non solo di caratteri fisiognomici evidenti, ma anche di quegli elementi di connotazione spirituale e sociale che più servivano alla loro esemplarità, ovvero ascetismo e misoginia. Che la natura didascalica delle raccolte esemplari quali il Calila e Dimna e il Sendebar derivi in qualche modo da una cultura imperniata attorno alla letteratura gnomica, è confermato dall’analogia argomentativa con opere quali i Bocados de oro, la Poridat de las poridades e il Libro de los cien capítulos. 

Ma si possono rilevare altre analogie sostanziali e strutturali fra i due generi. . Innanzitutto l’uso di un prologo o di capitoli iniziali in grado di dare un senso all’insieme, ossia all’atto comunicativo stesso, giustificando il libro come risultato di una ricerca del sapere, come punto finale di un viaggio . Ne è un bell’esempio la vicenda iniziale dei Bocados, in cui Bonium, re di Persia, si mette in viaggio verso l’India alla ricerca del sapere, come fece Berzebuey, il famoso medico del Calila e Dimna, sulle tracce delle miracolose «plantas et yervas» . Dunque nei due generi si riscontra la necessità di una vicenda, un pretesto genetico che talvolta è l’atto giustificativo della scrittura e del libro medesimo quale strumento privilegiato ed emblema della trasmissione del sapere, talaltra, più semplicemente giustifica la necessità di narrare, come appunto nel Sendebar, nel quale la premessa è già parte della narrazione esemplare: siamo di fronte a due distinti versanti di una medesima realtà letteraria che da un lato contempla l’idea del viaggio alle fonti del sapere (concretizzato nell’oggetto libro e nella presenza di un autor che traduca interpretando ), mentre dall’altro prende le mosse da un’esigenza narrativa, dalla necessità di raccontare storie e leggende già ascoltate, tramandate oralmente. Tradizione scritta, dunque, di fronte a tradizione orale, come si può vedere sono riconoscibili indipendentemente dal genere e permettono di realizzare tipi diversi di scrittura sapienziale o esemplare. . Si può osservare poi che anche nelle raccolte gnomiche è ricorrente l’elemento convenzionale della riunione di sapienti, consiglieri, filosofi, che funge essenzialmente da nucleo narrativo volto a presentare massime e proverbi e, per quanto limitato, è sempre una sorta di cornice narrativa, in grado di fissare anche un contesto dialettico e un orizzonte ricettivo adeguato, che potremmo definire aulico o cortigiano. Vi sono inoltre analogie di natura più prettamente tematica e altre meno evidenti, ma altrettanto significative. In primo luogo si dovrà segnalare il rilievo della figura del re, quale destinatario del libro, del racconto scritto e orale e insieme quale paradigma di virtù, come è evidente nei Boca

dos de oro e nel Libro de los cien capítulos, dove il re è presentato come «senescal de Dios» . Il caso in cui più esplicitamente l’impianto comunicativo è totalmente indirizzato al sovrano è quello della Poridat, il cui contenuto è falsamente attribuito ad Aristotele; quest’ultimo, invitato da Alessandro Magno (tormentato dai gravi problemi conseguenti la conquista della Persia) a fornirgli consigli utili al buon governo, si avvale di un linguaggio segreto – cui rimanda direttamente il titolo dell’opera – e comprensibile al solo monarca. Nel Sendebar i sette privados presentano i loro racconti esemplari al re, proponendo un modello di sovranità ispirato totalmente ai paradigmi morali e sociali espressi dai libri sapienziali: prudenza, liberalità, moderazione, lealtà, ragione e, quindi, avversione all’ira, all’avarizia, alla cupidigia, all’ipocrisia e alla passione; diffidenza nei confronti della donna e dei falsi amici; necessità di trovare nei consiglieri la vera amicizia e la vera lealtà. Sia i trattatelli gnomici sia le raccolte esemplari, inoltre, fanno leva sul principio, esposto nelle più diverse forme e presumibilmente per fini immediati diversi, della necessità di associare la figura del re alla vera sapienza. Tanto il Libro de los cien capítulos quanto il Sendebar, ad esempio, mettono in guardia dal pericolo che corre l’intero regno per un errore del sovrano; se questi infatti sbaglia, venendo meno alla giustizia, alla misura e all’equità, tutti ne saranno danneggiati. Il fatto che il re Alcos sia continuamente in pericolo, perché in bilico tra l’amore e la fiducia che nutre verso la moglie e il desiderio di giustizia, non mette in discussione il modello paradigmatico del monarca, ma lo espone a un piano narrativo, fenomenologico, in cui la saña, ovvero l’ira, rischia di prendere il posto della mesura, e l’oscillazione è già possibile. Un pericolo, questo, che nel Sendebar è temuto dai consiglieri, i quali sanno fin dall’inizio che se il re, in preda all’ira, facesse uccidere il proprio figlio, dovrebbe poi necessariamente pentirsi del suo gesto, incolpando i suoi consiglieri stessi; ma saranno proprio loro a sventare tale eventualità, rinviando giorno dopo giorno, narrazione dopo narrazione, l’esecuzione dell’Infante, fino al momento in cui la verità potrà essere svelata e la sa

pienza del principe finalmente trionfare, anche e soprattutto a beneficio del sovrano. Tanto nella produzione gnomica quanto in quella esemplare si evidenzia, inoltre, la necessità di certo ermetismo nell’insegnare delle verità o delle abilità cognitive e comportamentali, delle quali il discepolo è unico e privilegiato depositario. Un dato, questo, che lega ancora una volta il trattatello pseudoaristotelico della Poridat al Sendebar. Entrambi i generi sono poi uniti dal rilievo e dal ruolo attribuito a una comune cultura emblematica, alla figura come manifestazione di una realtà interiore e come chiave per accedere a una verità nascosta; cultura testimoniata per un verso dalla fisiognomica, in particolare nei ritratti fisici dei filosofi nei Bocados (ciascuno dei quali tiene fra le mani un oggetto-emblema ), così vividi sebbene rispondenti a tipi convenzionali, per l’altro dall’esplicito riferimento, nel medesimo testo, alla visita che il re Bonium, durante il suo viaggio in India, fa al misterioso palazzo in cui incontra figure emblematiche del passato; realtà che può avvicinarsi a quella degli emblemi con cui, nel Libro de los engaños, Çendubete trasmette la sabiduría al giovane figlio del re Alcos. A proposito di certa tendenza della cultura medievale a fissarsi in figura, mi pare opportuno considerare qui, senza alcuna pretesa di approfondimento, che all’epoca del Rey Sabio la necessità di interpretare l’esistente in chiave figurale si approfondisce forse anche in conseguenza della diffusione del pensiero astronomico classico e mediante la pratica della traduzione o la composizione dei trattati di astrologia. Limitandoci al nostro testo, se Çendubete riesce più di ogni altro sabio a garantire una smisurata, o meglio completa, sapienza al giovane figlio del re, è anche perché egli traccia sulle pareti dell’edificio costruito una sintesi figurale degli astri e di tutto quanto vi è in cielo, nella ferma convinzione, assai radicata in tutto il Medioevo, che attraverso quella si arrivi a conoscere il disegno tracciato da Dio per gli uomini. Infine, ma senza pretese di un confronto sistematico, non si può fare a meno di sottolineare la comune base di misogi

nia che regge l’intero impianto dei libros gnomici e quello delle raccolte esemplari; conseguentemente, ambedue i generi insistono sulle insidie che possono derivare al re e alla corte tanto dalle donne quanto, di contro, dai falsi amici; da qui, a sua volta, la necessità dei numerosi esempi di vera e di apparente amicizia. Pochi tratti permangono, invece, del gusto così ricorrente nella letteratura gnomica per le enumerazioni di semplici elementi tematici in lunghe serie di sententiae giustapposte con uno stile perfettamente sintagmatico, volte a illustrare le varie caratteristiche dell’uomo e, in modo particolare, a rispondere a quesiti teorici sull’esistenza umana. Basti, a titolo di esempio, il ritratto che nella Poridat, a beneficio del suo discepolo Alessandro, Aristotele fa dell’uomo come essere superiore a ogni altra creatura, ma paragonabile per vizi e virtù e caratteri particolari a una trentina di animali ; oppure la serie di definizioni che ciascuno dei dodici sapienti, l’uno dopo l’altro, fornisce di vizi e virtù nel Libro de los doze sabios, databile attorno al  . Tanto nel Calila quanto nel Sendebar, pur con le sensibili differenze di impostazione e di concezione del testo letterario, il gusto per l’enumerazione è sostituito da quello per lo scambio dialettico dei locutori, ossia per la contraddizione e la sfida nel narrare, peraltro già presente nei modelli orientali. Senza entrare nel merito del primo dei due libri, osserverei che qualche traccia di questo espediente cognitivo permane, perfettamente inserita, nella cornice narrativa del Sendebar laddove, giunto l’ottavo giorno, in cui l’Infante può finalmente scagionarsi, il re Alcos si pone l’interrogativo del tutto teorico, e simile alle quaestiones dei testi sapienziali, su chi sarebbe stato il vero colpevole qualora egli stesso avesse fatto uccidere ingiustamente suo figlio: «¿cúya sería la culpa? ¿Si sería mía, o de mi fijo, o de mi muger, o del maestro?». Ebbene, ciò che segue è appunto una sequela di opinioni diverse, di quattro sabios, ciascuno dei quali attribuisce la colpa a una delle persone citate nella domanda del re. Non è che un breve omaggio che il Sendebar rende all’impianto retorico 

della letteratura gnomica, immediatamente trasceso da un’affermazione in cui il maestro Çendubete mette l’accento sulla necessità di risolvere ogni conflitto con la parola, con il racconto pieno di saggezza, come è quello, appunto, cui si accinge l’Infante; in particolare la sententia del maestro supera il concetto, tanto frequente nei testi gnomici, della preferibilità del silenzio alla parola inopportuna, in altri termini, la nozione di peccatum linguae. In realtà, in modo imprevisto e con uno scarto tutto narrativo, Çendubete relativizza vizi e virtù, colpe e assoluzioni; ovvero relativizza quel sistema filosofico, morale e comportamentale che la letteratura sapienziale sosteneva e offriva come stabilito a priori e inalterabile. Con il Sendebar, dunque, ancor più che con il Calila e Dimna, ci si allontana, necessariamente e in virtù del gusto per l’avventura umana testimoniata nel continuo ribaltarsi delle sorti dell’Infante, da una sapienza concepita, e quindi rappresentabile e dicibile, come entità misurabile, composta di elementi che si possono enumerare con precisione . La sostanziale differenza tra l’organizzazione testuale dei libros sapienziali, o delle raccolte di proverbia da un lato, e delle raccolte di exempla dall’altro, non è data soltanto dalla diversa natura di ciò che si racconta, ovvero, fondamentalmente, sentenze, detti, apologhi nel primo caso e storielle esemplari nel secondo. Se l’elemento discriminante fosse solo il contenuto, non coglieremmo la vera natura didascalica di un testo come la Disciplina clericalis, né potremmo riconoscere tutta la sostanza narrativa di un testo come il Sendebar o la piena differenza fra quest’ultimo e il Calila e Dimna. Nel libro di Pedro Alfonso, considerato opera capostipite delle raccolte di exempla in area ispanica, redatto nel secolo XII in latino ma su una medesima base prevalentemente orientale, i racconti esemplari non si piegano ad alcuna struttura narrativa, ovvero a nessuna cornice in quanto, come nei libri sapienziali, il filo conduttore e la finalità ultima del discorso sono costituiti dall’evidenza del tema, dall’argomento che si intende presentare per scopi pratici, corrisponden

ti alla necessità di illustrare, definire e assicurare la sapienza a beneficio del destinatario del libro stesso. Le figure dialoganti della Disciplina, infatti, non sono dei personaggi ma solo strumenti per scenificare l’insegnamento e renderlo più accessibile, più interessante e atto a essere memorizzato. Nel Sendebar, viceversa, ancor più che nel Calila e Dimna, la regolarità nella definizione tipologica del locutore, così come ogni sistematicità nell’affrontare una materia, viene meno. Qui la situazione impostata dalla cornice narrativa condiziona pesantemente l’interpretazione degli argomenti proposti nei racconti. L’approccio ai temi fondamentali delle storielle – ovvero il topos della prudenza che deve precedere l’azione, la diffidenza necessaria di fronte ai cattivi consiglieri o alle donne intriganti –, evocati secondo prospettive opposte da parte dei consiglieri e della donna, sebbene formalmente schematico, non è più didascalico, ma è un approccio di natura squisitamente narrativa ed è determinato concretamente dalla fictio lungo la quale ciò che è stato appena detto si concatena, in modo allusivo e a volte persino incerto, con ciò che si dirà. Per ciò stesso il lettore non si trova di fronte a un’immediata e inequivocabile messa a fuoco del tema (o della sostanza sapienziale) che guidi nell’interpretazione definitiva dell’exemplum. Ma accade anche, di contro, che la morale dell’esempio venga ricavata al termine del racconto, in modo troppo acritico da chi l’ha riferito per colpire l’avversario, ed è sempre accolta con brutale automatismo da parte del re, il quale alternativamente condanna o salva il figlio, a seconda che, rispettivamente, i narratori siano stati o la donna o i consiglieri. In realtà nel Sendebar la figura del sovrano, pur essendo sempre presente e rappresentando il destinatario di ogni racconto, è quella che rimane più incerta. E non si vuol dire che sia aleatoria in termini di una sua insufficiente definizione psicologica, qualità che non avvertiamo necessaria in una fictio di questo tipo e di questa epoca, ma si vuol dire che è indeterminata e in parte confusa nella sua funzionalità, in relazione alla struttura e alla connotazione “dottrinale” proprie di un libro improntato agli schemi del genere dello speculum principis. Nel nostro testo, 

infatti, il re appare il destinatario più diretto, il vero discente, al quale sono indirizzati tutti gli insegnamenti morali e pratici che l’Infante ha acquisito dal suo maestro e che dimostra di possedere, prima mediante il silenzio cui si attiene, poi nel presentare e risolvere brillantemente casi particolarmente controversi. Quanto al ruolo sociale e simbolico che riveste il sovrano nel Sendebar, si ha dunque l’impressione che tutti gli attributi che sia nei libros sapienziali sia negli specula principis dell’epoca caratterizzavano la relazione fra il monarca e i suoi consiglieri siano sì presenti sullo sfondo, ma che non sia necessario richiamarli con precisione metodica, né evocarli o sollecitarli al di là del basilare rapporto che lega le due figure a una comune ratio di corte e al di là di una fondamentale misoginia. Assai diversamente agisce il re nel Calila e Dimna quando, all’inizio dei capitoli, richiede che venga narrato un esempio che illustri con precisione un tema che egli stesso sollecita, predeterminandone anche una sorta di pista interpretativa e intervenendo quindi in qualità di giudice e sapiente. .. Il Sendebar e il genere dello speculum principis Il Sendebar si inserisce, come il Calila e Dimna, nell’epoca d’oro della letteratura esemplare medievale, nella quale, come sottolinea Le Goff , la morale del racconto era implicata o determinata dal contesto. Senza addentrarci nella terminologia che distingue, con maggiore o minore certezza, i vari generi della narrazione breve di tipo esemplare (racconto, esempio, fabula, apologo, fatto, detto ecc.), dobbiamo tuttavia sottolineare che il Sendebar non include apologhi e quindi esclude l’esemplarità di natura decisamente ficta, differenziandosi così sostanzialmente dal Calila e Dimna stesso. L’accezione inequivocabilmente esemplare dei cuentos che costituiscono la raccolta castigliana commissionata da Fadrique è confermata, invece, dalla titolazione presente nel manoscritto: Enxenplo del...; Enxenplo de cómmo... (nella variante De cómmo...). L’entità primaria dell’exemplum medievale proviene innanzitutto dalla sua appartenenza alla narratio brevis , men

tre la funzione di esemplarità del racconto breve – che nel Medioevo approfondisce il pieno valore di «storia illustrativa»  implicito nel termine greco parádeigma, di cui exemplum si può considerare il vocabolo latino corrispondente – si misura in due diversi ambiti, politico-culturale e letterario. Da un lato, dunque, l’exemplum medievale ha un valore in quanto paradigma sapienziale e morale e persino comportamentale, la cui grande diffusione nei secoli XIII e XIV si deve sia alla grande capacità che questo tipo di argomentazione ha di interpretare e rappresentare in modo efficace il profilo culturale e sociale nonché i valori che l’aristocrazia cortigiana dell’epoca intende darsi, sia alla sua centralità nelle artes praedicandi e nell’attività oratoria stessa, ma soprattutto omiletica, per la sua propensione a parlare universalmente, con immediatezza e facilità e per la caratteristica propria dell’exemplum di essere ritenuto dalla memoria. Del valore letterario dell’exemplum, invece, si devono rilevare essenzialmente la versatilità e l’attitudine a conformarsi a vari contesti narrativi . Il carattere universale dei racconti esemplari ne spiega tanto la facile intercambiabilità, a testimonianza dell’autonomia di ciascuno di essi, quanto il riutilizzo in diversi ambiti narrativi. La costante relazione con una cornice narrativa, infatti, non impedisce ma piuttosto facilita che uno stesso racconto e uno stesso motivo vengano impiegati in ambiti narrativi di differenti contesti socioculturali, o determinati da diverse committenze in grado di sollecitare la traduzione, la riscrittura e la trasmissione di un materiale sapienziale per motivi e intenti di varia natura. Per ciò stesso il rapporto simbolico, metaforico o allegorico tra l’exemplum e la cornice narrativa non solo può variare, essere più o meno esatto oppure ambiguo ma, soprattutto, può dare luogo a testi stratificati che, in virtù delle diverse funzioni che il racconto svolge nella narrazione, accolgono molteplici registri letterari, o istanze espressive diseguali. Il testo esemplare, dunque, entrando in relazione con un contesto nuovo rispetto a quello cui rinvia l’originale di cui è traduzione, può arrivare a essere, come accade nel Sendebar, un 

testo stilisticamente stratificato, ovvero recepire registri colti e popolari, di tradizione scritturale oppure orale. Le due funzioni, politico-culturale e letteraria, si sommano, infine, in virtù dell’alta considerazione e della fama che presso la società cortigiana assume l’attività della scrittura e della letteratura sapienziale-esemplare, come ancora nel secolo successivo dimostrerà il Prólogo del Libro de la caza di don Juan Manuel. Potrà dunque sembrare sorprendente, ma è un dato di fatto  che la storia di Sindibad, concepita (come il Calila e Dimna, ed altre raccolte esemplari) in un ambito culturalmente e linguisticamente così lontano dalla Spagna alfonsina, susciti presso l’ambiente aristocratico del secolo XIII un interesse tale da indurre un membro della famiglia reale quale Fadrique a incaricarne la traduzione. La lunga permanenza musulmana nella penisola iberica di per sé rappresenta, a partire dalla realtà multiculturale e multilinguistica che in essa si dà per molti secoli, una giustificazione, sebbene esterna e di natura storico-culturale, di quell’interesse, ma non basta a spiegare pienamente l’attenzione rivolta dalla corte a questo tipo di opere ludico-didascaliche di provenienza orientale. Un’ulteriore giustificazione di ordine culturale è costituita dall’intensa attività di traduzione nel periodo interessato, la quale ha permesso di fissare attraverso la scrittura un materiale paremiologico e narrativo che per lungo tempo era stato trasmesso e diffuso oralmente nella società ispano-musulmana . Si è anche detto che testi come il Calila e Dimna e il Sendebar erano avvertiti quali specula principis; tuttavia pare lecito avanzare dei dubbi sull’effettiva influenza che queste opere potevano esercitare, come veri e propri paradigmi comportamentali, sull’esistenza dell’uomo di corte. A me pare, piuttosto, che si debba considerare che la temperie culturale del XIII secolo, favorita dalla politica del Rey Sabio e sulla scorta della traduzione del Calila e Dimna, promuovesse la diffusione e la fissazione dell’exemplum quale modello letterario, fortunato perché duttile e permeabile, ovvero capace di accogliere motivi tradizionali e forme diverse di co

municazione colta in relazione alle funzioni che di volta in volta essa era chiamata ad assolvere in un’epoca di formazione dell’identità letteraria castigliana. La grande attitudine della cultura spagnola del Duecento a far proprio il racconto esemplare di matrice orientale era già stata dimostrata più di un secolo prima dalla Disciplina clericalis della quale si è già fatto cenno. Dal Prologus si ricava una duplice valenza del racconto: da un lato si afferma che la traduzione dell’exemplum è uno strumento dotato di una sua qualità morale e religiosa per l’apporto che può dare all’uomo – tanto a colui che lo propone quanto a colui che ne fruisce, leggendo e in parte ascoltando – di vincere la propria fragile natura («fragilem [...] hominis complexionem») per incamminarsi verso la conoscenza cui Dio l’ha destinato; dall’altro si sottolinea il potenziale didattico della narrazione, in quanto consente di istruire «paucis et paucis», gradatamente, ovvero in modo commisurato alla pochezza, o meglio alla «duricie», del discente al quale permette di non incorrere nel «tedium» . Ma il racconto esemplare non si limita ad adottare, nel programma didascalico dell’uomo colto dell’epoca, l’ideale classico del miscere utile dulci; perché la composita materia di cui è formata la Disciplina clericalis (proverbi di filosofi e loro detti, aneddoti di origine araba, “favole e versi” e infine “similitudini con animali e uccelli”) permette all’uomo, la cui memoria, come ricorda l’Arcipreste de Hita, è «desleznadera», ossia “scivolosa” , di ricordare, di fissare nella mente e nell’alma la materia insegnata, proprio in quanto le dà evidenza concettuale, iconica e narrativa. Né può sfuggire all’avveduto Pedro Alfonso, il quale fa propri molti dei topici dell’esordio classico, che la brevitas del racconto esemplare ha anche una sua intrinseca misura estetica e letteraria, se è vero che nel Prologus, appunto, osserva: «Modum tamen consideravi» . Quella di Pedro Alfonso è ritenuta da molti una delle prime – se non in assoluto la prima – raccolte di exempla della Spagna medievale, gran parte dei quali sarà utilizzata in sillogi successive; tuttavia, rispetto a queste ultime si devono evi

denziare alcuni fattori peculiari della Disciplina, quali: certa insistenza sugli aspetti inerenti alla morale cristiana, dovuta alle vicende dell’autore, giudeo spagnolo convertito al cristianesimo; la cronologia (prima parte del secolo XII), che vincola ancora l’esperienza scritturale più all’ambito religioso – se non propriamente monastico – che a quello scolastico urbano o a quello traduttorio dello Studium toledano; e infine l’uso della lingua latina, atto a un’operazione di generica occidentalizzazione e cristianizzazione delle tematiche orientali. Questi elementi fanno della Disciplina clericalis uno strumento decisamente più didascalico che edificante, a beneficio di un generico pubblico letterato che non è né quello popolare, cui è diretto per lo più l’exemplum omiletico, né quello dello speculum principis, riconoscibile all’interno di un ben determinato ambito sociale, formato, sulla base dell’archetipo narrativo orientale, dai narratori (sapienti, filosofi o consiglieri del monarca) e dall’esclusivo uditorio della corte. Di contro, il Sendebar si può considerare una delle prime e più significative raccolte di exempla in volgare castigliano in grado di fornire – sia in virtù del nucleo tematico e della struttura narrativa che il libro, di per sé, è andato formando lungo il ramo orientale sia grazie alle connotazioni stilistiche e linguistiche realizzate nella traduzione – una testimonianza della complessità sostanziale e delle potenzialità dell’exemplum nella Spagna del secolo XIII. Se infatti sottoponiamo il Sendebar, in quanto raccolta di exempla, ai criteri classificatori proposti da Le Goff  – origine, natura dell’informazione, natura dei personaggi messi in scena, struttura formale e logica –, non possiamo non riconoscere che ci troviamo a un ben determinato punto nell’evoluzione e nel riutilizzo di questo genere come strumento letterario e modo della narrazione. . L’origine orientale del Sendebar conferma le scelte fondamentali dell’epoca alfonsina, che in ordine ai tre tipi di fonti (giudaico-cristiano o cristiano antico; pagano antico; moderno) potremmo definire eclettiche, ma che comunque individuano una forte necessità di conoscere e conoscersi 

nella narrazione, così come la convinzione di poter cristianizzare qualsiasi argomento relativo alla natura umana. . In relazione al secondo parametro, cioè quello della natura dell’informazione, si evidenzia il grande ruolo dell’oralità, parallelamente, però, alla necessità di rendere autorevole il racconto attraverso la scrittura. All’interno di questo criterio mi pare significativo considerare il percorso interlinguistico, ovvero la vicenda della traduzione cui l’exemplum è sottoposto. In questo ambito sarà necessario considerare la distanza “genetica” fra le lingue interessate, notevole nel caso del passaggio dal Sindibad arabo al Sendebar castigliano. Tale distanza, congiuntamente ad altri fattori non tutti perfettamente verificabili perché legati al contesto reale in cui si è svolta la traduzione, non può non incidere, se si pensa al rimpasto orale del fârâbâsta (l’interpres, per lo più giudeo trilingue), sul riassetto linguistico e stilistico richiesto dal “modo esemplare” nel testo d’arrivo. Solo attraverso l’analisi di quel percorso potremo cogliere appieno le implicazioni sostanziali di quella che Le Goff definisce «natura dell’informazione», e raggiungere, anche mediante quest’ultima, la qualità compositiva e la specifica identità narrativa di ciascuna raccolta di exempla. . La natura dei personaggi messi in scena non lascia dubbi sulle scelte insite nella riscrittura del modello orientale, in quanto nella silloge compaiono soltanto figure umane, con qualche presenza di esseri diabolico-favolistici. Il Libro di Sindibad non include né animali parlanti né esseri soprannaturali: una siffatta natura dei personaggi, raffrontata con quella dell’autorevole modello contemporaneo del Calila e Dimna, pone in luce l’intento narrativo e di contro la scarsa vocazione didascalica del Sendebar, che sembra del tutto scevro di quell’ansia, propria di molte opere didascalico-moralistiche, di opporre le sembianze divine dell’uomo alla intrascendenza dell’animale. . La scelta della struttura formale e logica ci porta alla tipologia del rapporto analogico, o «termine a termine» , fra il racconto narrato e il destinatario, immediato o remoto che sia. Il destinatario, o in generale il lettore, è invitato, in una 

sorta di similitudo, a far tesoro dell’episodio proposto, per lo più come exemplum vitandum, per non subire la medesima o un’analoga conseguenza. Si noterà che la muger, il cui ambito referenziale è più immediato e legato alla situazione contingente, per introdurre i propri racconti non si avvale delle stesse formule usate dai privados poiché, eliminando la necessità di far riferimento a qualsiasi intermediario tra la fonte della narrazione e il contesto della corte, adotta una struttura formale e logica in cui l’analogia fra l’exemplum e il destinatario è strettissima, cioè del tipo: “così... come...”. Gli exempla dei consiglieri, invece, stanno a metà fra l’esempio fondato sull’analogia e quello imperniato sulla similitudine, che instaura un rapporto di tipo metonimico, se non addirittura paradigmatico, che suggerisce al fruitore (lettore o ascoltatore che sia) di trarre una lezione dalla vicenda presentata e di applicarla alla propria situazione. Infine si può accennare, con lo stesso Le Goff, a una doppia tipologia dell’esempio, secondo la quale exemplum breve o schematico si opporrebbe a exemplum sviluppato. Senza arrivare a considerazioni di tipo teorico, mi limito a rilevare una brevitas più accentuata nella narrazione di alcune storielle in cui tanto il Syntipas quanto il Mishlè Sendebar mostrano maggior dovizia di particolari e una più consistente incidenza del narratore. Tuttavia il modello stesso del Libro di Sindibad sembra estraneo a qualsiasi approdo dell’exemplum nella dimensione fantastica. Da ultimo, va tenuto in considerazione anche il fatto che la fissazione nella scrittura di un’opera affidata probabilmente alla trasmissione orale normalmente riduce quantitativamente il racconto esemplare. Ebbene, se è certo che l’evoluzione dell’exemplum tende alla strutturazione di precise tipologie delle raccolte esemplari in ordine ad alcuni criteri che la critica moderna ha tentato di definire e spesso validi in generale per la cultura medievale europea, tuttavia il contesto in cui la singola silloge arriva attraverso l’esperienza della traduzione, e soprattutto se condotta in un ambiente sociolinguistico come quello individuato, può innescare processi connotativi di un qualche rilievo, 

talvolta eccezionali. È allora che ci accorgiamo come ogni singola traduzione possa privilegiare un tipo particolare di comunicazione, o se si vuole una propria retorica, più legata alle modalità orali, come nel Sendebar, o più preoccupata della scrittura, come nel Calila e Dimna. Oppure ci si rende conto, grazie alla comparazione di traduzioni coeve in diverse lingue della stessa raccolta (come risulta dal raffronto tra le versioni ebraica e castigliana del Sendebar), delle scelte strutturali operate dal traduttore, della pregnanza simbolica conferita ad alcuni elementi o ai personaggi – magari in virtù di scarti minimi o di opzioni che, come il diverso finale delle due versioni appena citate, spingono l’interpretazione della stessa raccolta in direzioni opposte – e infine delle scelte narrative e in definitiva letterarie operate mediante la traduzione. Uno degli elementi attorno ai quali gravita la versione castigliana sembra essere la ricerca dello strumento e dell’occasione ideali nella trasmissione di un sapere certo, superiore, definitivo, come deve essere quello richiesto tanto all’Infante quanto al re. Purtroppo la mancanza del testo arabo non ci consente un’analisi contrastiva fra originale e traduzione, e ci dobbiamo attenere al raffronto, per lo più tematico e strutturale, in primo luogo fra il testo castigliano e quelli più prossimi del ramo orientale, ovvero quello greco e quello ebraico, e secondariamente con le altre versioni dello stesso ramo. L’indagine, avviata da Comparetti e proseguita dai contributi degli studiosi che hanno ipotizzato le varie origini del Sendebar , dal punto di vista contenutistico e quantitativo fornisce elementi contrastivi utili, tuttavia ritengo indispensabile un’analisi più attenta della versione castigliana, in grado di osservare più da vicino le peculiari soluzioni, tanto etiche quanto estetiche, date dal nostro testo sul tema della conoscenza, ossia su una materia così centrale nel genere dello speculum principis. Infatti una lettura critica del Libro sarà possibile soltanto focalizzando la relazione fra la versione castigliana (realizzata nel XIII secolo, ma attestata in un codice tardivo) e la realtà “generica”, fra il testo e il contesto letterario e lata

mente culturale, così come nell’individuazione di una funzionalità ultima del Libro de los engaños in rapporto all’orizzonte d’attesa del pubblico cui esso è destinato. Ovviamente questa operazione è molto complessa, in quanto coinvolge molte realtà del panorama culturale, filosofico e letterario del Medioevo e per essa vale lo stesso auspicio che Le Goff rivolge alla futura indagine critica sull’exemplum. Per parte mia torno a sottolineare l’attenzione, non sistematica ma sintomatica, che il testo castigliano riserva al tema dell’acquisizione del sapere; tema che si manifesta in modi diversi, ma sempre attraverso episodi “esemplari”, paradigmatici e, in definitiva, per esperienze ecfrastiche, in cui affiorano elementi cari alla cultura gnomica, quali la parola, la scrittura, il silenzio o l’immagine grafica come cifra sapienziale. Se nella struttura narrativa e nella funzionalità didattica del genere dello speculum è già presente una forte attenzione alla parola, che interviene nei destini degli interlocutori, nella versione castigliana del Sendebar il rilievo dato al «dezir» sembra essere del tutto particolare. Il ruolo centrale della parola (come già avviene nel Calila e Dimna) è legato al concetto del ri-dire, del tradurre e del riferire, con un fine decisamente educativo o edificante; e a tale riguardo è importante notare che ogni storia raccontata al re non è inventata, ma assume un valore pieno proprio in quanto già ascoltata e quindi riferita, colta lungo una catena di storie anticipate da formule come «oí dezir», «dixiéronme», «dize»... Ma, soprattutto, quello della parola è un dominio che l’intero testo non manca mai di confermare, tanto a livello della cornice quanto a livello delle narrazioni. L’attenzione verso la parola s’intensifica, assai significativamente, mediante un espediente narrativo che sembra derivare dalla pratica retorica, in quanto nasce dal suo contrario, ovvero dal silenzio imposto all’Infante dagli astri. Il mandato del silenzio, cui il giovane contravviene perché provocato dalla matrigna ingannatrice, è un elemento che mette in movimento la necessità opposta e fondamentale del dire, del raccontare nella sua duplice funzione, ovvero quella puramente strutturale e legata 

alla cornice di rimandare o accelerare l’ira regia e quella sostanziale di dimostrare la verità e la vera conoscenza. Tale verità, nella prospettiva della donna, sarà sempre legata all’esigenza di intervenire e condannare il colpevole e, viceversa, nella prospettiva dei consiglieri del re, proviene sempre dalla natura infida e ingannevole delle donne. Sennonché questo schema strutturale, rispettato con sostanziale regolarità, trova le sue eccezioni e peculiari realizzazioni in alcune potenzialità ulteriori, secondarie, che la parola assume in relazione al contesto difensivo o accusatorio che la ospita: come quando, giunto il momento in cui l’Infante può parlare, Çendubete definisce il «dezir» come “il maggior bene del mondo” , sostituendolo alla verità, presentata nel testo greco, appunto, come la cosa più preziosa; o come quando, al contrario, poco prima, nel racconto , si mette in discussione la veridicità della parola scritta, che un misogino quanto velleitario giovanotto «trasladó» da alcuni libri e fece sua nella speranza di poter conoscere librescamente tutte le arti delle donne. Sulla base dei tratti connotativi sopra evidenziati siamo in grado di osservare anche che la traduzione dall’arabo di testi esemplari ha contribuito a segnare in modo indelebile l’origine della prosa narrativa spagnola, che registra un suo primo risultato, appunto, nel divario fra un’opera come il Sendebar e gli specula di tradizione latina dominanti in Europa . In generale mi par di poter dire che se lungo il XIII secolo i traduttori mantengano fede al genere dello speculum, così come è attestato nelle versioni orientali, tuttavia una sorta di inerzia innovativa li porta a realizzare traduzioni di opere che presentino i racconti tradizionali di carattere esemplare all’interno di una situazione ridefinita, di una cornice narrativa, in grado di giustificarli non esclusivamente per il loro didattismo, ma anche per una nuova funzione sociale e per il loro potenziale letterario; cosicché non può sfuggire una naturale tendenza a romanzare il libro esemplare, e quindi alla contaminazione dei generi, favorita dalla traduzione stessa, e alla loro stratificazione. 

 Il testo .. La trama Il Libro si apre con la narrazione della vicenda dell’anziano re Alcos di Giudea  il quale, tormentato dall’impossibilità di avere un erede, nonostante le molte mogli in suo possesso, una notte, consigliato da quella che più ama, prega Dio di donargli un figlio, cosa che avviene dopo nove mesi. Alla nascita dell’erede, gli astrologi della corte interrogando il cielo predicono all’Infante una lunga e felice vita, solo adombrata da un pericolo che avrebbe corso proprio a causa del padre. Intanto il ragazzo cresce forte e bello, e quando giunge all’età di nove anni  il padre inizia a pensare alla sua educazione; tuttavia, quando all’età di quindici anni non ha ancora imparato nulla, viene affidato al sapiente Çendubete, che promette di insegnargli in soli sei mesi più di quello che gli altri gli insegnerebbero in sessanta anni. Il giorno precedente a quello in cui l’Infante doveva tornare presso la corte, Çendubete interroga gli astri, che gli impongono di restare muto per sette giorni, a rischio di morte. Vinte le preoccupazioni che il vincolo del silenzio comportava proprio quando il giovane principe avrebbe dovuto mostrare ciò che aveva appreso, l’Infante decide di presentarsi a corte, mentre Çendubete non si fa vedere. Il silenzio del giovane principe getta l’intera corte nella costernazione. Una delle mogli del re chiede di appartarsi con l’Infante, con il pretesto di sottrarlo al timore reverenziale che forse gli impediva di parlare innanzi al sovrano, ma alla fine gli propone di uccidere il padre e di regnare, al posto suo, con lei. All’udire le parole della donna il giovane, infiammato d’ira, contravviene all’ingiunzione astrale, e fa capire alla donna che se potesse esprimersi svelerebbe le nefaste intenzioni da lei rivelategli. Comprendendo che da lì a sette giorni avrebbe potuto essere scoperta e condannata, la giovane donna racconta al re che l’Infante le ha usato violenza, decretando così la morte di quest’ultimo. I sette più intimi e saggi consiglieri 

della corte capiscono subito che il sovrano, senza averli affatto consultati, agisce contro il figlio spinto dall’ira, e temono che una volta pentitosene egli possa accusarli; perciò tentano di dissuadere il monarca dall’uccidere avventatamente l’Infante, proponendo ciascuno di essi due racconti. Poiché il terzo consigliere ne presenta soltanto una, le storie narrate sono tredici, nove delle quali contengono esempi della malizia delle donne, tre intendono mostrare come sia dannoso agire spinti dall’ira, e una sola è un esempio di una donna virtuosa. Dal canto suo, la donna nei sette giorni che seguono si alterna con i consiglieri nel racconto di cinque cuentos prevalentemente incentrati sull’inettitudine e sull’insipienza degli uomini. Il comportamento del re Alcos è quello di reagire automaticamente agli esempi, ora ordinando di sospendere l’esecuzione del figlio, ora accelerandola. Intanto passano i sette giorni e, giunto l’ottavo, l’Infante può finalmente venir meno all’obbligo del silenzio e denuncia le macchinazioni della matrigna, ma soprattutto procede alla propria difesa narrando anch’egli cinque storie. Intanto Çendubete ritorna dal suo ritiro. Narrando, l’Infante non solo salva se stesso ma, riportando esempi in cui la sapienza (una sapienza fondamentale che anche i bambini possono avere, come dimostrano gli stessi racconti) risolve casi controversi e difficili, conferma così d’avere acquisito quelle doti che Çendubete aveva promesso di trasmettergli. La donna, infine, è condannata a morire bruciando in una «caldera en seco». .. La struttura in relazione al ramo orientale Il contenuto della storia di Sindibad, così come si è venuta realizzando lungo il ramo orientale, rimane sostanzialmente intatto nella versione castigliana e in consonanza con le trame delle altre versioni, soprattutto con quella greca. La struttura del ramo orientale del Sendebar si distingue sia da quella del ramo occidentale sia dalla struttura di altre raccolte narrative, per la semplicità della relazione tra i personaggi della cornice e gli exempla raccontati da alcuni di essi: i set

te sapienti, l’Infante e la sua matrigna. In tutti gli esemplari la cornice (indicata, sulla scorta di Sklovskij , come novelamarco o storia principale) ha un rilievo e una funzione innegabili, in quanto non si limita a essere soltanto un contenitore degli exempla e degli argomenti sapienziali presentati ma, mediante l’esperienza iniziatica dell’Infante e del suo maestro Çendubete, offre una chiave di lettura e di interpretazione dell’intero prodotto narrativo, a beneficio del destinatario privilegiato, ovvero il re, e della nuova società aristocratica e cristiana che nel saber cercava un mezzo di perfezionamento dell’anima . Il repertorio tematico è contraddistinto, invece, dall’utilizzo di motivi universali, presenti sia nella cornice sia nei racconti, nati in ambito orientale ma rintracciabili nel vasto dominio della letteratura tradicional e nel corpus di elementi folklorici universali attestati nella Spagna medievale, esaminati da Stith Thompson e da John Esten Keller : il desiderio di avere un figlio; l’astrologia; il motivo della matrigna lussuriosa e la falsa accusa; l’iniziazione culturale dell’Infante e la scelta del maestro; l’oroscopo sollecitato dal re alla nascita del principe e dal maestro Çendubete; l’allontanamento dalla corte e il ritorno alla stessa; il silenzio come avvertimento astrale all’Infante ... A partire dai fondamentali studi sulle strutture formali della fiaba, del racconto folklorico e meraviglioso, di Vladimir Propp , recepiti in Occidente soprattutto negli anni Settanta, la critica spesso ha messo in risalto i debiti che l’impianto della historia principal ha nei confronti appunto delle storie mitologiche e delle storie dell’eroe nella tradizione popolare, orale e scritta . La struttura argumental, ovvero la trama del Sendebar, dunque, come osservò Comparetti in occasione della prima edizione moderna del manoscritto, è sostanzialmente la stessa seguita da tutte le versioni appartenenti al ramo orientale della storia di Sindibad. Fra queste, la versione castigliana, realizzata, come recita il Prólogo, su un originale arabo, con i suoi   racconti è la più ricca dopo il Syntipas  greco della fine dell’XI secolo. 

Volendo avviare un’analisi che ponga in evidenza le peculiarità del testo, riscontrabili peraltro non solo in relazione allo specifico ramo cui il Sendebar appartiene, ma anche e soprattutto in rapporto al genere della narrativa didattico-esemplare del Medioevo spagnolo, si dovrà partire dalla considerazione di una vitalità di questa tipologia testuale, riscontrabile in un arco temporale considerevole e attraverso varie culture e lingue. A tale proposito non si può non condividere l’opinione di chi rileva il ruolo didascalico di tale genere narrativo, testimoniato, o semplicemente supposto, sin nelle sue più lontane manifestazioni buddiste ; un ruolo che si conferma e si rinnova lungo l’iter stesso delle traduzioni che portano il paradigma della novellistica esemplare dall’Oriente all’Occidente. Ci si chiederà certamente quale sia la ragione di una così lunga fedeltà a una struttura narrativa tanto semplice, ma indubbiamente efficace, che regge anche alle innovazioni della temperie culturale della Spagna alfonsina. Per il momento ci limitiamo a registrare questa particolare tradizione testuale in diversi contesti storici e culturali, attorno alla funzione didascalica e alla componente d’intrattenimento, e quindi alla funzione ludica, che le narrazioni garantiscono in tutte le versioni, così connaturale alla letteratura ispano-islamica e ispano-ebrea diffusasi in un reale ambito multilinguistico, soprattutto, e prevedibilmente, nell’al-Andalús, tra gli aljamiados, ovvero i cristiani di lingua romanza linguisticamente islamizzati e, parallelamente, fra i latinados o ladinos, musulmani di lingua araba che coltivano l’idioma romanzo . Quel che qui ci preme affrontare (sia attraverso il testo sia in un’ottica critica pragmatica) è il tipo di comunicazione che si realizza nell’epoca, nell’ambiente specifico della Spagna della metà del XIII secolo, e a beneficio di un ipotetico destinatario, mediate l’esperienza della riscrittura e della traduzione di testi orientali a così alta vocazione ludico-didascalica. La possibilità di riproporre, in tempi e contesti diversi, il materiale delle novelle orientali nasce dalla universalità dei motivi che esse accolgono e dalla opportunità di legare agilmente i contenuti sapienziali a una struttura narra

tiva in cui compaiono figure, quali un re, le sue mogli, l’Infante, i sapienti e dignitari, di assoluto rilievo presso la classe sociale cui il libro esemplare è destinato. Ci troviamo, insomma, di fronte a un alto grado di fruibilità del genere della narratio brevis, la cui connaturale episodicità ben si adatta a diversi contesti e a differenti finalità . .. La cornice e i racconti A partire da opere come il Barlaam e Josaphat, il Calila e Dimna e il Sendebar, i racconti esemplari sono subordinati a un’unità superiore, secondo una struttura che caratterizzerà specialmente i capolavori della novellistica europea del secolo successivo . In quelle raccolte di exempla, o specula principis, del secolo XIII il nesso narrativo si sostituisce a qualsiasi ordine tassonomico o alla semplice accumulazione di esempi che caratterizza le precedenti sillogi esemplari e la letteratura gnomica, senza che, come si osserva nello studio di Lacarra e Cacho Blecua, i  racconti rischino di perdere la loro indipendenza. In tutta la novela-marco, divisibile in tre macrosequenze , a partire dall’incipit, i numerosi espedienti tipici del racconto popolare folklorico, i motivi quali la mancanza dell’erede, l’oroscopo, ad esempio, diventano elementi costruttivi di una historia, di un vero e proprio cuento, ovvero tendono a realizzare un tessuto narrativo in cui il comportamento dei personaggi e le loro azioni sono abilmente strutturati e sostenuti, e che al contempo è in grado di accogliere con sufficiente coerenza gli exempla a carico dei sette consiglieri, della donna e dell’Infante. Entrambi, poi, exempla e historia, instaurando una relazione non più solo “dottrinale” ma semmai narrativa, mostrano una sorprendente capacità di adattare contenuti sapienziali o filosofici di ascendenza sia popolare sia colta e di provenienza orientale al contesto creativo e ricettivo della Spagna cristiana. Il peculiare nesso fra cornice narrativa, o azione principale, e racconti, storielle esemplari o aneddoti, ha profonde radici tanto nella novellistica orientale quanto in quella greco

latina e giocherà un ruolo importante nello sviluppo della novellistica e della narrativa in tutto l’Occidente . In merito alla struttura dell’antico modello narrativo del Sendebar, si è notato  che i racconti hanno dato prova di un’agile funzionalità in rapporto alla cornice per il fatto stesso che, pur all’interno di una semplicissima struttura, sono risultati in grado, nel lungo cammino interculturale del testo, di reggere a così tante traduzioni e rifacimenti e di adattarsi a numerosi contesti tra Oriente e Occidente. A tale riguardo si può osservare che nel ramo occidentale il racconto si articola, ad esempio nell’Erasto, con la vicenda della cornice, a vantaggio di una tensione e di una struttura che potremmo definire sempre più romanzesca: due dei racconti sono recapitati all’imperatore in forma epistolare, per cause che, rompendo la regolarità della comunicazione orale tra locutore e destinatario, offrono ai sapienti e al sovrano un più spiccato statuto di personaggi. Se la cornice, o narrazione principale, subisce dei cambiamenti nel ramo occidentale rispetto a quello orientale, è invece notevole l’omogeneità che essa mantiene nelle versioni orientali, cui quella spagnola appartiene. Ciò dimostra che la situazione realizzata dalla cornice è avvertita come necessaria, e valida a garantire l’impianto dialettico su cui si fonda la raccolta. Nella fattispecie è emerso che la relazione fra racconti e storia principale presente nel Sendebar è riconducibile a un modello sanscrito (quindi rintracciabile lungo la linea del ramo orientale del testo), costituito essenzialmente da un dialogo introduttivo e da una conclusione: il primo articolato in una presentazione del narratore – che qui spesso chiamo locutore – e nell’annuncio del racconto; la seconda comprendente l’applicazione del racconto alla storia principale e, infine, la sentenza del re . Si è rilevato, inoltre, che il Sendebar è la raccolta esemplare medievale che «presenta la miglior cornice narrativa come conseguenza di un estremo equilibrio tra questa e le storie narrate» . Un simile equilibrio strutturale, come già ha sottolineato María Jesús Lacarra, trova una conferma (e quindi, aggiungerei, un consolidamento semantico) nel gioco oppositivo delle parti, consiglie

ri-principe vs. donna-re, e nella scansione delle narrazioni dei consiglieri che si trovano a esporre due racconti per ognuno dei sette giorni in cui l’Infante deve tacere. Il primo racconto, come si desume dalla moraleja esplicitata dallo stesso privado, è concepito come esempio di un errore di giudizio, commesso per eccessiva fretta o per effetto dell’ira, e quindi a danno di un innocente; il secondo racconto, invece, riporta un esempio delle ingannevoli arti delle donne, che portano a premiare chi dovrebbe ragionevolmente subire la pena, lasciando invece impunito il vero colpevole. Si può dunque osservare che tutti gli esempi dei privados, in cui per lo più l’ingannatrice è non solo una donna ma una moglie, instaurano, come s’è detto, un rapporto allusivo e indiretto con la storia principale, in quanto rimandano sempre ai rischi che corre colui che, dovendo giudicare (come il re Alcos) l’operato degli uomini, non si attiene alla mesura e, guidato dalla saña, dall’ira, emette una sentenza avventata, di cui dovrà pentirsi. I racconti della donna, dal canto loro, mantengono la stessa allusività ai pericoli che spesso derivano al padre dalla condotta del figlio, ma il legame referenziale alla storia principale è necessariamente più forte e concreto in quanto la muger che narra è direttamente implicata nella componente delittuosa della vicenda. Di contro, la relazione esistente fra la donna e la sostanza esemplare dei racconti è connotata da assoluta ambiguità, e conferisce alla figura femminile un ruolo che oserei paragonare a quello di un personaggio del romanzo poliziesco che intenda sostenere una inesistente innocenza. In altre parole, la donna narratrice, doppiamente infida per ciò che ha fatto e che dice, diventa un’icona vivente, e di un indiscutibile rilievo narrativo, degli engaños delle donne e attua una sorta di mise en abîme del tema-guida della misoginia che, nella tradizione testuale moderna, costituisce il sottotitolo dell’intera raccolta. Il meccanismo che lega i racconti alla vicenda principale, dunque, da un lato appare rigoroso ed equilibrato dal punto di vista della struttura narrativa ma, dall’altro, è invece ambiguo, sia per quello che si è appena osservato sia perché la pro

spettiva nella quale le due parti si affrontano non si basa più unicamente su un confronto dialettico di argomentazioni dottrinali e sapienziali, ma fa leva su elementi contingenti della fictio, su equilibri sottili e non sempre manifesti che la narrazione instaura con il destinatario. Non può sfuggire, infatti, che gli interlocutori contendenti, pur nel tentativo di raggiungere risultati diametralmente opposti, si dispongono su livelli diversi e adottano atteggiamenti differenti: da un lato, sebbene non abbiano certezze sull’accaduto, i consiglieri mantengono un’attitudine di serenità e di distacco che li avvicina al ruolo dei sabios e ai filosofi della letteratura gnomica, o quanto meno narrano nel rispetto automatico dei principi cui deve tendere il re-destinatario dei libri sapienziali: mesura, prudencia, lealtad, razón ecc.; dall’altro, la donna è invece a conoscenza dell’accaduto, in quanto ne è protagonista, e indirizza a proprio vantaggio gli exempla, avvalendosi di una capacità interpretativa coniata al momento, determinata dall’occasione e non dettata da norme etiche o comportamentali già codificate e riconosciute nella letteratura in uso. Anche sul versante delle funzioni svolte dagli exempla mi pare di dover fare qualche precisazione. Si è giustamente parlato, in riferimento al Sendebar, della intercambiabilità e della duttilità dei racconti interpolati nella cornice narrativa e del ruolo essenziale che ciascuno di essi svolge (in conformità con il modello della novellistica orientale) di ritardare un’azione, che in definitiva è l’esecuzione di una condanna a morte. Tuttavia, se il cuento dei consiglieri si avvale di tale principio, secondo il quale l’azione del narrare ritarda l’esecuzione di un atto, non si può attribuire al racconto della muger, come fa invece Lacarra, la stessa finalità dilatoria, perché la donna non narra per ritardare la propria morte ma piuttosto per accelerare quella dell’Infante. L’intimo rapporto che lega la narrazione della donna all’obiettivo che si intende raggiungere impedisce quindi di equiparare la funzione adempiuta dalla matrigna dell’Infante a quella assolta da Sherazade nelle Mille e una notte. Per la donna, così come per il figlio del re, raccontare significherà piuttosto entrare in competizione retorica 

con l’avversario, contando su un’argomentazione superiore e convincente e sul potenziale parenetico del discorso. L’eterogenea funzionalità di cui si carica l’exemplum del Sendebar, bilanciato fra i meccanismi sperimentati e consolidati della novellistica orientale e l’impianto sapienziale, dimostra come in epoca alfonsina il genere narrativo avvertito e definibile forse come speculum principis in realtà è in grado di costruire un nuovo modello di fictio, capace di nuovi equilibri e di nuove tensioni fra ciò che è percepito come tradizione e ciò che si realizza sulla pagina del libro, e conseguentemente di nuove forme di intrattenimento letterario. .. La componente orale del Sendebar Recentemente, sulla scorta degli studi degli ultimi decenni rivolti alla oralità in epoca medievale , si è avanzata l’ipotesi secondo la quale il Sendebar sia stato concepito per essere raccontato oralmente. Nella prospettiva di una genesi orale si giustificherebbe, in realtà, buona parte delle anomalie scritturali e compositive del testo. Le più evidenti sono alcune contraddizioni riscontrabili nel contenuto del relato principal, ossia nella cornice , che ovviamente è l’elemento più esposto alla rielaborazione necessaria nel contesto ricettivo di volta in volta affrontato dalla raccolta, e quindi il più influenzabile dalle modalità della narrazione orale . Si tratta di incongruenze spesso segnalate da editori e commentatori, relative, in particolare, a dati numerici, temporali e spaziali e inerenti alla vita del re, all’educazione dell’Infante e al rapporto fra Çendubete e la corte, che nel corso dell’esposizione vengono presentati in modo incoerente. Queste “lacune” del tessuto narrativo si rendono possibili all’interno di un discorso orale che si affida in larga misura alla memoria, tanto di chi produce e trasmette il testo quanto di chi lo riceve. Esse permangono, dunque, nella tradizione orale – mentre sembrano meno probabili e meno giustificabili nella tradizione letteraria controllata dalla scrittura – perché si suppone che chi ascolta, affidandosi a un tessuto referenziale intratestua

le più labile di quello a disposizione del lettore dell’opera scritta, non le avverta, poiché si lascia attrarre dagli episodicardine della storia narrata, il più delle volte già depositati nella memoria come indipendenti l’uno dall’altro, senza preoccuparsi troppo dei nessi logici istituiti dall’asse narrativo . La natura orale, favolistica e folklorica della narrazione giunta dall’arabo al castigliano emerge anche dall’assoluta mancanza dei nomi dei personaggi della cornice, i quali vengono presentati, eccezion fatta per il re Alcos e per Çendubete, per il ruolo sociale che occupano, tanto che né la moglie saggia, né l’ingannatrice e neppure l’Infante hanno un nome proprio, contrariamente a quanto si registra nella traduzione ebraica, che nomina con precisione i sette sapienti, come avverrà nelle versioni del ramo occidentale, non a caso di tradizione letteraria scritta . Dall’impianto orale sembra derivare anche certa disattenzione allo stile del racconto, rintracciabile non tanto in un tratto di colloquialismo, che non mi pare incidere significativamente nel Sendebar, quanto piuttosto in un’esasperazione di alcuni tratti meccanici della prosa castigliana degli esordi. Senza alcuna pretesa di sistematicità, si possono evidenziare alcuni aspetti connotativi della prosa di questa raccolta. Fra gli elementi morfologici segnaliamo quanto segue: – una quasi totale assenza delle particelle avversative e delle forme concessive, dalla quale risulta l’uso della congiunzione e con molteplici valori semantici e varie funzioni grammaticali; – alla stessa attitudine stilistica (a testimonianza anche della preponderante attenzione al discorso diretto, continuamente sollecitato, e alla parola) sembra appartenere l’abbondanza dei verba dicendi e del più comune di essi, usato nella terza persona del preterito, dixo, ripetuto con una tale insistenza da rendere monotona la lettura al fruitore moderno. Tuttavia il tessuto linguistico del Sendebar non presenta connotazioni particolari e degne di nota e mi pare che condivida ampiamente i tratti morfosintattici tipici dell’epoca di formazione della prosa letteraria castigliana: posizione del pronome personale, specialmente in proposizione negativa e 

secondaria (esempio: «dixo el omne que lo non quería sacar» ; «lo que te agora diré» ; «que te yo defendí» ); tendenza alla paronomasia; uso frequente della paratassi; alternanza irregolare dei tempi verbali; predilezione per forme perifrastiche (esempio: «nunca te saldré de mandado»  per jamás te desobedeceré)... Fra i tratti più prettamente sintattici che denunciano una scelta stilistica più significativamente vincolata alla produzione orale, si possono segnalare i seguenti: – i marcatori temporali che guidano l’ascoltatore nella successione degli interventi dei vari locutori; è indubbio che espressioni come «Estonçes dixo el rrey», frequentissime nel Sendebar castigliano, sono più tipiche del racconto orale e popolare che di quello di matrice scritta e rivelano un intento di strutturazione del récit narrativo e una sorta di compensazione delle inesattezze contenutistiche e testuali sopra ricordate; – l’esasperazione della locuzione dialogica breve, tanto nel racconto-cornice quanto nel racconto riferito, da cui risulta una caratteristica che risalta particolarmente nel confronto con la versione orientale strutturalmente più vicina, il Syntipas: in quest’ultima, infatti, il discorso diegetico, puramente narrativo, così come la riflessione moralistica che forma la cornice, è molto più sviluppato e accurato di quanto avvenga nella versione spagnola, che appare in ciò piuttosto scarna e povera rispetto a un ipotetico archetipo orientale già fissato nella tradizione scritta; – l’adozione di un formulario di matrice decisamente orale nelle parti di connessione fra la narrazione principale e il testo esemplare riferito dai vari locutori; queste espressioni formulari – che come tali si ripetono con minime varianti –, usate per introdurre o sollecitare la narrazione degli exempla, appaiono doppiamente vincolate all’ambito della produzione orale: infatti nel primo caso, quando uno dei consiglieri introduce un racconto, ricorre a formule quali «oí dezir» «dize» «fiziéronme entender» «dixiéronme», che rimandano esplicitamente a una trasmissione orale della singola storiella; quando invece il 

re sollecita la narrazione di un caso alluso, lo fa con una domanda diretta sempre identica: «¿Cómmo fue eso?». Questa formula illocutoria, però, come ho segnalato in altra sede , mi pare derivare dall’elemento dell’oralità vista non semplicemente nella trasmissione del testo, ma nella sua traduzione. E particolarmente in un caso ciò sembra affatto incontrovertibile. Infatti, se la proposizione interrogativa diretta «¿Cómmo fue eso?» di per sé testimonia la tendenza, tipica di molta narrativa orale, a dar voce vivida e immediata ai personaggi, nella fattispecie al re, il racconto  della raccolta si apre con quella domanda, che il monarca rivolge al figlio-narratore, immediatamente dopo il titolo Enxenplo del mercador del sándalo, e del otro mercador, senza che il contesto narrativo, cioè il percorso diegetico, la giustifichi ulteriormente. Se si pensa alla pratica della traduzione, imperniata sul ruolo di una prima versione orale dell’interprete bilingue, antecedente a qualsiasi fissazione scritta e a quelle revisioni che nello Studium toledano divengono essenziali in epoca alfonsina, non si può fare a meno di notare che quella domanda non ha senso se non rivolta al titolo, ovvero, nella pratica della traduzione, a un lettore-traduttore che introduce, attraverso il titolo, l’argomento dell’exemplum. Questo elemento, testualmente certo e indiscutibile, lascia supporre – sulla base di una consuetudine a tramandare oralmente, e presso un pubblico bilingue, racconti di provenienza araba – una riduzione orale, una sorta di “rubricazione” del racconto gnomico che ci si accingeva a leggere, la quale sembra dare il via alla locuzione del re, senza alcun bisogno di ricostruire, per iscritto, il filo narrativo della vicenda principale. Sappiamo tuttavia per un verso quanto sia rischioso fissare una netta differenza tra le tipologie orale e scritta nella comunicazione letteraria medievale e quanto, per l’altro, la dimensione dell’oralità fosse allora più pervasiva e comune di quello che oggi possiamo supporre; infine, per un più sicuro apprezzamento di raccolte come questa, che hanno una lunga e complessa genesi interculturale e interlinguistica, si dovrà derogare al concetto di letterarietà che abbiamo noi mo

derni, eredi dell’esperienza rinascimentale e classicista incentrata sulla tradizione del testo scritto. Spesso infatti ci si deve avvicinare alla realtà di un testo eterogeneo, un testo che, nel momento in cui si fissa nella scrittura, può dar luogo, per vari motivi culturali, a una prosa composita e stratificata, in virtù di modelli retorici e scritturali vari e complessi, giustificati dal contesto in cui la comunicazione letteraria si realizza e in funzione del pubblico cui è rivolta .  Temi e figure .. Il saber e il silenzio La vicenda della cornice è determinata fondamentalmente da due nuclei tematici o motivi: – il primo, risultante dalla tradizione misogina, è il motivo detto “della moglie di Putifarre”, di ascendenza biblica, e sarà affrontato più distesamente nel paragrafo sul ruolo della donna (infra, PAR. .); – l’altro è il tema del saber – rappresentato innanzitutto nell’esperienza dell’iniziazione dell’Infante, ma ripreso in alcuni racconti – il quale, mediante il motivo astrologico dell’oroscopo sollecitato dal maestro Çendubete, si apre al concetto del silenzio, anche questo di ascendenza biblica ma maturato nella letteratura gnomica di origine pitagorica e nella trattatistica dell’oratoria sacra fra i secoli XII e XIII, che in altri termini possiamo definire il motivo della custodia linguae . I due nuclei tematici si implicano vicendevolmente nella cornice narrativa in cui convivono come premessa necessaria all’intera narrazione, e al tempo stesso si contrastano tipologicamente in quanto sono antitetici fra di loro in relazione alla verità. Infatti, la donna parla troppo, dice parole ingiuriose e inopportune, vuoi perché propone al figliastro il delictum contro il re, suo marito e padre dell’Infante, vuoi perché costringe il ragazzo a violare il silenzio al quale 

è tenuto per ingiunzione astrale. Così facendo, la donna non solo si è resa colpevole di infedeltà, lussuria e cupidigia, ma – affermando, sulla falsariga dell’archetipo biblico, di essere stata sedotta dal figliastro che invece, scandalizzato, l’aveva respinta – incorre in uno dei peccata linguae su cui insiste il breve speculum della prima metà del XIV secolo Avisaçión de la dignidad real ; in quel contesto infatti la maldicenza e la menzogna vengono definite come manifestazioni della «fabla desconbeniente», specialmente inadeguata a un membro della corte reale, come è la muger del re. Di contro, il silenzio dell’Infante in primo luogo è avvertito dal lettore come una delle prove che l’eroe favolistico deve superare per raggiungere una meta; in seguito, nel trascorrere dei giorni e di fronte al continuo rovesciamento della sorte decretata per il giovane nobile, il silenzio appare sia una prigione sia una roccaforte nella quale la verità è relegata sì ma insieme difesa, una sorta di utopia che per concretizzarsi e assumere significato ha bisogno della chiave della parola liberatrice dello stesso Infante e di Çendubete; quest’ultimo, pur dando il titolo alla raccolta, per tutto il periodo in cui i privados e la muger raccontano, resta fuori scena, nascosto in qualche luogo sconosciuto, rafforzando l’ambito semantico dell’assenza e del silenzio. Tanto nella cornice quanto nei racconti, parola e silenzio sono dunque due nuclei che determinano il senso del Libro e si mantengono in stretta relazione nella loro necessità di coprire e svelare la verità, scambiandosi entrambi i ruoli, possiamo dire, con apparente indifferenza e disinvoltura. Alla fine dei sette giorni, la parola dell’Infante, corroborata e autenticata dalla verità, vincerà sulla sacralità che al silenzio era attribuita dal vaticinio stesso. Ma il potere della parola, che all’Infante proviene non tanto dall’essere figlio del re quanto piuttosto dalla sapienza acquisita presso Çendubete (sapienza assoluta e certa, indiscutibile come quella perseguita nei libri sapienziali), mette ancor più in evidenza la debolezza delle parole dei consiglieri e della donna, ovvero l’insufficienza delle storie che essi vanno raccontando. Infatti, la rea

zione che per sette giorni il re ha dopo aver ascoltato i racconti delle due parti avversarie non sembrava dettata tanto dal contenuto delle narrazioni o, in altri termini, da una stretta relazione tra le parole dei narratori e la presunta verità dell’accaduto, quanto piuttosto dal ruolo prestabilito di difensori e accusatrice che rispettivamente s’erano assunti i confidenti e la donna. Insomma, la parola del racconto, ossia l’exemplum, mantiene con la storia principale e con la verità (che la sola donna conosce, assieme al lettore) un rapporto occasionale e meccanico, ben rappresentato dai repentini cambi d’umore del re-giudice. La parola si lega definitivamente alla verità, sia nella cornice sia nella narrazione esemplare, nel momento in cui trova l’autentico relatore, un “profeta” come l’Infante, il quale è doppiamente detentore della verità: come personaggio della storia principale, egli conosce le vicende che ha vissuto personalmente, ma in quanto narratore è depositario della verità perché è l’uomo più sapiente del regno, discepolo ideale del migliore dei maestri. L’alto valore di Çendubete è preannunciato nella sequenza in cui il re Alcos seleziona il maestro che condurrà il figlio all’iniziazione sapienziale; il brano si basa sul dialogo, di matrice scolastica e di fattura gnomica, fra quattro sabios che, su istanza dello stesso Çendubete, espongono le loro tesi sull’apprendimento del saber, attraverso sentenze e comparazioni, secondo una tecnica già in uso nel dialogo della Disciplina clericalis e in opere quali i Flores de Filosofía, e culmina nell’affermazione che registra la maggiore influenza del pensiero giudaico-cristiano subita dal Libro: «Tú non quieras fazer a otrie lo que non queriés que fiziesen a ti» . Nella vicenda narrativa, però, le qualità didascaliche e le virtù del maestro vengono temporaneamente messe in dubbio da tutti dal momento in cui il suo discepolo, tornato a corte, resta muto, senza rispondere alle domande del padre. Di fatto, in un’ottica più nettamente narratologica, sul sapiente, che nel frattempo si è eclissato, pende anche, come si avvertirà alla fine, la responsabilità del destino del giovane principe, che per ben sette volte, su istanza della muger, ha 

rischiato di essere giustiziato . Alla fine, però, Çendubete si riscatterà. La sua riabilitazione avverrà sia in forma diretta – quando trascorsi i sette giorni decretati dagli astri, gli sarà consentito, alla fine di un ulteriore dialogo fra i quattro sapienti già comparsi all’inizio, di provare la sua totale innocenza di fronte a una eventuale morte dell’Infante – sia in forma indiretta, ovvero nel saber che mostra di aver trasmesso al suo discepolo, divenuto, grazie al suo dono, incarnazione del potere salvifico della vera conoscenza e della verità. L’ideale rapporto fra maestro e allievo nel nome della sapienza è stretto in forma dottrinaria nel momento in cui Çendubete esalta il dezir, preludendo ai cinque enxenplos che l’Infante si accinge a esporre. E i racconti del ragazzo sanciranno narrativamente l’eccellenza del saber di entrambi. La sapienza del giovane principe, già annunciata nelle prime pagine del libro tramite le promesse fatte dal sapiente Çendubete, si badi bene, si manifesta sì mediante la parola, ma si appura e si tesaurizza nell’alchimia di due prove iniziatiche segnate dalla taciturnitas e dal silenzio. La prima è quella relativa al periodo in cui l’Infante – in un luogo eremitico e del tutto eccezionale – acquista quella conoscenza che lo renderà superiore a tutti i consiglieri del regno, mediante un’abbondanza straordinaria di immagini, cui necessariamente si contrappone una parcitas di parole. Possiamo supporre che alla fine di quel processo educativo straordinario l’Infante sarà l’incarnazione dell’equilibrio nell’uso del silenzio e della parola, proposto da san Gregorio nella sua Regula, e apparirà «discretus in silentio, utilis in verbo» (Pars II). La seconda prova iniziatica è quella che ci mostra l’Infante per sette giorni, innanzi alla corte, muto e in ascolto dei racconti. Il silenzio reale e la taciturnitas che immaginiamo nella sua fase di apprendimento conferiscono al principe quella sacralità e quello spessore dottrinario che lo collocano, nel nome della giustizia e della verità, al di sopra della donna, dei sapienti e dello stesso re. Se consideriamo che nell’ambito della trattatistica sull’arte predicatoria diffusasi in Spagna a cavallo tra XII e XIII secolo  si consolidano il principio dei peccata linguae e la lode del si

lenzio come caratteristica dell’uomo sapiente e misurato, non apparirà affatto strano avvertire in una raccolta esemplare come il Sendebar un’eco della problematica relazione fra multiloquium e taciturnitas. E in un tale quadro culturale risulta ancor più significativo che, giunti all’ottavo giorno e quindi al momento cruciale, alla svolta definitiva nella vicenda principale, in cui l’Infante «fabló», Çendubete lodi la parola definendola «el mayor saber que en el mundo ay». Se si contestualizza l’affermazione del maestro, il fatto è importante per vari aspetti. . Il dezir interviene a risolvere il quesito che il re pone a tutti gli astanti quando, allentata ormai la tensione, egli gioca a carte scoperte e tenta un primo esame dell’accaduto e un primo bilancio delle responsabilità: «¿cúya sería la culpa?». La ricerca della verità e delle colpe culmina dunque, come s’è visto, in quella lode del dezir da parte del maestro Çendubete. Per ciò stesso il dezir, ovvero la virtù della parola considerata in tutta la sua autorevolezza, sarà risolutorio non solo rispetto al problema teorico (di cui sembra rimanere traccia nel condizionale «sería» del quesito), ma anche in relazione al caso concreto, alla sostanza morale della vicenda attorno alla quale si sviluppa il testo. Conviene notare che il concetto della parola rivelatrice, e parallelamente l’idea del pericolo che deriva dall’impossibilità di avvalersi del potenziale veridico della parola, per vari impedimenta – del tutto evidenti nella cornice – sono continuamente ripresi, riverberati e ribaditi anche all’interno dei racconti. . È poi significativo che la virtù del dezir, in questo preciso punto di connessione fra racconti e cornice, risulti una nozione inserita dalla versione spagnola della metà del XIII secolo, poiché nel testo greco dell’XI secolo nello stesso punto il maestro Syntipas propone come cosa ottima la verità e non il dezir. Con uno scarto metonimico, dunque, il testo castigliano individua l’elemento-chiave nella parola, per svelare e illustrare quel medesimo concetto di verità presente nel testo greco. Contravvenendo al luogo comune più diffuso nella letteratura gnomica, la parola si carica di una inconfutabi

le accezione di veridicità. Che i concetti di parola e silenzio siano presenti nella letteratura gnomica, ma che al contempo subiscano una sensibile revisione, lo conferma un testo dell’epoca di Alfonso XI quale i Proverbios morales di Sem Tob de Carrión . Il XVI dei Proverbios (compreso tra le strofe  e ) affronta precisamente queste due azioni cardinali nell’esistenza dell’uomo che intenda, ovviamente, essere saggio ed equilibrato. Sem Tob si rende conto che la tradizione ha «denostado / al fablar», ha svilito la parola dell’uomo, ed è quindi il momento di riconoscerne le vere qualità etiche. A questa necessità si perviene a partire dal principio di un necessario equilibrio fra le cose, che ci induce a considerare che nulla sia totalmente buono o interamente cattivo: Porque todo ombre vea que en el mundo cosa non ay del todo fea nin del todo fermosa. (vv. -)

Se è vero che questo principio vale anche per il callar e il fablar, tuttavia qui la parola è strumentalmente superiore al silenzio, in quanto «Con el fablar diximos / mucho bien del callar» (vv. -) mentre, viceversa, il silenzio è impotente. La parola, inoltre, si lega indissolubilmente alla qualità intellettiva dell’uomo (che lo distingue dalle bestias), all’educazione, all’onore e a ogni altro aspetto della sfera attiva dell’uomo, laddove al callar è attribuito tutto il contrario; ma ciò che più colpisce è l’immagine di un tacere che «non sabe [...] / de otro nin de si» (vv. -), del silenzio che non ha coscienza di se stesso. Nel Sendebar la tematica del silenzio viene sfruttata prima di tutto come espediente narrativo, perdendo, come osserva Perry , la profonda relazione con il fondo di ascetismo pitagorico che la caratterizza nel Capítulo de Segundo filósofo . Infatti il silenzio rimane come occasione che giustifi

ca le narrazioni e insieme come metafora del rigore spirituale necessario al giovane principe che erediterà il regno, ma non ha un vero carattere di ostacolo o di ingiunzione inviolabile. Nella storia del filosofo Secundus, il silenzio è il portato di una inderogabile volontà di ascetismo e di espiazione che non verrà mai meno, neppure quando l’imperatore Adriano solleciterà il sapiente al racconto. Il parallelo tra il Segundo e il Sendebar, nonostante le analogie riscontrabili nei temi della misoginia, del silenzio e nel pericolo di morte che pende sul capo, rispettivamente, del filosofo e dell’Infante, evidenzia un rapporto sostanzialmente diverso fra silenzio e sapere. Infatti nel Segundo il silenzio, assoluto e incrollabile, come s’è detto, incalzato dalla necessità di trasmettere l’esperienza a vantaggio dell’imperatore Adriano, lascia il posto non alla parola ma alla scrittura, e trova nel libro, come avviene nel Calila e Dimna, l’ultima e più vera funzione didattica ed esemplare. Nel Sendebar, viceversa, l’Infante contravviene al silenzio (come nelle Mille e una notte , il giovane risponde sdegnato alle lusinghe della matrigna e in difesa del padre) perché esso è frutto di un’ingiunzione in qualche misura occasionale, che non è necessaria in termini filosofico-ontologici ma è indispensabile sotto il profilo narrativo, cioè per mettere in moto i racconti, e con il saber mantiene un nesso che definirei strumentale e accessorio. Inoltre, il silenzio non sfocerà nella scrittura ma darà luogo al dezir dell’Infante, al discorso che salva perché svela la verità, un dezir la cui sacralità e il cui valore sociale sono esaltati, come s’è visto, dallo stesso Çendubete. .. L’educazione dell’Infante Seguendo un itinerario di successi e insuccessi, di avvenimenti soddisfacenti e insoddisfacenti, tipico del racconto mitico e popolare, la vicenda del figlio del re Alcos giunge al punto in cui si deve registrare una stasi nella sua crescita formativa, nonostante di lui si fosse detto che era cresciuto facendosi «grande e fermoso» e che Dio gli aveva dato «muy 

buen entendimiento». L’insuccesso nell’educazione del giovane principe, protrattosi per ben sei anni – dal nono al quindicesimo anno di età –, giustifica, in termini di struttura narrativa, la necessità dell’iniziazione sapienziale del ragazzo, il suo aprendizaje  presso il maestro Çendubete. L’Infante dunque vive l’esperienza di formazione dell’eroe, secondo lo schema tipico della tradizione mitica e folklorica, articolato in tre fasi: a) l’allontanamento dalla società; b) la penetrazione di un sapere o potere superiore; c) il reintegro nella società e il ritorno alla vita affrontata finalmente nella sua pienezza, grazie al percorso effettuato . Alla luce di questo processo iniziatico acquista un più chiaro significato la strategia educativa di Çendubete, nella quale è indubbio il ruolo della rappresentazione figurativa e della sintesi iconografica. Non si può fare a meno di osservare come questa speciale pratica didattica, pur non sopprimendo la parola scritta, tuttavia la limiti e in parte la sostituisca con l’immagine e con il commento orale. Quasi tutte le versioni del ramo orientale accolgono l’episodio, nella generica tipologia di un sapere riportato sulle pareti e non sulle pagine di un libro; ma alcune di esse sembrano insistere su un apprendimento in cui sintesi visuale, parola orale e silenzio si implicano vicendevolmente, relegando la parola scritta a un secondo piano. La versione araba dei Sette Visir  nota come Le cento e una notte, assieme al Syntipas greco, sembra fondare un archetipo, che potremmo definire “figurativo-sapienziale”, del quale il testo castigliano conserva qualche traccia. La prima si caratterizza per alcune annotazioni cromatiche dei marmi bianchi e neri sui quali il maestro “fece rappresentare cose di ogni genere”. La versione più esplicita, però, è quella del Syntipas greco, dove il filosofo fece decorare e intonacare «di un bianco splendente»  l’ampia dimora destinata al suo allievo e «poi sulle pareti degli appartamenti dipinse tutto ciò che avrebbe potuto essere d’insegnamento al giovane». Poco oltre il maestro impone al suo discepolo di non uscire fino a che non avrà appreso quello che egli ha «illustrato» sulle pareti. 

Nelle due versioni precedenti, dunque, l’uso di termini appartenenti all’ambito figurativo non lascia alcun dubbio e supera quell’incertezza presente nel Sendebar, dove si legge un verbo come «escrivió» e si raffigura un maestro che si siede accanto al discente per «mostralle» tutto il sapere. Ancor più significativo, nell’indicare implicitamente un metodo didattico basato sul commento delle immagini, è l’invito rivolto da Çendubete all’Infante: «abiva tu engeño e tu oír e tu veer». Lo stesso testo ebraico, il Mishlè Sendebar, insiste su elementi figurativi, mostrandoci un palazzo fatto costruire in cima a una montagna nel bel mezzo di un deserto e circondato da una muraglia. L’interno del palazzo è tappezzato con stoffe di diversi colori; si aggiunge, poi, che il maestro «en el tapiz del techo grabó las constelaciones, todas las estrellas y los planetas, y en las paredes escribió todos los libros de la sabiduría» . Prima del tempo stabilito, il ragazzo aveva imparato tutto ed era divenuto più saggio di tutti i sapienti dell’India. Mi piace qui suggerire che il programma educativo proposto dal maestro al suo discepolo sembra fondato sugli schemi enciclopedici e sulle statiche configurazioni degli edifici memoriali (alberi e cuspidi, ruote, griglie rettangolari, lignum vitae, cherubino) che sono prodotti tipici della didattica medievale, basata su una cultura fondamentalmente allegorica e sulla necessità pragmatica di intrecciare la meditazione dell’uomo di fede a tecniche mnesiche efficaci, in una sistematica della conoscenza. E verrebbe da pensare anche al sistema algebrico mobile dell’arte mnemonica di Lullo, se non fosse che la téchne lulliana inizia a essere elaborata a partire dagli ultimi decenni del secolo XIII. D’altro canto, anche relativamente a questo aspetto particolare, il Libro di Sindibad, in virtù del suo lungo cammino fra Oriente e Occidente, porta con sé un’eredità ben più lontana, che può risalire alle Dignitates Dei, ovvero i nomi o attributi divini pensati come cause primarie nel pensiero neoplatonico di Scoto Eriugena; un lascito che presenta elementi di analogia con la cabala, le cui dottrine si andavano propagando in Spagna, e con la sua peculiare forma di meditazione, consistente nella riflessione sulle lettere del

l’alfabeto ebraico, disposte per formare i vari nomi di Dio. Alla ricerca di un rapporto significativo fra parola e immagine, nel segno della tensione verso una sapienza perfetta – come quella che i vari Sindibad-Sendebar-Çendubete hanno voluto trasmettere al loro discepolo sotto vari cieli e per così lungo tempo –, si può pensare anche all’eredità dell’islam, e in particolare alla sua forma mistica del sufismo che attribuisce grande importanza ai nomi di Dio; o, infine, andando alle ipotizzate radici indiane, si potrà immaginare una qualche somiglianza tra gli schemi del maestro Çendubete e le varie rappresentazioni tipiche del sistema cosmologico della filosofia indù, ai diagrammi magici dello yantra, ai diagrammi giainiti, per fare un esempio, che racchiudono la formula per liberare l’anima, alle mappe giainite che aspirano alla rappresentazione dell’intero mondo. Assai arduo risulta stringere da vicino, restando così in superficie, un dato contenutistico del Libro – sebbene non trascurabile – e una tradizione così vasta in cui religione, filosofia e arte si intrecciano, ma è altrettanto difficile non raccogliere il suggerimento di un’illusione rappresentativa in tutte le civiltà che, di fatto, il Sendebar ha attraversato, registrando, ogni volta, la presenza di un’arte “pluristrumentale” a cavallo tra segno grafico e parola, tra lettura e scrittura, tra decifrazione dei segni e memoria, tra memoria e invenzione, un’arte che mira a essere cifra definitiva della presenza dell’uomo nel cosmo, un’arte che, come acutamente osserva Lina Bolzoni, presidia i confini tra i diversi livelli di realtà, affinché sia sempre possibile attraversarli, percorrerli . Pare ovvio, quindi, che anche nel suo momento formativo il vero saber al quale l’Infante del Sendebar è destinato abbia bisogno di un metodo sintetico ma perfetto, totale, e di una sede d’eccezione come l’esclusiva dimora fatta costruire dal maestro Çendubete, icona che raddoppia metaforicamente l’eccellenza della corte e al tempo stesso la idealizza, isolandola in un silenzio del tutto estraneo al brusio delle corti reali e rendendola luogo deputato all’apprendimento mediante l’osservazione, la riflessione e un uso ponderato della parola. Questa esperienza, a mio avviso, non può che confer

mare il nucleo ermetico presente nel Sendebar e concorre a documentare la centralità che nel Libro, come peraltro nella letteratura gnomica e scientifica dell’epoca alfonsina, ha l’astrologia. Il lettore moderno non dovrà quindi stupirsi se il maestro Çendubete, affidandosi alle figurae, rappresentazioni grafiche e in specie astrologiche (per la stessa credenza che nelle stelle e in generale «de suso» , nel cielo, sia raffigurato tutto quello che esiste sulla terra), sarà capace di trasmettere la vera sapienza, di rivelare la conoscenza di Dio e di tutto ciò che precedentemente restava inaccessibile all’Infante, suo discepolo; né dovrà meravigliarsi del fatto che questi sia in grado, una volta superata la difficile prova del silenzio, di liberarsi del male e dei pericoli del mondo, proprio in virtù di quella iniziazione di matrice ermetica. Come ricorda Maravall, le figurae, così frequenti nella cultura del Medioevo, implicano un invito a «adivinar» in quanto, facendo leva sulla curiosità dell’uomo che osserva nel continuo anelito di riconoscere l’essenza divina, sollecitano il gusto della decifrazione di qualcosa che è racchiuso nell’immagine stessa, insito nell’exemplum visuale e pronto a fissarsi per sempre nella memoria . È comunque certo che tutta la conoscenza acquisita dal giovane principe è imperniata su una visione del sapere che è statica e quindi perfettamente rappresentabile e in grado si essere trasmessa, tutto intera e in sintesi figurative, da maestro a discepolo. All’interno di questo concetto, la rappresentazione figurativa (come in genere ogni forma di arte plastica) è avvertita come doppio della realtà effettuale, ed essa stessa prodotto dell’ordine naturale superiore. Infine, dall’intero percorso effettuato dall’Infante e dal suo maestro, dalla corte alla sapienza e nuovamente alla corte, si apprende che l’uomo saggio, al quale la nascita riserva un ruolo di guida del suo popolo, giunge alla realtà attraverso l’iniziazione di un silenzio necessario che, tuttavia, lascia il posto alla parola, al «dezir» e alla «rrazón». Ed è qui, nel cuore della vicenda principale, a mio avviso, che il testo coglie il più significativo scarto dalla letteratura di massime e proverbi dell’epoca stessa, attuando una sorta di ribalta

mento del rapporto di valore fra silenzio e parola, tra una cultura che predilige una verità protetta dal silenzio e una nuova cultura che difende la rivelazione della verità – con tutti i rischi che possono conseguirne – mediante la parola. .. Il re e la donna Del ruolo della figura del re, come obiettivo negativo, nell’ipotesi di una proiezione della vicenda di Fadrique su quella dell’Infante della storia, abbiamo già parlato, con tutte le riserve del caso. Si è accennato altresì al fatto che la tipologia di un sovrano che necessita di essere avvisato attraverso un cammino esemplare è l’elemento genetico di molta letteratura didattica di origine orientale e tradotta nella prima metà del secolo XIII. Nel Libro de los engaños, la figura del re  e il tema del sapere si implicano reciprocamente sullo sfondo della cultura sapienziale, che vedeva nel monarca il destinatario ultimo dell’insegnamento filosofico, morale e pragmatico, nonché il depositario di saggezza e verità. L’impianto narrativo, condiviso dalla maggior parte delle versioni orientali, presenta un re indeciso, oscillante fra l’opinione della donna e quella dei suoi ministri, un sovrano che, più di ogni altro, e indubbiamente più del principe, si deve avvalere di un saber che gli assicuri equilibrio e misura, al pari dell’Alessandro Magno della Poridat. In altri termini, sebbene la letteratura di exempla trovi una sua ragione nella formazione del principe, il Sendebar lega la sua più intima ratio esemplare all’illustrazione dei pericoli che il sovrano corre quando, perdendo di vista la vera sapienza, si lascia condizionare dall’opinione femminile e guidare dalla fretta . In ultima analisi, quindi, non si può negare che, non tanto agli occhi di chi commissionò la traduzione dall’arabo al castigliano di questo speculum principis, ma a quelli del lettore, proprio in virtù del rapporto conflittuale fra re e Infante, presente nell’archetipo stesso, il Libro apparisse anche come ammonimento rivolto al sovrano e in genere al nobile sui rischi che corre chi detiene il potere. 

L’ultima e definitiva funzione didascalica del testo, l’unica esplicitata nel Prólogo dal traduttore castigliano, concerne i pericoli che la donna rappresenta per l’assetto della corte e per la società in generale. Nel caso specifico, si tratta di un modello maturo e già consolidato nell’archetipo orientale delle storie di Sindibad, che trova un’accoglienza naturale in Occidente in un’epoca che, sebbene stesse elaborando una raffinata ideologia cortese, tuttavia lasciava ampi spazi (generi letterari quali il racconto esemplare e popolare, appunto, o ambiti culturali quali l’oratoria sacra e la letteratura didascalica), in cui la cultura antifemminile esercitava una funzione piena e indiscussa. Per limitarci all’area iberica, si pensi a testi come il Corbacho dell’Arcipreste de Talavera o lo Spill del catalano Jaume Roig. Innanzitutto, si noterà che la figura femminile, oltre a essere la protagonista di quasi tutti gli exempla, è determinante nella dinamica strutturale della historia principale. Si osserverà altresì che nel racconto-cornice, appunto, il paradigma narrativo stesso impone di distinguere nettamente fra due tipologie femminili, la madre dell’Infante e la favorita del re, una positiva e una negativa, entrambe formate sulla base di motivi biblici divenuti elementi fondanti della narrativa popolare, ambedue centrali nello sviluppo della trama del racconto: la preghiera della devota moglie del re sblocca la stasi negativa dell’impossibilità di avere un erede nel regno di Giudea, e prelude alla nascita dell’eroe; senza l’iniziativa proditoria della seconda, viceversa, non si produrrebbe quello che, in termini narratologici, è l’agente aggressore del protagonista, costituendo il vero elemento di pericolo dell’eroe. La necessità di configurare le due tipologie in due donne distinte, nel ramo orientale, è abilmente risolta mediante la poligamia , mentre nel ramo occidentale occorre che la moglie dell’imperatore, madre dell’eroe, muoia, cosicché il ruolo negativo sia affidato alla matrigna. Tuttavia pare di poter segnalare, inoltre, che, forse per la sua stessa genesi orientale, il modello femminile negativo nel Sendebar non è colto tanto nei tratti tipologici dell’iconogra

fia femminile, tradizionali lungo l’intero Medioevo occidentale, da quello latino a quello volgare, da Tertulliano fino a Jacques de Vitry o a Gilberto da Tournai . Nella vicenda principale questo schema, partendo dall’adulterio e dalla seduzione del giovane principe, è individuato più precisamente nella sua gestualità scomposta ma soprattutto nella veemenza dell’eloquio, che diventa pertanto il più evidente veicolo del pericolo che la donna rappresenta per la società. Alla luce di quanto si è precedentemente osservato sul ruolo del dezir come esperienza fondante del sapere si noterà che la parola della donna costituisce un contromodello del discorso ponderato e strutturato sui principi di virtù, di moderazione e di lealtà cui Çendubete e l’Infante si ispirano, in accordo con la tradizione gnomica. Ovviamente, le storielle di adulterio  fanno eco all’impianto misogino impostato dalla cornice e lo amplificano; ma in entrambi gli ambiti narrativi la donna è pericolosa in primis per quello che dice. Di particolare rilievo sono gli exempla dei racconti  e . Nel primo caso, dove si accoglie un motivo assai diffuso nella tradizione folklorica, la donna – onesta ma, in quanto bella, in possesso della prima delle insidie tese dal genere femminile all’uomo – allontana il sovrano che ne è rimasto sedotto e la desidera, invitandolo a leggere la vicenda di un libro. Ai nostri occhi l’esemplarità del cuento, sebbene semanticamente rimarcata, resta avvolta da una certa ambiguità. Innanzitutto, sembra strano che il primo racconto del primo consigliere presenti una figura femminile virtuosa; ma ciò avviene perché il ruolo esemplare primario qui è svolto dal personaggio del re, mentre la donna ha una funzione secondaria o strumentale. Il riferimento allo stratagemma usato dalla donna onesta per evitare l’adulterio, tuttavia, non manca di introdurre il concetto dell’astuzia delle donne in generale, indipendentemente dalla loro virtù. L’indeterminatezza semantica insita in questo come in altri esempi è di fatto un problema avvertibile solo se ci si pone in una prospettiva di stretta e precisa relazione fra storiella e cornice. Ci si può chiedere, allora, se le figure femminili che riem

piono gli esempi si adattino sempre coerentemente alla cornice e alle intenzioni di chi racconta. Restando al primo cuento, se partiamo dalla considerazione che il vero intento di chi narra non è quello di screditare la donna (al cui scopo si sarebbero prestate altre storie) quanto quello di evidenziare, nella mesura, una delle doti che il sovrano saggio programmaticamente si garantisce prestando ascolto agli exempla, allora si dissolvono anche quella prima ambiguità e la singolare struttura di un cuento esemplare che mostra una via d’uscita dall’adulterio in un altro racconto e addirittura – come chiarisce l’exemplum stesso – in un libro scritto «en que avía leyes e juizios de los rreyes». Insomma, l’esemplarità della storiella si svela e si perfeziona mediante la mise en abîme dell’efficacia stessa del narrare. La pregnanza semantica del racconto nel racconto è molteplice, invero, perché mette in guardia l’uomo dalle insidie della bellezza femminile, condanna l’adulterio, evidenzia la saggezza dei re e la loro mesura, porta l’uditore, re Alcos, a considerare il valore didascalico e morale dell’esempio e, in definitiva, allude all’astuzia delle donne, anche di quelle oneste. Il fatto che il primo racconto analizzi in questo modo ed espliciti le proprie funzioni comunicative ed esemplari rafforza, in maniera paradigmatica, le funzioni stesse dei racconti dei consiglieri, indebolendo a priori la controparte, e al tempo stesso fa del motivo della mesura (l’esatto opposto della saña regia, alla quale la corte ha appena assistito) la cifra di tutto il Libro. L’exemplum, dunque, rinvia direttamente e orizzontalmente alla vicenda della cornice mediante la linea tematica dell’adulterio, mentre rimanda indirettamente, lungo una linea interpretativa e persino simbolica, alla funzione esemplare delle storie che i consiglieri si accingono a narrare. Pertanto, il primo racconto mette in chiaro, ab initio, che nel perseguimento di un medesimo risultato morale la donna si affida a un’astuzia che le è connaturale, l’uomo invece, maxime se è un re, alla capacità, tutta intellettiva, di far tesoro dell’insegnamento. Il cuento , dal canto suo, insiste, come il primo, sul legame tra la donna e un sapere affidato al testo scritto, ripropo

nendo ironicamente in un’ulteriore mise en abîme il tentativo stesso di conoscere la verità sulle donne mediante il racconto. Ma se nella prima vicenda proposta la scrittura insegna al re a non cedere alla bellezza muliebre, questo esempio, che è l’ultimo dell’ultimo consigliere, andando alle estreme conseguenze del rapporto fra sapienza, conoscenza e scaltrezza femminile, si conclude con una netta sconfitta del saber tramandato dai libri. Mosso da un ideale furore di apprendere teoricamente e di testimoniare le insidie femminili, come il filosofo Segundo, il protagonista di questo cuento dovrà imparare a sue spese che le astuzie delle donne sono infinite; e dunque – sembra dire il consigliere che narra – è inutile tentare di raccoglierle e sottoporle all’attenzione altrui mediante la scrittura. Se il concetto degli engaños e delle artes «que non an cabo nin fin» è il vero Leitmotiv presente nelle sentenze pronunciate dai privados al termine delle loro narrazioni, attraverso una sorta di espressione formulare, qui è anche il tema centrale, l’essenza del racconto. La storiella sull’incommensurabilità delle astuzie delle donne, quindi, conferma il divorzio definitivo tra la sfera della conoscenza e della sapienza da un lato e quella della donna dall’altro, ma al contempo, si badi bene, sancisce quanto fosse avvertito il ruolo morale e didascalico dell’exemplum misogino. In un bilancio finale di quanto si è andati narrando, per sette giorni, attorno alle donne, ai sovrani e agli uomini in generale, l’ultimo consigliere sembra concludere quanto sia inutile e inefficace adoperarsi per testimoniare, con la scrittura e la traduzione di preziosi libri «adobados» con «mucha cueita e mucha lazeria», una qualità delle donne che può essere dimostrata da un’infinità di aneddoti. In particolare, la figura femminile di questo racconto è sostanzialmente diversa da quelle che compaiono lungo il Libro, le quali per lo più sono strumenti quasi inconsapevoli di trame già ordite o semplici esecutrici di una malizia cui sono destinate a priori. Questa donna, viceversa, burlandosi dell’uomo, si misura criticamente con la sistematica e “scientifica” misoginia di chi è sicuro di poter conoscere e raccogliere nei libri «las maldades de las mugeres», e si misura al

tresì con le qualità del proprio sesso. L’astuzia di questa donna non è affatto esercitata per ottenere un qualche vantaggio materiale o come salvacondotto per sfuggire a un castigo, ma si manifesta per osservare la propria superiorità e per sfidare i pregiudizi degli uomini. E tutti gli uomini sono doppiamente raggirati dall’artificio messo in atto dalla muger, dalle sue potenzialità inventive, superiori alle presunte qualità speculative e conoscitive del giovane sabio, cioè dalla dimostrazione di quello che avrebbe potuto fare più che da quello che ha fatto. Conclusione burlesca, e da fabliau, dunque, come è stato rilevato , cui significativamente si apre la cornice, ovvero la parte più fluida e permeabile del Libro. E a tale conclusione, che contemporaneamente attesta la possibilità e l’impossibilità che gli uomini hanno di rappresentare l’intera sfera femminile, approda il narratore di quest’ultimo exemplum, che è, non lo si dimentichi, l’Infante stesso; e vi giunge non solo lungo la via della tradizione sapienziale e logica, ma anche lungo quella delle infinite opportunità che offre l’arte del narrare. Note . Fra gli interventi critici che, a partire dall’ormai lontano studio di González Palencia (), hanno rivolto una specifica attenzione alla cosiddetta “Scuola” dei traduttori di Toledo, segnalo: i contributi di Millás Vallicrosa (, ), di tipo bibliografico e storico-scientifico; l’articolo di Menéndez Pidal (), che ebbe il merito di avviare la ricerca sui rapporti fra la tradizione dei traduttori toledani e il taller di Alfonso el Sabio; il saggio di Lemay (), specificamente centrato, in una prospettiva storico-culturale, sulla traduzione arabo-latina nella Toledo del secolo XII, analisi cui si contrappone un’interessante risposta, in chiave storica, di Sánchez Albornoz (); lo studio di Brasa Díez (); il volume miscellaneo curato da Larramendi e Fernández Parrilla (), in cui si analizza sotto molti aspetti il ruolo della traduzione nell’ambito culturale del Mediterraneo, con in particolare lo studio di Gil (); e Bossong (). Sul contesto storico della traduzione nel periodo alfonsino (con un confronto tra le tipologie del Calila e Dimna e del Sendebar) cfr. García (). Sul caso del Sendebar nella prospettiva della riscrittura effettuata nel contesto della cultura alfonsina, cfr. Taravacci (). . La prima epoca della Escuela è caratterizzata dalla presenza di tre personaggi – di eccellenza nella cultura europea – quali Gerardo da Cremona, Iohannes Avendehut Hispanus e Dominicus Gundisalinus (cfr. Alonso, ).

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Sull’attività dello Studium toledano nelle tre epoche cfr. i documentati studi di Paltrinieri (, pp. -), di Gil () e il terzo capitolo del volume che Juan Vernet ha dedicato al debito europeo nei confronti della cultura musulmana (cfr. Vernet, ). L’epoca alfonsina è caratterizzata, innanzitutto, dalla preponderanza di traduttori cristiani su quelli ispano-ebrei, e dall’importante fatto che i traduttori, a eccezione del contingente italiano, erano sudditi di Alfonso X (cfr. Gil, ). Questi pochi dati confermano la crescente rilevanza politico-culturale della traduzione nella Spagna medievale. . È la definizione data nella prima segnalazione del gruppo di traduttori toledani fatta nel  da A. Jourdain, cui fa eco in modo determinante Menéndez Pelayo (-) nella famosa Historia de los heterodoxos españoles. . La nozione di “Scuola”, di conio romantico e postromantico, è oggi messa in dubbio: l’attività, pur rilevante, di traduzione era dettata da necessità pratiche di mettere a disposizione i testi arabi a chi non conosceva quella lingua. . Cfr. Castro (), p. . . Díaz Esteban (, pp. -) testimonia, mediante un documento del secolo XIV, la convivenza delle lingue araba, ebraica e del dialetto romanzo. . Segnalo gli studi bibliografici di Morreale (). . Cfr. lo studio di Márquez Villanueva (, pp. -, in particolare p. ) sull’ideale culturale toledano. . Per una riflessione sulla letteratura castigliana medievale in una prospettiva pragmatica, segnalo lo studio di Marimón Llorca (). . Su tale questione, oltre allo spazio dedicatole nei saggi succitati sulla Scuola toledana, cfr. soprattutto Millás Vallicrosa (). Pur prescindendo dalla realtà spagnola, per una riflessione sui limiti e le potenzialità della traduzione medievale risulta utile il breve studio di Richardson (). . Cfr. García (), p. ; sulle tracce dell’arabo nella prosa didascalica e scientifica in epoca alfonsina, cfr. rispettivamente Bossong (, ). . Sul personaggio cfr. Deyermond (, pp. -), il quale, a sua volta, trae ogni dato dal documentatissimo volume di Ballesteros-Beretta () su Alfonso X. . Per il ruolo giocato da Siviglia in epoca alfonsina, cfr. Ballesteros-Beretta (); González Jiménez, Borrero Fernández, Montes Romero-Camacho (); O’Callagan (). . L’ipotesi di un’istanza politica alla base della traduzione del Sendebar, in parte fondata su elementi storici e in parte confortata sull’occasionale coincidenza tra questi e il contenuto dell’opera, è affrontata da Deyermond () e ripresa da García (). . García (), p. . . Alan Deyermond stringe i nessi analogici tra la finzione letteraria e la vicenda storica sottolineando altri elementi presenti nel Libro, quali il problema dell’educazione del nobile alla leadership, il rapporto fra il sovrano e i consiglieri, gli effetti delle false accuse presso la corte regale, il conflitto fra giustizia e potere e l’abilità del re nel condannare a morte un membro della sua stessa famiglia (cfr. Deyermond, , p. ).

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. Cfr. ivi, pp. -. . Ivi, p. . . Per uno studio della retorica prologale della prosa didattica del XIII secolo, cfr. Haro Cortés (). . Cfr. Libro buenos proverbios () e Libro buenos proverbios (). . Cfr. Bocados (). . Cfr. Cien capítulos (). . Cfr. Poridat (). . Cfr. Knust (). . Il titolo con cui ci giunge il ms. è Capítulo de las cosas que escribió por rrespuestas el filósofo Segundo a las cosas que le preguntó el emperador Adriano (cfr. Segundo, ). . Oltre all’edizione di Walter Mettmann (Teodor, ), si segnala la recente edizione di Nieves Baranda e Víctor Infantes (Teodor, ). . Cfr. l’edizione di Dorothy Sherman Severin (Ynfante Epitus, ) e quella di Hugo Oscar Bizzarri (Epicteto, ). . Cfr. Lacarra, López Estrada (), capp. III-IV. . Cfr. Alvar (), pp. -; Gómez Redondo (). . Cfr. Maravall (). . Lacarra, López Estrada (), p.  . Haro Cortés () analizza la struttura e le funzioni del viaggio sapienziale in opere quali Calila, Bocados, Poridat, Barlaam, dimostrando come questa tradizione giunga in un testo come la Visión deleytable, di Alfonso de la Torre, a risultati altissimi. . Cfr. a questo proposito Pardo (). . Un esempio di una forte coscienza dell’autorevolezza e della preziosità della tradizione scritta ci viene dalla prima pagina del Libro de los buenos proverbios, in cui l’autore appare quale traduttore e quindi interprete di «libros antiguos escriptos en pergamino rrosado con oro e con plata e en pergamino carmeno escripto con oro y con otras muchas colores fermosas. En el cominenço del libro avie figura del philosopho illuminado e assentado en su siella e las figuras de los philosophos antel desprendiendo lo que dizie» (Libro buenos proverbios, , p. ). . Cfr. Cien capítulos (), p. . . María Jesús Lacarra ricorda che le allusioni agli oggetti emblematici permettono di supporre che nella sua redazione dei Bocados in arabo (da cui deriva quella castigliana) al-Mubassir, medico del secolo XI, si sia ispirato ad alcune concrete illustrazioni: cfr. Lacarra, López Estrada (), p. . Viceversa mi pare opportuno segnalare l’ipotesi avanzata da Goldberg (), secondo la quale proprio i Bocados instaurerebbero un tipo di esemplarità non più agiografico, di tradizione classica, bensì visuale e individuale, alla cui base vi sarebbe una sorta di compensazione che la letteratura araba assume di fronte all’impossibilità, dettata dalla confessione islamica, di rappresentare plasticamente la figura umana in un cotesto sacro. . Cfr. Poridat (), p. . . Cfr. l’edizione di John K. Walsh (Libro doze sabios, ). Per alcuni appunti a tale edizione cfr. D’Agostino ().

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. Si ricorderanno, ancora a mo’ di esempio, le sedici virtù necessarie al credente, presentate nella prima pagina dei Bocados de oro. . Cfr. Picone (), p. . . È un concetto che mutuo da Gaston Paris (cfr. Welter, , p. ), il quale sembra segnalare come l’elemento che caratterizza basicamente l’exemplum sia la sua natura di racconto breve; in effetti lo studioso allude a varie tipologie sulla base della realtà letteraria dei secoli XIV e XV. . Il concetto è stato precisato e messo in rilievo da Crane () e riportato come premessa per la definizione dell’exemplum medievale da Le Goff (cfr. Bremond, Le Goff, Schmitt, , p. ; Picone, , p. ). Il significato dell’exemplum come storia illustrativa nasce, come ricorda Crane, nel primo ventennio del XIII secolo. . La qualità eminentemente narrativa dell’exemplum è messa in evidenza da Isidoro di Siviglia, il quale lo differenzia dalla similitudo per la sua essenza di historia («exemplum historia est»), di récit, come sottolinea Le Goff (cfr. Bremond, Le Goff, Schmitt, , p. ); il concetto è confermato nella Forma paedicandi () di Robert de Basevorn, dove l’exemplum del predicatore è definito «narratio authentica». . Cfr. El libro de los engaños (), p. . . Cfr. Bollo-Panadero (), pp. -. . I termini «duricie» e «tedium» compaiono in questa forma in Disciplina (), p. . . Cfr. Libro de buen amor (), pp. -. Sul concetto della memoria nel Medioevo, cfr. Carruthers (). . Cfr. Disciplina (), pp. -. . Cfr. Le Goff (), pp. -. . Ivi, p. . . Cfr. infra, Nota informativa. . Si veda l’episodio, appartenente alla cornice narrativa, fra i racconti  e , corrispondente all’ottavo giorno della vicenda. . Cfr. Alvar (). . Comparetti () nel cap. I (Forma e contenuto del racconto nel Libro di Sindibad), procedendo a un esame sistematico degli otto esemplari del ramo orientale, spiega che «Judea» è errore di copista, da «India». . Non si dice nulla della vita dell’Infante limitatamente al periodo che va dalla nascita fino ai nove anni. Questa completa assenza di notizie si deve al fatto che, come suggerisce Raglan (, p. ), in quell’arco temporale non si dà nessuna vicenda che risulti iniziatica e fondante nell’esistenza dell’eroe mitico-folklorico. . Cfr. Sklovskij (). . Cfr. Lacarra, Cacho Blecua (), pp. -. . Cfr. Thompson (); Keller (). . Nelle note alla traduzione, sulla scorta dei due studiosi citati e delle annotazioni di precedenti edizioni spagnole, si cercherà di dar conto dei motivi che qui ho annunciato senza alcun ordine e con intento puramente indicativo. . Cfr. Propp ().

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. Cfr., a tale proposito, l’articolo di Lacarra e Cacho Blecua () dedicato al «marco narrativo», in cui le vicende dell’Infante del Sendebar sono viste come sequenze della storia di formazione dell’eroe di un relato folklórico che è tuttavia in grado di esaltare, attraverso la trasformazione del protagonista, i principi fondamentali della gerarchia del sapere tipica dell’epoca alfonsina. Fra gli ultimi studi che fanno forte riferimento a criteri strutturali, segnalo l’utile, sebbene discontinuo, contributo sull’exemplum medievale spagnolo di Bollo-Panadero (, soprattutto pp. -, dedicate al Sendebar). . Ai  exempla raccontati dai consiglieri, dalla matrigna e dall’Infante, si devono aggiungere altri  racconti inseriti nell’azione della cornice. A causa di questa sovrapposizione del contenuto narrativo di exempla e cornice, il computo dei cuentos non sempre è stato chiaro: nella sua Historia crítica de la literatura española, Amador de Los Ríos (-, vol. III, p. ) segnala  racconti; in Orígenes de la novela, Menéndez Pelayo (, vol. I) ne indica , come dopo di lui fa la maggior parte degli storici letterari. . Cfr. Libro di Sindbad (). . Cfr. Benfey (). . Cfr. Marsan (), p. . . Per approfondimenti sulla struttura del Sendebar, cfr. Lacarra (b, ); Prieto (). . Cfr. Lacarra, Cacho Blecua (), p. . . Ivi, p. . . Si ricorda qui il contributo dato da Viktor B. Sklovskij allo studio delle relazioni tra novella e romanzo. Cfr. Sklovskij (), pp. -, in particolare pp. -. . Cfr. Sendebar (, ), p. . . Cfr. Paltrinieri (), pp. -. . Ivi, pp. -. . Mi riferisco soprattutto agli studi di Ong () e di Zumthor (). . Già Perry (-), con l’intento di delineare una gerarchia tra gli esemplari arabi e rintracciare un archetipo, sottolineava l’importanza di uno studio comparativo delle cornici. Per un confronto analitico tra le cornici narrative delle versioni arabe dei Sette Visir e il Sendebar castigliano, risulta utilissima la ricerca condotta da Elisabetta Paltrinieri nel cap. VI del suo saggio monografico sul Libro degli Inganni (cfr. Paltrinieri, , pp. -). . Per parte sua Bollo-Panadero () nel suo recente studio segnala la patente contraddizione che nella prima pagina s’incontra nella scena che precede la preghiera rivolta a Dio dal re Alcos per avere un erede. Sembra infatti inverosimile che il sovrano giaccia con una delle mogli e che la preferita (la moglie “saggia”) dall’esterno veda l’inquietudine dell’amato sposo e intervenga. Contraddizione che permane nel momento in cui la medesima sposa che ha suggerito al re di pregare si sostituisce, senza alcuna spiegazione, alla moglie che precedentemente giaceva con il monarca. María Jesús Lacarra, fra gli altri, si stupisce dell’accusa rivolta a Çendubete di non aver insegnato nulla, in sei anni, al figlio del re, dal momento che nel testo non si fa cenno alla presenza del maestro accanto all’Infante (cfr. Sendebar, , p. ). Si noti inoltre, a mo’ d’esempio, la mancanza di coerenza tra l’indica-

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zione del primo vaticinio, che prevedeva che il ragazzo sarebbe stato in pericolo, a causa di suo padre, all’età di vent’anni, e l’età del giovane principe nel momento in cui Çendubete, a seguito di un’ulteriore indagine astrale, gli ingiunge di restare in silenzio per sette giorni. Quel giorno stesso l’Infante, stando a quanto si è narrato nel testo, ha  anni,  mesi e  giorni. . A tale proposito María Dolores Bollo-Panadero osserva che la coeva versione ebraica, il Mishlè Sendebar, non esibisce nessuna di queste incongruenze ed è più coerente nel presentare alcuni nessi logici fra le vicende della trama, quali, ad esempio, l’insuccesso del primo tentativo da parte del maestro Sendebar nell’educare l’Infante. Tuttavia la studiosa non spiega affatto le ragioni di tale sostanziale differenza (cfr. Bollo-Panadero, , pp. -). Per parte mia sottolineo uno degli esempi in cui il Mishlè Sendebar mostra di possedere un alto controllo, di tipo letterario, non solo della struttura della cornice ma anche della coerenza caratteriale e narrativa dei personaggi, nel punto in cui il maestro Sendebar, al termine dei sei mesi d’insegnamento impartiti al principe, e dopo aver appreso il grave pericolo che incombe nei successivi sette giorni sulla testa del proprio discepolo, lo invita a leggere personalmente il verdetto delle stelle per operare così una prima verifica del sapere da lui acquisito (cfr. Mishlè Sendebar, , p. ). . Cfr. Mishlè Sendebar (), pp. -. . Cfr. infra, Enxenplo del mercador del sándalo, e del otro mercador. . Ibid. . Ibid. . Ibid. . Cfr. Taravacci (), p. . . Cfr. Marimón Llorca (). . Sebbene affronti la maturazione del motivo del peccatum linguae (nella sua varia articolazione della custodia linguae, delle circumstantiae linguae, del multiloquium vs. breviloquium ecc.) nella letteratura sapienziale dell’epoca mediante un’analisi del rapporto da questo instaurato con i modelli italiani, risulta utile il saggio di Bizzarri (). . Cfr., a tale proposito, Bizzarri (). . Cfr. infra, Enxenplo del consejo de su muger. . L’Infante rischia di essere giustiziato dopo la prima falsa accusa della matrigna al termine dell’Enxenplo del consejo de su muger e dopo ognuno dei racconti della donna stessa: il  (Lavator), il  (Striges), l’ (Fontes), l’ (Aper) e il  (Simia); infine il re pronuncia l’ultima sentenza di morte per il figlio dopo che la donna, giunto il settimo giorno (fra i cuentos  e ) e vedutasi ormai persa perché da lì a poco il principe avrebbe potuto parlare, tenta l’ultima carta minacciando di darsi fuoco su un rogo da lei stessa allestito. . Mi riferisco a opere come il Verbum abbreviatum di Pedro Cantor o la Summa de arte praedicatoria di Alano de Insulis (cfr. Bizzarri, , pp. -). . Cfr. Sem Tob (), pp. -. . Perry (-) fa riferimento all’anonimo testo relativo alla storia del filosofo del II secolo d.C., per sostenere l’ipotesi dell’influenza greca sul-

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l’originale persiano del Sendebar, insistendo appunto sull’analogia della cornice narrativa e sulla tematica del silenzio, presente in entrambe le opere. . Il testo greco era già diffuso nel II secolo d.C. Per la versione castigliana, cfr. Segundo (). . Si veda l’episodio nella la versione italiana: Mille e una notte (), p. . La traduzione di Francesco Gabrieli si basa su una delle edizioni cairine, quella di Zer (Sarafiyya, il Cairo /). . Si ricorda che Enrique de Rivas, a partire da un’analisi del valore simbolico dei numeri presenti nell’episodio, ricava che il percorso di istruzione dell’Infante segue lo schema dell’iniziazione mistica, con il fine del perseguimento della perfezione dell’anima (cfr. Rivas, , p. ). . Cfr. Campbell (). . Paltrinieri (, pp. -) sostiene che la versione dei Sette Visir delle Cento e una notte e il Sendebar castigliano sembrano avere un modello comune e diverso da quello inserito nelle Mille e una notte. Si ricorderà che il testo delle Cento e una notte, inoltre, probabilmente elaborato nell’VIII secolo, fu conosciuto già nel X secolo nella Spagna araba. Attualmente il testo è disponibile nell’edizione di Maurice Gaudefroy-Demombynes (Cent et une nuits, ). . Cfr. Libro di Sindbad (), pp. -. . Cfr. Mishlè Sendebar (), p. . . Per il rapporto fra immagine e memoria nella cultura greco-latina e nel Medioevo, cfr. Yates (), capp. II-III, VIII. Sulla relazione tra parola e immagine cfr. i fondamentali contributi di Pozzi (, ) e, in particolare, il recente saggio di Bolzoni (), in specie i capp. II-III. Cfr. infine il suggestivo saggio di Daniélou (), provvisto di un raffinato apparato iconografico della cosmologia tantrica. . Come è detto nel Libro de las Estrellas de la Ochava Esfera: cfr. Solalinde (), p. . . Cfr. Maravall (), p. . . Sulla figura del re cfr. il recente intervento di Caraffi (). . Sui rischi che il re, più di ogni altro essere umano, corre quando è in preda alla saña, ovvero all’ira, cfr. il Capítulo XI del Calila e Dimna; cfr. Calila (), pp. -. . Il numero delle mogli attestate nel ramo orientale varia: sette, otto, ottanta, novanta o cento. . Cfr. Duby, Perrot (), p.  e nota . . Cfr. i cuentos , , , , ,  e , tutti narrati dai consiglieri, tranne l’ultimo, presentato dall’Infante. . Patrizia Caraffi giustamente rammenta che per Deyermond (, p. ) le storie narrate dai sabios, tutte incentrate sulla «decepción sexual» delle donne, formano quella che si può considerare la prima raccolta di fabliaux castigliana; e sottolinea altresì l’opinione di Bloch (, p. ), secondo il quale la tradizione misogina nel tardo Medioevo dà luogo, senza perdere la propria carica ideologica, a un tipo di narrativa orientato verso i generi del comic tale e del fabliau.

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Nota informativa

 Le ipotesi sull’origine e la trasmissione del Sendebar Con il termine Libro di Sindibad si indica una collezione di narrazioni brevi legate da un’azione principale, il cui nucleo originario risale probabilmente all’età precristiana e all’ambito buddista, ma documentato in epoca medievale e tardomedievale lungo due linee di trasmissione, una orientale e una occidentale. Si tratta quindi di una realtà letteraria di particolare vastità ed estensione, tanto nel tempo quanto nello spazio, che ha interessato studiosi di varie letterature e comparatisti, così come filologi e storici della cultura. Il cosiddetto ramo orientale, che è indubbiamente il più arcaico, conta otto versioni (in siriaco, greco, ebraico, castigliano, pahlavi e arabo), la cui classificazione sotto il profilo diacronico risulta ardua, non solo per l’enorme difficoltà di individuare l’epoca in cui gli originali – peraltro non attestati – prendono corpo, ma anche per l’impossibilità di disporre di varianti intermedie che testimonino dei rapporti fra le tradizioni narrative e culturali dei paesi coinvolti. La critica però suole presentare le otto versioni secondo il seguente ordine cronologico: quella siriaca, Sindban, che Nöldeke () data al X secolo; il Syntipas greco, che Comparetti e Maltese collocano alla fine dell’XI secolo; il testo ebraico, Mishlè Sendebar (o Sandabar o Sindibar), redatto fra i secoli XII e XIII; la versione castigliana, Sendebar o Libro de los engaños, realizzata nel ; le tre versioni persiane, capeggiate dal SindbâdNâmeh, in prosa, composto da Zahiri as-Samarqandi attor

no al , da cui sembrano derivare le altre due, il SindbâdNâmeh (in versi, del  circa) e il Tûti-Nâmeh (in prosa, composto da Nashêbi attorno al ); le versioni arabe indicate con il titolo Sette Visir, nelle notti - delle Mille e una notte – testo popolarissimo, di tradizione antichissima ma di attestazione tarda, divisa in tre famiglie di manoscritti – e in varie notti delle Cento e una notte, raccolta ritenuta più antica della prima e indipendente da questa (cfr. Loiseleur-Deslongchamps, , pp. -; Gaudefroy-Demombynes, ; Cent et une nuits, , pp. -; per una comparazione fra i testi arabi e il Sendebar castigliano cfr. Paltrinieri, , parte II, pp. -, parte III). La critica ha cominciato a mettere a fuoco le problematiche relative a tale corpus nel secolo XIX, soprattutto in relazione alle versioni arabe, studiate assai prima del , data in cui si fece conoscere l’esistenza della versione castigliana. Per le indagini condotte in Europa dal  al  sulle edizioni del Libro di Sindibad e sulla sua filiazione in lingua araba, si veda la bibliografia di Chauvin (). La notizia e la prima pubblicazione della versione castigliana coincidono con l’incremento degli studi critici in prospettiva comparatistica, avviati peraltro proprio dal primo editore del Sendebar, Domenico Comparetti (cfr. Comparetti, ). Con il termine Sendebar, traduzione ebraica di Sindibad o Sindbad, oggi la critica indica in senso specifico la versione castigliana, mentre in senso lato può intendere il Libro di Sindibad, senza fare riferimento alle singole versioni. A partire dall’analisi di Comparetti, si è concordi nel segnalare da una parte la mancanza di dati certi sull’origine della storia di Sindibad, dall’altra una notevole abbondanza di versioni lungo i due rami, orientale e occidentale, in cui essa si attesta. Le numerose versioni del ramo orientale e la difficoltà di una loro precisa datazione lungo un asse cronologico che si può far risalire addirittura all’epoca precristiana hanno indotto gli studiosi ad avanzare alcune ipotesi sull’origine stessa del Sendebar e sulla sua diffusione lungo un itinerario che 

tendenzialmente, ma non sempre in modo sistematico e prevedibile, procede da Oriente a Occidente. Sull’intera tradizione del Libro di Sindibad si segnala la bibliografia più completa e ragionata, di Runte, Wikeley e Farrell (). .. Teoria “indianista” La riflessione teorica sull’origine del Sendebar si avvia a partire da una ipotetica analogia con la genesi e il percorso del Calila e Dimna. Pertanto la prima ipotesi (avanzata da Joseph von Görres nel  e successivamente da LoiseleurDeslongchamps, il quale parla inequivocabilmente di «fables indiennes» assai prima che si conoscesse l’esistenza del manoscritto castigliano), ma inerente alle altre versioni, individua il nucleo narrativo originario, in sanscrito e non più attestato, in India, dalla quale sarebbe passato all’antico persiano letterario, il pahlavi, per attraversare, fra l’VIII e il IX secolo d.C., una significativa fase di traduzione all’arabo, da cui deriverebbero la versione siriaca, fonte di quella greca, e la versione in ebraico (cfr. Loiseleur-Deslongchamps, , pp.  ss.). Tale teoria – basata sulla forte analogia tematica di ben otto racconti del Libro di Sindibad con quelli contenuti in antiche raccolte indiane, redatte in sanscrito, quali il Panchatantra o l’Hitopadesha, per non citare che i più noti – fu poi ripresa da Theodor Benfey nel  (cfr. Benfey, ), il quale, nel suo studio sul Panchatantra, appunto, ritiene che il modello del Libro di Sindibad, assai prossimo al Calila, si debba far risalire alle storie, diffuse oralmente dai monaci buddisti in epoca precristiana, sulle reincarnazioni di Buddha. Benfey approfondisce dunque l’ipotesi di un’origine indiana sostenendo che il nucleo orale del famoso Panchatantra abbia trovato una prima fissazione scritta, ma ormai perduta, già a partire dal II secolo d.C., per poi fissarsi, nel X secolo, nell’Hitopadesha e proseguire al persiano letterario per approdare infine all’arabo. La ricostruzione dell’orientalista Benfey si basa fondamentalmente su argomentazioni etimologico-onomastiche (derivazione del 

nome Sindbad dal nome comune Siddhapati, indicante “filosofo sapiente”), sulla somiglianza, tuttavia molto discussa dalla critica successiva, fra le cornici narrative delle due raccolte e fra alcuni punti delle due introduzioni. Ma di fronte a due tradizioni narrative parallele, e formatesi in periodi e luoghi tanto indefiniti, risulta difficile stabilire quale testo abbia influenzato l’altro. In tempi più recenti, la teoria indianista è stata riproposta, con qualche elemento di discussione, da Artola (, ) – il quale tuttavia distingue (cfr. soprattutto Artola, ) fra l’origine indiana e il momento della fissazione letteraria presso l’antica corte iraniana – e da Upadhyaya (). Come riconosce María Jesús Lacarra, il prestigio dei sostenitori ottocenteschi di tale teoria contribuì al credito che le diedero studiosi quali Bonilla y San Martín, Amador de los Ríos, Menéndez Pelayo e Keller (cfr. Lacarra, b, pp. -). .. Teoria “pitagorica” La teoria indianista fu messa in discussione, per quanto brevemente, da Carra de Vaux (, p. ), il quale, sulla base dell’elemento contenutistico della prova del silenzio, cui è sottoposto l’Infante del Sendebar, propone un’origine pitagorica, data la centralità del motivo della taciturnitas nel pensiero pitagorico. Lo studioso suggerisce quindi una decisiva influenza della Vita del filosofo Secondo, biografia redatta nel II secolo d.C., di uno sconosciuto filosofo dell’epoca dell’imperatore Adriano, attestata in varie lingue delle culture mediorientali e assai nota nella Spagna della prima metà del secolo XIII, come è documentato dal suo inserimento nella Primera crónica general (, vol. I, pp.  ss.). Come più avanti osserverà Perry (-), tale ipotesi è troppo debole in quanto si basa solo su analogie tematiche; inoltre la matrice pitagorica del tema stesso non è del tutto certa, in quanto la prova del silenzio si trova spesso come tappa essenziale dell’iniziazione dell’eroe in molti racconti della tradizione folklorica. 

.. Teoria “persiana” La teoria indianista di Benfey fu poi contestata più attentamente dal lungo articolo di Perry (-), il quale parte dalla constatazione della mancanza di testimoni del sostrato sanscrito. In contrasto con l’argomentazione di Benfey relativa al nome Sindibad, Perry stima più probabile che derivi dal nome proprio, attestato nella letteratura persiana, Sundabad, di cui sarebbe una facile deformazione. Inoltre lo studioso, pur accogliendo l’ipotesi di un sostrato indiano, ritiene che il Libro di Sindibad prese corpo e rilievo letterario nel secolo VI in Persia sotto il regno di Anushirvan. La tesi dell’origine persiana si basa sostanzialmente sull’impossibilità di sostenere con prove certe la priorità – data invece per scontata da Loiseleur-Deslongchamps – di quei racconti che nelle raccolte indiane esibiscono forti analogie tematiche con il Sendebar; Perry infatti è convinto che per stabilire una priorità cronologica certa sarebbe necessario rintracciare un modello sanscrito che presentasse, in misura più caratterizzante, la stessa organizzazione nella cornice narrativa. Perciò, sebbene riconosca rilevanti affinità fra il Panchatantra e il Sendebar, egli giunge a supporre che la silloge indiana sia stata influenzata dal Sendebar, piuttosto che il contrario, e difende tale punto di vista mediante l’assunto di una migrazione parziale della materia narrativa dalla Persia verso l’Oriente, con conseguente acclimatazione nel sistema narrativo indiano. Quindi Perry sostiene che la formazione e la trasmissione della storia di Sindibad segua un primo e significativo cammino inverso rispetto a quello ipotizzato dai due principali fautori della tesi indianista. Lo studio di Perry infine, a conforto della teoria elaborata e in opposizione a quella di Benfey, approda ad alcuni risultati particolarmente importanti. . Il primo concerne l’influenza della già citata Vita del filosofo Secondo. Riprendendo le rapide osservazioni di Carra de Vaux, qui si riscontra un parallelismo non solo riguardo al tema del silenzio, ma anche alla problematica filosofico

sapienziale presente tanto nella biografia pitagorica quanto nelle versioni greca e persiana (del XII secolo) del Sendebar. Questo aspetto conferma che, almeno in parte, il testo ha effettuato un percorso di caratterizzazione dalla cultura greca a quella orientale, così come sembra accertato in tre delle narrazioni esemplari della raccolta – delle quali vengono riconosciuti altrettanti modelli greco-latini (ovvero i seguenti racconti della variante castigliana: il , attestato in Stesicoro ed Eliano; il , che rimanda a Valerio Massimo; il , che trova il proprio archetipo in Esopo e Plutarco) – e, in generale, dalla presenza di altri motivi o elementi topici diffusisi dalla Grecia al Vicino Oriente. . Il secondo dato, che Perry ritiene inequivocabile per definire la distanza “genetica” fra il Sendebar e le sillogi di origine indiana, è di tipo strutturale: mentre queste ultime collocano le narrazioni esemplari nella cornice secondo una sequenza ipotattica, assai complicata – come accade per almeno cinque casi nel Calila e Dimna, cioè quando un personaggio di una delle storie narrate ne espone un’altra o più d’una (in conformità a uno schema strutturale definito anche “scatola cinese”) –, il Sendebar segue un sistema d’inserimento paratattico, assai più semplice, in quanto l’azione principale affiora a intervalli regolari senza interferire con i protagonisti degli episodi illustrati. Tale schema è, osserva lo studioso, più tipico della narrativa dell’antichità classica la quale, come si dimostra a più riprese nel lungo articolo, ha influenzato l’ambito culturale del Vicino Oriente e della Persia. . Infine Perry riscontra l’assenza di nomi sanscriti, presenti invece nel Calila e Dimna, nelle versioni più antiche della raccolta, a fronte della già citata derivazione del nome proprio Sindibad dal persiano Sundabad. .. Teoria “ebraica” La teoria proposta contemporaneamente a quella di Perry ma più recentemente sviluppata da Morris Epstein – in occasione del suo articolato lavoro sulla versione ebraica per

venutaci, il Mishlè Sendebar, del XIII secolo – ipotizza un’origine ebraica del Libro (cfr. Epstein, a, b, ; Tales of Sendebar). Tale analisi si basa sull’esistenza di due diverse versioni. Quella primitiva – risalente addirittura a un periodo compreso fra i secoli IV e II a.C., dalla quale sembra derivare il testo arabo – sarebbe responsabile della diffusione delle versioni del ramo occidentale, compresa quella realizzata fra il XII e il XIII secolo, non più conservata (cfr. Epstein, a). Questa primitiva versione avrebbe rappresentato il modello della traduzione pahlavi datata fra VI e VII secolo, da cui sarebbe disceso, a sua volta, il rimaneggiamento arabo che, penetrato in Occidente e spogliato della tradizione talmudica, fece perdere la nozione della matrice ebraica del Libro, considerato quindi, anche presso le comunità giudaiche, di ascendenza araba. Nel secolo VII o VIII dell’era cristiana sarebbe stata prodotta un’altra versione ebraica, non derivante dall’arabo, ma che diffondendosi in Occidente lasciò la propria impronta sui testi del ramo orientale, soprattutto quelli greco e castigliano. Tale influenza si riscontra in particolare nell’uso, nelle tre versioni citate e in quella siriaca, di alcuni aforismi e forme retoriche assai comuni nella tradizione letteraria ebraica, quale l’affermazione del sapiente Sendebar “non fare ad altri quello che non desideri che sia fatto a te”, che è posta a conclusione della storia principale – e quindi in posizione di evidenza come sigillo interpretativo – sia nella versione ebraica conservata sia in quella greca, mentre nelle versioni siriaca e castigliana è attribuita al sapiente protagonista nel momento in cui assume la responsabilità di istruire il giovane principe. Tra le immagini e le figure retoriche passate dal nucleo ebraico alle altre versioni del ramo orientale va segnalata la similitudine tra il foglio di carta e la terra, fra l’inchiostro e il mare e fra la penna e il pesce, sviluppata nell’ambito degli adunata, per dimostrare che non è possibile scrivere tutte le astuzie delle donne (cfr. infra, Enxenplo de la muger e del clérigo e del fraile). 

Sebbene la teoria di Epstein non risulti del tutto convincente in relazione all’ipotesi genetica e nei nessi tra Oriente e Occidente, tuttavia sembra testualmente fondata certa somiglianza fra il Mishlè Sendebar e il Sendebar castigliano, così come è quanto meno suggestiva la supposizione dell’importante ruolo di un giudeo nella traduzione dall’arabo al castigliano. Supposizione giustificabile tanto storicamente – poiché, come s’è detto, l’interpres giudeo, colto e trilingue, era figura di indubbio rilievo nell’assetto sociolinguistico delle zone riconquistate della Spagna del secolo XIII – quanto testualmente, se si nota che la versione castigliana elimina il racconto tradizionalmente intitolato Fox, con cui la matrigna chiede pietà al re, a causa della sua natura antisemita. Va rilevato, tuttavia, che quello stesso exemplum è invece presente nella versione ebraica conservata del Mishlè Sendebar. In conclusione, come hanno osservato tutti gli editori, allo stato attuale, pur convenendo che le teorie di Perry e di Epstein risultano quelle maggiormente documentate, risulta difficile riconoscere una delle tesi elaborate come assolutamente convincente. Il fatto di non poter disporre del testo utilizzato dal traduttore dall’arabo al castigliano certamente rende ancor più aleatoria qualsiasi congettura sulla derivazione diretta della versione commissionata da Fadrique nel  e sul valore filologico e letterario dell’originale arabo stesso; così come, parallelamente, in considerazione della mancanza di un manoscritto del XIII secolo, e nella necessità di attenersi a una trascrizione tardiva del Quattrocento, appare rischiosa qualsiasi affermazione che distingua nettamente gli interventi e le scelte del traduttore da quelli del copista.  Il ramo occidentale Il ramo orientale è ovviamente il più antico, mentre quello occidentale, detto dei Sette savi, è attestato nell’Europa cristiana a partire dal XII secolo: tradizione più recente, ma non meno complessa, dal momento che annovera almeno qua

ranta redazioni diverse. Su questo ramo gravano molti interrogativi cui non si è data definitiva risposta, relativi, da una parte, alla probabile origine orale – alla quale si suole rimandare per spiegare le enormi difformità rispetto ai testi orientali – e, dall’altra, al luogo, geografico o culturale, da cui il Libro di Sindibad, nelle sue versioni occidentali, ha preso le mosse dandosi la forma letteraria che possiede (cfr. Torre Rodríguez, ). Non potendo entrare in questa sede nel merito della complessa tradizione testuale dei Sette savi, mi limito a offrire alcuni dati utili a comprendere le fondamentali divergenze tra i due rami. Il filone occidentale si divide fondamentalmente in due varianti. La prima sembra essere la traduzione latina Historia septem sapientium Romae ( ca.) che venne precocemente trasposta in francese a metà circa del XII secolo e successivamente redatta in quasi tutte le lingue europee (per un’edizione del testo dei Sette savi cfr. Seven Sages, ; per uno studio particolarmente rivolto alle versioni in «Middle English» cfr. Campbell, ). Da tale testo discendono le tre versioni castigliane: la Novela que Diego de Cañizares de latín en romance declaró y trasladó de un libro llamado “Scala Çeli” (cfr. Versiones castellanas, , pp. -); il Libro de los siete sabios de Roma (cfr. Versiones castellanas, , pp. -; Siete sabios de Roma, ); la Historia lastimera del príncipe Erasto, hijo del Emperador Diocleciano, di Pedro Hurtado de la Vera, pseudonimo di Pedro Faria, Anversa  (nel ramo occidentale con il nome Erasto si indica lo specifico gruppo derivante dalla traduzione italiana: si ricorda l’edizione, fortunatissima nel secolo XVI, dei Compassionevoli avvenimenti d’Erasto, Mantova , da cui fu tratta la versione castigliana). La seconda variante è costituita dal Dolopathos, sive De rege et semptem sapientibus, redatto in prosa dal monaco cistercense Giovanni di Alta Silva, probabilmente nel - (cfr. Dolopathos, ; su questa versione segnalo i lontani ma determinanti studi di D’Ancona,  e di Comparetti, ; 

cfr. anche Paltrinieri, , pp. -; per un’ipotesi sui modelli del Dolopathos, cfr. D’Ancona, , pp. XVII, XXIIXXIII; Torre Rodríguez, ), da cui deriva la versione poetica in antico francese, del  circa, di Herbers, indicata con il titolo Li romans de Dolopathos. Nella tradizione occidentale dei Sette savi si conservano in tutto quattro racconti del ramo orientale, ovvero Canis, Aper, Senescalcus e Avis (indicati tradizionalmente con termine latino anche nelle moderne edizioni del ramo orientale), mentre nel Dolopathos soltanto uno, ovvero quello intitolato Canis. Entrambe le versioni occidentali, divise nelle due diverse tipologie dei Sette savi di Roma (che ebbe una immensa diffusione in tutto l’Occidente) e del Dolopathos (che rappresenta una variante isolata e rara), risultano quindi nettamente divergenti dal modello originale nella scelta delle storie da narrare e conseguentemente nella funzione didattica da esse svolta. Nell’impianto strutturale della cornice, il ruolo di Sindibad (o Sendebar/Çendubete) è assunto dai sette sapienti che rivestono il doppio ruolo di istruttori e di difensori-narratori del principe (eccetto che nel Dolopathos, dove l’istruttore e il narratore è uno solo, ovvero Virgilio); a differenza di quello che avviene nelle versioni orientali i sapienti raccontano una sola storia, e sono sempre indicati con un nome proprio, cosa che nel ramo orientale accade soltanto nel testo ebraico. A questo riguardo, Paltrinieri (, pp. -) intende dimostrare che ciò che il ramo occidentale condivide con quello orientale è più prossimo alla versione ebraica, sebbene questa non costituisca il modello principale della primitiva versione occidentale. Infine, la figura del re è sostituita da quella di un sovrano cristiano che, rimasto vedovo della prima moglie, madre dell’Infante, sposa un’altra donna, la quale assume l’importante ruolo che nel ramo orientale era affidato alla malvagia favorita del re. A integrazione dei dati indicati, per il filone occidentale rimando, senza alcuna pretesa di completezza, alla seguente bibliografia: Krappe (, , , , ); Farrell (). 

 Manoscritto e storia editoriale Il testo ci è pervenuto attraverso un unico manoscritto appartenuto al Conde de Puñonrostro, da cui la lettera P del codice, altrimenti indicato come ms. , della biblioteca della Real Academia Española de la lengua di Madrid, in cui è attualmente conservato. Si tratta di un codice cartaceo e miscellaneo, in °,  x  cm secondo la descrizione di Krapf (cfr. Patronio, ) o  x  mm secondo le descrizioni di Bonilla y San Martín, di González Palencia e di Keller, provvisto di rubriche e capitali in colore, redatto a due colonne da una sola e buona mano, in scrittura semigotica con tratti di corsivo del secolo XV (tradizionalmente indicata dagli editori con la lettera A) su cui, successivamente, intervenne una seconda mano probabilmente del secolo XVI (designata con la lettera B). La sua esistenza fu resa nota nel  da José Amador de los Ríos, in occasione della pubblicazione del tomo III della sua Historia crítica de la literatura española. Secondo la nota che Amador de lo Ríos ha apposto alla copia fatta realizzare a beneficio di Comparetti per la prima edizione, l’originale del secolo XIII, già sfigurato dalla prima mano, fu peggiorato da una seconda mano che «ha enmendado sin discreción ni criterio palabras y frases, á fin de hacerlo más accesible á la ignorancia» (cfr. Comparetti, , p. ). Tale osservazione sembra negare l’ipotesi che B sia stato in grado di emendare avvalendosi di un esemplare più corretto rispetto a quello da cui deriva A. Della stessa opinione sarà, più tardi, l’editore inglese del testo, nonché suo traduttore, Keller, il quale sostiene che B è assai meno vicino, rispetto ad A, all’originale (cfr. El libro de los engaños, , p. XVII). Viceversa, Bonilla y San Martín sostiene che gli emendamenti di B «nos llevan a suponer que su autor tuviere a la vista otro texto distinto del códice P., hoy único conocido», ovvero provengano da un esemplare diverso 

dall’unico pervenutoci e ad esso superiore (cfr. Libros de los engaños, , p. ). Emilio Vuolo, riportando l’opinione del paleografo Armando Petrucci, daterebbe la scrittura di A ai primi decenni del secolo XV (cfr. Libro de los engaños, , p. XIX). Keller tuttavia avanza l’ipotesi che si debbano retrodatare A e B rispettivamente di un secolo (cfr. El libro de los engaños, , pp. XVI-XVII). María Jesús Lacarra, sulla base di considerazioni storico-linguistiche (cfr. Sendebar, , , pp. -), suppone che A debba essere posteriore al , data a partire dalla quale si attestano forme verbali semplificate come «amás» (racconto ), corretta da B in «amáis», ma anteriore al , data a partire dalla quale le forme verbali della seconda persona plurale, voci piane che conservano ancora la forma desinenziale piena, testimoniate in A (ad esempio «dezides», «sabedes»...), cominciano a essere sistematicamente sostituite dalle forme sincopate dittongate («dezís», «sabéis»...), come attesta B. La prima descrizione del manoscritto è di Amador de los Ríos (-, vol. III, pp. -, vol. IV, pp. , ), cui seguono quelle di Bonilla y San Martín (Libro de los engaños, , pp. -) e di Vuolo (Libro de los engaños, , pp. XIXXXI ). Interessanti le considerazioni sul codice svolte da Krapf (Patronio, , pp. VIII, XIV-XXI). Si veda la recente descrizione in Alvar, Lucía Megías (, pp. -). Il codice consta di  fogli. Secondo la prima numerazione, il testo, anepigrafo, del Sendebar è contenuto ai ff. v, mentre secondo la più recente, seguita da Vuolo, compare ai ff. r-v. Il codice contiene altri cinque testi, fra cui la prima parte del Conde Lucanor (cc. -v) e  dei  capitoli del Lucidario. La scarsa qualità del testo A, riscontrabile in numerosi errori e passaggi oscuri, è stata messa in evidenza più volte, a partire da Amador de los Ríos e Comparetti. La si può attribuire tanto al copista quanto alla corruzione dell’originale castigliano e alle stesse circostanze della traduzione duecentesca. Per alcune ipotesi riguardanti la storia del codice, mi limito a 

segnalare le osservazioni di Vuolo (Libro de los engaños, , pp. XX-XXI, nota ) e di Paltrinieri (, p. ). La prima edizione si deve, come s’è detto, a Domenico Comparetti, il quale pubblicò il testo in appendice alle sue Ricerche intorno al libro di Sindibad (Comparetti, ). Il testo fu poi riproposto, a parte, nello stesso anno a Milano e nel  a Firenze. Questa prima edizione si basa sulla copia del ms. di Puñonrostro prodotta per iniziativa di Amador de los Ríos, il quale afferma di tener conto unicamente, senza che ciò corrisponda a verità, della mano A. Tanto la Memoria di Comparetti quanto l’edizione del  furono pubblicate, in traduzione inglese, a Londra nel  per i tipi della Folk-Lore Society, con il titolo di Researches Respecting the Book of Sindibad. La traduzione inglese fu condotta da Charles Henry Coote, rivista e integrata dallo stesso Comparetti, e preceduta da una nota introduttiva di George Laurence Gomme. Nel , in considerazione del valore del testo e della qualità insoddisfacente del lavoro di Comparetti, Bonilla y San Martín – dietro suggerimento di Eugenio Krapf, possessore del codice dal  al  (cfr. Libro de los engaños, , p. XIV) – procede a un’edizione intenzionalmente rispettosa della forma ortografica del manoscritto, prestando altresì molta attenzione alle «modificaciones» e «correcciones» attribuibili alla mano B. Sull’edizione di Bonilla y San Martín si basa quella di González Palencia, del  (cfr. la recensione di Tamayo Chinchilla, ). Bonilla ha intenzionalmente reso assai più disponibile il testo e lo ha corredato degli altri documenti che formano il corpus delle versioni castigliane del Sendebar: la Novela di Cañizares che traduce la Scala Coeli, il Libro de los siete sabios de Roma e la Historia lastimera del príncipe Erasto. L’edizione di Keller (El libro de los engaños, , ) segue la redazione A del manoscritto, pur riportando nelle note al testo le circa trecento varianti di B. Partendo dalla ricostruzione testuale di Keller del , Vuolo ha offerto un’accurata analisi critica che in apparato 

rende conto, oltre che delle due mani del codice, anche delle lezioni delle edizioni precedenti (Comparetti, Bonilla y San Martín, González Palencia e Keller).  Nota alla presente edizione Partendo dalla situazione testuale dell’unico manoscritto conservato nel codice di Puñonrostro, e in considerazione del fatto che rispetto alla mano A la più tarda mano B non pare apportare emendamenti fondati su un ulteriore codice più autorevole, ma è piuttosto testimonianza di una generica volontà di modernizzare l’assetto linguistico e di eliminare le incongruenze del testo per renderlo meno oscuro – forse nella previsione di una pubblicazione a stampa del manoscritto, come ipotizza Blecua (Códice de Puñonrostro, , p. ) –, seguo preferenzialmente la lezione di A, accogliendo, ove questa non fosse accettabile, la lezione e gli emendamenti di B. Nei casi in cui neppure le correzioni di B sono risultate accettabili, si è emendato il testo, avvalendoci anche dei suggerimenti dei precedenti curatori. Nell’apparato critico le lezioni del ms. si riportano senza accenti. Al fine di facilitare la lettura, si evidenziano le integrazioni, fra parentesi quadre, mentre le elisioni si giustificano nell’apparato, senza darne conto nel testo. Nella trascrizione si è proceduto a uniformare il testo alle norme grafiche attuali, tranne dove era necessario rispettare la realtà fonetica dell’epoca (come nel caso del mantenimento della fricativa iniziale in fijo e del grafema rr- che consente di rappresentare la diversa vibrazione della liquida in posizione iniziale). Pertanto nella resa grafica ho regolarizzato l’uso delle maiuscole e delle minuscole, ho inserito la punteggiatura e i segni di interpunzione secondo l’uso attuale. Si è affrontata l’oscillazione tra u e v, risolvendola in relazione al valore vocalico o consonantico, così come tra i, j e 

y, a seconda del valore, rispettivamente, vocalico, consonantico, semivocalico o semiconsonantico. Ho accentato le forme dell’imperfetto dell’indicativo in -ié (traié, tenié), tipiche della morfologia medievale. Con l’introduzione dell’accento grafico, assente nel manoscritto, ho creato il grafema y´, oggi inesistente, che permette di rispettare l’uso medievale di y con funzione avverbiale. Ho risolto i casi di omografia presenti nel manoscritto che avrebbero ingenerato difficoltà di lettura: ho distinto a preposizione dal verbo ha, e congiunzione da he verbo, aggiungendo l’h etimologica solo in queste due persone verbali di haber e senza segnalarlo; ho distinto esto indefinito da estó verbo, la preposizione articolata al da ál dove indica “altro, un’altra cosa”, i pronomi nós e vós con valore di soggetto da nos e vos con altre funzioni; infine ho distinto cómmo con funzione di avverbio interrogativo (in proposizioni dirette o indirette) da commo (avverbio di modo, proposizione o congiunzione). È stata adottata la differenziazione grafica tra l per trascrivere la consonante liquida laterale e ll per la palatale; così come ho regolarizzato l’evidenziazione della peculiarità della n per la consonante nasale alveolare rispetto alla ñ per la palatale, peraltro introdotta, ma non sistematicamente, nel manoscritto. Per i casi di enclisi del pronome indiretto, tipica della lingua letteraria medievale, ci si è avvalsi del punto in alto (porque·l, que·l), mentre si è usato l’apostrofo per l’elisione (díxol’). Nella trasposizione in italiano ci si è trovati di fronte a molti dei tratti propri della specificità della letteratura castigliana medievale, i quali mettono il traduttore dinanzi al duplice compito da un lato di rendere con la maggior fedeltà possibile il senso e il colore di un testo fissatosi in un quadro sia culturale sia cronologico lontano, dall’altro di trasmettere l’alterità del sistema del testo medievale attraverso un linguaggio che raggiunga il lettore e si riveli in grado di fargli apprezzare, all’interno del codice espressivo e comunicativo che gli è proprio, gran parte delle peculiarità 

stilistiche di un documento che si colloca in un ambito socioculturale ben definito, che assomma un’eredità “retorica” in parte orale e folklorica e gli elementi caratteristici di una prosa in parte esemplare e sapienziale, e in qualche misura di puro intrattenimento, comunque sempre legata alla tipologia della narrazione breve. L’intento di evidenziare nella traduzione i molti aspetti di un testo così stratificato spesso rimane una pura consapevolezza critico-teorica, vinto com’è dalla difficoltà di interpretare e far percepire le incertezze sintattiche di un castigliano ancora in formazione. Tuttavia s’è tentato di rispettare il più possibile il testo in due direzioni essenziali. . È stata conservata la scansione fortemente dialogica che contraddistingue particolarmente la cornice, ma anche il dettato delle storielle, dovuta alla componente orale evidente nella trasmissione del testo. La ripetizione frequentissima del perfetto dixo, che introduce con immediatezza la comunicazione diretta dei vari interlocutori (re, consiglieri, donna, Infante e Çendubete), non si è quindi disattesa. Nella traduzione è però emersa la necessità di variare l’ordine in cui nell’originale il verbo si trova rispetto al soggetto e talvolta, per una più efficace resa di quello stesso stile basato sulla reiterazione serrata dei verba dicendi, la formula che introduce e identifica l’interlocutore, nel gioco di domande e risposte, è inserita come inciso del discorso diretto. Si è poi considerato che il perfetto dixo, nel contesto espressivo della comunicazione narrativa medievale di tradizione orale, ha un’ampiezza semantica maggiore di quella che è confluita nella fissazione del testo scritto; per ciò stesso qualche volta, a seconda delle esigenze, è stato tradotto con “domandò”, “chiese”, “rispose”, “ribatté”, “esclamò” ecc. . Nel rispetto di quelli che ci paiono parametri espressivi e stilistici tanto del testo quanto del genere, si è mantenuta il più possibile nel sistema narrativo la proporzione fra le parti del discorso, anche, e soprattutto, dove la proposizione appare eccessivamente ellittica e dove il lettore moderno rischierebbe di concedere troppo a una connotazione del di

scorso in una direzione logica e psicologica più confacente alla situazione narrata. A questa soluzione sono stato indotto dalla convinzione che il testo medievale spesso privilegi l’elemento informativo e contenutistico perché affida la materia narrata a una lettura non meramente stilistica o estetizzante, ma moralistica, o semplicemente didascalica, in cui la componente ludica non è affatto bandita, ma è individuata nel piacere di seguire il più direttamente possibile un filo conduttore che si dipana lungo la linea della memoria, di ciò che è già noto e quindi del tutto affidabile, oppure nel gusto di un basilare ed evidente conflitto tra le parti o in una funzionalità parenetica del racconto esemplare.



[Prólogo] El Infante don Fadrique, fijo del muy aventurado  e muy noble rrey don Fernando, [e] de la muy santa rreyna, conplida de todo bien, doña Beatriz, por quanto nunca se perdiese el su buen nonbre, oyendo las rrazones de los sabios, que quien bien faze nunca se le muere el saber , que ninguna cosa non es  por aver  ganar la vida perdurable sinon profeçía , pues tomó él la entençión en fin de los saberes. Tomó una nave enderesçada por la mar en tal que non tomó peligro en pasar por la vida perdurable. E el omne , porque es de poca vida e la çiençia es fuerte e luenga, non puede aprender nin saber más, cada uno aprende qual le es dada e enbiada  por la graçia que le es dada e enbiada de suso, de  amor, profeçía  e fazer bien e merçed a los que·l  aman, plogo e tovo por bien que aqueste libro fuese de arávigo en castellano trasladado  para aperçebir a los engañados  e los asayamientos de las mugeres. Este libro fue trasladado en noventa e un años. . fijo del muy aventurado] fijo del muy noble aventurado A. . el saber] la fama y sabiendo que B. . cosa non es] cosa non ay mejo B. . por aver] para aver de B. . profeçía] si non el bien obrar e el saber B. . él la entençión...omne] ella en su entençion...ber es una nave muy segura para poder pasar sin peligro vida...mente con el bien obrar para yr a la vida perdurable e commo el mone B. . cada uno aprende qual le es dada e enbiada] de lo que a cada uno le es otor... B. . de] con B. . profeçía] aprovechar B. . que·l] que la. . que aqueste libro fuese... trasladado] que aqueste libro de aravigo en castellano A, integra B. . engañados] engaños B.



[Prologo] L’Infante don Fadrique, figlio del nobilissimo e fausto re don Fernando  e della devotissima regina Beatrice , dotata di ogni virtù, affinché non si perdesse il suo buon nome, accogliendo i consigli dei sapienti, secondo i quali non vien meno il buon nome di chi opera bene, poiché non vi è cosa migliore della conoscenza per ottenere la vita eterna, si avvalse di quell’inclinazione a vantaggio del sapere; e dunque si procurò una nave idonea al mare, con cui raggiungere la vita eterna senza timore. E poiché la vita è breve, mentre difficile e sconfinata è la scienza , e l’uomo non la può acquisire e dominare tutt’intera , e ciascuno ne apprende quanta gliene è data e concessa dalla grazia che dal cielo gli è elargita, in amore, conoscenza, carità e gratitudine verso chi ci ama, l’Infante gradì e ritenne giusto che questo libro fosse tradotto dall’arabo in castigliano per ammonire gli uomini affinché non cadessero nelle astuzie delle donne . Questo libro fu tradotto nell’anno mille e duecento novantuno .



Enxenplo del consejo de su muger Avía un rrey en Judea que avía nonbre Alcos. E este rrey era señor de gran poder, e amava mucho a los omnes de su tierra e de su rregno e manteníalos en justiçia. E este rrey avía noventa mugeres. Estando con todas , según era ley, non podía aver de ninguna dellas fijo. E do yazía  una noche en su cama con una dellas, començó de cuidar que quién heredaría su rregno después de su muerte. E desí cuidó en esto  e fue  muy triste e començó de rebolverse en la cama con muy mal  cuidado que avía. E a esto llegó una de sus mugeres, aquella qu’él más quería, e era cuerda e entendida, e avíala él provado en algunas cosas. E llegóse a él porque·l  veyé estar triste, e díxol’  que era onrado e amado de los de su rregno e de los de su pueblo: «¿Por qué te veo estar triste e cuidado? Si es por miedo o si te fize algún pesar, fázmelo saber e averé dolor contigo. E si es otra cosa, non deves aver pesar tan grande, ca graçias a Dios, amado eres de tus pueblos e todos dizen bien de ti por el gran amor que te an. E Dios nunca te faga aver pesar, e ayades  la su bendiçión». Estonçe dixo el rrey a su muger: «Piadosa, bienaventurada, nunca quesiste nin quedeste  de me conortar e me toller  todo cuidado quando lo avía, mas esto – dixo el rrey – yo, ni quanto poder he, ni quantos ay en mi regno, non podrían poner cobro en esto que yo estó triste. Yo querría dexar para quando muriese heredero para que heredase el rregno; por esto estó triste». E la muger le dixo: «Yo te daré consejo bueno a esto: rruega a Dios, qu’Él que de todos bienes es conplido, ca poderoso es de te fazer e de te dar fijo, si le pluguiere; ca Él nunca cansó de fazer merçed e nunca le demandeste cosa que . con todas] todas A. . yazía] estando B. . en esto] tanto en esto B. . e fue] que fue B. . muy mal] muy gran B. . porque·l] porque le B. . dixol] dixole B. . ayades] ayays B. . quesiste nin quedeste] dexaste B. . toller] quitar B.



Esempio del consiglio della moglie In Giudea  viveva un re chiamato Alcos. Signore assai potente, il quale aveva molto a cuore gli uomini della sua terra e del suo regno e li governava con equità. Il re aveva novanta mogli, e pur giacendo  con tutte, come consentiva la legge, non riusciva ad avere da alcuna un figlio. Una notte, però, stando nel suo letto con una di loro, cominciò a chiedersi chi dopo la sua morte avrebbe ereditato il regno. E riflettendo su questo si fece triste e cominciò a girarsi e rigirarsi nel letto per l’assillante pensiero. In quel mentre giunse una delle mogli, quella che più amava, saggia e intelligente, come il re ebbe a provare in altre occasioni; e dunque vedendolo triste gli si avvicinò, e rammentandogli quanto i nobili del suo regno e il popolo  tutto l’amassero e lo rispettassero, disse: «A cosa devo di vederti così triste e pensieroso? Se è per qualcosa che temi o perché ti ho causato una qualche pena, dimmelo e quel dolore lo dividerò con te. Ma se si tratta d’altro, non devi avere tanta afflizione, perché, grazie a Dio, la tua gente ti ama e tutti ti lodano per il grande amore che ti portano. Voglia Iddio risparmiarti ogni pena e ti dia la Sua benedizione». Allora il re disse alla moglie: «Pietosa tu, tu felice che da me nulla pretendi né hai lasciato mai di confortarmi e di sollevarmi da ogni dolore che ho provato; ma questa volta – aggiunse – né io né tutto il mio potere, e nessuno nel mio regno, potremo rimuovere la causa della mia tristezza. Vorrei che alla mia morte un figlio mio ereditasse questo regno. Per questo sono triste». La moglie rispose: «A questo fine ti darò un buon consiglio: prega Dio, che è somma di ogni bontà e onnipotente, di darti un figlio, se gli piacerà ; ché Egli non si stanca mai di elargire la Sua grazia, né mai ha negato quanto gli è stato chiesto. E



la non diese. E después qu’Él sopiere que tan de coraçón le ruegas, darte ha fijo. Mas tengo por bien, si tú quesieres, que nos levantemos e rroguemos a Dios de todo coraçón e que·l  pidamos merçed que nos dé un fijo con que folguemos e finque  heredero después de nos. Ca bien fío, por la su merçed, que, si gelo rrogamos, que nos lo dará. E si nos lo diere, devémosnos pagar e fazer el su mandado e ser pagado[s] del su juizio e entender la su merçed e saber qu’el poder todo es de Dios e en su mano, e a quien quier’ toller e a quien quier’ matar ». E después que ovo dicho esto, pagóse él dello e sopo que lo que ella dixo que era verdat, e levantáronse amos e fiziéronlo así; e tornáronse a su cama e yazió  con ella el rrey; e empreñóse luego, e después que lo sopieron por verdat, loaron a Dios la merçed que les fiziera. E quando fueron conplidos los nueve meses, encaeçió de  un fijo sano . E el rrey ovo gran gozo e alegría e [fue] mucho pagado d’él, e la muger loó a Dios por ende. Desí enbió el rrey por quantos sabios avía en todo su rregno, que viniesen a él e que catasen la ora e el punto en que nasçiera su fijo. E después que fueron llegados, plógole mucho con ellos e mandóles entrar ant’él, e díxoles: «¡Bien seades  venidos!» E estudo  con ellos una gran pieça, alegrándose e solazándose. E dixo: «Vosotros, sabios, fágovos saber: Dios , cuyo nonbre sea loado, me fizo merçed de un fijo que me dio, con que me esforçase mi braço e con que aya alegría. E graçias sean dadas a Él por sienpre». E díxoles: «Catad su estrella del mi fijo e vet  qué verná su fazienda». E ellos catáronle e fiziéronle saber que era de luenga vida e que sería de gran poder, mas a cabo de veinte años que·l avía de conteçer con su padre por que sería el peligro  de muerte. . que·l] que le B. . finque] quede B. . a quien quier’ toller e a quien quier’ matar] a qiuen quiere quitar quita e a quien dar da todo es en su voluntad B. . yazió] holgo B. . encaeçió de] paryo la Reyna B. . sano] saño nel ms. . seades] seays B. . estudo] estuuo B. . Dios] que dios B. . vet] ved B. . por que sería el peligro] una cosa por que seria el en peligro B.



quando saprà con quale cuore Lo preghi ti darà il figlio che desideri. Allora, se vuoi, penso che dobbiamo alzarci per pregare Dio con tutta l’anima e chiedergli la grazia di un figlio di cui rallegrarci, un figlio che erediti il nostro regno. Io davvero confido che, se glielo chiederemo, Egli, per la sua grande misericordia, ce lo donerà. E se così sarà, dovremo rallegrarci e, facendo la Sua volontà, rimetterci al Suo giudizio, consapevoli dei Suoi doni e ben certi che tutto è nelle mani di Dio, che salva  e uccide secondo la Sua volontà». E non appena la donna ebbe detto ciò, il re si rallegrò e sentì che quanto aveva detto era verità. Entrambi s’alzarono e insieme pregarono. Tornarono dunque a letto e il re giacque con lei. La donna fu subito gravida e quando ne furono certi, resero lode a Dio per la grazia che aveva loro fatto. Al termine dei nove mesi la donna diede alla luce un figlio sano e il re ne ebbe grande gioia e allegria, e fu pienamente soddisfatto; e la donna rese lode a Dio. Subito il re fece chiamare tutti quanti i sapienti del regno, perché là giunti osservassero la congiunzione astrale in cui suo figlio era nato. Al loro arrivo sentì grande soddisfazione, ordinò che si presentassero al suo cospetto e li salutò dicendo: «Siate i benvenuti!». Quindi si intrattenne a lungo con loro, in piacevole e gioconda compagnia, poi disse: «Voi, saggi, dovete sapere che Dio – sia lodato il Suo nome – mi ha fatto la grazia d’un figlio per dar forza al mio braccio e allegria al mio cuore; sia dunque resa lode a Lui per sempre». E aggiunse: «Osservate la stella di mio figlio e quale sarà il suo destino». Ed essi così fecero e gli riferirono che il figlio avrebbe avuto lunga vita e molto potere; ma giunto all’età di vent’anni, sarebbe accaduto qualcosa con suo padre, e perciò la sua vita sarebbe stata in grave pericolo.



Quando oyó dezir esto, fincó  muy espantado. Ovo gran pesar e tornósele en alegría, e dixo: «¡Todo es en poder de Dios! ¡Que faga lo qu’Él toviere por bien!» E el Infante creçió e fízose grande e fermoso e diole Dios muy buen entendimiento. En su tienpo non fue omne nasçido tal commo él fue. E después que él llegó a edat  de nueve años, púsolo el rrey aprender que·l  mostrasen escrevir, fasta que llegó a edat  de quinze años, e non aprendié ninguna cosa. E quando el rrey lo oyó, ovo muy gran pesar e demandó por quantos sabios avía en su tierra e vinieron todos a él. E díxoles: «¿Qué vos semeja de  fazienda de mi fijo? ¿Non ay alguno de vos que le pueda enseñar, e dalle he quanto él demandase, e avrá sienpre mi amor?» Estonçe se levantaron quatro dellos que y´  estavan, que eran nueve çientos omnes. E dixo uno dellos: «Yo le enseñaré de guisa que ninguno non sea más sabidor qu’él». E dixo el rrey estonçes a un sabio que le dezían Çendubete: «¿Por qué non le mostraste tú?» Dixo Çendubete: «Diga cada uno lo que sabe». E desí fablaron en esto. E después díxoles Çendubete: «¿Sabedes  ál sinon esto?, ca todo lo conosçeré yo e non curo ende nada, ca ninguno non ay más sabidor  que yo, e yo le quiero mostrar». E dixo al rrey: «Dadme lo que yo pidiere, que yo le mostraré en seis meses que ninguno non sea más sabidor  qu’él». E estonçe dixo uno de los quatro sabios: «Atal es el que dize e non faze commo el rrelánpago que non llueve. E pues, ¿por qué non le enseñaste tú ninguna cosa en estos años que estuvo contigo, faziéndote el rrey mucho bien?» Él respondió: «Por la gran piedat  que avía d’él non le pud’  enseñar, que avía gran duelo  d’él a lo apremiar por-

. fincó] quedo B. . edat] edad B. . que·l] que le (qle) B. . edat] hedat A, hedad B. . de] de la B. . y´ ] ay B. . Sabedes] sabeys B. . sabidor] sabio B. . sabidor] sabio B. . piedat] piedad B. . pud’] pude B. . duelo] lastima B.



All’udire queste parole, il re si spaventò molto; ma all’angustia seguì la letizia ed egli disse: «Tutto è nelle mani di Dio. Sia fatta la Sua volontà». L’Infante crebbe, facendosi grande e bello, e Dio lo dotò di una tale intelligenza che ai suoi giorni non ci fu uomo che gli fosse pari. Giunto all’età di nove anni, il re volle che gli insegnassero  a scrivere, ma arrivato ormai ai quindici non aveva imparato nulla. Non appena lo venne a sapere, il re ne fu molto dispiaciuto, allora fece convocare tutti i sapienti del regno, i quali si presentarono a lui. Quindi chiese: «Cosa pensate di quel che accade a mio figlio? Nessuno di voi potrebbe essergli vero maestro? Gli darò tutto quel che vorrà e avrà sempre la mia gratitudine». Fu così che si alzarono quattro dei novecento sapienti lì convenuti, e uno disse: «Lo istruirò così bene che nessuno sarà più sapiente di lui». Il re allora, rivolgendosi a uno dei sapienti chiamato Çendubete , gli disse: «E tu, perché non gli hai insegnato?». E Çendubete: «Ciascuno dica quello che sa» . Quando i quattro sapienti ebbero mostrato le proprie conoscenze, Çendubete osservò: «Non sapete altro che questo? Perché se così è, conosco ben di più e non mi preoccupo di avere dei rivali, quindi istruirò io il ragazzo». Poi, rivolgendosi al re: «Concedetemi quanto vi chiedo – disse – affinché in sei mesi gli possa insegnare tanto che nessuno saprà più di lui». Disse allora uno dei quattro sapienti: «Colui che dice e non fa è come il lampo senza la pioggia. E poi, perché non hai insegnato alcunché al fanciullo negli anni in cui è rimasto con te, quando, in aggiunta, il re ti si mostrò così liberale?» . Quello rispose: «Per la grande compassione che provavo per il fanciullo non potei insegnargli, perché mi spiaceva co-



que cuidava buscar otro más sabio que yo, pues que veo que ninguno non sabe más que yo mostrase» . E estonçe se levantó el segundo maestro. Dixo: «Quatro cosas son que omne entendido non  deve loar fasta que vea el cabo dellas: lo primero, el comer fasta que vea el cabo dello que lo aya espendido el estómago; e el que va a lidiar fasta que torne de la lidia ; la mies fasta que  sea segada e la muger fasta que sea preñada; por ende, non te devemos loar fasta que veamos por qué: mostrar tus manos, fazer algo de  tu boca e dezir algo por que farás de su consejo e su coraçón». E dixo Çendubete: «Que ha en poder las manos con los pies e el oír e el veer, e todo el cuerpo, tal es el saber con el coraçón commo el musgaño  e el agua, que sale d’é[l] buena olor; otrosí el saber, quando es en el coraçón, faze bueno todo el cuerpo». Dixo el terçero de los quatro sabios: «La cosa que non le tuelle  el estómago después come con sus manos el que  non aprende en niñez saberes ; e la muger, quando a su marido non ha miedo nin teme, nunca puede seer buena. El que dize la rrazón, si non la entiende nin la sabe qué es , nunca tiene seso  al que la oye nin la puede después entender. E tú, Çendubete, pues que non podiste enseñar al niño en su niñez , ¿cómmo le puedes enseñar en su grandeza?» Dixo Çendubete: «Tú verás, si Dios quesiere e yo bivo, que le enseñaré en seis meses lo que non le enseñaría otrie en sesenta  años». E dixo el quarto de los maestros: «Sepades  que los maestros, quando se juntan, conosçen los unos a los otros e despútanse  los unos a los otros e las sabidurías que an non conosçe uno a otro lo que dize». . yo mostrase] yo que le mostrase B. . non] om. A, poi integra nell’interlinea. . lidia] hedat A, ma poi emendato in lydia, gueste B. . fasta que] om. A, integra B. . algo de] algo e de B. . musgaño] almyscle B. . le tuelle] desiste B. . el que] que A, y el que B. . saberes] la sciencia B. . qué es] espunge B. . seso] seso ny provecho B. . niño en su niñez] ñino en su ñinez ms. . sesenta] setenta ms. . Sepades] sepays B. . despútanse] desputeanse A, poi emendato da A.



stringerlo, tanto che più volte ho pensato di ricorrere a qualcun altro, più sapiente di me; ma ora vedo che nessuno sa più di quanto io potrei insegnargli». In quell’istante si alzò il secondo maestro e disse: «Quattro sono le cose che un uomo intelligente non deve lodare prima di vederne la fine: la prima, il cibo prima d’aver visto come lo stomaco l’ha digerito; poi il soldato, prima che sia tornato dal combattimento; inoltre le messi che non sono state ancora raccolte; infine la donna sino a che non è incinta. Per lo stesso motivo non ci è dato lodarti prima d’aver visto dei validi motivi: cioè quando ci mostrerai il tuo operato e dirai cosa intendi fare per l’intelletto e il cuore  del ragazzo». E Çendubete: «Lo stesso vincolo che unisce le mani e i piedi, l’udito e la vista, e tutto intero il corpo, unisce cuore e sapere. Come il muschio  nell’acqua la profuma, così, quando la sapienza si installa nel cuore, tutto il corpo fa sano». Intervenne il terzo dei quattro savi: «Chi da piccolo non ha avuto alcuna istruzione, è come chi mangia avidamente la cosa che lo stomaco non digerisce . Allo stesso modo, la donna che non rispetta il marito o non lo teme non sarà mai buona moglie. Chi fa un discorso senza sapere, o capire cosa dice, non si fa intendere da chi ascolta, né, a sua volta, capirà quello che gli vien detto . E tu, Çendubete, giacché non hai saputo istruire il bambino nella sua tenera età, come pensi di farlo ora che è adulto?». E Çendubete rispose: «Vedrai, a Dio piacendo e se vivrò, come in sei mesi gl’insegnerò quello che un altro non gli insegnerebbe in sessant’anni». «Sappiate – intervenne il quarto sapiente – che quando s’incontrano, i maestri si indagano a vicenda, disputando gli uni con gli altri, ma nessuno avvalora la sapienza che l’altro esibisce».



E dixo: «¿Farás lo que tú dizes? Quiero que me emuestres rrazón cómmo puede seer que lo así puedes fazer». Dixo Çendubete: «Yo te lo mostraré». Dixo: «Mostrarle he en seis meses lo que non le emostrara otro en sesenta años, por guisa que ninguno non sepa más qu’él. E yo non lo tardaré más de una ora, ca me fizieron entender que en qualquier tierra qu’el rrey no fuese derechero, qu’él que non judgue los omnes, que los libre por derecho, [e] gelo faga entender, e non aya consejo que emyende a lo que el rrey fiziere, si lo provare; la rriqueza [no] fue[re] por un egualdat; e el físico fuere loçano con su fiesta, que non la emuestre a los enfermos bien commo tiene ; si estas cosas fueren en la tierra, non devemos aí morar; pues todo esto te he castigado yo otrie ; e te fiz’  saber que los rreyes tales son commo el fuego: si te llegares a él, quemarte as, e si te arredrares, esfriarte as; quiero yo, señor, que si te yo mostrare tu fijo, que me des lo que te yo demandare». E el rrey dixo: «Demanda lo que quisieres, e si lo pudiere, fazerlo he , que non ha cosa peor que mentir, más que más  a los rreyes». E el rrey  dixo : «Dime qué quieres». E dixo Çendubete: «Tú  non quieras fazer a otrie lo que non queriés que fiziesen [a ti]» . E el rrey dixo: «Yo te lo otorgo». E fizieron carta del pleito. E amos pusieron en quál mes e quál ora del día se avía de acabar e metieron en la carta quanto avía menester del día . . qu’el rrey...bien commo tiene] qu’el rreyno fuese derechero quel que no judge los omnes quelos libre por derecho gelo faga entender e non aya consejo que emyende a lo que el rrey fiziere si lo provare la rriqueza fue por un egualdat e el fisico fuere loçano con su fiesta que non la enmuestres a los enfermos bien commo tienen A, que el Rey no fuere justiçiero ny tuviere quien jusgue a los hombres y por derecho los libre ny aya consejo que enmiende lo que el Rey mal hiziere y donde la Riqueza que posee ygualmente y do el fisico fuere tan loçano que con su loçania y locura no curare de los enfermos B. . otrie] espunge B. . fiz’] fize B. . e si lo pudiere fazerlo he] e si lo non pudieres fazerlo he A, e todo lo que pydieres fazer... B con integrazione interlineare cassata. . más que más] y mas B. . el rrey] cassa B. . dixo] dixole B. . Tú] que tu B. . fiziesen a ti] fiziesen A. . del día A, espunge B emendando in ia no.



Allora disse il re a Çendubete: «Farai davvero ciò che prometti? Voglio che mi dimostri in che modo pensi di farlo». «Te lo dimostrerò – disse Çendubete –, gli insegnerò in soli sei mesi quanto nessun altro potrebbe in sessant’anni, e allora nessuno saprà più di lui. E non tarderò una sola ora, perché mi hanno dimostrato che laddove il re non è giusto e non sottopone gli uomini a giudizio, e non li libera secondo giustizia manifesta, e dove non ci può essere alcun tribunale che corregga gli errori del re, qualora fossero comprovabili; e laddove la ricchezza non è equamente distribuita; e laddove il medico si fa bello della sua dottrina senza usarla per il profitto dei suoi pazienti, come deve; ebbene, se tutto questo dovesse darsi nel regno, noi non dovremmo restarvi, in virtù di quanto ti ho già detto in altre occasioni; e ti ho anche insegnato che i re sono come il fuoco: se ti avvicini, ti brucerai, se te ne allontani, sentirai freddo. E io, mio signore, voglio, se devo educare tuo figlio, che tu mi dia quel che ti domando». Il re disse: «Chiedi ciò che vuoi, e se potrò lo farò, perché non v’è cosa peggiore della menzogna, specialmente per i re» . Poi aggiunse: «Dimmi cosa desideri». Çendubete rispose: «Non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te». «Te lo concedo», sentenziò il re. E stilarono l’accordo nel quale entrambi fissarono il mese, il giorno e l’ora della scadenza e insieme scrissero quant’altro era necessario.



Eran pasadas dos oras del día, Çendubete tomó este día el niño por la mano e fuese con él para su posada e fiz’ fazer un gran palaçio fermoso de muy gran guisa e escrivió por las paredes todos los saberes que·l  avía de mostrar e de aprender: todas las estrellas e todas las feguras e todas las cosas. Desí díxole: «Ésta es mi silla e ésta es la tuya fasta que aprendas los saberes todos  que yo aprendí, en este palaçio. E desenbarga  tu coraçó[n] e abiva tu engeño  e tu oír e tu veer». E asentóse con él a mostralle. E traíanles allí que comiesen e que beviesen. E ellos non salían fuera e ninguno otro non les entrava allá. E el niño era de buen engeño  e de buen entendimiento, de guisa que, ante que llegase el plazo, aprendió todos los sabebres  que Çendubete, su maestro, avía escripto del saber de los omnes. El rrey demandó por él dos días  del plazo. Quando llegó el mandadero  del rrey, díxole: «El rrey te quiere tanto  que vayas ant’él». Díxole : «Çendubete, ¿qué as fecho?, ¿qué  tienes?» E Çendubete le dixo: «Señor, tengo lo que te plazerá, que tu fijo será cras, dos oras pasadas del día, contigo». E el rrey le dixo: «Çendubete, nunca fallesçió  tal omne commo tú  de lo que prometiste. Pues vete onrado, ca meresçes aver gualardón de nos». E tornóse Çendubete al niño, e díxole: «Yo quiero catar tu estrella». E católa e vio qu’el niño sería en gran cueita de muerte si fablase ante que pasasen los siete días; e fue Çendubete en gran cueita e dixo al moço: «Yo he muy gran pesar por el pleito que con el rrey puse». . todos los saberes que·l] todas las sçiençias que le B. . los saberes todos] todo lo B. . E desenbarga] e no as de salir de aqui por eso hijo desembarga B. . engeño] engeñyo B. . engeño] engeñyo B. . todos los saberes] todas las sçiençias B. . dos días] dos dias ante B. . mandadero] mensajero B. . te quiere tanto] te llama B. . Díxole] dixole el Rey B. . qué] o que B. . fallesçió] halle B. . commo tú] commo tu sy no faltas B.



Erano dunque passate due ore quando Çendubete prese per mano il ragazzo e quel giorno stesso si diresse con lui dov’egli dimorava e fece costruire un grande e bell’edificio , di sontuosa fattura, sulle cui pareti scrisse tutto quello che doveva insegnare al giovane: tutte le costellazioni, lo Zodiaco  e ogni altra cosa questi dovesse conoscere. Alla fine il maestro disse: «Questo è il mio scanno e questo sarà il tuo fino a che non avrai imparato, in questo palazzo, tutte quante le cose che io conosco . Libera dunque il tuo cuore e ravviva l’ingegno, la vista e l’udito». Quindi si sedette con lui per insegnargli ogni cosa; e ricevevano da bere e da mangiare in quel luogo, senza mai allontanarsene e senza che alcuno vi potesse entrare. Il ragazzo era così intuitivo e intelligente che, ancor prima del giorno stabilito, aveva appreso tutto ciò che Çendubete, suo maestro, aveva scritto sul sapere degli uomini. A due giorni dalla scadenza il re lo fece chiamare, e quando il messo del sovrano giunse gli disse: «Il re ha grande desiderio che ti presenti a lui». Il re gli domandò: «Che hai fatto, Çendubete? Quali notizie mi dai?». E il sapiente gli rispose: «Signore, quel che ho ottenuto ti piacerà, perché domani tuo figlio, passate le due, sarà da te». E il re gli disse: «Mai, Çendubete, un uomo come te è venuto meno alla parola data; va’ dunque con onore, tu che meriti davvero una ricompensa». Poi Çendubete tornò dal ragazzo e gli disse: «Voglio scrutare i tuoi astri». E li lesse e vide che se il ragazzo avesse parlato prima che fossero trascorsi sette giorni avrebbe rischiato la vita. Il maestro ne ebbe gran dolore, e disse al giovane: «Sono molto preoccupato per l’accordo fatto con il re».



E el moço dixo: «¿Por qué as tú muy gran pesar? Ca si me mandas que nunca fable, nunca fablaré. E mándame lo que tú quesieres, ca yo todo lo faré». Dixo Çendubete: «Yo fiz’  pleito a tu padre que te vayas cras a él e yo non lo he de fallesçer  del pleito que puse con él. Quando fueren pasadas dos oras del día, vete para tu padre, mas non fables fasta que sean pasados los siete días. E yo esconderme he en este comedio». E quando amanesçió otro día, mandó el rrey guisar de comer a todos los de su rregno e fízoles fazer estrados do estudiesen e menestriles que les tañesen delante. E començó el niño a venir fasta que llegó a su padre, e el padre llególo a sí e fablóle e el moço non le fabló. E el rrey tovo por gran cosa. Dixo al niño: «¿Dó es tu maestro?» E el rrey mandó buscar a Çendubete e sallieron los mandaderos  por lo buscar e catáronlo a todas partes e non lo pudieron fallar. E dixo el rrey a los que estavan con él: «Quiçá, por aventura, ha de mí miedo e non osa fablar». E fabláronle los consejeros del rrey e el niño non fabló. E el rrey dixo a los que estavan con él: «¿Qué vos semeja de fazienda de este moço?» E ellos dixieron: «Seméjanos que Çendubete, su maestro, le dio alguna cosa, alguna melezina por que aprendiese algún saber, e aquella melezina le fizo perder la fabla. E el rrey lo tovo por gran cosa e pesól’  mucho de coraçón». Enxenplo de la muger, en cómmo apartó al Infante en el palaçio e cómmo, por lo que ella le dixo, olvidó lo que le castigara su maestro El rrey avía una muger, la qual más amava e onrávala más  que a todas las otras mugeres qu’él avía. E quando le dixieran cómmo le acaesçiera al niño, fuese para el rrey e dixo: «Señor, dixiéronme lo que avía acaesçido a tu fijo. Por aven. fiz’] fize B. . fallesçer] faltar B. . mandaderos] mensajeros B. . pesól’] pesole B. . onrávala más] onrava B.



Ma il giovane osservò: «Perché mai? Se tu mi ordini di non parlare, io non parlerò affatto. Non hai che da chiedermi ciò che vuoi e io lo farò». «Ho promesso a tuo padre – soggiunse allora il maestro – che domani andrai da lui e di certo non posso venir meno alla mia promessa; quindi, passate le due, andrai da lui, ma non dovrai parlare fino al compimento del settimo giorno. Io, intanto, me ne starò nascosto». Il giorno appresso, al sorgere del sole, il re ordinò di preparare il pranzo per i nobili del suo regno, per i quali fece allestire ricchi scanni e chiamò giullari e menestrelli che suonassero alla loro presenza. Infine il fanciullo si presentò e avanzò fino al padre. E il padre se lo accostò e cominciò a parlargli, ma il figliolo non rispondeva. Allora il re, al quale la cosa sembrava strana, chiese al ragazzo: «Dov’è il tuo maestro?». Fu così che il re mandò a cercare Çendubete, ma quanti erano partiti alla sua ricerca guardarono per ogni dove senza trovarlo. Intanto il re commentava a quanti erano con lui: «Chissà, forse mio figlio non osa parlarmi perché mi teme». Anche i consiglieri del re si rivolsero al giovane, ma questi restava muto. Allora il re interpellò i presenti: «Che ve ne pare di questa faccenda?». Ed essi risposero: «Riteniamo che Çendubete, suo maestro, gli abbia somministrato qualcosa, una sorta di medicina per fargli imparare qualcosa, e che quella medicina gli abbia però fatto perdere la parola». Il re molto se ne stupì, sentendo insieme una stretta al cuore. Esempio della donna che trasse in disparte l’Infante nelle sue stanze e di come egli, a causa di ciò che ella disse, dimenticò l’ammonimento del maestro  Il re aveva una moglie, che amava e onorava più di tutte le altre. Quando le riferirono quello che era accaduto al fanciullo, andò dal re e disse: «Mio signore, mi han detto di tuo figlio. Forse non



tura, con gran vergüença, que de ti ovo, non te osa fablar. Mas si quesieses, déxame con él aparte. Quiçá él me dirá su fazienda, que solía fablar sus poridades comigo, lo que non fazía con ninguna de las tus mugeres». E el rrey le dixo: «Liévalo a tu palaçio e fabla con él». E ella fízolo así, mas el Infante non le respondié ninguna cosa que·l dixiese. E ella siguiólo más e díxol’ : «Non te fagas neçio, ca yo bien sé que non saldrás de mi mandado. Matemos a tu padre e serás tú rrey e seré yo tu muger, ca tu padre es ya de muy gran edat  e flaco, e tú eres mançebo e comiénçase agora el tu bien; e tú deves aver esperança en todos bienes más que él». E quando ella ovo dicho, tomó el moço gran saña e estonçes se olvidó lo que le castigara su maestro e todo lo que·l mandara. E dixo: «¡Ay, enemiga de Dios! ¡Si fuesen pasados los siete días, yo te respondería a esto que tú dizes!» Después que esto ovo dicho, entendió ella que sería en peligro de muerte e dio bozes e garpiós  e començó de mesar sus cabellos. E el rrey, quando esto oyó, mandóla llamar e preguntóle que qué oviera. E ella dixo: «¡Éste que dezides que non fabla me quiso forçar de todo en todo, e yo non lo tenía a él por tal!» E el rrey, quando esto oyó, creçiól’  gran saña por matar su fijo, e fue muy bravo e mandólo matar. E este rrey avía siete privados mucho sus consejeros, de guisa que ninguna cosa non fazía menos de se consejar con ellos. Después que vieron qu’el rrey mandava matar su fijo, a menos  de su consejo, entendieron que lo fazía con saña porque creyera su muger. Dixieron los unos a los otros: «Si a su fijo mata, mucho le pesará e después non se tornará sinon a nos todos, pues que tenemos alguna razón atal por que este Infante non muera». E estonçe respondió uno de los quatro: «Maestros – dixo –, yo vos escusaré, si Dios quisiere, de fablar con el rrey». . díxol’] dixole B. . edat] hedat ms. . garpiós] grytos B. . creçiól’] creçiole B. . a menos] sin boz B.



osa parlarti perché innanzi a te prova vergogna. Se però tu volessi lasciarmi da sola con lui, son certa che con me parlerebbe, giacché in passato, cosa che non faceva con nessun’altra delle tue mogli, spesso mi confidava i suoi segreti». Le disse allora il re: «Portalo nelle tue stanze e parlagli». E quella così fece; ma il principe non rispondeva a nessuna delle sue domande. Perciò lei insistette dicendo: «Non essere stupido, perché so bene che non tradirai la mia volontà: uccideremo tuo padre, e sarai tu il re e io tua moglie. Tuo padre infatti è ormai vecchio e debole; tu, invece, sei giovane; per te comincia adesso il meglio della vita e devi aspirare per te ad avere molto più di lui». Non appena la donna ebbe pronunciato queste parole, il ragazzo s’infiammò d’ira e, dimentico dei consigli e degli ordini del suo maestro, disse: «Ah! Nemica di Dio! Se fossero passati i sette giorni io sì che risponderei a queste tue parole!». Sentendo ciò la donna capì subito che la sua vita era in serio pericolo, perciò si mise a gridare, e cominciò a graffiarsi  e a strapparsi i capelli. Venutolo a sapere, il re la fece chiamare e le chiese cosa stava succedendo; al che lei rispose: «Costui, che secondo voi non parla, senza mezze misure ha tentato di violentarmi; davvero non lo ritenevo capace di tali azioni». Appena sentito il fatto, al re venne una rabbiosa voglia di uccidere il figlio e, infiammato di collera, ordinò di giustiziarlo. Ebbene, questo re aveva sette consiglieri così intimi che non avrebbe fatto nulla senza consultarli. E quando essi dunque seppero che il re aveva ordinato di uccidere suo figlio senza nemmeno chiedere il loro parere, capirono che lo faceva spinto dall’ira provocata dalle parole della moglie. E si dicevano l’un l’altro: «Se ora uccide il proprio figlio, poi se ne pentirà molto e se la prenderà solo con noi: in realtà noi abbiamo più di un argomento per evitare che il principe muoia». Quindi uno dei quattro prese la parola: «Maestri  – disse –, io vi eviterò, a Dio piacendo, di parlare direttamente con il re».



Este privado primero fuese para el rrey e fincó los inojos ante él, e dixo: «Señor, non deve  fazer ninguna cosa el omne fasta que sea çierto d’ella, e si lo ante fizieres, errallo as mal e dezirte he un enxenplo de un rrey e de una su muger». E el rrey dixo: «Pues, di agora e oírtelo he». [Cuento : Leo] El privado dixo: «Oí dezir que un rrey que amava mucho las mugeres e non avía otra mala manera sinon esta. E seyé  el rrey un día ençima de un soberado muy alto e miró ayuso e vido una muger muy fermosa e pagóse mucho d’ella. E enbió a demandar su amor e ella dixo que non lo podría fazer seyendo su marido en la villa. E quando el rrey oyó esto, enbió a su marido a una hueste. E la muger era muy casta e muy buena e muy entendida e dixo: “Señor, tú eres mi señor e yo só tu sierva e lo que tú quesieres, quiérolo yo, mas irme he a los vaños ’afeitar”. E quando tornó, diol’  un libro de su marido en que avía leyes e juizios de los rreyes, de cómmo escarmentavan a las mugeres que fazían adulterio. E  dixo: “Señor, ley por ese libro fasta que me afeynte”. E el rrey abrió el libro e falló en el primer capítulo cómmo devía el adulterio ser defendido, e ovo gran vergüença e pesól’  mucho de lo qu’él quisiera fazer. E puso el libro en tierra e sallóse  por la puerta de la cámara, e dexó los arcorcoles so el lecho en que estava asentado. E en esto llegó su marido de la hueste, e quando se asentó él en su casa, sospechó que y´ durmiera el rrey con su muger, e ovo miedo e non osó dezir nada por miedo del rrey e non osó entrar do ella estava, e duró esto gran sazón. E la muger díxolo a sus parientes que su marido que la avía dexado e non sabía por quál rrazón. E ellos dixiéronlo a su marido: “¿Por qué non te llegas a tu muger?” . deve] deves A, che poi cassa la -s. . seyé] estaba B. . diol’] diole B. . E] E e A. . pesól’] pesole B. . sallóse] sallyose B.



E questi andò dal re e si inginocchiò innanzi a lui, dicendo: «Signore, non si deve fare nulla prima d’essere certi di quel che si fa, perciò se tu agissi ora faresti un grave errore; e per dimostrartelo ti racconterò l’esempio di un re e di una donna». Disse il re: «Ebbene, racconta subito, che ti ascolterò». [Racconto : Leo ] Il favorito disse: «Ho sentito raccontare di un re che amava molto le donne e non aveva altra debolezza che quella. Un giorno, trovandosi in cima a una torre, guardò in basso e vide una donna molto bella che gli piacque assai. Subito il re le inviò profferte amorose, ma lei rispose di non poterle accettare perché il marito era in città. Udita la risposta della donna, il re spedì il marito in guerra; ma la donna, che era casta, onesta e avveduta, disse: “Maestà, tu sei il mio signore e io la tua serva. Quel che tu vorrai, lo vorrò io pure, ma intanto devo ritirarmi per farmi bella”. La donna tornò subito e gli diede un libro del marito, dove si trovavano quelle leggi e sentenze dei sovrani contro le donne che avevano commesso adulterio, e gli raccomandò: “Mio signore, leggi questo libro, intanto che mi preparo”. Così il re aprì il libro e nel primo capitolo scoprì come l’adulterio doveva essere proibito, provò forte vergogna e si rincrebbe molto di quello che aveva avuto intenzione di fare. Posò il libro sul pavimento e se ne uscì dalla camera, lasciando però le sue pantofole sotto il letto sul quale s’era seduto. Di lì a poco il marito della donna tornò dalla battaglia e non appena entrato in casa sua ebbe il sospetto che il re vi avesse giaciuto con sua moglie, ma provò timore e non disse nulla, per paura del re, e per lungo tempo non osò entrare dov’era sua moglie. La donna allora andò a dire ai suoi parenti di come il marito la trascurava, ma non sapeva perché. Essi allora chiesero all’uomo: “Perché non stai con tua moglie?”.



E él dixo: “Yo fallé los arcorcoles del rrey en mi casa e he miedo, e por eso non me oso llegar a ella”. E ellos dixieron: “Vayamos al rrey e agora démosle enxenplo de aqueste fecho de la muger, e non le declaremos el fecho de la muger e, si él entendido fuere, luego lo entenderá”. E estonçes entraron al rrey e dixiéronle: “Señor, nós aviemos una tierra e diémosla  a este omne bueno a labrar, que la labrase e la desfrutase del fruto d’ella. E él fízolo así una gran sazón  e dexóla una gran pieça por labrar”. E el rrey dixo: “¿Qué dizes tú a esto?” E el omne bueno respondió e dixo: “Verdat  dizen, que me dieron una tierra así commo ellos dizen; e quando fui un día por la tierra, fallé rastro del león e ove miedo que me conbrié. Por ende dexé la tierra por labrar”. E dixo el rrey: “Verdat  es que entró el león en ella, mas no te fizo cosa que non te oviese de fazer nin te tornó mal dello. Por ende, toma tu tierra e lábrala”. E el omne bueno tornó a su muger e preguntóle por qué fecho fuera aquello. E ella contógelo todo e díxole la verdat  commo le conteçiera con él; e él creyóla por las señales que·l  dixiera el rrey e después se fiava en ella más que non d’ante». [Cuento : Avis] Enxenplo del omne e de la muger e del papagayo e de su moça «Señor, oí dezir que un omne que era çeloso de su muger, e conpró un papagayo e metiólo en una jabla e púsolo en su casa, e mandóle que le dixiese todo quanto viese fazer a su muger e que non le encubriese ende nada, e después fue su vía a rrecabdar su mandado, e entró su amigo d’ella en su ca. diémosla] dimosla B. . una gran sazón] un gran tiempo B. . Verdat] verdad B. . Verdat] verdad B. . verdat] verdad B. . que·l] que le B.



“Ho trovato in casa mia – rispose il marito – le pantofole del re e ora ho paura e perciò non oso giacere con lei”. Quelli dissero: “Andiamo dal re e gli narriamo subito il fatto della donna, come un breve esempio e senza far riferimenti precisi a tua moglie, cosicché, se ha qualcosa da capire, lo capirà”. Così, si fecero innanzi al re e dissero: “Signore, noi avevamo una terra che abbiamo affidato a questo buon uomo perché la lavorasse e ne cogliesse il frutto; e così egli ha fatto per molto tempo, finché, d’un tratto, l’ha lasciata incolta” . Chiese allora il re: “E tu cosa dici di questo?”. Al che il buon uomo rispose con queste parole: “È la verità. Mi hanno dato, come dicono, una terra ma un giorno, arrivato lì, vidi le orme di un leone, e per la paura d’essere sbranato smisi di coltivare quella terra”. “È vero – concluse il re – il leone entrò là, ma non fece nulla che non dovesse fare, e da cui tu debba temere un danno. Perciò prendi la tua terra e continua a lavorarla”. Il buon uomo tornò da sua moglie, chiedendole com’erano andate le cose, e lei gli raccontò per filo e per segno quanto era veramente accaduto con il re. Il marito, confortato dagli indizi del sovrano, le credette e da quel giorno ebbe fiducia in lei più di prima». [Racconto : Avis ] Esempio dell’uomo, della donna, del pappagallo e della serva «Mio signore, ho sentito raccontare di un uomo il quale, essendo molto geloso di sua moglie, comprò un pappagallo, e dopo averlo chiuso in una gabbia gli ordinò di riferirgli tutto quanto le vedesse fare, senza nascondergli proprio nulla. Dopo di che partì per sbrigare i suoi affari. Nel frattempo arrivò l’amico del-



sa do estava. El papagayo vio quanto ellos fizieron. E quando el omne bueno vino de su mandado, asentóse  en su casa en guisa que non lo viese la muger. E mandó traer el papagayo e preguntóle todo lo que viera, e el papagayo contógelo todo lo que viera fazer a la muger con su amigo. E el omne bueno fue muy sañudo contra su muger e non entró más do ella estava. E la muger cuidó verdaderamente que la moça la descubriera e llamóla estonçes e dixo: “¿Tú dexiste a mi marido todo quanto yo fize?” E la moça juró que non lo dixiera: “Mas sabed que lo dixo el papagayo”. E quando vino la noche, fue la muger al papagayo e desçendiólo a tierra e començóle a echar agua de suso como que era luvia e tomó un espejo en la mano e parógelo sobre la jabla  e en la otra mano, una candela, e parávagela de suso, e cuidó el papagayo que era rrelánpago; e la muger començó a mover una muela, e el papagayo cuidó que eran truenos; e ella estuvo así toda la noche, faziendo así fasta que amanesçió. E después que fue la mañana, vino el marido e preguntó al papagayo: “¿Viste esta noche alguna cosa?” E el papagayo dixo: “Non pud’  ver ninguna cosa con la gran luvia e truenos e rrelánpagos que esta noche fizo”. E el omne dixo: “En quanto  me as dicho es verdat  de mi muger así commo esto, non ha cosa más mintrosa que tú, e mandarte he matar”. E enbió por su muger e perdonóla e fizieron paz. E yo, señor, non te di este enxenplo sinon por que sepas el engaño de las mugeres, que son muy fuertes sus artes e son muchos, que non an cabo nin fin». E mandó el rrey que non matasen su fijo.

. asentóse] entrose B. . jabla] jaula B. . pud’] pude B. . En quanto] si en quanto B. . verdat] verdad B.



la moglie e il pappagallo vide tutto ciò che i due fecero. Quando dunque il buon uomo tornò dalle sue faccende, entrò in casa senza che la moglie lo potesse vedere e si fece portare il pappagallo, al quale ordinò di dirgli quel che aveva visto. L’animale gli riferì per benino quanto la moglie e il suo amante avevano fatto. Il buon uomo si adirò molto con la moglie; pertanto questa temette che la serva avesse fatto la spia, fu così che la chiamò e le domandò: “Sei stata tu a dire tutto a mio marito?”. Ma la ragazza giurò che non aveva aperto bocca e che certamente l’aveva detto il pappagallo. Scesa la notte, la donna si avvicinò alla gabbia, la mise a terra e cominciò a versare acqua dall’alto, simulando la pioggia, poi con una mano prese uno specchio e lo sistemò sulla gabbia, mentre con l’altra, da sotto, reggeva in alto una candela, tanto da far credere al pappagallo che quelli erano lampi. Poi la donna cominciò a far stridere i denti, e il pappagallo pensò che fossero tuoni. E così tutta la notte, fino a che non fu giorno. A quel punto arrivò il marito e domandò al pappagallo: “E questa notte hai visto qualcosa?”. “Con la gran pioggia – rispose l’animale – e i lampi e i tuoni dell’intera notte, non ho potuto vedere alcunché”. Allora l’uomo osservò: “Beh!, se quel che insinui di mia moglie è vero quanto ciò che ora racconti, nessuno è più bugiardo di te, e ti farò uccidere. Così fece chiamare sua moglie, la perdonò e fecero pace”». E dunque il re ordinò di non uccidere suo figlio.



[Cuento : Lavator] Enxenplo de cómmo vino la muger al segundo día ante el rrey llorando e dixo que matase su fijo E dixo: «Señor, non deves tú perdonar tu fijo pues fizo cosa por que muera e si tú non lo matas e lo dexas a vida, aviendo fecho tal enemiga , ca si tú non lo matas, non escarmentaría ninguno  de fazer otro tal. E yo, señor, contarte he el enxenplo del curador de los paños e de su fijo». Dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» E ella dixo: «Era un curador de paños e avía un fijo pequeño. Este curador, quando avía de curar sus paños, levava consigo su fijo e el niño començava a jugar con el agua. E el padre non gelo quiso castigar e vino un día qu’el niño se afogó. E el padre, por sacar el fijo, afogóse el padre en el piélago e afogáronse amos a dos. E, señor, si tú non te antuvias  a castigar tu fijo ante que más enemiga  te faga, matarte ha». E el rrey mandó matar su fijo. [Cuento : Panes] De cómmo vino el segundo privado ante el rrey por escusar al Infante de muerte E vino el segundo privado e fincó los inojos ante el rrey e dixo: «Señor, si tú ovieses fijos, non deviés querer mal a ninguno dellos. Demás que non as más de uno señero e mándaslo matar apriesa ante que sepas la verdat , e después que lo ovieres fecho, arrepentirte as e non lo podrás cobrar e será el tu enxenplo tal commo del mercador e de la muger e de la moça». Dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» . enemiga] trayçion B. . ninguno] ninguna ms. . antuvias] adelantas B. . enemiga] injurias B. . verdat] verdad B.



[Racconto : Lavator ] Come il secondo giorno la donna si presentò in lacrime dal re, chiedendogli che uccidesse il principe suo figlio Disse la moglie: «Mio signore, tu non devi assolvere tuo figlio, perché per ciò che ha fatto merita la morte e se tu non lo condanni e lo lasci in vita, pur avendo commesso una tale malvagità, non si potrà impedire  a nessun altro di fare altrettanto. E per parte mia, signore, ti racconterò l’esempio del tintore e di suo figlio». «E di che si tratta?», chiese il re. Rispose la donna: «C’era un tintore che aveva un figlioletto che portava sempre con sé quando doveva lavorare, e il bambino si metteva a giocare con l’acqua, senza che il padre glielo proibisse mai. Un giorno però il bambino annegò. Il padre, nel tentativo di salvare il figlio, annegò lui pure in quell’acqua, padre e figlio insieme. Perciò, signore, se non ti affretti a punire tuo figlio prima che ti faccia altri affronti, sarà lui a uccidete te». Il re allora ordinò di uccidere suo figlio. [Racconto : Panes ] Come il secondo consigliere si presentò al re per liberare l’Infante dalla condanna a morte Si fece dunque avanti il secondo consigliere, il quale, inginocchiandosi innanzi al re, disse: «Mio signore, se tu avessi molti figli certamente non dovresti odiarne nessuno. Tu, invece, pur avendone uno solo, e senza conoscere la verità, lo fai uccidere. Tu, dopo averlo condannato, avrai di che pentirti e non potrai averlo mai più. Così il tuo caso sarà come quello del mercante, della donna e della ragazza» . «E come fu?», domandò il re.



«Dígote, señor, que era un mercador muy rrico e era señerigo  e apartado en su comer e en su bever, e fue en su mercaduría, e levó un moço con él, e posaron en una çibdat  muy buena e el mercador enbió su moço a mercar de comer e falló una moça en el mercado que tenié dos panes de adárgama, e pagóse del pan, e conprólo para su señor. E levólo e pagóse su señor de aquel pan. E dixo el mercador a su moço: “Sí te vala Dios, que me conpres de aquel pan cada día si lo fallares”. E el moço iva cada día a la moça e conprávale aquel pan e levávalo a su señor. E un día falló la moça que non tenía pan, e tornóse a su señor e dixo que non fallava de aquel pan. E dixo el mercador que demandase a la moça cómmo lo fazía aquel pan. E el moço fue a buscar a la moça e fallóla, e dixo: “Amiga, mi señor te quiere alguna cosa que quiere fazer”. E ella fue e dixo: “¿Qué vos plaze?” E el mercador le preguntó: “Señora, ¿cómmo fazedes  aquel pan, e yo faré fazer otro tal?” E ella dixo: “Amigo señor, salieron unas anpollas a mi padre en las espaldas e el fésigo  nos dixo que tomásemos farina de adárgama e que la amasásemos con manteca e con miel e que gela pusiésemos en aquellas anpollas, e quando uviésemos lavado e enxugado toda la podre, que gela tirásemos. E yo tomava aquella masa en escuso e fazíala pan, e levávalo ’aquel mercado a vender e vendíalo. E, loado Nuestro Señor, es ya sano e dexámoslo de fazer”. E el mercador dio grandes bozes del gran asco que avía de aquel pan que avía comido e quando vido que provecho ninguno non tenía, dixo contra su moço: “Mezquino, ¿qué faré? ¡Que busquemos con que lavemos nuestras manos e nuestros pies e nuestras bocas e nuestros cuerpos! ¿Cómmo los lavaremos?” E, señor, si tú matas tu fijo, miedo he que te arrepentirás commo el mercador. E, señor, non fagas cosa por que te arrepientas fasta que seas çierto della». . señerigo] esmerado B. . çibdat] çibdad B. . fazedes] fazeys B. . fésigo] fysico B.



«Ti racconterò, mio signore, d’un mercante non solo molto ricco, ma anche distinto e raffinato nel mangiare e nel bere. Un giorno se ne partì portando con sé un servitore giovinetto. I due si fermarono in una prospera città e subito il mercante mandò il servitore a comprare del cibo. Nel mercato il ragazzo s’imbatté in una giovane donna con due pagnotte di fior di farina che subito lo attirarono e quindi le comprò per il suo padrone. Gliele portò e il suo padrone le trovò di suo gradimento. Allora il mercante disse al ragazzo: “Magari si trovasse da comprare ogni giorno del pane come questo!”. Così, il ragazzo andava tutti i giorni dalla giovane donna e le comprava di quel pane e lo portava al suo padrone. Un giorno, però, gli accadde di trovarla sprovvista di quel pane e se ne tornò indietro dicendo che non se ne trovava. Allora, poiché il mercante voleva sapere dalla donna in che modo faceva quel pane, il ragazzo si mise a cercarla e quando l’ebbe trovata: “Amica – le disse –, il mio padrone vuole sapere da te una cosa”. La ragazza si presentò e gli domandò: “Cosa desiderate?”. E il mercante: “Signora, quel pane, come lo fate? Perché io vorrei farmene fare dell’altro uguale”. La giovane rispose: “Amico e signore mio, dovete sapere che un giorno comparvero delle vesciche sulle spalle di mio padre, allora il medico ci disse di prendere del fior di farina, di impastarla con burro e miele e applicarla su quelle vesciche; e una volta assorbita e asciugata tutta la parte infetta, dovevamo tirar via quell’impasto. Io, poi, prendevo di nascosto quella pasta e ne facevo del pane e lo portavo a quel mercato per venderlo e lo vendevo. Ora, ringraziando il Signore, mio padre è guarito e quindi non s’è più fatto di quell’impasto”. Il mercante allora si mise a urlare per il forte schifo che provava per quel pane che aveva mangiato, ma accortosi che non c’era più niente da fare disse rivolto al suo ragazzo: “Come farò, povero me? Cerchiamo qualcosa con cui lavarci le mani, i piedi, la bocca e tutto il nostro corpo! Ma come potremo lavarci?”. Se ucciderai tuo figlio, mio Signore, temo che anche tu dovrai pentirtene come quel mercante. Perciò, non fare una cosa di cui potresti pentirti, prima d’esserne certo».



[Cuento : Gladius] Enxenplo del señor, e del omne, e de la muger, e el marido de la muger, cómmo se ayuntaron todos «Señor, fiziéronme entender de los engaños de las mugeres. Dize que era una muger que avía un amigo que era privado del rrey, e avía aquella çibdat  de mano del rrey en poder, e el amigo enbió a un su omne a casa de su amiga que supies’  si era y´  su marido. E entró aquel omne e pagóse d’él e él d’ella porque era fermoso; e ella llamólo que yaziese  con ella, e él fízolo así e vio que tardava su señor el mançebo, e fue a casa del entendedera , e llamó. E dixo: “¿Qué faré – el mançebo – de mí?” E ella dixo: “Ve, e escóndete ’aquel rrincón”. E el señor d’él entró a ella, e non quiso qu’el amigo entrase en el rrincón con el mançebo. E en esto vino el marido, e llamó a la puerta e dixo al amigo: “Toma tu espada en la mano e párate a la puerta del palaçio e amenázame e ve tu carrera e non fables ninguna cosa”. E él fízolo así e fue e abrió la puerta a su marido e quando vio su marido estar el espada sacada al otro en la mano, fabló e dixo: “¿Qu’es esto?” E él non respondió nada, e fue su carrera. E el marido entró al palaçio a su muger e dixo: “¡Ay, maldita de ti! ¿Qué ovo este omne contigo, que te sale denostando e amenazando?” E ella dixo: “Vino ese omne fuyendo con gran miedo d’él, e falló la puerta abierta, e entró su señor en pos d’él por lo matar, e él dando bozes que·l acorriese. E después qu’él se arrimó a mí, paréme ante él, e apartélo d’él que non lo matase, e por esto va de aquí denostando e amenazándome; mas, sí me vala Dios, non me inchala” . . çibdat] cibdad B. . supies’] supiese B. . y´ ] ay B. . yaziese] holgase B. . entendedera] amyga B. . non me inchala] non me pena de su amenaza B.



[Racconto : Gladius ] Esempio del signore, dell’uomo e della donna, del marito e della moglie e di come si unirono tutti insieme «Mi hanno insegnato, mio signore, le arti ingannevoli delle donne. Si narra di una donna il cui amante era intimo del re e, per il potere che da questi gli derivava, teneva in pugno l’intera città. L’amante dunque mandò un suo uomo a casa della donna per controllare se vi fosse il marito. Quel giovane entrò e s’invaghì di lei e lei di lui, che era bello, tanto che lo invitò a giacere con lei e il giovane uomo acconsentì. E poiché il suo padrone notò che il ragazzo tardava, si presentò a casa dell’amante e si mise a chiamare. Il giovane trasalì: “Ahimè! Che farò adesso?”. Subito la donna: “Va’ – disse – e nasconditi in quel luogo appartato” . L’amante entrò nella stanza e la donna non consentì che egli arrivasse fin là dove il giovane s’era nascosto. Ma in quell’istante sopraggiunse anche il marito e bussò alla porta. “Impugna la tua spada – disse allora la donna all’amico – e fermati sull’uscio di casa minacciandomi, poi va’ per la tua strada senza dire nulla”. Ed egli fece proprio così. La donna aprì la porta e quando il marito vide l’uomo che brandiva la spada domandò: “Ma che sta succedendo?”. Ma l’altro tacque e se ne andò. Al che lo sposo entrò, e dirigendosi verso la moglie gridò: “Ah, maledetta! Che accidente vuole da te quest’uomo che è appena uscito urlando insulti e minacce contro di te?”. Allora la donna rispose: “Un giovane è arrivato qui fuggendo per paura dell’altro e ha trovato la porta aperta. Il suo padrone correva dietro di lui per ucciderlo e lui ha cominciato a gridare aiuto. Quando il giovane riuscì a rifugiarsi da me, io mi misi davanti a lui e cercai di tenerlo lontano da chi lo voleva uccidere, e per questo l’altro se ne è andato imprecando e minacciandomi, ma, vivaddio, non m’importa” .



El marido dixo: “¿Dó está este mançebo?” “En aquel rrincón está”. E el marido salió a la puerta por ver si estava el señor del mançebo o si era ido. E quando vio que non estava allí, llamó al mançebo e dixo: “Sal acá, que tu señor ido es su carrera”. E el marido se tornó a ella bien pagado, e dixo: “Feziste a guisa de buena muger, e feziste bien, e gradéscotelo mucho”. E, señor, non te di este enxenplo sinon que non mates tu fijo por dicho de una muger, ca las mugeres ayuntadas en sí an  muchos engaños». E mandó el rrey que non matasen su fijo. [Cuento : Striges] Enxenplo de cómmo vino la muger al rrey al terçero día, diziéndole que matase su fijo E vino la muger al terçero día e lloró e dio bozes ante el rrey, e dixo: «Señor, estos tus privados son malos e matarte an, así commo mató un privado a un rrey una vez». E el rrey dixo: «¿Cómmo fue eso?» E ella dixo: «Era un rrey, e avía un fijo que amava mucho caçar, e el privado fizo en guisa que fuese a su padre e pidiese liçençia que les dexase ir a caça. E ellos idos amos a dos, travesó un venado delante, e díxole el privado al niño: “Ve en pos de aquel venado fasta que lo alcançes e lo mates, e levarlo as a tu padre”. E el niño fue en pos del venado, atanto que se perdió de su conpaña, e yendo así, falló una senda e ençima de la senda falló una moça que llorava e el niño dixo: “¿Quién eres tú?” E la moça dixo: “Yo só fija de un rrey de fulana  tierra, e venía cavallera en un marfil con mis parientes: e tomóme sueño e caí d’él, e mis parientes non me vieron, e yo desperté e non sope por dó ir, e madrugando en pos dellos fasta que perdí las pies” . . an] ay ms. . fulana] tal B. . pies] pisadas B.



Il marito chiese: “E dove sta quel ragazzo?”. Rispose la moglie: “S’è messo in quel nascondiglio”. Al che il marito uscì sulla porta per vedere se il padrone del ragazzo era ancora là oppure se n’era andato, e quando vide che non c’era chiamò il ragazzo dicendogli: “Esci fuori che il tuo padrone se n’è andato per la sua strada”. E così il marito si rivolse alla moglie tutto compiaciuto e le disse: “Hai agito correttamente da buona moglie e di ciò ti sono molto grato”. Questo esempio, signore, non te l’ho raccontato se non perché tu non uccida tuo figlio per le parole di una donna, ché tutte le donne racchiudono in sé gran quantità d’inganni» . Allora il re ordinò che suo figlio non fosse ucciso. [Racconto : Striges ] Esempio di come il terzo giorno la donna venne dal re per chiedergli di uccidere l’Infante Il terzo giorno la moglie, gridando e piangendo, si presentò dinanzi al re e disse: «Mio signore, questi tuoi consiglieri sono malvagi e ti uccideranno così come una volta fece un confidente con il suo re». Allora il re domandò: «Com’è successo?». «C’era un tempo un re – disse la donna – che aveva un figlio, al quale piaceva molto andare a caccia; e dunque il confidente fece in modo che il principe andasse dal padre a chiedergli licenza per recarsi a caccia. I due erano appena partiti assieme, quand’ecco incrociarono un cervo; allora il consigliere disse al ragazzo: “Insegui quel cervo, raggiungilo, uccidilo. Lo porterai a tuo padre”. Il ragazzo si mise a inseguire il cervo e tanto cercò che si smarrì lontano dal suo seguito. Vagando arrivò a un sentiero dove incontrò una ragazza che piangeva; allora le domandò: “Chi sei?”. “Sono la figlia di un re del tal regno – disse la ragazza – e me ne venivo a cavallo di un elefante con la mia famiglia quando mi prese un sonno così forte che caddi a terra. I miei parenti non se ne accorsero e quando mi destai non sapevo più dove andare. Per tutta la notte ho cercato di raggiungerli, ma a un certo punto non ne potei più” .



E el niño ovo duelo d’ella e levóla en pos de sí. E ellos yendo así, entraron en un aldea despoblada, e dixo la moça: “Desçéndeme aquí que lo he menester, e venirme he luego para ti”. E el niño fízolo así. E ella entró en el casar e estuvo una gran pieça. E quando vio el niño que tardava, desçendió de su cavallo e subió en una pared e paró mientes e vio que era diabla que estava con sus parientes, e dezíales: “Un moço me traxo en su cavallo e felo aquí do lo traigo”. E ellos dixieron: “Vete adelante con él a otro casar fasta que te alcançemos”. E quando el moço esto oyó, ovo gran miedo, e desçendió de la pared e saltó en su cavallo. E la moça vínose a él e cavalgóla en pos d’él, e començó a tremer con el miedo della. E ella dixo: “¿Qué as que tremes?” E él le dixo: “Espántome de mi conpañero, que he miedo que me verná d’él mal”. E ella dixo: “¿Non lo puedes tú adobar con tu aver, que tú te alabaste que eras fijo de rrey e que tenía gran aver tu padre?” Él le dixo: “Non tiene aver”. “¡E más te alabaste que eras rrey e gran prínçipe!” E el diablo le dixo: “Ruega a Dios que te ayude contra él e serás librado”. E dixo él: “Verdat  dizes, e fazerlo he”. E alçó sus manos contra Dios, e dixo: “¡Ay, señor Dios, ruégote e pídote por merçed que me libres deste diablo e de sus conpañeros!” E cayó el diablo detrás, e començó enbarduñar en tierra, e queriése levantar e non podié. E estonçe començó el moço a correr quanto podié, fasta que llegó al padre muerto de sed, e era mucho espantado de lo que viera. E, señor, non te di este enxenplo sinon que non te esfuerçes en tus malos privados. Si no me dieres derecho de quien mal me fizo, yo me mataré con mis manos». E el rrey mandó matar su fijo. . Verdat] verdad B.



Il giovane principe ne provò pena e la portò con sé; mentre andavano così si ritrovarono in un villaggio disabitato, quindi la ragazza disse: “Fammi scendere qui, che ne ho bisogno; ti raggiungerò presto”. Il ragazzo fece così e quella entrò in un casale e vi restò un bel tratto. Quando il ragazzo vide che tardava, scese da cavallo, s’arrampicò su di un muro e guardò con attenzione. S’accorse allora che era una diavolesssa  che se ne stava con i suoi parenti parlando loro in questo modo: “Un ragazzo mi ha condotto fin qua sul suo cavallo e ora io ve lo consegno”. Ma quelli le risposero: “Prosegui con lui fino al prossimo casale, dove noi ti raggiungeremo”. All’udire ciò il ragazzo ebbe una gran paura, saltò giù dal muro e montò a cavallo. Ma la ragazza lo raggiunse, e lui, fattala montare con sé, cominciò a tremare per la paura che ne aveva. “Cos’hai da tremare tanto?”, domandò quella. Rispose il giovane: “Ho paura per il mio compagno e ho il timore che me ne verrà del male”. Al che disse la ragazza: “E non puoi risolvere la faccenda con il denaro, visto che ti eri vantato d’essere figlio di re, e di un re tanto ricco?”. “Mio padre non è affatto ricco”, rispose il giovane. “E pensare che t’eri vantato d’essere gran principe di stirpe regale”. Poi quel diavolo gli suggerì: “Prega Dio che ti aiuti contro di lui e ne sarai liberato”. “Dici il vero – osservò lui –, certamente lo farò”. E detto questo alzò le mani verso Dio con queste parole: “O Dio nostro, ti prego e per pietà ti chiedo di liberarmi da questo diavolo e dai suoi compagni”. E il diavolo cadde rivolto e cominciò a rotolarsi nel fango; voleva alzarsi ma non vi riusciva. Allora il ragazzo si diede a correre a più non posso sino a che, morto di sete, arrivò da suo padre, terrorizzato da ciò che aveva visto. Certamente, mio signore, questo esempio te l’ho raccontato solo per convincerti a non fidarti dei tuoi cattivi consiglieri. Se non farai giustizia di chi mi ha fatto del male mi ucciderò con le mie stesse mani». E il re ordinò di uccidere suo figlio.



[Cuento : Mel] Enxenplo del terçero privado, del caçador e de las aldeas E vino el terçero privado ante el rrey e fincó los inojos ant’él e dixo: «Señor, de las cosas, quando el omne non para mientes en ellas, viene ende grande daño; e es atal commo el enxenplo del caçador e de las aldeas». E dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» Dixo él: «Oí dezir que un caçador que andava caçando por el monte, e falló en un árbol un enxanbre, e tomóla e metióla en un odre que tenía para traer su agua. E este caçador tenía un perro, e traíalo consigo. E traxo la miel a un mercador de un aldea que era açerca de aquel monte para la vender. E quando el caçador abrió el odre para lo mostrar al tendero, e cayó d’él una gota, e posóse en él una abeja. E aquel tendero tenía un gato, e dio un salto en el abeja, e matóla; e el perro del caçador dio salto en el gato e matólo; e vino el dueño del gato e mató al perro; e estonçes levantóse el dueño del perro e mató al tendero porque·l matara al perro; e estonçes vinieron los del aldea del tendero e mataron al caçador, dueño  del perro; e vinieron los del aldea del caçador a los del tendero, e tomáronse unos con otros e matáronse todos que non fincó y´  ninguno; e así se mataron unos con otros por una gota de miel. E, señor, non te di este enxenplo sinon que non mates tu fijo fasta que sepas la verdat  por que non te arrepientas». [Cuento : Fontes] Enxenplo de cómmo vino la muger e dixo que matase el rrey a su fijo, e diole enxenplo de un fijo de un rrey, e de un su privado cómmo lo engañó E díxole la muger: «Era un rrey e avía un privado e avía un fijo, e casólo con fija de otro rrey. E el rrey, padre de la In. caçador, dueño] caçador e al dueño A. . y´ ] ay B. . verdat] verdad B.



[Racconto : Mel ] Esempio del terzo consigliere, del cacciatore e dei due villaggi Si fece avanti poi il terzo confidente, s’inginocchiò innanzi al re e disse: «Mio signore, l’uomo può ricavare gran danno dalle cose se non le considera bene, come dimostra l’esempio del cacciatore e dei due villaggi». E il re domandò: «Com’è successo?». «Ho sentito dire – rispose il confidente – che un cacciatore, andando a caccia per un monte, trovò un favo  su di un albero; lo prese e lo sistemò dentro un otre che portava con sé per metterci l’acqua. Questo cacciatore aveva anche un cane, che portava sempre con sé. L’uomo portò il miele al mercante di un villaggio che si trovava vicino a quel monte, con l’intento di venderglielo. Ebbene, quando il cacciatore aprì l’otre per mostrare il favo al mercante, cadde una goccia di miele su cui andò a posarsi un’ape. Quel bottegaio aveva un gatto, che balzò sull’ape e la uccise; ma il cane del cacciatore con un salto fu sul gatto e l’uccise. Così venne il padrone del gatto e uccise il cane; allora s’alzò il padrone del cane e uccise il bottegaio perché gli aveva ammazzato il cane; poi vennero quelli del villaggio del bottegaio e liquidarono il cacciatore, padrone del cane; infine vennero quelli del villaggio del cacciatore da quelli del bottegaio e si azzuffarono gli uni con gli altri e si uccisero tutti, che non ne rimase neppure uno. Insomma, si uccisero tutti quanti per colpa d’una goccia di miele. Mio signore non per altro ti ho dato questo esempio se non perché eviti di uccidere tuo figlio, prima di appurare la verità, così che non te ne debba poi pentire» . [Racconto : Fontes ] Esempio di come venne la moglie del re e lo incitò nuovamente a uccidere l’Infante, raccontando la storia del figlio di un re e di come quest’ultimo fosse stato ingannato da un suo confidente La moglie del re iniziò a raccontare: «Un tempo c’era un re che aveva un confidente e aveva un figlio; il re unì il figlio in matri-



fante , enbió dezir al otro rrey: “Enbíame tu fijo e faremos bodas con mi fija, e después enbiart’he mandado”. E el rrey mandó guisar  su fijo muy bien e que fuese fazer sus bodas e que estudiese  con ella quanto quisiese. E desí enbió el rrey aquel privado con su fijo, e así fablando uno con otro alongáronse mucho de su conpaña e fallaron una fuente; e avía tal virtud que qualquier omne que beviese d’ella que luego se tornava muger; e el privado sabía la virtud que tenía la fuente, e non lo quiso dezir al Infante. E dixo: “Está aquí agora fasta que vaya a buscar carrera”. E falló él la carrera andándola a buscar, e fuese por ella e falló al padre del Infante. E el rrey fue muy mal espantado, e dixo: “¿Cómmo vienes así, sin mi fijo o qué fue d’él?” E el privado dixo: “Creo que lo comieron las bestias fieras”. E quando vio el Infante que tardava el privado e que non tornava por él, desçendió a la fuente a lavar las manos e la cara, e bevió del agua, e fízose muger; e estuvo en guisa que non sabía qué fazer nin qué dezir nin dó ir. E a esto llegó a él un diablo e dixo que quién era él, e él le dixo: “Fijo de un rrey de fulana  tierra”. E díxole el nonbre derecho e contól’  la falsedat que le fiziera el privado de su padre. E el diablo ovo piedat  d’él porque era tan fermoso, e díxole: “Tornarme he yo dueña, commo tú eres, e a cabo de quatro meses tornarme he commo dantes era”. E el Infante lo oyó, e fizieron pleito, e fue y´  el diablo. Otrosí vino en lugar de muger preñada, e dixo el diablo: “Amigo, tómate commo d’ante, e yo tornarme he commo ante era”. E dixo el Infante: “¿Cómmo me tornaré yo así, que quando yo te fiz’  pleito e omenaje yo era donzella e virgen, e tu eres agora muger preñada?” . Infante] ynfanta B. . guisar] adereçar B. . estudiese] estudiesen A. . fulana] tal B. . contól’] catol A, dixole B. . piedat] piedad B. . y´ ] ay B. . fiz’] fize B.



monio con la figlia di un altro re. Il padre della principessa mandò all’altro re questo messaggio: “Inviami il tuo figliolo e celebreremo le nozze con mia figlia, poi ti informerò” . Il re dispose che suo figlio fosse preparato con ogni cura per la cerimonia delle nozze e che restasse insieme alla principessa quanto volesse. Decise inoltre che quel suo consigliere accompagnasse il principe; e fu così che i due, parlando fra di loro, si allontanarono dal seguito, finché giunsero a una fonte, la quale aveva un potere: qualsiasi uomo avesse bevuto della sua acqua sarebbe diventato subito donna. Il consigliere conosceva bene quella virtù della fonte, ma non volle farne parola con l’Infante. E gli disse, invece: “Resta qui mentre io cerco di ritrovare la via”. Tanto cercò, infatti, che la trovò e vi si incamminò, quindi incontrò il re, il quale, tutto allarmato, gli domandò: “Com’è che vieni così, senza mio figlio? Che ne è di lui?”. “Temo che qualche bestia feroce se lo sia mangiato”. Quando l’Infante s’avvide che il confidente tardava e non tornava a prenderlo scese verso la fonte per bagnarsi le mani e il volto, bevve di quell’acqua e si trasformò in donna; rimase come inebetito, senza sapere che fare, cosa dire o dove andare. Ma all’istante giunse un demonio che gli domandò chi fosse. Egli rispose: “Sono figlio di un re del tal regno”. Gli disse il suo vero nome e gli riferì del brutto tiro del confidente di suo padre; il demonio allora provò pietà di lui, che era molto bello, e gli disse: “Mi trasformerò anch’io in donna, uguale a te, e dopo quattro mesi tornerò come prima”. L’Infante lo ascoltò fino in fondo, poi i due fecero l’accordo e il diavolo sparì all’istante. Quando venne, però, si presentò come una donna incinta, dicendo così: “Amico, riprendi il tuo aspetto di sempre e io tornerò a essere quello di prima”. Ma l’Infante obiettò: “Come può essere, che quando facemmo l’accordo  io ero fanciulla vergine e ora tu sei una donna incinta?”.



E estonçes se rrazonó el Infante con el diablo ante sus alcalles, e fallaron por derecho que vençiera el Infante al diablo. Estonçes se tornó el Infante omne, e fuese para su muger e levóla para casa de su padre, e contógelo todo commo le acaesçiera. E el rrey mandó matar al privado porque dexara al Infante en la fuente. E por ende yo he fiuza que me ayudará Dios contra tus  malos privados». E el rrey mandó matar su fijo. [Cuento : Senescalcus] Enxenplo del quarto privado, e del bañador e de su muger E vino el quarto privado, e entró al rrey e fincó los inojos ante el rrey, e dixo: «Señor, non deve fazer omne en ninguna cosa fasta que sea bien çierto de la verdat , ca quien lo faze ante que sepa la verdat , yerra e faze muy mal, commo acaesçió a un bañador que se arrepintió quando non le tovo pro». El rrey le preguntó: «¿Cómmo fue eso?» Dixo: «Señor, fue un infante un día por entrar en el baño: era mançebo, e era tan grueso que non podía ver sus mienbros por dó era[n]. E quando se descubrió, violo el vañador, e començó a llorar. E díxole el Infante: “¿Por qué lloras?” E dixo: “Por tú ser fijo de rrey, commo lo eres, e non aviendo otro fijo sinon a ti, e non ser señor de tus mienbros, así commo son otros varones; ca yo bien creo que non puedes yazer  con muger”. E el Infante le dixo: “¿Qué faré yo que mi padre me quiere casar? Non sé si podré fazimiento  con muger”. E el Infante dixo: “Toma agora diez maravedís, e veme a buscar una muger fermosa”.

. tus] sus ms. . verdat] verdad B. . verdat] verdad B. . yazer] holgar B. . fazimiento] holgar y yazer B.



Fu così che l’Infante espose le sue vicissitudini con il demonio al cospetto dei giudici, e questi stabilirono secondo giustizia che l’Infante aveva vinto. Così l’Infante tornò definitivamente uomo, raggiunse sua moglie e la condusse a casa del padre, al quale raccontò per filo e per segno quanto era accaduto. Alla fine il re ordinò che il suo confidente fosse ucciso per aver abbandonato l’Infante alla fonte. Perciò io confido che Dio aiuterà anche me contro i tuoi cattivi confidenti». Il re, allora, ordinò che il figlio fosse giustiziato. [Racconto : Senescalcus ] Esempio del quarto consigliere, del servitore dei bagni e sua moglie Venne poi il quarto consigliere, che si presentò al re e s’inginocchiò innanzi a lui dicendo: «Non si deve agire fino a quando non si sia certi della verità, perché chi lo fa prima di conoscere il vero, commette un grave errore e senza dubbio fallisce, com’è successo a un servitore dei bagni, il quale si pentì quando ormai non v’era rimedio». «Come andò?», chiese il re. «Mio signore, un giorno un giovane principe stava per entrare nei bagni e per quanto ancora ragazzo, era così grasso da non poter vedere il suo membro . Quando questi si denudò lo vide uno dei servitori e cominciò a piangere. “Perché piangi?”, gli chiese il principe. “Piango pensando che – rispose l’altro – sebbene figlio, e per di più unico, di re, a differenza degli altri uomini, tu non sia padrone del tuo membro, e perciò non potrai mai giacere con una donna”. Allora l’Infante esclamò: “Come farò, povero me, che mio padre vuole darmi moglie? Non so se potrò mai unirmi con una donna”. Ma poi soggiunse: “Ecco, prendi questi dieci maravedì e cercami una bella donna”.



E el vañador dixo en su coraçón: ‘Terné estos diez maravedís, e entre mi muger con él, ca bien sé que non podrá dormir con ella’. E estonçes fue por ella. E el Infante durmió con ella, e el vañador començó de atalear  cómmo yazía con ella , con su muger. Y el  [Infante] rrióse. E el vañador fallóse ende mal, e dixo: “¡Yo mesmo me lo fize!” E estonçes llamó su muger e dixo: “Vete para casa”. E ella dixo: “¿Cómmo iré, ca le fiz’  pleito que dormiría con él toda esta noche?” E quando él esto oyó, con cueita e con pesar, fuese a enforcar, e así se mató. E, señor, non te di este enxenplo sinon que non mates tu fijo». [Cuento : Canicula] Enxenplo del omne e de la muger e de la vieja e de la perrilla «Señor, oí dezir que un omne e su muger fizieron pleito e omenaje que se toviesen fieldat . E el marido puso plazo a que viniese, e non vino a él. E estonçes salió a la carrera, e estando así, vino un omne de su carrera, e viola e pagóse d’ella, e demandóle su amor. E ella dixo que en ninguna guisa que lo non faría . Estonçes fue a una vieja que morava çerca d’ella, e contógelo todo cómmo le conteçiera con aquella muger, e rogóle que gela fiziese aver, e que le daría quanto quisiese. E la vieja dixo que le plazié, e que gela faría aver. E la vieja fuese a su casa, e tomó miel e masa e pimienta, e amasóla toda en uno, e fizo d’ella panes. Estonçes fuese para su casa de aquella muger, e llamó una perrilla que tenié e echóle de aquel pan, en guisa que non lo viese la muger. E después que la perrilla lo comió, enpeçó de ir tras la vieja, fa. atalear] dar bozes y dezirle B. . con ella] espunge B. . Y el] integra B. . fiz’] fize B. . fieldat] fieldad B. . guisa que lo non faría] manera lo harya B.



Tra sé e sé il servitore pensò: “Mi terrò questi dieci maravedì e, ma sì!, farò entrare mia moglie da lui, tanto so bene che quello non potrà goderne”. Fu così che andò a prenderla. L’Infante si mise a giacere con lei; a un certo punto l’uomo cominciò a sbirciare quel che faceva lui con lei, che era proprio sua moglie! Intanto l’Infante se la rideva. Il servitore, invece, era disperato e andava ripetendosi: “Me la sono cercata io!”. Quindi chiamò sua moglie e le disse: “Va’ a casa”. Ma lei rispose: “Come faccio, se gli ho promesso che sarei stata con lui tutta la notte?”. All’udire quelle parole l’uomo, triste e pieno d’angoscia, andò a impiccarsi e così morì. Mio signore, ti ho raccontato questo esempio solo perché tu non uccida tuo figlio». [Racconto : Canicula ] Esempio dell’uomo e della moglie, della vecchia e della cagnetta «Mio signore, ho sentito la storia d’un uomo e di sua moglie che si giurarono solennemente  fedeltà. Un giorno il marito stabilì che sarebbe tornato a una certa ora, ma non si presentò . La donna allora uscì per andargli incontro quand’ecco che incontrò un altro uomo, il quale la vide e, invaghitosene, le chiese di corrispondergli, ma lei rispose che non avrebbe mai acconsentito. Perciò l’uomo si recò da una vecchia che abitava nei pressi della giovane; le raccontò tutto quanto gli era accaduto con la donna e la pregò di fargliela avere, promettendole in cambio tutto quel che poteva volere. La vecchia mostrò di gradire l’accordo e disse che gli avrebbe fatto avere la giovane. La vecchia andò a casa sua, prese della pasta dolce, miele e pepe, impastò il tutto per bene e ne fece delle pagnotte. Poi si recò a casa di quella donna, chiamò la sua cagnetta gettandole di quel pane senza che la sua padrona se ne accorgesse. Quando la cagnetta ne ebbe mangiato, cominciò ad andar dietro alla



lagándosele que le diese más e llorándole los ojos con la pimienta que avié en el pan. E quando la muger la vio así, maravillóse, e dixo a la vieja: “Amiga, ¿viestes llorar así a otras perras, así commo a ésta?” Dixo la vieja: “Faze derecho, que esta perra fue muger, e muy fermosa, e morava aquí cabo mí, e enamoróse un omne d’ella, e ella non se pagó d’él, e estonçes maldíxola aquel omne que la amava, e tornóse luego perra. E agora, quando me vio, menbrósele d’ella, e començóse de llorar”. E estonçes dixo la muger: “¡Ay, mezquina! ¿Qué faré yo, que el otro día me vio un omne en la carrera e demandóme mi amor e yo non quis’?  E agora he miedo que me tornaré perra, si me maldixo. E agora ve, e rruegal’  por mí, que le daré quanto él quesiere”. Estonçes dixo la vieja: “Yo te lo traeré”. E estonçes se levantó la vieja, e fue por el omne. E levantóse la muger e afeitóse; e estonçes se asomó a casa de la vieja, a si avía fallado aquel omne que fuera a buscar. E la vieja dixo: “Non lo puedo fallar”. E estonçes dixo la muger: “Pues, ¿qué faré yo?” Estonçes fue la vieja, e falló al omne, e dixo: “Anda acá, que ya fará la muger todo, todo quanto yo quisiere”. E era el omne su marido e non lo conosçía la vieja , que venía estonçes de su camino. E la vieja dixo: “¿Qué darás a qui  buena posada te diere e muger moça e fermosa, e buen comer e buen bever, si quieres tú?” E él dixo: “¡Par Dios, si querría!” Fuese ella delante, e él en pos d’ella, e vio que lo levava a su casa, e sospechó que lo levava a su casa e para su muger mesma, e sospechó que lo fazía así toda vía, quando él saliera de su casa. E la vieja mala entró en su casa e dixo: “Entrad”. Después qu’el omne entró, dixo: “Asentadvos aquí”. . quis’] quise B. . rruegal’] rruegale B. . e non lo conosçía la vieja] e aquella muger non lo conosçia la vieja A, emendato da B. . a qui] qui A, a quien B.



vecchia scodinzolando per farsi dare dell’altro pane, ma intanto lacrimava per colpa di quel pepe ch’era nel pane. Perciò, quando la donna vide l’animaletto in quello stato, si meravigliò e chiese alla vecchia: “Amica mia, hai mai visto piangere altre cagnette così come questa?”. La vecchia rispose: “E fa bene, poiché questa bestiola fu una donna, e per di più molto bella, che viveva qui vicino a casa mia; un giorno un uomo se ne innamorò ma lei non ne volle sapere, tanto che proprio quell’uomo che l’amava la maledisse e lei si trasformò subito in una cagna. Perciò ora, vedendomi, si è ricordata del suo precedente stato e s’è messa a piangere”. All’udire ciò la donna disse: “Povera me. Cosa farò io, che l’altro giorno mentre camminavo un uomo mi ha visto e quando mi ha dichiarato il suo amore io l’ho rifiutato? Ora ho paura di trasformarmi anch’io in una cagna, se davvero mi ha maledetto. Va’, dunque, e pregalo da parte mia dicendogli che gli concederò tutto quanto vorrà”. La vecchia le assicurò: “Vedrai che te lo porto qui”. Poi si alzò e andò in cerca dell’uomo. Nel frattempo la giovane andò a farsi bella, poi si affacciò all’uscio della vecchia per vedere se avesse trovato l’uomo che era andata a cercare. Ma la vecchia disse: “Non riesco a trovarlo”. “E io che faccio?”, chiese la donna. Allora la vecchia uscì nuovamente, trovò l’uomo e gli disse: “Su, vieni, che la ragazza ormai farà tutto, proprio tutto quello che io vorrò”. Ma quell’uomo, che la vecchia non conosceva, era il marito della giovane, che se ne tornava a casa. La vecchia gli si rivolse così: “Cosa daresti a chi ti offrisse un buon letto, una donna giovane e bella, un buon piatto e del buon vino? E così è, basta che tu lo voglia”. L’uomo rispose: “Caspita se lo voglio!”. I due s’incamminarono, lei davanti lui dietro, ma presto l’uomo s’avvide che la vecchia si dirigeva verso casa sua e pensò che lo stesse portando proprio a casa, da sua moglie, e sospettò che questa facesse sempre così quando lui era fuori. Infine, quella vecchia disonesta entrò in casa sua e disse: “Avanti”. E una volta entrato l’uomo, gli disse: “Siediti lì”.



E católa al rrostro. E quando vio  que su marido era, non sopo ál qué fazer, sinon dar salto en sus cabellos. E dixo: “¡Ay, don putero malo!, ¿esto es lo que yo e vós pusiemos , e el pleito e omenaje que fiziemos?  Agora veo que guardades  las malas mugeres, e las malas alcauetas”. E él dixo: “¡Guay  de ti!, ¿qué oviste comigo?” E dixo su muger: “Dixiéronme agora que viniés’, e afeitéme, e dixe a esta vieja que saliese a ti, por tal que te provase si usavas las malas mugeres, e veo que aína seguiste la alcauetería. ¡Mas jamás nunca nos ayuntaremos, nin llegarás más a mí!”. E dixo él: “¡Así me dé Dios su graçia e aya la tuya, commo non cuidé que me traía a otra casa sinon la tuya e mía, si non [non] fuera  con ella, e aun pesóme mucho quando me metió en tu casa, que cuidé que esto mesmo farás  con los otros!” E quando ovo dicho, rrascós’  en su rrostro, e ronpiólo todo con sus manos, e dixo: “¡Bien sé que esto cuidariés tú de mí!” E ensañóse contra él. E quando vio que era sañosa, començóla de falagar e de rogar que·l perdonase, e ella non lo quiso perdonar fasta que·l  diese gran algo. E él mandóle en arras un aldea que avía. E señor, non te di este enxenplo, sinon a [mostrar] qu’el engaño de las mugeres que non an cabo nin fin». E mandó el rrey que non matasen su fijo. [Cuento : Aper] Enxenplo de cómmo vino al quinto día la muger, e dio enxenplo del puerco e del ximio E vino la muger al quinto día, e dixo al rrey: «Si me non das derecho de aquel Infante e ¡verás qué pro te ternán estos tus . vio] ella vio B. . pusiemos] pusimos B. . fiziemos] fizimos B. . guardades] guardays B. . Guay] ay B. . si non [non] fuera] si non fueras A, che poi espunge la -s, que en otra manera non fuera B. . farás] hazias B. . rrascós’] rrascose B. . que·l] que le B.



Entrata la giovane, l’uomo la guardò in volto e quando lei vide che quello era suo marito non trovò di meglio che saltargli addosso gridando: “Ah, brutto puttaniere! È questo dunque il nostro accordo, è questa la fedeltà che ci eravamo giurati? Finalmente so che bazzichi le sgualdrine e le brutte ruffiane!”. E lui: “Accidenti! Ma cosa ti ho fatto?”. Disse allora sua moglie: “Mi avevano appena detto che stavi tornando, perciò mi sono preparata, poi ho detto a questa vecchia di uscire e di venirti incontro per controllare se frequentavi le donnacce e dunque vedo che senza perder tempo hai ceduto alla ruffianeria. D’ora in avanti non staremo più insieme e non ti permetterò più di toccarmi”. “Che Dio mi perdoni e tu pure – assicurò l’uomo –, se non sospettai che costei mi stava portando a questa casa, che è tua e mia, e non altrove, perché, altrimenti, non l’avrei seguita. E non so dirti quanto mi costò quando mi fece entrare qui, con il sospetto che tu facevi la stessa cosa con gli altri uomini”. Appena il marito disse queste parole, la donna cominciò a graffiarsi il volto e a lacerarsi tutta, gridando: “Ora sono certa che pensavi così male di me!”. E inveì contro il marito il quale, vedendola tanto alterata, cominciò a blandirla e la pregò di perdonarlo, ma la donna non acconsentì di farlo prima d’aver ricevuto un regalo dal marito. Così le lasciò in dono uno dei villaggi che possedeva. Mio signore, ti ho raccontato questo esempio per farti conoscere gli inganni delle donne, che non hanno né inizio né fine». Allora il re ordinò di non uccidere suo figlio. [Racconto : Aper ] Di come il quinto giorno venne la donna e narrò l’esempio del maiale e della scimmia Il quinto giorno si presentò nuovamente la moglie e disse al re: «Se non mi renderai giustizia contro quell’Infante, vedrai che



malos privados! Después que yo sea muerta, veremos qué farás con estos tus consejeros e, quando ante Dios fueres, ¿qué dirás, faziendo atan gran tuerto en dexar a tu fijo a vida e non querer fazer d’él justiçia? ¿E cómmo lo dexas a vida por tus malos consejeros e por tus malos privados, e dexas de fazer lo que tiene pro en este siglo? Mas yo sé que te será demandado ante Dios, e dezirte lo que acaesçió a un puerco una vez». Dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» «Dígote, señor, que era un puerco, e yazía sienpre so una figuera e comía sienpre de aquellos figos que caién d’ella. E vino un día a comer e falló ençima a un ximio comiendo figos. E el ximio, quando vido estar al puerco en fondón de la figuera, echól’  un figo, e comiólo e sópole mejor que los qu’él fallava en tierra. E alçava la cabeça a ver si le echaría más; e el puerco, estando así  atendiendo al ximio, fasta que se le secaron las venas del pescueço e murió de aquello». E quando esto ovo dicho, ovo miedo el rrey que se mataría con el tósigo  que tenía en la mano, e mandó matar su fijo. [Cuento : Canis] Enxenplo del quinto privado, e del perro e de la culebra e del niño E vino el quinto privado ante el rrey e dixo: «¡Loado sea Dios! Tú eres entendido e mesurado, e tú sabes que ninguna cosa [deve el omne fazer] apresuradamente ante que sepa la verdat e, si  lo fiziere, fará locura e, quando lo quisiere emendar, non podrá, e conteçerle ha así commo a un dueño de un perro una vez». E dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» E él dixo: «Señor, oí dezir que un omne que era criado de un rrey, e aquel omne avía un perro de caça muy bueno e mu. echól’] echole B. . e el puerco, estando así] e el puerco e el pu... estando asi A, che espunge solo pu, e el puerco e estando asi B. . tósigo] cuchillo B. . sepa la verdat e, si] se sepa la verdat es bien hecha e si alguno B.



bel profitto avrai dai tuoi malvagi consiglieri! Dopo la mia morte vedremo cosa ne farai di questi consiglieri. E, al cospetto di Dio, come giustificherai d’aver commesso il gravissimo errore di lasciare impunito tuo figlio senza volerlo giustiziare? Come puoi pensare di salvargli la vita prestando attenzione ai tuoi cattivi consiglieri e infidi confidenti, tralasciando di fare ciò che è giusto e vantaggioso in questo mondo? Io so che ne dovrai rendere conto innanzi a Dio, perciò ti racconterò quel che accadde una volta a un maiale. Il re domandò: «Com’è stato?». «C’era dunque un maiale che dimorava sempre sotto una pianta di fico e mangiava di continuo i fichi che cadevano. Un giorno, mentre s’accingeva a mangiare, scorse là in cima una scimmia che mangiava di quei fichi. La scimmia, che vide il maiale ai piedi dell’albero, gli lanciò un fico. Il maiale lo mangiò e lo ritenne migliore di quelli che trovava per terra, tanto che cominciò a sollevare il muso per vedere se gliene gettasse degli altri, e restò in quella posizione, a guardare fisso la scimmia, finché gli si seccarono le vene del collo e così morì». Non appena finito questo racconto, il re ebbe timore che la donna si desse la morte con la fiala di veleno  che teneva in mano, pertanto ordinò di uccidere suo figlio. [Racconto : Canis ] Esempio del quinto consigliere: il cane, il serpente e il bambino Il quinto consigliere si presentò al re e disse: «Dio sia lodato! Tu sei saggio e prudente e sai anche che non si deve fare nulla in modo affrettato e prima di conoscere la verità; chi lo facesse, farebbe una pazzia che, anche volendo, non si potrebbe riparare; allora potrebbe succedere quello che capitò una volta al padrone di un cane». «E come fu?», chiese il re. Ed egli rispose: «Si racconta di un uomo che era al servizio di un re e possedeva un cane da caccia molto buono e intelli-



cho entendido, e nunca le mandava fazer cosa que la non fiziese. E vino un día que su muger fue veer sus parientes, e fue con ella toda su conpaña, e dixo ella a su marido: “Sey con tu fijo que yaze durmiendo en la cama, ca non tardaré allá, ca luego seré aquí”. El omne asentóse cabo su fijo. Él seyendo allí, llegó un omne de casa del rrey que·l  mandava llamar a gran priesa. E el omne bueno dixo al perro: “Guarda bien este niño, e non te partas d’él fasta que yo venga”. E el omne çerró su puerta e fuese para el rrey. E el perro yaziendo çerca del niño, vino a él una culebra muy grande, e quísolo matar por el olor de la leche de la madre. E quando la vio el perro, dio salto en ella e despedaçóla toda. E el omne tornó aína por amor de su fijo que dexava solo. E quando abrió la puerta, abriéndola, salió el perro a falagarse a su señor por lo que avía fecho, e traía la boca e los pechos sangrientos. E quando lo vio tal, cuidóse que avía matado  su fijo e metió mano a un espada, e dio un gran golpe al perro, e matólo. E fue más adelante a la cama, e falló su fijo durmiendo, e la culebra despedaçada a sus pies. E quando esto vio, dio palmadas en su rrostro e ronpióselo, e non pudo ál fazer, e tóvose por malandante que lo avía errado. E, señor, non te conteza atal en tus fechos, ca después non te podrás arrepentir. Non mates tu fijo, que los engaños de las mugeres non an cabo nin fin». [Cuento : Pallium] Enxenplo de la muger, e del alcaueta, del omne e del mercador (e de la muger) que vendió el paño «Señor, oí dezir que avía un omne que, quando oía fablar de mugeres, que se perdía por ellas  con cueita de las aver. E . que·l] que le B. . matado] muerto B. . ellas] ella A, emenda B.



gente, e non c’era volta che questo non obbedisse quando gli si dava un ordine. Avvenne un giorno che la moglie di quell’uomo andò a far visita a dei parenti, accompagnata da tutti quelli che vivevano con loro. La donna disse a suo marito: “Rimani tu con tuo figlio, che dorme nella culla; non mi tratterrò molto là e presto sarò di ritorno”. L’uomo si sedette accanto al figlioletto. Mentre era lì, arrivò un messo da parte del re, che lo mandava a chiamare in gran fretta. Il buon uomo allora disse al suo cane: “Fa’ buona guardia a questo bimbo e non allontanarti finché non sarò tornato”. Poi chiuse l’uscio di casa sua e andò dal re. Mentre il cane stava accucciato accanto al bambino, s’avvicinò un serpente molto grosso, attratto dall’odore del latte materno, e stava per uccidere il piccolo. Ma quando il cane vide l’animale, con un balzo vi fu sopra e lo fece a pezzi. L’uomo fu presto di ritorno, amorevolmente preoccupato d’aver lasciato solo il figlioletto. E quando aprì la porta, uscì il cane a rallegrarsi con il suo padrone per quello che aveva fatto, ma con il muso e il pelo tutti insanguinati. L’uomo lo vide così e, sicuro che avesse ucciso suo figlio, mise mano alla spada e con una gran stoccata uccise il cane. Arrivò poi alla culla, dove trovò suo figlio che dormiva e ai suoi piedi il serpente fatto a pezzi. Quando s’accorse di ciò, prese a colpirsi e a graffiarsi il volto, ma senza poter fare altro, ritenendosi disgraziato per l’errore commesso. Perciò, mio signore, fa’ che non ti accada mai una cosa simile, perché dopo pentirsi sarà del tutto inutile. Quindi non uccidere tuo figlio, ché gli inganni delle donne non hanno né inizio né fine». [Racconto : Pallium ] Esempio della donna e della mezzana, dell’uomo, del mercante che vendette il panno «Mio signore, raccontano di un uomo che, quando udiva parlare di donne, perdeva la testa per il desiderio di averle. Un gior-



oyó dezir de una muger fermosa, e fuela buscar, e falló el lugar donde era. E estonçes fue a un alcaueta, e díxole que moría por aquella muger. E dixo la vieja alcaueta: “Non fiziestes  nada en venir acá, que es buena muger, e non ayas fiuza ninguna en ella, sí te vala Dios”. E él le dixo: “Faz en guisa que la aya, e yo te daré quanto tu quisieres”. E la vieja dixo que lo faría si pudiese: “Mas – dixo –, ve a su marido, que es mercador, si le puedes conprar de un paño que trae cubierto”. E él fue al mercador e rogógelo que gelo vendiese, e él óvogelo mucho a duro de vender. E adúxolo  a la vieja, e tomó el paño e quemólo en tres lugares, e dixo: “Estáte aquí agora en esta mi casa, que non te vea aquí ninguno”. E ella tomó el paño e doblólo e metiólo so sí. E fue allí do seié la muger del mercador e, fablando con ella, metió el paño so el cabeçal, e fuese. E quando vino el mercador, tomó el cabeçal para se asentar, e falló el paño, e tomólo e cuidó que el que lo mercara que era amigo de su muger, e que se le olvidara allí el paño; e levantóse el mercador e firió a su muger muy mal, e non le dixo por qué ni por qué non, e levó el paño en su mano. E cubrió su cabeça la muger, e fue para casa de sus parientes, e sópolo la vieja alcaueta, e fuela ver, e dixo: “¿Por qué te firió tu marido de balde?” E dixo la buena muger: “Non sé, a buena fe”. Dixo la vieja: “Algunos fechizos te dieron malos, mas, amiga, ¿quieres que te diga verdat?  Darte he buen consejo. En mi casa ay un omne de los sabios del mundo, e si quesiéredes ir a ora de biésperas comigo a él, él te dará consejo”. E la buena muger dixo que le plazía. E venida fue ora de biésperas, e vino la vieja por ella, e levóla consigo para su casa. E metióla en la cámara adonde estava aquel omne, e le. fiziestes] fizistes B. . adúxolo] truxolo B. . verdat] verdad B.



no che seppe di una donna assai bella, si mise a cercarla e infine riuscì a scoprire dove abitava. Allora si recò da una mezzana e le rivelò che moriva per quella donna. La vecchia ruffiana disse: “Non hai risolto nulla a venire fin qua, perché quella è una donna onesta; non farti alcuna illusione su di lei, e che Dio ti aiuti”. L’uomo rispose: “Fa’ in modo da farmela avere e ti darò tutto quello che vuoi”. La vecchia allora disse che, potendolo, lo avrebbe fatto: “Ma – aggiunse – va’ da suo marito, che è mercante, e vedi se puoi comprargli un panno prezioso che tiene nascosto”. L’uomo si recò dal mercante e lo pregò di vendergli il panno, che tuttavia il mercante cedette a malincuore. Poi lo portò alla vecchia, la quale prese il panno, lo bruciacchiò in tre diverse parti e disse: “Ora resta qui in casa mia e non farti vedere da nessuno”. Poi la vecchia prese il panno, lo piegò e lo nascose sotto le sue vesti e andò a trovare la moglie del mercante. E mentre discorreva con lei, sistemò il panno sotto il cuscino e se ne andò. Quando il mercante rientrò prese il cuscino per sedersi e così trovò il panno, lo prese in mano e pensò che chi l’aveva comprato e dimenticato lì fosse amante di sua moglie. Allora il mercante si alzò e colpì duramente sua moglie, senza dire il perché; poi si portò via quel panno . La moglie si coprì il capo e si diresse a casa dei suoi parenti. Quando la vecchia lo venne a sapere, andò a farle visita e le disse: “Perché tuo marito ti ha picchiato così senza una ragione?”. La buona donna rispose: “Davvero non lo so”. E la vecchia: “Devono averti fatto qualche malocchio ma, amica mia, vuoi che ti dica la verità? Ti darò un buon consiglio. A casa mia c’è uno degli uomini più saggi del mondo; se all’ora del vespro vuoi venire con me da lui, ti consiglierà per il meglio”. L’onesta donna acconsentì. Giunta l’ora del vespro la vecchia andò a cercare la giovane e se la portò a casa sua. Qui la fece accomodare nella camera dove si trovava quell’uomo, il qua-



vantóse a ella e yazió con ella; e la muger, con miedo e con vergüença, e callóse; e después qu’el omne yazió con ella, fuese para sus parientes. E el omne dixo a la vieja: “Gradéscotelo mucho e darte he algo”. E dixo ella: “Non ayas tú cuidado que lo que tú feziste yo lo aduré a  bien, mas ve tu vía e fazte pasadizo por su casa, do está su marido. E quando él te viere, llamarte ha, e preguntarte ha por el paño que qué lo feziste. E tú dile que te poseste cabo el fuego e que se te quemó en tres lugares, e que lo diste a una vieja que lo levase a sorzir e que lo non viste más nin sabes d’él. E fazerme é yo pasadiza por aí, e di tú: ‘’Aquella di yo el paño’, e llámame, ca yo te escusaré de todo”. E estonçes fue e falló al mercador e dixo: “¿Qué feziste el paño que te yo vendí?” E dixo él: “Asentéme al fuego e non paré mientes e quemóseme en tres lugares, e dilo a una vieja mi vezina que lo levase a sorzir, e non lo vi después”. E ellos estando en esto, llegó la vieja e llamóla e dixo al mercador: “Esta es la vieja a quien yo di el paño”. E llamóla, e dixo que qué fiziera el paño. E dixo ella: “A buena fe, sí me vala Dios, este mançebo me dio un paño a sorzir, e entré con ello so mi manto en tu casa, e en verdat  non sé si se me cayó en tu casa o por la carrera”. E dixo: “Yo lo fallé. Toma tu paño e vete en buena ventura”. Estonçes fue el mercador a su casa e enbió por su muger a casa de sus parientes, e rogóla que·l perdonase, e ella fízolo así. E, señor, non te di este enxenplo sinon que sepas qu’el engaño de las mugeres qu’es muy grande e sin fin». E el rrey mandó que non matasen su fijo.

. aduré a] trabaje B. . verdat] verdad B.



le le andò incontro  e giacque con lei. La donna, timorosa e piena di vergogna, restò in silenzio; e appena quell’uomo ebbe terminato ritornò a casa dei suoi parenti. L’uomo disse alla vecchia: “Ti sono molto grato, ti darò una ricompensa”. E la vecchia rispose: “Non temere, quello che hai fatto saprò portarlo a buon fine ma ora va’ e fa’ finta di passare per caso dalla casa della donna, dove ora si trova il marito ; così, quando ti vedrà ti domanderà di quel panno e di che cosa ne hai fatto. Allora digli che ti eri avvicinato al fuoco e ti si è bruciato in tre parti e quindi l’hai dato a una vecchia perché lo facesse rammendare ma poi non lo hai più visto e non ne sai niente. Io passerò di lì, per caso; e tu dirai: ‘Ecco, è a quella che ho dato il panno’. E mi chiamerai e io ti scagionerò d’ogni cosa”. Infatti l’uomo andò e trovò il mercante, che gli chiese: “Che ne è di quel panno che ti ho venduto?”. “Mi son seduto vicino al fuoco – disse l’uomo – senza fare attenzione, e mi si è bruciato in tre punti; perciò l’ho dato a una mia vicina che lo portasse a rammendare e poi non l’ho più visto”. I due stavano dicendo queste cose, quando si presentò la vecchia; l’uomo la guardò  e disse al mercante: “Questa è la vecchia del panno”. Poi la chiamò e le domandò cosa ne aveva fatto. Quella allora rispose: “Ma certo, Dio m’è testimone, questo giovanotto mi ha dato un panno da rammendare, l’ho messo sotto la gonna e sono entrata a casa tua, e proprio non so se mi è caduto lì o per strada”. Allora il mercante disse: “Te l’ho trovato io. Prendi il tuo panno e vattene in pace”. Poi andò a casa sua, mandò a cercare la moglie a casa dei parenti e la pregò di perdonarlo, cosa che lei fece prontamente. Mio signore, ti ho fatto questo esempio solo per farti capire che gli inganni delle donne sono grandi e senza fine». Così il re ordinò di non uccidere suo figlio.



[Cuento : Simia] Enxenplo de cómmo vino la muger al seseno  día, e diol’ enxenplo del ladrón e del león, en cómmo cavalgó en él E vino la muger al seseno  día, e dixo al rrey: «Yo fío en Dios que me anparará de tus malos privados commo anparó una vez un omne de un león». E el rrey dixo: «¿Cómmo fue eso?» E ella dixo: «Pasava un gran rrecuero por cabo de un aldea, e entró en ella un gran ladrón e muy malfechor; e ellos yendo así, tomóles la noche, e llovió sobre ellos muy gran luvia, e dixo el rrecuero: “Paremos mientes en nuestras cosas non nos faga algund mal el ladrón”. E a esto vino un ladrón, e entró entre las bestias, e ellos non lo vieron con la gran escuredat, e començó de apalpar quál era la más gruesa para levarla; e puso la mano sobre un león, e non falló ninguna más gruesa nin de más gordo pescueço que él, e cavalgó en él, e dixo el león: “Esta es la tenpestad que dizen los omnes”. E corrió con él toda la noche fasta la mañana. E quando se conosçieron el uno al otro, avíanse miedo. E el león llegó a un árbol muy cansado, e el ladrón travóse a una rrama, e subióse al árbol con gran miedo del león. E el león fuese muy espantado, e fallóse con un ximio, e díxol’: “¿Qué as, león, o cómmo vienes así?” E el león dixo: “Esta noche me tomó la tenpestad, e cavalgó en mí; fasta en la mañana nunca cansó de me correr”. El ximio le dixo: “¿Dó es aquella tenpestad?” E el león le mostró el omne ençima del árbol. E el ximio subió ençima del árbol, e el león atendió por oír a veer qué faría, e el ximio vio que era omne, fizo señal al león que viniese, e el león vino corriendo. E estonçes abaxóse un poco el omne, e echól’  mano de los cojones del ximio  e apretó. seseno] sexto B. . seseno] sexto B. . echól’] echole B. . de los cojones del ximio] de sus miembros el ximio B.



[Racconto : Simia ] Di come la donna si presentò il sesto giorno e raccontò l’esempio di come il ladro cavalcò il leone Il sesto giorno, dunque, si fece avanti la moglie e disse: «Confido in Dio, che mi difenderà dai tuoi perfidi consiglieri, così come una volta ha salvato un uomo da un leone». Il re domandò: «Com’è successo?». «Un giorno una gran carovana di mulattieri con le loro bestie da soma si trovava a passare nei pressi di un villaggio, dove entrò un abile ladro e gran malfattore. Intanto li sorprese la notte e su di loro si rovesciò un forte acquazzone, perciò uno dei mulattieri disse: “Badiamo alle nostre cose, e che quel ladro non ci faccia del male”. Nel frattempo arrivò il  ladro, s’introdusse tra le bestie, senza essere visto, a causa dell’oscurità. Poi cominciò a palparle per sentire quale fosse la più grassa da portarsi via. Fu così che quando posò la mano su di un leone  s’accorse che non c’era una bestia altrettanto grossa né di collo più robusto, quindi vi salì a cavalcioni. Il leone disse tra sé: “Questa è la tempesta di cui parlano gli uomini”. E corse il leone con l’uomo tutta la notte, sino al mattino. Quando poterono distinguersi l’un l’altro, entrambi ebbero paura. Il leone, spossato, s’appoggiò a un albero, il ladro, invece, s’aggrappò a uno dei rami e s’arrampicò sull’albero per paura del leone. Poi il leone fuggì tutto spaventato e incontrò una scimmia che gli chiese: “Cos’hai leone, perché sei in questo stato?”. E il leone rispose: “Stanotte la tempesta mi ha preso, mi ha cavalcato e fino a stamani non si è stancata di correre”. “Dov’è questa tempesta?”, domandò la scimmia. Allora il leone le mostrò l’uomo sull’albero. La scimmia salì fin sull’albero e il leone aspettò di vedere e sentire quel che avrebbe fatto; quindi, vedendo che si trattava di un uomo, la scimmia fece segno al leone di avvicinarsi e quello corse sotto l’albero. Intanto l’uomo si sporse un po’, riuscì ad afferrare i testicoli della scimmia e glieli strinse così forte da ucciderla, poi



gelos tanto fasta que lo mató, e echólo al león. E desí quando el león esto vido, echó a foír e dixo: “¡Loado sea Dios, que me escapó desta tenpestad!”». E dixo la muger: «Fío por Dios que me ayudará contra tus malos privados, así commo ayudó al ladrón contra el león» . E el rrey mandó matar su fijo. [Cuento : Turtures] Enxenplo del seseno  privado, del palomo e de la paloma, que ayuntaron en uno el trigo en su nido E vino el seseno  privado, e fincó los inojos ante el rrey, e dixo: «Si fijo non ovieses, deviés rogar a Dios que te lo diese. Pues, ¿cómmo puedes matar este fijo que Dios te dio, e non aviendo más d’este? Ca, si lo matas, fallarte as ende mal, commo se falló una vez un palomo». Dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» Dixo: «Señor, era un palomo e una paloma e moravan en un monte e avían y´  su nido, e en el tienpo del agosto cogieron su trigo e guardáronlo en su nido, e fuese el palomo en su mandado, e dixo a la paloma que non comiese del trigo grano mientra que durase el verano. “Mas – díxole – vete a esos canpos e come deso que fallares, e quando viniere el ivierno, comerás del trigo, e folgarás”. E después vinieron las grandes calores, e secáronse los granos, e encogiéronse e pegáronse. E quando vino el palomo, dixo: “¿Non te dixe que non comieses grano, que lo guardases para el ivierno?” E ella juróle que non comiera grano, nin lo començara poco nin mucho. E el palomo non lo quiso creer. E començóla de picar e de ferirla de los onbros e de las alas, atanto que la mató. E paró mientes el palomo al trigo e vio que creçía con el relente, e que non avía menos ni más. E él fallóse mal porque mató a la paloma. . león] ximio ms. . seseno] seteno ms. . seseno] seteno ms. . y´ ] ay B.



la gettò al leone. Non appena vide questo, il leone si mise a scappare dicendo: “Dio sia lodato per avermi salvato da questa tempesta!”». Disse infine la donna: «Confido che Iddio mi difenda dai tuoi perfidi consiglieri, così come ha salvato il ladro dal leone» . Allora il re ordinò che si uccidesse suo figlio. [Racconto : Turtures ] Esempio del sesto  ministro, del colombo e della colomba che raccolsero insieme il grano nel loro nido Venne il sesto consigliere, s’inginocchiò innanzi al re e disse: «Se non avessi figli dovresti pregare Dio di concedertene uno. Insomma, come puoi davvero giustiziare questo figlio che Dio ti ha donato, non avendo che lui? Se tu ora lo uccidi pagherai un amaro prezzo, come accadde una volta a un colombo». Domandò il re: «Come fu?». «Un tempo, mio signore, un colombo e una colomba vivevano nel bosco su di una montagna, dove avevano un nido. Nel mese di agosto raccolsero del grano e lo riposero nel loro nido; dopo di che il colombo partì per le sue occupazioni, ordinando alla colomba di non mangiare di quel grano per tutta l’estate. “Va’, invece – le disse –, per questi campi e mangia il grano che trovi, così, quando arriverà l’inverno, potrai cibarti di questo grano e ne sarai soddisfatta”. Ma venne un caldo eccezionale, i chicchi si seccarono, e s’appiccicarono, tutti raggrinziti. Al suo ritorno il colombo disse: “Non ti avevo forse chiesto di non mangiare il grano e di tenerlo per l’inverno?”. La colomba allora gli giurò che non l’aveva mangiato e di non averne toccato neppure un chicchino. Ma il colombo non volle crederle. E si mise a beccarla e a ferirla sulle spallucce e sulle ali, finché la uccise. Poi il colombo osservò il grano e vide che con la guazza della notte tornava a crescere, e non ce n’era né più né meno di prima. E si accorse del grave errore d’aver ucciso la colomba.



E, señor, he miedo que te fallarás ende mal, así commo se falló este palomo, si matas tu fijo, qu’el engaño de las mugeres es la mayor cosa del mundo». [Cuento : Elephantinus] Enxenplo  del marido, e del segador e de la muger e de los ladrones que la tomaron a traiçión «Señor, oí dezir un enxenplo de un omne e de una muger, e moravan en un aldea, e el omne fue arar e la muger fízole de comer de panizo un pan, e levógelo a do arava. E yendo por gelo dar, dieron salto en ella los ladrones, e tomáronle el panizo. E uno de los ladrones fizo una imagen de marfil por escarnio, e metióla en la çesta, e ella non lo vio. E dexáronla ir, e fuese para su marido, e quando abrió el marido la çesta, vio aquello: “¿Qué aquí traes?”  E ella cató e vio que los ladrones lo avían fecho, e ella dixo: “Ensoñava  esta noche entre sueños que estavas ante un alfayate, e que te pesava muy mal. E estonçe fui a unos omnes que me lo ensolviesen este ensueño, e ellos me dixieron que fiziese una imagen de panizo, e que la comieses e que serías librado de quanto te podría venir”. E este ensueño dixo el marido que podría ser verdat. E tal es el engaño e las artes de las mugeres, que non an cabo nin fin». E el rrey mandó que non matasen su fijo. Enxenplo de cómmo vino la muger al seteno día ant’el rrey quexándose, e dixo que se quería quemar, e el rrey mandó matar su fijo apriesa, antes qu’ella se quemase E quando vino al seteno día, dixo: «Si este mançebo oy non es muerto, oy seré descubierta». . Enxenplo] enxeplo ms., che omette il consueto segno di nasale su -e-. . ¿Qué aquí traes?] e dixo que es esto que aqui traes B. . Ensoñava] ensonava ms.



Signore, se uccidi tuo figlio ho proprio paura che sbaglierai, come accadde a questo colombo, poiché l’inganno delle donne è sempre la peggior cosa del mondo». [Racconto : Elephantinus ] Esempio del mietitore , di sua moglie e dei ladri che la presero a tradimento «Mio signore, ho sentito raccontare l’esempio di un uomo e di una donna che abitavano in un villaggio. Un giorno, l’uomo andò ad arare e la moglie per pranzo gli preparò un pane di miglio e glielo portò dove stava lavorando. Ma proprio mentre si recava là, dei briganti la circondarono e di nascosto le rubarono il pane di miglio. Uno di quelli, per burla, le fece un elefantino di mollica e glielo mise nella cesta senza che lei se ne avvedesse. Quindi la lasciarono andare da suo marito il quale, non appena aperta la cesta, vide quel che c’era e domandò: “Cos’hai qui?”. La donna guardò, e accorgendosi subito che era opera dei briganti disse: “Stanotte nei miei sogni ho sognato che eri di fronte a un sarto e che la cosa ti pesava tanto. Allora sono andata da certi uomini che mi spiegassero quel sogno e quelli mi hanno suggerito di fare una sagoma di miglio, perché tu la mangiassi per poter scongiurare ogni male possibile”. Allora il marito disse che quel sogno poteva essere veritiero. Di questa natura sono l’inganno e gli artifici delle donne, che non hanno mai fine». Perciò il re ordinò che non uccidessero suo figlio. Esempio di come il settimo giorno la donna si presentò al re per lamentarsi e disse di volersi ardere viva e di come il re ordinò che uccidessero suo figlio, in gran fretta, prima che la donna si desse fuoco Venuto il settimo giorno la donna pensò: «Se questo ragazzo non muore oggi stesso, io sarò scoperta».



E esto dixo la muger: «Non ay ál sinon la muerte». Todo quanto aver pudo diolo por Dios a pobres, e mandó traer mucha leña e asentóse sobre ella. E mandó dar fuego enderredor, e dezir que se quería quemar ella. E el rrey, quando esto oyó, ante que se quemase, mandó matar al moço. Llegó el seteno privado e metióse delante del moço e de aquel que·l quería matar, e omillósele al rrey, e dixo: «Señor, non mates tu fijo por dicho de una muger, que non sabes si miente o si dize verdat . E tú avías atanta cobdiçia de aver fijo, commo tú sabes, e pues que te fizo Dios plazer, non le fagas tú pesar». [Cuento : Nomina] Del enxenplo de la diableza e del omne e de la muger, e de cómmo el omne demandó los tres dones «E señor, oí dezir que era un omne que nu[n]ca se partía de una diableza e ovo d’ella un fijo, e fue así un día que ella que se quería ir, e dixo: “Miedo he que nunca me veré contigo, mas ante quiero que sepas tres oraçiones de mí, que quando pidieres a Dios tres cosas, averlas as”. E mostról’  las oraçiones, e fuese la diableza e él fuese muy triste, porque se le fue la diableza, para su muger, e díxol’ : “Sepas que la diableza que me tenía, que se me fue, e pesóme ende mucho del bien que sabía por ella, e emostróme tres oraçiones con que demandase tres cosas a Dios que las avería; e agora conséjame qué pida a Dios e averlo he”. E la muger le dixo: “Bien sabes verdaderamente que puramente amás  los omnes a las mugeres, e páganse mucho de su solaz. Por ende ruega a Dios que te otorgue d’ellas” . E quando se vido cargado d’ellas, dixo a la muger: “¡Confóndate Dios que esto por el tu  consejo se fizo!” . verdat] verdad B. . mostról’] mostrole B. . para su muger, e díxol’] fuese para su muger e dixole B. . amás] amays B. . d’ellas] muchas dellas B. . tu] su A, emenda B.



Allora disse così: «Non mi resta che la morte». Poi diede ai poveri, nel nome di Dio, tutto il denaro ch’era riuscita a radunare e ordinò che portassero gran quantità di legna e vi si mise a sedere sopra, poi chiese che appiccassero il fuoco tutt’attorno e che riferissero che lei stessa voleva darsi fuoco. Quando udì la notizia, il re, prima che la donna bruciasse viva, diede ordine di uccidere il giovane. Ma si fece avanti il settimo consigliere, mettendosi tra il ragazzo e quello che lo doveva giustiziare, e prostrandosi innanzi al re disse: «Mio signore, non uccidere il tuo figliolo per le parole di una donna che non sai neppure se mente o dice la verità. Proprio tu che desideravi così tanto un figlio, come ben sai, ora che Dio ti ha esaudito, non fargli questo torto». [Racconto : Nomina ] Esempio della diavolessa , dell’uomo, della moglie e dei tre doni chiesti dall’uomo «Mio signore, ho sentito raccontare d’un uomo che non si staccava mai da una diavolessa, dalla quale ebbe anche un figlio. Successe che un bel giorno quella volle andarsene, perciò disse: “Temo proprio che non ci rivedremo più, ma prima voglio che impari tre delle mie invocazioni, così che quando ti capiterà di domandare tre cose a Dio potrai averle”. Gli insegnò quindi le tre invocazioni, dopo di che se ne partì, e lui, tutto triste perché non aveva più la sua diavolessa, andò da sua moglie e le disse : “Devi sapere che la diavolessa che avevo tutta per me , alla fine se n’è andata, e mi dispiace non poco, per tutto quello che da lei avevo imparato; fra l’altro mi ha insegnato tre preghiere con le quali, nel caso chiedessi tre cose a Dio, le otterrei. Perciò adesso consigliami cosa chiedere, così l’avrò”. La moglie disse: “In verità, tu sai quanto a voi uomini più di ogni cosa piacciano  le donne e che siete appagati dal loro piacere; perciò chiedi a Dio che te ne conceda molte”. Quando si vide pieno di così tante donne disse l’uomo a sua moglie: “Che Dio ti confonda, ché tutto ciò nasce dal tuo consiglio!”.



E dixo ella: “¿Aún non te quedan dos oraçiones? E agora rruega a Dios que te las tuelga , pues tanto pasas con ellas”. E él fizo oraçión e tolliéronse  luego todas, e non fincó y´  ninguna. E él, quando esto vio, començó de dezir mal a su muger, e dixo ella: “Non me maldigas que aún tienes una oraçión, e ruega a Dios que te torne commo de primero”. E rogó a Dios que lo tornase [commo] de primero, e tornól’  commo de primero. E así se perdieron las oraçiones todas. Por ende te dó por consejo sinon  que non mates tu fijo, que las maldades de las mugeres non an cabo nin fin; e desto darte é un enxenplo». E dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» [Cuento : Ingenia] Enxenplo del mançebo que non quería casar fasta que sopiese las maldades de las mugeres «E señor, dixiéronme que un omne que non quería casar fasta que sopiese e aprendiese las maldades de las mugeres e los sus engaños. E anduvo tanto, fasta que llegó a un aldea e dixiéronle que avié buenos sabios del engaño de las mugeres, e costól’  mucho aprender las artes. Díxol’  aquel que era más sabidor: “¿Quieres que te diga? Jamás nunca sabrás nin aprenderás acabadamente los engaños de las mugeres fasta que te asientes tres días sobre la çeniza, e non comas sinon un poco de ordio, pan de ordio e sal, e aprenderás”. E él le dixo que le plazía, e fízolo así. Estonçes posóse sobre la çeniza, e fizo muchos libros de las artes de las mugeres. E después que esto ovo fecho, dixo que se quería tornar para su tierra e posó en casa de un omne bueno. E el . tuelga] quyte B. . tolliéronse] fueronse B. . y´ ] ay B. . tornól’] tornole B. . sinon] espunge B. . costól’] costole B. . Díxol’] dixole B.



E quella: “Non ti restano forse altre due richieste? Allora prega Dio che te le tolga quelle donne, se con loro soffri così tanto”. Il marito fece la sua preghiera e subito sparirono tutte, senza che ne restasse neppure una. Al vedere ciò, riprese a inveire contro sua moglie, ma quella disse : “Non mi maledire, che hai ancora una preghiera; piuttosto, chiedi a Dio che ti faccia essere di nuovo quello che eri prima”. E così l’uomo pregò Dio che lo riportasse a essere com’era all’inizio e difatti tornò a quella prima condizione. Ma insieme si esaurirono tutte le preghiere. Perciò non ti do altro consiglio se non di non uccidere tuo figlio, poiché le malvagità delle donne non hanno né inizio né fine e di questo ti darò un bell’esempio». Allora il re domandò: «Di che si tratta?». [Racconto : Ingenia ] Esempio del giovane che non voleva sposarsi prima d’aver conosciuto tutte le malizie delle donne «Mio signore, mi hanno detto di un uomo che non intendeva sposarsi prima d’aver conosciuto e imparato tutte le astuzie delle donne e i loro inganni. L’uomo viaggiò a lungo, quando un bel giorno arrivò a un villaggio dove gli dissero che si trovavano dei veri conoscitori degli inganni femminili e dovette faticare molto per imparare tutte le loro arti. Il più esperto gli disse: “Vuoi tutta la verità? Non conoscerai mai né imparerai completamente gli inganni delle donne se non starai seduto tre giorni sulla cenere cibandoti soltanto di un po’ d’orzo, pane d’orzo e sale, e nient’altro. Solo così li conoscerai”. L’uomo fu d’accordo e fece proprio così. Si sedette dunque sulla cenere e copiò molti libri sulle arti delle donne. Fatto ciò, disse di voler tornare al suo paese. Lungo il cammino fu ospitato in casa di un onest’uomo. L’ospite gli chiese cosa fossero tut-



huésped le preguntó de todo aquello que levava, e él le dixo dónde era e cómmo se avía asentado sobre la çeniza de mientra trasladara aquellos libros, e cómmo comiera el pan de ordio, e cómmo pasara mucha cueita e mucha lazeria, e trasladó aquellas artes. E después qu’esto le ovo contado, tomólo el huésped por la mano, e levólo a su muger, e  díxol’ : “Un omne bueno he fallado que viene cansado de su camino”. E contól’  toda su fazienda e rogóle que·l  fiziese algo fasta que se fuese esforçando, [ca] estonçes era flaco. E después qu’esto ovo dicho, fuese a su mandado, e la muger fizo bien lo que·l  castigara; estonçes començó ella de preguntalle qué omne era e cómmo andava. E él contógelo todo, e ella quando lo vio, tóvolo por omne de poco seso e de poco rrecabdo porque entendió que nunca podía acabar aquello que començara, e dixo: “Bien creo verdaderamente que nunca muger del mundo te pueda engañar nin es a enparejar  con aquestos libros que as adobado”. E dixo ella en su coraçón: ‘Sea agora quam sabidor quisiere que yo le faré conosçer el su poco seso, en que anda engañado. ¡Yo só aquella que lo sabré fazer!’ Estonçes lo llamó e dixo: “Amigo, yo só muger mançeba e fermosa e en buena sazón, e mi marido es muy viejo e cansado e de muy gran tienpo pasado que non yazió  comigo. Por ende, si tú quisieses e yazieses  comigo, que eres omne cuerdo e entendido, e non lo digas a nadie”. E quando ella ovo dicho, cuidó que le dezía verdat  e levantóse e quiso travar d’ella, e dixo: “Espera un poco, e desnudémonos”. E él desnudóse, e ella dio grandes bozes e garpiós’  e recudieron luego los vezinos, e ella dixo ante que ellos entrasen: “¡Tiéndete en tierra; si non, muerto eres!” . muger, e díxol’] muger un omne bueno e dixol A, che poi emenda. . díxol’] dixole B. . contól’] contole B. . que·l] quele B. . que·l] quele B. . nin es a enparejar] e mas B. . yazió] tuvo que hazer B. . yazieses] holgases B. . verdat] verdad B. . garpiós’] grytos B.



te quelle cose che egli portava con sé ed egli gli raccontò da dove veniva, di come aveva tradotto quei libri stando seduto sulla cenere, cibandosi di solo pane d’orzo, e di come avesse sofferto e patito; ma anche come alla fine fosse riuscito a trascrivere tutte quelle arti delle donne. Quando l’uomo finì di raccontare queste cose, l’ospite lo prese per mano e lo condusse da sua moglie, dicendole: “Ho trovato un buon uomo, stanco del suo lungo cammino”. Poi le raccontò tutta la vicenda dell’uomo e la pregò di fare in modo che si riprendesse un po’, perché appariva assai stanco. Detto questo, andò a sbrigare le sue faccende. Intanto la moglie fece per bene quello che le era stato ordinato, e quindi cominciò a chiedergli chi fosse e perché viaggiasse in quel modo. Egli le raccontò tutto dettagliatamente, così la donna, quando capì bene la faccenda, lo considerò uomo di poco giudizio e molto sprovveduto, in quanto si rese conto che non avrebbe mai portato a termine quel che aveva iniziato, e lo lusingò dicendogli: “Sono davvero certa che nessuna donna al mondo potrà più ingannarti o competere con questi libri che hai preparato”. Poi disse fra sé e sé: “Sarà pure quel sapientone che crede d’essere, ma io gli dimostrerò quanto è insensato e come si sta sbagliando. Se qualcuna potrà farcela, quella sarò io”. Così, lo chiamò e gli disse: “Amico mio, sono una donna giovane, bella e nell’età migliore; mio marito è anziano e ormai debole tanto che è da un pezzo che non giace con me. Vorresti dunque venire nel mio letto, senza dirlo, da quell’uomo sveglio e avveduto che sei, a nessuno?”. Quando la giovane ebbe finito di parlare, egli credette che dicesse sul serio, perciò si alzò e cercò di stringerla, dicendo: “Aspetta un po’, togliamoci i vestiti”. Egli si spogliò, ma lei cominciò a urlare graffiandosi  il volto, tanto che accorsero i vicini, ma prima che questi entrassero la giovane gli ingiunse: “Sdraiati per terra, o sei già morto!”.



E él fízolo así, e ella metiól’  un gran bocado de pan en la boca, e quando los omnes entraron, pescudaron que qué oviera. E ella dixo: “Este omne es nuestro huésped e quísose afogar con un bocado de pan e bolviénsele los ojos”. Estonçes descubriólo e echól’  del agua por que acordase. Él non acordava en todo esto, echándol’  agua fría, e alinpiándole el rrostro con un paño blanco. Estonçes saliéronse los omnes e fuéronse su carrera, e ella dixo: “Amigo, ¿en tus libros ay alguna tal arte commo ésta?” E dixo él: “En buena fe, nunca la vi nin la fallé tal commo ésta”. E dixo ella: “Tú gasteste y´ mucha lazeria e mucho mal día, e nunca esperes ende ál , que esto que tú demandas nunca lo acabarás tú nin omne de quantos son nasçidos”. E él, quando esto vio, tomó todos sus libros, e metiólos en el fuego, e dixo que de más avía despendido sus días. E yo, señor, non te di este enxenplo sinon que non mates tu fijo por palabras de una muger». E el rrey mandó que non matasen su fijo. De cómmo al otavo día fabló el Infante e fue ant’el rrey E quando vino el otavo día en la mañana ante que saliese el sol, llamó el Infante a la muger que lo servía en aquellos días que non fablava, e dixo: «Ve, e llama a fulano qu’es más privado del rrey e dile que venga quanto  pudiere». E la muger, en que vido que fablava el Infante, fue muy corriendo e llamó al privado. E él levantóse e vino muy aína al Infante, e él lloró con él e contól’  por qué non fablara aquellos días, e todo quanto le conteçiera con su madrastra: «E non guaresçí de muerte sinon por Dios e por ti, e por tus conpañeros que me curaron de  ayudar bien e lealmente a . metiól’] metiole B. . echól’] echole B. . echándol’] echandole B. . gasteste... nunca esperes ende ál] gastaste tu tiempo y pasaste mucha fatiga y malos esperes nunca B. . quanto] quanto mas presto B. . contól’] contole B. . que me curaron de] que trabajaron de me B.



Così egli fece, poi la donna gli mise in bocca un grosso pezzo di pane. Appena entrati, i vicini vollero sapere cosa era accaduto. Al che lei disse: “A quest’uomo, che è nostro ospite, è capitato che si è quasi soffocato con un pezzo di pane e ora strabuzza gli occhi”. Allora lo scoprì e gli gettò dell’acqua per farlo rinvenire; ma quello stentava a tornare in sé, per quanto la donna gli spruzzasse dell’acqua fredda e gli pulisse il volto con un panno bianco; perciò, alla fine, i vicini se n’andarono per i fatti loro. Allora la donna gli domandò: “Amico mio, c’è nei tuoi libri una trovata come questa?”. “A dire il vero – rispose l’uomo – non ho mai visto né udito niente di simile!”. E lei: “Tu hai penato tanto e hai passato dei gran brutti giorni dedicandoti a queste cose, ma non aspettarti nient’altro, perché questa tua ricerca non la finirete né tu né alcun altro uomo”. Udito ciò, il giovane prese tutti i suoi libri e li gettò nel fuoco e riconobbe d’aver sprecato il suo tempo. Per parte mia, mio signore, ti ho raccontato questa storia solo perché tu non debba uccidere tuo figlio per le parole di una donna». Allora il re ordinò di non uccidere il figlio. Di come l’ottavo giorno l’Infante parlò al cospetto del re Quando giunse l’ottavo giorno , di buon’ora, prima dello spuntar del sole, l’Infante chiamò la donna che lo aveva servito in tutti quei giorni in cui era rimasto in silenzio e le disse: «Va’ a chiamare quel tale che è il più intimo confidente del re e digli di venire qui il più presto possibile». Non appena si accorse che l’Infante parlava, la donna andò di gran carriera a chiamare il consigliere. Questi balzò in piedi e andò immediatamente dall’Infante, il quale pianse con lui raccontandogli perché durante quei giorni non avesse parlato e tutto quello che con la matrigna gli era accaduto. «Sappi che se sono sfuggito alla morte è solo per grazia divina e merito tuo e dei tuoi compagni che ebbero a cuore di aiutarmi con vera lealtà e giustizia. Dio vi ricompensi per tutto ciò, che per parte mia lo



derecho. ¡Dios vos dé buen gualardón por ello, e yo vos lo daré si bivo e veo lo que cobdiçio!; e quiero que vayas corriendo a mi padre e que le digas mis nuevas ante que llegue la puta falsa de mi madrastra, ca yo sé que madrugará». El privado fue muy rezio corriendo desque lo vido así fablar, e fue al rrey e dixo: «Señor, dame albriçias por el bien e merçed que te ha Dios fecho, que non quiso que matases tu fijo, ca ya fabla; e él me enbió a ti». E non le dixo todo lo qu’el Infante le dixiera, e dixo el rrey: «Ve muy aína e dil’  que se venga para mí  el Infante». E él vino, e omillósele e dixo el rrey: «¿Qué fue que estos días non fablaste, que viste tu muerte a ojo?» E dixo el Infante: «Yo vos lo diré». E contóle todo commo le acaesçiera, e cómmo le defendiera su maestro Çendubete que non fablase siete días: «Mas de la muger te digo de quando me apartó, que me quería castigar, e yo díxele que yo non podía responder fasta que fuesen pasados los siete días. E quando esto oyó, non sopo otro consejo sinon que me fiziésedes matar ante que yo fablase. Enpero, señor, pídovos por merçed, si vos quisiéredes, e lo toviéredes por bien, que mandásedes ayuntar todos los sabios de vuestro rregno e de vuestros pueblos, ca querría dezir mi rrazón entre ellos». E quando el Infante esto dixo, el rrey fue muy alegre, e dixo: «¡Loado sea Dios, por quanto bien me fizo, que me non dexó fazer tan gran yerro que matase mi fijo!» E el rrey mandó llegar su gente e su corte. E después que fueron llegados, llegó Çendubete e entró al rrey, e dixo: «Omíllome, señor». E dixo el rrey: «¿Qué fue de ti, mal Çendubete, estos días? Ca poco fincó que non maté mi fijo por lo que le tú castigaste». E dixo Çendubete: «Tanto te dio Dios de merçed e de entendimiento e de enseñamiento, por que tú deves fazer la cosa quando sopieres la verdat, más que más los rreyes señala. dil’] dile B. . para mí] muy para mi A, espunge B.



farò se vivrò e riuscirò a vedere ciò che desidero . Ma ora voglio che tu corra da mio padre a dargli mie notizie prima che arrivi quella puttana bugiarda della mia matrigna, perché son certo che si alzerà di buon’ora». Il consigliere, udite siffatte notizie, si alzò di scatto, corse dal re ed esclamò: «Sire! Buona ricompensa mi darai quando saprai il bene e il dono che ti ha fatto il Signore impedendoti di uccidere tuo figlio, che ora parla nuovamente e mi manda qui da te». Tuttavia non gli riferì tutto quello che l’Infante gli aveva confidato. Così il re ordinò: «Va’ presto, e di’ all’Infante di presentarsi qui da me». Andò dunque l’Infante e si prostrò innanzi al re, il quale gli fece questa domanda: «Per quale motivo negli ultimi giorni non hai parlato, pur vedendo la morte in faccia?». L’Infante rispose: «Ve lo rivelerò». E gli raccontò tutto quanto gli era accaduto e di come Çendubete, suo maestro, gli avesse proibito di parlare per sette giorni. «Ma ti voglio raccontare anche di tua moglie e di quando mi prese da parte col pretesto di darmi dei consigli; io però le dissi che non potevo risponderle prima che fossero trascorsi sette giorni. All’udire ciò non ebbe altro intento se non quello di farmi uccidere prima che potessi parlare. Ma ora, mio Signore, vi chiedo la grazia, se lo ritenete giusto, di far convenire qui tutti i sapienti del vostro regno e delle vostre genti  perché vorrei esporre di fronte a tutti le mie ragioni». Quando l’Infante ebbe detto tutto ciò, il re si fece allegro e disse: «Dio sia lodato, per il bene che mi ha fatto, perché non mi ha permesso di commettere il grande errore di uccidere mio figlio!». Quindi il re fece radunare i nobili e la corte, e quando tutti furono presenti, giunse anche Çendubete, che si presentò al re e disse: «Mi prostro ai tuoi piedi, mio signore». E il re domandò: «Che ne è stato di te, Çendubete sventurato, in questi giorni? Poco mancò che uccidessi mio figlio per quel che tu gli hai ordinato». Allora Çendubete rispose: «Dio ti ha dotato di tanta prudenza e saggezza proprio perché tu agisca solo quando hai conosciuto la verità. E ciò vale soprattutto per chi, come te, è re,



damente por derecho devés seer seguro[s] de la verdat, e [más que] los otros ; e él non dexó de fazer lo que le yo castigué. E tú, señor, non devieras mandar matar tu fijo por dicho de una muger». E dixo el rrey: «¡Loado sea Dios que non maté mi fijo, que perdiera este siglo e el otro! E vosotros, sabios, si matara mi fijo, ¿cúya sería la culpa? ¿Si sería mía, o de mi fijo, o de mi muger, o del maestro?» Levantáronse quatro sabios, e dixo el uno: «Quando Çendubete vido el estrella del moço en cómmo avía de ser su fazienda, no se deviera esconder». E dixo otro: «Non es así commo tú dizes, que Çendubete non avía y´  culpa, que tenía puesto tal pleito con el rrey que non avía de fallesçer. Deviera ser la culpa del rrey, que mandava matar su fijo por dicho de una muger, e non sabiendo si era verdat  o si era mentira». Dixo el terçero sabio: «Non es así commo vosotros dezides, que el rrey non avía y´  culpa, que non ay en el mundo fuste  más frío que el sándalo, nin cosa más fría que la carofoja, e quando los buelven uno con otro, anse de escalentar tanto que salle dellos fuego. E si él fuese firme, el rrey , en su seso, non se bolverié por seso de una muger, mas pues era muger qu’el rrey amava, non podié estar que non la oyese. Mas la culpa era de la muger, porque con sus palabras lo engañava e fazía dezir que matasen su fijo». E el quarto dixo que la culpa non era de la muger, mas que era del Infante que non quiso guardar lo que·l mandara su maestro, que la muger, quando vido al niño tan fermoso e apuesto, ovo sabor d’él, más que más quando  se apartó con él; e ella quando entendió que fablava el Infante, entendió que sería descubierta a cabo de los siete días de lo qu’el . verdat... otros] verdat. Más que más los rreyes señaladamente por derecho devés seer seguro de la verdat, e los otros A, verdad y no antes y mas los rreyes señalada mente por derecho deueys seer ciertos de la verdad B. . y´ ] ay B. . verdat] verdad B. . y´ ] ay B. . fuste] palo B. . si él fuese firme, el rrey] si el Rey fuese firme B. . más que más quando] e mas quando B.



in quanto, per giustizia, ha l’obbligo d’essere certo della verità e delle persone. Tuo figlio, per parte sua, non è venuto meno ai miei consigli; e quanto a te, mio signore, non avresti dovuto ordinare di uccidere tuo figlio per le parole di una donna». «Sia lode al Signore – esclamò il re – perché non ho ucciso mio figlio, perché avrei perduto questa e l’altra vita! Ma intanto, voi sapienti, ditemi: se avessi giustiziato mio figlio, di chi sarebbe stata la colpa? Mia, forse, di mio figlio, della donna, del maestro?». Quattro sapienti s’alzarono e uno di loro disse: «Quando Çendubete negli astri vide quale sarebbe stata la sorte del ragazzo, non avrebbe dovuto nascondersi». E un altro disse: «Non è come tu dici, perché Çendubete non ne ha colpa, in quanto con il re aveva fatto un accordo al quale non poteva venir meno. La colpa sarebbe stata del re, che avrebbe fatto uccidere suo figlio per le accuse di una donna, e senza sapere se erano vere o false». Poi intervenne il terzo sapiente: «Non è come voi dite, perché il re non ne aveva alcuna colpa; infatti al mondo non c’è legno più freddo del sandalo, né sostanza più fredda del chiodo di garofano , ma quando si strofinano l’uno con l’altro diventano necessariamente così caldi che sprigionano fuoco. Così, se fosse tanto certo del suo giudizio, il re non si confonderebbe con l’opinione di una donna, ma il fatto è che quella era una donna che il re amava e non poteva non ascoltarla. La vera colpa era quindi della donna, perché con le sue parole lo ingannava e lo incitava all’uccisione di suo figlio». Infine il quarto disse che la colpa non era della donna, bensì dell’Infante, che non aveva saputo seguire gli insegnamenti del suo maestro: «Il fatto è che la donna, vedendo il ragazzo così bello e prestante, se ne incapricciò, specialmente quando si appartò con lui. Quando poi s’accorse che l’Infante parlava, capì che, passati i sette giorni, sarebbe stata scoperta dalle pa-



Infante dezía, e ovo miedo que la mataría; por ello, curó de lo fazer matar ante que fablase. E Çendubete dixo: «Non es así commo vos dezides, qu’el mayor saber que en el mundo ay es dezir». E el Infante dixo: «Fablaré, si me vos mandáredes». E el rrey le dixo que dixiese lo que quisiese. El Infante se levantó e dixo: «¡Dios, a ti loado!  Que me feziste ver este día e esta ora, que me dexeste mostrar mi fazienda e mi rrazón. Menester es de entender la mi rrazón, que quiero dezir el mi saber, e yo quiérovos dezir el enxenplo desto». [Cuento : Lac venenatum] Enxenplo del omne e de los que conbidó, e de la mançeba que enbió por la leche, e de la culebra que cayó la ponçoña E los maestros le dixieron que dixiese, e él dixo: «Dizen que un omne que adobó  su yantar e conbidó sus huéspedes e sus amigos e enbió su moça al mercado por leche que comiesen, e ella conpróla e levóla sobre la cabeça; e pasó un milano por sobre ella, e levava entre sus manos una culebra e apretóla tanto de rrezio con las manos, que salió el venino della e cayó en la leche, e comiéronla, e murieron todos con ella. E agora me dezid: ¿cúya fue la culpa porque murieron todos aquellos omnes?» E dixo uno de los quatro sabios: «La culpa fue en aquel que los conbidó que non cató la leche que les dava a comer». E el otro maestro dixo: «Non es así commo vós dezides , qu’el que los huéspedes conbida non puede todo catar nin gostar de quanto les dava a comer, mas la culpa fue en el milano que apretó tanto la culebra con las manos, que ovo de caer aquella ponçoña». El otro respondió: «Non es así commo vosotros dezides , ca el milano non avía y´  culpa, porque comía lo que . Dios, a ti loado] o dios tu seas señor loado B. . adobó] aparejo B. . dezides] dezis B. . dezides] dezis B. . y´ ] ay B.



role dell’Infante, quindi ebbe paura che l’avrebbero giustiziata; proprio per questo tentò di far uccidere il ragazzo prima che potesse parlare». Allora Çendubete disse: «Non può essere così come voi dite, perché al mondo non vi è scienza più preziosa della parola» . E l’Infante intervenne: «Parlerò se voi me lo chiederete». Al che il re gli concesse di parlare liberamente. L’Infante s’alzò e disse: «Lode a Te o Dio, che mi hai mostrato questo giorno e questa ora e mi hai permesso di presentare la mia storia e la mia verità. È davvero necessario che voi intendiate il mio discorso, perché voglio dimostrare ciò che ho appreso, e a tal proposito vi racconterò un esempio». [Racconto : Lac venenatum ] Esempio dell’uomo, dei suoi convitati, della ragazza che mandò a prendere il latte e del serpente che lasciò cadere il veleno I maestri dunque gli chiesero di raccontare ed egli cominciò: «Si narra d’un uomo che, preparato un banchetto, invitò i suoi ospiti e gli amici. Quindi mandò la sua serva al mercato a prendere il latte per quel pasto; costei, comprato il latte, lo trasportò sulla testa. Intanto, sopra di lei si trovò a passare un astore che fra i suoi artigli teneva un serpente, e lo stringeva così forte che da questo uscì del veleno che finì nel latte; tutti ne bevvero e morirono. A questo punto, ditemi, di chi fu la colpa della morte di tutte quelle persone?». Il primo dei quattro sapienti allora disse: «La colpa è di colui che ha fatto l’invito e non ha controllato il latte che dava in pasto». Il secondo maestro disse: «Non è come sostenete voi, perché chi invita degli ospiti non può controllare tutto né assaggiare quel che dà loro da mangiare; la colpa fu, piuttosto, dell’astore, perché strinse così forte il serpente fra i suoi artigli da far cadere quel veleno». Il terzo controbatté: «Non è come voi dite, perché l’astore non aveva alcuna colpa in ciò, dato che mangiava quel che era



solía comer, demás non faziendo a su nesçesidat . Mas la culebra ha la culpa, que echó de sí la ponçoña». E el quarto dixo: «Non es así commo vosotros dezides , que la culebra non ha culpa, mas avía la culpa la moça, que no cubrió la leche quando la traxo del mercado». Dixo Çendubete: «Non es así commo vosotros dezides , que la moça non avía y´  culpa, ca non le mandaron cobrir la leche; nin el milano non avía y´ culpa, ca comía lo que avía de comer; nin la culebra non avía y´ culpa, que iva en poder ageno; nin el huésped non ovo y´  culpa, qu’el omne non puede gostar tantos comeres  quantos manda guisar». Estonçes dixo el rrey a su fijo: «Todos estos dizen nada, mas dime tú cúya es la culpa». El Infante dixo: «Ninguno destos non ovo culpa, mas açertósele[s] la ora en que avién a morir todos». E quando el rrey oyó esto, dixo: «¡Loado sea Dios, que non me dexó matar mi fijo!» Estonçes dixo a Çendubete el rrey: «Tú as fecho mucho bien, e nos as fecho  para fazerte mucha merçed, pero tú sabes si ha el moço más de aprender. Emuéstragelo e avrás buen gualardón». Estonçes dixo Çendubete: «Señor, yo non sé cosa en el mundo que yo non le mostré, e bien creo que non la ay nin  en el mundo, e non ay más sabio qu’él». Estonçes dixo el rrey a los sabios que estavan enderredor: «¿Es verdat  lo que dize  Çendubete?» Estonçes dixieron que non devía omne dezir mal de lo que bien  paresçe. E dixo el Infante: «El que bien faze buen gualardón meresçe». El Infante dixo: «Yo te diré quién sabe más que yo». Dixo el rrey: «¿Quién?» . nesçesidat] nesçesidad B. . dezides] dezis B. . dezides] dezis B. . y´ ] ay B. . y´ ] ay B. . comeres] manjares B. . fecho] obligado B. . nin] espunge B. . verdat] verdad B. . dize] dicen ms. . bien] mal bien A, che poi emenda.



solito mangiare, limitandosi a quello che gli era necessario. Il vero responsabile è il serpente, che ha schizzato il veleno». Il quarto sapiente disse: «Non stanno così le cose, e il serpente non ha nessuna colpa, che è piuttosto della ragazza, la quale non coprì il latte quando lo portò dal mercato». Infine parlò Çendubete: «Non è così come voi dite, e la ragazza non aveva alcuna responsabilità, perché non le dissero di coprire il latte; né l’astore, che mangiava quel che doveva mangiare; né il serpente aveva alcuna colpa, lui che era in balia di altri; né ebbe alcuna colpa l’ospite, visto che non si possono assaggiare tutti i cibi che si fanno cucinare». Allora il re disse a suo figlio: «Nessuno di questi sa rispondere, e quindi dimmi tu chi è il vero responsabile». Rispose l’Infante: «Nessuno di loro era responsabile dell’accaduto; il fatto è che per tutti arrivò l’ora in cui dovevano morire». Udito ciò, il re disse: «Sia lodato il Signore, che non mi ha permesso di uccidere mio figlio!». Poi, rivolto a Çendubete, disse: «Ti sei comportato molto bene e hai fatto sì che ti dobbiamo molta gratitudine, ma se tu ritieni che il ragazzo debba imparare ancora qualcosa, insegnaglielo e avrai un’ottima ricompensa». Allora Çendubete diede questa risposta: «Mio signore, non conosco niente al mondo che io non gli abbia già insegnato; e son certo che non ci sia cosa che egli non conosca, perché nessuno è più sapiente di lui». Perciò il re domandò ai sapienti che gli stavano attorno: «Corrisponde al vero quel che dice Çendubete?». E quelli dissero che non si doveva dir male di ciò che appare buono. L’Infante dunque concluse: «Chi opera bene, merita una giusta ricompensa». E ancora: «Ti dirò io chi è più sapiente di me». Il re chiese chi fosse costui.



[Cuento : Puer  annorum] Enxenplo de los dos niños sabios e de su madre e del mançebo «Señor, dizen que dos moços, el uno de quatro años e el otro de çinco años, çiegos e contrechos, e todos dizen que eran más sabios que yo». E dixo su padre : «¿Cómmo fueron estos más sabios que tú?» «Oí dezir que un omne que nunca oié dezir de muger fermosa que non se perdía por ella, e oyó dezir de una muger fermosa , e enbió su omne a dezir que la quería muy gran bien ’aquella  muger; e avía un fijo de quatro años. E después qu’el mandadero  se tornó con la rrespuesta – que quería fazer lo qu’él toviese por bien –, e fuese para ella el señor. E dixo ella: “Espera un poco, e faré a mi fijo que coma, e lu[e]go me verné para ti”. “Mas – dixo el omne –, faz lo que yo quisiere, e después que yo fuere ido, dalle as a comer”. E dixo la muger: “¡Si tú sopieses quán sabio es, non diriés eso!” E levantóse ella e puso una caldera sobre el fuego e metió arroz, e cóxolo , e tomó un poco en la cuchara, e púsogelo delante; e lloró e dixo: “Dame más, que esto poco es”. E ella dixo: “¿Más quieres?” E díxol’ : “Más”. E dixo que·l  echase azeite del alcuça. Él lloró más e por todo esto non callava. E dixo el moço: “¡Gu[a]y de ti!  Nunca vi más loco que tú nin de poco seso”. Dixo el omne: “¿En qué te semejo loco e de poco seso?” E dixo el moço: “Yo non lloro sinon por mi pro; ¿qué te duelen mis lágremas  de mis ojos? E[s] sana mi cabeça, e . padre] paadre ms. . fermosa] fermosa que no se perdia por ella A, che poi emenda. . ’aquella] e aquella B. . mandadero] mensajero B. . cóxolo] cosiolo B. . díxol’] dixole B. . que·l] quele B. . dixo el moço: “¡Gu[a]y de ti!”] dixo el señor a el moço ay de ti que tanto lloras e dixo el moço B. . lágremas] lagrimas B.



[Racconto : Puer  annorum ] Esempio dei due bambini saggi, della loro madre e del giovanotto «Mio signore, si racconta di due fanciulli, uno di quattro e l’altro di cinque anni, entrambi ciechi e deformi; e da tutti erano ritenuti più sapienti di me». «Come potevano essere più sapienti di te, costoro?», domandò il padre. «Ho sentito la storia di un giovane che non poteva sentir parlare di una bella donna senza innamorarsi pazzamente di lei. Costui, un giorno che ebbe notizia di una donna bellissima, la quale aveva un figlio di quattro anni, mandò da lei un suo servitore per dirle che l’amava molto. Quando il messo ritornò con la risposta della donna, che accettava di fare ciò che a lui pareva meglio, il giovane le fece visita. Disse quindi la donna: “Abbi un po’ di pazienza. Faccio da mangiare a mio figlio e sarò subito da te”. “Fa’ prima quel che io desidero – rispose l’uomo – e quando me ne sarò andato gli darai da mangiare”. Allora la donna osservò: “Se sapessi com’è saggio non diresti così!”. Poi si alzò, mise un paiolo sul fuoco e gettò a cuocere il riso; poi ne prese un poco con un cucchiaio e lo porse al bimbo. Ma questi si mise a piangere, dicendo: “Dammene ancora, che è poco”. E la madre: “Ne vuoi dell’altro?”. E il figlioletto: “Di più”. Chiese poi di versargli dell’olio dall’ampolla. Ma intanto piangeva sempre più e non smetteva di lamentarsi. Poi aggiunse: “Povero te! Non ho visto nessuno più pazzo né più insensato di te”. E l’uomo gli chiese: “Perché ti sembro pazzo e senza senno?”. Rispose il bambino: “Io non piango se non per il mio tornaconto. Ma a te che fastidio ti danno le lacrime dei miei occhi?



más mandóme mi padre por el mi llorar, arroz que coma quanto quisiere. Mas, ¡quál es loco e de poco seso e de mal entendimiento el que sale de su tierra e dexa sus fijos e su aver e sus parientes por fornicar por las tierras, buscando de lo que faze daño, e enflaqueçiendo su cuerpo, e cayendo en ira de Dios!” E quando esto ovo dicho el moço, entendiendo que era más cuerdo qu’el viejo, e él llegóse a él, e abraçól’  e falagól’ , e dixo: “Por buena fe, verdat dizes. Non cuidé que tan sesudo eras, e tan sabidor eras, e só mucho maravillado de quanto as dicho”. E arrepintióse e fizo penitençia». «E, señor – dixo el Infante –, esta es la estoria del niño de los quatro años». [Cuento : Puer  annorum] Enxenplo del niño de los çinco años, e de los conpañeros que·l dieron el aver a la vieja «E, señor, dezirte he del niño de los çinco años» . Dixo el rrey: «Pues, di». Dixo: «Oí dezir que eran tres conpañeros en una mercaduría, e salieron con gran aver, e todos tres anduvieron en el camino; e acaesçió que posaron con una vieja e diéronle sus averes a guardar, e dixieron: “Non lo dedes a ninguno en su cabo fasta que seamos todos ayuntados en uno”. E díxoles ella: “Plázeme”. E desí entraron ellos en una huerta de la vieja por bañarse en un alverca que avía, e dixieron los dos al uno: “Ve a la vieja e dile que te dé un peine con que nos peinemos”. E él fízolo así, e fuese para la vieja e dixo: “Mandáronme mis conpañeros que me diésedes el aver que lo queremos contar”. . abraçól’] abrazole B. . falagól’] falagole B. . años] a años ms.



La mia mente è sanissima; e non è tutto: grazie alle mie lacrime mio padre mi dà tutto il riso che voglio. Il vero pazzo, il vero insensato e incapace è chi lascia la propria terra, i suoi figli, gli averi e i parenti per andare a fornicare in giro per il mondo, alla ricerca proprio di quel che gli fa male, indebolendosi e incorrendo nell’ira di Dio”. Così, quando il bimbo ebbe detto ciò, l’uomo, accorgendosi che era più saggio di lui, gli si avvicinò, lo abbracciò e lo lodò con queste parole: “Dici proprio il vero. Non m’ero reso conto che fossi così dotto e saggio e sono pieno di stupore per quanto hai detto”. Così l’uomo si pentì e fece ammenda». «Mio signore – disse l’Infante – questa è la storia del bambino di quattro anni». [Racconto : Puer  annorum ] Esempio del bambino di cinque anni e dei compagni che affidarono gli averi alla vecchia «Mio signore, ora ti racconterò la storia del bambino di cinque anni». E il re disse: «Bene, racconta». Incominciò: «Ho sentito raccontare di tre individui, compari in un’impresa, da cui ricavarono un bel guadagno. Tutti e tre si misero quindi in cammino; e a un certo punto alloggiarono in casa di una vecchia, alla quale diedero in custodia i loro averi con questo avvertimento: “Non li dovrete dare a nessuno di noi separatamente, ma solo quando saremo tutti e tre presenti”. “D’accordo”, disse la vecchia. Dopo di che essi entrarono nell’orto della vecchia per bagnarsi in una cisterna che lì si trovava; e due di loro dissero all’altro: “Va’ dalla vecchia e chiedile un pettine per pettinarci”. Il terzo andò, ma giunto dalla vecchia disse: “I miei compagni mi mandano a chiedervi il denaro perché lo dobbiamo contare”.



Dixo: “Non te lo daré fasta que todos vos ayuntedes en uno, así commo lo pusiestes comigo”. Dixo él: “Llégate fasta la puerta”. E dixo: “Catad la vieja, que dize si me lo mandades vós”. E dixieron ellos: “Buscad e dátgelo”. E ella fue e diole el aver, e él tomólo e fue su carrera, e desta guisa engañó a sus conpañeros. E quando ellos vieron que tardava, fueron a la vieja e dixieron: “¿Por qué fazes de tardar a nuestro conpañero?” E dixo ella: “Dado le he el aver que me mandastes”. Dixieron ellos: “¡Guay de ti! ¡Que nós non te mandamos dar el aver, sinon un peine!” E ella dixo: “Levado ha el aver que me diestes”. E pusieron la señal  delante el alcalde, e fueron ant’él, e ovieron sus rrazones, e judgó el alcalde que pagase el aver la vieja, pues que así lo conosçiera. E la vieja llorando encontró con el niño de los çinco años. E dixo el niño: “¿Por qué lloras?” E dixo ella: “Lloro por mi mala ventura, e por mi gran mal que me vino, e, por Dios, déxame estar”. E fue el niño en pos della fasta que·l  dixo por qué llorava. E dixo: “Yo te daré consejo a esta cueita que as, si me dieres un dinero con que conpre dátiles”. E dixo el niño: “Tórnate al alcalde, e di que el aver tú lo tienes, e di: ‘Alcalde, mandat que trayan su conpañero, e si non, non les daré nada fasta que se ayunte[n] todos tres en uno, commo pusieron comigo’”. E ella tornós’  para el alcalde, e díxole lo que le consejara el niño, e entendió el alcalde que otrie gelo avía aconsejado, e dixo el alcalde: “Rruégote, por Dios, vieja, que me digas quién fue aquel que te consejó”. E dixo ella: “Un niño que me fallé en la carrera”. E enbió el alcalde a buscar al niño e duxiéronle  ante el alcalde : “¿Tú consejeste a esta vieja?” . pusieron la señal] pusieronlo B. . que·l] que le B. . tornós’] tornose B. . duxiéronle] truxeronle B. . alcalde] alcalde e dixole B.



“Non te lo darò – ribatté la vecchia – fino a che non vi presenterete tutti assieme, come s’è stabilito”. Allora l’uomo disse: “Vieni sull’uscio”. E, rivolto agli amici: “Ehi! Sentite un po’ la vecchia, che vuol sapere se me lo chiedete voi!”. “Prendetelo e dateglielo”, risposero gli altri due. Fu così che la donna andò e consegnò il denaro all’uomo, il quale lo prese e se la diede a gambe levate, imbrogliando i suoi compagni. Quando questi s’accorsero che l’altro tardava, andarono dalla vecchia e le domandarono: “Perché diamine fai tardare tanto il nostro compagno?”. Rispose la vecchia: “Gli ho dato il denaro che avete chiesto”. “Guai a te!”, gridarono quelli. “Non ti abbiamo chiesto di dargli i soldi, ma un semplice pettine!”. La donna conclude: “Allora s’è portato via il denaro che mi avete consegnato!”. I due uomini la denunciarono innanzi al giudice; vi fu un dibattimento e il giudice decretò che la vecchia rifondesse il denaro poiché sapeva qual era l’accordo. Allontanatasi in lacrime, la vecchia incontrò un bambino di cinque anni, il quale le chiese: “Perché piangi?”. Rispose: “Piango per la mia sventura e per il male che ne ho ricevuto. In nome di Dio, lasciami stare”. Ma il bimbo non la lasciò fintanto che non gli rivelò perché piangeva. Allora le disse: “Ti darò io un consiglio per questo guaio, se mi darai qualche po’ di denaro per comprare dei datteri”. Poi aggiunse: “Torna dal giudice e digli che hai tu il denaro, ma non dimenticare di dire anche ‘Signor giudice, ordinate ai due di chiamare anche il loro compagno, altrimenti non darò loro un bel niente se non si trovano tutti e tre presenti, secondo il nostro patto’”. E infatti la donna tornò dal giudice, al quale disse proprio le parole suggeritele dal bimbo. Il giudice capì immediatamente che qualcuno l’aveva consigliata, perciò le domandò: “Vecchia, nel nome del Signore, ti prego di dirmi chi è stato a darti questo consiglio”. “È stato un bimbo che ho incontrato per strada”, rispose la vecchia. Il giudice allora mandò a cercare il fanciullo e quando glielo presentarono: “Sei stato tu – gli domandò – a dare quel consiglio alla vecchia?”.



E dixo el niño: “Yo gelo mostré”. E el alcalde fue y´  muy pagado del niño, e tomólo para sí e guardóse  mucho por su consejo». E fue pagado  de su estoria del niño de los çinco años. [Cuento : Senex caecus] Enxenplo del mercador del sándalo, e del otro mercador E dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» «Señor, dizen de la estoria del viejo. Oí dezir una vega da que era un mercador muy rico que mercava sándalo, e preguntó en aquella tierra dó era el sándalo más caro, e fuese para allá, e cargó sus bestias de sándalo para aquella tierra, e pasó por çerca de una çibdat muy buena, e dixo entre su coraçón: “non entraré en esta çibdat fasta que amanesca”. E él seyendo en aquel lugar pasó una mançeba  que traié su ganado de paçer, e quando ella vio la recua, preguntó que qué traié, o dónde era. E fue la mançeba  para su señor e dixo cómmo estavan mercadores a la puerta de la villa que traié[n] sándalo mucho. E fue aquel omne e lo que tenía echólo en el fuego, e el mercador sintiólo que era fumo de sándalo, e ovo gran miedo, e dixo a sus omnes: “Catad vuestras cargas que non lleguen fuego a ella[s], ca yo huelo fumo de sándalo”. E ellos cataron las cargas, e non fallaron nada, e levantóse el mercador, e fue a los pastores a ver si eran levantados, e aquel que quemava el sándalo vino al mercador, e dixo: “¿Quién sodes , o cómo andades , e qué mercaduría traés?” E dixo él: “Somos mercadores que traemos sándalo”. E dixo el omne: “¡Ay, buen omne! Esta tierra non quemamos ál sinon sándalo”. Dixo el mercador: “¿Cómmo puede ser, que yo pregunté e dixiéronme que non avía tierra más cara que ésta, nin que tanto valiese el sándalo?” . y´] del B. . guardóse] guardole B. . pagado] pagado el Rey B. . vegada] vez B. . mançeba] moça B. . mançeba] moça B. . sodes] soys B. . andades] andays B.



“Gliel’ho suggerito io”, rispose il bambino. E il giudice rimase colpito da quel fanciullo, lo tenne presso di sé e fece sempre tesoro dei suoi consigli». Il re si compiacque molto di quella storia del bambino di cinque anni. [Racconto : Senex caecus ] Esempio del venditore di legno di sandalo e dell’altro mercante Il re domandò: «E questa come fu?». «Questa, mio signore, è la storia di un vecchio. Ho sentito dire, una volta, di un mercante molto ricco, che commerciava in legno di sandalo. Un giorno chiese in quale paese quel legno si vendesse più caro; così, caricate le sue bestie, vi si diresse. Una sera che si trovò a passare nei pressi di una bella città, disse tra sé e sé: “non entrerò in questa città prima che faccia giorno”. E mentre si trovava lì, passò una ragazza che riportava il gregge dal pascolo; vedendo la carovana, la giovane domandò cos’era quel che si trasportava e da dove venissero. In seguito, si diresse dal suo padrone per informarlo di come alla porta della città ci fossero dei mercanti che trasportavano una gran quantità di legno di sandalo. Fu così che quello stesso andò a prendere del legno di sandalo che possedeva e lo gettò nel fuoco. Quando il mercante sentì l’odore tipico di quel legno bruciato, si allarmò molto, tanto che disse ai suoi uomini: “Badate al vostro carico, e che non vi si appicchi il fuoco; perché qui si sente odore di fumo di sandalo”. Quelli passarono in rassegna i loro carichi, ma non trovarono alcunché. Allora s’alzò il mercante e andò dai pastori per vedere se si erano svegliati. In quel mentre, l’uomo che bruciava il legno si presentò al mercante e domandò: “Chi siete? Dove siete diretti? Che mercanzia portate?”. “Siamo mercanti e vendiamo legno di sandalo”, rispose l’altro. “Ahimè, buon uomo – esclamò quello del luogo –, in questa città non si brucia altro che legno di sandalo!”. “Oh, come può essere – chiese il mercante –, se io avevo proprio chiesto e mi hanno detto che non c’era altro posto dove il legno di sandalo valesse di più e fosse più caro?”.



Dixo el omne: “Quien te lo dixo engañarte quiso”. E començó el mercador de quexarse e de maldezirse; fizo gran duelo. E dixo el omne: “Por buena fe, yo he gran duelo de ti, mas – dixo – ya que así es, conprártelo he, e darte he lo que quisieres, e liévate  e otórgamelo”. E otorgógelo el mercador, e tomó el omne el sándalo, e levólo a su casa. E quando amanesçió, entró el mercador a la villa, e posó en casa de una muger vieja e preguntóle cómmo valía el sándalo en esta çibdat. Dixo ella: “Vale a peso de oro”. E arrepintióse el mercador mucho quando lo oyó, e dixo la vieja: “Ya omne bueno, los de esta villa son engañadores, e malos baratadores e nunca viene omne estraño que ellos non lo escarnescan. E guardatvos dellos”. E fuese el mercador faza  el mercado, e falló unos que jugavan los dados, e paróse allí, e mirólos, e dixo el uno: “¿Sabes jugar este juego?” Dixo él: “Sí, sé”. Dixo: “Pues, pósate. Mas – dixo –, cata que sea tal condiçión qu’el que ganare, qu’el otro sea tenudo de fazer lo qu’el otro quisiere e mandare”. Dixo él: “Sí, otorgo”. Desí asentóse él, e perdió el mercador. E dixo aquel que ganó: “Tú as de fazer lo que yo te mandare”. Díxol’  él: “Otorgo qu’es verdat”. Díxol’: “Pues mándote que bevas toda el agua de la mar, e non dexes cosa ninguna nin destello” . E dixo el mercador: “Plázeme”. Dixo él: “Dame fiadores que lo fagas”. E fuese el mercador por la calle, e fallós’  con un omne que non avía sinon un ojo, e travó del mercador, e dixo: “Tú me furteste mi ojo; anda acá comigo ante el alcalde”. . liévate] levantate B. . faza] fazya B. . Díxol’] dixole B. . destello] gota B. . fallós’] fallose B.



“Chi te lo ha detto – replicò l’uomo – ti ha voluto ingannare”. Allora cominciò a lagnarsi il povero mercante, e a maledirsi. E poiché si lagnava a lungo, gli disse l’altro: “Mi spiace davvero molto, ma – aggiunse – giacché è così, te lo comprerò e te lo pagherò quel che mi chiedi. Quindi va’ e portamelo”. Il mercante accettò; così l’uomo prese il legno di sandalo e se lo portò a casa sua. Ora, quando fu giorno il venditore entrò in città e si fermò in casa di una vecchia, alla quale domandò poi quanto valeva il legno di sandalo in quella città. “Si vende a peso d’oro”, rispose la vecchia. Il mercante, all’udire questo, si pentì subito amaramente. “Buon uomo –ammonì la vecchia –, gli abitanti di questa città sono gente infida e imbrogliona e non v’è straniero che non abbiano deriso. Guardatevi da loro”. Il mercante se ne andò al mercato e lì s’imbatté in un gruppo di uomini che giocavano ai dadi ; si fermò lì accanto a osservarli, quando uno di loro gli domandò: “Sai giocare a questo gioco?”. “Sì, sono capace”, rispose il mercante. “Allora siediti qui accanto”, disse l’altro. Poi aggiunse: “Ma bada che la regola fra noi è che chi perde è tenuto a fare quello che il vincitore vuole e ordina”. E il mercante: “Mi sta bene”. Così questi si sedette e perse. Pertanto il vincitore disse: “Ora dovrai fare ciò che ti ordinerò”. Rispose il mercante: “Riconosco che è proprio così”. “Allora – esclamò l’uomo – ti ordino di bere tutta quanta l’acqua del mare, senza lasciarne la benché minima goccia né traccia alcuna”. “Benissimo”, ribatté il mercante. Ma l’altro aggiunse: “Voglio qualcuno che mi garantisca che lo farai davvero”. Il mercante s’incamminò per la strada e a un certo punto incontrò un uomo che aveva un occhio solo, il quale l’afferrò gridandogli: “Sei stato tu a rubarmi l’occhio; ora vieni subito con me davanti al giudice”.



E dixo su huéspeda, la vieja: “Yo só su fiador de la faz qu’él traiga cras ante vos” . E levólo consigo a su posada, e díxole la vieja: “¿Non te dixe e te castigué que los omnes desta villa que eran omnes malos, e de mala repuelta?  Mas, pues, non me quesiste creer en lo primero que te yo defendí, non seas tú agora torpe de lo que te agora diré”. E dixo el mercador: “A buena fe, nunca te saldré de mandado de lo que tú mandares, e me aconsejares”. Dixo la vieja: “Sepas que ellos an por maestro un viejo çiego, e es muy sabidor, e ayúntanse con él todos cada noche, e dize cada uno quanto ha fecho de día, mas si tú pudieses entrar con ellos a bueltas e asentarte con ellos, e dirán lo que fizieron a ti cada uno dellos, e oirás lo que les dize el viejo por lo que a ti fizieron, ca non puede seer que ellos non lo digan todo al viejo”. E desí fue el omne para allá, e entró a bueltas dellos, e posóse e oyó quanto dezían al viejo. E dixo el primero que avía conprado el sándalo al mercador de qué guisa lo conprara, e que·l daría quanto él quisiese. E dixo el viejo: “Mal feziste, a guisa de omne torpe; ¿qué te semeja si él te demanda pulgas, las medias fenbras e los medios machos, e las unas çiegas e las otras coxas, e las otras verdes e las otras cárdenas, e las otras bermejas e blancas, e que non aya más de una sana? ¿Cuidas si lo podrás esto conplir?” Dixo el omne: “Non se le menbrará a él deso que non demandará sinon dineros”. E levantóse aquel que jugara a los dados con el mercador, e dixo: “Yo jugué con ese mercador, e dixe así: que si yo ganase a los dados, que fiziese lo que·l yo mandase fazer, e yo mandéle que beviese toda el agua de la mar”. E dixo el viejo: “Tan mal as fecho commo el otro; ¿qué te semeja si el otro dize: ‘Yo te fiz’ pleito de bever toda el agua de la mar, mas vieda tú que non entre en ella  rrío nin fuen. fiador de la faz... ante vos] fiador del e yo os le trayre mañana ante vos B. . repuelta] manera B. . en ella] all en ella A, che poi emenda.



Ma la vecchia ostessa disse all’uomo da un solo occhio: “Sarò io sua garante, e domani lo porterò per voi innanzi al giudice”. Poi condusse il mercante alla sua locanda e lo rimproverò: “Non ti avevo avvertito che gli uomini di questa città erano gente disonesta e di pessimo genio? E se non hai voluto credere ai miei primi avvertimenti, almeno cerca di non essere indolente nell’ascoltare quanto ora di dirò”. “Parola mia – rispose il mercante – che non trascurerò mai più i tuoi avvertimenti e i tuoi consigli”. Cominciò la vecchia: “Devi sapere che quelli là hanno per maestro un vecchio cieco, che sa molte cose. Ogni notte si radunano con lui tutti quanti, e ciascuno riferisce ciò che ha combinato nella giornata . Ora, se tu potessi mescolarti tra di loro e sederti lì, in incognito, mentre ognuno gli dirà quello che ti hanno fatto, potrai sentire come reagirà il vecchio a quello che è accaduto; perché non può essere che non raccontino tutto al vecchio”. Il mercante andò e si confuse nel gruppo, si sistemò e rimase ad ascoltare quello che dicevano al vecchio. Il primo, che aveva comprato il legno, raccontò in che modo l’aveva comprato da un mercante, promettendo di dargli la cifra che questi desiderasse. “Hai fatto malissimo – intervenne il vecchio cieco –, comportandoti da vero stolto. Cosa pensi di fare se ti chiede d’essere pagato con delle pulci, metà femmine e metà maschi, in parte cieche e in parte zoppe, alcune verdi e alcune violacee, altre bianche altre rosse e che una sola sia sana? Credi di potercela fare?”. Disse allora l’uomo: “Non gli verrà certo in mente una simile richiesta e non chiederà che denaro”. Poi si alzò quello che aveva giocato a dadi con il mercante e disse: “Io ho giocato con quel mercante e gli ho detto che, se avessi vinto, avrebbe dovuto fare quel che gli avrei comandato e così gli ho ordinato di bere tutta quanta l’acqua del mare”. “Sei stato maldestro come l’altro”, commentò il vecchio. “Se quello dice: ‘Io ti ho promesso di bere tutta l’acqua del mare, come d’accordo, ma non prima che tu abbia impedito che vi



te que no caiga en la mar’, estonçes la beveré? ¡Cata, si lo podrás tú fazer todo esto!” Levantóse el del ojo, e dixo: “Yo me encontré con ese mesmo mercador, e vi que avía los ojos tales commo yo, e díxele: ‘Tú, que me furtaste mi ojo, non te partas de mí fasta que me des mi ojo o lo que vale’”. E dixo el viejo: “Non fuste maestro nin sopiste qué te feziste; ¿qué te semeja si te dixiera: ‘Saca el tuyo que te fincó e sacaré yo el mío, e veremos si se semejan, e pesémoslos e, si fueren eguales, es tuyo, e si non, non’? E si tú esto fizieres, serás çiego, e el otro fincará con un ojo, e tú non, con ninguno, e farías mayor pérdida que non él”. E quando el mercador oyó esto, plógole mucho, e aprendiólo todo, e fuese para la posada, e díxole todo lo que le conteçiera, e tóvose por bien aconsejado d’ella, e folgó esa noche en su casa. E quando amanesçió, vio aquel que·l conprara el sándalo, e dixo: “Dame mi sándalo, o dame lo que posiste comigo”. E dixo: “Escoge lo que quisieres”. E dixo el mercador: “Dame una fanega de pulgas llena, la meitad fenbras e la meitad machos, e la meitad bermejas e la meitad verdes, e la meitad cárdenas, e la meitad amarillas, e la meitad blancas”. E dixo el omne: “Darte he dineros”. Dixo el mercador: “Non quiero sinon las pulgas”. E enplazó el mercador al omne, e fueron ant’el alcalde, e mandó el alcalde que le diese las pulgas, e dixo el omne que tomase su sándalo. E así cobró el mercador su sándalo por consejo del viejo. E vino el otro que avía jugado a los dados, e dixo: “Cunple el pleito que posiste comigo, que bevas toda el agua de la mar”. E dixo él: “Plázeme, con condiçión que tú que viedes todas las fuentes e rríos que entran en la mar”. E dixo: “Vayamos ant’el al calde”. E dixo el alcalde: “¿Es así esto?” 

entri qualsiasi fiume o qualsiasi altra fonte’, pensi che ti sarà possibile fare tutto questo?”. Si alzò poi quello dell’occhio e disse: “Mi sono imbattuto con questo stesso mercante e, vedendo che i suoi occhi erano simili al mio, gli ho detto: ‘Tu, che mia hai rubato l’occhio, non te ne andrai finché o non me l’avrai reso o non me lo pagherai quel che vale’”. Allora il vecchio cieco: “Di certo non sei stato un maestro né ti rendi conto di quel che hai fatto. Che te ne pare se ti dicesse: ‘Togliti quell’occhio che ti rimane e io mi leverò il mio, così vedremo se s’assomigliano, poi li pesiamo e se sono davvero uguali è tuo, altrimenti, pace’?. Dovendolo fare, saresti cieco; all’altro resterebbe un occhio, a te invece proprio niente e tu perderesti assai più di lui”. Il mercante fu molto contento di ascoltare quelle parole, e imparò tutto per bene. Poi se ne andò alla locanda e raccontò alla vecchia tutto quanto gli era accaduto, sentendo di essere stato ben consigliato da lei; così, quella notte riposò tranquillo nella sua locanda. Quando fece giorno il mercante vide l’uomo che gli aveva comprato il legno di sandalo e gli disse: “Ridammi il mio legno o quello che s’è concordato”. Rispose l’altro: “Scegli ciò che più ti piace”. “Dammi uno staio di pulci – ordinò il mercante –, metà femmine e metà maschi, in parte verdi e in parte rosse, alcune gialle, altre viola e altre bianche”. L’uomo rispose: “Ti darò del denaro”. Ma il mercante ripeteva: “Voglio solo pulci”. Poi egli citò quell’uomo in giudizio e si presentarono innanzi al giudice, e questi ordinò che l’uomo pagasse il mercante con le pulci; di conseguenza, l’uomo fu costretto a dirgli di riprendersi il suo sandalo. Fu così che il mercante, grazie al consiglio del vecchio, riebbe il suo carico. Venne poi l’altro che aveva giocato a dadi, e disse: “Devi mantenere la promessa fattami, di bere tutta l’acqua del mare”. “Sta bene – rispose il mercante –, ma a patto che tu impedisca a tutte le fonti e ai fiumi di entrarvi”. Allora l’uomo obiettò: “Beh, prima andiamo dal giudice”. “Stanno proprio così le cose?”, chiese il giudice.

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E dixieron ellos que sí. E dixo: “Pues vieda tú que non entre más agua, e dize que la beverá”. Dixo él: “Non puede ser”. E el alcalde mandó dar por quito al mercador. E luego vino el del ojo, e dixo: “Dame mi ojo”. E dixo él: “Plázeme. Saca tú ese tuyo e sacaré yo este mío e veremos si se semejan. E pesémoslos e, si fueren eguales, es tuyo e si non es tuyo, págame lo que manda el derecho”. E dixo el alcalde: “¿Qué dizes tú?” Dixo: “¿Cómo sacaré yo el mi ojo, que luego non terné ninguno?” Dixo el alcalde: “Pues derecho te pide”. E dixo el omne que lo non quería sacar. E dio al mercador por quito; e así acaesçió al mercador con los omnes de aquel lugar». E dixo el Infante: «Señor, non te di este enxenplo sinon por que sepas las artes del mundo». [Cuento : Abbas] Enxenplo de la muger e del clérigo e del fraile E dixo el rrey: «¿Cómmo fue eso?» E dixo el Infante: «Oí dezir de una muger, e fue su marido fuera a librar su fazienda. E ella enbió al abad a dezir qu’el marido non era en la villa e que viniese para la noche a su posada. El abad vino e entró en casa. E quando vino faza  la media noche, vino el marido e llamó a la puerta; e dixo él: “¿Qué será?” E dixo ella: “Vete, e escóndete en aquel palaçio fasta de día”. Entró el marido e echóse en su cama; e quando vino el día, levantóse la muger, e fue a un fraile su amigo e díxole todo commo le acaesçiera e rogóle que levase un ábito que sa. faza] fazya B.

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Essi confermarono e il giudice sentenziò: “Tu impedisci che entri dell’altra acqua e, da parte sua, egli dice che la berrà”. “Ma non può essere!”, proruppe l’uomo. Pertanto il giudice dichiarò il mercante libero da ogni obbligo . Infine venne quello dell’occhio e disse: “Dammi il mio occhio”. Rispose il mercante: “Sta bene. Togliti il tuo e io toglierò questo mio e vedremo se si assomigliano; quindi li peseremo e, se sono uguali, il mio occhio sarà tuo, sennò, mi pagherai quanto stabilito per legge”. “E tu? Tu che dici?”, domandò il giudice all’uomo. “E come potrei togliermi il mio unico occhio? In quel modo resterei senza”. “Sì, ma quest’uomo ti chiede quel che è giusto”, sentenziò il giudice. Ma l’uomo ripeté che non voleva toglierselo e ritenne il mercante libero da ogni pendenza. E questo è ciò che accadde al mercante con gli uomini di quella città». Disse infine l’Infante: «Mio signore, ti ho narrato questo esempio solo per farti conoscere gli inganni del mondo». [Racconto : Abbas ] Esempio della donna, del chierico  e del frate Il re domandò: «Come sono andate le cose?». «Ho sentito dire di una donna – cominciò l’Infante – il cui marito partì per sbrigare i suoi affari. Così ella mandò a dire al chierico che il marito non era in città e che quindi venisse, la notte stessa, a casa sua. Il chierico arrivò ed entrò in casa. Ma verso la mezzanotte il marito ritornò e si mise a chiamare alla porta. “Che sarà mai?”, chiese il chierico. Allora la donna gli ordinò: “Va’ via di qua e nasconditi in quella sala finché non farà giorno”. Il marito entrò e si mise a letto; poi, quando si fece giorno, la donna s’alzò e si recò da un frate suo amico, raccontandogli tutto l’accaduto e pregandolo di portare un abito monacale e di

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case al abad que estava en su casa. E fue el fraile e dixo: “¿Qu’es de fulano?” E dixo ella: “Non es levantado”. Entró e preguntóle por nuevas onde venía. E estovo allí fasta que fue vestido, e dixo el fraile: “Perdóname que me quiero acoger”. Dixo él: “Vayades en ora buena”. E en egualando con el palaçio, salió el abad vestido commo fraile. E fuese con él fasta su orden, e fuese. E, señor, non te di este enxenplo sinon que non creas a las mugeres que son malas, que dize el sabio que “aunque se tornase la tierra papel, e la mar tinta e los peçes d’ella péndolas, que non podrían escrevir las maldades de las mugeres”». E el rrey mandóla quemar en una caldera en seco.

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far uscire il chierico che si trovava in casa sua. Il frate, dunque, andò e giunto là chiese: “Che ne è di Tizio?”. Rispose la donna: “Non si è ancora alzato”. Poi il frate entrò e chiese al marito della donna che nuove portava, e restò lì finché l’altro non finì di vestirsi, infine disse: “Scusami, ma devo ritirarmi”. “Andate in buon’ora”, disse il marito della donna. Infine, quando il frate arrivò nei pressi della sala, uscì il chierico vestito da frate e se ne andò, bel bello, con l’altro fino al convento. Mio signore, ti ho raccontato questo esempio solo perché tu sia convinto che le donne sono ingannatrici. Dice infatti il sapiente “se anche la terra si trasformasse in carta e il mare in inchiostro e i pesci in penne , tutti quanti non basterebbero a scrivere le malizie delle donne”» . Così il re ordinò che sua moglie fosse bruciata in un calderone a secco .

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Note al testo

Avvertenze Nelle note alla traduzione si fa riferimento ai motivi folklorici utilizzati nel testo, identificati da Keller () e da Thompson (; ma la prima edizione è del -) in modo identico, ovvero mediante una lettera maiuscola, che inquadra il motivo in una categoria tematica, e un indice numerico che dà conto di una categoria esemplare o del singolo esempio; separata dai due punti, segue una sintetica descrizione illustrativa che riprendo, in corsivo, in una traduzione il più possibile efficace e funzionale al testo. Nell’illustrazione di alcuni termini o sintagmi riporto attestazioni tratte da altre opere della letteratura spagnola medievale, sulla scorta del dizionario di Kasten e Cody (), attenendomi e rimandando alle fonti bibliografiche usate dai due studiosi per formare il repertorio di lemmi.

. Padre di Alfonso X il Saggio, Ferdinando III fu nominato El Santo a causa delle sue imprese contro i musulmani. Durante il suo regno (-) Ferdinando III non solo intensifica l’attività di reconquista delle regioni occupate mediante una tattica bellica di frontiera ma, sovrano dalle velleità imperiali, sfruttando le rivalità fra i vari centri di dominio nel territorio dell’alAndalús, attua anche un’accorta politica di alleanze che porterà la Castiglia all’annessione, nel , di Cordova e successivamente, con la nascita delle taifas, alla conquista di Siviglia, nel  (cfr. Valdeavellano, , capp. -). . Beatrice di Svevia sposa Ferdinando III nel . Alfonso (il futuro Rey Sabio) e don Fadrique sono rispettivamente il primogenito e il secondogenito. . È il primo degli aforismi di Ippocrate (vita brevis, ars longa). Fu ampiamente diffuso nell’ambito della letteratura gnomica, come dimostrano la raccolta Bocados de oro, cap. VIII («la vida es corta, e la arte es luenga»: cfr. Bocados, , p. ; Bocados, , p. ) e il Libro de los buenos proverbios («la sapiencia es mucha, y la vida del onbre es poca»: cfr. Libro buenos proverbios, , p. ; Libro buenos proverbios, , p. ) tra altri. . Nel testo spagnolo, propongo di mettere la virgola dopo «más», rispettando il più possibile la lezione del ms. A. Sebbene, infatti, il ms. B fosse intervenuto a emendare il passo, e alcuni editori (Comparetti, González Palencia, Vuolo) abbiano seguito quell’emendamento, che introduce la com-

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parativa «más de lo que a cada uno», ritengo si possa accettare la lezione di A, intendendo l’intera proposizione «E el omne [...] aman» come una dipendente causale della principale «plogo e tovo por bien [...]», il cui soggetto implicito è «el Infante», pur essendo sintatticamente indipendente. . Con Keller e Vuolo, riconosco l’autorevolezza del titolo dato all’opera da Amador de los Ríos, sulla base della lettura «engaños» del ms. B, che emenda la lezione di A «engañados» (cfr. Amador de los Ríos, -, vol. III, pp. -). Tuttavia non pare trascurabile l’osservazione di Keller () secondo la quale il temine «engañados» riporta con maggior pienezza ed enfasi la vera raison d’être del libro, ovvero la sua dimensione ludica e non prettamente didattica. Il sintagma «aperçebir a los engañados» non solo è plausibile per la relazione semantica fra il verbo e il sostantivo, ma sembra pure confacente come espressione formulare di un esordio diretto a uomini o enamorados mancebos (come quelli cui si dirigerà l’autor della Celestina) che o sono potenziali ingannati o sono già stati vittime delle astuzie delle donne e quindi bisognosi di esempi e consigli. . L’anno  dell’era ispanica, o “cesariana”, corrisponde al  dell’era cristiana. Si veda a tale proposito la pur problematica indicazione della traduzione del «libro de Calila et Digna [...] de arávigo en latín, et romançado [...] en la era de mill et dozientos et noventa et nueve años», che appare nell’explicit (cfr. Calila, , p. ). Non ritengo tuttavia necessario l’emendamento proposto da Orazi (Sendebar, , p. ) in quanto la formula breve adottata dal manoscritto doveva risultare comprensibile perfino allo scriba del ms. B, dato che non l’ha emendata. . Nella tradizione del Sendebar variano tanto l’ambientazione quanto il nome del re. Nel ramo orientale la cornice narrativa si situa in India o in Cina (ma il testo greco non specifica); in quello occidentale per lo più la vicenda ha come sfondo Roma. Anche il nome del re varia, da Ciro (Syntipas) a Bibar (Mishlè Sendebar): cfr. Comparetti (), p. . Per l’ipotesi relativa a un tentativo di ispanizzazione da parte del traduttore castigliano tanto del luogo che del nome del re, cfr. le ipotesi di Artola (, p. ) concernenti l’evoluzione del nome pahlavi, Khusru, attraverso il siriaco sino all’arabo alKhsr e quindi a quello di Alcos della versione spagnola; ma cfr. anche le riserve espresse da Paltrinieri (, pp. -). . Nel sintagma «estando con todas», di valore concessivo, il verbo estar assume un significato se non direttamente erotico certamente allusivo a un’intimità amorosa, come nel Libro de buen amor (quartt. c: «en el palacio con ella solo estido», b: «quando en uno estemos», d: «desque en uno estedes»). . Il sostantivo «pueblo» appare inserito in una sorta di espressione formulare, così come nel racconto dell’ottavo giorno, accanto al sostantivo «rregno» (cfr. infra, p. ); qui tuttavia, contrariamente a quanto avverrà più avanti, i due sostantivi sembrano distinguere due diverse classi sociali all’interno dei sudditi del re. . Il dono di un figlio, ottenuto in seguito a un’ardente preghiera a Dio, riguarda la nascita di Giuseppe, figlio di Giacobbe e di Rachele (Genesi XXX, -), e la nascita di Giovanni il Battista, da Zaccaria ed Elisabetta (Luca I,

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); si ricordi, altresì, che il re pagano dell’India, Avenir, tormentato dall’impossibilità di avere un erede, in quanto mañero, ovvero sterile, compie molti sacrifici agli idoli per aver ricevuto in dono il piccolo Josafat (cfr. Barlaam, , pp. , ). Thompson (ma non Keller) inserisce il motivo nella sezione dedicata al sesso e lo registra come T : Concezione per mezzo di una preghiera, e come T .: Bimbo nato come risposta a un’invocazione. . Nell’originale spagnolo «toller». Nel contesto si è scelto di dare al verbo l’accezione che suggerisce la versione B del manoscritto. L’opposizione semantica fra «toller» e «matar» è suggerita anche da Vuolo, che si appoggia a una testimonianza boccaccesca. Per parte mia rimando a Berceo, S. Lorenzo, , dove «toller» equivale a curar. . Nel testo spagnolo «que·l mostrasen escrevir». Il verbo mostrar è più volte ripetuto in questo passo nella sua accezione didascalica di “istruire” e “ammaestrare”, testimoniata anche dalla quartina  del Libro de buen amor; cfr. anche Primera crónica general, a . . Çendubete, forma spagnola di Sindibad (greco Syntipas, ebraico Sandabar), nome del precettore del principe. La forma Sendebar, derivata da quella ebraica, è attualmente quella più diffusa per indicare, sinteticamente, i testi appartenenti al ramo orientale della raccolta di novelle, mentre i testi del ramo occidentale alludono convenzionalmente ai Sette savi. . Il resoconto sistematico che Çendubete sollecita è tipico di alcuni brevi testi, decisamente misogini, che rientrano nella tipologia delle raccolte di massime e proverbi ampiamente note in epoca alfonsina: la Historia de la doncella Teodor, il Capítulo del filósofo Segundo, i Dichos del ynfante Epitus (cfr., rispettivamente, Teodor, ; Teodor, ; Segundo, ; Ynfante Epitus, ). . Nel modello tipologico della storia di Sindibad, ricostruito in primis da Comparetti (, pp.  ss.) mediante il confronto fra gli esemplari del ramo orientale, l’Infante viene affidato all’istruzione dei maestri all’età di sette anni, e giunto ai tredici non ha ancora imparato nulla. Di fronte a questo insuccesso il re affida il figlio al migliore dei maestri, ovvero a Sindibad, per un periodo di sei anni e mezzo, alla fine del quale (quando l’Infante ha diciannove anni e mezzo, ovvero l’età cruciale predetta dagli astri) si registra un ulteriore fallimento nell’educazione del principe. Il testo castigliano, pertanto, presenta anomalie rispetto al modello archetipico, sopprimendo uno dei due tentativi, il secondo, ovvero quello che prelude al fortunato insegnamento di Sindibad, e facendo iniziare il primo tentativo ai nove anni, per concluderlo dunque ai quindici. L’incongruenza più evidente, perciò, resta quella dell’età in cui il giovane ritorna a corte, al termine dei sei mesi trascorsi con successo nel palazzo di Sindibad: vent’anni nell’archetipo, e secondo gli astri, quindici nel Sendebar castigliano. In quest’ultimo resta, poi, una traccia della prima infruttuosa iniziativa pedagogica da parte di Çendubete, nonostante si lasci intendere che il principe era stato affidato genericamente ai sapienti del regno. . Il modello di educazione proposto per il giovane Infante mira sia alla sapienza sia alla saggezza, che si raggiungono, come confermerà lo stesso Çendubete, mediante un percorso di affinamento interiore che porta al cuo-

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re, comunemente visto, in epoca medievale, come sede dell’intelletto e della sapienza. . Sostanza odorifera che secernono le ghiandole inguinali del mosco, mammifero ruminante che vive nelle montagne asiatiche. . Il pensiero sapienziale cui queste pagine s’ispirano impone una struttura parallelistica e continue similitudini per illustrare la vera sapienza e i rischi di chi non la raggiunge. Osservando tale struttura, complicata da iperbati ed ellissi, sono arrivato a proporre (cfr. infra, Enxenplo del consejo de su muger, nota ) il medesimo emendamento che Orazi suggerisce (cfr. Sendebar, , p. ) in base all’usus scribendi del testo, per unire in un unico periodo le due proposizioni «la cosa que non le tuelle el estómago después come con sus manos» e «que non aprende en niñez saberes» (crux). . Tutto il passo propone uno dei topoi della letteratura sapienziale, consistente nell’impossibilità di costruire senza le necessarie premesse. . Si allude a uno dei topoi della letteratura gnomica, sebbene sia riportato qui incidentalmente. Ricordo a questo proposito, a semplice titolo di esempio, quanto viene attribuito a Socrate nella Disciplina clericalis, IV: «Como el hombre mentiroso no debe hallarse en el cortejo de un píncipe, del mismo modo deberá ser excluido del reino de los cielos»; nel testo latino «Sicut homo mendax in principis comitatu non conuenit, sic a regno celorum excludendus erit» (Disciplina, , pp. , ). . Sebbene lo stesso termine «palaçio» sia usato nel racconto , probabilmente con il significato di “stanza”, sono indotto a considerare che qui il sostantivo indichi un edificio, non solo per come è descritto il «palaçio», ma soprattutto in analogia sia con il Syntipas greco sia con il Mishlè Sendebar ebraico (cfr. Mishlè Sendebar, , p. ), i quali fanno riferimento inequivocabilmente a una struttura dotata, rispettivamente, di appartamenti e di muraglia. . Mi limito qui a ricordare quanto l’astrologia, in tutta la civiltà tardoantica e medievale, fosse parte integrante della cultura scientifica (che la sovrappone e l’assimila all’astronomia), poiché si riteneva che lo Zodiaco, e quindi le costellazioni, regolassero tanto l’esistenza del macrocosmo (l’intero mondo) quanto quella del microcosmo (sfera umana). Uno dei contributi più evidenti della cultura araba in Occidente fu precisamente quello di introdurre il pensiero astronomico di Tolomeo e Aristotele, con un conseguente tentativo, da parte degli autori cristiani, di leggere e interpretare il mondo degli astri come una mappa dei piani divini. A ciò si deve anche il grande sforzo di Alfonso X di approfondire la scienza astronomico-astrologica, mediante la redazione di trattati basati sui testi arabi (cfr. in particolare il Libro conplido en los judizios de las estrellas, ), con il fine di vincolare gli eventi storici (e in particolare quelli riguardanti la Castiglia) a un disegno astrale voluto da Dio. . Accolgo la lezione del manoscritto «aprendí», perché non toglie nulla al peculiare meccanismo cui il maestro affida l’insegnamento, e aggiunge, di contro, il concetto della trasmissione del sapere dal maestro al discepolo. . Sul topos della falsa accusa per violenza sessuale, cfr. Bloomfield (); Yohannan (). Thompson () e Keller () lo registrano come

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motivo appartenente all’ampia sezione K, degli inganni (Deceptions), catalogandolo come K : La moglie di Putifarre. Keller (El libro de los engaños, , pp. -) ricorda che il tema è in parallelo con la leggenda, narrata nell’Iliade, di Bellerofonte e della regina Antea, e sottolinea altresì che la materia, presente universalmente nella letteratura, non deriva necessariamente dall’episodio biblico. A tale proposito, e per testimoniare l’ampiezza della diffusione di questo motivo, si ricorda il racconto egiziano dei due fratelli Bata e Anubi; in epoca classica, oltre all’episodio omerico già citato, il mito di Fedra e del figliastro Ippolito, Peleo e Astidamia ecc.; in epoca medievale compare in molti lais e nella novellistica italiana è compreso nel Decameron (II, ), nelle Novelle di Bandello (III, , IV, ) ecc. In ambito ispanico medievale il locus è attestato anche nel Libro de los enxemplos (cfr. Enxemplos G, , nn. , ). . Nel testo «garpiós’». Cfr. le considerazioni di Keller () sulla forma verbale usata. . Non emendo «maestros» in «privados», come fa invece Vuolo. L’incongruenza logica nell’identificazione del locutore nasce dalla semplice confusione – non avvertita neppure da B – tra uno dei sette «privados» appena entrati in scena e uno dei quattro maestri della sequenza precedente. . Il primo racconto della raccolta si basa sul motivo che Thompson () e Keller () comprendono nella sezione degli Inganni, classificandolo come K : La lettera di Uria. Tale definizione discende dall’archetipo biblico ( Samuele XI, -), in cui si narra il peccato di Davide, ovvero come il re, mandato il suo esercito in guerra, rimase a Gerusalemme, dove un giorno s’innamorò di Betsabea, moglie di Uria, vedendola dall’alto della reggia. Il re giacque con lei, che restò incinta, e infine, dopo aver chiamato a sé Uria, lo fece latore di una lettera indirizzata a Ioab, generale dell’esercito regio, nella quale si ordinava di esporre Uria stesso a una sicura morte in battaglia. Si tratta di un episodio cui allude anche Andrea Cappellano (metà secolo XII), dato come esempio di lussuria dall’Arcipreste de Hita (Libro de buen amor, quartt. -) e riferito dall’Arcipreste de Talavera nel cap. XVII del Corbacho, in cui Betsabea è trasformata in una lasciva provocatrice. Ma, a partire da questo archetipo, il racconto del Sendebar (che attribuisce alla figura del re un sentimento di «vergüença» nei confronti della moglie del suo vassallo) si arricchisce del motivo centrale ( J .: Una donna fa in modo che il re abbandoni i suoi costumi lascivi), che, sovrapponendo la figura del sovrano al leone e quella della donna alla terra, conferisce alla narrazione un indubbio valore allegorico. Cfr. Prato (); González Palencia (); Hernández Esteban (); Perry (). . Per la metafora sessuale implicita nell’espressione «labrar la tierra», cfr. Fassò (). . Questo racconto è presente tanto nel ramo orientale (Mishlè Sendebar; Syntipas; Mille e una notte, notte ) che in quello occidentale, dove il «papagayo» è sostituito da una «picaza» (Novela di Cañizares, racconto : cfr. Versiones castellanas, , pp. -; Siete sabios, racconto : cfr. ivi, pp. -). Si basa sul motivo J .: Pappagallo incapace di raccontare al marito i dettagli del tradimento della moglie (Keller, ). Per il racconto del

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«papagayo» come emblema dell’inutilità stessa dell’esempio e dell’apprendimento fondato sui racconti misogini, cfr. Cándano Fierro (). . Keller (), J .: Un uomo lascia che il figlioletto giochi accanto a uno stagno. Il figlio annega. Nonostante l’affermazione di Chauvin (, pp. -, n. ), secondo il quale il racconto compare solo nel Syntipas greco, lo si trova anche nel Mishlè Sendebar (dove non solo muoiono figlio e padre, ma anche il fratello di questi), nella versione araba dei Sette Visir, nella notte  delle Mille e una notte, dove il bimbo annega nel fiume Tigri. . Il testo spagnolo presenta la forma «non escarmentaría ninguno», che traduco con una certa libertà mediante una proposizione impersonale, nell’intento di rendere la funzione media del verbo attivo escarmentar, che nella forma transitiva significa “castigare”, “punire” e in quella intransitiva “imparare”, “subire una lezione (da un’esperienza personale)”. Keller traduce «no one will hesitate to do likewise» (Book of the Wiles of Women, , p. ). . Keller (), N .: Uomo disperato quando s’accorge d’aver mangiato del pane fatto con un impasto usato per curare delle piaghe. L’esempio è raccolto nelle versioni siriaca, ebraica, greca e nella notte  delle Mille e una notte; in quest’ultima il ruolo della ragazza è svolto da una vecchia, che produceva pane per guarire un malato di reni che poi muore; l’uomo che scopre la verità non solo è schifato, ma si ammala. . Si segnala l’incongruenza tra questa premessa e l’exemplum, i cui personaggi sono: il mercante, il suo servo e la ragazza del mercato. . Si tratta di un racconto assai diffuso, per quanto non sia passato al ramo occidentale. Fradejas, sulla base di Paris (), ricorda come sia universalmente noto con due titoli: La spada e il Lai de l’Épervier. Si trova nelle Mille e una notte (notte ); nella Disciplina clericalis, XI, con il titolo Exemplum de gladio; nel Syntipas e nel Mishlè Sendebar (sebbene in altra posizione). Grazie al tipo della donna ingegnosa, che non solo gestisce il triangolo amoroso donna-marito-amante ma controlla, a suo vantaggio e senza discredito, un secondo amante, questo nucleo narrativo ha ispirato varie opere del Siglo de Oro (cfr. Sendebar, , pp. -). Sul fabliau francese dal titolo Lai de l’Épervier, cfr. il già citato Paris (); Bédier (), pp.  ss.; Noomen (). . Il testo spagnolo ha «rrincón» che in questa accezione di sitio oculto o apartado è usato ancora oggi. Nella sua traduzione inglese, Keller rende il termine con «alcove» (Book of the Wiles of Women, , p. ). . Nel testo spagnolo «non me inchala». Il verbo incaler, documentato anche nella variante inchaler (dal latino incalere), significa “importare”, usato in frasi negative. È attestato fra il XII e il XIV secolo. Agli esempi già citati da Vuolo (Libro de los engaños, , pp. -) e da Orazi (Sendebar, , p. ) aggiungo: Cid,  («Si el rey me lo quisiere tomar, a mí non m’incal»); Primera crónica general,  a ; Libro del cavallero Zifar, , . . Il manoscritto spagnolo (senza alcun emendamento da parte di B) presenta «ayuntadas en sí ay muchos engaños». Sulla scorta di Vuolo (Libro de los engaños, , rigo  e p. ), non accogliamo l’emendamento di Bonilla y San Martín (fatto proprio anche da González Palencia e da Keller) di «ay» con «an», né l’emendamento di Orazi (Sendebar, , p. ), la quale corregge il participio «ayuntadas», riferito a «mugeres», in ayuntados, con-

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cordandolo con il sostantivo «engaños»; tuttavia nella traduzione sciogliamo l’anacoluto, derivante dall’«ay» impersonale. . L’esempio narrato dalla donna sembra attestato soltanto nella tradizione del Sindibad orientale. Nelle Mille e una notte occupa le notti -. Determinante per la strutturazione del racconto è il motivo del nobile cacciatore che si allontana dal gruppo per seguire un cervo (Thompson, , N ). Altri due nuclei tematici risultano poi fondamentali: l’uno inerente al mondo degli orchi e delle streghe (G : Cacciatore cade in potere di un orco o di una strega), l’altro di ambito religioso (V : Potere miracoloso della preghiera), testimoniato in numerose versioni all’interno della letteratura esemplare (cfr. Enxemplos G, , varie attestazioni; Enxemplos M, , nn. , -, ). Sul racconto cfr. Ogle (). Si è messa in evidenza l’incongruenza tra la volontà dichiarata dalla donna di offrire un esempio contro i cattivi consiglieri che proditoriamente uccidono un re, e l’effettivo contenuto del racconto, nel quale l’unico pericolo incontrato dal giovane principe è la diavolessa. Tale incongruenza sembra derivare da una versione archetipica, di cui resta traccia nella notte  delle Mille e una notte, dove si dice esplicitamente che il ministro accompagna l’Infante con l’intenzione di ucciderlo. Al ministro di questo racconto, inoltre, potrebbe essere attribuita l’intenzione proditoria che ha il consigliere del racconto  (Fontes), con il quale mostra forti analogie. . Seguo l’indicazione di Kantor (, p. ), la quale in «perdí las pies» riconosce un’espressione che indica la perdita delle forze, individuando nel femminile «las pies» un chiaro tratto semitico, a sostegno dell’ipotesi dell’influsso dell’ebraico nella lingua del testo e del peso della tradizione lungo il ramo orientale. Mi permetto di aggiungere che l’interpretazione di «perdí las pies» come “persi le tracce”, sebbene spontanea, sembra priva di senso nella fattispecie del testo, in quanto parrebbe strano che la ragazza riuscisse a seguire le tracce durante l’intera notte e le perdesse proprio sul far del giorno. . Secondo Marsan (, p. ) questa «diabla» è l’unico caso di «démon femelle» evidente; e suppone che la sua esistenza derivi dalla tradizione del racconto arabo in cui compaiono delle figure che agiscono come geni intermediari fra gli angeli o i demoni e gli uomini, definite Efrits, le quali evidentemente possono essere buone o cattive e spesso, a seconda delle necessità, si incarnano in esseri di genere femminile. Marsan non fa cenno dell’altra diavolessa presente nel Sendebar al racconto . . Si noti l’analogia strutturale, tipica del racconto cumulativo, indicato come tipologia Z  da Keller (), con il racconto  Lac venenatum. Nella fattispecie il motivo è raccolto fra quelli riguardanti Chance and Fate e classificato come N : Una goccia di miele causa una catena di disgrazie. . Non traduco alla lettera il castigliano «enxanbre», in quanto l’uso del termine “favo” (che compare nella versione italiana del Syntipas greco: cfr. Libro di Sindbad, , p. ) è più congruo al contesto situazionale. L’episodio, che nella sua tipologia archetipica di racconto cumulativo è necessariamente essenziale, nella versione castigliana è leggermente meno analitico rispetto a quello greco.

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. Comparetti () sulla base di un confronto con i testimoni di altre versioni del ramo orientale ricorda che il secondo racconto a carico del terzo favorito, mancante nel testo castigliano, riguardava l’esempio misogino che va sotto il titolo di Zuchara. Tale racconto amplia il campionario delle arti della donna: qui una donna tradisce il marito con un droghiere dal quale compra dello zucchero, ma è ingannata a sua volta dal garzone del bottegaio che le scambia lo zucchero comprato con della terra. Quando, tornata a casa, la donna scopre il danno subito, lo giustifica al marito – coprendo il tradimento compiuto – dando così prova dell’abilità inventiva femminile. . La presenza di figure demoniache rimanda all’esempio , precedentemente raccontato dalla moglie del re. Sono presenti due motivi appartenenti alla sezione del Magic, indicati come D  (Trasformazione di un uomo in donna: Keller, ) e D  (Fonte magica: Thompson, ). . Nel testo castigliano «enbiart’é mandado». Il termine «mandado», preceduto da verbi quali ir o fazer, assume il significato di “informare”, “trasmettere notizie” o “esprimere allegria” per un suceso che si stima soddisfacente; cfr. Cid, . . Nel testo spagnolo si usa l’espressione «pleito e omenaje», che in primis è locuzione formulare di vassallaggio, come è testimoniato nella General Estoria, ma viene a indicare un accordo sicuro fra due parti, come attesta il Calila, dove l’elefante fa una promessa solenne alla lepre: «et fízole pleito et omenaje que nunca tornaría más en aquel lugar» (Calila, , cap. VI, p. ). . Compreso da Keller () nell’ampio settore tematico della saggezza e della stupidità (J: The Wise and the Foolish), il motivo J . in questo racconto conserva il titolo di Senescalcus, dalla figura del «senescal» che sostituisce quella del «bañador» nel ramo occidentale, e più precisamente nel quarto Dictum imperatricis della Novela di Diego Cañizares, nonché nel capitolo XVI dei Siete sabios. Nella Novela, al «Rey Grueso» piacque tanto la moglie del «senescal» che non la lasciò tornare dal marito e ordinò che questi fosse impiccato (cfr. Versiones castellanas, , pp. -); nei Siete sabios la vicenda, narrata dalla moglie dell’imperatore con l’aggiunta di molti particolari, porta all’esilio del «senescal», che fugge per la vergogna di aver obbligato la propria onesta e bella moglie a prostituirsi. In entrambi i casi, appartenenti al ramo occidentale, l’esempio è narrato dalla donna con l’intento di dimostrare la condotta infida dei consiglieri (nel primo testo) e del figlio stesso dell’imperatore (nel secondo). Nel ramo orientale, viceversa, il racconto è riportato da uno dei consiglieri per avvisare il re del pericolo che deriva da un’azione troppo precipitosa. . Il plurale «mienbros» con la stessa accezione è attestato nelle più tarde Fábulas de Esopo, f. v , mentre il singolare nella General Estoria I, p. a . . Motivo di ampia diffusione ed esempio sia dell’ingegno sia dell’infedeltà femminili. È presente in: Le cento e una notte (notti -); Le mille e una notte (notti -); Disciplina clericalis, XIII; Enxemplos (cfr. Enxemplos G, ). L’esempio si costruisce attorno a ben tre motivi tutti appartenenti all’ambito tematico dell’inganno. K : Donna persuasa o corteggia-

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ta con l’inganno; K : La cagna che piange (Keller, ); K : Marito che visita mascherato la propria moglie (Thompson, ). Esibisce analogie con il racconto  (Pallium), soprattutto per la presenza della mezzana (cfr. motivo T , in Keller, ), la quale sfrutta le proprie astuzie per superare le resistenze della giovane sposa a tradire il marito. Sul racconto cfr. Tobler (); Elsner (); Epstein (a); Marsan (); Chatillon (). . Per l’espressione «pleito e omenaje», cfr. racconto , nota . . Nel testo spagnolo «non vino a él». Per la tendenza all’ellissi del secondo soggetto che interviene in una medesima proposizione, in accordo con l’uso assai libero dei pronomi, comune nella sintassi medievale, qui si potrebbe attribuire il pronome indiretto «a él» sia a «plazo», mantenendo il soggetto «el marido», sia a «marido», prevedendo appunto un non inusuale cambiamento di soggetto, che in questo caso sarebbe la moglie. Propendo (come Vuolo, Fradejas Lebrero, Lacarra e Orazi) per la prima interpretazione, perché giustificata dalla proposizione successiva nonché più consona alla caratterizzazione della moglie fedele. Diversamente interpreta Coote nella traduzione inglese (cfr. Comparetti, , p. ), mentre Keller (El libro de los engaños, , p. ) tralascia la preposizione «a» (senza giustificarlo nell’apparato critico) e traduce «The husband swore to return by a certain date, but he didn’t» (Book of the Wiles of Women, , p. ). . Il racconto evidenzia un motivo che rientra nell’ambito tematico della saggezza e della stupidità. Si tratta del motivo J . (Thompson, ), perfettamente coincidente con l’exemplum qui narrato. Il racconto, con notevoli varianti, è attestato sia nel ramo orientale sia in quello occidentale delle storie di Sendebar. Le versioni castigliane diverse dal Sendebar (Novela di Cañizares, Siete sabios ed Erasto) presentano il racconto derivandolo dal ramo occidentale, che affida il ruolo della scimmia a un pastore, il quale, scendendo dall’albero, taglia la testa al maiale che si era addormentato (cfr. Versiones castellanas, ). Nella versione ebraica, Mishlè Sendebar, il «puerco» è decisamente un cinghiale delle cui zanne l’uomo ha paura, ma la morte dell’animale è identica a quella narrata nelle varianti greca e castigliana (cfr. Mishlè Sendebar, , pp. -). Su questo racconto, cfr. Krappe (). . Già precedentemente, nel terzo giorno, la moglie aveva minacciato una prima volta di uccidersi con le proprie mani, minaccia alla quale, in altri testi del ramo orientale, come il Syntipas (quarto giorno), e in alcune versioni delle Mille e una notte (quinto giorno), corrisponde un suicidio mediante un pugnale. In tutte le versioni orientali l’intento della moglie di avvelenarsi si registra concordemente nel quinto giorno (nel Sendebar, nel Syntipas, nel Sindbâd-Nâmeh, poema persiano inedito), nel sesto giorno in alcune versioni delle Mille e una notte. Di fronte a questa uniformità, si chiede Vuolo (Libro de los engaños, , pp. -), si potrebbe forse ipotizzare che nel proporre la variante «cuchillo» il correttore del XVI secolo (la mano B) avesse innanzi a sé, come suppone Bonilla y San Martín, «otro texto del mismo opúsculo» (Libro de los engaños, , p. ) o un altro testo o copia del Libro? . Il motivo qui presentato, relativo all’ambito tematico degli animali, è incluso nella tipologia definita Morte di un animale utile, e precisamente si tratta del motivo B .: Lewellyn e il suo cane; ricorre nel ramo orientale del

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Sendebar (nella forma sintetica in cui appare qui, come esempio di un gesto di intemperanza, cui non si può porre rimedio) e nel Calila, cap. VIII. È ampiamente diffuso anche nelle versioni castigliane del ramo occidentale, dove l’episodio è narrato su uno sfondo cortese, nel quale il padre del bambino è impegnato in un torneo cavalleresco: nella Novela di Cañizares (racconto ) si stabilisce un’esplicita relazione simbolica fra exemplum e cornice, ovvero fra il serpente e l’imperatrice, tra il cane, nella fattispecie un «lebrel», e il bambino, e, infine, tra il padre di quest’ultimo e il re, cui è indirizzato l’exemplum stesso (cfr. Versiones castellanas, , pp. -). Nei Siete sabios (cap. VII) il cane è allertato da un «falcón», che si aggiunge quale suo aiutante, mentre alla madre del bambino, la quale riferisce al marito la presunta tragedia, con chiaro intento misogino si attribuisce la responsabilità dell’intemperanza dell’uomo che, infine, fugge in Terra Santa (cfr. ivi, pp. -). Su questo racconto, cfr. Krappe (); Emeneau (-); Elwin (). Fradejas Lebrero presenta un utile excursus del motivo, dal Panchatantra sino ai rifacimenti francesi e italiani (cfr. Sendebar, , pp. -). . Oltre che dalle figure della mezzana e del marito che si lascia facilmente ingannare, il racconto è caratterizzato dal motivo (appartenente alla sezione degli Inganni) K : Il panno contrassegnato nella stanza della donna (Keller, ). L’esempio, presente nel ramo orientale del Sendebar e nelle Cento e una notte (cfr. Cent et une nuits, ), non è passato al ramo occidentale. Per il racconto, cfr. Bédier (), pp. -; Marsan (), pp. -; Ménard (). . Seguo la punteggiatura adottata da Keller e da Vuolo i quali, mettendo il punto dopo la frase «e levó el paño en su mano», la attribuiscono all’uomo e non alla donna, soggetto della frase successiva. La scelta ha una motivazione contenutistica e logica: infatti se risultasse che la moglie del mercante porta via con sé il panno, non si giustificherebbe la sua ricomparsa durante il colloquio tra il giovane, il mercante e la mezzana, perché la moglie del mercante resta in casa dei parenti sino alla fine. . Il testo spagnolo («levantóse a ella») sembra conservare solo una traccia della violenza perpetrata dal giovane, che è invece riferita più esplicitamente sia nella versione greca di Michele Andreopoulos (cfr. la trad. it., Libro di Sindbad, , p. : «Quello saltò in piedi, afferrò la donna, e la prese con la forza») sia nel Mishlè Sendebar (nella traduzione spagnola, «El joven la forzó y yació con ella»: Mishlè Sendebar, , p. ). . Questo suggerimento sembra in contrasto con l’indicazione del testo, secondo il quale, dopo il colloquio fra il mercante e il giovane e l’arrivo della vecchia, il mercante tornò a casa. Se ne deduce che il testo faccia riferimento a due diversi luoghi, il primo dei quali può essere quello in cui il mercante svolge la sua attività, ovvero dove si incontrano i tre personaggi, e l’altro la casa. Il Syntipas, che di questo racconto offre una versione assai più dettagliata (arrivando persino a render conto del pentimento del giovane focoso), ci conferma questa ipotesi: infatti la vecchia mezzana consiglia al giovane di recarsi al mercato, dove il marito della donna vende le sue stoffe (cfr. Libro di Sindbad, , p. ).

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. Traduco «llamóla» con “la guardò”, perché, ripetendosi il verbo llamar nella frase successiva, mi pare più appropriato che si intenda il primo come un richiamo dello sguardo. . Il racconto si costruisce attorno a due motivi appartenenti alla sezione La saggezza e la pazzia (Thompson, , J -J ); l’ambito tematico più specifico è quello della confusione di una persona con un’altra (ivi, J .: Il ladro confonde il leone con un cavallo; quando scopre la sua vera natura, fugge; ivi, J .: Un leone confonde un uomo con un demonio). L’attestazione più antica di questo exemplum è quella contenuta nel Panchatantra (libro V, n. ). Nella versione sanscrita, dunque, il ruolo del leone è attribuito a uno spiritello («rakxsa»); costui gode dei piaceri di una principessa, la quale tuttavia dice di essere tormentata da Crepuscolo, quindi lo spiritello, credendo di dover render conto a uno spirito assai più forte, si rifugia in una stalla, dove si trasforma in cavallo. Quando nottetempo arriva un ladro di bestiame che lo sceglie per il bel manto lucido, lo spiritello-cavallo teme di essere cavalcato non dalla tempesta (della versione castigliana) bensì da Crepuscolo, perciò si mette a correre all’impazzata. Anche nella versione del Panchatantra l’uomo che cavalca, spaventato per l’imbizzarrimento del cavallo, cerca rifugio su un albero e, raggiunto da una scimmia, alla quale il cavallo imbizzarrito aveva chiesto aiuto, le morde la coda; il cavallo fugge di fronte all’urlo della scimmia, convinto del potere del ladro-Crepuscolo. L’antica versione indiana, sebbene non priva di incongruenze, consente di dare una spiegazione al timore che, nel Sendebar, l’animale cavalcato, ovvero il leone, ha del suo cavaliere, in quanto quest’ultimo, pur essendo un semplice ladro, nell’archetipo era ritenuto più plausibilmente una sorta di spirito assai potente. Per il racconto, cfr. Artola (), pp. -; Lacarra (a), pp. -. . Nel testo spagnolo è inequivocabile l’articolo indeterminativo «un», riferito a «ladrón», come se la figura del ladro apparisse per la prima volta. Difatti l’anomalia si pone in relazione con l’esordio del racconto, dove si narra di un ladro che entra «en ella», ovvero nella «aldea» e, pur essendo ladro, è evidentemente riconosciuto dagli uomini della carovana (nel testo spagnolo «rrecuero», sostantivo maschile cui non può riferirsi il pronome «ella»). Ovviamente il testo castigliano presenta una versione corrotta del racconto che, come risulta dal Syntipas e dal Mishlè Sendebar, distingue fra l’ingresso in scena di un leone e quello successivo di un ladro. La confusione iniziale tra le due figure giustifica certe incongruenze espressive, come risulta dal timore dei mercanti che il ladro «faga algund mal», espressione più consona a un leone che a un ladro. . Nel testo il leone compare, senza un plausibile motivo, per la prima volta: da qui l’uso dell’articolo indeterminativo. Si osservi come il testo ebraico specifichi che quella era zona di leoni e di ladri (Mishlè Sendebar, , p. ). . Sebbene il manoscritto legga «ximio», accolgo l’invito di Vuolo (Libro de los engaños, , p. ) a ricercare la coerenza fra il testo e il tema esplicitato dalla moglie nell’introdurre l’esempio di un uomo salvato da un leone. Si noterà, tuttavia, che né il testo greco né quello ebraico stabiliscono un rapporto di esemplarità fra i consiglieri – dai quali la donna dichiara di volersi di-

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fendere – e il leone, dal quale l’uomo riuscì a salvarsi. Nella chiusura didascalica del racconto, nel testo greco si fa riferimento al pericolo che i filosofi (consiglieri) stravolgano i rapporti fra la moglie e il re, e si lascia quindi intendere che quello appena narrato è soprattutto l’esempio delle conseguenze nefaste di una serie di fraintendimenti: da quello del ladro che scambia il leone per una bestia da soma a quello del leone che scambia l’uomo per la tempesta. Nel testo ebraico, che non contempla la morte della scimmia, la donna supplica Dio di salvarla sia dai consiglieri sia dal re stesso, entrambi pericolosi (come lo furono, per l’uomo, tanto il leone quanto la scimmia). . Cfr. Thompson () e Keller (), N : Il colombo uccide violentemente la colomba. Il motivo è raccolto anche nel Calila (XI, ) e nelle Le mille e una notte (notte ), dove il colombo si rende conto dell’errore con il sopraggiungere dell’umido inverno (particolare registrato anche nel Syntipas). Tanto il Calila quanto la più celebre raccolta d’Oriente aggiungono un finale elegiaco: il colombo si getta vicino alla sua colomba e si lascia morire di inedia. Nelle Mille e una notte l’esempio si concatena con uno antecedente, per dimostrare quanto sia pericoloso punire qualcuno senza essere certi della sua colpevolezza, e con uno seguente che illustra l’astuzia degli uomini, o il loro potere, nei confronti delle donne; tale concatenazione permette di dare maggior senso al presente racconto. . L’errata lezione «seteno», del manoscritto, è probabilmente indotta dall’indicazione del «seseno día» con cui ha inizio il precedente racconto. . Il racconto (classificato come J .: Un marito sciocco è ingannato dalla moglie che è stata assaltata dai ladri; cfr. Keller, ) ha una diffusione limitata ad alcune versioni del ramo orientale. Il modello tematico e strutturale è quello della moglie che inganna il marito per non rivelare che a sua volta è stata ingannata, e nella tradizione del Sendebar orientale ha un’altra variante nel secondo episodio che nel Syntipas è narrato dal terzo dei consiglieri, assente però – come s’è visto – dalla raccolta castigliana. Condivido il giudizio di incoerenza avanzato da María Jesús Lacarra, non tanto relativamente alla necessità della donna di occultare l’inganno subito, ma soprattutto circa la relazione tra il sarto apparsole in sogno e la figurina dell’elefante di mollica (cfr. Sendebar, , p. ); ricordo, invece, che nel Syntipas (come nelle versioni persiana e siriaca) il sogno di un grosso elefante minaccioso era assai più credibile al fine di giustificare l’inganno della donna. Sul racconto, cfr. Lacarra (a), pp. -: vi si spiega la necessità della donna di dare al marito una diversa versione dell’accaduto supponendo una relazione sessuale tra la donna e i ladri, come avviene nel già ricordato esempio del Syntipas, nel Sendebar ebraico (Tales of Sendebar, , p. ), nelle Mille e una notte (notte ) e nell’Exemplario. L’ipotesi avanzata da Lacarra spiegherebbe altresì la figurina dell’elefantino come sigillo beffardo della violenza usata dai “ladri” alla moglie del mietitore. . Poiché dal testo risulta che il «marido» e il «segador» sono la medesima persona, s’è preferito tradurre solo il termine che indica l’attività dell’uomo. Tuttavia detto mietitore nel racconto si rivelerà essere un generico «labrador». Come osserva Lacarra (Sendebar, , p. ), questa e altre incoerenze lasciano supporre che le epigrafi siano state aggiunte dal copista.

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. Sia Thompson () che Keller () collocano l’esempio nella vasta sezione della sapienza e della follia, registrandolo come J : Tre desideri insensati. Sulla fortuna di questo racconto, ampiamente diffuso anche nella novellistica occidentale, tanto da dar luogo a varie tipologie in ambito sia letterario sia folklorico, cfr. le osservazioni di Fradejas (Sendebar, , pp. -). Nelle Mille e una notte (notte ) l’episodio è legato alla “notte del destino” (lailat al-qadr), nella quale, al termine del ramadan, la tradizione musulmana vuole che Iddio stabilisca il destino degli uomini per l’anno successivo; anche lì, come nella versione greca e in quella ebraica, l’oggetto del desiderio, che prima cresce o si moltiplica a dismisura, poi scompare e infine torna allo stato iniziale, non è la donna ma l’organo sessuale maschile. Kantor (, pp. -) osserva che questa prima narrazione del settimo consigliere appartiene alla serie di racconti strutturati attorno all’errore e chiude una sequenza iniziata con l’esempio Panes e proseguita dal «bañador» dell’esempio Senescalcus. Sul racconto, indicato con il titolo Los tres dones, cfr. Lacarra (a), pp. -. Cfr. inoltre Bédier (), pp. -, ; Bravo (). . Questa è la seconda incarnazione demoniaca in una figura femminile riscontrabile nella presente raccolta; la prima compare nel racconto , intitolato, appunto, Striges. Tanto nel Syntipas (cfr. Libro di Sindbad, , pp. -) quanto nella versione persiana Sindbâd-Nâmeh e nel Mishlè Sendebar l’uomo dipende da un demonio in forma maschile (cfr. Mishlè Sendebar, , pp. -). . Il ms. B legge il verbo «fuese» del sintagma «fuese muy triste» come forma riflessiva del preterito del verbo ser, con significato di quedarse, hacerse triste; per ciò stesso ritiene di dover aggiungere un «fuese», come preterito del verbo di moto ir, tra «la diableza» e «para su muger». . Risolvo diversamente da Fradejas Lebrero («me retenía»: Sendebar, , p. ), e in linea con Keller («I had»: Book of the Wiles of Women, , p. ), l’ambiguità dell’espressione «me tenía», segnalata da Vuolo, il quale si chiede se «tenía» sia prima o terza persona del verbo; al pronome personale indiretto attribuisco un’accezione di dativo etico. . L’incongruenza sintattica di persone verbali e soggetti grammaticali (qui tra la seconda persona plurale «amás» e la terza plurale «páganse» nelle due proposizioni che condividono il soggetto «los omnes», dipendenti dalla principale «Bien sabes [...] que») non è rara nella prosa dell’epoca; quindi non sembra necessario l’emendamento di «amás» con «aman», proposto da Vuolo (Libro de los engaños, , p. ). . Evidente l’incongruenza che si viene a determinare nel momento in cui, per effetto del secondo desiderio, l’uomo si trova del tutto solo, essendo scomparsa, assieme a tutte le donne, anche la propria moglie, e tuttavia egli continua a parlarle. Fradejas ci invita a uno sforzo di fantasia per immaginare che l’uomo parli con la moglie scomparsa, in patente contraddizione con il testo, dove la donna sembra presente e attiva nel rammentare al marito la terza preghiera. Seguendo il testo, tuttavia, non esisterebbe alcuna necessità di sprecare la terza preghiera per far tornare la donna che, eccezionalmente rispetto alle altre, è rimasta. La duplice contraddizione,

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dunque, non si spiegherà se non con l’applicazione automatica della variante alla struttura dei tre desideri della moglie, senza considerare che gli oggetti del desiderio implicati, cioè le donne, comprendevano uno dei soggetti proponenti, ovvero la moglie. . L’intento iniziale del protagonista di questo episodio richiama il racconto XIV (De puteo) della Disciplina clericalis, entrambi raffiguranti l’illusorio desiderio di un giovane di mettersi al riparo dagli inganni delle donne, conoscendoli tutti teoricamente, ed entrambi inerenti alla tipologia dei motivi riguardanti l’amante umiliato o frustrato a causa dell’astuzia della donna (K : cfr. Keller, ). Da questa tipologia misogina generale discendono il motivo volto a dimostrare che l’inventiva femminile è superiore a qualsiasi teorizzazione misogina (K : Una donna induce un uomo a spogliarsi mostrando di voler giacere con lui, poi invoca l’aiuto dei vicini [...]; ibid.) e, come dimostra la stessa Disciplina clericalis, il motivo K , ovvero del marito chiuso fuori casa, per eccessiva gelosia, e conseguentemente denigrato dalla società, tematica assai fortunata in epoca medievale (cfr. Enxemplos G, , n. ; Decameron VII, ; Arcipreste de Talavera, Corbacho II, ), più tardi ripreso magistralmente da Cervantes (El celoso extremeño). . Il ms. A attesta una forma tronca della terza persona singolare del preterito indefinito riflessivo del verbo carpir (proveniente dal latino carpere), la cui iniziale c – secondo un fenomeno non infrequente nel castigliano – si trasforma nella g di «garpiós’» (già attestato nel racconto-cornice del testo, in identica espressione formulare, quando la moglie del re, temendo d’essere scoperta nel suo tentativo di assassinio del consorte e di corruzione dell’Infante, finge d’essere stata violentata da questi). Si noterà che il ms. B, non riconoscendo il valore verbale del termine, lo sostituisce con «grytos», sostantivo sinonimo del precedente «bozes» (cfr. Keller, ). . Allo scoccare dell’ottavo giorno, fra i racconti  e , prende nuovamente il sopravvento la cornice, la quale ripropone l’anomalia del numero di quattro «sabios» (come già nell’Enxenplo del consejo de su muger), contraddittorio rispetto ai sette consiglieri che fin qui hanno presentato al re i propri racconti; analogamente viene riproposta la struttura dialogica tipica della letteratura sapienziale e gnomica, dove si contempla la necessità che i diversi interlocutori rispondano a un unico interrogativo, negando o superando ciascuno la risposta del precedente. . Keller traduce «cobdiçio» inspiegabilmente come seconda persona, «you desire» (Book of the Wiles of Women, , p. ). . Il termine usato nel testo è «pueblos», nell’accezione più comune, di “gente”, che pueblo ha nel Medioevo (cfr. Cid, : «el pueblo de moros e de la yente cristiana»). Una certa difficoltà di rapportarlo al sostantivo «rregno», come ulteriore specificazione di questo, è dimostrata dalla traduzione inglese di Coote, che rende «pueblos» con «towns» (cfr. Comparetti, , p. ). In riferimento all’accezione di lugar poblado, che il sostantivo assume più tardi (Libro de buen amor, quart. b), cfr. Corominas, Pascual (-), s.v. pueblo; Kasten, Cody (), s.v. pueblo. . Nel testo spagnolo «carofoja»: la voce relativa a tale termine non compare né in Covarrubias () né in Autoridades (); in Corominas,

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Pascual (-), s.v. clavo (clavel) si confronta con i lemmi mozarabici carónfal, carónfala e caronfalía, indicanti il «clavo de especia». Il termine sembra suscitare interrogativi presso gli editori del testo. González Palencia si chiede: «¿Será “carafulla”, que en Aragón significa vaina seca de ciertas legumbres (judía), o las hojas que rodean a la piña del panizo? ¿Caryfolium, árbol del clavo?» (Versiones castellanas, , p. ); Vuolo si chiede: «apax come garpios [...]? Indicherà la pianta tropicale (Mirtacee) del “garofano”, che dà i ben noti “chiodi” e alla quale gli antichi “botanici” (orientali?) attribuivano anche le virtù o proprietà che dice il testo?» (Libro de los engaños, , p. ); Orazi, identificando con precisione l’Eugenia caryofyllata, sembra non aver dubbi che con «carofoja» si indichi «non la spezia, ma l’albero che la produce» (Sendebar, , p. ), superando le perplessità evidenziate da Keller di fronte alla strana idea di produrre il fuoco frizionando un fiore contro il legno di sandalo, non più strana tuttavia di altre credenze popolari sulle virtù delle piante. Ma per Keller la difficoltà è superabile supponendo che qui s’intende alludere, molto genericamente, alla possibilità di generare calore facendo interagire due sostanze considerate fredde (cfr. Book of the Wiles of Women, , p. ). . Nel testo greco per Syntipas il bene più grande è la verità. La sentenza di Çendubete è doppiamente segnata da due termini e due concetti inerenti all’ambito semantico sapienziale: «el mayor saber» e «dezir», i quali si implicano indissolubilmente nel nome di una nuova cultura della parola, tipica dell’epoca alfonsina. Mi pare di poter riscontrare forti analogie con quanto si dice circa il potere della parola e della scrittura in un testo di massime e proverbi databile attorno alla metà del secolo XIII, il Libro de los cien capítulos, o Dichos de sabios (cfr. Cien capítulos, , capp. XIX-XXV e soprattutto pp. -). . Keller () inserisce il motivo nella sezione di quelli basati sulla fortuna e il fato, e più precisamente nella tipologia delle uccisioni o morti accidentali, classificandolo N .: Un serpente trasportato da un uccello lascia cadere il suo veleno nel latte, avvelenando chi lo beve. È un racconto dalla struttura a catena o, come indica Lacarra, «un cuento problema», che ben si presta a dimostrare la capacità che ha l’Infante di risalire alla vera causa dei fatti e quindi di leggere la volontà di Dio, al di là delle apparenze ingannevoli e degli ostacoli incontrati. . Per questo racconto cfr. Marsan (), pp. -, dove si analizza il tema del Jugement des enfants. Cfr. inoltre Keller (), J : Sapienza manifestata da un fanciullo; ivi, J .: Seduttore pentito a causa delle parole del figlio della donna sedotta. Al motivo della saggezza infantile si associa quello della percezione straordinaria della persona cieca (cfr. Thompson, , F ). Il racconto ha una diffusione limitata al ramo orientale, ma fa riferimento al topos del puer-senex, a partire dall’episodio evangelico di Gesù fanciullo ritrovato fra i sapienti del tempio, e riscontrabile nell’ambito della letteratura gnomica. Tanto nel Syntipas che nelle Mille e una notte (notte ) il bambino ha tre anni, e il racconto è sostanzialmente il medesimo; cambia soltanto la funzionalità del pianto, che è, in entrambi, innanzitutto fisiologica, essendo dettata dalla necessità di pulire con le lacrime gli occhi e il naso;

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il testo greco condivide l’idea (evidenziata nel testo castigliano) dell’astuzia del fanciullo che con il pianto ottiene una maggior quantità di cibo. . Assieme al precedente racconto, testimonia la fortuna del topico del puer-senex, in ambito tanto orientale che occidentale. Un testimone assai prossimo è quello de La doncella Teodor, del quale i racconti qui compresi conservano anche una traccia della struttura a domanda e risposta. . Il racconto si costruisce sostanzialmente attorno a due ambiti tematici topici, ovvero quello della prova (Keller, , H) e quello della fortuna e del fato (ivi, N). Nella fattispecie, da un lato si registra, tutto concentrato nella parte finale del racconto e ripetuto in tre varianti, il motivo H ., relativo al compito impossibile imposto come prova da una delle parti – è il motivo che determina la vera materia esemplare e didascalica che punta a dimostrare che si può far giustizia degli stessi ingannatori; dall’altro lato si evidenziano i motivi inerenti alla fortuna (ivi, N .: Mercante di sandalo vende caro il suo prodotto in una terra che ne è priva; ivi, N ..: Il segreto dei ladri è scoperto e viene in seguito usato in tribunale), i quali assolvono più propriamente il ruolo di strutturare le vicende della storia narrata. Si è osservato che questo racconto è fra quelli maggiormente articolati dell’intera raccolta, così come si è rilevata l’insistenza sul valore del numero tre (cfr. Sendebar, , pp. -). Sul tema degli imbroglioni imbrogliati, cfr. Hertel (). Nella versione ebrea questo è l’exemplum che conclude il testo. . Nella versione greca la seconda prova che il mercante deve subire non è il gioco dei dadi, bensì una gara basata sulla conversazione e sui giochi di parole; uno dei tre complici sfida il povero mercante stabilendo che chi dei due farà un discorso «più verosimile dell’altro, vincerà» (Libro di Sindbad, , pp. -). . Si noterà come la narrazione della vecchia preceda l’episodio dell’assemblea dei ladri al comando del vecchio cieco. Proseguendo un motivo folklorico di lunga tradizione, la figura del vecchio cieco attorniato dai suoi compari anticipa quella di Monipodio della novella cervantina Rinconete y Cortadillo. . Nel testo «quito» (da quitar), già usato – con accezione giuridica di libre, exento – in Cid, - («Los que quisieren ir servir el Campeador / de mí sean quitos e vayan a la graçia del Criador»). . Il racconto è costruito attorno al motivo dell’adulterio (Keller, , K ..: Un abate amante scappa dal marito della donna vestito da frate), associato a quello del disfraz (K .: Fuga con mascheramento), implicando perciò il tanto diffuso motivo del marito ingenuo (J ; cfr. Disciplina clericalis, IX, X-XI, XIV; Lucanor,  ecc.), qui presente nei racconti , ,  e . Questo esempio non si trova nelle versioni araba, greca ed ebraica. Nel testo strutturalmente più vicino, ovvero quella greco, all’episodio del senex caecus succede il racconto (del tutto assente nella versione castigliana) tradizionalmente conosciuto come Vulpes, cui seguono altri tre racconti. Lacarra osserva che sia per il tema anticlericale sia per la brevità e l’incoerenza narrativa, nonché per la trascuratezza grafica del manoscritto, questo racconto è sicuramente aggiunto dal copista (cfr Sendebar, , p. ). Accolgo la segnalazione di Fradejas circa la coincidenza tematica di questo

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exemplum con El fraile fingido, raccolto da Durán nella sua silloge di romances (cfr. Durán, , pp. -). . La discrepanza esistente fra il termine «clérigo» indicato nel titolo e il nome «abad» adoperato nel testo sembra trovare una spiegazione nell’accezione più lata del secondo, che indica una qualsiasi alta carica religiosa, come risulta nell’Auto de los Reyes Magos,  («Idme por míos abades»). Come suggerisce Keller (Book of the Wiles of Women, , p. ), un vero abate, diversamente da un semplice chierico, non avrebbe avuto bisogno di farsi prestare un abito monacale. . Nel testo spagnolo «péndolas». Sull’importanza della péndola (o péñola) presso gli «omnes bien enseñados», e sul suo potere di guidare le cose del mondo assieme alla spada, cfr. Cien capítulos (), cap. XIX, pp. -. . Su questo tema e la relativa immagine, cfr. Köhler (); Linn (). Linn avanza l’ipotesi che l’immagine provenga da un poema del IX secolo legato alla letteratura liturgica ebraica e ne riscontra la diffusione nei poemi mariani francesi, inglesi e tedeschi ma non in quelli spagnoli. Lacarra (Sendebar, , p. ), tuttavia, segnala la Cantiga  di Alfonso X e il saggio relativo di Marchand (). La citazione sapienziale della terra immaginata come foglio di carta e il mare come inchiostro, con tutti i suoi pesci trasformati in penne, s’iscrive nelle metafore che connettono il libro e la scrittura al mondo e alla vita umana. Cfr., in proposito, gli studi di Curtius sul libro come simbolo (cfr. Curtius, , cap. CVI, pp. -). L’equiparazione del mondo al libro si legge in Cien capítulos (, cap. XVII, p. ): «El mundo es libro, e los omes son como letras, las planas como tienpos; quando se acaba una plana comiença otra». . Per le diverse punizioni della donna cfr. Comparetti (, pp. -); Paltrinieri (, pp. -). Mi limito a ricordare che nella raccolta Le mille e una notte (notte ), avendo il re dato carta bianca al principe sulla donna, questi la fa cacciare dalla città. Nel Mishlè Sendebar la donna, dopo aver narrato l’ultimo racconto della volpe con chiaro riferimento autobiografico, ovvero come esempio di una sorte penosa che tanto lei quanto la volpe non possono sopportare, viene graziata. Anche nel Syntipas greco la narrazione dell’esempio della volpe si lega al destino da assegnare alla donna traditrice. Se nella versione ebraica la storia della volpe viene letta dagli astanti come un esempio di quanto fosse inaccettabile la morte della bestiola e quindi della donna, nel testo greco, pur mantenendosi l’intenzione esemplare da parte della narratrice, il principe, benché comprenda che l’apologo induce a evitare gli eccessi, ritiene che la donna meriti una condanna che comporti una pena fisica. Infatti le si commina un rituale di ignominia: le viene rasato il capo, tinto il volto con della fuliggine, appeso al collo un campanaccio, è fatta salire in groppa a un asino, ma rivolta verso la coda e, accompagnata da due araldi che proclamano le sue nefandezze, è condotta “in trionfo” per tutta la città. Il testo continua e si conclude con tre capitoli che danno voce alla grande sapienza del filosofo Syntipas e testimoniano, nei modi tipici della letteratura sapienziale, la perfezione raggiunta dal giovane principe.

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