Le realtà del mito
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Le realtà del mito

aroni Giovanni Azz

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GIOVANNI AZZARONI svolge attività didattica, di studio e di ricerca presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna. Tra gli ultimi volumi pubblicati, L’arte del kabuki, La casa Usher 1984; Dentro il mondo del kabuki, Clueb 1988; Il corpo scenico ovvero La tradizione tecnica dell’attore, Nuova Alfa Editoriale 1990; Società e teatro a Bali, Clueb 1994; Gli oggetti nello spazio del teatro (insieme con Paola Bignami), Bulzoni 1997; Teatro in Asia (Malaysia - Indonesia - Filippine - Giappone), vol. I, Clueb 1998; Teatro in Asia (Myanmar - Thailandia - Laos - Kampuchea Viêt Nam), vol. II, Clueb 2000.

a cura di

Le realtà del mito

Una antologia sugli studi del teatro in Asia pone, prima ancora delle scelte, un problema metodologico, quello cioè di quale debba essere l’approccio secondo il quale il libro sarà strutturato. Non vi è dubbio infatti che il teatro nei paesi asiatici, dall’India al Giappone, sia un momento del più generale divenire della storia della cultura, e quindi delle società che lo esprimono. Per studiare quel teatro bisognerà conoscere la storia, l’economia, la politica, la religione, le arti e la cultura nelle diverse e sfaccettate manifestazioni di un determinato paese prima di affrontare l’oggetto teatro. L’approccio individuato è pertanto quello antropologico, l’unico possibile. Ogni altra metodologia sarebbe fuorviante, perché porterebbe a privilegiare l’aspetto performativo espungendolo dall’humus che lo ha generato, privandolo così di connessioni fondamentali per la sua comprensione. Le realtà del mito ambisce proporre un panorama esauriente e consapevolmente non esaustivo di scritti sul teatro in Asia individuati per temi orizzontali e trasversali organizzati in sezioni, ciascuna delle quali è stata curata da un giovane studioso orientalista: si leggerà di eroi, demoni e dei, dei trattati, dei maestri e degli allievi, della trance e della possessione, delle marionette e del teatro delle ombre, delle maschere, dei trucchi e dei costumi e della musica e del suo universo simbolico in una commistione integrata di nessi e nodi la cui comprensione è possibile solamente attraverso una decodificazione antropologica.

G. Azzaroni

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Le realtà del mito

a cura di

Giovanni Azzaroni

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Pagina 4

© 2003 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000.

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Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall’editore.

La redazione del volume è stata curata da Marisa Cortese, che Giovanni Azzaroni ringrazia particolarmente perché senza il suo aiuto questo libro non avrebbe visto la luce. L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nelle citazioni delle fonti dei brani riprodotti nel presente volume.

In copertina: Tibet, Danzatore con maschera di cervo mistico (Fosco Maraini, 1948). Gli autori del volume ringraziano il prof. Fosco Maraini per la concessione della foto di copertina, elaborata graficamente, che coglie il senso ed epitometizza il loro lavoro. Grafica di Oriano Sportelli

Realtà (Le) del mito / a cura di Giovanni Azzaroni. – Bologna : CLUEB, 2003 399 p. ; 24 cm ISBN 88-491-2063-X

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di febbraio 2003 da Legoprint - Lavis (TN)

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INDICE pag.

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Premessa - Per un approccio antropologico allo studio del teatro in Asia di Giovanni Azzaroni ...................................................................................

9

Eroi, demoni e dei: una riserva culturale Introduzione di Jean-Claude Capello .................................................................................

21

Il loro R1am1ayan˝a: la tradizione orale delle donne in Telegu di Velcheru Narayana Rao ............................................................................

26

Danze sacre del Bhutan. Un’antica tradizione di rappresentazione come rituale protettivo di un regno buddhista di Michael V. Aris .........................................................................................

48

L’arte di Manora, un antico racconto sul potere delle donne che sopravvive nel teatro del sud-est asiatico di Poh Sim Plowright ...................................................................................

55

La trasmissione dei saperi. I trattati, i maestri, gli allievi Introduzione di Matteo Casari ...........................................................................................

85

Museki Isshi di Zeami Motokiyo ......................................................................................

96

L’origine del teatro di Bharata di René Daumal ...........................................................................................

98

Alla ricerca di un’opera dimenticata sulla danza classica indiana: il Nartananirn˝aya di Mandakranta Bose ................................................................................... 102

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Uno studio sul teatro etnico filippino di Nicanor Tiongson - Ramon M. Obusan ................................................... 109 Un grande artista dei nostri tempi di Chang Keng ............................................................................................. 120 Ripensando Zeami. Dialogo con Kanze Tetsunojo di Rodowicz Jadwiga .................................................................................... 130 Training di Toni Samantha Phim - Ashley Thompson ................................................ 138

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Danzati dagli dei. Il rito della trance e lo spettacolo della possessione Introduzione di Carolina Guzman ..................................................................................... 143 Mugam: la danza in abiti sciamanici di Laurel Kendall .......................................................................................... 152 Possessione, danze mascherate e corpo divino nella valle di Katmandu (Nepal) di Gerard Toffin ........................................................................................... 162 Impersonificazione e mimo nelle cerimonie della religione popolare di E.R. Sarachchandra .................................................................................. 182 Danzare ed essere danzati: la danza in trance e le performance teatrali nella Giava occidentale di Kathy Foley .............................................................................................. 189 L’uomo e il suo doppio. Marionette e ombre del sud-est asiatico Introduzione di Mariagrazia Arlotta .................................................................................. 211 Dislocamento estetico nel teatro delle ombre giavanesi di Laurie Lobell Sears ................................................................................... 222 Le marionette birmane: Yokthe Thay in transizione di Kathy Foley .............................................................................................. 242 Le marionette in Asia sipario del mondo - Giappone di Autori Vari ............................................................................................... 254 Le marionette vietnamite di Trân Van Khê ........................................................................................... 260

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Maschera, trucco, costume. L’estetica del mito Introduzione di Marisa Cortese ......................................................................................... 269 Il costume n1o come interpretazione di Monica Bethe ........................................................................................... 278 Alcune note sulla danza tibetana di Sylvia Kirk-Tenzing .................................................................................. 283 Giocando con il passato. Visita e illusione nel teatro delle maschere di Bali di John Emigh .............................................................................................. 290

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Intervista a Udaka Michishige, attore della scuola K1ong1o di Rebecca Teele ........................................................................................... 300 Aharyabhinaya di Kalamandalam Govinda Warrier .............................................................. 306 L’arte del trucco nel kabuki di Seitaro Atsumi .......................................................................................... 312 L’arte della pittura del viso nell’Opera cinese di Weng Ouhong ......................................................................................... 318 La dimensione sonora. La musica orientale e il suo universo simbolico Introduzione di Leonardo D’Amico .................................................................................. 327 Musica in Malesia di William P. Malm ...................................................................................... 335 I contesti del dontrii lao deum: musica tradizionale laotiana di Katherine Bond - Kingsavanh Pathammavong ......................................... 340 Musica e danza coreane di corte di Byong Won Lee ........................................................................................ 360 Il canto difonico: descrizione, storia, stile, aspetti acustici e spettrali, pratica originale, ricerche fondamentali e applicate di Trân Quang Hai ....................................................................................... 372 Bibliografia ................................................................................................... 385

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Premessa Per un approccio antropologico allo studio del teatro in Asia

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di Giovanni Azzaroni

Editare una antologia sugli studi del teatro in Asia pone, prima ancora delle scelte, un problema metodologico, quello cioè di quale debba essere l’approccio secondo il quale il libro sarà composto. Non vi è dubbio infatti che il teatro nei paesi asiatici, dall’India al Giappone, sia un momento del più generale divenire della storia della cultura, e quindi delle società che lo esprimono. Per studiare quel teatro bisognerà conoscere la storia, l’economia, la politica, la religione, le arti e la cultura nelle diverse e sfaccettate manifestazioni di un determinato paese prima di affrontare l’oggetto teatro. L’approccio individuato è pertanto quello antropologico, l’unico possibile, il grimaldello che ho utilizzato sempre nei miei studi sul teatro asiatico. Occuparsi di un genere teatrale, sia che si tratti del kabuki giapponese, del kh1on tailandese, del kathakali indiano o dei moriones filippini, obbliga lo studioso a riflessioni teoriche e pratiche che esulano dal tessuto testuale della ricerca specifica, ma affondano le loro radici in un più vasto universo di cognizioni. Se il teatro classico indiano, come è raccontato nel N1at¸yaés1astra, è stato creato da Bharata per divertire gli dei, se il teatro giapponese, come è affermato nel Nihongi e nel Kojiki, deriva dalla kagura danzata per incuriosire la dea del Sole Amaterasu no Mikami, mitica progenitrice della casa imperiale, se le danze ’cham tibetane sono un momento in divenire dell’elevazione spirituale dei monaci, allora per capire e studiare questi modelli sarà necessario iniziare dal pántheon induista, dalla mitologia giapponese e dal lamaismo tibetano. Ogni altra metodologia, a mio avviso, sarebbe fuorviante, perché porterebbe a privilegiare l’aspetto performativo espungendolo dall’humus che lo ha generato, privandolo così di connessioni fondamentali per la sua comprensione. Poiché sostengo una origine funzionale per la maggior parte dei teatri asiatici, a maggior ragione diventa importante l’utilizzo del modo antropologico, capace di investigare con indagini a largo raggio che toccano molteplici aspetti, ne mettono in risalto gli ambiti più nascosti e, soprattutto, permettono interrelazioni e analisi analogiche che favoriscono risultati e scoperte impensabili con altri metodi di studio. Questi princìpi sono stati sistematizzati da Eugenio Barba che, per quanto attiene lo studio del corpo vivente dell’attore, ha teorizzato l’antropologia teatrale co-

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me possibile sistema di studio delle tecniche attoriali: secondo Barba, infatti, “l’antropologia teatrale postula un livello di base di organizzazione, comune a tutti gli attori, e lo definisce pre-espressività…, confronta e compara le tecniche degli attori e dei danzatori a livello transculturale e attraverso il comportamento scenico rileva che alcuni princìpi della pre-espressività sono più comuni e universali di quanto si possa a prima vista immaginare”1. Ovviamente questa premessa non può e non vuole avere valori assiomatici, semplicemente ho voluto indicare il modello di studio che sto seguendo nelle mie ricerche sui teatri asiatici. In molti casi il teatro in Asia è ancora strettamente connesso con la società, la sostiene e la giustifica; in passato i monarchi e i potenti lo utilizzavano per specchiarvisi, come i re thai o i devar1aja cambogiani, per dimostrare la loro potenza sociale ed economica. Le divinità e gli eroi della scena diventavano i progenitori mitici, i modelli archetipici dei regnanti, la loro legittimazione, che il popolo riconosceva perché raccontata dalle storie delle origini. E poco importava che le vicende rappresentate fossero tratte dagli antichi miti oppure narrassero le gesta degli eroi del R1am1ayan˝a, perché nel processo mitopoietico R1ama e S1 ıt1a diventavano il re e la regina della Cambogia o del Laos o della Thailandia. Questa irrinunciabile correlazione da un lato rende più facilmente identificabile il campo di indagine, dall’altro lo dilata quasi a dismisura imponendo studi e ricerche che esulano dai consueti interessi dei teatrologi. Ma nello stesso tempo consentono di indagare su fenomeni teatrali ormai scomparsi, cancellati dal tempo o dall’incuria degli uomini, inconsciamente oppure volutamente, perché studiando le civiltà che li hanno espressi è possibile rintracciarne percorsi e nessi. Se si eccettuano i Trattati di Zeami, l’alfabeto della danza thailandese, il N1at¸yaés1astra, un ’cham yig tibetano, l’Ayamegusa, l’alfabeto di forme scolpito sulle pareti del tempio di Angor Vat (le apsaras, essenza dell’acqua, che danzano) e pochi altri testi, per lo più incompleti, di difficile datazione, non attribuibili con qualche certezza storica e scientifica e in alcuni casi quasi sicuramente apocrifi, il teatro asiatico è affidato alla straordinaria e imperitura tradizione dei maestri che tramandano il loro sapere, di generazione in generazione, ai loro allievi. Il magistero del teatro asiatico va ricercato a partire da questa trasmissione orale, anche quando sono presenti testi scritti, in un rapporto simbiotico che unisce per sempre maestro e allievo. L’esempio più calzante è quello del br1ahman˝a che accoglie nella sua casa un giovane per insegnargli i precetti dei Veda (va subito sottolineato che non vi sono differenze di metodo qualora le discipline siano diverse): il giovane sisya serve umilmente il maestro, gli obbedisce e lo accudisce, non si scoraggia per le sue bizzarrie, diventa un membro della famiglia e dimostra così la sua volontà di imparare. Solo a questo punto il maestro, quasi con riluttanza, a poco a poco, inizia a di1

E. Barba - N. Savarese, The Secret Art of the Performer - A Dictionary of the Theatre Anthropology, Centre for Performance Research, Cardiff-Routledge, London-New York, 1990, trad. it., L’arte segreta dell’attore - Dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce, 1996, p. 174.

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spensare la sua sapienza. È esigente, non ammette errori, spesso punisce l’allievo per distrazioni minime, minaccia di cacciarlo a ogni più piccolo errore, non esita dal picchiarlo senza giustificarsi, tutto è ammesso al maestro. Alla fine del lungo tirocinio lo studente è come ri-nato, entra in una nuova vita, diventa un religioso praticante, un attore, un pittore, un letterato o un poeta. I tempi di apprendimento sono molto difformi e variano con le discipline, da pochi mesi a molti anni: nel teatro, ad esempio, il training in genere dura tutta la vita, cioè l’allievo, che a sua volta può essere diventato un maestro, continua a perfezionarsi continuamente per raggiungere il nono grado dell’ideale scala di Zeami (e la metafora è assolutamente pertinente). Questo sistema lega indissolubilmente maestro e allievo, ne fa un unicum che con la trasmissione perpetua i saperi del primo nel lavoro del secondo, che a sua volta li donerà a un allievo e così di seguito. L’insegnamento è considerato un dono, non è un obbligo, il denaro o i regali non saldano questo debito, che non è estinguibile: ricordo un attore kathakali, Kr¸s¸n˝akutti, il più grande interprete di quest’arte straordinaria che abbia incontrato durante i miei pellegrinaggi alla ricerca di teatro, in Kerala, nell’India del sud, quasi trent’anni fa, che parlava del suo maestro con le lacrime agli occhi e diceva che lo sentiva presente in ogni suo gesto, in ogni mudr1a, in ogni piega dell’abito o in ogni più piccola parte del trucco, perché l’insegnamento si era concretizzato in una unione spirituale, mistica. Io ti insegno questo e quello perché lo voglio, affermano i maestri, probabilmente non te lo meriti, cerca dunque di applicarti al massimo con tutte le tue risorse, fisiche e spirituali; se fallisci ti caccio e non ti voglio più vedere. Queste lapidarie parole epitometizzano una scuola di pensiero. Non esistono mezze misure, l’insegnamento è un dono che va ricevuto con gratitudine e con la coscienza di aver contratto un debito inestinguibile. Le valenze antropologiche di questa affermazione sono immediatamente evidenti: “Il dono non ricambiato rende tuttora inferiore colui che lo ha accettato, soprattutto quando è accolto senza l’intenzione di restituirlo… L’invito deve essere ricambiato, come la ‘cortesia’. Si scorgono qui, nella realtà, le tracce del vecchio sfondo tradizionale del potlàc nobile e affiorano i motivi fondamentali dell’attività umana: l’emulazione tra gli individui dello stesso sesso, questo ‘imperialismo’ degli uomini; lo sfondo sociale da una parte, lo sfondo animale e psicologico dall’altra, ecco ciò che appare. In quella vita particolare che è la nostra vita sociale, noi stessi possiamo ‘restare in debito’, come si dice ancora da noi. Bisogna dare in cambio più di quanto si sia ricevuto. Il ‘giro’ è sempre più costoso e più largo”2. Nell’Havamal, uno dei vecchi poemi dell’Edda scandinava, si afferma che qualora si riponga fiducia in un amico e si desideri ottenere dei buoni risultati dai suoi insegnamenti si deve confondere la propria anima con la sua, ricambiare

2 M. Mauss, Sociologie et antropologie, Presses Universitaires de France, Paris, 1950, trad. it., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 269-270.

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regalo con regalo e sorriso con sorriso. Questo richiamo alla cultura mitica occidentale non è casuale, perché propone interessanti analogie tra la tradizione scandinava e quella orientale. Il concetto di insegnamento come dono è un portato della cultura orientale, è una premessa indispensabile per ogni ricerca fondata su presupposti antropologici, e pertanto è il metodo che sempre ho seguito nei miei studi. Il guru è una sorta di padre spirituale che conferisce la d1 ıks¸1a, l’iniziazione, cioè l’insegnamento, al suo discepolo: nell’India antica al discepolo era fatto divieto di sposare la figlia del suo guru perché era considerata l’equivalente di una sorella. La trasmissione del sapere crea una catena che non si spezza negli anni, ma al contrario è continuamente rinforzata dall’allievo che, anche se è diventato un valente attore o un religioso o un artista, non dimentica mai il debito che lo lega all’antico maestro, come mi testimoniarono le lacrime di Kr¸s¸n˝akutti. Può ripresentarsi pure nell’inesauribile e inestinguibile fluire karmico. L’allievo ricambia il dono del maestro soprattutto con un corretto apprendimento, perché in questo modo ne tramanda il sapere, che altrimenti andrebbe perduto; il denaro e i regali sono secondari, hanno una minore importanza. Quando mi sono recato come studente-ricercatore in India o in Giappone o in Indonesia, ovunque, ho cercato di premettere a tutte le mie considerazioni di studioso occidentale questi assiomi che non fanno parte della mia cultura ellenocentrica. Sempre mi sono sforzato di imparare e insegnare partendo da concetti analogici, nella consapevolezza della relatività della cultura. In questo modo, non essendo né un attore né un religioso né un artista, ma uno studioso, credo di aver ricambiato il dono dei miei maestri, apprendendo i loro insegnamenti partendo dal loro punto di vista. Mi sono sforzato di offrirmi come una tabula rasa da riempire con nozioni estranee alla mia cultura, che però mi ha aiutato a comprenderle, perché non si può cancellare se stessi, non è possibile fingere di essere ciò che non si è. Ciò che a mio avviso si deve fare, è premettere una umiltà intellettuale che consenta di avvicinarsi a fenomeni culturali altri cercando di capirli dall’interno, dal punto di vista del narratore-protagonista, e non dall’esterno applicando le proprie categorie di giudizio. Il teatro asiatico richiede questo sforzo di avvicinamento e comprensione, non può essere affrontato con giudizi a priori (o con pre-giudizi prefabbricati conseguenti a opinioni già codificate), deve diventare vivente nelle (e con) le parole di coloro che ne sono i protagonisti. Mi si obietterà che in molti casi le origini affondano le loro radici in un lontano passato, in molte occasioni neppure databile: certamente è vero, come è vero che esistono studi che ne raccontano le storie e, in mancanza di testimonianze scritte, ci sono le parole tramandate dai maestri. Ma nel primo, come nel secondo caso, non è sufficiente leggere o ascoltare: per capire il teatro asiatico è necessario un ulteriore sforzo, quello cioè della sua sistematizzazione in un contesto più ampio che ne giustifichi l’esistenza. Per fare solo un esempio tra i tanti possibili: per studiare le origini del teatro giapponese non credo basti partire dal Nihongi o dal Kojiki, le prime cronache storiche nipponiche databili ot-

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tavo secolo, per cercare di costruirne lo sviluppo in tutti i suoi molteplici aspetti. Senza dubbio è da quelle pagine che prende le mosse ogni ricerca, ma poi bisogna spaziare in altri ambiti, cercare connessioni e interrelazioni. Amaterasu no Mikami si rinchiude in una grotta perché offesa dal fratello Susan1o no Mikoto e il mondo piomba nell’oscurità, quando ne esce la luce ritorna a risplendere su tutte le cose. Come non pensare allora ai semi che germogliano nel buio della terra e offrono prodotti quando, bucandola, sono riscaldati dai raggi del sole, crescono e danno frutti che gli uomini raccolgono per nutrirsi? Nascita, maturazione e morte in un ciclo continuo, dunque. In ambito antropologico è evidente che si tratti di riti di passaggio, nascita, matrimonio (analogo di maturazione) e morte. Come non tenerne conto, così come non considerare le origini formalmente agresti e popolari delle kagura, attualmente danze cerimoniali di corte rigidamente codificate? Nello stesso tempo la dea del Sole è considerata anche la progenitrice della stirpe imperiale, ampliando così le necessità di studio e approfondimento: dalla stessa divinità sono nati il teatro e il primo mikado. Questo esempio può essere considerato paradigmatico, molti altri avrebbero potuto essere indicati. Basti por mente alle origini di molti generi teatrali balinesi oppure alle cerimonie funerarie toraja oppure alle danze sciamaniche coreane oppure, ancora, al teatro delle ombre malese. Come non partire dalla religione studiando il teatro in India, paese della religione come situazione esistenziale? Si pone ora il problema del come ricercare: non vi è dubbio che chi scrive privilegia la ricerca on field per gustare il moraviano odore3 del paese ospitante, un odore che riverbera la sua gente e i suoi costumi, la sua storia e la sua cultura, la ricchezza e la povertà, le bellezze sublimi dei templi e delle foreste incontaminate e le bruttezze crudeli delle bidonville che si aggrappano alle periferie delle metropoli. Ricercare sul campo significa ascoltare, far parlare, farsi raccontare ciò che si cerca da chi ne è o ne è stato protagonista, sia che si tratti di un attore, di uno studioso, di un maestro o di uno sciamano. Sono loro gli attori principali degli eventi che l’antropologo dovrà poi ri-scrivere, il suo unico intervento è quello di ridar vita alla storia attraverso il linguaggio, i commenti e le opinioni sono un a parte contestualizzato scritto a posteriori. Se l’antropologia è il rimorso dell’Occidente, come icasticamente e con un lampo intuitivo geniale ha affermato Lévi-Strauss, a questo rimorso si può dare risposta ridando la parola ai soggetti di interesse antropologico (uso qui il termine in una accezione antropologica, cioè per coloro che devono raccontare, ovviamente senza le connotazioni negative e razziste di certa antropologia occidentale: in questo senso anche un austero professore della Waseda University di T1oky1o lo è), da considerare soggetti e non oggetti della ricerca. Per non ingenerare equivoci ritengo necessaria una precisazione proprio a proposito del professore della Waseda University: è evidente che in quel caso, da collega a collega,

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A. Moravia, Un’idea dell’India, Bompiani, Milano, 1962.

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dovrà mutare il metodo di lavoro ma non il presupposto che quel metodo ha ispirato. Ma per il ricercatore, i maestri di danza balinesi o indiani o thailandesi, gli attori-cantanti cinesi, gli sciamani mongoli, i monaci tibetani o i dalang malesi non sono forse altrettanti professori dell’università del teatro? Ne sono assolutamente convinto e pertanto ritengo che siano i metodi di ricerca che debbano variare secondo le circostanze o le necessità, mentre deve rimanere intangibile il principio del dono che chi racconta fa a chi ascolta e di conseguenza dell’obbligo di quest’ultimo di ricambiarlo. Rifuggo dai ricercatori che si fingono nepalesi o laotiani o cingalesi per calarsi meglio nelle realtà locali: nulla di più falso e fuorviante. Sono uno studioso occidentale che si è formato studiando Aristotele, non me ne posso né voglio dimenticare (ovviamente la medesima considerazione va estesa non solo allo studioso orientale che si è formato studiando i Veda, l’I Ching o i Goroku ma anche all’artista analfabeta che racconta quanto gli è stato trasmesso dal suo maestro). Aristotele come aiuto per la comprensione, non come mezzo di interpretazione, per la quale rivendico la necessità della conoscenza – naturalmente si tratta solo di un esempio – dei Veda, dell’I Ching e dei Goroku. Fingersi altro da sé, cercare di identificarsi fisicamente (molto spesso solo in una esteriore maniera fisica, mai intellettuale) è, a mio avviso, un metodo razzista di procedere: si riconosce l’inferiorità (mai la superiorità) dell’oggetto della ricerca e ci si abbassa al suo livello per farsi comprendere. Il rimorso di cui parla Lévi-Strauss ci deve insegnare anche l’umiltà del saper ascoltare, che diventa così intelligenza critica e capacità di apprendere. Ancora un ricordo personale che può essere preso come esempio: dopo aver soggiornato a lungo in Giappone, ospite della famiglia di Ichikawa Ennosuke III, il mio insegnante di teatro kabuki, mentre mi accingevo a ritornare in Italia gli chiedevo come avrei dovuto utilizzare le centinaia e centinaia di pagine di appunti che avevo scritto con un lungo e faticoso lavoro. La sua risposta mi lasciò in un primo tempo interdetto – “metti nel tuo lavoro il mio cuore kabuki” –, solo in un secondo momento ne capii l’importanza: Ichikawa Ennosuke III, tra i più grandi attori kabuki viventi, mi offriva una opportunità straordinaria, quella cioè di dar corpo al mio lavoro con il suo cuore kabuki, cancellando lo iato emozionale, reale, intellettuale e sociale che divide maestro e allievo, perché il maestro è diventato allievo e l’allievo è diventato maestro. Qualora il ricercatore ne sia capace, a mio avviso, è questo il modo più giusto di ricambiare il dono. La ricerca on field deve essere partecipante della natura dell’intervistato, il vero protagonista delle storie che l’intervistatore deve trascrivere senza surfetazioni o interpretazioni personali all’interno del testo. Teoricamente l’ideale quindi sarebbe che le storie fossero scritte da chi le racconta, perché in questo modo sarebbero evidentemente escluse le false interpretazioni o le correzioni suggerite da culture altre. Nella impossibilità pratica di pensare, nella maggior parte dei casi, a una antropologia di soggetti, anche se le eccezioni si sprecano, ma in un contesto leggermente diverso, come cercherò di chiarire, ritengo necessario ribadire il criterio del-

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l’oggettività scientifica nel riferire le opinioni degli intervistati. Per quanto afferisce l’antropologia di soggetti va precisato che in generale si tratta di studiosi provenienti da luoghi di interesse antropologico che raccontano delle proprie origini dal loro punto di vista, e pertanto esprimono le opinioni dell’io narrante. Si potrà obiettare che gli studi in paesi stranieri possono aver alterato le memorie originali (in realtà non sempre si tratta di paesi stranieri: si pensi, ad esempio, a un indiano Sioux che ha studiato in una università statunitense o a un balinese che si è laureato a Giacarta), e ciò potrebbe corrispondere al vero, ma certamente verrà rispettato il punto di vista del narratore. Nella ricerca on field è fondamentale un corretto incontro linguistico sia da un punto di vista psicologico che pratico: l’intervistato si sente più a suo agio se l’intervistatore parla la sua lingua e non fa uso di un interprete, pensa lo consideri al suo livello e quindi si esprime con più naturalezza e semplicità, non teme di incorrere in errori sotto gli occhi di un estraneo alla ricerca – l’interprete; questa considerazione la considero valida pure nel caso che l’interprete sia un membro della famiglia dell’intervistato, perché viene vissuto come un ascoltatore che può giudicare. In molti casi, come ho potuto sperimentare durante molti anni di lavoro in Asia, l’interprete tende a fornire la sua personale visione del fenomeno raccontato per renderlo più comprensibile all’ascoltatore, per arricchirlo di altri particolari, per mondarlo da quegli aspetti che potrebbero farlo leggere come un prodotto di cultura bassa. È immediatamente evidente la mistificazione che ne consegue. Inoltre la conoscenza della lingua – sempre raccomandata da Lévi-Strauss come primo momento di studio di una cultura altra, il secondo, appena giunti sul luogo della ricerca, è una lunga visita al mercato, specchio di tradizioni politiche, sociali, religiose e culturali – facilita il lavoro dell’intervistatore, che può porre direttamente le domande, interrelarle per meglio comprenderne le connessioni nascoste e, perché no, proporre verifiche incrociate su quanto gli è stato raccontato. Il mercato è dunque un crocevia obbligato, “l’occasione per incontrare gli amici, i parenti, la gente del villaggio, ma anche dei villaggi vicini. È un luogo dove si incrociano le generazioni, i sessi e le etnie diverse, legate da parentele scherzose, persino in situazioni di conflitto più o meno aperto. Il mercato è un terreno neutro dove nemici e avversari possono stare vicini, o dialogare. Ciascuno depone le armi prima di entrare. Tali grandi raduni scandiscono il calendario e servono spesso da punto di riferimento cronologico. Sono l’occasione per annunciare pubblicamente i grandi eventi, magari tramite un banchetto pubblico”4. Il quadro appena tracciato suggerisce una visione multidisciplinare nella ricerca antropologica, disciplina che continuamente si arricchisce di nuovi portati se è riferita alle realtà dell’oggi. Nel caso di una ricerca storica, su forme teatrali ormai scomparse o dalle origi-

4 S. Latouche, Il mercato, l’agorá e l’acropoli, in M. Aime, La casa di nessuno, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 9.

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ni che si perdono nella notte dei tempi, concordo con quanto scrive Riccardo Di Donato nella sua Introduzione ai Fondamenti di un’antropologia storica di Marcel Mauss: “Questi Fondamenti di un’antropologia storica non costituiscono una nuova crestomazia maussiana, un’antologia che trascelga nuovi fiori nel corpus davvero frammentario dell’opera dello studioso francese: essi si propongono di sostenere una ipotesi interpretativa che ha un’ambizione di globalità… Il suo principale risultato consiste nell’identificazione della sequenza società-nazione-civiltà come punto di arrivo della compiuta elaborazione teorica generale di Mauss. Il controllo delle tecniche, entro il quadro di una civiltà e l’idea di progresso, che a questo si accompagna, non sono corollari o meri accidenti, prodotto di soggettività dell’autore, ma appaiono storicamente determinati, figli – come si dice – del loro tempo, in una misura davvero elevata e sempre non gratuita”5. In questa situazione non esistono ovviamente i problemi indicati nel rapporto intervistato-intervistatore, ma, dal punto di vista metodologico, la sostanza rimane identica, perché anche in questo caso è necessario procedere in primo luogo con una contestualizzazione antropologica del fenomeno indagato. Riaffermo l’assoluta necessità di un grimaldello antropologico per aprire le porte che tengono nascosti i tesori del teatro asiatico, sia scomparso che presente sulle scene. Con Renato Rosaldo sostengo che “l’antropologia ci invita ad ampliare la nostra conoscenza delle possibilità umane mediante lo studio di altre forme di vita. Proprio come nell’apprendimento di un’altra lingua, anche in quest’indagine sono necessari tempo e pazienza: non ci sono scorciatoie. Ad esempio, non possiamo semplicemente far uso della nostra immaginazione per inventare altri universi culturali. Anche i cosiddetti regni della libertà pura, la nostra fantasia e i nostri pensieri più reconditi, sono prodotti della nostra cultura locale che pone loro dei limiti. L’immaginazione umana è tanto culturalmente formata quanto i modi distintivi di tessere, compiere un rituale, educare i bambini, soffrire o guarire da una sofferenza: sono caratteristiche di alcune forme di vita – siano balinesi, angloamericane, nyakyusa o basche. La cultura assegna un significato all’esperienza umana selezionandone alcuni aspetti ed organizzandoli… La cultura non ha sede in un ambito distinto e separato, come accade ad esempio per la politica o l’economia. Dalle piroette del balletto classico al più rozzo e banale dei fatti, tutto il comportamento umano è mediato dalla cultura che racchiude in sé il quotidiano e il misterioso, il popolare e il colto, il ridicolo e il sublime. Non vi è nulla di troppo elevato o umile: la cultura è onnipervasiva. Tradurre le culture significa tentare di capire altre forme di vita nei loro propri termini”6. Ancora una puntualizzazione di metodo: poiché i testi non possono non avere

5 R. Di Donato, Tra selvaggi e bolscevichi, in M. Mauss, I fondamenti di un’antropologia storica, Einaudi, Torino, 1998, pp. XXI-XXII. 6 R. Rosaldo, Culture and Truth, Beacon Press, Boston, 1989, 1993/2, trad. it., Cultura e verità Rifare l’analisi sociale, Meltemi, Roma, 2001, p. 67.

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autori è necessario cercare la collaborazione testuale, cioè l’informatore e l’antropologo-teatrologo diventano co-autori, poiché quest’ultimo ha il compito, nello stesso tempo, di scrivano, di archivista e di interprete dei racconti. Bisogna avere la coscienza che non è possibile conoscere tutta la verità, né scrivere di altri come se si trattasse di testi o oggetti separati. La scrittura e la lettura dell’etnografia sono sovradeterminate da forze esterne al controllo sia dell’autore che dei lettori-interpreti. La valutazione dei resoconti culturali e il potere di decidere come separare la scienza dall’arte, il sapere dall’ideologia e il realismo dalla fantasia rappresentano distinzioni mutevoli che non possono essere ignorate. La scrittura etnografica connota un modello di rigorosa parzialità – l’ossimoro è solo apparente – e identifica “un’etnografia complessa, problematica e parziale” che porta “a forme più raffinate, concrete, di scrivere e di leggere, a nuove concezioni della cultura come interattiva e storica”7. Queste formulazioni teoriche sono una possibile chiave di lettura dell’antologia Le realtà del mito, che ambisce proporre un panorama esauriente e consapevolmente non esaustivo di scritti sul teatro in Asia individuati per temi orizzontali e trasversali organizzati in sezioni, ciascuna delle quali è stata curata da un giovane studioso orientalista: si leggerà di eroi, demoni e dei, dei trattati, dei maestri e degli allievi, della trance e della possessione, delle marionette e del teatro delle ombre, delle maschere, dei trucchi e dei costumi e della musica e del suo universo simbolico in una commistione integrata di nessi e nodi la cui comprensione è possibile solamente attraverso una decodificazione antropologica.

Avvertenze Nell’impossibilità di proporre una translitterazione e un’accentazione corrette e complete si è preferito mantenere quelle adottate dagli autori. Nel testo per i nomi propri giapponesi, seguendo l’uso nipponico, il cognome precede sempre il nome.

7

J. Clifford, Introduzione: verità parziali, in J. Clifford - G. E. Marcus, a cura di, Writing Culture: Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press, 1986, trad. it., Scrivere le culture - Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma, 1997, 1998/2, p. 50.

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Eroi, demoni e dei: una riserva culturale Documento acquistato da () il 2024/02/19.

a cura di Jean-Claude Capello

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Introduzione

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di Jean-Claude Capello

Gli spazi dei monoteismi sono avversi alle dimensioni del mito. Questa affermazione categorica parrebbe eccessiva, soprattutto per un occidentale cresciuto in una cultura fondata sul Cristianesimo. Ma volgendo lo sguardo alla nostra storia, da poco nel suo terzo millennio, non si potrebbe che confermare quanto detto in apertura. Per uscire da questa dimensione a prima vista totalizzante bisognerebbe incominciare a rendersi conto che in Occidente il mito è diventato mitologia assai prima che un qualsiasi processo di museificazione ottocentesco ne decretasse la morte. Per certi versi bisognerebbe rintracciare le prime avvisaglie di questo processo nell’antichità della stessa cultura greca, nel percorso verso la laicizzazione e razionalizzazione che quella cultura intraprese a partire dalla sua esperienza repubblicana, a cui tanto dobbiamo. Si diceva della mitologia. Essenzialmente le fonti a cui abbiamo attinto riguardo al mito sono state, fino a un secolo fa circa, alcune opere classiche a cui si guardava in modo accademico: l’Iliade e l’Odissea o le Metamorfosi, per esempio, mentre nel nord dell’Europa si guardava anche alle saghe nordiche. Gli dei, i loro avversari e gli eroi vi sono illustrati in un ménage à trois fatto di tradimenti, simpatie, favori concessi o negati e guerre titaniche. Ma la nostra lettura, accademica per l’appunto, ci ha mostrato questi soggetti dal punto di vista filologico, ne ha fornito un’interpretazione psicanalitica o, più tardi, una antropologica. Quelle forze erano, e continueranno a essere alla nostra mente, delle favole colte. Nel secolo appena conclusosi, l’interesse per i luoghi del mito ha incominciato a includere anche quelli appartenenti alla sfera della trasmissione orale che, fra mille remore, si potevano considerare tradizioni vive. Le remore crescevano a dismisura quando si guardava in casa propria, in Europa1, e allora apparivano – come una spada di Damocle – alcune distinzioni, precisazioni, riguardo la recrudescenza della superstizione. 1

Il termine Europeo non si limita a indicare un abitante del continente Europa, ma un appartenente alla cultura generatasi dall’Europa, che include buona parte delle Americhe e anche una parte di Asia e Oceania: insomma, quello che altrimenti si indica come occidentale.

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Questo non vuole essere un atto di accusa nei confronti della nostra civiltà, né vorrà diventare un arroccamento eurocentrico su cui si dovrebbe fondare la nostra superiorità. La cultura occidentale ha sviluppato, per queste figure, una volontà di catalogazione associata al tentativo di analisi senza precedenti, realizzando un poco l’utopia della biblioteca. Quindi, stabilito che noi Europei siamo il soggetto, qual’è l’oggetto del nostro interesse? Gli studiosi della mitologia si limiterebbero a trovarlo nella figura mitica, ma il taglio antropologico che sottintende questo libro sposta l’attenzione alle culture che di quei miti ne fanno uso. Ma ancora l’interrogativo rimane irrisolto: chi sono questi popoli? Non necessariamente sono culture politeiste, ma spesso hanno sviluppato sistemi economici più deboli se li paragoniamo al nostro e con i nostri canoni di giudizio, ma, indubbiamente, sono culture altre. La scelta dell’Asia come luogo d’interesse è – tutto sommato – facile: migliaia di anni di movimenti, integrazioni, scontri e sovrapposizioni di popoli hanno portato questo grande luogo geografico a essere una delle mete d’indagine per molti versi scontata. Ma è appunto la grandissima eterogeneità a complicare le cose, e non solo perché esistono tante culture con i relativi parchi mitici, ma perché queste culture se li sono portati dietro nei loro spostamenti, barattando di volta in volta alcuni elementi con i popoli vicini, rielaborando istanze di chi li precedette su quel determinato territorio e così via. Un caso esemplare è l’epopea del R1am1ayan˝a. Come altri cicli epici, la messa per iscritto è solo una delle tappe della sua fortuna. Da secoli si raccontava la storia di R1ama quando, molto probabilmente nel periodo Gupta, si fissò per iscritto l’epopea di V1alm1 ıki in un testo2. Ma il ciclo, nel IV secolo d.C., era già così famoso che, oltre a diverse versioni regionali, ormai così radicate da potersi considerare tradizionali, conobbe anche il riadattamento dell’altro polo della fede nell’India di quel tempo: il Buddhismo. Infatti, in quegli stessi anni, accanto alla versione di V1alm1 ıki, e non sappiamo se prima o dopo la sua stesura definitiva, venne messa per iscritto anche la versione buddhista, della forma di un jataka3. A breve termine si aggiunsero versioni scritte: in lingue dravidiche, il riadattamento jaina e altre. Ma la storia di R1ama non rimase solo in India. Sotto l’impulso missionario del Buddhismo si propagò verso il nord e più tardi piegò verso est, arrivando fino in Giappone sotto l’ennesima avatar del R1am1ayan˝a: La storia dello scimmiotto. Invece, attraverso le comunità mercantili, in particolare quelle del sud dell’India che disponevano di ottime flotte, la versione hindu si mosse via mare verso il sud-est asiatico e poi ancora più a est, nell’Indonesia, dove oggi l’isola di Bali è l’unica dell’arcipelago, a schiacciante maggioranza islamica, che ancora professi l’Hinduismo.

2 Non è difficile immaginare che quanto descritto, non solo non fu così lineare, ma che a tutt’oggi esistano molte zone oscure su chi realmente scrisse cosa e quando. 3 Ovvero un racconto di una delle vite precedenti di Siddharta Gautama.

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Inoltre, il seme dell’epopea di Rama diede i suoi frutti producendo ulteriori versioni in terre straniere, sovrapponendosi al substrato culturale dei luoghi, come nel caso del Ramakien, la versione thailandese, o del Phra Lak/Phra Lam laotiano. Che pur originandosi in contesti oggi a maggioranza buddhista, condividono l’eredità più cospicua con l’Hinduismo. Accanto alle versioni scritte del mito di R1ama e della sua stirpe abbondò, o meglio abbondarono, molte tradizioni di tipo orale, e la forza dell’epopea era tale che tutti gli strati sociali e tutte le caste riuscivano a trovarvi motivo di appartenenza. Il caso illustrato da V. N. Rao, riguardo alle canzoni eseguite dalle donne di una regione dell’India, è solo uno tra gli esempi disponibili. Una risonanza simile la ebbero anche l’altro grande ciclo epico hindu, il M1ah1abharata, e le raccolte dei Pur1an˝a, che trovarono in altre parti dell’Asia, seppure in maniera minore, un terreno ospitale. Ma l’Asia non si riduce solo all’area culturale indiana e alle sue propaggini. Anche Cina e Giappone scrissero importanti epopee a tutt’oggi apprezzate, mentre altre culture oggi estinte portarono nell’oblio i propri dei ed eroi. Di questi, a volte, rimangono solo dei frammenti da cui si tenta di ricostruire a grandi linee la storia, come del caso di Gilgamesh. Indubbiamente le opere scritte sono le prime ad attirare l’attenzione degli studiosi, per via della pretesa, quanto fittizia, fissità della loro forma che ne dovrebbe garantire un’analisi omogenea. Ma accanto alle culture che si avvalsero della scrittura per raccogliere i propri miti, ne esistono moltissime altre, a volte clan, tribù, che si avvalsero esclusivamente della trasmissione orale. Inoltre, una parte considerevole dei gruppi che hanno trasmesso la propria cultura mitica per via, gioco forza, orale, sono le stesse classi analfabete, socialmente sottoposte rispetto a quelle classi sociali che avevano, e spesso ancora oggi detengono, la possibilità di alfabetizzarsi. Il saggio di Poh Sim Plowright sulla tradizione di Manora e delle sue molte incarnazioni, talvolta scritte, più spesso trasmesse solo per via orale, dà un buon esempio di come un tema mitologico si possa snodare non solo attraverso varie culture, ma anche attraverso differenti media. Per contro, la messa per iscritto dei miti e delle epopee epiche li rende accessibili a una tipologia di pubblico originariamente non inclusa nei possibili fruitori diretti. Questa evenienza si manifesta soprattutto oggigiorno, laddove l’alfabetizzazione, estesa in via teorica a tutti gli strati della società, estromette l’élite culturale, spesso coincidente con quella sacerdotale, dal controllo delle fonti. Oltre alle differenze riguardanti la diffusione, tra noi occidentali e quasi tutte queste culture, una di quelle più macroscopiche è l’uso che del mito viene fatto. Si è accennato alla nostra passione per la museificazione del mito. Ma per queste culture, di cui solo tre esempi vengono trattati in questa sezione, il mito ha una funzione vitale, da cui la società attinge assiduamente per vivificarsi. Questa non è un’interessata deduzione da antropologo, un sogno che si realizza forzosamente. Basterebbe un viaggio presso uno di questi paesi per rendersi conto di come gli dei

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siano presenti nella vita quotidiana e l’eroe sia assunto come modello etico a cui il cittadino modello dovrebbe ispirarsi. Il mito arriva a rappresentare la società, le sue strutture e il presente, ed è inoltre sufficientemente flessibile affinché resista nel tempo; in questo modo non solo rinnova, ma rinnova rinnovandosi. Oggi la moltiplicazione dei mezzi mediatici di comunicazione ha incrementato i canali attraverso cui il racconto delle gesta delle figure appartenenti al repertorio tradizionale, fino a ieri esclusivamente relegati a momenti rituali, possano irradiarsi, assumendo una nuova forma appropriata al medium. Gli artefici di questa migrazione dei contenuti, sempre con un occhio all’entertainement, spesso non nascondono il vanto del proprio operato, sentendo di aver adempiuto a un voto di fede nei confronti della sorgente mitopoietica, e allo stesso tempo di aver dato una nuova veste a qualcosa di cui si sentono parte e debitori allo stesso tempo4. Questo potrebbe aprire un interessante aspetto su come il mito trova il modo di essere vivo utilizzando a proprio vantaggio alcune forme importate da meno di un secolo dalla nostra cultura, come il cinema e la televisione. Purtroppo non sarà questa la sede di tale approfondimento. Molto tempo prima dell’avvento di queste forme tecnologiche, uno dei mezzi attraverso il quale le culture hanno fatto rivivere il mito è stato il teatro (nella sua accezione più ampia e non limitata all’opera del drammaturgo), anzi, è uno dei mezzi privilegiati, e più il teatro deve rappresentare situazioni o personaggi astratti o carichi di simboli, più entra in simbiosi con la sfera rituale legata all’officio religioso, al punto che la concezione europea di teatro appare fuorviante con la sua aura di divertimento e di tempo libero che oggi si porta appresso nella nostra società. La trance risulta essere la strada obbligata attraverso cui un dio, o uno spirito, si può manifestare nel corpo di un attore-danzatore. L’apparizione non sarebbe vera se il suo medium non si svuotasse della propria personalità. Non rivivrebbe, né camminerebbe ancora una volta tra i mortali: sarebbe semplicemente rappresentato. Giusto per parafrasare un grande maestro del teatro del ’9005, l’attore asiatico è un veicolo e, aggiungiamo noi, il suo corpo è un tabernacolo, uno dei pochi sancta sanctorum degni di essere animati direttamente da un dio. Non è quindi un caso che in Giappone un grande attore possa essere nominato dall’imperatore, che fino al 1945 vantava una diretta discendenza dalla dea del Sole, un Tesoro Nazionale Vivente. La sacralizzazione dell’attore porta un’altra testimonianza al fatto che molte forme del teatro asiatico sono fortemente dipendenti dal rito. A volte le rappresentazioni occorrono in particolari ricorrenze, altre volte sono il fulcro del rito stesso attraverso il quale il mito si incarna per rinnovare la propria ascendenza nei confron4 Si veda L. A. Babb e S. S. Wadley, a cura di, Media and Transformation of Religion in South Asia, University of Pennsilvanya Press, 1995, in particolare nella sezione di P. Lutgendorf, p. 228. 5 O meglio due grandi maestri, dato che l’unica definizione che Jerzy Grotowski accettò mai del proprio lavoro a partire dalla metà circa degli anni ’80 fu coniata da Peter Brook.

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ti del pubblico, per guidare o vaticinare chi lo abbia interpellato. Non è quindi un caso che in Asia spesso si parli di attore-sciamano, o che gli attori-danzatori appartengano direttamente alla classe sacerdotale, o che, comunque, godano di un prestigio particolare proprio in virtù del loro ruolo mediatore tra il mondo degli dei, degli eroi e delle forze sovrumane e il nostro mondo terreno. Oggi, sotto la spinta massificante e omogeneizzante del nostro tempo, molte tra queste culture asiatiche per cui il mito aveva un ruolo primario, sono state messe alla prova. Parecchie non ce l’hanno fatta, si sono dimostrate deboli e, più o meno lentamente, hanno iniziato a corrompersi, cedendo a varie tipologie di istanze: di mercato, di ideologie politiche (come nel caso della Cina, ma senza scordare altri casi, come ad esempio la Cambogia che, in una manciata di anni, ha annientato i depositari delle danze rituali), all’integralismo religioso (come quello islamico in Malaysia e Indonesia). Accade quindi che, come la fauna e la flora a rischio di estinzione, il mito e i riti che – si è accennato – si trovano in stretta simbiosi, vivano, e a volte sopravvivano, solo in virtù di alcune riserve, come nel caso di Bali, il motore del turismo indonesiano, sopportata da un regime e da un intellighenzia che in altre parti dell’arcipelago non nasconde forte antipatia e imbarazzo per tutte le forme di credenza precedenti all’islamizzazione del territorio. Altre volte la sopravvivenza la si deve alla particolare forza di cui queste realtà godono, di quanto sia ancora importante la loro presenza per la salute della società. È ancora il caso di Bali, per molti sensi unico, che al turismo mordi e fuggi offre spettacoli alleggeriti dall’elemento rituale, pur custodendo a proprio uso performance ancora dense di significato. Insomma, anche in Asia, le prospettive per la sopravvivenza del mito e del teatro che spesso lo incarna non sono tra le più rosee, sebbene in alcuni casi la situazione sia meno critica che altrove. Ma il fluire della storia non ci permette di dire di essere arrivati né a un punto di non ritorno, né a una boa, da cui adesso, poco alla volta, ci si avvicinerà nuovamente al punto di partenza. Le culture con i loro miti, credenze, eroi, generi teatrali continueranno, come è sempre stato, a essere sollecitate al dialogo e al confronto con il presente, ibridandosi per riuscire a volte a mantenere intatto lo spirito originario che le animava nonostante superficiali aggiustamenti di tiro, altre volte per imboccare una strada diversa. Gli articoli che seguono illustrano non solamente tre diverse ecologie del mito, ma anche tre diverse tipologie (non per forza le uniche disponibili). La prima è legata a un grande e fortunato ciclo letterario. Il secondo articolo è legato al culto religioso e ai rapporti tra il mondo degli officianti del sacro e quello dei fedeli laici. Il terzo esempio parrebbe a prima vista quello meno alto ma che in realtà afferisce a un archetipo mitologico tanto profondo che a tutt’oggi ne persistono varianti tanto nel sud-est asiatico che in Europa. La scelta operata è forzatamente limitata e altri sguardi avrebbero potuto sicuramente fornire materiali diversi in tal senso. Ma data l’impossibilità di essere esaustivi, ci limitiamo qui a considerare la peculiarità di questi tre esempi.

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Il loro R1am1ayan˝a: la tradizione orale delle donne in Telegu di Velcheru Narayana Rao

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1 ma 1 yan˝as - The Diversity of Narrative Tradition in in Paula Richman, a cura di, Many Ra South Asia, Oxford University Press, Oxford, 1991, pp. 114-136

Da bambino, crescendo in una famiglia brahmana nel distretto nord-est di Srikakulam, in Andhra Pradesh ascoltavo spesso mia madre mormorare la mattina: leve s1 ıtamm1a m1ayamm1a muddulagumma leve bangaru bomma leve / leci r1amuni lepave vegamu led˝ikunnulad1ana leve / t&ellavaracc&enn1u (Svegliati S1 ıt1a, madre mia, mia cara, sei la mia bambola d’oro / Alzati e sveglia R1ama, tu che hai gli occhi di una daina / È mattina!). Mia madre aveva un taccuino nel quale annotava le canzoni, molte delle quali erano ispirate al R1am1ayan˝a e le cantava quando altre donne visitavano la casa. Oggi il taccuino che mia madre riempì è andato perduto, ma quelle canzoni, e molte altre di quel tipo, continuano a essere cantate dalle donne dell’Andhra Pradesh. Raccontano una versione del R1am1ayan˝a differente da quella più conosciuta attribuita a V1alm1 ıki1. Le canzoni sul tema del R1am1ayan˝a hanno ricevuto un’attenzione particolare dagli studiosi telegu solo raramente. La più antica collezione di queste canzoni è stata redatta da Nandiraju Chelapati Rao, Str1 ıla P1at¸alu, Manjuvani Press, Eleru, 1899; e Mangu Ranganatha Rao, N1ur•u Hind1u Str1 ıla P1at¸alu (c. 1905). L’esistenza di queste prime collezioni è menzionata nell’introduzione di Sripada Gopalakrishnamurti di un altro testo, Str1 ıla R1am1ayan˝apu P1at¸alu, Andhrasarasvatiparishattu, Hyderabad, 1955, edizioni che non ho reperito. Una collezione di canzoni popolari più recente, che ne include alcune di brevi ispirate al R1am1ayan˝a e cantate da donne, è quella di Nedunuri Gangadhram, Minneru, Sarasvathi Press, Rajahmundry, 1968. Una piccola quanto estremamente interessante raccolta, che include canzoni ispirate al R1am1ayan˝a da parte di donne di basse caste, si trova in un testo curato da Sriramappagari Ganappa, J1anapadageyar1am1ayan˝amu, Gunturu, 1983. Un’altra raccolta, sempre di Ganappa, è J1anapadagey1alu, Jayanti Publications, Vijayawada, 1985, che include una parte delle canzoni già pubblicate nella precedente edizione del 1983. Studi più antichi includono: Hari Adiseshuvu, J1anapadageyavañmayaparicayamu, Navyavijnanpracuranalu, Gunturu, 1954, 1967 reprint, pp. 245-250; Birudaraju Ramaraju, Teluguj1anapadageyas1ahityamu, Janapadavijnapracuranalu, Hyderabad, 1958, 1978/2, pp. 78-126; Tumati Donappa, J1anapadakal¸1asampada, Abhinandanasamiti, Acarya Tumati Donappa Mudu Arvaila Pandaga, Hyderabad, 1972, 1987 reprint; Panda Samantakamani, Telugus1ahityamulo R1amakatha, Andhrasarasvatiparishattu, Hyderabad, 1972, pp. 248-269; T. Gopalakrishna Rao, Folk Ramayanas in Telegu and 1 Kannada, Saroja Publications, Nellore, 1984; Kolavennu Malayavasini, Andhra J1anapada S1ahitya1

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Il R1am1ayan˝a in India non è solo una storia dalle molte rinarrazioni: è una lingua con la quale si possono veicolare una serie di dichiarazioni. Le donne in Andhra Pradesh hanno lungamente usato questa lingua per dire ciò che desideravano come donne2. Discuterò di due distinti gruppi di canzoni, quelle cantate dalle donne di alte caste brahmane e quelle cantate dalle donne di caste più basse, soffermandomi maggiormente sulle prime. Dimostrerò che, sebbene i due gruppi di canzoni rappresentino un modo femminile preciso di usare il R1am1ayan˝a per sovvertire l’autorità stabilita, sono allo stesso tempo molto differenti l’uno dall’altro, sia per le storie che cantano, sia per le specifiche forme di autorità che cercano di sovvertire.

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Alcuni antefatti In Andhra Pradesh, mentre gli uomini appartenenti alle caste più alte tendono ad associare il R1am1ayan˝a al testo sanscrito attribuito al leggendario V1alm1 ıki, le donne brahmane non lo considerano altrettanto autorevole. Nelle loro canzoni V1alm1 ıki appare come una persona che, coinvolta nella vita di R1ama e S1 ıt1a, diede di quegli eventi una ricostruzione, non necessariamente però una ricostruzione è corretta. Come la maggior parte dei fedeli di questa tradizione, le donne credono che gli avvenimenti raccontati nel R1am1ayan˝a siano realmente accaduti e non, invece, storie di finzione e tutte le differenti versioni concorrono a mantenere tale credenza: infatti, contrariamene all’opinione corrente la storia di finzione ha solo una versione dei fatti mentre, un evento realmente accaduto avrà inevitabilmente diverse versioni, in base al punto di vista, all’atteggiamento, all’intento e alla posizione sociale di chi lo racconta. Gli eventi del R1am1ayan˝a sono contenuti in diverse canzoni tra loro separate, alcune più lunghe, altre più brevi. Solitamente vengono cantate in occasione di raduni privati sul retro delle case brahmane, oppure eseguite da gruppi di donne anziane che cantano per se stesse mentre sbrigano le faccende domestiche. Circa venticinque fra queste canzoni sono particolarmente popolari e messe insieme costi-

mu: R1am1ayan˝amu, Visakhapatnam, 1986. Donappa include alcune canzoni sul R1am1ayan˝a della regione del Rayalasima nell’Andhra Pradesh, assenti in qualsiasi altra raccolta pubblicata. Gopalakrishna Rao menziona il lavoro di K. Srilakshmi, Female Characters in Folk Songs Based on Ramayana, Osmania University, Hyderabad, 1980, ma, sfortunatamente non sono stato in grado di consultarlo. 2 Per continuare con un linguaggio di metafore, si potrebbe dire che ci sono dei R1am1ayan˝a la cui grammatica è meno convenzionale, come la versione Dravida Khazagam popolare in Tamilnadu. Ci sono diversi R1am1ayan˝a in Telegu, il più degno di nota è una recente versione in chiave marxista-femminista di Ranganayakamma intitolata R1am1ayan˝a Vis¸avar¸ks¸am (Il R1am1ayan˝a: un albero velenoso), 3 voll., Sweet Home Publications, Hyderabad, 1974-1976.

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tuiscono una versione dell’epica abbastanza organica3. La maggior parte, specialmente per quelle più lunghe, sono anche disponibili in edizioni critiche, per quanto le versioni orali varino in piccoli dettagli rispetto a quelle stampate4. Dato che è difficile per un uomo essere presente a questi eventi femminili, non ho potuto registrare di persona tutte le canzoni. Con l’aiuto di due colleghe – Kolavennu Malayavasini dell’Andhra University di Waltair e Anipindi Jaya Prabha dell’Università del Wisconsin-Madison, entrambe di casta brahmana – ho potuto acquisire un certo numero di canzoni del R1am1ayan˝a su nastro. Le poche canzoni che ho registrato da solo sono state cantate dalla stessa Malayavasini e da Jaya Prabha quando, leggendo da uno di quei testi stampati, mi mostravano i diversi stili di canto. Le mie informazioni sul contesto di tale pratica, sulle cantanti e il loro pubblico mi giungono in parte dall’esperienza personale avuta durante l’infanzia e in parte da Malayavasini e da Jaya Prabha. Probabilmente i brahmani sono la comunità dell’India maggiormente studiata, cosicché la letteratura antropologica dell’Asia del Sud ne offre in generale informazioni etnografiche considerevoli. Ma i brahmani dell’Andhra Pradesh non sono stati egualmente indagati e, in particolare, si sa poco riguardo le donne brahmane dell’Andhra. Sfortunatamente il seguente breve abbozzo non può essere considerato come uno studio etnografico completo sulle donne brahmane, ma si limita a fornire almeno le conoscenze di base per le conclusioni di questo mio studio. Brahmano (in Telegu br1ahman˝ulu o, più colloquialmente br1ahmalu) è una parola sotto il cui significato si indicano – in Andhra – molteplici gruppi di tipo endogamico. Questi gruppi hanno nomi indipendenti5, ma nei termini della quadripartita società hindu appartengono tutti alla categoria più alta, cioè, il br1ahmana. Sono vegetariani e sono considerati ritualmente puri in virtù della loro nascita; i brahmani sono accreditati da secoli al più alto livello di rispetto sociale nella società hindu. Le famiglie brahmane hanno una percentuale di alfabetizzazione molto alta e gli uomini sono sempre stati studiosi, poeti e cultori di saperi religiosi e se3 Bisogna notare che la popolarità di queste canzoni sta venendo meno: le giovani brahmane che frequentano i college o le università non le cantano più. 4 Nel 1955 Andhrasarasvatiparishattu, un’organizzazione di servizi letterari di Hyderabad, ha raggruppato quarantadue di queste canzoni in un volume intitolato Str1 ıla R1am1ayan˝apu P1at¸alu, che ha un’introduzione critica a opera di Sripada Gopalkrishnamurti, ma non viene fornita nessuna informazione riguardo al metodo del raggruppamento effettuato, alle cantanti o al contesto in cui vengono cantate. Mancano anche le informazioni riguardo all’intonazione con cui si cantano tali melodie. È possibile che questo libro ricalchi parzialmente o totalmente edizioni stampate anni prima. L’introduzione di Gopalkrishnamurti, peraltro di valore, non si sofferma su questi argomenti. Anche la prima pagina del libro dice che l’edizione è stata curata da Krishnasri – uno pseudonimo probabilmente – mentre la prefazione indica che Gopalkrishnamurti non è stato direttamente coinvolto nell’operazione editoriale di raccolta delle canzoni. 5 Per esempio Vaidiki, Niyogi, Golk&on˝d˝avy1aparis, Madhvas Dr1avid˝as, ecc. Inoltre ogni gruppo vanta ulteriori suddivisioni.

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colari. I brahmani hanno così stabilito gli standard della cultura sanscrita e la loro parlata è considerata la più corretta. Gli appartenenti alle altre caste imitano questo modo di parlare per farsi riconoscere come persone istruite. In Andhra le donne delle famiglie brahmane sono segregate dagli uomini sebbene non usino il velo come le donne dell’India del Nord, né sia proibito loro apparire in pubblico davanti a un uomo, come accade alle donne delle caste contadine. Sono comunque incoraggiate a condurre una vita separata. Nell’Andhra premoderno, antecedentemente ai movimenti per le riforme sociali e per le legislazioni della fine del XIX e del primo XX secolo, le ragazze brahmane venivano date in sposa prima della pubertà, in matrimoni organizzati dai genitori. Spesso lo sposo era molto più vecchio della sposa e alle mogli brahmane non era consentito di risposarsi se il marito moriva. Anche oggi le vedove sono considerate indesiderate e infauste; per esempio, non possono benedire le giovani spose durante i matrimoni, viene loro negata anche la possibilità di usare gli ornamenti, i vestiti colorati, i bracciali, la curcuma [Si intende la curcuma utilizzata come cosmetico – ndt], e il segno rosso sulla fronte, tutti simboli di buon auspicio. In alcune famiglie, specialmente quelle appartenenti alla suddivisione Vaidiki delle caste, le vedove devono radersi la testa. Tuttavia le vedove più anziane sono rispettate in virtù della loro età, in particolare se hanno cresciuto una famiglia, e le donne più giovani si rivolgono a loro per essere consigliate e aiutate. Sono anche le depositarie delle tradizioni della casta e spesso delle buone cantanti. Le altre donne, al contrario delle vedove, vengono trattate con affetto: i loro uomini le guardano come la sorgente della prosperità della famiglia e i loro rituali sono considerati sacri. Gli uomini devono facilitare tali rituali evitandoli, ma, allo stesso tempo, sono tenuti a fornire tutto l’occorrente dato che, fino a poco tempo fa, a una donna non era garantita la proprietà privata a eccezione dell’oro donatole dai genitori o dal marito. Un comportamento corretto da parte di una moglie prevede che obbedisca a suo marito, ai suoceri così come alle sorelle e ai fratelli più grandi dello sposo. Ogni disobbedienza è severamente castigata e le donne ribelli sono punite spesso dalla suocera stessa. In un conflitto tra la madre e la moglie ci si aspetta che il figlio prenda le parti della madre e punisca la moglie, e se un uomo non riduce la moglie all’obbedienza viene deriso come effeminato. La sessualità femminile è severamente repressa: una donna brahmana ha rapporti sessuali solo per procreare – preferibilmente figli maschi. La ricerca dei piaceri sessuali è considerata una offesa al buon senso e una donna viene severamente punita per ogni devianza di parola o di fatto. Devono essere modeste; ogni interesse per l’aspetto fisico o desiderio di essere riconosciute per la bellezza fisica è scoraggiato. Non dovrebbero mai guardarsi allo specchio, se non per assicurarsi che il segno rosso sulla fronte sia nella giusta posizione e secondo una credenza radicata nelle famiglie brahmane, una donna che si guardi dopo il tramonto in uno specchio rinascerà come prostituta. Ciononostante le donne guidano spesso i mariti da dietro le quinte nelle scelte concernenti la prosperità della famiglia e la loro sicurezza, il che suggerisce che

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questo codice di obbedienza, se creativamente manipolato, può diventare una fonte di potere. Le donne brahmane che cantano le canzoni del R1am1ayan˝a analizzate in questo saggio sono generalmente appartenenti alle famiglie meno esposte all’educazione di tipo inglese e agli stili di vita urbanizzati, per le quali, altrimenti, canzoni del genere sarebbero fuori moda. Hanno studiato il telegu, sebbene la maggior parte di loro non abbia avuto una educazione formale in questo senso. Il loro pubblico consiste in donne di simile estrazione, spesso parenti e vicine, e può anche includere bambini, giovani donne non sposate o giovani spose in visita alla casa materna per una festività religiosa. Spesso è un matrimonio, o un altro evento simile, che fornisce il presupposto perché un certo numero di donne si raduni. Il pubblico generalmente non include donne di altre caste oltre a quella brahmana. Mentre si suppone che gli uomini adulti non presenzino a questi incontri, i ragazzi più giovani si trattengono nei paraggi. Gli uomini ascoltano queste canzoni, o meglio, le sentono in sottofondo, anche se tendono a non prestare loro attenzione in quanto roba da donne e che non merita il loro tempo. Generalmente non tutte le cantanti hanno appreso tutte le circa venticinque canzoni più popolari del R1am1ayan˝a, ma quando qualcuna le conosce, c’è un’atmosfera di riconoscenza generale: in questo caso accade spesso che queste donne siano incoraggiate a intonarle. Alcune cantanti hanno imparato bene le canzoni, ma colei che non sia in grado di cantarle adeguatamente usa un quaderno sul quale ha appuntato il testo; non seguono un particolare allenamento, né si considerano esperte. Non ci sono strumenti musicali di accompagnamento e la melodia è semplice, spesso monotona; al massimo una canzone ha un ritornello – govind1a al termine di una riga, e govind1a r1ama al termine di quella successiva – che ne suggerisce l’uso come canto di lavoro6. Per alcune canzoni occorrono dai venti minuti alla mezz’ora per essere eseguite, ma altre possono essere molto lunghe e durare alcune ore7. Non è facile determinare l’età precisa di queste canzoni. Sebbene siano accettate come tradizionali, per cui se ne supporrebbe una certa antichità, non c’è alcun modo per datarle, vista la tendenza della tradizione orale a rinnovare la dizione mantenendo intatta la struttura. È anche difficile stabilire se tutte le canzoni esistenti siano frutto di una reale tradizione orale. Sono tutte eseguite oralmente, ma alcune furono scritte da un singolo individuo. Più canzoni contengono una dichiarazione di phalaésruti (il merito che si accumula in seguito all’ascolto della canzone), e in alcuni dei quali è incluso il nome dell’autore, e pochi tra gli altri men6

Nella canzone da lavoro la prima voce canta le strofe, mentre il ritornello è eseguito delle altre donne. Sui miei nastri, comunque, la cantante recitava entrambe le parti, sia le strofe che il ritornello. 7 Non sono stato in grado di avere le registrazioni delle canzoni più lunghe, ma queste sono comunque disponibili in pubblicazioni.

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zionano l’autore nel colofone8. Che le cantanti, così come gli autori delle canzoni, fossero al corrente dei testi letterari è fuori discussione: molte canzoni fanno riferimento tanto a testi scritti che alla pratica dello scrivere. In ogni caso gli stili di canto si tramandano da persona a persona e la performance è spesso eseguita a memoria, sebbene, come abbiamo già visto, le cantanti non si facciano problemi a usare degli appunti. In breve non siamo in grado di stabilire quali canzoni siano state create oralmente e poi preservate per iscritto, e quali siano state in origine delle composizioni letterarie. Quasi tutti gli studiosi interessatisi a queste canzoni, spesso sono partiti dal fatto, o hanno concluso, che gli autori fossero uomini. Solo Gopalakrishnamurti ha suggerito la mano femminile dietro molti dei componimenti, e io sono convinto che abbia ragione9. Giudicando dal sentimento, dalle percezioni, dalle informazioni culturali e dall’attitudine generale rivelati nelle canzoni sembra plausibile che tutte – a eccezione di una canzone minore, in onore del risveglio di S1 ıt1a, dove l’autore viene direttamente menzionato come un uomo – siano state composte da donne. Sicuramente queste canzoni si proponevano per un pubblico femminile: molte parlano del merito che una donna accumulerebbe cantandole o ascoltandole. Anche uno sguardo frettoloso ai soggetti primari delle canzoni indica che gli interessi femminili predominano sugli altri temi. Messi insieme danno luce a un R1am1ayan˝a molto differente da quello narrato da V1alm1 ıki o da altri poeti della tradizione letteraria: 1. Un R1am1ayan˝a per sommi capi che narra di éS1ant1a (la sorella più grande di R1ama) come protagonista; 2. La gravidanza di Kausaly1a dove si descrive la sua nausea mattutina; 3. La nascita di R1ama; 4. Una ninna-nanna per R1ama; 5. Il bagno del piccolo R1ama; 6. Il matrimonio di S1 ıt1a; 7. L’affidamento della sposa S1 ıt1a alle cure dei suoceri; 8. Il viaggio di S1 ıt1a verso la casa della suocera; 9. La pubertà di S1 ıt1a; 10. Diverse canzoni descrivono i giochi che facevano R1ama e S1 ıt1a; 11. S1 ıt1a rinchiusa; 12. A Lanka S1 ıt1a descrive ad Hanum1an la sua vita con R1ama; 13. Gli avvenimenti in Lanka; 14. La prova del fuoco di S1 ıt1a; 15. L’incoro1 nazione di R1ama; 16. Il sonno di Urmil1 a; 17. La gravidanza di S1 ıt1a; 18. La storia 8 L’autore del Kuésalavula Yuddhamu dice che la canzone fu composta nell’interesse (tarapuna) del R1am1ayan˝a di V1alm1 ıki, riferendosi a se stesso in terza persona, ma evitando di dare il proprio nome: varusaga idi v1alm1 ıki r1am1ayan˝amu tarapuna vr1asenu 1 ı kavit1anu. Dato l’uso del termine maschile kavi (poeta), in questo verso, gli studiosi hanno concluso che l’autore fosse un uomo. Non è improbabile che kavi sia stato usato per indicare una poetessa, dato che il termine femminile, kavayitri è considerato alquanto pedante. In un’altra canzone Kuésalavakuccalakatha, l’autrice si riferisce a se stessa come sati (donna propizia), sempre evitando di menzionare il proprio nome. È possibile che le poetesse preferissero non dare il proprio nome per non apparire immodeste. Solo la canzone S1 ıt1a M1elukolupu, cita il nome dell’autore: Kurumaddali Venkatadasu, un uomo. Gopalakrishnamurti pensa che altre due canzoni, Lan•k1ay1agamu e Lan•k1as1arathi, furono anch’esse composte da un uomo, perché cantate tanto da uomini che da donne. 9 Vedi Gopalakrishnamurti, Introduzione a Str1 ıla R1am1ayan˝apu P1at¸alu, cit., pp. IX-X.

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di Lava e Kuésa, i due figli gemelli di S1 ıt1a; 19. La battaglia di Lava e Kuésa contro R1ama; 20. La risata di Laks¸man˝a; 21. La vendetta di éS1urpan˝akh1a. Significativamente tali canzoni non menzionano molti degli eventi più familiari del R1am1ayan˝a. La gloria di Daésaratha, il rituale che compì per ottenere un figlio, il ruolo di Viésv1amitra nell’educazione di R1ama come guerriero, la storia di Ahaly1a, gli eventi occorsi nella foresta che hanno portato all’uccisione dei demoni, il dolore di R1ama per la perdita di S1 ıt1a, l’amicizia tra R1ama e Sugr1 ıva, l’uccisione di V1alin, la ricerca di S1 ıt1a, le prodezze di Hanum1an, la gloria conquistata nella battaglia di Lanka: nessuno di questi avvenimenti ottiene molta considerazione nelle canzoni. Al contrario gli eventi d’interesse femminile sono ritratti con rilevanza e particolare attenzione: la gravidanza, la nausea mattutina, la nascita del figlio, il tenero amore del marito, l’affetto dei suoceri, i giochi praticati dai novelli sposi in occasione del rituale di nozze. Uno speciale interesse è riservato all’ultimo dei libri 1 1an˝d˝a: alcune delle canzoni che possiedo registrate, così codel R1am1ayan˝a, l’Uttarak 1 1an˝d˝a, in me quelle nei libri stampati, si riferiscono agli avvenimenti dell’Uttarak particolare all’abbandono di S1 ıt1a e alla battaglia di Lava e Kuésa contro R1ama. Le canzoni C’è un detto popolare tra gli uomini in Andhra: “La notizia della nascita di un bambino è piacevole, ma non lo è il travaglio che lo ha dato alla luce.” Gli uomini non sono molto interessati ai dettagli dei dolori femminili che caratterizzano la nascita di un figlio. Forse non è un caso, quindi, che il R1am1ayan˝a letterario in telegu descriva la nascita di R1ama in termini gloriosi. Vi si narra quanto il sovrano e il regno furono deliziati dalla notizia, e descrive con frasi eloquenti le feste celebrate in tutta la città di Ayodhya e i doni offerti ai brahmani. Solo nella versione cantata dalle donne troviamo una descrizione del travaglio di Kausaly1a che ne dipinga vividamente il dolore. La canzone descrive come il bambino fosse dato alla luce mentre la donna stava alzata, tenendosi a un paio di funi che penzolavano dal soffitto10: “Adesso chiama la levatrice, valla a chiamare. / La levatrice arriva con regale dignità. / Vide la donna in travaglio, le battè la mano sulla spalla. / Non aver paura, Kausalya, non aver paura, donna! / In un’ora avrai dato alla luce un figlio. / Le donne le levano gli ornamenti d’oro, / rimuovono i pesanti gioielli dal suo corpo. / Fanno penzolare delle corde di oro e seta dal soffitto. / Con grande gioia legano la corda alle travi / E fanno aggrappare Kausalya. / Madre, madre, non posso sopportare questo dolore, / un minuto sembra secoli.” L’attenzione al rituale è comune in molti R1am1ayan˝a, ma sono i grandi rituali vedici quelli in cui i sacerdoti brahmani

10 Pare che questa fosse la pratica nell’Andhra pre-moderno; è attestato nelle incisioni sui carri dei templi e nei dipinti dei panni kalamk1ari.

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recitano il ruolo principale. Nelle canzoni femminili i rituali pertengono a questioni più domestiche, nelle quali le donne hanno un ruolo importante. Il solo uomo presente [Nel R1am1ayan˝a cantato dalle donne – ndt] è lo sposo R1ama, e come sposo in un rito dominato dalle donne, è controllato e accondiscendente alle richieste di chi lo circonda. In aggiunta al rituale le canzoni descrivono anche i vari giochi che S1 ıt1a e R1ama fanno durante le nozze e nel corso della loro vita da sposati, all’interno della famiglia di R1ama. In tutti i giochi S1 ıt1a risulta essere sempre vincitrice. R1ama prova dapprima a barare e ne esce chiaramente smascherato facendo false promesse di resa. Un altro punto che si ripete nelle canzoni è il ruolo apotropaico rivestito dalle donne nelle case brahmane in quanto protettrici della prosperità familiare. Le donne personificano la dea Laks¸m1 ı, la dea della prosperità, ed è credenza molto diffusa che le appartenenti a una famiglia assicurino la prosperità in virtù dell’appropriato svolgimento delle proprie mansioni, o la distruggano con un comportamento improprio. In queste canzoni la sposa entra sempre nella casa del marito con il piede destro, quello benaugurante, è lei l’incaricata allo svolgimento del contro malocchio del neonato, e sono ancora le donne a servire un banchetto delizioso ai brahmani e ai saggi che sono venuti a benedire il bambino. Le cerimonie descritte in queste canzoni – la cerimonia del nome e la cerimonia della culla (fatta apposta per l’occasione: il disegno e le decorazioni sono ampiamente descritti nei dettagli) – dimostrano quanto le donne siano importanti in tali occasioni. Anche l’umorismo è femminile: quando Kausaly1a dà alle ospiti del sengalu (una purea di piselli) bollita e speziata come parte del dono rituale, le donne commentano tra loro che il sengalu è sciapo. Una canzone sul matrimonio di S1 ıt1a presenta una spiegazione – che non si trova nel testo sanscrito di V1alm1 ıki – riguardo al tipo di prova che Janaka, il padre di S1 ıt1a, decise per designare il futuro marito della figlia. Quando era bambina S1 ıt1a sollevò per caso l’arco di éSiva che stava nella casa del padre, Janaka fu colpito dalla sua forza e decise che solo l’uomo che sarebbe riuscito ad armare di corda quell’arco sarebbe stato degno di sposarla. Solo un eroe può essere adatto a un’eroina. Diversi testi letterari del R1am1ayan˝a, incluso il R1amcaritm1anas di Tuls1 ıd1as, concordano su questa spiegazione, che non è dunque solo delle canzoni femminili del R1am1ayan˝a. Ma questo evento acquista un significato speciale nel contesto delle donne, delle loro speranze riguardo un marito appropriato. Nel matrimonio combinato, dove le qualità del futuro sposo sono spesso lasciate al caso, le donne sognano di avere un marito che le ricambi dell’amore che riceve. Significativamente, perciò, la canzone descrive il sentimento che S1 ıt1a prova per R1ama, il cui fascino è stato descritto dalle sue amiche. S1 ıt1a si innamora di lui e soffre le pene della separazione (viraha). Seguendo da vicino i modi di amare nella separazione, la canzone presenta delicatamente la paura di S1 ıt1a che R1ama non riesca a tendere e armare la corda dell’arco e le preghiere rivolte a tutti gli dei affinché aiutino l’amato.

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Quindi la canzone descrive come R1ama si innamori di S1 ıt1a. Arriva e vede l’arco: non ha dubbi sul fatto che potrebbe facilmente romperlo ma vuole essere veramente sicuro della bellezza di S1 ıt1a . Con queste parole chiede a suo fratello Laks¸man˝a di andare a vedere prima S1 ıt1a: “Se un pranzo non è buono, una giornata è rovinata / ma se una moglie non è gradevole la vita è rovinata.” R1ama chiede a Laks¸man˝a di assicurarsi che S1 ıt1a abbia una vita sottile, che la sua pelle non sia troppo scura, che abbia i capelli neri e i piedi piccoli. La rottura dell’arco in sé, che nel Ra1 ma1 yan˝a letterario è potentemente e chiaramente descritta, è presentato nelle canzoni delle donne in modo quasi meccanico: è il mutuo amore tra R1ama e S1 ıt1a a essere preminente. Troppo spesso le donne di questa comunità trovano che ci sia ben poco amore con il marito che è stato per loro scelto. Un’elaborata descrizione dell’amore corrisposto tra R1ama e S1 ıt1a serve quindi ad appagare un desiderio. La festa di nozze che segue è vista attraverso gli occhi delle donne – ogni dettaglio relativo al loro ruolo nella cerimonia di matrimonio viene descritto nei particolari, ivi compresi i sari che indossano. Verso la fine è narrato un incidente che dipinge S1 ıt1a come una ragazza ingenua: R1ama le mostra uno specchio e, vedendo la propria immagine riflessa, S1 ıt1a pensa sia un’altra donna con cui R1ama era già sposato. Perché R1ama l’ha sposata se aveva già una moglie? Non aveva appena fatto voto di vivere con una sola moglie? R1ama si avvicina piano verso lo specchio e si mette al fianco di S1 ıt1a. Vedendo anche l’immagine riflessa del marito nello specchio, S1 ıt1a si accorge della propria ingenuità e, timidamente, china il capo. Una canzone intitolata S1 ıt1a chiusa fuori descrive un evento delicato nel quale S1 ıt1a va a dormire tardi in seguito alle faccende domestiche che aveva da sbrigare. R1ama la aspetta ma, fattosi impaziente, chiude a chiave la porta della camera da letto dall’interno. S1 ıt1a arriva e lo prega di aprire, ma lui si rifiuta ostinatamente11. Allora S1 ıt1a informa Kausaly1a che era uscita dalla camera di Daésaratha. Kausaly1a bussa alla porta di R1ama e lo ammonisce per avere chiuso fuori S1 ıt1a. R1ama deve obbedire alla madre: S1 ıt1a sa come manipolare la situazione in suo favore procurandosi l’aiuto di Kausaly1a. Kausaly1a rappresenta qui la suocera ideale che ogni moglie sogna, una suocera che mostra affetto e supporto per le sue nuore e che le aiuta a stare vicine al marito12. Il R1am1ayan˝a degli uomini non menziona diffusamente éS1ant1a, ricordata sola-

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In un’altra canzone, sempre sullo stesso tema, è R1ama a rimanere chiuso fuori e S1 ıt1a si rifiuta di aprire. Vedi M. N. Srinivas, Some Telegu Folk Songs, in “Journal of the University of Bombay”, vol. 13, n. 1, July, 1944, pp. 65-86, e n. 4, January, 1945, pp. 15-29. Per uno studio su questa canzone da un’altra prospettiva vedi David Shulman, Battle as Metaphor in Tamil Folk and Classical Traditions, in Stuart H. Blackburn and A. K. Ramanujan, a cura di, Another Harmony: New Essays on the Folklore of India, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1986, pp. 105-130. 12 In realtà la suocera è spesso un motivo di ostacolo tra la moglie e il marito. Le canzoni femminili fanno frequentemente riferimento ai dissidi tra le suocere e le nuore.

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mente come la figlia adottiva di Daésaratha, sposata con R˝ésyaésr¸n•ga [In altri R1am1ayan˝a conosciuto anche col nome di éSr¸in•gi – ndt]. Ma per le donne è un personaggio molto importante nella storia del R1am1ayan˝a. Nelle famiglie brahmane a una sorella anziana è permesso di comandare, criticare e ammonire un fratello più giovane, e nelle canzoni éS1ant1a spesso interviene a favore di Sita, poiché è la sorella più grande di R1ama. L’importanza di éS1ant1a nei R1am1ayan˝a delle donne è ben rappresentata da una lunga canzone chiamata éS1ant1agovindan1am1alu, che ne descrive il matrimonio. Una delle situazioni che maggiormente colpiscono in questa canzone, narrante gran parte delle prime battute del R1am1ayan˝a, è l’importanza che la donna ha in tutti gli eventi: in ogni momento importante la donna prende l’iniziativa e invita il marito a compiere una determinata azione. La posizione dell’uomo è di facciata, e il vero potere è della donna. La storia narra di come Laks¸m1 ı, la consorte di Vis¸n˝u, decida di rinascere sulla terra per aiutare il marito, che vi sarebbe nato come R1ama. Lei scende quindi sulla terra e nasce come S1 ıt1a su di un fiore di loto a Lanka. R1avan˝a la trova e la affida a Mandodar1 ı [La moglie del demone R1avan˝a – ndt]. Quando S1 ıt1a compie dodici anni R1avan˝a vorrebbe sposarla come seconda moglie. I brahmani, però, lo avvisano che S1 ıt1a avrebbe causato la distruzione di Lanka e per questo sarebbe stato meglio gettarla in mare. La canzone quindi sposta l’interesse della narrazione sugli eventi che hanno portato la nascita di R1ama. Le due storie più importanti nei primi libri del R1am1ayan˝a di V1alm1 ıki sono la nascita dei figli di Daésaratha e la malefica congiura di Kaikey1 ı per esiliare R1ama nella foresta. Nella prima le donne non hanno altro ruolo se non essere le passive portatrici dei figli; nella seconda la maligna natura femminile è messa in luce nella descrizione dell’intransigente richiesta di Kaikey1 ı di imporre il figlio Bharata alla guida del regno e nell’esilio di R1ama nella foresta per quattordici anni. La storia narrata in éS1ant1agovindan1am1alu trasforma ingegnosamente entrambi gli eventi in modo che le donne acquisiscano il merito della nascita dei figli, mentre la natura maligna della richiesta di Kaikey1 ı è rimossa. Dapprima, secondo questa canzone, Kausaly1a preme su Daésaratha affinché éS1ant1a sia adottata come figlia: in questo modo avrebbe portato fortuna alla famiglia e avrebbero avuto altri figli. Si tratta di un cambiamento molto importante. La credenza abituale nelle famiglie brahmane è che il primogenito dovrebbe essere maschio. La nascita di una primogenita, sebbene non venga espresso apertamente, è salutata con un certo disappunto. Questa storia, invece, suggerisce che la prima figlia, sebbene femmina, fosse addirittura da preferire poiché, essendo un incarnazione della dea Laks¸m1 ı, avrebbe benedetto la famiglia con prosperità e quindi portato sicuramente alla nascita di altri figli. Inoltre è significante che l’intera strategia venga diretta da una donna nonostante nel R1am1ayan˝a di V1alm1 ıki, ad esempio, sia il saggio R˝ésyaésr¸n•ga a compiere il sacrificio che permette la nascita di figli a Daésaratha. È rilevante notare come qui il re dia ascolto al suggerimento della regina più anziana [Daésaratha aveva

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tre mogli – ndt]. Kaikey1 ı all’inizio non è d’accordo ma Sumitr1a riesce a convincerla, a patto che suo figlio Bharata ereditasse il regno. éS1ant1a viene quindi adottata e portata ad Ayodhya con grandi onori, dove viene ricevuta come fosse la dea della prosperità. Quando cresce éS1ant1a viene data in sposa, ancora su suggerimento di Kausaly1a, a R˝ésyaésr¸n•ga. La canzone descrive nei minimi dettagli la festa di nozze e l’armoniosa atmosfera del palazzo laddove vi sia la presenza delle donne. L’ingenuità, il divertimento, l’amore e il delicato umorismo delle canzoni terminano, e i seri problemi della vita di S1 ıt1a incominciano con gli eventi dell’ultima parte del R1am1ayan˝a – gli eventi che hanno luogo dopo la liberazione di S1 ıt1a dalla sua prigionia in Lanka. Ma le donne descritte in queste canzoni sono molto lontane dall’essere remissive e impotenti: sono ritratte come esseri forti, sufficientemente capaci di proteggere la loro posizione nei confronti dell’ingiusto trattamento riservato loro da R1ama. Una canzone descrive come, dopo aver abbandonato S1 ıt1a incinta, R1ama decida di compiere un sacrificio. Siccome il rituale prescrive la presenza della moglie, R1ama fa realizzare un’immagine d’oro di S1 ıt1a da tenere vicina durante la funzione. Nel corso del rito l’immagine deve essere lavata e la persona designata a farlo è la sorella di R1ama, éS1ant1a. Quando éS1ant1a è chiamata a compiere il lavacro rifiuta perché non consultata riguardo l’abbandono di S1 ıt1a. Una situazione più seria si presenta nel momento in cui il cavallo sacrificale di R1ama viene catturato dai suoi figli, Lava e Kuésa. [Nell’India vedica, il sacrificio rituale più potente era l’aésvameda, il sacrificio del cavallo. Dopo un’elaborata preparazione, un cavallo bianco veniva lasciato libero per un anno. Avrebbe potuto andare dove voleva per il mondo e ogni passo del cavallo annetteva de facto quella porzione di terra al regno del re che aveva voluto il sacrificio. Chiunque avesse ostacolato il percorso del cavallo avrebbe scatenato una guerra, mentre un piccolo gruppo di persone che seguiva l’animale vegliava su di esso, impedendogli di accoppiarsi. Alla fine dell’anno il cavallo era ricondotto al punto di partenza e il sacrificio volgeva al termine con la morte per soffocamento della bestia e il successivo spragmos. Si veda Calasso, Ka, Adelphi, Milano, 1996, pp. 155-182 – ndt] R1ama non sapeva che S1 ıt1a fosse ancora viva e che il saggio V1alm1 ıki se ne stesse prendendo cura nella foresta dove viveva da eremita, né era al corrente che Lava e Kuésa fossero suoi figli. Laks¸man˝a e R1ama tentarono, senza riuscirvi, di convincere i ragazzi a restitituire il cavallo; ma questi non rivelarono nemmeno la loro identità. Nell’inevitabile battaglia che seguì, tutti i migliori guerrieri di R1ama furono uccisi, inclusi Laks¸man˝a e Hanum1an. Alla fine lo stesso R1ama andò in battaglia e anche lui fu ucciso. Quando S1 ıt1a si recò sul campo di battaglia per sapere cosa fosse successo pianse il lutto e riprese duramente i figli per aver ucciso il padre e lo zio. Arrivò quindi anche V1alm1 ıki il quale riportò tutti alla vita13.

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Questo motivo non risulta sconosciuto nei R1am1ayan˝a letterari: per esempio, il R1am1ayan˝a ben-

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Nonostante tutto i ragazzi insistono ancora affinché R1ama si inchini ai loro piedi prima di riavere indietro il cavallo. Non fu il marito crudele che esiliò la moglie incinta? R1ama, che capisce solo adesso che S1 ıt1a è viva e che quei ragazzi sono i suoi figli, la vuole vedere e così V1alm1 ıki prepara S1 ıt1a all’incontro. S1 ıt1a indossa i suoi gioielli più belli per l’incontro con R1ama, ma Lava e Kuésa irrompono nell’eremo per impedire alla madre di rincontrare R1ama. Come può tornare da un marito che la ha trattata così crudelmente? Per risolvere il problema si manifestano tutti gli dei: Brahm1a, éSiva e Indra in compagnia delle loro mogli. Gli dei prendono le parti di R1ama, mentre le loro consorti quelle dei ragazzi. P1arvat1 ı, la moglie di éSiva, dice ai ragazzi di non arrendersi, mentre Sarasvat1 ı, la moglie di Brahm1a, insiste affinché sia R1ama a inchinarsi davanti a loro innanzi tutto. Gli dei suggeriscono ai ragazzi di accettare l’arbitrato del dio sole, ma questi rifiutano l’idea: R1ama appartiene alla dinastia del Sole, pertanto non sarebbe imparziale. Allora perché non la Luna? No, rispondono Lava e Kuésa, dato che Vis¸n˝u salvò la Luna quando R1ahu e Ketu la ingoiarono: l’arbitariato della Luna non sarebbe attendibile. Nemmeno Indra sarebbe accettabile poiché deve molti favori a Vis¸n˝u, il quale, per esempio, imbrogliò i demoni per dare al dio della guerra tutte le porzioni di ambrosia. Viene suggerito il nome di V1alm1 ıki, ma nemmeno lui sarebbe imparziale dato che scrisse il R1am1ayan˝a per elogiare R1ama. Brahm1a, éSiva e R˝ésyaésr¸n•ga sono tutti respinti per una ragione o per l’altra. R1ama non ha scelta e decide di combattere i ragazzi. Parvat1 ı si oppone suggerendo l’idea che R1ama lasci Ayodhya ai ragazzi per ritirarsi nella foresta. Alla fine si raggiunge un compromesso: R1ama si inchina ai figli intendendo con questo gesto onorare i propri genitori. Si prostra così ai piedi dei figli mormorando il nome di Kausaly1a, risolvendo in questo modo la disputa. Quando finalmente la disputa è terminata R1ama abbraccia Lava e Kuésa. Nonostante tutto i ragazzi si rifiutano di andare ad Ayodhya, poiché continuano a non fidarsi di un padre che aveva pianificato di ucciderli quando erano ancora nel ventre materno. Solo dopo molti tergiversamenti i ragazzi acconsentono a seguire il padre. Arrivati ad Ayodhya, dopo qualche tempo, viene loro chiesto di visitare la nonna (Kaikey1 ı) che esiliò S1 ıt1a nella foresta. Lava e Kuésa dichiarano che S1 ıt1a è sotto la loro protezione e che ora nessuno le avrebbe fatto ancora del male. Tra i personaggi maschili Laks¸man˝a riceve un trattamento molto affettuoso in queste canzoni. È vicino a S1 ıt1a, capisce i suoi problemi, la rinfranca e la protegge anche quando per lei incominciano i problemi. In V1alm1 ıki R1ama esilia S1 ıt1a nella foresta grazie al pretesto che la moglie voleva visitare i luoghi di eremitaggio, e istruisce pertanto Laks¸man˝a ad abbandonarvela, ma nella versione femminile del gali di Kr¸ttiv1asa narra una storia simile. È interessante che molti dei temi dei R1am1ayan˝a femminili siano simili a quelli che si trovano nella versione jaina. È possibile che la versione jaina fosse popolare tra le donne telegu brahmane o, altrimenti, che gli autori del R1am1ayan˝a jaina abbiano attinto dalle versioni delle donne – o che entrambe le possibilità siano veritiere. A questo punto della ricerca però è difficile dirlo con sicurezza.

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R1am1ayan˝a R1ama ordina a Laks¸man˝a di ucciderla. Laks¸man˝a la porta nella foresta ma, accortosi che è incinta, decide di non compiere il delitto. Al suo posto uccide una lepre e mostra a R1ama quel sangue come prova. R1ama prepara quindi i funerali e chiede a Laks¸man˝a di recarsi dai saggi in eremitaggio per invitarli alla cerimonia. Quando Laks¸man˝a va nella foresta, S1 ıt1a gli chiede per chi R1ama stia approntando i funerali. Per evitarle ulteriori pene, il genero le mente dicendo che si sta preparando un rituale per eliminare le cattive influenze dal palazzo. Successiva1 mente la moglie di Laks¸man˝a, Urmil1 a, protesta con il marito per la crudeltà con cui è riuscito a uccidere S1 ıt1a, chiedendogli di essere uccisa anche lei, e altrettanto dice éS1ant1a. Incapace di fronteggiare ulteriormente la loro rabbia e determinazione, Laks¸man˝a dice loro la verità: S1 ıt1a è viva è incinta e presto partorirà. Laks¸man˝a andrà ancora nella foresta per visitare S1 ıt1a dopo il parto. 1 In questa collezione un’altra canzone narra di Urmil1 a, menzionata a malapena 1 da V1alm1 ıki. Cosa accade a Urmil1a quando Laks¸man˝a la abbandona per quattordici anni per accompagnare suo fratello nella foresta? Secondo la versione delle don1 ne Urmil1 a e Laks¸man˝a fanno un patto: si scambiano le ore di sonno e quelle di 1 cammino. Urmil1 a dormirà per quattordici anni di fila cosicché Laks¸man˝a possa stare sempre sveglio per servire il fratello senza interruzione. Quattordici anni dopo, quando R1ama si è reinsediato di nuovo con successo sul trono e Laks¸man˝a lo sta servendo nella corte, S1 ıt1a ricorda al marito che bisognerebbe far presente a Laks¸man˝a di visitare la moglie ancora dormiente. Laks¸man˝a va quindi nella came1 ra da letto di Urmil1 a e la sveglia dolcemente ma lei non lo riconosce e pensa che un intruso sia entrato nella sua camera. Lo minaccia, ammonendolo riguardo al peccato di desiderare la moglie di un altro uomo: “Se mio padre Janaka venisse a saperlo / ti punirebbe e non ti lascerebbe andare. / Mia sorella maggiore e mio cognato / non ti lascerebbero fuggire con la tua vita”. Da moglie rispettosa qual è non menziona mai il nome del marito, ma usa riferirsi a lui in modo indiretto: “Il giovane cognato di mia sorella maggiore / non ti lascerà vivere sulla terra”. Quindi gli elenca una serie di uomini che in passato scontarono amaramente il peccato di cui si erano macchiati: “Indra non soffrì di un corpo sfigurato / perché bramò la moglie di un altro uomo? / Non fu distrutto R1avan˝a con tutta la sua città / perché desiderò la moglie di un altro uomo?”. 1 Che il sonno di Urmil1 a non le avesse permesso di sapere del rapimento di S1 ıt1a da parte di R1avan˝a e la sua successiva uccisione per mano di R1ama sembrano qui poco importanti. 1 Laks¸man˝a si presenta dolcemente, cosicché Urmil1 a realizza che questi non è altri che suo marito. Il resto della canzone narra, lasciandosi andare in dolci dettagli, del grande trasporto che mettono nell’abbracciarsi. Kausaly1a li riceve, prepara un 1 bagno e offre loro un delizioso banchetto. Laks¸man˝a e Urmil1 a siedono accanto – come raramente accade in una famiglia brahmana convenzionale – mentre i membri della famiglia li prendono in giro. E quando sono mandati nelle camere da let-

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1 to, Laks¸man˝a la pettina e le fa una treccia mentre Urmil1 a gli chiede dell’esilio. Com’è stato possibile che R1avan˝a abbia rapito S1 ıt1a quando c’era un uomo come Laks¸man˝a, coraggioso come un leone? Laks¸man˝a le racconta la storia del cervo dorato, le racconta di come S1 ıt1a pronunciò parole imperiose e lo forzò a lasciarla sola per aiutare R1ama. Tutti i maggiori eventi dell’epica sono qui narrati brevemente, e la canzone termina auspicando che tutti gli ascoltatori e tutte le cantanti abbiano posto in paradiso. 1 Anche un’altra canzone prende l’avvio dal patto tra Laks¸man˝a e Urmil1 a. Quando la dea del sonno visita Laks¸man˝a nella foresta le chiede di lasciarlo da solo per quattordici anni e di visitare al suo posto la moglie. La dea torna da lui esattamente quattordici anni dopo, quando Laks¸man˝a è tornato ad Ayodhya, mentre sta servendo R1ama nella sala della corte dopo il ritorno da Lanka. Divertito dalla sua puntualità Laks¸man˝a si mette a ridere. L’improvvisa risata nell’atmosfera seria della corte meraviglia tutti. La canzone descrive come ognuno dei presenti nella sala abé bia pensato che Laks¸man˝a lo deridesse. Perfino Siva, che era lì presente pensò di essere deriso poiché stava portando sulla testa una pescatrice di bassa casta (Gan•ga1 , é a, il venerabile serpente, pensava di essere deriovvero il fiume Gange), mentre Ses¸ so perché in quel momento, dopo tanto tempo passato a servire Vis¸nu ˝ , stava seré vendo un suo rivale: Siva. An•gada pensò che si ridesse di lui perché stava prendendo servizio da R1ama, l’assassino di suo padre. Anche Sugr1 ıva fu colto dal dubbio: aveva ucciso da poco il fratello in modo poco onorevole rubandogli la moglie. Vibh1 ıs¸an˝a sapeva di avere rivelato a R1ama i segreti del regno del fratello che causarono la rovina di Lanka. Hanum1an era infastidito dal fatto che, sebbene fosse un grande combattente, era stato catturato da un giovane guerriero: Indrajit. Anche é Bharata e Satrughna avevano qualcosa per cui essere pieni di vergogna: il regno che ebbero in reggenza lo fu grazie a un astuto piano ordito dalla madre Kaikey1 ı, che privò R1ama della sua posizione di futuro re. Anche R1ama pensò che Laks¸man˝a ridesse di lui, perché aveva accettato di nuovo in casa una moglie che aveva vissuto nella casa di un altro uomo. Questo avveniva mentre S1 ıta pensava si ridesse di lei perché aveva vissuto lontano dal marito. Inoltre a suo tempo sospettò di Laks¸man˝a, quando nella foresta le disse che voleva stare con lei per proteggerla. Lei gli parlò duramente, forzandolo a lasciarla sola per aiutare R1ama che sembrava essere in pericolo a causa del cervo dorato. Fu questo la causa della catena di eventi che portarono alla battaglia di Lanka. Tutti nella corte avevano qualcosa di cui vergognarsi e la risata di Laks¸man˝a portò le loro insicurezze in superficie. In questo abile modo la canzone mostra come nessun personaggio del Ra1 ma1 yan˝a sia senza macchia. Arrabbiato con Laks¸man˝a per il suo comportamento scorretto rispetto alla corte, R1ama brandisce la spada pronto a decapitarlo quando intervengono Parvat1 ı e éSiva, consigliando che si debba chiedere a Laks¸man˝a i motivi del suo comportamento irriverente: è giovane e non dovrebbe essere punito troppo duramente. Quando Laks¸man˝a spiega i suoi motivi R1ama è imbarazzato per il suo sfogo e la rabbia incontrollata; chiede così a Vasis¸t¸ha quale sia il modo corretto per un re di

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espiare il peccato di tentato omicidio nei confronti di un fratello innocente. Vasis¸t¸ha consiglia a R1ama di massaggiare i piedi di Laks¸man˝a. Viene così preparato un letto per Laks¸man˝a e, come fosse un servitore coscienzioso, R1ama massaggia i piedi del fratello mentre questo dorme confortevolmente. Quando Laks¸man˝a si sveglia e vede ciò che sta facendo R1ama lo dissuade rispettosamente dal servirlo, lui che è il suo glorioso fratello maggiore e la completa incarnazione del dio Vis¸n˝u14. Nelle canzoni del R1am1ayan˝a delle donne il ruolo della sorella di R1avan˝a – S1urpan˝akh1a – è particolarmente degno di nota. Mentre R1ama e i suoi fratelli stanno vivendo felicemente ad Ayodhya, éS1urpan˝akh1a occasionalmente li vede. Desidera quindi vendicare la morte di suo fratello. Se solo fosse stata un uomo avrebbe potuto combattere contro R1ama e ucciderlo – ma è una donna e può solo rovinare la sua felicità. Decide così di instillare nella mente di R1ama il sospetto riguardo la fedeltà di S1 ıt1a. éS1urpan˝akh1a prende così la forma di una eremita e si reca a palazzo chiedendo di vedere S1 ıt1a. Per quanto S1 ıt1a esiti, sorpresa che una eremita sia venuta solo per vederla, dopo poco acconsente. La eremita le chiede di dipingere il volto di R1avan˝a, ma lei le ripete di non aver mai alzato tanto lo sguardo da vedere gli occhi del demone, guardava sempre i suoi piedi. Allora l’eremita le chiede di dipingere l’alluce e quindi S1 ıt1a dipinge il grande alluce di R1avan˝a. S1é urpan˝akh1a prende il disegno e lo completa da sola – forti caviglie, le cosce ecc. Chiede quindi a Brahm1a, il dio creatore, di dare vita all’immagine in modo che potesse vedere ancora il fratello ormai morto. Esaudito da Brahm1a il desiderio, S1é urpan˝akh1a riporta l’immagine da S1 ıt1a e, lanciandogliela di fronte, le dice scappando: “Fai quello che vuoi con l’immagine”. Questa incomincia ad animarsi di fronte a 1 S1 ıt1a chiedendole di andare a Lanka con lui e la donna si inquieta. Urmil1 a, S1é ant1a e le altre donne del palazzo provano a liberarsi dell’immagine. Accendono un grande fuoco e ve la gettano, ma questa non brucia. La gettano quindi in un profondo pozzo, ma poco dopo ritorna in superficie. Non c’è modo di distruggerla. Alla fine S1 ıt1a pronuncia il nome di R1ama, che placa temporaneamente l’immagine. Improvvisamente R1ama entra nella casa. S1 ıt1a, non sapendo cosa fare dell’immagine, la nasconde sotto il materasso. R1ama corteggia S1 ıt1a e la abbraccia, desideroso di fare l’amore con lei: le slaccia la veste, ma lei è distratta. Confuso, R1ama prova a mostrarle il suo affetto descrivendo, con molte parole, quanto la ami. Appena riesce a portarla sul letto, però, l’immagine di R1avan˝a lo scalza da sotto il materasso. Pensando sia stata S1 ıt1a, R1ama si arrabbia ma girandosi vede l’immagine di R1avan˝a. Questo lo convince che S1 ıt1a sia fedifraga e innamorata di un altro uomo. 14 In un’altra versione R1ama propone di servire Laks¸man˝a in una prossima incarnazione; sarebbe scorretto che un fratello maggiore diventasse servo del minore. Di conseguenza, nella successiva avatar, R1ama (e quindi Vis¸n˝u) nasce come Kr¸s¸n˝a e Laks¸man˝a come Balar1ama, il fratello maggiore di Kr¸s¸n˝a – affinché Laks¸man˝a riceva ora il servizio di R1ama (Ringrazio Jaya Prabha per questa informazione).

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R1ama decide di bandire S1 ıt1a nella foresta con la sua immagine, ma tutte le donne del palazzo protestano. Gli raccontano di come una eremita le abbia fatto disegnare un’immagine di R1avan˝a, di come S1 ıt1a sia pura, ma R1ama non le ascolta. Preso dalla rabbia apostrofa rudemente sua madre Kausaly1a che difendeva S1 ıt1a. E quando Sumitr1a, la madre di Laks¸man˝a, interviene dicendo che le piacerebbe avere S1 ıt1a come nuora, suggerisce così che S1 ıt1a potrebbe diventare la moglie di Laks¸man˝a. Ma R1ama abbandona la casa per la corte ordinando che S1 ıt1a sia uccisa 1 nella foresta. Urmil1 a, M1an˝d˝ari e éSrutak1ırt1 ı, le mogli dei tre fratelli di R1ama [Laks¸man˝a, Bharata e éSatrughna – ndt] vanno da R1ama per protestare riguardo all’ingiusta punizione di S1 ıt1a. Una dopo l’altra assicurano che S1 ıt1a non ha colpe. Alla fine éSrutak1 ırt1 ı gli dice: “Siamo tutte nate in una famiglia, / siamo sposate a una famiglia. / Nostra sorella non è la sola / che adesso ama R1avan˝a. / Noi tutte insieme lo amiamo / perciò uccidici insieme. / E poiché noi siamo donne / che stanno all’interno del tuo palazzo / le tue azioni saranno approvate senza ostacoli.” Questo fronte unito rende solamente R1ama più furente. Comanda a Laks¸man˝a di portare S1 ıt1a nella foresta, di tagliarle la testa e di portare indietro la spada (permettendo in questo modo gli avvenimenti già descritti prima). La struttura delle canzoni Può apparire un luogo comune che la struttura di queste canzoni sia caratterizzata dall’apertura con le lodi in onore a R1ama prima che si narri le rispettive storie, ma diventa significante in relazione al tempo e al luogo della performance. Vengono generalmente cantate nel tardo pomeriggio, dopo il pranzo, quando gli uomini della famiglia si sono tutti ritirati nella parte anteriore della casa per cedere a un breve riposo o chiacchierare sotto il portico, mentre i più giovani giocano a carte. Le donne, avendo servito un buon pasto, ora vogliono essere lasciate da sole fino a sera per rilassarsi e riposarsi un po’. I loro canti corali giornalieri completano questo momento: le donne sono adesso libere dagli obblighi nei confronti della famiglia e dal marito, almeno per il momento. Questo è il loro tempo, durante il quale possono fare ciò che loro piace – a patto che non violino le norme del buon comportamento. Esattamente come il posto della casa dove le canzoni sono cantate, questa porzione di tempo è perlopiù isolata dalle attenzioni degli uomini, per i quali le donne devono recitare un ruolo ubbidiente. Una casa brahmana è divisa in tre parti. In quella anteriore gli uomini siedono e conducono gli affari, ricevono gli ospiti o parlano tra loro. A eccezione di quando sono chiamati per i pasti, o quando si ritirano la sera, gli uomini generalmente non vanno nella parte interna della casa, e se lo fanno sottolineano il loro arrivo tossendo o chiamando da fuori una delle donne, la quale arriva per riceverli. La parte centrale della casa è una zona relativamente neutra, in cui gli uomini e le donne si incontrano. Sul retro della casa si trovano la cucina e la veranda che apre

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sul retro, fornito abitualmente di un pozzo: è qui che le donne si raccolgono. Eventuali visitatrici, le domestiche e gli uomini di bassa casta usano l’entrata posteriore della casa per parlare con le donne. Sulla parte anteriore della casa i convenzionali valori maschili regnano sovrani, ma il retro, e il poco ampio interno, sono primariamente di dominio femminile. Qui le donne sono relativamente libere dallo sguardo censorio dei mariti, e così praticano una qualche misura di autonomia sulla propria vita. Gli uomini sono perfino ridicolizzati se indugiano nel retro della casa, sebbene i parenti uomini della moglie del capofamiglia possano entrare, come può il fratello più giovane dello sposo qualora sia molto più giovane della sposa. La struttura della canzone replica precisamente la struttura della casa. Ogni canzone inizia con un rispettoso tributo a R1ama, il re, che qui non è solo Dio, come nei R1am1ayan˝a della bhakti, ma è anche lo yajam1ani, il signore della casa, quantunque sia un signore che non riesce a controllare tutto. Dopo la rispettosa introduzione la canzone muove verso le stanze interne, e i personaggi che le abitano sono perlopiù donne. Come accade per alcuni parenti uomini, a certi è permesso entrare in quest’area: come Laks¸man˝a, il giovane genero, e Lava e Kuésa, i gemelli. S1 ıt1ayana In queste canzoni le donne non sfidano mai apertamente le convenzioni comportamentali: agiscono correttamente, anche dando consigli che il padrone della casa [Daésaratha prima e R1ama poi – ndt] apprezza e accetta. Il tono è ingenuamente gentile, frugale e dolce – non c’è un uso provocatorio o duro del linguaggio, né un’aperta o aggressiva opposizione nei confronti della dominazione maschile. Le nuore hanno grande cura delle convenzioni nel rapportarsi con la suocera Kausaly1a e con la cognata éS1ant1a. In alcune occasioni si consiglia alle giovani spose il corretto comportamento, come quando a S1 ıt1a è detto: “Sii più paziente della dea della terra. / Non trasgredire mai le parole dei tuoi suoceri. / Non guardare mai un altro uomo. / Non parlare mai apertamente. / Non rivelare mai ciò che tuo marito dice nell’interno della casa, / neppure alla migliore delle tue amiche. / Se tuo marito è arrabbiato, non rispondergli mai. / Il marito è un dio per tutte le donne: non disobbedirgli mai.” Mentre è sempre osservato il giusto rispetto nei confronti dell’autorità, ciò che ne consegue può essere visto in modo differente. Ci sono appunti, garbati quanto sufficientemente fermi, che mettono in questione la saggezza, la correttezza, l’onestà e l’integrità di R1ama. D’altro canto la stessa S1 ıt1a non si oppone mai a lui o ai suoi superiori: come giovane sposa S1 ıt1a è modesta, ingenua e molto obbediente a suo marito a agli altri membri più anziani della famiglia. Le critiche mosse a R1ama sono sollevate – piuttosto – solo dalle donne che hanno l’autorità per farlo, sua madre Kausaly1a o sua sorella maggiore éS1ant1a, un surrogato materno. Anche le mo-

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gli dei fratelli di R1ama lo criticano, ma per farlo abbisognano del supporto di éS1ant1a, mentre i figli, Lava e Kuésa, hanno il permesso di criticare il padre perché hanno preso le difese della madre. Sia gli affetti che le tensioni di una famiglia allargata [joint family in originale. Si intende la famiglia del marito, nella quale la sposa si trasferisce dopo il matrimonio. Secondo la terminologia proposta da Firth (R. Firth - J. Hubert - A. Forge, Families and their Relatives. Kinship in a Middle Class Sector of London. An Anthropological Study, London, 1969) virilocale – ndt] balzano subito all’occhio attraverso queste canzoni. Al di là dell’apparente calma della casa le donne della famiglia allargata soffrono di serie tensioni interne. Le canzoni rivelano un’atmosfera simile nell’uso che fanno del linguaggio. Lo stile generale del linguaggio è ingannevolmente gentile. Sono usate pochissime parole sanscrite e la scelta di termini in dravidico, relativamente più melliflue, portano la texture della canzone a un’atmosfera gaia e calma. Però i significati soggiacenti rivelano un’atmosfera di sottesa tensione, di sessualità repressa e di emozioni frustrate. A volte anche le parole più gentili diventano penetranti come dardi, e colpiscono i bersagli con predeterminata volontà. Sotto il pretesto di stuzzicare i membri della famiglia ogni personaggio viene satireggiato: nessuno è senza macchia e nessuno ama l’altro incondizionatamente. Anche la castità di S1 ıt1a è lasciata aperta al dubbio: l’episodio dell’immagine di R1avan˝a mette in luce che ha un nascosto desiderio di andare a letto col demone, e il disegno dell’alluce è un velato rimando al suo organo sessuale. Il ritratto che ne emerge non è quello di un bhakti R1am1ayan˝a, con un marito ideale e fratelli ideali, ma quello di una famiglia complessa, dove la vita è tanto colma di tensione, paura, frustrazione e sospetto, quanto di amore, affetti e tenerezze. Le canzoni del R1am1ayan˝a si contrappongono anche alle versioni più note, ai bhakti R1am1ayan˝a che glorificano i valori di un mondo dominato dall’uomo. Nelle canzoni sono i personaggi minori o quelli più bassi, che ne escono vincitori: 1 Urmil1 a, Laks¸man˝a, Lava e Kuésa, éS1ant1a e perfino éS1urpan˝akh1a che hanno la possibilità di consumare la propria vendetta. S1 ıt1a non conduce da sola la sua battaglia: altri combattono per lei. Dalla (falsa) notizia della sua morte trae la propria libertà; quindi può esistere anche senza vivere per R1ama. E così come R1ama prepara le cerimonie per la sua morte, gravato dalla colpa di averla fatta uccidere ingiustamente, S1 ıt1a dà alla luce i gemelli e aspetta la sua vittoria finale su R1ama, ottenuta attraverso i suoi agenti, i figli. In ultima analisi, questo è il suo R1am1ayan˝a, un S1 ıt1ayana. Le canzoni non-brahmane Una simile strategia di sovvertimento dell’autorità, apparentemente rispettata, si ritrova anche nelle canzoni del R1am1ayan˝a cantate da donne non-brahmane. Queste non sono lunghe quanto le canzoni brahmane, né sono così preponderanti nel loro repertorio. Per quanto spesso si affermi che il R1am1ayan˝a sia universalmente

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popolare in India, un esame più approfondito rivelerebbe, credo, che la popolarità dell’epica aumenta con lo status della casta. A ogni modo il numero delle canzoni del R1am1ayan˝a cantate da donne non-brahmane disponibili in raccolte pubblicate sono relativamente modeste, nonostante, a mio avviso, siano tutt’altro che poco interessanti. Le mie informazioni riguardo tali canzoni sono tratte quasi interamente dalle raccolte stampate: in questo modo l’uso delle fonti è piuttosto ristretto. L’etichetta di non-brahmano maschera più di quanto non riveli. Sfortunatamente le informazioni pubblicate riguardo queste canzoni non censiscono precisamente la casta delle cantanti. Come Ganappa ci informa, le canzoni sono cantate dalle donne che lavorano nei campi, che macinano la farina o che praticano il kol1at¸am• (una performance di musica e danza nella quale le partecipanti si muovono in cerchio mentre battono tra loro due bastoni di legno tenuti con le mani). Il lavoro agricolo femminile in Andhra viene in gran parte svolto dai M1alas, una casta di intoccabili, e da altre caste di estrazione molto bassa. Le donne di queste caste lavorano nei campi insieme agli uomini, guadagnano e quindi vivono una vita relativamente meno controllata e protetta. La separazione tra i sessi non è praticata allo stesso modo delle caste più elevate, sebbene le donne continuino a essere viste come inferiori agli uomini e siano pagate con stipendi più bassi. Vengono loro affidati lavori per i quali siano supposti minori requisiti, come i trapianti e l’estirpazione delle erbacce, in opposizione all’aratura, alla semina e alla mietitura. Le donne lavorano anche in gruppi, spesso supervisionate da un uomo. I lavori da loro svolti sono distinti da quelli degli uomini, ma la separazione non è così chiara come nelle caste più alte. Per esempio, gli uomini delle caste più basse non considerano disdicevole dare da mangiare ai bambini e averne cura. Le donne di tali caste basse hanno lo stesso tipo di responsabilità familiari che hanno le brahmane: crescere la famiglia, dare alla luce figli (maschi), essere sessualmente fedeli allo sposo e obbedire ai propri mariti e alle suocere. Ma non sono così dipendenti dai loro mariti come le donne brahmane. Le vedove non sono trattate come portatrici di sfortuna, né si radono la testa, e non sono rimosse dalla vita rituale della famiglia. In alcune caste non-brahmane le vedove si risposano addirittura15. Le canzoni del R1am1ayan˝a cantate da donne non-brahmane riflettono questa differenza. Anch’esse si concentrano su temi femminili: la vita di S1 ıt1a nella foresta, 1 il sonno di Urmil1 a, la richiesta di S1 ıt1a a R1ama di avere il cervo dorato, il rapimento di S1 ıt1a da parte di R1avan˝a, la battaglia tra R1ama e i suoi figli, Kuésa e Lava. Ma a questo punto c’è poco interesse nella descrizione del ruolo delle donne nei rituali, nel loro desiderio di avere importanza nelle decisioni della famiglia, sulla scelta dei sari e degli ornamenti, né ci sono molte allusioni ai conflitti interni di una fami15

Per informazioni riguardo alle caste nelle quali risposarsi da vedova è permesso, si veda V. Narayana Rao, Epics and Ideologies: Six Telugu Folk Epics, in Blackburn - Ramanujan, a cura di, Another Harmony, cit., pp. 131-164.

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glia allargata. È anche significativamente assente la sessualità nascosta, la modestia femminile e la descrizione dei giochi tra marito e moglie. È interessante la presenza di una canzone che descrive come R1ama pianga Laks¸man˝a caduto in battaglia e di come Hanum1an porti la montagna con l’erba sam˝j1 ıvini in grado di resuscitarlo. Un’altra canzone descrive come Vibh1 ıs¸an˝a avvisi invano suo fratello R1avan˝a di rendere S1 ıt1a e di come lo abbandoni per unirsi a R1ama. La madre consiglia a Vibh1 ıs¸an˝a di rimanere e di prendersi mezza Lanka. Descrivendo la gloria di Lanka dice: “Il dio del vento spazza il pavimento qui a Lanka. / Il dio della pioggia lo schizza con l’acqua del letame [Si ricordi che tanto il letame che l’urina di vacca sono considerati elementi dalle caratteristiche farmaceutiche dalla medicina Ayurvedica – ndt] per tenerlo pulito. / Il dio del fuoco in persona cucina ai nostri fuochi, / cucina ai nostri fuochi. / Trecentotrentatre milioni di dei portano / le pale e i piedi di porco e lavorano per noi come schiavi, / tutto il tempo lavorano per noi come schiavi”. È curioso osservare come la canzone ribalti la gerarchia e si gusti la descrizione degli dei che lavorano come schiavi mentre in verità sono le donne e gli uomini di bassa casta a dover lavorare come schiavi per i loro padroni, gli dei sulla terra. Il lavoro abituale di spruzzare l’acqua del letame nel cortile anteriore e di cucinare sono lavori da donna, mentre zappare la terra per i padroni è un lavoro per uomini di bassa casta. Quindi queste canzoni si riferiscono ai lavori tanto degli uomini che delle donne di bassa casta. Un’altra canzone della collezione descrive il fasto delle case in Lanka dove vivono R1avan˝a e i suoi fratelli: “Travi d’acciaio e pilastri d’acciaio, di chi è questo palazzo? / Oh bellissima Sr1 ır1ama [S1 ıt1a – nda], questo è il palazzo di Kumbhakarn˝a. / Travi di teak e pilastri di teak, di chi è questo palazzo? / Oh bellissima Sr1 ır1ama, questo è il palazzo di Indrajit. … / Travi d’argento e pilastri d’argento, di chi è questo palazzo? / Oh bellissima Sr1 ır1ama, questo è il palazzo di R1avan˝a”16. Cantata durante il k1olat¸am• questa canzone di gruppo, con i suoi versi ripetuti continuamente, incanta gli ascoltatori con il gioco sui suoni e sulle parole, e l’incremento del valore delle case va di pari passo con l’accelerazione del ritmo del canto. Qui è R1avan˝a, e non R1ama, che illustra con termini gloriosi adatti a un re. Si ascolta il nome di R1ama più come ritornello devozionale che come eroe di una storia epica. Tra gli altri personaggi maschili Laks¸man˝a riceve ancora un trattamento affettuoso in qualità di giovane genero di S1 ıt1a e quasi fosse un surrogato del padre, ha cura dei figli di S1 ıt1a; mette l’olio sui loro capelli, dà loro il latte mentre i piccoli gli orinano addosso. Laks¸man˝a li ama e il suo viso splende come fosse una luna piena. In una canzone che dipinge la risposta di S1 ıt1a alla demonessa che la sorveglia a Lanka, la famiglia allargata merita una descrizione favorevole: “Freschi alberi di li-

16

Il motivo per cui si usi Sr1 ır1ama al posto di S1 ıt1a mi è sconosciuto.

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moni e begli alberi di p&onna tutti intorno / Hai visto S1 ıt1a la Lanka di R1avan˝a / Pensi e ripensi a R1ama, / ma chi è questo R1ama, S1 ıt1a dei R1agava? / R1ama è il mio uomo, é ıka sono i miei giovani maridi. / Kausaly1a è la Laks¸man˝a il mio maridi. / Barta e Satr1 1 mia suocera, / Kaika è la più grande e Saumitri la più giovane. / Io e Urmil1 a siamo nuore. / Tutto il mondo sa che Janaka è mio padre. / Tutte le direzioni sanno che Daésaratha è mio suocero. / Tutta la terra sa che la dea della terra è mia madre”17. S1 ıt1a non è né sola né non protetta. Quando è minacciata da una forza estranea può contare sull’aiuto di tutti i membri della sua famiglia estesa. Un particolare che rende S1 ıt1a infantile agli occhi dei R1am1ayan˝a delle caste più alte è la sua richiesta di avere il cervo dorato sebbene R1ama le dica che quell’animale sia un demone magicamente travestito. Nel R1am1ayan˝a delle donne di bassa casta S1 ıt1a non insiste per avere quell’animale come fosse un bambino capriccioso ma dice invece: “Dammi il tuo arco e le tue frecce / andrò adesso e prenderò l’animale”. Qui è l’ego ferito di R1ama che lo fa correre a catturare il cervo d’oro. Queste canzoni sono cantate nei campi di riso e in aree ricreative e non nei cortili posteriori privati delle case come lo sono quelle dei brahmani. Curiosamente le canzoni raccolte dai campi dove le donne cantano mentre lavorano iniziano con una narrazione lineare ma terminano improvvisamente, sembrano quasi non finite. Ci si chiede se la struttura aperta delle canzoni da lavoro non rifletta la mancanza di interesse che le donne delle caste più basse hanno nel finire ciò che dopo tutto non appartiene loro. Più che indicare una inabilità a produrre una canzone finita, la struttura della stessa è una espressione di rifiuto: come i campi aperti dove lavorano, la storia del R1am1ayan˝a con i suoi ambienti regali e i valori brahmani appartengono ad altri. Per di più, le stesse donne possono cantare magnifiche canzoni ben rifinite quando il tema le interessa, come, per esempio, le canzoni per il kol1at¸am• che descrivono lo splendore della casa di R1avan˝a e dei suoi fratelli. Qui la presenza del nome di R1ama è, forse, una sottile apparenza che copre l’effettiva mancanza di interesse nella statura di R1ama in quanto eroe. Conclusioni Perché le donne cantano simili canzoni? Edwin Ardener ha proposto la teoria dei gruppi muti, resi tali dalle strutture di espressione dominanti18. In India le caste più basse e le donne ricadono in questa categoria. Ma i gruppi muti, come dice anche Ardener, non sono gruppi silenziosi: si esprimono protetti dalla ideologia dominante. In sanscrito il nome è Raghava; Bharta e éSatr1 ıka sono Bharata e éSatrughna; Kaika è Kaikey1 ı e Saumitri è Sumitr1a (Questo adattamento dei nomi sanscriti sono comuni nei dialetti delle caste qui descritte). Maridi è un termine di parentela in telegu che indica il fratello minore del marito. 18 Edwin Ardener, Beliefs and the Problem of Women e The problem Revisited entrambi in Shirley Ardener, a cura di, Perceiving Women, Dent, London, 1975, rispettivamente alle pp. 1-17 e pp. 19-27. 17

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I contenuti delle canzoni femminili del R1am1ayan˝a non rendono le loro cantanti, né le loro ascoltatrici, femministe. Le donne brahmane con cui ho parlato, semmai, considerano queste canzoni un atto di devozione, una rivendicazione giusta che una donna deve fare in casa. Neppure quegli uomini che le hanno ascoltate, o le hanno lette nelle pubblicazioni, obbiettano sull’uso che ne fanno le donne della casa. Così neppure gli studiosi (di entrambi i sessi) che hanno scritto sulle canzoni brahmane del R1am1ayan˝a vi percepiscono in queste un tono di opposizione nei confronti dei R1am1ayan˝a più rinomati, le versioni maschili19. Le donne inseguono consciamente il fine delle canzoni che cantano per loro stesse? Hanno reso il loro cantare così di routine che sembrano ricevere il significato subliminalmente, piuttosto che semi-coscientemente. Per di più, molte delle donne che cantano queste canzoni partecipano come pubblico anche ai Ra1 ma1 yan˝a maschili, con tutta la devozione propria dell’occasione. Il contrasto tra quello che cantano a casa e quello che ascoltano fuori viene riconosciuto? Le donne parlano di questi problemi tra loro? I testi delle canzoni femminili non sono esoterici. Il loro linguaggio è semplice, il messaggio è chiaro, protestano contro il dominio maschile. Credo sia il contesto controllato della loro performance che rende il loro uso adatto alle donne. Forse il valore delle canzoni consiste proprio nell’assenza di una protesta conscia. Le donne che le cantano non hanno cercato di rovesciare la struttura familiare dominata dalla figura maschile; vorrebbero piuttosto modificarla. Non hanno un interesse in un confronto diretto con l’autorità, il loro interesse, al contrario, è nel crearsi uno spazio dove muoversi. È questa libertà interiore che tali canzoni sembrano incoraggiare. Solo quando questa libertà viene minacciata dalla prepotenza esercitata dal capo della casa fa prendere alle donne una posizione di contrasto, preferendo sovvertire la sua autorità piuttosto che combatterlo apertamente. Queste canzoni sono una parte dell’educazione che le donne brahmane ricevono, una parte di ideologia brahmana, con le quali si costruisce la loro consapevolezza per vivere in un modo adatto, in una realtà controllata – alla fine – dagli uomini. In forte contrasto rispetto alle canzoni delle donne brahmane, quelle delle donne di bassa casta sembrano riflettere il loro scarso amore per i membri delle caste più alte, i padroni, per i quali spesso lavorano insieme ad altri uomini della propria famiglia. Come appartenenti a caste basse, queste cantanti sono oppresse due volte. In quanto donne dividono una parte dei sentimenti con le donne di casta più alta, e di conseguenza comprendono i problemi di S1 ıt1a. Forse è però più intrigante la mancanza di interesse in R1ama e l’attenzione con cui sono visti, al contrario, R1avan˝a e Lanka, in una apparente rifiuto di R1ama. Ma, come già accade per le canzoni delle donne, il rifiuto non è aperto e indirizzato al confronto, ma sottile e sovversivo.

Ramaraju, comunque, commenta che gli accadimenti nell’ultima parte della canzone Kusé alvula Yuddhammu sono macchiati dalla sconvenienza (anaucit1 ıdos¸adus¸itamulu), riferendosi, a quanto pare, alle dure parole che Lava e Kuésa dicono contro il padre R1ama. Teluguja1 napadageyasa1 hityamu, cit. p. 117. 19

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Danze sacre del Bhutan. Un’antica tradizione di rappresentazione come rituale protettivo di un regno buddhista di Michael V. Aris

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“Natural History”, n. 89, 1980, pp. 38-46

Fu per caso che le prime due missioni politiche britanniche a raggiungere il remoto regno del Bhutan nell’Himalaya orientale, nel 1774 e nel 1783, arrivarono durante l’annuale festività del Dromchö, ospitato nella capitale estiva di Thimphu. “Tutti mostravano una serie di volti più diabolici di quelli dipinti nella tentazione di Sant’Antonio, e il suono rumoroso e selvaggio degli strumenti sembrava ben appropriato per quelle danze demoniache”, scrisse uno degli osservatori registrando i primi contatti occidentali con una ricca e complessa tradizione. Altri viaggiatori, più tardi, scopriranno che tale tradizione era prospera in tutte le zone dell’Asia dove il Buddhismo del nord (tibetano), o Lamaismo, prevaleva. Mancando la comprensione di questa tradizione nel contesto storico e della dottrina buddhista, i primi osservatori furono sconcertati da quello che, a prima vista, appariva come uno spettacolo macabro e sinistro. Non poterono apprezzarne il significato al pari delle popolazioni del Bhutan che guardavano le danze (cham) davanti al magnifico sfondo di un tempio o di una fortezza. Oggi il Bhutan è l’unica nazione indipendente in cui il Buddhismo del nord sopravvive come religione di stato. La rappresentazione di danze sacre come rituale di stato, eseguita da monaci preparati e laici provenienti dalla capitale e dai capoluoghi, ha tutto il supporto del governo e della famiglia reale. Allo stesso tempo diversi festival di danze sacre, abbastanza svincolati dal patronato ufficiale, hanno luogo nei templi locali e nei monasteri del Bhutan – come avviene in altre regioni himalayane rimaste intoccate dal comunismo – ricordandoci che tutte queste tradizioni hanno la loro origine in un’esperienza iniziatica privata, e quindi segreta, che nulla ha a che fare con i governi. Come si spiega la presenza paradossale della danza in una religione il cui simbolo più potente è il Signore Buddha sprofondato in una concentrazione immobile, una religione che ha sempre proibito la musica e la danza ai propri discepoli destinati a prendere i voti? La risposta si trova nello sviluppo del Buddhismo Mahayana (del Grande Veicolo), che incorporò molti rituali e tecniche di meditazione appartenenti a tradizioni più antiche, non buddhiste. Se queste potevano essere adattate allo scopo del Buddismo, sfuggire il ciclo dell’esistenza terrena attraverso

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la separazione della radice del sé, allora potevano essere facilmente convalidate e assorbite sotto il titolo di utile mezzo. Tale processo spiega parzialmente la presenza di una parte notevole del pantheon hindu nel Buddhismo del nord e la sopravvivenza di molte divinità pre-buddhiste di origine tibetana che furono – nelle loro qualità principali – più o meno neutralizzate nell’interesse della natura non teistica del Buddhismo. Questa miriade di dei, e dei loro relativi attendenti, acquisirono un ruolo di assistenti interpretabili su differenti livelli di realtà. Fondamentalmente li si è visti emergere per poi ridissolversi nella matrice universale del vuoto. Divenne compito di colui che medita identificare se stesso con una divinità di quel rango, realizzare in se stesso il processo di creazione e dissoluzione per liberarsi dalle proprie peculiarità e dalla prospettiva perversa della realtà che caratterizza l’esistenza umana. La divinità resa oggetto di meditazione è usualmente associata alla particolare scuola buddhista di chi medita, o quella preferita dal suo maestro, sebbene, in alcuni casi, possa essere una scelta individuale. Una delle principali vie per raggiungere l’unione con la divinità scelta è attraverso la ripetizione del mantra, una sequenza di sillabe che contengono l’essenza della divinità mentre, contemporaneamente, si visualizza la sua forma al centro del mandala, un diagramma del paradiso del dio così com’è concepito esistere sia fuori che dentro il corpo di colui che medita. L’iniziato integra questi esercizi verbali e mentali prendendo gli attributi fisici della divinità come fossero espressi in un mudra, un codice di gesti evocanti la natura essenziale del dio. La divinità è spesso immaginata nel suo paradiso come se stesse eseguendo una danza divina e perciò appare probabile che, il danzare come sua incarnazione, sia all’origine di una delle esperienze segrete che, gli iniziati alla tradizione esoterica del Buddhismo, i Tantra, hanno dovuto imparare dal maestro. Il Tantra Hevajra dice: “Danzando come éSr1 ı Heruka con memore / applicazione, non distratto, / meditando con veementi pensieri / la mente ininterrotta nella sua / concentrazione, / i Buddha e i maestri della dottrina del / Vajra, dei e yogini / cantano e danzano fino al loro limite / questa canzone e danza. / Vi arrivano grazie alla protezione / per il gruppo e alla protezione per / il singolo. Perciò il mondo è / ridotto a sottomissione.” Tra le imprese culturali del mondo lamaista, l’origine e la storia della danza sacra forse sono le meno documentate. A oggi non c’è modo di sapere se la tradizione fu trasmessa dall’India dai maestri Tantra o se si sviluppò spontaneamente in Tibet in reazione alle descrizioni scritte delle danze paradisiache contenute nella letteratura tantrica. È certo che la rappresentazione delle danze sacre come evento pubblico diventò parte del curriculum monastico solo dopo grandi esitazioni e timori. Ancora oggi, i sostenitori della tradizione ritengono che le danze non debbano essere proposte come uno spettacolo mondano, e inoltre ci sono ancora monaci e studiosi che denigrano apertamente la profonda natura di questi riti. Per la maggior parte di coloro che hanno fatto della religione la propria professione, le danze rimangono comunque una parte indispensabile di certi riti annuali.

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Sono l’estensione drammatizzata della liturgia e costituiscono la generazione manifesta della divinità, e questo – esteriormente – segue la generazione della divinità in se stessi compiuto come un rituale nel tempio principale dai monaci radunativisi. Entrambi i momenti, uno più interno, l’altro più esterno, meditano sulla creazione del mandala della divinità, un’area circoscritta resa sicura dalle influenze ostili, nella quale il dio è affiancato dai suoi aiutanti divini. Nel rituale liturgico il mandala è una pittura, a volte un oggetto tridimensionale. La parte principale della danza consiste in movimenti circolari in senso orario, echi della struttura formale dei mandala dipinti. Questa viene preceduta e seguita da fasi di creazione e dissoluzione. La divinità, come raffigurato in molte danze, è generalmente compassionevole, ma assume un’apparenza furiosa per opporsi a quelle influenze maligne che non possono essere soggiogate con mezzi pacifici. Il climax della maggior parte delle danze dedicate alle divinità irate si raggiunge nel momento in cui un’immagine rappresentante il male è pugnalata e smembrata in un atto di omicidio rituale. A volte questo viene messo in scena realisticamente estraendo da una figura di pasta morbida intestini di animali riempiti di sangue, gettandoli poi in tutte le direzioni. La natura base del potere maligno è quindi annullata, mentre il principio consapevole è liberato verso il paradiso – fino all’anno seguente. Su di un livello interpretativo questo è il sé e in tal modo viene distrutto. La versione più diffusa crede che così si distruggano le forze antagoniste al Buddhismo o a una particolare scuola. Queste credenze hanno collocato la danza nel posto che le compete nei rituali di stato e delle comunità. L’intero ciclo di danze sacre tibetane conosciute come le danze dei Berretti Neri, molto note in Bhutan, si dice imitino i movimenti con cui il monaco tibetano Pelgi Dorje distrasse il re Lang Darma, avverso al Buddismo, prima di ucciderlo nel 842 d.C. Le danze dei Berretti Neri, come tutte le altre danze il cui scopo è la distruzione del male, sono eseguite per il benessere di tutta la nazione, o per una particolare provincia, durante le annuali festività di rinnovamento e di riconsacrazione. Si possono riconoscere due correnti principali nello sviluppo delle danze sacre, entrambe presenti nella tradizione bhutanese: la prima è associata maggiormente alla scuola Nyingmapa (antico ordine), databile tra il XII e il XIII secolo. La capacità delle danze sacre dipenderebbe dalle visioni rivelatrici – una fonte oggi considerata caduta in disuso. Il soggetto, in sogno o in trance, ha potuto viaggiare nel regno del deificato saggio indiano Padmasambhava e, al suo ritorno, può insegnare ai suoi discepoli le danze celesti viste in quei luoghi. La seconda corrente è maggiormente associata alle scuole più tarde che hanno cercato di catalogare e codificare le danze ereditate dalle scuole più antiche, inclusa il Nyingmapa, considerabile come quella originariamente autentica. Entrambe le tradizioni, la rivelata e la codificata, sono dipese dai manuali (chamyik) per registrare le danze per i posteri. Questi testi, comunque, non sono mai stati usati per studi pratici; servono, invece, per guidare i leader della troupe di

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danza in caso di dubbio. Separati dalla tradizione viva dell’istruzione personale risultano incomprensibili, come la notazione trovata negli spartiti musicali tibetani. Non solo i passi di danza, ma anche tutto il processo di visualizzazione meditativa deve essere imparato direttamente da un maestro (champön). Mezzi mnemonici, come usare il ritmo, sono impiegati per aiutare gli studenti a memorizzare i passaggi più complicati. Se si considera che molti festival continuano con poche interruzioni anche per sei giorni, si ha un’idea dell’importanza di questi sistemi, anche se formano solo una piccola parte dell’intero curriculum di studio. Un racconto tratto dalla biografia del sesto Dalai Lama (del Tibet) narra di come, quando era ragazzo, dovette guardare il suo maestro di danza esibirsi in mezzo alla neve, in modo che, osservando le impronte dei piedi, potesse memorizzare tutti i passi del fulmine, una tecnica di studio appartenente, a quel tempo, alla scuola Gelukpa. Il Dalai più tardi si rammaricò e si punì per aver guardato alla danza come fosse solo un’esibizione spettacolare. Il Bhutan, molto tempo prima che ottennesse l’unificazione e l’indipendenza, nel corso del XVII secolo sviluppò le proprie tradizioni di danza sacra associata al grande santo Pema Lingpa (1450-1521), avo dell’attuale famiglia reale. La sua autobiografia contiene alcuni passaggi molto vividi sulle visioni che ebbe delle danze eseguite nel paradiso di Padmasambhava. Oggi il vasto repertorio accreditato a Pema Lingpa riveste una funzione ausiliaria in tutti i maggiori festival e non ne forma mai l’oggetto principale. Le sue danze forniscono gli interludi prima e dopo il climax rituale incentrato sulla divinità evocata nel mandala. Molte delle coreografie di Pema Lingpa ritraggono differenti gruppi di attendenti divini e acrobati mentre preparano il sentiero per il paradiso. Alcune di queste danze hanno una forte ascendenza sciamanica derivante dal background di tradizioni pre-Buddhiste incentrate sull’oracolo del villaggio e sul suo stato di possessione o di volo verso il paradiso. Certi attendenti celesti di Padmasambhava sono chiamati pawo, il nome con cui, in Bhutan, si indica l’oracolo del villaggio. Un oracolo si accompagna con un tamburo damaru, eseguendo i passi del gallo delle nevi [Gallinaceous himalayensis – ndt] prima di cadere in trance e accogliere il dio nel proprio corpo. La versione cerimoniale di Pema Lingpa di questo rito richiede due coppie di pawo che imitano i passi dell’oracolo del villaggio. Di solito la danza è eseguita per dare il benvenuto ai graditi ospiti del palazzo o della fortezza immaginati come fossero in paradiso. Il tamburo dello sciamano è anche usato nella danza dei tamburi di Dramitsé, attribuita al figlio di Pema Lingpa, Kunga Wangpo, che la vide nel paradiso e la ripropose per consacrare un tempio a Dramitsé, nel Bhutan orientale. Come nel caso di diverse altre danze, i performer vestono vari tipi di maschere animali fatte di legno o di cartapesta. Lo strano spettacolo può avere una grazia e una dignità tutta propria anche se non ci sono modi di distaccarsi, o di improvvisare, rispetto alla sua forma immutabile. Le danze sacre hanno certamente luogo in un calderone di emozioni, ambizio-

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ni e reazioni che si sono sviluppati nella storia della sovranità bhutanese. Sebbene fosse per lungo tempo frammentato in un grande numero di territori appartenenti ai clan e agli esponenti ecclesiastici, il paese raggiunse l’unificazione nonostante la pianificata opposizione dei regimi tibetani successivi. Questo risultato fu sostenuto perlopiù dagli sforzi di un grande monaco statista e studioso, Shabdrung Ngawang Namgyal, che arrivò nel Bhutan occidentale come rifugiato nel 1616. Principeabate ereditario appartenente alla potente setta Drukpa (Drago del tuono) della scuola Kagyüpa (scuola della trasmissione orale), consolidò le Drukpa delle regioni occidentali. Il suo immediato successore estese i confini ai limiti odierni e, dopo molte difficoltà, fu stabilita una teocrazia con l’incarnazione dello Shabdrung (l’equivalente bhutanese del Dalai Lama tibetano) a ricoprire la carica di capo dello stato. L’autorità temporale fu delegata all’opera del Druk Desi. I Britannici arrivarono per conoscere i due beneficiari, il Dharma Raja (re della religione) e il Deb Raja (reggente). Entrambe le cariche sparirono quando l’attuale dinastia si insediò all’inizio di questo secolo [XX sec. – ndt], e l’odierna incarnazione dello Shabdrung non abita nel paese. Il paese fu governato dalla grande capitale e fortezza provinciale (dzong) che attualmente domina la vallata principale. In queste strutture imponenti trovarono casa le comunità di monaci dello stato dediti alla guida della scuola Drukpa, e molti dei governatori furono scelti tra la numerosa popolazione monastica del paese. Altri furono scelti dai ranghi dei leali servitori e dai discepoli legati ai dzong. Nonostante il loro status fu loro richiesto di osservare un codice, o una disciplina, semi-monastica. Le istituzioni si svilupparono sotto la teocrazia penetrata in ogni regione del paese e influenzarono ogni sfaccettatura dei soggetti che vi vivevano. Il trionfo della setta regnante Drukpa (che alla fine diede al paese il nome di Drukyul, il nome usato dagli stessi Bhutanesi) è tradizionalmente ascritto al controllo esercitato dalle rispettive divinità guardiane, in particolare alla relazione intima esistente tra queste e lo Shabdrung in carica. Si dice anche che durante la vita dello Shabdrung i Bhutanesi respinsero non meno di sei volte i tentativi di invasioni tibetane, e molte altre in seguito. Esiste un piccolo dubbio riguardo lo Shabdrung: lo stesso Ngawang Namgyal usò le forze distruttive delle danze sacre in un’azione di magia simpatica diretta contro i governanti nemici del Tibet. Un incidente, menzionato nella sua biografia ufficiale ci dice di come lui guidasse una danza in onore del dio protettivo Mah1akala. Sventolando una bandiera “come una nuvola soffia dalla volta del cielo alla fine dei tempi” danzò verso il centro della corte interna e lì consegnò a una buca di forma triangolare una lista contenente i nomi dei suoi nemici, “emanò quindi un gran bagliore che terrorizzò gli astanti”. Il rituale per Mah1akala più tardi formò la base per il festival dell’Anno Nuovo eseguito ancora nella fortezza di Punakha, la capitale invernale. Le danze in maschera, conosciute come Punakha Dromchö, durano cinque giorni e la loro caratteristica peculiare è il ruolo formale ricoperto dai laici, selezionati da otto villaggi,

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che interpretano la milizia cerimoniale, impersonificazione della guardia personale dello Shabdrung. Essi danno vita a una scena come fosse una straordinaria panoplia medievale, arricchita ulteriormente l’ultimo giorno da una lunga processione sulle rive del fiume P’o-chu. Qui il capo abate, col costume dei Berretti Neri, offre agli spiriti serpenti i pezzi selezionati da tutti i mandala consacrati dai monaci durante l’anno. Gli oggetti dell’abate in questa occasione ricordano uno dei dipinti del tempio raffigurante lo Shabdrung nel suo aspetto irato mentre esegue una danza di distruzione col costume dei Berretti Neri. La figura intransigente del primo Shabdrung si ritrova in molte delle danze sacre bhutanesi e nelle leggende che le avvolgono. Una leggenda rinomata racconta di come la danza Mah1akala del Legön Tsokhor sembrava mancasse di un finale. Mentre lo Shabdrung si dava un appropriato accompagnamento con i cimbali dal suo scranno, dopo aver evocato un’emanazione danzante di questo dio per affidare l’anima del governante nemico del Tibet, uno dei massimi ministri del culto che stava sbirciando da dietro una tenda disturbò il dio, causandone la sparizione prima del completamento delle danze. Il festival del Punakha Dromchö fu istituito dallo Shabdrung come celebrazione ufficiale del governo per l’Anno Nuovo, dopo essere servito come modello per festival estivi introdotti nella capitale estiva (ora capitale permanente) Thimphu. Mentre il Punakha Dromchö si incentra sulla divinità di Mah1akala il Thimphu Dromchö è dedicato esclusivamente alla consorte del dio, éSr1 ı Devi (Dea Gloriosa) e termina dopo tre giorni chiudendosi con un’adorazione del santo deificato Padmasambhava, che ha molti legami leggendari col Bhutan. L’importanza di Padmasambhava per i Bhutanesi, è sottolineata dal fatto che le danze rappresentate in tutte le fortezze provinciali e in molti monasteri provinciali nel caso di eventi cerimoniali, gli siano dedicate. Quindi, mentre la regione della capitale è interessata perlopiù ai riti di protezione per il bene dello stato, le provincie si rivolgono alla figura più consolatoria di Padmasambhava e ai suoi otto aspetti che appaiono tutti nelle vesti e nelle maschere dell’ultimo giorno in ogni festival, per donare la loro benedizione al pubblico. A volte enormi applique tappezzate, raffiguranti Padmasambhava, vengono issate per dare luogo a uno straordinario fondale. Oggetti di grande devozione sono conosciuti con il termine speciale di t’ongdröl (liberazione grazie alla visione). Molte delle danze secondarie eseguite nei festival sono dirette all’edificazione del pubblico più che al raggiungimento di uno scopo rituale. Oggi, un gruppo composto da laici preparati che va in tournée, esegue generalmente tali danze, ma in precedenza i danzatori erano reclutati tra i servitori laici a servizio presso una fortezza. Alcuni degli oggetti più interessanti e di valore del repertorio bhutanese appartengono alla categoria delle böcham (danze degli attendenti), che includono tutte quelle attribuite a Pema Lingpa evidenziate prima. La più didattica nei propositi è, forse, la Danza Rossa dei Rakshasa derivante dalla stessa tradizione a cui dobbiamo il famoso Libro Tibetano dei Morti. Il Signo-

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re dei Morti presiede una corte che giudica un uomo per le azioni da lui compiute. La sua liberazione dal samsara o la futura rinascita, è determinata da come reagisce alle terrificanti apparizioni che sono il seguito del dio, effettiva proiezione carmica. Un’altra danza drammatica, il cui scopo è di generare un sentimento di fede e di rinuncia, mette in scena la storia di come il poeta e santo Milarepa (1040-1123) abbia salvato un cervo da un cacciatore, in seguito convertito a vita religiosa. Su un modello più mondano la danza mimata e cantata P’olé Molé (il buon uomo, la buona donna) tratta della fedeltà familiare e deriva da una storia tibetana, a sua volta provieniente da una tradizione indiana. Una sopravvivenza peculiare in questa categoria di danze ausiliarie è il Chözhé (la canzone del dharma), la danza del vecchio corpo di guardia del monastero dei Drukpa. Si pensa sia basata su un incidente accaduto al fondatore della setta quando incontrò le forze soprannaturali che gli si opposero nel suo viaggio per aprire una via ai pellegrini verso il santuario Tsari nel sud-est del Tibet. I lenti e maestosi gesti della soggiogazione stilizzata, eseguita in perfetto sincrono dai laici vestiti da monaci guerrieri, sembra rendere noto qualcosa dell’essenza della tradizione bhutanese, ovvero il costante sforzo per ottenere l’armonia tra i suoi ideali secolari e spirituali. Nessuna esecuzione è completa senza il clown (atsara), il cui compito è mettere un poco in ridicolo le danze sacre eseguendo scherzi osceni e comportandosi da macchinista teatrale. Egli rappresenta una figura aberrante che fuoriesce dalla subcultura nazionale solo per essere poi riassorbita nell’ordine tradizionale. È comico, ma allo stesso tempo estremamente serio, proteggendo ancora una volta l’unità e l’equilibrio. La sua maschera e il suo nome lo indicano come un maestro indiano – una figura divertente poiché un indiano dal grande naso, ma comunque sacro in quanto maestro. Chissà se i guardiani dell’ortodossia buddhista scuotono mestamente la testa da qualche lontano paradiso di pura danza quando guardano a questi sviluppi? Solamente nell’esperienza bhutanese l’autorità che presiede alle danze sacre ha distillato una linea che va dagli yogi tantrici alla reincarnazione del teocrate, e quindi verso l’odierna monarchia buddhista ereditaria. Oggi sempre più gli elementi folkloristici e i culti locali si sono gradualmente inglobati, mutando esteriormente a vantaggio dello spettatore, allontanandosi dal loro nucleo meditativo. Oggi pochi danzatori raggiungono il perfetto equilibrio tra corpo, parola e pensiero, ottenendo ciò che è ritenuto essere il requisito necessario per una danza sacra. Ma quello che rimane è un’esperienza vitale e arricchente in cui i danzatori possono anche sapere di non essere incarnazioni divine, dove rimangono comunque gli spettatori che a volte vedono i loro dei ritornare vivi.

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L’arte di Manora, un antico racconto sul potere delle donne che sopravvive nel teatro del sud-est asiatico di Poh Sim Plowright

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“New Theatrical Quarterly”, n. 56, Cambridge University Press, Cambridge, 1998, pp. 373-394

Un cacciatore vede una bellissima donna-uccello bagnarsi in una pozza nella foresta. Le ruba la veste e la cattura con un tranello. Il cacciatore conduce la donna dal suo padrone, un principe, che la obbliga a sposarlo e, più tardi, a dare alla luce dei figli. Mentre il marito è lontano in una spedizione, la donna viene intrappolata in una rete di intrighi di corte che la minacciano di morte. Ma è abbastanza piena di risorse e, con il pretesto di compiere una danza propizia al sacrificio, recupera la sua veste con la quale vola verso la libertà. La storia della donna-uccello, che seguita a essere cantata o recitata da pescatori giapponesi come da cacciatori svedesi o indiani del Nord America, continua a stregare tutto il mondo e, sebbene non si possa farla risalire a un’unica fonte, esiste un luogo nel quale questa storia di magie e intraprendenza femminile viene ancora messa in scena come un rituale teatrale, davanti a un pubblico numeroso, ammaliato e partecipe. Questo luogo è la provincia di Nakhon Sri Thammarat – in pali sanscrito Nagara Sri Dammaraja (la città del re del Sacro Dharma) – nel sud della Thailandia. Anticamente situata nel sito malese buddhista di Ligor, nel corso del XIV secolo divenne parte della Thailandia (conosciuta col nome di Siam), con l’antica capitale Ayuthuya si contendeva il merito di essere una delle due città più importanti del Sud-est Asiatico. Fino a poco tempo fa alcuni degli stati della Malaysia del nord – Kedah, Penang e Kelentan – celebravano la storia della donna-uccello con performance teatrali. Ma l’aumentare dell’avversione islamica verso il teatro1 ha portato a una proi-

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Tutte le arti performative sono considerate dai puristi dell’Islam e dagli ortodossi come haram o proibite. Non desiderano che si veda nessuna rappresentazione dell’uomo, anche se altamente idealizzata. Così il wayang kulit (il teatro delle ombre) cade sotto una pesante censura sebbene ci sia stato un filosofo mussulmano, Ibn Al-Arabi, che abbia interpretato il panggung (il palco delle marionette) come un cosmo in miniatura, la lampada come il sole e il marionettista come Dio. Molti mussulmani malesi ortodossi considerano questa interpretazione come un’eresia e il teatro delle marionette come qualcosa di estremamente peccaminoso. Altre arti performative tradizionali sono similmente non

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bizione pressoché totale delle performance in Kelentan, mentre sono diventate rare in Kedah e Penang. Il Nakhon Sri Thammarat, a maggioranza buddhista, è quindi un luogo dove la forza di questa storia rimane immutata e la sua espressione teatrale è ufficialmente appoggiata. Qui l’eroina della storia, Manora (dal sanscrito Manohara) ha dato il suo nome (abbreviato in Nora) al nascente genere teatrale della Thailandia del sud2. Oltre alla celebrata storia della donna-uccello Manora – la sposa prigioniera del principe Suthon (dal sanscrito Sudhana) – ci sono altre dodici storie, appartenenti a questa forma teatrale, caratterizzate da una miscela di canzoni, danze, clownerie e parodie. Comunemente, nelle moderne rappresentazioni di Manora, la storia principale, come precedentemente abbozzato, viene completamente omessa, e ciò testimonia la profonda familiarità che il pubblico ha con essa confermando come la base originale sia sufficientemente ampia e modernizzata da includere non solo altre storie della letteratura thai, ma anche altri racconti popolari odierni. La trama e la storia Uno dei problemi che si incontra confrontandosi con l’arte teatrale di Manora è la penuria di prove certe rispetto alla quantità di aneddoti concernenti la sua origine storica, la sua funzione, l’utilità, l’organizzazione e la preservazione. Le risposte alle domande indirette sono invariabilmente oblique o aneddotiche e, sebbene possano essere divertenti, non possono essere considerate come verifiche di dati da un punto di vista scientifico. Il problema della documentazione di Manora è ulteriormente aggravato dal fatto che chi ha un ruolo nella tradizione – i portatori della sacra corona, per esempio – non la analizzano, né tantomeno passerebbe loro in mente di farlo, per paura di romperne il magico potere. Tale atteggiamento risulta difficile da accettare per una mente occidentale abituata a filtrare i materiali separando il fatto storico dal mito. La verità riguardo Manora è che si è evoluta rispetto al semplice racconto di una storia, ed è praticamente impossibile separare gli avvenimenti storici dalla loro interpretazione. Nella

accettate. Come se non bastasse, sebbene l’arte teatrale del Manora abbia avuto origine nell’antico Malay, non è mai stata totalmente accettata dagli abitanti a causa dei suoi fondamenti buddhisti. Vedi Ghulam Sawar Yousof, Panggung Semar: Aspects of Traditional Malay Theatre, Tempo Publishing, Petaling Jaya, 1992, p. 175, 183. 2 Manora è la più antica forma di teatro del Siam che si conosca, e si crede che si sia sviluppata nel XII secolo partendo dalle performance dei villaggi in relazione con le pratiche buddhiste animiste durante l’antico regno malese di Patani (poco più a sud di Nakhon Sri Thammarat), che oggi fa parte della Thailandia. Nel 1909 gli Inglesi cedettero Nakhon e Patani alla Thailandia con il Trattato di Bangkok. Vedi J. Brandon, a cura di, The Cambridge Guide to Asian Theatre, Cambridge University Press, Cambridge, 1993, p. 234.

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sfera della trance femminile, all’interno della quale questa arte teatrale si pone, la finzione e l’inventiva sono prevalenti: la medium durante la seduta, adempiendo alla funzione di narratrice, guaritrice e maga, è la figura più autorevole e catalizza di conseguenza su di sé il massimo rispetto della comunità in virtù del ruolo che riveste. Prima che diventasse una medium generalmente era una persona malaticcia e di scarso peso nella comunità. E così l’elemento narrativo, a discapito di tutte le regole della probabilità, assume in questa società un’importanza spropositata, con buona pace della reverenza occidentale per i dati dimostrabili, dati che per le comunità in questione sono visti come alterabili dalla forza trasformatrice della narrazione. Dopo questa premessa la strana storia dell’eroina Manora e della sua cattura a opera di un principe può anche essere letta, come mostrerò più avanti, come la tipica storia riguardante la lotta per il potere nel sud-est asiatico, lotta che era caratterizzata dall’impossessarsi, come bottino di guerra, delle mogli della famiglia reale dedite alla trance. La storia e l’occulto C’è un’ulteriore dimensione a questa rara forma di dramma, una dimensione che esercita uno strano potere sui locali trasportandoli in un mondo magico – il termine magia Nora è usato per esprimere tale potere. Nella Thailandia del sud, per esempio, esiste l’espressione mi ta sua nora per descrivere una persona caduta sotto l’influenza di Nora, o altre superstizioni come quella del Thuk Khru, usata da chi sia caduto sotto la maledizione di un leader Nora. L’uso di questi termini indica l’esistenza di un potere alquanto indefinibile originato sia nel mito, conosciuto da tutti come quello della donna-uccello, sia nella storia specifica, nell’organizzazione e nella continuazione del genere teatrale del Manora che è senza dubbio una delle forme drammatiche più occulte e potenti del mondo sotto il profilo magico. Nel nord della Malaysia, parte della Thailandia fino all’inizio di questo secolo, il genere del Manora non è strettamente collegato solo alla magia in generale, ma è specifica della magia femminile. Questa connessione è rinforzata dal fatto che la parola malese indicante il potere magico, empu, si ritrova nel termine comunemente usato per indicare il femminile: perempuan. Non c’è quindi dubbio che, da un punto di vista etimologico, anche in un paese fortemente islamico, in cui le donne, apparentemente, ricoprono un ruolo secondario e nel quale l’arte del Manora è bandita, il femminile sia associato al potere magico. Le due principesse Se analizziamo le storie riguardanti le due leggendarie fondatrici dell’arte teatrale del Manora – la principessa thai Nuensamli e la principessa malese Mesi Mala – ri-

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scontriamo un profondo legame tra queste nobili donne in quanto ambedue erano medium e praticavano l’arte della guarigione3. Il loro percorso da uno stato di salute malaticcia, passando alla possessione spiritica fino al ruolo di guaritrice è il tirocinio archetipico del neofita verso lo stato di sciamano. La principessa thai Nuensamli fu posseduta da un dio che la indusse alla follia e all’esilio. Al figlio che le nacque fu insegnata l’arte della danza dalla mitica donna-uccello conosciuta come Kinnari, un clown fu magicamente creato da una roccia e un dio divenne mortale per interpretare il terzo ruolo del genere teatrale di Manora. Questa formula, che usa tre ruoli maschili interpretati da attori (di cui uno mascherato in modo da ricoprire più di un ruolo), diede origine all’arte teatrale del Manora, la quale dominò più tardi, oltre al teatro thai, anche altri generi in maschera nel sud-est asiatico4. Nella versione malese propria della regione del Kedah la principessa Mesi Mala5 contrasse una strana malattia in seguito a una possessione spiritica che la portò a battere ossessivamente come un tamburo il guscio di una noce di cocco – l’uso di un tamburo6 è un’altra caratteristica del tirocinio di una sciamana, poiché è lo strumento maggiormente induttore alla trance. Un gruppo di bambini la seguirono nella sua particolare occupazione e furono esiliati in un isola chiamata Pulao Kecang dove furono raggiunti da una figura clownesca7, Phran Bun, che dapprima apparve come un venditore indiano di perline. Ritornò in India e da lì riportò alla principessa la famosa corona di Buddha – un elemento fondamentale nella performance di Manora. Il ritorno della principessa, e il suo intervento per mezzo di una danza, portò alla guarigione salvando la

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Si confronti il ruolo di queste due principesse guaritrici con la leggendaria principessa giapponese Joruri che, si crede, sia la mitica fondatrice del teatro delle marionette bunraku nel XVII secolo, inizialmente conosciuto come ningyo joruri (ningyo significa bambola, joruri recitazione narrativa). La trama della storia tra la principessa Joruri e Yoshitsune, generale dei Genji, era molto conosciuta. Il suo amante cadde malato durante una delle sue spedizioni militari, lo raggiunse e lo guarì miracolosamente. 4 Si veda J. Brandon, a cura di, The Cambridge Guide to Asian Theatre, cit., pp. 23-26. 5 Per saperne di più riguardo al mito di Mesi Mala si veda, Ghulam Sawar Yousof, Panggung Semar, cit., pp. 165-168. 6 Si crede che il tamburo sia fatto con il legno proveniente dall’Albero del Mondo, che lo rende capace di far comunicare la terra e il cielo. Attraverso il suo battito lo sciamano è in grado di proiettare se stesso in prossimità dall’Albero del Mondo e quindi di volare fino al cielo. Si veda M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaiques de l’extase, Éditions Payot, Paris, 1951, trad. ingl., Shamanism, Arkana Press, New York, 1989, p. 168. 7 Non solo in Manora, ma anche in altri drammi danzati malesi la figura del clown viene frequentemente associata con la divinità e con la guarigione. Per esempio nella danza femminile di corte malese, il mak yong, la donna che è stata guarita dai clown bomoh (il bomoh è lo stregone guaritore) diventa a sua volta la guaritrice della comunità. Vedi J. Brandon, a cura di, The Cambridge Guide to Asian Theatre, cit., p. 195.

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sua nazione da un’epidemia, e trasformò la fondatrice in una sorgente di guarigione originando l’arte teatrale del Manora. Si crede che durante la performance lo spirito di Mesi Mala entri nel corpo della danzatrice in trance rinforzando il potere guaritore di questo genere teatrale così profondamente radicato nella trance femminile. Da una prospettiva letteraria e figurativa forse non ci può essere una connessione più chiara di quella passante tra i riti della trance femminile e il teatro che non quella manifestata in Manora. Le invocazioni alla medium fondatrice all’inizio e alla fine della performance, la cui presenza è attestata visibilmente dallo stato alterato della donna in trance nella quale ha deciso di entrare, servono da struttura forte su cui le varie parti del dramma si dispiegano. Incenso, cibo e offerte cantate si mescolano con la danza e il ritmo ossessivo che induce alla trance per costituire elementi sia teatrali che rituali. Tanto è forte l’aura rituale che circonda Manora nel sud della Thailandia che difficilmente potrebbe esistere una performance non rituale. È importante tenere a mente come le due leggendarie fondatrici dell’arte teatrale del Manora – una thai e l’altra thai e malese – siano molto più unite di quanto le loro storie non suggeriscano. Il Nakhon Sri Thammarat (più conosciuto come Ligor), dove il genere teatrale del Manora continua a prosperare, una volta faceva parte dell’antico regno malese, insieme ai territori della Malaysia, del Siam e dell’Indonesia. Utilizzerò due storie malesi riprese dagli Hikayat (antiche storie scritte per i re malesi al fine di immortalare il loro regno) per illustrare il significato del potere di Nora. Magia e potere C’è un evidente elemento di magia associato all’organizzazione e al mantenimento delle troupe teatrali di Manora. Se interpellati gli attori direbbero che il proprio coinvolgimento in questa realtà sarebbe garantito anche dal fatto di aver avuto dei parenti a stretto contatto con quest’arte, e i leader Nora hanno reputazione di essere abili nell’attrarre gli spettatori, trascinandoli da un luogo a un altro della performance, completamente incantati. In breve un leader Nora non solo gode della massima autorità nei confronti dei propri attori, ma li gestisce anche in base alla loro vocazione. Nel proprio villaggio i leader sono visti sia come dottori che come maghi (il termine non ufficiale con cui si designa in Thailandia un dottore è maw, che significa anche mago), e irradiano uno straordinario magnetismo: l’elemento dell’attrazione fisica e sessuale sembra inseparabile dalla magia del Nora. Sebbene il Nora, o il teatro della donna-uccello, combini elementi di magia, d’incantamento, di superstizione, di sessualità e soprattutto di guarigione e sia essenzialmente di derivazione femminile – sia che si pensi al mito universale della donna-uccello che alla sua forma teatrale – il suo potere può essere trasmesso an-

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che agli uomini. La parola Nora può essere usata come titolo, se anteposta dal nome del leader (per esempio il famoso Nora Yok, nato nel 1922 che da oltre cinquant’anni esegue Manora). Un leader può essere sia uomo che donna, a patto che sia dotato di carisma e sia piacente e abbia il dono di esorcizzare e guarire – come la formidabile signora Manee Burinkoat. Un leader maschile si reputa avere usualmente un grande potere seduttivo sulle proprie spettatrici, con le quali spesso intrattiene vere e proprie relazioni. In una leggendaria competizione tra due celebrati leader Manora, Nora Wan e Nora Toen (morto nel 1970), per attrarre il maggiore numero di spettatori, lo sconfitto – Nora Wan – fu obbligato a cedere le mogli e le figlie al vincitore8 – come nelle antiche lotte che avvenivano nel sud-est asiatico per il potere tra Siam e Cambogia, quando con il sacco di Angkor, a opera dei Siamesi nel 1431, molte mogli danzatrici furono cedute al vincitore e portate in Siam come parte del bottino di guerra. Oltre a essere prede di guerra le mogli danzatrici del re erano considerate medium grazie alle quali il re sarebbe stato in grado di aumentare il proprio potere magico. A sostegno di queste pratiche c’è l’antico concetto hindu di un governante re-dio che attinge dai poteri femminili ctoni della fertilità – una credenza tanto rispettata da avere il peso di un dogma nell’antico mondo malese dell’Indonesia, del Siam e della Malaya. Le più antiche genealogie dei re Melaka9 in Malaysia furono fatte risalire ai Chola, gli invasori indiani del XI secolo. Questo è il motivo per cui il primo re di Melaka conosciuto, Raja Iskandar Shah, rivendicava la discendenza dal primo Chola indiano stabilendo un sistema cortigiano sul modello dei regni hindu in India, mentre il modo in cui al monarca venivano riconosciute simbolicamente caratteristiche divine fu adottato dagli altri sovrani della penisola malese10. Fu compiuto ogni tentativo possibile per rinforzare lo speciale accesso del re nei confronti dei poteri soprannaturali e della protezione che gliene derivava e, fin quando i sudditi furono determinati a vederlo come un individuo particolarmente dotato di poteri magici, fu il medium supremo, colui attraverso il quale i sudditi potevano entrare in contatto con il mondo invisibile.

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H. Ginsburg, The Manora Dance Drama: an Introduction, in “Journal of the Siam Society”, vol. LX, part 2, July, 1972, p. 174. 9 La posizione strategica di Melaka (oggi detta Malacca), a sud-ovest dello stretto della Malacca, la rese il porto più ricco nel sud-est asiatico nel XV secolo. Fu dato al porto il nome dell’albero melaka dopo che il re – Raja Iskandar Shah – si riposò sotto le sue fronde al suo arrivo in esilio. La monarchia in Malaysia non iniziò con la dinastia Malaka, poiché gli stati di Kedah e Patani erano già conosciuti fin dal VI secolo. Si veda Wazir Jahan Karim, Women and Culture: Between Malay Adat and Islam, Westview Press, San Francisco-Oxford, 1992, pp. 34-38. 10 Si veda R. Winstedt, Indian Influence in the Malay World, in “Journal of the Asiatic Society”, part 3-4, 1944, p. 188: “Non molte decadi passate il sultano mussulmano di Perak veniva servito da vergini nude dalla cintola in su”.

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La diffusa credenza che il potere degli spiriti invisibili influenzi la vita umana porta in rilievo il ruolo cruciale della danza femminile compiuta dalle medium in trance cooptate nell’harem del re per la loro abilità a comunicare con gli spiriti e aumentare così l’aura magica del monarca. Nella classica storia della donna-uccello non c’è dubbio che la sua cattura (una creatura semi-divina), affinché diventi moglie del principe, fosse un’antica pratica dei membri dell’aristocrazia che si legavano con donne spiritualmente forti da cui potessero attingere la loro divinità11. Lontano dall’essere spettacolare il furto della veste di piume della donna-uccello e la sua cattura grazie a una trappola (una specie di bottiglia magica) sono presentati come uno stratagemma politico cruciale per assicurare l’autorità del futuro regnante nei confronti della sua gente – da qui la ricerca della moglie scomparsa a opera del principe quando questa fu costretta a volare via nel corso della storia: l’autorità del futuro regnante dipendeva, se non era addirittura la stessa cosa, dal potere magico simbolizzato dalla sua sposa. Nella storia la funzione centrale della danza della donna-uccello, una volta che lei ritorna in possesso della veste di piume, eleva la propria performance più a un livello prossimo all’estasi sciamanica che a un mero intrattenimento. Super-eroina e sciamana al contempo, immaginaria e non, la sua ambivalenza le dona un’attrazione e una forza unica, poiché la linea che divide una seduta spiritica vera (che è intrinsecamente drammatica) e il miracoloso mondo narrato fatto da dei, spiriti e eroine volanti semi-divine, in cui il medium conduce la propria audience, virtualmente non esiste. Non tutte le sciamane sono eroine, e viceversa; ma l’eroina donna-uccello e la sciamana condividono attributi comuni come la veste di piume e il volo magico12. Inoltre, nella storia, il passaggio in cui l’eroina va in volo da un mondo di corruzione e di intrighi politici a uno soprannaturale potrebbe essere stato preso facilmente in prestito dalle sedute vere e proprie, dove lo sciamano, come un guaritore e raccontastorie contemporaneamente, pianifica il proprio viaggio da un mondo a un altro. Il fatto che le donne fossero considerate le prime narratrici di questa storia13 ha portato a vedere il mito come un pezzo di propaganda per i diritti femminili. La sua ambientazione, però, va molto oltre la suddetta tesi, e anche se le assegnassimo il valore allegorico dell’usurpazione maschile sul controllo che le donne possono 11

Si veda la storia e il folklore leggendario in Cina che, non solo abbonda di esempi di magici voli, ma anche di riferimenti specifici correlanti la sovranità con lo status divino femminile. Si veda M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaiques de l’extase, cit., pp. 448-449. 12 Si veda la sezione intitolata Sciamanic Affinities, in A. T. Hatto, The Swan Maiden: a Folk-Tale of North Eurasian Origin?, in “Bullettin of the School of Oriental and African Studies”, University of London, vol. XXIV, 1961, p. 341. 13 A. T. Hatto, The Swan Maiden, in “Bullettin of the School of Oriental and African Studies”, cit., p. 334.

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avere sul proprio corpo e sulla propria funzione procreatrice, risulterebbe essere una lettura sminuente. Infatti tanto la storia quanto il genere teatrale sono arroccati nel magico in una modalità che sconfigge ogni categorizzazione. Così i suggerimenti degli studiosi riguardo al fatto che il magico volo della donna-uccello verso la propria casa ricalchi gli schemi dell’accoppiamento e della riproduzione di alcuni tipi di uccelli migratori14, o che le circostanze provocanti la sua fuga riflettano il duro dilemma del disorientamento sociale di cui soffre una sposa straniera15 circondata dagli ostili parenti del marito, o che la storia della donna-uccello sia semplicemente derivata da un jataka16, ovvero una storia di una delle vite precedenti del Buddha, sottovaluta la profonda complessità. Secondo quest’ultima interpretazione Buddha citò questa storia per illustrare come, anche nel proprio passato, sua moglie fosse vinta solo dopo grandi sforzi17. Nonostante la popolarità di tale teoria, l’origine della nostra storia sud thailandese di Manora rimane oscura e ci sono poche prove a legarla alle fonti indiane18. È più probabile che le origini di questa storia arcaica e universalmente conosciuta siano identificabili con i più profondi bisogni della psiche umana di spiegare il mistero e la magia femminili in un modo che trascenda la propaganda, l’allegoria, la storia sociale o le polemiche sul gender. Infatti è proprio perché la storia è così genuinamente imbarazzante che ogni normale convenzione riguardante la divisione di tempo e spazio, di cultura, tra il narratore e la narrazione, tra il soggetto e l’oggetto, viene sconfitta e il mondo androgino dei medium, dove tutti questi confini si disciolgono, dà la più plausibile delle ambientazioni alla storia della donna-uccello. Da qui la stretta connessione tra il teatro fortemente medianico delle marionette del sud della Thailandia – il nang talung – e il Manora: entrambi originano dalle zone irrazionali della magia dove nel processo di comunicazione con gli spiriti scompare la linea di confine tra umano e teatro delle marionette, tra marionettista e marionetta, tra medium in trance e spiriti che si stanno invocando.

14 A. T. Hatto, The Swan Maiden, in “Bullettin of the School of Oriental and African Studies”, cit., p. 327. 15 A. T. Hatto, The Swan Maiden, in “Bullettin of the School of Oriental and African Studies”, cit., p. 333. 16 Molte storie popolari vengono riconosciute come jataka, e il termine esemplifica la connessione casuale che, secondo la filosofia buddhista, forma la struttura delle cose: ogni evento presente può essere spiegato con accadimenti avvenuti in un passato molto lontano. Si veda New Larousse Encyclopedia of Mithology, Twickenham, Hamlyn, 1959, p. 355. 17 Si veda Padmanabh S. Jani, The Story of Sudhana and Manohara: an Analysis of the Text of the Borobudur Reliefs, in “Bullettin of the School of Oriental and African Studies”, University of London, vol. XXIX, 1966, p. 355. 18 A. T. Hatto, The Swan Maiden, in “Bullettin of the School of Oriental and African Studies”, cit., p. 327.

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Danza e monarchia Come corollario alle implicazioni medianiche sottostanti alla danza della donnauccello, è importante porre attenzione al ruolo della danza nell’antico regno hindu del Malay in quanto parte intrinseca della venerazione del dio Shiva, ampiamente riconosciuto come il Danzatore Cosmico e il Re degli Attori19. Così, oltre a essere divertenti e piacevoli a vedersi, queste danze di corte compiute dalle mogli del sovrano lo rendevano ritualmente e simbolicamente simile a Shiva, rinforzando non solo la sua posizione come governante nei confronti della sua gente, ma, ancora più importante, sottolineavano la sua invincibilità, il suo status divino e la protezione che godeva a opera del mondo invisibile. La monarchia nella penisola malese non inizia con la dinastia Melaka, stabilitasi nel XV secolo, ma questo periodo abbonda di annotazioni riguardanti lo straordinario ruolo giocato dalle donne nel controllo e nell’equilibrio delle sfere del potere politico presso la corte. Basta prendere ad esempio due casi di queste donne per vedere quale luce riversassero sulla prevalente storia della donna-uccello così importante nell’antica cultura malese: Tun Kudu e sua nipote Tun Fatimah20, entrambe indicate dagli storici Seri Kandi – una classe di eroine guerriere con straordinarie qualità carismatiche, come Seri Kandi, la leggendaria moglie di Arjuna, nell’epica del quarto secolo: il Mahabharata (così come le Valkirie21, le figure guerriere donne-uccello della mitologia teutonica). Due storiche donne-uccello Tun Kudu entrò nella spietata arena della politica della corte Melaka nel 1446 quando Raja Kassim, un principe mezzo Tamil, dopo aver ucciso il fratellastro ed essere asceso al trono, la prese in moglie non curante del suo precedente impegno preso con un guerriero. Era una figlia della Casata dei Bendahara, una famiglia immensamente potente, solita fornire ai re stranieri una moglie del luogo necessaria per legittimare il proprio regno. Sebbene non fosse di sangue regale il Bendahara era il capo ministro del re e avrebbe guidato l’esercito nel caso di conflitti. Non passò molto da quando Tun Kudu divenne la moglie del re che si trovò al 19

Mohammad Ghouse Nasrduddin, The Malay Dance, Kuala Lumpur, 1995, p. 2. Per un più completo resoconto riguardo le vite di Tun Kudu e Tun Fatimah, si vedano H. Haindan, Tun Kudu, Pustaka Antara, Kuala Lumpur, 1967, e H. Haindan, Tun Fatimah: Sri Kandi Melaka, Syarikat Buku Uni-Text, Kuala Lumpur, 1977. 21 Le Valkirie nella mitologia teutonica non erano solamente in grado di trasformarsi in cigni, ma ricoprivano un ruolo cruciale nel controllare i destini dei guerrieri. Si veda New Larousse Encyclopedia of Mithology, cit., p. 278. 20

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centro di un intrigo di corte: suo padre venne ucciso dal malvagio zio Tun Ali, il quale non solo assunse il ruolo di Bendahara, ma insistette per avere la bellissima Tun Kudu in moglie. Avendo compreso la profonda spietatezza di Tun Ali la donna acconsentì all’unione per evitare che usasse il proprio potere per distruggere il suo amato paese. Per questo è menzionata nello Hikayat coi titoli di Bungah Bangsa (Fiore del Popolo) e Tibang Negara (Pilastro della Nazione). Tun Fatimah, la nipote di Tun Kudu, fu un’altra figura carismatica che dominò la scena politica poco prima della caduta della Malaysia a opera dei portoghesi nel 1511. Come sua nonna anche lei proveniva dalla Casata dei Bendahara, ma godeva inoltre della reputazione di essere una valente guerriera. Nel 1509, camuffata da guerriero, partecipò a una battaglia per scacciare il primo gruppo di commercianti portoghesi dal porto di Melaka. Il sultano Mahmud, l’ultimo regnante dei Melaka, morto nel 1530, ordinò la completa liquidazione della Casata dei Bendahara con l’eccezione di Tun Fatimah che fu obbligata a sposarlo. Nel 1511, quando i Portoghesi ritornarono con Alfonso D’Albuquerque, il sultano fu obbligato a scappare a Kampar, in Sumatra. Al contrario del marito, debole e incompetente, Tun Fatimah viene esaltata negli Hikayat come una guerriera molto irruente, il cui coraggio e sacrificio nel difendere il Melaka dai suoi avversari le fece guadagnare il titolo di Semangat Melaka (lo Spirito del Melaka). Attraverso suo figlio estese più tardi il suo potere ad altre parti della Penisola Malese. La sua notevole abilità di guerriera la si deve sia alle doti fisiche sia a quelle spirituali che la distinguevano come una donna di alto rango dalla grande carica spirituale. In questo caso un punto spesso glossato in Occidente è che in Oriente esiste una dimensione spirituale associata allo sviluppo delle arti marziali – percepite non solo come mezzo per combattere reali nemici, ma anche come un modo per opporre un’orda di spiriti invisibili ad altri uomini. Nel teatro cinese, molto impegnato anche a placare gli spiriti malvagi, le bandiere che un generale porta sulle spalle rappresentano armate sia di soldati materiali che di guerrieri celesti impegnati in un combattimento contro nemici terrestri e metafisici. La connessione tra la messa in scena del teatro cinese e la trance è molto forte, e il fatto che le arti marziali ne formino le basi li rende doppiamente efficaci contro gli spiriti malvagi, così come il Silat (il termine malay con cui si indica arte marziale) sottolinea molte forme del teatro malese trasformandolo in un efficiente mezzo contro il mondo invisibile. Il potere femminile nel sud-est asiatico È vero che definire il potere femminile in una regione come il sud-est asiatico risulta difficile. In apparenza la supremazia dell’uomo è data per scontata in un ampio contesto storico di antiche usanze imposte dall’uomo come la cintura di

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castità22, la fasciatura dei piedi23 e le pratiche per restringere la vagina – quest’ultima ancora in uso. In realtà tali restrizioni sulle donne erano così terribili – in alcuni casi arrivando fino alla mutilazione – che è possibile vedere in esse una controffensiva maschile nei confronti di un potere femminile sempre presente e profondamente sentito e temuto24. È sicuramente vero che il centro effettivo del potere nella corte nell’antico regno malese si collocasse in donne come Tun Kudu e Tun Fatimah, le arci-mediatrici dell’influenza politica, preservatrici del delicato equilibrio del potere tra la Casata dei Bendahara (che forniva le mogli) e il re (che le sposava). Per questa ragione una certa forza magica, non scevra dalla sessualità, fu associata col femminile – apparentemente accondiscendente e gentile, ma in verità al centro del controllo e della decisione. C’è un proverbio malese che riflette questa caratteristica femminile: “Segui la strada dello stelo del padi, più penetra, maggiormente lega”. La obliquità del potere femminile È interessante notare come in questo caso, in una nazione come la Malaysia in cui le leggi islamiche sembrano offrire vantaggi agli uomini su argomenti quali il divorzio, l’eredità e lo sviluppo di politiche pubbliche, al livello della popolazione rurale, nei kampong (i villaggi), c’è l’adat – un termine arabo che ricopre un ampio spettro di antiche usanze, proverbi e altro – che, espresso obliquamente, se non figuratamente, controlla e plasma effettivamente il flusso della quotidianità in un villaggio e, per estensione, nella nazione. Tale è la forza costrittrice dell’adat, fondamentale nella vita malese, che esiste il detto, Biar mati anak, jangan mati adat, (meglio un bambino morto che la morte dell’adat). 22 Si veda l’articolo sulle cinture di castità di Kee Hua Chee, in “The Star”, 29 marzo 199, p. 2. Fu scritto in occasione del vernissage della prima mostra completa su questo soggetto intitolata Infedelity: Violation of Family Values, ospitata alla Muzium Negara di Kuala Lumpur in Malaysia. Si confronti il termine occidentale di mundium, centrale nell’antico matrimonio germanico, che esprimeva la dominazione dell’uomo sulla moglie al punto che se questa avesse offeso il mundium del marito avrebbe potuto essere soffocata nel letame (Lex Burgundronum, 34.1). Si veda E. Hall, The Arnolfini Betrothal: Medieval Marriage and the Enigma of Van Eyck’s Double Portrait, University of California Press, California, 1994, pp. 15-16. 23 Per una storia esauriente riguardo la fasciatura dei piedi si veda H. S. Levy, The Complete History of the Courious Erotic Custom of Footbinding in China, Prometheus Book, New York, 1991. 24 Si può qui citare J. Campbell, Primitive Mithology: the Masks of God, Penguin Books, Harmondsworth, 1976, p. 315: “Non c’è dubbio che nella più remota età della storia umana la forza magica e la meraviglia destata dalla donna fossero non meno meravigliose dello stesso universo; questo le dava un potere prodigioso che fu il motivo per cui la parte maschile della popolazione lo ruppe, lo pose sotto il suo controllo e lo sfruttò per i propri fini. È importante notare, infatti, quante razze primitive di cacciatori posseggano leggende risalenti a un tempo ancora più remoto in cui le donne erano le uniche a possedere le arti magiche”.

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Così come la Casata dei Bendahara (che forniva la moglie al re) assunse un ruolo superiore a quello del sovrano attraverso la rappresentanza della regina (madre di futuri re), rinforzando in tal modo il potere delle donne a corte, così l’adat, obliquamente e contando su una inestricabile rete di animismo, magia e superstizione (elementi nemici dell’Islam), trovò un modo per incorporare e circonvenire una religione indomabile per rivendicare la propria forma di verità poetica. I seguenti versi, guidati dall’adat e recitati ritualmente durante i matrimoni e altri eventi cerimoniali, rivelano un sottile, ma al contempo forte, controllo femminile in una nazione apparentemente sbilanciata a favore dell’uomo: “Quando otteniamo un uomo come marito / se è forte potrebbe essere il nostro campione. / Se è uno stupido gli sarà ordinato / di invitare lontani ospiti e riceverà quelli vicini; / se è abile gli chiederemo consiglio; / se è istruito gli chiederemo di pregare per noi; / se è ricco useremo i suoi soldi; / se è zoppo potrà allevare polli; / se è cieco potrà pestare col mortaio, / se è sordo sparerà una salva, / quando entri in una stalla, muggisci, / quando entri in un recinto per le capre, bela, / quando calpesti il suolo di un paese e vivi sotto il cielo / segui le usanze di quella gente”25. Sorprenderà molti sapere che la maggior parte dei casi di divorzio registrati nel Pejabat Agama Islam, il Dipartimento Religioso negli stati del Kelentan e Tregganu, siano stati voluti da donne. Matrimoni poligami sono frequenti solo tra gli urbanizzati più facoltosi o tra le élite rurali della Malaysia. I soli divorzi che non si prestano alla derisione sono quelli dove la moglie è sterile e il marito vuole avere dei figli – ma il caso in cui una moglie già in menopausa venga messa da parte affinché il marito possa sposare un’altra è frequentemente censurato dalla comunità. Le donne hanno un certo potere decisionale negli affari di divorzio e ricorrono a numerose procedure informali per indurre un marito riluttante alla rottura. Secondo la scrittrice Wazir Jahan Karim, le leggi islamiche sul divorzio non sono così discriminatorie come le donne immaginano26, e nella vita quotidiana di un kampong le donne rivendicano il loro potere attraverso le loro abilità sessuali – suggerendo che, come nel caso del potere magico femminile, anche la loro sessualità sia più forte di quella posseduta dalla controparte maschile. Un tipico proverbio malese esprime la natura derivata della forza maschile: “La forza di un uomo risiede in una donna”. In ogni modo, poiché un premio così corposo si trova nella sessualità femminile (o più precisamente il modo con cui si può dispiegare), Karim dedica spazio nel suo libro per enumerare le misure intraprese dalle donne per mantenere le loro abilità sessuali. Ad esempio, dopo l’infanzia, quando i muscoli della vagina tendono a perdere tono o a essere danneggiati, molte donne ricorrono a tonici tradizio-

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Wazir Jahan Karim, Women and Culture, cit., pp. 66-67. Wazir Jahan Karim, Women and Culture, cit., pp. 141-143.

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nali ed erbe (jamu e majun), che si credono avere effetto astringente sull’utero, sullo stomaco e sulla vagina27. All’interno delle sperimentate priorità del villaggio, l’abilità della moglie a riprendere a fare sesso col marito ha la precedenza anche sulla cura dei propri bambini. Così non sorprende che, secondo Karim, l’abilità della donna a partecipare attivamente al sesso sia percepita come una qualità assai più vitale che il bell’aspetto o il fascino personale. Da qui l’espressione idiomatica malese secondo la quale la moglie e il marito sono lawan – che significa letteralmente sparring partner l’uno dell’altro. Questo ci aiuta a considerare con attenzione l’inusuale enfasi posta sull’attiva partecipazione femminile nelle relazioni sessuali all’interno del matrimonio nel contesto delle usanze, dei costumi e delle aspettative sociali e domestiche del sudest asiatico – mentre in altre culture sono caratteristiche spesso non associabili alle mogli. Ironicamente in questa società apparentemente castigata le virtù muliebri altrove sostenute, come il decoro e la frugalità, sono puntualmente escluse. E se una moglie è particolarmente dedita a fare l’amore non viene semplicemente riconosciuta come lawan, ma come melawan, ovvero super-lawan. Il fatto che esista una così enfatica differenziazione, e che si rifletta nel linguaggio quotidiano, attesta il reale potere della donna nella società malese antica e moderna. A prima vista parrebbe difficile immaginare una donna vestita con il pesante abito mussulmano essere il centro dell’energia del paese in una roccaforte islamica come Kota Bharu in Kelentan. Ma come fui in grado di testare durante la mia visita nel nord della Malaysia nel 1997 sono le donne a controllare la busta paga del marito, così come le piccole e lucrose industrie che tessono gli elaborati manufatti per cui il Kelentan è rinomato. La visita a un bomoh Il potere dell’adat sull’Islam, manifestato per esempio nell’inclusione di versi del Corano negli incantesimi animistici28, significa, nonostante la messa al bando di tutte le pratiche teatrali spesso indistinguibili dai riti propiziatori e dagli atti di

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Sebbene – comprensibilmente – ogni forma di indagine riguardo la vagina risulti essere un soggetto delicato, molte delle donne che ho intervistato nel nord della Malaysia e nel sud della Thailandia sostengono di avere un’amica o una parente che si è sottoposta a un’operazione chirurgica per restringere la vagina. C’è una credenza predominante che associa la vagina con il potere magico femminile. Si veda riguardo queste credenze R. F. Fortune, Sorcerers of Dubu, London, 1932, p. 150, e p. 296. 28 Wazir Jahan Karim, Women and Culture, cit., p. 68. Versi del Corano sono spesso aggiunti in apertura o in chiusura agli incantesimi. Un incantesimo – che serve a catturare l’anima di una persona – inizia così: Bismillahi ’al-rahimi (Nel nome di Dio, il Misericordioso e il Compassionevole).

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esorcismo, la loro legittimazione, dato che continuano ad avere luogo in contesti non ufficiali. L’ambigua attitudine ufficiale nei confronti di tali pratiche si rivelò chiaramente quando pianificai il mio viaggio verso il nord della Malaysia nell’aprile del 1997 per vedere le performance di Nora e i rituali di guarigione. Sebbene fossi passata per canali ufficiali, tra cui la Cultural Section dell’Ambasciata malese di Londra, fu solo al mio arrivo a Kota Bharu che mi fu detto categoricamente come le pratiche Nora e di esorcismo fossero proibite. In ogni modo, accompagnata dal funzionario culturale della zona, fui portata a una quindicina di chilometri da Kota Bharu, al villaggio di Kemasin, per essere testimone di un esorcismo guidato da un manipolatore del teatro delle ombre che era anche il bomoh del villaggio, ovvero il guaritore. Questo rituale risultò essere uno degli eventi teatrali più rilevanti che vidi durante tutta la mia ricerca: una negoziazione in maschera con il mondo degli spiriti in grado di mettere a lettere maiuscole la natura intrinsecamente drammatica di questi eventi. Chi può eclissare un antagonista dotato del carisma proveniente da un altro mondo? Il rifugio del bomoh era in prossimità del cimitero e il bomoh e la sua paziente ci stavano aspettando per iniziare l’esorcismo. Era stata preparata una piccola area per il rituale, e le offerte agli spiriti consistevano in frutta, fiori, riso e un vaso di stecche di incenso vicino a un grande secchio d’acqua. Il bomoh accese l’incenso, che riempì la piccola stanza con il suo aroma, e incominciò a recitare le sue magie a bassa voce. La donna malata gli sedeva di fronte, le sciolse i bellissimi capelli lunghi e spessi e incominciò ad accarezzarli con le lunghe dita affusolate mentre continuava a recitare i suoi incantesimi, e, con l’altra mano, trasferiva i fiori e la frutta nel secchio pieno d’acqua. Quasi impercettibilmente la sua voce salì un poco nel momento in cui i rametti dalle foglie colorate furono aggiunti all’acqua finché, usando un pezzo di stoffa gialla che era stato gettato sulla sua spalla, incominciò a flagellare la paziente comandando imperiosamente allo spirito di abbandonare il suo corpo. Sedendo a circa un metro divenni ben conscia dell’ingresso di una strana presenza la quale, sebbene fosse invisibile, era palpabilmente registrata dalle reazioni del bomoh: la sua voce divenne sempre più stridente e urgente poiché colpiva lo spirito entrato nel paziente in un modo più violento. Ora c’erano due forze in conflitto nella stanza: un protagonista visibile e un antagonista invisibile, ed entrambi erano bloccati in una negoziazione durissima attraverso il silat (un’arte marziale) che originariamente era usato per proteggersi dagli spiriti malvagi. Quando il volume della voce del protagonista crebbe ancora il bomoh chiese un ramo dell’albero di semeru, che si crede avere speciali poteri sugli spiriti malvagi, e iniziò a lanciare riso sulla paziente, dapprima gentilmente e quindi in modo sempre più violento. Il ramo di semeru fu usato per battere un ritmo a sostegno della voce che raggiunse un picco d’autorità insostenibile. I chicchi di riso erano volati ovunque ma i due combattenti avevano raggiunto

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un punto di stallo. Imperturbato il bomoh riprese ad accarezzare i capelli alla paziente che fino ad allora era rimasta distesa e inerte. La seduta era finita, ma sarebbe continuata un altro giorno. Ora la moglie del bomoh assisteva la paziente che si stava lavando nell’apposito locale adiacente con l’acqua consacrata del secchio. In pochi minuti riapparve con i capelli bagnati, sembrando assai più rassicurata. Il bomoh era fiducioso che sarebbe riuscito a persuadere lo spirito a lasciarla in pace. Il giorno seguente incontrai il bomoh e sua moglie a Gelangang Seni, che è il maggiore centro turistico nel cuore della provincia di Kota Bharu. Indossava pantaloni di foggia occidentale e una camicia di batik e faceva roteare le chiavi della sua macchina tra le lunghe dita affusolate. Per quel pomeriggio aveva in agenda delle esibizioni di silat, una gara di trottola e una rilassante partita a chongkla (un gioco da tavolo in cui si usano le biglie) sotto l’occhio attento della moglie. Il presentatore iniziò dando il benvenuto in varie lingue a un gruppo numeroso di turisti e, prima che capissi cosa stesse succedendo, fui spinta su un palco a battere con la mano un tamburo. Questa era la parte della gita ufficiale per promuovere il turismo, ma l’atmosfera rilassata era ingannevole: in questo complesso culturale era mostrato esclusivamente ciò che era già stato autorizzato, ma risultava difficile distinguere cosa veramente ci fosse di teatro tradizionale nei pochi frammenti censurati del teatro d’ombre che ci era permesso vedere. L’interferenza politica – sia attraverso leggi che proibivano ai residenti locali d’essere coinvolti nel proprio teatro, sia costringendo i capi delle troupe di teatro tradizionale a ottenere la licenza due settimane prima di ogni spettacolo – colpisce al cuore una forma di teatro che non può essere governato dal tempo umano. Dato che quasi tutte le forme di teatro tradizionale si basano sulla figura dello sciamano, e quindi sono praticate per prevenire epidemie o in risposta ad avvertimenti dal mondo degli spiriti, non possono essere assoggettate ai capricci di un burocrate col potere di concedere o meno una licenza. Quasi ad anticipare altre mie eventuali domande circa la curiosa posizione di Gelangang Seni nella promozione del teatro ufficialmente bandito dal potente partito Islamico che controlla il Kelentan, mi è stato detto che questo luogo era sotto la giurisdizione del Governo Federale, sotto il controllo del Ministero delle Arti e del Turismo con sede nella capitale. Tali cavilli erano oltre le mie forze, ma notai con interesse che, la sera dedicata al teatro d’ombre, l’ampio auditorium all’aperto di fronte al palco (chiaramente non costruito in modo stabile per via delle rigide prescrizioni religiose) era stipato oltre che da una grande folla di turisti, da centinaia di locali completamente assorti in quell’antica forma di teatro. Per agevolare i turisti le performance terminavano prima della mezzanotte anziché aspettare, come tradizione vorrebbe, il tramonto della luna, momento in cui un’antica superstizione riteneva che, attraverso un processo di magia simpatetica, gli spiriti malvagi sarebbero stati costretti ad andarsene via. Ma in virtù del turismo questo evento non sarebbe stato permesso e perciò questa forma sanzionata o disinfettata appariva come una pallida copia dell’originale.

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Manora in Thailandia In Thailandia le cose sono molto diverse e, se da una parte i Malesi disprezzano la corruzione dei doganieri thailandesi in servizio al confine tra i due paesi – un disprezzo che si estende ai regolamenti teatrali considerati troppo permissivi – dall’altra hanno il massimo rispetto per la potenza dell’arte magica thailandese e per l’efficacia delle cure Manora. La reputazione del Manora thailandese è talmente alta che le rare performance di questo genere teatrale in Kedah e in Penang sono guidate con autorevolezza da immigrati thai. Così le prove di una troupe di Manora sotto la supervisione della futura leader e sciamana, Manee Burinkoat, che vidi nel villaggio di Plaiyuan, in Nakhon Sri Thammarat, e le successive performance eseguite insieme a un’altra troupe guidata da un uomo, Tung Yai, divennero le basi delle mie riflessioni riguardo questa importante forma teatrale. Il turismo in Nakhon Sri Thammarat è relativamente limitato, il che significa che le performance di Nora che vidi non erano contaminate, e conservavano la peculiarità di svilupparsi intorno i bisogni della comunità. Difficilmente in Nakhon qualcuno parla inglese, e il viaggio a piedi e in jeep per raggiungere l’abitazione di Manee, dove avevano luogo le prove, era pieno di difficoltà. Con l’aiuto di torce ci facevamo strada tra i sentieri della giungla, attraverso vaste piantagioni di mangostana [Garcinia Mangostana – ndt], di guava e mango: ci guidava il suono dei tamburi distinguibili – per fortuna – dal coro degli insetti. Lavoretti da giardiniere forniscono agli attori di Nora la principale fonte di sostentamento, poiché i magri sussidi governativi riescono a malapena a stare al passo con l’aumento dei costi dei loro costumi riccamente ornati. Sebbene fossero solo delle prove fui colpita dalla cura dedicata ai dettagli: come nella performance, a ogni giovane danzatrice vestita da donna-uccello era richiesta l’esecuzione del saluto nei confronti della maestra, Manee, come atto di rispetto alla sua indiscussa autorità. I pezzi acrobatici venivano provati con scrupolo, fornendo all’elemento spettacolare una forma teatrale che in genere era proprio dello stato medianico. Durante una seduta, prima che il medium ritorni a uno stato normale, di solito esegue un grande salto in aria per sottolineare i propri poteri, e tutti i pezzi acrobatici in Manora, oltre a essere spettacolari e divertenti, indicano la loro origine medianica nonostante siano stati ottenuti con molte ore di allenamento quotidiano sotto la guida di un leader. Manee, una donna eccezionalmente forte, era indiscutibilmente il leader. Proveniva da una riconosciuta famiglia Manora; all’inizio sentì la propria vocazione una trappola e tentò di evitarla, ma la grave malattia del padre, e la successiva miracolosa guarigione avvenuta quando Manee promise di riabbracciare Nora, confermarono il suo destino. Quella sera era presente, un po’ in disparte, un leader Nora, il settantottenne Huang Napsipong, il quale si convinse a cederle la leadership.

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La performance di Manora: un rituale in azione Le performance di Manora che vidi nel villaggio di Tung Yai nell’aprile del 1997, parte dei festeggiamenti del Capodanno thailandese di Songkran, esemplificano la centralità di questa forma d’arte rispetto alla vita degli abitanti del sud della Thailandia. Al nostro arrivo era in corso una grande festa e fummo invitati a parteciparvi da un giovane e cordiale poliziotto. Avevamo trovato finalmente un posto a sedere quando un’alta figura che balzava all’occhio, di cui era impossibile dire a quale sesso appartenesse, vestita prodigalmente di seta bianca, si avvicinò al nostro tavolo e mi diede il benvenuto. Pensai si trattasse del leader della seconda troupe in programma quella sera e che vestisse abiti femminili per enfatizzare la superiorità magica femminile. Ma la realtà, come mi dissero più tardi le mie guide, era molto più bizzarra: quella persona era stato il commerciante più ricco e più noto del villaggio. Dopo essersi sposato e dopo aver avuto dei figli, si sottopose a un intervento per cambiare sesso. Sistemò la moglie e i bambini in un altro villaggio e divenuta moglie del cordiale poliziotto, accrebbe tanto la propria prosperità e il prestigio da divenire la figura trainante della comunità. Guardando questo fenomeno sovrintendere la performance serale di Nora, quasi fosse la controparte secolare di una onnipotente sciamana che teneva in suo pugno un intero villaggio, mi ricordai della balian (la sacerdotessa-sciamana) e del basir (il sacerdote asessuato) tra i Ngadju Dyak del Borneo del sud, che agivano da intermediari tra gli uomini e gli dei (Il termine basir significa impotente e questi sacerdoti asessuati si vestivano e si comportavano come donne). Non c’era dubbio che la soggezione che tale individuo incuteva nel villaggio era dovuta alla sua bisessualità: la sua ambivalenza lo rendeva il perfetto mediatore tra questo mondo e quello soprannaturale. Così la questione dell’identità sessuale divenne il preludio perfetto a una straordinaria serata dedicata al rinnovamento del patto imprescindibile del villaggio con il mondo degli spiriti – una eccezionale celebrazione di doppia cittadinanza. Verso le dieci di sera quasi tutti gli abitanti del villaggio si erano accomodati sul prato di fronte al palco, quest’ultimo era costruito osservando le prescrizioni religiose relative alla partenza degli spiriti richiamati dalla performance in base alla direzione dei raggi solari di quando è giorno. Questo Manora serale sarebbe stato dedicato alla storia originale della donna-uccello e avrebbe avuto come attrazione principale il figlio di quattro anni di Manee, che avrebbe interpretato il ruolo del clown-cacciatore. Avrebbe catturato ogni donna-uccello che gli fosse capitata a tiro, finché la figlia del leader della seconda troupe – che impersonava il ruolo della principale donna-uccello – fosse entrata. Solo più tardi, dopo il mio ritorno a Londra, mi fu chiaro che l’uso dei bambini delle nuove generazioni per i ruoli chiave nelle celebrazioni dell’Anno Nuovo non era solo finalizzato a un’affermazione del principio rigenerativo di Manora,

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ma era anche la condizione imprescindibile della sua continuità: come i loro genitori, i due bambini non sarebbero mai stati in grado di abbandonare la tradizione di Manora, catturati per sempre dal suo cappio magico. Come la mitologica fune usata da un dio per bloccare la dea giapponese del sole Amaterasu quando uscì dalla sua grotta, nel famoso mito restauratore giapponese – fune che più tardi divenne la shimenawa, la fune rituale che demarca l’area sacra in un rito propiziatorio – il cappio magico di Manora è allo stesso tempo un simbolo di cattura e di liberazione, il punto cruciale della storia della donna-uccello. Tutti questi livelli di lettura e partecipazione pervadevano tutta la performance: le giovani danzatrici nei loro costumi da uccello si trasformavano in esseri magici oltremondani, conformemente alla regola ben nota nella storia delle religioni, dove si diventa ciò che si mostra. Entravano nel mondo di finzione con tutto il loro cuore: “Lasciateci essere pesci che nuotano nel lago, granchi e varie creature col guscio che si muovono lungo la spiaggia.” Il leader maschile della seconda troupe che si esibì quella sera, ricopriva anche il ruolo di percussionista principale e si comportava come se fosse posseduto, incoraggiando la figlia ad andare avanti, la quale già a quella tenera età possedeva lo stesso carisma del padre. Il loto come simbolo Alcuni dei dodici passi tradizionali alla base della danza che la giovane e le altre donne-uccello eseguirono portano i nomi con cui si descrivono le varie fasi di fioritura del loto – il bocciolo chiuso, il fiore appena sbocciato, il fiore mezzo aperto, il fiore aperto e il fiore completamente aperto – e hanno un significato che trascende la mera descrizione. Infatti costituiscono parte del ciclo dei dodici passi di base che a loro volta riflettono i dodici mesi dell’anno, e devono essere interpretati come punti nodali per la progressione del tempo e della vita stessa29. Le sfumature sessuali erano allo stesso tempo esplicite e implicite, ma tale era la natura del rituale pubblico che nulla di quello che veniva presentato sul palco poté apparire offensivo: il botta e risposta che le giovani danzatrici si scambiarono suscitava brusii di approvazione tra il pubblico. 29 Si confronti l’articolo di Poh Sim Plowright, The Birdwoman and the Puppet King, in “New Theatre Quarterly”, vol. XII, n. 50, May, 1997. Come in Cina, dove ci sono ventiquattro splendide donne-uccello nel famoso tempio Kai Yuan nella provincia di Fujian che rappresentano le altrettante divisioni dell’anno solare nel calendario tradizionale cinese, le donne-uccello nel sud della Thailandia sono tenute a presidiare il tempo, ma all’interno di un anno lunare di dodici mesi. Così il numero dodici è significativamente ripetuto nell’arte di Manora: ci sono dodici passi, dodici storie, dodici canzoni, dodici parti del costume della donna-uccello, dodici oggetti obbligatori che il cacciatore deve portare con sé nel suo viaggio. Mircea Eliade scrive in The Myth of Eternal Return, Arkana Press, London-New York, 1989, p. 52, che “una periodica rigenerazione del tempo presuppone, in una forma più o meno esplicita, una nuova creazione, ripetizione dell’atto cosmogonico”.

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Il loto nel sud-est asiatico è un simbolo comunemente usato per indicare i genitali femminili, ed era chiaro che la rappresentazione andasse oltre la semplice riproduzione dell’immagine del loto (in Oriente è guardato come il Re dei Fiori, e ricordo che da bambina mi era permesso restare alzata tutta la notte per vedere schiudersi nel nostro salotto i boccioli di alcune specie). Le giovani danzatrici divulgavano, attraverso le immagini floreali nel contesto del rituale pubblico, dettagli intimi del rapporto sessuale che avevano appreso dagli adulti, e l’intera esecuzione assumeva il carattere di un rito di iniziazione doppiamente propizio per l’Anno Nuovo. La danza, l’improvvisazione, le canzoni e la farsa rappresentavano la pietra miliare nel percorso delle giovani ragazze dalla pubescenza al risveglio della sessualità, dal primo incontro sessuale alla piena maturità dell’esperienza. In forte contrasto rispetto alla situazione presente in altre parti dell’Asia, l’uso dell’immagine del loto come modo per sottolineare la centralità del motivo rigenerativo della storia della donna-uccello era presentato con grande malizia. Nel famoso dramma cinese La bellezza ubriaca, per esempio, severe revisioni politiche hanno rimosso l’associazione della donna-uccello cinese con i fiori primaverili30 e il loro simbolismo rigenerativo, cancellando così il significato primario della storia che avrebbe potuto metterla in connessione con il Manora thailandese. Questo è conforme alle attuali direttive del governo cinese nel suo tentativo di cancellare le tracce della magia simpatetica e posizionare fermamente la rappresentazione nella sfera dell’intrattenimento. Tornando al punto di partenza queste tracce sopravvivono: appena a sud del confine tra Thailandia e Malaysia, in un territorio dove Manora è ufficialmente bandita, la cerimonia rituale conosciuta come cukur rambut (radere i capelli)31 continua a essere eseguita nei kampong, fortezze inespugnabili del potere femminile. In questo rito un infante viene passato dalle braccia di una giovane ragazza nubile a quelle di un’adolescente in fiore per finire, finalmente, in quelle di una promessa sposa, mentre le donne sterili, o quelle che hanno difficoltà a concepire, fanno a gara per poter tenere il bambino. Tre accessori essenziali a questa cerimonia sono connessi con la magia simpatetica: un canestro riempito con uova bollite e decorate con fiori freschi e germogli (simboli di fertilità); una piccola noce di cocco non ancora svuotata dal succo affinché contenga i capelli del bambino tagliati da giovani donne di età diversa e che sarà lasciata nel fiume (simbolo di prosperità e ricchezza); e, infine, un vassoio pieno di banconote da dieci dollari, piegate significativamente a formare degli uccelli (simboli dello sciamanesimo femminile e del volo magico) che saranno donati a ogni partecipante di sesso femminile. 30 Si confronti la traduzione inglese della scena non censurata (con tutta la parte dei fiori di primavera e il loro simbolismo intatto) in J. Riley, The Chinese Theatre and the Actor in Performance, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, pp. 239-241. 31 Si veda Karim, Women and Culture, cit., p. 211.

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Denaro, sesso e rituale Il denaro era un potente simbolo anche nelle performance di Manora cui assistetti a Tung Yai. Era il primo giorno dell’anno, un momento di rinnovamento e ringiovanimento e vari spettatori si erano precipitati sul palco per omaggiare con denaro le giovani danzatrici che avevano riproposto in modo così incantevole in scena il potere del principio generativo – il denaro come celebrazione della sessualità femminile in un paese nel quale è più comune una connessione torbida – mentre il “Bangkok Post” il 15 aprile pubblicava un articolo sui bus del venerdì carichi di ragazze cambogiane e vietnamite vendute ai soldati thailandesi sul confine del Surin per appena 100-300 baht l’una (1,5-4,5 dollari). Tornando a Tung Yai, non c’erano forzature: gli schemi di danza32 adottati dalle giovani danzatrici Manora apparvero ripetitivi e interminabili, e sembrarono passare impercettibilmente dal rito allo spettacolo e viceversa, finché divenne impossibile distinguere l’uno dall’altro. Questo, infatti, è un elemento caratteristico dei teatri del sud-est asiatico derivati dallo sciamanismo – uno stato simile alla trance indotto nei performer da una combinazione di percussioni ipnotiche e movimenti ritmici ripetitivi, uno stato che mi impressionò fortemente quella notte a Tung Yai. Mi ripresi da quello stato quando il palco parve traboccare di figure acrobatiche eseguite dalle giovani danzatrici che avevo visto provare a Plaiyuan. Ma, sebbene questi numeri acrobatici potessero avere un senso anche se fossero stati finalizzati solamente al puro divertimento, e in effetti hanno questa funzione nelle performance presentate ai turisti negli eleganti hotel a sud del confine, l’atmosfera fortemente ritualistica del Capodanno presentò in una dimensione differente la performance Nora: non più un mero andare contro le leggi di gravità, ma un viaggio dello sciamano nel mondo soprannaturale. Cosa accade quando la capacità acrobatica risulta separata dal rito mi è stato chiaro durante una visita in Cina nel 1994. Qui, gli attori di Quanzhou, nel sud della Cina, mi dissero che la sequenza rituale chiamata xi ma, o lavare il cavallo (un animale associato con il sacrificio e l’esorcismo), che in passato precedeva una esibizione acrobatica dello stalliere prima che l’eroe montasse a cavallo, era stata bandita subito dopo la rivoluzione comunista del 1949. La sequenza richiedeva allo stalliere la purificazione rituale del palco, strigliando e sellando un cavallo invisibile, e ciò fu ritenuto un inutile atto di superstizone. Mi domandai quanto tempo sarebbe passato prima che il Nakhon soccombesse, per gli interessi del turi32 Gli schemi della danza erano allo stesso tempo circolari o in forma di otto, una variazione del modello circolare: oltre a essere esteticamente piacevole, il cerchio simbolizza l’armonia e la continuazione, mentre la forma a otto è associata con lo sciamanesimo – per esempio il cavallo a otto zampe è connesso con lo spirito della sciamana/guardiana della tribù Buryat. Si veda M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaiques de l’extase, cit., p. 469.

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smo o del fondamentalismo religioso, a simili pressioni. Per il momento assaporai quelle che avrebbero potuto essere le ultime vestigia di una forma teatrale ancora intatta. Quando il giovane figlio di Manee apparve in scena, indossando la sacra maschera bai noi (clown-cacciatore), ricevette una speciale ovazione dal momento che faceva la sua prima comparsa in scena. La sua esecuzione della famosa sequenza chiamata khlong hong, o intrappolare la donna-uccello fu imbarazzata e tenera allo stesso tempo: invece di compiere una violenta intrusione maschile presso una compagnia di donne che si lavavano, andò piroettando da una danzatrice all’altra accarezzandole una alla volta e fungendo da catalizzatore necessario per attivare il ciclo della natura. In una performance semi-ritualistica come questa il ruolo del cacciatore normalmente sarebbe stato interpretato da un danzatore adulto, equipaggiato e pronto per la parte in una radura vicina, davanti a tutti gli spettatori. Gli sarebbero stati dati dodici oggetti necessari per la sopravvivenza durante il viaggio, incluso un cappio, l’arco e le frecce, la pietra focaia, e il sale – dodici come il numero convenuto dei passi base della danza Manora. La caccia e il lavacro Di solito la sequenza successiva è chiamata thaeng khe (l’uccisione del coccodrillo) – un modo simbolico per indicare che la cattura della donna deve avere come contropartita la distruzione del suo avversario. Questo motivo è tratto da una nota fiaba popolare thailandese conosciuta sia come Kraithong (l’eroe che uccide il coccodrillo) che come Chalawan (il nome della bestia stessa). Un grande coccodrillo di cartapesta è posto su una piattaforma leggermente rialzata e il leader della troupe usa uno dei suoi bastoni sacri Nora33 per colpirlo e farlo a pezzi a simbolo della distruzione rituale della bestialità maschile. Forse per la tenera età del figlio di Manee, o forse per il contesto altamente celebrativo delle festività per l’Anno Nuovo del Songkran, l’uccisione del coccodrillo non venne eseguita in questa occasione. Con o senza coccodrillo eravamo ritornati alla scena acquatica iniziale in cui le danzatrici rappresentavano dei pesci in uno stagno, e lo spettacolo continuò fino all’alba, concludendosi secondo la tradizione ai primi raggi del sole nascente, e mettendo in chiaro così, attraverso la magia simpatetica, il patto della Natura per un nuovo inizio. Ciò fu particolarmente significativo dal momento in cui questa performance era stata messa in scena all’interno del festival thai Songkram, in occasione del nuovo anno lunare (13-15 aprile), durante il quale il lavaggio rituale con acqua era doppiamente benaugurante: l’essenza rigenerativa dello spettacolo non avrebbe

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Lo stesso bastone è usato come strumento di guarigione.

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potuto essere espressa meglio che dai rituali acquatici Songkram che accompagnano il Capodanno e, allo stesso tempo, niente poteva essere più eloquente dell’acqua per esprimere un senso di battesimo, di rinnovamento e di purificazione. Nelle categorie del ragionamento deduttivo di questo villaggio il femminile è associato con l’acqua e con i ritmi intrinseci della Natura34; la donna è riconosciuta come il principio rigenerativo, la Grande Madre che è la sorgente dell’umidità della vita e, secondo le credenze orientali, talvolta assume le sembianze di un uccello, l’ideogramma di dio o della divinità. Così ciò che avevo visto in scena era l’equivalente drammatico del fluire di questa forza vitale, impercettibile come lo scorrere della linfa negli alberi attorno a me. La storia di questa donna-uccello, celebrando la rigenerazione, era il vero elemento di coesione che legava in una comunità tutti i membri del villaggio riuniti di fronte al palco, e questo legame era ripetuto all’infinito in ogni villaggio della Thailandia del sud che celebrasse Manora e il Songkram. I vari dettagli della storia, in riferimento alla sua messa in scena presso un lago o un fiume, all’inclusione o all’esclusione del motivo della veste di piume, erano qui immateriali: ciò che contava era l’immagine di una forza rigenerativa femminile connessa o identificabile con l’elisir della vita, un premio al di là della portata maschile. Il fatto che la donna sia il legittimo guardiano del fluido immortale è la premessa basilare incorporata nella inalterabile struttura della coreografia. Uno dei dodici passi base, Rahu afferra la luna, è dedicato alla lotta per l’immortale elisir, un riferimento al noto episodio dei Brahmana (una sezione dell’antica letteratura vedica) che descrive il furto dell’elisir identificato con la luna35. La successiva ricerca dell’elisir perduto fu la base dell’antica lotta tra i Deva (gli dei benevoli all’umanità) e gli Asura (gli dei antagonisti). Concordemente alle istruzioni di Vishnu (uno delle tre principali divinità nella mitologia hindu), l’oceano doveva ribollire per far emergere l’elisir con le altre erbe curatrici e i gioielli e, mentre le due forze antitetiche erano impegnate in questo compito, il Medico Divino, Dhanvantari, emerse dalle acque portando l’elisir. Sebbene Vishnu fosse convinto che solo gli dei benevoli all’umanità dovessero bere il fluido immortale, Rahu, uno degli anti-dei, ne sottrasse una goccia ma fu decapitato prima che potesse ingoiarla. È significativo che l’inclusione di questo tentativo di rubare la luna o l’elisir della vita (entrambi i termini sono usati in modo intercambiabile, come nella sto34 Si veda l’Introduzione di Ian Jeffrey a La France: Images of Woman and Ideas of a Nation, 17891989, Hillingdon Press, Uxbridge, 1986, p. 22. Jeffrey riferisce di un grande storico e narratore francese, Jules Michelet, che associò la donna con l’acqua e la natura. Così “spiare sul gruppo di donne di Cezanne che facevano il bagno, comportava un atto di violenza, una irruzione nel ciclo della natura”. 35 Un dettagliato racconto di questo episodio si può trovate in R. Willis, a cura di, World Mythology, Simon & Schuster, London, 1993, p. 71.

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ria cinese della dea della luna e l’elisir)36, sia posta in forte enfasi la vittoria femminile insieme all’aspetto curativo, di prolungamento della vita, dell’arte di Manora.

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La pista giapponese Discutendo del potere della storia della donna-uccello, la quale – come abbiamo visto – sopravvive in più di una forma nella Thailandia del sud e nel nord della Malaysia, è illuminante compararne l’eredità nell’attuale repertorio del teatro classico giapponese, il noh, dove due drammi vi si riferiscono – Hagoromo (La veste di piume) direttamente e Yokihi (Yang Kuei Fei) con la famosa donna-uccello concubina dello splendente imperatore Tang dell’VIII secolo Ming Huang37, indirettamente. Lo stile di rappresentazione del noh non potrebbe essere più lontano da quello thailandese di Manora caratterizzato dal calore, dalla sensualità e da una discreta accessibilità. La rappresentazione del noh è un modello di contenimento ed economia, è così scevro da un qualsiasi marcato accento drammatico che il coinvolgimento del pubblico risulta quasi impercettibile. Tuttora Hagoromo è uno dei drammi più frequentemente eseguiti del repertorio noh, e l’eccezionale bellezza del suo libretto è enormemente amata dagli ammiratori di questa forma teatrale. In Giappone la storia della donna-uccello è molto più familiare degli aneddoti tratti dalla Storia di Genji il principe splendente (una delle due grandi epopee nazionali) sulle quali si basano molti dammi noh. E, ancor più che in Manora, Hagoromo può essere considerato un perfetto dramma medianico – un eccellente esempio di monodramma nel quale tutti i vari percorsi narrativi sono drasticamente ridotti e forzati a passare attraverso l’unica cruna del punto di vista del narratore. L’Angelo (una divinità lunare), la cui veste di piume fu rubata da un pescatore impedendole così di ritornare in paradiso, riveste un ruolo centrale e di solito è interpretato dall’attore principale – lo shite – la cui capacità di controllare tutta la rappresentazione, in via di principio, trova un parallelismo nella presentazione di un assolo e nelle danze di possessione sciamanica del sud-est asiatico. Come unico narratore lo shite è il depositario della progressione del racconto, sebbene alcuni versi del suo dialogo vengano portati a termine da un coro di sei o otto cantori, i quali commentano anche la storia, arricchendola con una dimensione oggettiva, secondo lo stile proprio della drammaturgia noh. Comunque non c’è alcun dubbio 36

Chang Ee, la moglie dell’arcere Shen Yi, rubò l’elisir a suo marito e, mentre questi la guardava senza poter far nulla, volò verso la luna, identificata con il fluido immortale. Si noti il ribaltamento del furto in questa storia cinese, dove è la donna che ruba l’elisir all’uomo. R. Willis, a cura di, World Mythology, cit., p. 95. 37 La tradizionale storia cinese della donna-cigno (databile intorno all’VIII secolo) fu tradotta da A. Waley, in Ballads and Stories from Tun-huang, Allen & Unwin, London, 1960, pp. 149-155.

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che lo shite sia l’unico narratore, attore e comentatore della narrazione, riuscendo, come solo un medium in trance riesce, a parlare con diverse voci.

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Il detentore dei fili Nei drammi sanscriti il narratore era chiamato sutradhara – un termine derivato dal teatro delle marionette che significa colui che tiene i fili delle marionette. Perciò, come nel caso di altre forme teatrali, ad esempio il teatro cinese, la connessione tra la rappresentazione con attori e quello con le marionette è molto stretta – e ciò è particolarmente vero per il noh, in cui i trattati del suo fondatore [Zeami – ndt] riguardo l’arte della recitazione istruiscono l’attore affinché percepisca se stesso come un marionettista capace di controllare i movimenti del proprio corpo attraverso fili immaginari legati al cuore. In larga misura questo ha giustificato l’eccezionale e concentrato controllo dell’attore noh, così come la marcata similitudine di alcuni movimenti del noh e del teatro delle marionette. Soprattutto questa analogia della marionetta dominata allinea un antico teatro umano classico con la ben attestata efficacia esorcistica delle performance di marionette – fornendo un ulteriore parallelismo con i movimenti delle danzatrici Manora, la cui somiglianza con le marionette è opinione condivisa nel sud della Thailandia, una società che da tempo immemore ha visto in entrambe queste arti mezzi efficaci per comunicare con il mondo invisibile degli spiriti. Le danzatrici si devono muovere come marionette se vogliono essere il contenitore degli spiriti. Similarmente la forte razionalità che sottostà al teatro noh, che definisce sia il suo scopo che la sua strategia dei movimenti di scena, testimonia il proprio carattere medianico. Il singolo albero di pino sulla parete che fa da scenografia serve come spirito conduttore. E la struttura in due parti di una performance noh – nella prima vi è uno spirito celato nelle false spoglie di un mortale, mentre nella seconda questi mostra la sua reale manifestazione – come la danza compiuta dal principale attore noh per portare il dramma alla conclusione, ricordano allo spettatore la danza propiziatoria originaria della dea Uzume, considerata la prima sciamana, attrice e danzatrice di questo genere teatrale. Applicando tale prospettiva sciamanica a Hagoromo, l’angelo interpretato dallo shite si potrebbe descrivere come colui che sta in mezzo (e quindi colui che va in trance), e il pescatore (che le ruba la veste senza la quale non può ritornare nel paradiso) come quello che le sta di fronte (che pone le domande). L’analogia tra il rituale della trance e il teatro continua quando colui che sta in mezzo bendato [lo sciamano – ndt] è rimpiazzato dal semi-cieco shite, privato quasi completamente della possibilità di vedere attraverso la sua piccola maschera di legno.

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At the Hawk’s Well Hagoromo, forse a causa della sua forma mutata, al di fuori del Giappone non viene inclusa nella lista delle storie della donna-uccello. In Occidente la vicenda più famosa che si ispira a questo tema è senza dubbio il dramma di W. B. Yeats At the Hawk’s Well (1916) [Al pozzo dello sparviero in Drammi celtici, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1999. Altre versioni traducono più correttamente hawk con falco – ndt] ispirato a un dramma noh. Sarebbe illuminante, in chiusura, compararlo con Hagoromo e Manora, entrambi più antichi di alcuni secoli. Il dramma di Yeats narra di una donna-sparviero a guardia di un pozzo che contiene l’elisir della vita. Si ripropone la classica storia di Hagoromo in cui un angelo (una divinità lunare) è impossibilitato a ritornare sulla luna perché un uomo le ha rubato la veste di piume. Yeats sostituisce la veste con l’acqua, ma in definitiva tratta la stessa ricerca umana dell’immortalità che racchiude il conflitto tra l’uomo e la donna. Il furto dell’acqua è solo un modo alternativo di drammatizzare il classico furto della veste di piume – una pericolosa intromissione nel territorio femminile. Sebbene Yeats nella sua famosa introduzione38 a Certain Noble Plays of Japan di Ezra Pound e Ernest Fenollosa riferisca della congiunzione tra Hagoromo e At the Hawk’s Well, questa connessione è stata molto trascurata39. Hagoromo e Nishikigi 40 – centrati sullo sciamanesimo, sul corteggiamento e sulle piume degli uccelli – erano due dei diversi drammi noh inclusi nell’antologia di Pound e Fenollosa. Non fu quindi un caso che Yeats, mentre esponeva il contesto e l’ispirazione del suo At the Hawk’s Well, li abbia indicati [Pound e Fenollosa – ndt] per l’affinità tematica. Sembrerebbe che la sua donna-sparviero sia stata concepita sulla stessa forma di donna archetipica, medium della trance, cui si rifà anche l’eroina di Manora. Allo stesso tempo parrebbe che, per la definizione dell’essenza della bellezza femminile, 38 Questa introduzione si può trovare in E. Pound e E. Fenollosa, The Classic Noh Theatre of Japan, New Directions, New York, 1959, pp. 151-163. Riferimenti a Hagoromo e Nishikigi sono rispettivamente alle pp. 159, 161 e 159-160. 39 Il dramma noh Yoro, dove si narra di una sorgente di acqua miracolosa, fu considerato il vero modello di At the Hawk’s Well. Si veda R. Taylor, Assimilation and Accomplishment: Noh Drama and an Unpublished Source for At the Hawk’s Well, in R. O’Driscoll - L. Raynolds, a cura di, Yeats and the Theatre, Yeats Study Series, Canada, 1975, pp. 137-138. Una osservazione ravvicinata al contesto di Yoro enfatizza la profonda differenza tra i due drammi e, inoltre, lo stesso Yeats non fece mai riferimento a quel dramma nel famoso saggio. Si potrebbe anche notare come Hagoromo sia un dramma fortemente associato alla famiglia Umewaka, responsabile della trasmissione dell’arte del noh a Yeats attraverso Fenollosa e Pound. Nel 1970 il Ministero per l’Educazione realizzò un documentario memorabile sulla performance di Hagoromo degli Umewaka. 40 In Nishikigi il fantasma di una donna che rifiutò il corteggiatore in vita continua a portare con sé un pezzo di stoffa, chiamato hosonuno, tessuto con le piume di uccello.

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Yeats faccia riferimento a una dimensione extra-terrestre, identificabile solamente con l’immagine evocatrice di un uccello. Lo stesso Yeats inizia un altro dei suoi drammi – The Only Jealousy of Emer [L’unica gelosia di Emer, in Drammi celtici, cit. – ndt] – con il verso “A woman’s beauty is like a white frail bird, like a white sea-bird”, c’è inoltre una chiara prova del suo coinvolgimento con le pratiche medianiche e della trance femminile nel corso dell’anno che precede la genesi di At the Hawk’s Well: a Dublino, nell’aprile 1913, presenziò agli incontri di una medium non professionista chiamata Mrs. Mitchell, e sempre nello stesso periodo consultò altri medium a Londra. Non ci sono dubbi che le sue esperienze in tal senso ispirarono le sue attività poetiche41, ed è facile capire perché Yeats, con la sua grande predilezione per l’occulto e il soprannaturale, possa aver attinto dall’antico dramma giapponese non con uno spirito di pallida imitazione42, ma con la volontà di interpretare i propri interessi rivolti all’occulto. Comunque, nonostante le forti influenze paranormali rilevabili nei drammi di Yeats, sarebbe difficile per un pubblico occidentale moderno, privo di un credo comune, discernere la connessione tra l’arte e la vita di tutti i giorni43. Così, mentre At the Hawk’s Well attraverso la sua chiarezza strutturale e testuale, e il modo in cui pone al centro dell’attenzione il conflitto tra la donna-sparviero e i due uomini assalitori risulta gradevolmente accessibile, per gli spettatori il dipanarsi della storia è irrilevante. Nel sud della Thailandia, d’altro canto, dove la storia della donna-uccello, come è rappresentata nelle performance rituali di Manora è frammentaria e difficilmente riconoscibile, il livello di partecipazione del pubblico è massimo. Nella performance rituale di Manora per il Capodanno, di cui fui testimone nel villaggio di Tung Yai nell’aprile 1997, vidi qualcosa di vitale per il villaggio: un pozzo dal quale l’intera comunità attingeva l’acqua della vita fin dai tempi più remoti. E come, da sempre, la funzione della donna è stata quella di attingere il fluido della vita, è sempre lei che fa la guardia al villaggio – il suo potere è simbolizzato dall’immagine mitica e drammatizzata della donna-uccello eterna e infinitamente rigenerante. 41 Si veda R. Foster, W.B. Yeats: a Life. The Apprentice Mage, 1865-1914, Oxford University Press, Oxford-New York, 1997, pp. 453-491. 42 Nel 1949 un dramma noh dal titolo Takahime o La Principessa sparviero, fu composto da Mario Yokomichi come omaggio a At the Hawk’s Well di Yeats, ma dai giapponesi fu orgogliosamente considerato più vicino al noh classico che all’imitazione di Yeats. 43 Il 17 ottobre 1996, grazie all’aiuto finanziario di due fondazioni giapponesi, furono organizzate due produzioni noh sul palco del Royal Hooloway con Umewaka Naohito, il bis-nipote di Umewaka Minoru (colui che fece conoscere il noh a Yeats), a interpretare i ruoli dell’Angelo in Hagoromo e della donna sparviero in At the Hawk’s Well. Questa fu la prima volta che si sperimentò tale giustapposizione, apprezzata come un tentativo appropriato di mettere in relazione il Giappone con l’Irlanda. Nonostante il forte substrato medianico di entrambi i drammi, la distribuzione a ogni spettatore di rametti di rosmarino (un’erba sacra), l’accensione d’incenso e la messinscena di momenti religiosi, il coinvolgimento del pubblico presente alla produzione fu caldo ma accademico.

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In una regione in cui la realtà a volte è inscindibile dalla finzione, e la realtà della magia è più forte di qualsiasi logica quotidiana, l’episodio del commerciante di Tung Yai che divenne una donna, sposò lo scapolo più appetibile e si guadagnò il controllo dell’intera comunità, assume per me un nuovo significato. Per come se ne andò quella sera dalla festa il suono ronzante della sua Cadillac bianca poteva essere stato emesso da un battito d’ali. Una moderna donna-uccello continua a tenerci sotto il suo incantesimo e il vero potere del suo status sociale, reale e irreale allo stesso tempo, sottolinea la festività mettendo in moto ancora una volta la storia della donna-uccello attraverso i dodici passi di Manora – passi che si ripetono implacabilmente auto validandosi come i dodici mesi dell’anno lunare. La questione della sua identità non mi interessa più. Una risposta non è necessaria: come la famosa domanda di Parsifal, “Dov’è il Graal?” – che destò il moribondo Re Pescatore e il resto del creato – l’arte di porre le domande include già le risposte. Avviando il ciclo del rinnovamento e della rigenerazione fin dal principio dell’anno tailandese, la donna-uccello rimane la più potente manifestazione di un’antica storia che ancora oggi assume molteplici forme, e la cui immagine, passando liberamente dalla terra al cielo, rimane centrale per la nozione di potere femminile, unico guardiano dell’elisir immortale.

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La trasmissione dei saperi I trattati, i maestri, gli allievi a cura di Matteo Casari

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Introduzione

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di Matteo Casari

Definire il processo di trasmissione dei saperi caratteristico delle arti spettacolari asiatiche, o quantomeno tentarne una sinossi, rappresenta un compito non facile. La sterminata geografia dell’Asia e l’altrettanto sterminata eterogeneità di culture e manifestazioni performative che ovviamente ne consegue rappresentano il primo scoglio. Il secondo, correlativo del precedente, consiste nel rischio che, in relazione all’elevato grado di generalizzazione cui il discorso deve necessariamente tendere per accomunare, almeno sul piano analogico, realtà tra loro innegabilmente lontane, l’analisi risulti semplicistica e di superficie. Per isolare una cultura genericamente definibile come orientale o, per il modo in cui sarà analizzata in queste pagine, asiatica, dove affiorino elementi strutturali capaci di unificare e connettere trasversalmente – oltre il tempo e lo spazio – le singole e irriducibili realtà culturali d’Asia senza incappare nei rischi appena indicati, è necessario comportarsi come nella fruizione di una tela divisionista: non si deve dimenticare che solo una debita distanza consente di percepire omogeneo un insieme altrimenti composito e disunito. Osservando l’ambito delle arti performative tradizionali in tal modo sono affiorate, con viva nitidezza, la figura del Maestro – connessa al rapporto sacro con l’allievo – e la presenza insospettatamente massiccia di trattati teatrali, siano essi vere e proprie poetiche piuttosto che manuali sui protocolli coreografico-rituali o le proporzioni architettoniche dei luoghi deputati allo spettacolo. Accettando la definizione di cultura data da Clifford Geertz, ossia intendendola “una struttura di significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita”1 è possibile riconoscere nei tre elementi individuati – i trattati, i maestri, gli allievi – ciò che si definisce un modello culturale: un complesso o un siste-

1 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books Inc., New York, trad. it., Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna, 1987, p. 141.

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ma di simboli tangibili e tutt’altro che astratti al cui interno si delinea una coerente organizzazione di comportamento. Applicare l’indagine alla struttura del suddetto modello culturale rende possibile trascendere i contenuti o le caratteristiche specifiche di ogni singolo trattato o ancora le dinamiche interpersonali informanti il rapporto maestro-allievo nelle numerose comunità culturali, e tentare così una descrizione valida, seppur generalizzata, del suo funzionamento. Aspetto connotativo della cultura è la trasmissibilità, e proprio il mantenimento e la trasmissione della stessa – nonché il suo perpetuo rinnovamento – sono i compiti principali svolti dagli agenti formanti il modello culturale individuato. Evitare la dispersione di sapere è vitale poiché, come ricorda Geertz, persa progressivamente la maggior parte delle capacità innate, l’uomo ha affidato il proprio sviluppo all’interazione con la cultura divenendo sostanzialmente dipendente da una guida fornita dai sistemi di simboli significanti. In sostanza per “fornire le informazioni addizionali necessarie per poter agire, fummo obbligati successivamente a basarci sempre di più sulle fonti culturali – il fondo accumulato di simboli significanti. Questi simboli non sono pertanto semplici espressioni, strumentalità, o corrispettivi della nostra esistenza biologica, psicologica e sociale: ne sono i prerequisiti. Senza uomini certamente non c’è cultura: allo stesso modo, e cosa più importante, senza cultura non ci sarebbero uomini”2. I prerequisiti culturali appresi con l’esperienza, e di cui l’uomo ha bisogno per esistere come tale, invitano al parallelo con i prerequisiti tecnici, anch’essi appresi attraverso l’esperienza diretta, di cui un uomo ha bisogno per esistere come attore. La catena trattati-maestri-allievi è caratterizzata dal rapporto stretto e circolare tra uomo e cultura e, in termini meno astratti, la conoscenza iscritta nei trattati o incarnata nei maestri si può dire rappresenti gli argini che istradano gli allievi, che danno loro il senso della provenienza e della direzione. La dimensione teatrale, in Asia, sconfina sovente in ambiti che ne trascendono i limiti espressamente spettacolari dimostrando come il teatro sia, per eccellenza, un fatto ontologicamente culturale. I teatri tradizionali asiatici, infatti, sono caratterizzati sovente da un elevato grado di formalizzazione, da corpus teorici e repertori drammaturgici corposi, da reminiscenze o valenze propriamente rituali, da innegabili connessioni ai miti fondanti le varie comunità di appartenenza, da traduzioni estetiche di dimensioni etiche e, facendo un altro passo verso il cuore di questa introduzione, da scelte artistiche che coincidono con scelte di vita: “Presi da bambini, spesso costretti a separarsi dalla famiglia povera, la maggior parte degli attori [in Cina – nda] riceveva la propria educazione alla vita e all’arte all’interno della compagnia in cambio dell’alloggio e di servizi domestici: non diversamente, in questo, dalla tradizione pedagogica teatrale del resto dell’Asia”3. 2 3

C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., pp. 93-94. N. Savarese, Il racconto del teatro cinese, NIS, Roma, 1997, p. 87.

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L’etica professionale sottesa al sinodo di arte e vita, come pure la durezza e i tempi lunghi dell’apprendistato attorico, delineano indubbiamente delle costanti panasiatiche riconducibili al rapporto maestro-allievo. Per dare una dimensione concreta e tangibile di come debba essere intesa tale realtà propongo alcune righe dell’attore cinese Ch’eng Chih Chiao, risalenti al 1937, proprio sull’apprendistato: “I genitori poveri, gli ambiziosi, presentano i loro bambini di sei o sette anni ad attori; allo scopo di sapere se i loro figli o le loro figlie sono dotati per l’arte drammatica. Se esistono probabilità di successo, un contratto irrevocabile, spesso della durata di più anni è firmato dalle due parti davanti a testimoni. Gli articoli che si riferiscono ai diritti e agli impegni dei genitori sono imprecisi e suscettibili di molteplici interpretazioni. È l’insegnante che fissa la scelta dei ruoli che il ragazzo apprenderà; la seconda clausola fissa la durata dell’apprendistato; un terzo punto stipula la non responsabilità dell’insegnante in caso di malattia del ragazzo, di conseguenze funeste dovute a castighi fisici troppo severi da parte del maestro, o di una fuga dell’allievo. Gli accordi pecuniari in questi casi si fanno sempre verbalmente. Vestiti e cibo sono a spese dell’insegnante ma in cambio egli trattiene la somma guadagnata dall’allievo, per ogni rappresentazione, durante tutta la durata dell’iniziazione. Il ragazzo peraltro è a disposizione del maestro: costui lo riempie di compiti in teatro come nelle pulizie della sua casa. L’apprendista attore comincia con l’essere un giovane schiavo; per rispetto e per abitudine, chiama il suo istruttore mio padre l’insegnante (Che Fou). Deve rendere omaggio ai genitori del suo maestro che anche loro hanno pieni poteri su di lui”4. In quest’ottica la posizione dell’allievo sembra connotata da subordinazione e passività ma, se dal punto di vista gerarchico l’inferiorità dell’allievo al maestro è innegabile, i due si ritrovano accomunati nell’impegno verso la tradizione, semplicemente in punti differenti del loro percorso di crescita di uomini e attori. Il ragazzo, o il bambino – il processo di formazione di un corpo culturale, o fittizio, quale è il corpo scenico abbisogna di una psico-fisicità non ancora connotata – che sceglie la professione attorica e la guida – che sarà per tutta la vita – di un maestro, compie qualcosa di affine a un atto di fede in quanto: “Colui che vuole sapere deve prima credere”5. Questo assioma è per Geertz alla base di ogni prospettiva religiosa, ma ritengo sia consentito estenderlo anche a tutte le altre possibili poiché, in termini generali, una prospettiva altro non è che “un modo di vedere, nel senso esteso della parola che comprende discernere, apprendere, capire o afferrare. È un modo particolare di guardare la vita, un modo particolare di interpretare il mondo…”6. Il mio interesse è ovviamente rivolto al processo di conoscenza che ogni pro-

4

N. Savarese, Il racconto del teatro cinese, cit., p. 169. C. Geertz, The Interpretationof Cultures, cit., p. 166. 6 C. Geertz, The Interpretationof Cultures, cit., p. 166. 5

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spettiva o via, suggerendo con tale termine il modello di apprendimento connotativo dell’Asia, pone in atto nel suo darsi. La via che conduce al sapere, alla sua conservazione e trasmissione si apre solo a chi, in seguito a una scelta consapevole di affidamento, decida di percorrerla secondo i passi e i dettami dei suoi predecessori prima di pretendere di allungarne o personalizzarne il tragitto con i propri: l’allievo non si porrà mai in atteggiamento critico rispetto i dettami del maestro, li assorbirà sic et simpliciter con la convinzione che gli insegnamenti e gli appunti mossigli lo condurranno al più presto alla capacità di mostrare se stesso senza tradire la tradizione cui appartiene, anzi, trasfigurandosi in essa. La durezza e lunghezza dell’apprendistato, la passività dell’allievo rispetto al maestro, il loro vivere e lavorare a stretto contatto rappresentano condizioni ineludibili per una corretta e completa trasmissione orale, diretta dei saperi tradizionali. L’artefatto e stratificato linguaggio scenico, ad esempio, – che non può essere stravolto o ignorato pena il venir meno della lingua comune ad attore e spettatore – frutto di raffinate e necessarie tecniche corporee refrattarie all’improvvisazione e al dilettantismo, deve essere appreso ben al di là della tecnica per raggiungere, trascendendo il processo artificiale così faticosamente assimilato, il processo organico situato appena dopo l’arte7. Ho potuto direttamente osservare, durante il mio periodo di apprendistato a T1oky1o al servizio del maestro Umewaka Manzabur1o, come la rigidità imposta nell’apprendimento tecnico non si imponga con altrettanto rigore nell’espressione scenica dell’attore. Interrogato il maestro circa la mia osservazione, questi ha risposto che il suo ruolo di iemoto, ossia capofamiglia responsabile di una compagna, l’Umewaka Kenn1okai, facente parte di una scuola, la Kanze, gli impone una grande responsabilità verso la tradizione che rappresenta. Deve dare una certa visibilità alla famiglia, ma soprattutto preservarne e tramandarne la tecnica. Acquisita la tecnica, però, l’attore è libero di rivelare il proprio kokoro, il cuore, di rappresentare secondo la tonalità che gli è propria e distintiva. Nel definire il sommo grado cui un attore può giungere, quello corrispondente al nono grado del Ky1uishidai, Zeami propone la metafora zen “In Shinra a mezzanotte il sole splende”8 connettendola al meraviglioso, all’ineffabile, al punto in cui il cammino del pensiero, distruggendosi, dischiude la via della non recitazione: l’attore divenuto veramente maestro nella propria arte – perché ormai coincidente con essa – approda paradossalmente alla sponda dell’eccellenza dimenticandola, riscoprendo l’uomo che si trova oltre l’attore. 7

Si veda J. Grotowski, Tecniche originarie dell’attore, dispense (non riviste dall’Autore), seminario tenuto all’Università di Roma “La Sapienza” presso l’Istituto del teatro e dello spettacolo, 1982 e J. Grotowski, L’arte dell’esordiente in N. Savarese, Il teatro al di là del mare - Leggendario occidentale dei teatri d’Oriente, Studio Forma, 1980, pp. 235-239. 8 M. Zeami, La tradition secrète du n1o, a cura di René Sieffert, Gallimard, Paris, 1960, trad. it., Il segreto del teatro n1o, Adelphi, Milano, 1987/3, p. 267.

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L’orizzonte dell’asservimento al maestro e alle tradizioni tecniche e culturali, dunque, coincide con la libertà. Difficile da accettare, dopo quanto detto, ma altrettanto facile da rinvenire nelle parole di gratitudine che tutti gli allievi rivolgono ai maestri per la loro severità e intransigenza: “Mio padre, che non era soltanto mio padre, ma anche il mio maestro, non voleva che gli si ponessero delle domande. Io avrei voluto porgli delle domande, ma mio padre si trovava in un’altra stanza in cui io non dovevo mai stare. Dovevo stare fuori, nel corridoio freddo, e lì prendere le mie lezioni. In questo modo penso di aver imparato molto bene e penso che un metodo così difficile sia veramente il migliore per imparare”9. O ancora: “Qualunque cosa tu faccia se passi attraverso un momento difficile prima di raggiungere quello facile, troverai che la dolcezza vale ben amare fatiche. In genere quando mi esercitavo sui trampoli mi venivano le vesciche ai piedi e sentivo molto dolore. Pensavo che il mio maestro non avrebbe dovuto sottoporre un bambino di dieci anni a prove così dure ma anzi esserne amareggiato. Ma oggi, quando con i miei sessant’anni posso ancora assumere le posizioni della donna-guerriero in opere come La bellezza ubriaca e La fortezza della montagna, so che posso farlo perché il mio maestro fu severo con me nel mio primo allenamento”10. Ho inizialmente accennato alla sacralità del legame tra maestro e allievo, sacralità non solo palesata nelle parole e negli atteggiamenti che scandiscono la quotidianità di tale rapporto, ma anche socialmente sancita, come nel caso delle danze di corte cambogiane, da appositi rituali: “Samdach Preas Kron è lo spirito della danza e ogni lezione è preceduta da una cerimonia chiamata Sampas Kron. Si tratta di un saluto allo spirito della danza e alla maestra di danza. La maestra di danza siede accanto all’altare nella stanza delle prove e ciascuna allieva porta una offerta di foglie di betel, candele, bastoncini di incenso, acqua profumata e mazzi di fiori. L’allieva pone le offerte davanti alla maestra ed esegue il saluto rituale, añjali. Qualora l’insegnante desideri che l’allieva abbia successo le versa sulla testa dell’acqua profumata… Dopo mesi di esercizio, quando le allieve hanno imparato impeccabilmente la mimica richiesta dai ruoli, i passi, le posizioni e i movimenti, esse sono pronte per l’importante cerimonia chiamata Pithi Sampeas Preas Kron Lakon Krop Muk, che è la cerimonia di conferimento del diploma. Giovedì è il giorno sacro a Sampeas Preas Kron, perciò un giovedì del mese di digiuno è scelto per il conferimento del diploma. Otto piccoli altari sono preparati nella sala delle prove con sopra offerte di fiori, betel, riso, incenso e acqua profumata. Dieci bonzi, i preti vestiti del giallo del Buddha, vengono a dire preghiere che sono ripetute dalle insegnanti e dalle allieve… Il prete indossa la maschera dell’anacoreta e mette sulla te-

9 R. Umewaka in F. Marotti, Il volto dell’invisibile - Studi e ricerche sui teatri orientali, Bulzoni, Roma, 1984, p. 17. 10 Mei Lan-fang, in N. Savarese, Il teatro al di là del mare - Leggendario occidentale dei teatri d’Oriente, cit., p. 272.

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sta delle allieve le maschere e le acconciature caratteristiche dei ruoli che hanno studiato; le asperge con l’acqua sacra; pone un filo immerso nell’acqua sacra sulle loro spalle; getta polvere di riso sui loro volti, profumo sulle loro fronti; e finalmente augura a ciascuna di loro buona fortuna e felicità. Dopo questa consacrazione le allieve si tolgono le maschere e le acconciature e danzano in gruppo; poi, di nuovo, mettono le maschere e le acconciature e danzano una scena completa. Ora queste danzatrici, che ieri erano solamente delle allieve, hanno avuto l’autorizzazione di danzare con le insegne della loro arte”11. Il rito appena descritto, riconducibile alla categoria antropologica del rito di passaggio, ci parla non solo del rapporto maestro-allievo, ma anche del passaggio, questa volta in senso quasi materiale, di un bagaglio di conoscenze da una generazione a un’altra. Fino a questo punto ho scelto di concentrarmi sulle figure del maestro e dell’allievo tralasciando volutamente i testi scritti, i trattati teatrali, a causa del proliferare delle problematizzazioni analitiche che comporta una loro immersione nel – o emersione dal – mondo delle arti spettacolari tradizionali dell’Asia. L’importanza culturale – e cultura è ciò che è trasmissibile – che l’Occidente è disposto a riconoscere alla scrittura è enorme. La presenza o meno della scrittura in un dato popolo, ad esempio, può decretare, per chi osservi i fatti da una prospettiva testocentrica, un maggiore o minore stadio di civiltà: solo nel 1954, sotto la direzione di Lévi-Strauss, il corso universitario che dal 1888 portava il titolo di Religioni comparate dei popoli non civilizzati assunse la denominazione di Religioni comparate dei popoli senza scrittura12. Se il cambiamento ha sostituito una constatazione oggettiva a una ideologica, l’equazione scrittura/civiltà, assenza di scrittura/ assenza di civiltà mi sembra non sia stata del tutto messa in discussione, anzi, ne sia risultata accentuata. Per sottolineare ancora di più il valore primario e normativo, di fondazione verrebbe da dire, tradizionalmente riconosciuto dall’Occidente a ciò che è scritto riporto una citazione da Francesco Remotti sulla conquista spagnola del Nuovo Continente: “Un’identità impavida e avanzante, armata di spade e fucili, ma anche di simboli di identità (come la croce) e di testi scritti, in cui la verità risulta fissata per sempre e per tutti. Non è soltanto questione dei testi sacri, ma anche di un documento che i conquistadores spagnoli portano con sé per regolarizzare fin da subito e in maniera incontestabile i rapporti con gli abitanti del Nuovo Mondo. Il Requerimento, preventivamente stilato in Spagna da giuristi e teologi, viene letto a individui che non comprendono né le voci né i segni scritti di un messaggio che

11 Samdach Chaufea Veang Thiounn in G. Azzaroni, Teatro in Asia. Myanmar - Thailandia Laos - Kampuchea - Viêt Nam, voll. II, CLUEB, Bologna, 2000, p. 255-256. 12 C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale deux, Librairie Plon, Paris, 1973, trad. it., Antropologia strutturale due, il Saggiatore, Milano, 1978, p. 99.

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contiene una ben precisa alternativa: o riconoscere l’autorità suprema della Chiesa e della Corona spagnola o subire la guerra che verrà inesorabilmente condotta per ridurli in schiavitù. In esso si parla di San Pietro come signore e sovrano dell’umanità e di come il signore del mondo abbia donato le terre americane ai re di Spagna: vogliono forse gli Americani verificare la validità di quanto sostenuto nel documento?”13. Ciò premesso diviene lampante osservare come le tentazioni che subito ammaliano lo sguardo dello studioso occidentale di fronte all’incontro con l’oggetto trattato siano almeno due: la prima è la gioia incontenibile per la convinzione di aver trovato il documento per eccellenza, incontrovertibile e assoluto, tale da convogliare l’analisi solo su di esso; la seconda è la possibilità di potersene fisicamente appropriare, di averlo sempre pronto al fianco, riposto nello scaffale del proprio studiolo per continue riletture, approfondimenti conoscitivi e rassicuranti citazioni. Per controbilanciare tali tentazioni, come le ho definite, ritengo innanzitutto fondamentale un approccio tarato sulla dinamica dello sguardo come lo propone James Clifford nel suo impareggiabile I frutti puri impazziscono: il monologo culturale deve lasciare posto al dialogo culturale, l’etnocentrismo ritirarsi sincronicamente con l’attribuzione di equivalente valore a chi osserva – studia – e a chi è osservato – è studiato – ponendo il risultato della ricerca a metà tra i due piuttosto che nel ritratto tratteggiato dal primo sul secondo. Rinunciare al dialogo culturale conduce alla solitudine dell’autoreferenzialità, porta la ricerca a risultati autotelici, perfettamente confezionati e strutturati ma incapaci di cogliere la cultura in movimento: “C’era una volta l’Etnografo Solitario che cavalcava al tramonto in cerca del suo nativo. Dopo aver sopportato una serie di prove, alla fine incontrò l’oggetto della sua ricerca in una terra lontana. Superò quindi il proprio rito di passaggio, sopportando l’ordalia definitiva della ricerca sul terreno. Dopo aver raccolto i dati, l’Etnografo Solitario tornò a casa e scrisse un vero resoconto su la cultura”14. La cultura di cui l’Etnografo Solitario ci parla, utilizzando un bagaglio assai ampio di figure allegoriche e retoriche allignate alla nostalgia, è definitivamente immobile, statica nel tempo e quindi morta. Si rende allora necessario un ridimensionamento e ricollocamento del valore documentario dei trattati anche in base alla percezione e alla funzione attribuita al testo scritto dalle culture originarie di composizione. In riferimento al modello culturale individuato in apertura è quindi da abiurare l’innata tendenza occidentale a realizzare una scala di valori, se non addirittura evolutiva, al cui gradino più alto porre i trattati (il documento scritto) seguiti in stretto ordine gerarchico dai maestri e quindi dagli allievi.

13

F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1997/2, pp. 52-53. R. Rosaldo, Culture and truth, Beacon Press, Boston, 1989, trad. it., Cultura e verità - Rifare l’analisi sociale, Meltemi, Roma, 2001, p. 71. 14

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Le profonde radici testocentriche del bacino culturale europeo – non geograficamente inteso – favoriscono una spontanea attribuzione di valore dogmatico, una “verità fissata per sempre e per tutti” a ciò che è scritto. L’Oriente, invece, sembra generalmente fuggire da tale atteggiamento e la ragione può essere individuata a mio avviso nei tratti distintivi del sincretismo e del non duale che gli sono correlativi. La capacità di composizione dei contrari, il sincretismo e il pensiero non dicotomico sviluppano una struttura elastica e aperta al cambiamento, non una rigida e inamovibile, facendo dell’orale e del fisico, ossia del metodo diretto di trasmissione dei saperi, un sistema altrettanto credibile e sicuro che convive simbioticamente con quello scritto: la sapienza viva, agita del maestro è, per l’allievo, equivalente se non addirittura più importante a una sua eventuale forma fissata per iscritto. Un allievo deve fare proprio un prezioso bagaglio costituito non solo di conoscenze teorico-tecniche, ma anche di una sorta di sapienza, o forza pneumatica, capace di vivificare perpetuamente la tradizione, atta ad assicurare la vita attraverso gli anni a una forma che, altrimenti, inaridirebbe con rapidità in un suo meccanico ripetersi. Per riuscirvi deve entrare in rapporto empatico col proprio maestro, carpendo anche ciò che non può essere verbalizzato. Termini come scritturale o tradizionale – etichette di comodo che nel racconto etnografico distinguono le culture del libro e della parola – si rivelano, dato questo approccio, inadatte e massimamente imprecise. I tre elementi costitutivi del modello culturale individuato, infatti, risultano come sospesi in una equivalenza di valori e non possono essere intesi lungo uno sviluppo lineare-evolutivo, bensì circolare. L’oggetto trattato non ha valore assoluto in sé, ma assume un valore particolare in presenza delle figure del maestro e dell’allievo che ne rappresentano la viva incarnazione. È anzi il documento scritto a costituire l’anello debole in questa catena risultando assente in alcune realtà performative, subordinato alla presenza attiva del maestro o dei performer in altre, o addirittura parzialmente disatteso in altre ancora: “Le figure e i movimenti delle danze sono annotati in antichi testi manoscritti, conservati avvolti in teli di seta e broccato, che sono aperti solamente dopo il formale e cerimoniale saluto añjali. In realtà le insegnanti conoscono perfettamente le tecniche da insegnare alle allieve e non consultano i sacri testi abitualmente: la loro funzione è più sociale, religiosa e culturale che pratica, poiché sono la testimonianza tangibile di un’arte antichissima correlata alla storia della Cambogia, un’arte che è stata trasmessa di generazione in generazione da maestra ad allieva oralmente e con l’insegnamento pratico …”15. Il particolare e libero rapporto che l’Oriente vive rispetto i testi scritti è maggiormente visibile in presenza di trattati dal contenuto marcatamente mitico-rituale, come possono essere il N1at¸yaés1astra indiano – scritto dal saggio Bharata, augusto

15

G. Azzaroni, Teatro in Asia. Myanmar - Thailandia - Laos - Kampuchea - Viêt Nam, cit., p.

257.

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amico degli dei –, i ’cham tibetani descritti in testi xilografici recanti precise descrizioni dei movimenti coreografici da eseguire e il loro rispettivo valore sacrale, o la serie di testi assimilabili, per la loro funzione sacra, religiosa e culturale, a quello appena ricordato per la danza cambogiana. Tali scritti, che sintetizzano l’ethos di un popolo, la sua visione del mondo, realizzano un processo forte di identità – l’identità armata la definisce Remotti16 – alla quale si sente di aderire intimamente anche se non se ne rispettano dogmaticamente i canoni. A tal proposito anticipo un frammento dell’articolo di Mandakranta Bose di seguito antologizzato che ben esprime tale realtà: “Tuttavia i danzatori e gli studiosi d’oggi affermano strenuamente che l’odierna danza classica indiana si conforma in tutto e per tutto al N1at¸yaés1astra. Questa affermazione, per lo meno riguardo la strutturazione delle sequenze di danza, non sembra convalidata se confrontata con il testo di Bharata. E sebbene non ci sia alcun dubbio che il N1at¸yaés1astra possa essere descritto come l’origine di tutti gli stili di danza indiana esistenti, non sembra essere la fonte diretta delle forme di danza classica odierna nella loro totalità”17. Questi testi rappresentano, quindi, un ambiente di coltura, un terreno fertile e sicuro in cui affondare radici e trarre il nutrimento necessario al proprio, autonomo sviluppo. La grande enfasi posta dagli studiosi occidentali sui trattati teorici dei teatri orientali, inoltre, ha favorito un medesimo e per certi versi nuovo interesse anche negli stessi studiosi e artisti autoctoni. Nell’introduzione alla sua traduzione inglese del N1at¸yaés1astra Adya Rangacharya afferma infatti: “Lo studio di questo trattato è essenziale per i nostri studiosi quanto per i nostri appassionati. Dobbiamo riconoscere il merito agli studiosi europei che scoprirono, pubblicarono e tradussero questo trattato. Furono loro a riconoscerne il valore per primi”18. Ancor più interessante, in tal senso, quanto dice Kanze Tetsunojo, attore della compagnia di teatro n1o Tessenkai nell’intervista inserita in questa sezione: “Quando presentiamo il n1o fuori dal Giappone recitiamo non come Tessenkai, ma come Zeamiza, Teatro di Zeami…”19 quasi a sottolineare al pubblico non nipponico un’appartenenza che in patria può essere sottaciuta, forse perché tautologica o forse perché non ritenuta altrettanto importante.

16

F. Remotti, Contro l’identità, cit., pp. 45-57. M. Bose, In quest of a neglected sanskrit work on classical indian dancing: Nartananirn˝aya, in “Journal of the Asiatic Society”, vol. XXIX, n.1, s.e., Calcutta, 1987, trad. it., Alla ricerca di un’opera dimenticata sulla danza classica indiana: il Nartananirn˝aya, in G. Azzaroni, a cura di, Le realtà del mito, CLUEB, Bologna, 2003, pp. 103-104. 18 A. Rangacharya, The Na 1 t¸yaésa1 stra - English Translation with Critical Notes, Munshiram Manoharlal Publishers Pvt. Ltd., New Delhi, 1986, p. XXI. La traduzione dall’originale inglese è di chi scrive. 19 J. Rodowicz, Rethinking Zeami - Talking to Kanze Tetsunijo, in “Drama Review”, vol. 36, n. 2, MIT Press, Cambridge, 1992, trad. it., Ripensando Zeami - Dialogo con Kanze Tetsunijo, in G. Azzaroni, a cura di, Le realtà del mito, CLUEB, Bologna, 2003, p. 137. 17

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Un atteggiamento simile, va notato, facilita il consolidarsi dell’immagine raggelata e museificata che usualmente si affianca ai teatri tradizionali asiatici, considerati attraverso i secoli e le epoche alla stregua di fossili viventi, sempre uguali a se stessi e costantemente paragonati a una loro forma ideale fissata per iscritto. Nella convinzione, in apertura solo accennata, che il rinnovamento sia una caratteristica operativa peculiare del modello culturale formato da trattati, maestri e allievi, riservo la sezione conclusiva di questa introduzione proprio a tale argomento. Esempio estremo è proprio il teatro n1o, letto attraverso la sola lente dei trattati di Zeami e con scarsa considerazione della cultura vivente, delle prassi e delle convenzioni attoriche. Lettura peraltro superficiale, poiché lo stesso Zeami in molte pagine propone il suo dubbio circa la precisione e la chiarezza delle parole scritte, e in continuazione apre spiragli attraverso i quali l’attore abile possa esprimere tutta la sua creatività e libertà: “In modo particolare, la nostra arte consiste nel perpetuare uno stile [tradizionale], ma ammette anche un modo di comportarsi che è frutto delle risorse proprie [di ogni uomo]. Questo è difficile da tradursi in parole. Poiché si tratta del fiore che, una volta acquisito lo stile [tradizionale], si trasmette da cuore a cuore…”20. Ben più rivoluzionario appare il precetto che Zeami fornisce nel quinto libro del F1ushi-kaden, un vero e proprio stimolo al perpetuo rinnovamento: “adattarsi ai tempi, uniformarsi al luogo”21. Il processo di rinnovamento stilistico, caratterizzato dalla coniugazione del passato al presente, può assumere poi, gradi e modalità differenti. La profonda comunanza che ancora oggi lega il n1o odierno a quello di Zeami, ad esempio, è in massima parte dovuta alla preferenza accordata dal popolo giapponese all’ortoprassia piuttosto che all’ortodossia22: la pseudomorfosi sembra essere il sistema adottato dal n1o per trasformarsi e mantenere il passo coi tempi rimanendo sempre fedele alle proprie radici: “Quando ho raggiunto i quaranta anni mio padre mi disse che potevo avere il mio approccio personale all’arte… Mi diceva che dovevo seguire la tradizione, ma anche aggiungere il mio tocco personale all’arte, altrimenti il n1o sarebbe stato incomprensibile alle generazioni successive”23. Ancora diverso, come nota James Brandon, è il caso per l’area del sud-est asiatico: “Ho ricordato che la danza tailandese lakon e Khon usa un alfabeto di gesti e frasi di movimenti; i danzatori tai hanno una conoscenza profonda di questo alfabeto e tentano di riprodurlo esattamente. Ci sono ragioni per credere che questo alfabeto venga accuratamente conservato anche al giorno d’oggi. A Bali per andare

M. Zeami, La tradition secrète du n1o, cit., p. 117. M. Zeami, La tradition secrète du n1o, cit., p. 121. 22 F. Maraini, in G. Filoramo, a cura di, Storia delle religioni - Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, vol. IV, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 639. 23 R. Umewaka in F. Marotti, Il volto dell’invisibile - Studio e ricerche sui teatri orientali, cit., p. 12. 20 21

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07Casari

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a un altro estremo, le cose nuove sono molto apprezzate. Se una danza tradizionale diventa noiosa è abbandonata per qualcosa di più interessante. Sia la danza di guerra baris, molto considerata recentemente come vent’anni fa, che djanger, una danza popolare con adolescenti nata parecchi anni fa, oggi sono scarsamente conosciute a Bali. Questo non vuol dire che i modelli fondamentali della danza balinese sono stati del tutto rigettati. Piuttosto significa che, così come si creano nuove composizioni di danza e le vecchie cadono in disuso, ugualmente sono destinati a intervenire graduali cambiamenti nello stile. Ed essi accadranno più spesso e più rapidamente che in Tailandia per esempio, dove il mutamento nella danza non è ricercato consciamente…”24. Concludo con un rapido riferimento all’articolo sul teatro etnico filippino che ho scelto di inserire in questa sezione. Nonostante il tenore narrativo non risulti del tutto omogeneo rispetto gli altri, ho ritenuto interessante proporre uno studio espressamente etnografico come esempio di documento attraverso il quale è possibile conservare e perpetuare un sapere, una conoscenza: “Il kula è scomparso o mutato ma, nel bene e nel male, Gli argonauti del Pacifico occidentale restano”25.

24 J. R. Brandon, in N. Savarese, a cura di, Il teatro al di là del mare - Leggendario occidentale dei teatri d’Oriente, cit. pp. 202-203. 25 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., p. 59.

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08Motokiyo

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Museki Isshi di Zeami Motokiyo

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in Benito Ortolani - Kazuyoshi Nishi, The Years of Zeami’s Birth. With a Translation of the Museki Isshi. “Monumenta Nipponica”, vol. XX, nn. 3-4, Sophia University Press, 1 kyo 1 , 1965, pp. 319-334 To

alla radice fanno ritorno al vecchio nido s’affrettano fiori e uccelli legati alla medesima giusta Legge giungerà anche questa primavera a una fine?

In verità – il sentimento d’amore per quei fiori e di invidia per gli uccelli – altro non è che un componimento che coinvolge l’animo. Il dolore della separazione dagli amati genitori e dagli amati figli, e la tristezza senza alcuna possibilità di consolazione che – confusi tra i loro transitori colori e le loro transitorie voci – prova invidia per gli inconsapevoli fiori e uccelli, alla fine appartengono entrambi allo stesso volgere degli eventi. Ahimè, nel primo giorno dell’ottavo mese mio figlio Zenshun [nome usato da Zeami solo in questa occasione per indicare il figlio Motomasa – ndt] morì a Anono-tsu nella provincia di Ise. Ora potrei oltremodo sembrare scosso dal destino umano – l’incerto ordine nella morte del giovane e del vecchio. Ma a causa del più inaspettato dei colpi il mio vecchio corpo è crollato e lacrime di afflizione inzuppano la mia manica. Inoltre, mio figlio Zenshun fu veramente un maestro senza eguali, e io, Shi1o [nome confidenziale usato da Zeami per indicare se stesso. Ciò indica il carattere profondamente personale dello scritto – ndt], che tempo addietro ricevetti dal mio defunto padre la tradizione familiare di quest’arte e succedetti a lui in questa stessa Via [del n1o – ndt], ho raggiunto l’età di settant’anni. Poiché Zenshun è sembrato ai miei occhi superare in abilità perfino suo nonno, seguendo le parole “Non parlare a qualcuno in grado di capire è come perdere un uomo” [detto confuciano – ndt] ho trascritto e tramandato a lui la tradizione segreta e i misteri nascosti della nostra Via. Tutto ciò è diventato, ahimè, un sogno vuoto, rimane soltanto fumo e inutile polvere senza padrone. E ora, anche se volessi trasmettere i miei scritti, a chi potrebbero essere utili? Quanto a fondo oggi comprendo il sentimento della poesia:

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se non a te a chi potrei svelare i fiori del pruno?

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Il tempo della rovina della nostra Via è giunto, solo la mia vecchia vita senza senso è rimasta. Quanto mi è insopportabile vedere tutto questo con i miei occhi. È veramente una disgrazia! Si dice che il cuore di Confucio – quando Pai Yü morì – bruciò dolorosamente in sua memoria, e che Pai Chü-i – il cui figlio era prematuramente morto – fu preso dalla disperazione guardando la medicina rimasta a fianco del cuscino. Se penso che Zenshun una volta entrò in questo mondo di sogno e che io ora sto componendo questo confuso scritto pensando alla separazione da lui che fu mio figlio per troppo poco tempo – è veramente troppo doloroso per me. com’è crudelmente inatteso che io – come legno deteriorato lasciato in questo mondo abbia dovuto vedere l’ultima traccia di uno splendido fiore

Nono mese del quarto anno di Eiky1o Shi1o Come potrei non pensare che si conserverà solo fino a quando sarò vivo come potrei sapere quando le lacrime della mia tarda età avranno una fine?

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09Daumal

26-02-2003

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L’origine del teatro di Bharata di René Daumal Bharata - L’origine du Theatre - La poesie et la musique en Inde, Gallimard, Paris, 1970, pp. 13-17

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Il testo Il Nâtya-Çâstra di Bharata è il più antico trattato d’arte drammatica hindu. NâtyaÇâstra significa in primo luogo danza e rappresentazione mimata, ma il teatro hindu, fin dalle origini, coincide con l’arte totale: è danza, mimica, musica, canto, poesia, architettura, messa in scena e pittura. Rispetto a tutte queste materie il Nâtya-Çâstra è l’autorità principale poiché rappresenta un sapere tradizionale cui si riserva il nome di Quinto Veda. Per sapere tradizionale (veda, vidyâ) s’intende un corpus di dottrine che sviluppi il significato dal veda originale sotto una particolare prospettiva, senza perdere di vista lo scopo ultimo rappresentato dalla conoscenza; quest’ultimo termine non compare qui, d’altronde, per celare una lacuna del nostro pensiero ma per colmarla. A partire dalla metafisica e dalla danza fino alla meccanica e all’agghindare gli elefanti, tutti gli ambiti della dottrina presso gli Hindu sono legati allo scopo ultimo chiamato liberazione, conoscenza o unificazione; apprendendo il tiro con l’arco o la grammatica, ad esempio, si può giungere a esso. Gli Hindu si interessano poco di cronologia e attribuiscono al Nâtya-Çâstra una particolare antichità, intendendo soprattutto in tal modo sottolineare una prossimità spirituale con l’insegnamento dei veda. Di fatto, la raccolta è uno scritto compilato, senza dubbio, nell’arco di più secoli, e alcuni passaggi sembrano interpolati o rimaneggiati in epoca abbastanza recente. Tuttavia, la maggior parte del testo, la più importante, è sicuramente molto antica. Tutti gli altri trattati di arte drammatica e di poesia citano Bharata, mentre lui non ne cita nessuno. Bharata contrariamente ad autori a lui posteriori, i quali fanno largo uso dell’esempio classico, non cita alcun brano scritto. Il teatro di cui egli parla non è il genere letterario che in seguito ha assunto impropriamente questo nome, ma azione, esercizio e rito, ancor più che rappresentazione. La lingua semplice, concisa, ben martellata, versificata a scopo mnemonico, e spesso valorizzata con ritmi accentati, risulta epurata dagli ornamenti preziosi del sanscrito più tardo; tuttavia, il vocabolario tecnico abbonda di parole prâkrite e dravidiche e ciò potrebbe far prospettare

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un’antica tradizione teatrale preariana riconducibile forse a quella esistente ancora oggi in certe parti del sud dell’India. Notiamo, inoltre, la tendenza çivaita del Nâtya-Çâstra, e l’assenza di qualsiasi indizio che permetta di collocarlo posteriormente rispetto al Buddhismo. Il trattato sembra quindi più tardo delle antiche epopee e anteriore di almeno quattro o cinque secoli rispetto alla nostra era; la datazione è talmente vaga da risultare poco utile. Il testo, trasmesso oralmente, non è stato annotato che in un’epoca abbastanza recente. Ho preso come riferimento il testo stabilito da Joanny Grosset secondo i principali manoscritti conosciuti; questa è d’altra parte la sola edizione europea, e ha reso grandi servizi agli stessi letterati hindu.

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L’autore La parola baratha compare già nel rig-veda come epiteto o apposizione ad Agni (il Fuoco). Secondo Paul Reymond conserverebbe ancora il suo valore etimologico di portatore, designando il fuoco sacro come latore dell’offerta, mentre i cento figli di Bharata sarebbe un’espressione metaforica indicante le fiamme del focolare. Secondo altri il Bharata vedico avrebbe fin d’allora il valore di nome proprio, quello di uno dei due conquistatori bianchi dell’India (anticamente chiamata paese di Bharata), e il fuoco Bharata sarebbe un culto appartenente alla tribù o alla famiglia Bharata. Infine, alcune espressioni come proveniente da Bharata sono comunemente impiegate per definire un bardo o un attore; ciò potrebbe significare, sebbene non lo sappiamo con certezza, che il bardo o l’attore provengano dal paese di Bharata, oppure che siano in qualche modo relazionati alla tradizione drammatica di Bharata. Non è impossibile che, attraverso uno di questi frequenti reincroci in sanscrito, le parole bharata, di bharata abbiano nello stesso tempo mantenuto una traccia del loro senso originale; l’attore per di più era (Sâhitya-Darpana, etc.) definito come colui che porta su di sé (che assume) la natura individuale del personaggio che interpreta; è il portatore del suo ruolo e del sapore poetico così come il fuoco è il latore dell’offerta. In breve dobbiamo riconoscere nel nome di Bharata un’etichetta mitica e simbolica la quale, senza alcun dubbio, riassume una tradizione scolastica particolare, ma nessun cronista dell’epoca ci ha trasmesso il nome delle sigarette preferite da Bharata né del suo sport preferito né se faceva parte dell’Istituto [Institut in originale. Indica in genere l’Académie Française, i cui membri vengono chiamati Les Immortels. L’evidente ironia della frase risulta difficilmente traducibile e il suo senso rimane comunque poco chiaro – ndt]. La dottrina Tra le scuole, a volte divergenti tra loro, che si fondano sull’autorità di Bharata, di Muni come lo si chiama spesso, la più aderente alla sua tradizione è quella detta

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09Daumal

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del Sapore (del rasa). La sua dottrina è stata sviluppata nell’Agni-Purâna, nei trattati di Bhoja, nel Daça-Rûpa e soprattutto nel Sâhitya-Darpana (Specchio della composizione) di cui riassumo qui qualche definizione. Il Sapore. – L’essenza dell’arte poetica (compreso il teatro) è il Sapore (rasa). Con il termine Sapore si intende la percezione immediata, dall’interno, di un momento o di uno stato particolare dell’esistenza richiamato dalla messa in opera dei mezzi d’espressione artistica. Non è un oggetto, né un sentimento, né un concetto; è un’evidenza immediata, una degustazione della vita stessa, la pura gioia di assaporare la sostanza in completa comunione con l’altro, l’attore o il poeta. Il Sapore si differenzia in base agli stati e ai modi d’esistenza (Bhâras) di cui è la percezione soprannaturale e disinteressata. Dal punto di vista tecnico si enumerano otto o dieci Sapori denominati per mezzo di metafore in relazione ai sentimenti, o meglio ai regimi psicofisiologici (Bhâras), di cui rappresentano le nozioni intuitive: erotico, comico, patetico, furioso, eroico, terrificante, ripugnante, meraviglioso; in oltre presso alcuni autori s’incontrano il Sapore tranquillo e quello familiare. Tutte le opere poetiche devono presentare un Sapore dominante, i Sapori confusi sono caratteristica di certi generi inferiori. Le Manifestazioni. – La parola Bhâva (sentimento, stato generale) designa anche l’insieme delle Manifestazioni di ciascuno di questi sapori. Esistono quindi otto o dieci Manifestazioni permanenti costanti per un’opera o per un personaggio dato; si definiscono in base al mezzo d’espressione impiegato (vedi oltre) e si percepiscono attraverso gli occhi e le orecchie consentendo di cogliere il sapore del poema suscitandolo nello spettatore. Vi sono poi trentatré Manifestazioni transitorie espressione di tutti i sentimenti e gli stati fisici incidenti che variano e sfumano il Sapore fondamentale; infine, otto o dieci Manifestazioni veritiere (come le lacrime, il riso, la sudorazione) che esprimono il sentimento dominante quando diventa talmente forte da sottomettere l’uomo ad azioni fisiologiche che si presume, per convenzione scenica, forniscano dei segni indubitabili dello stato interiore del personaggio. I mezzi d’espressione. – Lo stato interiore dell’attore si manifesta attraverso quattro mezzi (abhinayâs): gesto, voce, costume e scenografia, e espressione corporea. Alla voce viene aggiunta la musica e il canto. Gli stili. – Esistono quattro stili drammatici (vritti, letteralmente forma, maniera di fare): la maniera verbale, dove la parola occupa il ruolo principale, risulta appropriata ai soggetti religiosi, ai sentimenti calmi; la maniera eroica o grandiosa è appropriata ai soggetti epici o guerreschi; la maniera della chioma, una maniera graziosa il cui nome proviene da un gesto di Vishnou che si riassesta i capelli dopo un combattimento, si conviene ai sentimenti amorosi; la maniera violenta o fantastica, dove ogni sorta d’artificio e di macchineria viene messo in opera, è adatta ai drammi magici, ai combattimenti violenti e soprannaturali. Le nozioni di Sapore, Manifestazione, mezzo d’espressione, stile e altre ancora, sono state contate, suddivise, catalogate, etichettate con nomi di divinità e accura-

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tamente classificate dai tecnici hindu. Le classificazioni servono esclusivamente per aiutare la memoria e sono particolarmente adatte all’insegnamento orale. Il poeta o l’attore che le conosce può così, con un solo colpo d’occhio interiore, imbracciare tutte le possibilità del suo mestiere. Tutta questa conoscenza, in apparenza fastidiosa e complicata, non ha altro scopo che quello di liberare l’artista dalla povertà delle fantasie individuali. La traduzione. – Fino a oggi del Nâtya-Çâstra, sono stati tradotti in lingue europee solo alcuni dei capitoli più tecnici, i meno utilizzabili per gli occidentali (a eccezione di alcuni frammenti del primo capitolo tradotti da Sylvain Lévy ne Le Théâtre Indien con il solo scopo di mettere in luce la “…..credulità degli indiani” – ma lui dice “la critica europea non saprà accontentarsene”). Io ho letto e tentato di tradurre questo testo con uno spirito completamente diverso pensando, alla maniera degli orientali, che si tratti di un testo fatto per servire l’uomo, non per asservirlo. Ho quindi provato a estrarre il massimo del senso non esitando a rendere il pieno valore etimologico a certe espressioni di cui il significato si è certamente indebolito per un lettore hindu contemporaneo. Il problema della traduzione dei nomi mitologici è praticamente insolubile, la sua soluzione dipende dalle conoscenze e dalle associazioni d’immagine di ciascun lettore; ho segnalato nelle note ogni singolo caso particolare, dando sempre la parola sanscrita. È un peccato non possedere il commentario di Abhinavagupta dei primi capitoli del Trattato.

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Alla ricerca di un’opera dimenticata sulla danza classica indiana: il Nartananirn˝aya di Mandakranta Bose

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“Journal of the Asiatic Society”, vol. XXIX, n. 1, s.e., Calcutta, 1987, pp. 89-100

Il Nartananirn˝aya, risalente al XVI secolo, è un testo poco conosciuto che potrebbe costituire la nostra più probabile fonte per le forme odierne della danza classica indiana. Le composizioni di danza in esso riportate sembrano appartenere ai deés1ı, o stili regionali, menzionati ma non descritti nel N1at¸yaés1astra. A partire dalla scoperta, qualche anno addietro, di un manoscritto completo del testo, molte conoscenze sono emerse. Una edizione critica, ora in preparazione, dovrebbe fornire indizi imprescindibili per chiarire l’evoluzione della danza indiana. Il Nartananirn˝aya, di Pun˝d˝ar1 ıka Vit¸t¸hala o Karnataka, è un’opera eccezionale sulla musica e sulla danza dell’India. Si tratta di un testo sanscrito del XVI secolo che colma le lacune nella comprensione delle differenze tra le tradizioni indiane della danza classica e regionale. Le danze classiche indiane, come le vediamo oggi, hanno in comune con le tradizioni descritte in quest’opera molti più elementi di quanti ne abbiano con tutte le altre sullo stesso argomento descritte in ulteriori trattati incluso il N1at¸yaés1astra, un testo sanscrito del II secolo d.C. Il N1at¸yaés1astra, generalmente considerato la principale raccolta di documenti originali sulla danza in India, è un trattato fedelmente seguito, di fatto, da ogni opera sanscrita che si occupi di danza. Il Nartananirn˝aya è l’unica opera a descrivere composizioni di danza che, più di quelle trovate nel N1at¸yaés1astra, formano il repertorio odierno della danza classica indiana. Le tradizioni riportate dal Nartananirn˝aya possono essere identificate come deés1ı – o variazioni regionali – sviluppatesi fuori dai m1arga – o tradizioni classiche di danza – stabiliti. Le tradizioni deés1ı furono gradualmente assorbite nell’intera struttura tradizionale della danza indiana, e quel che vediamo oggi nelle cinque principali scuole classiche è il risultato di tale processo. Il Nartananirn˝aya è la più importante opera in nostro possesso in grado di rivelare la comparsa di tale tradizione alternativa ai m1arga. La musica descritta nel trattato apparteneva già, come è possibile riscontrare in testi scritti precedentemente, a una tradizione deés1ı stabilita. Tuttavia, il Nartananirn˝aya, dimostra la sua particolare importanza proprio in virtù del fatto che rappresenta il primo testo a prescrivere una musica specifica per ciascun pezzo danzato. Ho rinvenuto un manoscritto del Nartananirn˝aya alla India Office Library di

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Londra mentre partecipavo, a Oxford, a un lavoro inerente trattati sanscriti sulla danza classica indiana. Esaminando il manoscritto ho scoperto che descriveva una tradizione di danza differente da quella trattata dal N1at¸yaés1astra di Bharata e dai testi che l’hanno seguito. Il N1at¸yaés1astra è il più antico testo disponibile su teatro e danza e occupa una posizione archetipica nella descrizione della tradizione classica tanto che i trattati posteriori ne accettano la struttura. La conformità di queste opere alla struttura dei movimenti di base dati nel N1at¸yaés1astra fonda la principale tradizione di danza classica sebbene lievi tracce di differenti deés1ı si trovino in testi più tardi, la maggior parte dei quali scritti tra il XII e il XV secolo d. C.1 Il Nartananirn˝aya, scritto nel XVI secolo, riferisce una tradizione diversa da quelle annotate tra il XII e il XV secolo d.C. Bharata omette approfondimenti di altre tradizioni oltre quella da lui descritta, la quale più tardi divenne nota come m1arga. Fa riferimento ad altre tradizioni come quella deés1ı, ma non le descrive (N1at¸yaés1astra, 18.61). I testi più tardi, l’ultimo dei quali risale al XV secolo d.C., documentano differenti variazioni regionali e, senza sorpresa alcuna, troviamo molte varietà di stili deés1ı. Tuttavia, la forma attuale della danza classica indiana non mostra relazione diretta con nessuno degli stili deés1ı trovati in questi testi. Per esempio le an•gah1aras, o brevi sequenze di danza, descritte da Bharata sono finalizzate alla composizione di un pezzo assemblando una serie di sequenze. Le forme odierne di danza non le utilizzano nella composizione dei pezzi danzati e, sebbene sia vero che tutte le forme di danza classica seguano ancora le regole per i movimenti di base dettate da Bharata, riscontriamo una discontinuità negli stili strutturali dei pezzi di danza. Le scuole classiche odierne osservano le istruzioni di Bharata per quanto riguarda la composizione dei karan˝a, i movimenti del corpo nella loro complessità. Da quando i karan˝a sono stati conosciuti a fondo (sebbene nessuna scuola utilizzi contemporaneamente tutti i cento e otto tipi) le composizioni dei pezzi danzati seguono anche linee completamente diverse da quelle fissate da Bharata. Il Nartananirn˝aya ci fornisce un quadro chiaro di ogni derivazione dalla vecchia tradizione classica. Le derivazioni dal N1at¸yaés1astra sono indubbiamente il prodotto di una evoluzione naturale e dovrebbero essere interpretate come indice di creatività dei performer. È assolutamente naturale che attraverso i suoi duemila anni di storia la danza indiana si sia sviluppata in altre direzioni oltre a quella indicata dal N1at¸yaés1astra, il che mostra senza dubbio la vitalità della tradizione. Tuttavia, i danzatori e gli studiosi d’oggi affermano strenuamente che l’odierna danza classica indiana si conforma in tutto e per tutto al N1at¸yaés1astra. Questa affermazione, per lo meno riguardo la strutturazione delle sequenze di danza, non sembra convalidata se confrontata Le seguenti sono le principali opere di questo genere: Sam•g1ıta Makaranda (XI-XII secolo), Manasoll1asa (XII secolo), Sam•g1ıtaratn1akara (XIII secolo), Abhinaya Darpan˝a (XII-XIII secolo), Nr¸tya Ratn1aval1ı (XIII secolo), Nr¸tya Ratnakoésa (XIV secolo), Sam•g1ıta Samayas1ara (XIV secolo), Sam•g1ıtopanis¸ats1aroddh1ara (XIV secolo), Nr¸ty1adhy1aya (XIV-XV secolo) e Sam•g1ıta D1amodara (XV secolo). 1

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con il testo di Bharata. E sebbene non ci sia alcun dubbio che il N1at¸yaés1astra possa essere descritto come l’origine di tutti gli stili di danza indiana esistenti, non sembra essere la fonte diretta delle forme di danza classica odierna nella loro totalità2. Il problema che qui si pone è se ci sia o meno una qualche fonte diretta. Potrebbero gli stili di danza attuali essere discesi dalla tradizione deés1ı indicata nel N1at¸yaés1astra? Nel considerevole corpo di materiale bibliografico afferente la danza fino al XV secolo d.C. non ho trovato alcun testo che mostri un legame diretto, in termini di composizioni danzate, con le scuole esistenti. Sam•g1ıta Ratn1akara, Abhinaya Darpan˝a, Sam•g1ıta Makaranda, Manasoll1asa, Sam•g1ıta Samayas1ara, Nr¸tya Ratnakoésa, Sam•g1ıtopanis¸ats1aroddh1ara, Nr¸tya Ratn1aval1ı e Sam•g1ıta D1amodara – tutti questi testi contengono sezioni sulla danza deés1ı, tuttavia i termini o le descrizioni degli stili presentati non concordano con le forme attuali di danza classica. Sembra che dal tempo di Bharata fino al XV secolo la tradizione centrale della danza indiana sia rimasta essenzialmente inalterata. Le tradizioni deés1ı tramandate in annotazioni scritte in questo periodo non sembrano avere un così forte impatto sugli stili di danza. Questa è indubbiamente la ragione per cui gli stili deés1ı non sono sopravvissuti nel periodo moderno. Esiste, quindi, un qualche testo che riporti uno stile deés1ı sviluppato a partire dalla struttura tradizionale principale, tuttavia abbastanza diverso da mostrare una certa originalità? È ipotizzabile una qualche continuità della tradizione? Se sì, quanto antica è la tradizione di tali composizioni? Quale testo le ha registrate? Esiste una tradizione che, sviluppatasi dal sistema di Bharata cambiò in modo abbastanza consistente nei successivi quattro secoli per evolvere in quello che vediamo oggi? La storia della danza, in quel lungo periodo di cambiamento, è rimasta finora inesplorata a causa della scarsità di cronache scritte. La sola cronaca di questo tipo ancora esistente sembra essere il Nartananirn˝aya che, risalente al XVI secolo, potrebbe renderci capaci di colmare il vuoto esistente nell’evoluzione e nella storia della danza. Quest’opera fu scritta per l’imperatore Akbar, a cui l’autore Pun˝d˝ar1 ıka Vit¸t¸hala, la dedicò. Da ciò si deduce possa essere stato scritto in un qualche momento del tardo XVI secolo d.C. (Nartananirn˝aya, 53b). M. Krishnamachariar, nella sua History of Classical Sanskrit Literature, sostiene che Pun˝d˝ar1 ıka Vit¸t¸hala provenisse dal Khandesh3. Secondo Bahura, associato del City Palace Library of Jaipur e del Rajasthan Oriental Research Institute, Pun˝d˝ar1 ıka Vit¸t¸hala fu il poeta di corte di Madho Singh, fratello di Man Singh, sovrano di Jaipur. In una copia del R1agamañjar1ı, un altro trattato di Pun˝d˝ar1 ıka Vit¸t¸hala

2 Si veda Mandakranta Bose, Classical Indian Dancing, General Printers, Calcutta, 1970, pp. 147-164. 3 M. M. Krishnamachariar, History of Sanskrit Literature, Motilal Banarsidass, Delhi, 1974, p. 865.

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sulla musica conservato nel Rajasthan Oriental Research Institute di Jaipur, c’è una nota in un angolo della copia che supporta l’opinione di Bahura. Nel colophon del R1agamañjar1ı è l’autore stesso a dire che il libro fu scritto per Madho Singh. Pun˝d˝ar1 ıka Vit¸t¸hala scrisse cinque opere sulla musica: Sadr1agcandrodaya, R1agamañjar1ı, R1agam1al1a, Sighrabodhin1ın1amam1al1a e Nartananirn˝aya. Nel Nartananirn˝aya, come il nome stesso suggerisce, l’enfasi è posta sulla danza. Il testo contiene quattro capitoli, uno sul ritmo, uno sul tamburo, uno sulla musica e uno sulla danza, sebbene proprio all’inizio del testo l’autore dichiari di volerne scrivere cinque: il quinto, sull’arte drammatica, non lo scrisse mai4. L’importanza di questo lavoro risiede nel fatto che esso collega due separate tradizioni della danza indiana. Nella sua trattazione dei movimenti base segue, come ci si potrebbe aspettare, la tradizione del N1at¸yaés1astra. Ma il Nartananirn˝aya, nella sua ultima sezione, offre anche una descrizione dello stile deés1ı e questo stile mostra in modo preciso la diretta relazione con la danza classica moderna in India. Un altro importante concetto che lega quest’opera alla danza classica moderna è la sua classificazione in due ampie categorie, vale a dire, quella rigorosamente conforme alle regole e quella non conforme. Il Nartananirn˝aya definisce la prima categoria bandha (limitato dalle regole), e la seconda anibandha (non limitato da regole specifiche). Nell’esaminare le due differenti categorie pare abbastanza probabile che la forma bandha si sia evoluta seguendo le regole delle tradizioni esistenti e rispettando la struttura proposta da Bharata. Per quanto concerne la tecnica sembra che questa forma abbia seguito Bharata riguardo i movimenti complessi conosciuti come karan˝a. In due dei maggiori stili classici attuali dell’India del nord, manipuri e odissi, troviamo il termine bandhanr¸tta. Quando chiesi ai danzatori di questi stili cosa il termine significasse per loro, dissero che indicava una danza pura in cui si devono rispettare le più rigorose regole dei movimenti5. Nelle opere sulla musica tale distinzione esiste almeno dal tempo del Sam•g1ıta Ratn1akara (XII secolo d.C.), ma nella danza fu per la prima volta concepita dall’autore del Nartananirn˝aya. In antitesi al bandhanr¸tta l’anibandhanr¸tta si sviluppò oltre la rigida struttura delle regole assimilando influenze esterne e incorporandovi nuovi movimenti e composizioni. Ciò non significa che l’anibandhanr¸tta fosse un tipo di danza completamente differente e che non seguisse mai i movimenti base ma, piuttosto, che contribuì ad aggiungere una nuova dimensione. Per esempio, in questa forma, l’espressività nella danza può essere veicolata non solo attraverso i gesti della mano o i movimenti dell’occhio, ma attraverso l’intero corpo: una mezza luna è indicata dal gesto della mano, come pure dal curvare del corpo in sua guisa.

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Nartananirn˝aya, C1 86a, J1 139a, J2 159a, J4 99A, J6 8A, L1 53b, V1 127A. Rani Kaarna – esponente di spicco della scuola di danza odissi e kathak; Guru Bipin Singh – esponente di spicco dello stile di danza manipuri. 5

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Tale caratteristica stilistica è così differente da quella che troviamo nel bandhanr¸tta, maggiormente limitato dalle convenzioni, che cominciamo a chiederci se non rappresenti l’influenza di nuove tradizioni artistiche riportate dal Medioriente come risultato della conquista mughal. L’esistenza di una base solida per una tale opinione ci è suggerita dalla assai ben visibile influenza persiana nella pittura contemporanea e nelle altre forme artistiche. Nel campo stesso della danza troviamo l’influenza della Persia nei costumi. Ma, nonostante l’apparente derivazione persiana, questo stile di danza relativamente innovativo rimane, per quanto riguarda i suoi movimenti di base, all’interno della struttura dell’esistente tradizione di danza indiana. La fusione diede come risultato la nascita di un nuovo stile il quale, secondo il Nartananirn˝aya, può essere identificato come il kathak, un termine che cominciò a essere applicato alla danza al tempo di Akbar6. Che questo stile di danza rappresenti un punto di partenza nelle composizioni più ampie di danza, piuttosto che nelle unità base di movimento, risulta evidente dalla descrizione data nel Nartananirn˝aya: tale forma di danza è eseguita a diversi ritmi. La canzone d’accompagnamento è cantata usando il linguaggio degli Yavanas, i persiani. La danzatrice tiene il velo, la danza è elegante e piena di movimenti rotatori o Bhramar1ıs ed è accompagnata dalla musica Dhruv1a e éSamy1a. In questa forma di danza descritta dagli studiosi persiani come Jakkad1ı, la preferita degli Yavanas (Nartananirn˝aya, 53a), la varietà dei movimenti è minima. Tale descrizione corrisponde a quella del ghunghat gat del kathak, dove la danzatrice mette la mano destra sulla testa per tenere fermo il velo e con la sinistra lo solleva dal viso mentre avanza con gli occhi abbassati7. Per di più il movimento descritto dal Nartananirn˝aya come cakrabhramar1ı, in cui la danzatrice gira come una ruota, corrisponde al cakkar dello stile kathak8. Così come il gharghara descritto in questo testo è corrispettivo del tatkar dello stile kathak, un movimento che comporta il battere i piedi sulla terra per segnare il ritmo con le cavigliere a sonagli9. Inoltre esistono altre analogie tra le sequenze di anibandhanr¸tta e i movimenti kathak. Ulteriori testi riportanti le tradizioni deés1ı presentano alcune descrizioni di posizioni o movimenti rintracciabili anche nella danza classica attuale, ma il Nartananirn˝aya è l’unico testo in cui intere composizioni di danza vengano descritte in modo dettagliato e corredate dalla musica. Come ho detto precedentemente le de6 D. G. Vyas, Historical Survey: The Background of Kathak, in “Marg”, vol. 12, Bombay, 1959, pp. 4-7. 7 D. G. Vyas, Historical Survey: The Background of Kathak, cit., p.47, Nartananirn˝aya, 53a. 8 D. G. Vyas, Historical Survey: The Background of Kathak, cit., pp. 25-27. N1at¸yaés1astra, ed. R. Kavi, Baroda, G.O.S. vol. 11, 1934, 10.45; Sam•g1ıta Ratn1akara, ed. S.S. Sastri, Madras: Adyar Library, vol. IV. 1953, 7. 958-9; Nartananirn˝aya, 31 b. 9 D. G. Vyas, Historical Survey: The Background of Kathak, cit., pp. 25-27. Sam•g1ıta Ratn1akara, 7. 1306-7.

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scrizioni dell’anibandhanr¸tta possono essere identificate con varie composizioni trovate nello stile sorprendentemente analogo del kathak. Credo che un esame più accurato di ogni bandhanr¸tta e una comparazione con gli altri stili darà lo stesso risultato e che gli stili odissi e manipuri ci permetteranno di capire la relazione in una prospettiva corretta. Il Nartananirn˝aya descrive anche le danze in stile deés1ı rappresentate con l’accompagnamento di canzoni cantate in lingua dr1avi˝da e tailan•ga, le quali, ne sono certo, risulteranno essere relazionate ai maggiori stili di danza del sud dell’India. L’importanza del testo mi fu immediatamente evidente quando per la prima volta cominciai a esaminarlo. Pensai che sebbene non rappresentasse l’unica fonte, tuttavia, poteva contribuire significativamente alla comprensione dello sviluppo della danza classica dell’India moderna. A quel tempo volevo preparare un’edizione critica del Nartananirn˝aya che, sfortunatamente, ho dovuto rimandare per diversi anni. Tuttavia, cominciai a cercare le copie del testo in varie biblioteche e in collezioni private parecchi anni fa. All’inizio della mia ricerca non ebbi molto successo eccetto che per un manoscritto trovato alla Asiatic Society Library di Calcutta: più completo di quello di Londra – contenente un solo capitolo sulla danza – tale manoscritto constava di quattro capitoli. Usai anche un frammento non ben identificato di questo manoscritto pubblicato dal dott. P. Shah del Rajasthan Oriental Research Institute10. Ho ricominciato la mia ricerca e con l’aiuto di una borsa di studio del Social Sciences and Humanities Research Council del Canada sono andato in India nel 1984 collezionando undici manoscritti (Rajasthan, Benares, Calcutta e Londra). La mia ricerca dei manoscritti nelle varie biblioteche e nelle collezioni private non si può dire sia stata un totale successo. Cominciai con il Catalogus Catalogorum di Aufrecht e la sua versione aggiornata di K. Raja. Nel volume IX del catalogo (pubblicato nel 1978) K. Raja classifica undici manoscritti – dieci in India e uno nell’India Office Library di Londra. Tentai di procurarmi le copie dei manoscritti dalle varie biblioteche e dalle collezioni private – (forse un po’ troppo ottimisticamente) durante il mio ultimo viaggio in India. Quando visitai il Rajastan scoprii che la Anup Sanskrit Library di Bikaner era ormai chiusa da diversi anni e solo nell’estate del 1984 ha aperto per un breve periodo. Sfortunatamente, con la rassegnazione dei bibliotecari, la biblioteca è stata nuovamente chiusa. Il Catalogus Catalogorum preparato da K. Raja racconta che un manoscritto del testo dovrebbe trovarsi nella Anup Sanskrit Library di Bikaner. Nel 1947, tuttavia, C.K. Raja e M.K. Sharma hanno redatto un catalogo della Anup Sanskrit Library. Secondo loro c’erano almeno altri sei manoscritti in quella collezione. Il Catalogus Catalogorum di K. Raja non riporta alcuna informazione riguardo queste copie e io non ne posseggo nessuna.

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P. Shah. Ed., Nr¸ttasam•raha, Rajasthan Oriental Research Institute, Jaipur, 1956.

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Con l’aiuto del catalogo della Khasmahal Library del Maharaja di Jaipur preparato da Bahura trovai altri sette manoscritti del testo in microfilm nella biblioteca. Li fotocopiai tutti. Non erano presenti nel Catalogus Catalogorum. Alla Benares Hindu University individuai, e fotocopiai, un’altra copia del manoscritto legata al Sam•g1ıt1anup1am•kuésa di Bhavabhatta. La Sanskrit University di Benares possiede inoltre un’ulteriore copia, sebbene in frammenti (quattordici folios), che non ho potuto ottenere – la sezione del manoscritto era sigillata e non ho ottenuto il permesso di accedervi. Nessuno di questi manoscritti è menzionato nel Catalogus Catalogorum. Si ritiene che nelle biblioteche di Jammu e di Ujjain si trovino copie del mio testo ma, durante il mio soggiorno in India durato da settembre a dicembre 1984, non sono riuscito a visitarle. Ho acquisito le copie dei microfilm dei manoscritti della Asiatic Society di Calcutta e dell’India Office Library. Il Catalogus Catalogorum è quindi incompleto (elenca, infatti, undici manoscritti). Io ho personalmente individuato diciannove esemplari di cui undici in mio possesso.

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Uno studio sul teatro etnico filippino di Nicanor Tiongson - Ramon M. Obusan

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“Dulaan”, CCP, Manila, 1992, pp. 4-33

Nelle Filippine il teatro indigeno si basa su rituali, danze e usanze mimetiche sviluppatisi, attraverso i secoli, dal popolo nativo come parte essenziale di uno stile di vita in armonia con la natura, con se stessi e gli altri. Molte di queste performance prosperano ancora oggi conservando la loro forma tradizionale in comunità culturali – pari al 5% della popolazione totale – non completamente occidentalizzate come Bontoc, Isneg, Kalinga, Ifugao, Mangyan, Tagbanua, Palawan, Manobo, Bukidnon, Bagobo, Maranao, Maguindanao e Tausog. I rituali Come ogni popolo indigeno del mondo i nativi Filipinos credevano in un pantheon di divinità animiste capaci di controllare le forze della natura, i passaggi nella vita di tutti gli esseri e le attività della tribù. La varietà delle divinità è tanto interessante quanto infinita. Le più diffuse, tuttavia, sarebbero quelle risalenti al XVI secolo tipiche dei Tagalog: Bachtala, anche noto come Mulayri, creatore e protettore di ogni cosa; Lacambaco, dio dei frutti della terra; Oinon Sara, dio dei campi e delle montagne; Lacapati, colui che dona l’acqua ai campi e i pesci ai pescatori; Hayc, dio del vento, delle tempeste, delle burrasche e della luna, adorata quando nuova poiché provvede salute e lunga vita. I Tagalog adoravano anche gli spiriti ancestrali chiamati nuno che, librandosi nell’aria, infliggono o guariscono le malattie. Per comunicare con divinità e spiriti erano, e sono a tutt’oggi necessari, speciali medium. Questi sciamani, spesso anche erboristi, veggenti e consiglieri della tribù, godono di particolari privilegi e possono essere chiamati babaylan, tambalan, mambunong, mumbaki, marayawan, manalisig o arbularyo. Esistono molti tipi di rituali, ma quello a maggior carattere teatrale vede il sacerdote cadere in trance posseduto dallo spirito o dagli spiriti da lui invocati. Al culmine della trance lo sciamano prende una lancia o un coltello e uccide un animale sacrificale che rappresenta il supplicante. L’animale sacrificato può essere un

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pollo, un maiale o un carabao [bufalo d’acqua – ndt], dipende dalla gravità dell’ira dello spirito da placare o dall’urgenza della richiesta presentata. La struttura rituale, in cui lo sciamano ricopre il ruolo del dio e l’animale quella del supplicante, fa sì che il sacrificio rappresenti chiaramente l’uccisione di quest’ultimo da parte dello spirito. Attraverso i secoli, fino a oggi, tali rituali – noti come pagaanito, anituan, anitobailan, bunong, pagdiwata, pag-anyo, marayawu, dawak e baki tra gli altri – sono stati rappresentati per propositi diversi: 1) per guarire da una malattia, 2) per assicurare un buon raccolto, 3) per favorire la caccia, 4) per il controllo delle pestilenze, 5) per la protezione dei neonati, 6) per l’iniziazione di un giovane bambino e 7) per benedire un matrimonio. Nel 1890 il viaggiatore tedesco Meyer descrisse un rituale di malattia-guarigione svolto tra gli Igorot. Gli Igorot credono che la malattia sia provocata da un anito per punire il mancato rispetto degli obblighi e dei doveri nei suoi confronti. Se la malattia peggiora si esegue un rituale in cui il mambunong sacrifica un maiale e usa il suo sangue per consacrare la fronte e le guance dei parenti della persona malata. Il sangue non può essere lavato fino a quando il malato non guarisce o muore. Oggi questa struttura rituale è mantenuta nel baboy del Talaingod, dove lo sciamano squarta un maiale per chiedere aiuto al diwata [divinità indigena – ndt] nel curare la malattia. Una variazione del suddetto rituale si trova nella danza eseguita dallo sciamano per spaventare la malattia. Tra i Baluga di Nabuklod, Florideblanca, gli infermi siedono per terra, in fila, coperti da un lungo panno rosso rappresentante la condizione di malattia in cui si trovano. Appena il gitada (chitarra nativa) suona il manganito o i sacerdoti danzano e spaventano gli spiriti causa del male utilizzando un bolo [grande pugnale – ndt] per farli fuggire, oppure per persuaderli a lasciare l’infermo offrono loro del cibo su foglie di banano e collane di perle. Verso la fine della danza il panno rosso viene lentamente tolto per denotare la partenza degli spiriti maligni. Se, dopo questi rituali, il malato non guarisce è perché non lo merita. I rituali connessi al raccolto implicano di solito, come ringraziamento, l’offerta di un sacrificio. Nel hinaklaran dei gruppi Bukidnon in Mindanao, un palchetto di bambù e dongla [foglie rossastre intrecciate a penne di pollo – ndt] viene eretto in un campo aperto e quindi caricato con offerte di noci di betel, vino e dolci di riso, candele e con il panno rosso così gradito agli dei. La babaylan principale rivolge le pag-ampo (preghiere) a Evavasok, dea della stagione dei raccolti, ringraziandola per il raccolto. Poi tre o quattro donne si uniscono alla babaylan nella preghiera e nel dugso (danza), nella quale le donne si tengono per mano battendo i piedi sul terreno mentre compiono un girotondo attorno all’altare. Il rituale, della durata di sei ore, raggiunge il suo climax quando Evavasok possedendo la babaylan sorseggia attraverso di lei il vino dimostrazione e risultato di un buon raccolto. I sacrifici vengono offerti sia per prevenire che per controllare disastri naturali o compiuti dall’uomo, come la distruzione di un raccolto, gli attacchi nemici, le epi-

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demie della sifilide dei polli, la febbre tifica e la diarrea. Quando un fulmine colpisce un campo, o quando una stella cadente sfreccia attraverso il cielo, gli Igorot credono che Kabunyan sia irato e che voglia punirli per le loro cattive azioni. Per prevenire la punizione lo sciamano squarta un maiale e impala la testa dell’animale su un bambù nel luogo colpito dal fulmine. I rituali che sanciscono i passaggi nella vita dell’uomo furono e sono spesso a carattere rappresentativo. Nel 1608 Domingo Perez descrisse un battesimo rituale tra gli Zambal1. Quando un bambino Zambal raggiunge una certa età i suoi genitori eseguono un pag-anito per iniziare il bambino alla vita tribale. Dopo che il bambino ha indossato i suoi abiti migliori il bayoc (sacerdote) gli scioglie i capelli e vi lega alcuni pezzi d’oro. Quindi il bayoc danza e in trance uccide un maiale sacrificale raccogliendone il sangue in un contenitore e versandolo poi sul bambino. Terminato il battesimo lo sciamano taglia le punte dei capelli su cui era attaccato l’oro e le lancia agli spettatori che si azzuffano per le preziose ciocche. Le persone più prossime al bambino cantano canzoni, mentre gli spettatori più lontani rispondono con altri canti. Sancendo un cambiamento radicale nella vita dell’uomo, il matrimonio viene santificato dai rituali. Tra gli Umayamnon il matrimonio è reso formale dall’incontro tra i rappresentanti dello sposo e della sposa che avviene sedendosi su una stuoia per commerciare chicchi di mais, sostituti simbolici di cavalli, gong, riso, monete e stoffe rosse. Quando la dote è pronta le due parti si scambiano una noce di betel e la masticano per suggellare il patto. A questo punto lo sciamano uccide un animale sacrificale nelle vicinanze, dopo di che la sposa e lo sposo lasciano la stuoia su cui erano rimasti seduti e pestano il maiale per significare che essi, come il supplicante incarnato dall’animale, offrono se stessi agli anito. L’animale viene poi pulito e cucinato per il banchetto nuziale. Danze mimetiche La seconda importante categoria di teatro indigeno è rappresentata dalle danze mimetiche che possono 1) imitare i movimenti degli animali di aria, terra e acqua; 2) descrivere movimenti associati ad attività tribali, come quelle politiche (combattimenti in guerra e caccia alle teste), economiche (coltivazione del riso, pesca e caccia) o personali e sociali (educazione dei bambini, corteggiamento e morte); 3) rappresentare episodi presi o ispirati dalla tradizione epica della tribù. Sebbene la maggior parte delle esecuzioni di tali danze rientrino oggi all’interno delle festività della tribù come danze sociali, non c’è dubbio che queste assolvessero a funzioni ancora mantenute al di là del puro divertimento.

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Fray Domingo Perez, O. P., Relation of the Zamblas, Blair and Robertson, vol. 47, 1973, p. 303.

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Data la loro quantità e varietà nell’Arcipelago, gli uccelli hanno ispirato un gran numero di danze tra le comunità culturali. Nel kadal blila dei Tiboli giovani ragazze, in magnificienti costumi ricamati con gioielli di perle, portano attorno al collo un malong (gonna a tubo) lasciando che questo cada in avanti come un’ampia e tonda cravatta. Le mani sono inserite nelle due estremità più basse del malong in modo da formare un triangolo. Mentre eseguono il familiare movimento del passo saltato al ritmo dei gong e dei tamburi, per simulare un uccello in volo le mani compiono movimenti ondulatori con il malong. Altre notevoli danze d’uccello sono quelle di Tauzog, rappresentanti il martin pescatore, il gabbiano e il piovanello. Il linggisan, o danza del piovanello, è eseguito da una singola donna con l’accompagnamento di un ensemble di kulintang [strumento musicale formato da gong tipici della zona di Mindanao – ndt]. Indossando una camicia tradizionale e dei larghi pantaloni, la danzatrice esegue movimenti pangalay [danza tradizionale caratterizzata da movimenti delle mani – ndt] che con passi affettati e gesti fluidi delle braccia e delle dita suggeriscono la grazia del gabbiano nel momento in cui si libra sopra le vaste distese del mare di Sulu. Alcune volte le danze d’uccello possono narrare una storia. Nel paypayto degli Ifugao al suono della musica dei gangsa [tipo di gong – ndt] alcuni danzatori piegati, per rappresentare il volo verso l’alto che gli uccelli compiono abbandonando il proprio ramo per salvarsi dal cacciatore, tengono a terra delle bacchette saltandovi dentro e fuori. Altre danze d’uccello sono la talikpeterekterek (danza del picchio) dei Baluga di Pampanga, accompagnata dalla negrita gitada (chitarra); il bumbuak dei Gaddang che è accompagnato da gong; il burbudsil (picchio) dei Talaandig, eseguito al ritmo di inagung [tipo di gong – ndt]; il bubudsil (bucero), il binanog (falco) e le danze kakayamatan (altro uccello) di Manobo, che possono essere accompagnate da gong o da salurai [chitarra indigena – ndt]; il tarektek (tipo di uccello) di Ibaloi eseguito con l’accompagnamento di gangsa. Altre creature dell’aria rappresentate nelle danze sono la farfalla, come si vede nel balamban di Isabela e nel kabal kabal dei Tausog in cui i danzatori utilizzano ali di farfalle fatte di stuoia; l’anatra, come esemplificato dal talig bibi dei Baluga; e la mosca, rappresentata nel talik lango, anche questo tra i Baluga di Pampanga. Tra gli animali terrestri la scimmia ha catturato l’immaginazione di molte comunità. Gli Ikalahan posseggono una delle più sensibili e divertenti interpretazioni della scimmia. Al suono dei gangsas i danzatori, con gambe piegate e corpi accovacciati, camminano in punta di piedi in circolo, con le lunghe braccia a battere sui fianchi e a funzionare da zavorra o da piedi supplementari. Con le teste protese in avanti le scimmie si grattano il cuoio capelluto, si dilettano a togliere i pidocchi sulle proprie teste e su quelle delle loro compagne. Eseguita con un perfetto controllo muscolare, la danza riproduce gli esatti movimenti della scimmia e li raffina in una danza che è contrassegnata da sagacia, bellezza, e da una non comune abilità artistica. Altre danze scimmiesche sono la inamong dei Matigsalug; il talik bake dei Balu-

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ga in cui il danzatore, usando una corda a forma di G che ricorda una lunga coda dondolante dai rami dell’albero, va in giro infastidendo bambini e adulti; il kadal iwas di Tiboli, che presenta le scimmie mentre giocano con le foglie secche di banano; e il langka baluang dei Tausog. Una danza molto interessante e faticosa è il binakbak dei Higaonon, dove gli uomini, seduti in posizione del loto usano le mani per saltare imitando il movimento delle rane. Divertenti, inoltre, sono le kinugsik-kugsik degli Agusan Manobo che mostrano due scoiattoli maschi saltellare su e giù mentre corteggiano una femmina di scoiattolo, e lo igal kussak dei Tausog, in cui un cinghiale selvaggio tenta invano di rompere una noce di cocco e alla fine la scalcia sconsolato. Divertenti sono lo italik baraki dei Pampanga Baluga, rappresentante un bayawak [grande lucertola lunga circa novanta centimetri – ndt] che nuota con le braccia e le gambe nella polvere; e il pagkamura dei Tausog, dove un danzatore e una danzatrice ritraggono i movimenti della cicala di mare. Fra le danze riproducenti le attività tribali quelle riferite alla guerra sono le più diffuse tra le comunità indigene. Rappresentate durante le riunioni sociali assumevano un significato speciale quando eseguite in relazione alla circoncisione dei ragazzi di dieci o undici anni. William Dampier descrive il contesto di una danza di guerra a cui assistette nel 1687 tra i Maguindanao. Dopo i riti di circoncisione svolti durante la mattina, i ragazzi venivano fatti sedere in un grande circolo nella piazza di fronte alla abitazione del Sultano per osservare i guerrieri della tribù mentre eseguivano la danza. Con un fiero urlo un guerriero, in completa bardatura da battaglia, salta nel circolo, si pavoneggia tenendo spada e lancia, poi fissa un suo immaginario nemico e lo sfida a duello. Battendo i piedi e agitando la testa fa smorfie e boccacce per spaventare il suo antagonista. Butta a terra la lancia, estrae il kris, e selvaggiamente mena colpi in aria gridando come un folle. Alla fine, stanco per la battaglia, piomba sull’immaginario nemico al centro del cerchio e con due o tre colpi del kris lo decapita dopo averlo ucciso. Si allontana dal cerchio e un altro guerriero prende il suo posto. La danza continua per tutto il giorno e termina solo dopo che il Sultano, patrocinatore della celebrazione, ha mostrato la sua abilità nella stessa2. Oggi la danza di guerra sopravvive, più o meno nella medesima forma, tra molti gruppi etnici di Mindanao e Sulu. Tra i Talaandig il saot (danza guerriera) è eseguito da uomini vestiti con i tradizionali calzoni al ginocchio, le casacche e il tangkulo (copricapo), indice del coraggio dell’uomo. Gli uomini comuni che non hanno tagliato alcuna testa indossano un tangkulo marrone, mentre chi ha ucciso più di dieci nemici, o almeno un uomo di prestigio o un grosso serpente, ne sfoggia fieramente uno rosso. Alla musica dei tangungo, un insieme di otto gong di varie

2 William Dampier, A new voyage around the world, in Travel accounts of the islands (1513-1787), Filipiniana Book Guild, Manila, 1971, pp. 55-56.

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dimensioni sistemati su una rete di corde sopra a un treppiede, uno o due uomini compiono regolari passi saltati agitando fieramente il loro kalasag (scudo) e brandendo la loro bangkau (lancia) o la loro kampilan (spada) in aria. Eccitandosi a vicenda con le urla e incitati tanto dalla musica quanto dagli spettatori, i guerrieri compiono dei larghi cerchi o girano sul posto. Essi si acquattano come se puntassero il nemico, poi si alzano, puntano e colpiscono con le loro armi i propri rivali, quindi s’inchinano davanti ai propri scudi come a ringraziarli per aver parato i colpi di immaginarie lance e spade. Pressoché identica è la danza guerriera ritrovata tra i Tagaloanon, Bukidnon, Umayamnon, Higaonon, Tigwahanon e Matigsalung – chiamata saot, eccetto per gli ultimi due gruppi dai quali è denominata kalasag. Analogo è anche il sagayan di Maranao in cui guerrieri in elmetti piumati, pantaloni attillati e corte gonne sovrapposte scuotono i loro lunghi e sottili scudi (decorati con pietre, campane, o conchiglie di ciprea) saltano, si abbassano, girano e si muovono su e giù roteando i kris o menando colpi in aria, urtandosi a mezzaria come galli combattenti. Alcune volte le danze di guerra adattano i modelli descritti sopra all’occasione in cui vengono rappresentate. Tra gli Yakan la danza del tumahik (pavone) è eseguita, con la musica di un ensemble di kulintang, dai parenti maschi dello sposo di fronte all’abitazione della sposa; mentre lo sposo siede accanto alla sposa (condotta fuori dalla sua abitazione per i rituali del matrimonio), ogni singolo uomo – e lo stesso sposo per breve tempo – indossando un pis (copricapo) e usando un bangkaw (lancia) e un tondo kalasag (scudo) mostra le proprie abilità nel combattimento per dimostrare alla sposa e ai suoi parenti che la loro è una famiglia di valorosi guerrieri. Tra i gruppi del nord di Luzon più diffuse delle danze guerriere sono le danze dei cacciatori di teste. Nel tardo XIX secolo Schadenberg descrive una danza di cacciatori di teste tra gli Igorot. Credendo che una testa debba essere tagliata per propiziare la stagione di semina e raccolto del riso (più sono le teste meglio è), i guerrieri Igorot lasciano il loro villaggio in cerca di uomini o donne cui poter tendere un agguato. Per prima cosa colpiscono la vittima, poi procedono col tagliare mani, piedi e testa per portarle al villaggio. Durante la celebrazione vengono suonati i gangsas, mentre i cacciatori eseguono una danza d’armi “rappresentante l’attacco e la difesa”, e la “usuale danza composta dal camminare in circolo e dai movimenti della parte superiore del corpo e delle braccia”3. Oggi la caccia alle teste viene ancora praticata dai Kalinga nel caso in cui un accordo venga rotto. I nemici tribali sono attaccati e uccisi e le loro teste appese al centro del villaggio. Le donne danno il benvenuto a chi ha portato le teste, i mingers (cacciatori vittoriosi), mettendo loro al collo lawi o corone di penne di coda di

3 Alexander Schadenberg, The Ethnography of Northern Luzon, in German Travelers on the Cordillera, Filipiniana Book Guild, 1975, p. 147.

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gallo. Alla musica dei gangsas i mingers rappresentano la danza pattong attorno alle teste poggiate su mortai di legno. I bodan (chi ha fallito nella caccia alle teste), invece, vengono relegati a suonare i gangsa per ricordare loro che dovranno impegnarsi più duramente la prossima volta e tornare vittoriosi. Le donne si uniscono alla danza in un secondo momento. Essendo necessarie alla loro sopravvivenza, le danze che descrivono le attività economiche abbondano tra le comunità. La semina del riso è il soggetto più comune delle danze etniche. Un corteo di bilaan maral (danze) descrive le fasi della semina del riso, vale a dire: il mabah, l’almigo, l’amla, il kamto – rappresentate in sequenza al suono della musica di tangungo, agon e tamburi. Nel mabah un contadino arriva nello spazio riservato alla danza cercando il posto giusto per fare kaingin. Egli prega per l’auspicio, aspetta il richiamo dell’uccello sacro e conficca due bacchette nella terra indicando la direzione da cui ha udito il richiamo. Se le bacchette si inclinano le estrae e si sposta in un’altra zona aspettando un nuovo richiamo. Continua a muoversi da un posto all’altro fino a che le sue bacchette rimangano più o meno dritte a indicare la vicinanza dell’uccello al posto scelto. Dopo aver accertato quale sarà l’area del kaingin il contadino prende una noce di betel e la offre allo spirito, cosicché possa masticarla assieme a lui. Fatto ciò procede svolgendo l’almigo (il liberare) chiamando altri uomini per aiutarlo a disboscare la boscaglia incolta mentre le donne portano loro il cibo. Dopo aver tagliato le piante selvatiche il contadino inizia a bruciare i rami tagliati e quindi comincia l’alma (semina). Gli uomini, a una velocità sostenuta, praticano buchi nella terra con i loro todak (lunghi pali), all’estremità superiore dei quali sono applicati dei battagli. Seguendo da vicino gli uomini le donne lasciano cadere i semi di riso dentro i buchi fatti col todak e, subito dopo, coprono i semi con la terra usando i piedi. Intanto i bambini saltellano avanti e indietro riempiendo la cesta delle donne con i semi di riso. Dopo pochi secondi le donne giungono nuovamente, questa volta per fare il kamto (raccolta). Usando piccole e affilate falci tagliano le cime del grano e le depositano in ceste poste sulle loro spalle. Poi battono l’immaginario riso disteso su una stuoia, quindi lo spulano con ceste piane e tonde. Nella dieta di molte comunità rientrano anche i tuberi e per tale motivo figurano in alcune danze native, fra cui il gabi [radice commestibile simile alla rapa – ndt] del Kamarines Ayta: una donna si reca in un vicino fiume e comincia a scavare raccogliendo alcuni gabi rappresentati da pietre tonde giacenti lì attorno. Una delle danze più gradevoli, tuttavia, è il pangamote, o danza della raccolta di camote [specie di patata dolce, ipomola batatas – ndt] degli Higaonon in cui si racconta una storia edificante. Al suono dei tamburi nativi una donna, in costumi tradizionali, arriva tenendo una cesta nella mano sinistra e una bacchetta nella destra. Curvandosi e chinando la testa pare si stia nascondendo da qualcuno. Assicuratasi che nessuno si trovi nelle vicinanze comincia a dissotterrare l’immaginario camote con la sua bacchetta lanciandolo velocemente nella cesta. Sfortunatamente la mo-

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glie del proprietario la sorprende e cerca di afferrare la cesta della ladra. La ladra le chiede misericordia, si strofina lo stomaco per dire che è affamata e asciuga lacrime immaginarie dagli occhi. Esasperata, la proprietaria conduce la ladra fuori dall’appezzamento coltivato a patate. Per integrare la loro dieta di base le comunità raccolgono miele e vanno a caccia di uccelli, animali selvatici e rane. Il Bilaan admulak (danza della caccia all’uccello) è caratterizzato dalla presenza di quattro uomini armati di arco e frecce. Essi si chinano, per evitare di essere visti dagli uccelli, e di tanto in tanto guardano in su quando odono il canto di qualche volatile (prodotto dai compagni fuori dell’area performativa). Individuato l’uccello un cacciatore prende la mira e scocca la freccia. La preda cade e immediatamente i cacciatori preparano un fuoco. L’uccello è conciato e cucinato, ma solo il cacciatore che lo ha colpito se ne ciberà una volta cotto. L’uomo, ingordo, si ammala, vomita e giace a terra. Viene chiamata la sciamana la quale fa mangiare all’uomo il fiore del sacro albero bunga, mentre quattro donne puntano le mani nella sua direzione per accrescere il potere della sciamana. Dopo aver pregato gli dei per la guarigione dell’uomo, la sciamana e le donne lo alzano da terra, lo sostengono, e gli muovono le braccia come se lo riportassero in vita. In pochi minuti il paziente rinviene e comincia a compiere passi più decisi. Estendendo le braccia girando in tondo sul posto e per l’intero circolo, il cacciatore malato rinasce e danza come un uccello, forse diventando proprio quello che aveva colpito e mangiato. Le danze della caccia alle api sono esemplificate dal pinapanilan dei Baluga di Pampanga. Qui un uomo Baluga danza con l’accompagnamento della gitada in un circolo di bambini e adulti. Finge di camminare nella foresta. Si ferma appena vede su un albero un alveare (rappresentato da un pezzo di stoffa attaccato sulla cima di un palo di bambù). Felicissimo cerca di arrampicarsi ma viene punto dalle api. I bambini ridono quando con le mani cerca di ucciderle o di cacciarle via. Il cacciatore poi accende un fuoco per allontanare col fumo gli insetti e si arrampica per cogliere l’alveare tornando a casa felice con il suo bottino. Una danza sociale rinvenibile tra i Matigsalud è il panilo, o danza della caccia alle rane. Uomini in costumi tradizionali arrivano con piccole ceste legate dietro alle cinture e usando delle torce cercano di individuare le rane nella notte. Per primo un cacciatore ne vede una, la colpisce (di solito una foglia prende il posto della rana) e prontamente mette il bottino nella sua cesta. Mentre la danza procede un cacciatore individua un serpente (una cintura di perle posta sull’erba prima che la danza iniziasse) e coraggiosamente lo colpisce col suo bolo. Il serpente lo attacca ma egli riesce a spostarlo a calci e con un colpo deciso lo uccide, lo carica e lo porta a casa. Poiché la maggior parte delle comunità vive nelle vicinanze di bacini d’acqua, la pesca è diventata la principale risorsa di cibo. Importanti danze della pesca sono l’amti dei Bilaan e il tauti dei Samaldi Tawi-tawi. Nell’amti un singolo danzatore arriva carico di ceste per catturare i pesci e, nel disporre il suo bubo (trappola) in

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un ruscello poco profondo (o sulla terra se non c’è il ruscello), blocca le trappole con alcune pietre in modo che queste non vengano portate via dalla corrente. In seguito prende i tubla (radici velenose), li batte con una pietra e li spreme nell’acqua affinché la loro linfa stordisca i pesci. Nell’attesa accende un fuoco sfregando due bastoncini e poi torna a ispezionare le sue trappole trovandole piene di pesci che prontamente inserisce nella cesta appesa alla cintola. Soddisfatto smantella le trappole e si dirige verso casa. Importanti quanto le attività della comunità sono le fasi e i riti di passaggio svolti durante la vita. Una danza che rappresenta una scena d’infanzia è il sinuhon no bata (pianto di bambino) dei Matigsalug. Un uomo adulto, in costumi tradizionali, giace in posizione fetale su una stuoia riproducendo con la bocca e le mani nude il gemito di un bambino che piange. Mentre danza al suono dei tamburi e del tangungo una donna, presumibilmente la madre del bambino, cerca di calmarlo con una ninna nanna. Il bambino continua a piangere. Poiché il bambino è senza dubbio malato la madre chiede al marito di chiamare il baylan, il quale danza e recita la panubad (preghiera) per chiedere agli spiriti di curare il bambino, ma anche dopo molte suppliche e danze il bambino muore. Maggiormente popolari e diffuse, tra tutti i gruppi etnici, sono le danze di corteggiamento. Il prototipo della danza di corteggiamento può essere visto ad esempio nella comunità etnica dei Bilaan in cui, nella Ye Dayon (canzone di corteggiamento), si rappresenta un giovane uomo con un saluray (chitarra nativa) mentre danza attorno a una fanciulla che suona un kolesing (cetra di bambù); oppure tra i Bago e gli Itneg nella Cordillera, i quali hanno un serie di canzoni e danze di corteggiamento rappresentate non da un ragazzo e una ragazza, ma da una schiera di giovani ragazze e un’altra di giovani uomini che cantano a turno. Fra i Talaandig la competizione femminile per l’uomo diventa leggermente più animata. Il pig-agawan è rappresentato, con la musica basal degli agongs, da tre donne e un uomo. Bellissime nei loro costumi tradizionali le tre donne, a volte sorelle, cugine o vicine di casa, scuotono – a destra, a sinistra, sopra e sotto – i loro tubaos (fazzoletti) con le due mani e, muovendosi a un ritmo regolare di passi saltati, circondano l’uomo cercando di attrarlo spintonandosi tra loro. La competizione spesso si trasforma in una lotta e alla fine le donne lanciano i propri tubaos a terra: l’uomo mette il suo bolo sul tubaos della donna prescelta. Una danza non solamente incentrata sul corteggiamento, ma che racconta pure la storia che ne è alla base, è il pandango (sogno) dei Maigsalug. Questa danza mimetica narra la vicenda di una donna sterile che sogna di generare e crescere un bambino (una donna sterile viene ostracizzata nella società Matigsalug). Rappresentata solitamente dentro una casa, la danza è accompagnata dai kudlong (chitarre native), flauti di bambù, un kubing (scacciapensieri) e dal battito delle mani. Una donna entra tenendo fra le braccia un malong sistemato in modo da sembrare un bambino, lo dondola ovviamente allietata dal figlio per il quale aveva a lungo aspettato. La donna esce e rientra, questa volta con una piccola bambina al segui-

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to. Le due si muovono assieme in circolo ed escono; subito la donna rientra con un’adolescente che diviene il centro delle sue attenzioni. Prima di uscire madre e figlia danzano e la madre mette una collana di perle attorno al collo della ragazza. Alla fine la madre entra con una giovane donna sulle cui spalle pone un malong. Mentre la giovane donna danza con questo simbolo di femminilità arrivano il primo e il secondo pretendente. Entrambi le danzano attorno, e la madre rimane a guardia della preziosa figlia. Il secondo pretendente mette una collana di perle attorno al collo della ragazza, lei la getta via ma la madre la raccoglie rimettendola al collo della figlia a significare la sua approvazione verso il secondo pretendente. La ragazza, però, la respinge per la seconda volta e il primo pretendente mette a sua volta la collana attorno al collo di lei. La ragazza la accetta, ma la madre mostra la sua obiezione e di nuovo il secondo pretendente si ripresenta con la collana venendo per l’ennesima volta respinto. La madre insiste ma la ragazza è risoluta e accetta nuovamente la collana del primo pretendente. La competizione s’intensifica fino a che i due pretendenti sfoderano i loro bolos. Mentre si scontrano come galli la madre, confusa, interviene assieme alla figlia per fermare la lotta. I due, però, continuano a combattere… fino alla morte. Alla fine la giovane donna piange sul proprio destino e la madre è costernata per essersi intromessa nel corteggiamento. Il rapimento delle donne, più che il corteggiamento, è il tema di alcune danze mimetiche. Il binabayani dei Baluga di Pampanga vede un uomo con una corda a forma di G gironzolare al suono della gitada (chitarra locale). Egli punta una donna che raccoglie patate nel campo e come un falco danzante la afferra piombandole addosso e costringendola a seguirlo. La coppia si muove verso un’altra sezione del campo continuando a danzare. Nel frattempo i parenti maschi della ragazza scoprono il ratto e decidono di scovare il rapitore usando arco e frecce. Una volta trovata la coppia si svolge una lotta tra i parenti della ragazza e il rapitore, lotta che si conclude con la resa di quest’ultimo. Per riparare all’offesa il rapitore offre bolos, archi, frecce e altri oggetti in cambio della ragazza rapita. I Bilaan posseggono una serie di danze che eseguono in sequenza il ratto di una donna, il duello tra rapitore e marito e il funerale del rapitore. La prima danza, chiamata amlad, rappresenta una donna aggredita mentre cammina nella foresta. Spaventata cerca di fuggire, ma il rapitore le blocca le mani e la conduce con sé. Dopo poco arriva il marito che sfida il rapitore a duello con i bolos (asdak). I due combattono danzando fino alla morte del rapitore. Due uomini portano il corpo in processione per il funerale (narong) e nel frattempo quattro donne, rappresentanti i parenti dell’uomo, si azzuffano tirando mani e piedi del cadavere in tutte le direzioni per mostrare il loro affetto. Infine esiste un piccolo gruppo di danze che mette in scena episodi epici. I Maranao posseggono la famosa singkil, in cui si rappresentano episodi dell’epica Daranghen, dove il principe Bantungan si reca in montagna a caccia di spiriti maligni e garuda [uccello della mitologia hindu – ndt] per salvare la principessa Gandingan. Gli spiriti cercano di uccidere Bantungan lanciando alberi sul suo cammino,

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ma egli è abile a schivarli. Intanto un terremoto squarcia la terra e Gandingan riesce a evitare la voragine balzando con grazia da un punto all’altro. Alla fine Bantungan la raggiunge e conducendola con sé la sposa. Durante la danza Bantungan si muove lestamente attraverso un gamut [termine generico che indica un ampio insieme di oggetti – ndt] di scudi rumorosi tenuti da due schiere di soldati. Gli scudi rappresentano la battaglia con gli alberi, mentre per rappresentare il suo evitare gli squarci della terra e gli spiriti Gandingan salta graziosamente dentro e fuori otto paia di canne di bambù disposte a quadrato.

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Un grande artista dei nostri tempi di Chang Keng

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“Chinese Literature”, n. 11, Beijing, 1962, pp. 84-100

Per oltre mezzo secolo Mei Lan-fang è stato il più popolare esponente dell’Opera di Pechino, acclamato in egual misura da profondi conoscitori e da ampie masse di lavoratori e contadini. La sua arte, infatti, fu uno dei sommi risultati del teatro cinese degli ultimi mille anni. Egli conobbe a fondo e quindi sviluppò le migliori caratteristiche dell’arte scenica tradizionale evolutasi nel corso di venti secoli, tuttavia il suo teatro fu facile da capire e da apprezzare. Il fatto che i vari ruoli femminili da lui creati attrassero il pubblico poco colto della vecchia società o gli stranieri incapaci di comprendere il cinese, prova come fosse il più grande attore di questa generazione in Cina e uno dei principali attori dei tempi moderni. Mei Lan-fang visse durante un periodo di eccezionali rivolgimenti che in Cina determinarono grandi cambiamenti nell’arte e nella cultura, teatro incluso. Le condizioni storiche che lo influenzarono possono comunque essere individuate assai prima. È difficile dire con esattezza quando l’Opera di Pechino apparve per la prima volta, ma sappiamo che diversi tipi di opere locali, giunte a Pechino come quelle di Anhwei e Hupeh, assorbirono alcune pregiate caratteristiche dell’Opera Kunchu originata in Kunshan, Kiangsu, e amalgamandosi gradualmente, circa cento anni addietro, formarono l’opera nazionale principale erede delle passate tradizioni. Questo processo richiese un tempo abbastanza lungo e quando fu prossimo al completamento apparve una genia di valenti attori. Fu l’apogeo dell’Opera cinese, e il tempo in cui Mei Lan-fang entrò nel teatro. Lo sviluppo dell’opera fu discontinuo. Mentre notevoli artisti come Cheng Chang-keng e Tan Hsin-pei riformarono i vecchi ruoli maschili dell’Opera di Pechino a cavallo del secolo attuale [XX secolo – ndt], l’arte dell’interpretazione dei ruoli femminili, sebbene Wang Yao-ching stesse cominciando ad abbandonare le rigide convenzioni che governavano i ruoli ching-yi (donna rispettabile) e hua-tan (giovane donna frivola) durante il primo decennio del secolo, continuava a rimanere indietro. Sfortunatamente questo talentuoso attore perse la voce durante i suoi primi quarant’anni, cosicché il compito di perfezionamento dei ruoli femminili ricadde su artisti più giovani; uno di questi fu Mei Lan-fang. Certo nessuno poteva prevedere che sarebbe stato lui ad adempiere a questo storico compito. Tale

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impresa formulò ai giovani artisti di quella generazione richieste rigorose, e chi lavorò più duramente portò infine a termine il compito. Mei Lan-fang non mostrò il suo grande talento in giovane età e nemmeno apparì in alcun modo promettente in prospettiva. Suo zio ricorda che quando cominciò a praticare il training impiegò talmente tanto tempo a imparare quattro versi tradizionali che l’insegnante lo lasciò perdere, come caso senza speranza, dicendo: “Gli dei non ti hanno destinato a salire sul palcoscenico!”. Mei Lan-fang ottenne quanto ha ottenuto solo perché si sottopose a un duro lavoro. Non si dedicò solo al canto e alla recitazione, curò molto anche le mimiche, il portamento e le acrobazie, così da riuscire a recitare differenti parti e a rompere le convenzioni dei ruoli ching-yi e hua-tan per creare un proprio stile personale. Questo precoce e intensivo addestramento sui fondamentali, inoltre, gli permise di restare attivo e creativo fino a tarda età. Mei Lan-fang era già ben noto quando intraprese uno studio serio dell’Opera Kunchu procurandosi l’aiuto degli attori veterani di quella scuola. Negli anni trenta, inoltre, a Shangai studiò canto e recitazione con Ting Lan-sun e Yu Chen-fei, due esperti attori della scuola Yu. L’Opera Kunchu gli diede una miglior comprensione delle secolari tradizioni del teatro classico cinese, con la sua sintesi profonda di canto, recitazione e danza, ed egli imparò a creare nuovi ruoli nel solco della tradizione stessa. Ciò stimolò anche il suo interesse verso la poesia classica, e si sforzò non poco per trovare precettori in tal campo. Disse: “In questo periodo mi sono dato completamente allo studio della poesia drammatica. Il mio insegnante, certo, mi ha accuratamente spiegato e analizzato i concetti, ma ho dovuto applicarmi duramente e avere una grande pazienza”. Grazie all’intenso lavoro che dedicò a questi studi di base, quando più tardi si trovò a interpretare difficili opere Kunchu con passaggi poetici, come Il padiglione delle peonie, egli, avendo una profonda comprensione dei personaggi, fu in grado di dare una raffinata e appropriata espressione alle cangianti emozioni dell’eroina. Sebbene Mei Lan-fang recitasse ruoli femminili non limitò a questi i suoi studi, ma imparò altri ruoli dell’Opera di Pechino compreso quello di hsiao-sheng (un ruolo di giovane studioso). Si sperimentò perfino in parti maschili e nell’opera Mulan va alla guerra creò il ruolo di una ragazza celata sotto le spoglie di un giovane uomo, una parte che implicava difficoltà di canto e recitazione, maniere gentili unite ad abilità e atti marziali. Non intraprese tali ruoli per il proprio virtuosismo, ma fu sinceramente interessato a ogni parte, comprese quelle di vecchio, di tipo rozzo e clown. Godette nel guardare da dietro le quinte gli attori veterani nei diversi ruoli e li studiò per migliorare la propria performance. In età più tarda adottò spesso tecniche di canto o di movimento prendendole da altri ruoli per produrre nuovi effetti. Mei Lan-fang non limitò mai il proprio studio a ciò che era di uso immediato. Lesse molto, studiò la pittura, apprezzò la scultura, l’architettura, la calligrafia e il giardinaggio, fu sua abitudine coltivare fiori e allevare piccioni. Aveva un gusto

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raffinato e ampi interessi, e ciò contribuì veramente molto ai suoi risultati come attore. La profonda conoscenza delle passate tradizioni in campo teatrale e i vasti interessi nel regno delle arti cinesi gli tornarono molto utili. La sua famiglia produsse tre generazioni di celebri attori prima di lui e già dalla fanciullezza fu in grado di distinguere in modo semplice la buona arte da quella cattiva. Dopo la rigorosa disciplina cui egli stesso si sottopose la sua conoscenza non rimase confinata a lungo all’arte teatrale, ma cominciò ad abbracciare l’arte tradizionale cinese e questo lo fornì, rendendolo in grado di assorbire caratteristiche pregevoli da arti differenti, di una norma per il proprio lavoro. Per sviluppare uno stile e un repertorio propri, però, seguì spesso molti sentieri contorti. La comparsa di un grande artista, specialmente se si tratta del fondatore di una nuova scuola, non può essere considerata semplicemente come un fenomeno individuale, bensì come un fenomeno sociale dipendente anche da molti fattori esterni. Mei Lan-fang non fece eccezione a questa regola. Dopo la rivoluzione del 1911, quando andò a Shangai rimanendo influenzato dalla locale riforma teatrale, Mei Lan-fang cominciò a realizzare le proprie opere e a recitarle. Poiché si collocava nel solco della rivoluzione del 1911, che trasformò la vecchia monarchia in repubblica, la chiamò il “nuovo corso”. I drammaturghi compresero per primi il ruolo educativo del teatro, e a Shangai commediografi e attori furono più veloci a comprenderlo che non a Pechino. Mei Lan-fang, a quel tempo un giovane artista fu, come raccontò nelle sue memorie, un appassionato sostenitore del movimento: “Al mio ritorno da Shangai a Pechino cominciai a pensare di produrre alcune nuove opere…Quando vi tornai la seconda volta capii ancora più profondamente che il teatro deve cambiare in accordo con i bisogni del pubblico e dei tempi. Non volli restare fermo sullo stesso punto, limitato dalle vecchie convenzioni, ma trovare un nuovo sentiero di sviluppo. Avvertivo l’audacia di una simile impresa, ma predisposi la mia mente a tentarla senza preoccuparsi dell’esito dell’esperimento”. Le sue memorie descrivono come produsse cinque nuove opere basate su temi moderni, tre delle quali in costumi moderni. È vero che rifletté sui complessi problemi derivati dall’uso di costumi moderni nell’Opera di Pechino, prevalentemente basata su temi storici e antiche leggende, tuttavia preso dall’entusiasmo agì coraggiosamente. Un attore professionista reagisce ai bisogni del pubblico, in qualunque modo; e un esponente dell’Opera di Pechino è obbligato a meditare seriamente sulle contraddizioni tra la forma e le tecniche della sua arte e la vita che vuole rappresentare: su tale questione si trovò a riflettere circa la possibilità di continuare in questa direzione o meno. Più tardi Mei Lan-fang riassunse il suo tentativo di riforma in quel periodo dicendo: “Il teatro classico è basato su canto e danza. Tutti i movimenti e il canto devono essere in sincrono con i ritmi della scena per creare una struttura caratteristica… Quindi un attore, nel teatro classico, ha due compiti: deve recitare la sua

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parte secondo la storia, ma è importante per lui farlo per mezzo di meravigliosi movimenti di danza”. Nello sperimentare Mei Lan-fang imparò a prestare attenzione alla combinazione di canto e danza, caratteristica del teatro classico, e a creare nuove forme di espressione basate su tali elementi caratteristici. Studiò più profondamente le passate tradizioni e, mentre recitava opere Kunchu, sperimentò opere nuove in costume tradizionale. A quel tempo aveva maturato una più profonda comprensione della riforma drammatica: “L’arte in sé non dovrà mai stare ferma, ma dovrà sempre avanzare come onde che si spingono in avanti le une con le altre. Quando un nuovo arrivato realizza riforme o crea qualcosa di nuovo, deve prima aver assorbito il meglio dell’arte lasciatogli dai suoi predecessori per svilupparlo, tramite un duro lavoro, secondo la propria esperienza. Questo è l’unico modo corretto per riformare l’arte. Un uomo che conti solamente sulla propria intelligenza e crei qualcosa di testa propria senza nessuna radice nella tradizione, può volere migliorare l’arte, ma andrà solo ulteriormente fuori strada”. Mei Lan-fang era ancora giovane a quel tempo e sebbene conoscesse a fondo le tecniche di recitazione non aveva ancora trovato il modo migliore di portar fuori il suo dono peculiare e creare qualcosa di originale. Le nuove opere in costume classico furono uno dei suoi esperimenti. In queste l’enfasi principale era posta su canto, danza e nuovi costumi. Sviluppò nuove danze a partire dai movimenti e dalle pose tradizionali – danzando con una zappa o una spada, per esempio – e creò nuovi costumi di scena basati su dipinti antichi. Ma, poiché era un grande artista, mentre componeva queste nuove opere che ancora si concentravano sulla forma, la sua attenzione scivolò gradualmente sulla caratterizzazione e cominciò a prestare sempre maggior cura alla rappresentazione di individui specifici. Così, quando mise in scena opere come Chan-ngo vola sulla luna e La fanciulla celeste che sparge i fiori, dette maggior rilievo ai costumi e alle danze. Ma quando giunse a produrre opere basate sulla novella del XVIII secolo Sogno della camera rossa, prestò molta più attenzione a rappresentare le personalità delle ragazze come Tai-yu e Hsi-jen. Della sua performance in Tai-yu seppellisce i fiori disse: “Poiché quest’opera non ha più di cinque personaggi manca di azione. Se non si integra il canto con l’emozione il risultato sarà piuttosto piatto. Freddo come il marmo, per la verità”. Durante questi esperimenti cominciò a includere nel suo repertorio un nuovo tipo di ruolo femminile combinando canto e danza. Non era né il tradizionale ching-yi, né lo hua-tan, ma amalgamava le acrobazie del tao-ma-tan con il fascino di un kuei-men-tan, o giovane dama. Tale ruolo sviluppato da tradizioni passate aveva in sé nuovi elementi ed era assolutamente adatto alle speciali attitudini, al temperamento e all’aspetto di Mei Lan-fang. Questo nuovo ruolo femminile, che inventò per se stesso, fu chiamato hua-san e si può considerare a metà tra una ragazza allegra e una onorata dama. Ciò non vuol dire che da quel momento in poi Mei Lan-fang interpretasse un unico ruolo sulla scena. In un’arte altamente specializzata come l’Opera di Pechino

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nessun attore può padroneggiare da solo tutte le tecniche, ma ognuno deve trovare il tipo di ruolo che meglio gli si addice. Ogni personaggio appartiene a un ruolo definito, come è nella maggior parte dei drammi tradizionali e, sebbene sia possibile infrangere qualche convinzione, alcune regole rimarranno valide per sempre. Mei Lan-fang si basò sulle regole tradizionali non rinnegando mai in modo assoluto il vecchio ruolo, ma ne creò una nuova versione per arricchire il teatro. In tal modo rappresentò, per gradi, molte donne dei tempi antichi con caratteri e destini diversi, come la sensibile e gentile Tai-yu in Sogno della camera rossa e l’eroica Lady Yu amata da Hsiang Yu, il conquistatore di Chu nel terzo secolo prima di Cristo. Diede origine a un nuovo tipo di ruoli non per mostrare nuove tecniche, ma per rappresentare, attraverso queste, il personaggio sulle basi delle emozioni espresse. Una volta dichiarò enfaticamente: “Non ha importanza quanto può essere meraviglioso un gesto sulla scena, se non è collegato alla storia è fuori luogo”. L’impresa di Mei Lan-fang non si fermò qui. Oltre a introdurre nuove tipologie di ruoli per rappresentare numerosi personaggi originali fece sì che questi ricoprissero una vasta gamma di aspetti esteriori e di sentimenti. Parlando in generale le sue prime eroine furono ragazze vivaci e giovani donne cortesi, quelle più tarde nobili donne maggiormente solenni nei modi. Questo cambiamento fu connesso alla sua età, come Mei Lan-fang ha spesso detto, invecchiando, infatti, ha dovuto modificare la recitazione per evitare di rovinare l’effetto scenico. Una ragione più rilevante, tuttavia, fu l’influenza dei cambiamenti sociali e politici. Lady Yu, come abbiamo visto, si presentava alquanto diversa dalla gentile Tai-yu, per questo decise di morire coraggiosamente quando il suo signore fu sconfitto. Ciò rispecchia l’emersione dell’artista dal suo mondo di bellezza e arte per fronteggiare le dure battaglie del mondo reale. Il cambiamento coincise con la violenta rivolta avvenuta in Cina quando gli imperialisti giapponesi invasero il paese e la sorte della nazione era in bilico; a ciò si aggiunse che il governo di Chiang Kai-shek, senza alcun riguardo per il popolo, adottò una politica di non-resistenza, lasciando avanzare il nemico passo dopo passo. Mei Lan-fang non fu solo un artista di grande integrità ma anche un patriota dal profondo senso di giustizia. Nel 1932 circa, quando i giapponesi invasero Shanghai, compose due nuove opere: Respingere i Tartari d’oro rappresentava Liang Hung-yu che nel XII secolo resistette al nemico straniero, mentre Separazione e morte, anch’esso basato su una storia del XII secolo, raccontava di come Han Yu-niang sopportò enormi sofferenze allo scopo di aiutare il marito a combattere per la patria. Queste due opere non furono prodotte per sperimentare tecniche differenti di canto e danza o per introdurre nuovi costumi; furono un mezzo per esprimere l’intenso odio per gli aggressori e la solidarietà per la gente sofferente. La sua superba rappresentazione di Liang Hung-yu che in modo così risoluto resistette agli invasori, fu una condanna della politica di resa del Kuomintang. Delle due eroine una era una patriottica generalessa e l’altra una dama dal carattere forte che avrebbe tollerato grandi sofferenze per la causa politica. Ciò rappresentò un elemento nuovo nel repertorio

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di Mei Lan-fang. I personaggi in questione, nobili come il maestoso pino o il cipresso, non erano fragili e docili ammaliatrici, ma donne di grande dignità. Tale sviluppo nell’arte di Mei Lan-fang derivò da alcuni cambiamenti delle sue idee. Egli aveva una disposizione d’animo gentile e affettuosa, tuttavia poteva essere fortemente risoluto nelle questioni di principio, come mostrò lungo gli otto anni di occupazione giapponese durante i quali abbandonò il palcoscenico e si lasciò crescere i baffi vivendo in difficoltà finanziaria impavido di fronte alle minacce del nemico. In Separazione e morte cantò: “Io scelgo la sofferenza, provo amarezza e vivo nel disagio;/ Però resto risoluto e non chinerò il capo”. Questi versi riassumono il suo atteggiamento durante quel periodo. Mei Lan-fang sviluppò il suo inimitabile stile per gradi, dopo lunghe, tortuose sperimentazioni e riassunse il suo cercare la verità così: “Nella vecchia società lavorai duramente per dozzine di anni come attore, ma sebbene compii qualche progresso nella mia arte non mi fu mai chiaro a chi sarebbero potuti servire. Finché dopo la liberazione, quando studiai Talks at the Yenan Forum on Literature and Art del presidente Mao, realizzai che la letteratura e l’arte servono prima di tutto ai lavoratori, ai contadini e ai soldati. Una volta conosciuto il giusto corso percepii l’esistenza di un’ancora di salvezza. Sebbene siano passati solo cinque anni dalla liberazione del continente questo breve periodo è stato il più prezioso di tutti i miei sessant’anni e ho compiuto progressi come mai prima nell’arte e nella politica”. Si tratta di un eccellente esempio della profonda influenza che un fine politico corretto esercita sul lavoro di un artista e ogni aspetto dell’arte di Mei Lan-fang, inclusi il suo repertorio, la caratterizzazione e molti dettagli tecnici nella sua performance, ne sono pervasi. Il suo sviluppo come artista tuttavia non si arrestò a quel punto. Fece esperienza del principale cambiamento epocale della storia cinese, il giorno per il quale il popolo aveva lungamente bramato e combattuto per più di un secolo, il giorno in cui l’imperialismo fu cacciato, il regime feudale collassò e la gente venne liberata. Benché artista famoso non ebbe nessuno status politico nella vecchia società; ma ora giungeva ad assumere la posizione di un rappresentante preminente della gente: un altro straordinario cambiamento nella sua vita, non solo per lo status individuale ma anche per la posizione sociale di innumerevoli attori e artisti disprezzati nella vecchia società; fu un cambiamento che significò la liberazione di centinaia di milioni di lavoratori in passato oppressi e sfruttati e portò a una straordinaria trasformazione nel suo atteggiamento mentale. Da patriota divenne comunista e nel 1959 aderì al Partito Comunista. Tale mutamento non avvenne in una notte. Nei dieci anni dopo la liberazione Mei Lan-fang ebbe una più ampia esperienza di vita. Vide la stupefacente velocità con cui il paese si era trasformato, vide la crescita della prosperità della gente, il rapido sviluppo della cultura e dell’arte, specialmente del teatro in cui lavorava. Si convinse che solo la leadership del Partito Comunista poteva rendere la Cina ricca e forte. Recitò per i lavoratori, i contadini e i soldati, visitò il fronte coreano e le

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fortificazioni costiere, e vide di persona l’eroismo dei lavoratori che stavano rafforzando e difendendo la loro madre patria. Tutti gli eroi incontrati, tutte le imprese emozionanti ascoltate non potevano non esercitare un’influenza sul suo lavoro. Così ne La vecchia zitella che finge la pazzia, in cui si descrive come Chao Yenyung finga di essere pazza per resistere all’imperatore di Chin a cui suo padre, primo ministro, l’aveva offerta come concubina, diede alla propria eroina uno spirito fortemente ribelle. In modo simile compare un forte sentimento antifeudale nella sua rappresentazione della solitudine e della tristezza di Lady Yang, la favorita dell’imperatore Tang ne La bellezza ubriaca, e nella sua rappresentazione di Tu Liniang, una ragazza innamoratasi di un giovane studioso ne Il padiglione delle peonie. Dai temi puramente patriottici passò alle opere con chiari elementi di lotta sociale. Alla fine, nel tempo del grande salto in avanti, produsse una nuova opera Mu Kuei-ying prende il comando in cui l’eroina, una generalessa ritiratasi ormai da vent’anni dopo aver combattuto gli invasori, fu così coraggiosa che sebbene già oltre la mezza età assunse nuovamente il comando. Questa eroina personificava l’entusiasmo dello stesso Mei Lan-fang durante il grande salto in avanti, quando vide tutti i suoi compatrioti lottare coraggiosamente e altruisticamente per rafforzare il paese. Esprimeva la determinazione dell’attore a dare il suo migliore contributo a dispetto dell’età. La scena in cui Mu Kuei-ying decide infine di assumere il comando ha particolare forza e intensità. Nessun artista poteva dare una tale commovente interpretazione senza sentirsi egli stesso profondamente coinvolto. Se questo grande attore avesse vissuto più a lungo avrebbe prodotto indubbiamente ancora molti splendidi e indimenticabili ruoli. La caratteristica più evidente dell’arte di Mei Lan-fang fu la sua natura popolare. Egli aveva un vasto pubblico e difficilmente può esserci stato in Cina qualcuno che non conoscesse il suo nome, inoltre, quando la gente straniera parla del teatro classico cinese lo collega col nome di Mei Lan-fang. Chi vide la sua recitazione ne provò immediata soddisfazione; la sua arte era semplice da apprezzare e i personaggi da lui recitati erano amati e ricordati in parte per la sua bella voce, il suo bell’aspetto e la sua superba tecnica, in parte anche per le seguenti ragioni. La prima fu che rispettò e pose grande attenzione all’opinione della gente comune. Queste sue parole dovrebbero essere scolpite nella mente di tutti i nostri attori di oggi: “Il destino di un attore è sempre deciso dal pubblico. Il suo progresso dipende in parte dalle critiche e dall’incoraggiamento del pubblico e in parte dai suoi stessi sforzi. Non c’è una via breve per la buona recitazione. Il defunto Wang Yao-ching affermava con grande verità che esiste un tipo di attore che lavora duramente per diventare famoso, e un altro che rende se stesso famoso. Il primo progredisce passando dalle parti minori al ruolo principale e conquista la sua posizione grazie all’acclamazione popolare; il secondo fonda una propria compagnia e assegna a se stesso il ruolo principale, sperando di divenire celebre. Questi due metodi sono differenti, e così lo sono anche i risultati. Nel primo caso abbiamo una base salda, un graduale progresso e una solida reputazione; nel secondo caso tutto di-

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pende dalla sorte e se l’attore fallisce nell’impressionare il suo pubblico la prima volta, non potrà mai più recuperare”. Mei Lan-fang conquistò il successo non perché cercasse la ribalta o perché fosse acclamato da pochi ammiratori ma grazie al riconoscimento delle masse. Questo accadde perché comprese l’importanza e le opinioni del suo pubblico. Quando la sua arte superò il test delle masse la sua fama divenne duratura. Il rispetto per il pubblico fu il segno delle sue idee popolari. Uno degli elementi a determinare il successo e il fallimento di un artista è se questi tiene in considerazione o meno il proprio pubblico, se seriamente ne studia i gusti e li rispetta, e Mei Lan-fang fece tutto ciò dall’inizio, ben conscio del ruolo decisivo che il pubblico giocava nella carriera di ogni attore. Nel corso di molti anni diede prova di quanto straordinariamente superò questo test e così la sua arte non poté non avere un profondo richiamo sulle masse. Egli disse: “Non c’è fine all’arte della recitazione. In teatro abbiamo un detto: il tuo maestro ti conduce attraverso la porta, ma il resto tocca a te. Ciò significa che per ottenere il successo un attore deve avere la determinazione a lavorare duro. Se fa affidamento sulla propria abilità e diminuisce gli sforzi, oppure diventa presuntuoso dopo aver compiuto un piccolo progresso e rifiuta di accettare ogni critica, puoi star sicuro che non andrà lontano”. Naturalmente non seguiva consigli ciecamente e rispettava l’opinione del pubblico dopo averla considerata e analizzata agendo su ciò che riteneva valido. Poté elaborare un numero elevato di nuove e profonde idee partendo da alcuni consigli comuni. Alcune volte, quando i suoi amici esprimevano opinioni contrastanti sulla sua performance, egli “sedeva lì senza una parola considerando le loro opinioni con attenzione, e sviluppava nuove tecniche grazie a questo stimolo”. Più di una volta un suggerimento casuale da parte di uno straniero lo aiutò a compiere importanti progressi nella propria arte. Per esempio un giorno alcune persone riflettevano sulla necessità della presenza del personaggio del dio dei sogni ne Il padiglione delle peonie, e dopo un accurato studio con Yu Chen-Fei, interprete del giovane studioso, decise che il personaggio poteva essere eliminato dando come risultato un ulteriore miglioramento dell’opera. La seconda ragione fu che attinse in modo ampio dalle vecchie eredità, non solo arricchendo se stesso con quelle tecniche, ma anche assorbendo inevitabilmente le visioni estetiche tradizionali accumulate attraverso i secoli dagli innumerevoli attori, oppure elaborate dai drammaturghi e messe in pratica sul palco dagli attori. Questi rifletterono le idee sull’arte delle classi progressiste nelle differenti epoche, idee che superarono la prova del tempo e divennero comune retaggio della nostra gente. Da tali basi si svilupparono ulteriori riflessioni sull’arte dando luogo alla fondazione della nostra estetica nazionale. In breve, tali idee furono approvate dal pubblico nel corso del tempo, non fissate come regole definite, ma sviluppate a partire dai suoi gusti o preferenze. Tuttavia le visioni estetiche non potevano essere prese in modo indiscriminato, per cui rivedette le sue opere tradizionali. La sua revisione de La vecchia zitella che

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finge la pazzia rappresenta un buon esempio. L’enfasi principale, essendo i gesti e le espressioni semplici e lenti, con brevi momenti agiti, era posta sul canto, cosicché il pubblico non la avvertiva come molto impegnativa. Mei Lan-fang amava il contenuto dell’opera e lavorò duramente per svilupparla rompendo con la passata tradizione di un’eroina che semplicemente cantava. Introdusse molti gesti ed espressioni, inclusi movimenti drammatici per le scene della finta pazzia, che precedenti critici avrebbero considerato in disaccordo con il ruolo di giovane e rispettabile dama. Negli anni successivi Mei Lan-fang rese quest’opera ancora più drammatica e militante, sebbene anche tali revisioni sarebbero state giudicate spregevoli e inaccettabili per i vecchi standard. Poiché il nuovo pubblico chiedeva una nuova arte e possedeva un nuovo concetto di bellezza, non lasciò che la tradizione lo ostacolasse, ma coraggiosamente portò avanti le riforme. La terza ragione fu che Mei Lan-fang sviluppò i propri criteri artistici dall’estetica tradizionale e dal gusto popolare. Usava i suoi discrimini nel giudicare e analizzare tutte le opinioni e nell’apprendere dalle performance degli altri. Spesso, quando applaudivano entusiasticamente, era ancora in grado di dare un freddo giudizio e non permetteva mai alle lodi di entrargli in testa facilmente. Parlando di Chun-hsiang mette discordia nella classe, in cui lo stuzzicare il vecchio insegnante è ciò che più colpisce il pubblico, disse: “Noi non dobbiamo assecondare troppo i gusti popolari o esagerare questi episodi comici, altrimenti l’opera diventerà sgarbata”. Lo stile di un artista è difficile da comprendere ma spesso può essere visto nelle sue opere e nei suoi personaggi preferiti. In questi troviamo alcuni punti in comune tra Mei Lan-fang e altri attori e alcune sue peculiari caratteristiche. A prima vista sembrava non esserci una chiara caratteristica distintiva nelle sue performance: tutto era così perfetto, meraviglioso e naturale, senza la più piccola traccia di artificialità, che ciò appariva inevitabile. Una maggiore familiarità con la sua arte, tuttavia, rivelava come la grazia apparentemente naturale fosse il risultato di un duro lavoro. Si esercitò assiduamente nel canto, nella recitazione, nella declamazione e nelle acrobazie fino al giorno della sua morte. Come una volta disse: “Ho sempre cercato uno sviluppo equilibrato di tutti gli aspetti della tecnica teatrale senza enfatizzare nessun punto in particolare: è stato il mio metodo nel corso degli anni fino a oggi”. Con ciò non intendeva che ogni opera dovesse avere la stessa proporzione di canto, recitazione, declamazione e acrobazie, ma che questi dovessero essere impiegati secondo le necessità del dramma e della caratterizzazione senza enfatizzare la tecnica fine a se stessa. Disse inoltre: “Ogni attore deve svolgere un accurato studio sul sostrato sociale e sul carattere del personaggio che sta recitando, analizzandolo accuratamente per rendere i suoi sentimenti più intimi”. La bellezza ubriaca conteneva canto e recitazione in abbondanza, e nell’opera tradizionale molti movimenti e gesti non erano basati sulla vita o sulle emozioni ma introdotti come fini a se stessi. Ne risultava una non chiara e consistente descrizione del personaggio. Mei Lan-fang studiò questa parte per molti anni e apportò

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una serie di sottili ma significativi cambiamenti in modo che il personaggio di Lady Yang e le sue differenti emozioni venissero meglio evidenziate. Tradizionalmente tale scena contiene tre movimenti obliqui ed è ben nota la sua interpretazione basata sui tentativi di un ubriaco di chinarsi per sentire il profumo dei fiori. Solo dopo lunghe riflessioni giunse a una simile soluzione, un esempio della grande attenzione che poneva a ogni movimento sul palco. Questo stile di recitazione, di grande splendore tecnico non finalizzato solo al virtuosismo, rappresenta la ragione principale dell’apparente spontaneità e della grazia della sua arte. Egli sempre incalzava i giovani attori a evitare la recitazione meccanica e l’esagerazione. Il giusto equilibrio doveva essere raggiunto per armonizzare forma e contenuto. Noi trovavamo le sue rappresentazioni belle anche perché non trasferì sul palco semplicemente la vita reale, ma la arricchì con l’arte raggiungendo un grado di eleganza che non poté non piacere. Una volta citò, approvandolo, il commento di un critico sul La bellezza ubriaca: “Nella vita reale lo sguardo di un ubriaco barcollante che vomita è disgustoso; ma sul palco una donna ubriaca non deve provocare disgusto. Noi dovremmo evidenziare i suoi movimenti graziosi, il suo senso del ritmo e il canto melodioso cosicché il pubblico la trovi bella”. L’ampio responso del pubblico suscitato dall’opera di Mei Lan-fang, strettamente connesso con il plot e con i personaggi, fu indice di una tecnica brillante e facile da comprendere. La grande varietà dei suoi personaggi piacque perché li rappresentò secondo il loro status sociale, età e temperamento senza alcuna artificialità. Riassunse tutto ciò che era bello nella loro vita reale, nei loro temperamenti, pensieri, sentimenti e gesti usando la sua arte per renderli più vividi e dare vita a personaggi consistenti e apprezzabili. Così l’effetto creato si adattava allo status del personaggio e allo stesso tempo possedeva quella grazia naturale che il pubblico non trovava per niente discordante. Nella tarda età la sua giovanile eleganza diede vita a qualcosa di meno spettacolare ma più profondo. Il vecchio attore Chao Tung-shan fece questo appropriato commento: “È impossibile imparare l’arte di Mei Lan-fang ora. Qualunque cosa egli faccia, sia che scuota con noncuranza le sue maniche, che si accarezzi i capelli, che faccia pochi passi o che indichi con un dito, risulta bello. Il gesto può essere convenzionale, ma egli lo trasforma in qualcosa di nuovo. Se ne avverte l’assoluta correttezza e ciò è dovuto alla sua consumata abilità”. Avesse vissuto più a lungo avrebbe rivelato di più del suo nuovo risultato. La sua morte è una irreparabile perdita, tuttavia quest’arte, epitomizzando l’estetica cinese sulla scena sarà ereditata dai più giovani attori i quali, sicuramente, la porteranno verso nuovi traguardi.

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Ripensando Zeami. Dialogo con Kanze Tetsunojo di Rodowicz Jadwiga

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“The Drama Review”, vol. 36, n. 2, Summer, MIT Press, Cambridge, 1992, pp. 97-105

Kanze Tetsunojo è un rappresentante di una delle più antiche e autorevoli famiglie del teatro n1o, un discendente dei precursori di quest’arte – Kan’ami (1333-1384) e Zeami (1363-1443). Kanze è il nome della scuola che rappresenta, mentre Tetsunojo è il nome d’arte ereditario del maestro afferente il suo ramo di discendenza nella scuola Kanze. Opera in un gruppo chiamato Tessenkai ed è l’ottavo Tetsunojo-hasse (Maestro Tetsunojo). Il nonno, Kanze Kasetsu (1884-1959), contribuì molto, quando sul finire del XIX secolo il Giappone aprì le proprie frontiere al mondo esterno, al revival del n1o seguito alla sua interruzione. Negli anni ’50 Kanze Tetsunojo, assieme ai suoi due fratelli, Kanze Hisao († 1978) e Kanze Hideo – entrambi eminenti attori n1o – iniziò un’altra battaglia in favore della sopravvivenza del n1o. Come arte impregnata di spirito nazionalistico e militarista, il n1o fu proibito dai censori americani durante l’occupazione del Giappone dal 1945 al 1951. I Kanze fondarono la Hana-no Kai (l’Associazione del Fiore) allo scopo di allestire i migliori n1o e discuterli nel contesto dei trattati di Zeami. Inoltre, vollero dirigere e allestire i grandi classici occidentali (comprese le antiche tragedie greche) utilizzando le tecniche delle arti teatrali giapponesi, e cominciarono a collaborare con i teatri di stile occidentale. La Tessenkai fu la prima compagnia a rappresentare il n1o fuori dal Giappone, alla Biennale di Venezia nel 1956. Kanze Hideo e Hisao recitarono in diverse produzioni di Suzuki Tadashi: nel 1972 in Agamennone, e nel 1978 in Le baccanti. Aprirono il loro teatro tradizionale di T1oky1o alle performance di artisti francesi come Jean-Louis Barrault nel 1977 e Juliette Greco nel 1983. Barrault partecipò a un simposio comparando le tecniche del n1o con la pantomima francese. Kanze Tetsunojo partecipò a esperimenti teatrali anche se con risultati non altrettanto eccellenti quanto quelli dei suoi fratelli. Così si votò all’educazione di giovani attori n1o. Dal 1975 al 1985 io fui la prima allieva europea di Tetsunojo, nonché una zelante lettrice di Zeami. Per tale motivo i miei frequenti incontri con Kanze Tetsunojo furono ricchi di conversazioni e discussioni a proposito della tradizione, della teoria teatrale medievale e del suo uso nella cultura contemporanea. La conversa-

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zione dell’estate del 1989 qui pubblicata fu possibile solo grazie ai nostri precedenti incontri. Ora, dopo anni di lavoro pratico con il Gardzienice Theatre, una nuova luce può essere gettata sui temi che legano il teatro giapponese a quello polacco. Il nostro incontro del 1989 si svolse in una circostanza eccezionale. Ogni anno, agli inizi di agosto, quando il tempo è bello e ventilato, nei teatri giapponesi ha luogo il cosiddetto asciugamento (mushiboshi) di tutti i costumi n1o e dei materiali scenici. Ciò che è normalmente impossibile diviene improvvisamente possibile – le maschere, alcune usate assai sporadicamente, veri capolavori di artigiani medievali, possono essere viste assai da vicino. La maschera n1o è leggendaria per la sua forza misteriosa e per la sua squisita bellezza. L’espressione è sempre sul punto di piangere, sorprendersi, tradire segrete emozioni. Il guardare le maschere fu un’esperienza potente – centinaia di volti fissi al soffitto. La gente camminava loro intorno, parlando poco e a bassa voce. Mentre passeggiavamo tra questi famosi o ignoti volti di donne giovani o vecchie, uomini, divinità, guerrieri e fantasmi, Kanze Tetsunojo e io avemmo la conversazione che segue. R: Sono passati esattamente dieci anni da quando abbiamo parlato in modo esaustivo, toccando probabilmente tutti i principali problemi teorici, di Zeami e dei suoi trattati. Nel mio caso ciò avvenne ancora prima di cominciare qualunque tipo di lavoro pratico. Potremmo ora, dieci anni dopo, parlare nuovamente di Zeami in termini più pratici? K: Certo, ma prima dobbiamo ricordare che queste teorie originarono seicento anni addietro. Al tempo il n1o stava appena nascendo. Penso che gli scritti di Zeami dovrebbero essere interpretati esattamente in questo modo – come teoria di un nuovo genere in processo di nascita e non come una teoria vecchia di seicento anni. Sicuramente Zeami era cosciente che per centinaia di anni prima di lui erano esistiti vari tipi di arti teatrali. Quindi egli scrisse la sua nuova forma. Noi studiamo il n1o nel momento in cui è già una forma classica, quindi non abbiamo un approccio molto corretto agli scritti di Zeami. In secondo luogo le voglio ricordare, prima di affrontare Zeami, come in ogni sorta di teatro il contatto tra l’attore e il suo pubblico sia di cruciale importanza. Quindi il n1o raggiunge la propria essenza attraverso la relazione con gli spettatori. Per la gente di teatro come noi le teorie di Zeami possono produrre senso solo attraverso la recitazione dal vivo. R: Le sue teorie stanno diventando ben note nei circoli teatrali europei. I trattati di Zeami sono stati tradotti in molte lingue. L’originalità e la profondità di Zeami sono sbalorditive così come le somiglianze con alcune idee di Antonin Artaud. K: Nel 1988 Peter Brook era in Giappone con il suo Mahabharata. In quell’occasione ho discusso con Ryszard Cieslak a proposito della sua interpretazione del re cieco Dhritarashtra. Abbiamo parlato della preparazione del ruolo, della regia. Poiché allora stavo proprio per recitare il ruolo del vecchio guerriero cieco Kagekio in un no1 abbiamo in un certo senso condiviso le nostre esperienze. Cieslak è venuto a

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una prova terminata la quale abbiamo continuato la nostra discussione considerando in che modo fosse possibile recitare ed esprimere qualcosa che avrebbe determinato la bellezza della cecità – una assai specifica e probabilmente incredibile sorta di bellezza. Io, ricavandolo dal mio ruolo come Kagekio, e lui, dalla sua esperienza come Dhritarashtra. La questione base della discussione emerse dalla considerazione del grado di verosimiglianza nella riproduzione del personaggio, il cosiddetto vivere attraverso il ruolo o diventare il personaggio stesso nella rappresentazione. Credo che un attore non possa e non debba neppure provare a identificare totalmente se stesso con il personaggio interpretato. Tale processo può verificarsi solo fino a un certo livello. Intendo dire che ciò accade, per esempio mentre recito Kagekio, al settanta per cento, mentre per il restante trenta per cento rimango sempre completamente conscio di dove sono e chi sono – Kanze Tetsunojo, con la mia specifica forma vitale, biologica e anche di esperienza. Chiamo ciò lo stato di esistenza in vita o, anche in altre parole, dico che la verità sulla realtà della mia stessa vita deve essere presente. La mia parte personale si unisce, durante la rappresentazione, con un’altra parte di me che incontra il personaggio ed è percepita dallo spettatore come una creazione complessa di presenza scenica. Anche Zeami ha scritto come l’attore non possa e non debba aspirare a una totale trasformazione (mono-ni bakaseru) nel personaggio. Possiamo cercare fenomeni analoghi a questa perdita di una parte personale di noi stessi in un lavoro artistico all’interno di altri campi riguardanti la creatività, per esempio la pittura. Penso a Pablo Picasso o, nella cultura giapponese, a Umebara Ry1uzaburo o Maeda Seishin. L’aspetto personale è assai evidente in tutti i loro capolavori nati da esperienze di vita fatte in modo unico e personale. È possibile scoprire l’essere di questi artisti nei loro lavori. R: Due cose sovvengono alla mente. Primo, il cosiddetto principio di Zeami del guardare dal di fuori (riken-no ken) se stessi, messo per iscritto nel suo trattato Lo specchio del fiore (Kaky1o), e la sua idea di una recitazione di ghiaccio da non intendersi priva di sentimento ma, piuttosto, così intensa da provocare negli spettatori freddi brividi lungo la schiena. Secondo, tutto ciò che lei ha detto in merito al trenta per cento dell’essere se stessi in scena. Definendolo in tal modo stava semplicemente dando spazio all’individualità dell’attore sulla scena. Tuttavia in Occidente è noto come i teatri classici orientali, operando secondo ruoli rigidi di movimento e voce, lascino molto poco spazio alla libertà e alla scelta personale nell’esprimere se stessi. Inoltre, il teatro orientale spesso serve da esempio per il tipo di arte in cui le caratteristiche personali dell’attore sono evitate con decisione. Non crede che ci stiamo occupando di un paradosso? K: Sì, è un paradosso. Ci sono parecchi paradossi nel n1o. Per esempio, come avrà senza dubbio notato, si riscontrano molte caratteristiche astratte nella tecnica performativa dell’attore. D’altro canto Zeami nei suoi trattati è molto concreto e pratico in riferimento ai propri drammi. E allora, perché introduce così tanti elementi astratti nei suoi n1o ?

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Penso che Zeami fosse ben conscio del fatto che un dramma dovesse raggiungere un certo livello di astrazione per essere compreso dalla maggior parte dei suoi spettatori, ognuno dei quali caratterizzato da sensibilità, esperienze e, infine, preferenze individuali. Generalizzazione e astrazione rendono lo spettatore in grado di assimilare ogni aspetto del dramma: a un livello concreto potrebbe risultare incomprensibile, troppo difficile o perfino scoraggiante. Ancora una volta ripeto qui il principio di Zeami del riken-no ken, guardare se stessi dall’esterno. Zeami lo esprime pure come “do-shin-kensho-no ken” ossia il guardare dall’esterno come se l’attore dovesse stare nel posto dello spettatore e sentire esattamente quello che lo spettatore sente. A cosa serve tale abilità? Presumendo che l’attore, mentre è in scena, rimanga a un alto grado se stesso, egli deve essere cosciente di come il suo ego risulti coperto da emozioni personali formanti la sua completa vita interiore. Il suo ego si muove verso lo spettatore, attaccandolo con l’energia messa in moto durante la performance. Inoltre l’ego dell’attore è più forte di quello dello spettatore. Quindi, se una collisione è permessa, le sole reazioni dello spettatore dovrebbero essere di difesa o di desiderio di fuga. E non è il centro nodale del teatro, per lo spettatore, reagire con resistenza. Perciò nel n1o noi presumiamo che l’attore esprima l’essenza, il cuore, attraverso i mezzi del corpo. Lo spettatore è preparato ad accettare l’io dell’attore solo a un certo livello di astrazione. Mai direttamente. R: Ma questo a sua volta richiede prontezza da parte degli spettatori a pensare in modo astratto, così come l’abilità di percepire quello che lei chiama essenza della vita a un livello di astrazione. Voglio dire che questo deve essere diverso da, per esempio, il desiderio di conoscere l’io personale, l’attore come persona privata. Non è così? K: Sì, ciò significa il riken-no ken. Voglio aggiungere qui qualcosa che ritengo molto significativo. Prendiamo Shakespeare, oppure la tragedia greca, ad esempio. Molti personaggi sembrano dialogare tra loro. In Amleto, Orazio e Amleto rappresentano ciascuno un certo definito, imperfetto tipo di uomo. Ma si può notare come dalla logica di Orazio e dal pensiero di Amleto scaturisca l’esistenza di un terzo ideale uomo posto da qualche parte sopra o oltre il palcoscenico. Amleto rappresenta un tipo di essere umano, Orazio un secondo mentre il terzo tipo ha origine nell’immaginazione dello spettatore. Questa struttura triadica di idee costituisce una soluzione drammatica assai interessante. Nel n1o abbiamo una soluzione diversa. Accanto al personaggio principale, recitato dall’attore principale (shite) abbiamo il laterale (waki). La sua presenza stimola in vari modi il personaggio principale affinché possa rivelare i più nascosti pensieri, i più profondi sentimenti, e possa risvegliare la memoria dei più importanti eventi della sua vita. Il waki rappresenta un paio d’orecchie poste dal destino sul sentiero dell’eroe. Cosa fa l’eroe? Durante la propria vita ognuno compie varie azioni, le quali, accadendo una dopo l’altra, lasciano traccia proprio come un carro lascia il solco del-

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la propria ruota dietro di sé. Questa traccia può essere chiamata storia personale. Nel n1o, solitamente, affrontiamo una situazione in cui l’eroe della vicenda è morto e il suo spirito, destato dalla presenza del waki, appare. Egli è lo spirito che, dalla prospettiva di una esistenza già conclusa, in altre parole in modo oggettivo, richiama ancora una volta il corso della propria vita ponendo la dolorosa domanda: “Perché ciò è successo? Per quale ragione ho agito in tal modo?”. E poi, attimo dopo attimo, egli ripete l’atto che fu la svolta decisiva della sua esistenza. Il visitatore dell’al di là vede il momento come se stesse accadendo proprio ora. “Lo sapevo eppure l’ho fatto ancora” cambia sulla scena in “Lo so eppure lo faccio ancora”. Per esempio, in Ukai, l’eroe è lo spirito di un pescatore che ricorda come abbia trascorso la vita catturando pesci. Egli stava scrutando nell’acqua quando improvvisamente vide una carpa meravigliosa e, sotto l’impulso dell’io voglio, l’afferrò e la uccise. La consapevolezza di aver ucciso giunge al protagonista solo a fatto compiuto. Nel dramma lo spirito del pescatore riflette su come sia stato possibile per un uomo fare qualcosa contro il suo proprio volere, incapace di trattenersi, seguendo un impulso incontrollabile. Similmente la dama di corte Rokuj1o, in Aoi no Ue, odia Aoi di cui è gelosa. Tuttavia, nell’odiare, Rokuj1o sa che non dovrebbe farlo. La dama non accetta la propria gelosia essendo nell’anima una persona dal cuore nobile. A causa di questa confusione d’animo entra in una profonda relazione emotiva con Aoi, proprio come il pescatore dopo aver ucciso la propria vittima. Quindi la riflessione sul perché un essere umano compia un’azione proibita e non possa farne a meno costituisce una delle principali caratteristiche del n1o. Qual è l’espressione scenica di tutto ciò? È nella personalità dell’attore, nella sua voce? Io la realizzo facendo in modo che mentre in me tutto è vivo e si sta muovendo in una direzione – un canale per tutte le mie energie – da qualche parte trattengo quel movimento con tutta la forza. Seguendolo lo fronteggio come se volessi fermarlo per un momento e valutare ancora una volta se sto eseguendo proprio ciò che voglio. Tuttavia vado inevitabilmente dove il destino del personaggio mi conduce. Andare e trattenere questo andare diventa il punto focale del dramma. Ancora una volta Zeami e il concetto di riken, guardare dall’esterno, tornano alla mente. Questa volta il riken è inserito nel contesto della tecnica dell’attore, un lavoro non condiviso con nessuno. R: Sì, quel trattenere è caratteristico del n1o. In relazione a ciò mi piacerebbe tornare al suo confronto con Shakespeare. I plot, nei suoi drammi, sono di solito elaborati e generalmente hanno luogo di fronte agli occhi degli spettatori. Ma, nel n1o, la maggior parte degli eventi vengono collegati attraverso le battute dello shite. Ciò che è presentato al pubblico è un momento breve ma intenso ed emozionalmente denso. Come se fosse un esempio del fenomeno così ben conosciuto in psicologia, nel quale, in esperienze estreme, il tempo arriva a fermarsi e il momento si trasforma in eternità. Così la forza del n1o non mira a presentare la complessità del-

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le relazioni umane o le difficoltà del fato, ma a ricreare un momento gravido di effetti. Quanto un attore è capace di chiamare a vivere la realtà tenuta nel cuore dell’eroe? K: Qui si pone la questione della tecnica (engi). Da dove parte un siffatto processo? Dalla testa, dal pensiero e dal ragionamento! All’inizio devo sempre assumere, necessariamente qualche principio su come stia per recitare. In scena, tuttavia, succede che sebbene abbia pensato più volte “qui farò questo e là quello”, improvvisamente dimentico del tutto ciò che avrebbe dovuto essere o, sebbene lo ricordi abbandono i miei progetti. E quindi si rivela realmente il mio essere – la mia propria vita, la condizione della mia anima, le sue imperfezioni, le sue titubanze affiorano da oltre il ruolo. Sono convinto che la vera immagine di questo momento particolare nella vita dell’eroe possa apparire solo dall’imperfezione, dall’esitazione e dal cuore dell’attore. Nel caso di un buon attore possiamo immediatamente vederne in modo chiaro il cuore, le radici dell’anima. Ma ciò non appare sul suo volto o sulla sua parte anteriore, bensì nei muscoli della schiena. Molte forze fluiscono in più direzioni dalla schiena e dalle braccia dell’attore, egli le riunisce e le trattiene dentro, le reprime e quindi avanza. Il trattenere queste forze gli permette di esprimere lo stato di tensione drammatica di cui stiamo parlando. R: È caratteristica non solo del n1o, ma di tutto il teatro classico giapponese che l’attore impari specifici modelli di movimento (kata) e solo attraverso di essi gli sia permesso esprimere ciò che sente. K: Tuttavia, ci sono molti equivoci nell’interpretazione dei modelli codificati di movimento ed espressione vocale. Secondo me l’importanza maggiore è rivestita da ciò che ha luogo nello spazio tra l’attore e lo spettatore. Sto parlando della moltitudine di piccoli movimenti pressoché invisibili che io chiamo il linguaggio interiore dell’attore. Logicamente non c’è spazio per questo all’interno della rigida norma dell’esecuzione di kata. Per esempio, in Izutsu l’eroina indossa l’abito del proprio amante, guarda nel pozzo e vede se stessa riflessa nell’acqua con il volto dell’amato. È come se vedesse incarnato il suo intimo desiderio (poiché ne aveva indossato gli abiti per sentirne la vicinanza!), lo desidera così tanto che all’improvviso il miracolo accade e può realmente vederlo. Così deve essere senza logica la frazione di un istante in cui lei pronuncia qualcosa che sembra una parola mai udita da nessuno: “Appari!”. Questo “Appari!” non è scritto da nessuna parte. Appartiene al dominio oltre il modello di movimento. È dotato di grande potere drammatico dovuto alla sua forte opposizione con la kata. Sono convinto che il regno della libertà oltre la kata, quando l’attore compie impercettibili gesti e proferisce impercettibili parole, sia enorme, sebbene solitamente gli spettatori – e anche gli attori – non lo percepiscano e ne siano ignari. R: Cosa può dire del fatto che tutte le kata si basano sul ritmo del respiro diviso nelle fasi dell’inspirare, del trattenere, dell’espirare!

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K: Sì. Alcune volte all’attore è dato un indizio: “Qui dovresti recitare trattenendo il respiro”. Alla lettera ciò è impossibile perché un attore potrebbe morire in scena se trattenesse veramente il respiro. Intendiamo un contegno in cui egli non esegue nessun movimento non necessario, e così la sua tensione psichica e la sua attenzione subitaneamente raggiungono il proprio massimo. Per aumentare l’energia psichica tutta l’attenzione deve essere diretta verso il contenimento e non verso il rilascio esterno, anche al punto di trattenere il respiro. Ce ne sono molti di tali apparenti paradossi nella tecnica del n1o. Ancora una volta voglio ripetere il pensiero di Zeami (dal momento che stiamo parlando di lui) secondo il quale in ogni ruolo, come in ogni uomo, c’è la faccia, il ruolo presentato alla gente e l’ura – l’opposto, il rovescio della medaglia. L’intero dramma si sviluppa dalla tensione tra volto e ura. È solo attraverso questa tensione che la condizione dell’anima è rivelata, mentre respiro e energia biologica formano le basi per i mezzi d’espressione. R: Parlando delle fasi delle azioni di un attore arriviamo, come anni addietro, alla questione della musica nel no1 . Musica e ritmo, anzitutto, concorrono a creare la performance. E come lei una volta ha detto, i mezzi base dell’espressione sono detti ka – canto – e bu – danza. Personalmente attribuisco molta importanza alla comprensione della materia teatrale. La mia propensione proviene dalla pratica con il Teatro Gardzienice. Là, come in nessun altro luogo, ho imparato come una canzone possa essere una forma d’espressione assolutamente essenziale, la base per costruire tutte le altre. Questo è uno degli assiomi nel lavoro di Wlodzimierz Staniewski. K: Per quanto riguarda la parte musicale del n1o, lasci che le racconti questa storia: durante la nostra ultima tournée in Europa abbiamo visitato, tra le altre nazioni, la Germania. Là un attore mio conoscente mi ha mostrato un album fotografico con istantanee di Helen Weigel prese durante le prove e le performance. Certo sapevo molto bene chi era Helen Weigel, ma ho avuto la netta impressione di guardare le foto di qualcuno che, incessantemente, eseguisse una danza assai drammatica. Era visibile la sua profonda coscienza dei più piccoli movimenti e di ogni postura del corpo. R: Così la precisa cognizione dei movimenti propri, delle azioni che si compiono, la linea di movimento, se così posso dire, consente di ottenere l’illusione che lei stia danzando e non solo camminando avanti e indietro sulla scena. Similmente l’attore n1o esegue le sue sequenze di kata. K: In entrambi i casi perché scaturisca l’effetto drammatico si deve sentire la costante tensione tra ciò che l’attore sta esprimendo esternamente e ciò che coscientemente nasconde per se stesso, ciò che deliberatamente trattiene dal rivelare. R: Il punto di partenza è di certo diverso perché nel n1o è noto dall’inizio che è la danza il mezzo di espressione, mentre nel caso di Helen Weigel si può credere che l’effetto abbia origine dall’accumulo di esperienza, attraverso numerose prove e lunghe ripetizioni di ciò che all’inizio non era necessariamente affine alla danza. La perfetta cognizione dei gesti propri dà luogo assai probabilmente, in modo naturale, alla loro naturalezza.

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K: Nel n1o pensiamo in modo analogo. Il keiko, training, comincia solo quando l’arduo corso di canto e movimento è terminato, quando attraverso questi mezzi d’espressione e sulle loro basi cominciamo ad arrivare al nostro proprio io. Quindi le abilità nella danza assumono tratti personali e il personaggio giunge a vivere sulla scena. Infatti, l’intera teoria di Zeami è dedicata a tale argomento. Il punto è che Kanze Tetsunojo e Iga Rodowicz dovrebbero risultare vivi sulla scena. R: Le teorie di Zeami furono dimenticate per alcune centinaia d’anni rimanendo praticamente sconosciute. Poi ampi circoli di lettori, per non parlare degli attori, ne fecero conoscenza nel XX secolo. Divennero note negli anni ’50 connesse, come sappiamo, con il volgere dell’attenzione all’interno delle avanguardie teatrali al teatro classico giapponese. Nella Tessenkai, la sua scuola teatrale, Zeami è letto anche da altri oltre che da lei? K (Sorridendo, dopo un lungo momento di silenzio): Non ha notato lei stessa che gli attori non lo leggono affatto? Nulla è cambiato. Quando presentiamo il n1o fuori dal Giappone recitiamo non come Tessenkai, ma come Zeamiza, Teatro di Zeami, perché coscientemente guardiamo a lui. Ciò non significa che proviamo ad adattarci alle sue teorie mentre recitiamo. Queste rappresentano il punto di partenza per noi. Il n1o è una delle forme teatrali viventi nel nostro tempo e se il n1o ha resistito seicento anni, dunque, deve contenere certi elementi che costituiscono l’essenza dell’arte teatrale e drammatica in generale. Se non pensassi a me come a un uomo contemporaneo immerso nel proprio mondo, e se costantemente non facessi lo sforzo di comprendere i nostri tempi terribili, non potrei essere in grado di recitare il n1o e, inoltre, non potrei comprendere una sola parola delle teorie di Zeami. Forse in questo momento potrei dire perché Zeami non è letto o conosciuto nelle altre scuole di n1o. Zeami non è ampiamente letto al di fuori del nostro gruppo. Tuttavia, per favore, non dimentichi che anche senza conoscere i trattati di Zeami si può fare esattamente ciò che proponeva. R: Così la lettura di Zeami è necessaria? K: È necessaria! È indispensabile! È la logica del teatro! La saggezza del teatro. R: Questo significa che i giovani allievi nella sua scuola leggono Zeami? K: Sì lo fanno. Ma non come punto di partenza per la pratica. I suoi trattati sono scritti in giapponese medievale – un linguaggio molto difficile. Di solito lo tengono a portata di mano, un po’ come un dizionario che li aiuta a delineare il loro percorso, le proprie scelte. Ancora una cosa. Per noi i classici occidentali sono diventati la nostra seconda esperienza a un tale livello che sono convinto della necessità di esaminare l’intero teatro classico giapponese – n1o, kabuki, ky1ogen – attraverso l’esperienza del teatro occidentale, attraverso Shakespeare.

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Training di Toni Samantha Phim - Ashley Thompson

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Dance in Cambodia, Oxford University Press, New York, 1999, pp. 44-50

All’età di otto o nove anni ragazzi e ragazze si incamminano sulla lunga strada che li porterà a diventare danzatori classici professionisti. Imparare a rendere significativa una combinazione di gesti della mano, di posture corporali e di movimenti, e l’intima comprensione del ruolo e dell’espressione facciale è il compito che li attende. Secondo i maestri occorrono almeno dodici anni per diventare un danzatore compiuto – sei per conoscere a fondo i passi e altri sei per comprendere gli aspetti spirituali ed emotivi della danza, così come per perfezionare l’arte dell’esecuzione, l’arte del comunicare l’atmosfera e la trama. L’articolazione e l’espressione delle mani del danzatore constano di svariate sfumature. Tuttavia, il significato si produce dalla totalità del movimento e dal posizionamento di ogni parte del corpo combinato con musica, costume e poesia cantata. Alcune posture e alcuni movimenti sono simbolici, altri più realistici tendenti a richiamare emozioni umane come paura, amore, rabbia, gioia. Altre ancora sono meramente connettive guidando la transizione da una posa di passaggio a un’altra. Certi gesti della mano possono avere interpretazioni multiple, dipendenti da come vengono combinati con gli altri elementi della danza. Nella danza classica le scimmie urlano, i prìncipi volano e le dee dicono addio attraverso combinazioni di postura, movimento, melodia e canzoni. Oggi il training si svolge presso la divisione di danza dell’Università Reale di Belle Arti. Gli studenti sono selezionati secondo criteri rigorosi: gli insegnanti scrutano lo sviluppo dei muscoli, la flessibilità, il senso del ritmo e dell’equilibrio, e la struttura del viso. I nuovi studenti vengono divisi subito in categorie. Le ragazze con una corporatura minuta e un viso tondo studieranno i ruoli femminili; quelle con una corporatura più robusta e un viso allungato interpreteranno i ruoli maschili e di orco. I ragazzi si eserciteranno a essere orchi lakhon khol oppure scimmie classiche o khol. La pratica è rigorosa. La disciplina è rigida e gli studenti affrontano strenuamente routine di esercizi per favorire l’iperestensione e la flessibilità così importanti per l’estetica della danza. Per più e più volte al giorno eseguono, inoltre, una serie di migliaia di posture di base e di movimenti chiamati chha banchos oppure kbach baat. La serie è divisa in due ritmi, uno relativamente lento

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durante il quale i danzatori eseguono pose simmetriche che vengono mantenute, e l’altro più veloce quando percorrono da una parte all’altra lo spazio scenico. Solo dopo essere divenuti padroni della sequenza, che necessita di circa un’ora per completarsi, gli studenti possono imparare le danze vere e proprie e i drammi danzati. Tuttavia continueranno a ripetere quotidianamente i movimenti di base, linguaggio centrale da cui le danze Khmer sono costituite. La cerimonia sampeah kru onora la natura sacra del rapporto maestro-allievo. Prima di ogni performance e nelle occasioni speciali nel corso dell’anno – quando imparano un nuovo ruolo, per esempio –, come parte di questa cerimonia i danzatori recitano preghiere mentre porgono incenso e altre offerte agli spiriti della danza, agli spiriti dei maestri di danza deceduti e ai loro insegnanti. Rendono grazie per il privilegio di tutto ciò che hanno potuto imparare, e chiedono che i propri insegnanti possano rimanere sempre in salute. Chiedono, inoltre, una guida mentre si sforzano di capire e affinare una parte preziosa della loro eredità culturale cosicché, un giorno, anche loro possano trasmetterla a un’altra generazione. Il momento centrale di una cerimonia collettiva sampeah kru, alla quale intervengono spesso molti rappresentanti delle comunità artistiche, è rappresentato dal basso tavolo sul quale sono esposte corone per la danza, maschere ed equipaggiamenti come un arco e un’ascia. Davanti al tavolo sono messi sul pavimento piatti di cibo su due lunghe file. Offerte di tronchi di banano intagliati sormontati da candele, fiori e incenso stanno all’inizio delle file e altre sono disposte prima del sampho nell’orchestra pin peat. Un maestro di cerimonie, seduto tra le file di offerte, invoca gli spiriti della danza, Shiva, Vishnu e Indra e altri esseri divini. Dando istruzioni ai musicisti, chiama a gran voce il nome di una sacra melodia dopo l’altra, mentre i danzatori siedono riverentemente a mani giunte in posizione di preghiera. Al momento opportuno i maestri anziani porgono i piatti delle offerte ai danzatori, quindi, alzandosi lentamente sull’accompagnamento di una melodia rituale, questi salutano gli spiriti levando le offerte verso i punti cardinali. Successivamente, durante il corso della cerimonia, eseguono estratti dalla serie di posture di base e specifici movimenti del ruolo del loro personaggio. Gli orchi, considerati in possesso della più grande concentrazione di forza, danzano per primi brandendo bastoni ed eseguendo ampi e calcolati gesti. Successivamente i danzatori specializzati in ruoli maschili e femminili danzano all’unisono, iniziando e terminando con posture stilizzate di preghiera e reverenza; le posizioni e i movimenti dei personaggi maschili risultano alquanto più ampi di quelli dei personaggi femminili. Le scimmie sono le ultime a danzare compiendo salti mortali e spulciandosi. Gli insegnanti chiudono la cerimonia legando fili di cotone bagnati in acqua lustrale attorno ai polsi dei loro allievi. Mentre eseguono tali gesti, tesi ad assicurare gli spiriti vitali o le anime dei danzatori nei loro corpi, gli insegnanti offrono benedizioni, consigli ed esortazioni a coloro cui è affidata la trasmissione della loro

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lunga tradizione. Creando un senso di continuità spirituale e storica la cerimonia sampeah kru accresce, per i danzatori, la potente relazione tra ieri, oggi e domani. I danzatori di un villaggio della provincia di Kandal, indipendente dalla corte o dalle istituzioni del governo centrale, eseguono danze classiche per ottenere il favore delle tevoda (divinità) ogni Capodanno e in onore degli spiriti dei defunti durante l’annuale Festa dei Morti. Centinaia di paesani si raccolgono nel tempio locale unendosi in preghiere cerimoniali e performance. Iniziano con una cerimonia sampeah kru, tenuta nella sala da pranzo della scimmia, in cui gli spiriti ancestrali locali sono invocati a lungo assieme a quelli della danza. Le offerte sono molto meno elaborate di quelle preparate per una cerimonia sampeah kru nella capitale. Le maschere e gli equipaggiamenti per la danza sono laceri e fragili. Accompagnate dall’orchestra pin peat locale, le invocazioni e le danze procedono punteggiate da voci e movimenti di medium in trance. Uno di questi, seduto, comincia a muovere braccia, mani e torso secondo un ritmo interiore. Un altro piange e si agita. Al contempo un medium esegue movimenti di danza classica stando in piedi mentre un altro ancora, che si crede sia posseduto dallo spirito di un orco, cammina impettito attraverso la folla con le gambe levate in nobile andatura, gomiti curvi e le spalle alzate. Dopo questa cerimonia mattutina i danzatori danzano davanti alla statua del Buddha, nel santuario del tempio, una pratica ritenuta non ortodossa da quelli della compagnia reale. Più tardi eseguono brani di brevi danze e un lungo dramma danzato ancora nella sala da pranzo della scimmia. Queste sono occasioni straordinarie dove quella che si può considerare come la più popolare delle arti performative cambogiane – la possessione – si fonde letteralmente con la più sofisticata forma di espressione culturale della nazione – la danza classica. Il continuum dalla gente alla monarchia agli dei è realizzato attraverso la performance, e gli spiriti della danza sono invitati a proteggere non solo gli artisti ma la comunità come entità unica.

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Danzati dagli dei Il rito della trance e lo spettacolo della possessione a cura di Carolina Guzman

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Introduzione

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di Carolina Guzman

Perché dedicare alla trance, un argomento di così vasta portata che ha interessato studiosi di diverse discipline, dalla psichiatria, alla neurofisiologia, all’antropologia, un’intera sezione di un’antologia sui teatri asiatici? Per poter dare una risposta è necessario anzitutto comprendere cosa si intenda con il termine trance. Potremmo genericamente definirla come uno stato modificato di coscienza per il quale la natura umana ha una disposizione psicofisiologica innata, la variabilità delle cui manifestazioni deriva dalle diverse culture attraverso le quali trova forma1. Ma è riferendoci alla sua particolare funzione all’interno delle diverse culture asiatiche2 che possiamo chiarire il rapporto che la trance ha con il teatro. La trance, infatti, è ritenuta un efficace mezzo di comunicazione diretta con il divino, sia nella forma di una fuoriuscita da sé per intraprendere un viaggio nel mondo degli esseri soprannaturali, sia come possessione da parte di un essere esterno che si sostituisce alla volontà del posseduto e lo usa come cavalcatura. Nel primo caso si ha una narrazione (attraverso gesti, musica e canto) del viaggio compiuto dallo sciamano nel mondo degli spiriti, nel secondo una sorta di impersonificazione dello spirito che possiede il medium, attuata per mezzo della danza, del costume, della parola. È evidente come la trance e il teatro – inteso naturalmente nel senso più ampio del termine, come è necessario quando ci si rapporta al mondo teatrale asiatico – abbiano un particolare rapporto di affinità: sono entrambi eventi pubblici, organizzati spesso con grande cura e attenzione agli effetti, che si servono delle medesime tecniche del corpo, attuando talvolta mutui prestiti e contaminazioni (il costume del sintren, danza in trance giavanese, è lo stesso delle danzatrici locali, alcuni archetipi del main peteri, cerimonia sciamanica malese, sono anche i protagonisti dei 1

G. Rouget, Musique et la transe, Gallimard, Paris, 1985, trad. it., Musica e trance, Einaudi, Torino, 1986, p. 11. 2 La trance come comportamento atteso e regolato da rituali è un argomento che coinvolge quasi tutte le società cosiddette tradizionali. In questa sede restringeremo la nostra attenzione solo ai paesi del sud-est asiatico, escludendo dalla nostra analisi il complesso fenomeno dello sciamanismo siberiano e centro asiatico.

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drammi danzati makyung, solo per citare alcuni esempi). Ma, mentre il teatro si situa sul piano della finzione condivisa, la trance comporta un’esperienza estremamente reale e pertanto può essere definita pre-teatrale. Infatti, a differenza dell’attore che si limita a rappresentare i diversi personaggi del dramma, lo sciamano e il posseduto diventano realmente quei personaggi (il temine usato dai balinesi per definire la trance è nadi, da dadi che significa diventare, essere3). Indipendentemente dal fatto che l’individuo sia realmente in trance o si limiti a riprodurre fedelmente i comportamenti stereotipati che caratterizzano la presenza del personaggio mitico in questione, agli occhi del pubblico e dei partecipanti al rituale egli ha varcato la soglia di un altro ordine di esistenza, e la presenza della divinità è considerata reale. Una trance recitata è dunque altrettanto efficace di una trance autentica. Solo partendo da questi presupposti è possibile analizzare la vasta gamma dei rapporti tra trance e teatro, dalla teatralità delle sedute sciamaniche alla presenza della trance in alcuni generi teatrali popolari o in veri e propri drammi danzati, eseguiti da membri del villaggio o da troupe di attori professionisti. Un’ulteriore premessa si rende necessaria. L’errore di molti studiosi occidentali è stato analizzare la trance utilizzando metri di giudizio etnocentrici, fondati sulla psichiatria occidentale e sul nostro modo di intendere i concetti di normalità e devianza. Basandosi principalmente sulla somiglianza dei sintomi e delle manifestazioni esteriori (tremori, turbe psichiche, convulsioni, autolesionismo, catalessi, etc.), la trance è stata associata a disturbi psichici come isteria, psicosi, dissociazione, schizofrenia, con quanto di negativo questi termini portano con sé. Ma ciò che nella mentalità occidentale è considerato un comportamento anomalo e deviante, nella mentalità orientale è invece un comportamento normale, atteso, socialmente accettato e regolato, stereotipato, utilizzato in particolari occasioni rituali a fini terapeutici, ed è ben distinto dalla malattia mentale. Per comprendere tale diversità dobbiamo ricordare che mentre in occidente l’identità personale e quella culturale sono considerate come “essenzialmente unitarie, non dissociabili nel corso del funzionamento ordinario, stabili ed evolutive nel corso del tempo”4, i sistemi orientali tradizionali presuppongono l’esistenza di dimensioni molteplici della realtà: l’individuo può anche possedere più anime, ed è inserito in un mondo nel quale gli spiriti, gli dei e i demoni sono sentiti come presenze effettive, reali, che influenzano direttamente la sua esistenza. Come abbiamo accennato in precedenza la trance può essere di tipo estatico (ekstasis, uscita), implicare cioè una dilatazione dello spirito (mind-expanding), oppure di possessione, quando la volontà dell’individuo è soppressa per l’intrusio-

3 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books Inc., New York, 1973, trad. it., Interpretazione di Culture, il Mulino, Bologna, 1988, p. 148. 4 S. Inglese, Centralità antropologica degli stati modificati di coscienza nella cultura balinese, in “AM, Rivista Italiana di Antropologia Medica”, voll. 1-2, ARGO, Perugia, 1996, p. 417.

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ne di una forza esterna, ma la distinzione che vedrebbe la prima come essenzialmente attiva e volontaria, e la seconda come passiva e indotta, non è così netta. Le due forme devono essere intese come estremi opposti di una scala che presenta infinite gradazioni. La figura che riassume in sé entrambe le potenzialità della trance è lo sciamano, il “tecnico dell’estasi” secondo M. Eliade5, lo specialista rituale: sulla scorta di una personale storia di sofferenza, malattie, disturbi fisici e psichici, dopo aver superato una serie di prove ed essersi sottoposto alle cerimonie di iniziazione e al periodo di apprendistato rituale, è riuscito a divenire padrone dei suoi spiriti, a dominare così la propria trance, oltre che ad acquisire il potere di indurla, vale a dire obbligare gli spiriti a rispondere alla sua chiamata e a manifestarsi in se stesso o in altri individui. La principale differenza, pur nella diversità delle tradizioni asiatiche, tra lo sciamano e il paziente o l’attore posseduto, è che il primo possiede la tecnica e il potere di indurre volontariamente la propria trance, mantenendo spesso un certo controllo anche durante la performance stessa, almeno nella misura in cui è in grado di raccontare la propria esperienza, mentre solitamente il posseduto non ricorda o pretende di non ricordare nulla delle sue azioni. Lo sciamano è ancora oggi una figura centrale in molte società asiatiche, un punto di riferimento della comunità nelle pratiche di guarigione, soprattutto quando la malattia è diagnosticata come possessione da parte di un demone o uno spirito malevolo6, e nelle cerimonie di propiziazione per garantire il benessere e la prosperità di un individuo o della comunità. Esistono principalmente due tipologie di sciamani, quelli estatici, per i quali la trance, dapprima spontanea, poi volontariamente ricercata e controllata, diventa il metro di giudizio della loro validità come specialisti rituali, e quelli non estatici, che cioè non cadono in trance, la cui carica è spesso assunta per via ereditaria, ma sono comunque in grado di indurre la trance nei loro pazienti. Nelle forme di trance spettacolari indonesiane, ad esempio, lo specialista rituale non agisce in scena, rimane in disparte, ma il successo della performance dipende da lui, perché detiene il potere di chiamare e controllare le divinità e gli spiriti che si manifestano, e garantire l’incolumità degli attori. Disgrazie ricorrenti, sfortuna, malesseri di tipo psicosomatico (svenimenti, insonnia), disturbi psichici (allucinazioni, accessi di follia) e alcuni disturbi fisici (vomito, diarrea, mal di testa) sono alcuni esempi di problemi per i quali si ricorrerà alla seduta sciamanica, se i rimedi naturali, le medicine, le preghiere o gli incantesimi non hanno avuto successo. Vi sono alcune categorie di persone che sembrano essere più vulnerabili alla possessione, come ad esempio le donne, in particolare delle classi più disagiate. Se consideriamo la posizione femminile nelle società 5

M. Eliade, Le Chamanisme et les techniques archaiques de l’exstase, Éditions Payot, Paris, 19461951, trad. it., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma, 1974, 1991/2. 6 Trance e possessione non sono termini intercambiabili: così come la trance non implica necessariamente la possessione da parte di uno spirito, vi può essere possessione senza che la vittima sperimenti uno stato modificato di coscienza.

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orientali tradizionali vediamo che la donna invariabilmente ha uno status inferiore all’uomo, cui è totalmente subordinata, e il suo comportamento è regolato da rigide prescrizioni che non le lasciano molte libertà. La possessione diagnosticata come malattia permette a queste categorie di ricevere una maggiore attenzione, e sfruttare una modalità socialmente accettata di scaricare le proprie tensioni e manifestare i propri desideri repressi attraverso la trance rituale7. L’esperienza della trance può essere anche letta nei termini di un rito di passaggio: l’individuo sperimenta dapprima uno stadio di separazione, una sorta di morte simbolica nella quale si compie una rottura con la vita precedente, poi uno stadio di liminalità, durante il quale il soggetto viene a contatto con una dimensione altra della realtà, e infine uno stadio di reintegrazione, quando l’individuo si desta dal sonno ipnotico, ritorna alla realtà, ma trasformato, perché porta per sempre impressa dentro di sé l’impronta del divino. Passiamo ora ad analizzare singolarmente i vari elementi strutturali della trance che definiscono il suo carattere teatrale. In primo luogo l’uso della musica, strumentale e vocale, una componente pressoché universale delle sedute sciamaniche e delle cerimonie di possessione. Dall’approfondita analisi di Rouget8 possiamo ricavare alcune caratteristiche fondamentali del rapporto fra musica e trance applicabili anche all’ambito asiatico. La musica, suonata da musicisti professionisti, da assistenti sciamani o da membri del villaggio incaricati, è utilizzata sia per indurre la trance che per accompagnare e identificare la manifestazione del divino attraverso la danza dello sciamano o del posseduto. Nel primo caso si deve escludere qualsiasi legame neurofisiologico tra le caratteristiche ritmiche o melodiche dell’emissione sonora e la modificazione dello stato di coscienza: la prova è che esistono tante musiche quante sono le forme di possessione e ogni cultura musicale presa in esame presenta degli aspetti ritmici propri, nessuno dei quali è specifico della trance. Un’osservazione simile si può fare a proposito dell’uso degli strumenti: è vero che il tamburo è spesso presente, anche per la sua versatilità, dal momento che può essere utilizzato come strumento sia ritmico che melodico, ma accanto o in sostituzione di esso troviamo strumenti a fiato, cembali, campane, etc. Vi sono alcuni elementi ricorrenti nella struttura musicale, come le rotture di ritmo, l’accelerazione del tempo o l’intensificazione progressiva del suono, che accompagnano il soggetto all’abbandono di ogni resistenza fino alla completa entrata in trance, ma le eccezioni sono numerose, e il carattere della musica è sempre strettamente legato al carattere della trance, che può essere violenta e convulsiva, tanto quanto dolce e delicata.

7 I. Lewis, Estatic Religion: An Anthropological Study of Spirit Possession and Shamanism, Harmondworth, Penguin Book, Middlesex, England, 1971, trad. it., Le religioni estatiche, AstrolabioUbaldini, Roma, 1972. 8 G. Rouget, Musique et la transe, cit.

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Il rapporto tra musica e trance è dunque da intendersi come culturalmente mediato e costruito, non dipendente da fattori biologici o dalla trasmissione delle onde sonore. Per ogni cultura, e all’interno di essa per ogni forma di trance, vi sono delle musiche e dei suoni che sono ritenuti capaci di generare la trance o di identificare lo stato di possessione, risvegliando nell’individuo predisposto alla trance (secondo Rouget per entrare in trance non solo è necessario essere preparati fisicamente e psicologicamente, ma anche intellettualmente, avere cioè deciso, più o meno inconsciamente, di abbandonarsi a essa9) forti associazioni emotive che coinvolgono la sua intera sensibilità, e contribuiscono a creare le condizioni favorevoli all’entrata della coscienza in uno stato modificato. Un esempio illuminante è l’uso delle percussioni con tubi di bambù nelle sedute sciamaniche dei Senoi Temiar della penisola malese, presso i quali il rapporto tra uomo e spirito è considerato una forma di attrazione che, se non controllata, può portare l’anima fuori dal corpo verso gli spiriti della giungla, o al contrario far entrare nel paziente uno spirito esterno: il ritmo pulsante delle percussioni è ritenuto capace di attirare gli spiriti perché “si muove insieme al cuore”, evocando sentimenti di desiderio, inteso in senso sessuale10. Rouget, inoltre, differenzia la musica sciamanica da quella che accompagna le possessioni, affermando che la prima è dotata di un potere magico che risiede nella forza dell’incantesimo e del suono. In particolare è il canto dello sciamano, nei suoi aspetti invocativi, descrittivi o narrativi, ad assumere la funzione incantatoria: mentre evoca il mondo dell’invisibile, gli dà vita, lo realizza. Il canto, inoltre, permette la comunicazione con l’uditorio, ed è anche un incitamento alla danza11. E proprio la danza è un’altra componente fondamentale delle manifestazioni di trance. A differenza della musica, essa determina delle modificazioni anche a livello fisiologico oltre che psicologico, che possono essere causate, ad esempio, dalla ripetizione dei movimenti, iperventilazione o ipoventilazione, dondolamenti, sforzi fisici intensi, etc. Ha anch’essa un duplice ruolo: può essere astratta, e in questo caso precede la trance e ha la funzione di generarla, o può essere figurativa, teatrale, quando il movimento serve a identificare la divinità che sta possedendo il soggetto. Qui si pone necessariamente la questione della spontaneità della danza estatica. Chi danza in stato di trance è considerato inconsapevole, i suoi movimenti e il successo della performance dipendono dalla volontà del dio che lo sta cavalcando. Normalmente si nega con fermezza che gli esecutori di questi rituali abbiano seguito un training specifico per affrontare la danza in stato di trance. Anche se per alcuni casi è dimostrabile il contrario (si veda più oltre il saggio di Kathy Foley

9

G. Rouget, Musique et la transe, cit., p. 430. M. Roseman, The Pragmatic of Aesthetics: the Performance of Healing Among Senoi Temiar, in “Social Science and Medicine”, vol. 27, n. 8, Pergamon, Oxford, 1988, p. 814. 11 G. Rouget, Musique et la transe, cit., p. 181-182. 10

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su Giava), non dobbiamo dimenticare che tutti i membri della popolazione, fin dalla nascita, sono a diretto contatto con le manifestazioni di trance, e che possono apprendere per osservazione e ripetuta esposizione i comportamenti stereotipati attesi in ciascun caso. Anche il rapporto tra danza e trance è culturalmente costruito e le modalità del movimento sono estremamente variabili: in alcuni casi ritroviamo tremori, spasimi, convulsioni, svenimenti e collassi, o danze molto violente con salti e acrobazie, ma in altri casi la danza è estremamente delicata, fluttuante, ha una qualità che potremmo definire sonnambolica. A Bali, ad esempio, possiamo osservare le complesse e armoniose danze delle bambine del sanghyang dedari, ma anche la convulsiva danza dei portatori di kriss, a Giava i delicati e fluttuanti movimenti del sintren e le acrobazie dei performer del dabus. Un aspetto ricorrente delle forme di trance a carattere spettacolare è l’uso del corpo nei termini del superamento dei limiti del quotidiano. La fisicità stra-ordinaria degli attori in trance se da un lato “favorisce i processi liberatori che portano all’identificazione con dei modelli mitici”12, dall’altro diventa il segno visibile della presenza della divinità che, entrando nel corpo del posseduto, lo rende invulnerabile e dotato di forza prodigiosa. In questa prospettiva si devono leggere le manifestazioni esteriori eclatanti, come le acrobazie o gli atti di automutilazione, le prodezze fisiche come ingoiare lame o vetro che possiamo osservare nelle performance giavanesi di dabus o kuda képang, le contorsioni e il colpirsi ripetutamente il petto con pugnali acuminati come accade nella spettacolare trance dei danzatori di kriss balinesi, la danza sulle lame affilate poste sopra una brocca di terracotta nelle cerimonie di iniziazione delle sciamane coreane, etc. E.T. Kirby, nel suo saggio sulla derivazione delle forme di intrattenimento popolari, come la magia e le tecniche acrobatiche, dalle performance sciamaniche sottolinea come i poteri straordinari, che siano reali o frutto di abilità illusionistiche, non cercano di “imitare, riprodurre o registrare le forme esistenti della realtà sociale. Piuttosto le arti performative che si sono sviluppate dalla trance sciamanica, possono caratterizzarsi come la manifestazione, o la rievocazione di una realtà immediatamente presente che appartiene a un ordine differente, ha una natura e una qualità diverse rispetto alla realtà stessa”13. Esse hanno quindi lo scopo di rompere la superficie della realtà, per far emergere una nuova realtà superiore che è più vera di quella ordinaria. Nelle società in cui alla funzione centrale dello sciamano come punto di riferimento della vita religiosa della comunità si sostituisce la ritualità di Stato, come ad esempio in Cina o in Giappone, lo sciamano trova un proprio spazio nei riti e negli spettacoli popolari marginali, legati alla vita agricola, trasformandosi in spettacolan-

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G. Ottaviani, L’attore e lo sciamano, Bulzoni, Roma, 1984, p. 21. E. T. Kirby, The Shamanistic Origins of Popular Entertainment, in “The Drama Review” vol. 18, n. 1, New York University, School of the Arts, New York, 1974, p. 14. 13

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te professionista: la sua trance non è più il mezzo per rendere tangibile e immediata la presenza della divinità nell’individuo e affermare la capacità dell’uomo di agire controllando forze a lui superiori, ma diventa un mezzo per superare le limitate capacità fisiche umane, usando il corpo oltre la misura del quotidiano per stupire, meravigliare, ponendosi al contempo al di là di ogni giudizio etico. Dove invece lo sciamano viene chiamato a corte e integrato nell’attività rituale, perde progressivamente la sua funzione di tramite privilegiato con il divino attraverso la trance, trasformandosi in attore o danzatore, come accadde per le miko giapponesi che da sacerdotesse-sciamane diventarono figure decorative nelle danze di corte kagura14. Un altro elemento ricorrente nelle cerimonie che prevedono la trance è il travestimento, ovvero l’uso di maschere, trucco, costume e accessori che nel contesto rituale assolvono a una duplice funzione. Da un lato sono necessarie a identificare la divinità o lo spirito che fa la sua apparizione, una funzione che è propria anche del costume teatrale, tanto che in alcuni casi – come ad esempio nel sintren giavanese – i due coincidono. In seconda istanza sono il veicolo per la presenza dello spirito stesso: l’inizianda sciamana coreana, ad esempio, sarà spinta a scegliere casualmente in un mucchio di abiti un costume, indossando il quale e danzando al suono dei tamburi e dei cimbali, incarnerà e darà voce allo spirito a esso connesso. Inoltre, quanto più maschera e costume si distanziano figurativamente dai modelli umani, sfociando nel mostruoso e nel terrificante, tanto più “si fanno segni e tramiti della trasformazione fisica dell’individuo che deve raggiungere una lontana alterità”15. La maschera, in particolare, è spesso considerata sacra e dotata di potenza magica intrinseca (in sanscrito ésakti), e deve essere conservata e maneggiata con precauzione, secondo precisi rituali. A Bali, ad esempio, la maschera di Rangda, la Vedova-Strega personificazione del male, quando non è usata, è coperta da una stoffa bianca per impedire ai poteri magici di diffondersi e, prima di indossarla, l’attore è tenuto a purificarsi recitando preghiere, compiendo sacrifici agli dei, meditando e seguendo particolari prescrizioni alimentari, altrimenti potrebbe ammalarsi gravemente o impazzire. Sedute sciamaniche e performance che prevedono la trance sono spesso caratterizzate anche dalla presenza di dialoghi comici e pantomime che spaziano dalla farsa all’oscenità. Tale funzione, ad esempio, è assegnata alle figure di clown-assistenti che intrattengono il pubblico in Indonesia, fungendo da contrappunto alla performance seria di attori e danzatori, mentre in ambito coreano vi è un particolare tipo di rituale sciamanico, il py&olsin kut, nel quale i dialoghi comici hanno una notevole rilevanza16.

14

G. Ottaviani, L’attore e lo sciamano, cit., pp. 46-47. G. Ottaviani, L’attore e lo sciamano, cit., p. 21. 16 D. A. Kister, Comic Play in a Korean Shaman Rite in M. Hoppàl e K. Howard, a cura di, Shaman and Cultures, Akadèmiai Kiadò, Budapest, International Society for Trans-Oceanic Research, Los Angeles, 1993, pp. 40-47. 15

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Nel suo fondamentale contributo sul sanni yakuma singalese, Obeyesekere analizza la funzione dell’oscenità nella rappresentazione dei demoni Sanni: “Nella vita normale gli uomini definiscono il ruolo del demone in termini di potere, malevolenza, irrazionale vendicatività. Nel quotidiano gli uomini temono fortemente il confronto con questi esseri spaventosi che popolano il loro ambiente. I demoni, a loro volta, attaccano gli esseri umani: e il paziente che è presente nello spazio rituale è l’evidenza diretta del potere vendicativo dei demoni. Se il ruolo del demone fosse generalizzato nella situazione rituale, gli esseri umani sarebbero terribilmente spaventati, dal momento che anche questa è una situazione in cui l’uomo si confronta con il demone”17. L’apparizione dei demoni mascherati, ridicolizzati e resi vittime delle malattie di cui sono loro stessi considerati la causa, genera un fenomeno catartico di inversione: il paziente, e il pubblico che in lui si identifica, possono ridere delle proprie paure interiori. Il riso conduce a un rilascio della tensione causata dal rapporto di subordinazione dell’uomo nei confronti degli esseri superiori, non solo dei demoni, ma anche delle divinità e degli spiriti che nella vita quotidiana sono oggetto di timore reverenziale. L’oscenità caratterizza anche il noto episodio riportato dal Kojiki, cronaca storica giapponese dell’ottavo secolo, nel quale si narra della danza di Uzume-no-mikoto, l’antenata delle danzatrici sacre, la donna-dea-sciamana, davanti alla caverna in cui si era rinchiusa la dea del sole Amaterasu, lasciando il mondo in balìa delle tenebre. Dopo essere salita sopra un secchio capovolto, Uzume danzò in stato di trance esibendo il seno nudo e i genitali, e provocando così la risata della miriade di divinità che assistevano alla scena. Allora la dea Amaterasu, incuriosita, aprì la caverna restituendo il sole al mondo. Alcuni studiosi hanno interpretato l’episodio, l’uso dell’oscenità a scopo di divertimento, come la nascita dell’evento teatrale. Ma è importante sottolineare che, in quanto risultato di una danza in stato di trance, l’oscenità è inserita in un contesto rituale nel quale ha una funzione essenzialmente catartica. La fragorosa risata contribuisce infatti a risolvere una situazione di crisi cosmica, a ristabilire un equilibrio necessario alla vita. Un’ultima considerazione riguarda il pubblico. Le sedute sciamaniche e la possessione, quando non è spontanea e inattesa, sono sempre eventi pubblici. Così come è difficile separare l’ambito del rito da quello dello spettacolo, è altrettanto arduo distinguere nettamente i partecipanti dagli spettatori. Accanto alle persone direttamente coinvolte, lo sciamano e il suo paziente, l’officiante e l’attore, vi sono i musicisti, che, pur non cadendo in trance, partecipano attivamente guidando e accompagnando la danza, i familiari del paziente, che sono coinvolti emotivamente e talvolta sono chiamati anche a partecipare attivamente al rito, i membri della comunità, che condividono le aspettative nei confronti della cerimonia e, infine, i

17

G. Obeyesekere, The Ritual Drama of the Sanni Demons: Collective Representations of Disease in Ceylon, in “Comparative Studies in Society and History”, vol. 11, n. 2, Cambridge University Press, Cambridge, 1969, p. 204.

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semplici spettatori, che assistono per pura curiosità o divertimento, e che possono comprendere persone provenienti da altre comunità o addirittura altre culture, come i turisti stranieri. Talvolta, dove il livello di coinvolgimento emotivo e psicologico è più forte, gli spettatori possono diventare attori, come accade ad esempio a Bali, durante le rappresentazioni del calonarang, quando membri del pubblico possono cadere improvvisamente in trance e precipitarsi sulla scena strappando i kriss dalle mani dei performer per puntarseli contro il petto. Il livello di coinvolgimento del pubblico cambia quando queste performance dalla piazza del villaggio o dal cortile del tempio vengono inserite in un contesto più occidentale, come il palcoscenico di un teatro o di un auditorium, ed eseguite per il divertimento di un pubblico cittadino o di turisti. La modernizzazione che si sta attuando in questi ultimi decenni in tutti i paesi asiatici ha comportato grossi mutamenti, soprattutto nelle grandi città più esposte all’influenza dei modelli occidentali. Mutano le condizioni di vita, di abitazione, di lavoro, si modifica la struttura dei rapporti sociali con una nuova generazione che non sempre accetta di conformarsi ai modelli tradizionali, cambia la concezione del tempo laddove alla ciclicità di un’economia agricola si sostituiscono gli orari di una economia industriale. Questi mutamenti coinvolgono naturalmente anche l’ambito delle cerimonie, del rito collettivo, della festa e del teatro. Lo sciamanismo, tuttavia, non costituendo una vera e propria religione, ma piuttosto una modalità di rapportarsi con il divino, ha dimostrato una notevole vitalità e capacità di adattamento, accogliendo e integrando nel suo pantheon divinità e spiriti appartenenti ad altre fedi religiose18. Da parte degli organismi culturali nazionali, inoltre, è nata l’esigenza di preservare le forme considerate tradizionali e rappresentative di un carattere autenticamente nazionale, tra le quali si annoverano anche le diverse forme di trance di possessione. Spesso, però, questo comporta la loro trasformazione in spettacoli adattati alle aspettative di un pubblico di città (accentuazione del carattere spettacolare e degli effetti, significativa riduzione della durata, etc.) e alle esigenze dei mass media (cinema e televisione) che, se da un lato contribuiscono a diffondere la conoscenza di tali forme, dall’altro concorrono alla massificazione culturale. Ma la trance, anche laddove il significato rituale originario non è più evidente, che avvenga nella strada di un villaggio, nel cortile di un tempio o su un palcoscenico di città, apre ancora uno spiraglio su una realtà altra, superiore a quella quotidiana, testimonia la presenza viva, tangibile del divino, instaura e ribadisce un legame tra l’uomo e il mondo soprannaturale.

18 Si veda ad esempio A. Guillemoz, Seoul, la veuve et la mudang - Les transformations d’un chamanisme urban, in “Diogene”, n. 158, Gallimard, Paris, 1992.

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Mugam: la danza in abiti sciamanici di Laurel Kendall

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“Korea Journal”, vol. 17, n. 12, 1977, pp. 38-44

C’è un momento nel rituale del kut dello sciamanismo coreano, nel quale le donne della famiglia, i parenti e i vicini indossano gli abiti della sciamana e danzano accompagnati dal tamburo. Quando lo spirito arriva (sin i olatta) la donna che sta danzando comincia a saltare rapidamente sul posto al suono del tamburo. Agita le braccia. Il volto si contrae in una smorfia che suggerisce intenso dolore o piacere. Questo è il mugam, la danza in abiti sciamanici. Il mugam è una danza in trance: la buona riuscita delle azioni del danzatore è considerata involontaria ed è attribuita alla presenza di uno spirito personale1. L’etnografia comparativa sostiene che la trance di possessione, frequentemente provocata dalla musica e dalla danza nel contesto dei rituali di guarigione, offra una liberazione catartica dalla tensione e dalle privazioni sociali. La recente letteratura etnografica sui culti di possessione, nei quali la danza in trance è un elemento essen1

Entrambe le esperienze della sciamana coreana nel rito e della danzatrice mugam non professionista si adattano alla definizione della Bourguignon della trance di possessione: “… la possessione esiste quando le persone in questione ritengono che una data persona cambi in qualche modo attraverso la presenza in o su di lei di un’entità spirituale o potere al di fuori della sua propria personalità, anima, sé o qualcosa di simile… la trance di possessione esiste in una data società quando vi riscontriamo una simile credenza nella possessione, ed è utilizzata per giustificare alterazioni o discontinuità nella coscienza, vigilanza, personalità o altri aspetti della funzionalità psichica” (E. Bourguignon, Possession, Chandler and Sharp, San Francisco, 1976, p. 7). Secondo questo criterio la sciamana coreana sperimenta la trance di possessione quando lo spirito ascende (ollatta) o discende (naery&otta) sulla sua persona nel corso dell’attività rituale. Così nel mugam lo spirito ascende (ollatta) sul danzatore. La percezione del partecipante è qui accettata come l’unico criterio di esistenza della trance di possessione. Non ho tentato di esaminare il processo e la validità dell’esperienza del danzatore attraverso l’imposizione di criteri esterni riguardanti gli stati alterati di coscienza. Mi si lasci soltanto suggerire di passaggio che la mia osservazione del mugam conferma le teorie di altri che le percussioni, la danza, l’aspettativa e lo stimolo di un pubblico hanno tutti un ruolo nel far raggiungere lo stato di trance di possessione (E. Bourguignon, Possession, cit., p. 48; R. Needham, Percussion and Transition, in Wm. A. Lessa e Evan Z. Vogt, a cura di, Reader in Comparative Religion, Harper and Row, New York, 1972; E. Norbeck, Religion in Psimative Society, Harper and Row, New York, 1969, pp. 9093).

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ziale delle guarigioni rituali, include pratiche diffuse simili come il vodu haitiano2, il culto zar dell’Etiopia3, la confraternita Hamadsha del Marocco4, i rituali main peteri del Kelantan in Malaysia5, e la danza nat burmese6 tra numerosi altri esempi. Dal momento che le principali partecipanti ai culti di possessione sono il più delle volte donne, Lewis sostiene che: “… è nei termini dell’esclusione delle donne dalla piena partecipazione agli affari sociali e politici e della loro finale soggezione agli uomini che dobbiamo cercare di comprendere la maggiore incidenza femminile nella possessione periferica”7. Secondo Lewis la trance di possessione offre alle donne strategie indirette di compensazione per fronteggiare la loro subordinata posizione sociale. In stato di trance si può dire l’indicibile. Il culto della possessione è perciò interpretato come “una sottocultura femminile, con una religione estatica limitata alle donne e protetta dall’attacco maschile grazie alla sua presentazione come terapia per la malattia”8. Lewis presenta una teoria audace, ma applicabile all’analisi di quelle relative al caso coreano. Certamente le donne coreane fruiscono di uno status subordinato: per tradizione sono state private di potere e prerogative al di fuori dell’ambiente domestico, ed è frequentemente attribuito uno scarso valore alla discendenza femminile. Le donne coreane, inoltre, a qualsiasi classe appartengano, godono costantemente di minori opportunità socialmente approvate per allentare piacevolmente la tensione, come bere, danzare e divertirsi, rispetto alla loro controparte maschile. E sicuramente il kut sciamanico offre alle donne una possibilità ampiamente sfruttata per bere, danzare e divertirsi tra loro. La danza mugam è dunque la manifestazione di una modalità coreana di religione estatica? La danza in trance fornisce alle donne coreane una strategia di risarcimento, un mezzo per compensare la loro esistenza sociale subordinata e limitata? Il complesso di pratiche rituali associate allo sciamanismo coreano e conservate principalmente dalle donne riflette effettivamente una sottocultura femminile potenzialmente sovversiva?

2

E. Bourguignon, Possession, cit., pp. 15-41. S. D. Messing, Group of Therapy and Social Status in the Zar Cult of Ethiopia, in “American Anthropologist”, 60/6, 1958, pp. 1120-1126. 4 V. Crapanzano, The Hamadsha: A Study in Moroccan Ethnopsychiatry, University of California Press, Berkeley, 1973. 5 C. S. Kessler, Conflict and Sovereignity in Kelantanese Malay Spirit Seances, in V. Crapanzano and V. Garrison, a cura di, Case Studies in Spirit Possession, Wiley, New York, 1977. 6 M. E. Spiro, Burmese Supernaturalism, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1967. 7 I. M. Lewis, Ecstatic Religion, Penguin, Hammondsworth, 1969, trad. it., Le religioni estatiche, Astrolabio, Roma, 1972, p. 72. 8 I. M. Lewis, Ecstatic Religion, cit., p. 73. 3

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Gli studiosi coreani dello sciamanismo, in effetti, hanno considerato la danza mugam un mezzo di liberazione, se non di ribellione. Kim Kwang-iel, che ha studiato lo sciamanismo coreano dal punto di vista della psicoterapia, considera il mugam un mezzo per raggiungere la catarsi: “… mentre danzano nel mugam… (le partecipanti)… scaricano la frustrazione e la rabbia accumulate e le rielaborano nella trance”9. Secondo un antico proverbio coreano della società repressiva della dinastia Yi, le suocere dispotiche tentavano di impedire alle loro nuore di partecipare al kut, nel quale avrebbero potuto abbandonarsi alla piacevole liberazione della danza mugam. Ma le nuore non potevano essere fermate. Come antropologa sul campo, ho intrapreso uno studio personale del mugam poiché, a prima vista, la danza suggerisce dei parallelismi tra lo sciamanismo coreano e la teoria generale di Lewis sulle donne, la privazione sociale e la possessione10. Una dettagliata disamina della danza mugam nei suoi stessi termini potrebbe favorire la comprensione della natura delle attività religiose delle donne coreane. Inoltre, prendere in considerazione il mugam potrebbe migliorare la nostra comprensione generale delle correlazioni tra la danza e la trance di possessione. I miei commenti sono basati su osservazioni raccolte durante la prima fase di uno studio sul campo che sto tutt’ora conducendo nella provincia nord orientale di Ky&onggi. Le conclusioni qui presentate dovrebbero essere lette come impressioni preliminari nel senso più stretto del termine11. Nel kut, il principale rituale della mansin coreana, gli spiriti degli antenati di una famiglia sono invitati a banchettare e danzare. Manifestandosi attraverso la mansin rimproverano, consigliano e consolano la famiglia. La mansin invoca gli spiriti familiari in una serie di sezioni distinte, o k&ori. Indossa il costume degli spiriti di un particolare k&ori, li invoca con il canto, danza rapidamente per indicare la loro presenza, quindi li mima e ne pronuncia il volere. L’azione di un Ky&onggi kut ha luogo all’interno e all’esterno dell’entrata principale e in ogni parte del cortile e dei vari locali di una tradizionale casa coreana. Ma la maggior parte dell’azione si svolge nella veranda di legno (maru) tra le due stanze più importanti della casa. Le principali tavole delle offerte, i musicisti e numerosi spettatori sono accalcati insie-

9 Kim Kwang-iel, Shamanist Healing Ceremonies in Korea, in “Korea Journal”, vol. 13, n. 4, 1973, p. 44. 10 I. M. Lewis, Ecstatic Religion, cit. 11 Il materiale di studio proviene da un contesto altamente localizzato e non ho voluto descrivere nient’altro che il funzionamento di un sistema locale. Perciò mi riferisco qui alla sciamana locale col termine mansin, piuttosto che col termine meno educato, ma più diffuso, di mudang. La ricerca è stata possibile grazie a una Fulbright Dissertation Fellowship, una Social Science Research Council Foreign Area Fellowship, e una borsa di studio per la ricerca del National Science Foundation. Vorrei ringraziare Soon Young S. Yoon della Ewha Woman’s University per le sue critiche molto costruttive di una precedente versione di questo saggio.

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me sul pavimento della veranda, lasciando alla mansin solo un ristretto spazio per danzare. Ed è nel medesimo ristretto spazio che le donne usano il mugam (mugam &ul ss&unda). Il mugam si svolge durante una pausa arbitraria nel kut, dopo che sono stati rappresentati (nolda) svariati k&ori. Tra gli ospiti è circolato del vino e tutti sono preda di uno stato d’animo allegro. Colei che finanzia il kut, la padrona di casa (kiju), è la prima a usare il mugam. È spinta a uscire sulla veranda di legno affollata, facendo mostra di timida riluttanza appropriata a una modesta casalinga coreana non abituata a esibirsi in pubblico. Ma si noterà che questa reticente padrona di casa spesso appare per il mugam col suo migliore abito coreano, frettolosamente indossato sopra il consueto vestito che ha usato per affaccendarsi dentro e fuori la cucina mentre attendeva ai suoi ospiti. La mansin sceglie un costume appropriato per la padrona di casa – una veste blu, una tunica da monaco bianca, una divisa da funzionario rossa – e abbiglia la donna mentre la musicista inizia a battere il tamburo. Una volta vestita, la padrona di casa estrae del denaro12 e lo depone sui tavoli delle offerte o sul tamburo. Poi esegue una serie di profondi inchini, portando le mani sopra la testa, inginocchiandosi, e premendo le palme delle mani e la fronte sul pavimento. La percussionista comincia un lento motivo a quattro battiti (tonk, tonk, tonk, ta-kunk) e la donna comincia a danzare come danzerebbe durante una gita sulle colline o una festa di villaggio. Afferra i lembi anteriori del costume, uno in ogni mano, in modo che le parti davanti della gonna, sollevate a triangolo fino alla vita, penzolino accompagnando il movimento delle braccia. Se la donna mostra ritrosia, una delle mansin o un’amica le afferra le braccia e le muove nella maniera appropriata, oppure danza davanti a lei per istruirla. La maggior parte delle donne, tuttavia, si esibisce immediatamente in una danza ritmica caratterizzata da una serie di grandi passi in diagonale, con le ginocchia leggermente piegate e il peso del corpo bilanciato sui talloni. Tenendo il busto ben diritto, la danzatrice improvvisa ampi gesti circolari con le braccia. Nella seconda fase del mugam i battiti del tamburo aumentano di velocità, mantenendo ancora il disegno ritmico iniziale. Diventano molto rapidi. Ora la donna che danza compie dei salti sulla punta dei piedi, o esegue una serie di calci in aria alternando i piedi con le dita rivolte verso l’alto. Salta sul posto, oppure ruota sulla punta del piede. Sempre tenendo le falde del suo costume, solleva e abbassa le braccia all’unisono o alternandole. Talvolta estende le braccia ai lati per poi riportarle insieme davanti al petto. Oppure allontana ripetutamente le braccia dal busto, come se tentasse di colpire un musicista o uno spettatore con i lembi del

12 In teoria, ognuno paga quanto vuole. In pratica, la norma è cinquecento won in campagna e mille in città. La padrona di casa normalmente depone banconote per due o tremila won.

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suo costume. La maggior parte dei movimenti qui descritti possono essere compresi in una singola esecuzione di mugam. Tutti appartengono alla danza di possessione della mansin. Quando la donna giunge al limite delle forze, collassa sul pavimento davanti al tamburo in un altro inchino fino a poggiare la fronte sul pavimento. Una mansin le toglie il costume e glielo scuote sopra la testa, chiedendo allo spirito che la possiede di procurarle una buona sorte. Le donne elogiano l’una l’abilità dell’altra con frasi del tipo “Ben fatto!” (chal haetta), “Hai avuto così tanta resistenza!” o “Ti bagnerai le mutande!” (ojum sagetta), un segno di spossatezza fisica. Una danza lunga ha una valenza positiva. Dopo una performance notevolmente breve si chiese a una donna: “Perché non hai danzato più a lungo?”. La maggior parte delle performance durano da cinque a dieci minuti, dalla vestizione iniziale all’inchino finale. Dopo che la padrona di casa ha danzato, altre donne sono invitate a usare il mugam: la suocera, la madre della finanziatrice, cognate, nipoti, sorelle, vicine e amiche. Il marito, il suocero e il cognato possono essere spinti a usare il mugam, in particolare se la salute o la fortuna dell’uomo è un obiettivo del kut. Ma dopo aver danzato, gli uomini ritornano alla loro festa e lasciano la veranda alle donne. Tutte le donne mostrano una modesta ritrosia a danzare e sono talvolta allegramente trascinate al tamburo dalle amiche. Fazzoletti da testa e copricapi invernali vengono tolti prima di danzare, gonne e giacche coreane sono passate da un’amica all’altra affinché una donna possa sentirsi abbigliata in modo appropriato quando danza. Nella visione della mansin e delle donne che danzano, cosa implica usare il mugam? Secondo la percezione della mansin, usare il mugam è una forma di trance di possessione: lo spirito ascende (ollatta) quando la danzatrice comincia a saltare rapidamente. “Il battito lento del tamburo persuade lo spirito. Se lo spirito arriva spontaneamente, la percussionista cambia l’andamento ritmico seguendo i rapidi movimenti della danzatrice. Altrimenti la percussionista aumenta la frequenza dei colpi per aiutare lo spirito a salire”. I vari costumi usati nel mugam implicano una speciale relazione tra la padrona di casa e il particolare spirito evocato attraverso la danza. Il costume più comune è la veste blu, cinta da una fascia rossa ad armacollo, talvolta indossata con un cappello nero a larghe tese. Questo è il costume del taegam, spirito-funzionario ingordo e di basso livello. Come la loro controparte umana, gli spiriti taegam causano problemi se le loro richieste eccessive non sono soddisfatte. In linea di massima ognuno ha un momju taegam, uno spirito personale che governa il corpo, la cui forza o vigore (sim, sin’gi) varia da persona a persona. La presenza o l’assenza di un momju taegam attivo è rivelata dal modo in cui si danza un mugam. Secondo la mia informatrice mansin: “Ci sono persone che non hanno un momju forte, e i loro piedi sono pesanti quando danzano. Ma le persone dotate di sin’gi (vigore), quando indossano gli abiti del mugam, muovono le mani e i piedi su e giù, su e giù con leggerezza e rapidità. Le persone senza sin’gi hanno i piedi pesanti e trasci-

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nano le gambe. Ma alle persone dotate di sin’gi, quando danzano, giunge il sinparam (forza spirituale). Così è meglio”. La valenza positiva sta nel far agire, non nell’esorcizzare, un momju taegam attivo. Quando questo spirito è intrattenuto, gli si dà la possibilità di esibirsi ed è perciò appagato, agirà a favore della persona più che a suo detrimento. Una donna danza il proprio momju taegam. Problemi particolari possono richiedere che anche suo marito danzi il proprio momju taegam nel corso di un kut, ma la mansin fa notare: “Ci sono molte case nelle quali il momju taegam della moglie è più forte di quello del marito”. Coloro che hanno un momju taegam forte sono sollecitati a danzare, ma ci sono persone che sembrano non essere proprio capaci di usare il mugam. In alcuni kut un membro della famiglia è invitato a danzare, gli si mostra cosa fare, gli si tengono le braccia muovendole al ritmo del tamburo, ma nonostante tutto è incapace di manifestare entusiasmo per la danza. La percussionista può tentare di battere alcuni colpi a ritmo rapido, poi rinuncia. Qualcuno invariabilmente commenterà: “Le persone che non possono usare il mugam non possono” (mugam mot ss&uns&un saram mot ss&unda). Ma quando il danzatore riluttante è un diretto destinatario dei benefici del kut – la padrona di casa o un membro della famiglia che è persistentemente malato o soggetto a incidenti e disgrazie – la mansin non sarà soddisfatta da una performance poco entusiastica. Quando un danzatore non danza bene (ch’um chal mot ch’unda) è incitato a riprovare e, di solito, in questo secondo tentativo, è condotto fino al punto di saltare in preda all’entusiasmo al ritmo del tamburo. Il mugam è considerato un elemento chiave del kut. Come gradino nel processo di guarigione operato dalla mansin, il mugam è il momento in cui si conduce il beneficiario al contatto più diretto con le forze riunite nel suo interesse. Ma i benefici curativi del mugam non sono ristretti alla famiglia che finanzia il kut. Secondo la mansin: “Porta buona fortuna (chaesu itta) andare a casa di qualcun altro e usare il mugam”. Per un’informatrice gli effetti positivi dell’usare il mugam furono quasi immediati: “Stavo assistendo a un kut. Lo stomaco mi faceva così male quel giorno che pensavo di morire. L’anziana donna mi disse di usare il mugam. Indossai la veste blu e saltai molto, e poi lo stomaco stette meglio”. I benefici dell’usare il mugam, anche in casa altrui, possono riversarsi sui membri della famiglia della danzatrice: “Mio figlio maggiore è autista di taxi. Quando andai a quel kut, mi fu detto di usare il mugam, così non avrebbe avuto incidenti. Usai il mugam, così mio figlio avrebbe avuto buona fortuna”. Ma, mentre un momju taegam attivo può agire a beneficio di qualcuno, un taegam attivo presto diventa un taegam avido e irrequieto se non è appropriatamente soddisfatto. Secondo la mansin: “Le persone il cui taegam ha molto appetito, storcono i volti come se fossero in preda al dolore quando usano il mugam. Battono con violenza braccia e gambe. I loro taegam non sono soddisfatti. Avrebbero dovuto esibirsi così nella loro propria casa (cioè avrebbero dovuto essere intrattenuti

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con un kut), invece sono dovuti venire in casa di qualcun altro per esibirsi, perciò si comportano a quel modo”. Anche quando il banchetto e l’occasione di esibirsi sono attesi da tempo, un momju taegam darà sfogo alla sua collera. Danzando il mugam in un kut offerto in ritardo, la padrona di casa sbatté i piedi e scalciò in aria. Colpì la propria madre con i lembi della veste, poi si sedette rigida sul pavimento e proruppe in singhiozzi senza lacrime. La mansin strofinò la testa della donna ed esortò lo spirito: “Per favore, onorevole taegam, accetta l’offerta di questo kut. Per favore vattene, per favore vattene”. Al rapido battere del tamburo la donna tornò normale. Lamentandosi di un male alla spalla, fu esortata a danzare una seconda volta, dopodiché il dolore passò. Ho visto la stessa donna danzare il mugam in kut successivi. La sua danza è sempre marcata da una smorfia e da passi vigorosi e martellanti, ma non si sono ripetuti il pestare dei piedi e la performance imbronciata qui descritti. Lei afferma di usare il mugam durante i kut perché: “Mi piace danzare. Mi piace esibirmi”. In un’altra occasione, un momju di una giovane matrona ne assunse il controllo per quasi un’ora. In trance, la donna imitò varie azioni di una mansin posseduta. Divinò con le bandiere e raccolse denaro dai suoi clienti. Trascinò una mansin che prediligeva verso il tamburo a indicare che preferiva il suo modo di suonare. A un certo punto guidò tutti gli spettatori fuori dalla stanza, toccandoci leggermente sulle spalle con la bandiera delle divinazioni. La sua performance ispirò molta ilarità. Questo, a detta di tutti, era un momju taegam molto attivo. Alle persone con un momju taegam attivo la mansin raccomanda di dedicare al tempio della mansin una veste blu e un cappello nero sui quali sarà ricamato il nome della cliente. La mansin conserva entrambi insieme agli altri costumi. La cliente deve, almeno due volte l’anno, fare offerte di riso, vino e carne al suo momju taegam nel tempio della mansin e indossare la veste blu per danzare il mugam. In teoria, ognuno ha un momju taegam e può indossare la veste blu per il mugam. L’uso di altri costumi nel mugam implica una speciale relazione, attraverso le generazioni, tra i membri della famiglia e alcuni spiriti familiari. La tunica bianca da monaco (kasa) e il cappuccio a punta compaiono frequentemente nel mugam. Alcune famiglie conservano la tradizione di onorare i ch’ils&ong (spiriti delle sette stelle). Le donne della famiglia pregano per la nascita, la salute e il benessere dei bambini. L’usanza si tramanda da suocera a nuora e le donne che si sposano in una famiglia che onora i ch’ils&ong indossano la tunica bianca monacale quando danzano il mugam; hanno un ch’ils&ong momju. Quando una donna ha pregato i ch’ils&ong e ha successivamente concepito un figlio, la moglie di suo figlio indosserà la tunica bianca monacale quando danzerà un mugam. Alcune famiglie reclamano un’antenata posal, una divinatrice ispiratrice le cui attività recano forti sottintesi buddhisti. Dopo la morte, una posal diventa una pulsa halm&oni (saggia nonna buddhista), uno degli spiriti del pantheon familiare. L’influenza di una simile antenata diventata spirito si farà sentire nella famiglia, nel bene e nel male. Se i membri della famiglia onorano (mosida) la loro pulsa hal-

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m&oni, questa agirà a loro beneficio, se è trascurata, non ne verrà alcun bene. Venerare una pulsa halm&oni comporta dedicare una veste al tempio della mansin perché costei la indossi nel kut e perché la padrona di casa la indossi nel mugam. Nel mugam la pulsa halm&oni ascende come pulsa momju. Analogamente, quando una o più generazioni addietro una donna della famiglia era una mansin, continua ancora a influenzare la vita dei suoi discendenti come taesin halm&oni (grande spirito nonna). Quando la padrona di casa indossa la veste gialla del taesin per danzare il mugam, le possono essere consegnati il bastone e il tridente, o altri strumenti del mestiere di mansin che fa roteare nelle mani mentre danza a indicare la presenza del taesin momju. Una divisa da funzionario rossa o blu (hongch’ôollik, namch’ôollik) può essere dedicata quando un antenato della famiglia ha prestato servizio come alto funzionario. Una divisa da funzionario può essere dedicata anche quando la donna che si sta sposando onora lo spirito di una particolare montagna (san ss&unn&un’got). Talvolta può essere attivo più di un momju. Una donna indosserà la tunica bianca da monaco sopra la veste blu. Mentre salta si toglierà la tunica bianca e continuerà a danzare con i lembi della veste blu stretti nelle mani. Secondo la mansin: “La pulsa si è esibita e ora si esibisce il momju taegam”. Oppure una donna può iniziare a danzare indossando la veste dello spirito delle montagne e toglierla a favore della tunica monacale. Ciò significa che onora lo spirito della montagna del luogo nativo della sua famiglia (ponhyang sansin), ma riconosce anche un’antenata posal. Entrambi, lo spirito della montagna e la pulsa halm&oni, hanno forti pretese su di lei. La scelta del costume nel mugam è perciò espressione della storia spirituale di una famiglia, la perpetuazione di una tradizione di devozione da suocera a nuora. Nella visione della mansin la forza di vincoli passati influenza il presente. Una mansin frequentemente divinerà che la disgrazia della sua cliente deriva da una mancanza nel perpetuare una tradizione familiare di devozione nei confronti di uno spirito della montagna o dei ch’ils&ong. Le clienti saranno esortate a onorare un antenato o un’antenata spiritualmente potente la cui presenza lo sciamano divina, in attesa della conferma da parte della cliente. Una mansin attribuirà alla dedica di una veste un grande mutamento nella fortuna di una particolare famiglia. Il mugam stesso, può, in rare occasioni, essere il mezzo per formulare il volere di uno spirito antenato. Sebbene il danzatore mugam sia solitamente silenzioso, potrà occasionalmente parlare per il suo momju. In una seduta un taesin momju che stava possedendo la nonna di una famiglia si lamentò dell’intenzione della famiglia di trasferirsi dalla campagna a Seoul. Un’altra donna fu posseduta dalla sua stessa nonna nativa mentre danzava un mugam nella casa di sua cognata. Lo spirito della nonna rimproverò la famiglia che finanziava la seduta per aver trascurato di provvedere alle offerte per la linea primigenia e deplorò la sfortuna della cognata. In vita la nonna era stata una devota rigorosa dei ch’ils&ong e aveva in tal modo acquisito la forza spirituale per manifestarsi come ch’ils&ong momju. In entrambi i casi

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le donne danzanti poterono esprimere i loro sentimenti meno facilmente esprimibili; un classico uso della possessione come strategia nell’accezione proposta da Lewis13. Di che cosa tratta il mugam? Nella visione della mansin, come abbiamo visto, far agire i propri spiriti personali ha una valenza positiva. Se intrattenuti, agiranno positivamente nei confronti della persona; rinnegati e delusi, saranno fonte di problemi. Gli spiriti di alcune persone devono essere invocati più spesso degli spiriti di altre. Queste intuizioni non sono affatto incompatibili con i princìpi della moderna psicologia. Per le donne che danzano il mugam è divertimento. Le donne affermano che si sta bene (chot’a) quando lo spirito ascende; “Rinfresca le interiora” (sogi siw&on hada). Alcune donne di città sostengono di usare il mugam perché: “Mi piace danzare, mi piace esibirmi”. Più spesso, le donne daranno come loro primaria motivazione: “Dicono che porti buona fortuna” (chaesu ga chot’a). Vi sono ancora qualche risatina e un po’ di imbarazzo circa l’uso del mugam. Un lasciarsi andare così pubblico è considerato un po’ vergognoso per la maggior parte delle donne, ed estremamente vergognoso per quelle che non sono ancora matrone riconosciute con una famiglia propria. Secondo la mia informatrice mansin: “Alle fanciulle (ch’&ony&o) non sposate non è consentito danzare, altrimenti la gente penserà che sono selvagge (sudongsuropjianhta). Nemmeno alle giovani spose (sae saekssi) è consentito usare il mugam. Quando una donna ha un figlio, o due figli, che è anche meglio, allora può usare il mugam”. Eccetto per l’atto del danzare in sé, si brontola nelle famiglie per la somma di denaro che dovrebbe essere versata per usare il mugam. La percezione degli effetti positivi e piacevoli del danzare, la consapevolezza degli effetti dannosi degli spiriti frustrati, e il vago senso di un comportamento tabù o rischioso, conducono tutti a una interpretazione standard del mugam come catarsi. È possibile vedere il mugam come la manifestazione di una religione estatica: il rituale procura un senso di piacere e rilassamento non facilmente conseguibili nella vita quotidiana. La trance di possessione nel mugam può anche essere usata per autorizzare a esprimere l’inesprimibile. Ma limitarsi a ciò è, penso, arrestarsi bruscamente rispetto alla piena comprensione del ruolo delle donne nella vita rituale coreana. Le donne, come abbiamo visto, mantengono una speciale relazione con gli spiriti familiari. Il culto degli spiriti implica responsabilità trasmesse attraverso le generazioni matrilineari. Intrattenendo gli spiriti e allestendo banchetti in loro onore, le donne si assicurano il benessere dei loro mariti e figli. È la matrona, integrata con successo nella famiglia del marito attraverso la nascita dei figli e il passare del tempo, che si occupa effettivamente degli spiriti familiari. In queste attività, la pa-

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I. M. Lewis, Ecstatic Religion, cit.

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drona di casa è semplicemente la principale officiante nelle offerte agli spiriti familiari, quanto suo marito è il principale officiante nei riti periodici di devozione verso gli antenati14. Ma nel mugam la padrona di casa diventa quasi una sciamana. Manifesta in se stessa uno spirito importante, perché possa esibirsi ed essere soddisfatto per il bene della famiglia. Lo spirito della storia personale di una famiglia è in gioco nella danza.

14 Lee Jung-young pone in contrasto il ruolo sacerdotale della padrona di casa con quello della sciamana professionista: “… È una pratica comune in Corea per la donna più anziana della famiglia essere responsabile della preparazione di … rituali … Sarà, inoltre, il principale officiante durante il rituale, anche quando sono invitate sciamane professioniste per eseguire numerosi riti. Esse agiscono per conto suo, dal momento che è una rappresentante simbolica dell’intera famiglia…” (Lee Jungyoung, Shamanistic Thought and Traditional Korean Homes, in “Korea Journal”, n. 11, 1975, p. 44).

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Possessione, danze mascherate e corpo divino nella valle di Katmandu (Nepal) di Gerard Toffin

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in J. Assayag e G. Tarabout, a cura di, La Possession en Asie du Sud, Parole, Corps, Territoire, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1999, pp. 237-261

Il Nepal è spesso considerato dagli etnologi e dagli storici delle religioni un territorio d’elezione dei fenomeni di possessione e sciamanismo. Serrata tra le pianure del Teraï e l’alta catena montuosa dell’Himalaya, la zona intermedia delle colline è abitata soprattutto da popolazioni che, qualunque sia la loro famiglia linguistica, indo-europea o tibeto-birmana, si rivolgono a specialisti religiosi di tipo estatico per accedere al divino. Nel 1976 apparve una raccolta intitolata Spirit Possession in the Nepal Himalayas, curata da John T. Hitchcock e Rex L. Jones1, che dimostrava l’ampiezza del fenomeno e lo documentava in maniera precisa fra una decina di gruppi differenti. In modo molto schematico, si è soliti opporre le forme oracolari dell’estremo ovest del paese, proprie delle popolazioni hindu Khas o Parbatiya di lingua madre nepali, alle manifestazioni sciamaniche dell’ovest, del centro e dell’est, più specifiche delle etnie di lingua tibeto-birmana. La possessione individuale, involontaria, più o meno spontanea, è documentata in tutti i distretti. Curiosamente, i Newar, popolazione di lingua tibeto-birmana notevolmente indianizzata della valle di Katmandu, cuore storico e politico del piccolo reame himalayano, risultano ancora piuttosto assenti dagli studi sulla possessione. La loro religione è conosciuta più per il suo pantheon, il sincretismo hindo-buddhista, le feste spettacolari, i rituali indiani rielaborati localmente. Non possiedono lo jh1am˛kri (nepali), lo sciamano, e non ricorrono al dh1ami, altra parola nepalese per designare il medium, se non in occasioni del tutto eccezionali2. Tuttavia, la posses-

1

J. T. Hitchcock & R. L. Jones, a cura di, Spirit Possession in the Nepal Himalayas, Aris & Phillips Ltd, Warnminster, 1976. 2 Ho riscontrato due occasioni nelle quali operano dhami in ambito newar. La prima riguarda Nuwakot (40 km a ovest della Valle) dove, durante la luna piena del mese di Caitra (marzo-aprile), una coppia di jy1apu (dangol, un sotto-gruppo di jy1apu), incarnazioni di Bhairav e Bairav1 ı, pronunciano oracoli e bevono il sangue degli animali loro offerti. Queste due persone, chiamate dh1ami e dh1amini, sono in trance. Si veda Chalier-Visuvalingam, Terreur et protection. Le culte de Bhairava à Bénarès et à Kathmandou, Tesi di dottorato, Paris X - Nanterre, Paris, 1994, pp. 367-388. A Manmaiju (3 km a nord della città di Katmandu), in occasione della festa del villaggio che si svolge tra la

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sione esiste presso di loro come presso tutti gli altri gruppi nepalesi. A mio parere, è altrettanto importante e fondamentale che fra i Magar, i Tamang o nell’estremo occidente del paese. Se ne possono distinguere diverse forme. Vi è in primo luogo la possessione associata alla stregoneria e ai guaritori. Le streghe, gli spiriti malvagi, persino alcune divinità possiedono gli umani ai quali si attaccano. Alterano la loro personalità, li rendono folli, v1ım˛, talvolta parlano attraverso la loro bocca per esprimere il proprio malcontento, reclamano sacrifici. I guaritori baide (in sanscrito vaidya), ai quali si fa appello in qualità di esorcisti, non entrano in trance quando sono consultati. Per conoscere il disegno delle potenze divine in causa e curare i loro pazienti, utilizzano tecniche specifiche (soffi e scopature sulle parti del corpo sofferenti, analisi del polso e delle congiunzioni astrali, etc.) che non implicano alcun cambiamento della personalità; il mondo delle potenze divine è tenuto a distanza. Accanto a loro, tuttavia, esistono dei medium, dyah˝ waimh˝a (colui o colei nel quale vengono gli dei) o dyah˝m1am˛, quasi sempre donne di bassa casta, che sono possedute dalle divinità, tra cui H1ar1 ıt1 ı, dea buddhista del vaiolo, e che utilizzano questa possessione per entrare in contatto con il soprannaturale, risalire all’origine del male e proporre rimedi ai loro clienti. David Gellner ha recentemente dedicato loro un articolo3 nel quale parla di possessione periferica, non istituzionalizzata, a lungo tenuta in sospetto dalle autorità. A suo dire si sarebbe sviluppata dopo il ristabilimento della democrazia nel 1990, in un contesto di incertezza e di affievolimento dei valori gerarchici tradizionali. Le forme di possessione istituzionalizzate, inserite nei rituali collettivi a ricorrenze regolari nell’anno religioso, sono tuttavia le più numerose. Seguendo Michael Allen4, ho dimostrato come le piccole dee viventi Kum1ar1 ı delle caste buddhiste sé a1 kya o vajra1 ca1 rya, caratteristiche della religione newar, sono considerate come vere e proprie rappresentazioni delle dee Kum1ar1 ı, Durg1a, Taleju (o T1ar1a per i buddhisti) e sono venerate come tali5. Scelte secondo criteri molto rigidi, queste fanciulle sono spogliate dei loro legami terreni e acquistano un corpo divino nel corso di una consacrazione, pratis¸th¸ a1 , molto simile ai rituali celebrati durante l’installazione di una

luna piena di Caitra e l’inizio del mese lunare di Baiésak, cinque uomini di casta jy1apu, chiamati anch’essi dh1ami, incarnano Kum1ar1 ı, Bhairava, Manumac1a (= Vais¸n˝avi), Indray1an˝1 ı e Gan˝eésa. Sono tutti in stato di trance e compiono un percorso attorno al villaggio. I primi due bevono il sangue degli animali sacrificati. Non indossano maschere delle divinità (Informazioni personali raccolte sul campo). Di recente Marie Lecomte-Tilouine ha osservato altri dh1ami newar nella regione di Tistung, durante la luna piena del mese di Baiés1akh (aprile 1999). 3 D. Gellner, Priests, healers, mediums and witches: the context of possession in the Kathmandu Valley, Nepal, in “Man”, 29 (1), 1994, pp. 27-48. 4 M. Allen, The Cult of the Kumari, INAS, Tribhuvan University, Katmandu, 1975. 5 G. Toffin, Le Palais et le Temple. La fonction royale dans l’ancienne vallée du Nepal, CNRS Éditions, Paris, 1993.

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statua della divinità in un tempio o in un santuario. Il corpo della fanciulla diventa rosso, dicono i brahmani, quando si siede sul trono dei leoni, sim˛ha1 sana, che sarà da allora in poi il suo seggio cerimoniale. La possessione divina è in questo caso puramente passiva, non provoca alcun tremore, alcun segno fisico esteriore abitualmente associato a tale stato. Le dee viventi Kum1ar1 ı restano impassibili, mantengono gli occhi bassi, non parlano, non manifestano alcuna emozione. Non si tratta però solo di una mera rappresentazione. Queste giovani fanciulle sono abitate da una potenza divina, detengono poteri soprannaturali: pronosticano l’avvenire, guariscono la sterilità delle donne, provocano emorragie a coloro che non le venerano secondo le norme. Le persone che le attorniano segnalano regolarmente avvenimenti strani, interpretati come segni divini, nella casa nella quale dimorano6. Un’altra forma di possessione istituzionalizzata, più attiva della precedente, è quella dei portatori di sciabola durante i rituali della Durg1ap1uj1a (Dasa§ ı in nepali, Mvah˝ni in newari), festa nazionale nepalese che si tiene tutti gli anni in autunno. Queste persone che, tranne una o due eccezioni (a Kirtipur, per esempio), sono uomini, provengono da caste molto differenti: agricoltori jy1apu, giardinieri gathu, artigiani tul1adh1ar, commercianti ésres¸t¸a, etc. I rituali ai quali partecipano si chiamano kharga j1atr1a (dal sanscrito khad˝ga, sciabola, spada) o p1ay1ah˝, termine più specificamente newar, da p1alegu, tagliare in due, decapitare, e y1ah˝, y1atr1a, festa, processione. Consistono nel compiere un percorso attorno a un quartiere, un tempio, una piazza, un agglomerato, portando una sciabola, simbolo della dea Durg1a. Brandendo l’arma davanti agli occhi, gli uomini posseduti avanzano in fila indiana, sostenuti e guidati da entrambi i lati da assistenti. Sono in trance, camminano con un’andatura a scatti, gli occhi spesso stralunati; oppure si suppone che siano in trance e che imitino in maniera maldestra una persona posseduta da una divinità. In certi momenti si avventano contro la folla ammassata attorno a loro, provocando un certo trambusto, la sciabola ben sollevata sopra la testa, come se si apprestassero a uccidere qualcuno. È la stessa dea, dicono, che li fa agire a quel modo. Alcuni indossano delle vesti bianche cerimoniali, altri pelli di belve selvagge associate a Durg1a, altri infine eseguono il rituale con gli abiti di tutti i giorni. Questa processione, che può includere fino a dieci, venti persone, ciascuna armata di sciabola, evoca le marce di guerra, di conquista, concordemente con la commemorazione della vittoria della dea sui demoni che viene attuata durante la Durg1ap1uj1a. I portatori di sciabola non intervengono che una volta all’anno, durante questo rituale, generalmente il giorno di Vijay1adaésam1 ı. Non si chiede loro alcun oracolo, non li si consulta in caso di malattia o di stregoneria. Quanto alle sciabole, sono conservate normalmente nel tempio della dea alla quale sono associate7.

6

G. Toffin, Le Palais et le Temple. La fonction royale dans l’ancienne vallée du Nepal, cit., p. 274. Questi portatori di sciabola meritano di essere comparati ai portatori di kalaés, vaso di acqua sacra che rappresenta la divinità, che durante alcune feste newar marciano in testa alla processione. Un 7

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Le danze mascherate delle divinità Le danze mascherate delle divinità costituiscono un terzo tipo di possessione istituzionalizzata, di gran lunga il più diffuso e importante della religione newar. Vi è ancora carenza di studi su di esse. Sono denominate dyah˝ py1akhã; py1akhã (newari) significa allo stesso tempo danza e teatro, due attività indissolubilmente legate nelle culture indiana e newari classiche. Si ispirano il più delle volte ai drammi composti nel XVI o XVII secolo da un re Malla o qualcuno del suo entourage, e si inseriscono nella tradizione indiana del N1at¸yaés1astra. La maggior parte è stata trascritta sia in newari, che in maithili – la lingua letteraria dei sovrani Malla a partire dal XV secolo8 – sia in una mescolanza delle due lingue9. Alcune comprendono anche delle annotazioni coreografiche10. Non sappiamo bene fino a che punto le danze osservabili ai giorni nostri nei villaggi e nelle città della Valle, duecento anni dopo la caduta dei re Malla, riflettano fedelmente questi antichi drammi che si tenevano a corte, o se l’aspetto coreografico, che oggi domina nella maggior parte dei casi, non abbia preso progressivamente un’importanza maggiore di quella che aveva in precedenza. Comunque sia, queste danze sono tuttora riconosciute dai poteri locali e reali, e sono spesso finanziate dallo Stato. Contribuiscono alla prosperità generale della comunità, del territorio, del reame. Non si tratta affatto di uno spettacolo profano: sono degli atti religiosi di rara intensità che mettono in scena degli dei viventi e inducono nel pubesempio è il macellaio n1ay che porta il kalaés da Pacal1 ı Bhairava a Katmandu in occasione della Durg1ap1uj1a. Questa tradizione esiste anche in ambito parbatiya; si vedano le donne kalsin1ı che a Gorkha portano il vaso della Dea (G. Unbescheid, Dependance mythologique et liberté rituelle. La celébration dela fête du Dasa§ı au temple de K1al1ık1a à Gorkha, in G. Krauskopff & M. Lecompte-Tiloune, a cura di, Célébrer le pouvoir Dasa§ı, une fête royal au Nepal, CNRS Éditions/Éd. De la MSH, Paris, 1996, pp. 109 sgg.). In genere qualsiasi portatore di divinità, sui palanchini ad esempio, o di un attributo della divinità, è ritenuto posseduto da essa, mediante la penetrazione della sua essenza. 8 L’influenza maithili ebbe un ruolo essenziale nella valle di Katmandu durante tutta l’epoca medievale (XIII-XVIII secolo). Si ricordi che a partire dal XIV secolo, i re Malla dei tre reami (Katmandu, Patan, Bhaktapur) pretesero di discendere da una dinastia fondata da Harisim˛hadeva, re di Mithila. 9 I drammi scritti in maithili comprendono spesso delle istruzioni in newari a favore degli attori (K. P. Malla, Classical Newari Literature: a Sketch, Educational Enterprise, Katmandu, 1982, p. 67). Più manoscritti possono peraltro riferirsi alla stessa py1akhã: uno per la musica, un altro per la posizione delle mani, mudr1a, un altro ancora per i canti o la coreografia (L. Iltis, The Jala py1akhã in historical and cultural perspectives, in Autori Vari, Nep1albh1as¸1a wa Thvay1a S1ahitya, Katmandu, 1989, p. 144). Questa letteratura teatrale newar e maithili non è stata ancora studiata seriamente. 10 Le dyah˝ py1akhã di cui si parla sono da distinguere rispetto alle jy1apu py1akhã allestita dalla casta degli agricoltori jy1apu durante la stagione delle piogge a fini ricreativi. In linea di principio, questi drammi contadini a effetto comico molto pronunciato non comprendono danze mascherate delle divinità. In via di sparizione al giorno d’oggi rappresentano il teatro popolare newar nella sua espressione più autentica.

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blico non solo il piacere estetico, ma anche benefici d’ordine morale, terapeutico e religioso. I danzatori mascherati, dyah˝pim˛ (dyah˝, dio), si esibiscono in occasione delle grandi feste del calendario religioso e appartengono ad associazioni locali legate ciascuna a un tempio e a una città o villaggio particolare. Esistono molte decine di queste associazioni nella valle di Katmandu e nei suoi immediati dintorni. Furono fondate durante il regno Malla, spesso per iniziativa di un sovrano. Sono società segrete, distinte dal resto della comunità, la gran parte delle cui attività (offerte alle divinità, banchetti, apprendistato, prove) rimane invisibile agli altri newar, e non si mostrano pubblicamente se non una o due volte all’anno, quando danzatori e musicisti si esibiscono in una grande cerimonia nel villaggio, nel quartiere o nel monastero. L’appartenenza a un gruppo è a tutt’oggi ereditaria, si tramanda di padre in figlio, preferibilmente in linea di primogenitura. Generalmente, i ruoli divini sostenuti dai danzatori si trasmettono anch’essi in linea paterna (un figlio erediterà il ruolo di Bhairava che suo padre ha interpretato per tutta la vita)11. In caso di mancata discendenza maschile, di deformità fisica o di espulsione per un fatto grave, l’affiliazione e il ruolo possono passare a una linea di discendenza vicina o a quella dello zio materno. È addirittura necessario che i capi della troupe diano collettivamente la loro approvazione. Alcune di queste associazioni contano fino a una cinquantina di membri e possiedono una decina, o addirittura una ventina di danzatori. La troupe del villaggio di Khokana (= Khvakna) comprende quarantasei membri, raggruppati nel Rudrayan˝1ı py1akhã guthi, tra cui dodici danzatori. Quella di Harisiddhi (= Jala), conosciuta come Jala py1akhã guthi, comprende ventinove membri, di cui dodici danzatori, e quella del villaggio vicino di Theco (=Thecva) quarantacinque membri e comprende undici danzatori. Localmente queste troupe sono chiamate dyah˝ khalah˝, i gruppi degli dei12. Altre associazioni, quelle legate al Bhairava di Halchok, per esempio, sono più piccole e non contano che due o tre danzatori. Quanto alle danze di L1akhay, la potenza sogghignante che invade le strade dei quartieri contadini durante la stagione delle piogge, sono molto spesso eseguite da gruppi informali, per lo più giovani ragazzi che si avvicendano nel portare le maschere e i costumi cerimoniali e nel danzare in strada13. 11 A Harisiddhi i ruoli sono distribuiti o ridistribuiti ogni dodici anni (L. Iltis, The Jala py1akhã. A classical Newar dance drama of Harisiddhi, in N. Gutschow & A. Michaels, a cura di, Heritage of the Kathmandu Valley, VGH Wissenschlaftsverlag, Sankt Augustin, 1987, p. 210). Nella gã py1akhã di Patan e nella Mah1ak1al1ı py1akhã di Bhaktapur i ruoli cambiano annualmente e non si trasmettono di padre in figlio. 12 Sono anche chiamate in newari dyah˝ga, gruppi di divinità, oppure gãchi, dal termine gã, che deriva dal sanscrito gan˝a, gruppo di dei, troupe divina. Gãchi designa tutti i gruppi di As¸t¸am1atrik1a e Navadurg1a di un santuario. 13 Le danze di L1akhay comprendono spesso un secondo personaggio, interpretato da un fanciul-

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I danzatori, chiamati py1akhãlhuipim˛ (da lhuye, danza), appartengono per la maggior parte a caste pure di tipo és1udra, piuttosto basse nella gerarchia e quasi sempre collegate alla cultura del sole e della terra: agricoltori jy1apu, vasai kum1ah˝, guardaboschi bal1ami, contadini, portatori di palanchini, fabbricanti di riso in fiocchi putuw1ar e soprattutto giardinieri gathu (= m1al1ı ), i danzatori più numerosi, i più emblematici, coloro che nei tre antichi regni della Valle e a Kirtipur, sono specializzati nelle danze di Navadurg1a e di altre pericolose dee14. Si segnala, tuttavia, l’esistenza di danze mascherate anche nelle alte caste buddhiste: orefici és1akya e sacerdoti vajr1ac1arya per l’As¸t¸am1atrik1a gã py1akhã di Patan15 che raggruppa persone provenienti da più monasteri b1ah1ah˝; sacerdoti vajr1ac1arya, solo nel caso di danze esoteriche cary1a (cary1a py1akhã), originarie del Bengala16. Le danze si svolgono all’aperto, sia di giorno che di notte, nelle piazze dei villaggi, l1achi, o dei quartieri cittadini, tw1ah˝. Talvolta un pezzo di tela bianca, chiamato g1achi o dhakim˛, viene teso da due persone tra una e scena e l’altra dello spettacolo. A Harisiddhi, su questo sipario è rappresentato il dio della danza, N1asah˝dyah˝17. L’area riservata alla danza, dab1u (o dab1uli), è spesso sollevata di trenta o sessanta centimetri da terra. Di forma quadrata, si distingue per una caratteristica pavimentazione di mattoni o di pietre. Un baldacchino, il1am˛, è appeso con delle corde sopra di essa per segnalare la solennità del luogo. I musicisti si siedono a lato, la testa sormontata da enormi turbanti bianchi. La coreografia inizia con l’invocazione delle divinità, in particolare del dio N1asah˝dyah˝. I danzatori mascherati si esibiscono dapprima singolarmente, poi in gruppo. I passi sono lenti, sempre accompagnati da mudr1a associati all’azione e al dio. Gli dei viventi riuniscono nelle loro danze svariati gesti delle mani, tra i quali l’alternanza di pugno chiuso e palma aperta è il più frequente. Non ci sono dialoghi, tranne che in certe danze nelle quali l’aspetto teatrale è molto approfondito (come nella k§u py1akhã di Pyanlo, chiamato jhy1alim˛c1a o tinipakuc1a. Si vedano U. Kolver & I. Shresthacarya, A Dictionary of Contemporary Newar. Newari English, VGH Wissenschafsverlag, Bonn, 1994, p. 122, e G.Toffin, Société et religion chez les Newar du Nepal, Éd. du CNRS, Paris, 1984, p. 93. 14 Iltis, The Jala py1akhã in historical and cultural perspectives, cit., pp. 141-2, distingue due tipi di danze mascherate delle divinità: le gã py1akhãn (o gan˝a py1akhã), che comportano un insieme completo di divinità ordinate attorno a un gruppo di As¸t¸am1atrik1a o Navadurg1a, e le dev1ı py1akhã, che non contano che due o tre personaggi divini. Le gathu py1akhã di Theco, Kirtipur, Bhaktapur, Katmandu sono gã py1akhã, mentre la di py1akhã dei jy1apu da Kilagal a Katmandu, durante l’Indra Jatra, è una devi py1akhã. I due tipi di danze, tuttavia, si basano sugli stessi princìpi e comprendono coreografie simili. 15 Danza dall’intreccio ben costruito, composta in origine dal re éSr1 ıniv1aésa Malla di Patan. È eseguita tutti gli anni durante le feste della Durg1ap1uj1a (Dasai). 16 Le danze cary1a formano un soggetto specifico che non possiamo trattare in questo saggio. Contrariamente alle danze di cui stiamo parlando, non sono eseguite pubblicamente tranne che in occasioni eccezionali. 17 L. Iltis, The Jala py1akhã. A classical Newar dance drama of Harisiddhi, cit., p. 210.

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gaon18). I musicisti cantano inni (nella lingua degli dei) difficilmente comprensibili in momenti codificati dello spettacolo19. In certi casi l’intreccio è senza alcun dubbio vicino all’antico teatro di corte organizzato nei palazzi reali, in altri si ha la sensazione di assistere a una funzione puramente religiosa il cui senso sfugge largamente agli spettatori. Le maschere, khw1ah˝p1ah˝, sono di argilla e cartapesta. Sono dipinte in base a convenzioni normative estremamente rigide dai citrak1ar, la casta dei pittori newar. Rappresentano le principali divinità del pantheon hindu newar derivate dalla tradizione puranica indiana, come Gan˝eésa, Bhairava (in newari: Bhailah˝), éSiva, ma soprattutto le dee, tra le quali al primo posto le As¸t¸am1atrik1a e le Navadurg1a: Brahm1ayan˝1 ı, Kum1ar1 ı, Var1ah1 ı, Vais¸n˛av1 ı, Indr1ayan˝1 ı, K1alik1a, Maheésvar1 ı, Mah1alaks¸m1 ı, dee che, secondo la tradizione, accerchiano i villaggi newar, li proteggono dai pericoli esterni e donano loro una dimensione cosmogonica20. Troviamo anche alcune divinità femminili del pantheon tantrico-buddhista come Sim˛ha (= Sin•ghin1 ı) e Dum˛ha (= Vy1aghin˝1 ı), decorate di ghirlande di teschi, e alcune potenze soprannaturali più specificamente newar, come le l1akhay o l’elefante Kisi della troupe di Har1 ısiddhi. Le maschere sono conservate presso un cittadino laico o in un tempio di tipo 1agãch§e 21, talvolta in un piccolo santuario, al quale la troupe è associata22. La troupe è guidata da un maestro di danza, py1akhã guru, che sorveglia la corretta esecuzione della coreografia, si fa carico dell’apprendistato e delle prove, decide la ripartizione dei ruoli, supervisiona le rappresentazioni. Nelle troupe più complesse questo maestro è affiancato da un maestro di musica, b1aj1a guru, che assicura l’accompagnamento strumentale durante le danze, principalmente tamburi e cimbali23, da un eventuale maestro di canto, mye hale guru, che può accompa-

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Dramma eseguito durante la festa del villaggio di Pyangaon, alla fine del mese lunare di Bha1 svin (settembre-ottobre); si veda G. Toffin, L’Indra dau (agosto-settembre) e all’inizio del mese di Aé j1atr1a à Pyangaon: essai sur une fête newar de la vallé de Kathmandou, in “L’Homme”, XVIII (1/2), 1978, pp. 109-137; e Société et religion chez les Newar du Nepal, cit., pp. 91-97. La possessione non gioca che un ruolo secondario, tranne quando la dea Bandevi entra in scena. 19 Secondo Iltis, The Jala py1akhã. A classical Newar dance drama of Harisiddhi, cit., p. 210, questi inni sono legati ai canti intonati da preti buddhisti vajr1ac1arya (cary1a git o cac1a mye^durante le danze esoteriche cary1a. 20 G. Toffin, Societé et religion chez le Newar du Népal, cit., pp. 459-463. 21 Letteralmente, casa dell’1agã, divinità tantrica segreta. Talvolta il tempio nel quale sono conservate le maschere è chiamato dyah˝ch§e, la casa del dio. 22 Segnaliamo il caso di una danza delle divinità senza maschera: la Kum1ar-Daitya py1akhã di Katmandu, interpretata da un és1akya e un tul1adh1ar il giorno di Vijay1adaésam1 ı (Dasa§ ı) davanti al tempio di Taleju. Nemmeno nella di py1akhã di Katmandu, allestita durante l’Indra J1atr1a (si veda la nota 14) il danzatore che incarna il demone Daitya porta la maschera. 23 La troupe di Harisiddhi, che esegue due volte all’anno la danza Jala py1akhã, usa anch’essa trombe metalliche k1ah1am˝ e pvãgah˝. Si veda L. Iltis, The Jala py1akhã. A classical Newar dance drama of Harisiddhi, cit., pp. 208-210.

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gnare la rappresentazione, e da un maestro di rituale, p1uj1ari. La troupe comprende anche degli assistenti che aiutano i danzatori durante gli spostamenti, cuochi e servitori per i banchetti di gruppo, portatori di torce per le processioni notturne, contabili e amministratori. Certe associazioni di danza possiedono anche un leader, chiamato kaji, presso il quale si svolgono le prove e che può assommare in sé altre funzioni, come quella di maestro di danza e maestro di musica. A numerose troupe di agricoltori o giardinieri è associato inoltre un maestro di rituali, p1uj1a guru, hindu (brahmano r1ajop1adhy1aya o sacerdote tantrico karm1ac1arya) o buddhista (guruju vajr1ac1arya) secondo i casi, che compie tutti gli anni oppure ogni dodici anni alcuni rituali indispensabili. Questi sacerdoti sono gli ultimi maestri religiosi di queste troupe. I danzatori, i musicisti e gli altri membri dell’associazione sono sottomessi a divieti molto rigidi che li distinguono dalle persone esterne al gruppo. A Har1 ısiddhi e a Kokhana non devono mai tagliarsi o rasarsi i capelli (nemmeno in caso di lutto) e la capigliatura è legata a crocchia dietro la testa. Non devono mangiare aglio o fumare, è loro proibita la carne di pollo e di cinghiale. Quanto al vestiario, non si muovono che col dhoti e non indossano mai i tradizionali surv1ah˝, pantaloni a sbuffo stretti alle caviglie. A Theco queste interdizioni non valgono, ma è proibito ai danzatori portare qualcuno sulla schiena, compresa la portantina della sposa durante la cerimonia di matrimonio. Non possono, inoltre, accettare un lavoro retribuito, j1agir, sia in loco che all’esterno del villaggio, senza dubbio per mantenere lo spirito di corpo dell’associazione ed evitare la divulgazione dei suoi segreti all’esterno. Quanto ai és1akya e ai vajr1ac1arya dell’As¸t¸am1atrik1a gan˝a py1akhã di Patan, qualche giorno prima della danza si devono radere, non possono portare il copricapo tradizionale tvapuli (in nepali t¸opi) e non possono consumare che un pasto al giorno24. Le troupe più numerose, quelle di Navadurg1a nelle tre antiche capitali o quelle che animano la festa dell’Indra J1atr1a a Katmandu, beneficiano di un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato. Dispongono di beni fondiari, sark1ar gut¸hi, registrati dal Gut¸hi Sam˛sth1an, fondazione incaricata delle donazioni religiose. Le entrate che provengono dalla terra coprono il costo delle cerimonie, la remunerazione degli specialisti religiosi, i sacrifici e varie altre spese. Se necessario, il Gut¸hi Sam˛sth1an concede delle sovvenzioni eccezionali ogni dodici anni per fabbricare nuove maschere e nuovi costumi di danza. Gli abitanti del villaggio o del quartiere d’origine della troupe contribuiscono anch’essi al finanziamento del gruppo e al buon svolgimento delle cerimonie con donazioni individuali (che possono includere terreni) o con collette (in denaro, in alimenti o in grano). Questo sistema funziona anche per le troupe meno rinomate o per i danzatori individuali non riconosciuti dallo Stato. 24 In compenso, durante l’antico regno R1an1a (1854-1951) i danzatori di alcune località (come Khokana) erano esentati dalle corvè, jh1ar1a-bet¸hi, verso lo Stato, in ragione della loro particolare dignità religiosa.

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Oltre alle maschere, che sono considerate come divinità vere e proprie e che ricevono offerte a intervalli regolari, le troupe di danza sono legate ad altre divinità, tra le quali il primato spetta a N1asah˝dyah˝, il dio newar della musica e della danza già precedentemente citato. Questo dio è identificato dai sacerdoti con éSiva Nat¸ar1aja. Ogni associazione di danza mascherata possiede il proprio N1asah˝dyah˝, simboleggiato da un vaso, una brocca, un recipiente contenente la cenere magica mwah˝an1ı sinhah˝ con la quale gli adepti si segnano la fronte, o da un foro nel muro del tempio, secondo le modalità di rappresentazione più diffuse di questo dio nella valle di Katmandu25. Vedremo più oltre quale ruolo abbia questa divinità nella possessione. Per ora basti sapere che N1asah˝dyah˝ è invocato all’inizio di ciascuna rappresentazione danzata, che abita sia i danzatori che gli strumenti musicali, che dà al gruppo la sua unità e che senza di lui non potrebbe esserci alcuna danza sacra. Tutto il potere, siddhi, del danzatore, il suo talento provengono da questo dio. Un’altra divinità spesso menzionata è Mah1ak1al1a (o Mah1ak1al1 ı ), l’equivalente buddhista di Bhairava, presente nel grande tamburo cilindrico damvah˝ kh1ım˛, battuto con le mani da entrambe le parti e decorato con corni di ariete. Quando non vengono suonati, questi grandi tamburi sono sospesi al soffitto del santuario della troupe, davanti alle maschere divine. La costruzione del corpo divino In che modo i danzatori sono abitati dalle potenze divine? Quali sono le tecniche messe in opera per trasformare i loro corpi umani in corpi divini? Si tratta di una discesa improvvisa del dio su una persona, secondo uno schema molto diffuso nel mondo hindo-himalayano? Assolutamente no. La possessione è qui indotta in maniera progressiva, secondo un processo lungo e complicato di cui è necessario distinguere le diverse tappe. Nella mia descrizione farò riferimento alle troupe di Navadurg1a e di As¸t¸amatrik1a, nelle quali l’aspetto religioso è più marcato. Precisiamo innanzitutto che i danzatori (come i musicisti) ricevono nella maggior parte dei casi un’iniziazione di tipo tantrica d1ıks¸1a, anche minima, quando entrano nell’associazione religiosa. A Har1 ısiddhi questa iniziazione è impartita una volta ogni dodici anni, in occasione del rinnovo delle maschere, da un brahmano r1ajop1adhy1aya originario di Gab1ah1al a Patan, esperto di culto tantrico: si tratta semplicemente della consegna di un pratis¸t¸h1a mantra [nell’induismo, formula magica la cui efficacia non dipende dalla partecipazione interiore del soggetto che la pronuncia – ndt] ai nuovi membri26. A Theco è impartita esclusivamente dal maestro

25 Sull’iconografia del N1asah˝dyah˝, si veda T. Ellingson, Nasa: dya:, Newar god of music. A photo essay, in “Selected Reports in Ethnomusicology”, 8, 1990, pp. 221-272. 26 L. Iltis, The Jala py1akhã in historical and cultural perspectives, cit., pp. 148 e 158.

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del gruppo. A Kirtipur, i danzatori non ricevono una d1ıks¸1a vera e propria, ma solamente dei mantra, consegnati dal maestro guruju vajr1ac1arya connesso alla loro troupe; ciascun mantra è legato a una particolare figura divina. Queste iniziazioni qualificano ritualmente i nuovi membri e li sensibilizzano al simbolismo del culto tantrico. Qualche ora o qualche giorno prima della rappresentazione, il danzatore è tenuto a purificare il proprio corpo, a liberarsi dalle impurità. Le unghie dei piedi e i capelli sono tagliati da un barbiere, la pianta dei piedi è tinta di rosso. Il danzatore si astiene dalle relazioni sessuali con la moglie, non consuma che riso in fiocchi, baji, l’alimento riservato alle feste e agli avvenimenti religiosi, che non rischia di essere contaminato come il riso bollito. Deve anche proteggersi da tutti i tipi possibili di contaminazione: non entrare in una casa a lui sconosciuta, non avvicinarsi troppo a un fuoco su cui stiano cuocendo degli alimenti, non spartire sigarette con persone estranee all’associazione di danza, etc. Qualche momento prima della rappresentazione, i danzatori si ritirano con il loro guru davanti a un altare dedicato a N1asah˝dyah˝ o a una divinità importante associata alla troupe. Indossano in luogo appartato i loro abiti cerimoniali (vasah˝ punegu27), vesti a tal punto cariche di sacralità che è spesso proibito portarle in casa propria, pena il provocare disgrazie alla propria famiglia. Quindi le maschere sono venerate e animate con formule magiche mantra segrete. Dopodiché ciascun danzatore segna la propria fronte con la cenere, mvah˝an1ı sinhah˝, consacrata al dio N1asah˝dyah˝ e dotata di poteri soprannaturali. Nelle grandi troupe di tipo gan˝a py1akhã (gan˝a, troupe divina) c’è un danzatore, spesso Ganedyah˝ (= Gan˝eésa), che è responsabile di tale cenere e la distribuisce ai suoi accoliti ogniqualvolta sia necessario. In essa, dicono gli interessati, vi è un elemento fondamentale della divinizzazione del danzatore. La cenere rende i danzatori ricettacolo di N1asah˝dyah˝, individui ispirati dalla grazia divina di questo dio, che sa muoversi in armonia con il gruppo28. Si dice che sia così potente che bisogna maneggiarla con precauzione, e può rendere folle chi non sia stato preliminarmente iniziato alla musica e alla danza sotto la direzione di maestri religiosi. Una volta terminata la rappresentazione, si ha cura di lavarsi il volto prima di andarsene. Le donne, tradizionalmente escluse dalla musica e dalla danza, non devono in nessun caso avvicinarsi. Quando un

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Il verbo punegu significa anche essere posseduto da uno spirito maligno, una strega, etc. La musica, espressione del dio N1asah˝dyah˝, ricopre un ruolo essenziale nella possessione dei danzatori. Si veda ciò che scrive Van der Hoek, Kathmandu as a sacrificial arena, in P J. M. Nas, a cura di, Urban Symbolism, E. J. Brill, Leyde, 1993, p. 373, a proposito della troupe gathu di Katmandu: “Il potere speciale dei gathu di impersonare queste divinità non deriva primariamente dalle loro immagini (le maschere che indossano), ma dalla musica divina che producono per la grazia di N1a sah˝ d yah˝ , dio della musica e della danza”. Una volta iniziati alla musica dei tamburi e a N1asah˝dyah˝, i giovani jy1apu di Katmandu sono considerati posseduti da questa divinità [informazione personale]. 28

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danzatore porta sulla fronte questo marchio divino non è più tenuto a inchinarsi davanti a un anziano o a un decano, come vuole la consuetudine. Se non lo hanno già fatto, i danzatori attaccano alle caviglie e alla cintura grossi sonagli, ghãgal1a (ghã, campana), che faranno tintinnare durante le loro evoluzioni29. Questi sonagli contribuiscono notevolmente a divinizzare i loro corpi, a separarli dai legami terreni. Si dice che diano ai danzatori il potere, ésakti, delle dee che incarnano. Alcuni aggiungono che a partire da quel momento i danzatori si mettono a tremare30. Poi non resta ai protagonisti che aspergersi il volto di acqua pura e consacrata, n1ılah˝ k1aygu, e fissare fermamente le maschere con le cinghie. Il danzatore diviene allora un dio, dyah˝, un dio vivente, m1anus¸a devat1a o manu dyah˝ in newari. Non parla più, non deve rispondere alle sollecitazioni del pubblico se non con la mediazione dei suoi assistenti. Cammina saltellando leggermente e dondolando la testa. Quando è seduto e attende il proprio turno per danzare, fa tremare le mani per segnalare lo stato di trance. Qual è il vocabolario impiegato per designare questa possessione? L’espressione più comune è dyah˝ dubihigu – il verbo dubive è tradotto nei dizionari come “essere posseduto”31 – il cui primo significato è entrare. Molto simile è l’espressione dyah˝ vayegu (waye, venire), che nei dizionari ha lo stesso significato32 e che, come si è detto precedentemente, si applica anche ai medium (così come a tutte le forme di possessione attiva). Più specificamente, si usa kh1aygu, tremare, in riferimento ai movimenti supposti o reali del corpo. I maestri di danza parlano anche di p1atra, parola nepali e newari il cui primo significato è vaso, ricettacolo, ma che nel registro teatrale indica anche il ruolo33. Indossando una sottana bianca, j1am1a, grosse cinture metalliche piene di campanelli, le dita adorne di anelli d’argento e le braccia decorate con pezzi di tessuto colorato, i danzatori compiono le loro evoluzioni nello spazio riservato alla danza, secondo una coreografia che non lascia alcuno spazio all’improvvisazione e che fa talvolta pensare alla rappresentazione di un’iconografia divina. Due momenti si se-

29 Può accadere che i danzatori indossino i sonagli prima di essere segnati con la cenere, mvah˝an1 ı sinhah˝, dalle mani dei loro maestri. 30 Allo stesso modo si dice che il brivido dell’animale dopo l’aspersione d’acqua sulla testa, prima del sacrificio, sia il segno della possessione della bestia da parte della dea o del dio al quale verrà sacrificata. Si ritiene questo tremito un segno di accettazione dell’offerta da parte della divinità. 31 T. L. Manandhar, Newari-English Dictionary. Modern Language of Kathmandu Valley, A. Vergati, a cura di, Agam Kala Prakashan, Delhi, 1986, p. 112. 32 T. L. Manandhar, Newari-English Dictionary. Modern Language of Kathmandu Valley, cit., p. 239. 33 La parola esiste con lo stesso significato anche in sanscrito e nel teatro indiano classico; si veda S. Lévi, Le Théâtre indien, Librairie Honoré Champion, Paris, 1890, 1936, p. 121, che scrisse: “Il loro nome (dei personaggi), in sanscrito, significa: recipiente (p1atra), perché il dramma è in essi contenuto”.

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gnalano per la loro carica religiosa particolare. In primo luogo, la presentazione di una coppa metallica p1atra (chiamata anche p1at1ah˝ khvala) che ha la forma di una semicalotta cranica, accessorio rituale di estrema importanza nella tradizione tantrica indiana (e tibetana), le cui origini risalgono senza dubbio alla setta dei K1ap1alika, i portatori di crani votati a Bhairava. La coppa è consacrata, poi riempita di una speciale birra di riso, densa e di colore scuro, chiamata khv1atu thvam˛34. Ciascun danzatore ne ingerisce un po’, così come tutti i membri della troupe35. A Theco e a Katmandu sono gli dei viventi Bhairava e V1ar1ah1 ı che fanno bere a turno la birra. Questa bevanda, che si dice contenga pezzi di carne cotta alla griglia, è assimilata nelle concezioni tantriche dotte a un liquore d’ambrosia36 e conferisce ai danzatori una dignità religiosa particolare. Il secondo elemento fondamentale del rito è costituito dai sacrifici animali, b1ah1am˛ sy1agu, offerti ai danzatori sia dall’associazione stessa, che dal pubblico. I piccoli animali, polli, capre, montoni, sono generalmente uccisi dal danzatore che incarna Bhairava. I bufali sono sgozzati da macellai N1ay. In tutti i casi, i danzatori bevono, hi tvanegu, il sangue delle bestie offerte dalla gola stessa degli animali, sollevando leggermente la loro maschera. Kumar1 ı, Bhairava, K1al1 ı, V1ar1ah1 ı sono i più avidi di sangue. A Khokana, solo queste quattro divinità ingurgitano direttamente il sangue dagli animali. Si ritiene che gli dei viventi, armati di sciabole e coltellacci, abbiano poteri straordinari. Si pongono al fianco di divinità terribili, non placate. La popolazione attende la loro comparsa, una o due volte l’anno, con un’eccitazione mista ad ansietà. I danzatori non esitano a correre dietro ai bambini per spaventarli e fingere di acciuffarli37. Si dice che ogni volta che escono nelle strade del villaggio e nei suoi dintorni divorino una persona, provocando così un decesso, credenza che si attribuisce anche alle divinità tutelari del territorio festeggiate annualmente da tutta la comunità.

34 Da khv1atu, denso; Manandhar, Newari-English Dictionary. Modern Language of Kathmandu Valley, cit., p. 43. Si può bere anche un altro tipo di birra di riso, più chiara della precedente, chiamata in questo contesto aji thvam˛. 35 Le associazioni di danza possiedono in linea di principio un altro p1atra, quest’ultimo molto più segreto, un vero cranio umano conservato nel tempio 1agãch1e cui sono associate. Quest’altra coppa non è mai esposta al pubblico. Le coppe p1atra utilizzate durante i rituali possono essere in ottone, argento o bronzo dorato. Si veda il catalogo L’Art newar de la vallée de Kathmandou, con testi di G. Béguin & G. Toffin, Imprimerie Union, Paris, 1990, pp. 77, 79. È noto che le coppe craniche sono un attributo frequente delle divinità nell’iconografia tantrica. 36 Si veda ad esempio V. Bouillier, Ascètes et rois. Un monastère Kanphar¸a Yogi au Népal, CNRS Éditions, Paris, 1997, pp. 31 e 42, che segnala che nella setta dei K1amphat1a Yog1 ı, il patr1adevat1a del monastero è anche chiamato amritp1atra, il vaso d’ambrosia o il vaso del liquore dell’immortalità. Per la zona dell’Himalaya tibetano, si consulti ad esempio il catalogo Dieux et démons de l’Himâlaya. Arts du bouddhisme lamaïque, Réunion des musées nationaux, Paris, 1977, p. 258. 37 R. Levi, How the Navadurg1a protect Bhaktapur. The effective meaning of a symbolic enactment, in N. Gutschow & A. Michaels, a cura di, Heritage of the Kathmandu Valley, cit., pp. 126-128.

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Perché sono venerati? Nella maggior parte dei casi, queste rappresentazioni di danzatori posseduti contribuiscono a pacificare il territorio, a espellere gli spiriti malvagi, a scacciare i demoni, come è esplicitamente narrato in certe leggende delle origini. Hanno anche lo scopo di assicurare la prosperità, ringraziare l’una o l’altra dea per aver liberato il reame da un’epidemia di vaiolo o di colera in un dato momento, riaffermare l’unità di una località, di un quartiere. Talvolta le troupe di danzatori sono invitate (dyah˝ bvanegu o p1ah1am˛ y1aygu) da una particolare famiglia in occasione di una cerimonia familiare, un’iniziazione o un matrimonio, sia per acquisire meriti che per accentuare la festa, renderla più piacevole agli occhi dei partecipanti. Il danzatore che incarna Bhairava è venerato specialmente dalle donne sterili. Queste esibizioni private conferiscono una dimensione individuale, familiare, a un culto regolato essenzialmente dalle istanze collettive della comunità. Può accadere che la trance degeneri o più esattamente sfugga al controllo del danzatore: il dio vivente trema troppo, diviene aggressivo, minaccia di svenire. Il maestro di danza (o di musica) deve allora intervenire recitando qualche mantra e soffiando sul petto del posseduto. In linea di massima l’ordine è ristabilito. Se simili disordini si ripropongono, è segno che il dio ha preso, afferrato (jvanegu) la persona che lo incarna ed è perciò necessario consultare un guaritore (baide), il quale determinerà la causa esatta del problema e ordinerà di fare un’offerta, spesso un kisli (riso in fiocchi e noci di areca) al dio in questione. Danze mascherate e costruzione dei luoghi sacri La costruzione del corpo divino in occasione di queste danze si inscrive in una serie di spazi imbevuti, densi di significato religioso. Quattro livelli spaziali meritano di essere distinti: 1 – Lo spazio della danza. Quando escono (pi k1aygu) dal loro tempio o dai locali della loro associazione religiosa, i danzatori si dirigono in primo luogo verso l’area della danza, dab1u, più vicina, quella a cui sono primariamente associati e che spesso porta il nome della troupe. È là che si percorrono i primi passi, finalizzati a consacrare lo spazio nel quale le potenze divine si esibiranno. Uno dopo l’altro gli dei viventi, mascherati, santificano quest’area di forma quadrata adibita alla danza e invocano le principali divinità del pantheon (dyah˝ lh1aygu), soprattutto quelle delle quattro direzioni dell’universo. Si dispongono secondo linee geometriche che disegnano diagrammi man˝d˝ala [circolo rituale o magico che viene usato, particolarmente nel lamaismo e anche nello yoga tantrico, come yantra, strumento di contemplazione – ndt] dai significati cosmogonici. All’interno di questo spazio simbolico Bhairava occupa il posto centrale; è attorniato da otto M1atrik1a, ciascuna disposta nella direzione dell’Universo che le è stata assegnata. I maestri di danza sono molto espliciti al riguardo: tutta la coreografia è basata su queste figure circolari e quadrate.

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In realtà le danze possono essere analizzate come delle costruzioni, invisibili a un occhio non avvertito, di man˝d˝ala nello spazio della danza. Citando Ter Ellingson: “In una suite di danze solistiche e di gruppo, il man˝d˝ala è costruito, elemento dopo elemento, attraverso il movimento coreografico del corpo del danzatore e l’intonazione di formule verbali mantra evocative da parte degli strumenti musicali. Poiché il man˝d˝ala composto nella danza è anche una rappresentazione della geografia dell’antico regno Patan, la sua costruzione diventa la realizzazione empirica di una mappa geografica e politica, ma anche cosmica”38. Le danze delle divinità della valle di Katmandu sono così ricollocate nel loro reale significato rituale. Una caratteristica fondamentale del teatro classico newar è la preponderanza dell’elemento coreografico che caratterizza anche le sedute di possessione di cui abbiamo parlato. K.P. Malla39, nel suo studio sulla letteratura newar dell’epoca Malla, indica un’altra dimensione geometrica propria di queste danze: “Il palco è di forma quadrata, ma gli attori si dispongono normalmente lungo un triangolo – il triangolo è un archetipo basilare tantrico […]. La fila posteriore, opposta alla fila occupata dai musicisti o punto d’entrata, è chiamata marga. Il primo lato dell’angolo, dal punto di entrata al marga, è chiamato loma, e l’angolo formato da questi due lati è chiamato prathama kona (pra kona). Quando l’attore ritorna al punto d’entrata per uscire, il secondo angolo formato dal marga e dalla linea d’uscita è chiamato bilama. La linea d’entrata (loma), la linea frontale (marga) e la linea d’uscita (bilama) formano un triangolo o Yoni-akara (vulva)”. Le danze attuali di Harisiddhi e Theco sembrano ancora basate su questi triangoli sacri, o yoni 40. 2 – Il villaggio o il quartiere. Dopo aver costruito e animato il primo spazio simbolico, la troupe intraprende un percorso nella località (desa c1a hilegu o, in forma contratta, dec1a), nel villaggio o nel quartiere se si tratta di una città, secondo un itinerario fisso. Preceduti dai musicisti ed eventualmente dalle divinità tutelari, i danzatori avanzano in fila indiana, in ordine gerarchico e prestabilito (Bhairava in testa, Gan˝eésa in coda se si tratta di una troupe di Navadurg1a). Uomini e donne, assembrati in strada o sulla soglia delle loro case, si inchinano al loro cospetto, cercano di toccarli portando poi subito le mani alla fronte, lanciano loro monete, fiori, chicchi di riso. Alcune famiglie offrono dei polli che un dio, Bhairava, V1ar1ah1 ı o Kumar1 ı, uccide a morsi sollevando leggermente la maschera, prima di darlo ai suoi accoliti. Altri offrono delle uova che i danzatori rompono e inghiottono ipso facto. La processione può durare diverse ore, una notte intera, addirittura diversi giorni. Si arresta a intervalli regolari, generalmente in tutti gli spazi contrassegnati da pedane dab1u per permettere agli dei viventi di esibirsi ed eseguire una danza.

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Ter Ellingson, Nasa: dya:, Newar god of music. A photo essay, cit., p. 262. K. P. Malla, Classical Newari Literature: a Sketch, cit., pp. 72-73. 40 Per quello che concerne le Jala py1akhã di Harisiddhi, si veda L. Iltis, The Jala py1akhã. A classical Newar dance drama of Harisiddhi, cit., pp. 207, 210-211. 39

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Non si tratta solo di riaffermare l’unità di un territorio, di consolidarne i confini, ma anche e soprattutto di ricollocare l’insieme di questi spazi sotto l’autorità delle divinità che i danzatori incarnano. La troupe degli dei riprende possesso del suo territorio, si riappropria dei differenti elementi rilevanti. Le danze in certi spazi dab1u sono del resto chiamate dab1u kvatelegu, espressione che evoca in newari l’idea di un diritto che gli dei viventi fanno valere danzando41. 3 – La capitale del regno e il suo entroterra. Queste danze patrocinate dalla monarchia sono o erano presentate anche nella capitale dalla quale dipendevano, spesso all’interno dello stesso palazzo reale. I danzatori di Theco si recano tutt’ora annualmente a Patan per eseguire le loro danze nel cortile principale, Mulcok, dell’antico palazzo, in occasione della Durg1ap1uj1a. Similmente la troupe di Khokana, quelle di Pyangaon e di Halchok si esibivano un tempo, una volta all’anno a Katmandu, nel cortile riservato al teatro e alle danze, N1asalcok, del palazzo di Hanum1an D˛ hok1a. Anche i gruppi di danza che provengono da città molto grandi sono ancora tenuti, quando si mostrano in pubblico, a presentarsi a palazzo ed esibirsi nel corso delle festività. Queste rappresentazioni nel cuore del potere richiamano alla memoria gli antichi regni newar della Valle, con la loro capitale (Bhaktapur, Patan, Katmandu) e il loro entroterra agricolo. E se Katmandu, capitale del Nepal dopo il 1768, prende talvolta il sopravvento sulle altre due antiche città reali, si deve in ciò leggere un effetto della centralizzazione progressiva dei riti avvenuta nel XIX e agli inizi del XX secolo. Queste antiche divisioni territoriali informano ancora oggi una grande parte della vita religiosa newar. 4 – La valle di Katmandu. Ogni dodici anni le maschere divine di queste troupe di danzatori vengono cambiate42. Le vecchie sono bruciate o semplicemente riposte in qualche granaio e se ne ordina una nuova serie ai pittori citrak1ar. Questo cambiamento, che talvolta si accompagna a un rinnovamento completo dei costumi di danza, corrisponde a un avvenimento di fondamentale importanza nel ciclo rituale dell’associazione. Si eseguono numerosi riti, generalmente condotti da specialisti religiosi esterni alla troupe, brahmani, sacerdoti tantrici hindu karm1ac1arya, o buddhisti vajr1ac1arya, per infondere vita nelle nuove maschere, insufflarvi una potenza divina. Alcune di queste procedure rituali coinvolgono spazi più ampi di quelli del villaggio o della città. A Theco, per esempio, qualche mese prima della consacrazione delle nuove maschere, gli undici danzatori devono, ciascuno per proprio conto, cercare dell’acqua presso un t1ırtha o un corso d’acqua prestabilito. Ciascun dio vi-

41 Kvatele: “Premere, opprimere, sorpassare (in un esame o in una competizione)”; T. L. Manandhar, Newari-English Dictionary: Modern Language of Kathmandu Valley, cit., p. 33. 42 In certi casi, come nella troupe di Navadurg1a a Bhaktapur, le maschere sono bruciate, e quindi rifatte, tutti gli anni. A Kirtipur e a Katmandu i gathu bruciano le loro maschere ogni dodici anni.

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vente è associato a un luogo particolare: Bhairava a Campi, K1al1 ı a Debu (vicino al tempio di Vajrav1ar1ah1 ı di Chapagaon), V1ar1ah1a a Guli Dã (vicino a Kitini), Kumar1 ı alla Hy1amu Pukhu di Theco, etc. Il rituale, chiamato nilah˝ k1a vanigu, è compiuto di notte, nel più grande segreto. Dopodiché le acque raccolte sono versate nel vaso che simboleggia la divinità principale della troupe, M1udyah˝43, divinità che si dice contenga allora tutti gli dei del gruppo. Questa consacrazione evoca i rituali kumbhabhis¸eka celebrati nei maggiori templi hindu. È come se il vaso e i danzatori incorporassero in questa occasione le potenze associate a vari siti della Valle, disegnandone una geografia segreta, fatta di luoghi sacri, itinerari immutabili e yantra protettori44. Qualche settimana più tardi, i giardinieri gathu di Theco effettuano un altro rituale, chiamato dyah˝ k1a vanigu, per trasferire (dyah˝ salegu, letteralmente tirare il dio) nel santuario dell’associazione il potere divino, ésakti, di undici p1ıt¸ha (sedi delle divinità), santuari esterni ai centri abitati, situati nelle diverse regioni della valle di Katmandu. Secondo lo stesso principio del rito precedente, ciascun danzatore si reca in un p1ıt¸ha particolare, al quale è legato e dal quale si presume derivino i suoi poteri. Mediante il sacrificio di due polli, uno dentro il tempio cui fa visita, l’altro a Theco, stabilisce un legame tra i due siti, rinnovando così la potenza divina della divinità principale della troupe, M1udyah˝. In questa occasione il danzatore deve anche riconsacrare i suoi sonagli, ghãgal1a, al p1ıt¸ha d’origine. È necessario ricordare gli spostamenti effettuati dai danzatori ogni dodici anni nelle diverse località della Valle, per eseguire delle rappresentazioni danzate in occasione del rinnovamento delle maschere. La troupe di Navadurg1a di Theco si è da poco esibita in cinque villaggi del sud e dell’ovest della Valle, compresi Bungamati e Pyangaon. Quella di Kirtipur, formata da giardinieri gathu, organizza spettacoli a Panga, Satungal, Naga, Lhonka, Macchegaon, etc. Analogamente, quella di Harisiddhi è ancor oggi tenuta, in linea di massima, a recarsi in ventiquattro località situate ai quattro angoli del bacino di Katmandu, tra le quali Deopatan, centro reale storico dove il gruppo possiede una speciale pedana dab1u. In ciascun villaggio i danzatori ricevono offerte animali e vegetali, di denaro e di vestiti. Com’è costume, bevono il sangue di un bufalo, di un capretto e di un montone sacrificato davanti a loro. Molte di queste visite sono oggi scomparse a causa di liti tra villaggi, altre sussistono ancora. Questi circuiti creano legami forti tra località che abitualmente entrano poco in contatto le une con le altre. Conferiscono al paese newar una qualità religiosa specifica, lo costituiscono come territorio sacro, innervato dalle stesse potenze divine, che attinge a referenze comuni.

43 La divinità principale, M1udyah˝, è identificata dalla maggior parte degli informatori di Theco con Bhagavat1 ı, dea che, peraltro, presiede spesso i gruppi nepalesi di Navadurg1a. 44 Si veda su questo tema il lavoro di R. Levi, How the Navadurg1a protect Bhaktapur. The effective meaning of a symbolic enactment, cit., pp. 107-134, sulle danze Navadurg1a di Bhaktapur.

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Corpo divino e gerarchia La gerarchia, valore fondamentale della società newar, è onnipresente in queste danze mascherate. Si manifesta in primo luogo nel pantheon che, qui come in India, è diviso in gruppi di dei vegetariani, non bevitori di alcol, e dei non-vegetariani, che accettano le offerte di animali e le bevande alcoliche. I primi non bevono il sangue, hi ma tvam˛ dyah˝, i secondi lo bevono, hi tvam˛ dyah˝. In termini di purezza, i primi hanno uno status superiore, sono nei confronti dei secondi quello che i br1ahman˝a sono nei confronti degli ks¸atriya e delle caste inferiori. Nelle danze in questione, ad esempio, il danzatore che incarna éSiva (Mah1adev) non accetta sangue durante le cerimonie45. La maggior parte, tuttavia, lo beve: alcune dee, abbiamo visto, sono anche più avide di altre. A seconda che sia incarnato da un danzatore di casta elevata o inferiore, uno stesso dio riceverà offerte differenti. Le As¸t¸am1atrik1a, rappresentate dai és1akyavajr1ac1arya durante il Dasa§ ı di Patan, non bevono, ad esempio, il sangue perché è un atto mal visto dalle alte caste buddhiste che fanno appello sempre, in un modo o nell’altro, ai valori della non violenza. Incarnate da contadini jy1apu o da giardinieri gathu, le stesse dee bevono il sangue direttamente dalla gola degli animali. Meglio ancora: a seconda che sia incarnata da un contadino jy1apu o da un giardiniere gathu, di casta leggermente inferiore, una stessa dea bevitrice di sangue non accetterà il sangue dei medesimi animali. È il caso, in particolare, dei gathu di Bhaktapur che offrono maiali ai loro danzatori posseduti. A causa dello status molto basso di questi animali, allevati da intoccabili che vivono di rifiuti ai margini delle città, i jy1apu considerano questo sacrificio con disgusto e vi vedono un marchio infamante. I giardinieri gathu di Katmandu e di Theco, invece, non offrono mai sangue di maiale ai loro dei viventi, considerano i gathu della città di Bhaktapur come fossero di status inferiore e si rifiutano di sposarsi con loro. L’inchiesta condotta a Theco ha rivelato altre forme di gerarchia tra i contadini jy1apu e i giardinieri gathu, le caste più coinvolte nelle danze sacre della valle di Katmandu. In questa località, in effetti, gli jy1apu sono ritenuti i fondatori della danza di Navadurg1a, uno dei momenti culminanti del calendario religioso del villaggio. Avrebbero abbandonato questo incarico perché spaventati dalle terribili esigenze delle Nove Durg1a, che li obbligavano a sacrificare una volta ogni dodici anni delle persone che erano loro vicine, addirittura dei parenti. La danza sarebbe allora spettata ai gathu. Questa storia, che i giardinieri non confutano, stabilisce una relazione gerarchica tra le due caste46, accredita l’idea dei gathu come esseri più selvaggi, meno sensibili ai valori umani.

45

éSiva danzante non beve che latte.

A Theco come a Katmandu le troupe di danzatori gathu necessitano degli agricoltori jy1apu per celebrare certi rituali o come musicisti. Anche qui la gerarchia tra le due caste è rispettata. 46

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Una stessa divinità può avere un duplice aspetto. Gan˝eésa, ad esempio, sempre presente in una troupe di Navadurg1a o di As¸t¸am1atrik1a, possiede anche una forma pacifica, Sveto Gan˝eésa, che non si esibisce che una volta ogni dodici anni o in occasioni molto particolari, e che non consuma sangue durante le danze, o solo il sangue di certi animali, ad esempio di anatra. Bisogna anche sottolineare che certe divinità sono ritenute troppo pericolose per essere rappresentate da esseri umani. È il caso della Mah1alaks¸m1 ı dei giardinieri gathu di Bhaktapur, ottava e ultima M1atrik1a, dea la cui maschera, di dimensione molto piccola, è portata appesa a un vaso, e che dunque non possiede nessuno. A Theco, Indr1ayan˝1 ı non è mai incarnata da un essere umano: un membro della troupe porta la sua maschera attaccata alla cintura. Agli occhi degli iniziati tantrici, t1antrika, appartenenti alle caste alte, brahmani rajop1adhy1aya e buddhisti vajr1ac1arya, tutte queste forme umane di divinità sono giudicate inferiori agli dei esoterici, rappresentati dai dipinti religiosi o dai diagrammi geometrici e conservati segretamente negli oratori privati, al riparo dagli sguardi dei non iniziati. I brahmani newar, in linea di massima, guardano con sospetto tutti gli aspetti più antropomorfici e naturalizzati del divino, considerati soprattutto un modo di soddisfare il bisogno di religiosità elementare della grande massa della popolazione. Maggiormente rivolti a modalità interiori di devozione, basate su esercizi di meditazione, considerano gli dei viventi mascherati, soprattutto quelli incarnati dalle caste inferiori, come delle espressioni religiose di second’ordine47. Le esibizioni danzate di cui abbiamo parlato rinviano direttamente ad alcune nozioni tantriche: l’importanza delle figure geometriche di tipo man˝d˝ala e yantra nello spazio della danza, il ruolo delle iniziazioni d1ıks¸a e delle formule mantra per le qualifiche rituali, la funzione ugualmente centrale della coppa cranica p1atra48, l’unione mistica con il dio e la possessione interiorizzata di tipo 1aveésa49 (quantun47

La stessa ambiguità e la stessa svalorizzazione relativa si attua nei confronti della dea vivente Kum1ar1 ı; G. Toffin, Le Palais et le Temple. La fonction royale dans l’ancienne vallée du Nepal, cit., pp. 235-238. 48 L’ingestione collettiva della birra contenuta in una coppa p1atra si riscontra presso i Newar anche in altre occasioni oltre alle rappresentazioni di danze mascherate. D. Gellner, Monk, Householder and Tantric Priest: Newar Buddhism and its Hierarchy of Ritual, Cambridge University Press, Cambridge, 1992, pp. 242-3, descrive, ad esempio, un rituale simile chiamato p1atra k1ayegu, prendere la ciotola, al quale prendono parte tutti i membri di una stirpe vajr1ac1arya (preti tantrici buddhisti) di Patan. In questo caso è la donna più anziana della stirpe, posseduta dalla dea Yog1ambara, che fa bere la birra a tutti i partecipanti. La coppa p1atra appare anche nel rito d’iniziazione 1ac1a luyegu (o 1ac1arya abhis¸eka) dei sacerdoti tantrici vajr1ac1arya. Si veda M. Allen, The Cult of the Kumar1ı, cit., p. 11, e D. Gellner, Monk, Householder and Tantric Priest: Newar Buddhism and its Hierarchy of Ritual, cit., p. 279. 49 Su questo punto si veda l’articolo di A. Padoux, Trance, possession ou absorption mystique? 1 ésa selon quelques textes tantriques cachemiriens, in J. Assayag e G. Tarabout, a cura di, La PossesL’Ave

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que il termine non sia utilizzato), la gestualità della danza ridotta in parte a una successione di mudr1a, etc. I danzatori mascherati non sono solamente il simbolo degli dei, ne sono l’espressione vivente. Si identificano con l’energia delle dee che rappresentano e si elevano a un piano trans-umano, trascendente. Senza dubbio, questo tipo di possessione che suppone l’acquisizione di un nuovo r1upa, un corpo divino, merita di essere comparato a quelle tecniche rituali, le s¸ad˝an•ga p1uj1a, grazie alle quali l’officiante tantrico conferisce un corpo, composto di elementi finiti, differenziati, alla divinità che venera. Deve anche essere messo in rapporto con quell’idea fondamentale del tantrismo secondo la quale solo éSiva può venerare éSiva: per essere efficace, qualsiasi approccio alla divinità presuppone una deificazione del proprio corpo. L’adepto deve realizzare in sé l’esperienza della divinità, in altre parole, identificarsi con il dio che vuole adorare. In un certo qual modo, queste danze popolari delle divinità possono essere considerate come forme teatralizzate, esteriorizzate, di culti tantrici segreti riservati ai soli iniziati, allo stesso modo in cui il culto della Kumar1 ı traduce pubblicamente un rito segreto attorno alla dea Taleju. Esse appartengono a una tradizione alta molto differente dalla possessione popolare diffusa in Asia del sud, che spesso riguarda non-specialisti, individui isolati, e può assumere forme estremamente spontanee. Gli elementi indiani sono, dunque, dominanti. Una comparazione con lo sciamanismo himalayano è pertanto inappropriata, soprattutto su un piano sociologico? Le differenze appaiono a prima vista numerose: i danzatori mascherati newar sono maggiormente legati ai riti pubblici e alla prosperità generale del luogo; non si occupano (o molto raramente) di malattie o di forze di disordine che affliggono le famiglie; incarnano divinità e non spiriti, sono sempre uomini, etc. Qualche punto di comparazione, tuttavia, merita di essere sottolineato: (1) le danze in questione occupano un ruolo centrale nella vita religiosa delle località contadine, mettono in moto tutto il villaggio e costituiscono una delle date chiave del calendario annuale; (2) la possessione mascherata implica una messa in scena, una teatralizzazione del rito, la messa in opera di più accessori che evocano immediatamente le sedute sciamaniche delle colline nepalesi; (3) essa presuppone, d’altro canto, l’esistenza di una tradizione esoterica e di un apprendistato presso un maestro accreditato; (4) la trasmissione ereditaria degli incarichi e dei ruoli, che è molto spesso la regola, avvalora l’idea della conservazione di un patrimonio divino in seno a un ristretto numero di famiglie, caratteristico di certe forme di sciamanismo; (5) infine, l’aspetto collettivo dell’istituzione, il raggruppamento dei danzatori in società, richiamano alla mente i collegi di sciamani descritti da Anne de Sales50 tra i Magar

sion en Asie du Sud, Parole, Corps, Territoire, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1999, pp. 133-148. 50 A. de Sales, Je suis né de vos jeux de tambours. La religion chamanique des Magar du Nord, Société d’ethnologie, Nanterre, 1991.

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del Nord. Questi paralleli non hanno altro interesse che quello di situare più chiaramente i newar nel contesto himalayano. Insistono su alcune caratteristiche sociologiche proprie di questa popolazione e mettono in evidenza gli adattamenti ai quali la tradizione indiana classica è stata costretta nello stabilirsi nella valle di Katmandu. L’avvenire di queste danze è incerto. A lungo isolata, l’antica valle del Nepal si apre dopo trent’anni all’influenza esterna, soprattutto occidentale. I cambiamenti sono massicci e colpiscono tutti gli aspetti della vita economica, sociale e religiosa. La modernizzazione e la democratizzazione del paese minano i valori gerarchici tradizionali; i giovani si sottraggono sempre di più agli obblighi religiosi, rifiutano di impegnarsi in una vita così costrittiva come quella del danzatore mascherato; una certa riprovazione nei confronti degli aspetti più cruenti delle feste newar guadagna terreno sotto l’influenza, tra le altre, del Therav1ada. La riforma fondiaria, del resto, ha assestato un colpo decisivo alle fondazioni religiose che finanziavano tradizionalmente queste associazioni di danza. E i partiti non monarchici al potere dopo il 1990, il partito del Congresso in particolare, rimettono in questione il Gut¸hi Sam˛sth1an, principale sostenitore oggi delle danze mascherate. Molte troupe di danza sono attualmente scomparse, altre hanno ridotto in maniera drastica le loro rappresentazioni e si spostano meno di prima al di fuori della loro località. Per sopravvivere, alcune si esibiscono nei grandi hotel di Katmandu a beneficio dei turisti. Il dipartimento di Archeologia e il ministero del Turismo vi vedono un modo per preservare, a spese ridotte, l’eredità musicale della Valle. I danzatori mascherati newar dovranno adattarsi a questa nuova situazione nei prossimi decenni.

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Impersonificazione e mimo nelle cerimonie della religione popolare di E.R. Sarachchandra in E.R. Sarachchandra, The folk drama of Ceylon, Department of the Cultural Affairs, Ceylon, 1952, 1966/2, pp. 31-38

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Cerimonie Le cerimonie nelle quali si invocano i demoni e gli dei comprendono rituali che fanno largo uso di espedienti teatrali quali la mimesi, l’impersonificazione e il dialogo. L’esorcista stesso indossa un costume che si suppone rappresenti quello di Vesamun˝i, affinché possa comandare meglio i demoni [i demoni maggiori, secondo il mito, sono stati banditi dalla terra dal Buddha e vivono in una dimora speciale guidati dal loro re Vesamun˝i – ndt]. Le cerimonie iniziano con un invito ai demoni a presentarsi. Tale invito prende la forma di un canto accompagnato dai tamburi e, talvolta, dal suono di strumenti a fiato. Ci si rivolge a ogni demone chiamandolo per nome e gli si chiede di consumare il cibo che gli è stato offerto. Poi il sacerdote si indirizza ai demoni individualmente, e li implora con la maggiore umiltà possibile di smettere di tormentare il paziente. In un primo momento il sacerdote cerca di curare il paziente ottenendo la benevolenza dei demoni. Si rivolge a ognuno di essi usando termini affettuosi, come massin1e, malliy1e (cugino, fratello). Poi il suo tono muta. Non adotta più un atteggiamento umile e implorante. Comincia a minacciarli e li ammonisce a lasciare il paziente nel nome del Buddha e di Vesamun˝i. A questo proposito afferma: “Se è vero che i demoni devono obbedire al re Vesamun˝i, se è vero che il potere del re Vesamun˝i è grande, se è vero che l’autorità di Vesamun˝i, degli dei e del Buddha prevale ancora nel mondo, allora io comando a voi, o demoni, nel nome del Buddha, dei suoi sacerdoti e dei suoi insegnamenti, di dichiarare chi siete e perché affliggete in questo modo questa creatura umana”1. Molto spesso a questo punto il paziente viene posseduto dai demoni, ovvero il demone che lo ha tormentato entra in lui. Se questo non accade durante la recitazione delle formule magiche, si esegue un rituale apposito per costringere il demone a entrare nel paziente. Si pone una freccia (1ıgaha) sulla testa dell’ammala-

1 Dandris de Silva Gunaratna, Demonology and witchcraft in Ceylon, in “JRASACB”, vol. IV, p. 102.

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to, e si mormorano formule magiche su di lui, finché non viene posseduto. Allora il paziente parla, e si ritiene che il demone parli attraverso di lui. Tra demone e sacerdote ha luogo una conversazione simile alla seguente: Sacerdote: Dimmi, che demone ti ha posseduto? Demone: Maha Sohona mi ha posseduto. Io sono Maha Sohona. Sacerdote: Perché procuri tormento a questo essere umano? Demone: Ha mangiato un certo cibo senza offrirmene una parte. Sacerdote: Siamo pronti a darti un’offerta se lasci in pace il paziente. Demone: Voglio una vittima umana (nara billak). Sacerdote: Questo è impossibile. Non possiamo darti tutto ciò che vuoi. Hai ricevuto dal Buddha e da Vesamun˝i il permesso (varam) di fare certe cose. Ti hanno loro concesso di pretendere sacrifici umani? Demone: No. Beh, allora datemi un’offerta di un quadrupede (hatara g1ate billak). Sacerdote: Anche questo è impossibile. Demone: Datemi un’offerta di un bipede (deg1ate billak). Sacerdote: Si, ti daremo questo gallo. Prendilo e vattene. A proposito, come sapremo che te ne sei realmente andato? Demone: Romperò un ramoscello di quell’albero laggiù. Sarà un segno che me ne sono andato. Oppure griderò “huu” quando me ne vado. Il sacerdote consegna quindi un gallo vivo al paziente il quale, quando è posseduto in modo violento, gli torce il collo e ne beve il sangue. Ciò, comunque, accade solo raramente, e nella maggior parte dei casi la consegna del gallo al paziente è indicativa dell’accettazione dell’offerta da parte del demone. Si ritiene che, sebbene i demoni amino il sangue e la carne, non possano realmente cibarsene e debbano accontentarsi, nella maggior parte dei casi, semplicemente di guardare tali offerte. Se il paziente versa in condizioni veramente gravi, si ritiene che il demone non sarà soddisfatto che da offerte umane. In tali occasioni, perciò, l’esorcista adopera uno stratagemma per mezzo del quale finge di offrire il paziente al demone e, raggirandolo, lo fa andare via. In questi casi si presume che il principale responsabile del disturbo sia il demone R1 ıri Yak1a. Perciò si costruisce un’immagine di paglia e materiali simili, con volto e mani appropriate, e la si depone in quella che è chiamata därahäva, una piccola bara fatta di steli di banano e foglie di cocco, completata con un coperchio di fibre e foglie intrecciate ad arco. L’effige è posta dentro la bara, e sopra di essa vengono appoggiati numerosi pid1eni tat¸u (piatti contenenti offerte per i demoni, fatti anch’essi di fibre e foglie). Il sacerdote si stende dentro la bara, a fianco dell’effige, e la bara è trasportata da numerose persone che gemono, piangono e cantano versi, come i seguenti: “Ti daremo la carne della testa se vuoi/Ti daremo la carne del cuore se vuoi/Toglieremo le ossa e i legamenti e ti daremo il fegato/Al demone che ha causato la malattia offriremo oggi un sacrificio umano”. Anche il sacerdote intona versi e recita formule magiche dentro la bara. Canta: “Qualcuno qui mi sta lacerando i tendini,/E mi sta succhiando le ossa e i legamen-

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ti fino a farli uscire dal corpo,/Mi chiede il cuore, il fegato e perfino le interiora/Il demone che ha causato questa malattia esige un sacrificio”. In questo modo la bara è portata in cimitero, a mezzogiorno oppure a mezzanotte, e lì il sacerdote esce dalla bara e dà fuoco all’effige, dopodiché fa un incantesimo a una corda e incarica un altro sacerdote di legarla al braccio del paziente, mentre lui stesso si allontana furtivamente.

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La cerimonia sanni yakuma Una cerimonia che contiene elementi teatrali molto pronunciati, come impersonificazione e dialogo, la quale, oltre a essere rituale, si propone fino a un certo limite anche di divertire il pubblico, è la sanni yakuma, ovvero la cerimonia per esorcizzare i demoni delle malattie, chiamati Sanni Yakku. Qui l’esorcista prende a turno le sembianze dei diversi demoni che compongono questo gruppo, indossando una maschera per ciascuno di essi. Dopo le cerimonie preliminari, nelle quali si intonano stanze di invocazione per i vari demoni con l’accompagnamento della danza e dei tamburi, appare il demone femmina chiamato S1uniyam˛ Yaks¸an¸1 ı. Dapprima entra con l’aspetto di una giovane e bella fanciulla, poi come una donna incinta e, infine, come una madre con in braccio un bambino. In una cerimonia cui assistetti nel villaggio di Meegama, vicino ad Alutgama, l’esorcista che apparve nelle vesti di S1uniyam˛ Yaks¸an¸1 ı portava un sar1ı, con un lembo del quale si copriva la testa. Aveva i capelli annodati in una crocchia e indossava una piccola maschera femminile. Nel corso del dialogo un altro esorcista lanciò pesanti avances nei confronti di Yaks¸an¸1 ı e il demone si divincolò timidamente, come una giovane donna ritrosa, provocando così le risate del pubblico. Poi apparve nella stessa veste, ma con una maschera differente. Aveva legato qualcosa attorno alla vita per sembrare incinta, e si comportò come se fosse in gran pena. Anche questa volta il dialogo fu ricco di battute volgari sul suo stato di gravidanza. Infine apparve con una bambola tra le braccia, indossando la prima maschera. La osservo mentre culla il bambino per farlo addormentare e dice che il bimbo ha molti padri, menzionando per nome vari membri del villaggio. Canta una ninnananna per fare addormentare il bambino, la stessa ninnananna usata nella scena della donna gravida del k1olam˛ [il principale genere di dramma mascherato singalese – ntd]. Alla fine pronuncia benedizioni sulle persone malate, dicendo che “la triplice apparizione di S1uniyam˛ Yaks¸an¸1 ı è stata così mostrata” e lascia l’arena. Entra ora Maruv1a o il Demone della Morte, che è una manifestazione di R1 ıri Yak1a, il Demone del Sangue. Prima di ciò, comunque, si svolge la cerimonia chiamata pädure däpavilla o incantesimo del tappeto. Qui l’esorcista si stende a terra sopra un tappeto, cantando ininterrottamente e fingendo di essere morto, mentre un altro esorcista prepara varie offerte e le depone sul suo petto. Subito dopo appare il Demone della Morte, vestito di rosso, che getta con violenza incenso sulla

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torcia, facendo volare le fiamme in tutte le direzioni. Si arrampica sul v1ıdiya (altare)2 e grida “huu” numerose volte, sempre lanciando incenso sulla sua torcia. Balza quindi nell’arena e, vedendo l’esorcista morto, comincia a gemergli attorno, portando le mani alla testa. Ha in mano una spada fatta di steli di plantano [platanus orientalis – ndt] e, dopo essere saltato sul corpo dell’esorcista, mima l’atto di ferirlo con la spada e ucciderlo. Poi corre tutt’attorno all’arena, talvolta fermandosi in un angolo e chiamando con un cenno un membro della folla, per incutergli paura. Si arrampica ancora una volta sul v1ıdiya e si scuote su di esso con furia, come in preda alla rabbia e, dopo essere saltato nuovamente nell’arena, corre avanti e indietro. Prorompe di nuovo in una risata spaventosa e sogghigna, continuando a correre attorno allo spazio rituale. Infine prende alcune corde fatte di foglie di cocco e, tornato nel luogo in cui l’esorcista è steso sul tappeto, ve lo arrotola, legandolo con le corde di cocco attorno al petto e ai piedi. Solleva il corpo e lo fa rimanere in posizione eretta sul terreno per un momento, gli corre attorno tre o quattro volte e, caricatolo sulle spalle, scompare dietro il v1ıdiya. Questo episodio descrive come il Demone della Morte consumi un sacrificio umano. Dopo di lui arrivano i demoni Maha Sohon1a e Abim1ana. L’offerta sacrificale per Abiman1a Yak1a è semplicemente costituita da un po’ di riso e poche varietà di fiori, poiché si crede che egli sia di indole religiosa. Questa offerta sacrificale viene posta su una sedia, e l’esorcista principale canta versi di invocazione, mentre altri battono i tamburi e suonano un flauto rosso che produce un suono metallico stridente. Il demone indossa una maschera bianca, con barba e denti sporgenti. Sulla testa ha un cappello a tre punte di stoffa bianca. Anche la veste è completamente bianca, e porta un lungo bastone da passeggio. Come d’abitudine, segue un dialogo improvvisato tra il demone e uno degli esorcisti. La processione dei diciotto demoni Sanni e i preliminari di questa processione sono la parte più interessante della sanni yakuma dal punto di vista drammatico. I primi ad apparire sono i tre principi demoni, Kal¸u Kumar1a, V1ata Kum1ara e Kal¸u Yak1a. Danzano e cantano le leggende sulla loro origine. Poi alcuni danzatori escono dall’altare, con i volti anneriti e fasci di foglie attorno alla vita. Rappresentano in generale le truppe di Vesamun˝i-rajjuruvo, e sono gli attendenti dei diciotto demoni che seguiranno. Ognuno di essi tiene in mano un particolare oggetto, con il quale danza per un momento, per poi lasciare il posto al demone successivo. Il primo giunge con una bacinella di carboni ardenti e vi lancia dentro polvere di incenso mentre danza. Il secondo porta una torcia e il terzo una ciotola con acqua e zafferano (kaha diyara). Il quarto ha una piccola ciotola con fiori di cocco. Il quinto & bili). Il settimo ha una picdanza con uno scialle e il sesto con un cocco rosso (tä m cola scatola di betel e l’ottavo un bastone. Ognuno si distingue per un costume caratteristico che, in ogni caso, è grottesco e pensato per divertire il pubblico. Cia-

2

V1ıdiya deriva probabilmente dal sanscrito vedi, che significa altare sacrificale.

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scuno possiede, inoltre, una sua peculiarità. Uno di essi, ad esempio, si comporterà come un clown da circo, un altro divertirà il pubblico con battute scurrili, mentre un altro riderà incessantemente. Secondo alcune versioni, i diciotto demoni sono preceduti da altri due, chia1 tura Yak1a e Kal¸uvädi Sanniya, normalmente non inclusi fra i demoni mati A 3, che si suppone preparino la strada agli altri. Atura 1 Yak1a è vestito di rosso e Sanni indossa una maschera nera senza mascella e un mantello di foglie di burulla [pianta medicinale originaria dello Sr1 ı Lan•k1a – ndt]. Kal¸uvädi Sanniya ha una maschera che consiste solo di una grande mascella di legno. Il suo compito è quello di distribuire il gallo sacrificale tra i diciotto demoni Sanni, ed è perciò talvolta denominato Kukul¸u Sanniya. Non appena entra nel recinto della danza, si lancia sul gallo steso al suolo e finge di ridurlo a brandelli, mordergli la gola e succhiarne il sangue. È molto raro che tutti i diciotto demoni appaiano in una singola cerimonia, dal momento che K1ola Sanniya, il loro capo, deve comparire prima del sorgere del sole. I demoni più conosciuti, come Maru Sanniya, Amuku Sanniya, Kan˝a Sanniya, Gol¸u Sanniya e K1ola Sanniya, mancano raramente. I demoni Sanni si distinguono l’uno dall’altro soprattutto per le loro maschere. I costumi sono per lo più gli stessi e consistono in una gonna di foglie di burulla e una specie di scialle di pelliccia per la parte superiore del corpo, barba e parrucca neri. Ogni demone si comporta come se fosse afflitto da una particolare malattia, che si ritiene sia quella che infligge ai mortali. Uno lamenta mal di testa, un altro è in preda alla diarrea e alla voglia di vomitare. Kan˝a Sanniya è cieco, e Gol¸u Sanniya muto. Maru Sanniya si comporta come un folle in delirio. Ogni demone entrerà da dietro il v1ıdiya quando è interpellato per nome e invi1 tato. Maru Sanniya, per esempio, sarà invocato nel modo seguente: “Om˛ hr1ım˛! Demone della Morte, tu che sei nato dalla principessa Asup1ala e dal re Sankhap1ala, e sei stato ingiustamente portato in cimitero e tagliato in due, ma sei riuscito a vivere nella parte sinistra, nutrendoti della carne di tua madre; tu che non hai potuto ottenere il permesso dal Buddha, ma sei stato autorizzato da Vesamun˝i a porre il tuo sguardo sui mortali e farli cadere ammalati, e in virtù di tale concessione ora infliggi pazzia, febbre, dolori alle articolazioni e mal di stomaco in questo paziente, presta ora ascolto agli ordini del Buddha e vieni in questo recinto della danza, vieni, vieni, vieni 1e svaha”. Maru Sanniya è il più spaventoso dei demoni e il più temuto. È il demone della pazzia, e perciò si comporta come un folle in preda al più violento accesso di delirio. Annuncia il suo arrivo ruggendo forte ed entra facendo scuotere il v1ıdiya. Si

1 Atura Sanni è incluso, in certe versioni, tra i diciotto demoni Sanni. Paul Wirz, Exsorcismus 1 und Heilkunde auf Ceylon, Bern, 1941, tuttavia, si riferisce ad Atura Yak1a e Kal¸uvädi Sanniya come loro precursori. 3

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arrampica dalla sua parte posteriore sulla trave della porta, sulla quale rimane seduto per un po’. Tiene in mano un piccolo arco con una freccia che rappresenta anche una torcia triforcuta (dunu pandama). Non indossa una maschera; la sua faccia è invece completamente dipinta di nero e ha denti falsi in bocca. Indossa una parrucca nera ispida e una barba. Tirerà fuori la lingua, griderà e tenterà di correre nell’una o nell’altra direzione come se fosse in cerca di una preda. Poi i sacerdoti gli rivolgeranno la parola, iniziando così un dialogo spesso divertente. Il seguente è un esempio di una possibile conversazione: Demone: Bene, bene, cosa succede qui? Sacerdote: Sta’ attento a come ti comporti qui. L’influenza del Buddha si estende a questo luogo. Demone: Ooh! Provo una sensazione bruciante. Sacerdote: Vedi cosa la semplice menzione del nome del Buddha può fare. Così grande è il suo 1anubh1ava. Demone: Quanto lungo è questo 1anubh1ava di cui parli, che appartiene al tuo Buddha? Sacerdote: L’1anubh1ava non è una specie di corda. Demone: Cos’è allora? Sacerdote: È il potere delle sue virtù. Demone: Mio caro Gurun1anse, stavo riflettendo sulle virtù del Buddha e sul potere di Vesamun˝i, quando ho udito qualcuno dire: “Mio caro cugino, mio buon amico, vieni dal cielo, vieni dalle Montagne Orientali, ti daremo latte cagliato, ti daremo miele, ti daremo una preda a due zampe, un gallo, invece di una preda a quattro zampe”. Quando ho udito ciò, non ho potuto trattenermi dal venire qui. Sacerdote: Siamo noi le persone che ti hanno invitato. Demone: Perché mi avete invitato? Sacerdote: Hai inflitto una malattia a una certa persona. Questo è il motivo per cui sei stato chiamato qui. Demone: Dov’è la persona ammalata? Sacerdote: È qui. Puoi chiedergli quello che vuoi. Demone: Bene, vediamo. Ti duole il corpo, uomo ammalato? Sacerdote (rispondendo al posto dell’uomo ammalato): Si. Demone: Le tue membra si piegano a ogni giuntura? Sacerdote: Questo è normale. Le mie membra mi fanno male a ogni giuntura. Demone: Ti gira la testa? Sacerdote: Si. Demone: Il tuo stomaco è morbido come un frutto maturo? Sacerdote: Tutti hanno uno stomaco morbido. Il mio è duro. Demone: Lo ammetto, questi sono disturbi inflitti da me. Cosa mi darai se li curo? Sacerdote: Ti darò del riso (qui il sacerdote offre del riso al demone). Demone: Mio caro amico, il nostro riso non è come questo. Se vado al cimitero posso mangiare una creatura con quattro zampe. Non voglio riso.

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Sacerdote: Bene, se prometti che curerai l’uomo ammalato, ti darò riso con foglie dai sette colori e venticinque tipi di curry, e latte cagliato con miele, come ciò che fu servito ai demoni nella città di Vis1al1a, secondo le istruzioni del Buddha. Se non accetti questa offerta, reciterò le virtù dei ventotto Buddha e ti brucerò qui all’istante. Demone: Oh, per piacere, non farlo, ti prego. Prometto che curerò quest’uomo dalle malattie che l’hanno colpito. Alla fine di questo dialogo il demone accetta le offerte che il paziente stesso deve porgergli. Talvolta il demone tiene le offerte sopra il fumo che emana da una bacinella di carbone nella quale è stata gettata della resina, e mormora un incantesimo, promettendo la guarigione del paziente. K1ola Sanniya, il capo dei diciotto demoni, appare per ultimo e riceve la parte principale delle offerte. Indossa una corona fatta di foglie di palma, e ha un telo rigido rettangolare di steli di banano legato attorno alla vita. Questo è provvisto di quattro ricettacoli triangolari che dovrebbero contenere le varie offerte fatte a questo demone. Il volto è coperto da una maschera abbastanza differente dalle altre, con occhi sporgenti e sormontata da due teste di cobra. Prima della sua entrata nello spazio della danza, il suo volto è cosparso con fumi di incenso. Poi due giovani uomini erigono una barriera tra il paziente e il demone, ponendogli davanti due mortai da riso incrociati. K1ola Sanniya allora compare e danza al suono dei tamburi, e dopo un po’ cerca di attraversare la barriera per raggiungere il paziente. Ma i guardiani glielo impediscono. Il demone tenta dapprima con la forza, poi con l’astuzia, e prova perfino a corrompere i guardiani offrendo loro banane e dolci di riso. Ma questi tentativi non hanno successo. Alla fine dice alle guardie che il Buddha gli ha concesso di andare dove vuole. Ma le guardie domandano il permesso scritto, il sannasa. Perciò K1ola Sanniya si reca dal Buddha per ottenere questo permesso e, tornato con una striscia di foglie di ola sulla quale è scritto il sannasa, comincia a leggerlo trionfante alle guardie. Ma, a suo disappunto, scopre che il sannasa dà istruzioni differenti da quelle che si aspettava. Smette di leggere e scoppia a singhiozzare, perché il permesso dice: “K1ola Sanniya può andare nel mondo dei mortali, ma solo per guarire la gente e ricevere le offerte che gli sono state preparate. Deve ritirarsi prima che sorga il sole”. Le guardie dimostrano una maliziosa contentezza. Sottomesso e affranto K1ola Sanniya va dal paziente e riceve le sue offerte, che consistono in frutta, riso, dolci di riso e altri ingredienti. Tutto questo è posto nei ricettacoli della cintura e nella corona di foglie. Su di lui viene appeso anche un gallo. Carico di questi doni esegue la sua ultima danza, con una torcia accesa nella mano nella cui fiamma lancia polvere di incenso. Il cesto sacrificale, nel quale sono alla fine deposte tutte le offerte fatte ai demoni, è portato nel centro del recinto sacro e K1ola Sanniya vi danza attorno, gettando la resina infuocata su di esso come per bruciarlo. Quando infine smette di danzare, il sacerdote officiante porta il cesto dietro la casa o nei cespugli e K1ola Sanniya lo segue. Qui si toglie la corona, la cintura e gli ornamenti e li mette nel cesto. Il cesto è quindi abbandonato, e la cerimonia finisce.

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Danzare ed essere danzati: la danza in trance e le performance teatrali nella Giava occidentale di Kathy Foley

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“Asian Theatre Journal”, vol. 2, n. 1, University of Hawaii Press, Honolulu, 1985, pp. 28-49

Nel teatro occidentale si parla di attori così rapiti che per un momento o per un’ora vivono la parte. Ma, nel suo complesso, la recitazione occidentale è percepita come un’elegante forma d’artificio. Gli attori impersonano, ma non perdono mai la prospettiva di chi loro stessi siano. Durante uno studio sul campo nella Giava occidentale, in Indonesia, tra il 1977-1978 e il 1982, ho riscontrato un tipo differente di recitazione. In alcune forme di danza in trance si riteneva che gli attori sperimentassero uno stato alterato di coscienza divenendo un medium per un’altra presenza: la loro personalità veniva rimpiazzata nei loro corpi da un altro essere1. Il fascino di questo tipo di recitazione è duplice. In primo luogo c’è l’attrazione del voyeurismo: queste forme permettono agli spettatori di guardare oltre la loro esistenza quotidiana, nel mondo normalmente nascosto degli spiriti che si esibi-

1

Per una discussione generale sulla trance di possessione in contesti storici e cross-cultural si veda T. K. Osterreich, Possession Demonical and Other, among Primitive Races, in Antiquity, the Middle Ages, and Modern Times, trad. ingl., di D. Ibberson, University Books, New Hyde Park, New York, 1921, reprint 1966, e E. Bourguignon (1973, reprint 1976). Per un resoconto completo della trance in una cultura indonesiana, si veda l’ormai classico studio di J. Belo, Trance in Bali, (1960). Per un’indagine sulla danza estatica in molte culture, si veda Bourguignon (1968). Il rapporto storico della seduta spiritica come precorritrice della performance teatrale è stato esplorato da E. T. Kirby, Ur-Drama: the Origins of Theatre, New York University Press, New York, 1975. D. Cole, Theatrical Event, Wesleyan University Press, Middletown, Connecticut, 1975, utilizza la trance di possessione per spiegare aspetti del lavoro del performer teatrale. I due libri rappresentano la tendenza degli scrittori fino ai tardi anni sessanta di comparare il ruolo dell’attore con quello del medium o dello sciamano nelle società tradizionali. Sebbene questi lavori siano suggestivi, tendono a oscurare la distinzione tra controllore degli spiriti e medium operata da M. Eliade, Shamanism: Archaic Techniques of Ecstasy, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1964, pp. 4-8 [trad. it., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma, 1974, 1991/2 – ndt]. Voglio mantenere tale distinzione, dal momento che sono ruoli distinti nelle culture di cui tratto, ma ho evitato di usare il termine sciamano per riferirmi a colui che controlla gli spiriti, perché il termine rievoca le immagini, inappropriate nel contesto della Giava occidentale, dei viaggi in trance verso i mondi degli spiriti. [I testi di cui non sono state date indicazioni bibliografiche complete sono citati nel corso del saggio – ndt].

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scono – dei e demoni, animali selvatici e mitici e defunti. Il secondo motivo di interesse è lo spettacolo: dal momento che questi spiriti sono dotati di poteri sovrumani, gli attori in trance spesso si impegnano in attività che superano le limitate possibilità dei semplici mortali. Come se avere a che fare con gli spiriti non fosse sufficientemente eccitante, spesso i performer mettono alla prova la validità della loro presenza, giocando letteralmente col fuoco: ho visto performer camminare su carboni ardenti, rotolarsi torce infuocate sul corpo, mangiare bulbi di vetro, immergersi nell’acqua bollente e ferirsi con spade. Gli studiosi generalmente affermano che queste danze sono molto antiche e alcuni ipotizzano la loro derivazione da forme rituali arcaiche che, sotto l’impatto di successive ondate di cultura straniera (hindu, islamica e occidentale), avrebbero perso il loro significato originale2. Non è mia intenzione in questo saggio analizzare o psicanalizzare tali forme alla ricerca delle loro radici storiche o culturali, né intendo mettere in discussione l’autenticità degli stati di trance nelle performance di cui sono stata testimone. Piuttosto, desidero sottolineare alcune somiglianze tra coloro che cadono in trance in queste forme e gli attori di performance più strettamente teatrali nella Giava occidentale, la cui interpretazione più si avvicina alla recitazione di tipo occidentale. Penso che questa comparazione possa gettare luce su alcuni fondamenti delle performance teatrali di quest’area geografica. Ai fini di questo articolo, definisco il danzatore come il performer che mantiene la coscienza di sé mentre impersona un altro, e il danzato come colui che ricerca uno stato alterato, di trance, e diviene un medium per un’altra presenza, fenomeno conosciuto come trance di possessione. Sebbene il livello della coscienza fornisca una linea di demarcazione tra questi due tipi di performer, ipotizzo che i danzatori teatrali siano, in un certo senso, danzati dagli spiriti di queste forme di trance apparentemente arcaiche. Dalle brevi descrizioni di tre significative tipologie di trance riscontrate nella Giava occidentale – sintren, dabus, e kuda képang – ricaverò alcuni principi generali sul metodo e sulla struttura di queste forme di trance. Tutte le descrizioni sono basate su performance cui ho assistito in prima persona e, se non è indicato diversamente, le informazioni sono tratte da interviste condotte personalmente con gli esecutori.

2 Claire Holt, Art in Indonesia, Cornell University Press, Ithaca, New York, 1967, pp. 104-107, si chiede se la trance del cavallo di legno derivi da antichi riti di morte e fertilità. Kenelm O. L. Burridge, Kuda Kepang in Bathu Pahat, Johore, in “Man”, n. 61, 1961, pp. 33-36, collega la danza in trance della comunità giavanese con un’antica danza di guerra. E. W. Maurenbrecher, Sintren en Lais in Cheribon, in “Djawa, Tijdschrift van het Jawa-instituut”, n. 20, 1940, p. 119, fa derivare le danze in trance di cui parla da antiche danze religiose.

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Il sintren a Bojong Wetan (1 luglio 1982) Una notte di luna nel cortile di una casa a Cirebon, sulla costa settentrionale della Giava occidentale – gli spettatori sono stipati nel piccolo spazio, gli uni contro gli altri. Il coro, battendo tubi di bambù, un piatto di metallo e utensili di terracotta che si trovano in ogni cucina, canta: “Rendila viva, viva/Rendila viva per la performance/Così le dee del cielo (widadari) scenderanno./Rendila viva, viva, al chiaro di luna”. Mentre il coro prosegue la sua semplice, ripetitiva melodia, una fanciulla (la sintren) vestita con abiti normali, viene legata con una corda che le assicura le mani dietro la schiena. Un assistente, i cui compiti consistono nell’accertarsi che la ragazza non si ferisca mentre è in trance e nell’arricchire di interventi comici la performance, sistema una gabbia per polli coperta da un panno sopra la ragazza, dopo aver posto sul suo grembo un tipico costume da danza. A questo punto interviene un’altra figura: il pawang, anche chiamato dukun o dalang 3, induce la trance nella fanciulla. È un professionista rituale esperto di mantra e provvisto di un corredo spiritualmente potente; per questa performance porta un pugnale cimelio di famiglia (kris). Quando la ragazza è nella gabbia, si allontana dalla sua postazione abituale accanto alle offerte rituali. Gira tre volte attorno alla gabbia con un incensiere, recitando un mantra che consentirà allo spirito della dea di entrare nella fanciulla. Dopo aver intonato svariati versi, il coro canta: “Vieni giù sintren. La sintren è la widadari./Mostra il prezioso fiore yuna yani,/Il fiore Siti Maindra/Widadari discende”4. La performer in trance fuoriesce dalla gabbia miracolosamente trasformata: sebbene ancora legata, indossa lo splendente costume di una danzatrice classica. Ha gli occhi chiusi. È ricoperta dalla gabbia da cui riemerge una seconda volta, ma le corde ora sono scomparse5. Danza come in sogno, in uno stile languido, aggraziato, comparabile ai movi3 Il dukun è il professionista rituale nella tradizione indonesiana. A questo ruolo sono associati guarigioni, stregoneria e magia. Un dalang è il performer centrale del tradizionale teatro delle marionette, il wayang. Maurenbrecher, Sintren en Lais in Cheribon, cit., rileva che nella performance cui assistette tale ruolo fu eseguito da una donna, e Ronny Ardiwijaya, Sintren: Seni Tradisi, in “Bulletin Kebudayaan Jawa Barat, Kawit 16”, n. 4-2, 1979, p. 18, afferma che una donna chiamata dukun cilik ricopre normalmente questa funzione. 4 Sintren è il termine che designa l’esecutrice di questo genere; yuna yani è un fiore mitico; Siti Maindra è una delle ninfe a servizio nel paradiso di Indra (Siwan, Cultural Reasercher, Dipartimento di Educazione e Cultura della Reggenza di Cirebon, comunicazione personale, 14 giugno 1982). 5 La mia descrizione è una versione abbreviata della performance cui assistetti a Bojong Wetan. Sottolinea le caratteristiche che questa presentazione ebbe in comune con le performance che vidi rappresentate da una troupe di Kunningam e con le versioni del sintren riportate da Maurenbrecher, Sintren en Lais in Cheribon, cit., pp. 119-121 e Ardiwijaya, Sintren: Seni Tradisi, cit., pp. 16-23. Ogni villaggio ha una tradizione leggermente differente, sebbene le caratteristiche essenziali siano costanti.

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menti di un personaggio raffinato nella danza classica. La spina dorsale è diritta e relativamente ferma, mentre le estremità ondeggiano attorno al punto fisso creato dal tronco. Si nota il consueto plié, ma le ginocchia restano vicine e fremono lentamente. La danzatrice fluttua nello spazio, come se l’aria fosse acqua e vi stesse galleggiando sopra. La testa, le braccia e le mani attirano l’attenzione dell’osservatore. I gomiti rimangono relativamente fissi nello spazio e gli avambracci tracciano eleganti archi nell’aria. Nel momento in cui gli avambracci raggiungono il limite della rotazione, i polsi raccolgono l’impulso curvandosi nell’uket, un gesto tipico della danza locale, nel quale le dita si aprono verso l’esterno e verso il basso, poi mantengono delicatamente un punto nello spazio, mentre i polsi esplorano il ruotarvi attorno. La testa, come libera dal tronco, ondeggia. Il naso sembra quasi fisso nello spazio, come se il mento e la fronte inscrivessero fluide figure a forma di otto. La danzatrice avanza nello spazio con un percorso sinuoso. L’impressione generale è di una delicata tortuosità, come se gli arti in movimento e il corpo nello spazio seguissero la curva che segna la maggiore distanza tra due punti. Una sorta di incrocio tra Harry Houdini e la dea incarnata, la sintren danza. Dopo circa un’ora di danza, il professionista rituale fa uscire la performer dalla trance nel modo seguente: la fanciulla rientra nella gabbia e il pawang la cosparge di fumo di incenso girandole ancora attorno. Quando l’assistente toglie la gabbia, il pawang bagna la ragazza con acqua pura finché non riapre gli occhi e si comporta normalmente. La interrogo, e la fanciulla spiega che non era lei, ma la dea a danzare, e sostiene di non aver mai studiato danza6. Il musicista mi dice di non perdere tempo a parlarle; non è la ragazza ma il pawang che è importante. Più tardi un informatore mi spiegò: “Se egli (il pawang) è forte, può controllare la performer. Il dalang è una specie di guaritore. Mentre esegue la performance puoi chiedergli dell’acqua del suo vaso per guarire un bambino malato. È una persona potente” (Dede Sujana, comunicazione personale, 8 luglio 1982). Quando intervistai i membri della troupe dopo la performance, sottolinearono le tre principali funzioni del pawang durante la performance. In primo luogo, deve essere abbastanza potente da invitare lo spirito giusto; un demone non dovrebbe partecipare a una performance nella quale è richiesta una ninfa celeste. In secondo luogo, la sua presenza assicura l’incolumità della performer e la fuoriuscita dello spirito al momento opportuno. In terzo luogo, neutralizza ogni sabotaggio psichico nei con-

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Un membro della troupe mi disse che la ragazza aveva in effetti studiato la danza mascherata locale. La ragazza riteneva questo training irrilevante e perciò non lo menzionò. Sia Maurenbrecher, Sintren en Lais in Cheribon, cit., p. 119, che Ardiwijaya, Sintren: Seni Tradisi, cit., p. 20, riscontrarono che per il sintren era richiesto un breve periodo di training, da una settimana a un mese. Nonostante le smentite, sospetto che la performer di Bojong Wetan, presenziando ad altre performance e attraverso un training di danza, fosse stata preparata per quel ruolo. Ciò che trovo significativo, comunque, è l’atteggiamento che de-enfatizza il performer individuale.

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fronti della performer da parte di membri del pubblico dotati di poteri magici che, per divertimento o malizia, mettono alla prova la sua forza. La ragazza che danza gioca un ruolo minore rispetto al pawang. Il successo della performance dipende da lui.

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Il dabus a Bandung (11 ottobre 1978) L’orchestra gamelan intona una frase monotona che riconosco come il motivo della battaglia usato nel wayang golèk, il locale teatro delle marionette a bastone. Battiti di mano sincopati e richiami vocali dei musicisti e dei performer si mescolano alla musica. Una troupe di Banten, situata sulla costa nord occidentale di Giava, è giunta per eseguire il dabus (da dabbus, punteruolo di ferro) in un auditorium di Bandung, la città più importante dell’area sundanese della Giava occidentale7. Il séh (il capo della troupe), dopo aver controllato le offerte, recita un mantra nel quale, come spiega un membro della troupe più tardi, chiede ad “Hallah un aiuto per salvaguardare le persone (che eseguono la performance)”. Poi chiede aiuto ai profeti dell’Islam e agli amici dei profeti (dopodiché possono essere recitati silenziosamente o cantati ad alta voce passaggi dal Corano). I performer danzano, e poi, sotto ai miei occhi, si conficcano punteruoli nello stomaco, mangiano vetro, si sfregiano le gambe con coltelli, ingoiano lame di rasoio (fingendo che siano caramelle) e cuociono uova su un fuoco acceso sulla testa di un uomo8. Uno dei circa venti uomini che si esibiscono si taglia via la lingua e danza sul palco con l’organo in mano che ancora freme convulsamente, come nelle lezioni di biologia alla scuola superiore le gambe delle rane continuano a contrarsi dopo che la corteccia cerebrale è stata tagliata. Membri del pubblico sono invitati sul palco

7 La performance di dabus cui assistetti utilizzò un’orchestra gamelan invece del più tradizionale accompagnamento di tamburi. I danzatori dissero che avevano scelto questa innovazione musicale perché ritenevano potesse colpire di più il pubblico di una grande città. Per tutte le forme qui trattate i cambiamenti nella strumentazione per compiacere i gusti del pubblico sono stati la norma in questi ultimi anni. La performance cui assistetti si svolse nel 1977-78. Le mie interviste furono condotte con la stessa troupe a Juhut, Giava occidentale, il 25 giugno 1982. Per altri resoconti sul dabus si veda Raymond Archer, Muhammaden Mysticism in Sumatra, in “Malayan Branch, Royal Asiatic Society Journal”, vol. 15, parte II, n. 3, 1937, e Jacob Vredenbregt, Dabus in West Java, in “Bidjragen tot de Taal-, Land-, en Volkenkunde”, n. 129, 1973. Quest’ultimo si oppone alla comune interpretazione della performance come trance sottolineando che il performer mantiene un controllo cosciente di sé. In ogni caso vedere e intervistare il gruppo di Juhut mi convinse che questi performer spesso sperimentano uno stato alterato, ed è presente l’idea della possessione. 8 La comicità è presente nella maggior parte delle performance della Giava occidentale. Nel dabus vidi due uomini in trance che si comportavano come clown, mentre nel sintren questa funzione era svolta dalla guida della danzatrice in trance.

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per vedere lo stomaco aperto di uno dei performer. Il séh pronuncia un mantra, prende un po’ di acqua pura in bocca e la spruzza sopra le ferite: la lingua è riattaccata, lo stomaco non presenta cicatrici9. I movimenti di danza sono forti e diretti, piuttosto che circolari e languidi. Il movimento richiama lo stile pulito, funzionale del penca silat, l’arte marziale danzata diffusa in tutto l’arcipelago malese (i membri della troupe più tardi ammettono di aver studiato tutti quest’arte prima di intraprendere il training nel dabus). Il busto è eretto, l’energia è forte e tutto il peso del corpo è diretto al suolo. Le mani sono tese come se fossero pronte a deviare o portare a segno un colpo; tutto il braccio si muove dall’articolazione della spalla. Le ginocchia sono completamente divaricate. I danzatori camminano a scatti e a balzi, passando da una posizione all’altra con mosse brevi, brusche. I movimenti attraverso il palco seguono linee relativamente rette. La danza, comparata al sintren, mi colpisce perché è diretta, veloce, ricca di tensione. Quando li intervistai, i danzatori di dabus mi parlarono di un mutamento rispetto al normale sentire cosciente durante l’esibizione. Quando danzano e compiono prodezze, si sentono “calmi, liberi, e in pace”. Alcuni dissero che in loro entrano “gli amici dei profeti”10 e questo è ciò che li rende forti abbastanza da ricevere i colpi. Tutti concordarono che è il potere di Allah che li protegge. Il leader, il séh, che può esibirsi o meno in prodezze durante la performance, è la figura centrale della troupe. Allena i danzatori insegnando loro mantra e prescrivendo meditazioni. Un potente séh assicura una performance di successo; garantisce la sicurezza dei danzatori, sebbene, paradossalmente, se qualcuno si ferisce, ciò è imputato a una mancanza di fede nel potere di Allah da parte del danzatore, e non a uno sbaglio del séh11. Se un performer si ferisce, danza fino al séh che tratta la ferita con acqua e preghiere. Il giorno dopo, dicono i danzatori, rimane solo un piccolo livido.

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Sospetti di frode furono avanzati per tutte le forme trattate in questo saggio e occasionalmente ottenni indicazioni pratiche da parte di spettatori (ad es. i bulbi delle lampadine vanno giù facilmente, mentre il vetro in lastre è difficile da inghiottire). Al dabus furono rivolte minori accuse di impostura rispetto alle altre forme, e dalla mia posizione frontale trovai convincenti la maggior parte dei tagli e degli sfregi. Concordo con Archer che, sebbene ci possa essere qualche trucco, “coloro che prendono parte alla cerimonia in buona fede si spingono fino a infliggersi profonde ferite alle mani, alle braccia, allo stomaco, o farsi dei buchi nelle mani, o tagliarsi pezzi di lingua” (R. Archer, Muhammaden Mysticism in Sumatra, cit., p. 109). L’orientamento mussulmano del dabus, la mancanza di un’ampia domanda commerciale per le performance, e il maggior rigore del training confluiscono a conferirgli una reputazione più rispettabile rispetto a quella del sintren o del kuda képang, la cui autenticità si sostiene sia diminuita in questi ultimi anni. 10 Quando chiesi chi fossero gli amici dei profeti, un membro della troupe rispose vagamente che essi sono spiriti di coloro che furono ferventi mussulmani. Altri membri della troupe presenti dissero di essere imbevuti del potere di Allah. 11 Vredenbregt, Dabus in West Java, cit., pp. 307, 314.

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Il kuda képang a Ujung Gerbang (2 luglio 1982) Nel terreno di fronte alla moschea una troupe inizia uno spettacolo di kuda képang (letteralmente cavallo di bambù intrecciato)12. Una chitarra elettrica fa vibrare una melodia, accompagnata da un flauto (suling), strumenti a xilofono (saron) e gong. In un piccolo villaggio a ovest di Cirebon osservo il pawang portare un incensiere attorno a due sagome di cavalli di legno. Le offerte per questa performance sono ingenti, commenta un membro del pubblico, perché la magia è potente. Il pawang recita un mantra per assicurare l’incolumità dei performer, due giovani uomini che si legano alla vita i cavalli per mezzo di cinghie. Sollevano e abbassano le sagome dei cavalli, e iniziano a danzare con balzi e impennate. L’assistente del pawang leva in alto una frusta e la fa schioccare verso i cavalli che cominciano a saltare e a eseguire capriole in aria. I membri del pubblico mi dicono che i danzatori sono stati posseduti dagli spiriti dei cavalli. Mangiano riso non mondato e inghiottono senza sosta grandi secchi d’acqua. Poi si dedicano ad attività meno equine. Li vedo inghiottire bulbi di lampadine, sdraiarsi su bastoncini appuntiti con tre persone in piedi sopra di loro, saltellare nel fuoco, rotolare torce sui loro corpi e ingoiare fiamme. La loro danza è un semplice e ripetitivo procedere a balzi. Sebbene l’orchestra si fermi alla fine di ciascuna canzone, gli uomini in trance danzano incessantemente. I busti sono eretti. Le mani rimangono saldamente aggrappate ai cavalli di legno mentre saltano senza sosta. Il movimento è forte e veloce, e i muscoli del danzatore appaiono tesi e sotto sforzo. Il percorso dei danzatori kuda képang segue spesso il perimetro circolare dell’area spettacolare. Un uso dello spazio che si può definire immediato, dal momento che i danzatori tracciano continuamente lo stesso semplice cerchio e si muovono lungo linee relativamente rette da e verso il centro quando compiono ciascuna prodezza. Dopo che il pawang li ha fatti uscire dalla trance, i danzatori dichiarano di non avere intrapreso alcun training antecedente alla loro prima performance, e di non osservare il digiuno o recitare mantra prima di uno spettacolo. Non ne hanno bisogno perché tutto il potere viene dal pawang che chiama gli spiriti nei loro corpi e si assicura che essi possano fuoriuscire dall’esperienza incolumi. Dicono: “Ti senti bene quando ti esibisci e ti risvegli fresco”. Il pawang spiega che si è fatto strada in quest’arte gradualmente, cominciando come danzatore. Quando era bracciante a

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Descrizioni di varianti della danza del cavallo di legno si possono trovare in Holt, Art in Indonesia, cit., Burridge, Kuda Kepang, cit., e in due articoli di Margaret Kartomi, Jaran Kepang and Kuda Lumping: Trance Dancing in Java, in “Hemisphere” vol. 17, n. 6, Sydney, 1973, pp. 20-27; Music and Trance in Java, in “Ethnomusicology”, vol. 17, n. 2, 1973, pp. 163-208. Il primo articolo della Kartomi descrive il goong renteng come l’ensemble musicale di una performance a Cirebon. Questo, secondo i miei informatori, è l’accompagnamento più tradizionale, e nella zona è più diffuso l’uso di cavalli di cuoio (kuda lumping).

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Jakarta, recitava in una troupe di un pawang della Giava orientale e, una volta ritornato al proprio villaggio, fondò una propria compagnia. Aggiunge che l’uso di un jimat (un oggetto dotato di poteri magici) facilita l’entrata in trance dei danzatori, così come i mantra che egli recita sottovoce.

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Performance in trance e performance teatrali Queste tre differenti performance sono esempi delle principali forme di trance osservabili nella Giava occidentale13. Sebbene, come sono state qui descritte, rappresentino solo quest’area, possono essere considerate varianti regionali delle forme di trance che si riscontrano nel continente sud-est asiatico e in altre aree dell’Indonesia14. Nel dabus l’impulso religioso è forte, ma negli altri due generi l’elemento religioso è minimale per un pubblico contemporaneo. In ognuno dei casi, la performance è eseguita da una troupe professionista pagata dalla famiglia che organizza un hajat, un convegno rituale nel quale l’attività centrale è la condivisione del cibo con amici e vicini. L’occasione può essere una circoncisione o un matrimonio di un membro della famiglia. Un ospite può invitare, invece di una di queste troupe, un gruppo che esegue teatro di marionette, danze mascherate o drammi non mascherati. Tre generi locali di teatro delle marionette possono sostituire le forme di trance: il wayang kulit purwa, che utilizza il teatro delle ombre per raccontare i cicli delle storie di Rama o dei Pandawa; il wayang golék purwa, nel quale lo stesso repertorio è rappresentato con marionette di legno tridimensionali; e il wayang cepak, che racconta drammi storici locali e novelle islamiche con marionette di legno. Generi di teatro mascherato solitamente richiesti sono il topeng babakan, nel quale un singolo danzatore mascherato presenta una serie di cinque maschere, o il wayang wong, nel quale un gruppo di danzatori mascherati mima storie tradizionali men-

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Le performance qui descritte riflettono le pratiche diffuse nella costa settentrionale della Giava occidentale, dove le culture giavanese e sundanese si mescolano. Forme correlate, probabilmente importate dall’area costiera, sono praticate da persone di lingua sundanese che vivono nell’altopiano della Giava occidentale. 14 Ritroviamo il dabus in Malesia e Sumatra. Il gesto di colpirsi con un pugnale si riscontra in danze in trance di altre culture arabe (si veda Paul Rabinow, Reflections on Fieldwork in Morocco, University of California Press, Berkeley, California, 1977, pp. 53-55), ma influenze esterne possono essersi innestate su una preesistente tradizione, perché l’atto di pugnalarsi nelle danze in trance si ritrova anche in aree che non hanno subito la colonizzazione mussulmana, come ad esempio la danza del kris balinese. Danze di cavalli sono ampiamente diffuse nell’Asia sud-orientale, specialmente laddove è penetrata la cultura giavanese. Varianti si ritrovano in Malesia, Sunda e Bali. Queste danze sono probabilmente correlate alle tradizioni delle danze di cavalli diffuse dall’India all’Inghilterra. La danza più vicina al sintren sembra essere il sanghyang dedari, una forma di trance balinese nella quale si ritiene che fanciulle in età prepuberale siano possedute dagli spiriti delle ninfe celesti.

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tre un dalang pronuncia i loro dialoghi. Le forme non mascherate che possono essere invitate sono generi come il tarling e il sandiwara che hanno un’origine relativamente recente e generalmente presentano storie più moderne attraverso dialoghi improvvisati dagli attori con un accompagnamento orchestrale. Comparate a questi generi teatrali, le forme di trance appaiono relativamente semplici nella struttura e nel contenuto. Sebbene, a suo modo, il danzatore in trance presenti un personaggio altro da sé, la trama è esile. L’apparizione di un personaggio, in questo caso uno spirito, e le azioni che dimostrano la realtà della nuova presenza sono le due componenti basilari delle performance in trance. È l’eccitazione nel vedere questa trasformazione e nel percepire la presenza del gaib (la potenza magica delle possibilità della vita) che porta il pubblico a vedere ogni volta lo stesso vecchio spettacolo. Eppure in queste esibizioni si possono discernere elementi che appartengono a forme di intrattenimento più strettamente teatrali, in particolare al teatro delle marionette e delle maschere che le fonti indigene rivendicano come precedenti al teatro degli attori non mascherati15. Vorrei commentare quattro aspetti delle performance in trance riscontrabili nelle performance che non prevedono la trance: (1) la necessità di avere un recipiente vuoto nel quale un altro personaggio possa manifestarsi; (2) l’importanza della musica, della danza e del costume nel trasformare l’attore; (3) una dicotomia maschile-femminile nello stile e nella funzione del movimento; (4) la divisione dei compiti all’interno della struttura della performance tra due ruoli principali, un medium che è danzato, e un controllore che, sebbene in scena durante la performance, si astiene normalmente da qualsiasi interpretazione di un ruolo. Il primo e il quarto elemento sono appropriati in un contesto medianico, ma non necessariamente in un contesto teatrale16. L’uso della musica, della danza e del

15 Secondo un certo numero di tradizioni orali sud-est asiatiche, le marionette precedono gli attori. Sebbene una verifica assoluta di queste tradizioni orali sia impossibile, a Burma, in Thailandia e in Indonesia si dà credito a questa versione. 16 Sebbene ogni performance che preveda l’interpretazione di un altro personaggio usi l’attore come un contenitore, il performer non è sempre concepito come vuoto. Spesso l’attore è visto come un lavoratore cosciente e coscienzioso. Aristotele chiede all’attore di curare la dizione (Duerr, The Lenght and Depht of Acting, Holt, Rinehart and Winston, New York, 1962, p. 31). Denis Diderot, The Paradox of Acting, tr. di Walter Herries Pollok in The Paradox of Acting and Masked or Faces?, Introduction di Lee Strasberg, Hill and Wang, New York, 1957, p. 3-71, invita l’attore a studiare la natura umana con cura e immaginazione, finché: “Egli ha considerato, riunito, imparato e ordinato il tutto nella sua testa… [divenendo capace di] immergersi per sempre [sic] nell’inesauribile tesoro della Natura, invece di arrivare molto presto all’esaurimento delle sue povere risorse personali” (Diderot, The Paradox of Acting, cit., p. 15). Stanislavski (come riporta Duerr, The Lenght and Depht of Acting, cit., p. 31) ammonisce: “Maggiori sono i movimenti creativi coscienti nel tuo ruolo, maggiori saranno le possibilità di far fluire l’ispirazione”. Anche studi come quello di Cole, che utilizza modelli di possessione spiritica per spie-

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costume sono normali espedienti delle performance in trance e ritengo che alcune caratteristiche distintive di tali componenti in ambito teatrale possano derivare da queste sedute spiritiche. Più significativamente, sostengo che la dicotomia maschile-femminile nelle forme di trance possa suggerire una possibile origine della rigida tipologia dei ruoli che prevale nel teatro locale. Mi rendo conto, fin dall’inizio, che esistono eccezioni alle regole che andrò a delineare. Ma ritengo che questo tentativo di articolare principi di base soddisferà coloro che vorranno prendere in considerazione la mia analisi.

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Il recipiente vuoto In ognuna delle forme discusse, i performer descrissero se stessi come recipienti vuoti agiti dagli spiriti: nel sintren, dalla dea, nel dabus, dagli amici dei profeti o dello spirito di Allah, nel kuda képang, dagli spiriti dei cavalli. Durante la performance essi sostennero tutti un ruolo passivo, mentre il ruolo attivo fu attribuito al professionista rituale e al mondo degli spiriti. Affermarono che non era richiesto alcun talento e solo pochissimo training. Gli esecutori del sintren e del kuda képang dissero che chiunque poteva farlo e negarono la necessità di una preparazione17. Gli attori dabus riconobbero che il leader della troupe aveva prescritto loro un training, ma mi assicurarono che chiunque, intraprendendo gli esercizi spirituali e lo studio dei mantra assegnati dal séh, sarebbe diventato un attore competente. Mi proposero di andare a studiare con loro, così avrebbero potuto dimostrare le loro argomentazioni. Ognuno può esibirsi in queste arti, sebbene naturalmente sia necessario avere un corpo, ma è necessario un medium affinché il messaggio del mondo degli spiriti possa giungere a destinazione attraverso di esso. La caratteristica evidente di queste forme di trance è che sono l’estrema enunciazione di un approccio alla performance che caratterizza le tradizionali arti performative di quest’area geografica. La chiamerò la scuola di recitazione del recipiente vuoto, dal momento che lo scopo centrale dell’attore è abdicare alla propria personalità e lasciare che il suo corpo diventi un contenitore per il personaggio che rappresenta. Certamente, ogniqualvolta si ricerca un’immedesimazione teatrale c’è una forma di soppressione del sé in favore del personaggio. Tuttavia, la maggioranza della teorie occidentali sulla recitazione afferma che gli attori diventano artefici del progare il processo della recitazione, tendono a enfatizzare la ricerca attiva del personaggio: l’attore compie coscientemente viaggi al di fuori di sé per trovare i personaggi durante le prove, così come gli sciamani intraprendono viaggi nel mondo degli spiriti. Questo permette in seguito al personaggio di giungere all’attore in un modo comparabile a quello di un medium (Cole, Theatrical Event, cit., p. 7). L’attore in questi esempi non è considerato vuoto. 17 Si veda la nota 6.

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prio ruolo non abdicando a se stessi, ma mediante un acuto esame del proprio io. Scegliendo aspetti particolari selezionati dalla memoria emotiva o creati dall’immaginazione durante le prove, gli attori costruiscono delle partiture per i ruoli che fanno vivere durante la performance. L’attività e il talento dell’attore sono enfatizzati in questo approccio alla recitazione, mentre nelle performance tradizionali della Giava occidentale l’attore è visto come un essere molto più passivo18. Ho osservato questo approccio del recipiente vuoto manifestarsi in molti modi. Per esempio, a Giava, a Bali e nella penisola sud-est asiatica, la performance in trance che comprende la possessione spiritica è relativamente comune. Nella stessa area marionette e maschere sono elementi importanti della vita teatrale. Marionette, maschere e uomini in trance sono simili nel fatto che ognuno di essi è un recipiente vuoto che attende di essere riempito dall’energia vitale dell’altro da sé. Nella trance questo altro è uno spirito predeterminato invitato dal pawang a entrare nella persona in trance; nel teatro delle marionette e nel dramma mascherato è un personaggio prestabilito portato in vita dal dalang. Questo approccio è evidente anche nel modo in cui l’attore/danzatore affronta la creazione del personaggio. Il training nella Giava occidentale inizia in modo impersonale, con l’apprendimento dei movimenti e della voce di una particolare tipologia di personaggio (un cavaliere raffinato, ad esempio, o un demone emotivamente incontrollabile). Il danzatore ideale è colui che sa presentare questi personaggi con la chiarezza e la parsimonia dello stile del teatro delle marionette (il mio maestro di danza, ad esempio, mi mostrò cosa avrei dovuto fare facendomi vedere come la stessa sequenza di danza sarebbe stata eseguita da una marionetta). L’attore in questo teatro parte dalla trasformazione del proprio corpo, non dall’analisi della propria anima. Sebbene, contrariamente alla persona in trance, debba dedicare infinite ore all’apprendimento della danza, segue un metodo analogo: rende se stesso un recipiente vuoto che deve essere riempito dal sistema tradizionale dei simboli della performance. Nella trance è evidente la necessità che il performer sia un recipiente vuoto, dal momento che l’Io individuale blocca la comunicazione con il mondo degli spiriti. Le marionette e le maschere, libere dall’Io, traducono in un contesto più chiaramente teatrale la recitazione in stato di trance. L’attore umano impara attraverso il training a imitare la loro perfezione spersonalizzata. La mia teoria è debitrice nei confronti dell’antropologa Jane Belo la quale, do-

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Non voglio denigrare l’intenso training intrapreso dai performer nella Giava occidentale. Il tempo che ho dedicato a cercare di padroneggiare l’arte delle marionette e della danza locali mi ha resa ben conscia del fatto che il lavoro di un attore non è mai finito. Riconosco anche che alcuni performer sono ritenuti migliori di altri, e questi sembrano spesso più intelligenti ed effervescenti. L’enfasi, in ogni caso, è sulla passività. Per spiegare il loro successo gli attori non sottolineano la lunga pratica o la personalità. Dicono di essere bravi perché discendono da una lunga stirpe di performer, e hanno l’arte impressa nella carne e nel sangue.

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po aver compiuto ricerche sulla trance a Bali, diagnosticò un complesso della marionetta sia per Giava che per Bali19. La sua tesi può essere riassunta come segue: dèi e demoni discendono sulla terra e, attraverso la trance, usano le persone come marionette. Il teatro inverte il processo, dal momento che gli attori si spogliano della loro personalità e cercano di diventare simili a marionette, poiché: “Una marionetta rappresenta uno spirito. I drammi sono originariamente la rappresentazione di spiriti non umani. Nel contesto del dramma, attori e danzatori sono come le marionette, perché agiscono in accordo con uno spirito che non è il loro”20. Sebbene in questo processo vada persa l’individualità, ciò che si acquista è enorme: invece di essere confinati a esplorare il tocco del dio o del demone nella propria psiche individuale, gli attori sono incoraggiati ad abbandonarsi all’archetipo e a sperimentare estremi irraggiungibili nella quotidianità. L’analisi della Belo, che ho naturalmente adattato, implica una specie di linea di demarcazione temporale entro la quale la visita degli spiriti origina il teatro delle marionette che diventano allora un modello per il danzatore. La tradizione locale, come ho precedentemente rilevato, concorda che il teatro delle marionette preceda il teatro degli uomini, e può essere che questa linea temporale sia storicamente valida. Nondimeno, performance in trance, marionette e performance umane esistono oggi l’una a fianco dell’altra, e possono essere avvenute influenze reciproche in ogni momento. A me interessa la prospettiva funzionale più che quella storica. L’approccio del recipiente vuoto trova il suo massimo significato e riceve la sua più chiara affermazione nelle forme di trance: può aver avuto origine in esse, ma la sua importanza risiede nel chiarire un fondamentale concetto di performance. Il metodo della trance, il complesso marionette-maschere e il metodo di recitazione impersonale sono semplicemente differenti manifestazioni di una più ampia preferenza culturale che pone l’attore individuale come il contenitore in cui far rivivere tradizionali simboli artistici. La creatività individuale non è enfatizzata come principale scopo artistico dell’attore21. Indurre la trance Accomunati dal principio del recipiente vuoto, questi generi applicano le tecniche della musica e della danza per aiutare il medium a raggiungere la sfera indistinta 19

Jane Belo, Trance in Bali, Columbia University Press, New York, 1960, p. 12. La Belo, Trance in Bali, cit., p. 12, sostiene che i danzatori bambini hanno un’importanza particolare nella cultura balinese perché la mancanza di un Io sviluppato li rende buone marionette. Nella Giava occidentale credo che sia rilevante la questione sessuale, sebbene il sintren sia generalmente pre-puberale. 21 Si veda Judith Becker, People Who Sing: People Who Dance, in Gloria Davis, a cura di, What is Modern Indonesian Culture?, Center for International Studies, Athens, Ohio, 1979, pp. 3-10. 20

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della trance, utilizzando il costume come complemento all’azione. L’uso di questi componenti nella danza teatrale può essere messo in relazione alle forme di trance. Musica e danza consistono di suoni e movimenti che spingono il danzatore oltre i confini del quotidiano. I tre generi trattati sono accomunati da una tipica musica continua e ripetitiva che offre uno stimolo uditivo al danzatore in trance. Il movimento del corpo in tutte e tre le forme aiuta la trasformazione, ma la funzione della danza differenzia le forme orientate alle prove di abilità (dabus e kuda képang) rispetto a quelle rivolte alla manifestazione della divinità (sintren). Nelle prime, balzi e salti, caratteristiche frequenti dei movimenti che inducono la trance, sono evidenti. È come se il danzatore usasse il movimento per entrare danzando nello stato estatico e, quindi, compiere le prodezze che costituiscono il climax della performance. Nel sintren, invece, il danzatore danza solo quando lo spirito è arrivato. La danza non è usata per attuare una trasformazione: è la trasformazione stessa. I movimenti fluttuanti segnalano l’arrivo della divinità. Anche il costume appare insieme allo spirito: fili di perline o pompon possono pendere dall’acconciatura, ed è spesso usata la sciarpa da danza (un tratto persistente del costume della danza teatrale in tutta Giava). Questi elementi sembrano avere la funzione di indurre la trance fornendo alla concentrazione del danzatore un punto focale esterno, e probabilmente per questa ragione sono accessori di danza comuni nelle danze sciamaniche asiatiche22. Da questa tradizione ampiamente diffusa potrebbero derivare il costume del sintren e le danze teatrali della Giava occidentale. Musica e danza continuano a essere elementi centrali delle performance teatrali nella Giava occidentale, e il costume del sintren è usato dai danzatori teatrali. Sebbene queste caratteristiche comuni non provino una relazione, possono essere considerate evidenze circostanziali di un legame tra forme teatrali e forme di trance. La natura percussiva della musica teatrale, con il suo ritmo monotono e regolare creato dai gong e accentuato dai tamburi, e l’uso della sciarpa da danza possono essere stati influenzati dalle forme di trance, nelle quali questi elementi hanno lo scopo pratico di indurre la trance negli esecutori. Non è privo di importanza il fatto che le performance di dabus cui ho assistito usassero innovativamente melodie da battaglia dal repertorio del teatro delle marionette. Queste melodie, che forniscono l’accompagnamento per le scene di battaglia culminanti, usano i gong più grandi a intervalli frequenti, procurando un’intensa eccitazione uditiva (in contrasto con i pezzi melodicamente più complessi che non furono usati). Sono, a mio avviso, un accompagnamento appropriato al dabus. La dicotomia nello stile del movimento che si differenzia in maschile e femmi-

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Commenti di Allegra Fuller Snyder durante il National Endowment for the Humanities Seminar on Asian Theatre tenuto presso l’Università della California, Los Angeles, nell’estate del 1981, in seguito alle mie riflessioni sulla trance e il costume.

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nile è, credo, una caratteristica significativa che le performance in trance e i generi teatrali condividono. Le forme di trance qui descritte spingono i danzatori verso uno dei due estremi, il maschio iperteso o la femmina sonnambula. I due poli sono prevedibili. Ricerche sulla fisiologia della trance dimostrano come il massimo risveglio23 del sistema nervoso (esemplificato nel dabus e nel kuda képang dai balzi, dagli scatti e dai salti del performer) e il livello minimo di attività cerebrale (manifestato nel camminare sonnambulo del sintren) sono gli accadimenti biologici che tendono a essere interpretati come stati alterati nelle differenti culture. Ma, sebbene i due stili di performance in trance siano prevedibili, la divisione sessuale non lo è24.

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Funzioni femminili e maschili La scelta da parte dello spirito del contenitore nel quale entrare durante la trance non è casuale. Ho riscontrato che a ogni spirito corrisponde un recipiente appropriato. La sintren è una donna, il danzatore kuda képang o dabus è un uomo25. Nella danza in trance della Giava occidentale la donna si muove sempre secondo linee curve con una qualità di movimento languida e sonnambolica. L’uomo, invece, si muove sempre con tensione, angolosità e violenza. Perché uno spirito non può essere chiamato in un corpo qualsiasi? Forse perché il corpo umano – come la marionetta nel teatro delle marionette – ha nella mentalità indigena un carattere stabilito incorporato nelle sue proporzioni. 23

“Arousal … nella letteratura psico e neurofisiologica significa risveglio, non soltanto nel senso del comportamento, ma anche nel senso delle manifestazioni elettrofisiologiche cerebrali che accompagnano il passaggio dal sonno allo stato di veglia.” H. Piéron, Vocabulaire de la psicologie, Presses Universitaires, Paris, 1951 & 1964, [trad. it., Dizionario di Psicologia, La Nuova Italia, Firenze, 1973 – ndt]. 24 E. Bourguignon, a cura di, Altered States of Consciousness, and Social Change, Ohio State University Press, Columbus, Ohio, 1973, pp. 5-8, riassume gli studi neurofisiologici sui comportamenti di trance. La relazione tra sesso e trance è stata esplorata da I. M. Lewis, Estatic Religion: An Anthropological Study of Spirit Possession and Shamanism, Penguin Books, Harmondworth, Middlesex, England, 1971. Lo studioso sostiene che le donne sono più adatte degli uomini a entrare in trance, come risultato della loro mancanza di potere sociale e politico. La tendenza di donne e uomini a essere posseduti da spiriti del sesso opposto è comune, e potrebbe essere un modo per permettere agli individui di alleviare le frustrazioni in maniera socialmente accettabile. Le performance in trance nella Giava occidentale non seguono questo schema di possessione da parte di spiriti del sesso opposto, che procura una valvola di sfogo. 25 Per ogni affermazione sull’arte indonesiana c’è un’eccezione che conferma la regola. Perciò il sintren è talvolta eseguito da giovani ragazzi (in questo caso è chiamato lais): un ragazzo può impersonare la dea, dal momento che rappresenta l’uomo nel momento massimo della sua femminilità. Il Dabus, mi dissero, non è mai eseguito da donne, ma nel 1977 assistetti a una performance con una donna. I principi generali, comunque, rispettano le linee qui tracciate.

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Nel teatro delle marionette, ognuna delle principali tipologie di personaggi ha un’andatura e una voce appropriate a quella classe di personaggi. La dichiarazione corporea di un corpo piccolo, un volto bianco e una testa inclinata ha sempre lo stesso significato. Ci indica che questo è un personaggio raffinato che si muoverà con un’andatura lenta e sostenuta e parlerà con voce bassa e garbata. Questo personaggio corrisponde alla figura che si ritiene sia l’incarnazione della dea nel sintren. Può essere che nella danza in trance il corpo – svuotato della sua personalità individuale contaminante – sia improvvisamente libero di manifestare la sua natura originaria? Per originaria intendo qui un archetipo culturalmente definito di femminilità, delicata, armoniosa, separata dal mondo, autosufficiente. Claire Holt nel suo Art in Indonesia si domanda come mai le vigorose figure di danzatrici evidenti nell’architettura dei templi indonesiani hindu non compaiano nella danza indonesiana attuale, e se questo sia il risultato dell’influenza mussulmana oppure sia un ritorno a uno stile indigeno anteriore26. Io sostengo la seconda ipotesi. Nella trance e nelle danze semirituali indonesiane la donna è la manifestazione dell’ideale divino. E non alludo solo al sintren, ma anche allo srimpi e al bedoyo (danze di corte semirituali della Giava centrale), al sanghyang dedari, al legong, al rejang e al mendet (generi di danze classiche e rituali balinesi); mi riferisco al motivo per cui troviamo troupe di danzatrici al servizio delle corti in Thailandia, Cambogia, Kelantan e Malaysia. Le danzatrici sono, per la loro stessa struttura corporea, recipienti appropriati per il divino raffinato. Svuotate del loro Io individuale nella trance, rendono manifesto un archetipo divino, da cui la speciale importanza data in queste culture alle donne in trance e, per associazione, alle danzatrici. Un’analogia con l’architettura è evocativa: le linee che confondono i demoni sono curve; case e templi sono perciò progettati in modo che sia necessario seguire un percorso sinuoso attraverso le loro divisioni interne27. Nella danza questo principio sembra essere stato tradotto in un’estetica del movimento. Dal momento che il corpo femminile è un contenitore appropriato per il divino, nella trance e nella danza teatrale il movimento è sempre circolare: nessun demone può entrarvi. Questa circolarità indiretta è divenuta l’ideale più alto nella danza teatrale. Lo stile maschile raffinato dei grandi eroi dei poemi epici, Arjuna nel Mahabharata e Rama nel Ramayana, è molto vicino allo stile femminile. Di fatto, al giorno d’oggi, questi personaggi sono spesso rappresentati da donne la cui corporatura e qualità di movimento sono più adatte a catturare l’essenza del personaggio maschile raffinato. Poiché la femminilità è vicina alla divinità, il maschio ideale è donna! 26

Holt, Art in Indonesia, cit., p. 121. Il mio pensierò è stato stimolato da Alton Becker, Text Building, Epistemology and Aesthetics in Javanese Shadow Theatre, in A. Becker e A. Yengoyan, a cura di, The Imagination of Reality: Essays in Southeast Asian Coherence Systems, Ablex, Norwood, New Jersey, 1979, pp. 211-243. Egli discute il principio in relazione alla struttura del teatro delle ombre. 27

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Ritengo che questa estetica concorra a spiegare il ruolo della donna nelle forme drammatiche. Nella performance teatrale, l’essere della donna è strutturalmente più rilevante del suo fare. James R. Brandon rileva che il dramma talvolta sembra un pretesto per le lunghe danze femminili non-drammatiche che brillano come gioielli nello svolgimento della performance28. In numerose forme teatrali asiatiche una o più danzatrici, che non hanno alcuna apparente connessione con la trama, danzano all’inizio dello spettacolo. Ad esempio, il pwe di Burma, il wayang golék sundanese e il ma’yong malese si aprono con lunghe danze semirituali. Le danze, che a un occidentale sembrano estranee, possono essere correlate a forme di trance come il sintren. Avanzo l’ipotesi che esse siano mantra di movimenti che evocano la delicata devozione femminile, affinché si manifesti e medi le più virili faccende di battaglie e demoni che presto seguiranno. Gli uomini in trance sono i contenitori più appropriati per manifestare il lato incontrollabile, demoniaco e animale degli spiriti e del mondo umano. Nel teatro delle marionette la dimensione del corpo, la grandezza dell’occhio, l’altezza del collo, il colore nero del volto sono direttamente proporzionali all’esplosività del personaggio. Il teatro delle marionette, il dramma mascherato e il dramma danzato hanno ciascuno un personaggio emotivamente incontrollabile che si costituisce come l’estremo opposto del danzatore raffinato. I suoi muscoli tesi, i balzi, i salti e l’uso di linee relativamente rette sono comparabili agli schemi di movimento dei danzatori maschi in trance. L’andatura tipica di questo personaggio nella Giava occidentale è il pak blang, eseguito compiendo tre passi saltati in avanti, caratteristica che non si riscontra mai nello stile femminile del movimento. L’uso di linee rette nelle coreografie per i personaggi maschili vigorosi è ricollegabile alla figura del demone che si muove sempre lungo linee rette. Il demoniaco è danzato nello stile maschile e sempre da un uomo, anche quando è la manifestazione di un demone femmina29. Il lato animale della psiche umana nella Giava occidentale, e forse in tutto il sud-est asiatico, è meglio rappresentato dal sesso maschile. L’uomo provoca più eccitazione e incute più timore, ed è dotato di un potenziale distruttivo. La struttura della maggior parte dei generi teatrali prevede, all’interno dell’intreccio, una collocazione per questo tipo di personaggio che appare a uno stadio avanzato della performance. Come gli uomini in trance, prima danza e poi agisce. Entra danzando in uno stato di apparente frenesia, preludio alla sua azione centrale nel dramma, combattere la battaglia nella quale è inevitabilmente sconfitto. La cruenta lotta è comparabile alle prodezze degli uomini in trance. Gli uomini e le

28

Brandon, Theatre in Southeast Asia, Harvard University Press, Cambridge, 1967, p. 136. Demoni donna sono rari nei drammi danzati della Giava occidentale, e sono interpretati da un uomo quando si presentano nella loro forma demoniaca. Analogamente Rangda, la strega balinese, è danzata da un uomo. 29

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donne hanno una funzione centrale nel teatro che è correlata alla struttura della trance. È come se il teatro tradizionale avesse trovato un modo per incorporare i due tipi di trance in un’unica performance. I due estremi diventano uno, dal momento che femminile e maschile, dio e demone sono inseriti in un’unica struttura. Sebbene queste immagini non abbiano nulla a che vedere con la trama in sé, sono in un certo senso la vera trama, sono il messaggio che la tradizione continua a trasmettere, usando il pretesto delle differenti storie nelle quali riappaiono30. I modelli forniti dalle forme di trance vincolano il teatro. In entrambi i casi i ruoli sessuali non sono intercambiabili né reversibili, e sono portati agli estremi. Trance e arte non sono spazi di azione nei quali l’uomo può scoprire la sua femminilità e la donna esplorare la sua mascolinità potenziale. Piuttosto, sono l’arena in cui le definizioni culturali sono pienamente abbracciate e perpetuate. Il medium e colui che controlla gli spiriti In tutte le forme di trance considerate, ritroviamo costantemente due ruoli principali: il medium e colui che controlla gli spiriti. I performer sono i medium attraverso i quali si possono manifestare gli spiriti, ma in sé e per sé hanno poca importanza intrinseca. Sono contenitori, e i contenitori di questo tipo sono numerosi. Se il contenitore è intercambiabile, il controllore non lo è. È il secondo ruolo, quello del pawang o del séh, che è considerato il più importante. È colui che controlla gli spiriti, i cui mantra e il cui mana sono il potere che sta dietro la performance, sebbene non agisca (cioè non impersoni qualcun altro). Potremmo compararlo al regista nel teatro occidentale, perché aiuta l’attore a trovare il suo personaggio; ma il suo metodo, a quanto sembra, è più attendibile della combinazione maestro-critico-psicologo che caratterizza il ruolo del regista nel teatro occidentale. Grazie alla sua maestria spirituale, con l’aiuto di mantra e oggetti dotati di potere magico, convoca lo spirito, il personaggio, nel corpo del performer. Se è potente, la performance sarà sicuramente efficace. Il risultato non è lasciato alla casualità di attori con o senza talento. Essi sono come marionette nelle mani di colui che controlla gli spiriti. Il medium è il danzato, il pawang nella sua apparente immobilità è il danzatore. L’equivalente teatrale del pawang è il dalang del teatro delle marionette31. Il da30

Una conferenza di James R. Brandon sui drammi in Asia sud-orientale, tenuta nel 1975, suscitò il mio interesse sul fatto che nel teatro wayang la struttura della performance e la trama potessero essere analizzate separatamente. 31 Si veda la mia tesi di dottorato (K. Foley, The Sundanese Wayang Golek: The Rod Puppet Theatre of West Java, Ph. D. diss. University of Hawaii, Honolulu, 1979) per informazioni più dettagliate sul ruolo del dalang.

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lang è la figura principale della performance che muove tutti i personaggi, conduce il dialogo e la narrazione, ed esegue canzoni a tema in un linguaggio arcaico. Come il pawang, è solito usare mantra, incenso e offerte per determinare il successo di una performance e per portare buona fortuna alla famiglia che noleggia la troupe; anche il suo ruolo è circondato tradizionalmente da un’aura di potere spirituale. Nel teatro dei danzatori con o senza maschera il ruolo del dalang rimane, sebbene la sua responsabilità diminuisca nelle forme in cui gli attori conducono i loro dialoghi. Solo nelle forme di intrattenimento teatrale ideate negli ultimi cento anni il ruolo del dalang è venuto a mancare. Questi intrattenimenti più moderni hanno una natura più secolare, e sono privi delle offerte e dei rituali di apertura che normalmente il dalang esegue. Chiaramente la suddivisione dei ruoli nelle forme di trance (medium e controllore degli spiriti) ha il suo parallelo teatrale nella dicotomia danzatore-dalang. Questa divisione dei ruoli ha ancora oggi un impatto sullo status del danzatore. Un dalang è una forza importante nella vita sociale e spirituale della comunità, mentre i danzatori che sostengono i ruoli attivi nel dramma occupano una posizione inferiore. A differenza dei performer nelle forme di trance, hanno dedicato molte ore al perfezionamento dei movimenti e della tecnica vocale richiesta per i loro ruoli, ma la gente sembra pensare che molti abbiano ricevuto questi insegnamenti e potrebbero sostenere allo stesso modo tali ruoli. Ipotizzo che il trattamento sprezzante nei confronti dei danzatori derivi dal fatto che non sono concepiti come elementi centrali potenti in sé e per sé, ma come meri contenitori della tradizione che essi rappresentano. Verso il futuro Se gli esecutori delle performance in trance sono consci della loro sottomissione al pawang, gli attori nel contesto teatrale sono meno consapevoli della loro sorte. Il loro ruolo è quello di essere dei contenitori per danzare i ruoli della divinità femminile raffinata e del demone maschile vigoroso sotto la tutela del dalang che detiene il controllo. Per ovvie ragioni, questo schema non soddisfa pienamente le giovani generazioni di danzatori e artisti che, tramite l’educazione occidentale e l’insegnamento universitario, sono giunti a un altro modo di intendere il ruolo dell’artista. Negli ultimi decenni è sorta una generazione di performer imbevuti dell’ideale artistico occidentale dell’essere all’avanguardia dell’avanguardia. Il movimento, la coreografia, la danza e il teatro sono visti come luoghi nei quali gli individui possono esprimere se stessi, le loro visioni personali. Vi sono segnali che questa ondata di individualismo importato dall’Occidente abbia recentemente dato luogo a un tentativo di trovare una via di mezzo. Gli artisti che ho incontrato sembrano lavorare verso un nuovo ordine sociale, che non è

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né il cieco danzare tradizionale, né l’isolato individualismo dell’autore unico. È chiaro che la lotta combattuta oggi nelle arti indonesiane è qualcosa di più della lotta di un gruppo di artisti per far sentire la propria voce. È la lotta per venire a patti col passato e definire il futuro32. Non intendo prevederne l’esito; semplicemente presenterò le possibili opzioni. Abbandonare la tradizione che propugna una forma e un modello che escludono l’individualità e cercare di creare una nuova voce – essere il danzatore. Acconsentire alla forza e alla forma del passato e perpetuare la tradizione che manifesta l’antico mondo degli spiriti nella forma del teatro – essere il danzato. Oppure diventare il dalang, che può convocare ogni spirito e costringere gli spiriti di questa nuova era a manifestarsi in un modo nuovo.

32 E. Bourguignon, Possession, Chandler and Sharp, San Francisco, California, 1976, pp. 42-49, ha discusso il fatto che il tipo di trance di possessione di cui ho parlato in questo articolo tenda a essere riscontrato in società rigide, stratificate in classi, nelle quali la sottomissione agli anziani è un presupposto della sottomissione dell’individuo agli spiriti. L’Indonesia è per tradizione una società complessa e stratificata. Il bapak (l’individuo più anziano con maggiore potere, che è spesso un parente) prende molte decisioni per l’individuo più giovane e debole. In cambio dell’obbedienza e della lealtà, il bapak lo aiuta. Non ci sorprende perciò che il modello dalang-danzatore possa essere riscontrato nella vita, oltre che nell’arte. Se i giovani artisti vogliono cambiare il loro modo di creare, ciò deriva probabilmente dal desiderio di un cambiamento sociale. Se la società si organizza su un nuovo modello sociale, è probabile che emerga anche un nuovo modo di intendere l’arte.

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L’uomo e il suo doppio Marionette e ombre del sud-est asiatico a cura di Mariagrazia Arlotta

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Introduzione

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di Mariagrazia Arlotta

“Se volete penetrare un altro mondo, un’altra visione del mondo, se volete comprendere un altro uomo, un’altra tradizione, dovete ammettere che la vostra visione del mondo è netta per voi, e che non è necessariamente la sola” Jerzy Grotowsky

È la complessità di una cultura a produrne l’incredibile varietà di forme d’arte tradizionale. Queste sembrano emergere, quasi spontaneamente, come soluzione al bisogno di auto-espressione avvertito da un popolo. Le arti come musica, danza, pittura e scultura si sono evolute da cerimonie religiose o sociali. Data questa premessa, è inevitabile pensare che l’osservatore o, per meglio dire, il fruitore straniero, non appartenente al popolo creatore di queste necessità, trovandosi di fronte a un linguaggio, a una religione e a una forma espressiva diversa da quella che gli è propria, verrà colpito non dalla semantica del prodotto artistico bensì dall’esilarante esperienza sensoriale di colori, movimenti e suoni che questo è capace di regalare sia all’indigeno che allo straniero. Questo vale anche per il teatro delle ombre e il teatro di marionette del sud-est asiatico, arte performativa capace di raccogliere in se l’intera storia di un popolo. In questo periodo in cui la rinascita dell’interesse per le marionette del sud-est asiatico sta prendendo piede fra i popoli occidentali, risulta quanto mai indispensabile uno strumento che ci aiuti il più possibile a comprenderne la fitta rete culturale che ne è alla base. Lo studioso occidentale che rivolge il suo sguardo all’oriente, pur avendo un substrato culturale innegabile, nell’antropologia trova un mezzo fondamentale per individuare analogie e discrepanze fra la sua condizione culturale e quella di popoli orientali. Quanto detto finora è indispensabile per sottolineare il fatto che tutte le osservazioni che seguiranno riguardo il teatro di marionette e delle ombre del sud-est asiatico, nonché le conseguenti conclusioni, verranno effettuate da un punto di vista occidentale.

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In queste pagine cercherò di sottolineare proprio la valenza antropologica dell’arte del teatro delle ombre e delle marionette e penso che fare ciò sia un po’ come raccontare una storia, colorata di mitologia e che quindi come tale inizia milioni e milioni di anni fa, i cui protagonisti non sono semplici uomini ma particolari ricercatori, uomini alla ricerca di se stessi. La scoperta delle ombre da parte dei primi uomini non è sicuramente meno importante di quella fondamentale del fuoco. L’uomo che per primo ha vinto la paura e ha scoperto l’utilità di questo elemento è stato anche quello che ha visto come la fiamma proiettata sul muro generasse delle ombre. L’ombra umana non era allora altro se non l’immagine di ciò che il primo uomo stava cercando di comunicare ai suoi simili e a se stesso: la propria esistenza. A poco a poco, poi, questo ricercatore primitivo scopre delle forme di trasformazione: si trucca e indossa maschere per cambiare, almeno per breve tempo, il proprio status, diventando qualcos’altro. E, spingendosi sempre più in là nella ricerca, scopre la possibilità di creare delle sue riproduzioni artificiali e la conseguente capacità di dar loro vita: scopre la marionetta, il burattino, la bambola o la figura. Il movimento che l’uomo regalava a queste figure poteva essere un potente mezzo per esprimere la sua relazione con il mondo ultraterreno. A tal proposito, aprendo una piccola parentesi, bisogna sottolineare che se in occidente la marionetta è limitata a un utilizzo esclusivamente teatrale e spesso pedagogico, le sue origini, come quelle del teatro, sono invece di tipo religioso. La prima marionetta trova le sue radici in quella grezza statuetta che, usata per il culto dei morti e degli antenati, ne riproduceva in maniera grossolana le fattezze. Nel corso dei secoli, questa valenza religiosa del teatro e della marionetta si è affievolita, fino a cancellarsi completamente e a essere sostituita dall’uso esclusivamente ludico che noi occidentali ben conosciamo. Ma, se l’utilizzo del rituale teatrale per l’occidente è storia, per molte civiltà orientali e per il sud-est asiatico, il mio campo di indagine, tale utilizzo è antropologia. Ancora oggi si trovano testimonianze riguardanti civiltà orientali, che suggeriscono l’utilizzo di pratiche rituali, finalizzate a far ritornare in vita i morti attraverso alcune figure animate che li ritraevano. Non si tratta solo di leggende ma di funzioni medianiche che alla marionetta venivano e vengono attribuite ancora oggi. Un’importante conferma riguardo l’esistenza di tali usanze, viene fornita dai recenti studi di Jacques Pimpaneau, che a proposito della Cina scrive: “… il teatro di marionette cinese conserverà fino al XX secolo, almeno in certe regioni, l’impronta della sua origine legata ai culti funerari, poiché numerose testimonianze datate in epoche molto diverse, segnalano che il teatro di marionette serviva in particolare come offerta all’anima del morto nel corso del rituale tra la deposizione della bara e il seppellimento”1. Ma la presenza della marionetta in un contesto religioso, non si limita solo alla Cina. Riguardo al Giappone e all’origine

1

J. Pimpaneau, Chine: culture et traditions, Picquier, Paris, 1990, p. 93.

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di una delle arti performative che vantano un’estrema perfezione artistica e cura estetica, il bunraku, lo stesso Pimpaneau dice: “Il teatro delle marionette giapponese ha un’origine religiosa e l’antenato dei pupazzi è un ramo d’albero. In effetti la marionetta è nata dal ramo di cui si servivano i preti shint1o per far venire una divinità e che è il supporto materiale per permettere allo spirito di incarnarsi, di venire in mezzo agli uomini”2. Questa connessione fra terreno/materiale, la marionetta, e ultraterreno/immateriale, nel caso dei culti delle civiltà di cui si è fatto esempio, la si riscontra in numerose altre aree del sud-est asiatico. Una di queste, su cui è bene che mi soffermi, è anche uno dei campi d’indagine privilegiati dall’antropologia, l’Indonesia. Infatti, la connessione sopra citata viene esemplificata in maniera eccellente dal wayang kulit, una delle forme d’arte performativa più arcaica ma ancora oggi più fruita all’interno dell’arcipelago indonesiano. Definire questo genere teatrale come una performance di teatro delle ombre sarebbe riduttivo. Il termine wayang significa letteralmente figura e questo non è un caso. Ciò che viene fatto agire dietro al telo bianco non sono solo le sagome ricavate dal cuoio, ma non mi sembra sbagliato definirle marionette bidimensionali, accuratamente decorate e intagliate. È vero che, poste di fronte alla lampada a olio usata per questa forma di spettacolo, proiettano l’ombra, ma non è un caso che molti spettatori locali preferiscano osservare lo spettacolo dall’altra parte del kelir (il telo bianco), la zona in cui il dalang (il manipolatore) sceglie e fa agire le figure. Questa scelta di fruizione da parte dello spettatore si potrebbe tradurre antropologicamente come il bisogno dell’uomo, il ricercatore di cui sopra, ora più evoluto, di dare concretezza all’astratto. Ed è così che egli cerca di risolvere il perenne interrogativo riguardo al rapporto corpo e anima. L’ombra del wayang corrisponde all’anima, all’ultraterreno, all’intangibile, ma questa non è altro che la proiezione dell’intera figura di cuoio, con i suoi colori, i suoi intagli e la sua fisionomia, cioè il concreto, il corporeo, ciò che è tangibile. Traducendo questo sforzo di identificare il tangibile e l’intangibile in termini antropologici, possiamo dire che “l’anima umana si vede dunque concretizzata nell’ombra, indissociabile dall’uomo e ciò molto prima che un qualsiasi uomo abbia potuto osservarsi riflesso in uno specchio. Così per scongiurare la morte, l’uomo si considera diviso in un corpo mortale e in un’anima immortale oggettivata dall’ombra, il doppio”3. È in questo mito, il doppio appunto, costrutto psicologico che qui uso invece in senso antropologico4, e nelle sue evoluzioni semantiche nel corso dei secoli e fra le 2

J. Pimpaneau, Chine: culture et traditions, cit., p. 94. R. Schöhn, Marionette, Junior, Bergamo, 2002, p. 48. 4 La formulazione del concetto di doppio si deve a Otto Rank (1884-1939), uno dei più stretti collaboratori di Freud. Rank allargò la tematica psicoanalitica, in origine esclusivamente legata all’ambito della medicina, estendendola all’arte e al tema della creatività artistica alla letteratura e al mondo del mito, ai grandi personaggi storici e alle tradizioni popolari. 3

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diverse culture, che possiamo trovare una delle origini più significative relative alla marionetta. L’uomo che si sente minacciato dalla distruzione e dal disfacimento fisico, inevitabilmente viene colto da un bisogno narcisistico di creare qualcosa simile a sé. Non riuscendo a dare forma alla sua anima, si preoccupa di creare un’immagine quanto più possibile analoga al suo io corporeo. A questo surrogato dalle valenze mitiche viene, quasi automaticamente, dato il compito di prendersi gioco della morte, garantendo la permanenza di un vero e proprio doppio dell’io corporeo: la marionetta e la sua ombra, prova inconfutabile della sua concretezza. Tutto questo avviene secondo un processo auto-creativo che inizia con l’auto-nomina da parte del ricercatore del proprio doppio ad artista e si conclude con il completamento della creazione come forma d’arte, non solo come marionetta riflesso di se stesso, ma anche come essenza della propria anima5. Un altro termine che penso possa essere di grande aiuto per comprendere la valenza antropologica sia del teatro delle ombre e delle marionette nel sud-est asiatico, ma anche di questa simbolica figura che crea il suo doppio, è la parola inglese puppeter. Questa, ci suggerisce la valenza funzionale di chi pratica questa tradizionale arte performativa. Sotto la voce puppet, il sostantivo dal quale puppeter deriva, il dizionario monolingue della lingua inglese fa corrispondere, non solo la nota, sebbene riduttiva in questa sede, definizione di “tipo di bambola, animata per mezzo di fili o tramite un guanto che ne costituisce il corpo, in cui viene infilata la mano”6, ma proseguendo, vediamo l’utilizzo di tale termine come attributo: “… persona o gruppo controllato da un altro”7. Di conseguenza, il termine puppeter non deve essere tradotto solo come marionettista, bensì anche come manipolatore e ciò lascia ampio spazio a molteplici speculazioni riguardo alla figura di questo particolare performer. Tipica del sud-est asiatico sembra essere la triplice funzione di questa figura. Al termine manipolatore si può, infatti, affiancare anche quello di artigiano, attore e sciamano, crea le sue figure, le fa muovere e fa da tramite fra queste e il pubblico, vale a dire fra ultraterreno e terreno. La sua arte corrisponde alla costruzione del mondo in microcosmo. Come Dio creò l’uomo a sua immagine, dotandolo di movimento e donandogli un’anima, così il manipolatore crea le sue figure a immagine di se stesso, degli dei o dei demoni, portandole in vita e donando loro una parte della propria anima. Tutto questo, in oriente, trova anche in questo caso una sua dimensione rituale. Prima di dedicarsi alla costruzione di nuove figure, il marionettista asiatico si prepara all’atto della creazione con cerimonie di purificazione con le quali consacra anche i materiali e gli strumenti usati per tale azione. Ed è sempre durante questo stato di puri5

Per un approfondimento dell’argomento si veda O. Rank, The Double: A Psychoanalytic Study, Paperback, 1991. 6 Penguin English Student’s Dictionary, Penguin Books, London, 1991, p. 708. 7 Penguin English Student’s Dictionary, cit., p. 708.

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ficazione che disegna quella che sarà la figura. Prima che questa sia pronta per la performance, egli si occupa della sua espressione facciale, concludendo il rito (visto che è ormai chiaro che di rito si tratta) con l’aggiunta degli occhi. A questo punto, la marionetta, la figura può essere considerata un essere sensibile, sacro e potente al tempo stesso, enormemente buona o ferocemente malvagia, ma che va comunque venerata. Nel creare le sue figure, il manipolatore-artigiano crea la vita. L’importanza della creazione artistica ante-performance, vale a dire la costruzione della marionetta, può essere meglio compresa tramite l’illustrazione di alcuni esempi. In Birmania (Myanmar), come afferma Ma Thanegi, “… i manipolatori sono riluttanti nell’utilizzare marionette costruite da qualcuno che non ha idea di come esse debbano poi essere manipolate”8, è quindi naturale che sia egli stesso a occuparsi della loro costruzione, tanto più se si pensa che, come abbiamo precedentemente detto per le origini del bunraku, per lo yokthe thay l’artista ricava le sue figure dall’albero della melina arborea dal legno molto chiaro, considerato un albero sacro e propiziatorio, tanto da venire usato, durante il periodo della monarchia, per la costruzione del trono del re. A tal proposito, un tipico rituale compiuto dai creatori del Myanmar è quello riguardante la scelta del sesso della marionetta. Immergendo il tronco dello yamanay9 nell’acqua essi decidono di utilizzarne la parte che affiora a galla per i personaggi femminili, mentre quella sommersa per i maschili. L’estrema cura con cui l’artista si occupa della creazione delle sue figure si può meglio comprendere pensando all’enorme perizia con cui vengono elaborate le figure del teatro delle ombre, come il già citato wayang kulit indonesiano o il nung talung tailandese. Il dalang che si occupa della loro ideazione e creazione deve tener conto del fatto che una gran parte degli spettatori vedranno le ombre dei personaggi e per questo è importante che essi siano facilmente riconoscibili. Un importante aiuto, in questo caso, proviene dalla secolare tradizione di queste arti performative, tradizione con la quale non solo i manipolatori ma anche il pubblico è cresciuto. È proprio la tradizione, infatti, a dettare all’artigiano manipolatore le complicate convenzioni che determinano che tipo di perforazioni devono essere cesellate sul corpo di ogni figura, l’abito con il quale deve apparire, la sua acconciatura, i gioielli o le armi, ed è la loro stessa tradizione che dice al pubblico quale personaggio deve riconoscere nelle particolarità di un’ombra. Forse ciò che è più complicato, e che comunque aiuta gli spettatori che osservano non le ombre, bensì le figure manipolate dal dalang giavanese10, sono le regole per la pittura delle figu8

Ma Thanegi, The Illusion of Life: Burmese Marionettes, White Orchid Books, Bangkok, 1994, p. 81. 9 Secondo una superstizione popolare, tutti i personaggi dovevano essere ricavati dallo stesso tronco e solo quelli principali, al massimo, potevano essere intagliati da un tronco diverso. Si veda Ma Thanegi, The Illusion of Life: Burmese Marionettes, cit., p. 81. 10 G. Azzaroni, Teatro in Asia. Malaysia-Indonesia-Filippine-Giappone, vol. I, CLUEB, Bologna, 1998, p. 81.

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re: “… che colori devono essere usati e in quali parti della figura, che colori possono essere usati assieme ad altri e persino quali devono essere applicati per primi. Alcuni dettagli del vestito vengono ulteriormente abbelliti da incisioni, tratteggi incrociati o disegni tracciati sulla tinta a imitazioni di ricami. Circa cinquanta anni fa un artigiano di wayang trascrisse le regole che governavano la sua arte, includendo fra queste la conoscenza delle sembianze di re, dei, saggi, donne e altre tipologie di personaggi”11. Conoscere a fondo la tradizione millenaria del proprio paese, sia essa iconografica o teatrale, non fa altro che aumentare il valore della figura del manipolatore orientale, specie considerando che per ora si è solo analizzato il suo aspetto di creatore-artigiano. Mi occupo ora del suo valore attoriale. Dopo aver creato le sue figure e il loro mondo, questo divino artigiano impartisce loro il soffio vitale della performance. Da artigiano, il manipolatore si trasforma in attore. Senza di lui le sue creature rimarrebbero inerti opere d’arte, non dissimili da quelle di uno scultore o di un pittore. Ecco perché, come ho già detto, il termine manipolatore si rivela quello più appropriato a questo artista: “… indica molto chiaramente l’importanza della mano nel mestiere del marionettista. La mano costruisce la marionetta e attraverso il gioco le dona la vita. Un attore può recitare direttamente col suo corpo e la sua voce. La distanza che esiste tra il ruolo che egli interpreta e lui stesso è tutta interiore, di ordine psichico. Per il marionettista invece questa distanza esiste fisicamente, resa concreta dall’oggetto marionetta”12. È la mano il medium fra la marionetta e chi le dà vita, tutto il valore espressivo, simbolico e sacrale che la figura manifesta dipende ed è incarnato dalla mano di chi la manovra, vale a dire dal suo manipolatore, ma si manifesta attraverso la figura stessa. La magia tipica del teatro, capace di trascinare la spettatore in un mondo diverso dal reale, sembra moltiplicare la propria efficacia nel teatro di marionette e in quello di ombre. Lo spettatore che assiste alla performance sembra completamente dimenticarsi della presenza di quella mano che fa muovere i magici attori, ma grazie alla quale riesce ad allontanarsi dalla realtà. Quello che si crea è, infatti, un fenomeno di allontanamento ed è il risultato di anni e anni di training effettuato dagli artisti di teatro d’ombre e di marionette. Si pensi, ad esempio, ai marionettisti del bunraku giapponese. A differenza del dalang indonesiano o del nai nung thailandese, per questa raffinata arte performativa ad agire sulla scena, le cui dimensioni sono maggiori rispetto ad altre previste per questo genere teatrale in tutto il sud-est asiatico e proporzionate a quelle della marionetta, non è uno ma ben tre performer per figura. Uno di essi, in genere il più giovane (ashizukai) si occupa del movimento dei piedi delle figure maschili e del kimono di quelle femminili. Il se-

11 R. L. Mellema, Wayang Puppets: Carving, Colouring and Symbolism, Royal Tropical Institute, Amsterdam, 1954, p. 44. 12 R. Schöhn, Marionette, cit., p. 37.

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condo marionettista (hidarizukai) muove la mano sinistra della figura per mezzo di un’asta connessa al gomito. Ma è l’omozukai a rivestire il ruolo più importante, movendone la testa e il braccio destro. Per arrivare a svolgere quest’ultimo ruolo che, per importanza è analogo a quello degli altri manipolatori orientali che agiscono da soli, l’artista inizia il suo training in giovanissima età, effettuando prima gli altri due ruoli. Ma la cosa più importante che questo performer acquisisce nel corso dei duri anni di apprendistato è proprio il riuscire a instaurare con il pubblico quel fenomeno di allontanamento di cui parlavamo. Questo particolare manipolatore, infatti, agisce a vista, ma la perfezione e l’espressività che egli conferisce alla marionetta ne aumentano così tanto la presenza scenica che sia lui che i suoi attendenti diventano invisibili all’occhio dello spettatore. È ovvio che è la lunga esperienza a rendere l’omozukai e i suoi assistenti invisibili, e ciò vale per tutti i manipolatori asiatici. Ma bisogna ricordare che allontanamento non è assenza. Scriveva Grotowsky: “Il teatro può esistere senza attori? Io non ne conosco alcun esempio. Potremmo pensare allo spettacolo di marionette. E pur tuttavia anche lì troveremo un attore dietro la scena, anche se un attore di altro tipo”13, di altro tipo perché si esprime attraverso il movimento che impone ad altri oggetti, con i quali riesce a manifestare rabbia, gioia, dolore, quindi un attore-manipolatore. Durante il lungo training, il marionettista diventa padrone di una tecnica vocale tale da riuscire a dare voci diverse a personaggi diversi, passando da un estremo all’altro della scala tonale, e in più aiutato da un guru, un anziano maestro dell’arte, apprende i testi tradizionali che vengono messi in scena, nella maggior parte dei casi sono quelli afferenti all’epica indiana del Mahabharata e del Ramayana, oppure possono anche essere connessi al Buddhismo, come nel caso delle jakata messe in scena nello yokthe thay birmano. Ma ciò che apprende è fondamentalmente imparare a riconoscere, superare e usare a proprio vantaggio l’ostacolo che si trova di fronte: la materia, lo scarto irriducibile fra lui e la marionetta. Quello che bisogna rappresentare sulla scena deve essere espresso dalla marionetta e il manipolatore diventa l’indispensabile supporto dei gesti efficaci di quest’ultima. Si pensi alla difficoltà del suo lavoro alla luce del fatto che molti manipolatori asiatici muovono da soli un organico spesso non inferiore alle trenta figure, ciò vuol dire dar voce e caratterizzazioni a un numero spropositato di personaggi diversi per ogni performance. Ma ritornando al movimento che il manipolatore-attore impartisce alla marionetta, cerchiamo di capire come egli riesca a ottenere l’incredibile commistione di realismo e simbolismo, connotato straordinario del teatro di marionette. Per fare ciò sono necessarie due competenze. In primo luogo il manipolatore deve avere una profonda conoscenza, oserei dire anatomica, vale a dire delle fattezze e capacità motorie del corpo umano, “è interiorizzando il movimento esatto del proprio

13 J. Grotowsky, Towards a Poor Theatre, 1968, trad. it., Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, 1993, p. 85.

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corpo che il marionettista potrà realizzare quel modello che opererà nella proiezione simbolizzata sul corpo della marionetta”14. Dato ciò che è stato detto prima riguardo al manipolatore artigiano, creatore delle sue stesse figure, è facile pensare a quanto ne conosca bene le fattezze e quindi anche le potenzialità espressive, e sia così in grado di comprendere le differenze che queste hanno rispetto a quelle umane di un attore in carne e ossa. Una volta conosciuta la limitatezza anatomica della propria marionetta procede con una trasposizione dalla meccanicità alla stilizzazione, cioè capisce quali di questi limiti attraverso la manipolazione e durante la performance possono diventare movimenti efficaci e simbolici, comunque riconoscibili dallo spettatore. È bene sottolineare il fatto che quest’ultimo a sua volta metterà in atto dei sistemi di fruizione particolari, ben diversi da quelli utilizzati di fronte a un attore umano. È inutile dire che sebbene si siano usati dei termini molto tecnici come fruizione, attore, meccanicità, il risultato, cioè la performance orientale di teatro di marionette e di ombre, è ben lontana da quella che chiamiamo tecnica, specie nel senso occidentale del termine. Ciò che avviene e che è invisibile è in realtà uno scambio di forze. Ecco perché, imprescindibile dalla dimensione di artigiano e da quella attoriale, c’è anche la dimensione sacra e più antropologica di questo performer: il manipolatore-sciamano, colui che si fa cavalcare dalle forze magiche presenti nella figura e si fa da tramite fra queste e gli uomini, gli spettatori. L’aspetto sciamanico del manipolatore si può comprendere ritornando a ciò che accennavo all’inizio riguardo l’origine della marionetta e alla sua discendenza da statuette e simulacri finalizzati a un uso rituale. Si sarà infatti capito che il manipolatore di cui ci stiamo occupando ora non è altro che un’evoluzione di quella primordiale figura di ricercatore che nella marionetta individuava il suo doppio, l’antenato, il divino. La relazione che l’uomo istaura con Dio, con le divinità e con l’ordine intrinseco della vita è la base su cui poggiano la maggior parte delle forme teatrali asiatiche. Come tutti i veri fenomeni spirituali, lo scopo delle performance asiatiche di teatro di marionette è olistico, vale a dire che gli umorismi, i luoghi comuni usati quotidianamente sono integrati con l’esaltazione e l’eroismo. In ogni cultura e nelle sue performance si possono trovare delle figure comiche il cui compito sembra essere prettamente antropologico e consiste nell’esprimere le aspirazioni degli spettatori, la pace, la prosperità, gli appagamenti sessuali e il raggiungimento di posizioni sociali elevate. Come si può notare si tratta di bisogni molto concreti e materiali che sembrano allontanarsi dalla religiosità di cui stiamo parlando, per avvicinarsi invece ad aspetti prettamente umani. In realtà la performance nella sua interezza costituisce una vera e propria offerta agli dei, con la speranza che essi possano riconoscere e soddisfare questi bisogni. Il performer che ha il compito di mettere in scena questo dono agli dei deve possedere una certa avvenenza nei loro con-

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R. Schöhn, Marionette, cit., p. 38.

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fronti. Sebbene i manipolatori asiatici provengano per lo più da bassi ceti, all’interno dell’ordine sociale rivestono il ruolo di sciamani o sacerdoti. Il manipolatore, nel corso di ogni performance, istaura una continuità religiosa. Nessuna rappresentazione ha inizio senza che prima ci sia un’invocazione agli dei, agli antenati o ai guru. Molte tradizioni teatrali prevedono la presenza di preghiere, offerte di cibo, fiori, incenso, denaro e fuoco. In India i manipolatori rivolgono queste offerte a Ganesa, la divinità dalla testa di elefante, che dona saggezza e rimuove gli ostacoli. In Thailandia le preghiere sono destinate a Rishi che rappresenta il guru, antenato di tutti i manipolatori del sud-est asiatico. Ci sono anche altri rituali, sempre presenziati dal manipolatore-sciamano, che riguardano l’allestimento del luogo performativo, l’orientamento del palcoscenico verso un determinato punto cardinale (in genere a est), il posizionamento dei musicisti e i riti con quali si conclude ogni performance. In nessuna tradizione asiatica si potrebbe mettere in scena uno spettacolo di teatro di marionette e specialmente di teatro d’ombre senza un’adeguata cura dei rituali e delle offerte necessarie per realizzare uno spettacolo di successo. Bisogna, comunque, segnalare il fatto che oggi alcune di queste culture orientali di tipo tradizionale stanno rivolgendo le loro performance verso fini più pratici. In India si sta tentando di usare questo genere teatrale per insegnare la pianificazione familiare. Nella moderna Cina il teatro di marionette, un tempo supporto delle istituzioni feudali e dell’etica confuciana, è usato in modo propagandistico per illustrare e glorificare la nuova ideologia politica cinese. Questi esempi ci fanno comprendere come un’antica forma teatrale venga adoperata per fare breccia nell’opinione pubblica riguardo ad avvenimenti contemporanei. Questo allontanamento dalla dimensione sacra per favorire un uso più sociale del teatro di marionette fa pensare quasi a una sua occidentalizzazione. Ad esempio il bunraku, di cui abbiamo già parlato, è forse il genere più attraente per il pubblico occidentale. Sicuramente perché è uno degli spettacoli più sofisticati a livello artistico, ma possiamo supporre che ciò avvenga anche perché ha abbandonato quella dimensione sacrale tanto ostica per l’occidentale che cerca di avvicinarsi all’arte teatrale orientale, pur essendo, paradossalmente, abituato a cercare nel teatro esclusivamente l’aspetto ludico ed estetico. Parlare del marionettista come sciamano ci ha ricondotto al tema del teatro come rito. Forse potrà sembrare banale o retorico dire che l’arte orientale, in particolare l’arte del teatro d’ombre e di marionette, trova le sue origini e corrisponde ancora oggi a un rituale. Ma, benché si sia detto e scritto tanto in proposito, e benché il genere di performance da noi preso in esame si sia, sotto certi aspetti, sottomesso alle esigenze di turisti e di spettatori occidentali, usiamo come giustificazione al fatto di aver ribadito tale argomento l’autorevole affermazione di Grotowsky: “Esiste la comunicazione nel rito? Possiamo forse dire che la comunicazione esiste nel teatro ma non nel rito? Se nel teatro c’è una divisione molto forte tra gli attori e gli spettatori, e se la comunicazione per noi è qualcosa che si spiega o si mostra

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agli spettatori, in questo caso è vero che la comunicazione è una traccia essenziale di un certo tipo di teatro, ma in realtà è la traccia di un certo tipo di teatro”15. Alla luce di questa autorevole affermazione ci si può sentire quasi più protetti nel dire che quelle tracce comprende il teatro d’ombre o di marionette in oriente, e che questo si rivolga a un pubblico locale o occidentale-turistico, rimane comunque un momento di comunicazione, “… D’altra parte il conduttore del rituale, anche se è un rituale in cui non utilizza frasi formulate, fa la comunicazione tutto il tempo, la maniera in cui controlla il rituale è comunicazione, è comunicazione a proposito delle cose che succedono in quel momento”16. Agli occhi di noi occidentali, attratti da forme d’espressione esotiche, o a quelli degli spettatori locali, che rivivono la propria storia, il teatro di marionette e d’ombre rimane sempre un rituale17. Per lo spettatore, qualunque sia la sua provenienza, il gioco teatrale, in senso lato, corrisponde a un rituale catartico, durante il quale gli viene data l’occasione di liberarsi dai propri problemi, per avere l’illusione di modellare il mondo secondo il proprio desiderio. Si pensi, ad esempio, a uno spettatore balinese, che di fronte al kelir vede l’ombra di Rangda, che combatte contro le forze del bene18. Nell’irrisolutezza dello scontro fra magia bianca e magia nera, lo spettatore trova la certezza di una vita equilibrata e giusta. Non solo questo ma molti altri esempi di performance teatrali di teatro di ombre e di marionette, che qui non riportiamo, ci aiutano a comprendere come questo genere teatrale, specie in oriente, costituisca una delle espressioni teatrali che portano al più alto livello di efficacia la dinamica catartica. Ciò spiega, in senso antropologico, il permanere dell’arte della marionetta nel corso della storia presso le culture orientali nonché il fatto che il pubblico occidentale, reduce da una trascuratezza e un’estinzione di questo genere di teatro, rivolga il suo interesse verso stili performativi tradizionali del sud-est asiatico. E fra questi spettatori occidentali si alzano le autorevoli voci di molti uomini di teatro del secolo scorso che reclamano il grave vuoto lasciato dalla marionetta nella propria tradizione teatrale con la convinzione che essa provochi nello spettatore emozioni e prese di coscienza che l’attore umano sovente non riesce a far nascere. Eduard Gordon Craig, uno dei più

15 J. Grotowsky, Tecniche originarie dell’attore, dispensa (non rivista dall’Autore), seminario tenuto all’Università di Roma “la Sapienza”, presso l’Istituto del teatro e dello spettacolo, 1982, p. 70. 16 J. Grotowsky, Tecniche originarie dell’attore, cit., p. 70. 17 Per un approfondimento dell’argomento, si veda V. Turner, From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of play, Performing Arts Journal Publications, New York, 1982, trad. it., Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna, 1986. 18 Il dramma a cui ci si riferisce è Calonarang, una delle performance di wayang kulit considerata più pericolosa sia per i dalang che la eseguono che per gli abitanti dei villaggi che vi assistono, date le forze magiche che durante tale rappresentazione vengono richiamate. Lo scopo per cui viene giocato questo rituale è quello di ristabilire un giusto equilibrio fra le forze del bene e le forze del male. Si veda G. Azzaroni, Società e teatro a Bali, CLUEB, Bologna, 1994, pp. 246-253.

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grandi rinnovatori della scena teatrale del novecento, si lamentava dell’insufficienza espressiva dell’attore, imitatore e non creatore della realtà, e ipotizzava delle lezioni impartite dalla marionetta al performer occidentale: “Essa non farà a gara con la vita ma andrà al di là; essa non rappresenterà il corpo in carne e ossa, ma il corpo in stato d’estasi, e finché da essa emanerà uno spirito vivente, la marionetta si rivestirà di una bellezza mortale”19. Anche lo straniamento brechtiano sembra confermare la potenzialità espressiva della marionetta, e se vogliamo una testimonianza più recente, riguardo al radicale simbolismo, presente nel teatro di marionette e nel suo linguaggio, la possiamo trovare nelle parole di Peter Schumann: “La radicalità del teatro di marionette include una ridefinizione del linguaggio non solo come un utile mezzo di comunicazione. Il linguaggio della marionetta è più che uno strumento di informazione ben accordato. È un esperimento che strappa parole e frasi dai loro eleganti contesti secondari e condensa quantità di chiacchiere abituali in un singolo termine. Le marionette hanno bisogno di silenzio, e i loro silenzi sono una chiara parte del loro linguaggio”20. E, invece di fare silenzio, si potrebbe continuare all’infinito con questa riflessione del teatro sul teatro, ma ci accorgiamo che tanto più la marionetta è assente nella nostra tradizione più se ne parla, e la tradizione orientale è in questo caso considerata un punto di interesse fondamentale al quale, avvicinandosi con un approccio antropologico e valutando analogie e differenze con la nostra cultura teatrale, noi, diretti discendenti dei ricercatori primitivi, possiamo trovare il nostro doppio.

19 E. G. Craig, On the Art of Theatre, Chicago, 1911, trad. it., Il Mio Teatro, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 84. 20 P. Schumann, The Radicalità of Puppet Theatre, in “Theater Drama Reveuv”, vol. 35, n. 4, MIT Press, New York University, 1991, p. 77.

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Dislocamento estetico nel teatro delle ombre giavanesi di Laurie Lobell Sears

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“Theatre Drama Review”, vol. 33, n. 3, MIT Press, New York University, 1989, pp. 122-140

Oggi a Giava i dalang (manipolatori del teatro delle ombre) stanno modificando i testi scritti e orali che si sono mescolati per secoli con quelli della tradizione orale del teatro delle ombre. Il dominio entro il quale questa forma d’arte opera come tradizione orale, tramandando informazioni ricche di significato alle nuove generazioni, nel tardo XX secolo si è venuto riducendo. Oggi, comunque, negli spettacoli giavanesi di teatro delle ombre si possono trovare sia lo stile tradizionale che quello moderno. Nel campo della tradizione, l’autorità dell’estetica giavanese è dominante – le coincidenze, gli abbellimenti e la sovversione della linearità continuano a generare significati nei modi tradizionali. Ma le idee moderne si stanno facendo strada all’interno del dominio della tradizione e gli stili del teatro delle ombre propri dei diversi villaggi stanno assorbendo nuove idee e tecnologie. Quando queste penetrano all’interno di tale genere teatrale, ciò avviene in maniera tradizionale, attraverso il flessibile lavoro della tradizione orale. In più nel nuovo stile urbano, le estetiche occidentali che sono cresciute fuori dalle unità aristoteliche di tempo spazio e azione1 sembrano guadagnare in autorità e visibilità. Il confronto fra vecchie e nuove autorità e vecchie e nuove estetiche, è particolarmente visibile all’interno della tradizione del teatro delle ombre giavanese e nel modo in cui questo risponde a influenze moderne e occidentali. In questo saggio mi occuperò di tre tipi contemporanei di spettacoli di teatro delle ombre, uno molto tradizionale e due fra i più moderni stili di spettacoli. Nel ruwatan, una performance esorcistica di tipo tradizionale, la voce del manipolatore è l’unica autorità, derivatagli dalla padronanza di poteri mistici e magici. Il testo usato durante questo spettacolo, che fa parte della tradizione orale ma esiste anche in forma scritta, non appartiene alla tradizione indiana ed è considerato molto sacro. Alle donne gravide viene chiesto di lasciare la stanza, prima che tale testo ven-

1

A. L. Becker, Text-Bulding, Epistemology and Aestetics in Javanese Shadow Theatre, in A. L. Becker e Aram A. Yengoyan, a cura di, The Immagination of Reality, Norwood, NJ Ablex, 1979, pp. 216219.

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ga recitato, a causa del potere che si crede le sue parole abbiano. In genere è disponibile in forma scritta ma, molto spesso, viene recitato a memoria. Inoltre la sua versione scritta viene usata per simboleggiare e accrescere l’autorità del manipolatore. È la messa in scena rivisitata dei vari testi sacri che è importante; i testi in questo caso sono orali e la loro associazione con uno di tipo scritto riflette una crescente importanza di quest’ultimo all’interno della società giavanese. Il secondo tipo di spettacolo che verrà qui discusso corrisponde a un fenomeno moderno che si verifica una volta al mese (ogni trentacinque giorni) nell’abitazione di Ki Anom Surata, un famoso dalang solonese. Queste performance chiamate rebo legi (dolci mercoledì) solo a volte sono connesse a occasioni rituali e si effettuano più che altro come rito benefico per le comunità dei manipolatori. L’ospite invita dalang provenienti da tutta Giava in occasione di queste celebrazioni mensili. Dal momento che l’organizzatore di tale iniziativa è stato in pellegrinaggio alla Mecca ed è un membro del Golkar (Golongan Karya, lo strumento politico dell’attuale governo), le autorità presenti a queste performance sono vicine all’Islam e al governo indonesiano. Gli spettacoli sono anti-convenzionali sotto diversi aspetti. I confini imposti dai testi orali sono stati ampliati per permettere che nuove frasi e nuove parole venissero introdotte nella tradizione. Si provano nuovi stili, non ci sono le ombre e molte regole performative vengono infrante, ma gli spettacoli iniziano ancora alle nove della sera e terminano alle cinque del mattino. Le innovazioni che si notano consistono in cambiamenti all’interno della tradizione orale, cambiamenti in ciò che è tipico di alcune scene, cambiamenti nei personaggi, ai quali è concesso di combattere insieme, o cambiamenti nelle pratiche usate dal manipolatore nel corso dello spettacolo. Il contrasto fra le autorità tradizionali e quelle moderne è molto forte negli spettacoli rebo legi e forse questo è il motivo per cui essi sono pienamente apprezzati dal pubblico che vi assiste. I manipolatori dei villaggi stanno infrangendo le regole teatrali che vennero codificate dalle principali corti della Giava centrale che si trovavano sotto l’influenza tedesca agli inizi del XX secolo. L’ultimo stile performativo di tipo moderno trattato in questo saggio è il padat o spettacolo riassunto, che si è venuto sviluppando all’interno dell’Accademia delle Belle Arti a Solo (Akademi Seni Karawitan Indonesia, ASKI) negli ultimi dieci anni. Si tratta di performance abbreviate, generalmente della durata di un’ora circa, durante le quali il marionettista deve seguire un testo scritto fisso, compito spesso difficile per gli uomini di spettacolo abituati a manovrare le figure ricordando i testi orali. L’autorità, in questo tipo di spettacoli, è di tipo occidentale. Humardani, l’ultimo direttore dell’ASKI, ha contribuito alla creazione di questo stile e ha familiarità con gli spettacoli e le teorie drammaturgiche di tipo occidentale. I testi orali usati in questo genere di spettacolo sono controllati, limitati e standardizzati. Anche il flusso della tradizione orale è limitato e i testi degli spettacoli sono ideati con cura, i valori cambiati e il tutto viene riportato in forma scritta. Vengono anche pubblicati e discussi i diritti d’autore. L’interazione fra testi, autorità e spettacoli

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nei drammi padat è attentamente controllata sia dai modelli occidentali e dalle loro relative influenze che dal governo indonesiano che sostiene le attività dell’accademia. Istruiti nelle tradizioni accademiche occidentali, alcuni studenti dell’ASKI hanno scritto eruditi saggi che interpretano e analizzano la tradizione in maniera personale2. Questi artisti divenuti accademici (o nel caso di Humardani, dottori che diventano critici d’arte) stavano e stanno ancora cercando di preservare e promuovere la tradizione del teatro delle ombre, così come gli studiosi tedeschi cercavano di fare all’inizio di questo secolo. Gli studiosi dell’ASKI perseguono l’intento di valorizzare la tradizione agli occhi del cittadino, modernizzando settori della popolazione giavanese che non apprezza più gli spettacoli che durano tutta la notte né le celebrazioni entro le quali tali spettacoli hanno luogo. Queste performance tentano di conciliare le storie più antiche con stili di vita e valori più moderni. Nei villaggi, gli stili performativi accademici hanno meno influenza rispetto agli spettacoli rebo legi. I dalang che si occupano di questi spettacoli portano delle innovazioni prendendo spunto dai villaggi. Queste innovazioni sono più facilmente assorbibili perché negli spettacoli rebo legi la tradizione orale agisce ancora in modi familiari. Nei villaggi questa cambia e cresce allo stesso modo in cui risponde alla corrente ondata di modernizzazione che sommerge la vita giavanese. Marionette in motocicletta, luci colorate, percussioni in stile occidentale ed espressioni inglesi sono sempre più presenti all’interno delle performance notturne. I clown si prendono gioco degli eroi più rispettati; valori materiali prendono il posto di quelli della solidarietà di villaggio e i personaggi femminili rivendicano nuovi diritti e nuova visibilità. Le limitazioni imposte alle forme e le caratterizzazioni si stanno andando perdendo nei villaggi e questo riflette la perdita di queste restrizioni nella moderna vita giavanese. Estetica del teatro tradizionale delle ombre e performance esorcistiche Nella poesia giavanese del XIX secolo, gli abbellimenti venivano considerati elementi essenziali che rendevano tale arte ricca di significato per il pubblico dell’epoca. Nella tradizione del teatro delle ombre la composizione, gli abbellimenti e la densità di contenuto sottolineano gli interessi estetici dei manipolatori. Mentre nella poesia classica giavanese l’abbellimento veniva usato per far crescere il rasa o sentimento su un livello poetico, nel teatro delle ombre gli abbellimenti sono considerati stratagemmi utili per la produzione del testo. Nel mondo estetico del teatro

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S. D. Humardani, Kumpulan Kertas Tentang Kesenian, Akademi Seni Karawitan, Solo, Indonesia, 1983 e Murtiyasa Bambang, Kegelisahan Kehidupan Seni Yang Menggelisahkan, articolo presentato al Diskusi Theater, PKJT Sasanamulaya, 10 aprile 1984.

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delle ombre, il coinvolgimento emotivo viene ottenuto attraverso gli abbellimenti e la costruzione della composizione – interazione di musica, recitazione, incisione e suono di piatti metallici in aggiunta all’azione delle figure sullo schermo e alla trama, che spesso sembra estranea alla performance. In uno spettacolo della durata di nove ore che si conclude con l’inizio o inizia con la fine di una trama che spesso sembra non portare da nessuna parte, è la struttura vera e propria della performance, che si muove verso il manipolatore e poi verso il pubblico, che sembra determinare le sue azioni. La linearità, nel semplice senso della genealogia, che l’epica indiana ha apportato alla concezione giavanese di mondo, è stata modificata dall’interesse per la composizione e la densità di contenuti. Il ruwatan o performance esorcistica, ha fatto parte del repertorio del teatro delle ombre almeno dal XVII secolo3. Oggi, nella parte centrale di Java, c’è una storia che viene generalmente usata, Murwakala (La nascita di Kala). In questa storia gli dei scendono sulla terra per recitare nel wayang (il teatro delle ombre) con l’intento di fermare il crudele assalto del dio-orco Kala (figlio del supremo dio Siwa) che simbolicamente dà la caccia ad adulti e bambini che vengono esorcizzati. Allora, la vittima rappresentata si nasconde in uno degli strumenti presenti usati per il ruwatan e, nel momento in cui il marionettista legge il potente mantra, Kala viene placato, la vittima viene esorcizzata e, per un momento, nel mondo torna l’ordine. Una performance alla quale ho assistito nella primavera del 1984, in un villaggio alla periferia di Solo, era un sadranan, un particolare tipo di ruwatan, che mette insieme un’offerta fatta agli antenati con un dramma di teatro delle ombre di tipo ruwatan – una pratica comune nell’odierna Java. Le performance ruwatan generalmente hanno luogo di giorno, iniziano intorno alle dieci e si concludono verso le quattro del pomeriggio. Quando si tratta di uno spettacolo che ha luogo di giorno, il pubblico invitato siede generalmente dietro il manipolatore, osservando le figure che agiscono di fronte al telo piuttosto che stare a osservare le ombre, come avviene in molti spettacoli tenuti nei villaggi. Di solito solo i manipolatori più anziani, che provengono da famiglie di artisti da molte generazioni, i cui padri sono già morti, vengono considerati abbastanza forti per controllare le forze magiche che emergono durante gli spettacoli ruwatan. È quando le divinità discendono sulla terra per partecipare a uno spettacolo wayang, nel dramma Murwakala, che il ruwatan diventa testualmente ricco e denso. Le divinità devono abbandonare le loro vere sembianze e prendere quelle degli altri personaggi, milihan in giavanese. Wisnu, il dio supremo, si incarna nel dalang ma prende la forma di Arjuna, il nobile guerriero; Brama, un’altra divinità, si incarna nel suonatore di gender e prende la forma di Sumbadra, moglie di Arjuna; e Narada, una divinità divertente e deforme, prende le sembianze di Semar, il buffo-

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J. R. Brandon, On Thrones of Gold, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1970.

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ne servitore al servizio dell’eroe Arjuna e fratello maggiore del supremo dio Siwa, diventando il penongedang o batterista. In questo modo, due spettacoli wayang si intersecano – quello che viene rappresentato e il dramma all’interno della performance. Poiché lo spettacolo che sto descrivendo consisteva in un’offerta votiva agli antenati, così come un tentativo per esporre i problemi della famiglia attraverso il rituale, gli antenati facevano la loro apparizione come personaggi della storia. Casualmente, questa particolare famiglia era proprio una famiglia di dalang e musicisti. Dopo che i loro antenati erano apparsi per un momento sul telo, violentemente inseguiti da Kala, anche i membri della famiglia ancora in vita, che stavano assistendo allo spettacolo, facevano la loro apparizione come marionette. In seguito poche varianti venivano aggiunte alla cerimonia. Il manipolatore che dava vita alla performance, faceva parte della stessa famiglia che aveva organizzato lo spettacolo e aveva quindi vincoli di parentela con i personaggi che faceva muovere sul telo. Si dava il caso che il manipolatore in questione fosse il padre di Anon Surata, il famoso dalang solonese. Per pura coincidenza, conoscevo la donna che aveva commissionato la performance e che come gli altri familiari veniva rappresentata da una delle figure sul telo. Quando andai ad assistere allo spettacolo, non ero al corrente del fatto che fosse stata lei stessa a organizzarlo, ma una volta avevo visitato la sua casa e comprato da lei delle marionette. Era felice di avere degli ospiti occidentali che assistessero alla performance, specialmente qualcuno che conosceva – ciò faceva crescere la sua importanza agli occhi dei vicini – e mi si sedette accanto. Nel momento in cui venne fatta agire la marionetta che la rappresentava, ho avuto anch’io l’impressione di venire trascinata all’interno dello spettacolo e di potermi trovare, da un momento all’altro, faccia a faccia con Kala in persona. Sul telo bianco, i membri della famiglia ancora in vita incontravano i loro antenati e chiedevano il permesso per effettuare la cerimonia che si stava svolgendo in quel momento. Tutto questo veniva rappresentato in una maniera molto umoristica, ruotando intorno al concetto di pangling. Pangling significa incontrare la gente che conosci bene senza riconoscerla. Quando a Giava si incontra un caro amico, spesso si dice kok, pangling, il cui significato implicito sarebbe “non riesco a riconoscerti, perché sembri stare meglio (o peggio) di quanto ricordassi”. Applicare questo concetto riferendosi a un antenato che è morto da generazioni, risulta divertente e familiare al tempo stesso. I familiari viventi affrontarono e minacciarono Kala. Si dava il caso che uno di questi fosse un musicista dello spettacolo che si sforzava di suonare il proprio strumento mentre osservava i suoi stessi bizzarri comportamenti sul telo – accompagnando musicalmente i movimenti della figura che lo rappresentava. Il fatto che fosse stato ritratto dal manipolatore in maniera così buffa, suscitò molta ilarità. Successivamente apparì la marionetta Yudistira che ritraeva un membro della famiglia la cui figlia non poteva continuare la sua relazione col marito. Quando il gruppo di figure che rappresentava i familiari viventi incontrò quello di marionet-

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te raffiguranti gli antenati, il manipolatore mise in scena una ingegnosa terapia familiare. Tutte le figure decisero insieme di effettuare la cerimonia che in realtà si stava svolgendo in quel momento e incontrarono il dalang che, come ricordiamo, era anch’egli rappresentato da una figura, un malihan per il supremo dio Wisnu. Ho descritto abbastanza per indicare la natura di questo evento e la densità della struttura così piena di significati nel wayang giavanese. Tutte le figure, all’interno di uno spettacolo ruwatan, si allontanano dal loro ruolo usuale – tutte le associazioni vengono spostate. Qualunque linearità nello svolgimento della trama viene totalmente circuita e i significati della performance moltiplicati e rielaborati in maniera imprevedibile. La performance ruwatan è lo spettacolo più giavanese fra quelli del teatro delle ombre per la sua dissociazione dalle azioni dell’epica indiana. L’accento sul malihan è un altro fenomeno comune in molte performance di tipo tradizionale. I personaggi degli orchi o delle divinità che assumono le sembianze di eroi motivano l’azione di molti lakon (drammi) e sovvertono ulteriormente la linearità dello svolgimento della trama. Questo spettacolo ruwatan coinvolgeva e attirava il pubblico tanto più per il fatto che il manipolatore era il padre di Anon Surata, una figura di importanza nazionale, presente anch’egli alla performance e che diventava il bersaglio di molti degli scherzi del padre. Lo spettacolo attraversava il tempo a ritroso, passando per il tempo del mondo degli dei e degli antenati, mettendoli faccia a faccia con i membri del pubblico. Le antiche connessioni fra estetica e misticismo, all’interno del ruwatan, vengono sottolineate come se fosse il potere mistico del dalang, espresso attraverso la sua arte a renderlo capace di guarire gli squilibri psichici che inducono le famiglie a organizzare queste manifestazioni. In esse l’autorità appartiene al manipolatore ed egli rappresenta le forze animistiche della cultura pre-hindu giavanese, nonostante il suo utilizzo di divinità hindu. All’interno della performance le divinità sono dislocate e disconnesse dai loro ruoli abituali. In un certo senso, il loro potere viene incrinato e domato. Il ruwatan rappresenta il modo in cui i giavanesi hanno vinto il potere delle autorità straniere e, successivamente usato questo stesso potere per i propri scopi. Anche l’interazione fra testo scritto e performance orale è unica nei drammi ruwatan. Mentre, tradizionalmente, l’uso dei testi scritti negli spettacoli wayang veniva condannato, la lettura di un testo contenente il sacro mantra recitato alla fine della performance ruwatan, oggi ne è parte integrante. La registrazione in forma scritta di questo sacro mantra potrebbe essere dovuta all’influenza dello studioso solonese R. Tanaya, che nel 1930 pubblicò una versione del testo del Murwacala – forse per paura che questo testo sacro potesse andare perduto se non fosse stato trascritto4. Da allora, solo i dalang più anziani, rispettati per la loro padronanza dei

4 R. Tanaya, Cariya Padhalangan Lampahan Dhalang Kandhabuwana Murwakala, Tan Khoen Swie, Kediri, Indonesia, 1954.

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poteri mistici, hanno il permesso, o il coraggio sufficiente per mettere in scena il ruwatan, è il potere del dalang più che il potere del testo ad avere importanza in questi drammi. Il manipolatore deve essere abbastanza forte da maneggiare il sacro mantra, altrimenti il potere di questo potrebbe nuocergli. Nella storia del Murwakala, il mantra che deve essere recitato per allontanare l’avido Kala si dice che sia scritto sul suo stesso corpo. Sebbene anche la vittima, tecnicamente, potrebbe leggere la formula e quindi scacciare Kala, è Wisnu a pretendere che sia un dalang a recitarla ad alta voce, in maniera da attivarne la potenza. In uno spettacolo wayang di tipo tradizionale, il potere del manipolatore controlla le emissioni del testo scritto o di quello orale. Mentre l’importanza dei drammi del teatro delle ombre potrebbe essere andata diminuendo a causa dell’elite modernizzata, che dai villaggi della parte centrale di Giava si è trasferita a Giakarta, gli spettacoli ruwatan sono sorprendentemente ancora popolari nella Giava odierna. Diversi dalang che ho conosciuto a Solo venivano invitati a Giakarta, per mettere in scena degli spettacoli ruwatan, commissionati dalle famiglie che si erano trasferite nella capitale. Queste messe in scena potrebbero non essere il genere più rappresentativo del teatro delle ombre, ma si possono considerare quelle più giavanesi, per il distacco dalle azioni dell’epica indiana e la sovversione della linearità. Lo spettacolo rebo legi La performance rebo legi (dolce mercoledì) si effettua ogni trentacinque giorni (l’intersezione di cinque e sette giorni delle settimane giavanesi) per celebrare il compleanno del dalang solonese Surata. Quest’ultimo invita manipolatori provenienti da tutta Giava, per effettuare delle messe in scena nella sua abitazione, come pagamento o scambio5. Sono principalmente performer e appassionati di wayang a essere invitati a questi spettacoli. Vi assistono anche molti studenti dell’Accademia di Belle Arti, così come anche occasionali turisti stranieri. Queste performance differiscono dagli altri wayang perché radunano in un unico posto un vasto numero di dalang provenienti da diverse zone. In passato i manipolatori si guardavano bene dal fare i loro spettacoli al di fuori dei propri villaggi per il pericolo di imbattersi nella magia nera, che il loro mantra e altre formule magiche avrebbero potuto non essere tanto forti da controbattere. Da quando così numerosi e famosi dalang presenziano a questi eventi, questi si trovano spesso nella condizione di voler divertire i loro amici e farsi gioco del loro ospite attraverso una comicità amichevole ma pungente. Così, lo stile brillante dei movimenti di una

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Spesso i dalang scambiano gli spettacoli con familiari e amici. Con Anon Surata questa forma di scambio si rivela essere una buona idea – una sua performance, nel 1984, poteva costare oltre duemila dollari.

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marionetta, la comicità provocante e la rottura delle convenzioni sono diventate gli elementi dominanti di questi spettacoli. Altre convenzioni sono dislocate negli spettacoli rebo legi. A cominciare dal fatto che non ci sono ombre6. Da quando viene data maggiore importanza al dalang e non c’è una cerimonia rituale connessa all’evento, oltre alla cerimonia giavanese di compleanno di Surata, un certo scorcio di tradizione si intravede sia nella tessitura delle dimensioni invisibili della performance – la parte rituale e mistica – sia nella costituzione delle possibilità fisiche. Ci si può solo sedere dietro il manipolatore, poiché il telo nella maggior parte dei casi è contro il muro7. Durante queste messe in scena, il pubblico si sposta e gli ospiti, invitati e non, dividono lo stesso spazio. Negli spettacoli wayang dei villaggi, gli invitati siedono a guardare le ombre dentro o vicino l’abitazione di chi ha commissionato la performance, mentre la gente del vicinato che non è stata invitata si raccoglie nelle vicinanze, dietro al dalang e ai musicisti. Molte altre convenzioni vengono infrante durante questi spettacoli. Spesso ci sono dei momenti di interazione fra il pubblico e il manipolatori e, quando si presenta l’occasione, quest’ultimo si volta per dire qualcosa a chi assista o a chi dia fastidio. Molte parole moderne e anche inglesi si sono fatte strada nella tradizione che in passato era restia anche all’entrata dell’indonesiano all’interno di parti inappropriate del dramma. I movimenti delle marionette sono molto innovativi e spesso le figure vengono allontanate dallo schermo o inserite in modo anticonvenzionale e brusco. Hanno luogo combattimenti fra personaggi che non si sarebbero mai sfidati in performance di tipo più tradizionale – una volta ho assistito al combattimento fra l’eroe dei Pandawa, Bima, e il suo fedele clown-servitore, Petruk – e gli scherzi spesso cominciano nella scena iniziale a cui il pubblico assiste, un momento in cui, tradizionalmente, è vietato ogni umorismo. Durante una serata particolare, il giovane dalang Bambang Widjojo, che avevo

6 Quando mi trovavo a Giava fra il 1982 e il 1984, la posizione del telo contro il muro difficilmente permetteva al pubblico di vedere le ombre. Quando erano presenti, spesso venivano viste solo dalla folla fuori, in maniera opposta a quanto avveniva nella performance tradizionale, dove gli ospiti invitati osservavano le ombre e i non invitati ad assistere vedevano il manipolatore. È interessante notare come negli spettacoli organizzati dalla stazione radio RRI, che si effettuano a Solo una volta al mese, in un teatro di tipo occidentale, agli spettatori venga negato l’accesso a osservare il dalang piuttosto che le ombre. 7 Kent Deveraux, che è stato a Solo nel 1986 e nel 1987, mi aveva informato che Surata aveva reintrodotto il teatro delle ombre in queste performance, già nel 1987 (K. Devereaux, colloquio personale, aprile 1988). Quando Devereaux arrivò, nel 1986, le ombre non c’erano ancora. L’importanza data alle figure, rispetto a quella che viene data alle ombre, riflette la crescente importanza del marionettista, a spese della tradizione. Lo steso Surata in alcuni casi viene considerato una superstar nel mondo delle ombre giavanesi. A Solo si dice che la costante costruzione che cresce sull’abitazione di questo dalang al centro della città, è un esercizio mistico (loku) che effettua per aumentare i suoi poteri.

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seguito spesso, venne scritturato per fare uno spettacolo. Bambang era reputato uno dei migliori manipolatori emergenti e era anche buon amico di Surata. Aveva studiato con un importante e anziano dalang, che aveva cercato di impartirgli i più importanti insegnamenti della tradizione. La storia che Bambang stava preparando era un pezzo di storia, vicina alla linea principale dell’epica giavanese del Mahabharata. Ho assistito allo spettacolo fino a tardi (le tre di notte). Bambang stava andando bene per un po’. La scena in cui si rivolgeva al pubblico era molto solenne e si è così rivelato un marionettista che riesce a commuovere quando è solenne. Ma dopo un po’ l’ambiente circostante cominciò ad avere la meglio su di lui portandolo a rispondere alla folla. Spesso si girava a guardare verso il pubblico e rispondeva agli scocciatori con battute sagaci. Verso la metà dello spettacolo tutte le costrizioni erano scomparse e Bambang rappresentò una lasciva scena comica, usando un’arma che aveva forma fallica per una battaglia fra buffoni. Alle percussioni insistenti del gamelan stilizzato (un connubio di gong e di diapason insieme), i pezzi musicali che accompagnavano le scene di battaglia, l’arma diventava il gigantesco pene del clown che batteva gli avversari con stoccate ben posizionate. Non c’è bisogno di dire che ciò era molto apprezzato dalla folla, ma l’anziano insegnante di Bambang non gli rivolse la parola per giorni e si rifiutò di assistere alla sua performance tenuta per la stazione radio qualche giorno dopo. Non penso che la questione sia esclusivamente di tipo vittoriano – le messe in scena che avvengono nei villaggi hanno una storia di tipo dozzinale. Il maestro di Bambang era in disaccordo per il fatto che il dalang più giovane aveva perso la sua dignità e la sua compostezza abbassandosi ai capricci della folla. Questo episodio illustra chiaramente il contrasto fra la raffinata tradizione wayang delle corti solonesi e la tradizione degli spettacoli dei villaggi. All’interno del codice di comportamento comunemente accettato per gli spettacoli wayang di villaggio, si suppone che il dalang venga incontro alle richieste del pubblico. Ma nella tradizione cresciuta sotto l’influenza tedesca degli anni venti e trenta, il wayang era considerato un intrattenimento raffinato ed elegante, non grossolano e dozzinale. Il mentore del giovane manipolatore era stato cresciuto da una donna tedesca, che suo padre – un noto dalang – aveva sposato; il manipolatore più anziano quindi condivideva la visione del wayang che pensava sarebbe stata accettata nelle corti solonesi. Gli spettacoli rebo legi, sebbene non siano eventi performativi tipici, sono sicuramente performance significative nel mondo del wayang solonese. Gli stili innovativi, provenienti dall’area centrale di Giava, si vedono in queste performance e, in seguito, si propagano in altre parti dell’isola. Gli studenti delle Accademie di Belle Arti hanno così la possibilità di osservare una parte di tradizione che non incontrano spesso durante la loro formazione scolastica. Da un punto di vista politico, i manipolatori formano un gruppo ed è perciò più facile per il governo tenerli sotto controllo. Alcuni di loro si allontanano dalle performance rebo legi poiché non apprezzano la stretta connessione dell’ospite sia con il Golkar, la più importante festività indonesiana, sia con la stretta interpretazione dell’Islam.

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Nell’appiattimento o nella rappresentazione della tradizione wayang all’interno delle performance rebo legi, i vecchi modelli vengono sostituiti e la profonda struttura viene abbandonata per lasciare spazio a stili che veicolano un messaggio. Con l’enfasi data alla parte umoristica del dramma e ai movimenti ridicoli della figura, il potere mistico della tradizione viene incanalato all’interno di abitudini più prevedibili. I personaggi che una volta esercitavano autorità e potere, in questo contesto vengono ridicolizzati e le figure dei buffoni, che rappresentano il folklore giavanese, assumono ruoli più prestigiosi e importanti. Questo spostamento di importanza riflette un cambiamento di gusti all’interno della società giavanese e mostra come valori occidentali di uguaglianza e individualismo acquistino maggior rilievo all’interno della vita dell’isola. Gli spettacoli rebo legi sono dinamici e il pubblico li adora. È attraverso le innovazioni osservate al loro interno che si capisce come la tradizione wayang sia ancora viva e vitale e come l’interazione di dalang, folla, pubblico e istruttori dell’ASKI potrebbe conferire nuovi tipi di strutture a questi eventi. I cambiamenti evidenti negli spettacoli rebo legi avvengono all’interno della tradizione orale. Anche se alcuni dalang usano annotazioni o materiali scritti in maniera discreta, questi spettacoli rimangono sostanzialmente di tipo orale. Nuovi stili e tecniche vengono visti e ascoltati; quando una volta chiesi a una vecchia e famosa manipolatrice come avesse imparato la tradizione, mi rispose: “Con gli occhi e con le orecchie”. Ci sono cambiamenti nei movimenti delle figure, cambiamenti nei combattimenti dei personaggi e l’umorismo regna sovrano, ma l’ordine delle scene, le storie, l’uso della musica e la lunghezza della messa in scena rimangono intatte. I dalang rebo legi sono innovativi rispetto a una posizione di totale dominio della tradizione. Se infrangono le regole, ciò avviene perché le conoscono perfettamente. Le leggi che non osservano durante questi spettacoli sono le stesse che venivano rinforzate dalle pratiche dei dalang dei villaggi negli anni venti e trenta, quando l’élite di corte, rispondendo all’influenza tedesca, tentava di promuovere e ricodificare la tradizione wayang. Per questo motivo, quando i marionettisti muovono le loro figure in maniera nuova e irriverente sembrano sfidare l’unico grande potere delle corti solonesi. Gli stili dei dalang popolari dei villaggi che effettuano performance rebo legi possono anche essere di stampo più giavanese, rispetto agli stili della corte di influenza tedesca della tarda era coloniale. Gli spettacoli rebo legi sono moderni nel fare appello alla modernizzazione del pubblico e nel modo in cui includono dialoghi moderni all’interno della performance. Ma niente in queste presenta caratteristiche occidentali. Occasionalmente, verranno invitati a esibirsi dei membri dell’ASKI. Questi proveranno a usare nuovi stili generati all’interno dell’accademia, ma la sala si svuoterà prima di mezzanotte e non prevarrà la solita ilarità. I dalang rebo legi esercitano un’autorità crescente sulla tradizione e ancora, durante questi spettacoli, si può sentire un sottile scontro fra le autorità indiscusse – l’Islam e il governo di Giakarta – e l’autorità tangibile di ogni singolo manipolato-

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re. La conseguenza dei turbolenti anni sessanta è evidente in queste messe in scena e le linee tracciate a quei tempi sembrano avere ancora significato. I dalang sono attenti a usare il loro umorismo in maniera innocua, in modo da non turbare le autorità governative che presenziano a tali manifestazioni. Quando alcuni di questi dalang effettuano le loro messe in scena nei villaggi, la folla che richiamano è impressionante. Una notte, a Sragen, un villaggio fuori dalla città di Solo, si sono radunate circa mille persone intorno alla casa del famoso dalang che aveva chiesto a uno dei suoi più popolari moderni colleghi di effettuare una performance. Così, questi performer si fanno garanti del fatto che la tradizione wayang continui ad avere significato per il pubblico odierno.

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Gli spettacoli padat Il terzo e ultimo stile di performance contemporanea a essere analizzato è il wayang padat, o wayang compresso, che si sta sviluppando nel milieu dell’Accademia di Belle Arti8. Non si può parlare di wayang padat senza menzionare Gendon Humardani, il precedente direttore dell’ASKI e fratello di un defunto generale del governo di Giakarta. Mentre gli spettacoli wayang di una durata inferiore a nove ore sono stati eseguiti per molto tempo, e ogni dalang è capace di accorciare una performance a seconda di quanto necessiti l’occasione, Humardani e il noto autore Sri Mulyono, che avevano studiato insieme a Gadjah Mada, sono conosciuti per l’uso della metafora nel teatro delle marionette come un secchio vuoto con un sottile strato di acqua sul fondo. Credevano che le dimensioni del secchio avessero bisogno di essere proporzionate al suo contenuto (isi) e affermavano che l’essenza del wayang aveva bisogno di essere sezionata e rimaneggiata (digarap lagi) per produrre uno stile performativo più in accordo con i tempi. Dopo aver studiato come dottore in medicina, Humardani ha trascorso diversi anni in Europa ed effettuato qualche visita in America, dove ebbe modo di conoscere le arti performative e gli stili teatrali occidentali. Una recente critica sulla lunghezza, sul linguaggio e sull’arretratezza del teatro delle ombre9 è stata avanzata dall’organizzazione delle arti LEKRA (Istituto di

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C’è una distinzione fatta dall’ASKI fra wayang padat e wayang ringkas. Quest’ultimo (wayang abbreviato) può essere rappresentato nell’arco di tre o quattro ore, ma la struttura base e il contenuto dello spettacolo rimangono simili a quelli della regolare rappresentazione. Negli spettacoli padat le regole vengono infrante, le storie cambiate, i movimenti delle figure sono innovativi e l’accompagnamento musicale può essere specifico. All’ASKI, gli studenti del primo e secondo anno studiano gli stili delle performance tradizionali; durante il terzo anno si occupano del wayang ringkas, insegnato da un anziano marionettista di tradizione; nel corso degli ultimi due anni, studiano il wayang padat, insegnato da un istruttore più giovane e innovativo. 9 J. Kats, Verkorting van den duur der Wayang-Koelit-Vorstelling, Djawa, 1923, pp. 43-45.

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Cultura Popolare) negli anni cinquanta e negli anni sessanta. I cambiamenti tecnici auspicati dai membri del LEKRA includevano un accorciamento della notte wayang, l’impiego di lampade elettriche invece delle tremolanti lampade a olio (che distorcevano le ombre), l’uso di un palco senza il telo, l’introduzione di più di un marionettista (in modo da poter rappresentare la folla) e l’abbandono della necessità di costumi per i manipolatori e i musicisti10. Cambiamenti di tipo più generale promossi dalla LEKRA includevano la possibilità di rendere il wayang giavanese più accessibile a gruppi culturali non giavanesi presenti in Indonesia; riformulare l’interpretazione in modo che potesse soddisfare i bisogni della rivoluzione e dello sviluppo; creare nuovi lakon per accrescere i messaggi politici e allungare le parti riservate ai buffoni. Mentre alcuni degli elementi di questa lista – l’uso della luce elettrica; la riformulazione dell’interpretazione per venire incontro alle esigenze dei messaggi governativi; l’allungamento delle parti dedicate ai clown – sono diventati di uso comune in molti spettacoli di tipo tradizionale, i creatori del wayang padat membri dell’ASKI vedono anche la necessità di una radicale revisione della tradizione. L’uso di più di un dalang da parte dell’ASKI e l’abbandono dell’uso dei costumi per le performance padat ha ricevuto pungenti critiche da performer di stampo tradizionale. I drammi padat creati dall’ASKI promulgano nuove idee e valori che spesso sono in conflitto con le interpretazione dei dalang delle precedenti generazioni. Una delle maggiori differenze, che colloca i drammi padat dell’ASKI in una sezione a parte della lista del LEKRA, sta nell’usare esclusivamente storie wayang di tipo tradizionale per lo sviluppo di questi drammi. Si tratta di storie che molto spesso il LEKRA ha criticato come feudali. Anche le interpretazioni dell’ASKI rinnegano i valori feudali, rivoluzionando il tradizionale collocamento gerarchico delle figure sullo schermo (tanceban). Oggi a Giava, l’ASKI rifiuta qualsiasi associazione con il LEKRA e il Movimento Comunista degli anni cinquanta e sessanta. Come un’organizzazione fermamente associata e sostenuta dal Nuovo Ordine, l’ASKI promuove fedelmente i valori e i programmi dell’attuale governo. Questi valori penetrano anche all’interno dei drammi padat. Questo genere di wayang utilizza drammi scritti recitati a memoria o letti nel corso dell’esecuzione. Gli scritti sono della durata di un’ora o un’ora e mezza (sebbene abbia assistito a uno spettacolo che durava dodici minuti). Nonostante le figure dell’autore e del performer di questi spettacoli possono coincidere, spesso accade che una persona si occupi della parte scritta, un’altra della messa in scena, una terza organizza l’accompagnamento musicale (parte cruciale di ogni performance wayang) e una quarta dirige l’intero spettacolo.

10

R. Mc Vey, The Wayang Controversy in Indonesian Comunism, in M. Hobart, Context, Meaning, and Power in Southeast Asia, a cura di R. Taylor, Cornell Studies on Southeast Asia, Ithaca, New York, 1986, pp. 30-31.

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Se abbiamo detto che il pubblico durante gli spettacoli rebo legi viene spostato, per il padat possiamo dire che è nascosto; fra il 1982 e il 1984, a Giava, non era prevista la presenza di un pubblico che assistesse a queste performance, al di fuori dei membri dell’Accademia di Belle Arti e di chi partecipava alle sue attività11. Le performance padat sono spesso create per essere rappresentate in Europa, quando l’ASKI effettua i suoi tour annuali, e a tutti gli studenti della sezione di marionette dell’accademia viene chiesto di scrivere e rappresentare un wayang padat nel corso del semestre finale. Inoltre gli spettacoli padat vengono presentati ai festival annuali, ai quali partecipano le varie accademie sponsorizzate dal governo indonesiano. Le storie che spesso vengono scelte per il wayang padat sono quelle del Bratayuda, che raccontano la grande guerra dell’epica Mahabharata. Queste stesse storie sono quelle che più spesso vengono evitate nei wayang di tipo tradizionale, perché considerate troppo pesanti da gestire – a esse potrebbero far seguito delle catastrofi, così almeno si crede. Il Bratayuda è anche la più lineare delle storie associate al teatro delle ombre. La scelta di queste storie, credo avvenga per dare maggiore peso agli spettacoli padat, un peso che non può essere raggiunto in altro modo. La concezione di peso viene tenuta in molta considerazione nel wayang, e la parola giavanese usata per definirlo, bobot, rimanda all’heavy dello slang americano. Come abbiamo detto, Humardani, il fondatore del wayang padat, aveva familiarità con le performance di tipo occidentale. Leggeva correntemente l’inglese e conosceva la critica drammatica e la teoria estetica occidentale. Non era d’accordo sulla presenza di umorismo all’interno del padat e le scene riservate ai buffoni dovevano generalmente essere brevi e scarse. Ma ciò che il wayang padat perde in humor, lo guadagna in materia di musica. Questa è acuta, veloce e drammatica. Le musiche del wayang di tipo tradizionale sono più brevi e più romantiche (nelle corti questo timbro musicale non era considerato adeguato agli spettacoli wayang). Le censure contro il repentino cambio compositivo sono state abbandonate per il padat. Altre innovazioni interessanti in questi tipi di performance comprendono cambiamenti nella trama per includere valori più moderni. Così accade nel dramma Srikandi Maguru Manah (Suwarno 1980), nel quale Srikandi (la seconda moglie del nobile eroe Arjuna) impara a tirare con l’arco e diventa la protagonista, uccidendo lei stessa Jangkungmardea, più che Arjuna, come avveniva nella versione tradizionale. Il marionettista Bambang Suwarno creò persino una nuova figura per 11 Bambang Murtiyasa, istruttore dell’ASKI, in un recente articolo ha scritto: “A Sasanamulya, il posto dove l’ASKI era allora situato, spesso allestiamo delle messe in scena per varie occasioni – per fare omaggio a degli ospiti, per ricevimenti, presentazioni di esami, competizioni, festival, performance sperimentali, ecc. – il pubblico è innumerevole ed è limitato ai circoli vicini o a specifici gruppi” in M. Bambang, Kegelisahan Kehidupan Seni Yang Menggelisahkan, cit., p. 2. (tradotto dall’autore).

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tale versione – la figura di una donna che indossava i pantaloni. Anche Humardani chiese ai suoi studenti di avere dei personaggi che si assumessero le responsabilità delle proprie azioni – non avendo più le divinità il permesso di incarnarsi negli esseri umani ed essere la causa delle loro azioni più ignobili12. Un esempio delle innovazioni che possono sorgere nelle messe in scena padat, ci è dato dalla storia Karno Tinandhing, che fu creata da vari membri della sezione di marionette dell’ASKI nella primavera del 1983 per il festival dell’IKI (Istituto delle Arti Indonesiane), che si teneva a Solo. Humardani all’epoca era ancora vivo e la sua intensa energia e il suo spirito riempivano gli spettacoli dell’ASKI. Gli studenti venivano incoraggiati ad apportare delle innovazioni. Le prove erano frequenti e frenetiche. Le composizioni erano giudicate dagli altri studenti e istruttori e venivano effettuati dei cambiamenti. L’intero processo era eccitante ed esilarante, come se Humardani stesse cercando di tirare fuori la creatività dei suoi studenti. Karno Tinandhing (Karno incontra il nemico invincibile), una delle storie più famose del ciclo del Mahabharata, è il racconto tratto dal Bratayuda che narra della battaglia fra il fratellastro Karno e Arjuna, così egualmente simili che è difficile dire quali fossero le differenze. La sezione di marionette dell’ASKI aveva a disposizione venti minuti per la propria rappresentazione. La particolarità di questa stava nell’uso di un grande telo, in modo da permettere alle diverse figure di essere mosse ognuna da un diverso studente, che poteva anche declamare dei versi propri. La lampada veniva spostata ancora più dietro lo schermo, in modo che le ombre si estendessero in maniera più ampia. Le figure usate erano tutto ciò che veniva offerto al pubblico durante le attività di retroscena che erano rozze e vivaci – si vedeva molta gente andare in giro con in mano delle marionette. L’effetto prodotto dall’allestimento, alcune volte era a metà fra quello del teatro delle ombre e quello del cinema (un’immagine suggeritami da Roger Vetter, 1983). C’erano speciali combinazioni di cavalli, cocchi e cavalieri usati per scene di battaglia molto impressionanti. C’erano anche effetti creativi nella scena dello scontro finale fra Karno e Arjuna, quando tre diverse rappresentazioni di questa battaglia venivano messe in scena contemporaneamente – un’immagine più ampia e due più piccole, usando in tutto sei marionette. La musica della performance era anch’essa innovativa e suggeriva la dignità e la sobrietà del canto gregoriano, privo

12 Un interessante esempio di questo si offre nelle due versioni della storia di Alap-alapan Sukeksi (Il Matrimonio di Sukeksi) pubblicato dall’ASKI. Nella versione tradizionale, scritta da Ki Naryacarito (1980), Sukeksi e Wisrawa l’ascetico, che era andato a chiederle di sposare suo figlio, la trova invece sposa di un altro perché i due personaggi vengono posseduti dagli dei Siwa e Durga. Nella versione di Soemanto (1980), il nipote di Naryacarito e capo del dipartimento di marionette dell’ASKI, Sukeksi e Wisrawa si sposano perché si innamorano. Dal momento che l’altezza di un personaggio nella cultura tradizionale giavanese è commisurata al suo controllo delle passioni, un uomo santo che va ad assicurarsi una moglie per suo figlio e poi si innamora di lei e la sposa, sembra uscire dai valori tradizionali.

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di voci femminili. La scena di apertura rompeva le convenzioni nel momento in cui i personaggi si agitavano tutt’intorno, spostandosi dalla loro consueta posizione gerarchica sul telo. Più di un gunungan o albero della vita, come a volte viene chiamata questa figura, veniva usata per creare ombre e spazi e riempire il grande schermo. Infine, tutto lo spettacolo era recitato in lingua indonesiana, così da poter essere compreso dagli studenti delle accademie di Bali e Sumatra. La performance fu ben accolta dal pubblico di studenti e dal corpo docenti delle varie accademie sponsorizzate dal governo, così come dai membri dei gruppi artistici e intellettuali di Solo. Fu un esempio soddisfacente per l’utilizzo dell’isi (contenuto) di una storia tradizionale, passato attraverso il digarap lagi (rimaneggiamento) e presentato in un contesto adatto. Per il giavanese che vi ha assistito, Karno Tinandhing faceva ancora parte delle tradizione wayang. Le realtà di base del wayang – telo bianco, ombre e personaggi ben conosciuti – erano elementi presenti, sebbene il linguaggio, la musica, i movimenti delle figure, la durata e il manipolatore avessero subito uno spostamento. A disposizione del pubblico veniva messa una piccola struttura – era loro negato l’accesso alle attività che si svolgevano dietro allo schermo. La trama della storia era totalmente lineare e si concludeva con la morte del principale eroe epico – la trama in realtà andava in una qualche direzione. Il tono della performance era serio dall’inizio alla fine e per un momento, alla fine della performance, mi sono commossa; sapevo che un grande eroe era caduto. Karno Tinandhing è stata la migliore rappresentazione padat che abbia visto nel corso dei due anni che ho trascorso a Giava13. Gli studenti e gli insegnanti dell’accademia non sono ancora soddisfatti dei loro sforzi per rifinire lo stile padat. In generale, i drammi di questo tipo devono essere liberati dalle costrizioni strutturali della tradizione così come dal contenuto delle storie tradizionali. Se una delle regole del wayang tradizionale dice che le storie che vengono rappresentate devono iniziare e terminare in una corte, il wayang padat non sente più il bisogno di conformarsi a questa regola. Anche il tanceban (la sistemazione delle figure sullo schermo) è stato l’obiettivo dell’innovazione e i personaggi eseguono azioni che fanno abbassare la testa ai marionettisti più anziani. Secondo Alan Feinstein14, in un rappresentazione padat, un giovane marionettista dell’ASKI sostituì completamente nella sua storia la figura di un personaggio con quella di un altro ben noto. Chi sta parlando in un wayang padat, non ha più il peso della tradizione e del consenso generale – ora il consenso proviene da uno specifico autore.

13

Devereaux nota che i marionettisti dell’ASKI hanno modificato lo stile performativo del Karno Tinandhing, in un nuovo genere di spettacolo chiamato sandosa (un anacronismo a spirale per il Wayang Bahasa Indonesia, il wayang in lingua indonesiana). Una o due storie sono state aggiunte e rappresentate nel modo sopra descritto, con testi indonesiani e un gruppo di marionettisti (Devereaux). 14 A. Feinstein, conversazione privata, 25 dicembre 1984.

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A. L. Becker, scrivendo circa dodici anni fa, ha detto del teatro delle ombre giavanesi: “Cambiamenti … radicali potrebbero essere nella trama, nelle costrizioni dello scegliere e dell’ordinare i personaggi e i temi. Altri cambiamenti potrebbero essere nella concezione giavanese di tempo e di azione e cambiamenti epistemologici”15. Trovo il wayang padat profondamente cambiato. Mentre si può dire che gli effetti delle versioni padat sono limitati alle Accademie di Belle Arti, i giovani ragazzi e ragazze che studiano all’ASKI provengono tutti da villaggi e riportano le idee dell’ASKI ai villaggi. Il mio amico dalang Bambang, specializzato in messe in scena rebo legi, che non ha ricevuto una grande istruzione, fa uso delle idee dell’ASKI nella creazione dei suoi spettacoli. In una discussione tenutasi all’ASKI, nel luglio del 1983, alla quale ho assistito, uno degli studenti più grandi chiese: “Abbiamo il dovere di recitare per guadagnarci da vivere o per elevare (membangunkan) gli standard del wayang?”. Allora, Sumanta, capo della sezione di marionettisti dell’ASKI, chiese: “Anda mau menjadi perjuang?” (Vuoi diventare un combattente?). In altre parole stava chiedendo agli studenti se erano abbastanza coraggiosi da introdurre nuove idee per il popolo – con il rischio che potessero essere rifiutate16. Più che sostenitori di una tradizione orale che scorre dentro di loro, il corpo docente e degli studenti dell’ASKI (e non c’è un confine netto fra questi due gruppi – gli studenti diventano il corpo docente e il corpo docente comprende ancora studenti) sono consapevoli di trovarsi fra due mondi. Secondo ciò che dice Bambang Murtiyasa, che insegna all’ASKI, “La collisione con lo sviluppo (pembangwnan) – che oggi è chiaramente orientato verso cose materiali – sta ampiamente influenzando la società. Non possiamo evitare che la nostra società divenga una società di consumatori e di imitatori della cultura occidentale, che viene considerata moderna. Questo sta generando confusione all’interno della società e fra gli artisti, i critici e gli organizzatori. Perché, una parte di noi vuole essere moderna, mentre l’altra parte non vuole essere derubata della propria identità”17. Negli spettacoli padat, il significato strutturato degli stili performativi più antichi viene sostituita dalla linearità18, la spontaneità della tradizione orale sostituita

15 A. L. Becker, Text-Building, Epistemology and Aesthetics in Javanese Shadow Theatre, in A. L. Becker e Aram A. Yengoyan, a cura di, The Immagination of Reality, cit., pp. 211-244. 16 Questo è in tono con il programma governativo che sta provando a concretizzare gli slogan della rivoluzione con il fine del membangunkan desa o ricostruzione dei villaggi, e la promozione del Pancasila, i cinque principi guida dell’attuale governo. 17 È interessante osservare la presenza di parole di tipo occidentale all’interno di un discorso indonesiano: materi (materiale), konsumen (consumatore), modern, kritikus (critico), identitas (identità) – parole particolarmente rappresentative di un modo di parlare occidentale. 18 Benedict Anderson vent’anni fa ha parlato del declino della complessità estetica nel teatro wayang e delle tendenze presenti negli spettacoli dicendo di trovarle sostanzialmente adatte per l’intrattenimento e non educative. Credo che questo declino della complessità possa essere considerato un ritorno agli stili propri degli spettacoli dei villaggi come pure un allontanarsi dalla tradizione rico-

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da un testo fisso e il dramma ricco di significati inserito in una direzione accettabile. L’introduzione degli autori nella tradizione wayang è un nuovo fenomeno che accelera la produzione dei testi fissi. Ciò che il governo non è stato capace di fare per generazioni – controllare le voci dei dalang – sembra stia accadendo attraverso la diffusione delle tecnologie che apportano grandi vantaggi nel raccontare e maneggiare la conoscenza19. Nel wayang giavanese contemporaneo, stiamo vedendo la proliferazione di autori affermatisi all’interno di una tradizione che in precedenza si era servita di autori sconosciuti o che narravano in maniera povera e reinterpretavano storie tradizionali. A Giava, oggi, i giovani dalang stanno iniziando a pensare ai diritti d’autore. Ho ascoltato un gruppo di oratori a una conferenza sul teatro delle ombre, tenutasi all’accademia nel 1983, che si occupava di questi problemi. Le questioni sui diritti d’autore portavano ad altre domande fondamentali sullo sviluppo della tradizione del teatro delle ombre. Ki Caritawijaya, un noto dalang di villaggio, che assisteva alla conferenza, chiese: “Quali sono i limiti di cambiamento nella performance [del teatro delle ombre – ndt]?”20. Si discusse se i manipolatori si offendessero quando altri facevano uso delle loro storie. Il problema di usare i naskah, o testi scritti, di altri performer, si rivelò complicato. In passato, se un artista prendeva in prestito la storia di un altro dalang, doveva rimaneggiarla e reinterpretarla in modo da farla propria. Adesso gli artisti del genere possono memorizzare e recitare il testo di qualcun altro, spesso con un piccolo accordo sulle sue edizioni. Ai manipolatori si può chiedere di lasciare i testi con i quali non concordano. Oggi, agli allievi dell’ASKI che non hanno ancora padronanza delle basi della tradizione, vengono insegnati nuovi stili. Questi studenti stanno perdendo il contatto con gli antichi testi orali che sono stati maneggiati per generazioni. Tradizionalmente, i marionettisti potevano scegliere un testo orale dal repertorio che ricor-

struita delle corti solonesi. Si veda V. Turner, From Ritual to Theatre - The Human Seriousness of Play, Performing Arts Journal Publications, New York, 1982, pp. 54-55, la cui argomentazione sui fenomeni “liminali” e “liminoidi” esplora il passaggio dal rituale al teatro delle società contemporanee. 19 Michael Foucault ha detto: “… l’autore non viene prima dei suoi lavori, è una sorta di principio funzionale grazie al quale, nella nostra cultura, si limita, si esclude, si sceglie; in breve serve per impedire la libera circolazione, manipolazione, la decomposizione e la ricomposizione del testo narrativo […]. L’autore è quindi la figura ideologica per mezzo della quale sottolinea il modo in cui temiamo l’estendersi del significato”. Queste idee sembrano appropriate riguardo alla presenza dell’autore nella tradizione wayang. 20 A. L. Becker parla del confronto fra l’espressione artistica moderna e quella di tipo tradizionale: “Una delle maggiori differenze fra l’espressione artistica tradizionale e quella moderna individualistica è che in un modo tradizionale l’artista sta coscientemente divulgando un testo già esistente, un corpus aperto di letteratura, arte o musica, mentre un artista, il cui scopo è l’auto-espressione, crea e sviluppa un suo testo personale, una sua mitologia, per quanto riesca ancora a trasmettere” in A. L. Becker, Text-Bulding, Epistemology and Aestetics in Javanese Shadow Theatre, in A. L. Becker e Aram A. Yengoyan, a cura di, The Immagination of Reality, cit., p. 228.

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davano a memoria, da usare in differenti situazioni. Con il congelamento dei testi orali e la limitazione delle possibilità stilistiche, gli studenti imparano ad andare avanti con poco. Diventano dipendenti dai loro testi. Il potere del singolo marionettista dell’ASKI si sta affievolendo. Con il coinvolgimento di diverse persone per scrivere, mettere in scena e dirigere i drammi padat, il potere del marionettista si disperde. Nelle Accademie di Belle Arti i testi scritti stanno divenendo più importanti dei dalang che li mettono in scena. La voce del singolo marionettista non può essere sentita all’interno di una performance padat. La voce di un marionettista o di una marionettista si mescola a quella dell’accademia. L’autorità, perennemente presente nelle rappresentazioni dell’accademia, è quella del governo indonesiano e il comportamento e la linea di pensiero di tipo occidentale la rendono più forte. I testi padat segnalano un cambiamento rispetto alla performance orale e alla trasmissione di un sistema dipendente dai testi scritti. Questi sono più facilmente standardizzabili e controllabili. Nei drammi padat sesso, conoscenza e potere vengono visti in termini più individualistici rispetto al passato. Un singolo individuo, più che le divinità o i genitori, può controllare il proprio destino. È interessante come questa tendenza all’individualismo dovrebbe essersi sviluppata in un periodo in cui il controllo del governo indonesiano su sesso, conoscenza e potere sia più persuasivo di quanto lo sia stato in passato. Oggi, in Indonesia, il governo ha lanciato un programma per il controllo delle nascite che si è rivelato intenso e proficuo e che ha guidato i dalang a sostenere il suo messaggio21. L’autorità governativa esercita un controllo sulla tradizione del teatro delle ombre, maggiore che in passato, attraverso il controllo delle storie che vengono rappresentate, con l’inserimento della tradizione all’interno delle accademie sostenute dallo stesso governo e facendo in modo che queste acquistino un ruolo crescente nello sviluppo della tradizione, al di fuori del mondo accademico. Le competizioni di wayang (lomba) sono frequentemente sponsorizzate dalle organizzazioni governative della città o del villaggio – la giuria che presiede a questi eventi è inevitabilmente guidata dall’Accademia di Belle Arti. Il governo effettua anche una supervisione delle storie scelte per le trasmissioni radiofoniche mensili, trasmesse dalla stazione radio nazionale. La protezione che il teatro delle ombre riceve dal governo potrebbe, infatti, ritardare la velocità di cambiamento e mediare le influenze che la moderna educazione e lo sviluppo tecnologico potrebbero avere sulla tradizione22. 21

C. van Groenendael, The Dalang Behind The Wayang, Foris Publications, Dordrecht, Holland,

1986. 22 Anim Sweeney in A. P. L. Sweeny, Malay Shadow Puppets - The Wayang Siam of Kelantan, The Trustees of the British Museum, London, 1980, descrive i recenti cambiamenti all’interno del teatro delle ombre malesi. La velocità di cambiamento risulta più rilevante in Malesia, dove il governo non ha una supervisione sullo sviluppo della tradizione del teatro delle ombre così ferrea come quella esercitata dal governo indonesiano.

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Conclusioni In questo saggio ho osservato i vertici della tradizione wayang nella Giava contemporanea23. Lo spettacolo ruwatan è rappresentativo degli antichi stili performativi e delle strategie di significato – è la performance giavanese per eccellenza. Il rebo legi e il wayang padat sono fra gli stili performativi più moderni. Gli effetti di questi nuovi stili si stanno facendo sentire in tutta l’Indonesia. La creazione di stati d’animo tramite abbellimenti, l’intrecciarsi di esperienze mistiche ed estetiche, allargano la densità del contenuto – tutto sembra essere sostituito da modi occidentali di significato, come le estetiche giavanesi di ispirazione indiana sostituiscono le estetiche di base aristotelica. La durata da un’ora e mezza a due ore, la linearità della trama, i registi, i testi e le prove sono tutte derivate dal teatro occidentale. Il nuovo stile viene sentito come più moderno, più in tono con la vita giavanese contemporanea. Oggi a Giava le delimitazioni imposte dai testi scritti e orali si stanno spostando velocemente. All’ASKI questi testi stanno diventando fissi e standardizzati. Alcuni di quelli appartenenti alla tradizione orale vengono accettati, altri rifiutati. Ciò non è nuovo. Quello che risulta una novità è il fatto che gli insegnanti dell’ASKI stiano imponendo questo processo in modi più rigidi rispetto che in passato. Quando nel XIX secolo le corti tenevano i loro corsi di promozione, gli artisti tornavano a casa, dopo pochi giorni, avendo appreso ciò che desideravano. Nei loro villaggi nessuno era a conoscenza di ciò che avessero imparato nelle corti. Ma oggi, gli studenti sono selezionati in base a come mettono in scena i testi assegnati e i migliori vengono ammessi all’accademia. Diventano, così, pegawai negri, o dipendenti del governo, con uno stipendio garantito a vita. Dall’altra parte, nella sfera pubblica, i limiti imposti dai testi si stanno ampliando. Nuovi testi scritti e orali vengono introdotti nella tradizione. I dalang ora stanno incominciando a familiarizzare con gli scritti del XIX secolo che precedentemente erano nascosti nelle librerie di palazzo. Allo stesso tempo questi uomini di spettacolo inseriscono nel wayang storie che vengono trasmesse dalla TV. Nuove storie, nuove parole, nuovi testi e nuove tecnologie, sono tutti elementi ben accolti. Più che diventare studiosi e dipendenti del governo, i dalang popolari stanno diventando delle celebrità, a volte di livello nazionale. Mentre in passato questi uomini tendevano a vivere al di fuori delle norme sociali comuni, oggi vengono accettati. I genitori che padroneggiavano il potere mistico in passato, oggi vogliono che i loro figli vengano integrati nella società moderna. Ora i manipolatori ricercano una educazione formale. I tre stili performativi qui descritti rappresentano i tipi di performance che co-

23 Si veda W. Keeler, Jawanese Puppet, Jawanese Selves, Princeton University Press, Princeton NJ, 1987, per un eccellente descrizione delle tradizionali performance di villaggio del teatro delle ombre.

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esistono oggi a Giava. Lo stile tradizionale, quello moderno e quello di tipo occidentale si intrecciano, mentre i confini che li separano si espandono in maniera tale che risulta difficile distinguerli l’uno dall’altro. Gli studenti dell’ASKI portano nei villaggi idee occidentali che vengono introdotte nelle messe in scena. I marionettisti rebo legi si uniscono a quelli provenienti dall’accademia e sono invitati da questa a prendere parte a una serie di conferenze e workshop che costituiscono una parte del curriculum dell’ASKI. L’accademia dà impiego a rispettabili dalang di tipo tradizionale per insegnare nei primi anni di corso e gli artisti più innovativi presenti in accademia sono spesso i figli di famosi manipolatori di stampo tradizionale. L’esistenza di tutta questa attività rivela la persistente popolarità del wayang proiettando il ricco e complesso legame con le generazioni successive.

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Le marionette birmane: Yokthe Thay in transizione di Kathy Foley

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“Asian Theatre Journal”, vol. 18, n. 1, University of Hawaii Press, Spring, 2001, pp. 69-79

Il teatro delle marionette birmane è stato un valido intrattenimento per le corti accessibili al pubblico anche fino al 1950. Una rinascita di quest’arte si è verificata grazie alle marionette di Mandalay e una sezione del Teatro di Marionette è stata istituita a Yangon (Rangoon), presso l’Università della Cultura. Nazionalismo e turismo sono due elementi correlati che favoriscono il ritorno a questa importante forma d’arte del Myanmar. Kathy Foley è professore di Arte Teatrale presso l’Università della California a Santa Cruz, dove è rettore del Porter College. Il teatro tradizionale delle marionette di Myanmar (Birmania), lo yokthe thay, sperimentò un duro periodo di declino dalla II Guerra Mondiale fino al tardo 1980, quando qualcuno affermò che l’arte stava per scomparire1. Nell’Agosto del 1998, comunque, ho riscontrato una rinascita del teatro di marionette birmane ma in un contesto nuovo. La mia intenzione in questa breve relazione è quella di analizzare lo yokthe nel suo primo milieu e discutere sull’attuale struttura di uno spettacolo di marionette del Myanmar, mostrando come, nel momento in cui il tradizionale sistema di patrocinio dell’arte è venuto meno, le forze moderne del turismo e del nazionalismo hanno proposto la rinascita del genere. Spero di dimostrare come il caso dello yokthe sia rappresentativo della situazione di altri generi del sud-est asiatico e di come le arti effettuino un passaggio dall’era coloniale a quella post-coloniale. Con l’emergere dei moderni stati-nazione in quelle che precedentemente erano aree colonizzate, le arti tradizionali tendono a crollare con il cambiamento politico e sociale che l’auto-determinazione e lo sviluppo economico incoraggiano. Quando ciò avviene, i bizzarri sostenitori del consumismo turistico e dell’ideologia nazionalista cospirano insieme per rinvigorire l’arte tradizionale. Queste forze, tuttavia, implicano una migrazione del genere dall’arte folkloristica o

1

La translitterazione del termine yokthe thay varia, includendo anche yoke thay (Ma Thanegi, The Illusion of Life: Burmese Marionettes, White Orchid Books, Bangkok, 1994) e yokthe pwe (N. F. Singer, Burmese Puppets, Oxford University Press, Singapore-Oxford-New York, 1992).

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da quella di corte a una urbana di classe media, i cui fautori guardano con nostalgia a un passato locale mentre, simultaneamente, usano il genere per evocare un’identità nazionale in un mondo dove la cultura viene consumata come un lusso sia dal pubblico locale che dai visitatori stranieri.

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Lo spettacolo tradizionale Yokthe significa bambola. Marionette approssimativamente alte da cinquanta a novanta centimetri2 vengono fatte danzare con l’accompagnamento di un’orchestra sai wang 3 mentre una serie di scene iniziali e diverse storie, basate per la maggior parte sulle jataka (storie delle vite precedenti del Buddha) vengono cantate4. I maggiori esecutori del genere, in ordine di importanza, erano i cantanti che eseguivano le partiture vocali, i marionettisti e i musicisti. Nel periodo Kombiong (1752-1885) un ammontare di quaranta artisti potrebbe essere stato coinvolto in un unico spettacolo a corte con diversi cantanti che davano voce a specifici personaggi e con grandi marionettisti che manovravano solo una parte dell’intero gruppo di marionette5. Mentre gli studiosi birmani fanno congetture sul fatto che il teatro di marionette sia antico quanto il regno birmano di Pagan dell’XI secolo, il primo documento che si riferisce a questo tipo di teatro risale al 1444. Un’inscrizione su pietra di tale data elenca i nomi di artisti di marionette insieme ad altri generi di artisti consacrati al tempio di Hutupayone di Sangaing dal re Nagapati. Poemi e resoconti del festival del tempio dal quindicesimo al diciassettesimo secolo fanno luce sul

2

Le figure del Mandalay misurano circa questa grandezza mentre quelle di Rangoon sono più piccole. 3 Il sai wang è un complesso musicale tipico del sud-est asiatico caratterizzato da un tamburo circolare (pat waing) e varie armonie di gong. Questo complesso include un gong di bronzo circolare (kye-naung waing) e un gong di bronzo semplice (maung waing). Altri tamburi (il grande pat-ma, sei piccoli chauk-lone-pat e un tamburo a bacchette, si-doh), cimbali (il grande yagwin e il piccolo than lwin), batacchi (wa-lek-koke), un flauto (wa-palaway) e un oboe (nhai) completano il complesso. 4 Tradizionalmente, venivano rappresentate occasionalmente anche cronache storiche e i marionettisti contemporanei hanno creato nuove storie – come la sconfitta della Birmania sotto la Gran Bretagna nel diciannovesimo secolo, che è stata rappresentata dalla compagnia Dagon Aung di U Ye Dway nel 1970. Si veda Ma Thanegi, The Illusion of Life: Burmese Marionettes, White Orchid Books, Bangkok, 1994. Le jataka costituiscono ancora il repertorio principale. 5 Sia i cantanti che i marionettisti si specializzavano in particolari tipi di personaggi. Il cantante che dava voce al personaggio della principessa e il marionettista che manovrava questa raffinata figura femminile potevano anche rappresentare le apowdaw (devote nat) e altri raffinati personaggi femminili necessari al brano. Nella pratica corrente questa specializzazione è rara e il marionettista può allo stesso tempo sia cantare che manovrare personaggi femminili e maschili spostandosi da uno all’altro così come richiesto dalla storia.

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fatto che il teatro di marionette con fili costituiva un’importante parte della vita culturale birmana. Questo venne incluso fra gli intrattenimenti durante i quali venivano ospitati gli emissari europei, e ciò era motivo di prestigio per la corte reale. Ma per i particolari sull’allestimento dello spettacolo, sono necessarie le documentazioni del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Il teatro di marionette del Myanmar, come in altre parti del sud-est asiatico, era un’arte fortemente apprezzata che superava qualsiasi rappresentazione con attori. Per questo motivo i ministri che si occupavano degli spettacoli di corte, progettati dai monarchi birmani, posero molta attenzione allo yokthe negli editti. Nel 1776 il ministro delle arti drammatiche U Po Phyu e il ministro deputato U Toke emisero delle leggi per i danzatori, le alte arti drammatiche (marionette), le basse arti drammatiche (teatro), le canzoni e la musica6. Il teatro di marionette venne chiamato alta arte drammatica dal momento che poteva essere rappresentato su un palcoscenico rialzato laddove la danza dei danzatori, la musica e le altre rappresentazioni teatrali dovevano essere rappresentate sul suolo. La causa di questa restrizione è connessa alla gerarchia dello stato. Recitare su un palcoscenico rialzato implicava che le marionette (e di conseguenza i marionettisti) si sarebbero trovati in una posizione sopraelevata rispetto al sovrano. Una tale violazione della gerarchia non era consentita agli altri generi performativi, ma per una migliore visuale anche il monarca acconsentiva a trasgredire le regole che impedivano alle persone di basso rango di posizionarsi in maniera superiore rispetto a quelle di rango più alto. Inoltre, questo antico editto stabiliva che le marionette che rappresentavano un re o un monaco non potessero indossare un costume realistico, perché ciò poteva implicare irriverenza verso queste due fondamentali istituzioni che collaboravano al controllo del regno. Ma la passione per le marionette comportò nel 1821 proprio l’eliminazione di queste regole del decoro quando fu ministro delle arti drammatiche U Thaw sotto il re Bagyidaw. Da allora la marionetta che raffigurava il re divenne un’accurata miniatura del monarca, completa di placca d’oro sulla fronte, pantofole, pugnale, scaccia mosche e ombrello bianco. Il repertorio era costituito dalle jataka, storie e fiabe. Le offerte di noci di cocco, banane, monete e la sequenza di apertura, in questo editto, vennero regolate in una maniera che corrisponde alla pratica attuale. Venne inoltre stabilita la riserva di certi privilegi alla compagnia personale del monarca (per esempio, due complessi musicali e diverse insegne di fronte al palcoscenico)7. Sebbene negli editti emanati dalla corte in questo periodo si certifica l’esistenza di trentasei marionette per un solo set, la maggior parte delle compagnie oggi, come nel diciannovesimo secolo, ha un nucleo di circa ventotto figure. Queste pos-

6 7

Ma Thanegi, The Illusion of Life: Burmese Marionettes, cit., p. 18. Ma Thanegi, The Illusion of Life: Burmese Marionettes, cit., pp. 18-20.

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sono essere divise in tre gruppi: animali; divinità e figure mitologiche; ed esseri umani: 1. I sette animali sono cavallo, elefante, tigre scimmia, pappagallo, naga (drago/serpente) e garuda (uccello/aquila)8; 2. Successivamente ci sono le tre (o più) divinità e creature mitiche che comprendono due orchi e almeno un deva (dio); 3. I sedici o più esseri umani comprendono un alchimista, un nat (spirito) devoto, quattro ministri, un re, due regnanti, un astrologo, un eremita, una dama d’onore, un principe e una principessa e due buffoni. Spesso fra questi erano anche inclusi un paggio, un vecchio scapolo e una zitella. Poche compagnie usavano esattamente le stesse marionette, ma i set più antichi erano già consistenti. Lo sviluppo dello spettacolo che durava tutta la notte (e spesso più notti) procedeva da un’apertura semi-rituale alla presentazione di una storia specifica. Una rappresentazione tradizionale veniva spesso allestita all’interno del festival di un tempio. Prima dell’inizio della rappresentazione veniva preparata un’offerta per i trentasette nat, gli spiriti birmani locali e per gli antenati. Una musica introduttiva di sette cimbali simboleggiava la creazione dell’universo e la sua successiva distruzione con vento, fuoco, e acqua. La prima figura ad apparire sulla scena era quella di uno spirito medianico femminile (natkadaw), che rende omaggio al palcoscenico, e quelle di spiriti che danno il benvenuto al pubblico con motivi musicali ispirati alla pratica religiosa animistica della regione e cantati dai solisti. In seguito, per rappresentare la foresta, venivano piantati sul palco tre rami presi da alberi sacri propiziatori. Seguivano una serie di episodi riguardanti animali e creature mitologiche: uno scontro fra naga e garuda; il combattimento fra due orchi chiamati Yeikha e Goban – l’orco della città e l’orco della foresta; una scimmia che saltella; un combattimento fra un elefante e una tigre; un cavallo al galoppo. Infine un alchimista (zawgyi) frantuma la sua medicina, poi, sollevandosi dal suolo, danza con spettacolari giravolte – l’apice della presentazione. Spettacolari manovre e acrobatici trucchi con le marionette impressionano gli osservatori. Questa sequenza rituale, che dà inizio a ogni spettacolo, non ha nessun legame con la storia che viene presentata. Al contrario evoca le forze cosmiche ed elementari della natura che si nascondono nel mondo. Sebbene in maniera diversa dalle introduzioni rituali di altri generi di teatro di marionette del sud-est asiatico, la sequenza mostra una considerevole coerenza strutturale con generi come il wayang kulit giavanese (teatro delle ombre) o il wayang golek purwa sudanese (marionette manovrate tramite bacchette di legno). In questi due generi una figura che rappresenta un albero esegue la danza iniziale e quella simboleggiante la distruzione del cosmo (corrispondente alla sequenza introduttiva birmana e all’azione del piantare in scena i rami degli alberi). Successivamente una marionetta di una figura femminile esegue una danza mentre una cantante rende omaggio agli antenati – coinvol-

8 Naga e garuda sono animali mitici che nella mitologia indiana sono figli di due sorelle. I due cugini lottano l’uno contro l’altro per la conquista dell’amirta, il nettare della vita eterna.

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gendo anche spiriti e membri del pubblico – in una maniera che corrisponde alla danza e al canto della natkadaw. Il tema dello scontro fra gli animali è simile all’apertura del teatro delle ombre tailandesi (nang yai) dove due scimmie, una nera e l’altra bianca, sono impegnate in un combattimento. Tale scontro fra animali rappresentanti la luce e quelli rappresentanti le tenebre è anche una caratteristica del teatro delle ombre malese e di quello cambogiano. Pertanto questa sequenza introduttiva definita Himalaya, mentre risulta un caso particolare per lo yokthe birmano, ha molte caratteristiche in comune con rituali introduttivi del sud-est asiatico. La storia viene collocata in un tempo cosmico, il tempo in cui sta per avere inizio la creazione del mondo. Ciò collega il genere alla propria discendenza e alla comunicazione spirituale attraverso l’introduzione che ha inizio con l’ingresso della danzatrice. E, in seguito, la battaglia simbolica degli animali, implica che la storia rappresentata avvenga attraverso una struttura di lotte eterne che trovano il loro equilibrio nella pratica artistica. La foresta selvaggia viene allora sostituita dalla regalità del palazzo al momento dell’ingresso dei ministri (wun), che fornisce in forma sinottica agli spettatori le informazioni delle quali necessitano per comprendere la storia rappresentata. Quindi, ha luogo una marcia reale e il re fa il suo ingresso in modo che la storia possa avere inizio. Questa corrisponde all’inizio della scena di corte nel wayang giavanese e sudanese e – comunemente agli altri generi di spettacoli di marionette del sud-est asiatico – sottolinea il punto in cui lo spettacolo si sposta dal genere rituale introduttivo ai particolari che introducono la storia. L’editto di corte del 1821 descrive in dettaglio questa sequenza introduttiva, e la stessa struttura si ripropone nelle descrizioni dello yokthe dal tardo diciannovesimo secolo sino a oggi. La distruzione britannica della monarchia birmana nel 1855 portò alla morte dell’ultimo re esiliato nel 1878. Con la fine del mecenatismo della corte, le costrizioni all’interno del mondo dello yokthe crollarono. Là dove solo la compagnia del re poteva avere due orchestre e sfoggiare i sei sigilli che indicavano lo status della Grande Compagnia Imperiale; là dove importanti letterati usavano il mezzo marionetta per trasmettere messaggi subliminali all’interno delle complicate relazioni interpersonali di palazzo; là dove le compagnie composte da più di quaranta elementi potevano essere sovvenzionate a spese della corte – adesso gli uomini di spettacolo si trovavano a operare nei villaggi senza le costrizioni tipiche della corte. Le compagnie erano libere di aggiungere un numero maggiore di insegne, di ingrandire l’orchestra, manipolare i testi per adattarli ai gusti del pubblico del villaggio, o presentare spettacoli con tutta la manodopera maschile (e femminile se cantanti donne introducevano il genere) che riuscivano a mettere insieme. Malgrado la minaccia del cinema, il genere è rimasto popolare fino al 1940. Nel dopoguerra, la lotta socio-economica del moderno Myanmar, i continui scontri con gruppi insurrezionali e l’innovazione della televisione hanno influenzato quest’arte. Nel tardo 1970 ci fu un piccolo reclutamento di giovani artisti specializzati nel genere e i festeggiamenti nei templi sponsorizzavano spettacoli di yokthe sempre più di rado.

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I maestri di marionette, i cantanti e i musicisti smisero di essere apprezzati, e grandi maestri come Shwebo Tin Maung, che avevano rappresentato quest’arte nella prima metà del secolo, se ne andarono.

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Lo spettacolo moderno Nel tardo 1960 i membri della classe colta che ben ricordavano lo yokthe dei loro tempi iniziarono a cercare aspetti particolari del genere. Benché gli spettacoli fossero rari, molti praticanti erano ancora attivi. U Thein Naing nel 1960 incominciò a fare delle ricerche, portando con sé sua figlia Ma Ma Naing di diciasette anni per farle fare delle interviste. Poteva tenere delle lezioni su questa arte sponsorizzate dal Dipartimento della Cultura del Governo. Kin Maung Khi di Mandalay, nel 1970, intraprese una ricerca sulla costruzione delle marionette e già nel 1980 era diventato una nota autorità nello studio della loro struttura, creando nuove figure e mettendole a disposizione dei membri della classe media di Mandalay che stavano cercando di far rivivere quest’arte. La ricerca operata da queste persone fu intrapresa con la coscienza che questo genere teatrale fosse in via di estinzione. Non molto tempo dopo le compagnie avevano abbastanza membri per montare uno spettacolo in maniera completa. I marionettisti, i cantanti e i musicisti vennero mantenuti ma la loro arte non venne esercitata. Nel 1991 Ma Ma Naing, che da giovane, accompagnando suo padre, aveva ascoltato distrattamente le interviste su quest’arte ormai sorpassata, si era trasferita a Mandalay dove insegnava inglese e lavorava in un negozio che riforniva il settore turistico. Le marionette erano diventate degli articoli molto vendibili. Ma Ma Naing in un intervista, dichiarò che si sentiva “imbarazzata nel dire ai turisti che non era in grado di manovrare le marionette”9. Lei e suo marito U Than Nyunt, che lavorava come autista e guida turistica, insieme al gioielliere U Om Maung e ad altre persone ispirate dalla ricerca di Kin Maung Khi, formarono un gruppo che faceva pratica ogni notte. Nell’arco di un anno il gruppo aveva aperto un piccolo teatro dove, con il nome di Marionette di Mandalay, faceva spettacoli per i turisti. Il gruppo ha raddoppiato lo spazio per ospitare il pubblico straniero e, nell’alta stagione, effettua due repliche per serata. Mentre gli spettacoli per turisti rappresentano un significativo aiuto economico per lo sviluppo del gruppo, contemporaneamente ha iniziato a realizzare delle dimostrazioni per le scuole locali e per le festività dei templi. Nel 1995, U Than Nyunt propose al Ministero della Cultura che il teatro di marionette venisse incluso fra le altre arti nella competizione per le medaglie d’oro che si svolgeva ogni ottobre a Rangoon. La proposta venne accordata e, quell’anno, il loro maestro, U Pan Aye, risultò vincitore. Sebbene que-

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Intervista del 16 luglio 1998.

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st’artista in gioventù fosse solo un marionettista, nelle performance con le Marionette di Mandalay cantava e muoveva le figure allo stesso tempo. Il gruppo rivendicava l’influenza di Shwebo Tin Maung, noto uomo di spettacolo di Mandalay, morto nel 1975. I musicisti sono stati reclutati fra uomini che nella prima parte del secolo facevano parte di compagnie di marionette. Venne chiamata gente giovane a far parte dell’orchestra e a imparare il repertorio musicale tradizionale. Oggi, quando il gruppo ottiene un’importante ingaggio, è in grado di offrire una performance completa a tutti gli effetti che coinvolge quaranta persone. La consueta presentazione serale prevede scene della sequenza introduttiva dell’Himalaya con l’aggiunta della scena del minta (principe) e della minthamee (principessa) – una lunga dimostrazione di canto e danza che coinvolge i due innamorati e i due clown. Questa scena, chiamata myaing hta hna pa thwar (passo a due) è una delle parti principali della performance teatrale birmana e lascia ampio spazio all’improvvisazione. Per le festività del tempio e per gli spettacoli su commissione, le Marionette di Mandalay si avvalgono di cinque drammi: Sadan Sin Min (Sadan L’Elefante), Byatwi Byata, Veithandra (Il Re Veithandra), Widura (Il Vecchio Saggio Widura), e Buridat (Il Drago Buridat). Mentre l’intero gruppo può allestire spettacoli su ampia scala, le loro performance tradizionali vengono effettuate solo da un piccolo gruppo di marionettisti che canta e dà voce ai dialoghi dei personaggi. Quindi, in queste presentazioni contemporanee, marionettista e cantante coincidono con un unico artista. Nel 1998, il gruppo stava preparando una nuova storia per la competizione di ottobre ma fu concesso che solo quattro marionettisti e tre cantanti dessero vita a un totale di ventiquattro personaggi. Provarono per tre mesi costruendo marionette e sviluppando la storia traendo spunto dal testo classico. Cinque compagnie si riunirono per contendersi la medaglia d’oro. Nei primi anni di competizione i gruppi presentavano solo scene prese dall’introduzione rituale e dal duetto del principe e della principessa. Con la richiesta, nel 1998, di una storia completa per la competizione, il Ministro della Cultura cercava di elevare la grandezza dell’evento per far fronte a un più alto livello di domanda e stimolare così le capacità dei gruppi partecipanti. Mentre le Marionette Malesi fanno capo a una sola compagnia, poiché fanno affidamento sul turismo, probabilmente effettuano messe in scena molto più spesso di quanto facciano altri gruppi. Attualmente le compagnie attive sono Zaw Gyi Pyan Sayar Hla e Nyaung Oo Pho Cho (a Pagan) e U Ye Dwei, U Sein Tun Kyi e U Nan Nyunt Shein (a Rangoon). Un’altra innovazione che assicura la sopravvivenza dell’arte è stata la creazione, presso l’Università della Cultura, di una sezione dedicata allo yokthe thay. L’Università è stata fondata il 24 settembre 1993, ed è stata spostata in un nuovo campus alla periferia di Rangoon, nell’agosto del 1996. La scuola è stata segnalata dal Dipartimento di Belle Arti, sotto il patrocinio del Ministero della Cultura. Tale Istituzione è stata fondata per la conservazione, la divulgazione, la ricerca e l’esercizio delle arti. Il programma riguardante lo yokthe thay è compreso all’interno del Dipartimento di Arte Drammatica, che include nel suo corso anche lo zat (spetta-

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colo teatrale danzato), danza e coreografia, drammaturgia, regia e yokthe thay. Attualmente, più di trenta studenti studiano teatro di marionette. Nel luglio del 1998 la Facoltà che si occupava di quest’arte ha incluso U Aung Toe, U Kyi Tin e Daw May Yi. Gli allievi studiano teatro tradizionale, danza, coreografia, musica drammatica, drammaturgia, regia e yokthe. A tutti gli studenti di arte drammatica viene imposto lo studio dello yokthe per tutti e quattro gli anni ma alcuni lo scelgono spontaneamente come principale argomento di studio. Quelli che si distinguono in questa materia hanno la possibilità di rimanere a fare da tutori a un gruppo di studenti principianti. Un documento scritto come presentazione per una conferenza tenuta nel 1998 nelle Filippine da un neo-laureato e attualmente tutore del programma, U Khaing Htun, esprime chiaramente l’ideologia nazionalista che si trova dietro il programma di studio del teatro di marionette. Egli afferma che tale arte contiene una “tradizione anti-imperialista e di liberazione nazionale… Possiede la capacità di contribuire all’arginamento dell’invasione della cultura decadente, riformando le caratteristiche morali dei giovani e consentendo lo sviluppo della cultura nazionale”10. Il tono retorico usato in tale affermazione riflette l’ideologia vis-à-vis del governo militare, tipico della cultura occidentale. Il sostegno alle arti tradizionali può essere visto come un impegno a mantenere le idee indigene in opposizione alle immagini edonistiche divulgate dai moderni media. Il teatro di marionette, così come viene considerato dall’Accademia, è legato al Buddhismo birmano, che è sostenuto dal governo come baluardo contro le influenze moderne. Il documento firmato da U Khaing Htun effettua un paragone fra le ventotto marionette e le ventotto rupa (forme fisiche) menzionate nell’Abhidharma (incluse nel terzo canestro del Tripitaka, i tre canestri dell’insegnamento buddhista). Secondo questa interpretazione, i quattro Ministri simboleggiano i quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco) della cosmologia buddhista. La dimostrazione presentata dagli studenti del corso avanzato di Teatro di Marionette a un gruppo di studiosi occidentali, comprendeva scene prese dalla tradizionale parte introduttiva dello spettacolo (la nat devota, l’alchimista, la scimmia, il cavallo) seguita da una spettacolare parata che coinvolgeva venti manovratori, rappresentante una scena di villaggio nella quale dei giovani celebrano il loro ordinamento come monaci buddhisti. I giovani monaci cavalcavano splendidi destrieri e venivano celebrati da un’orchestra, parenti entusiasti e amici. I militari e i sangha (i monaci incappucciati) sono le due forze che oggi controllano le attività politiche in Birmania. È chiaro che l’attuale Ministero della Cultura sta adattando il programma formativo rivolto ai docenti che si occupano di marionette moderne in termini politici e religiosi che sostengano i fini nazionalistici del Governo. Sebbene solo di recente tale programma abbia prodotto dei diploma-

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U Khaing Htun, Burmese Marionettes, manoscritto, 1998.

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ti, questi sono già al servizio del Ministero della Cultura e insegnano in diverse parti del paese. Presumibilmente continueranno a esplorare la tradizione delle marionette, proponendola come antidoto alle immagini divulgate da MTV che si diffondono dalla Malesia al sud dell’India fino all’est. L’istituzione, nel 1993, di un programma che si occupa delle marionette, può essere considerato come una parte della campagna del Ministero della Cultura che tende a esortare i giovani artisti a un ritorno al passato per lo sviluppo del futuro delle arti birmane. L’iscrizione annuale di nuovi studenti assicura la continuazione di un’arte che è stata prematuramente considerata estinta. Mark Twain una volta affermò scherzosamente: “Le notizie sulla mia morte sono estremamente esagerate”. Allo stesso modo, l’estinzione dello yokthe è stata prevista in maniera prematura. Grazie alla domanda turistica di esibizioni e alla ricerca di un modello artistico nazionale, quest’arte continua a vivere. Nazionalismo e turismo Lo studioso che scrive sulle performance asiatiche contemporanee, tende a prendere in considerazione alternativamente due tropi. Il primo consiste in una felice storia di trasformazione da un passato coloniale a un’esistenza post-coloniale. Secondo questa lettura, il popolo indigeno oppresso si libera dal giogo dell’oppressione intellettuale, abbandonando Shakespeare, Molière, Warhol o qualunque grande artista che possa rappresentare la contemporanea egemonia economico/artistica. Gli artisti del luogo, in questi scritti rivendicano le loro pratiche locali, cancellando le eredità coloniali che possono essere sopravvissute per centinaia di anni. Definisco tali scritti interpretazioni letterarie post-coloniali. Il lavoro di Jim Clifford ha aiutato a definire alcune di queste interpretazioni letterarie, e io stessa mi sono più volte occupata del lavoro di drammaturghi contemporanei di Indonesia, Malesia o Thailandia e di come essi considerano e definiscono il proprio lavoro una pratica artistica che trae ispirazione da fonti locali. Ad esempio, il teatro di marionette wayang e il teatre rakyat (teatro popolare) sono strumenti tramite i quali i drammaturghi indonesiani affermano come la loro ispirazione si distanzi da modelli europei e americani. Il secondo tropo consiste nella categoria neo-coloniale dell’arte turistica e nella corrispondente situazione per la quale artisti e pensatori moderni considerano New York, Londra o Parigi centri culturali valutando la propria arte in maniera marginale, fino a quando potrà essere legittimata dall’interesse di queste capitali artistiche occidentali. Secondo questa interpretazione il produttore (lo scultore indigeno/l’artista contemporaneo) ha semplicemente trasformato un’oppressione (politica) in un’altra (economico/intellettuale). Questa interpretazione dell’arte è meno popolare negli studi post-moderni e viene solitamente utilizzata per criticare il turismo, considerato come il verme che divora il cuore dell’arte del Terzo Mon-

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do. Secondo tale lettura, le arti locali, derivanti da una pratica primitiva, vengono mostrate negli hotel turistici, dove marionettisti demotivati muovono le marionette per invogliare l’osservatore ad acquistare ciò che gli scultori producono in serie e in modo veloce, per l’apparente desiderio smodato dei turisti. La tradizione locale si manifesta in oggetti standardizzati, che i turisti portano a casa. Una marionetta birmana diventa un simbolo di Myanmar, posseduta eternamente da magiche alchimie, impassibile come decoro sulla parete della casa di un turista, ad affermarne lo status di viaggiatore. Secondo l’intellettualismo coloniale che difendiamo per una classe privilegiata di moderni artisti, al performer del Terzo Mondo manca, diciamo, la piena consapevolezza dell’importanza del suo lavoro se non legittimato dall’imprimatur mondiale dell’arte occidentale. Una volta che gli artisti del Terzo Mondo hanno rappresentato la loro performance o hanno esposto il loro lavoro in una capitale occidentale, gli osservatori locali dovrebbero, dapprima, concedere loro un’ampia attenzione, poi, una volta che viene scritto di loro sul “NewYork Times”, possono dire con fiducia che si tratta di veri artisti. Quante immagini raffiguranti la strega maligna Rangda ho visto esposte su pareti delle abitazioni di amici che avevano fatto un viaggio di due settimane a Bali? Quante volte mi sono stupita se riuscivano a comprendere che l’immagine rappresentante la dea delle tenebre, con la quale avrebbero vissuto ogni giorno, ora costituiva l’elemento portante del loro decoro California Nouveau? Quante volte ho visto artisti indonesiani pieni di talento fare a gara per piccoli posti limitati nei tour per stranieri – pur sapendo che Giakarta ha molte più possibilità, sotto l’aspetto turistico, di stupire il mondo occidentale? Gli scrittori che si occupano delle arti del sud-est asiatico, me compresa, tendono all’una o all’altra presentazione che sottolinea o l’indipendenza post-coloniale degli artisti o, al contrario, una loro dipendenza neo-coloniale. Ma, in realtà, le due tendenze sono intrecciate. Est e ovest sono essi stessi dei costrutti culturali che semplificano lo strano evento dell’interdipendenza dei nostri sistemi. Le modificazioni comuni e la ricerca di caratteristiche nazionali cono correlate fra loro. Sebbene gli studiosi occidentali, così come quelli del posto, siano soggetti a scegliere un’interpretazione funzionale a momentanee posizioni politiche o ideologiche, i due modelli sono di fatto simbiotici. Gli artisti che praticano le arti in maniera tradizionale, generalmente appartengono a un ceto sociale basso e, probabilmente, per ragioni economiche, si rivolgono a un pubblico turistico11. Questi adottano li-

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La domanda turistica spesso genera figure di marionette che si allontanano dal modello locale. I turisti hanno imparato a pensare che ciò che è antico ha più valore, ad esempio gli artigiani che costruiscono le marionette del sud-est asiatico dalla Birmania a Sunda dipingono figure nuove in modo da dar loro un’apparenza antica. Sebbene, molto spesso, i turisti pagherebbero di più per marionette che indossano intricati lustrini, lavorati da tappezzieri birmani, i marionettisti non userebbero mai tali figure durante lo spettacolo a causa del loro peso eccessivo. Ma ciò che brilla produce oro, e per l’arte turistica il denaro è diventato la madre dell’innovazione.

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beramente forme di spettacolo tradizionali per venire incontro alle richieste degli stranieri, abbracciando i benefici materiali che tali modificazioni comuni alle loro arti comportano. Nel frattempo, l’alto ceto sociale e gli artisti sostenuti finanziariamente dal governo che conducono una vita basata sul modello occidentale, dopo essersi garantiti una maggiore agiatezza economica, ritornano al passato occupandosi delle arti tradizionali come alternativa alla loro occidentalizzazione. Infatti, gli artisti che operano nelle città prendono in prestito forme espressive dagli artisti che operano nei villaggi e usano tali pratiche in maniera rinnovata in modo da rivendicare le caratteristiche nazionali in opposizione alla modernizzazione. Entrambe le reazioni sono nate dall’incontro delle une con le altre. I gruppi che si occupano della rinascita dello yokthe cercano riscontri sia in patria che all’estero. Le Marionette di Mandalay usano i fondi provenienti dagli spettacoli per turisti per investirli negli spettacoli dedicati a un pubblico locale – durante le competizioni e per le festività del tempio. Il gruppo è stato in visita a Singapore e nel 2000 effettuerà una tournee in Europa e negli Stati Uniti. Gli artisti dell’Università della Cultura hanno notato che di frequente effettuano performance per diplomatici e stranieri e solo occasionalmente fanno tournée all’estero, per rappresentare il paese. Gli spettacoli all’estero e per visitatori internazionali consolidano l’apprezzamento locale dell’arte come prodotto nazionale e distintivo – degnamente sostenuto dai fondi del governo. Ciò che si riscontra nel tradizionale teatro di marionette birmane è una consapevole tendenza da parte degli artisti locali a utilizzare entrambe i sistemi per guadagnarsi da vivere e per conservare e far crescere l’arte. Da quanto ho potuto osservare in tutto il sud-est asiatico, trovo che questa strategia post-moderna di allargamento verso due pubblici – quello locale/nazionale e quello turistico/internazionale – sia la norma. Gli artisti si rendono conto di mostrare il loro spettacolo sia a un pubblico nazionale che a uno internazionale. È in gioco la sopravvivenza della loro arte. Gli artisti di Mandalay sostengono che se non esistesse la domanda turistica, il teatro di marionette come arte performativa nella loro città non potrebbe essere conservato. Gli spettacoli per turisti costituiscono il punto di incontro nel quale le Marionette di Mandalay avviano il processo di crescita artistica ed economica. Ciò fornisce una base che permette ai leader nel settore di commissionare e ampliare spettacoli per i festival nazionali, fornire materiale di consultazione per gli studiosi e mantenersi attivi in modo tale che, quando vengono chiamati per il festival di un tempio, hanno un repertorio a loro disposizione. Un progetto nazionale sottolinea l’intento della classe alta nell’avviare la rinascita del genere usando i performer dei villaggi come docenti e informatori. L’istituzione di un programma formativo di quattro anni implica una serie di appuntamenti più sentitamente nazionalistici. Marionette, danza e musica costituiscono strumenti utili per dimostrare l’esistenza di un’estetica birmana distintiva che risponde al materialismo occidentale con ideali tipicamente locali e buddhisti. Queste compagnie rivolgono i loro spettacoli a una comunità internazionale. E

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quando il rispetto internazionale viene osservato, il rispetto locale e il supporto governativo iniziano ad allargarsi. Sia nelle marionette di Mandalay che nel programma di addestramento governativo, l’arte del teatro di marionette è slittata da una classe sociale bassa, sotto forma di intrattenimento per il villaggio – derivante da un genere che una volta godeva del patrocinio della corte – a una classe media, come forma di intrattenimento urbano fruita da un pubblico istruito. Mentre le storie e le azioni possono essere le stesse di quelle che nel 1940 venivano rappresentate dai maestri, qualcosa è differente e totalmente cambiato: è nata un’arte neo-tradizionale.

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Le marionette in Asia sipario del mondo - Giappone di Autori Vari

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a cura di UCLA Museum of Cultural History, catalogo della mostra omonima, University of California, Los Angeles, 1963, 1979/2, pp. 142-145

Il Giappone vanta una lunga tradizione di teatro di marionette a guanto, a fili e a bacchetta. Il maggior centro di teatro di marionette in Giappone al giorno d’oggi è a Osaka, la Casa del teatro di marionette bunraku. La storia di questo genere teatrale può essere tracciata attraverso periodi di declino e di floridezza, fino a risalire ai tempi della città di Edo (l’attuale Tokyo) e all’antica capitale di Kyoto. Questa forma estremamente raffinata di teatro di marionette con supporto è il risultato di molti secoli di sperimentazione. Si conosce poco dei primi periodi di questa storia, sebbene alcune conclusioni azzardate possono essere tracciate grazie a un’analisi filologica. La prima parola usata per indicare la marionetta, kugutsu, sembra essere associata al tempio shintoista locale e ai nomi delle divinità suggerendo una connessione fra marionette e culto religioso. Ancora adesso si possono trovare semplici marionette usate in contesti religiosi o semi-religiosi in alcune parti del Giappone, in particolare al nord1. Un tipo di dramma-sermone, chiamato Sekkyo-ningyo, viene oggi messo in scena nell’isola di Sado. Una relazione risalente al tardo XI o ai primi anni del XII secolo, di Oe Masafusa, descriveva i marionettisti come cacciatori nomadi che erano apparentemente scambiati per forestieri. Ciononostante, riferimenti relativamente poco letterari sulle marionette sono stati trovati fin dal periodo dell’importazione delle marionette cinesi a fili, durante il XIV secolo. Sebbene non siano mai state popolari come quelle con supporto, le marionette a fili sopravvivono ancora in aree remote del Giappone. Bambole meccaniche, importate dalla Cina nel XV secolo e dall’Europa nel XVI, non sembrano aver giocato un ruolo fondamentale all’interno del teatro di marionette giapponese, sebbene possano aver suggerito l’introduzione di meccanismi all’interno delle marionette2. Nella metà del XVI secolo, i marionettisti ebisu-

1 C. J. Dunn, The Early Japonese Puppet Drama, Londra, 1966, pp. 21-25. D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, Tokyo, 1965, pp. 25-27. 2 D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., pp. 27-29.

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kaki (una tradizione associata ai templi shintoisti), viaggiavano attraverso i villaggi dei pescatori effettuando le loro performance: Ebisu, un dio che portava fortuna, veniva fatto apparire portando un oggetto propiziatorio per una pesca abbondante3. La tradizione di marionette maggiormente celebrata in Giappone è, comunque, il bunraku, conosciuto come joruri prima del diciannovesimo secolo, quando questo genere teatrale adottò il nome di un famoso performer. Questa forma di spettacolo si compone di tre elementi basilari – la marionetta che viene manovrata, la recitazione joruri e l’accompagnamento musicale. Questi elementi si sono evoluti separatamente e non si sono combinati prima del 1600 circa. La narrazione delle storie effettuata da cantastorie professionisti (narrazione joruri), prendeva il nome dall’eroina di una popolare storia del XVI secolo. Il racconto di tale storia veniva originariamente accompagnato dalla musica del biwa (uno strumento simile a un liuto). Nel XVI secolo, dalle isole Ryukyu, venne introdotto lo samisen a tre corde. Il bunraku è differente da molte altre forme di teatro di marionette. Non solo gode di un alto livello di raffinatezza artistica, ma presenta anche drammi seri e specificamente maturi. La drammaturgia del bunraku si può dividere in due ampie categorie. La prima è costituita dai drammi storici (jidaimono) ambientati nel passato con personaggi presi principalmente dalle classi più alte, guerrieri e personalità di corte. Le trame spesso idealizzano i princìpi morali degli autocratici samurai, membri della classe militare governativa dell’antico Giappone. La seconda categoria consiste nei drammi domestici (sewamono), che raccontano i piaceri e le tragedie di una classe sempre più prosperosa di mercanti, negozianti e artigiani del Giappone del diciottesimo secolo. Uno dei temi favoriti in entrambe le categorie drammaturgiche, è il conflitto fra amore e dovere. Nei drammi jidaimono, spesso tale conflitto riguarda da un lato il dovere di un individuo nei confronti dei suoi superiori e dall’altro l’amore per la propria famiglia. Nei drammi sewamono, le emozioni di un individuo sono spesso contrapposte alle sue responsabilità nei confronti della famiglia. Secondo Tsuruo Ando, i drammi avevano il compito di difendere la moralità contemporanea, per questo motivo, i personaggi che facevano degli sbagli finivano sempre con l’avere una tragica fine4. Mentre oggi vengono spesso criticati come eccessivamente drammatici e fuori moda, all’epoca dei grandi drammaturghi bunraku, questi drammi costituivano dei commentari social-popolari. Tradizionalmente erano abbastanza lunghi e duravano spesso un intero giorno. Oggi, comunque, si usa rappresentare scene prese da differenti lavori, più che mettere in scena un intero dramma. Le marionette bunraku possono essere classificate in diversi gruppi. Le mario-

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C. J., Dunn, The Early Japonese Puppet Drama, cit., p. 24. T. Ando, Bunraku, New York, 1970, pp. 18, 27.

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nette maschili possono rappresentare guerrieri, commercianti, sacerdoti e giovani amanti di bell’aspetto. I ruoli femminili includono cortigiane, donne di mezza età e giovani ragazze. Altre marionette rappresentano bambini o personaggi comici minori (tsume), come coltivatori, contadini e servitori. In generale la testa di ogni marionetta ha una ben precisa personalità; alcune di queste, comunque, possono essere usate per un variabile numero di personaggi. Le marionette bunraku possono essere alte da centoquindici a centotrentadue centimetri e la loro misura varia a seconda dell’importanza e della personalità presentata. La caratteristica di maggior rilievo e la più distintiva di questo tipo di marionetta è la testa, che viene montata su un’impugnatura di legno. Con l’aiuto di leve meccaniche e di molle, il marionettista riesce a farne muovere gli occhi, le sopraciglia e la bocca. Le teste dei personaggi maschili sono generalmente dotate di meccanismi più complessi e per questo tendono a essere quelle più espressive. In molte teste di personaggi femminili, la bocca è immobile e gli occhi possono o no essere chiusi. Sono fatte di legno chiaro (generalmente di paulonia), mentre le capigliature, che comprendono più di cinquanta differenti tipi di acconciature, sono fatte di capelli umani e riproducono la moda dei tempi antichi5. Questa particolarità, inoltre, aiuta a identificare l’età e lo status sociale del personaggio6. La costruzione della testa di una marionetta ha inizio con un blocco rettangolare di legno. Questo viene intagliato grossolanamente nella forma appropriata, e le caratteristiche facciali vengono disegnate per il successivo intaglio. Quindi viene divisa in due sezioni, la parte interna scavata e l’espressione esterna facciale completata. Una volta che i meccanismi che interessano occhi, sopracciglia e labbra siano fissati nella parte incava, le due metà della testa vengono unite insieme. Il collo viene adattato e poi vi è inserito il manico. Infine la testa viene decorata e vi vengono attaccati i capelli7. Questo lavoro di intaglio viene effettuato da artigiani professionisti, sebbene gli esperti in tale settore siano oggi in numero scarso a causa del training che viene richiesto per quest’arte e per l’inadeguata retribuzione economica. Molte delle teste più antiche sono andate perdute durante gli incendi del 1926 e del 1945. La maggior parte di quelle che vengono usate oggi sono state recentemente intagliate da artigiani di Tokushima, che si occupano anche della costruzione delle teste più grandi usate nel teatro di marionette di Tokushima e Awaji8. Le mani delle marionette sono importanti come le teste per l’identificazione dei personaggi. Ce ne sono vari tipi, alcuni con le articolazioni delle dita e le giunture finemente lavorate. In contrasto con la complessità della testa e delle mani, il

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A. C. Scott, The Puppet Theatre of Japan, Tokyo, 1963, p. 63. D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., p. 60. 7 A. C. Scott, The Puppet Theatre of Japan, cit., p. 63. 8 D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., p. 60. 6

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corpo della marionetta bunraku è relativamente semplice, trattandosi essenzialmente di un supporto di legno che viene rivestito con un elaborato costume. Tali abiti possono essere abbondantemente ornati; quelli usati nel dramma di tipo storico riproducono accuratamente i vestiti usati in quel periodo. Le marionette maggiormente ricercate sono quelle del Teatro di marionette bunraku di Osaka, ma importanti adattamenti regionali vengono usati dalle compagnie teatrali di Awaji e Tokushima9. I marionettisti di Awaji, non avendo un proprio teatro a disposizione, effettuano le messe in scena in scuole e auditorium. Di conseguenza, le marionette hanno dimensioni piuttosto grandi rispetto a quelle usate a Osaka, permettendo una maggiore visibilità10. Un altro tipo di marionette riscontrato ad Awaji consiste nell’uso di burattini, alti approssimativamente cinquanta centimetri. Questi erano abbastanza comuni tempo fa e le loro performance venivano effettuate in tutta l’isola, durante la stagione dei raccolti, da compagnie teatrali che si costituivano appositamente. Ciascuna delle principali marionette bunraku richiede tre performer che lavorino all’unisono. Il marionettista principale è responsabile della testa e del braccio destro della marionetta. Movendo i fili giusti (attaccati a una speciale armatura che sporge dal retro della marionetta) è capace di farne muovere gli occhi, le sopracciglia e la bocca usando la mano sinistra, mentre con la destra controlla il braccio e la mano destra della marionetta. Come artista principale ha la responsabilità di dar vita alla personalità della figura. Il secondo marionettista è responsabile del braccio sinistro e il terzo ne controlla i piedi. I personaggi femminili generalmente non sono dotati di gambe, così in questo caso il terzo marionettista ne muove la gonna per creare l’effetto delle gambe in movimento. Invece di essere nascosti al pubblico, i marionettisti sono a vista sul palco. Il principale, tradizionalmente indossa o un semplice kimono nero o un kamishimo, il cerimoniale costume samurai risalente al dodicesimo secolo11. Spesso appare in stile dezukai, che vuol dire senza cappuccio e con il volto pienamente scoperto12. Con i suoi alti sandali di legno si trova a un’altezza di circa 15 centimetri rispetto ai suoi assistenti, lasciando loro più spazio e questo consente ai tre performer di lavorare in armonia. Il secondo e il terzo marionettista indossano semplici costumi neri e i loro volti sono coperti da cappucci anche questi di colore nero. Il training di un marionettista ha inizio quando è ancora un bambino, spesso alla giovane età di dieci anni. Un apprendista inizia a manovrare marionette mino-

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D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., p. 56, e A. C. Scott, The Puppet Theatre of Japan, cit., pp. 11-14. 10 D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., p. 150. 11 S. Hironaga, Bunraku: Japan’s Inique Puppet Theatre, cit., p. 1, e A. C. Scott, The Puppet Theatre of Japan, cit., p 37. 12 T. Ando, Bunraku, New York, 1970, p. 15, e A. C., Scott, The Puppet Theatre of Japan, cit., p. 168.

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ri che necessitano di un solo operatore. In seguito assume il compito di manovrare le gambe delle figure più importanti e poi finalmente il loro braccio sinistro. Dopo circa venticinque-trenta anni di esperienza, consegue lo status di marionettista principale, avendo acquistato padronanza nel manovrare la testa e il braccio destro della marionetta principale. I marionettisti bunraku sono addestrati a manovrare marionette di personaggi maschili o femminili, ma non entrambe13. Forse il ruolo più prestigioso all’interno del bunraku è ricoperto dal narratore joruri o cantore. Sebbene il bunraku sia una forma di teatro di marionette, è fondamentalmente un’arte narrativa. Il cantante, forse meglio descritto come un cantastorie, non corrisponde solo alla voce dei personaggi, ma è anche un commentatore, con la funzione di spiegare la storia che le marionette mettono in scena. Non ha solo il compito di recitare un passaggio del testo, ma piuttosto impersona i personaggi che tale testo descrive. Il suo volto si può contrarre dal dolore o riempire di gioia per la felicità; canta, grida, ride, sospira e piange. Perciò deve possedere una voce capace di un’ampia serie di espressioni e toni. Il cantore ha la responsabilità di creare l’atmosfera del dramma, mentre il musicista di samisen ne stabilisce il ritmo. Così come il marionettista, anche il cantante effettua un rigoroso training che inizia quando è un bambino e continua per molti anni. L’alunno diventa l’apprendista di un cantante professionista e assume un nome professionale che lo identifica con il suo maestro. Questa è una pratica comune fra i marionettisti come fra i musicisti14. Il palcoscenico bunraku, diviso in sezioni rialzate che attraversano tutta l’area, generalmente è costituito da tre aree performative. L’azione della marionetta è perciò principalmente limitata a un movimento laterale, che contribuisce in maniera significativa all’armonia ottenuta dal marionettista principale e dai suoi due assistenti. La sezione centrale del palco, che tipicamente rappresenta la zona di un paesaggio o l’interno di una casa, occupa la parte più ampia dell’area performativa. È qui che ha luogo l’azione principale del dramma. Queste sezioni orizzontali nascondono i marionettisti e possono anche servire come suolo o piano sul quale agiscono le marionette. Alla parte sinistra del palco, il cantante e il suonatore di samisen siedono su una piattaforma girevole. Entrambe indossano il kamishimo che si adottava nel XVII secolo15. Durante il XIX secolo a Hachioji (nella prefettura di Tokyo) è stata adottata un’interessante variazione di bunraku che non necessita della costruzione di un palcoscenico particolare. Si tratta delle kuruma ningyo, o marionette su ruote, della stessa misura delle marionette di Osaka, ma manovrate da un solo marionettista. Seduto su una piccola scatola con ruote di legno che gli dà la possibilità di muo-

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B. Baird, The Art of The Puppet, New York, 1965, pp. 136-138. A. C. Scott, The Puppet Theatre of Japan, cit., pp. 42, 43. 15 D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., p. 157. 14

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versi tutt’intorno al palco, invece di essere limitato esclusivamente a movimenti laterali, manovra la testa della marionetta e il braccio destro con la mano sinistra, entrambe le mani con la sua mano destra e controlla i piedi con i propri16. L’interesse per il bunraku ha avvertito un periodo di declino dopo la Seconda Guerra Mondiale; oggi si sta sperimentando una rinascita del genere. La formazione del bunraku Supporter’s Club a Tokyo nel 1952 e in seguito a Osaka, ha aiutato a riaccendere l’entusiasmo per il teatro di marionette. È cresciuto anche l’interesse degli stranieri. Comunque, uno dei maggiori problemi oggi, sembra essere la mancanza di marionettisti e di cantanti; gli scarsi riconoscimenti finanziari e gli anni di esperienza richiesti per conoscere a fondo la tecnica hanno dissuaso molti dall’intraprendere la professione.

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D. Keene, Bunraku: The Art of the Japanese Puppet Theatre, cit., p. 157.

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Le marionette vietnamite di Trân Van Khê “International Theatre Information”, Summer, 1979, pp. 14-17

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Introduzione C’è molto fermento attorno al lago del villaggio. Contadini, artigiani, piccoli mercanti, uomini, donne, anziani e bambini, si sono radunati qui. Questo luogo, tradizionalmente molto tranquillo, è oggi riempito dal suono dei tamburi, dei gong e da quello di alcuni strumenti folkloristici: il violino a due corde e il flauto traverso di bambù. A lato dello stagno, si trova una costruzione di mattoni con la forma di un tempio con il tetto di piastrelle, che potrebbe anche essere di legno o di bambù, con drappeggi di lino, o persiane, anche queste di bambù. Sono schermi protettivi, attraverso i quali si possono vedere le sagome di alcuni marionettisti, dei quali solo il busto emerge dall’acqua. Gli altri tre lati del lago sono riservati agli spettatori. Le percussioni del tamburo diventano sempre più frenetiche. Scostando lo schermo di bambù, appare una marionetta di legno della stessa altezza di quella di un bambino di circa quattro anni, con due occhi da birbante, il viso sorridente con una giacca senza maniche sbottonata, che fa intravedere una grossa pancia. Si sente una voce: “Oh fratelli miei!” “Che c’è?” dice un coro. “In passato di solito abitavo nel giardino di piante medicinali, nel Paradiso. Tutti mi chiamavano Vong. In seguito, quando acqua e fuoco cominciarono a vivere in armonia, in questa compagnia mi diedero il nome di Teu.” Teu, il giullare, il leader, è un personaggio indispensabile per la rappresentazione di uno spettacolo di marionette sull’acqua, il cui nome deriva, probabilmente dalla parola tieu (risata) oppure da teu (umoristico). Presenta se stesso, scherza e molesta gli spettatori, comprese le signore: “Ho guardato da nord a sud. Tutt’intorno allo stagno. Ho una rapida visione di una ragazza con una sciarpa bianca e uno scialle rosa e un’aria elegante. Ma i suoi gesti non sono molto eleganti. Guardandomi, mi lancia un misterioso sorriso. E io, Teu; vorrei fare amicizia con lei. Se mi sfidate a farlo, ve la indicherò”. Ma il coro si fa più insistente:

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“O Teu! Se hai una canzone da cantare, cantala. Tu parli troppo!”. “Sì, sì, canterò una canzone e ritornerò dietro le quinte”. Canta: “La gente nuota nello stagno del villaggio. Se l’acqua è limpida o torbida è comunque bello bagnarsi qui”. Si dirige dove si trovano dei petardi, appesi a un palo, situato al centro dello stagno e gli dà fuoco. I petardi esplodono e il coro canta, annunciando che stanno per essere alzate le bandiere. E le bandiere spuntano dall’acqua in cima ai pali completamente asciutte, sventolando al vento. Il rullo dei tamburi diventa più frenetico. Un drago scivola sull’acqua. Due unicorni si azzuffano per un gomitolo di seta al suono dei tamburi suonati da una marionetta. La fenice stende le ali e colpisce ripetutamente con il becco la testa di una tartaruga che avanza lentamente nell’acqua dello stagno, scuotendo la testa. Dopo la danza dei quattro leggendari animali, arriva un pescatore. Tira fuori la lenza dall’acqua e un pesce che ha abboccato penzola alla sua estremità. Un altro pescatore con un amo riesce a prendere diversi pesci che nuotano in tutte le direzioni. Più canzoni parlano del lavoro e dei giochi degli abitanti del villaggio: dare la caccia alle rane, allevare le oche, mondare il campo, pestare il riso, tessere la seta, un incontro di lotta libera fra due ragazzi, o una lotta fra due bufali provenienti da villaggi vicini, un gioco alternato i cui partecipanti sono ragazzi e ragazze vestiti con gli abiti della festa. Questi sono i temi che si rappresentavano e ancora si rappresentano in alcuni villaggi del delta del Fiume Rosso durante le feste stagionali, o la visita della Compagnia Nazionale di Marionette, lo spettacolo del Mua roi nuoc e le marionette sull’acqua, le marionette vietnamite per eccellenza. L’importanza dell’acqua L’acqua melmosa nasconde le aste, i fili, i paletti, i meccanismi ingegnosi usati per le scene che suscitano sorpresa: le bandiere emergono dall’acqua melmosa completamente asciutte; la parata dei soldati, che indossano uniformi blu e rosse, e si dispongono a destra o a sinistra in base al colore delle divise, e poi ritornano in fila sui due lati del palcoscenico; la giovane ragazza che cavalca un pesce portando foglie di betel su un vassoio e offrendole agli spettatori dall’altra parte dello stagno. L’acqua agevola questi movimenti e rende possibile la manipolazione delle marionette a distanza. In questo modo, ai tre tipi di animazione (dal basso, dall’alto e da dietro) ne dovremmo aggiungere un quarto tipo: quello a distanza. L’acqua è presente ovunque in Viet Nam, specialmente nel delta del Fiume Rosso, dove ogni villaggio ha un lago, uno stagno, un bacino o un fiume con acque calme. In questi luoghi si possono rappresentare, con maggior realismo, scene di pesca, di caccia alle anatre o persino la battaglia navale sul fiume Bach Dang, durante la quale, alla fine del XIII secolo, il generale vietnamita Tran Hung Dao

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inflisse una schiacciante sconfitta agli invasori mongoli della dinastia Yuan della Cina.

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I retroscena e i marionettisti del mua roi nuoc I manovratori di altri tipi di marionette si nascondono dietro un sipario oppure agiscono con il volto scoperto come nello spettacolo del bunraku di Osaka in Giappone (recentemente, i marionettisti sono coperti con un cappuccio nero). Dove si posizionano i marionettisti del mua roi nuoc vietnamita? Su di un lato dello stagno, dove abitualmente si svolge lo spettacolo del mua roi nuoc, viene innalzata una costruzione di bambù o di mattoni, con un tetto che nasconde la parte superiore del retroscena che è chiamato nha thui dinh (letteralmente: il tempio sull’acqua); uno schermo fatto di stuoie di bambù, dipinte di diversi colori, viene sospeso dal tetto sino a toccare la superficie dello stagno. I marionettisti si collocano dietro questo schermo. Le loro mani e i loro piedi sono nell’acqua. Attraverso le fessure dello schermo riescono a vedere il palcoscenico, le marionette e gli spettatori all’esterno; ma solo la sagoma di chi dà vita a queste bambole di legno può essere vista dal pubblico. I cantanti si trovano accanto ai marionettisti e cantano, mentre le marionette sono agite. A volte sono gli stessi marionettisti a parlare e cantare. Accompagnamento musicale I musicisti si trovano accanto al tempio sull’acqua: il grande tamburo, trong cai o dai co riveste un importante ruolo all’interno del dramma. Non solo annuncia l’inizio dello spettacolo agli abitanti del villaggio, ma sottolinea i passaggi recitati o cantati; accompagna gli episodi della battaglia, le scene più vivaci, la parata delle truppe o la danza dell’unicorno. Un tamburo di legno (mo) e un piccolo gong (thanh la) sono usati come strumenti a percussione. Gli strumenti melodici non erano ritenuti necessari e in alcuni villaggi erano usati solo gli strumenti a percussione. Il violino a due corde (dan nhi) o il flauto traverso di bambù (sao tre) usati in passato, oggi non sono considerati sufficienti. La Compagnia Nazionale di Marionette della Repubblica Socialista del Viet Nam ha un complesso strumentale simile a quello dell’hat cheo, il teatro folkloristico. Consiste di un insieme di strumenti che si sommano a quelli sopra menzionati. Questi includono il flauto verticale (tieu) e la cetra a trentasei corde (tam thap luc). Anche il repertorio delle canzoni dello spettacolo di marionette sull’acqua è simile a quello dell’hat cheo, il teatro folkloristico del nord: vale a dire, testi recitati, canzoni folk, canti, sap, sa lech, ecc.

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Etimologia del termine roc In Viet Nam, le marionette vengono chiamate Con roi. Con è l’articolo usato per gli esseri viventi o per oggetti animati. Roi nel linguaggio comune significa marionetta, ma dà anche l’idea di qualcosa che è aggrovigliato, confuso. In alcuni villaggi le marionette vengono chiamate ong loi (nonno loi), oi loi (una parola dal cinese koei li che originariamente indica le marionette) e khoi loi (un altro termine sempre dal cinese koei li). Lo studio dell’etimologia della parola roi ci porta allo studio dell’origine del roi nuoc vietnamita.

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Origine del roi nuoc Non siamo in grado di discutere dettagliatamente questo argomento in questa sede. D’altronde, To Sanh, nel suo eccellente lavoro sulle marionette d’acqua, ha provato a ottenere quante più informazioni possibili da coloro che ancora ricordano il segreto delle marionette. Si è recato in almeno un centinaio di luoghi che conservavano ancora alcune tracce delle marionette d’acqua. Ha anche consultato testi molto datati e manoscritti con gli alberi genealogici degli antichi professionisti di questo genere teatrale. Lavorando in collaborazione con storici, archeologi, in modo da risalire all’origine dei templi sull’acqua, ha anche tentato di decifrare (con l’aiuto di studiosi vietnamiti) le antiche iscrizioni di numerose steli. “Quello che mi ha messo sulla giusta strada – mi disse nel 1976 – fu un passo del lavoro di Hoang Xuan Han, su un generale vietnamita della dinastia Ly, chiamato Ly Thuong Kiet”. Hoang Xuan Han, citando un testo scritto da Nguyen Cong Bat, e inciso su una stele di pietra, eretta nell’anno Tan Suu, ovvero il secondo anno del regno di Thien Phu Due Vu (1121), della dinastia Ly, per glorificare le virtù e le lodi del Re Ly Nhan Tong, parla della creazione degli automi: una grossa tartaruga, che trasporta sul dorso tre montagne, nuota lentamente nel fiume Lo facendo zampillare acqua dalla bocca e un altro automa, che rappresenta un piccolo oggetto di bronzo, capace di riprodurre il suono di una campana, far riecheggiare le note di un flauto o salutare il sovrano chinando il capo. To Sanh non era soddisfatto di affermare semplicemente che negli archivi della National Library of Viet Nam si trovava questo testo difficile da decifrare. Non si lasciò scoraggiare dal fatto che gli archeologi della French School of the Far Est e persino gli archeologi giapponesi, avessero abbandonato gli studi su queste iscrizioni di pietra, diventate del tutto illeggibili a causa delle devastazioni di vento pioggia e polvere. Preferì recarsi nel villaggio Doi del cantone Doi Son, distretto di Dui Tien, provincia di Ham Nam (oggi provincia di Ha Nam Ninh) e salire in cima al monte Doi, in modo da esaminare lo stato della stele di pietra. Effettiva-

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mente, le devastazioni causate dal tempo erano terribili, e fu difficile decifrare le iscrizioni incise, a causa di altre che vi si erano sovrapposte. Ma To Sanh ottenne il permesso di pulire la stele di pietra (che si trova di fronte al tempio) dal capo dei sacerdoti del tempio buddhista di Long Son. Ma l’acqua piovana accumulatasi era appena sufficiente per i bisogni dei preti. Così To Sanh dovette trasportare da sé l’acqua fino alla cima della montagna, e pulire pazientemente la pietra. Con una spilla, rimosse la polvere che aveva otturato le incisioni, intagliate secoli fa, lavorando su una lettera alla volta – e ce ne erano 4.306! Grazie alla sua pazienza, perseveranza e determinazione, la pietra finalmente rivelò il suo segreto. Gli studiosi, invitati da To Sanh, furono capaci di decifrare questo testo. I fotografi riuscirono a riportarlo su pellicola e gli archeologi a conservare su carta queste 4.306 lettere. Un giorno To Sanh riuscirà a pubblicare interamente questo testo scritto in cinese, riscritto e tradotto da molti studiosi. Noi possiamo solo affermare che più storici hanno fatto notare che su questa stele Sung Thien Dien Linh, c’è la prova dell’esistenza delle marionette sull’acqua, del roi nuoc, la cui qualità artistica raggiunse un grado di perfezione tale che lo spettacolo potrebbe essere stato rappresentato prima dell’avvento del re e, anche, sin dal 1121. Ma nessuno di loro ha rivelato, come ha tentato di fare To Sanh, tutti i passaggi riguardanti le origini delle marionette sull’acqua, facendoli tradurre completamente dagli studiosi. To Sanh ha citato alcuni di questi passaggi nel suo libro sulle marionette sull’acqua. In questo modo la ricerca di questo studioso ci ha dato la possibilità di confermare che le marionette sull’acqua del roi nuoc avevano raggiunto un alto livello di perfezione artistica durante la dinastia Ly, o forse anche prima di questa, e anche che il mua roi nuoc è stato trasmesso di generazione in generazione senza interruzione fino a oggi. Marionette sull’acqua: marionette vietnamite Le iscrizioni sulla stele di pietra Sung Thien Dien Linh, provano che le marionette sull’acqua avevano raggiunto un alto grado di perfezione già nel 1121, tanto che lo spettacolo poté persino essere rappresentato dinanzi al re. In altri paesi del sud-est asiatico, e anche in India, come abbiamo già visto, si utilizzano marionette a guanto, marionette a fili, marionette fatte di cartapesta o di pelle, come nel teatro delle ombre. Ma nessun altro paese, a eccezione della Cina e del Viet Nam, può vantare una tradizione di marionette sull’acqua. Nel suo lavoro, From Puppets to the Shadow. The shadow theatre and puppets of China, Jacques Pimpaneau, dopo aver consultato antiche fonti cinesi e indiane, ha avanzato argomentazioni a favore e contro le origini indiane delle marionette cinesi. Secondo l’autore: “Le marionette manovrate con le aste di legno esistevano già durante la dinastia degli Han (22-220); le marionette con i fili vengono menzio-

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nate in Cina solo dopo la dinastia Tang (618-907). Durante la dinastia Song (9601279) si verificò una fioritura del teatro di marionette… del teatro delle ombre, delle marionette con i fili, esistenti ancora oggi… delle marionette d’acqua, quelle di polvere e le marionette in carne e ossa. Le marionette d’acqua in Cina sono indubbiamente relazionate agli automi che esistevano durante la dinastia Tang. Su una distesa d’acqua dalla parte opposta agli spettatori, si trovavano delle barche con un’orchestra su ogni lato e al centro un’imbarcazione più piccola con sopra un palcoscenico finemente decorato e tre porte sul fondo. Un personaggio chiamato canjun appariva e salutava il pubblico. Poi, al suono della musica, la porta centrale si apriva facendo comparire una piccola barca con a bordo una marionetta rappresentante un vecchio pescatore in abiti bianchi, seguita da un’altra imbarcazione a remi guidata da un giovane ragazzo. La barca effettuava diversi giri e il pescatore sollevava la sua lenza al cui estremo c’era un piccolo pesce che si contorceva. La barchetta ritornava quindi dietro al palco. Poi apparivano marionette rappresentanti giovani fanciulle che danzavano sull’acqua con l’accompagnamento di musica e canzoni”. Hoang Xuan Han, che abbiamo consultato riguardo le origini cinesi delle marionette in Cina, menzionava vari articoli del dizionario enciclopedico Cihai. Il nostro collaboratore tecnico Cheng Shui Cheng ha guidato la nostra attenzione verso diversi passaggi riguardanti le marionette, in particolar modo le marionette d’acqua. Sotto la dinastia Song esistevano sei tipi di marionette: xiansikuilei: marionette dotate di fili grazie ai quali venivano sospese; zouxiankuilei: marionette dotate di fili che venivano tirati; zhangtoukuilei: marionette su aste o bacchette di legno; yaofakuilei: marionette di polvere; roukuilei: letteralmente marionette in carne e ossa, piccoli bambini che si muovevano come marionette; suikuilei: marionette sull’acqua. Allo stadio attuale della nostra ricerca, non siamo in grado di confermare se le marionette sull’acqua cinesi siano esistite prima o dopo quelle vietnamite. In ogni caso, secondo Jacques Pimpaneau, le suikuilei sono scomparse al giorno d’oggi e si possono trovare solo in Viet Nam. In Viet Nam, i volti e i costumi delle marionette sono tipicamente vietnamiti. Anche i temi degli spettacoli di marionette sono presi dalla storia del Viet Nam – Le sorelle Trung, la battaglia di Bach Dang, la vittoria sugli Yuan; dipingono la vita di villaggio del Viet Nam con il combattimento dei bufali e il gioco dell’altalena. Il testo delle scene e l’accompagnamento musicale non presentano alcuna traccia di influenza cinese. Viene usato il linguaggio parlato dalla gente comune, ed è quello che tutti comprendono, differente dallo stile letterario sino-vietnamita del teatro tradizionale, hat toung o hat boi, compreso solo dagli studiosi e dagli specialisti. Le canzoni sono simili a quelle del repertorio dell’hat cheo, il teatro folkloristico del Nord. Abbiamo sentito i toni del sap (canzoni allegre), le recite in stile

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nui su (recite in stile definito storico). Incontriamo anche il tieng de, il coro che rimpiazza il pubblico e parla agli attori. Questo è molto simile a quanto accade nel Hat Cheo, il teatro folkloristico tipicamente vietnamita nei temi dei drammi, nei gesti e nelle posture usati e nel repertorio musicale. Non ci sono riferimenti al Ramayana, come nel teatro delle ombre e nel teatro di marionette in India e nei paesi del sud-est asiatico, come Thailandia, Kampuchea, Laos, Birmania, Malesia e Indonesia. Non ci sono rimandi all’influenza cinese fatta eccezione per alcune scene nel repertorio del roi nuoc (fra le duecento descritte da To Sanh) riguardanti Quang Cong dal romanzo I tre regni combattenti. Le marionette sull’acqua del roi nuoc non assomigliano a nessun altro tipo di marionetta esistente al mondo, e si possono trovare solo in Viet Nam. È per questo che le consideriamo marionette vietnamite per eccellenza. La tradizione del roi nuoc, nonostante il momento di declino, durante il periodo coloniale, si è mantenuta salda. Molte famiglie di contadini hanno custodito gelosamente i segreti codificati riguardo la manipolazione delle marionette per determinate scene. Oggi hanno cominciato a divulgare questi segreti a giovani appassionati. Sin dal maggio del 1978 La Compagnia Nazionale di Marionette (Doan Mua Roi Trung Uong) non ha solo realizzato spettacoli di marionette con supporto, con fili e marionette sull’acqua, ma ha anche incoraggiato nuove creazioni ed effettua ricerche sulla storia di questo genere teatrale. La compagnia ha fondi limitati. Dal giugno 1978 il Ministero della Cultura del Governo della Repubblica Socialista del Viet Nam ha deciso di fondare un Istituto di marionette (Nha Mua Roi Nuoc) con più fondi che consentiranno agli artisti non soltanto di continuare con i loro spettacoli di marionette ma anche di condurre più ricerche sulla storia delle marionette in Viet Nam. Questi proveranno e creeranno nuove scene o drammi, e organizzeranno il training nazionale e scientifico dei marionettisti. Con la creazione di questo Istituto di Marionette, le marionette sull’acqua non solo saranno ben custodite, ma, si spera, diventeranno sempre più popolari.

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Maschera, trucco, costume L’estetica del mito a cura di Marisa Cortese

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Introduzione

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di Marisa Cortese

Nell’affrontare un discorso sulle maschere, sui costumi e sul trucco nel teatro asiatico ritengo siano importanti alcune considerazioni preliminari atte a favorire una più completa comprensione delle dinamiche all’interno delle quali si trovano coinvolti i tre elementi oggetto di questa analisi finalizzata alla definizione del modulo scenico dei mascheramenti. In primo luogo è necessario tenere ben presente l’intrinseca compattezza strutturale dei moduli all’interno della performance. Ogni modulo – dalla danza alla musica, dai mascheramenti alla drammaturgia – rappresenta un ingrediente prezioso e indispensabile a quell’alchimia che rivela in tutto il suo splendore la tradizione teatrale dei generi performativi asiatici, attuando quelle corrispondenze che Artaud definisce, riferendosi alle danze balinesi, “imperiose” e capaci di fondere “di continuo la vista all’udito, l’intelletto alla sensibilità, il gesto di un personaggio all’evocazione dei movimenti di una pianta attraverso il gemito di uno strumento”1. Questo avviene in virtù del fatto che tra le diverse componenti della performance si instaura un rapporto di necessità da cui scaturisce un fitto reticolo di significati. La qualità delle forze regolanti i rapporti interni a questo insieme sinestetico richiama prontamente la relazione con le matrici rituali da cui sono derivate le tradizioni performative asiatiche. In alcuni casi tali matrici risultano più facilmente rintracciabili poiché si conservano strutturalmente intatte; in altri presentano modifiche in alcuni livelli del complesso rappresentativo, che danno luogo a una forma attenuata, o spenta, mi riferisco alla concezione turneriana del processo che conduce un rituale a spegnersi come tale, e a generare altre forme ritualizzate di arti performative2. Tralasciando le cause determinanti lo spegnimento del rituale – peraltro consistente in una trasformazione strettamente interrelata alla dinamicità propria della

1 A. Artaud, Le théâtre et son double, Éditions Gallimard, Paris, 1964, trad. it., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, p. 172. 2 Si veda V. Turner, From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, Performing Arts Journal Publication, New York, 1982, trad. it., Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna, 1986, p. 144.

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cultura intesa come complesso sinergico sempre passibile “di nuove combinazioni critiche e creative”3 –, può rivelarsi interessante volgere l’attenzione alle congiunzioni che pongono su una linea di continuità il teatro e il rituale. Tra questi elementi connettivi, come, ad esempio, l’ambito del processo produttivo-ricettivo, in cui si richiede la decodificazione del messaggio da parte dello spettatore sulla base della conoscenza e dell’utilizzo di codici appartenenti all’intera comunità che ha generato l’evento rappresentativo4, si osservano altri aspetti riguardanti i modi performativi quali l’osservanza di ritmi spazio-temporali, il comportamento formale o l’uso di maschere e costumi. Un’ulteriore considerazione riguarda la metodologia di studio. Credo che l’analisi della maschera, dei costumi e del trucco, come di ogni altra forma culturale, non possa prescindere da una necessaria contestualizzazione antropologica, da osservazioni riguardanti la combinazione delle componenti afferenti il mito e le funzioni rituali, le valenze sociali e non ultime le manifestazioni estetiche. La conseguenza diretta di un simile approccio analitico5 è una lettura delle diverse tipologie di maschere, trucchi e costumi esistenti nelle realtà teatrali asiatiche, in relazione al loro contesto d’uso e al complesso performativo in cui sono inserite. Oltre a considerarli come parti della generica categoria dei mascheramenti, possono essere singolarmente analizzate come entità autonome. Da questa prospettiva è possibile indagare le relazioni tra maschera e trucco – considerando tra le altre le eventuali ipotesi evoluzionistiche che vedono in alcuni casi il trucco come sostituto o derivazione della maschera –, i rapporti tra le diverse tipologie del medesimo elemento, le intersezioni tra questo e gli altri aspetti scenici e le assonanze con le trasformazioni continue che interessano ogni singolo fenomeno culturale in virtù del vincolo interattivo dei vari fattori della cultura. Simili considerazioni preliminari mirano a suggerire quegli spunti analitici che per ovvie ragioni non potranno essere qui sviluppati, ma a partire dai quali ha origine un processo di relativo avvicinamento per cui le culture altre potranno apparirci “per quel che di fatto sono: nettamente distinte in virtù delle loro differenze, e tuttavia indiscutibilmente umane per le loro somiglianze con la nostra”6.

3 J. Clifford, The Predicament of Culture, Harvard University Press, London, 1988, trad. it., I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 25. 4 In questo processo si nota l’assenza di una distanza estetica volta alla separazione degli attori dagli spettatori. Tutta la comunità è parte integrante della performance rituale, consentendo non solo di assistere alla rappresentazione di un mondo mitico, di un diverso ordine di esistenza, ma anche di esserne parte integrante. Si veda anche P. Giacchè, Lo spettatore partecipante, Guerini Studio, Milano, 1991. 5 Mi riferisco in particolare all’analisi processuale come approccio della nuova antropologia che considera come argomenti rilevanti i processi di trasformazione della cultura e della società. Si vedano i testi citati di Rosaldo, Geertz e Turner. 6 R. Rosaldo, Culture and truth, Beacon Press, Boston, 1989, trad. it., Cultura e verità. Rifare l’analisi sociale, Meltemi, Roma, 2001, p. 82.

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In questa introduzione mi limiterò a individuare delle coordinate che possano servire a tracciare dei punti guida in un ideale luogo geometrico. Tale luogo dovrebbe consentire l’individuazione di elementi definiti – evitando di costituire una struttura delimitata, chiusa – e presentare come proprietà comuni regolatrici del suo insieme, la multiformità e la continua trasformazione. Il rituale, per definizione, avviene in una dimensione non ordinaria; questa realtà altra viene deliberatamente creata anche grazie all’alterazione dell’aspetto degli officianti oltre che, ad esempio, grazie a una particolare demarcazione del tempo e dello spazio. Nell’esecuzione di un rituale la trasformazione dell’immagine attraverso l’uso di particolari costumi o trucchi, o mediante la pratica del tatuaggio o della scarificazione, diviene elemento indispensabile poiché riflette la trasformazione propria dell’essere e definisce le regole che consentono di operare il passaggio dal mondo reale a quello mitico. Studi antropologici sui motivi delle pitture del volto e dei tatuaggi rivelano come questi possano indicare gradi gerarchici all’interno della società oppure stabilire il legame con gli antenati totemici: nel totem l’individuo consolida l’orgoglio del gruppo familiare e traccia le linee sociali di discendenza. La decorazione del viso definisce un piano comunicativo in cui il volto stesso, per traslato la persona, si rende messaggio, segno di dignità umana, culturale e spirituale7, nella costruzione del personaggio sociale dell’individuo. La relazione totemica è instaurata anche dalla maschera, il luogo in cui lo spirito totemico viene ospitato e si materializza: lo sciamano indossandola ne acquista i poteri soprannaturali. La maschera diviene quindi l’elemento di contatto con le varie potenze spirituali cui si richiede la protezione dalle forze sconosciute dell’universo. Attraverso la danza, e con il contributo della musica, lo sciamano rende possibile l’attivazione delle forze insite nella maschera, un processo questo che può avere come conseguenza una trasformazione psichica quale lo stato di trance: in tal caso si ritiene il performer cavalcato dalla divinità o dallo spirito invocato. Nel concetto di maschera intesa come oggetto sacro si possono rintracciare alcune sopravvivenze della dinamica rituale rinvenibili nella considerazione e nel rapporto che gli attori hanno verso la stessa. La maschera funge da elemento connettivo tra performance e rituale vivificando di continuo il carattere del rito correlativo alle forme teatrali: nel n1o gli attori s’inchinano alla maschera prima d’indossarla e di entrare in scena, in un gesto che palesa il grande rispetto riservato alle maschere, la sacralità che le permea e un senso di devozione vivissimo. In Indonesia s’incontrano maschere, come quella di Barong e Rangda, cui viene attribuito un elevato potere magico e sacrale a prescindere dalla contingenza della rappresentazione. Il timore reverenziale è testimoniato dal modo in cui que-

7 Si veda C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale deux, Librairie Plon, Paris, 1973, trad. it., Antropologia strutturale due, Il Saggiatore, Milano, 1978, p. 289.

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ste sono custodite. Espressione della forza distruttiva del male, la maschera di Rangda essendo in grado di emettere pericolose vibrazioni malefiche, rimane coperta da un telo bianco fino al momento in cui deve essere indossata dal performer, il quale, trovandosi a diretto contatto con le forze della maschera risulta particolarmente esposto alla sua energia. Per i Balinesi le maschere, cui si rende omaggio con offerte e incenso, sono il mezzo di comunicazione attraverso il quale la comunità può instaurare un legame con la forza sacra degli antenati e delle divinità. Il potere loro riconosciuto è tale da giustificarne la presenza nei rituali apotropaici: sono portate nelle case di persone malate affinché gli influssi benefici possano allontanare la malattia. Questa funzione è conservata nel topeng rappresentato per scacciare dalla comunità un male o per assicurare un buon raccolto. Il medesimo rispetto caratterizza l’uso delle maschere nelle danze ’cham tibetane. Nel caso in cui le maschere, consacrate prima di ogni utilizzo, siano particolarmente antiche vengono considerate alla stregua di oggetti sacri, dalle qualità magiche, tanto che chi indossi maschere rappresentanti divinità particolarmente sinistre, rischia di essere intossicato dalle loro influenze negative. Particolare cura viene posta nel custodirle; sono avvolte in stoffe preziose e ricche e riposte in luoghi sicuri all’interno dei templi. Tutti questi esempi mostrano come la funzione mediatrice tra realtà e mito sia una delle principali funzioni della maschera correlata tra l’altro all’origine rituale. Nel rituale “il mondo com’è vissuto e il mondo com’è immaginato, fusi insieme sotto l’azione di un solo complesso di forme simboliche, si rivelano essere lo stesso mondo”8. È attraverso questa identificazione che, accordando le azioni dell’uomo con un ordine cosmico, si legittima l’esistenza dell’individuo e dell’intera comunità. La maschera, i costumi o comunque tutto l’apparato formale che rientra nel rituale sono indispensabili affinché la fusione simbolica si realizzi. La maschera non rappresenta la divinità, il suo spirito o la sua forza, ma assume in sé la sua identità divenendo la divinità stessa. Si attua in tal modo ciò che Campbell definisce lo spostamento dalla normale sfera razionale – in cui la maschera, l’attore e la divinità sono razionalmente percepiti come separati l’uno dall’altro –, alla sfera della rappresentazione teatrale, in cui prevale la logica del come se, per cui la realtà accettata è quella scenica9. La maschera diviene così non solo un modello di ciò che i partecipanti credono, ma anche un modello per crederlo10.

8 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books Inc., New York, 1973, trad. it., Interpretazioni di cultura, il Mulino, Bologna, 1987, p. 169. 9 Si veda J. Campbell, The Masks of God: Primitive Mythology, Viking Press, 1969, trad. it., Mitologia primitiva. Le maschere di Dio, Mondadori, Milano, 1990. 10 Si veda l’analisi sulla molteplicità degli usi delle forme simboliche in C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., p. 170.

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Lo spirito delle cerimonie cultuali, tramite una sorta di allontanamento del razionale, fa in modo che il quotidiano atteggiamento verso il mondo venga temporaneamente posto in una situazione di sospensione a favore di un particolare stato d’animo. In questo processo è indispensabile lo stato di gioco11 come viatico alla partecipazione alla cerimonia che è, al contempo, la partecipazione al gioco con le divinità. Si rendono così possibili tutti gli stati emotivi che lo spettatore prova di fronte alle rappresentazioni: dal piacere al divertimento, dalla soggezione alla paura, tutte reazioni correlate al modello culturale della comunità di riferimento. Accanto alla funzione mediatrice è possibile riconoscere una funzione che si potrebbe definire esplicativa. “Come un’anima che rinuncia alle caratteristiche di una persona e accoglie su di sé quelle di un’altra (nel cui corpo è entrata), allo stesso modo, usando il trucco e i costumi, l’attore dovrebbe diventare il personaggio che sta interpretando”12. Così il N1at¸yaés1astra definisce l’importanza del trucco, del costume e degli ornamenti (aharya) riferendosi a essi come a strumenti che consentono l’espressione dei personaggi. Gli attori del teatro kabuki, analogamente, sostengono che durante l’applicazione del trucco sul viso percepiscono la nascita di un altro sé. Se il trucco consente l’apparizione di un altro essere accanto a quello dell’interprete la maschera, invece, realizza una completa trasformazione dell’attore. Il ruolo giocato dalla maschera riguardo la relazione con il personaggio è presentato chiaramente nel corso della cerimonia cambogiana Pithi Sampeas Preas Kron Lakon Krop Muk: le giovani allieve, eseguendo le danze finali, indossano le maschere per significare che “la danzatrice è diventata il personaggio proposto in scena, che entra in lei nel momento della vestizione per possederla durante la rappresentazione”13. L’uso della maschera e del costume consente al danzatore balinese di dissolvere il suo essere nel personaggio. Nella “capacità di identificarsi completamente sia da un punto di vista attitudinale che come apparenza, il danzatore fonda la propria interpretazione vissuta dall’interno, cioè danza la danza”14. In maniera analoga la maschera consente all’attore del teatro n1o di svuotarsi 15 della propria personalità, generando i presupposti indispensabili al processo che conduce l’attore a riempirsi della personalità del personaggio. 11

Si veda J. Huizinga in J. Campbell, The Masks of God: Primitive Mythology, cit., p. 37. Bharata in A. Rangacharya, a cura di, Natyasastra - English Translation with Critical Notes, Munshiram Manoharlal Publishers Pvt. Ltd., New Delhi, 1986, cap. XXIII (72-89), p. 177. La traduzione dell’originale inglese è di chi scrive. 13 G. Azzaroni, Teatro in Asia. Myanmar - Thailandia - Laos - Kampuchea - Viêt Nam, vol. II, CLUEB, Bologna, 2000, p. 256. 14 G. Azzaroni, Società e teatro a Bali, CLUEB, Bologna, 1994, p. 160. 15 Sulla dialettica tra pieno e vuoto si veda G. Pasqualotto, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992. 12

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Se il discorso riferito a ciò che l’insieme dei mascheramenti tende a rappresentare è indubbiamente importante, grande rilievo rivestono pure le questioni afferenti gli elementi che questi possono trasformare. L’uso delle maschere, del trucco e del costume, infatti, determina una scelta deliberata a non voler rappresentare il volto e il corpo dell’interprete, consentendo l’annullamento dell’individuo in quanto attore, ma contemporaneamente portando alla sua affermazione come personaggio: questi emerge dall’obliterazione dell’attore compiuta attraverso l’annullamento dei tratti peculiari della persona. Il trucco kathakali, ad esempio, tende a modificare totalmente non solo l’espressione del viso ma anche i suoi tratti fisiognomici o strutturali attraverso l’uso di elementi posticci come il chutti; una trasformazione radicale che coinvolge l’intero corpo dell’attore per via dei costumi utilizzati, specie nel caso di esseri divini, tendenti a eliminare ogni traccia di umanità. La manifestazione del personaggio, però, può avvenire con modalità differenti. Se nella pittura del viso dell’Opera di Pechino ciò che caratterizza il volto è, come nel kathakali, l’obliterazione totale dei tratti somatici dell’interprete, nel teatro kabuki il trucco kumadori tende, attraverso l’utilizzo di linee dipinte, all’accentuazione dei tratti strutturali della muscolatura del viso marcandone gli elementi principali16. In entrambi i casi il risultato è un trucco che aderisce a moduli fissi stabiliti dalla tradizione, nel quale è però possibile riconoscere una traccia di originalità determinata dall’adeguamento del trucco al volto dell’interprete. Le qualità del personaggio sono rese immediatamente evidenti mediante l’uso di colori connotativi, essenziali per conoscere le caratteristiche morali e sociali del personaggio, nonché la sua posizione gerarchica nel pantheon celeste. Le maschere utilizzate nel teatro n1o ricreano lo spirito del personaggio ben oltre la sua mera descrizione. Più che descriverne una qualità per fissarla nella loro espressione, si può dire sfruttino la loro funzione evocatrice. Le maschere n1o, infatti, posseggono la capacità “di poter mutare espressione a comando. In questo senso corrispondono perfettamente alla funzione del n1o e dell’arte del periodo in cui raggiunsero la loro massima perfezione stilistica. Loro funzione è, infatti, quella di far affiorare passioni, brame, tensioni attaccamenti che si celano nella psiche”17. Naturalmente risulterebbe alquanto difficoltoso riuscire in tale intento con una maschera la cui espressione risultasse bloccata su di un unico stato d’animo: la maschera, necessariamente, deve trasmettere una serie vasta di stati emotivi la cui intensità risulti variabile e “deve essere ad un tempo semplice ed intensa; tale da contenere in potenza la sintesi del riso come del pianto, della gioia, come del dolore

16

Si veda G. Azzaroni, Dentro il mondo del kabuki, CLUEB, Bologna, 1988, p. 161-270. G. C. Calza, La fruizione estetica dell’architettura e delle maschere del teatro n1o, in “Annali di Cà Foscari”, n. 10, 1971, p. 106. 17

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del corruccio come della serenità, in modo però che l’uno stato non si venga a sovrapporre all’altro creando una confusione emotiva”18. La comunicazione della maschera n1o, quindi, sembra andare oltre quella del trucco ponendosi su di un livello di astrazione, un livello simbolico, mistico, dando luogo all’identificazione con lo spirito del personaggio più che con il personaggio stesso. Inoltre, le maschere n1o “non smettono mai di parlare, nemmeno quando, all’interno dei morbidi sacchi che le preservano dall’umidità e da eventuali colpi sono riposte nell’okura”19. Quanto detto circa la funzione esplicativa dei mascheramenti può risultare vero solo in presenza di un attore in grado, con la sua valentia, di dar luogo a una espressione non arida e superficiale, ma ricca e profonda. Non si tratta di un fatto meramente esteriore poiché la tecnica dell’attore deve essere tale da riuscire a rendere manifesto un moto interiore. La qualità dell’espressività è determinata dall’impegno emotivo e mentale dell’attore, “la regola che i vecchi maestri del kathakali insegnano ai loro allievi dice: là dove vanno le mani per rappresentare un’azione, là devono posarsi gli occhi; là dove vanno gli occhi, deve seguire l’intelletto, e l’azione rappresentata dalle mani deve far nascere un sentimento determinato che si riflette sul viso dell’attore”20. Nel topeng il buon funzionamento della maschera è determinato dai movimenti del corpo, dalla gestualità e dagli spostamenti del capo del danzatore; ciò consente alla maschera di manifestare la propria vita. Le qualità del personaggio, sia fisiche che interiori, connotate dalla maschera trovano espressione attraverso la danza. La comunicazione estetica che i mascheramenti instaurano può esplicarsi con differenti modalità determinate da finalità tra loro diverse; se la maschera n1o, infatti, consente la molteplicità dell’espressione, il trucco kabuki è finalizzato a conferire al volto la sua permanenza. Questo perché sono elementi che rispondono a registri performativi diversi. La funzione esplicativa della maschera, del costume e del trucco sinora presa in esame riguardava il dialogo tra performer e spettatore. È tuttavia possibile considerare anche la relazione che questi elementi scenici consentono di innescare tra attore e personaggio, tra attore e interpretazione del personaggio. Il costume kathakali altera completamente la linearità e spigolosità della figura umana, creando una serie di volumi che muovendosi nello spazio rendono manifesta una presenza di natura metafisica. I mascheramenti influenzano lo spazio a più livelli: l’insieme costituito dal co-

G. C. Calza, La fruizione estetica dell’architettura e delle maschere del teatro n1o, cit., p. 106. M. Casari, La verità dello specchio - Cento giorni di teatro n1o con il maestro Umewaka Makio, il principe costante Edizioni, Pozzuolo del Friuli, 2001, p. 93. 20 E. Barba, Al calar della notte un rullo di tamburi, in N. Savarese, a cura di, Il teatro al di là del mare, Studio Forma, Torino, 1980, p. 33. 18 19

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stume e dai movimenti del corpo del performer genera una complessa dinamica tra volumi che modifica nello spettatore la percezione del fatto scenico. Il costume diviene una sorta di dilatazione dell’energia del performer e completa la nuova identità rappresentata dalla maschera o dal trucco. L’attore dell’Opera di Pechino interagisce con il costume in modo da sfruttare al meglio “le possibilità che esso gli offre: dalle bianche maniche d’acqua (shuixiu) che ne dilatano le proporzioni, alle lunghe penne di fagiano dei copricapi militari, dai bordi di ogni genere che vengono sollevati, tirati o ripiegati fino alle scintillanti decorazioni delle acconciature che continuano a tremare anche quando l’attore si blocca nelle pose scultoree”21. Nel teatro n1o l’attore deve fare i conti con una percezione spaziale alterata dalle caratteristiche strutturali della maschera. La limitatezza del campo visivo conseguenza dell’esiguità dei fori oculari, lo costringono a un equilibrio precario e a trovare una serie di punti di riferimento fissi e immutabili per agire con sicurezza nell’area scenica. Kanze Hisao proprio in riferimento a questo parla della necessità da parte dell’attore di crearsi una ragnatela mentale sulla quale potersi muovere con sicurezza senza perdere mai il senso d’orientamento22. Tra la maschera e il corpo dell’attore si attua una dialettica duplice; se da un lato la prima condiziona i movimenti, la qualità della voce, la percezione e il posizionamento nello spazio, dall’altro diviene elemento grazie al quale il corpo può liberamente esprimersi; l’uso della maschera, infatti, consente l’obliterazione dei segni del volto dell’attore “in modo che siano i movimenti di tutto il resto del corpo a diventare protagonisti”23. Quelle utilizzate dai danzatori ’cham, ad esempio, non consentono, una volta indossate, di sfruttare i fori degli occhi. La loro fattura obbliga l’attore a guardare attraverso i fori delle narici o della bocca, conferendo a tutta la figura una forma alterata dall’insolito effetto. Maschera, trucco e costumi compiono quella magia che attuandosi consente all’uomo di varcare la soglia della quotidianità divenendo un essere divino, un eroe, uno spirito. La mancanza di adesione a moduli realistici, inoltre, contribuisce a compiere il passaggio dalla dimensione reale a quella mitica così come lo splendore dei costumi contrastando con la frequente nudità delle scene crea quella particolare armonia delle incongruenze24 che amplifica il carattere simbolico della performance. A questo si ricollega l’importanza rivestita dalla forma. I costumi, le maschere e

21

N. Savarese, Il racconto del teatro cinese, NIS, Roma, 1997, p. 97. M. Casari, Semantica della maschera n1o tra mito e vuoto, in P. Bignami, a cura di, Mascheramenti, Bulzoni, Roma, 1999. 23 G. Pasqualotto, Estetica del vuoto, cit., p. 130. 24 K. Komparu, The Noh Theatre. Principles and Perspectives, Weatherhill-Tankosha, New York, 1983, p. 240. 22

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il trucco evocano un mondo di bellezza suprema, proprio in quanto manifestazioni esteriorizzate di movimenti interiori o archetipici, riconosciuti come tali. Costituiscono l’espressione di un linguaggio metafisico comprensibile a tutti perché, trascendendo i limiti posti dalla mente, arrivano immediati a scuotere le emozioni. La natura e l’energia malefica di Rangda sono subito percepibili perché la sua forma è quella della “nemica del tutto, del cosmo, dell’armonia, del Barong. Sotto il muso grifagno, zannuto su cui la capigliatura bianca spiove in disordine, le spenzolano le ingenti e secche mammelle. Stende a raggiera le dita unghiute come bacchette d’un ventaglio iettatorio”25. L’idea di una percezione non mediata razionalmente si connette al concetto di rasa nella sua accezione di sperimentazione della bellezza. Il termine rasa, nel N1at¸yaés1astra, si riferisce a un principio estetico universale; non è individuato come proprietà o qualità di un oggetto o elemento della rappresentazione, né è rintracciabile nella reazione di uno spettatore che assista a una performance. Rasa identifica il processo di avvertimento estetico in cui “simbolo ed emozione si congiungono”26.

25

E. Zolla, Aure, Marsilio, Venezia, 1995, p. 106. E. Zolla, Archetypes, Allen and Unwin-Harcourt Brace, London-New York, 1981, trad. it., Archetipi, Marsilio, Venezia, 1988, p. 80. 26

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Il costume n1o come interpretazione di Monica Bethe

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“Mime Journal”, Pomona College Theater, Claremont, 1984, pp. 148-155

Nel teatro n1o il costume definisce il ruolo. L’attore, avvolto completamente nel costume, da cui restano scoperte solamente le mani e una parte del collo, diviene la forza motrice, vitale, di una forma definita e strutturata in un insieme di tessuto ed elementi lignei. La maschera riesce a cogliere la personalità, l’età e il sesso del personaggio; il costume lo status sociale, l’occupazione e la dignità; la parrucca il grado per cui la figura è umana o soprannaturale. L’assemblaggio del costume per un particolare ruolo tiene conto della regola secondo la quale ogni componente è un modulo variabile di un sistema completo. Alcuni tipi di maschere vanno con determinati tipi di costumi e parrucche. Le maschere di tobide e akuj1o si combinano con una gonna pantalone (hangiri) dorata e con le tuniche da caccia (kariginu) rigate e dalle ampie maniche, per rendere la potenza degli dei. Cambiando la gonna a pantalone con un 1okuchi privo di disegni, la maschera scelta avrà un viso più giovane e più raffinato, come la mikazuki o la kantan otoko, per il ruolo di un dio vigoroso. Sostituendo la tunica rigata con una priva di righe (che presenta colori più tenui e motivi più gentili) il ruolo diviene quello di un cortigiano con un’elegante e giovane maschera maschile, come Ch1uj1o. La parrucca, in questo caso, viene sostituita da frange laterali attaccate al copricapo del cortigiano. I costumi oltre a definire semplicemente le figure di base assolvono ad altre funzioni; infatti, attuano corrispondenze che trascendono l’aspetto visivo per coinvolgere gli aspetti strutturali della messa in scena e i tipi di musica eseguiti. Mentre una potente divinità che indossa una maschera tobide entrerà al suono rapido della musica dello hayafue e danzerà una breve maibataraki, un dio che indossi lo stesso tipo di costume e una maschera akuj1o entrerà al suono della più imponente musica deha ed eseguirà una lunga danza di corte (gaku). Questi differenti moduli musicali, a loro volta, non sono limitati a un dato costume; anche gli spiriti maligni che indossano maschere beshimi e mantelli happi (analoghi, per le ampie maniche e gli audaci disegni dorati su colori scuri, al kariginu ma di diversa struttura) con gonna pantalone hangiri, entrano al suono della musica hayafue e danzano una breve maibataraki. Pure i folletti e gli eroi cinesi eseguono la danza di corte, il cui

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ritmo evoca un senso di esotica stravaganza. La sovrapposizione dei moduli dei costumi e della musica aiuta ad arricchire le possibilità espressive di entrambi. In uno spettacolo il costume, la maschera e la parrucca da indossare per ogni ruolo sono descritti nei libri di canto (utaibon) appena prima del testo e sono fissati dalle tradizioni di ciascuna scuola. Il nome della maschera o delle maschere possibili per un ruolo, e di ciascun elemento dell’abbigliamento, sono catalogati con alcune indicazioni riguardanti il colore o il tipo di modello. Con regole così rigidamente fissate, come si può comprendere che il pubblico legga l’interpretazione dell’attore attraverso le scelte che opera riguardo al costume? Primo, l’attore è piuttosto libero per quanto concerne la combinazione di colori e modelli e per la specifica maschera che può scegliere all’interno di un assortimento di tipi. Secondo, nel caso di alcuni ruoli l’attore può optare per soluzioni alternative. Terzo, un attore conclamato può usare la sua discrezione e andare al di fuori della tradizione. Due esempi di costumi per lo spettacolo Kiyotsune illustreranno l’ambito delle prime due casistiche. Kiyotsune, un guerriero del sottomesso clan degli Heike, sceglie il suicidio piuttosto che la morte in battaglia. Dopo aver purificato la sua anima con la musica e aver recitato le sue ultime preghiere, si lancia tra le acque dell’oceano. Alla notizia della morte del guerriero la moglie reagisce con ira nei suoi confronti, perché ha così rotto i loro voti. Nel tentativo di domarne il risentimento, il fantasma di Kiyotsune appare per raccontare la sua versione della storia. Nella scena finale, il fantasma discende ancora una volta nell’inferno del guerriero (shurado) dove combatte con innumerevoli nemici prima di ricevere la salvazione come premio per le ultime preghiere dette. Essendo un giovane guerriero, indossa un kimono, o di broccato (atsuita o atsuita karaori) o di seta ricamata nuihaku, un’ampia gonna pantalone (un 1oguchi non operato o un hangiri disegnato), e un mantello dalle ampie maniche (un ch1oken di garza o un happi non foderato). La maschera è una ch1uj1o oppure un’altra di giovane guerriero; la parrucca è un tare con capelli neri sciolti sulla quale si indossa un copricapo da guerriero. L’attore Takabayashi K1oji, della scuola Kita, durante uno spettacolo tenutosi nel giugno 1982 scelse di enfatizzare la professione militare di Kiyotsune. Su un atsuita karaori di broccato indossò un ch1oken arabescato in oro con una manica arrotolata e infilata nella cintura in modo da liberare il braccio destro consentendogli l’azione, e la gonna pantalone hangiri con applicati disegni d’oro su sfondo dorato. Durante la scena della battaglia finale, il filo d’oro scintillava come un’armatura e l’austera mole conferiva solidità a tutta la figura. Non molto tempo dopo, Izumi Yoshio della scuola Kanze, rappresentò il medesimo ruolo in un costume ideato per evocare gli eleganti sentimenti di un cortigiano. Il nuihaku rosso ricamato, un abito indossato principalmente da donne, suggerì la delicatezza femminea del personaggio come anche il color lavanda della gonna pantalone 1oguchi decorata con foglie d’acero sparse. Rimboccando le maniche dello happi di colore blu e dalle decorazioni distanziate, in modo da riunirle alle spal-

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le, Izumi diede alla figura una linea pulita. Tutto era combinato in maniera da suggerire l’introversa sensibilità di Kiyotsune, il suo essere titubante. I più potenti e militareschi movimenti danzati della scuola Kita diedero supporto all’interpretazione di Takabayashi, in accordo con la sua versione lineare e asciutta dei versi in cui marito e moglie litigano, una non-enfasi del drammatico. In antitesi, nella versione di Izumi, i movimenti misurati e smorzati nei toni, caratteristici della scuola Kanze, supportati dalla tensione emotivamente pregnante nel canto, contribuirono ad accentuare l’aspetto drammatico del bisogno di Kiyotsune di giustificarsi con la propria compagna. Entrambi i costumi aderirono rigorosamente a norme stabilite, tuttavia ciascuno di essi diede luogo a un’esperienza notevolmente diversa. In rare occasioni gli attori riescono ad andare oltre le tradizioni stabilite dalle loro scuole e a reinterpretare interamente un dramma attraverso l’uso di costumi differenti. Izumi Yoshio nell’allestimento di Kayoi Komachi del dicembre 1983, rivedette radicalmente il dramma per mezzo della scelta di un corredo scenico non convenzionale. Prendendo spunto da un verso del testo drammatico in cui Komachi descrive se stessa come “una vecchia donna che vive nei campi di Ichinohara”, l’attore decise di adottare una maschera di donna anziana in alternativa a quella comunemente adoperata, ossia una tsure di giovane dama (ko-omote). Questo ha richiesto la riconsiderazione non solo del costume del personaggio, ma anche dell’intera struttura del dramma; nonostante si tratti di un atto unico, quindi privo dell’interludio ky1ogen a coprire il tempo necessario al cambio di costume, si rese indispensabile l’uscita di scena di Komachi e il suo rientro in un costume differente contravvenendo anche, in questo modo, alla regola che vuole la sparizione e la riapparizione in vera forma riservata al ruolo dell’attore principale (shite) e non all’attore di supporto (tsure). In Kayoi Komachi la brillante e bella poetessa del nono secolo, Ono no Komachi, appare sotto forma di spirito chiedendo a un monaco di pregare per la sua salvezza. Nella versione tradizionale in cui è vestita con splendidi abiti rossi caratteristici della giovinezza, Komachi si ritira, a un certo punto, sul fondo del palcoscenico (k1okenza) fronteggiando il muro. Il monaco comincia a pregare per la sua anima e lo spirito, ponendoglisi di fronte, lo ringrazia. Ma l’ombra del corteggiatore del passato, Shii no Sh1osh1o, le appare dietro. Esacerbato dalla frustrazione causata dal rifiuto della sua corte, si rifiuta di permetterle anche nell’aldilà di sfuggirgli e ottenere la salvazione. Il monaco lo incoraggia a raccontare le sue sventure con l’aiuto dei dialoghi intrapresi con Komachi. La bella poetessa si promise all’uomo a patto che egli giungesse a casa sua sotto mentite spoglie per cento notti consecutive. Durante la centesima notte egli scartò i suoi vecchi abiti per indossarne alcuni di raffinata eleganza, che però gli servirono unicamente per morire a causa dello sfiancamento procuratogli dai pellegrinaggi notturni a piedi nudi. Nel raccontare nuovamente la storia immagina nella sua fantasia la condivisione del loro sake nuziale. Sollevando la tazza, i suoi occhi colgono il riflesso della luna, e improvvisa-

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mente gli sovvengono alla mente i divieti per il bere. Così desiste e voltandosi si porta vicino a Komachi per ricevere anch’egli la salvazione. Il testo del dramma è antico, ha una datazione precedente a Zeami, il quale stabilì la predominanza del ruolo dello shite. In questo dramma Komachi e Sh1osh1o hanno parti equamente ripartite, e potrebbe essere stato nel tentativo di potenziare la preminenza del ruolo dello shite, Sh1osh1o, che negli anni successivi per Komachi venne adottata una maschera tsure. Izumi comprese che interpretando il testo letteralmente, stava tornando a una forma più prossima a quella originale. Per Komachi avrebbe potuto scegliere una maschera uba che si addice a una moglie (usata anche per lo tsure), ma scelse invece una yaseonna, normalmente indossata dalle donne sofferenti all’inferno, ma molto simile alle maschere che rappresentavano Komachi come una donna di cent’anni. Il sobrio costume indossato nella prima parte del dramma con nuihaku grigi ricamati e il mantello di garza (mizugoromo) blu opaco, inoltre, richiamavano la figura di Komachi in tarda età. Nell’operare l’uscita di Komachi e la sua riapparizione sul ponte, Izumi seguì il testo che descrive il suo dileguamento. L’uscita amplificò ulteriormente un momento estremamente drammatico, poiché quando Komachi discende il ponte per ringraziare il monaco, vediamo poco distante da lei, nascosta dal sipario, una figura chinata sotto un mantello blu. Quando Komachi si avvicina al monaco la figura segue le sue orme esortando ad alta voce di interrompere le preghiere. Verso dopo verso il desiderio di lei è schiacciato da quello di lui. Nella versione tradizionale, dove Komachi resta in piedi sul palco, l’accento principale è posto sull’attrazione di Sh1osh1o per la bellezza giovanile della poetessa piuttosto che sulla volontà di impedirle il raggiungimento della salvazione. Quando le è vicino, e lei con disgusto rifiuta la sua smunta figura, il rancore causato dai non sopiti istinti sessuali del passato sembra continuare a vivere oltre la gravità della situazione. Nella versione di Izumi non è l’immediata attrazione sessuale che lega i due nell’aldilà, ma le più intricate punte di risentimento. Quando Sh1osh1o afferra le maniche di Komachi dicendole che non riuscirà mai a fuggire da lui, ciò che vediamo sono due visi spettrali segnati dalle pene dell’inferno, yaseotoko e yaseonna, due costumi che rinascono dalla morte, uno maschile e uno femminile. Entrambi hanno sofferto passioni perverse durante e dopo la vita terrena, ma Komachi, la cui maschera mostra una grande dignità e allo stesso tempo i segni di una profonda sofferenza, e il cui costume in bianco e blu chiaro riflette il desiderio ardente per la Pura Luce, vede oltre, verso la salvazione. Pur distaccandosi dalla rivendicazione della sua innocenza Komachi deve comunque partecipare al racconto reiterato della loro relazione e ammettere la propria parte di colpa. Solamente quando il suo intenerimento discioglie la causa del rancore di lui, il risentimento di Sh1osh1o può trasformarsi in desiderio per la salvezza, e il capovolgimento piuttosto improvviso alla fine del dramma diviene così drammaticamente giustificato. La maschera più vecchia e il costume più sobrio di

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Komachi contribuiscono a preparare la scena in cui la storia non è vista semplicemente come una reiterazione del passato ma come una più intima narrazione da parte di due persone che riesaminano le loro intenzioni e imparano ad attenuare i propri punti di vista. Una volta assodata l’appropriatezza dell’uso di costumi e maschere non convenzionali di Izumi, rimase una quantità di problemi irrisolti riguardanti la messinscena. Il perfetto parallelismo dei loro costumi e delle loro maschere, con le voluminose gonne a occupare gran parte dello spazio scenico, avrebbe ridotto l’impatto drammatico del momento in cui Komachi si allontana da Sh1osh1o. Un suo riposizionamento più vicino al monaco poteva rivelarsi la soluzione adatta a questo passaggio. Il cambio di maschera impose un cambio di costume e una serie di alterazioni non solo nella messinscena ma anche nei tempi drammatici. Una più anziana, più onorata Komachi, canta più lentamente e a una più bassa intonazione di una giovane Komachi. Questo dilatò la durata del tempo di rappresentazione e determinò un accrescimento del grado (kurai) del dramma. Non a tutti gli attori n1o potrebbe essere concessa la libertà di sperimentare con i costumi, le maschere e la coreografia fino a tal punto, ma l’esempio di Kiyotsune dovrebbe mostrare come anche all’interno delle normali limitazioni prescritte, sia possibile un’ampia varietà di interpretazioni. Le decisioni restano nelle mani dell’attore principale. Queste considerazioni suggeriscono una delle maggiori differenze tra l’allestimento scenico del n1o e quello del teatro occidentale. Mentre in quest’ultimo vi è la presenza di un disegnatore di costumi, il quale lavora sotto un regista che suggerisce l’enfasi generale dello spettacolo, nel teatro n1o l’attore ha moduli di sua proprietà che gli consentono di scegliere personalmente i costumi di uno spettacolo e dunque incarna sia il ruolo di regista che di disegnatore di costumi quando monta le unità. Generalmente le decisioni dell’attore principale riguardano esclusivamente il proprio costume, anche se occasionalmente può intervenire su quello dello tsure; il waki (attore secondario) e il ky1ogen (cittadino comune) hanno la responsabilità di provvedere ai loro abiti. Che questi non risultino in contrasto con l’interpretazione dello shite è un tributo alla flessibile consistenza di seicento anni di tradizione.

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Alcune note sulla danza tibetana di Sylvia Kirk-Tenzing

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“Theatre Research International”, vol. III, n. 3, Oxford University Press, Glasgow, 1977, pp. 209-215

Esistono pochi manoscritti tibetani recanti istruzioni riguardo l’esecuzione della danza religiosa. Le matrici di legno, generalmente, erano custodite sotto sigillo all’interno dei monasteri tibetani, tuttavia è possibile vedere uno dei testi stampati da queste matrici nel museo Volkerkunde all’interno della collezione di NebeskyWojkowitz a Vienna. Si tratta di un cham dupe, un testo in quaranta volumi che illustra la rappresentazione del Kun tu tzangpoi cham così come si presentava nell’esecuzione della setta Nyingmapa. Le danze religiose chiamate kun-cham e quelle secolari dette teatro Lhamo, sono entrambe forme drammatiche che raccontano storie del passato. I loro movimenti, stile e costumi richiamano le danze sciamaniche dell’Asia Centrale. Nell’importante teatro Lhamo vengono rappresentate le diverse divinità, il folklore e i racconti tratti da eventi fondanti della storia tibetana, in cui si narra di gesta di re e di Lama. Il teatro Lhamo si rappresenta in occasione di speciali festività; si svolge all’aperto e spesso occupa l’intero arco della giornata; la sua struttura è analoga a quella dell’opera, e sono frequenti le pause per il tè, per il chang (birra tibetana) e per giocare a dadi sho. Questi drammi, che venivano rappresentati da gruppi analoghi alle nostre confraternite, vengono oggi messi in scena dai Tibetani esiliati, in particolare a Dharamsala dove risiede il Dalai Lama, i quali formano compagnie teatrali che hanno nei loro repertori drammi tibetani della storia moderna (il cui soggetto può essere ad esempio la conquista cinese), ma che conservano con cura anche quelli appartenenti alla tradizione. In alcuni drammi tibetani moderni lo stile tradizionale, analogo ai nostri mimi e ai nostri misteri, e le figure familiari del folklore sono state abbandonate. Lo stile delle rappresentazioni è prettamente realistico e ricorda quello del teatro di Brecht. Le scene improvvisate si susseguono con un andamento molto veloce; alla commedia degli inganni segue la tragedia, e durante gli intervalli tra una scena e l’altra vi sono momenti di canto o di danza accompagnati con il dumning, la lunga chitarra tibetana, con la funzione di alleggerire la performance e spesso, proprio come nel teatro brechtiano, di anticipare la vicenda.

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Il Lhamo tradizionale era più che un semplice intrattenimento spettacolare; era uno strumento con cui si insegnava la storia del Tibet in una società in cui solo i monaci e i funzionari sapevano leggere e scrivere, e, inoltre, aveva la funzione di rinsaldare nel popolo la fede e l’unità sociale. Il kun-cham, la danza religiosa, non ha sviluppato uno stile moderno, e, al contrario, ha mantenuto una assoluta fedeltà ai testi. La tradizione vuole che alle persone sposate sia proibito eseguire queste danze del Lama, le quali possono essere rappresentate solo dai giovani monaci allenati sin dalla fanciullezza. Le danze kun-cham devono le proprie origini ai sogni degli incarnati santi Lama cui veniva chiesto di risolvere un problema o di assolvere a una richiesta, sia per un interesse personale che nazionale. Successivamente essi dettarono la forma della danza e il relativo simbolismo, come di seguito riportato. Il tema principale è quasi sempre il tentativo di allontanare il male o la malattia presente nella persona, nella famiglia o nella comunità intera, oppure di scongiurare gli eventi funesti nel futuro. Il male viene in un certo senso scaricato su un capro espiatorio, un’effigie simbolica (chiamata lingam) realizzata dai monaci, il quale non personifica il male, ma piuttosto diventa un contenitore all’interno del quale il male viene fatto entrare. Le danze cham di Capodanno, per esempio, eseguite in onore delle divinità protettrici del paese, sono in realtà danze apotropaiche, rappresentate a giovamento della comunità. Le divinità protettrici vi sono raffigurate come arcangeli estremamente fieri e a loro si tributano grande rispetto e una profonda venerazione, accogliendoli in speciali piccole dimore di pietra vicino a ogni abitazione o monastero e offrendo loro fiammelle di olio di ginepro. Un esempio di questo tipo di danza cham lo ritroviamo nella celebrazione del Capodanno della setta Gelugpa. Tali danze, il cui ritmo è rispettoso della metrica e nelle quali si eseguono principalmente passi veloci nella sequenza uno lungo e due corti, sono accompagnate da un’orchestra di monaci composta da corni lunghi e corti, cimbali, campane e tamburi. La speciale celebrazione del culto delle divinità protettrici ha luogo gli ultimi sette giorni dell’anno e durante questo periodo per le lampade a burro viene usato solamente grasso di bue; questo contribuisce a esorcizzare il male dal nuovo anno. Ogni giorno, dall’una alle otto di mattina, vengono praticati dai monaci riti religiosi; poi, dalle otto alle cinque e mezza del pomeriggio, si esegue una serie di danze seguita da una cerimonia religiosa che si svolge dalle sei alle otto di sera. Le danze hanno luogo all’aperto ai piedi della scalinata che conduce nella principale camera dell’assemblea del monastero. Questo luogo funge da proscenio, e il pubblico siede attorno per tre lati. L’orchestra di monaci, suonando corni e battendo assieme cimbali, apre il ciclo di rappresentazioni girando attorno all’arena in cui si svolgeranno le danze. Poi, quando ha preso posto su di un lato del palco, il primo personaggio fa la sua apparizione.

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Fig. 1

Fig. 2

Ashen Djinda (fig. 1) è un uomo grande e grosso, grossolanamente imbottito in colorati e luccicanti broccati e accompagnato da sei bambini che lo solleticano sotto il mento e sulle spalle. Si tratta di un personaggio storico che sosteneva il discepolo di Buddha Neydan Chudu e che donò tutti i suoi gioielli e i suoi ricchi abiti ai discepoli di Buddha. Appaiono poi i Lha Karpo (fig. 2). Si presentano come due figure vestite di bianco e nero, ognuna delle quali tiene in una mano dei grandi dadi e nell’altra cinque brillanti stole di seta intrecciate simboleggianti un arcobaleno. Sui loro copricapi portano una piuma bianca di avvoltoio, l’uccello della morte, e danzando in circolo lanciano al centro della scena i dadi per divinare il futuro. All’interno della camera dell’assemblea, le cui porte sono aperte, seduto sul suo trono c’è l’Oracolo (fig. 3) – un medium che prevede il futuro, simile all’oracolo delfico –, attorno al quale si riuniscono gli altri dignitari ecclesiastici. A questo punto dello svolgimento della performance l’Oracolo cade in trance e rende omaggio alla divinità protettrice (ne esiste una per ogni setta) inchinandosi per tre volte. Un assistente mette una lancia nelle mani dell’Oracolo il quale la brandisce e la scaglia. Poi esegue una breve danza prima di riprendere il suo posto sul trono per emettere profezie e rispondere alle domande poste dal capo Lama. Nel frattempo otto giovani monaci, ognuno rappresentante un chewa (fig. 4), piccolo messaggero della divinità protettrice, entrano e danzano per venti minuti con estrema grazia e leggiadria. Il loro costume è caratterizzato da una larga gonna e da una maschera piatta con un copricapo conico, cinto da balze di differenti sete colorate, in cima al quale è posta una bandiera. I danzatori ruotano le teste con un movimento teso a far avvolgere all’asta la bandiera triangolare sulla punta del copricapo. Ognuno di essi tiene una ciotola ricavata da un teschio e una sciarpa di

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Fig. 3

Fig. 4

seta colorata. Giungono danzando e formano due file contrapposte per poi riunirsi di nuovo muovendosi circolarmente e cominciando a girare alternando il verso. Successivamente si riuniscono in coppie e lasciano l’arena guardando il pubblico e danzando all’indietro; nel ritirarsi girano su se stessi e si toccano le fronti con i talloni sull’ultimo battito del ritmo della danza. È necessario che questa danza sia eseguita a tempo e in perfetta coordinazione. Terminata la performance dei chewa entrano danzando nell’arena quattro scheletri törda (fig. 5). Indossano costumi bianchi con una sagoma scheletrica dipinta

Fig. 5

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Fig. 6

in rosso e piccole campane legate ai piedi e alla vita. Hanno il viso coperto da grandi maschere che consistono in teschi con orecchie d’elefante; danno spettacolo tormentandosi l’uno con l’altro e trascinando l’uomo tsampa (orzo), ossia il capro espiatorio, lungo circa novanta centimetri, al centro della scena. Il ritmo della musica sale e due danzatori siedono a gambe incrociate nella parte posteriore del palco, mentre gli altri due danzano sulla parte anteriore. Questi poi si posizionano davanti ai due scheletri seduti cominciando a punzecchiarli e a stuzzicarli. È una scena comica avente come protagonista principale la morte. I quattro danzatori, prima di saltare per scambiarsi le posizioni toccandosi le mani a ogni incrocio, formano un circolo e di seguito un quadrato rappresentando un mandala. È questa l’ultima azione degli scheletri danzanti che lasciano l’arena per far posto a Palden Lhammo. Palden Lhammo (fig. 6) entra accompagnato da due guardiani, Chusing Donchen e Singe Donchen, il primo indossa una maschera di coccodrillo, il secondo di leone. Palden Lhammo è una divinità protettrice appartenente al primo e più elevato rango nella gerarchia delle divinità del Buddhismo tibetano. In accordo con la sua elevata posizione indossa una maschera blu con cinque teschi (la maschera di una divinità di rango inferiore prevede solo un teschio o comunque meno di cinque). Indossa una larga stola cerimoniale e porta in mano un vecchio coltello di legno. Danza per circa quindici minuti assieme ai suoi servitori ciascuno con in mano due teschi. Segue una danza conosciuta come danza del cervo. Il danzatore (fig. 7), che rappresenta un messaggero di Yama, dio della morte che tutto giudica, ha sul capo una testa di cervo. Prima che la performance abbia inizio, l’arena è allestita con una larga tavola sulla quale si trova un uomo tsampa alto novanta centimetri circa.

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Un cuscino di broccato e un largo coltello sono posti davanti al tavolo. Il danzatore, indossando una maschera di cervo in cartapesta, entra e danzando secondo il ritmo lungo-breve-breve, compie tipici movimenti dell’animale. Il resto del suo costume è identico a quello dei danzatori con i Berretti Neri [danza descritta più avanti – ndt]. Il cervo danza in circolo attorno all’effigie prima di inginocchiarsi sul cuscino per meditare. Successivamente afferra il coltello, colpisce l’uomo tsampa con veloci e ritmici colpi, e lancia i suoi pezzi tra il pubblico indirizzandoli verso i punti cardinali. Questa azione segna il termine della danza. Due figure conosciute come ahzara (fig. 8) entrano portando una tavola triangolare di legno con i lati lunghi ognuno tre metri e mezzo circa sul quale giace l’effigie tsampa. La tavola viene posta al centro dell’arena. Il loro costume consiste in una maschera rossa dall’espressione irata e in una stola indossata sul torso nudo. Un ahzara porta un gancio e una corda mentre l’altro porta un’ascia infilata nella cintura dietro i calzoni. L’uomo col gancio per primo prova, con successo, a lanciare la sua arma riuscendo a infilzare l’effigie la quale, poi, viene tagliata dall’altro ahzara che lancia i pezzi attorno a sé. Queste due danze costituiscono il climax dell’offerta del capro espiatorio per tenere lontano il male. La danza conosciuta come danza dei Berretti Neri chiude la serie. I danzatori (fig. 9) sono vestiti completamente in nero in costumi dalle morbide e fluenti maniche e tengono piccoli teschi a cui sono legati cinque nastri colorati. A turno danzano su una piattaforma fuori dalla camera dell’assemblea dopo di che discendono i tredici gradini che portano all’arena e danzano assieme in cerchio. Si raggruppano in due file e terminano la danza in coppia. Il simbolismo che è alla base di queste azioni riguarda la storia del re Langdarma che visse nel decimo secolo d.C.; quando chiese al popolo di decidere tra la vecchia religione sciamanica Bon e il Buddhismo giunto dall’India, perseguitò i seguaci di quest’ultimo poiché era sua

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convinzione che il fulmine abbattutosi sul principale monastero buddhista di Samnye fosse il segno che il Buddhismo era la religione sbagliata per il Tibet. Langdarma fu ucciso da un monaco vestito di nero che cavalcava un cavallo nero. Il re fu colpito da una freccia che il monaco nascondeva nell’ampia manica del suo abito; da qui l’aspetto dei danzatori. Questa danza rappresenta un ammonimento a tutti i potenziali oppressori del buddhismo. Nel suo libro Oracoli e demoni del Tibet, Nebesky-Wojkowitz descrive in dettaglio la danza mascherata (bag cham) che ha luogo in Sikkim ogni anno in tarda estate di fronte al palazzo reale in Gangtok, dal 1975 parte dell’India. Il rituale è rappresentato in relazione al culto delle tre principali divinità guardiane del Sikkim e viene svolto dal 1686. Anche il re del Sikkim porta il suo rispetto a questo importante evento. All’interno della società tibetana ci furono uomini addestrati e conosciuti come i facitori del tempo atmosferico i quali credevano che il tempo potesse essere influenzato dalle offerte alle divinità e che si potessero attirare, minacciare o distruggere gli spiriti malevoli portatori di grandine e fulmini. Il loro modo di trattare e comunicare con questi spiriti era la danza, pronunciando mantra e ed eseguendo mudra. Le danze del Tibet necessitano di ulteriori ricerche poiché contengono all’interno della loro struttura l’origine delle credenze tibetane, le radici dalle quali provengono, e i rimedi trovati da quella società per neutralizzare le forze che cercavano di controllare.

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Giocando con il passato. Visita e illusione nel teatro delle maschere di Bali di John Emigh

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“The Drama Review”, vol. 23, n. 2, New York University, New York, 1979, pp. 11-36

Quello che segue è il resoconto di una performance di topeng pajegan rappresentata da Nyoman Kakul nel villaggio di Tusan, a Bali, il 6 febbraio 1975. Il topeng è una forma popolare di teatro delle maschere di Bali, e il topeng pajegan ne costituisce una versione molto antica e particolarmente impegnativa in cui un unico attore rappresenta tutti i personaggi – danzando, raccontando storie, scherzando e praticando rituali. Quando ci incontrammo, nel gennaio del 1975, Kakul controllò un calendario, trovò un’ora che potesse essere particolarmente propizia per cominciare lo studio e mi diede la prima lezione. Mi invitò inoltre a vivere nella sua abitazione per il resto del mio soggiorno finalizzato allo studio delle danze in maschera. Nei mesi che seguirono, mentre osservavo Kakul insegnare e rappresentare, questi mi sottoponeva a quotidiane torsioni del corpo per piegare le mie resistenze e dar luogo a qualcosa che approssimativamente si avvicinasse alle corrette forme per la danza balinese. Faceva anche in modo che incontrassi altri performer e scultori di maschere dell’isola. Arrivai a comprendere che il topeng è una forma intermedia rispetto ai rituali di visita ancestrale che ho recentemente potuto osservare in Nuova Guinea e il teatro di personaggio e illusione che ho studiato in Occidente. Inoltre, questo studio, ha incrementato la mia ammirazione e il mio rispetto sia per la forma teatrale che per gli uomini che la praticano. Kakul ebbe un ictus poco dopo la mia partenza da Bali e non recitò più. Spero che, assieme agli altri suoi propositi, questo resoconto possa rappresentare una sorta di testamento della sua valentia artistica. La performance e l’occasione. L’insieme degli eventi Il topeng è solitamente rappresentato come parte delle festività che accompagnano un matrimonio, una cremazione o un odalan – un evento annuale durante il quale gli dei discendono sugli altari dei propri templi. Alcune volte i performer vengono scelti tra gli stessi abitanti del villaggio, altre volte possono essere ingaggiati profes-

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sionisti provenienti da altri villaggi. Nel febbraio 1975 Kakul venne reclutato a Tusan per rappresentare il topeng pajegan come una delle cerimonie che avrebbero accompagnato la cremazione di un brahmana (sacerdote di alta casta). Kakul è un sudra, o jaba – nato al di fuori del sistema delle caste di status privilegiato. Come al solito Kakul viaggiava per il suo lavoro utilizzando i trasporti pubblici, e i contenitori delle sue maschere e dei suoi costumi topeng si contendevano lo spazio con polli e vari prodotti che gli altri passeggeri portavano al mercato. Quando l’autobus era ormai vicino a Tusan, la strada cominciò a fiancheggiare il fiume Unda. Su di un lato si estendevano verdi colline e un enorme, nodoso albero di banyon che segnava l’ingresso al villaggio. Sull’altro lato, oltre il fiume, una veduta di campi di riso terrazzati si allungava verso il mare. Una parata di abitanti del villaggio vestiti in brillanti abiti rossi, verdi e gialli, con stoffe bianche legate attorno al capo, giungeva dal centro abitato riversandosi sulle strade. Il rito della cremazione non sarebbe durata che tre giorni, ma gran parte della vita del villaggio era già dedicata alle attività collaterali dell’evento; il senso della festa contrastava aspramente con la realtà terrena dell’autobus e dei suoi passeggeri. Molti abitanti del villaggio portavano ombrelli dorati dai colori splendenti, mentre altri suonavano piccoli gong di varie misure creando una gioiosa interazione di tonalità e ritmi. Offerte di dolci di riso tinti di rosa, giallo e bianco erano poste su vassoi d’argento portati sul capo da alcune delle donne presenti. Quando l’autobus si fermò, Kakul aprì gli occhi e allungò la mano per prendere la cesta delle maschere. Nel tempo impiegato a trasportare nel cortile centrale i contenitori di maschere e costumi, la processione stava tornando. Le offerte di riso erano state deposte. Kakul fu accolto come un ospite e come un esperto; il modo di salutare era determinato dalla casta d’appartenenza e condizionato dal suo essere riconosciuto come artista. Un gruppo di sacerdoti che sedeva in un padiglione – ridendo, condividendo storie e masticando noci di betel –, salutò con entusiasmo Kakul, il quale rispose ai saluti mantenendo un atteggiamento estremamente rispettoso e conveniente a un jaba in presenza di brahmana. Questo comportamento risultò in marcato contrasto con la condotta che tenne poco tempo dopo, lontano dai sacerdoti, durante un lauto banchetto a base di carne di tartaruga e riso molto piccante. Qui Kakul pareva carico di energia e loquacità – uno straordinario cantastorie che intratteneva i suoi amici. Prima della fine del banchetto un centinaio di uomini circa si riversò, seguendo il suono dei gong di legno, o kalkuls, nel centro del villaggio e allestì una enorme struttura formata da spessi tronchi di bambù incrociati a supporto di una grande vacca bianca sovradimensionata rispetto alla realtà, agghindata con ornamenti dorati. Questa struttura sarebbe diventata il sarcofago di fuoco del brahmana deceduto nella cerimonia di cremazione che stava per aver luogo. Nel frattempo, formatasi un’orchestra di stridenti e chiassosi gong, gli abitanti diedero fuoco al sarcofago. L’intera struttura venne portata in circolo per la piazza principale e poi, a una andatura velocissima, giù per le strade in terra battuta accompagnata dal suono dei gong e da una cacofonia di urla e risate.

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Questo insieme di attività è tipico delle occasioni in cui il topeng viene rappresentato. Processioni, banchetti, suono di gong, urla e risate sono deliberatamente sovrapposti per creare un evento di grande intensità. Mentre il complesso di tali momenti risultò appropriato allo svolgimento della cerimonia di cremazione, nel caso di un matrimonio o di un odalan, gli stessi eventi avrebbero preceduto la cerimonia.

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Un attore balinese si prepara Quando gli abitanti del villaggio ritornarono indietro lungo la strada, grondando di sudore sotto il pesante carico della mucca bianca, Kakul si diresse verso una zona relativamente isolata e cominciò la preparazione per la sua performance. Alcune offerte erano state preparate perché le usasse. Guardandole proferì mantra in sanscrito giavanese, invocando la terra, l’aria, l’etere celeste e le nove manifestazioni delle divinità hindu, chiedendo la benedizione per le sue azioni come performer. Non fece alcun tentativo di nascondere questo rituale di preparazione; né fece alcunché per ostentarlo. I mantra erano recitati tranquillamente in piena luce, lontano dalle principali aree di attività. Mentre i mantra contribuirono a concentrare le energie di Kakul sulla performance che avrebbe avuto luogo, l’uso del sanscrito lo pose in contatto con il sentiero tradizionale che conduce al mondo delle divinità. Nell’adoperare il linguaggio dei sacerdoti brahmana Kakul abbandonò il vernacolo e, così facendo, uscì dalle convenzioni linguistiche basate sulla casta che lo definiscono nella struttura sociale della vita balinese come sudra. Usando il linguaggio dei sacerdoti, e il linguaggio di un passato lontano, cominciò ad assumere la posizione di mediatore tra la storia e la realtà contemporanea – un ruolo in cui gli obblighi sociali quotidiani e le regole di casta legate all’etichetta possono essere spese. Proseguendo la recita dei mantra Kakul si diresse verso il luogo che avrebbe ospitato la performance. Era stato allestito in un largo cortile un sipario dietro al quale si trovava una struttura temporanea di stuoie di legno da utilizzare come camerino. Lì, dietro al sipario, aiutato da un assistente, Kakul si cambiò indossando il suo costume topeng. Il procedimento è alquanto elaborato. Il performer del topeng indossa un solo costume per tutti i personaggi che rappresenta; solamente le maschere e gli ornamenti per il capo cambiano. Composto da molti strati, il costume procura molto caldo, è scomodo ma spettacolare. Su pantaloni bianchi e su un’ampia casacca bianca che scende fra le gambe, è disposto un brillante assortimento di nastri, mantelli e tabarri. Le distese di stoffa verde, rossa, blu, viola e nera sono tutte decorate con ornamenti d’oro, mentre dai mantelli pende una frangia e scintillanti paillette decorano le ghette, i braccialetti e le collane. Infine una spada cerimoniale, o keris, è messa in posizione, la sua impugnatura tenuta in equilibrio sulla spalla destra del danzatore e la sua lama all’interno del fodero costringe l’intero costume a tendersi sul lato sinistro.

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Questo costume è differente dall’abito ordinario del balinese. Sebbene le storie topeng siano tratte da cronache che descrivono minuziosamente le guerre antiche e il vocabolario della danza abbia le sue radici nelle arti marziali dell’arcipelago indonesiano, la relazione del costume con l’abito di corte o con quello militare del quattordicesimo o quindicesimo secolo non è del tutto chiara. Il costume, appartenendo al tempo marginale della performance posto tra il passato e il futuro, si propone di evocare ed esaltare quel periodo, non di emularlo. Quando Kakul si è sistemato il costume, si gira verso il contenitore delle maschere ancora chiuso e pronuncia le seguenti parole: “Om, onorato nonno, /Om, onorata nonna, /Vi prego, destatevi per danzare”. Bussa sul contenitore per tre volte, poi lo apre e dispone le maschere nell’ordine in cui verranno usate. Dopo la performance, chiudendo il contenitore parlerà alle maschere ancora una volta, porgendo loro un’offerta, chiamandole onorato nonno e onorata nonna e invitandole a ritornare alle loro divine dimore. Usando un fiore Kakul asperge dell’acqua santa sulle maschere e sul suo stesso viso. Quindi, tenendo un bastoncino di incenso di sandalo sopra le narici delle maschere, respira a sua volta il fumo aromatico e pronuncia ulteriori mantra in sanscrito giavanese chiedendo la benedizione per la propria performance. Il fiore è l’emblema di Siwa, l’acqua di Visnu e l’incenso che brucia di Brahma. Il tenere l’incenso sopra le maschere è sorprendentemente analogo all’atto dell’aspirare il fumo delle danzatrici in trance. Esiste una lunga e ancora oggi vitale tradizione di trance e di evidenti visite da parte di spiriti nel teatro e nella vita balinese. Si dice che medium spontanei di spiriti, in stato di trance profonda, parlino usando linguaggi ancestrali e voci trasformate prescrivendo i modi per propiziare entità spirituali trascurate. Le sanghyang dedari, ragazze non ancora adolescenti, in stato di trance eseguono all’unisono danze mai provate prima tenendo gli occhi chiusi. Può essere rintracciata una straordinaria analogia tra una serie di maschere del piccolo villaggio di Trunyan, una enclave pre-hindu a Bali, e quelle ancestrali tubuan della Nuova Guinea, corredate da un costume realizzato con cerchi di foglie di padandus. Durante le danze delle visite ancestrali in Nuova Guinea la maschera berutuk sembra fungere da canale per gli spiriti. L’esistenza della cerimonia berutuk può indicare una inclinazione papuana nella cultura balinese. Sia le danze sanghyang dedari che la cerimonia berutuk possono essere rintracciate nelle pratiche pre-hindu, antecedenti all’influenza delle corti giavanesi sulla vita e sul teatro balinese, tuttavia, la religione hindu di Bali ha abbracciato la tradizione di visita di Giava. Durante le cerimonie odalan, che spesso sono l’occasione per le rappresentazioni topeng, divinità e spiriti ancestrali sono chiamati a visitare gli altari a loro dedicati così da rendere vivo un tempio. Richiamati dallo stesso incenso di sandalo di cui i medium e le danzatrici in trance aspirano il fumo, e utilizzato per preparare il danzatore topeng pajegan e le sue maschere, questi spiriti ancestrali sono anche descritti come coloro che lasciano la loro sacra montagna, Gunung Agung, il vulcano

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che domina Bali. Il Gunung Agung, oltre a costituire un punto fisso per il senso d’orientamento dei balinesi, rappresenta una dimora sia per le divinità hindu che per gli ospiti ancestrali di Majapahit, un impero feudale hindu della Giava dell’est dal dodicesimo al quindicesimo secolo. Molti balinesi fanno risalire i loro antenati a Majapahit – le sue cronache rivestono grande importanza per il repertorio topeng. L’entrata del danzatore topeng si svolge sempre in direzione del Gunung Agung, ed è lì che le maschere topeng si pensa abbiano la loro dimora divina. Le vesti infuocate dai colori brillanti dell’ospite ancestrale, con la loro chiassosa fastosità richiamano subito alla mente di qualunque balinese il performer topeng. Infatti, la parola balinese per l’aspetto dell’attore è taksu – lo stesso termine usato per gli spiriti ancestrali. Il topeng trae origine dalla tradizione di visita – ma nel topeng la tradizione risulta teatralizzata e il danzatore non mostra alcun segno evidente che indichi lo svolgimento in stato di trance della sua rappresentazione. L’attore cerca l’ispirazione, non la possessione, ma il suo approccio alla caratterizzazione attraverso la maschera è informata e supportata dalla tradizione di visita. Occasionalmente, quando portavo una nuova maschera a casa, Kakul se ne impadroniva e con la mano destra la afferrava dal retro in modo che gli fosse completamente visibile. Giocava con il movimento regolando la velocità e l’intensità di definizione fino a quando era soddisfatto per aver trovato il modo in cui la maschera si muoveva meglio; il modo in cui essa voleva muoversi. Solo successivamente la appoggiava sul viso e cominciava a muovere il corpo portando in vita la maschera, creando un amalgama tra questa e i suoi movimenti che, in mancanza di un’espressione migliore, può essere chiamato personaggio. Le sue parole erano sempre rivolte alle esigenze che una maschera aveva. Quando la maschera era di suo gradimento diceva: “Questa maschera vive”, quando invece non gli piaceva, la disprezzava dicendo che era “priva di vita”. Tale tecnica, volta a scoprire la volontà della maschera, è tipica dei performer topeng. L’artista di topeng, differentemente dalla danzatrice sanghyang dedari, come prima cosa impara le danze in modo meccanico e il suo corpo viene plasmato dal guru che guida i movimenti affinché possa raggiungere le forme appropriate. Pian piano, attraverso l’imitazione e la diretta azione sugli arti, assimila il vocabolario della danza di cui avrà bisogno per rappresentare la serie dei personaggi topeng. Le maschere non sono mai usate a questo livello di apprendimento. Tuttavia, mentre studiavo con Kakul, con mia grande sorpresa egli criticava ripetutamente le mie espressioni del viso quando facevo smorfie nella goffa ricerca di far lavorare assieme i piedi, le braccia e il corpo in modi per me strazianti e poco familiari. La maschera non è un travestimento. Se il viso dell’attore dietro la maschera non esprime il personaggio della figura danzante, il corpo si muoverà in modo errato, e la maschera risulterà privata della sua stessa vita. Dopo aver lasciato Bali, W. S. Rendra, il poeta, drammaturgo e regista giavanese, mi raccontò del modo con cui suo nonno si preparava a rappresentare utilizzando una nuova maschera. Non so se questo metodo venga esattamente osservato

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anche a Bali, ma la procedura descritta da Rendra è in totale armonia con ciò che ho appreso circa gli atteggiamenti verso le maschere a Bali. Quando il nonno di Rendra acquistava una nuova maschera egli, come Kakul, la teneva in mano e la voltava in un senso e nell’altro cercando di percepire lo spirito suggerito dalla maschera – la sua vita. Poi la appoggiava sul letto, accanto alla testa. Mentre dormiva, come atto di volontà, inseriva lo spirito della maschera che aveva immaginato all’interno dei propri sogni. In questi sogni controllati, il nonno di Rendra chiedeva allo spirito della maschera di apparire come testimone di eventi importanti tratti dalla sua vita di veglia. Andando indietro nel tempo, alla fine, sognò l’evento della sua stessa nascita. Dopo questo sogno il danzatore era considerato in grado di lasciare entrare lo spirito della maschera nel proprio corpo; e attraverso il corpo dell’attore, l’essenza della maschera era in grado di trovare espressione, così i movimenti di danza precedentemente appresi in modo meccanico divenivano connaturati. Il danzatore non era in stato di possessione, ma il suo comportamento risultava trasformato. Danze introduttive: lo scuotimento del sipario e l’ingresso dell’antenato Appena Kakul ha preparato le maschere nell’ordine in cui verranno usate, l’orchestra gamelan comincia a suonare. Vivacemente, in modo veloce e gaio, con assoluta precisione e apparentemente senza sforzo, i martelletti di legno scendono sui tasti di bronzo dei metallofoni, dando luogo a intricati motivi concatenati, ornati dal battito di piccoli piatti di bronzo dalle varie dimensioni, e dal dolce suono di flauti, cadenzati dal motivo regolare di un grande gong, e stimolati dal rapido suono delle percussioni. Attratto dalla musica, il pubblico comincia a prendere posto formando un’ampia schiera ovale nel cortile. L’orchestra si trova a una delle estremità di questa schiera; il sipario decorato che nasconde la preparazione di Kakul è diametralmente opposto. Su entrambi i lati del sipario sono stati piantati nel terreno ombrelli cerimoniali dorati. Non c’è altro scenario, nessuna ulteriore delimitazione dello spazio per la danza oltre quella segnata dal pubblico. I bambini giungono per primi, sedendo a gambe incrociate o distendendosi a terra, con i volti vivaci e ansiosi. La performance era fissata per le quattro. Ora sono le sette e si appendono lampade per provvedere l’illuminazione appena la luce del giorno calerà. Nessuno sembra preoccuparsi. Durante le occasioni cerimoniali gli avvenimenti accadono quando sono pronti per accadere, oppure quando il tempo è propizio. Il tempo dell’orologio è considerato una convenzione relativamente poco importante, in queste occasioni è irrilevante il momento in cui si comincia o si finisce. Gradualmente gli adulti iniziano a riunirsi dietro i bambini formando diverse file, più o meno attente, di gente seduta a gambe incrociate, accovacciata o in piedi, mentre altri a distanza gettano talvolta sguardi casuali. Scherzi occasionali si fondono con la musica.

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Dietro il sipario, Kakul, abbigliato nel suo colorato assortimento di tabarri e mantelli, con l’impugnatura del keris in equilibrio sulla spalla destra e il suo costume gonfio dietro, compie un ultimo controllo delle maschere da usare – uno straordinario assortimento di re, bestie, eroi, furfanti e buffoni. Prende in mano la sorridente maschera rossa del coraggioso patih (primo ministro) I Gusti Nguran Lepang, la guarda intensamente per un secondo e la indossa. Utilizza una parrucca parziale i cui capelli neri gli cadono sulle spalle, e un elaborato copricapo di cuoio dorato ritagliato, ornato con fiori e bacchette di incenso fumanti, da porre sulla parte ancora visibile della grigia capigliatura. Fissa alcune foglie ai lati della maschera per coprire lo stacco tra maschera e viso. Kakul si prepara a entrare. Un suono gutturale emerge dalla gola, e una mano dà una piccola scrollata al sipario mentre l’altra compie gli aggiustamenti dell’ultimo minuto. Ricevuto il segnale dal primo percussionista, l’orchestra gamelan comincia a suonare gli otto tempi, una melodia ciclica del baris gilak tradizionalmente associata alla danza dei guerrieri. Kakul scuote il sipario con maggior veemenza e un afflusso di suoni provenienti da piccoli cimbali sovrapposti sottolineano tale movimento. Il sipario è nuovamente scosso, questa volta ancor più violentemente e ancora il movimento è accompagnato dal suono delle percussioni. Questo ricorda l’atto beneaugurante di scuotimento del mondo che accompagna l’arrivo dell’ospite ancestrale nelle canzoni di invocazione eseguite durante le cerimonie dei templi. Kakul apre il sipario nel mezzo e entra nello spazio definito dal pubblico presente nelle vesti del patih dal viso rosso. Il suo capo compie piccoli, precisi e improvvisi movimenti. Le sue gambe sono piegate e i piedi tenuti tra loro distanti e saldamente piantati sul terreno in una posizione derivata dalle arti marziali. Le dita si muovono velocemente in multipli della cadenza ritmica musicale, come fossero antenne che tastano l’aria di un mondo sconosciuto. Il guerriero scruta agilmente il nuovo spazio, le sue mani si muovono elegantemente verso l’elmetto di pizzo dorato che gli brilla sul capo. Avanza in modo minaccioso, quasi sospettoso, emanando un senso di potenza e di perfetto controllo. La sua camminata è estremamente innaturale e il corpo appare attorcigliato e contratto. I piedi girano su se stessi a ogni passo mantenendo equilibrio e prontezza e le mani disegnano in aria eleganti e morbide linee. Improvvisamente il patih concentra la sua attenzione sull’ombrello cerimoniale. Con un veloce passo incrociato si muove in direzione di questo alzandosi su un solo piede e rimanendo sospeso in aria mentre l’orchestra drammaticamente si ferma per due tempi. Kakul sembra immenso. La musica riprende e Kakul solleva il mantello dorato come sfoggio di coraggio e grandiosità. Ora cammina più velocemente e reclamando lo spazio come proprio, lo domina mentre i rapidi movimenti delle dita continuano a tastare l’aria. A volte cambia improvvisamente fulcro d’attenzione e reagisce a un nemico invisibile. Forse sta reagendo alla presenza del pubblico? Kakul non ha mai danzato prima con questa orchestra. I cimbali e le percussioni sembrano estendere il movimento del suo corpo in suono, creando un’esperien-

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za di sinestesia in cui musica e movimento risultano un tutt’uno. Un piccolo, improvviso movimento di un ginocchio o di un gomito è il segnale delle intenzioni di Kakul per il primo percussionista. Questi, a sua volta, inoltra il segnale al resto dell’orchestra con un codice ritmico. Appena Kakul girando su se stesso si ferma improvvisamente in una posa di moto arrestato, anche l’orchestra gamelan si ferma. Alla fine, rivendicato lo spazio, completata l’esibizione, il coraggioso patih scompare oltre il sipario chiudendolo dietro di sé. Celato dal sipario Kakul toglie la maschera e il copricapo di patih per indossarne un’altra. Questa è tinta di un particolare blu verdastro ed è caratterizzata da guance tonde e da un ghigno malefico. Ha un aspetto decisamente comico e appartiene a Pasung Grisgris, un patih che una volta, nella Bali del quattordicesimo secolo, trapiantò una testa di maiale sul corpo di un re. Indossati la nuova maschera e il nuovo copricapo Kakul avvicina una sedia al sipario, per scrollarne i lembi. Di nuovo i cimbali e le percussioni accompagnano questo fremito con un tripudio di suoni. Il gamelan sta suonando un’altra variazione di baris gilak, la melodia del guerriero. Dopo aver stuzzicato il pubblico con il gioco del sipario, Kakul, lo apre e rivela il malefico patih appollaiato sulla sedia. I gesti che compie sono abbastanza differenti da quelli del coraggioso patih dalla faccia rossa. Piuttosto che dominare lo spazio con l’agilità di un guerriero minaccioso, sfrutta la dinamica della situazione performativa giocherellando visibilmente con il percussionista, sfidandolo a seguire i suoi rapidi gesti, stuzzicando i musicisti e il pubblico e a volte anche accentuando la musica del gamelan con gesti scabrosi. La danza segue in generale i lineamenti dell’esibizione precedente, arricchendo il medesimo vocabolario base della danza con un tono più leggero, più giocoso, quasi con un tocco di parodia. Il pubblico risponde alla giocosa buffonaggine di Pasung Grisgris con urla e risate. Completata la sua stravagante esibizione Pasung Grisgris ritorna al mondo celato dietro il sipario che si apre consentendogli di attraversarlo, inghiottendolo nuovamente. Il gamelan cambia melodia e questa volta il suono risulta più gentile, non vi sono più insistenze o forzature ossessive; ci sono addirittura cicli quasi ininterrotti di trentadue battute marcati da due colpi di gong. Kakul prende la maschera di un uomo anziano e la fissa per un momento. Questa è l’unica maschera tra quelle che possiede che lui stesso ha scolpito. Il personaggio è I Gusti Dauh Bale Agung, attempato ministro della Corte Reale di Gelgel nella Bali del quindicesimo secolo. Il sipario viene scosso nuovamente, come si usa fare all’entrata di ogni nuovo personaggio. Questa volta, però, la scossa è meno vigorosa e Kakul apre il sipario per rivelarsi nelle vesti di un vecchio uomo che, seduto su una sedia, osserva il nuovo spazio, esamina il pubblico, ascolta la musica, si sistema il costume e raccoglie le energie per eseguire la propria danza. Prima una mano e poi l’altra cominciano, in modo alquanto esitante, a muoversi al ritmo della delicata musica. Gradualmente l’energia e la fiducia sembrano tornare al cortigiano attempato, che si mette in posizione eretta. Dopo ulteriori aggiustamenti la vista degli ombrelli cerimoniali

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sembra risvegliargli il coraggio delle antiche battaglie riposte ormai nella memoria di un vecchio guerriero. Il vecchio uomo comincia a danzare, prima lentamente poi più velocemente. La musica segue il ritmo del danzatore e lo aumenta conseguentemente. La musica, crescendo e lasciandosi trasportare dall’entusiasmo, diviene sempre più energica. Una serie di rapidi giri su se stesso fa perdere l’equilibrio all’anziano che, per poco, non cade tra il pubblico che irrompe in fragorose risate. Respirando lentamente il vecchio cortigiano si riprende poco alla volta; allunga la mano per afferrare quella di un bambino che lo guarda con un sorriso estasiato. Sembra stia riprendendo la danza ma invece stende la mano verso la fluente capigliatura e afferra un immaginario pidocchio. Lo guarda, il pubblico ride, poi lo pizzica e lo lancia in direzione degli spettatori divertiti. Per due volte ancora, seguendo la musica, si appresta a riprendere la danza, ma ogni volta trova un pidocchio – uno sulla gamba e uno sulla nuca. Alla fine, liberatosi da queste distrazioni, comincia a danzare. Questa volta pone maggiore attenzione a non compiere ulteriori giri ubriacanti, ma cerca di ritrovare un senso di dignità umana e di autorità prima di uscire attraversando il sipario. La serie obbligatoria di danze introduttive, o pengelembar, è terminata. Non è stata proferita alcuna parola e nessun personaggio rappresentato riapparirà una seconda volta. Con la rappresentazione di un mondo e di una gamma di azioni umane, circa un terzo del tempo di rappresentazione è ormai trascorso. Accompagnati da un’elaborata interazione di movimento e suono i personaggi pengelembar entrano attraverso il sipario dalla direzione sacra del Gunung Agung e lì ritornano dopo aver concluso le loro danze. Dietro il sipario si trova la dimora di dei e antenati, di fronte, invece, si trova uno spazio neutro creato dal suolo disadorno dei balinesi e demarcato dall’anello di spettatori. Quando Kakul, provenendo dalla direzione degli antenati, entra come il coraggioso patih I Gusti Ngurah Lepang, il brillante costume, l’eccezionale contegno, l’esecuzione di uno speciale vocabolario di movimenti e l’energia concentrata che lo caratterizzano lo rendono un essere appartenente a un altro mondo. Il pubblico lo considera un’entità straordinaria, ma l’esibizione ipersensibile, improvvisa e orgogliosa del patih potrebbe indicare anche che il mondo degli spettatori è tanto affascinante per lui quanto lo è il suo per loro. Si stabilisce una certa distanza tra il personaggio che emerge da un mondo dominato dai modi del passato e il pubblico che vive e guarda nel presente. L’attore si sposta, nelle vesti del personaggio, dal mondo del passato al mondo del presente in una sorta di incursione attraverso i confini del tempo e della società. Il modello è quello del rito di visita, ma l’espletamento di questo modello risulta teatralizzato. Il pubblico sa che dietro il sipario si trova non solo una scura montagna, residenza di divinità e antenati, ma anche il contenitore delle maschere di Kakul e il camerino. Kakul stesso non è un uomo in trance o in stato si possessione, ma un performer con un consapevole controllo delle proprie azioni che sceglie

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di rappresentare prima un personaggio poi un altro, sistema il proprio costume, dà indicazioni sulle sue intenzioni a un’orchestra sconosciuta determinando così la dinamica della performance. La prima danza utilizza l’estetica della visita ancestrale per stabilire la separazione tra mondo passato e presente. La danza successiva gioca con il senso di divisione; lo stuzzicare e il giocare con l’orchestra e il pubblico da parte di Pasung Grisgris è tanto diretto e immediato quanto malefico. Quando i confini tra i due mondi vengono violati si scatena la risata. Il terzo personaggio presentato nel pengelembar, I Gusti Danh Bale Agung, ha qualità ancora più umane degli altri due suoi predecessori. Compie ulteriori incursioni attraverso i confini che separano il mondo della storia del passato e quello del presente. Quando il vecchio uomo tocca il bambino tra il pubblico stabilisce una forma di contatto che sarebbe impensabile per il coraggioso patih o il suo opposto buffone. L’ordine di apparizione di questi personaggi non è arbitrario, mentre il numero di personaggi pengelembar varia da performer a performer come anche la scelta dei personaggi di mezzo è a discrezione dei danzatori. Il valoroso patih è sempre posto all’inizio della rappresentazione e il vecchio uomo piuttosto eccentrico entra sempre alla fine. Giocando con le possibilità teatrali all’interno della rappresentazione della visita, si stabilisce una struttura per la performance che consente una congiunzione tra il mondo così come si immagina sia stato e il mondo com’è invece conosciuto. […]

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Intervista a Udaka Michishige, attore della scuola K1ong1o di Rebecca Teele

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“Mime Journal”, Pomona College Theater, Claremont, 1984, pp. 130-139

Per il suo contemporaneo successo in due carriere nell’ambito del teatro n1o, Udaka Michishige rappresenta un caso insolito. È sia un attore stimato della scuola K1ong1o sia un rispettato scultore di maschere. Sebbene non fosse figlio di un attore n1o, a dodici anni divenne apprendista fisso del leader della scuola K1ong1o per praticare il training tradizionale. Come scultore di maschere è autodidatta, ma ampia prova del suo talento e della sua energia è data dal fatto che usi le maschere scolpite per le sue performance. Il numero di allievi che può annoverare per il canto e la danza n1o e per la scultura delle maschere è inoltre lo stesso. Udaka Michishige, nel 1983 e nel 1984, descrisse il proprio approccio alle maschere no1 in diverse interviste. Cominciò col dare dettagli riguardo il suo iniziale interesse per le maschere e la sua prima esperienza in qualità di scultore. Un approfondimento su come ritenga che gli attori e gli scultori vedano le maschere conduce a un’analisi secondo la quale Udaka avverte che la contemporanea esperienza di attore e scultore aumenti reciprocamente la consapevolezza artistica in entrambi i campi. Dopo aver spiegato, in generale, il processo che attraversa nell’osservare e scolpire una maschera, riferisce questa dinamica in modo specifico alla ko-omote, una maschera che ha catturato l’immaginazione di molti, e in conclusione tratta del kansei, l’abilità di percezione che è la chiave del suo lavoro. Quando si interessò per la prima volta alla scultura delle maschere? Quando finii le elementari andai a vivere nel teatro K1ong1o con il leader della scuola. Fu il momento in cui decisi di studiare seriamente il n1o. Riuscii quindi a vedere le maschere per la prima volta, e il mio divertimento diventò disegnarle a memoria. Disegnai i tipi più rappresentativi: ko-omote, hannya e okina. Nacque allora il mio grande interesse per i volti. Nel corso di arte, alla scuola media, feci anche diversi busti di argilla che ebbero un discreto successo. Frequentavo la scuola superiore quando vidi per la prima volta una maschera mentre veniva creata e fu allora che compresi veramente qualcosa di quel processo. Conobbi il legno hinoki e fui colpito dal suo splendore – era così bello. Raccolsi informazioni sui materiali usati nella scultura delle maschere e sull’uso delle katagami, le sagome. Fui colpito da ciò che vidi e rimasi stupito dal fatto che altre per-

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sone, oltre agli attori n1o, conoscessero così bene le maschere e fossero in grado di crearle. Compresi che gli attori n1o, io stesso in primo luogo, potevano ancora imparare molto. Stimolato da questo, decisi di lavorare seriamente alla preparazione delle maschere. La prima maschera che creai era terribilmente rozza, ma ne fui molto compiaciuto. C’erano dettagli, in particolare circa la tecnica di pittura, di cui non avevo conoscenza, cosicché il processo di apprendimento fu per me un vero sforzo. La prima volta che dipinsi una maschera mischiai il colore in polvere gofun con acqua piuttosto che con nikawa (colla naturale) così, naturalmente, tutto il colore si scrostò. Non avevo pensato che fosse necessario un agente legante. Sono completamente autodidatta e mi sto ancora sforzando per quanto riguarda la tecnica, tuttavia traggo fiducia da una cosa: da quando sono un attore riesco a conferire un qualcosa alle maschere che le rende dotate di spirito, di vita. Per tale ragione ritengo che per un attore sia opportuno scolpire maschere. Qual è la differenza tra il modo in cui guardano le maschere gli attori e il modo in cui le guardano gli scultori? Gli attori che si esibiscono nel n1o e che prendono parte nelle performance tradizionali hanno la possibilità di trovarsi tra le maschere, vederle e maneggiarle. Possono osservare una maschera da vicino in due contesti differenti: la possono vedere da sola, e possono osservarla da vicino quando è indossata dallo shite. È molto importante comprendere ed essere capaci di vedere come una maschera cambi a seconda della persona che la indossa. Un buon attore impartisce una quantità di spirito alla maschera pari a quella che può riceverne. Essa diviene più viva a seconda del potere dell’attore. La maschera, necessariamente, deve essere in grado di accogliere questo tipo di espressione insita. Si potrebbe dire che la gente del n1o, in grado di vedere una maschera così come risulta trasformata dalle vibrazioni dell’attore che la indossa, la percepisce come vivente. Generalmente uno scultore ha l’opportunità di vedere le maschere solo quando vengono esposte, situazione in cui non risultano essere in vita. Molti scultori non sembrano avere il tempo o l’inclinazione per vedere il n1o negli spettacoli e come risultato le loro maschere non sono vive. Sebbene la tecnica che possiedono possa risultare eccellente, ciò che manca è la capacità di giungere a una più profonda conoscenza del n1o. Sfortunatamente non ci sono molti scambi tra attori e scultori, mentre, se vi fossero, entrambi i gruppi ne beneficierebbero. Entrambi esercitano professioni tradizionali in cui il processo di apprendimento è tutt’uno con lo sforzo personale e con la rivelazione dei segreti che sono custoditi gelosamente fino al momento opportuno per la loro trasmissione. Tale conoscenza segreta non verrebbe mai condivisa o discussa apertamente, ma se gli scambi fossero possibili, valutata la preziosità di questi segreti, credo potrebbero risultare molto utili. In che modo direbbe che la scultura delle maschere ha influenzato le sue performance sul palcoscenico? In che modo l’essere un attore l’ha influenzata come scultore?

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Esistono diversi approcci alla recitazione n1o. Fondamentalmente tutti gli attori si sforzano per ottenere l’unità di parole e voce, movimenti e spirito, per dar luogo, quando perfetta, allo y1ugen. Più un attore è conscio della vera natura della maschera e della relazione di questa con il n1o, più potente sarà la sua performance. Se la recitazione non tiene conto di questa relazione risulta misera più della ripetizione meccanica delle forme. Un attore che è portato seriamente a considerare le maschere conosce il loro potere insito e lo rispetta. Egli non solo vorrà usare questi influssi al meglio della propria abilità, ma alla fine avvertirà la spinta a creare una maschera che sia impregnata di potere. Non tutti gli attori che sentono questo sono poi capaci di scolpire maschere con successo, ma credo che il desiderio esista. Ritengo che il fatto di essere un attore e al contempo uno scultore, mi consenta di essere più ricco di risorse nell’uso di una maschera di quanto possa esserlo un altro attore. Se fossi solo un attore la mia considerazione per le maschere probabilmente sarebbe limitata ai tecnicismi circa il come una maschera è indossata – è messa su. Probabilmente penserei all’angolazione con cui indossarla e alla distanza più opportuna da tenere dalla bocca perché incida sulla voce nel modo migliore, ma principalmente l’attore che rappresenta solamente è interessato a recitare fedelmente un particolare ruolo nel modo che gli è stato insegnato. Il suo coinvolgimento e la sua consapevolezza sono limitati all’espressione e all’esperienza del ruolo dello shite. Per esempio, sebbene lo shite conosca l’intero dramma, raccoglie tutta la propria attenzione e concentrazione solo appena prima di entrare sul palcoscenico. Non necessariamente ascolta con attenzione il waki e pensa a come divenire un tutt’uno con lo stato d’animo che ha fissato, oppure come rendere al meglio la propria performance. Tuttavia, poiché conosco le maschere dall’interno, conosco anche la loro natura più intima e quindi la natura più intima del n1o. Conoscere le maschere e la loro vera natura, infatti, significa per l’attore-scultore conoscere non solo il dramma ma anche il suo significato ultimo – la maschera, come il viso del personaggio, rappresenta la pièce. Questo è il vero impiego della maschera. Come scultore c’è una quantità di punti tecnici di cui sono particolarmente consapevole solamente perché sono anche un attore. Per esempio, sono cosciente, in particolare, dell’importanza degli angoli dell’area attorno alla bocca. È fondamentale scoprire quali superfici riflettano e risuonino meglio con l’emissione della voce quando l’attore canta. Se la maschera non è scolpita tenendo ben presente questo ultimo punto e la realizzazione del retro di essa uccide o deprime il suono del canto che un attore ha perfezionato lavorando, allora si tratta di una maschera non buona. Un altro aspetto di cui sono consapevole è il modo in cui un attore debba uniformarsi alle sottili compensazioni derivanti dal fatto che la maschera è più piccola del viso umano. La distanza tra gli occhi di una maschera è più stretta di quella tra gli occhi di una persona. Per vedere l’attore allinea la maschera con l’occhio migliore e il senso della prospettiva ne è scombussolato, facendogli perdere la perce-

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zione della profondità. In un caso estremo l’attore il cui occhio destro è più forte potrebbe metterla in modo che risulti maggiormente spostata verso destra. Quindi, sebbene la parrucca venga messa dritta, la maschera e la parrucca non risulteranno allineate. Le sopracciglia della maschera e la scriminatura dei capelli sono leggermente decentrate come misura di compensazione. È sempre necessario pensare seriamente a che tipo di variazione risulti più adatta sia quando si scolpisce che quando si indossa una maschera. Il problema della prospettiva e dell’equilibrio fa sì che risulti più importante, per l’attore, esercitare il movimento indossando una maschera e osservandosi, oppure avendo qualcuno che guardi e critichi i suoi movimenti. Nell’insegnamento delle shimai, danze n1o, mi preoccupo che i miei allievi, dopo aver imparato interamente i movimenti di base con piena consapevolezza e controllo del movimento, usino le maschere durante la pratica. Potrebbe spiegare qualcosa del processo che segue nell’osservare e nello scolpire una maschera? Prima di tutto guardo la maschera nella sua totalità. Osservo la natura della maschera, la sua qualità. Una maschera con un effetto totale buono, anche se non perfettamente realizzata in punti specifici, ha molto più successo di una che può risultare eccellente in alcune parti – ha un bel naso, è dipinta abilmente, o altro. È come incontrare una persona per la prima volta: fai esperienza delle sue vibrazioni, della loro particolare qualità, piuttosto che essere impressionato dalle loro caratteristiche. Nell’eseguire una riproduzione di una maschera originale è essenziale usare accurate sagome tradizionali. Il profilo è particolarmente importante. Non importa quali capacità di percezione e osservazione lo scultore possa avere, più la maschera originale è lontana dai suoi occhi, più la sua copia si discosterà dal modello. Uno scultore potrebbe essere in grado di ricordare le linee generali della forma, o forse i colori anche in modo preciso, ma il problema è che la forma delle curve e la loro profondità sono veramente impossibili da ricordare. Infatti, nel tentativo così difficoltoso di rammentare e riprodurre quei difficili punti, lo scultore di solito li enfatizza oltremodo e la maschera risultante è una assurda caricatura. Le sagome del profilo, naso e bocca, sono veramente essenziali. L’alternativa è lavorare con una maschera originale accanto fino a che la copia sia completata. Non penso a niente quando comincio a scolpire – semplicemente inizio. Il mio primo obiettivo è ottenere la forma base, e poi catturare l’espressione degli occhi. La forma della maschera è molto importante, credo. C’è qualcosa nella forma esterna o nel contorno della maschera che ne determina la vitalità e le vibrazioni emesse. Gli occhi sono i successivi in ordine di importanza: la loro altezza, curva, forma e angolatura. Potrebbe riferire questo processo a una maschera in particolare? Sono particolarmente affascinato dalla ko-omote. È estremamente difficile afferrare l’essenza di questa maschera. Ha quella famosa espressione neutra, è come

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l’aria in un certo senso: sembra non avere colore né forma, e non c’è modo di afferrarla. Altre maschere sono come la nebbia, la foschia o come le nuvole, la pioggia, la grandine o la neve, e risulta più facile dare loro forma. La ko-omote tuttavia, specialmente la yuki no ko-omote, ha una qualità eterea misteriosa e meravigliosa. Pensi di vedervi qualcosa, ma scopri che in realtà non vedi niente. La maschera non ha nessuna delle qualità dell’incarnato umano, non traspare da essa alcun segno di emozioni che invece emergono naturalmente nelle espressioni di altre maschere, ma, al contempo, contando sullo shite e sul dramma, sembra avere l’abilità di mostrarle tutte. Credo abbia una qualità straordinaria, speciale. Scolpendola ora riesco a trovare la forma generale della maschera. Ma la curva degli occhi, l’inclinazione e l’angolo dello zigomo sono molto difficili da catturare. Avendo usato le sagome come modello sento di avere interiorizzato, nel corso degli anni, le forme della bocca e del naso, ma ci sono sottili qualità degli occhi, la pienezza delle guance e la curva e la svasatura delle narici che rimangono al di là della mia comprensione. Anche la pittura di questa maschera è difficoltosa. L’ho esaminata molte volte e ne ho sempre soggezione. Il colore di inchiostro sumi usato per i capelli e le sopracciglia, il tono dell’incarnato, lo splendore e il caldo invecchiamento dei colori sono molto delicati. Il processo originale deve essere stato molto laborioso, e sono sicuro che ci vorrebbe la vita intera per cercare di scoprirlo. Cosa le preme maggiormente insegnare ai suoi allievi? Suppongo sia il kansei: una percezione e un apprezzamento sensibili. A livello più semplice questo è l’abilità di apprezzare e accettare il meraviglioso e la bellezza delle cose e di percepirle come esseri infiniti. La gente non riesce a sentire la grandezza e lo splendore – una pietra, un diamante, oro oppure fango – tutto sembra uguale per loro. Il primo e più importante obiettivo che voglio raggiungere è incoraggiare un senso di meraviglia e apprezzamento. Nel favorire questo si sviluppano la vera percezione e l’intuito. Un momento di emozione in cui si è toccati non si dimentica mai. La seconda volta che accade una simile esperienza si è in grado di osservarla con più attenzione e più calma, si sviluppa l’abilità di vedere correttamente e onestamente. Più maschere una persona vede e a queste reagisce, più è in grado di discernerne, con questo senso di apprezzamento, i punti buoni. Dopo aver sviluppato questo potere di discernimento lo studente può accrescere la propria capacità di scegliere o selezionare. Nel diventare selettiva la persona riesce a esercitare la sua abilità di guardare ciò che è giusto. In seguito giunge l’uso dell’immaginazione e la persona è in grado di creare qualcosa lungo le linee della sua osservazione. Tutto ciò è sviluppato nel processo del kansei. Gli studenti che hanno approfondito tale percezione e discriminazione saranno in grado di scolpire delle belle maschere. Il kansei è nutrito dalla concentrazione su una determinata cosa. Il concentrarsi sul n1o o su una parte di esso è efficace, l’importante è pensare con cura a come una cosa viene fatta. Oggi fin troppo spesso la gente dimentica di pensare nella vita quotidiana ai metodi, ai processi e alle tecniche. Il n1o è congegnato in

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modo da essere condotti naturalmente lungo un sentiero di studio accurato e dettagliato. Nel rappresentare il n1o credo di avere ampie opportunità di raffinare e amplificare questo tipo di visione. I miei studenti non rappresentano ancora e per loro tale processo di raffinazione è forse meglio compiuto attraverso le tecniche di meditazione, come lo zazen, o dall’accurata attenzione nella visione di un n1o. Durante la visione di un n1o, un n1o di qualità vera, l’osservatore deve lavorare per averne una comprensione della medesima profondità dell’attore, altrimenti non sarà in grado di capire la vera profonda natura della performance. Questi studenti hanno bisogno di un abile maestro che insegni loro, non solo il canto e i movimenti del n1o, ma anche il suo sentimento così come lo sperimenta il performer stesso. È necessario per loro guardare avendo compreso la profondità dell’impegno di un attore – della sua comprensione del pezzo drammatico. Quali sono i suoi progetti futuri per quel che riguarda la scultura? Mi piacerebbe scolpire i differenti tipi di maschere. Tutte le maschere mi interessano poiché ognuna possiede una particolare risonanza: il mondo del n1o rappresenta l’universo, e in esso si trovano tutte le emozioni, tutti i tipi di esseri, tutte le condizioni sociali.

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Aharyabhinaya1 di Kalamandalam Govinda Warrier

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“Marg: Kathakaly. The Aestetics of Communication”, vol. XLV, n. 1, Marg Publication, Bombay, 1993, pp. 4-26

L’oscurità e il silenzio della notte smorzano le immagini e i suoni della realtà terrena, quotidiana. L’ondeggiante fiamma dorata della lampada di bronzo crea giochi di luce e ombra, che introducono in un illusorio regno di visioni. Il forte e ritmico battito dei tamburi, come il suono e il tintinnio dei cimbali e dei gong, articolati in complessi motivi ritmici, aprono a un mondo di suoni completamente differente. Tutti gli attributi fisici della terra e dello spazio vengono trasformati nella mente creativa del sahrdayan, l’intenditore, in attributi mistici. Meravigliose figure con splendide corone e ricchi ornamenti emergono da questo mondo di fantasia; abiti color verde brillante, rosso, nero e scintillante oro sono indossati da insolite figure corporee che non proferiscono alcuna parola, ma che semplicemente, in silenzio, eseguono delicati gesti danzando lentamente sull’accompagnamento di sottili microritmi musicali, oppure emettono strani suoni compiendo violenti gesti, danzando al ritmo sostenuto di tamburi, gong e cimbali. Usano il più insolito linguaggio dell’espressività estetica, un linguaggio che possiede la capacità di affascinare gli spettatori. Il mondo materiale, così, viene completamente obliterato dalla mente. La radicale trasformazione del viso e della figura umana, attuata attraverso l’uso di trucchi e costumi, per catapultare lo spettatore nel distante regno dell’immaginazione, non è tesa all’imitazione di essere viventi o non viventi. I personaggi sono sostanzialmente creazioni concettuali. A queste vengono date rupa (forma) e colori mai visti o immaginati prima da nessun uomo – come Ravana demone dalle dieci teste, Bana dalle mille mani, o l’immenso Bhima sul cui torace le nuvole si infrangono causando la pioggia. Si tratta di figure inconcepibili sulla base di modelli conosciuti. 1 [Abhinaya è un termine composto dalla radice sanscrita n1ı che significa portare e abhi che significa verso. L’abhinaya è quindi l’arte della comunicazione estetica, la quale si attua attraverso gli elementi scenici 1ah1arya, la trasformazione del corpo attraverso il trucco e i costumi, 1an•gika, la cinetica e la gestualità del corpo, v1achika, l’uso della voce con l’accompagnamento di strumenti musicali, s1attvika, che riguarda la parte interiore, emozionale – ndt]

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Il kathakali non è un’arte mimetica. Gli elementi che costituiscono l’aspetto di un personaggio, comprendenti il trucco del viso, il copricapo, gli ornamenti e i pesanti e colorati paramenti, sono designati non tanto a ricoprire il corpo quanto a ritrarlo. Ecco perché Nala, anche dopo essere stato detronizzato, nel momento in cui viene descritto come colui che ha indosso unicamente un panno, è comunque rappresentato con il suo glorioso copricapo, gli ornamenti e gli splendidi paramenti. Allo stesso modo, quando il principe Bhima è descritto come mascherato da brahmano, continua a indossare lo stesso copricapo, gli stessi ornamenti e paramenti per nulla in armonia con l’aspetto di un brahmano. Questo vale anche per Arjuna, il quale non indossa abiti da eremita nel momento in cui compie penitenza. Tutte le indicazioni che il racconto fornisce in riferimento all’abbigliamento del personaggio sono rese solo attraverso la gestualità, l’attore, insomma, non indossa mai realmente in scena quanto descritto. Nel kathakali, per di più, un attore può interpretare personaggi svariati e che presentano sostanziali differenze tra loro, senza la necessità di dover cambiare trucco e costume. Un attore può, infatti, presentare molteplici aspetti e comportamenti. Hanuman (che possiede un costume e un trucco da scimmia) può interpretare, quando richiesto, il ruolo della bella e affabile Sita. Naturalmente ciò comporta una straordinaria versatilità da parte del performer e una prodigiosa immaginazione da parte del sahrdayan, il quale deve trascurare il trucco di Hanuman e ricreare nella propria mente le sembianze di Sita sovrapponendo l’immagine della seconda a quella del primo. Questo diviene possibile solo se il potenziale espressivo del performer è sufficientemente potente da infrangere le barriere imposte dal trucco e dal costume. Ecco perché l’accentuazione dell’espressione diventa uno dei principali obiettivi del trucco kathakali. Il volto, luogo primario della potenzialità espressiva, ha negli occhi, nelle labbra e nelle guance i propri punti focali. Questi elementi caratteristici del viso devono perciò essere messi in evidenza mediante l’uso di colori contrastanti. Per il gentile, eroico personaggio paccha, gli occhi sono rossi contro uno sfondo nero. Il rosso si fa passionale nelle scene amorose, lacrimoso per rappresentare la compassione, e ardente nelle scene di furore. Le dimensioni delle labbra vengono aumentate allungandone le estremità. Qui sono disegnate due macchie circolari di un colore rosso brillante che contribuiscono a esagerarne i movimenti. Nelle scene amorose le labbra sono in un voluttuoso rosso ciliegia; per rendere la crudeltà un violento e sanguinario colore rosso contrasterà con uno sfondo verde scuro. Le guance, di colore verde brillante, consentono perfino ai più piccoli movimenti della superficie facciale di divenire visibili attraverso i riflessi della luce. Il viso verde, nell’insieme, è circondato da una spessa e ampia fascetta bianca, una sorta di protesi chiamata chutti, la quale creando un effetto di contrasto, ha la funzione di attrarre l’attenzione dello spettatore e di concentrarla al centro del viso dell’attore. Il chutti serve, inoltre, per delimitare i contorni del viso e, a seconda dei casi, può condensare il potere espressivo del viso, o aiutarlo a esplodere quando è infiammato dalla scintilla di un’intensa emozione.

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Nel caso di personaggi aggressivi katti, caratterizzati anche dall’utilizzo di espressioni sonore e dinamiche, l’importanza data a occhi, labbra e guance si riduce. Il movimento dei muscoli facciali risulta notevolmente amplificato e il rigoroso silenzio, peculiarità dei personaggi paccha, appare qui alquanto inappropriato. Il silenzio del personaggio katti, infatti, è rotto al raggiungimento di elevati picchi di emotività, come accade, ad esempio, per l’ira, oppure all’apice di emozioni come l’amore. Alcuni segni rossi a guisa di baffi e uniti alle sopracciglia sono disegnati sotto il naso e sulla fronte. Due piccole sfere posticce, una sul naso l’altra sulla fronte, accentuano la distorsione delle forme originali. Sul viso vengono disegnati tratti aggressivi per rendere meno evidenti gli occhi, le labbra e le guance. Per i personaggi più violenti come chuvanna taadi (barba rossa), che si lasciano andare a marcate manifestazioni espressive sia del viso che del corpo, il valore attribuito agli elementi principali dell’espressività del volto – occhi, labbra e guance – è sottoposto a un’ulteriore riduzione. Il colore verde del viso, finalizzato a rendere manifeste espressioni impercettibili, viene sostituito dal rosso. Le labbra, rese sottilissime e di colore nero, perdono in questo modo le loro qualità espressive e la bocca viene usata per manifestazioni sonore e urla furiose. L’interno degli occhi è rosso [per la colorazione degli occhi sono di solito utilizzati semi rossi o rosa di una pianta locale indiana, posti sotto le palpebre – ndt] e, poiché devono esprimere prevalentemente emozioni violente quali l’ira piuttosto che tenero amore o bontà, gli occhi sono sprofondati in due nere cavità dipinte sul viso. Il centro della fronte è rosso, indicativo dell’ira, e una barba rossa contribuisce ad accrescere l’aspetto feroce del personaggio. La corona è molto grande per minimizzare il valore del viso ed elevare in altezza il corpo. Oltre a una casacca pelosa che rende manifesta la rozzezza, sono pochi gli ornamenti usati. Nel caso di vella taadi (barba bianca), che rappresenta, il forte, buono e devoto personaggio del clan delle scimmie, Hanuman, il trucco del viso elimina completamente l’espressività del volto dell’attore. Essendo l’espressione della scimmia principalmente caratterizzata da una gestualità animata che crea scompiglio, gli occhi, le labbra e le guance sono rese quasi totalmente invisibili cessando di essere rilevanti. Il copricapo è piatto e di colore bianco e non mira né a elevare l’altezza né ad attrarre l’attenzione. I personaggi maschili kari, rappresentanti esseri tribali primitivi, sono principalmente caratterizzati dalla ineleganza. Il viso è di colore nero, presenta una barba nera e alcuni disegni di colore rosso a forma di spade sulla fronte. Le labbra sono rosse e notevolmente larghe, ma disegnate senza grande cura. Gli occhi non sono ritenuti privi di espressività, infatti, i loro sguardi perforanti e indagatori hanno la funzione di trasmettere rabbia e crudeltà anziché tenere emozioni d’amore. Tali personaggi non si lamentano, non borbottano né ruggiscono, ma semplicemente urlano. I personaggi femminili kari presentano il medesimo tipo di trucco per il viso, ma, in alternativa, sfoggiano bianche sopracciglia e labbra nerissime che si fondo-

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no con il colore nero del volto. Questi esseri rappresentano donne selvagge che amoreggiano lascivamente con personaggi eroici, e come attributi hanno mammelle sporgenti e appuntite. Risulta quindi evidente che le parti del corpo umano femminile normalmente considerate attraenti vengono qui deliberatamente deformati al fine di provocare una sensazione di avversione. I loro movimenti, nelle scene d’amore, suscitano in effetti un profondo disgusto. I personaggi minukku (raffinato) includono principalmente donne e saggi. Questa tipologia presenta visi color incarnato a indicare che le loro emozioni sono ormai placate. Nessuna rilevanza particolare è data a occhi, labbra o guance e non è previsto per questo trucco alcun contorno del viso. I savi con la barba non devono lasciar trasparire alcuna emozione, mentre i personaggi femminili devono esprimersi in maniera molto discreta, quasi passiva. Alcuni personaggi eroici, inoltre, che si presentano fisicamente robusti e non necessitano di una espressività minuziosa, hanno il volto color incarnato con baffi disegnati a indicare il loro eroismo. Possono essere messaggeri dimentichi del contenuto emotivo del messaggio, oppure guerrieri dotati unicamente di una forza animale. Quelli sopra descritti sono tipi generalizzati di trucco e costumi, e all’interno della loro struttura è possibile rinvenire diverse variazioni. Persino nel caso di un personaggio del tipo paccha il trucco può rappresentare alcune varianti non facilmente identificabili. Nala, Bhima e Arjuna hanno una differente dimensione del trucco di viso e labbra. Krishna, ancora, sebbene sia paccha per quanto riguarda il trucco, ha un chutti più piccolo e un copricapo conico, indossa una casacca blu e una gonna gialla. Rama e Laksmana sono simili, ma Rama ha il copricapo circolare kesabharam. Esistono uccelli come Jatayu, Garuda e l’hamsa (cigno), che sebbene indossino casacche e gonne, e abbiano copricapi circolari e ornamenti come tutti gli altri personaggi antropomorfi, posseggono ali e hanno sul viso particolari disegni che si aggiungono al becco. Il colore del costume indossato è, inoltre, differente per ciascun uccello. Vivida e Nandikeswara appartengono al clan delle scimmie e sono vestiti come Hanuman, ma indossano una casacca rossa e nera e portano sul capo una corona. I re-scimmia Bali e Sugriva sono truccati in un modo completamente differente, somigliando così più al chuvanna taadi con alcune lievi variazioni per quanto concerne il trucco del volto. Si incontrano anche personaggi comici – il carpentiere, il mahout e altri – i quali sono truccati come i loro equivalenti nella vita ordinaria. In questo caso tali personaggi truccati in modo da imitare forme, aspetto e comportamenti umani, risultano grotteschi: nell’atmosfera ultraterrena del kathakali, gli esseri umani rientrano solo in veste di personaggi comici. I tipi più importanti di trucco e costumi kathakali includono: Paccha: la caratteristica saliente del trucco facciale in stile paccha è rappresentata dalla particolare preminenza data a occhi, labbra e guance.

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Personaggi gentili ma al contempo grandi eroi – Nala, i cinque fratelli Pandava, Devendra, Rugmangada, Ambarisha, Vibhishana, Sri Rama e Bharata – rientrano in questa categoria. Balabhandra presenta un trucco e un tipo di costume in stile paccha, ma il suo viso è dipinto di giallo e indossa una gonna blu. A Bahuka è attribuita una tonalità più cupa di verde con casacca e gonna scure. A Visnu e a Sri Rama sono attribuite casacche nere e gonne di colore giallo. Krishna, Lakshmana e altri indossano dei copricapi conici ma conservano la stessa casacca blu e gonna gialla. Garuda, Jatayu e l’hamsa hanno un trucco speciale corredato con becco e ali. Esistono molte altre varianti relative a personaggi appartenenti a questa categoria. Katti: i diversi disegni sul viso katti sono tesi a rendere marginale l’importanza di occhi, labbra e guance. Quelli fatti utilizzando il colore rosso sopra le labbra raffigurano i baffi, e i disegni presenti al centro della fronte congiungono le sopracciglia. Entrambe le tipologie usano il colore rosso per simboleggiare l’aggressività che caratterizza tali personaggi. Ravana, Kumbhakarna, Duryodhana, Sisupala (nel nord del Kerala), Bana, Kamsa, Kichaka, Jarasanda (nel sud del Kerala), Narakasura (Narakasura bambino nella prima parte della rappresentazione è un personaggio katti ed è chiamato cheria, o piccolo Narakasura; nella seconda parte è un adulto, chiamato valia, o grande Narakasura ed è un personaggio chuvanna taadi) e così via, appartengono tutti a questa categoria. La minor curvatura della punta del chutti rappresenta in Ghatotkacha e Purochana una delle lievi variazioni per quanto riguarda le modalità del trucco del viso. Chuvanna taadi: i personaggi presentano labbra sottili, il viso e la fronte rossi. I rossi occhi sono inghiottiti da un contorno nero per sottolineare la loro natura sinistra, la larga corona minimizza le dimensioni del volto e il chutti bianco posto come contorno della faccia è dentellato. Malyava, Mali, Sumali, Baka, Jarasanda (nord del Kerala), Narakasura (grande), Sisupala (sud del Kerala), Dussasana, Trigarta e Virabhadra (il cui trucco facciale è leggermente differente) appartengono a questa categoria. Bali e Sugriva (appartenenti al clan delle scimmie) hanno i contorni dentellati del viso di forma leggermente diversa. Vella taadi: il colore dominante per questa tipologia di personaggi è il bianco e lo speciale trucco del viso conferisce l’aspetto della scimmia. Il particolare copricapo con pochi ornamenti è anch’esso bianco. Hanuman appartiene a questa categoria. Vivida e Nandikeswara, pur essendo simili, presentano colori differenti. Kari (maschile): in riferimento a questa categoria si notano il trucco del viso e il copricapo dei personaggi come Katala in Nalacharitam, Kirata in Kiratam e Guha in Vicchinnabhishekam. Kari (femminile): il particolare trucco del viso, le mammelle appuntite, il colore nero dominante sono elementi caratterizzanti. Nakratundi, Simhika, Pootana e Hidimbi esemplificano personaggi femminili kari. Minukku (femminile): un viso color incarnato con caratteristiche umane contraddistingue il tipo minukku. Sati, Sita, Damayanti, Urvasi, Panchali, Usha, Chi-

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tralekha, Mohini e Lalita sono i principali personaggi femminili. Kirati in Kiratam ha un trucco simile, ma il viso si presenta di colore verde con rossi segni a mezzaluna; indossa, inoltre, un abito nero abbellito da un copricapo. Minukku (saggio): si nota di nuovo il color incarnato. I saggi buoni indossano un abito sul torso nudo e portano un cappello conico come copricapo. I saggi in collera che dominano il loro temperamento posseggono una barba rossa, mentre quelli che il temperamento lo hanno forte sono muniti di una barba e un copricapo neri. Il saggio Durvasavu possiede una barba rossa, per Viswamitra è nera; Narada, Vasistha, Vyasa, Dhaumya, Valmiki, Kanwa e altri ancora portano barba e capelli neri e indossano il dhoti in un modo particolare. Minukku (messaggeri, guerrieri, ecc.): per mostrare il loro coraggio i personaggi minukku hanno baffi dipinti e un turbante indice del loro stato sociale inferiore. È loro attribuito un viso color incarnato poiché non devono manifestare alcuna emozione. Per le scene di lotta hanno il torso nudo. Ci sono dutas, messaggeri, in Uttaraswayamvaram e Ravanavijayam, guerrieri in Kichakavadham, e Valalan – Bhima travestito. Anche Matali, l’auriga di Indra, appartiene a questa categoria. Tra questi vari personaggi esistono sottili differenze riguardanti il trucco e le armi usate. Il costume kathakali tende a trasformare l’alto e piatto corpo umano (eretta e spigolosa struttura) in una forma circolare ed emisferica. Per tale ragione la corona è circolare e la gonna naturalmente emisferica. Il volume di quest’ultima e le stoffe arrotolate sul torace sono tesi a esagerare anche le più lievi inclinazioni del piede del performer, cosicché, quando il corpo di questi è inclinato su di un lato, le stoffe ne oltrepassano l’inclinazione. Le unghie argentate allungano e accentuano i movimenti delle dita delle mani. Quando rappresentano l’apertura del loto, brillanti unghie d’argento rendono il movimento più efficace e bello, divenendo a volte artigli dei personaggi dall’animo crudele. Anche la larga casacca rossa contribuisce a celare la naturale forma del corpo umano. Le combinazioni dei colori, la larga casacca rossa, le collane dorate, le collane di perle che rivestono in abbondanza il torace, le spalline, i braccialetti, le cinture di color oro e la larga gonna dal contorno variamente colorato, costituiscono un elemento di equilibrio bilanciando la struttura del corpo. Per i personaggi chuvanna taadi, la giacca rossa è pelosa a rappresentare l’assenza di eleganza e raffinatezza rispetto a un personaggio paccha o katti. Nel caso dei personaggi vella taadi, l’intero costume è bianco e la casacca è pelosa. Per i personaggi kari il costume è dominato dal nero e dal copricapo (un cono tronco rovesciato) indicante la non appartenenza alla nobiltà. Così, nel complesso, il trucco e il costume kathakali risultano appositamente ideati per esaltare il potenziale dell’arte della comunicazione estetica (abhinaya), e sono suddivisibili, in linea di massima, in sattwika (buono), rayasic (aggressivo) e tamasic (cattivo).

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L’arte del trucco nel kabuki di Seitaro Atsumi “Contemporary Japan”, February, 1941, pp. 203-213

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I Alla fine del XIV secolo il Giappone possedeva già una forma drammatica perfettamente compiuta conosciuta come teatro noh. Conservatosi ancora oggi nella forma in cui nacque più di cinque secoli fa, il noh, o dramma lirico, rimane il tipo di teatro giapponese più complesso. Tuttavia, in conseguenza del fatto che il suo sviluppo avvenne sotto il patrocinio dei circoli aristocratici e che venne quindi rappresentato per un pubblico esclusivo di spettatori selezionati tra le più alte classi, il teatro noh, e per la sostanza dei drammi e per gli allestimenti a questi associati, non sortì un grande interesse da parte del pubblico popolare. La sua preferenza andò al kabuki. Il kabuki fece la sua prima comparsa all’inizio del XVII secolo come nuovo tipo di dramma popolare fondato da una attrice chiamata Izumo no Okuni. Guadagnando rapidamente il favore della gente, il kabuki si sviluppò principalmente in accordo con i gusti dei cittadini delle tre maggiori città del periodo: Kyoto, Osaka e Yedo (oggi Tokyo). Kyoto era a quel tempo la capitale del Giappone, Osaka il centro di sviluppo commerciale, mentre Yedo una città sorta di recente. A Kyoto e Osaka, molto vicine tra loro, il kabuki si sviluppò secondo forme e contenuti piuttosto simili, mentre notevole era la differenza con il kabuki sviluppatosi a Yedo. Questo può essere compreso in considerazione delle diverse centinaia di miglia che separavano Yedo dalle altre due città, e dei pochi canali di comunicazione allora esistenti. Tutto ciò contribuì alla formazione di differenze nei costumi e nei gusti artistici. Kyoto era la culla dell’arte giapponese, Osaka, come lo è oggi, era un polo commerciale. La gente di queste città, per natura tranquilla e semplice preferiva in genere il realismo nelle rappresentazioni kabuki. Yedo, d’altro canto, sebbene fosse una città di recente fondazione, era la sede del governo nazionale. Per questa e per altre ragioni gli abitanti di Yedo erano di natura impulsiva e d’animo estremamente sentimentale; anche per tale motivo traevano particolare piacere dalle rappresentazioni simboliche nel dramma kabuki, protendendo più che per il diretto interesse delle loro emozioni, per la resa simbolica di queste. Così accadde che a Yedo si

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sviluppò un’arte speciale di trucco per il kabuki, conosciuto come kuma-dori. Fondamentalmente quest’arte consiste nel palesare il personaggio interpretato da un attore dipingendo il suo viso con cipria bianca e disegnando poi, su questa base complessi tratti usando il rosso sfumato, l’indaco o altri colori. Esiste una stretta relazione tra l’arte del trucco kuma-dori e lo stile recitativo del kabuki chiamato ara-goto. Il significato letterale di quest’ultimo termine è azione rude. A causa della recente presa di potere da parte dello shogunato Tokugawa, i tempi in cui il kabuki cominciò a fiorire erano tempi turbolenti; i samurai erano tutti potenti e malvisti dalla popolazione che risentiva del loro comportamento tirannico. La gente aveva un temperamento violento e gli scontri erano frequenti, a Yedo in modo particolare. Questa atmosfera di violenza si rifletteva nello stile aragoto del kabuki: che, ovviamente, rappresentava in forma esagerata le gesta di impavidi eroi o le turbolente azioni di potenti spiriti, fornendo così al popolo oppresso uno sfogo indiretto per i sentimenti repressi. Il trucco kuma-dori era particolarmente adatto per gli attori ara-goto, il capostipite fu Ichikawa Danjuro I. Soga no Goro e suo fratello Juro costituiscono classici esempi del tipo di eroi le cui gesta furono adattate per drammi kabuki contenenti scene ara-goto. Il primo, in particolare, è un personaggio storico rispettato da tutto il popolo giapponese per la pazienza con cui attese, oltre diciotto lunghi anni, di poter vendicare il padre. I drammi incentrati su Goro presentano caratteristiche ara-goto e l’interprete di questo ruolo deve pertanto truccare il suo viso in un appropriato kuma-dori. In questo caso il trucco tradizionale è caratterizzato da un viso bianco con palpebre in rosso sfumato e una certa configurazione di linee sulla fronte e sulle guance, l’effetto particolare che si ottiene viene considerato anche oggi come connotativo del suo coraggio da gentiluomo e della perseveranza che dimostrò nel fermo proposito di vendicare suo padre. Tradizioni simili, associate al kuma-dori, possiedono il vantaggio di rendere i vari personaggi presenti nel teatro kabuki immediatamente riconoscibili anche a chi, tra il pubblico, non abbia mai visto in precedenza uno spettacolo kabuki. Un ulteriore esempio può essere Fuji-wara no Shihei, il furfante che irretì il fedele Sugawara no Michizane nel X secolo. Quando tale personaggio appare sul palcoscenico kabuki, come fa di tanto in tanto, il suo viso è sempre dipinto con il colore indaco. In questo modo si produce un effetto talmente orribile e di carattere soprannaturale che il pubblico riconosce al primo sguardo l’animo malvagio dell’uomo. Ancora, nei drammi danzati come Tsuchi-gumo (Ragno di terra) e il Momiji-gari (Gita per contemplare le foglie d’acero), gli eroi hanno generalmente il viso dipinto di colore marrone; il magico effetto così prodotto, che spesso incute terrore persino agli spettatori di oggi, rappresenta chiaramente il potere soprannaturale di questi spiriti eroi. Poiché il trucco usato è molto pesante, il kuma-dori possiede l’ulteriore vantaggio di far sembrare giovane anche il più vecchio attore. Così Matsumoto Kohshiro, uno degli attori più grandi del Giappone, oggi settantenne, interpreta ancora molto efficacemente il ruolo del ventenne Soga no Goro.

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II L’origine del kuma-dori non è nota con esattezza. Sebbene sia vero che si è sviluppato rapidamente con l’introduzione dell’ara-goto, la storia non dice con chiarezza se il suo fondatore fu colui che diede origine all’ara-goto, l’attore Ichikawa Danjuro I. Alcuni ritengono sia stato introdotto dalla Cina, dove esiste un analogo modo di truccare il volto; tuttavia, è molto probabile che quando l’ara-goto raggiunse improvvisamente il favore di un certo numero di attori, ognuno di questi ideò modalità proprie che si svilupparono e si fusero dando luogo all’odierna arte del kumadori. Esistono, quindi, particolari metodi di kuma-dori tramandati di padre in figlio all’interno delle famiglie di Ichikawa Danjuro, fondatore dell’ara-goto, e di Onoye Kikugoro, attore noto per le sue eccellenti interpretazioni di spiriti. La tradizione, invece, vuole che il kuma-dori indaco usato dagli attori che interpretano Fujiwara no Shihei, sia stato inventato dal famoso interprete di ruoli da furfante Nakajima Mihoyemon. Si dice, inoltre, che il noto attore Nakayama Heikuro sia l’inventore dei vari stili di kuma-dori per rappresentare i fantasmi. Sembrerebbe, quindi, che all’origine del kuma-dori non si possa riconoscere il contributo di un solo uomo. Chi vede per la prima volta gli attori preparare il trucco kuma-dori può trovare difficile comprenderne il significato simbolico. Potrà recepire un’impressione di potere, coraggio o qualcosa di simile, ma si chiederà perché quelle linee siano disegnate sul viso in quel determinato modo. Sfortunatamente non esiste alcuna tesi avvalorata su questo punto; sebbene una teoria interessante e plausibile sia stata avanzata da un attore di grande esperienza secondo il quale le linee rappresentano i vasi sanguigni rigonfi del viso del protagonista. In ogni caso il kuma-dori non è utilizzato dagli attori nei drammi il cui soggetto è la rappresentazione della realtà così come appare. Non è utilizzabile per i drammi moderni, né per quelli storici se questi sono trattati come drammi sociali. Il kuma-dori è pertanto limitato nella sua applicazione ai drammi simbolici, come gli ara-goto e i drammi danzati, il suo uso risulta precluso a un ampio numero di vecchi drammi giapponesi e sketch. La circoscritta applicabilità dell’arte kumadori la rende di conseguenza ricca di peculiarità, le quali contribuiscono non poco ad aumentarne la speciale qualità. Lo spirito che la sottende, paragonabile in un certo qual modo a quello del moderno impressionismo, la rende tanto straordinariamente giapponese quanto il dramma kabuki con cui è intimamente connessa. III Esistono circa un centinaio di tipi di kuma-dori e tra i più comuni vi sono l’ipponguma, il nihon-guma e il mukimi-guma. L’ippon-guma indica simbolicamente il coraggio e si realizza con linee dipinte in rosso sfumato. Mettendo in evidenza sia la

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storia che l’eroe da sostenere, è particolarmente adatto nei drammi tipo Kokusenya Kassen. In questo dramma l’eroe Watohnai appare con il viso dipinto nello stile ippon-guma. È un guerriero dal cuore ardente e di notevole coraggio, che per amore della giustizia combatte per la causa della Cina uccidendo e sconfiggendo molti soldati, addirittura scontrandosi e catturando una tigre. Il dramma stesso, originariamente riadattato da un omonimo spettacolo del teatro delle marionette, è proposto con ricchi apparati scenografici e sembra un dramma musicale. Ad apparire strano a prima vista in questo dramma è il contrasto tra il trucco stupefacente di Watohnai e quello piuttosto naturale degli altri personaggi. Ma coloro che conoscono bene il kabuki comprendono l’essenziale appropriatezza di tale contrasto. Non si tratta di incoerenza; l’eroe è truccato in modo così evidente e la sua intonazione e la sua recitazione sono basate sulle regole dell’ara-goto per generare un’impressione molto precisa sul pubblico, portando come risultato un accrescimento dell’effetto drammatico della rappresentazione. Un ulteriore esempio significativo è costituito dal dramma classico Shibaraku, scritto circa trecento anni addietro; si tratta di un autentico dramma kabuki che fu presentato per la prima volta a Yedo. Il suo plot è semplice. Un potente e tirannico samurai dispone l’arresto di alcune persone restie a sottomettersi al suo volere e ordina al proprio servitore di decapitarli. Nel momento in cui sta per avvenire la decapitazione si sente il grido “shibaraku” (aspetta un attimo!) e un eroe dalle sovrumane capacità appare sconfiggendo il samurai e salvando le vite degli oppressi. Sebbene questo plot possa apparire puerile, contiene in sé una profonda morale. Il tirannico samurai rappresenta le classi militari di quel periodo, mentre i prigionieri che stavano per essere decapitati la popolazione oppressa. L’eroe che appare al grido di “shibaraku” simboleggia quindi il salvatore il cui arrivo il popolo sta aspettando. Così il dramma è un’espressione dei sentimenti repressi del popolo e al contempo una sorta di sfogo. Più tardi, con lo sviluppo di un’economia di mercato, il popolo si liberò dallo stato di assoluta sottomissione e non si avvertì più alcuna necessità di un dramma dal simile contenuto. Tuttavia, esso rimase come eccellente modello di dramma ara-goto. Nella rappresentazione di Shibaraku si utilizzano tre differenti tipi di kumadori. Uno di questi è il nihon-guma, impiegato per l’eroe. Come l’ippon-guma è basato sull’uso del rosso sfumato, ma risulta nell’insieme più complesso, denotando, inoltre, un più elevato grado di coraggio e un più alto idealismo. Assieme al maestoso costume e agli altri accessori usati costituisce una splendida illustrazione della forza e della generosità di un eroe. L’altro tipo di kuma-dori presente è usato per il samurai ed è chiamato kuge-aku. Si realizza con linee color indaco disegnate in senso longitudinale e a forma di croce sul viso. Questo tipo di trucco connota la profonda malvagità nell’animo del personaggio. Infine troviamo il trucco namazuguma usato per il servitore del samurai, il quale, essendo un tipo di servitore anziano con la testa rasata è conosciuto come namazu-bohzu. Oltre ad avere battute comiche e a essere un esperto nel fare il buffone, questo personaggio ha il viso dipin-

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to con il rosso sfumato, l’indaco e il marrone per amplificare ulteriormente l’effetto della sua umoristica timidezza, che tanto caro lo rende al pubblico. Così il kuma-dori è usato non solo per mostrare audacia o qualità soprannaturali, ma anche per suscitare ilarità. L’effetto comico può essere prodotto anche in altro modo, come per esempio nel dramma kabuki classico Soga no Taimen (Il colloquio di Soga). In questo dramma il ben noto personaggio storico Asahina è rappresentato come una figura allo stesso tempo coraggiosa e comica, effetto ottenuto grazie all’uso del saru-guma, o pittura del viso in foggia di scimmia. Ulteriori esempi di kuma-dori, possono essere visti nell’eccezionale dramma Kuruma-biki che fu riadattato per il kabuki da un dramma scritto per il teatro delle marionette. Umeoh-maru e Sakura-maru, due fratelli, tendono un’imboscata a Fujiwara no Shihei, che si sta avvicinando a bordo di un carro. Appare Matsuohmaru vassallo degli Shihei e al contempo fratello maggiore dei due uomini, e ha luogo uno scontro tra i tre. Il personaggio principale in questa scena è Uméoh-maru il cui viso dipinto in stile ippon-guma suggerisce al primo sguardo la sua intrepida natura. Quanto a Sakura-maru è un uomo dal carattere gentile ma al contempo forte e per indicarlo il suo viso è dipinto con lo stile mikimi-guma; il viso è bianco e le palpebre sono in rosso sfumato. Il pubblico viene così immediatamente informato sulla differenza di carattere che Sakura-maru presenta rispetto ai fratelli. Il volto di Matsuoh-maru, d’altro canto, è dipinto nello stile chiamato matsuoh-guma, secondo un processo che consiste principalmente nel dipingere le palpebre in rosso sfumato e indaco e poi nel disegnare linee in indaco dalle guance scendendo fino al mento per simboleggiare un viso appena rasato. S’intende così indicare una commistione di bene e male per Matsuoh-maru, che sebbene sia in realtà un uomo buono, finge di schierarsi con Shihei. Fujiwara no Shihei, ora in piedi davanti al carro, è dipinto allo stesso modo del samurai in Shibaraku, ossia nello stile kuge-aku simboleggiante il peggior tipo possibile di personaggio. Per amplificare l’effetto sul pubblico la sua lingua è inoltre dipinta di un rosso profondo ottenuto adoperando lo stesso colore rosso per l’effetto sfumato. Infine, ci sono vari tipi di kuma-dori usati per tutti gli strani mostri che spesso appaiono nei drammi danzati presentati di frequente come parte del kabuki. Qui è possibile rintracciare l’influenza della danza noh per la varietà di spiriti e mostri che vi vengono ritratti. Tra quelli introdotti nel kabuki vi sono creature come demoni, divinità-dragoni, leoni mostruosi, serpenti, rospi, ragni, divinità del tuono, spiriti degli alberi e altri ancora. Per mettere il loro orrendo aspetto e il loro potere soprannaturale in azione il kuma-dori è essenziale e infatti ogni mostro possiede la sua propria tipologia di trucco. Per esempio il viso di un attore che interpreta il ruolo di un mostruoso leone deve essere dipinto d’oro per rendere manifesto il suo potere soprannaturale. La danza noh utilizza in generale le maschere e si ritiene che il kuma-dori di questo tipo ne sia una derivazione. Alcune maschere, infatti, dimostrano indubbiamente il loro ruolo di ispiratrici per molti attori kabuki che hanno sviluppato particolari trucchi kuma-dori.

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Abbiamo così visto come il kuma-dori sia un’arte peculiare del teatro kabuki e come serva a manifestare in modo efficace attraverso il trucco il carattere dei personaggi sulla scena. La sua introduzione diversi secoli fa costituì un ragguardevole risultato, e ancora più ragguardevole è il fatto che, ancora oggi, questa antica arte del trucco mantenga intatto il suo valore simbolico e la sua capacità di comunicare col pubblico.

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L’arte della pittura del viso nell’Opera cinese di Weng Ouhong

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“Chinese Literature”, Spring, 1989, Beijing, pp. 121-128

La pittura del viso nelle rappresentazioni dell’Opera di Pechino, è una particolare arte di trucco che contribuisce a evidenziare la caratterizzazione dei personaggi, un’incarnazione di estetica, belle arti e scienza, che ha catturato con il suo fascino la mia attenzione per sessantaquattro anni. 1 Compio ottant’anni quest’anno. A sedici anni dopo la scuola cominciai a imparare l’arte del canto dell’opera, interpretando il ruolo jing (tipo rozzo o guerriero), uno dei cinque principali tipi di ruoli nell’Opera di Pechino assieme allo sheng (personaggio maschile), al dan (personaggio femminile), al mo (vecchio gentiluomo) e al chon (clown o furfante) [per la maggior parte dei sinologi i generi dell’Opera di Pechino sono quattro: dan, jing, chon e sheng all’interno del quale confluisce anche il mo – ndt]. La pittura del viso, come il nome stesso suggerisce, indica che gli attori, al fine di mostrare e amplificare l’aspetto, la natura, l’età e la posizione sociale del personaggio, dipingono con colori diversi il viso. Tecnicamente si parla di maschera dipinta. La prima volta che salii sul palco per recitare non ero ancora in grado di eseguire autonomamente la maschera dipinta, e quindi i miei insegnanti lo fecero per me. Con molta calma spazzolarono con i pennelli le mie sopracciglia, gli occhi, la fronte e il naso cambiando completamente il mio aspetto in poco più di un’ora. Ero sorpreso e invidioso di quell’abilità che aveva consentito loro di eseguire un tale miracolo, così espressi il desiderio di imparare l’arte della pittura del viso. A quel tempo i miei maestri erano due: uno era mio zio, e l’altro era suo fratello di sangue, entrambi di circa venti anni più grandi di me. Con grande benevolenza acconsentirono prontamente alla mia richiesta. Cominciai col preparare la scatola del trucco, una scatola di ferro larga pressappoco trenta centimetri e lunga cinquanta. Su di un lato un sostegno orizzontale con sei fori, accoglieva altrettante piccole bocce di porcellana ciascuna contenente un diverso colore. Sull’altro lato si trovavano un vasetto di crema base e un vasetto di cipria. Tra questi i pennelli. Il coperchio era spesso e con due fori quadrati al

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centro, in uno la tavolozza, nell’altro la tavola usata per la crema base. Quando la scatola del trucco fu pronta i miei due maestri cominciarono a insegnarmi a dipingere i vari tipi di pittura del viso. Ne esistono vari modelli, ognuno dei quali richiede un proprio metodo esecutivo. Ogniqualvolta mi veniva insegnato un nuovo tipo di disegno i miei maestri dicevano: “Le pitture del viso hanno modelli stabiliti, fissi, creati con grandi sforzi e con sapienza di lunga durata da attori e attrici del passato. Sperimentati per cento anni, sono stati accettati dal pubblico e tramandati. Un viso deve avere un disegno, e un disegno necessita di un modello fissato. Tali modelli non possono essere cambiati in modo arbitrario. Tuttavia è possibile adattarli, con una certa flessibilità, ai differenti attori e attrici accordandoli con la forma dei visi, in modo da evidenziare la bellezza e la vivacità della loro performance”. Seguendo queste istruzioni aprii la scatola di trucchi e cominciai, dopo la scuola, a ricreare i disegni sul mio viso davanti allo specchio. 2 Nel corso della pratica molte furono le domande che mi posi: perché i personaggi dell’Opera cinese devono avere i visi dipinti? Come nacquero, come si svilupparono? Che valore artistico hanno? Quante altre pitture del viso esistono oltre a quelle adottate dall’Opera di Pechino? Come si presentavano i disegni più antichi? Posi tutte queste domande ai miei maestri, i quali mi parlarono dei modelli di alcune opere tradizionali cinesi, della semplicità che caratterizzava quelli della dinastia Ming e di quanto colorati fossero quelli della dinastia Qing. Le loro risposte ebbero l’effetto di rinforzare ancora di più la mia passione per la pittura del viso facendola radicare profondamente nel mio cuore. Non avrei più potuto distaccarmene, né come spettatore né come attore. Tale legame si rinsaldò man mano che lessi libri di storia, ammirai dipinti cinesi, praticai l’arte della calligrafia e incontrai amici e persone anziane con maggior esperienza: ero profondamente addentro alla ricerca e alla esplorazione. Negli ultimi cinquanta anni ho collezionato diverse migliaia di pitture del viso, ho scritto oltre un centinaio di articoli di studio su tale pittura e ho creato un migliaio di pitture del viso, di cui diverse dozzine per noti cantanti dell’Opera di Pechino. Recentemente ho accettato alcuni allievi e dal momento che per la pittura del viso non è una cosa da poco, ho dovuto fornire loro alcuni materiali. I materiali che hanno ottenuto sono stati di due tipi: copie di pitture del viso tridimensionali su carta e modelli di argilla dipinti col trucco. Per quanto mi riguarda trascorsi la maggior parte del tempo copiando pitture, fissandole e rilegandole in forma di libro per conservarle in modo permanente. Creai diversi album come Le pitture del viso di Ouhong, Pitture del viso incomparabili, Pitture del viso di scuole famose, Esempi di pitture del viso. Affascinato dall’arte economizzai sul cibo e sugli abiti, ma spesi un patrimonio in capolavori di attori famosi e attrici di varie

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opere, inclusa l’Opera di Pechino, collezionando le pitture del viso del famoso attore Sheng Pingshu e altre ora andate perdute. Cominciai a copiare pitture del viso di interpreti noti nel 1925 scoprendo che i disegni presenti in alcune opere locali risultavano completamente differenti da quelli dell’Opera di Pechino. Il mio quarto prozio era guardia dell’opera alla corte dei Qing. Durante la dinastia Qing, prima dell’inizio della performance, quattro guardie dell’opera si sistemavano su ciascun lato del palcoscenico ricevendo un cambio ogni tre ore. Grazie a tale compito il mio quarto prozio vide molte opere rappresentate dal famoso attore Sheng Pingshu, opere che la gente comune non aveva occasione di vedere in teatro. Tuttavia, poiché la guardia dell’opera era costretta a stare solo davanti al palco e non poteva azzardarsi a guardare l’opera attentamente, riusciva ad avere soltanto un’impressione generale dello spettacolo. Così, quando chiesi al mio prozio informazioni circa le pitture del viso che Sheng Pingshu proponeva nelle sue opere, in tono di rimprovero mi disse: “Sei troppo giovane per capire. Con l’Imperatrice e l’Imperatore che guardano, chi avrebbe osato porre l’attenzione sulle pitture del viso degli attori?”. Non osai chiedere altro. Notando il mio imbarazzo, gentilmente poi aggiunse: “So che collezioni pitture del viso. Se puoi permetterti di comprarle potrei chiedere a Yugui, che lavorava a corte e possedeva alcune copie di pitture di Sheng Pingshu, se è intenzionato a venderle”. Dopo qualche contrattempo riuscii alla fine ad acquistare dal nipote di Yugui un pacco di pitture parzialmente rovinate. Le restaurai e le conservai. Sfortunatamente la morte di Yugui mi rese impossibile chiedere come fosse riuscito a copiare quelle pitture e come le opere furono rappresentate. Nel 1930 fondai la Xinwei Society, un club di attori dilettanti dell’Opera di Pechino, e invitai tutti gli amanti dell’Opera ad associarsi. Tra gli altri si unì Chen Zitian, il quale aveva interpretato ruoli sheng nell’Opera di Pechino alla Corte dei Qing. Dopo aver cantato alcune arie, Cheng ci raccontò di quando in gioventù si era esibito all’Opera di Pechino della Corte. Colsi l’occasione per chiedergli in che modo Yugui fosse riuscito a copiare le pitture di Sheng Pingshu e sospirando mi disse: “Fratello Yugui è morto da più di sei anni. Interpretava ruoli jing e poiché eseguiva delle buone pitture del viso l’Imperatrice lo convocò per Sheng Pingshu. Recitava spesso con noi, ed era una persona attenta e coscienziosa tanto che copiò non solo tutte le pitture del viso custodite a palazzo ma anche quelle dei cantanti famosi che si esibivano a corte. Le copie in tuo possesso sono molto preziose. Se Yugui fosse vivo, non le avrebbe mai vendute”. Poi chiesi notizie circa le origini di ciascuna pittura del viso e Chen Zitian mi raccontò della maggior parte di esse. 3 In seguito alla lettura di alcuni libri di teatro cominciai a indagare l’origine della pittura del viso, come ciascun tipo fosse nato e quale fosse la sua funzione artistica.

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Sulla sua origine esistono diverse interpretazioni. Una di queste ritiene che la pittura del viso origini dai totem. I popoli primitivi, specialmente gli indiani del Nord America, assumevano come emblemi individuali o dei clan elementi della natura, animali in particolare, e incidevano ad esempio l’immagine di un serpente o di un bue sui loro visi. A quel tempo, non possedendo bandiere per distinguersi e avendo solo semplici strumenti di pietra, archi e frecce, questo costituiva un comportamento naturale. La scarificazione era solo una decorazione rituale, non rifletteva la natura o il carattere della persona. Prima della comparsa del teatro non essendovi personaggi drammatici, non esisteva alcuna arte del trucco e poiché la pittura del viso è l’arte dell’esagerazione del trucco, non vi è a mio parere relazione alcuna con i totem. Un’altra interpretazione vuole che la pittura del viso derivi dall’uso della maschera. Questa teoria, pur avvicinandosi molto alla reale origine della pittura del viso, non risulta pienamente convincente. Durante il periodo pre-Qing, nello svolgimento di una cerimonia per invocare gli dei, gli sciamani e le sciamane indossavano maschere per danzare e cantare. Ma si trattava pur sempre di una cerimonia religiosa; non era ancora trucco. Nelle dinastie del Nord e del Sud apparve la storia del principe di Lanling. Secondo le cronache storiche il principe fu un coraggioso guerriero che colse molte vittorie ma, poiché presentava fattezze gentili ed efebiche, soleva indossare una maschera dall’espressione feroce per intimorire gli avversari. Nel celebrarne il valore la gente delle generazioni successive indossava maschere simili per mostrare il modo in cui il principe avesse dominato le battaglie. Queste maschere non erano diverse da quelle pre-Qin. Nelle successive dinastie la maschera fu ampiamente usata e divenne varia nei modelli ma, trattandosi pur sempre di maschere portate sul viso, risultava ancora dissimile dalla pittura del viso che vi è invece realizzata direttamente. La terza interpretazione sostiene che la pittura del viso originò dal shehuo, un festival tenuto dagli antichi per celebrare con danze e canti mascherati il raccolto. Durante la dinastia Song il celebrante passò dalla maschera al viso dipinto, molto popolare in Shaanxi e Gansu. Il viso dipinto era assai prossimo alla pittura del viso, tuttavia non è qui rintracciabile l’origine di quest’ultima. Fu al contrario l’influenza della pittura del viso che portò al viso dipinto. Quale fu, quindi, la vera origine della pittura del viso? È mia personale opinione che sia derivata dal trucco. Nel libro Specchio della Storia si dice: “L’imperatore Zhuangzong, della tarda dinastia Tang, dipinse il suo viso con polvere e inchiostro e recitò con attori e attrici a palazzo”. Qui il “viso dipinto con polvere e inchiostro” era semplicemente il trucco del viso. Nella dinastia Yuan lo zaju (dramma poetico messo in musica) prese forma e propose una gamma completa di personaggi. I tipi di ruoli comprendevano gentiluomo, signora, tipo rozzo e clown, e il loro trucco si sviluppò in due modalità: il trucco da viso comune e il trucco da viso colorato. Con il primo si indicava un trucco in cui occhi e sopracciglia erano dipinte con un pennello su di un viso leggermente incipriato, senza alcuna linea o

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colore esagerato per alterarne le caratteristiche naturali. Tale trucco è ancora usato oggi per i ruoli di gentiluomini e dame. Nel secondo, maggiormente adoperato per i ruoli del tipo rozzo e del clown, si usavano molta polvere e inchiostro per sottolineare il colore, in modo da modificare le fattezze naturali. Questo trucco è a mio parere da considerarsi la forma embrionale della pittura del viso odierna per gli ultimi due ruoli considerati. La pittura del viso progredì dal viso dipinto della dinastia Yuan al dramma poetico della dinastia Ming. Mei Lan Fang, il defunto e celebrato cantante dell’Opera di Pechino, collezionò pitture del viso della dinastia Ming che mostrano come queste siano passate dalla tipologia auto-esplicativa a quella simbolica. Con il rapido sviluppo del dramma, la comparsa del repertorio e la proliferazione dei personaggi, il numero di colori usati nella pittura del viso per caratterizzare le differenti nature aumentò considerevolmente. Al rosso, nero e bianco si aggiunsero blu, verde, giallo, viola, oro, argento, rosa e grigio. Differenti colori simboleggiano differenti personaggi. Il rosso suggerisce un carattere leale, il viola la pietà filiale, il nero l’animo onesto, il rosa la vecchiaia, il bianco opaco l’astuzia, il bianco lucente l’arroganza, il giallo la crudeltà, il grigio l’avidità, il blu la ferocia, il verde la tirannia, l’oro e l’argento il carattere divino. A partire dalle funzioni artistiche dei diversi colori arrivai a comprendere le cinque nature presenti nell’arte della pittura del viso. 4 Traggo le cinque nature della pittura del viso dalle sei classi in cui sono suddivisi i caratteri cinesi, ossia il pittogramma, il carattere auto-esplicativo, il carattere composto associativo, il carattere pittofonetico, l’omofono e il sinonimo. Sebbene le cinque nature della pittura del viso non siano esattamente equivalenti, il principio guida è il medesimo. a - La natura auto-esplicativa. All’apparire dell’attore sulla scena il pubblico comprende immediatamente dalla pittura del viso quale sia il carattere e quindi il personaggio. Il generale Huang Gai ne Il romanzo dei tre regni, per esempio, ha guance rosse, una fronte rossa, lunga e stretta e sopracciglia grigio scuro; Bao Zheng, un leggendario eroe della dinastia Song, ha un volto nero con tocchi di bianco a evidenziare le sopracciglia e gli occhi. Sulla fronte c’è un motivo bianco a forma di luna crescente, che non è auto-esplicativo ma simbolico e per il quale esistono due interpretazioni: la prima sostiene simboleggi l’abilità di Bao Zheng nel risolvere le liti su questo mondo durante il giorno e nel mondo degli inferi durante la notte; la seconda che Bao Zheng, da bambino, fu calpestato da un cavallo che lasciò sulla sua fronte l’impronta dello zoccolo. Personalmente sono più incline alla seconda interpretazione, sebbene, appartenendo alla categoria del simbolico, la pittura del viso di Bao Zheng abbia sia carattere auto-esplicativo che simbolico.

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b - La natura simbolica. Si usa in primo luogo un certo colore per simboleggiare la disposizione base del personaggio, poi si applica un altro colore su una certa parte del viso per conferirgli un accento particolare e successivamente si aggiunge un piccolo motivo pittografico come segno distintivo. In seguito alla moltiplicazione delle pitture del viso, venne fissato il simbolismo dei colori. Il blu, per esempio, suggerisce crudeltà e coraggio, così i banditi della foresta, come Don Erdun, hanno sempre una base di colore blu. Con il fissarsi di questo metodo, l’arte della pittura del viso si trasformò da realistica a simbolica. Un altro esempio può essere la pittura del viso di Cao Cao. Usando polvere e acqua l’intero viso è dipinto in bianco opaco, le sopracciglia, gli occhi e le rughe sono disegnate con inchiostro. Questo disegno, che non presenta altri motivi decorativi, è in se stesso simbolico. Il vero viso di Cao Cao non era così pallido, l’artista che lo ha creato ha esagerato la tonalità e i tratti per sottolinearne il sospettoso, perfido e crudele carattere. c - La natura di commento. Le pitture del viso riescono a mostrare direttamente il bene e il male, l’onestà e il vizio. I primi disegnatori sostenevano con frequenza che la tecnica del pittore era come la tecnica del pennello di primavera e d’autunno, tratta dagli Annali Primavere e Autunni di Confucio, nei quali il Maestro era così preciso nel valutare le persone che era considerato più onorevole essere lodato con una parola nel suo libro che essere decorato, così come veniva considerata una lesione più grave esservi condannati che non ricevere una ferita d’ascia. Ciò rende i disegnatori di pitture del viso molto legati ai propri soggetti. Si rifanno all’opinione popolare nel distinguere nettamente le figure integre e oneste da quelle infide e disoneste attraverso l’uso di colore e immagini, così come per indicare chi ama e chi odia. Cao Cao fu storicamente un eccellente stratega, scrittore e uomo di stato, ma nel folklore popolare è descritto come un uomo furbo e sospettoso, e per questo gli artisti della pittura del viso usano il viso bianco opaco per criticarlo e renderlo così in teatro un tipo di figura infida. d - La natura tipica. Qui l’artista dilata la disposizione principale del personaggio. In Addio mia concubina, Xiang Yu, il conquistatore Chu, ha occhi infossati e un naso stretto e curvo per richiamare la paura, e manifestare così la sua insensibilità e il suo caldo temperamento. e - La natura pittografica. Questa tipologia di pittura è caratterizzata dal fatto che il motivo decorativo, ricavato da un particolare animale, indica come il personaggio sia la forma umana di qualche spirito; Sun Wukong, per esempio, è la personificazione di una scimmia e la pittura del viso è quindi modellata su tale creatura. In aggiunta alle cinque sopraccitate nature, l’arte della pittura del viso comprende l’estetica dell’immaginazione e i caratteri tecnici scientifici ma, facendo parte di un’altra scuola accademica, vorrei evitare di darne qui dettagli.

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La dimensione sonora La musica orientale e il suo universo simbolico a cura di Leonardo D’Amico

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Introduzione

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di Leonardo D’Amico

La musica agisce sull’Universo intero, sul Cielo e la Terra, su tutti gli esseri viventi… I riti e la musica salgono sino al Cielo e circondano la Terra. Essi agiscono sui principi Yin e Yang e permettono di comunicare con gli antenati e gli spiriti celesti. Yo-Ching (Il Libro della Musica) composto per ordine dell’imperatore Wu-Li (147-87 a.C.)

Nelle civiltà orientali, i sistemi musicali, teorizzati in complesse cosmologie o filosofie del mondo, sottostanno a un sistema di pensiero tendente ad assegnare un ruolo fondamentale alla musica nell’eterna tensione dialettica tra kósmos e kháos: la musica deve aggregare gli uomini, stabilire e manifestare l’armonia, ristabilire gli equilibri del cosmo. Pitagora (ca. 560-480 a.C.), filosofo e matematico greco (ma che viaggiò a lungo in Oriente prima di stabilirsi nella Magna Grecia)1, elaborò una teoria musicale, come tutta la sua filosofia, basata sul numero come chiave di lettura delle leggi che governano sia i sentimenti dell’animo sia i movimenti dell’intero universo: la teoria cosmico-musicale dell’armonia delle sfere celesti2 consistente nell’identificare le distanze fra le sfere celesti con gli intervalli della scala pitagorica, ottenuta misurando i rapporti intervallari sul monocordo. Se per i filosofi della scuola pitagorica la musica era considerata l’arte più idonea a sviluppare l’equilibrio dell’anima, nell’antica Cina, la musica (yue o yü), più

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Pitagora di Samo trascorse ventidue anni in Egitto e quando l’Egitto venne conquistato dai Persiani fu portato come prigioniero a Babilonia dove trascorse altri sedici anni prima di arrivare a Kroton (oggi Crotone, in Calabria), città che a quel tempo faceva parte della Magna Grecia. 2 Concezione ripresa poi da Boezio (480-525), il quale divideva la musica in tre categorie: musica mondana (armonia dell’universo), musica umana (armonia dell’anima e dei corpi umani) e musica instrumentalis (la musica in quanto insieme fisico di suoni percettibili immediatamente).

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di tutte le arti, era considerata la più diretta manifestazione della forza vitale universale (qi), il respiro o l’energia che pervade tutto l’universo. Non è casuale il fatto che la parola che indica la musica (yüo) è rappresentata dallo stesso ideogramma che indica la parola serenità (lo). La musica era messa in relazione con i punti cardinali, con i fenomeni naturali, gli elementi, lo zodiaco, gli anni e i mesi del calendario lunare, all’interno di un complesso e articolato sistema cosmologico. Il principio ordinatore dell’universo risiede nell’equilibrio armonico di due forze opposte e complementari (yin e yang) rappresentate simbolicamente da un cerchio; la forza universale del non-essere, o yin, e la forza universale dell’essere, o yang, corrispondono alle dualità femminile/maschile, oscurità/luce, notte/giorno, inverno/estate, sole/luna, statico/dinamico. La musica è inserita all’interno di un sistema fondato sul simbolismo dei Cinque Elementi e dello yin-yang. In Cina, l’assimilazione della musica nei sistemi dell’universo risale a epoca assai remota (III millennio a.C.). Uno dei più antichi ordinatori del sistema musicale cinese è il secondo imperatore cinese Huang-Ti che, secondo la leggenda, nel 2697 a.C. incaricò uno dei suoi ministri di nome Ling Lun di scoprire il suono fondamentale su cui si basa il mondo sonoro e l’intero ordine celeste; egli tagliò dodici canne di bambù di diversa altezza (in proporzioni di 2/3 e 4/3) dalle quali ricavò i dodici suoni generatori (lü o lyu), corrispondenti ai dodici semitoni della scala cromatica; a ognuno di essi fu attribuito un nome (huangzhong 3, dalü, taizu, jiazhong, guxian mi, zhonglü, linzhong, ruibin, yize, nanlü, wuyi, yingzhong) e fu assegnato loro un valore corrispondente alle dodici ore del giorno e ai dodici segni zodiacali. In accordo alla concezione dualistica delle due forze opposte e complementari dello yin e yang, i dodici toni furono divisi in due gruppi di sei: sei toni rientravano nella sfera dello yin e corrispondevano agli ultimi sei mesi dell’anno, gli altri sei toni erano considerati yang e corrispondevano ai primi sei mesi dell’anno. La numerazione riveste un ruolo importante nella metafisica cinese e nella sua architettura simbolica. La musica cinese si basa su cinque toni fondamentali (wu sheng). La scala pentatonica4 (a cinque note) anemitonica (priva di semitoni) riflette la teoria dei Cinque Elementi: cinque poteri dell’universo controllano il funzionamento della natura, simbolicamente rappresentati da Acqua, Fuoco, Legno, Metallo e Terra. Le combinazioni di queste energie determinano le attività dell’uni-

3

La tonica kung o gong, chiamata anche huang chung o huangzhong (letteralmente campana gialla). È interessante notare come il temperamento equabile (divisione dell’8ª in 12 parti eguali) non sia una scoperta europea, bensì cinese. Gli esperimenti acustici cinesi che pervennero alla formula matematica relativa al temperamento equabile si devono al principe Chu Tsai-yü (ca. 1596 d.C.). La musicologia occidentale, invece, attribuisce tale scoperta all’organista e teorico musicale tedesco A. Wercksmeister (T. P. Calvisius, Musicalische Temperatur, Frankfurt am Main and Leipzig, 1691), considerato l’inventore del temperamento equabile poi messo in pratica da J. S. Bach nel Clavicembalo ben temperato. 4

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verso. Il filosofo confuciano Cheng I indica la via della saggezza associando i cinque elementi naturali alle cinque virtù: “Dall’essenza della vita accumulata in Cielo e sulla Terra, l’uomo riceve nella loro eccellenza superiore i Cinque Agenti (Acqua, Fuoco, Legno, Metallo e Terra). La sua natura originaria è pura e tranquilla, prima che essa spunti, i cinque principi morali della sua natura chiamati umanità, rettitudine, decenza, saggezza e fede, sono completi”5. Le cinque note del sistema musicale cinese (kung o gong, shang o shan, chüeh o jiao, chih o zhi e yü) corrispondono ai cinque punti cardinali (nord, sud, est, ovest, centro) e ai cinque colori fondamentali (giallo, bianco, blu, rosso, nero). La scala pentatonica è regolata secondo gli intervalli kung, shang, chüeh, chih e yü; questi termini non indicano note di altezza assoluta poiché l’intonazione era variabile: “Durante l’undicesima luna essa era fa sol, la, do, re; per la dodicesima luna la si trasponeva in fa diesis, sol diesis, la diesis, do diesis, re diesis. Questa scala veniva trasposta ogni mese, affinché la musica si trovasse sempre in armonia con il suono fondamentale della natura, il quale variava di mese in mese”6. I Cinesi erano consapevoli dell’influenza delle vibrazioni cosmiche e di conseguenza si accordavano a esse modificando il suono fondamentale kung. I principi estetici, storici, teorici sulle musiche orientali sono riferiti a un sistema ideologico e simbolico, codificato in forma scritta, con dei risvolti etici (cos’è bene e cos’è male) ed estetici (ciò che è bello e ciò che è brutto). La musica può influire sul delicato equilibrio tra il Cielo e la Terra e l’alterazione di questo rapporto può compromettere l’ordine sociale e la stabilità dell’Impero. Il sistema tonale trova corrispondenze nella gerarchia che presiede l’ordine dello Stato: kung rappresenta il principe, shang i ministri, chüeh il popolo, chih gli affari e yü gli oggetti. Il Memoriale della Musica (Yo-Ching, in Li Chi, Memoriale dei riti) riporta che: “Quando kung [il principe/la tonica – nda] è alterato, il suono è disordinato; significa che il principe è arrogante. Quando shang [i ministri/la seconda – nda] è alterato, il suono è pesante; significa che i ministri sono corrotti. Quando chüe [il popolo/la terza – nda] è alterato, il suono è inquieto; significa che il popolo è triste. Quando chih [gli affari/la quinta – nda] è alterato, il suono è dolente; significa che gli affari vanno male. Quando yü [gli oggetti/la sesta – nda] è alterato, il suono è tormentato; significa che i patrimoni sono dilapidati. Quando i cinque suoni sono alterati, le categorie sconfinano le une nelle altre e ciò viene chiamato insolenza. Se le cose stanno così, in meno di un giorno sopraggiungerà la perdita del regno”7. Sempre 5

J. M. Koller, Oriental Philosophies, New York, 1970, trad. it., Le filosofie orientali, Ubaldini, Roma, 1971, p. 278. 6 M. Schneider, Le rôle de la musique dans la mythologie et les rites des civilizations non européennes, Paris, 1960, trad. it., La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1992, p. 90. 7 M. Schneider, Le rôle de la musique dans la mythologie et les rites des civilizations non européennes, cit., pp. 91-92. Si veda anche A. Danielou, Symbolism in the Musical Theories of the Orient, in “The World of Music”, vol. XX, n. 3, 1978, pp. 28-29.

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nel Memoriale della Musica (Yo-Ching) è scritto: “Sotto l’effetto della musica, i cinque obblighi sociali sono senza mescolanza, gli occhi e gli orecchi sono chiari, il sangue e le energie vitali sono equilibrati, le abitudini sono riformate, le usanze sono migliorate e l’impero è in pace”8. André Schaeffner riporta un mito di creazione taoista: “Si era allora in piena primavera. Cheu-wenn toccò la corda Chang, corrispondente alla canna Nan ed all’autunno; subito si alzò un vento fresco ed i frutti maturarono. Quando, in autunno, toccò la corda Kiao, che corrisponde alla campana Kia e alla stagione della primavera, un vento caldo soffiò e le piante fiorirono. Quando in estate toccò la corda U, corrispondente alla campana Hoang ed alla stagione invernale, nevicò e i corsi d’acqua gelarono. Quando in inverno egli toccò la corda Tcheng, che corrisponde alla canna joeipinn ed alla stagione estiva, ci furono sprazzi di luce e i ghiacci si fusero. Infine, toccando contemporaneamente le quattro corde e generando l’accordo perfetto, soffiò una dolce brezza, graziose nuvole ondeggiarono nell’aria, una rugiada zuccherosa cadde dal cielo, mentre sorgenti di vino scaturirono dalla terra”9. La tendenza classificatoria, sistematica e tassonomica della teoria musicale cinese10 si ritrova anche nella classificazione degli strumenti, che distingue otto classi o timbri (bayin o pa yin), in base ai materiali di costruzione: chin (metallo), shih (pietra), mu (legno), t’u (terra), ko (pelle), chu (bambù), p’ao (zucca) e ssu (seta). Alla classe degli strumenti di argilla appartengono i flauti globulari o ocarine (xuan o xun), alla classe delle pietre appartengono i carillon di sedici pietre (bianqing o bianqing), a quella del metallo i carillon di sedici campane (bianzhong); agli strumenti di zucca appartiene l’organo a bocca (sheng)11; la classe degli strumenti di bambù comprende il flauto traverso (yi o ti o di), il flauto diritto (xiao o hsiao) e la siringa o flauto di Pan (paihsiao o paixiao); la classe della seta include la cetra k’in o ch’in o qin (con sette corde di seta) e la cetra se (a venticinque corde) e la sua variante, il zheng o cheng, cetra a tredici corde (altre varianti sono il koto giapponese e il kayakuem coreano). Gli ideogrammi che indicano gli strumenti riportano al proprio interno il simbolo dell’elemento naturale costitutivo (terra, pietra, ecc.). Il Memoriale dei riti (Li-Chi)12 riporta della corrispondenza tra gli otto materiali e gli 8

Riportato in A. Danielou, Ethical and Spiritual Values in Music, cit., pp. 28-29. A. Schaeffner, Origine des instroments de musique, Payot, Paris, 1936, trad. it., Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo, 1987, p. 350. 10 La conoscenza della teoria musicale cinese in Occidente si deve al padre Amiot, autore del Mémoire sur la musique des Chinois, tant anciens que modernes, pubblicato a Parigi nel 1779 dall’abate Roussier. 11 L’organo a bocca cinese sheng (sho in Giappone, saing in Corea, kien e fuku in Birmania, khéne nel Laos, kledi nel Borneo) fu importato dalla Cina a Pietroburgo alla metà del Settecento, e da qui in Europa, dando vita, fin dai primi dell’800, all’armonica a bocca, all’organetto, all’harmonium e alla fisarmonica. 12 S. Couvreur, a cura di, Li-Ki, ou Mémoire sur les Bienséance et les Cérémonies, vol. II, 1913, p. 77. 9

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otto timbri con le otto direzioni dei venti: chin, metallo, ovest; shih, pietra, nordovest; mu, legno, sud-est; t’u, argilla, sud-ovest; ko, pelle, nord; chu, bambù, est; p’ao, zucca, nord-est; ssu, seta, sud. Nella teoria musicale indiana, il sistema di classificazione degli oggetti sonori suddivide in quattro classi gli strumenti secondo le proprietà sonore dei materiali che li compongono (vadhya): ghana vadhya (idiofoni, ghana: solido), avanadha vadhya (membranofoni, avanadha: coperto), sùsira vadhya (aerofoni, sùsira: bucato) e tata vadhya (cordofoni, tata: teso). Victor Charles Mahillon (fondatore del Museo degli strumenti musicali del Conservatorio di Bruxelles) propone nel 187813 una classificazione degli strumenti in quattro classi ispirandosi al sistema di classificazione indiano; lo stesso schema classificatorio quadripartito sarà poi ripreso nel 1914 da Curt Sachs e Erich M. von Hornbostel14, e successivamente da André Schaeffner15. Nella cosmologia hinduista, le vibrazioni sonore (nada) sono in relazione con le vibrazioni dell’universo che creano gli atomi, i sistemi solari e tutte le forme di vita e di pensiero. Nel R˝g Veda, in cui si rappresenta la creazione del cosmo, non mancano frequenti riferimenti all’elemento sonoro come forza creatrice. éSiva, il dio della forza creatrice, è associato alla musica e alla danza ed è rappresentato mentre danza con in mano un tamburo (damru). I primi accenni scritti sulla musica (sangita) si trovano nella raccolta di scritti chiamati Upanishad risalenti al periodo vedico16 (che si estende dal 4000 a.C. al 700 a.C.). Nella Candogya Upanishad è scritto che il mondo fu generato dalla sillaba OM (o AUM) che costituisce l’essenza del canto (saman). La teoria canonica (és1astra) indiana trae i suoi principi dal N1at¸yaés1astra di Bharata (collocato dagli studiosi tra il II sec. a.C. e il II sec. d.C.), un’opera sugli aspetti tecnici e teoretici della rappresentazione teatrale, contenente sei capitoli dedicati alla musica vocale e strumentale. Non è casuale la discussione sull’arte dei suoni in un trattato di drammaturgia, dal momento che la musica era, e lo è tuttora, parte essenziale e integrante dell’arte scenica, assieme alla gestualità, al movimento, alla vocalità, all’abbigliamento, al make-up, ecc. secondo una concezione olistica della rappresentazione sonora e visiva. Le arti dello spettacolo in India (musica, danza, teatro e poesia) sono basate sul 13

Annuaire du Conservatoire royal de musique de Bruxelles, anno II, Bruxelles, 1878; rist. in Catalogue descriptif et analytique du musée instrumental du Conservatoire royal de musique de Bruxelles, Libraire générale des Ad. Hoste, Gand, 1893. 14 E. von Hornbostel - C. Sachs, Systematik der Musikinstrumente, in “Zeitschrift für Ethnologie“, n. 46, 1914, pp. 553-590. 15 A. Schaeffner, D’une nouvelle classification méthodique des instruments de musique, in “Revue Musicale“, sept.-oct. 1932, pp. 215-231. 16 La letteratura di questo periodo (detta in genere dei Veda), può essere suddivisa nelle seguenti categorie: R˝g Veda, S1ama Veda, Yajur Veda e Atharva Veda.

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concetto di Nava Rasa, ovvero i nove sentimenti (letteralmente rasa significa succo, estratto, ma in questo contesto assume il significato di emozione, sentimento o stato d’animo), che sono alla base dell’estetica indiana. In maniera analoga, l’antica teoria greca di tradizione pitagorica attribuiva a ogni modo la connotazione di un ethos, un carattere particolare che aveva degli effetti sulla psiche umana. L’ordine tradizionale di questi stati d’animo (rasa) è il seguente: shringar (amore), hasya (comicità), karuna (pathos, commozione), raudra (rabbia), veera o vir (eroismo), bhayanaka (paura), bibhatsa (disgusto), adbhuta (meraviglia), shanta (serenità). Ogni rasa è associato a una divinità e a un colore: shringar, amore, Vis¸n¸u, verde chiaro; hasya, comicità, Pramatha, bianco; karuna, commozione, Yama, grigio; radura, rabbia, Rudra, rosso; vir, eroismo, Indra, arancione; bhayanaka, paura, K1ala, nero; bibhatsa, disgusto, éSiva-M1ahak1ala, blu; adbhuta, meraviglia, Brahm1a, giallo; shanta, serenità, N1arayana, biancofiore kunda. Ogni r1aga (modello melodico) è fondamentalmente dominato da uno di questi nove rasa. I r1aga (dal sanscrito ranga, colore) sono caratterizzati da un sistema di concordanze che li collocano in sintonia con l’universo: devono essere eseguiti in momenti prescritti della giornata e sono associati a particolari mesi o stagioni e a determinati segni zodiacali. Si ritiene che possano curare particolari malattie e incidere sui fenomeni naturali (come la pioggia, gli incendi, le inondazioni). Il r1aga viene concepito come parte di un ordine cosmico; l’esecuzione maldestra del r1aga può causare il capovolgimento di questo ordine e provocare sciagure. Inoltre, i r1aga hindustani sono organizzati simbolicamente in sistemi familiari in cui i r1aga e i r1agini, sono considerati rispettivamente padri e madri, e i loro figli sono definiti putra. Il sistema musicale fondato su sette note della scala (saptak) risale ai tempi in cui scriveva Bharata. Bharata notò che c’erano ventidue intervalli all’interno del saptak (suddividendo l’ottava in quarti di tono, anziché in semitoni come avviene nel sistema occidentale) e questi intervalli microtonali li chiamò ésruti 17 (nella pratica musicale si combinano da due a quattro ésruti per formare un grado della scala o svara, e sette svara formano un’ottava o saptaka). I nomi delle sette note (svara) sono: sadja (SA), risabha (RI), gandhara (GA), madhyama (MA), pancama (PA), dhaivata (DHA), nishada (NI); le abbreviazioni sa, ri ga, ma, pa, dha, ni corrispondono alle sette note del sistema musicale occidentale (do, re, mi, fa, sol, la, si). Nell’universo simbolico indiano, ognuna di queste note è associata a un suono del mondo animale: SA=grido del pavone; RI=muggito di vacca; GA=belato di capra; MA=richiamo dell’airone; PA=canto del cucù; DHA=nitrito di cavallo; NI=barrito d’elefante18. Ogni scala (grama) è formata da sette note (svara) e tra queste sono

17 Dall’etimo sanscrito ésru, udire, per il fatto di essere considerato il più piccolo intervallo percepibile dall’orecchio umano. 18 R. Massey - J. Massey, The Music of India, 1976, Kahn & Averill, London, 1993 reprint.

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solo due le scale eptatoniche menzionate nel N1at¸yaés1astra: sadjagrama (o sagrama) e madhymagrama (o magrama)19. La musica, inoltre, ha il potere di favorire le predisposizioni dell’anima in virtù del suo ambito d’azione che si colloca tra l’umano e il divino. Nel trattato sanscrito intitolato Samgîta-Darpana, composto verso il 1625 da D1amodara Miésra, è scritto: “La musica è di due tipi, m1arga e deésî: quello che era ricercato da éSiva e praticato da Bharata è chiamato m1arga e conduce alla liberazione, quello che serve allo svago della maggior parte delle persone secondo la consuetudine è chiamato deésî ”20. Oltre a una differenziazione nella funzione, si viene qui a delineare una distinzione tra generi musicali: musica sacra (m1arga, lett. della via) e musica popolare (deésî, lett. regionale, locale). Nelle due grandi civiltà orientali, quella cinese e quella indiana, che tanta influenza hanno avuto su tutte le culture del continente asiatico, la musica si inserisce all’interno di un sistema di interrelazioni che la legano simbolicamente ad altri aspetti della cultura. Come ha espresso bene Clifford Geertz, la cultura “denota un modello di significati, trasmesso storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita”21. La musica si delinea quindi come un linguaggio, che seppur asemantico e autoreferenziale, si delinea come linguaggio simbolico che veicola un bagaglio di valori psicologici, sociali, estetici, etici, cognitivi e metafisici: “La musica – scrive Alain Danielou – che è formata dalla combinazione di frequenze sonore e di divisioni ritmiche del tempo è per sua natura collegata a tutte le forme del simbolismo. Sia gli Hindu, che i Greci, gli Egiziani e le altre grandi correnti del pensiero cosmologico antico, hanno considerato la musica una chiave per tutti gli aspetti della conoscenza, un mezzo di comunicazione tra livelli esistenziali diversi. La musica è pertanto un elemento essenziale in ogni rito, magia e azione psicologica; in ogni contatto con i livelli superiori, con spiriti, demoni e dèi, ma anche con i livelli inferiori, con il mondo animale, vegetale e minerale. La musica è dunque uno strumento simbolico perfetto”22. Le civiltà musicali asiatiche sono degli universi sonori che incarnano il pensiero filosofico, estetico, metafisico, spirituale che li ha generati e di cui sono al tempo stesso il riflesso. Elemento primario e primordiale, la musica è un microcosmo so-

19

Una terza scala, gandharagrama (o gagrama), si è aggiunta in epoca posteriore. Samgîtadarpana, I, 4-6, cit. in A. K. Coomaraswamy, La philosophie chrétienne et orientale de l’art, Pardès, Puiseaux, 1990, pp. 135-6. 21 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, Inc., New York, 1973, trad. it. Interpretazioni di culture, il Mulino, Bologna, 1987, p. 113. 22 A. Danielou, Il simbolismo nelle tradizioni musicali dell’Oriente, in “Musiche del Mondo”, Istituto Internazionale di Studi Comparati, Venezia, 1985, p. 9. 20

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noro che rispecchia simbolicamente il macrocosmo naturale e culturale. La dimensione sonora delle civiltà orientali si colloca, quindi, all’interno di un universo simbolico tendente alla ricerca di un costante equilibrio armonico tra Uomo e Universo. La musica è il movimento del cuore. La musica è il fiore della virtù. Cielo e terra risuonano insieme, ecco l’armonia del Cielo e della Terra.

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Dal Memoriale dei riti (Li-Chi)23

23 F. Picard, La musique chinoise, Minerve, Paris, 1991, trad. it., La musica cinese. Le tradizioni e il linguaggio contemporaneo, E.D.T., Torino, 1998, p. 8.

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Musica in Malesia di William P. Malm

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“The World of Music”, vol. XXI, n. 3, Amsterdam, 1979, pp. 6-16

L’attuale Malesia è formata da due grandi masse di terra: la penisola malese al di sotto della Thailandia e della Birmania è chiamata Malesia Occidentale e la Federazione di Sarawak e Sabah lungo la costa nord del Borneo (Kalamantan) è la Malesia Orientale. Nonostante l’estensione e la relativa stabilità politico-economica, la Malesia è stata presa raramente in considerazione negli studi sulle arti del sud-est asiatico. Questo saggio è un modesto tentativo di presentare la musica e il teatro malesi tra le più note tradizioni delle culture confinanti. Se si viaggia attraverso i fiumi della giungla, nelle lontane zone montuose o anche tra le coste meno popolate della Malesia, si scopre un gran numero di musiche tribali di grande varietà e interesse. Come i gruppi tribali delle altre nazioni del sud-est asiatico, gli indigeni della Malesia hanno usato materiali naturali del loro ambiente per creare forme particolari di strumenti musicali, organi da bocca in zucca e canna, flauti a bocca e flauti nasali, xilofoni in legno, e canne sonore di bambù. La cultura del gong tipica del sud-est dell’Asia arriva anche nella giungla. Sebbene si usino solo uno o due gong in un ensemble tribale e questi vengano suonati per il ritmo piuttosto che per l’intonazione, fanno parte del patrimonio familiare e sono trattati con un rispetto ammirevole. La musica tribale malese, come in ogni altra parte del mondo, ha una funzione: niente arte per l’arte. Una funzione di particolare interesse per la gente del mondo cosiddetto civilizzato è il suo valore per la spiritualità. Uno sciamano senza musica è un essere senza potere, e mentre la gente di città in ogni altra parte del mondo può ricevere aiuto dai concerti di musica così come dagli psichiatri, la gente di oggi deve ammirare e forse essere anche un po’ gelosa dell’efficacia curativa mentale di un abile bomor del villaggio. Dalle traduzioni dei testi delle canzoni degli sciamani della Malesia e dei narratori contadini si può cominciare ad apprezzare i talenti poetici e letterari della gente della giungla malese. Nei campi da coltivare e nelle piantagioni di caucciù lungo la zona costiera della Malesia si può trovare magia e divertimento nelle musiche. I discendenti dei bo-

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mor putri studiati negli anni Trenta1, ancora praticano queste arti: succhiando gli spiriti maligni dai malati ed entrando in contatto diretto con la malattia cadendo in trance. Nella costa est della Malesia Occidentale questo fenomeno si verifica spesso in una danza eseguita con movimenti rapidi della testa chiamata lupa attraverso la quale lo spirito entra nel bomor. Lo spirito viene quindi privato del suo potere malvagio da un suonatore di violino a punta chiamato rebab che accompagna tutte le canzoni e le danze dello sciamano con tamburi e gong. Gli strumenti della tradizione putri sono affini a quelli dell’Indonesia ma la combinazione dei loro particolari stili di musica, la coreografia delle danze che li accompagnano e le qualità vocali del canto sembrano unicamente malesi. Per apprezzare il potere di un putri sarebbe necessario farne esperienza diretta. Le attuali arti del teatro della Malesia sono state studiate accuratamente solo nelle forme della Malesia Occidentale, perciò la nostra introduzione deve limitarsi a questa area. Nella Provincia nordorientale di Kelantan si trovano tracce di ma’yong, un dramma musicale che una volta era messo in scena nei palazzi dei sultani regionali benché oggi sopravviva principalmente nei villaggi. In questo teatro, tutti i ruoli principali sono affidati alle donne, mentre gli attori e i musicisti sono solitamente uomini. Questo contrasta con il teatro con soli uomini che è anche rappresentato in Malesia ma solo dalle comunità thai. Il gruppo musicale di ma’yong è formato da un violino rebab, due tamburi gendang e un suonatore di due gong (tawak-tawak). I brani melismatici del rebab presentano un fraseggio all’interno di un ciclo di tempo prestabilito dal gong mentre i due percussionisti eseguono modelli ritmici intrecciati che cambiano con la melodia del rebab per dare un vivace senso sonoro di progressione all’interno di una forma stabilita. L’ensemble esegue la musica del prologo e dell’azione, così come l’accompagnamento per molte canzoni danzate. Nel repertorio delle rappresentazioni del ma’yong viene usato un gran numero di pezzi famosi con il testo dei brani cantati modificato per adattarsi al dramma. Nel teatro ma’yong si mantiene in vari modi una magia subliminale. Per prima cosa, un palco e tutti i suoi accessori devono essere consacrati da una imponente cerimonia bomor prima che le performance abbiano inizio in un luogo diverso. Secondariamente, le storie del ma’yong raccontano spesso di giganti, divinità celesti, ed eventi magici (un vecchio attore una volta mi ha detto che rappresentavano la storia: è così che vanno le cose). Infine, tutte le serate di ma’yong iniziano con lo stesso pezzo, il mengadap rebab, che significa rendere onore al rebab. A questo proposito ci sia permesso ricordare che il suonatore di rebab era l’intermediario dello sciamano nel putri della stessa regione della Malesia. La danza di questa pièce di apertura è unica in quanto i danzatori assumono una posizione inginocchiata e si alzano solo alla fine del pezzo. I movimenti della mano e del corpo ricordano quel-

1

Si veda J. Cousinier, Danse magiques de Kelantan, Paris, 1936.

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li delle danze di altre parti del sud-est asiatico mostrate in un film al rallentatore. Le danze che seguono sono ugualmente lente e controllate e i danzatori si muovono singolarmente o in cerchio a gruppi solo con una serie limitata di movimenti delle dita. È presente inoltre una danza speciale, il tari tagam, eseguita con una figura a otto nello stile della danza dei thai manora. Anche il suo accompagnamento rivela le influenze thai con le bacchette di bambù e un oboe serunai. Comunque, la particolare caratteristica della danza ma’yong è il controllo coreografico e la musica vocale di accompagnamento. Il canto ma’yong inizia con un duetto eterofonico tra il cantante principale e il rebab. Al primo ascolto ricorda più il vicino nord-est piuttosto che il sud-est del continente asiatico, forse perché riflette la religione dell’Islam e i secoli di scambi con gli Arabi che sono parte della storia della Malesia. Dopo aver cantato il verso, i rimanenti esecutori proseguono con un vocalizzo che è uno dei suoni corali più particolari dell’Asia. Ogni performer sembra impegnato in una variazione melismatica della melodia fondamentale. Tutti sembrano conoscere il pezzo ma per un ascoltatore poco preparato è molto difficile trovarlo. Un ascoltatore occidentale potrebbe vedere delle analogie con i suoni presenti all’interno di un alveare o con i lavori contemporanei di Penderecki, ma in realtà non è questo. È un dono speciale della Malesia ai suoni corali del mondo. Le rappresentazioni ma’yong sono piene di canzoni e danze con intermezzi umoristici dei clown (pawang). Un’azione scenica può durare una o più notti a seconda dell’interesse del pubblico o della benevolenza di un patrono. Ci sono stati tentativi recenti da parte del Ministero della Cultura di portare i giovani verso questa antica tradizione e il Dipartimento Universitario per il Dramma in Penang ha fatto progressi significativi nella ricerca sulle tradizioni. Oggi il suo destino è incerto, ma le rappresentazioni tradizionali hanno ancora molto da offrire al moderno mondo della musica e del teatro. La popolazione indiana della Malesia conserva una forma di dramma musicale particolarmente agito chiamato bangsawan mentre l’emozionante opera cinese e le feste delle danze del drago contribuiscono ad arricchire l’offerta sonora della nazione. Le rappresentazioni cinesi di marionette assumono un particolare valore perché, nel contesto del principio antropologico della sopravvivenza marginale, si trovano in Malesia stili che sono piuttosto rari in Cina. Comunque le tradizioni di marionette più conosciute della Malesia sono quelle delle ombre derivate dalla Thailandia o dall’Indonesia. Tra i diversi tipi, il più popolare sulla costa est della Malesia occidentale è il tipo conosciuto (sfortunatamente per l’Occidentale) come wayang siam. Molte delle marionette sono di ispirazione indonesiana (non siamese) sebbene l’ensemble che accompagna sia più vicino allo stile del sud-est asiatico. Di solito include tre paia di differenti tipi di tamburi chiamati gendang, gedumbak, e geduk, un paio di piccoli gong orizzontali (canang) un paio di gong verticali (tetawak) e un paio di piccoli cimbali a mano (kesi) e un aerofono a canna, il serunai. Il solo (e singolare) strumento melodico serunai è in grado di superare una batteria di percussioni di grande effetto, per prima cosa perché il suonatore mantiene un

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suono costante attraverso la cosiddetta tecnica della respirazione circolare o nasale, con la quale l’aria entra solo attraverso il naso e poi esce dalla bocca, con le guance che vengono usate come un contenitore d’aria come il sacco di una cornamusa. Un secondo fattore per quanto riguarda il potere del suono del serunai è la sua ancia. È un esempio eccellente di quello che può essere chiamata un’ancia quadrupla. Queste ance sembra siano uniche nel sud-est asiatico. A una prima occhiata assomigliano a una piccola doppia ancia libera europea ma a un esame più accurato si vede che ci sono due strati di foglie di palma da ogni parte, da qui il termine di ancia quadrupla. Il suono penetrante di questa ancia su un serunai in Malesia non sembra turbare il sonno di un bambino che dorme nel backstage durante una performance in Trengganu. Per chi guarda uno spettacolo di marionette, comunque, il serunai combina la parte delle percussioni piene di energia con l’abilità dei burattinai così da suscitare grande eccitazione e interesse durante gli spettacoli della sera che una volta erano protagonisti delle notti dei villaggi malesi. Negli anni recenti movie show portatili e set televisivi nelle coffee house hanno avuto successo tra il pubblico del wayang in Malesia ma, almeno per ora, grandi spettacoli si devono ancora vedere. L’oboe serunai ha molte funzioni fuori dal teatro. Una danza per il combattimento (bersilat) in Malesia non è credibile senza il suono del serunai con tamburi e gong. L’unità melodica rimane anche nelle processioni del matrimonio musulmano in cui si usa l’ensemble gedang keling. I tamburi di questo gruppo sono abbastanza diversi da quelli del teatro. Il loro disegno e il metodo usato per suonarli, infatti, ricordano una volta di più lo stile Turcomanno. Un altro strumento che sembra riflettere un’influenza mediorientale è il tamburino (tar), usato per accompagnare le canzoni arabe nelle danze maschili rodat. I narratori che usano il violino rebab come accompagnamento riflettono la vicinanza culturale con l’Indonesia così come l’influenza penetrante dell’Islam, anche se le letture in chiave melodica del Corano in Malesia sono ovviamente derivate da La Mecca. Le origini arabe si possono vedere anche nella danza popolare zapin nella Malesia occidentale. Poche danze di corte ora praticate da gruppi sostenuti dal governo, un’orchestra gamelan, e vari strumenti sparsi tra i gruppi della regione riflettono una lunga storia di scambi tra l’Indonesia e i primi sultanati degli stati della Malesia. Guardando in un’altra prospettiva culturale, si possono notare le deliziose dodang sayang. Queste canzoni, come i kroneong dell’Indonesia sembrano derivare dalle canzoni dei marinai portoghesi del XVI secolo. Comunque, oggi sono in realtà molto distanti dal fado portoghese. Un violino occidentale può dare la tonalità, ma si usano un tamburino e un ciclo temporale di gong, invece di una chitarra, per arricchire la melodia. Quando entra il cantante si sente uno stile fluido, una linea semi-declamatoria, che pochi musicisti occidentali potrebbero eseguire. Attraverso tutti questi generi musicali derivati, si può avere il senso dell’inventiva musicale di base della gente della Malesia. Un’attenta lettura dell’interessante

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studio di Dato Haji Mubin Sheppard sulle arti della Malesia2 è sufficiente a mostrare quanti talenti si trovino nelle danze popolari, nella musica e in altri passatempi della Malesia. Molti di questi riflettono anche il punto fondamentale per cui le funzioni culturali delle forme popolari spesso vanno oltre i loro astratti valori artistici. Prendiamo, per esempio, i grandi tamburi rabana ubi. Un osservatore inesperto sarà incuriosito nel vedere gruppi di suonatori percuotere furiosamente questi grandi tamburi senza alcuna canzone, danza o accompagnamento. In realtà è una gara tra villaggi nella quale si deve stabilire quale coppia di suonatori di tamburo sia in grado di produrre il ritmo meglio coordinato. In una società che sopravvive grazie a sforzi agricoli collettivi queste capacità di fare insieme il lavoro duro sono davvero importanti. Infine, possiamo menzionare le gare serali dekibarat nelle quali sembra che due gruppi di uomini su un palco si scambino una melodia botta e risposta continuamente fino a notte. Ciò che si perde è il testo: il prendersi in giro e le allusioni che richiedono repliche immediate di particolare abilità poetica e intellettuale. Dopo questa breve introduzione alla musica in Malesia, dalle montagne e le giungle fino alle risaie, è ovvio che rimane molto da sentire e apprezzare. Speriamo che i Ministeri della Cultura abbiano la volontà di occuparsi degnamente di queste preziose tradizioni.

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D. M. Sheppard, Taman Indera, Oxford Press, 1972.

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I contesti del dontrii lao deum: musica tradizionale laotiana di Katherine Bond - Kingsavanh Pathammavong

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“Selected Reports in Ethnomusicology”, vol. 9, 1992, pp. 131-148

I musicisti del palazzo reale di Luan Prabang rivendicano una tradizione risalente a seicento anni fa fino al periodo di Lan Xang, trasmessa attraverso musicisti formatisi all’interno del palazzo così come in altri villaggi sotto la protezione dei re Laotiani. La musica diffusa a Vientiane dopo il 1954 ha giocato un ruolo importante nello sviluppo del nazionalismo lao. Eseguita inizialmente dal Lao Radio Ensemble, la musica si è arricchita con lo sviluppo della Natasin School of Music and Dance. Dal momento che ci sono stati pochi contatti tra i due gruppi, questi saranno trattati separatamente. Dopo il 1975, molti dei musicisti e danzatori di corte più raffinati fuggirono in Thailandia. Alcuni affrontarono una persecuzione politica, mentre altri si resero conto che non c’era futuro per la loro tradizione, etichettata dal nuovo regime come la musica dell’aristocrazia. In seguito alla fuga in Thailandia, due gruppi di musicisti e danzatori si riunirono nel campo di rifugiati di Nong Khai dove provarono, insegnarono e si esibirono per altri rifugiati. Nei primi anni Ottanta, i due gruppi si stabilirono di nuovo negli Stati Uniti sotto la protezione delle chiese e delle famiglie americane. Gli artisti del palazzo di Luang Prabang si fermarono a Nashville, nel Tennessee, e quelli della Scuola Natasin di Vientiane furono risistemati a Des Moines, nello Iowa. Molti musicisti e danzatori arrivarono con la speranza di esibirsi a tempo pieno nella nuova realtà. Tuttavia, i cambiamenti dovuti all’adattamento e alla sopravvivenza presentarono molti ostacoli al mantenimento della loro tradizione. La musica, separata dal suo ruolo vitale di intrattenere e di creare un’atmosfera rituale, è eseguita con molta minor frequenza all’interno della comunità Laotiana negli Stati Uniti. La nostra prima intenzione era di esaminare il ruolo sociale del dontrii lao deum prima del 1975, mettendo a fuoco le figure dei musicisti e i contesti delle performance. Contavamo di fare affidamento principalmente sulle osservazioni delle performance alle feste della comunità per raccogliere dati sui contesti nei quali si svolgevano, e per intervistarne i personaggi chiave. Come risulta, molte delle nostre informazioni derivarono da interviste con musicisti, danzatori e altri membri della comunità. Gli informatori furono scelti in base al loro ruolo nei vari

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gruppi di musica e danza, o al loro coinvolgimento con istituzioni che hanno sostenuto la tradizione. Questa metodologia ha presentato una serie di problemi inevitabili. Primo, molti degli informatori sono più vecchi e i loro ricordi si sono affievoliti. Secondo, il loro attuale stile di vita ha influenzato la prospettiva rispetto al passato. Terzo, le notizie fornite da un informatore a volte contraddicevano quelle di un altro e alcune informazioni riguardanti i fatti non erano concordanti. Infine, avevamo molte incertezze su come distinguere ciò che veniva detto da ciò che era stato realmente fatto. Le nostre scoperte sono il risultato di interviste con Laotiani che si sono stabiliti negli Stati Uniti e, in minor grado, in Francia. Abbiamo dovuto esaminare non solo quello che ci è stato detto, ma le lacune nelle informazioni presentate. Si parlò relativamente poco di guerra e politica, c’era poca conoscenza della storia e dei racconti dietro il repertorio, nessuna interpretazione delle storie e delle danze e molti dettagli andati perduti. Ciò che siamo in grado di presentare, quindi, è una storia tratteggiata della musica nel palazzo di Luang Prabang, la Scuola Nazionale di Musica e Danza a Vientiane e una descrizione dei contesti e dei musicisti del dontrii lao deum prima del 1975 come risultano dai racconti dei rifugiati che sono vissuti in una società nuova e vi si sono adattati in un periodo di dieci anni. Il dontrii lao deum riferito anche alla musica classica del bassopiano laotiano era eseguito tradizionalmente nelle cerimonie di stato e di corte, nei rituali, come accompagnamento per il teatro e la danza, e come intrattenimento nelle case dell’aristocrazia laotiana e nei villaggi. Tradotta letteralmente come musica tradizionale laotiana, altri termini attribuiti a questa musica includono la musica di corte e la musica cerimoniale. In relazione con i gruppi Khmer pin peat e mahori1, e la musica classica thai2, il dontrii lao deum è un genere distinto di musica tradizionale del bassopiano laotiano che si è sviluppato nel contesto della storia, della cultura e della cerimonia laotiana. Resoconti storici del dontri lao deum ne parlano come di musica classica reale laotiana. Danielou ha associato gli ensemble laotiani pi phat e mahori alle orchestre classiche della Cambogia e del Laos3. In riferimento alla musica thailandese, Morton descrisse il periodo classico della fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo come momento creativo di musica d’arte di alto livello che si trasformò in un sistema corporativo sotto l’egida del re e il sostegno dell’aristocrazia4. In seguito al tu1

S. Sam, The Pin Peat Ensemble: Its History, Music and Context, Wesleyan University, 1988. D. Morton, Thai Traditional Music: Hot House Plant or Sturdy Stock?, in “Journal of the Siam Society”, vol. 58, n. 2, 1976, pp. 30-44. 3 A. Danielou, La musique de Cambodge et du Laos, Publications de l’Institute Français d’Indologie, Pondicherry, 1957, p. 6. 4 D. Morton, Thai Traditional Music: Hot House Plant or Sturdy Stock?, in “Journal of the Siam Society”, cit. p.15. 2

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multo politico e al lento sviluppo economico nel Laos, comunque, questo tipo di patronato non durò abbastanza e non fu abbastanza ampio da poter essere definito periodo classico 5. Così, la definizione standard di folk-classico sembra fuori luogo nel contesto laotiano. Nel caso del Laos, i musicisti che suonavano presso le corti e per l’aristocrazia in origine erano abitanti del villaggio e potevano avere l’incarico di esibirsi durante le cerimonie del tempio per il grande pubblico. Sebbene i musicisti di corte fossero più abili di quelli del villaggio, e gli ensemble fossero completi, l’interazione tra le performance del palazzo e quelle del villaggio continuò fino alla metà del XX secolo. Il termine classico sembra improprio per molte ragioni aggiuntive. Primo, questo implica che la musica sia eseguita principalmente su un palco con un pubblico attento, di solito l’élite, e in misura minore per funzioni cerimoniali. Tale implicazione in alcuni casi è vera, ma non comprende tutta la serie dei contesti del dontrii lao deum. Secondo, il termine suggerisce un periodo durante il quale la musica fu sostenuta, sviluppata, o perfezionata con il sostegno dell’aristocrazia. Infine, è usato per distinguere certi generi dalla musica folk, popolare o del villaggio. Il termine laotiano dontrii lao deum include gli ensemble pi phat e mahori. Anche se ufficialmente può includere il mohlam, un genere musicale-poetico cantato, si riferisce principalmente alla musica eseguita nelle cerimonie e come accompagnamento per la danza e il teatro. Di solito il termine mohlam è usato separatamente per descrivere la poesia cantata dei villaggi laotiani nel Laos centrale e meridionale. Altri nomi includono natasin, termine della lingua parlata usato esclusivamente a Vientiane per descrivere le arti dello spettacolo alla Scuola Nazionale delle Belle Arti, sinlapakorn, termine formale della lingua scritta che descrive le arti dello spettacolo, e sep ngai e sep noi a Luang Prabang. Il dontri lao deum è diviso in due tipi di ensemble: pi phat e mahori a Vientiane, e sep ngai e sep noi a Luan Prabang. Il pi phat ensemble è formato da diversi strumenti a percussione: ranat ek, ranat thoum, khong wong, kong taphone, sing e sap6. In Laos il pi, o oboe, dal quale prende il nome l’ensemble, viene usato raramente, e il khene, un organo a bocca a canna considerato lo strumento nazionale laotiano, è sostituito. L’ensemble pi phat è usato per processioni, funerali, e grandi eventi, ma anche per accompagnare la danza. L’ensemble mahori, usato per eventi al coperto e di dimensioni ridotte, di solito è formato da ranat ek, khoui, khene, so duang, so ou, kim, sing e sap. 5 I gruppi che abbiamo intervistato includono il termine classico nei loro nomi, per esempio la Compagnia di Danza Classica Reale Lao (Nashville, TN) e la Compagnia Classica di Musicisti del Regno Lao (Riverside, CA). Questi nomi furono accettati dai gruppi su suggerimento dei membri della comunità laotiana di educazione occidentale che avevano vissuto per qualche tempo negli Stati Uniti, ma sembravano avere poco significato per le compagnie stesse. 6 Per le descrizioni degli strumenti musicali, si veda Rattavong, Music and Instruments in Laos: Historical Antecedents and the Democratic Revolution, in “Selected Reports in Ethnomusicology”, vol. 9, 1992.

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A Luang Prabang, il sep ngai è paragonabile al pi phat ensemble e il sep noi è paragonabile all’ensemble mahori, anche se si usano più strumenti a corda e il khene si trova meno di frequente. Dobbiamo sottolineare che, mentre esistono linee guida generali per questi ensemble, flessibilità e senso pratico sono i fondamenti delle performance attuali. I musicisti suonano qualunque strumento a disposizione. In alcuni casi, un ensemble può non avere il set completo di strumenti. Il termine dontrii lao deum, quindi, è usato più comunemente perché, per necessità la sua definizione è generale e piuttosto vaga. Il dontrii lao deum era diffuso in ogni parte della città e dei villaggi e all’interno del palazzo di Luang Prabang. Molti Laotiani credevano che la tradizione di musica e danza del palazzo provenisse dalla Cambogia e fosse apparsa nel Laos con Fa Ngum e gli Khmer nel 1353 come parte delle offerte rituali per gli dei. Durante l’occupazione francese si reclutarono musicisti da Ban Phanom, un villaggio vicino, perché si esibissero a palazzo. Dopo l’indipendenza furono reclutati giovani musicisti dalle scuole pubbliche allo scopo di conservare la tradizione. Isolata dalle montagne e dalla difficoltà di accesso, la tradizione di Luang Prabang è rimasta relativamente immutata fino ai nostri giorni, quando la musica moderna è arrivata in città. Il Dizionario di Musica di Harvard riporta: “Durante gli ultimi 100 anni, le corti laotiane a Luang Prabang svilupparono gli ensemble beepat e mahori sotto la direzione dei musicisti di corte provenienti dalla Thailandia. Nonostante i musicisti fossero laotiani e alcune delle composizioni si basassero su melodie laotiane, gli ensemble non misero mai radici nel Laos, e si presume che non vi abbiano più suonato”. Se ci basiamo sui resoconti dei nostri informatori, sembra che l’autore abbia confuso la musica di Luang Prabang con quella di Vientiane. Sappiamo che Luang Prabang è stata un vassallo del Siam per la maggior parte del secolo scorso ed è probabile che la cultura siamese abbia influenzato i rituali di corte. Comunque, i primi abitanti di Luang Prabang e i funzionari del palazzo preferiscono guardare all’influenza Khmer del tempo di Fan Ngun. Per di più, descrivono la musica tradizionale come decisamente diversa da quella thailandese. Riconoscono che ci furono scambi culturali con la Thailandia, ma spiegano lo sviluppo della musica di corte nel secolo scorso in tre fasi: 1) sakdinaa lavoro (feudale); 2) patronato all’interno del palazzo e 3) conservazione. A circa quattro chilometri dalla città di Luang Prabang, sulla riva del fiume Nam Khan, si trova Ban Phanom, tradotto come villaggio nel seno della montagna, dove due rocce con la forma dei seni di una donna sovrastano il villaggio. I primi abitanti del villaggio furono Lao Lue che emigrarono dalle regioni settentrionali di Sipsong Panna e si stabilirono a Ban Phanom secoli fa. Per la maggior parte agricoltori, intagliatori, fabbri, tessitori e altri artigiani, gli abitanti del villaggio servirono il palazzo di Luang Prabang e furono esentati dal pagamento delle tasse e dal compito di corrieri per i Francesi. Ban Phanom era famosa per i suoi artigiani, in-

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clusi i musicisti. Thongtanh Souvanaphan, un reporter per Voice of America cresciuto a Ban Phanom, descriveva il villaggio così: “Si può dire che Ban Phanom fosse sotto la diretta protezione del palazzo. Durante l’occupazione francese, mio zio, Phia Vohan, era un buon amico del Re Sisavangvong. Lui concesse a Phia Vohan e al suo seguito il particolare diritto di non pagare le tasse. Queste persone erano considerate degli appartenenti al palazzo. Prima della II Guerra Mondiale l’intero villaggio era sotto la direzione di Phia Vohan. Il re gli affidò l’incarico di occuparsi di cultura e spettacolo. È questo il motivo per cui tutti a Ban Phanom sapevano suonare e danzare”7. Phia Vohan secondo quanto riportato fu assistente di Auguste Pavie, l’esploratore francese che venne nominato vice console del Laos nel 1887, e questo indica che il suo rapporto con i musicisti di Ban Phanom risale alla fine del XIX secolo. Altri musicisti del villaggio si potevano trovare nelle vicinanze di Luang Prabang. Ensemble sep ngai erano a Siang Maine, Houa Xieng, Sangkhalok, e Phan Luang. Bounthan Xayprasith, un suonatore di so di Luang Prabang, descriveva la situazione musicale di Luang Prabang: “Ho ragione di credere che Luang Prabang sia stata la città dove è nata la musica. A Luang Prabang gli uomini, le donne e i bambini sapevano suonare strumenti come khoui, khene, ranat, so. Ogni villaggio aveva la sua musica. In ogni stagione la gente ricca voleva fare feste in casa e chiamava musicisti a suonare. Il proprietario invitava tutte le persone che conosceva per acquisirne il merito”8. I musicisti non vivevano di sola musica. Molti erano agricoltori e mercanti che si esibivano principalmente durante i periodi di festa. La musica, comunque, era parte della vita quotidiana. I mercanti che viaggiavano per vendere merci si portavano dietro i loro strumenti: “Questi mercanti mettevano insieme due barche e vi costruivano sopra un tetto, come una casa. Di solito c’erano da otto a dieci uomini con i loro strumenti musicali. Quando passavano vicino a un villaggio cominciavano a suonare, oppure quando si fermavano sull’argine dove rimanevano durante la notte, suonavano per gli abitanti del villaggio, e corteggiavano le donne. Quasi ogni uomo a Luang Prabang poteva suonare uno strumento musicale”9. Durante l’occupazione francese la musica era parte della vita quotidiana, e certi villaggi, come Ban Phanom, erano specializzati in una tradizione peculiare. Alla fine del 1940, i Francesi cominciarono a sviluppare un senso di nazionalismo che stava lentamente iniziando a emergere con il movimento Lao Issara. Questo nazionalismo intendeva opporsi al sentimento pan-thailandese che minacciava l’occupazione francese. Il re Sisavangvong aumentò il suo sostegno ai musicisti del villaggio di Ban Phanom.

7

B. Xayprasith, comunicazione personale, 1989. Intervista personale, 1989. 9 Intervista personale, 1989. 8

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Dopo l’indipendenza nel 1954 gli abitanti del villaggio di Ban Phanom iniziarono altri lavori nell’esercito e come impiegati statali. Il re Sisavangvong assunse gli artisti più anziani come dipendenti a tempo pieno del palazzo, dove potevano lavorare per preservare la musica. I musicisti del palazzo erano ritenuti i migliori perché capaci di potenziare le loro capacità e ampliare il loro repertorio. Comunque, secondo Bounthanh, non molte persone volevano suonare nel palazzo, perché la paga era bassa in confronto ad altri mestieri. La famiglia Kounlavong, che ora risiede a Nashville, lavorò per il palazzo per quattro generazioni. Ekeo Koulavong è attualmente il leader della compagnia a Nashville. Suo padre era il leader dell’ensemble sep ngai del palazzo. Tre dei suoi fratelli studiarono con i musicisti del palazzo. La famiglia godette della stima dei reali e dopo la morte del padre, i figli lavorarono nel palazzo a tempo pieno. Alla fine degli anni Sessanta i musicisti anziani insegnarono a un gruppo di circa dieci giovani, ognuno dei quali era figlio di dipendenti del palazzo. Sisouphan Kounlavong, il settimo dei nove figli, iniziò a studiare nel palazzo pochi anni prima della morte del padre all’età di otto anni. Frequentò le classi di musica dopo le normali ore di scuola. Insieme con gli altri giovani musicisti cominciò a imparare il khong wong e più tardi proseguì con altri strumenti. Ogni canto veniva insegnato dividendolo in parti, e lo imparavano a memoria. Gli studenti suonavano vicino ai maestri fino a che questi non erano convinti che avessero memorizzato tutto il canto. Allora potevano suonare da soli. Sisouphanh imparò da sessanta a settanta canti circa durante gli anni di maggior impegno come studente. I musicisti di palazzo impararono anche altri due sistemi di notazione musicale, il sistema numerico e la scala di note occidentale, che Sisouphanh chiamava “note a germoglio di fagiolo”. Non sappiamo come questi sistemi fossero stati introdotti nel palazzo, e questo solleva nuove questioni sui contatti tra culture. Durante il periodo dell’indipendenza, mentre aumentava l’esposizione di Luang Prabang alla musica e alla danza occidentale, il palazzo sentì la necessità di preservare la tradizione e iniziare una politica di reclutamento. Ragazze tra i quattordici e i quindici anni furono prese dalle scuole pubbliche ogni anno per danzare alla festa dell’Anno Nuovo. Il reclutamento delle danzatrici iniziò nel 1956, tre anni prima della morte del Re Sisavangvong e continuò fino al 1975, quando il re Sisavang Vathana lasciò il trono. Il repertorio del palazzo includeva Fon nang keo, la versione laotiana della danza khmer delle Apsara, e parti di Phra Lak Phra Lam, la versione laotiana del Ramayana, che è eseguito in vari modi come danza drammatica con maschere, o khon, in Cambogia e Thailandia, così come nel Laos. Phra Lak (Laksmana) e Phra Lam (Rama) sono i nomi degli eroi dell’epica. La differenza tra il laotiano Phra Lak Phra Lam e altre versioni è ben spiegato da Sachidand Sahai10. 10

S. Sahai, The Phra Lak Phra Lam and the Laotian Cultural Tradition, in “Southeast Asian Review”, vol. 5, n. 2, 1980, pp. 67-83.

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La Fon nang keo si ispira alla danza khmer delle Apsara, risalente al periodo di Angkor. Le Apsara, o danzatrici celestiali, erano “la personificazione dell’energia vitale risultante da un processo del quale i templi di Angkor e le intere città erano metafore architettoniche, o simboli della prosperità del regno”11. Prima del periodo di tutela da parte del Re Sisavangvong, la Fon nang keo era eseguita nei villaggi. Wat Sene era famosa per la sua interpretazione del Nang Keo. Durante il regno di Sisavangvong, il Fon nang keo fu designata come danza reale e più tardi venne proibita nei dintorni del palazzo. L’ensemble piphat accompagnava la Fon nang keo con pezzi come Nang Nak e Soybon. I danzatori e i musicisti del palazzo iniziarono a perdere il loro status di esecutori tradizionali dopo la fondazione della Scuola Natasin a Vientiane. Il re, comunque, comprese che erano autentici danzatori laotiani poco influenzati da altri stili, e cercò di preservare questa arte con la sua politica di reclutamento. Musica a Vientiane Dal 1560 Vientiane è stata la capitale del regno del Laos. Vientiane, allora chiamata Vieng Chan, era vista come il centro della cultura buddhista durante il periodo del re Souligna Vongsa dal 1627 al 1694. Comunque, agli inizi del XIX secolo Vieng Chan fu saccheggiata dai Siamesi e rivendicata come stato vassallo. A causa della distruzione di Vieng Chang ancora per mano dei Siamesi nel 1827, non esistono documenti riguardo alle attività musicali nel regno. Diverse fonti suggeriscono che tutti i tesori e le arti, inclusi gli esecutori, furono presi e portati a Bangkok12. Altri ipotizzano che gli artisti siano fuggiti dall’altra parte del fiume Mekong, vicino a Ubon. Prima, il lato sinistro del Mekong era stato reclamato dai Siamesi, e sebbene i margini fossero stati spesso oggetto di disputa con i Francesi, fu restituito alla Thailandia, e adesso è considerato dai Laotiani di Vientiane come isan o parte della Thailandia. Durante il periodo della colonizzazione francese (dalla fine del XIX secolo a metà del XX secolo), e più tardi dopo l’indipendenza nel 1954, Vientiane si sviluppò come la capitale amministrativa. Con l’aiuto di Francia e Stati Uniti, si costruirono edifici amministrativi, ambasciate, e la città fu spesso visitata da dignitari esteri13. Notizie sulla musica a Vientiane ci arrivano solo a partire dal periodo dell’occupazione francese.

11

P. Cravath, The Ritual Origins of the Classical Dance Drama of Cambodia, in “Asian Theatre Journal”, n. 32, 1986, p. 185. 12 S. Sounantha, informazione personale, 1989. 13 A. J. Dommen, Laos, Keystone of Indochine, Westview Press, Boulder and London, 1985.

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Il complesso Lykhee di Khruu Ouane Southathamma Durante l’occupazione francese un complesso di artisti lykhee viaggiò, partendo dal nord-est della Thailandia, attraverso la parte meridionale e centrale del regno del Laos, da Khorat a Pakse e Savannaket, e poi verso il nord, a Vientiane. Secondo Miller14, lykhee è un genere teatrale che è partito dal centro arrivando fino al nordest della Thailandia e al Laos. Non solamente il suo linguaggio è siamese, ma anche gli strumenti lo sono, soprattutto il ranat, il kong wong, il pi, il ching e i tamburi. Miller cita James Brandon che scriveva: “Il Likay fu introdotto in Laos agli inizi del XX secolo... Le troupe Likay, che parlavano la lingua thai, suonavano nella Thailandia nord-orientale per il pubblico thailandese di lingua laotiana di quella regione. Da lì con un breve viaggio attraverso il fiume Mekong si arrivò a suonare per il pubblico del Laos”15. Durante quel periodo il Siam aveva restituito la terra a ovest del Mekong al Laos, per questo era ancora considerata dai Laotiani parte del Laos. Il leader del gruppo, Ouane Southathamma, era di Khorat, dall’altra parte del fiume Mekong. Si crede che Khruu (maestro) Ouane e la sua troupe abbiano introdotto questo genere nel Laos. Tra il 1947 e il 1950 (le date dei racconti non coincidono), la troupe di Khruu Ouane iniziò a esibirsi in un teatro a Vientiane, dove venivano narrati episodi tratti dalla storia e dalla letteratura del Laos. I membri originari della troupe lykhee, molti dei quali venivano da Khorat, in seguito ebbero un ruolo più importante nell’istituzione della Scuola Natasin, la Scuola Nazionale Lao di Musica e Danza. Continuarono a insegnare musica e danza, e a creare coreografie e comporre nuovi pezzi per la nazione indipendente del Laos. La Scuola Natas: fondazione Branchard de la Broche, un franco-laotiano conosciuto nel Laos come Papa Suphanh, concepì la scuola nazionale delle arti dello spettacolo perché amava la musica tradizionale laotiana e voleva sostenere le arti. Quando nacque la nuova nazione, capì che una scuola poteva servire a conservare la danza e la musica tradizionale. I funzionari laotiani compresero che sarebbe stato importante avere un gruppo di artisti da presentare formalmente agli stranieri e che rappresentasse la nuova nazione. La Scuola Natasin fu fondata nel 1956 da de la Broche e Ouane Southa-

14 T. Miller, Traditional Music of the Lao: Kaen Playing and Mawlum Singing in Northeast Thailand, Greenwood Press, Westport, Connecticut, 1985, p. 74. 15 J. Brandon in T. Miller, Traditional Music of the Lao: Kaen Playing and Mawlum Singing in Northeast Thailand, cit., p. 74.

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thamma con i fondi dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) attraverso il Dipartimento per l’Educazione. Molti tra i primi insegnanti e studenti sembrarono non conoscere lo scopo della scuola. Altri suggerirono che era stata fondata per preservare le arti, e uno accennò al fatto che era un elemento cruciale di ogni nuova nazione: “Ogni nazione deve avere questo tipo di scuola. [Una nazione] senza le arti è come una nazione senza i fiori per ornarla. L’arte è una delle immagini più importanti della nazione. La danza e la musica laotiane erano fatte per il loro piacere. Finalmente, il governo cercò di promuoverle a livello nazionale”16. La scuola servì anche per diffondere il messaggio di un nuovo nazionalismo che promuoveva unità e armonia attraverso le performance.

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Training Nel 1955 il governo laotiano reclutò dieci insegnanti di scuola elementare da varie parti della città e li mandò a studiare in Thailandia. Tra il 1956 e il 1959 gli insegnanti di danza ritornati insegnarono agli studenti della Scuola Elementare Chao Anou. Nel 1959, quando la scuola aprì ufficialmente, reclutarono studenti usciti dalla scuola elementare e prepararono gli studenti della Chao Anou perché diventassero insegnanti della Natasin. Tra il 1956 e il 1958 i musicisti e i danzatori tennero spettacoli al palazzo reale di Vientiane e alle cerimonie di benvenuto per rendere onore agli ospiti dello stato. Negli anni Sessanta agli studenti venivano dati stipendi che li spingevano a fare l’esame di ammissione in un numero da cinquanta a sessanta ogni anno. La scuola sceglieva i trenta di maggior talento; si dava la preferenza a studenti che sapessero scrivere, cantare, o suonare strumenti. In retrospettiva, molti insegnanti sentirono che la selezione discriminava studenti di talento che non erano belli o che potevano avere qualche tipo di handicap. Dei trenta studenti ammessi ogni anno, molti se ne andarono. Cominciavano perché ricevevano una paga giornaliera. Secondo Thongmouane Vilavong, “provavano, a loro non piaceva e se ne andavano. Si iscrivevano per lo stipendio”17. Altri informatori sostenevano che gli studenti se ne andavano perché i loro genitori ritenevano che non avrebbero ricevuto una buona educazione e che non ci sarebbe stato un futuro nell’arte: “Non c’era molto interesse per le attività culturali da parte del governo. Guarda la scuola vicino a Chao Anou. Sembra una gabbia di polli, un vecchio granaio, una baracca! Le persone che venivano qui non potevano stu-

16 17

Chandeng Pongphimkham, informazione personale, 1988. Comunicazione personale, 1989.

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diare nient’altro, così andavano a studiare le Belle Arti. I loro genitori non le sostenevano perché pensavano che il canto e la danza non fossero adatti alle donne”18. Una media di soli dieci studenti si diplomava ogni anno, molti dei quali erano assunti dalle scuole pubbliche che cercavano insegnanti in altre regioni. Questi erano richiesti per insegnare altre materie e per studiare gli stili di danza e di musica di quelle regioni. Gli insegnanti della Natasin School lavoravano a stretto contatto con gli amministratori per diffondere messaggi rappresentativi attraverso la danza e la musica. Ulteriori adattamenti del training thailandese includevano l’aggiunta del khene negli ensemble, la danza coreografica e le composizioni musicali che rispecchiavano le attività culturali e la diversità etnica, come nel Fon haa plaa (danza della pesca) e Fon phao lao (danza etnica). Come organo della nazione laotiana la Scuola Natasin formava artisti che diventavano i rappresentanti ufficiali delle arti dello spettacolo del Laos. Sebbene molti insegnanti e studenti degli esordi fossero arrivati dall’altra parte del fiume Mekong e per questo considerati Thai Isan, l’idea che quest’arte imitasse la thailandese, come anche quelli di Luang Prabang potevano insinuare, portò i membri del gruppo a difendere la loro arte: “Imparavamo da loro, ma non pensavamo di imitarli. Noi fondammo la scuola, ma non potemmo scrivere un libro su questo. Il nostro training era thailandese, ma questo non significa che i Thailandesi ci insegnassero ogni cosa. Noi portavamo avanti anche un nostro stile. Laos, Cambogia e Thailandia condividono lo stesso tipo di danza. Lo stile è diverso. Il cambogiano è molto lento, il thailandese è molto veloce, e il laotiano è una via di mezzo, ed è più bello. Alcuni possono identificare lo stile. Se avessimo scritto su questo argomento durante il periodo di Khruu Ouane, avremmo saputo quello che era nostro e quello che non lo era”19. Un altro informatore esprimeva apprezzamenti a proposito dei Thailandesi: “Dobbiamo ringraziare i Thailandesi per il nostro training perché loro hanno coltivato la danza e la musica. Hanno avuto tutte le opportunità e sono un paese in pace, diversamente dal Laos. Noi abbiamo sempre avuto guerre, rivoluzioni e colpi di stato. Basta guardare la differenza di stile tra Thailandia, Cambogia e Laos”20. Mentre riconoscono la formazione e l’influenza thailandese, il loro atteggiamento difensivo sembra più diretto verso l’inadeguatezza del governo in materia di sostegno ed educazione. Criticano la dirigenza, e si dolgono del fatto che la giovane nazione laotiana non abbia provato un periodo di pace abbastanza lungo da poter produrre un pieno sviluppo di un’arte nazionale laotiana.

18

Seng Chitdalay, intervista personale, 1989. C. Pongphimkham, intervista, 1989. 20 S. Oudomhack, intervista personale, 1989. 19

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Il dontrii lao deum nelle feste e nelle cerimonie Le feste religiose buddhiste laotiane riunivano gli abitanti del villaggio che andavano al tempio (wat) per acquisire meriti o boun. I buddhisti laotiani credono che l’accumulazione di boun produrrà buona salute e prosperità e li farà rinascere in un ordine più elevato. Il wat è il centro dei benefici nel quale i monaci buddhisti ricevono donazioni e fanno rituali e benedizioni per garantire il bene della comunità e dei suoi membri. La maggior parte delle feste buddhiste laotiane corrisponde alle cerimonie indigene legate al ciclo agricolo. La musica è parte integrante delle cerimonie e dei rituali che contribuiscono al buddhismo laotiano al di là della sua forma di culto attuale. Si poteva trovare all’interno dei templi durante i funerali, i matrimoni, le feste del tempio e le celebrazioni buddhiste durante tutto il ciclo del calendario. Le sue funzioni primarie sono quelle di creare atmosfera e divertimento. Le performance musicali invocano anche spiriti e divinità, evento che può essere considerato animista o hindu, ma che ancora fa parte della tradizione religiosa buddhista in Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia. Bounthanh Xayprasith descriveva il modo in cui la musica era sempre presente durante tutte le cerimonie del ciclo calendariale: “C’erano sempre feste nel tempio. Doveva esserci musica, così mentre le persone camminavano potevano sentirla. Alcuni si sedevano a guardare quando c’era uno spettacolo di danza. Le feste erano un’occasione per socializzare. Non c’erano teatri, cinema, o bar e la gente si divertiva con la musica. Quando si acquisiva un merito, veniva suonata musica per deliziare le divinità celesti. Si poteva fare musica, ma la danza non era permessa”21. La musica aveva un ruolo importante nella vita del villaggio e del palazzo. Era usata nelle offerte rituali per le divinità celesti e gli spiriti e accompagnava le attività per l’acquisizione di meriti. Era usata anche per dare il benvenuto a visitatori importanti del palazzo e dello stato, per intrattenere il re, i suoi ospiti, e gli abitanti del villaggio, e per accompagnare la danza. Le due più grandi feste del ciclo del calendario, la festa di Capodanno di Luang Prabang e il That Luang Festival di Vientiane, sono descritti di seguito. Musica all’interno del ciclo del calendario delle feste Boun Pii Mai. Boun Pii Mai, il Capodanno laotiano, era la festa più importante a Luang Prabang e in tutto il paese. Secondo Nginn, la data era stabilita a metà aprile, durante il quinto mese del calendario lunare, quando le giornate erano più lunghe, e questo simboleggiava un periodo di luce e prosperità. Era anche tempo di

21

Intervista personale, 1989.

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rinascita, come la primavera, quando “la terra, sterile e senza vita da molti mesi di caldo e siccità, rinasce e torna verde con le prime piogge”22. A Luang Prabang queste festività duravano per un periodo di due settimane. Durante l’occupazione francese la cerimonia sa ban to (spada) era eseguita per ufficiali di alto rango, ministri, e amministratori, più o meno una settimana prima del Capodanno stabilito. La punta di una spada veniva infilata in un vaso per le elemosine pieno di acqua benedetta dai monaci e a tutti i presenti era richiesto di bere l’acqua. Gli ufficiali in questo modo provavano la fedeltà al paese e la responsabilità del loro ruolo. L’ensemble sep ngai del palazzo si esibiva durante la cerimonia, creando un’atmosfera emozionante e drammatica. Le celebrazioni per il Capodanno iniziavano al mattino con una cerimonia baci per gli elefanti reali, seguita dal baci per il re e la regina23. La cerimonia baci è descritta da Abhay come “un’espressione della joie de vivre e della calorosità laotiana, un’espressione di benvenuto che saluta gli ufficiali o prepara ogni viaggiatore al suo cammino”24. Era eseguita per matrimoni, nascite, benvenuti, e addii per esprimere l’augurio di buona salute e prosperità e onorare l’ospite. Chiamata comunemente soukhuan, la cerimonia baci era eseguita da un brahmano che invocava il ritorno dell’anima nel corpo. Le offerte venivano messe in un vassoio con riso, uova, noci di cocco, alcool e altre cose per attirare le anime che si potevano perdere. Dopo che il canto o evocazione degli spiriti era terminato, gli ospiti d’onore portavano fili di cotone legati ai polsi mentre ricevevano gli auguri. A loro volta presentavano offerte di fili di cotone e formulavano auguri. (Durante la cerimonia) si suonava mentre allacciavano i fili di cotone e si scambiavano vicendevolmente auguri, contribuendo a creare un’atmosfera gioiosa e ospitale. A Luang Prabang, la musica suonata per il baci includeva Khao nai, Nangnak, e Sinouan25. Seguendo la cerimonia baci, il re concedeva onorificenze a ufficiali del governo, al personale militare, e a civili. Ogni Nuovo Anno si eseguivano parti del Phra Lak Phra Lam e Fon nang keo prima che gli ospiti si sedessero per mangiare. Il segmento più popolare includeva la Fon ling (Hanuman, la danza delle scimmie) e la Fon yak (Totsakan, la danza del gigante). Il canto che accompagnava la Fon ling era il Kao nok, che significa rumore all’esterno. Secondo Sam-Ang Sam, il Kao nok accompagnava la marcia delle truppe di uomini26. Kao nai letteralmente significa ru-

22

P. S. Nginn, The New Year Festivities; Lent and the Water Festival, in R. de Berval, a cura di, Kingdom of Laos: The Land of the Million Elephants and of the White Parasol, Saigon, 1959, p. 268. 23 C. Chanthsaouk, intervista personale, 1989. 24 T. N. Abhay, Marriage Rites, Death and Funeral Rites. The That Luang Festivities, in R. de Berval, a cura di, Kingdom of Laos: the Land of the Million Elephants and of the White Parasol, cit., p. 128. 25 B. Xayprasith, comunicazione personale, 1989. 26 S. Sam, The Pin Peat Ensemble: Its History, Music and Context, cit., p. 321.

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more all’interno e accompagnava la marcia dei giganti, o yak, mentre si preparavano per combattere. Questi due pezzi erano eseguiti negli stessi contesti in Cambogia, e furono trascritti da Sam27. Sam parlava di queste raccolte come di generi particolarmente popolari tra gli Khmer. Per diversi giorni si svolgevano numerose processioni nelle quali sfilavano prima i monaci e di seguito il re che tradizionalmente era seduto su un portantina sistemata sopra un elefante. I musicisti guidavano la processione suonando pezzi che avevano un ritmo vivace per annunciare l’evento imminente. Le canzoni per la processione del re erano diverse da quelle dei villaggi. Per la processione di Capodanno i musicisti a Luang Prabang e a Vientiane interpretavano il pheng (canto) Kao nai e Kao nok. Il canto per la partenza del re era Pheng Phayadeum, tradotto letteralmente come il re cammina. Il Pheng Phayadeum era eseguito anche nell’epica Khmer Reamker, o Ramayana, per indicare la processione del re28. Queste processioni, insieme con i rituali che le precedevano e gli incontri sociali, davano ai musicisti maggiori opportunità di suonare nel palazzo di Luang Prabang. Boun That Luang. Boun That Luang era la festa più importante di Vientiane, e si celebrava nel dodicesimo mese. Secondo Abhay, That Luang, lo stupa reale, fu costruito nel 1566 dal re Setthathirat, sopra un piccolo stupa che si diceva contenesse un capello del Buddha29. Lo stupa fu risparmiato quando, agli inizi del XIX secolo, i Siamesi saccheggiarono la città di Vientiane; nel 1873, tuttavia, fu praticamente distrutto dai pirati dello Yunnan. In seguito fu restaurato con il sostegno della Scuola Francese dell’Estremo Oriente e completato da Fobertaux nel 1931. Da allora il Festival di That Luang è diventato una delle celebrazioni più popolari a Vientiane. La festa durava sette giorni, e l’ultimo era designato come il giorno nazionale delle offerte ai monaci. Questa cerimonia si svolgeva all’interno del tempio, con monaci e cittadini provenienti da ogni parte del paese. Gli ufficiali e i funzionari dello stato confermavano la loro fedeltà al governo. Guidati dall’ensemble pipath, andavano verso il palazzo reale, Ho Kham, a Vientiane. Nel palazzo si svolgeva la cerimonia sa ban to (spada), come avveniva durante la festa per il Capodanno a Luang Prabang. Più tardi, la troupe della Natasin e i musicisti del palazzo reale si esibivano per intrattenere gli ospiti di Ho Kham. Un membro dell’ensemble del palazzo chiese che il re invitasse la troupe della Natasin a esibirsi, ma rimase deluso quando la vide perché ricordava lo stile thailandese. L’anno seguente invitò a Vientiane il suo ensemble e i danzatori. I racconti dei danzatori laotiani della Natasin contraddico-

27

S. Sam, The Pin Peat Ensemble: Its History, Music and Context, cit., pp. 318, 321. S. Sam, The Pin Peat Ensemble: Its History, Music and Context, cit., pp. 318, 321. 29 T. N. Abhay, Marriage Rites, Death and Funeral Rites. The That Luang Festivities, in Kingdom of Laos: The Land of the Million Elephants and of the White Parasol, cit., p. 287. 28

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no questa storia: sostengono di essersi esibiti ogni anno a Ho Kham, nel suo palazzo. È una delle poche indicazioni della mancanza di contatti e della decisa rivalità tra i musicisti e i danzatori di Vientiane e di Luang Prabang. Nella nuova era, il festival divenne un expo internazionale dove mercanti, ufficiali di governo, privati cittadini, e membri delle ambasciate scambiavano cultura e tecnologia. Il festival divenne la più grande occasione per la troupe della Natasin per esibirsi davanti al pubblico e allo stesso modo l’opportunità per il pubblico di vedere gli artisti considerati i rappresentanti della nazione laotiana. Gli spettatori erano di tutte le estrazioni sociali, dagli agricoltori agli alti ufficiali. Veniva allestito un grande palco nell’area intorno a That Luang. Potevano esibirsi studenti di tutti i livelli, con i principianti che eseguivano la danza di base, quelli del livello medio la Fon phao lao (danza dei gruppi etnici) e il gruppo più esperto il kheuang ngai e lakhon (teatro). I danzatori si esibivano anche in estratti dal Ramakien, o dal Phra Lak Phra Lam. Il brano più eseguito dalla troupe della Natasin era il Ratto di Sita. Anche Fon Hanuman, la danza delle scimmie, era popolare. Questo spettacolo fu la prima occasione per molti Laotiani per vedere la troupe nazionale. Il pubblico del Boun That Lang, comunque, non si comportava sempre in modo amichevole. Molti danzatori, che non volevano essere identificati, si lamentavano di fastidi da parte del pubblico che facevano vergognare la famiglia: “Quando i miei familiari venivano a vedermi danzare al Festival di That Luang, si accorgevano che le danzatrici venivano insultate dai giovani che si trovavano intorno al palco e ci urlavano frasi oscene. Gli anziani venivano per vedere una bella performance e sostenere le loro nipoti. Alcuni dicevano che danzavamo solo per soldi (Fon kin ram kin)30. Dovevamo faticare molto con il pubblico. Qualche volta i loro figli vedevano la bella performance, i costumi, e in seguito dicevano ai loro genitori che volevano essere come noi. A questi figli veniva detto che era un brutto mestiere; “Questi danzatori danzano e basta. Non possono fare nient’altro e non avranno niente di meglio”. Ecco quello che la maggior parte della gente nel Laos diceva dei suoi artisti”31. “Noi cercavamo di non badare a loro. Loro dicevano “grassa, secca, hai il seno grosso, hai il seno piccolo”, e così via. Qualche volta non riuscivamo a concentrarci sulla danza. Una danzatrice si arrabbiò e indicò il pubblico con il piede”32. Nonostante il disturbo, molti danzatori e musicisti erano orgogliosi di essersi esibiti per il pubblico. 30

L’espressione ten kin ram kini letteralmente significa danza per mangiare. Si riferisce a una classe femminile molto bassa che non può guadagnarsi da vivere in altro modo. In alcuni casi è simile a prostituzione. 31 Intervista personale, 1989. 32 I Laotiani credono nella gerarchia del corpo, con la testa che è la parte più sacra, e i piedi quella più misera. Puntare qualcuno col piede è un grave insulto, perché mette in evidenza che la condizione sociale di quella persona è al di sotto della parte più misera del proprio corpo.

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Oltre alle feste del ciclo del calendario i musicisti e i danzatori erano richiesti per esibirsi in altre cerimonie. Nel palazzo, i musicisti suonavano per i matrimoni, le nascite, i funerali e le feste reali. “Ogni evento aveva la musica. Senza musica sembrava triste”33. Gli studenti e gli insegnanti della Natasin erano anche incaricati di esibirsi per l’aristocrazia.

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Cerimonie di benvenuto Quando il Laos cominciò a stabilire relazioni diplomatiche con i paesi occidentali, venne offerto un benvenuto formale negli incontri di stato. Queste cerimonie erano organizzate ogni volta che arrivava un visitatore straniero o un dignitario. Una parte importante della cerimonia di benvenuto era lo spettacolo della danza di benvenuto. I danzatori si esibivano più spesso nelle residenze degli ufficiali laotiani, all’ambasciata degli Stati Uniti, e nell’area francese. La danza di benvenuto è il Fon uayphon o Fon pinihan. Un gruppo di danzatrici indossa il vestito tradizionale del bassopiano laotiano che comprende il sin, la gonna tradizionale laotiana, una camicia a maniche lunghe, e gioielli d’oro. Portano anche una coppa d’argento che contiene petali di fiori. La danza mostra l’accoglienza cordiale dell’ospite, la grazia, la modestia e la bellezza delle donne laotiane, ed esprime i migliori auguri quando le danzatrici spargono i petali sugli ospiti. La danza di benvenuto per il re era riportata come Dao Vadeung, una versione più lunga ed elaborata. Matrimoni Molti matrimoni nel Laos vengono organizzati dai genitori della sposa e dello sposo. La cerimonia di matrimonio è preceduta da una proposta formale e da un accordo relativo alla dote della sposa. La sera prima del matrimonio si svolgeva una cerimonia chiamata suat mone, nella quale i monaci benedicevano l’acqua che doveva essere versata sulla giovane coppia il giorno successivo. La mattina del matrimonio, i musicisti di un piccolo ensemble mahori iniziavano a suonare intorno alle nove e trenta. L’attuale cerimonia, il baci, cominciava alle undici. I familiari stretti e due assistenti guidavano la cerimonia, augurando gioia e prosperità alla coppia. I musicisti smettevano di suonare quando gli assistenti chiamavano le anime. Dopo la chiamata delle anime, i musicisti riprendevano a suonare mentre i fili di cotone venivano legati ai polsi della sposa e dello sposo. I musicisti descrivevano le canzoni del matrimonio come gioiose. Suonavano le canzoni più amate come Dok mai Uayphon (Fiore di buon auspicio), Lao Longnam, Lao Kathopmai, Lao Khamhon,

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C. Chanthasouk, intervista personale, 1989.

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Lao Sieng Thian, e pezzi lenti o veloci per aumentare o diminuire il tempo dell’esibizione. I musicisti del palazzo non fornivano molti dettagli sui matrimoni, ma riferivano soltanto che i brani eseguiti erano Lao Chaleunsy, Lao Somdet e Khmen Bothisat.

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Funerali I Buddhisti Laotiani credono che la morte porterà alla rinascita in un ordine più alto, e, per ultimo, al nirvana, dove il defunto eviterà le sofferenze della vita terrena. I funerali laotiani, quindi, esprimono gioia per il defunto e dolore per coloro che rimangono. I riti del funerale laotiano si svolgevano in maniera diversa a seconda della causa di morte. Se una persona moriva per un atto violento, era seppellita. Per malattia o altre cause naturali il corpo veniva cremato34. Secondo Thongmouane Vilavong, un musicista formatosi alla Natasin, la musica iniziava nel momento in cui i genitori bagnavano il volto del defunto con acqua profumata35: “Le canzoni volevano mandare un messaggio al defunto. Il defunto poteva ascoltare la musica, sentire che la sua casa era piena di rumori per la gente che c’era, e non era in grado di parlare con nessuno, poiché egli non poteva rispondere. Allora si rendeva conto che lui o lei era morto e accettava di dover lasciare questo mondo per entrare in un altro. Solo il ricco poteva chiamare dei musicisti per la processione di un funerale. Il motivo che sta dietro alla presenza della musica nella processione di un funerale è quello di sostenere lo spirito del defunto mostrando che, anche se lui o lei è scomparso, ci sono tante persone che sono in pena per lui o per lei e lo accompagnano fino al cimitero. Per coloro che sono rimasti, come i membri della famiglia, avere musica dal vivo per accompagnare la processione del funerale sta a significare che sono ricchi, che avevano a cuore il defunto, e che desiderano per lui una tranquilla ascesa in cielo, o in qualunque altro luogo”. Canzoni tristi come Phakhom e Nang Hong erano eseguite dall’ensemble pi phat. Nang Hong è un canto sacro usato solo per i funerali. I musicisti credono che se si esegue o si prova il Nang Hong in altre occasioni, il gruppo verrà colpito da sciagure o morte. Non possiamo sentire o registrare Nang Hong, e ci chiediamo come i musicisti possano ricordare questo pezzo sacro dal momento che non hanno la possibilità di provarlo o eseguirlo di frequente.

34 T. N. Abhay, Marriage Rites, Death and Funeral Rites. The That Luang Festivities, in Kingdom of Laos: The Land of the Million Elephants and of the White Parasol, cit., p. 145. 35 Intervista personale, 1989.

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La cerimonia wai khruu La cerimonia di culto degli spiriti ancestrali wai khruu si trova in molti generi di performance in Cambogia, Laos e Thailandia. Si può svolgere annualmente, settimanalmente, e sempre prima di ogni esibizione. Molti artisti ritengono che pregare gli antenati e i maestri li aiuti a eseguire meglio lo spettacolo. È anche un modo per mostrare rispetto e gratitudine ai maestri perché li aiutino a portare avanti la tradizione. Sam-Ang Sam36 faceva riferimento al pithi sampeah krou, come prescritto nel kraing anhchoeunh krou (Manuale per l’invocazione degli spiriti), che spiega come svolgere il rituale. Secondo Sam il rituale si osserva in un numero di occasioni, incluse quelle che precedono le performance, chiamate hom rong. L’hom rong viene praticato per benedire il palco e tutto quello che riguarda la performance, e consiste in una serie di dodici pezzi musicali, il primo dei quali è sathukar. Anche Thongmouan Vilavong, un membro della troupe della Natasin, descrive l’hom long, com’è chiamato in Laos, come una serie di quindici brani strumentali eseguiti per onorare gli spiriti degli antenati, e per fornire un preludio per il pubblico. Il preludio che precede una performance radunerà gli spettatori e li spingerà ad assistere alla performance. Il primo brano del culto è sathukar 37. Secondo Miller, la cerimonia wai khruu era eseguita nel nord-est della Thailandia dalle troupe di mohlam e lykhee. Le offerte per gli spiriti erano raccolte in un vassoio, e comprendevano candele e fiori, uova, vino di riso, e altri oggetti38. Khruu Ouane Southathamma guidava la troupe laotiana della Natasin in questo rituale, che probabilmente aveva imparato a Bangkok o in Cambogia. Lo descrive Somlith Prasasouk, uno dei primi membri del teatro: “Non conosco il motivo per cui veneriamo la testa di Leu Si. È una tradizione che è stata trasmessa per molte generazioni. Perché la nostra arte onora Phra Phikhanet, che ha quattro braccia e una testa di elefante? È una guida per la musica e oggi gli si rende onore. Avevamo incenso, candele e fiori. Adoravamo e pregavamo, “per favore, fa che il pubblico mi voglia bene e si diverta”. Preparavamo frutta, dolci e alcolici. Ogni anno in aprile facevano una cerimonia più importante, e le offerte erano testa di maiale, banana, noce di cocco per acquisire meriti. Dopo che i monaci avevano mangiato, cantavano e ricevevamo le benedizioni. Khruu Ouane guidava l’adorazione degli antenati. Questo rito è molto complicato. La persona che guida la cerimonia deve vestire di bianco e conoscere le parole giuste. Qui non c’è nessuno che guidi”39.

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S. Sam, The Pin Peat Ensemble: Its History, Music and Context, cit., p. 268. Intervista personale, 1989. 38 T. Miller, Traditional Music of the Lao: Kaen Playing and Mawlum Singing in Northeast Thailand, cit., p. 46. 39 Intervista personale, 1988. 37

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Il training di Lamse Trechan in Thailandia comprendeva anche la cerimonia wai khruu, ma la danzatrice non ce la descrive con molti dettagli per cui non siamo in grado di fare un paragone tra il rituale laotiano e quello thailandese: “Il martedì era per tutti il giorno dedicato al culto degli antenati. Il significato del Way Khruu era quello di rendere onore ai maestri e agli antenati che ci avevano lasciato quest’arte perché la trasmettessimo, e quello di chiedere il talento. Anche loro avevano un giorno per il culto annuale”40. Anche la cerimonia settimanale tway kru dei danzatori reali khmer descritta da Paul Cravath si svolgeva ogni martedì. “Ai musicisti era richiesto di eseguire almeno cinque brani di musica specifici, quattro dei quali corrispondevano ai quattro tipi di ruolo: maschio, femmina, scimmia e orco”41. Il rituale all’interno del palazzo khmer aveva altre implicazioni oltre a quella di volere una performance delicata quando era richiesto dal re per “dare sicurezza al paese o soddisfare delle necessità della nazione”42. La cerimonia wai khruu era una parte fondamentale di tutte le performance del sud-est asiatico. È più probabile che le sue origini siano khmer, ma le pratiche sono state adattate all’interno delle tradizioni thailandesi e laotiane. La cerimonia wai khruu resta una parte importante delle credenze e delle pratiche degli artisti. Chandeng Pongphimkham, una danzatrice della Natasin, crede fermamente nelle religioni buddhista e animista. Una stanza della sua casa è riservata all’adorazione delle immagini di Buddha e degli spiriti degli antenati. Raccontava diversi incidenti avvenuti quando si trascuravano gli antenati e questo causava problemi agli artisti: “Alla scuola, la cerimonia annuale di adorazione si tiene a giugno. È in relazione con la religione buddhista e con quella brahmina, perché prima di cominciare dovevamo invitare il monaco buddhista a cantare, e acquisire meriti. Dopo questo inizio, c’era la cerimonia dello spirito, con il brahmino che evocava gli spiriti. Credevamo che lo spirito degli antenati potesse entrare nel nostro corpo o nella nostra anima per aiutarci a danzare bene. Prima di ogni spettacolo dovevamo accendere candele e bruciare incenso. Se non c’era il culto, potevano capitarci delle sventure. Adoravamo la maschera di Thotsakan, il gigante. Si crede che alcuni giganti seguano i precetti buddhisti e altri no. Mangerebbero carne cruda e cibi, berrebbero alcolici e fumerebbero tabacco. Si dice che in Pha Tho No Kham – nella città di Vang Vieng, a nord di Vientiane –, ci siano due giganti. A quel tempo uno era solito mangiare carne cruda e cibi simili, l’altro gigante solo frutta e vegetali. Allora, se facciamo qualcosa di sbagliato, come non pregare per chiedere la guida o il permesso prima di danzare, faremmo un errore, per questo

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Intervista personale, 1990. P. Cravath, The Ritual Origins of the Classical Dance Drama of Cambodia, in “Asian Theatre Journal”, cit., p. 197. 42 P. Cravath, The Ritual Origins of the Classical Dance Drama of Cambodia, in “Asian Theatre Journal”, cit., p. 197. 41

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cadremmo in confusione, non danzeremmo serenamente, o ci dimenticheremmo quello che avevamo pensato di fare”. “Quattro mesi fa stavamo preparando una performance con uno del gruppo di danza del Laos. La gente laggiù pregava per noi perché la performance andasse bene e avesse successo, e pensava che, quaggiù, facessimo la stessa cosa, ma non era così. Successe che andammo tutti a Cedar Rapids per esibirci e in qualche modo Thongmouane si dimenticò di portare la borsa con tutto il necessario. Ebbero anche una gomma a terra nel viaggio di andata e in quello di ritorno. Non era mai successo prima. Inoltre, qualcosa deve essere accaduto per farle ammalare. Una volta nel Laos, quando stavamo per eseguire la danza di Thotsakan (gigante) o khon, la persona che doveva danzare non si trovava e si ripiegò su una donna alta e grossa che prese il suo posto. Dopo la fine dello spettacolo, diversi dei nostri insegnanti si ammalarono o ebbero un incidente. Più tardi dovemmo chiedere perdono, perché non era pensabile affidare a una donna il ruolo di Thotsakan”43. Oulinh Manivong, un’altra danzatrice, descriveva la sensazione di sentirsi posseduti dagli spiriti: “In qualche modo mi sentivo come se qualcosa entrasse nel mio corpo e mi facesse danzare quando iniziava la musica. Sarebbe stato normale senza la musica. Dicevano che lo spirito entra nel corpo della danzatrice per donarle l’ispirazione. Non credo del tutto agli spiriti, ma ogni volta che suonavano l’hom long rabbrividivo e ciò mi spingeva subito a danzare. Da quando sono andata negli Stati Uniti non mi sono più sentita così. Può darsi che non preghi abbastanza. O forse lavoro troppo”44. La cerimonia wai khruu è uno dei rituali più importanti per gli artisti laotiani. Senza questa, la sensazione di essere separati dagli antenati, dalle radici della tradizione, e in un contesto completamente diverso, ha privato molti artisti dell’ispirazione necessaria per mantenere la tradizione. Conclusione Il dontrii lao deum fa parte di una più vasta tradizione musicale condivisa da Laos, Thailandia e Cambogia. Canzoni, repertorio di danza, e cerimonie rituali come wai khruu restituiscono un’immagine forte di una tradizione che trascendeva i confini nazionali. In ogni caso, il dontrii lao deum elaborò un suo stile e si sviluppò nel contesto più ristretto di cerimonie, spettacoli e feste di corte, e nel contesto più ampio di una nazione divisa da guerre che hanno caratterizzato gran parte della sua storia. A Luang Prabang, il suo ruolo iniziale fu quello di servire come offerta agli déi, per esaltare e creare atmosfera mentre accompagnava le cerimonie, e per

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Intervista personale, 1988. Intervista personale, 1989.

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intrattenere gli abitanti e gli ospiti del palazzo. Venne eseguito da musicisti provenienti da un villaggio vicino e fu sviluppato e sostenuto dai re. Durante la colonizzazione francese, il sostegno ebbe lo scopo di evocare un senso di orgoglio nella cultura laotiana, fronteggiando la minaccia di un sentimento di nazionalismo panthailandese. Così si assunse anche il compito di preservare la colonia francese, e di accompagnare le cerimonie mostrando obbedienza al regno. Dopo l’indipendenza, a causa del cambiamento del potere e dell’amministrazione a Vientiane le tradizioni di musica e danza furono oscurate da una nuova arte nazionale, e costrette a conservarsi con riserbo. Il genere Lao della Natasin era relativamente recente. Era stato creato per mostrare un’arte nazionale a stranieri e dignitari. Le composizioni di musica e danza riflettevano lo stile di vita del bassopiano laotiano, distinto da quello dei suoi vicini thailandesi e cambogiani. Il khene, lo strumento nazionale laotiano, fu introdotto in un ensemble tradizionale pi path, che accompagnava le danze con nuove coreografie che illustravano l’armonia etnica, e la vita degli agricoltori del bassopiano laotiano, promuovendo così un senso di nazionalismo laotiano. Nel 1975, il dontrii lao deum fu ulteriormente diviso, insieme agli abitanti del Laos. Gli artisti, ora Americani Laotiani, lottarono nei primi anni della nuova sistemazione per mantenere la loro tradizione mentre, allo stesso tempo, si adattavano alla nuova situazione. Il nuovo contesto deve ancora definire un ruolo preciso per il dontrii lao deum. Solo occasionalmente è usato per promuovere la preservazione delle tradizioni popolari, si esegue su un palco, lontano dalle cerimonie e dai rituali che in origine accompagnava, e fuori dalla nazione che contribuiva a legittimare.

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Musica e danza coreane di corte di Byong Won Lee “The World of Music”, vol. XXIII, n. 1, Amsterdam, 1981, pp. 35-49

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Introduzione La Corea è un paese dell’Asia orientale che, nonostante i diversi periodi di tumulti politici, vanta una storia di cinquemila anni di omogeneità razziale e culturale. Il paese è stato governato da monarchi assoluti fino a quando non è stato annesso al Giappone nel 1910. È rimasto sotto il governo giapponese fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale quando fu diviso nella Repubblica di Corea (Corea del Sud) nella Repubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord). Si ritiene che a causa della loro ideologia politica molte musiche e danze tradizionali, in particolare quelle dell’aristocrazia, siano state costrette a scomparire nella Corea del Nord. Così, questa argomentazione sulla danza e la musica di corte tradizionale è confinata alla tradizione della Corea ancora unita fino al 1945 e della Corea del Sud dal 1945 fino a oggi. Sebbene ci siano stati molti piccoli cambiamenti nel corso dei secoli, le tradizioni musicali di corte coreane hanno subìto in vari aspetti meno cambiamenti in confronto alle tradizioni di altri paesi dell’Asia Orientale. La musica di corte coreana ha uno speciale significato storico negli studi sulla comparsa e lo sviluppo delle tradizioni asiatiche orientali dal momento che conserva musiche cinesi a lungo dimenticate come ya yueh (letteralmente musica elegante) della dinastia Yuan (12601368) e tz’u della dinastia Sung (960-1279). Nonostante la sua importanza, la musica di corte coreana è stata spesso rappresentata erroneamente come un sottoprodotto dei paesi vicini. Questa breve introduzione cerca di sottolineare l’essenza delle tradizioni coreane delle arti dello spettacolo di corte attraverso la discussione dell’estetica della musica e della danza di corte coreana, lo sviluppo storico e la pratica contemporanea dell’aak (musica rituale di corte di origine cinese), il tangak (musica da banchetto di corte cinese in Corea), le danze di banchetto di corte di repertori hyangak e tangak, e il ruolo delle istituzioni e dei musicisti della musica di corte.

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Estetica della danza e della musica di corte Al primo ascolto, la musica di corte coreana può risultare semplice e ripetitiva. Le sue linee melodiche sono ornate in maniera lunga ed elaborata. Il suo ritmo contribuisce a dividere la melodia in sezioni. Una scala da tre a cinque toni costituisce la base della melodia; comunque, la struttura tonale semplice e la gerarchia tonale caratteristica sono spesso trasposte all’interno di una composizione, portando un elemento di diversità nella musica. Questa musica di carattere melodico ha una qualità tranquilla e meditativa; l’intreccio eterofonico scorre liberamente all’interno del ritmo moderato. Per esempio, in un ensemble di fiati, brani come Sujech’&on (Lunga vita immensa come il cielo), i musicisti non si affidano a un leader o ai ritmi del tamburo per coordinare la performance. Si basano sull’ascolto del ritmo del respiro. Insieme al ritmo del respiro, modi stilizzati di suonare fanno parte della performance, e influenzano il continuo fluire della musica. L’attenzione sugli ampi movimenti della mano destra del suonatore del komun’go (cetra lunga con sei corde pizzicate) le braccia dondolanti del suonatore di taegum (lungo flauto traverso), e le guance gonfie del suonatore di p’in (oboe cilindrico) aiutano i membri del gruppo a sentire e interpretare il tempo e il ritmo che non sono segnati nello spartito. Il timbro caratteristico della musica coreana può essere descritto come grossolano e rozzo. Il rumore secco dei ponticelli mobili del kayagum (cetra lunga con dodici corde pizzicate), i suoni raschiati e percussivi del komun’go, e la qualità pungente e ronzante della membrana che ricopre il foro del taegum sono caratteristiche ricercate della musica coreana. Molti aspetti della musica tradizionale coreana non sono fissati rigidamente. I musicisti possono esercitare un certo grado di libertà nell’interpretare le sfumature ritmiche e nell’abbellire la melodia di base, e questo incoraggia l’espressione artistica. Perciò la musica può cambiare a ogni performance. In contrasto con l’esuberanza e la sensualità della danza popolare, la danza di corte è la rappresentazione delicata e contenuta dei sentimenti più intimi. Questo freno è probabilmente un prodotto del Confucianesimo, un codice di disciplina che ha influito sulla vita spirituale dei Coreani per molti secoli. La maggior parte dei movimenti della danza si può descrivere come movimento nell’immobilità. Questo aspetto è enfatizzato dai costumi dei danzatori che li coprono completamente. Il lento movimento dell’alzare e abbassare le ginocchia dentro i lunghi abiti da cerimonia non è concepito come un’entità separata ma visto come un unico movimento che coincide con il respiro dei danzatori. Le maniche, molto lunghe, amplificano i piccoli movimenti della mano e dell’avambraccio. La danza di corte coreana è caratterizzata dall’eleganza, i movimenti aggraziati delle spalle sono particolarmente importanti. Movimenti e modi prestabiliti e formazioni pianificate sono le principali caratteristiche della danza di corte. L’ampio movimento è controllato dall’inalazione ed esalazione del danzatore che sembra quasi fluttuare sul palco. Gli esempi più rappresentativi sono le danze Ch’unaeng-

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j&on (Usignolo che gorgheggia in primavera) e Kainj&on mokdan (Peonie sulla fronte delle belle signore).

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Aak La musica di corte coreana è composta da munmyoak (musica del tempio di Confucio), chongmyoak (musica del tempio ancestrale reale), hyangak che include kagok (ciclo della canzone classica), tangak, e tae-ch’wit’a (musica processionale reale). Il termine aak – i cui ideogrammi cinesi corrispondono a Ya yueh in cinese e gagaku in giapponese – originariamente comprendeva tutta la musica rituale di corte di origine cinese. Dal momento in cui le altre forme di musica rituale di corte scomparvero, il termine fu riferito solo alla musica del tempio di Confucio. Chongmyoak, la musica rituale di corte risalente al XV secolo, è esclusa dal significato più ristretto del termine aak, perché si sviluppò dalla musica coreana molto tempo dopo l’introduzione dell’aak. In ogni caso, l’aak si dimostrò così importante socialmente che il termine cominciò a essere applicato a ogni musica seria, raffinata ed elegante – inclusa quella dell’aristocrazia così come quella della corte. L’autore sceglie di usare il termine nel suo significato stretto, riferito solo alla musica del tempio di Confucio. Nonostante l’esistenza di qualche strumento aak durante il periodo di Silla Unificato (668-935), le testimonianze di performances aak sono trascurabili. Fu durante la dinastia Kory1o (918-1392) nel XII secolo che la corte coreana ricevette una serie completa di strumenti aak come regalo dell’imperatore della dinastia cinese Sung. La serie includeva sia il t&unnga (orchestra sulla terrazza) e l’h&on’ga (orchestra sul terreno), che le istruzioni per due tipi di danza rituale, munmo (danza civile) e mumu (danza militare). La successiva importazione non solo degli strumenti ma anche della teoria portò a un ampliamento nella performance dell’aak. Comunque, una forma di aak veramente completa non apparve fino agli inizi della dinastia Yi (1392-1910). Poiché il governo della dinastia Yi era basato sui principi del neo-Confucianesimo di Chu Hsi (1130-1200) nel quale l’aak era la musica che godeva della più alta considerazione, il primo re della dinastia Yi istituì un dipartimento dell’aak. Comunque, fu durante il regno del Re Sejong (1418-1450), il quarto re, che la rinascita del sistema dell’aak ebbe pieno impulso sotto la guida di Pak Yon (13371458), probabilmente il primo teorico nella storia della musica coreana. Gli strumenti furono accordati nuovamente in conformità con il ciclo delle quinte basato sull’intonazione dell’huang chung (campana gialla in cinese), la campana principale del pien chung (carillon di campane di bronzo cinesi; in coreano: p’y&ongjong), della dinastia cinese Ming (1368-1644). Questa ri-accordatura probabilmente fu necessaria perché ogni dinastia cinese aveva stabilito nuove misure per l’intonazione e gli strumenti nella corte coreana erano stati raccolti nel corso di molte dinastie ci-

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nesi. Allo stesso tempo, si cercò di trovare materiali coreani adatti alla realizzazione di strumenti aak, specialmente il p’y&onjong e il p’y&on’gy&ong (carillon di pietre sonore). L’associazione delle Orchestre sul Terrazzo e sul Terreno fu ristabilita nella forma dovuta con le intonazioni yin e yang, i princìpi femminile e maschile della metafisica cinese. Questa pratica era richiesta dalle fonti originarie ma abbandonata fino a questo periodo. Le composizioni aak di dubbia autenticità furono abbandonate e fu adottato un nuovo repertorio dalla Ta-sheng yueh pu (Musica dell’Istituto Ta-Sheng) della dinastia cinese Yuan. Per certi aspetti, l’entusiasmo per l’aak divenne esagerato: nel 1433, per esempio, l’aak fu eseguito inopportunamente a un banchetto di corte. Dalla metà della dinastia Yi in avanti, i concerti aak andarono in declino, e i suoi strumenti furono trascurati. Durante il regno del tiranno Re Yonsan (14961506), che favorì le esibizioni femminili, le sue esecuzioni furono sospese. Le successive guerre con il Giappone e la Manciuria nel XVI e XVII secolo accelerarono il suo declino. Alla fine del XVIII secolo fu fatto un tentativo di far rivivere e ricostruire la musica aak, ma i giorni gloriosi del Re Sejong non si ripeterono. La messa al bando di tutta la musica aak con l’esclusione della Musica del Tempio di Confucio, imposta dal Governatore Generale giapponese nel 1910, portò quasi alla sua estinzione. Del primo repertorio aak, è rimasta solo la Musica del Tempio di Confucio. Anche questa musica è eseguita con un numero di musicisti drasticamente ridotto. Le esecuzioni aak descritte nel Akhak kweb&om (Il Libro della Musica) richiedevano da sessanta a centoquaranta esecutori. Attualmente non superano i cinquanta. Le esecuzioni adesso hanno luogo due volte l’anno in primavera e in autunno, durante le funzioni commemorative al tempio di Confucio che si trova a Seoul. Le due orchestre (orchestra sulla terrazza e orchestra sul terreno) sono utilizzate nella forma attuale di aak. Ogni orchestra ha il suo repertorio. Prima c’erano parti vocali, ma ora la musica è solo strumentale. Le due orchestre suonano alternativamente durante il rituale. L’orchestra sulla terrazza include il k&um (in cinese: ch’in, lunga cetra pizzicata a sette corde) e il s&ul (in cinese: se, lunga cetra a venticinque corde pizzicate), mentre l’orchestra sul terreno elimina gli strumenti a corda e la strumentazione enfatizza gli strumenti a fiato e i tamburi. Le composizioni aak ancora esistenti osservano le rigide regole della metafisica confuciana e lo stile musicale cinese nella loro raffinatezza, semplicità, serenità, nel tempo moderato e nel ritmo in quattro. Si ritiene che un’armonia universale ideale sia ottenibile quando gli strumenti fatti con le otto fondamentali categorie di materiali (metallo, pietra, seta, legno, bambù, pelle, creta e zucca), vengano suonati insieme. Il saenghwang (organo a bocca) della categoria degli strumenti fatti di zucca, è assente nell’attuale ensemble aak; si è aggiunto il pak (battente di legno), sebbene non sia tra gli strumenti originali dell’aak. C’è un minimo di ornamentazione, ma un tipo che è usato in pratica anche se non si trova in nessuna regola scritta è un glissando di circa un semitono da ogni altezza. Questo abbellimento

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piuttosto inusuale può essere paragonato a uno di quelli caratteristici dell’antica musica cinese ch’in. Nella sequenza rituale si eseguono due danze rituali, il munmu (danza civile) e il mumu (danza militare). Il numero di danzatori dipende dallo spirito che si deve onorare. Per Confucio, sessantaquattro danzatori formano otto file di otto danzatori. Per una persona meno importante, il numero dei danzatori è inferiore, ma la formazione quadrata viene mantenuta, per esempio sei file di sei o quattro file di quattro. I danzatori munmu indossano cappelli neri. Ognuno di loro tiene un flauto nella mano sinistra e nella mano destra una bacchetta con piume di fagiano attaccate, per simboleggiare pace e prosperità. I danzatori mumu indossano cappelli rossi. Ognuno di loro tiene uno scudo nella mano sinistra e un’accetta nella mano destra, a simboleggiare le gloriose imprese dell’esercito. Attualmente, un solo gruppo di danzatori esegue sia la danza civile che quella militare, cambiando cappelli e accessori tra le due danze. Hyangak Hyangak è probabilmente il genere di musica di corte più importante, perché presenta il più forte idioma musicale autoctono coreano, include il repertorio più vasto, ed è eseguito più frequentemente. La musica da banchetto di corte di origine coreana e la musica da banchetto di corte cinese che giunse in Corea prima dell’ascesa della dinastia cinese T’ang (618-907), assieme agli acrobati dell’Asia Centrale, i giocolieri e le opere in maschera, erano originariamente incluse nell’hyangak, ma il termine adesso include le composizioni della dinastia Kory1o e della dinastia Yi in aggiunta a quelle dei Tre Regni (57 a.C. - 668 d.C.). Durante il periodo dei Tre Regni l’orientamento di ogni regno nei confronti della Cina o del Giappone si rivela negli strumenti che diventano preminenti. Le differenze nella pratica musicale tra questi regni derivano da fattori sia geografici che politici. Kogury&o (37 a.C. - 668 d.C.), nella Corea del Nord, aveva frequenti contatti con il suo vicino, la Cina. Il suo strumento rappresentativo era il k&omun’go, realizzato sul modello del precedente ch’in cinese. Come il ch’in, il k&omun’go è sempre stato molto stimato. Paecke (18 a.C. - 660 d.C), nel sud-ovest della Corea, aveva una strada diretta verso il Sud della Cina attraverso il Mar Giallo, e, nel suo primo periodo, aveva contatti con il Giappone più frequenti rispetto agli altri due dei Tre Regni. La musica di Paecke era caratterizzata dall’uso del konghu (arpa angolare). Il suo uso rivela un’influenza dell’Asia occidentale attraverso la Cina meridionale e suggerisce un’origine nella Persia preislamica dove lo strumento era chiamato chang. Al contrario, lo strumento rappresentativo del primo Silla (57 a.C. - 935 d.C.) nel sud-est della Corea era il kayag&um, affine al cheng cinese (cetra lunga a sei corde pizzicate) e al koto giapponese (cetra lunga a tredici corde pizzicate). Il kayag&um è ancora popolare come il k&omun’go, ma il konghu non è più usato.

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La musica di ciascuno dei Tre Regni era inclusa nel primo repertorio giapponese gagaku, poiché gli strumenti usati erano esattamente quelli impiegati in Corea. Prima dell’unificazione della penisola coreana da parte di Silla il komagaku (Musica di Kogury&o) e il kudaragaku (musica di Paecke) erano più importanti nel gagaku; dopo l’unificazione lo shiragagigaku (musica di Silla) guadagnò in importanza. La musica di questi Tre Regni più tardi fu inclusa nel komagaku, termine ancora usato nel giapponese contemporaneo gagaku. Questo cambiamento nella musica di corte giapponese rifletteva i processi di cambiamento musicali nella nuova Corea unificata. Durante il Silla Unificato le tradizioni musicali di Paecke e Kogury&o sopravvissero, sebbene l’incorporazione di strumenti dagli altri Stati inevitabilmente indebolì l’identità della musica di Paekche e Kogury&o. Con la diffusione dell’alta cultura buddhista in Corea, furono fatti tentativi di distinguere la musica autoctona coreana da quella di origine cinese. La prima fu chiamata hyangak (lett. musica autoctona) e l’ultima tangak (lett. musica T’ang). Questi termini vennero usati con continuità nonostante i successivi cambiamenti dinastici in Cina. Così, lo hyangak include non solo la musica autoctona coreana, ma anche la musica cinese che è arrivata in Corea prima della dinastia T’ang; il tangak indica tutta la musica da banchetto di corte cinese importata in Corea dalla dinastia T’ang in avanti. Di conseguenza, la parola T’ang divenne sinonimo di Cina. Il Samsug sagi (Documenti storici dei Tre Regni) compilato nel XIV secolo, elenca solo pochi titoli delle composizioni hyangak del Silla. Comunque, col passare del tempo, il numero dei lavori aumentò; nel XV secolo la Kory&osa (Storia della dinastia Kory&o) registra ventiquattro titoli. Diciannove titoli di hyangak di Koryo sono inclusi nel Yijo siljok (Annali della dinastia Yi) e sebbene molti venissero eseguiti all’inizio della dinastia Yi, ora non sono più eseguiti. Nel regno del Re Sejong apparve un gran numero di composizioni ibride basate sullo hyangak e sul koch’wi (musica processionale), arrivando a ottanta composizioni nel 1434. Dopo il XVI secolo, molte di queste composizioni andarono perdute. Nelle composizioni rimaste si verificarono progressivi cambiamenti con il risultato che le composizioni hyangak eseguite attualmente dai musicisti dell’Istituto Nazionale di Musica Classica sono leggermente diverse dalle prime versioni, sebbene portino gli stessi titoli. In particolare, le parti vocali delle composizioni hyangak sono state abbandonate, con il risultato di un repertorio completamente strumentale. L’ensemble hyangak, che era solito accompagnare la danza e le canzoni al tempo del Silla Unificato, includeva kayag&um, k&omun’go, pip’a (liuto corto a cinque corde), taeg&um chungg&um (flauto traverso medio), sog&um (piccolo flauto traverso), pak, e taego (largo tamburo a barile). Si potrebbe notare che sebbene il pak fosse uno strumento tangak, veniva usato nell’ensemble hyangak. Gli strumenti esclusi dall’elenco appena riferito ma trovati nelle iconografie erano il p’in (piccolo oboe) e il changoo (tamburo a clessidra). Gli strumenti della dinastia Kory&o, come elencati nella Storia della dinastia

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Kory&o includevano p’iri e haegum (violino a due corde) in aggiunta a quelli di Silla. Durante la dinastia Kory&o il chungg&um, ora obsoleto, sembra abbia giocato un ruolo importante: più tardi il suo posto fu preso dal taeg&um. Durante la prima dinastia Yi, alcuni strumenti tangak come il tang-p’iri (oboe cilindrico), tang-jok (piccolo flauto traverso), e tang-pip’a (liuto a manico corto a quattro corde) erano impiegati nell’ensemble hyangak. L’ensemble hyangak, come rappresentato nei dipinti di Sin Yun-bok (1758-?) erano formati principalmente da due p’iri, un taeg&um, un haegum, un changgo, e un puk (tamburo a barile sospeso). Questo tipo di ensemble, chiamato samhy&on yuggak (lett. tre corde e sei corni) era usato primariamente per l’accompagnamento della danza. L’attuale samhy&on yuggak, chiamato anche tae-p’ungnyu (lett. musica di bambù) o kawanak (ensemble di fiati), è quasi uguale, sebbene si usi solo un p’iri e qualche volta si aggiunga un ajaeng (cetra ad arco a sette corde). Oggi, l’Istituto Nazionale di Musica Classica usa un ensemble di questo tipo, così come un ensemble da camera chiamato chulp’ungnyu (lett. musica della corda) o hy&onak (musica per strumenti a corda). Questo ultimo ensemble normalmente include k&omun’go, kayag&um, taeg&um, p’iri, haeg&um, e changgo, e occasionalmente yangg&um (un salterio che venne dalla Cina e derivato dal santur persiano) e tanso (flauto corto intagliato). Il chul-p’ungnyu si usa principalmente per la musica da camera e accompagna canzoni classiche tra le quali il kagok è la più importante tradizione vocale in Corea. Il kagok è un particolare ciclo di canzoni nel quale i pezzi sono collegati musicalmente ma non in base al testo. È accompagnato da un ensemble simile al chulp’ungny. L’attuale repertorio kagok consistente in ventisette canzoni fu stabilito tra il XVII e il XVIII secolo. Queste canzoni sono divise secondo la scala (o ujo o kyemy&onjo) e il sesso dell’esecutore. Undici lavori appartengono al ujo (Mib, Fa, Lab, Sib, Do) e tredici al kyemy&onjo (Mib, Lab, Sib); due sono basati per metà sul ujo e per metà sul kyemy&onjo. Tredici canzoni sono per voce solista maschile, lo stesso numero per voce solista femminile e il pezzo rimanente, l’ultima canzone del ciclo, è cantata in duetto. La forma arcaica del poema kagok è chiamata sijo. (Il termine sijo si riferisce anche a un’altra forma vocale raffinata). Ognuna è fatta di tre linee, ogni linea di quattro parole, ogni parola da tre fino a cinque sillabe. Nell’impostazione musicale il poema è diviso in cinque sezioni, con un preludio o un postludio strumentale (taeyoum) e un interludio (chungy&o&um); l’interludio è messo tra la terza e la quarta sezione. In aggiunta, ogni scala contiene alcuni preludi strumentali particolari a ritmo libero chiamato tas&ur&um. Questo differisce dal taey&o&um. Il tas&ur&um, eseguito come preludio alla prima e all’ultima canzone del ciclo kagok, di solito è eseguito sul k&omun’go anche se occasionalmente si aggiunge il taeg&um, mentre il taey&o&um è suonato con un accompagnamento completo in un ciclo ritmico stabilito. Un tas&ur&um permette al musicista di scaldarsi, stabilisce una modalità di base, introduce profili melodici e ornamentali di base, a somiglianza del netori del gagaku giapponese o all’alap del raga indiano.

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L’accompagnamento classico kagok comprende k&omun’go taeg&um, p’iri, haeg&um e changgo; kagay&um e tanso sono facoltativi. La parte per il k&omun’go mette in evidenza il nucleo melodico, quella per il taeg&um e il p’iri l’elaborazione, quella per l’haeg&um il suono prolungato e quella per il changgo la punteggiatura ritmica. Nel kagok sono usati due cicli ritmici suonati col changgo. Il ciclo di base è in un modulo ritmico di sedici pulsazioni e il ciclo contratto in un modulo ritmico di dieci pulsazioni. L’ultimo è formato condensando ogni colpo a due pulsazioni del ciclo originale in un colpo a una pulsazione. Ogni canzone comprende approssimativamente quindici frasi di uno dei due cicli ritmici.

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Tangak La tangak, letteralmente musica della dinastia T’ang, in origine si riferiva alla musica da banchetto di corte di origine cinese della dinastia T’ang usata nella corte coreana. Nella dinastia Kory&o, l’uso del termine fu esteso fino a includere tutta la musica cinese arrivata in Corea dalla dinastia T’ang in avanti. La tangak era descritta come ubangag (musica della Destra), e la hyangak come chwabangak (musica della Sinistra). I termini ubangak e chwabangak sono sinonimi di uhogaku (o togaku) e sahogaku (o komagaku) del repertorio giapponese gagaku. Durante il regno del Re Sejong della dinastia Yi, comunque, la tangak e la hyangak vennero raggruppati insieme sotto ubangak; aak fu inclusa in chwabangak. Questo cambio di classificazione suggerisce la probabile coreanizzazione del tangak. Le composizioni Tangak del periodo Silla sono sconosciute. Quelle della dinastia Kory&o includevano la musica tz’u della dinastia Sung e le danze e le musiche femminili dei banchetti di corte di derivazione cinese. Il tz’u era una forma di verso libero con una lunghezza delle linee irregolare che divenne popolare in Corea. Si contano cento composizioni tangak dall’inizio della dinastia Yi, sebbene i musicisti del tempo avessero familiarità solo con trenta di queste. Sono rimaste solamente due composizioni, Poh&oja’ (Cammino nel vuoto) e Nagyangch’un (Primavera a Loyang), che rappresentano la sola musica tz’u esistente della dinastia cinese Sung. Le due composizioni sono pezzi esclusivamente strumentali, essendo scomparsa la parte vocale. Tuttavia, sono di grande importanza perché la musica tz’u della dinastia Sung sembrava essersi completamente persa in Cina. Le composizioni tangak sono nel sistema tonale cinese esatonale o eptatonico. La coreanizzazione delle composizioni, comunque, enfatizza la pentatonicità, e l’ornamentazione di stile coreano. In aggiunta, ogni battuta ha una tripla suddivisione, una struttura metrica tipica della musica coreana. Anche la strumentazione tangak ha subìto continuamente un processo di coreanizzazione. Gli strumenti tangak che si trovano nelle iconografie del Silla sono tonggo (tamburo di bronzo), yogo (tamburo a clessidra) che più tardi divenne

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changgo, pak, so (flauto di Pan), hwengj1ok (flauto traverso), t’ongso (flauto intagliato), p’iri o tang-p’iri, saeng (organo a bocca), tang-pip’a, chaeng (lunga cetra pizzicata), e konghu. La maggior parte di questi strumenti si trova anche in un dipinto di un concerto tenuto da Chou Wen-chu delle Cinque Dinastie Cinesi (907-959) conservato nell’Art Institute di Chicago. Solo il panghyang (lastre di acciaio) e il taego del dipinto di Chou Wen-chu non si trovano nelle rappresentazioni coreane; il taego cinese probabilmente prende il posto del tonggo coreano. Gli strumenti tangak elencati nella Storia della dinastia Kory&o sono: changgo, pak, j&ok (flauto traverso), t’ongso, t’ang-p’iri, tang pip’a, chaeng, panchyang, ajaeng e kyobanggo (tamburo a barile). L’organo a bocca e l’arpa dell’ensemble del Silla sono esclusi, ed è aggiunto un ajaeng. Il Libro della Musica della fine del XV secolo include il w&olg&um (chitarra a forma di luna), l’haeg&um e il t’aep’y&ongso (oboe conico) nell’ensemble tangak, in aggiunta a quelli elencati nella Storia della dinastia Kory&o. Comunque, l’ensemble tangak descritto nel Ch&ungbo munh&on pigo (Edizione Rivisitata dei Documenti Raccolti) del 1908 esclude changgo, chaeng, w&olg&um e taep’yongso del Libro della Musica, ma aggiunge p’y&onjong e p’y&on’gy&ong che sono principalmente strumenti aak. Gli attuali strumenti tangak dell’Istituto Nazionale di Musica Classica sono pak, taeg&um, tang-p’iri, haeg&um, ajaeng, ch&olgo (tamburo a barile), p’y&onjong e p’y&on’gy&ong. Così, l’evoluzione della strumentazione tangak rivela una mescolanza degli strumenti tangak con quelli hyangak (il taeg&um) e aak (p’y&onjong e p’y&on’gy&ong). Dagli anni Venti è entrato in uso il termine habak (lett. musica mista) per indicare questo tipo di orchestra. Danze dei banchetti di corte Le danze dei banchetti di corte accompagnate dal hyangak erano chiamate hyangak ch&ongjae; quelle accompagnate dal tangak, tangak ch&ongjae. Tradizionalmente, le hyangak ch&ongjae differivano dalle tangak ch&ongjae per diversi aspetti. I danzatori delle hyangak ch&ongjae entravano nel palcoscenico con un accompagnamento musicale, e cantavano poesie scritte in vernacolo mentre la danza momentaneamente si fermava. Alla fine dello spettacolo i danzatori uscivano dal palco dopo aver fatto un inchino cerimoniale. In contrasto con le hyangak ch&ongjae, le entrate e le uscite dei ballerini delle tangak ch&ongjae erano preceduti da portatori di pali chiamati chungganja, e i danzatori recitavano poesie scritte in cinese. Attualmente sono rimaste solo una tangak ch&ongjae e non più di dieci hyangak ch&ongjae, e la maggior parte di queste sopravvive solo di nome. Spesso si omette la recitazione stilizzata, e alcune delle musiche di accompagnamento sono state arrangiate di nuovo fino al punto da includere anche la musica popolare. Si pensa che molti movimenti delle danze siano stati re-impostati coreograficamente in questo secolo. Rimangono solo piccole differenze coreografiche tra gli attuali tangak ch&ongjae e hyangak ch&ongjae. Per di più, ora entrambi i repertori sono accompagnati dall’ensemble di fiati hyangak, tae-p’ungnyu.

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Musicisti e istituzioni della musica di corte L’esistenza di musicisti di corte professionisti durante la prima parte dei Tre Regni è suggerita in diverse pitture murali ed è evidenziata dal fatto che i danzatori e i musicisti di corte coreani erano inviati alla corte giapponese. L’istituzione della musica di corte del Silla Unificato apparentemente fu formata sul modello di quella Cinese. Comunque, è dalla dinastia Kory&o che abbiamo profili più tangibili dell’istituzione musicale dinastica e dei danzatori e musicisti professionisti di corte. L’organizzazione della musica di corte della dinastia Yi alla quale diverse centinaia di danzatori e musicisti appartenevano era chiamata comunemente Changagw&on (Dipartimento della Musica di Corte). Nel 1911, poco dopo l’annessione da parte del Giappone, il numero ufficiale di artisti di corte fu ridotto drasticamente a ottantuno; a quel tempo il dipartimento che sostituì il Changagw&on fu chiamato Yiwangjik aakbu (Dipartimento della Musica Dinastica Yi). Durante l’annessione da parte del Giappone (1910-1945) l’istituzione della musica di corte fu sull’orlo dell’estinzione e il Governatore Generale pensò all’abolizione del Dipartimento. A Hisao Tanabe, un celebre etnomusicologo giapponese, fu assegnato il compito di fare valutazioni sulla necessità del Dipartimento. La sua relazione, che incoraggiava la conservazione del Dipartimento, persuase il Governatore Generale a mantenerlo. Tuttavia molti dei musicisti del Dipartimento abbandonarono le carriere musicali. Sotto il nuovo sistema politico non era più richiesto di essere musicisti a vita. Negli anni Venti rimasero circa cinquanta musicisti nel Dipartimento. Nel 1917 il Dipartimento della Musica Dinastica Yi istituì una Scuola Affiliata di Musica Coreana e reclutò annualmente da nove a venticinque studenti fino al 1945. Nel 1951, dopo il vuoto di sei anni causato dal tumulto politico del periodo di transizione seguito all’indipendenza della Corea e dalla guerra tra Corea del Sud e Corea del Nord, il governo della Repubblica di Corea (Corea del Sud) inaugurò di nuovo l’istituto della musica di corte sotto il Ministero dell’Istruzione, con il nome kungnip kugagw&on (Istituto Nazionale di Musica Classica). L’Istituto fu trasferito sotto l’amministrazione del Ministero dell’Informazione e della Cultura nel 1961. Dai primi anni Sessanta l’Istituto ha reclutato danzatrici e musiciste per continuare gli spettacoli di danze e di musica di corte delle intrattenitrici di corte dei tempi antichi, chiamate kyni&o o kisaeng. Nel 1955 fu istituito il Centro di Formazione Affiliato per la Musica Coreana, una scuola superiore di sei anni all’interno dell’Istituto Nazionale di Musica Classica, con circa trecento allievi all’anno. Dal 1962 cominciò ad accettare studentesse e il numero annuo di iscritti arrivò a sessanta. Nel 1972 il Centro di Formazione Affiliato per la Musica Coreana si staccò dall’Istituto Nazionale di Musica Classica e si propose come scuola triennale mista, Kugak kod&ung hakkyo (Scuola Superiore di Musica Coreana) sotto il Ministero dell’Istruzione, accettando sessanta studenti all’anno. Attualmente, l’Istituto Nazionale di Musica Classica impiega cir-

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ca cinquanta musicisti e danzatori. Alcuni di questi sono laureati alla Scuola Affiliata di Musica Coreana del Dipartimento della Musica Dinastica Yi, la maggioranza è laureata al Centro di Formazione Affiliato per la Musica Coreana. Il ruolo e la condizione sociale dei musicisti professionisti della Corea sembra ben rappresentato dal paradigma sociale di Alan P. Merriam (in The Anthropology of Music)1 di musicisti professionisti di varie culture che hanno una bassa condizione sociale e una grande importanza. Secondo la Storia della dinastia Kory&o, i musicisti di corte, a cominciare dagli inizi dell’XI secolo, erano esclusi dalla pubblica amministrazione, e un figlio di ogni musicista era obbligato per eredità ad assumere il posto di suo padre come musicista di corte. Questo sistema ereditario continuò fino alla caduta della monarchia nel 1910. Durante la dinastia Yi, quattro classi di musicisti maschi – aksaeng, aggong, kwanhy&on maengin (musicisti maschi ciechi) – e kisaeng (intrattenitrici) ebbero varie responsabilità al Dipartimento di musica di corte. Gli aksaeng, che erano musicisti volontari, provenivano da famiglie aristocratiche e a loro erano assegnati ruoli più importanti rispetto a ogni altro artista di corte. Il loro dovere principale era quello di eseguire l’aak che non richiedeva qualità artistiche particolarmente spiccate. Gli aggong, musicisti ereditari di una delle caste sociali più basse, erano responsabili delle esibizioni della Musica Reale Ancestrale del Tempio e della Musica dei banchetti di corte, ognuna delle quali era meno rispettata dell’aak ma richiedeva molta più capacità e professionalità per essere suonata. In più, i doveri degli aggong erano più pesanti e furono loro che ebbero il ruolo più significativo nella storia della musica coreana. Era una pratica tradizionale che uno strumento a corde pizzicate venisse insegnato ai discendenti degli akseng e uno strumento a fiato o uno strumento a corda ad arco a quelli degli aggong per tutta la dinastia Yi. La discriminazione tra aksaeng e aggong illustra la venerazione di cui era oggetto la cultura cinese e il Confucianesimo in quel tempo. Le kiny&o, in seguito chiamate comunemente kisaeng, erano intrattenitrici professioniste che, fino alla fine della dinastia Yi, venivano reclutate tra adolescenti nelle classi sociali più basse. Alle kisaeng si insegnavano canzoni classiche, danze dei banchetti di corte, l’etichetta di corte, i classici cinesi, la calligrafia, il disegno, e alcuni degli strumenti hyangak che richiedevano meno prestanza fisica, per intrattenere l’aristocrazia. Oltre al loro ruolo di artiste, alcune kisaeng erano concubine, amanti e prostitute per l’aristocrazia e l’esercito. L’enfasi della dinastia Yi per quanto riguardava i principi del Confucianesimo si rivelava nella separazione fisica di uomini e donne in pubblico. Così, dal 1406, alle kisaeng fu insegnata la medicina in aggiunta alle pratiche artistiche in modo che potessero occuparsi delle pazienti dell’aristocrazia che in passato erano state curate

1 A. P. Merriam, The Anthropology of Music, Northwestern University Press, Evanston, Illinois, 1964, trad. it., Antropologia della musica, Sellerio, Palermo, 1990.

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da medici maschi. Dal momento che era richiesta la separazione fisica dei sessi, e le kisaeng avevano difficoltà a usare questi strumenti a fiato come il taeg&um e il p’iri che erano indispensabili per accompagnare la danza, gli amministratori di corte decisero di usare musicisti maschi ciechi chiamati kwanhy&on maengin. Dall’inizio dell’annessione giapponese, il reclutamento delle kisaeng fu abolito. Comunque, la tradizione di danza e musica delle kisaeng continuò negli studi privati di Musica e Danza Coreana, dove le studentesse iscritte volontariamente erano istruite e assegnate ai banchetti su richiesta. Il tipo di istituzione era chiamato kw&onb&on. Dopo l’indipendenza coreana nel 1945 il sistema kw&onb&on fu messo fuori legge. Dagli anni Sessanta l’Istituto Nazionale di Musica Classica sta preparando danzatrici e musiciste per continuare l’arte tradizionale dello spettacolo di corte delle kisaeng. Si può notare, tuttavia, che queste artiste non vengono più chiamate kisaeng, ma il governo ha attribuito loro il titolo di performer o researcher; il termine kisaeng esiste solo nei distretti dello spettacolo. È una fortuna vedere che la continuazione delle arti dello spettacolo coreane è attivamente promossa dal governo della Repubblica di Corea. Molte danze e musiche tradizionali, e gli artisti virtuosi dell’Istituto Nazionale di Musica Classica sono stati designati dal governo come Tesori Culturali di Suprema Importanza o Tesori Culturali dell’Umanità. Secondo le promesse, l’ulteriore deterioramento delle arti tradizionali di corte dovrebbe essere evitato. La recente rinascita di popolarità e la decisa presa di coscienza tra i giovani coreani della inestimabile eredità culturale delle arti tradizionali dello spettacolo indubbiamente accelererà l’apprezzamento da parte di un pubblico più vasto. Gli artisti stanno contribuendo non solo alla continuazione delle loro arti, ma anche alla diffusione di queste tra una parte ampia della società coreana e tra gli stranieri. Hanno viaggiato attraverso l’Asia, l’Europa e le Americhe diverse volte. La loro missione culturale all’estero ha stimolato un nuovo modo di apprezzare la conoscenza del valore della cultura tradizionale della Corea.

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Il canto difonico: descrizione, storia, stile, aspetti acustici e spettrali, pratica originale, ricerche fondamentali e applicate di Trân Quang Hai

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“EM Annuario degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia”, LIM, vol. II, 1994, pp. 123-141

Tutti ci esibiamo in canti difonici senza saperlo! Basta aprire la bocca ed emettere un suono di gola. Questo è composto da un suono di base continuo, invariato, tenuto sulla stessa altezza degli altri più acuti (gli armonici). È solo che non li sappiamo ascoltare! Di conseguenza, non sentiamo gli armonici. Descrizione Il canto difonico è una tecnica vocale che ho scoperto nel 1960 grazie a una registrazione sonora che ha portato dalla Mongolia Robert Hamayon, Direttore di “Studi EHESS”, membro del Laboratorio di Etnologia all’Università di Parigi X-Nanterre all’epoca del deposito delle sue bande magnetiche al Département d’Ethnomusicologie du Musée de l’Homme. Questa voce sdoppiata si caratterizza per la produzione congiunta di due suoni, uno detto fondamentale o bordone, che è tenuto alla stessa altezza per tutto il tempo di una espirazione, mentre l’altro, detto suono armonico (che è uno degli armonici naturali del suono fondamentale) varia secondo la volontà del cantante. Così, è possibile cantare a due voci simultaneamente. Questo suono armonico ha un timbro vicino a quello del flauto (voce flautata) o a quello dello scacciapensieri (voce scacciapensieri). Storia Il canto difonico è stato menzionato a più riprese. M. Rollin, professore al conservatorio di Parigi, nel XIX secolo, ha detto che alla corte di Carlo il Temerario un buffone cantava a due voci simultanee, e la seconda era la quinta della prima. Manuel Garcia, nelle sue Memorie sulla voce umana presentate all’Accademia delle Scienze il 16 novembre 1840, ha segnalato il fenomeno della doppia voce. Molti viaggiatori hanno constatato nei loro racconti che in Tibet si praticava il raddoppio della voce durante alcune recite di mantra. Ma questa affermazione non veniva presa sul serio.

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Nel 1934 dei ricercatori russi registrarono dischi a settantotto giri di canto difonico presso i Tuvani, e questi dischi sono stati studiati da Aksenov che, poi, ha pubblicato in Russia nel 1964 un articolo tradotto in tedesco nel 1967, e in inglese nel 1973. Questo è considerato il primo articolo sui canti difonici di grande valore scientifico. Negli ultimi vent’anni, numerosi ricercatori, studiosi di acustica, etnomusicologi hanno cercato di svelare i misteri del canto difonico. Se ne possono citare alcuni: Lajos Vargas (Ungheria, 1967), Emile Leipp (Francia, 1971), Gilles Léothaud (Francia, 1971), Robert Hamayon e Mireille Helffer (Francia 1973), Suzanne Borel-Maisonny (Francia, 1974), Trân Quang Hai (Francia, 1974), Richard Walcott (Stati Uniti, 1974), Sumi Gunji (Giappone, 1980), Roberto Laneri (Italia 1983), Alain Desjacques (Francia, 1984), Ted Levin (Stati Uniti, 1988), Carole Pegg (Gran Bretagna, 1988), Graziano Tisato (Italia, 1988), Hugo Zemp (Francia, 1989) e Mark Van Tongeren (Paesi Bassi, 1993). I termini proposti dai ricercatori francesi nel corso degli ultimi ventitré anni sono diversi: chant diphonique (Emille Leipp, Gilles Léothaud nel 1971; Trân Quang Hai nel 1974), voix guimbarde (Roberte Hamayon e Mireille Helffer, 1973), chant diphonique solo (Claudie Marcel-Dubois, 1978), chant diplophonique (Trân Quang Hai, 1993), chant biformantique (Trân Quang Hai, 1994). Malgrado le mie proposte molto recenti (1993 e 1994) sul nuovo termine per questo stile vocale ossia canto difonico (perché diplo in greco significa due; il termine diplofonia, di origine medica, indica l’esistenza simultanea di due suoni di altezza diversa nella laringe), o canto biformantico (canto a due formanti), mantengo ancora il termine canto difonico (che ho utilizzato per una ventina d’anni) per non creare confusione durante la lettura di questo articolo. Certi autori adottano il termine canto armonico che, secondo me, è improprio perché ogni canto, qualunque sia il tipo di voce, è creato da una serie di armonici. Questi armonici sono rafforzati in maniera diversa e vengono scelti secondo la volontà del cantante per creare una melodia armonica o piuttosto formantica. Cantanti come Trân Quang Hai (Francia, 1975), Dimitri Stratos (Grecia, 1977), Roberto Laneri (Italia, 1978), David Hykes e il suo Coro Armonico (Stati Uniti, 1985), Meredith Monk (Stati Uniti, 1980), Michael Vetter (Germania, 1985), Christian Bollmann (Germania, 1985), Michael Reimann (Germania, 1986), Noah Pikes (Inghilterra, 1985), Tamia (Francia, 1987), Quatuor Nomad (Francia, 1989), Valentin Clastrier (Francia 1990), Bodjo Pinek (Yugoslavia, 1987), Josephine Truman (Australia, 1987), Iegor Reznikoff (Francia, 1989), Rollin Rachelle (Paesi Bassi, 1990) e Thomas Clements (Francia 1992) hanno introdotto l’effetto del canto difonico nella musica contemporanea world music e new music, sia che si tratti di musica elettro-acustica, musica improvvisata, musica di ispirazione bizantina, gregoriana, musica meditativa, musica della nouvel âge (new age), jazz, ecc. Alcuni musicoterapeuti, come Jill Purce (Inghilterra) e Dominique Bertrand (Francia), hanno utilizzato la tecnica del canto difonico come mezzo terapeutico.

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Io stesso ho tenuto degli stage regolarmente al Centre Mandapa (Parigi) dal 1983, all’Association Confluences Europe-Asie (Parigi) dal 1989, nei centri di Yoga dal 1987, e al Centre des Médecines Douces in Francia nel 1989. Sono il solo a comunicare i miei risultati della ricerca sul canto difonico a numerosi congressi internazionali dal 1981. L’utilizzazione del canto difonico favorisce la concentrazione. La conoscenza degli armonici porta l’uomo e i suoi sensi a una pulizia terapeutica delle certezze più profonde.

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I diversi stili del canto difonico La tecnica del canto difonico non è diffusa solamente nei paesi intorno al Monte Altaï in Asia settentrionale tra i Mongoli, i Tuvani, i Khabash, i Bachkir e gli Altaici, ma anche presso i Rajasthani dell’India, gli Xhosas dell’Africa del sud, e i monaci tibetani dei monasteri di Gyütö e Gyüme. Presso i Tuvani esistono quattro tecniche principali con il bordone dal più grave al più acuto secondo gli stili kargyraa, borbannadyr, ezengileer, sygyt. I tipi di canto difonico dei Tuvani sono fondati sugli stessi principi di emissione sonora dello scacciapensieri. La melodia è creata dagli armonici di una nota fondamentale, generati attraverso il risonatore d’Helmholtz che costituisce la cavità della bocca umana di cui si modificano le dimensioni. Per lo scacciapensieri è la lama vibrante che colpisce il risonatore. Per il canto difonico sono le corde vocali regolate su altezze differenti quelle che creano più fondamentali, quindi più serie di armonici. Negli ultimi dieci anni, il canto difonico tuvano ha conosciuto una seconda vita grazie agli interessi dei ricercatori e dei cantori occidentali. Sono state ritrovate altre tecniche secondarie o meno conosciute, ossia sygt medio, kargyraa di steppa o di montagna, Stil Oidupa (questo stile ispirato a quello kargyraa, e chiamato col nome del creatore, è considerato il primo stile urbano). Presso i Mongoli esistono sei tecniche diverse di canto difonico: xamryn xöömi (xöömi nasale), hagalzuuryn xöömi (xöömi faringeo), tseedznii xöömi (xöömi toracico), kevliin xöömi (xöömi addominale), xarkiraa xöömi (xöömi narrativo con un fondamentale molto grave) e isgerex (la voce del flauto dentale, usata raramente). D. Sundui, il miglior cantore difonico mongolo, possedendo una tecnica di vibrato e una potenza armonica eccezionale, è stato registrato su numerosi dischi in Mongolia e all’estero. Recentemente un altro cantore, Tserendavaa, è divenuto celebre e comincia a far parlare di sé in Occidente. I Kakash utilizzano lo stile xaj e i Gorno-Altaici possiedono uno stile simile kaj per accompagnare i canti epici. Prima della dominazione russa, i Kakash avevano stili di canto difonico molto vicini a quelli che usavano i Tuvani, cioè sygyriyp (come il sygyt di Tuva), kuveder o kylenge (come l’ezengileer di Tuva), e kargirar (come il kargyraa di Tuva). Tra i Gorno-Altaici, si sono trovati gli stili kiomioi, karkira e sibiski (rispettivamente ezengileer, kargyraa, sygt tuvani). Presso i monaci tibetani

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dei monasteri di Gyütö e Gyüme si fa regolarmente il canto dei tantra (scritture buddiste), e dei mantra (formule sacre), e così i mudra (gesti delle mani) e le tecniche che permettono di rappresentarsi mentalmente delle divinità o dei simboli. Le loro tradizioni risalgono a un gruppo di maestri indiani, il più famoso dei quali è lo Yogin Padmasambhava, che visitò il Tibet nell’VIII secolo e, più di recente, al fondatore di una delle quattro correnti del Buddhismo tibetano, Tzong Khapa. Fu Tzong Khapa (1357-1419) che introdusse il canto difonico e lo stile delle pratiche di meditazione nel monastero di Gyüto. Si dice che eseguisse questo canto connotante la sua divinità protettrice, Maha Bhairava, la quale, sebbene fosse una incarnazione della compassione (Avalokiteshvara), aveva un aspetto terrificante. Il volto centrale di Maha Bhairava è quello di un bufalo in collera. Le sue trentaquattro braccia portano i trentaquattro simboli delle qualità necessarie alla liberazione. Ancora oggi, i maestri di questa scuola amano paragonare i loro canti al muggito di un toro. I monaci tibetani del monastero di Gyüto emettono un bordone molto grave e il quinto armonico corrispondente alla mediante maggiore al di sopra della seconda ottava del bordone, mentre i monaci del monastero Gyüme producono un bordone grave e un sesto armonico equivalente alla quinta al di sopra della seconda ottava del bordone. I monaci ottengono questo effetto armonico cantando la vocale o con la bocca allungata e le labbra allargate. Nel Rajasthan in India, un cantore rajasthani, registrato nel 1967 dal rimpianto John Levy, è arrivato a utilizzare la tecnica del canto difonico per imitare lo scacciapensieri e il flauto doppio satara. Questa preziosa registrazione è la sola traccia dell’esistenza del fenomeno del canto difonico in Rajasthan. Nell’Africa del sud, gli Xhosa praticano il canto difonico, soprattutto le donne. Questa tecnica si chiama umngqokolo ngomqangi imitando l’arco musicale umrhube. Ngomqangi è il nome del coleottero. Secondo le spiegazioni della cantante che sa usare questa tecnica a doppia voce simultanea, la medesima si ispirava al rumore di un coleottero posto davanti alla bocca utilizzato come bordone e modulava la cavità della bocca per variare gli armonici prodotti. Dave Dargie ha scoperto questo tipo di canto difonico presso gli Xhosa dell’Africa del sud nel 1983. A Formosa, i Bunun cantano le vocali con una voce distesa ed emettono qualche armonico durante un canto per la raccolta del miglio (Pasi but but). È uno stile di canto armonico paragonabile a quello praticato dai Mongoli e dai Tuvani? Per mancanza di documenti sonori e scritti, non possiamo proseguire la nostra ricerca. In certi tipi di canto in cui l’emissione delle vocali è estremamente risonante, questo permette ai cantori di creare un secondo formante non intenzionale (il canto buddhista giapponese shomyo, certi canti bulgari, canti polifonici dell’Europa dell’est), o intenzionale (il fenomeno quintina – la quinta voce virtuale, risultante dalla fusione di quattro voci prodotte insieme – dei canti sacri sardi studiati da Bernard Lortat-Jacob). Bisogna quindi distinguere il canto difonico (canto che crea una melodia di armonici) dal canto a risonanza armonica (canto accompagnato a intervalli da alcuni effetti armonici). Questo sarà il soggetto delle mie ricerche future.

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Aspetti acustici e spettrali Percezione dell’altezza dei suoni – Cercherò di spiegare, in un primo tempo, la percezione dell’altezza attraverso l’acustica e la psico-acustica. In un secondo tempo presenterò il campo di libertà del canto difonico. Infine sarà utile formulare qualche ipotesi sui meccanismi di formazione di questo canto, sulla realizzazione del canto difonico/diplofonico/biformantico con il mio metodo e il film Le chant des harmoniques. Prima di tutto è necessario capire cosa significhi altezza dei suoni o tonalità. Questa nozione presenta molte ambiguità, e non corrisponde al semplice principio della misura delle frequenze emesse. L’altezza dei suoni appartiene più alla psicoacustica che all’acustica. Le mie riflessioni si basano da una parte sulle scoperte recenti di alcuni ricercatori, e dall’altra sulle osservazioni e le sperimentazioni che ho eseguito con l’aiuto del Sona-Graph. Il Sona-Graph mi permette in effetti di ottenere l’immagine del suono che voglio studiare. Su un foglio solo ho nell’ascissa l’informazione tempo, nell’ordinata l’informazione frequenza e, a seconda delle dimensioni della linea tracciata, l’informazione intensità. I manuali di acustica classici dicono che l’altezza dei suoni armonici, cioè i suoni che hanno una fondamentale di frequenza F e una serie di armonici F1, F2, F3, … multipli di F, è data dalla frequenza del primo suono fondamentale. Questo non è del tutto giusto perché si può eliminare elettronicamente la fondamentale senza necessariamente cambiare l’altezza soggettiva del suono percepito. Se questa teoria fosse giusta, una catena elettro-acustica non riproducendo l’estremo grave cambierebbe l’altezza del suono. Niente di tutto questo, perché cambia il timbro ma non l’altezza. Alcuni ricercatori propongono un’altra teoria più coerente: l’altezza dei suoni è data dall’intervallo degli armonici o dalla differenza di frequenza tra due armonici. Cosa diventa l’altezza dei suoni in questo caso per gli spettri sonori detti a parziali (i parziali sono gli armonici che non sono multipli interi della fondamentale)? In questo caso, si percepisce una media dell’intervallo delle linee nella zona che interessa. Questo, in effetti, concorda con le differenze di percezione che ci sono tra un individuo e un altro. La definizione di spettro a formante è l’aumento di intensità di un gruppo di armonici che costituiscono un formante, quindi una zona di frequenze dove l’energia è consistente. Considerando questo formante, si fa strada una seconda nozione della percezione dell’altezza. Si è compreso, infatti, che la posizione del formante nello spettro sonoro fornisce la percezione di una nuova altezza. In questo caso, non si tratta più dell’intervallo delle linee armoniche nella zona del formante, ma della posizione del formante nello spettro. Questa teoria deve essere precisata, poiché si impongono delle condizioni. Per fare un esperimento, ho cantato tre Do (Do1, Do2, Do3) a un ottava tra due Do impostando la voce come per rivolgermi a un numeroso pubblico. Ho constatato con un Sona-Graph che il massimo di energia si trovava nella zona sensibile del-

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l’orecchio umano (2 e 3 KHz). Si tratta di un formante situato tra 2 e 4 KHz. Poi ho registrato tre Do nella stessa tonalità, ma questa volta impostando la voce come se mi rivolgessi a un pubblico ristretto, e ho osservato la scomparsa di questo formante. In questo caso, la scomparsa del formante non cambia l’altezza dei suoni. Ho subito osservato che la percezione dell’altezza dalla posizione del formante era possibile solo nel caso che questo fosse molto acuto, cioè che l’energia del formante fosse ripartita su due o tre armonici. Per cui, se la densità di energia del formante è grande, e il formante è stretto, ciò fornirà un’informazione di altezza in più della tonalità complessiva del pezzo cantato. Per via indiretta arrivo alla tecnica del canto difonico/diplofonico/biformantico. Questa nozione di formante basata sugli intervalli armonici riceverà conferme in seguito grazie alle ricerche sperimentali sulla formazione del canto difonico. Comparazione tra tecnica vocale difonica e tecnica vocale classica Si può dire che il canto difonico comporti la produzione di due suoni, come indica il suo nome: uno è grave e fondamentale chiamato bordone, e l’altro più acuto costituito da un formante che si sposta nello spettro per creare una particolare melodia. La nozione di altezza data dalla seconda voce, d’altra parte, è piuttosto ambigua. Una certa pratica o educazione dell’orecchio occidentale può essere auspicabile. La messa in evidenza del bordone è relativamente facile, grazie ai sonogrammi. Si vede molto chiaramente e da un punto di vista auditivo, è molto netto. Dopo aver messo in evidenza il suono fondamentale ho comparato due spettri: uno del canto difonico, e un altro del canto cosiddetto classico, entrambi prodotti dallo stesso cantante. Il canto classico è caratterizzato da un raddoppiamento dell’intervallo delle linee armoniche quando il canto passa all’ottava. Il canto difonico ha un intervallo delle linee uguale (questo è prevedibile perché il bordone è costante) durante il passaggio di un’ottava dove si vede lo spostamento del formante. In effetti è facile misurare la distanza tra le linee per ogni suono emesso; in questo caso, la percezione della melodia del canto difonico si ha per via indiretta attraverso lo spostamento del formante nello spettro sonoro. Conviene insistere sul fatto che ciò è possibile solo nel caso che il formante sia acuto e questo è il caso particolare del canto difonico. L’energia sonora è divisa principalmente tra il bordone e la seconda voce costituita da due armonici, al massimo da tre. È stato detto qualche volta che si può produrre una terza voce. Ho constatato effettivamente, grazie ai fonogrammi, che questo è possibile (sonogrammi sulle tecniche tuvine), ma mi è impossibile affermare che la terza voce sia controllata. A mio avviso, questa voce supplementare deriva più dalla personalità dell’esecutore che da una tecnica particolare. A questo proposito posso già stabilire un parallelo tra canto difonico e scacciapensieri. Lo scacciapensieri, come il canto difonico,

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produce molte voci differenti: il bordone, il canto e il controcanto. Potrei considerare questa terza voce come un controcanto, che può essere deciso ma certamente non controllato.

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Campo di libertà del canto difonico Dal punto di vista del campo di libertà, il canto difonico è equivalente al canto normale tranne per quello che concerne l’ambito. Il tempo di esecuzione è chiaramente funzione della cassa toracica del cantante, quindi della respirazione, ma anche dell’intensità sonora, perché l’intensità è in rapporto con la capacità d’aria. Il campo di libertà in intensità, invece, è relativamente ristretto e il livello degli armonici è legato al livello del bordone. L’interesse del cantante è quello di mantenere un bordone adeguato e di far uscire al massimo gli armonici. Abbiamo visto in precedenza che gli armonici erano più chiari quando il formante era stretto e intenso. Mi risultano, così, delle relazioni tra intensità, tempo e chiarezza. Si può fare a meno di commentare il campo di libertà nel timbro, perché il suono risultante è formato nella maggior parte dei casi da un bordone e da uno o due armonici. La questione più interessante è quella dell’ambitus. È generalmente ammesso che per una tonalità adatta (in funzione dell’esecutore e del pezzo musicale da interpretare) un cantante possa modulare o scegliere tra gli armonici 3 e 13. Questo è vero, ma deve essere precisato. Se la tonalità è in Do2, l’escursione si fa su 14 armonici dalla sesta alla ventesima, e questo rappresenta un’ottava e una sesta. Se la tonalità è aumentata, per esempio Do3, la scelta si fa tra gli armonici 3 e 10 ossia 8 armonici, rappresentando ugualmente un’ottava e una sesta. Si impongono le seguenti osservazioni. Da una parte, l’ambitus del canto difonico è più ristretto di quello del canto normale. Dall’altra, in teoria, il cantante sceglie la tonalità che vuole tra Do2 e Do3. In pratica realizza istintivamente un compromesso tra la chiarezza della seconda voce e l’ambitus del suo canto – essendo la scelta della tonalità ugualmente funzione del pezzo musicale da eseguire. In effetti, se la tonalità è aumentata, per esempio Do3, la scelta degli armonici è ristretta, ma la seconda voce è molto chiara. Nel caso di una tonalità in Do2 la seconda voce è più confusa, mentre l’ambitus è massimo. La chiarezza dei suoni si può spiegare con il fatto che nel primo caso il cantante non può selezionare che un armonico, mentre nel secondo caso ne può selezionare quasi due. Per la questione dell’ambitus, so che l’escursione del risonatore della bocca è indipendente dalla tonalità dei suoni emessi dalle corde vocali, in altre parole, il cantante sceglie sempre gli armonici nella stessa zona dello spettro sia che siano allargati che ristretti. Da tutto ciò risulta che il cantante sceglie la tonalità istintivamente per avere l’ambitus massimo e il massimo di chiarezza. A parer mio, il miglior compromesso si trova tra il Do2 e il La2. Posso così ottenere tra una ottava e una quinta fino a due ottave di ambitus.

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Meccanismi di produzione del canto difonico È sempre molto difficile capire cosa succeda all’interno di una macchina mentre mi trovo all’esterno non ricevendone che delle emanazioni. È il caso dell’apparecchio fonatorio. Quello che dirò è grossolano e schematico e non può essere preso alla lettera. Trattando il sistema fonatorio per analogia, posso avere un’idea dei meccanismi, ma non certo una spiegazione completa. Un risonatore è una cavità munita di un collo che può risuonare entro un certo dominio di frequenze. Il sistema eccitatore, cioè la faringe e le corde vocali, emette uno spettro armonico, ossia le frequenze F1, F2, F3, F4 ... dei risonatori che scelgono certe frequenze e le amplificano. La scelta di queste frequenze dipende evidentemente dall’abilità del cantante. Succede così che quando un cantante imposta la voce per un’ampia sala, istintivamente adotta i suoi risonatori per emettere il massimo di energia nella zona sensibile dell’orecchio. Bisogna notare che le frequenze amplificate sono funzione del volume della cavità, della sezione dell’apertura e della lunghezza del collo che costituisce l’apertura. Grazie a questo principio, vedo già l’azione della grandezza della cavità orale, dell’apertura della bocca, delle posizioni delle labbra nel canto. Ma questo non basta per produrre un canto difonico. In effetti, mi propone due voci. Il bordone, la prima, è presente semplicemente per il fatto che ha un’emissione intensa e che comunque non subisce la filtrazione dei risonatori. La sua intensità superiore agli armonici gli permette di durare grazie a un irradiamento della bocca e del naso. Ho constatato che, fermando la cavità del naso, il bordone diminuiva di intensità. Questo si spiega in due maniere: da una parte una fonte dell’irradiamento viene fermata (si tratta del naso), dall’altra, fermando il naso, riduco la capacità d’aria, e quindi riduco l’intensità sonora emessa a livello delle corde vocali. L’importanza di avere più cavità è primaria. Ho potuto mettere in evidenza che solo l’accoppiamento tra più cavità ci permette di avere un formante acuto come richiede il canto difonico. Per questi studi, ho proceduto in primo luogo alla verifica del principio dei risonatori, cioè l’influenza dei parametri fondamentali. Mi accorgo così che la tonalità del suono aumenta se apro maggiormente la bocca. Per mettere in evidenza la formazione di un formante acuto ho fatto la seguente esperienza. Ho cercato di produrre due tipi di canti difonici: uno con la lingua a riposo, cioè a dire la bocca come una grande cavità, e l’altro con la punta della lingua rialzata a toccare la cima del palato, dividendo così la bocca in due cavità. La constatazione che ho fatto, grazie alla teoria dei risonatori accoppiati, è la seguente. Nel primo caso, i suoni non sono chiari. Certo si sente molto bene il bordone, ma la seconda voce è difficile da sentire. Non c’è una divisione netta tra le due voci. Per di più, la melodia diventa difficile da ascoltare. In base ai sonogrammi analizzati ho constatato quanto segue. Con una cavità orale unica, l’energia del formante si disperde su tre o quattro armonici e quindi la sensazione della seconda voce diventa molto più debole. Al contrario, quando la lingua divide la

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bocca in due cavità, riappare il formante acuto e intenso. In altre parole, i suoni armonici emessi dalle corde vocali sono filtrati e amplificati in maniera grossolana con una sola cavità e l’effetto difonico sparisce. Il canto difonico necessita dunque di una rete di risonatori molto selettivi che filtrano unicamente gli armonici desiderati dal cantante. Nel caso di un accoppiamento stretto tra le due cavità, queste producono una risonanza unica e molto acuta. Se l’accoppiamento diventa fiacco, il formante ha un’intensità meno grande, e l’energia sonora si spande nello spettro. Se queste cavità diventano una sola cavità, la cima della curva diventa ancora più rotonda e si arriva al primo esempio con un canto difonico molto sfumato (lingua in posizione di riposo). In conclusione, la bocca con la posizione della lingua gioca un ruolo fondamentale e si può assimilare in modo generico a un filtro a punta che si sposta nello spettro unicamente per scegliere gli armonici interessanti. Realizzazione del canto difonico Ho scoperto questa tecnica vocale a due voci simultanee nel 1970 grazie a una registrazione sonora effettuata da Roberte Hamayon in Mongolia, e depositata al al Département d’Ethnomusicologie du Musée de l’Homme. Dopo alcuni anni di tentennamenti, sono arrivato a padroneggiare la tecnica del canto difonico per caso mentre ero imbottigliato nel traffico dei viali alla periferia di Parigi. Altre sperimentazioni che ho fatto mostrano anche che si possono produrre i due suoni simultanei con due metodi. Primo metodo con una cavità della bocca – La lingua può essere per piano, in posizione di riposo, o con la base leggermente alzata senza toccare la parte molle del palato. Solo la bocca e le labbra si muovono. Per questa variazione della cavità della bocca nella pronuncia delle vocali ü e i senza interruzioni (come per dire oui in francese) si percepisce una debole melodia degli armonici che non supera di molto l’armonico 8. Secondo metodo con due cavità della bocca – Si applichi la ricetta descritta di seguito: 1. Cantare con la voce di gola; 2. Pronunciare la lettera l; mantenere la posizione con la punta della lingua che tocca il palato; 3. Pronunciare di seguito la vocale ü, sempre con la punta della lingua collegata strettamente contro il punto di congiunzione tra il palato duro e il palato morbido; 4. Contrarre i muscoli del collo e quelli dell’addome durante il canto come per sollevare un oggetto molto pesante; 5. Emettere un timbro molto nasale e amplificare le fosse nasali; 6. Pronunciare di seguito le due vocali i e ü (oppure o e a) collegate ma ripetute una dopo l’altra diverse volte; 7. In questo modo si ottengono sia il bordone che gli armonici in linea ascendente e in linea discendente secondo il desiderio del cantante. Si varia la posizione delle labbra o quella della lingua per modellare la melodia degli armonici. La forte concentrazione muscolare aumenta la chiarezza armonica.

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Il terzo metodo si ottiene con la base della lingua rialzata e morsa dai molari superiori mentre viene prodotto un suono di gola sulle due vocali i e ü collegate e ripetute più volte per creare una serie di armonici ascendenti e discendenti. Questa serie di armonici si trova nella zona tra i 2 KHz e 3,5 KHz. Questo terzo metodo non permette di controllare la melodia formantica, ma è una dimostrazione sperimentale delle possibilità del timbro armonico.

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Il film Le Chant des Harmoniques Insieme a Hugo Zemp, direttore delle ricerche al CNSR, abbiamo lavorato alla realizzazione di un film sul canto difonico. Si intitola Le Chant des Harmoniques, uscito in Francia nel 1989. Si tratta di un film in 16mm, a colori, della durata di 38 minuti, realizzato da Hugo Zemp e da me interpretato. Questo film fa delle rivelazioni molto importanti sul canto difonico grazie alle analisi articolatorie e spettrali, e agli esami a raggi X che permettono di vedere l’apparato fonatorio durante la produzione del suono sdoppiato. Fino a oggi, il canto difonico non è stato mai analizzato seriamente e in maniera approfondita. Il radio-film ci va vedere in trasparenza il funzionamento completo dell’apparecchio fonatorio, cioè le cavità nasali, il palato duro, la volta del palato, la lingua, la cavità della faringe, le corde false, le corde vocali e l’epiglottide. Il radio-film ci svela il meccanismo del canto difonico attraverso immagini di contorno, in negativo o a colori, presentando la differenza delle varie posizioni della lingua, della volta del palato e dell’epiglottide secondo la tecnica a una cavità della bocca o a quella a due cavità della bocca. L’articolazione dei diversi elementi dell’apparecchio fonatorio resa evidente dalla cineradiografia ci permette di ottenere una visione d’insieme della forma articolatoria di questo fenomeno vocale considerato ancora un mistero. Le analisi spettrali ci permettono di distinguere il canto normale dal canto difonico con degli spettri formantici diversi gli uni dagli altri. Nei canti mongoli, la produzione delle melodie degli armonici è limitata tra l’armonico 5 e l’armonico 13. Dal momento che tutta la melodia mongola è fondata su una scala pentatonica anemitonica, l’armonico 7 è abbassato di un semitono e l’armonico 11 è eliminato dalla serie degli armonici naturali della voce. Con il mezzo sonografico, grazie al Sonograph DSP 5500, l’esercizio dinamico vocale è reso più facile. Il sonografo è lo spettrografo che analizza l’altezza dei suoni fondamentali e le sue variazioni, anziché gli armonici e le loro ripartizioni. Questa misura acustica permette l’analisi spettrale della voce e dei formanti, la visualizzazione dell’onda microfonica. Queste informazioni sono digitalizzate senza disturbi e permettono di realizzare l’impronta vocale acustica su un computer. Nella traccia sonografica si osservano tre variabili: nelle ascisse i tempi, nelle ordinate le frequenze, nelle impronte dal grigio al nero l’intensità. Questo film, inoltre, mostra la tecnica del canto difonico che ho insegnato durante uno stage d’iniziazione al Centre Mandapa a Parigi, due artisti dell’Ensemble

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Nazionale di Canti e Danze della Repubblica Popolare della Mongolia da me intervistati e numerosi spettri sonori di diverse tecniche di canto difonico dei cantanti della Mongolia, del Rajasthan, dell’Africa del Sud, del Tibet e della Repubblica socialista di Tuva. Il film Le Chant des Harmoniques ha vinto diversi premi al Festival Internazionale del Film Antropologico Visuale in Estonia (1990), al Festival Internazionale del Film Scientifico a Palaiseau in Francia (1990) e al secondo Festival Internazionale del Film Scientifico a Montreal (1991).

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Il canto difonico come nuova terapia Il canto difonico, a parte la sua espressione tradizionale (in Mongolia, nel Tuva, in Tibet), il suo uso sperimentale fatto da numerosi cantanti contemporanei in Europa e in America, è allo stesso tempo un nuovo strumento utilizzato nelle applicazioni terapeutiche (Trân Quang Hai, Jill Purce, Dominique Bertrand, Bernard Dubreuil). Jill Purce (Inghilterra) propose un lavoro basato sulla respirazione e il canto difonico in casi di persone che balbettavano o con la sensazione di blocco alla gola o ancora sofferenti di inibizioni, di disturbi respiratori, ansia e fatica. I principali effetti del canto difonico riguardano prima di tutto la concentrazione e l’equilibrio psicologico. Per ragioni tecniche si richiede una grande attenzione. Il cantante di talento può coordinare la struttura musicale con le forze energetiche, la potenza vibratoria dell’opera. Quando l’armonia è a punto, la pulizia dell’inconscio può cominciare. Per alcuni, il canto difonico vi fa arrivare al settimo cielo. Per altri vi immerge nel cuore del mistero musicale quando le onde sonore aiutano a comprendere la nascita dell’universo. Gli sciamani del Tibet, della Siberia e dell’America del nord fanno risuonare gli armonici della zona frontale, e questo in effetti permette loro di curare con la voce. È un canto magico, un segreto dei vecchi sciamani mongoli, uno yoga sonoro praticato dai monaci tibetani per aspettare l’illuminazione, un canto con poteri, una vibrazione che penetra fino alle cellule. È il famoso canto che guarisce. Io stesso ho fatto degli esperimenti sulla pratica del canto difonico con persone timide, che hanno problemi con la voce. E questo lavoro ha prodotto risultati soddisfacenti sul piano diagnostico prima ancora che i malati avessero consultato il foniatra o l’ortofonista o lo psicoterapeuta. Il canto difonico può rappresentare uno strumento terapeutico per lo yoga, le medicine dolci, la meditazione, il rilassamento o il parto senza dolore. Ho fatto lavorare le future mamme con il canto difonico per cercare di diminuire il dolore fisico durante il parto. Attraverso il metodo della contrazione addominale e faringea, le donne incinte arrivano a combinare la produzione armonica con la forza prolungata del soffio. Grazie alla realizzazione degli armonici durante il parto attraverso la concentrazione, la madre dimentica il dolore fisico. L’effetto armonioso e emozionale del canto della madre e del primo pianto del bambino porta una nuova sensazione poco provata durante il parto. Mi ser-

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virebbe che parecchie donne incinte accettassero il mio metodo preparatorio per confermare o infirmare l’efficacia del canto difonico in questo campo. Questo è il potere del canto in cui si mischiano al valore della melodia le qualità armoniche della voce e la potenza del fondamentale. È innegabile che la sonorità vibratoria degli armonici possa generare nell’essere un addolcimento dell’anima e mettere in uno stato d’estasi coloro che ascoltano. L’utilizzazione sensata del canto difonico favorisce la concentrazione. Un ascolto attento degli armonici del canto difonico permetterà di accentuare la potenza vibratoria dell’orecchio interno. La padronanza dello yoga del suono permette di armonizzare i tre centri del nostro essere: la comunione, la conoscenza reale e l’integrazione della pienezza. Ogni vocale padroneggiata si trova in relazione sul piano fisico con l’organo corrispondente, e sul piano sottile, con un armonico. Il soffio conduce il pensiero e l’intenzione aiuta la liberazione. La pratica del canto difonico si dimostra complementare al magnetismo, a un lavoro di esorcismo, a una trasmissione benefica di energie e di conoscenze pacificanti. Aiutare a guarire, a curarsi, vuol dire infondere il desiderio legittimo di ritornare in sé, alla parte divina dell’uomo. Una pratica originale e feconda Dopo più di tre anni di esperienze personali come cantante sono arrivato alla realizzazione di questa tecnica di canto singolare. Le mie ricerche sono state largamente diffuse attraverso il canale delle conferenze, degli stage, delle mostre e dei concerti dal 1972. Negli anni Ottanta, anche al fine di esplorare i processi fisiologici del canto difonico, ho cercato di ottenere nel Sona-Graph delle tracce di spettri somiglianti a quelli dei cantanti originari della Mongolia, della Siberia, del Rajasthan e dell’Africa del sud. L’analisi comparata degli spettrogrammi, alla luce di queste esperienze, ha permesso di classificare per la prima volta i diversi stili del canto difonico dell’Asia e dell’Africa del sud in funzione dei risonatori, delle contrazioni muscolari e degli ornamenti. Le mie ricerche sperimentali hanno portato a: 1. mettere in evidenza il bordone armonico e la melodia fondamentale, il contrario del principio iniziale del canto difonico tradizionale; 2. incrociare le due melodie (fondamentale e armonici) e a esplorare il canto trifonico; 3. mettere in evidenza le tre zone armoniche sulla base di uno stesso suono fondamentale. Ho utilizzato in parallelo dei mezzi fibroscopici, stroboscopici e laringoscopici completi per analisi spettrali con il Sona-Graph. Ho condotto degli studi comparativi e pragmatici dei vari stili di canto difonico presso le diverse popolazioni: Mongoli, Tuvani, Xhosas, Rajasthani, Tibetani, e agli inizi alcune esplorazioni armoniche preliminari attraverso il canto del miglio Pasi but but dei Bunum (Formosa) e delle recite buddhiste Shomyo (Giappone). D’altra parte, le applicazioni terapeutiche di questa tecnica vocale nelle medicine dolci, e in altre discipline –

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musicoterapia, ortofonia, foniatria, parto senza dolore – sono state trattate nel corso di parecchi congressi internazionali. Infine ho utilizzato la tecnica del canto difonico in diverse composizioni musicali elettro-acustiche e avanguardiste. Riassumendo, le ricerche sul canto difonico e le sue applicazioni destinate dapprima a soddisfare la curiosità scientifica hanno avuto esiti nella vita musicale. Hanno anche giocato un ruolo nell’esplorazione delle terapie basate sulla musica.

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* Gli autori dell’antologia hanno segnalato solamente i volumi ritenuti fondamentali; d’altra parte sarebbe stata impossibile una elencazione, anche solo parziale, dei testi che afferiscono le sezioni del volume.

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Eroi, demoni e dei: una riserva culturale

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Danzati dagli dei. Il rito della trance e lo spettacolo della possessione

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